GUASTALLA, CITTA’ DELLE CHIESE PASSATO E PRESENTE DELLE CHIESE E DEGLI ORATORI GUASTALLESI 20/10/98 Sommario Prefazione Introduzione Chiese esistenti 1) Santa Croce (della Morte) 2) Beata Vergine della Porta 3) Cattedrale di S. Pietro (Duomo) 4) Beata Vergine dell’Olmo 5) San Giuseppe 6) Santi Filippo e Giacomo (S. Giacomo) 7) San Giorgio 8) San Girolamo 9) Beata Vergine della Neve (Tagliata) 10) SS. Apostoli Pietro e Paolo (la Pieve, già San Pietro) 11) San Rocco 12) Beata Vergine del Rosario 13) San Francesco 14) Santi Francesco e Bernardino (Cappuccini) 15) Santissima Annunziata (I Servi) 16) San Carlo 17) Beata Vergine della Concezione 18) Santissimo Crocifisso (Cappuccine) 19) San Marco 20) San Giacomo Apostolo (Solarolo) 21) San Martino (attuale) 22) San Carlo (ex oratorio) 23) Beata Vergine Maria (oratorio a S. Girolamo) Chiese scomparse 24) Beata Vergine del Prugno 25) San Marco Evangelista 26) Beata Vergine del Castello (Teatini) 27) San Luigi 28) Maria Santissima Addolorata 29) San Bartolomeo (fuori le mura) 30) Santa Elisabetta 31) Santa Maria (S. Anna, S. Gioacchino) 32) San Bartolomeo (in Castelvecchio) 33) Chiesa nella Rocca 34) Santa Maria della Disciplina 35) San Cristoforo 36) San Lazzaro 37) San Rocco (fuori le mura) 38) San Martino (1618-1960) 39) San Martino vecchio 1 40) Oratorio Caracci 41) Oratorio dei Sacchi a S. Martino 42) S. Giovanni Nepomuceno 43) Altri oratori 44) Cenni su alcuni artisti citati Prefazione Questo libro è indirizzato a chi voglia approfondire la conoscenza di quella parte di patrimonio artistico localizzato in Guastalla che potremmo circoscrivere con l’asettico termine di “luoghi di culto”. Sarebbe opportuno aggiungere l’aggettivo “cattolico” in quanto queste pagine non si soffermano sulla sinagoga di Via Garibaldi, centro del rito religioso ebraico. L’attenzione di chi scrive si è rivolta verso gli edifici più rilevanti, siano esse chiese o piccoli oratori: dalla grande cattedrale al minuto centro di raccoglimento e di preghiera per un gruppo di devoti in luogo periferico. Si è deciso di non affrontare l’analisi di quelle espressioni della devozione popolare così ben caratterizzate dalle più piccole cappelle rurali, dalle maestà o edicole poste lungo le strade delle campagne o nei fondi agricoli. Un lavoro di ricerca in questa direzione sarebbe auspicabile per la schedatura e la migliore comprensione di un fenomeno diffuso che trova momenti interessanti come quello rappresentato dalla Madonna del Ficchetto in Via Roncaglio Superiore. In buona sostanza le nostre chiese sono analizzate ad una ad una in modo sistematico per fornire sia un riferimento storico sia una fonte d’informazioni su quanto ospitano al loro interno. Per tali motivi si è voluto dare a questo testo un taglio in qualche modo assimilabile a quello del manuale “sul campo”, adatto quindi ad essere utilizzato con giovamento da chi vuole visitare le nostre architetture religiose ed ottenere ogni dato o notizia sul posto. Il turista potrà trovare spunti interessanti e risposta a molti degli interrogativi. Inoltre l’approfondimento che lo caratterizza, lungi dall’essere in qualche modo esaustivo e libero da errori derivanti da fonti troppo dissimili tra loro e raramente coincidenti quanto a date, costituisce utile traccia per ulteriori e auspicabili lavori d’indagine verso un argomento incredibilmente dimenticato. Ci pare che questo libro possa essere d’aiuto per il mondo scolastico e per tutti gli “spiriti curiosi” che amano conoscere la storia di quei muri, campanili e portali sotto cui probabilmente camminano in modo distratto ogni giorno. Per migliorare la fruibilità di questo mezzo, non si è voluto interrompere la trattazione con continui rinvii a note e a riferimenti bibliografici che avrebbero inevitabilmente appesantito e reso più ostica la lettura. Questa scelta, da me fortemente sofferta e di certo non condivisibile dai ricercatori, ha dalla sua il vantaggio di consentire l’accesso agli argomenti qui contenuti, per loro natura non elementari, ad un pubblico potenzialmente più vasto e, di norma, piuttosto allergico alle ricerche infarcite di abbondanti note a piè di pagina. Per chi intenda conoscere le fonti, si rinvia all’apposita sezione bibliografica che si trova nelle ultime pagine. Da ultimo, è parso meritevole di un piccolo lavoro supplementare il breve capitolo su alcuni degli artisti che lavorarono a Guastalla. Solo poche note, ma si spera utili ad una comprensione più generale dell’argomento. Per attestare l’importanza dei primi testi di storia locale, cui questo lavoro deve molto, ci è sembrato utile e forse anche gradevole far anticipare le parole dell’autore, per molti capitoli, da quelle del primo grande divulgatore delle “cose guastallesi“, Gian Battista Benamati, espresse nel suo compito linguaggio secentesco. Introduzione Guastalla potrebbe a buon diritto essere definita la città delle chiese. 2 Su un territorio certamente non molto esteso sono state edificate qualcosa come più di quaranta tra chiese ed oratori. Pare evidente che si possa da ciò riscontrare la presenza di una diffusa religiosità, ma anche di una distribuzione della popolazione davvero polverizzata tra centro e campagne. Oltre all’abitato principale, una volta cinto da mura, si possono contare otto centri popolati, corrispondenti alle odierne frazioni o a ben precisi quartieri, in qualche modo territorialmente delimitabili anche a prescindere dai teorici confini amministrativi. Si tratta di agglomerati ben diversi tra loro ma che hanno lo stesso comune denominatore: l’esigenza di raccogliere una presenza umana distribuita in modo non centralizzato, bensì molto dispersa nelle campagne. Da qui la funzione di un centro aggregatore per ogni frazione, che in modo fisico era sempre rappresentato dalla localizzazione di un tempio religioso cui convergere nei giorni di festa o durante ricorrenze particolari, non sempre religiose. S. Giorgio, S. Martino, S. Rocco, S. Girolamo, S. Giacomo, Solarolo, Pieve, Baccanello rappresentano quindi l’esigenza di un riferimento unitario per gente abituata al silenzio dei campi ed alla monotonia di una vita sociale altrimenti relegata al rapporto con gli abitanti della casa colonica più vicina o poco più. Antidoto quindi contro il senso d’isolamento che la vita agricola comportava e che la povertà dei mezzi di trasporto accentuava, ma anche momento di ricerca di contatto umano e del comune sentimento religioso. L’innalzamento del campanile deve quindi essere letto in un’ottica di rafforzamento del sentimento di gruppo e di comunità. Per il centro l’idea di erigere nuovi templi rispondeva a esigenze diverse. Con il crescere dell’importanza del nucleo cittadino, a partire dal ‘500 venne maturando l’esigenza di ospitare famiglie religiose che con la loro presenza avrebbero, di fatto, elevato l’immagine della città nei confronti dei vicini potentati e di Mantova in particolare. L’esigenza di ogni buona contea e ancor più, dal 1622, di ogni buon ducato era quella di poter palesare tutti gli elementi del fasto. Tra questi certamente l’aspetto urbano, i palazzi, le chiese e i conventi. Non più quindi piccolo borgo rurale, ma capitale di uno stato sovrano. Gli stessi ordini monastici che occuparono o costruirono conventi in Guastalla rappresentano la gran parte di quelli presenti in territori di ampiezza assolutamente maggiore ed in città grandi e popolose. Francescani, Cappuccini, Teatini, Servi di Maria e Gesuiti, Agostiniane, Cappuccine e Mantellate si adunarono in Guastalla, con alterna fortuna, chi per pochi anni, chi per secoli seguendo gli uffici religiosi dettati dalle proprie regole e lasciando in ogni caso un profondo segno nella vita della comunità. Entrando nel merito, si può certo affermare che il motivo di quest’espansione di architetture ecclesiastiche fu un “mix” di fattori concomitanti. Da un lato il profondo sentimento religioso che animò alcuni dei principali esponenti di casa Gonzaga, la loro volontà di tenersi ben vicini i figli, fossero essi stati destinati a divenire frati o suore, da un altro lato la vicinanza a S.Carlo Borromeo e l’aderenza ai suoi dettami religiosi, da un altro lato ancora l’esistenza di varie comunità rurali riunite sotto campanili distanti tra loro e gelose della propria autonomia nel culto di Dio. Nel nascere del XVI secolo ben pochi sono i luoghi deputati agli uffici religiosi presenti in questa terra, con netta predominanza numerica delle chiese poste nel territorio al di fuori della città. E’ dalla fine del suddetto secolo, ma soprattutto dal successivo che vediamo Guastalla trasformarsi in cantiere generoso di templi cristiani. Le campagne risentono del medesimo impulso e concorrono a quell’impeto edificatorio che porterà a quel fenomeno che qualcuno ha voluto denominare come “seicento guastallese”. Fu un’epoca d’oro in realtà iniziata già con Cesare I Gonzaga, grande collezionista di opere d’arte e mecenate e proseguita col figlio Ferrante II, amante delle arti anch’esso e architetto per passione che ha lasciato due suoi lavori alla città: la chiesa dei Teatini (non più esistente) e quella di S. Francesco. Nello scrivere questo libro sono emersi tali e tanti argomenti degni di notevole interesse che però, se sviluppati, avrebbero snaturato la natura del lavoro nel suo complesso. Tuttavia sarebbe auspicabile che, dalla lettura di queste pagine, nascesse l’idea di affrontare lo studio del rapporto tra la città e la campagna, della vita religiosa a Guastalla nei secoli, con particolare riguardo verso le figure storiche dei Gonzaga, di S. Carlo Borromeo, di Lodovica Torello, dei religiosi come Lorenzo da Zibello (di cui qualche vecchio ancora ricorda il nome come “Beàt Lurèns”). Il culto mariano nella nostra città, il significato delle visite pastorali, la vita delle confraternite, ma anche la biografia dei due grandi storici locali, il Benamati e l’Affò, sarebbero spunti di sicuro valore. 3 E’ probabile che l’elenco di seguito trattato non sia completo. Può essere che alcuni oratori, di breve vita, non abbiano lasciato tracce visibili nei documenti antichi. D’altronde è chiaro che, stanti le non eccelse metodologie costruttive riservate nei secoli passati agli edifici periferici, la povertà dei materiali e l’incuria portata dalla mancata frequentazione di alcuni di questi luoghi di culto, il decadimento fisico e strutturale procedesse a ritmi accelerati. La stessa natura del terreno su cui poggiavano, la rudimentalità o mancanza di opere di fondazione che l’elevato tasso d’umidità avrebbe invece dovuto imporre, furono elementi scatenanti dei processi di degrado. Ma, sommati a questi, non possono essere sottaciuti gli effetti nefasti dei terremoti che scandirono la vita dei secoli passati fino ad anni recentissimi segnando le nostre chiese in modo indelebile. Da ultimo mi piace porre l’accento sulla tipicità e dare giusto risalto rammentando quanto rappresentano questi edifici per la nostra città. Come vedremo, a Guastalla è espressa una varietà sicuramente ricca di stili, a partire dal primo romanico medievale per completarsi con l’impronta contemporanea delle edificazioni anni sessanta. Gli interni possono essere spartani o sontuosamente barocchi oppure ancora ospitare antichi affreschi ma anche importanti opere d’arte e stupendi paliotti d’altare. Al di là dell’apparenza e dell’estetica, le nostre chiese sono importanti non solo per quanto ci mostrano dentro e fuori ma per quanto hanno saputo testimoniare per gli abitanti di queste terre negli ultimi mille anni. Com’è possibile non vedere questo loro valore intrinseco? La storia di tutti questi centri di preghiera è densa di avvenimenti, è importante, è viva. In questi muri, in questa annosa polvere, in questi ordinati arredi sacri c’è tutta la vicenda umana di un popolo. Il nostro. Sarei particolarmente felice, e con me gran parte delle persone sensibili alla storia e all’arte, che da queste righe potesse prendere avvio l’opera, non semplice ma assolutamente praticabile, di rendere attivo e fruibile in modo organizzato il percorso di visita delle chiese guastallesi. Un momento di grande spessore per l’approccio di valorizzazione dell’area centrale padana e in grado di dare una risposta concreta a quella diffusa domanda di turismo culturale inteso come ricerca del bello e del suggestivo che, lungi dall’essere moda passeggera, segnerà sempre più gli interessi della gente. Nella disamina che segue e che costituisce l’ossatura di questo libro, si sono volute creare due differenti sezioni. La prima raccoglie tutte le informazioni sulle chiese che ancora esistono anche se sconsacrate o riedificate nel tempo. Su di queste si concentrerà l’attenzione di chi voglia visitare quelle aperte al pubblico. L’altra sezione elenca gli edifici di cui esiste traccia solo nelle memorie storiche e di cui non è purtroppo visibile nulla essendo stati oggetto di demolizioni per motivi vari ed in epoche differenti. CHIESE ESISTENTI o riedificate 1) SANTA CROCE (DELLA MORTE) Dove si trova: in Via Garibaldi Informazioni: visitabile su appuntamento. Contattare Parrocchia del Duomo tel. 0522 824515 Il Benamati ci dice: (p.22) ”...Matilde, da cui fu Guastalla di molti, e riguardevoli edifici abbellita, e come riferisce Gio. Francesco Negri Bolognese nelle sue Istorie, fù da Beatrice riedificata, essendo parere di alcuni, che con tale occasione venisse erretta la Chiesa di S.Croce, detta della Morte, la cui Confraternità gode singolari privilegi: se bene che da altri si tiene, e probabilmente, che assai prima fosse edificata...”. Situata sull’antico argine della Cerchia, ora Via Garibaldi e seguenti, è forse la chiesa guastallese dai connotati storici più misteriosi. In effetti, la sua origine è quantomai controversa. Il Benamati, come si legge sopra, attesta un’origine particolarmente antica dell’edificio senza però fornire riscontri in merito. L’altro grande storico guastallese, l’Affò, lo bollerà di eccesso di fantasia dicendo trattarsi di un racconto favoloso. 4 Ad aggiungere atmosfera misteriosa è l’originale conformazione dell’edificio composto da una chiesa superiore cui si accede dai portici di Via Garibaldi ed una inferiore il cui attuale ingresso è sul lato opposto, al termine di Via Bixio. Quest’ultima nei documenti è citata come “sotterraneo” ed è molto più antica. La chiesa superiore fu edificata nella seconda metà del 500 quando divenne sede della Compagnia dell’Orazione o della Morte (da cui il nome) che aveva tra i suoi scopi quello di preparare ad un sereno trapasso i condannati alla pena capitale. L’edificio ospitava, come ora, tre altari. La struttura inferiore aveva al suo interno un altare dedicato alla Beata Vergine della Ghiara. I caratteri architettonici farebbero pensare ad una sua costruzione in epoca medievale, forse trecentesca. Si presenta con forme architettoniche che si rifanno al periodo tardo-romanico, ma purtroppo i massicci interventi nel corso dei secoli, così come la trasformazione a livello del pavimento (rialzato per contrastare i frequenti allagamenti o infiltrazioni di acqua) non rendono agevole la datazione dell’insieme architettonico oltre a deformare la ricostruzione visiva di quello che doveva essere l’originale equilibrio dei volumi interni. Dall’osservazione dello stato attuale emerge che l’ingresso principale, in origine, si apriva certamente su Via Garibaldi mentre ora è utilizzabile solo un’apertura risultante dall’allargamento di una piccola porta secondaria o forse di una finestra dell’abside. Il portale originale è scomparso così come l’accesso primitivo perché l’innalzamento dell’argine della Cerchia ha seppellito il fronte dell’oratorio in epoca non facilmente definibile, forse nel 400-500 durante i lavori di rinforzo contro il pericolo delle inondazioni. E’ possibile che un passaggio dai portici di Via Garibaldi, sotto forma di gradini a scendere verso il primo ingresso, possa essersi conservato fino al 700-800. Per secoli non si hanno informazioni sullo stato della chiesa inferiore che perse nel tempo la sua funzione arrivando a divenire deposito di polveri da sparo per la guarnigione di soldati all’inizio del Settecento. E’ opportuno riportare un aneddoto storico che conferma la trasformazione in santabarbara o magazzino per munizioni ed esplosivi. Nel 1703, durante gli strascichi della campagna miltare che aveva portato l’anno prima alla sanguinosa battaglia di Luzzara e all’assedio di Guastalla, le truppe imperiali tedesche erano impegnate a fiaccare la resistenza degli avversari francesi presenti in città. Nell’ambito di queste pressioni, con un’azione degna del migliore spionaggio militare, i comandanti alemanni ordinarono di introdurre un agente infiltrato con lo scopo di creare scompiglio nell’abitato ed approfittare della confusione per tentare un definitivo colpo di mano. Questo soldato, individuato il luogo dove le polveri erano custodite e stimandolo poco sorvegliato, introdusse una miccia all’interno e le appiccò il fuoco. Sarebbe stata un’esplosione di immane portata, ma un ufficiale delle guardie in giro di perlustrazione riuscì ad intervenire in tempo interrompendo la miccia a pochi centimetri dall’obiettivo. Di un recupero all’uso religioso della cripta si ha notizia solo nel 1868 quando fu riaperta al culto e vi fu posta in custodia la Sacra Reliquia del Preziosissimo Sangue. Potrebbero essere di questo periodo gli interventi di intonacatura ancora presenti, così come un certo rialzamento del pavimento operato su altri compiuti precedentemente e conclusosi con un ultimo completato pochi decenni fa. Già nel primo novecento l’ambiente inferiore tornava ad essere utilizzato quale magazzino, deposito o cantina. La chiesa superiore conserva due belle sculture lignee policrome: la “Madonna del Pianto”, intagliata sul finire del secolo XVI e nel tempo purtroppo ricoperta di strati di colore. L’altra immagine è quella della “Madonna dell’Aiuto”, databile al 1652 come testimoniato dall’iscrizione che si legge alla sua base. La principale pala della chiesa è rappresentata dal “S. Bernardino da Siena, S. Giulia e le anime del purgatorio”, opera di Giambattista Chiodi, allievo bolognese di Benedetto Gennari, artista quest’ultimo ben rinomato a quel tempo perché formatosi alla scuola del Guercino. La pala è collocata sopra l’altare di sinistra. Una grande tela del Campi, raffigurante diversi angeli a grandezza naturale ripresi in varie pose nell’atto di sostenere la Santa Croce, durante la seconda metà dell’800 fu staccata dalla sua sede ed utilizzata ignobilmente nell’abitazione adiacente per chiudere porte e finestre! Un paio di stampe antiche conservate alla Biblioteca Maldotti ci ricordano la devozione per due figure di santi presenti in questo tempio: Santa Liberata e S. Francesco di Paola. Di quest’ultimo è ancora esposta una statua sopra l’altare di destra. In questo edificio è prevista la realizzazione di un museo in grado di accogliere un buon numero di dipinti presenti nelle sacrestie guastallesi e che non possono essere esposti per la mancanza di un adeguato spazio. 5 2) BEATA VERGINE DELLA PORTA Dove si trova: in Via Piave Informazioni: visitabile. Aperta al pubblico durante le funzioni. Parrocchia del Duomo tel. 0522 824515 Importante: museo degli ex-voto del santuario Santuario edificato per il culto della Beata Vergine di cui si tramandano vari miracoli documentati a partire dalla fine del XVII secolo. Il primo, quello che diede inizio alla devozione dei fedeli, avvenne il 7 Febbraio 1693. La piccola immagine della Madonna fu dipinta attorno al 1646 (per altri addirittura nel 1624) dal guastallese Damiano Padovani dietro ordine di un sergente delle guardie, sul muro della porta di S. Francesco, alla destra per chi usciva. Il luogo scelto dal committente era in realtà piuttosto infelice, frequentato com’era da drappelli di ronde appartenenti ai vari eserciti che si susseguirono negli anni. Divenne ben presto ricettacolo di immondizie e utilizzato quale latrina a cielo aperto da parte dei soldati. La sacra immagine ebbe poca fortuna, velata come fu in breve tempo di fuliggine prodotta dal fumo dei fuochi accesi dalle guardie nelle notti e pure durante tutto il giorno nei rigidi inverni. Tanto annerita che, non scorgendosene quasi più i tratti e i colori, negli anni se n’era pressoché perduta la memoria. Un tale Giambattista Zagni, che la ricordava bene per aver prestato servizio tempo addietro nel corpo di guardia alla stessa porta, portava di tanto in tanto un poco di contegno al luogo liberandolo dai rifiuti e cercando di pulire la pittura come meglio poteva. Dopo la totale demolizione delle mura ad opera delle truppe spagnole, restò al proprio posto soltanto la porta di S. Francesco, salvata forse proprio dalla propria eleganza architettonica che ne sconsigliò l’abbattimento. Divenuto lo Zagni vecchio e molto debole di vista, in una sera di un freddo inverno alla fine del Gennaio 1693, uscendo dalla città per proseguire verso la sua casa di Solarolo, complice problemi agli occhi e probabilmente il fondo ghiacciato, d’improvviso rovinò in un fosso molto profondo, forse lo stesso fossato che cingeva la città. Il poveretto ne riportò contusioni in varie parti del corpo. Le difficoltà con cui l’uomo sembrava riprendersi dall’infortunio lo angustiavano non poco, unitamente alla preoccupazione per le gravi mancanze nella vista. La mai sopita devozione per la Madonna dipinta sul muro della porta spinse l’anziano malato a comperare una candela e a chiedere all’amico Ruina, un ortolano che lavorava poco distante dalla porta di S. Francesco, di accenderla davanti alla Sacra Figura. Il desiderio fu realizzato e immediatamente lo Zagni non solo si rimise dai postumi dell’incidente, ma recuperò in ugual modo la vista. La notizia si diffuse in un baleno in città e nei paesi vicini; l’episodio ebbe risonanza amplificata dal verificarsi di altri miracoli nel volgere di brevissimo tempo. Lo stesso Ruina, che per compiacere l’amico infermo portò ed accese la candela al cospetto della Vergine dipinta sul muro, tornato sul posto colmo di emozione, chiese a sua volta la grazia alla Madonna per due suoi figli, da tempo affetti da disturbi gravi e persistenti. Ottenne la loro completa guarigione nello stesso giorno. Si racconta ancora che un uomo, Domenico Bertarelli nativo di Torricella nel mantovano, tanto storpio da non riuscire a reggersi sulle gambe e costretto a trascinarsi per terra con le ginocchia e le mani, venuto subito a conoscenza di quegli eventi straordinari, decise di rendere omaggio alla Vergine miracolosa. Il giorno successivo, Domenica 8 Febbraio 1693, fu portato con una carretta nei pressi della porta di S. Francesco. La gente accorsa in venerazione era assiepata davanti all’immagine. L’uomo, fattosi deporre dal rudimentale mezzo di trasporto, pregando e supplicando avanzò carponi strisciando verso la Madonna. Il derelitto invocò a gran voce le preghiere della folla presente che lo ebbe in compassione. Dopo pochi minuti, tra l’indicibile stupore dei presenti, l’infermo si rizzò in piedi e prese a camminare. La guarigione avvenne in modo così sicuro che lo stesso miracolato rientrò al proprio paese, a piedi, di lì a due giorni. 6 Tra le tante grazie di quel primo periodo vale la pena citare quella ottenuta da tale Anselmo Bertoni di Mantova, il quale, a seguito di febbri incessanti non era più in grado di reggersi in piedi. Le cure dei medici non portarono giovamento ed il malato fu costretto a letto per ben quattro mesi in condizioni che non miglioravano. Fattosi portare a Guastalla e scaricato di peso dalla sua sedia da invalido, fu accompagnato in una locanda del centro. La mattina successiva, entrato in chiesa con l’aiuto di stampelle e sistematosi in ginocchio su di uno sgabello, sostenuto da due religiosi, rimase in chiesa per più ore, deciso a non uscire fino a quando Maria Santissima avesse accolto le sue preghiere. In effetti, dopo aver presenziato a più funzioni religiose, provò a muoversi e vide che poteva camminare. Fu in grado di uscire dalla chiesa senza alcun aiuto e dirigersi in totale autonomia verso la locanda ove aveva preso alloggio. Il clamore generato da questi prodigiosi accadimenti spinse gli organi religiosi ad intervenire per comprendere la natura dei fenomeni. Ben presto fu riunito uno speciale collegio tecnico di teologi e di medici presieduto dal Vicario Abbaziale. Nel successivo Aprile la commissione emise il seguente verdetto: “… essere la detta Imagine veramente miracolosa, e doversi però venerare e riverire con ispecial culto”. Lo stesso mese di Aprile 1693 vide la benedizione solenne dell’immagine di Maria. Con grande concorso di popolo proveniente da ogni dove, con la presenza delle più alte autorità civili, militari e religiose si diede inizio ad una manifestazione di grande rilievo pubblico. Carri celebrativi, solenni cantici, processioni, drappi alle finestre delle case, salve di cannone e di mortaio sparate dai soldati, splendidi fuochi d’artificio sono solo alcuni dei momenti della vivace partecipazione popolare all’evento. Proprio per ospitare il sacro dipinto in modo definitivo e adeguato alla sua importanza, oltre che per accogliere degnamente i visitatori, la comunità guastallese, col concorso del Duca Vincenzo Gonzaga, stabilì di iniziare l’edificazione di una grande chiesa da dedicarsi alla miracolosa Madonna della Porta. Il Duca chiese espressamente che tutti i capifamiglia residenti mandassero a loro spese uomini per iniziare i lavori di escavazione delle fondamenta e per riporto di terra, pietre e del materiale edile. I guastallesi aderirono prontamente e generosamente iniziando già nel Maggio gli scavi che procedettero velocemente tanto che già tre mesi dopo tutto era pronto per l’inizio ufficiale dei lavori di innalzamento murario. La prima pietra fu posta dalla Duchessa Maria Vittoria, nel mese di Agosto dello stesso anno 1693, presenti tutte le più alte dignità ecclesiastiche. La direzione dei lavori fu affidata al capomastro Michele Pantaleoni su disegno progettuale del reggiano Prospero Mattioli. Per le prime spese si poté straordinariamente attingere al patrimonio derivante dalle pene pecuniarie e multe in genere percepite dal Duca in quel periodo, sommandolo alle offerte che già pervenivano cospicue da parte dei devoti della Beata Vergine della Porta. Oltre a poter contare sulla generosità del Duca, che offrì anche materiale edile vario, per consentire la creazione di consistenti fondi, si decise di cercare mezzi economici in un modo singolare. Fu organizzata una capillare questua su tutto il territorio guastallese, mediante la quale si sarebbe potuto raccogliere un buon capitale. I generosi finanziatori avrebbero avuto un tornaconto in forma “spirituale” perché si stabilì di ricompensarli destinando gli interessi annui percepiti sulle offerte ad un controvalore in messe da celebrarsi nella erigenda chiesa. Il santuario fu terminato nel Luglio 1701 e nello stesso mese il sacro dipinto fu trasferito all’interno ed alloggiato ove si trova tuttora, dopo averlo asportato tagliando il muro della porta su cui era stato affrescato. Nel 1702, il 3 Settembre, durante l’assedio ed il bombardamento di Guastalla da parte di Francesi e Spagnoli contro le truppe Tedesche che occupavano la città, il popolo guastallese, radunato nel santuario, fece voto di eleggere due altari: uno al Santo Crocefisso, l’altro al santo ricorrente nel giorno della liberazione che avvenne il 10 Settembre (S. Nicola da Tolentino). Grande concorso di pubblico si registrò nel Luglio 1703 durante le celebrazioni per la solenne apertura della chiesa, cui non mancò il fior fiore della nobiltà mantovana arrivata in buon numero. Verso sera tutte le finestre della città furono illuminate con torce, così come tutto il palazzo ducale. Poi spettacolari fuochi d’artificio deliziarono gli intervenuti fino alle tre di notte. Ai poveri, guastallesi e forestieri senza distinzione alcuna, fu offerto il vino fatto sgorgare da una fontana, oltre a pane e 20 scudi a testa perché potessero far festa anch’essi in pari dignità con il resto della cittadinanza. Nei due altari laterali a quello maggiore sono visibili un “S. Antonio da Padova” ed un “S. Francesco di Paola”, opere del religioso teatino Filippo Maria Galletti, autore anche di un “S. Vittore”. 7 Antonio Ferrabosco e Michele Costa realizzarono gli stucchi dell’ancona nell’altare maggiore e della cantoria mentre Giovanni Pellegrini, reggiano, indorò gli stucchi attorno all’immagine. L’oro per il lavoro fu offerto da un fedele devoto alla Madonna, rimasto ignoto. Pietro Oliva, parmigiano, realizzò la balaustra di marmo unitamente agli scalini che portano all’altare. Valenti artigiani operanti in Mantova, Viadana, Parma, Bologna e Reggio completarono le finiture. Le statue di stucco rappresentanti i 12 profeti sono opera di Giovanni Morini da Viadana, realizzate nell’anno 1786. Gli altari sono completati da ottimi paliotti di scuola carpigiana. La consacrazione avvenne nel Novembre 1709. Da allora, i miracoli di cui si conserva memoria sono particolarmente numerosi; le grazie ricevute sono testimoniate dalle centinaia di quadretti ex voto conservati nel santuario e che già nel settecento erano tanto abbondanti da coprirne tutte le pareti interne. La facciata è popolata di statue ed altorilievi. Al centro in origine facevano bella mostra di sé le effigi dei Gonzaga. L’interno a tre navate è movimentato dalla presenza di stucchi e nicchie con grandi statue che contribuiscono a suscitare un complesso effetto chiaroscurale, quasi a preludio dell’imponente altare che propone ai fedeli l’immagine miracolosa della Vergine. Assieme a S. Francesco, questa chiesa costituisce punto fondamentale dell’esperienza barocca in Guastalla. Il cittadino prof. Miglioli così ha descritto l’interno: “… ciò che colpisce subito indubbiamente, in questo fastoso interno, è il meraviglioso ciborio elevato sull’altar maggiore e nella cui cavità si inserisce a meraviglia la raggiera dorata che evidenzia superbamente l’antico affresco della Madonna della Porta.” “Il tempietto è arricchito con sapienza da numerose figurazioni, statue di putti in volo, maestosi angeli con turiboli d’argento, per far convergere l’attenzione di tutti verso il centro focale di questa composizione plastico – architettonica: l’antico affresco…”. Per sopperire alla totale mancanza di famiglie religiose in città, nel 1923 l’allora Vescovo Mons. Cattaneo iniziò la prassi per la richiesta di affidamento della Beata Vergine della Porta ai frati Cappuccini. Tutto era deciso e stabilito ma la morte del prelato impedì il coronamento delle trattative. Il successore, Mons. Corsini, ebbe maggiore fortuna ottenendo che un altro ordine, i Frati Minori Osservanti, prendessero possesso del tempio e delle sue pertinenze. Questi religiosi si insediarono nel 1927 e la loro permanenza si ebbe fino al 1994. I religiosi della Congregazione Sacra Famiglia di Nazareth del Beato Giovanni Piamarta occupano parte del convento e reggono il santuario dal 1997. 3) CATTEDRALE DI SAN PIETRO (DUOMO) Dove si trova: in Piazza Mazzini Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia del Duomo tel. 0522 824515 Benamati (p.72-78): ”Poi nel seguente anno (1566, N.d.A.) col dissegno del Volterra, pose mano alla fabbrica della Chiesa di S.Pietro, destinandola per Cattedrale, per cui somministrovi tutta la materia, come la Communità altre elemosine; & oltre di haverla arricchita di honorevoli paramenti, & Ecclesiastici suppellettili al divino culto necessarij...”. Fu Cesare Gonzaga a sentire l’esigenza di una grande, nuova, chiesa da erigersi sulla piazza centrale della città, quel centro di aggregazione su cui pure la sua dimora si affacciava. Pensava quindi ad un edificio a carattere religioso che dovesse raccogliere e conservare in sé tutti quei privilegi che un’altra chiesa, di ben più vetusta memoria, aveva potuto nei secoli vantare. In buona sostanza il Principe voleva che quello stesso centro abitato, eletto nucleo fondamentale e capitale del suo dominio in terra padana, potesse contare anche sulla principale chiesa del territorio. L’idea fondamentale era quella di sancire il primato anche in campo religioso del centro abitato, rifondato dai Gonzaga, sulle tradizioni devozionali così radicate nelle campagne e che da sempre vedevano nell’antica Pieve il luogo del culto cattolico per eccellenza. Questo intento fu poi perfezionato e raggiunto dal figlio Ferrante II quando, nel 1585, la chiesa di S. Pietro in Guastalla, già eretta ed attiva da anni, ottenne il privilegio di essere eletta in Collegiata. L’Arciprete si mutò quindi in Abate e con questa carica Bernardino Baldi, insigne matematico e uomo di specchiate virtù religiose voluto dal Gonzaga, operò in seguito. Di fatto, si trattava di un completo 8 declassamento della Pieve e di un trasferimento delle prerogative da questa alla nuova chiesa principale di tutto il territorio guastallese: il Duomo, già dedicato a S. Pietro analogamente al tempio di cui andava a rilevare i benefici. Don Cesare, durante il suo precedente soggiorno mantovano, aveva avuto modo di apprezzare il lavoro dell’architetto Francesco Capriani da Volterra, da lui chiamato nella città virgiliana per realizzare nel grande palazzo una galleria in cui potessero ottenere adeguato risalto le numerose opere d’arte che lo stesso Gonzaga amava collezionare. Trasferitosi a Guastalla, sembrò opportuno permettere all’architetto di dar prova di sé colla sistemazione del palazzo signorile, dimora prima dei Torelli e poi della sua famiglia. Dopo questo primo impegno guastallese il Volterra ebbe modo di dedicarsi appunto alla chiesa di S. Pietro, i cui lavori cominciarono nel 1569 non senza lungaggini provocate dallo stesso architetto che, fin troppo ligio ai dettami della burocrazia del tempo e timoroso di non ottemperare alla prassi dovuta, arrivò ad esigere un permesso speciale direttamente dal Papa prima di accingersi alla costruzione. I disegni erano pronti da qualche tempo ed il Volterra affidò ad altri il compimento materiale dell’opera, terminata nel 1575, dovendosi trasferire nello stesso anno a Roma. Purtroppo gli archivi non ci hanno tramandato l’originaria versione dei disegni, quindi non è noto il primitivo aspetto del tempio. E’ storicamente accertato che Domenico Giunti, architetto che disegnò la prima Guastalla, aveva previsto la dislocazione più appropriata per la chiesa principale alla metà dell’attuale Via Gonzaga. Francesco Capriani, quindi, stravolse buona parte di quel concetto urbanistico che aveva animato il suo predecessore. Ancora il Benamati: ”Terminate con ogni pompa à questo Principe (Cesare Gonzaga, N.d.A.) l’essequie, consagrò il Santo Cardinale (Carlo Borromeo, N.d.A.) la predetta Chiesa Matrice li 20 d’esso mese, facendovi dono di due Denti, uno di S.Pietro, e l’altro di S.Paolo Apostoli...”. Don Cesare Gonzaga, volendo organizzare la più sontuosa cerimonia di consacrazione del nuovissimo tempio, fece pervenire all’illustre cognato Cardinale Carlo Borromeo una richiesta nella quale lo si pregava di officiare il solenne rito. Questi, avendo programmato un viaggio a Roma, rinviò l’impegno di alcuni giorni. Nell’attesa del suo arrivo il Signore di Guastalla definì per atto ufficiale le spettanze economiche riservate alla chiesa di S.Pietro concedendo una rendita annua di 400 scudi d’oro. Gli eventi purtroppo presero una piega ben diversa da quella prevista perché Don Cesare, ammalatosi, venne di lì a poco giudicato in gravi condizioni dai medici accorsi al suo capezzale. Fortuna volle che il messaggero, inviato prontamente a Roma per affrettare la venuta di Carlo Borromeo, lo incontrasse nella non lontana Bologna. Il Cardinale si avviò speditamente a Guastalla ma giunse appena in tempo per costatare la gravità delle condizioni ed assistere spiritualmente il parente prima della morte che sopraggiunse il 17 Febbraio 1575. Lo sfortunato Principe fu sepolto nella nuova chiesa e il Borromeo, il giorno 20, ne celebrò la consacrazione. Anche la consorte di Cesare Gonzaga, Camilla, morta sette anni dopo, trovò degna sepoltura nello stesso luogo. Nel 1670 l’architetto reggiano Antonio Vasconi intervenne sull’interno dell’edificio per restaurare ed abbellire di ornamenti e affreschi la cappella del SS. Sacramento. Questo ampio spazio all’interno del tempio fu ottenuto con l’annessione dell’attiguo oratorio di S. Carlo (vedi cap.22), sede della confraternita del Santissimo Sacramento. Ne risultò un piccolo capolavoro, sia per l’eleganza della costruzione, sia per il notevole livello artistico complessivo delle finiture. Tra gli altri, vi lavorò G.B.Bolognini, allievo di Guido Reni, che eseguì gli affreschi e la pala dell’altare raffigurante un “cenacolo” (del 1677) donata dal Priore Conte Quinziani (ridotta “dai topi e dalle martore in minutissimi pezzi” dopo esser stata posta in un ripostiglio e lì dimenticata) e un “San Carlo” ora perduto. Gli affreschi subirono un restauro nel 1876 ad opera del guastallese Pietro Rossi, allievo di Alfonso Chierici. Gli stucchi sono opera di Giuseppe Verda. I sei quadri raffiguranti i miracoli del Santissimo ed un gruppo di angeli nel baldacchino sono opera del viadanese Francesco Chiocchi. Il suo conterraneo Felice Araldi disegnò e dipinse il catafalco nel 1761 oltre ad un quadro. 9 I lavori di congiungimento tra la grande cappella e la basilica maggiore unitamente a quelli di ornamento sopra citati furono finanziati dalla stessa Compagnia del SS. Sacramento e si protrassero dal 1669 al 1671. Notevoli le modifiche che riguardarono la facciata. Nel 1716 si intervenne con vari rifacimenti e soprattutto con l’inserimento delle due torri che, pur probabilmente presenti nel primo progetto, furono in ogni modo sopraelevate. Nell’Ottocento ampi ritocchi riguardarono la cupola con l’apertura delle finestre tonde, ma soprattutto la facciata con la creazione dei finestroni e il rialzamento del frontone. Non furono risparmiati gli altari seicenteschi, che furono sostituiti, per arrivare anche alla totale trasformazione del pavimento che in precedenza era in cotto con inserti in marmo di Verona. Tutte queste trasformazioni fanno sì che oggi non sia più possibile scorgere distintamente l’arte del Volterra essendosi mutati gli equilibri architettonici del complesso. Tuttavia la chiesa attuale emana un grande fascino ed il visitatore al suo interno non può non essere colpito da una certa suggestione trasmessa dagli aperti volumi, dalla felice distribuzione degli spazi e dalla toccante espressione della luce. Ben evidente alla sinistra, poco dopo l’apertura che si affaccia sulla cappella del SS. Sacramento, l’altare dedicato all’antica Madonna del Castello (vedi capitolo n. 26). Passiamo in rassegna le opere d’arte. In bella evidenza nella navata centrale a sinistra dell’ingresso il “San Francesco riceve le stimmate”, forse di Ludovico Cardi detto “Cigoli”. Una nuova attribuzione lo vorrebbe opera della scuola dei Campi, realizzata alla fine del ‘500. Il coro ligneo in noce, particolarmente solenne, fu intagliato da artisti viadanesi nel 1655. La Madonna del Rosario è una statua lignea policroma realizzata attorno al 1655, posta sull’ultimo altare a destra per chi entra. Sempre qui sono i quindici tondi che rappresentano “I misteri del Rosario”. Si pensava che fossero stati tagliati da un grande dipinto realizzato da Pietro Gallinari nel 1640 circa a seguito di restauri del XIX secolo. Indagini storiche più recenti li definiscono opera invece di Felice Araldi da Viadana. La “Sacra Famiglia” di Gian Battista Crespi detto “il Cerano” fu dipinta attorno al 1620 ed è visibile al lato destro del presbiterio. Sullo stesso lato campeggia la grande pala di scuola emiliana settecentesca, recentemente restaurata, della “Madonna col Bambino, S. Giovanni Battista e S. Giovannino”. Nella cappella del Santissimo Sacramento è collocata in una nicchia la statua di legno policroma della fine del XVII secolo riproducente “S. Giuseppe con Gesù Bambino”, di Girolamo Degiovanni, artista viadanese. Sempre nella stessa grande cappella possiamo ammirare la tela del Gualdi, guastallese, dedicata alla “Chiamata dei primi Apostoli Pietro e Andrea”, un “Compianto su Cristo morto”, gruppo di quattro statue policrome del XV secolo. Riportiamo alcune notizie su altre opere, di cui varie scomparse. Si parla di un quadro raffigurante S. Caterina, opera di Bernardino Campi, inizialmente posto sull’altare omonimo, ma in seguito levato per far posto alla statua di S.Giuseppe di cui si parla poco sopra, dopo l’affidamento dell’ex altare di S. Caterina alla corporazione dei falegnami guastallesi perché vi fosse pregato il loro santo protettore. Il quadro del Campi, secondo testimonianze del XIX secolo, si trovava ancora, pur in pessime condizioni, in uno dei camerini posti sulla scala che immette in cantoria. Ora è esposto nei locali della sacrestia, nel suo ritrovato splendore. Si sa di un altro trasloco di due quadri sempre del Campi (S. Bartolomeo e S. Luca) che furono collocati sopra le due “portelle” (porte laterali) e che poi andarono perduti. Al posto del primo quadro, nell’omonimo altare di S. Bartolomeo, fu fissato un dipinto di Damiano Padovani raffigurante i Santi Crispino e Crispiniano, protettori dei calzolai. La corporazione dei sarti commissionò sempre all’artista Padovani la raffigurazione di S. Omobono. Interessante la dotazione di dipinti presente in sacrestia: ritratti dei papi Clemente XIV e Sisto V, abati e due grandi alberi genealogici raffiguranti gli stemmi araldici degli abati e dei molti canonici che prestarono qui la loro opera. Con l’interessamento di Maria Luigia la collegiata fu eletta alla dignità vescovile nel 1828. Accanto alle reliquie antiche, al sepolcro del Ven. Lorenzo da Zibello, per 53 anni monaco cappuccino a Guastalla, accoglie le ceneri dei suoi pastori. 10 4) BEATA VERGINE DELL’OLMO Dove si trova: in Via Benatta, angolo Via delle Ville Informazioni: visitabile solo previo appuntamento. Parrocchia SS. Pietro e Paolo (Pieve) 0522 824438 Benamati (p.92): “...accrescendosi anco di fabrica quello della BeataVergine nella Villa de i Praticelli, detta dell’Olmo.” Il Benamati dice costruito questo oratorio attorno al 1630, anno della grande peste che sconvolse tristemente la città e le campagne guastallesi. Proprio a questo flagello dovrebbe ricondursi la sua edificazione; voluto e portato a termine forse per grazia ricevuta o per scongiurare nuove pestilenze. Gli stessi santi cui sono dedicati gli altari interni, S. Sebastiano con S. Fabiano e S. Rocco ne sarebbero la riprova. Il primo è storicamente venerato come il protettore dalla peste, il secondo è iconograficamente spesso associato a S. Sebastiano, mentre il terzo è anch’esso legato alle preghiere contro il fatale morbo ed il suo culto è molto diffuso. S. Rocco, nato in Francia a Montepellier, prestò assistenza in Italia ai malati contagiati dalla peste e di lui si tramandarono guarigioni miracolose. L’altare centrale è dedicato alla Vergine. La posizione del piccolo tempio, collocato in punto non casuale a ridosso di un “cardine” (confine delimitante un’area agricola suddivisa geometricamente) di origine romana, farebbe pensare che l’oratorio sia stato eretto al posto o nelle immediate adiacenze di una maestà di antica data o di altra espressione religiosa la cui primitiva genesi doveva perdersi nella notte dei tempi. Infatti, era uso comune nell’antichità erigere tempietti adatti alla preghiera proprio agli incroci delle zone divise mediante la centuriazione. Con questo termine si definisce il sistema di organizzazione del territorio agricolo che permise agli antichi romani un razionale sfruttamento delle risorse offerte dalle campagne. 5) SAN GIUSEPPE Dove si trova: in Via Parrocchia Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia SS. Pietro e Paolo (Pieve) 0522 824438 Benamati (p.81) ”Fabricavasi nel medesimo tempo da i fondamenti la Chiesa di S.Gioseppe al Bacchanello, ove poi l’anno 1615 sopra il fiume Crostolo, per rendere più commodo quel passo, fussi il Ponte di pietra edificato.” Edificata nel 1598 grazie al sostegno economico di tale Giuseppe Tolosa, ospita al suo interno tre altari. Nella parete di destra è murata una nicchia contenente l’affresco della Madonna del Prugno, oggetto di venerazione dal popolo a seguito del noto miracolo (vedi cap. 24), strappata dal tempio in cui era posta poco prima della sua demolizione trovando qui la definitiva sistemazione. Si tratta di un ritratto della Madonna di Loreto che a suo tempo (sec. XVII) era effigiato su un pilastro ai bordi di una vicina strada. Le fattezze del soggetto e la semplicità del ritratto lo fanno ritenere, da parte di alcuni, opera del XIV secolo. Tuttavia, l’ingenuità pittorica unita alla elementarità della composizione lo fanno piuttosto sembrare opera di artista modesto, di origine locale, probabilmente dello stesso secolo XVII o al massimo del secolo precedente. A conferma di questa tesi c’è anche una constatazione di ordine pratico. Difatti, essendo stata dipinta su un pilastro, di per sé collocazione precaria, certamente poco riparata, è impensabile che avrebbe potuto resistere per tre secoli alle offese degli agenti atmosferici. La Madonna è ritratta con viso piuttosto grazioso, con grandi occhi penetranti, una ricca veste ornata di fregi ed una splendente corona. Il Bambino Gesù, in posizione innaturale, sembrerebbe un’aggiunta non coeva, così come i due angioletti ai lati. Nei secoli l’affresco ha certamente subito restauri e ritocchi; tali interventi impediscono una sua datazione più precisa. Sull’altare di destra è posta la statua della Beata Vergine della Consolazione, una terracotta di pregevole fattura ma di incerta origine e datazione (presumibilmente del XIV- XV secolo). 11 E’ il 1630, l’anno della tremenda epidemia: la peste. Ovunque morte e desolazione. Alcuni soldati lanzichenecchi (mercenari tedeschi) vagano allo sbando compiendo furti, violenze ed atti di puro vandalismo. Uno di questi sbandati, probabilmente alla ricerca di facile bottino, vìola una cappella posta nei pressi della riva del Crostolo e ne asporta la terracotta raffigurante la Beata vergine col Bambino. In un impeto dissacratore la scaglia nel torrente e per far si che possa rapidamente affondare prende a spingerla col bastone. Tale Jacopo Minari, guastallese, vedendo la scena, intervenne senza indugio offrendo al soldato il denaro che aveva con sé a patto che desistesse dal gesto. Contento del facile guadagno il lanzichenecco rapidamente si dileguò. La statua, incredibilmente rimasta a galla, è del tutto illesa. Verrà con prontezza recuperata dal Minari che, ripulitala, la consegnerà al cappellano della vicina chiesa di S. Giuseppe. L’impressione causata dall’episodio nella popolazione fu grande, anche perché ben presto si notò una diminuzione della potenza malefica della peste che poi, nello spazio di poche settimane, definitivamente ebbe fine. La gente del posto, collegando i due eventi, ringraziò la Vergine con offerte. Da quel momento ebbe origine la devozione popolare per questa Madonna, esternata anche con solenni processioni onorate dalla presenza dei più alti esponenti del clero locale. Il pittore Damiano Padovani affrescò sul muro sinistro il fortunato avvenimento del salvataggio della statua raffigurando il torrente Crostolo, l’argine su cui si svolse la scena, il lanzichenecco col bastone, il salvatore nell’atto di consegnare il denaro e la Madonna col bambino. Il dipinto, corroso dall’umidità, è purtroppo in pessime condizioni e molte parti sono ormai irriconoscibili. La mano del Padovani comunque realizza un volto mariano di grande dolcezza pur nella sua estrema semplicità. 6) SANTI FILIPPO E GIACOMO (S. GIACOMO) Dove si trova: in Via Ponte Pietra angolo Via Castellazzo Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia tel. 0522 831179 Conosciuta anche col nome di S. Giacomo Minore. Notizie utili ad una precisa datazione della nascita di questa chiesa non sono finora state reperibili. Il Benamati dice (p.82) che fu ricostruita dalle fondamenta nell’anno 1622 ma poi non indica le fonti che senz’altro certificherebbero una sua esistenza ben più antica. In effetti, l’altro grande storico di Guastalla, l’Affò, cita bolle papali del XII secolo per circoscriverne la prima edificazione tra il 1132 e il 1157, posto che in una prima bolla di Innocenzo II non ve ne era memoria, mentre in un successivo diploma dell’imperatore Enrico VI del 1191 ed in una bolla del 1157 la chiesa era citata. Ma le interpretazioni desumibili da altri documenti dell’epoca ci fanno pensare ad una fondazione di un primo piccolo tempio, certamente di aspetto essenziale se non modesto, risalente all’epoca di Matilde di Canossa. La presenza periodica della contessa nel territorio guastallese è ampiamente dimostrata, così come è da molti ricordata la sua attiva funzione organizzatrice del Sinodo preparatore del Concilio di Piacenza del 1095 e celebrato presso la Pieve da Urbano II. Tradizioni riferite in testi di storia locale ipotizzano l’esistenza di una dimora della Contessa posta proprio su questo territorio da lei ben conosciuto e frequentato sia perché in gran parte di proprietà della famiglia, ma anche perché luogo di passaggio verso Mantova, il più importante centro del suo dominio. Alcuni localizzano la residenza matildica nell’area o nello stesso edificio denominato Castellazzo, ora azienda agricola, il cui stabile principale è indubbiamente memore di antiche vestigia e di profondi rifacimenti strutturali attuati nel corso dei secoli. A conferma di queste indicazioni, è importante ricordare che la chiesa è intitolata, oltre che a S. Giacomo detto “Minore”, a S. Filippo, ed è ben nota agli storici la fervida devozione della contessa verso questo figura di santo tanto da farsi costruire, sentendosi vicina alla morte, una cappella a lui dedicata nella dimora dei suoi ultimi giorni a Bondeno di Roncore. Per alcuni, poi, anche la constatazione che la via recante al Castellazzo “matildico” inizia proprio a fianco della chiesa, è ritenuta elemento comprovante la nascita dell’edificio religioso proprio nel periodo di Matilde quando non fondato dalla stessa contessa. E’ bene ricordare che non risulta però alcun elemento certo al riguardo. Tuttavia queste risultanze possono essere ritenute probabili dato che per la prima volta la cappella di S. Giacomo è citata in un documento di Papa Adriano IV del 13 Maggio 1157, quindi in un periodo che potremmo ancora definire post-matildico (cessò di vivere nel 1115). Altra menzione successiva è nel diploma dell’imperatore Enrico IV del 3 Novembre 12 1191 a favore del monastero di S. Sisto, in cui sono citate le più antiche chiese guastallesi oltre alla basilica principale della Pieve: S. Bartolomeo, S. Giorgio, S. Martino e appunto S. Giacomo. Molto tempo dopo, la sua esistenza è certificata in un atto notarile del 1483 in cui è regolata la vendita di appezzamenti di terreno prativo posti nel territorio di S. Giacomo, nel luogo detto “Saldone” (derivato dal latino “saltus” che ha il significato di “area adibita al pascolo” ), oggi occupato dalla zona industriale. Per avere notizie circostanziate occorre rifarsi al periodo della peste del 1630. Durante questo nefasto evento molti fedeli in punto di morte manifestarono per iscritto la volontà di lasciare alla chiesa locale le proprie sostanze (terreni ecc.). Al fine di raccogliere le ultime volontà un cappellano della Pieve aveva ottenuto speciale delega di operare sul territorio di S. Giacomo in assenza di notai. A seguito di questi avvenimenti si addivenne alla elezione della chiesa in cappellania “gestita” dagli abitanti del luogo che avevano il diritto di nominare il cappellano ed eventualmente di licenziarlo. Solo a loro spettava anche l’amministrazione economica delle rendite a favore della chiesa. Queste prerogative vennero più tardi assunte dalla Confraternita dei SS. Filippo e Giacomo di cui si ha notizia a partire dal 1675. L’edificio doveva rimanere, pur con i restauri che sicuramente saranno necessitati e di cui non resta traccia documentaria, particolarmente modesto e lacunoso nella manutenzione. D’altronde più di un cappellano rinunciò alla carica per le modeste entrate finanziarie, verificate insufficienti a garantire una sicura rendita per il sacerdote, né tantomeno bastevoli a spese extra per il miglioramento dell’edificio. La situazione non cambia negli anni a seguire perché attorno alla meta del ‘700, durante una delle periodiche visite pastorali, la chiesa è definita come necessitante di urgenti lavori di sistemazione al fine di portare quel decoro che ogni edificio di culto deve avere. A tal proposito furono ordinati lavori all’altare maggiore e la “sospensione” degli altri due (molto probabilmente trovati in condizioni penose) dalle funzioni. Un miglioramento dello stato si potrà registrare con la visita pastorale del 1829, durante la quale non si fecero rilievi alla condizione dell’edificio in generale né ai tre altari, i cui due laterali erano dedicati a S. Margherita e alla Beata Vergine del Rosario. Si ha notizia del restauro della torre campanaria, avvenuto nell’anno 1832 a seguito dei danni riportati dal terremoto dello stesso anno; ulteriori lavori furono decisi nel 1886 per l’edificio principale. Da un elenco del 1899 riguardante i beni presenti nel tempio si ricordano: un confessionale in legno di pioppo, un dipinto ritraente la Beata Vergine delle Grazie su un apposito altare. Nel coro faceva bella mostra di sé un quadro che effigiava i santi cui la chiesa era dedicata. L’edificio era illuminato, oltre che dalle finestre del coro, da altre due finestre per ognuno dei due lati principali ed una ulteriore posta sopra l’ingresso. Vicino alla porta principale vi era un quadro raffigurante S. Antonio da Padova. L’erezione in parrocchia dovette attendere il 1922, dopodiché il parroco Don Eugenio Bottesini diede il via ad altri lavori di restauro e, in seguito, all’acquisto di nuove campane. Proprio al fervore di questo sacerdote si deve il recupero della canonica (trovata dallo stesso religioso in condizioni miserevoli e di completo degrado) e l’ornamento del luogo di culto con nuovi arredi. E’ di questo periodo l’acquisto della statua di S. Giacomo effettuato presso la ditta Oliva di Parma. L’antico edificio fu demolito nel 1962 per far posto alla nuova essenziale costruzione terminata l’anno successivo, donata dal benefattore sassolese Pietro Marazzi, e che possiamo vedere oggi. Gli ultimi lavori, promossi dal parroco Don Roberto Gialdini, necessari per ragioni estetiche e funzionali, sono stati portai a termine in anni recenti. Nel 1981 si innalzò il campanile per alloggiare la quarta campana. La facciata è stata oggetto di un intervento di completo rifacimento nel 1991 su progetto di R. Formici e D. Vezzani ed il risultato è gradevole. Nel 1995 è stata interamente realizzata ex novo la cantoria sopra la porta d’ingresso, locale in grado di ospitare trenta persone. E’ infine del 1998 la collocazione di 12 vetrate collocate lungo le pareti laterali e raffiguranti episodi dell’Antico Testamento e dei Vangeli. All’interno si possono ammirare: una “Madonna con santi” di artista non identificato che ha siglato il lavoro con le lettere BFM. E’ un olio del secolo XVII di buona fattura. Sulla cantoria è esposta un’ampia tela dedicata ai due santi Filippo e Giacomo risalente al XVIII secolo. Le pareti sono ornate con una serie di terrecotte di A. Mozzali realizzate negli anni Sessanta. Dello stesso autore sono i santi rappresentati nel frontale della chiesa. 7) SAN GIORGIO 13 Dove si trova: in Viale Cappuccini Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia SS. Pietro e Paolo (Pieve) 0522 824438 Benamati (p.5): ”...ne anco memoria della fondatione della Chiesa di S.Giorgio, la di cui origine, e per il corso de’ secoli andati, e per la lunghezza de’ tempi immemorabili è ignorata alle genti; & essa spogliata di tutti quelli ornamenti, che nella sua fanciullezza le facevano, come sposa celeste molto più risplendere; & abbassata à qualche profondità dall’impetuose onde dell’inondante fiume Po’...” Da documenti riportati sia dallo storico Muratori, sia dall’Affò, atti ufficiali risalenti il primo all’anno 903 ed il secondo al 1093, risulterebbe che una prima chiesa con questo nome esisteva ben prima dell’anno mille. Alcuni storici fanno risalire la sua nascita al secolo IX citando un antico privilegio di Lodovico III ad Adalberga del 904 in cui si conferma alla stessa badessa del monastero di S. Sisto le donazioni della corte guastallese con “le sue cappelle”. Questo plurale evidenzia che, oltre l’antica Pieve, almeno un altro edificio religioso doveva pur esistere in quell’epoca. E’ verosimile si trattasse di S.Giorgio. A supporto di questa deduzione sono portati rilievi di carattere architettonico. Vedendo alcuni l’influsso francese sul romanico dell’oratorio e risultando il territorio sotto il potere carolingio ancora nella seconda metà dell’800 è sembrato logico arrivare a questa conclusione. A rafforzare l’idea è utile dire che la venerazione di S.Giorgio era molto sentita oltralpe quale protettore della cavalleria. L’Affò, nella sua ricerca storica sulla città, cita il contenuto di un manoscritto opera dell’Abate Bernardino Baldi, erudito conoscitore di questioni storiche, nel quale egli affermava che quella di S. Giorgio fosse la più antica chiesa del nostro territorio, risalente al VI-VII secolo d.C. Questa interpretazione non ha trovato discepoli tra gli storici. L’osservatore non può fare a meno di notare che, rispetto al piano di campagna, la soglia d’ingresso è più bassa di un metro. Questa situazione altimetrica deriva da una serie di alluvioni che tormentarono il piccolo oratorio nel corso della sua lunga esistenza, ma dalle quali non fu risparmiato neppure gran parte del territorio circostante fino alla Pieve ed oltre. Di una di queste catastrofi naturali, forse la maggiore, troviamo descrizione nell’Affò. Lo storico ci informa che un’impressionante ondata di piena nel 1411 sconvolse le terre di Guastalla, Brescello, Colorno e Torricella portando con sé grande mole di sedimenti sabbiosi e terrosi che si accumularono anche nell’area occupata dalla chiesa interrandola. L’antico “bugno”, un profondo avvallamento con presenza d’acqua, che si osserva anche nelle carte del XIX secolo con la denominazione di Bugno Rossi (colmato e spianato nei primi decenni del ‘900) sarebbe stato scavato in questa occasione dalla forza erosiva del fiume in piena. Queste circostanze ci fanno pensare che molto vicino all’oratorio fosse presente un argine che proteggeva dalla forza del grande corso d’acqua e che, cedendo nel punto dove il bugno si è formato, abbia trasportato tutt’intorno il materiale scavato qui dalla pressione erosiva delle acque unitamente al flusso dei sedimenti che la corrente di piena portava con sé. Per la sua non felice posizione ed i danneggiamenti relativi non fu questo un tempio molto frequentato. Per molti anni visse disgregandosi nel più totale abbandono affogato nella vegetazione incolta. Nel XV secolo era qui presente un frate romito di nome Paolo che lo custodiva. Si ha memoria di opere di recupero attuate nel 1625. I lavori di restauro iniziati nel 1932 furono condotti dall’Ing. Paglia con supervisione di Mons. Baratti, attivo anche per gli importanti lavori di recupero della Pieve. Con ardore e sacrificio proprio Mons. Baratti trasmise quella fiducia nella riuscita del compito che le lungaggini burocratiche potevano spegnere. Intervenne con un proprio contributo finanziario ottenuto grazie alla vendita di quadri di sua proprietà e non si arrese. Questa interessante figura di sacerdote cultore dell’arte e deciso soprintendente ai lavori di restauro meriterebbe un’indagine dedicata. In questa sede converrà comunque ricordare che Raffaele Baratti nacque a Boretto nel 1867. Insegnante di letteratura italiana e latina nel Ginnasio guastallese, assunse la carica di direttore dello stesso istituto scolastico e quella di Prefetto degli studi. In seguito sarà nominato Ispettore Onorario dei monumenti e Socio corrispondente della Regia Deputazione di Storia Patria per le antiche provincie modenesi. In buona sostanza assunse l’onere di supervisore ai restauri nella sua area di competenza. Oltre che a S. Giorgio, si dedicò al notevole e impegnativo intervento sulla basilica di Pieve oltre che a consulenze per la ristrutturazione della Beata Vergine della Neve a Tagliata. Deciso assertore della validità del metodo cosiddetto “analogico”, la sua opera fu volta alla ricostruzione degli antichi templi copiando da altri simili per stile architettonico, periodo e zona omogenea. L’obiettivo 14 che in questo modo riteneva di cogliere era quello di salvaguardia della forma primitiva delle chiese prima che questa fosse cancellata per sempre. Naturalmente questo modo di operare ha necessariamente favorito interpretazioni piuttosto libere se non arbitrarie che si sono palesate nei risultati dei restauri, oggetto di mai del tutto sopite polemiche. A suo grande merito vanno portati la grande determinazione perché questi antichi edifici religiosi potessero tornare alla vita attiva e la strenua ricerca delle lontane radici storicoarchitettoniche. I restauri di S. Giorgio furono particolarmente lunghi e terminarono nel 1943, in un terribile periodo per la storia nazionale. Questa sede fu testimone delle riunioni del Comitato di Liberazione Nazionale di Guastalla durante l’ultimo periodo bellico. Altri lavori di sistemazione, anche esterna sul selciato, furono svolti negli anni sessanta. Rimangono tracce di affreschi nell’abside raffiguranti Gesù tra volti di beati e putti poi strappati e ricollocati in altra posizione nella navata centrale. Le figure dei due santi originariamente presenti ai lati del Cristo sono state purtroppo distrutte durante i restauri. Questo gruppo di dipinti sarebbe risalente al XIV secolo ma in seguito rimaneggiato. Molto interessante la formella paleocristiana, ritenuta risalente al VI secolo, posta sotto la mensa dell’altare. Proviene dagli scavi relativi agli ultimi restauri della Pieve e qui voluta da Mons. Baratti. Rappresenta il motivo classico dell’Agnus Dei ed è una delle testimonianze più antiche del culto cristiano nelle nostre zone. La pila dell’acqua santa, in marmo rosso di Verona, risale al XVI secolo. 8) SAN GIROLAMO Dove si trova: in Via Peroggio angolo Via delle Ville Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia tel. 0522 836025 Con la denominazione ”Tomarole” (ancora presente quale toponimo che individua una precisa area) s’indicava anticamente la località ora nota col nome del santo cui la chiesa fu dedicata: S. Girolamo. Questa zona, soprattutto ad est nel luogo detto Fangaia, presenta ancora tracce della divisione agraria romana. Il popolamento delle Tomarole ha quindi origine molto antica. Venendo alla nascita della locale chiesa occorreranno alcune righe di premessa. Le genti che abitavano questo tratto di territorio potevano usufruire di un unico edificio per il culto fin dal XI secolo, in “comproprietà” con i residenti di S. Martino e posto in zona denominata S. Martino Vecchio. La chiesa, demolita, è ricordata dalla presenza sul ciglio della strada, alla sinistra di chi procede verso S. Girolamo di un pilastro o edicola all’altezza di Via Cantone. Dopo la demolizione si pose immediatamente il problema di costruire un edificio più prossimo alle Tomarole e che servisse per i devoti di queste campagne vista anche la notevole distanza dalla basilica di Pieve (6 Km). Le prime notizie sulla chiesa di S. Girolamo ci provengono da un atto del notaio guastallese Pecorelli datato Ottobre 1607. In questo documento si afferma che l’edificazione del nuovo edificio religioso è merito dei fratelli Girolamo e Ferrante Cattanei, guastallesi, ed è stato portato a termine nello stesso anno 1607. Spettava a loro ed ai loro eredi, per diritto di giuspatronato, eleggere e rimuovere i cappellani. Così fecero nominando come primo cappellano don Pietro Avorio (più probabilmente Avoglio o Davolio). Già nel 1610 è eletta alla dignità parrocchiale. Non è chiaro perché, con rogito del Settembre 1617, il patronato passa nelle mani del Signore di Guastalla. In effetti, nel 1631 il Duca Cesare II Gonzaga nomina effettivamente il rettore e parroco di S. Girolamo. Purtroppo, nonostante il rinvenimento in vari archivi di questi importanti documenti atti a datare i primi passi della parrocchia, non ne sono stati trovati altri che possano illuminarci su quale aspetto fisico avesse la prima chiesa. Era certamente di dimensioni ben più contenute delle attuali ed avrà certamente comportato restauri ed ampliamenti dovuti sia alla povertà dei materiali con cui i templi antichi erano realizzati, sia a causa dell’aumento della popolazione che ne intendeva fruire per gli offici religiosi. In effetti, durante la seconda metà del XVIII secolo fu realizzata una fornace che aveva lo scopo di produrre buoni mattoni utili per il restauro della parrocchiale, unitamente ad un suo necessario ampliamento, al cui 15 obiettivo non furono estranei vari benefattori locali che contribuirono con denaro ma anche con l’offerta di materiale utile alla costruzione. Fu consacrata dal Vescovo di Alba Ludovico Gonzaga nell’Ottobre 1623 e dotata di fonte battesimale. Gli inventari dei beni della chiesa redatti durante il XVII secolo ci ritraggono un edificio decisamente scarno di immagini religiose e poverissimo negli arredi. Nel 1713 si parla chiaramente di tre cappelle: a sinistra dedicata alle Sante Agata e Lucia, a destra quella della Madonna e quella centrale con l’altare maggiore. Alla fine del ‘700 occorre provvedere all’impellente restauro del coro, in pericolo di crollo, alla realizzazione dell’ancona dell’altare della Madonna e all’acquisto della balaustra. A questi gravosi impegni le due attive confraternite operanti in loco, quella del Santissimo e quella del Rosario, provvedono con mezzi propri e con la vendita di legname proveniente dall’abbattimento di alberi, dopo averne ottenuta l’autorizzazione da parte del Vescovo. Risale probabilmente al Settecento l’arricchimento degli arredi sacri con l’esposizione di un bel crocifisso ligneo tuttora presente nella navata destra. L’edificio sacro, nella sua storia, è certamente stato soggetto a trasformazioni strutturali. A partire dalla prima chiesa costruita, la cui area corrisponde a quella dell’attuale presbiterio, gli interventi edilizi più recenti hanno permesso di mettere in luce le tracce di ben tre diversi ampliamenti avvenuti in epoche successive. Il primo di questi è consistito nell’applicare, di fatto, alla chiesa primitiva un nuovo ambiente di maggiore larghezza per generare spazio utile alla presenza dei fedeli. Gli altri lavori di ampliamento furono posti in essere mediante l’allungamento della nuova superficie e creando nel contempo le due piccole navate laterali con lo scopo di alleggerire l’effetto volumetrico dell’interno rendendolo più aggraziato. Vari interventi furono portati avanti nel corso del XX secolo, pur non sostanziali, sugli interni e sul campanile. In particolare si ricordano lavori per l’apertura di nuove cappelle, del finestrone della facciata (già esistente ma murato), l’asportazione del coro ligneo, del vecchio organo (attribuito al secolo XVII e ora conservato in altro locale), lo spostamento del battistero, l’esecuzione del mosaico sulla facciata e la rimozione e sostituzione del vecchio pavimento. Si ha notizia pure di un crollo di parte della navata centrale nel 1957. I restauri compiuti a seguito del terremoto del 1986 sono storia recente e non senza lati oscuri come quello del disfacimento dell’altare dedicato alla Madonna posto al termine della navata di destra. E’ storia di ieri il recupero pittorico dell’interno compiuto nel 1998, intervento che ha saputo risvegliare il gustoso cromatismo della volta sopra il presbiterio e dare il giusto risalto alla chiesa nel suo complesso. 9) BEATA VERGINE DELLA NEVE (SANTA MARIA DELLA NEVE) Dove si trova: in Via Provinciale N.2, angolo Via Bonazza, nella frazione di Tagliata Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia tel. 0522 824670 Non si è a conoscenza di alcun dato storico che possa aiutare a stabilire quando la chiesa sia stata eretta. Nell’intento di circoscrivere un lasso di tempo utile è necessario valutare che il perimetro su cui poggia, così come i terreni circostanti, furono liberati dalle paludi a partire dal XIII secolo. Fu allora che prese corpo la decisione di dare inizio allo scavo del canale Tagliata, la cui funzione fu esattamente quella di convogliare tutte le acque stagnanti di queste terre in un alveo ristretto capace di evitare le esondazioni e gli allagamenti. Dopo questo profondo intervento di bonifica, certamente importante per i mezzi tecnologici del tempo, anche questa landa fu gradualmente occupata e sfruttata per fini agricoli; quindi la presenza umana si consolidò con la creazione di un nucleo abitato cui si ritenne in seguito di unire pure un edificio confacente al culto cattolico. In effetti la distanza dalla Pieve (lontana poco meno di 3 km) certamente spinse in tal senso, oltre al lavoro spirituale e alle relative esigenze manifestate da un’antica e particolarmente attiva Congregazione dedicata alla Beata Vergine della Tagliata, esistente forse fin dal trecento. Si deve supporre che il primo edificio fosse strutturalmente modesto e di piccole dimensioni così come altre chiese pioniere della zona guastallese. E’ altresì molto probabile che alla prima rudimentale costruzione ne siano seguite altre per restauri od ampliamenti imposti dalle ingiurie del tempo e dalle nuove esigenze di una popolazione in fase di incremento numerico. Notizie certe si possono trarre solo grazie al Benamati. Lo storico afferma (p.82 della sua storia di Guastalla) che la chiesa fu riedificata dalle fondamenta nell’anno 1622, ma non parla però della situazione precedente. Questa costruzione richiese alcuni anni, e non era ancora terminata alla fine del 1625. Alle spese 16 concorse la gran parte del popolo locale oltre ad alcuni benefattori residenti altrove. Si può affermare che il consenso fu unanime e, per quanto possibile, furono offerti sia denaro che beni utili alla prosecuzione dei lavori, così come l’indispensabile manodopera. In chiesa vi erano tre altari di cui uno dedicato alla Beata Vergine di Loreto effigiata in un piccolo quadro appeso. Un altro altare ricordava S. Giovanni Battista. Anche qui era presente un quadro con lo stesso soggetto. La cappella della Beata Vergine di Loreto fu ultimata più tardi ed assunse in quell’occasione una diversa dedicazione: S. Lucia. Non vi è nessuna menzione alla sacrestia: probabilmente il coro era adibito a questo utilizzo. Il materiale per gli offici religiosi era contenuto in un modesto armadio di pioppo posto proprio in questo limitato ambiente. L’altare centrale era un semplice tavolo di noce. Da queste poche notizie desunte dalle visite pastorali del seicento emerge un ritratto sufficientemente chiaro. Si trattava quindi di una chiesa essenziale negli arredi interni, sprovvista di un locale adibito a sacrestia. Già ai primi anni del XVIII secolo si rendevano improcrastinabili alcuni lavori di restauro sulla cappella di S. Lucia il cui tetto e muro perimetrale rischiavano il cedimento strutturale: ulteriore prova della povertà di questo fabbricato eretto in economia. Da sempre sotto l’egida della parrocchia di Pieve, Tagliata durante tutto il XVIII secolo cercò di ottenere maggiore attenzione dagli organi religiosi lamentando eccessiva la distanza tra l’abitato e la basilica da cui dipendeva. Come è logico aspettarsi, questi disagi si acuivano durante i freddi inverni ed erano tra l’altro accompagnati da “disservizi” vari causati dal clero pievano di cui prontamente i paesani avevano a lamentarsi. Finalmente nel 1857 la chiesa della Beata Vergine della Neve fu eretta in Parrocchia non senza dover far fronte a diverse avversioni al progetto, tra cui quelle del parroco di Luzzara, dalla cui giurisdizione erano tolti alcuni appezzamenti (e relativi abitanti), assieme ad altri individuati a Pieve e a S. Martino. Si raggiunse l’agognato obiettivo grazie all’interessamento attivo dei vescovi della diocesi di Guastalla Mons. Neuschel prima e di Mons. Pietro Rota in seguito. All’inizio del ‘900 si restaurò la facciata della chiesa con un bassorilievo in cemento realizzato da Clemente Allodi decoratore cremonese ed un dipinto della Madonna della Neve, opera del Prof. Aroldi di Casalmaggiore. Il parroco Don Taschini riassume in uno scritto del 1911 la situazione della chiesa definendola “non consacrata ma soltanto benedetta. E’ fornita di tre altari, di cui il maggiore è dedicato alla Madonna della Neve, e dei due laterali, quello a destra alla SS.ma Trinità, e quello a sinistra a S. Lucia comprotettrice”. Don Giuseppe Bertoli, primo rettore della Parrocchia nel 1863 scrisse: “La B.V. della Neve sembra sempre essere stata la titolare della Chiesa della Tagliata, ma ignorasi affatto il motivo per cui venne a ciò prescelta”. Notevoli lavori di riattamento furono consigliati dalle pessime condizioni del soffitto che, causa il peso degli anni e le non buone condizioni del cannicciato cui l’intonaco aderiva, venne del tutto smantellato scoprendo un soffitto ben più alto e spazioso pur non decorato. Si decise quindi di non ripristinare il precedente e di mantenere le originali capriate prima nascoste, arricchendole di una più alta copertura a cassettoni. Questi interventi avevano il fine di dare più slancio ad un ambiente che, prima dei lavori, il Vescovo Monsignor Corsini aveva definito come un modesto “camerone” o “stanzone”. I lavori si svolsero nel 1927 su disegno e con la supervisione di Mons. Baratti Vicario Generale e interessarono altresì l’allungamento del coro e l’ampliamento delle due cappelle laterali. E’ presente una “Madonna con S. Carlo e altri Santi” di artista locale ispiratosi al Campi. Già in S. Francesco. 10) SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO (LA PIEVE, GIA’ S. PIETRO) Dove si trova: in Via Pieve Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia SS. Pietro e Paolo 0522 824438 La storia della basilica della Pieve (nome con cui è nota a tutti) è parte significativa della storia del territorio e accompagna la vicenda stessa dell’origine di Guastalla in quanto il lembo di terra su cui fu eretta fu probabilmente lo stesso spazio che vide la comparsa del primo nucleo insediativo guastallese. 17 L’edificio fu innalzato sul dosso creato dai frequenti e possenti riporti di detriti che, provenienti dai torrenti appenninici, per millenni consolidarono ed elevarono gradualmente il terreno della zona. In questo lembo di pianura, attorniato da acque morte e paludi, ma anche dal corso del maestoso Po e del Crostolo (entrambi con percorsi ben diversi dagli attuali) i primi abitanti si stabilirono in epoca molto remota lasciando segni inequivocabili della propria presenza almeno a partire dall’epoca romana quando questi uomini erano dediti alla coltivazione di un fertile agro diviso col sistema delle centuriazioni. Tuttavia recenti ritrovamenti collocano in ambito più antico la prima presenza organizzata su queste terre. Al di fuori degli appezzamenti agricoli l’ambiente naturale era rappresentato da boschi ripariali e saliceti allagati con livello idrico variabile. Le campagne più elevate si prestavano quindi alle colture (il terreno proveniente dal riporto fluviale ed alluvionale è ricco di ottimo humus) e l’area certamente utilizzata a tali fini è individuabile lungo l’asse dell’attuale Via Pieve – Via delle Ville, quindi delle zone di Pieve, S. Martino e parte di S. Girolamo, allargandosi a comprendere anche S. Giorgio, Solarolo e parte del territorio di Roncaglio (S. Giacomo). Oltre questi confini era il regno dell’incolto, della boscaglia di basso fusto ed infestante (roveti, macchia impenetrabile) ed immediatamente dopo degli avvallamenti coperti di aree palustri più o meno estese. Certamente la pesca era praticata, così come pure la caccia anche se le condizioni della copertura vegetale non erano ottimali per la riproduzione di abbondante selvaggina di grossa taglia scarseggiando le grandi estensioni boschive con alberi di alto fusto, caratteristiche di aree non vallive e di livello altimetrico superiore. La comunità presente, composta di uomini dediti alla coltivazione della terra, maturò certamente l’esigenza di uno o più luoghi comuni di preghiera dedicati alle divinità allora in auge, tenute in grande considerazione dedicando loro preghiere e riti fino a quando il cristianesimo prese anche qui il sopravvento. E’ questa la più remota origine della chiesa di Pieve: una piccola cappella cristiana nata per essere di valido supporto al nuovo culto diffusosi anche in queste terre. Il Benamati (p.4) ci riporta quanto di sua conoscenza sulla nascita del primitivo tempio: “Fece Berengario fabricare (…) la Chiesa di S.Pietro (hora fuori città) dotandola di buone rendite, per mantenimento di molti Sacerdoti, che poi da Papa Gregorio Quinto fu l’anno 996 consegrata, & inalzata al titolo di Pieve, & accettata sotto l’immediata protettione della Santa Sede, rimanendo con l’edificatione di essa Chiesa, atterrato un antichissimo Oratorio, eretto fino al tempo di S. Andrea Apostolo, come si hà per antica traditione, non essendovene altra notitia...” L’origine antichissima di un primo luogo di culto (in apparenza risalente ai primi decenni dopo Cristo) che sembrerebbe proposta dal Benamati non può trovare alcuna conferma ed è sempre stata oggetto di ben poca considerazione da parte degli storici. Tuttavia ci sentiamo di non respingere a priori indagini che mirino a verificare quanto di vero possa esserci consegnato dalle tradizioni quando non esistono riscontri documentali. In effetti, una più attenta lettura delle righe sopra riportate ci anima ad una riflessione. Può essere che la tradizione cui il Benamati si riferisce riguardasse non tanto il tempo in cui visse l’apostolo Andrea, quindi l’età di Cristo ed anni successivi alla sua morte, ma il periodo in cui il culto di S. Andrea Apostolo, portato in Italia dai bizantini, si diffuse nelle nostre contrade. Si tratta di un momento storico ben circoscrivibile a partire dal V secolo e che trovò il massimo splendore, a Roma come a Ravenna e quindi anche nella pianura padana, tra il VI e il VIII secolo quando, dietro l’impulso di Bisanzio, le chiese innalzate a nome dell’apostolo Andrea si moltiplicarono. In effetti la collocazione in questo lasso di tempo dell’edificazione del primitivo tempio sorto a Pieve diviene estremamente plausibile e la citazione del Benamati troverebbe corrispondenza anche sotto il profilo cronologico. Pare piuttosto ovvio ritenere incomprensibile altrimenti il riferimento proprio a questo apostolo piuttosto che ad altri, vissuti nello stesso identico periodo e che, con riguardo alla propria esistenza temporale confrontata con quella del predetto Andrea, non hanno marcato differenze tali da permettere di individuare un particolare, ben delimitato, periodo storico. Perché non Pietro, Tommaso o Matteo per esempio ? Non va neppure dimenticato che, in mancanza di prove che potrebbero emergere dal ritrovamento di reperti archeologici in grado di collocare in un ristretto periodo il sorgere del primo tempio guastallese, esiste comunque un elemento che avvallerebbe le ipotesi sopra tracciate. Si tratta della formella, definita a più voci come paleocristiana e risalente al VI secolo, inserita nell’altare di S. Giorgio ma proveniente dagli scavi della Pieve come documentato dai resoconti dei lavori trascritti da Mons. Baratti. 18 Nei primi anni del secolo VII, durante una campagna militare, i Longobardi sembra attraversassero per la prima volta il fiume Po creando un avamposto da cui Guastalla prese il nome (Wardastalla, scissa nei due termini di matrice longobarda Wart e Stall interpretati come “guardia” il primo e “luogo” il secondo, può avere il significato sia di avamposto, cioè di luogo armato di guardia, sia di “testa di ponte”, cioè luogo estremo di confine militare in terreno ancora da conquistare quale era l’oltrepò). Il centro militare consentì a questo popolo di occupare anche le prospicienti zone a coltivo (o che, abbandonate, potevano tornare tali) ed è probabilmente questa doppia funzione del territorio (postazione militare che consentiva anche l’insediamento civile e quindi un radicamento sociale) che permise a Guastalla di nascere come entità spaziale aggregatrice di uomini. Era l’alba del futuro centro abitato che per i motivi esposti poté crescere differenziandosi dalla moltitudine di avamposti militari longobardi che non si svilupparono e di cui non rimane traccia storica nel territorio padano. E’ probabile (ma non certo, visto che non ci è nota la morfologia del corso del grande fiume in quell’epoca) che la possibilità di guado del fiume in corrispondenza di Guastalla abbia giocato a favore della localizzazione dell’insediamento, tuttavia è pure verosimile che la vicinanza con Brescello abbia richiesto tale dislocazione militare. Era Brescello, infatti, punto assolutamente strategico fin da epoca romana ed i Longobardi stabilirono qui il principale guado del grande fiume. L’esigenza di proteggere tale passaggio obbligato e tutta la cintura attorno coprendosi dal pericolo di incursioni nemiche costituì la molla in grado di far decidere alle milizie occupanti di spingersi fino a Guastalla (ed oltre, a Luzzara) per stabilirvi gli avamposti. La regione certamente fiorì durante il periodo longobardo. Questo popolo di guerrieri aveva l’abitudine di radicare socialmente lasciando alle genti native il lavoro di agricoltori rafforzando nel contempo la piccola proprietà terriera e gli scambi commerciali tra città e aree rurali. Qualche storico ha ipotizzato che, negli anni della venuta dei Longobardi, la cappella di S. Pietro poteva forse essere presente. Quel che è certo è che il primo documento in cui la nostra chiesa è nominata, risale ad un periodo ben successivo. Ci portiamo all’anno 864 quando l’Imperatore Lodovico II dona con atto ufficiale le corti di Guastalla e Luzzara con le cappelle di S. Pietro e S. Giorgio alla moglie Angilberga. Nello stesso anno l’Imperatrice prenderà legalmente possesso dei suoi nuovi beni. Con cerimonia solenne, i delegati dell’Imperatore, radunati sul posto, durante la lettura dell’atto di donazione, fecero toccare a tale Pietro, messo di Angilberga, una colonna della casa costruita nella corte (nel suo edificio più importante) di Guastalla dichiarandone possesso dell’Imperatrice unitamente alla chiesa. Nel 877 Angilberga volle che le rendite ottenute dai suoi beni, tra cui la cappella di S. Pietro, servissero per il sostentamento delle monache del nuovo monastero in costruzione a S. Sisto di Piacenza, dalla stessa fortemente voluto. In pratica Guastalla ed il suo territorio partecipò al consolidamento economico di quella comunità di religiose che per secoli ne segnerà la vita. Nel 890 ad Angilberga ebbe a succedere la figlia Ermengarda ed in questo periodo il tempio sembra fosse riedificato grazie ad un diacono chiamato Everardo cui ne era stato dato il beneficio. Motivi mai chiariti, forse i lavori non portati a compimento, forse la nascita di una nuova chiesa non distante (S. Bartolomeo ?), forse ancora la mancanza di rendite sufficienti a mantenere i ministri del culto, portarono all’abbandono del nostro edificio. Si tratta, in un periodo particolarmente travagliato e di difficile analisi, di uno dei momenti più foschi e storicamente più ingarbugliati dell’intera vita del tempio dedicato a S. Pietro. La situazione di rovina dispiacque ad un nobile veneziano, tale Domenico Carimano che fece richiesta di ottenerne le rendite allo scopo di impiegarle per il recupero del fatiscente edificio unitamente ad un probabile impegno finanziario personale. Ottenuto ciò nel 909, avviò la sistemazione della struttura alla cui riuscita pare non fosse estraneo lo stesso Berengario, successore di Ermengarda, che si ritiene donasse generosamente molti beni alla chiesa. Il monastero di S. Sisto era ancora beneficiario di introiti economici provenienti dalle decime pagate alla chiesa. La proprietà spettava al vescovo di Reggio Emilia che estendeva la sua influenza su tutta l’area dell’odierna Bassa reggiana ed oltre fino al mantovano ed a zone della Bassa modenese. Il vescovo reggiano Teuzone resse la sua città e le terre per oltre mezzo secolo (979-1030) operando sempre con l’obiettivo di assicurare all’episcopio un controllo fermo e capillare del territorio grazie al legame con varie istituzioni religiose di cui otteneva la fedeltà. Uomo di indubbie capacità direttive e diplomatiche, riuscì ad ottenere qualcosa come quattro importanti privilegi a favore della chiesa reggiana da parte degli imperatori del tempo. Forse proprio per ingraziarsi il clero guastallese lo stesso potente prelato Teuzone chiamò Papa Gregorio V, dopo il Concilio di Pavia, a consacrare la chiesa il 21 Settembre 997 innalzandola da cappella a pieve (ma con questa denominazione appare già in un documento del 980) permettendo perciò di avere un 19 Arciprete e finalmente il fonte battesimale, prerogative delle chiese di maggiore rango. All’azione vescovile non furono certamente estranei calcoli di convenienza, potendo in questo modo sottolineare la potestà reggiana su un’area che aveva una valenza di carattere strategico quale crocevia di passaggi e di collegamenti fluviali. La proprietà passò al Marchese Bonifacio di Toscana nel 1031 che l’acquistò senza poi onorarne in toto il pagamento, espediente a lui del tutto usuale ed ampiamente praticato secondo una ben precisa strategia che lo portò ad essere il possessore di estese regioni. Fu proprio la figlia di Bonifacio, Matilde, a condurre il secondo pontefice a Guastalla. Avendo infatti deciso di tenere un solenne concilio a Piacenza, fu prima accompagnato dalla contessa nei nostri luoghi ove, nell’antico tempio di S. Pietro si tenne un Sinodo che anticipò il concilio piacentino nell’anno 1095. In questa solenne occasione, alla presenza del Papa Urbano II, della più influente nobiltà europea del tempo e dei più stimati porporati, furono discussi argomenti che probabilmente, almeno in parte, anticiparono quelli poi definiti a Piacenza. Tra gli storici c’è chi ritiene (ma l’Affò non è d’accordo) che Urbano II in quell’occasione stabilisse che i soldati combattenti per Cristo, avrebbero dovuto indossare una croce sul petto e su una spalla. Fu la nascita del simbolo dei cosiddetti crociati, attivi nelle celebri campagne militari in Terrasanta. Da Piacenza, dietro supplica dell’arciprete pievano Andrea e certamente coi favori di Matilde, fu spedita una bolla del Papa che confermava i privilegi della chiesa sommandoli ad altri, quali la possibilità di far consacrare le cappelle del territorio a vescovi di gradimento locale, la proibizione di erigere altre cappelle senza l’autorizzazione dell’arciprete, oltre a proteggerne i diritti dalle ingerenze dei potenti. Da quel momento la chiesa guastallese divenne “nullius diocesis”, vincolata direttamente a Roma scavalcando la giurisdizione dei vescovi reggiani (ma l’Affò ritiene possa parlarsi davvero di “nullius diocesis” soltanto nel secolo XV). Il legame diretto con la Santa Sede fu confermato in seguito da Eugenio III, Adriano IV e Celestino III. La stessa contessa Matilde dichiarò all’arciprete Giovanni che, qualora si fosse verificata la necessità di mutare la proprietà di questi beni ecclesiastici, senz’altro sarebbe stata affidata alla Santa Sede o direttamente al sovrano: testimonianza viva e sentita sia dell’amore che Matilde aveva per questa terra e per la sua chiesa principale, sia anche attenta valutazione dell’importanza strategica di questo lembo di Padania quale pedina fondamentale per i due grandi potenti del tempo (impero e papato). L’interesse del territorio era anche di tipo economico se è vero che Matilde dovette cedere alle martellanti richieste di Imelda, badessa di S. Sisto, restituendo al monastero Guastalla e le sue cospicue rendite. L’anno 1106 fu il tempo del concilio di Guastalla, iniziato il 22 Ottobre da Pasquale II ed impostato su temi riguardanti le eresie allora proliferanti e i cui nefandi effetti stavano particolarmente a cuore al pontefice. Pare che durante i giorni necessari allo svolgimento di questo fondamentale evento, il Santo Padre alloggiasse nella canonica. Le stanze cosiddette “del pontefice” furono poi conservate per secoli essendo citate ancora in scritture risalenti al XVIII secolo. Morta la badessa di S. Sisto Imelda, le succedette Febronia che dovette comportarsi ben poco correttamente macchiandosi di ben gravi colpe se Matilde arrivò a prendere la decisione di cacciare le monache, introducendo l’abate Odone proveniente da S. Benedetto Po coi suoi confratelli monaci. Lo stesso Odone mandò soldati guastallesi a combattere a fianco di Matilde durante l’assedio di Mantova che si era ribellata alla contessa con sanguinosi disordini. La nobildonna, che grande segno lasciò anche nelle nostre zone, morì di lì a poco il 24 Luglio 1115 a Bondeno di Roncore, nei pressi di Reggiolo, quindi a breve distanza da Guastalla. Papa Innocenzo II confermò il possesso a Odone, dopo un breve ritorno della badessa Febronia, di tutte le terre e della chiesa di S. Pietro a Pieve, oltre alle cappelle di S. Martino e S. Bartolomeo. Ma il dominio cambiò in seguito ancora più volte ed è importante ricordare che nel 1160 l’imperatore Federico I Barbarossa riportò in potere del Vescovo di Reggio la terra guastallese per poi, in seguito, tenersela per sé donandola ad alcuni suoi ministri. Costoro si gettarono nella spoliazione dei beni di maggior valore commettendo soprusi di ogni genere. Dietro le proteste dell’Arciprete Gilberto, il sovrano Arrigo VI, figlio del Barbarossa, ordinò di riconsegnare sia i beni trafugati, sia i benefici indebitamente tolti alla chiesa. Nel 1193 il Papa Celestino III diede all’Arciprete della Pieve il potere di imporre penitenze pubbliche ed addirittura scomuniche di delinquenti, ma anche di giudicare controversie matrimoniali, di scegliersi il Vescovo di gradimento per quelle funzioni esclusivamente episcopali necessitanti alla comunità. L’arciprete aveva anche la facoltà di erigere e di far eventualmente abbattere chiese nel territorio di sua competenza. 20 Interminabili questioni di diritto impegnarono per molti anni i dottori della legge in una inestricabile disputa giudiziaria sul possesso delle nostre terre tra Cremonesi, abati di S. Sisto. La contesa terminò nel 1227 quando i Cremonesi accettarono di pagare per il possesso di Guastalla tremila lire imperiali: somma certamente ingente. Per il suo trasporto furono utilizzati quindici sacchi caricati su otto bestie da soma. Si ha notizia, riportata dall’Affò, che l’Imperatore Federico III passò per Guastalla nell’anno 1220 (una piccola lapide posta sul muro esterno a sud commemora l’evento). Pochi anni dopo (1222) un tremendo terremoto determinò pesanti lesioni, tanto che la chiesa sarà ricostruita cogliendo lo spunto per ampliarla seguendo i canoni stilistici del romanico-lombardo. In quell’occasione pare che andarono perduti tanto le colonne originarie che gli stretti archi a seguito dell’innalzamento della navata centrale. Il campanile, crollato, fu ricostruito probabilmente a fine secolo nella posizione in cui si trova tuttora. In effetti, durante i restauri del 1927-31, Don Baratti rinvenne tracce di antiche fondazioni riconducibili ad una torre separata dal corpo della basilica, a tre metri dalla sacrestia. Dopo alterne vicende pare che il possesso dei diritti sul territorio tornasse al Vescovo di Reggio che li tenne fino alla conquista dei Visconti datata alla seconda metà del ‘300. Nel 1373 una tremenda pestilenza sconvolse le campagne spargendo morte ovunque. Nel 1404 Guido Torello divenne signore della contea. In questo secolo le pareti della chiesa furono ornate di stupendi affreschi di cui rimangono solo pochi frammenti. Durante la campagna militare del 1557 contro Guastalla le terre furono messe a ferro e fuoco dalle milizie del Duca di Ferrara. Si ha memoria che la chiesa rovinò e furono prelevati sia i mobili della casa del parroco, sia i paramenti oltre che decori e persino marmi nell’edificio sacro. In seguito alla dipartita degli assedianti, la torre campanaria fu demolita dalle stesse truppe di difesa, probabilmente per impedire che fosse usata per avvistamenti ostili alle milizie cittadine in occasione di un probabile ritorno dei nemici. Questa demolizione avvenne in modo maldestro causando ingenti danni e crolli alla restante parte dell’edificio già incendiato ed il cui soffitto, a capriate in rovere, era carbonizzato. Lo spettacolo offerto dalla martoriata basilica possiamo immaginare fosse desolante: era quindi in condizioni di totale rovina e distruzione. Ma la popolazione non subì sorte migliore se da memorie coeve si apprende che i morti erano seppelliti “come i cani”, senza conforto religioso alcuno. In quella triste evenienza anche l’incredibile patrimonio storico dell’antico archivio andò definitivamente perduto: manoscritti di immenso valore, testimonianza uniche in grado di far luce sulla storia più remota. Nel 1595 il secondo rettore in ordine di tempo, Don Giacomo Antonelli si diede il compito di restaurare la basilica recuperando il recuperabile: impresa ardua viste le deprimenti condizioni della struttura. Si procedette negli anni alla ricostruzione delle ampie parti danneggiate, quindi il tempio fu riaperto al culto nel 1605. Nello stesso secolo erano presenti ben dodici altari. Don Lelio Peverari, mantovano, assunse la carica di Arciprete. Feroce fu la difesa delle sue prerogative, segnatamente rivolte al godimento di rendite e privilegi personali, anche a costo di ricorrere in più istanze alla Santa Sede contro chiunque osasse tentare di rivederne i vantaggi anche economici. Interessante sarebbe un’analisi approfondita circa questo personaggio la cui memoria è caricata di tinte fosche per la continua opposizione alle direttive venute dall’alto ma che una ricerca storica più serena ricondurrebbe ad una dimensione più rispondente al vero. Il cardinale Carlo Borromeo intervenne per sostituirlo, ma dopo anni di feroci controversie fu riammesso alla carica. Durante il suo mandato la chiesa della Pieve perse il suo secolare predominio su tutte le altre. Infatti, dietro precise richieste del principe Ferrante II Gonzaga, il quale voleva fortemente che la chiesa principale della città (della “Terra” come era chiamato allora quello che noi oggi delimitiamo come centro cittadino) ed edificata dal padre Cesare divenisse la più importante del territorio, la Santa Sede declassò la Pieve a comune Rettoria trasferendo doti e privilegi alla nuova chiesa maggiore, dedicata a S. Pietro anch’essa (l’odierno Duomo sito su Piazza Maggiore, ora Mazzini). A causa della peste del 1630, che arrivò a mietere ben 2104 vittime nella sola Pieve, gli affreschi della chiesa furono raschiati e coperti d’intonaco. Le memorie storiche ricordano restauri compiuti nel 1753 (probabilmente iniziati nel 1740 e responsabili della trasformazione barocca dell’interno), nel 1792 (recupero della torre ed inserimento dell’orologio), nel 1846-47 (ristrutturazione della facciata secondo i dettami dello stile gotico) prima del radicale intervento di recupero patrocinato da Don Vittorio Artoni degli anni 1927-31 i cui risultati sono sotto i nostri occhi. Per la figura di Don Raffaele Baratti, vero artefice dei lavori, e per i metodi – guida del suo operare, si rimanda al capitolo 7. 21 Qui basterà ricordare che gli interventi erano mirati a ripristinare l’antica forma romanica pura con la totale asportazione delle aggiunte accumulatesi nei secoli e che ne avevano completamente stravolto l’identità di stile. A seguito delle radicali trasformazioni cui l’edificio è stato soggetto durante i secoli è opportuno tenere presente che l’unica parte rimasta quale testimoniare del più antico edificio pare essere l’abside centrale che riporta alla sua base esterna l’iscrizione dataria “MCX”. Durante i lavori di scavo resisi necessari durante gli ultimi interventi vennero alla luce vari reperti di epoca romana. Alla profondità di circa due metri si rinvennero tracce di pavimentazione romana con mattoni (alcuni del tipo “manubriato” poi utilizzati e inseriti nei muri interni ed esterni) risalenti al periodo augusteo (17 a.c.-14 d.c.). Altri reperti emersero a cinque metri di profondità sotto la sacrestia ed ulteriori testimonianze del passato si ottennero coi restauri della canonica nel 1982-83. I più significativi sono un capitello ionico e parti di un fregio che sono databili al II o III secolo d.c. Una interessantissima tegola risale al periodo augusteo e riporta il marchio di fabbrica “MCSCITI”. Le formelle murate in alto sul perimetro esterno rivolto a meridione rappresentano animali fantastici databili tra la fine del XI secolo ed i primi del successivo. All’interno si può ammirare l’antico battistero, riportato nella posizione originaria, risalente con ogni probabilità al secolo XIII. Interessanti, pur se non antichi, i medaglioni posti nella navata centrale, applicati durante i succitati restauri e raffiguranti i tre Papi che segnarono tappe fondamentali nella storia di questo tempio e la Contessa Matilde. Da vecchie carte troviamo che, al fianco sinistro della facciata, era collegato un edificio denominato “Ospizio”. Sul retro, nella zona del campanile, un’altra stretta e lunga costruzione era occupata quale sede della Confraternita delle Sacre Stimmate o dei Sacchi, nata ben prima del 1737. A questo ambiente si accedeva attraverso un passaggio interno all’abside destra. Professando la totale umiltà, gli adepti vestivano di essenziali abiti confezionati in tela di sacco. Precedentemente, la sede delle loro riunioni era l’antica S. Maria della Disciplina, poco distante. E’ importante ricordare che nella cappella di destra è esposta la Madonna delle Grazie, scultura di Guido Mazzoni detto il Modanino, artista attivo in Italia e in Francia nella seconda metà del ‘400 fino al secondo decennio del secolo XVI. L’opera, una terracotta policroma, è molto interessante sotto il profilo artistico. I due volti (la Vergine e il Bambino) sono di grande effetto, nello stile di forte espressività dell’artista modenese ma ben lontano da certi risultati troppo marcati presenti in alcune sue Pietà. Il Mazzoni è stato definito come il più grande scultore emiliano del Quattrocento e la sua arte, per la perfetta riproduzione del corpo umano e l’emotività espressa dalle figure, è collocata accanto a quella di nomi come Mantegna, Bellini e Tura. La statua, donata alla parrocchia nel 1872, per tradizione si ritiene appartenesse ad un discendente della famiglia Canossa; informazione questa che manca di riscontri oggettivi. Le navate dovevano essere anticamente ornate di pitture con un impatto visivo notevole che ora possiamo solo immaginare. Nel periodo della peste (1630) le pareti furono tutte scalpellate per eliminare quelli che allora erano ritenuti possibili ricettacoli del morbo. Il patrimonio pittorico della Pieve sparì sotto i colpi degli scalpelli. Gli unici frammenti rimasti sono stati oggetto di restauro nel 1995 e ora fanno bella vista di sé. Li elenchiamo. S. Bernardino da Siena con un devoto in preghiera: secolo XV. Colonna al lato destro, in fondo alla navata sinistra. Madonna Addolorata con Gesù in grembo attorniata da angeli che reggono un lenzuolo: lembo di affresco nel quale la figura del Cristo è purtroppo tronca e visibile solo a livello del busto e delle gambe. Inizi del XV secolo. Madonna con un angelo: frammento posto sulla colonna centrale del presbiterio. Navata destra. Secolo XV. Testa di Vescovo: prima colonna navata destra. Secolo XV. Testa di Santo con la barba (molto probabilmente S. Pietro) posta all’ingresso della sacrestia, arco della porta, lato destro. Si tratta della pittura più antica rinvenuta e risalente al secolo XIII. Un’ulteriore piccolo dipinto sulla prima colonna della navata destra, coperto di polvere, è stato rinvenuto a lavori ormai ultimati e quindi non recuperato. Si tratta della testina di un angelo. E’ importante citare la vasca battesimale ottagonale collocata all’inizio della navata di destra. E’ particolarmente antica, classificata come scolpita in un blocco di marmo rosso di Verona tra il XI e il XIII 22 secolo (l’ampio lasso di tempo indica discordanza tra gli storici) e veniva utilizzata secondo un particolare rito che prevedeva l’immersione dei neonati. In fondo alla navata sinistra è la cappella del Santissimo Crocifisso che ospita una statua lignea dello stesso soggetto databile al secolo XVI. Si tratta di un Cristo in croce policromo ripreso alla grandezza naturale di 1 metro e 80 centimetri, finemente modellato con grande realismo nella figura anatomica. L’occhio del visitatore viene catturato dall’intensa espressione del volto marcata dagli occhi socchiusi e dai lineamenti ormai distesi nel momento della fine. Su questa opera d’arte, di ottimo livello, non conoscendosene la provenienza, fiorì una leggenda che risale a tempo immemorabile ma che è arrivata fino ai giorni nostri, ancora narrata dagli anziani. In un tempo non definito, un vecchio viandante, un tedesco in viaggio da o per Roma, venne ospitato dal fattore della possessione Benatta. Il vecchio, visto un grande tronco da poco abbattuto sull’aia, lo chiese e ottenne di poterlo sistemare in una stanza a piano terra in cui si richiuse. Chiese anche che il cibo gli venisse portato da un finestrino. Tre giorni dopo, non avendo visto uscire il vecchio e non sentendosi alcun rumore proveniente dalla stanza, la gente della casa volle abbattere la porta pensando che il vecchio fosse morto. Si trovarono innanzi la stupenda scultura raffigurante Cristo Crocifisso nella sua bellezza, ma non rinvennero nessuna traccia del vecchio mentre le tre ciotole erano ancora piene di cibo. Da epoca antica è viva la venerazione per il Crocifisso della Pieve. Un’ultima menzione va all’organo Serassi N.689 costruito dall’allora famosa ditta nel 1867, opera che per la sua qualità meritò l’encomio ufficiale della fabbriceria. 11) SAN ROCCO Dove si trova: in Via Chiesa angolo Via Ponte Pietra Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia tel. 0522 831119 Benamati (p.77):” (Cesare Gonzaga N.d.A.) facendo anco nell’istesso tempo fabricare dà i fondamenti la Chiesa di S.Rocco in Campo rainero, per mantenimento della divotione, che il Popolo conservò sempre à detto Santo singolare, per essere la prima già eretta, come si accennò, dal esercito del Duca di Ferrara, stata spianata.” L’attuale superficie corrispondente alla frazione di S. Rocco costituiva parte integrante di quella immensa palude chiamata fin dall’antichità Camporanieri che comprendeva anche tutta l’area di Santa Vittoria. Con gli imponenti lavori di imbrigliamento delle acque morte del XVI secolo, tra cui la famosa Bonifica Bentivoglio, molta terra fin allora improduttiva venne colonizzata e subito messa a coltura. Questa ragguardevole superficie di terreno fu quindi da allora abitata e la presenza umana, come noto, comporta l’esigenza di centri di coesione e di preghiera, essendo altresì evidente che la notevole distanza sia da Guastalla che dalla Pieve rendeva disagevole il percorso per i miseri mezzi di locomozione del tempo. Nel 1574 quindi, Cesare Gonzaga, per sopperire a queste precise esigenze della popolazione locale, decise di incaricare il mastro Durantino de’ Rossi perché provvedesse ad erigere un oratorio utile agli offici liturgici. Per confermare la devozione a San Rocco, avendo ben presente che un piccolo oratorio a suo nome era stato demolito nei pressi della città, volle che a questo stesso santo fosse dedicato il nuovo edificio per il culto. Ben presto, visto l’incremento demografico che il radicamento dei paesani comportava, le dimensioni del tempio risultarono insufficienti. Con la stessa Bolla con cui Sisto V decise di trasferire i privilegi ed il rango della Pieve alla nuova chiesa matrice di Guastalla (S. Pietro, l’odierno Duomo), il Papa eresse in Parrocchia (1585) l’oratorio di S. Rocco, constatate le obiettive difficoltà dei fedeli per raggiungere le altre due esistenti (Pieve, distante 5 km e l’odierno Duomo) per le funzioni e pratiche religiose non consentite ad un semplice oratorio periferico. Quando la parrocchia venne fondata gli abitanti dei dintorni erano circa 600 che aumentarono a 946 nel 1741 per poi rimanere piuttosto stabili attorno alle 1000 anime fino al 1803, periodo in cui diminuirono a 837 causa le guerre e le epidemie del periodo napoleonico. Da allora l’incremento demografico ha portato a superare la quota di 2000 abitanti all’inizio del XX secolo. 23 Il campanile venne eretto alla fine del XVI secolo e qui nel 1601 venne posta una campana di maggiori dimensioni in grado di raggiungere coi propri rintocchi campi e abitazioni sempre più distanti. Si ha notizia di una riedificazione della chiesa avvenuta nel 1641 e della costruzione della sacrestia nel 1637 da parte del parroco Don Giovanni Reggiani che intervenne sobbarcandosi direttamente parte delle spese. Nel 1791 la campana maggiore venne rinnovata. Due note curiose: nella metà del settecento, alle dipendenze del parroco vi furono contemporaneamente fino a ben sette sacerdoti officianti che prestavano qui la loro opera in modo fisso. Si trattava di un periodo in cui non tirava certo aria di crisi vocazionale ! Dei primi otto parroci di S. Rocco, dalla nascita della parrocchia alla fine del ‘700, ben cinque erano originari del paese. Nella prima metà del XIX secolo si diede mano al restauro della chiesa costato ben lire 3000 di cui lire 2000 a carico della benefattrice Duchessa Maria Luigia. Nello stesso periodo si procedette all’abbassamento del campanile che rischiava di crollare per la forte pendenza. Nel 1860 venne costruito il coro ligneo. Una ventina di anni più tardi venne realizzato con marmi di Carrara (l’allora parroco Don Rocchi era originario non a caso di questa zona) l’altare maggiore. Inoltre sia il presbiterio che il coro vennero decorati dal pittore Terzi di Campagnola. Il pavimento in mattonelle esagonali risale all’inizio del ‘900 (sostituito da piastrelle di ceramica negli anni sessanta e opportunamente rimosse da Don Gialdini nel 1995), così come la fondazione dell’Asilo Infantile (1915). La canonica giovò di importanti restauri negli anni venti, ma anche la chiesa venne ornata di nuovi, più belli, arredi sacri. Memorabile fu (1931) l’operazione di riassestamento della torre campanaria ad opera di Don Piccardo, un sacerdote forestiero noto a quel tempo per essere ben pratico di interventi di “chirurgia” edile su manufatti in condizioni fortemente critiche se non “impossibili”. Con un intervento in apparenza non particolarmente complesso ma certamente ardito, riuscì a far raddrizzare il campanile che minacciava il crollo a causa della forte pendenza. L’interno si presenta quantomai sobrio e bisognoso di interventi per ripristinare le decorazioni del soffitto e delle pareti. Da notare che i muri al fondo della navata evidenziano un marcato “fuori piombo” stringendosi verso l’interno in corrispondenza della base. Si tratterebbe di un motivo architettonico voluto. La navata è unica, corredata di sei cappelle laterali. Nella prima a destra trova collocamento una tela della Madonna della Ghiara, dipinto del 1620 e provvidenzialmente recuperata nel 1995 con un paziente restauro che ha permesso di ricucire i molti frammenti in cui era stata ritagliata. Lo stesso soggetto è ritratto in un affresco della fine del XVII secolo, piuttosto deteriorato, nella terza cappella a destra. Sopra il secondo altare sempre dalla stesso lato è esposta una interessante tela del 600 raffigurante una graziosa Madonna con Bambino e i santi Luigi Gonzaga e Lorenzo. In una nicchia ricavata nella terza cappella a sinistra vi è una statuetta in marmo datata al secolo XIV o XV rappresentante una Madonna col Bambino davvero singolare. La Vergine sembra cullare il piccolo Gesù abbandonata in un dolce sonno ristoratore. E’ un’immagine suggestiva e toccante, pur nella essenzialità dei tratti, tipica del periodo, che meriterebbe maggiore considerazione e un’analisi approfondita che in questa sede non è possibile dare. Due altari sono riccamente decorati secondo lo stile barocco con raffinati stucchi. La struttura ha subito gravi danni durante il terremoto del 1986. I restauri, finanziati dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali hanno avuto termine nel 1995. 12) BEATA VERGINE DEL ROSARIO (PIEVE) Dove si trova: in Via Rosario, angolo Via Pieve Informazioni: non visitabile 24 Benamati (p.82) “In questo mentre (1600 N.d.A.) attendeva la Confraternità del Santissimo Rosario ne i suburbi all’edificio della sua nuova Chiesa”. Lo storico Don Resta, autore di un manoscritto dedicato alle chiese locali, ci tramanda che la nascita di questo tempio deve essere fatta risalire al 1601, come testimoniava un’epigrafe esistente ai suoi tempi (secolo XVII) sopra la porta d’ingresso. Altri affermano sia stato costruito nel 1588 su richiesta di un influente padre domenicano che svolgeva le funzioni di elemosiniere e confessore del Signore di Guastalla Ferrante II. In tre anni, grazie alle offerte dei devoti confratelli del Santissimo Rosario, gli sforzi costruttivi erano terminati. Fu un Gonzaga, Francesco Vescovo di Mantova a celebrare la cerimonia di consacrazione nel 1604. In quell’occasione donò alcune reliquie di santi che avrebbero elevato il prestigio del nuovo tempio. Questa chiesa, un vero gioiellino per quei tempi, era ben nota per il soffitto intagliato e dorato, a cassettoni, di pregevolissima fattura, opera del XVI secolo, che oggi purtroppo è andato completamente perduto. Ospitava tre altari: quello centrale per la Vergine del Rosario, quelli laterali con dedica a S. Fermo e S. Giacomo. Divenne sede dell’omonima Compagnia del Rosario a partire dal 1588. Tra questa confraternita e l’allora Rettore della Pieve non correva certamente buon sangue. Infatti, agli albori del XVII secolo, questa crisi nelle relazioni si inacerbì a tal punto che l’Abate Baldi, d’accordo col rettore pievano, ritenendo che il Pane Eucaristico non fosse in questa chiesa conservato con la giusta venerazione, aveva imposto che il Santissimo Sacramento fosse tolto da qui e portato altrove. Di fronte a tale affronto gli aderenti della confraternita reagirono in modo talmente duro che può risultare di difficile comprensione a quattro secoli di distanza. Ricorsero a Roma direttamente alla Santa Sede ottenendo dal Papa un privilegio che dava loro ragione in toto. Non contenti citarono l’Abate che avrebbe dovuto discolparsi di tale grave atto davanti alla Curia romana. Questo preoccupante contrasto amareggiò profondamente una persona pia e dedita ai più luminosi principi qual’era il Baldi. Fu senz’altro questo uno dei motivi che spinsero in seguito l’Abate a chiedere di essere dispensato dalle sue cariche in Guastalla e ad allontanarsi definitivamente dalla città. Questo centro di vita religiosa era molto frequentato da devoti e da confratelli dediti ai sermoni e alla predicazione. Tutti i Sabati dell’anno si cantavano le litanie con musica. La prima Domenica di Ottobre era uso fare l’estrazione di una dote per una povera zitella del luogo. Il complesso edificato, stando ad una mappa del 1826, prevedeva la presenza di una casa per il cappellano e di una per il sagrestano con ampio orto interno. 13) SAN FRANCESCO Dove si trova: in Via Passerini angolo Via Gonzaga Informazioni: in fase di restauro. Centro culturale comunale tel. 0522 839755 Benamati (p.76) ” (Cesare I Gonzaga) ... di levare dà Guastalla le suore Agostiniane, che già anni prima, havevansi dà i fondamenti rifabricato, poco discosto dà un Baluardo verso levante, un altro Monastero, con una picciola Chiesa, con la medesima materia del suo antico convento, e riportatone l’intento, introdusse in questa Città l’anno 1571 la Religione de i Padri di S.Francesco dell’Osservanza, assegnandoli per habitatione il Monastero, e Chiesa d’esse Monache ...” Fu Cesare I Gonzaga a volere a Guastalla i frati francescani Minori Osservanti che arrivarono per insediarsi nel 1572. In un sito prima occupato dalle trasferite suore Agostiniane (vedi cap.29), l’architetto Corradino da Canneto realizzò per loro chiesa e convento, in realtà piuttosto modesti quanto a dimensioni. In effetti, è già nel 1622 che si pone opera alla costruzione di un plesso più confacente alla vita di un sempre maggior numero di frati. La tradizione vuole che fosse proprio il Duca Ferrante II a disegnare la nuova chiesa. Ci pare questa una testimonianza della benevolenza del Principe verso questi umili religiosi, ma la stessa mole dei contributi offerti negli anni da tutta la comunità è chiaro segno dell’affetto e riconoscenza di tutta la cittadinanza. Non è estraneo a questa valutazione il ricordare che S. Francesco venne eletto patrono della città e del ducato. 25 Benamati (p.83) ” (Ferrante II, N.d.A.) Mosso in oltre da pio affetto, e santo zelo verso la Franciscana Religione, ordinò egli, che fosse gettata à terra la picciola Chiesa d’essi Padri, facendo incontanente à sue spese dar principio à rifarla da i fondamenti l’anno 1607 in altra maggiore, e più bella forma, secondo il modello, ch’egli medesimo, come intendentissimo d’ogni più honorata professione, haveva fatto, adornandola di varie statue, che la rendono di molta vaghezza, consacrata (...) li 17 Ottobre 1622 tempo nel quale diedero principio essi Padri alla nuova fabrica d’un nobile, & aggiato Monastero ...” Il campanile, del 1584, è in pietra a vista e si è conservato in buono stato se confrontato col resto dell’edificio. La sua struttura è tipicamente rinascimentale con la cella campanaria decorata di trifore. L’effetto è armonico e aggraziato. La facciata è databile al 1765. L’interno era decorato riccamente secondo il gusto barocco, con interventi successivi alle precedenti strutture del 500 e 600. La navata è unica con cappelle laterali, tre a destra e tre a sinistra, e si prolunga nel profondo coro absidale. Il restauro del tetto è stato eseguito dopo il crollo del 1981. I francescani raggiunsero la trentina di unità tra frati e laici e si distinsero per l’insegnamento (basti ricordare, per tutti lo storico Padre Ireneo Affò, docente nelle scuole cittadine) e nella cura dei poveri per il sollievo dei quali vollero fortemente la nascita del Monte di Pietà, approvato poi da Papa Gregorio XIII nel 1574. Il culto locale per S. Francesco trovò il suo logico completamento con l’ottenimento da Roma del decreto (1658) che consentì di eleggere il Santo a protettore della città. Per solennizzarne la festa si decise di seguire una prassi di forte impatto popolare. In quella particolare circostanza il Duca concedeva la grazia ad un condannato che, vestito di bianco, veniva condotto in processione dal Duomo alla chiesa di S. Francesco, quasi dono al Santo protettore, accompagnato da un corteo di religiosi seguiti dagli amministratori della città e dagli abitanti. Come per altre famiglie religiose, nel 1810 vennero sequestrati i beni e i frati furono allontanati. Li troviamo però ancora presenti nel 1866 quando, tuttavia, a seguito di moti anticlericali, il loro convento viene occupato con la violenza ed i padri cacciati in malo modo. La chiesa viene immediatamente chiusa e tutte le funzioni di culto sospese. I poveretti vengono provvisoriamente accolti a Pieve dove viene messa a loro disposizione una casa. Nemmeno qui erano destinati a trovare pace se è vero che un gruppo di facinorosi armati di sassi otterrà con la forza il loro definitivo allontanamento. Più tardi, l’intero complesso venne venduto ai fratelli Rossi, coltivatori di tabacco che abbatterono due dei quattro lati del grande chiostro e avviarono questo tipo di coltura agricola nell’ampio orto del convento. Gli altri due lati furono abbattuti nel 1966 per consentire la costruzione dell’ufficio postale. Riportiamo il giudizio del Prof. Miglioli: “… la chiesa di S. Francesco subì la fortunata vicenda di ospitare una serie di capolavori a stucco. Essa, tanto spoglia di fuori quanto ricca all’interno, ha custodito a lungo ciò che era rimasto di quelle meravigliose realizzazioni artistiche…”.”In questa chiesa, che risente ancora di un certo rigore distributivo tardo cinquecentesco, gli stucchi erano calcolati e ritmati in una equilibratissima giostratura su ogni cappella ai lati dell’unica navata, per glorificare soprattutto la tematica e i contenuti che ognuna di esse enunciava.”. “… qui in S. Francesco, a parte le due rozze statue delle nicchie all’esterno, sulla facciata, quelle ideazioni in bianco raggiungevano tale levatura di stile e di contenuti da “toccare“ profondamente.” Nelle memorie storiche risulta che faceva bella mostra di sé una tela di Bernardino Campi raffigurante la Concezione e che in seguito risultò irreperibile. 14) SANTI FRANCESCO E BERNARDINO (CAPPUCCINI) Dove si trova: in Viale Cappuccini Informazioni: visitabile solo per appuntamento. Parrocchia SS. Pietro e Paolo (Pieve) 0522 824438 26 I frati Cappuccini furono invitati a Guastalla da Ferrante II nel 1591 dopo che dello stesso favore avevano goduto a Sabbioneta, a Bozzolo e a Busseto. Nel giro di pochi anni la loro presenza si radicò anche in altri numerosi centri a Nord e a Sud del Po. Il Benamati (p.79) così ci riassume la nascita del monastero: “ (Ferrante II Gonzaga N.d.A.) dimostrandosi di non essere punto dissimile in valore, & bontà dà costumi del Padre, con atto di singolar pietà fece errigere in piedi l’anno 1591 un convenevole Monastero, e Chiesa poco discosto dà Guastalla à Padri Capuccini, ornandolo di tutte quelle comodità, (...) godendo in oltre la vaghezza di un bello Giardino, che rende non meno diletto à gli occhi de i miranti, di quello spira divotione la sopra nomata Chiesa (illustrata di molte sante, & insigne Reliquie, e consacrata li 4 Luglio 1604 da Monsignor Frà Francesco Gonzaga Minor Osservante Vescovo di Mantova) la quale riesce à i Cittadini di molto spiritual diporto.” Ferrante II si servì delle ottime relazioni dell’Abate Bernardino Baldi intrattenute con le alte cariche di questa famiglia religiosa quando, durante il loro Capitolo Generale celebrato in Roma, venne portato l’invito ufficiale a fondare in Guastalla un convento per questi Padri. Il Gonzaga offrì un terreno di sua proprietà ai religiosi perché vi edificassero dimora e chiesa. L’appezzamento prescelto era distante poche centinaia di metri dalle mura di Guastalla, in località Ghiare o Campolieto, ed era zona quantomai depressa in quanto preda di non infrequenti inondazioni del Po. L’area fu quindi bonificata con l’escavazione di capaci fossi scolatori per prosciugare il terreno. Fu anche spianata e livellata ed al centro, una volta delimitati gli spazi per chiesa, monastero e chiostro con orto, venne posta la prima pietra nel 1591 da Ferrante II. Tra i principali benefattori non vanno dimenticate la consorte del Signore di Guastalla, Margherita d’Este (ricordiamo che il padre, dopo essere stato a capo del ducato di Modena, decise di entrare nell’ordine cappuccino) e la sorella di Ferrante, anch’essa di nome Margherita, moglie di Vespasiano a Sabbioneta. Nel frattempo i frati cappuccini presero temporaneo alloggio negli ambienti annessi alla chiesa di S. Croce (o della Morte). La costruzione del complesso non fu certamente celere, a causa delle ristrettezze economiche, se la chiesa poté essere consacrata solo nell’anno 1604 dal Vescovo di Mantova Francesco Gonzaga. Ma non tutto era stato terminato per quella data perché ulteriori rifiniture o lavori sulla parte conventuale si protrassero fino al 1610. La chiesa, dedicata a S. Francesco da Assisi e a S. Bernardino da Siena, accoglieva tre cappelle al lato sinistro per chi entrava. La prima era rivolta al culto dell’Immacolata, la terza con dedica al santo cappuccino Felice da Cantalice beatificato nel 1625 (voluta da Ferrante III, dopo esser guarito da una grave malattia: da qui l’istituzione della fiera di S. Felice) e la seconda a S.Francesco. Proprio davanti a questa, ornata con un’ancona (cornice architettonica) dorata con il nome della nobildonna scritto a caratteri d’oro, la Duchessa Margherita Gonzaga fece realizzare un locale sotterraneo adatto a ricevere le proprie spoglie mortali. Particolarmente devota a questo santo e fortemente grata all’opera di sollievo spirituale offerto dai padri cappuccini, Margherita soggiornò per anni in un “casino” di campagna posto proprio innanzi al convento. A seguito della scelta di inserire il convento tra i luoghi di noviziato, nel 1718 si dovette intervenire sia sulla capacità ricettiva della parte di aggregazione, sia della chiesa, che subì alcuni interventi con l’allungamento del coro, l’ampliamento della sacrestia ed il rinnovamento dell’ancona dell’altare maggiore. L’edificio sacro era comunque semplice nelle forme e nei decori. Un unico portale, unica la navata, mancanza di abside, pareti intonacate, tinteggiate a colore bianco e prive di elementi decorativi, altare in legno e così anche le cancellate che servivano a separare il presbiterio dalla navata. Tutti elementi che depongono per un interno povero se non essenziale. Grazie alle memorie scritte circa la vita del convento si sa che esistevano due statue lignee policrome dedicate a S. Michele ed alla Maddalena, poste a decoro dell’altare maggiore. Al centro dello stesso faceva bella mostra di sé la tela di Francesco Maria Codeluppi dedicata alla Madonna col Bambino venerata da S. Francesco d’Assisi e S. Bernardino da Siena. Ora quest’opera è conservata presso il Centro Culturale di Palazzo Frattini assieme alle tele di cui si parla più avanti. Dall’ingresso, il primo altare laterale era ornato di una statua dell’Immacolata, vestita con abito di stoffa, mentre gli altri due erano arricchiti di tele “di buon pittore”. In particolare il terzo ospitava un dipinto raffigurante la Madonna col Bambino, S. Antonio da Padova, S. Felice da Cantalice ed altri santi cappuccini, opera del mantovano Pietro Fabri che la realizzò nel 1741. Nel secondo venne posto nel 1769 il quadro raffigurante S. Michele con quattro santi dell’ordine cappuccino, opera del viadanese Giovanni Morini che andava a sostituire un’immagine di S. Francesco. 27 Altra opera d’arte degna di rilievo è la lunetta, che originariamente era posta sopra la porta d’ingresso della chiesa. Si tratta di una Pietà’ con i Santi Francesco e Bernardino dipinta dal frate Stefano da Carpi nel 1758. Chiesa e convento dovettero per forza maggiore assolvere anche il gravoso compito di alloggio e ricovero di tanta parte della popolazione vicina durante le guerre ed i passaggi di truppe che nel ‘700 produssero pesanti disagi quando non addirittura razzie e violenze di ogni genere. Particolari sofferenze si patirono durante la campagna di guerra che investì le nostre terre nel 1702 e che culminarono con la battaglia di Luzzara e l’assedio di Guastalla. In questa triste occasione i locali di accoglienza del convento, così come ogni altra superficie coperta furono stipati di persone, di masserizie e di animali portati in salvo dalla gente che cercava qui protezione dalle violenze e dai soprusi dei soldati (oltre 70.000 presenti). La stessa chiesa era divenuta il luogo principale di ricovero riservato alle donne che, ammassate in uno spazio troppo angusto per il loro numero, vissero per mesi in condizioni assolutamente estreme, tanto che si dovette registrare anche la morte di alcune sventurate. Nella sua massima espansione il convento arrivò ad ospitare circa trenta tra padri, laici e novizi, tra i quali emersero figure di tutto rilievo come alcuni monaci in odore di santità. Tra tutti, Padre Lorenzo da Zibello lasciò un segno incancellabile nella popolazione. Dopo la cacciata dei Gesuiti avvenuta nel 1768, per un breve periodo toccò ai cappuccini l’insegnamento di materie religiose agli studenti. Altro loro compito era quello di assistere i condannati a morte durante le esecuzioni. Nell’anno 1810 il convento chiuse i battenti e nel seguente 1816 l’intera superficie del chiostro venne destinata a quell’uso cimiteriale che mantiene ancora oggi. Dopo anni di totale abbandono o di diverso utilizzo (magazzino comunale), la chiesa è stata riaperta al culto nel 1997. 15) SANTISSIMA ANNUNZIATA (I SERVI) Dove si trova: in Piazza Vittorio Veneto Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia del Duomo tel. 0522 824515 Benamati (p.75-82-83): (Cesare Gonzaga, di Ordini religiosi, N.d.A.) ”ne volle d’alcune munire questa di Guastalla, dando principio dalla mia Religione de i Servi di Maria, alla quale assegnò honorevole, e molto capace sito, per l’edificio d’un monastero, e Chiesa, al cui effetto essendovi stato inviato l’anno 1568 il Reverendo Padre Frà Giulio (...), diede subito principio alla fabbrica...”.”...i Padri de i Servi, che considerato quanto angusta fosse la loro propria, determinarono d’atterrarla, e di dar principio, come fecero col disegno di Antonio Filippi, à rifabricarla da i fondamenti nel modo, che oggidì vedesi molto riguardevole, che fu poi illustrata di varie Sante Reliquie, e consagrata dal mentovato Monsignor Gonzaga Vescovo di Mantova li 7 Novembre dell’anno 1607”. Padre Giulio Borromeo, appartenente all’ordine religioso servita, dopo aver offerto la propria disponibilità, venne volentieri chiamato da Cesare I Gonzaga per favorire l’apertura di un convento per lo stesso ordine dei Servi di Maria. Nel mentre, accogliendo le sue richieste, lo nominò cappellano della chiesa di S. Bartolomeo in Castelvecchio (vedi cap.32). Lo stesso religioso si prodiga per raccogliere i fondi necessari, ottenendone buona parte dallo stesso Principe, dal Cardinale Carlo Borromeo e da Diana sua sorella, unitamente ad offerte provenienti dai fedeli guastallesi. Col capitale raccolto può dare inizio ai lavori di cantiere nel 1569. Questa prima edificazione della chiesa è attribuita ad allievi del Volterra su disegni dello stesso famoso architetto caposcuola. Nel 1600 venne completamente riedificata su disegno di Antonio Filippi e consacrata nel 1607 da Francesco Gonzaga Vescovo di Mantova. Nel 1625 i Padri Serviti, “parendogli anco conveniente, che alla edificata Chiesa, vi fosse corrispondente il Convento, e molto più capace di numero di Religiosi”, stabilirono di demolire la vecchia costruzione e di riedificarla dalle fondamenta. Il complesso architettonico riuscì esemplare. A completarne il risultato, nel 1682, il monastero fu interamente affrescato dal bolognese Girolamo Rocca mentre nel refettorio e nella biblioteca lavorò il reggiano Gian Battista Zappetti. 28 Fin dal suo nascere il convento dei Servi di Maria rappresentò un valido e vicino approdo per i figli delle famiglie nobili locali, che in tal modo, a partire dal sostegno economico, mantennero ottimi rapporti col monastero tanto da chiedere, in alcuni casi, di eleggere la chiesa quale luogo di privata sepoltura. Sotto la guida del fondatore Padre Giulio, che lo resse fino alla sua morte, il convento crebbe fino ad ospitare oltre trenta religiosi tra cui ci sembra doveroso ricordare lo storico Padre Gian Battista Benamati, autore della citata “Istoria della città di Guastalla”. Particolarmente sentito era qui il culto per la Madonna Addolorata (cui venne dedicato il luogo di preghiera all’interno dell’adiacente monastero delle Mantellate, vedi cap.28) tanto che per intervento dei frati si diede vita alla Confraternita detta appunto della Madonna Addolorata. Alla devozione per questa immagine mariana (riprodotta anche in una stampa del 1780) e per quella del Beato Pellegrino Laziosi vanno fatti risalire diversi miracoli di cui ci è pervenuta segnalazione. Dopo la soppressione, a seguito dell’ormai famoso anno 1810, i frati si allontanarono da Guastalla. Nei secoli la chiesa subì diversi interventi a causa del terremoto nel 1696 e di vari eventi bellici tra i quali è opportuno menzionare l’assedio del 1702. In questa circostanza la città fu bombardata a più riprese dalle truppe assedianti franco-spagnole e molti edifici risultarono gravemente lesionati. La stessa chiesa dei Padri Serviti, il cui campanile era utilizzato dalle vedette tedesche assediate, venne fatta segno di un colpo di cannone che lo spezzò in due facendolo rovinare. Nel 1717 il tempio della Santissima Annunziata venne ulteriormente trasformato conservando la spazialità interna e assumendo l’aspetto attuale. Tra i vari interventi, nel 1776 venne realizzato l’altare dei Sette Santi Fondatori dell’ordine Servita. Le opere d’arte qui racchiuse ne fanno uno scrigno di tesori: “I sette Santi Fondatori dell’Ordine Servita”, stupenda pala del 1730 di Giuseppe Maria Crespi che ricevette per il lavoro svolto, oltre al pagamento della somma pattuita, un regalo di 450 messe. Si tratta con ogni probabilità del dipinto artisticamente più rilevante rimasto nel territorio comunale. ”La Madonna e i Santi” di Giovan Battista Bolognini (1675, olio su tela), “L’Annunciazione” di Pietro Antonio Rotari (1738 circa, olio su tela), “Santa Lucia” (XVII sec., olio su tela) di Cesare II Gonzaga. Gli addetti ai lavori hanno molto discusso sulla reale paternità di questa “Santa Lucia” rinvenibile sull’ultimo pilastro della navata destra e rivolta verso l’altare. Questa tela è da sempre ritenuta essere, come detto, opera del Duca Cesare II Gonzaga e lo stesso storico Benamati ne certifica l’attribuzione. Si tratta di un dipinto di ottima fattura che denota il padroneggiare con sapienza delle tecniche pittoriche. Il Duca deve certamente aver affinato presso una buona scuola questa sua fortunata predisposizione verso l’arte figurativa. Il mantovano Francesco Bergani dipinse la pala raffigurante S. Margherita e la Madonna della Ghiara a suo tempo posta sopra il dipinto precedente. Molte le raffigurazioni di Santi opera di Pietro Gallinari (se ne ricordano in numero di sei) ora perdute. Alessandro Maganzi dipinse la pala di S. Agata. Del Bolognini sono le pitture che ornavano la cappella di S. Salvatore. Il reggiano Gianbattista Zappetti affrescò i quattro pilastri della cupola oltre il refettorio e la biblioteca del convento (demoliti). Il bolognese Girolamo Rocca ricevette l’incarico di affrescare il chiostro e di dipingere la pala di S. Pellegrino. Il Bolognini lavorò anche sostituendo l’immagine di S. Sebastiano nel quadro detto di S. Carlo al posto di quella di S. Filippo Benizzi che venne ripresa per un quadro a tema singolo da porsi nella nuova cappella appunto dedicata a S. Filippo. Notevole per la sua importanza è la presenza di vari paliotti in scagliola appartenenti alla scuola carpigiana che qui vide al lavoro uno dei suoi più apprezzati artisti: il bolognese Don Giuseppe Mazza. 16) SAN CARLO Dove si trova: in Via Spallanzani Informazioni: non visitabile 29 Benamati (p.86) “... Ferrando hebbe sempre nell’animo di richiamare, per pij, e christiani rispetti in Guastalla le Monache Agostiniane, applicossi l’anno avvenire (1618 N.d.A.) all’edificatione d’un nobilissimo Monastero, e nello spacio di pochi anni, fù ridotto à compimento, con la Chiesa sotto la padronanza di S.Carlo, ascendendo la spesa più di cento milla scudi; dottandolo in oltre d’altri settecento annui, essendo fino à questo tempo à somma considerabile accresciute le rendite d’esso Monastero, in cui vivono al numero di cinquanta, con molto credito loro, & edificatione della Città, essendo le prime Monache state levate dal convento di S. Huomobuono di Bologna.” Ferrante II, desideroso di tenere vicino a sé due figlie che erano destinate alla vita religiosa, decise di avviare formali richieste per l’apertura di un nuovo monastero. La stessa cosa, e per raggiungere il medesimo obiettivo per i figli maschi, aveva fatto per quello dei Teatini (cap.26). La costruzione della sezione conventuale fu terminata nel 1626 e dedicata, come la stessa chiesa, a S. Carlo quale conferma della mai sopita devozione per il Santo zio materno del Principe Gonzaga. Le monache seguivano le regole dettate da S. Agostino e quindi furono conosciute in loco come Agostiniane di S. Carlo. La richiesta che questo luogo di preghiera ospitasse proprio tale specifico ordine religioso venne direttamente da Roma adducendo quale motivo il fatto che le prime monache presenti sul territorio furono proprio le Agostiniane molti anni prima (vedi cap.29). Dal monastero di S. Omobono di Bologna partirono alla volta di Guastalla quattro suore con l’incarico di fondare il convento ed organizzarne la vita monacale ricevendo le prime candidate. Furono accolte molto bene dalla cittadinanza che tributò loro un caloroso benvenuto. Nella massima crescita del plesso conventuale fu raggiunto il numero di cinquanta religiose (nel 1674) qui ospitate, parte delle quali provenienti dalle famiglie nobili locali. La giurisdizione sulle monache spettava all’Abate di Guastalla, mentre Ferrante II si riservava il giuspatronato potendo nominare il cappellano dell’annessa chiesa di S. Carlo. Altri speciali diritti concessi ai Gonzaga erano: la possibilità per il Principe di accedere al monastero in caso di malattia delle figlie e per la Duchessa consorte il permesso di visita, una volta al mese, valido un’intera giornata. La chiesa fu eretta in anni successivi e finita nel 1654. Ben poco è possibile dire sull’interno a causa delle radicali trasformazioni avvenute soprattutto nel 1898 da parte della Congregazione della Carità che fece demolire coro e abside. Il decreto napoleonico del 1810 decretò la fine del monastero. 17) BEATA VERGINE DELLA CONCEZIONE Dove si trova: in Piazza Garibaldi, tra le Vie Volturno e Verdi Informazioni: visitabile solo per appuntamento. Parrocchia del Duomo tel. 0522 824515 Benamati (p.22): ”...assai prima fosse edificata, come anco quella della Concettione, che nuovamente l’anno 1620 fù dà i fondamenti, per dissegno di Antonio Filippi con otto faccie rinovata.” Lo slancio religioso della pia donna Camilla Borromeo, moglie di Cesare Gonzaga, ebbe a rinvigorirsi dopo la morte del consorte tanto che con il suo beneplacito poterono in quegli anni essere fondate due confraternite tra le più seguite in città: quella del Santissimo Sacramento e quella di Maria Vergine Immacolata. Quest’ultima recuperò rapidamente i fondi necessari per l’edificazione di un conveniente tempio e nel 1579 la chiesa della Concezione era in grado di ospitare i religiosi offici della confraternita. Le funzioni religiose erano espletate dai frati Francescani. Fu ricostruita su disegno dell’architetto Antonio Filippi, visto all’opera anche alla Santissima Annunziata (chiesa dei Servi, vedi cap. 15), nel 1620. Nel 1924 subì un intervento strutturale perché fu abbattuto il coro al fine di ampliare l’attigua casa del cappellano. E’ un’originale chiesa su pianta ottagonale completata da una cupola non decorata. Il portale è essenziale, così come la facciata principale che è soltanto intonacata. Le altre sono in mattoni a vista. E’ dotata di tre altari decorati da eleganti paliotti. 30 Sopra l’altare di destra è conservata la scultura in legno policromo dedicata a S. Ignazio, risalente al secolo XVII. Una serie di cinque dipinti, che si alternano alle finestre, orna la parte superiore interna. 18) SANTISSIMO CROCIFISSO (CHIESA DELLE CAPPUCCINE) Dove si trova: in Via delle Caserme Informazioni: trasformato in palestra per le adiacenti scuole Benamati (p.100) “E vedendosi andare moltiplicando le fanciulle, bramose di vestirsi di detto Habito (Suore Cappuccine, N.d.A.), col parere, & effortationi del suo Padre Spirituale, si dispose (Suor Lucia Ferrari, N.d.A.) benche da questo dissegno lontana, per l’edificatione d’un nuovo, e capace Monastero, senz’altro fondamento, che della confidenza, nella Divina providenza, dandovi principio l’anno 1653 secondo il modello d’Antonio Vasconi, ponendovi ne i fondamenti la prima pietra il Prencipe Cesare primogenito di Ferrando III dominante, che vi donò il sito, e considerabili Elemosine, alla sua magnanimità corrispondenti, e con l’aiuto d’altre persone pie, in pochi anni lo ridusse à quella perfettione, che vedesi, molto commodo, e riguardevole, con una honorevole Chiesa sotto titolo di Christo Crocifisso, nella quale riposano li Corpi di S.Basilido Martire, e di S.Veneranda Vergine, e Martire, oltre molte altre Sante, & insigne Reliquie.” La storia del monastero della cappuccine coincide in buona parte con la biografia di Suor Lucia Ferrari, reggiana che, a seguito di profonda ispirazione, decise di venire a Guastalla per fondarvi una comunità con l’obbiettivo della cura spirituale delle giovani. Venduti i suoi beni, distribuì i proventi ai poveri e si diresse a piedi da Reggio verso il centro della Bassa senza alcun appoggio preventivo in loco. Qui trovò immediato affetto da parte di persone caritatevoli. Una di queste, ricca vedova, le offrì la prima residenza di fronte alla chiesa dei Teatini (attuale Via Volturno). Gli abitanti di Guastalla e gli stessi Padri Teatini accolsero con benevolenza la suora reggiana e le educande che ben presto animarono la sua casa. Lo stesso Duca non rimase estraneo a questo moto di simpatia decidendo di concedere l’autorizzazione per il nuovo monastero che Suor Lucia intendeva creare e dichiarandosi protettore dell’iniziativa. Fu donata una casa attigua alla precedente, più vicina alla chiesa della Concezione, e nel 1643 ebbe inizio ufficialmente la vita del convento. Le suore vestirono l’abito francescano e stabilirono di vivere in estrema povertà affidandosi alla magnanime Provvidenza. L’idea ebbe un notevole successo tanto che le dame guastallesi pressarono Suor Lucia affinché ampliasse il nuovo centro religioso per consentire l’accesso di un più cospicuo numero di fanciulle. Fu a tal proposito destinata un’area dell’edificio a cappella. Però per motivi non chiari, altri religiosi, e segnatamente lo stesso Abate di Guastalla, si opposero a questo gruppo di sorelle e ne osteggiarono l’attività. Solamente con la morte dell’Abate si riuscì a dare il via libera per la costruzione di una più consona sede conventuale ed annessa chiesa, iniziata nel 1653. L’architetto Antonio Vasconi fu l’autore dei relativi progetti per il complesso edilizio che sarebbe sorto su un nuovo terreno donato dal Duca. Circa trentacinque religiose animavano il monastero che prese vita nel 1673 scegliendo da quel momento in poi la regola della clausura, concessa dalla Santa Sede. Questo avvenimento fu allietato e solennizzato da una di quelle manifestazioni religiose e popolari assieme che per fastosità e importanza hanno lasciato il segno nella storia locale. Basti pensare ad una intera giornata passata tra celebrazioni, processioni, benedizioni, arrivo delle più note personalità locali del tempo, addobbi incredibilmente fastosi delle strade prossime al convento e relativa festa cittadina con sparo del cannone, di mortaretti, suono delle trombe e delle campane. L’Affò ce ne lascia un ricordo apprezzabile alla pagina 175 del terzo tomo della sua Storia. Suor Lucia Ferrari, mettendo a frutto le esperienze acquisite, fondò vari monasteri (Treviso, Mantova, Venezia, Como, Parma) retti secondo le regole stabilite a Guastalla. La fondatrice si spense nel 1862 e le sue spoglie trovarono riposo, dopo pochi anni, nella nuova chiesa del Santissimo Crocifisso annessa al convento. La sepoltura in pompa magna non poté essere effettuata per paura degli eccessi devozionali verso la santa donna, della quale molti volevano avere reliquie ad ogni costo. Il suo primo luogo di eterno riposo dovette quindi essere un appartato e anonimo angolo dell’orto claustrale. 31 Le educande erano avviate agli studi seguendo metodi innovativi che avevano come base lo studio del carattere delle allieve e delle loro attitudini. Era dato risalto ai lavori manuali pur essendo solida la preparazione di base impostata sulla dottrina cristiana, lettura, calligrafia, aritmetica, geografia e le lingue italiana e francese con relative traduzioni. I cibi erano curati ed adeguati alle esigenze fisiche delle giovani che erano tenute anche ad una certa attività motoria. La formazione era conclusa al compimento del diciottesimo anno. L’ammissione era fissata ad un minimo di sei anni. Contrariamente a quanto accaduto agli altri conventi della città, il decreto napoleonico di soppressione non colpì questa istituzione per la quale fu fatta valere l’importante attività educativa svolta a favore delle giovani. Tuttavia l’atmosfera certamente ostile alle famiglie religiose ebbe modo di cogliere i suoi negativi effetti nel 1866 quando il Ministero di Grazia e Giustizia comunicava al Vescovo l’occupazione di tutto il plesso conventuale per motivi militari e l’espulsione dallo stesso edificio delle monache. Non trovandosi in città un sito adeguato alla vita religiosa di un gruppo di 35 religiose, le Cappuccine si avviarono verso Modena dove furono amorevolmente accolte dalle consorelle del Corpus Domini. Complice l’urgenza dello sgombero, molto materiale fu razziato da persone senza scrupoli. Si ha memoria che due ancone lignee, originariamente ornanti le due cappelle mediane, furono trasferite nella parrocchiale di S. Vittoria, mentre anche altro materiale fu posto in salvo e messo a disposizione del parroco di Villanova. Per l’altare maggiore Onofrio Gabrielli dipinse una tela dedicata a Gesù Crocifisso, staccata e trasferita assieme alle monache che dovettero abbandonare il convento dopo la soppressione del 1866. Altri due importanti dipinti non hanno lasciato traccia: un “S. Gregorio Taumaturgo” dell’allievo di Guido Reni Pietro Gallinari e un “S. Francesco Saverio” del Guercino riapparso in seguito a Londra dove fu venduto all’asta. 19) ORATORIO DI S. MARCO (a S. Martino) Dove si trova: in Via S. Marco nella frazione di S. Martino Informazioni: visitabile solo per appuntamento. Parrocchia di S.Martino tel. 0522 825138 E’ situato nella frazione di S. Martino e più precisamente nella zona detta storicamente “il Ghetto” in Via San Marco. Dalle memorie del sacerdote Don Antonio Gianferri emerge che “nel 1622 si costrusse l’oratorio di S.Marco, in mezzo al trivio ove ora sorge il pilastro o cappelletta”. E’ un edificio semplice con facciata a capanna, lesene laterali e frontespizio triangolare. Si ha notizia di una sua demolizione nel 1757, ma fu ricostruito ove ora si trova in un’area messa a disposizione dal proprietario dell’appezzamento agricolo e relativa casa contigui. Lo stesso possidente sembra curò la sua ricostruzione e la dotazione di un beneficio economico per il mantenimento di un cappellano con l’obbligo di celebrare messe e recitare il rosario nei giorni di festa dopo le funzioni in parrocchia. La prima messa fu celebrata nel 1758 dall’Abate Tirelli intervenuto per la benedizione del rinnovato tempio. Fu esposto un quadro realizzato per l’occasione e raffigurante la Beata Vergine del Rosario, S. Domenico, S. Marco e S. Antonio. Nel 1818-19, poiché era in fase di rifacimento il tetto della chiesa principale della frazione, le funzioni parrocchiali erano svolte in questa sede. Qui veniva per l’occasione conservato il SS. Sacramento. Questo edificio era noto anche come “oratorio Filippi”, dal cognome degli ultimi proprietari, poi trasferitisi a S. Benedetto Po. Gli stessi acconsentirono ai restauri portati avanti dal parroco Don Ferrari alla metà degli anni cinquanta. Il locale fin allora adibito a magazzino si trovava in condizioni disastrose. Fu ripulito, rifatto il tetto, trattati i muri contro l’imperversante umidità, ornato di qualche decoro pittorico dal guastallese Moscardini e arredato coi banchi vecchi provenienti dalla chiesa parrocchiale. Il bel quadro della Madonna del Rosario fu ripulito e lasciato in loco, attorniato dalla graziosa cornice contenente 15 piccoli ovali. L’opera sembrerebbe risalire al XVIII secolo. Non se ne conosce l’autore. 32 20) SAN GIACOMO APOSTOLO (SOLAROLO) Dove si trova: in Via Viazzolo Lungo, angolo Via Solarolo Informazioni: visitabile solo per appuntamento. Parrocchia SS. Pietro e Paolo (Pieve) 0522 824438 Benamati (p.92): ”Indi à pochi anni andavasi in oltre da fondamenti edificando con elemosine di persone pie nella Villa di Solaruolo un Oratorio sotto titolo di S. Giacomo Apostolo...” Si tratta di un oratorio di semplice struttura posto all’angolo di un crocevia. Il Benamati riferisce che fu eretto grazie alle offerte di fedeli abitanti nella zona di Solarolo tra gli anni 1625 e 1630 per maggiore comodità di culto dei locali. Noto come S. Giacomo Maggiore, già nel 1665 fu ricostruito perché in pericolo di crollo. A questo impegno non si sottrassero i fedeli riuniti in un gruppo di capifamiglia per raccogliere i fondi necessari. Si è a conoscenza di un altro, profondo, restauro nel 1876. In quest’occasione furono recuperati la facciata, il tetto, il soffitto e il pavimento. Da questo intervento sostanziale furono esclusi lavori ai muri anche se risultavano particolarmente colpiti dall’umidità. E’ tuttora aperto alla preghiera in ricorrenze particolari e durante il mese di Maggio. 21) SAN MARTINO (ATTUALE) Dove si trova: in Via delle Ville Informazioni: visitabile. Aperta durante le funzioni. Parrocchia di S. Martino tel. 0522 825138 Ben tre sono state nei secoli le chiese principali della località di S. Martino. Non trattandosi della pura riedificazione dello stesso tempio, si è ritenuto di analizzarli in modo separato perché eretti in luoghi differenti ed aventi caratteristiche difformi tra loro. In questo capitolo ci occuperemo dell’edificio moderno tuttora visibile nella frazione che porta lo stesso nome. Per gli altri si vedano i capitoli 38 e 39. L’attuale parrocchiale è stata costruita prima della demolizione del vecchio tempio che era posto di fronte, oltre la strada, ed occupava l’attuale piazzetta della frazione. L’idea di un nuovo, più funzionale edificio religioso nacque già nel 1952, ma l’iter burocratico che si dovette affrontare impose anni di attesa trascorsi tra progetti bocciati e modifiche. L’ingegnere veronese Ronca realizzò il progetto e finalmente la prima pietra fu posata nel marzo 1958. Nel Novembre 1959 fu possibile consacrare e inaugurare la nuova costruzione per il culto. Ai lati della navata e del presbiterio sono esposti alcuni tondi e due quadri opera del viadanese Morini e raffiguranti S. Antonio da Padova, S. Giovanni Nepomuceno, S. Margherita da Cortona, S. Luigi Gonzaga, S. Biagio, S. Domenico con la Madonna del Rosario, tutti provenienti dalla vecchia chiesa. Sul portale d’ingresso è visibile una tela settecentesca dedicata a S. Ignazio di Loyola e attribuita al mantovano Pietro Fabbri. Quest’opera, un tempo ornamento di un altare presente nello scomparso tempio gesuitico di Via Garibaldi, fu recuperata grazie all’intervento del parroco Don Alessio Ferrari che la rinvenne in precarie condizioni sulla soffitta della sacrestia del Duomo. Una statua lignea dedicata a S. Ignazio martire è ospitata all’interno della sacrestia. Nonostante le successive ridipinture, lo stato di conservazione è buono. Si tratta di opera attribuibile al secolo XVII. Un’altra scultura in terracotta dello scultore Corazza, di buona fattura, rappresenta S. Francesco. Nel piedistallo è incisa la data di realizzazione: 1815. Sopra l’altare troneggia il dipinto dedicato a S. Martino. Si tratta di un’opera settecentesca commissionata dal parroco di quel tempo al canonico Giovanni Battista Quattrini, prevosto della Collegiata di Guastalla e valente pittore che realizzò diversi lavori per chiese e privati locali. 22) ORATORIO DI S. CARLO (ORA IN DUOMO) Dove si trova: incorporato nella cattedrale, in Piazza Mazzini 33 L’antico oratorio di S. Carlo era attiguo alla cattedrale di S. Pietro (Duomo, vedi cap.3) e fu messo in collegamento con la stessa nel 1653 abbattendo una porzione di parete in comune e divenendo in questo modo parte integrante della stessa chiesa principale. Per far ciò fu chiusa anche una delle due porte che si affacciavano sotto il portico. Questo edificio nacque per volere della Compagnia del SS. Sacramento, fondata assieme alla Confraternita di Maria Vergine Immacolata nel 1578. Contrariamente a questa (vedi cap. 17) si sviluppò più lentamente e poté costruire il proprio tempio non prima degli inizi del secolo XVII. 23) ORATORIO DELLA BEATA VERGINE MARIA ALLA BERTOLUZZA Dove si trova: in Via Pizzamiglia n. 4, nella frazione di S. Girolamo Informazioni: essendo di proprietà privata è visitabile solo previo accordo con la famiglia Mariotti Ettore Situato a nord di Via Pizzamiglia a S. Girolamo in zona denominata Bertoluzza. Si tratta di un piccolo oratorio inglobato all’interno di un cortile recintato e difficilmente individuabile a primo acchito dalla strada. Attualmente è di proprietà privata. Storicamente deve la sua nascita all’esigenza di dotare le pertinenze del palazzo Marca, residenza signorile ora scomparsa e di probabile origine seicentesca, di un’adeguata cappella per le funzioni religiose ad uso della famiglia proprietaria. Era dotata di arredi sacri di un certo valore se questi, sopravvissuti alla vendita del palazzo, furono donati alla parrocchia di S. Girolamo. La struttura è a pianta rettangolare e sormontata da una cupola. All’interno, sull’altare, fa bella mostra di sé una tela raffigurante la Madonna del Buon Consiglio. CHIESE SCOMPARSE Di questi edifici religiosi si ha solo memoria storica desunta dai documenti del tempo o soprattutto dalle informazioni presenti nelle pubblicazioni date alla stampa dai due storici “antichi” di Guastalla, il Benamati e l’Affò. Non è quindi per nulla agevole districarsi tra le informazioni desunte da documenti che in alcuni casi lasciano trasparire una certa incertezza ed approssimazione. 24) BEATA VERGINE DEL PRUGNO o DELLA PRUGNA Dov’era: nella zona del Baccanello, poco distante dalla chiesa di S. Giuseppe Benamati (p.107): ”Divvolgatosi subito questo portento, infervorossi il Popolo alla divotione d’essa S.Immagine, che ne hà fortito il nome della Prugna riportandone cotidianamente molti divoti segnalate gratie: Quindi mosso Gio:Negri possessore di detto luogo da tanto zelo, fecevi da i fondamenti edificare l’anno 1668 senza rimovere il mentovato Tronco, un’honorevole Oratorio, sotto titolo di S.Gio:Battista, celebrandosi annualmente, con molto concorso de i fedeli circa 2000 messe.” Citiamo le tappe salienti dell’evento miracoloso da cui ebbe origine l’idea di costruire questo tempio. Nella località Baccanello era presente da antica data un “pilastro”, o meglio una rudimentale edicola, con l’immagine della Madonna dipinta da mano rimasta ignota. Nel 1657 il pilastro era tanto colpito dalle ingiurie del tempo che la sua instabilità faceva temere un imminente crollo. Come puntale di sostegno venne usato un grosso palo di prugno reciso da un anno, quindi secco. In seguito, per rafforzare in modo meno precario la costruzione, venne costruita attorno una muratura che inglobò anche il vecchio palo. Dopo un non meglio definito lasso di tempo, il legno emise gemme e foglie ed arrivò persino a fruttificare copiosamente. L’avvenimento colpì profondamente. Da quel momento il popolo dei fedeli registrò varie grazie e la devozione per la Madonna del Prugno nacque e si accrebbe considerevolmente. 34 Il proprietario del terreno, Giovanni Negri, fece erigere a sue spese un oratorio nel 1668 mantenendo al suo interno il tronco di prugno. La localizzazione più probabile, confermata anche da una pianta antica, è a sud di Via Viazzolo Lungo, all’altezza dell’innesto con l’odierna via Parrocchia, quindi visibile in fronte per chi proveniva da Pieve. L’oratorio, ornato da tre altari, fu intitolato a S. Giovanni in omaggio al nome del proprietario del fondo e dell’edificio stesso. Venne altresì costruita una casetta per le esigenze del cappellano chiamato ad officiare. Da quel momento si creò un clima conflittuale con l'altro oratorio così vicino, S. Giuseppe, tanto che per porre fine ai diverbi tra cappellani relativi alle questue, orari delle funzioni ed altri problemi “tecnici” si chiese l’intervento dell’Abate e financo della Santa Sede. Nel 1804 la chiesa passò di proprietà del demanio statale perché non avente il titolo di parrocchia. La sua diversa destinazione d’uso con la perdita della funzione religiosa ne decretò la fine perché l’incuria minò gravemente la stabilità della struttura che, per questo motivo, venne totalmente demolita nel 1871. La popolazione riuscì a salvare un ricordo del tempio grazie ad un “blitz” notturno durante il quale fu letteralmente segato il muro contenente l’affresco ed il tronco di prugno che saranno poi collocati all’interno della vicina chiesa di S. Giuseppe, murati sulla parete di destra. 25) SAN MARCO EVANGELISTA Dov’era: nell’attuale frazione di S. Rocco Benamati (p.107) ne cita l’edificazione nell’anno 1668. Situato in Campo Rainero cioè nell’attuale zona di S. Rocco. La vastità dell’area definita con tale denominazione non consente di identificare una ubicazione più precisa. Venne eretto nel 1668 da Marco Reggiani. 26) BEATA VERGINE DEL CASTELLO (TEATINI) Dov’era: all’angolo tra le vie Trento e Volturno Benamati (p.85) ” (la miracolosa statua della B.Vergine, N.d.A.) la quale fù sempre con somma veneratione riverita dal pietoso popolo, anco mentre stava collocata in una sua Chiesa situata all’accennato Castello, spianato come si disse da Ferrando I di cui né hà fortito il nome della Madonna di Castello, fatta come per fama dà S. Luca;” Don Ferrante II, avendo due suoi figli scelto di entrare nei Chierici Regolari Teatini ed essendo residenti in un convento napoletano ritenne opportuno avvicinarli. Ottenuto l’assenso del Papa, decise quindi di invitare nella sua città i padri di quest’ordine affidando loro il terreno dove un tempo sorgeva la demolita chiesa di S. Bartolomeo (in Castelvecchio, cap.32) perché venissero edificati una chiesa e un convento in grado di ospitare i religiosi e l’immagine della Madonna del Castello che era custodita presso privati in modo provvisorio. In effetti i primi padri Teatini arrivarono a Guastalla nel 1616 assieme ad uno solo dei suoi figli, Giannettino. L’altro, Filippo, trovò prematura morte proprio alla vigilia della partenza. Per ringraziamento circa lo scampato pericolo di una paurosa piena del Po nel 1617, venne preso solenne impegno di costruire adeguata e ampia sede per la stessa immagine mariana, oggetto di un culto molto sentito da parte del popolo. Nel mentre, si diede seguito alla demolizione degli ultimi ruderi del vecchio tempio di S. Bartolomeo. Tuttavia, dall’analisi dei documenti rimasti, si riscontra che i lavori di costruzione seguirono tempi lunghissimi accusando forti ritardi non previsti. A dar nuovo impulso arrivò la tristemente famosa peste bubbonica del 1630 che falcidiò la popolazione con oltre 5000 morti, di cui solo 2104 a Pieve. I solenni voti fatti in quell’occasione imposero una certa accelerazione dei lavori. Ad ogni buon conto la nuova chiesa, pur non ultimata, venne aperta al culto solo nel 1641. Il progetto era frutto del lavoro dello stesso Ferrante II Gonzaga, autore anche dei disegni di S. Francesco (cap. 13) che accolse i frati Minori Osservanti. Si trattava di una costruzione a forma di croce latina. Arrivò ad ospitare fino a nove altari. 35 Nel 1677 l’altare maggiore venne terminato su disegno di Antonio Vasconi. Dalle cronache del tempo si intuisce che doveva trattarsi di un’esecuzione artistica di altissimo livello, realizzata col miglior marmo di Carrara e ornata di figure in bronzo dorato. In generale l’aspetto complessivo dell’interno era quello di una chiesa spaziosa, dal gradevole aspetto architettonico, di grande impatto visivo ospitando pale e pitture di eccelsi artisti. La sacra immagine della Madonna del Castello venne collocata in un’apposita nicchia sopra l’altare maggiore, al culmine di una funzione seguita dal popolo guastallese che culminò in una processione lungo la via principale (odierna via Gonzaga) ornata di ogni sorta di addobbo festivo e di archi trionfali. In questo solenne rito sfilarono tutte le famiglie religiose e le confraternite: un corteo che superava certamente il migliaio di persone. La consacrazione della chiesa, per motivi ignoti, avvenne solo nel 1696. Alla Biblioteca Maldotti può essere ammirato un notevole paliotto in scagliola di scuola carpigiana, in origine collocato alla base dell’altare maggiore della chiesa. Non particolarmente degna di nota la vita dei frati (circa quindici) di quest’ordine, se non per le particolari funzioni solenni celebrate e per gli ottimi rapporti intrattenuti coi Gonzaga, che in quel tempio decisero di collocare le tombe di famiglia, facendo approntare appositamente un sepolcro ai piedi dell’altare dedicato a S. Luigi Gonzaga. Poco distante vi era anche la sepoltura degli antichi Signori di Guastalla, i Torelli, trasferiti dalla chiesa di S. Bartolomeo. Gli archivi storici ci conservano la notizia di un fatto di cronaca nera che ebbe per teatro proprio il luogo sacro di cui ci stiamo occupando. Nel 1806 un ex teatino, coadiuvato da un complice, si introdusse nell’edificio sacro per violare il sepolcro dei Duchi Gonzaga. La tradizione popolare , ma anche testimonianze tramandate parlavano di sepolture dei Signori di Guastalla avvenute in pompa magna e completate con lo sfoggio di ricche vesti e gioielli che ornavano le spoglie mortali. Il miraggio di un facile bottino armò le mani dei profanatori che, rimossa la lapide dal pavimento, si calarono nottetempo nel sepolcro. Non si seppe mai cosa esattamente riuscirono ad arraffare, ma è chiaro che, a parte qualche frammento di abito dorato e qualche gioiello di cui non si conosce la natura e il valore, gran parte del bottino fu costituito dal piombo delle casse mortuarie. Questo metallo venne poi fuso dallo stesso ricettatore, un ramaio guastallese. I profanatori ed i complici furono poi condannati dalla giustizia, ma i due principali malfattori riuscirono a far perdere le tracce. Dalla mappa conventuale conservata alla Biblioteca Maldotti può essere ricavato uno spaccato di vita monacale. Al lato destro rispetto alla facciata della chiesa vi era un passaggio che conduceva direttamente al retro aprendosi sulla corte (un’area destinata ai servizi) e all’orto che appare di grandi proporzioni. Sul cortile, pertinente ai lavori agricoli, si affacciavano il “tinaio”, il pollaio e il porcile. Si nota poi un altro ampio cortile (per l’area civile) interno separato dall’orto da varie camere adibite ad usi diversi e da una cucina, il pozzo interno e dal refettorio. Sulla strada della Cerchia (Via Volturno) era aperta una “bottega” comunicante con un’altra cucina e una legnaia. Al piano superiore del convento erano le camere, di dimensioni variabili e il granaio. Dopo la soppressione (la prima a Guastalla) dell’ordine dei Teatini, avvenuta con decreto napoleonico del 1805, venne chiusa al culto la chiesa divenendo proprietà del Demanio francese. La statua della Beata Vergine del Castello seguì la stessa sorte fino ad essere riscattata (spogliata dei preziosi che la ornavano) col pagamento di una notevole somma di denaro. Le vicissitudini che avevano colpito questo sacro simbolo terminarono finalmente con il collocamento sopra l’altare di S. Luca nella cattedrale, avvenuto nel 1818. All’artista milanese De Giorgi si deve la realizzazione in scagliola della nicchia ove è tuttora. La chiesa dei Teatini, in mano ai francesi, fu ben presto destinata ad uso magazzino di beni militari, a caserma e a luogo coperto per l’addestramento dei cavalli. Tutti i beni in qualche modo monetizzabili, tra cui i mobili e gli arredi sacri, furono venduti. Nel 1825 Maria Luigia volle che quanto rimaneva del monastero fosse utilizzato dall’amministrazione della Biblioteca Maldotti, la quale preferì non impegnarsi in un’ardua opera di restauro. Vendette il materiale risultante dalla demolizione ed investì il capitale nella riconversione dell’ex chiesa di S. Luigi. 36 Un incendio, nel 1861, danneggiò quello che restava del tempio della Beata Vergine del Castello in modo gravissimo. Le demolizioni delle ultime parti rimaste in piedi furono decise nel 1864. Il materiale vario che ne risultò fu venduto anch’esso. Opere d’arte presenti nella chiesa: un “S. Gaetano da Thiene”, lavoro del Bolognini e soprattutto quel capolavoro del Guercino dedicato a S. Luigi Gonzaga (1651), trafugato dai francesi e ora esposto nel Metropolitan Museum of Art di New York. Altri quadri di cui resta memoria negli archivi: “S. Anna” del Gallinari, “S. Orsola” e “S. Maria” del religioso teatino Filippo Maria Galletti (che ha lasciato suoi lavori anche alla Beata Vergine della Porta, vedi cap.2), “S. Caterina da Siena” del modenese Lodovico Bertucci, “S. Antonio Abate” del guastallese Francesco Sironi e un “S. Girolamo” del noto pittore ispanico Ribera (detto anche Spagnoletto). Questi dipinti risultano perduti. 27) SAN LUIGI Dov’era: ove ora è la Biblioteca Maldotti, in Via Garibaldi n. 54 B.M.G.: Fondo Cani - busta n.62: si descrive “ un palazzo murato, coppato e solevato posto in questa città di Guastalla sopra l’Argine della Cerca consistente in una chiesa a volto, la quale ha il suo ingresso verso detto Argine, e così a levante con una porta grande nel mezzo della facciata risguardante il portico, per la quale entrati si è veduto esservi due usci lateralmente, una cappella posta a mezzodì, con un altare, ove trovasi un’ancona con l’effigie di S. Ignazio Loiola (...); a settentrione altra cappella con un altare, ove restavi un’ancona con l’effigie di S. Francesco Saverio; a ponente due gradini di petra per ascendere al presbiterio, ove si trova un altare con un picciol coro di dietro ed un’ancona con l’effigie di S. Luigi Gonzaga, e S. Stanislao Kosta ...”. La scelta di fondare a Guastalla una scuola gestita dai gesuiti venne fatta a seguito di un preciso lascito incluso nel testamento di un gentiluomo locale che trascorse gran parte della propria vita viaggiando per l’Europa e che certamente aveva visto all’opera questi religiosi. Apprezzandone i fini educativi volle lasciare un cospicuo patrimonio perché nascesse qui una di queste scuole. Intricatissimi problemi legali, nati dall’accusa di diserzione nei confronti del defunto benefattore, comportarono prima il sequestro dei beni e poi un lungo iter che vide impegnati i religiosi nelle strenua difesa dei loro diritti per molti anni. Terminata positivamente la disputa, al cui felice esito non furono estranei gli interessamenti di alcuni personaggi altolocati e della Duchessa, si diede inizio ai lavori di costruzione dell’edificio religioso. Il relativo collegio per gli studenti pare non sia stato mai del tutto ultimato, almeno secondo quelle che erano le idee dei Gesuiti. La chiesa venne terminata nel 1741 ed occupava il sito ove ora è la Biblioteca Maldotti. Si trattava di un edificio di dimensioni raccolte, a croce greca coi quattro bracci eguali, in cui l’altare centrale troneggiava rispetto ai due altari laterali, perfettamente simmetrici. La cupola era ottagonale. Qui era stata decisa la sede definitiva dei Gesuiti, arrivati in città nel 1738 non senza incontrare difficoltà ad essere accolti e ostilità da parte delle altre regole religiose. Questa contrapposizione probabilmente non ebbe mai fine ed in tale situazione di isolamento questi ecclesiastici non riuscirono probabilmente a lasciare un segno tangibile nel tessuto sociale guastallese. Nel fabbricato civile erano sei padri che si dedicavano all’insegnamento di materie quali retorica, grammatica, teologia e filosofia. Prima di occupare la nuova sede in S. Luigi, dopo il loro difficile ingresso in città, avevano trovato residenza in una casa dell’attuale Corso Prampolini ove avevano organizzato la presenza di chiesa, scuola e residenza per loro stessi. Con una lettera di espulsione immediata recapitata in una notte del 1766 finisce la storia della Compagnia del Gesù a Guastalla. L’Affò riporta invece che i Padri lasciarono i nostri luoghi e tutti gli altri occupati negli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla nel 1768, prima dell’abolizione del loro ordine religioso. La chiesa fu concessa dal Duca di Modena all’amministrazione della Biblioteca Maldotti, la quale demolì l’esistente edificio e realizzò quello attuale per gli usi di conservazione del suo grande patrimonio librario. 37 Nato nella nostra città nel 1721, Marc’Antonio Maldotti si distinse per doti non comuni nel campo degli studi, perfezionandosi in varie città d’Italia. Dopo aver vestito l’abito sacerdotale chiese al padre un assegno per garantire le sue modestissime esigenze e rinunciò all’eredità a favore della sorella. Trovando difficoltà ad essere accolto dagli ordini religiosi, decise di trasferirsi a Reggio Emilia prendendo alloggio in una modesta abitazione destinando ogni suo risparmio all’acquisto dei tanto amati libri collezionati già da due zii canonici. Morì nel 1801 dopo una vita condotta tra non pochi problemi di salute, aggravati dal suo accanimento per la lettura. Tutta la sua libreria, ricca di volumi di grandissimo pregio, vere rarità anche per quel tempo, volle fosse messa a disposizione della città natale. 28) MARIA SANTISSIMA ADDOLORATA Dov’era: in Piazza Vittorio Veneto Si trattava di una cappella posta all’interno del convento delle suore Mantellate, religiose non claustrali, fondate dalla guastallese Pudenziana Chiappini che si distinse per le sue doti di virtù cristiana e per le sue grandi capacità nel sostegno e nell’educazione delle giovani. Questa pia donna, cui il Duca era debitore di orazioni offerte per la sua salute quand’era ancora bambino ed in pericolo di morte, vestì l’abito religioso nel 1718. In quel periodo venne inaugurato il convento che la stessa abitava con le prime sette sorelle e alla cui costruzione non furono estranei cospicui fondi offerti dal riconoscente Duca. Il progetto fu di un padre dell’ordine dei Servi di Maria. Prima di avviare i lavori venne acquistata un’ampia area che inglobava cinque case situate alla destra del tempio dedicato alla Santissima Annunziata. Qui, dopo la demolizione, sorse l’edificio. Questo convento, contiguo alla chiesa della Santissima Annunziata, pur non essendo di clausura, era aperto al sostegno morale dei soli fedeli afflitti dai più gravi bisogni, oltre che agli insegnamenti alle fanciulle. Il fervore con cui le sorelle attesero ai loro compiti, la grande fama di persona pia attribuita alla fondatrice furono due dei motivi che portarono ad una sensibile crescita del prestigio di questo complesso monastico, definito dall’Affò, spiritualmente parlando, “uno dè migliori ornamenti di questa Città”. Gli stessi frati Servi di Maria, la cui chiesa divideva il loro monastero da quello delle suore, furono attivi sponsores delle iniziative e della vita conventuale delle Mantellate. Il ben noto decreto napoleonico del 1810 decretò la scomparsa dell’ordine e la relativa dispersione delle monache. Due anni dopo tutto il complesso, assieme a quello dei Servi di Maria, fu alienato durante un’asta pubblica effettuata a Modena. Nel 1828, Maria Luigia d’Austria, riuscì ad ottenere dal Santo Padre l’autorizzazione ad elevare la città a sede vescovile dotandola di un appropriato seminario per i chierici. L’ex convento delle Mantellate fu ritenuto idoneo a tale funzione. Conservò tale destinazione fino agli anni sessanta, ben prima quindi che la Diocesi di Guastalla fosse fusa con quella di Reggio Emilia. E’ ora occupato dalla scuola Media Guidotti oltre che dalla locale sede Caritas. 29) SAN BARTOLOMEO (FUORI LE MURA) Dov’era: a Sud della città, in un non meglio individuato sito tra Pieve e Baccanello Non trovandosi più copiose informazioni, apprendiamo dall’Affò che si trattava di oratorio unito ad ospedale, posto molto vicino all’ingresso dell’abitato principale, presso quella che allora si chiamava porta S. Francesco nella zona a sud della città da cui avevano origine le due strade che conducevano al Baccanello da una parte e a Pieve dall’altra. L’ospizio e la chiesetta esistevano almeno dal 1442 quando era presente un frate francescano che officiava i riti religiosi. Ma la data di nascita va fatta probabilmente risalire all’inizio del secolo. In un atto notarile del 1431 concernente un lascito, viene citato S. Bartolomeo “della Cerchia inferiore”. Questa interessantissima definizione ci porta ad affermare che la sua localizzazione era nei pressi dell’antico argine della Cerchia, nella sua espansione meridionale oggi ormai del tutto scomparsa. E’ forse questo il motivo della confusione di qualche storico tra questa chiesa e quella di S. Croce, posta invece nella parte nord dello stesso argine. Questo terrapieno costruito quale riparo contro le piene del Po in epoca medievale è oggi visibile quale sito più elevato del centro storico corrispondente alle attuali via Garibaldi e via Volturno. A partire da 38 quest’ultima verso via Piave il livello stradale decresce rapidamente testimoniando un lavoro di spianamento dell’antico argine che comunque doveva arrivare fino all’inizio dell’odierna via Cisa Ligure. Proprio in questo punto possiamo pensare fosse la più probabile collocazione di S. Bartolomeo. L’ospedale attiguo all’oratorio era riservato, come prassi comune in quei tempi, alla cura dei viandanti. Era attivo anche durante la costruzione di quello dedicato a S. Lazzaro, al lato opposto della città. Una non meglio individuata suor Elisabetta, dopo essere uscita dal monastero delle Agostiniane di Reggio, trovò abitazione assieme ad alcune consorelle nel guastallese, correndo l’anno1473, in località Roncaglio. Nella ricerca di questa collocazione furono probabilmente aiutate dalla contessa Maddalena, moglie di Pietroguido Torelli, la quale ambiva ad avere almeno un monastero nel suo territorio, fino a quel momento del tutto sprovvisto. Passarono alcuni anni e uno dei successori al dominio di Guastalla, Achille Torelli, volle aiutarle assegnando loro un’abitazione meno provvisoria nell’ospizio di S. Bartolomeo (1514) che, come detto, aveva annesso un oratorio in cui le religiose avrebbero potuto meglio svolgere il loro esercizio. A questo spirito solidaristico non fu estranea la volontà del conte Torelli di modificare con questo atto benevolo la propria immagine pubblica di uomo violento che era stato capace di assoldare un sicario per assassinare l’arciprete della Pieve. La condizione delle religiose divenne più stabile quando il Papa Leone X nel 1518 sancì ufficialmente l’esistenza di quella che era diventata una sede monastica a tutti gli effetti, il primo monastero femminile di Guastalla. Questo convento accolse le spoglie di Padre Battista da Crema, confessore personale della contessa Lodovica Torelli, segno questo inequivocabile dell’importanza assunta in quel tempo da questo piccolo centro religioso oltre che dell’affezione della nobildonna per l’ordine di S. Agostino di cui le monache facevano parte. Ragioni militari decretarono la scomparsa del monastero. Infatti nel 1557, nell’ambito di profonde trasformazioni della periferia cittadina, rese urgenti dagli incombenti pericoli di guerra portati dal Duca di Ferrara, si optò necessariamente per l’abbattimento del complesso. Concentrando le difese in un’ampia trincea appositamente scavata attorno alla città, ogni casa o edificio che potesse essere schermo utilizzabile per eventuali attacchi nemici venne raso al suolo. Questa fu la sorte del monastero e dell’oratorio di S. Bartolomeo di cui non rimase più traccia perché tutto il materiale risultante dalla demolizione fu utilizzato per innalzare le difese assieme al legname ottenuto dal taglio di tutti gli alberi e le siepi della zona. Per le suore sfrattate si trovò dimora in un’abitazione posta in quel sito cittadino che in seguito avrebbe visto la nascita della chiesa di S. Francesco e relativo convento dei frati Minori. La scelta dell’edificio, forzata dalle circostanze, non risultò minimamente appropriata alle esigenze delle monache le quali, in questi precari ambienti, non potevano osservare nemmeno le più elementari regole di clausura imposte dalla regola. Ben conoscendo questi disagi la vedova di Ferrante ebbe a ricordarsene nel testamento che vide un lascito di ben 500 ducati a favore delle monache perché potessero finalmente portare a compimento un ambiente di clausura. Ma il destino voleva che la storia guastallese di queste religiose si sarebbe presto conclusa. Alla loro sorte non furono probabilmente estranei i rapporti probabilmente non ottimali col Signore di Guastalla Cesare Gonzaga. Infatti questi avallò ufficialmente l’opinione secondo la quale, avendo le religiose contatti normali col popolo, avrebbero inevitabilmente finito per perdere i principi ispiratori e conduttori della loro vita monastica per cadere quindi in “raffreddamento e poca edificazione in altrui”. Si decise quindi di collocare le cinque monache qui operanti in altra struttura nella diocesi reggiana. Obiettivo raggiunto con fatica se è vero che occorsero ben tre anni per reperire un istituto che le volesse accogliere, naturalmente dopo aver promesso un congruo versamento annuo di trecento scudi d’oro e la fornitura di mobilio e generi vari per il loro sostentamento. Il primo monastero femminile di Guastalla terminò in questo modo la sua esistenza a circa un secolo dalla nascita. Don Cesare I Gonzaga le aveva destinate al convento di Castelnuovo Sotto. Le monache vennero avviate alla nuova collocazione nel 1571 quando le alte personalità religiose locali ordinarono la chiusura del monastero. Al loro posto, la residenza venne occupata dai Padri di S. Francesco dell’Osservanza, che di lì a poco costruirono il loro complesso monastico (vedi cap.13). 30) ORATORIO DI S. ELISABETTA 39 Dov’era: in Via Carducci Benamati (p.71):” (1565) Andavasi in questo mentre fabricando col dissegno del Volterra il Palaggio di Conseglio (...) come anco rifacendosi diverse case, & edificandosene da i fondamenti dentro il nuovo recinto di Guastalla, molte altre, frà i quali l’Hospitale per i poveri passaggeri, e bisognosi, à beneficio di cui furono poi lasciate dà persone pie buone rendite, con l’erettione d’un Oratorio contiguo, sotto titolo di Santa Elisabetta Regina di Ungheria.” Lo stesso Principe Ferrante fece dono del terreno ove poter innalzare un nuovo, sufficientemente ampio e confortevole ospedale voluto dalla comunità guastallese per rimpiazzare quello demolito e dedicato a San Lazzaro. Qui i pellegrini in transito avrebbero potuto trovare riparo e un luogo caldo nelle dure giornate invernali. Non si trattò quindi, almeno all’inizio, di un luogo di cura come lo possiamo intendere oggi, ma di un ricovero per i fedeli diretti o di rientro da Roma e per i viandanti. Alcuni elementi del porticato interno nell’edificio posto tra via IV Novembre e Via Carducci ci ricordano la destinazione dell’edificio. Solo a seguito di una donazione dell’Imperatore nel 1810 l’ospedale potrà trasferirsi nell’ex monastero delle Agostiniane. L’annesso oratorio di S. Elisabetta è successivo di alcuni anni all’ospedale e venne portato a compimento grazie ad un lascito. Non abbiamo notizie ulteriori su questo luogo di culto che è ancora riportato nella carta di Guastalla realizzata dallo Studio Toschi nel 1832. 31) ORATORIO DI S. MARIA (forse anche S. ANNA o S. GIOACCHINO) Dov’era: nella zona delle Duecento Biolche, nella frazione di S. Rocco Benamati (p.107) ne cita l’edificazione datandola all’anno 1668. Era sito in Campo Rainero, cioè nella zona sud di S. Rocco. Non se ne conosce la storia o le caratteristiche né tantomeno una più esatta ubicazione. E’ possibile tuttavia che fosse stato eretto lungo la strada (ora semplice cavedagna nella zona delle Duecento Biolche) denominata appunto S. Maria, che rappresenta il prolungamento del lungo rettilineo stradale di S. Rocco. Sembra sia stato costruito per volontà del Principe allora in carica (anche se l’allora Duca Ferdinando Carlo raggiunse la maggiore età solo l’anno successivo) che mantenne ogni potere di giuspatronato sull’oratorio. Fu benedetto dall’Abate Conte Giacomo Quinziani, così come quello dedicato a S. Marco Evangelista. 32) SAN BARTOLOMEO (IN CASTELVECCHIO) Dov’era: vedi Teatini (cap. 26) Gli storici concordano per un’origine molto antica di S. Bartolomeo che fu la prima chiesa della Terra (con questo nome si indicava nei secoli passati l’abitato che oggi chiameremmo “centro storico”) guastallese. La nascita di questo tempio viene fatta risalire attorno gli inizi del 900 quando l’antica chiesa madre di Pieve conobbe uno dei periodi più bui culminanti in una situazione di totale abbandono le cui cause non sono note. Si presume quindi che il popolo devoto avesse bisogno di un luogo per il culto essendo la più antica delle chiese ormai fatiscente e non in grado di onorare il suo ruolo. Questo il motivo della nuova costruzione, che contende a S. Giorgio la posizione di seconda chiesa in ordine di tempo costruita sul territorio, a quanto ci è dato sapere. Fonti documentali ne confermano l’esistenza anche in epoca successiva e precisamente la troviamo menzionata in atti di Innocenzo II del 1132 ed in ulteriori del 1157 che riportano per la prima volta anche S. Giacomo (vedi cap. 6). Riscontri certi possono essere ricavati dalla bolla di Urbano II del 1096 in cui, insieme alla Pieve, sono citate la stessa S. Bartolomeo oltre a S. Giorgio e S. Martino. Da tempo immemorabile in questo edificio cristiano gli uomini della comunità si radunarono per discutere delle più importanti questioni di interesse generale, così come per prestare giuramento verso i vari Signori che si susseguirono nei secoli al dominio di Guastalla. Era, di conseguenza, anche il luogo deputato alle più solenni manifestazioni di carattere religioso ed è evidente che questo tempio è stato testimone dei più 40 importanti avvenimenti storici che coinvolsero la città nel Medioevo. Mancano però notizie circa gli aspetti architettonici, né abbiamo idea di come si presentasse l’interno. Sappiamo soltanto che su una parete era affrescato un ritratto dell’eroica Orsina, moglie di Guido Torelli, opera di pittore ignoto. E’ certo anche che il cordoglio degli abitanti sia stato manifestato in questa sede quando venne qui esposto il corpo del Conte Achille Torelli, assassinato a Novellara. Non si sa quando venisse posta al suo interno la statuetta della Beata Vergine detta poi del Castello, opera di origini misteriose. Si tratta di una scultura su legno di cedro raffigurante la Beata Vergine che si venera a Loreto (Santissima Annunziata) ed una tradizione che si perde nel tempo la vuole opera dell’evangelista S. Luca che fu in effetti artista e pittore oltre che medico. Più recenti attribuzioni la indicano come scultura proveniente dalla mano di Giovanni di Nicolò Pisano. Era questo l’autorevole parere di Monsignor Raffaele Baratti. Si ha memoria di vari miracoli attribuiti alla Madonna attorno agli inizi del XVI secolo durante un terribile contagio che investì le nostre zone unito ad una devastante carestia. Attorno alla metà del ‘500 Don Ferrante dovette sacrificare la chiesa assieme a diverse abitazioni ed al vecchio castello coi suoi fossati e terrapieni per assicurare una maggiore capacità di difesa all’abitato. Nell’occasione la Beata Vergine del Castello abbandonò questo sito per essere ospitata in una casa nei pressi della Posta (attuale Piazza Garibaldi). Da questo momento la storia della sacra immagine si interseca con quella della sua successiva dimora, la chiesa dei Teatini (vedi cap.26) 33) CHIESA DELLA ROCCA Dov’era: nell’antica rocca, il cui fronte si innalzava ove oggi è piazza Matteotti Da alcune visite pastorali del ‘600 e da una nota spese per opere di muratore si apprende che esisteva una piccola chiesa dentro la fortezza, complesso difensivo allora utilizzato come carcere. Non si sa a quale santo fosse dedicata. Non essendovi obbligo di messe, l’edificio religioso era quindi di supporto alla somministrazione dei conforti spirituali per i detenuti malati e per le confessioni. Atterrato tutto il complesso fortificato nell’anno 1690, se n’è persa ogni traccia, non documentata da alcuna mappa od ulteriore memoria. 34) SANTA MARIA DELLA DISCIPLINA Dov’era: in Via Pieve La chiesa di S. Maria della Disciplina fu edificata nel lontano 1260 dalla Compagnia dei Battuti o dei Flagellanti (detti anche Disciplinanti) che la occupò per molto tempo, di certo almeno fino al 1507. Si trattava di una congregazione nata in loco in quegli anni sull’onda del favore ottenuto dalle pratiche di autolesionismo che distinguevano gli aderenti a queste sette in cui l’ardore mistico sconfinava nel fanatismo. I Flagellanti peregrinavano per le città d’Italia, a torso nudo, offrendo in modo alquanto spettacolare il proprio sacrificio per la pace tra gli uomini colpendosi ripetutamente il corpo con attrezzi che provocavano sanguinamenti. Queste azioni erano accompagnate dall’urlo rituale della parola “pace”. E’ facile credere che le crude scene messe in mostra avessero forte presa emotiva sul pubblico che accorreva ad assistere. La storia dei Flagellanti è affascinante perché così lontana dal nostro attuale modo di pensare tanto che merita alcune righe di approfondimento. E’ ormai storicamente accettato che questo movimento religioso ebbe origine a Perugia nel 1260 e di lì si trasmise a macchia d’olio anche in Emilia. Nella nostra provincia, oltre al capoluogo, anche a Correggio, a Castelnovo Sotto e ovviamente a Guastalla si radicarono gruppi di aderenti trovando terreno fertile per la diffusione del loro credo. Il motivo della nascita fu la protesta contro la corruzione del clero ed il degradare dei costumi nella società. Per manifestare contro queste degenerazioni si praticava una tecnica scioccante: l’autopunizione per mezzo della frusta. Secondo la profezia attribuita al monaco Gioacchino da Fiore, il 1260 doveva segnare l’inizio di una nuova epoca di espiazione dei peccati e di ricostruzione del mondo secondo canoni che si rifacevano al rigore in ambito di fede. 41 Oltre all’esempio di processione prima narrato, altri modi o varianti sono documentati e possono essere interessanti per comprendere meglio il fenomeno. Persone di ogni condizione sociale e mestiere, senza distinzione alcuna, si riunivano in seguitissime adunanze popolari vestendosi di un semplice camice di lino bianco aperto sulle spalle. Camminavano giorno e notte, anche in inverno, fustigandosi invocando la misericordia di Dio e cantando coinvolgenti quanto struggenti “laude”. In periodi successivi l’abito indossato venne modificandosi con l’aggiunta di un alto cappuccio a punta che copriva il volto e permetteva la visuale attraverso due fori posti all’altezza degli occhi. La tunica, sempre bianca e lunga fu ornata di una gran croce rossa, così come il copricapo. Una semplice corda alla cintola completava la veste cerimoniale. L’atto di autopunizione venne via via stemperando il proprio carattere cruento per essere poi abbandonato nei decenni successivi durante i quali gli adepti spostarono l’attenzione verso la preghiera, le opere di beneficenza, l’assistenza agli infermi ed il perdono. Le metodiche dei Flagellanti furono riprese nel secolo successivo come reazione al dramma della peste e col preciso intento di allontanare l’ira divina responsabile, secondo una ben radicata idea del tempo, del contagioso flagello. Per inciso, si ricorda che in queste occasioni, soprattutto in Germania, le fruste erano munite di punte metalliche per dare un senso sadicamente definitivo all’atto purificatorio. Torniamo alla chiesa di S. Maria. Don Innocenzo Resta, fratello di Antonio, cultore di storia locale di cui alla Biblioteca Maldotti sono conservate le memorie manoscritte, afferma che ai suoi tempi (secolo XVII) era ancora visibile sul muro di S. Maria della Disciplina un’iscrizione che ricordava un restauro ad opera della comunità nell’anno 1472. Già al tempo dell’Affò, come lui stesso ci testimonia, a causa di un maldestro intervento di pittura, tale scritte erano state coperte, così come i precedenti affreschi che lo storico, per le tracce ancora visibili, datava al XV secolo. Ancora in qualche modo intuibile era la figura di “un uomo autorevole posto in ginocchioni”. Don Resta definisce la chiesa come eretta “fin da tempo immemorabile dalla devozione e pietà del popolo di Guastalla” e la certifica come dedicata a S. Cristoforo già al suo nascere, oltre che come tempio solo benedetto e non consacrato. Innalzato per offrire ai fedeli un luogo in cui “esercitarsi nel santo esercizio della disciplina tenendo a questi effetti un cappellano che con beni spirituali e colloqui pasceva con santi esercizi le anime pie e devote”. S. Maria della Disciplina dovette subire l’onda d’urto distruttrice delle truppe assedianti del Duca di Ferrara che nel 1557 portarono desolazione e morte nel territorio atterrando completamente anche la chiesa. Si tratta di un episodio molto cupo nella storia di questi territori perché la barbarie delle soldatesche nemiche arrivò a permettere ogni sorta di sopruso. Da una stima dell’arciprete della Pieve, Ercole Torelli, furono l’incredibile numero di duecento le case bruciate e distrutte, in un panorama di pestaggi perpetrati su innocenti abitanti, di stupri, di assassinii e di ogni sorta di ruberia. Nella chiesa della Pieve, come nell’attigua dimora del sacerdote, furono prelevati tutti i mobili, gli arredi sacri, i paramenti, i calici ed ogni cosa che potesse avere un qualche valore, non ultime le campane. Ci viene descritto un panorama desolante di morte e costernazione con le abitazioni inservibili, morti ovunque, bambini orfani che vagavano senza meta e aiuto per le campagne, le chiese abbandonate: un vero cataclisma. Recuperato agli usi religiosi dopo la guerra con un restauro probabilmente incompleto, il tempio di S. Maria non poté ospitare la celebrazione di Sante Messe per anni in mancanza di sacerdoti e cappellani. In questo periodo di decadenza fu oggetto di furti sacrileghi messi in atto da furfanti che, scalando le mura, riuscivano a calarsi all’interno e qui nascondersi per poi mettere a segno ruberie e atti vandalici come il prelievo di pietre e parziali smantellamenti. Alcuni lasciti del ‘400 ci dicono dell’esistenza di un ospedale “della Disciplina”, probabilmente localizzabile presso questa chiesa e funzionante per il sostegno dei pellegrini in viaggio per o da i luoghi santi. Tornando a S. Maria della Disciplina, non ci è pervenuta alcuna informazione sulle caratteristiche di questo luogo di culto. La tradizione vuole che sulla sua area venisse poi (ma non si sa quando) costruito il piccolo oratorio di S. Cristoforo. 35) SAN CRISTOFORO Dov’era: in Via Pieve 42 Era ubicato a nord dell’attuale Via Pieve in corrispondenza dell’attuale Via S. Cristoforo (che anticamente continuava verso nord). La sua localizzazione è immediatamente percepibile studiando alcune cartografie guastallesi, tra cui, chiarissima in proposito, quella dello Studio Toschi del 1832. Da questa carta è possibile evincere alcune informazioni ulteriori. Orientamento verso Nord-Ovest, quindi parallela a Via Pieve, e quindi col fronte rivolto verso la prosecuzione (oggi scomparsa) di Via S. Cristoforo verso nord. La sua dedica a San Cristoforo è probabilmente dovuta al fatto che la precedente chiesa di S. Maria della Disciplina pare avesse dipinta sulla facciata l’immagine di questo santo, eseguita in grande dimensione. Nella cappella che ne seguì, un poco dotato pittore locale riprodusse la precedente espressione figurativa, stando alla testimonianza dell’Affò, con ben altro esito. Da una mappa catastale del 1861, piuttosto precisa circa le dimensioni degli immobili, si possono ricavare le misure del fabbricato (con una certa tolleranza): lunghezza metri 8, larghezza metri 6. Si trattava quindi di un piccolissimo oratorio, forse più propriamente definibile come cappella ove, vista la ristrettezza dello spazio, non era agevole celebrare messe ed era quindi rivolto alla devozione dei frontisti o poco più, oltre che alla sosta e preghiera del pellegrino. Resistette quindi fin oltre la metà dell’800, dopodiché fu raso al suolo. Al suo posto è oggi il giardino che orna la costruzione ottocentesca al civico n. 21 di Via Pieve. 36) S. LAZZARO Dov’era: in Viale Cappuccini Piccolo oratorio ubicato sulla strada dei Cappuccini come si evince dalla pianta di Guastalla dello Studio Toschi del 1832. Fu edificato di fronte a quello che in molte carte antiche è descritto come “Casino Negri” (antica palazzina ora restaurata all’angolo tra Via Cappuccini e Via Sacco e Vanzetti). L’Affò ci ricorda che, essendo stato demolito un primo ospedale (xenodochio) con questo nome durante episodi bellici, venne ricostruito immediatamente dopo la peste del 1373 per voto espresso dalla popolazione locale. Quella fu una pestilenza di notevoli proporzioni tanto che il Signore dell’epoca, Barnabò Visconti, fece pubblicare un editto in cui ordinava che ogni cittadino, qualora avesse notato sul proprio corpo la nascita delle tremende pustole indicatrici del morbo, avrebbe avuto l’obbligo di portarsi in aperta campagna e lì, senza aiuto alcuno, limitarsi ad attendere la morte. Non si sa con certezza quando l’oratorio di S. Lazzaro fu realizzato. Doveva comunque essere un piccolo luogo per il culto annesso al sopra citato omonimo ospedale per i pellegrini in transito per la zona. E’ altrimenti probabile che la sua fondazione possa risalire al periodo della definitiva demolizione dello xenodochio (ospedale per i viandanti) e che quindi riportasse il suo nome. Questa supposizione può essere suffragata dal fatto che si è a conoscenza dell’esistenza di un altro oratorio (S. Rocco) anch’esso attiguo all’ospedale di S. Lazzaro e con questo demolito nel 1557. Non si comprende l’utilità di erigere due oratori nello stesso sito ! Questo immobile religioso fu demolito attorno alla metà del 1800. Infatti, tutto il materiale risultante ancora valido fu riutilizzato per la costruzione della canonica annessa alla chiesa della B.V. della Neve a Tagliata, intervento compiuto nel corso dell’anno 1857. 37) SAN ROCCO Dov’era: in Viale Cappuccini, o immediate vicinanze Benamati (p.14) afferma che nell’anno 1009 fu eretta una chiesa dedicata a S. Rocco lungo la strada che va da porta Po a S.Giorgio. Si trattava di un piccolo edificio, non particolarmente originale o degno di nota se il Benamati lo definisce “di vaga strottura”, innalzato per mantenere fede ad un voto da parte dei guastallesi superstiti dopo la 43 tremenda peste del 1009 che seguì ad una storica carestia. In realtà la sua nascita risulterebbe troppo lontana nel tempo per essere credibile. In effetti, l’altro storico Affò ritiene impossibile trattarsi di epoca così antica e la fa risalire ad un altro episodio di pestilenza nel 1513. Era localizzato molto vicino all’ospedale di S. Lazzaro (“Ospitale dei pellegrini”), tanto che fu demolito assieme allo stesso nel 1557 per urgentissimi lavori di difesa della città (vedi anche cap. 29). Non si hanno altre notizie se non la testimonianza che le strutture edificate in questa area, chiesa e ospedale, soffrirono dell’annoso problema delle infiltrazioni di acqua dal suolo che minavano la loro stabilità. 38) SAN MARTINO (FINO AL SECOLO XX: 1618-1960) Dov’era: in Via delle Ville (attuale piazzetta della frazione di S. Martino) Benamati (p.87) “Fabricavasi anco nel medesimo tempo (1618 N.d.A.) da i fondamenti la Chiesa di S.Martino, nel sito ove è di presente, con più alta struttura di quello (che per l’avanti era) à spese di persone pie, essendosi al giorno d’oggi resa di maggior grandezza, & abbellimento, che fu poi consagrata li 18 Ottobre del 1622...” Lo storico ci afferma che la chiesa era senz’altro di dimensioni maggiori della precedente situata nella zona di S. Martino Vecchio, oltre ad essere più curata e ricca nell’interno. Gli abitanti del luogo riuscirono ad innalzare il nuovo edificio, nelle sue strutture essenziali, in soli venti giorni, a partire dal 28 Ottobre 1618. Il tempo-record richiesto per la realizzazione del “grezzo” corrispondeva ad una ben motivata fretta dei sammartinesi di utilizzare i mattoni ed il materiale ricavato dalla demolizione della vecchia chiesa (e asportato in una notte all’insaputa degli abitanti dell’odierna S. Girolamo) per scongiurare il pericolo di ritorsioni sugli stessi beni (vedi cap. 39). Naturalmente, dopo questo furore edificatorio iniziale, la chiesa abbisognava di lunghi tempi per le finiture esterne ed interne e sui tempi di questi lavori si hanno poche notizie. Nel 1620 fu realizzato l’altare dedicato a S. Ignazio. Il tempio fu benedetto nel 1622 e nello stesso anno consacrato. Si iniziò anche la costruzione di una piccola casa per il parroco. Nel 1625 fu eretto l’altare della Beata Vergine del Popolo. Il campanile fu innalzato dopo il 1630, anno della grande peste, con il contributo economico fondamentale dei lasciti dei paesani defunti a causa del morbo. Per il contagio anche il parroco morì e venne data sepoltura alle sue spoglie in un tumulo posto davanti all’altare maggiore; inumazione interna al luogo sacro che venne riservata in seguito anche ad altri sacerdoti della parrocchia. Durante la rettoria di Don Bacchi (dopo il 1759) venne ampliata la cantoria. Sempre in quel periodo (1767) l’artista Giovanni Morini da Viadana lavorò molto per la comunità di S. Martino dipingendo le cappelle della Beata Vergine, di S. Ignazio e quella del battistero che venne ornata da un dipinto raffigurante il battesimo di Gesù. Il pittore realizzò vari affreschi all’interno unitamente ad altri sulla facciata e sopra la porta laterale. Un quadro di S. Antonio e la serie della via Crucis venivano dallo mano dello stesso Morini, realizzati nel 1776. Sempre suo è un “S. Biagio” del 1785 mentre altri interventi del viadanese sono del 1790 e 1791. Il carpigiano Lazzaro Prati realizzò in scagliola gli ornamenti dell’altare maggiore oltre all’ancona che incorniciava il quadro di S. Martino. E’ importante ricordare che il luogo in cui la chiesa venne fondata non corrisponde a quello su cui è posta quella attuale. Il sito dov’era coincide con l’attuale piazza della frazione, di fronte all’attuale parrocchiale. Lo stile architettonico non denotava segni di particolare originalità, né il fronte era di un qualche rilievo artistico essendo decorato da tre modesti affreschi riproducenti S. Martino, S. Ignazio e S. Carlo Borromeo. Fu demolita nel 1960. Le vecchie fotografie riprendono anche un piccolo edificio religioso denominato “Grotta di Lourdes”, piccola riproduzione del famoso santuario posta a destra della chiesa parrocchiale. Durante il periodo del suo massimo splendore, di fronte alla “grotta”, quindi all’aperto, si celebravano matrimoni, prime comunioni e altre feste religiose. Iniziato il suo rapido processo di decadimento strutturale con lo sgretolamento di alcune parti, venne alla fine demolito assieme all’edificio principale. Per qualche tempo, fino al 1967, sopravvisse il seicentesco campanile che svolse egregiamente la sua funzione in mancanza di una torre campanaria adiacente alla nuova chiesa di S. Martino, opera conclusa solo nel 1971. 44 39) SAN MARTINO VECCHIO Dov’era: in Via delle Ville, a fronte di Via Cantone Non pare rimasta alcuna notizia nelle carte degli archivi su quale fosse l’aspetto di questa antica chiesa e non vi sono informazioni di altro genere se non pochi cenni. Era il luogo del culto cattolico per le genti di S. Martino e di S. Girolamo (allora chiamato Tomarole), situato al lato sinistro della strada per chi procedeva verso est (S. Girolamo) in località da sempre denominata S. Martino Vecchio. Viene menzionata in una bolla papale di Urbano II del 1096 assieme alla chiesa matrice della Pieve, a S. Bartolomeo e a S. Giorgio. E’ menzionata anche nell’atto di Innocenzo II del 1132 in cui vengono confermati all’Abate Oddone i diritti sulle nostre chiese. All’inizio del XVII secolo, la popolazione fece richiesta che fosse nominata Parrocchia per ottenere che qui fossero possibili alcune funzioni altrimenti prerogativa della Pieve. In effetti, abbiamo notizia di una verifica, favorita dal Vescovo di Mantova Mons. Francesco Gonzaga, con l’invio di un canonico con funzioni di “ispettore”. Venne accordato il privilegio avendo appurato come fossero buone le condizioni del tempio e giuste le richieste dei fedeli, dopo avere costituita adeguata dote (1608) a favore della parrocchia con l’intervento finanziario delle famiglie locali e dello stesso Duca Ferrante II. Solo un decennio dopo si sentì l’esigenza di un nuovo, più ampio e confortevole tempio, da costruirsi in luogo più elevato, posto che il vecchio edificio religioso più volte veniva lambito dalle acque durante le non rare inondazioni trovandosi in posizione piuttosto bassa. Alla decisione di erigere una nuova chiesa non furono certamente estranee motivazioni di carattere campanilistico e di rivalità tra le comunità rurali che fino a quel momento avevano convissuto sotto lo stesso tetto. E’ documentata l’avversità dei “tomarolesi” (abitanti dell’attuale S. Girolamo) nei confronti dell’idea di trasferire, in posizione per loro più lontana, la nuova chiesa. Non è estranea a questa valutazione l’avventuroso “trasferimemento” dei mattoni di S. Martino Vecchio, un vero e proprio “colpo di mano”. Infatti, la tradizione vuole che gli abitanti dell’odierna S. Martino, in gran numero e con l’aiuto di molti carri, in una sola notte riuscissero a prelevare il materiale utile risultante dalla demolizione della vecchia chiesa e a portarlo sul posto che avrebbe visto la nascita del nuovo tempio, mettendo i vicini di S. Girolamo di fronte al fatto compiuto. In memoria dell’antica chiesa fu costruita una croce di legno (restaurata o sostituita più di una volta negli anni) e innalzata sul luogo che, per secoli, aveva accolto i fedeli. Ora, al posto della croce è visibile una piccola edicola (pilastro) in muratura con una croce di ferro, dedicata al culto di Maria e realizzata per la prima volta nel 1817. In occasione della solenne benedizione, al suo interno vennero poste reliquie di santi. Quella che si vede al giorno d’oggi è una nuova costruzione realizzata nel 1981 e che conserva ancora nel basamento le antiche reliquie. 40) ORATORIO CARACCI A SAN MARTINO Dov’era: in Via delle Ville Il quinto rettore di S. Martino, Marc’Antonio Caracci, fece erigere nel 1721 l’oratorio ricordato col suo cognome ma dedicato a S. Francesco di Paola. Era situato presso il suo “casino” di campagna chiamato “la Caraccia” o “Carazza”, toponimo che si può rilevare sulla cartografia IGM e indicante una corte agricola poco distante dall’abitato di S. Girolamo, su Via delle Ville, alla sinistra per chi si dirige verso questa frazione. Lo stesso sacerdote lo dotò di fondi con l’obbligo di tre messe annue da celebrarsi al suo interno. Questo edificio, causa il peso degli anni e naturali problemi di manutenzione, venne ricostruito nel 1788 perché cadente e del tutto inservibile per gli usi religiosi. 41) ORATORIO DEI SACCHI A SAN MARTINO 45 Dov’era: in Via delle Ville Nel 1747 venne introdotta anche a S. Martino la Confraternita detta “dei Sacchi”, così chiamata a causa dei vestiti di tela di sacco che erano solito indossare gli aderenti. Subito venne iniziata la costruzione di un oratorio adeguato alle esigenze della confraternita ed il luogo scelto era esattamente di fronte al portone della chiesa, dall’altra parte della strada (presso il sagrato dell’attuale parrocchiale) ove erano altre case che formavano un piccolo borgo. La compagnia fu soppressa di lì a poco, tanto che la cappella venne atterrata quando non erano del tutto terminati i lavori di finitura. 42) S. GIOVANNI NEPOMUCENO Dov’era: presso l’argine maestro del Po L’oratorio di S. Giovanni Nepomuceno era localizzato alla sinistra dell’odierno Viale Cappuccini, poco fuori della città e probabilmente nelle dirette vicinanze dell’argine maestro. La sua posizione non era casuale: sappiamo infatti che il santo veniva indicato come il protettore contro le piene del fiume. Eretto quindi come ringraziamento dopo una scampata alluvione. S. Giovanni, martire Boemo del XIV secolo, secondo la tradizione emerse dalle acque con cinque stelle intorno al capo, dopo essere stato gettato nel fiume Moldova dal tiranno Venceslao IV perché si era rifiutato di rivelare segreti confessionali. Un quadro, ritraente il martire Giovanni, si trova all’interno della parrocchiale di S. Martino, opera settecentesca del viadanese Morini. Una statuetta dello stesso santo è esposta all’interno di una nicchia ricavata sul fronte di una casa agricola distante poche decine di metri dall’argine, all’interno di un appezzamento agricolo un tempo di proprietà della famiglia di Marc’Antonio Maldotti, cui è dedicata la biblioteca guastallese. In prossimità di questo rustico si doveva trovare l’oratorio cui probabilmente apparteneva la stessa statua. Il luogo di preghiera era soggetto alla giurisdizione della parrocchia di Pieve, come testimoniano alcuni documenti presenti in quell’archivio. 43) ALTRI ORATORI Qualche indagine meriterebbe un edificio di ridotte dimensioni e dallo stile che in tutto ricorda una cappella, situato a Solarolo, sull'omonima strada e di fronte a Via Gallesi, di pertinenza del civico n. 83. Dalla carta della battaglia di Luzzara e dell’assedio di Guastalla, eventi del 1702, stampata all’inizio dell’ottocento su disegni del cartografo francese Pelet, risulta graficamente riportato in via Rosario, alla destra e verso il termine per chi proviene da Pieve, un piccolo sito religioso. Non riscontrato in altre carte. Un discorso a parte sarebbe necessario per la cappella (ma pare fossero più d’una) interna al Palazzo Ducale e in cui pregò S. Carlo Borromeo durante le sue permanenze in città . Questo angolo di raccoglimento fu testimone di circostanze più attinenti alla vita privata della famiglia Gonzaga che non di rilevanza pubblica. Le tracce storiche rimaste sono scarse. Altre informazioni potranno essere raccolte solo a seguito di auspicabili lavori di studio sul palazzo ducale. Ulteriori indagini negli archivi, negli atti notarili e nelle memorie cittadine potrebbero portare alla luce qualche nome dimenticato e legato a piccoli luoghi di preghiera non riportati in questo libro. Ogni lodevole approfondimento porterà nuova linfa alla conoscenza del patrimonio storico di Guastalla. 44) CENNI SU ALCUNI ARTISTI CITATI 46 Artisti più o meno noti hanno lasciato tracce a Guastalla. Seguono alcune note che fanno riferimento ad opere o nomi già accennati nel testo. Damiano Padovani, pittore guastallese, noto soprattutto per aver dipinto sulla porta di S. Francesco l’immagine della Madonna che fu protagonista del famoso miracolo. Artista locale di oneste doti figurative, si distinse per la fede e per la carica emotiva con cui realizzava le sue opere, prettamente di carattere religioso. Di lui si racconta che, prima di iniziare un ritratto della Vergine, sentiva il bisogno della confessione e della comunione. Vedeva il proprio lavoro come missione e lo caricava di forte valenza spirituale. Fu sicuramente pittore di mestiere ben conosciuto nell’ambiente guastallese e probabilmente non si spostò mai da esso in quanto la sua committenza doveva sicuramente essere circoscrivibile al popolino della sua città e delle vaste aree rurali. Lo immaginiamo come artista che si portava nelle campagne per dipingere immagini mariane sulle facciate delle abitazioni padronali piuttosto che quadretti ex-voto in occasione di scampati pericoli. Era quindi servitore semplice di una clientela che abbisognava di immagini di soggetto religioso. Si ha notizia altresì di quadri che ornavano le case di cittadini, come pure sedi di congregazioni locali, quali i calzolai e i sarti. Certamente la sua opera fu richiesta per le immagini poste all’interno di maestà rurali, per l’arredo di edifici religiosi, tra i quali è opportuno ricordare la chiesa dei Teatini (era esposto qui il suo “Riposo della Vergine in Egitto”), quella di Baccanello. Si ricordano come sue opere una “Madonna di Reggio” (della Ghiara) dipinta su una casa a Solarolo poco avanti dell’oratorio, così come l’immagine della Madonna del Castello ora conservata alla Biblioteca Maldotti. Da alcuni è attribuita alla sua mano la piccola Vergine con Bambino affrescata su uno dei pilastri della basilica di Pieve, alla destra dell'altare e restaurata nel 1995. L’evidente differenza stilistica con gli altri suoi lavori conosciuti non ci fa concordare con questa attribuzione. Certamente sua è la raffigurazione del salvataggio della statua avente per soggetto la Beata Vergine della Consolazione di Baccanello. Di questo fatto di cronaca è giunta fino a noi memoria (vedi chiesa di S. Giuseppe al cap. 5). Il suo affresco più noto, la Madonna della Porta, non si distingue per particolari qualità figurative ne per originalità, tuttavia può certamente essere definita un buon prodotto di un artista semplice che ha saputo raffigurare il soggetto in modo sentito ottenendone un ritratto capace di far risaltare la dolcezza del volto mariano. Degnamente rappresentata la figura di S. Carlo Borromeo alla destra, mentre alla sinistra notiamo un riuscito S. Francesco d’Assisi. Bernardino Campi (1522-1590) arrivò a Guastalla nel 1587 dopo esser stato chiamato da Ferrante I che gli conferì l’incarico di dirigere i lavori di decorazione del Palazzo Ducale dandogli ampia fiducia. Artista stimatissimo dal Gonzaga e dalla moglie Isabella di Capua, per i quali realizzò ritratti degli stessi Signori oltre che della figlia Ippolita. Lavorò per loro anche a Milano durante il periodo di governatorato di Ferrante nel capoluogo lombardo Fu uno dei più prolifici componenti della famiglia dei Campi, noti artisti cremonesi. Pietro Gallinari (…-1664) prestò la sua opera nella chiesa Cattedrale (per questo edificio di culto ritrasse la Madonna delle Grazie e 15 quadretti tondi raffiguranti i misteri del Rosario) e nella cappella del SS. Sacramento, nella chiesa delle Cappuccine, in quella dei Teatini. Giuseppe Ribera (Spagnoletto, 1588-1652) realizzò un ritratto di S. Francesco Saverio per la chiesa delle Cappuccine e si ritiene possa essere l’autore di varie tele appartenenti a quella che fu la notevole collezione del canonico don Benedetto Ghisolfi, cultore d’arte. Di origine ispanica, dopo proficui soggiorni a Parma e Roma si stabilì definitivamente a Napoli ove conobbe notevole fama. Gian Battista Bolognini (1612-1689), artista particolarmente prolifico a Guastalla, deve la sua capacità alla scuola di Guido Reni, anch’esso bolognese, di cui fu allievo diventando ottimo pittore ed intagliatore. A Guastalla lasciò vari affreschi, un ritratto di S. Carlo Borromeo, un “cenacolo” per l’altare nella cappella del SS. Sacramento in Cattedrale e una pala d’altare per la chiesa principale. Inoltre realizzò la cappella di S. Salvatore nella chiesa dei Servi e un rifacimento di un quadro dedicato alla Madonna e ad alcuni santi, che in origine era stato dipinto da Antonio Gatti con soggetti in parte diversi, una tavola per l’altare maggiore della chiesa di S. Carlo. 47 Lionello Spada (1576-1622) pittore bolognese attivo per diversi anni a Reggio Emilia nei lavori alla Beata Vergine della Ghiara, portò a compimento il soffitto della Sala Dorata allora presente nel Palazzo Ducale. Allievo dei Carracci, frequentò in seguito lo studio del Caravaggio a Roma. Divenne poi pittore alla corte di Ranuccio Farnese a Parma. Giovanni Pozzuoli e soprattutto Giovanni Massa (1659-1741) erano i virtuosi artisti della scagliola carpigiana che per un certo periodo lavorarono in coppia per la creazione degli stupendi paliotti. Il Massa è autore di quelli che ornano gli altari della chiesa dei Servi. Giuseppe Maria Crespi (detto lo Spagnolo, 1665-1747) è l’autore del capolavoro presente nella chiesa dei Servi e dedicato ai “Sette Santi Fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria” realizzato nel 1730 dopo averne ricevuta la commissione da parte del priore del convento. La parte centrale della pala è realizzata su una superficie mobile che occultava una nicchia all’interno della quale era ospitata la statua della Madonna dei sette dolori. Questa statua era esposta solo in particolari momenti ed in quel caso si toglieva la parte mobile del dipinto. Lo stesso Crespi si prodigò per un’operazione di restauro della tela che subì le offese dovute alla presenza della guarnigione di Francesi durante e dopo la battaglia di Guastalla (1734). Nato a Bologna, fu presente in varie città italiane come Venezia, Urbino e Parma. La sua pittura risente degli influssi del Parmigianino e del Guercino. Fu ottimo ritrattista ed anche valente incisore. Francesco Martino Codeluppi, pittore reggiano attivo alla fine del ‘500 e di cui sono note ben poche opere, dipinse la pala dedicata alla Madonna con S. Francesco e S. Bernardino da Siena che era parte fondamentale dell’arredo della chiesa dei Cappuccini (dedicata agli stessi Santi). Pietro Antonio Rotari (1707-1762), conte veronese, dipinse per la chiesa dei Servi un’ottima Annunciazione. Fu pittore di gusto raffinato molto attivo alle corti di Vienna, Dresda e Pietroburgo. FONTI BIBLIOGRAFICHE, DOCUMENTALI e MULTIMEDIALI • AA.VV., Bibliotheca Sanctorum, Roma, 1961 • AA.VV., Emozioni Padane. 1896-1996 cento anni della nostra storia, Guastalla, 1996 • AA.VV., Ex Seminario Vescovile di Guastalla, progetto di restauro, Febbraio 1996, copia dattiloscritta • AA.VV., Guastalla. 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(*) Circa questo argomento è stato consultato nel 1998 anche il seguente sito Internet: http://www.ve.nettuno.it/scuola/pacinott/peste/religione.htm LEGENDA: N.d.A.: nota dell’autore del presente libro B.M.G.: Biblioteca Maldotti di Guastalla RINGRAZIAMENTI Ringrazio vivamente Don Gianni Crotti per la disponibilità, la dottoressa Elena Bacchi per la pazienza dimostrata nei miei confronti durante le ricerche alla Biblioteca Maldotti, Mons. Firmino Scaravelli e Don Wojcheck Darmetko per aver consentito l’accesso all’archivio parrocchiale della Pieve, Don Paolo Pirondini per la squisita cortesia e per le informazioni sulle opere contenute in Duomo, Don Roberto Gialdini per l’importante apporto alla migliore conoscenza delle chiese di S. Rocco e di S. Giacomo, il Dott. Carlo Maestri, il Sig. Amedeo Cani, l’Arch. Massimo Bellini e, per concludere, il puntuale e infaticabile Gabriele Maestri per il lavoro di correzione delle bozze. REFERENZE FOTOGRAFICHE Le immagini pubblicate sono state in gran parte eseguite per l’occasione da Daniele Daolio. Le foto n. xx xx xx sono tratte dalla sezione storica dell’Archivio Fotografico Guastallese. Le foto n. xx xx xx sono state realizzate da Carlo Maestri per A.F.G. 50