Pio Bigo Mi chiamo Pio Bigo Sono nato il 28 marzo del 1924 in Piemonte e precisamente alla Cascina Falchetta nella tenuta della Mandria, allora, proprietà dei marchesi dei medici di Vassello. Mio padre era un contadino. Quando ci siamo trasferiti a Torino alle Vallette, in Piemonte, io ho continuato le scuole là. Sotto la dittatura fascista, c’era il sabato fascista e in quel giorno dovevamo andare vestiti da balilla, poi da avanguardista ecc. All’8 di settembre del 1943 io ero di leva e avrei dovuto presentarmi alle armi nel novembre del 1943… Rinunciai a presentarmi alle armi della Repubblica di Salò e cercai di arruolarmi con dignità e scelta morale nella lotta della resistenza partigiana. Con i miei amici, i miei compagni, ci siamo informati precisamente, e ottenute informazioni su come dovessimo fare, ci siamo recati in treno da Torino e siamo arrivati a Pessinetto in Valle di Lanzo. Il comando ci ha presi in forza, e a noi sembrava di respirare un’altra aria: più pulita, più sana... Tutta la zona era controllata dai partigiani da Lanzo, da Germaniano, fino a tutta la vallata su in montagna. E lì abbiamo … Ci hanno dato un posto a Lanzeroldo, dove ci siamo riuniti. Eravamo una cinquantina di partigiani nelle baite, al freddo. Una volta registrati tutti i nostri nomi al comando, ci hanno mandati in una frazione a Lanzeroldo, oltre al nostro gruppo di cinquanta ragazzi, c’era anche qualche militare… Noi li chiamavamo i nostri padri, perché erano più anziani di noi, ed erano già istruiti ad usare le armi, mentre noi dovevamo ancora imparare… Però eravamo senza armi, aspettavamo sempre che gli inglesi ci mandassero le armi… Mandavano i messaggi con la radio inglese, allora, mandavano dei messaggi come :“A Paolo piacciono le mele”, di cui noi non capivamo nulla, ma erano dei segnali. Infatti ogni tanto ci facevano accendere dei fuochi di notte, e aspettavamo i lanci, che però non arrivavano mai. Abbiamo tribolato tanto… Il 7 marzo ero di guardia, di notte… Ci avevano avvertiti che dovevano venire le SS tedesche a fare il rastrellamento assieme ai repubblichini, dal comando CLN, che si era ormai formato, e noi facevamo turni di guardia di due ore… Il mio turno era dalle cinque alle sette del mattino… Dovevo smontare alle sette meno un quarto: c’era già la colonna a fondo valle che saliva… I repubblichini davanti e i tedeschi dietro… Io ho avvisato i compagni che erano a riposo: “ Stanno arrivando!”. Ci siamo messi ognuno al nostro posto di combattimento, e abbiamo combattuto fino verso le due del pomeriggio, poi sono riusciti a chiuderci a ferro di cavallo e ci hanno bombardato con due apparecchi: noi con quelle poche armi abbiamo fatto miracoli, e quindi dopo abbiamo indietreggiato verso l’alto, dove c’era una chiesa che si chiama Polliano… Lì non c’è stato più niente da fare… Chi è scappato prima, è riuscito a varcare il monte e passare dall’altra parte della Valle, invece io con altri, purtroppo, siamo rimasti accerchiati e non abbiamo più potuto scappare. Ci siamo trovati di notte in un posto in montagna - c’era anche il comandante eravamo affamati e al freddo, c’era solo una baita: chi dormiva nella stalla, chi nel fienile, intanto abbiamo passato la notte; all’indomani, abbiamo dovuto andare a cercare da mangiare… Alcuni compagni hanno preso una mucca, in una stalla di alcuni pastori e l’hanno portata su… Dove erano passati i tedeschi avevano bruciato i paesi, non abbiamo trovato provviste. La sera, dopo aver mangiato quella mucca, squartata alla buona e meglio e fatta bollire, il comandante ci ha detto: “Ho bisogno che qualcuno vada in Valle a vedere se ci sono i tedeschi” . Io ero abbastanza pratico di quelle montagne, quindi sono andato con altri due miei compagni per andare nella Valle…Uno di questi amici era un mio caro amico, Luca Castello – eravamo coscritti - l’altro un certo Emilio, era di Torino…. Adesso non ci sono più… Abbiamo attraversato tutta la costa, e nel tragitto abbiamo trovato un cane impaurito, sperso, l’abbiamo carezzato e ci è venuto dietro: lo abbiamo chiamato Dick. Quando siamo scesi dall’altra parte abbiamo trovato una baita: abbiamo aperto la porta - facendo grande attenzione - abbiamo visto che c’era un camino, abbiamo acceso il fuoco per far asciugare i panni e le scarpe, e al mattino ci siamo svegliati tremendamente affamati. Abbiamo visto che più in basso c’erano dei pastori, siamo scesi e abbiamo chiesto, prima di tutto, se ci fossero i tedeschi e loro ci hanno risposto: “Sì sono lì sotto ,al paese di Tornetti, in Valle”. Allora abbiamo chiesto da mangiare e loro ci hanno portato un po’ di polenta e latte, cose che si hanno in montagna… Ci hanno detto di non andare giù, ma di scappare su per la montagna, perché ci avrebbero presi altrimenti. Noi, semprecon quel cane, siamo passati dietro la casa, per prendere la mula ttiera che saliva per la montagna. I tedeschi ci erano già di dietro e ci hanno sparato: ci siamo messi per terra, abbiamo nascosto quelle poche armi che avevamo, sotto delle foglie secche… Quando sono arrivati ci hanno detto: “Vi arrendete?” e noi abbiamo alzato le mani, perché non c’era niente da fare, visto che loro erano in sedici e noi eravamo in tre, disarmati… Contro un novantuno non potevamo fare niente! Poi un fatto che ci ha fatto capire già qualcosa… Il cane si era spaventato, perché avevano sparato ed era scappato per la montagna: un repubblichino gli ha sparato e l’ha ferito… Il cane guaiva, ed io, che ho sempre amato molto le bestie, sono stato toccato da quel fatto, ho detto: “Ma lui non ha fatto niente di male, è un animale!” ma questo ha detto: “ Adesso vado su e te lo finisco!” e lo ha ucciso… Primo segno di criminalità, poi ci hanno arrestato… Un repubblichino, passando per il sentiero, ha messo il piede sopra il calcio del moschetto e ha cominciato a chiedere di chi fosse il moschetto, poi ci ha messo davanti il plotone per fucilarci, per spaventarci, per farci parlare…Noi non parlavamo, non avevamo niente da dire, non sapevamo neanche chi erano i nostri capi… Da una parte è stato meglio così, che non potessimo dire niente. Il compagno che aveva il moschetto dice : “L’ho preso per la difesa della notte”. Io avevo le bombe a mano, ed erano le bombe a mano tedesche, e mi hanno chiesto: “Cosa ne facevi di queste bombe?” E io ho riposto: “ Erano per la difesa della notte”. L’altro amcio aveva una pistola e ha risposto nello stesso modo nostro… Insomma li prendevamo in giro, e quindi ci hanno portato giù al paese dei Tornetti… Lì ci hanno picchiati a sangue, poi hanno rubato le provviste dei pastori che avevano in casa… Le donne urlavano… Poi hanno preso i pastori per farci fare da guida, ci hanno portati a fondo valle, dove c’erano le camionette, su cui ci hanno caricati, e ci hanno portati alle scuole di Lanzo torinese. Lì abbiamo passato una notte: ci hanno picchiati, ci hanno fatto mettere con le mani contro il muro e ogni tanto passava qualcuno, che ci dava delle pedate e degli schiaffi sulla testa, siamo stati torturati. Il giorno dopo ci hanno caricato sui camion e ci hanno portato alle carceri di Torino. Nel tragitto ci hanno fatto fare corso Regina, Porta palazzo, Via Roma, porta Nuova, giro di propaganda per la città dicendo che avevano preso i banditi: ci chiamavano banditi… Poi siamo arrivati davanti al carcere di corso Vittorio, a Torino, e ci hanno rinchiusi dentro nelle celle numero 10 e 15, nel braccio tedesco, politico della Gestapo. Lì siamo stati interrogati, picchiati, malmenati, torturati… Sono ricordi, purtroppo, anche dolorosi… Nella notte, verso l’una, è suonato l’allarme, ricordo la prima notte in cui siamo stati lì… C’è anche stato un bombardamento, da parte degli americani. Lì siamo stati fino al 13 di marzo… Quel giorno, al mattino, assieme a noi hanno messo quelli, che avevano arrestato i primi di marzo per gli scioperi nelle fabbriche: alla Fiat, alla Spa e alla Lancia gli operai avevano organizzato uno sciopero di protesta contro questa dittatura. C’erano già, tra l’altro, prigionieri politici in carcere, che venivano da Cuneo da Saluzzo, dai dintorni... Ci hanno portati tutti sotto e ci hanno caricati sui camion. Abbiamo percorso Corso Vittorio fino a Porta Nuova, dove vedevo che c’era molta gente, che ci guardava…Madri di famiglia vedevano noi ragazzi giovani, poi c’erano i loro mariti, che erano stati presi nella notte, perché avevano scioperato… Chiamavano i loro mariti… Era un viaggio da tragedia... Io queste cose me le ricordo bene. Siamo entrati nella stazione, c’era una tradotta che ci attendeva, su cui ci hanno caricati. Su quei vagoni c’era scritto “cavalli 8, persone 40”, nell’angolo c’era una tinozza per i bisogni… Ci hanno fatto partire alle quattro e mezza del pomeriggio… Siamo arrivati a Bergamo, dove ci hanno fatti scendere, lì siamo rimasti due-tre giorni, perché hanno concentrato lì quelli, che avevano arrestato nei pressi di Milano, specialmente, alla Caproni… Erano quelli che avevano scioperato, quelli che erano contro insomma…E poi anche da Brescia sono arrivati in diversi… A Bergamo ci hanno messo in una caserma della cavalleria, che si chiamava Umberto I. Lì c’erano dei genovesi di Savona, c’erano milanesi, ricordo tanti nomi di Milano, che sono stati con me: Carlo Novazzi, Guido Bortolotto, Ottolini, Malaguti, che era di Torino e lavorava alla Michelin… Era tutta gente molto più grande di noi, li chiamavamo i nostri padri… Il giorno 17 ci hanno fatti partire, noi pensavamo che ci portassero in Germania a lavorare, perché si sentiva... Ci hanno fatti partire inquadrati per cinque, siamo arrivati di nuovo alla stazione di Bergamo, ognuno portava con sé la sua tristezza: i padri di famiglia pensavano ai loro figli… I tedeschi ci hanno fatto un discorso prima di partire, un ufficiale tedesco ha detto : “Vi porteremo tutti a lavorare per la grande Germania, per il nostro Fuhrer e state attenti a non scappare, perché noi abbiamo il vostro indirizzo e faremo rappresaglie sulle vostre famiglie”, questo me lo ricordo benissimo, l’ho anche scritto. Siamo arrivati alla sera del 19 - mi sembra - a Mauthausen. Lungo tutto il tragitto siamo passati a Tarvisio nel Friuli, ricordo che a Verona e a Casarza abbiamo buttato giù dalla tradotta dei bigliettini, che avevamo scritto… Io ne avevo scritti due o tre e a casa mia avevano detto che li avevano ricevuti, ma non me li hanno mai fatti vedere… Quel viaggio è stato molto sofferto da tutti perché noi giovani cercavamo di scappare, invece i padri di famiglia ci intimavamo di non farlo, perché era pericoloso, non solo per noi, ma anche per la nostra famiglia. Posso dire, quindi, che nel mio vagone nessuno è scappato, perché non abbiamo avuto la possibilità. Siamo arrivati a Mauthausen, alla stazione… Quello che posso ricordare dopo un viaggio sofferto e patito… Siamo arrivati in una terra dove non si capiva neanche chi ci parlava, davano degli ordini in quella lingua, che noi non conoscevamo e non capendo stavamo fermi e loro ci picchiavano a morte. Scesi dal treno, ci hanno inquadrati per cinque… Vicino a me, c’era un tizio, era un infermiere che lavorava all’ospedale qui di Torino, al Mauriziano: l’avevano arrestato perché portava una camicia di colore rosso. Quando siamo arrivati a Mauthausen, più avanti ha visto che c’era suo figlio, Afro, lui l’ha chiamato, si sono abbracciati e poi ha detto: “Ma guarda, dove ci troviamo… Io nella guerra mondiale del ‘15-‘18 sono stato ferito e nell’ospedale in Italia, in cui mi avevano portato, ho sentito dire che i prigionieri militari li portavano a Mauthausen… E adesso qui sono arrivato con mio figlio…” Io con loro ho vissuto una storia, l’ho anche spiegata… Ci hanno portato a Mauthausen, dove abbiamo subito le pene dell’inferno, arrivati - dove adesso ci sono i monumenti - sia a destra che a sinistra c’erano le baracche delle abitazioni dei guardiani delle SS, che ci buttavano addosso catini di acqua, che usavano per farsi la barba, sputi, ci tiravano addosso qualsiasi cosa, ci chiamavano “banditi, traditori italiani, fascisti traditori, comunisti” e via dicendo… Poi una volta entrati, ci hanno messo lì di fianco ad un ufficiale - tra il muro dove adesso ci sono delle lapidi -in attesa del bagno, della doccia. Io ero giova ne, allora, non ho potuto vedere le donne, non mi ricordo…Però so di gente: ad esempio c’è un avvocato - che adesso non c’è più - di Cuneo, Bonelli, che l’ha anche scritto questo, che c’erano delle donne… Mi sembra diciassette o trenta, non mi ricordo più, però io personalmente non ho visto donne. Non lo nego, se l’ha detto è perché c’erano… Quando ci hanno messi in colonna, per aspettare la doccia, un ufficiale ci ha detto che il portone, da cui siamo entrati, era la porta per entrare e uscire per andare a lavorare; poi si è girato, sempre con quell’italiano mal parlato e qualche parola in tedesco, ha puntato il dito verso la canna del forno crematorio - che allora non sapevamo neanche cosa fose -, che fumava, e ha detto: “ Quella è la strada per andare a casa vostra”. Queste sono le battute che mi ricordo bene. Poi ci hanno svestiti… Quello che ricordo io, ad esempio, è che mi hanno spogliato sopra, dove adesso esiste una cappella cattolica: allora era divisa in due parti, da una parte c’erano le SS, blocco scrivani ed altri… La prima parte era vuota, faceva freddo, nevicava, ci hanno fatti salire lì e ci hanno detto di lasciare la nostra roba lì a terra, prima della doccia, oro brillanti, e tutto quello che avevamo… Dovevamo lasciare tutto nelle tasche, perché dicevano che loro avevano il nostro indirizzo ed avrebbero mandato tutto a casa nostra: queste sono le cose che ricordo con tanta lucidità. E con memoria visiva. Poi nudi ci hanno fatto andare di sotto, c’era una fila di Friseur , cioè barbieri, che con una macchinetta ci rapavano i capelli, e chi aveva la barba lunga anche la barba, poi passavano il rasoio, poi facevano la lagerstrasse in mezzo alla testa col rasoio e poi prima di entrare nella doccia con un pennello ci disinfettavano tutte le estremità superiori e inferiori, con dei liquidi che bruciavano da morire. Ho visto delle cose che non mi va neanche di raccontare… Quando ci hanno spogliati, c’erano degli uomini che piangevano e dicevano: ”Era il regalo che mi aveva fatto la mia Rita” e altri dicevano cose simili, mentre noi giovani non avevamo nessuno… Io avevo il pensiero della mia ragazza, che mi aveva regalato il maglione per andare nei partigiani. , Ci hanno spogliato di tutte queste cose, le nostre cose care, a cui tenevamo… Avevamo una catenina d’oro di poche lire, che ci aveva regalato il padrino della cresima, insomma tutti i ricordi… Ci hanno spogliati di tutto. Siamo stati nudi come mamma ci ha creato, dal ragazzo di diciasette-diciotto anni al vecchietto di settant’ anni, eravamo tutti uguali. Noi non eravamo abituati a presentarci nudi, soffrivamo un po’ di vergogna… Poi una volta passata quella famigerata doccia, e i bruciori infernali, nell’uscire ci hanno dato una camicia e un paio di mutande, di tela, che dovevamo indossare immediatamente e poi prendere un paio di zoccoli che ci davano anche spaiati e metterli ai piedi e salire sopra al freddo. Sopra dovevamo aspettare almeno di essere incento-centocinquanta, prima che ci portassero via: lì prendevamo freddo da morire, i primi malanni sono successi alle persone più deboli, subito due-tre giorni dopo. Abbiamo passato quattro giorni di quarantena con delle botte, trattamenti ingiusti, trattamenti infernali… In quella quarantena abbiamo sofferto, perché arrivando da casa nostra, di fatto, da una vita normale, ci siamo trovati là, trattati peggio delle bestie… Non avevamo più il nostro nome, ci chiamavano con un numero che noi non conoscevamo… Dopo quattro giorni di quarantena, maltrattati a morte - dormivamo per terra, tutti stretti come le acciughe - un mattino ci hanno portato il vestito a righe con un berretto e ci hanno portato a Gusen 1, dove ci hanno messi in un campo a lavorare per costruire Gusen 2… E’ stato il momento più massacrante, in quanto non abituati… Eravamo tutti sofferenti, dal contadino, all’avvocato, all’insegnante, al professore, eravamo trattati tutti nello stesso modo… Poi la Pasqua… E’ arrivata la Pasqua. 58719 era il mio munero. E in tedesco venivamo chiamati con un nome diverso, l’avessero almeno chiamato in Italiano… A Gusen il mattino, ci portavano a lavorare dopo l’appello, a fare lavori di campagna: spalare terra, spingere carrelli, lavori pesanti, sotto la pioggia, sotto la neve, nel fango… Ci chiamavano, con un nome in tedesco, che noi non conoscevamo e allora loro ci giravano attorno, poi avevano delle gomme con dentro dei cavi di rame e di piombo e picchiavano a morte… Se uno magari era un po’ robusto, li sopportava, ma se era una persona già anziana, piena di acciacchi, il giorno dopo era nel forno crematorio. Lo vedevamo steso nel Waschraum, cioè nelle latrine, in un angolo, alla sera, morto… Con il numero scritto sul petto di traverso… Scrivevano con una matita copiativa, scrivevano il numero e lo scaricavano poi al forno crematorio il morto. Succedeva spesso a causa di errori del capoblocco, che non l’aveva scaricato che l’appello durasse delle ore, per trovare lo sbaglio…Non si sapeva dove era andato a finire quel prigioniero, e noi dovevamo restare sotto la pioggia, al freddo, sotto la neve, perché mancavano due “Stück”, perché noi venivamo chiamati “Stück”. Per esempio a Mauthausen le SS ricevevano degli ordini, allora erano più di quaranta sottocampi di lavoro in Austria, dove ci mandavano ed erano gestiti dalle imprese… Ad esempio a Linz ce n’erano tre: Linz 1, Linz 2, Linz 3. Io sono stato a Linz 1 poi a Linz 3, quando telefonavano da lì che avevano bisogno di persone, non dicevano duecento uomini, ma duecento Stück, ovvero duecento pezzi: noi eravamo diventati dei pezzi di lavoro. Destinati certamente, poi, a morire e passare per il forno crematorio. Questo era il sistema nazista, quando l’abbiamo capito era tardi… Tante volte ho pianto sulla piazza d’appello, quando vedevo impiccare, morire ragazzi perché erano stati messi a fare un lavoro che non erano capaci di svolgere, e sbagliandolo venivano considerati come sabotatori: venivano impiccati sulla piazza d’appello davanti a noi tutti. Quante volte un padre ha visto suo figlio impiccato o il figlio ha visto impiccare suo padre... Quando arrivava la domenica, nei sottocampi, le guardie delle SS dovevano avere un divertimento, e siccome a loro piaceva vedere lo sport, il pugilato, obbligavano questi detenuti a picchiarsi…Li addestravano… Mi ricordo un certo Mugnaini, era di Firenze, era l’unico che aveva fatto il pugile nella sua carriera era del ‘15, ed era molto più anziano di me… Aveva nove anni più di me, io allora avevo venti anni e lui ne aveva ventinove… L’abbiamo pregato,gli ho detto: “Fai tu il pugile, al posto degli italiani, tu hai fatto il pugile!”. Era magro, così piccolino… Quando hanno cominciato a fare l’incontro a eliminazioni: nazioni contro nazioni, francesi contro italiani, polacchi contro francesi, russi… C’era tutta l’Europa lì… Hanno fatto spazio davanti alla baracca e c’erano tutti questi ufficiali e gendarmi delle SS che guardavano… Noi guardavano da fuori, dai vetri, con rancore a vedere i nostri compagni… Anche questo era un sistema per eliminare… Questo succedeva a Linz 1, un campo che, verso la fine di giugno, è stato eliminato dai bombardamenti, in cui sono morti diversi prigionieri anche… Io, per fortuna, lavoravo di giorno ed ero in fabbrica: ci hanno fatto attraversare uno stradino, ci hanno portato sotto un rifugio,e mi sono salvato da quel bombardamento. Eravamo continuamente soggetti ai bombardamenti, lavoravamo per costruire e dopo due o tre giorni arrivavano e bombardavano di nuovo, questo era il sistema… Io facevo il saldatore, ero già meccanico, quindi è stata una sciocchezza, per me, fare il tornitore, conoscevo il disegno, lavoravo già al tornio, alla rettifica e tutto quanto, poi sono passato al ramo saldatura, ma era stata una sciocchezza, anche quella, in quanto ero già capace anche di saldare. E saldavo anche bene: mi sono guadagnato il posto di saldatore, facendo dodici ore di lavoro massacrante, sempre con turni diurni o notturni a settimane alterne. Il campo era proprio davanti al reparto, era vicinissimo: saranno stati cento metri. Il magazzino delle lamiere, finiva quasi al confine con il campo… Erano tre baracche - l’ho disegnato anche sul libro, perché ho fatto tutti i disegni dei campi, in cui sono stato - : una di qua, l’altra di là e l’altra per traverso, così la terza era la cucina e il magazzino dei viveri. Saremo stati settecento-ottocento deportati forse, anche mille certe volte, ma non di più perché non aveva la capienza. A Linz 1 sono andato dopo Gusen 1, poi da Linz 1, dopo il bombardamento, ci hanno trasferiti a Linz 3. Linz 3 era un campo un po’ più in basso, un paio di metri, la strada andava leggermente in discesa: appena entrati a sinistra c’erano le cucine, e poi in fondo c’era la piazza dell’ appello, a metà si girava a sinistra dove c’erano venti baracche… Quest’anno abbiamo trovato il posto esatto, tramite una professoressa che vive in Austria, una storica, e siamo andati lì con gli studenti… C’è anche la foto del campo con le venti baracche, che erano dove le avevo disegnate io, mi ricordavo… Queste venti baracche erano tutte in fila e davanti allo stradino, che bisognava attraversare per andare a fare i nostri bisogni alle latrine, o a lavarsi… Erano delle baracche quadrate, ogni tre baracche avevamo questo servizio, però in ogni baracca c’erano minimo seicento prigionieri. Linz 1 era poco distante da Linz 3, ci saranno stati tre chilometri su per giù, che io ricordi . Però andavamo sempre a lavorare nella stessa fabbrica. Da quando sono stato a Linz 3, il mio lavoro è durato fino a dopo il 20 di novembre del 1944… I bombardamenti avevano quasi distrutto completamente l’industria bellica, e allora un mattino ritornando dal lavoro, dopo l’appello, sono entrati degli ufficiali delle SS, con i gendarmi col mitra e hanno diviso, hanno selezionato i prigionieri... Noi osservavamo senza sapere cosa succedeva. Quelli che aveva no mandato a destra li hanno mandati in baracca a dormire, quelli che avevano mandato a sinistra sono saliti su dei camion… Io ero tra questi: ci hanno caricati sopra e ci hanno portati di nuovo a Mauthausen. Io in quel periodo, lavorando in fabbrica, ho conosciuto dei militari italiani e avevo avuto modo di avere un piccolo quadernetto - qualche foglio di quaderno piegato, che mi tenevo in tasca - con una matita copiativa, con cui prendevo degli appunti. E avevo capito che andavamo a Mauthausen, una volta salito sul camion e allora quegli appunti… Tutte le memorie, nomi di compagni italiani e stranieri, le date delle impiccagioni, tutto tutto quello che succedeva... Li buttati dal camion perché avevo paura di... Li ho buttati dal camion, però mi è rimasto impresso nella memoria, quello che avevo scritto… Arrivati a Mauthausen ci hanno spogliato di tutto… Ormai, erano otto mesi che avevamo i vestiti strappati addosso, pieni di pidocchi e, quindi, siamo di nuovo passati alla disinfezione, ma questa volta invece di usare il pennello ci hanno buttati dentro una vasca di creolina o cosa era, dove abbiamo immerso anche la testa e gli occhi bruciavano… Poi siamo passati alla doccia, ci hanno dato un altro vestito,e il giorno dopo, assieme a tantissimi altri, che erano arrivati a Mauthausen da altri campi, malandati di salute, deperiti, ci hanno caricati su una tradotta e siamo arrivati a Birkenau… Destinazione ignota, nessuno sapeva dove ci portavano… Siamo arrivati a Birkenau… Pare l’1 o il 2 di dicembre, però a mia memoria siamo arrivati qualche giorno prima, anche perché, a volte, le registrazione venivano fatte dopo l’arrivo. Siamo arrivati in quel grande lager e ci ha impressionato per la grandezz,a per quello che vedevamo… A sinistra c’erano tutte donne, che tiravano dei carri di patate, di verdure, e la kapò e gli ufficiali, che ridevano e facevano frustare queste donne, come schiave, rapate a zero. E noi purtroppo avevamo già subito queste umiliazioni prima, ma capivamo che lì era ancora peggio. Poi lì passavamo davanti all’ufficiale dottore, dicevano delle SS, e ti davano una destinazione sinistro o destro. Nessuno di noi poteva sapere cosa succedeva ad andare a sinistra o destra, ognuno di noi oramai abituati a questo trattamento, avevamo già fatto l’abitudine… Fortunatamente sono stato mandato a destra… Finita la selezione, ci hanno mandati un po’ distanti qualche chilometro, in un posto dove ricevevano i prigionieri e lì siamo passati prima di tutto alla spoliazione, poi ci hanno fatto il tatuaggio sul braccio e ricordo che c’era l’ufficiale, che teneva la lista in mano del trasporto… Con noi c’erano anche degli ebrei, specialmente ungheresi, perché si distingueva dal modo di parlare e questi ebrei venivano immatricolati di sopra, mentre gli ariani venivano immatricolatida un’altra parte. Sono stato assieme a tanti ebrei, ma non ho mai visto un ebreo immatricolato da questa parte… Questo è stato un ricordo che mi sono sempre tenuto per me… Quando siamo tornati, non potevamo raccontare queste cose, perché nessuno ci credeva! Quando siamo arrivati a Birkenau il treno si è fermato dentro, ha fatto una grande curva molto grossa, perché arrivava diritto ed è entrato nel lager fino in fondo…Là c’erano due o tre binari, arrivavano immediatamente i convogli. Mi ricordo che alla sera, era già notte, finita la doccia e l’immatricolazione, anzi no prima l’immatricolazione poi la doccia, perché hanno detto che questo doveva asciugare…Non dovevamo fregare con il dito, sennò erano botte… L’immatricolazione ce l’hanno fatta in piedi… Mi hanno fatto mettere il braccio appoggiato a qualcosa lì…C’era un prigioniero era da una parte, che scriveva, poi c’era quello che era più abile, e che faceva il tatuaggio… Chi l’ha fatto a me era uno specialista, poi ce n’erano degli altri che lo facevano più rosso… Perché erano tutti prigionieri che facevano quello, non erano guardie… Erano tutti deportati, ognuno aveva un compito ben preciso, anche ad esempio, si è saputo dopo.... Gli addetti a fare quel lavoro dei forni crematori, tirare fuori i cadaveri dalle camere a gas, erano tutti prigionieri, figuriamoci cosa potevano provare in quel momento… Oltretutto potevano avere una vita di due o tre mesi, non di più, perché poi li cambiavano: non ci dovevano essere testimoni che raccontassero queste cose, era una cosa studiata a tavolino perfettamente, perché lo sterminio lo facevano fare agli stessi prigionieri. Sono rimasto poco a Birkenau, tre o quattro giorni per la quarantena, in una baracca, poi per il primo trasporto che c’è stato hanno chiamato il mio numero e a piedi ci hanno trasferiti a Auschwitz 3 cioè a Monowitz. 201561 è il mio numero di Birkenau, in tedesco veniva chiamato diversamente (dice in tedesco), e quindi ho dovuto anche memorizzare, ormai conoscevo la lingua già abbastanza bene, perché se uno non capiva cosa succedeva quando chiamavano il suo numero – perché noi eravamo solo dei pezzi, non più creature umane – erano botte da orbi. Ci avevano preso in giro strada facendo, le SS sorridendo , ci chiedevano - in tedesco - chi fosse capace a fare il cuoco. Tutti eravamo capaci a cucinare, loro ridevano, ce l’avevano detto apposta, perché ci avevano promesso che ci mettevano tutti a lavorare a far da mangiare in cucina o pelare patate. Strada facendo eravamo abbastanza contenti, poi quando siamo arrivati là, abbiamo conosciuto la tortura del lavoro… Ci hanno messi in un campo dove dovevamo spalare terra gelata, battere tutto il giorno nel ghiaccio, perché lavoravamo a ventidue o anche a diciotto gradi sotto zero in inverno, tanto di quel freddo… Ogni tanto moriva qualcuno… Avevamo la gamella legata dietro alla schiena all’altezza della natica, perché dovevamo avere la gamella per prendere quella brodaglia, che ci davano a mezzogiorno, allora ci facevano uscire dal vagone impolverati e non sembravamo neanche più persone, avevamo il cemento incollato dappertutto e la gamella figuriamoci… Secondo loro noi avremmo dovuto mangiare quella brodaglia nel cemento, e allora cercavamo… Fortunatamente c’era la neve: prendevamo la neve da sotto i piedi e ci pulivamo la gamella, e poi con il gomito l’asciugavamo un po’, la pulivamo come potevamo… Eravamo sempre sporchi, luridi, perché non avevamo mezzo di cambiarci, oltretutto dovevamo lavorare sotto la pioggia, sotto la neve, e insomma è stata una cosa che a raccontarlo non sembra vero… Eppure io sono ancora qui a raccontare queste cose… Ad Auschwitz 3 lavoravo in un cantiere, dove stavano costruendo dei capannoni di cemento, portavamo e scaricavamo il cemento sfuso, facevamo delle buche, insomma era un cantiere grande che stavano ampliandolo per fare dei capannoni bassi… Per una impresa che montava dei piccoli capannoni, per la IG Farben… Quando non ci facevano spalare il cemento sfuso, alla Buna, portavamo delle travi di cemento armato erano pesanti e dovevamo portarle a spalla e io ero assieme a quattro o cinque italiani, che erano friulani. Mi ricordo benissimo, tre erano friulani, uno era il padre, e altri due erano i suoi figli, due fratelli, quando prendevamo queste travi sulle spalle, il padre era uno molto alto e magro - per forza era magro, poverino, soffrivamo tutti la fame - e ogni tanto si sentiva più peso addosso e noi non ci arrivavamo tutti a ... Si sentiva stroncare e allora nel dialetto friulano diceva: “Ostrega, Bettin te m’accoppi, te m’accoppi”, e noi facevamo tutto il possibile per arrivarci su, e lui si abbassava e il figlio gli diceva:” Abbassati papà, abbassati papà che ci dai più peso a noi”, lui poverino faceva in modo di ... Abbiamo sofferto le pene dell’inferno, cose che nel mondo d’oggi, purtroppo, ogni tanto si sentono ancora: sono cose vergognose. A Monowitz, alla Buna, andavamo a piedi dal campo alla fabbrica, non eravamo portati con i camion e automezzi, tre o quattro chilometri al massimo…Adesso, a distanza di tanti anni, è difficile calcolare proprio con esattezza… A piedi in mezz’ora-tre quarti d’ora, si arrivava: noi lavoravamo fino alle sei di sera, alle sette c’era l’appello, quindi alle sette eravamo già in campo per l’appello. Certo è che dovevamo fare una strada nel ghiaccio, dove i primi giorni di gennaio già vedevamo delle colonne di tedeschi che si ritiravano, e sentivamo già i cannoni suonare il fronte che era vicino… C’erano anche delle imprese che avevano del personale civile, e dei prigionieri militari, i civili polacchi cercavano di prestarsi per darci aiuto, infatti ogni tanto ci lasciavano scorrere un pezzo di pane, lo buttavano a terra e chi arrivava prima lo prendeva. Ma ad Auschwitz 3, alla Buna, nello stabilimento, c’era poi anche gente che lavorava nell’industria chimica, come forse Primo Levi… La sua fortuna è stata che aveva una laurea e riusciva a farsi capire, a parlare abbastanza bene il tedesco. Il mio lavoro, allora, era un mestiere di prestigio…Fare il tornitore, allora, voleva dire conoscere il disegno, e fare tutti i pezzi per montare un apparecchio. Però da meccanico che ero mi hanno poi in ultimo destinato ad un lavoro pesante, massacrante, di manovalanza… Infatti mi è successo che posando una trave per terra, con questi miei compagni di lavoro, mi è andata sul piede destro: un incidente che mi ha segnato il piede per tutta la vita, finchè, fortunatamente, nel ’97 ho trovato un dottore francese, che è riuscito a mettermelo a posto con un intervento…Fino ad allora avevo sempre portato delle scarpe con tre numeri in più sennò non potevo camminare. Dopo il colpo della trave, ho sofferto le pene dell’inferno per arrivare la sera a casa, cioè a casa, nel campo di concentramento! Non potevo più camminare, ero sorretto dai miei compagni, perché io non mi arrendevo, avevo coraggio, mi facevo coraggio, mi facevo forza… E quando sono arrivato in baracca mi hanno mandato all’ospedale, e lì l’infermiere o il dottore che mi ha preso in cura mi ha medicato i piedi, tutti e due perché anche il sinistro era un po’ colpito, ma solo sull’alluce invece il destro era molto rovinato, io temevo che fosse rotto… Quando me l’ha fasciato, poi, con della carta, mi ha detto qualcosa in polacco che io non ho capito e dicevo: “Nicht verstehen” , parlavo in tedesco, dicevo che non capivo ; in realtà, in polacco qualche parola la capivo, ma dicevo che non capivo. Lui è andato fuori, poi è tornato dentro con uno che parlava bene l’italiano, un prigioniero come me, quando è stato lì mi ha detto: “Sei italiano?” e io ho risposto: “ Sì” . “Di dove sei?”. “Di Torino”, mi ha guardato : “Sei ebreo?”. “No, sono cattolico, ho il triangolo”, e mi ha detto: “Mi ha detto il dottore di dirti che non c’è niente di rotto, però ti tiene qui due-tre giorni, perché non puoi camminare, col piede che hai, va a finire che... Infatti mi ha dato un posto per dormire tutto per me, dove ho dormito due o tre giorni, giorno e notte, e quando era ora della zuppa me la portavano. Due giorni dopo, mentre andavo alla medicazione, ho incontrato nel corridoio questo italiano… La curiosità di entrambi, ci siamo incontrati con lo sguardo, ci siamo salutati e poi gli ho detto: “Ma tu di dove sei?” e mi ha risposto: “Anche io sono di Torino , sono ebreo, sono stato arrestato in montagna, e adesso mi trovo qua, fatti coraggio, vedrai che tutto finisce presto”. E’ finita il 17… Il 16 sono uscito nel pomeriggio, con il piede fasciato, avevo avuto la fortuna di avere un paio di scarponi ancora in buono stato… Il 17 siamo partiti, eravamo almeno la metà dei prigionieri che c’erano lì, ci hanno fatto partire per l’evacuazione del campo… Per tutto il periodo della mia permanenza di sedici mesi nei campi di sterminio da Mauthausen fino alla fine, non abbiamo mai potuto scrivere a casa - questa discussione poi l’ho anche intrapresa con Alberto Berti, quando m’ha detto che lui scriveva e riceveva i pacchi da casa -, ho detto non bestemmiare, perché a me non era mai successo, a nessuno di noi italiani… C’era qualche francese che poteva scrivere a casa, ma non tutti… C’erano i cecoslovacchi che scrivevano a casa e ricevevano i pacchi, c’erano i polacchi che scrivevano e ricevevano i pacchi, ma più tanto di lì… Per quello che so io… A Buchenwald poi ricordo di avere visto dei ragazzetti, quando sono arrivato io, ce n’erano parecchi, arrivati da Auschwitz, non ricordo bene la baracca in cui erano mi sembra la 17, dove c’era anche Sabatino Finzi che per scherzo chiamava quella baracca “hotel tre stelle”. Io, però,non ho mai visto donne, non ricordo di aver visto donne, senz’altro ci saranno state … Perché ho sentito anche di testimonianze di donne che sono state a Buchenwald… Invece ricordo che c’erano dei religiosi…Ad esempio, a Linz, c’era un ragazzo greco di Salonicco, molto bravo, non mi ricordo di che religione fosse… So che digiunava al giovedì… Mi voleva bene, parlava correttamente l’italiano, ed ogni giovedì mi dava la sua zuppa e anche il pane. Io gli dicevo di avanzarlo per l’indomani, ma lui diceva di no, che la sua religione non glielo permetteva… Non mi ricordo più il suo nome perché sono passati tanti anni, ma di questo ragazzo mi ero scritto tutto in quel memoriale, che poi ho dovuto buttare via sul treno… A Linz 3 una domenica, eravamo un gruppo molto affiatato di tutti italiani, che lavoravamo nello stesso comando, e c’era uno di Bergamo, Obert si chiamava… Poi c’era Malaguti, i nostri padri anziani, poi c’eravamo noi giovani e ad un certo punto abbiamo intonato la canzone “Mamma”, e quando abbiamo cantato si sono avvicinati a noi i russi e i polacchi a cantare, ma cantavano nella loro lingua, facevamo la stessa tonalità. Finita la canzone, da una garitta, un SS anziano, che era là, ha sentito cantare e ha detto: “italiena...” e noi abbiamo guardato, abbiamo sentito, abbiamo pensato a un richiamo ufficiale ci siamo spaventati un po’… Poi Obert questo bergamasco - che era di Bergamo di “hura”,diceva! si è avvicinato e gli ha detto: “Bitte, tutti voi italiani venite qui sotto e cantate “ . E allora noi abbiamo cantato la canzone, poi ci ha chiesto di cantare “Lili Marlene”, e noi gli abbiamo detto che non la sapevamo, anche se non era vero… in quell’occasione mentre cantavamo, io notavo che ogni tanto si asciugava le lacrime, e poi, ad un certo punto, ha preso uno di quei pani che aveva nello zaino con un pezzo di salame… L’ha avvolto dentro un pezzo di carta e poi ce l’ha buttato giù e l’ho preso proprio io… E questo è vero: bisogna dire tutto il bene e il male… Tanti anni dopo, dopo il processo di Norimberga, in un viaggio che abbiamo fatto nel 1983, il primo viaggio, in cui si sono mossi gli storici , abbiamo poi incontrato dei civili a Norimberga… Tramite un interprete tedesco che avevamo assieme, gli abbiamo chiesto se loro erano al corrente di tutte quelle orribili cose che ci avevano fatto, visto che ci vedevano lavorare,passare per le stazioni… Loro hanno detto di no, che non erano al corrente, non potevano sapere, in realtà c’era una disciplina che faceva paura - questo è vero - che però non potevano dire che non sapevano, era impossibile che non lo sapessero… Lo condividevano diciamo. Poi ritornando sul periodo della liberazione di Buchenwald, io ho un ricordo molto vivo in quanto l’11 di aprile di tre anni dopo - ero già sposato -, proprio all’una meno un quarto è nato mio figlio… Tre anni dopo esatti…E lo tenevo in braccio io … Mi è venuto in mente dov’ero e cosa facevo tre anni prima e l’ ho detto a mia moglie…Non si possono dimenticare quelle cose, che poi erano ancora fresche,essendo passati solo tre anni… Io pur avendo queste memorie, non avevo mai scritto, le raccontavo ogni tanto, ma nessuno mi dava retta, quindi un bel momento ho scritto. Nel 1986 incontro nel congresso a Torino, Primo Levi, ci mettiamo a parlare, e gli ho detto che c’ero anche io alla Buna, ci siamo abbracciati, gli ho fatto vedere la matricola… Gli ho spiegato l’affare dell’ospedale, e lui mi ha detto: “ ma io mi ricordo: eri tu quel ragazzo?” . “Si ero io”. E allora tutte queste memorie conservate mi sono servite quando ho conosciuto un professore tanto caro, che mi ha aiutato a realizzare degli scritti e penso che ne valga la pena, perché anche dopo nel tragitto della marcia della morte… Tutti quelli che sono morti uccisi per le strade… Prima li caricavano su delle slitte, le cosddette troike, li buttavano lì come dei sacchi di patate, e poi han fatto delle fosse comuni… Li buttavano dentro, li seppellivano lì, queste cose sono rimaste, sono ancora là da vedere… Adesso le abbiamo trovate. Quando ci hanno evacuati, non potevamo sapere dove eravamo diretti, era una destinazione ignota, sapevamo che ci portavano all’interno della Germania… Potevamo pensare, però nessuno di noi sapeva, il giro che ci hanno fatto fare… I chilometri, so che abbiamo camminato tanto, tanti sono morti per sfinimento, li hanno uccisi, perché non potevano più camminare, e poi siamo arrivati al 19 di sera, siamo arrivati a Gleiwitz, dove c’era un piccolo campo già evacuato… Ci saranno state dieci o dodici baracche, noi eravamo novemila o diecimila, chi lo sa, dalla colonna si capiva che eravamo in tanti. Arrivati a Gleiwitz eravamo in molti molti di meno… Siamo entrati in quel campo, ed i primi che sono entrati nelle baracche ci sono rimasti, ma eravamo in tanti e non c’era posto per tutti, così in molti siamo rimasti fuori. Qui dovrei raccontare delle storie che sono molto pesanti… Al mattino del 21 di gennaio si sentiva una locomotiva fuori nelle vicinanze, che si muoveva e poi sono rientrati nel campo il comandante con le SS e i gendarmi. Ci hanno spinti tutto in fondo al campo così ammassati, poi ci hanno obbligato a passare dietro le baracche e il filo spinato, dove c’era un corridoio di un metro e mezzo, in fila indiana, e quando arrivavamo all’ultima baracca comandante delle SS e gli ufficiali scartavano: destra sinistra, loro decidevano chi poteva ancora sopportare un altro viaggio in tradotta o chi era oramai alla fine… Mandavano in mezzo alle due baracche chi era alla fine, e c’era già un certo numero di prigionieri lì - io adesso non posso fare il numero perché è difficile - e quando passo io, zoppicando, si vede che loro hanno detto “Questo qui bisogna eliminarlo”, e mi hanno mandato a sinistra. Io sono andato a sinistra, ormai ero stanco, non ne potevo più, ero stanco, sfinito: non me ne importava più di morire, ormai ero rassegnato… Ero lì, con gli altri: chi piangeva, chi borbottava, ognuno diceva la sua, ad un certo punto il mucchio è aumentato, e alcuni cercavano di scappare, ma le SS con i mitra sparavano nelle gambe… Qualcuno è stato ferito, piangeva, urlava, era una cosa tremenda… Raccontarlo proprio come l’ho vissuto non si può… Mentre ero lì, vidi un italiano, che conoscevo già da Mauthausen, si chiamava Pasquale, era di Latina, e aveva subito il trasporto mio, la stessa tranche diciamo… Ci siamo incontrati ci siamo abbracciati e lui fa: “E’ finita, andiamo in baracca prima di morire, che qui fa freddo”. Faceva un freddo terribile, ci siamo seduti su un pagliericcio di quei castelletti a tre piani, e abbiamo visto che davanti a noi c’era una divisa da prigioniero francese col triangolo francese… L’abbiamo guardata e abbiamo detto: “Ma tanto a noi non serve nemmeno più a fare le pezze da piedi, che la prendiamo a fare”. Eravamo lì così, ci siamo abbracciati abbiamo pianto… Poi è arrivato un ufficiale, che in tedesco ha cominciato a dire: “Kommandant”, perché là dicevano il comandante e poi dicevano fuhrer - qualcuno quando io dico questo ride, ma era proprio così là! -, insomma diceva che il Kommandantführer aveva deciso di graziare gli ariani francesi… E allora Pasquale ha detto, che visto che noi avevamo un ago nel bavero della giacca, e il coltello dalla parte del manico lo tenevamo molato per tagliare il pane, potevamo prendere quei due triangoli e tagliarli col coltello… E’ stato un attimo, li abbiamo scuciti e poi li abbiamo cuciti sopra il nostro…L’abbiamo cucito sopra... Cia siamo salvati così… E poi, visto che siamo stati fortunati a salvarci, ci hanno messo nella colonna di quelli che venivano inviati nella tradotta… Per la strada che stavamo facendo per andare alla tradotta dei carri scoperti, quelli di carbone, abbiamo sentito le mitragliatrici che sparavano e delle urla a non finire, perché li hanno uccisi tutti con le mitraglie… Io e Pasquale siamo rimasti male, avevamo le lacrime agli occhi , strada facendo ci guardavamo solo così, non c’era più segno di niente. Arrivati dove c’era la tradotta ci hanno fatto salire su dei vagoni molto alti, abbiamo anche tribolato, ci aiutavamo l’uno con l’altro; eravamo centoventicentotrenta per ogni carro, impiombati con pancia e schiena uno contro l’altro come le sardine… Verso sera quando è stata completata la tradotta, è partita: ha fatto un fischio, poi pian piano, dopo un po’ prendeva velocità nelle curve… Chi era in mezzo ai vagoni, durante le curve, si piegava così e con la debolezza dopo due o tre volte cadeva sotto i piedi dei compagni e non riusciva più alzarsi, perché gli altri si allargavano e molti sono morti anche così… Il giorno dopo dopo, alla sera, ci hanno fatto fermare in un posto di campagna, e abbiamo scaricato i cadaveri, li abbiamo messi in un vagone dietro dove ce n’erano già degli altri, e poi il viaggio è continuato… Ogni tanto in certi vagoni - nel mio non ricordo che sia stato fatto - ma molti aspettavano che arrivasse la notte e buttavano fuori i cadaveri, per farsi più spazio loro. Io mi ricordo che, quando siamo arrivati a Buchenwald, nel nostro vagone avevamo da una parte i cadaveri impilati a triangolo e dall’altra quelli che erano lì vicino, si erano seduti per riposarsi… Siamo arrivati il 26, al mattino, a Buchenwald, una tradotta che era lunga - anche Beppe Berti ha detto che non si ricordava in tutta la storia di Buchenwald una tradotta lunga così - ed entrati nel campo, ci hanno fatto scendere e abbiamo aspettato due giorni per passare alla disinfezione… Tanti morivano di freddo, allora in quattro lo prendevamo lo portavamo dentro, magari era ancora vivo, però lo caricavano sul carretto, che andava al forno crematorio, e quelli che erano riusciti a passare, portando dentro il cadavere, invece di mandarli fuori, passavano subito la doccia e la disinfezione, poi venivano mandati a destinazione nel campo nella baracca… Io ero con Pasquale ed il nostro turno è stato dopo la mezzanotte: eravamo sfiniti, siamo sempre stati assieme fino al momento della doccia, poi ci hanno divisi… Io non so più la fine che abbia fatto, se sia andato al Revier o se fosse stato male… Mi hanno destinato alla baracca numero 10 dove ho trovato poi un altro compagno di Torino, con cui ci siamo fatti compagnia e che mi ha aiutato molto… Ho trovato Luciano La Rocca della Sicilia e lui era della Commissione Segreta per la liberazione, ma noi non lo sapevamo, però ognuno aveva il suo gruppo e noi eravamo sotto il suo gruppo…Io, Prato, Giovanni Fiori, ed altri…Lì era un campo politico dove c’era una organizzazione clandestina: si erano organizzati, c’erano delle armi nascoste, e sono rimasto lì fino alla liberazione… Devo dire che sono anche stato un po’ protetto dal dottore triestino , dal quale ogni tanto, al mattino, quando c’erano dei trasporti, mi mandavano al Revier… Perché io avevo una ferita ancora da Linz, e poi per i piedi, insomma mi hanno curato. In quei momenti, diciamo tra la fine di febbraio fino alla fine di marzo, c’erano di nuovo le evacuazioni… Ogni tanto venivano dentro il campo le SS per far uscire dei prigionieri. Siamo arrivati ad un punto in cui ce n’erano ottantamila. E li portavano all’interno della Germania, chissà dove… Li e li facevano uscire dalle baracche con forza,facevano altre marce della morte. Io mi sono salvato due volte... Mi è andata bene, diciamo che io posso ringraziare anche la solidarietà che ho trovato dei compagni a Buchenwald, altrimenti... Ad esempio Pasquale, che con me è arrivato lì a Buchenwald, poi è stato preso in un altro trasporto e portato a Mauthausen,dove è stato immatricolato un’altra volta, e infine mandato a Gusen 2, dove morì assieme ad Andrea Caresio, il 21 aprile 1945, pochi giorni prima della liberazione…123377 era il numero che avevo a Buchenwald… Ho avuto la fortuna di resistere fino alla liberazione che è arrivata l’11 di aprile dall’esercito americano: la terza armata comandata dal generale Patton, è l’unico campo che con la sua organizzazione segreta è riuscito a liberarsi da solo, perché temevamo di essere sterminati prima della liberazione. Al mattino alle dieci e mezza, sono venuti due apparecchi a fare un volo di ricognizione, noi avevamo paura che fossero i tedeschi e che buttassero le bombe, poi invece dal secondo giro, che hanno fatto a bassa quota, abbiamo notato che avevano le stelle bianche sui fianchi e abbiamo capito che erano gli americani… Allora è stato un urlo: “Sono gli americani, siamo liberi” . All’una meno un quarto - mi ricordo come se fosse adesso - il nostro comando con Luciano La Rocca e altri italiani, è uscito dalla porta centrale senza comandi “ berretto su, berretto giù” e abbiamo capito che eravamo liberi. Quando verso l’una - era l’una un quarto -l’una e venti - eravamo fuori è arrivata la prima camionetta americana con il comandante Patton… Poi dietro c’era tutta la colonna, che ogni tanto si fermava perché a Weimar i tedeschi facevano la resistenza… Noi li abbiamo accompagnati per un pezzo, loro ci davano dei biscotti, delle gallette, ci davano del cioccolato, buttavano giù anche delle sigarette, ma noi... Poi molti sono morti ancora, dopo, per la dissenteria… Ci è voluto un bel po’ per mettere a posto il campo, si sono dati da fare per la pulizia, per i pidocchi per tutto… Alcuni militari che venivano lì parlavano anche l’italiano, perché erano figli di italiani immigrati in America, e ci parlavano in Italiano…Abbiamo fatto le fotografie assieme: ce n’è una dopo la liberazione, fatta il 1° marzo… Eravamo tutti gli italiani assieme in una baracca e così era finita la nostra sofferenza, però non avevamo la minima idea di quando potesse essere il nostro turno per arrivare a casa… Ogni tanto andavamo a vedere, informarci dal comando, ma dicevano che le ferrovie non circolavano, i ponti erano saltati e bisognava attendere che gli americani dessero l’odine… Dopo tante tragedie siamo riusciti con molta difficoltà ad avere un rimpatrio da Erfurt verso l’8 il 9 di giugno e siamo arrivati a Bolzano, dove ci ha raccolti la Croce Rossa italiana, che ci ha aiutati per tutto il resto del tragitto: hanno cercato dei camion, dei mezzi di trasporto, dei corrieri che andassero a Milano. Ci hanno portato alla Croce Rossa di Milano, poi, si sono interessati di far trasportare quelli che dovevano andare giù al sud con altri automezzi… Noi, che venivamo in Piemonte, a Torino, siamo arrivati su un camion di autotrasportatori: eravamo una quindicina di torinesi… Però la tragedia non era finita, in quanto poi abbiamo sofferto anche solo arrivando a Torino, perché nessuno credeva che cosa avevi passato… Io mi ricordo un fatto… Arrivato a Porta Nuova, dopo tanta sofferenza, avevo il mio zaino, ero vestito con della roba usata, ma se non altro pulita – un vestito militare americano - e avevo lo zaino con un po’ di porcheria dentro, che mi ero portato via di là, dei ricordi… Mentre aspettavo il tram, tutti mi guardavano con curiosità: io ero senza capelli, avevo l’eczema e certamente ero diverso dagli altri, visto così… Poi è arrivato il tram - il numero tredici - sono salito e ho anche ricevuto dei rimproveri, da parte di una donna, una signora che diceva che gente come me che puzzava non avrebbe dovuto prendere il tram… Allora io ho risposto: “ Signora, c’è anche scritto qui sul mio braccio… Preghi di non avere nessuno in Germania, che abbia passato quello che ho passato io, e se un domani avesse in famiglia qualcuno che torna da là, lo abbracci, senza fare queste insinuazioni…Perché io arrivo da un posto della morte…”. Tutti gli altri erano lì, mi hanno sostenuto totalmente, io ho solo dovuto stare zitto perché hanno pensato loro a parlarle per me… Vedete… Quando uno arriva da una tragedia del genere e cerca di raccontare quello che ha patito e sofferto, e si ritrova ad essere incompreso la ferita invece di chiudersi, si apre ancora di più. E per me è stato così per molti anni… Alla sera andavo a dormire e non riuscivo a dormire… Avevo sempre quei ricordi, quelle parole crudeli in tedesco, le sognavo, e sognavo come mi picchiavano… Poi ho conosciuto una signorina che poi è diventata mia moglie, e così mi sono formato una famiglia… La ferita si sarà rimarginata, ma mi è rimasto un segno profondo, e quindi non mi stancherò mai – mai! – di raccontare… Sia per quello che ho passato io personalmente, sia per tutti quegli amici e compagni di lotta, che hanno perso la vita per la libertà e la democrazia, e per una pace che sia duratura…