9.4 Biofissazione di CO2 fossile mediante microalghe per l’abbattimento dei gas serra 9.4.1 Introduzione Il cambiamento globale del clima richiede sostanziali riduzioni delle emissioni di gas serra (GHG, GreenHouse Gas) derivanti da attività umane, in particolare del biossido di carbonio (CO2) fossile, e anche un cambiamento nel modo di produrre e utilizzare le risorse energetiche. A causa delle quantità complessive su scala globale, della diversità e della distribuzione geografica delle fonti di CO2 fossile, non è pensabile poter applicare una singola tecnologia per l’abattimento dei gas serra a ogni situazione, ma sarà necessaria una serie di tecnologie differenti, da usarsi singolarmente o in combinazione. Tra le opzioni di riduzione, le tecnologie per la cattura e la sequestrazione di biossido di carbonio impediscono che il CO2 derivante dalla combustione di combustibili fossili si accumuli nell’atmosfera e consentono di continuare a usare i combustibili fossili da cui il mondo attualmente dipende in larga misura. La maggior parte di queste tecnologie di cattura e sequestrazione si basa sulla cattura del CO2 fossile da punti di emissione fissi, come centrali elettriche o altre installazioni industriali, a cui fa seguito il suo stoccaggio di lungo termine in formazione geologiche, suoli o oceani, o il suo riutilizzo. La biofissazione di CO2 a opera di microalghe è una di queste tecnologie per l’abattimento dei gas serra. Essa si basa sull’uso dell’energia solare attraverso la fotosintesi per catturare e utilizzare correnti di CO2 concentrato, prodotto da centrali elettriche o da altre fonti. Le microalghe sono microscopiche piante acquatiche (fig. 1) e, come per altre opzioni in cui si utilizzano biomasse, la diminuzione delle emissioni di gas serra mediante processi di biofissazione si ottiene dalla conversione e utilizzo della biomassa algale raccolta come biocombustibile rinnovabile in grado di sostituire i combustibili fossili, o ricavandone prodotti che richiedono un minor consumo di energia rispetto alle tecnologie convenzionali. I biocombustibili rinnovabili che si possono VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ ottenere dalla biomassa algale comprendono metano, etanolo, biodiesel e idrogeno, mentre i prodotti che permettono di risparmiare energia includono fertilizzanti, biopolimeri, prodotti chimici e anche mangimi animali. La cattura e l’utilizzo del CO2 da parte delle microalghe possono anche essere associati a servizi ambientali, A B C fig. 1. Microalghe coltivate attualmente a scopo commerciale o di potenziale interesse per l’abbattimento dei gas serra. A, Micractinium sp. (alga verde), dominante nelle vasche per il trattamento delle acque relfue (per cortesia di EPA); B, Spirulina (Arthrospira) platensis, microalga filamentosa prodotta come supplemento nutrizionale (per cortesia di UTEX); C, Navicula sp. (diatomea), potenzialmente in grado di produrre oli (per cortesia degli Autori). 837 SOSTENIBILITÀ quali il trattamento delle acque reflue e il riciclaggio di nutrienti, il che, in confronto ai processi convenzionali, determina un ulteriore abbattimento dei gas serra grazie alla riduzione del consumo energetico. Rispetto alla produzione di biomassa con piante superiori, la caratteristica più importante dei processi basati su microalghe è la capacità di raggiungere elevate efficienze di conversione solare, riducendo in tal modo le necessità di superficie e di acqua, i due fattori che maggiormente limitano qualsiasi tecnologia basata sulla fotosintesi. Il concetto di cattura del CO2 e di produzione di biocombustibili rinnovabili mediante colture microalgali su vasta scala era già stato proposto mezzo secolo fa (Oswald e Golueke, 1960) ed è stato oggetto di estesa attività di ricerca e sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti (Sheehan et al., 1998) e in Giappone (Hamasaki et al., 1994; Usui e Ikenouchi, 1997; Murakami e Ikenouchi, 1997). Attualmente le microalghe vengono prodotte a scopo commerciale per ottenere sostanze nutritive, sia in vasche A C all’aperto sia in fotobioreattori chiusi, utilizzando sia fonti di CO2 concentrato sia gas di combustione, e vengono anche impiegate nei processi di trattamento delle acque reflue (fig. 2). Queste conoscenze pratiche forniscono la base per impiegare le colture intensive di microalghe nella riduzione dei gas serra. Lo schema generale di un processo di questo tipo è presentato in fig. 3, dove vengono riportati gli input, i vari processi e i prodotti descritti di seguito. Per far progredire lo sviluppo e l’applicazione dei processi di biofissazione per opera di microalghe finalizzati alla produzione di energia rinnovabile e alla mitigazione dei gas serra, EniTecnologie e il National Energy Technology Laboratory del Dipartimento per l’Energia statunitense hanno organizzato l’International Network on Biofixation of CO2 and GreenHouse Gas Abatement with Microalgae, che qui verrà chiamato ‘Biofixation Network’ (Benemann et al., 2001; Pedroni et al., 2001, 2002). Quest’iniziativa opera sotto l’egida del Programma B D fig. 2. Sistemi per la produzione di microalghe. A, vasca circolare all’aperto (1.000 m2 circa), sistema di coltura intensiva per la produzione di Chlorella; B, impianto per la produzione di Spirulina e Haematococcus pluvialis con vasche ad alta velocità agitate mediante ruote a pale; C, sistema a fotobioreattore tubulare chiuso per la produzione di Haematococcus pluvialis; D, bacini per il trattamento di acque reflue che comprendono vasche ad alta velocità (per cortesia degli Autori). 838 ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA luce solare FONTI DI CO2 CONCENTRATE centrali, industrie altre fonti acqua-acque reflue nutrienti salini-rifiuti O2 COLTIVAZIONE INTENSIVA IN VASCHE ALL’APERTO raceway-type, senza rivestimento, poco profonde (⬍ 40 cm) agitazione mediante ruote a pale stazioni di transfer della CO2 larga scala (> 1 ettaro) SISTEMA DI INOCULO fotobioreattori chiusi e aperti ceppi di microalghe RACCOLTA DELLA BIOMASSA bioflocculazione microfiltraggio altri? energia, CO2 biocombustibili, coprodotti, acqua rigenerata biomassa PROCESSAMENTO conversione a biocombustibili/energia (fermentazioni, estrazioni) processamento a coprodotti (biopolimeri, mangimi, fertilizzanti, ammendanti del terreno, ecc.) fig. 3. Schema del processo di biofissazione del CO2 e della riduzione dei gas serra mediante microalghe. GHG R&D dello IEA (International Energy Agency) e include tra i suoi membri compagnie del settore energetico, agenzie governative e altre organizzazioni che promuovono l’attività di ricerca e sviluppo in questo campo. Scopo del Biofixation Network è di costituire un forum che consenta ai partecipanti di condividere informazioni e competenze, coordinare e collaborare nelle attività di ricerca e sviluppo, preparare analisi tecno-economiche e di valutazione delle risorse, sviluppare e dimostrare, entro un decennio, il possibile utilizzo di processi pratici basati su microalghe nella riduzione di gas serra. Questo articolo descrive lo stato attuale della tecnologia basata su microalghe applicata alla riduzione dei gas serra e alcuni programmi di ricerca e sviluppo che si stanno realizzando nell’ambito del Network. 9.4.2 Fotosintesi, produttività delle microalghe e riduzione dei gas serra I processi biologici di fotosintesi che fissano il CO2 nella biomassa vegetale, la sua successiva conversione e il suo utilizzo come combustibile rinnovabile costituiscono una delle tecnologie più promettenti attualmente disponibili per la riduzione dei gas serra. Globalmente, la fotosintesi cattura una quantità di CO2 che va ben oltre un ordine di grandezza rispetto a quella emessa dalla combustione di combustibili fossili, anche se sostanzialmente tutto questo carbonio viene riciclato nuovamente nell’atmosfera in poco tempo, da alcuni giorni a VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ qualche anno. L’appropriazione e l’alterazione da parte dell’uomo degli ecosistemi e della produttività primaria, cioè del CO2 fissato nella biomassa vegetale, superano già di gran lunga il nostro uso di combustibili fossili. Perciò, una gestione migliore della biosfera potrebbe ridurre notevolmente le emissioni di CO2 fossile e di altri gas serra. Parte del carbonio fissato mediante fotosintesi, per esempio, può accumularsi e rimanere a lungo nel terreno, o anche in superficie, come biomassa delle foreste. Pertanto incrementare questi processi di sequestrazione del carbonio rappresenta una strada importante per ridurre i gas serra. Un’ulteriore efficace via per ridurre i gas serra mediante fotosintesi è rappresentata dall’uso della biomassa come fonte di energia, o direttamente (mediante la combustione) o dopo averla convertita in carburanti gassosi o liquidi. I biocarburanti verrebbero ottenuti da rifiuti e da residui agricoli, forestali o di altre fonti, potrebbero essere coprodotti con alimenti, mangimi e prodotti forestali, oppure prodotti appositamente in aziende come le attuali piantagioni di zucchero di canna, di olio di palma e alberi o altre piante, nelle cosiddette fattorie energetiche. In molti paesi i biocarburanti rimangono un’importante fonte di energia, e certamente costituiscono una primaria fonte di energia per la maggior parte delle popolazioni più povere. L’aumento globale della produzione di biocarburanti e del loro utilizzo, senza incidere sulla produzione alimentare o su altre necessità umane ed evitando la distruzione degli ambienti naturali rimasti, costituisce una grande sfida tecnologica e sociale di questo secolo. Essa richiederà 839 SOSTENIBILITÀ una trasformazione su scala mondiale degli attuali metodi agricoli e forestali, affinché sia data priorità alla prevenzione di ulteriori perdite nette di carbonio dal suolo o dalla vegetazione, una delle fonti principali di CO2 antropogenico nell’atmosfera seconda solo alla combustione di carburanti fossili. La produzione di biomassa è sostanzialmente limitata dall’efficienza di conversione solare della fotosintesi. In teoria, e in laboratorio, la fotosintesi può essere un convertitore di energia solare altamente efficiente, considerando che un’efficienza massima di circa il 10% (massimo valore di conversione da solare a biomassa) è generalmente ritenuta il limite superiore. In laboratorio (cioè in condizioni di scarsa intensità luminosa) questa efficienza può essere effettivamente raggiunta con le colture di microalghe (Radmer e Kok, 1977). Di norma l’agricoltura opera con un’efficienza ben al di sotto dell’1% di radiazione incidente solare annua convertita in biomassa raccolta. Inoltre, nell’agricoltura convenzionale le immissioni di energia fossile (fertilizzanti, pesticidi, sostanze chimiche, combustibile, ecc.) possono notelvomente abbattere l’efficacia nella riduzione di CO2 fossile mediante l’uso della biomassa come fonte energetica (Pimentel e Patzek, 2005). La sfida per la ricerca e sviluppo consiste nell’aumentare l’efficienza della fotosintesi nei sistemi di coltivazione all’aperto e nel minimizzare l’estensione dei terreni necessari (il cosiddetto impatto del processo sul territorio), riducendo contemporaneamente le richieste energetiche e aumentando così le potenzialità dei sistemi a biomassa di produrre biocombustibili, cibo, mangime e fibre, nonché di ridurre le emissioni complessive di gas serra. Le microalghe, piante microscopiche che solitamente crescono in ambienti acquatici, marini, salmastri o d’acqua dolce, sono generalmente in grado di riprodursi molto rapidamente, spesso raddoppiando la loro massa nel giro di un giorno o anche di poche ore. Ne esistono molti tipi (comunemente chiamate, in base al colore dei loro pigmenti dominanti, alghe verdi, rosse, marroni o verdi-azzurre, etc.) con migliaia di specie note (v. ancora fig. 1 per alcuni esempi). Oltre che per l’ambiente acquatico e i tassi di crescita molto rapidi, la loro coltivazione differisce da quella delle piante superiori anche perché richiede una fonte concentrata di CO2, come quella presente nei gas di combustione provenienti dalle centrali elettriche (5-15%), in quanto l’assorbimento di CO2 dall’aria (0,04%) da parte delle colture algali sarebbe costoso e ne ridurrebbe di gran lunga la produttività. Dato che acqua e sostanze nutritive, compreso il CO2, non sono fattori limitanti, e la rapida crescita permette una produzione continua, con tali colture si possono potenzialmente raggiungere efficienze di conversione solare (ovvero produttività della biomassa) molto più alte che con le piante superiori. Questo, e l’utilizzo diretto del CO2 dei gas di combustione delle centrali elettriche, costituiscono 840 il vantaggio e l’attrattiva fondamentali delle colture intensive di microalghe applicate alla riduzione dei gas serra. La sfida consiste nello sviluppo di processi per produrre biomassa microalgale che abbiano costi competitivi rispetto all’agricoltura e selvicoltura convenzionali, le quali attualmente sono in grado di produrre biomassa a costi notevolmente bassi (complessivamente ben al di sotto di 100 $/t di biomassa, ovvero inferiori a 5 $/GJ). Come si vedrà in seguito, per raggiungere l’obiettivo di una produzione di basso costo, gli attuali processi di coltivazione di biomassa microalgale devono essere semplificati e la produttività massimizzata per avvicinarsi il più possibile all’efficienza di conversione solare teorica del 10%. Tale è il principale obiettivo del Biofixation Network. Come detto sopra, un vantaggio delle colture intensive di microalghe rispetto alle piante superiori è la velocità di crescita. Questo fattore riduce la notevole quantità di tempo necessaria alle piante superiori per crescere dal seme fino allo sviluppo completo, periodo durante il quale non intercettano tutta la luce solare. Inoltre, come già affermato, le microalghe non sono limitate da acqua, sostanze nutritive o CO2, quest’ultimo fornito da una centrale elettrica o da fonti stazionarie simili. Perciò le microalghe possono operare più vicino al potenziale massimo della fotosintesi e, quindi, le loro colture intensive sono solitamente più produttive di quelle delle piante superiori. Benché dati attendibili su colture massive algali operate su larga scala siano scarsi e in molti casi la produttività sia limitata da altri fattori rispetto a quelli precedentemente menzionati (quali temperature sub-ottimali, instabilità delle colture, insufficiente miscelazione, eccessiva formazione di O2, ecc.), le produttività massime ottenibili attraverso coltivazioni che utilizzano la luce solare possono essere stimate tra 50 e 70 t di biomassa organica secca per ettaro per anno (t/ha⭈a). Benché tali valori siano circa 10 volte superiori a quanto si ottiene per il raccolto cerealicolo negli Stati Uniti, in realtà non sono molto più alti di quanto già ottenuto con la coltura più produttiva in assoluto, la canna da zucchero, basata sulla produzione di biomassa dall’intera pianta (canna e foglie) in climi tropicali. Peraltro, questo rendimento rappresenta al massimo tra l’1 e il 2% dell’efficienza di conversione dell’energia solare totale, a seconda della localizzazione. Si tratta di una produttività modesta se confrontata con quella massima del 10% che può essere prevista basandosi su quanto ottenuto in laboratorio. Quando la velocità di fotosintesi (misurata come assorbimento di CO2 o produzione di O2) a opera delle colture di microalghe viene misurata in laboratorio in funzione dell’intensità luminosa in esperimenti a breve termine con coltivazioni diluite, si nota un aumento lineare della velocità a basse intensità di luce, seguita però da un suo rapido rallentamento all’aumentare dell’intensità ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA luminosa oltre il 10-20% della luce solare piena. Come detto prima, a basse intensità di luce e quando tutti gli altri fattori sono sotto controllo, la fotosintesi è effettivamente piuttosto efficiente, avvicinandosi alla conversione teorica del 10% da luce solare a energia di biomassa (calcolata assumendo che il 45% della radiazione solare sia nella parte di spettro visibile o fotosinteticamente attivo). Ma a intensità di luce maggiore, la fotosintesi diminuisce la sua efficienza, e a intensità che corrispondono alla luce solare piena, le efficienze rilevate in misure a breve termine o anche in studi con colture di laboratorio continue a lungo termine, scendono al 2-3% nella conversione da luce a biomassa. Ciò è in linea con quanto osservato nelle colture intensive all’aperto, qualora si considerino la respirazione (soprattutto le perdite notturne) e altri limiti più o meno inevitabili delle coltivazioni all’aperto (temperatura, concentrazioni di O2, riflessione delle superfici, ecc.). Questa caduta di efficienza a intensità di luce elevate, il cosiddetto ‘effetto di saturazione della luce’, si osserva anche con le piante superiori, ma è più pronunciato con le colture di microalghe ed è il maggior responsabile delle produttività più basse del previsto osservate con queste piante acquatiche. La spiegazione dell’effetto di saturazione della luce si trova nella struttura dell’apparato fotosintetico: l’energia luminosa (fotoni) viene catturata da un assortimento di cosiddetti pigmenti antenna o captatori di luce, principalmente la clorofilla nelle piante superiori e nelle alghe verdi e altri pigmenti nelle alghe verdi-azzurre (cianobatteri), nelle alghe brune (diatomee) e nelle alghe rosse (v. ancora fig. 1). L’energia fotonica catturata da questi pigmenti antenna viene poi trasferita alle clorofille del cosiddetto centro di reazione, dove l’energia fotonica è convertita in energia chimica durante un processo a due fotosistemi. In primo luogo, il fotosistema II scinde l’acqua (producendo O2) e gli elettroni sono trasferiti al fotosistema I, dove l’energia fotonica addizionale genera un forte agente riducente (la ferredoxina ridotta) ed energia metabolica (ATP). Questi sono poi utilizzati in una serie di reazioni enzimatiche di buio per fissare il CO2 nei carboidrati. I carboidrati vengono poi utilizzati per sintetizzare proteine, lipidi, acidi nucleici e tutti i componenti cellulari, determinando crescita e moltiplicazione delle cellule microalgali. In questo processo, tanto maggiore è il numero di pigmenti antenna, quanti più fotoni possono essere catturati dalle cellule a basse intensità di luce. Tuttavia, a intensità di luce elevate, l’alto numero di tali pigmenti fa sì che vengano assorbiti più fotoni di quanti ne possano poi essere processati dai centri di reazione; questo eccesso di energia viene perso rapidamente, sotto forma di calore, o riemesso sotto forma di fluorescenza. Poiché le cellule microalgali, in natura e soprattutto nei sistemi colturali intensivi, si spostano frequentemente da zone molto VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ illuminate ad altre poco illuminate e viceversa, non riescono ad aggiustare continuamente il loro contenuto di pigmenti antenna in modo ottimale, consentendo una più efficiente conversione di energia solare. La strategia evolutiva migliore per le microalghe è consistita nell’adattarsi alle basse intensità di luce, il che si traduce sempre nell’avere un elevato numero di pigmenti antenna, anche se, a maggiori intensità luminose, ciò comporta uno spreco di fotoni. Semplificando, le cellule microalgali sono evolutivamente progettate per crescere con maggior efficienza a bassi livelli di luminosità dato che non fa grande differenza per le singole cellule (le unità di selezione evolutiva) l’essere inefficienti in piena luce perché la luce sprecata non sarebbe comunque utilizzata. In altre parole, le singole cellule che si trovano alla superficie della vasca, esposte alla luce solare piena, non vengono penalizzate per lo spreco di fotoni, pur riducendo l’illuminazione delle coorti sottostanti. Queste stesse cellule, tuttavia, hanno bisogno di catturare ogni fotone disponibile quando si trovano sul fondo della coltura dove saranno oscurate dalle cellule che si trovano sopra di loro. In effetti, si potrebbe anche argomentare che quelle in superficie traggano beneficio dal fatto di oscurare quelle sotto di loro, in quanto riducono in questo modo la crescita di cellule competitrici. Inoltre, quando le cellule si spostano nella colonna d’acqua dalle zone a maggior intensità luminosa verso quelle a minor intensità, qualsiasi intervallo di tempo impiegato ad adattarsi alla mutata intensità di luce viene sottratto alla crescita. In breve, le pressioni evolutive e la selezione hanno favorito fortemente un complesso di pigmenti antenna relativamente ampi negli apparati fiotosintetici delle microalghe, e questo è il principale fattore da considerare per la produttività relativamente bassa delle colture intensive algali, confrontata al loro potenziale. Questo spiega la bassa produttività delle colture intensive di alghe a elevata densità (quest’ultima caratteristica necessaria alla cattura di tutta la luce solare), in cui le cellule algali, con le grandi dimensioni delle loro antenne, catturano la maggior parte della luce solare in corrispondenza o vicino alla superficie della coltura, ma utilizzano solo una piccola frazione dei fotoni catturati sprecando il resto oscurando le cellule sottostanti. Inoltre, elevate intensità di luce (uguali o vicine alla luce solare piena) risultano effettivamente inibenti e persino dannose per le cellule con antenne di grandi dimensioni, determinando il fenomeno della fotoinibizione, che si manifesta come una diminuzione nella velocità di fotosintesi durante l’esposizione delle cellule a elevate intensità luminose. Questo effetto realmente riduce la produttività complessiva (vale a dire l’efficienza) delle colture intensive di alghe anche più di quanto ci si aspetterebbe dal solo effetto di saturazione della luce. In effetti, cellule algali esposte a elevate intensità di luce per 841 SOSTENIBILITÀ periodi lunghi riducono le dimensioni delle loro antenne per evitare tali effetti inibitori, ma quando arrivano a farlo, il loro apparato fotosintetico è già stato danneggiato. In breve, la riduzione delle dimensioni dell’antenna risultante dalla fotoinibizione è subordinata, nelle singole cellule, alla massimizzazione delle sue dimensioni che risulta dall’effetto di saturazione della luce. Riassumendo, grazie alla maggiore ampiezza delle antenne dell’apparato fotosintetico delle microalghe, la produttività delle colture intensive di alghe esposte alla luce è circa soltanto da un terzo a un quarto di quanto ci si aspetterebbe dagli esperimenti di laboratorio condotti a bassa intensità di luce. Nel corso degli anni sono state proposte diverse soluzioni per superare questo limite fondamentale alla produttività: • agitare frequentemente le colture algali in modo che tutte le cellule si trovino spesso esposte al sole (‘effetto luce intermittente’); • disperdere la luce solare nella coltura mediante prismi o, più recentemente, mediante fibre ottiche; • usare colonne verticali o pannelli che non ricevano la luce solare piena come avviene in una vasca orizzontale; • selezionare alghe con un basso contenuto di pigmenti antenna che non presentano l’effetto di saturazione della luce. Ciascuno di questi approcci è stato oggetto di numerosi studi nel corso degli anni, come illustrato di seguito. Agitazione rapida delle colture algali. L’agitazione rapida può essere usata per portare le cellule dentro e fuori le zone di luce in modo che i fotoni siano assorbiti alla velocità con cui potranno successivamente essere usati nelle reazioni di buio (il trasferimento più critico di elettroni tra i due fotosistemi). Questo consente di eliminare gli effetti di saturazione della luce e di fotoinibizione. Sfortunatamente la costante di tempo coinvolta, solo pochi millisecondi a elevata intensità luminosa seguiti da un periodo molto più lungo al buio (‘effetto luce intermittente’ per la prima volta descritto dettagliatamente da Kok, 1953), richiede un’agitazione così veloce che la necessità energetica diventerebbe proibitiva in ogni processo pratico. Benché nel corso degli ultimi cinquant’anni siano state effettuate molte ricerche sugli effetti delle fluttuazioni di luce, periodicità, modulazione, agitazione (sia organizzata sia casuale) ecc., i limiti pratici della coltura algale intensiva non permettono l’uso di un’agitazione rapida per superare la saturazione della luce. Gli effetti benefici spesso citati dell’agitazione rapida sulla produttività delle colture intensive possono essere attribuiti a effetti secondari, quali la riduzione della tensione di O2, piuttosto che al superamento dell’effetto di saturazione della luce (Weissman et al., 1988). Dispersione della luce solare tramite prismi o fibre ottiche. I bioreattori a fibre ottiche o altri sistemi (prismi, ecc.) che disperdono la luce nelle colture algali 842 richiedono specchi concentratori per catturare la luce solare che devono essere grandi quanto i fotobioreattori stessi. Questi specchi avrebbero un costo altamente proibitivo, così come il costo e i significativi problemi (per esempio il fouling) inerenti a un sistema così complesso, rende questo approccio completamente inattuabile (v. par. 9.4.3). Uso di colonne verticali o pannelli. I fotobioreattori verticali, benché molto più economici dei fotobioreattori a fibre ottiche, sono ancora troppo costosi rispetto ai più semplici sistemi di coltura intensiva (per esempio vasche), e in ogni caso troppo costosi per qualsiasi applicazione nella riduzione dei gas serra. Per esempio, per massimizzare l’efficienza di conversione solare con sistemi verticali, sarebbe necessario che l’area del fotobioreattore sia almeno di 3 m2 per ogni m2 di terreno (per consentire un’intercettazione più efficiente di tutta la luce solare). Ceppi algali a basso contenuto di pigmento antenna. Le alghe con un contenuto di pigmenti antenna ridotto, come spiegato in precedenza, hanno uno svantaggio competitivo e quindi l’evoluzione le ha selezionate negativamente. Per questo non ci si aspetta di trovarle in natura e infatti non esistono (Kok, 1973). Tuttavia, come si è già detto, le microalghe possono adattare le dimensioni delle loro antenne in risposta alle condizioni ambientali ed è ora possibile creare in laboratorio quello che la natura ha evitato: mediante l’utilizzo delle biotecnologie si possono creare ceppi microalgali con un contenuto di pigmenti antenna permanentemente ridotto. Tali ceppi, anche se non sono competitivi in natura, avranno produttività maggiori nelle condizioni controllate delle colture intensive. Questa è stata proposta come la strategia più promettente per ottenere produttività elevate a basso costo (Benemann, 1989; Benemann e Oswald, 1996) e ha portato a investimenti nel settore di ricerca e sviluppo, sia in Giappone sia negli Stati Uniti, finalizzati alla selezione di ceppi a basso contenuto di pigmenti antenna (Nakajima e Ueda, 1997 e 2000; Neidhardt et al., 1998; Polle et al., 2000). Va sottolineato che ceppi mutanti con contenuto ridotto di pigmenti antenna dovrebbero essere in grado di superare contemporaneamente sia l’effetto di saturazione della luce sia quello di fotoinibizione, visto che entrambi sono dovuti all’elevato contenuto di pigmenti antenna dei ceppi microalgali naturali. La ricerca per selezionare e produrre ceppi con contenuto ridotto di pigmenti antenna che possano essere coltivati intensivamente viene ora proseguita da uno specifico progetto nell’ambito del Microalgae Network (Polle et al., 2005). Lo scopo immediato di questa ricerca consiste nell’ottenere una produttività doppia rispetto a quella attuale con un’efficienza di conversione solare continuativa di circa il 3-5%, corrispondente a una produttività di 100-150 t/ha⭈a (a seconda della collocazione ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA geografica e della composizione della biomassa algale). Una produttività di questo ordine di grandezza è quella adeguata per poter applicare questi sistemi alla riduzione dei gas serra. In una fase successiva, dovrebbe essere possibile ottenere anche produttività superiori con vasche per colture intensive di alghe all’aperto. Queste alte produttività riducono l’impatto sul territorio e migliorano l’economia del processo, due fattori fondamentali nelle applicazioni per la riduzione dei gas serra. Benché di fondamentale importanza, saturazione della luce e fotoinibizione non sono gli unici fenomeni che riducono ben al di sotto del massimo teorico la produttività di una coltura intensiva di alghe. La respirazione è un altro fattore importante, come verrà brevemente discusso in seguito, e anch’essa dovrà essere presa in considerazione nelle future applicazioni biotecnologiche per sviluppare ceppi migliorati. In conclusione, per ottenere un’elevata produttività in colture intensive di microalghe realizzate all’aperto è ancora necessaria parecchia attività di ricerca e sviluppo. Tuttavia, sono ormai disponibili gli strumenti biotecnologici per realizzare questo obiettivo e si può quindi realisticamente prevedere di ottenere produttività molto maggiori. 9.4.3 Sistemi di coltivazione di microalghe e cattura di CO2 Anche prima di aver realizzato questi obiettivi di alta produttività, bisogna chiedersi come coltivare in modo intensivo le microalghe e catturare il CO2 dai gas di combustione derivati da centrali elettriche a bassi costi. Fondamentalmente sono stati presi in considerazione due approcci differenti: le colture in vasche all’aperto e quelle in fotobioreattori chiusi. Anche le vasche ovviamente possono essere considerate dei fotobioreattori, ma qui si preferisce usare questo termine per indicare in modo specifico sistemi chiusi, in cui non vi sia scambio diretto di gas con l’atmosfera come nelle vasche all’aperto. Vasche all’aperto Le vasche per colture all’aperto possono essere di diversa foggia. La più semplice è una vasca in cui le microalghe crescono essenzialmente come fanno in natura, sospese nella colonna d’acqua e rimescolate solo dal vento. Benché molto usati nel trattamento delle acque reflue (fig. 2D) e anche in alcuni sistemi di produzione commerciale di microalghe, tali tipi di vasche non verranno ulteriormente presi in considerazione in questa sede perché presentano una produttività molto bassa. Ciò è dovuto almeno in parte alla carenza di CO2, in quanto questi sistemi non ne prevedono l’apporto aggiuntivo dall’esterno. Per ottenere un’omogenea distribuzione del CO2 è necessaria la presenza di un meccanismo di agitazione della vasca. VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ Uno dei primi sistemi all’aperto, con agitazione, per la coltura intensiva di alghe è stata una vasca a struttura circolare sviluppata in Giappone 50 anni fa per coltivare intensivamente Chlorella (Tamiya, 1957) e usata dagli anni Sessanta per la sua produzione commerciale (fig. 2A). Lo svantaggio principale di questo tipo di vasca è la sua limitata dimensione: a causa dell’agitazione non uniforme dovuta al meccanismo di spinta a perno centrale, non può superare 1.000 m2. Inoltre, questo sistema di agitazione è costoso sia nella costruzione sia nell’operatività. In breve, il problema dell’agitazione e quello idraulico sono i principali fattori limitanti per la costruzione su larga scala di questi sistemi produttivi. Agli inizi degli anni Cinquanta venne studiata per la prima volta in California la vasca aperta raceway (chiamata anche vasca ad alta velocità) applicata al trattamento di acque reflue. L’agitazione era ottenuta mediante una pompa di ricircolazione (Oswald e Golueke, 1960). A partire dai primi anni Sessanta, tali sistemi furono installati in diverse vasche per il trattamento di acque reflue in California (v. ancora fig. 2D), benché fossero usati anche altri sistemi di agitazione (per esempio, la pompa di Archimede). Negli stessi anni in Germania vennero introdotte le ruote a pale (paddle wheel) per agitare piccole vasche raceway per colture intensive di alghe e successivamente per sistemi pilota di trattamento di acque reflue (Benemann et al., 1980). Da allora questo assetto è il più diffuso nell’industria delle microalghe. Questo tipo di vasche viene usato estesamente nella produzione commerciale di Spirulina e Dunaliella, le principali specie di alghe attualmente prodotte su scala commerciale, e viene applicato anche nel trattamento di acque reflue (v. ancora figg. 2B e 2D). Le vasche raceway agitate con ruote a pale sono poco profonde (solitamente l’altezza del mezzo acquoso va da 20 a 30 cm) e una singola vasca può facilmente essere ampliata fino a diverse migliaia di metri quadrati e plausibilmente fino a diversi ettari. Per vasche grandi occorrono ruote a pale grandi, per le quali può sembrare necessario un elevato apporto di energia. Tuttavia ciò non è vero poiché fintanto che le velocità di agitazione sono mantenute nell’intervallo di 20-30 cm/s, il consumo di energia per l’agitazione è modesto. Tuttavia, un’agitazione più lenta potrebbe determinare la sedimentazione delle alghe, così come un insufficiente rifornimento di CO2. Poiché gli input d’energia aumentano in funzione del cubo della velocità di flusso, agitazioni più rapide consumerebbero troppa energia. Nei sistemi commerciali il CO2 viene fornito alle vasche da fonti concentrate anche se, almeno in un caso, l’impianto per la produzione di microalghe è stato associato a una centrale elettrica di piccole dimensioni. I due problemi principali sono come trasferire il CO2 nella coltura in vasca e come impedire la perdita di CO2 dalle vasche associata alla fuoriuscita di gas 843 SOSTENIBILITÀ nell’atmosfera. Il trasferimento di CO2 è ottimizzato facendo gorgogliare il gas attraverso il liquido in un pozzetto posto poco a valle della ruota a pale. Per i gas di combustione da centrale elettrica, tipicamente all’8-13% di CO2, è necessario trasferire grandi quantità di gas e per massimizzare l’assorbimento del CO2 e ridurre il calo di pressione in corrispondenza dell’orifizio il pozzetto funziona meglio se viene operato controcorrente. Poiché le bolle salgono ad una velocità di 30 cm/s, simile alla velocità di flusso del liquido nella vasca, affinché il trasferimento sia efficiente il pozzetto non deve essere troppo profondo. Dovrebbe essere possibile un’efficienza di trasferimento dell’80-90% per i gas di combustione e una superiore al 90% se viene usato CO2 puro. Una volta trasferito nella coltura in vasca, il CO2, sotto forma di CO2 disciolto e acido carbonico (che è in equilibrio con l’alcalinità del carbonato), tenderà a fuoriuscire nell’atmosfera dato che la sua concentrazione è maggiore nella vasca rispetto a quella esterna. I coefficienti di degassamento per le vasche possono essere calcolati e sono stati anche misurati, ma dipendono da molti fattori tra cui il coefficiente di scabrezza del fondo, le velocità di agitazione, la profondità, il pH, l’alcalinità ed eventualmente dalla coltura algale. Si possono contenere le perdite al di sotto del 10%, ma ciò richiede operazioni entro specifici intervalli di pH, alcalinità, velocità di agitazione, ecc. L’energia richiesta per pompare i gas di combustione nelle vasche di alghe limita la distanza consentita tra la centrale elettrica e le vasche stesse, che devono essere collocate in prossimità l’una alle altre. Va poi sottolineato, riguardo ai gas di combustione delle centrali elettriche, che il CO2 è usato dalle colture di microalghe solo durante le ore diurne e che in estate è utilizzato molto di più che in inverno, il che riduce l’utilizzazione massima annuale di CO2 a circa un terzo, ossia considerevolmente meno, di quanto in complesso prodotto da una centrale elettrica a carico base stazionario. Un elemento fondamentale è la capacità delle microalghe di crescere utilizzando direttamente il gas di combustione emesso da una centrale elettrica. La concentrazione di CO2 (CO2 disciolto⫹acido carbonico) a cui le cellule algali sono effettivamente esposte nelle vasche è relativamente bassa, al massimo è al livello di quella dei gas di combustione (equivalente a meno del 10% di CO2 in fase gassosa) e inoltre solo limitatamente nel tempo, perché il CO2 viene consumato mano a mano che le alghe crescono nelle vasche. Inoltre, l’effetto del CO2 sulle microalghe è modulato dal pH che dipende dall’alcalinità e dalle concentrazioni di biossido di carbonio. In sintesi, non c’è necessità di alghe che tollerino elevate concentrazioni di CO2, che possano crescere in presenza di CO2 puro (100%) o in condizioni di acidità (basso pH). Nel corso degli anni passati (a partire dagli anni Cinquanta) numerose ricerche, per lo più condotte in 844 laboratorio (Olaizola, 2003 e bibliografia inclusa) ma anche, in misura minore, in colture all’aperto (Matsumoto et al., 1995; Pedroni et al., 2004) hanno dimostrato che è possibile coltivare efficacemente le microalghe utilizzando direttamente i gas di combustione. La possibilità di eliminare insieme al CO2 contaminanti aggiuntivi dai gas di combustione di centrali elettriche, in particolare NOx e SOx, costituisce un’opportunità per integrare lo smaltimento di questi gas con la produzione di microalghe. Nelle quantità in cui sono effettivamente assorbiti (in funzione dei coefficienti di trasferimento di massa del sistema di trasferimento del gas di combustione), questi contaminanti reagiscono in acqua producendo acidi diluiti che vengono neutralizzati dall’alcalinità del mezzo di coltura. Nel caso degli NOx , sia NO sia NO2 vengono utilizzati dalle microalghe (Negoro et al., 1993; Nagase et al., 2001) senza alcun cambiamento netto di alcalinità. Tuttavia gli NOx forniscono solo una piccola percentuale dell’azoto necessario alle alghe. La neutralizzazione degli SOx potrebbe essere un problema nel caso in cui le concentrazioni siano elevate, il riutilizzo dell’acqua massiccio e l’alcalinità un fattore limitante, rendendo necessaria l’aggiunta di una base (per es. NaOH o altra equivalente) alle vasche, procedura utilizzata anche in un convenzionale processo di smaltimento dei gas di combustione. La scarsa quantità di questi contaminanti rispetto al CO2 fa si che non rappresentino un grosso problema, tuttavia il potenziale delle colture microalgali di contribuire a smaltire i gas di combustione è degno di essere considerato. Un altro fattore da considerare è l’O2 prodotto dalle colture di microalghe che si accumula nelle vasche a concentrazioni di molto superiori rispetto a quelle di saturazione dell’aria e che si dovrebbe disperdere nell’atmosfera per evitarne l’accumulo e il conseguente effetto inibitorio. Ciò si potrebbe ottenere mediante una stazione di sfiato a monte della ruota a pale e precedente alla stazione di carbonatazione. Durante la notte le colture di alghe respirano e utilizzano tutto l’O2 disciolto e l’eventuale altro O2 trasferito dall’atmosfera. Entrambi i fattori, alta concentrazione di O2 durante il giorno e respirazione di notte, determinano una perdita potenzialmente significativa nella produzione giornaliera, ma sono stati abbastanza trascurati negli studi sulla coltivazione intensiva di alghe e richiedono ulteriori approfondimenti. Il rifornimento, il trasferimento e l’utilizzo di CO2 da gas di combustione sono elementi importanti nei costi complessivi di un processo di abbattimento dei gas serra basato su microalghe. Un’alternativa sarebbe catturare il CO2 dai gas di combustione e concentrarlo in CO2 puro al 100%, per poi rifornire la vasca di coltivazione. Ciò costerebbe decisamente meno che utilizzare il CO2 dei gas di combustione, per via dei costi inferiori delle tubazioni e delle strutture di trasferimento. Inoltre, consentirebbe di ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA immagazzinare CO2 durante la notte per poi utilizzarlo durante il giorno, con un incremento del fattore di utilizzazione complessivo. Tuttavia, anche considerando il costo di concentrare il CO2 dalle centrali elettriche, nella maggior parte delle situazioni si continua a preferire l’utilizzo diretto dei gas di combustione. Benché i problemi relativi a rifornimento, trasferimento e utilizzo del CO2 siano complessi e sia necessario ulteriore lavoro, la conclusione raggiunta in base ai dati sperimentali, all’analisi teorica e ai calcoli ingegneristici è che il rifornimento di CO2 dal gas di combustione alle vasche all’aperto e il suo utilizzo non rappresenta un limite per le colture intensive di microalghe benché questi fattori riducano specifiche opzioni realizzative (Benemann et al., 1982; Weissman e Goebel, 1987). Un altro importante elemento nella progettazione strutturale ed economica delle colture in vasche all’aperto è il rivestimento delle vasche stesse che serve a impedire perdite d’acqua per percolazione, contaminazione della falda idrica, sospensione di detriti e consente la pulizia delle vasche. La maggior parte delle vasche per la produzione commerciale di microalghe è rivestita in plastica o in cemento. Tuttavia, gran parte di quelle per il trattamento di acque reflue è rivestita solo da argilla a basso costo, come lo sono le poche vasche di grandi dimensioni per la produzione di Spirulina. Un lavoro sperimentale che ha messo a confronto vasche rivestite in argilla con quelle rivestite in plastica (Weissman e Tillett, 1989) suggerisce che non vi sia molta differenza in prestazioni tra queste due opzioni, soprattutto per quanto riguarda la produttività, e che si potrebbero far funzionare vasche non rivestite con le velocità di miscelazione suggerite sopra (vale a dire da 20 a 30 cm/s circa). Per l’abbattimento di gas serra e la produzione di energia sono necessarie vasche a basso costo rivestite in argilla, perché il rivestimento in plastica, nella maggior parte dei casi, risulterebbe troppo oneroso, a meno di non combinarlo con il trattamento di acque reflue o con la produzione di coprodotti che abbiano un valore commerciale superiore a quello dei combustibili. Per far progredire lo sviluppo di tecnologie per la mitigazione dei gas serra basate sull’utilizzo di colture intensive di microalghe, le future ricerche devono prevedere la realizzazione di vasche di ampie dimensioni (superiori a 1 ha) rivestite in argilla. Il costo capitale delle vasche ad alta velocità con agitazione mediante ruote a pale e rivestimento in argilla può essere stimato, molto approssimativamente, in 100.000 $/ha per sistemi su vasta scala (superiori a 100 ettari), comprendendo infrastrutture generali (acqua, energia e rifornimento di CO2 per l’impianto), raccolta della biomassa e processamento. Questa stima si basa su molti presupposti favorevoli legati al sito e su una produttività media annua di 30 g/m2⭈d (110 t/ha⭈a). Si tratta di un costo capitale iniziale oltre un ordine di VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ grandezza più alto di quelli da affrontare per l’agricoltura o la silvicoltura tradizionali, anche per i sistemi che necessitano irrigazione. Perciò, neppure alte produttività riescono a recuperare investimenti di capitale così elevati. Anche i costi operativi per energia, nutrienti, mantenimento e gestione, compresi la raccolta e il processamento delle alghe (v. oltre), sono più elevati per le colture di microalghe che per le tipiche colture di piante da raccolto o di alberi. Perciò, complessivamente, l’aspetto economico della produzione di microalghe con questo tipo di vasche all’aperto non risulta molto vantaggioso in confronto ad altri processi biomassa-biocombustibili (v. par. 9.4.6). Tuttavia, le microalghe possono essere coltivate utilizzando terreni, acque e altre risorse, compreso il CO2 dei gas di combustione di centrali elettriche, che non sono adatti per l’agricoltura o la silvicoltura convenzionali. Paradossalmente, l’utilizzo di acqua da parte delle vasche di microalghe in realtà è inferiore a quello per l’agricoltura con piante superiori, in cui il consumo d’acqua, a causa dell’evapotraspirazione, è in funzione diretta della produttività. La biomassa di microalghe può inoltre essere convertita in combustibili liquidi e gassosi più facilmente della maggior parte di biomassa ottenuta da piante superiori. Al momento, l’applicazione a breve termine più plausibile delle microalghe nella riduzione dei gas serra è in combinazione con il trattamento di acque reflue o con applicazioni ambientali similari (v. par. 9.4.5). Uno dei principali svantaggi delle vasche all’aperto è che la coltura di alghe può venire facilmente contaminata da specie algali invasive, animali che si nutrono di alghe e infezioni biologiche di vario tipo (batteri, protozoi, ecc.) il che provoca la perdita della coltura. Proprio questo tipo di eventi ha limitato fino a poco tempo fa la coltura intensiva di microalghe in vasche all’aperto a poche specie, in particolare Spirulina e Dunaliella. Queste alghe possono essere facilmente mantenute in vasche all’aperto come colture continue perché il loro terreno di coltura contiene elevate quantità di bicarbonato o di sale che sfavoriscono la crescita della maggior parte delle altre alghe o di microrganismi. Tuttavia, un mezzo così selettivo riduce anche la produttività di tali sistemi, rispetto a coltivazioni in mare o in acqua dolce. Altre microalghe coltivate a fini commerciali in vasche all’aperto, soprattutto Chlorella e Haematococcus, richiedono quantità relativamente grandi di inoculo iniziale prodotto in condizioni controllate in fotobioreattori chiusi. La quantità di produzione di inoculo richiesta è un fattore chiave, ma sembra non presentare un limitazione rilevante (Benemann, 2004). Fotobioreattori chiusi Esistono fotobioreattori chiusi di molte forme, in particolare tubolari e a lamina piana. I fotobioreattori chiusi sono caratterizzati dall’impedire lo scambio diretto di 845 SOSTENIBILITÀ gas con l’atmosfera e questa definizione include le vasche coperte, anche se ventilate. Queste vasche coperte sono state usate a scopo commerciale per coltivare Chlorella e Spirulina sia in impianti di grandi dimensioni sia per far partire le colture iniziali in località in cui le temperature erano troppo basse per consentire un rapido inizio della produzione in primavera. Come già detto, sono pochi i motivi per impiegare vasche raceway coperte o altri fotobioreattori chiusi nelle colture intensive di alghe al fine di ridurre i gas serra, se non quando si vogliano produrre gli inoculi. I fotobioreattori chiusi, in particolare i sistemi tubulari ma anche quelli a lamina piana e altri modelli, sono recentemente molto utilizzati nelle applicazioni commerciali per l’ottenimento di prodotti ad alto valore aggiunto a partire dalle microalghe. In particolare, il carotenoide astaxantina (un agente colorante somministrato in acquacoltura nell’allevamento di salmoni), sintetizzato dalla microalga Haematococcus pluvialis (fig. 2C). Di fatto, i fotobioreattori chiusi sono stati l’elemento d’interesse principale della maggior parte delle attività di ricerca e sviluppo sulle microalghe negli ultimi due decenni. Sono stati studiati applicati alla riduzione dei gas serra durante gli anni Novanta in Giappone (Maeda et al., 1995; Usui e Ikenouchi, 1997) e più recentemente negli Stati Uniti (Bayless et al., 2001; Olaizola, 2003). L’importanza principale dei fotobioreattori chiusi è rappresentata dalla loro supposta capacità di garantire produttività molto più alte di quelle che si ottengono in vasca aperta. Tuttavia non sono molti gli studi che hanno messo direttamente a confronto le performance dei fotobioreattori chiusi con quelle delle vasche all’aperto. Recentemente, una sperimentazione di questo tipo è stata condotta nel centro ricerche di Monterotondo (Roma) di EniTecnologie con fotobioreattori tubulari che operavano all’esterno a fianco di vasche aperte utilizzando un gas di combustione simulato (Pedroni et al., 2004). Nel complesso, entrambi i sistemi hanno mostrato produttività simili, espresse in grammi di biomassa secca prodotta per m2 di superficie al giorno. Infatti, non esistono ragioni teoriche o pratiche convincenti per cui vasche aperte e fotobioreattori chiusi non debbano avere le stesse produttività se fatti funzionare nelle stesse condizioni. Una differenza è costituita dalla temperatura che durante il giorno è più alta nei sistemi chiusi di quanto non sia nelle vasche aperte. Tuttavia, questo può rappresentare tanto un problema quanto un vantaggio, poiché è necessario procedere al raffreddamento dei fotobioreattori nelle ore diurne mentre nelle vasche aperte è il raffreddamento per evaporazione che limita le temperature (eccetto che nelle zone eccezionalmente umide). Un’altra possibile differenza è che dai fotobioreattori chiusi c’è meno fuoriuscita, e quindi meno perdita, di CO2, ma ciò comporta anche un accumulo molto maggiore di O2 con inibizione della crescita algale. Lo 846 scambio di gas è il fattore limitante nella progettazione e nel funzionamento di questi sistemi chiusi (Weissman et al., 1988) e proprio un’insufficiente capacità di scambio gassoso è stata la probabile causa del fallimento di diverse iniziative commerciali che utilizzavano i fotobioreattori per produzione di Spirulina e Dunaliella. Il limite maggiore dei fotobioreattori chiusi è comunque il loro elevato costo capitale e operativo. La porzione in vetro (ovvero la copertura trasparente) rappresenta spesso solo una piccola parte del costo capitale complessivo, mentre il grosso è dovuto alle dimensioni unitarie relativamente piccole di tali sistemi, che possono raggiungere al massimo solo poche centinaia di metri quadrati, risultando quindi più piccole di oltre due ordini di grandezza rispetto alle dimensioni massime delle vasche all’aperto. Ciò significa che le apparecchiature di agitazione, gli scambiatori di gas, il rifornimento di nutrienti, i sistemi di raccolta e quelli di controllo devono essere tutti replicati e fatti funzionare centinaia di volte elevando i costi rispetto a un sistema costituito da un’unica vasca all’aperto. Il raffreddamento e la pulizia dei fotobioreattori chiusi rappresentano ulteriori e notevoli fattori di costo. I costi più bassi pubblicati per i fotobioreattori sono nell’ordine dei 50 $/m2 (Tredici, 1999), circa dieci volte maggiori di quelli per le vasche all’aperto (escludendo la raccolta della biomassa). Tuttavia, queste previsioni non considerano molte componenti importanti per cui le stime per i sistemi commerciali sono risultate molto più elevate, generalmente ben oltre 100 $/m2. In breve, in considerazione della mancanza di particolari vantaggi, dei molti limiti e, cosa più importante, dei loro costi elevati (oltre dieci volte maggiori di quelli delle vasche all’aperto), i fotobioreattori chiusi non sono utilizzabili per la produzione di biocarburanti da microalghe e per la riduzione dei gas serra e neanche per il trattamento di acque reflue. La concentrazione più alta di biomassa algale nei fotobioreattori chiusi, rispetto alle vasche all’aperto, riduce i costi di raccolta della biomassa (v. par. 9.4.4), ma questo ripaga solo in piccola parte i costi (di capitale e totali) molto più alti dei fotobioreattori chiusi rispetto a quelli delle vasche all’aperto. Un vantaggio dei fotobioreattori chiusi in realtà esiste: essi consentono la coltivazione di ceppi algali che non sarebbero coltivabili in vasche all’aperto a causa di specie invasive o del sopravvento di altre specie di microalghe o di organismi che si cibano di alghe. Tuttavia, anche in questo caso il vantaggio dei fotobioreattori chiusi rispetto alle vasche all’aperto è inferiore a quanto si pensi generalmente: benché la contaminazione possa essere ritardata, prima o poi tali sistemi vengono contaminati da alghe invasive, rotiferi o altri organismi indesiderati. Per liberarsi da tali invasori è necessario ripulire e riavviare il sistema, il che non è sempre efficace e in generale è più complicato di quanto sia nelle vasche all’aperto. ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA I fotobioreattori chiusi però possono avere, e avranno, un ruolo importante nelle tecnologie per diminuire i gas serra: la produzione dell’inoculo microalgale richiesto per le colture operate in vasche all’aperto su larga scala. Nei siti di produzione di questi inoculi, i fotobioreattori chiusi non verranno fatti funzionare per ottenere la massima produttività, ma per massimizzare la velocità di crescita, in modo da consentire la rapida formazione della coltura in condizioni che minimizzino la contaminazione. L’abbondante preparazione di inoculi prodotti in condizioni controllate sarebbe un passaggio molto critico qualora si dovessero coltivare ceppi algali migliorati geneticamente, come quelli con un contenuto ridotto di pigmento antenna (v. sopra). Tali ceppi risulterebbero particolarmente suscettibili alla contaminazione e al sopravvento da parte di ceppi selvatici di microalghe e di altri fattori biologici. La crescita di un inoculo di questo tipo di ceppi, per sistemi di vasche all’aperto su vasta scala, verrebbe effettuata in una successione di fotobioreattori chiusi di grandezza crescente e a costo per unità d’area e complessità tecnica decrescenti: partendo dalle colture in laboratorio e procedendo aumentando progressivamente le dimensioni di circa dieci volte, da piccoli (da 1 a 10 m2) fotobioreattori chiusi e sterili, fino a fotobioreattori chiusi sempre più grandi (da 100 a 1.000 m2 fino anche a 10.000 m2), ma progressivamente meno costosi (al m2). I più grandi saranno vasche raceway rivestite internamente e probabilmente coperte, che producono l’inoculo finale usato poi per avviare le grandi vasche non rivestite all’aperto, precedentemente descritte. Considerando che per una coltura di laboratorio sono necessari da sei a nove stadi di incremento (da circa 20 a 30 generazioni, ovvero da due a tre settimane di crescita), la produzione di un tale inoculo rappresenterebbe il 5% o meno dei costi di produzione totali. La produzione dell’inoculo basata su una serie di fotobioreattori chiusi diverrà una componente fondamentale nello sviluppo di sistemi di coltura intensiva di alghe per ridurre i gas serra che facciano uso di vasche all’aperto, di ceppi di alghe geneticamente migliorati per alta produttività e altre caratteristiche desiderabili. Va sottolineato che i fotobioreattori chiusi vengono spesso promossi come una tecnologia per la riduzione dei gas serra a prescindere. In Giappone, negli anni Novanta è stato condotto un imponente programma di ricerca e sviluppo per ridurre i gas serra che ha coinvolto oltre due dozzine di laboratori industriali ed è costato molte centinaia di milioni di dollari. Il suo principale obiettivo era lo sviluppo di fotobioreattori chiusi per la cattura di CO2 da centrali elettriche (Usui e Ikenouchi, 1997). In particolare, questo programma puntava all’utilizzo di fotobioreattori a fibre ottiche, che erano state proposte come soluzione al problema della saturazione della luce (Karube et al., 1992). Tuttavia, come si è notato in precedenza, questi sistemi richiedono l’utilizzo di grandi VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ specchi concentratori, estremamente costosi, per catturare l’energia luminosa e trasferirla alle fibre ottiche, oltre a comportare altri problemi. Un progetto simile è stato condotto recentemente negli Stati Uniti (Bayless et al., 2001) e ha anche ricevuto un’accoglienza favorevole sui giornali di divulgazione scientifica (Di Justo, 2005), essendo poi attuato con finalità commerciali per la cattura di CO2 e la produzione di oli algali. Ciononostante, tali tecnologie non sono applicabili alla riduzione dei gas serra. Anche i più semplici fotobioreattori tubulari, benché molto più economici di quelli a fibre ottiche, costano sempre più delle vasche aperte di oltre un ordine di grandezza e non possono, come già detto, essere presi in considerazione per applicazioni tese a ridurre i gas serra se non per la produzione di inoculi. Ciononostante, diverse industrie private negli Stati Uniti sono impegnate in attività di ricerca e sviluppo in questo settore (Olaizola, 2003). Un’impresa di recente istituzione, affiliata al Massachusetts Institute of Technology (MIT), sta dimostrando l’utilizzo, nei pressi di una piccola centrale elettrica nel campus del MIT, di fotobioreattori di vetro a forma triangolare con colonna a bolle (Vunjack-Novakovic et al., 2005. Sono progettati per catturare gli NOx e SOx, unitamente al CO2, dai gas di combustione di una centrale elettrica allo scopo di produrre oli algali che possono essere convertiti in biodiesel. In questi reattori con colonna a bolle, tuttavia, i coefficienti di trasferimento di massa sono troppo bassi e/o le richieste energetiche sono troppo alte (Miyamoto et al., 1988; Nagase et al., 2001) per tale applicazione, anche volendo ignorare gli aspetti economici decisamente sfavorevoli e l’enorme numero di fotobioreattori che sarebbe necessario installare in pratica. In conclusione, i fotobioreattori chiusi hanno un ruolo importante, quasi critico, nelle applicazioni delle tecnologie con microalghe per la riduzione dei gas serra a produzione dell’inoculo, in particolare per i ceppi di alghe selezionati per l’elevata produttività e altre caratteristiche favorevoli. Tuttavia, sono decisamente troppo costosi per quanto riguarda il costo sia capitale sia operativo, anche nelle condizioni più favorevoli e non forniscono alcun vantaggio decisivo rispetto alle vasche all’aperto. Dal momento che l’utilizzo dei fotobioreattori non può essere considerato l’approccio principale alla diminuzione dei gas serra mediante microalghe, nel resto di questo lavoro verranno prese in considerazione solo le colture in vasche all’aperto. 9.4.4 Raccolta delle microalghe e conversione in carburanti Raccolta della biomassa microalgale La coltivazione di ceppi microalgali ad alta produttività in vasche all’aperto utilizzando CO2 da gas di com- 847 SOSTENIBILITÀ bustione provenienti da centrali elettriche o fonti simili è solo il primo passo in un processo di riduzione dei gas serra. La biomassa algale deve essere poi raccolta e convertita in un carburante rinnovabile, il cui utilizzo possa sostituire i carburanti fossili (v. ancora fig. 3). La raccolta delle microalghe, cioè la concentrazione delle microscopiche cellule algali dalle soluzioni diluite contenute nelle vasche di coltura intensiva, rappresenta un passaggio fondamentale e un limite nei processi di produzione. Solitamente, la concentrazione della biomassa microalgale nelle vasche all’aperto è solo di poche centinaia di milligrammi per litro di biomassa secca e anche le colture con produttività molto elevata sono ben al di sotto di 1 g/l. La biomassa deve quindi essere concentrata di oltre 100 volte per raggiungere una densità sufficiente (almeno 50 g/l di biomassa e preferibilmente 100 g/l o oltre) a consentire il suo successivo processamento e conversione a biocombustibile. Negli anni sono stati sviluppati tre tipi principali di tecniche che verranno brevemente descritti di seguito: la centrifugazione, la filtrazione e la flocculazione, quest’ultima seguita da sedimentazione o da flottazione ad aria disciolta. Sono stati studiati anche molti altri approcci, come le separazioni magnetiche ad alto gradiente o lo sfruttamento della capacità di nuotare di alcune alghe, che però non si sono rivelati praticabili e pertanto non verranno ulteriormente esaminati. La centrifugazione può essere utilizzata per la maggior parte dei tipi di alghe benché sia sconsigliabile per quelle con cellule molto fragili, come Dunaliella. Il problema principale sono i costi molto alti, sia d’acquisto sia operativi, delle centrifughe, ben oltre i 1.000 $/t (massa secca), troppo elevati per qualsiasi processo di riduzione dei gas serra e anche per lo smaltimento delle acque reflue. La centrifugazione può essere presa in considerazione in un passaggio di raccolta secondario o finale al fine di aumentare le concentrazioni della biomassa, per esempio, da 10-20 g/l a 100-200 g/l (massa secca) che, richiedendo il trattamento di una quantità molto più piccola di liquido, riduce i costi quasi in proporzione. Tale concentrazione secondaria è stata proposta in diversi studi di ingegneria economica, possibilmente in associazione all’estrazione di oli da biomasse algali con concentrazioni di olio particolarmente elevate (Benemann e Oswald, 1996). La filtrazione viene usata in campo commerciale per raccogliere Spirulina, una specie microalgale filamentosa e questo processo risulta relativamente a basso costo usando i cosiddetti microfiltri: filtri rotanti con un controlavaggio, filtri inclinati o vibrofiltri. In ogni caso, la filtrazione è limitata a tipi di microalghe filamentose o che producono colonie di dimensioni tali da venir trattenute da filtri con pori superiori a 20 mm, mentre le microalghe unicellulari o che formano colonie più piccole (solitamente di dimensioni inferiori a 20 mm) non 848 possono essere raccolte efficacemente con questi metodi. Infatti filtri con maglie più strette impediscono il flusso dell’acqua e si intasano rapidamente. La filtrazione richiede spesso anche un passaggio di concentrazione secondario, quale una filtropressa o una centrifugazione, prima dell’ulteriore processamento della biomassa. La filtrazione mediante menbrane (per es., cross-flow filtration) è un’altra possibilità vantaggiosa in alcune applicazioni, ma troppo costosa per quelle di riduzione di gas serra. La flocculazione chimica, utilizzando calce, allume, cloruro di ferro e/o polielettroliti, è il metodo più generale e diffuso per raccogliere le microalghe, applicabile alla maggior parte dei ceppi. Essa sfrutta la carica negativa delle pareti cellulari che viene neutralizzata dall’agente flocculante consentendo la formazione di grandi fiocchi che poi vengono recuperati per sedimentazione o per flottazione ad aria disciolta. Quest’ultima opzione è quella generalmente preferita perché, anche se un po’ più costosa, produce una biomassa più concentrata. La raccolta con flocculanti chimici è usata in numerosi impianti di smaltimento delle acque reflue e in quelli di produzione commerciale di Dunaliella. Tali processi sono, tuttavia, ancora piuttosto costosi, sia per i flocculanti sia per l’operatività, e non sarebbero applicabili in processi di riduzione dei gas serra a basso costo. Inoltre, il flocculante chimico può interferire nel processamento della biomassa, nella digestione anaerobica o nel riciclaggio dei nutrienti. Molte microalghe, forse la maggior parte, sono in grado di bioflocculare. Questo fenomeno consiste nell’aggregazione spontanea delle cellule algali in grandi fiocchi che si depositano poi abbastanza rapidamente (in base alla legge di Stokes, secondo cui la velocità di caduta è in funzione del cubo del diametro del fiocco). Sfortunatamente, il processo di bioflocculazione non è ancora ben conosciuto: dipende dalla produzione, da parte delle cellule algali, di polimeri che fanno aggregare le cellule tra loro. Che cosa inneschi il fenomeno della bioflocculazione non è chiaro, ma viene spesso osservato in laboratorio, in natura e anche nelle vasche di trattamento delle acque reflue. Diversi fattori entrano in gioco: la specie di alga, persino il ceppo, e le condizioni ambientali; la scarsità di azoto e di altri nutrienti, infatti, è favorevole alla bioflocculazione. Mancano tuttavia informazioni e studi specifici. In uno studio condotto sul lungo periodo in vasche di trattamento di acque reflue su scala pilota, sono state utilizzate due vasche ad alta velocità di 1.000 m2 e la coltura algale, dominata da Micractinium sp. (fig. 1A), veniva rimossa dalle vasche e lasciata riposare per 24 ore. A quel punto più del 90% delle cellule di almeno una delle due vasche era andato incontro a flocculazione spontanea (Benemann et al., 1980). Tuttavia, questo studio non ha mai avuto seguito e sono necessarie ulteriori ricerche per poter trasformare ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA questo fenomeno in una tecnologia affidabile ed efficace. La bioflocculazione seguita dalla sedimentazione per gravità (come operato nel processo a fanghi attivi nei convenzionali sistemi di trattamento delle acque reflue) è certamente l’opzione di raccolta a più basso costo e rappresenta il sistema preferenziale applicabile ai processi di riduzione dei gas serra con microalghe. Costituisce pertanto il riferimento per la maggior parte delle analisi tecno-economiche in questo campo (Benemann e Oswald, 1996), anche se non è ancora stata applicata in pratica. In conclusione, la raccolta della biomassa microalgale a basso costo resta una grande sfida per il settore di ricerca e sviluppo. Senza questa tecnologia non è possibile raggiungere l’obiettivo di applicare questi sistemi biologici nella riduzione dei gas serra e neppure al trattamento delle acque reflue. Tuttavia, esiste sufficiente esperienza per suggerire che la bioflocculazione, magari in combinazione con la centrifugazione, possa raggiungere gli obiettivi di costo per la riduzione dei gas serra. L’ulteriore studio e lo sviluppo di questo processo rimangono un requisito fondamentale, unitamente alla produttività e alla coltivazione controllata di specifiche specie algali, nello sviluppo di una tecnologia per produrre le microalghe che risulti pratica e a basso costo. Conversione della biomassa algale in carburanti Il passaggio finale in un processo di riduzione dei gas serra basato sulle microalghe è la conversione della biomassa raccolta a carburante (v. ancora fig. 3). Questo è forse il passaggio meno difficile, almeno rispetto alle difficoltà più rilevanti collegate alla produzione di biomassa concentrata (vale a dire con un minimo di massa solida tra il 5 e il 10%), di elevata produttività e a basso costo. L’alto contenuto d’acqua della biomassa raccolta rende impraticabile l’essiccazione o qualsiasi processo di conversione termochimica (per esempio, combustione, gassificazione, pirolisi). L’essiccazione al sole è possibile in teoria, ma richiederebbe notevoli estensioni di terreno in più (circa il 5-10% dell’area della vasca), il rivestimento in plastica dei letti in essiccazione e attrezzature particolari che in pratica non risulterebbero economiche. Aspetto ancora più critico è l’elevato contenuto di azoto della biomassa algale che depone a sfavore di qualsiasi processamento termochimico, visto che ne risulterebbe un’inaccettabile produzione di NOx e, cosa più importante, la perdita di questa risorsa nutritiva essenziale. Quindi, benché in alcuni progetti sia stato suggerito l’uso della biomassa di microalghe come combustibile solido, anche come diretto sostituto del carbone (Matsumoto et al., 1995), questa opzione non viene ritenuta né pratica né realizzabile. E neppure lo è quella di sottoporre a pirolisi la biomassa algale per produrre olio combustibile. Quindi, i processi di conversione a combustibile della biomassa microalgale si basano su VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ processi biologici, in particolare fermentazioni per produrre metano o etanolo o il metabolismo delle alghe stesse per ottenere oli e idrocarburi, utilizzabili nella conversione a biodiesel e per sviluppare idrogeno. Queste possibilità verranno discusse qui di seguito. Sono state condotte molte ricerche finalizzate alla produzione di metano (in realtà biogas con una composizione di circa 50:50 CH4:CO2) dalla biomassa algale. Queste attività sono soprattutto in relazione al lavoro sul trattamento di acque reflue usando le microalghe dal momento che la fermentazione per produrre metano (digestione anaerobica) è una tecnologia ampiamente praticata in quel campo ed è anche un mezzo potenzialmente a basso costo e con rendimenti elevati per recuperare energia dalla biomassa. La digestione anaerobica dei fanghi di acque reflue, sia quelli primari (acque di scarico sedimentate) sia quelli secondari (fanghi attivi sedimentati) viene effettuata negli impianti di trattamento in grandi contenitori d’acciaio o di cemento. Di solito, questi vengono mantenuti sotto agitazione mediante ricircolo di liquido o di gas, riscaldati a temperature mesofiliche (30-40 °C) o termofiliche (50-65 °C), con un carico solido solitamente tra il 5 e il 10% e velocità idraulica di diluizione da 15 a 25 giorni. Si tratta di una tecnologia consolidata basata sulla naturale decomposizione anaerobica della biomassa. Tuttavia, nella digestione anaerobica della biomassa microalgale, appaiono evidenti due importanti questioni: • molte microalghe, in particolare quelle verdi come Scenedesmus o Micractinium, che generalmente dominano nelle vasche ad alta velocità di trattamento delle acque reflue, sono piuttosto resistenti alle fermentazioni anaerobiche, il che implica basse rese e/o richiede tempi di fermentazione più lunghi; • l’elevato contenuto di azoto della massa microalgale, solitamente l’8-10% del peso secco della materia organica, produce livelli molto alti di ammoniaca nel fermentatore, che provocano alla fine l’inibizione del processo e, quindi, bassi rendimenti in termini di metano prodotto, anche allungando i tempi di fermentazione. Questi due fattori possono essere affrontati con strategie combinate di pretrattamento della biomassa (per esempio, trattamento termico), tempi di fermentazione più lunghi, adattamento della popolazione batterica a elevati livelli di ammoniaca e codigestione con biomassa contenente livelli di azoto inferiori. Le fermentazioni più lunghe richiedono fermentatori meno costosi e a questo scopo i reattori di terracotta coperti e rivestiti in plastica, già utilizzati nella digestione del concime animale, appaiono economici ed efficienti dal momento che il basso costo per unità di volume consente una ritenzione più lunga della biomassa. Un approccio complementare consiste nel coltivare biomassa algale a minor contenuto di azoto, che consente una maggiore digeribilità e un minor effetto 849 SOSTENIBILITÀ inibente dell’ammoniaca. D’altra parte, i cianobatteri come Spirulina, o le specie che fissano l’azoto, vengono facilmente fermentati a gas metano anche se, come già sottolineato, il loro elevato contenuto in azoto causa inibizione da ammoniaca. Come già dichiarato, a ciò si può ovviare aggiungendo rifiuti a basso tenore di azoto (rifiuti alimentari o residui agricoli), facendo adattare le colture batteriche, o, di nuovo, coltivando biomassa a basso tenore d’azoto. In conclusione, la produzione di metano dalla biomassa di microalghe è tecnicamente ed economicamente fattibile, ma richiede ancora un certo investimento nel settore della ricerca e sviluppo per migliorarne le rese e l’efficienza complessiva. Rispetto alla digestione anaerobica, ben poco lavoro è stato fatto sulle fermentazioni a etanolo della biomassa algale. La ragione è che le fermentazioni a etanolo, solitamente ottenute con il lievito, sono limitate a zuccheri, amidi e carboidrati simili facilmente fermentabili. Tipicamente le microalghe contengono solo il 20% circa o meno di tali carboidrati, presenti sotto forma di amido nelle alghe verdi e di glicogeno nei cianobatteri. Affinché la produzione di etanolo sia praticabile, è necessaria una biomassa algale con un alto contenuto in carboidrati fermentabili, preferibilmente superiore al 60% del peso secco. Questo accumulo così elevato di amido o di glicogeno si osserva solo in condizioni di limitazione di azoto, in cui la crescita cellulare è ridotta e buona parte, o anche la maggior parte, del CO2 fissato fotosinteticamente è immagazzinato sotto forma di riserve. Il problema è quindi se sia possibile ottimizzare un alto contenuto in carboidrati con un’elevata produttività (ovvero fissazione di CO2) sfruttando la limitazione di azoto. In sintesi, da esperimenti di laboratorio condotti con colture batch per brevi periodi sembra che una riduzione del contenuto di azoto fino al 50% non riduca necessariamente la produttività in modo significativo. Infatti, poiché uno dei primi effetti della limitazione di azoto è la riduzione del contenuto di pigmento (come risulta evidente dallo scolorimento delle cellule), in condizioni di limitazione di azoto può anche essere possibile un aumento della produttività (si veda la discussione precedente sulla relazione tra pigmenti antenna e produttività). Queste osservazioni devono ancora essere dimostrate e applicate alle colture operate in vasca all’aperto. In conclusione, la limitazione di azoto è uno strumento fondamentale nella produzione di biomassa algale con elevato contenuto di carboidrati (o di oli, v. oltre) e nel possibile miglioramento delle modalità per raccoglierla e digerirla, come detto precedentemente. Gli altri principali combustibili ottenibili dalle microalghe sono quelli che le alghe possono produrre da sé: oli, sia vegetali sia idrocarburi, quanto idrogeno. La produzione di idrogeno è stata trattata dettagliatamente in altra sede (v. cap. 4.3) e non sarà quindi ulteriormente discussa. La produzione di oli e idrocarburi combustibili a opera 850 delle microalghe è stata un importante obiettivo delle attività di ricerca e sviluppo, in particolare nell’ambito dell’Aquatic Species Program sponsorizzato dal Department of Energy statunitense nel periodo 1980-95 (Sheehan et al., 1998). L’interesse in questo campo risale agli anni Quaranta, quando si osservò che in condizioni particolari di limitazione di azoto alcune alghe verdi presentavano un contenuto molto alto di oli vegetali (trigliceridi) superiore al 50%, e talvolta anche all’80%, del peso secco totale della biomassa. Anche se alcuni dei valori più alti possono non essere credibili, certamente alcuni ceppi algali, soprattutto tra le alghe verdi e le diatomee, accumulano grandi quantitativi di trigliceridi di riserva, così come altre specie, o talvolta anche ceppi della stessa specie, accumulano amido. Come nel caso della produzione di carboidrati, l’aspetto centrale è la relazione tra accumulo di oli e produttività. Anche qui, è possibile ottenere una produttività relativamente alta in laboratorio, ma solo in colture non continue (Tillett e Benemann, 1987) e l’ottenimento di questi risultati con colture intensive resta ancora da dimostrare. Inoltre, è importante sottolineare che l’immagazzinamento di carboidrati è metabolicamente più efficiente dell’immagazzinamento di trigliceridi e quindi preferibile. Tuttavia, la scelta tra alghe ricche in carboidrati fermentabili (per fermentazioni a etanolo) o in oli vegetali (per la conversione a biodiesel) è secondaria ai problemi di produttività, controllo delle colture e raccolta della biomassa. In ogni caso, entrambe le opzioni richiedono notevoli investimenti nel settore di ricerca e sviluppo. Recentemente, le microalche sono state accreditate come fonti di olio ad alto rendimento, in grado di produrre centinaia di barili di biodiesel per ettaro all’anno (Huntley e Redalje, 2006). Tuttavia queste affermazioni devono essere ridimensionate essendo basate su errate proiezioni di produttività ipotetiche, e anche teoriche (per es., Benemann e Oswald, 1996). Assommando tali errori, nel citare studi poco credili e nel presentare analogie false con attività commerciali fallite, e inoltre proponendo i fotobioreattori come componenti maggiori o anche prevalenti in tali processi (Vunjak-Novakovic et al., 2005), si giunge facilmente a sostenere che la produzione algale di biodiesel è prossima alla convenienza economica. Così, malgrado le molte attività commerciali in questo campo, tutte ammantate di grande secretezza ma in attesa di stupefacenti riduzioni dei costi e alti rendimenti, la produzione di biodiesel algale, al di fuori delle applicazioni per il trattamento delle acque reflue, richiede ancora un grande sforzo di lungo termine in ricerca e sviluppo, la cui riuscita non è poi così certa. Un’interessante possibilità per la produzione di olio da parte delle microalghe è costituita dall’alga verde Botryococcus braunii, una specie che anche in normali condizioni di crescita (vale a dire senza limitazioni di ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA azoto) contiene fino al 50% in peso di idrocarburi puri (da 26 a 40 C circa e qualche insaturazione), una potenziale fonte di combustibili e lubrificanti particolari (Metzger e Largeau, 2005). Infatti, le fioriture naturali di queste alghe, che arrivavano a riva, in Australia venivano già usate un secolo fa come combustibile. Alcuni depositi di oli contengono idrocarburi derivati da molecole prodotte da queste alghe. Ceppi raccolti in luoghi diversi appartengono a tipi differenti, ciascuno caratterizzato dal suo corredo di molecole che sono state ampiamente studiate negli ultimi due decenni. Resta un mistero il perché questa specie produca, nell’ambito del suo normale metabolismo, quantità così elevate di idrocarburi che non vengono utilizzati come riserva di energia o di carbonio. La coltura intensiva di queste alghe è stata proposta per la produzione su larga scala di combustibile rinnovabile (Benemann e Oswald, 1996), come quella immaginata dall’Aquatic Species Program statunitense. Eppure, i progressi nella coltura intensiva di B. braunii sono stati esigui se non nulli, soprattutto a causa della crescita molto lenta di queste specie, con tipici tassi di raddoppio da 3 a 7 giorni (rispetto a quelli di alcune ore di molte altre alghe). È plausibile che la ragione delle velocità di crescita lente sia la notevole quota di energia metabolica destinata alla produzione di idrocarburi in gran quantità. Ciò rende questa microalga non competitiva nelle colture intensive all’aperto, dato che altre specie, non altrettanto gravate da tale carico metabolico, crescono molto più in fretta, prevalendo presto nella vasca. Tuttavia, questo non impedisce necessariamente l’utilizzo di B. braunii in colture intensive per la riduzione dei gas serra. Come si è fatto notare in precedenza, si può ricorrere ai fotobioreattori chiusi per produrre l’inoculo necessario per le colture intensive in vasche all’aperto anche per ceppi che non siano molto competitivi fra quelli di tipo selvatico. Inoltre, una velocità di crescita massima bassa non è necessariamente correlata a una bassa produttività in vasche a elevata densità di alghe in cui la velocità di crescita è determinata dalla velocità di diluizione idraulica imposta, e non alla relativa velocità massima di divisione cellulare. La coltura intensiva di B. braunii costituisce un obiettivo a lungo termine della tecnologia che utilizza le microalghe per la produzione di combustibili rinnovabili e la riduzione dei gas serra. In ogni caso, la sola produzione di combustibili rinnovabili dalla biomassa algale non si giustifica economicamente, almeno nell’immediato futuro, anche considerando i benefici derivanti dalla riduzione dei gas serra associati a tali processi e il recente aumento di costo dei combustibili fossili: la biomassa ottenuta da piante superiori è molto più economica. Infatti, la biomassa lignocellulosica è disponibile a molto meno di 100 $/t e amido o zuccheri costano poco più di 100 $/t mentre nella migliore delle ipotesi, nel breve o medio termine (vale a dire meno di 20 anni), la biomassa algale VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ continuerà a costare molto di più, prima della conversione a combustibili. Perciò la produzione di combustibili rinnovabili dalle microalghe deve essere associata ad altri servizi ambientali quali coprocessi di trattamento delle acque reflue, o coproduzione di altri prodotti, come di seguito discusso. 9.4.5 Processi multiuso con microalghe per la riduzione dei gas serra Trattamento di acque reflue urbane e utilizzo del CO2 Negli Stati Uniti e in molte altre nazioni le acque reflue urbane sono spesso trattate con le cosiddette vasche di ossidazione. Si tratta di vasche relativamente profonde (meno di 60 cm), che non vengono agitate meccanicamente. Negli Stati Uniti, in effetti, il numero di impianti di trattamento delle acque reflue che utilizzano tali vasche con microalghe è superiore a quello degli impianti che utilizzano qualsiasi altra tecnologia. Tuttavia, la maggior parte di questi sistemi, se non tutti, sono di piccole dimensioni, tipicamente servono solo poche migliaia, o anche solo alcune centinaia, di persone e nell’insieme trattano soltanto una piccola frazione del totale delle acque reflue urbane. In queste vasche si effettua sia il processo primario di trattamento (decantazione dei materiali solidi) sia quello secondario (riduzione del fabbisogno biologico di O2, Biological O2 Demand, BOD). La funzione principale delle microalghe è la produzione dell’O2 disciolto necessario ai batteri per decomporre i rifiuti organici. Nei trattamenti convenzionali di acque reflue, come i sistemi a fanghi attivi, a questo scopo si inietta aria nei rifiuti con dispendi energetici e costi significativi (circa 1 kWh di elettricità per chilo di O2 trasferito). Approssimativamente, 1 kg di O2 equivale a 1 kg di biomassa algale che produce, attraverso la digestione anaerobica, tanto combustibile rinnovabile quanto ne consuma il processo convenzionale a fanghi attivi. Semplificando, si può dire che il trattamento di acque reflue con microalghe produce la stessa quantità di combustibile rinnovabile di quella che un trattamento convenzionale di acque reflue consuma in combustibile fossile, con potenziale doppio di riduzione di gas serra: evitando l’uso di combustibili fossili e producendo combustibile rinnovabile che sostituisce combustibili fossili. I processi avanzati per il trattamento delle acque reflue utilizzano vasche raceway con agitazione ad alta velocità che producono molta più biomassa algale per area unitaria e quindi anche più O2 rispetto alle vasche convenzionali, consentendo in tal modo carichi maggiori (volume di acque reflue preso in carico per ettaro al giorno). Comunque, in entrambi i casi (vasche di ossidazione o vasche ad alta velocità), il fattore fondamentale resta 851 SOSTENIBILITÀ il costo elevato della raccolta della biomassa algale mediante flocculazione chimica, come già detto in precedenza. La raccolta mediante bioflocculazione sarebbe preferibile per via dei costi contenuti, ma ciò richiederà molto probabilmente lo sviluppo di tecniche per la coltura intensiva di specifici ceppi algali che siano in grado di bioflocculare bene nelle vasche per il trattamento di acque reflue, anche nel caso di vasche d’ossidazione ad alta velocità di scarico. Tale tecnica, finora ancora intentata, costituisce oggetto di ricerca futura. Inoltre, in queste vasche per il trattamento di acque reflue la produttività è limitata dalla mancanza di CO2 che per il momento non è utilizzato in tali processi. Ciò rappresenta un’altra opportunità per ulteriori sviluppi tecnologici. Dopo l’eliminazione dei solidi in sospensione e del BOD, l’eliminazione dei nutrienti (soprattutto N e P) per raggiungere il livello di trattamento terziario rappresenta sia una grande necessità sia anche una notevole potenzialità per le tecnologie che utilizzano le microalghe nel trattamento delle acque reflue. Questo perché la rimozione delle sostanze nutritive con le tecnologie convenzionali è molto costosa, e ad alto consumo energetico, mentre le microalghe possono eliminare i nutrienti a costi aggiuntivi relativamente bassi rispetto al solo trattamento secondario. Pertanto, la rimozione dei nutrienti richiede il rifornimento di CO2 la cui carenza, a dire il vero, limita già il trattamento secondario. L’aggiunta di CO2 migliorerebbe decisamente il processo di coltivazione algale nel trattamento delle acque reflue aumentando sia la produttività sia l’affidabilità del processo, consentendo la coltivazione di ceppi algali specifici e selezionati e, plausibilmente, un’efficace raccolta della biomassa attraverso la bioflocculazione. Poiché le alghe verrebbero fatte crescere al limite di azoto presente nelle acque reflue, verrebbe prodotta una biomassa algale relativamente povera in azoto che permetterebbe anche l’eliminazione di tutto il fosforo presente nelle acque reflue. Come discusso precedentemente, questa biomassa sarebbe inoltre ricca in carboidrati o forse anche in oli. Se questa biomassa fosse sottoposta a digestione anaerobica (fermentazioni a metano) e se il biogas prodotto fosse usato per generare elettricità, il gas di combustione fornirebbe tutto il CO2 necessario, dal momento che le acque reflue contengono quantità di carbonio sufficienti a compensare eventuali perdite. Infatti, tale quantità di carbonio è accessibile in tipiche acque reflue provenienti da un simile processo tanto da consentire anche l’esportazione di considerevoli volumi di biocombustibili, come biocombustibili liquidi (per es., biodiesel o etanolo). I due fattori principali da tener presente in questi processi sono la variabilità stagionale, in particolare della produttività, che incide sulla performance del trattamento delle acque reflue, la variabilità in nutrienti nelle acque reflue, cioè la quantità di azoto e fosforo, e il loro rapporto reciproco. I livelli di azoto e fosforo nella biomassa 852 algale possono variare significativamente, più di tre volte per il fosforo (dallo 0,4 all’1,2%) e solo un po’ meno per l’azoto (dal 4 al 10%), con possibili rapporti N:P stimati variare da circa 4 a oltre 20 volte. Questo è l’intervallo di valori di azoto e fosforo nella biomassa e dei rapporti reciproci che si ritiene consentano alte produttività, ma resta da determinare sperimentalmente quale sia l’intervallo effettivo. In ogni caso, un requisito importante di questi processi di trattamento delle acque reflue per eliminare i nutrienti è che consentono notevoli adattamenti sia alle variazioni stagionali della produttività sia alla composizione delle acque reflue. Nel trattamento delle acque reflue con aggiunta di CO2 sopra descritto i prodotti che si ottengono in uscita sono acqua rigenerata, biogas (metano) combustibile, eventualmente biodiesel o etanolo, e residui del fermentatore anaerobico. Questi ultimi possono essere utilizzati come fertilizzanti per terreni agricoli benché, se classificati come fanghi di depurazione, negli Stati Uniti non avrebbero i requisiti per essere considerati biofertilizzanti organici, il che invece ne determinerebbe un prezzo migliore. Le acque reflue urbane, a causa della loro variabilità e della potenziale presenza di contaminanti tossici, non consentono la produzione di coprodotti aggiuntivi, quali mangimi o biopolimeri. Ciononostante, si reputa che gli aspetti economici del trattamento delle acque reflue urbane mediante l’uso di vasche ad alta velocità siano favorevoli anche in confronto ai processi secondari convenzionali (vale a dire i fanghi attivi) e che possano essere ancor più vantaggiosi per il trattamento terziario (rimozione dei nutrienti; Eisenberg et al., 1981; Green et al., 1994). Comunque, devono ancora essere effettuati studi dettagliati sui costi ingegneristici per siti specifici allo scopo di quantificare l’entità di questi vantaggi. Inoltre, sono necessarie attività di ricerca e sviluppo per dimostrare l’effettiva possibilità di ottenere il trattamento terziario con un processo basato sulle microalghe che sia al contempo economico e ad alta produttività. Il processo di trattamento delle acque reflue fertilizzato da CO2 utilizzando vasche ad alta velocità consentirebbe di raggiungere il trattamento terziario con un impatto molto minore (in termini di necessità di terreno) rispetto alle attuali tecnologie a vasche convenzionali, che raggiungono al massimo solo i livelli di trattamento secondario. Con questi sistemi si potrebbero generare rese energetiche nette in uscita e un residuo ricco in nutrienti adatto come fertilizzante. Lo sviluppo di un tale processo rappresenta una delle maggiori priorità in questo settore. Trattamento di acque reflue agricolo-industriali e riciclaggio dei nutrienti Questi processi sono simili al trattamento delle acque reflue urbane descritto in precedenza: consistono infatti ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA nella coltivazione di microalghe in acque reflue agricole e industriali aventi un contenuto in nutrienti (N, P, ecc.) sufficiente a consentire il trattamento secondario (rimozione di BOD) e il trattamento terziario (rimozione dei nutrienti). La differenza principale è la natura dei rifiuti che rispetto alle acque reflue urbane sono generalmente più definiti, meno variabili e meno soggetti alla presenza di contaminanti tossici. Le acque reflue agricole hanno inoltre una marcata stagionalità, sono spesso in quantità inferiore e sono più disperse di quelle urbane. Inoltre il loro trattamento non è sempre una priorità. Tuttavia, con l’intensificazione dell’agricoltura (in particolare allevamenti suini e impianti lattiero-caseari su vasta scala che producono grandi volumi di rifiuti liquidi relativamente diluiti), il trattamento delle acque reflue delle stalle è diventato un problema importante e un’opportunità per applicare le tecnologie che utilizzano le microalghe per la rimozione dei nutrienti. Un’applicazione correlata è il trattamento delle acque reflue in acquacoltura. Per esempio, nel Sud degli Stati Uniti diverse decine di migliaia di ettari di vasche di pesce gatto producono grandi quantità di rifiuti che vengono trattati in situ mediante intensa aerazione meccanica. Dal momento che questi sistemi di acquacoltura utilizzano già vasche per allevare il pesce, le vasche con alghe per il trattamento dei rifiuti costituiscono un’aggiunta relativamente semplice. Un processo di questo tipo (Partitioned Aquaculture System), che utilizza vasche raceway con miscelazione mediante ruote a pale, è stato sviluppato alla Clemson University, South Carolina (USA), per il trattamento e il ricircolo dell’acqua proveniente dalle vasche dei pesci (Brune et al., 2003a). In questo processo, la densa coltura algale prodotta nelle vasche raceway viene indirizzata verso i recinti che contengono i pesci in modo da farle portare via i rifiuti e contemporaneamente fornire O2 per i pesci. Questi a loro volta favoriscono, tramite la filtrazione branchiale, la flocculazione delle alghe e ne permettono la facile raccolta per sedimentazione. La mitigazione dei gas serra correlata al processo algale potrebbe maturare a seguito del consumo evitato di energia degli aeratori di superficie attualmente usati in questo tipo di industria e inoltre per l’ottenimento di biogas dalla biomassa algale raccolta. Questa può anche essere utilizzata per ridurre la quantità di mangime da dare ai pesci, migliorando ulteriormente l’economia del processo ma anche il bilancio dei gas serra, in quanto la produzione convenzionale dei mangimi per animali dà luogo a notevoli emissioni di tali gas. Un processo simile è attualmente oggetto di studio allo scopo di eliminare i nutrienti nel Salton Sea, in California (v. oltre). Potenzialità anche maggiori dei rifiuti dell’acquacoltura le hanno i rifiuti animali, in particolare quelli provenienti da allevamenti di suini e da caseifici, alcuni dei quali producono correnti di rifiuti equivalenti, in VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ termini di BOD e contenuto in nutrienti, a quelle generate da piccole cittadine. La permanenza di tali rifiuti in acqua e sul terreno è sempre più ristretta per il rischio di contaminazione delle falde idriche. D’altra parte, il loro spostamento dal sito di generazione è impraticabile data la loro natura diluita. Le vasche di microalghe possono essere utili per eliminare i nutrienti da queste acque reflue e per concentrarli in una biomassa che può poi essere trasportata in un sito più distante per applicazioni sul terreno, mentre al contempo si genera biocarburante e si abbattono le emissioni di gas serra. Come nel caso delle acque reflue urbane, anche il trattamento delle acque reflue di origine animale è limitato dalla disponibilità di CO2. Il rifornimento di CO2 incrementerebbe sia la produttività algale, sia l’efficacia del trattamento, consentendo probabilmente il controllo delle specie algali e la raccolta mediante bioflocculazione. Il controllo sulle specie algali permetterebbe inoltre di utilizzare la biomassa come mangime per gli animali, il che migliora l’economia di questi processi altrimenti meno vantaggiosi di quelli per il trattamento delle acque reflue urbane. Le alghe essiccate verrebbero usate come mangime di alta qualità per i polli, le alghe umide come nutrimento per i suini, mentre le alghe sotto forma di pellet possono acquisire valore quando addizionate ad alimenti per i ruminanti e utilizzati in acquacoltura. La pratica fattibilità di questo processo rimane tuttavia da dimostrare. Produzione di biofertilizzanti Una delle principali fonti di emissione di gas serra al mondo è la produzione di fertilizzanti azotati che utilizza combustibili fossili mediante il processo di HaberBosch. Negli Stati Uniti, dove a questo scopo si usa gas naturale, vengono emessi oltre 3 kg di CO2 per ogni kg di fertilizzante azotato prodotto (West e Marland, 2002). In alcune nazioni, per esempio la Cina, come combustibile fossile si usa il carbone e le emissioni sono di conseguenza molto più alte. Benché i fertilizzanti fosfati richiedano poco combustibile fossile per l’estrazione e la successiva produzione, il trasporto può determinare emissioni totali pari a circa 1 kg di CO2/kg di fosforo consegnato all’azienda agricola. Dato che nella biomassa algale N e P hanno un contenuto rispettivamente del 10 e dell’1%, ciò equivale ad abbattere circa 0,3 kg di CO2/kg di biomassa algale se l’azoto e il fosforo di questa biomassa vengono riutilizzati in agricoltura. In confronto, la biomassa di microalghe (tipicamente al 45% di C) potrebbe abbattere circa 0,6 kg di CO2 se venisse convertita a biogas e usata come combustibile rinnovabile in sostituzione del gas naturale fossile. Recuperando e utilizzando tali quantitativi di fertilizzanti nella biomassa di microalghe si potrebbe aumentare la riduzione dei gas serra del 50% o più. Inoltre, il valore economico di questi nutrienti e i benefici ambientali del loro recupero sarebbero equiparabili o superiori a quelli dei 853 SOSTENIBILITÀ biocarburanti. Perciò, il riutilizzo dei nutrienti dai processi di trattamento delle acque reflue di origine urbana o agricola sopra descritti rappresenta un obiettivo centrale per qualsiasi processo di abbattimento dei gas serra che utilizzi le microalghe. Il problema è fare arrivare questi nutrienti alle colture, dopo la fermentazione a metano. Assumendo che vi sia un 10% di carica solida nel fermentatore anaerobico, il contenuto in azoto nell’effluente è solo l’1% in peso (la maggior parte di esso è sotto forma di ammoniaca) e il rimanente è per circa il 95% acqua. Ciò limita le possibili distanze di trasporto e richiede di integrare quanto più da vicino il trattamento delle acque reflue con le pratiche agricole. I sistemi di irrigazione offrono un metodo rapido per la distribuzione di questi fertilizzanti. Ovviamente, la concentrazione di azoto negli effluenti del fermentatore è diverse centinaia di volte più alta che nelle acque reflue municipali, e anche oltre dieci volte che in alcune acque reflue di origine animale, il che trasforma i processi di trattamento mediante microalghe in un efficiente meccanismo di concentrazione e recupero dei nutrienti. L’aggiunta di CO2 in questi processi rende l’azoto il successivo nutriente limitante e assicura che l’azoto, o almeno la sua frazione biologicamente disponibile, sia di fatto completamente eliminato ottenendo un’acqua rigenerata di elevata qualità. Il miliardo e più di metri cubi di acque di scolo di origine agricola che annualmente si riversa nel Salton Sea, nella California meridionale rappresenta un esempio pratico di applicazione su vasta scala delle vasche di microalghe nel recupero di nutrienti. Queste acque reflue contengono circa 1.000 t di fosforo (sotto forma di fosfati) e dieci volte tanto di azoto (per lo più nitrati). L’eliminazione dei nutrienti da queste acque di scolo mediante colture di microalghe eviterebbe l’eutrofizzazione del Salton Sea, producendo circa 100.000 t di biomassa algale. Assumendo una produttività annua di circa 100 t di biomassa secca/ha (l’obiettivo del Network), sarebbero necessari circa 1.000 ettari di vasche. Tale processo appare economicamente fattibile, poiché acqua, nutrienti e terreno sono gratuiti e le condizioni climatiche sono favorevoli (Benemann et al., 2002; Brune et al., 2003b). Si potrebbero prendere in considerazione altre opportunità per sistemi di recupero di nutrienti su vasta scala, ma in genere tali sistemi sono di dimensioni più modeste, al massimo da alcune decine a qualche centinaio di ettari. In alcuni casi, l’eliminazione del fosforo è limitata dall’azoto presente nelle acque reflue. I cianobatteri eterocistici azoto-fissatori, quali Anabaena e Nostoc possono essere in alcuni casi utilizzati nello stadio finale di ripulitura per eliminare il fosforo (Weissman et al., 1978). Questi cianobatteri sono anche stati proposti nella produzione di fertilizzanti (Benemann et al., 1980). Hanno una produttività di circa un terzo inferiore rispetto alle colture che non fissano l’azoto per via dell’elevata 854 energia metabolica richiesta per questa reazione. Dati i livelli di emissione di CO2 liberati durante la produzione di fertilizzanti azotati sintetici (discussi prima), la fissazione di azoto per produrre fertilizzanti e la fissazione di CO2 per produrre carburanti sono più o meno equivalenti dal punto di vista dell’abbattimento dei gas serra. Gli aspetti economici relativi a questi processi di fissazione dell’azoto devono ancora essere valutati, ma il recente interesse per l’agricoltura biologica, che crea la domanda di fertilizzanti biologici a prezzi favorevoli, li rende di particolare interesse nell’immediato futuro. I costi in rapida ascesa dei fertilizzanti sintetici, che riflettono il prezzo in aumento dei combustibili fossili, rendono tali approcci interessanti anche nel lungo termine. Come già sottolineato in precedenza, la natura filamentosa dei cianobatteri eterocistici consente di raccoglierli facilmente mediante filtrazione. In teoria, la produzione di microalghe fissatrici di azoto come fertilizzanti potrebbe quindi risultare davvero a basso costo, in particolare per l’agricoltura irrigua e per le risaie, dove terreno, acqua e nutrienti sono già disponibili ed è solo necessaria una fonte di CO2. È stato stimato che un ettaro di vasche algali potrebbe produrre fertilizzante azotato sufficiente per oltre 25 ettari coltivati a riso o a mais, oltre che a produrre biocarburanti per l’agricoltura o per uso locale. La biomassa microalgale in grado di fissare azoto, cresciuta in vasche ad alta velocità, può anche essere applicata direttamente ai campi irrigati o, applicazione forse più promettente, come abbondante inoculo alle risaie dove ci si può aspettare che le microalghe si moltiplichino diverse volte in situ e producano abbondante fertilizzante azotato. Ciò consentirebbe un rapporto dimensionale tra risaia e vasca agale di oltre 100. Questa tecnologia deve ancora essere sviluppata, ma in teoria è piuttosto promettente. In passato si è tentato di inoculare dei campi di riso con cianobatteri azoto-fissatori, ma con scarso successo. Tuttavia, in quei casi le alghe venivano fatte crescere a distanza, essiccate e inoculate nei campi di riso solo in piccole quantità. Il processo proposto è molto diverso: prevede la produzione sul posto di biomassa algale in quantità relativamente abbondanti che consentono un massiccio inoculo di risaie con colture in attiva crescita. In conclusione, il recupero e il riutilizzo di fertilizzante, e persino la sua produzione de novo, potrebbero diventare una delle principali applicazioni pratiche delle microalghe a livello globale e contribuire significativamente alla riduzione dei gas serra. Le applicazioni più immediate sarebbero probabilmente nella produzione di fertilizzanti di qualità per l’agricoltura biologica nei paesi sviluppati e nella fertilizzazione delle risaie in quelli in via di sviluppo. A lungo termine, i fertilizzanti da microalghe potrebbero svolgere un ruolo importante nel ciclo globale dell’azoto, che deve cambiare da processo a senso ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA unico che utilizza fertilizzanti sintetici, basati sui combustibili fossili, a un processo di riciclo di azoto e fosforo e di fissazione biologica dell’azoto. Biopolimeri e altri coprodotti Nei processi sopra descritti, i biocarburanti, il trattamento delle acque reflue, l’acqua rigenerata, i biofertilizzanti e in qualche modo i mangimi per animali sono i prodotti e i coprodotti da cui deriva la riduzione dei gas serra. Un’altra alternativa per ottenere la mitigazione dei gas serra è di combinare la produzione di biocarburanti mediante microalghe con coprodotti ad ampio mercato ed elevato valore economico (superiore a quello dei biocarburanti). Questo approccio è comparabile all’idea di bioraffineria per convertire amido e zuccheri, ottenuti da raccolti convenzionali, in prodotti che includono carburanti (per esempio, etanolo), mangimi e coprodotti di valore elevato quali l’acido polilattico, utilizzato per produrre un polimero biodegradabile. Ovviamente, va riconosciuto che i processi con microalghe non sono in grado di competere con quelli basati sulla conversione di zucchero o amido di piante a buon mercato, soprattutto canna e mais. Quindi l’utilizzo di microalghe deve generare coprodotti di valore elevato ottenuti dalle alghe tramite il loro stesso metabolismo, evitando il processamento e i passaggi fermentativi piuttosto costosi di una bioraffineria. L’altro requisito è che questi coprodotti devono avere mercati sufficientemente ampi da determinare una riduzione significativa dei gas serra. Tali prodotti non comprendono quelli forniti dalle microalghe per la nutrizione umana come i carotenoidi, il principale risultato della corrente tecnologia commerciale microalgale. Possibili coprodotti sono le bioplastiche, soprattutto i polimeri di PHA (poliidrossialcanoato), già prodotti commercialmente mediante fermentazioni batteriche e che fungono da composti di riserva in molti batteri, tra cui i cianobatteri (Asada et al., 1999). I cianobatteri contengono fino al 10% di PHB (poliidrossibutirrato) e dovrebbe essere possibile produrre cianobatteri in quantitativi molto maggiori e dotati di catene laterali modificate, più adatte per bioplastiche funzionali. Sono già stati citati precedentemente gli idrocarburi prodotti da B. braunii che potrebbero essere frazionati per dare lubrificanti di elevato valore, oltre al combustibile. Altri prodotti delle microalghe con un mercato considerevole sono i polisaccaridi usati come agenti flocculanti, emulsionanti o gelificanti da utilizzare in campo alimentare o industriale che vengono già prodotti su vasta scala dalle alghe marine. Ne sono un esempio le carragenine, prodotte anche da microalghe rosse, che sono state brevettate negli anni settanta per il recupero terziario di oli (Savins, 1978). La sostituzione dei biopolimeri sintetici con prodotti derivati dalle microalghe potrebbe determinare una certa riduzione dei gas serra. Tuttavia, il principale beneficio di questi coprodotti sarebbe il miglioramento VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ dell’economia complessiva di questi processi. Infatti, le bioplastiche e i polisaccaridi funzionali sarebbero stimati 1.000 $/t rispetto ai circa 100 $/t per la produzione di combustibile. Se anche una modesta frazione, per esempio il 20%, della biomassa algale rappresentasse il prodotto a più elevato valore, ciò giustificherebbe la produzione di biomassa algale, con biocombustibili ottenuti dalla biomassa residua. In questa discussione si è assunto implicitamente che la produzione della biomassa microalgale finalizzata esclusivamente alla generazione di biocarburanti non risulti economicamente competitiva e pertanto sia necessario associare applicazioni economicamente più convenienti come il trattamento di acque reflue o la produzione di mangimi, di biofertilizzanti o di biopolimeri. Ovviamente, tali processi multifunzionali restringerebbero la dimensione, lo scopo e le potenzialità complessive di riduzione dei gas serra da parte dei processi basati sulle microalghe. Pertanto, questo assunto di base viene trattato nella sezione seguente. 9.4.6 Aspetti economici e tematiche di ricerca e sviluppo È stata precedentemente fatta una panoramica (v. par. 9.4.3) degli aspetti critici relativi all’ingegneria dei sistemi a vasche ad alta velocità agitati con ruote a pale, applicati alla produzione di biomassa microalgale. Si è affermato che il costo capitale e quello operativo di tali sistemi sarebbero proibitivi per la sola produzione di biocarburanti, con costi capitali stimati pari, o superiori, a 100.000 $/ha in base a precedenti analisi di costo (questi valori sono stati rivisti, aggiornati e ampliati più recentemente da Benemann e Oswald, 1996, e i costi in dollari sono stati aumentati di 1,4 punti per portarli al valore del dollaro nel 2005). Ciò supera di ben dieci volte i costi tipicamente riscontrati in agricoltura. In questo caso si trattava di un sistema a vasche non rivestite, su vasta scala, che produceva biomassa per ottenere oli (trigliceridi) utilizzando per il CO2 gas di combustione ottenuto da una centrale elettrica e la bioflocculazione per la raccolta della biomassa seguita da centrifugazioni per estrarre gli oli. Era stata assunta una produttività di 110 t/ha⭈a per una biomassa con un molto elevato (60%) contenuto in oli (equivalente a circa 150 t/ha⭈a per una biomassa di composizione normale e a circa 200 t/ha⭈a per una biomassa ricca in carboidrati). Questa è la massima produttività che può ragionevolmente essere immaginata per un processo con microalghe basato sulle tecnologie disponibili e rientra in un fattore di circa due rispetto al massimo teorico. Assumendo un costo capitale minimo del 20% all’anno, comprensivo di tasse e assicurazioni ma non della manutenzione, si ottiene un costo capitale di circa 100 $/t 855 SOSTENIBILITÀ per una biomassa ricca in carboidrati e quasi due volte tanto per una biomassa ricca in oli. I costi operativi sono stati stimati pari a circa 15.000 $/ha (sempre considerando l’inflazione, unitamente a un piccolo credito per il metano che è un sottoprodotto derivato dalla digestione dei residui dopo l’estrazione degli oli). Ciò porta i costi per barile di olio algale grezzo estratto (prima di trasformarlo in biodiesel, adatto come combustibile veicolare) a circa 100 $/bbl o, se si utilizza amido, a circa 200 $/t di amido. Per quanto alti, questi costi non sono eccessivi alla luce degli attuali prezzi dell’energia e dei plausibili prezzi agricoli futuri. Queste stime sono ottimistiche e basate su molte assunzioni favorevoli, e piuttosto incerte. In ogni caso, lo sviluppo a lungo termine dei sistemi di produzione di microalghe specificamente, o esclusivamente, per biocarburanti richiederebbe un lungo periodo di ricerca e sviluppo e di esperienza in applicazioni in scala reale. Tali applicazioni possono essere rappresentate dal trattamento di acque reflue precedentemente descritto e possibilmente dalla coproduzione di prodotti ad alto valore. Anche per raggiungere questi obiettivi a breve termine sono necessari notevoli investimenti nel settore ricerca e sviluppo, come già detto in precedenza e qui di seguito riassunto. Va notato che sostanzialmente le stesse tematiche di ricerca e sviluppo sono comuni a tutti i processi di riduzione delle emissioni sopra descritti (v. par. 9.4.5). Questi processi utilizzano lo stesso fondamentale processo di produzione: vasche ad alta velocità (raceway), agitate con ruote a pale, fertilizzate con CO2 (proveniente dai gas di combustione) abbinati a processi a basso costo per la raccolta della biomassa algale (bioflocculazione o filtrazione) e la sua conversione a biocarburante (digestione anaerobica, estrazione degli oli, ecc.). Tutti condividono le stesse criticità teoriche e pratiche di ricerca e sviluppo: selezione e mantenimento dei ceppi, massimizzazione della produttività all’aperto, raccolta a basso costo della biomassa e processamento in biocarburanti e recupero di coprodotti. Inoltre, richiedono approfondimento ed esperienza gli aspetti ingegneristici, comuni a tutti, di costruzione e operatività delle vasche grandi (superiori a 1 ha) non rivestite che vanno correlati all’economia del processo e alle potenzialità di mitigazione dei gas serra. I limiti attuali sono dovuti al fatto che per questi processi multifunzionali sono stati effettuati solo pochi studi ingegneristici e di analisi economica che prevedano la quantificazione del loro potenziale e dei loro benefici in termini di riduzione dei gas serra. Questo potenziale risulterà limitato dalla disponibilità di terreno, acqua, infrastrutture e altri fattori. Anche questi aspetti relativi alle risorse richiedono ulteriori approfondimenti. I processi generali di riduzione delle emissioni discussi in precedenza differiscono soprattutto per quanto riguarda le loro fonti di acqua e nutrienti e per i loro prodotti 856 finali, in termini di biocarburanti e altri coprodotti (fertilizzanti, mangimi, acqua rigenerata, biopolimeri, ecc.). La rigenerazione dell’acqua merita particolare attenzione, in quanto costituisce un prodotto finale di valore. Per quanto concerne i biocarburanti, il metano (biogas) è probabilmente la scelta preferenziale tra i combustibili prodotti dai processi di trattamento delle acque reflue urbane e della maggior parte di quelle agricole. Tuttavia, dalla biomassa microalgale si possono ottenere altri biocarburanti, in particolare etanolo e biodiesel, che in alcuni casi possono essere preferibili in particolare perché come combustibili veicolari hanno maggior valore rispetto al biogas. Comunque, lo stesso biogas può essere ripulito (eliminando H2S e CO2) e compresso per essere utilizzato come combustibile veicolare. L’idrogeno costituisce un’opportunità a lungo termine (v. cap. 4.3). In ogni caso, esistono diverse possibilità per convertire la biomassa microalgale a biocarburante. La sfida maggiore rispetto alla produzione di biocarburanti è che la produzione di biomassa iniziale sia economicamente fattibile. Per tutti i processi su vasta scala di produzione di microalghe a basso costo le tematiche fondamentali di ricerca e sviluppo sono la capacità di coltivare, con produttività elevate, ceppi algali selezionati in grandi vasche all’aperto e di raccogliere poi la biomassa a costi contenuti. Il controllo delle specie algali dovrebbe plausibilmente permettere di controllarne la produttività e la raccolta, il che rappresenta pertanto il prerequisito fondamentale per ciascuno di questi processi, e tutte le precedenti tematiche devono essere considerate insieme. L’unica modalità pratica per ottenere la coltivazione di massa di ceppi selezionati è attraverso l’uso di ceppi che si possano far crescere rapidamente in fotobioreattori chiusi di scala crescente (e complessità decrescente) per la produzione di quantità relativamente grandi di biomassa impiegata per inoculare le vasche di produzione. Pertanto un’attività fondamentale di ricerca e sviluppo è relativa all’isolamento, selezione e mantenimento di ceppi algali adatti per essere coltivati intensivamente in modo duraturo in vasche all’aperto. Tali ceppi dovrebbero possedere caratteristiche di rapidità di crescita (per la fase di produzione dell’inoculo), di elevata produttività (nelle vasche di produzione), di facilità di raccolta e di generazione di coprodotti allettanti dalla conversione della biomassa. È molto improbabile che in natura si trovino cotanti ceppi e infatti, come notato precedentemente, e paradossalmente, i ceppi ad alta produttività dovrebbero essere controselezionati dalla selezione naturale. Pertanto devono essere generati in laboratorio. Tuttavia, la coltivazione prolungata in laboratorio può risultare adattativa alle condizioni di laboratorio e far perdere le caratteristiche che rendono il ceppo idoneo alla coltura esterna; tale eventualità può essere scongiurata limitando il numero di generazioni algali mantenute in ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA laboratorio (Polle et al., 2004). Va sottolineato che in questi processi di riduzione delle emissioni possono essere utilizzati sia ceppi di microalghe d’acqua dolce che d’acqua salmastra o salata (marina). I miglioramenti genetici dovrebbero essere ottenuti, per quanto possibile, con le classiche tecniche di mutagenesi e selezione, evitando così il problema di rilasciare nell’ambiente organismi geneticamente modificati. Tuttavia, in futuro, l’utilizzo delle moderne biotecnologie in campo genetico sarà inevitabile, per cui dovranno essere contemplate in qualsiasi progetto di ricerca e sviluppo. In breve, la selezione, il mantenimento e il miglioramento genetico delle specie algali per colture intensive a elevata produttività rappresentano il focus primario delle attività di ricerca e sviluppo in questo campo. Questo tipo di attività non può essere condotta solo in laboratorio, ma deve essere strettamente coordinata con quella relativa alle colture intensive operate all’aperto. Le attività di ricerca e sviluppo in corso sotto il patrocinio del Network precedentemente citato sono improntate esattamente su questa logica: coordinamento e integrazione tra le attività di laboratorio e quelle di campo, focalizzando gli sforzi sulle tematiche chiave, che includono in particolare il miglioramento genetico per l’alta produttività. 9.4.7 Potenzialità di mitigazione dei gas serra mediante processi che utilizzano microalghe L’elemento fondamentale nell’analisi dei processi che utilizzano microalghe per l’abbattimento dei gas serra è la loro potenzialità nel ridurre globalmente le emissioni di CO2 di origine fossile. Molte tecnologie sono al momento in competizione per prevalere tra le soluzioni proposte a tale problema, alcune promettendo di ridurre molto, se non la maggior parte, dell’enorme quantità di CO2 fossile che si prevede verrà emesso nell’atmosfera da una popolazione umana sempre più numerosa e opulenta. Di fronte alla riduzione di emissioni di CO2 dell’ordine dei trilioni di tonnellate che si prevede sia richiesta entro questo secolo per stabilizzarne la concentrazione nell’atmosfera, ci si chiede se sia utile sviluppare tecnologie che si presume ridurranno le emissioni di CO2 fossile attese in percentuali piuttosto ridotte. Si prevede che la sequestrazione negli oceani e quella geologica abbiano ciascuna sufficiente capacità di immagazzinamento per contenere, teoricamente, tutto il CO2 derivante dalla combustione dei combustibili fossili perdurante in un futuro indefinito. Alcune tecnologie per energie rinnovabili, per esempio quella eolica e quella fotovoltaica, sono pronte a diventare fonti primarie di energia. Le celle a combustibile a idrogeno promettono di incrementare molto l’efficienza di utilizzazione VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ dell’energia e di consentire il proseguimento del trasporto veicolare personale di massa non regimentato. I biocarburanti – bioetanolo, biodiesel e biometano – potrebbero tutti generare notevoli quantità di energia rinnovabile, sia in singole nazioni sia considerando un aggregato globale. Quindi, forse, bisognerebbe rivolgere l’attenzione verso queste tecnologie di sequestrazione del carbonio su vasta scala e verso i processi di produzione di biocarburanti già disponibili, piuttosto che su opzioni a piccola scala, come il trattamento delle acque reflue, o di lungo termine a grande scala ma ad alto rischio, come la produzione di biodiesel algale. In ogni caso tutte queste tecnologie, per quanto promettenti, devono ancora essere considerate incerte. Per esempio, dieci anni fa la sequestrazione negli oceani del CO2 emesso da centrali elettriche venne ampiamente pubblicizzata come una soluzione al problema complessivo della riduzione delle emissioni. Tuttavia, i principali progetti in questo settore non vennero approvati a causa dell’opposizione da parte di gruppi ambientalisti o di altri gruppi di interesse e quindi anche la ricerca sulle tecnologie di sequestrazione in oceano si trova ora in grande ritardo. La sequestrazione geologica rappresenta oggi il principale focus dell’interesse nell’ambito delle tecnologie per la riduzione dei gas serra sulla base dell’enorme quantità di spazio geologico di immagazzinamento potenzialmente disponibile e dell’esperienza acquisita sulle formazioni geologiche e sulle tecnologie relative. Comunque, solo gli scenari più ottimistici prevedono la riduzione di una frazione più che modesta del CO2 fossile totale globalmente richiesto. Le tecnologie per le energie rinnovabili, benché promettenti, non possono plausibilmente colmare la necessità di tutte le altre possibili e potenziali fonti di carburanti e di riduzione dei gas serra. Oltre alle enormi quantità di CO2 coinvolte, il fatto che le sue fonti siano così diverse e geograficamente distribuite implica che non è praticamente possibile adottare un’unica tecnologia in ogni situazione. In breve, su scala globale, o anche solamente regionale, sarà necessario disporre di un portfolio di opzioni che comprendono tutte quelle fin qui citate, di modesta o ampia potenzialità, da utilizzarsi singolarmente o in combinazione. La fotosintesi è certamente alla base di molti metodi per la cattura, l’immagazzinamento e l’utilizzazione del CO2. La biofissazione del CO2 mediante microalghe è solo uno dei molti sistemi basati sulla fotosintesi che saranno presi in considerazione per la riduzione delle emissioni. Altri, quali i raccolti annuali (fieno, frumento, canna da zucchero), gli alberi (pioppi, sicomori, eucalipti) e le piante acquatiche (alghe marine, piante palustri), per citarne alcuni, potrebbero anche contribuire all’abbattimento dei gas serra mediante la produzione di biocarburanti, essendo anche più importanti delle microalghe. 857 SOSTENIBILITÀ In questa competizione, le tecnologie con microalghe presentano diverse caratteristiche promettenti e uniche. Innanzitutto, come detto prima, offrono la possibilità di ottenere produttività molto alte. Le microalghe sono probabilmente i convertitori biologici solari più efficienti ed è probabile che i continui sforzi di ricerca e sviluppo riusciranno ampiamente a garantire una produttività anche maggiore in applicazioni pratiche. Un altro vantaggio delle microalghe è il loro brevissimo tempo di generazione (un giorno o meno) in coltura intensiva. Ciò ha diverse implicazioni in termini di rapida ripartenza dopo un fallimento (solo una settimana circa) e di produzione di inoculo. Il fallimento di un raccolto di piante superiori può costare la produzione di un anno, se il raccolto è annuale, o la perdita della produzione di oltre un decennio, se si tratta di una foresta. Le attività sulle microalghe consentono rapidi progressi di ricerca e sviluppo rispetto al ritmo molto più lento necessario per piante a raccolto annuale o per gli alberi. Le misure di produttività che richiederebbero anni o decenni con le piante superiori, con le microalghe possono essere effettuate in qualche mese. Inoltre, l’ambiente piuttosto uniforme e controllato delle vasche consente di trasferire rapidamente eventuali scoperte da una località all’altra, cosa non altrettanto facile con le piante superiori. La singola caratteristica che sembra rendere le microalghe particolarmente adatte per l’abbattimento dei gas serra è la loro capacità di utilizzare direttamente il CO2 in uscita dalle centrali elettriche. Bisogna riconoscere, tuttavia, che allo scopo di ridurre i gas serra non fa differenza se il CO2 viene catturato dall’atmosfera o da una centrale elettrica, o da rifiuti, in quanto è la produzione di biocarburanti, e quindi il loro utilizzo in sostituzione dei carburanti fossili, che di fatto determina la mitigazione dei gas serra. Comunque, la cattura diretta del gas di combustione da una centrale elettrica permette produttività maggiori e, fattore altrettanto critico, un’efficienza nell’utilizzo dell’acqua molto maggiore rispetto alle piante superiori. Forse l’attributo più importante delle microalghe nelle tecnologie per abbattere i gas serra è dato dalla possibilità di generare dalla loro biomassa dei biocombustibili rinnovabili e di combinare servizi ambientali quali il trattamento di acque reflue, il riciclaggio dei nutrienti, nonché la produzione di fertilizzanti azotati e altri coprodotti e servizi. Va riconosciuto che la maggior parte, se non tutti, i processi biologici per l’abbattimento dei gas serra è multifunzionale, con vari vantaggi ambientali ed economici associati e che la riduzione dei gas serra può ben essere considerata il minore dei vari benefici economici. Ciò è vero probabilmente tanto per i processi microalgali quanto, per esempio, per l’accumulo del carbonio nel terreno (Metting et al., 2001). I molteplici vantaggi ambientali di un migliore trattamento delle acque reflue assicurano che tutte le attività 858 correnti di ricerca e sviluppo porteranno a qualche risultato pratico, almeno nel breve termine (5-10 anni), nella riduzione dei gas serra. Nel medio periodo (10-15 anni), dovrebbe essere possibile produrre biopolimeri, lubrificanti e mangimi di alto valore come coprodotti della produzione di biocarburanti tramite microalghe. A lungo termine, l’obiettivo è quello di sviluppare una tecnologia di produzione di biomassa con microalghe che abbia costi abbastanza bassi e produttività abbastanza elevate da consentire la produzione di carburanti rinnovabili come principale, persino esclusivo, fine economico dell’intero processo. Benché realizzabile in teoria, in pratica sarà necessario risolvere molti problemi e questioni, come ampiamente discusso in precedenza, e quindi è meglio premunirsi da ogni previsione sul raggiungimento di tale obiettivo e su quanto grande possa essere l’impatto di tale tecnologia. Seppure con tali cautele, è necessario quantificare almeno a grandi linee il contributo, su scala globale, delle tecnologie con microalghe nell’abbattimento dei gas serra. L’assunto fondamentale fatto in questa sede è che un obiettivo realistico delle attività di ricerca e sviluppo sia il raggiungimento e la realizzazione, in tempi mediobrevi, di una produttività della biomassa un po’ al di sopra di 100 t/ha⭈a (corrispondente a una media giornaliera di circa 30 g/m2⭈d) in colture intensive di alghe operate su scala annuale. Inoltre, si può stimare, molto grossolanamente, che il biocarburante prodotto da 1 t di biomassa algale possa abbattere circa 1 t di CO2 (stima basata sul carburante prodotto). Quindi, sarebbero necessari 5 milioni di ettari di vasche algali per abbattere 0,5 Gt di CO2, corrispondenti a circa l’1% del totale dei gas serra che in futuro si prevede sarà necessario mitigare ogni anno in base all’assunto che le attuali emissioni di combustibili fossili raddoppieranno in uno scenario invariato rispetto all’attuale. Nel contesto globale, non si tratta di un’enorme estensione di terreno, almeno in confronto ad altre tecnologie solari o rinnovabili e di riduzione delle emissioni, soprattutto ad altri sistemi di produzione con biomasse. Una tale superficie, 5 milioni di ettari, sarebbe grosso modo in linea con le necessità per il trattamento delle acque reflue urbane per l’intera popolazione umana (considerando l’azoto come nutriente limitante). In realtà, solo una piccola proporzione della popolazione umana sarebbe plausibilmente servita da tali tecnologie a causa del clima, della disponibilità di terreno e di altre limitazioni. D’altra parte, il trattamento dei rifiuti zootecnici ha una potenzialità pratica maggiore, dal punto di vista economico, rispetto a quello delle acque reflue urbane, così come la coproduzione di prodotti quali fertilizzanti e mangimi. Una recente analisi ha calcolato il potenziale globale di reflui urbani e animali (bovini e suini) per la riduzione di gas serra basata su colture microalgali in circa 0,1 Gt di CO2 fossile evitata annualmente. ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA Tale potenziale rappresenta circa l’1% delle riduzioni di emissioni richieste nel breve e nel medio termine per contribuire a stabilizzare le emissioni di gas serra. Si tratta di una previsione ragionevole e realistica per le tecnologie a microalghe, anche senza dover ricorrere a processi che producano solo biocarburanti, che sembra essere sufficiente a giustificare il supporto di significative attività di ricerca e sviluppo a favore delle tecnologie di biofissazione con microalghe. Una tale previsione implica un’espansione di questa tecnologia di diverse migliaia di volte a partire dai soli 1.000 ettari circa delle vasche ad alta velocità agitate con ruote a pale che funzionano attualmente in tutto il mondo. Tuttavia, considerando che solo 25 anni fa non un singolo ettaro di questi sistemi veniva utilizzato per applicazioni pratiche, è possibile prevedere una rapida adozione di questa tecnologia qualora fosse in grado di fornire reali servizi alla società e agli individui. Infine, la prospettiva qui presentata si basa su vasche per la produzione di microalghe associate a una centrale elettrica convenzionale, ovvero di ampie dimensioni, alimentata a combustibile fossile in modo da utilizzare i gas di combustione prodotti dalla centrale stessa. Tuttavia, una prospettiva altrettanto valida, e forse anche migliore, è quella di una piccola centrale elettrica associata a vasche di alghe, in altri termini, una centrale elettrica progettata per servire l’impianto algale. Forse ancora più appropriato è il modello in cui entrambe le attività sono parte di un unico sistema distribuito sul territorio per la fornitura di energia e di altri servizi ambientali, tra cui acqua, cibo e materiali. È chiaro che una considerevole domanda di produzione di elettricità mediante centrali elettriche centralizzate (per esempio, alimentate a carbone) e di produzione di biomassa algale non risultano effettivamente compatibili. La prospettiva di realizzare migliaia, o anche decine di migliaia, di ettari di vasche algali localizzate nei pressi di grandi centrali elettriche alimentate a carbone o a gas naturale sembra limitata. Negli Stati Uniti, dopo aver considerato sia le limitazioni geografiche sia la disponibilità di terreno nei pressi delle grandi centrali elettriche, ne rimane solo una manciata di dimensioni medio-grandi che possono plausibilmente essere identificate come adatte a ospitare sistemi algali su vasta scala (superiori a 1.000 ha; Benemann e Oswald, 1996). Tuttavia, esiste una potenzialità molto maggiore per centrali elettriche di più modeste dimensioni, mentre le potenzialità più grandi sarebbero per sistemi integrati di generazione di elettricità che utilizzano una moltiplicità di carburanti e rifiuti e che integrano i processi di produzione algale quale componente aggiuntiva, seppure importante. Benché la prospettiva di associare le vasche algali con le centrali elettriche continui a essere valida, necessita d’essere ampliata ulteriormente con l’associazione di centrali elettriche e sistemi di biofissazione algale che abbiano VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ una maggiore gamma di dimensioni e applicazioni rispetto a quanto fatto finora. In conclusione, è improbabile che la biofissazione con microalghe fornisca una tecnologia centralizzata, semplice e a buon mercato potenzialmente capace di abbattere molte Gt di gas serra in modo da consentire all’industria petrolifera di continuare a operare secondo il modello cosiddetto business as usual. Le microalghe possono svolgere un ruolo nella grande sfida in cui tutti dobbiamo urgentemente impegnarci: il tentativo di sviluppare e utilizzare tutte le possibili fonti energetiche rinnovabili, sia per le loro potenzialità di abbattimento dei gas serra sia per la loro capacità di sostituire i sempre più scarsi combustibili fossili liquidi e gassosi. Devono essere effettuate analisi comparative e valutazioni fondate sul buon senso per privilegiare, tra le opzioni tecnologiche in concorrenza e i progetti proposti, ciò che appare più ragionevole, senza limitare eccessivamente la ricerca di alternative. La tecnologia delle microalghe, fornisce molti esempi passati e odierni, anche se non è l’unica, di tematica di ricerca e sviluppo che include molte ipotesi poco plausibili e attività male indirizzate. Questi esempi portano a grandi sprechi di denaro e, aspetto forse più dannoso, hanno messo in dubbio, e potrebbero farlo ancora, l’iniziativa in toto. Il Microalgae Network è stato istituito proprio per correggere e prevenire, per quanto possibile, questi errori e per costituire un forum di esperti con una visione comune su quali siano i processi di biofissazione con microalghe più promettenti e praticabili per ridurre i gas serra e le attività di ricerca e sviluppo necessarie per attuarli. Bibliografia citata Asada Y. et al. (1999) Photosynthetic accumulation of poly(hydroxybutyrate) by cyanobacteria. The metabolism and potential for CO2 recycling, «International Journal of Biological Macromolecules», 25, 37- 42. Bayless D.J. et al. (2001) Enhanced practical photosynthetic CO2 mitigation, in: Proceedings of the Annual international Pittsburgh coal conference, Newcastle (Australia), 3-7 December, Paper 35-05. Benemann J.R. (1989) The future of microalgae biotechnology, in: Cresswell R.C. et al. (edited by) Algal and cyanobacterial biotechnology, London, Longman, 317-337. Benemann J.R. 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