9.4
Biofissazione di CO2 fossile
mediante microalghe
per l’abbattimento dei gas serra
9.4.1 Introduzione
Il cambiamento globale del clima richiede sostanziali riduzioni delle emissioni di gas serra (GHG, GreenHouse
Gas) derivanti da attività umane, in particolare del biossido di carbonio (CO2) fossile, e anche un cambiamento nel modo di produrre e utilizzare le risorse energetiche. A causa delle quantità complessive su scala globale, della diversità e della distribuzione geografica delle
fonti di CO2 fossile, non è pensabile poter applicare una
singola tecnologia per l’abattimento dei gas serra a ogni
situazione, ma sarà necessaria una serie di tecnologie
differenti, da usarsi singolarmente o in combinazione.
Tra le opzioni di riduzione, le tecnologie per la cattura
e la sequestrazione di biossido di carbonio impediscono
che il CO2 derivante dalla combustione di combustibili
fossili si accumuli nell’atmosfera e consentono di continuare a usare i combustibili fossili da cui il mondo
attualmente dipende in larga misura. La maggior parte
di queste tecnologie di cattura e sequestrazione si basa
sulla cattura del CO2 fossile da punti di emissione fissi,
come centrali elettriche o altre installazioni industriali,
a cui fa seguito il suo stoccaggio di lungo termine in formazione geologiche, suoli o oceani, o il suo riutilizzo.
La biofissazione di CO2 a opera di microalghe è una
di queste tecnologie per l’abattimento dei gas serra. Essa
si basa sull’uso dell’energia solare attraverso la fotosintesi per catturare e utilizzare correnti di CO2 concentrato, prodotto da centrali elettriche o da altre fonti.
Le microalghe sono microscopiche piante acquatiche
(fig. 1) e, come per altre opzioni in cui si utilizzano biomasse, la diminuzione delle emissioni di gas serra mediante processi di biofissazione si ottiene dalla conversione
e utilizzo della biomassa algale raccolta come biocombustibile rinnovabile in grado di sostituire i combustibili fossili, o ricavandone prodotti che richiedono un
minor consumo di energia rispetto alle tecnologie convenzionali. I biocombustibili rinnovabili che si possono
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
ottenere dalla biomassa algale comprendono metano,
etanolo, biodiesel e idrogeno, mentre i prodotti che permettono di risparmiare energia includono fertilizzanti,
biopolimeri, prodotti chimici e anche mangimi animali. La cattura e l’utilizzo del CO2 da parte delle microalghe possono anche essere associati a servizi ambientali,
A
B
C
fig. 1. Microalghe coltivate attualmente
a scopo commerciale o di potenziale interesse
per l’abbattimento dei gas serra.
A, Micractinium sp. (alga verde), dominante nelle vasche
per il trattamento delle acque relfue (per cortesia di EPA);
B, Spirulina (Arthrospira) platensis, microalga filamentosa
prodotta come supplemento nutrizionale
(per cortesia di UTEX);
C, Navicula sp. (diatomea), potenzialmente in grado
di produrre oli (per cortesia degli Autori).
837
SOSTENIBILITÀ
quali il trattamento delle acque reflue e il riciclaggio di
nutrienti, il che, in confronto ai processi convenzionali,
determina un ulteriore abbattimento dei gas serra grazie
alla riduzione del consumo energetico. Rispetto alla produzione di biomassa con piante superiori, la caratteristica più importante dei processi basati su microalghe è
la capacità di raggiungere elevate efficienze di conversione solare, riducendo in tal modo le necessità di superficie e di acqua, i due fattori che maggiormente limitano qualsiasi tecnologia basata sulla fotosintesi.
Il concetto di cattura del CO2 e di produzione di biocombustibili rinnovabili mediante colture microalgali su
vasta scala era già stato proposto mezzo secolo fa (Oswald
e Golueke, 1960) ed è stato oggetto di estesa attività di
ricerca e sviluppo, soprattutto negli Stati Uniti (Sheehan
et al., 1998) e in Giappone (Hamasaki et al., 1994; Usui
e Ikenouchi, 1997; Murakami e Ikenouchi, 1997). Attualmente le microalghe vengono prodotte a scopo commerciale per ottenere sostanze nutritive, sia in vasche
A
C
all’aperto sia in fotobioreattori chiusi, utilizzando sia
fonti di CO2 concentrato sia gas di combustione, e vengono anche impiegate nei processi di trattamento delle
acque reflue (fig. 2). Queste conoscenze pratiche forniscono la base per impiegare le colture intensive di microalghe nella riduzione dei gas serra. Lo schema generale di
un processo di questo tipo è presentato in fig. 3, dove
vengono riportati gli input, i vari processi e i prodotti
descritti di seguito.
Per far progredire lo sviluppo e l’applicazione dei
processi di biofissazione per opera di microalghe finalizzati alla produzione di energia rinnovabile e alla mitigazione dei gas serra, EniTecnologie e il National Energy
Technology Laboratory del Dipartimento per l’Energia
statunitense hanno organizzato l’International Network
on Biofixation of CO2 and GreenHouse Gas Abatement
with Microalgae, che qui verrà chiamato ‘Biofixation
Network’ (Benemann et al., 2001; Pedroni et al., 2001,
2002). Quest’iniziativa opera sotto l’egida del Programma
B
D
fig. 2. Sistemi per la produzione di microalghe.
A, vasca circolare all’aperto (1.000 m2 circa), sistema di coltura intensiva per la produzione di Chlorella;
B, impianto per la produzione di Spirulina e Haematococcus pluvialis con vasche ad alta velocità agitate mediante ruote a pale;
C, sistema a fotobioreattore tubulare chiuso per la produzione di Haematococcus pluvialis;
D, bacini per il trattamento di acque reflue che comprendono vasche ad alta velocità (per cortesia degli Autori).
838
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
luce solare
FONTI DI CO2
CONCENTRATE
centrali, industrie
altre fonti
acqua-acque reflue
nutrienti salini-rifiuti
O2
COLTIVAZIONE INTENSIVA
IN VASCHE ALL’APERTO
raceway-type, senza rivestimento,
poco profonde (⬍ 40 cm)
agitazione mediante ruote a pale
stazioni di transfer della CO2
larga scala (> 1 ettaro)
SISTEMA DI INOCULO
fotobioreattori chiusi e aperti
ceppi di
microalghe
RACCOLTA
DELLA BIOMASSA
bioflocculazione
microfiltraggio
altri?
energia, CO2
biocombustibili, coprodotti,
acqua rigenerata
biomassa
PROCESSAMENTO
conversione a biocombustibili/energia
(fermentazioni, estrazioni)
processamento a coprodotti
(biopolimeri, mangimi, fertilizzanti,
ammendanti del terreno, ecc.)
fig. 3. Schema del processo di biofissazione del CO2 e della riduzione dei gas serra mediante microalghe.
GHG R&D dello IEA (International Energy Agency) e
include tra i suoi membri compagnie del settore energetico, agenzie governative e altre organizzazioni che promuovono l’attività di ricerca e sviluppo in questo campo.
Scopo del Biofixation Network è di costituire un forum
che consenta ai partecipanti di condividere informazioni e competenze, coordinare e collaborare nelle attività
di ricerca e sviluppo, preparare analisi tecno-economiche e di valutazione delle risorse, sviluppare e dimostrare, entro un decennio, il possibile utilizzo di processi pratici basati su microalghe nella riduzione di gas serra.
Questo articolo descrive lo stato attuale della tecnologia
basata su microalghe applicata alla riduzione dei gas
serra e alcuni programmi di ricerca e sviluppo che si
stanno realizzando nell’ambito del Network.
9.4.2 Fotosintesi, produttività
delle microalghe e riduzione
dei gas serra
I processi biologici di fotosintesi che fissano il CO2 nella
biomassa vegetale, la sua successiva conversione e il
suo utilizzo come combustibile rinnovabile costituiscono una delle tecnologie più promettenti attualmente
disponibili per la riduzione dei gas serra. Globalmente,
la fotosintesi cattura una quantità di CO2 che va ben
oltre un ordine di grandezza rispetto a quella emessa
dalla combustione di combustibili fossili, anche se sostanzialmente tutto questo carbonio viene riciclato nuovamente nell’atmosfera in poco tempo, da alcuni giorni a
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
qualche anno. L’appropriazione e l’alterazione da parte
dell’uomo degli ecosistemi e della produttività primaria, cioè del CO2 fissato nella biomassa vegetale, superano già di gran lunga il nostro uso di combustibili fossili. Perciò, una gestione migliore della biosfera potrebbe ridurre notevolmente le emissioni di CO2 fossile e di
altri gas serra.
Parte del carbonio fissato mediante fotosintesi, per
esempio, può accumularsi e rimanere a lungo nel terreno, o anche in superficie, come biomassa delle foreste.
Pertanto incrementare questi processi di sequestrazione del carbonio rappresenta una strada importante per
ridurre i gas serra. Un’ulteriore efficace via per ridurre
i gas serra mediante fotosintesi è rappresentata dall’uso della biomassa come fonte di energia, o direttamente (mediante la combustione) o dopo averla convertita
in carburanti gassosi o liquidi. I biocarburanti verrebbero ottenuti da rifiuti e da residui agricoli, forestali o
di altre fonti, potrebbero essere coprodotti con alimenti, mangimi e prodotti forestali, oppure prodotti appositamente in aziende come le attuali piantagioni di zucchero di canna, di olio di palma e alberi o altre piante,
nelle cosiddette fattorie energetiche. In molti paesi i biocarburanti rimangono un’importante fonte di energia, e
certamente costituiscono una primaria fonte di energia
per la maggior parte delle popolazioni più povere. L’aumento globale della produzione di biocarburanti e del
loro utilizzo, senza incidere sulla produzione alimentare
o su altre necessità umane ed evitando la distruzione degli
ambienti naturali rimasti, costituisce una grande sfida
tecnologica e sociale di questo secolo. Essa richiederà
839
SOSTENIBILITÀ
una trasformazione su scala mondiale degli attuali metodi agricoli e forestali, affinché sia data priorità alla prevenzione di ulteriori perdite nette di carbonio dal suolo
o dalla vegetazione, una delle fonti principali di CO2
antropogenico nell’atmosfera seconda solo alla combustione di carburanti fossili.
La produzione di biomassa è sostanzialmente limitata dall’efficienza di conversione solare della fotosintesi. In teoria, e in laboratorio, la fotosintesi può essere
un convertitore di energia solare altamente efficiente,
considerando che un’efficienza massima di circa il 10%
(massimo valore di conversione da solare a biomassa) è
generalmente ritenuta il limite superiore. In laboratorio
(cioè in condizioni di scarsa intensità luminosa) questa
efficienza può essere effettivamente raggiunta con le colture di microalghe (Radmer e Kok, 1977). Di norma l’agricoltura opera con un’efficienza ben al di sotto dell’1%
di radiazione incidente solare annua convertita in biomassa raccolta. Inoltre, nell’agricoltura convenzionale
le immissioni di energia fossile (fertilizzanti, pesticidi,
sostanze chimiche, combustibile, ecc.) possono notelvomente abbattere l’efficacia nella riduzione di CO2 fossile mediante l’uso della biomassa come fonte energetica (Pimentel e Patzek, 2005). La sfida per la ricerca e
sviluppo consiste nell’aumentare l’efficienza della fotosintesi nei sistemi di coltivazione all’aperto e nel minimizzare l’estensione dei terreni necessari (il cosiddetto
impatto del processo sul territorio), riducendo contemporaneamente le richieste energetiche e aumentando così
le potenzialità dei sistemi a biomassa di produrre biocombustibili, cibo, mangime e fibre, nonché di ridurre
le emissioni complessive di gas serra.
Le microalghe, piante microscopiche che solitamente
crescono in ambienti acquatici, marini, salmastri o d’acqua dolce, sono generalmente in grado di riprodursi molto
rapidamente, spesso raddoppiando la loro massa nel giro
di un giorno o anche di poche ore. Ne esistono molti tipi
(comunemente chiamate, in base al colore dei loro pigmenti dominanti, alghe verdi, rosse, marroni o verdi-azzurre, etc.) con migliaia di specie note (v. ancora
fig. 1 per alcuni esempi). Oltre che per l’ambiente acquatico e i tassi di crescita molto rapidi, la loro coltivazione
differisce da quella delle piante superiori anche perché
richiede una fonte concentrata di CO2, come quella presente nei gas di combustione provenienti dalle centrali
elettriche (5-15%), in quanto l’assorbimento di CO2 dall’aria (0,04%) da parte delle colture algali sarebbe costoso e ne ridurrebbe di gran lunga la produttività. Dato che
acqua e sostanze nutritive, compreso il CO2, non sono
fattori limitanti, e la rapida crescita permette una produzione continua, con tali colture si possono potenzialmente raggiungere efficienze di conversione solare (ovvero produttività della biomassa) molto più alte che con le
piante superiori. Questo, e l’utilizzo diretto del CO2 dei
gas di combustione delle centrali elettriche, costituiscono
840
il vantaggio e l’attrattiva fondamentali delle colture intensive di microalghe applicate alla riduzione dei gas serra.
La sfida consiste nello sviluppo di processi per produrre biomassa microalgale che abbiano costi competitivi
rispetto all’agricoltura e selvicoltura convenzionali, le
quali attualmente sono in grado di produrre biomassa a
costi notevolmente bassi (complessivamente ben al di
sotto di 100 $/t di biomassa, ovvero inferiori a 5 $/GJ).
Come si vedrà in seguito, per raggiungere l’obiettivo di
una produzione di basso costo, gli attuali processi di coltivazione di biomassa microalgale devono essere semplificati e la produttività massimizzata per avvicinarsi il
più possibile all’efficienza di conversione solare teorica del 10%. Tale è il principale obiettivo del Biofixation
Network.
Come detto sopra, un vantaggio delle colture intensive di microalghe rispetto alle piante superiori è la velocità di crescita. Questo fattore riduce la notevole quantità di tempo necessaria alle piante superiori per crescere dal seme fino allo sviluppo completo, periodo durante
il quale non intercettano tutta la luce solare. Inoltre, come
già affermato, le microalghe non sono limitate da acqua,
sostanze nutritive o CO2, quest’ultimo fornito da una
centrale elettrica o da fonti stazionarie simili. Perciò le
microalghe possono operare più vicino al potenziale massimo della fotosintesi e, quindi, le loro colture intensive
sono solitamente più produttive di quelle delle piante
superiori. Benché dati attendibili su colture massive algali operate su larga scala siano scarsi e in molti casi la
produttività sia limitata da altri fattori rispetto a quelli
precedentemente menzionati (quali temperature sub-ottimali, instabilità delle colture, insufficiente miscelazione, eccessiva formazione di O2, ecc.), le produttività massime ottenibili attraverso coltivazioni che utilizzano la
luce solare possono essere stimate tra 50 e 70 t di biomassa organica secca per ettaro per anno (t/ha⭈a). Benché tali valori siano circa 10 volte superiori a quanto si
ottiene per il raccolto cerealicolo negli Stati Uniti, in
realtà non sono molto più alti di quanto già ottenuto con
la coltura più produttiva in assoluto, la canna da zucchero, basata sulla produzione di biomassa dall’intera
pianta (canna e foglie) in climi tropicali. Peraltro, questo rendimento rappresenta al massimo tra l’1 e il 2%
dell’efficienza di conversione dell’energia solare totale,
a seconda della localizzazione. Si tratta di una produttività modesta se confrontata con quella massima del 10%
che può essere prevista basandosi su quanto ottenuto in
laboratorio.
Quando la velocità di fotosintesi (misurata come
assorbimento di CO2 o produzione di O2) a opera delle
colture di microalghe viene misurata in laboratorio in
funzione dell’intensità luminosa in esperimenti a breve
termine con coltivazioni diluite, si nota un aumento lineare della velocità a basse intensità di luce, seguita però da
un suo rapido rallentamento all’aumentare dell’intensità
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
luminosa oltre il 10-20% della luce solare piena. Come
detto prima, a basse intensità di luce e quando tutti gli
altri fattori sono sotto controllo, la fotosintesi è effettivamente piuttosto efficiente, avvicinandosi alla conversione teorica del 10% da luce solare a energia di biomassa (calcolata assumendo che il 45% della radiazione
solare sia nella parte di spettro visibile o fotosinteticamente attivo). Ma a intensità di luce maggiore, la fotosintesi diminuisce la sua efficienza, e a intensità che corrispondono alla luce solare piena, le efficienze rilevate
in misure a breve termine o anche in studi con colture di
laboratorio continue a lungo termine, scendono al 2-3%
nella conversione da luce a biomassa. Ciò è in linea con
quanto osservato nelle colture intensive all’aperto, qualora si considerino la respirazione (soprattutto le perdite notturne) e altri limiti più o meno inevitabili delle coltivazioni all’aperto (temperatura, concentrazioni di O2,
riflessione delle superfici, ecc.). Questa caduta di efficienza a intensità di luce elevate, il cosiddetto ‘effetto
di saturazione della luce’, si osserva anche con le piante superiori, ma è più pronunciato con le colture di
microalghe ed è il maggior responsabile delle produttività più basse del previsto osservate con queste piante
acquatiche.
La spiegazione dell’effetto di saturazione della luce
si trova nella struttura dell’apparato fotosintetico: l’energia luminosa (fotoni) viene catturata da un assortimento di cosiddetti pigmenti antenna o captatori di luce,
principalmente la clorofilla nelle piante superiori e nelle
alghe verdi e altri pigmenti nelle alghe verdi-azzurre
(cianobatteri), nelle alghe brune (diatomee) e nelle alghe
rosse (v. ancora fig. 1). L’energia fotonica catturata da
questi pigmenti antenna viene poi trasferita alle clorofille del cosiddetto centro di reazione, dove l’energia
fotonica è convertita in energia chimica durante un processo a due fotosistemi. In primo luogo, il fotosistema
II scinde l’acqua (producendo O2) e gli elettroni sono
trasferiti al fotosistema I, dove l’energia fotonica addizionale genera un forte agente riducente (la ferredoxina
ridotta) ed energia metabolica (ATP). Questi sono poi
utilizzati in una serie di reazioni enzimatiche di buio per
fissare il CO2 nei carboidrati. I carboidrati vengono poi
utilizzati per sintetizzare proteine, lipidi, acidi nucleici
e tutti i componenti cellulari, determinando crescita e
moltiplicazione delle cellule microalgali. In questo processo, tanto maggiore è il numero di pigmenti antenna,
quanti più fotoni possono essere catturati dalle cellule
a basse intensità di luce. Tuttavia, a intensità di luce elevate, l’alto numero di tali pigmenti fa sì che vengano
assorbiti più fotoni di quanti ne possano poi essere processati dai centri di reazione; questo eccesso di energia
viene perso rapidamente, sotto forma di calore, o riemesso sotto forma di fluorescenza. Poiché le cellule
microalgali, in natura e soprattutto nei sistemi colturali intensivi, si spostano frequentemente da zone molto
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
illuminate ad altre poco illuminate e viceversa, non riescono ad aggiustare continuamente il loro contenuto di
pigmenti antenna in modo ottimale, consentendo una più
efficiente conversione di energia solare. La strategia evolutiva migliore per le microalghe è consistita nell’adattarsi alle basse intensità di luce, il che si traduce sempre
nell’avere un elevato numero di pigmenti antenna, anche
se, a maggiori intensità luminose, ciò comporta uno spreco di fotoni.
Semplificando, le cellule microalgali sono evolutivamente progettate per crescere con maggior efficienza a bassi livelli di luminosità dato che non fa grande
differenza per le singole cellule (le unità di selezione
evolutiva) l’essere inefficienti in piena luce perché la
luce sprecata non sarebbe comunque utilizzata. In altre
parole, le singole cellule che si trovano alla superficie
della vasca, esposte alla luce solare piena, non vengono
penalizzate per lo spreco di fotoni, pur riducendo l’illuminazione delle coorti sottostanti. Queste stesse cellule, tuttavia, hanno bisogno di catturare ogni fotone
disponibile quando si trovano sul fondo della coltura
dove saranno oscurate dalle cellule che si trovano sopra
di loro. In effetti, si potrebbe anche argomentare che
quelle in superficie traggano beneficio dal fatto di oscurare quelle sotto di loro, in quanto riducono in questo
modo la crescita di cellule competitrici. Inoltre, quando le cellule si spostano nella colonna d’acqua dalle zone
a maggior intensità luminosa verso quelle a minor intensità, qualsiasi intervallo di tempo impiegato ad adattarsi alla mutata intensità di luce viene sottratto alla crescita. In breve, le pressioni evolutive e la selezione hanno
favorito fortemente un complesso di pigmenti antenna
relativamente ampi negli apparati fiotosintetici delle
microalghe, e questo è il principale fattore da considerare per la produttività relativamente bassa delle colture intensive algali, confrontata al loro potenziale. Questo spiega la bassa produttività delle colture intensive di
alghe a elevata densità (quest’ultima caratteristica necessaria alla cattura di tutta la luce solare), in cui le cellule algali, con le grandi dimensioni delle loro antenne,
catturano la maggior parte della luce solare in corrispondenza o vicino alla superficie della coltura, ma utilizzano solo una piccola frazione dei fotoni catturati
sprecando il resto oscurando le cellule sottostanti.
Inoltre, elevate intensità di luce (uguali o vicine alla
luce solare piena) risultano effettivamente inibenti e persino dannose per le cellule con antenne di grandi dimensioni, determinando il fenomeno della fotoinibizione,
che si manifesta come una diminuzione nella velocità di
fotosintesi durante l’esposizione delle cellule a elevate
intensità luminose. Questo effetto realmente riduce la
produttività complessiva (vale a dire l’efficienza) delle
colture intensive di alghe anche più di quanto ci si aspetterebbe dal solo effetto di saturazione della luce. In effetti, cellule algali esposte a elevate intensità di luce per
841
SOSTENIBILITÀ
periodi lunghi riducono le dimensioni delle loro antenne per evitare tali effetti inibitori, ma quando arrivano a
farlo, il loro apparato fotosintetico è già stato danneggiato. In breve, la riduzione delle dimensioni dell’antenna risultante dalla fotoinibizione è subordinata, nelle
singole cellule, alla massimizzazione delle sue dimensioni che risulta dall’effetto di saturazione della luce.
Riassumendo, grazie alla maggiore ampiezza delle
antenne dell’apparato fotosintetico delle microalghe, la
produttività delle colture intensive di alghe esposte alla
luce è circa soltanto da un terzo a un quarto di quanto ci
si aspetterebbe dagli esperimenti di laboratorio condotti a bassa intensità di luce. Nel corso degli anni sono state
proposte diverse soluzioni per superare questo limite fondamentale alla produttività:
• agitare frequentemente le colture algali in modo che
tutte le cellule si trovino spesso esposte al sole (‘effetto luce intermittente’);
• disperdere la luce solare nella coltura mediante prismi o, più recentemente, mediante fibre ottiche;
• usare colonne verticali o pannelli che non ricevano
la luce solare piena come avviene in una vasca orizzontale;
• selezionare alghe con un basso contenuto di pigmenti
antenna che non presentano l’effetto di saturazione
della luce.
Ciascuno di questi approcci è stato oggetto di numerosi studi nel corso degli anni, come illustrato di seguito.
Agitazione rapida delle colture algali. L’agitazione
rapida può essere usata per portare le cellule dentro e
fuori le zone di luce in modo che i fotoni siano assorbiti alla velocità con cui potranno successivamente essere
usati nelle reazioni di buio (il trasferimento più critico
di elettroni tra i due fotosistemi). Questo consente di eliminare gli effetti di saturazione della luce e di fotoinibizione. Sfortunatamente la costante di tempo coinvolta, solo pochi millisecondi a elevata intensità luminosa
seguiti da un periodo molto più lungo al buio (‘effetto
luce intermittente’ per la prima volta descritto dettagliatamente da Kok, 1953), richiede un’agitazione così veloce che la necessità energetica diventerebbe proibitiva in
ogni processo pratico. Benché nel corso degli ultimi cinquant’anni siano state effettuate molte ricerche sugli
effetti delle fluttuazioni di luce, periodicità, modulazione, agitazione (sia organizzata sia casuale) ecc., i limiti
pratici della coltura algale intensiva non permettono l’uso
di un’agitazione rapida per superare la saturazione della
luce. Gli effetti benefici spesso citati dell’agitazione rapida sulla produttività delle colture intensive possono essere attribuiti a effetti secondari, quali la riduzione della
tensione di O2, piuttosto che al superamento dell’effetto di saturazione della luce (Weissman et al., 1988).
Dispersione della luce solare tramite prismi o fibre
ottiche. I bioreattori a fibre ottiche o altri sistemi (prismi, ecc.) che disperdono la luce nelle colture algali
842
richiedono specchi concentratori per catturare la luce
solare che devono essere grandi quanto i fotobioreattori stessi. Questi specchi avrebbero un costo altamente
proibitivo, così come il costo e i significativi problemi
(per esempio il fouling) inerenti a un sistema così complesso, rende questo approccio completamente inattuabile (v. par. 9.4.3).
Uso di colonne verticali o pannelli. I fotobioreattori verticali, benché molto più economici dei fotobioreattori a fibre ottiche, sono ancora troppo costosi rispetto ai più semplici sistemi di coltura intensiva (per esempio vasche), e in ogni caso troppo costosi per qualsiasi
applicazione nella riduzione dei gas serra. Per esempio,
per massimizzare l’efficienza di conversione solare con
sistemi verticali, sarebbe necessario che l’area del fotobioreattore sia almeno di 3 m2 per ogni m2 di terreno (per
consentire un’intercettazione più efficiente di tutta la
luce solare).
Ceppi algali a basso contenuto di pigmento antenna. Le alghe con un contenuto di pigmenti antenna ridotto, come spiegato in precedenza, hanno uno svantaggio
competitivo e quindi l’evoluzione le ha selezionate negativamente. Per questo non ci si aspetta di trovarle in natura e infatti non esistono (Kok, 1973). Tuttavia, come si
è già detto, le microalghe possono adattare le dimensioni delle loro antenne in risposta alle condizioni ambientali ed è ora possibile creare in laboratorio quello che la
natura ha evitato: mediante l’utilizzo delle biotecnologie si possono creare ceppi microalgali con un contenuto di pigmenti antenna permanentemente ridotto. Tali
ceppi, anche se non sono competitivi in natura, avranno produttività maggiori nelle condizioni controllate
delle colture intensive. Questa è stata proposta come la
strategia più promettente per ottenere produttività elevate a basso costo (Benemann, 1989; Benemann e
Oswald, 1996) e ha portato a investimenti nel settore di
ricerca e sviluppo, sia in Giappone sia negli Stati Uniti,
finalizzati alla selezione di ceppi a basso contenuto di
pigmenti antenna (Nakajima e Ueda, 1997 e 2000;
Neidhardt et al., 1998; Polle et al., 2000). Va sottolineato che ceppi mutanti con contenuto ridotto di pigmenti antenna dovrebbero essere in grado di superare
contemporaneamente sia l’effetto di saturazione della
luce sia quello di fotoinibizione, visto che entrambi sono
dovuti all’elevato contenuto di pigmenti antenna dei
ceppi microalgali naturali.
La ricerca per selezionare e produrre ceppi con contenuto ridotto di pigmenti antenna che possano essere
coltivati intensivamente viene ora proseguita da uno specifico progetto nell’ambito del Microalgae Network (Polle
et al., 2005). Lo scopo immediato di questa ricerca consiste nell’ottenere una produttività doppia rispetto a quella attuale con un’efficienza di conversione solare continuativa di circa il 3-5%, corrispondente a una produttività di 100-150 t/ha⭈a (a seconda della collocazione
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
geografica e della composizione della biomassa algale).
Una produttività di questo ordine di grandezza è quella
adeguata per poter applicare questi sistemi alla riduzione dei gas serra. In una fase successiva, dovrebbe essere possibile ottenere anche produttività superiori con
vasche per colture intensive di alghe all’aperto. Queste
alte produttività riducono l’impatto sul territorio e migliorano l’economia del processo, due fattori fondamentali
nelle applicazioni per la riduzione dei gas serra.
Benché di fondamentale importanza, saturazione della luce e fotoinibizione non sono gli unici fenomeni che
riducono ben al di sotto del massimo teorico la produttività di una coltura intensiva di alghe. La respirazione
è un altro fattore importante, come verrà brevemente
discusso in seguito, e anch’essa dovrà essere presa in
considerazione nelle future applicazioni biotecnologiche per sviluppare ceppi migliorati. In conclusione, per
ottenere un’elevata produttività in colture intensive di
microalghe realizzate all’aperto è ancora necessaria parecchia attività di ricerca e sviluppo. Tuttavia, sono ormai
disponibili gli strumenti biotecnologici per realizzare
questo obiettivo e si può quindi realisticamente prevedere di ottenere produttività molto maggiori.
9.4.3 Sistemi di coltivazione
di microalghe e cattura di CO2
Anche prima di aver realizzato questi obiettivi di alta
produttività, bisogna chiedersi come coltivare in modo
intensivo le microalghe e catturare il CO2 dai gas di combustione derivati da centrali elettriche a bassi costi. Fondamentalmente sono stati presi in considerazione due
approcci differenti: le colture in vasche all’aperto e quelle in fotobioreattori chiusi. Anche le vasche ovviamente possono essere considerate dei fotobioreattori, ma qui
si preferisce usare questo termine per indicare in modo
specifico sistemi chiusi, in cui non vi sia scambio diretto di gas con l’atmosfera come nelle vasche all’aperto.
Vasche all’aperto
Le vasche per colture all’aperto possono essere di
diversa foggia. La più semplice è una vasca in cui le
microalghe crescono essenzialmente come fanno in natura, sospese nella colonna d’acqua e rimescolate solo dal
vento. Benché molto usati nel trattamento delle acque
reflue (fig. 2D) e anche in alcuni sistemi di produzione
commerciale di microalghe, tali tipi di vasche non verranno ulteriormente presi in considerazione in questa
sede perché presentano una produttività molto bassa. Ciò
è dovuto almeno in parte alla carenza di CO2, in quanto
questi sistemi non ne prevedono l’apporto aggiuntivo
dall’esterno. Per ottenere un’omogenea distribuzione del
CO2 è necessaria la presenza di un meccanismo di agitazione della vasca.
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
Uno dei primi sistemi all’aperto, con agitazione, per
la coltura intensiva di alghe è stata una vasca a struttura
circolare sviluppata in Giappone 50 anni fa per coltivare
intensivamente Chlorella (Tamiya, 1957) e usata dagli anni
Sessanta per la sua produzione commerciale (fig. 2A).
Lo svantaggio principale di questo tipo di vasca è la sua
limitata dimensione: a causa dell’agitazione non uniforme dovuta al meccanismo di spinta a perno centrale, non
può superare 1.000 m2. Inoltre, questo sistema di agitazione è costoso sia nella costruzione sia nell’operatività.
In breve, il problema dell’agitazione e quello idraulico
sono i principali fattori limitanti per la costruzione su
larga scala di questi sistemi produttivi.
Agli inizi degli anni Cinquanta venne studiata per la
prima volta in California la vasca aperta raceway (chiamata anche vasca ad alta velocità) applicata al trattamento di acque reflue. L’agitazione era ottenuta mediante una pompa di ricircolazione (Oswald e Golueke, 1960).
A partire dai primi anni Sessanta, tali sistemi furono
installati in diverse vasche per il trattamento di acque
reflue in California (v. ancora fig. 2D), benché fossero
usati anche altri sistemi di agitazione (per esempio, la
pompa di Archimede). Negli stessi anni in Germania
vennero introdotte le ruote a pale (paddle wheel) per agitare piccole vasche raceway per colture intensive di alghe
e successivamente per sistemi pilota di trattamento di
acque reflue (Benemann et al., 1980). Da allora questo
assetto è il più diffuso nell’industria delle microalghe.
Questo tipo di vasche viene usato estesamente nella produzione commerciale di Spirulina e Dunaliella, le principali specie di alghe attualmente prodotte su scala commerciale, e viene applicato anche nel trattamento di acque
reflue (v. ancora figg. 2B e 2D). Le vasche raceway agitate con ruote a pale sono poco profonde (solitamente
l’altezza del mezzo acquoso va da 20 a 30 cm) e una singola vasca può facilmente essere ampliata fino a diverse migliaia di metri quadrati e plausibilmente fino a
diversi ettari.
Per vasche grandi occorrono ruote a pale grandi, per
le quali può sembrare necessario un elevato apporto di
energia. Tuttavia ciò non è vero poiché fintanto che le
velocità di agitazione sono mantenute nell’intervallo di
20-30 cm/s, il consumo di energia per l’agitazione è
modesto. Tuttavia, un’agitazione più lenta potrebbe determinare la sedimentazione delle alghe, così come un insufficiente rifornimento di CO2. Poiché gli input d’energia
aumentano in funzione del cubo della velocità di flusso,
agitazioni più rapide consumerebbero troppa energia.
Nei sistemi commerciali il CO2 viene fornito alle vasche
da fonti concentrate anche se, almeno in un caso, l’impianto per la produzione di microalghe è stato associato a una centrale elettrica di piccole dimensioni.
I due problemi principali sono come trasferire il
CO2 nella coltura in vasca e come impedire la perdita
di CO2 dalle vasche associata alla fuoriuscita di gas
843
SOSTENIBILITÀ
nell’atmosfera. Il trasferimento di CO2 è ottimizzato
facendo gorgogliare il gas attraverso il liquido in un pozzetto posto poco a valle della ruota a pale. Per i gas di
combustione da centrale elettrica, tipicamente all’8-13%
di CO2, è necessario trasferire grandi quantità di gas e
per massimizzare l’assorbimento del CO2 e ridurre il
calo di pressione in corrispondenza dell’orifizio il pozzetto funziona meglio se viene operato controcorrente.
Poiché le bolle salgono ad una velocità di 30 cm/s, simile alla velocità di flusso del liquido nella vasca, affinché il trasferimento sia efficiente il pozzetto non deve
essere troppo profondo. Dovrebbe essere possibile un’efficienza di trasferimento dell’80-90% per i gas di combustione e una superiore al 90% se viene usato CO2
puro. Una volta trasferito nella coltura in vasca, il
CO2, sotto forma di CO2 disciolto e acido carbonico
(che è in equilibrio con l’alcalinità del carbonato), tenderà a fuoriuscire nell’atmosfera dato che la sua concentrazione è maggiore nella vasca rispetto a quella esterna. I coefficienti di degassamento per le vasche possono essere calcolati e sono stati anche misurati, ma
dipendono da molti fattori tra cui il coefficiente di scabrezza del fondo, le velocità di agitazione, la profondità, il pH, l’alcalinità ed eventualmente dalla coltura
algale. Si possono contenere le perdite al di sotto del
10%, ma ciò richiede operazioni entro specifici intervalli di pH, alcalinità, velocità di agitazione, ecc.
L’energia richiesta per pompare i gas di combustione nelle vasche di alghe limita la distanza consentita tra
la centrale elettrica e le vasche stesse, che devono essere collocate in prossimità l’una alle altre. Va poi sottolineato, riguardo ai gas di combustione delle centrali elettriche, che il CO2 è usato dalle colture di microalghe solo
durante le ore diurne e che in estate è utilizzato molto di
più che in inverno, il che riduce l’utilizzazione massima
annuale di CO2 a circa un terzo, ossia considerevolmente
meno, di quanto in complesso prodotto da una centrale
elettrica a carico base stazionario.
Un elemento fondamentale è la capacità delle microalghe di crescere utilizzando direttamente il gas di combustione emesso da una centrale elettrica. La concentrazione di CO2 (CO2 disciolto⫹acido carbonico) a cui le
cellule algali sono effettivamente esposte nelle vasche è
relativamente bassa, al massimo è al livello di quella dei
gas di combustione (equivalente a meno del 10% di CO2
in fase gassosa) e inoltre solo limitatamente nel tempo,
perché il CO2 viene consumato mano a mano che le alghe
crescono nelle vasche. Inoltre, l’effetto del CO2 sulle
microalghe è modulato dal pH che dipende dall’alcalinità e dalle concentrazioni di biossido di carbonio. In
sintesi, non c’è necessità di alghe che tollerino elevate
concentrazioni di CO2, che possano crescere in presenza di CO2 puro (100%) o in condizioni di acidità (basso
pH). Nel corso degli anni passati (a partire dagli anni
Cinquanta) numerose ricerche, per lo più condotte in
844
laboratorio (Olaizola, 2003 e bibliografia inclusa) ma
anche, in misura minore, in colture all’aperto (Matsumoto
et al., 1995; Pedroni et al., 2004) hanno dimostrato che è
possibile coltivare efficacemente le microalghe utilizzando direttamente i gas di combustione.
La possibilità di eliminare insieme al CO2 contaminanti aggiuntivi dai gas di combustione di centrali elettriche, in particolare NOx e SOx, costituisce un’opportunità per integrare lo smaltimento di questi gas con la
produzione di microalghe. Nelle quantità in cui sono
effettivamente assorbiti (in funzione dei coefficienti di
trasferimento di massa del sistema di trasferimento del
gas di combustione), questi contaminanti reagiscono in
acqua producendo acidi diluiti che vengono neutralizzati dall’alcalinità del mezzo di coltura. Nel caso degli
NOx , sia NO sia NO2 vengono utilizzati dalle microalghe (Negoro et al., 1993; Nagase et al., 2001) senza alcun
cambiamento netto di alcalinità. Tuttavia gli NOx forniscono solo una piccola percentuale dell’azoto necessario alle alghe. La neutralizzazione degli SOx potrebbe
essere un problema nel caso in cui le concentrazioni siano
elevate, il riutilizzo dell’acqua massiccio e l’alcalinità
un fattore limitante, rendendo necessaria l’aggiunta di
una base (per es. NaOH o altra equivalente) alle vasche,
procedura utilizzata anche in un convenzionale processo di smaltimento dei gas di combustione. La scarsa quantità di questi contaminanti rispetto al CO2 fa si che non
rappresentino un grosso problema, tuttavia il potenziale delle colture microalgali di contribuire a smaltire i gas
di combustione è degno di essere considerato.
Un altro fattore da considerare è l’O2 prodotto dalle
colture di microalghe che si accumula nelle vasche a concentrazioni di molto superiori rispetto a quelle di saturazione dell’aria e che si dovrebbe disperdere nell’atmosfera per evitarne l’accumulo e il conseguente effetto inibitorio. Ciò si potrebbe ottenere mediante una
stazione di sfiato a monte della ruota a pale e precedente alla stazione di carbonatazione. Durante la notte le
colture di alghe respirano e utilizzano tutto l’O2 disciolto e l’eventuale altro O2 trasferito dall’atmosfera. Entrambi i fattori, alta concentrazione di O2 durante il giorno e
respirazione di notte, determinano una perdita potenzialmente significativa nella produzione giornaliera, ma
sono stati abbastanza trascurati negli studi sulla coltivazione intensiva di alghe e richiedono ulteriori approfondimenti.
Il rifornimento, il trasferimento e l’utilizzo di CO2
da gas di combustione sono elementi importanti nei costi
complessivi di un processo di abbattimento dei gas serra
basato su microalghe. Un’alternativa sarebbe catturare il
CO2 dai gas di combustione e concentrarlo in CO2 puro
al 100%, per poi rifornire la vasca di coltivazione. Ciò
costerebbe decisamente meno che utilizzare il CO2 dei gas
di combustione, per via dei costi inferiori delle tubazioni
e delle strutture di trasferimento. Inoltre, consentirebbe di
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
immagazzinare CO2 durante la notte per poi utilizzarlo
durante il giorno, con un incremento del fattore di utilizzazione complessivo. Tuttavia, anche considerando il
costo di concentrare il CO2 dalle centrali elettriche, nella
maggior parte delle situazioni si continua a preferire l’utilizzo diretto dei gas di combustione. Benché i problemi relativi a rifornimento, trasferimento e utilizzo del
CO2 siano complessi e sia necessario ulteriore lavoro, la
conclusione raggiunta in base ai dati sperimentali, all’analisi teorica e ai calcoli ingegneristici è che il rifornimento di CO2 dal gas di combustione alle vasche all’aperto e il suo utilizzo non rappresenta un limite per le
colture intensive di microalghe benché questi fattori riducano specifiche opzioni realizzative (Benemann et al.,
1982; Weissman e Goebel, 1987).
Un altro importante elemento nella progettazione
strutturale ed economica delle colture in vasche all’aperto è il rivestimento delle vasche stesse che serve a
impedire perdite d’acqua per percolazione, contaminazione della falda idrica, sospensione di detriti e consente la pulizia delle vasche. La maggior parte delle vasche
per la produzione commerciale di microalghe è rivestita in plastica o in cemento. Tuttavia, gran parte di quelle per il trattamento di acque reflue è rivestita solo da
argilla a basso costo, come lo sono le poche vasche di
grandi dimensioni per la produzione di Spirulina. Un
lavoro sperimentale che ha messo a confronto vasche rivestite in argilla con quelle rivestite in plastica (Weissman
e Tillett, 1989) suggerisce che non vi sia molta differenza
in prestazioni tra queste due opzioni, soprattutto per quanto riguarda la produttività, e che si potrebbero far funzionare vasche non rivestite con le velocità di miscelazione suggerite sopra (vale a dire da 20 a 30 cm/s circa).
Per l’abbattimento di gas serra e la produzione di energia sono necessarie vasche a basso costo rivestite in
argilla, perché il rivestimento in plastica, nella maggior
parte dei casi, risulterebbe troppo oneroso, a meno di
non combinarlo con il trattamento di acque reflue o con
la produzione di coprodotti che abbiano un valore commerciale superiore a quello dei combustibili. Per far
progredire lo sviluppo di tecnologie per la mitigazione
dei gas serra basate sull’utilizzo di colture intensive di
microalghe, le future ricerche devono prevedere la realizzazione di vasche di ampie dimensioni (superiori a
1 ha) rivestite in argilla.
Il costo capitale delle vasche ad alta velocità con agitazione mediante ruote a pale e rivestimento in argilla
può essere stimato, molto approssimativamente, in
100.000 $/ha per sistemi su vasta scala (superiori a 100
ettari), comprendendo infrastrutture generali (acqua,
energia e rifornimento di CO2 per l’impianto), raccolta della biomassa e processamento. Questa stima si basa
su molti presupposti favorevoli legati al sito e su una
produttività media annua di 30 g/m2⭈d (110 t/ha⭈a). Si
tratta di un costo capitale iniziale oltre un ordine di
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
grandezza più alto di quelli da affrontare per l’agricoltura o la silvicoltura tradizionali, anche per i sistemi che
necessitano irrigazione. Perciò, neppure alte produttività
riescono a recuperare investimenti di capitale così elevati. Anche i costi operativi per energia, nutrienti, mantenimento e gestione, compresi la raccolta e il processamento delle alghe (v. oltre), sono più elevati per le colture di microalghe che per le tipiche colture di piante da
raccolto o di alberi. Perciò, complessivamente, l’aspetto economico della produzione di microalghe con questo tipo di vasche all’aperto non risulta molto vantaggioso in confronto ad altri processi biomassa-biocombustibili (v. par. 9.4.6).
Tuttavia, le microalghe possono essere coltivate utilizzando terreni, acque e altre risorse, compreso il CO2
dei gas di combustione di centrali elettriche, che non
sono adatti per l’agricoltura o la silvicoltura convenzionali. Paradossalmente, l’utilizzo di acqua da parte delle
vasche di microalghe in realtà è inferiore a quello per
l’agricoltura con piante superiori, in cui il consumo d’acqua, a causa dell’evapotraspirazione, è in funzione diretta della produttività. La biomassa di microalghe può inoltre essere convertita in combustibili liquidi e gassosi più
facilmente della maggior parte di biomassa ottenuta da
piante superiori. Al momento, l’applicazione a breve termine più plausibile delle microalghe nella riduzione dei
gas serra è in combinazione con il trattamento di acque reflue o con applicazioni ambientali similari (v. par. 9.4.5).
Uno dei principali svantaggi delle vasche all’aperto
è che la coltura di alghe può venire facilmente contaminata da specie algali invasive, animali che si nutrono di
alghe e infezioni biologiche di vario tipo (batteri, protozoi, ecc.) il che provoca la perdita della coltura. Proprio
questo tipo di eventi ha limitato fino a poco tempo fa la
coltura intensiva di microalghe in vasche all’aperto a
poche specie, in particolare Spirulina e Dunaliella. Queste alghe possono essere facilmente mantenute in vasche
all’aperto come colture continue perché il loro terreno
di coltura contiene elevate quantità di bicarbonato o di
sale che sfavoriscono la crescita della maggior parte delle
altre alghe o di microrganismi. Tuttavia, un mezzo così
selettivo riduce anche la produttività di tali sistemi, rispetto a coltivazioni in mare o in acqua dolce. Altre microalghe coltivate a fini commerciali in vasche all’aperto,
soprattutto Chlorella e Haematococcus, richiedono quantità relativamente grandi di inoculo iniziale prodotto in
condizioni controllate in fotobioreattori chiusi. La quantità di produzione di inoculo richiesta è un fattore chiave, ma sembra non presentare un limitazione rilevante
(Benemann, 2004).
Fotobioreattori chiusi
Esistono fotobioreattori chiusi di molte forme, in particolare tubolari e a lamina piana. I fotobioreattori chiusi sono caratterizzati dall’impedire lo scambio diretto di
845
SOSTENIBILITÀ
gas con l’atmosfera e questa definizione include le vasche
coperte, anche se ventilate. Queste vasche coperte sono
state usate a scopo commerciale per coltivare Chlorella
e Spirulina sia in impianti di grandi dimensioni sia per
far partire le colture iniziali in località in cui le temperature erano troppo basse per consentire un rapido inizio della produzione in primavera. Come già detto, sono
pochi i motivi per impiegare vasche raceway coperte o
altri fotobioreattori chiusi nelle colture intensive di alghe
al fine di ridurre i gas serra, se non quando si vogliano
produrre gli inoculi.
I fotobioreattori chiusi, in particolare i sistemi tubulari ma anche quelli a lamina piana e altri modelli, sono
recentemente molto utilizzati nelle applicazioni commerciali per l’ottenimento di prodotti ad alto valore
aggiunto a partire dalle microalghe. In particolare, il
carotenoide astaxantina (un agente colorante somministrato in acquacoltura nell’allevamento di salmoni), sintetizzato dalla microalga Haematococcus pluvialis (fig. 2C).
Di fatto, i fotobioreattori chiusi sono stati l’elemento
d’interesse principale della maggior parte delle attività
di ricerca e sviluppo sulle microalghe negli ultimi due
decenni. Sono stati studiati applicati alla riduzione dei
gas serra durante gli anni Novanta in Giappone (Maeda
et al., 1995; Usui e Ikenouchi, 1997) e più recentemente negli Stati Uniti (Bayless et al., 2001; Olaizola, 2003).
L’importanza principale dei fotobioreattori chiusi è
rappresentata dalla loro supposta capacità di garantire
produttività molto più alte di quelle che si ottengono in
vasca aperta. Tuttavia non sono molti gli studi che hanno
messo direttamente a confronto le performance dei fotobioreattori chiusi con quelle delle vasche all’aperto.
Recentemente, una sperimentazione di questo tipo è stata
condotta nel centro ricerche di Monterotondo (Roma) di
EniTecnologie con fotobioreattori tubulari che operavano all’esterno a fianco di vasche aperte utilizzando un
gas di combustione simulato (Pedroni et al., 2004). Nel
complesso, entrambi i sistemi hanno mostrato produttività simili, espresse in grammi di biomassa secca prodotta per m2 di superficie al giorno. Infatti, non esistono ragioni teoriche o pratiche convincenti per cui vasche
aperte e fotobioreattori chiusi non debbano avere le stesse produttività se fatti funzionare nelle stesse condizioni. Una differenza è costituita dalla temperatura che
durante il giorno è più alta nei sistemi chiusi di quanto
non sia nelle vasche aperte. Tuttavia, questo può rappresentare tanto un problema quanto un vantaggio, poiché è necessario procedere al raffreddamento dei fotobioreattori nelle ore diurne mentre nelle vasche aperte è il raffreddamento per evaporazione che limita le
temperature (eccetto che nelle zone eccezionalmente
umide). Un’altra possibile differenza è che dai fotobioreattori chiusi c’è meno fuoriuscita, e quindi meno perdita, di CO2, ma ciò comporta anche un accumulo molto
maggiore di O2 con inibizione della crescita algale. Lo
846
scambio di gas è il fattore limitante nella progettazione
e nel funzionamento di questi sistemi chiusi (Weissman
et al., 1988) e proprio un’insufficiente capacità di scambio gassoso è stata la probabile causa del fallimento di
diverse iniziative commerciali che utilizzavano i fotobioreattori per produzione di Spirulina e Dunaliella.
Il limite maggiore dei fotobioreattori chiusi è comunque il loro elevato costo capitale e operativo. La porzione in vetro (ovvero la copertura trasparente) rappresenta spesso solo una piccola parte del costo capitale
complessivo, mentre il grosso è dovuto alle dimensioni
unitarie relativamente piccole di tali sistemi, che possono raggiungere al massimo solo poche centinaia di
metri quadrati, risultando quindi più piccole di oltre due
ordini di grandezza rispetto alle dimensioni massime
delle vasche all’aperto. Ciò significa che le apparecchiature di agitazione, gli scambiatori di gas, il rifornimento di nutrienti, i sistemi di raccolta e quelli di controllo devono essere tutti replicati e fatti funzionare centinaia di volte elevando i costi rispetto a un sistema
costituito da un’unica vasca all’aperto. Il raffreddamento
e la pulizia dei fotobioreattori chiusi rappresentano ulteriori e notevoli fattori di costo. I costi più bassi pubblicati per i fotobioreattori sono nell’ordine dei 50 $/m2
(Tredici, 1999), circa dieci volte maggiori di quelli per
le vasche all’aperto (escludendo la raccolta della biomassa). Tuttavia, queste previsioni non considerano molte
componenti importanti per cui le stime per i sistemi commerciali sono risultate molto più elevate, generalmente
ben oltre 100 $/m2. In breve, in considerazione della
mancanza di particolari vantaggi, dei molti limiti e, cosa
più importante, dei loro costi elevati (oltre dieci volte
maggiori di quelli delle vasche all’aperto), i fotobioreattori chiusi non sono utilizzabili per la produzione di
biocarburanti da microalghe e per la riduzione dei gas
serra e neanche per il trattamento di acque reflue. La
concentrazione più alta di biomassa algale nei fotobioreattori chiusi, rispetto alle vasche all’aperto, riduce i
costi di raccolta della biomassa (v. par. 9.4.4), ma questo ripaga solo in piccola parte i costi (di capitale e totali) molto più alti dei fotobioreattori chiusi rispetto a quelli delle vasche all’aperto.
Un vantaggio dei fotobioreattori chiusi in realtà esiste: essi consentono la coltivazione di ceppi algali che
non sarebbero coltivabili in vasche all’aperto a causa di
specie invasive o del sopravvento di altre specie di microalghe o di organismi che si cibano di alghe. Tuttavia, anche
in questo caso il vantaggio dei fotobioreattori chiusi rispetto alle vasche all’aperto è inferiore a quanto si pensi generalmente: benché la contaminazione possa essere ritardata, prima o poi tali sistemi vengono contaminati da
alghe invasive, rotiferi o altri organismi indesiderati. Per
liberarsi da tali invasori è necessario ripulire e riavviare
il sistema, il che non è sempre efficace e in generale è
più complicato di quanto sia nelle vasche all’aperto.
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
I fotobioreattori chiusi però possono avere, e avranno, un ruolo importante nelle tecnologie per diminuire
i gas serra: la produzione dell’inoculo microalgale richiesto per le colture operate in vasche all’aperto su larga
scala. Nei siti di produzione di questi inoculi, i fotobioreattori chiusi non verranno fatti funzionare per ottenere la massima produttività, ma per massimizzare la velocità di crescita, in modo da consentire la rapida formazione della coltura in condizioni che minimizzino la
contaminazione. L’abbondante preparazione di inoculi
prodotti in condizioni controllate sarebbe un passaggio
molto critico qualora si dovessero coltivare ceppi algali migliorati geneticamente, come quelli con un contenuto ridotto di pigmento antenna (v. sopra). Tali ceppi
risulterebbero particolarmente suscettibili alla contaminazione e al sopravvento da parte di ceppi selvatici
di microalghe e di altri fattori biologici. La crescita di
un inoculo di questo tipo di ceppi, per sistemi di vasche
all’aperto su vasta scala, verrebbe effettuata in una successione di fotobioreattori chiusi di grandezza crescente e a costo per unità d’area e complessità tecnica decrescenti: partendo dalle colture in laboratorio e procedendo aumentando progressivamente le dimensioni di circa
dieci volte, da piccoli (da 1 a 10 m2) fotobioreattori chiusi e sterili, fino a fotobioreattori chiusi sempre più grandi (da 100 a 1.000 m2 fino anche a 10.000 m2), ma progressivamente meno costosi (al m2). I più grandi saranno vasche raceway rivestite internamente e probabilmente
coperte, che producono l’inoculo finale usato poi per
avviare le grandi vasche non rivestite all’aperto, precedentemente descritte. Considerando che per una coltura
di laboratorio sono necessari da sei a nove stadi di incremento (da circa 20 a 30 generazioni, ovvero da due a tre
settimane di crescita), la produzione di un tale inoculo
rappresenterebbe il 5% o meno dei costi di produzione
totali. La produzione dell’inoculo basata su una serie di
fotobioreattori chiusi diverrà una componente fondamentale nello sviluppo di sistemi di coltura intensiva di
alghe per ridurre i gas serra che facciano uso di vasche
all’aperto, di ceppi di alghe geneticamente migliorati per
alta produttività e altre caratteristiche desiderabili.
Va sottolineato che i fotobioreattori chiusi vengono
spesso promossi come una tecnologia per la riduzione
dei gas serra a prescindere. In Giappone, negli anni Novanta è stato condotto un imponente programma di ricerca
e sviluppo per ridurre i gas serra che ha coinvolto oltre
due dozzine di laboratori industriali ed è costato molte
centinaia di milioni di dollari. Il suo principale obiettivo era lo sviluppo di fotobioreattori chiusi per la cattura di CO2 da centrali elettriche (Usui e Ikenouchi, 1997).
In particolare, questo programma puntava all’utilizzo di
fotobioreattori a fibre ottiche, che erano state proposte
come soluzione al problema della saturazione della luce
(Karube et al., 1992). Tuttavia, come si è notato in precedenza, questi sistemi richiedono l’utilizzo di grandi
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
specchi concentratori, estremamente costosi, per catturare l’energia luminosa e trasferirla alle fibre ottiche,
oltre a comportare altri problemi. Un progetto simile è
stato condotto recentemente negli Stati Uniti (Bayless
et al., 2001) e ha anche ricevuto un’accoglienza favorevole sui giornali di divulgazione scientifica (Di Justo,
2005), essendo poi attuato con finalità commerciali per
la cattura di CO2 e la produzione di oli algali. Ciononostante, tali tecnologie non sono applicabili alla riduzione dei gas serra. Anche i più semplici fotobioreattori
tubulari, benché molto più economici di quelli a fibre
ottiche, costano sempre più delle vasche aperte di oltre
un ordine di grandezza e non possono, come già detto,
essere presi in considerazione per applicazioni tese a
ridurre i gas serra se non per la produzione di inoculi.
Ciononostante, diverse industrie private negli Stati Uniti
sono impegnate in attività di ricerca e sviluppo in questo
settore (Olaizola, 2003). Un’impresa di recente istituzione, affiliata al Massachusetts Institute of Technology
(MIT), sta dimostrando l’utilizzo, nei pressi di una piccola centrale elettrica nel campus del MIT, di fotobioreattori di vetro a forma triangolare con colonna a bolle
(Vunjack-Novakovic et al., 2005. Sono progettati per catturare gli NOx e SOx, unitamente al CO2, dai gas di combustione di una centrale elettrica allo scopo di produrre
oli algali che possono essere convertiti in biodiesel. In
questi reattori con colonna a bolle, tuttavia, i coefficienti
di trasferimento di massa sono troppo bassi e/o le richieste energetiche sono troppo alte (Miyamoto et al., 1988;
Nagase et al., 2001) per tale applicazione, anche volendo ignorare gli aspetti economici decisamente sfavorevoli e l’enorme numero di fotobioreattori che sarebbe
necessario installare in pratica.
In conclusione, i fotobioreattori chiusi hanno un ruolo
importante, quasi critico, nelle applicazioni delle tecnologie con microalghe per la riduzione dei gas serra a produzione dell’inoculo, in particolare per i ceppi di alghe
selezionati per l’elevata produttività e altre caratteristiche favorevoli. Tuttavia, sono decisamente troppo costosi per quanto riguarda il costo sia capitale sia operativo,
anche nelle condizioni più favorevoli e non forniscono
alcun vantaggio decisivo rispetto alle vasche all’aperto.
Dal momento che l’utilizzo dei fotobioreattori non può
essere considerato l’approccio principale alla diminuzione dei gas serra mediante microalghe, nel resto di questo lavoro verranno prese in considerazione solo le colture in vasche all’aperto.
9.4.4 Raccolta delle microalghe
e conversione in carburanti
Raccolta della biomassa microalgale
La coltivazione di ceppi microalgali ad alta produttività in vasche all’aperto utilizzando CO2 da gas di com-
847
SOSTENIBILITÀ
bustione provenienti da centrali elettriche o fonti simili
è solo il primo passo in un processo di riduzione dei gas
serra. La biomassa algale deve essere poi raccolta e convertita in un carburante rinnovabile, il cui utilizzo possa
sostituire i carburanti fossili (v. ancora fig. 3).
La raccolta delle microalghe, cioè la concentrazione
delle microscopiche cellule algali dalle soluzioni diluite contenute nelle vasche di coltura intensiva, rappresenta un passaggio fondamentale e un limite nei processi
di produzione. Solitamente, la concentrazione della biomassa microalgale nelle vasche all’aperto è solo di poche
centinaia di milligrammi per litro di biomassa secca e
anche le colture con produttività molto elevata sono ben
al di sotto di 1 g/l. La biomassa deve quindi essere concentrata di oltre 100 volte per raggiungere una densità
sufficiente (almeno 50 g/l di biomassa e preferibilmente 100 g/l o oltre) a consentire il suo successivo processamento e conversione a biocombustibile. Negli anni
sono stati sviluppati tre tipi principali di tecniche che
verranno brevemente descritti di seguito: la centrifugazione, la filtrazione e la flocculazione, quest’ultima seguita da sedimentazione o da flottazione ad aria disciolta.
Sono stati studiati anche molti altri approcci, come le
separazioni magnetiche ad alto gradiente o lo sfruttamento della capacità di nuotare di alcune alghe, che però
non si sono rivelati praticabili e pertanto non verranno
ulteriormente esaminati.
La centrifugazione può essere utilizzata per la maggior parte dei tipi di alghe benché sia sconsigliabile per
quelle con cellule molto fragili, come Dunaliella. Il problema principale sono i costi molto alti, sia d’acquisto
sia operativi, delle centrifughe, ben oltre i 1.000 $/t
(massa secca), troppo elevati per qualsiasi processo di
riduzione dei gas serra e anche per lo smaltimento delle
acque reflue. La centrifugazione può essere presa in considerazione in un passaggio di raccolta secondario o
finale al fine di aumentare le concentrazioni della biomassa, per esempio, da 10-20 g/l a 100-200 g/l (massa
secca) che, richiedendo il trattamento di una quantità
molto più piccola di liquido, riduce i costi quasi in proporzione. Tale concentrazione secondaria è stata proposta in diversi studi di ingegneria economica, possibilmente in associazione all’estrazione di oli da biomasse
algali con concentrazioni di olio particolarmente elevate (Benemann e Oswald, 1996).
La filtrazione viene usata in campo commerciale per
raccogliere Spirulina, una specie microalgale filamentosa e questo processo risulta relativamente a basso costo
usando i cosiddetti microfiltri: filtri rotanti con un controlavaggio, filtri inclinati o vibrofiltri. In ogni caso, la
filtrazione è limitata a tipi di microalghe filamentose o
che producono colonie di dimensioni tali da venir trattenute da filtri con pori superiori a 20 mm, mentre le
microalghe unicellulari o che formano colonie più piccole (solitamente di dimensioni inferiori a 20 mm) non
848
possono essere raccolte efficacemente con questi metodi. Infatti filtri con maglie più strette impediscono il
flusso dell’acqua e si intasano rapidamente. La filtrazione richiede spesso anche un passaggio di concentrazione secondario, quale una filtropressa o una centrifugazione, prima dell’ulteriore processamento della biomassa. La filtrazione mediante menbrane (per es.,
cross-flow filtration) è un’altra possibilità vantaggiosa
in alcune applicazioni, ma troppo costosa per quelle di
riduzione di gas serra.
La flocculazione chimica, utilizzando calce, allume,
cloruro di ferro e/o polielettroliti, è il metodo più generale e diffuso per raccogliere le microalghe, applicabile
alla maggior parte dei ceppi. Essa sfrutta la carica negativa delle pareti cellulari che viene neutralizzata dall’agente flocculante consentendo la formazione di grandi
fiocchi che poi vengono recuperati per sedimentazione
o per flottazione ad aria disciolta. Quest’ultima opzione
è quella generalmente preferita perché, anche se un po’
più costosa, produce una biomassa più concentrata. La
raccolta con flocculanti chimici è usata in numerosi
impianti di smaltimento delle acque reflue e in quelli di
produzione commerciale di Dunaliella. Tali processi
sono, tuttavia, ancora piuttosto costosi, sia per i flocculanti sia per l’operatività, e non sarebbero applicabili in
processi di riduzione dei gas serra a basso costo. Inoltre, il flocculante chimico può interferire nel processamento della biomassa, nella digestione anaerobica o nel
riciclaggio dei nutrienti.
Molte microalghe, forse la maggior parte, sono in
grado di bioflocculare. Questo fenomeno consiste nell’aggregazione spontanea delle cellule algali in grandi
fiocchi che si depositano poi abbastanza rapidamente (in
base alla legge di Stokes, secondo cui la velocità di caduta è in funzione del cubo del diametro del fiocco). Sfortunatamente, il processo di bioflocculazione non è ancora ben conosciuto: dipende dalla produzione, da parte
delle cellule algali, di polimeri che fanno aggregare le
cellule tra loro. Che cosa inneschi il fenomeno della bioflocculazione non è chiaro, ma viene spesso osservato
in laboratorio, in natura e anche nelle vasche di trattamento delle acque reflue. Diversi fattori entrano in gioco:
la specie di alga, persino il ceppo, e le condizioni ambientali; la scarsità di azoto e di altri nutrienti, infatti, è favorevole alla bioflocculazione. Mancano tuttavia informazioni e studi specifici. In uno studio condotto sul
lungo periodo in vasche di trattamento di acque reflue
su scala pilota, sono state utilizzate due vasche ad alta
velocità di 1.000 m2 e la coltura algale, dominata da
Micractinium sp. (fig. 1A), veniva rimossa dalle vasche
e lasciata riposare per 24 ore. A quel punto più del 90%
delle cellule di almeno una delle due vasche era andato
incontro a flocculazione spontanea (Benemann et al.,
1980). Tuttavia, questo studio non ha mai avuto seguito
e sono necessarie ulteriori ricerche per poter trasformare
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
questo fenomeno in una tecnologia affidabile ed efficace. La bioflocculazione seguita dalla sedimentazione per
gravità (come operato nel processo a fanghi attivi nei
convenzionali sistemi di trattamento delle acque reflue)
è certamente l’opzione di raccolta a più basso costo e
rappresenta il sistema preferenziale applicabile ai processi di riduzione dei gas serra con microalghe. Costituisce pertanto il riferimento per la maggior parte delle
analisi tecno-economiche in questo campo (Benemann
e Oswald, 1996), anche se non è ancora stata applicata
in pratica.
In conclusione, la raccolta della biomassa microalgale a basso costo resta una grande sfida per il settore di
ricerca e sviluppo. Senza questa tecnologia non è possibile raggiungere l’obiettivo di applicare questi sistemi
biologici nella riduzione dei gas serra e neppure al trattamento delle acque reflue. Tuttavia, esiste sufficiente
esperienza per suggerire che la bioflocculazione, magari in combinazione con la centrifugazione, possa raggiungere gli obiettivi di costo per la riduzione dei gas
serra. L’ulteriore studio e lo sviluppo di questo processo rimangono un requisito fondamentale, unitamente alla
produttività e alla coltivazione controllata di specifiche
specie algali, nello sviluppo di una tecnologia per produrre le microalghe che risulti pratica e a basso costo.
Conversione della biomassa algale in carburanti
Il passaggio finale in un processo di riduzione dei
gas serra basato sulle microalghe è la conversione della
biomassa raccolta a carburante (v. ancora fig. 3). Questo è forse il passaggio meno difficile, almeno rispetto
alle difficoltà più rilevanti collegate alla produzione di
biomassa concentrata (vale a dire con un minimo di massa
solida tra il 5 e il 10%), di elevata produttività e a basso
costo. L’alto contenuto d’acqua della biomassa raccolta
rende impraticabile l’essiccazione o qualsiasi processo
di conversione termochimica (per esempio, combustione, gassificazione, pirolisi). L’essiccazione al sole è possibile in teoria, ma richiederebbe notevoli estensioni di
terreno in più (circa il 5-10% dell’area della vasca), il
rivestimento in plastica dei letti in essiccazione e attrezzature particolari che in pratica non risulterebbero economiche. Aspetto ancora più critico è l’elevato contenuto di azoto della biomassa algale che depone a sfavore di qualsiasi processamento termochimico, visto che
ne risulterebbe un’inaccettabile produzione di NOx e,
cosa più importante, la perdita di questa risorsa nutritiva essenziale. Quindi, benché in alcuni progetti sia stato
suggerito l’uso della biomassa di microalghe come combustibile solido, anche come diretto sostituto del carbone (Matsumoto et al., 1995), questa opzione non viene
ritenuta né pratica né realizzabile. E neppure lo è quella di sottoporre a pirolisi la biomassa algale per produrre olio combustibile. Quindi, i processi di conversione a
combustibile della biomassa microalgale si basano su
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
processi biologici, in particolare fermentazioni per produrre metano o etanolo o il metabolismo delle alghe stesse per ottenere oli e idrocarburi, utilizzabili nella conversione a biodiesel e per sviluppare idrogeno. Queste
possibilità verranno discusse qui di seguito.
Sono state condotte molte ricerche finalizzate alla
produzione di metano (in realtà biogas con una composizione di circa 50:50 CH4:CO2) dalla biomassa algale.
Queste attività sono soprattutto in relazione al lavoro sul
trattamento di acque reflue usando le microalghe dal
momento che la fermentazione per produrre metano
(digestione anaerobica) è una tecnologia ampiamente
praticata in quel campo ed è anche un mezzo potenzialmente a basso costo e con rendimenti elevati per recuperare energia dalla biomassa. La digestione anaerobica dei fanghi di acque reflue, sia quelli primari (acque
di scarico sedimentate) sia quelli secondari (fanghi attivi sedimentati) viene effettuata negli impianti di trattamento in grandi contenitori d’acciaio o di cemento. Di
solito, questi vengono mantenuti sotto agitazione mediante ricircolo di liquido o di gas, riscaldati a temperature
mesofiliche (30-40 °C) o termofiliche (50-65 °C), con
un carico solido solitamente tra il 5 e il 10% e velocità
idraulica di diluizione da 15 a 25 giorni. Si tratta di una
tecnologia consolidata basata sulla naturale decomposizione anaerobica della biomassa.
Tuttavia, nella digestione anaerobica della biomassa
microalgale, appaiono evidenti due importanti questioni:
• molte microalghe, in particolare quelle verdi come
Scenedesmus o Micractinium, che generalmente dominano nelle vasche ad alta velocità di trattamento delle
acque reflue, sono piuttosto resistenti alle fermentazioni anaerobiche, il che implica basse rese e/o richiede tempi di fermentazione più lunghi;
• l’elevato contenuto di azoto della massa microalgale, solitamente l’8-10% del peso secco della materia
organica, produce livelli molto alti di ammoniaca nel
fermentatore, che provocano alla fine l’inibizione del
processo e, quindi, bassi rendimenti in termini di
metano prodotto, anche allungando i tempi di fermentazione.
Questi due fattori possono essere affrontati con strategie combinate di pretrattamento della biomassa (per
esempio, trattamento termico), tempi di fermentazione
più lunghi, adattamento della popolazione batterica a elevati livelli di ammoniaca e codigestione con biomassa
contenente livelli di azoto inferiori. Le fermentazioni più
lunghe richiedono fermentatori meno costosi e a questo
scopo i reattori di terracotta coperti e rivestiti in plastica,
già utilizzati nella digestione del concime animale, appaiono economici ed efficienti dal momento che il basso costo
per unità di volume consente una ritenzione più lunga
della biomassa. Un approccio complementare consiste
nel coltivare biomassa algale a minor contenuto di azoto,
che consente una maggiore digeribilità e un minor effetto
849
SOSTENIBILITÀ
inibente dell’ammoniaca. D’altra parte, i cianobatteri
come Spirulina, o le specie che fissano l’azoto, vengono
facilmente fermentati a gas metano anche se, come già
sottolineato, il loro elevato contenuto in azoto causa inibizione da ammoniaca. Come già dichiarato, a ciò si può
ovviare aggiungendo rifiuti a basso tenore di azoto (rifiuti alimentari o residui agricoli), facendo adattare le colture batteriche, o, di nuovo, coltivando biomassa a basso
tenore d’azoto. In conclusione, la produzione di metano
dalla biomassa di microalghe è tecnicamente ed economicamente fattibile, ma richiede ancora un certo investimento nel settore della ricerca e sviluppo per migliorarne le rese e l’efficienza complessiva.
Rispetto alla digestione anaerobica, ben poco lavoro è stato fatto sulle fermentazioni a etanolo della biomassa algale. La ragione è che le fermentazioni a etanolo, solitamente ottenute con il lievito, sono limitate a
zuccheri, amidi e carboidrati simili facilmente fermentabili. Tipicamente le microalghe contengono solo il 20%
circa o meno di tali carboidrati, presenti sotto forma di
amido nelle alghe verdi e di glicogeno nei cianobatteri.
Affinché la produzione di etanolo sia praticabile, è necessaria una biomassa algale con un alto contenuto in carboidrati fermentabili, preferibilmente superiore al 60%
del peso secco. Questo accumulo così elevato di amido
o di glicogeno si osserva solo in condizioni di limitazione di azoto, in cui la crescita cellulare è ridotta e buona
parte, o anche la maggior parte, del CO2 fissato fotosinteticamente è immagazzinato sotto forma di riserve.
Il problema è quindi se sia possibile ottimizzare un alto
contenuto in carboidrati con un’elevata produttività (ovvero fissazione di CO2) sfruttando la limitazione di azoto.
In sintesi, da esperimenti di laboratorio condotti con colture batch per brevi periodi sembra che una riduzione
del contenuto di azoto fino al 50% non riduca necessariamente la produttività in modo significativo. Infatti,
poiché uno dei primi effetti della limitazione di azoto è
la riduzione del contenuto di pigmento (come risulta evidente dallo scolorimento delle cellule), in condizioni di
limitazione di azoto può anche essere possibile un aumento della produttività (si veda la discussione precedente
sulla relazione tra pigmenti antenna e produttività). Queste osservazioni devono ancora essere dimostrate e applicate alle colture operate in vasca all’aperto. In conclusione, la limitazione di azoto è uno strumento fondamentale nella produzione di biomassa algale con elevato
contenuto di carboidrati (o di oli, v. oltre) e nel possibile miglioramento delle modalità per raccoglierla e digerirla, come detto precedentemente.
Gli altri principali combustibili ottenibili dalle microalghe sono quelli che le alghe possono produrre da sé: oli,
sia vegetali sia idrocarburi, quanto idrogeno. La produzione di idrogeno è stata trattata dettagliatamente in altra
sede (v. cap. 4.3) e non sarà quindi ulteriormente discussa. La produzione di oli e idrocarburi combustibili a opera
850
delle microalghe è stata un importante obiettivo delle
attività di ricerca e sviluppo, in particolare nell’ambito
dell’Aquatic Species Program sponsorizzato dal Department of Energy statunitense nel periodo 1980-95 (Sheehan
et al., 1998). L’interesse in questo campo risale agli anni
Quaranta, quando si osservò che in condizioni particolari di limitazione di azoto alcune alghe verdi presentavano un contenuto molto alto di oli vegetali (trigliceridi) superiore al 50%, e talvolta anche all’80%, del peso
secco totale della biomassa. Anche se alcuni dei valori
più alti possono non essere credibili, certamente alcuni
ceppi algali, soprattutto tra le alghe verdi e le diatomee,
accumulano grandi quantitativi di trigliceridi di riserva,
così come altre specie, o talvolta anche ceppi della stessa specie, accumulano amido.
Come nel caso della produzione di carboidrati, l’aspetto centrale è la relazione tra accumulo di oli e produttività. Anche qui, è possibile ottenere una produttività relativamente alta in laboratorio, ma solo in colture
non continue (Tillett e Benemann, 1987) e l’ottenimento di questi risultati con colture intensive resta ancora da
dimostrare. Inoltre, è importante sottolineare che l’immagazzinamento di carboidrati è metabolicamente più
efficiente dell’immagazzinamento di trigliceridi e quindi preferibile. Tuttavia, la scelta tra alghe ricche in carboidrati fermentabili (per fermentazioni a etanolo) o in
oli vegetali (per la conversione a biodiesel) è secondaria ai problemi di produttività, controllo delle colture e
raccolta della biomassa. In ogni caso, entrambe le opzioni richiedono notevoli investimenti nel settore di ricerca e sviluppo.
Recentemente, le microalche sono state accreditate
come fonti di olio ad alto rendimento, in grado di produrre centinaia di barili di biodiesel per ettaro all’anno
(Huntley e Redalje, 2006). Tuttavia queste affermazioni
devono essere ridimensionate essendo basate su errate
proiezioni di produttività ipotetiche, e anche teoriche
(per es., Benemann e Oswald, 1996). Assommando tali
errori, nel citare studi poco credili e nel presentare analogie false con attività commerciali fallite, e inoltre proponendo i fotobioreattori come componenti maggiori o anche
prevalenti in tali processi (Vunjak-Novakovic et al., 2005),
si giunge facilmente a sostenere che la produzione algale di biodiesel è prossima alla convenienza economica.
Così, malgrado le molte attività commerciali in questo
campo, tutte ammantate di grande secretezza ma in attesa di stupefacenti riduzioni dei costi e alti rendimenti, la
produzione di biodiesel algale, al di fuori delle applicazioni per il trattamento delle acque reflue, richiede ancora un grande sforzo di lungo termine in ricerca e sviluppo, la cui riuscita non è poi così certa.
Un’interessante possibilità per la produzione di olio
da parte delle microalghe è costituita dall’alga verde
Botryococcus braunii, una specie che anche in normali
condizioni di crescita (vale a dire senza limitazioni di
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
azoto) contiene fino al 50% in peso di idrocarburi puri (da
26 a 40 C circa e qualche insaturazione), una potenziale
fonte di combustibili e lubrificanti particolari (Metzger e
Largeau, 2005). Infatti, le fioriture naturali di queste
alghe, che arrivavano a riva, in Australia venivano già
usate un secolo fa come combustibile. Alcuni depositi
di oli contengono idrocarburi derivati da molecole prodotte da queste alghe. Ceppi raccolti in luoghi diversi
appartengono a tipi differenti, ciascuno caratterizzato
dal suo corredo di molecole che sono state ampiamente
studiate negli ultimi due decenni. Resta un mistero il perché questa specie produca, nell’ambito del suo normale
metabolismo, quantità così elevate di idrocarburi che non
vengono utilizzati come riserva di energia o di carbonio.
La coltura intensiva di queste alghe è stata proposta
per la produzione su larga scala di combustibile rinnovabile (Benemann e Oswald, 1996), come quella immaginata dall’Aquatic Species Program statunitense. Eppure, i progressi nella coltura intensiva di B. braunii sono
stati esigui se non nulli, soprattutto a causa della crescita molto lenta di queste specie, con tipici tassi di raddoppio da 3 a 7 giorni (rispetto a quelli di alcune ore di
molte altre alghe). È plausibile che la ragione delle velocità di crescita lente sia la notevole quota di energia metabolica destinata alla produzione di idrocarburi in gran
quantità. Ciò rende questa microalga non competitiva
nelle colture intensive all’aperto, dato che altre specie,
non altrettanto gravate da tale carico metabolico, crescono molto più in fretta, prevalendo presto nella vasca.
Tuttavia, questo non impedisce necessariamente l’utilizzo di B. braunii in colture intensive per la riduzione
dei gas serra. Come si è fatto notare in precedenza, si
può ricorrere ai fotobioreattori chiusi per produrre l’inoculo necessario per le colture intensive in vasche all’aperto anche per ceppi che non siano molto competitivi
fra quelli di tipo selvatico. Inoltre, una velocità di crescita massima bassa non è necessariamente correlata a
una bassa produttività in vasche a elevata densità di alghe
in cui la velocità di crescita è determinata dalla velocità
di diluizione idraulica imposta, e non alla relativa velocità massima di divisione cellulare. La coltura intensiva
di B. braunii costituisce un obiettivo a lungo termine della
tecnologia che utilizza le microalghe per la produzione
di combustibili rinnovabili e la riduzione dei gas serra.
In ogni caso, la sola produzione di combustibili rinnovabili dalla biomassa algale non si giustifica economicamente, almeno nell’immediato futuro, anche considerando i benefici derivanti dalla riduzione dei gas
serra associati a tali processi e il recente aumento di costo
dei combustibili fossili: la biomassa ottenuta da piante
superiori è molto più economica. Infatti, la biomassa
lignocellulosica è disponibile a molto meno di 100 $/t
e amido o zuccheri costano poco più di 100 $/t mentre nella migliore delle ipotesi, nel breve o medio termine (vale a dire meno di 20 anni), la biomassa algale
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
continuerà a costare molto di più, prima della conversione a combustibili. Perciò la produzione di combustibili rinnovabili dalle microalghe deve essere associata
ad altri servizi ambientali quali coprocessi di trattamento delle acque reflue, o coproduzione di altri prodotti,
come di seguito discusso.
9.4.5 Processi multiuso
con microalghe
per la riduzione dei gas serra
Trattamento di acque reflue urbane
e utilizzo del CO2
Negli Stati Uniti e in molte altre nazioni le acque
reflue urbane sono spesso trattate con le cosiddette vasche
di ossidazione. Si tratta di vasche relativamente profonde (meno di 60 cm), che non vengono agitate meccanicamente. Negli Stati Uniti, in effetti, il numero di impianti di trattamento delle acque reflue che utilizzano tali
vasche con microalghe è superiore a quello degli impianti che utilizzano qualsiasi altra tecnologia. Tuttavia, la
maggior parte di questi sistemi, se non tutti, sono di piccole dimensioni, tipicamente servono solo poche migliaia,
o anche solo alcune centinaia, di persone e nell’insieme
trattano soltanto una piccola frazione del totale delle
acque reflue urbane. In queste vasche si effettua sia il
processo primario di trattamento (decantazione dei materiali solidi) sia quello secondario (riduzione del fabbisogno biologico di O2, Biological O2 Demand, BOD). La
funzione principale delle microalghe è la produzione dell’O2 disciolto necessario ai batteri per decomporre i rifiuti organici. Nei trattamenti convenzionali di acque reflue,
come i sistemi a fanghi attivi, a questo scopo si inietta
aria nei rifiuti con dispendi energetici e costi significativi (circa 1 kWh di elettricità per chilo di O2 trasferito).
Approssimativamente, 1 kg di O2 equivale a 1 kg di biomassa algale che produce, attraverso la digestione anaerobica, tanto combustibile rinnovabile quanto ne consuma il processo convenzionale a fanghi attivi. Semplificando, si può dire che il trattamento di acque reflue con
microalghe produce la stessa quantità di combustibile
rinnovabile di quella che un trattamento convenzionale
di acque reflue consuma in combustibile fossile, con
potenziale doppio di riduzione di gas serra: evitando
l’uso di combustibili fossili e producendo combustibile
rinnovabile che sostituisce combustibili fossili.
I processi avanzati per il trattamento delle acque reflue
utilizzano vasche raceway con agitazione ad alta velocità che producono molta più biomassa algale per area
unitaria e quindi anche più O2 rispetto alle vasche convenzionali, consentendo in tal modo carichi maggiori
(volume di acque reflue preso in carico per ettaro al giorno). Comunque, in entrambi i casi (vasche di ossidazione o vasche ad alta velocità), il fattore fondamentale resta
851
SOSTENIBILITÀ
il costo elevato della raccolta della biomassa algale
mediante flocculazione chimica, come già detto in precedenza. La raccolta mediante bioflocculazione sarebbe
preferibile per via dei costi contenuti, ma ciò richiederà
molto probabilmente lo sviluppo di tecniche per la coltura intensiva di specifici ceppi algali che siano in grado
di bioflocculare bene nelle vasche per il trattamento di
acque reflue, anche nel caso di vasche d’ossidazione ad
alta velocità di scarico. Tale tecnica, finora ancora intentata, costituisce oggetto di ricerca futura. Inoltre, in queste vasche per il trattamento di acque reflue la produttività è limitata dalla mancanza di CO2 che per il momento non è utilizzato in tali processi. Ciò rappresenta un’altra
opportunità per ulteriori sviluppi tecnologici.
Dopo l’eliminazione dei solidi in sospensione e del
BOD, l’eliminazione dei nutrienti (soprattutto N e P) per
raggiungere il livello di trattamento terziario rappresenta sia una grande necessità sia anche una notevole potenzialità per le tecnologie che utilizzano le microalghe nel
trattamento delle acque reflue. Questo perché la rimozione delle sostanze nutritive con le tecnologie convenzionali è molto costosa, e ad alto consumo energetico,
mentre le microalghe possono eliminare i nutrienti a costi
aggiuntivi relativamente bassi rispetto al solo trattamento
secondario. Pertanto, la rimozione dei nutrienti richiede
il rifornimento di CO2 la cui carenza, a dire il vero, limita già il trattamento secondario. L’aggiunta di CO2 migliorerebbe decisamente il processo di coltivazione algale
nel trattamento delle acque reflue aumentando sia la produttività sia l’affidabilità del processo, consentendo la
coltivazione di ceppi algali specifici e selezionati e, plausibilmente, un’efficace raccolta della biomassa attraverso
la bioflocculazione. Poiché le alghe verrebbero fatte crescere al limite di azoto presente nelle acque reflue, verrebbe prodotta una biomassa algale relativamente povera in azoto che permetterebbe anche l’eliminazione di
tutto il fosforo presente nelle acque reflue. Come discusso precedentemente, questa biomassa sarebbe inoltre
ricca in carboidrati o forse anche in oli. Se questa biomassa fosse sottoposta a digestione anaerobica (fermentazioni a metano) e se il biogas prodotto fosse usato
per generare elettricità, il gas di combustione fornirebbe tutto il CO2 necessario, dal momento che le acque
reflue contengono quantità di carbonio sufficienti a compensare eventuali perdite. Infatti, tale quantità di carbonio è accessibile in tipiche acque reflue provenienti da
un simile processo tanto da consentire anche l’esportazione di considerevoli volumi di biocombustibili, come
biocombustibili liquidi (per es., biodiesel o etanolo).
I due fattori principali da tener presente in questi processi sono la variabilità stagionale, in particolare della
produttività, che incide sulla performance del trattamento
delle acque reflue, la variabilità in nutrienti nelle acque
reflue, cioè la quantità di azoto e fosforo, e il loro rapporto reciproco. I livelli di azoto e fosforo nella biomassa
852
algale possono variare significativamente, più di tre volte
per il fosforo (dallo 0,4 all’1,2%) e solo un po’ meno per
l’azoto (dal 4 al 10%), con possibili rapporti N:P stimati variare da circa 4 a oltre 20 volte. Questo è l’intervallo di valori di azoto e fosforo nella biomassa e dei rapporti reciproci che si ritiene consentano alte produttività,
ma resta da determinare sperimentalmente quale sia l’intervallo effettivo. In ogni caso, un requisito importante
di questi processi di trattamento delle acque reflue per
eliminare i nutrienti è che consentono notevoli adattamenti sia alle variazioni stagionali della produttività sia
alla composizione delle acque reflue.
Nel trattamento delle acque reflue con aggiunta di
CO2 sopra descritto i prodotti che si ottengono in uscita sono acqua rigenerata, biogas (metano) combustibile,
eventualmente biodiesel o etanolo, e residui del fermentatore anaerobico. Questi ultimi possono essere utilizzati come fertilizzanti per terreni agricoli benché, se
classificati come fanghi di depurazione, negli Stati Uniti
non avrebbero i requisiti per essere considerati biofertilizzanti organici, il che invece ne determinerebbe un prezzo migliore. Le acque reflue urbane, a causa della loro
variabilità e della potenziale presenza di contaminanti
tossici, non consentono la produzione di coprodotti
aggiuntivi, quali mangimi o biopolimeri. Ciononostante, si reputa che gli aspetti economici del trattamento
delle acque reflue urbane mediante l’uso di vasche ad
alta velocità siano favorevoli anche in confronto ai
processi secondari convenzionali (vale a dire i fanghi
attivi) e che possano essere ancor più vantaggiosi per il
trattamento terziario (rimozione dei nutrienti; Eisenberg
et al., 1981; Green et al., 1994). Comunque, devono ancora essere effettuati studi dettagliati sui costi ingegneristici per siti specifici allo scopo di quantificare l’entità
di questi vantaggi. Inoltre, sono necessarie attività di
ricerca e sviluppo per dimostrare l’effettiva possibilità
di ottenere il trattamento terziario con un processo basato sulle microalghe che sia al contempo economico e ad
alta produttività.
Il processo di trattamento delle acque reflue fertilizzato da CO2 utilizzando vasche ad alta velocità consentirebbe di raggiungere il trattamento terziario con un
impatto molto minore (in termini di necessità di terreno) rispetto alle attuali tecnologie a vasche convenzionali, che raggiungono al massimo solo i livelli di trattamento secondario. Con questi sistemi si potrebbero generare rese energetiche nette in uscita e un residuo ricco in
nutrienti adatto come fertilizzante. Lo sviluppo di un tale
processo rappresenta una delle maggiori priorità in questo settore.
Trattamento di acque reflue agricolo-industriali
e riciclaggio dei nutrienti
Questi processi sono simili al trattamento delle acque
reflue urbane descritto in precedenza: consistono infatti
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
nella coltivazione di microalghe in acque reflue agricole e industriali aventi un contenuto in nutrienti (N, P, ecc.)
sufficiente a consentire il trattamento secondario (rimozione di BOD) e il trattamento terziario (rimozione dei
nutrienti). La differenza principale è la natura dei rifiuti che rispetto alle acque reflue urbane sono generalmente
più definiti, meno variabili e meno soggetti alla presenza di contaminanti tossici. Le acque reflue agricole hanno
inoltre una marcata stagionalità, sono spesso in quantità
inferiore e sono più disperse di quelle urbane. Inoltre il
loro trattamento non è sempre una priorità. Tuttavia, con
l’intensificazione dell’agricoltura (in particolare allevamenti suini e impianti lattiero-caseari su vasta scala che
producono grandi volumi di rifiuti liquidi relativamente diluiti), il trattamento delle acque reflue delle stalle è
diventato un problema importante e un’opportunità per
applicare le tecnologie che utilizzano le microalghe per
la rimozione dei nutrienti.
Un’applicazione correlata è il trattamento delle acque
reflue in acquacoltura. Per esempio, nel Sud degli Stati
Uniti diverse decine di migliaia di ettari di vasche di
pesce gatto producono grandi quantità di rifiuti che vengono trattati in situ mediante intensa aerazione meccanica. Dal momento che questi sistemi di acquacoltura
utilizzano già vasche per allevare il pesce, le vasche con
alghe per il trattamento dei rifiuti costituiscono un’aggiunta relativamente semplice. Un processo di questo
tipo (Partitioned Aquaculture System), che utilizza vasche
raceway con miscelazione mediante ruote a pale, è stato
sviluppato alla Clemson University, South Carolina
(USA), per il trattamento e il ricircolo dell’acqua proveniente dalle vasche dei pesci (Brune et al., 2003a). In
questo processo, la densa coltura algale prodotta nelle
vasche raceway viene indirizzata verso i recinti che contengono i pesci in modo da farle portare via i rifiuti e
contemporaneamente fornire O2 per i pesci. Questi a loro
volta favoriscono, tramite la filtrazione branchiale, la
flocculazione delle alghe e ne permettono la facile raccolta per sedimentazione. La mitigazione dei gas serra
correlata al processo algale potrebbe maturare a seguito del consumo evitato di energia degli aeratori di superficie attualmente usati in questo tipo di industria e inoltre per l’ottenimento di biogas dalla biomassa algale raccolta. Questa può anche essere utilizzata per ridurre la
quantità di mangime da dare ai pesci, migliorando ulteriormente l’economia del processo ma anche il bilancio
dei gas serra, in quanto la produzione convenzionale dei
mangimi per animali dà luogo a notevoli emissioni di
tali gas. Un processo simile è attualmente oggetto di studio allo scopo di eliminare i nutrienti nel Salton Sea, in
California (v. oltre).
Potenzialità anche maggiori dei rifiuti dell’acquacoltura le hanno i rifiuti animali, in particolare quelli
provenienti da allevamenti di suini e da caseifici, alcuni dei quali producono correnti di rifiuti equivalenti, in
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
termini di BOD e contenuto in nutrienti, a quelle generate da piccole cittadine. La permanenza di tali rifiuti in
acqua e sul terreno è sempre più ristretta per il rischio di
contaminazione delle falde idriche. D’altra parte, il loro
spostamento dal sito di generazione è impraticabile data
la loro natura diluita. Le vasche di microalghe possono
essere utili per eliminare i nutrienti da queste acque reflue
e per concentrarli in una biomassa che può poi essere
trasportata in un sito più distante per applicazioni sul terreno, mentre al contempo si genera biocarburante e si
abbattono le emissioni di gas serra. Come nel caso delle
acque reflue urbane, anche il trattamento delle acque
reflue di origine animale è limitato dalla disponibilità di
CO2. Il rifornimento di CO2 incrementerebbe sia la produttività algale, sia l’efficacia del trattamento, consentendo probabilmente il controllo delle specie algali e la
raccolta mediante bioflocculazione. Il controllo sulle specie algali permetterebbe inoltre di utilizzare la biomassa come mangime per gli animali, il che migliora l’economia di questi processi altrimenti meno vantaggiosi di
quelli per il trattamento delle acque reflue urbane. Le
alghe essiccate verrebbero usate come mangime di alta
qualità per i polli, le alghe umide come nutrimento per
i suini, mentre le alghe sotto forma di pellet possono
acquisire valore quando addizionate ad alimenti per i
ruminanti e utilizzati in acquacoltura. La pratica fattibilità di questo processo rimane tuttavia da dimostrare.
Produzione di biofertilizzanti
Una delle principali fonti di emissione di gas serra
al mondo è la produzione di fertilizzanti azotati che utilizza combustibili fossili mediante il processo di HaberBosch. Negli Stati Uniti, dove a questo scopo si usa gas
naturale, vengono emessi oltre 3 kg di CO2 per ogni kg
di fertilizzante azotato prodotto (West e Marland, 2002).
In alcune nazioni, per esempio la Cina, come combustibile fossile si usa il carbone e le emissioni sono di conseguenza molto più alte. Benché i fertilizzanti fosfati
richiedano poco combustibile fossile per l’estrazione e
la successiva produzione, il trasporto può determinare
emissioni totali pari a circa 1 kg di CO2/kg di fosforo
consegnato all’azienda agricola. Dato che nella biomassa
algale N e P hanno un contenuto rispettivamente del 10
e dell’1%, ciò equivale ad abbattere circa 0,3 kg di CO2/kg
di biomassa algale se l’azoto e il fosforo di questa biomassa vengono riutilizzati in agricoltura. In confronto,
la biomassa di microalghe (tipicamente al 45% di C)
potrebbe abbattere circa 0,6 kg di CO2 se venisse convertita a biogas e usata come combustibile rinnovabile
in sostituzione del gas naturale fossile. Recuperando e
utilizzando tali quantitativi di fertilizzanti nella biomassa di microalghe si potrebbe aumentare la riduzione dei gas serra del 50% o più. Inoltre, il valore economico di questi nutrienti e i benefici ambientali del loro
recupero sarebbero equiparabili o superiori a quelli dei
853
SOSTENIBILITÀ
biocarburanti. Perciò, il riutilizzo dei nutrienti dai processi di trattamento delle acque reflue di origine urbana
o agricola sopra descritti rappresenta un obiettivo centrale per qualsiasi processo di abbattimento dei gas serra
che utilizzi le microalghe.
Il problema è fare arrivare questi nutrienti alle colture, dopo la fermentazione a metano. Assumendo che
vi sia un 10% di carica solida nel fermentatore anaerobico, il contenuto in azoto nell’effluente è solo l’1% in
peso (la maggior parte di esso è sotto forma di ammoniaca) e il rimanente è per circa il 95% acqua. Ciò limita le possibili distanze di trasporto e richiede di integrare quanto più da vicino il trattamento delle acque reflue
con le pratiche agricole. I sistemi di irrigazione offrono
un metodo rapido per la distribuzione di questi fertilizzanti. Ovviamente, la concentrazione di azoto negli
effluenti del fermentatore è diverse centinaia di volte più
alta che nelle acque reflue municipali, e anche oltre dieci
volte che in alcune acque reflue di origine animale, il
che trasforma i processi di trattamento mediante microalghe in un efficiente meccanismo di concentrazione e
recupero dei nutrienti. L’aggiunta di CO2 in questi processi rende l’azoto il successivo nutriente limitante e
assicura che l’azoto, o almeno la sua frazione biologicamente disponibile, sia di fatto completamente eliminato ottenendo un’acqua rigenerata di elevata qualità.
Il miliardo e più di metri cubi di acque di scolo di
origine agricola che annualmente si riversa nel Salton
Sea, nella California meridionale rappresenta un esempio pratico di applicazione su vasta scala delle vasche di
microalghe nel recupero di nutrienti. Queste acque reflue
contengono circa 1.000 t di fosforo (sotto forma di fosfati) e dieci volte tanto di azoto (per lo più nitrati). L’eliminazione dei nutrienti da queste acque di scolo mediante colture di microalghe eviterebbe l’eutrofizzazione del
Salton Sea, producendo circa 100.000 t di biomassa algale. Assumendo una produttività annua di circa 100 t di
biomassa secca/ha (l’obiettivo del Network), sarebbero
necessari circa 1.000 ettari di vasche. Tale processo appare economicamente fattibile, poiché acqua, nutrienti e
terreno sono gratuiti e le condizioni climatiche sono favorevoli (Benemann et al., 2002; Brune et al., 2003b). Si
potrebbero prendere in considerazione altre opportunità
per sistemi di recupero di nutrienti su vasta scala, ma in
genere tali sistemi sono di dimensioni più modeste, al
massimo da alcune decine a qualche centinaio di ettari.
In alcuni casi, l’eliminazione del fosforo è limitata
dall’azoto presente nelle acque reflue. I cianobatteri eterocistici azoto-fissatori, quali Anabaena e Nostoc possono essere in alcuni casi utilizzati nello stadio finale di
ripulitura per eliminare il fosforo (Weissman et al., 1978).
Questi cianobatteri sono anche stati proposti nella produzione di fertilizzanti (Benemann et al., 1980). Hanno
una produttività di circa un terzo inferiore rispetto alle colture che non fissano l’azoto per via dell’elevata
854
energia metabolica richiesta per questa reazione. Dati i
livelli di emissione di CO2 liberati durante la produzione di fertilizzanti azotati sintetici (discussi prima), la fissazione di azoto per produrre fertilizzanti e la fissazione di CO2 per produrre carburanti sono più o meno equivalenti dal punto di vista dell’abbattimento dei gas serra.
Gli aspetti economici relativi a questi processi di fissazione dell’azoto devono ancora essere valutati, ma il
recente interesse per l’agricoltura biologica, che crea la
domanda di fertilizzanti biologici a prezzi favorevoli, li
rende di particolare interesse nell’immediato futuro.
I costi in rapida ascesa dei fertilizzanti sintetici, che riflettono il prezzo in aumento dei combustibili fossili, rendono tali approcci interessanti anche nel lungo termine.
Come già sottolineato in precedenza, la natura filamentosa dei cianobatteri eterocistici consente di raccoglierli facilmente mediante filtrazione. In teoria, la produzione di microalghe fissatrici di azoto come fertilizzanti potrebbe quindi risultare davvero a basso costo, in
particolare per l’agricoltura irrigua e per le risaie, dove
terreno, acqua e nutrienti sono già disponibili ed è solo
necessaria una fonte di CO2. È stato stimato che un ettaro di vasche algali potrebbe produrre fertilizzante azotato sufficiente per oltre 25 ettari coltivati a riso o a mais,
oltre che a produrre biocarburanti per l’agricoltura o per
uso locale.
La biomassa microalgale in grado di fissare azoto,
cresciuta in vasche ad alta velocità, può anche essere
applicata direttamente ai campi irrigati o, applicazione
forse più promettente, come abbondante inoculo alle
risaie dove ci si può aspettare che le microalghe si moltiplichino diverse volte in situ e producano abbondante
fertilizzante azotato. Ciò consentirebbe un rapporto
dimensionale tra risaia e vasca agale di oltre 100. Questa tecnologia deve ancora essere sviluppata, ma in teoria è piuttosto promettente. In passato si è tentato di inoculare dei campi di riso con cianobatteri azoto-fissatori, ma con scarso successo. Tuttavia, in quei casi le alghe
venivano fatte crescere a distanza, essiccate e inoculate
nei campi di riso solo in piccole quantità. Il processo
proposto è molto diverso: prevede la produzione sul posto
di biomassa algale in quantità relativamente abbondanti che consentono un massiccio inoculo di risaie con colture in attiva crescita.
In conclusione, il recupero e il riutilizzo di fertilizzante, e persino la sua produzione de novo, potrebbero
diventare una delle principali applicazioni pratiche delle
microalghe a livello globale e contribuire significativamente alla riduzione dei gas serra. Le applicazioni più
immediate sarebbero probabilmente nella produzione di
fertilizzanti di qualità per l’agricoltura biologica nei paesi
sviluppati e nella fertilizzazione delle risaie in quelli in
via di sviluppo. A lungo termine, i fertilizzanti da microalghe potrebbero svolgere un ruolo importante nel ciclo
globale dell’azoto, che deve cambiare da processo a senso
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
unico che utilizza fertilizzanti sintetici, basati sui combustibili fossili, a un processo di riciclo di azoto e fosforo e di fissazione biologica dell’azoto.
Biopolimeri e altri coprodotti
Nei processi sopra descritti, i biocarburanti, il trattamento delle acque reflue, l’acqua rigenerata, i biofertilizzanti e in qualche modo i mangimi per animali sono
i prodotti e i coprodotti da cui deriva la riduzione dei gas
serra. Un’altra alternativa per ottenere la mitigazione dei
gas serra è di combinare la produzione di biocarburanti
mediante microalghe con coprodotti ad ampio mercato
ed elevato valore economico (superiore a quello dei biocarburanti). Questo approccio è comparabile all’idea di
bioraffineria per convertire amido e zuccheri, ottenuti
da raccolti convenzionali, in prodotti che includono carburanti (per esempio, etanolo), mangimi e coprodotti di
valore elevato quali l’acido polilattico, utilizzato per produrre un polimero biodegradabile. Ovviamente, va riconosciuto che i processi con microalghe non sono in grado
di competere con quelli basati sulla conversione di zucchero o amido di piante a buon mercato, soprattutto canna
e mais. Quindi l’utilizzo di microalghe deve generare
coprodotti di valore elevato ottenuti dalle alghe tramite
il loro stesso metabolismo, evitando il processamento e
i passaggi fermentativi piuttosto costosi di una bioraffineria. L’altro requisito è che questi coprodotti devono
avere mercati sufficientemente ampi da determinare una
riduzione significativa dei gas serra. Tali prodotti non
comprendono quelli forniti dalle microalghe per la nutrizione umana come i carotenoidi, il principale risultato
della corrente tecnologia commerciale microalgale.
Possibili coprodotti sono le bioplastiche, soprattutto
i polimeri di PHA (poliidrossialcanoato), già prodotti
commercialmente mediante fermentazioni batteriche e
che fungono da composti di riserva in molti batteri, tra
cui i cianobatteri (Asada et al., 1999). I cianobatteri contengono fino al 10% di PHB (poliidrossibutirrato) e
dovrebbe essere possibile produrre cianobatteri in quantitativi molto maggiori e dotati di catene laterali modificate, più adatte per bioplastiche funzionali. Sono già stati
citati precedentemente gli idrocarburi prodotti da B. braunii che potrebbero essere frazionati per dare lubrificanti
di elevato valore, oltre al combustibile. Altri prodotti delle
microalghe con un mercato considerevole sono i polisaccaridi usati come agenti flocculanti, emulsionanti o
gelificanti da utilizzare in campo alimentare o industriale che vengono già prodotti su vasta scala dalle alghe
marine. Ne sono un esempio le carragenine, prodotte
anche da microalghe rosse, che sono state brevettate negli
anni settanta per il recupero terziario di oli (Savins, 1978).
La sostituzione dei biopolimeri sintetici con prodotti derivati dalle microalghe potrebbe determinare
una certa riduzione dei gas serra. Tuttavia, il principale
beneficio di questi coprodotti sarebbe il miglioramento
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
dell’economia complessiva di questi processi. Infatti, le
bioplastiche e i polisaccaridi funzionali sarebbero stimati
1.000 $/t rispetto ai circa 100 $/t per la produzione di
combustibile. Se anche una modesta frazione, per esempio il 20%, della biomassa algale rappresentasse il prodotto a più elevato valore, ciò giustificherebbe la produzione di biomassa algale, con biocombustibili ottenuti
dalla biomassa residua. In questa discussione si è assunto implicitamente che la produzione della biomassa
microalgale finalizzata esclusivamente alla generazione
di biocarburanti non risulti economicamente competitiva e pertanto sia necessario associare applicazioni economicamente più convenienti come il trattamento di acque
reflue o la produzione di mangimi, di biofertilizzanti o
di biopolimeri. Ovviamente, tali processi multifunzionali restringerebbero la dimensione, lo scopo e le potenzialità complessive di riduzione dei gas serra da parte dei
processi basati sulle microalghe. Pertanto, questo assunto di base viene trattato nella sezione seguente.
9.4.6 Aspetti economici
e tematiche di ricerca
e sviluppo
È stata precedentemente fatta una panoramica (v.
par. 9.4.3) degli aspetti critici relativi all’ingegneria dei
sistemi a vasche ad alta velocità agitati con ruote a pale,
applicati alla produzione di biomassa microalgale. Si è
affermato che il costo capitale e quello operativo di tali
sistemi sarebbero proibitivi per la sola produzione di biocarburanti, con costi capitali stimati pari, o superiori, a
100.000 $/ha in base a precedenti analisi di costo (questi valori sono stati rivisti, aggiornati e ampliati più recentemente da Benemann e Oswald, 1996, e i costi in dollari sono stati aumentati di 1,4 punti per portarli al valore del dollaro nel 2005). Ciò supera di ben dieci volte i
costi tipicamente riscontrati in agricoltura. In questo caso
si trattava di un sistema a vasche non rivestite, su vasta
scala, che produceva biomassa per ottenere oli (trigliceridi) utilizzando per il CO2 gas di combustione ottenuto da una centrale elettrica e la bioflocculazione per
la raccolta della biomassa seguita da centrifugazioni
per estrarre gli oli. Era stata assunta una produttività di
110 t/ha⭈a per una biomassa con un molto elevato (60%)
contenuto in oli (equivalente a circa 150 t/ha⭈a per una
biomassa di composizione normale e a circa 200 t/ha⭈a
per una biomassa ricca in carboidrati). Questa è la massima produttività che può ragionevolmente essere immaginata per un processo con microalghe basato sulle tecnologie disponibili e rientra in un fattore di circa due
rispetto al massimo teorico.
Assumendo un costo capitale minimo del 20% all’anno, comprensivo di tasse e assicurazioni ma non della
manutenzione, si ottiene un costo capitale di circa 100 $/t
855
SOSTENIBILITÀ
per una biomassa ricca in carboidrati e quasi due volte
tanto per una biomassa ricca in oli. I costi operativi sono
stati stimati pari a circa 15.000 $/ha (sempre considerando l’inflazione, unitamente a un piccolo credito per
il metano che è un sottoprodotto derivato dalla digestione dei residui dopo l’estrazione degli oli). Ciò porta i
costi per barile di olio algale grezzo estratto (prima di
trasformarlo in biodiesel, adatto come combustibile veicolare) a circa 100 $/bbl o, se si utilizza amido, a circa
200 $/t di amido. Per quanto alti, questi costi non sono
eccessivi alla luce degli attuali prezzi dell’energia e dei
plausibili prezzi agricoli futuri. Queste stime sono ottimistiche e basate su molte assunzioni favorevoli, e piuttosto incerte. In ogni caso, lo sviluppo a lungo termine
dei sistemi di produzione di microalghe specificamente, o esclusivamente, per biocarburanti richiederebbe un
lungo periodo di ricerca e sviluppo e di esperienza in
applicazioni in scala reale. Tali applicazioni possono
essere rappresentate dal trattamento di acque reflue precedentemente descritto e possibilmente dalla coproduzione di prodotti ad alto valore.
Anche per raggiungere questi obiettivi a breve termine sono necessari notevoli investimenti nel settore
ricerca e sviluppo, come già detto in precedenza e qui di
seguito riassunto. Va notato che sostanzialmente le stesse tematiche di ricerca e sviluppo sono comuni a tutti i
processi di riduzione delle emissioni sopra descritti
(v. par. 9.4.5). Questi processi utilizzano lo stesso fondamentale processo di produzione: vasche ad alta velocità (raceway), agitate con ruote a pale, fertilizzate con
CO2 (proveniente dai gas di combustione) abbinati a processi a basso costo per la raccolta della biomassa algale
(bioflocculazione o filtrazione) e la sua conversione a biocarburante (digestione anaerobica, estrazione degli oli,
ecc.). Tutti condividono le stesse criticità teoriche e pratiche di ricerca e sviluppo: selezione e mantenimento dei
ceppi, massimizzazione della produttività all’aperto, raccolta a basso costo della biomassa e processamento in
biocarburanti e recupero di coprodotti. Inoltre, richiedono approfondimento ed esperienza gli aspetti ingegneristici, comuni a tutti, di costruzione e operatività
delle vasche grandi (superiori a 1 ha) non rivestite che
vanno correlati all’economia del processo e alle potenzialità di mitigazione dei gas serra. I limiti attuali sono
dovuti al fatto che per questi processi multifunzionali
sono stati effettuati solo pochi studi ingegneristici e di
analisi economica che prevedano la quantificazione del
loro potenziale e dei loro benefici in termini di riduzione dei gas serra. Questo potenziale risulterà limitato dalla
disponibilità di terreno, acqua, infrastrutture e altri fattori. Anche questi aspetti relativi alle risorse richiedono
ulteriori approfondimenti.
I processi generali di riduzione delle emissioni discussi in precedenza differiscono soprattutto per quanto riguarda le loro fonti di acqua e nutrienti e per i loro prodotti
856
finali, in termini di biocarburanti e altri coprodotti (fertilizzanti, mangimi, acqua rigenerata, biopolimeri, ecc.).
La rigenerazione dell’acqua merita particolare attenzione, in quanto costituisce un prodotto finale di valore. Per quanto concerne i biocarburanti, il metano (biogas) è probabilmente la scelta preferenziale tra i combustibili prodotti dai processi di trattamento delle acque
reflue urbane e della maggior parte di quelle agricole.
Tuttavia, dalla biomassa microalgale si possono ottenere altri biocarburanti, in particolare etanolo e biodiesel,
che in alcuni casi possono essere preferibili in particolare perché come combustibili veicolari hanno maggior
valore rispetto al biogas. Comunque, lo stesso biogas
può essere ripulito (eliminando H2S e CO2) e compresso per essere utilizzato come combustibile veicolare. L’idrogeno costituisce un’opportunità a lungo termine
(v. cap. 4.3). In ogni caso, esistono diverse possibilità
per convertire la biomassa microalgale a biocarburante.
La sfida maggiore rispetto alla produzione di biocarburanti è che la produzione di biomassa iniziale sia economicamente fattibile.
Per tutti i processi su vasta scala di produzione di
microalghe a basso costo le tematiche fondamentali di
ricerca e sviluppo sono la capacità di coltivare, con produttività elevate, ceppi algali selezionati in grandi vasche
all’aperto e di raccogliere poi la biomassa a costi contenuti. Il controllo delle specie algali dovrebbe plausibilmente permettere di controllarne la produttività e la raccolta, il che rappresenta pertanto il prerequisito fondamentale per ciascuno di questi processi, e tutte le
precedenti tematiche devono essere considerate insieme.
L’unica modalità pratica per ottenere la coltivazione di
massa di ceppi selezionati è attraverso l’uso di ceppi che
si possano far crescere rapidamente in fotobioreattori
chiusi di scala crescente (e complessità decrescente) per
la produzione di quantità relativamente grandi di biomassa impiegata per inoculare le vasche di produzione.
Pertanto un’attività fondamentale di ricerca e sviluppo
è relativa all’isolamento, selezione e mantenimento di
ceppi algali adatti per essere coltivati intensivamente in
modo duraturo in vasche all’aperto. Tali ceppi dovrebbero possedere caratteristiche di rapidità di crescita (per
la fase di produzione dell’inoculo), di elevata produttività (nelle vasche di produzione), di facilità di raccolta
e di generazione di coprodotti allettanti dalla conversione della biomassa. È molto improbabile che in natura si
trovino cotanti ceppi e infatti, come notato precedentemente, e paradossalmente, i ceppi ad alta produttività
dovrebbero essere controselezionati dalla selezione naturale. Pertanto devono essere generati in laboratorio. Tuttavia, la coltivazione prolungata in laboratorio può risultare adattativa alle condizioni di laboratorio e far perdere le caratteristiche che rendono il ceppo idoneo alla
coltura esterna; tale eventualità può essere scongiurata
limitando il numero di generazioni algali mantenute in
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
laboratorio (Polle et al., 2004). Va sottolineato che in
questi processi di riduzione delle emissioni possono essere utilizzati sia ceppi di microalghe d’acqua dolce che
d’acqua salmastra o salata (marina). I miglioramenti
genetici dovrebbero essere ottenuti, per quanto possibile, con le classiche tecniche di mutagenesi e selezione,
evitando così il problema di rilasciare nell’ambiente organismi geneticamente modificati. Tuttavia, in futuro, l’utilizzo delle moderne biotecnologie in campo genetico
sarà inevitabile, per cui dovranno essere contemplate in
qualsiasi progetto di ricerca e sviluppo. In breve, la selezione, il mantenimento e il miglioramento genetico delle
specie algali per colture intensive a elevata produttività
rappresentano il focus primario delle attività di ricerca
e sviluppo in questo campo. Questo tipo di attività non
può essere condotta solo in laboratorio, ma deve essere
strettamente coordinata con quella relativa alle colture
intensive operate all’aperto. Le attività di ricerca e sviluppo in corso sotto il patrocinio del Network precedentemente citato sono improntate esattamente su questa logica: coordinamento e integrazione tra le attività di
laboratorio e quelle di campo, focalizzando gli sforzi
sulle tematiche chiave, che includono in particolare il
miglioramento genetico per l’alta produttività.
9.4.7 Potenzialità di mitigazione
dei gas serra mediante
processi che utilizzano
microalghe
L’elemento fondamentale nell’analisi dei processi che
utilizzano microalghe per l’abbattimento dei gas serra è
la loro potenzialità nel ridurre globalmente le emissioni
di CO2 di origine fossile. Molte tecnologie sono al
momento in competizione per prevalere tra le soluzioni
proposte a tale problema, alcune promettendo di ridurre molto, se non la maggior parte, dell’enorme quantità
di CO2 fossile che si prevede verrà emesso nell’atmosfera da una popolazione umana sempre più numerosa e
opulenta. Di fronte alla riduzione di emissioni di CO2
dell’ordine dei trilioni di tonnellate che si prevede sia
richiesta entro questo secolo per stabilizzarne la concentrazione nell’atmosfera, ci si chiede se sia utile sviluppare tecnologie che si presume ridurranno le emissioni di CO2 fossile attese in percentuali piuttosto ridotte. Si prevede che la sequestrazione negli oceani e quella
geologica abbiano ciascuna sufficiente capacità di immagazzinamento per contenere, teoricamente, tutto il CO2
derivante dalla combustione dei combustibili fossili perdurante in un futuro indefinito. Alcune tecnologie per
energie rinnovabili, per esempio quella eolica e quella
fotovoltaica, sono pronte a diventare fonti primarie di
energia. Le celle a combustibile a idrogeno promettono di incrementare molto l’efficienza di utilizzazione
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
dell’energia e di consentire il proseguimento del trasporto veicolare personale di massa non regimentato. I
biocarburanti – bioetanolo, biodiesel e biometano –
potrebbero tutti generare notevoli quantità di energia rinnovabile, sia in singole nazioni sia considerando un aggregato globale. Quindi, forse, bisognerebbe rivolgere l’attenzione verso queste tecnologie di sequestrazione del
carbonio su vasta scala e verso i processi di produzione
di biocarburanti già disponibili, piuttosto che su opzioni a piccola scala, come il trattamento delle acque reflue,
o di lungo termine a grande scala ma ad alto rischio,
come la produzione di biodiesel algale.
In ogni caso tutte queste tecnologie, per quanto promettenti, devono ancora essere considerate incerte. Per
esempio, dieci anni fa la sequestrazione negli oceani del
CO2 emesso da centrali elettriche venne ampiamente
pubblicizzata come una soluzione al problema complessivo della riduzione delle emissioni. Tuttavia, i principali progetti in questo settore non vennero approvati a
causa dell’opposizione da parte di gruppi ambientalisti
o di altri gruppi di interesse e quindi anche la ricerca
sulle tecnologie di sequestrazione in oceano si trova ora
in grande ritardo. La sequestrazione geologica rappresenta oggi il principale focus dell’interesse nell’ambito
delle tecnologie per la riduzione dei gas serra sulla base
dell’enorme quantità di spazio geologico di immagazzinamento potenzialmente disponibile e dell’esperienza
acquisita sulle formazioni geologiche e sulle tecnologie
relative. Comunque, solo gli scenari più ottimistici prevedono la riduzione di una frazione più che modesta del
CO2 fossile totale globalmente richiesto. Le tecnologie
per le energie rinnovabili, benché promettenti, non possono plausibilmente colmare la necessità di tutte le altre
possibili e potenziali fonti di carburanti e di riduzione
dei gas serra. Oltre alle enormi quantità di CO2 coinvolte, il fatto che le sue fonti siano così diverse e geograficamente distribuite implica che non è praticamente possibile adottare un’unica tecnologia in ogni situazione. In breve, su scala globale, o anche solamente
regionale, sarà necessario disporre di un portfolio di
opzioni che comprendono tutte quelle fin qui citate, di
modesta o ampia potenzialità, da utilizzarsi singolarmente o in combinazione.
La fotosintesi è certamente alla base di molti metodi per la cattura, l’immagazzinamento e l’utilizzazione
del CO2. La biofissazione del CO2 mediante microalghe è solo uno dei molti sistemi basati sulla fotosintesi
che saranno presi in considerazione per la riduzione
delle emissioni. Altri, quali i raccolti annuali (fieno, frumento, canna da zucchero), gli alberi (pioppi, sicomori, eucalipti) e le piante acquatiche (alghe marine, piante palustri), per citarne alcuni, potrebbero anche contribuire all’abbattimento dei gas serra mediante la
produzione di biocarburanti, essendo anche più importanti delle microalghe.
857
SOSTENIBILITÀ
In questa competizione, le tecnologie con microalghe presentano diverse caratteristiche promettenti e uniche. Innanzitutto, come detto prima, offrono la possibilità di ottenere produttività molto alte. Le microalghe
sono probabilmente i convertitori biologici solari più
efficienti ed è probabile che i continui sforzi di ricerca
e sviluppo riusciranno ampiamente a garantire una produttività anche maggiore in applicazioni pratiche. Un
altro vantaggio delle microalghe è il loro brevissimo
tempo di generazione (un giorno o meno) in coltura intensiva. Ciò ha diverse implicazioni in termini di rapida
ripartenza dopo un fallimento (solo una settimana circa)
e di produzione di inoculo. Il fallimento di un raccolto
di piante superiori può costare la produzione di un anno,
se il raccolto è annuale, o la perdita della produzione di
oltre un decennio, se si tratta di una foresta. Le attività
sulle microalghe consentono rapidi progressi di ricerca
e sviluppo rispetto al ritmo molto più lento necessario
per piante a raccolto annuale o per gli alberi. Le misure
di produttività che richiederebbero anni o decenni con
le piante superiori, con le microalghe possono essere
effettuate in qualche mese. Inoltre, l’ambiente piuttosto
uniforme e controllato delle vasche consente di trasferire rapidamente eventuali scoperte da una località all’altra, cosa non altrettanto facile con le piante superiori.
La singola caratteristica che sembra rendere le microalghe particolarmente adatte per l’abbattimento dei gas
serra è la loro capacità di utilizzare direttamente il CO2
in uscita dalle centrali elettriche. Bisogna riconoscere,
tuttavia, che allo scopo di ridurre i gas serra non fa differenza se il CO2 viene catturato dall’atmosfera o da una
centrale elettrica, o da rifiuti, in quanto è la produzione
di biocarburanti, e quindi il loro utilizzo in sostituzione
dei carburanti fossili, che di fatto determina la mitigazione dei gas serra. Comunque, la cattura diretta del gas
di combustione da una centrale elettrica permette produttività maggiori e, fattore altrettanto critico, un’efficienza nell’utilizzo dell’acqua molto maggiore rispetto
alle piante superiori.
Forse l’attributo più importante delle microalghe nelle
tecnologie per abbattere i gas serra è dato dalla possibilità di generare dalla loro biomassa dei biocombustibili
rinnovabili e di combinare servizi ambientali quali il trattamento di acque reflue, il riciclaggio dei nutrienti, nonché la produzione di fertilizzanti azotati e altri coprodotti e servizi. Va riconosciuto che la maggior parte, se non
tutti, i processi biologici per l’abbattimento dei gas serra
è multifunzionale, con vari vantaggi ambientali ed economici associati e che la riduzione dei gas serra può ben
essere considerata il minore dei vari benefici economici.
Ciò è vero probabilmente tanto per i processi microalgali quanto, per esempio, per l’accumulo del carbonio nel
terreno (Metting et al., 2001).
I molteplici vantaggi ambientali di un migliore trattamento delle acque reflue assicurano che tutte le attività
858
correnti di ricerca e sviluppo porteranno a qualche risultato pratico, almeno nel breve termine (5-10 anni), nella
riduzione dei gas serra. Nel medio periodo (10-15 anni),
dovrebbe essere possibile produrre biopolimeri, lubrificanti e mangimi di alto valore come coprodotti della produzione di biocarburanti tramite microalghe. A lungo
termine, l’obiettivo è quello di sviluppare una tecnologia di produzione di biomassa con microalghe che abbia
costi abbastanza bassi e produttività abbastanza elevate
da consentire la produzione di carburanti rinnovabili
come principale, persino esclusivo, fine economico dell’intero processo. Benché realizzabile in teoria, in pratica sarà necessario risolvere molti problemi e questioni, come ampiamente discusso in precedenza, e quindi
è meglio premunirsi da ogni previsione sul raggiungimento di tale obiettivo e su quanto grande possa essere
l’impatto di tale tecnologia.
Seppure con tali cautele, è necessario quantificare
almeno a grandi linee il contributo, su scala globale, delle
tecnologie con microalghe nell’abbattimento dei gas
serra. L’assunto fondamentale fatto in questa sede è che
un obiettivo realistico delle attività di ricerca e sviluppo
sia il raggiungimento e la realizzazione, in tempi mediobrevi, di una produttività della biomassa un po’ al di sopra
di 100 t/ha⭈a (corrispondente a una media giornaliera di
circa 30 g/m2⭈d) in colture intensive di alghe operate su
scala annuale. Inoltre, si può stimare, molto grossolanamente, che il biocarburante prodotto da 1 t di biomassa
algale possa abbattere circa 1 t di CO2 (stima basata sul
carburante prodotto). Quindi, sarebbero necessari 5 milioni di ettari di vasche algali per abbattere 0,5 Gt di CO2,
corrispondenti a circa l’1% del totale dei gas serra che
in futuro si prevede sarà necessario mitigare ogni anno
in base all’assunto che le attuali emissioni di combustibili fossili raddoppieranno in uno scenario invariato rispetto all’attuale.
Nel contesto globale, non si tratta di un’enorme estensione di terreno, almeno in confronto ad altre tecnologie solari o rinnovabili e di riduzione delle emissioni,
soprattutto ad altri sistemi di produzione con biomasse.
Una tale superficie, 5 milioni di ettari, sarebbe grosso
modo in linea con le necessità per il trattamento delle
acque reflue urbane per l’intera popolazione umana (considerando l’azoto come nutriente limitante). In realtà,
solo una piccola proporzione della popolazione umana
sarebbe plausibilmente servita da tali tecnologie a causa
del clima, della disponibilità di terreno e di altre limitazioni. D’altra parte, il trattamento dei rifiuti zootecnici
ha una potenzialità pratica maggiore, dal punto di vista
economico, rispetto a quello delle acque reflue urbane,
così come la coproduzione di prodotti quali fertilizzanti e mangimi. Una recente analisi ha calcolato il potenziale globale di reflui urbani e animali (bovini e suini)
per la riduzione di gas serra basata su colture microalgali in circa 0,1 Gt di CO2 fossile evitata annualmente.
ENCICLOPEDIA DEGLI IDROCARBURI
BIOFISSAZIONE DI CO 2 FOSSILE MEDIANTE MICROALGHE PER L’ABBATTIMENTO DEI GAS SERRA
Tale potenziale rappresenta circa l’1% delle riduzioni di
emissioni richieste nel breve e nel medio termine per contribuire a stabilizzare le emissioni di gas serra. Si tratta
di una previsione ragionevole e realistica per le tecnologie a microalghe, anche senza dover ricorrere a processi
che producano solo biocarburanti, che sembra essere sufficiente a giustificare il supporto di significative attività
di ricerca e sviluppo a favore delle tecnologie di biofissazione con microalghe.
Una tale previsione implica un’espansione di questa
tecnologia di diverse migliaia di volte a partire dai soli
1.000 ettari circa delle vasche ad alta velocità agitate con
ruote a pale che funzionano attualmente in tutto il mondo.
Tuttavia, considerando che solo 25 anni fa non un singolo ettaro di questi sistemi veniva utilizzato per applicazioni pratiche, è possibile prevedere una rapida adozione di questa tecnologia qualora fosse in grado di fornire reali servizi alla società e agli individui.
Infine, la prospettiva qui presentata si basa su vasche
per la produzione di microalghe associate a una centrale elettrica convenzionale, ovvero di ampie dimensioni,
alimentata a combustibile fossile in modo da utilizzare
i gas di combustione prodotti dalla centrale stessa. Tuttavia, una prospettiva altrettanto valida, e forse anche
migliore, è quella di una piccola centrale elettrica associata a vasche di alghe, in altri termini, una centrale elettrica progettata per servire l’impianto algale. Forse ancora più appropriato è il modello in cui entrambe le attività sono parte di un unico sistema distribuito sul
territorio per la fornitura di energia e di altri servizi
ambientali, tra cui acqua, cibo e materiali. È chiaro che
una considerevole domanda di produzione di elettricità
mediante centrali elettriche centralizzate (per esempio,
alimentate a carbone) e di produzione di biomassa algale non risultano effettivamente compatibili. La prospettiva di realizzare migliaia, o anche decine di migliaia,
di ettari di vasche algali localizzate nei pressi di grandi centrali elettriche alimentate a carbone o a gas naturale sembra limitata. Negli Stati Uniti, dopo aver considerato sia le limitazioni geografiche sia la disponibilità di terreno nei pressi delle grandi centrali elettriche,
ne rimane solo una manciata di dimensioni medio-grandi che possono plausibilmente essere identificate come
adatte a ospitare sistemi algali su vasta scala (superiori
a 1.000 ha; Benemann e Oswald, 1996). Tuttavia, esiste
una potenzialità molto maggiore per centrali elettriche
di più modeste dimensioni, mentre le potenzialità più
grandi sarebbero per sistemi integrati di generazione di
elettricità che utilizzano una moltiplicità di carburanti
e rifiuti e che integrano i processi di produzione algale
quale componente aggiuntiva, seppure importante. Benché la prospettiva di associare le vasche algali con le
centrali elettriche continui a essere valida, necessita d’essere ampliata ulteriormente con l’associazione di centrali elettriche e sistemi di biofissazione algale che abbiano
VOLUME III / NUOVI SVILUPPI: ENERGIA, TRASPORTI, SOSTENIBILITÀ
una maggiore gamma di dimensioni e applicazioni rispetto a quanto fatto finora.
In conclusione, è improbabile che la biofissazione
con microalghe fornisca una tecnologia centralizzata,
semplice e a buon mercato potenzialmente capace di
abbattere molte Gt di gas serra in modo da consentire
all’industria petrolifera di continuare a operare secondo
il modello cosiddetto business as usual. Le microalghe
possono svolgere un ruolo nella grande sfida in cui tutti
dobbiamo urgentemente impegnarci: il tentativo di sviluppare e utilizzare tutte le possibili fonti energetiche
rinnovabili, sia per le loro potenzialità di abbattimento
dei gas serra sia per la loro capacità di sostituire i sempre più scarsi combustibili fossili liquidi e gassosi. Devono essere effettuate analisi comparative e valutazioni fondate sul buon senso per privilegiare, tra le opzioni tecnologiche in concorrenza e i progetti proposti, ciò che
appare più ragionevole, senza limitare eccessivamente
la ricerca di alternative.
La tecnologia delle microalghe, fornisce molti esempi passati e odierni, anche se non è l’unica, di tematica
di ricerca e sviluppo che include molte ipotesi poco plausibili e attività male indirizzate. Questi esempi portano
a grandi sprechi di denaro e, aspetto forse più dannoso,
hanno messo in dubbio, e potrebbero farlo ancora, l’iniziativa in toto.
Il Microalgae Network è stato istituito proprio per
correggere e prevenire, per quanto possibile, questi errori e per costituire un forum di esperti con una visione
comune su quali siano i processi di biofissazione con
microalghe più promettenti e praticabili per ridurre i
gas serra e le attività di ricerca e sviluppo necessarie
per attuarli.
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John R. Benemann
International Network on Biofixation of CO2 and
Greenhouse Gas Abatement with Microalgae
Walnut Creek, California, USA
Paola Pedroni
Eni-Divisione E&P
San Donato Milanese, Milano, Italia
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