Gli Unni e l'Apocalisse.
Da Storia a Mito, dalla Cina all’Europa.
di Claudio Caramadre
~1~
ATTILA:
M'irriti, o romano...
sorprendermi è vano:
o credi che il vento
m'infonda terror?
Nei nembi e tempeste
s'allietan mie feste...
Temistocle Solera (Attila, di Verdi)
~2~
Prefazione
Parlare di Unni e di Apocalisse nel 2015 significa porre dinanzi agli occhi di un
improbabile lettore una sagoma di dubbia distinzione. Tanto gli Unni quanto l'Apocalisse
si sono infatti ricoperti, nel corso dei secoli, di strati e strati di polvere; una polvere
chiamata "mito". I primi sono stati inizialmente temuti, poi idolatrati, poi sbeffeggiati ed
infine ignorati passando al grado di "culto per pochi amatori". Fino a che punto è
possibile innamorarsi di un popolo che ha segnato un'epoca storica? Le nuove
generazioni ignorano (incoscientemente o coscientemente) l'importanza della storia e
ancor di più rinnegano la sua valenza esattamente come rinnegano il mito. Non sono più
affascinati da nulla, purtroppo, e ciò li porta a sentirsi sempre più esperti e sicuri di sé
non solo coi coetanei ma anche con i più anziani. Sarebbe un bene se questo loro
sentimento derivasse da una voglia di ribellione e sovvertimento dei classici canoni
dell'insegnamento o della visione del mondo tuttavia, essi, possiedono, un sentimento di
totale afasia che fanno ricadere sulle vicende storiche. In alcuni casi fanno fatica a
credere che le parole di un qualunque libro di storia siano vere o descrivano qualcosa di
realmente accaduto. Per questo dico che storia e mito si confondono, almeno nelle menti
di questi giovani. La loro disillusione nei confronti dell'universo e del futuro, quella
depressione alienata che contribuisce (insieme a tutti i dispositivi elettronici del caso) a
farli rassomigliare a bradipi ebbri, si tramuta in uno scetticismo pericolosissimo per il
progresso dell'umanità di cui loro dovrebbero rappresentare il futuro. La Storia ha molti
~3~
difetti, va letta e riletta, va aggiornata alla luce delle novità, spesso è ben felice di
omettere alcuni particolari per non tediare i lettori, si prende gioco delle Storie degli altri,
insomma ha tutti questi difetti eppure è indispensabile per colmare quel bisogno di
conoscenza di «ciò che è stato». Dall'altra parte, l'Apocalisse cristiana o, se si preferisce, il
mito dell'Apocalisse cristiana viene considerato una storia (con la lettera minuscola)
capace di fare sostanzialmente due cose: impaurire o annoiare con la sua improbabilità. Il
mito, preso da solo e senza l'aiuto di qualcuno ad introdurci ai suoi intimi segreti, resta
un bel monumento senza senso come lo sono gli obelischi ricoperti di geroglifici
incomprensibili per chi non sa leggerli. Quell'obelisco, a guardarlo meglio (a studiarlo!),
può rivelare gesta eroiche, miserie, situazioni di vita vissuta che possono ripresentarsi
come uno spettro davanti agli attoniti occhi dell'uomo moderno. Il mito è, al fondo, il
fantasma di qualcosa che conserviamo nell'intimità; nel caso dell'Apocalisse di Giovanni
si tratta della paura per la fine del mondo. Più la Storia va avanti, più gli uomini perdono
contatto col mito. I cristiani dei primi cinque secoli dalla morte di Cristo conservarono il
ricordo e la promessa di un mondo diverso. Per costoro l'Apocalisse era vicina e ogni
degenerazione dell'umanità non era altro che un ennesimo squillo di tromba che la
annunciava. I popoli barbarici come gli Unni rendevano questa credenza una certezza nei
cuori di coloro che, preoccupati dalla distruzione che le orde nomadi recavano con sè,
credevano con fervore alla Bibbia e alle sue parole. I cavalieri della steppa, uccidevano,
stupravano, riducevano alla fame interi popoli, devastavano foreste, incendiavano
insediamenti, estorcevano tributi, rapivano le future spose, si infliggevano tagli sul viso,
bevevano il sangue dei loro cavalli i quali, a loro volta, si diceva fossero attratti dalla
carne umana. Ancora una volta Storia e Mito si intersecano, si scambiano un saluto e
~4~
continuano a riempire di sogni e miraggi la mente di chi ha la pazienza di ascoltarli e
quando trovano una mente che non li accetta magari vanno via ma un giorno,
inaspettatamente, si riaffacciano e la conquistano definitivamente.
Introduzione
Nel IV e V secolo d.C. le cronache latine e greche certificano l'intensificarsi dell'arrivo in
Europa di popoli "barbarici" provenienti dal lontano Est1. Nell'immaginario collettivo (e
a ragion veduta) l'arrivo di questi popoli corrisponde all'affossamento prima (con
incursioni, saccheggi e superamento dei vari limes dell'impero romano) e al crollo poi
dell'Impero Romano d'Occidente. Questi popoli non erano tutti originari delle steppe, né
erano tutti in cerca di bottino e facili razzie. Molte delle genti che passarono il confine
naturale del Reno erano essenzialmente germaniche e, in qualche raro caso, gote. Risulta
orbene necessaria una prima enorme distinzione da operare: non tutti i popoli
provenienti dall'Est Europa erano originari di terre come la Pannonia o la Sarmazia (solo
per citarne alcune); molti provenivano da terre ancora più a oriente2. Bisogna quindi
distinguere tra le popolazioni barbariche gote e germaniche da una parte, e quelle
asiatiche dall'altra. Del primo gruppo facevano parte etnie che oggi sono molto ben
conosciute e dei cui costumi i romani riuscirono a rendere conto più facilmente; si tratta
di nomi familiari come Angli, Sassoni, Franchi, Longobardi, Burgundi, Alemanni,
Visigoti, Ostrogoti (chiamati anche Grutungi) e molti, molti altri che generalmente si
Ne sono testimoni Orosio, Ammiano Marcellino e perfino Gregorio Magno.
1
Nello specifico si parla della zona a Nord della catena montuosa del Caucaso, dell'attuale Kazakhstan, e di
quella parte della steppa mongolica a cavallo oggi tra la Mongolia vera e propria e la regione cinese del
Sichuan.
~5~
2
erano stanziati all'interno dei confini di Roma. Dell'altro gruppo facevano invece parte
popolazioni essenzialmente nomadi, che facevano della pastorizia la fonte principale del
loro sostentamento. Questo è il caso di Vandali, Alani e Unni. Di questi tre popoli si
conosce molto meno rispetto agli altri già citati. Tale risulta è dovuta alla natura nomade
di questi: il loro non stanziarsi li rendeva inafferrabili e conoscibili per breve tempo
prima che ricominciassero a spostarsi. Le nostre conoscenze devono quindi basarsi sui
racconti di osservatori principalmente romani e greci3 che ebbero modo di stare a
contatto con loro seppur per periodi molto brevi; da ciò consegue la non completa
affidabilità di cui questi testi potrebbero invece godere se fossero, per di più, stati scritti
senza vizi di pregiudizio o necessità di "cronaca". Su questo secondo gruppo si
concentrerà il presente lavoro, consapevole che una trattazione esaustiva e completa
prenderebbe diversi volumi e tratterebbe degli argomenti più disparati allontanandoci dal
nostro obbiettivo, e cioè: mostrare come gli Unni diedero da pensare agli uomini di
Chiesa e ai cristiani di tutta l'Europa di essere gli araldi dell'Apocalisse così come la
racconta San Giovanni.
Vandali e Alani
Dicevamo di Vandali e Alani. I primi erano originari del bacino del Mar Nero e i loro
spostamenti li porteranno prima a saccheggiare Roma e poi a stabilirsi definitivamente in
Nord Africa. Tutto ciò che i Vandali furono prima di venire in contatto col confine
dell'impero romano fissato sul Danubio è assolutamente sconosciuto. La loro presenza
nell'area viene fatta risalire al 171-172 d.C., quando arrivarono in gran numero in Dacia4
3
Per "romani" e "greci" intendo, rispettivamente Impero Romano d'Occidente e Impero Romano d'Oriente.
Regione riconducibile all'odierna Romania il cui nome si deve ad una popolazione (i Daci appunto)
~6~
4
e costrinsero allo spostamento le etnie presenti prima di loro nell'area. I romani, dal
canto loro, non restarono a guardare e fecero stanziare gli esuli a Sud del fiume Tisa5
alleandosi con essi e rendendoli di fatto foederati6. Questo stato di cose rendeva la guerra
un'opzione quasi obbligata poiché intere tribù iniziarono a spostarsi all'interno dei
confini di Roma proprio su pressione dei Vandali, dando inizio alle cosiddette "Guerre
Marcomanniche"7. In quel momento, secondo quanto racconta Cassio Dione8 nella sua
Historia Romana, i Vandali erano retti da due re: Raus e Raptus9. Non è chiaro se questi
nomi si riferiscano a due personaggi reali o facenti parte di una qualche mitologia
vandalica che li vedeva anche come fratelli di sangue. Fatto sta che i loro nomi
significano "Canna" e "Rapina", il che fa pensare più a delle qualità possedute piuttosto
che a nomi veri e propri. In effetti questi potrebbero essere scaturiti dallo stile di
combattimento delle tribù orientali per cui Canna si piegava al vento (e quindi
indietreggiava) mentre Raptus colpiva con rapidità, forza e durezza10. Al momento delle
guerre marcomanniche, il potere di Roma non era ancora così indebolito da indurre un
popolo nomade come quello dei Vandali ad attaccare senza pensare alle conseguenze. Il
risultato fu quindi uno stanziamento pressoché stabile nelle regioni di cui abbiamo
autoctona. Per meglio precisare va detto che in quella che i Romani chiamavano Dacia rientrava anche una
piccola parte dell'Ungheria orientale, quella cioè ad Est del fiume Tibisco (o Tisa).
5
Conosciuto anche col nome italianizzato di Tibisco, questo fiume è uno dei più importanti affluenti del
Danubio. Nasce dai Carpazi ed attraversa tutta l'odierna Ungheria da Nord a Sud.
6
Il termine veniva affibiato a tutte quelle popolazioni che stringevano un foedus (alleanza) con Roma.
7
Le Guerre Marcomanniche sono state raccontate nella Historia Augusta. Si tratta essenzialmente di spedizioni
militari romane per pacificare le aree della Dacia e della Pannonia. La loro durata, con tregue e riprese, va
dal 167 d.C. al 189 d.C. E segnano di fatto il preludio alle grandi invasioni barbariche.
8
Storico romano nato a Nicea (Impero Romano d'Oriente).
9
A. Blazejewski, The beginnings of the Vandals settlement in the Danube area, contenuto in: The Empire and
Barbarians in southeastern Europe in late antiquity and early middle ages, 2014.
10
Ibid.
~7~
parlato poco sopra e un'alleanza, in quel momento da molti ambita, con Roma. I siti
archeologici della Pannonia e della Dacia riportano tutti due fattori molto singolari. Il
primo è la totale assenza di ritrovamenti di armi e il secondo una grandissima
abbondanza di speroni per la monta del cavallo11. Questo porta a pensare che i Vandali, e
le altre tribù con essi confinanti, tenessero in gran conto il cavallo. Per una tribù nomade
i cavalli rappresentavano la sopravvivenza; in primo luogo perché erano il mezzo di
trasporto più efficiente che si potesse trovare in circolazione, in secondo luogo essi
erano in grado di tirare carri, fare lavori pesanti e assicurare carne fresca qualora se ne
fosse presentata la necessità. Trovandosi già in una zona poco sicura e difendibile come
la Pannonia, ed avendo intorno tribù non poco agguerrite come erano quelle
germaniche, è lecito pensare che uno spostamento dei Vandali a Sud, più precisamente
lungo le rive del Danubio, fosse la mossa migliore per assicurare prosperità a tutto il
popolo. La conquista del territorio divenne quindi la priorità. I Vandali impiegarono
decine e decine di anni per trovare una sistemazione che garantisse loro pace e
prosperità. In questo lasso di tempo, vennero in contatto con altre popolazioni sia
germaniche che sarmate, evolvendosi quindi in un popolo frutto di un crogiolo di usi e
costumi anche molto diversi fra loro. L'idillio di pace terminò solo nel 212 d.C. con
l'attacco della città di Dacia Prolissensis da parte degli Adingi, una fazione dei Vandali
che non digeriva più la sottomissione a Roma. Da quel momento Vandali e Romani
saranno sempre nemici fino ed oltre al sacco di Roma perpetrato da Genserico nel 455
d.C. Nei due secoli che separano questo evento dal resto della nostra storia, si
susseguono eminentemente lotte fra i Vandali e le vicine tribù germaniche per il
11
Ibid.
~8~
controllo della Dacia e del bacino del Danubio, nonché una continua evoluzione
tecnologica scaturita proprio dal contatto con così tante (e diverse) fazioni presenti
nell'area. Nella lingua italiana il loro nome non ha mai cambiato accezione e tuttora
indica coloro che sono inclini alla distruzione, alla devastazione e, in generale, ad ogni
sorta di malefatta. Si dà del "vandalo" a chi essenzialmente stupra la cultura o il
patrimonio artistico ma cosa collega questi atti al popolo dei Vandali? Di certo il
saccheggio di Roma da parte di Genserico è una buona traccia da cui partire ma c'è da
notare un’altra caratteristica interessante: notoriamente il "vandalo" è un individuo che
non devasta solamente una zona circoscritta, anzi usa spostarsi e colpire là dove sente di
poterlo fare indisturbato ed esattamente questo facevano i Vandali, i quali si tenevano
ben lontani dagli scontri campali con popolazioni, regni ed imperi più potenti di loro 12.
Simbolo di questa cultura divenne ben presto la nave, poiché essa permise ai Vandali altri
secoli di scorribande e saccheggi non più (o non solo) a terra ma anche (e soprattutto) in
mare. I ricchi porti del Mediterraneo non furono più al sicuro per almeno due secoli
dopo l'arrivo dei Vandali presso Cartagine. Fra le tribù che i Vandali incontrarono
durante il loro soggiorno in Dacia vi furono certamente gli Alani. Di origine sarmaticocaucasica, gli Alani sono entrati, come i Vandali del resto, nell'immaginario comune
12
Può questa sembrare un'affermazione in contrasto con l'avvenimento del sacco di Roma. In verità al
momento del saccheggio la decadente capitale dell'impero era totalmente sguarnita (uso sguarnita nel senso
etimologicamente riscontrabile, intendendo quindi la totale assenza di una guarnigione degna di questo
nome) di truppe regolari. Una preda quasi indifesa era un'occasione troppo ghiotta di arraffare più bottino
possibile in vista di un lungo viaggio che avrebbe portato Genserico fino a Cartagine passando per la
Spagna. Un tale spostamento implicava il passaggio di intere carovane, carriaggi, vettovaglie ed
ovviamente truppe armate, attraverso territori sotto il controllo di diversi padroni. Il bottino conquistato a
Roma servì a finanziare tale spostamento.
~9~
europeo e in particolare italiano come la stirpe che più e meglio di altre13 faceva uso di
cani in battaglia. Se da una parte abbiamo la nave che assurge a simbolo dei Vandali,
dobbiamo allora incontrovertibilmente affidare la simbologia del cane agli Alani. Nota è
la razza canina che da questi prende il nome. Si tratta di un canide estremamente grande
allevato e selezionato da questa tribù sarmata per un solo ed unico scopo: la guerra. Non
una bestiola da compagnia da tenere vicino al fuoco la sera bensì un'arma capace di
gettare scompiglio fra le fila nemiche e proiettare terrore nel cuore degli ostili. Chi ha
avuto la fortuna di stare in contatto con tale razza sa bene che essa ha bisogno di spazi
immensi, aperti, con la possibilità di sfogare un'enorme quantità di energia sprigionata
dai muscoli, molto più sviluppati nella parte anteriore del corpo. Se i Vandali avevano
mescolato la propria etnia a quella delle tribù germaniche non si può dire lo stesso degli
Alani. Questi, di origine iranica14, vivevano a cavallo tra la Sarmazia e il Caucaso, cosa
che gli permetteva di guadagnare considerevolmente dagli scambi commerciali che
intercorrevano tra l'Anatolia e la Mesopotomia da una parte e il bacino del Mar Nero dal
Caucaso al Danubio. Si trattava di un popolo molto antico anche rispetto al periodo
temporale che qui prendiamo in esame, anche se, a dirla tutta, cominciamo ad avvicinarci
al nocciolo della questione poiché leggendo un'opera storiografica cinese, lo Hou Han
Shu (或 函 数)15, scritta da Fan Ye (范 晔)16, si legge dell'esistenza di una regione al di
13
Tradizionalmente legato alla Germania, di questa razza canina molosside si ignora spesso l’origine. Con
l’appropinquarsi degli Alani in Europa questa razza si diffuse rapidamente poiché si prestava a svariati
utilizzi. Estremamente fedele, legato indissolubilmente al padrone, guardia integerrima, molto intelligente e
ottimo cacciatore non impiegò molto tempo per conquistare le classi nobili medioevali che lo utilizzarono
come guardia del corpo e ottimo strumento di caccia.
14
La loro stessa lingua era un dialetto iranico.
15
Anche chiamato in italiano “Libro degli Han Posteriori”, questo libro copre un periodo storico che va dal 25
al 220 d.C.; di particolare interesse risultano i capitoli dedicati ai regni occidentali dove figurano i due
~ 10 ~
fuori della giurisdizione degli Han17 chiamata Yancai (奄 蔡)18, nella quale un popolo
insediatosi da non molto tempo aveva fatto in modo che la regione prendesse il suo
nome. Si trattava con tutta probabilità proprio degli Alani, visto che la regione fu
rinominata dai cinesi Alan-liao (阿 蘭 聊). La storia degli Alani in Europa comincia
lentamente ed è frutto di spostamenti lenti ma incessanti di cui è difficile individuare le
cause. È risaputo che nel IV e nel V secolo d.C. il clima dell'Europa si raffreddò (più
corretto sarebbe dire che questo processo si accentuò) e ciò spinse le tribù nomadi, ma
anche e soprattutto quelle germaniche stanziali, a cercare le une pascoli più abbondanti e
le altre terreni più fertili a Sud. Gli Alani tuttavia, come suggeriscono alcuni studi
antropologici di cui rende conto Gumilev19, sfuggono a questo movente migratorio
poiché, arrivati sulle coste del Mar Caspio e del Mar Nero, non avevano motivo di
spostarsi ulteriormente verso meridione. La presenza del mare mitigava il clima e
rendeva vivibili tutte le aree caucasiche in cui essi avevano abitato per qualche secolo. La
ragione del loro spostamento verso Ovest va allora ricercata in un cambiamento di
ordine socio-economico. Spingersi a Sud avrebbe significato incontrare e scontrarsi con
imperi romani e una infinità di altri popoli e territori. In questa sezione si trova anche il regno di Alanliao
situato nella regione precedentemente chiamata Yancai (cioè Vasta Steppa). Di loro si dice che abitino in
una terra dal clima temperato in cui crescono il pino e l’aconito in gran quantità.
16
Uno storico vissuto sotto la dinastia dei Liu Song (398-445 d.C.) in un periodo di grave divisione all’interno
dell’impero cinese.
17
Gli Han (206 a.C. - 220 d.C.) sono una delle più grandi e longeve dinastie della storia della Cina.
Ereditarono un impero unito grazie al primo imperatore della dinastia Qin e riuscirono a conservarlo
superando gravi difficoltà politiche economiche e sociali scatenatesi ad intervalli quasi regolari
nell’impero.
18
Si tratta di una regione pianeggiante situata ad Ovest della Mongolia che si estende dal deserto del Xinjiang
fino all'attuale Uzbekistan.
19
L. N. Gumilev, Gli Unni, Un impero di nomadi antagonisti dell'antica Cina, Res Gestae Edizioni,
~ 11 ~
regni e imperi ben consolidati20, mentre spingersi ad Ovest significava muoversi in
distese sterminate nelle quali vivevano altre tribù contro le quali lo scontro poneva
certamente tutti i rischi del caso ma non comportava la disfatta certa. Gli Alani
arrivarono ben presto ad occupare il bacino del Mar Nero dalla Dacia fino al Caucaso, il
che li fece entrare nell'orbita di Costantinopoli come possibili ed utilissimi alleati in
battaglia. Si apre qui una nuova fase della storia degli Alani: quella dedicata alla guerra e
alla conseguente militarizzazione della società21. Quando Costantinopoli dovette
affrontare la minaccia rappresentata dall'ascesa dei Sasanidi, il ricorso alla cavalleria Alana
da parte dell'Impero divenne ben presto irrinunciabile. I cavalieri Alani erano fra i più
temibili avversari che si potessero incontrare a quel tempo sui campi di battaglia poiché
avvezzi alla guerra come conferma Ammiano Marcellino22:
«Il fiume Tanai va dall'Asia all'Europa. Al di là di questo fiume, gli Alani abitano luoghi deserti
ed infiniti. Quasi tutti gli Alani sono nobili e belli; hanno i capelli moderatamente dorati, la
pupilla degli occhi è terribile e con sguardo bieco. Ed insieme agli Unni sono simili sotto quasi
ogni aspetto, ma a dire il vero con nutrimento e tenore di vita più mite. Vivono tutta la vita di
caccia e preda, correndo qua e là fino alla palude Meotide e allo stretto del Bosforo, ed
ugualmente fino all'Armenia e alla Media. E come agli uomini sono graditi l'ozio e la speranza di
pace, tranquillità e quiete, così agli Alani piacciono i pericoli e le guerre.»
Altre fonti raccontano più nello specifico quale era la peculiarità degli Alani una volta
20
A Sud della catena montuosa del Caucaso v'era l'Impero Romano d'Oriente coi suoi alleati armeni e abkazi,
per non parlare del nascente Impero Sasanide destinato a raccogliere l'eredità dei romani.
21
Una società militarizzata è una società nella quale l’aspetto militare è preminente allo scopo di riuscire a
difendere l’intera popolazione da qualsiasi aggressione esterna. Sovente, per raggiungere questo scopo, si
vede che la maggior parte della popolazione di sesso maschile oltre a svolgere la funzione assegnata o
scelta è considerata anche all’interno di un corpo di armata. Per le popolazioni barbariche questo si traduce
nell’avere un esercito che abbracciava la quasi totalità della popolazione di sesso maschile.
22
Storico romano nato ad Antiochia nel IV secolo d.C.
~ 12 ~
che questi fossero scesi in battaglia. Usavano appendere alle selle dei cavalli, le teste dei
nemici sconfitti. Uno spettacolo macabro che, a quanto pare, induceva spesso gli eserciti
di piccole dimensioni e disorganizzati alla fuga. Il terrore psicologico instillato nella
mente del nemico rappresentava un'arma formidabile che aveva permesso, e avrebbe
permesso anche in futuro, agli Alani di sopravvivere e prosperare per quanto possibile in
terre così aspre e avide di frutti. La pratica di mostrare al nemico le spoglie di avversari
precedentemente abbattuti poteva essere utile ad evitare il combattimento ottenendo
immediatamente il bottino grazie alla resa incondizionata del nemico. Si potrebbe
obiettare a questo punto che tale pratica servisse ad evitare uno scontro che sarebbe
potuto divenire una disfatta totale per un popolo essenzialmente militarizzato e
organizzato in diverse tribù che usavano riunirsi solo quando c'era da colpire un ricco
bersaglio. In questo caso, avendo paura del nemico meglio organizzato, gli Alani
tentavano di esorcizzare il pericolo ed evitare la lotta incutendo timore nei nemici. Se
così fosse stato, gli Alani non sarebbero durati molto e il trucco non avrebbe funzionato
per sempre. I loro tratti culturali appaiono quindi essere quelli propri di un popolo che
non ha nulla da perdere in uno scontro frontale, semmai tutto da guadagnare. È il caso di
parlare di coraggio e non di incoscienza. L'incoscienza implicherebbe la totale assenza
dell'istinto di autoconservazione nel caso sotto la nostra lente d'ingrandimento, mentre
gli Alani sapevano bene quel che facevano e, cosa più importante, conoscevano a fondo
il cavallo e le tattiche realizzabili con esso. Non si trattava dei Parti o degli Unni però. La
cavalleria alana era fatta per lo scontro frontale, magari proprio contro un'altra unità di
cavalleria. Le lunghe lance di cui erano dotati i cavalieri alani e le armature leggere li
rendevano mortali e veloci. Un talento del genere non poteva restare inespresso ed
~ 13 ~
infatti l'impero bizantino li ingaggiò più volte come mercenari per difendere i propri
confini.
L'incontro con gli Unni
Sia i Vandali che gli Alani, durante le loro peregrinazioni, vennero in contatto con un
vero e proprio crogiolo di popoli culture, talvolta assimilando usi e costumi, altre volte
facendo assimilare i propri ai vicini. Entrambi hanno in comune un punto fondamentale
della loro lunga storia dimenticata: l'incontro con gli Unni.
Un incontro che cambiò larga parte della loro cultura ma anche e soprattutto della loro
storia. Entrambe le culture (quella vandala e quella alana) presentano un prima, un
durante e un dopo per quanto concerna la loro relazione con gli Unni. Di ciò di cui si
resero protagonisti prima dell'avvento di questi abbiamo già parlato; manca quel che
furono durante e dopo. Il "durante" è materia che si appresta ad essere raccontata e
documentata ma per quanto riguarda il dopo basterà affermare che questi due popoli
(come molti altri che vennero in contatto col famigerato popolo delle steppe)
continuarono ad esistere e a plasmare la loro storia anche dopo il passaggio di un'onda di
distruzione non indifferente né alle cronache dell'epoca né a quelle odierne. Come
sappiamo e abbiamo già accennato, i Vandali si spostarono sempre più a occidente fino
alla penisola iberica e al Nord Africa dove vennero poi definiti come "Mori"23 da coloro
che ebbero la sventura di incrociare con essi le spade. Gli Alani, dal canto loro, si
spostarono definitivamente verso il Nord dell'odierno Iran mescendosi alle culture già
23
Il termine, in realtà, avrebbe ben poco a che fare coi Vandali poiché fu coniato nel tardo latino per indicare i
Mauri, popolazione che abitava l’attuale Mauritania. Più avanti tuttavia verrà a designare tutti quei popoli di
fede islamica che abitavano il Nord dell’Africa.
~ 14 ~
presenti24. Tutto è detto dunque. Resta il mentre. Resta cioè quella parte di storia che
vede, ad un certo punto, l'identificazione di un re unno, Attila, come signore degli Unni,
dei Vandali e degli Alani.
L'importante è comprendere che tale denominazione non può essere estesa alla totalità
delle tribù che si definivano o venivano definite vandale o alane. Di fatto, gli Unni
governarono su un numero elevatissimo di culture eppure le due da me citate saranno
considerate le maggiori; quelle cioè che avranno un peso nella formazione di quell'entità
etnica che verrà definita unna, senza dimenticare le implicazioni di ordine politico e
sociale che tale unione si porta dietro.
Hunyu, Xiongnu e altri
Nel continente asiatico, quelli che noi europei siamo abituati a chiamare “Unni”,
esistevano come entità più o meno formata e più o meno geograficamente situabile già
dal XI secolo a.C., quando le cronache cinesi cominciano a raccontare di un
assembramento di turbe sempre maggiori in alcune regioni della Mongolia occidentale.
Queste piccole tribù riunitesi per necessità, quali cibo e protezione da clan nemici, non
potevano essere ancora definite - per lampanti motivi di ordine sociale e politico - come
Unni o Xiongnu che dir si voglia. In effetti si trattava di un processo che era già
avvenuto varie volte e con altre comunità nomadi quali i Jiang o gli Hunyu25 e che quindi
non rappresentava per gli storici cinesi una novità assoluta o preoccupante. Di fatto i
24
La presenza degli Alani nell’odierno Iran non fu solo una conseguenza dei loro vagabondaggi. Il loro stesso
nome deriva da una forma dialettale iranica perciò si può pensare, a ragione, che essi provenissero
dall’Iran.
25
Nonostante il nome di quest'ultima popolazione sembri somigliare di gran lunga più degli altri al nome di
"Unni" bisogna tassativamente affermare, per fugare ogni dubbio ed evitare spiacevoli malintesi, che
costoro non avevano nulla a che fare con i Xiongnu, non ancora perlomeno.
~ 15 ~
problemi della Cina di allora erano ben altri e il rapporto con le tribù confinanti non era
tanto conflittuale da imporre misure drastiche. A quel tempo la dinastia mitica dei Xia26
aveva perso il potere in favore degli Shang27, la prima dinastia di cui l'esistenza è
verificabile a partire da reperti archeologici e cronache precise. Si narra che il figlio
dell'ultimo regnante della dinastia Xia, Shang Wei, si rifugiò - con ciò che rimaneva della
sua famiglia e della sua corte - nelle gelide steppe del Nord, divenendo il primo re dei
Xiongnu. Nonostante questa storia possa sembrare una leggenda e nulla di più, gli
antropologi hanno ipotizzato e provato che nel deserto di Gobi, nel periodo citato,
avvenne la fusione tra un tipo europeoide brachicefalo e un tipo mongoloide dal viso
stretto riconducibile a quello dei cinesi veri e propri28. Ciò avallerebbe la ricostruzione
leggendaria e getterebbe un che di mitologico ed epico alla lotta fra Unni e Han 29
successiva: una popolazione discendente da un antico re cinese (legittimo proprietario
del trono) che si scaglia contro un impero di usurpatori. In ogni caso, ad infoltire le fila
del neonato popolo dei Xiongnu concorsero anche altri clan come quello degli Hunyu e
dei Kian Yun. Da questo incontro scaturì la vera e propria discendenza dei Xiongnu
come la conosciamo noi e come la conoscono le fonti storiche. Questo è l'embrione
degli Unni. Poichè l'organizzazione tribale non era in grado di darsi un monarca assoluto,
26
La dinastia Xia (2195 - 1675 a.C.) è una dinastia considerata mitologica dalla maggior parte degli archeologi
e dei sinologi. Non sono mai state ritrovate prove dell’effettiva esistenza di questa dinastia ma le cronache
cinesi più importanti come lo Shiji ne parlano, anche se vagamente e con chiare interpolazioni
immaginarie.
27
La dinastia Shang (1600 - 1046 a.C.), al contrario di quella Xia, ha lasciato così tante testimonianze di sé che
risulta difficile anche solo ipotizzare una sua inesistenza. Bronzi, sarcofagi e modeste strutture palaziali
lasciano intendere non solo un’avanzata capacità di lavorazione di materiali anche durissimi come la giada
ma anche una stratificazione sociale ben definita con contadini, nobili, guerrieri, sciamani, consiglieri e re.
28
L. N. Gumilev, Gli Unni, Un impero di nomadi antagonisti dell'antica Cina, Res Gestae Edizioni, p. 14.
29
Per Han qui si intende la principale etnia cinese e l'omonima dinastia.
~ 16 ~
i Xiongnu continuarono a vagare fra le montagne e le valli dell'Ovest della Cina venendo
raramente in contatto con il popolo cinese che andava formandosi attraverso
rovesciamenti di potere e guerre interne. Questo fino al 1123 a.C., quando il principato
di Zhou si ribellò alla dinastia Shang. Il duca Wen di Zhou era responsabile di una
regione oggi compresa nello Shanxi e quindi ai confini della Cina di allora. Proprio per
questo poteva vantare all'interno del suo esercito diversi guerrieri della steppa della tribù
degli Jiang. Wen «con le forze dei barbari dai capelli biondi e neri compiva la conquista
del paese posto tra il mare e le montagne del Tibet»30. I Zhou disponevano di un numero
di truppe enormemente inferiore rispetto al re Zhouxin degli Shang, tuttavia - come
raccontano le cronache dello Shiji di Sima Qian - poiché il re Shang era dedito alle
peggiori nefandezze come: orge, torture e legiferazione attraverso il consiglio delle
concubine piuttosto che dei funzionari di alto grado e lignaggio, i suoi stessi soldati al
momento della battaglia decisiva abbandonarono il sovrano e si unirono al re Wu dei
Zhou. Gli Shang tramontavano sotto la pressione di un sovrano proveniente dall'estremo
confine occidentale. Un sovrano che aveva al suo soldo i "barbari" delle steppe. Al
termine della conquista del potere, il re Wen dei Zhou - sempre secondo le fonti
storiografiche assecondanti la teoria secondo la quale gli Shang fossero dei tiranni
dissoluti - riportò l'ordine, la morale e la giustizia. Wen veniva definito un «uomo dei
barbari occidentali» la cui stirpe si era mescolata a quella dei Jiang. Parrebbe quindi che i
Zhou avessero molto in comune con le tribù nomadi e barbariche delle steppe e che il
loro spostarsi a sud-est fosse un nobile gesto per riportare pace e serenità all'interno del
regno. La storia climatica del pianeta Terra racconta un'altra storia; una storia che si
30
Grumm-Grẑimajlo, Mongolia occidentale, p. 45.
~ 17 ~
ripeterà in Europa diversi secoli più tardi. Nel II millennio a.C. il clima di tutta l'Eurasia
divenne più freddo. I pascoli, le terre fertili e in generale un clima più gentile erano tutti
elementi rintracciabili solamente muovendosi progressivamente più a sud. Da questo
dato si evince che la caduta degli Shang fu dovuta all'invasione di un popolo dotato di
una forte componente nomade spostatosi a sud allo scopo di trovare un clima più caldo
e possibilità di sostentamento maggiori. Non è una caso quindi che durante la dinastia
Zhou le temperature tornarono ad alzarsi fino anche a 2 C° in più rispetto ad oggi e che,
paradossalmente, una volta tornate ad abbassarsi vertiginosamente intorno al 900 a.C. 31,
divenissero motivo della caduta degli stessi Zhou ad opera di un altro gruppo
proveniente dal nord-ovest della Cina: i Qin. In questo caso specifico in Cina apparve un
elemento del tutto rivoluzionario che cambiò per sempre gli equilibri delle fertili terre fra
il fiume Wei e lo Yangzi. All'epoca della caduta dei Zhou, quella definita delle "Primavere
ed Autunni", popoli barbarici definiti coi nomi di Rong e Yi e Man32 irrompevano nei
territori cinesi tramite una poderosa cavalleria contro la quale i lenti carri da guerra Zhou
poco o nulla potevano. L'ascesa dello stato di Qin fu favorita proprio dai Jiang, i quali
riuscirono a penetrare tanto più profondamente nel territorio cinese quanto più questo si
frammentava. Quando i Jiang vennero sconfitti dal nuovo ordine instauratosi in Cina
grazie al primo imperatore Qin Shi Huang Di, si ritirarono verso ovest tornando, di fatto
ad occupare le regioni dell'Asia centrale dalle quali si erano mossi alcuni secoli prima.
Proprio in quel momento, nella Mongolia centrale e nella Transbaikalia comparirono dei
31
K. Vogelsang, Cina, Una storia millenaria, Einaudi, p. 38.
Ibid. p. 50.
~ 18 ~
32
particolari tipi di sepoltura detti «tombe litiche»33. Queste tombe erano riservate ai
membri illustri di sesso maschile che avevano, per qualche merito, ottenuto il diritto di
essere considerati capi tribù o guerrieri di altissimo valore. La cultura che le aveva
prodotte conosceva perfettamente la fusione dei metalli ma non ancora le armi in ferro,
un prodotto di cui gli Unni faranno invece largo uso. Il ferro cominciò a giungere nelle
steppe in quantità degna di nota solamente dopo il III secolo a.C. per merito degli
scambi commerciali e degli intermediari che congiungevano le steppe con la Persia, la
valle dell'Indo e la Cina. Presso gli Unni le tombe litiche divennero la prassi, segno della
loro vicinanza culturale ad altre tribù dell'area. Sempre intorno al III secolo, gli Unni
divennero tanto forti da potersi spingere nuovamente a sud in cerca di bottino e pascoli
ai danni del neonato impero cinese. La loro avanzata costituiva una minaccia di
particolare gravità poiché le loro strategie d'attacco erano inconsuete e perlopiù
sconosciute ai cinesi. Arginare l'avanzata di gruppi sparsi sempre più grandi diventava
molto difficile visto che le barriere naturali nel nord della Cina sono tutt'ora una rarità,
perciò il primo imperatore fu costretto a pianificare la ricostruzione e l'unione di vari
segmenti di mura costruiti alle frontiere in epoche passate regalando al mondo intero un
monumento che per lunghezza e fascino non è secondo a nessun altro: la Grande
Muraglia cinese34.
33
Si tratta di sepolture costituite da una profonda fossa, dove venivano inseriti i resti e il corredo del defunto, e
da un recinto quadrangolare di pietra più o meno ampio a seconda dell'importanza del personaggio.
34
La Grande Muraglia, contrariamente a quanto si pensa, non fu una costruzione ordinata dal primo
imperatore. Egli si servì di sezioni costruite precedentemente per lo stesso scopo: rallentare e possibilmente
impedire la discesa dei barbari dal nord e dal nord-ovest. Nonostante la lunghezza, la Grande Muraglia solo
in pochi tratti raggiunge altezze difficili da scalare. Nella maggior parte dei casi si tratta di un muro alto
poco più di cinque o sei metri in media. Questa peculiarità è una delle cause della scarsa efficienza di tale
costruzione. Con la riconfigurazione delle antiche sezioni operata da Qin Shi Huangdi la Cina non
~ 19 ~
All'epoca del Primo Imperatore i popoli della steppa non erano ancora un pericolo
incombente per la Cina ma lo stavano diventando. La dinastia degli Han35, che succedette
a quella dei Qin, dovette fare i conti con i numerosissimi barbari che attorniavano
l'impero. Fra le tante tribù ce n'era una molto più preoccupante delle altre, quella dei
Xiongnu (匈奴)36. Questa si era formata in seguito alla confederazione di numerose
famiglie che condividevano non pochi tratti culturali, oltre ovviamente alla terra che
occupavano. Una volta confederatisi, i Xiongnu elessero alla loro maniera37 un sovrano
di nome Mao Dun al quale venne affibbiato l'appellativo di Shan Yu38. Sotto la sua guida i
Xiongnu cominciarono a premere insistentemente lungo le frontiere nord occidentali
senza posa; la loro era, d'altronde, una sorta di vendetta ai danni cinesi, i quali all'epoca
dei Qin e del Primo Imperatore si erano spinti a nord cacciando molte tribù nomadi.
Queste, da parte loro, non erano rimaste a guardare ma si erano confederate per
riprendersi i territori che gli garantivano più cibo e una qualità della vita migliore. Se fino
ad allora le dinastie cinesi avevano risposto con la spada agli archi delle steppe, gli Han
cambiarono strategia e decisero di tentare una via diversa e più subdola: imparentarsi con
pretendeva di impedire il passaggio ai barbari bensì avvertire il resto dell'impero dell'avanzata degli stessi.
Varie torri si possono ancora oggi ammirare a distanza costante l'una dall'altra. Sulla cima di queste torri
venivano accesi dei fuochi di segnalazione che avvertivano soldati e messaggeri dell'imminente arrivo di
orde barbariche. La notizia veniva riportata all'imperatore, il quale poi procedeva ad organizzare una pronta
difesa.
35
La dinastia Han raccolse l’eredità del Primo Imperatore e riuscì a restare al potere dal 206 a.C. al 220 d.C.
36
Si è dibattuto a lungo sul loro nome. Si è tentato, in particolare, di assimilarli agli Unni che terrorizzarono
l'impero romano. Alcuni studiosi come Kai Vogelsang ritengono che tale dimostrazione sia impossibile
mentre altri, come Lev Nikolaevic Gumilev, ritengono di aver rintracciato le prove proprio nelle
trasformazioni del loro nome.
37
Molto probabilmente "l'elezione" avvenne in modo sanguinario. Le tribù delle steppe solevano risolvere le
controversie tramite scontri aperti o duelli.
38
Su questo appellativo si è dibattuto a lungo. La sua provenienza parrebbe quasi certamente non-cinese e a
giudicare dagli studi sul dialetto unno comparato con il turco si può suggerire che sia la traduzione cinese
del titolo di Khan.
~ 20 ~
i Xiongnu. Questa politica, definita «armonia e parentela» (和亲) comportava il
versamento di un tributo allo shanyu e l'offerta in sposa di una principessa cinese. Han e
Xiongnu divennero fratelli e il grande storico Sima Qian affermò addirittura che essi
discendevano dall'antica dinastia Xia cosa che li rendeva, se non fratelli, almeno cugini
dei cinesi.
Anche l'idillio però era destinato a finire. Nonostante l'ostentata fratellanza, ben presto i
bisogni dei Xiongnu tornarono a prevalere sulla politica armoniosa voluta dagli Han. Il
sovrano Mao Dun arrivò a chiedere in sposa l'imperatrice Lu in persona, adducendo
come motivazione il fatto che entrambi erano soli e avrebbero dovuto condividere l'uno
con l’altra ciò che avevano per colmare il vuoto di entrambi. La richiesta venne rifiutata,
segno che seppure i cinesi consideravano i Xiongnu "fratelli" essi erano comunque
subordinati all'impero di mezzo. Nel 166 a.C. 140.000 cavalieri delle steppe invasero la
Cina da nord-ovest. Il risultato fu un vero e proprio disastro per i cinesi. I Xiongnu
presero tutto quel che potevano: bestiame, cibo, vettovaglie varie e oggetti di valore
arrivando addirittura ad incendiare il palazzo d'estate dell'imperatore. Con l'arrivo sul
trono dell'imperatore Wu39 la situazione precipitò inevitabilmente. L'impero Han era in
pace da lungo tempo e aveva avuto modo di predisporre, oltre ad una macchina
burocratica efficiente, una macchina militare non più votata alla difesa dei territori
imperiali ma volta all'espansionismo. Wu decise di espandere i confini dell'impero e i
Xiongnu si trovarono sulla sua strada. Fratelli o non fratelli tentò di spazzarli via con un
attacco diretto. Una penetrazione nel profondo della Mongolia causò a questi ultimi una
delle disfatte più atroci della loro storia e, mentre si riorganizzavano, udirono di un altro
39
L'imperatore Wu regnò dal 141 all'87 a.C.
~ 21 ~
esercito Han provenire da occidente. Il risultato fu la totale distruzione della minaccia
Xiongnu ai confini dell'impero. Per i Xiongnu stava per iniziare l'epoca della migrazione
forzata ma c'era ancora qualcosa da prendere: la vendetta. Il contrattacco non si fece
attendere e mise in ginocchio un esercito, quello Han, provato dalle continue guerre
volute dall'imperatore Wu. Questi morì nell'87 a.C. lasciando l'impero in una situazione
di forte disagio erariale e alla mercè di quei Xiongnu, un tempo sconfitti, che ora agivano
indisturbati. Una disputa nata in seno alla confederazione fece sì che tale nazione si
dividesse in due rami. Il comandante del primo gruppo si sottomise agli Han nel 51
a.C.40, l'altro fu sconfitto dagli Han nel 36 a.C. ai confini più occidentali dell'impero.
Cominciò da qui, probabilmente, la migrazione che li porterà in Europa.
Sulla questione del dissenso all'interno della confederazione va osservato che il potere
dello shanyu si fondava sulla sua capacità di ottenere vittorie. Un comandante forte e
rispettato in seno al popolo era colui in grado di ottenere la vittoria in ogni battaglia e di
assicurare quindi un bottino e la sopravvivenza del popolo. Come detto, l'esercito Han,
sotto il comando dell'imperatore Wu, inflisse diverse pesanti sconfitte ai Xiongnu e
questo fece vacillare la fiducia dei soldati nel loro shanyu fino al punto di dover dividere la
federazione.
La permanenza dei Xiongnu in Cina fu tutt'altro che marginale e, nonostante l'esito,
cominciò a mostrare qual era la natura di quelle genti. Dotati di cavalli estremamente
resistenti al freddo e alla fatica, i Xiongnu furono anche inventori del rampino (che
usarono per assaltare la muraglia cinese vista la non eccessiva altezza del muro) che
permise loro di effettuare scorribande all'interno del territorio cinese.
40
K. Vogelsang, Cina, Una storia millenaria, Einaudi, 2014, p.135.
~ 22 ~
Dall'Asia all'Europa
Prima di migrare verso ovest, i Xiongnu (che da questo momento chiameremo Unni41)
incontrarono un vecchio nemico: gli Yuezhi. Gli Yuezhi erano i precedenti abitanti della
frontiera occidentale della Cina, scacciati dagli Unni qualche secolo prima. Durante la
migrazione furono proprio loro i primi a subire la violenza d'urto del figlio di Mao Dun:
Lao Shan. Costui sconfisse gli Yuezhi e riuscì persino ad uccidere il loro capo facendo
del cranio dello sconfitto una coppa in cui bere; era l'anno 165 a.C. circa. All'indomani
della disfatta, gli Yuezhi si sposteranno verso la Battriana dove si scontreranno con quel
che restava dell'impero macedone di Alessandro Magno dando un primo assaggio di un
fenomeno che seguirà sempre gli attacchi degli Unni e cioè gli esodi di interi popoli da
una regione - ormai conquistata o devastata dagli Unni - ad un'altra nuova, dove
ricominciare la propria vita. Gli Unni dal canto loro avevano sentito parlare di una terra
ancor più ad occidente ricca e prospera. Tale voce giungeva dalla Cina, la quale pare che
avesse inviato un'ambasceria niente meno che ad Augusto42. Qui la storia degli Unni di
Cina e d'Europa potrebbe toccarsi ma non è ancora il momento. Quel che segue il
41
Questo ci è possibile perché proprio in quest'epoca avvengono quei mutamenti cruciali che trasformeranno
un popolo di allevatori in una società militarizzata. La struttura sociale dei Xiongnu cambia radicalmente; i
vecchi guerrieri non sono più i detentori del potere e la loro gerontocrazia viene messa in discussione.
Questo avviene poiché le nuove sfide (cibo e vettovaglie in primis) necessitavano di una risposta urgente
che fosse affidata ad un solo capo che fosse tale non più per dimostrazione di forza ma per genealogia. Lo
Shan Yu diventa il capo dell'intera società militarizzata che di lì a poco si trasformerà in orda grazie allo
sviluppo di figure che potremmo definire "luogotenenti" del sovrano. Ognuno di questi vicari prenderà con
sé un'orda e seguirà gli ordini dello Shan Yu, senza avere intermediari. Tale evoluzione si completerà però
solo nel II secolo d.C.
42
Secondo quanto riportato da Lucio Anneo Floro nel II secolo d.C. nella sua Storia.
~ 23 ~
progressivo spostamento degli Unni verso occidente è ancora una storia di guerre
fratricide, con tribù confinanti e con gli stessi cinesi che si espandevano sempre più verso
sud e ovest consolidando al tempo stesso il loro possesso sulla parte meridionale della
Mongolia. Diversi shanyu si succederanno fino a portare la nuova confederazione tribale
(meglio dire orda a questo punto) ai confini della Sarmazia43. Qui avverrà l'incontro che
in realtà risulta essere uno scontro immediato con le popolazioni che erano giunte,
attraverso i grandi fiumi navigabili, ad abitare quelle zone. Delle prime gesta degli Unni
in Europa ne fornisce un resoconto abbastanza dettagliato Orosio44. Egli racconta di un
periodo, è bene ricordarlo, in cui le guerre tra impero romano e barbari erano all'ordine
del giorno; un tempo in cui le scorribande dei Franchi, dei Sassoni, degli Angli e di molti
altri popoli erano la consuetudine. Gli Unni non erano da meno ma in questa prima fase
(II-II secolo d.C.) il loro contributo al "disordine" generale era ancora minimo. Di fatto
gli Unni costituivano, e costituiranno sempre di più, uno dei tanti motivi che spingevano
i cosiddetti popoli «barbarici» verso sud e ovest; a varcare i confini dell'Impero Romano
d'Oriente e d'Occidente. Orosio scrive:
«Infine, poiché anche costoro45 che iniziano dalle epoche intermedie, per quanto non facciano
alcuna menzione delle precedenti, non hanno descritto niente altro che guerre e rovine, - e le
guerre che altro sono, se non mali che si abbattono sull'uno o sull'altro? e i mali di questa sorta,
43
Col termine Sarmatia i romani intendevano le regioni del basso Volga, dell'odierna Ucraina e della parte
settentrionale del Mar Nero. I territori più ad est erano chiamati "Scitia" (ovvero Scizia).
44
Allievo di Agostino di Ippona, Orosio visse tra il 375 e il 420 circa, le sue “Storie contro i Pagani” fanno
luce su molti aspetti dei popoli barbarici anche se, dato il loro scopo, non possono essere accettate come
testimonianze esatte.
45
Orosio si riferisce agli storici coevi e precedenti che avevano proposto delle cronache acritiche, delle unioni
di frammenti cronologici senza un filo teorico. Al contrario Orosio propone una visione profondamente
influenzata dal sentimento religioso cattolico che gli disvela gli avvenimenti della sua epoca in un'ottica di
volontà divina.
~ 24 ~
che esistevano allora come esistono in una certa misura anche oggi, in quanto hanno una reale
esistenza, sono senza alcun dubbio o peccati manifesti o occulte punizioni di peccati [...]»46
Si intende quindi (anche dal titolo della sua opera: Historiae adversus paganos) che l'intento
dell'opera era quello di condannare i pagani, dove il termine "pagani" stava a sostituire
un termine offensivo come appunto "barbari". Intento politico a parte, il passo riportato
chiarisce anche la visione cattolico-ecclesiastica dell'epoca delle grandi invasioni
barbariche in Europa vedendo queste ultime come la punizione per i peccati
dell'umanità.
I primi a fare le spese dell'arrivo delle orde unne furono i Goti47 residenti nella Sarmazia,
più precisamente nella zona del basso Volga, una regione che a quel tempo offriva agli
occhi un acquitrino paludoso di difficile attraversamento. Che tale regione fosse abitata
dai Goti (nel senso più lato del termine) è possibile. I grandi fiumi che attraversano tutta
la pianura che va dagli Urali ai Carpazi erano, e in alcuni casi sono tutt'oggi, navigabili e
non è un mistero che popoli navigatori di origine scandinava siano stati in grado di
giungere nel cuore della Sarmazia. È fatto acclarato, ad esempio, che il regno di Kiev
sorto all’alba del medioevo avesse sovrani di discendenza norrena. Lo scontro è impari. I
numeri delle orde unne superano di gran lunga le esigue forze dei Goti; gli Unni si
riversano come un fiume in piena su di essi, travolgendo tutto ciò che incontrano con
una ferocia che mai s'era vista e di cui mai s'era udito. Giordano riferisce di una sorta di
leggenda sulla nascita di questa razza feroce e inarrestabile secondo la quale i Goti,
46
Orosio, Le storie contro i pagani (Historiae adversus paganos), a cura di A. Lippold, trad. di A. Bartolucci,
Milano 1976.
47
Il termine usato da Giordano è Geates. Questo termine può riferirsi o ad un particolare clan della Scandinavia
o alla totalità delle genti gotiche. L'etimo della parola in effetti racchiude entrambe le spiegazioni visto che
Goti e Norreni (se così scegliamo di definire le tre popolazioni maggiori che abitavano Scandinavia e
Danimarca) avevano molti punti in comune oltre che frequenti legami di parentela.
~ 25 ~
guidati dal re Filimer, figlio di Gadaric il Grande, avrebbero scacciato dalla Scizia alcune
streghe residenti nelle paludi di quella regione. Queste si sarebbero spostate in terre nelle
quali dei non meglio precisati spiriti le avrebbero possedute dando alla luce gli Unni48. La
leggenda può nascondere una piccola ma importante verità, ovvero che gli Unni si siano
uniti a donne scite o sarmate dando alla luce un nuovo tipo umano più "europeo" che
abbia quindi mitigato i tratti mongoloidi e centro asiatici di questo popolo.
L'ascesa di Attila
Dopo circa un secolo e mezzo speso in Europa gli Unni erano definitivamente un
popolo barbarico citato nelle cronache bizantine e latine. Il Volga, il Don, le paludi, le
steppe, erano diventate a tutti gli effetti il nuovo ambiente di un'intera nazione che non ci
aveva messo molto ad adattarsi al nuovo paesaggio. La prima popolazione incontrata
dagli Unni furono gli Alani nel 370 d.C. circa. Qualche anno dopo questi ultimi erano
stati sconfitti e sottomessi. Lo storico Giordano rivela in che modo:
«Con il loro aspetto terrificante riuscirono ad incutere grande paura a chi probabilmente non
superavano da un punto di vista bellico.»49
Risulta fin troppo chiaro, allora, qual è il vantaggio che gli Unni schierano in battaglia: il
terrore. Il terrore è un'emozione più semplice della paura dato che questa è più radicata
nella coscienza umana e dispone di molte leve inconsce da poter tirare all'occorrenza
attivando meccanismi ben più problematici del terrore che, a sua volta, è repentino,
ingiustificato, inspiegato ed inspiegabile. In che modo veniva gettato nel terrore il
nemico? Avremo modo di parlarne varie volte ma in questo momento sarebbe meglio
48
Giordano, De origine actibusque Getarum, framm. 121-122.
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 22.
~ 26 ~
49
scrivere di cosa fosse in grado di ottenere tale effetto.
Bisogna dire che gli Unni avevano recato con sé diversi ninnoli dalla Cina, cavalli - certo
- ma anche strumenti ben più letali come le balestre50. I Sarmati, o quel che rimaneva di
essi all'epoca, furono un altro gruppo che si trovò a dover fronteggiare un nemico
spietato che lottava con astuzia ed evitava lo scontro campale. Le tombe sarmate di cui
riferisce Neméth, ritrovate in Ungheria certificano che essi si spostarono in fretta. Il
corredo funerario è molto povero confrontato a quello delle tombe ritrovate in
Sarmazia, perciò possiamo essere certi del fatto che gli Unni costrinsero i Sarmati ad uno
spostamento repentino e disordinato. Un'onda d'urto così potente da far spostare intere
tribù più a sud o più ad ovest non poteva rimanere sconosciuta ai romani e, in più, non
poteva lasciare indifferente l'Impero. Il problema delle penetrazioni di tribù barbariche
che andavano a stanziarsi all'interno dei confini imperiali veniva preso seriamente. Non
sempre i popoli costretti a questa transumanza si rivelavano pacifici come nel caso dei
Sarmati; Ostrogoti e Visigoti - se provocati - potevano mettere in ginocchio l'Impero
Romano d'Oriente. Quadi ed Eruli si spostarono sempre in seguito alla spinta
terrificante degli Unni. Alieni in una terra aliena, così dovettero apparire a coloro che
incrociarono con loro le spade. L'usanza, presso gli Unni, di deformare il cranio tramite
stretti bendaggi faceva già un grosso lavoro di intimidazione. L'identificazione del
nemico come "altro", come alienum, in questo caso non era dovuto alla disumanizzazione
del nemico a scopo apotropaico contro l'uccisione di un altro essere umano, per
allontanare cioè la colpa dell'assassinio (sentimento che, fra l'altro, all'epoca era davvero
50
La balestra era un'arma che in Cina si era diffusa sin dal II secolo a.C. in forme più o meno elaborate. Lo
stesso esercito di terracotta, che funge ancora da guardia personale del defunto Primo Imperatore Qin Shi
Huangdi, è dotato di interi reparti di balestrieri.
~ 27 ~
poco in voga) ma era la conseguenza dell'aspetto fisico degli Unni. Bassi, dal petto ampio
e imberbi, con gli occhi che ricordavano il sinantropo dell'Asia orientale, sembravano più
simili ad esseri venuti da chissà dove, votati esclusivamente alla devastazione della Terra.
Nel IV e V secolo d.C. gli Ostrogoti controllavano una porzione di territorio estesa dal
Don al Danubio. Il loro re, Ermanarico, era sovrano di una nazione potente e temuta
anche dall'Impero Romano d'Oriente. La forza del suo esercito era dovuta soprattutto
alla grande organizzazione che gli Ostrogoti avevano copiato dai romani e adattato alla
loro società semi-germanica. Nonostante questa ben organizzata macchina bellica,
Ermanarico fu travolto dalle cariche unne e per non veder distrutto il suo regno si tolse
la vita51. Il terrore unno mieteva un'altra vittima e la vittoria consegnava loro il controllo
su Alani, Vandali e Ostrogoti portando in dote anche il dominio sul confine romano del
Danubio.
Il primo re unno di cui si ha notizia è Ulde (o Uldino) ma di questo, eccetto il nome, non
si conosce altro. Di Ruga (o Ruha) invece, probabilmente successore del primo, si sa
qualcosa in più. Egli fu uno dei re che cominciò ad unificare sotto di sé le varie tribù
presenti nei suoi territori e fu colui il quale estorse il primo tributo ai romani. Nel 442
d.C. le forze di Ruga oltrepassarono il Danubio e saccheggiarono la Tracia, obbligando
così l'imperatore Teodosio II a pagare un tributo di 350 libbre d'oro in cambio del ritiro
delle forze unne. La vittoria degli Unni fu possibile perché il grosso dell'esercito
bizantino era impegnato ad oriente contro i Persiani Sasanidi. A noi Ruga interessa per
un motivo del tutto diverso dalle scorribande; egli aveva un fratello di nome Mundzuk
benedetto dal Cielo con due figli: Bleda ed Attila. Del padre di Attila non sappiamo
51
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 26.
~ 28 ~
nulla, viene semplicemente menzionato da Giordano ma la cosa da notare è la fecondità
di leggende nate sul Mundzuk; gli ungheresi lo ritengono discendente di Nimrod,
personaggio biblico noto per essere un grande cacciatore. Sarebbe semplice liquidare in
questo modo la faccenda ma qui, da questo momento, la storia di Attila e di suo padre
prende sempre più una piega mitologica. Dire che un generale unno era discendente di
Nimrod significa inserirlo all'interno del più sacro dei testi della tradizione ebraicocristiana; inoltre, l'essere un cacciatore, porta con sé una enorme simbologia legata
sostanzialmente a tre aspetti: la conoscenza del terreno e di conseguenza la capacità di
comparire e scomparire in fretta, l'uso dell'arco e delle armi da tiro, il cavallo,
indispensabile per la caccia a tutta una serie di animali. Mundzuk è lo spirito degli Unni,
Nimrod ne è il simbolo biblico di un intero popolo.
In generale, il regno di Ruga portò numerosi benefici al popolo degli Unni e alla sua
morte fu Bleda, il fratello di Attila, a succedergli. Questi ricevette in dono la Pannonia
dai romani a seguito di numerosi servigi militari resi all'Impero. A quel tempo l'uomo più
potente d'Occidente era il generale Ezio. Costui era stato, in gioventù, ostaggio degli
Unni secondo quell'usanza in voga tra i Romani. Ezio conosceva perfettamente la cultura
unna e altrettanto bene sapeva che la loro cavalleria si prestava a diversi utilizzi. Chiese e
ottenne il supporto di essa diverse volte per difendere l'Italia e come ricompensa agli
Unni fu data la Pannonia e un aumento del tributo da parte dei romani da 350 a 700
libbre d'oro. Cominciava qui la fase di stanzialità degli Unni; una stanzialità che permise a
Bleda di avanzare alla volta del Reno calpestando tutti i popoli germanici che gli si
paravano davanti. Suo fratello Attila fungeva da suo sostituto ma aveva un carattere che
difficilmente poteva accettare di "servire" qualcun altro. Probabilmente conscio di
~ 29 ~
questo, Bleda tentò di uccidere il fratello che, a sua volta, lo assassinò per difendersi.
Non siamo certi di questa versione dei fatti, in effetti Attila potrebbe aver assassinato il
fratello con l'unico movente di ottenere il potere su un regno all'interno del quale le varie
tribù erano finalmente unite52.
Attila non era come suo fratello, tantomeno come suo zio. La sua ambizione travalicava
qualunque senso di giustizia come possiamo intenderla noi oggi. Di più: la "giustizia" tra
gli Unni era intimamente connessa alla sopravvivenza ma ora che essi avevano un vero e
proprio regno la stanzialità comportava spese non indifferenti, spese insostenibili per
una nazione abituata ad trovarsi da sempre in perenne migrazione. Attila capì che
amministrare uno stato non era cosa da nulla perciò accolse a corte tutti coloro che
potevano essere utile ai fini della crescita del suo regno ma per attuare la creazione di un
regno forte e centralizzato il denaro era necessario tanto quanto poteva esserlo l'acqua.
Per un re barbaro stanziato sulle rive del Danubio c'era un solo luogo in cui poter
trovare la ricchezza di cui il regno aveva tanto bisogno: Costantinopoli. L'invasione
portata da Attila ai danno dell'Impero Romano d'Oriente nel 447 d.C. era tesa proprio
all'accumulo di ricchezza e all'estorsione di un nuovo tributo da parte dell'imperatore.
Nemmeno Attila poteva sapere che quell'invasione avrebbe causato la nascita del suo
mito. Callinico narra nel dettaglio lo stato in cui versò la Tracia dopo il passaggio di
Attila:
«La nazione barbara degli Unni che era in Tracia è divenuta talmente grande che ha conquistato
cento città; ci sono stati così tanti omicidi e spargimenti di sangue che non si riuscivano a
contare i morti; ahimè, essi occupavano chiese e monasteri assassinando moltissimi monaci e
52
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 40-41.
~ 30 ~
vergini.»53
Dal punto di vista di un ecclesiastico come Callinico, Attila era una sorta di mostro
spietato che bruciava tutto ciò che incontrava sul suo cammino. La Tracia venne
devastata, la città di Serdica (oggi Sofia, capitale della Bulgaria) venne rasa al suolo, campi
e boschi vennero dati alle fiamme, le chiese profanate, i monaci massacrati, le monache
stuprate. Tutto il mondo adesso, come era già accaduto in Cina secoli prima, sapeva che
gli Unni stavano arrivando e nulla avrebbe potuto fermarli. Come se non fosse bastata la
devastazione inferta dall'orda di Attila ai territori dell'Impero Romano d'Oriente,
Costantinopoli e la Tracia furono investite da fenomeni atmosferici inspiegabili. I
cittadini bizantini erano ben consci del pericolo estremo rappresentato da Attila e dal suo
esercito, a questa preoccupazione si aggiunsero le voci del massacro che giungevano a
Costantinopoli da ogni dove ma il peggio doveva ancora arrivare. Il 26 Gennaio 447 tutta
la regione del Bosforo fu vittima del peggior terremoto della sua storia fino a quel
momento, a ciò seguirono quattro giorni e quattro notti di pioggia torrenziale e
ininterrotta che distrussero edifici e provocarono inondazioni. Costantinopoli si allagò, la
peste non tardò a manifestarsi e, cosa ancor più peggiore, almeno cinquantasette torri
della doppia cinta muraria della città54 crollarono in seguito all'alluvione e diverse brecce
si aprirono nelle mura. Regnò il panico per mesi. Intere schiere di cittadini fuggirono,
convinti che Attila fosse talmente vicino da poter prendere la città in qualsiasi momento.
In realtà gli Unni stavano avanzando molto lentamente, attardandosi a saccheggiare tutto
ciò potevano godendo proprio della paura instillata nei cuori dei romani. Le mura furono
53
Ivi p. 52-53.
La città di Costantinopoli era all'epoca dotata di una doppia cinta muraria. Un vero gioiello per l'epoca. La
prima cinta muraria era stata realizzata da Costantino mentre la seconda da Teodosio.
~ 31 ~
54
ricostruite in un tempo record e un generale germanico che serviva l'imperatore
Teodosio, di nome Arneglisco, venne inviato a dare battaglia lontano dalla città.
Arneglisco combatté coraggiosamente ma perì in battaglia procurando agli Unni gravi
perdite55. L'avanzata però non si arrestò e la città di Marcianopoli venne messa a ferro e
fuoco, in Tracia giunse la malaria e le stesse truppe unne dovettero subirne l'influsso e
arrestarsi. L'evento fu salutato come un intervento divino di Dio stesso da Isacco di
Anticohia che scrisse:
«Dio ha vinto il tiranno che minacciava di venire e farti prigioniero. Sono inciampati sulla pietra
delle malattie, i cavali sono caduti con i loro cavalieri e l'accampamento, pronto per la sua
distruzione, è stato ammutolito. Con la malattia egli ha abbattuto gli Unni che ti minacciavano. I
peccatori avevano teso l'arco e puntato le loro frecce - la preparazione era perfetta e le loro
schiere stavano arrivando velocemente - ma la malattia li colpì gettandoli nella desolazione.
Colui che aveva il cuore forte per la battaglia divenne debole con la malattia. Colui che era
bravissimo a tirare con l'arco venne abbattuto dalla malattia delle viscere - i cavalieri indolenziti
si assopirono e il crudele esercito venne ridotto al silenzio.»56
Attila fu veramente costretto a fermarsi ma il suo esercito non uscì così decimato, come
questa testimonianza vuole far credere, visto che il tributo preteso (e concesso) da Attila
passò da 700 libbre d'oro a 6000, una seria minaccia per le casse dell'Impero d'Oriente. A
questa monumentale vittoria seguì, come spesso accade, un'intensa attività diplomatica.
Grazie ad essa oggi possiamo leggere i resoconti di Prisco di Panion sulla corte di Attila,
sui suoi modi, il suo aspetto e il suo carattere. Il re degli Unni non era un animale
totalmente diverso quando non si trovava sul campo di battaglia. Mentre i suoi invitati
55
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 54-55.
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 55.
56
~ 32 ~
(Prisco compreso) venivano fatti mangiare in piatti d'argento e potevano servirsi di calici
d'oro con pietre preziose incastonate, Attila mangiava in un piatto di legno e beveva da
una coppa dello stesso materiale. Viene descritto come estremamente gentile e moderato
come, in generale, la sua corte e la sua famiglia. Potremmo essere portati a pensare che
tali caratteristiche potessero mitigare la paura che i popoli confinanti (Romani compresi)
provavano quando pensavano agli Unni e al loro re ma questi comportamenti non
facevano altro che rinsaldare il terrore nei cuori di chi udiva i resoconti di Prisco, perché
tutti erano in grado di rendersi conto che costui non era un folle assassino ma un astuto
saccheggiatore, un terribile nemico da incontrare sul campo di battaglia dove lui e i suoi
soldati si sfogavano mostrandosi in tutta la loro crudeltà. Misericordioso ma spietato,
gentile ma risoluto, Attila stava diventando sempre più la figura catalizzatrice di tutte le
paure di due imperatori e i suoi cavalieri erano gli araldi della distruzione, della peste,
delle alluvioni e delle carestie. In somma: Attila stava diventando “l'anticristo” par
excellence.57
L'Anticristo: Attila
La storia di Attila proseguirà in Pannonia58, luogo nel quale edificherà il suo palazzo e
risiederà per breve tempo tra una scorreria e l'altra. Un altro gigante del tempo, l'Impero
57
In più di un'occasione, Attila è stato rappresentato come un essere dalle forme demoniache. Sulle monete e
su alcune medaglie appare come un essere dai capelli mossi fra i quali, se si osserva attentamente, possono
essere scorte due piccole corna ricurve. Non è questo il caso della saggezza. In diversi dipinti i santi
vengono rappresentati con delle piccole corna che nulla hanno a che vedere con la presenza di un carattere
demoniaco; sono in realtà la rappresentazione della saggezza, prerogativa caprina. Nel caso di Attila le
corna e la forma affusolata di sopracciglia e mento tendono ad evidenziare i tratti somatici del "cattivo re".
Servo del Diavolo o castigo di Dio? Attila è entrambe le cose, almeno agli occhi cristiani dell'epoca.
58
La Pannonia, parte di essa per essere più precisi, corrisponde all'odierna Ungheria che deve il nome proprio
al popolo degli Unni.
~ 33 ~
Romano d'Occidente era avviato ad una fine ben più triste e rapida del suo gemello
d'Oriente. Le ricchezze contenute in quella porzione di Europa erano grandi almeno
quanto quelle accumulate da Bisanzio. Essendo conscio di questo, Attila decise di
lanciare una sfida diplomatica di difficile soluzione. La figlia dell'imperatore d'occidente,
Onoria, era in età da marito e ancora non si era riusciti a trovarle un degno sposo. Il re
degli Unni, forte del potere che aveva accumulato nelle sue mani e del terrore che ormai
ovunque serpeggiava alla sola pronuncia del suo nome, decise di lanciare la
provocazione: avrebbe sposato lui Onoria, divenendo l'erede al trono dell'Impero
Romano. La richiesta venne sorprendentemente accolta ma i Romani avevano
architettato un buon piano per guadagnare tempo sul temibile re barbaro. Onoria
avrebbe sposato Attila e per farlo si sarebbe spostata in Pannonia. Il tempo, tuttavia,
passava e lei non pareva intenzionata a recarsi alla corte del suo futuro marito perciò
Attila perse la pazienza e si diresse in Gallia, dove ella risiedeva, per prenderla con la
forza. Il resto è abbastanza noto. La Gallia non era più quella della conquista cesariana, si
era completamente romanizzata anche se il processo era stato lungo e travagliato. Nel V
secolo i suoi confini non potevano più sopportare la pressione di Vandali, Visigoti,
Franchi e Burgundi che imperversavano ben oltre il confine fissato tra Colonia e
Ratisbona. Attila venne ad aggiungersi a una situazione già disperata. Ezio, di cui
abbiamo detto qualcosa precedentemente, era divenuto la figura di riferimento di tutto
l'occidente romano e il suo compito non era dei più facili: difendere a tutti costi i confini
dell'Impero. Gli Unni lo costrinsero a fare molto di più. Non si può parlare, come
afferma giustamente Howarth, di una vera e propria invasione di un popolo a danno di
un altro. Come è stato detto, l'esercito di Attila era ormai talmente eterogeneo da non
~ 34 ~
poter essere considerato un elemento unico che marciasse ordinato contro il nemico;
piuttosto era una sorta di maremoto che si abbatteva sul limes romano in molteplici
modi, primo fra tutti la forzata migrazione di intere tribù, le quali cercavano di
sopravvivere all'avanzata unna. La guerra divenne una partita a scacchi fra due
personalità magnetiche e influentissime: Attila ed Ezio.
Per capire quale fu il risultato immediato dell’irruzione unna in Gallia ci basterà citare
Gregorio di Tours:
«Così gli Unni lasciarono la Pannonia e, come dicono alcuni, durante la notte di vigilia della
Sacra Pasqua raggiunsero la città di Metz, dopo aver devastato la regione, diedero la città alle
fiamme, passando la popolazione a fil di spada e uccidendo i sacerdoti del Signore davanti i sacri
altari. E così rimase quella città. Tutto fu bruciato eccetto l‘oratorio del benedetto Stefano,
diacono e primo martire.»59
Nessuna pietà neanche per gli ecclesiastici, ecco lo scandalo che gettò ancor più su Attila
l’ombra dell‘Anticristo. Bruciò Metz, diede alle fiamme le campagne, non mostro il
minimo riguardo per nulla, non pensò nemmeno al conquistare gli insediamenti per
farne un avamposto o una fortezza in cui tornare in caso di sconfitta. Quest’ultima non
era presa in considerazione. Così, per la seconda volta, un popolo intero tremava ed era
pronto a cadere sotto i colpi degli arieti di Attila. Treviri e Reims dovettero subire lo
stesso destino, anche in questi casi non venne risparmiato nessuno e gli edifici, specie le
chiese60, vennero dati alle fiamme. Gregorio parla di un «uragano» abbattutosi sulla
Gallia e a ragione. Di fatto l’attacco degli Unni dovette somigliare in tutto e per tutto ad
59
Gregorio di Tours, Historia Francorum, Libro II, par. 6.
Le chiese sono la preoccupazione maggiore di scrittori come Gregorio di Tours in quanto ecclesiastici.
Sebbene vengano annotate le varie distruzioni perpetrate dagli Unni, i luoghi di culto cristiani rimangono la
prima sorgente di ansia per la cristianità tutta.
~ 35 ~
60
una perturbazione di proporzioni e violenza mai viste prima ma Attila era, per questo, un
folle assassino o un abile stratega? Bisogna chiarire invero se il re degli Unni facesse
questo per necessità, divertimento o logica. Io credo personalmente che si trattasse della
terza ipotesi. Attila non era un uomo stupido né un sanguinario (lo abbiamo visto grazie
ai racconti di Ammiano Marcellino che ne visitò la corte), egli era piuttosto un abile
utilizzatore di tecniche di guerra a cui l’oriente era avvezzo. In Cina, per citare il luogo
dal quale si mossero per la prima volta gli Unni, la devastazione in seguito all’invasione è
la regola. Nonostante l’Arte della Guerra di Sunzi veda la distruzione di un territorio come
un errore madornale, non bisogna confondere questo metodo d’azione come quello di
chi è sprovveduto. Sunzi (o chi per lui) rivolgeva il suo testo ai signori della guerra e ai
sovrani cinesi i quali erano ovviamente a capo di popoli, o etnie, stanziali. Un popolo
barbarico e nomade come quello degli Unni, sempre in movimento, non aveva bisogno
di case, luoghi di culto, fortezze, mura, non costituiva un ordine sociale vero e proprio,
non tesseva fitte diplomazie coi popoli confinanti, dubitava di un commercio non
fondato sul baratto e non era interessato a mantenere le posizioni razziate. Ecco per
quale motivo gli Unni di Attila non lasciavano nulla di intatto. Essi prendevano ciò di cui
avevano bisogno e continuavano a marciare, senza sosta, come una grande onda che
solleva la sabbia dal fondo del mare e la porta con sé per un certo tratto.
L’invasione della Gallia non dimostrò la superiorità delle tattiche unne come taluni
credono61 ma ne dimostrarono la “diversità”. Gli Unni, come già detto, non usavano
tattiche di guerra “superiori” ma semplicemente sconosciute ai popoli germanici e ai
61
In passato, e tristemente anche adesso, si sono prodotti lavori di studiosi - anche - che denotano un’ingenuità
non da poco nella rilevazione delle ragioni che portarono gli Unni ad essere così efficienti e devastanti in
guerra.
~ 36 ~
Romani. L’errore di ritenere gli Unni (sotto la guida di Attila) una forza inarrestabile
troppo superiore a qualsiasi cosa si fosse mai vista in Europa è imperdonabile e
scaturisce probabilmente da quella tendenza settecentesca e pre-romantica di raccontare
la storia in modo romanzato per ottenere l’interesse di un pubblico affamato di storie
mirabolanti. Gibbon è vittima ed autore al tempo stesso di questa visione. Il suo lavoro è
enorme e di valore assoluto ma pecca di questo sensazionalismo, inammissibile per una
trattazione il più oggettiva possibile. Questo approccio trasforma una realtà in un mito,
di volta in volta dimenticato e ricordato in modo differente, sovrapposto alla realtà
storica. Dobbiamo tener presente che i Romani avevano avuto a che fare con gli elefanti
di Pirro, di Annibale (che aveva portato con sé anche temibili lancieri Numidi), con la
guerriglia messa in atto dai Caledoni, le tattiche della cavalleria dei Parti (molto simili a
quelle degli Unni peraltro), perciò parliamo di un esercito che, seppur molto cambiato e
riformato, aveva affrontato decine e decine di avversari sempre diversi, ognuno
pericoloso a suo modo. La ragione delle continue sconfitte non andava ricercata nella
“potenza”, non chiarificata o non meglio precisata, degli Unni quanto nel loro leader.
Durante l’invasione della Gallia, Attila dimostra di poter essere terribilmente rapido nelle
incursioni, punta su Lutetia62 e schiaccia ogni resistenza. In quella città, una giovinetta di
nome Genoveffa prende in mano la situazione disperata dei suoi compatrioti, terrorizzati
ed allibiti a causa dell’imminente arrivo del barbaro invasore. Decide di partire insieme
ad un gruppo di vergini come lei per convincere Attila a mutare destinazione e ci riesce.
Da quel momento divenne patrona di Parigi e fu ricordata ogni volta che la città fu sul
62
Lutetia era una piccola cittadina situata su un isolotto della Senna dove un tempo vivevano i Parisii da cui la
città ha preso l’odierno nome: Parigi.
~ 37 ~
punto di cadere in mano ad un invasore63 come nel caso dell’invasione prussiana della
Francia nel 1915, quando il direttore della rivista francese «Revue Hebdomadaire» arrivò
a paragonare proprio agli Unni i soldati di Guglielmo II:
«Attila, re degli Unni, pretendeva di essere l’inviato di una potenza superiore di terrore e
barbarie che lo aveva mandato a punire chi si opponeva alla sua volontà. Attila disse che l’erba
non cresceva più sotto gli zoccoli del suo cavallo e il Prussiano ha detto che il suo cavallo berrà
l’acqua della Senna il 15 Agosto. Attila effettivamente giunse alle mura di Parigi dando tutto ciò
che trovava lungo la via alle fiamme, come fa anche Guglielmo, ma una ragazza che sarebbe
divenuta la patrona di Parigi, Genoveffa, diede coraggio ai suoi concittadini e li esortò a non
abbandonare la città. Di fronte a questa virile fermezza Attila si allontanò dalla città.64»
Dopo questa leggenda se ne susseguono altre che vedono Attila arrestarsi davanti alla
“santità” di alcune figure. Il re degli Unni aveva preso sul serio le dicerie secondo le quali
egli sarebbe stato un inviato divino utile alla purificazione del mondo, il cosiddetto
“Flagello di Dio”; al di là di un suo serio o strumentale convincimento riguardo la
faccenda, pare che fosse solito ricordarlo a coloro che volevano incontrarlo. San Lupo,
vescovo di Troyes, cercò di salvare la sua città dalla distruzione incontrando Attila
proprio come aveva fatto Genoveffa, Gregorio di Tours riferisce dell’incontro:
«Nel 451 il feroce Attila, re degli Unni, che aveva già distrutto Reims, Langres, Besançon e
molte altre città, marciò su Troyes. Tutta la città aveva paura e il vescovo San Lupo decise di
salvare la sua gente, quindi dopo aver pregato e digiunato, indossò i suoi paramenti episcopali e,
pieno di fede in Dio, lasciò la città per andare incontro ai barbari.
Quando raggiunse il re degli Unni gli chiese: “Chi sei?”. Attila rispose: “Sono il Flagello di Dio”
e il santo disse: “Se veramente sei il Flagello di Dio fa solo ciò che Dio ti permette”. Colpito da
63
64
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 122.
C. Amalvi, Les influences danubiennes dans l’ouest de l’Europe au V siècle.
~ 38 ~
queste parole e dalla santità del vescovo il barbaro mantenne, con grande disappunto delle sue
orde assetate di sangue e di bottini, la promessa.65»
Gli Unni puntarono allora su Orleans, portando un gran numero di arieti e altre
macchine da assedio e lì conobbero per la prima volta la sconfitta. La città era di fatto
poco difesa e in preda alla fame e al terrore, tuttavia durante l’assedio Ezio alla testa di
un esercito romano ben nutrito e riposato si riversò sul campo costringendo Attila alla
fuga. La battaglia finale tra i due non poteva essere molto lontana. Anche se i Romani
avevano impiegato molto tempo a prepararsi, lasciando la Gallia completamente
sguarnita, ora avevano formato una lega con i Goti di Teodorico, i Franchi, i Burgundi, i
Sassoni e gli Alani - che nel frattempo in grande numero avevano abbandonato le fila
unne - divenendo il frangiflutti contro il quale gli Unni potevano infrangersi. Lo scontro
decisivo avvenne sui Campi Catalaunici66, dove Attila subì una feroce disfatta. Ciò che
però interessa noi è il discorso che il Flagello di Dio fece ai suoi uomini prima della
battaglia così come è riportato da Giordano, poiché, se vero, getterebbe luce
sull’ambizione e il coraggio smisurati di questo sovrano. Così Giordano cita Attila:
«Voi siete qui dopo aver conquistato potenti nazioni e aver soggiogato il mondo, considero
quindi assurdo dovervi incitare con discorsi come se non foste uomini provati dalle azioni. […]
Infatti cos’è la guerra per voi se non una consuetudine? Oppure cosa per un uomo coraggioso è
più piacevole che cercare vendetta con la propria mano? È un diritto naturale saziarsi l’anima
con la vendetta. Quindi lanciamoci contro il nemico con ardore poiché sono sempre i più
coraggiosi ad attaccare. Disprezzate questa accozzaglia di razze diverse. Chi si difende tramite
un’alleanza dimostra codardia. Guardate, anche prima del nostro attacco sono tormentati dal
terrore. Cercano le vette, si impossessano dei colli e poi, pentendosi troppo tardi, chiedono a
65
66
P. Howarth, Attila, Piemme, 2001, p. 123.
Oggi Chalons.
~ 39 ~
gran voce una protezione dalla battaglia in campo aperto. […] Quindi giù nella mischia, con
cuore gagliardo come siete abituati. Disprezzate il loro ordine di battaglia. Attaccate gli Alani,
sbaragliate i Visigoti. […] Lasciate che il vostro coraggio si levi e la vostra furia scoppi. Ora, o
Unni, mostrate la vostra scaltrezza e le vostre gesta d’armi. Chi rimane ferito pretenda in
cambio la morte del suo avversario; chi è incolume si diverta a massacrare il nemico. Che
nessuna lancia colpisca chi è sicuro di vivere, e che il fato colga anche in pace chi è sicuro di
morire. Infine perché mai il destino avrebbe dovuto rendere gli Unni vittoriosi su così tante
nazioni se non per prepararli alla gioia di questo conflitto? […] Chi ha fatto sì che degli uomini
armati si arrendessero a voi quando eravate ancora disarmati? Nemmeno una massa di nazioni
federate potrebbe resistere alla vista degli Unni. In questo non mi sbaglio. […] Io lancerò la
prima lancia contro il nemico. Chi riposa mentre Attila combatte è un uomo morto. »67
Al di là della chiara possibilità che vede il discorso come artificioso, inventato,
strumentale e volutamente epico, dobbiamo riflettere sulla posizione di Giordano, il
quale non ha alcun interesse a mitizzare una figura terribile come quella del re degli
Unni. Di certo, la sua, è una narrazione romanzata (prassi degli storici antichi) ma
dobbiamo tener presente che un discorso del genere era “verosimile” per Attila. Cosa
possiamo prendere per buono? Possiamo prendere per buono l’atteggiamento, questo sì;
Attila è sicuro di sé, è sicuro delle capacità dei suoi uomini e in effetti ne ha già
combattute diverse di battaglie insieme ad essi, è certo della vittoria anche se combatte
contro un’intera coalizione. Il suo spirito supera la prigione di carne, Attila non è
nemmeno tanto una “volontà di potenza”, piuttosto è Potenza Autoconsapevole che sa
benissimo definire se stessa in senso esteso. Il Flagello di Dio crede in se stesso e in chi
lo segue, diffida di tutti gli altri, delle altre «razze», è certo di poter sconfiggere chiunque.
67
Giordano, De origine actibusque Getarum, par. 202-205.
~ 40 ~
Sembra essere pienamente consapevole, per esempio, del fatto che lui ed i suoi uomini
gettino nel terrore qualunque nemico semplicemente mostrandosi ad esso il che fa
pensare ad una premeditazione e attenta pianificazione delle mosse riducenti il nemico
ad uno stato d’angoscia e timore. Non può essere il Cristo, che parla di misericordia e
carità, di perdono e di «porgi l’altra guancia», è l’Anticristo che parla di «vendetta» e di
giustizia naturale (quella in cui il forte schiaccia il debole). Più che parlare come Dio, alla
coscienza degli individui – al loro intimo sentire una propensione verso il “bene” – Attila
parla come Lucifero, si rivolge alla voce dell’incoscienza, è l’Accusatore, l’antagonista per
eccellenza, colui che si diverte ad infierire sul corpo delle vittime. Una lucidissima
violenza pervade le sue parole e il suo coraggio nello scagliarsi contro chi difende degli
interessi, certo, ma anche degli interi popoli ridotti allo stremo, senza cibo o acqua68, è lo
stesso impeto con cui Lucifero punta il dito contro Dio. La legge di Attila è la non-legge,
uno stato in cui chi ha la forza di prendere può prendere ciò che vuole. Appare, anche
nella sua distruzione delle chiese e nell’uccisione dei sacerdoti, come la Negazione
dell’Affermazione, il disconoscimento di tutte le convenzioni e l’uomo ribellatosi alla
stessa natura umana; talmente diverso da essere “alieno” o “Altro” e proprio per questo
temutissimo. Il Flagello di Dio aveva cominciato a credere in se stesso a tal punto da
identificarsi col mostro quale era dipinto dalla Chiesa e da tutti gli altri sovrani. Anche in
questo risiede l’accostamento di Attila con l’Anticristo e i passi della Bibbia che possono
aver assecondato questa sensazione non mancano, visto che Dio spesso e volentieri dà
l’impressione di aver sempre in mente di mandare sulla Terra qualcuno che punisca gli
68
Abbiamo già fatto notare, in precedenza, come un’incursione unna puntasse prima di ogni altra cosa a
distruggere le fonti di approvvigionamento della regione invasa, quindi acqua e cibo.
~ 41 ~
empi. In Isaia si legge:
«Ecco, il giorno del Signore viene, truce nella sua ira e implacabile nella sua collera, per ridurre
la terra in un deserto, per sterminare i peccatori. Allora le stelle del cielo non faranno più
splendere la loro luce, il sole si oscurerà nel suo sorgere e la luna non manderà più il suo
chiarore. Punirò il mondo per la sua malvagità e gli empi per la loro iniquità; farò cessare
l’arroganza dei superbi ed umilierò l’orgoglio dei tiranni. […] Per questo farò sobbalzare i cieli e
la terra sarà mossa dal suo posto per il furore del Signore degli eserciti, nel giorno in cui si
scatenerà la sua collera.»69
Isaia parla della distruzione di Babilonia ma essa non è altro che la città più grande ed
importante del mondo. Essa verrà minacciata dai Medi che:
«[…] non badano all’argento e non hanno cupidigia d’oro. I loro archi abbatteranno i giovani,
non risparmieranno i fanciulli e non avranno compassione dei bambini.»70
La storia di Attila, dopo la breve interruzione causata dalla sconfitta sui Campi
Catalaunici, riprenderà con l’invasione dell’Italia. Milano verrà rasa al suolo e Attila farà
cospargere di sale la sua terra, stessa fine era toccata poco prima ad Aquileia i cui abitanti
furono costretti a fuggire per mare su degli isolotti, fondando così la città di Venezia. Il
Flagello di Dio correrà verso il suo sole, Roma, all’impazzata, lasciando dietro di sé ancora una volta - una scia di morte e devastazione anche peggiore di quella lasciata in
Gallia. Papa Leone I uscirà dalla città per incontrarlo e lì avverrà la tanto consacrata
visione del re degli Unni il quale, a detta dei cronachisti ecclesiastici, vedrà santi ed angeli
attorniare il Papa ed intimargli di fare marcia indietro. La storia del guerriero che aveva
fatto tremare due imperi finirà nel suo palazzo in Pannonia, assassinato da una delle sue
mogli dopo sette brevi ed intensi anni di regno.
69
70
Isaia 13,9-13.
Ibid. 17-18.
~ 42 ~
L'apocalisse
Nell'Apocalisse di Giovanni ci sono dei famosi rimandi ad alcuni cavalieri che
porterebbero la rovina nel mondo. Non è chiaro se costoro siano portatori della fine del
mondo o se l'intera Apocalisse preannunci un cambiamento epocale nella storia
dell'uomo, fatto sta che questi uomini a cavallo simboleggiano un pericolo imminente.
Per "pericolo imminente" intendo una discesa di questi nel mondo tanto lesta e
distruttiva da provocare i più grandi mali che possano attanagliare il genere umano. Nel
corso della storia ci sono state letture di vario tipo di questa parte importante della
Bibbia, ognuna di esse doveva decidere se presentare l'evento come la fine o piuttosto
come l'inizio di qualcosa di nuovo, di diverso. Quando gli Unni furono sotto la guida di
Attila è innegabile che crearono molti più problemi di quanti non ne avessero creati
prima in Europa. La loro presenza nel continente europeo non solo era osteggiata ma
era considerata una piaga dell'umanità. Non obbedendo ad alcuna legge71, come
sembrava che fosse, gli Unni erano fuori della giurisdizione di qualsiasi potenza, non si
piegavano per nessun motivo, non contemplavano la sconfitta e non accettavano la resa.
Questo li rendeva assolutamente incontrollabili sul piano diplomatico e seppure con
l'avvento di Attila questo aspetto si attenuò (poiché il re era accorto alle esigenze di un
popolo che non poteva passare l'intero arco della sua esistenza impegnato in una guerra
71
Questo almeno è quel che appariva ai commentatori greci e latini quando avevano a che fare con gli Unni. In
realtà le leggi presso gli Unni c'erano ma non erano scritte e codificate. Riguardavano con tutta probabilità
la regolazione dei rapporti sociali prima di ogni altra cosa e quindi: matrimonio, gerarchie, diritti di nascita
ecc... Come detto in precedenza un popolo proveniente dall'estremo oriente presentava caratteri che in
Europa difficilmente erano stati già intravisti. Dico difficilmente perché è innegabile che la cultura unna si
sia mescolata con le altre presenti nell'Europa orientale al tempo del loro arrivo, come pure è innegabile
che quasi tutte le popolazioni nomadi provenissero quantomeno dall'Asia centrale e portassero con sè usi e
costumi alieni a tutti gli altri popoli d'Europa.
~ 43 ~
perenne) di certo non cessò di essere uno dei caratteri peculiari degli Unni. In questo
clima di incertezza e preoccupazione prevedere che un cristianesimo convinto che
l'Apocalisse
fosse
vicina
si
lasciasse
ipnotizzare,
spaventare
e
sorprendere
dall'atteggiamento di questo popolo nomade non dovrebbe essere tanto difficile.
L'Apocalisse di Giovanni si prestò quindi ad una interpretazione del tutto inedita che
accrebbe la sensazione di ansia di due imperi e di tutti coloro che credevano in Dio e in
Cristo. Difatti nell'Apocalisse noi leggiamo:
«Poi vidi quando l'Agnello aperse il primo dei sette sigilli72, e udii uno dei quattro esseri viventi
che diceva con voce di tuono: - Vieni e vedi -.
E io vidi, ed ecco un cavallo bianco. E colui che lo cavalcava aveva un arco e gli fu data una
corona, ed egli uscì fuori come vincitore e per vincere.»73
Procediamo con ordine e decomponiamo il testo di Giovanni nelle parti che ci
interessano da vicino, lasciando fuori i primi due versetti e concentrandoci su quello che
vede l'apostolo dopo l'apertura e l'invito a guardare del primo sigillo. Il colore (in questo
caso bianco) del cavallo non ha e non può avere alcun rapporto con gli Unni ma
semplicemente svolge un’azione iconografica e simbolica ma colui che lo cavalca ha in
mano un arco ed abbiamo già visto quanto gli Unni tenessero in gran conto l’arco più
che la spada. Volendo piegare questa parte dell’Apocalisse agli Unni potremmo dire che
l’uomo è certamente il Flagello di Dio che toglie di mezzo suo fratello Bleda e per
questo «egli uscì fuori come vincitore e per vincere», visto che le sue vittorie saranno
ancora molte e di là da venire. All’apertura del secondo sigillo si legge:
72
I sette sigilli secondo Giovanni sono apposti su un libro. Di volta in volta l'apostolo vede aprirsene uno
davanti agli occhi e osserva cosa ne vien fuori.
73
La Sacra Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, La nuova Diodati, Edizione La Buona Novella, p. 320.
~ 44 ~
«[…] uscì un altro cavallo, rosso, e a colui che stava sopra fu dato il potere di togliere la pace
dalla terra e far sì che gli uomini si sgozzassero tra di loro e gli fu consegnata una grande
spada.»74
Questa è una storia interessante: sappiamo già che la venuta degli Unni causò lo
spostamento di intere popolazioni verso terre più fertili o semplicemente non devastate,
dove si potesse vivere in uno stato di discreta tranquillità per quanto concernesse le
aggressioni esterne; proprio per ottenere questo, popoli come i Visigoti, gli Ostrogoti, i
Vandali, i Franchi ed i Sassoni furono costretti a irrompere violentemente e farsi guerra
l’un l’altro per salvare il salvabile e mettere al sicuro la propria gente. La seconda parte
della nostra citazione risulta essere ancora più interessante, si parla infatti di una spada
consegnata ad un cavaliere. Giordano riferisce che ad Attila fu recapitata la spada di
Marte, il dio della guerra, un motivo in più per ritenere che i cronachisti temessero che
l’arrivo di Attila e degli Unni presagisse davvero l’Apocalisse.
L’apertura del terzo sigillo rinvigorisce la teoria:
«E vidi immediatamente apparire un cavallo nero, e colui che vi stava sopra aveva in mano una
bilancia. Sentii come una voce in mezzo ai quattro Viventi che diceva: -Due libbre di frumento
per un denaro, sei libbre d’orzo per un denaro, ma l’olio e il vino non li toccare.»75
Questo cavaliere rappresenta la fame. E non è forse vero che gli Unni causarono la
morte per fame di intere città e dei loro territori limitrofi? Una delle tattiche unne, vi
abbiamo accennato, consisteva proprio nel tagliare i rifornimenti di cibo e d’acqua agli
insediamenti assediati.
Il quarto sigillo è la morte:
74
75
Apocalisse 6,4.
Apocalisse 6,5.
~ 45 ~
«E subito vidi apparire un cavallo verdastro, e colui che vi stava sopra aveva nome Morte e
l’inferno lo seguiva. Fu data loro autorità su un quarto della terra, per uccidere con la spada, con
la fame, con la peste e mediante le fiere della terra.»76
Su quest’ultimo passaggio non occorrerà spendere molte parole. Ci faremo bastare tutto
quel che finora abbiamo raccontato sul modo di fare guerra da parte degli Unni. Come
spesso accade, i morti per fame o malattia rischiano di superare quelli provocati dalle
battaglie.
Le calamità naturali dovettero apparire come diretta conseguenza dell’arrivo degli Unni
in Europa; i cristiani credettero davvero di leggere negli eventi del V secolo l’arrivo
dell’Apocalisse. Si legge infatti in essa, poco più avanti, riguardo al sesto sigillo:
«E vidi: quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, venne un gran terremoto. Il sole diventò nero
come un sacco di crine e tutta quanta la luna diventò come sangue; le stelle del cielo caddero
sulla terra come un fico lascia cadere i suoi frutti acerbi quando è scosso da vento impetuoso.»77
Le catastrofi naturali non furono certo una peculiarità del solo V secolo, eppure ci sono
da sottolineare alcune corrispondenze suggestive78 (e che in vistò proprio di questa loro
“suggestività” potrebbero aver dato da pensare agli uomini dotti di quel tempo) che
potrebbero aver contribuito a creare il “mito” di cui gli Unni si sono serviti per
impaurire il resto del mondo. Del terremoto avvenuto nel 342 d.C. nella regione di
Bisanzio abbiamo già detto, rimangono il sole oscurato (presumibilmente una eclissi) e la
caduta delle stelle dal cielo. Ebbene bisogna partire subito col dire che la data di nascita
76
Apocalisse 6,8.
Apocalisse 6, 12-13.
78
Non è una novità o una scoperta eclatante che gli antichi d’ogni popolo usassero guardare le stelle. Gli stessi
Unni avevano un concetto di religione molto vago ascrivibile al concetto (tutto cinese) del destino come
espressione del volere del Cielo (tian: 天). I Romani, e i dotti di Chiesa più degli altri, usavano osservare il
cielo con molta attenzione per scorgervi non tanto il “volere” del Signora quanto almeno una sua
manifestazione o “segno”.
~ 46 ~
77
di Attila ci è, purtroppo, sconosciuta e che conosciamo per certo solo le date di inizio e
fine (che corrisponde alla morte dello stesso) del suo regno. Presumibilmente, se - come
abbiamo visto - Attila era solito gettarsi in battaglia di persona, possiamo dedurre che
non fosse troppo anziano (visto anche che l’età media non era altissima a quel tempo)
perciò potrebbe essere morto intorno a quella che noi oggi definiamo mezza età, nel 453
d.C. e quindi Attila potrebbe essere nato fra il 400 e il 418 d.C.
Proprio nel 418 d.C. (ma queste sono solo “suggestioni” come detto in precedenza)
avvenne in Europa, secondo i calcoli astronomici, una eclissi totale di sole e Orosio
racconta che nel V secolo caddero in Italia diversi meteoriti (le “stelle” dell’Apocalisse)
sull’Italia il cui segno è ancora visibile oggi nel Cratere del Sirente (in Abruzzo).
Potrebbero questi fenomeni, uniti alla fame, alla peste e alla morte per spada, essere stati
interpretati come segni premonitori dell’imminente fine? Non lo sapremo mai. Ciò che ci
rimane, effettivamente, è la nebbia del Mito che copre la Storia. Potremmo scorgere delle
ombre in lontananza (come speriamo d’aver fatto) ma da qui a dire che esse
rappresentino uomini, animali o oggetti ce ne passerebbe. E allora camminiamo,
inoltriamoci nella nebbia, perdiamoci se vogliamo, e che ognuno, scorgendo quelle
sagome, si abbandoni anche solo per un attimo all’onirica voce di tempi e individui che
furono, per poi riprendersi, riderci su e camminare indietro. Col dubbio.
~ 47 ~
Mappe
1.
L'Europa all'arrivo degli Unni lungo le frontiere orientali.
~ 48 ~
2.
L'Europa al tempo di Attila.
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Gli Unni e l`Apocalisse.