Università Politecnica delle Marche Università degli Studi di Siena In collaborazione con Accademia dei Cognitivi della Marca, Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva XV CONVEGNO DI PSICOPATOLOGIA E PSICOTERAPIA POST-RAZIONALISTA “Continuità, Cambiamento, Coerenza Sistemica e Complessità” Siena, Venerdì 23 Maggio 2014 . Atti del convegno a cura di Mario Antonio Reda e Luca Canestri 1 XV CONVEGNO DI PSICOPATOLOGIA E PSICOTERAPIA POST-RAZIONALISTA “CONTINUITÀ, CAMBIAMENTO, COERENZA SISTEMICA E COMPLESSITÀ” Siena, Venerdì 23 Maggio 2014, Aula Magna Scuola Superiore Santa Chiara PROGRAMMA I Sessione, Chairman: Rita Ardito Bernardo Nardi, Specificità adattiva e complessità nelle O.S.P. inward e outward Franco Orsucci, La psicoterapia come complesso sistema dinamico: dalla clinica al metamodello Mind Force. Mario A. Reda, Psicoterapia e sistemi complessi Giorgio Rezzonico, Anche oggi è una bella giornata …. nel senso che domani è brutto II Sessione, Chairman: Fabio Veglia, Paola Gaetano, Personalità e Identità: la struttura preriflessiva dell'esperienza nelle organizzazioni di significato personale, la comprensione e l'azione. Paolo Maselli, L'esplorazione dell'esperienza al di là della moviola Silvio Lenzi, Adir Samolsky Costruzione e cambiamento nelle narrative di malattia oncologica secondo un'ottica post-razionalista Maria Grazia Strepparava, Complessità e counselling centrato sulle emozioni III Sessione, Chairman: Luca Canestri, Salvatore Blanco, parabola del cieco post-razionalista 2: dal determinismo alla dottrina dello spazio autonomico Adele de Pascale, Oscillazione e autoregolazione: dalla biologia al significato Monica de Marchis, Tutto il pensabile è possibile? Continuità e cambiamento nella costruzione identitaria degli adolescenti nell’epoca della Webcrazia Toni Fenelli, Cecilia Volpi, L'elogio della discontinuità: la terapia diacronica IV Sessione, Chairman: Paola Cimbolli, Daniela Demontis, Organizzazione distaccata (depressiva): trama narrativa, reciprocità e generatività nei processi di cambiamento. Gherardo Mannino, Psicopatologia e psicoterapia del DOC: tra continuità e cambiamento Gianni Cutolo, Continuità, complessità, cambiamento e coerenza sistemica nella psicosi: la lezione di Vittorio Guidano Maurizio Dodet, Sentimento di sè e reciprocità emotiva nel rapporto sentimentale: il paradosso del maltrattamento V Sessione, Chairman: Maria Malucelli Angelo Picardi, La stabilità nel tempo delle organizzazioni di significato personale Juan Balbi, Il Senso Affettivo Personale nell’esperienza di continuità identitaria. Furio Lambruschi, Linda Battilani, La funzione del lutto nel mantenimento della coerenza sistemica del Sè Liria Grimaldi di Terresena, Incremento della consapevolezza narrativa e cambiamento 2 CONTRIBUTI AL VOLUME DEGLI ATTI Bernardo Nardi, Specificità adattiva e complessità nelle O.S.P. inward e outward.......................................................................................................... Pag 4 Franco Orsucci, La psicoterapia come complesso sistema dinamico: dalla clinica al meta-modello Mind Force................................................................... Pag 10 Mario A. Reda, Psicoterapia e sistemi complessi................................................... Pag 19 Gianni Cutolo, Continuità, complessità, cambiamento e coerenza sistemica nella psicosi: la lezione di Vittorio Guidano............................................................... Pag 23 Monica de Marchis, Tutto il pensabile è possibile? Continuità e cambiamento nella costruzione identitaria degli adolescenti nell’epoca della Webcrazia ..... Pag 34 Paola Gaetano, Personalità e Identità: la struttura preriflessiva dell'esperienza nelle organizzazioni di significato personale, la comprensione e l'azione......... Pag 42 Liria Grimaldi di Terresena, Incremento della consapevolezza narrativa e cambiamento....................................................................................................... Pag 50 Furio Lambruschi, Linda Battilani, La funzione del lutto nel mantenimento della coerenza sistemica del Sé........................................................................... Pag 55 Gherardo Mannino, Psicopatologia e psicoterapia del DOC: tra continuità e cambiamento....................................................................................................... Pag 74 Paolo Maselli, L'esplorazione dell'esperienza al di là della moviola...................... Pag 83 Angelo Picardi, La stabilità nel tempo delle organizzazioni di significato personale.............................................................................................................. Pag 92 Juan Balbi, Il Senso Affettivo Personale nell’esperienza di continuità identitaria. Pag 98 Silvio Lenzi, Adir Samolsky-Dekel, Silvia Varani, Daila Capilupi, Costruzione e cambiamento nelle narrative di malattia oncologica secondo un'ottica postrazionalista.......................................................................................................... Pag 101 Salvatore Blanco, Parabola del cieco post-razionalista 2: dal determinismo alla dottrina dello spazio autonomico........................................................................ Pag 112 Luca Canestri, psicoterapia e complessità: alcune considerazioni in ottica postrazionalista.......................................................................................................... Pag 131 3 SPECIFICITÀ ADATTIVA E COMPLESSITÀ NELLE ORGANIZZAZIONI DI SIGNIFICATO PERSONALE INWARD E OUTWARD Bernardo Nardi Università Politecnica delle Marche, Direttore della Clinica di Psichiatria di Ancona. Presidente dell’Accademia dei Cognitivi della Marca. Nella Sierra de Atapuerca nella Spagna Settentrionale, pochi chilometri a est di Burgos, nel sito conosciuto come Sima de los Huesos (cavità delle Ossa) è stato trovato uno dei maggiori giacimenti umani della preistoria, databile a partire da 500-300 mila anni fa. Qui più di trenta cadaveri furono depositati con un rito funerario che testimonia una organizzazione sociale complessa dotata di una ritualità condivisa, un rispetto per l’individuo anche oltre la sua vita e un’idea di trascendenza. Il cervello umano, dunque, fin dai suoi albori è stato in grado di esprimere una coscienza di sé autoriflessiva, rivoluzionando in modo attivo l’adattamento: accanto ai comportamenti legati ai cosiddetti sistemi motivazionali che consentono la sopravvivenza (come la ricerca di cibo, la difesa del territorio, la riproduzione e l’accudimento della prole), vivere è divenuto anche ricerca di senso. Inoltre la psiche dei sapiens ha espresso la capacità non solo di fronteggiare stress generici che possono mettere in pericolo la sopravvivenza fisica, ma anche altri tipi di stress situazionali, che sono connessi con il successo e la soddisfazione individuale, quindi con la modalità rispetto alla quale viene verificata la costruzione del sé, dapprima a livello tacito e quindi a livello esplicito. Partendo dalle risorse costituzionali e attraverso il confronto con le figure adulte significative, le rappresentazioni soggettive di base iniziano infatti a produrre e a selezionare i registri affettivi, rinforzandoli o smorzandoli attraverso l’elaborazione cognitiva, fino a far emergere un significato personale unico e continuativo nel tempo. La psiche umana appare quindi come un sistema complesso in grado di organizzare l’esperienza in un repertorio specifico di competenze affettive e cognitive, tali da costruire una altrettanto specifica organizzazione di significato personale (OSP), attraverso la quale ogni soggetto acquista coscienza di sé e si riconosce in modo univoco e unitario, nonostante i cambiamenti cui va incontro nel corso della sua vita (Guidano, 1987, 1991). Ciò avviene attraverso la definizione di attivazioni emozionali – dapprima legate a situazioni motivazionali di base che si ripetono (“scene nucleari” o “scene prototipiche”; Tomkins, 1978; Abelson, 1981) per poi dar luogo ad un flusso continuo di coscienza – formando l’ordito di fondo per il significato personale. Come ha evidenziato Guidano (1987, 1991), da tali scene si sviluppa la rappresentazione di sé rispetto al mondo (come appartenenza ad esso/demarcazione da esso), in forma iconica e scenografica ricca di coloriti soggettivi scarsamente consapevoli (conoscenza tacita) e in forma narrativa e riflessiva meta-cognitiva (conoscenza esplicita). Attraverso l’attaccamento, l’interazione con l’ambiente significativo delinea gli itinerari di sviluppo, selezionando specifici repertori di attivazione emozionale (di base e secondari) dai quali emergono gradualmente altrettanto specifiche organizzazioni del senso di sé su cui si basa la costruzione dell’identità. Nei suoi ultimi contributi esplicativi al modello post-razionalista delle organizzazioni di significato personale (1999, 2010), Guidano ha osservato che il riconoscimento di sé può 4 essere operato dall’interno, decodificando la variabilità esterna sulla base della costanza dei pattern interni (modalità inward) oppure dall’esterno, adeguando la costanza dei pattern interni sulla base della variabilità esterna (modalità outward). Come ho avuto modo di segnalare (Nardi, 2007, 2013), partendo dalla reattività perinatale geneticamente determinata, modulata gradualmente dagli apprendimenti (specie quelli carichi di coloriti emozionali legati alle interazioni con l’ambiente significativo), il bambino inizia a percepire come prevedibili o meno i comportamenti accudenti. Questi gli appaiono tanto più prevedibili, quanto più attivano le stesse emozioni di base rispetto a situazioni fisiche di sicurezza o pericolo, nonché quanto più gli interventi accudenti appaiono correlati ai bisogni interni del bambino (itinerari di sviluppo inward). Viceversa, i comportamenti accudenti appaiono tanto meno prevedibili quanto più richiedono attenzione alle richieste ambientali, comportando una decodifica semantica su ciò che si deve o non si deve fare, su come rispondere alle aspettative, alle richieste, alle sollecitazioni e alle prescrizioni esterne, regolando di conseguenza pensieri, comportamenti e attivazioni interne (itinerari di sviluppo outward). Omeostasi sistemica delle osp inward Nelle organizzazioni inward, la riuscita personale, nel continuo tra senso positivo o negativo di sé, è guidata dalle attivazioni interne e dalle emozioni primarie rispetto a due fondamentali categorie di stress da imparare a controllare e gestire per avere un senso di realizzazione personale: quelle di pericolo e di solitudine. In un ambiente in cui i riferimenti affidabili appaiono vicini e fruibili (forme di attaccamento “disponibile”) si sviluppa la capacità di individuare sia i pericoli che minacciano il controllo della propria vita sia i riferimenti protettivi sperimentati come affidabili sulla base delle tonalità affettive e degli strumenti operativi forniti al soggetto per consentirne la gestione (abilità adattive delle organizzazioni inward controllanti). Sul versante opposto, in un ambiente in cui i riferimenti appaiono distanti e poco fruibili (forme di attaccamento “poco disponibile”) lo stress che occorre gestire per realizzarsi è quello della solitudine, sviluppando competenze di autodeterminazione e di responsabilizzazione precoce, che promuovono l’autonomia personale e, grazie ad essa, la possibilità di costruire legami con gli altri (abilità adattive delle organizzazioni inward distaccate). Di conseguenza, negli itinerari inward la lettura dei segnali interni si autonomizza precocemente, centrandosi sulla gestione del proprio benessere o malessere per regolare i rapporti con l’ambiente esterno, con l’attitudine a regolare la messa a fuoco tacita sulla gestione di situazioni di pericolo o di solitudine. Vengono pertanto sviluppate specifiche competenze adattive per gestire tali situazioni, regolando la reciprocità fisica in termini di avvicinamento o allontanamento rispetto alle figure ed ai contesti significativi, nel modo più congruo a rispondere alle attivazioni interne. L’equilibrio viene ricavato da quanto vengono spenti i segnali di allarme interno, ripristinando un senso tacito di benessere e di tranquillità. Ciò avviene sia quando l’ambiente appare molto disponibile e prodigo di segnali accudenti protettivi (“on-line”), come avviene nelle OSP inward controllanti, sia quando appare meno disponibile a fornire accudimento attimo dopo attimo (“off-line”) e spinge prevalentemente verso l’autonomia, come avviene nelle OSP inward distaccate. Pertanto, negli itinerari inward (nei quali prevale la messa a fuoco dall’interno di una situazione, un contesto o una relazione, con registro emozionale centrato sulle emozioni di base) la competenza di rispondere a stress fisici legati alla pericolosità situazionale o alla solitudine produce una competenza personale ad utilizzare primariamente le attivazioni 5 interne ed i segnali somatici per regolare la relazione con l’ambiente, cercando di mantenere una coscienza tacita di sé stabile. La lettura delle proprie risorse disponibili nel fronteggiare la situazione diviene la base tacita per regolare i propri comportamenti e le relazioni con gli altri. Omeostasi sistemica delle osp outward Nelle organizzazioni outward, la riuscita personale, nel continuo tra senso positivo o negativo di sé, è guidata dalla capacità di modulare le attivazioni interne (caratterizzate soprattutto dalle emozioni secondarie autovalutative) sulla base dei segnali esterni che individuano due fondamentali categorie di stress da controllare e gestire per avere un buon adattamento: quelle di giudizio e di dovere (rispetto a ciò che appare giusto fare). In un ambiente in cui i riferimenti affidabili appaiono vicini e fruibili (forme di attaccamento “disponibile”), vengono individuati i giudizi e i risultati che vanno affrontati per la riuscita della propria vita, facendo riferimento alle figure esterne significative, che forniscono al soggetto tonalità affettive e strumenti operativi (abilità adattive delle organizzazioni outward contestualizzate). Sul versante opposto, in un ambiente in cui i riferimenti appaiono distanti e poco fruibili (forme di attaccamento “poco disponibile”) lo stress che si apprende a gestire per realizzarsi è quello di rispondere al dovere di fare ciò che è giusto, imparando ad individuare una sorta di via maestra, che consenta di superare i limiti e gli aspetti contraddittori della vita (abilità adattive delle organizzazioni outward normative). Pertanto, negli itinerari outward si sviluppa precocemente un registro di decodifica semantica delle richieste esterne, con conseguente messa a fuoco tacita sul contesto ambientale, sulla spinta motivazionale degli atteggiamenti accudenti che all’inizio appaiono imprevedibili e indecifrabili ma che, gradualmente, alla luce delle situazioni, delle aspettative e delle regole esterne, iniziano ad apparire comprensibili e, almeno potenzialmente, gestibili. Ciò avviene sia nel caso di giudizi situazionali contingenti che danno il parametro di ciò che ci si aspetta nel qui ed ora, sia nel caso di regole e valori di fondo cui ci si deve attenere a prescindere dal variare delle contingenze occasionali. In tutti questi casi emergono competenze altamente specifiche di tipo prevalentemente semantico, sia quando si cresce in un ambiente accudente “disponibile” (quindi ricco di reciprocità e scambi comunicativi “on-line”, come avviene per le OSP outward contestualizzate), sia quando si cresce in un ambiente “poco disponibile” (quindi con una reciprocità parca e trattenuta, come avviene per le OSP normative), che propone una responsabilizzazione e una maturazione attenta al rispetto dei valori e delle regole identificate come importanti, fissando compiti comportamentali “off-line” e sorvegliando che il bambino si adegui senza intervenire volta per volta. Pertanto, negli itinerari outward (nei quali prevale la messa a fuoco dall’esterno di una situazione, un contesto o una relazione, con registro affettivo centrato sulle emozioni secondarie autovalutative) la competenza di rispondere a stress semantici legati a giudizi situazionali o alla sollecitazione nel rispettare doveri e impegni giusti fa maturare le competenze personali regolando l’omeostasi interna sulla base dei segnali ricavati dall’esterno. La lettura delle proprie capacità di risposta ai compiti richiesti dall’ambiente diviene la base tacita per regolare le mete conseguibili e le relazioni significative. Contributi sperimentali Come si è detto, la possibilità di maturare sviluppando specifiche modalità di organizzare le attivazioni emotive e gli schemi cognitivi ad esse correlati sono il principale strumento che ha consentito ai sapiens di restare l’unica specie di homo del pianeta, dando luogo a fenomeni 6 culturali diversificati e complessi, basati su sistemi altrettanto organizzati e complessi di interazioni sociali. Se già nei primati si può osservare come uno sviluppo individuale e sociale equilibrato richiede un accudimento con esposizione a livelli di stress gestibili con gli strumenti che gradualmente il cucciolo matura (Parker et al., 2004; Davidson e Mc Ewen, 2012), nei sapiens sono emersi itinerari di sviluppo altamente specializzati a livello tacito, con stabilizzazioni di quella specifica organizzazione di significato personale che meglio consente di adattarsi nell’ambiente in cui si cresce (Nardi, 2007). Ciò avviene mettendo a fuoco a livello tacito specifiche categorie di stress e rispondendo ad esse con modalità ideo-affettive e comportamentali altrettanto specifiche, tali da consentire la maturazione di un senso unitario e coerente di sé nonostante i cambiamenti cui si va incontro nel corso della vita. Una organizzazione di significato personale è generata quindi dalla ricerca adattiva di una decodifica dell’esperienza dotata di senso ed emerge dalla capacità encefalica dei sapiens di emettere risposte specifiche a stress situazionali (di pericolo nelle OSP inward controllanti, di solitudine nelle OSP inward distaccate, di giudizio nelle OSP outward contestualizzate, di dovere nelle OSP outward normative) le quali, nel corso dello sviluppo, diventano competenze affettive e cognitive specializzate attraverso le quali ci si riconosce a livello tacito (Nardi, 2013). Una riprova delle specifiche attitudini adattive di fronteggiare gli stress fornite dalla capacità della psiche umana di dar luogo ad organizzazioni del significato personale è stata fornita da alcuni recenti contributi sperimentali del nostro gruppo. Mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) abbiamo potuto osservare una diversa elaborazione degli stimoli emozionali alla presentazione di volti esprimenti una emozione di base come la rabbia, con maggiore attivazione limbica (soprattutto dell’amigdala destra) negli inward, mentre negli outward l’attivazione limbica risulta meno intensa e sono coinvolte altre aree cerebrali, specie quelle corticali. In particolare, abbiamo indagato le attivazioni dell’amigdala e di altre strutture del SNC prodotte in 10 volontari sani da stimoli emozionali esterni standardizzati, sia quando il soggetto percepisce espressioni emotive relative a un volto estraneo (terza persona), sia relative al proprio volto (prima persona). I risultati ottenuti sono stati confrontati con le modalità di messa a fuoco inward o outward, riconducibili al funzionamento di base della personalità individuale. Tali modalità sono state accertate mediante MMPI2, QSP e MQOP associati ad una valutazione clinica condotta da uno psicoterapeuta esperto. I risultati indicano che un volto estraneo produce attivazioni maggiori rispetto al proprio (“effetto sorpresa”), che la rabbia attiva maggiormente l’amigdala destra, mentre la gioia attiva entrambe le amigdale o quella di sinistra. Gli outward, rispetto agli inward, rispondono alla rabbia in maniera meno intensa e univoca, attivano più aree corticali, possono non rispondere alle proprie emozioni e hanno un maggiore coinvolgimento dell'emisfero verbale nella gioia (Nardi et al., 2008). Inoltre, dallo studio dei polimorfismi del trasportatore della serotonina è emersa una associazione significativa tra il possesso dell’allele S (in particolare se considerato dominante) negli outward, che anche sotto il profilo genetico possono risultare quindi più sensibili degli inward agli stress di natura psico-sociale, con maggiore “susceptibility” al mutare delle richieste e delle condizioni relazionali in cui il soggetto si trova a vivere. Ciò è confermato anche dalla maggior risposta allo stress psico-sociale del cortisolo che si osserva nei profili outward rispetto a quelli inward. Nello specifico, partendo dal fatto che numerose evidenze sperimentali attribuiscono un ruolo del genotipo che codifica il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) nel mediare la sensibilità individuale agli stimoli ambientali, abbiamo studiato l’influenza dei suoi 7 polimorfismi nello sviluppo delle OSP inward e outward. Indagando le OSP e i polimorfismi 5-HTTLPR in 124 soggetti sani inward (n=52) e outward (n=72), l’identificazione del genotipo 5-HTTLPR è stata ottenuta mediante estrazione del DNA da un tampone orale con estrattore Maxwell 16 e DNA IQ Reference Sample Kit, amplificazione con PCR, studio del polimorfismo mediante elettroforesi capillare e attribuzione dell’allele corto (Short allele, S) o lungo (Long allele, L) del polimorfismo 5-HTTLPR con software Gene Mapper IDv3.2.1. Un confronto caso-controllo della frequenza dell’allele S ha mostrato significative differenze fra inward e outward (p=0.036, 2 test; p=0.026, exact test). Le frequenze del genotipo non sono risultate differenti in modo significativo, anche se i valori sono stati di poco superiori a p≤0.05 (p = 0.056, 2 test; p=0.059, exact test). Viceversa, l’analisi dei genotipi 5-HTTLPR in accordo con il modello di ereditarietà recessiva ha mostrato che il genotipo S/S aumenta la probabilità di sviluppare una OSP outward (p=0.0178, 2 test; p=0.0143, exact test; OR=3.43, CI (95%) = 1.188-9.925). Un’analisi di regressione logistica ha confermato l’associazione tra allele corto e il genotipo S/S con le OSP outward anche se si considerano sesso ed età. Infine, nessuna differenza è rimasta significativa dopo correzione per test multipli, anche se usando il modello recessivo erano vicini alla significatività. In sintesi, abbiamo osservato che l’allele S è più rappresentato nelle OSP outward sia in omozigosi sia in eterozigosi (p<0.05) e che sia l’allele S sia il genotipo SS correlano significativamente con lo sviluppo di una OSP outward e non con una inward. Pertanto, l’allele S e il genotipo SS predispongono a modificare le risposte del sistema serotoninergico rendendole più sensibili ai segnali ambientali. Il complesso dei dati ottenuti suggerisce, accanto alle note influenze ambientali legate all’attaccamento, anche la presenza di una base genetica delle differenze interindividuali nello sviluppo delle OSP (Nardi et al., 2013). Infine, studiando la risposta endocrina allo stress (somministrando il TSST in T0, TA, T1, T2 e T3 e verificando i corrispondenti livelli di cortisolo), abbiamo osservato che soggetti con OSP outward rispondono in maniera significativamente superiore allo stress psico-sociale rispetto agli inward (soprattutto in T1 e T2), in accordo quindi con l’esperienza clinica. Analogo risultato si ottiene confrontando i genotipi: i soggetti con allele S, sia in omozigosi che in eterozigosi, rispondono allo stress psico-sociale indotto dal test TSST con livelli di cortisolo più elevati in T1,T2 e T3 (Nardi, 2014). Ovviamente, questi studi sono tuttora pionieristici e richiedono ulteriori conferme, ma documentano comunque che nel cervello umano potenzialità genetiche altamente “plastiche” possono dialogare tutta la vita con l’influenza dell’ambiente (“epigenetica”) percepita ed appresa, in modo che l’individuo è in grado di costruire e mantenere il significato personale che fornisce il miglior adattamento possibile al senso di unicità personale e di continuità storica attraverso cui si riconosce. In definitiva, le organizzazioni di significato personale si confermano come la massima espressione della complessità del sistema nervoso dei sapiens sotto il profilo psichico. Ciascuna organizzazione fornisce specifiche risorse adattive sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale. Mettere a fuoco tali risorse negli scompensi clinici consente quindi interventi mirati a migliorare il funzionamento individuale e non ad agire solo sul piano sintomatico del controllo dei sintomi. Proprio per quanto si è detto e come ho cercato di fare in questo percorso di ricerca clinica e sperimentale, appare importante considerare le organizzazioni non come potenzialmente patologiche ma come la più complessa modalità di organizzazione psichica del cervello umano. È pertanto utile abbandonare i vecchi termini “psicopatologici” con cui esse sono ancora chiamate, in modo da evitare equivoci sia nei confronti del mondo esterno (colleghi e soggetti seguiti in psicoterapia), sia anche interni nel nostro modo di considerare le 8 organizzazioni. Esse vanno viste come una risorsa e non come un problema, specie negli scompensi clinici, quando è essenziale far leva sulle potenzialità fisiologiche latenti del soggetto. Bibliografia Abelson R.P.: Psychological status of the script concept. American Psychology, 36, 715-729, 1981. Davidson R.J., Mc Ewen B.S.: Social influences on neuroplasticity: stress and interventions to promote well-being. Nature Neuroscience, 15 (5), 2012. Guidano V.F.: Complexity of the Self. Guilford, New York, 1987. [Ed. It.: La Complessità del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1988]. Guidano V.F.: The Self in Progress. Guilford, New York, 1991. [Ed. It.: Il Sé nel suo Divenire. Bollati Boringhieri, Torino, 1991]. Guidano V.F.: Training in Psicoterapia Cognitiva Post-Razionalista, Roma, 1999. Guidano V.F.: Le Dimensioni del Sé. Una Lezione sugli Sviluppi del Modello PostRazionalista a cura di Gherardo Mannino. Alpes, Roma, 2010. Nardi B.: CostruirSi. Sviluppo e Adattamento del Sé nella Normalità e nella Patologia. Franco Angeli, Milano, 2007. Nardi B.: La Coscienza di Sé. Origine del Significato personale. Franco Angeli, Milano, 2013. Nardi B.: Adaptive specificity of the self and complexity of the inward and outward Personal Meaning Organizations (PMO). In: Orsucci F. (Ed.), Psychotherapy in the Complexity Era, London (in press). Nardi B., Capecci I., Fabri M., Polonara G., Salvolini U., Bellantuono C., Moltedo A.: Estudio mediante imagen funcional de resonancia magnética (fMRI) de las activaciones emotivas correlacionadas a la presentación de rostros extraños o del propio rostro en sujetos con personalidad inward y outward. Revista Chilena de Neuropsiquiatría , 46(3), 168-181, 2008. Nardi B., Marini A., Turchi C., Arimatea E., Tagliabracci A., Bellantuono C.: Role of 5HTTLPR polymorphism in the development of the inward/outward personality organization: a genetic association study. Plos One, 8 (12), e82192 1-8, 2013. Parker K.J., Buckmaster C.L., Schatzberg A.F., Lyons D.M.: Prospective investigation of stress inoculation in young monkeys. Archives of General Psychiatry, 61, 933-941, 2004. Tomkins S.S.: Script theory: differential magnification of affects, in: Howe H.E., Page M.M. (Eds.), Nebranska Symposium on Motivation. University of Nebranska Press, Lincols, 1978. 9 PSICOTERAPIA, COMPLESSO SISTEMA DINAMICO. Franco F. Orsucci University College London, [email protected] Institute for Complexity Studies, Roma We will not stop to explore And the end of all our exploring Will be to arrive where we started and Know the place for the first time. T.S. Eliot 1. La fondazione delle riflessioni cliniche, metodologiche e di teoria della tecnica che vorrei condividere qui, nasce da una apparente contraddizione. Da un lato siamo di fronte ad una frammentazione nel campo delle tecniche psicoterapeutiche e della loro offerta. Il campo delle psicoterapie si è frammentato in una moltitudine di scuole diverse e di orientamenti diversi anche all’interno delle scuole più tradizionali. Assistiamo alla offerta di terapie super-specifiche per sintomi e disturbi definiti, talvolta anche con manuali ad hoc che ne determinano le procedure e la durata. Spesso le differenze fra varie scuole, orientamenti e procedure non sono facili da definire per i pazienti e finanche per i clinici stessi. Ad esempio, quali sono le differenze fra Dialectical Behavioural Therapy – DBT (Linehan, 2003; Robins, Ivanoff, Linehan, & others, 2001), Mentalization-Based Treatment – MBT (Bateman & Fonagy, 2006) e Mindfulness Based Cognitive Therapy – MBCT (Coelho, Canter, & Ernst, 2013; Segal, Williams, & Teasdale, 2012)? Certamente i professionisti saranno in grado di individuare sfumature che le differenziano ma, dal punto di vista del paziente le sfumature si dissolvono e quel che resta…sono i “fattori comuni”. Una discussione sui fattori comuni è in corso ormai da molti anni, trenta o forse più dato che la prima definizione formale del tema/problema risale a Saul Rosenzweig (1936) e alla sua corrispondenza con Freud. Gli ultimi decenni hanno visto un accumulo di evidenza su fattori comuni di tecnica, teoria ed efficacia fra le più diverse psicoterapie (Duncan, Miller, Wampold, & Hubble, 2010). Questo, ovviamente, presupponendo che la psicoterapia abbia una valenza anche clinica, integrante un accesso alla conoscenza di se’ e del proprio Umwelt. 2. Si tratta di considerare la frammentazione ed i fattori comuni come vere sfide contemporanee per lo sviluppo scientifico e tecnico delle psicoterapie, verso lo sviluppo di modelli che contengano in forma armonica la ricchezza e la complessità del campo. Si tratta di portare a compimento una forma di rivoluzione scientifica simile a quella che Sir Francis Bacon preconizzava (1878). Quando il suo Novum Organon è apparso nel 1620 come parte di un programma di indagine scientifica intitolato “Il grande rinnovamento dell’apprendimento”, Francis Bacon era al culmine della sua carriera e il suo lavoro ambizioso è stato innovativo nel dare forma a quella che, già inaugurata da Galilei e poi sviluppata da Leibnitz a Newton, diventerà la Rivoluzione Scientifica. Ci piace ricordare che Bacon distingueva una Pars Destruens come necessario preliminare della Pars Construens. In questa parte decostruttiva egli indentificava: “quattro classi di idoli che assediano le menti degli uomini: Idoli della Tribù; Idoli della Caverna; Idoli del Mercato; Idoli del Teatro.” Ovviamente, questi Idoli devono essere disvelati, determinati, ed i loro culti terminati, nel corso di una evoluzione verso livelli superiori di conoscenza scientifica delle pratiche terapeutiche. Una euristica decostruzione creativa può 10 certamente beneficiare anche delle riflessioni epistemologiche di Francis Bacon sugli Idoli che impediscono di progredire verso una reale conoscenza del nostro campo. 3. Una Pars Construens nel campo delle pratiche terapeutiche, conoscitive e di sollievo (Foucault, 1976) può trovare una sua fondazione metodologica nelle Scienze della Complessità che hanno già stabilito solidi punti di riferimento nel campo a partire dagli anni ’50 (Bateson, 2000). Ne troviamo intuizioni precorritrici in Freud (Freud, Masson, & Fliess, 1985), Jung (Jung & Pauli, 1955), Lewin (2014), Rogers (1995). Successivamente Prigogine (Nicolis & Prigogine, 1977), Maturana (2002), Varela (Varela, Thompson, & Rosch, 1991) e Von Foerster (2013) hanno accompagnato la evoluzione delle menti più lungimiranti nei diversi orientamenti della talking cure. La linea di sviluppo della Scienza della Complessità è strettamente non-lineare e nondeterminista. Essa si basa sul riconoscimento che i sistemi complessi possono essere indirizzati solo parzialmente dato che hanno molti gradi di libertà e sono attivi della loro stessa autorganizzazione. Una delle loro proprietà principali è la sensibilità alle condizioni iniziali, il cosiddetto effetto farfalla, che fa sì che anche una piccola variazione possa produrre esponenziali cambiamenti a distanza. La complessità si situa in un’area di transizione fra ordine e disordine, fra cicli Markoviani e pura casualità, rumore bianco. Sembra a volte casuale ma ha degli elementi di ciclicità e singolarità al tempo stesso. Essa si situa sull’orlo del caos, in uno stato di self organised criticality, - SOC (Bak, 1996) che è lo stato di ordine generativo ottimale per i sistemi viventi (Nicolis & Prigogine, 1977). Figura 1 sistemi complessi 4. In alcuni approcci di talking cure, quando la manualizzazione con il relativo marketing dominano, quando la costruzione del paziente ideale precede l’ascolto del soggetto reale, il determinismo e la semplificazione prendono il controllo. Allora una forma, forse più raffinata e 11 costosa (da diversi punti di vista) di psico-educazione si presenta sotto mentite spoglie. In questi casi si creano situazioni, molto più frequenti di quanto non si creda, in cui è il cliente apprende una nuova identità della talking cure. Essa diventa una nuova forma di vita in se’, con pratiche di routine, della tribù e dei tabù, in parte simili a pratiche religiose. Le società dei terapeuti stessi, in questi casi, assumono la forma organizzativa di società di culto, in cui la citazione della scrittura precede la scoperta personale e scientifica che libera nuove forme di vita autorganizzata. La figura che segue presenta in forma allegorica un albero della conoscenza dove i gradi di libertà ed autorganizzazione del pensiero vanno da un minimo di educazione/osservanza ad un massimo di creatività/autorganizzazione. Figura 2, albero della conoscenza Un recente articolo sulla evidenza di efficacia in contesti differenti si chiedeva se il Dodo (mitico uccello estinto in Madagascar e personaggio di Alice in Wonderland) ha le ali. Questo in riferimento all’ Effetto Dodo proposto da Rosenzweig (1936) che, sulla base del famoso episodio della corsa in Alice nel Paese delle Meraviglie (Carroll, 1895) in cui tutti arrivano primi ed il Dodo proclama: “tutti hanno vinto e tutti devono avere un premio”. Questo si riferisce ai diversi studi di efficacia che riconoscono che psicoterapie e counselling diversi possono avere risultati comparabili. Di qui la ipotesi che la loro efficacia non dipenda tanto da tecnica e setting differenti ma da altri fattori, cosiddetti comuni, o condivisi: alleanza terapeutica, complementarietà con il terapeuta, ambiente protetto, rispecchiamento ed empatia (Duncan et al., 2010). Dalla figura che segue si può anche derivare un altro fondamentale elemento di questa valutazione della efficacia psicoterapeutica: nel cambiamento innescato la psicoterapia (sommando tutti questi fattori) conta solo per il 13%. Tutto il resto del potenziale generatore di cambiamento sta nel cliente stesso, nella sua capacità di rigenerarsi, di ritrovare risorse interne e di contesto. Tutto ciò suona come una critica ai modelli lineari e deterministi di approccio alla psicoterapia. Se poi si considera invece quel 13% da un punto di vista non determinista, sulla base delle proprietà non-lineari della sensitività alle condizioni iniziali (Butterfly Effect) si può 12 invece capire come tale percentuale possa invece essere potenzialmente decisiva, se usata con conoscenza. Come notava un classico della tecnica psicoanalitica anche la cura “più riuscita non è più della scalfittura sulla superficie di un continente” (Glover, 1958). Scalfitture di quel tipo possono essere canali che connettono oceani o laghi essiccati nel deserto. Figura 3, fattori comuni 5. L’incontro terapeutico si sviluppa nella narrazione, complesso flusso di significazione che coinvolge tutti i canali semiotici disponibili nella esperienza del corpo. Si tratta di una comunicazione embodied and enactive, due termini di non facile traduzione che indicano come la significazione sia incorporata nella esperienza vissuta ed attivata nel momento stesso in cui si esprime (Varela et al., 1991; McWhinney, 1999). La narrazione si duplica come discorso interno in cui emerge e si costruisce la esperienza del Sé e come narrazione condivisa nella esperienza intersoggettiva, nella cura e nella vita quotidiana (Wittgenstein, 1967). La continuità narrativa del Sé (Guidano, 1991) emerge nel suo farsi. Anche se si presenta come falsa coscienza e schermo ad una emersione di una forma superiore di conoscenza, è una indispensabile maschera sociale che sostiene e protegge (Winnicott, 1971; Lacan, 1966). Il Sé ci accompagna ogni giorno nella esperienza di noi stessi e si costruisce nelle nostre narrazioni interne e condivise. Il Sé si strappa e si deforma nelle diverse forme di disagio mentale. Una sua ritessitura è il passaggio fondamentale della cura oltre il quale è possibile andare solo successivamente, verso la emersione di forme più autentiche di esperienza. 6. Il linguaggio è come Roma, una città con molte stratificazioni, sovrapposizioni e geometrie che deve ogni volta nuovamente essere esplorata in tutte le sue geometrie. L’Universo Semiotico (Eco, 1976) è un Multi-Verso molto più complesso di quanto alcuni suoi riduttivi viaggiatori vogliano lasciar credere. Considerarne solo alcuni suoi aspetti può portare a semplificazioni di diverso tipo. Sopravvalutare le rappresentazioni ha una storia molto antica (da Platone in poi) di cui abbiamo sperimentato le deformazioni anche nel nostro campo, dal “teatro del sogno” (Breuer & Freud, 1895) alla meccanizzazione della mente (Dupuy, 2000). Il linguaggio è come una città 13 (Wittgenstein, 1967) in cui si sono stratificati, vivono e interagiscono in un flusso continuo secoli di sviluppo umano: dalla metafora (Lakoff & Johnson, 1980), alla danza implicita nella comunicazione corporea (Fowler, Richardson, Marsh, & Shockley, 2008) alla musicalità della prosodia (F. Orsucci et al., 2013). 7. L’accoppiamento strutturale nella cura genera quello che alcuni autori hanno chiamato campo bipersonale o intersoggettivo (Baranger & Baranger, 2008; Langs, 1976). Questo campo viene generato attraverso molteplici push and pull di accoppiamento strutturale fra sistemi complessi, come direbbero i fisici che studiano i processi di sincronizzazione (Dube’ & Despres, 2000; Strogatz, 2004). Si tratta di sequenze di perturbazioni reciproche in cui il terapeuta tiene la rotta di un processo trasformativo fra le onde del flusso comunicativo e le perturbazioni ricevute (Reda, 1988; Guidano, 1991). Questa interazione dinamica si svolge per mezzo di molteplici segnali verbali, prosodici, motori e sensoriali. Solo una piccola parte di questa immensa quantità di comunicazioni viene riconosciuta e gestita consapevolmente dai partner della cura. Una gran porzione di tutto ciò fa parte della comunicazione procedurale o implicita e dei sistemi di memoria non esplicita correlati (Hofer, 1994; Etkin, Pittenger, Polan, & Kandel, 2005). Si tratta di materiale semiotico e comunicativo a-conscio, cioè diverso dal classico inconscio freudiano che in linea di principio può essere verbalizzato con relativa facilità. Gran parte del cambiamento terapeutico viene generato proprio nel dominio della conoscenza implicita e procedurale (Stern, 2004). Fra i regolatori occulti che producono la massa di sincronizzazioni su cui si genera la conoscenza implicita e condivisa, ne esistono alcuni che potremmo chiamare sub-liminari. Sono quelli che fanno sì che ogni conversazione sia anche una sorta di danza di coordinazioni e cenni corporei (Shockley, Richardson, & Dale, 2009). Esiste una messe di studi che documentano l’evidenza di come questi segnali, chiamati anche regolatori nascosti, possono portare, nell’ambito di una profonda relazione di attaccamento stabile e duratura, perfino alla sincronizzazione di funzioni fisiologiche, ritmi biologici, cicli ormonali (Hofer, 1994). 8. Il processo terapeutico viene caratterizzato da movimenti improvvisi, singolarità non lineari e spesso non prevedibili, verso obiettivi condivisi. Queste svolte nel percorso terapeutico si costruiscono attraverso momenti presenti in cui i partecipanti interagiscono in modo da creare un campo di comprensione implicita e condivisa nel “qui ed ora”. Sono momenti carichi dal punto di vista emotivo, in cui il tempo vissuto si estende e in cui c’è un forte senso di verità nell’esperienza vissuta. Il momento di incontro nel presente è una proprietà emergente del campo dinamico, bi-personale e complesso, del processo terapeutico. Questo momento emergente è una punteggiatura che annuncia un cambiamento possibile. Il flusso di questi eventi può creare più ampi momenti di incontro, su cui si può sedimentare un cambiamento della memoria implicita (Stern et al., 1998). L’esplicitazione verbale di questi stati non è sempre necessaria, talvolta anzi può essere controproducente. La sincronizzazione, e coevoluzione, globale nella relazione terapeutica genera questi stati diadici di coscienza estesa e condivisa che costituiscono il motore del cambiamento terapeutico (Tronick et al., 1998). Il campo terapeutico raggiunge uno stato critico di massima intensità possibile che genera a cascata questi punti di apertura al cambiamento. Si tratta di un flusso caratterizzato da punteggiature costituite dagli stati di coscienza estesa (Gould & Eldredge, 2000), stati critici carichi di perturbazioni e aspettative, da cui emergono le onde del cambiamento possibile (Bak, 1996). 9. La prospettiva nelle possibilità di cambiamento umano introdotta dalle Scienze della Complessità è in qualche modo rivoluzionaria. Si considera il soggetto e la relazione da un punto vista sistemico, prendendo in considerazione gli attrattori in gioco, la loro organizzazione, il loro equilibrio. Si tratta di un punto di vista strutturale che non considera il sintomo in quanto tale ma solo come l’indicatore di possibili squilibri dinamici (West, 1985). Ogni forma di disagio viene ridefinita prima di tutto come uno squilibrio sistemico di cui il sintomo è solo un indicatore: 14 rigidità nelle oscillazioni del tono dell’umore; nei percorsi di pensiero; disorganizzazione nelle relazioni affettive. Questa prospettiva porta a ridefinire il campo alla luce della considerazione che sistemi ben funzionanti hanno necessità di un certo grado di casualità e di creatività che li renda flessibili ai cambiamenti ambientali. Come intitolava un famoso lavoro: it is healthy to be chaotic…ovviamente entro certi limiti (Pezard & Nandrino, 2001; Orsucci, 2006). L’analisi dinamica e degli accoppiamenti di struttura può permettere di riconsiderare il percorso di cambiamento come una traversata co-evolutiva verso una forma ottimale di complessità che permetta al soggetto di autorealizzarsi nei suoi equilibri prescelti. Il diagramma che segue ci permette, se ben utilizzato, di fare una valutazione di stato ed una strategia di percorso (Stacey, 1995). Figura 4, diagramma di Stacey 10. La navigazione verso il cambiamento di una autorealizzazione possibile avviene più spesso per cicli, e talvolta per salti, in un processo di co-evoluzione. Il processo può essere guidato, prima stabilendo un campo bi-personale condiviso, e poi dal suo interno, attraverso processi di mirroring e identificazione sistemica ben definiti dal punto di vista della complessità (Pecora & Carroll, 1990; Boccaletti, Pecora, & Pelaez, 2001). Non entriamo qui nella definizione delle tecniche specifiche in gioco. In questi cicli di accoppiamento, fusione, trasformazione ed emersione si sviluppa il lavoro del cambiamento che lascerà entrambe i partner diversi e che porterà alla possibilità di un nuovo inizio autopoietico per uno di essi (Orsucci, 2002). 15 Figura 5, cycles of change Le Scienze della Complessità ci invitano a diffidare di determinismi e semplificazioni. Le vie al cambiamento umano possono essere viste come semplici soltanto dopo aver riconosciuto quanto complessi siano i sistemi che abitiamo e da cui siamo abitati. Si tratta di considerare che “l’elefante nella stanza” delle psicoterapie è anche “l’elefante al buio” della complessità (Shah, 1974; Orsucci, 2002; 2009). Non ci sono semplificazioni e riduzionismi possibili che evitino un suo pieno riconoscimento. Solo attraversando la conoscenza superiore del funzionamento dei sistemi complessi è possibile raggiungere la forma superiore del semplice che è difficile a farsi Soltanto dopo questo gesto simbolico di rispetto profondo verso la complessità, solo con la deferenza che l’elefante così frequente nelle narrazioni sui sistemi complessi ci richiede, possiamo ritrovare quella vera risonanza con l’altro che precede e permette il cambiamento. Figura 6, the elephant out of the dark 16 Bibliografia Bacon, F. (1878). Novum organum. Clarendon press. Bak, P. (1996). How nature works the science of self-organized criticality. New York, NY, USA: Copernicus. Baranger, M., & Baranger, W. (2008). The analytic situation as a dynamic field. 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Lo sviluppo della conoscenza avviene con la giuda-interazione di cervelli già formati, l’intersoggettività di Trevarthen, che hanno lo scopo di indurre perturbazioni attraverso l’attivazione di emozioni per poi facilitarne la regolazione, mediante la negoziazione di significati condivisi. Gli studi sulle perturbazioni che si osservano nei sistemi dinamici complessi hanno rilevato che un importante indicatore di transizione o cambiamento è una particolare discontinuità caratterizzata da fluttuazioni costituite da stati emotivi intensi durante le quali il sistema è destabilizzato ma anche aperto a nuove informazioni e all’esplorazione di configurazioni ed associazioni potenzialmente più adattive. In questi periodi si trovano oscillazioni tra vecchie modalità, che sono meno viabili, e nuove modalità che stanno emergendo, fino a che il sistema si stabilizza in un nuovo stato dinamicamente più stabile e la variabilità diminuisce. Periodi di marcata instabilità precedono una serie di cambiamenti durante il periodo di sviluppo degli esseri viventi che si trovano per l’appunto in fase evolutiva, ma caratterizzano anche i cambiamenti personali negli esseri adulti o nei gruppi sociali. Così appare evidente che i periodi di “fluttuazione critica” possono essere utilizzati e studiati per identificare i punti di transizione e di cambiamento nei sistemi complessi. Quando questi punti di transizione sono stati individuati, i ricercatori possono individuare cosa sta cambiando ed i fattori che catalizzano questi cambiamenti. Alcuni autori hanno ipotizzato che il principio di “destabilizzazione precedente ad un cambiamento” già descritto in altre scienze possa applicarsi allo studio dei processi di cambiamento che avvengono in psicoterapia (Haley, 1973; Bateson, 1972; Reda, 1986, Guidano, 1998, Mahoney, 1991; Hayers et al, 2007, Schiepek, 2009). I cambiamenti cosiddetti “profondi” in psicoterapia non possono essere lineari e gradualmente prevedibili e programmabili, ma dinamicamente discontinui e non lineari. Infatti secondo il modello dei sistemi dinamici, i cambiamenti in psicoterapia sono preceduti da fluttuazioni critiche e da instabilità nel funzionamento del sistama. Lo studio dei cambiamenti non lineari richiede valutazioni multiple e frequenti nel tempo e l’esame di traiettorie e variabili individuali, piuttosto che medie di gruppi di pazienti, come avviene in molte ricerche cosidette “evidence based”. Questo consente di capire non tanto e non solo se il cambiamento avviene, ma come quel cambiamento ha luogo, in base alla presenza o meno di periodi di instabilità (Sciepek, 2009, 2013). Sciepek cita come esempio lo studio condotto su una paziente con disturbi di tipo ossessivocompulsivo sottoposta esclusivamente a psicoterapia senza utilizzo di psicofarmaci; la tecnica si basava su una combinazione di interventi comportamentali mentre si procedeva con una 19 terapia sistemica di coppia. La terapia di oltre otto settimane in un ricovero di 59 giorni prevedeva oltre alla valutazione dell’andamento della sintomatologia O-C una monitorizzazione quotidiana delle oscillazioni dinamiche del sistema paziente e una risonanza magnetica funzionale (FMRI) nei giorni 9-30-57. In questo modo si è potuto evidenziare come il cambiamento sia avvenuto tra la prima e la seconda rilevazione FMRI e come sia correlato ad una forte instabilità emotivo-sensoriale in concomitanza con la decisione della paziente di lasciare il marito, il conflitto con il quale aveva determinato l’origine della fase di scompenso. È fondamentale notare come il cambiamento, nel caso in questione, avvenga prima dell’inizio della fase di flooding con anticipazione della risposta a cui altri autori tendono ad attribuire un cambiamento di tipo lineare (Baxter et al, 1992). Le marcate modificazioni nell’attività cerebrale furono osservate subito prima o durante la riduzione dei sintomi e non dopo, rappresentando i correlati neurali di una delicata ed importante fase di transizione personale legata alla risoluzione di un pesante conflitto matrimoniale. Di notevole interesse a questo proposito sono i numerosi studi che misurano i parametri psicofisiologici di paziente e terapeuta durante sedute di psicoterapia( Marcie et al 2007 Reda et al 2011) Queste ricerche come altre che esamiano gli EEG comparati di paziente e terapeuta (Kowlik et al, 1997 Rockstone et al, 1997) o la produzione di linguaggio col metodo Merghentaler (1998) e le analisi conversazionali (Lenzi e Bercelli, 1999) durante sedute di psicoterapia focalizzandosi su riflessioni emotive e alternanze tra referenze cognitive di attività verso astrazione, evidenziano l’esistenza di fasi di transizione caos-caotiche sincronizzate o meno, nel cervello del paziente e del suo terapeuta durante le sedute. E’ stato così possibile generare un modello di entropia della variabilità psicofisiologica individuando fasi di instabilità emotiva condivisa durante la relazione psicoterapeutica. Risulta evidente che non c’è priorità dell’influenza del terapeuta sul paziente per cui viene contraddetta l’idea classica che un input proveniente dal terapeuta determinerebbe loutput del paziente, ma anche il contrario avviene, costituendo una sorta di causalità circolare che dimostra la qualità autorganizzatrice della psicoterapia e della diade paziente-terapeuta come incontro tra sistemi complessi in accoppiamento strutturale (Reda, 1986)il tutto a conferma del concetto sinergetico sul funzionamento della psicoterapia. In tal senso la psicoterapia fa da supporto per attivare i processi autorganizzativi del paziente, che si caratterizzano da periodi o fasi di passaggio da un ordine all’altro “order to order” , consentiti e accompagnaati da instabilità critiche. In questi periodi ordini più rigidi e “patologici” si possono trasformare in modalità (di comportamento) più flessibili ed adattative e la sincronizzazione di aspetti differenti dell’esperienza del paziente (emozioni, attività, astrazione, concretizzazione ecc.) possono esitare in qualche cambiamento o trasformazione di cui non è possibile prevedere la direzione. Il tutto rispettando la propria struttura di base. Nel modello postrazionalista che segue il metodo della complessità e cosidera i sistemi dinamici, i sisntomi o i disagi del paziente sono considerati l’espressione di emozioni di cui non si riesce a cogliere il senso e il significato. Il tentativo di integrazione è socialmente disadattivo e viene pertanto etichettato come malattia. In questo senso si parla di rigidità strutturale, per cui di fronte alle sensazioni derivanti da una perturbazione che provoca instabilità il sistema, ansichè riequilibarsi acquisendo ulteriori nuove conoscenze, si blocca fornendo alle sensazioni una lettura esterna o egodistonica in termini di sintomi psicopatologici. Il terapeuta postrazionalista ha il ruolo di perturbatore strategicamente orientato (Guidano, 1997). Cercherà cioè di indurre nel sistema paziente, le 20 fluttuazioni e la relativa instabilità che rappresenta la condizione necessaria per facilitare il cambiamento. Ecco perché si sostiene che per cambiare un’emozione patologica non occorre una convinzione razionale, come sostiene il cognitivismo standard, o una tecnica di autocontrollo, ma occorre un’altra emozione. Codsì il terapeuta perturbatore entra nella logica del paziente (condivisione) lo porta, attraverso il racconto di situazioni o ricordi specifici critici, a vivere le emozioni che il paziente non ha voluto o non è riuscito a decifrare. Questo ovviamente può solo accadere in modo non lineare. Attraverso una conversazione condividente ed in base ad una buona relazione reciproca si possono creare le condizioni favorevoli per cui il paziente si incuriosisca a capire e a dare un senso ed un significato personale alle sensazioni precedentemente vissute come estranee a se o egodistonichee interpretate come sintomi o disagi. E’ chiaro che solo una buona relazione terapeutica può consentire di superare la rigidità del sistema e “smuoverlo” in modo che possa ritrovare un proprio equilibrio dopo l’instabilità, parlando a se stesso (rumination) al terapeuta e ad altri significativi (social sharing) dei propri vissuti, delle situazioni esterne che li hanno attivati e dei propri pensieri (sequenzializzazione) Il terapeuta che entra in una relazione di sintonia col paziente, non interpreta né restituisce un ricordo ma attraverso la condivisione dà al paziente la possibilità di parlare di qualcosa che il paziente stesso aveva sempre saputo consentendogli di provare, riconoscere e regolare, attraverso i propri pensieri o significati personali, le emozioni che non gli era consentito di provare. In questo modo è possibile riprender il cammino della conoscenza. Bibliografia Bateson G. (1972) Steps to an Ecology of Mind: Collected Essays in Anthropology, Psychiatry, Evolution, and Epistemology ... 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LA LEZIONE DI VITTORIO GUIDANO Gianni Cutolo Università di Siena – Gruppo psicosi, Roma Problemi epistemologici Se partiamo dal punto di vista soggettivo, della persona che esperisce, come possiamo descrivere, concettualizzare e tentare di spiegare quello che le accade “dentro”, in una crisi psicotica? Malgrado gli sforzi effettuati dalla fenomenologia nel secolo scorso, il dogma della “inderivabilità” e “incomprensibilità” della psicosi è rimasto, sempre, pur se scalfito da numerose evidenze pratiche. Per superare il costrutto della “incomprensibilità” jaspersiana (Jaspers,1959), partiamo dalla distinzione tra osservato e osservatore (Maturana e Varela 1985). Considero la difficoltà che ha l’osservatore nella comprensione dei vissuti dell’osservato come una caratteristica propria del contesto in cui viene effettuata l’osservazione, prima ancora che una “qualità” dell’ “osservato”: la situazione psicotica è un contesto confuso nel quale è difficile fare distinzioni in ciò che si osserva. Inoltre, come già sostenuto da Guidano (Cutolo, 2014) è utile sottolineare come l’incomprensibilità psicotica può essere considerata una qualità intersoggettiva della relazione che, diversamente dalla posizione jaspersiana, riguarda più l’osservatore (il terapeuta) anziché l’osservato (il paziente). In questo senso essa esprime la difficoltà che ha il primo a “contestualizzare” un qualcosa, nel comportamento e nel linguaggio dello psicotico, che si discosta radicalmente dall’esperienza socialmente condivisa. Detto in altre parole l’osservatore, se aderisce passivamente ai criteri “oggettivi” del senso comune, si colloca in una posizione che gli impedisce di cogliere gli aspetti soggettivi autoreferenziali che portano la persona al dire e fare psicotico. Perciò il primo passo, epistemologicamente nuovo e scientificamente più corretto per l’osservatore, dovrebbe partire dal prendere atto che ciò che è “oggettivamente dato” è la frattura che il comportamento, il linguaggio, il “sentire” psicotico, crea nei riguardi del senso comune. Di fronte a questo l’osservatore-terapeuta, dopo aver assunto una posizione di comprensione, potrà attrezzarsi per fare l’analisi del “come”, “quando”, “in relazione a che” si manifesta la sintomatologia psicotica, ovvero tutto l’aspetto descrittivo che è tipico dell’osservazione scientifica, presupposto di eventuali ipotesi esplicative (Von Wright 1978). Analizzando ma distinguendo, ad esempio, da una parte l’aspetto fenomenico che appare all’esterno, dall’altra la qualità soggettiva esperita dalla persona, il suo vissuto .1 Rimane come ultimo problema il fatto che la descrizione dell’esperienza soggettiva viene comunque compiuta con il linguaggio dell’osservatore, con i limiti intrinseci che qualsiasi 1 L’adesione dell’osservatore ai criteri del senso comune impedisce la possibilità di cogliere (descrivere) il fenomeno psicotico che deve spiegare. Il distaccarsi da questi criteri è una operazione “scientifica” assimilabile a quella dello scienziato che, per descrivere e operare sull’oggetto della sua ricerca, ricorre a strumenti e modalità relazionali sofisticate, non facendosi condizionare dall’immediato vissuto di alterità, e cercando di rilevare ciò che “non è immediatamente visibile”. In questo senso il “vissuto soggettivo” della persona diventa uno degli “oggetti” indispensabili da osservare, in particolare lo è lo studio dei processi mentali della persona osservati dal suo punto di vista, “per come li vede lui”. Evidentemente questo presuppone la conoscenza “evolutiva” del primate parlante uomo in tutti i suoi aspetti mentalistici. 23 linguaggio (sia esso dell’osservatore che della persona stessa che lo produce) ha nel cogliere, analizzare o descrivere un’esperienza soggettiva. Ma lascio questo problema a successive trattazioni. La psicosi come non integrazione dell’esperienza Secondo il modello post-razionalista quello che avviene nella psicosi è una frattura profonda tra l’esperienza immediata (IO) e la capacità di ri-configurazione narrativa (ME), detto altrimenti tra il Sé che agisce, vive e interagisce, e il Sé che riflette, elabora, riconfigura, racconta, tra l’Io protagonista e l’Io narratore (Guidano 2010, Bruner 1992). L’esperienza immediata della persona non riesce ad essere integrata nel Sé. Questa “non integrazione” si traduce nel fatto che la elaborazione narrativa mediata dal linguaggio non riconosce questa esperienza come qualcosa che appartiene alla persona, al Sé, che diventa così qualcosa di estraneo, che proviene dall’esterno. Guidano chiama questa capacità di processamento dell’esperienza, il framing dell’esperienza emotiva ed attribuisce il suo malfunzionamento ad un particolare tipo di sequenzializzazione, ovvero ad una incapacità del linguaggio scritturale nel mettere in ordine temporale, spaziale, logico e tematico le intense perturbazioni della propria esperienza emotiva. Non essendo queste processate nel Sé, appaiono alla persona come “sintomi di malattia”. Emergenza personale ed emergenza sociale Il senso di “esternalità” ed “estraneità”, che caratterizza anche i sintomi e i vissuti classificabili come “nevrotici”, nella psicosi assume aspetti più eclatanti rispetto a questi ultimi, in quanto, oltre a generare nella persona la sofferenza o per lo meno quel disagio che lo potrebbe portare a chiede aiuto (cosa che spesso non riesce comunque a fare), si manifesta in maniera più eclatante nell’ambiente di vita della persona, nella famiglia, nel sociale come una “rottura del senso comune”, dei significati condivisi. In altre parole nell’emergenza della psicosi possiamo vedere due modalità distinte del suo manifestarsi a seconda del punto di vista da cui viene effettuata l’osservazione, ovvero, più concretamente, a seconda di chi e da come avviene il “rilevamento” della crisi. Ho chiamato queste due emergenze “emergenza personale” ed “emergenza sociale” (Cutolo, 2011, 2013, 2014). L’andamento temporale di queste due emergenze è nettamente separato e quasi mai esse vanno di pari passo. E’ da notare che la prima emergenza, quella interna, ovvero quella personale, è accessibile solo alla persona che la vive, mentre l’emergenza esterna, quella per così dire “sociale”, è accessibile al contesto familiare e sociale e, come detto, ha tempi e modi di manifestarsi completamente diversi dalla prima. Mentre nell’emergenza personale un delirio, una allucinazione, un comportamento, emergono nella persona come vissuti accompagnati da sensazioni di cambiamento “strano” e perturbante e spesso anche da sofferenza, che non necessariamente verranno colti da un osservatore esterno, nell’emergenza sociale gli stessi vengono visti come una deviazione dal comune modo di intendere la realtà, come un allontanamento da quel “gravitational pool” (attrazione gravitazionale) originata dal linguaggio “scritturale” che genera un mondo di significati condivisi,2 2 La società moderna ha inscritto la evenienza umana “psicosi” come un disturbo di tipo medico. E’ da notare che in Italia il “rientro” del trattamento dei disturbi psichici, dalla gestione separata degli Ospedali Psichiatrici all’ambito della medicina istituzionale, è stato sancito dalla riforma psichiatrica del 1978, legge 180, che ha decretato il trasferimento delle competenze psichiatriche dalle Provincie alle Regioni, iscrivendo la psichiatria nell’ambito delle discipline mediche di competenza delle ASL come 24 Due diverse modalita’ di “non integrazione” psicotica Al di là degli aspetti specifici di questo problema, anzi proprio per cercare di chiarire come si manifesta questa discrepanza tra la crisi personale e la sua emergenza sociale, è utile esplorare il piano soggettivo dell’esperienza: ovvero “come è fatta” questa difficoltà di integrazione, quali siano le esperienze difficilmente integrabili, e perché questo avvenga: quali sono i processi del Sé coinvolti e vedere se essi siano disfunzionali o piuttosto cerchino di mantenere comunque un livello di equilibrio personale e sociale, una qualche “coerenza” di sé. A partire dalle ultime ipotesi Guidano sulla psicosi e sulla schizofrenia (Guidano 1998), una prima linea di ricerca ci permette di distinguere due diverse modalità con cui questa “non integrazione dell’esperienza” viene portata avanti. Queste due modalità di non integrazione si collocano su un continuum concretezza-astrazione, ovvero possono esprimersi con una modalità più o meno concreta o viceversa con una più o meno astratta. La prima è una modalità con cui un elemento di esperienza soggettiva appare troppo concreto, nel senso che le capacità narrative proprie del mondo scritturale non riescono a riconfigurarlo come un qualcosa che appartenga al mondo dei significati personali “ordinati secondo temi narrativi sequenzializzati” e come tali riconoscibili come facenti parte della propria esperienza di vita; per cui il non riconoscimento di questi contenuti nel Sé trasforma questo dato in un qualcosa che viene processato come qualcosa esterno al Sé (delirio, allucinazione), oppure non è proprio processabile, per cui viene tenuto fuori della coscienza al costo di impiegare energie motorie (catatonia), disorganizzazione o chiusure autistiche. Una seconda modalità della “non integrazione” psicotica avviene con una modalità che Sass ha definito “paradossale”, ovvero con un incremento della elaborazione concettuale, quindi apparentemente con una maggiore astrazione. Però questa capacità narrativa molto astratta non viene applicata alla propria esperienza, ma concentrata su un prodotto linguistico o narrativo (il “testo”) che è stato già elaborato come riflessione sulla propria esperienza. E’ l’elaborazione di un qualcosa già elaborato, di un qualcosa che già è diventato astratto (abstractum), cioè “tirato fuori” dall’esperienza e poi “sottratto” al contesto di vita. Sono quelle forme di schizofrenia che si manifestano con una iper-reflessività, una capacità di astrazione estrema che finisce anch’essa, però, come nel primo tipo di non integrazione, per perdere i contatti con la propria esperienza, oltre che con i significati condivisi, col gravitational pool. Questa iper-reflessività può diventare una modalità applicata all’immediatezza del vivere (forme disorganizzate) oppure assumere forme continuative, più stabilizzate, elaborate e strutturate concettualmente sotto forma di deliri su temi di fondo dell’esistenza (deliri epistemologici). Sass (1994) ha mirabilmente sottolineato gli aspetti di contiguità e continuità di queste forme con le produzioni artistiche (De Chirico, Van Gogt) e letterarie (Kafka) dell’età moderna e post-moderna. tutte le altre. Precedentemente infatti la psichiatria era separata “operativamente” dalle altre specialità mediche nel senso che il malato psichiatrico seguiva in parte percorsi e circuiti diversi da quelli delle altre malattie. L’Ospedale Psichiatrico rappresentava il “terminale” che ha sancito storicamente questa separazione di fatto. Il senso di questa nota sarà più chiaro alla fine di questo articolo: mentre considero una conquista sociale l’inclusione della psichiatria nell’ambito della medicina, ritengo sia da rivedere il fatto che la comprensione e lo studio dei fenomeni psichici sia di (quasi) esclusiva competenza medica, e che i disturbi psichici, in particolare la psicosi, vengano considerati “malattia”. 25 La psicosi come un particolare tipo di mentalizzazione Una seconda linea di ricerca ci porta a studiare come avvenga questo fallimento o incapacità della riconfigurazione dell’esperienza. Seguendo la traccia proposta da Guidano che vede il linguaggio come la capacità evolutivamente emergente negli umani di riconfigurazione dell’esperienza soggettiva3, possiamo attraversare storicamente i cambiamenti che esso ha portato negli umani. In particolare il linguaggio ha permesso di sostituire modalità primitive di “coordinazione consensuale” (grooming, grooming vocale) introducendo le capacità di mentalismo, ovvero di poter comprendere l’intenzione altrui (mindreading) e nello stesso tempo di fingere all’esterno qualcosa che appartiene all’interno del Sé (pretence). Guidano fa l’esempio del vantaggio sociale derivato all’uomo primitivo nel poter simulare di non aver paura in una impresa collettiva di caccia. Nel passaggio da una società orale ad una scritturale4, la possibilità di articolare la conoscenza e il pensiero in un testo scritto permette una prima separazione tra conoscente e conosciuto, tra mondo interno (come ci si sente) e mondo esterno (come ci vedono gli altri ma anche come ci si vede da parte di noi stessi). Questo ha arricchito enormemente il nostro mondo emotivo iniziando una fase storica in cui aumenta l’attenzione alla persona, sempre più distinta dal resto del gruppo. Con l’emergenza di un mondo interno aumenta l’articolazione delle emozioni attivate nel Sé ma prodotte nell’interazione sociale. Questa articolazione emotiva, che è alla base della nascita di una particolare forma di coscienza, la consapevolezza di sé, è diventata forse la capacità più importante per mantenere la coesione sociale, per garantire una coordinazione consensuale che si basa su una raffinata capacità di esplorare il mondo dell’altro, e con esso anche il proprio. La rudimentale capacità di simulazione dello scimpanzé (che riesce a nascondere ad un compagno dove ha nascosto il cibo) diventa nell’uomo scritturale una capacità specializzata e sofisticata di inganno e di auto-inganno. In questo senso, e saltando alcuni passaggi, possiamo dire che la psicosi rappresenta il fallimento di questa capacità di coordinamento consensuale attraverso l’incapacità di articolare un comportamento sociale in grado di discriminare negli altri e in sé stessi quegli stati emotivi che stanno alla base del coordinamento con gli altri, lasciandoli fluire in maniera disordinata senza poterli più articolare. Tutto questo si è tradotto in quelle difficoltà di mentalizzazione ampiamente studiate da una notevole quantità di ricerche sulla c.d. “teoria della mente” e “metacognizione” (cfr. Camaioni 1995, Frith 1995, Baron-Cohen 1997, Cutolo e al. 2000, Cheli 2000, Di Maggio e Lysaker 2012). In questo ambito così vasto di ricerche e di studi, Guidano ha seguito una prospettiva che ha cercato di andare oltre la divisione tra quelli che lui chiama “oggettivisti” (coloro che ritengono la mente come processatrice di informazioni) e i “soggettivisti” (coloro che vedono solo l’aspetto esperienziale del mettersi nei panni dell’altro)5. Guidano ha proposto una prospettiva evolutiva, sia filo che ontogenetica, che nel passaggio da oralità a scritturalità, per evidenziare come il comportamento psicotico abbia degli aspetti e degli elementi propri (es. allucinazioni) del mondo orale. 3 Una impostazione “evolutiva” vicina a quella di Guidano, pur con le inevitabili differenze dovute alle premesse teoriche diverse, di tipo psicodinamico,è quella di Greenspan e Shanker (2004-2007) 4 V. in particolare Ong 1986 e Olson eTorrance 1995 5 Vedi il successivo paragrafo 26 Psicosi: rottura del confine interno e del confine esterno del se’ La psicosi si manifesta a partire dal venire meno di queste due caratteristiche: 1) Un senso organizzato di sé, del bisogno di mantenere in ogni momento della propria vita il senso di sapere chi si è, il senso di unità, continuità coerenza. 2) La possibilità di comunicarlo e condividerlo con gli altri, in modo da essere costantemente riconosciuti, e anche solo minimamente apprezzati. Guidano ha parlato di questi due livelli del Sé. Un Sé inteso come un processo aperto senza fine che ha da una parte il bisogno di mantenersi, di mantenersi nel tempo e nello spazio, distinguendolo da quello che è “non Sé”. Sono i confini interni del sé, che usano una modalità bipolare, basata o sulla prevalenza della continuità, della costanza sulla variabilità (sameness), organizzazioni IN-WARD, o piuttosto basata sulla prevalenza della variabilità (selfhood), della discontinuità sulla stabilità, organizzazioni OUT-WARD. Questo sé auto-referenziale però non potrebbe esistere senza un confine esterno, senza uno spazio inter-soggettivo, innanzi tutto quello derivato dai processi di attaccamento, che lo mettono in relazione col mondo esterno e cogli altri. E’ questa una seconda modalità di accadere del Sé, nella quale una analoga modalità bipolare si può rappresentare come una dinamica tra “appartenenza-in relazione con” (belonging to) e “individuazione rispetto a” (demarking from). La prima (belonging to) da un senso di canonicità-normatività, la seconda (demarking from), un senso di unicità-unitarietà. Anche qui, nello strutturare questi confini con l’esterno, il Sé può orientarsi più verso una polarità tesa alla dipendenza dal campo (Organizzazioni Field Dipendent) o alla non dipendenza (Organizzazioni Field Indipendent). Soggettivita’ e intersoggettivita’ nella simulazione del comportamento altrui E’ nei processi di sviluppo personale, dalla nascita all’età adulta, che si possono vedere quelle trasformazioni del senso di sé (in particolare la nascita della cnsapevolezza di Sé) che caratterizzano l’acquisizione della capacità (ma insieme una “vulnerabilità”) di articolare la complessità degli stati emotivi. Gradualmente si crea una “struttura narrativa” che permette di riferirsi le emozioni, ovvero di conoscerle, ri-conoscerle in sé mentre le si vede negli altri, condividerle, vederne le sfumature, insomma acquisire “confidenza” con esse. In questo percorso, mentre si cerca di riferirsi e articolare questi stati emotivi, spesso complessi e contradittori l’uno con l’altro, diventa fondamentale il continuo rimanere collegati con gli altri e col mondo dei significati condivisi. Può succedere così di non riuscire a cogliere una sfumatura nel comportamento dell’altro, o viceversa il restare bloccati dall’effetto che una semplice parola, o un gesto dell’altro, può provocare su di sé. La psicosi, in breve, può essere vista come la strutturazione di questa incapacità di integrazione. Nel processo di sviluppo del bambino l’acquisizione del mentalismo appare, con la capacità di lettura dell’intenzionalità altrui e la capacità di finzione, fin dai primi anni di vita, acquistando una complessità crescente in base a specifiche tappe, attraverso le quali queste “competenze” si affinano sempre più (superamento del test della falsa credenza, metalinguaggio di significato, declinazione della realtà al congiuntivo) arrivando ad una sempre maggiore distinzione del proprio “interno” dall’ “esterno”, con la capacità di creare mondi di possibilità, fino all’articolazione delle emozioni, per cui ad, esempio, si possono cogliere, ad esempio, le sfumature dell’emozione “rabbia” in sottocategorie (risentimento, rancore, odio, ironia, furore, ecc.). Le figure di attaccamento garantiscono quella “base sicura” che permette questo difficile lavoro di acquisizione di competenze affettive e meta-cognitive su di sé e sugli altri. Nello stesso tempo esse forniscono possibili direzionalità che daranno luogo a specifici stili affettivi e significati personali. 27 Come ha fatto notare Guidano, ben prima della scoperta dei “neuroni specchio”, la sintonizzazione affettiva con le figure di attaccamento permette al bambino, attraverso l’identificazione, con la simulazione sulla propria pelle del personaggio che vede agire nell’altro significativo, quella “conoscenza affettiva incarnata”6 che gli permette di muoversi nelle situazioni analoghe che incontra nel mondo, con una modalità che poi verrà ulteriormente articolata dall’emergenza del pensiero astratto e dalle capacità narrative. “L’aspetto narrativo mette in primo piano che la natura di ogni apprendimento è esperienziale. Proprio perché il bambino vive all’interno di un contesto narrativo, ha una trama narrativa con cui interpreta le cose. In questa trama narrativa lui è un personaggio ed in genere quello che capisce degli altri lo capisce impersonando il suo personaggio fino alle estreme conseguenze. Talvolta impersonandolo al punto tale che magari provoca un attrito, uno scontro con papà e proprio da questo scontro con papà, magari proprio dallo sperimentare questo capisce molto meglio quello che sono il mondo delle attribuzioni, i punti di vista, le convinzioni, le emozioni del padre ed in questo riconosce anche le sue. Cioè è in questo impersonare attivamente i personaggi suoi, il suo essere personaggio, ed il personaggio che vede negli altri che si articola il suo mondo emotivo, la sua capacità di attribuire o di capire le intenzioni degli altri. (Guidano 1994). E’ intuitiva l’importanza del legame di attaccamento nel favorire questa conoscenza incarnata in un bambino che porta avanti la conoscenza di sé e degli altri. 7 Un paradosso tra coerenza personale e lealtà familiari Ora nello sviluppo adolescenziale in particolare, si evidenzia il fenomeno per cui, con l’emergenza del pensiero astratto, e quindi della maggiore articolazione del linguaggio scritturale e delle capacità di sequenzializzazione narrativa, il ragazzo potrà utilizzare queste competenze “meta-cognitive” per affrontare le nuove situazioni esistenziali: è la necessità di assumere una posizione (l’impegno adolescenziale, Guidano 1992). Per far questo appare necessario essere in grado di cogliere l’intenzionalità degli altri, graduare la propria capacità di “finzione” (modulare il comportamento affettivo col duplice scopo di mantenere un equilibrio tra il proprio livello di continuità/coerenza “interna” e un livello di accettabilità “esterna”), ma anche iniziare ad articolare il proprio mondo emotivo fuori dai confini di rapporti, più o meno prevedibili, della famiglia. Ma qui si può verificare un paradosso: in queste nuove e difficili situazioni (vediamo, ad esempio, in seguito ad un primo allontanamento dalla base sicura per motivi di studio o per ingaggiarsi in una relazione sentimentale) egli ha a disposizione un “patrimonio emotivo” (stile affettivo/significato personale) già iscritto nel suo repertorio neuro-cognitivo e affettivo, mutuato essenzialmente dalle figure di attaccamento. Un patrimonio non idoneo a risolvere i problemi posti dall’emergenza di emozioni complesse, contraddittorie e perturbanti suscitate da queste nuove situazioni. Nell’affrontare la situazione non conosciuta, dovrà mettere in discussione proprio quello che ha appreso dalle figure di attaccamento, in quanto non più 6 V. la “simulazione incarnata”, a partire da Gallese e Lakoff 2005 7 Dice Nardi (2013) “La possibilità di riconoscere e di prevedere una risposta comportamentale o una condizione ambientale è legata all’attivazione dei neuroni specchio. Se il care giver appare prevedibile, il bambino inizia ad attivarsi e a provare un’emozione senza avere più bisogno di osservare la figura accudente, avendo imparato a riconoscere in modo univoco quella situazione (ad es. come pericolosità)..”. 28 funzionale a far fronte alle nuove evenienze. E come è possibile fare affidamento su figure di attaccamento che sono proprio quelle “messe in discussione”? Nel mettere in discussione quelle “lealtà invisibili” familiari che hanno mantenuto, fino a quel momento, questa appartenenza al sistema familiare8, si crea una contemporanea crisi nelle due parti del Sé che abbiamo visto in precedenza, La prima, quella che tende a mantenere un confine interno, col bisogno di codificare l’esperienza inattesa e sconosciuta, di assimilarla per mantenere la continuità e la coerenza del senso di sé; ma c’è anche una crisi della parte che cerca di mantenere un equilibrio nel confine con l’esterno, tra bisogno di individuarsi e bisogno di separarsi, tra bisogno di demarcarsi dalle figure d attaccamento e bisogno di mantenere l’appartenenza. In altre parole nel riordinamento adolescenziale i genitori, mentre erano stati fino ad allora persone imprescindibili per mantenere la propria coerenza, cresciuta dentro un tema narrativo familiare, sono proprio quelle persone delle quali bisogna cambiare l’immagine per poter comprendere l'esperienza perturbante e integrarla nel sé. Non si può chiedere aiuto affettivo proprio alla persona da cui ci si deve staccare, verso la quale si sta cercando di elaborare un cambiamento d'immagine che ne relativizzi il personaggio, ne ridimensioni l’influenza, ne metta in discussione quei sentimenti, opinioni, valori, che fino ad allora sono stati “tacitamente” presi a modello (anche se rifiutati). E’ in questa situazione che le capacità narrative, se non ben sviluppate per interferenze verificatesi nei periodi precedenti (Guidano parlava in particolare, riprendendo il concetto di metalinguaggio di significato di Olson e Bruner, del periodo 4-18 anni) possono essere “sospese” e l’intensità di una esperienza immediata non facilmente processabile può invadere il Sé mettendo fuorigioco le capacità di sequenzializzazione di questa esperienza emotiva in corso. Da una parte la necessità della articolazione “scritturale”, come è quella narrativa, dell’esperienza in corso, richiederebbe che la persona rimanesse collegata al contesto, alla famiglia, alla base sicura in cui ha appreso queste capacità: ma è proprio quello che non può fare. Dall’altra parte, per potersi dispiegare, la capacità di articolazione narrativa dovrebbe anche poter prescindere dal contesto immediato, ed elaborare un “testo”, con le regole della sequenzializzazione temporale, causale e tematica proprie del mondo dei significati condivisi. Per poter elaborare questa esperienza con il linguaggio narrativo, non si può rimanere troppo concretamente rimanere legati ad essa, bisogna allontanarsene un pò, distanziarsi da essa per poterla vedere da altri punti di vista, ecc. Nella difficoltà a muoversi tra questi due limiti, tra la Scilla della concretezza e il Cariddi dell’astrazione, si collocano le due modalità di manifestarsi della non integrazione di questa esperienza attraverso diverse forme di sintomatologia psicotica, descritte nel paragrafo 4. CASO 1: Il “fatto”: il mondo diventa pericoloso quando non si è (più) protetti E’ il caso di Ida, giovane laureata di 27 anni che ormai da alcuni mesi si è “ritirata” in casa dopo esperienze fallimentari sia affettive che lavorative, per altro entrambe poco significative, nel senso che “non ci aveva investito molto”. Lei viene su consiglio di un suo amico che mi conosce, spaventato dopo aver saputo da lei che ha effettuato un tentativo di suicidio senza che nessuno lo venisse a sapere. Non ha mai avuto contatti psichiatrici. E’ uno di quei (rari) 8 Un tentativo di esprimere questa contraddizione, visto da una prospettiva “sistemico-familiare” di tipo psicodinamico, è espresso in Boszormenyi-Nagy e Spark, 1988. Il lettore curioso di questo primo tentativo di mettere in evidenza questo aspetto, potrà osservarne le differenze sostanziali con quanto da me sostenuto, e, spero, la diversa applicabilità clinica. 29 casi in cui l’emergenza personale è quasi coincidente con l’emergenza sociale, nel senso che la segnalazione dell’amico mi viene fatta poco dopo che è già emerso il problema nella ragazza. Ida vive in una famiglia che non presenta particolari problemi. Mi racconta di una strana storia accaduta nelle sue continue navigazioni su internet, per cui si sarebbe convinta di essere spiata e controllata, al punto che da alcuni mesi evita il più possibile di uscire di casa, perché pensa che tutti siano al corrente di un “fatto” di cui non riesce a parlare. Faticosamente, riesco a sapere, ma sempre in maniera non chiara, perché quando parla di questo usa un linguaggio confuso e contraddittorio, e comunque per me poco comprensibile, che lei avrebbe “postato” su facebook alcune foto compromettenti, anche se per pochi minuti, che sarebbero state viste da alcuni “hacker” che abitano nella città in cui vive, e diffuse in rete (la vergogna, evidente nel modo di raccontare, nelle omissioni, e nelle espressioni del viso, rende confusa e poco traducibile questa esperienza tacita). All’inizio Ida non riesce a parlare di altro. Portandola faticosamente sugli eventi di vita significativi, riesco a ricostruire che questa convinzione di intrusività le era cresciuta gradualmente nel corso degli ultimi due anni ma che “era scoppiata” nella forma attuale quattro mesi prima, in corrispondenza temporale con la fine di un rapporto di lavoro e, con una coincidenza ancor più evidente, con un rapporto affettivo finito ancor prima di cominciare. Il rapporto affettivo si era consumato nel giro di pochi giorni a Madrid, dove lei si era recata (era la prima volta che faceva un viaggio all’estero da sola) per un incontro con un ragazzo inserito in una realtà lavorativa all’estero, un uomo “in carriera” a differenza di lei, già conosciuto e di cui era, forse, innamorata. Io mi sono orientato all’inizio su un tema di giudizio per la centralità dell’emozione vergogna e la confusione con cui ne parlava, ma non c’era però nessun suo aspetto particolare estetico, alimentare, né atteggiamento di altro tipo che confermasse una impresentabilità dovuta ad un tema di esteriorità o di prestazione. Ida non dava alcuna importanza né all’interruzione lavorativa nella genesi del problema (anche se era il primo lavoro che faceva) e tantomeno alla rottura affettiva, essendo un rapporto che non era mai iniziato. Era ossessionata da pensieri intrusivi e chiaramente deliranti che ormai tutti in città sapessero del “fatto” per cui evitava di uscire se non di notte, in luoghi lontani da quelli di residenza o per venire al mio studio: aveva paura di essere riconosciuta. Allargando il fuoco su episodi della sua vita, attuale e passata, si è evidenziato un tema di “sfiducia” nei confronti degli amici (tema astratto), che confinava con una possibile pericolosità e minaccia nei suoi confronti (tema concreto): infatti quello che più angosciava Ida, in un senso più astratto e collegabile col “fatto”, era la consapevolezza emergente di non potersi fidare di nessuno, tranne che dell’amico che mi aveva fatto la segnalazione del caso di lei. Mi sembrava un tema fobico di perdita di controllo su una realtà amicale che si rivelava, nel mentre che la metteva a fuoco, superficiale e ben più cruda rispetto a come l’aveva gestita fino ad allora: all’inizio ho lavorato introducendo questo possibile collegamento. Scoprii poi che lei aveva una quantità enorme di persone definite “amiche” ma nessuno di cui si fidava veramente e il “fatto” di essere spiata era la concretizzazione di questa sensazione di “perdita della familiarità”. Ma un’altra cosa importante fu per me la scoperta che aveva entrambi i genitori gravemente ammalati, persone entrambe sempre molto presenti ma che per la prima volta nella sua vita non potevano più essere un riferimento e un aiuto. Evidente anche la paralisi emotiva di fronte alla possibilità della morte e all’incapacità di essere lei un aiuto per loro. Mano mano che abbiamo messo a fuoco gli episodi critici di vita, Ida ha espresso con maggiore precisione i contenuti del “fatto” raccontando altri particolari. Dopo tre mesi di terapia Ida è riuscita ad esprimere temi molto radicati di vergogna non tanto nei confronti 30 degli altri, quanto rispetto ad un cambiamento di immagine di sé come persona forte, in grado di gestire ogni cosa in una vita fino ad allora segnata dalla spensieratezza e dalla protezione familiare. Nel mentre che ricostruivamo i contesti di vita attuale, e quelli appena passati (utilizzando la sequenzializzazione, Guidano 1998, stimolando la sua capacità di mettersi nei panni degli altri per intuire cosa altro potevano pensare al di là della denigrazione “scontata” nei suoi confronti…), il tema delirante gradualmente si è ridimensionato perdendo di intensità e lei ha iniziato a fare brevi tentativi di uscita di casa, definiti come esplorazioni di prova sulle cui conseguenze emotive discutevamo in terapia (metodo della moviola). A 10 mesi dall’inizio della terapia Ida ha ripreso una discreta vita sociale, rivedendo e restringendo i suoi criteri di amicizia e trovando nuovi amici con modalità più selettive. E’ riuscita a trovare un posto di lavoro. Ha iniziato anche ad occuparsi dei genitori malati, facendo i conti con le emozioni di perdita connesse alla loro malattie. Abbiamo anche iniziato a rivedere la sua “storia affettiva” a partire dalle modalità messe in atto nel primo importante episodio di intimità con un ragazzo. Attualmente non parla più spontaneamente del “fatto”, e se glielo chiedo lo fa con una notevole distanza emotiva. Ciò nonostante continua a pensare che quanto percepito sia “probabilmente successo” ma che a lei non interessa più molto, essendo presa da altri problemi e interessi. Terapia farmacologica: dopo un breve periodo, a due mesi dal primo contatto, con una bassa dose di neurolettici (Zyprexa 2,5 mg./die), concordati con Ida, e poi sospesa per l’inefficacia e la scarsa tollerabilità, è stata utile, in alcuni periodi, l’assunzione di un AD di nuova generazione (Sertralina 50 mg./die). CASO 2 “Annullarsi per sopravvivere” Franco ha 17 anni e viene “portato” dai genitori perché da alcuni mesi ha problemi evidenti di bulimia. Ultimamente ha sviluppato una convinzione quasi delirante sul proprio corpo che riguarda il fatto di avere “le gambe grosse” e di essere esteticamente inaccettabile, in particolare di “essere basso” per cui vuole essere operato per diventare più alto. Queste ed altre convinzioni riguardanti il modo con cui si sente visto dagli altri, si accompagnano ad una aggressività verso i genitori che da verbale è diventata fisica. I temi di improponibilità fisica sono chiari fin dalla prima seduta nel configurare una personalità outward tipo D.A.P. e la presenza del disturbo alimentare bulimico non è altro che un meccanismo usato per regolare la distanza con gli altri. Il sovrappeso e la dismorfofobia gli impediscono concretamente di confrontarsi con gli altri: l’ultimo atto della sua improponibilità fisica è stata la chiusura in casa per evitare qualsiasi contatto con le persone, la cui presenza non può reggere. D’altra parte la sua grande capacità riflessiva tende a staccarsi dalla sua esperienza di vita e rivolgersi prevalentemente sulle sue stesse proposizioni ed enunciati: quanto più appare sguarnito nella capacità di muoversi “spontaneamente” nelle relazioni con gli altri, tanto più sembra incartarsi in acute riflessioni che non hanno alcun riferimento con la sua realtà di vita quotidiana. Nella prima fase della terapia ho costruito con difficoltà la relazione terapeutica con Franco. Era evidente che il suo atteggiamento oppositivo verso di me rifletteva quello verso i genitori, atteggiamento che dopo qualche tempo è stato chiaro all’osservatore (il sottoscritto): la madre aveva deciso la separazione dal marito e aveva improvvisamente interrotto il rapporto di investimento su di lui (prima trattato come il figlio bravissimo e intelligentissimo che sarebbe diventato famoso) provocandogli una delusione enorme. Nel lavoro ho stimolato fin da subito la sua curiosità di collegare i temi di “non proponibilità fisica” con quelli più generali di proponibilità personale e sociale. Di qui il passaggio verso la tematica di funzionamento personale tra sensibilità al giudizio degli altri e senso di inconsistenza personale fino alla non esistenza. 31 All’inizio ho dovuto gestire il tentativo che Franco ha fatto di rimanere nella “concretezza” del sintomo delirante sulla sua immagine corporea inadeguata, per evitare un iter ortopedico (allungamento della colonna vertebrale) cui i genitori in una prima fase avevano acconsentito. Oltre a pesanti atteggiamenti aggressivi con lesioni procurate ad uno di loro due. In questa terapia ho dovuto gestire la conflittualità dei genitori che durante e dopo la separazione continuavano ad utilizzare il figlio come terreno di scontro dei conflitti di coppia. Una valanga di mail, SMS, telefonate, nelle quali ad esempio mi veniva chiesta da parte della madre, medico, il mio appoggio contro il marito minacciandomi, pregandomi e passando continuamente da una posizione “mi devi certificare che mio figlio è matto” a “è un ragazzo intelligentissimo, è in questo stato per colpa del padre”. Le stesse pressioni ricevevo dal padre, alto dirigente statale. La sensibilità della famiglia alla vergogna mi ha permesso di evitare, nella fase in cui Franco ha compiuto atti di violenza in famiglia, l’invio al Servizio Psichiatrico per un ricovero coatto qualora avesse superato i limiti. Non è accaduto. In seguito, quando le condizioni psichiche sono migliorate e Franco, terminata la scuola, ha iniziato autonomamente a frequentare l’Università e fare qualche piccolo lavoro, ho concordato con lui il prosieguo della terapia escludendo i genitori. A distanza di tre anni Franco, per quanto ancora coinvolto nelle vicissitudini dei genitori, ha chiaro il suo tema di giudizio, riesce a vedere gli atteggiamenti dei genitori come “informazioni su di loro” senza perdere il controllo come accadeva prima e ha ripreso i rapporti col mondo esterno. Non ha mai assunto psicofarmaci. Considerazioni sui due casi In entrambi i casi l’intervento è stato precoce9, evitando la cronicizzazione della sintomatologia. I casi differiscono molto per la situazione familiare, non conflittuale nel primo caso, e terribilmente contorta nel secondo. Quello che li accomuna è la difficoltà di poter effettuare una “regolazione emotiva” rispetto ad forti emozioni emergenti in una fase di vita critica ed in particolare l’impossibilità, anche se per motivi assai diversi, di poter contare sull’appoggio delle figure genitoriali come “base sicura” per poter gestire il cambiamento; le necessità imposte dalla nuova situazione di vita impongono una “revisione drastica” dei temi narrativi familiari, che pertanto devono essere rivisti e ristrutturati in assenza, o andando contro le figure che li hanno generati. Nel primo caso il tema di “sicurezza” fobico deve confrontarsi con una realtà “minacciosa” per le emozioni innescate nell’affrontare situazioni sconosciute “non alla portata” e con la prospettiva imminente di perdita dei genitori. Nel secondo il tema D.A.P. di improponibilità fisica e di impossibilità di confronto con gli altri viene continuamente alimentato dalla conflittualità genitoriale che utilizza la condizione di “malattia” del figlio dentro una separazione coniugale non portata a compimento. L’altra differenza rilevabile è che nel primo caso è evidente una particolare concretezza nell’integrazione dell’esperienza, mentre nel secondo c’è una iniziale tendenza all’iperastrazione, alla riflessione continua non sulla sua esperienza di vita ma sui suoi stessi pensieri. Bibliografia Baron-Cohen S. (1997) “L’autismo e la lettura della mente” Astrolabio-Ubaldini ed. Roma. 9 La possibilità di un intervento, oggi chiamato convenzionalmente “precoce” nelle psicosi (anche se comunque tardivo rispetto alla emergenza sintomatologica), permette sicuramente esiti migliori fino alla “guarigione clinica”. 32 Boszormenyi-Nagy I., Spark G.M. (1988) “Lealtà invisibili. La reciprocità nella terapia familiare intergenerazionale” Astrolabio Ubaldini ed. Bruner R. (1992) “La ricerca del significato” Bollati Boringhieri ed. Torino Camaioni L. (1995) (a cura di) “La teoria della mente” Università Laterza – Psicologia, Bari. Cheli C. (2000,a) “Metarappresentazione, mente bicamerale e psicosi” su Psicobiettivo 2000 n.2 Cutolo G., Marsicovetere V, Foschi A, Lombardi G (2000): “Teoria della mente, psicosi, servizi di salute mentale” su Psicobiettivo 2000 n.3 Cutolo G. (2011) “L’approccio psicoterapeutico postrazionalista alle psicosi” [Psychotherapeutic postrationalist approach to psychosis] su Rivista di Psichiatria 46 (5-6), p.326-331, Sept. 2011 Cutolo G. (2013) “Conoscere la conoscenza tacita. Problemi epistemologici e trattamento dei disturbi psicotici” Atti del XIV Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-razionalista – Ancona, maggio 2013 Cutolo G. (2014) “La comprensibilità della psicosi: entra l’osservatore” in Psicoterapia Dei Processi Di Significato: Manuale Teorico E Pratico, Aa.Vv. Alpes ed. Frith C. (1995) “Neuropsicologia cognitiva della schizofrenia” Cortina Ed. Milano Dimaggio G., Lysaker P.H. (2011) “Metacognizione e psicopatologia” Cortina ed. Gallese V., Lakoff G. (2005), "The Brain's concepts: the role of the Sensory-motor system in conceptual knowledge" in Cognitive Neuropsychology, 22, 3, 455-479. Guidano V.F. (1992) “Il sé nel suo divenire” Bollati Boringhieri Torino Guidano V.F. (1994) In Cheli C. “Approccio post-razionalista e psicosi: riflessioni generali ed esperienze cliniche” Quaderni di psicoterapia cognitiva 7 vol.3 n.2, 2000 (settembre 2000) Relazione presentata al Convegno “Etologia e conoscenza” San Quirico d’Orcia –Siena. Guidano V.F. (1998) “La dinamica degli scompensi psicotici: processi e prospettive” (Intervento al 6° Congresso Internazionale sul Costruttivismo in Psicoterapia Siena). http://www.psicoterapia.name/Siena2.pdf Guidano V.F. (2010) (a cura di G.Mannino) “Le dimensioni del Sé” Alpes ed. Greenspan S.I., Shanker S.G. (Ed. it.2007 - Ed. or. 2004) “La prima idea. L’evoluzione dei simboli, del linguaggio e dell’intelligenza dai nostri antenati primati ai moderni esseri umani” G.Fioriti Maturana H.R., Varela F.J. (1985) “Autopoiesi e cognizione” Marsilio ed. Venezia Jaspers K. (1959) “Psicopatologia generale” – Il Pensiero Scientifico ed. Olson D.R. e Torrance N. (a cura di) (1995) “Alfabetizzazione e oralità” R. Cortina ed. Milano Ong, W.J. (1986) “Oralità scrittura” il Mulino ed. Bologna Sass L. (1994-2013) “Follia e modernità” Cortina ed. von Wright G.H. (1977) “Spiegazione e comprensione” Il Mulino, Bologna 33 TUTTO IL PENSABILE È POSSIBILE. LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ NEGLI ADOLESCENTI DELLA WEBCRAZIA Monica De Marchis Psicologa e Psicoterapeuta, Didatta Sitcc, Associazione Terapia Cognitiva Via degli Scipioni 245, Roma [email protected] Noi generalmente supponiamo che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre percezioni e così via, abbiano un unico fondamento: noi interpretiamo tutte le nostre esperienze come se accadessero ad un unico sé. È proprio questa nozione di unità che si è sgretolata, fino alla riformulazione del concetto di un sé cognitivo dis-unificato, (reticolare).La nozione di virtualità è fondamentale nella ricerca sui sistemi complessi, è una questione cruciale uscire dall'alternativa tra l'esistenza come sostanzialità e la non esistenza. L'identità personale è una funzione diffusa, non localizzabile ma allo stesso tempo con una capacità di azione. Dov'è l'identità della nazione francese? Non è da nessuna parte: non è la costituzione, non è il presidente, non è l'insieme dei cittadini. È un processo emergente dalla coordinazione di realtà e forze differenti. Allo stesso modo l'esistenza virtuale del sé funziona come un'interfaccia non localizzabile. È un processo, non una cosa. In: Il racconto dell'identità. Oltre la frammentazione del sé. Intervista a Francisco Varela (1994) Il cyberspazio nelle sue caratteristiche principali. Le sfide contenute nel cyberspazio. “Fino a poco tempo fa i tempi e i modi del cambiamento delle varie culture che ci trascendono e che hanno sempre costituito un mondo “praticato e condiviso” sono sempre stati lenti nel loro sviluppo da un lato, e circoscritti dall’altro, ai gruppi che li avevano prodotti” Varela (1994). Ma quello che la grande Rete fa saltare oggi, sono proprio i processi relativi a questi tempi e a questi luoghi, caratterizzati da una estrema velocità e dal fenomeno della globalizzazione. Questi process per la loro natura difficilmente permettono ai singoli e ai gruppi, che sono immersi nel mondo mediato da Internet, di comprendere cosa stia succedendo tanto da adeguare le proprie capacità di cambiamento a quello che avviene nella Rete. Il Word Wide Web è la grande rete di comunicazione planetaria letteralmente, la ragnatela globale. La Rete è senza confini, l’insieme delle reti sono autonome non avendo alcun “governo” centrale, si presentano di conseguenza come policentriche. Il Web è mezzo mediatico reticolare, trabordante di informazioni ma anche “Luogo Altro” di eventi allo stato nascente che, in quanto tali, sono anche portatori di esperienze emozionali, ancora senza nome e tutte da indagare. Illouz (2007) afferma che tali esperienze emozionali siano tipiche delle “Intimità fredde” del nostro tempo. Ganeri (1998) sottolinea che il disorientamento dell’individuo contemporaneo sia alla base di una "mutazione antropologica del sensorio umano" riferendosi ad una trasformazione in atto, che si accompagna ad una anestetizzazione delle emozioni. Un altro autore, Ivo Quartiroli (2013) sottolinea come tale mutazione antropologica, stia influendo già da tempo non solo sugli aspetti sensoriali ma anche su quelli cognitivi dell’umano, 34 soprattutto per i cosidetti “nativi digitali”, modificandone e riducendone la loro capacità analitica. Da un lato l’enorme mole di sapere accessibile nella grande rete, intesa non solo come scambio di informazioni, sollecita la nostra sensibilità, e soprattutto quella degli adolescenti , oggi intesi a tutti gli effetti nativi digitali, a ” maneggiare” le differenze e le pluralità e la nostra capacità umana di tollerare l'incommensurabile, così come ci suggerisce Lyotard, ma d’altro canto emergono nuove questioni che si susseguono ad un ritmo velocissimo. La realtà virtuale esistente, richiama, modella, omologa il repertorio di emozioni di molti adolescenti, i quali non disponendo ancora di competenze adeguatamente formate, e in uno stato emotivo di incertezza dilagante, emersa dall’essere venute meno le certezze delle grandi narrazioni, rischiano di restare prigionieri di tutto ciò che “appare” essendo per questa via indotti a costruirsi un'immagine semplificata e reversibile, mai data una volta per tutte, di sé e del (proprio) mondo. Tutti noi, adulti, adolescenti e bambini compresi, ci interfacciamo nella nostra vita quotidiana, più o meno consapevolmente con la potenza della Word Wide Web che influenza la pensabilità del mondo, la percezione di noi stessi e, il modo di stabilire relazioni con gli altri. Se fino a pochi anni fa il computer era l’indiscusso protagonista della rivoluzione digitale, oggi possiamo affermare che siamo entrati nell’epoca dello smartphone, con tutte le sue conseguenze non solo economiche ma anche sociali, culturali e generazionali. Le applicazioni de telefonini investono ogni aspetto della nostra vita quotidiana, trasformandosi ad una velocità fantastica in una sorta di protesi tecnologica del nostro corpo. Inoltre l’interfacciarsi con lo schermo, sia esso computer o smartphone, con la sua ipervelocità nell’elaborazione di dati, fornisce risposte immediate a questioni complesse eludendo la frustrazione dell’attesa. Tale consuetudine può fornire, soprattutto ai più giovani, l’illusione che ogni questione sia semplice e che la risposta valida sia sempre quella più rapida, impoverendo la possibilità di sperimentare la frustrazione e l’esperienza dei propri limiti. Tali aspetti possono rinforzare soprattutto tra gli adolescenti automatismi disfunzionali in assenza di una adeguata alfabetizzazione emotiva. Nuove forme di comunicazione nel mondo virtualmente reale. E’ innegabile che la Grande Rete permetta anche una comunicazione interattiva paritetica tra persone che attivamente cercano scambio e collaborazione con altri simili con cui coltivare affinità elettive. Un autore come Levy (1996) considera la comunicazione globale come un prezioso strumento che favorisce l’emergere di “intelligenze collettive” che stanno ridefinendo le coordinate di un nuovo modo di comunicare tra gli esseri umani. “Stiamo passando da un tipo di umanità ad un altro tipo di umanità in continua evoluzione. La differenza rispetto alla grande mutazione del Neolitico è che oggi abbiamo la possibilità di pensare collettivamente a questa avventura ed influire su di essa” (Levy 1996 pag 29) Negli incontri della vita quotidiana, che si svolgono senza la mediazione tecnologica, la comunicazione tra persone è generalmente composta da un 80% di aspetti non-verbali e paraverbali (tono della voce, prossemica etc etc) . Questa comunicazione nell’incontro in rete privilegia inevitabilmente la comunicazione verbale 20% rispetto a quella non verbale 80% (Giusti e Ticconi 1998) La comunicazione tra le persone mediata dalla tecnologia si svolge in una dimensione completamente digitale, che incrementa gli aspetti simbolici. Prendiamo in esame all’interno del vasto panorama, come esempio di nuove forme di socialità, due fenomeni macroscopici: le comunità virtuali delle Chat, e i MUD. Nelle Chat abitualmente è garantita la libertà di parola, sono abolite le distanze, non è praticata la censura, la comunicazione si presenta nella sua sincronicità, sono abolite le 35 differenze sociali, economiche, politiche, di genere. L’anonimato permette assunzioni di ruoli e identità plurime che possono essere prossime o discostarsi anche di molto da quelle “reali” ma pur sempre create dal soggetto. E’ una comunicazione che abbonda di acronomi e abbreviazioni, per ridurre i tempi di trasmissione sempre più caratterizzata dalla simultaneità. Le Mud, rappresentano un altro fenomeno di comunità virtuale, acronimo delle parole inglesi Multi User Duengeons, si estendono a partire dall’inizio degli anni ’70 come giochi di ruolo. Si tratta di veri e propri luoghi nei quali la realtà virtuale è strutturata in un testo che mescola numerosi ingredienti creando un forte senso di appartenenza fra gli utenti giocatori che costruiscono e interpretano personaggi simili a quelli della vita reale o totalmente fantastici. Costituiscono un nuovo tipo di realtà sociale virtuale in cui l’anonimato consente di giocare con la propria identità e/o indossarne di nuove, nella più assoluta libertà, in modo relativamente creativo ma sempre reversibile. La mancanza di informazioni sulle persone reali con cui si interagisce e l’assenza di indizi visivi, costituiscono fattori che incoraggiano processi immaginativi carichi di forte attrattiva, non solo per gli adolescenti. Sappiamo che già dall’età prescolare, fin dal 3°, 4° anno emerge nel bambino uno dei processi più interessanti dello sviluppo umano: l’immaginazione. Nel suo approccio tradizionale il cognitivismo considerava la conoscenza come risultante dalla rappresentazione di dati ambientali, e anche l’immaginazione corrispondeva ad una evocazione dell’esterno. L’immaginazione, dal nostro punto di vista, è invece un processo attivo di riconfigurazione della prassi che si svolge su un piano prevalentemente svolto nella dimensione del linguaggio. Riguardo ai processi immaginativi, cosa accade nelle comunità virtuali prima accennate? L’assenza di informazioni sulle persone reali con cui si interagisce e l’assenza di indizi visivi, come già abbiamo detto, costituiscono fattori che incoraggiano processi immaginativi carichi di grande richiamo, soprattutto per un adolescente. Viene a dilatarsi in modo iper-bolico la capacità di ricomporre, di riconfigurare la realtà ad un livello diverso. Ci si può staccare dalla realtà immediata e i fatti della vita possono essere utilizzati in modo diverso aprendo nuovi scenari, nuove flessibilità. Tali ricomposizioni dell’esperienza, non sono più “giocate” nella propria interiorità riflessiva, ma in una interiorità espansa e connessa on-line con altri soggetti. Questa dilatazione che annulla la referenza del discorso ordinario, in assenza di confini e di differenze, e che iper-stimola i processi di astrazione come può essere gestita da un adolescente? “L’immaginario si deterritorializza e si delocalizza, si svincola non solo dalle specificità territoriali ma anche dai vissuti concreti: diventa immaginario in quanto tale, immaginario allo stato puro” (G. Boccia Artieri 2012, Stati di connessione, pag 32) Tale volatilizzazione dell’immaginario in che modo può essere sostenuta da un adolescente in una fase in cui è alle prese con una metamorfosi del proprio corpo mentre non si è compiuta del tutto la maturazione cognitiva? Nel processo di costruzione identitaria degli adolescenti dobbiamo considerare l’impatto dell’anonimato corporeo, da alcuni inteso come un luogo affettivamente freddo e per altri il luogo libero per antonomasia per comprendere in che modo il suddetto impatto possa facilitare la massima espressione di sé, in una dimensione dove regna il principio del “sei quel che vuoi essere”. Ognuno di noi, compreso un adolescente, con molta semplicità può costruirsi una homepage, un blog, un profilo Facebook, e mostrare in teoria a tutto il mondo foto, scritti, idee, riflessioni, gusti nell’istantaneità tipica dell’on-line continuo. Ognuno può esplorare parti sconosciute della propria soggettività. L’allenamento a osservare da più punti di vista la propria esperienza, la sollecitazione allo sviluppo di competenze nell’attività ludiche di gruppo, la spinta all’ astrazione, il vincolo ad utilizzare il linguaggio simbolico rispetto a quello corporeo, tutti fattori centrali nello sviluppo adolescenziale, possono fornire 36 al soggetto il vantaggio di poter disporre di maggiori risorse per creare risposte innovative in mondo in continuo mutamento e sempre più complesso. Molti sostengono che nel WWW si assiste ad una separazione tra l’esperienza del vissuto e la sua rappresentazione, che oggi non convivono più all’interno dei singoli comparti mente/corpo, ma sono diventati due processualità non più accoppiate. Ne consegue la possibilità di elaborare rappresentazioni in modo disincarnato dai vissuti individuali. (Artieri 2012). A tale proposito gli adolescenti di oggi sono già chiamati a sostenere il peso di tanta leggerezza tipica dell’”Altrimenti Possibile”. Ma quali gli urti della frammentazione, in una fase in cui l’adolescente cerca la propria unitaria unicità? Come possono definire i confini della propria identità in un cyberspazio dove tutto il pensabile è possibile? Come possono elaborare rappresentazioni del proprio vissuto soggettivo se questo viene sperimentato in una dimensione non pienamente corporea? Internet da strumento informativo è divenuto uno strumento alternativo per comunicare, per socializzare, con ricadute sulle relazioni e sulla identità. Pochi studi sono stati realizzati in ambito psicologico sul rapporto tra i giovani e internet in Europa, solo negli ultimi anni si assiste ad un maggiore interesse sull’argomento. Abbiamo bisogno di ricerche ma ancor prima di paradigmi nuovi, nuove lenti e nuovi osservatori. Servono studi e sistemi di ricerca che si affranchino da una riduttiva e classica psicopatologia descrittiva. La maggior parte di tali studi di stampo riduzionista sono rivolti a individuare e misurare aspetti psicopatologici, isolandoli e studiandoli da fuori. Tali ricerche se da un lato dovrebbero evitare la sterile visione che vede contrapposta la realtà alla virtualità, dall’altro potrebbero arricchirsi studiando il fenomeno nel suo contesto, cioè la vita degli adolescenti nel cyberspazio e gli effetti psicologici che tale esperienza comporta, non solo sul piano quantitativo ma qualitativo, in altre parole, non solo sul piano comportamentale ma anche su quello emotivo. Occorrono dati empirici per avviare studi su come i processi di costruzione dell’identità siano influenzate dalla vita che gli adolescenti intrattengono in Rete intesa come “Luogo Altro” Risvolti “critici” che si evidenziano nella risoluzione adolescenziale L’adolescenza, seguendo la tradizione post-razionalista può essere sintetizzata come quella fase della costruzione dell’identità personale in cui gli aspetti centrali riguardano il tema della reciprocità emotiva, della intersoggettività, della reciproca negoziazione di sé con l’altro. In questa prospettiva viene privilegiata una visione evolutivo-storica che considera l’adolescenza come la fase in cui emerge la possibilità-necessità di distinguere sé e gli altri in termini di unicità personale. Una fase del ciclo vitale in cui la singolarità del proprio essere cerca, non senza fatiche, consistenza e continuità. Il senso di unicità personale che riguarda la possibilità di riconoscere l’altro simile e al tempo stesso diverso da sé. Ciò implica un mutamento radicale della propria coscienza che risulta interdipendente ad altri complessi processi: la maturazione sessuale, l’emergere del pensiero astratto e l’uso del linguaggio che permette una riconfigurazione narrativa della propria esperienza. L’arduo compito degli adolescenti di oggi riguarda la possibilità/necessità di riuscire a costruire, mantenere ed articolare il senso di sé, di ciò che il soggetto sta diventando, facendo i conti con stati di instabilità, precarietà ed incertezza. Elementi che nell’epoca contemporanea non solo si presentano nel vissuto personale, ma che caratterizzano anche una realtà cangiante, complessa e polifonica. Per poter rinnovare una prospettiva di comprensione dell’esperienza soggettiva contemporanea dovranno essere considerate, non solo le forme psicopatologiche finora studiate ma anche le forme di disagio più o meno ri-conosciute che emergono dalle pratiche e dalle tendenze già in atto e che incidono in modo nuovo sulla 37 costruzione del Sé. Nell’epoca contemporanea vacillano e si ridisegnano temi come il valore della memoria, il senso del futuro, la progettualità, il confine tra pubblico e privato, concetti cardini nella cultura della modernità: “Il soggetto tardo moderno è ormai posto di fronte ad un mondo che privilegia più l’esperienza immediata e veloce che la storia, più il controllo e la sicurezza che il progetto, più l’adattamento al presente e alla realtà mondana che la ricerca di un senso che esce da se stessi, più il consumo di un tempo libero-feticcio che la creazione e l’impegno trasformativo.” (Graziano Martignoni 1998, 108). Oggi, che stiamo tutti vivendo immersi nella rivoluzione digitale, a quali pressioni, a quali sfide sono chiamati coloro che uscendo dall’infanzia devono misurarsi con la propria rivoluzione personale dentro un’altra rivoluzione dalle caratteristiche epocali in cui si frattura, ad esempio, la trasmissione della esperienza della generazione dei genitori? Quale ulteriore e inedito scarto si crea tra la generazione degli adulti e quella dei giovani? I genitori di oggi, considerati degli “immigrati digitali” poiché non sono nati dentro all’universo tecnologico, e come tali si muovono in uno spazio straniero, cercando più o meno efficacemente di comprenderne i codici e le regole, mentre i giovani sono “nativi digitali” e l’universo tecnologico è a loro familiare, sono nati e cresciuti dentro le sue regole, ne comprende i codici e lo abita nel pieno della spinta creativa e biologica che è tipica della sua età. Pensiamo, ad esempio, al mondo della scuola e dell’Università: spesso “l’ignoranza tecnologica” degli insegnanti non equipaggiati a offrirsi come guide nell’istruzione e nella formazione culturale attuale, si interfaccia con una modalità “naif” ed ingenua dei giovani che cercano di reperire fonti e dati in Rete talvolta, in modo superficiale e grossolano, senza che nessuno insegni loro, ad esempio, come usare in modo costruttivo e consapevole un’enciclopedia on-line. Turkle (2012) descrive i ragazzi di oggi come “cresciuti con animaletti elettronici e sulla rete, in una vita del tutto “allacciata”, sono ragazzi che non considerano la simulazione un ripiego e guardano alla vita online come la cosa più normale del mondo dandola scontata come il tempo, ma gli adolescenti di oggi non hanno meno bisogno dei loro predecessori di apprendere la capacità empatiche, di riflettere sui loro valori e sulle loro identità, e di gestire e esprimere i propri sentimenti. ” Gli strumenti tecnologici offrono ai bambini e ai ragazzi infinite opportunità, di gioco, di informazione, di contatti sociali, ma riempiono spesso una assenza, quella di genitori, insegnanti e adulti che hanno demandato alla tecnologia il compito di intrattenerli, divertirli, educarli e farli crescere. Peccato che, come ci spiega la Turkle (2012) con mille esempi, la tecnologia non fornisce risposte valide sufficienti per affrontare la solitudine, le difficoltà della crescita e le problematiche emotive tipiche dell’età adolescenziale. La tecnologia può al massimo offrire l’illusorietà della soluzione, può posticipare nel tempo la presa di coscienza sulla durezza della realtà , senza offrire comunque un sostegno emotivo soprattutto nell’età evolutiva e nella fase adolescenziale. alcuni Nel suo ultimo libro “Insieme ma soli” la scrittrice dedica molta attenzione alle nuove generazioni di nativi digitali come autori e protagonisti della rivoluzione tecnologica in corso ma anche come le vittime candidate a subire gli effetti più deleteri perché incapaci di strumenti di riflessione critica e impossibilitati a fare scelte alternative. Noi sappiamo che il compimento della rivoluzione adolescenziale di un soggetto con stile depressivo si gioca sulla gestione del suo senso di negatività personale. Un soggetto che spesso tende ad evitare il coinvolgimento, inteso come rischio di incontrollabilità della perdita, sarà chiamato a nuove forme di gestione della vita di relazione nelle comunità virtuali. Quell’adolescente solitario, goffo, marginale alla vita del gruppo che tipo di utilizzo potrà fare di internet e in che modo la vita di relazione nei social network lo esporrà a emozioni intense, relative ad al proprio senso di diversità personale? O ancora quando invece sono presenti tratti di promiscuità sessuale cosa potrà pescare dalla Rete un adolescente con questo profilo? Che tipo di sostegno può offrire Internet ad una collocazione rispetto alla vita 38 così tanto orientata al piano cognitivo simbolico nelle rappresentazioni individuali di massa della rete? Pensiamo alla regolazione emotiva che si attiverà nelle relazioni in rete, dal momento che la relazione dominante nei Network non è più quella gerarchica conosciuta finora, ma quella in cui il codice che regola attualmente il sistema sociale è inclusione/esclusione. Non conosciamo quali effetti può produrre in un soggetto così tanto sensibile a temi quali la perdita, l’esclusione, il bisogno/ il timore di esser partecipe con gli altri. Né tantomeno abbiamo dati sulle esperienze di neo-solitudine in Rete. Il compimento della rivoluzione adolescenziale di un soggetto con profilo disturbo alimentare psicogeno si gioca essenzialmente sulla gestione dell’Alterità attraverso strategie di demarcazione e di appartenenza, ma quanto e in che modo la vita sociale in Rete libera e vincola questo tipo di adolescente dallo sguardo dell’altro se nelle nuove forme di socialità l’individuo si vive sempre più come “evento” ? Nuove opportunità e nuovi pericoli vengono vissute da questo giovane nelle comunità virtuali, dove si può scegliere attivamente cosa proporre agli altri di sé in un anonimato corporeo. Poco sappiamo del tipo di appartenenze e individuazioni che può sperimentare in Internet. Nel gioco della ricerca della referenza esterna in cui, nelle forme più concrete qualsiasi fonte può essere utilizzata per comprendere meglio uno stato interno, come vengono utilizzati i gruppi social , e in che modo influiscono nella ricerca della propria identità di questi giovani? Poco sappiamo, nei casi in cui venga vissuto un senso pervasivo di non protagonismo della propria esistenza, sul tipo di “soluzioni” che offrirono i social network. Racconta una paziente adolescente “Passo molto tempo su Facebook, e quanti “mi piace” ho in bacheca mi fanno capire che esisto per gli altri, che non resto insignificante”. Le dichiarazioni di status su Facebook rappresentano una comunicazione del proprio vissuto che sospinge fuori da una riflessività puramente interiore, poiché il senso individuale è continuamente sollecitato a interfacciarsi con lo status dell’altro dentro la connessione. Non è soltanto sollecitata la richiesta di auto rappresentazione, il fatto è che la risposta sarà messa in pubblico in uno stato di costante auto-esposizione. Il compimento della rivoluzione adolescenziale di un soggetto dal profilo fobico si realizza essenzialmente sulla gestione della propria vulnerabilità attraverso strategie di controllo nei confronti dell’ambiente circostante e della relazione con le figure significative, intese come protettive. Se l’adolescente fobico armonico può riuscire a riappropriarsi della propria vulnerabilità spiegandosela come una necessità, come verrà articolato tale tema, nell’epoca tecnologica? Il cyberspazio, stimolando la curiosità di tali soggetti, invita ad esplorazioni potenzialmente infinite, da un punto di vista conoscitivo quali strategie di controllo un giovane con questo profilo, metterà in atto di fronte all’incommensurabilità del sapere in Rete? E’ ipotizzabile che un giovane di questo tipo giunga ad una risoluzione armonica tanto più si affineranno le sue strategie di controllo (fino ad oggi, espresse prioritariamente nella dimensione dello spazio in termini di vicinanza e lontananza di tipo fisico) nella gestione della relazione con l’altro in un mondo che ci getta in luoghi/non luoghi. Nuove strategie di controllo della relazione con l’altro significativo verranno messe in campo, ad esempio attraverso l’uso di applicazioni degli smartphone come Whatapp che sembrano promettere un on-line permanente con l’altro. Come viene sollecitata l’esplorazione in una dimensione dove vengono abolite le distanze ma ci si può sentire fortemente sradicati e soli, in giovani sensibili al tema della protezione? Nuovi scenari di esperienza emotiva si presenteranno ad un giovane che gestisce la propria vulnerabilità attraverso un ascolto serrato della propria esperienza somatica, in relazioni dove la comunicazione è svincolata dalla presenza corporea e dove è più semplice connettersi che congiungersi. Il compimento della rivoluzione adolescenziale in un soggetto dal profilo ossessivo si realizza soprattutto attraverso una armonica riappropriazione della dimensione razionale. Come può 39 influire la vita in Internet nei momenti di intensità emotiva quando l’iperattivazione cognitiva si interfaccia con la vita nei social network? Nuove strategie dovranno essere sviluppate in quella ricerca di principi assoluti di certezza e verità, in un’epoca in cui il mondo si present potenzialmente senza limiti e verità assolute, in cui regna il principio di relativizzazione. L’anonimato corporeo diventa una agevolazione o una barriera? Sappiamo quanto gli aspetti immaginativi dei soggetti ossessivi siano sviluppati, sia nelle forme armoniche che in quelle disarmoniche, ma nel mondo del cosiddetto “virtuale” dove scompaiono confini dove tutto è possibile, quali sollecitazioni di intensità emotiva o di imprevedibilità delle conseguenze dei propri atti possono sollecitare problematicamente il suo assetto su di un piano poco familiare come quello della flessibilità? Appare importante lo studio delle discontinuità che si presenteranno in questo tipo di adolescente, in cui il piano del pensiero si confonde con quello della azione. Conclusioni L’uso e la diffusione degli strumenti tecnologici ha modificato e sta modificando il nostro modo di percepire lo spazio e il tempo. La velocità, la mobilità, la flessibilità richiesti per “essere” in questa nostra epoca, attivano cambiamenti complessi e proteiformi che sembrano avere già avviato processi di profondo e radicale mutamento, non solo in ambito sociale ma anche psicologico,e più in particolare, nella percezione della stabilità/discontinuità della coscienza di sé. La partecipazione e la condivisione delle nuove pratiche richiede e rimanda velocità tanto da essere molteplicità; la “sfida” che questa epoca contemporanea sembra rivolgere a noi e in particolare agli adolescenti, appare quella di riuscire a costruire un’identità che trovi, in una epoca di mutazione antropologica, la propria costanza nel cambiamento continuo. Bibliografia Arduino G. e Lipperini L. (2013) Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del Web. Casa Editrice Corbaccio Milano Bauman Z. (2003) Intervista sull’identità, (a cura di B. Vecchi), Laterza, Bari Baumann Z. (2008) La vita liquida. Laterza, Bari Boccia Artieri G. (2012) Stati di connessione. Pubblici, cittadini e consumatori nella (social) network society. Franco Angeli Milano BrunerJ.(1992) La Ricerca del Significato. Bollati Boringhieri, Torino Cantelmi T., Del Miglio C., (2000) La mente in internet psicopatologia delle condotte on-line, Piccin Nuova Libraria, Padova Chiurazzi G. (2002) Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione. Mondadori Milano De Kerckhove D. (1995) La civilizzazione video-cristiana, Feltrinelli, Milano De Marchis M. ,Zaratti R., (2004) “L’insostenibile leggerezza dell’essere…giovani”. Quaderni di Psicoterapia n.15, vol.8, n.2 . De Marchis M., Zaratti R. (2005) L'età contemporanea e il disagio giovanile: ruolo dell'identità Psicobiettivo vol.2 Franco Angeli Milano De Marchis M., Zaratti R. 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La psicoterapia cognitiva post-razionalista è nota per alcune caratteristiche distintive fondamentali, che le assicurano un posto pressoché unico nel panorama delle teorie cognitive. Fra gli assunti di base di questo modello, troviamo le concezioni costruttiviste della scuola cilena, in base alle quali si afferma che la conoscenza umana è un fenomeno autoreferenziale volto a mantenere l’identità personale, e che esso è guidato da processi taciti. Questa visione va un po’ oltre le classiche impostazioni costruttiviste di molti approcci cognitivisti, i quali orientano lo sguardo non più sui modi in cui un soggetto interpreta la realtà, bensì su come un individuo si spiega la propria esperienza nel mondo. Se si intende l’essere umano come un “sistema conoscitivo”, si può osservare, da un punto di vista esterno, il funzionamento dei suoi processi interni di conoscenza, individuandone i criteri autoreferenziali. La teoria di Guidano 10 afferma che l’uomo si attribuisce e assimila la propria esperienza ordinandola nel linguaggio, e dunque interpretandola e spiegandosela, in modo che gli risulti continua e coerente con un modo di sentirsi nel mondo e con gli altri, costituitosi originariamente all’interno della relazione primaria di attaccamento. Pertanto, sulla base delle oscillazioni emotive ricorrenti nell’interazione con una persona di riferimento, si organizzerebbe un impianto di regole tacite che implicitamente governa l’interpretazione di successive esperienze, vincolando i significati autoreferenziali che ad esse verranno attribuiti ricorsivamente, una volta raggiunte le capacità di pensiero autoriflessivo. Si individua così un meccanismo autopoietico costitutivo della personalità, che dovrebbe generare un senso conservativo di sé, necessario a mantenere l’identità personale. Questo “senso di sé” potrebbe subire modificazioni lungo un continuum di flessibilità e astrazione, da un lato, e di rigidità e concretezza dall’altro, ma oscillerebbe sempre entro la stessa banda di significato, indicata come Organizzazione di Significato Personale. In base alla teoria, un’organizzazione rigida coagula vari significati dell’esperienza all’interno di una semplice spiegazione autoreferenziale, mentre in una organizzazione flessibile ridonda il significato solo di alcune esperienze cruciali, altamente rilevanti per l’identità e la stabilità del soggetto. La cura consiste nell’esplorare l’esperienza in modo da evidenziare le regole tacite che ne governano le autoingannevoli interpretazioni, e prendere così una distanza da quelle rigide spiegazioni che oscurano la ricchezza della variegata esperienza “immediata”. Ma quella esperienza originaria, che ordiniamo nel linguaggio e che sembra essere riconosciuta e riferita a sé solo nel corso di tale operazione, a chi appartiene? Esiste davvero, o è una costruzione del cervello? E, se esiste, come si fa ad esplorarla, distinguendola dalle sue interpretazioni? 10 Guidano V. Il sé nel suo divenire. Verso una terapia cognitiva post-razionalista. Bollati Boringhieri, Torino, 1992. 42 Se cerchiamo risposte a queste domande, nell’ultimo libro che Guidano ha scritto di suo pugno11, non troviamo soluzioni pienamente soddisfacenti. Da un lato, sembra che in esso si affermi un primato della cognizione, dall’altro, si sottolinea come solo l’emozione che si prova nella scoperta dell’effettiva articolazione dell’esperienza possa generare un cambiamento; inoltre, pur distinguendo nettamente i due “domini conoscitivi”, cognitivo ed emotivo, non è ben chiara la relazione che intercorre tra i due. Riguardo al ruolo del pensiero, si nota che sarebbero le spiegazioni dell’esperienza a generare un senso di identità continua e coerente; come a dire che, senza un sistema di regole di autoriferimento che permettano di reidentificarsi nel tempo come oggetto di osservazione, nessun uomo potrebbe sentirsi e riconoscersi come lo stesso nel tempo. Questa concezione dell’identità rimanda alla visione di Hume 12, secondo il quale l’esperienza è per sua natura frammentaria, una sorta di sensazioni in disordinata successione, che solo la memoria può unificare in un tutto apparentemente coerente. Ancor di più, si potrebbe dire che, se l’identità è costruita da un soggetto che interpreta e si racconta l’esperienza, quest’ultima sia di per sé equivoca e impersonale. Di conseguenza si pone un’altra domanda: se l’esperienza “immediata” acquista significato solo attraverso una distinzione linguistica, senza la quale non è decifrabile e non significa nulla, come si fa ad esplorarla in “moviola”? che cosa potremmo mai trovare, quando indaghiamo un episodio emotivo reale e mettiamo a fuoco i suoi dettagli, se non sensazioni illusorie, prive di un proprio significato? E come potrebbe, il terapeuta, arrogarsi il diritto di decidere quale sia l’interpretazione migliore da dare a quel disordinato agglomerato di pensieri, memorie, immagini, sensazioni affettive? In realtà, nel citato testo di Guidano, troviamo un altro riferimento importante che suggerisce una via di soluzione, mettendo però in crisi proprio quella concezione portante di una identità “costruita” primariamente nel linguaggio, seppure su regole tacite. Si nota, infatti, che rifacendosi alla fenomenologia di William James 13 , quel “Me”, che ordina e trasforma l’esperienza in oggetto di osservazione, estrae i contenuti da un “Io” che vive. Questi non è un susseguirsi caotico e insignificante di sensazioni, ma è già un soggetto, con una sua identità prelinguistica, il cui esperire si svolge in un flusso temporale di coscienza continuo e già ordinato. A questo livello, l’Io soggetto esperisce se stesso direttamente, senza la mediazione del linguaggio, in un modo che Guidano sembra però considerare non “fruibile” 14. L’esperienza dell’Io diventerebbe fruibile quando egli riesce a mettere a fuoco proprio quel fluire ininterrotto di eventi della coscienza, che potremmo definire “preriflessiva” 15. Tale scorrere temporale di eventi si mostra in un ordine di successione già presente e inequivocabile, che li vede correlati gli uni agli altri in modo già significativo. Queste connessioni danno loro un senso che è comprensibile a tutti, un senso che già appartiene a un contesto umano condiviso, rispecchiando una logica che è “nelle cose stesse” di un mondo storico e intersoggettivo. L’esperienza originaria, nel suo fluire in una successione unica e irripetibile nella coscienza preriflessiva del soggetto, assume qui il suo primato. L’interpretazione che di essa si dà, nel 11 Guidano V. Op. Cit. 12 Hume D. Trattato sulla natura umana (1739-1740). Laterza, Roma-Bari, 1982. 13 James W. Principi di Psicologia (1890). Principato, Messina, 1988. 14 Guidano V. Op. Cit., pag. 27. 15 Gaetano P. Il Sé tra futuro e passato. La conoscenza tacita nella riformulazione clinica. In Nardi B, Arimatea E. (a cura di). "Lavorare con la Conoscenza Tacita". Atti del XIV Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista. Accademia dei Cognitivi della Marca, Ancona, 2014. 43 linguaggio, può aderire al significato di questa originaria concatenazione di accadimenti ed effetti interni in una data situazione, oppure distorcerlo in modo più o meno plausibile, ma pur sempre ingannevole. Due anime scorrono, perciò, in questo modello. La prima, centrata sulle funzioni più cognitive o interpretative, cerca di cogliere le regole di autoriferimento dell’esperienza, e vuole governare le emozioni perturbanti attraverso un distanziamento riflessivo dai significati automaticamente attribuiti ad esse. A caccia di tali regole, il terapeuta esplorerà frammenti di memorie di vario genere, cercando di scoprire, per esempio, l’eventuale senso di non amabilità che si attribuisce a una percezione di rifiuto, o il senso di inadeguatezza innescato da una percezione di giudizio, o il senso di indegnità per una emozione non legittimata, o il senso di fragilità connesso a un pericolo di solitudine, e così via. In questo modo, l’esperienza cosiddetta “immediata” avrà poco di autentico da rivelare. Si farà attenzione al modo in cui un soggetto espone e interpreta la sequenza di eventi, per riconoscere le regole di attribuzione di significato che corroborano un senso di sé già delineato. Il terapeuta dovrà possedere i criteri per estrapolare e individuare le categorie interpretative, e mostrare al paziente tali ricorrenti processi di significazione, per ottenere che egli se ne distanzi e cominci a utilizzare modalità più flessibili. Si sfrutta così la potenza del linguaggio e del racconto, al mutare del quale vengono evocate nuove emozioni e nuovi punti di vista. Ma è davvero così che si elimina il senso di estraneità dell’esperienza che caratterizza il disagio emotivo sintomatico? La nostra identità è forse il frutto di una costruzione linguistica, che si scontra con un senso precoce di noi stessi che si è formato prima che potessimo attivamente indirizzarlo con il linguaggio? Non sembra questo il modo di comprendere la natura dell’uomo, nella seconda anima del cognitivismo post-razionalista. In essa, si attribuisce un valore proprio all’esperienza “immediata”, e si riconosce come le sensazioni e le emozioni siano un modo di esperire “direttamente” se stessi, di un Io che vive, sente, agisce. Si tratta di un Io “intelligente”, che processa automaticamente gli stimoli e che ad essi risponde, secondo una logica che è nella natura stessa delle cose, e perciò condivisibile e comprensibile. In ciascun “Io” l’esperienza fluisce ininterrottamente, ed è in questo scorrere che si costituisce come unitaria e continua, mentre la sua unicità corrisponde a quella specifica e singolare sequenza di eventi e di contesti esistenziali. Si tratta di un’esperienza che, nel suo fluire temporale, si autorganizza secondo criteri suoi propri, che non possono essere racchiusi in un ordine distintivo linguistico, sebbene vengano da questo influenzati. Nel suo continuo sedimentare, l’esperienza potrà organizzarsi privilegiando alcune connessioni al posto di altre. Senza un’esperienza di reciproca comprensione con altri, per esempio, l’ordinaria ambiguità delle comunicazioni interpersonali sarà difficilmente discriminata, mentre un eccesso di informazioni emotive ambigue spingerà alla ricerca di un implicito riferimento esterno per valutare in automatico la salienza delle informazioni; la delegittimazione interpersonale delle connessioni fra accadimenti ed emozioni costringerà a valutazioni discorsive secondo criteri normativi astratti, mentre l’impropria legittimazione delle informazioni emotive implicherà problemi di autoregolazione. C’è un continuo richiamo, ne “Il sé nel suo divenire”, all’importanza dei “fatti”, all’esigenza di oltrepassare le spiegazioni, di articolare l’esperienza come essa si svolge “effettivamente”, all’importanza del “dominio emotivo” e alla poca consistenza della comprensione puramente intellettiva. E, del resto, come si potrebbe rilevare un errore, nell’interpretazione dell’esperienza, se questa non avesse già un significato che oserei dire “autentico”? Come si potrebbe condurre una “moviola” se non si comprendesse di già come uno stimolo possa produrre “necessariamente”, in certe condizioni, una specifica reazione emotiva? Nell’arte che 44 Guidano ci mostra, quando dirige un’esplorazione, vediamo la ricchezza delle sue intuizioni sul senso delle cose in se stesse, che rivelano, alla luce delle sue domande, la chiarezza del loro significato originario. Manca, però, una teoria compiuta e trasmissibile di questa esperienza umana, di come essa si manifesti preriflessivamente alla coscienza. Muovendoci in questa seconda direzione, vediamo che il senso di sé non è dato solo da una valutazione discorsiva, sollecitata dal confronto con gli altri, bensì è già presente in altra forma prima di una riflessione e distinzione linguistica, e si produce e rinnova continuamente lungo tutto l’arco della vita. Infatti, nel fare esperienza di qualcuno o di qualcosa, si ha già un’esperienza di sé in relazione a quel qualcuno o qualcosa, e perciò quel sentirsi in relazione con gli altri o le cose è già autoriferito. Tale coscienza preriflessiva di sé è un’autoaffezione interiore16, che mantiene unitarietà e continuità grazie alle sue concatenazioni temporali, in base alle quali un modo di sentirsi-in-relazione-a precede un altro modo di sentirsi-inrelazione-a, e ad esso è connesso nel continuo avvicendarsi di eventi. La comprensione intuitiva e immediata di questi legami (significati) originari può rispecchiarsi in narrazioni ad essi coerenti e aderenti; i racconti mireranno certamente a una comprensione reciproca con le atre persone significative, ma non saranno finalizzati alla loro mera ed effimera “approvazione”. Questa, da sola, potrebbe al massimo giustificare temporaneamente un’emozione o un’azione, ma lascerebbe poi spazio, di nuovo, a un’imbarazzante sensazione di estraneità della propria esperienza, poiché ingannare davvero se stessi non è possibile. Un racconto fittizio, se non corrisponde al desiderio di nascondere agli altri una verità nota, è solo un tentativo di dare senso a un’esperienza che non è stata compresa. Quando Guidano sottolinea che il flusso dell’esperienza immediata è “riferito all’esterno”, come se si trattasse di “una realtà univoca e comune a ogni essere umano” 17, egli di fatto non evidenzia un aspetto illusorio della coscienza, come sembra intendere, bensì un dato che riguarda una realtà umana effettiva: l’esperienza ha le sue regole, ha una sua intrinseca legalità18, condivisa da tutti gli individui appartenenti allo stesso mondo storico intersoggettivo. Unica è la successione di eventi, la potenza, la qualità di questi, la situazione esistenziale in cui le cose accadono. Egli stesso sottolinea questo aspetto, in altre parti del suo libro, quando afferma che nell’ “Io” il “significato personale rappresenta la processualità progettuale, cioè un continuo ordinamento di networks di eventi significativi correlati tra loro”19. Nel prosieguo del discorso, Guidano enfatizza, invece, come il senso di unitarietà nel tempo sia dato dal riconoscimento di “pattern ricorsivi di modulazione emozionale”, ma questa concezione merita una riflessione. Se, da una parte, è possibile affermare che ciascun individuo si riconosca come lo stesso attraverso le consuete manifestazioni del proprio carattere, non per questo si può dire che una reazione emotiva insolita o una condotta inusuale rappresentino una frattura della coscienza tale da interrompere il proprio senso di continuità e unitarietà. Ciò accadrà solamente se l’evento discrepante sarà così dirompente da lacerare il tessuto composto dall’intera rete dei significati possibili. Piuttosto, il soggetto sarà obbligato a interrogarsi sul senso di quelle manifestazioni di sé, per comprenderne le ragioni. D’altro 16 Cfr. Husserl E. Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913). Einaudi, Torino, 2002; Henry M. Fenomenologia materiale (1990). Guerini e Associati, Milano, 2001. 17 Guidano V. Op. Cit., pag.7. 18 Costa V. I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica. Quodlibet, Macerata, 2009. 19 Guidano V. Op. Cit., pag.33. 45 canto, anche il carattere che uno ha è spesso percepito come una limitazione, come un meccanismo idiosincratico che talora impedisce di essere veramente se stessi. Per concludere, se si riconosce piena legittimità alla dimensione esperienziale del Sé, la cura non avrà tanto bisogno di individuare le regole tacite che guidano i criteri di ordinamento linguistico autoreferenziale, quanto piuttosto di esplorare correttamente l’esperienza e di svelarne il significato originario, per poterlo poi inserire in una narrazione coerente con esso. Serve, però, una teoria esplicita dell’esperienza, orientata fenomenologicamente e validata scientificamente.20 Il Sé fra realtà e finzione Il Sé, dunque, è un’entità sfuggente e difficile da definire. Esso ha molteplici sfaccettature, come suggeriva James21 , quando ne descriveva le caratteristiche materiali, sociali, spirituali. Attualmente, alcuni ricercatori, nel tentativo di capirne le funzioni e di scoprirne l’ubicazione all’interno dell’organismo umano, sono giunti a dubitare della sua esistenza 22. In Marraffa e Paternoster23, per esempio, troviamo che l’Io è concettualizzato come un insieme di meccanismi di difesa, non da conflitti pulsionali inconsci, bensì dalla minaccia della sua stessa inconsistenza ontologica. Per questi Autori, l’Io non è un ente, ma un verbo, un continuo “farsi-Io” che, percependo la sua intrinseca insussistenza, opera continuamente per assicurare la propria continuità. Dunque non esisterebbe alcun sé che non sia finzione, e l’autocoscienza avrebbe un carattere esclusivamente confabulatorio, autoingannevole. Nelle loro parole, “l’Io è qualcosa di primariamente inautentico in quanto è la facciata dell’inconscio computazionale”24. A parte la già citata posizione di Hume, nella tradizione filosofica l’Io è un ente, sebbene tanto Husserl, nella prima edizione di Ricerche Logiche, che Sartre, in La Trascendenza dell’Ego, abbiano inizialmente espresso dubbi sulla esistenza del Sé. In Kant25 , come pure in Natorp26, il Sé è visto come un polo di identità puro, un soggetto dell’esperienza che ne è il presupposto, e che non può essere conosciuto come oggetto. Ma esso è anche ciò che permane identico nel mutare delle esperienze. Il Sé è invece visto soprattutto come dimensione esperienziale, e quindi nella sua mutevolezza, da Sartre27, Merleau-Ponty28, Husserl29; Henry30. Nella loro analisi, essere un sé appare a se stesso (ipseità), in uno modo già autoriferito, preriflessivamente. In altri termini, la soggettività rivela se stessa a se stessa; si parla, in questo senso, di autoaffezione. Il 20 Gaetano P, Maselli P, Meldolesi GN, Picardi A. Una psicoterapia cognitiva centrata sull'esperienza: verso una terapia fenomenologicamente orientata. Rivista di Psichiatria 2, 2015; in stampa. 21 James W. Op. Cit. 22 Metzinger T. Being No One: The Self-Model Theory of Subjectivity. MIT Press, Cambridge, 2003. 23 Marraffa M. e Paternoster A. Sentirsi esistere: Inconscio, coscienza, autocoscienza. Laterza, RomaBari, 2013. 24 Marraffa M. e Paternoster A. Op. Cit., pag.174. 25 Kant E. Critica della ragion pura (1781). Laterza, Roma-Bari, 2005. 26 Natorp P. Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode. J. C. B. Mohr (P. Siebeck), 1912 . 27 Sartre J.P. L’essere e il nulla (1943). Net, Milano, 2002. 28 Merleau-Ponty M. Fenomenologia della percezione (1962). Bompiani, Milano, 2003 29 Husserl E. Op. Cit. 30 Henry M. Op. Cit. 46 soggetto realizza la sua ipseità nel suo essere incarnato, immerso nel mondo 31. La relazione archetipica del Sé con se stesso, che segna interiorità e ipseità, è il flusso temporale in cui la coscienza si dà a se stessa, in continuo movimento. La temporalità si costituisce nella molteplicità delle sue apparizioni: ad ogni nuovo adesso corrisponde un’impressione originaria del momento, ma anche le impressioni ritenute del passato appena scorso, che conservano la loro posizione, mentre raccoglie in sé anche la protensione verso il futuro. Il senso di essere sé accompagna dunque ogni mutevole esperienza. Il “Sé minimo” della coscienza nucleare, secondo Damasio32, rimane stabile nel tempo, mentre il “Sé autobiografico” della coscienza estesa ha vari livelli di organizzazione, e dipende sia dalla memoria convenzionale sia da quella di lavoro. In Heidegger33, l’uomo è un Esser-ci, evento esso stesso che accade con il suo mondo e con i suoi “altri”, trasformandoli e venendone trasformato a ogni istante, e cioè a ogni altro evento o a ogni evento dell’altro. Ciascun evento è evento di sé ed evento dell’altro, e nell’accadere trascina il Sé e i suoi effetti interni, identificabili come altro del Sé. Viene così meno ogni distinzione, ogni discontinuità tra il Sé e il mondo, tra il Sé e l’altro da sé. Ci sono effetti di interiorità ed esteriorità, di identità e alterità, di passato e presente, ma non c’è un dentro e un fuori, uno stesso e un altro, un prima e un dopo. Gli effetti accadono a partire da questo continuo movimento. Per dirla con Heidegger, “là dove era l’io, la psiche, il soggetto, deve farsi spazio, o forse bisogna lasciare essere, l’evento”34. Per alcuni pensatori, il Sé, per essere compreso, deve essere presentato come costruzione narrativa35. Esso evolve attraverso progetti e azioni, che però sono comprensibili solo grazie a interpretazioni narrative che ne riconoscono le intenzioni in un contesto. Nel racconto si intrecciano significati condivisi. Il Sé narrativo è una costruzione aperta e costantemente sottoposta a revisione, imperniata su puntelli narrativi e organizzata intorno a scopi, ideali, aspirazioni. Il racconto forgia il proprio sé e permette di comprendere gli altri. Tuttavia, in alcune particolari accezioni, il Sé narrativo esteso può essere considerato una finzione 36, e confermare l’inesistenza del Sé37, giungendo così alla conclusione che si può essere un sé solo come parte di una comunità linguistica. Secondo Dennett 38, “I nostri racconti vengono tessuti, ma per lo più noi non li tessiamo; essi ci tessono.” 31 Henry M. Incarnazione: una filosofia della carne (2000). Sei, Torino, 2001. 32 Cfr. Damasio P. Emozione e coscienza (1999), Adelphi, Milano, 2000; Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano, 2003. 33 Heidegger M. Essere e Tempo (1927). Mondadori, Milano, 2006. 34 Leoni F. Là dove era la psiche, deve farsi spazio l’evento. Antropoanalisi. Rivista della Società Gruppoanalitica Italiana. http://www.sgai.it/imgs/files/3_Leoni.pdf. 35 Cfr. Ricoeur P. Tempo e Racconto (1983-1985). Vol 1, Jaca Book, Milano, 1986; Vol 2. Jaca Book, Milano, 1987; Vol 3. Jaca Book, Milano, 1988. Ricoeur P. Sé come un altro (1990). Jaca Book, Milano, 1993. MacIntyre A. Dopo la virtù (1981). Feltrinelli, Milano,1993. Taylor C. Radici dell'io: la costruzione dell'identità moderna (1989). Feltrinelli, Milano,1993. Flanagan O.J. Consciousness Reconsidered. The MIT Press, Cambridge, 1992. Bruner J. La fabbrica delle storie. Laterza, Roma-Bari, 2002. 36 Harré R, Gillett G. La mente discorsiva (1994). Cortina Raffaello, Milano, 1996. 37 Dennett D. Coscienza. Che cosa è? (1991). Rizzoli, Milano 1993. 38 Dennett D. Op. Cit. pag. 464. 47 Secondo Ricoeur, l’identità si forma nell’agire, ma il senso dell’impresa di un uomo è comprensibile solo analizzando e interpretando la sua intera opera come un racconto. Per poterla interpretare tanto da una prospettiva esterna che da quella soggettiva, abbiamo bisogno di percorrere la lunga via dell’interpretazione che oscilla fra i due poli dell’arco ermeneutico, quello della spiegazione, che esamina le cause e i meccanismi, e quello della comprensione, che analizza i moventi e gli scopi delle azioni39. Nell’ambito del cognitivismo, è di grande interesse la posizione che ha assunto Neisser sulla genesi del Sé40. Egli distingue cinque tipi di autocoscienza che si sviluppano da informazioni diverse: innanzitutto quella di un Sé ecologico, basata essenzialmente sulla propriocezione, sul corpo come centro di orientamento nello spazio. Questa coscienza di sé ha a che fare con il senso di agentività, la coordinazione dei movimenti, il senso comune, la responsività alle proprie intenzioni. Si suppone che sia conscia ma indipendente dal linguaggio; una coscienza di sé percepita direttamente, non un'autocoscienza riflessiva. Segue poi il Sé interpersonale, anch'esso percepito direttamente, dai segnali interpersonali e dalla comunicazione emotiva. Si costituisce nell’interazione sociale che, inizialmente, è immediata e non riflessiva. Trevarthen ha chiamato “intersoggettività primaria”41 questo tipo di interazione, alla quale il bambino è geneticamente predisposto, e durante la quale, a differenza di quanto fa solitamente l’adulto, egli non attribuisce pensieri né sentimenti. Il Sé ecologico e il Sé interpersonale costituiscono un Sé relazionale. Il Sé esteso sviluppa verso i due anni, con memorie e anticipazioni personali. La memoria degli eventi (coerenti o incongrui o traumatici) si articola con narrative che danno loro significato e che ne selezionano alcuni rispetto ad altri. In esse, l'esperienza immediata è trasformata e traslata in frasi che la interpretano. É memoria semantica, essenza di una identità autobiografica42. Serve a ricordare una routine non eseguita, ed è la base di uno sviluppo culturale43. Il Sé privato, riflessivo, si costituisce dopo i tre anni, quando si è ormai stabilita la coscienza di permanere oltre il momento presente, e il bambino è capace di riconoscere le sue intenzioni e dunque anche l’inganno e il rifiuto. Il Sé concettuale proviene, in adolescenza, dall’unificazione di tutte le identità, ed emerge da assunti basati su esperienze sociali e da teorie sulla natura umana. Varia a seconda della cultura di appartenenza. Il profilo di sviluppo del Sé, che Neisser ha tracciato, riconosce la funzione di un Sé relazionale preriflessivo che garantisce una coscienza di sé come centro di esperienza, e una certa capacità di comunicazione interpersonale. Si suppone che, nella Schizofrenia, siano presenti disturbi del Sé preriflessivo 44, tuttavia notiamo che il senso di agentività e di meità 39 Ricoeur P. Dal testo all'azione: saggi di ermeneutica (1986). Jaca Book, Milano, 1989. 40 Neisser U. Five kinds of self-knowledge. Philosophical Psychology 1 (1):35-59, 1988. 41 Trevarthen C. Communication and cooperation in early infancy: A description of primary intersubjectivity. In Bullowa M. (a cura di), Before Speech: The Beginning of Interpersonal Communication. Cambridge University Press, 1979, pp. 321-348. 42 Nelson K. Self and social functions: Individual autobiographical memory and collective. Memory, 11(2): 125-136, 2003. 43 Tomasello M. Le origini della comunicazione umana (2008). Cortina Raffaello, Milano, 2009. 44 Parnas J. Handest P. Phenomenology of anomalous self-experience in early. Comprehensive Psychiatry, 44 (2): 121-134, 2003. 48 sono ridotti in misura più o meno notevole, ma non del tutto eliminati 45. Anche nelle demenze, come la malattia di Korsakoff o il morbo di Alzheimer, si osserva una perdita delle capacità narrative ma non la perdita della coscienza di sé preriflessiva. Nelle comuni psicopatologie, assistiamo regolarmente alla incapacità di comprendere il senso di alcune emozioni e azioni e alla composizione di narrative volte più a individuarne delle cause plausibili che a rappresentarne le effettive concatenazioni motivazionali. È a tale difficoltà di riconoscere il senso proprio dell’esperienza, probabilmente costituitasi all’interno di una rete di relazioni non sintoniche, che il terapeuta post-razionalista può dedicare attenzione, affinché il soggetto possa raggiungere una consapevolezza immediata e intuitiva delle proprie possibilità, cioè della valutazione emotiva della relazione fra sé e il mondo, che gli consente uno spettro di valutazioni e di azioni concepibili. La coscienza di come ci si sente in una situazione emotiva, che è sempre rivolta al futuro, permette di mantenere stabile l’identità. La stabilità, infatti, non è data dal riconoscere ciò che di noi permane identico nel tempo, ma dalla comprensione del senso delle manifestazioni di noi (-con gli altri–nel mondo) a noi stessi, e dalla capacità di fare scelte orientate nella direzione ideale della nostra realizzazione. 45 Kircher TTJ, Leube DT. Self-consciousness, self-agency, and schizophrenia. Consciousness and Cognition, 12(4): 656-669, 2003. 49 INCREMENTO DELLA CONSAPEVOLEZZA NARRATIVA E CAMBIAMENTO Liria Grimaldi di Terresena L’identità narrativa è la storia di sé , internalizzata e in continua evoluzione, che permette di dare un senso di finalità e di unitarietà alla vita ( Hammack, 2008; McAdams, 1996, McAdams, 2001; McAdams & Olson, 2010; McAdams & Pals, 2006; McLean, Pasupathi, & Pals, 2007; J. A. Singer, 2004). Tramite la modalità narrativa si è consapevoli del senso delle proprie esperienze attuali così come è possibile avere consapevolezza dei sentimenti e degli eventi presenti nel passato e dei cambiamenti avvenuti nel tempo. La narrativa personale, pertanto, permette e determina il senso di identità e di continuità del Sé attraverso il fluire del tempo e delle esperienze. La narrativa è specchio diretto della modalità di funzionamento del sistema di conoscenza, sia nella fase della sua strutturazione, che avviene in diretta relazione con il progressivo sviluppo del Sé, sia durante la vita adulta in cui solo una narrativa efficace può associarsi a modalità conoscitive funzionali, sia durante un percorso terapeutico dove il cambiamento, per essere reale, dovrà inevitabilmente essere legato ad una ristrutturazione della narrativa personale. Per altro, anche i repertori comportamentali risultano intimamente correlati alla narrativa personale. Le modalità di comportamento, le scelte, le risposte alle situazioni di crisi, dipendono essenzialmente dalla modalità con cui il soggetto narra a sé stesso e dà un senso all’esperienza in corso. A questo intreccio tra comportamento e narrativa è legata la definizione di performance narrativa (Siegel, 2001). L’incremento della consapevolezza del Sé (Guidano,1988), condizione indispensabile per la risoluzione della sintomatologia e per il raggiungimento di una efficacia conoscitiva che possa rappresentare il cambiamento, può essere raggiunto solo con l’acquisizione di una narrativa coerente e distanziata rispetto alle esperienze e alle emozioni ad esse correlate. Secondo il modello post-razionalista, affinchè la conoscenza abbia la sua piena efficacia, alla fase dell’ esperire deve seguire la fase della riflessione sulle esperienze stesse e dell’ attribuzione di significato (Guidano, 1992). Ciò vuol dire che solo una piena ed efficace narrazione dell’esperienza, implicherà che l’esperienza stessa diventi elemento di arricchimento della consapevolezza di sé, degli altri e della realtà, contribuendo alla progressiva riorganizzazione del sistema di conoscenza. Narrativa e attaccamento La modalità narrativa, specchio fedele della funzionalità del sistema di conoscenza, si struttura in relazione al legame di attaccamento con le figure di accudimento ( Bowlby, 1969, 1988; Ainsworth e Al. 1978; Main, 1995) Con una figura di accudimento in grado di assumere un ruolo di Base Sicura, il bambino esperisce un senso di sicurezza tale da permettere, a partire dall’infanzia, il progressivo sviluppo di una narrativa personale piena, priva di auto-inganni, capace di descrivere e dare un senso anche alle emozioni perturbanti (ad es. un senso di rabbia verso una persona amata) o a dati contradittori (ad es. la scoperta di limiti o difetti nel care- giver). La modalità di attaccamento sicuro che si sviluppa lungo il percorso evolutivo, implica una consapevolezza narrativa efficace ed adeguata, caratterizzata da coerenza, capacità di sintesi efficace e capacità di ricostruzione degli eventi logica e concisa. 50 Viceversa, una figura di accudimento disfunzionale, induce, in conseguenza dell’impossibilità di esperire sicurezza, una condizione di attaccamento insicuro e una narrativa personale specularmente inadeguata. Nella misura in cui l’ attaccamento si sviluppa lungo il percorso ansioso-ambivalente, lo stile narrativo è caratterizzato da ipercoinvolgimento nel racconto, incoerenza, cristallizzazione delle angosce del passato descritte come se fossero attuali, secondo una modalità narrativa “massimizzante”. Una modalità di attaccamento di tipo evitante implica una narrativa caratterizzata da basso livello di memoria autobiografica, descrizione della relazione di attaccamento in termini di elevata positività senza alcuna capacità di produrne esempi, brevità della narrazione, modalità narrativa “minimizzante” Agency e coerenza L’identità narrativa è caratterizzata da una serie di elementi tra cui l’agency è modalità tematica centrale e dominante (Mac Adams, Hoffman, Mansfield e Day, 1996). Il tema dell’agency è connesso all’autonomia , all’abilità nell’influenzare il corso della propria vita, alla capacità di attribuire significati e di raggiungere obiettivi. Diversi dati di ricerca evidenziano una forte connessione tra il tema dell’agency e la salute mentale (Adler e Al., in press; Helgeson, 1994; Mc Adams e Al., 1996; Woike & Polo, 2001). E’, per altro, evidente, che una inadeguatezza nella capacità di autonomia e di attribuzione di significato, debba avere ripercussioni sullo stato psichico. In modo simile, anche la coerenza narrativa, da cui deriva il senso di unità del Sé, è correlata alla salute mentale (Adler, 2012). Il mantenimento di un senso di unità del Sè durante il corso del tempo, implica che la consapevolezza di sé del passato, debba coerentemente evolvere nel senso del sé nel presente e in quello immaginario del futuro, secondo una modalità narrativa definita coerenza temporale (Habemas & Bluck, 2000). Va sottolineato che il dominio temporale non è il solo aspetto caratterizzante della coerenza narrativa. La coerenza narrativa, infatti, deve anche essere strutturata in modo tale da avere una funzione di attribuzione causale, correlando gli eventi di vita all’evolvere del senso del sé secondo la coerenza causale (Pals, 2006). Infine, altri due elementi sono rappresentati dalla coerenza tematica, ( Habemas & Bluck, 2000) consistente nella capacità di individuare connessioni tra episodi della storia di vita, e dalla master narrative (Hammack, 2008), consistente nella capacità di delineare le aspettative di vita all’interno del proprio contesto culturale. La narrativa personale, nel contesto della quale questi quattro elementi sono adeguatamente strutturati, fornisce un profondo senso di integrazione del Sé ed un alto livello di coerenza correlato con condizioni psicologiche positive ( Adler, Wagner, & Mc Adams, 2007; Baerger & Mc Adams, 1999). Narrativa, cambiamento e psicoterapia La relazione tra narrativa, cambiamento e psicoterapia è stata valutata, in modalità sperimentale estremamente approfondita, mediante una indagine longitudinale (Adler, 2012). Lo studio in questione era finalizzato alla valutazione del cambiamento di personalità a breve termine tramite l'accento sull’ identità narrativa in correlazione alla salute mentale. 51 Quale esempio di narrativa personale, sono stati valutati, gli scritti (quasi 600) di quarantasette adulti, prima di iniziare il percorso psicoterapico e dopo ogni sessione; lo studio prevedeva 12 sedute di psicoterapia. Oltre ad un complesso assessment di valutazione psicologica, sono state effettuate una serie di misurazioni inerenti le condizioni cliniche. Le narrazioni sono stati codificate in riferimento ai temi di agency e di coerenza, al fine di evidenziare le due componenti dell’identità narrativa: capacità di dare un senso e unitarietà del Sè. I risultati indicano, nel corso del tempo, un aumento dell’agency, ma non della coerenza. Gli incrementi della agency risultavano correlati al miglioramento della salute mentale dei partecipanti. Inoltre, i cambiamenti nel tema della agency si evidenziavano prima dei miglioramenti associati alla salute mentale. Questo risultato è rimasto coerente anche in relazione ad una serie di variabili individuali. Al fine di valutare questi risultati in una ottica post-razionalista, occorre evidenziare la completa sovrapposizione del tema dell’agency con quello del senso di sicurezza. Infatti, il soggetto dotato di un sistema di conoscenza “sicuro”, sviluppatosi in un contesto di storia di attaccamento funzionale, presenta capacità di autonomia così come è in grado di raggiungere obiettivi e di influenzare il corso della propria vita; alla condizione di “sicurezza”, è inoltre connessa la capacità individuale di attribuire significati e dare un senso alla vita. Occorre ancora ricordare come una condizione di “sicurezza”, si sviluppi in modalità speculare alla relazione con una figura di accudimento nel ruolo di “ Base Sicura” (Bowlby, 1988). Lo stato di sicurezza permette una piena espressione dell’attitudine all’esplorazione, creando così le condizioni per avviare la strutturazione del Sé all’insegna di una progressione della consapevolezza. Questo percorso è del tutto corrispondente a quello che deve essere effettuato in un trattamento psicoterapico. Non a caso, l’elemento determinante per l’avvio di un processo di rivisitazione della storia di sviluppo, all’insegna del decentramento e del distanziamento, è costituito dal senso di sicurezza e affidabilità che deriva dalla relazione con il terapeuta nel ruolo di Base Sicura. Così come accade nello sviluppo funzionale, la sicurezza acquisita permette di esprimere, in modo progressivamente più efficace l’attitudine esplorativa. La rivisitazione della storia di sviluppo, possibile grazie al senso di fiducia e affidabilità determinato dalla relazione terapeutica, permette di ritrovare memorie ed emozioni che erano state escluse o distorte per fini adattivi, cominciando a mettere insieme tutti i pezzi della storia perduti. Dando un senso alla sua storia di vita e alle sue esperienze relazionali, il soggetto capirà perché si sente ansioso o triste senza alcun motivo apparente e comincerà a vivere le esperienze attuali per quel che veramente esse sono. L’apice dell’intervento è costituito dal raggiungimento di una modalità conoscitiva “libera”, priva dei vincoli epistemici che rendono il soggetto prigioniero del suo passato. Ovviamente, nella misura in cui la psicoterapia comincia ad innescare un cambiamento, il primo risultato è l’incremento dell’agency e quindi del senso sicurezza. Naturale conseguenza di quanto espresso è il miglioramento della sintomatologia clinica. 52 La progressiva emergenza del senso di sicurezza, infatti, costituisce per il soggetto un immediato antidoto al senso di angoscia e di incapacità a dare un senso al malessere che lo ha invaso. Inoltre, nella misura in cui, il terapeuta è realmente riuscito ad assumere un ruolo di Base sicura, il soggetto percepisce la terapia come un percorso in cui ha fiducia e che riuscirà a condurlo fuori dal tunnel. Viceversa, è quasi impossibile ottenere, in solo 12 incontri, un incremento della coerenza. Il raggiungimento di una adeguata coerenza narrativa, è il risultato finale dell’intervento ed è, pertanto, molto difficile che, su questo tema, in tempi tanto precoci, possa essere già valutato un cambiamento attendibile. I dati di ricerca sulla narrativa personale, appaiono sulla base di quanto discusso, come una piena conferma dell’ intervento post-razionalista, evidenziando come il cambiamento sia possibile solo in contesto di incremento della consapevolezza del Se’ e della propria storia. Bibliografia Adler J. M., “Living into the story: Agency and coherence in a longitudinal study of narrative identity development and mental health over the course of psychotherapy.” Journal of Personality and Social Psychology, Vol 102(2), Feb, 2012. pp. 367-389 Adler, J. M. ( in press). Sitting at the nexus of epistemological traditions: Narrative psychological perspectives on self-knowledge. In S.Vazire & T. D.Wilson ( Eds.), Handbook of self-knowledge. New York, NY: Guilford Press Adler, J. M., Wagner, J. W., & McAdams, D. P. ( 2007). Personality and the coherence of psychotherapy narratives. Journal of Research in Personality, 41, 1179– 1198. Ainswhorth, M. D. S., Blehar, M. C., Waters, E, Walls, S., (1978). Patterns of Attachment: A Pshichological Study of the Strange Situation, Erlbaum, Hillsdale Baerger, D. R., & McAdams, D. P. ( 1999). Life story coherence and its relation to psychological well-being. Narrative Inquiry, 9, 69– 96 Bowlby, J. (1969.) Attaccamento e perdita, vol.1: L’attaccamento alla madre. Tr. It. Boringhieri, Torino, 1972 Bowlby, J. (1988). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Tr.it. Raffaello Cortina, Milano Guidano, V. F. (1988). La complessità del Sé. Bollati Boringhieri, Torino Guidano, V. F. (1992). Il Sé nel suo divenire, Bollati Boringhieri, Torino Habermas, T., & Bluck, S. ( 2000). Getting a life: The emergence of the life story in adolescence. Psychological Bulletin, 126, 748– 769 Hammack, P. L. ( 2008). Narrative and the cultural psychology of identity. Personality and Social Psychology Review, 12, 222– 247. Hammack, P. L. ( 2008). Narrative and the cultural psychology of identity. Personality and Social Psychology Review, 12, 222– 247 Helgeson, V. S. ( 1994). Relation of agency and communion to well-being: Evidence and potential explanations. Psychological Bulletin, 116, 412– 428. Main, M. (1995). Attachment: Overwiew, whith implications for clinical work. In: Goldberg, S., Muir, R., Kerr, J. ( a cura di) Attachment Theory; Social, Developmental, and Clinical, Perspectives. Analytic Press, Hillsdale. McAdams, D. P. ( 1996). Personality, modernity, and the storied self: A contemporary framework for studying persons. Psychological Inquiry, 7, 295– 321 53 McAdams, D. P. ( 2001). The psychology of life stories. Review of General Psychology, 5, 100– 122 McAdams, D. P., & Olson, B. D. ( 2010). Personality development: Continuity and change over the life course. Annual Review of Psychology, 61, 517– 542 McAdams, D. P., & Pals, J. L. ( 2006). A new Big Five: Fundamental principles for an integrative science of personality. American Psychologist, 61, 204– 217 McAdams, D. P., Hoffman, B. J., Mansfield, E. D., & Day, R. ( 1996). Themes of agency and communion in significant autobiographical scenes. Journal of Personality, 64, 339–377 McLean, K. C., Pasupathi, M., & Pals, J. L. ( 2007). Selves creating stories creating selves: A process model of self-development. Personality and Social Psychology Review, 11, 262– 278 Pals, J. L. ( 2006). Narrative identity processing of difficult life experiences: Pathways of personality development and positive self-transformation in adulthood. Journal of Personality, 74, 1079– 1110. Siegel, D. J. (2001). La mente relazionale. Raffaello Cortina, Milano Woike, B., & Polo, M. ( 2001). Motive-related memories: Content, structure, and affect. Journal of Personality, 69, 391– 415. 54 LA FUNZIONE DEL LUTTO NEL MANTENIMENTO DELLA COERENZA SISTEMICA DEL SÈ Furio Lambruschi, Linda Battilani Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva Introduzione Come diceva Bowlby (1979), le emozioni più laceranti gli esseri umani le sperimentano in situazioni di costruzione, mantenimento e soprattutto rottura dei legami affettivi. Le separazioni (perdite relative) e i lutti (perdite assolute), sono i momenti che evidenziano maggiormente, in termini di elaborazione cognitiva ed emotiva, le dimensioni di significato personale più tipiche della nostra struttura, il nostro più profondo, nucleare, sentimento di noi stessi e del mondo. E sono i momenti in cui facciamo gli sforzi più evidenti e più intensi per conservare integro il nostro senso di continuità e di coerenza interna. In un precedente convegno abbiamo parlato di come questi processi si osservino nell’analisi dello stile affettivo di ciascuno di noi. Le separazioni affettive (in quanto perdite relative, un po’ come la perdita di altri domini importanti del sé: un lavoro importante, una certa progettualità di vita o senso di appartenenza a un gruppo), richiedono in genere una complessa ed estesa revisione e riorganizzazione del sé. In queste situazioni, usualmente, si trasforma bruscamente la percezione dell’altro affettivamente significativo che confermava e rendeva consistente il nostro senso di noi stessi, per cui, reciprocamente si richiede una revisione più o meno estesa di ampie parti del sé: “Chi era lui veramente? Con chi sono stato per 20 anni? Come ho fatto a non capire? Che cosa c’è in me, o in lui che non va?” ecc. Questo usualmente non accade nel lutto vero e proprio (perdita assoluta) in cui l’altro ora non c’è più, se ne è andato per cause oggettivamente identificabili e comprensibili (una malattia, un incidente, ecc), e quindi la persona deve confrontarsi con un dolore enorme, davvero inconsolabile, col pensiero che lui non sia più qui (fisicamente) a confermare in modo così evidente le parti di me che ho bisogno di confermare. Ma questo dolore e questa assenza, paradossalmente operano come conferma e come potente rinforzo del mio sentimento di me stesso: lui (dentro di me) potrà essere sempre lui, anzi, possibilmente ancora più lui! Mentre nella separazione affettiva ho a che fare con un altro ancora presente ma profondamente cambiato (e magari con in mano un’altra mano e gli occhi su altri occhi diversi dai miei), nel lutto, potremmo dire estremizzando un poco, ho la possibilità di rappresentarmi l’altro come desidero, amplificandone alcune caratteristiche e smussandone altre, in funzione delle specifiche esigenze dettate dai miei vincoli organizzativi interni e dalle esigenze di stabilità e coerenza della mia identità personale. Il lutto “normale” o “fisiologico” Com’è noto, secondo Bowlby, affrontare ed elaborare una perdita implica necessariamente il transitare attraverso quattro fasi, che costituiscono il processo, cosiddetto, di lutto normale o fisiologico: una prima fase di intorpidimento, caratterizzata da disorientamento, confusione e incredulità, soprattutto quando l’evento avviene in modo traumatico ed imprevisto; una fase di protesta, in cui emerge la rabbia per quanto accaduto e nei confronti di chi se ne ritiene responsabile. La collera è la reazione che compare abitualmente a 55 - seguito di una separazione46. Nella separazione momentanea il fatto di esprimere rimproveri ha la funzione di abbassare la probabilità che questa si ripeta. Per cui, fino a quando tale stato d’animo perdura, significa che il soggetto, in qualche modo, spera ancora in una riunificazione e la rabbia è dovuta alla frustrazione, inevitabile, che ne consegue; una successiva fase di disperazione, quella in cui ci si rende conto dell’irrimediabilità della perdita. È un periodo depressivo caratterizzato da profonda tristezza, malinconia, perdita di motivazione, disturbi del sonno, dell’alimentazione, ritiro sociale. Il senso di solitudine non viene cancellato dalla presenza di altri significativi (padre, amici, parenti, ecc). Sebbene essi forniscano un certo grado di conforto non possono colmare il vuoto emotivo lasciato dalla persona scomparsa; - e infine una fase di distacco, caratterizzata da un miglioramento del tono dell’umore e da un graduale recupero di interesse nelle attività sociali e nei confronti di altre figure. Non consiste in un naturale consumarsi del legame d’attaccamento ma piuttosto in un’attiva repressione difensiva: costituisce cioè una disattivazione della ricerca di attaccamento che ha fallito per lungo tempo nel trovare risposta. Il termine “distacco” utilizzato inizialmente da Bowlby fu male interpretato, come totale disinvestimento e disinteresse verso la persona perduta. Ciò lo portò successivamente a ridefinire questa fase come riorganizzazione dei modelli operativi interni di sé e dell’altro, in modo da rendere possibili sia un mantenimento del legame sia un adattamento continuo alle reali circostanze di vita insieme alla ristrutturazione dell’immagine di sé che vi si accompagna. Quando il lutto progredisce chi ha subito la perdita integra gradualmente l'evento della morte all'interno della sua narrativa personale, ripristinando la sicurezza di attaccamento con la persona deceduta e riguardando la natura del legame, costruendo un dialogo interno con la persona che non c'è più, ma di cui continua ad avere una rappresentazione mentale. Con il tempo si riconosce la realtà della morte, le emozioni diventano agro-dolci, accessibili e mutevoli, piuttosto che deprimerci possono rendere la nostra vita più profonda. (R.A. Neimeyer, 2006) Quando un lutto è “risolto” la persona riesce a collocare nel tempo gli eventi dolorosi e pericolosi senza che questi influenzino ancora il funzionamento mentale e quindi il comportamento presente, e riesce a trasformare i sentimenti negativi dell'esperienza in sentimenti più complessi (P.Crittenden, 1997). Sostanzialmente, però, ciò che fa la differenza per un bambino (e, seppure in modo diverso, anche per un adulto), è la possibilità di nutrirsi di sponde relazionali capaci di farlo transitare in modo adeguato attraverso le fisiologiche fasi del lutto, cioè le possibilità che sono offerte al bambino come all’adulto di fare domande sulla morte, di riconoscere, di accettare ed elaborare i sentimenti di disorientamento, rabbia e di disperazione ad essa connessi. Non è possibile riconoscere, comunicare e sciogliere le nostre emozioni più dirompenti al di fuori della relazione. Abbiamo bisogno di un'altra mente e di un altro cuore che accolga, condivida empaticamente con noi, e magari ci aiuti a renderci semanticamente intelligibili i sentimenti che stiamo provando. I bambini con legami sufficientemente sicuri d’attaccamento sviluppano modelli operativi interni che danno origine a credenze più positive e ottimistiche circa la gestione della 46 Come possiamo osservare anche nella Strange Situation. 56 sofferenza, la fiducia nella benevolenza degli altri, e il senso di autoefficacia sulla possibilità di far fronte alle minacce. E’ evidente che esistono variabili reali, oggettive, che possono rendere un lutto più complesso e più difficile da assorbire. Ad esempio, nell’arco di vita di una persona, e quindi anche per un bambino, vi sono lutti più “fisiologici” e “normali”: da mia madre che mi lascia quando ho 50 anni o la nonna “bisa” che mi lascia quando ne ho 5 … fino alla mamma che mi lascia quando ne ho 5, o mio figlio di 5 che mi lascia quando ne ho 35. Sono state indicate, in effetti, una serie di variabili (di rischio o protettive) che possono rendere l’esperienza del lutto più o meno complessa da reggere e da gestire nel suo (già non semplice) percorso di elaborazione: 1. 2. 3. L’età a cui si subisce la perdita (il momento del ciclo di vita) Il tipo di perdita e le circostanze che l’hanno determinata, ad esempio: - gli amici di Yara devono confrontarsi non solo con la perdita della loro amica ma anche con le circostanze inquietanti in cui è avvenuta; - a Nino, un bimbo seguito dai servizi di NPI, prima in affido e poi adottato dagli zii materni, non manca solo la madre, ma dovrà confrontarsi con le emozioni e le necessità di comprensione di un padre in carcere da quando lui aveva circa un anno e mezzo per aver ucciso a coltellate la madre stessa. - il suicidio di un congiunto può essere un’altra condizione difficile sia da comprendere che da elaborare emotivamente per un bambino. Il timing, (morte lenta o improvvisa) le modalità con cui l’evento di perdita si spalma nel tempo e la possibilità da parte dell’individuo di costruirsi una aspettativa e di adattarsi gradualmente alla nuova condizione. Tuttavia, come già accennato, la prospettiva clinica che emerge dall’ottica cognitivo-evolutiva e costruttivista, pur riconoscendo l’importanza delle condizioni reali in cui una perdita avviene, attribuisce un rilievo fondamentale ai sistemi di significato personale con cui l’individuo e il suo contesto relazionale elaborano, interpretano, costruiscono il lutto. Qualunque evento di vita, sebbene profondamente doloroso, assumerà o meno un rilievo psicopatologico in funzione dell'assetto relazionale e della relativa organizzazione di significato personale che incontra. Modelli di lutto “disturbato” L’incontro con specifici stati mentali, connessi a contesti relazionali caratterizzati da livelli e qualità diverse di insicurezza potranno condurre a quelli che i teorici dell’attaccamento considerano come modelli di lutto disturbato: se ne possono evidenziare sostanzialmente due: 1) Dolore cronico e organizzazione ansioso resistente, coercitiva, preoccupata Negli itinerari di sviluppo di tipo ansioso resistente, in quei bambini che successivamente tendono a sviluppare modelli mentali e relazionali di tipo coercitivo in età prescolare e scolare, e stati mentali preoccupati (impigliati, invischiati) nell’adulto, gli stati tipici del lutto, il disorientamento, la rabbia, la disperazione, vengono percepiti ed espressi in forma quantitativamente più drammatica ed intensa, qualitativamente meno chiara, più confusa e disordinata e temporalmente per un periodo eccessivamente lungo. Si definisce anche lutto prolungato o complicato. 57 Qui lo stile di regolazione emotiva è tutto “in eccesso”, con intensa attivazione neurofisiologica ed elevati livelli di emotività espressa. Ad esempio, in contesti familiari connotati da continue minacce d'abbandono, usate come mezzo di controllo, si determina nel bambino una forte angoscia, acuta o cronica, legata alla costruzione di una rappresentazione negativa di sé: nel corso della propria vita, egli potrà rispondere ad un lutto con una depressione clinica in cui la credenza dominante è quella di essere stato deliberatamente abbandonato, come punizione, dalla persona morta. In questo ambito è anche facile trovare bambini (o adulti) che possano sviluppare in seguito ad un lutto Disturbi d’Ansia da Separazione, o quadri di vario tipo dello spettro ansioso, temere che qualcosa di simile possa succedere anche ad altri familiari, marcarli a vista, rifiutare di andare a scuola, avere incubi notturni, ecc. In altri termini, l’aspetto centrale di tutte queste possibili uscite psicopatologiche sta nella percezione di sé come fragile e vulnerabile (dipendente dalla persona defunta che era vissuta come protettiva) e di una realtà esterna percepita come minacciosa e non governabile (bisogno di regolazione esterna) tipica di questi pattern di sviluppo. 2) Assenza di dolore e organizzazione evitante, difesa, distanziante Negli itinerari di sviluppo di tipo evitante, definiti poi difeso in età prescolare e scolare, e distanziante (dismissing of attachment) negli adulti, non vengono integrate le informazioni di tipo affettivo ed emotivo: vi è una negazione del dolore, una disattivazione dei segnali di richiesta d’aiuto, di vicinanza e di conforto in un’ottica di fiducia compulsiva su di sè. Ciò predispone questi bambini ad uscite psicopatologiche, ad esempio, di tipo somatoforme: il dolore in questi casi può facilmente esprimersi attraverso la malattia fisica. Nel suo ultimo libro (“Charles Darwin: a new biography”,1990), Bolwby descrive le malattie fisiche da cui era sempre stato afflitto Darwin (tra cui dolori gastrici, palpitazioni cardiache, e vari altri sintomi pare riferibili ad una “sindrome da iperventilazione”) ricollegandole alla sofferenza repressa che seguì alla perdita precoce della madre. Il Dual-Process Model Stroebe e Schut (1999) hanno sviluppato un modello a due fasi del lutto (Dual-Process ModelDPM) tentando di fornire una concettualizzazione che meglio descrivesse il coping e fosse predittore dell’attaccamento (buono o povero) di fronte a questo evento stressante, al fine di comprendere meglio le differenze individuali nelle modalità con cui le persone “vengono a patti” con la perdita. Il DPM fornisce due categorie di fattori stressanti associati con il lutto, ossia, Loss-Orientation (LO) e Restoration-Orientation (RO). Il primo (LO) si riferisce a ciò su cui si concentra specificamente la persona in lutto, la valutazione ed i processi che coinvolgono alcuni aspetti dell’esperienza della perdita, la convivenza con il dolore, la ricerca della persona perduta, fenomeno che si può considerare il cuore stesso del dolore. La RO, invece, si focalizza sui fattori stressanti secondari, che riflettono la lotta per riorientarsi in un mondo cambiato, senza la persona deceduta: anche il dover ripensare e ripianificare la propria vita di fronte alla perdita può essere un processo doloroso. Entrambe questi orientamenti fanno parte del processo di coping, infatti sono affrontati (o evitati) a vari livelli. Il processo di confronto-evitamento con questi due tipi di fattori è dinamico e fluttuate, inoltre cambia col passare del tempo. Per questo il DPM indica un processo dinamico di coping, ossia un processo regolatorio definito Oscillation. Il principio sottostante l’oscillazione afferma che in certe occasioni le persone si confrontano con aspetti della perdita (LO), mentre in altre le evitano, processo che avviene anche con i fattori RO. Il coping di fronte alla perdita è perciò un complesso processo regolatore di confronto ed evitamento. Un importante postulato del 58 modello afferma che l’Oscillation tra le due tipologie di fattori stressanti sia necessaria per un coping adattivo (Stroebe M. S., Schut, Hansson, & Stroebe, 2008). Il DPM inoltre, fornisce una struttura per comprendere le diverse forme di lutto (cronico, assente, ritardato ed inibito). Secondo il DPM infatti, le persone con lutto cronico sarebbero maggiormente focalizzate sulla Loss-Orientation, quelle con lutto assente invece si concentrerebbero maggiormente sui fattori Restoration-Orientation, mentre coloro che manifestano una forma complicata di perdita traumatica dovrebbero avere delle difficoltà nell’oscillazione tra loss e restoration-orientation. Secondo gli autori è importante osservare che sia per il lutto cronico che per quello assente le reazioni sono estreme, focalizzandosi eccessivamente su un orientamento ed evitando l’altro. Tali patterns sono associati con l’assenza del tipo di confronto-evitamento (oscillazione) che è stata precedentemente descritta come caratteristica del coping “normale” di fronte alla perdita (Stroebe M. S., Schut, Hansson, & Stroebe, 2008). Il lutto nei sistemi di classificazione diagnostica La tipologia di lutto disturbato di tipo C, nelle sue talora drammatiche evidenze comportamentali ed emotive, è quella maggiormente riconosciuta ed identificata anche dai sistemi nosografici tradizionali. Secondo Maciejevsky et al. (2007), sul piano diagnostico descrittivo, questi potrebbero essere gli indicatori più adeguati per questo tipo di mancata risoluzione e di lutto complicato: 1) intenso e persistente struggimento per la persona persa (ogni giorno e in maniera intrusiva e dolorosa) 2) quattro o più dei seguenti sette sintomi diverse volte al giorno o con una intensità tale da produrre sofferenza e disturbo: difficoltà ad accettare la morte, incapacità di credere alle altre persone, eccessivo rancore o rabbia riguardo la morte, preoccupazione su come andare avanti, colpa del sopravvissuto, sperimentare la vita vuota e priva di senso senza la persona deceduta, essere preoccupata da pensieri che riguardano la persona morta; 3) marcata e persistente disfunzione in ambito sociale, occupazionale o altri ambiti importanti a causa dei sintomi citati in 1 e 2; 4) tutti questi sintomi durano da almeno sei mesi. Tra la terza e la quarta edizione del DSM c’è stata una crescente attenzione alle ricadute potenzialmente patologiche a seguito di un lutto, fino ad inserirlo sull’asse V come “altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”. In questo contesto culturale si sono mossi numerosi gruppi di ricerca che in Nord America hanno dato vita ad un appassionato dibattito sul tema del lutto e della sofferenza derivata dalla perdita di una persona cara, dibattito che continua a rimanere aperto anche dopo la pubblicazione del DSM 5. Il percorso che ha portato a stabilire i criteri diagnostici per il Complicated Grief del DSM IV-R è iniziato con la dimostrazione che i sintomi ad essi associati determinano distress e disabilità che sono distinguibili da ciò che è “accettabile e culturalmente condivisibile a seguito della perdita di una persona amata”. Un altro tema è quello riferito ai criteri diagnostici per una depressione: nel DSM IV-R veniva esclusa da tale diagnosi la condizione di dolore a seguito della morte di una persona cara, mentre nel DSM5 viene eliminata tale esclusione, facendo nascere così un acceso dibattito. Distinguere tra Lutto Complicato e Depressione Maggiore non è sempre semplice perché queste due condizioni possono coesistere dopo un lutto, anche se appartengono a profili clinici differenti e differenziabili. Secondo Frances (2012) il passaggio dal DSM IV-R al DSM5 porta con sé il rischio di diagnosticare la normale e fisiologica reazione al lutto come Depressione maggiore, con ricadute rispetto all’assunzione immotivata di farmaci a tante 59 persone che hanno perduto una persona cara. Wakefield (2010) ha scritto un importante articolo "Patologizzare la normalità”, dove viene approfondito il tema dell'incapacità da parte della psichiatria di individuare i falsi positivi nelle diagnosi dei disturbi mentali. Nonostante lo sbandierato rigore scientifico, insomma, gli psichiatri non saprebbero distinguere in maniera rigorosa una malattia dalla normale sofferenza quotidiana. Un aumento di diagnosi farebbe crescere anche lo stigma della malattia mentale, che l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) da anni si sforza di combattere con campagne di sensibilizzazione. Nel passaggio dalla quarta alla quinta edizione del DSM per descrivere più o meno gli stessi sintomi si è sostituito il termine Complicated Grief con il termine Prolonged Grief Disorder ritenendo che la definizione “Complicato” rimandasse al concetto di difficile da analizzare, non comprensibile, non spiegabile e quindi in controsenso rispetto ad un lavoro diagnostico che vuole appunto chiarire questa specifica forma di distress conseguente ad un lutto. Si è ritenuto che il temine “Prolonged” – prolungato - meglio catturi la natura del disturbo, caratterizzato anche dal persistere di un insieme specifico di sintomi correlati al dolore per la mancanza, sperimentati da una persona con una significativa difficoltà ad adattarsi alla perdita. L’uso del termine, pur riportando a un concetto temporale, non implica che esso sia l’unico indicatore della natura di tale patologia. La proposta di traduzione in italiano dell’etichetta diagnostica PGD è stata “Disturbo da Sofferenza Prolungata”, volendo sottolineare con il termine sofferenza, più che con dolore, un’accezione che meglio cogliesse la componente emotiva e psichica di questa esperienza. Secondo i criteri diagnostici del DSM5, a differenza di coloro che vivono una elaborazione del lutto normale, i soggetti con PGD sono essenzialmente bloccati, cristallizzati in una condizione di lutto cronico; sperimentano un’intensa sensazione di nostalgia e struggimento per la persona persa e il desiderio che la vita ritorni alle condizioni precedenti all’evento. Senza la persona cara si sentono vuoti e privi di speranza per il futuro. Alcuni sono sopraffatti dai rimpianti, con frequenti ruminazioni mentali e incapacità nel concentrarsi su qualunque cosa che non riguardi la perdita del proprio caro. La sensazione di non sentirsi emotivamente capiti dagli altri esacerba ulteriormente il senso di alienazione e di isolamento sociale. I pensieri ricorrenti rispetto a colui che è mancato rendono difficile per queste persone superare lo stato più acuto del lutto e vivere il presente, instaurare nuove relazioni o dedicarsi a nuove attività. Coloro che sperimentano questa realtà riferiscono di sentire che una parte importante di loro è morta con il proprio caro, che sono ormai svuotati, che il loro stesso senso d’identità è compromesso; sono convinti che la loro vita sia destinata a essere vuota, non soddisfacente. Una nota importante rispetto al PGD deriva dalla possibilità di diagnosticarlo non solo nei caregiver di pazienti deceduti, ma anche in coloro che in senso più lato hanno vissuto una perdita significativa (es. divorzio, malattie terminali, perdita di un animale domestico…) o che assistono persone la cui patologia ha determinato una significativa perdita dell’autonomia e delle possibilità relazionali. Lutto e stili narrativi: il lutto nella Adult Attachment Interview Gli indici di mancata risoluzione del lutto, rilevati da Main & Goldwyn (1985,1996), nelle narrazioni di soggetti adulti classificati come Unresolved alla Adult Attachment Interview sono molto simili a quelli presenti in questi quadri clinici: - deficit nel controllo metacognitivo del ragionamento (ad esempio, persistente incredulità, idee non fondate di essere la causa della morte, manifestazioni di confusione tra la persona morta e il sé, ecc.); 60 - deficit nel controllo metacognitivo del discorso (ad esempio, silenzi prolungati e inappropriati, associazioni strambe, attenzione inusuale per i dettagli, utilizzo del laudativo o di frasi enfaticamente poetiche, ecc.); - risposte comportamentali estreme al momento stesso del lutto. Il sistema di classificazione di Main & Goldwyn (1985, 1996), in effetti, è più efficace nell’individuare le evidenze della mancata risoluzione preoccupata che della mancata risoluzione distanziata. Il modello dinamico-maturativo dell’attaccamento (Crittenden, 1997), invece, le riconosce e le distingue entrambe, articolandole inoltre in sottotipi diversi. Secondo questa prospettiva, i lutti o traumi irrisolti possono essere concepiti come condizioni che interferiscono con il successo nel funzionamento della strategia di protezione del sé. Queste risposte implicano un'elaborazione disadattiva dell'informazione in quel particolare contesto: possono, ad esempio, essere prese in considerazione delle informazioni assolutamente irrilevanti e poi essere utilizzate per organizzare il comportamento, oppure possono venir scartate troppe informazioni pertinenti, o possono esser fatte altre distorsioni dell'informazione per quanto riguarda l'evento dannoso. Eventi trattati in uno (o più) di questi modi sono considerati irrisolti. Queste distorsioni cognitive o emotive possono interferire con il funzionamento strategico generale. Secondo il modello dinamico maturativo esistono vari tipi di lutto preoccupato: lutto preoccupato Ul(p) comporta l'essere in grado di prevedere l'evento minaccioso per il sé ma in modo troppo attivato. Può essere limitato ad una perdita particolare o essere associato a una così ampia gamma di stimoli luttuosi che pervade tutto il funzionamento. lutto vicario Ul(v) è una forma di risposta in cui il soggetto non ha né avuto esperienza né assistito al lutto. Invece, tale evento è accaduto ad una figura di attaccamento e sembra colpire direttamente il comportamento e la costruzione mentale della realtà del soggetto. Nel descrivere questo evento, l'intervistato, irrisolto indirettamente, utilizza disfluenze tipiche della mancata risoluzione del lutto senza essere in grado di associarle esplicitamente con l'esperienza della figura di attaccamento. Il lutto vicario evidenzia tutto l’invischiamento relazionale e il contagio emotivo tipico di questo pattern di attaccamento. lutto immaginato Ul(i) si verifica quando l'intervistato fornisce la prova credibile che si è verificato un lutto, ma fa un’ attribuzione di perdita psicologica ingiustificata (cioè, il soggetto fa un’ errata attribuzione causale). Ne esistono due forme: in una l'evento è stato immaginato ma non è successo, nell'altra è il collegamento fra l'evento e i suoi effetti che è immaginato, cioè l'evento è avvenuto ma non ha avuto gli effetti immaginati. lutto suggerito Ul(s) è codificata quando l'intervistatore immagina un lutto irrisolto e inavvertitamente imbocca le idee e le parole dell'intervistato che egli accetta come reali. Ciò è particolarmente problematico come "sindrome della falsa memoria", che deve essere differenziata da un inganno attivo in cui l'intervistato conosce la verità, ma, per una serie di ragioni, sente il bisogno di fare false affermazioni di vittimizzazione del passato. Questa distorsione rispecchia un' informazione "presa a prestito", che il soggetto attribuisce a sé quando la sorgente è in realtà il terapeuta (o un'altra figura autoritaria). lutto alluso hinded Ul(h) viene assegnato quando l'astuzia dell'intervistato nella dislocazione dei dettagli, di solito accompagnata da ingenuità sottomessa, porta il codificatore a concludere che altri hanno danneggiato notevolmente il soggetto, o sue figure di attaccamento. In altre parole, l'intervistato infonde l'idea nella mente dell'intervistatore mentre implicitamente nega che sia successo. In tutti i casi, gli intervistati stessi ostentano inganno (falsa cognizione) dentro l'intervista e anche riguardo ad altri argomenti. Inoltre, l'autore del presunto reato è sempre qualcuno che ha 61 danneggiato l'intervistato e che è ancora, al momento dell'intervista, temuto. La funzione di questa forma di mancata risoluzione è di coinvolgere l'intervistatore nel processo di accusa del presunto colpevole. Più frequente nei pattern ad alto indice C. lutto anticipato Ul(a) riflette la paura che è esagerata in maniera irrazionalmente preoccupata, per esempio, temendo che si perderà il proprio bambino a causa della perdita della propria madre durante l'infanzia. La base per la paura della morte può essere spostata (ad esempio, da una paura della propria morte alla paura della morte di un bambino) o trasformata (ad esempio, da un desiderio di uccidere per paura della morte). Nei seguenti due esempi tratti dai trascritti di AAI, il linguaggio risulta caratterizzato da marcatori linguistici quali: - Memoria per immagini e linguaggio evocativo. - Uso del presente per descrivere l’evento del passato, che non sembra immutabile. - Confusione temporale. - Erronea attribuzione causale, per lo più esternalizzata. - Confusione di persone. - Erronea localizzazione del sè nel luogo del lutto. - Attivazione affettiva intensa e incontrollabile sull’argomento del pericolo o della morte. Lutto preoccupato Come ha reagito alla sua morte? Sara: Ero angosciatissima...mi sentivo molto molto sola....la malattia mi spaventa tantissimo...ha emorragie nello stomaco, la cirrosi, allora portarla di corsa all'ospedale, vegliarla, l'ansia quando salgo le scale, io ho fatto tutto il possibile...sai quanto ho patito io (si commuove) perchè era sempre tutta con questo sangue, con le flebo....e mio papà come sempre che arriva ad aiutare quando vuole lui, ho dovuto fare tutto da sola... Lutto vicario E' morto qualcuno di importante per lei quando era piccola? Lucia: m..sì, quando è morta una cugina di mia mamma che hanno sempre vissuto insieme...si volevano molto molto bene..come due sorelle, è morta in un modo bruttissimo, ha fatto un incidente stradale, è morta fra le lamiere, era una cosa sconvolgente per me...sono stata male per lungo tempo anche quando ascoltavo il telegiornale e sentivo “muore in uno scontro frontale” e quando guido ci penso... Quindi lei la conosceva bene? Lucia: No è morta prima che io nascessi...non so bene quando. Sempre secondo il modello dinamico maturativo, i processi mentali primari dei soggetti distanzianti sono, appunto, il distanziamento del sé dagli stati affettivi negativi e l’accantonamento delle conclusioni negative sulle figure d’attaccamento. Un punto cruciale è l’assenza in tutte le interviste distanzianti dei veri sentimenti negativi del soggetto, cioè collera, paura e desiderio di conforto. I mezzi con cui questi sentimenti sono omessi dalla coscienza variano a seconda della configurazione in un gradiente differenziato da basso ad alto indice. Possono essere presenti altri sentimenti ed emozioni, come gli stati affettivi positivi, la vergogna, senso di colpa e responsabilità e i sentimenti delle figure di riferimento, come punto di vista genitoriale. I soggetti distanzianti tendono ad avere informazioni temporalmente ordinate e ad avere un buon accesso alla memoria semantica nella forma di 62 frasi “se…allora”, ma sempre riguardanti le responsabilità o le conseguenze del loro mancato adempimento. Sono identificati vari tipi di lutto distanziato, che rientrano all’interno di questo funzionamento generale: lutto distanziato, dismissed Ul (ds) è più comune tra i soggetti con una strategia di tipo A. In questo caso, l'intervistato distanzia dal sè l'importanza dell'evento sia in termini di previsione del pericolo futuro che in termini di sentimenti. Di conseguenza, sentimenti come tristezza o anche piacere e soddisfazione diventano impossibili. Tali soggetti sembrano freddi e non responsivi, “è successo, ma non ha influito su di me”. lutto spostato, displaced Ul (dpl) è una forma di distanziamento in cui le informazioni sul lutto reale sono sia omesse che spostate su qualche altro evento o persona, presumibilmente meno minaccioso. Il lutto reale è distanziato ma la sofferenza per il lutto su cui ci si sposta può occupare una quantità eccessiva di attenzione. La strategia, in altre parole, coinvolge sia la componente distanziante che preoccupata, ma separatamente rispetto a chi ci si riferisce, “è successo, ha sconvolto tutti tranne me”. lutto bloccato, blocked Ul(b) si riferisce alla presenza nell'intervista di dettagli altrimenti inspiegabili che, presi insieme, suggeriscono un'esperienza dolorosa che il soggetto non riconosce. Cioè, nessuna perdita è dichiarata, né accennata dall'intervistato, ma ci sono evidenze che l'evento sia accaduto nella forma del linguaggio dell'intervistato e nei fatti della sua storia, e inoltre si rileva che, inserendo questo evento ipotizzato, la storia e la forma del linguaggio del soggetto diventano psicologicamente sane. In passato, altre teorie hanno ipotizzavano che i ricordi di eventi luttuosi possono essere stati repressi (cioè presenti nella mente, ma non ricordati). Le ultime ricerche di neuroscienza cognitiva indicano che la mancanza di elaborazione dei ricordi può comportare l'assenza di facilitazione nei circuiti neurologici. Cioè, alcuni ricordi supponibili possono non essere stati consolidati attraverso processi elaborativi e, in tal caso, sarebbero neurologicamente assenti (Schacter, 1996). E’ più frequente come Utr (b) che come Ul (b). lutto negato, denied Ul(dn) si verifica quando le minacce molto gravi e inevitabili all'integrità fisica o psichica dell'intervistato sembrano sopraffarlo (ad esempio, essendo spesso e impropriamente incluse mentre si parla di altri argomenti , dove il soggetto è attivato intensamente, come nell'intrusione di stati affettivi negativi [ina] o nei sintomi di espressione somatica [ess]. Ciononostante, quando interrogato direttamente, il soggetto nega sia l'evento che gli effetti negativi in corso. Questa forma complessa di risposta comporta errori di associazione. Implicitamente, c'è un processo sovra-associativo, con un funzionamento procedurale e immagini che riflettono una preoccupazione verso la minaccia. Esplicitamente, però, la minaccia è dissociata dal sé, essendo verbalmente descritta come irrilevante per il sé. Ul (dn) si differenzia dalla forma distanziata semplice perché la negazione è solo semantica, con un'abbondanza di informazioni sulla minaccia attraverso un processo implicito; entrambe le rappresentazioni disposizionali (DR) contengono il potenziale per influenzare il comportamento dell'intervistato, ma in modi incompatibili e spesso disadattivi. D'altra parte, il Ul (ds) comporta un distanziamento funzionale coerente, e l'evento pericoloso è raramente discusso del tutto; questa omissione dalla rappresentazione disposizionale che regola il comportamento è la base per il rischio. La discrepanza tra processi attivati e inattivati nel Ul (dn) è a volte "risolto" con un delirio. E’ più frequente come Utr (dn) che come Ul (dn). Nei seguenti due esempi tratti da stralci di AAI il linguaggio risulta caratterizzato da marcatori linguistici quali: 63 - omissione della persona deceduta da tutte le parti dell’intervista tranne che dai sondaggi diretti. - Estrema brevità di narrazione sul tema morte. - Mancata affettività ed emotività espressa. - Affermazioni esplicite sul fatto che l’evento non ha avuto importanza per il sè Lutto distanziato di una figura d'attaccamento C'è stato qualche lutto in famiglia quando era una bambina? Silva: No, bambina no, il primo lutto è stata mia nonna che avevo 13 anni. E' stata una morte improvvisa? Silva: Sì, sì, morì dalla sera alla mattina, si sentì male di notte....ebbe una trombosi...bè sì....mi dispiacque però non è che mi ha lasciato...mhm, un segno. Evidentemente poi questo lutto si è elaborato e rimane una sensazione sottostante... Si ricorda come ha reagito? Silva non risponde Lutto spostato Dunque aveva sei anni quando è morto suo nonno..come ha reagito? Paola: Si…però ricordi di cosa è successo dopo non ne ho..mia madre ne parlava molto, c’era molto legata….la morte che ricordo di più è quella di Papa Giovanni. Per me…ero ancora più piccola, doveva essere un anno prima…io mi ricordo che ero voluta andare..insomma erano andati ma ero voluta andare anch’io, e avevo preso un fiore sul mio terrazzo per portarglielo..ero molto dispiaciuta perché non siamo riusciti a raggiungerlo per dargli il fiore… Ripristinare il contatto e riattivare il dialogo In linea con l’ipotesi della riorganizzazione e non del “distacco” dalla figura persa, alcuni autori (Klass, Silverman e Nickman, 1996) mostrano chiaramente come bambini e adolescenti che hanno subito una perdita importante, ben lungi dal disinvestire, mantengono anche per molto tempo un rapporto con la figura d’attaccamento scomparsa. Ciò è parte di un’elaborazione sana del lutto, e fornisce al bambino sollievo e conforto e ne facilita l’accettazione. I bambini hanno bisogno di “mantenersi in contatto” con la persona perduta: la sognano, si scoprono a parlare con lei, immaginano sovente che essa li stia guardando, tengono e utilizzano le sue cose in vari modi. Questi contatti forniscono sollievo, conforto, sostegno e facilitano la transizione dal passato al futuro. Questi autori hanno individuato alcuni tipi di attività che aiutano un bambino a mantenere contatti mentali sani con il genitore perduto (e queste potrebbero rappresentare una guida utile per il nostro lavoro clinico nel facilitare al paziente un’adeguata elaborazione del lutto): 1) localizzare il genitore in un luogo, solitamente il paradiso o il cielo, su una stellina, su una nuvola, nel mare, ecc, da dove questi continua a osservarlo e ad interessarsi alle sua vita e ai suoi bisogni; 2) sperimentare, sentire vicino a sè, in modo protettivo, la presenza continua del genitore; 3) “tendere” verso il genitore, rivolgersi a lui e spesso parlargli, mantenendo un’interazione, talvolta la sognano e ci parlano in sogno; 4) compiere sforzi particolari, a volte incoraggiati dagli altri membri familiari, per ricordare le caratteristiche della persona morta e soprattutto il suo amore nei propri confronti; 64 5) tenere oggetti (ad es. un orologio, un gioiello, un cappello, ecc) appartenuti alla figura d’attaccamento, cosa che sembra prolungare la sensazione di prossimità, di protezione e d’affetto da parte sua. Ciò può ricordarci la funzione degli oggetti transizionali descritta da Winnicott. Questi contatti forniscono sollievo, conforto, sostegno e facilitano la transizione dal passato al futuro. A volte i bambini si rendono conto che sono i loro bisogni a influenzare le loro percezioni, ma continuano a sentirle quasi come reali: “non è proprio come se io lo vedessi lì … in cielo … ma, lo sento … come dire? … sento la sua voce nella mia testa”. I bambini, dunque, se li sappiamo ascoltare, ci offrono indicazioni straordinarie su come affrontare in termini psicoterapeutici il lutto. Basandoci sui loro insegnamenti, possiamo orientare le nostre strategie terapeutiche, puntando cioè al mantenimento del contatto e lavorando sugli aspetti dello stato mentale del paziente che tendono ad impedirne la realizzazione. In particolare, le persone con lutti irrisolti, fanno di tutto, evitano attivamente di rappresentarsi la persona morta e quindi di collocarla, vederla, da qualche parte. La seguente potrebbe essere una buona traccia di lavoro, declinabile proceduralmente in modi diversi (moviola, immaginazione guidata, disegno, foto, video, drammatizzazioni) nel lavoro clinico col bambino e con l’adulto in condizioni di lutto irrisolto: A) Esplorazione del mio passato con lui, il mio rapporto con lui prima della malattia/morte. Pensa al rapporto che hai avuto con lui/lei quando era ancora in vita, qual è la prima immagine che ti viene in mente? Che effetto ti fa? Che emozioni ti sollecita? Che pensieri ti sollecita? Qual è il momento più bello che ti viene in mente? E quello più brutto? (riattivare il ricordo della relazione con lui/lei, riuscire a pensarlo nel prima) B) Pensando al momento della sua morte (a quei giorni, a quelle circostanze, a te, agli altri tuoi familiari, …), qual è la prima immagine che ti viene in mente? Che effetto ti fa? Che emozioni ti sollecita? Che pensieri ti sollecita? Con alcuni pazienti, a questo livello le tecniche di EMDR possono avere un ruolo nell’accesso e nella rielaborazione di alcuni ricordi/immagini particolarmente traumatici (ad esempio, un bambino che ha trovato papà impiccato in cucina). C) Esplorazione del presente: E adesso, ti capita di ripensarci? Quanto ti capita di ripensarci? Quando ti capita di ripensarci? In quali momenti della giornata? Come te lo/a immagini? Dove te lo/a immagini? Dove t’immagini che sia? Riesci a vederlo/a? Che cosa ti colpisce di lui/lei? Che cosa fa? Che cosa dice? (in età evolutiva, ma non solo: proviamo a disegnarlo là dov’è, il suo volto, il suo corpo, i suoi atteggiamenti, ecc …) 65 - Ti vede? Ti guarda? Che cosa starà pensando di te? Che effetto gli farà vederti? Se potesse che cosa ti vorrebbe dire? Se potesse cosa farebbe per te? E a te, che effetto ti fa vederlo? Che pensieri, che immagini ti vengono? Se tu potessi che cosa gli vorresti dire? Avresti voglia di dirgli qualcosa? Se te la senti, prova a dirglielo, prova ad esprimergli i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri, su come ti senti adesso e su quello che lui ha rappresentato per te. (In età evolutiva, ma non solo: ci stai che scriviamo una lettera a papà, poi la attacchiamo ad un palloncino e la facciamo volare su …. fino al cielo?). In altri termini, cerchiamo in primo luogo di ripristinare il contatto, poi i processi di mentalizzazione in prima persona e in terza persona, e quindi il dialogo che ne consegue, con tutte le possibili implicazioni emotive. Una volta che si sia riusciti a riattivare il contatto e il dialogo con la persona scomparsa, spesso, da parte del paziente, vengono spontaneamente ricercati e condivisi col terapeuta (e possibilmente con altre figure affettive presenti nel contesto di vita del paziente), alcuni semplici ma emotivamente pregnanti “rituali” (come andare al cimitero, riguardare con qualcuno foto o filmati relativi a momenti vissuti con la persona scomparsa; ritornare a visitare luoghi frequentati insieme, ecc.). Ciò allo scopo di consolidare il lavoro condotto in seduta, offrendo al paziente la possibilità di sperimentare concretamente lo “stare” insieme dentro queste aree emotive critiche, attraversandole pienamente. Di cruciale importanza per l’intervento diventa, comunque, valutare, da un lato se la mancata risoluzione del lutto si esprima maggiormente in termini preoccupati o accantonanti; dall’altro, in un’ottica più dimensionale che categoriale (risolto/irrisolto), a che stadio sia il processo di risoluzione dell’evento luttuoso nello stato mentale del soggetto e quali specifici aspetti richiedono ulteriore integrazione. In funzione di tale “diagnosi esplicativa” il lavoro di ricostruzione col paziente potrà essere condotto in modo più calibrato e strategicamente orientato. Alcuni pazienti hanno bisogno di essere aiutati a caricare le proprie rappresentazioni concettuali e semantiche di sempre più vivide immagini sensoriali, con tutte le implicazioni emotivo/affettive ad esse connesse; altri pazienti hanno al contrario più bisogno di introdurre ordinamento cognitivo, sequenzialità, e più articolate capacità di comprensione semantica dell’esperienza di perdita vissuta. Lutto e coerenza sistemica del Sè I contenuti rappresentativi via via emergenti, entro un siffatto contesto clinico, andranno invariabilmente a collocarsi intorno alle specifiche dimensioni di significato che caratterizzano l’organizzazione del sé del paziente, vale a dire i core biliefs della propria organizzazione conoscitiva (ad esempio, bisogno di protezione, costrizione, non amabilità, solitudine, perfezione, giustizia, sensibilità al giudizio, ecc). Ed è su tali temi che andrà indirizzata l’autosservazione del pz e il successivo lavoro terapeutico. Il terapeuta, insieme al paziente, potrà osservare, ad esempio, come il modo in cui ciascuno tende a rimanere in contatto con chi si è perduto e a ricordarli, il modo in cui lo immagina orientato verso di sé, il tipo di dialogo che si instaura, segue inevitabilmente e coerentemente le modalità caratteristiche e uniche del proprio stile cognitivo/emotivo e interpersonale, cioè le regole che 66 guidano il proprio modo abituale di tenere lo stato di relazione con l’altro, in funzione delle dimensioni di significato personale che garantiscono stabilità e coerenza al sentimento di noi stessi (v. Figura 1). ORGANIZZAZIONI DI SIGNIFICATO PERSONALE E LUTTO FOB TONALI TA’ EM OTI VE E TEM I PREVALENTI Lettura sensoriale (corporea) delle emozioni (sintomi fisici) Rabbia da abbandono (come ansiolitico) Paura della depressione Paura della solitudine, del futuro Pericolo, senso di minaccia, abbandono, costrizione Forte/Debole SI STEM I DI M EM ORI A PREVALENTI LOSS ORI ENTATI ON vs RESTORATI ON ORI ENTATI ON STI LE DI RI EVOCAZI ONE E CONTATTO CON LA FI GURA PERSA DAP Senso di vuoto, confusione, Vergogna Emozioni vaghe, poco definite Lutto di “facciata” non di “sostanza” Ciò consente elaborazione rapida DEP Rabbia/Disperazione Regolazione emotiva in difetto Sentimenti di non amabilità Esplorazione come distrattore Disposizione allo sforzo OSS Disgusto, Disprezzo, Biasimo Rabbia come Indignazione morale Autobiasimo e senso di indegnità personale Giusto/Sbagliato Buono/Cattivo Senso ipertrofico di Responsabilità Immagini intense, linguaggio evocativo, procedurale coinvolgente collusivo-confrontativo Memoria episodica sfumata e circolare o frammentata Memoria semantica, procedurale distanziante sé, Episodi dal punto di vista genitoriale, linguaggio denotativo. Memoria semantica, immagini spostate o scollegate, procedurale distanziante l'altro e il sé, linguaggio denotativo LO LO/RO RO RO Immagine vaga un po’ sognante e idealizzata della persona persa Richiesta di conferma dell’immagine di sé in corso “Lui lassù che pensa bene di me” Senso di liberazione dal giudizio Attivazione accuditiva (A3) Bisogno di condivisione e riconoscimento prestazionale (A4) No dialogo o poche parole Bisogno di mettersi nel suo punto di vista e capire i suoi bisogni Scambio logico-razionale Conferma di sé in termini di integrità morale Responsabilità personale per la sua scomparsa (“se avessi fatto”) e senso di colpa morale Immagini sensoriali vivide della persona persa Paura di vederlo in casa (l’ombra, il fantasma, ecc) Richiesta di protezione, senso di contenimento e rassicurazione fisica No distinzione corpo-anima Ceneri Fig.1 OSP e Lutto Il caso che segue, ad esempio, ben evidenzia come una Organizzazione di significato personale di tipo Fobico (o controllante) può reagire alla perdita e processare i sentimenti tipici del lutto. Roberta, 39 anni (organizzazione fobica attiva) Richiede una consulenza perché teme di essere “affetta da depressione”, in quanto, da qualche mese, ogni mattina si sveglia in lacrime senza saperne il motivo. Dal ritmo concitato dell’eloquio e dall’accesa espressività viene da subito da escludere tratti organizzativi interni di tipo depressivo. La paziente è sposata da 15 anni, ha 2 figli, un maschio di 14 anni e una femmina di 9. Le è mancato il padre giusto un anno fa. Roberta, figlia unica, che dice di aver avuto con il padre un legame speciale, racconta la sofferenza provata da quando, un anno e mezzo fa, ha saputo che il padre era affetto da un cancro incurabile al fegato. Dice di aver da subito pianto e provato molta angoscia ma di aver dopo poco reagito con un atteggiamento deciso, quasi di negazione nei confronti dell’incurabilità della malattia, portando il padre dai migliori specialisti del nord Italia, tentando tutte le cure possibili, e decidendo lei per tutti (la madre è ancora in vita) di far credere al padre che il suo problema consisteva soltanto in un polipo benigno “che però, essendo molto grosso, era necessaria la chemio terapia per ridurlo” e che si sarebbe ripreso in tempi brevi. Quando l’uomo esprimeva perplessità su questo, la figlia reagiva aggressivamente dicendogli: “Mettitelo in testa che non è niente! Guarirai presto!”. Durante l’ultimo periodo di vita del padre, Roberta si è praticamente “trasferita all’ospedale” con lui, assistendolo giorno e notte. Il giorno prima che il padre morisse, dopo aver deciso di 67 mandare via tutti gli altri congiunti per rimanere da sola con lui, si è messa nel letto con il padre, parlandogli ininterrottamente dei progetti che avrebbero fatto quando lui sarebbe stato dimesso. Quando il padre è spirato, i medici hanno dovuto insistere per parecchio tempo prima che lei si decidesse di uscire dal letto. Da subito Roberta dice di aver reagito “con forza”, non sentendo il dolore per la perdita. “La settimana dopo il funerale, sono andata con mio marito a vedere un musical e mi sono divertita moltissimo”. Questa fase è durata per qualche mese, dopodiché è subentrata una fase di rabbia “verso tutti”, che permane, affiancata da quei momenti di pianto e tristezza con i quali si sveglia ogni mattina, ma che dice non legati a nessun sogno o pensiero cosciente. La pz per 6 mesi ha tenuto in casa con sé le ceneri del padre, (che aveva espresso la volontà di essere cremato), finché, dovendo partire per le vacanze con la famiglia, non volendo lasciare lì il padre “perché (quando era in vita) non sopportava di stare chiuso in casa da solo”, poco prima della partenza prevista, decide di coinvolgere la madre, il marito e i bambini nel rito di spargimento delle ceneri sul fiume del paese d’origine del padre. Nei soggetti organizzati in senso fobico attivo, i sentimenti di dolore sono avvertiti intensamente ma controllati a fior di pelle: non riescono realmente a fare un lutto provando genuinamente dolore, sono spaventati dalla tristezza, hanno paura della depressione e chiedono continue rassicurazioni in merito (dottore, non avrò mica la depressione?). In alcuni casi, possono esprimere il lutto non in termini genuinamente emotivi, ma in termini di lettura sensoriale delle emozioni (lipotimie, astenia/senso di oppressione al petto e costrizione). Tendono a rievocare la persona persa attraverso immagini sensoriali molto intense e vivide. Inoltre, capita sovente che il pz abbia, insieme al bisogno di continuare a rappresentarsi la persona morta vividamente, sensorialmente, anche il timore di vedersi comparire il fantasma della persona morta, accompagnata da una grande paura di rimanere da soli in casa (“la notte mi alzo per andare in bagno e mi tremano le gambe … ho proprio l’impressione di vederla lì seduta sul divano che mi guarda!”). Stefania (Organizzazione mista Dap/Fob) Quando Stefania ha 27 anni le muore la nonna, con cui ha dormito fino ai vent’anni, appena prima di sposarsi. Riporta che ogni tanto la sera le sembra di vedere l'ombra della nonna che si muove in giardino, S. si spaventa ed è triste. Mentre mi racconta queste cose la vedo piangere per la prima volta, è molto attivata anche se sono già passati 11 anni, così iniziamo a lavorare su questo lutto irrisolto, partendo dalla malattia della nonna e passando ai momenti precedenti la morte, il funerale, e ciò che succede dopo la morte. In casa non se ne poteva parlare perchè “avevo paura di far star troppo male mia mamma”, arriva a scrivere una lettera di saluto alla nonna e via via l'attivazione rispetto a questa morte si attenua, donando parole e corpo a quella sofferenza. S. arriva a raccontare questo lutto con serenità “ora non vedo più l'ombra in giardino, era come un filo che non volevo si staccasse, io faccio fatica a digerire i distacchi soprattutto per quelle persone che hanno rappresentato un appoggio, era come perdere un pezzo di me, ora è dentro di me il suo ricordo”. Gianni 56 anni (organizzazione fobica attiva) Gianni scopre casualmente, eseguendo esami medici di routine di avere un tumore ai polmoni. I curanti gli danno pochi mesi di vita. Da quel momento, evita attivamente di contattare le parti spaventate e vulnerabili del sé e avvia una fase di iperattività spasmodica, dove non c’è possibilità di trovare un attimo di tempo per fermarsi a pensare e a sentire il dolore della perdita. I viaggi si susseguono a ritmo incalzante, le attività, toniche, “adrenaliniche” si fanno sempre più pressanti, con impegno quotidiano in sport estremi, che gli danno l’idea di forza, di coraggio e di competenza estrema nel maneggiare la paura e il pericolo di morte. Dunque, anche il rapporto con la propria morte, entro tali strutturazioni “controfobiche” del 68 sé tende ad orientarsi verso modalità di regolazione emotiva “toniche” e attive. La persona ha bisogno di costruirsi un lutto “tonico” e attivante che, paradossalmente, confermi la funzionalità delle loro consuete modalità di regolazione degli stati emotivi e della loro immagine di sé ostentatamente forte (bisogna essere più forti della morte, o per dirla con le parole stesse di Gianni: “alla morte bisogna metterglielo in quel posto!!!”) Lucio è un adolescente con organizzazione di personalità strutturata essenzialmente in senso fobico attivo con una percezione esplicita, si potrebbe quasi dire ostentata, di sé in termini di forza e di coraggio. Colpito, insieme alla madre, da una serie pesantissima di sciagure. A 16 anni, la morte improvvisa del padre per un gravissimo incidente stradale. Sia la madre che Lucio si appoggiano disperatamente al fratello più grande Andrea che comincia ad assumere il ruolo di capofamiglia, un ruolo importante di guida e protezione. Passano pochi mesi e Lucio è di fronte all’Ospedale Civile della sua città, ad attendere il fratello che lì lavora come infermiere. Il fratello esce, fa per attraversare la strada sorridendo per raggiungerlo, e un extracomunitario mezzo ubriaco lo falcia con l’auto e lo lascia morto a terra davanti ai suoi occhi. Quando Lucio arriva in terapia, la madre (dopo circa un anno dalla morte di Andrea) è ancora in uno stato di disorientamento e incredulità e parla del marito e del figlio come fossero presenti e vivi. Lucio presenta invece sintomi d’ansia particolarmente intensi e fortissimi timori di separazione (dalla madre, dalla fidanzata, con la quale si stava gradualmente “guastando” il rapporto per le sue modalità sempre più gelose e coercitive, e dalla zia paterna) accompagnati da somatizzazioni. Non è stato facile in seduta vederlo piangere, lui, forte e tonico, surfista indomabile, ore di tavola da surf e di palestra ogni giorno. Dopo alcuni mesi di lavoro terapeutico, quando cominciano gradualmente ad emergere la sua parte fragile e i suoi sentimenti di vulnerabilità (anche con l’ausilio delle tecniche immaginative di cui sopra), comincia a raccontare in seduta, con gli occhi un po’ lucidi: “… nelle ultime settimane, praticamente tutte le sere vado giù a Cesenatico … e aspetto che non ci sia più nessuno in spiaggia … un gran silenzio … e mi siedo lì sulla mia tavola, davanti al mare e guardo là lontano … e a un certo punto vedo il babbo … e vedo Andrea … ma, li vedo proprio!! Lì sul mare!! e gli racconto quello che ho fatto in giornata, il lavoro, la palestra, la Monica (la sua fidanzata) e parliamo, ma parliamo proprio!! … e il babbo spesso mi dà una botta sulla spalla … e mi dice che non è niente di tutti sti malanni che ho, e che sono forte come una roccia … e Andrea che è un po’ incazzato e mi dice che se non la smetto di avere quelle uscite di rabbia, poi la Monica si stufa!! …. E poi dopo un po’ li saluto … e torno a casa che sto proprio bene!” Quell’estate Lucio ha fatto regolarmente (senza mancarne una) le sue “sedute” serali con Andrea e col papà; a quel punto forse ancor più importanti delle nostre sedute terapeutiche settimanali. Mentre nei fobici attivi è molto frequente l’amplificazione della rabbia da abbandono, nei fobici passivi sono spesso presenti senso di inaiutabilità e sintomi astenici. Usualmente, essendo poco astratti, e talvolta addirittura superconcreti, non riescono a farsi una ragione della distinzione tra il corpo e l’anima dopo la morte; hanno difficoltà ad immaginarsi qualcosa di più astratto, di spirituale, di trascendente, al di là del corpo. Prevalgono immagini sensoriali claustrofobiche quali il vedersi chiusi dentro la cassa: sovente decidono di farsi cremare per evitare questa condizione costrittiva. Similmente, amano immaginarsi l’aldilà in modo rassicurante e concreto (“come nella pubblicità della Lavazza!”), un aldilà in cui siano possibilmente conservate tutte le loro abitudini e ritualità quotidiane. Nelle Organizzazione di significato personale di tipo Depressivo (o distaccate), invece, il senso di perdita riverbera e spicca su ogni altra tonalità e tema narrativo, come conferma 69 sostanziale del senso tacito e pervasivo di non amabilità del soggetto, del suo destino di solitudine e della sua percezione del mondo in termini di non disponibilità affettiva. Disperazione e Rabbia sono le emozioni che fanno da marcapasso tacitamente e potentemente all’intera struttura, ma sono usualmente gestite attraverso operazioni di autocura, autosufficienza obbligata e/o di “Restoration Orientation” (Stroebe e Schut, 1999), cioè di orientamento dell’attenzione verso gli aspetti più organizzativi e pratici del lutto. Nello stile narrativo prevale l’utilizzo dei sistemi di memoria di tipo procedurale e semantico: nella memoria episodica, gli eventi sono ricostruiti con stile astratto, generalizzante, talvolta anche poetico, dove tuttavia il sé è escluso attentamente dalla narrazione. Lo stile di rievocazione e le modalità di contatto che si esprimono attraverso la suddetta tecnica terapeutica, tendono a passare verso l’attivazione accuditiva verso il defunto (bisogno di dirgli qualcosa che lo faccia star bene) o attraverso il bisogno di condivisione e riconoscimento prestazionale (la figura defunta che rinforza in modo diretto o indiretto la propria competenza e il proprio valore su un’area non affettiva, ma intellettuale e prestazionale). Il dialogo la figura persa è molto limitato o assente (talvolta il soggetto sottolinea esplicitamente che “non c’è bisogno di parole!”) e comunque gli eventuali frammenti comunicativi sono tutti orientati sul punto di vista dell’altro e non sui propri bisogni. In alcune configurazioni difese di tipo compulsivamente accuditivo, addirittura, il paziente, anzichè esprimere per sé tristezza e desiderio di conforto, assume frequentemente comportamenti di tipo oblativo, compulsivamente “genitoriali”, anche verso le figure significative che ha intorno. Di solito i pz con queste organizzazioni di personalità sembra che reggano bene l’impatto iniziale con l’evento traumatico, amplificando il loro deficit integrativo di tipo emotivo/affettivo, e facendo leva su meccanismi di esplorazione come distrattore, tipici degli itinerari di sviluppo evitanti/difesi, o su attività intellettuali, amplificando i loro meccanismi di compenso di tipo prestazionale (ad esempio, un intenso impegno scolastico o lavorativo: come a dire “metto la testa da un’altra parte”). Lo scompenso, anche grave, può determinarsi più tardi, quando per qualche ragione dovessero andare in crisi tali meccanismi di compenso (fase di fisiologica difficoltà o fallimento scolastico, crisi lavorativa, ecc). Occorre fare attenzione, però, a non confondere i meccanismi di soppressione attiva tipici di questi ragazzini o di adulti con stato mentale distanziante con i fisiologici, naturali e normali meccanismi di adattamento messi in atto da tutti i bambini più piccoli. Nella prima infanzia, fino ai 4/5 anni il dolore viene sperimentato in modo diverso e i meccanismi di gestione del dolore sono rappresentati da strategie di mastery di primo livello (agire sul corpo, evitamento, distrazione, ecc): è facile che un bimbo piccolo a cui viene comunicata la morte del padre possa reagire ad esempio, mettendosi a correre, oppure dicendo: “Possiamo tenere un micino?”, oppure disegnando scene del suo recente compleanno, ecc … dandosi cioè degli “antidepressivi” semplici di primo livello. Nelle Organizzazioni di significato personale di tipo DAP (o contestualizzate), connotate da un senso di sé vago e indefinito e da un corrispondente bisogno di definizione esterna, le esperienze emotive più tipiche, riferite in fase di lutto, sono costituite da un senso vago di vuoto interiore, di confusione, di smarrimento, che fanno da riscontro alla percezione di perdita del pensiero forte esterno atto a confermare e a definire i contorni del sé. E’ possibile, in questi casi, osservare lutti, cosiddetti “di facciata” con vistosa espressività emotiva in prima battuta, che svolge peraltro la funzione di “sentirsi” e di conferma dei sentimenti provati per l’altro (“se soffro vuol dire che gli volevo bene!” “più soffro, più vuol dire che gli volevo bene”), a cui possono fare riscontro rapidi slittamenti su altri registri emotivi, anche positivi, in funzione del cambiamento di contesto e di relazione. La possibilità 70 per queste organizzazioni, di fare il lutto sull’”involucro” piuttosto che sull’interno, cioè solo sull’immagine mostrata all’altro, consente usualmente elaborazioni rapide. Talvolta (in situazioni di ancora scarsa demarcazione sé/altro), alcuni soggetti potrebbero avvertire tacitamente, o anche riferire, un senso di sollievo e di attenuazione del sentimento di intrusività e giudizio precedentemente percepito (e quindi maggiore libertà espressiva): “… per la prima volta, dopo la morte di mia madre … proprio il giorno dopo … per la prima volta mi sono stesa sul divano e liberamente ho tirato fuori dalla borsa Repubblica … e ho letto l’articolo di fondo, incredibilmente rilassata … senza immaginare i suoi occhi … che mi guardano, come dire: non posso credere che tu la pensi veramente in quel modo … non è proprio possibile!” Sul piano dell’elaborazione dell’informazione e quindi dello stile narrativo, i sistemi di memoria preferenziali in questo caso sono rappresentati da una memoria semantica sfumata e circolare o frammentata. Lo stile di rievocazione e le modalità di contatto con la figura persa sono usualmente caratterizzate da un’immagine un po’ vaga sognante e idealizzata del defunto, dal quale il soggetto si aspetta una conferma dell’immagine di sé in corso (“Lui lassù che mi guarda e mi dice: sei sempre così in gamba nel tuo lavoro …”) Nelle Organizzazioni di significato personale di tipo Ossessivo (o normativo), anche nell’elaborazione del lutto, prevalgono temi di responsabilità morale, giusto/sbagliato, buono/cattivo con relative emozioni di degnità/indegnità morale, rabbia come indignazione morale, disgusto, disprezzo e biasimo/autobiasimo. Sul piano elaborativo e narrativo viene utilizzata prevalentemente la memoria semantica, con immagini spostate o scollegate, un procedurale distanziante l’altro e il sé, e linguaggio denotativo. L’evocazione immaginativa della figura persa è spesso difficoltosa e il dialogo, se si instaura, prende la forma di uno scambio logico-razionale, dove usualmente l’obiettivo è la conferma di sé in termini di integrità morale. Può comparire facilmente anche il senso di responsabilità personale (in senso morale) per la morte dell’altro: ad esempio, a Marzia, per tre anni continua a salirgli più volte al giorno il pensiero intrusivo che se non fosse andata dalla parrucchiera proprio in quel giorno e proprio in quell’ora, forse il suo amato fratello sarebbe ancora vivo. In termini processuali prevalgono forse in forma ancor più marcata che nelle organizzazioni depressive, fattori di tipo “Restoration Orientation” cioè di forte polarizzazione dell’attenzione verso gli aspetti pratico-organizzativi del lutto, con forte enfasi sulla difficile riorganizzazione dell’ambiente domestico, lavorativo, ecc, a discapito delle implicazioni emotivo-affettive. Marco (Grave Disturbo Ossessivo di Personalità). A seguito del lutto della madre, subito a 12 anni, il padre di Marco si unisce molto in fretta con un'altra donna che va ad abitare con loro dopo breve tempo. Lui, fin da subito, la chiama “mamma”. Esplorando in terapia tale perdita e le emozioni ad essa connesse, il paziente dice: “no, niente di particolare, non sono stato poi così male, anche perché il giorno del funerale non mi ci hanno mandato e mi hanno portato a giocare con altri bambini … poi, proprio in quell’anno ho cambiato scuola e quindi tutta la novità del nuovo ambiente, i nuovi compagni … non avrei avuto neanche tempo di pensarci …”. “Per me ora mia mamma è più lei, quella che poi mi ha cresciuto … perché, se ci pensa, in effetti l’altra mamma ce l’ho avuta solo fino a 13 anni, questa invece ce l’ho da 30 anni … quindi il database di questa nuova mamma è molto più ampio di quello dell’altra!”. Mentre 71 dice questo, in modo marcatamente coartato, gli scende una lacrima muta sul volto, senza che Marco abbia la minima consapevolezza di quel che sta accadendo. Anche per quanto concerne il rapporto con la propria morte, l’attenzione selettiva del soggetto organizzato in senso normativo è sempre sul proprio senso di degnità morale. Come evidenzia Margherita, a fronte di una grave crisi cardiaca, collasso e percezione netta di morte. Nessuna disposizione all’azione, a chiedere aiuto in modo espressivo. Prevale anzi la ipoattivazione, la regolazione emotiva in difetto, connessa a una peculiare serie di rappresentazioni interne, in forma prevalentemente verbale e sequenziale. Freddamente, in pochi secondi, Margherita passa in rassegna tutta la sua vita e si chiede: avrò vissuto male o bene? La mia vita è stata degna? E intanto sente una musica e delle parole, distintamente, è La canzone di Piero di Fabrizio De Andrè: “Cadesti a terra, senza un lamento, e ti accorgesti in un solo momento, che la tua vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato ritorno … cadesti a terra, senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chieder perdono per ogni peccato”. Bibliografia Ainsworth M.D.S., Blehar M., Waters E. e Wall S. 1978. Patterns of Attachment: A psychological study of the Strange Situation. Erlbaum, Hillsdale, N.J. Bowlby J. 1969. Attachment and loss, vol 1. Basic Books, New York. [Attaccamento e perdita, vol. 1, L'attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino 1972]. Bowlby J. 1973. Attachment and loss, vol 2. Basic Books, New York. [Attaccamento e perdita, vol. 2, La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino 1975]. Bowlby J. 1979. The making and breaking of affectional bonds. Tavistock, London. 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Come noto si tratta di una condizione per lo più cronica (Visser et al. 2014) e, in molti casi, estremamente invalidante (Veale & Roberts, 2014). Uno dei primi tentativi di formulare un modello esplicativo di questa patologia risale a Freud (1895, 1909, 1913), probabilmente il primo a considerare le ossessioni e le compulsioni come manifestazioni dotate di significato piuttosto che come fenomeni semplicemente senza senso. Tuttavia, più avanti negli anni, lo stesso Freud (1926) finì per considerare questo disturbo una sorta di croce e delizia per il suo metodo, vale a dire un’entità che permetteva delle analisi psicopatologiche eleganti, ma che al dunque restava spesso inaccessibile alla terapia. In tempi molto più recenti, invece, ha riscosso progressivamente credito un modello esplicativo che si rifà alla 'terapia cognitiva' standard. Secondo questo approccio, alla base del DOC vi sarebbero una o più ‘convinzioni 'disfunzionali': a esempio, convinzioni irrealistiche circa la propria capacità di influenzare gli eventi (McFall, Wollersheim, 1979) o circa il fatto di esserne responsabili in prima persona (Salkovskis, 1985; Rachman, 1993; Salkovskis et al., 1999). In accordo a questa veduta, l’intervento terapeutico mira a modificare le queste presunte distorsioni: a esempio, con un paziente con la preoccupazione ossessiva di poter danneggiare gli altri, l'intervento terapeutico consisterà nel condurre il soggetto - tramite una serie di ragionamenti di tipo probabilistico - a una valutazione più realistica del rischio tanto temuto (Van Oppen & Arntz, 1994). Tuttavia, da un intervento di questo tipo non ci può aspettare che una modifica del solo livello esplicito dell’esperienza (Guidano, 1991): di conseguenza, anche se il paziente si convincesse davvero che la sua preoccupazione è irrealistica o comunque esagerata, egli continuerà in ogni caso a sentirsi una persona che ospita dentro di sé delle istanze negative e pericolose. Secondo l’approccio inaugurato da Guidano (1991), invece, il problema del DOC avrebbe la sua origine, non tanto in una vera e propria distorsione cognitiva dei soggetti che ne sono affetti, quanto piuttosto in una particolare rigidità della specifica configurazione personologica che li caratterizza e che avrebbe come conseguenza una difficoltà, da parte loro, a integrare all’interno della propria esperienza certi ingredienti emotivi, di per sé significativi, ma che pure -in quanto non assimilati- vengono vissuti come ego-distonici e minacciosi. Naturalmente, questa non è l’unica Organizzazione di Significato Personale (OSP) in cui si può osservare una difficoltà ad assimilare nuovi ingredienti emotivi: quello che qui interessa, però, è specificare solo il modo in cui questa difficoltà si declina appunto in questa OSP . L'Organizzazione di Significato Personale 'Ossessiva' La particolare configurazione personologica all'origine del DOC, come è noto, prende il nome di Organizzazione di Significato Personale 'Ossessiva'. Tuttavia, la possibilità di 74 spiegare il DOC soltanto nei termini dell’OSP ‘Ossessiva’ è stata messa in discussione: Tallis (1995), a esempio, ha sostenuto che le formulazioni di Guidano e Liotti (1983), pur se di indubbio interesse, non fornirebbero in realtà una spiegazione parsimoniosa del perché i soggetti con questa organizzazione cognitiva sviluppino proprio il DOC anziché, a esempio, un disturbo depressivo. Probabilmente, queste accuse non sono pienamente giustificate, dato che, invece, è facile riconoscere già a livello clinico una connessione piuttosto specifica tra OSP ‘Ossessiva’ e DOC. Tuttavia, non c’è dubbio che, in generale, un inquadramento dei diversi disturbi basato sulle OSP costituisca un approccio prevalentemente top-down: nel caso specifico, può così essere difficile capire subito quali siano i passaggi intermedi attraverso i quali si possa arrivare da una configurazione di personalità molto generale (vale a dire l’OSP ‘Ossessiva’) ai caratteristici sintomi del DOC. Ma cosa succede con gli sviluppi del modello successivi alla critica di Tallis (Guidano, 1999, 2010)? Essi hanno cambiato in qualche modo la situazione? La domanda è giustificata dal fatto che, alla fine degli anni 90, Guidano ha riformulato in modo più astratto le diverse OSP, mettendone meglio in luce, non solo le relative differenze, ma anche i reciproci rapporti (Guidano, 1999, 2010). Per questo nuovo inquadramento, Guidano (1999, 2010) ha fatto ricorso, come è noto, a due dimensioni psicologiche: l’una già presente in letteratura, la fielddependence/field-independence (Witkin, 1948; Witkin, Goodenough, 1977), e l'altra, invece, inedita: la inwardness/outwardness. Il costrutto di field-dependence/field-independence ha a che fare con la maggiore o minore capacità di un individuo di distinguere un certo elemento percettivo dallo sfondo (o campo) in cui è immerso (Witkin, 1948; Witkin et al., 1962), anche se in seguito il costrutto è stato applicato anche al contesto delle relazioni interpersonali (Witkin & Goodenough, 1977). In pratica, questa dimensione si riferisce al tipo di rapporto che un soggetto intrattiene con gli altri: i soggetti field-dependent sarebbero caratterizzati da un approccio più ‘affettivo’ e 'interpersonale' mentre, al contrario, i soggetti field-independent manifesterebbero un atteggiamento più ‘cognitivo’ e 'impersonale'. L'altra dimensione, la inwardness/outwardness, rimanda invece alla relazione con se stessi (Guidano, 1999, 2010): infatti, i soggetti inward, possedendo emozioni di base (basic feelings) ben nette e definite avrebbero un'esperienza definita 'dall'interno', al contrario, i soggetti outward per ottenere un interno stabile e accettabile ricorrerebbero a criteri esterni (Guidano, 1999, 2010). Disponendo le due dimensioni su un piano, l'una ortogonale all'altra, ne risulta una griglia grazie al quale ogni OSP appare contraddistinta da una coppia di polarità (una per ciascuna dimensione): in questo modo, a esempio, l'OSP ‘Ossessiva’ appare caratterizzata dalle polarità Outward e Field-independent (Guidano, 2010). Occorre però precisare che una delle dimensioni, la field-dependence/field-independence, presenta diversi problemi sia quando considerata in se stessa che quando applicata alla Teoria delle OSP (Mannino, 2011a). Di conseguenza, al posto di quella, conviene considerare una dimensione in parte simile, ma che prenda in considerazione solo l’aspetto relazionale (piuttosto che anche quello percettivo). In via provvisoria si potrebbe chiamare questa dimensione impersonality/ interpersonality, proprio per metterne in evidenza uno degli aspetti più salienti: in essa, infatti, una polarità sarebbe rappresentata da un’attitudine ad affrontare i problemi relazionali in termini cognitivi, generali e impersonali, mentre l’altra polarità rimanderebbe a un approccio più affettivo, contestuale e interpersonale (Mannino, 2014). A questo punto, è immediato interpretare certe caratteristiche psicologiche dei soggetti con DOC in termini di una particolare rigidità di entrambe le polarità che caratterizzano l’OSP ‘Ossessiva’ (vale a dire, impersonality e outwardness). Infatti, diventa facile leggere in 75 termini di una rigida impersonality aspetti quali l’approccio analitico, la tendenza ad affrontare le situazioni non univoche con mezzi cognitivi e impersonali, la regolazione del comportamento sulla base di princìpi universali, la tendenza a privilegiare gli aspetti generali di una situazione rispetto agli ingredienti esclusivamente personali; mentre, allo stesso modo, è immediato riportare a una rigida outwardness la difficoltà a leggere ‘in presa diretta’ i propri stati interni (sensazioni, emozioni, immagini, ecc.), la tendenza a interpretarli invece in base a criteri esterni (a esempio, princìpi di ordine morale, giuridico, eccetera) così come il cercare di plasmarli in conformità a essi (Guidano, 2010). Altre manifestazioni del DOC si possono invece riportare a una dimensione proposta solo in seguito, denominata 'Diacronia/Sincronia' (Mannino, 2005, 2008, 2011b), che cerca di catturare il diverso modo con cui si può articolare la dinamica tra la necessità di avvertire una ‘continuità’ della propria esperienza (e in definitiva della propria immagine di sé) nel corso del tempo e il bisogno di avvertirne anche un’unitarietà momento per momento. Qui interessa la sola polarità diacronica, nei cui termini si possono leggere certe caratteristiche dei soggetti con DOC quali il marcato bisogno di continuità nell'immagine di sé, il continuo monitoraggio di singoli ingredienti esperienziali, l'enfasi sulla previsione, il turbamento di fronte di una percepita discontinuità, le ripetute verifiche su di sé volte ad accertare chi si è veramente (Mannino, 2005, 2008). Con in mente queste distinzioni, si può ora tornare al problema sollevato da Tallis (1995). E a questo riguardo sembra di poter rispondere in questo modo: anche quando si consideri l’OSP ‘Ossessiva’ in termini di outwardness, impersonality e diachrony vi è ancora una grande distanza tra il grado di astrazione e di generalità di questi costrutti e la concretezza e la molteplicità delle manifestazioni del DOC. Di seguito si propongono quindi due meccanismi patogenetici che occupano una posizione intermedia tra le dimensioni e i sintomi e che quindi costituiscono una sorta di ponte tra i due livelli: la ‘lettura delle emozioni a opposta direzionalità come incompatibili’ e la ’individuazione retrospettiva delle motivazioni’. La ‘lettura delle emozioni a oppposta direzionalità come incompatibili’ Come è noto Guidano (1991), a proposito dell’esperienza immediata dei soggetti con OSP 'Ossessiva', parlava di una caratteristica presenza di emozioni “contraddittorie e ambivalenti”. Tuttavia, ci si può chiedere: queste emozioni sono davvero ‘antitetiche’ ? Infatti, l'esperienza clinica mostra che - in molti casi- emozioni di per sé non contraddittorie sono avvertite come tali da un soggetto con DOC come risultato di una difficoltà da parte di quest'ultimo a comporre in un quadro unitario aspetti variegati del proprio vissuto. Ora, il punto importante è questo: questa difficoltà non si verifica con tutte le emozioni ma solo con quelle più facilmente percepibili in termini di opposta ‘direzionalità’ (Mannino, 2014). A esempio, un soggetto può incontrare difficoltà a integrare tra loro emozioni come la ‘rabbia’ (che conduce a un aumento della distanza da una persona) e la ‘tenerezza’ (che induce a un avvicinamento). Naturalmente, queste emozioni non sono per nulla incompatibili di per sé, anche perché spesso dirette, sì verso una stessa persona o situazione, ma –in realtà- verso aspetti diversi di essa. Un caso clinico, riportato anche altrove (Mannino, 2014), può essere utile per illustrare il concetto e mostrare come questo meccanismo possa essere alla base di certe ruminazioni. Caso clinico 1 Uomo di 30 aa, affetto da DOC, riferiva estenuanti ruminazioni incentrate sulla fidanzata e che prendevano origine dal fatto di avvertire emozioni che gli sembravano contraddittorie. A volte, infatti, avvertiva insofferenza nei confronti di comportamenti di questa che trovava immaturi; tuttavia, la reazione di lei alle sue rimostranze gli suscitava invece un senso di 76 tenerezza. A questo punto il p. non riusciva più a capire cosa sentisse ‘veramente’ nei confronti della fidanzata e se lei fosse o meno la donna ‘giusta’ per lui. A volte, però, la lettura in termini di presunta incompatibilità è indotta da emozioni di tipo diverso, anche se lo schema che impronta il processo appare di fatto lo stesso. Infatti, può trattarsi di emozioni suscettibili di essere interpretate in termini di ‘opposta direzionalità’, ma non secondo un’opposizione ‘avvicinamento/allontanamento’ come nel caso di prima, quanto piuttosto in termini di un’opposizione ‘vantaggio per sé/vantaggio per gli altri’. Anche in questo caso è utile un esempio clinico che mette bene in luce come questo meccanismo possa essere alla base di molte ossessioni. Caso clinico 2 Una donna di 37 aa, affetta da DOC, restava turbata ogni volta che, nello stringere il nipotino, avvertiva un senso di piacere. Infatti, era tormentata dal pensiero che ciò fosse la prova di qualche forma di perversione da cui era affetta Infatti, in questo caso, è come se – per questa donna- un bene per se stessa (il senso di piacere nel contatto con il bambino) fosse incompatibile con un bene per gli altri (il senso di conforto e di piacere che dà al bambino). Anche qui, quindi, due emozioni interpretabili in termini di ‘opposta direzionalità’ (‘vantaggio personale/vantaggio altrui’) vengono percepite come incompatibili quando in realtà non lo sono (Mannino, 2014). Ciò spiega perché, a esempio, per una madre con questo meccanismo 'ossessivo', il proprio comportamento debba essere sempre non 'contaminato' da emozioni che possano riflettere un 'vantaggio personale'. In qualche modo, questo meccanismo 'ossessivo' appare imparentato con uno degli aspetti più paradossali della morale kantiana, quello secondo cui un'azione è buona solo se ispirata dal senso del dovere e non anche da altre motivazioni. Secondo il filosofo tedesco, infatti, far elemosina a un bisognoso dietro la spinta anche di un sentimento di compassione o di empatia, anziché solo per puro senso del dovere, non sarebbe un atto veramente morale ( Kant, 1785, 1788). In questo caso, quindi, a essere esperiti in termini di ‘opposta direzionalità’ (e quindi di ‘incompatibilità) sono l’aspetto interpersonale (l’empatia) e quello impersonale (il dovere). Allo stesso modo un padre ‘ossessivo' potrebbe non sentirsi un 'buon genitore' nel caso si lasciasse influenzare – nel suo rapporto con il figlio- da un sentimento di tenerezza anziché attenersi solo a princìpi educativi impersonali. La ‘individuazione retrospettiva delle motivazioni’ Il secondo meccanismo qui proposto riguarda il particolare modo con cui i soggetti con DOC avvertono la responsabilità, un tema centrale nella genesi e nel mantenimento di questo disturbo (Salkovskis, 1985; Rachman, 1976, 1993). Rachman, a esempio, ha sottolineato come solo le azioni per cui questi soggetti si considerano responsabili sono quelle capaci di produrre colpa e di conseguenza quelle potenzialmente capaci di dar luogo a rituali di controllo. In modo simile, i soggetti con ossessioni di contaminazione avvertono una minore urgenza a effettuare lavaggi quando sentono che la pulizia dell’ambiente non ricade sotto la propria responsabilità perché non esso è sentito come proprio (come quando si trovano in ospedale). In definitiva, quindi, si può ritenere che i soggetti con DOC, più che il timore di certi eventi, nutrano piuttosto il timore di sentirsene responsabili (Rachman, 1976; Mancini & Gangemi, 2004). Inoltre, i soggetti con DOC spesso si sentono responsabili di eventi per i quali le persone senza ossessioni non provano certo un analogo senso di responsabilità. A esempio, i soggetti 77 con DOC tendono a sentirsi in colpa per fenomeni intrusivi (come pensieri, immagini, eccetera), che invece non preoccupano affatto soggetti senza ossessioni (Salkovskis, 1985; Ferrier & Brewin, 2005). A questo punto ci si può domandare come mai i soggetti con DOC siano così disturbati da fenomeni che invece non impensieriscono affatto soggetti normali con pensieri intrusivi occasionali. Una risposta semplice e convincente è che i soggetti con DOC considerino i propri pensieri intrusivi un segno di aspetti assai negativi della propria personalità (Salkovskis, 1985). Proprio allo scopo di chiarire l’origine di questa particolare preoccupazione dei soggetti con DOC circa una propria possibile responsabilità si descrive di seguito un particolare processo psicologico denominato ‘individuazione retrospettiva delle motivazioni’ (IRM). Per illustrare l’IRM conviene far riferimento dapprima a fenomeni osservabili (come i comportamenti) e quindi a fenomeni solo interni (come emozioni o immagini). In generale, l’IRM consiste nel fatto che i soggetti con DOC tendono a individuare le motivazioni dei propri comportamenti, anziché in presa diretta, in modo retrospettivo: cioè, a partire dalle conseguenze dei comportamenti stessi, perlomeno nel caso si tratti di conseguenze valutate come ‘negative’ (fig. 1). Valutazione effettuata sulla base a criteri di tipo universale (a esempio, princìpi di ordine morale, giuridico o filosofico) che però in ogni caso i soggetti con DOC hanno fatto propri. E’ evidente che le motivazioni così individuate sono per forza di cose solo delle presunte motivazioni e non le reali motivazioni, cioè quelle che effettivamente hanno dato luogo al comportamento e che invece non sono affatto messe a fuoco. Figura 1 L'individuazione retrospettiva delle motivazioni (IRM) (da Mannino, 2014, modificata) n esempio clinico, presentato anche altrove (Mannino, in stampa), è utile a illustrare il concetto. Caso clinico 3 Una ragazza di 15 aa presentava da qualche tempo il timore di poter danneggiare inavvertitamente gli altri, per gestire il quale metteva in atto elaborati controlli. Lo scompenso risaliva a quando, scherzando con le amiche, aveva fatto per caso male a una compagna. Da allora la p. aveva cominciato a pensare che in realtà volesse farle male di proposito e presto la preoccupazione di avere dentro di sé delle intenzioni negative da tenere a bada aveva finito con l’allargarsi a macchia d’olio. L’IRM sembra spiegare piuttosto bene l’aumentato senso di responsabilità del DOC: infatti, se il paziente, si convince di ospitare dentro di sé delle presunte intenzioni negative è 78 comprensibile che finisca con l’avvertire il rischio di non tenerle a bada, allarmandosi al pensiero dei pericoli che potrebbero derivare da un mancato controllo su di esse. Come detto prima, l’IRM non è all’opera solo nel caso di comportamenti ma anche nel caso di eventi di natura solo mentale (pensieri, emozioni, immagini, eccetera), sia che intrusivi. Per illustrare il concetto può essere utile un caso clinico preso dalla letteratura (Tallis, 1995). Caso clinico 4 Una donna di 31 aa, con un esordio insidioso di DOC nell’infanzia, aveva presentato un incremento dei sintomi nella prima adolescenza. A quell’epoca, infatti, quando le veniva in mente un pensiero di per sé innocuo (a es. “potrei essere bocciata agli esami”) doveva ripercorrere i suoi passi fino al punto in cui le era venuto in mente il “cattivo pensiero” e, quindi, sostituirlo con uno “buono” (Tallis, 1995). In questo caso, infatti, è evidente come, a partire dal turbamento che segue una particolare attivazione emotiva o un particolare pensiero - in sé innocui- il soggetto individua retrospettivamente le presunte motivazioni che avrebbero prodotto quel pensiero o quell’emozione. Infatti, volendo tradurre in parole una sequenza che in realtà si svolge a un livello prevalentemente procedurale, si potrebbe immaginare che la paziente faccia a se stessa questo discorso: ”se mi viene in mente un pensiero x inaccettabile, ciò significa che c’è già dentro di me una tendenza latente verso x” (Mannino, 2014; Mannino, in stampa). Naturalmente, questo meccanismo retrospettivo non consiste in un ragionamento esplicito basato su una ’deduzione’ in senso stretto, ma piuttosto è il risultato di un processo largamente tacito e inconsapevole. Si tratta, in altri termini, di una particolare modalità di elaborare la propria esperienza per cui il soggetto anziché riconoscere certi stati emotivi e motivazionali in presa diretta tende a ricavarli retrospettivamente (Mannino, in stampa). A questo punto, ci si può chiedere da cosa nasca l’IRM. Per rispondere può essere utile avere in mente lo stile di accudimento di almeno uno dei genitori del futuro ossessivo (Guidano, 2001): “Per esempio, un bambino di tre anni correndo per casa rompe qualcosa, cosa normale per un bambino piccolo. Normalmente un genitore direbbe: <<Non correre! Stai attento>>; ma un genitore ossessivo non potrebbe dire queste parole […] Lui vuole che suo figlio pensi e ragioni; lo chiama, se lo mette sulle ginocchia e gli chiede delle spiegazioni sul perché abbia rotto il vaso. Se il bambino gli dice che non se n'è reso conto, lui gli risponde: <<Come è possibile che non te ne sia reso conto? Un ragazzino come te, non può essere! Pensaci bene. Su, perché hai rotto il vaso? >>”. (Guidano, 2001) Nel prosieguo del discorso, Guidano evidenzia che il fatto di porre a un bambino delle domande che sono fuori della sua portata logica costituisca una sorta di tortura (Guidano, 2001). Ma a ciò, si può aggiungere anche un altro elemento: infatti, è probabile che una simile insistenza finisca con il favorire nel bambino lo sviluppo di un’attitudine tesa a individuare a ogni costo, di fronte a un evento che lo coinvolge, una qualche motivazione personale e recondita anche nel caso di eventi fortuiti: il che - in nuce -è proprio il processo alla base dell’IRM. 79 Implicazioni per la terapia: tra continuità e cambiamento I meccanismi patogenetici qui illustrati non sono importanti solo da un punto di vista psicopatologico ma hanno anche importanti conseguenze per la terapia. Infatti, essi costituendo una sorta di ponte tra i sintomi da un lato e le dimensioni dall’altro- permettono anche di ridurre i primi intervenendo sulle seconde. Naturalmente, però, bisogna tener conto che così come non è possibile che un soggetto cambi nel tempo la propria OSP, allo stesso modo è impossibile che muti le polarità possedute circa le dimensioni (in questo caso outwardness, impersonality, diachrony) (Mannino, 2014). Ciò che, invece, è possibile, e che quindi si cerca di realizzare in terapia, è il fatto di rendere le attitudini di un soggetto più flessibili e articolate e di conseguenza più ‘funzionali’. Per raggiungere questo obiettivo, l’intervento terapeutico dovrà concentrarsi, per ogni polarità, pressoché contemporaneamente su due diversi versanti. Infatti, da un lato il terapeuta dovrà cercare di ridurre la rigidità delle polarità possedute dal paziente, sviluppando –per così dire- l’attitudine opposta; dall’altro, però, nel costruire una nuova lettura più articolata e sofisticata dell’esperienza avvertita come perturbante dovrà anche tener conto delle polarità effettivamente possedute così come della peculiare modalità del paziente di mantenere la propria coerenza interna (Mannino, 2014). A questo proposito può essere utile un esempio: Caso clinico 5 Una ragazza di 24 aa stava pensando, anche se in modo molto sofferto, di chiudere una storia affettiva con un ragazzo poco più grande. Tuttavia, alla sola idea che egli potesse provare qualche dolore a questa decisione, si sentiva incoerente e 'darwinista', vale a dire una persona che scartava cinicamente qualcuno solo per il fatto di non rispondere più alle sue esigenze. Da qui iniziavano lunghe ruminazioni sulla correttezza del suo gesto. In questo caso, a esempio, è facilmente riconoscibile all’opera una IRM: infatti, è a partire dalla possibile reazione di dolore del ragazzo, che la p. ricava l’esistenza in se stessa di un latente cinismo da tenere a bada. Ora, dato che alla genesi dell’IRM concorre una rigidità di tutte e tre le polarità riscontrabili nei soggetti con DOC (outwardness, impersonality, diachrony) è su tutte e tre che bisognerà intervenire, sempre secondo il duplice intervento di cui si è detto. Innanzitutto, quindi, bisognerà aiutare la paziente a ricostruire le emozioni del momento per come le ha avvertite in presa diretta, anziché ricavarle solo dall’esterno (intervento sulla outwardness); inoltre, bisognerà aiutarla a non valutare il suo comportamento solo sulla base di regole generali e impersonali, ma a tener conto anche degli aspetti assolutamente individuali della propria situazione (intervento sulla impersonality); infine, si tratterà di aiutare la paziente a tener conto anche degli ingredienti emotivi nuovi e non solo di quelli ben conosciuti (intervento sulla diachrony). Nello stesso tempo, però, si tratterà –in fase di ricostruzione di una nuova lettura più articolata- di tener conto anche delle specifiche polarità possedute dalla paziente. Nel caso della sola diacronia, a esempio, se da un lato si tratterà di ricostruire con la paziente nell’episodio che gli ha suscitato il senso di incoerenza- il contesto contingente del momento, dall'altro si tratterà anche di aiutarla a riconoscere la presenza di un ‘filo conduttore’ tra l’episodio esaminato e la sua precedente esperienza. Solo in questo modo diventerà finalmente possibile alla paziente cogliere il significato della decisione che l’è balenata in mente (e che tanto l'ha turbata): vale a dire, sia mettendo a fuoco lo sfondo emotivo del momento (e cioè l’amarezza per l’atteggiamento via via meno attento del ragazzo) sia 80 riconoscendo la continuità di ingredienti esperienziali con il proprio passato, vale a dire la sua esigenza - mai venuta meno- di un rapporto affettivo in cui sentirsi rispettata dal partner. In questo modo la p. sarà tranquillizzata dal fatto di aver rintracciato di nuovo una ‘coerenza’ nella propria esperienza e nell’immagine di sé: non abbandonando la propria attitudine diacronica (cosa impossibile), quanto piuttosto utilizzando proprio questa anche se in modo più astratto e sofisticato. Bibliografia Ferrier S., Brewin C.R (2005) Feared identity and obsessive-compulsive disorder, Behavior Research and Therapy, 43: 1363-74 Freud S. (1895) Ossessioni e Fobie. Meccanismo psichico ed etiologia. Trad. it. In: Freud S. Ossessioni, fobie e paranoia, Newton, Roma, 2010 Freud S. (1909) Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva. Caso clinico dell’Uomo dei Topi. Trad. it. In: Freud S. Ossessioni, fobie e paranoia, Newton, Roma, 2010 Freud S. (1913) In: Freud S. Ossessioni, fobie e paranoia, Newton, Roma, 2010 Freud S. (1926) Inibizione, sintomo e angoscia, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1988 Guidano V.F, Liotti G. 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Partendo dall’esame di alcuni casi clinici lo scorso anno ad Ancona (Maselli 2013) avevo messo in luce alcune criticità nella applicazione pratica della moviola come metodo utile per individuare il “tema di esperienza soggettiva” (Guidano 1991 pag. 122 trad. it.), o “i pattern di base che il paziente impiega per riferirsi e spiegarsi l’esperienza immediata” (Guidano 1991 p. 96 trad. it.) da utilizzare poi nel lavoro di autosservazione personale. Più in particolare, conducendo un’attenta analisi delle prime sedute di una giovane paziente con sintomatologia ansiosa ed ossessiva è risultato difficile mettere a fuoco un singolo tema o uno specifico modo di riferirsi l’esperienza che univocamente potesse consentire “una maggiore capacità di mettere a fuoco modulazioni emotive critiche e […] un maggior distanziamento dall’immediatezza e dalla pervasività con cui di solito vengono avvertite” (Guidano 1991 pag 123 trad. it.); sono infatti emersi, nella ricostruzione della dinamica di scompenso e nei due episodi messi in moviola, temi di esperienza soggettiva diversi, oltretutto riconducibili ad Organizzazioni di Significato Personale diverse. Alla luce di ciò, pur riconoscendo alle OSP il loro grande valore esplicativo, è apparso potenzialmente rischioso cercare di mettere a fuoco l’esperienza immediata utilizzando principalmente delle “regole di funzionamento” (Guidano 1991 pag. 106 trad. it.) che potrebbero non essere quelle implicate nell’episodio preso in considerazione. Da ciò è derivato l’invito a ricercare in terapia più l’esperienza effettivamente vissuta che i pattern di base o i temi di significato che presiedono all’assimilazione dell’esperienza. In questo modo, esplorando direttamente l’esperienza immediata ed evitando di ricercare in modo pregiudiziale certi elementi stabili, si possono mettere a fuoco, con minore probabilità di errore, quelle “tonalità emotive prima trascurate o escluse dalla coscienza” (Guidano 1991 p. 137 trad. it.) che sono responsabili del disagio. In altri termini, focalizzando l’attenzione su tali regole di funzionamento si corre il rischio di analizzare i vissuti con dei pregiudizi, di seguire dei preconcetti, e quindi di non riuscire a cogliere a pieno tutti gli aspetti della variegatezza dell’esperienza, di potersi quindi lasciar sfuggire quei vissuti che non rientrano nei pattern predefiniti. Inoltre, sottolineando l’importanza di queste regole, si rischia di condurre il paziente a osservarsi e a rapportarsi a Sé come a un oggetto, con un suo modo di funzionare e un suo modo di essere, e a non pensarsi come un individuo che si autodetermina agendo, che si deve rapportare al proprio futuro e “a come consumare le proprie possibilità, essendo già in una situazione” 47 (Costa 2011). Questo vuol dire che quella esperienza soggettiva, immediata, effettivamente vissuta prima di essere ordinata nella spiegazione, andrebbe ricercata direttamente, senza l’ausilio di quei punti fermi, quegli elementi solidi e rassicuranti, che tradizionalmente orientano il terapeuta cognitivo postrazionalista nella conduzione del colloquio, elementi che sono i temi personali, le regole di funzionamento, i meccanismi taciti di assimilazione dell’esperienza tipici di ogni Organizzazione di Significato Personale, ecc. Ciò porta ad un cambiamento nella posizione 47 “In ogni istante si è posti, per lo più senza averne una consapevolezza riflessiva, davanti alla domanda “chi vuoi essere?”. Ogni mia azione, consapevolmente o meno, è una risposta a questa domanda. L’azione traccia il Sé.” (Costa 2011) 83 tradizionalmente occupata dal terapeuta che non si pone più all’interfaccia tra esperienza immediata e spiegazione, ma si concentra primariamente sull’esperienza vissuta, “originaria”, che precede ogni riflessione. A questo punto ci troviamo davanti ad un problema di non facile soluzione: come riuscire ad indagare l’esperienza direttamente, senza utilizzare preferenzialmente quei meccanismi consolidati e ben conosciuti che tradizionalmente guidano l’esplorazione dei vissuti (i meccanismi caratteristici di ogni Organizzazione di Significato Personale). Il compito non è certo semplice, ricordando il chiaro insegnamento di William James di oltre un secolo fa secondo il quale ”ci ritroviamo continuamente nell’errore e nell’incertezza appena siamo chiamati a dare un nome e a classificare quello che semplicemente sentiamo” (James 1890) e dovendoci anche confrontare con quello che Schooler e Schreiber definiscono “il paradosso dell’introspezione” e cioè che l’esperienza è soggettivamente autoevidente ma empiricamente non investigabile (Schooler e Schreiber 2004). Una proposta di metodologia clinica, per esplorare direttamente i vissuti senza utilizzare delle regole di funzionamento per accedervi, è stata approfonditamente trattata in altra sede (Gaetano, Maselli, Meldolesi e Picardi 2015) ed è utile qui far riferimento solamente ad un passaggio, centrale nell’intervento terapeutico, che riguarda il cogliere, nel racconto del paziente, le discrepanze rispetto alla struttura universale dell’esperienza. Il punto di partenza è sempre il resoconto del paziente che rappresenta la sua specifica comprensione del problema, comprensione che è necessariamente, per qualche verso, carente, non piena (altrimenti non ci sarebbe il disagio che porta a chiedere aiuto); il terapeuta orienta l’ascolto per individuare, anche attraverso specifiche domande, quelle discrepanze nel racconto che segnalano la presenza di brani di esperienza che non sono stati adeguatamente compresi, e che, essendo responsabili del disagio presentato, andrebbero messi a fuoco in un trattamento psicoterapeutico che possa dirsi realmente efficace. Per svelare queste aree di incomprensione di sé è necessario individuare quei passaggi nella narrazione che non risultino coerenti con la struttura universale dell’esperienza, che rappresenta il riferimento per poter identificare le discrepanze e condurre così efficacemente una psicoterapia. Ciò presuppone, per il terapeuta, la sufficiente conoscenza delle regole dell’esperienza, quale sia la sua struttura e quali le caratteristiche invarianti e la logica; richiede l’avere una adeguata precomprensione del sentire a agire umano, non un pregiudizio, ma una competenza riguardo a quello che, ad esempio, deve essere necessariamente presente per il costituirsi di un sentimento o un’azione, un pensiero o una scelta. Questa competenza è sicuramente posseduta da terapeuti esperti ed è possibile riscontrarla nel lavoro clinico di Vittorio Guidano. Nei trascritti di alcune sedute (Bercelli e Lenzi 1999, Lenzi e Bercelli 1999, Lenzi 2009) è possibile evidenziare la presenza di un “modello dell’esperienza soggettiva” (Bercelli e Lenzi 1999) che rappresenta il riferimento per indagare efficacemente e quindi svelare l’esperienza soggettiva del paziente, arrivando a dedurre da ciò quale possa essere il tema di significato, sul quale poi lavorare in terapia (Lenzi 2009). Nella accurata analisi conversazionale dei trascritti di sedute di Guidano (Bercelli e Lenzi 1999, Lenzi e Bercelli 1999, Lenzi 2009), si evidenzia come ci sia da parte di quest’ultimo una grande attenzione a ricostruire “il livello tacito della conoscenza personale” (Lenzi 2009) utilizzando per tale scopo la propria competenza su “come è fatta l’esperienza” (idem) in generale per gli esseri umani, quale sia la sua grammatica e la sua sintassi, e lasciando al paziente il ruolo di unico esperto della propria esperienza soggettiva, in quanto unico individuo ad avervi accesso. Nell’indagare il livello tacito Guidano sottolinea la presenza di “incongruenze o lacune o comunque qualcosa da correggere o spiegare nel resoconto” (Lenzi 2009), delle “lacune descrittive” (Lenzi e Bercelli 2010), qualcosa che non è in accordo con la struttura universale dell’esperienza e che va 84 esplorato per mettere a fuoco quelle dinamiche, che potremmo dire preriflessive (Gallagher e Zahavi 2008), il cui disvelamento rappresenta l’elemento centrale della terapia. È evidente che per condurre adeguatamente una psicoterapia sia necessario avere una buona padronanza della struttura universale dell’esperienza e che Vittorio Guidano senz’altro la possedesse e come lui la possiedano verosimilmente tutti i terapeuti sufficientemente esperti che siano riusciti ad acquisire, negli anni di lavoro con i pazienti, e direi anche di esperienza di vita, tale padronanza. Per tutti gli altri, però, sarebbe utile poter studiare ed acquisire direttamente tale competenza, senza necessariamente farla derivare da un’ampia pratica clinica o di vita. A tal fine la Fenomenologia - che da oltre un secolo si occupa di questi temi - rappresenta un’ottima cornice teorica e fornisce importanti indicazioni per poter studiare e conoscere la struttura dell’esperienza. Vediamo ora quali sono i principali insegnamenti che derivano dalla Fenomenologia in questo ambito e quali gli elementi utilizzabili per una efficace pratica psicoterapeutica. L’esperienza è propria e significativa di per sé, prima di ogni riflessione. Questo aspetto è stato ampiamente affrontato dalla Fenomenologia in particolare riguardo ai due livelli della coscienza, preriflessivo e riflessivo. Senza addentrarci troppo in dissertazioni filosofiche, possiamo affermare (seguendo Husserl, Heidegger, Sartre solo per citare i principali) che nella coscienza preriflessiva la mia esperienza non è oggetto per me della mia attenzione, non è un aspetto sul quale si concentri la mia osservazione, è vissuta, è sperimentata in prima persona, è “data”, e non mi appare in maniera oggettivata, non è vista, né udita né pensata. C’è una coscienza tacita e non tematica che accompagna e sostiene ogni mio stato mentale consapevole, del quale è il presupposto, “la riflessione non ha alcun privilegio nei confronti della coscienza riflessa” e il “cogito preriflessivo è la condizione per il cogito cartesiano” afferma Sartre (Sartre 1943). È questo il livello che i fenomenologi chiamano della coscienza preriflessiva, al quale Guidano si riferiva orientativamente come conoscenza tacita, ove l’esperienza vissuta - prima di ogni riflessione o spiegazione esplicita – “è imbevuta di significato, ha un’articolazione interna che è razionale e possiede un’autocomprensione spontanea e immediata” (Heidegger 1919). Questo vuol dire che ogni vissuto è per definizione dotato di un suo significato, anche prima di essere tematizzato nella coscienza superiore o sottoposto ad una osservazione introspettiva, mentre la riflessione ne permette semplicemente il disvelamento, consente di cogliere consapevolmente un’esperienza che è già propria (Husserl dice che è “qualcosa che era già lì per me”), è già pienamente sensata e non ha bisogno di essere ordinata nel linguaggio, autoriferita o spiegata per avere una sua coerenza. In sintesi, per quello che per la pratica psicoterapeutica può essere utile, la Fenomenologia ci indica che l’esperienza, anche quando viene semplicemente vissuta senza essere organizzata nel linguaggio o senza alcuna attenzione consapevole, ha una sua completezza di significati, una sua coerenza narrativa con il proprio passato e con le proprie aspettative per il futuro, un riferimento agli accadimenti del presente, una sua qualità emotiva e non è una semplice successione di elementi ai quali cognitivamente diamo un senso compiuto e che possiamo anche narrare in modo diverso, cambiandone il valore; il senso dell’esperienza è impresso permanentemente nell’esperienza e non possiamo certo cambiarlo raccontandocela diversamente, possiamo solamente tradurre più o meno fedelmente in parole quello che abbiamo già vissuto. L’esperienza ha una struttura intenzionale Nella tradizione fenomenologica il concetto di intenzionalità ha sempre rivestito un ruolo centrale nello studio della coscienza e dei contenuti di coscienza. Per Husserl “la caratteristica 85 delle esperienze vissute (erlebnisse) […] è l’intenzionalità. Essa rappresenta una caratteristica essenziale della sfera delle esperienze vissute, in quanto tutte le esperienze hanno, in qualche modo, intenzionalità” (Husserl 1913). Il concetto di base dal quale partire è che in ogni atto umano è presente “il riferimento a un oggetto diverso da sé” (Abbagnano 1971) ad esempio in un’idea c’è il riferimento alla cosa pensata, in un atto di volontà c’è il riferimento alla cosa voluta, ecc. È un concetto antico che viene fatto risalire ad Aristotele, ma all’interno della Fenomenologia è stato formalizzato da Franz Brentano che nel 1874 afferma che “ogni fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto […] nell’amore qualcosa viene amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato, ecc”. In sostanza si rendono necessari due termini, due poli, uno soggettivo e l’altro oggettivo, per il costituirsi dell’esperienza e l’esperienza stessa non è altro che quella relazione - assolutamente unica e irripetibile - che si crea fra questi due poli. Questa relazione fra me e un oggetto del mondo, non è il pormi un obiettivo, non sta nel cercare di raggiungere uno scopo, il polo oggettivo non può essere un fine da perseguire, è semplicemente l’aspetto della realtà - reale o immaginato - sul quale è diretta o al quale si riferisce la mia coscienza, l’elemento sul quale essa si posa, stabilendo una relazione unica fra questi due termini che rappresenta l’esperienza ( che conseguentemente non potrà che essere unica e nuova ogni momento visto che la coscienza prospettica si trasforma continuamente e intenziona oggetti sempre nuovi). Questa relazione unica che si crea in un tempo fra me e un aspetto del mondo costituisce un’esperienza, ed avere un’esperienza fa un effetto nei termini di suscitare emozioni, sensazioni, sentimenti, ecc. Non è un determinato oggetto sul quale è diretta la mia coscienza che mi fa un effetto, al più di quell’oggetto posso registrarne qualità o caratteristiche, ma è vivere quell’esperienza che mi fa sentire in un certo modo e l’esperienza è fatta indissolubilmente della relazione fra due termini, soggettivo e oggettivo. Il termine soggettivo, la coscienza, varia continuamente, momento per momento nel corso della vita, e contiene, sintetizzati, un’infinità di elementi soggettivi che contribuiscono a creare quella disposizione personale nei confronti del mondo che è il polo immanente dell’esperienza. In altri termini, guardiamo il mondo sempre da uno specifico punto di vista, in un preciso momento nell’arco dell’esistenza, con una storia personale alle spalle e una determinata aspettativa per il futuro davanti, in una condizione emotiva e in uno stato somatico, ecc., tutto ciò modifica la coscienza, che in virtù di questo potremmo definire “prospettica”, trasformandola incessantemente e creando una disposizione nei confronti del mondo che si rinnova continuamente. Della coscienza “prospettica” fanno parte tutti quegli aspetti psicologici e biologici più stabili nel tempo, quali la configurazione di attaccamento, lo stile relazionale, il temperamento, la personalità, la posizione esistenziale, l’organizzazione di significato personale, ecc., ma anche elementi più fugaci e momentanei come una reazione emotiva, un malessere fisico, la gioia per un successo, l’irritazione per un contrattempo, ecc., tutto contribuisce a creare quella specifica disposizione personale che nell’incontro con un determinato oggetto del mondo costituisce un’esperienza. Ogni esperienza fa un effetto, ha una sua qualità fenomenica, suscita emozioni e questo vuol dire che ad uno stato d’animo deve corrispondere necessariamente un’esperienza, quale specifica relazione fra una coscienza prospettica ed un oggetto intenzionale; questo ci permette di riconoscere una struttura “tripartita” dell’esperienza (Gaetano, Maselli, Meldolesi e Picardi 2015). Possiamo infatti distinguere per ogni vissuto: 1. una coscienza prospettica, intesa come posizione esistenziale nel ciclo di vita con la propria storia ed il proprio orizzonte di aspettative 2. un oggetto intenzionale, inteso come accadimento, evento della vita, al quale si riferisce la coscienza e che insieme a questa costituisce l’esperienza 86 un’emozione, intesa come l’effetto che fa l’esperienza in termini di sentimenti, stati d’animo, sensazioni Tale struttura “tripartita” può essere ricercata attivamente nella pratica clinica per poter mettere a fuoco l’esperienza, poiché individuando i tre elementi strutturali e riscontrando fra di essi una piena coerenza, una corrispondenza univoca, potremo avere una ragionevole sicurezza di aver colto le effettive dinamiche coinvolte nell’episodio preso in esame. Potremo usare, in altri termini, la struttura intenzionale e tripartita dell’esperienza come strumento utile per esplorare e il riconoscere i vissuti “originari” con il paziente. 3. Il tempo della coscienza è il futuro La psicologia, ancora di più la psicanalisi e gran parte degli approcci psicoterapeutici, hanno guardato l’individuo principalmente attraverso la sua storia, inquadrando la persona in funzione del suo percorso evolutivo, concentrando maggiormente l’attenzione su ciò che è stato per poter comprendere correttamente le dinamiche del presente. La Fenomenologia ha una prospettiva profondamente diversa sull’uomo nel suo determinarsi rapportandosi al tempo. In questo approccio, ed in particolare nell’opera di Heidegger (Heidegger 1927), la mia identità, il “Chi” di me stesso, non corrisponde alla sintesi delle mie esperienze passate, non rappresenta la semplice sedimentazione della mia storia e del mio percorso di vita, ma è il mio rapportarmi all’insieme delle possibilità nella dimensione del poter essere, scegliendo, nell’agire, chi voglio essere, e determinando, nell’essere in gioco nell’azione, il me stesso del futuro. È evidente che lo sguardo non è tanto orientato su ciò che è stato, quale causa di ciò che sono adesso, quanto su ciò che mi aspetto per il domani, sulle possibilità che si dischiudono davanti a me: è rapportandomi a tutto ciò che si genera la mia autocoscienza preriflessiva e il mio io. “Nella vita di coscienza il futuro viene prima del passato” afferma Vincenzo Costa (Costa 2011), il passato è ricordo di anticipazioni, ogni memoria è memoria di un’attesa soddisfatta o delusa, “il privilegio dell’anticipazione è all’opera in ogni istante: è la coscienza” (idem). Nell’atto di riflettere non troviamo dentro di noi semplici sensazioni, ma vissuti fatti di anticipazioni di senso e memorie di progetti, la coscienza è in relazione ad unità di senso che si manifestano all’interno di orizzonti di senso, posti all’interno di un orizzonte complessivo che è il mondo. Nell’agire adesso in vista del domani per essere chi voglio essere - rapportandomi all’insieme delle mie possibilità e scegliendo come consumarle - il futuro è già all’opera nel presente; decidendo ora come utilizzare il tempo che ho, agisco autodeterminandomi. Nel guardare avanti consumando le mie possibilità non mi anticipo solamente l’azione e le sue conseguenze, ma anche chi sarò dopo quell’azione, sperimentando preriflessivamente quel futuro prima del suo effettivo accadere. L’ascrivere a sé e vivere interiormente quell’azione avviene dunque, nella coscienza, prima del compiersi dell’azione, non dopo. Questo, in sintesi, vuol dire che quello che intimamente sentiamo è più legato a quello che ci aspettiamo per il domani, a chi saremo dopo aver agito nella direzione di chi vogliamo essere, che esser legato a chi siamo stati nel passato. Sul piano della pratica clinica questo può portare a cercare il senso di un’emozione più nell’orizzonte delle aspettative che nel ricordo della storia personale, più guardando avanti a quello che immagino sarà, che guardando indietro a quello che è stato. È evidente che l’aspettativa del futuro è funzione e si compone sulla base dei vissuti del passato, ma nella vita di coscienza il futuro ha una sua primarietà rispetto al passato e più che cercare il riferimento del sentire nella storia del paziente, possiamo cercarlo nel chi si aspetta di essere. Chiaramente, nel caso di una psicoterapia abbiamo a che fare con una condizione di disagio e per il domani non ci sarà verosimilmente l’aspettativa di una piena realizzazione di sé, quanto, più probabilmente, una 87 prospettiva di vita non così rosea, ma guardare al futuro più che al passato ci può permettere di arrivare più facilmente a comprendere l’esperienza del paziente. L’effetto dell’esperienza si compone di diversi strati Vivere un’esperienza fa un effetto, questo ci insegna molto semplicemente la Fenomenologia; ad ogni specifica esperienza corrisponde uno specifico effetto con una specifica qualità del sentire. Pur considerando ogni singola esperienza assolutamente unica e irripetibile, possiamo però suddividere in categorie (teoriche, utili per uno studio astratto del sentire umano, con tutti i limiti delle categorie) l’effetto di tale esperienza, categorie di “effetto interiore” che si dispongono in strati sovrapposti - dai più superficiali ai più profondi48 - e compresenti nella coscienza (Gaetano, Maselli, Meldolesi e Picardi 2015). Categorie di stati interiori che vanno da reazioni universali a stimoli universali, praticamente sovrapponibili a quelle che avrebbe chiunque in quella condizione, a tonalità emotive assolutamente personali e uniche, che riassumono l’intera esistenza personale, compreso l’orizzonte del futuro; da raggruppamenti di sensazioni che occupano un arco temporale brevissimo e che sono suscettibili di cambiamenti rapidi, a vissuti che durano una vita intera e si modificano - se si modificano con estrema lentezza. Pur essendo tutti coesistenti, sempre presenti contemporaneamente, questi “strati” del sentire si presentano alla coscienza con una rilevanza e una preminenza che varia continuamente momento per momento, rendendo conto della mutevolezza dell’esperienza interiore nel corso del tempo. superficiale universale breve mondo profondo personale prolungato Sé Sensazioni sensibili Sensazioni affettive Reazioni emotive Emozioni Umore Tonalità emotiva fondo di Le sensazioni, in generale, sono la componente di base della vita emotiva e rappresentano, secondo Stumpf (Stumpf C. 1924), delle funzioni inferiori, che non richiedono un’attività cognitiva, anche prelinguistica, non presuppongono la presenza di una psiche dotata di credenze. Le sensazioni sono sostanzialmente stati passivi che ci informano, quelle sensibili, sulle caratteristiche concrete del mondo, sugli aspetti materiali di ciò che ci circonda: suoni, 48 “C’è poi il fatto che molti affetti , senza essere necessariamente connessi come nel caso precedente, coesistono in noi senza che la nostra vita affettiva somigli necessariamente a un caos: che non c’è dunque solo un ordine nella successione, ma anche un ordine nella coesistenza, o come vedremo, nella profondità. Il pianto di un mattino può essere, dice il linguaggio comune, un’esperienza più superficiale che la passione di una vita. “ R. De Monticelli 2003 88 odori, colori, percezioni tattili, ecc., mentre le sensazioni affettive aggiungono una qualità di piacere o dolore a tali stati che ci informa su ciò che è utile o dannoso per noi; il piacere di potersi riposare dopo un grande sforzo fisico o la sofferenza per una ustione ne sono degli esempi. Le reazioni emotive ci indicano la presenza nel mondo di uno stimolo universalmente correlato a quella emozione, un evento che per qualsiasi essere umano susciterebbe quel sentimento, seppur con le dovute differenze individuali di intensità e durata; ad esempio un’emozione di tristezza sarà la reazione interiore ad una perdita, come la paura ci informerà della presenza nell’ambiente di un pericolo, la rabbia di un impedimento, ecc. Riguardo alle emozioni vere e proprie, o sentimenti, come spesso vengono chiamate, l’approccio fenomenologico non segue una teoria cognitiva, in altri termini secondo questa corrente filosofica non ci sono pensieri, credenze, giudizi all’origine del sentire, ma l’emozionarsi è considerato a tutti gli effetti un atto intenzionale con i suoi elementi costitutivi e le sue specifiche caratteristiche. Questo fa sì che per ogni sentimento possa essere riconosciuto uno specifico oggetto intenzionale, al quale quel modo di sentirsi fa riferimento. L’emozione, in sintesi, ci informa del valore che ha per noi in quel momento l’aspetto del mondo sul quale è diretta la coscienza, ci dà una percezione, preriflessiva ed antepredicativa, di quello che rappresenta per noi quell’elemento che viene “intenzionato” (Husserl 1913, 1923). Il percepire il valore di un oggetto per me nell’emozionarmi “non è un atto teoretico”, avviene nel campo dell’emotività, dove si realizza “la costituzione più originaria del valore” (Husserl E 1913); questo non vuol dire che la cognizione non abbia un ruolo, ma solamente che una valutazione razionale può esserci solamente sulla base di una precedente comprensione emotiva, per approvarla o eventualmente rifiutarla. Inquadrare le emozioni come atti intenzionali vuol dire anche che queste”fanno apparire oggetti di nuovo tipo, fanno vedere qualcosa di nuovo […]rispetto a cui l’elemento intellettuale e cognitivo è cieco” (Costa 2009). In sostanza, perché si generi un’emozione è necessario che si presenti nel campo di coscienza un oggetto nuovo, il cui valore viene “sentito emozionalmente e su cui il giudizio può poi esercitarsi” (idem), quindi ogni sentimento fa riferimento ad uno specifico aspetto del mondo che non era presente prima del sorgere dell’emozione. Questo può essere un elemento molto prezioso nella pratica clinica, poiché ci orienta nella ricostruzione dell’esperienza a cercare quel fatto, quell’elemento nuovo in relazione al quale si è attivata quell’emozione, potendo escludere con ragionevole sicurezza tutti quegli aspetti che erano già presenti nel campo di coscienza prima del manifestarsi di quel sentimento. Inoltre un’emozione sorge in relazione ad uno specifico “oggetto intenzionale”, non ad una serie di oggetti o un’insieme di situazioni, e ricostruire in terapia questo specifico nesso ci permette di mettere a fuoco efficacemente l’esperienza e quindi di condurre il paziente a comprendersi meglio. Quello dell’umore rappresenta un argomento ampiamente dibattuto dalla psicopatologia classica alla psichiatria biologica, alla psicoterapia (Maggini 2000, Nardi, Brandoni e Capecci 2007), ma non è il caso di entrare un questa disquisizione e possiamo considerarlo come un’indicazione generale riguardo alla riuscita o al fallimento dei propri progetti di vita, principalmente in ambito sentimentale e lavorativo. In altri termini il tono dell’umore ci segnala preriflessivamente l’andamento dei nostri piani, la nostra realizzazione personale, più che per i risultati che otteniamo nel presente o che abbiamo ottenuto nel passato, per quello che ci aspettiamo nel futuro, per chi immaginiamo di essere nel domani. La tonalità emotiva di fondo rappresenta la fondamentale disposizione verso l’esistenza, l’atmosfera generale all’interno della quale si presentano tutti i singoli sentimenti che ci rivelano le “qualità di valore, positive o negative, delle cose” (De Monticelli 2003), è il senso 89 complessivo del mondo che permette l’apparire del senso specifico dei singoli elementi ed è “un sentimento che si diffonde sui contenuti di coscienza, colorando con la sua luce tutti gli oggetti” (Husserl 1934). Non è la somma di tutti i sentimenti e neanche la propagazione a tutta la vita di coscienza di uno specifico sentimento che prevale sugli altri, non rivela l’essere delle cose per noi, la tonalità emotiva di fondo rivela l’essere del mondo per noi (Costa 2009), il correlato intenzionale non è un oggetto in particolare, è il mondo nella sua totalità, l’orizzonte complessivo dell’esistenza. Come l’emozione mostra alla coscienza un oggetto di nuovo tipo, così la tonalità emotiva porta a manifestazione un mondo nuovo; nella tonalità di fondo della speranza vivremo un mondo diverso da quello in cui viviamo quando questo sentimento fondamentale è la disperazione o la noia e tutti i singoli vissuti verranno invasi e colorati da questo sentimento. Per concludere, questa può essere considerata come una proposta di un metodo per mettere a fuoco l’esperienza che utilizzi principalmente gli insegnamenti della Fenomenologia, seppur adattati alla pratica clinica della psicoterapia; pur non avendo la pretesa di essere un modello completo dell’esperienza soggettiva, può rappresentare un valido aiuto, soprattutto per chi non ha una grande pratica clinica e non ha ancora acquisito una adeguata padronanza del campo. Partendo dal presupposto che l’esperienza abbia una struttura intenzionale, svelare l’esperienza originaria vuol dire, in sintesi, individuare il sentimento prevalente, lo “strato” del sentire primariamente coinvolto e la sua qualità, riconoscere a cosa fa riferimento quel sentire, e anche qual è la coscienza prospettica in quel momento. Ricostruire tutto ciò permette di condurre il paziente a comprendere e validare la propria esperienza, per poter adeguatamente regolare le emozioni ed agire consapevolmente, nella direzione di una propria realizzazione. Bibliografia Abbagnano N. (1971) Dizionario di filosofia. UTET, Torino Bercelli F Lenzi S. Riascoltando una seduta II. Quaderni di Psicoterapia Cognitiva 1999; 4:42-60 Brentano F. (1874) La psicologia dal punto di vista empirico. Ed. it. Laterza, Bari: 1998 Costa V. (2009) I modi del sentire: un percorso nella tradizione fenomenologica. Macerata: Quodlibet Studio Costa V. (2011) Distanti da sé: verso una fenomenologia della volontà. Milano: Jaca Book De Monticelli R. (2003) L’ordine del cuore: etica e teoria del sentire. Milano: Garzanti editore Gaetano P., Maselli P., Meldolesi G.N., Picardi A.: Una psicoterapia cognitiva centrata sull'esperienza: verso una terapia fenomenologicamente orientata. Rivista di Psichiatria, 2; 2015. In stampa Gallagher S., Zahavi D.(2008) The phenomenological mind, Routledge, New York Guidano V.F. (1987) La Complessità del Sé. Ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1988 Guidano V.F. (1991) Il Sé nel suo Divenire. Ed.it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992 Guidano V.F. (1995) Self-observation in constructivist psychotherapy, in Neimeyer R.A., Mahoney M.J. (Eds.) Constructivism in Psychotherapy. American Psychological Association, Washington DC. Heidegger M. (1919) I problemi fondamentali della fenomenologia. Ed.It. Il Nuovo Melangolo, Genova: 1998 Heidegger M. (1927) Essere e tempo. Ed.It. Longanesi, Milano: 2005 Husserl E. (1913) Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Ed. it. 90 Einaudi, Torino: 2002. Husserl E. (1923) Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica Ed. it. Rubettino, Cosenza: 2007. Husserl E. (1934) La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Ed. it. Il Saggiatore, Milano: 2008. James W.: The principles of psychology. New York: Holt 1890 Lenzi S., Bercelli F. (2010) Parlar di Sé con un esperto dei Sé, Eclipsi, Firenze Lenzi S., Bercelli F. Riascoltando una seduta III. Quaderni di Psicoterapia Cognitiva 1999; 5: 50-81. Lenzi S., La sostenibile densità dell’esperienza: l’approccio di Vittorio Guidano alla conoscenza di Sé tra pratiche e modelli, Quaderni di Psicoterapia Cognitiva 25 (14/2), 72102, 2009. Maggini C. (2000) Umore. In AA.VV: L’Universo del Corpo, Vol.4. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana. Maselli P.: La moviola e l’esperienza soggettiva; alcune riflessioni cliniche. In Nardi B., Arimatea E. (a cura di): Lavorare con la conoscenza tacita. Atti del XIV Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista. Accademia dei Cognitivi della Marca, Ancona 2013. Nardi B., Brandoni M., Capecci I. (2007) L’umore e i suoi disturbi. Atti del VII convegno di psicopatologia post-razionalista. Ancona: Università Politecnica delle Marche Sartre J.P. (1943) L’essere e il nulla. Ed. it. Il Saggiatore, Milano: 2008 Schooler J.W., Scheiber C.A.: Experience, meta-consciousness and the paradox of introspection. Journal of Consciuosness Studies 2004; 11 n. 7-8: p. 17-39 Stumpf C. (1924) Autobiografia intellettuale. Ed. it. Ponte alle Grazie, Firenze: 1992 91 LA STABILITÀ NEL TEMPO DELL’ORGANIZZAZIONE DI SIGNIFICATO PERSONALE Angelo Picardi Reparto Salute Mentale, Centro Nazionale di Epidemiologia Sorveglianza e Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma Nella concezione teorica post-razionalista, il Sé è visto come un processo in continuo svolgimento, che prende originariamente forma nella relazione con la figura di attaccamento primaria. Tale relazione costituirebbe la “impalcatura” che guida lo sviluppo dell’identità personale nella matrice socio-culturale. Tale “impalcatura” implica dei vincoli costitutivi che danno forma ai principi organizzativi del Sé. Il Sé è concettualizzato dunque come un processo unitario autoreferenziale che organizza, attraverso una “gamma coerente di rappresentazioni semantiche”, il proprio sentirsi in modo da renderlo riconoscibile e consistente (Guidano 1987; 1991). L’esperienza immediata è sottoposta a distinzioni linguistiche e viene riordinata in termini di proposizioni simboliche distribuite attraverso reti concettuali. L’organizzazione di significato personale (OSP), attraverso la quale una persona riordina continuamente le esperienze passate e presenti in modo tale che ne risulti un senso di continuità personale, è dunque concepita come l’espressione dell’operare di un insieme di regole di riordinamento dell’esperienza immediata nel linguaggio. Si postula che ogni OSP abbia un nucleo organizzativo centrale che mantiene una relativa stabilità nel tempo, quantomeno nelle sue caratteristiche essenziali: stile di regolazione emozionale, processi di costituzione e articolazione dell’identità personale, modalità di rapporto con sé e con gli altri, temi di vita, modi dell’adattamento alle circostanze. Questa predizione teorica, tuttavia, non è mai stata saggiata. Vengono qui presentati dati da due studi condotti su popolazioni diverse, che costituiscono dei paradigmi sperimentali “naturali” di cambiamento. Si tratta di persone andate incontro a ospedalizzazione psichiatrica valutate all’ammissione e alla dimissione dopo mediamente due mesi di degenza, e di persone con epilessia grave farmacologicamente intrattabile, andate incontro a guarigione in seguito a intervento chirurgico, valutate prima dell’intervento e a due anni di distanza. In ambo gli studi la OSP è stata valutata mediante il medesimo strumento ampiamente validato, il Questionario per la valutazione dell’organizzazione di Significato Personale (QSP). IL QSP è costituito da 4 scale, una per ogni OSP, ciascuna composta da 17 item autodescrittivi. Le scale hanno un’affidabilità soddisfacente, in termini sia di omogeneità (alfa=0,66-0,82), sia di riproducibilità a 1 mese (coefficiente di correlazione intraclasse=0,700,83). I loro punteggi sono scarsamente influenzati dai livelli di depressione, misurati con la Zung Depression Scale (ZDS) e di ansia, misurati con la forma di stato dello State-Trait Anxiety Inventory (STAI): sono infatti state osservate correlazioni trascurabili con le scale delle organizzazioni ossessiva (Oss) e fobica (Fob), modeste con le scale delle organizzazioni depressiva (Dep) e tipo disturbi alimentari psicogeni (DAP), nonché una scarsa correlazione tra le variazioni nel tempo dei punteggi dello STAI e della ZDS e modificazioni dei punteggi QSP. Per lo strumento sono inoltre disponibili evidenze di validità rispetto a varie forme di criterio esterne: la diagnosi clinica effettuata durante il corso in 41 allievi di training (concordanza 71%); il profilo delle correlazioni tra le scale del QSP e misure validate dello 92 stile di attaccamento (ECR), dell’alessitimia (TAS-20), dei Cinque Grandi Fattori (BFQ), e di Temperamento e Carattere (TCI) (Picardi, 2003; Picardi et al., 2003; Picardi et al., 2004); le configurazioni di attivazione di aree cerebrali coinvolte nella regolazione emozionale in studi di neuroradiologia funzionale (Bertolino et al., 2005; Nardi et al., 2008). Nel primo studio, che fa parte di un progetto di ricerca del quale sono stati già pubblicati alcuni risultati (Picardi et al., 2011; Picardi et al., 2012), sono stati inclusi 58 pazienti andati incontro a ricovero presso una casa di cura psichiatrica, valutati all’ingresso e alla dimissione con una serie di strumenti psicometrici, tra cui, oltre al QSP, la Hamilton Depression Rating Scale (HDRS), la Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS), il Temperament and Character Inventory (TCI-125), la Toronto Alexithymia Scale (TAS-20) e il questionario Experiences in Close Relationships (ECR). Sebbene il QSP sia stato validato su popolazioni non cliniche, la sua validità in questa popolazione di pazienti psichiatrici è suggerita dal fatto che altri strumenti autocompilati come ECR e TAS-20 hanno mostrato sufficiente affidabilità in questi pazienti (Picardi et al., 2011; Picardi et al., 2012). Nello studio sono stati inclusi 26 uomini (45%) e 32 donne (55%), aventi una età media di 43,1±13 anni. La maggior parte sono non coniugati (55%), un quarto circa (26%) è sposato o convivente, minore è la proporzione di persone divorziate o separate (15%) o vedove (3%). Il livello d’istruzione prevalente è la media superiore (43%), seguita da media inferiore (28%), elementare (22%) e universitaria (7%). La diagnosi psichiatrica principale è di disturbo bipolare (N=15), disturbo depressivo maggiore (N=12), schizofrenia (N=8), disturbo da uso di sostanza (N=5), disturbo di personalità (N=5), disturbo psicotico non altrimenti specificato (N= 3), disturbo distimico (N=2), anoressia mentale (N=2), disturbo schizoaffettivo (N=2), mentre altri disturbi rendono conto dei rimanenti 4 casi. La durata media della degenza è risultata pari a 56±33 giorni. Sul piano psicopatologico, i pazienti hanno beneficiato sensibilmente del ricovero, come mostrato dal riscontro di una netta diminuzione dei punteggi della BPRS (p<0,001) e della HDRS per la depressione (p<0,001). Sul piano dimensionale, tutte e 4 le scale del QSP hanno mostrato significativa stabilità relativa nel tempo, come misurata da valori del coefficiente di correlazione intraclasse (ICC) compresi tra 0,60 e 0,69 (p<0,001). A titolo di confronto, costrutti molto affermati come stile di attaccamento e alessitimia hanno mostrato una stabilità più elevata, ma non di molto, con ICC tra 0,64 e 0,72 (p<0,001). Simile risultato è stato osservato anche per temperamento e carattere, con le scale del TCI che hanno mostrato valori di ICC compresi tra 0,59 e 0,85 (p<0,001). Considerando tuttavia che il modello post-razionalista della personalità è di tipo categoriale, la prova di stabilità più appropriata attiene non ai punteggi delle scale intesi come variabili continue, ma alla diagnosi di organizzazione posta mediante lo strumento. Alla valutazione basale, circa il 60% dei profili sono risultati classificabili secondo il criterio della scala più alta di almeno un 5% sopra le altre, mentre soltanto meno di un terzo dei profili è risultato classificabile con il criterio più stringente del 10% di elevazione relativa. In entrambi i casi, la corrispondenza tra la classificazione ottenuta al momento del ricovero e quella ottenuta alla dimissione è risultata significativa (p<0,001). Per la classificazione con criterio di elevazione relativa del 5%, la percentuale di concordanza è risultata del 43%. In 7 casi la classificazione era mutata da una OSP a un'altra, mentre gli altri 13 casi di non concordanza riguardavano pazienti il cui profilo era divenuto non classificabile. Per quanto concerne la classificazione con criterio di elevazione relativa del 10%, la percentuale di concordanza è risultata del 43%. Con tale criterio, in nessun paziente la classificazione era mutata da una OSP a un'altra, in quanto tutti i casi di non concordanza riguardavano pazienti il cui profilo era divenuto non classificabile. 93 Nel secondo studio, che deriva da una linea di ricerca che ha consentito di approfondire vari aspetti delle caratteristiche e del decorso dei pazienti trattati chirurgicamente per epilessia refrattaria ai comuni trattamenti (Di Gennaro et al., 2013; Di Gennaro et al., 2014; Grammaldo et al., 2009; Meldolesi et al., 2006; Meldolesi et al., 2007; Meletti et al., 2014; Picardi et al., 2007; Picardi et al., 2013), sono stati inclusi 46 pazienti affetti da epilessia resistente al trattamento farmacologico. Si tratta di 32 maschi (70%) e 14 femmine (30%), aventi un’età media di 33,9±9,8 anni. La maggior parte sono non coniugati (57%), un terzo (33%) è sposato, il 7% convive con un partner, mentre un paziente è vedovo (2%). Il livello d’istruzione prevalente è la media superiore (59%), seguita da media inferiore (39%) e universitaria (2%). La sede dell’epilessia è temporale nella maggior parte dei casi (79%), frontale, posteriore, o estesa a più zone nei rimanenti. Il lato dell’epilessia è il destro nel 54% dei casi, il sinistro nel 46%. Si tratta di una popolazione clinica caratterizzata da alti livelli di cronicità e gravità: la durata di malattia è molto lunga, in media di 20,5±12,3 anni; la frequenza delle crisi è giornaliera o plurigiornaliera nel 15%, settimanale o plurisettimanale nel 39%, mensile o plurimensile nel 44%, annuale nel 2%. La prima valutazione psicometrica è stata effettuata in fase di studio prechirurgico, e ha incluso, oltre al QSP, il Beck Depression Inventory (BDI), la la forma di stato dello StateTrait Anxiety Inventory (STAI), il Temperament and Character Inventory (TCI-125), la Toronto Alexithymia Scale (TAS-20), e il questionario Experiences in Close Relationhips (ECR). I pazienti sono stati sottoposti a intervento chirurgico di rimozione dell’area epilettogena e rivalutati a distanza di due anni. Il miglioramento osservato sul piano degli esiti clinici e funzionali è stato marcato: il 78% dei pz non ha avuto più alcuna crisi epilettica (il 72% neanche aure); si è osservata una riduzione considerevole del livello di depressione (p<0,01) e ansia (p<0,001); un paziente diplomato si è laureato, due pazienti con licenza media inferiore si sono diplomati; di 11 pazienti che non svolgevano lavoro retribuito, 3 lavorano a tempo parziale e 4 a tempo pieno; di 4 pz che lavoravano a tempo parziale, 3 lavorano a tempo pieno; infine, di 18 pazienti che non guidavano, 9 guidano l’automobile. Sul piano dimensionale, solo le scale DAP e Depressiva del QSP hanno mostrato una stabilità relativa nel tempo statisticamente significativa, anche se con valori di ICC non elevati, rispettivamente di 0,57 (p<0,001) e 0,34 (p<0,01). A titolo di confronto, i costrutti dello stile di attaccamento e dell’alessitimia hanno mostrato una stabilità più alta, con ICC tra 0,42 e 0,58 (rispettivamente p<0,05 e p<0,001). Stabilità mediamente ancora migliore è stata osservata per le dimensioni del Temperamento e del Carattere, con le scale del TCI che hanno mostrato valori di ICC compresi tra 0,43 e 0,81 (p<0,001). Unica eccezione la scala RD, per una marcata instabilità della sottodimensione “dipendenza vs. indipendenza”, su cui ha verosimilmente influito il marcato cambiamento nel livello di autonomia reso possibile nella maggior parte dei pazienti dalla guarigione dell’epilessia ottenuta con l’intervento chirurgico. Per quanto riguarda la stabilità categoriale, alla valutazione basale circa due terzi dei profili (63%) sono risultati classificabili secondo il criterio dell’elevazione relativa di una scala di almeno il 5%, mentre metà dei profili (50%) sono risultati classificabili con il criterio del 10% di elevazione relativa. Per la classificazione con criterio di elevazione relativa del 5%, la percentuale di concordanza tra la classificazione ottenuta al momento del ricovero e alla dimissione è risultata del 48% (p<0,01). Solo in 3 casi, la classificazione era mutata da una OSP a un'altra, mentre gli altri 12 casi di non concordanza riguardavano pazienti il cui profilo era divenuto non classificabile. Per la classificazione con criterio di elevazione relativa del 10%, la percentuale di concordanza è risultata del 30% (p=0,13). Solo in un caso, la classificazione era mutata da una OSP a un'altra, mentre gli altri 15 casi di non concordanza riguardavano pazienti il cui profilo era divenuto non classificabile. 94 Questi due studi hanno rappresentato un severo banco di prova per il modello teorico postrazionalista della personalità. Infatti, in entrambi i gruppi di partecipanti i cambiamenti nello stato mentale e nelle condizioni di vita sono stati drammatici, e in un gruppo c’è stato anche il passaggio di un lungo lasso di tempo. Se un ricovero psichiatrico della durata media di circa due mesi è un’esperienza certamente fuori dal comune, la guarigione chirurgica di una malattia grave e intrattabile, durata in media per oltre venti anni, costituisce un mutamento così drammatico da costituire un paradigma naturale pressoché unico per lo studio del cambiamento. Le scale del QSP, considerate dimensionalmente, hanno mostrato una discreta stabilità: 0,700,83 dopo un mese trascorso senza eventi di particolare rilevanza nello studio di validazione (Picardi et al., 2003); 0,61-0,68 due mesi dopo una ospedalizzazione psichiatrica; 0,15-0,57 due anni dopo un intervento curativo per epilessia intrattabile. Tale stabilità, pur se in generale significativa, è tuttavia moderatamente inferiore a quella osservata per costrutti come lo stile di attaccamento, l’alessitimia e, soprattutto, il temperamento e il carattere. È pur vero che tali costrutti, molto affermati nel campo delle teorie della personalità, costituiscono senz’altro un termine di paragone piuttosto elevato. Per la stabilità categoriale, il vero banco di prova per un modello tipologico come quello postrazionalista, il bicchiere può essere visto sia come mezzo pieno che mezzo vuoto. Il passaggio da una classificazione a un’altra in termini di OSP è infatti stato raro, ma si è osservato frequentemente il passaggio da un profilo classificabile a uno non classificabile, con il risultato di un numero relativamente basso di persone con una classificazione stabile. I risultati mostrano dunque chiaramente sia stabilità che cambiamento, sia per quanto riguarda le differenze relative tra le persone nei punteggi, sia rispetto alla scala predominante. Sebbene vada rilevato che una parte dell’instabilità osservata è da ascriversi all’errore di misura, tuttavia è poco probabile che essa sia tutta spiegabile in tal modo, considerato che il QSP è uno strumento di appropriata affidabilità. D’altronde, è pur vero che l’idea di una rigida immutabilità non trova riscontro nella maggior parte delle teorie della personalità, che riconoscono un ruolo fondamentale delle esperienze individuali nel corso della vita nel plasmare gli aspetti della personalità di ciascun individuo. Anche nel pensiero di Maturana e Varela, si ammette che un sistema autopoietico, attraverso cicli di assimilazione e accomodamento, possa andare incontro a cambiamenti organizzativi (Maturana e Varela, 1980). Finanche i modelli operativi interni postulati dalla teoria dell’attaccamento, pur se ritenuti molto stabili, sono concepiti come aperti all’esperienza e suscettibili di modificarsi in relazione a eventi significativi. In effetti, gli studi longitudinali, pur evidenziando stabilità nel tempo (Fraley, 2000; Grossman et al., 2005), hanno rivelato l’occorrenza di modificazioni correlate a cambiamenti nelle circostanze di vita, che includono anche cambiamenti da un tipo di insicurezza a un altro (Waters et al., 2000; Crowell et al., 2002). Nell’interpretare i risultati, va osservato che il QSP non misura letteralmente il “significato personale”, ma piuttosto i modi di pensare, sentire e agire attraverso cui le OSP si manifestano. L’enfasi è soprattutto sui modelli semantici (p.es. convinzioni, spiegazioni), e dunque sulle regole di riordinamento riflessivo, anche se vengono anche valutati aspetti procedurali ed episodici (p.es. esperienze ricorrenti). È possibile che ciò che è invariante nel tempo sia colto solo in parte da questo tipo di misura e da una certa concezione che identifica la OSP soprattutto nelle regole di riordinamento. Una visione teorica più orientata a sottolineare il primato dell’esperienza sulla riflessione e l’occorrenza dell’auto-organizzarsi dell’esperienza a livello preriflessivo (Gaetano et al., 2015) suggerisce che ciò che di una OSP è manifesto in forma di racconto di sé e di spiegazioni potrebbe essere, rispetto agli aspetti 95 preriflessivi, maggiormente suscettibile di cambiamento in relazione al mutare di situazioni e circostanze, cioè dell’esperienza. In conclusione, va sottolineato con forza che la ricerca è fondamentale per informare il dibattito teorico, che senza di essa rischia di rimanere sterile e di non progredire. Gli studi qui presentati mostrano che le OSP sono costrutti stabili, ma non immutabili. Questi studi non possono tuttavia fornire risposte ultime su quale concezione delle OSP sia più fondata, se una che privilegi il ruolo delle regole di riordinamento riflessivo o una che conferisca maggior peso agli aspetti preriflessivi. La risposta potrà venire soltanto da un insieme di studi longitudinali ben condotti, che includano diversi modi di operazionalizzare e misurare il costrutto di OSP. Tali studi dovrebbero includere una misura autodescrittiva degli aspetti riflessivi secondo la concezione tradizionale, come il QSP, includere misure autodescrittive (al momento ancora da costruirsi) degli ipotetici aspetti preriflessivi, e utilizzare misure psicofisiologiche (Blanco e Reda, 2002; Canestri et al., 2008) e neurobiologiche in modo da estendere quanto mostrato dagli studi fMRI disponibili, che hanno disegno trasversale. Simili studi, pur se difficili da condurre, rivestirebbero un grande potenziale per l’incremento della comprensione dell’evoluzione della personalità, come concepita nel modello post-razionalista, durante l’arco di vita. Bibliografia Blanco S, Reda MA, Stabilità e cambiamento terapeutico: una prospettiva psicofisiologica, in Reda MA, Canestri L, Pilleri MF (Eds.) Continuità e Cambiamento in Psicoterapia. Atti del III Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista, Cantagalli, Siena, 2002. Canestri L, Donati della Lunga S, Pilleri MF, Reda MA, Profili psicofisiologici in psicoterapia: implicazioni emozionali del paziente e del terapeuta, Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, 22, vol.13, n°1, 2008. Crowell JA, Treboux D, Waters E. Stability of attachment representations: The transition to marriage. Dev Psychology 2002; 38: 467-479. Di Gennaro G, D'Aniello A, De Risi M, Quarato PP, Mascia A, Grammaldo LG, Meldolesi GN, Esposito V, Fabi E, Picardi A. Prognostic significance of acute postoperative seizures in extra-temporal lobe epilepsy surgery. Clinical Neurophysiology 2013;124:1536-1540. Di Gennaro G, Casciato S, D'Aniello A, De Risi M, Quarato PP, Mascia A, Grammaldo LG, Meldolesi GN, Esposito V, Picardi A. Serial postoperative awake and sleep EEG and longterm seizure outcome after anterior temporal lobectomy for hippocampal sclerosis. Epilepsy Research 2014;108:945-952. Fraley RC. Attachment stability from infancy to adulthood. Meta-analysis and dynamic modelling of developmental mechanisms. Pers Soc Psychol Bull 2002; 30: 123-151. Gaetano P, Maselli P, Meldolesi GN, Picardi A. Una psicoterapia cognitiva centrata sull'esperienza: verso una terapia fenomenologicamente orientata. Rivista di Psichiatria, 2015, in corso di stampa. Grossman KE, Grossman K, Waters E (Eds). Attachment from infancy to adulthood: the major longitudinal studies. New York: Guilford Press 2005. Guidano VF. Complexity of the Self. New York, Guilford Press, 1987. Trad. it. La complessità del Sé. Torino, Boringhieri, 1988. Guidano VF. The Self in Process. New York, Guilford Press, 1991. Trad. it. Il Sé nel suo divenire. Torino, Boringhieri, 1992. 96 Grammaldo LG, Di Gennaro G, Giampà T, De Risi M, Meldolesi GN, Mascia A, Esposito V, Quarato PP, Picardi A. Memory outcome two years after anterior temporal lobectomy in patients with drug-resistant epilepsy. Seizure 2009;18:139-144. Maturana HR, Varela FJ. Autopoiesis and cognition. the realization of the living. In Cohen R, Wartofsky M (eds.): Boston studies in the philosophy of science 42. Dordrecht: Reidel Publishing, 1980. Trad. it. Autopoiesi e cognizione. Padova: Marsilio, 2001. Meldolesi GN, Picardi A, Quarato PP, Grammaldo LG, Esposito V, Mascia A, Sparano A, Morosini P, Di Gennaro G. Factors associated with generic and disease-specific quality of life in temporal lobe epilepsy. Epilepsy Research 2006;69:135-146. Meldolesi GN, Di Gennaro G, Quarato PP, Esposito V, Grammaldo LG, Morosini P, Cascavilla I, Picardi A. Changes in depression, anxiety, anger, and personality after resective surgery for drug-resistant temporal lobe epilepsy: a 2-year follow-up study. Epilepsy Research, 2007, 77, 22-30. Meletti S, Picardi A, De Risi M, Monti G, Esposito V, Grammaldo LG, Di Gennaro G. The affective value of faces in patients achieving long-term seizure freedom after temporal lobectomy. Epilepsy and Behavior 2014;36:97-101. Picardi A. First steps in the assessment of cognitive-emotional organisation within the framework of Guidano’s model of the Self. Psychotherapy and Psychosomatics, 2003, 72, 363-365. Picardi A, Mannino G, Arciero G, Gaetano P, Pilleri MF, Arduini L, Vistarini L, Reda MA. Costruzione e validazione del QSP, uno strumento per la valutazione dello stile di personalità secondo la teoria delle “organizzazioni di significato personale”. Rivista di Psichiatria, 2003, 38, 13-34. Picardi A, Gaetano P, Toni A, Caroppo E, Arciero G. Sostegno alla teoria delle organizzazioni di significato personale da altre elaborazioni teoriche nell’area della personalità: uno studio di validità convergente del QSP. Rivista di Psichiatria, 2004, 39, 112124. Picardi A, Di Gennaro G, Meldolesi GN, Grammaldo LG, Esposito V, Quarato PP. Partial seizures due to sclerosis of the right amygdala presenting as panic disorder: On the importance of psychopathological assessment in the differential diagnosis. 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Child Dev 2000; 71: 684-689. 97 IL SENSO AFFETTIVO PERSONALE NELL’ESPERIENZA DI CONTINUITÀ IDENTITARIA Juan Balbi Il modello post-razionalista, a causa di una sfortunata scelta di termini, ancora a tutt’oggi non si è totalmente liberato di connotazioni associazioniste e oggettiviste che gli rendono più difficile lo sviluppo. E’ stato giustamente segnalato da Fernando González Rey (2009), che questa ambiguità concettuale si esprime particolarmente nella categoria di “Organizzazione del “significato” personale”. Questo psicologo ed epistemologo cubano, avvalora il concetto di “Organizzazione del significato personale” come l’apertura di un “campo euristico”, nel senso della produzione di nozioni che hanno punti convergenti nella forma di rappresentarsi un fenomeno; e segnala come particolarmente interessante, l’enfasi che Guidano pone nella complessità di un’organizzazione, che può manifestarsi in diverse forme particolari. In un’acuta critica, González Rey riconosce un certo residuo cognitivo computazionale nella formulazione che Guidano fa della nozione di “Organizzazione del significato personale”; puntualizza che dal momento stesso nel quale Guidano la descrive come “…un continuo ordinamento di networks di eventi significativi correlati tra loro che configurano una percezione del mondo in grado de produrre pattern ricorsivi di modulazione emozionale” (Guidano, 1992 p. 33) la sta confinando, semanticamente, nel campo della metafora dell’elaborazione dell’informazione, dalla quale egli stesso si differenziò. Credo che questo problema epistemologico possa essere risolto adottando la nozione di “senso personale soggettivo” come una categoria che può gettare le basi per la genesi di un’alternativa ontologica particolarmente fedele alla naturalità della soggettività umana (Balbi, Gonzalez Rey, 2009, 2011). Storicamente, il focus sulla categoria di significato può essere attribuito alla pubblicazione di “Acts of Meaning” di Jerome Bruner (1990). Bruner, con l’intento di recuperare l’iniziativa della prima rivoluzione cognitiva, nella quale insieme ai suoi colleghi cercavano di dare il primato al carattere costruttivo della mente, dichiara che la psicologia deve essere una scienza che “si occupi essenzialmente del significato”. Da qui dunque il termine inglese “meaning” si è mantenuto centrale nel movimento cognitivista, e la sua traduzione “significato” ha invaso il mondo cognitivo ispanico e italiano. Sfortunatamente, nonostante il tentativo di abbandonare la connotazione associata alla metafora informatica, il termine “significato” continua portandosi dietro un peso cognitivo computazionale che sembra non lasciare spazio né a fattori esperienziali affettivi, né emozionali nella sua definizione. Al suo posto, il concetto di senso personale soggettivo, inteso come “... quell’unità dei processi simbolici ed emozionali, dove l’emergenza di uno di essi evoca l’altro, senza convertirsi nella sua causa, (...) ci permette di comprendere la produzione soggettiva nell’azione della persona”. “I processi operatori, sensoriali o di elaborazione dell’informazione, al di fuori della loro relazione con il sistema soggettivo della persona, possono apparire in un piano formal-operazionale, però non generatore di emozioni. Questi processi sono processi psichici, però non li consideriamo come soggettivi”, sottolinea Gonzalez Rey (2011, pag. 212-213) La categoria di senso è stata studiata approfonditamente da Gonzalez Rey in “O social na Psicologia e a Psicologia Social. A emergencia do sojeito” (2004) e in “Psicoterapia subjetividad y posmodernidad” (2009) in questi testi egli analizza parte dell’opera di Lev S. Vigotsky (18961934), poco diffusa in occidente, nella quale questo autore introduce la nozione di “senso” come un termine chiave per la comprensione della mente umana. González Rey identifica diverse fasi nel pensiero di Vigotsky, nelle quali il grande psicologo sovietico sviluppò vari principi teorici ed epistemologici. La parte più diffusa e conosciuta della sua opera, la “seconda fase”, si 98 caratterizza, secondo González Rey, per l’enfasi posta nella mediazione del segno linguistico sulle funzioni psicologiche superiori, che sono descritte come un’interiorizzazione diretta dell’attività sociale della persona; a questa fase appartiene il concetto dell’origine e la organizzazione semeiotica della coscienza (Vigotsky, 1934, 1988). In questa fase il pensiero vigotskiano presenta una tendenza materialista e oggettivista a spese de i processi affettivi e dialettici dell’esperienza personale. Il superamento di questo “giro oggettivista”, secondo González Rey, avviene quando Vigotsky (1927, 1932 a e b) (nel primo e terzo periodo) preoccupato per l’insieme del cognitivo e l’affettivo, riconosce il carattere sistemico e generativo della personalità e introduce il concetto di “senso”, come una manifestazione singolare dell’attività sistemica di essa, che non obbedisce alle stesse leggi del significato. González Rey (2002, 2004) riprende il concetto di “senso” e coincidendo con Vigotsky, giudica che il senso appartiene a una dimensione diversa dal significato, poiché non implica, come questo, una corrispondenza tra il simbolo e ciò che il simbolo rappresenta, se non un aggregato di tutti i fatti psicologici che sorgono nella coscienza in relazione ad un significato. In tal senso afferma: “i sensi soggettivi sono l’espressione di un mondo vissuto nell’unità attuale dell’esperienza” (González Rey, 2011 pag.313) La nozione di significato coinvolge una relazione di corrispondenza tra il mondo soggettivo e il mondo oggettivo delle relazioni tra individui; tra il simbolo e quello che il simbolo rappresenta in una certa comunità semantica, la nozione di senso, invece, fa riferimento ad un ordine ontologico totalmente diverso, proprio unicamente della soggettività; “senso” non specifica come significato, un dominio di coordinazioni consensuali in una comunità di soggetti parlanti, bensì definisce una porzione di esperienza pura non semiotica, che esiste come un istante di un processo soggettivo individuale. Questa porzione unitaria di esperienza non prende senso in riferimento a qualcosa di esterno al proprio processo soggettivo personale, ma unicamente a spese della sua corrispondenza con altre unità di esperienze soggettive, con altri stati intenzionali e configurazioni soggettive di qualità simili sperimentate dalla persona in altre istanze del suo ciclo vitale. Diciamo di qualità simili, perché, come giustamente afferma González Rey, “i sensi soggettivi non sono contenuti identici, che possono ripetersi nelle diverse azioni della persona; essi sono unici, rappresentano un’unità simbolico-emozionale che emerge nel contesto e sempre risulta dalla confluenza di varie configurazioni soggettive della personalità in un momento concreto della persona” (2011, p. 313). In sintesi, concepiamo l’esperienza di senso personale come un processo la cui qualità è, momento per momento, il risultato di una particolare articolazione dialettica tra l’esperienza affettiva attuale e il mondo affettivo tacito e storicamente strutturato del soggetto. I sensi soggettivi non sono sensibili alle rappresentazioni coscienti della persona, per questo non sono suscettibili in forma diretta ai processi di re-significazione che intendono i modelli terapeutici narrativisti di matrice costruzionista. Secondo il punto di vista esposto, la psicoterapia è un processo dialogico e affettivo complesso, orientato a facilitare nell’esperienza del paziente, l’emergenza di nuove configurazioni di senso affettivo personale che prendano il posto di quelle associate ai sintomi. (Balbi, 2004, 2009, 2013; González Rey 2009, 2011). Bibliografia Balbi, J. (2004). La mente narrativa. Hacia una concepción posracionalista de la identidada personal. Paidós, Buenos Aires. (Trad. it.: La mente narrativa. Verso una concezione postrazionalista dell’identità personale. FrancoAngeli, Roma, 2009.) Balbi, J. (2009). “Prólogo”, in, González Rey, F. L.; Psicoterapia, subjetividad y posmodernidad. Una aproximación desde Vigotsky hacia una perspectiva histórica-cultural. Noveduc, Buenos Aires, 2009. 99 Balbi, J. (2013). “Il ruolo del processo tacito dell’affettività nello sviluppo del senso di identità personale e nella psicopatologia in adolescenza”. In, Bernardo Nardi e Emidio Arimatea (ed.), “Lavorare con la conoscenza tacita - Atti del XIV Convegno di Psicologia e Psicopatologia Postrazionalista ed aggiornamento del Progetto UE "Health25", p. 39-46, Accademia dei Cognitive della Marca, Ancona, 2013. Balbi, J. (2014). Terapia cognitiva post-razionalista. Conversazioni con Vittorio Guidano, Alpes, Roma. González Rey, F. L. (2002). Sujeto y Subjetividad: una perspectiva histórico-cultural, Thomson, Messico. González Rey, F. L. (2004). O Social na Psicología e a Psicología Social. A emergencia do sujeito. Voces, Rio de Janeiro. González Rey, F. L. (2009). Psicoterapia, subjetividad y posmodernidad. Una aproximación desde Vigotsky hacia una perspectiva histórica-cultural. Noveduc, Buenos Aires. González Rey, F. L. (2011). “Sentidos subjetivos, lenguaje y sujeto: avanzando en una perspectiva posracionalista en psicoterapia”. Rivista di Psichiatria. Vol.46, N 5-6, pp. 310-314. Guidano, V. F. (1992). Il Sé nel suo devenire. Verso una terapia cognitive post-razionalista, Bollati Boringhieri, Torino. Vigostky, L. (1927). “El significado histórico de la crisis de la psicología. Una investigación metodológica”, en Lev Vygotsky, Obras escogidas, Madrid, Visor, 1991, t. I. Vigostky, L. (1932a). “Las emociones y su desarrollo en la edad infantil”, in Lev Vygotsky, Obras escogidas, Madrid, Visor, 1993, t. II. Vigostky, L. (1932b). “La imaginación y su desarrollo en la edad infantil”, in Lev Vygotsky, Obras escogidas, Madrid, Visor, 1993, t. II. Vigostky, L. (1934b). “Pensamiento y lenguaje”, en Obras escogidas, Madrid, Visor, 1993, t. II. Vigostky, L. (1988). El desarrollo de los procesos psicológicos superiores, México, Grijalbo. 100 L’ELABORAZIONE DELLE NARRATIVE PERSONALI NELL’INTERVENTO PSICOTERAPICO IN AMBITO ONCOLOGICO S. Lenzi *, A. Samolsky-Dekel *°, S. Varani °, D. Capilupi * * SBPC, Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva ° ANT, Associazione Nazionale Tumori Introduzione: l’attività narrativa La narrazione di storie e in particolare il racconto di aspetti ed episodi della propria vita, è parte essenziale dell’esistenza di ogni persona. Lo studio delle modalità narrative e interattive implicate nel racconto di storie e nelle conversazioni autobiografiche può far luce sulle modalità con cui gli individui organizzano le attività della propria mente e creano coerenza all’interno di essa. Secondo Jerome Bruner (1964, 1990), è la mente stessa che viene formata “in un grado sorprendente” dall’atto di inventare narrativamente l’io, costruendo e chiarendo, attraverso la narrazione, la relazione tra quello che si pensa, quello che si sente e quello che si fa. Attraverso le modalità narrative e interattive implicate nel racconto di storie e nelle conversazioni autobiografiche gli individui organizzano le attività della propria mente e creano coerenza all’interno di essa. Tali resoconti vengono elaborati secondo precise convenzioni stilistiche e regole che riguardano non solo quello che viene detto ma anche come viene detto, a chi è rivolto e le modalità con cui gli ascoltatori ci rispondono. Bruner arriva al punto di sostenere che le svolte di una vita non sarebbero provocate da fatti esterni e relativi alla realtà oggettiva, ma dalle revisioni della storia o delle storie usate per raccontare della vita e di sé. L’autobiografia trasforma dunque la vita in testo, per quanto implicito o esplicito esso possa essere, e in tal modo la rende sempre aperta all’interpretazione e alla reinterpretazione e quindi al cambiamento. Uno degli ambiti e dei modi in cui questa operazione viene realizzata è la ricostruzione della memoria. Ogni volta che la memoria è sottoposta a tale ricostruzione – o reinterpretazione – diviene possibile inferire, prevedere, rischiare e in sostanza vivere in un modo unico e personale che non sarebbe stato altrimenti possibile. Il resoconto su di sé diventa quindi una forma fondamentale non solo per prendere in considerazione e fare i conti con il passato, ma anche per cambiare le modalità precostituite di reazione e di organizzazione delle proprie risposte e quindi orientare diversamente il proprio futuro. I. La rielaborazione delle narrative in ottica post-razionalista Al centro della Terapia Cognitiva vi è il metodo utilizzato per esplorare e modificare l’attività cognitiva (Dobson, 2009). Il metodo di esplorazione originario dei pensieri automatici, sempre mantenendo il carattere di procedura esplicita e riproducibile, ha sviluppato nuove valenze epistemologiche (Lenzi in press) e ha esteso il suo target ad ulteriori aspetti della soggettività, quali ad esempio quelli emotivi. Negli sviluppi attuali esso si è venuto a configurare come una metodologia esplicita di cocostruzione delle cosiddette narrative personali, ovvero della narrazione delle vicende, problematiche e non, della propria vita. In una prospettiva conversazionale la costruzione e la 101 rielaborazione terapeutica delle narrative personali si realizzano attraverso due attività di base: l’Indagine e la Ridefinizione. Caratteristica principale di tale metodologia risulta essere quella di orientare la rielaborazione di eventi problematici all’evidenziazione dei contenuti dell’esperienza soggettiva del soggetto, dando rilevanza alle modalità di elaborazione della conoscenza e di costruzione soggettiva dei significati (detti significati personali), che idiosincraticamente l’individuo attribuisce agli eventi stessi. Nella Terapia Cognitiva Post-Razionalista, l’ordine del giorno della seduta riguarda esplicitamente la ricostruzione e rielaborazione di situazioni ed episodi problematici della vita del paziente (attuali e passati, in relazione a determinati temi). Tali ricostruzioni sono guidate dal terapeuta con particolari mosse conversazionali in ossequio a un preciso protocollo che, a seguito di una analisi cognitivo conversazionale realizzata sui trascritti di sedute di Vittorio Guidano e altri terapeuti dello stesso orientamento (Lenzi & Bercelli, 2010), abbiamo denominato Rielaborazione delle Narrative Personali. Tale modalità di conduzione della seduta è quindi parte della Tecnica della Moviola di Guidano (Guidano, 1992; Dodet, 1998) ma allo stesso tempo ne deborda per alcuni aspetti, che non possiamo approfondire qui (vedi comunque Lenzi, 2009). Nel merito la rielaborazione narrativa di un tema/problema che si realizza nelle sedute di terapia cognitivo post-razionalista consta delle seguenti tappe, che indichiamo preliminarmente in modo schematico: 1. Costruzione attiva e mantenimento da parte del terapeuta di un sintonico contesto interattivoconversazionale 2. Individuazione e definizione consensuale di un tema o di un problema ritenuto “significativo” 3. Descrizione di come sono andate le cose seguendo un filo conduttore cronologico (registro narrativo sovra-episodico) 4. Ricostruzione dettagliata di alcuni episodi tipici (registro narrativo “episodico”, frame di rievocazione di episodio) 5. Individuazione e analisi dettagliata dell’esperienza soggettiva del paziente e degli eventuali protagonisti nei momenti “chiave” dell’episodio 6. Elaborazione, anche col contributo attivo del terapeuta, di una versione esplicativa della vicenda con introduzione di elementi di riformulazione interna, cioè legata al funzionamento psicologico. Tale versione della vicenda va costruita integrando gli elementi esperienziali emersi dalla rievocazione degli episodi 7. Favorire il posizionamento del paziente, individuale e relazionale, verso la vicenda e in particolare il fronteggiamento (coping) degli aspetti problematici. Senza entrare nel merito della funzione terapeutica di ogni singola fase, vale la pena comunque di evidenziare come nel contesto terapeutico, attraverso la rielaborazione narrativa, il richiamo dei ricordi possa agire da modificatore della memoria, permettendo ad esempio una riorganizzazione delle memorie episodiche in un insieme di rappresentazioni maggiormente e più armonicamente integrate tra loro, tale da permettere da un lato un miglior inquadramento e quindi soluzione dei problemi, dall’altro la rielaborazione della vicenda a livello semantico in termini interni. La Rielaborazione delle Narrative Personali è dunque orientata a facilitare l’integrazione conoscitiva attraverso l’attivazione selettiva e la successiva integrazione dei sistemi di memoria. Riveste pertanto una valenza auto-organizzativa rispetto alla conoscenza di sé. 102 II. La rielaborazione delle narrazioni di malattia L’ordine del giorno della seduta, nella Terapia Cognitiva Post-razionalista, riguarda esplicitamente la ricostruzione e rielaborazione di situazioni ed episodi problematici della vita del paziente (attuali e passati). Naturalmente prima di articolare un vero e proprio repertorio del problema presentato e di procedere alle rielaborazioni esterne, viene chiesto al paziente di narrare il problema nei termini dei fatti che lo realizzano, di ricostruire cioè la vicenda di vita in cui si è presentato. Si tratta cioè di raccontare come sono andate le cose, intendendo per cose da un lato le circostanze contestuali e gli aspetti comportamentali esteriori del protagonista dell’episodio, dall’altro anche l’esperienza soggettiva vissuta allora, che viene trattata come rilevabile osservativamente dal paziente (Lenzi Bercelli 2010, Lenzi in press). Alla base del presente lavoro vi è la volontà di applicare in campo oncologico la metodologia di intervento post-razionalista, a partire dalla convinzione – che diviene ipotesi da verificare sperimentalmente con studi di esito - che per i pazienti affetti da malattie fisiche gravi, ed anche nei loro care-giver sia utile ed efficace rispetto alla soluzione di problemi costruire in seduta il racconto delle vicende relative alla malattia stessa seguendo le modalità tipiche della rielaborazione post-razionalista delle narrative. L’obiettivo del progetto è dunque di formulare, testandone l’efficacia, un protocollo di intervento psicoterapico breve consistente in una conversazione guidata che in un numero standard di sedute –paragonabile al trattamento abituale- si prefigga di realizzare una narrativa ben costruita delle vicende problematiche, al fine di un miglioramento delle capacità di fronteggiamento delle difficoltà e di Problem Solving. Uno dei presupposti alla base del progetto di implementare la metodologia di elaborazione narrativa post razionalista in un contesto specifico e orientandola a precisi scopi di problem solving è che il racconto di per sé costituisca una risorsa generale e fondamentale del pensiero, condizione preliminare e facilitatrice di funzioni specifiche del pensiero stesso. Oltre a suggestioni teoriche e cliniche, vi sono anche dati provenienti dalle scienze cognitive a supporto di tale razionale. In pieno assenso con quanto sostenuto da Bruner e qui accennato nell’introduzione, nell’ambito delle scienze cognitive viene riconosciuta alla pratica del raccontare una sorta di circolarità virtuosa tra il processo di analisi della realtà e la costruzione della realtà stessa: è la ricorsività tra raccontare e racconto, tra processo e prodotto, a consentire agli oggetti e fenomeni del mondo di assumere il ruolo di elaborati cognitivi (Shore, 1996). In una rassegna sull’argomento David Herman (Herman, 2003) rivendica per il racconto lo status di sistema cognitivo fondamentale per la formazione di schemi inerenti sequenze vissute nel tempo. In tal senso il racconto costituisce uno strumento prioritario per la mappatura dei processi non orientati verso un preciso obiettivo – equivalenti a un semplice flusso temporale- in schemi di successione temporale. A partire da questo processo di base si articolano, sempre secondo Herman, diverse modalità attraverso cui il racconto promuove abilità cruciali di pensiero e di Problem Solving. Innanzitutto troviamo l’attività di segmentazione dell’esperienza (chunking) e l’assegnazione di relazioni causali tra avvenimenti. Riferendoci al nostro contesto terapeutico risulta evidente come la co-costruzione di una narrativa condivisa delle vicende problematiche sia un mezzo idoneo a realizzare questi due basilari aspetti. Anche le ulteriori proprietà del racconto come facilitatore della soluzione di problemi risultano pertinenti alla situazione clinico terapeutica qui affrontata: la gestione dei problemi attraverso il racconto si realizza infatti per mezzo della ‘tipologizzazione dei fenomeni’, l’organizzazione dei comportamenti in sequenze e non ultimo attraverso quel processo di costruzione interpersonale del racconto stesso fatta di 103 narratori, destinatari e racconti indicato come processo di “distribuzione dell’intelligenza” (Rosch, 2001, Galatolo, 2004). A tutto ciò si deve aggiungere che il racconto autobiografico rappresenta un caso ulteriormente specifico di racconto, in cui anche la coerenza stessa del racconto e il suo rapporto con gli altri testi narrativi autobiografici assumono il ruolo di variabili chiave che ne governano la costruzione e la armonica realizzazione. Dunque anche secondo i dati provenienti dalle scienze cognitive sono molteplici le ragioni per cui la costruzione condivisa del racconto autobiografico, oltre ad essere necessaria per l’applicazione di specifiche tecniche terapeutiche, risulta di per sé importante ai fini terapeutici. A queste cornici si aggiunge, su un piano applicativo questa volta, un aspetto tipico del punto di vista costruttivista ed evolutivo sulle narrative cioè la possibilità di correlare, in maniera sistematica e articolata, la costruzione delle narrative alla attivazione e integrazione dei diversi Sistemi di Memoria (Crittenden & Landini, 2011), secondo procedure codificabili e riproducibili (Lenzi & Bercelli, 2010). Di seguito verranno esemplificate, attraverso alcuni stralci dell’intervento effettuato con una giovane donna che chiameremo Arianna, le fasi principali della metodologia di Rielaborazione delle Narrative Personali evidenziando alcuni aspetti tipici della sua applicazione orientata alla soluzione di problemi. Arianna è una donna di 40 anni, sposata con 2 figli, insegnante di musica, che decide di seguire un percorso psicoterapico a fronte di una serie di difficoltà personali nell’assistere la madre, affetta da neoplasia polmonare e seguita da un servizio di assistenza medico-infermieristica domiciliare per pazienti oncologici. Nello specifico la difficoltà è legata all’assolvimento di tale compito assieme al padre, le cui perplessità e paure di fronte alla situazione rappresentano per Arianna un ostacolo al proprio caregiving. I principali obiettivi dell’intervento sono stati la costruzione di una narrativa condivisa di quello che viene considerato il problema attuale, la sua ridefinizione in termini interni e l’utilizzo di tale formulazione come risorsa di problem solving. La successione di queste parti dell’intervento è ricorsivamente articolata. Se la prima componente dell’intervento standard è centrata sullo stimolare il racconto del soggetto, ad esempio facendolo rispondere ad una serie di domande volte alla produzione di un resoconto tematico focalizzato su quello che si presenta come il problema, la seconda parte riguarda l’esplorazione del cosiddetto significato personale del problema (vedi Guidano, 1988; Guidano, 1991), facendo emergere in proposito specifiche punteggiature interpretative del funzionamento soggettivo del paziente. Con Arianna una volta condiviso il riconoscimento di aspetti soggettivi del suo funzionamento se ne è riscostruita la storia principalmente individuando alcuni episodi significativi del passato, intensi come una sorta di matrice della difficoltà attuale. È su tale matrice problematica, in particolare relativa a episodi passati di interazione negativa col padre, che si è attuato l’intervento di ridefinizione interna (Guidano, 1988; Lenzi & Bercelli, 2010), i cui principali aspetti si sono poi riportati alla occorrenza presente, in modo specificamente direttivo. Attraverso la costruzione di queste nuove prospettive sulla vicenda problematica è stato quindi possibile per Arianna vedere in una luce diversa la difficoltà attuale riuscendo a reclutare le risorse per affrontare e risolvere il problema del portare la madre fuori all’ippodromo nonostante le obiezioni e l’ostruzionismo del padre. Presentazione della situazione e focalizzazione del problema La madre di Arianna non esce di casa per una riduzione importante della deambulazione e un generale peggioramento delle condizioni cliniche dovuto alla progressione della patologia 104 oncologica. Un momentaneo miglioramento dello stato di salute assieme ad un carattere volitivo, portano la mamma a chiedere ai famigliari di essere portata all’ippodromo. Arianna riferisce che vorrebbe soddisfare quella che considera una delle ultime richieste della madre prima che le sue condizioni cliniche precipitino. Vorrebbe portarla con l’aiuto del padre, il quale però esprime forti perplessità al riguardo che sono vissute da Arianna come molto problematiche e tali da impedire ogni iniziativa. Le fasi della rielaborazione Le fasi della rielaborazione narrativa applicata alla ricostruzione di vicenda di malattia e alla soluzione di problemi sono rispecchiate dall’andamento di una seduta di cui proponiamo alcuni brani rappresentativi. 1. Focus su un aspetto problematico: opposizione del padre di Arianna alla richiesta della madre A Cioè i dubbi di mio padre delle volte, appunto, si riflettono anche su di me T Sì A e delle volte, alcune volte mi mettono in dubbio anche a me. … A perchè anche poco tempo fa, quando lei doveva uscire T mh A dice: «ah ma io questa responsabilità, ah se la volete prendere te e Marco», mio marito T Mh. E lì lei come ci rimane, quando papà dice così. A Eh male, anche questa cosa qui mi ha fatto rimanere male per dire, ma insomma perché devi dire così? T Mh. Perché deve dire così papà? A Eh, perché ha paura In questo frammento vediamo come il terapeuta porta il focus della narrazione sugli aspetti dell’esperienza soggettiva di Arianna di fronte al comportamento del padre. È il cosiddetto resoconto episodico dettagliato, la narrazione della scena di una occorrenza specifica che consente di evidenziare ulteriormente la configurazione intenzionale (Lenzi & Bercelli, 1998). Quello che dice il padre – come stimolo- e la reazione soggettiva di Arianna – come risposta. A conclusione di una siffatta costruzione narrativa, in questo estratto si realizza una ridefinizione del comportamento paterno: le critiche del genitore vengono viste come l’espressione della sua paura di fronte alla situazione e non come un attacco alla figlia. L’Indagine porta dunque ad una più precisa descrizione dell’atteggiamento del padre che come vedremo così posta verrà a dire di lui e dei suoi stati affettivi interni e non della figlia, a definizione del valore personale o delle capacità di lei. Vale la pena di notare qui due aspetti specifici di questo tipo di intervento. Il primo è relativo a come la nuova descrizione e la ri-definizione vengano compiute con il contributo della stessa Arianna, a suffragio della valenza non istruttiva e quindi decisamente auto-organizzativa della metodologia di Rielaborazione delle Narrative Personali. Il secondo riguarda l’evidente incremento della funzione metacognitiva di rappresentazione della mente altrui che viene realizzato da Anna nel momento in cui è facilitata dalla specifica struttura della conversazione a portare la descrizione e la possibilità di attenzione riflessiva sulla esperienza del padre (aumento della capacità di rappresentazione della mente propria e altrui, Carcione et al ). 105 2. Stare davanti alle obiezioni di papà: approfondimento di indagine sull’esperienza soggettiva e ridefinizione Il colloquio prosegue orientando il resoconto su come la paziente vive le difficoltà del padre. T in quei momenti lì, in cui papà è un po’ in difficoltà facciamo fatica anche noi, perché quando il proprio genitore ha paura o è in difficoltà A sì certo T Ci si sente poco sicuri, pure noi A sì diventa un po’ un :: ci si sente come una bolla un po’ che un pochino vieni un po’ preso no? T eh! Sì! A da questa cosa qua, ecco Troviamo qui una ridefinizione del terapeuta che propone, attraverso il noi di condivisione, la descrizione validante di un probabile stato d’animo di un figlio di fronte alle difficoltà del proprio genitore. Si tratta di uno stato interno suggerito al terapeuta non solo a partire dalla propria intuizione empatica, che pure talvolta potrebbe essere fallace (vedi sui limiti dell’empatia implicita, Stanghellini, 2007, Stanghellini et al 2008), ma sulla base della conoscenza di un modello del funzionamento soggettivo, quello delle Organizzazioni di Significato Personale formulato da Vittorio Guidano, che funge come ipotesi da verificare, e quindi da guida all’indagine stessa. In questo caso la proposta di ridefinizione è effettuata dal terapeuta in modo piuttosto sommario secondo una modalità descritta in precedenti lavori (Bercelli, Lenzi 2002) che in parte sembra deviare delle modalità proposte dal metodo classico guidaniano, che prevede dei pareri dell’esperto più rigorosamente e fedelmente fondati su aspetti emersi dall’indagine. Riteniamo che il carattere di intervento breve e orientato sul sintomo qui in corso di realizzazione giustifichi e pure privilegi una tale modalità di procedere. Sintetizzando una delle tesi di questo lavoro possiamo dire che la logica della terapia breve sia a giustificazione e richieda una maggior presenza dell’intervento informativo, nonché, ma questo risulta abbastanza scontato, della direttività del terapeuta. Si tratta comunque di una proposta che Arianna, a conferma di una buona sintonizzazione conversazionale e quindi di una buona alleanza terapeutica, accoglie ed amplia, riportando l’immagine della “bolla”. L’aspetto relativo al “venir presi”, il meccanismo psicologico qui suggerito dal Terapeuta e intuito dalla paziente verrà meglio esplicitato nel seguito della conversazione. 3. La “bolla” e il conservatorio: indagine storica con rievocazione di episodio passato Nel proseguire del dialogo il terapeuta invita Arianna a rievocare eventi del passato inerenti al tema individuato, in modo da ampliare prima e riordinare poi la lettura e la comprensione della propria esperienza soggettiva, realizzando la costruzione “in buona forma” di una narrazione diacronica inerente il tema. A E mi ricorderò sempre una volta, che io ero nella mia camera così che, ero chiusa che stavo studiando, e loro battibeccavano, perché comunque loro han sempre battibeccato.. T Ok A e mi ricordo benissimo che lui insomma disse: «sì perché poi cosa va a fare se studia, poi che cosa le darà il conservatorio, non farà mai niente» T mh.. 106 A e:: e quindi questa cosa un pochino::.. a proposito della bolla …, mi aveva un po’ disturbato nel senso che mi aveva messo un po’ così dicendo: «be’ allora forse io ho sbagliato tutto..» Arianna rievoca e riporta un episodio di quando aveva 16 anni, in cui ascolta il padre discutere con la moglie sulla scelta della figlia di studiare al conservatorio: «poi cosa le darà il conservatorio, non farà mai niente!». Il giudizio di questi è perentorio e negativo e viene percepito da Arianna come una valutazione o addirittura definizione di sé e della propria scelta. Le frasi del padre infatti mettono in crisi Arianna («be’ allora forse io ho sbagliato tutto») e la fanno sentire non valida e incapace. L’indagine episodica porta qui alla individuazione di una unità intenzionale di base, di stimolo-risposta, a tema analogo a quella relativa al tempo attuale: un giudizio del padre e una risposta soggettiva di Arianna che si conforma ad esso, secondo una modalità cosiddetta di definizione esterna (Guidano, 1988). 4. Indagine strategicamente orientata e ridefinizione A questo punto il terapeuta conduce Arianna ad una riflessione da un punto di vista esterno, in III persona diremmo, sui possibili sentimenti del padre riguardo al percorso di studi della figlia, per una più ampia comprensione del pensiero del genitore. Partendo dalle descrizioni della paziente, propone una nuova lettura dell’obiezione del genitore con un ulteriore intervento informativo - un parere dell’esperto relativo all’atteggiamento del padre che viene letto non come una valutazione della figlia ma come espressione delle proprie preoccupazioni. Le informazioni del padre vanno a dare una definizione, ovvero una descrizione ed una valutazione, non della figlia ma di sé stesso, lasciando lo spazio ad una definizione interna di sé da parte di Arianna A lui non lo vedeva come una cosa:: adatta come sbocco lavorativo come.. T quindi per il suo futuro. A Per il mio futuro, sì. T Allora forse più che una questione di talento o di capacità da parte sua A mh T Se, se l’obiezione di papà era sullo sbocco lavorativo forse è più un discorso di preoccupazione per il suo futuro A Un po’ sì, probabilmente sì. T mh. A Solo che in quel momento per me non, non l’avevo letto in quella chiave lì Come già rilevato, il parere informativo del Terapeuta non è un intervento frequente nella Terapia Post Razionalista in quanto implica il rischio di una sovrascrittura dell’esperienza del paziente o l’adesione ad una interpretazione dei fatti del terapeuta. È interessante quindi notare come qui il parere informativo venga ricevuto dalla paziente all’inizio con una certa perplessità e comunque con un lucido riconoscimento del carattere discrepante con la propria visione di allora. Si tratta di una negoziazione sulla costruzione dei significati di eventi o atteggiamenti personali che è assolutamente tipica sia delle conversazione ordinarie che in quelle terapeutiche. La possibilità di osservare il processo di costruzione conversazionale dei significati ci consente di valutare l’effetto del parere informativo e l’effettiva ristrutturazione di significato che si realizza nel paziente indipendentemente dal tipo di intervento che ne è all’origine. Si evitano così visioni manichee sull’intervento informativo stesso, a volte considerato in sé stesso negativo. Tornando alla nostra analisi vediamo come l’Indagine dell’evento passato e il parere dell’esperto del Terapeuta portano la paziente, attraverso la negoziazione conversazionale dei significati, ad 107 una nuova lettura dell’atteggiamento paterno: non più in termini di giudizio su di sé e sulle proprie scelte ma in termini di preoccupazione verso il futuro. 5. Comprendere e superare le difficoltà di papà per aiutare mamma: reclutamento e utilizzo di risorse Il terapeuta procede ora verificando assieme alla paziente la possibilità di integrare la nuova lettura della situazione passata alla situazione attuale, ovvero ritornare al problema presentato con una riformulazione delle perplessità paterne, viste non più in chiave di giudizio verso di sè ma di preoccupazione del padre, nel caso specifico per le conseguenze e i rischi legati alla richiesta della moglie di andare all’ippodromo. T Eh. E l’idea di portarla lei? La mamma? A Non mi spaventa, lo farei, però so che lui ci rimarrebbe male… Molto… T Perchè ? A Eh be’ perchè viene un po’ schiacciato da questa… T Cioè ? A eh be’ dice : «ecco vedi io non sono… tu sei brava io non sono buono a niente» e poi magari in altre cose dice «te sei brava su quello o su questo poi la mattina quando c’è da fare questo, questo e questo la diamo a te» T Mh. A e mi fa::, mi mette cioè, mi vuole castigare tra virgolette T Eh, perchè papà c’ha queste preoccupazioni, ma gli pesa ammetterle A ah,questo è vero In questo frammento viene descritta una reazione negativa del padre, che di fronte alla attuazione dell’iniziativa da parte della figlia da un lato ostenta una autosvalutazione lamentosa e negativa, dall’altro sembra voler vincolare la figlia a impegni futuri, facendoglieli pesare. È la stessa Arianna, attivando una ulteriore fase di co-costruzione negoziata del significato degli atteggiamenti del padre, ad attribuirgli una intenzione negativa verso la sua iniziativa, una sorta di atteggiamento punitivo. Di fronte a questo commento il terapeuta reagisce con un nuovo parere informativo, relativo all’atteggiamento del padre, riportando l’attenzione sulle preoccupazione di lui e sulla difficoltà che gli provocano e quindi ridefinendone indirettamente l’intenzione punitiva o comunque non accogliendo la punteggiatura conflittuale proposta da Arianna. A fronte di un assenso netto da parte di Arianna, il terapeuta proseguirà in una ulteriore ridefinizione dell’atteggiamento paterno che andrà a toccare anche la conseguente risposta di Arianna. Vediamo come. T Eh, forse papà fa un po’ fatica a capire le proprie emozioni, i propri stati d’animo. Sono cose un po’ con le quali ha poca dimestichezza, forse A Forse… T E quindi… A Ma io cioè, nella mia veste come potrei cioè aiutarlo io come mi… mi devo sentire tranquilla. (…) T ad un certo punto è un po’, tra virgolette, un problema di papà. A Sì sì, no, ma infatti… sicuramente è così. Me ne sto rendendo conto, che è anche soltanto una cosa sua 108 Come si può vedere in questi turni, l’azione terapeutica non solo conduce ad una ridefinizione dell’aspetto problematico iniziale, che implica il superamento della lettura delle critiche paterne in termini di “giudizio” su di sé, ma il dialogo terapeutico porta anche ad un incremento del senso di competenza (efficacy) di Arianna nella comprensione e gestione degli stati emotivi del padre e quindi alla effettiva soluzione del problema in questione. Arianna infatti, partendo dalle conoscenze acquisite, chiede come aiutare il padre. Il terapeuta suggerisce una linea di azione che, comprendendo la difficoltà del padre, permette di soddisfare la richiesta della madre senza che le risposte paterne di enfatizzazione di difficoltà e rischi vadano a influire sulla valutazione e sulla realizzazione dell’iniziativa stessa o sulla valutazione che Arianna fa di sé. Si noti come una proposta di questo tipo inizialmente non sarebbe stata realizzabile da parte del terapeuta: è solo a seguito della ri-lettura degli stati emotivi del padre che Arianna può, a partire da un senso di sé più capace ed efficace, reclutare e ri-allocare nel presente le risorse interne necessarie per gestire sia le difficoltà paterne che le richieste materne. Interessante osservare a tal proposito il diverso posizionamento di Arianna nei confronti dei dubbi del genitore prima («i dubbi di mio padre delle volte…mi mettono in dubbio anche a me») e dopo («Me ne sto rendendo conto è anche soltanto una cosa sua ») la rielaborazione in seduta: l’iniziale pervasività intrusiva delle incertezze paterne si riduce fino alla piena demarcazione da esse e quindi al conseguente fronteggiamento positivo della situazione problematica. III. Costruzione narrativa e soluzione di problemi in un contesto di terapia breve In riferimento alle pur brevi sequenze analizzate, le fasi di realizzazione di una rielaborazione narrativa volta al reclutamento di risorse relative ad una situazione problematica attuale possono essere riassunte e schematizzate nel modo seguente: 1. 2. 3. 4. 5. Focalizzazione del dialogo sul problema attuale e sua costruzione narrativa in termini episodici (perplessità e resistenze del padre alla richiesta della madre che ne bloccano il soddisfacimento) Approfondimento di indagine sull’esperienza soggettiva di fronte alla situazione critica (l’esperienza e il proprio modo soggettivo di stare davanti alle obiezioni di papà) Indagine sul significato personale attribuito al problema con eventuale excursus storico, rievocazione di episodio passato (la “bolla” negativa di fronte ai giudizi paterni e la capacità di decisione autonoma sul conservatorio) Riformulazione con ritorno al problema attuale (dal giudizio alla preoccupazione di papà riguardo a conservatorio e all’ippodromo) Reclutamento e utilizzo di risorse ovvero individuare a partire dalla nuova prospettiva una soluzione al problema (comprendere e superare le difficoltà di papà ed essere in grado di aiutare mamma). I brevi stralci presentati hanno anche evidenziato alcuni aspetti relativi alla declinazione della metodologia di conduzione in questo contesto clinico specifico. In particolare è risultata in diversi passaggi di fondamentale importanza per il carattere breve dell’intervento la direttività del terapeuta. Va detto però che il fatto che il terapeuta sia direttivo nella conduzione del dialogo di seduta non necessariamente implica una partecipazione più passiva da parte del paziente o ancora una sorta di atteggiamento istruttivo del terapeuta nel fornire soluzioni prefabbricate. Né vi è a causa della direttività un diminuito rispetto delle 109 inclinazioni o un atteggiamento poco attento alle sfumature e alla unicità dell’esperienza personale del paziente. Questa potrebbe essere al limite una caratteristica inerente l’uso pareri informativi relativi al funzionamento individuale, altro aspetto specifico della co-costruzione di narrative personali in questo contesto. È però la costante presenza delle negoziazioni conversazionali del significato e ovviamente il suo esito che deve essere tenuto presente nella valutazione di questo aspetto decisivo per le conversazioni terapeutiche. Negli stralci che abbiamo mostrato appare evidente come non sia la provenienza del nuovo significato a determinarne l’integrazione e l’efficacia clinica ma viceversa l’andamento e l’esito della sua negoziazione conversazionale. Un ulteriore elemento caratterizzante questa specifica declinazione della metodologia di Rielaborazione Narrativa risulta essere una fase specifica della procedura, per certi versi innovativa anche rispetto a quanto avevamo mostrato in altri lavori (Bercelli & Lenzi, 2002) cioè quella relativa al Reclutamento di risorse nel Problem Solving. Tale fase vede l’uso della Riformulazione Interna come risorsa specifica. Del resto la metodologia guidaniana della Moviola, da cui deriva la Rielaborazione Narrativa, nasce come tecnica terapeutica legata all’intervento su sindromi cliniche specifiche e, sebbene non vi siano prove empiriche in merito, non va escluso che possa essere sensato vederne l’applicazione come capace di provocare un diretto effetto sul sintomo o su un determinato prodotto conoscitivo (vedi Giannantonio & Lenzi 2009). Riflessioni più approfondite e ricerche empiriche circostanziate (sulla scia della Task Analysis di Leslie Greenberg ad esempio) potranno farci fare qualche passo in avanti su questo punto. In questo lavoro abbiamo tentato di mettere a fuoco alcune delle potenzialità applicative che il metodo della Rielaborazione delle Narrative Personali è in grado di sviluppare. Anche a questo livello non si tratta certo delle sole possibilità evolutive che l’elaborazione narrativa offre, persino in situazioni critiche come quelle di malattia. Basti pensare alle elaborazioni al congiuntivo tipiche delle narrazioni di malattia descritte da Byron Good (Good 1994) o, per fare un esempio più specifico e concreto, alla complessità delle prospettive temporali e dei sé del protagonista e del narratore annidati uno nell’altro (Bercelli, 2002) che caratterizzano il racconto Profezia dello scrittore Sandro Veronesi (Veronesi, 2011), in cui un sé del futuro ammonisce un ignaro sé del passato sulle terribile traversie che dovrà affrontare nell’assistere i genitori malati, realizzando una mirabile integrazione conoscitiva. Su questi aspetti torneremo in successivi lavori, nel tentativo di definire e articolare ulteriormente una metodologia e un protocollo breve di intervento basati sulla rielaborazione narrativa. Bibliografia Bercelli F. (2002), Identità e narrazione: di sé e di altri. In Lorenzetti R., Stame S. (a cura di) Narrazione e identità, Bari, Laterza, 2002 Bercelli F., Lenzi S. 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(Di)mostrare l’ascolto e la comprensione. In: Lorenzetti, R., Stame, S. (a cura di), Narrazione e identità, Laterza, Bari-Roma Giannantonio M., Lenzi S. (2009), Il disturbo di panico. Psicoterapia cognitiva, ipnosi e EMDR, Milano, Raffaello Cortina Editore Good B. J. (1994), Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente. Trad. it. Torino: Einaudi, 2006 Greenberg, L. (2007), A Guide to Conducting a Task Analysis of Psychotherapeutic Change. Psychotherapy Research, 17(1): 15-30 Guidano V. (1987), La complessità del Sé. Un approccio sistemico-processuale alla psicopatologia e alla terapia cognitiva. Trad. it. Torino: Boringhieri, Torino, 1988 Guidano V. (1991), Il sè nel suo divenire. Trad. it. Torino: Boringhieri, 1992 Herman D. (2003). Narrative Theory and Cognitive Science, Stanford, CSLI Publications Lenzi S., (2009), La tecnica della moviola come rielaborazione delle narrative personali. 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(2011), Baci scagliati altrove, Roma, Fandango Libri. 111 LA PARABOLA DEL CIECO POST-RAZIONALISTA 2: DAL DETERMINISMO DELLA TEORIA DELLA RECIPROCITÀ ALLA DOTTRINA DELLO SPAZIO AUTONOMICO Salvatore Blanco ASL 7 Carbonia (CA) Dipartimento di Scienze Neurologiche e del Comportamento, Università di Siena Il titolo del congresso “Continuità, Cambiamento, Coerenza Sistemica e Complessità” e un rapido flashback degli ultimi trenta anni di studio e di ricerca clinica, nel riportarmi alla mente le vicissitudini connesse alla transizione dal determinismo paradigmatico degli anni settanta alle più recenti teorie della complessità (Blanco, Reda e Guidano, 1990), mi hanno fatto sentire come uno dei personaggi della parabola buddista “I ciechi e l'elefante”. Succedeva in India tanto tempo fa, ma avviene ancora oggi ai nostri Congressi. Nel parco della città di Jetavana, come ogni giorno, dotti e scienziati litigavano furiosamente, si accapigliavano e si offendevano: ognuno pensava di sapere ciò che era giusto e ciò che era sbagliato e ognuno era convinto che era vero ciò che lui diceva ed errato quello che sostenevano gli altri. Litigavano su qualsiasi argomento e, nonostante fossero tutte persone colte e istruite, ognuno usava la propria sapienza per contraddire e offendere l’altro. Tra i saggi della città ce n’era uno che, per non cadere nei facili tranelli delle discussioni, viveva in disparte ma era sempre disposto ad accettare l’idea espressa da un’altra persona. Sarebbe potuto intervenire anche lui cercando di capire cosa diceva uno e cosa l’altro, ma rendendosi conto che non sarebbe servito a nulla entrare nella discussione decise di raccontare una storia che li aiutasse a riflettere. La storia narrata era quella di un gruppo di sei ciechi e di un elefante: in un tempo molto antico, un re mandò a chiamare sei abitanti che erano nati ciechi e, dopo averli raccolti in una piazza, fece portare un elefante. Poi chiamando ad uno ad uno i ciechi diceva loro: “questo è un elefante, secondo te a cosa somiglia?” Il primo gli toccò l’orecchio grande e piatto e, sentendolo muoversi lentamente avanti e indietro, esclamò: “l’elefante è come un ventaglio”. Il secondo toccò la zampa dell’elefante e affermò: “è come un albero”. “Siete entrambi in errore l’elefante è simile a una fune”, disse il terzo nel palpare la coda dell’elefante. Quando il quarto toccò con la mano la punta aguzza della zanna esclamò: “l’elefante è come una lancia”. “No, no è simile a un’alta muraglia”, disse il quinto dopo aver tastato il fianco dell’elefante. Il sesto nell’afferrare la proboscide sostenne: “avete torto, l’elefante è come un serpente”. Discussero animatamente perché ognuno era assolutamente convinto di quello che aveva toccato: se uno diceva una muraglia e l’altro un serpente volavano insulti perché nessuno metteva in dubbio quello che aveva percepito toccando la parte del corpo dell’elefante. Il re, vedendoli così convinti delle loro idee e litigiosi, decise di aiutarli a capire; a due a due li invitò a toccare quello che aveva toccato l’altro, chiedendo loro a cosa somigliasse. Così tutti cominciarono a dire quello che, precedentemente, aveva sostenuto l’altro, invertendo i ruoli. Come in un gioco, li invitò a parlare tra di loro e, alla fine, tutti si formarono l’idea di come in realtà l’elefante fosse. Tutti furono d’accordo che era come una muraglia sostenuta da alberi e tirata da una fune, con un serpente nel mezzo e ai lati due lance con due ventagli sopra. Dopo che il saggio ebbe finito di raccontare questa storia, disse: “miei cari amici voi fate la stessa cosa. Ritenendo di avere la certezza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di ciò che è bene e di ciò che è male, litigate, vi accapigliate e v’insultate. Se ognuno di voi parlasse e ascoltasse l’altro, la verità vi apparirebbe nella complessità delle sue molteplici possibili forme”. La nostra storia comincia i primi anni ’70, quando io e Mario Reda, come i ciechi della parabola, durante il trattamento in biofeedback (BFB) di pazienti affetti da ansia cronica, ci imbattemmo in 112 alcune incongruenze rispetto alla teoria, all’epoca in voga, dell’inibizione reciproca fra branche simpatica e parasimpatica del Sistema Nervoso autonomo (SNA). Con sorpresa e sgomento, notammo che in alcuni pazienti con sintomatologia agorafobica, alla diminuzione della tensione muscolare corrispondeva un notevole aumento della conduttanza cutanea (GSR), presa da noi come indice dell'arousal autonomico. In quegli anni, la risposta elettrodermica era concordemente riconosciuta come un parametro che forniva indicazioni significative sullo stato emozionale di un individuo; per cui un suo rapido incremento dal livello basale, che invece forniva informazioni sullo stato generale di vigilanza, rappresentava un indice attendibile di una risposta di ansia. In base ai principi dell’inibizione reciproca, ci saremmo aspettati una diminuzione dell’arousal simpatico conseguente al rilassamento muscolare; ma nei soggetti agorafobici, contrariamente alle nostre aspettative, osservammo costantemente una reazione di allarme (rilevata dall’aumento significativo della conduttanza) sin dai primi tentativi di rilassamento muscolare. Tali osservazioni erano confermate dallo STAI X-1 (Scala di autovalutazione per l'ansia di stato di Spielberger) i cui punteggi, in prossimità della delle fasi di rilassamento muscolare, tendevano ad aumentare: in alcuni casi l'ansia post-seduta era superiore a quella pre-seduta. Ulteriore sostegno all'ipotesi di una reazione di allarme e di ansia a sensazioni e percezioni di ridotto tono muscolare erano le verbalizzazioni di questi pazienti che esprimevano sensi di depersonalizzazione e di derealizzazione quali: “... quando rilasso i miei muscoli mi vengono pensieri che mi creano ansia; ... penso di diventare omosessuale o pazzo; ... senso di stanchezza; ... paura di cadere davanti o dietro; ... perdita della posizione degli arti nello spazio come se avessi molte mani che si estendono nello spazio verso l'alto; ... mi sembra di avere la destra sul bracciolo sinistro e viceversa; … avevo deciso di non rilassarmi troppo; ... non voglio perdere il controllo e poi più mi rilasso e più mi sembra di essere eccitato; … sensazione di precipitare; ... devo stare sempre all'erta per paura di cadere o ruotare verso sinistra; … quando mi rilasso sento freddo; ... mi sembra d'essere irrigidito ... come una tavola; ... sensazione di fatica mentale”. Tale risposta, definita da noi allora come “paradossale”, nonostante si riducesse durante l’addestramento col BFB, persisteva nel tempo e tendeva a ripresentarsi al follow-up (Congia e coll., 1982; Blanco e coll., 1982; 1982a; 1982b; 1982c; 1983; 1984). Poichè i dati registrati erano incongruenti con la teoria della reciprocità, anche se confermati dalle osservazioni cliniche di altri autori (Gelder e Marks, 1966; Gelder, Marks and Wolff, 1967), furono da noi ritenuti degli artefatti sperimentali o al massimo delle anomalie personologiche da correggere; questo in accordo con gli altri clinici che avevano riscontrato le difficoltà dei soggetti con sintomatologia fobica ad apprendere il rilassamento e gli scarsi risultati che avevano su di loro le tecniche usuali di rilassamento, training autogeno, ipnosi e la desensibilizzazione sistematica (DS) nelle sue forme classiche, nonché la scarsa efficacia del trattamento con benzodiazepine. Convinti che si trattassero degli errori di varianza o delle anomalie personologiche, nel 1984, io e Mario Reda, nel libro dal titolo “Terapia in Medicina Comportamentale”, pubblicammo un articolo dal titolo “Risposta paradossale dei pazienti agorafobici all’EMG-BFB training”. Le conseguenti strategie terapeutiche da noi adottate consistevano nel addestrare i pazienti al controllo della conduttanza cutanea durante la diminuzione del tono muscolare (dal 1969 grazie a Neal Miller, il SNA non era considerato più involontario) e alla ristrutturazione cognitiva delle attribuzioni di significato circa il rilassamento muscolare etichettato come perdita di controllo. In questa nostra fase scientifica e clinica, i principi del corpus dottrinale della Behavior Therapy (Schachter e Singer, 1962; Bandura, 1969) sembravano soddisfare la dimensione metodologica che andavamo cercando, giacché ci mettevano a disposizione metodi di osservazione, di rilevazione dei dati clinici e d’intervento terapeutico alternativi a quelli psicoanalitici o, in generale, a quelli tradizionalmente in uso negli ambienti accademici. Per cui nel rivolgerci all'individuo in termini di principi dell'apprendimento classico e operante, consideravamo il 113 comportamento umano alla stregua di un congegno di precisione regolato, passo dopo passo, dal gioco delle contingenze che le azioni acquistavano con l'ambiente circostante (Blanco et al., 1990). A una più attenta lettura dei dati in nostro possesso, però, ci imbattemmo in altre incongruenze “psicofisiologiche” sempre da noi ritenute come sgradevoli “artefatti” personologici. Per esempio, osservammo che i soggetti con disturbi ossessivi frequentemente rispondevano con significative diminuzioni della temperatura corporea a ogni tentativo di riduzione del tono muscolare, mettendo in atto una sorta di "allarme cutaneo" (EMG e TEMP correlati positivamente), con, in alcuni casi, variazioni termiche intraseduta di 10-12 gradi centigradi. Le eccezioni alla teoria dell’inibizione reciproca sembravano eccedere più che confermare la regola: nei soggetti con disturbi del comportamento alimentare rilevammo che un dato discrepante era rappresentato da una quasi totale assenza di correlazione fra espressione somatica (EMG) e risposte viscerali (GSR, TEMP, HR). Poiché alle fluttuazioni rapide e ampie di questi tre ultimi parametri (raramente correlati fra loro), regolarmente non si verifica nessuna variazione nell'attività muscolare, questo fenomeno autorizzava a ipotizzare, in questi pazienti, una sorta di confusione interocettiva (Reda et al. 1988, 1996). Infine, notammo che ciò che caratterizzava il gruppo con disturbi depressivi era un’estrema povertà e rigidità in tutti i parametri registrati. Le variazioni ritmiche temporali erano minime e questi soggetti sembravano caratterizzati da un'assenza di risposte, con conseguente difficoltà percettivo-motoria. A conforto delle nostre osservazioni, successivamente, attraverso la PET (positron emission tomography), Drevets et al. (1997) evidenziarono una scarsa attivazione nella corteccia prefrontale sinistra dei pazienti depressi. La sempre più evidente l’incapacità, da parte della dottrina della reciprocità, di spiegare alcuni aspetti fenomenici fu uno dei motivi che ci spinse, negli anni 80, al passaggio da una paradigma razionalista a uno post-razionalista; contemporaneamente in quegli anni, cominciarono ad emergere nella letteratura alcune prospettive rivoluzionarie sull'organizzazione e il controllo del Sistema Nervoso Autonomo (SNA). La scoperta dei riflessi ganglionari periferici, l'identificazione di cotrasmettitori e di modulatori peptidici, e un aumento di conoscenze sui meccanismi di controllo autonomico portarono a sostanziali progressi nella comprensione della regolazione autonomica. Sfortunatamente, l'evoluzione dei modelli concettuali dell'organizzazione del SNA era rimasta drammaticamente indietro rispetto all'esplosione degli sviluppi empirici. In assenza di una cornice concettuale generale, i dati discrepanti e le continue scoperte potevano, come nel nostro caso, essere trascurati o denigrati nel tentativo di spiegarli per mezzo di punti di vista arcaici sulle modalità di controllo autonomico. La dottrina imperante della reciprocità autonomica continuava a sostenere che le risposte simpatiche e parasimpatiche erano soggette a un reciproco controllo strettamente accoppiato, con un incremento di attività in una branca associato ad un decremento di attività nell'altra; ciò nonostante fossero state dimostrate ripetutamente eccezioni a questa modalità di controllo autonomico. Appariva sempre più chiaro che l'attività nelle due divisioni del SNA poteva essere sia accoppiata che non-accoppiata; per di più, le risposte accoppiate potevano essere sia reciproche che nonreciproche, queste ultime implicavano incrementi (coattivazione) o decrementi (coinibizione) simultanei in entrambe i flussi sia vagale che simpatico (Berntson , Cacioppo, e Quigley, 1991). Cominciammo così a riflettere sulle possibili modalità di regolazione del SNA, sui dati empirici che documentavano tali modalità, e sulle potenziali origini fisiologiche di tali pattern. Iniziò a delinearsi l’idea che le funzioni autonomiche non potevano essere viste adeguatamente come situate lungo un singolo vettore o continuum che si estendeva dal controllo parasimpatico a quello simpatico; si rendeva necessario ipotizzare, piuttosto, una superficie autonomica 114 bidimensionale, quale rappresentazione minima richiesta per cogliere la complessità del controllo autonomico. Da un'appropriata comprensione di questo spazio autonomico, si potevano derivare un certo numero di leggi e di principi subordinati che regolavano la complessità delle modalità autonomiche, le loro specifiche dimensioni e le condizioni di confine. Era ormai evidente che la teoria della reciprocità autonomica dovesse essere incorporata in una più ampia dottrina dello spazio autonomico, i cui elementi includessero principi di organizzazione e controllo congruenti con uno spazio autonomico multidimensionale. Un modello più articolato di controllo del SNA sembrava spiegare la ragione di molti degli errori di varianza che avevano afflitto le nostre ricerche psicofisiologiche. Per poter spiegare tutte le risposte da noi definite paradossali o errori di varianza è stato necessario, perciò, ipotizzare un modello complesso. I potenziali pattern di controllo autonomico sugli organi Figura 2 - Combinazioni attività simpatica-parasimpatica bersaglio doppiamente innervati possono essere delineati nella Fig. 1, con una descrizione dettagliata di tutte le combinazioni di incremento, di decremento o di attività inalterata nelle due branche del SNA. Le nove celle della Fig. 1 possono essere ulteriormente raggruppate in tre categorie più vaste: (a) modalità accoppiate reciproche, in cui l'attività nelle due branche sono negativamente correlate; (b) modalità accoppiate non reciproche, in cui le attività sono correlate positivamente; e (c) modalità non accoppiate, in cui i cambiamenti di attività non sono correlati (Fig. 2). I Figura 1 - Modalità di controllo autonomico pattern reciproci classici, in cui le branche sono correlate negativamente, sono rappresentati dalle celle situate nella parte superiore destra (modalità simpatica reciproca) e nella parte inferiore sinistra (modalità parasimpatica reciproca) (Fig. 1). Le risposte accoppiate in cui le attività delle due branche sono correlate positivamente 115 sono rappresentate dalle celle della parte più alta sinistra (coattivazione) e nella parte destra in basso (coinibizione). Le rimanenti celle (ad eccezione del baseline) descrivono le risposte autonomiche in una branca del SNA che non sono correlate con i cambiamenti nell'altra (modalità non accoppiate simpatiche e parasimpatiche). Le celle della Fig. 1 esauriscono le potenziali modalità di risposta autonomica in ogni dato momento. Queste modalità sono proposte come descrittori tassonomici di pattern empirici di risposte autonomiche, e non possono rappresentare isomorficamente i meccanismi sottostanti funzionalmente distinti. Come avremo modo di discutere in altri lavori, le modalità elementari di controllo, rappresentate una per una nelle celle, possono essere distribuite lungo una dimensione funzionale che si estende da un accoppiamento reciproco ad uno non reciproco. Il SNA era stato visto nel passato come un sistema dicotomico, con le sue divisioni simpatica e parasimpatica (vagale) che esercitavano influenze funzionalmente opposte sotto controllo reciproco centrale. Questa concezione, definita come dottrina della reciprocità autonomica, comportava tre principi fondamentali strettamente correlati fra loro: (a) il principio di una doppia innervazione degli organi bersaglio viscerali, (b) il principio dell'antagonismo funzionale delle doppie innervazioni, e (c) il principio di un controllo reciproco fra le divisioni del SNA. Nonostante numerose evidenze supportassero il concetto generale di un'organizzazione del SNA reciproca ed antagonista, anche in passato, da parte di numerosi ricercatori, erano state individuate numerose deviazioni da questo modello. Queste eccezioni avevano evidenziato: (a) alcuni organi bersaglio che non erano doppiamente innervati, (b) le influenze simpatiche e parasimpatiche su alcuni organi doppiamente innervati si erano rivelate sinergiche o ortogonali piuttosto che antagoniste, e (c) i processi simpatici e parasimpatici non erano sempre soggetti a reciproche variazioni (Rosenbleuth e Bard, 1932; Rosenbleuth e Cannon, 1932; Richter, 1927; Tower & Richter, 1932; Root & Bard, 1947; Gellhorn, Cortell, & Feldman, 1941). Queste eccezioni alla dottrina di reciprocità autonomica avevano vaticinato l'emergenza delle prospettive contemporanee che più appropriatamente enfatizzano le influenze interattive fra branche simpatica e parasimpatica del SNA (Fig. 3). Malgrado le riconosciute limitazioni della dottrina della reciprocità, fino agli anni ’80 non era emersa alcuna cornice concettuale generale che spiegasse totalmente la complessità dei meccanismi autonomici di controllo. Una cornice concettuale quantitativa è fondamentale per la direzione strategica degli studi sperimentali e lo sviluppo di ipotesi di verifica. Una simile cornice può offrire importanti parametri per quantificare gli effetti dei compiti, per esaminare le dimensioni delle differenze individuali, o per identificare fonti di errore di varianza negli studi psicofisiologici. Una cornice concettuale generale può anche conferire una prospettiva più integrata dei processi autonomici, minimizzando la proliferazione di microteorie correlate a innervazioni autonomiche Figura 3 – Spazio autonomico specifiche. Questa più ampia prospettiva potrebbe probabilmente facilitare lo comprensione di correlazioni psicofisiologiche con processi comportamentali più molari. Era necessaria, perciò, una concezione generale di organizzazione del SNA che includesse sia le caratteristiche veridiche della dottrina della reciprocità sia incorporasse contemporaneamente le eccezioni a questa teoria. Una visione dell’attività autonomica più complessa, insieme ad un 116 modello quantitativo derivato, può gettare luce su questioni psicofisiologiche che vanno dagli effetti ambientali sull'attività del SNA alle differenze individuali nella sua reattività. La dottrina della reciprocità, pur spiegando alcune delle modalità di controllo, doveva essere integrata in una teoria più articolata; per cui, per chiarire la varietà delle risposte osservate nei nostri pazienti è stato necessario adottare un modello di controllo complesso e passare dalla dottrina della reciprocità alla teoria dello spazio autonomico; ciò ha comportato la rappresentazione di una superficie multidimensionale delle risposte simpatiche e parasimpatiche che incorporasse la complessità del controllo autonomico. Come illustrato nella Fig. 3, questa superficie (a) classifica la dottrina della reciprocità come un vettore diagonale, (b) rappresenta le modalità non reciproche sulla diagonale alternative, e (c) descrive le modalità non accoppiate come vettori situati lungo gli assi. Inoltre, le famiglie di vettori paralleli a quelli appena menzionate rappresentano le categorie generali di controllo autonomico espresse da vari punti di partenza con uno spazio multidimensionale. Una caratteristica della dottrina dello spazio autonomico è la sua indifferenza alla natura degli impatti funzionali delle innervazioni autonomiche sull'organo bersaglio. Figura 4 - Dottrina dello Spazio Autonomico Benché la natura delle influenze autonomiche chiaramente governi la traduzione dallo spazio autonomico agli effetti funzionali sull'organo, ciò non altera le rappresentazioni basiche all'interno dello spazio autonomo. I tre principi della dottrina della reciprocità possono essere inclusi nella prospettiva più ampia della dottrina dello spazio autonomico (Fig. 4). Specificatamente: 1. Il principio di una doppia innervazione è inserito nel principio più ampio dell'innervazione, che asserisce che un organo viscerale può essere sia singolarmente che dualmente innervato dal SNA. 2. Il principio dell'antagonismo funzionale è assorbito dal principio dell'azione congiunta, che sostiene che le due branche del SNA possono esercitare influenze sia antagoniste che sinergiche sugli organi doppiamente innervati. 3. Il principio del controllo reciproco è assimilato dal più generale principio delle modalità multiple, che asserisce che la modalità di controllo sulle innervazioni sia simpatiche che parasimpatiche può essere reciproca, non reciproca, o non accoppiata. Le diverse proprietà delle modalità generali di controllo autonomico sull'organo bersaglio possono essere descritte da funzioni sigmoidali di attività delle due branche del SNA della risposta, derivate dagli input che variano lungo un continuum di attivazione: ij dove = + csi * si + cpj * p + csipj * si p + e, j ij j (1) è lo stato funzionale dell'organo bersaglio al punto ij su un continuum di attivazione, è lo stato funzionale basale in assenza di input autonomico, si e pj sono le attività funzionali 117 indipendenti delle innervazioni simpatiche e parasimpatiche al punto di attivazione ij, csi e cpj sono coefficienti accoppiati che riflettono il relativo impatto funzionale delle attività simpatiche e parasimpatiche sull'organo bersaglio (al punto di attivazione ij), csipj*sipj è un termine che rappresenta le potenziali interazioni fra le branche del SNA, ed e è un termine di errore che include, fra le altre cose, alcuni effetti locali (non neurali) metabolici Figura 5 –Spazio Autonomico e Superfice funzionale e ormonali. Sebbene l'equazione (1) sia un modello lineare, gli indici (i, j) sui coefficienti possono accomodare potenziali non linearità nell'impatto funzionale del SNA sull'organo bersaglio (che si traduce in variazioni nei coefficienti accoppiati a differenti livelli di attivazione, i.e., i, j diventano vettori) (Fig. 5). Quantunque relativamente comprensivo, questo modello semplifica alcune caratteristiche dinamiche del controllo autonomico includendo un numero di variabili nel termine di errore. La variazione associata a questi fattori è qui inclusa nel termine di errore. Molte di queste variabili differiranno da organo a organo, tuttavia, le specifiche implementazioni di questo modello generale possono beneficiare di un ulteriore analisi delle componenti della variazione del termine di errore. La nostra intenzione, tuttavia, non è quello di fornire il modello del controllo autonomico di un particolare organo, ma piuttosto di illustrare le proprietà generali delle modalità di controllo autonomico. I termini dell'equazione (1) riflettono ognuno dei principi della dottrina dello spazio autonomico. Il principio di innervazione è espresso dalla presenza dei termini si e pj, che assumono un valore fisso di zero in assenza di un input rilevante. Il principio di azione congiunta è manifesto nei segni dei coefficienti csi e cpj, che sono equivalenti per le azioni concordi e opposti per le azioni antagoniste. Infine, il principio di modalità multiple è inglobato dai relativi cambiamenti delle funzioni di input. Le proprietà formali delle risposte autonomiche, come delineato in precedenza, possono essere associate a caratteristiche adattive e personali distinte. Le modalità reciproche, nel produrre grandi cambiamenti direzionalmente stabili nello stato funzionale dell'organo bersaglio, rappresentano una appropriata regolazione adattiva per le sfide alla sopravvivenza. Conseguentemente, non è sorprendente che le regolazioni compensatorie baroriflesse critiche alle perturbazioni della pressione ematica manifestano un pattern reciproco (Koizumi et al., 1983; Spyer, 1981). Questa modalità reciproca simpatica può estendersi, attraverso i sistemi di organo, fino a inibire o annullare la risposta baroriflessa-mediata dei controlli vagali (Bard, 1960; 118 Stephensen et al. 1981). In tal modo, gli stressor possono condurre ad un incremento nella frequenza cardiaca, nonostante una pressione ematica elevata che servirebbe normalmente a sopprimere l'output simpatico e ad aumentare il controllo vagale. Cannon (1929) affermò che sfide alla sopravvivenza di forte intensità possono attivare un pattern simpatico reciproco eccezionale e invadente. Una caratteristica adattiva delle modalità reciproche di controllo è il cambiamento nella dominanza relativa alle due branche del SNA. Durante uno stato di quiete comportamentale, il sistema parasimpatico può predominare nel controllo autonomico della frequenza cardiaca, e le risposte a sfide moderate possono essere determinate in gran parte dall'attivazione o dal ritiro del tono vagale (Haroutunian & Campbell, 1982; Levy, 1984; Obrist, 1981; Rowell, 1986). Un'attivazione autonomica, comunque, può invertire questa relativa dominanza e trasferire il controllo cronotropico del cuore al sistema simpatico. Il risultato è una transizione da un sistema di controllo tonico parasimpatico ad uno tonico simpatico nell'organo bersaglio, spesso caratterizzata da un notevole incremento nella frequenza cardiaca. In tal modo, le risposte fasiche reciproche generalmente conducono a cambiamenti nel livello tonico, a meno che non siano seguite da una transizione ad un'altra modalità di controllo (come un pattern reciproco opposto, che potrebbe condurre ad un ripristino del baseline). Il significato adattivo dei controlli non reciproci è meno immediatamente chiaro, dal momento che queste modalità tendono a preservare lo stato funzionale del baseline dell'organo. Infatti, durante uno stato di coattivazione, non può essere visto nessun cambiamento nello stato basale se le branche del SNA evidenziano soglie, pendenze e coefficienti di accoppiamento uguali; identici parametri fra le due branche sono improbabili e vari gradi di coattivazione (o coinibizione) sono probabilmente la norma. Disparità fra le branche coattivate del SNA rivelano proprietà funzionali uniche delle modalità non reciproche di controllo. Cambiamenti nei controlli sia tonici sia fasici sono correlati nelle modalità reciproche, ma possono dissociarsi nelle modalità non reciproche. Le modalità non reciproche tendono, quindi, a preservare gli stati funzionali di baseline. Sebbene i cambiamenti non reciproci possono produrre una moderata alterazione nel controllo tonico, ciò è considerevolmente più piccolo del parallelo cambiamento sotto modalità reciproche. Inoltre, questa alterazione nei controlli tonici è non monotonica e limitata alle regioni della risposta dinamica delle branche del SNA. All’opposto delle modalità reciproche, il cambiamento associato alla frequenza cardiaca può essere modesto. Le riflessioni su questi dati conducono ad almeno due conclusioni: (a) una concezione multidimensionale dello spazio autonomico fornisce una descrizione molto più articolata del controllo autonomico e permette una migliore comprensione delle risposte psicofisiologiche da noi osservate rispetto ad un modello a vettore singolo; (b) il modello multidimensionale dello spazio autonomico proposto, espresso nell'equazione (1), offre un approccio quantitativo potente necessario all’analisi delle risposte del SNA. Il modello a vettore singolo, conducendo ad una concezione eccessivamente restrittiva dei controlli autonomici, non riusciva a spiegare la complessità delle risposte che avevamo osservato ed era, spesso, smentita dai risultati empirici osservati. Quantunque questo modello fosse stato riconosciuto da molti autori come insufficiente, fino a poco tempo fa non è stata avanzata nessuna alternativa viabile; infatti, un modello almeno bidimensionale rappresenta un importante e necessaria espansione della dottrina della reciprocità. La dottrina dello spazio autonomico può assimilare le caratteristiche veritiere del precedente punto di vista e, contemporaneamente, fornire una rappresentazione più esaustiva delle risposte psicofisiologiche da noi osservate. Sebbene i dettagli specifici di questo modello possano subire una revisione, l’attuale comprensione dell'organizzazione autonomica impedisce definitivamente la resurrezione del concetto di singolo vettore di controllo autonomico. Un punto di vista riduttivistico di controllo autonomico ha rappresentato un fondamentale ingrediente delle critiche di Walter Cannon alle teorie periferialiste delle emozioni, poiché 119 riteneva le risposte viscerali del corpo troppo indifferenziate per spiegare la ricchezza delle sensazioni emotive. Nonostante le numerose prove del contrario, ancora rimane ampiamente accettato e, per quasi un secolo, ha lasciato irrisolta la questione se i segnali afferenti viscerali sono essenziali o meno per l'esperienza emozionale. Recentemente in uno studio è stata combinata la risonanza magnetica funzionale e la registrazione fisiologica multiorgano per analizzare l'esperienza di due forme distinte di disgusto e la loro relazione con l'attività fisiologica periferica e centrale. I risultati ottenuti hanno dimostrato che le risposte fisiologiche organospecifiche differenziano gli stati emotivi, supportando l'ipotesi che le rappresentazioni centrali di omeostasi fisiologica dell'organismo costituiscono un aspetto critico delle basi neurali dei sentimenti. Sono stati individuati pattern differenziali di risposta delle due branche autonomiche attraverso sistemi d'organo o dimensioni funzionali. Altro esempio rilevante è la risposta di orientamento che è frequentemente associata ad una decelerazione cardiaca (attivazione vagale), dilatazione pupillare (ritiro vagale) e risposte elettrodermiche (attivazione simpatica) (Beatty, 1986; Lynn, 1966; Siddle, & Stephenson, & Spinks, 1983; Van der Molen, Boosma, Jennings, & Nieuwboer, 1989). Tali pattern di risposta autonomica, attraverso gli organi bersaglio, rappresentano le basi di più raffinati tentativi per desumere legittime relazioni fra stati comportamentali, emozionali e funzioni autonomiche (Cacioppo & Tassinary, 1990). Una visione complessa del controllo autonomico favorisce la comprensione del ruolo che svolge l’interocezione nella percezione degli stati emozionali e, quindi, dell’esperienza immediata. Così come differenti tipi di emozioni sono associati a distinti profili di attività viscerale (Critchley, 2005; Rainville, Bechara, Naqvi e Damasio, 2006), diverse modalità di assemblaggio somatico e autonomico sembrano delineare l’esistenza di profili psicofisiologici corrispondenti ai tipi di personalità descritte dal post-razionalismo (Blanco, 1984, 1986; Reda et al., 1986, 1988, 1991; Guidano, 1992; ). Le persone accedono in maniera differente alle proprie esperienze emotive, prestando maggiore o minore attenzione ai propri stati corporei (consapevolezza interocettiva), per cui diventa legittimo chiedersi come differenti persone avvertono in maniera diversa una stessa emozione o se il modo di emozionarsi è determinato dal carattere di una persona. Lo studio del rapporto fra le modalità di controllo viscerale e il ruolo dell’interocezione nella percezione dell’esperienza immediata rappresentano degli importanti stimoli per la comprensione di quei processi che costituiscono le fondamenta tacite della costruzione dell’identità personale. Possiamo definire come sensibilità interocettiva la capacità/consapevolezza e il modo che le persone utilizzano per processare e regolare la propria stabilità emotiva; tale sensibilità riguarda gli stimoli provenienti dal nostro corpo in senso sia di viscero-percezione sia di propriocezione (pelle, articolazioni, tendini e muscoli), una sorta di un generale “come ci si sente?” (Craig, 2004). Sin dai tempi della teoria di James (1884), che enfatizzava la centralità dei segnali viscerali per l’esperienza associata a ciascuna distinta emozione, è dominante, in ambito della topica delle emozioni, il dibattito sul ruolo dei segnali corporei nell’esperienza emozionale (teorie periferialiste delle emozioni, James, 1884; Schachter & Singer, 1962; Damasio, 2000). Affermava, infatti, James che “non scappiamo perché abbiamo paura … ma abbiamo paura perché scappiamo” e aggiungeva “che tipo di emozione di paura sarebbe se non fosse presente la percezione dei battiti cardiaci, della respirazione superficiale, del tremore alle labbra, degli arti indeboliti, della pelle d'oca e dei movimenti viscerali?” (James, 1884); secondo la sua teoria, una situazione stimolo, perturbando un organismo, genera in un individuo dei cambiamenti corporei che a loro volta producono un’esperienza emozionale come conseguenza della loro percezione. A tutt’oggi è dibattuto il ruolo che gli stati corporei hanno nell’esperienza emozionale (processamento, regolazione) degli esseri umani. Il fascino degli stati corporei nell’esperienza emotiva (Damasio, 1999; James, 1894; Schachter & Singer, 1962; Valins, 1966) ha recentemente portato alle teorie note con il termine “embodiment”, oggi di supporto alle teorie periferialiste 120 delle emozioni, le quali sottolineano il ruolo della consapevolezza interocettiva nei differenti stati emotivi\ (Craig, 2004; James, 1884; Damasio, 1994). Vi sono attualmente numerose evidenze empiriche relative alle emozioni “embodied” (Barrett et al., 2004; Critchley et al., 2004; Pollatos, Gramann, & Schandry, 2007; Wiens, 2005); per esempio, le persone più capaci di individuare il proprio battito cardiaco sembrerebbero rispondere con un grado più alto d’intensità emotiva a spezzoni di film a contenuto emozionale (gioia, rabbia, tristezza) e individui con maggiore capacità di individuare i cambiamenti viscerali sembrerebbero rispondere in maniera molto più intensa a “eventi” emotivi, rispetto alla popolazione generale (Wiens et al., 2000). Soggetti con alta consapevolezza interocettiva (CI), dimostratisi particolarmente abili nella detezione del battito cardiaco, hanno manifestato una maggiore accuratezza nel predire correttamente la scossa rispetto a individui con bassa CI: entrambe i gruppi sono stati sottoposti per pochi secondi alla visione d’immagini subliminali (ragni e serpenti) alcune delle quali seguite da una scossa (CS+) altre no (CS-). I soggetti ad alta CI, utilizzando i loro segnali interni per anticipare lo stimolo nocivo, hanno mostrato una migliore capacità predittiva di quello che sarebbe accaduto. In seguito alla registrazione dello stimolo sublimale a livello di non coscienza, essi sembravano avvertire un’alterazione corporea che li rendeva più esperti nell’anticipare la scossa; è come dire “io mi fido di quello che accade nel mio corpo come bussola per dirigermi nel mondo” (Katkin et al., 2001). Persone con elevata consapevolezza interocettiva si sono, inoltre, mostrate più abili nel cogliere differenti sfumature di attivazione emozionale; è stata osservata la misura con cui questi soggetti enfatizzano o meno i livelli di attivazione/disattivazione quando riportano la loro esperienza emotiva (arousal focus - AF) (Barrett, 1995; 1998; 2004). Si può, perciò, affermare che gli individui con alta consapevolezza interocettiva tendono a sviluppare l’inclinazione a focalizzare su una cornice di riferimento che usa soprattutto un sistema di coordinate centrato sul corpo, ovvero, mettono a fuoco primariamente gli aspetti viscerali delle emozioni per valutare gli eventi nel mondo (soggetti con tendenza inward); mentre altri individui con bassa CI, per discriminare I propri stati emozionali (soggetti con tendenza outward), tendono a mettere a fuoco su una cornice di riferimento che usa principalmente un sistema di coordinate ancorate esternamente, come contesti o persone (Arciero, 2002, 2006, 2012). Le risposte psicofisiologiche dei nostri soggetti a tendenza Inward con alta consapevolezza interocettiva (stile di personalità tipo Fobico e Depressivo) hanno mostrato una correlazione altamente significativa (p<0,0001) fra le risposte dell’attività muscolo-espressiva e le risposte autonomiche, nonostante una differenza intragruppo nell’assemblaggio dei pattern psicofisiologici. Durante la rievocazione di eventi a forte connotazione emotigena, la descrizione degli stati interni è stata sempre effettuata con riferimento a stimoli di natura fisica (mi batte il cuore forte, non respiro bene, sento un peso sul mio petto, ho le farfalle nello stomaco); si è anche osservata una costante congruenza fra il narrato degli episodi sintomatici critici e le variazioni delle risposte autonomiche (per esempio, la rievocazione di eventi connotati da paura erano seguiti da un incremento dell’attività simpatica). I soggetti a tendenza Inward si sono dimostrati più esperti anche nel cogliere le differenti sfumature di attivazione emozionale (Barrett et al., 2004). I soggetti a tendenza Outward con bassa consapevolezza interocettiva (stile di personalità tipo DAP e Ossessivo) non hanno mostrato correlazioni significative fra i ritmi psicofisiologici e, durante la rievocazione degli eventi scenici a loro dire emotigeni, al narrato non corrispondevano variazioni psicofisiologiche congruenti (per esempio, la narrazione di un evento connotato verbalmente da rabbia, non era accompagnata da nessuna variazione autonomica di rilievo; altre volte, si assisteva ad ampie fluttuazioni viscerali nella descrizione di episodi definiti a valenza emotiva neutra). Infine, le emozioni provate venivano descritte con termini vaghi e/o metaforici e 121 quasi mai con riferimento a sensazioni fisiche (mi sento vuoto, è come se non esistessi, mi sento confuso). I dati da noi registrati suggeriscono che, a livello psicofisiologico, le due polarità inward-outward sembrano delimitare un continuum su cui possono essere lette le varie combinazioni emotive individuali. Perciò è a partire dal corpo che va costruita sia una psicologia del Sé sia una psicopatologia delle emozioni con alla base un’ontologia del corpo. Le polarità inward e outward caratterizzano un modo di posizionarsi come essere-nel-mondo, prevalentemente in termini ‘body-bounded’ per la tendenza inward e ‘world anchored’ per la disposizione outward. È su questo spazio interpersonale, caratterizzato dalla polarità “proprio corpo-alterità”, che occorre riflettere: infatti, a seconda della modalità di emozionarsi, muta l’enfasi nell’ambito di questo spazio, sul proprio corpo o sull’alterità e conseguentemente l’inclinazione della stabilità personale. Nel primo caso il centro gravitazionale della dialettica è spostato su un contesto referenziale centrato, in modo predominante, su coordinate che si riferiscono al proprio corpo, dando luogo a un senso di stabilità prevalentemente focalizzato su stati “interni” (Inward). Nell’altro caso la più rilevante focalizzazione su aspetti contestuali fa gravitare quello spazio su un frame referenziale che usa un sistema di coordinate ancorato sull’alterità, dando così luogo a un senso di permanenza orientato maggiormente su riferimenti “esterni” (Outward). Da quest’altra prospettiva è evidente che l’alterità, intesa come tipo di ancoraggio attraverso cui mantenere la stabilità nel tempo (persone, contesti, immagini, pensieri, regole etc.), diventa la sorgente d’informazione per riconoscere l’esperienza emotiva personale divenendone quindi parte (Arciero, 2002, 2006, 2012). Se l’esperienza che noi facciamo, non è che un modo di incontrare di volta in volta il mondo e gli altri, le variazioni interne al proprio corpo corrispondono alle diverse modalità attraverso le quali accediamo sia all’uno sia agli altri. L’essere incarnati corrisponde al come ci si avverte di volta in volta situati e, contemporaneamente, a come appare il mondo; è proprio attraverso i diversi modi in cui incontra il mondo e l’altro che il corpo scopre ciò che è significativo e, contemporaneamente, una propria modalità di essere. Questo sentimento della situazione in cui effettivamente si è, il fatto cioè di essere in un certo stato emotivo, riguarda sempre un modo di trovarsi e un modo di disporsi riguardo a quella certa circostanza. A questi diversi modi di sentirsi situati, corrispondono dei tipi peculiari di emozione oltre che l’attivazione di differenti circuiti neurali e di differenti assemblaggi psicofisiologici o, come abbiamo precedentemente osservato, a stessi assemblaggi possono corrispondere modi dissimili di avvertirsi (Reda M.A. et al., 1986, 1988, 1991; Blanco S. et al., 1984, 1986, 1990). È utile porre l’accento che questo nostro approccio allo studio delle emozioni permette di raccogliere attraverso uno sguardo sinottico sia la prospettiva di James e dei neo-Jamesiani sia quella evolutiva di Tomkins, Ekmann e Izard (Blanco S. et al., 1984, 1986, 1990; Reda M.A. et al., 1986, 1988, 1991; Ekman P. et al., 1983; Guidano V.F., 1988, 1992). Da questa prospettiva, le situazioni e le circostanze della vita quotidiana appaiono come perturbazioni di cui il soggetto, come organizzazione biologica, ha esperienza immediata attraverso le modificazioni corporee: un’esperienza confusa, caotica, per lo più costituita da aspetti taciti tanto da portare Maturana (1985, 1987, 1992) a sostenere che, a questo livello, non è possibile distinguere una percezione da un’illusione. Da questa esperienza bruta le categorie del discernimento e dell’intelletto costruiranno la comprensione a posteriori, introducendo quell’ordine che può essere identificato come un corpus di spiegazioni della realtà organizzato secondo “deep syntactic rules” (Guidano 1983, 1988, 1992). La soggettività, ovvero l’essere un “chi”, non può che corrispondere, perciò, a un continuo riordinamento, attraverso ritmi psicofisiologici stabili, che unifica la varietà delle singole esperienze in un senso di unitarietà e di continuità personale. È quindi evidente che il significato della mia esperienza concerne come io 122 connetto la molteplicità delle esperienze. Questo continuo e incessante processo di unificazione corrisponde all’organizzazione biologica stessa: l’essere è il meccanismo ordinante incarnato come sistema auto-organizzato; in questo senso, il vivere corrisponde al sentire e al conoscere. Lo strutturarsi di profili psicofisiologici stabili e le loro modalità di controllo autonomico rappresentano alcuni degli aspetti corporei di quella dimensione preriflessiva che riguarda sempre il significato sentito di una certa situazione e il modo di disporsi riguardo a quella circostanza. L’emozionarsi non può essere separato dal suddetto rapporto originario come se non ne facesse parte, come se l’emozione fosse un epifenomeno di origine casuale che si presenta di per sé. La “situazione emotiva” insieme alla sua “comprensione” è una delle modalità principali, chiamate da Heidegger (1927, 1969, 1970, 1973, 1975, 1982, 1984, 1990, 1993, 1995, 1997 2005) “esistenziali”, attraverso cui sperimentiamo il nostro essere-nel-mondo. Essere-nel-mondo, pertanto, significa essere sempre coinvolti in una situazione emotiva: l’uomo non è uno spettatore disinteressato dei fenomeni e dei suoi significati. Da questo processo preriflessivo, denominato ipseità, emerge il Sé dell’identità narrativa come una vera sua riappropriazione che si dispiega nel tempo (Ricoeur 1974, 1981, 1985a, 1985b, 1986a, 1986b, 1986c, 1986d, 1987a, 1987b, 1988a, 1988b, 1989, 1990, 1991a, 1991b, 1991c, 1993a, 1993b, 1994a, 1994b, 1994c, 1996a, 1996b, 1997, 1998a, 1998b, 2004, 2005). Non si tratta più di afferrare il sé soltanto attraverso un atto di riflessione, ma di coglierlo dalla comprensione dei suoi modi reali di esistere e di sentire; si rende necessario comprendere il come l’essere sé è presente a se stesso, è cosciente preriflessivamente nella sua quotidianità, nella sua esperienza concreta, alla luce dell’avere a che fare col mondo e con gli altri. Un paradigma più complesso delle modalità di controllo autonomico sembra chiarire quelle differenze personologiche nel sentire che rendono unici gli esseri umani. Gli assemblaggi psicofisiologici contribuiscono a colorare emozionalmente il fare esperienza e ci fanno sentire di essere presso le cose con cui interagiamo; se la coscienza non è nient’altro che la comprensione dell’esistere e del dimorare nel mondo, allora la coscienza non è chiusa in se stessa, ma è nel mondo. Ciò significa che esistere è essere sempre aperti a qualcuno ed essere in rapporto col mondo. La coscienza di sé sottintende perciò un rapporto indispensabile, primario, originario che la costituisce e la rende possibile: la relazione con il mondo e il rapporto con l’altro da sé. L’ipseità non è l’identità e non è la sua riconfigurazione narrativa. Solamente afferrando questa distinzione è possibile comprendere come l’appropriazione dell’esperienza, attraverso varie modalità di controllo autonomico, sia alla base della costituzione dell’identità personale. Considerare il sé come un oggetto e non un “chi” rende priva di senso la differenziazione fra il sé e l’identità personale. La differenza fra questi due processi non può essere colta da una visione che ritiene la costruzione del significato possibile solamente attraverso l’atto riflessivo, attraverso la spiegazione dell’esperienza immediata. Questo modo di intendere non può distinguere il sé dall’identità perché fa nascere il significato dalla riflessione, dalla spiegazione o dalla metarappresentazione. Con l’ipseità e i sottostanti ritmi psicofisiologici invarianti si prospetta, inoltre, una forma nuova di intendere la relazione fra l’esperienza di sé e la permanenza di sé nel tempo. Non più la variabilità dell’esperienza ricondotta a ciò che resta identico, ma un trovarsi di volta in volta come il medesimo nelle identiche circostanze sperimentando le stesse tonalità emozionali. Per meglio comprendere tale prospettiva, è utile introdurre un altro elemento di fondamentale importanza: la medesimezza, un certo modo di sentirsi che sedimenta nel tempo in una inclinazione a emozionarsi che corrisponde alla costituzione di uno stile di personalità, mantenuta stabile dai sottostanti ritmi fisiologici ricorrenti ed invarianti, costituenti veri e propri profili psicofisiologici. Come abbiamo osservato in altri lavori, tali profili psicofisiologici, registrati 123 durante il follow-up, si mantengono stabili nel tempo, nonostante la remissione sintomatica e i cambiamenti personali del paziente. Questa nozione costituisce insieme all’ipseità una delle due polarità dell’esperienza antepredicativa e trova la sua prima concettualizzazione in Heidegger. La relazione fra l’esperienza attuale e possibile di sé (ipseità) e l’inclinazione di sé (medesimezza), che muta via via con il maturare della vita, è la necessaria dialettica che caratterizza la struttura ontologica preriflessiva. Guidano ha posto a fondamento dell’organizzazione della conoscenza una teoria delle emozioni, per cui l’esperienza emozionale personale diventa la matrice del significato. L’organizzazione emotiva fornisce quel senso di unitarietà, di continuità personale e di permanenza di sé a fronte della molteplicità dei mutamenti; l’esperienza diretta assume, così, la dimensione ontologica dell’irripetibilità dell’essere, a dispetto della seduzione ontica del parlarne, dove conoscere è esistere e, in quanto tale, solo una piccola parte può essere verbalizzata: il sé non è più inteso come una cosa ma come un “chi”. Una parte rilevante dell’opera di Heidegger (1962, 1969, 1970, 1973, 1975, 1982, 1984; 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 2001, 2005) è stata quella di richiamare la distinzione irriducibile tra ontologico e ontico, nonostante il linguaggio rappresenti lo strumento di trasformazione ontica per eccellenza perché, per sua natura, separa il contenuto affettivo dall’informazione e rende l’affettività stessa un’informazione (Guidano, 1999). Il presentare il problema del significato dell’esperienza da questo punto di vista disloca il tema dell’identità personale a un livello di articolazione dove il linguaggio gioca un ruolo centrale. Il linguaggio, attraverso l’uso narrativo, permette di appropriarsi, di connettere e articolare nel tempo la propria esperienza di esistere e di costituire cosi l’identità della propria persona a cui le esperienze rimandano. È per questo che possiamo parlare di identità narrativa. La persona appare, nella sua individualità, attraverso la riconfigurazione dell’esperienza che genera il racconto attraverso l’uso del linguaggio. La ricomposizione di accadimenti nella storia di una vita, mentre integra il sentire e l’agire in una connessione narrativa (intrecciandoli insieme con esperienze possibili e con quelle già fatte), fornisce al protagonista di quelle esperienze l’identità e la stabilità di sé nel tempo; il racconto che la persona fa di sé riconfigura, in modo personale, la relazione fra medesimezza, ipseità e alterità. La ricomposizione di accadimenti nella storia di una vita, mentre integra il sentire e l’agire in una concatenazione narrativa intrecciandoli insieme con eventi possibili e con esperienze già fatte, fornisce l’identità e la stabilità di sé nel tempo al protagonista di quelle esperienze. Paul Ricoeur (1974, 1981, 1985a,1985b, 1986a, 1986b, 1986c, 1986d, 1987a, 1987b, 1988a, 1988b, 1989, 1990, 1991a, 1991b, 1991c, 1993a, 1993b, 1994a, 1994b, 1996a, 1996b, 1997, 1998a, 1998b, 2004, 2005) ci ha descritto la costruzione dell’identità personale come un processo d’interpretazione, appropriazione e riconfigurazione dell’esperienza preriflessiva. Gli errori di varianza degli anni ‘70 e le incongruenze rispetto al paradigma della reciprocità, anziché costituire un problema, si sono trasformati, negli anni, nell'asse portante della nostra ricerca. Riproponendo la discussione sull’esperienza immediata sotto un profilo psicofisiologico, vogliamo enfatizzare la questione dell'ipseità portando al centro dell’indagine l’esperienza effettiva di esistere: il modo in cui ognuno di noi di volta in volta è se stesso in relazione al mondo e agli altri. L’essere sé infatti si rivela e si riflette nelle circostanze della vita di tutti i giorni e nell’incontrarle genera la propria traiettoria singolare d’esistenza. Riprendendo Ricoeur (1990), possiamo affermare che l’alterità appartiene alla costituzione ontologica dell’ipseità. Se nella sfera affettiva trovano fondamento le due differenti modalità della permanenza nel tempo che definiscono le polarità dell’identità personale, allora è attraverso l’analisi della storia e dell’identità del protagonista in essa composta che dovremmo accedere alle inclinazioni del dominio affettivo su cui il racconto si basa e si riconfigura narrativamente. È la persistenza dei ritmi psicofisiologici e delle inclinazioni che si riflettono nei modi in cui la persona costruisce 124 l’identità che permette di afferrarle come tratti stabili e quindi di dare conto del carattere del racconto in termini di pattern astratti dall’esperienza viva. I diversi ritmi psicofisiologici alla base della ipseità contribuiscono alla costituzione delle diverse categorie d’identità del protagonista del racconto. Ritmi invarianti ciclici che, generando combinazioni di significati ricorrenti, rimandano a tendenze emozionali collocabili lungo un continuum all’interno delle polarità Inward- Outward. Il passaggio da un modello a singolo vettore a un modello complesso del controllo autonomico ci ha permesso di meglio comprendere il ruolo dei processi preriflessivi nella costruzione dell’identità narrativa. I ritmi psicofisiologici invarianti identificati sembrano rappresentare quei vincoli taciti dello stile affettivo la cui flessibilità diventa la misura di adattabilità del sistema e della capacità di assimilazione dei dati di realtà. La capacità di assimilare le fluttuazioni dà i parametri di articolazione del paradigma organizzativo col reale. Potremmo quindi riassumere dicendo che le fluttuazioni si autorganizzano a partire da forme i cui vincoli rappresentano le condizioni psicobiologiche su cui si vanno sviluppando ipseità e medesimezza; alla luce di questo, guardiamo alle due modalità di sentire emotivo che il cognitivismo post-razionalista ci fornisce, come a tracce della complessità del suo livello tacito. Memori della parabola dei sei ciechi, cercare di identificare processi taciti stabili nel tempo non significa frantumare la storia personale nella costruzione di un ritratto biologico determinato da una riconfigurazione del passato che come un’eredità irrinunciabile limita per sempre la biografia dell’individuo. Per mezzo della tipizzazione, la temporalità perde il suo carattere individuale poiché la storicità dell’esperienza è riferita, attraverso l’applicazione di categorie, a forme invarianti ma impersonali. In tal modo, la storia personale è trasfigurata nelle sue invarianze biologiche tralasciando il rapporto con la storicità come noi la incontriamo nella vita quotidiana. Io, tu, noi e voi, tutti siamo trasformati in ciò che rimane invariante nel tempo e trasversale ai singoli individui nel dare all’organizzazione di questi pattern emozionali il nome generico di stili affettivi. Vogliamo concludere dicendo che quei processi taciti che abbiamo chiamato profili psicofisiologici, pur rendendo possibile un ambito di dialogo con le scienze naturali, lasciano fuori la comprensione dell’unicità dell’esperienza personale e della storia caratteristica di una vita. Bibliografia Arciero G, Studi e dialoghi sull'identità personale, Bollati Boringhieri, Milano, 2002. Arciero G, Sulle tracce di sé, Bollati Boringhieri, Milano, 2006. Arciero G e Bondolfi G., Sé, Identita e Stili di Personalità, Bollati Boringhieri, Milano, 20012. 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Secondo l’approccio costruttivista tale attività non è la somma o la passiva convergenza associativa delle varie singole attività neuronali, anatomofunzionali, cognitive ecc., ma rappresenta la proprietà emergente di un processo sistemico complesso in cui il senso di sé e del mondo viene attivamente costruito dallo stesso soggetto conoscente, questo avviene in modo personale e differenziato per ogni individuo ed è possibile descriverlo solo come processo sistemico unitario, non riducibile all’attività dei singoli componenti (Guidano, 1988, 1992; Reda 1986, 2005). Secondo Von Glasersfeld (1990,1982) qualsiasi conoscenza, che non può essere definita come innata, non può che essere generata dalle attività fisiche e concettuali del soggetto stesso. Prescindendo dalla questione se la conoscenza sia o no una rappresentazione di una realtà indipendente, se non si vuol immaginare un neonato con in testa tutto ciò che saprà nella sua vita, bisogna spiegare il modo in cui egli conosce. Tale spiegazione, comunque la si guardi, dovrà porre in rilievo un processo di auto-costruzione (autopoiesi) in cui lo stesso soggetto struttura progressivamente i propri sistemi conoscitivi in accoppiamento strutturale con il proprio medium o ambience (Maturana e Varela, 1972). La conoscenza emerge come proprietà a sé della vita già negli organismi più semplici; i virus “riconoscono” la tipologia di cellule che gli consente la replicazione e “sanno” come infettarle e riprodurvisi; organismi monocellulari sono in grado di migrare verso gradienti di concentrazioni crescenti di nutrienti o di allontanarsi da luoghi in cui c’è un incremento di sostanze potenzialmente pericolose. L’autopoiesi produce inevitabilmente conoscenza, ma per essere mantenuta ha necessità di una adattabilità nei propri processi costitutivi che consentano sia il mantenimento della propria integrità strutturale (prerequisito indispensabile per poter funzionare) ma che preservino anche la coerenza dei processi che la rendono un sistema vivente, e quindi implicitamente sistema conoscitivo, di tipo autopoietico. Il sistema autopoietico ha varie possibilità funzionali purchè mantenga la coerenza tra i diversi processi che lo costituiscono, altrimenti si disintegra. Questo è particolarmente evidente nell’attività biologica cellulare in cui i meccanismi autopoietici che delimitano e definiscono il processo-sistema cellulare hanno necessità di operare in modi definiti e sequenziali secondo le 131 possibilità che il sistema cellula stesso e il medium con cui è in accoppiamento strutturale gli consentono. In questa accezione è molto difficile immaginare sistemi in cui la omeostasi non sia statica, cristallizzata in processi identici a sé stessi che auto-producono e mantengono un sistema stabile sebbene statico. Nella realtà però tale sistema vivente è continuamente sottoposto a variazioni sia degli stati interni che del medium con cui è in relazione. Questo conduce il sistema a doversi continuamente ri-organizzare per adattare la propria autopoiesi a queste continue perturbazioni in modo da mantenere la propria auto-costruzione adattando i propri processi costitutivi in modo da mantenere la propria integrità strutturale e la propria coerenza funzionale, in caso contrario, e cioè se l’adattamento non è possibile, il sistema vivente si disintegra e muore. Finchè il discorso è applicato ad un sistema biologico come una cellula o un organismo pluricellulare, per quanto complesso, è piuttosto facile intuire e immaginare tali cambiamenti e adattamenti, quando però ci si sposta su concetti meno concreti come la organizzazione dei sistemi conoscitivi, le cose si fanno meno intuitive e molto più complesse. Nell’uomo la conoscenza si costruisce e prende forma fin dalla fase prenatale, si struttura in un mondo relazionale fin dalla primissima infanzia (Threvarten, 1992), assume in seguito maggiore complessità attraverso la produzione di forme dichiarative esplicite e razionali, sebbene la propria modalità costitutiva di base prenda forma attraverso processi impliciti e non coscienti (Weimer, 1977, Balbi, 2009); molta della nostra conoscenza è strutturata in sistemi prevalentemente sensomotori appartenenti a domini non dichiarativi, di cui l’individuo può o meno avere consapevolezza (Polanyi, 1967). La non consapevolezza non significa necessariamente non intenzionalità, i processi di costruzione del senso di sé sono processi attivi e la direzionalità di tali processi dipende dai bisogni e dai desideri del singolo individuo che ne caratterizzano un proprio modo di funzionare e ne orientano i comportamenti e le scelte di vita. La componente sensoriale e motoria, immediata, esperienziale, che non è completamente descrivibile semanticamente, è parte della conoscenza, nell’esperienza l’azione è istintiva, immediata, rappresenta una “conoscenza incarnata”, che orienta gli individui verso la costruzione di un proprio senso di realtà. Maturana e Varela (1980, 1987) Conoscenza e complessità …Dal momento che possiamo percepire la realtà in cui viviamo solo attraverso l’ordinamento che essa assume nella nostra impalcatura percettiva, l’esperienza umana si origina e prende forma a partire dalla praxis del nostro sentirci vivere intesa come dimensione ontologica primaria e, in tal senso, assolutamente irriducibile” (Guidano 1992, p.p. 6,7). Un sistema complesso è un sistema in cui gli elementi subiscono continue modifiche singolarmente prevedibili, ma di cui non è possibile, o è molto difficile, prevedere uno stato futuro. Nei sistemi complessi, le singole parti che li compongono sono semplici, ma interagendo tra di loro danno luogo a un comportamento molto più complesso, le parti che compongono un sistema complesso non sono organizzate dall’esterno, ma si auto-organizzano. Maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di un sistema e maggiore è la sua complessità. Le relazioni sono di regola con influssi non lineari. Un sistema è tanto più complesso quanto maggiori parametri sono necessari per la sua descrizione. Dunque la complessità di un sistema non è una sua proprietà intrinseca, ma si riferisce sempre ad una sua descrizione, e dipende quindi dal modello utilizzato nella descrizione e dalle variabili prese in considerazione. Una proprietà 132 fondamentale dei sistemi complessi è quindi la possibilità di essere descritti sia a livello microscopico, sia a un livello più alto in cui bisogna usare categorie e concetti diversi. Il principale obiettivo delle teorie della complessità è di comprendere il comportamento di tali sistemi, caratterizzati da elementi numerosi e diversi tra di loro e da connessioni numerose e non lineari in una dimensione processuale. In particolare sistemi complessi in grado di adattarsi e cambiare in seguito all'esperienza, come ad esempio gli organismi viventi, caratterizzati dalla capacità di evoluzione (Holland, 2002; Buchanan, 2003, 2004; Barabasi, 2004. Orsucci ,2009) In generale i sistemi complessi presentano delle caratteristiche che li caratterizzano in termini descrittivi. La dinamica caotica del sistema-processo produce un evoluzione del sistema con un comportamento non lineare e impredicibile, in termini deterministici, anche se è noto il modello del fenomeno; i processi dei sistemi complessi tendono alla reciproca interazione e sincronizzazione, la dinamica di un singolo elemento influenza e viene influenzato dall’altro elemento, sincronizzando le proprie attività in modo via via sempre più armonico; il comportamento collettivo si intende l’emergenza di proprietà di un gruppo irriducibili a quelle dei singoli individui che lo compongono, caratteristiche per lo più dipendenti dalle mutue interazioni tra di essi. la descrizione macroscopica è molto ricca e la meccanica statistica può essere utilizzata per calcolare la probabilità che un sistema generico (appartenente a una data classe) abbia un dato numero di stati differenti e le relazioni esistenti tra questi stati. in pratica, non è possibile ricostruire il comportamento collettivo del sistema a partire dalla sua struttura microscopica, in quanto una piccola variazione delle leggi microscopiche può produrre o non produrre un significativo cambiamento al livello macroscopico; le strutture sono necessarie a mantenere in funzione il sistema e, d'altro lato, l'effetto delle attività funzionali determina la struttura del sistema. nei sistemi complessi organizzati gerarchicamente, sia le proprietà delle strutture, sia le funzioni di un livello superiore non possono essere dedotte dalle strutture e dal funzionamento di un livello inferiore di organizzazione. Le proprietà dei livelli superiori possono essere osservate durante il loro svolgimento. Le funzioni sono invece tipiche del sistema: i passaggi tra livelli gerarchici sono accompagnati da nuove funzioni, dette sistemiche, dipendenti da interazioni e rapporti reciproci tra le parti. Le funzioni sistemiche, che sono dipendenti dall'organizzazione, non possono essere studiate mediante procedimenti che implichino separazione delle parti (riduzionismo), in quanto ciò ne causa la perdita. Per le funzioni vanno dunque considerati i sistemi nella loro globalità. Joe Zhou Tsien (2012), propone un’interessante lavoro sui meccanismi attraverso i quali la mente trasforma l’esperienza in memoria/conoscenza aprendo interessanti prospettive sul meccanismo di base che il cervello usa per trasformare le informazioni in ricordi. Il lavoro di ricerca indica però chiaramente come un flusso lineare di segnali da un neurone all’altro non è sufficiente a spiegare come il cervello rappresenta le percezioni e i ricordi. Per far ciò è necessaria la formazione e l’organizzazione di attività coordinata di grandi ed eterogenee popolazioni di neuroni, denominati clan di neuroni, in grado nel loro complesso di elaborare e codificare le esperienze memorizzate, attribuendo loro un senso e trasformandole in conoscenza. Thompson e Varela, da altra prospettiva, affrontano in maniera radicale il problema della natura relazionale della conoscenza/coscienza umana. Senza tralasciare l’esperienza soggettiva (descrizione in prima persona). Il rapporto tra il descrittivo neuronale e il vissuto esperenziale viene spiegato in termini di emergentismo enattivo, riscontrabile nella risonanza che si stabilisce tra cellule corticali in alcuni particolari momenti della vita coscienziale. L’identità coscienziale assume, in questo contesto, una natura puramente relazionale ed esiste solo come pattern relazionale. Questa ipotesi apre nuove strade alla riflessione sulla nascita e sulla localizzazione degli stati di coscienza, creando un modello interattivo dinamicofunzionale-reciproco o bi-direzionale tra stati di coscienza incarnata e attività neuronale locale (Thompson,Varela, 2001). In ogni caso il sistema conoscitivo ha contemporaneamente perlomeno 133 una descrizione valida in ogni metadominio accessibile all’osservazione, in certi metadomini il sistema processo potrà evolvere in modo lineare, in altri si modifica in modo caotico probabilistico, in ogni caso deve rispettare i limiti strutturali e funzionali degli elementi che lo producono, mantenendo al tempo stesso una coerenza e una continuità sistemica e processuale che garantiscono la relativa omeostasi e stabilità nell’integrazione del flusso processuale. Alcune considerazioni su complessità e psicoterapia Se non c'è l'altro, non c 'è nessun io. Se non c'è nessun io, non ci sarà nessuno a fare distinzioni. Chuang-tsu, IV sec. a. C. Alla luce di quanto è stato finora esposto la descrizione, per quanto accurata, dei costituenti “fisici” dell’attività di un sistema biologico definisce una descrizione topologica e topografica di varie strutture, tali strutture sono definibili nei loro componenti atomici, molecolari, strutturali, anche funzionali, ma tale descrizione non da nessuna possibilità di caratterizzare il sistema conoscitivo di tale unità, dato che tale sistema è frutto di dinamiche complesse e armoniche che i vari costituenti stabiliscono tra di loro. Il contributo di altri approcci come quello fisicomatematico, cibernetico, meccanicistico, possono spiegare a chi osserva parte di ciò che accade in quel sistema in un determinato istante e in una sequenza di istanti, ma non possono essere combinate in nessun modo per definire in termini oggettivi il sistema conoscitivo di quell’unità autopoietica. Ne discende che ogni approccio ermeneutico-ontologico applicato a quel sistema non da la possibilità di caratterizzare nessun’altra ontologia se non quella di chi osserva, il sistema osservato ha una propria ontologia alla quale ha, egli, esclusivamente accesso attraverso la produzione di ricorsività autopoietiche di secondo e terzo livello, a tali livelli il sistema stesso diventa osservatore di sé e attraverso il dominio rappresentativo e linguistico fornirà la propria descrizione ontologica che è comunque prodotta da un sistema “osservatore L’approccio alla complessità del sistema-processo “persona” non può quindi considerarsi mai oggettivo, vero, esaustivo, ogni spiegazione sarà valida nel proprio dominio di interazioni, qualsiasi tentativo di oggettivazione, specie se operato mescolando diversi metadomini operazionali o descrittivi, necessita di una “forzatura” di tipo inferenziale da parte di chi osserva con la conseguenza che la descrizione prodotta è discende da ciò che vogliamo osservare rispetto a ciò che si osserva. Cercare spiegazioni relative alla fenomenologia del pensiero, delle emozioni e del comportamento sia nelle fasi di compenso che in quelle di scompenso, ha portato alla produzione di teorie e modelli psicologici e psicopatologici che spaziano da teorie quanticoatomiche, molecolari, genetiche, cibernetico-meccanicistiche, etologico-comportamentali, spirituali, che molto hanno di chi le ha formulate e poco o nulla hanno di chi si trova in una fase di scompenso emotivo (Giudano, Cutolo, 2008). Lo scompenso psicopatologico rappresenta sempre un tentativo di adattamento dell’individuo ad una fluttuazione dell’ambiente interno o esterno che non rende possibile il mantenimento della coerenza sistemica strutturale (sia essa biologica, emotiva o cognitiva); l’adattamento del sistema avviene attraverso una sequenza di fluttuazioni critiche a cui segue o meno una evoluzione verso una nuova e maggiormente adattata dinamica di omeostasi. Purtroppo da tali teorie e da tali verità assolute e galileianamente misurate discendono tecniche terapeutiche volte a correggere i deficit biochimici, comportamentali, cognitivi, emotivi e spirituali di chi sperimenta un momento di scompenso emotivo. Nell’ottica del post-razionalismo la psicoterapia è il contesto specifico in cui paziente e terapeuta possono produrre domini consensuali di tipo esplicito ma anche tacito, possono sintonizzarsi in 134 modo immediato al proprio materiale conoscitivo implicito, relativo a sé, all’altro e alla relazione, operando quelle specifiche perturbazioni che producono fluttuazioni critiche, nella pratica clinica ciò permette una ri-organizzazione del materiale conoscitivo con una maggiore integrazione tra sensazioni e significati. Il terapeuta ha quindi dato che un sistema autopoietico chiuso come il sistema nervoso non può essere direttamente informato. Nel setting psicoterapeutico quindi l’atteggiamento non può essere orientato in modo pedagogico in modo da sostituire convinzioni con convinzioni, secondo uno schema manualizzato progressivo e con modificazioni lineari, la tecnica terapeutica incide in modo indiretto sul sistema conoscitivo del paziente, determina una fluttuazioni critiche che innescano un processo di riorganizzazione dei pattern conoscitivi, tale processo si verifica contemporaneamente in modo non lineare in tutti i metalivelli operativi (emotivo, cognitivo, propriocettivo, biologico, genetico, anatomo-funzionale) in un processo temporale che parte dalla seduta psicoterapeutica e si articola nella vita del paziente attraverso una processualità discontinua, non lineare, pur sempre nei limiti del mantenimento di una coerenza sistemica che non può essere semplicemente diretta, ma che attraverso la terapia si articola verso un cambiamento strutturale che produce una migliore integrazione delle informazione dei sistemi conoscitivi taciti ed impliciti, generando stati di equilibrio dinamico dei livelli di fluttuazione che sono maggiormente adattivi rispetto ai precedenti (dei quali rappresentano l’evoluzione non sempre lineare) nei limiti e nel rispetto delle caratteristiche del sistema-paziente. 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