Università Politecnica delle Marche
Università degli Studi di Siena
In collaborazione con
Accademia dei Cognitivi della Marca, Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva
XV CONVEGNO DI PSICOPATOLOGIA
E PSICOTERAPIA POST-RAZIONALISTA
“Continuità, Cambiamento,
Coerenza Sistemica e Complessità”
Siena, Venerdì 23 Maggio 2014
.
Atti del convegno a cura di
Mario Antonio Reda e Luca Canestri
1
XV CONVEGNO DI
PSICOPATOLOGIA E PSICOTERAPIA POST-RAZIONALISTA
“CONTINUITÀ, CAMBIAMENTO, COERENZA SISTEMICA E COMPLESSITÀ”
Siena, Venerdì 23 Maggio 2014, Aula Magna Scuola Superiore Santa Chiara
PROGRAMMA
I Sessione, Chairman: Rita Ardito
Bernardo Nardi, Specificità adattiva e complessità nelle O.S.P. inward e outward
Franco Orsucci, La psicoterapia come complesso sistema dinamico: dalla clinica al metamodello Mind Force.
Mario A. Reda, Psicoterapia e sistemi complessi
Giorgio Rezzonico, Anche oggi è una bella giornata …. nel senso che domani è brutto
II Sessione, Chairman: Fabio Veglia,
Paola Gaetano, Personalità e Identità: la struttura preriflessiva dell'esperienza nelle
organizzazioni di significato personale, la comprensione e l'azione.
Paolo Maselli, L'esplorazione dell'esperienza al di là della moviola
Silvio Lenzi, Adir Samolsky Costruzione e cambiamento nelle narrative di malattia
oncologica secondo un'ottica post-razionalista
Maria Grazia Strepparava, Complessità e counselling centrato sulle emozioni
III Sessione, Chairman: Luca Canestri,
Salvatore Blanco, parabola del cieco post-razionalista 2: dal determinismo alla dottrina
dello spazio autonomico
Adele de Pascale, Oscillazione e autoregolazione: dalla biologia al significato
Monica de Marchis, Tutto il pensabile è possibile? Continuità e cambiamento nella
costruzione identitaria degli adolescenti nell’epoca della Webcrazia
Toni Fenelli, Cecilia Volpi, L'elogio della discontinuità: la terapia diacronica
IV Sessione, Chairman: Paola Cimbolli,
Daniela Demontis, Organizzazione distaccata (depressiva): trama narrativa, reciprocità e
generatività nei processi di cambiamento.
Gherardo Mannino, Psicopatologia e psicoterapia del DOC: tra continuità e cambiamento
Gianni Cutolo, Continuità, complessità, cambiamento e coerenza sistemica nella psicosi: la
lezione di Vittorio
Guidano
Maurizio Dodet, Sentimento di sè e reciprocità emotiva nel rapporto sentimentale: il
paradosso del maltrattamento
V Sessione, Chairman: Maria Malucelli
Angelo Picardi, La stabilità nel tempo delle organizzazioni di significato personale
Juan Balbi, Il Senso Affettivo Personale nell’esperienza di continuità identitaria.
Furio Lambruschi, Linda Battilani, La funzione del lutto nel mantenimento della coerenza
sistemica del Sè
Liria Grimaldi di Terresena, Incremento della consapevolezza narrativa e cambiamento
2
CONTRIBUTI AL VOLUME DEGLI ATTI
Bernardo Nardi, Specificità adattiva e complessità nelle O.S.P. inward e
outward..........................................................................................................
Pag
4
Franco Orsucci, La psicoterapia come complesso sistema dinamico: dalla
clinica al meta-modello Mind Force...................................................................
Pag
10
Mario A. Reda, Psicoterapia e sistemi complessi...................................................
Pag
19
Gianni Cutolo, Continuità, complessità, cambiamento e coerenza sistemica nella
psicosi: la lezione di Vittorio Guidano...............................................................
Pag
23
Monica de Marchis, Tutto il pensabile è possibile? Continuità e cambiamento
nella costruzione identitaria degli adolescenti nell’epoca della Webcrazia .....
Pag
34
Paola Gaetano, Personalità e Identità: la struttura preriflessiva dell'esperienza
nelle organizzazioni di significato personale, la comprensione e l'azione.........
Pag
42
Liria Grimaldi di Terresena, Incremento della consapevolezza narrativa e
cambiamento.......................................................................................................
Pag
50
Furio Lambruschi, Linda Battilani, La funzione del lutto nel mantenimento
della coerenza sistemica del Sé...........................................................................
Pag
55
Gherardo Mannino, Psicopatologia e psicoterapia del DOC: tra continuità e
cambiamento.......................................................................................................
Pag
74
Paolo Maselli, L'esplorazione dell'esperienza al di là della moviola......................
Pag
83
Angelo Picardi, La stabilità nel tempo delle organizzazioni di significato
personale..............................................................................................................
Pag
92
Juan Balbi, Il Senso Affettivo Personale nell’esperienza di continuità identitaria.
Pag
98
Silvio Lenzi, Adir Samolsky-Dekel, Silvia Varani, Daila Capilupi, Costruzione
e cambiamento nelle narrative di malattia oncologica secondo un'ottica postrazionalista..........................................................................................................
Pag
101
Salvatore Blanco, Parabola del cieco post-razionalista 2: dal determinismo alla
dottrina dello spazio autonomico........................................................................
Pag
112
Luca Canestri, psicoterapia e complessità: alcune considerazioni in ottica postrazionalista..........................................................................................................
Pag
131
3
SPECIFICITÀ ADATTIVA E COMPLESSITÀ NELLE ORGANIZZAZIONI
DI SIGNIFICATO PERSONALE INWARD E OUTWARD
Bernardo Nardi
Università Politecnica delle Marche, Direttore della Clinica di Psichiatria di Ancona.
Presidente dell’Accademia dei Cognitivi della Marca.
Nella Sierra de Atapuerca nella Spagna Settentrionale, pochi chilometri a est di Burgos, nel
sito conosciuto come Sima de los Huesos (cavità delle Ossa) è stato trovato uno dei maggiori
giacimenti umani della preistoria, databile a partire da 500-300 mila anni fa. Qui più di trenta
cadaveri furono depositati con un rito funerario che testimonia una organizzazione sociale
complessa dotata di una ritualità condivisa, un rispetto per l’individuo anche oltre la sua vita e
un’idea di trascendenza.
Il cervello umano, dunque, fin dai suoi albori è stato in grado di esprimere una coscienza di sé
autoriflessiva, rivoluzionando in modo attivo l’adattamento: accanto ai comportamenti legati
ai cosiddetti sistemi motivazionali che consentono la sopravvivenza (come la ricerca di cibo,
la difesa del territorio, la riproduzione e l’accudimento della prole), vivere è divenuto anche
ricerca di senso.
Inoltre la psiche dei sapiens ha espresso la capacità non solo di fronteggiare stress generici
che possono mettere in pericolo la sopravvivenza fisica, ma anche altri tipi di stress
situazionali, che sono connessi con il successo e la soddisfazione individuale, quindi con la
modalità rispetto alla quale viene verificata la costruzione del sé, dapprima a livello tacito e
quindi a livello esplicito.
Partendo dalle risorse costituzionali e attraverso il confronto con le figure adulte significative,
le rappresentazioni soggettive di base iniziano infatti a produrre e a selezionare i registri
affettivi, rinforzandoli o smorzandoli attraverso l’elaborazione cognitiva, fino a far emergere
un significato personale unico e continuativo nel tempo.
La psiche umana appare quindi come un sistema complesso in grado di organizzare
l’esperienza in un repertorio specifico di competenze affettive e cognitive, tali da costruire
una altrettanto specifica organizzazione di significato personale (OSP), attraverso la quale
ogni soggetto acquista coscienza di sé e si riconosce in modo univoco e unitario, nonostante i
cambiamenti cui va incontro nel corso della sua vita (Guidano, 1987, 1991).
Ciò avviene attraverso la definizione di attivazioni emozionali – dapprima legate a situazioni
motivazionali di base che si ripetono (“scene nucleari” o “scene prototipiche”; Tomkins,
1978; Abelson, 1981) per poi dar luogo ad un flusso continuo di coscienza – formando
l’ordito di fondo per il significato personale.
Come ha evidenziato Guidano (1987, 1991), da tali scene si sviluppa la rappresentazione di sé
rispetto al mondo (come appartenenza ad esso/demarcazione da esso), in forma iconica e
scenografica ricca di coloriti soggettivi scarsamente consapevoli (conoscenza tacita) e in
forma narrativa e riflessiva meta-cognitiva (conoscenza esplicita).
Attraverso l’attaccamento, l’interazione con l’ambiente significativo delinea gli itinerari di
sviluppo, selezionando specifici repertori di attivazione emozionale (di base e secondari) dai
quali emergono gradualmente altrettanto specifiche organizzazioni del senso di sé su cui si
basa la costruzione dell’identità.
Nei suoi ultimi contributi esplicativi al modello post-razionalista delle organizzazioni di
significato personale (1999, 2010), Guidano ha osservato che il riconoscimento di sé può
4
essere operato dall’interno, decodificando la variabilità esterna sulla base della costanza dei
pattern interni (modalità inward) oppure dall’esterno, adeguando la costanza dei pattern
interni sulla base della variabilità esterna (modalità outward).
Come ho avuto modo di segnalare (Nardi, 2007, 2013), partendo dalla reattività perinatale
geneticamente determinata, modulata gradualmente dagli apprendimenti (specie quelli carichi
di coloriti emozionali legati alle interazioni con l’ambiente significativo), il bambino inizia a
percepire come prevedibili o meno i comportamenti accudenti. Questi gli appaiono tanto più
prevedibili, quanto più attivano le stesse emozioni di base rispetto a situazioni fisiche di
sicurezza o pericolo, nonché quanto più gli interventi accudenti appaiono correlati ai bisogni
interni del bambino (itinerari di sviluppo inward). Viceversa, i comportamenti accudenti
appaiono tanto meno prevedibili quanto più richiedono attenzione alle richieste ambientali,
comportando una decodifica semantica su ciò che si deve o non si deve fare, su come
rispondere alle aspettative, alle richieste, alle sollecitazioni e alle prescrizioni esterne,
regolando di conseguenza pensieri, comportamenti e attivazioni interne (itinerari di sviluppo
outward).
Omeostasi sistemica delle osp inward
Nelle organizzazioni inward, la riuscita personale, nel continuo tra senso positivo o negativo
di sé, è guidata dalle attivazioni interne e dalle emozioni primarie rispetto a due fondamentali
categorie di stress da imparare a controllare e gestire per avere un senso di realizzazione
personale: quelle di pericolo e di solitudine.
In un ambiente in cui i riferimenti affidabili appaiono vicini e fruibili (forme di attaccamento
“disponibile”) si sviluppa la capacità di individuare sia i pericoli che minacciano il controllo
della propria vita sia i riferimenti protettivi sperimentati come affidabili sulla base delle
tonalità affettive e degli strumenti operativi forniti al soggetto per consentirne la gestione
(abilità adattive delle organizzazioni inward controllanti).
Sul versante opposto, in un ambiente in cui i riferimenti appaiono distanti e poco fruibili
(forme di attaccamento “poco disponibile”) lo stress che occorre gestire per realizzarsi è
quello della solitudine, sviluppando competenze di autodeterminazione e di
responsabilizzazione precoce, che promuovono l’autonomia personale e, grazie ad essa, la
possibilità di costruire legami con gli altri (abilità adattive delle organizzazioni inward
distaccate).
Di conseguenza, negli itinerari inward la lettura dei segnali interni si autonomizza
precocemente, centrandosi sulla gestione del proprio benessere o malessere per regolare i
rapporti con l’ambiente esterno, con l’attitudine a regolare la messa a fuoco tacita sulla
gestione di situazioni di pericolo o di solitudine. Vengono pertanto sviluppate specifiche
competenze adattive per gestire tali situazioni, regolando la reciprocità fisica in termini di
avvicinamento o allontanamento rispetto alle figure ed ai contesti significativi, nel modo più
congruo a rispondere alle attivazioni interne. L’equilibrio viene ricavato da quanto vengono
spenti i segnali di allarme interno, ripristinando un senso tacito di benessere e di tranquillità.
Ciò avviene sia quando l’ambiente appare molto disponibile e prodigo di segnali accudenti
protettivi (“on-line”), come avviene nelle OSP inward controllanti, sia quando appare meno
disponibile a fornire accudimento attimo dopo attimo (“off-line”) e spinge prevalentemente
verso l’autonomia, come avviene nelle OSP inward distaccate.
Pertanto, negli itinerari inward (nei quali prevale la messa a fuoco dall’interno di una
situazione, un contesto o una relazione, con registro emozionale centrato sulle emozioni di
base) la competenza di rispondere a stress fisici legati alla pericolosità situazionale o alla
solitudine produce una competenza personale ad utilizzare primariamente le attivazioni
5
interne ed i segnali somatici per regolare la relazione con l’ambiente, cercando di mantenere
una coscienza tacita di sé stabile. La lettura delle proprie risorse disponibili nel fronteggiare la
situazione diviene la base tacita per regolare i propri comportamenti e le relazioni con gli altri.
Omeostasi sistemica delle osp outward
Nelle organizzazioni outward, la riuscita personale, nel continuo tra senso positivo o negativo
di sé, è guidata dalla capacità di modulare le attivazioni interne (caratterizzate soprattutto
dalle emozioni secondarie autovalutative) sulla base dei segnali esterni che individuano due
fondamentali categorie di stress da controllare e gestire per avere un buon adattamento: quelle
di giudizio e di dovere (rispetto a ciò che appare giusto fare).
In un ambiente in cui i riferimenti affidabili appaiono vicini e fruibili (forme di attaccamento
“disponibile”), vengono individuati i giudizi e i risultati che vanno affrontati per la riuscita
della propria vita, facendo riferimento alle figure esterne significative, che forniscono al
soggetto tonalità affettive e strumenti operativi (abilità adattive delle organizzazioni outward
contestualizzate).
Sul versante opposto, in un ambiente in cui i riferimenti appaiono distanti e poco fruibili
(forme di attaccamento “poco disponibile”) lo stress che si apprende a gestire per realizzarsi è
quello di rispondere al dovere di fare ciò che è giusto, imparando ad individuare una sorta di
via maestra, che consenta di superare i limiti e gli aspetti contraddittori della vita (abilità
adattive delle organizzazioni outward normative).
Pertanto, negli itinerari outward si sviluppa precocemente un registro di decodifica semantica
delle richieste esterne, con conseguente messa a fuoco tacita sul contesto ambientale, sulla
spinta motivazionale degli atteggiamenti accudenti che all’inizio appaiono imprevedibili e
indecifrabili ma che, gradualmente, alla luce delle situazioni, delle aspettative e delle regole
esterne, iniziano ad apparire comprensibili e, almeno potenzialmente, gestibili. Ciò avviene
sia nel caso di giudizi situazionali contingenti che danno il parametro di ciò che ci si aspetta
nel qui ed ora, sia nel caso di regole e valori di fondo cui ci si deve attenere a prescindere dal
variare delle contingenze occasionali.
In tutti questi casi emergono competenze altamente specifiche di tipo prevalentemente
semantico, sia quando si cresce in un ambiente accudente “disponibile” (quindi ricco di
reciprocità e scambi comunicativi “on-line”, come avviene per le OSP outward
contestualizzate), sia quando si cresce in un ambiente “poco disponibile” (quindi con una
reciprocità parca e trattenuta, come avviene per le OSP normative), che propone una
responsabilizzazione e una maturazione attenta al rispetto dei valori e delle regole identificate
come importanti, fissando compiti comportamentali “off-line” e sorvegliando che il bambino
si adegui senza intervenire volta per volta.
Pertanto, negli itinerari outward (nei quali prevale la messa a fuoco dall’esterno di una
situazione, un contesto o una relazione, con registro affettivo centrato sulle emozioni
secondarie autovalutative) la competenza di rispondere a stress semantici legati a giudizi
situazionali o alla sollecitazione nel rispettare doveri e impegni giusti fa maturare le
competenze personali regolando l’omeostasi interna sulla base dei segnali ricavati
dall’esterno. La lettura delle proprie capacità di risposta ai compiti richiesti dall’ambiente
diviene la base tacita per regolare le mete conseguibili e le relazioni significative.
Contributi sperimentali
Come si è detto, la possibilità di maturare sviluppando specifiche modalità di organizzare le
attivazioni emotive e gli schemi cognitivi ad esse correlati sono il principale strumento che ha
consentito ai sapiens di restare l’unica specie di homo del pianeta, dando luogo a fenomeni
6
culturali diversificati e complessi, basati su sistemi altrettanto organizzati e complessi di
interazioni sociali.
Se già nei primati si può osservare come uno sviluppo individuale e sociale equilibrato
richiede un accudimento con esposizione a livelli di stress gestibili con gli strumenti che
gradualmente il cucciolo matura (Parker et al., 2004; Davidson e Mc Ewen, 2012), nei sapiens
sono emersi itinerari di sviluppo altamente specializzati a livello tacito, con stabilizzazioni di
quella specifica organizzazione di significato personale che meglio consente di adattarsi
nell’ambiente in cui si cresce (Nardi, 2007). Ciò avviene mettendo a fuoco a livello tacito
specifiche categorie di stress e rispondendo ad esse con modalità ideo-affettive e
comportamentali altrettanto specifiche, tali da consentire la maturazione di un senso unitario e
coerente di sé nonostante i cambiamenti cui si va incontro nel corso della vita.
Una organizzazione di significato personale è generata quindi dalla ricerca adattiva di una
decodifica dell’esperienza dotata di senso ed emerge dalla capacità encefalica dei sapiens di
emettere risposte specifiche a stress situazionali (di pericolo nelle OSP inward controllanti,
di solitudine nelle OSP inward distaccate, di giudizio nelle OSP outward contestualizzate, di
dovere nelle OSP outward normative) le quali, nel corso dello sviluppo, diventano
competenze affettive e cognitive specializzate attraverso le quali ci si riconosce a livello tacito
(Nardi, 2013).
Una riprova delle specifiche attitudini adattive di fronteggiare gli stress fornite dalla capacità
della psiche umana di dar luogo ad organizzazioni del significato personale è stata fornita da
alcuni recenti contributi sperimentali del nostro gruppo.
Mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI) abbiamo potuto osservare una diversa
elaborazione degli stimoli emozionali alla presentazione di volti esprimenti una emozione di
base come la rabbia, con maggiore attivazione limbica (soprattutto dell’amigdala destra) negli
inward, mentre negli outward l’attivazione limbica risulta meno intensa e sono coinvolte altre
aree cerebrali, specie quelle corticali. In particolare, abbiamo indagato le attivazioni
dell’amigdala e di altre strutture del SNC prodotte in 10 volontari sani da stimoli emozionali
esterni standardizzati, sia quando il soggetto percepisce espressioni emotive relative a un
volto estraneo (terza persona), sia relative al proprio volto (prima persona). I risultati ottenuti
sono stati confrontati con le modalità di messa a fuoco inward o outward, riconducibili al
funzionamento di base della personalità individuale. Tali modalità sono state accertate
mediante MMPI2, QSP e MQOP associati ad una valutazione clinica condotta da uno
psicoterapeuta esperto. I risultati indicano che un volto estraneo produce attivazioni maggiori
rispetto al proprio (“effetto sorpresa”), che la rabbia attiva maggiormente l’amigdala destra,
mentre la gioia attiva entrambe le amigdale o quella di sinistra. Gli outward, rispetto agli
inward, rispondono alla rabbia in maniera meno intensa e univoca, attivano più aree corticali,
possono non rispondere alle proprie emozioni e hanno un maggiore coinvolgimento
dell'emisfero verbale nella gioia (Nardi et al., 2008).
Inoltre, dallo studio dei polimorfismi del trasportatore della serotonina è emersa una
associazione significativa tra il possesso dell’allele S (in particolare se considerato dominante)
negli outward, che anche sotto il profilo genetico possono risultare quindi più sensibili degli
inward agli stress di natura psico-sociale, con maggiore “susceptibility” al mutare delle
richieste e delle condizioni relazionali in cui il soggetto si trova a vivere. Ciò è confermato
anche dalla maggior risposta allo stress psico-sociale del cortisolo che si osserva nei profili
outward rispetto a quelli inward.
Nello specifico, partendo dal fatto che numerose evidenze sperimentali attribuiscono un ruolo
del genotipo che codifica il trasportatore della serotonina (5-HTTLPR) nel mediare la
sensibilità individuale agli stimoli ambientali, abbiamo studiato l’influenza dei suoi
7
polimorfismi nello sviluppo delle OSP inward e outward. Indagando le OSP e i polimorfismi
5-HTTLPR in 124 soggetti sani inward (n=52) e outward (n=72), l’identificazione del
genotipo 5-HTTLPR è stata ottenuta mediante estrazione del DNA da un tampone orale con
estrattore Maxwell 16 e DNA IQ Reference Sample Kit, amplificazione con PCR, studio del
polimorfismo mediante elettroforesi capillare e attribuzione dell’allele corto (Short allele, S) o
lungo (Long allele, L) del polimorfismo 5-HTTLPR con software Gene Mapper IDv3.2.1. Un
confronto caso-controllo della frequenza dell’allele S ha mostrato significative differenze fra
inward e outward (p=0.036, 2 test; p=0.026, exact test). Le frequenze del genotipo non sono
risultate differenti in modo significativo, anche se i valori sono stati di poco superiori a
p≤0.05 (p = 0.056, 2 test; p=0.059, exact test). Viceversa, l’analisi dei genotipi 5-HTTLPR
in accordo con il modello di ereditarietà recessiva ha mostrato che il genotipo S/S aumenta la
probabilità di sviluppare una OSP outward (p=0.0178, 2 test; p=0.0143, exact test; OR=3.43,
CI (95%) = 1.188-9.925). Un’analisi di regressione logistica ha confermato l’associazione tra
allele corto e il genotipo S/S con le OSP outward anche se si considerano sesso ed età. Infine,
nessuna differenza è rimasta significativa dopo correzione per test multipli, anche se usando il
modello recessivo erano vicini alla significatività. In sintesi, abbiamo osservato che l’allele S
è più rappresentato nelle OSP outward sia in omozigosi sia in eterozigosi (p<0.05) e che sia
l’allele S sia il genotipo SS correlano significativamente con lo sviluppo di una OSP outward
e non con una inward. Pertanto, l’allele S e il genotipo SS predispongono a modificare le
risposte del sistema serotoninergico rendendole più sensibili ai segnali ambientali. Il
complesso dei dati ottenuti suggerisce, accanto alle note influenze ambientali legate
all’attaccamento, anche la presenza di una base genetica delle differenze interindividuali nello
sviluppo delle OSP (Nardi et al., 2013).
Infine, studiando la risposta endocrina allo stress (somministrando il TSST in T0, TA, T1, T2
e T3 e verificando i corrispondenti livelli di cortisolo), abbiamo osservato che soggetti con
OSP outward rispondono in maniera significativamente superiore allo stress psico-sociale
rispetto agli inward (soprattutto in T1 e T2), in accordo quindi con l’esperienza clinica.
Analogo risultato si ottiene confrontando i genotipi: i soggetti con allele S, sia in omozigosi
che in eterozigosi, rispondono allo stress psico-sociale indotto dal test TSST con livelli di
cortisolo più elevati in T1,T2 e T3 (Nardi, 2014).
Ovviamente, questi studi sono tuttora pionieristici e richiedono ulteriori conferme, ma
documentano comunque che nel cervello umano potenzialità genetiche altamente “plastiche”
possono dialogare tutta la vita con l’influenza dell’ambiente (“epigenetica”) percepita ed
appresa, in modo che l’individuo è in grado di costruire e mantenere il significato personale
che fornisce il miglior adattamento possibile al senso di unicità personale e di continuità
storica attraverso cui si riconosce.
In definitiva, le organizzazioni di significato personale si confermano come la massima
espressione della complessità del sistema nervoso dei sapiens sotto il profilo psichico.
Ciascuna organizzazione fornisce specifiche risorse adattive sul piano emotivo, cognitivo e
comportamentale. Mettere a fuoco tali risorse negli scompensi clinici consente quindi
interventi mirati a migliorare il funzionamento individuale e non ad agire solo sul piano
sintomatico del controllo dei sintomi.
Proprio per quanto si è detto e come ho cercato di fare in questo percorso di ricerca clinica e
sperimentale, appare importante considerare le organizzazioni non come potenzialmente
patologiche ma come la più complessa modalità di organizzazione psichica del cervello
umano. È pertanto utile abbandonare i vecchi termini “psicopatologici” con cui esse sono
ancora chiamate, in modo da evitare equivoci sia nei confronti del mondo esterno (colleghi e
soggetti seguiti in psicoterapia), sia anche interni nel nostro modo di considerare le
8
organizzazioni. Esse vanno viste come una risorsa e non come un problema, specie negli
scompensi clinici, quando è essenziale far leva sulle potenzialità fisiologiche latenti del
soggetto.
Bibliografia
Abelson R.P.: Psychological status of the script concept. American Psychology, 36, 715-729,
1981.
Davidson R.J., Mc Ewen B.S.: Social influences on neuroplasticity: stress and interventions to
promote well-being. Nature Neuroscience, 15 (5), 2012.
Guidano V.F.: Complexity of the Self. Guilford, New York, 1987. [Ed. It.: La Complessità del
Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1988].
Guidano V.F.: The Self in Progress. Guilford, New York, 1991. [Ed. It.: Il Sé nel suo
Divenire. Bollati Boringhieri, Torino, 1991].
Guidano V.F.: Training in Psicoterapia Cognitiva Post-Razionalista, Roma, 1999.
Guidano V.F.: Le Dimensioni del Sé. Una Lezione sugli Sviluppi del Modello PostRazionalista a cura di Gherardo Mannino. Alpes, Roma, 2010.
Nardi B.: CostruirSi. Sviluppo e Adattamento del Sé nella Normalità e nella Patologia. Franco
Angeli, Milano, 2007.
Nardi B.: La Coscienza di Sé. Origine del Significato personale. Franco Angeli, Milano, 2013.
Nardi B.: Adaptive specificity of the self and complexity of the inward and outward Personal
Meaning Organizations (PMO). In: Orsucci F. (Ed.), Psychotherapy in the Complexity Era,
London (in press).
Nardi B., Capecci I., Fabri M., Polonara G., Salvolini U., Bellantuono C., Moltedo A.:
Estudio mediante imagen funcional de resonancia magnética (fMRI) de las activaciones
emotivas correlacionadas a la presentación de rostros extraños o del propio rostro en sujetos
con personalidad inward y outward. Revista Chilena de Neuropsiquiatría , 46(3), 168-181,
2008.
Nardi B., Marini A., Turchi C., Arimatea E., Tagliabracci A., Bellantuono C.: Role of 5HTTLPR polymorphism in the development of the inward/outward personality organization: a
genetic association study. Plos One, 8 (12), e82192 1-8, 2013.
Parker K.J., Buckmaster C.L., Schatzberg A.F., Lyons D.M.: Prospective investigation of
stress inoculation in young monkeys. Archives of General Psychiatry, 61, 933-941, 2004.
Tomkins S.S.: Script theory: differential magnification of affects, in: Howe H.E., Page M.M.
(Eds.), Nebranska Symposium on Motivation. University of Nebranska Press, Lincols, 1978.
9
PSICOTERAPIA, COMPLESSO SISTEMA DINAMICO.
Franco F. Orsucci
University College London, [email protected]
Institute for Complexity Studies, Roma
We will not stop to explore
And the end of all our exploring
Will be to arrive where we started and
Know the place for the first time.
T.S. Eliot
1. La fondazione delle riflessioni cliniche, metodologiche e di teoria della tecnica che vorrei
condividere qui, nasce da una apparente contraddizione. Da un lato siamo di fronte ad una
frammentazione nel campo delle tecniche psicoterapeutiche e della loro offerta. Il campo delle
psicoterapie si è frammentato in una moltitudine di scuole diverse e di orientamenti diversi anche
all’interno delle scuole più tradizionali. Assistiamo alla offerta di terapie super-specifiche per
sintomi e disturbi definiti, talvolta anche con manuali ad hoc che ne determinano le procedure e la
durata. Spesso le differenze fra varie scuole, orientamenti e procedure non sono facili da definire
per i pazienti e finanche per i clinici stessi. Ad esempio, quali sono le differenze fra Dialectical
Behavioural Therapy – DBT (Linehan, 2003; Robins, Ivanoff, Linehan, & others, 2001),
Mentalization-Based Treatment – MBT (Bateman & Fonagy, 2006) e Mindfulness Based
Cognitive Therapy – MBCT (Coelho, Canter, & Ernst, 2013; Segal, Williams, & Teasdale,
2012)? Certamente i professionisti saranno in grado di individuare sfumature che le differenziano
ma, dal punto di vista del paziente le sfumature si dissolvono e quel che resta…sono i “fattori
comuni”.
Una discussione sui fattori comuni è in corso ormai da molti anni, trenta o forse più dato che la
prima definizione formale del tema/problema risale a Saul Rosenzweig (1936) e alla sua
corrispondenza con Freud. Gli ultimi decenni hanno visto un accumulo di evidenza su fattori
comuni di tecnica, teoria ed efficacia fra le più diverse psicoterapie (Duncan, Miller, Wampold,
& Hubble, 2010). Questo, ovviamente, presupponendo che la psicoterapia abbia una valenza
anche clinica, integrante un accesso alla conoscenza di se’ e del proprio Umwelt.
2. Si tratta di considerare la frammentazione ed i fattori comuni come vere sfide contemporanee
per lo sviluppo scientifico e tecnico delle psicoterapie, verso lo sviluppo di modelli che
contengano in forma armonica la ricchezza e la complessità del campo. Si tratta di portare a
compimento una forma di rivoluzione scientifica simile a quella che Sir Francis Bacon
preconizzava (1878). Quando il suo Novum Organon è apparso nel 1620 come parte di un
programma di indagine scientifica intitolato “Il grande rinnovamento dell’apprendimento”,
Francis Bacon era al culmine della sua carriera e il suo lavoro ambizioso è stato innovativo nel
dare forma a quella che, già inaugurata da Galilei e poi sviluppata da Leibnitz a Newton,
diventerà la Rivoluzione Scientifica. Ci piace ricordare che Bacon distingueva una Pars
Destruens come necessario preliminare della Pars Construens. In questa parte decostruttiva egli
indentificava: “quattro classi di idoli che assediano le menti degli uomini: Idoli della Tribù; Idoli
della Caverna; Idoli del Mercato; Idoli del Teatro.” Ovviamente, questi Idoli devono essere
disvelati, determinati, ed i loro culti terminati, nel corso di una evoluzione verso livelli superiori
di conoscenza scientifica delle pratiche terapeutiche. Una euristica decostruzione creativa può
10
certamente beneficiare anche delle riflessioni epistemologiche di Francis Bacon sugli Idoli che
impediscono di progredire verso una reale conoscenza del nostro campo.
3. Una Pars Construens nel campo delle pratiche terapeutiche, conoscitive e di sollievo
(Foucault, 1976) può trovare una sua fondazione metodologica nelle Scienze della Complessità
che hanno già stabilito solidi punti di riferimento nel campo a partire dagli anni ’50 (Bateson,
2000). Ne troviamo intuizioni precorritrici in Freud (Freud, Masson, & Fliess, 1985), Jung (Jung
& Pauli, 1955), Lewin (2014), Rogers (1995). Successivamente Prigogine (Nicolis & Prigogine,
1977), Maturana (2002), Varela (Varela, Thompson, & Rosch, 1991) e Von Foerster (2013)
hanno accompagnato la evoluzione delle menti più lungimiranti nei diversi orientamenti della
talking cure.
La linea di sviluppo della Scienza della Complessità è strettamente non-lineare e nondeterminista. Essa si basa sul riconoscimento che i sistemi complessi possono essere indirizzati
solo parzialmente dato che hanno molti gradi di libertà e sono attivi della loro stessa
autorganizzazione. Una delle loro proprietà principali è la sensibilità alle condizioni iniziali, il
cosiddetto effetto farfalla, che fa sì che anche una piccola variazione possa produrre esponenziali
cambiamenti a distanza. La complessità si situa in un’area di transizione fra ordine e disordine,
fra cicli Markoviani e pura casualità, rumore bianco. Sembra a volte casuale ma ha degli elementi
di ciclicità e singolarità al tempo stesso. Essa si situa sull’orlo del caos, in uno stato di self
organised criticality, - SOC (Bak, 1996) che è lo stato di ordine generativo ottimale per i sistemi
viventi (Nicolis & Prigogine, 1977).
Figura 1 sistemi complessi
4. In alcuni approcci di talking cure, quando la manualizzazione con il relativo marketing
dominano, quando la costruzione del paziente ideale precede l’ascolto del soggetto reale, il
determinismo e la semplificazione prendono il controllo. Allora una forma, forse più raffinata e
11
costosa (da diversi punti di vista) di psico-educazione si presenta sotto mentite spoglie. In questi
casi si creano situazioni, molto più frequenti di quanto non si creda, in cui è il cliente apprende
una nuova identità della talking cure. Essa diventa una nuova forma di vita in se’, con pratiche di
routine, della tribù e dei tabù, in parte simili a pratiche religiose. Le società dei terapeuti stessi, in
questi casi, assumono la forma organizzativa di società di culto, in cui la citazione della scrittura
precede la scoperta personale e scientifica che libera nuove forme di vita autorganizzata. La
figura che segue presenta in forma allegorica un albero della conoscenza dove i gradi di libertà ed
autorganizzazione del pensiero vanno da un minimo di educazione/osservanza ad un massimo di
creatività/autorganizzazione.
Figura 2, albero della conoscenza
Un recente articolo sulla evidenza di efficacia in contesti differenti si chiedeva se il Dodo (mitico
uccello estinto in Madagascar e personaggio di Alice in Wonderland) ha le ali. Questo in
riferimento all’ Effetto Dodo proposto da Rosenzweig (1936) che, sulla base del famoso episodio
della corsa in Alice nel Paese delle Meraviglie (Carroll, 1895) in cui tutti arrivano primi ed il
Dodo proclama: “tutti hanno vinto e tutti devono avere un premio”. Questo si riferisce ai diversi
studi di efficacia che riconoscono che psicoterapie e counselling diversi possono avere risultati
comparabili. Di qui la ipotesi che la loro efficacia non dipenda tanto da tecnica e setting differenti
ma da altri fattori, cosiddetti comuni, o condivisi: alleanza terapeutica, complementarietà con il
terapeuta, ambiente protetto, rispecchiamento ed empatia (Duncan et al., 2010).
Dalla figura che segue si può anche derivare un altro fondamentale elemento di questa
valutazione della efficacia psicoterapeutica: nel cambiamento innescato la psicoterapia
(sommando tutti questi fattori) conta solo per il 13%. Tutto il resto del potenziale generatore di
cambiamento sta nel cliente stesso, nella sua capacità di rigenerarsi, di ritrovare risorse interne e
di contesto. Tutto ciò suona come una critica ai modelli lineari e deterministi di approccio alla
psicoterapia. Se poi si considera invece quel 13% da un punto di vista non determinista, sulla
base delle proprietà non-lineari della sensitività alle condizioni iniziali (Butterfly Effect) si può
12
invece capire come tale percentuale possa invece essere potenzialmente decisiva, se usata con
conoscenza. Come notava un classico della tecnica psicoanalitica anche la cura “più riuscita non è
più della scalfittura sulla superficie di un continente” (Glover, 1958). Scalfitture di quel tipo
possono essere canali che connettono oceani o laghi essiccati nel deserto.
Figura 3, fattori comuni
5. L’incontro terapeutico si sviluppa nella narrazione, complesso flusso di significazione che
coinvolge tutti i canali semiotici disponibili nella esperienza del corpo. Si tratta di una
comunicazione embodied and enactive, due termini di non facile traduzione che indicano come la
significazione sia incorporata nella esperienza vissuta ed attivata nel momento stesso in cui si
esprime (Varela et al., 1991; McWhinney, 1999). La narrazione si duplica come discorso interno
in cui emerge e si costruisce la esperienza del Sé e come narrazione condivisa nella esperienza
intersoggettiva, nella cura e nella vita quotidiana (Wittgenstein, 1967). La continuità narrativa del
Sé (Guidano, 1991) emerge nel suo farsi. Anche se si presenta come falsa coscienza e schermo ad
una emersione di una forma superiore di conoscenza, è una indispensabile maschera sociale che
sostiene e protegge (Winnicott, 1971; Lacan, 1966). Il Sé ci accompagna ogni giorno nella
esperienza di noi stessi e si costruisce nelle nostre narrazioni interne e condivise. Il Sé si strappa e
si deforma nelle diverse forme di disagio mentale. Una sua ritessitura è il passaggio fondamentale
della cura oltre il quale è possibile andare solo successivamente, verso la emersione di forme più
autentiche di esperienza.
6. Il linguaggio è come Roma, una città con molte stratificazioni, sovrapposizioni e geometrie che
deve ogni volta nuovamente essere esplorata in tutte le sue geometrie. L’Universo Semiotico
(Eco, 1976) è un Multi-Verso molto più complesso di quanto alcuni suoi riduttivi viaggiatori
vogliano lasciar credere. Considerarne solo alcuni suoi aspetti può portare a semplificazioni di
diverso tipo. Sopravvalutare le rappresentazioni ha una storia molto antica (da Platone in poi) di
cui abbiamo sperimentato le deformazioni anche nel nostro campo, dal “teatro del sogno” (Breuer
& Freud, 1895) alla meccanizzazione della mente (Dupuy, 2000). Il linguaggio è come una città
13
(Wittgenstein, 1967) in cui si sono stratificati, vivono e interagiscono in un flusso continuo secoli
di sviluppo umano: dalla metafora (Lakoff & Johnson, 1980), alla danza implicita nella
comunicazione corporea (Fowler, Richardson, Marsh, & Shockley, 2008) alla musicalità della
prosodia (F. Orsucci et al., 2013).
7. L’accoppiamento strutturale nella cura genera quello che alcuni autori hanno chiamato campo
bipersonale o intersoggettivo (Baranger & Baranger, 2008; Langs, 1976). Questo campo viene
generato attraverso molteplici push and pull di accoppiamento strutturale fra sistemi complessi,
come direbbero i fisici che studiano i processi di sincronizzazione (Dube’ & Despres, 2000;
Strogatz, 2004). Si tratta di sequenze di perturbazioni reciproche in cui il terapeuta tiene la rotta
di un processo trasformativo fra le onde del flusso comunicativo e le perturbazioni ricevute
(Reda, 1988; Guidano, 1991). Questa interazione dinamica si svolge per mezzo di molteplici
segnali verbali, prosodici, motori e sensoriali. Solo una piccola parte di questa immensa quantità
di comunicazioni viene riconosciuta e gestita consapevolmente dai partner della cura. Una gran
porzione di tutto ciò fa parte della comunicazione procedurale o implicita e dei sistemi di
memoria non esplicita correlati (Hofer, 1994; Etkin, Pittenger, Polan, & Kandel, 2005). Si tratta
di materiale semiotico e comunicativo a-conscio, cioè diverso dal classico inconscio freudiano
che in linea di principio può essere verbalizzato con relativa facilità. Gran parte del cambiamento
terapeutico viene generato proprio nel dominio della conoscenza implicita e procedurale (Stern,
2004). Fra i regolatori occulti che producono la massa di sincronizzazioni su cui si genera la
conoscenza implicita e condivisa, ne esistono alcuni che potremmo chiamare sub-liminari. Sono
quelli che fanno sì che ogni conversazione sia anche una sorta di danza di coordinazioni e cenni
corporei (Shockley, Richardson, & Dale, 2009). Esiste una messe di studi che documentano
l’evidenza di come questi segnali, chiamati anche regolatori nascosti, possono portare,
nell’ambito di una profonda relazione di attaccamento stabile e duratura, perfino alla
sincronizzazione di funzioni fisiologiche, ritmi biologici, cicli ormonali (Hofer, 1994).
8. Il processo terapeutico viene caratterizzato da movimenti improvvisi, singolarità non lineari e
spesso non prevedibili, verso obiettivi condivisi. Queste svolte nel percorso terapeutico si
costruiscono attraverso momenti presenti in cui i partecipanti interagiscono in modo da creare un
campo di comprensione implicita e condivisa nel “qui ed ora”. Sono momenti carichi dal punto di
vista emotivo, in cui il tempo vissuto si estende e in cui c’è un forte senso di verità
nell’esperienza vissuta. Il momento di incontro nel presente è una proprietà emergente del campo
dinamico, bi-personale e complesso, del processo terapeutico. Questo momento emergente è una
punteggiatura che annuncia un cambiamento possibile. Il flusso di questi eventi può creare più
ampi momenti di incontro, su cui si può sedimentare un cambiamento della memoria implicita
(Stern et al., 1998). L’esplicitazione verbale di questi stati non è sempre necessaria, talvolta anzi
può essere controproducente. La sincronizzazione, e coevoluzione, globale nella relazione
terapeutica genera questi stati diadici di coscienza estesa e condivisa che costituiscono il motore
del cambiamento terapeutico (Tronick et al., 1998). Il campo terapeutico raggiunge uno stato
critico di massima intensità possibile che genera a cascata questi punti di apertura al
cambiamento. Si tratta di un flusso caratterizzato da punteggiature costituite dagli stati di
coscienza estesa (Gould & Eldredge, 2000), stati critici carichi di perturbazioni e aspettative, da
cui emergono le onde del cambiamento possibile (Bak, 1996).
9. La prospettiva nelle possibilità di cambiamento umano introdotta dalle Scienze della
Complessità è in qualche modo rivoluzionaria. Si considera il soggetto e la relazione da un punto
vista sistemico, prendendo in considerazione gli attrattori in gioco, la loro organizzazione, il loro
equilibrio. Si tratta di un punto di vista strutturale che non considera il sintomo in quanto tale ma
solo come l’indicatore di possibili squilibri dinamici (West, 1985). Ogni forma di disagio viene
ridefinita prima di tutto come uno squilibrio sistemico di cui il sintomo è solo un indicatore:
14
rigidità nelle oscillazioni del tono dell’umore; nei percorsi di pensiero; disorganizzazione nelle
relazioni affettive. Questa prospettiva porta a ridefinire il campo alla luce della considerazione
che sistemi ben funzionanti hanno necessità di un certo grado di casualità e di creatività che li
renda flessibili ai cambiamenti ambientali. Come intitolava un famoso lavoro: it is healthy to be
chaotic…ovviamente entro certi limiti (Pezard & Nandrino, 2001; Orsucci, 2006). L’analisi
dinamica e degli accoppiamenti di struttura può permettere di riconsiderare il percorso di
cambiamento come una traversata co-evolutiva verso una forma ottimale di complessità che
permetta al soggetto di autorealizzarsi nei suoi equilibri prescelti. Il diagramma che segue ci
permette, se ben utilizzato, di fare una valutazione di stato ed una strategia di percorso (Stacey,
1995).
Figura 4, diagramma di Stacey
10. La navigazione verso il cambiamento di una autorealizzazione possibile avviene più spesso
per cicli, e talvolta per salti, in un processo di co-evoluzione. Il processo può essere guidato,
prima stabilendo un campo bi-personale condiviso, e poi dal suo interno, attraverso processi di
mirroring e identificazione sistemica ben definiti dal punto di vista della complessità (Pecora &
Carroll, 1990; Boccaletti, Pecora, & Pelaez, 2001). Non entriamo qui nella definizione delle
tecniche specifiche in gioco. In questi cicli di accoppiamento, fusione, trasformazione ed
emersione si sviluppa il lavoro del cambiamento che lascerà entrambe i partner diversi e che
porterà alla possibilità di un nuovo inizio autopoietico per uno di essi (Orsucci, 2002).
15
Figura 5, cycles of change
Le Scienze della Complessità ci invitano a diffidare di determinismi e semplificazioni. Le vie al
cambiamento umano possono essere viste come semplici soltanto dopo aver riconosciuto quanto
complessi siano i sistemi che abitiamo e da cui siamo abitati. Si tratta di considerare che
“l’elefante nella stanza” delle psicoterapie è anche “l’elefante al buio” della complessità (Shah,
1974; Orsucci, 2002; 2009). Non ci sono semplificazioni e riduzionismi possibili che evitino un
suo pieno riconoscimento. Solo attraversando la conoscenza superiore del funzionamento dei
sistemi complessi è possibile raggiungere la forma superiore del semplice che è difficile a farsi
Soltanto dopo questo gesto simbolico di rispetto profondo verso la complessità, solo con la
deferenza che l’elefante così frequente nelle narrazioni sui sistemi complessi ci richiede,
possiamo ritrovare quella vera risonanza con l’altro che precede e permette il cambiamento.
Figura 6, the elephant out of the dark
16
Bibliografia
Bacon, F. (1878). Novum organum. Clarendon press.
Bak, P. (1996). How nature works the science of self-organized criticality. New York, NY, USA:
Copernicus.
Baranger, M., & Baranger, W. (2008). The analytic situation as a dynamic field. The
International Journal of Psychoanalysis, 89(4), 795–826.
Bateman, A., & Fonagy, P. (2006). Mentalization-based treatment for borderline personality
disorder a practical guide. Oxford: Oxford University Press.
Bateson, G. (2000). Steps To An Ecology Of Mind: Collected Essays In Anthropology: Gregory
Ba.
Boccaletti, S., Pecora, L. M., & Pelaez, A. (2001). Unifying framework for synchronization of
coupled dynamical systems. Phys.Rev.E.Stat.Phys.Plasmas.Fluids Relat Interdiscip.Topics., 63(6
Pt 2), 066219.
Breuer, J., & Freud, S. (1895). Studien ber Hysterie. Leipzig: F. Deuticke.
Carroll, L. (1895). Alice’s adventures in wonderland. Broadview Press.
Coelho, H. F., Canter, P. H., & Ernst, E. (2013). Mindfulness-Based Cognitive Therapy.
Psychology of Consciousness: Theory, Research, and Practice, 1, 97–107.
Dube’, J., & Despres, P. (2000). The Control of Dynamical Systems - Recovering Order from
Chaos. In The Physics of Electronic and Atomic Collisions,. Woodbury,N.Y.: AIP.
Duncan, B. L., Miller, S. D., Wampold, B. E., & Hubble, M. A. (2010). The heart & soul of
change: Delivering what works in therapy. American Psychological Association Washington,
DC.
Dupuy, J. P. (2000). The mechanization of the mind on the origins of cognitive science. Princeton:
Princeton University Press.
Eco, U. (1976). A theory of semiotics. Bloomington: Indiana University Press.
Etkin, A., Pittenger, C., Polan, H. J., & Kandel, E. R. (2005). Toward a neurobiology of
psychotherapy: basic science and clinical applications. J.Neuropsychiatry Clin.Neurosci., 17(2),
145–158.
Foucault, M. (1976). Histoire de la sexualité. Paris: Gallimard.
Fowler, C., Richardson, M., Marsh, K., & Shockley, K. (2008). Language use, coordination, and
the emergence of cooperative action. Coordination: Neural, Behavioral and Social Dynamics,
261–279.
Glover, E. (1958). The technique of psycho-analysis. New York: International Universities Press.
Gould, S. J., & Eldredge, N. (2000). Punctuated equilibrium comes of age. Shaking the Tree:
Readings from Nature in the History of Life, 17.
Guidano, V. F. (1991). The self in process: Toward a post-rationalist cognitive therapy. New
York: Guilford Press.
Hofer, M. A. (1994). Hidden regulators in attachment, separation, and loss. Monogr
Soc.Res.Child Dev., 59(2-3), 192–207.
Jung, C. G., & Pauli, W. (1955). The Interpretation of Nature and the Psyche⬚. NY: Pantheon
Books.
Lacan, J. (1966). Ecrits. Paris: Editions du Seuil.
Lakoff, G., & Johnson, M. (1980). Metaphors we live by. Chicago: University of Chicago Press.
Langs, R. (1976). The bipersonal field. New York: J. Aronson.
Lewin, K. (2014). Psychological ecology. The People, Place, and Space Reader, 17.
17
Linehan, M. (2003). Dialectical behavior therapy. Association for Behavioral and Cognitive
Therapies.
Maturana, H. (2002). Autopoiesis, structural coupling and cognition: a history of these and other
notions in the biology of cognition. Cybernetics & Human Knowing, 9(3-4), 3–4.
McWhinney, B. (1999). The emergence of language from embodiment. The Emergence of
Language, Lawrence Erlbaum Associates .
Nicolis, G., & Prigogine, I. (1977). Self-organization in nonequilibrium systems from dissipative
structures to order through fluctuations. New York: Wiley.
Orsucci, F. F. (2002). Changing Mind. Transitions in Natu Ral and Artificial Environments
(World Scientific).
Orsucci, F. F. (2006). The paradigm of complexity in clinical neurocognitive science. The
Neuroscientist, 12(5), 390.
Orsucci F. F. (2009). Mind Force: on Human Attractions (1st ed.). River Edge, NJ: World
Scientific Publishing.
Orsucci, F., Petrosino, R., Paoloni, G., Canestri, L., Conte, E., Reda, M. A., & Fulcheri, M.
(2013). Prosody and synchronization in cognitive neuroscience. EPJ Nonlinear Biomedical
Physics, 1(1), 1–11.
Pecora, L. M., & Carroll, T. L. (1990). Synchronization in chaotic systems. PHYSICAL.REVIEW
LETTERS, 64(8), 821–824.
Pezard, L., & Nandrino, J. L. (2001). Dynamic paradigm in psychopathology: “chaos theory”,
from physics to psychiatry. Encephale, 27(3), 260–268.
Reda M A. (1988). Sistemi cognitivi complessi di psicoterapia. Roma: Carocci.
Robins, C. J., Ivanoff, A. M., Linehan, M. M., & others. (2001). Dialectical behavior therapy.
Handbook of Personality Disorders: Theory, Research, and Treatment, 437–459.
Rogers, C. R. (1995). On becoming a person: A therapist’s view of psychotherapy. Mariner
Books.
Rosenzweig, S. (1936). Some implicit common factors in diverse methods of psychotherapy.
American Journal of Orthopsychiatry, 6(3), 412.
Segal, Z. V., Williams, J. M. G., & Teasdale, J. D. (2012). Mindfulness-based cognitive therapy
for depression. Guilford Press.
Shah, I. (1974). The elephant in the dark. Octagon Press Ltd.
Shockley, K., Richardson, D. C., & Dale, R. (2009). Conversation and coordinative structures.
Topics in Cognitive Science, 1(2), 305–319.
Stacey, R. D. (1995). The science of complexity: An alternative perspective for strategic change
processes. Strategic Management Journal, 16(6), 477–495.
Stern, D. et al. (1998). The process of therapeutic change involving implicit knowledge: Some
implications of developmental observations for adult psychotherapy. Infant Mental Health
Journal, 19(3), 300–308.
Strogatz, S. (2004). Sync: The Emerging Science of Spontaneous Order (New Ed.). Penguin.
Tronick, E. Z. et al. (1998). Dyadically expanded states of consciousness and the process of
therapeutic change. Infant Mental Health Journal, 19(3), 290–299.
Varela, F. J., Thompson, E., & Rosch, E. (1991). The embodied mind cognitive science and
human experience. Cambridge, Mass: MIT Press.
Von Foerster, H. (2013). The Beginning of Heaven and Earth Has No Name: Seven Days with
Second-order Cybernetics. Oxford University Press.
West, B. J. (1985). An essay on the importance of being nonlinear. Berlin: Springer-Verlag.
Winnicott, D. W. (1971). Playing and reality. London: Tavistock Publications.
Wittgenstein, L. (1967). Philosophical investigations. Oxford: Oxford University Press.
18
LA PSICOTERAPIA COME SISTEMADINAMICO COMPLESSO
Mario Antonio Reda
Università di Siena
Un sistema dinamico è costituito da una serie di elementi che interagiscono ed evolvono
continuamente, in modo processuale, nel tempo. I sistemi dinamici complessi, come sono tutti
gli esseri viventi, hanno quindi un inizio e una fine, si auto-organizzano e si sviluppano
attraverso fluttuazioni determinate dall’interazione con altri sistemi. Per gli esseri umani
l’insieme di funzioni con logiche diverse, si pensi ai “tre cervelli” piuttosto che alle differenze
tra organi e apparati, fornisce un prodotto di ordine superiore a quello fornito dalla somma
delle singole parti: la conoscenza.
Lo sviluppo della conoscenza avviene con la giuda-interazione di cervelli già formati,
l’intersoggettività di Trevarthen, che hanno lo scopo di indurre perturbazioni attraverso
l’attivazione di emozioni per poi facilitarne la regolazione, mediante la negoziazione di
significati condivisi.
Gli studi sulle perturbazioni che si osservano nei sistemi dinamici complessi hanno rilevato
che un importante indicatore di transizione o cambiamento è una particolare discontinuità
caratterizzata da fluttuazioni costituite da stati emotivi intensi durante le quali il sistema è
destabilizzato ma anche aperto a nuove informazioni e all’esplorazione di configurazioni ed
associazioni potenzialmente più adattive.
In questi periodi si trovano oscillazioni tra vecchie modalità, che sono meno viabili, e nuove
modalità che stanno emergendo, fino a che il sistema si stabilizza in un nuovo stato
dinamicamente più stabile e la variabilità diminuisce.
Periodi di marcata instabilità precedono una serie di cambiamenti durante il periodo di
sviluppo degli esseri viventi che si trovano per l’appunto in fase evolutiva, ma caratterizzano
anche i cambiamenti personali negli esseri adulti o nei gruppi sociali. Così appare evidente
che i periodi di “fluttuazione critica” possono essere utilizzati e studiati per identificare i punti
di transizione e di cambiamento nei sistemi complessi. Quando questi punti di transizione
sono stati individuati, i ricercatori possono individuare cosa sta cambiando ed i fattori che
catalizzano questi cambiamenti.
Alcuni autori hanno ipotizzato che il principio di “destabilizzazione precedente ad un
cambiamento” già descritto in altre scienze possa applicarsi allo studio dei processi di
cambiamento che avvengono in psicoterapia (Haley, 1973; Bateson, 1972; Reda, 1986,
Guidano, 1998, Mahoney, 1991; Hayers et al, 2007, Schiepek, 2009).
I cambiamenti cosiddetti “profondi” in psicoterapia non possono essere lineari e gradualmente
prevedibili e programmabili, ma dinamicamente discontinui e non lineari. Infatti secondo il
modello dei sistemi dinamici, i cambiamenti in psicoterapia sono preceduti da fluttuazioni
critiche e da instabilità nel funzionamento del sistama.
Lo studio dei cambiamenti non lineari richiede valutazioni multiple e frequenti nel tempo e
l’esame di traiettorie e variabili individuali, piuttosto che medie di gruppi di pazienti, come
avviene in molte ricerche cosidette “evidence based”. Questo consente di capire non tanto e
non solo se il cambiamento avviene, ma come quel cambiamento ha luogo, in base alla
presenza o meno di periodi di instabilità (Sciepek, 2009, 2013).
Sciepek cita come esempio lo studio condotto su una paziente con disturbi di tipo ossessivocompulsivo sottoposta esclusivamente a psicoterapia senza utilizzo di psicofarmaci; la tecnica
si basava su una combinazione di interventi comportamentali mentre si procedeva con una
19
terapia sistemica di coppia. La terapia di oltre otto settimane in un ricovero di 59 giorni
prevedeva oltre alla valutazione dell’andamento della sintomatologia O-C una
monitorizzazione quotidiana delle oscillazioni dinamiche del sistema paziente e una risonanza
magnetica funzionale (FMRI) nei giorni 9-30-57. In questo modo si è potuto evidenziare
come il cambiamento sia avvenuto tra la prima e la seconda rilevazione FMRI e come sia
correlato ad una forte instabilità emotivo-sensoriale in concomitanza con la decisione della
paziente di lasciare il marito, il conflitto con il quale aveva determinato l’origine della fase di
scompenso.
È fondamentale notare come il cambiamento, nel caso in questione, avvenga prima dell’inizio
della fase di flooding con anticipazione della risposta a cui altri autori tendono ad attribuire un
cambiamento di tipo lineare (Baxter et al, 1992).
Le marcate modificazioni nell’attività cerebrale furono osservate subito prima o durante la
riduzione dei sintomi e non dopo, rappresentando i correlati neurali di una delicata ed
importante fase di transizione personale legata alla risoluzione di un pesante conflitto
matrimoniale.
Di notevole interesse a questo proposito sono i numerosi studi che misurano i parametri
psicofisiologici di paziente e terapeuta durante sedute di psicoterapia( Marcie et al 2007 Reda
et al 2011)
Queste ricerche come altre che esamiano gli EEG comparati di paziente e terapeuta (Kowlik
et al, 1997 Rockstone et al, 1997) o la produzione di linguaggio col metodo Merghentaler
(1998) e le analisi conversazionali (Lenzi e Bercelli, 1999) durante sedute di psicoterapia
focalizzandosi su riflessioni emotive e alternanze tra referenze cognitive di attività verso
astrazione, evidenziano l’esistenza di fasi di transizione caos-caotiche sincronizzate o meno,
nel cervello del paziente e del suo terapeuta durante le sedute.
E’ stato così possibile generare un modello di entropia della variabilità psicofisiologica
individuando fasi di instabilità emotiva condivisa durante la relazione psicoterapeutica.
Risulta evidente che non c’è priorità dell’influenza del terapeuta sul paziente per cui viene
contraddetta l’idea classica che un input proveniente dal terapeuta determinerebbe loutput del
paziente, ma anche il contrario avviene, costituendo una sorta di causalità circolare che
dimostra la qualità autorganizzatrice della psicoterapia e della diade paziente-terapeuta come
incontro tra sistemi complessi in accoppiamento strutturale (Reda, 1986)il tutto a conferma
del concetto sinergetico sul funzionamento della psicoterapia.
In tal senso la psicoterapia fa da supporto per attivare i processi autorganizzativi del paziente,
che si caratterizzano da periodi o fasi di passaggio da un ordine all’altro “order to order” ,
consentiti e accompagnaati da instabilità critiche. In questi periodi ordini più rigidi e
“patologici” si possono trasformare in modalità (di comportamento) più flessibili ed adattative
e la sincronizzazione di aspetti differenti dell’esperienza del paziente (emozioni, attività,
astrazione, concretizzazione ecc.) possono esitare in qualche cambiamento o trasformazione
di cui non è possibile prevedere la direzione. Il tutto rispettando la propria struttura di base.
Nel modello postrazionalista che segue il metodo della complessità e cosidera i sistemi
dinamici, i sisntomi o i disagi del paziente sono considerati l’espressione di emozioni di cui
non si riesce a cogliere il senso e il significato. Il tentativo di integrazione è socialmente
disadattivo e viene pertanto etichettato come malattia.
In questo senso si parla di rigidità strutturale, per cui di fronte alle sensazioni derivanti da una
perturbazione che provoca instabilità il sistema, ansichè riequilibarsi acquisendo ulteriori
nuove conoscenze, si blocca fornendo alle sensazioni una lettura esterna o egodistonica in
termini di sintomi psicopatologici. Il terapeuta postrazionalista ha il ruolo di perturbatore
strategicamente orientato (Guidano, 1997). Cercherà cioè di indurre nel sistema paziente, le
20
fluttuazioni e la relativa instabilità che rappresenta la condizione necessaria per facilitare il
cambiamento.
Ecco perché si sostiene che per cambiare un’emozione patologica non occorre una
convinzione razionale, come sostiene il cognitivismo standard, o una tecnica di autocontrollo,
ma occorre un’altra emozione. Codsì il terapeuta perturbatore entra nella logica del paziente
(condivisione) lo porta, attraverso il racconto di situazioni o ricordi specifici critici, a vivere le
emozioni che il paziente non ha voluto o non è riuscito a decifrare. Questo ovviamente può
solo accadere in modo non lineare. Attraverso una conversazione condividente ed in base ad
una buona relazione reciproca si possono creare le condizioni favorevoli per cui il paziente si
incuriosisca a capire e a dare un senso ed un significato personale alle sensazioni
precedentemente vissute come estranee a se o egodistonichee interpretate come sintomi o
disagi.
E’ chiaro che solo una buona relazione terapeutica può consentire di superare la rigidità del
sistema e “smuoverlo” in modo che possa ritrovare un proprio equilibrio dopo l’instabilità,
parlando a se stesso (rumination) al terapeuta e ad altri significativi (social sharing) dei propri
vissuti, delle situazioni esterne che li hanno attivati e dei propri pensieri (sequenzializzazione)
Il terapeuta che entra in una relazione di sintonia col paziente, non interpreta né restituisce un
ricordo ma attraverso la condivisione dà al paziente la possibilità di parlare di qualcosa che il
paziente stesso aveva sempre saputo consentendogli di provare, riconoscere e regolare,
attraverso i propri pensieri o significati personali, le emozioni che non gli era consentito di
provare. In questo modo è possibile riprender il cammino della conoscenza.
Bibliografia
Bateson G. (1972) Steps to an Ecology of Mind: Collected Essays in Anthropology,
Psychiatry, Evolution, and Epistemology ... University of Chicago Press,
Baxter LR Jr, Schwartz JM, Bergman KS, Szuba MP, Guze BH, Mazziotta JC, Alazraki A,
Selin CE, Ferng HK, Munford P, et al. (1992) Caudate glucose metabolic rate changes with
both drug and behavior therapy for obsessive-compulsive disorder. Arch Gen Psychiatry.
Sep;49(9):681-9.
Guidano V.F. (1988)La complessità del Sé", Bollati Boringhieri, Torino
Guidano V.F. (1992) Il Sé nel suo divenire. Bollati Boringhieri
Haley, J. (1973). Uncommon Therapy. The Psychiatric Techniques of Milton Erickson, M.D..
New York : Norton & Co.
Hayes, A. M., Laurenceau, J. P., Feldman, G. C., Strauss, J. L., & Cardaciotto, L.A. (2007).
Change is not always linear: The study of nonlinear and discontinuous patterns of change in
psychotherapy. In D. A. Hope & A. M. Hayes (Eds.). Special issue: Toward an understanding
of the process and mechanisms of change in cognitive-behavioral therapy: Linking innovative
methodology with fundamental questions. Clinical Psychology Review, 27, 715-724.
Kowalik Z. J., Schiepek G., Kumpf K., Roberts L. E., Elbert T. (1997). Psychotherapy as a
chaotic process II: the application of nonlinear analysis methods on quasi time series of the
client-therapist-interaction: a nonstationary approach. Psychother. Res. 7, 197–218
Lenzi, S., Bercelli, F. (1999). Riascoltando una seduta III. Quaderni di Psicoterapia Cognitiva,
5, pp. 50-81
Mahoney M. J. (1991) Human Change Processes: The Scientific Foundations of
Psychotherapy., Basic Books, NY
21
Mergenthaler, E. (1998). Cycles of emotion abstraction patterns, British Psychological
Society 24,16-29
Reda M. A. (1986). Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia.:. Ristampa: 16^, Carocci Ed.,
Roma, 2014
Reda M.A., Donati Della Lunga S., Canestri L. (2011)Reciprocità emotiva in psicoterapia: un
approccio post-razionalista Rivista di psichiatria, , 46, 5-6
Rockstroh B., Watzl H., KowalikZ.J. et Al Dynamical aspects of the EEG in different
psychopathological states in an interview situation: a pilot study Schizophrenia Research
Volume 28, Issue 1, 7 November 1997:77–85
Schiepek G. (2009). Complexity and nonlinear dynamics in psychotherapy. Eur. Rev. 17:331–
356
Schiepek G.K., Tominschek I., Heinzel S. et Al, (2013) Discontinuous patterns of brain
activation in the psychotherapy process of obsessive-compulsive disorder: converging results
from repeated FMRI and daily self-reports. PLoS One 15;8(8):e71863. Epub 2013 Aug 15.
22
CONTINUITÀ, COMPLESSITÀ, CAMBIAMENTO E COERENZA SISTEMICA
NELLA PSICOSI. LA LEZIONE DI VITTORIO GUIDANO
Gianni Cutolo
Università di Siena – Gruppo psicosi, Roma
Problemi epistemologici
Se partiamo dal punto di vista soggettivo, della persona che esperisce, come possiamo
descrivere, concettualizzare e tentare di spiegare quello che le accade “dentro”, in una crisi
psicotica? Malgrado gli sforzi effettuati dalla fenomenologia nel secolo scorso, il dogma della
“inderivabilità” e “incomprensibilità” della psicosi è rimasto, sempre, pur se scalfito da
numerose evidenze pratiche.
Per superare il costrutto della “incomprensibilità” jaspersiana (Jaspers,1959), partiamo dalla
distinzione tra osservato e osservatore (Maturana e Varela 1985). Considero la difficoltà che
ha l’osservatore nella comprensione dei vissuti dell’osservato come una caratteristica propria
del contesto in cui viene effettuata l’osservazione, prima ancora che una “qualità” dell’
“osservato”: la situazione psicotica è un contesto confuso nel quale è difficile fare distinzioni
in ciò che si osserva. Inoltre, come già sostenuto da Guidano (Cutolo, 2014) è utile
sottolineare come l’incomprensibilità psicotica può essere considerata una qualità
intersoggettiva della relazione che, diversamente dalla posizione jaspersiana, riguarda più
l’osservatore (il terapeuta) anziché l’osservato (il paziente). In questo senso essa esprime la
difficoltà che ha il primo a “contestualizzare” un qualcosa, nel comportamento e nel
linguaggio dello psicotico, che si discosta radicalmente dall’esperienza socialmente condivisa.
Detto in altre parole l’osservatore, se aderisce passivamente ai criteri “oggettivi” del senso
comune, si colloca in una posizione che gli impedisce di cogliere gli aspetti soggettivi autoreferenziali che portano la persona al dire e fare psicotico.
Perciò il primo passo, epistemologicamente nuovo e scientificamente più corretto per
l’osservatore, dovrebbe partire dal prendere atto che ciò che è “oggettivamente dato” è la
frattura che il comportamento, il linguaggio, il “sentire” psicotico, crea nei riguardi del senso
comune. Di fronte a questo l’osservatore-terapeuta, dopo aver assunto una posizione di
comprensione, potrà attrezzarsi per fare l’analisi del “come”, “quando”, “in relazione a che” si
manifesta la sintomatologia psicotica, ovvero tutto l’aspetto descrittivo che è tipico
dell’osservazione scientifica, presupposto di eventuali ipotesi esplicative (Von Wright 1978).
Analizzando ma distinguendo, ad esempio, da una parte l’aspetto fenomenico che appare
all’esterno, dall’altra la qualità soggettiva esperita dalla persona, il suo vissuto .1
Rimane come ultimo problema il fatto che la descrizione dell’esperienza soggettiva viene
comunque compiuta con il linguaggio dell’osservatore, con i limiti intrinseci che qualsiasi
1 L’adesione dell’osservatore ai criteri del senso comune impedisce la possibilità di cogliere (descrivere)
il fenomeno psicotico che deve spiegare. Il distaccarsi da questi criteri è una operazione “scientifica”
assimilabile a quella dello scienziato che, per descrivere e operare sull’oggetto della sua ricerca, ricorre a
strumenti e modalità relazionali sofisticate, non facendosi condizionare dall’immediato vissuto di
alterità, e cercando di rilevare ciò che “non è immediatamente visibile”. In questo senso il “vissuto
soggettivo” della persona diventa uno degli “oggetti” indispensabili da osservare, in particolare lo è lo
studio dei processi mentali della persona osservati dal suo punto di vista, “per come li vede lui”.
Evidentemente questo presuppone la conoscenza “evolutiva” del primate parlante uomo in tutti i suoi
aspetti mentalistici.
23
linguaggio (sia esso dell’osservatore che della persona stessa che lo produce) ha nel cogliere,
analizzare o descrivere un’esperienza soggettiva. Ma lascio questo problema a successive
trattazioni.
La psicosi come non integrazione dell’esperienza
Secondo il modello post-razionalista quello che avviene nella psicosi è una frattura profonda
tra l’esperienza immediata (IO) e la capacità di ri-configurazione narrativa (ME), detto
altrimenti tra il Sé che agisce, vive e interagisce, e il Sé che riflette, elabora, riconfigura,
racconta, tra l’Io protagonista e l’Io narratore (Guidano 2010, Bruner 1992). L’esperienza
immediata della persona non riesce ad essere integrata nel Sé. Questa “non integrazione” si
traduce nel fatto che la elaborazione narrativa mediata dal linguaggio non riconosce questa
esperienza come qualcosa che appartiene alla persona, al Sé, che diventa così qualcosa di
estraneo, che proviene dall’esterno. Guidano chiama questa capacità di processamento
dell’esperienza, il framing dell’esperienza emotiva ed attribuisce il suo malfunzionamento ad
un particolare tipo di sequenzializzazione, ovvero ad una incapacità del linguaggio scritturale
nel mettere in ordine temporale, spaziale, logico e tematico le intense perturbazioni della
propria esperienza emotiva. Non essendo queste processate nel Sé, appaiono alla persona
come “sintomi di malattia”.
Emergenza personale ed emergenza sociale
Il senso di “esternalità” ed “estraneità”, che caratterizza anche i sintomi e i vissuti
classificabili come “nevrotici”, nella psicosi assume aspetti più eclatanti rispetto a questi
ultimi, in quanto, oltre a generare nella persona la sofferenza o per lo meno quel disagio che
lo potrebbe portare a chiede aiuto (cosa che spesso non riesce comunque a fare), si manifesta
in maniera più eclatante nell’ambiente di vita della persona, nella famiglia, nel sociale come
una “rottura del senso comune”, dei significati condivisi. In altre parole nell’emergenza della
psicosi possiamo vedere due modalità distinte del suo manifestarsi a seconda del punto di
vista da cui viene effettuata l’osservazione, ovvero, più concretamente, a seconda di chi e da
come avviene il “rilevamento” della crisi. Ho chiamato queste due emergenze “emergenza
personale” ed “emergenza sociale” (Cutolo, 2011, 2013, 2014). L’andamento temporale di
queste due emergenze è nettamente separato e quasi mai esse vanno di pari passo. E’ da
notare che la prima emergenza, quella interna, ovvero quella personale, è accessibile solo alla
persona che la vive, mentre l’emergenza esterna, quella per così dire “sociale”, è accessibile al
contesto familiare e sociale e, come detto, ha tempi e modi di manifestarsi completamente
diversi dalla prima.
Mentre nell’emergenza personale un delirio, una allucinazione, un comportamento, emergono
nella persona come vissuti accompagnati da sensazioni di cambiamento “strano” e perturbante
e spesso anche da sofferenza, che non necessariamente verranno colti da un osservatore
esterno, nell’emergenza sociale gli stessi vengono visti come una deviazione dal comune
modo di intendere la realtà, come un allontanamento da quel “gravitational pool” (attrazione
gravitazionale) originata dal linguaggio “scritturale” che genera un mondo di significati
condivisi,2
2 La società moderna ha inscritto la evenienza umana “psicosi” come un disturbo di tipo medico. E’ da
notare che in Italia il “rientro” del trattamento dei disturbi psichici, dalla gestione separata degli
Ospedali Psichiatrici all’ambito della medicina istituzionale, è stato sancito dalla riforma psichiatrica del
1978, legge 180, che ha decretato il trasferimento delle competenze psichiatriche dalle Provincie alle
Regioni, iscrivendo la psichiatria nell’ambito delle discipline mediche di competenza delle ASL come
24
Due diverse modalita’ di “non integrazione” psicotica
Al di là degli aspetti specifici di questo problema, anzi proprio per cercare di chiarire come si
manifesta questa discrepanza tra la crisi personale e la sua emergenza sociale, è utile
esplorare il piano soggettivo dell’esperienza: ovvero “come è fatta” questa difficoltà di
integrazione, quali siano le esperienze difficilmente integrabili, e perché questo avvenga:
quali sono i processi del Sé coinvolti e vedere se essi siano disfunzionali o piuttosto cerchino
di mantenere comunque un livello di equilibrio personale e sociale, una qualche “coerenza” di
sé.
A partire dalle ultime ipotesi Guidano sulla psicosi e sulla schizofrenia (Guidano 1998), una
prima linea di ricerca ci permette di distinguere due diverse modalità con cui questa “non
integrazione dell’esperienza” viene portata avanti. Queste due modalità di non integrazione si
collocano su un continuum concretezza-astrazione, ovvero possono esprimersi con una
modalità più o meno concreta o viceversa con una più o meno astratta.
La prima è una modalità con cui un elemento di esperienza soggettiva appare troppo concreto,
nel senso che le capacità narrative proprie del mondo scritturale non riescono a riconfigurarlo
come un qualcosa che appartenga al mondo dei significati personali “ordinati secondo temi
narrativi sequenzializzati” e come tali riconoscibili come facenti parte della propria esperienza
di vita; per cui il non riconoscimento di questi contenuti nel Sé trasforma questo dato in un
qualcosa che viene processato come qualcosa esterno al Sé (delirio, allucinazione), oppure
non è proprio processabile, per cui viene tenuto fuori della coscienza al costo di impiegare
energie motorie (catatonia), disorganizzazione o chiusure autistiche.
Una seconda modalità della “non integrazione” psicotica avviene con una modalità che Sass
ha definito “paradossale”, ovvero con un incremento della elaborazione concettuale, quindi
apparentemente con una maggiore astrazione. Però questa capacità narrativa molto astratta
non viene applicata alla propria esperienza, ma concentrata su un prodotto linguistico o
narrativo (il “testo”) che è stato già elaborato come riflessione sulla propria esperienza. E’
l’elaborazione di un qualcosa già elaborato, di un qualcosa che già è diventato astratto (abstractum), cioè “tirato fuori” dall’esperienza e poi “sottratto” al contesto di vita. Sono quelle
forme di schizofrenia che si manifestano con una iper-reflessività, una capacità di astrazione
estrema che finisce anch’essa, però, come nel primo tipo di non integrazione, per perdere i
contatti con la propria esperienza, oltre che con i significati condivisi, col gravitational pool.
Questa iper-reflessività può diventare una modalità applicata all’immediatezza del vivere
(forme disorganizzate) oppure assumere forme continuative, più stabilizzate, elaborate e
strutturate concettualmente sotto forma di deliri su temi di fondo dell’esistenza (deliri
epistemologici). Sass (1994) ha mirabilmente sottolineato gli aspetti di contiguità e continuità
di queste forme con le produzioni artistiche (De Chirico, Van Gogt) e letterarie (Kafka)
dell’età moderna e post-moderna.
tutte le altre. Precedentemente infatti la psichiatria era separata “operativamente” dalle altre specialità
mediche nel senso che il malato psichiatrico seguiva in parte percorsi e circuiti diversi da quelli delle
altre malattie. L’Ospedale Psichiatrico rappresentava il “terminale” che ha sancito storicamente questa
separazione di fatto. Il senso di questa nota sarà più chiaro alla fine di questo articolo: mentre considero
una conquista sociale l’inclusione della psichiatria nell’ambito della medicina, ritengo sia da rivedere il
fatto che la comprensione e lo studio dei fenomeni psichici sia di (quasi) esclusiva competenza medica, e
che i disturbi psichici, in particolare la psicosi, vengano considerati “malattia”.
25
La psicosi come un particolare tipo di mentalizzazione
Una seconda linea di ricerca ci porta a studiare come avvenga questo fallimento o incapacità
della riconfigurazione dell’esperienza. Seguendo la traccia proposta da Guidano che vede il
linguaggio come la capacità evolutivamente emergente negli umani di riconfigurazione
dell’esperienza soggettiva3, possiamo attraversare storicamente i cambiamenti che esso ha
portato negli umani. In particolare il linguaggio ha permesso di sostituire modalità primitive
di “coordinazione consensuale” (grooming, grooming vocale) introducendo le capacità di
mentalismo, ovvero di poter comprendere l’intenzione altrui (mindreading) e nello stesso
tempo di fingere all’esterno qualcosa che appartiene all’interno del Sé (pretence). Guidano fa
l’esempio del vantaggio sociale derivato all’uomo primitivo nel poter simulare di non aver
paura in una impresa collettiva di caccia. Nel passaggio da una società orale ad una
scritturale4, la possibilità di articolare la conoscenza e il pensiero in un testo scritto permette
una prima separazione tra conoscente e conosciuto, tra mondo interno (come ci si sente) e
mondo esterno (come ci vedono gli altri ma anche come ci si vede da parte di noi stessi).
Questo ha arricchito enormemente il nostro mondo emotivo iniziando una fase storica in cui
aumenta l’attenzione alla persona, sempre più distinta dal resto del gruppo. Con l’emergenza
di un mondo interno aumenta l’articolazione delle emozioni attivate nel Sé ma prodotte
nell’interazione sociale. Questa articolazione emotiva, che è alla base della nascita di una
particolare forma di coscienza, la consapevolezza di sé, è diventata forse la capacità più
importante per mantenere la coesione sociale, per garantire una coordinazione consensuale
che si basa su una raffinata capacità di esplorare il mondo dell’altro, e con esso anche il
proprio. La rudimentale capacità di simulazione dello scimpanzé (che riesce a nascondere ad
un compagno dove ha nascosto il cibo) diventa nell’uomo scritturale una capacità
specializzata e sofisticata di inganno e di auto-inganno.
In questo senso, e saltando alcuni passaggi, possiamo dire che la psicosi rappresenta il
fallimento di questa capacità di coordinamento consensuale attraverso l’incapacità di
articolare un comportamento sociale in grado di discriminare negli altri e in sé stessi quegli
stati emotivi che stanno alla base del coordinamento con gli altri, lasciandoli fluire in maniera
disordinata senza poterli più articolare. Tutto questo si è tradotto in quelle difficoltà di
mentalizzazione ampiamente studiate da una notevole quantità di ricerche sulla c.d. “teoria
della mente” e “metacognizione” (cfr. Camaioni 1995, Frith 1995, Baron-Cohen 1997, Cutolo
e al. 2000, Cheli 2000, Di Maggio e Lysaker 2012). In questo ambito così vasto di ricerche e
di studi, Guidano ha seguito una prospettiva che ha cercato di andare oltre la divisione tra
quelli che lui chiama “oggettivisti” (coloro che ritengono la mente come processatrice di
informazioni) e i “soggettivisti” (coloro che vedono solo l’aspetto esperienziale del mettersi
nei panni dell’altro)5. Guidano ha proposto una prospettiva evolutiva, sia filo che
ontogenetica, che nel passaggio da oralità a scritturalità, per evidenziare come il
comportamento psicotico abbia degli aspetti e degli elementi propri (es. allucinazioni) del
mondo orale.
3 Una impostazione “evolutiva” vicina a quella di Guidano, pur con le inevitabili differenze dovute alle
premesse teoriche diverse, di tipo psicodinamico,è quella di Greenspan e Shanker (2004-2007)
4 V. in particolare Ong 1986 e Olson eTorrance 1995
5 Vedi il successivo paragrafo
26
Psicosi: rottura del confine interno e del confine esterno del se’
La psicosi si manifesta a partire dal venire meno di queste due caratteristiche:
1) Un senso organizzato di sé, del bisogno di mantenere in ogni momento della propria vita il
senso di sapere chi si è, il senso di unità, continuità coerenza.
2) La possibilità di comunicarlo e condividerlo con gli altri, in modo da essere costantemente
riconosciuti, e anche solo minimamente apprezzati.
Guidano ha parlato di questi due livelli del Sé. Un Sé inteso come un processo aperto senza
fine che ha da una parte il bisogno di mantenersi, di mantenersi nel tempo e nello spazio,
distinguendolo da quello che è “non Sé”. Sono i confini interni del sé, che usano una modalità
bipolare, basata o sulla prevalenza della continuità, della costanza sulla variabilità (sameness),
organizzazioni IN-WARD, o piuttosto basata sulla prevalenza della variabilità (selfhood),
della discontinuità sulla stabilità, organizzazioni OUT-WARD.
Questo sé auto-referenziale però non potrebbe esistere senza un confine esterno, senza uno
spazio inter-soggettivo, innanzi tutto quello derivato dai processi di attaccamento, che lo
mettono in relazione col mondo esterno e cogli altri. E’ questa una seconda modalità di
accadere del Sé, nella quale una analoga modalità bipolare si può rappresentare come una
dinamica tra “appartenenza-in relazione con” (belonging to) e “individuazione rispetto a”
(demarking from). La prima (belonging to) da un senso di canonicità-normatività, la seconda
(demarking from), un senso di unicità-unitarietà. Anche qui, nello strutturare questi confini
con l’esterno, il Sé può orientarsi più verso una polarità tesa alla dipendenza dal campo
(Organizzazioni Field Dipendent) o alla non dipendenza (Organizzazioni Field Indipendent).
Soggettivita’ e intersoggettivita’ nella simulazione del comportamento altrui
E’ nei processi di sviluppo personale, dalla nascita all’età adulta, che si possono vedere quelle
trasformazioni del senso di sé (in particolare la nascita della cnsapevolezza di Sé) che
caratterizzano l’acquisizione della capacità (ma insieme una “vulnerabilità”) di articolare la
complessità degli stati emotivi. Gradualmente si crea una “struttura narrativa” che permette di
riferirsi le emozioni, ovvero di conoscerle, ri-conoscerle in sé mentre le si vede negli altri,
condividerle, vederne le sfumature, insomma acquisire “confidenza” con esse. In questo
percorso, mentre si cerca di riferirsi e articolare questi stati emotivi, spesso complessi e
contradittori l’uno con l’altro, diventa fondamentale il continuo rimanere collegati con gli altri
e col mondo dei significati condivisi. Può succedere così di non riuscire a cogliere una
sfumatura nel comportamento dell’altro, o viceversa il restare bloccati dall’effetto che una
semplice parola, o un gesto dell’altro, può provocare su di sé. La psicosi, in breve, può essere
vista come la strutturazione di questa incapacità di integrazione.
Nel processo di sviluppo del bambino l’acquisizione del mentalismo appare, con la capacità di
lettura dell’intenzionalità altrui e la capacità di finzione, fin dai primi anni di vita, acquistando
una complessità crescente in base a specifiche tappe, attraverso le quali queste “competenze”
si affinano sempre più (superamento del test della falsa credenza, metalinguaggio di
significato, declinazione della realtà al congiuntivo) arrivando ad una sempre maggiore
distinzione del proprio “interno” dall’ “esterno”, con la capacità di creare mondi di possibilità,
fino all’articolazione delle emozioni, per cui ad, esempio, si possono cogliere, ad esempio, le
sfumature dell’emozione “rabbia” in sottocategorie (risentimento, rancore, odio, ironia,
furore, ecc.).
Le figure di attaccamento garantiscono quella “base sicura” che permette questo difficile
lavoro di acquisizione di competenze affettive e meta-cognitive su di sé e sugli altri. Nello
stesso tempo esse forniscono possibili direzionalità che daranno luogo a specifici stili affettivi
e significati personali.
27
Come ha fatto notare Guidano, ben prima della scoperta dei “neuroni specchio”, la
sintonizzazione affettiva con le figure di attaccamento permette al bambino, attraverso
l’identificazione, con la simulazione sulla propria pelle del personaggio che vede agire
nell’altro significativo, quella “conoscenza affettiva incarnata”6 che gli permette di muoversi
nelle situazioni analoghe che incontra nel mondo, con una modalità che poi verrà
ulteriormente articolata dall’emergenza del pensiero astratto e dalle capacità narrative.
“L’aspetto narrativo mette in primo piano che la natura di ogni apprendimento è
esperienziale. Proprio perché il bambino vive all’interno di un contesto narrativo, ha una
trama narrativa con cui interpreta le cose. In questa trama narrativa lui è un personaggio ed
in genere quello che capisce degli altri lo capisce impersonando il suo personaggio fino alle
estreme conseguenze. Talvolta impersonandolo al punto tale che magari provoca un attrito,
uno scontro con papà e proprio da questo scontro con papà, magari proprio dallo
sperimentare questo capisce molto meglio quello che sono il mondo delle attribuzioni, i punti
di vista, le convinzioni, le emozioni del padre ed in questo riconosce anche le sue. Cioè è in
questo impersonare attivamente i personaggi suoi, il suo essere personaggio, ed il
personaggio che vede negli altri che si articola il suo mondo emotivo, la sua capacità di
attribuire o di capire le intenzioni degli altri. (Guidano 1994).
E’ intuitiva l’importanza del legame di attaccamento nel favorire questa conoscenza incarnata
in un bambino che porta avanti la conoscenza di sé e degli altri. 7
Un paradosso tra coerenza personale e lealtà familiari
Ora nello sviluppo adolescenziale in particolare, si evidenzia il fenomeno per cui, con
l’emergenza del pensiero astratto, e quindi della maggiore articolazione del linguaggio
scritturale e delle capacità di sequenzializzazione narrativa, il ragazzo potrà utilizzare queste
competenze “meta-cognitive” per affrontare le nuove situazioni esistenziali: è la necessità di
assumere una posizione (l’impegno adolescenziale, Guidano 1992). Per far questo appare
necessario essere in grado di cogliere l’intenzionalità degli altri, graduare la propria capacità
di “finzione” (modulare il comportamento affettivo col duplice scopo di mantenere un
equilibrio tra il proprio livello di continuità/coerenza “interna” e un livello di accettabilità
“esterna”), ma anche iniziare ad articolare il proprio mondo emotivo fuori dai confini di
rapporti, più o meno prevedibili, della famiglia.
Ma qui si può verificare un paradosso: in queste nuove e difficili situazioni (vediamo, ad
esempio, in seguito ad un primo allontanamento dalla base sicura per motivi di studio o per
ingaggiarsi in una relazione sentimentale) egli ha a disposizione un “patrimonio emotivo”
(stile affettivo/significato personale) già iscritto nel suo repertorio neuro-cognitivo e affettivo,
mutuato essenzialmente dalle figure di attaccamento. Un patrimonio non idoneo a risolvere i
problemi posti dall’emergenza di emozioni complesse, contraddittorie e perturbanti suscitate
da queste nuove situazioni. Nell’affrontare la situazione non conosciuta, dovrà mettere in
discussione proprio quello che ha appreso dalle figure di attaccamento, in quanto non più
6 V. la “simulazione incarnata”, a partire da Gallese e Lakoff 2005
7 Dice Nardi (2013) “La possibilità di riconoscere e di prevedere una risposta comportamentale o una
condizione ambientale è legata all’attivazione dei neuroni specchio. Se il care giver appare prevedibile,
il bambino inizia ad attivarsi e a provare un’emozione senza avere più bisogno di osservare la figura
accudente, avendo imparato a riconoscere in modo univoco quella situazione (ad es. come
pericolosità)..”.
28
funzionale a far fronte alle nuove evenienze. E come è possibile fare affidamento su figure di
attaccamento che sono proprio quelle “messe in discussione”?
Nel mettere in discussione quelle “lealtà invisibili” familiari che hanno mantenuto, fino a quel
momento, questa appartenenza al sistema familiare8, si crea una contemporanea crisi nelle due
parti del Sé che abbiamo visto in precedenza, La prima, quella che tende a mantenere un
confine interno, col bisogno di codificare l’esperienza inattesa e sconosciuta, di assimilarla
per mantenere la continuità e la coerenza del senso di sé; ma c’è anche una crisi della parte
che cerca di mantenere un equilibrio nel confine con l’esterno, tra bisogno di individuarsi e
bisogno di separarsi, tra bisogno di demarcarsi dalle figure d attaccamento e bisogno di
mantenere l’appartenenza.
In altre parole nel riordinamento adolescenziale i genitori, mentre erano stati fino ad allora
persone imprescindibili per mantenere la propria coerenza, cresciuta dentro un tema narrativo
familiare, sono proprio quelle persone delle quali bisogna cambiare l’immagine per poter
comprendere l'esperienza perturbante e integrarla nel sé. Non si può chiedere aiuto affettivo
proprio alla persona da cui ci si deve staccare, verso la quale si sta cercando di elaborare un
cambiamento d'immagine che ne relativizzi il personaggio, ne ridimensioni l’influenza, ne
metta in discussione quei sentimenti, opinioni, valori, che fino ad allora sono stati
“tacitamente” presi a modello (anche se rifiutati).
E’ in questa situazione che le capacità narrative, se non ben sviluppate per interferenze
verificatesi nei periodi precedenti (Guidano parlava in particolare, riprendendo il concetto di
metalinguaggio di significato di Olson e Bruner, del periodo 4-18 anni) possono essere
“sospese” e l’intensità di una esperienza immediata non facilmente processabile può invadere
il Sé mettendo fuorigioco le capacità di sequenzializzazione di questa esperienza emotiva in
corso.
Da una parte la necessità della articolazione “scritturale”, come è quella narrativa,
dell’esperienza in corso, richiederebbe che la persona rimanesse collegata al contesto, alla
famiglia, alla base sicura in cui ha appreso queste capacità: ma è proprio quello che non può
fare. Dall’altra parte, per potersi dispiegare, la capacità di articolazione narrativa dovrebbe
anche poter prescindere dal contesto immediato, ed elaborare un “testo”, con le regole della
sequenzializzazione temporale, causale e tematica proprie del mondo dei significati condivisi.
Per poter elaborare questa esperienza con il linguaggio narrativo, non si può rimanere troppo
concretamente rimanere legati ad essa, bisogna allontanarsene un pò, distanziarsi da essa per
poterla vedere da altri punti di vista, ecc. Nella difficoltà a muoversi tra questi due limiti, tra
la Scilla della concretezza e il Cariddi dell’astrazione, si collocano le due modalità di
manifestarsi della non integrazione di questa esperienza attraverso diverse forme di
sintomatologia psicotica, descritte nel paragrafo 4.
CASO 1: Il “fatto”: il mondo diventa pericoloso quando non si è (più) protetti
E’ il caso di Ida, giovane laureata di 27 anni che ormai da alcuni mesi si è “ritirata” in casa
dopo esperienze fallimentari sia affettive che lavorative, per altro entrambe poco significative,
nel senso che “non ci aveva investito molto”. Lei viene su consiglio di un suo amico che mi
conosce, spaventato dopo aver saputo da lei che ha effettuato un tentativo di suicidio senza
che nessuno lo venisse a sapere. Non ha mai avuto contatti psichiatrici. E’ uno di quei (rari)
8 Un tentativo di esprimere questa contraddizione, visto da una prospettiva “sistemico-familiare” di tipo
psicodinamico, è espresso in Boszormenyi-Nagy e Spark, 1988. Il lettore curioso di questo primo
tentativo di mettere in evidenza questo aspetto, potrà osservarne le differenze sostanziali con quanto da
me sostenuto, e, spero, la diversa applicabilità clinica.
29
casi in cui l’emergenza personale è quasi coincidente con l’emergenza sociale, nel senso che
la segnalazione dell’amico mi viene fatta poco dopo che è già emerso il problema nella
ragazza.
Ida vive in una famiglia che non presenta particolari problemi. Mi racconta di una strana
storia accaduta nelle sue continue navigazioni su internet, per cui si sarebbe convinta di essere
spiata e controllata, al punto che da alcuni mesi evita il più possibile di uscire di casa, perché
pensa che tutti siano al corrente di un “fatto” di cui non riesce a parlare. Faticosamente, riesco
a sapere, ma sempre in maniera non chiara, perché quando parla di questo usa un linguaggio
confuso e contraddittorio, e comunque per me poco comprensibile, che lei avrebbe “postato”
su facebook alcune foto compromettenti, anche se per pochi minuti, che sarebbero state viste
da alcuni “hacker” che abitano nella città in cui vive, e diffuse in rete (la vergogna, evidente
nel modo di raccontare, nelle omissioni, e nelle espressioni del viso, rende confusa e poco
traducibile questa esperienza tacita).
All’inizio Ida non riesce a parlare di altro. Portandola faticosamente sugli eventi di vita
significativi, riesco a ricostruire che questa convinzione di intrusività le era cresciuta
gradualmente nel corso degli ultimi due anni ma che “era scoppiata” nella forma attuale
quattro mesi prima, in corrispondenza temporale con la fine di un rapporto di lavoro e, con
una coincidenza ancor più evidente, con un rapporto affettivo finito ancor prima di
cominciare. Il rapporto affettivo si era consumato nel giro di pochi giorni a Madrid, dove lei si
era recata (era la prima volta che faceva un viaggio all’estero da sola) per un incontro con un
ragazzo inserito in una realtà lavorativa all’estero, un uomo “in carriera” a differenza di lei,
già conosciuto e di cui era, forse, innamorata.
Io mi sono orientato all’inizio su un tema di giudizio per la centralità dell’emozione vergogna
e la confusione con cui ne parlava, ma non c’era però nessun suo aspetto particolare estetico,
alimentare, né atteggiamento di altro tipo che confermasse una impresentabilità dovuta ad un
tema di esteriorità o di prestazione. Ida non dava alcuna importanza né all’interruzione
lavorativa nella genesi del problema (anche se era il primo lavoro che faceva) e tantomeno
alla rottura affettiva, essendo un rapporto che non era mai iniziato. Era ossessionata da
pensieri intrusivi e chiaramente deliranti che ormai tutti in città sapessero del “fatto” per cui
evitava di uscire se non di notte, in luoghi lontani da quelli di residenza o per venire al mio
studio: aveva paura di essere riconosciuta. Allargando il fuoco su episodi della sua vita,
attuale e passata, si è evidenziato un tema di “sfiducia” nei confronti degli amici (tema
astratto), che confinava con una possibile pericolosità e minaccia nei suoi confronti (tema
concreto): infatti quello che più angosciava Ida, in un senso più astratto e collegabile col
“fatto”, era la consapevolezza emergente di non potersi fidare di nessuno, tranne che
dell’amico che mi aveva fatto la segnalazione del caso di lei. Mi sembrava un tema fobico di
perdita di controllo su una realtà amicale che si rivelava, nel mentre che la metteva a fuoco,
superficiale e ben più cruda rispetto a come l’aveva gestita fino ad allora: all’inizio ho
lavorato introducendo questo possibile collegamento. Scoprii poi che lei aveva una quantità
enorme di persone definite “amiche” ma nessuno di cui si fidava veramente e il “fatto” di
essere spiata era la concretizzazione di questa sensazione di “perdita della familiarità”. Ma
un’altra cosa importante fu per me la scoperta che aveva entrambi i genitori gravemente
ammalati, persone entrambe sempre molto presenti ma che per la prima volta nella sua vita
non potevano più essere un riferimento e un aiuto. Evidente anche la paralisi emotiva di fronte
alla possibilità della morte e all’incapacità di essere lei un aiuto per loro.
Mano mano che abbiamo messo a fuoco gli episodi critici di vita, Ida ha espresso con
maggiore precisione i contenuti del “fatto” raccontando altri particolari. Dopo tre mesi di
terapia Ida è riuscita ad esprimere temi molto radicati di vergogna non tanto nei confronti
30
degli altri, quanto rispetto ad un cambiamento di immagine di sé come persona forte, in grado
di gestire ogni cosa in una vita fino ad allora segnata dalla spensieratezza e dalla protezione
familiare. Nel mentre che ricostruivamo i contesti di vita attuale, e quelli appena passati
(utilizzando la sequenzializzazione, Guidano 1998, stimolando la sua capacità di mettersi nei
panni degli altri per intuire cosa altro potevano pensare al di là della denigrazione “scontata”
nei suoi confronti…), il tema delirante gradualmente si è ridimensionato perdendo di intensità
e lei ha iniziato a fare brevi tentativi di uscita di casa, definiti come esplorazioni di prova sulle
cui conseguenze emotive discutevamo in terapia (metodo della moviola).
A 10 mesi dall’inizio della terapia Ida ha ripreso una discreta vita sociale, rivedendo e
restringendo i suoi criteri di amicizia e trovando nuovi amici con modalità più selettive. E’
riuscita a trovare un posto di lavoro. Ha iniziato anche ad occuparsi dei genitori malati,
facendo i conti con le emozioni di perdita connesse alla loro malattie. Abbiamo anche iniziato
a rivedere la sua “storia affettiva” a partire dalle modalità messe in atto nel primo importante
episodio di intimità con un ragazzo. Attualmente non parla più spontaneamente del “fatto”, e
se glielo chiedo lo fa con una notevole distanza emotiva. Ciò nonostante continua a pensare
che quanto percepito sia “probabilmente successo” ma che a lei non interessa più molto,
essendo presa da altri problemi e interessi. Terapia farmacologica: dopo un breve periodo, a
due mesi dal primo contatto, con una bassa dose di neurolettici (Zyprexa 2,5 mg./die),
concordati con Ida, e poi sospesa per l’inefficacia e la scarsa tollerabilità, è stata utile, in
alcuni periodi, l’assunzione di un AD di nuova generazione (Sertralina 50 mg./die).
CASO 2 “Annullarsi per sopravvivere”
Franco ha 17 anni e viene “portato” dai genitori perché da alcuni mesi ha problemi evidenti di
bulimia. Ultimamente ha sviluppato una convinzione quasi delirante sul proprio corpo che
riguarda il fatto di avere “le gambe grosse” e di essere esteticamente inaccettabile, in
particolare di “essere basso” per cui vuole essere operato per diventare più alto. Queste ed
altre convinzioni riguardanti il modo con cui si sente visto dagli altri, si accompagnano ad una
aggressività verso i genitori che da verbale è diventata fisica. I temi di improponibilità fisica
sono chiari fin dalla prima seduta nel configurare una personalità outward tipo D.A.P. e la
presenza del disturbo alimentare bulimico non è altro che un meccanismo usato per regolare la
distanza con gli altri. Il sovrappeso e la dismorfofobia gli impediscono concretamente di
confrontarsi con gli altri: l’ultimo atto della sua improponibilità fisica è stata la chiusura in
casa per evitare qualsiasi contatto con le persone, la cui presenza non può reggere. D’altra
parte la sua grande capacità riflessiva tende a staccarsi dalla sua esperienza di vita e rivolgersi
prevalentemente sulle sue stesse proposizioni ed enunciati: quanto più appare sguarnito nella
capacità di muoversi “spontaneamente” nelle relazioni con gli altri, tanto più sembra incartarsi
in acute riflessioni che non hanno alcun riferimento con la sua realtà di vita quotidiana.
Nella prima fase della terapia ho costruito con difficoltà la relazione terapeutica con Franco.
Era evidente che il suo atteggiamento oppositivo verso di me rifletteva quello verso i genitori,
atteggiamento che dopo qualche tempo è stato chiaro all’osservatore (il sottoscritto): la madre
aveva deciso la separazione dal marito e aveva improvvisamente interrotto il rapporto di
investimento su di lui (prima trattato come il figlio bravissimo e intelligentissimo che sarebbe
diventato famoso) provocandogli una delusione enorme. Nel lavoro ho stimolato fin da subito
la sua curiosità di collegare i temi di “non proponibilità fisica” con quelli più generali di
proponibilità personale e sociale. Di qui il passaggio verso la tematica di funzionamento
personale tra sensibilità al giudizio degli altri e senso di inconsistenza personale fino alla non
esistenza.
31
All’inizio ho dovuto gestire il tentativo che Franco ha fatto di rimanere nella “concretezza”
del sintomo delirante sulla sua immagine corporea inadeguata, per evitare un iter ortopedico
(allungamento della colonna vertebrale) cui i genitori in una prima fase avevano acconsentito.
Oltre a pesanti atteggiamenti aggressivi con lesioni procurate ad uno di loro due. In questa
terapia ho dovuto gestire la conflittualità dei genitori che durante e dopo la separazione
continuavano ad utilizzare il figlio come terreno di scontro dei conflitti di coppia. Una
valanga di mail, SMS, telefonate, nelle quali ad esempio mi veniva chiesta da parte della
madre, medico, il mio appoggio contro il marito minacciandomi, pregandomi e passando
continuamente da una posizione “mi devi certificare che mio figlio è matto” a “è un ragazzo
intelligentissimo, è in questo stato per colpa del padre”. Le stesse pressioni ricevevo dal
padre, alto dirigente statale. La sensibilità della famiglia alla vergogna mi ha permesso di
evitare, nella fase in cui Franco ha compiuto atti di violenza in famiglia, l’invio al Servizio
Psichiatrico per un ricovero coatto qualora avesse superato i limiti. Non è accaduto. In
seguito, quando le condizioni psichiche sono migliorate e Franco, terminata la scuola, ha
iniziato autonomamente a frequentare l’Università e fare qualche piccolo lavoro, ho
concordato con lui il prosieguo della terapia escludendo i genitori. A distanza di tre anni
Franco, per quanto ancora coinvolto nelle vicissitudini dei genitori, ha chiaro il suo tema di
giudizio, riesce a vedere gli atteggiamenti dei genitori come “informazioni su di loro” senza
perdere il controllo come accadeva prima e ha ripreso i rapporti col mondo esterno. Non ha
mai assunto psicofarmaci.
Considerazioni sui due casi
In entrambi i casi l’intervento è stato precoce9, evitando la cronicizzazione della
sintomatologia. I casi differiscono molto per la situazione familiare, non conflittuale nel primo
caso, e terribilmente contorta nel secondo. Quello che li accomuna è la difficoltà di poter
effettuare una “regolazione emotiva” rispetto ad forti emozioni emergenti in una fase di vita
critica ed in particolare l’impossibilità, anche se per motivi assai diversi, di poter contare
sull’appoggio delle figure genitoriali come “base sicura” per poter gestire il cambiamento; le
necessità imposte dalla nuova situazione di vita impongono una “revisione drastica” dei temi
narrativi familiari, che pertanto devono essere rivisti e ristrutturati in assenza, o andando
contro le figure che li hanno generati. Nel primo caso il tema di “sicurezza” fobico deve
confrontarsi con una realtà “minacciosa” per le emozioni innescate nell’affrontare situazioni
sconosciute “non alla portata” e con la prospettiva imminente di perdita dei genitori. Nel
secondo il tema D.A.P. di improponibilità fisica e di impossibilità di confronto con gli altri
viene continuamente alimentato dalla conflittualità genitoriale che utilizza la condizione di
“malattia” del figlio dentro una separazione coniugale non portata a compimento. L’altra
differenza rilevabile è che nel primo caso è evidente una particolare concretezza
nell’integrazione dell’esperienza, mentre nel secondo c’è una iniziale tendenza all’iperastrazione, alla riflessione continua non sulla sua esperienza di vita ma sui suoi stessi pensieri.
Bibliografia
Baron-Cohen S. (1997) “L’autismo e la lettura della mente” Astrolabio-Ubaldini ed. Roma.
9 La possibilità di un intervento, oggi chiamato convenzionalmente “precoce” nelle psicosi (anche se
comunque tardivo rispetto alla emergenza sintomatologica), permette sicuramente esiti migliori fino alla
“guarigione clinica”.
32
Boszormenyi-Nagy I., Spark G.M. (1988) “Lealtà invisibili. La reciprocità nella terapia
familiare intergenerazionale” Astrolabio Ubaldini ed.
Bruner R. (1992) “La ricerca del significato” Bollati Boringhieri ed. Torino
Camaioni L. (1995) (a cura di) “La teoria della mente” Università Laterza – Psicologia, Bari.
Cheli C. (2000,a) “Metarappresentazione, mente bicamerale e psicosi” su Psicobiettivo 2000
n.2
Cutolo G., Marsicovetere V, Foschi A, Lombardi G (2000): “Teoria della mente, psicosi,
servizi di salute mentale” su Psicobiettivo 2000 n.3
Cutolo G. (2011) “L’approccio psicoterapeutico postrazionalista alle psicosi”
[Psychotherapeutic postrationalist approach to psychosis] su Rivista di Psichiatria 46 (5-6),
p.326-331, Sept. 2011
Cutolo G. (2013) “Conoscere la conoscenza tacita. Problemi epistemologici e trattamento dei
disturbi psicotici” Atti del XIV Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-razionalista –
Ancona, maggio 2013
Cutolo G. (2014) “La comprensibilità della psicosi: entra l’osservatore” in Psicoterapia Dei
Processi Di Significato: Manuale Teorico E Pratico, Aa.Vv. Alpes ed.
Frith C. (1995) “Neuropsicologia cognitiva della schizofrenia” Cortina Ed. Milano
Dimaggio G., Lysaker P.H. (2011) “Metacognizione e psicopatologia” Cortina ed.
Gallese V., Lakoff G. (2005), "The Brain's concepts: the role of the Sensory-motor system in
conceptual knowledge" in Cognitive Neuropsychology, 22, 3, 455-479.
Guidano V.F. (1992) “Il sé nel suo divenire” Bollati Boringhieri Torino
Guidano V.F. (1994) In Cheli C. “Approccio post-razionalista e psicosi: riflessioni generali ed
esperienze cliniche” Quaderni di psicoterapia cognitiva 7 vol.3 n.2, 2000 (settembre 2000)
Relazione presentata al Convegno “Etologia e conoscenza” San Quirico d’Orcia –Siena.
Guidano V.F. (1998) “La dinamica degli scompensi psicotici: processi e prospettive”
(Intervento al 6° Congresso Internazionale sul Costruttivismo in Psicoterapia Siena).
http://www.psicoterapia.name/Siena2.pdf
Guidano V.F. (2010) (a cura di G.Mannino) “Le dimensioni del Sé” Alpes ed.
Greenspan S.I., Shanker S.G. (Ed. it.2007 - Ed. or. 2004) “La prima idea. L’evoluzione dei
simboli, del linguaggio e dell’intelligenza dai nostri antenati primati ai moderni esseri umani”
G.Fioriti
Maturana H.R., Varela F.J. (1985) “Autopoiesi e cognizione” Marsilio ed. Venezia
Jaspers K. (1959) “Psicopatologia generale” – Il Pensiero Scientifico ed.
Olson D.R. e Torrance N. (a cura di) (1995) “Alfabetizzazione e oralità” R. Cortina ed.
Milano
Ong, W.J. (1986) “Oralità scrittura” il Mulino ed. Bologna
Sass L. (1994-2013) “Follia e modernità” Cortina ed.
von Wright G.H. (1977) “Spiegazione e comprensione” Il Mulino, Bologna
33
TUTTO IL PENSABILE È POSSIBILE. LA COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ
NEGLI ADOLESCENTI DELLA WEBCRAZIA
Monica De Marchis
Psicologa e Psicoterapeuta, Didatta Sitcc, Associazione Terapia Cognitiva Via degli Scipioni
245, Roma
[email protected]
Noi generalmente supponiamo che i nostri pensieri, i nostri sentimenti, le nostre percezioni e
così via, abbiano un unico fondamento: noi interpretiamo tutte le nostre esperienze come se
accadessero ad un unico sé. È proprio questa nozione di unità che si è sgretolata, fino alla
riformulazione del concetto di un sé cognitivo dis-unificato, (reticolare).La nozione di
virtualità è fondamentale nella ricerca sui sistemi complessi, è una questione cruciale uscire
dall'alternativa tra l'esistenza come sostanzialità e la non esistenza. L'identità personale è una
funzione diffusa, non localizzabile ma allo stesso tempo con una capacità di azione. Dov'è
l'identità della nazione francese? Non è da nessuna parte: non è la costituzione, non è il
presidente, non è l'insieme dei cittadini. È un processo emergente dalla coordinazione di realtà
e forze differenti.
Allo stesso modo l'esistenza virtuale del sé funziona come un'interfaccia non localizzabile.
È un processo, non una cosa.
In: Il racconto dell'identità. Oltre la frammentazione del sé. Intervista a Francisco Varela
(1994)
Il cyberspazio nelle sue caratteristiche principali. Le sfide contenute nel cyberspazio.
“Fino a poco tempo fa i tempi e i modi del cambiamento delle varie culture che ci trascendono
e che hanno sempre costituito un mondo “praticato e condiviso” sono sempre stati lenti nel
loro sviluppo da un lato, e circoscritti dall’altro, ai gruppi che li avevano prodotti” Varela
(1994).
Ma quello che la grande Rete fa saltare oggi, sono proprio i processi relativi a questi tempi e a
questi luoghi, caratterizzati da una estrema velocità e dal fenomeno della globalizzazione.
Questi process per la loro natura difficilmente permettono ai singoli e ai gruppi, che sono
immersi nel mondo mediato da Internet, di comprendere cosa stia succedendo tanto da
adeguare le proprie capacità di cambiamento a quello che avviene nella Rete.
Il Word Wide Web è la grande rete di comunicazione planetaria letteralmente, la ragnatela
globale. La Rete è senza confini, l’insieme delle reti sono autonome non avendo alcun
“governo” centrale, si presentano di conseguenza come policentriche. Il Web è mezzo
mediatico reticolare, trabordante di informazioni ma anche “Luogo Altro” di eventi allo stato
nascente che, in quanto tali, sono anche portatori di esperienze emozionali, ancora senza nome
e tutte da indagare.
Illouz (2007) afferma che tali esperienze emozionali siano tipiche delle “Intimità fredde” del
nostro tempo. Ganeri (1998) sottolinea che il disorientamento dell’individuo contemporaneo
sia alla base di una "mutazione antropologica del sensorio umano" riferendosi ad una
trasformazione in atto, che si accompagna ad una anestetizzazione delle emozioni. Un altro
autore, Ivo Quartiroli (2013) sottolinea come tale mutazione antropologica, stia influendo
già da tempo non solo sugli aspetti sensoriali ma anche su quelli cognitivi dell’umano,
34
soprattutto per i cosidetti “nativi digitali”, modificandone e riducendone la loro capacità
analitica.
Da un lato l’enorme mole di sapere accessibile nella grande rete, intesa non solo come
scambio di informazioni, sollecita la nostra sensibilità, e soprattutto quella degli adolescenti ,
oggi intesi a tutti gli effetti nativi digitali, a ” maneggiare” le differenze e le pluralità e la
nostra capacità umana di tollerare l'incommensurabile, così come ci suggerisce Lyotard, ma
d’altro canto emergono nuove questioni che si susseguono ad un ritmo velocissimo. La realtà
virtuale esistente, richiama, modella, omologa il repertorio di emozioni di molti adolescenti, i
quali non disponendo ancora di competenze adeguatamente formate, e in uno stato emotivo di
incertezza dilagante, emersa dall’essere venute meno le certezze delle grandi narrazioni,
rischiano di restare prigionieri di tutto ciò che “appare” essendo per questa via indotti a
costruirsi un'immagine semplificata e reversibile, mai data una volta per tutte, di sé e del
(proprio) mondo.
Tutti noi, adulti, adolescenti e bambini compresi, ci interfacciamo nella nostra vita quotidiana,
più o meno consapevolmente con la potenza della Word Wide Web che influenza la
pensabilità del mondo, la percezione di noi stessi e, il modo di stabilire relazioni con gli altri.
Se fino a pochi anni fa il computer era l’indiscusso protagonista della rivoluzione digitale,
oggi possiamo affermare che siamo entrati nell’epoca dello smartphone, con tutte le sue
conseguenze non solo economiche ma anche sociali, culturali e generazionali. Le applicazioni
de telefonini investono ogni aspetto della nostra vita quotidiana, trasformandosi ad una
velocità fantastica in una sorta di protesi tecnologica del nostro corpo.
Inoltre l’interfacciarsi con lo schermo, sia esso computer o smartphone, con la sua
ipervelocità nell’elaborazione di dati, fornisce risposte immediate a questioni complesse
eludendo la frustrazione dell’attesa. Tale consuetudine può fornire, soprattutto ai più giovani,
l’illusione che ogni questione sia semplice e che la risposta valida sia sempre quella più
rapida, impoverendo la possibilità di sperimentare la frustrazione e l’esperienza dei propri
limiti. Tali aspetti possono rinforzare soprattutto tra gli adolescenti automatismi disfunzionali
in assenza di una adeguata alfabetizzazione emotiva.
Nuove forme di comunicazione nel mondo virtualmente reale.
E’ innegabile che la Grande Rete permetta anche una comunicazione interattiva paritetica tra
persone che attivamente cercano scambio e collaborazione con altri simili con cui coltivare
affinità elettive. Un autore come Levy (1996) considera la comunicazione globale come un
prezioso strumento che favorisce l’emergere di “intelligenze collettive” che stanno
ridefinendo le coordinate di un nuovo modo di comunicare tra gli esseri umani. “Stiamo
passando da un tipo di umanità ad un altro tipo di umanità in continua evoluzione. La
differenza rispetto alla grande mutazione del Neolitico è che oggi abbiamo la possibilità di
pensare collettivamente a questa avventura ed influire su di essa” (Levy 1996 pag 29)
Negli incontri della vita quotidiana, che si svolgono senza la mediazione tecnologica, la
comunicazione tra persone è generalmente composta da un 80% di aspetti non-verbali e paraverbali (tono della voce, prossemica etc etc) . Questa comunicazione nell’incontro in rete
privilegia inevitabilmente la comunicazione verbale 20% rispetto a quella non verbale 80%
(Giusti e Ticconi 1998) La comunicazione tra le persone mediata dalla tecnologia si svolge in
una dimensione completamente digitale, che incrementa gli aspetti simbolici.
Prendiamo in esame all’interno del vasto panorama, come esempio di nuove forme di
socialità, due fenomeni macroscopici: le comunità virtuali delle Chat, e i MUD.
Nelle Chat abitualmente è garantita la libertà di parola, sono abolite le distanze, non è
praticata la censura, la comunicazione si presenta nella sua sincronicità, sono abolite le
35
differenze sociali, economiche, politiche, di genere. L’anonimato permette assunzioni di ruoli
e identità plurime che possono essere prossime o discostarsi anche di molto da quelle “reali”
ma pur sempre create dal soggetto. E’ una comunicazione che abbonda di acronomi e
abbreviazioni, per ridurre i tempi di trasmissione sempre più caratterizzata dalla simultaneità.
Le Mud, rappresentano un altro fenomeno di comunità virtuale, acronimo delle parole inglesi
Multi User Duengeons, si estendono a partire dall’inizio degli anni ’70 come giochi di ruolo.
Si tratta di veri e propri luoghi nei quali la realtà virtuale è strutturata in un testo che mescola
numerosi ingredienti creando un forte senso di appartenenza fra gli utenti giocatori che
costruiscono e interpretano personaggi simili a quelli della vita reale o totalmente fantastici.
Costituiscono un nuovo tipo di realtà sociale virtuale in cui l’anonimato consente di giocare
con la propria identità e/o indossarne di nuove, nella più assoluta libertà, in modo
relativamente creativo ma sempre reversibile. La mancanza di informazioni sulle persone reali
con cui si interagisce e l’assenza di indizi visivi, costituiscono fattori che incoraggiano
processi immaginativi carichi di forte attrattiva, non solo per gli adolescenti.
Sappiamo che già dall’età prescolare, fin dal 3°, 4° anno emerge nel bambino uno dei
processi più interessanti dello sviluppo umano: l’immaginazione. Nel suo approccio
tradizionale il
cognitivismo considerava la conoscenza come risultante dalla rappresentazione di dati
ambientali, e anche l’immaginazione corrispondeva ad una evocazione dell’esterno.
L’immaginazione, dal nostro punto di vista, è invece un processo attivo di riconfigurazione
della prassi che si svolge su un piano prevalentemente svolto nella dimensione del linguaggio.
Riguardo ai processi immaginativi, cosa accade nelle comunità virtuali prima accennate?
L’assenza di informazioni sulle persone reali con cui si interagisce e l’assenza di indizi visivi,
come già abbiamo detto, costituiscono fattori che incoraggiano processi immaginativi carichi
di grande richiamo, soprattutto per un adolescente. Viene a dilatarsi in modo iper-bolico la
capacità di ricomporre, di riconfigurare la realtà ad un livello diverso. Ci si può staccare dalla
realtà immediata e i fatti della vita possono essere utilizzati in modo diverso aprendo nuovi
scenari, nuove flessibilità. Tali ricomposizioni dell’esperienza, non sono più “giocate” nella
propria interiorità riflessiva, ma in una interiorità espansa e connessa on-line con altri
soggetti. Questa dilatazione che annulla la referenza del discorso ordinario, in assenza di
confini e di differenze, e che iper-stimola i processi di astrazione come può essere gestita da
un adolescente?
“L’immaginario si deterritorializza e si delocalizza, si svincola non
solo dalle specificità territoriali ma anche dai vissuti concreti: diventa immaginario in quanto
tale, immaginario allo stato puro” (G. Boccia Artieri 2012, Stati di connessione, pag 32) Tale
volatilizzazione dell’immaginario in che modo può essere sostenuta da un adolescente in una
fase in cui è alle prese con una metamorfosi del proprio corpo mentre non si è compiuta del
tutto la maturazione cognitiva?
Nel processo di costruzione identitaria degli adolescenti dobbiamo considerare l’impatto
dell’anonimato corporeo, da alcuni inteso come un luogo affettivamente freddo e per altri il
luogo libero per antonomasia per comprendere in che modo il suddetto impatto possa
facilitare la massima espressione di sé, in una dimensione dove regna il principio del “sei quel
che vuoi essere”. Ognuno di noi, compreso un adolescente, con molta semplicità può
costruirsi una homepage, un blog, un profilo Facebook, e mostrare in teoria a tutto il mondo
foto, scritti, idee, riflessioni, gusti nell’istantaneità tipica dell’on-line continuo. Ognuno può
esplorare parti sconosciute della propria soggettività. L’allenamento a osservare da più punti
di vista la propria esperienza, la sollecitazione allo sviluppo di competenze nell’attività
ludiche di gruppo, la spinta all’ astrazione, il vincolo ad utilizzare il linguaggio simbolico
rispetto a quello corporeo, tutti fattori centrali nello sviluppo adolescenziale, possono fornire
36
al soggetto il vantaggio di poter disporre di maggiori risorse per creare risposte innovative in
mondo in continuo mutamento e sempre più complesso.
Molti sostengono che nel WWW si assiste ad una separazione tra l’esperienza del vissuto e la
sua rappresentazione, che oggi non convivono più all’interno dei singoli comparti
mente/corpo, ma sono diventati due processualità non più accoppiate. Ne consegue la
possibilità di elaborare rappresentazioni in modo disincarnato dai vissuti individuali. (Artieri
2012).
A tale proposito gli adolescenti di oggi sono già chiamati a sostenere il peso di tanta
leggerezza tipica dell’”Altrimenti Possibile”. Ma quali gli urti della frammentazione, in una
fase in cui l’adolescente cerca la propria unitaria unicità? Come possono definire i confini
della propria identità in un cyberspazio dove tutto il pensabile è possibile? Come possono
elaborare rappresentazioni del proprio vissuto soggettivo se questo viene sperimentato in una
dimensione non pienamente corporea?
Internet da strumento informativo è divenuto uno strumento alternativo per comunicare, per
socializzare, con ricadute sulle relazioni e sulla identità. Pochi studi sono stati realizzati in
ambito psicologico sul rapporto tra i giovani e internet in Europa, solo negli ultimi anni si
assiste ad un maggiore interesse sull’argomento. Abbiamo bisogno di ricerche ma ancor prima
di paradigmi nuovi, nuove lenti e nuovi osservatori. Servono studi e sistemi di ricerca che si
affranchino da una riduttiva e classica psicopatologia descrittiva. La maggior parte di tali studi
di stampo riduzionista sono rivolti a individuare e misurare aspetti psicopatologici, isolandoli
e studiandoli da fuori. Tali ricerche se da un lato dovrebbero evitare la sterile visione che vede
contrapposta la realtà alla virtualità, dall’altro potrebbero arricchirsi studiando il fenomeno nel
suo contesto, cioè la vita degli adolescenti nel cyberspazio e gli effetti psicologici che tale
esperienza comporta, non solo sul piano quantitativo ma qualitativo, in altre parole, non solo
sul piano comportamentale ma anche su quello emotivo. Occorrono dati empirici per avviare
studi su come i processi di costruzione dell’identità siano influenzate dalla vita che gli
adolescenti intrattengono in Rete intesa come “Luogo Altro”
Risvolti “critici” che si evidenziano nella risoluzione adolescenziale
L’adolescenza, seguendo la tradizione post-razionalista può essere sintetizzata come quella
fase della costruzione dell’identità personale in cui gli aspetti centrali riguardano il tema della
reciprocità emotiva, della intersoggettività, della reciproca negoziazione di sé con l’altro.
In questa prospettiva viene privilegiata una visione evolutivo-storica che considera
l’adolescenza come la fase in cui emerge la possibilità-necessità di distinguere sé e gli altri in
termini di unicità personale. Una fase del ciclo vitale in cui la singolarità del proprio essere
cerca, non senza fatiche, consistenza e continuità. Il senso di unicità personale che riguarda la
possibilità di riconoscere l’altro simile e al tempo stesso diverso da sé. Ciò implica un
mutamento radicale della propria coscienza che risulta interdipendente ad altri complessi
processi: la maturazione sessuale, l’emergere del pensiero astratto e l’uso del linguaggio che
permette una riconfigurazione narrativa della propria esperienza.
L’arduo compito degli adolescenti di oggi riguarda la possibilità/necessità di riuscire a
costruire, mantenere ed articolare il senso di sé, di ciò che il soggetto sta diventando, facendo
i conti con stati di instabilità, precarietà ed incertezza. Elementi che nell’epoca contemporanea
non solo si presentano nel vissuto personale, ma che caratterizzano anche una realtà
cangiante, complessa e polifonica. Per poter rinnovare una prospettiva di comprensione
dell’esperienza soggettiva contemporanea dovranno essere considerate, non solo le forme
psicopatologiche finora studiate ma anche le forme di disagio più o meno ri-conosciute che
emergono dalle pratiche e dalle tendenze già in atto e che incidono in modo nuovo sulla
37
costruzione del Sé. Nell’epoca contemporanea vacillano e si ridisegnano temi come il valore
della memoria, il senso del futuro, la progettualità, il confine tra pubblico e privato, concetti
cardini nella cultura della modernità: “Il soggetto tardo moderno è ormai posto di fronte ad un
mondo che privilegia più l’esperienza immediata e veloce che la storia, più il controllo e la
sicurezza che il progetto, più l’adattamento al presente e alla realtà mondana che la ricerca di
un senso che esce da se stessi, più il consumo di un tempo libero-feticcio che la creazione e
l’impegno trasformativo.” (Graziano Martignoni 1998, 108). Oggi, che stiamo tutti vivendo
immersi nella rivoluzione digitale, a quali pressioni, a quali sfide sono chiamati coloro che
uscendo dall’infanzia devono misurarsi con la propria rivoluzione personale dentro un’altra
rivoluzione dalle caratteristiche epocali in cui si frattura, ad esempio, la trasmissione della
esperienza della generazione dei genitori? Quale ulteriore e inedito scarto si crea tra la
generazione degli adulti e quella dei giovani? I genitori di oggi, considerati degli “immigrati
digitali” poiché non sono nati dentro all’universo tecnologico, e come tali si muovono in uno
spazio straniero, cercando più o meno efficacemente di comprenderne i codici e le regole,
mentre i giovani sono “nativi digitali” e l’universo tecnologico è a loro familiare, sono nati e
cresciuti dentro le sue regole, ne comprende i codici e lo abita nel pieno della spinta creativa e
biologica che è tipica della sua età. Pensiamo, ad esempio, al mondo della scuola e
dell’Università: spesso “l’ignoranza tecnologica” degli insegnanti non equipaggiati a offrirsi
come guide nell’istruzione e nella formazione culturale attuale, si interfaccia con una modalità
“naif” ed ingenua dei giovani che cercano di reperire fonti e dati in Rete talvolta, in modo
superficiale e grossolano, senza che nessuno insegni loro, ad esempio, come usare in modo
costruttivo e consapevole un’enciclopedia on-line. Turkle (2012) descrive i ragazzi di oggi
come “cresciuti con animaletti elettronici e sulla rete, in una vita del tutto “allacciata”, sono
ragazzi che non considerano la simulazione un ripiego e guardano alla vita online come la
cosa più normale del mondo dandola scontata come il tempo, ma gli adolescenti di oggi non
hanno meno bisogno dei loro predecessori di apprendere la capacità empatiche, di riflettere
sui loro valori e sulle loro identità, e di gestire e esprimere i propri sentimenti. ” Gli strumenti
tecnologici offrono ai bambini e ai ragazzi infinite opportunità, di gioco, di informazione, di
contatti sociali, ma riempiono spesso una assenza, quella di genitori, insegnanti e adulti che
hanno demandato alla tecnologia il compito di intrattenerli, divertirli, educarli e farli crescere.
Peccato che, come ci spiega la Turkle (2012) con mille esempi, la tecnologia non fornisce
risposte valide sufficienti per affrontare la solitudine, le difficoltà della crescita e le
problematiche emotive tipiche dell’età adolescenziale. La tecnologia può al massimo offrire
l’illusorietà della soluzione, può posticipare nel tempo la presa di coscienza sulla durezza
della realtà , senza offrire comunque un sostegno emotivo soprattutto nell’età evolutiva e nella
fase adolescenziale. alcuni Nel suo ultimo libro “Insieme ma soli” la scrittrice dedica molta
attenzione alle nuove generazioni di nativi digitali come autori e protagonisti della rivoluzione
tecnologica in corso ma anche come le vittime candidate a subire gli effetti più deleteri perché
incapaci di strumenti di riflessione critica e impossibilitati a fare scelte alternative.
Noi sappiamo che il compimento della rivoluzione adolescenziale di un soggetto con stile
depressivo si gioca sulla gestione del suo senso di negatività personale. Un soggetto che
spesso tende ad evitare il coinvolgimento, inteso come rischio di incontrollabilità della
perdita, sarà chiamato a nuove forme di gestione della vita di relazione nelle comunità
virtuali. Quell’adolescente solitario, goffo, marginale alla vita del gruppo che tipo di utilizzo
potrà fare di internet e in che modo la vita di relazione nei social network lo esporrà a
emozioni intense, relative ad al proprio senso di diversità personale? O ancora quando invece
sono presenti tratti di promiscuità sessuale cosa potrà pescare dalla Rete un adolescente con
questo profilo? Che tipo di sostegno può offrire Internet ad una collocazione rispetto alla vita
38
così tanto orientata al piano cognitivo simbolico nelle rappresentazioni individuali di massa
della rete? Pensiamo alla regolazione emotiva che si attiverà nelle relazioni in rete, dal
momento che la relazione dominante nei Network non è più quella gerarchica conosciuta
finora, ma quella in cui il codice che regola attualmente il sistema sociale è
inclusione/esclusione. Non conosciamo quali effetti può produrre in un soggetto così tanto
sensibile a temi quali la perdita, l’esclusione, il bisogno/ il timore di esser partecipe con gli
altri. Né tantomeno abbiamo dati sulle esperienze di neo-solitudine in Rete.
Il compimento della rivoluzione adolescenziale di un soggetto con profilo disturbo alimentare
psicogeno si gioca essenzialmente sulla gestione dell’Alterità attraverso strategie di
demarcazione e di appartenenza, ma quanto e in che modo la vita sociale in Rete libera e
vincola questo tipo di adolescente dallo sguardo dell’altro se nelle nuove forme di socialità
l’individuo si vive sempre più come “evento” ? Nuove opportunità e nuovi pericoli vengono
vissute da questo giovane nelle comunità virtuali, dove si può scegliere attivamente cosa
proporre agli altri di sé in un anonimato corporeo. Poco sappiamo del tipo di appartenenze e
individuazioni che può sperimentare in Internet. Nel gioco della ricerca della referenza esterna
in cui, nelle forme più concrete qualsiasi fonte può essere utilizzata per comprendere meglio
uno stato interno, come vengono utilizzati i gruppi social , e in che modo influiscono nella
ricerca della propria identità di questi giovani? Poco sappiamo, nei casi in cui venga vissuto
un senso pervasivo di non protagonismo della propria esistenza, sul tipo di “soluzioni” che
offrirono i social network. Racconta una paziente adolescente “Passo molto tempo su
Facebook, e quanti “mi piace” ho in bacheca mi fanno capire che esisto per gli altri, che non
resto insignificante”. Le dichiarazioni di status su Facebook rappresentano una comunicazione
del proprio vissuto che sospinge fuori da una riflessività puramente interiore, poiché il senso
individuale è continuamente sollecitato a interfacciarsi con lo status dell’altro dentro la
connessione. Non è soltanto sollecitata la richiesta di auto rappresentazione, il fatto è che la
risposta sarà messa in pubblico in uno stato di costante auto-esposizione.
Il compimento della rivoluzione adolescenziale di un soggetto dal profilo fobico si realizza
essenzialmente sulla gestione della propria vulnerabilità attraverso strategie di controllo nei
confronti dell’ambiente circostante e della relazione con le figure significative, intese come
protettive. Se l’adolescente fobico armonico può riuscire a riappropriarsi della propria
vulnerabilità spiegandosela come una necessità, come verrà articolato tale tema, nell’epoca
tecnologica? Il cyberspazio, stimolando la curiosità di tali soggetti, invita ad esplorazioni
potenzialmente infinite, da un punto di vista conoscitivo quali strategie di controllo un
giovane con questo profilo, metterà in atto di fronte all’incommensurabilità del sapere in
Rete? E’ ipotizzabile che un giovane di questo tipo giunga ad una risoluzione armonica tanto
più si affineranno le sue strategie di controllo (fino ad oggi, espresse prioritariamente nella
dimensione dello spazio in termini di vicinanza e lontananza di tipo fisico) nella gestione della
relazione con l’altro in un mondo che ci getta in luoghi/non luoghi. Nuove strategie di
controllo della relazione con l’altro significativo verranno messe in campo, ad esempio
attraverso l’uso di applicazioni degli smartphone come Whatapp che sembrano promettere un
on-line permanente con l’altro. Come viene sollecitata l’esplorazione in una dimensione dove
vengono abolite le distanze ma ci si può sentire fortemente sradicati e soli, in giovani sensibili
al tema della protezione? Nuovi scenari di esperienza emotiva si presenteranno ad un giovane
che gestisce la propria vulnerabilità attraverso un ascolto serrato della propria esperienza
somatica, in relazioni dove la comunicazione è svincolata dalla presenza corporea e dove è
più semplice connettersi che congiungersi.
Il compimento della rivoluzione adolescenziale in un soggetto dal profilo ossessivo si realizza
soprattutto attraverso una armonica riappropriazione della dimensione razionale. Come può
39
influire la vita in Internet nei momenti di intensità emotiva quando l’iperattivazione cognitiva
si interfaccia con la vita nei social network? Nuove strategie dovranno essere sviluppate in
quella ricerca di principi assoluti di certezza e verità, in un’epoca in cui il mondo si present
potenzialmente senza limiti e verità assolute, in cui regna il principio di relativizzazione.
L’anonimato corporeo diventa una agevolazione o una barriera? Sappiamo quanto gli aspetti
immaginativi dei soggetti ossessivi siano sviluppati, sia nelle forme armoniche che in quelle
disarmoniche, ma nel mondo del cosiddetto “virtuale” dove scompaiono confini dove tutto è
possibile, quali sollecitazioni di intensità emotiva o di imprevedibilità delle conseguenze dei
propri atti possono sollecitare problematicamente il suo assetto su di un piano poco familiare
come quello della flessibilità? Appare importante lo studio delle discontinuità che si
presenteranno in questo tipo di adolescente, in cui il piano del pensiero si confonde con quello
della azione.
Conclusioni
L’uso e la diffusione degli strumenti tecnologici ha modificato e sta modificando il nostro
modo di percepire lo spazio e il tempo. La velocità, la mobilità, la flessibilità richiesti per
“essere” in questa nostra epoca, attivano cambiamenti complessi e proteiformi che sembrano
avere già avviato processi di profondo e radicale mutamento, non solo in ambito sociale ma
anche psicologico,e più in particolare, nella percezione della stabilità/discontinuità della
coscienza di sé. La partecipazione e la condivisione delle nuove pratiche richiede e rimanda
velocità tanto da essere molteplicità; la “sfida” che questa epoca contemporanea sembra
rivolgere a noi e in particolare agli adolescenti, appare quella di riuscire a costruire un’identità
che trovi, in una epoca di mutazione antropologica, la propria costanza nel cambiamento
continuo.
Bibliografia
Arduino G. e Lipperini L. (2013) Morti di fama. Iperconnessi e sradicati tra le maglie del
Web. Casa Editrice Corbaccio Milano
Bauman Z. (2003) Intervista sull’identità, (a cura di B. Vecchi), Laterza, Bari
Baumann Z. (2008) La vita liquida. Laterza, Bari
Boccia Artieri G. (2012) Stati di connessione. Pubblici, cittadini e consumatori nella (social)
network society. Franco Angeli Milano
BrunerJ.(1992) La Ricerca del Significato. Bollati Boringhieri, Torino
Cantelmi T., Del Miglio C., (2000) La mente in internet psicopatologia delle condotte on-line,
Piccin Nuova Libraria, Padova
Chiurazzi G. (2002) Il postmoderno. Il pensiero nella società della comunicazione. Mondadori
Milano
De Kerckhove D. (1995) La civilizzazione video-cristiana, Feltrinelli, Milano
De Marchis M. ,Zaratti R., (2004) “L’insostenibile leggerezza dell’essere…giovani”.
Quaderni di Psicoterapia n.15, vol.8, n.2 .
De Marchis M., Zaratti R. (2005) L'età contemporanea e il disagio giovanile: ruolo
dell'identità Psicobiettivo vol.2 Franco Angeli Milano
De Marchis M., Zaratti R. (2008) Possible effects of extensive technological use on the
identity
process:from
continuity
to
multiplicity.In
http://www.crossingdialogues.com/demarchis.htm Vol.1, Issue 1
Eisenstein E. (1995) La rivoluzione del libro. L’invenzione della stampa e la nascita dell’età
moderna. il Mulino, Bologna.
40
Eriksen T.H. (2003), Tempo tiranno, velocità e lentezza nell'era dell'informatica. Elèuthera
Milano
Foucault M. (1992) Tecnologie del sé, Boringhieri Torino
Galimberti U.(2007) L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Feltrinelli Milano
Ganeri M. (1998) Postmodernismo Editrice Bibliografica Milano
Guidano V.F. (1988) La complessità del Sé. Bollati Boringhieri
Guidano V.F. (1992) Il Sé nel suo divenire. Bollati Boringhieri
Havelock E. A. (2001) Cultura orale e civiltà della scrittura. Da Omero a Platone. Laterza,
Bari.
Illouz E. Intimità fredde Le emozioni nella società dei consumi Feltrinelli 2007
Latouche S. (2013) Usa e getta. Le follie dell'obsolescenza programmata. Bollati Boringhieri
Torino
La Barbera D., Maurizio Guarnieri, Laura Ferraro (cura di) , 2010, Il disagio psichico nella
post-modernità. Configurazioni di personalità e aspetti psicopatologici. Edizioni Scientifiche
Ma.gi. Roma
Levy P. (1995) “L'intelligenza collettiva Parigi” - European IT Forum, 04/09/95
http//www.mediamente.rai.it/
Liccione D. (2011) Psicoterapia cognitiva neuropsicologica. Bollati Boringhieri Torino
Lyotard J. F.(1979-1981) La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. Feltrinelli Milano
Malet J.B. (2013) En Amazonie, infiltré dans les meilleur des mondes. Kogoi ediz. Milano
Ong Walter J. (1986) Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola. il Mulino, Bologna
Quartiroli I. (2013) Internet e l’io diviso. La consapevolezza di sé nel mondo digitale. Bollati
Boringhieri Torino
Rampini F., (2014) Rete padrona Amazon, Apple & co. Il volto oscuro della rivoluzione
digitale. Feltrinelli Milano
Sennett R. (2001) L’uomo flessibile. Le Conseguenze Del Nuovo Capitalismo Sulla Vita
Personale. Feltrinelli Milano
Simone R. (2002) La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo. Laterza, Bari
Turkle S. (1997) La vita sullo schermo. Ed. Apogeo, Milano
Turkle S. (2012) Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre
meno dagli altri. Codice Edizioni, Torino
Varela F. (1994) Il racconto dell’identità: Oltre la frammentazione del sé.
Zaratti R., De Marchis M., Contemporaneità e Psicopatologia. In press
41
PERSONALITÀ E IDENTITÀ: IL SENSO DI SÉ E LA STRUTTURA
PRERIFLESSIVA DELL’ESPERIENZA NELLE ORGANIZZAZIONI DI
SIGNIFICATO PERSONALE.
Paola Gaetano
Psichiatra, psicoterapeuta. Studio Multiverso, via degli Scipioni, 245. Roma
[email protected]
Le concezioni del Sé e della cura in Vittorio Guidano
Un modello di psicoterapia è sempre sostenuto da una teoria dell’uomo e della sua esperienza,
che in modo più o meno esplicito ne guida l’applicazione e i suoi sviluppi. La psicoterapia
cognitiva post-razionalista è nota per alcune caratteristiche distintive fondamentali, che le
assicurano un posto pressoché unico nel panorama delle teorie cognitive. Fra gli assunti di
base di questo modello, troviamo le concezioni costruttiviste della scuola cilena, in base alle
quali si afferma che la conoscenza umana è un fenomeno autoreferenziale volto a mantenere
l’identità personale, e che esso è guidato da processi taciti. Questa visione va un po’ oltre le
classiche impostazioni costruttiviste di molti approcci cognitivisti, i quali orientano lo sguardo
non più sui modi in cui un soggetto interpreta la realtà, bensì su come un individuo si spiega
la propria esperienza nel mondo.
Se si intende l’essere umano come un “sistema conoscitivo”, si può osservare, da un punto di
vista esterno, il funzionamento dei suoi processi interni di conoscenza, individuandone i
criteri autoreferenziali. La teoria di Guidano 10 afferma che l’uomo si attribuisce e assimila la
propria esperienza ordinandola nel linguaggio, e dunque interpretandola e spiegandosela, in
modo che gli risulti continua e coerente con un modo di sentirsi nel mondo e con gli altri,
costituitosi originariamente all’interno della relazione primaria di attaccamento. Pertanto,
sulla base delle oscillazioni emotive ricorrenti nell’interazione con una persona di riferimento,
si organizzerebbe un impianto di regole tacite che implicitamente governa l’interpretazione di
successive esperienze, vincolando i significati autoreferenziali che ad esse verranno attribuiti
ricorsivamente, una volta raggiunte le capacità di pensiero autoriflessivo. Si individua così un
meccanismo autopoietico costitutivo della personalità, che dovrebbe generare un senso
conservativo di sé, necessario a mantenere l’identità personale. Questo “senso di sé” potrebbe
subire modificazioni lungo un continuum di flessibilità e astrazione, da un lato, e di rigidità e
concretezza dall’altro, ma oscillerebbe sempre entro la stessa banda di significato, indicata
come Organizzazione di Significato Personale.
In base alla teoria, un’organizzazione rigida coagula vari significati dell’esperienza all’interno
di una semplice spiegazione autoreferenziale, mentre in una organizzazione flessibile ridonda
il significato solo di alcune esperienze cruciali, altamente rilevanti per l’identità e la stabilità
del soggetto. La cura consiste nell’esplorare l’esperienza in modo da evidenziare le regole
tacite che ne governano le autoingannevoli interpretazioni, e prendere così una distanza da
quelle rigide spiegazioni che oscurano la ricchezza della variegata esperienza “immediata”.
Ma quella esperienza originaria, che ordiniamo nel linguaggio e che sembra essere
riconosciuta e riferita a sé solo nel corso di tale operazione, a chi appartiene? Esiste davvero,
o è una costruzione del cervello? E, se esiste, come si fa ad esplorarla, distinguendola dalle
sue interpretazioni?
10 Guidano V. Il sé nel suo divenire. Verso una terapia cognitiva post-razionalista. Bollati Boringhieri,
Torino, 1992.
42
Se cerchiamo risposte a queste domande, nell’ultimo libro che Guidano ha scritto di suo
pugno11, non troviamo soluzioni pienamente soddisfacenti. Da un lato, sembra che in esso si
affermi un primato della cognizione, dall’altro, si sottolinea come solo l’emozione che si
prova nella scoperta dell’effettiva articolazione dell’esperienza possa generare un
cambiamento; inoltre, pur distinguendo nettamente i due “domini conoscitivi”, cognitivo ed
emotivo, non è ben chiara la relazione che intercorre tra i due.
Riguardo al ruolo del pensiero, si nota che sarebbero le spiegazioni dell’esperienza a generare
un senso di identità continua e coerente; come a dire che, senza un sistema di regole di
autoriferimento che permettano di reidentificarsi nel tempo come oggetto di osservazione,
nessun uomo potrebbe sentirsi e riconoscersi come lo stesso nel tempo. Questa concezione
dell’identità rimanda alla visione di Hume 12, secondo il quale l’esperienza è per sua natura
frammentaria, una sorta di sensazioni in disordinata successione, che solo la memoria può
unificare in un tutto apparentemente coerente. Ancor di più, si potrebbe dire che, se l’identità
è costruita da un soggetto che interpreta e si racconta l’esperienza, quest’ultima sia di per sé
equivoca e impersonale. Di conseguenza si pone un’altra domanda: se l’esperienza
“immediata” acquista significato solo attraverso una distinzione linguistica, senza la quale non
è decifrabile e non significa nulla, come si fa ad esplorarla in “moviola”? che cosa potremmo
mai trovare, quando indaghiamo un episodio emotivo reale e mettiamo a fuoco i suoi dettagli,
se non sensazioni illusorie, prive di un proprio significato? E come potrebbe, il terapeuta,
arrogarsi il diritto di decidere quale sia l’interpretazione migliore da dare a quel disordinato
agglomerato di pensieri, memorie, immagini, sensazioni affettive?
In realtà, nel citato testo di Guidano, troviamo un altro riferimento importante che suggerisce
una via di soluzione, mettendo però in crisi proprio quella concezione portante di una identità
“costruita” primariamente nel linguaggio, seppure su regole tacite.
Si nota, infatti, che rifacendosi alla fenomenologia di William James 13 , quel “Me”, che
ordina e trasforma l’esperienza in oggetto di osservazione, estrae i contenuti da un “Io” che
vive. Questi non è un susseguirsi caotico e insignificante di sensazioni, ma è già un soggetto,
con una sua identità prelinguistica, il cui esperire si svolge in un flusso temporale di coscienza
continuo e già ordinato.
A questo livello, l’Io soggetto esperisce se stesso direttamente, senza la mediazione del
linguaggio, in un modo che Guidano sembra però considerare non “fruibile” 14. L’esperienza
dell’Io diventerebbe fruibile quando egli riesce a mettere a fuoco proprio quel fluire
ininterrotto di eventi della coscienza, che potremmo definire “preriflessiva” 15. Tale scorrere
temporale di eventi si mostra in un ordine di successione già presente e inequivocabile, che li
vede correlati gli uni agli altri in modo già significativo. Queste connessioni danno loro un
senso che è comprensibile a tutti, un senso che già appartiene a un contesto umano condiviso,
rispecchiando una logica che è “nelle cose stesse” di un mondo storico e intersoggettivo.
L’esperienza originaria, nel suo fluire in una successione unica e irripetibile nella coscienza
preriflessiva del soggetto, assume qui il suo primato. L’interpretazione che di essa si dà, nel
11 Guidano V. Op. Cit.
12 Hume D. Trattato sulla natura umana (1739-1740). Laterza, Roma-Bari, 1982.
13 James W. Principi di Psicologia (1890). Principato, Messina, 1988.
14 Guidano V. Op. Cit., pag. 27.
15 Gaetano P. Il Sé tra futuro e passato. La conoscenza tacita nella riformulazione clinica. In Nardi B,
Arimatea E. (a cura di). "Lavorare con la Conoscenza Tacita". Atti del XIV Convegno di Psicologia e
Psicopatologia Post-Razionalista. Accademia dei Cognitivi della Marca, Ancona, 2014.
43
linguaggio, può aderire al significato di questa originaria concatenazione di accadimenti ed
effetti interni in una data situazione, oppure distorcerlo in modo più o meno plausibile, ma pur
sempre ingannevole.
Due anime scorrono, perciò, in questo modello. La prima, centrata sulle funzioni più cognitive
o interpretative, cerca di cogliere le regole di autoriferimento dell’esperienza, e vuole
governare le emozioni perturbanti attraverso un distanziamento riflessivo dai significati
automaticamente attribuiti ad esse. A caccia di tali regole, il terapeuta esplorerà frammenti di
memorie di vario genere, cercando di scoprire, per esempio, l’eventuale senso di non
amabilità che si attribuisce a una percezione di rifiuto, o il senso di inadeguatezza innescato
da una percezione di giudizio, o il senso di indegnità per una emozione non legittimata, o il
senso di fragilità connesso a un pericolo di solitudine, e così via. In questo modo, l’esperienza
cosiddetta “immediata” avrà poco di autentico da rivelare. Si farà attenzione al modo in cui un
soggetto espone e interpreta la sequenza di eventi, per riconoscere le regole di attribuzione di
significato che corroborano un senso di sé già delineato. Il terapeuta dovrà possedere i criteri
per estrapolare e individuare le categorie interpretative, e mostrare al paziente tali ricorrenti
processi di significazione, per ottenere che egli se ne distanzi e cominci a utilizzare modalità
più flessibili. Si sfrutta così la potenza del linguaggio e del racconto, al mutare del quale
vengono evocate nuove emozioni e nuovi punti di vista.
Ma è davvero così che si elimina il senso di estraneità dell’esperienza che caratterizza il
disagio emotivo sintomatico? La nostra identità è forse il frutto di una costruzione linguistica,
che si scontra con un senso precoce di noi stessi che si è formato prima che potessimo
attivamente indirizzarlo con il linguaggio?
Non sembra questo il modo di comprendere la natura dell’uomo, nella seconda anima del
cognitivismo post-razionalista. In essa, si attribuisce un valore proprio all’esperienza
“immediata”, e si riconosce come le sensazioni e le emozioni siano un modo di esperire
“direttamente” se stessi, di un Io che vive, sente, agisce. Si tratta di un Io “intelligente”, che
processa automaticamente gli stimoli e che ad essi risponde, secondo una logica che è nella
natura stessa delle cose, e perciò condivisibile e comprensibile. In ciascun “Io” l’esperienza
fluisce ininterrottamente, ed è in questo scorrere che si costituisce come unitaria e continua,
mentre la sua unicità corrisponde a quella specifica e singolare sequenza di eventi e di contesti
esistenziali. Si tratta di un’esperienza che, nel suo fluire temporale, si autorganizza secondo
criteri suoi propri, che non possono essere racchiusi in un ordine distintivo linguistico,
sebbene vengano da questo influenzati. Nel suo continuo sedimentare, l’esperienza potrà
organizzarsi privilegiando alcune connessioni al posto di altre. Senza un’esperienza di
reciproca comprensione con altri, per esempio, l’ordinaria ambiguità delle comunicazioni
interpersonali sarà difficilmente discriminata, mentre un eccesso di informazioni emotive
ambigue spingerà alla ricerca di un implicito riferimento esterno per valutare in automatico la
salienza delle informazioni; la delegittimazione interpersonale delle connessioni fra
accadimenti ed emozioni costringerà a valutazioni discorsive secondo criteri normativi
astratti, mentre l’impropria legittimazione delle informazioni emotive implicherà problemi di
autoregolazione.
C’è un continuo richiamo, ne “Il sé nel suo divenire”, all’importanza dei “fatti”, all’esigenza
di oltrepassare le spiegazioni, di articolare l’esperienza come essa si svolge “effettivamente”,
all’importanza del “dominio emotivo” e alla poca consistenza della comprensione puramente
intellettiva. E, del resto, come si potrebbe rilevare un errore, nell’interpretazione
dell’esperienza, se questa non avesse già un significato che oserei dire “autentico”? Come si
potrebbe condurre una “moviola” se non si comprendesse di già come uno stimolo possa
produrre “necessariamente”, in certe condizioni, una specifica reazione emotiva? Nell’arte che
44
Guidano ci mostra, quando dirige un’esplorazione, vediamo la ricchezza delle sue intuizioni
sul senso delle cose in se stesse, che rivelano, alla luce delle sue domande, la chiarezza del
loro significato originario. Manca, però, una teoria compiuta e trasmissibile di questa
esperienza umana, di come essa si manifesti preriflessivamente alla coscienza.
Muovendoci in questa seconda direzione, vediamo che il senso di sé non è dato solo da una
valutazione discorsiva, sollecitata dal confronto con gli altri, bensì è già presente in altra
forma prima di una riflessione e distinzione linguistica, e si produce e rinnova continuamente
lungo tutto l’arco della vita. Infatti, nel fare esperienza di qualcuno o di qualcosa, si ha già
un’esperienza di sé in relazione a quel qualcuno o qualcosa, e perciò quel sentirsi in relazione
con gli altri o le cose è già autoriferito. Tale coscienza preriflessiva di sé è un’autoaffezione
interiore16, che mantiene unitarietà e continuità grazie alle sue concatenazioni temporali, in
base alle quali un modo di sentirsi-in-relazione-a precede un altro modo di sentirsi-inrelazione-a, e ad esso è connesso nel continuo avvicendarsi di eventi. La comprensione
intuitiva e immediata di questi legami (significati) originari può rispecchiarsi in narrazioni ad
essi coerenti e aderenti; i racconti mireranno certamente a una comprensione reciproca con le
atre persone significative, ma non saranno finalizzati alla loro mera ed effimera
“approvazione”. Questa, da sola, potrebbe al massimo giustificare temporaneamente
un’emozione o un’azione, ma lascerebbe poi spazio, di nuovo, a un’imbarazzante sensazione
di estraneità della propria esperienza, poiché ingannare davvero se stessi non è possibile. Un
racconto fittizio, se non corrisponde al desiderio di nascondere agli altri una verità nota, è solo
un tentativo di dare senso a un’esperienza che non è stata compresa.
Quando Guidano sottolinea che il flusso dell’esperienza immediata è “riferito all’esterno”,
come se si trattasse di “una realtà univoca e comune a ogni essere umano” 17, egli di fatto non
evidenzia un aspetto illusorio della coscienza, come sembra intendere, bensì un dato che
riguarda una realtà umana effettiva: l’esperienza ha le sue regole, ha una sua intrinseca
legalità18, condivisa da tutti gli individui appartenenti allo stesso mondo storico
intersoggettivo. Unica è la successione di eventi, la potenza, la qualità di questi, la situazione
esistenziale in cui le cose accadono. Egli stesso sottolinea questo aspetto, in altre parti del suo
libro, quando afferma che nell’ “Io” il “significato personale rappresenta la processualità
progettuale, cioè un continuo ordinamento di networks di eventi significativi correlati tra
loro”19. Nel prosieguo del discorso, Guidano enfatizza, invece, come il senso di unitarietà nel
tempo sia dato dal riconoscimento di “pattern ricorsivi di modulazione emozionale”, ma
questa concezione merita una riflessione. Se, da una parte, è possibile affermare che ciascun
individuo si riconosca come lo stesso attraverso le consuete manifestazioni del proprio
carattere, non per questo si può dire che una reazione emotiva insolita o una condotta inusuale
rappresentino una frattura della coscienza tale da interrompere il proprio senso di continuità e
unitarietà. Ciò accadrà solamente se l’evento discrepante sarà così dirompente da lacerare il
tessuto composto dall’intera rete dei significati possibili. Piuttosto, il soggetto sarà obbligato a
interrogarsi sul senso di quelle manifestazioni di sé, per comprenderne le ragioni. D’altro
16 Cfr. Husserl E. Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913). Einaudi,
Torino, 2002; Henry M. Fenomenologia materiale (1990). Guerini e Associati, Milano, 2001.
17 Guidano V. Op. Cit., pag.7.
18 Costa V. I modi del sentire. Un percorso nella tradizione fenomenologica. Quodlibet, Macerata,
2009.
19 Guidano V. Op. Cit., pag.33.
45
canto, anche il carattere che uno ha è spesso percepito come una limitazione, come un
meccanismo idiosincratico che talora impedisce di essere veramente se stessi.
Per concludere, se si riconosce piena legittimità alla dimensione esperienziale del Sé, la cura
non avrà tanto bisogno di individuare le regole tacite che guidano i criteri di ordinamento
linguistico autoreferenziale, quanto piuttosto di esplorare correttamente l’esperienza e di
svelarne il significato originario, per poterlo poi inserire in una narrazione coerente con esso.
Serve, però, una teoria esplicita dell’esperienza, orientata fenomenologicamente e validata
scientificamente.20
Il Sé fra realtà e finzione
Il Sé, dunque, è un’entità sfuggente e difficile da definire. Esso ha molteplici sfaccettature,
come suggeriva James21 , quando ne descriveva le caratteristiche materiali, sociali, spirituali.
Attualmente, alcuni ricercatori, nel tentativo di capirne le funzioni e di scoprirne l’ubicazione
all’interno dell’organismo umano, sono giunti a dubitare della sua esistenza 22. In Marraffa e
Paternoster23, per esempio, troviamo che l’Io è concettualizzato come un insieme di
meccanismi di difesa, non da conflitti pulsionali inconsci, bensì dalla minaccia della sua
stessa inconsistenza ontologica. Per questi Autori, l’Io non è un ente, ma un verbo, un
continuo “farsi-Io” che, percependo la sua intrinseca insussistenza, opera continuamente per
assicurare la propria continuità. Dunque non esisterebbe alcun sé che non sia finzione, e
l’autocoscienza avrebbe un carattere esclusivamente confabulatorio, autoingannevole. Nelle
loro parole, “l’Io è qualcosa di primariamente inautentico in quanto è la facciata
dell’inconscio computazionale”24.
A parte la già citata posizione di Hume, nella tradizione filosofica l’Io è un ente, sebbene
tanto Husserl, nella prima edizione di Ricerche Logiche, che Sartre, in La Trascendenza
dell’Ego, abbiano inizialmente espresso dubbi sulla esistenza del Sé.
In Kant25 , come pure in Natorp26, il Sé è visto come un polo di identità puro, un soggetto
dell’esperienza che ne è il presupposto, e che non può essere conosciuto come oggetto. Ma
esso è anche ciò che permane identico nel mutare delle esperienze.
Il Sé è invece visto soprattutto come dimensione esperienziale, e quindi nella sua
mutevolezza, da Sartre27, Merleau-Ponty28, Husserl29; Henry30. Nella loro analisi, essere un
sé appare a se stesso (ipseità), in uno modo già autoriferito, preriflessivamente. In altri
termini, la soggettività rivela se stessa a se stessa; si parla, in questo senso, di autoaffezione. Il
20 Gaetano P, Maselli P, Meldolesi GN, Picardi A. Una psicoterapia cognitiva centrata sull'esperienza:
verso una terapia fenomenologicamente orientata. Rivista di Psichiatria 2, 2015; in stampa.
21 James W. Op. Cit.
22 Metzinger T. Being No One: The Self-Model Theory of Subjectivity. MIT Press, Cambridge, 2003.
23 Marraffa M. e Paternoster A. Sentirsi esistere: Inconscio, coscienza, autocoscienza. Laterza, RomaBari, 2013.
24 Marraffa M. e Paternoster A. Op. Cit., pag.174.
25 Kant E. Critica della ragion pura (1781). Laterza, Roma-Bari, 2005.
26 Natorp P. Allgemeine Psychologie nach kritischer Methode. J. C. B. Mohr (P. Siebeck), 1912 .
27 Sartre J.P. L’essere e il nulla (1943). Net, Milano, 2002.
28 Merleau-Ponty M. Fenomenologia della percezione (1962). Bompiani, Milano, 2003
29 Husserl E. Op. Cit.
30 Henry M. Op. Cit.
46
soggetto realizza la sua ipseità nel suo essere incarnato, immerso nel mondo 31. La relazione
archetipica del Sé con se stesso, che segna interiorità e ipseità, è il flusso temporale in cui la
coscienza si dà a se stessa, in continuo movimento. La temporalità si costituisce nella
molteplicità delle sue apparizioni: ad ogni nuovo adesso corrisponde un’impressione
originaria del momento, ma anche le impressioni ritenute del passato appena scorso, che
conservano la loro posizione, mentre raccoglie in sé anche la protensione verso il futuro.
Il senso di essere sé accompagna dunque ogni mutevole esperienza. Il “Sé minimo” della
coscienza nucleare, secondo Damasio32, rimane stabile nel tempo, mentre il “Sé
autobiografico” della coscienza estesa ha vari livelli di organizzazione, e dipende sia dalla
memoria convenzionale sia da quella di lavoro.
In Heidegger33, l’uomo è un Esser-ci, evento esso stesso che accade con il suo mondo e con i
suoi “altri”, trasformandoli e venendone trasformato a ogni istante, e cioè a ogni altro evento
o a ogni evento dell’altro. Ciascun evento è evento di sé ed evento dell’altro, e nell’accadere
trascina il Sé e i suoi effetti interni, identificabili come altro del Sé. Viene così meno ogni
distinzione, ogni discontinuità tra il Sé e il mondo, tra il Sé e l’altro da sé. Ci sono effetti di
interiorità ed esteriorità, di identità e alterità, di passato e presente, ma non c’è un dentro e un
fuori, uno stesso e un altro, un prima e un dopo. Gli effetti accadono a partire da questo
continuo movimento. Per dirla con Heidegger, “là dove era l’io, la psiche, il soggetto, deve
farsi spazio, o forse bisogna lasciare essere, l’evento”34.
Per alcuni pensatori, il Sé, per essere compreso, deve essere presentato come costruzione
narrativa35. Esso evolve attraverso progetti e azioni, che però sono comprensibili solo grazie a
interpretazioni narrative che ne riconoscono le intenzioni in un contesto. Nel racconto si
intrecciano significati condivisi. Il Sé narrativo è una costruzione aperta e costantemente
sottoposta a revisione, imperniata su puntelli narrativi e organizzata intorno a scopi, ideali,
aspirazioni. Il racconto forgia il proprio sé e permette di comprendere gli altri. Tuttavia, in
alcune particolari accezioni, il Sé narrativo esteso può essere considerato una finzione 36, e
confermare l’inesistenza del Sé37, giungendo così alla conclusione che si può essere un sé
solo come parte di una comunità linguistica. Secondo Dennett 38, “I nostri racconti vengono
tessuti, ma per lo più noi non li tessiamo; essi ci tessono.”
31 Henry M. Incarnazione: una filosofia della carne (2000). Sei, Torino, 2001.
32 Cfr. Damasio P. Emozione e coscienza (1999), Adelphi, Milano, 2000; Alla ricerca di Spinoza.
Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, Milano, 2003.
33 Heidegger M. Essere e Tempo (1927). Mondadori, Milano, 2006.
34 Leoni F. Là dove era la psiche, deve farsi spazio l’evento. Antropoanalisi. Rivista della Società
Gruppoanalitica Italiana. http://www.sgai.it/imgs/files/3_Leoni.pdf.
35 Cfr. Ricoeur P. Tempo e Racconto (1983-1985). Vol 1, Jaca Book, Milano, 1986; Vol 2. Jaca Book,
Milano, 1987; Vol 3. Jaca Book, Milano, 1988.
Ricoeur P. Sé come un altro (1990). Jaca Book, Milano, 1993.
MacIntyre A. Dopo la virtù (1981). Feltrinelli, Milano,1993.
Taylor C. Radici dell'io: la costruzione dell'identità moderna (1989). Feltrinelli, Milano,1993. Flanagan
O.J. Consciousness Reconsidered. The MIT Press, Cambridge, 1992.
Bruner J. La fabbrica delle storie. Laterza, Roma-Bari, 2002.
36 Harré R, Gillett G. La mente discorsiva (1994). Cortina Raffaello, Milano, 1996.
37 Dennett D. Coscienza. Che cosa è? (1991). Rizzoli, Milano 1993.
38 Dennett D. Op. Cit. pag. 464.
47
Secondo Ricoeur, l’identità si forma nell’agire, ma il senso dell’impresa di un uomo è
comprensibile solo analizzando e interpretando la sua intera opera come un racconto. Per
poterla interpretare tanto da una prospettiva esterna che da quella soggettiva, abbiamo bisogno
di percorrere la lunga via dell’interpretazione che oscilla fra i due poli dell’arco ermeneutico,
quello della spiegazione, che esamina le cause e i meccanismi, e quello della comprensione,
che analizza i moventi e gli scopi delle azioni39.
Nell’ambito del cognitivismo, è di grande interesse la posizione che ha assunto Neisser sulla
genesi del Sé40. Egli distingue cinque tipi di autocoscienza che si sviluppano da informazioni
diverse: innanzitutto quella di un Sé ecologico, basata essenzialmente sulla propriocezione,
sul corpo come centro di orientamento nello spazio. Questa coscienza di sé ha a che fare con il
senso di agentività, la coordinazione dei movimenti, il senso comune, la responsività alle
proprie intenzioni. Si suppone che sia conscia ma indipendente dal linguaggio; una coscienza
di sé percepita direttamente, non un'autocoscienza riflessiva. Segue poi il Sé interpersonale,
anch'esso percepito direttamente, dai segnali interpersonali e dalla comunicazione emotiva. Si
costituisce nell’interazione sociale che, inizialmente, è immediata e non riflessiva. Trevarthen
ha chiamato “intersoggettività primaria”41 questo tipo di interazione, alla quale il bambino è
geneticamente predisposto, e durante la quale, a differenza di quanto fa solitamente l’adulto,
egli non attribuisce pensieri né sentimenti. Il Sé ecologico e il Sé interpersonale costituiscono
un Sé relazionale.
Il Sé esteso sviluppa verso i due anni, con memorie e anticipazioni personali. La memoria
degli eventi (coerenti o incongrui o traumatici) si articola con narrative che danno loro
significato e che ne selezionano alcuni rispetto ad altri. In esse, l'esperienza immediata è
trasformata e traslata in frasi che la interpretano. É memoria semantica, essenza di una identità
autobiografica42. Serve a ricordare una routine non eseguita, ed è la base di uno sviluppo
culturale43.
Il Sé privato, riflessivo, si costituisce dopo i tre anni, quando si è ormai stabilita la coscienza
di permanere oltre il momento presente, e il bambino è capace di riconoscere le sue intenzioni
e dunque anche l’inganno e il rifiuto.
Il Sé concettuale proviene, in adolescenza, dall’unificazione di tutte le identità, ed emerge da
assunti basati su esperienze sociali e da teorie sulla natura umana. Varia a seconda della
cultura di appartenenza.
Il profilo di sviluppo del Sé, che Neisser ha tracciato, riconosce la funzione di un Sé
relazionale preriflessivo che garantisce una coscienza di sé come centro di esperienza, e una
certa capacità di comunicazione interpersonale. Si suppone che, nella Schizofrenia, siano
presenti disturbi del Sé preriflessivo 44, tuttavia notiamo che il senso di agentività e di meità
39 Ricoeur P. Dal testo all'azione: saggi di ermeneutica (1986). Jaca Book, Milano, 1989.
40 Neisser U. Five kinds of self-knowledge. Philosophical Psychology 1 (1):35-59, 1988.
41 Trevarthen C. Communication and cooperation in early infancy: A description of primary
intersubjectivity. In Bullowa M. (a cura di), Before Speech: The Beginning of Interpersonal
Communication. Cambridge University Press, 1979, pp. 321-348.
42 Nelson K. Self and social functions: Individual autobiographical memory and collective.
Memory, 11(2): 125-136, 2003.
43 Tomasello M. Le origini della comunicazione umana (2008). Cortina Raffaello, Milano, 2009.
44 Parnas J. Handest P. Phenomenology of anomalous self-experience in early. Comprehensive
Psychiatry, 44 (2): 121-134, 2003.
48
sono ridotti in misura più o meno notevole, ma non del tutto eliminati 45. Anche nelle
demenze, come la malattia di Korsakoff o il morbo di Alzheimer, si osserva una perdita delle
capacità narrative ma non la perdita della coscienza di sé preriflessiva.
Nelle comuni psicopatologie, assistiamo regolarmente alla incapacità di comprendere il senso
di alcune emozioni e azioni e alla composizione di narrative volte più a individuarne delle
cause plausibili che a rappresentarne le effettive concatenazioni motivazionali. È a tale
difficoltà di riconoscere il senso proprio dell’esperienza, probabilmente costituitasi all’interno
di una rete di relazioni non sintoniche, che il terapeuta post-razionalista può dedicare
attenzione, affinché il soggetto possa raggiungere una consapevolezza immediata e intuitiva
delle proprie possibilità, cioè della valutazione emotiva della relazione fra sé e il mondo, che
gli consente uno spettro di valutazioni e di azioni concepibili. La coscienza di come ci si sente
in una situazione emotiva, che è sempre rivolta al futuro, permette di mantenere stabile
l’identità. La stabilità, infatti, non è data dal riconoscere ciò che di noi permane identico nel
tempo, ma dalla comprensione del senso delle manifestazioni di noi (-con gli altri–nel mondo)
a noi stessi, e dalla capacità di fare scelte orientate nella direzione ideale della nostra
realizzazione.
45 Kircher TTJ, Leube DT. Self-consciousness, self-agency, and schizophrenia. Consciousness and
Cognition, 12(4): 656-669, 2003.
49
INCREMENTO DELLA CONSAPEVOLEZZA NARRATIVA E CAMBIAMENTO
Liria Grimaldi di Terresena
L’identità narrativa è la storia di sé , internalizzata e in continua evoluzione, che permette di
dare un senso di finalità e di unitarietà alla vita ( Hammack, 2008; McAdams, 1996,
McAdams, 2001; McAdams & Olson, 2010; McAdams & Pals, 2006; McLean, Pasupathi, &
Pals, 2007; J. A. Singer, 2004).
Tramite la modalità narrativa si è consapevoli del senso delle proprie esperienze attuali così
come è possibile avere consapevolezza dei sentimenti e degli eventi presenti nel passato e dei
cambiamenti avvenuti nel tempo.
La narrativa personale, pertanto, permette e determina il senso di identità e di continuità del
Sé attraverso il fluire del tempo e delle esperienze.
La narrativa è specchio diretto della modalità di funzionamento del sistema di conoscenza, sia
nella fase della sua strutturazione, che avviene in diretta relazione con il progressivo sviluppo
del Sé, sia durante la vita adulta in cui solo una narrativa efficace può associarsi a modalità
conoscitive funzionali, sia durante un percorso terapeutico dove il cambiamento, per essere
reale, dovrà inevitabilmente essere legato ad una ristrutturazione della narrativa personale.
Per altro, anche i repertori comportamentali risultano intimamente correlati alla narrativa
personale. Le modalità di comportamento, le scelte, le risposte alle situazioni di crisi,
dipendono essenzialmente dalla modalità con cui il soggetto narra a sé stesso e dà un senso
all’esperienza in corso.
A questo intreccio tra comportamento e narrativa è legata la definizione di performance
narrativa (Siegel, 2001).
L’incremento della consapevolezza del Sé (Guidano,1988), condizione indispensabile per la
risoluzione della sintomatologia e per il raggiungimento di una efficacia conoscitiva che possa
rappresentare il cambiamento, può essere raggiunto solo con l’acquisizione di una narrativa
coerente e distanziata rispetto alle esperienze e alle emozioni ad esse correlate.
Secondo il modello post-razionalista, affinchè la conoscenza abbia la sua piena efficacia, alla
fase dell’ esperire deve seguire la fase della riflessione sulle esperienze stesse e dell’
attribuzione di significato (Guidano, 1992). Ciò vuol dire che solo una piena ed efficace
narrazione dell’esperienza, implicherà che l’esperienza stessa diventi elemento di
arricchimento della consapevolezza di sé, degli altri e della realtà, contribuendo alla
progressiva riorganizzazione del sistema di conoscenza.
Narrativa e attaccamento
La modalità narrativa, specchio fedele della funzionalità del sistema di conoscenza, si
struttura in relazione al legame di attaccamento con le figure di accudimento ( Bowlby, 1969,
1988; Ainsworth e Al. 1978; Main, 1995)
Con una figura di accudimento in grado di assumere un ruolo di Base Sicura, il bambino
esperisce un senso di sicurezza tale da permettere, a partire dall’infanzia, il progressivo
sviluppo di una narrativa personale piena, priva di auto-inganni, capace di descrivere e dare
un senso anche alle emozioni perturbanti (ad es. un senso di rabbia verso una persona amata)
o a dati contradittori (ad es. la scoperta di limiti o difetti nel care- giver).
La modalità di attaccamento sicuro che si sviluppa lungo il percorso evolutivo, implica una
consapevolezza narrativa efficace ed adeguata, caratterizzata da coerenza, capacità di sintesi
efficace e capacità di ricostruzione degli eventi logica e concisa.
50
Viceversa, una figura di accudimento disfunzionale, induce, in conseguenza dell’impossibilità
di esperire sicurezza, una condizione di attaccamento insicuro e una narrativa personale
specularmente inadeguata.
Nella misura in cui l’ attaccamento si sviluppa lungo il percorso ansioso-ambivalente, lo stile
narrativo è caratterizzato da ipercoinvolgimento nel racconto, incoerenza, cristallizzazione
delle angosce del passato descritte come se fossero attuali, secondo una modalità narrativa
“massimizzante”.
Una modalità di attaccamento di tipo evitante implica una narrativa caratterizzata da basso
livello di memoria autobiografica, descrizione della relazione di attaccamento in termini di
elevata positività senza alcuna capacità di produrne esempi, brevità della narrazione, modalità
narrativa “minimizzante”
Agency e coerenza
L’identità narrativa è caratterizzata da una serie di elementi tra cui l’agency è modalità
tematica centrale e dominante (Mac Adams, Hoffman, Mansfield e Day, 1996).
Il tema dell’agency è connesso all’autonomia , all’abilità nell’influenzare il corso della
propria vita, alla capacità di attribuire significati e di raggiungere obiettivi.
Diversi dati di ricerca evidenziano una forte connessione tra il tema dell’agency e la salute
mentale (Adler e Al., in press; Helgeson, 1994; Mc Adams e Al., 1996; Woike & Polo, 2001).
E’, per altro, evidente, che una inadeguatezza nella capacità di autonomia e di attribuzione di
significato, debba avere ripercussioni sullo stato psichico.
In modo simile, anche la coerenza narrativa, da cui deriva il senso di unità del Sé, è correlata
alla salute mentale (Adler, 2012).
Il mantenimento di un senso di unità del Sè durante il corso del tempo, implica che la
consapevolezza di sé del passato, debba coerentemente evolvere nel senso del sé nel presente
e in quello immaginario del futuro, secondo una modalità narrativa definita coerenza
temporale (Habemas & Bluck, 2000).
Va sottolineato che il dominio temporale non è il solo aspetto caratterizzante della coerenza
narrativa.
La coerenza narrativa, infatti, deve anche essere strutturata in modo tale da avere una funzione
di attribuzione causale, correlando gli eventi di vita all’evolvere del senso del sé secondo la
coerenza causale (Pals, 2006).
Infine, altri due elementi sono rappresentati dalla coerenza tematica, ( Habemas & Bluck,
2000) consistente nella capacità di individuare connessioni tra episodi della storia di vita, e
dalla master narrative (Hammack, 2008), consistente nella capacità di delineare le aspettative
di vita all’interno del proprio contesto culturale.
La narrativa personale, nel contesto della quale questi quattro elementi sono adeguatamente
strutturati, fornisce un profondo senso di integrazione del Sé ed un alto livello di coerenza
correlato con condizioni psicologiche positive ( Adler, Wagner, & Mc Adams, 2007; Baerger
& Mc Adams, 1999).
Narrativa, cambiamento e psicoterapia
La relazione tra narrativa, cambiamento e psicoterapia è stata valutata, in modalità
sperimentale estremamente approfondita, mediante una indagine longitudinale (Adler, 2012).
Lo studio in questione era finalizzato alla valutazione del cambiamento di personalità a breve
termine tramite l'accento sull’ identità narrativa in correlazione alla salute mentale.
51
Quale esempio di narrativa personale, sono stati valutati, gli scritti (quasi 600) di
quarantasette adulti, prima di iniziare il percorso psicoterapico e dopo ogni sessione; lo studio
prevedeva 12 sedute di psicoterapia.
Oltre ad un complesso assessment di valutazione psicologica, sono state effettuate una serie
di misurazioni inerenti le condizioni cliniche.
Le narrazioni sono stati codificate in riferimento ai temi di agency e di coerenza, al fine di
evidenziare le due componenti dell’identità narrativa: capacità di dare un senso e unitarietà
del Sè.
I risultati indicano, nel corso del tempo, un aumento dell’agency, ma non della coerenza.
Gli incrementi della agency risultavano correlati al miglioramento della salute mentale dei
partecipanti.
Inoltre, i cambiamenti nel tema della agency si evidenziavano prima dei miglioramenti
associati alla salute mentale.
Questo risultato è rimasto coerente anche in relazione ad una serie di variabili individuali.
Al fine di valutare questi risultati in una ottica post-razionalista, occorre evidenziare la
completa sovrapposizione del tema dell’agency con quello del senso di sicurezza.
Infatti, il soggetto dotato di un sistema di conoscenza “sicuro”, sviluppatosi in un contesto di
storia di attaccamento funzionale, presenta capacità di autonomia così come è in grado di
raggiungere obiettivi e di influenzare il corso della propria vita; alla condizione di
“sicurezza”, è inoltre connessa la capacità individuale di attribuire significati e dare un senso
alla vita.
Occorre ancora ricordare come una condizione di “sicurezza”, si sviluppi in modalità
speculare alla relazione con una figura di accudimento nel ruolo di “ Base Sicura” (Bowlby,
1988).
Lo stato di sicurezza permette una piena espressione dell’attitudine all’esplorazione, creando
così le condizioni per avviare la strutturazione del Sé all’insegna di una progressione della
consapevolezza.
Questo percorso è del tutto corrispondente a quello che deve essere effettuato in un
trattamento psicoterapico.
Non a caso, l’elemento determinante per l’avvio di un processo di rivisitazione della storia di
sviluppo, all’insegna del decentramento e del distanziamento, è costituito dal senso di
sicurezza e affidabilità che deriva dalla relazione con il terapeuta nel ruolo di Base Sicura.
Così come accade nello sviluppo funzionale, la sicurezza acquisita permette di esprimere, in
modo progressivamente più efficace l’attitudine esplorativa.
La rivisitazione della storia di sviluppo, possibile grazie al senso di fiducia e affidabilità
determinato dalla relazione terapeutica, permette di ritrovare memorie ed emozioni che erano
state escluse o distorte per fini adattivi, cominciando a mettere insieme tutti i pezzi della storia
perduti.
Dando un senso alla sua storia di vita e alle sue esperienze relazionali, il soggetto capirà
perché si sente ansioso o triste senza alcun motivo apparente e comincerà a vivere le
esperienze attuali per quel che veramente esse sono.
L’apice dell’intervento è costituito dal raggiungimento di una modalità conoscitiva “libera”,
priva dei vincoli epistemici che rendono il soggetto prigioniero del suo passato.
Ovviamente, nella misura in cui la psicoterapia comincia ad innescare un cambiamento, il
primo risultato è l’incremento dell’agency e quindi del senso sicurezza.
Naturale conseguenza di quanto espresso è il miglioramento della sintomatologia clinica.
52
La progressiva emergenza del senso di sicurezza, infatti, costituisce per il soggetto un
immediato antidoto al senso di angoscia e di incapacità a dare un senso al malessere che lo ha
invaso.
Inoltre, nella misura in cui, il terapeuta è realmente riuscito ad assumere un ruolo di Base
sicura, il soggetto percepisce la terapia come un percorso in cui ha fiducia e che riuscirà a
condurlo fuori dal tunnel.
Viceversa, è quasi impossibile ottenere, in solo 12 incontri, un incremento della coerenza.
Il raggiungimento di una adeguata coerenza narrativa, è il risultato finale dell’intervento ed è,
pertanto, molto difficile che, su questo tema, in tempi tanto precoci, possa essere già valutato
un cambiamento attendibile.
I dati di ricerca sulla narrativa personale, appaiono sulla base di quanto discusso, come una
piena conferma dell’ intervento post-razionalista, evidenziando come il cambiamento sia
possibile solo in contesto di incremento della consapevolezza del Se’ e della propria storia.
Bibliografia
Adler J. M., “Living into the story: Agency and coherence in a longitudinal study of narrative
identity development and mental health over the course of psychotherapy.” Journal of
Personality and Social Psychology, Vol 102(2), Feb, 2012. pp. 367-389
Adler, J. M. ( in press). Sitting at the nexus of epistemological traditions: Narrative
psychological perspectives on self-knowledge. In S.Vazire & T. D.Wilson ( Eds.), Handbook
of self-knowledge. New York, NY: Guilford Press
Adler, J. M., Wagner, J. W., & McAdams, D. P. ( 2007). Personality and the coherence of
psychotherapy narratives. Journal of Research in Personality, 41, 1179– 1198.
Ainswhorth, M. D. S., Blehar, M. C., Waters, E, Walls, S., (1978). Patterns of Attachment: A
Pshichological Study of the Strange Situation, Erlbaum, Hillsdale
Baerger, D. R., & McAdams, D. P. ( 1999). Life story coherence and its relation to
psychological well-being. Narrative Inquiry, 9, 69– 96
Bowlby, J. (1969.) Attaccamento e perdita, vol.1: L’attaccamento alla madre. Tr. It.
Boringhieri, Torino, 1972
Bowlby, J. (1988). Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell’attaccamento, Tr.it.
Raffaello Cortina, Milano
Guidano, V. F. (1988). La complessità del Sé. Bollati Boringhieri, Torino
Guidano, V. F. (1992). Il Sé nel suo divenire, Bollati Boringhieri, Torino
Habermas, T., & Bluck, S. ( 2000). Getting a life: The emergence of the life story in
adolescence. Psychological Bulletin, 126, 748– 769
Hammack, P. L. ( 2008). Narrative and the cultural psychology of identity. Personality and
Social Psychology Review, 12, 222– 247.
Hammack, P. L. ( 2008). Narrative and the cultural psychology of identity. Personality and
Social Psychology Review, 12, 222– 247
Helgeson, V. S. ( 1994). Relation of agency and communion to well-being: Evidence and
potential explanations. Psychological Bulletin, 116, 412– 428.
Main, M. (1995). Attachment: Overwiew, whith implications for clinical work. In: Goldberg,
S., Muir, R., Kerr, J. ( a cura di) Attachment Theory; Social, Developmental, and Clinical,
Perspectives. Analytic Press, Hillsdale.
McAdams, D. P. ( 1996). Personality, modernity, and the storied self: A contemporary
framework for studying persons. Psychological Inquiry, 7, 295– 321
53
McAdams, D. P. ( 2001). The psychology of life stories. Review of General Psychology, 5,
100– 122
McAdams, D. P., & Olson, B. D. ( 2010). Personality development: Continuity and change
over the life course. Annual Review of Psychology, 61, 517– 542
McAdams, D. P., & Pals, J. L. ( 2006). A new Big Five: Fundamental principles for an
integrative science of personality. American Psychologist, 61, 204– 217
McAdams, D. P., Hoffman, B. J., Mansfield, E. D., & Day, R. ( 1996). Themes of agency and
communion in significant autobiographical scenes. Journal of Personality, 64, 339–377
McLean, K. C., Pasupathi, M., & Pals, J. L. ( 2007). Selves creating stories creating selves: A
process model of self-development. Personality and Social Psychology Review, 11, 262– 278
Pals, J. L. ( 2006). Narrative identity processing of difficult life experiences: Pathways of
personality development and positive self-transformation in adulthood. Journal of
Personality, 74, 1079– 1110.
Siegel, D. J. (2001). La mente relazionale. Raffaello Cortina, Milano
Woike, B., & Polo, M. ( 2001). Motive-related memories: Content, structure, and affect.
Journal of Personality, 69, 391– 415.
54
LA FUNZIONE DEL LUTTO NEL MANTENIMENTO DELLA COERENZA
SISTEMICA DEL SÈ
Furio Lambruschi, Linda Battilani
Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva
Introduzione
Come diceva Bowlby (1979), le emozioni più laceranti gli esseri umani le sperimentano in
situazioni di costruzione, mantenimento e soprattutto rottura dei legami affettivi. Le
separazioni (perdite relative) e i lutti (perdite assolute), sono i momenti che evidenziano
maggiormente, in termini di elaborazione cognitiva ed emotiva, le dimensioni di significato
personale più tipiche della nostra struttura, il nostro più profondo, nucleare, sentimento di noi
stessi e del mondo. E sono i momenti in cui facciamo gli sforzi più evidenti e più intensi per
conservare integro il nostro senso di continuità e di coerenza interna.
In un precedente convegno abbiamo parlato di come questi processi si osservino nell’analisi
dello stile affettivo di ciascuno di noi. Le separazioni affettive (in quanto perdite relative, un
po’ come la perdita di altri domini importanti del sé: un lavoro importante, una certa
progettualità di vita o senso di appartenenza a un gruppo), richiedono in genere una complessa
ed estesa revisione e riorganizzazione del sé. In queste situazioni, usualmente, si trasforma
bruscamente la percezione dell’altro affettivamente significativo che confermava e rendeva
consistente il nostro senso di noi stessi, per cui, reciprocamente si richiede una revisione più o
meno estesa di ampie parti del sé: “Chi era lui veramente? Con chi sono stato per 20 anni?
Come ho fatto a non capire? Che cosa c’è in me, o in lui che non va?” ecc.
Questo usualmente non accade nel lutto vero e proprio (perdita assoluta) in cui l’altro ora non
c’è più, se ne è andato per cause oggettivamente identificabili e comprensibili (una malattia,
un incidente, ecc), e quindi la persona deve confrontarsi con un dolore enorme, davvero
inconsolabile, col pensiero che lui non sia più qui (fisicamente) a confermare in modo così
evidente le parti di me che ho bisogno di confermare. Ma questo dolore e questa assenza,
paradossalmente operano come conferma e come potente rinforzo del mio sentimento di me
stesso: lui (dentro di me) potrà essere sempre lui, anzi, possibilmente ancora più lui!
Mentre nella separazione affettiva ho a che fare con un altro ancora presente ma
profondamente cambiato (e magari con in mano un’altra mano e gli occhi su altri occhi
diversi dai miei), nel lutto, potremmo dire estremizzando un poco, ho la possibilità di
rappresentarmi l’altro come desidero, amplificandone alcune caratteristiche e smussandone
altre, in funzione delle specifiche esigenze dettate dai miei vincoli organizzativi interni e dalle
esigenze di stabilità e coerenza della mia identità personale.
Il lutto “normale” o “fisiologico”
Com’è noto, secondo Bowlby, affrontare ed elaborare una perdita implica necessariamente il
transitare attraverso quattro fasi, che costituiscono il processo, cosiddetto, di lutto normale o
fisiologico:
una prima fase di intorpidimento, caratterizzata da disorientamento, confusione e
incredulità, soprattutto quando l’evento avviene in modo traumatico ed imprevisto;
una fase di protesta, in cui emerge la rabbia per quanto accaduto e nei confronti di
chi se ne ritiene responsabile. La collera è la reazione che compare abitualmente a
55
-
seguito di una separazione46. Nella separazione momentanea il fatto di esprimere
rimproveri ha la funzione di abbassare la probabilità che questa si ripeta. Per cui, fino a
quando tale stato d’animo perdura, significa che il soggetto, in qualche modo, spera
ancora in una riunificazione e la rabbia è dovuta alla frustrazione, inevitabile, che ne
consegue;
una successiva fase di disperazione, quella in cui ci si rende conto
dell’irrimediabilità della perdita. È un periodo depressivo caratterizzato da profonda
tristezza, malinconia, perdita di motivazione, disturbi del sonno, dell’alimentazione,
ritiro sociale. Il senso di solitudine non viene cancellato dalla presenza di altri
significativi (padre, amici, parenti, ecc). Sebbene essi forniscano un certo grado di
conforto non possono colmare il vuoto emotivo lasciato dalla persona scomparsa;
- e infine una fase di distacco, caratterizzata da un miglioramento del tono
dell’umore e da un graduale recupero di interesse nelle attività sociali e nei confronti di
altre figure. Non consiste in un naturale consumarsi del legame d’attaccamento ma
piuttosto in un’attiva repressione difensiva: costituisce cioè una disattivazione della
ricerca di attaccamento che ha fallito per lungo tempo nel trovare risposta.
Il termine “distacco” utilizzato inizialmente da Bowlby fu male interpretato, come totale
disinvestimento e disinteresse verso la persona perduta. Ciò lo portò successivamente a
ridefinire questa fase come riorganizzazione dei modelli operativi interni di sé e dell’altro, in
modo da rendere possibili sia un mantenimento del legame sia un adattamento continuo alle
reali circostanze di vita insieme alla ristrutturazione dell’immagine di sé che vi si
accompagna.
Quando il lutto progredisce chi ha subito la perdita integra gradualmente l'evento della morte
all'interno della sua narrativa personale, ripristinando la sicurezza di attaccamento con la
persona deceduta e riguardando la natura del legame, costruendo un dialogo interno con la
persona che non c'è più, ma di cui continua ad avere una rappresentazione mentale. Con il
tempo si riconosce la realtà della morte, le emozioni diventano agro-dolci, accessibili e
mutevoli, piuttosto che deprimerci possono rendere la nostra vita più profonda. (R.A.
Neimeyer, 2006)
Quando un lutto è “risolto” la persona riesce a collocare nel tempo gli eventi dolorosi e
pericolosi senza che questi influenzino ancora il funzionamento mentale e quindi il
comportamento presente, e riesce a trasformare i sentimenti negativi dell'esperienza in
sentimenti più complessi (P.Crittenden, 1997).
Sostanzialmente, però, ciò che fa la differenza per un bambino (e, seppure in modo diverso,
anche per un adulto), è la possibilità di nutrirsi di sponde relazionali capaci di farlo transitare
in modo adeguato attraverso le fisiologiche fasi del lutto, cioè le possibilità che sono offerte al
bambino come all’adulto di fare domande sulla morte, di riconoscere, di accettare ed
elaborare i sentimenti di disorientamento, rabbia e di disperazione ad essa connessi. Non è
possibile riconoscere, comunicare e sciogliere le nostre emozioni più dirompenti al di fuori
della relazione. Abbiamo bisogno di un'altra mente e di un altro cuore che accolga, condivida
empaticamente con noi, e magari ci aiuti a renderci semanticamente intelligibili i sentimenti
che stiamo provando.
I bambini con legami sufficientemente sicuri d’attaccamento sviluppano modelli operativi
interni che danno origine a credenze più positive e ottimistiche circa la gestione della
46 Come possiamo osservare anche nella Strange Situation.
56
sofferenza, la fiducia nella benevolenza degli altri, e il senso di autoefficacia sulla possibilità
di far fronte alle minacce.
E’ evidente che esistono variabili reali, oggettive, che possono rendere un lutto più complesso
e più difficile da assorbire. Ad esempio, nell’arco di vita di una persona, e quindi anche per un
bambino, vi sono lutti più “fisiologici” e “normali”: da mia madre che mi lascia quando ho 50
anni o la nonna “bisa” che mi lascia quando ne ho 5 … fino alla mamma che mi lascia quando
ne ho 5, o mio figlio di 5 che mi lascia quando ne ho 35. Sono state indicate, in effetti, una
serie di variabili (di rischio o protettive) che possono rendere l’esperienza del lutto più o meno
complessa da reggere e da gestire nel suo (già non semplice) percorso di elaborazione:
1.
2.
3.
L’età a cui si subisce la perdita (il momento del ciclo di vita)
Il tipo di perdita e le circostanze che l’hanno determinata, ad esempio:
- gli amici di Yara devono confrontarsi non solo con la perdita della loro amica ma anche
con le circostanze inquietanti in cui è avvenuta;
- a Nino, un bimbo seguito dai servizi di NPI, prima in affido e poi adottato dagli zii
materni, non manca solo la madre, ma dovrà confrontarsi con le emozioni e le necessità
di comprensione di un padre in carcere da quando lui aveva circa un anno e mezzo per
aver ucciso a coltellate la madre stessa.
- il suicidio di un congiunto può essere un’altra condizione difficile sia da comprendere
che da elaborare emotivamente per un bambino.
Il timing, (morte lenta o improvvisa) le modalità con cui l’evento di perdita si spalma nel
tempo e la possibilità da parte dell’individuo di costruirsi una aspettativa e di adattarsi
gradualmente alla nuova condizione.
Tuttavia, come già accennato, la prospettiva clinica che emerge dall’ottica cognitivo-evolutiva
e costruttivista, pur riconoscendo l’importanza delle condizioni reali in cui una perdita
avviene, attribuisce un rilievo fondamentale ai sistemi di significato personale con cui
l’individuo e il suo contesto relazionale elaborano, interpretano, costruiscono il lutto.
Qualunque evento di vita, sebbene profondamente doloroso, assumerà o meno un rilievo
psicopatologico in funzione dell'assetto relazionale e della relativa organizzazione di
significato personale che incontra.
Modelli di lutto “disturbato”
L’incontro con specifici stati mentali, connessi a contesti relazionali caratterizzati da livelli e
qualità diverse di insicurezza potranno condurre a quelli che i teorici dell’attaccamento
considerano come modelli di lutto disturbato: se ne possono evidenziare sostanzialmente due:
1)
Dolore cronico e organizzazione ansioso resistente, coercitiva, preoccupata
Negli itinerari di sviluppo di tipo ansioso resistente, in quei bambini che successivamente
tendono a sviluppare modelli mentali e relazionali di tipo coercitivo in età prescolare e
scolare, e stati mentali preoccupati (impigliati, invischiati) nell’adulto, gli stati tipici del lutto,
il disorientamento, la rabbia, la disperazione, vengono percepiti ed espressi in forma
quantitativamente più drammatica ed intensa, qualitativamente meno chiara, più confusa e
disordinata e temporalmente per un periodo eccessivamente lungo. Si definisce anche lutto
prolungato o complicato.
57
Qui lo stile di regolazione emotiva è tutto “in eccesso”, con intensa attivazione
neurofisiologica ed elevati livelli di emotività espressa. Ad esempio, in contesti familiari
connotati da continue minacce d'abbandono, usate come mezzo di controllo, si determina nel
bambino una forte angoscia, acuta o cronica, legata alla costruzione di una rappresentazione
negativa di sé: nel corso della propria vita, egli potrà rispondere ad un lutto con una
depressione clinica in cui la credenza dominante è quella di essere stato deliberatamente
abbandonato, come punizione, dalla persona morta. In questo ambito è anche facile trovare
bambini (o adulti) che possano sviluppare in seguito ad un lutto Disturbi d’Ansia da
Separazione, o quadri di vario tipo dello spettro ansioso, temere che qualcosa di simile possa
succedere anche ad altri familiari, marcarli a vista, rifiutare di andare a scuola, avere incubi
notturni, ecc. In altri termini, l’aspetto centrale di tutte queste possibili uscite psicopatologiche
sta nella percezione di sé come fragile e vulnerabile (dipendente dalla persona defunta che era
vissuta come protettiva) e di una realtà esterna percepita come minacciosa e non governabile
(bisogno di regolazione esterna) tipica di questi pattern di sviluppo.
2) Assenza di dolore e organizzazione evitante, difesa, distanziante
Negli itinerari di sviluppo di tipo evitante, definiti poi difeso in età prescolare e scolare, e
distanziante (dismissing of attachment) negli adulti, non vengono integrate le informazioni di
tipo affettivo ed emotivo: vi è una negazione del dolore, una disattivazione dei segnali di
richiesta d’aiuto, di vicinanza e di conforto in un’ottica di fiducia compulsiva su di sè.
Ciò predispone questi bambini ad uscite psicopatologiche, ad esempio, di tipo somatoforme: il
dolore in questi casi può facilmente esprimersi attraverso la malattia fisica. Nel suo ultimo
libro (“Charles Darwin: a new biography”,1990), Bolwby descrive le malattie fisiche da cui
era sempre stato afflitto Darwin (tra cui dolori gastrici, palpitazioni cardiache, e vari altri
sintomi pare riferibili ad una “sindrome da iperventilazione”) ricollegandole alla sofferenza
repressa che seguì alla perdita precoce della madre.
Il Dual-Process Model
Stroebe e Schut (1999) hanno sviluppato un modello a due fasi del lutto (Dual-Process ModelDPM) tentando di fornire una concettualizzazione che meglio descrivesse il coping e fosse
predittore dell’attaccamento (buono o povero) di fronte a questo evento stressante, al fine di
comprendere meglio le differenze individuali nelle modalità con cui le persone “vengono a
patti” con la perdita. Il DPM fornisce due categorie di fattori stressanti associati con il lutto,
ossia, Loss-Orientation (LO) e Restoration-Orientation (RO). Il primo (LO) si riferisce a ciò
su cui si concentra specificamente la persona in lutto, la valutazione ed i processi che
coinvolgono alcuni aspetti dell’esperienza della perdita, la convivenza con il dolore, la ricerca
della persona perduta, fenomeno che si può considerare il cuore stesso del dolore. La RO,
invece, si focalizza sui fattori stressanti secondari, che riflettono la lotta per riorientarsi in un
mondo cambiato, senza la persona deceduta: anche il dover ripensare e ripianificare la propria
vita di fronte alla perdita può essere un processo doloroso. Entrambe questi orientamenti
fanno parte del processo di coping, infatti sono affrontati (o evitati) a vari livelli. Il processo
di confronto-evitamento con questi due tipi di fattori è dinamico e fluttuate, inoltre cambia col
passare del tempo. Per questo il DPM indica un processo dinamico di coping, ossia un
processo regolatorio definito Oscillation. Il principio sottostante l’oscillazione afferma che in
certe occasioni le persone si confrontano con aspetti della perdita (LO), mentre in altre le
evitano, processo che avviene anche con i fattori RO. Il coping di fronte alla perdita è perciò
un complesso processo regolatore di confronto ed evitamento. Un importante postulato del
58
modello afferma che l’Oscillation tra le due tipologie di fattori stressanti sia necessaria per un
coping adattivo (Stroebe M. S., Schut, Hansson, & Stroebe, 2008). Il DPM inoltre, fornisce
una struttura per comprendere le diverse forme di lutto (cronico, assente, ritardato ed inibito).
Secondo il DPM infatti, le persone con lutto cronico sarebbero maggiormente focalizzate sulla
Loss-Orientation, quelle con lutto assente invece si concentrerebbero maggiormente sui fattori
Restoration-Orientation, mentre coloro che manifestano una forma complicata di perdita
traumatica dovrebbero avere delle difficoltà nell’oscillazione tra loss e restoration-orientation.
Secondo gli autori è importante osservare che sia per il lutto cronico che per quello assente le
reazioni sono estreme, focalizzandosi eccessivamente su un orientamento ed evitando l’altro.
Tali patterns sono associati con l’assenza del tipo di confronto-evitamento (oscillazione) che è
stata precedentemente descritta come caratteristica del coping “normale” di fronte alla perdita
(Stroebe M. S., Schut, Hansson, & Stroebe, 2008).
Il lutto nei sistemi di classificazione diagnostica
La tipologia di lutto disturbato di tipo C, nelle sue talora drammatiche evidenze
comportamentali ed emotive, è quella maggiormente riconosciuta ed identificata anche dai
sistemi nosografici tradizionali. Secondo Maciejevsky et al. (2007), sul piano diagnostico
descrittivo, questi potrebbero essere gli indicatori più adeguati per questo tipo di mancata
risoluzione e di lutto complicato:
1) intenso e persistente struggimento per la persona persa (ogni giorno e in maniera
intrusiva e dolorosa)
2) quattro o più dei seguenti sette sintomi diverse volte al giorno o con una intensità tale da
produrre sofferenza e disturbo: difficoltà ad accettare la morte, incapacità di credere alle
altre persone, eccessivo rancore o rabbia riguardo la morte, preoccupazione su come
andare avanti, colpa del sopravvissuto, sperimentare la vita vuota e priva di senso senza
la persona deceduta, essere preoccupata da pensieri che riguardano la persona morta;
3) marcata e persistente disfunzione in ambito sociale, occupazionale o altri ambiti
importanti a causa dei sintomi citati in 1 e 2;
4) tutti questi sintomi durano da almeno sei mesi.
Tra la terza e la quarta edizione del DSM c’è stata una crescente attenzione alle ricadute
potenzialmente patologiche a seguito di un lutto, fino ad inserirlo sull’asse V come “altre
condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica”. In questo contesto culturale si
sono mossi numerosi gruppi di ricerca che in Nord America hanno dato vita ad un
appassionato dibattito sul tema del lutto e della sofferenza derivata dalla perdita di una
persona cara, dibattito che continua a rimanere aperto anche dopo la pubblicazione del DSM
5. Il percorso che ha portato a stabilire i criteri diagnostici per il Complicated Grief del DSM
IV-R è iniziato con la dimostrazione che i sintomi ad essi associati determinano distress e
disabilità che sono distinguibili da ciò che è “accettabile e culturalmente condivisibile a
seguito della perdita di una persona amata”.
Un altro tema è quello riferito ai criteri diagnostici per una depressione: nel DSM IV-R veniva
esclusa da tale diagnosi la condizione di dolore a seguito della morte di una persona cara,
mentre nel DSM5 viene eliminata tale esclusione, facendo nascere così un acceso dibattito.
Distinguere tra Lutto Complicato e Depressione Maggiore non è sempre semplice perché
queste due condizioni possono coesistere dopo un lutto, anche se appartengono a profili clinici
differenti e differenziabili. Secondo Frances (2012) il passaggio dal DSM IV-R al DSM5
porta con sé il rischio di diagnosticare la normale e fisiologica reazione al lutto come
Depressione maggiore, con ricadute rispetto all’assunzione immotivata di farmaci a tante
59
persone che hanno perduto una persona cara. Wakefield (2010) ha scritto un importante
articolo "Patologizzare la normalità”, dove viene approfondito il tema dell'incapacità da parte
della psichiatria di individuare i falsi positivi nelle diagnosi dei disturbi mentali. Nonostante
lo sbandierato rigore scientifico, insomma, gli psichiatri non saprebbero distinguere in
maniera rigorosa una malattia dalla normale sofferenza quotidiana. Un aumento di diagnosi
farebbe crescere anche lo stigma della malattia mentale, che l'Organizzazione Mondiale della
Sanità (OMS) da anni si sforza di combattere con campagne di sensibilizzazione.
Nel passaggio dalla quarta alla quinta edizione del DSM per descrivere più o meno gli stessi
sintomi si è sostituito il termine Complicated Grief con il termine Prolonged Grief Disorder
ritenendo che la definizione “Complicato” rimandasse al concetto di difficile da analizzare,
non comprensibile, non spiegabile e quindi in controsenso rispetto ad un lavoro diagnostico
che vuole appunto chiarire questa specifica forma di distress conseguente ad un lutto. Si è
ritenuto che il temine “Prolonged” – prolungato - meglio catturi la natura del disturbo,
caratterizzato anche dal persistere di un insieme specifico di sintomi correlati al dolore per la
mancanza, sperimentati da una persona con una significativa difficoltà ad adattarsi alla
perdita. L’uso del termine, pur riportando a un concetto temporale, non implica che esso sia
l’unico indicatore della natura di tale patologia. La proposta di traduzione in italiano
dell’etichetta diagnostica PGD è stata “Disturbo da Sofferenza Prolungata”, volendo
sottolineare con il termine sofferenza, più che con dolore, un’accezione che meglio cogliesse
la componente emotiva e psichica di questa esperienza. Secondo i criteri diagnostici del
DSM5, a differenza di coloro che vivono una elaborazione del lutto normale, i soggetti con
PGD sono essenzialmente bloccati, cristallizzati in una condizione di lutto cronico;
sperimentano un’intensa sensazione di nostalgia e struggimento per la persona persa e il
desiderio che la vita ritorni alle condizioni precedenti all’evento. Senza la persona cara si
sentono vuoti e privi di speranza per il futuro. Alcuni sono sopraffatti dai rimpianti, con
frequenti ruminazioni mentali e incapacità nel concentrarsi su qualunque cosa che non
riguardi la perdita del proprio caro. La sensazione di non sentirsi emotivamente capiti dagli
altri esacerba ulteriormente il senso di alienazione e di isolamento sociale. I pensieri ricorrenti
rispetto a colui che è mancato rendono difficile per queste persone superare lo stato più acuto
del lutto e vivere il presente, instaurare nuove relazioni o dedicarsi a nuove attività. Coloro
che sperimentano questa realtà riferiscono di sentire che una parte importante di loro è morta
con il proprio caro, che sono ormai svuotati, che il loro stesso senso d’identità è
compromesso; sono convinti che la loro vita sia destinata a essere vuota, non soddisfacente.
Una nota importante rispetto al PGD deriva dalla possibilità di diagnosticarlo non solo nei
caregiver di pazienti deceduti, ma anche in coloro che in senso più lato hanno vissuto una
perdita significativa (es. divorzio, malattie terminali, perdita di un animale domestico…) o
che assistono persone la cui patologia ha determinato una significativa perdita dell’autonomia
e delle possibilità relazionali.
Lutto e stili narrativi: il lutto nella Adult Attachment Interview
Gli indici di mancata risoluzione del lutto, rilevati da Main & Goldwyn (1985,1996), nelle
narrazioni di soggetti adulti classificati come Unresolved alla Adult Attachment Interview
sono molto simili a quelli presenti in questi quadri clinici:
- deficit nel controllo metacognitivo del ragionamento (ad esempio, persistente incredulità,
idee non fondate di essere la causa della morte, manifestazioni di confusione tra la persona
morta e il sé, ecc.);
60
- deficit nel controllo metacognitivo del discorso (ad esempio, silenzi prolungati e
inappropriati, associazioni strambe, attenzione inusuale per i dettagli, utilizzo del laudativo o
di frasi enfaticamente poetiche, ecc.);
- risposte comportamentali estreme al momento stesso del lutto.
Il sistema di classificazione di Main & Goldwyn (1985, 1996), in effetti, è più efficace
nell’individuare le evidenze della mancata risoluzione preoccupata che della mancata
risoluzione distanziata. Il modello dinamico-maturativo dell’attaccamento (Crittenden, 1997),
invece, le riconosce e le distingue entrambe, articolandole inoltre in sottotipi diversi. Secondo
questa prospettiva, i lutti o traumi irrisolti possono essere concepiti come condizioni che
interferiscono con il successo nel funzionamento della strategia di protezione del sé. Queste
risposte implicano un'elaborazione disadattiva dell'informazione in quel particolare contesto:
possono, ad esempio, essere prese in considerazione delle informazioni assolutamente
irrilevanti e poi essere utilizzate per organizzare il comportamento, oppure possono venir
scartate troppe informazioni pertinenti, o possono esser fatte altre distorsioni
dell'informazione per quanto riguarda l'evento dannoso. Eventi trattati in uno (o più) di questi
modi sono considerati irrisolti. Queste distorsioni cognitive o emotive possono interferire con
il funzionamento strategico generale.
Secondo il modello dinamico maturativo esistono vari tipi di lutto preoccupato:
 lutto preoccupato Ul(p) comporta l'essere in grado di prevedere l'evento minaccioso per il
sé ma in modo troppo attivato. Può essere limitato ad una perdita particolare o essere
associato a una così ampia gamma di stimoli luttuosi che pervade tutto il funzionamento.
 lutto vicario Ul(v) è una forma di risposta in cui il soggetto non ha né avuto esperienza né
assistito al lutto. Invece, tale evento è accaduto ad una figura di attaccamento e sembra
colpire direttamente il comportamento e la costruzione mentale della realtà del soggetto.
Nel descrivere questo evento, l'intervistato, irrisolto indirettamente, utilizza disfluenze
tipiche della mancata risoluzione del lutto senza essere in grado di associarle
esplicitamente con l'esperienza della figura di attaccamento. Il lutto vicario evidenzia tutto
l’invischiamento relazionale e il contagio emotivo tipico di questo pattern di attaccamento.
 lutto immaginato Ul(i) si verifica quando l'intervistato fornisce la prova credibile che si è
verificato un lutto, ma fa un’ attribuzione di perdita psicologica ingiustificata (cioè, il
soggetto fa un’ errata attribuzione causale). Ne esistono due forme: in una l'evento è stato
immaginato ma non è successo, nell'altra è il collegamento fra l'evento e i suoi effetti che è
immaginato, cioè l'evento è avvenuto ma non ha avuto gli effetti immaginati.
 lutto suggerito Ul(s) è codificata quando l'intervistatore immagina un lutto irrisolto e
inavvertitamente imbocca le idee e le parole dell'intervistato che egli accetta come reali.
Ciò è particolarmente problematico come "sindrome della falsa memoria", che deve essere
differenziata da un inganno attivo in cui l'intervistato conosce la verità, ma, per una serie
di ragioni, sente il bisogno di fare false affermazioni di vittimizzazione del passato. Questa
distorsione rispecchia un' informazione "presa a prestito", che il soggetto attribuisce a sé
quando la sorgente è in realtà il terapeuta (o un'altra figura autoritaria).
 lutto alluso hinded Ul(h) viene assegnato quando l'astuzia dell'intervistato nella
dislocazione dei dettagli, di solito accompagnata da ingenuità sottomessa, porta il
codificatore a concludere che altri hanno danneggiato notevolmente il soggetto, o sue
figure di attaccamento. In altre parole, l'intervistato infonde l'idea nella mente
dell'intervistatore mentre implicitamente nega che sia successo. In tutti i casi, gli
intervistati stessi ostentano inganno (falsa cognizione) dentro l'intervista e anche riguardo
ad altri argomenti. Inoltre, l'autore del presunto reato è sempre qualcuno che ha
61

danneggiato l'intervistato e che è ancora, al momento dell'intervista, temuto. La funzione
di questa forma di mancata risoluzione è di coinvolgere l'intervistatore nel processo di
accusa del presunto colpevole. Più frequente nei pattern ad alto indice C.
lutto anticipato Ul(a) riflette la paura che è esagerata in maniera irrazionalmente
preoccupata, per esempio, temendo che si perderà il proprio bambino a causa della perdita
della propria madre durante l'infanzia. La base per la paura della morte può essere spostata
(ad esempio, da una paura della propria morte alla paura della morte di un bambino) o
trasformata (ad esempio, da un desiderio di uccidere per paura della morte).
Nei seguenti due esempi tratti dai trascritti di AAI, il linguaggio risulta caratterizzato da
marcatori linguistici quali:
- Memoria per immagini e linguaggio evocativo.
- Uso del presente per descrivere l’evento del passato, che non sembra immutabile.
- Confusione temporale.
- Erronea attribuzione causale, per lo più esternalizzata.
- Confusione di persone.
- Erronea localizzazione del sè nel luogo del lutto.
- Attivazione affettiva intensa e incontrollabile sull’argomento del pericolo o della morte.
Lutto preoccupato
Come ha reagito alla sua morte?
Sara: Ero angosciatissima...mi sentivo molto molto sola....la malattia mi spaventa
tantissimo...ha emorragie nello stomaco, la cirrosi, allora portarla di corsa all'ospedale,
vegliarla, l'ansia quando salgo le scale, io ho fatto tutto il possibile...sai quanto ho patito io (si
commuove) perchè era sempre tutta con questo sangue, con le flebo....e mio papà come
sempre che arriva ad aiutare quando vuole lui, ho dovuto fare tutto da sola...
Lutto vicario
E' morto qualcuno di importante per lei quando era piccola?
Lucia: m..sì, quando è morta una cugina di mia mamma che hanno sempre vissuto insieme...si
volevano molto molto bene..come due sorelle, è morta in un modo bruttissimo, ha fatto un
incidente stradale, è morta fra le lamiere, era una cosa sconvolgente per me...sono stata male
per lungo tempo anche quando ascoltavo il telegiornale e sentivo “muore in uno scontro
frontale” e quando guido ci penso...
Quindi lei la conosceva bene?
Lucia: No è morta prima che io nascessi...non so bene quando.
Sempre secondo il modello dinamico maturativo, i processi mentali primari dei soggetti
distanzianti sono, appunto, il distanziamento del sé dagli stati affettivi negativi e
l’accantonamento delle conclusioni negative sulle figure d’attaccamento. Un punto cruciale è
l’assenza in tutte le interviste distanzianti dei veri sentimenti negativi del soggetto, cioè
collera, paura e desiderio di conforto. I mezzi con cui questi sentimenti sono omessi dalla
coscienza variano a seconda della configurazione in un gradiente differenziato da basso ad
alto indice. Possono essere presenti altri sentimenti ed emozioni, come gli stati affettivi
positivi, la vergogna, senso di colpa e responsabilità e i sentimenti delle figure di riferimento,
come punto di vista genitoriale. I soggetti distanzianti tendono ad avere informazioni
temporalmente ordinate e ad avere un buon accesso alla memoria semantica nella forma di
62
frasi “se…allora”, ma sempre riguardanti le responsabilità o le conseguenze del loro mancato
adempimento.
Sono identificati vari tipi di lutto distanziato, che rientrano all’interno di questo
funzionamento generale:
 lutto distanziato, dismissed Ul (ds) è più comune tra i soggetti con una strategia di tipo A.
In questo caso, l'intervistato distanzia dal sè l'importanza dell'evento sia in termini di
previsione del pericolo futuro che in termini di sentimenti. Di conseguenza, sentimenti
come tristezza o anche piacere e soddisfazione diventano impossibili. Tali soggetti
sembrano freddi e non responsivi, “è successo, ma non ha influito su di me”.
 lutto spostato, displaced Ul (dpl) è una forma di distanziamento in cui le informazioni sul
lutto reale sono sia omesse che spostate su qualche altro evento o persona,
presumibilmente meno minaccioso. Il lutto reale è distanziato ma la sofferenza per il lutto
su cui ci si sposta può occupare una quantità eccessiva di attenzione. La strategia, in altre
parole, coinvolge sia la componente distanziante che preoccupata, ma separatamente
rispetto a chi ci si riferisce, “è successo, ha sconvolto tutti tranne me”.
 lutto bloccato, blocked Ul(b) si riferisce alla presenza nell'intervista di dettagli altrimenti
inspiegabili che, presi insieme, suggeriscono un'esperienza dolorosa che il soggetto non
riconosce. Cioè, nessuna perdita è dichiarata, né accennata dall'intervistato, ma ci sono
evidenze che l'evento sia accaduto nella forma del linguaggio dell'intervistato e nei fatti
della sua storia, e inoltre si rileva che, inserendo questo evento ipotizzato, la storia e la
forma del linguaggio del soggetto diventano psicologicamente sane. In passato, altre teorie
hanno ipotizzavano che i ricordi di eventi luttuosi possono essere stati repressi (cioè
presenti nella mente, ma non ricordati). Le ultime ricerche di neuroscienza cognitiva
indicano che la mancanza di elaborazione dei ricordi può comportare l'assenza di
facilitazione nei circuiti neurologici. Cioè, alcuni ricordi supponibili possono non essere
stati consolidati attraverso processi elaborativi e, in tal caso, sarebbero neurologicamente
assenti (Schacter, 1996). E’ più frequente come Utr (b) che come Ul (b).
 lutto negato, denied Ul(dn) si verifica quando le minacce molto gravi e inevitabili
all'integrità fisica o psichica dell'intervistato sembrano sopraffarlo (ad esempio, essendo
spesso e impropriamente incluse mentre si parla di altri argomenti , dove il soggetto è
attivato intensamente, come nell'intrusione di stati affettivi negativi [ina] o nei sintomi di
espressione somatica [ess]. Ciononostante, quando interrogato direttamente, il soggetto
nega sia l'evento che gli effetti negativi in corso. Questa forma complessa di risposta
comporta errori di associazione. Implicitamente, c'è un processo sovra-associativo, con un
funzionamento procedurale e immagini che riflettono una preoccupazione verso la
minaccia. Esplicitamente, però, la minaccia è dissociata dal sé, essendo verbalmente
descritta come irrilevante per il sé. Ul (dn) si differenzia dalla forma distanziata semplice
perché la negazione è solo semantica, con un'abbondanza di informazioni sulla minaccia
attraverso un processo implicito; entrambe le rappresentazioni disposizionali (DR)
contengono il potenziale per influenzare il comportamento dell'intervistato, ma in modi
incompatibili e spesso disadattivi. D'altra parte, il Ul (ds) comporta un distanziamento
funzionale coerente, e l'evento pericoloso è raramente discusso del tutto; questa omissione
dalla rappresentazione disposizionale che regola il comportamento è la base per il rischio.
La discrepanza tra processi attivati e inattivati nel Ul (dn) è a volte "risolto" con un delirio.
E’ più frequente come Utr (dn) che come Ul (dn).
Nei seguenti due esempi tratti da stralci di AAI il linguaggio risulta caratterizzato da
marcatori linguistici quali:
63
- omissione della persona deceduta da tutte le parti dell’intervista tranne che dai sondaggi
diretti.
- Estrema brevità di narrazione sul tema morte.
- Mancata affettività ed emotività espressa.
- Affermazioni esplicite sul fatto che l’evento non ha avuto importanza per il sè
Lutto distanziato di una figura d'attaccamento
C'è stato qualche lutto in famiglia quando era una bambina?
Silva: No, bambina no, il primo lutto è stata mia nonna che avevo 13 anni.
E' stata una morte improvvisa?
Silva: Sì, sì, morì dalla sera alla mattina, si sentì male di notte....ebbe una trombosi...bè sì....mi
dispiacque però non è che mi ha lasciato...mhm, un segno. Evidentemente poi questo lutto si è
elaborato e rimane una sensazione sottostante...
Si ricorda come ha reagito?
Silva non risponde
Lutto spostato
Dunque aveva sei anni quando è morto suo nonno..come ha reagito?
Paola: Si…però ricordi di cosa è successo dopo non ne ho..mia madre ne parlava molto, c’era
molto legata….la morte che ricordo di più è quella di Papa Giovanni. Per me…ero ancora più
piccola, doveva essere un anno prima…io mi ricordo che ero voluta andare..insomma erano
andati ma ero voluta andare anch’io, e avevo preso un fiore sul mio terrazzo per
portarglielo..ero molto dispiaciuta perché non siamo riusciti a raggiungerlo per dargli il
fiore…
Ripristinare il contatto e riattivare il dialogo
In linea con l’ipotesi della riorganizzazione e non del “distacco” dalla figura persa, alcuni
autori (Klass, Silverman e Nickman, 1996) mostrano chiaramente come bambini e adolescenti
che hanno subito una perdita importante, ben lungi dal disinvestire, mantengono anche per
molto tempo un rapporto con la figura d’attaccamento scomparsa. Ciò è parte di
un’elaborazione sana del lutto, e fornisce al bambino sollievo e conforto e ne facilita
l’accettazione.
I bambini hanno bisogno di “mantenersi in contatto” con la persona perduta: la sognano, si
scoprono a parlare con lei, immaginano sovente che essa li stia guardando, tengono e
utilizzano le sue cose in vari modi. Questi contatti forniscono sollievo, conforto, sostegno e
facilitano la transizione dal passato al futuro.
Questi autori hanno individuato alcuni tipi di attività che aiutano un bambino a mantenere
contatti mentali sani con il genitore perduto (e queste potrebbero rappresentare una guida utile
per il nostro lavoro clinico nel facilitare al paziente un’adeguata elaborazione del lutto):
1) localizzare il genitore in un luogo, solitamente il paradiso o il cielo, su una stellina, su una
nuvola, nel mare, ecc, da dove questi continua a osservarlo e ad interessarsi alle sua vita e ai
suoi bisogni;
2) sperimentare, sentire vicino a sè, in modo protettivo, la presenza continua del genitore;
3) “tendere” verso il genitore, rivolgersi a lui e spesso parlargli, mantenendo un’interazione,
talvolta la sognano e ci parlano in sogno;
4) compiere sforzi particolari, a volte incoraggiati dagli altri membri familiari, per ricordare le
caratteristiche della persona morta e soprattutto il suo amore nei propri confronti;
64
5) tenere oggetti (ad es. un orologio, un gioiello, un cappello, ecc) appartenuti alla figura
d’attaccamento, cosa che sembra prolungare la sensazione di prossimità, di protezione e
d’affetto da parte sua. Ciò può ricordarci la funzione degli oggetti transizionali descritta da
Winnicott.
Questi contatti forniscono sollievo, conforto, sostegno e facilitano la transizione dal passato al
futuro. A volte i bambini si rendono conto che sono i loro bisogni a influenzare le loro
percezioni, ma continuano a sentirle quasi come reali: “non è proprio come se io lo vedessi lì
… in cielo … ma, lo sento … come dire? … sento la sua voce nella mia testa”.
I bambini, dunque, se li sappiamo ascoltare, ci offrono indicazioni straordinarie su come
affrontare in termini psicoterapeutici il lutto. Basandoci sui loro insegnamenti, possiamo
orientare le nostre strategie terapeutiche, puntando cioè al mantenimento del contatto e
lavorando sugli aspetti dello stato mentale del paziente che tendono ad impedirne la
realizzazione. In particolare, le persone con lutti irrisolti, fanno di tutto, evitano attivamente di
rappresentarsi la persona morta e quindi di collocarla, vederla, da qualche parte.
La seguente potrebbe essere una buona traccia di lavoro, declinabile proceduralmente in modi
diversi (moviola, immaginazione guidata, disegno, foto, video, drammatizzazioni) nel lavoro
clinico col bambino e con l’adulto in condizioni di lutto irrisolto:
A) Esplorazione del mio passato con lui, il mio rapporto con lui prima della malattia/morte.
Pensa al rapporto che hai avuto con lui/lei quando era ancora in vita, qual è la prima
immagine che ti viene in mente?
Che effetto ti fa? Che emozioni ti sollecita?
Che pensieri ti sollecita?
Qual è il momento più bello che ti viene in mente?
E quello più brutto?
(riattivare il ricordo della relazione con lui/lei, riuscire a pensarlo nel prima)
B) Pensando al momento della sua morte (a quei giorni, a quelle circostanze, a te, agli altri
tuoi familiari, …), qual è la prima immagine che ti viene in mente?
Che effetto ti fa? Che emozioni ti sollecita?
Che pensieri ti sollecita?
Con alcuni pazienti, a questo livello le tecniche di EMDR possono avere un ruolo nell’accesso
e nella rielaborazione di alcuni ricordi/immagini particolarmente traumatici (ad esempio, un
bambino che ha trovato papà impiccato in cucina).
C) Esplorazione del presente:
E adesso, ti capita di ripensarci?
Quanto ti capita di ripensarci?
Quando ti capita di ripensarci? In quali momenti della giornata?
Come te lo/a immagini?
Dove te lo/a immagini? Dove t’immagini che sia?
Riesci a vederlo/a? Che cosa ti colpisce di lui/lei?
Che cosa fa? Che cosa dice?
(in età evolutiva, ma non solo: proviamo a disegnarlo là dov’è, il suo volto, il suo corpo, i suoi
atteggiamenti, ecc …)
65
-
Ti vede? Ti guarda?
Che cosa starà pensando di te?
Che effetto gli farà vederti?
Se potesse che cosa ti vorrebbe dire?
Se potesse cosa farebbe per te?
E a te, che effetto ti fa vederlo?
Che pensieri, che immagini ti vengono?
Se tu potessi che cosa gli vorresti dire? Avresti voglia di dirgli qualcosa?
Se te la senti, prova a dirglielo, prova ad esprimergli i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri, su
come ti senti adesso e su quello che lui ha rappresentato per te.
(In età evolutiva, ma non solo: ci stai che scriviamo una lettera a papà, poi la attacchiamo ad
un palloncino e la facciamo volare su …. fino al cielo?).
In altri termini, cerchiamo in primo luogo di ripristinare il contatto, poi i processi di
mentalizzazione in prima persona e in terza persona, e quindi il dialogo che ne consegue, con
tutte le possibili implicazioni emotive.
Una volta che si sia riusciti a riattivare il contatto e il dialogo con la persona scomparsa,
spesso, da parte del paziente, vengono spontaneamente ricercati e condivisi col terapeuta (e
possibilmente con altre figure affettive presenti nel contesto di vita del paziente), alcuni
semplici ma emotivamente pregnanti “rituali” (come andare al cimitero, riguardare con
qualcuno foto o filmati relativi a momenti vissuti con la persona scomparsa; ritornare a
visitare luoghi frequentati insieme, ecc.). Ciò allo scopo di consolidare il lavoro condotto in
seduta, offrendo al paziente la possibilità di sperimentare concretamente lo “stare” insieme
dentro queste aree emotive critiche, attraversandole pienamente.
Di cruciale importanza per l’intervento diventa, comunque, valutare, da un lato se la mancata
risoluzione del lutto si esprima maggiormente in termini preoccupati o accantonanti;
dall’altro, in un’ottica più dimensionale che categoriale (risolto/irrisolto), a che stadio sia il
processo di risoluzione dell’evento luttuoso nello stato mentale del soggetto e quali specifici
aspetti richiedono ulteriore integrazione. In funzione di tale “diagnosi esplicativa” il lavoro di
ricostruzione col paziente potrà essere condotto in modo più calibrato e strategicamente
orientato. Alcuni pazienti hanno bisogno di essere aiutati a caricare le proprie
rappresentazioni concettuali e semantiche di sempre più vivide immagini sensoriali, con tutte
le implicazioni emotivo/affettive ad esse connesse; altri pazienti hanno al contrario più
bisogno di introdurre ordinamento cognitivo, sequenzialità, e più articolate capacità di
comprensione semantica dell’esperienza di perdita vissuta.
Lutto e coerenza sistemica del Sè
I contenuti rappresentativi via via emergenti, entro un siffatto contesto clinico, andranno
invariabilmente a collocarsi intorno alle specifiche dimensioni di significato che
caratterizzano l’organizzazione del sé del paziente, vale a dire i core biliefs della propria
organizzazione conoscitiva (ad esempio, bisogno di protezione, costrizione, non amabilità,
solitudine, perfezione, giustizia, sensibilità al giudizio, ecc). Ed è su tali temi che andrà
indirizzata l’autosservazione del pz e il successivo lavoro terapeutico. Il terapeuta, insieme al
paziente, potrà osservare, ad esempio, come il modo in cui ciascuno tende a rimanere in
contatto con chi si è perduto e a ricordarli, il modo in cui lo immagina orientato verso di sé, il
tipo di dialogo che si instaura, segue inevitabilmente e coerentemente le modalità
caratteristiche e uniche del proprio stile cognitivo/emotivo e interpersonale, cioè le regole che
66
guidano il proprio modo abituale di tenere lo stato di relazione con l’altro, in funzione delle
dimensioni di significato personale che garantiscono stabilità e coerenza al sentimento di noi
stessi (v. Figura 1).
ORGANIZZAZIONI DI SIGNIFICATO
PERSONALE E LUTTO
FOB
TONALI TA’ EM OTI VE E
TEM I PREVALENTI
Lettura sensoriale (corporea) delle
emozioni (sintomi fisici)
Rabbia da abbandono (come
ansiolitico)
Paura della depressione
Paura della solitudine, del futuro
Pericolo, senso di minaccia,
abbandono, costrizione
Forte/Debole
SI STEM I DI M EM ORI A
PREVALENTI
LOSS ORI ENTATI ON
vs
RESTORATI ON
ORI ENTATI ON
STI LE DI RI EVOCAZI ONE
E CONTATTO CON LA
FI GURA PERSA
DAP
Senso di vuoto, confusione,
Vergogna
Emozioni vaghe, poco definite
Lutto di “facciata”
non di “sostanza”
Ciò consente elaborazione rapida
DEP
Rabbia/Disperazione
Regolazione emotiva in difetto
Sentimenti di non amabilità
Esplorazione come distrattore
Disposizione allo sforzo
OSS
Disgusto, Disprezzo, Biasimo
Rabbia come Indignazione morale
Autobiasimo e senso di indegnità
personale
Giusto/Sbagliato
Buono/Cattivo
Senso ipertrofico di Responsabilità
Immagini intense, linguaggio
evocativo, procedurale coinvolgente
collusivo-confrontativo
Memoria episodica sfumata e
circolare o frammentata
Memoria semantica, procedurale
distanziante sé, Episodi dal punto di
vista genitoriale, linguaggio
denotativo.
Memoria semantica, immagini
spostate o scollegate, procedurale
distanziante l'altro e il sé, linguaggio
denotativo
LO
LO/RO
RO
RO
Immagine vaga un po’ sognante e
idealizzata della persona persa
Richiesta di conferma dell’immagine
di sé in corso
“Lui lassù che pensa bene di me”
Senso di liberazione dal giudizio
Attivazione accuditiva (A3)
Bisogno di condivisione e
riconoscimento prestazionale (A4)
No dialogo o poche parole
Bisogno di mettersi nel suo punto di
vista e capire i suoi bisogni
Scambio logico-razionale
Conferma di sé in termini di
integrità morale
Responsabilità personale per la sua
scomparsa (“se avessi fatto”)
e senso di colpa morale
Immagini sensoriali vivide della
persona persa
Paura di vederlo in casa
(l’ombra, il fantasma, ecc)
Richiesta di protezione, senso di
contenimento e rassicurazione fisica
No distinzione corpo-anima
Ceneri
Fig.1 OSP e Lutto
Il caso che segue, ad esempio, ben evidenzia come una Organizzazione di significato
personale di tipo Fobico (o controllante) può reagire alla perdita e processare i sentimenti
tipici del lutto.
Roberta, 39 anni (organizzazione fobica attiva)
Richiede una consulenza perché teme di essere “affetta da depressione”, in quanto, da qualche
mese, ogni mattina si sveglia in lacrime senza saperne il motivo. Dal ritmo concitato
dell’eloquio e dall’accesa espressività viene da subito da escludere tratti organizzativi interni
di tipo depressivo.
La paziente è sposata da 15 anni, ha 2 figli, un maschio di 14 anni e una femmina di 9. Le è
mancato il padre giusto un anno fa. Roberta, figlia unica, che dice di aver avuto con il padre
un legame speciale, racconta la sofferenza provata da quando, un anno e mezzo fa, ha saputo
che il padre era affetto da un cancro incurabile al fegato. Dice di aver da subito pianto e
provato molta angoscia ma di aver dopo poco reagito con un atteggiamento deciso, quasi di
negazione nei confronti dell’incurabilità della malattia, portando il padre dai migliori
specialisti del nord Italia, tentando tutte le cure possibili, e decidendo lei per tutti (la madre è
ancora in vita) di far credere al padre che il suo problema consisteva soltanto in un polipo
benigno “che però, essendo molto grosso, era necessaria la chemio terapia per ridurlo” e che
si sarebbe ripreso in tempi brevi. Quando l’uomo esprimeva perplessità su questo, la figlia
reagiva aggressivamente dicendogli: “Mettitelo in testa che non è niente! Guarirai presto!”.
Durante l’ultimo periodo di vita del padre, Roberta si è praticamente “trasferita all’ospedale”
con lui, assistendolo giorno e notte. Il giorno prima che il padre morisse, dopo aver deciso di
67
mandare via tutti gli altri congiunti per rimanere da sola con lui, si è messa nel letto con il
padre, parlandogli ininterrottamente dei progetti che avrebbero fatto quando lui sarebbe stato
dimesso. Quando il padre è spirato, i medici hanno dovuto insistere per parecchio tempo
prima che lei si decidesse di uscire dal letto.
Da subito Roberta dice di aver reagito “con forza”, non sentendo il dolore per la perdita. “La
settimana dopo il funerale, sono andata con mio marito a vedere un musical e mi sono
divertita moltissimo”. Questa fase è durata per qualche mese, dopodiché è subentrata una fase
di rabbia “verso tutti”, che permane, affiancata da quei momenti di pianto e tristezza con i
quali si sveglia ogni mattina, ma che dice non legati a nessun sogno o pensiero cosciente.
La pz per 6 mesi ha tenuto in casa con sé le ceneri del padre, (che aveva espresso la volontà di
essere cremato), finché, dovendo partire per le vacanze con la famiglia, non volendo lasciare
lì il padre “perché (quando era in vita) non sopportava di stare chiuso in casa da solo”, poco
prima della partenza prevista, decide di coinvolgere la madre, il marito e i bambini nel rito di
spargimento delle ceneri sul fiume del paese d’origine del padre.
Nei soggetti organizzati in senso fobico attivo, i sentimenti di dolore sono avvertiti
intensamente ma controllati a fior di pelle: non riescono realmente a fare un lutto provando
genuinamente dolore, sono spaventati dalla tristezza, hanno paura della depressione e
chiedono continue rassicurazioni in merito (dottore, non avrò mica la depressione?). In alcuni
casi, possono esprimere il lutto non in termini genuinamente emotivi, ma in termini di lettura
sensoriale delle emozioni (lipotimie, astenia/senso di oppressione al petto e costrizione).
Tendono a rievocare la persona persa attraverso immagini sensoriali molto intense e vivide.
Inoltre, capita sovente che il pz abbia, insieme al bisogno di continuare a rappresentarsi la
persona morta vividamente, sensorialmente, anche il timore di vedersi comparire il fantasma
della persona morta, accompagnata da una grande paura di rimanere da soli in casa (“la notte
mi alzo per andare in bagno e mi tremano le gambe … ho proprio l’impressione di vederla lì
seduta sul divano che mi guarda!”).
Stefania (Organizzazione mista Dap/Fob)
Quando Stefania ha 27 anni le muore la nonna, con cui ha dormito fino ai vent’anni, appena
prima di sposarsi. Riporta che ogni tanto la sera le sembra di vedere l'ombra della nonna che si
muove in giardino, S. si spaventa ed è triste. Mentre mi racconta queste cose la vedo piangere
per la prima volta, è molto attivata anche se sono già passati 11 anni, così iniziamo a lavorare
su questo lutto irrisolto, partendo dalla malattia della nonna e passando ai momenti precedenti
la morte, il funerale, e ciò che succede dopo la morte. In casa non se ne poteva parlare perchè
“avevo paura di far star troppo male mia mamma”, arriva a scrivere una lettera di saluto alla
nonna e via via l'attivazione rispetto a questa morte si attenua, donando parole e corpo a
quella sofferenza. S. arriva a raccontare questo lutto con serenità “ora non vedo più l'ombra in
giardino, era come un filo che non volevo si staccasse, io faccio fatica a digerire i distacchi
soprattutto per quelle persone che hanno rappresentato un appoggio, era come perdere un
pezzo di me, ora è dentro di me il suo ricordo”.
Gianni 56 anni (organizzazione fobica attiva)
Gianni scopre casualmente, eseguendo esami medici di routine di avere un tumore ai polmoni.
I curanti gli danno pochi mesi di vita. Da quel momento, evita attivamente di contattare le
parti spaventate e vulnerabili del sé e avvia una fase di iperattività spasmodica, dove non c’è
possibilità di trovare un attimo di tempo per fermarsi a pensare e a sentire il dolore della
perdita. I viaggi si susseguono a ritmo incalzante, le attività, toniche, “adrenaliniche” si fanno
sempre più pressanti, con impegno quotidiano in sport estremi, che gli danno l’idea di forza,
di coraggio e di competenza estrema nel maneggiare la paura e il pericolo di morte.
Dunque, anche il rapporto con la propria morte, entro tali strutturazioni “controfobiche” del
68
sé tende ad orientarsi verso modalità di regolazione emotiva “toniche” e attive. La persona ha
bisogno di costruirsi un lutto “tonico” e attivante che, paradossalmente, confermi la
funzionalità delle loro consuete modalità di regolazione degli stati emotivi e della loro
immagine di sé ostentatamente forte (bisogna essere più forti della morte, o per dirla con le
parole stesse di Gianni: “alla morte bisogna metterglielo in quel posto!!!”)
Lucio è un adolescente con organizzazione di personalità strutturata essenzialmente in senso
fobico attivo con una percezione esplicita, si potrebbe quasi dire ostentata, di sé in termini di
forza e di coraggio. Colpito, insieme alla madre, da una serie pesantissima di sciagure. A 16
anni, la morte improvvisa del padre per un gravissimo incidente stradale. Sia la madre che
Lucio si appoggiano disperatamente al fratello più grande Andrea che comincia ad assumere il
ruolo di capofamiglia, un ruolo importante di guida e protezione. Passano pochi mesi e Lucio
è di fronte all’Ospedale Civile della sua città, ad attendere il fratello che lì lavora come
infermiere. Il fratello esce, fa per attraversare la strada sorridendo per raggiungerlo, e un
extracomunitario mezzo ubriaco lo falcia con l’auto e lo lascia morto a terra davanti ai suoi
occhi.
Quando Lucio arriva in terapia, la madre (dopo circa un anno dalla morte di Andrea) è ancora
in uno stato di disorientamento e incredulità e parla del marito e del figlio come fossero
presenti e vivi. Lucio presenta invece sintomi d’ansia particolarmente intensi e fortissimi
timori di separazione (dalla madre, dalla fidanzata, con la quale si stava gradualmente
“guastando” il rapporto per le sue modalità sempre più gelose e coercitive, e dalla zia paterna)
accompagnati da somatizzazioni.
Non è stato facile in seduta vederlo piangere, lui, forte e tonico, surfista indomabile, ore di
tavola da surf e di palestra ogni giorno. Dopo alcuni mesi di lavoro terapeutico, quando
cominciano gradualmente ad emergere la sua parte fragile e i suoi sentimenti di vulnerabilità
(anche con l’ausilio delle tecniche immaginative di cui sopra), comincia a raccontare in
seduta, con gli occhi un po’ lucidi: “… nelle ultime settimane, praticamente tutte le sere vado
giù a Cesenatico … e aspetto che non ci sia più nessuno in spiaggia … un gran silenzio … e
mi siedo lì sulla mia tavola, davanti al mare e guardo là lontano … e a un certo punto vedo il
babbo … e vedo Andrea … ma, li vedo proprio!! Lì sul mare!! e gli racconto quello che ho
fatto in giornata, il lavoro, la palestra, la Monica (la sua fidanzata) e parliamo, ma parliamo
proprio!! … e il babbo spesso mi dà una botta sulla spalla … e mi dice che non è niente di
tutti sti malanni che ho, e che sono forte come una roccia … e Andrea che è un po’ incazzato
e mi dice che se non la smetto di avere quelle uscite di rabbia, poi la Monica si stufa!! …. E
poi dopo un po’ li saluto … e torno a casa che sto proprio bene!”
Quell’estate Lucio ha fatto regolarmente (senza mancarne una) le sue “sedute” serali con
Andrea e col papà; a quel punto forse ancor più importanti delle nostre sedute terapeutiche
settimanali.
Mentre nei fobici attivi è molto frequente l’amplificazione della rabbia da abbandono, nei
fobici passivi sono spesso presenti senso di inaiutabilità e sintomi astenici. Usualmente,
essendo poco astratti, e talvolta addirittura superconcreti, non riescono a farsi una ragione
della distinzione tra il corpo e l’anima dopo la morte; hanno difficoltà ad immaginarsi
qualcosa di più astratto, di spirituale, di trascendente, al di là del corpo. Prevalgono immagini
sensoriali claustrofobiche quali il vedersi chiusi dentro la cassa: sovente decidono di farsi
cremare per evitare questa condizione costrittiva. Similmente, amano immaginarsi l’aldilà in
modo rassicurante e concreto (“come nella pubblicità della Lavazza!”), un aldilà in cui siano
possibilmente conservate tutte le loro abitudini e ritualità quotidiane.
Nelle Organizzazione di significato personale di tipo Depressivo (o distaccate), invece, il
senso di perdita riverbera e spicca su ogni altra tonalità e tema narrativo, come conferma
69
sostanziale del senso tacito e pervasivo di non amabilità del soggetto, del suo destino di
solitudine e della sua percezione del mondo in termini di non disponibilità affettiva.
Disperazione e Rabbia sono le emozioni che fanno da marcapasso tacitamente e potentemente
all’intera struttura, ma sono usualmente gestite attraverso operazioni di autocura,
autosufficienza obbligata e/o di “Restoration Orientation” (Stroebe e Schut, 1999), cioè di
orientamento dell’attenzione verso gli aspetti più organizzativi e pratici del lutto.
Nello stile narrativo prevale l’utilizzo dei sistemi di memoria di tipo procedurale e semantico:
nella memoria episodica, gli eventi sono ricostruiti con stile astratto, generalizzante, talvolta
anche poetico, dove tuttavia il sé è escluso attentamente dalla narrazione. Lo stile di
rievocazione e le modalità di contatto che si esprimono attraverso la suddetta tecnica
terapeutica, tendono a passare verso l’attivazione accuditiva verso il defunto (bisogno di dirgli
qualcosa che lo faccia star bene) o attraverso il bisogno di condivisione e riconoscimento
prestazionale (la figura defunta che rinforza in modo diretto o indiretto la propria competenza
e il proprio valore su un’area non affettiva, ma intellettuale e prestazionale). Il dialogo la
figura persa è molto limitato o assente (talvolta il soggetto sottolinea esplicitamente che “non
c’è bisogno di parole!”) e comunque gli eventuali frammenti comunicativi sono tutti orientati
sul punto di vista dell’altro e non sui propri bisogni.
In alcune configurazioni difese di tipo compulsivamente accuditivo, addirittura, il paziente,
anzichè esprimere per sé tristezza e desiderio di conforto, assume frequentemente
comportamenti di tipo oblativo, compulsivamente “genitoriali”, anche verso le figure
significative che ha intorno.
Di solito i pz con queste organizzazioni di personalità sembra che reggano bene l’impatto
iniziale con l’evento traumatico, amplificando il loro deficit integrativo di tipo
emotivo/affettivo, e facendo leva su meccanismi di esplorazione come distrattore, tipici degli
itinerari di sviluppo evitanti/difesi, o su attività intellettuali, amplificando i loro meccanismi di
compenso di tipo prestazionale (ad esempio, un intenso impegno scolastico o lavorativo:
come a dire “metto la testa da un’altra parte”).
Lo scompenso, anche grave, può determinarsi più tardi, quando per qualche ragione dovessero
andare in crisi tali meccanismi di compenso (fase di fisiologica difficoltà o fallimento
scolastico, crisi lavorativa, ecc). Occorre fare attenzione, però, a non confondere i meccanismi
di soppressione attiva tipici di questi ragazzini o di adulti con stato mentale distanziante con i
fisiologici, naturali e normali meccanismi di adattamento messi in atto da tutti i bambini più
piccoli. Nella prima infanzia, fino ai 4/5 anni il dolore viene sperimentato in modo diverso e i
meccanismi di gestione del dolore sono rappresentati da strategie di mastery di primo livello
(agire sul corpo, evitamento, distrazione, ecc): è facile che un bimbo piccolo a cui viene
comunicata la morte del padre possa reagire ad esempio, mettendosi a correre, oppure
dicendo: “Possiamo tenere un micino?”, oppure disegnando scene del suo recente
compleanno, ecc … dandosi cioè degli “antidepressivi” semplici di primo livello.
Nelle Organizzazioni di significato personale di tipo DAP (o contestualizzate), connotate da
un senso di sé vago e indefinito e da un corrispondente bisogno di definizione esterna, le
esperienze emotive più tipiche, riferite in fase di lutto, sono costituite da un senso vago di
vuoto interiore, di confusione, di smarrimento, che fanno da riscontro alla percezione di
perdita del pensiero forte esterno atto a confermare e a definire i contorni del sé.
E’ possibile, in questi casi, osservare lutti, cosiddetti “di facciata” con vistosa espressività
emotiva in prima battuta, che svolge peraltro la funzione di “sentirsi” e di conferma dei
sentimenti provati per l’altro (“se soffro vuol dire che gli volevo bene!” “più soffro, più vuol
dire che gli volevo bene”), a cui possono fare riscontro rapidi slittamenti su altri registri
emotivi, anche positivi, in funzione del cambiamento di contesto e di relazione. La possibilità
70
per queste organizzazioni, di fare il lutto sull’”involucro” piuttosto che sull’interno, cioè solo
sull’immagine mostrata all’altro, consente usualmente elaborazioni rapide.
Talvolta (in situazioni di ancora scarsa demarcazione sé/altro), alcuni soggetti potrebbero
avvertire tacitamente, o anche riferire, un senso di sollievo e di attenuazione del sentimento di
intrusività e giudizio precedentemente percepito (e quindi maggiore libertà espressiva): “…
per la prima volta, dopo la morte di mia madre … proprio il giorno dopo … per la prima
volta mi sono stesa sul divano e liberamente ho tirato fuori dalla borsa Repubblica … e ho
letto l’articolo di fondo, incredibilmente rilassata … senza immaginare i suoi occhi … che mi
guardano, come dire: non posso credere che tu la pensi veramente in quel modo … non è
proprio possibile!”
Sul piano dell’elaborazione dell’informazione e quindi dello stile narrativo, i sistemi di
memoria preferenziali in questo caso sono rappresentati da una memoria semantica sfumata e
circolare o frammentata.
Lo stile di rievocazione e le modalità di contatto con la figura persa sono usualmente
caratterizzate da un’immagine un po’ vaga sognante e idealizzata del defunto, dal quale il
soggetto si aspetta una conferma dell’immagine di sé in corso (“Lui lassù che mi guarda e mi
dice: sei sempre così in gamba nel tuo lavoro …”)
Nelle Organizzazioni di significato personale di tipo Ossessivo (o normativo), anche
nell’elaborazione del lutto, prevalgono temi di responsabilità morale, giusto/sbagliato,
buono/cattivo con relative emozioni di degnità/indegnità morale, rabbia come indignazione
morale, disgusto, disprezzo e biasimo/autobiasimo.
Sul piano elaborativo e narrativo viene utilizzata prevalentemente la memoria semantica, con
immagini spostate o scollegate, un procedurale distanziante l’altro e il sé, e linguaggio
denotativo.
L’evocazione immaginativa della figura persa è spesso difficoltosa e il dialogo, se si instaura,
prende la forma di uno scambio logico-razionale, dove usualmente l’obiettivo è la conferma di
sé in termini di integrità morale. Può comparire facilmente anche il senso di responsabilità
personale (in senso morale) per la morte dell’altro: ad esempio, a Marzia, per tre anni
continua a salirgli più volte al giorno il pensiero intrusivo che se non fosse andata dalla
parrucchiera proprio in quel giorno e proprio in quell’ora, forse il suo amato fratello sarebbe
ancora vivo.
In termini processuali prevalgono forse in forma ancor più marcata che nelle organizzazioni
depressive, fattori di tipo “Restoration Orientation” cioè di forte polarizzazione
dell’attenzione verso gli aspetti pratico-organizzativi del lutto, con forte enfasi sulla difficile
riorganizzazione dell’ambiente domestico, lavorativo, ecc, a discapito delle implicazioni
emotivo-affettive.
Marco (Grave Disturbo Ossessivo di Personalità).
A seguito del lutto della madre, subito a 12 anni, il padre di Marco si unisce molto in fretta
con un'altra donna che va ad abitare con loro dopo breve tempo. Lui, fin da subito, la chiama
“mamma”. Esplorando in terapia tale perdita e le emozioni ad essa connesse, il paziente dice:
“no, niente di particolare, non sono stato poi così male, anche perché il giorno del funerale
non mi ci hanno mandato e mi hanno portato a giocare con altri bambini … poi, proprio in
quell’anno ho cambiato scuola e quindi tutta la novità del nuovo ambiente, i nuovi compagni
… non avrei avuto neanche tempo di pensarci …”.
“Per me ora mia mamma è più lei, quella che poi mi ha cresciuto … perché, se ci pensa, in
effetti l’altra mamma ce l’ho avuta solo fino a 13 anni, questa invece ce l’ho da 30 anni …
quindi il database di questa nuova mamma è molto più ampio di quello dell’altra!”. Mentre
71
dice questo, in modo marcatamente coartato, gli scende una lacrima muta sul volto, senza che
Marco abbia la minima consapevolezza di quel che sta accadendo.
Anche per quanto concerne il rapporto con la propria morte, l’attenzione selettiva del
soggetto organizzato in senso normativo è sempre sul proprio senso di degnità morale. Come
evidenzia Margherita, a fronte di una grave crisi cardiaca, collasso e percezione netta di
morte. Nessuna disposizione all’azione, a chiedere aiuto in modo espressivo. Prevale anzi la
ipoattivazione, la regolazione emotiva in difetto, connessa a una peculiare serie di
rappresentazioni interne, in forma prevalentemente verbale e sequenziale. Freddamente, in
pochi secondi, Margherita passa in rassegna tutta la sua vita e si chiede: avrò vissuto male o
bene? La mia vita è stata degna? E intanto sente una musica e delle parole, distintamente, è La
canzone di Piero di Fabrizio De Andrè: “Cadesti a terra, senza un lamento, e ti accorgesti in
un solo momento, che la tua vita finiva quel giorno e non ci sarebbe stato ritorno … cadesti a
terra, senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato
a chieder perdono per ogni peccato”.
Bibliografia
Ainsworth M.D.S., Blehar M., Waters E. e Wall S. 1978. Patterns of Attachment: A
psychological study of the Strange Situation. Erlbaum, Hillsdale, N.J.
Bowlby J. 1969. Attachment and loss, vol 1. Basic Books, New York. [Attaccamento e
perdita, vol. 1, L'attaccamento alla madre, Boringhieri, Torino 1972].
Bowlby J. 1973. Attachment and loss, vol 2. Basic Books, New York. [Attaccamento e
perdita, vol. 2, La separazione dalla madre, Boringhieri, Torino 1975].
Bowlby J. 1979. The making and breaking of affectional bonds. Tavistock, London.
[Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1982].
Bowlby J. 1980. Attachment and loss, vol 3. London Hogarth Press, New York.
[Attaccamento e perdita, vol. 2, La perdita della madre, Boringhieri, Torino 1983].
Bowlby J. 1988. A secure base. Routledge, London. [Una base sicura, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1989].
Bowlby J. 1990 “Charles Darwin: a New Biography”, Hutchinson, London [“Darwin: una
biografia nuova”, Zanichelli, Bologna 1996].
Crittenden PM, 1999, L’organizzazione dell’attaccamento in età adulta: un approccio
dinamico-maturativo alla Adult Attachment Interview, Cortina Editore.
Crittenden P., Andrea Landini 2011. Assessing Adult Attachment. W.W.Norton & Company,
New York-London.
Chiambretto P. 2008 Prolonged Grief Disorder: verso la definizione di una nuova categoria
diagnostica Giornale Italiano di Medicina del Lavoro ed Ergonomia Supplemento B,
Psicologia © PI-ME, Pavia; Vol. 30, N. 3: B40-B46 http://gimle.fsm.it ISSN 0391-9889
Dodet M. 1998. La moviola. Psicoterapia, 4, 13, 89- 93.
Frances A., 2013.”The past, present and future of psychiatric diagnosis”. World Psychiatry
12 (2): 111–112
Guidano V.F. 1987. Complexity of the self. The Guilford Press, New York. [La complessità
del sè, Bollati Boringhieri, Torino, 1988].
Guidano V.F. 1991. The self in process: Toward a post-rationalist cognitive therapy.
Guilford, New York [Il sé nel suo divenire: verso una terapia cognitiva post-razionalista,
Bollati Boringhieri, Torino, 1992].
72
Guidano V.F. 2000. Orientamenti razionalisti e non razionalisti nella psicoterapia cognitiva
(seminario tenuto nel 1989). In: Nardi B., ed., Vittorio Guidano e l’origine del cognitivismo
sistemico processuale. Accademia dei Cognitivi della Marca, Ancona.
Guidano V.F. 2001 “El Modelo Cognitivo Postracionalista. Hacia una Reconceptualizaciòn
Teorica y Critica”, Editorial Desclée De Brouver, S.A. [Psicoterapia cognitiva postrazionalista, Franco Angeli, Milano, 2007].
Guidano V.F. 2008 “La psicoterapia tra arte e scienza”, Franco Angeli, Milano.
Harris T., Bifulco A. 1991. Loss of parent in childhood, attachment style and depression in
adulthood. In: Parkes C.M., Stevenson-Hinde J. e Marris P., eds., Attachment across the life
cycle. Tavistock/Routledge publication. [Perdita di un genitore durante l’infanzia, stile
d’attaccamento e depressione in età adulta. In: Parkes C.M., Stevenson-Hinde J. e Marris P.,
eds. L’Attaccamento nel ciclo della vita, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma 1995].
Klass D., Silverman P.R., Nickman S.L. 1996 Continuing Bond:New Understanding of Grief,
Taylor & Francis, Washington DC.
Lambruschi F. 1996. Il bambino. In: Bara G. a cura di. Manuale di psicoterapia cognitiva.
Bollati Boringhieri, Torino, 1996.
Lambruschi F. 2014 (a cura di) Psicoterapia cognitiva dell’età evolutiva, Boringhieri, Torino
Seconda Edizione.
Lambruschi F. 2007 “Attaccamento e disturbi dell’umore” in L’umore e i suoi disturbi, atti
dell’VIII Convegno di Psicopatologia post razionalista, Accademia dei Cognitivi della Marca,
Ancona.
Lambruschi F., Lenzi S. 2008. La tecnica della moviola come metodo di rielaborazione delle
narrative autobiografiche, Revista de Psicoterapia, 1.
Liotti G., Intrecciatagli B., Cecere F. 1991. Esperienza di lutto della madre e predisposizione
ai disturbi dissociativi nella prole: uno studio caso-controllo, in Rivista di Psichiatria, 26,
pp.283-91.
Liotti G. 1994. La dimensione interpersonale della coscienza. La Nuova Italia Scientifica.
Roma.
Lyons-Ruth K., Zoll D., Connel D. e Grunebaum H.U. 1989. Family deviance and family
disruption in childhood: Associations with maternal behavior and infant maltreatment during
the first years of life. Development and Psychopathology, 1, 219-236.
Maciejewski P.K.; Zhang B.; Block S.D.; et al., 2007, An Empirical Examination of the Stage
Theory of Grief , JAMA, vol 297, 7.
Main M. e Goldwyn R. 1984-1998. Adult attachment scoring and classification system.
Manoscirtto non pubblicato. Department of Psychology, Università di California, Berkeley.
Neimeyer A.R. 2006 Lesson of Loss. A guide to coping. Center for the Study of Loss
Transition, Memphis, Tennessee.
Neimeyer A.R. 2012 Techniques of Grief Therapy, Creative Practices for counseling the
bereaved. Routledge, New York.
Pedder F. 1982. “Failure to Mourn and Melancholia”, British Journal of Psychiatry, 141, 329337.
Stroebe, M. S., & Schut, H. (1999). The Dual Process Model of coping with
bereavement:Rationale and description. Death Studies.
Stroebe, M. S., Schut, H., Hansson, O. R., & Stroebe, W. (2008). Handbook of Bereavement
Research and Practice. Washington: American Psychological Association.
Wakefield, J. C. (2010). Misdiagnosing normality: Psychiatry’s failure to address the problem
of false positive diagnoses of mental disorder in a changing professional environment. Journal
of Mental Health, 19 (4), 337-351.
73
PSICOPATOLOGIA E PSICOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVOCOMPULSIVO: TRA CONTINUITÀ E CAMBIAMENTO
Gherardo Mannino
Introduzione
Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) è un disturbo le cui manifestazioni caratteristiche
consistono in 'ossessioni' e ‘compulsioni’: le prime consistono in pensieri, impulsi o immagini
con carattere inappropriato e intrusivo, mentre le seconde sono costituite da comportamenti
obbligati messi in atto allo scopo di prevenire, anche se in modo poco realistico, certi eventi
temuti connessi proprio al contenuto delle ossessioni. Come noto si tratta di una condizione
per lo più cronica (Visser et al. 2014) e, in molti casi, estremamente invalidante (Veale &
Roberts, 2014).
Uno dei primi tentativi di formulare un modello esplicativo di questa patologia risale a Freud
(1895, 1909, 1913), probabilmente il primo a considerare le ossessioni e le compulsioni come
manifestazioni dotate di significato piuttosto che come fenomeni semplicemente senza senso.
Tuttavia, più avanti negli anni, lo stesso Freud (1926) finì per considerare questo disturbo una
sorta di croce e delizia per il suo metodo, vale a dire un’entità che permetteva delle analisi
psicopatologiche eleganti, ma che al dunque restava spesso inaccessibile alla terapia.
In tempi molto più recenti, invece, ha riscosso progressivamente credito un modello
esplicativo che si rifà alla 'terapia cognitiva' standard. Secondo questo approccio, alla base del
DOC vi sarebbero una o più ‘convinzioni 'disfunzionali': a esempio, convinzioni irrealistiche
circa la propria capacità di influenzare gli eventi (McFall, Wollersheim, 1979) o circa il fatto
di esserne responsabili in prima persona (Salkovskis, 1985; Rachman, 1993; Salkovskis et al.,
1999). In accordo a questa veduta, l’intervento terapeutico mira a modificare le queste
presunte distorsioni: a esempio, con un paziente con la preoccupazione ossessiva di poter
danneggiare gli altri, l'intervento terapeutico consisterà nel condurre il soggetto - tramite una
serie di ragionamenti di tipo probabilistico - a una valutazione più realistica del rischio tanto
temuto (Van Oppen & Arntz, 1994). Tuttavia, da un intervento di questo tipo non ci può
aspettare che una modifica del solo livello esplicito dell’esperienza (Guidano, 1991): di
conseguenza, anche se il paziente si convincesse davvero che la sua preoccupazione è
irrealistica o comunque esagerata, egli continuerà in ogni caso a sentirsi una persona che
ospita dentro di sé delle istanze negative e pericolose.
Secondo l’approccio inaugurato da Guidano (1991), invece, il problema del DOC avrebbe la
sua origine, non tanto in una vera e propria distorsione cognitiva dei soggetti che ne sono
affetti, quanto piuttosto in una particolare rigidità della specifica configurazione
personologica che li caratterizza e che avrebbe come conseguenza una difficoltà, da parte
loro, a integrare all’interno della propria esperienza certi ingredienti emotivi, di per sé
significativi, ma che pure -in quanto non assimilati- vengono vissuti come ego-distonici e
minacciosi. Naturalmente, questa non è l’unica Organizzazione di Significato Personale
(OSP) in cui si può osservare una difficoltà ad assimilare nuovi ingredienti emotivi: quello
che qui interessa, però, è specificare solo il modo in cui questa difficoltà si declina appunto in
questa OSP .
L'Organizzazione di Significato Personale 'Ossessiva'
La particolare configurazione personologica all'origine del DOC, come è noto, prende il
nome di Organizzazione di Significato Personale 'Ossessiva'. Tuttavia, la possibilità di
74
spiegare il DOC soltanto nei termini dell’OSP ‘Ossessiva’ è stata messa in discussione: Tallis
(1995), a esempio, ha sostenuto che le formulazioni di Guidano e Liotti (1983), pur se di
indubbio interesse, non fornirebbero in realtà una spiegazione parsimoniosa del perché i
soggetti con questa organizzazione cognitiva sviluppino proprio il DOC anziché, a esempio,
un disturbo depressivo. Probabilmente, queste accuse non sono pienamente giustificate, dato
che, invece, è facile riconoscere già a livello clinico una connessione piuttosto specifica tra
OSP ‘Ossessiva’ e DOC. Tuttavia, non c’è dubbio che, in generale, un inquadramento dei
diversi disturbi basato sulle OSP costituisca un approccio prevalentemente top-down: nel caso
specifico, può così essere difficile capire subito quali siano i passaggi intermedi attraverso i
quali si possa arrivare da una configurazione di personalità molto generale (vale a dire l’OSP
‘Ossessiva’) ai caratteristici sintomi del DOC.
Ma cosa succede con gli sviluppi del modello successivi alla critica di Tallis (Guidano, 1999,
2010)? Essi hanno cambiato in qualche modo la situazione? La domanda è giustificata dal
fatto che, alla fine degli anni 90, Guidano ha riformulato in modo più astratto le diverse OSP,
mettendone meglio in luce, non solo le relative differenze, ma anche i reciproci rapporti
(Guidano, 1999, 2010). Per questo nuovo inquadramento, Guidano (1999, 2010) ha fatto
ricorso, come è noto, a due dimensioni psicologiche: l’una già presente in letteratura, la fielddependence/field-independence (Witkin, 1948; Witkin, Goodenough, 1977), e l'altra, invece,
inedita: la inwardness/outwardness.
Il costrutto di field-dependence/field-independence ha a che fare con la maggiore o minore
capacità di un individuo di distinguere un certo elemento percettivo dallo sfondo (o campo) in
cui è immerso (Witkin, 1948; Witkin et al., 1962), anche se in seguito il costrutto è stato
applicato anche al contesto delle relazioni interpersonali (Witkin & Goodenough, 1977). In
pratica, questa dimensione si riferisce al tipo di rapporto che un soggetto intrattiene con gli
altri: i soggetti field-dependent sarebbero caratterizzati da un approccio più ‘affettivo’ e
'interpersonale' mentre, al contrario, i soggetti field-independent manifesterebbero un
atteggiamento più ‘cognitivo’ e 'impersonale'.
L'altra dimensione, la inwardness/outwardness, rimanda invece alla relazione con se stessi
(Guidano, 1999, 2010): infatti, i soggetti inward, possedendo emozioni di base (basic
feelings) ben nette e definite avrebbero un'esperienza definita 'dall'interno', al contrario, i
soggetti outward per ottenere un interno stabile e accettabile ricorrerebbero a criteri esterni
(Guidano, 1999, 2010).
Disponendo le due dimensioni su un piano, l'una ortogonale all'altra, ne risulta una griglia
grazie al quale ogni OSP appare contraddistinta da una coppia di polarità (una per ciascuna
dimensione): in questo modo, a esempio, l'OSP ‘Ossessiva’ appare caratterizzata dalle polarità
Outward e Field-independent (Guidano, 2010).
Occorre però precisare che una delle dimensioni, la field-dependence/field-independence,
presenta diversi problemi sia quando considerata in se stessa che quando applicata alla Teoria
delle OSP (Mannino, 2011a). Di conseguenza, al posto di quella, conviene considerare una
dimensione in parte simile, ma che prenda in considerazione solo l’aspetto relazionale
(piuttosto che anche quello percettivo). In via provvisoria si potrebbe chiamare questa
dimensione impersonality/ interpersonality, proprio per metterne in evidenza uno degli aspetti
più salienti: in essa, infatti, una polarità sarebbe rappresentata da un’attitudine ad affrontare i
problemi relazionali in termini cognitivi, generali e impersonali, mentre l’altra polarità
rimanderebbe a un approccio più affettivo, contestuale e interpersonale (Mannino, 2014).
A questo punto, è immediato interpretare certe caratteristiche psicologiche dei soggetti con
DOC in termini di una particolare rigidità di entrambe le polarità che caratterizzano l’OSP
‘Ossessiva’ (vale a dire, impersonality e outwardness). Infatti, diventa facile leggere in
75
termini di una rigida impersonality aspetti quali l’approccio analitico, la tendenza ad
affrontare le situazioni non univoche con mezzi cognitivi e impersonali, la regolazione del
comportamento sulla base di princìpi universali, la tendenza a privilegiare gli aspetti generali
di una situazione rispetto agli ingredienti esclusivamente personali; mentre, allo stesso modo,
è immediato riportare a una rigida outwardness la difficoltà a leggere ‘in presa diretta’ i propri
stati interni (sensazioni, emozioni, immagini, ecc.), la tendenza a interpretarli invece in base a
criteri esterni (a esempio, princìpi di ordine morale, giuridico, eccetera) così come il cercare
di plasmarli in conformità a essi (Guidano, 2010).
Altre manifestazioni del DOC si possono invece riportare a una dimensione proposta solo in
seguito, denominata 'Diacronia/Sincronia' (Mannino, 2005, 2008, 2011b), che cerca di
catturare il diverso modo con cui si può articolare la dinamica tra la necessità di avvertire una
‘continuità’ della propria esperienza (e in definitiva della propria immagine di sé) nel corso
del tempo e il bisogno di avvertirne anche un’unitarietà momento per momento. Qui interessa
la sola polarità diacronica, nei cui termini si possono leggere certe caratteristiche dei soggetti
con DOC quali il marcato bisogno di continuità nell'immagine di sé, il continuo monitoraggio
di singoli ingredienti esperienziali, l'enfasi sulla previsione, il turbamento di fronte di una
percepita discontinuità, le ripetute verifiche su di sé volte ad accertare chi si è veramente
(Mannino, 2005, 2008).
Con in mente queste distinzioni, si può ora tornare al problema sollevato da Tallis (1995). E a
questo riguardo sembra di poter rispondere in questo modo: anche quando si consideri l’OSP
‘Ossessiva’ in termini di outwardness, impersonality e diachrony vi è ancora una grande
distanza tra il grado di astrazione e di generalità di questi costrutti e la concretezza e la
molteplicità delle manifestazioni del DOC. Di seguito si propongono quindi due meccanismi
patogenetici che occupano una posizione intermedia tra le dimensioni e i sintomi e che quindi
costituiscono una sorta di ponte tra i due livelli: la ‘lettura delle emozioni a opposta
direzionalità come incompatibili’ e la ’individuazione retrospettiva delle motivazioni’.
La ‘lettura delle emozioni a oppposta direzionalità come incompatibili’
Come è noto Guidano (1991), a proposito dell’esperienza immediata dei soggetti con OSP
'Ossessiva', parlava di una caratteristica presenza di emozioni “contraddittorie e ambivalenti”.
Tuttavia, ci si può chiedere: queste emozioni sono davvero ‘antitetiche’ ? Infatti, l'esperienza
clinica mostra che - in molti casi- emozioni di per sé non contraddittorie sono avvertite come
tali da un soggetto con DOC come risultato di una difficoltà da parte di quest'ultimo a
comporre in un quadro unitario aspetti variegati del proprio vissuto. Ora, il punto importante è
questo: questa difficoltà non si verifica con tutte le emozioni ma solo con quelle più
facilmente percepibili in termini di opposta ‘direzionalità’ (Mannino, 2014). A esempio, un
soggetto può incontrare difficoltà a integrare tra loro emozioni come la ‘rabbia’ (che conduce
a un aumento della distanza da una persona) e la ‘tenerezza’ (che induce a un avvicinamento).
Naturalmente, queste emozioni non sono per nulla incompatibili di per sé, anche perché
spesso dirette, sì verso una stessa persona o situazione, ma –in realtà- verso aspetti diversi di
essa. Un caso clinico, riportato anche altrove (Mannino, 2014), può essere utile per illustrare il
concetto e mostrare come questo meccanismo possa essere alla base di certe ruminazioni.
Caso clinico 1
Uomo di 30 aa, affetto da DOC, riferiva estenuanti ruminazioni incentrate sulla fidanzata e
che prendevano origine dal fatto di avvertire emozioni che gli sembravano contraddittorie. A
volte, infatti, avvertiva insofferenza nei confronti di comportamenti di questa che trovava
immaturi; tuttavia, la reazione di lei alle sue rimostranze gli suscitava invece un senso di
76
tenerezza. A questo punto il p. non riusciva più a capire cosa sentisse ‘veramente’ nei
confronti della fidanzata e se lei fosse o meno la donna ‘giusta’ per lui.
A volte, però, la lettura in termini di presunta incompatibilità è indotta da emozioni di tipo
diverso, anche se lo schema che impronta il processo appare di fatto lo stesso. Infatti, può
trattarsi di emozioni suscettibili di essere interpretate in termini di ‘opposta direzionalità’, ma
non secondo un’opposizione ‘avvicinamento/allontanamento’ come nel caso di prima, quanto
piuttosto in termini di un’opposizione ‘vantaggio per sé/vantaggio per gli altri’. Anche in
questo caso è utile un esempio clinico che mette bene in luce come questo meccanismo possa
essere alla base di molte ossessioni.
Caso clinico 2
Una donna di 37 aa, affetta da DOC, restava turbata ogni volta che, nello stringere il
nipotino, avvertiva un senso di piacere. Infatti, era tormentata dal pensiero che ciò fosse la
prova di qualche forma di perversione da cui era affetta
Infatti, in questo caso, è come se – per questa donna- un bene per se stessa (il senso di piacere
nel contatto con il bambino) fosse incompatibile con un bene per gli altri (il senso di conforto
e di piacere che dà al bambino). Anche qui, quindi, due emozioni interpretabili in termini di
‘opposta direzionalità’ (‘vantaggio personale/vantaggio altrui’) vengono percepite come
incompatibili quando in realtà non lo sono (Mannino, 2014). Ciò spiega perché, a esempio,
per una madre con questo meccanismo 'ossessivo', il proprio comportamento debba essere
sempre non 'contaminato' da emozioni che possano riflettere un 'vantaggio personale'.
In qualche modo, questo meccanismo 'ossessivo' appare imparentato con uno degli aspetti più
paradossali della morale kantiana, quello secondo cui un'azione è buona solo se ispirata dal
senso del dovere e non anche da altre motivazioni. Secondo il filosofo tedesco, infatti, far
elemosina a un bisognoso dietro la spinta anche di un sentimento di compassione o di
empatia, anziché solo per puro senso del dovere, non sarebbe un atto veramente morale (
Kant, 1785, 1788). In questo caso, quindi, a essere esperiti in termini di ‘opposta
direzionalità’ (e quindi di ‘incompatibilità) sono l’aspetto interpersonale (l’empatia) e quello
impersonale (il dovere). Allo stesso modo un padre ‘ossessivo' potrebbe non sentirsi un 'buon
genitore' nel caso si lasciasse influenzare – nel suo rapporto con il figlio- da un sentimento di
tenerezza anziché attenersi solo a princìpi educativi impersonali.
La ‘individuazione retrospettiva delle motivazioni’
Il secondo meccanismo qui proposto riguarda il particolare modo con cui i soggetti con DOC
avvertono la responsabilità, un tema centrale nella genesi e nel mantenimento di questo
disturbo (Salkovskis, 1985; Rachman, 1976, 1993). Rachman, a esempio, ha sottolineato
come solo le azioni per cui questi soggetti si considerano responsabili sono quelle capaci di
produrre colpa e di conseguenza quelle potenzialmente capaci di dar luogo a rituali di
controllo. In modo simile, i soggetti con ossessioni di contaminazione avvertono una minore
urgenza a effettuare lavaggi quando sentono che la pulizia dell’ambiente non ricade sotto la
propria responsabilità perché non esso è sentito come proprio (come quando si trovano in
ospedale). In definitiva, quindi, si può ritenere che i soggetti con DOC, più che il timore di
certi eventi, nutrano piuttosto il timore di sentirsene responsabili (Rachman, 1976; Mancini &
Gangemi, 2004).
Inoltre, i soggetti con DOC spesso si sentono responsabili di eventi per i quali le persone
senza ossessioni non provano certo un analogo senso di responsabilità. A esempio, i soggetti
77
con DOC tendono a sentirsi in colpa per fenomeni intrusivi (come pensieri, immagini,
eccetera), che invece non preoccupano affatto soggetti senza ossessioni (Salkovskis, 1985;
Ferrier & Brewin, 2005).
A questo punto ci si può domandare come mai i soggetti con DOC siano così disturbati da
fenomeni che invece non impensieriscono affatto soggetti normali con pensieri intrusivi
occasionali. Una risposta semplice e convincente è che i soggetti con DOC considerino i
propri pensieri intrusivi un segno di aspetti assai negativi della propria personalità
(Salkovskis, 1985).
Proprio allo scopo di chiarire l’origine di questa particolare preoccupazione dei soggetti con
DOC circa una propria possibile responsabilità si descrive di seguito un particolare processo
psicologico denominato ‘individuazione retrospettiva delle motivazioni’ (IRM). Per illustrare
l’IRM conviene far riferimento dapprima a fenomeni osservabili (come i comportamenti) e
quindi a fenomeni solo interni (come emozioni o immagini). In generale, l’IRM consiste nel
fatto che i soggetti con DOC tendono a individuare le motivazioni dei propri comportamenti,
anziché in presa diretta, in modo retrospettivo: cioè, a partire dalle conseguenze dei
comportamenti stessi, perlomeno nel caso si tratti di conseguenze valutate come ‘negative’
(fig. 1). Valutazione effettuata sulla base a criteri di tipo universale (a esempio, princìpi di
ordine morale, giuridico o filosofico) che però in ogni caso i soggetti con DOC hanno fatto
propri. E’ evidente che le motivazioni così individuate sono per forza di cose solo delle
presunte motivazioni e non le reali motivazioni, cioè quelle che effettivamente hanno dato
luogo al comportamento e che invece non sono affatto messe a fuoco.
Figura 1 L'individuazione retrospettiva delle motivazioni (IRM) (da Mannino, 2014,
modificata)
n esempio clinico, presentato anche altrove (Mannino, in stampa), è utile a illustrare il
concetto.
Caso clinico 3
Una ragazza di 15 aa presentava da qualche tempo il timore di poter danneggiare
inavvertitamente gli altri, per gestire il quale metteva in atto elaborati controlli. Lo
scompenso risaliva a quando, scherzando con le amiche, aveva fatto per caso male a una
compagna. Da allora la p. aveva cominciato a pensare che in realtà volesse farle male di
proposito e presto la preoccupazione di avere dentro di sé delle intenzioni negative da tenere
a bada aveva finito con l’allargarsi a macchia d’olio.
L’IRM sembra spiegare piuttosto bene l’aumentato senso di responsabilità del DOC: infatti,
se il paziente, si convince di ospitare dentro di sé delle presunte intenzioni negative è
78
comprensibile che finisca con l’avvertire il rischio di non tenerle a bada, allarmandosi al
pensiero dei pericoli che potrebbero derivare da un mancato controllo su di esse.
Come detto prima, l’IRM non è all’opera solo nel caso di comportamenti ma anche nel caso
di eventi di natura solo mentale (pensieri, emozioni, immagini, eccetera), sia che intrusivi. Per
illustrare il concetto può essere utile un caso clinico preso dalla letteratura (Tallis, 1995).
Caso clinico 4
Una donna di 31 aa, con un esordio insidioso di DOC nell’infanzia, aveva presentato un
incremento dei sintomi nella prima adolescenza. A quell’epoca, infatti, quando le veniva in
mente un pensiero di per sé innocuo (a es. “potrei essere bocciata agli esami”) doveva
ripercorrere i suoi passi fino al punto in cui le era venuto in mente il “cattivo pensiero” e,
quindi, sostituirlo con uno “buono” (Tallis, 1995).
In questo caso, infatti, è evidente come, a partire dal turbamento che segue una particolare
attivazione emotiva o un particolare pensiero - in sé innocui- il soggetto individua
retrospettivamente le presunte motivazioni che avrebbero prodotto quel pensiero o
quell’emozione. Infatti, volendo tradurre in parole una sequenza che in realtà si svolge a un
livello prevalentemente procedurale, si potrebbe immaginare che la paziente faccia a se stessa
questo discorso: ”se mi viene in mente un pensiero x inaccettabile, ciò significa che c’è già
dentro di me una tendenza latente verso x” (Mannino, 2014; Mannino, in stampa).
Naturalmente, questo meccanismo retrospettivo non consiste in un ragionamento esplicito
basato su una ’deduzione’ in senso stretto, ma piuttosto è il risultato di un processo
largamente tacito e inconsapevole. Si tratta, in altri termini, di una particolare modalità di
elaborare la propria esperienza per cui il soggetto anziché riconoscere certi stati emotivi e
motivazionali in presa diretta tende a ricavarli retrospettivamente (Mannino, in stampa).
A questo punto, ci si può chiedere da cosa nasca l’IRM. Per rispondere può essere utile avere
in mente lo stile di accudimento di almeno uno dei genitori del futuro ossessivo (Guidano,
2001):
“Per esempio, un bambino di tre anni correndo per casa rompe qualcosa, cosa normale per
un bambino piccolo. Normalmente un genitore direbbe: <<Non correre! Stai attento>>; ma
un genitore ossessivo non potrebbe dire queste parole […] Lui vuole che suo figlio pensi e
ragioni; lo chiama, se lo mette sulle ginocchia e gli chiede delle spiegazioni sul perché abbia
rotto il vaso. Se il bambino gli dice che non se n'è reso conto, lui gli risponde: <<Come è
possibile che non te ne sia reso conto? Un ragazzino come te, non può essere! Pensaci bene.
Su, perché hai rotto il vaso? >>”.
(Guidano, 2001)
Nel prosieguo del discorso, Guidano evidenzia che il fatto di porre a un bambino delle
domande che sono fuori della sua portata logica costituisca una sorta di tortura (Guidano,
2001). Ma a ciò, si può aggiungere anche un altro elemento: infatti, è probabile che una simile
insistenza finisca con il favorire nel bambino lo sviluppo di un’attitudine tesa a individuare a
ogni costo, di fronte a un evento che lo coinvolge, una qualche motivazione personale e
recondita anche nel caso di eventi fortuiti: il che - in nuce -è proprio il processo alla base
dell’IRM.
79
Implicazioni per la terapia: tra continuità e cambiamento
I meccanismi patogenetici qui illustrati non sono importanti solo da un punto di vista
psicopatologico ma hanno anche importanti conseguenze per la terapia. Infatti, essi costituendo una sorta di ponte tra i sintomi da un lato e le dimensioni dall’altro- permettono
anche di ridurre i primi intervenendo sulle seconde. Naturalmente, però, bisogna tener conto
che così come non è possibile che un soggetto cambi nel tempo la propria OSP, allo stesso
modo è impossibile che muti le polarità possedute circa le dimensioni (in questo caso
outwardness, impersonality, diachrony) (Mannino, 2014). Ciò che, invece, è possibile, e che
quindi si cerca di realizzare in terapia, è il fatto di rendere le attitudini di un soggetto più
flessibili e articolate e di conseguenza più ‘funzionali’.
Per raggiungere questo obiettivo, l’intervento terapeutico dovrà concentrarsi, per ogni
polarità, pressoché contemporaneamente su due diversi versanti. Infatti, da un lato il terapeuta
dovrà cercare di ridurre la rigidità delle polarità possedute dal paziente, sviluppando –per così
dire- l’attitudine opposta; dall’altro, però, nel costruire una nuova lettura più articolata e
sofisticata dell’esperienza avvertita come perturbante dovrà anche tener conto delle polarità
effettivamente possedute così come della peculiare modalità del paziente di mantenere la
propria coerenza interna (Mannino, 2014). A questo proposito può essere utile un esempio:
Caso clinico 5
Una ragazza di 24 aa stava pensando, anche se in modo molto sofferto, di chiudere una storia
affettiva con un ragazzo poco più grande. Tuttavia, alla sola idea che egli potesse provare
qualche dolore a questa decisione, si sentiva incoerente e 'darwinista', vale a dire una
persona che scartava cinicamente qualcuno solo per il fatto di non rispondere più alle sue
esigenze. Da qui iniziavano lunghe ruminazioni sulla correttezza del suo gesto.
In questo caso, a esempio, è facilmente riconoscibile all’opera una IRM: infatti, è a partire
dalla possibile reazione di dolore del ragazzo, che la p. ricava l’esistenza in se stessa di un
latente cinismo da tenere a bada. Ora, dato che alla genesi dell’IRM concorre una rigidità di
tutte e tre le polarità riscontrabili nei soggetti con DOC (outwardness, impersonality,
diachrony) è su tutte e tre che bisognerà intervenire, sempre secondo il duplice intervento di
cui si è detto.
Innanzitutto, quindi, bisognerà aiutare la paziente a ricostruire le emozioni del momento per
come le ha avvertite in presa diretta, anziché ricavarle solo dall’esterno (intervento sulla
outwardness); inoltre, bisognerà aiutarla a non valutare il suo comportamento solo sulla base
di regole generali e impersonali, ma a tener conto anche degli aspetti assolutamente
individuali della propria situazione (intervento sulla impersonality); infine, si tratterà di
aiutare la paziente a tener conto anche degli ingredienti emotivi nuovi e non solo di quelli ben
conosciuti (intervento sulla diachrony).
Nello stesso tempo, però, si tratterà –in fase di ricostruzione di una nuova lettura più
articolata- di tener conto anche delle specifiche polarità possedute dalla paziente. Nel caso
della sola diacronia, a esempio, se da un lato si tratterà di ricostruire con la paziente nell’episodio che gli ha suscitato il senso di incoerenza- il contesto contingente del momento,
dall'altro si tratterà anche di aiutarla a riconoscere la presenza di un ‘filo conduttore’ tra
l’episodio esaminato e la sua precedente esperienza. Solo in questo modo diventerà
finalmente possibile alla paziente cogliere il significato della decisione che l’è balenata in
mente (e che tanto l'ha turbata): vale a dire, sia mettendo a fuoco lo sfondo emotivo del
momento (e cioè l’amarezza per l’atteggiamento via via meno attento del ragazzo) sia
80
riconoscendo la continuità di ingredienti esperienziali con il proprio passato, vale a dire la sua
esigenza - mai venuta meno- di un rapporto affettivo in cui sentirsi rispettata dal partner.
In questo modo la p. sarà tranquillizzata dal fatto di aver rintracciato di nuovo una ‘coerenza’
nella propria esperienza e nell’immagine di sé: non abbandonando la propria attitudine
diacronica (cosa impossibile), quanto piuttosto utilizzando proprio questa anche se in modo
più astratto e sofisticato.
Bibliografia
Ferrier S., Brewin C.R (2005) Feared identity and obsessive-compulsive disorder, Behavior
Research and Therapy, 43: 1363-74
Freud S. (1895) Ossessioni e Fobie. Meccanismo psichico ed etiologia. Trad. it. In: Freud S.
Ossessioni, fobie e paranoia, Newton, Roma, 2010
Freud S. (1909) Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva. Caso clinico dell’Uomo dei
Topi. Trad. it. In: Freud S. Ossessioni, fobie e paranoia, Newton, Roma, 2010
Freud S. (1913) In: Freud S. Ossessioni, fobie e paranoia, Newton, Roma, 2010
Freud S. (1926) Inibizione, sintomo e angoscia, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1988
Guidano V.F, Liotti G. (1983) Cognitive Processes and Emotional Disorders, New York,
Guilford
Guidano V.F. (1987) trad. it. La complessità del Sé. Un approccio sistemico-processuale alla
psicopatologia cognitiva. Torino: Bollati Boringhieri, 1988
Guidano V.F. (1991) trad. it. Il sé nel suo divenire. Verso una terapia cognitiva postrazionalista. Torino: Bollati Boringhieri,, 1992
Guidano V.F. (1999) Lezioni del Training di Formazione in Terapia Cognitiva, Roma
(materiale non pubblicato)
Guidano V.F. (2001) trad. it. Psicoterapia cognitiva post-razionalista. Una ricognizione dalla
teoria alla clinica, Milano, Franco Angeli, 2007
Guidano V.F. (2010) Le Dimensioni del Sé. Una lezione sugli ultimi sviluppi del modello
post-razionalista. Roma: Alpes,
Kant I. (1785) trad. it. Fondazione della metafisica dei costumi. Milano, Bompiani, 2003
Kant I. (1788) trad. it. Critica della ragion pratica. Roma-Bari, Laterza, 2006
Mancini F, Gangemi A. (2004) Fear of guilt from behaving irresponsibly in obsessivecompulsive disorder. Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 35: 109-120
Mannino G. (2005) Le 'Organizzazioni di Significato Personale': un modello a tre dimensioni.
Rivista di Psichiatria, 40: 17-25
Mannino G. (2008) Las 'Organizaciones de Significado Personal' y el concepto de
'Diacronia/Sincronia'. Revista de Psicoterapia, 74/75: 89-101
Mannino G. (2011a) L’applicazione del concetto di “dipendenza/indipendenza dal campo”
alla teoria delle “Organizzazioni di Significato Personale”: valutazione critica e proposta di un
nuovo concetto. Psichiatria e Psicoterapia, 30: 198-214
Mannino G. (2011b) Psicopatologia esplicativa del disturbo ossessivo-compulsivo: una veduta
post-razionalista. Rivista di Psichiatria, 45: 343-348
Mannino G. (2014) Una visione post-razionalista del Disturbo Ossessivo Compulsivo: verso
nuovi sviluppi. In: Quinones Bergeret A., Cimbolli P., De Pascale A (a cura di) La
psicoterapia dei processi di significato personale. Approcci cognitivisti costruttivisti e postrazionalisti, Alpes, Roma
Mannino G. (in stampa) Vecchi problemi, nuove soluzioni. Proposta di un nuovo meccanismo
patogenetico per il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. In: Puzella A., Rafone S., Serino M. (a
81
cura di) La psicopatologia nel mondo che cambia, Crossing Dialogues
McFall M.E., Wollersheim J.P. (1979) Obsessive-compulsive neurosis: a cognitivebehavioural formulation and approach to treatment. Cognitive Therapy and Research, 3: 333348
Rachman S. (1976) Obsessive compulsive checking, Behaviour Research and Therapy, 14:
269-277
Rachman S., de Silva P. (1978) Abnormal and normal obsessions, Behaviour Research and
Therapy, 16: 233-248
Rachman S. (1993) Obsessions, responsibility, and guilt, Behaviour Research and Therapy,
31: 149-154
Rachman S. (2003) The Treatment of Obsessions, Oxford, Oxford University Press
Salkovskis P.M. (1985) Obsessional-compulsive problems: a cognitive-behavioural analysis.
Behaviour Research and Therapy, 25: 571-583
Salkovskis P, Shafran R, Rachman S, Freeston MH. (1999) Multiple pathways to inflated
responsibility beliefs in obsessional problems: possible origins and implications for therapy
and research, Behaviour Research and Therapy, 37:1055-72
Salkovskis P.M. (2007) Psychological treatment of obsessive-compulsive disorder.
Psychiatry, 6: 229-233
Tallis F. (1995) Obsessive Compulsive Disorder. A Cognitive and Neuropsychological
Perspective. Chichester, UK: Wiley
Van Oppen P., Arntz A. (1994) Cognitive therapy for obsessive compulsive disorder,
Behaviour Research and Therapy, 32: 79-87
Veale D. Roberts A. (2014) Obsessive-compulsive disorder, British Medical Journal, BMJ
2014;348:g2183
Visser H.A., van Oppen P., van Megen H.J., Eikelenboom M., van Balkom A.J. (2014)
Obsessive-compulsive disorder; chronic versus non-chronic symptoms, Journal of Affective
Disorders, 152-154:169-74
Witkin H.A. (1948) The effect of training and structural aids on performance in three tests of
space orientation. Rep. No. 80, Div. Res., CAA, Washington
Witkin H.A., Dyk R.B., Faterson H.F., Goodenough D.R., Karp S.A. (1962) trad. it. La
differenziazione psicologica. Studi sullo sviluppo. Roma: Bulzoni, 1976.
Witkin H.A. & Goodenough D.R. (1977). Field Dependence and Interpersonal Behaviour.
Psychological Bullettin, 84, 661-689.
82
L’ESPLORAZIONE DELL’ESPERIENZA AL DI LÀ DELLA MOVIOLA
Paolo Maselli
Il “metodo di autosservazione” descritto da Guidano (Guidano, 1991) e meglio conosciuto
come moviola è stato utilizzato da generazioni di terapeuti e si è dimostrato uno strumento
particolarmente efficace nella pratica clinica in tutto il movimento cognitivista e non solo,
diventando un elemento caratterizzante della psicoterapia cognitiva post-razionalista.
Partendo dall’esame di alcuni casi clinici lo scorso anno ad Ancona (Maselli 2013) avevo
messo in luce alcune criticità nella applicazione pratica della moviola come metodo utile per
individuare il “tema di esperienza soggettiva” (Guidano 1991 pag. 122 trad. it.), o “i pattern
di base che il paziente impiega per riferirsi e spiegarsi l’esperienza immediata” (Guidano
1991 p. 96 trad. it.) da utilizzare poi nel lavoro di autosservazione personale. Più in
particolare, conducendo un’attenta analisi delle prime sedute di una giovane paziente con
sintomatologia ansiosa ed ossessiva è risultato difficile mettere a fuoco un singolo tema o uno
specifico modo di riferirsi l’esperienza che univocamente potesse consentire “una maggiore
capacità di mettere a fuoco modulazioni emotive critiche e […] un maggior distanziamento
dall’immediatezza e dalla pervasività con cui di solito vengono avvertite” (Guidano 1991 pag
123 trad. it.); sono infatti emersi, nella ricostruzione della dinamica di scompenso e nei due
episodi messi in moviola, temi di esperienza soggettiva diversi, oltretutto riconducibili ad
Organizzazioni di Significato Personale diverse. Alla luce di ciò, pur riconoscendo alle OSP il
loro grande valore esplicativo, è apparso potenzialmente rischioso cercare di mettere a fuoco
l’esperienza immediata utilizzando principalmente delle “regole di funzionamento” (Guidano
1991 pag. 106 trad. it.) che potrebbero non essere quelle implicate nell’episodio preso in
considerazione. Da ciò è derivato l’invito a ricercare in terapia più l’esperienza effettivamente
vissuta che i pattern di base o i temi di significato che presiedono all’assimilazione
dell’esperienza. In questo modo, esplorando direttamente l’esperienza immediata ed evitando
di ricercare in modo pregiudiziale certi elementi stabili, si possono mettere a fuoco, con
minore probabilità di errore, quelle “tonalità emotive prima trascurate o escluse dalla
coscienza” (Guidano 1991 p. 137 trad. it.) che sono responsabili del disagio. In altri termini,
focalizzando l’attenzione su tali regole di funzionamento si corre il rischio di analizzare i
vissuti con dei pregiudizi, di seguire dei preconcetti, e quindi di non riuscire a cogliere a pieno
tutti gli aspetti della variegatezza dell’esperienza, di potersi quindi lasciar sfuggire quei vissuti
che non rientrano nei pattern predefiniti. Inoltre, sottolineando l’importanza di queste regole,
si rischia di condurre il paziente a osservarsi e a rapportarsi a Sé come a un oggetto, con un
suo modo di funzionare e un suo modo di essere, e a non pensarsi come un individuo che si
autodetermina agendo, che si deve rapportare al proprio futuro e “a come consumare le
proprie possibilità, essendo già in una situazione” 47 (Costa 2011). Questo vuol dire che quella
esperienza soggettiva, immediata, effettivamente vissuta prima di essere ordinata nella
spiegazione, andrebbe ricercata direttamente, senza l’ausilio di quei punti fermi, quegli
elementi solidi e rassicuranti, che tradizionalmente orientano il terapeuta cognitivo postrazionalista nella conduzione del colloquio, elementi che sono i temi personali, le regole di
funzionamento, i meccanismi taciti di assimilazione dell’esperienza tipici di ogni
Organizzazione di Significato Personale, ecc. Ciò porta ad un cambiamento nella posizione
47 “In ogni istante si è posti, per lo più senza averne una consapevolezza riflessiva, davanti alla
domanda “chi vuoi essere?”. Ogni mia azione, consapevolmente o meno, è una risposta a questa
domanda. L’azione traccia il Sé.” (Costa 2011)
83
tradizionalmente occupata dal terapeuta che non si pone più all’interfaccia tra esperienza
immediata e spiegazione, ma si concentra primariamente sull’esperienza vissuta, “originaria”,
che precede ogni riflessione.
A questo punto ci troviamo davanti ad un problema di non facile soluzione: come riuscire ad
indagare l’esperienza direttamente, senza utilizzare preferenzialmente quei meccanismi
consolidati e ben conosciuti che tradizionalmente guidano l’esplorazione dei vissuti (i
meccanismi caratteristici di ogni Organizzazione di Significato Personale). Il compito non è
certo semplice, ricordando il chiaro insegnamento di William James di oltre un secolo fa
secondo il quale ”ci ritroviamo continuamente nell’errore e nell’incertezza appena siamo
chiamati a dare un nome e a classificare quello che semplicemente sentiamo” (James 1890) e
dovendoci anche confrontare con quello che Schooler e Schreiber definiscono “il paradosso
dell’introspezione” e cioè che l’esperienza è soggettivamente autoevidente ma empiricamente
non investigabile (Schooler e Schreiber 2004). Una proposta di metodologia clinica, per
esplorare direttamente i vissuti senza utilizzare delle regole di funzionamento per accedervi, è
stata approfonditamente trattata in altra sede (Gaetano, Maselli, Meldolesi e Picardi 2015) ed
è utile qui far riferimento solamente ad un passaggio, centrale nell’intervento terapeutico, che
riguarda il cogliere, nel racconto del paziente, le discrepanze rispetto alla struttura universale
dell’esperienza.
Il punto di partenza è sempre il resoconto del paziente che rappresenta la sua specifica
comprensione del problema, comprensione che è necessariamente, per qualche verso, carente,
non piena (altrimenti non ci sarebbe il disagio che porta a chiedere aiuto); il terapeuta orienta
l’ascolto per individuare, anche attraverso specifiche domande, quelle discrepanze nel
racconto che segnalano la presenza di brani di esperienza che non sono stati adeguatamente
compresi, e che, essendo responsabili del disagio presentato, andrebbero messi a fuoco in un
trattamento psicoterapeutico che possa dirsi realmente efficace. Per svelare queste aree di
incomprensione di sé è necessario individuare quei passaggi nella narrazione che non risultino
coerenti con la struttura universale dell’esperienza, che rappresenta il riferimento per poter
identificare le discrepanze e condurre così efficacemente una psicoterapia. Ciò presuppone,
per il terapeuta, la sufficiente conoscenza delle regole dell’esperienza, quale sia la sua
struttura e quali le caratteristiche invarianti e la logica; richiede l’avere una adeguata
precomprensione del sentire a agire umano, non un pregiudizio, ma una competenza riguardo
a quello che, ad esempio, deve essere necessariamente presente per il costituirsi di un
sentimento o un’azione, un pensiero o una scelta. Questa competenza è sicuramente posseduta
da terapeuti esperti ed è possibile riscontrarla nel lavoro clinico di Vittorio Guidano. Nei
trascritti di alcune sedute (Bercelli e Lenzi 1999, Lenzi e Bercelli 1999, Lenzi 2009) è
possibile evidenziare la presenza di un “modello dell’esperienza soggettiva” (Bercelli e Lenzi
1999) che rappresenta il riferimento per indagare efficacemente e quindi svelare l’esperienza
soggettiva del paziente, arrivando a dedurre da ciò quale possa essere il tema di significato,
sul quale poi lavorare in terapia (Lenzi 2009). Nella accurata analisi conversazionale dei
trascritti di sedute di Guidano (Bercelli e Lenzi 1999, Lenzi e Bercelli 1999, Lenzi 2009), si
evidenzia come ci sia da parte di quest’ultimo una grande attenzione a ricostruire “il livello
tacito della conoscenza personale” (Lenzi 2009) utilizzando per tale scopo la propria
competenza su “come è fatta l’esperienza” (idem) in generale per gli esseri umani, quale sia la
sua grammatica e la sua sintassi, e lasciando al paziente il ruolo di unico esperto della propria
esperienza soggettiva, in quanto unico individuo ad avervi accesso. Nell’indagare il livello
tacito Guidano sottolinea la presenza di “incongruenze o lacune o comunque qualcosa da
correggere o spiegare nel resoconto” (Lenzi 2009), delle “lacune descrittive” (Lenzi e Bercelli
2010), qualcosa che non è in accordo con la struttura universale dell’esperienza e che va
84
esplorato per mettere a fuoco quelle dinamiche, che potremmo dire preriflessive (Gallagher e
Zahavi 2008), il cui disvelamento rappresenta l’elemento centrale della terapia. È evidente che
per condurre adeguatamente una psicoterapia sia necessario avere una buona padronanza della
struttura universale dell’esperienza e che Vittorio Guidano senz’altro la possedesse e come lui
la possiedano verosimilmente tutti i terapeuti sufficientemente esperti che siano riusciti ad
acquisire, negli anni di lavoro con i pazienti, e direi anche di esperienza di vita, tale
padronanza. Per tutti gli altri, però, sarebbe utile poter studiare ed acquisire direttamente tale
competenza, senza necessariamente farla derivare da un’ampia pratica clinica o di vita. A tal
fine la Fenomenologia - che da oltre un secolo si occupa di questi temi - rappresenta un’ottima
cornice teorica e fornisce importanti indicazioni per poter studiare e conoscere la struttura
dell’esperienza.
Vediamo ora quali sono i principali insegnamenti che derivano dalla Fenomenologia in questo
ambito e quali gli elementi utilizzabili per una efficace pratica psicoterapeutica.
L’esperienza è propria e significativa di per sé, prima di ogni riflessione.
Questo aspetto è stato ampiamente affrontato dalla Fenomenologia in particolare riguardo ai
due livelli della coscienza, preriflessivo e riflessivo. Senza addentrarci troppo in dissertazioni
filosofiche, possiamo affermare (seguendo Husserl, Heidegger, Sartre solo per citare i
principali) che nella coscienza preriflessiva la mia esperienza non è oggetto per me della mia
attenzione, non è un aspetto sul quale si concentri la mia osservazione, è vissuta, è
sperimentata in prima persona, è “data”, e non mi appare in maniera oggettivata, non è vista,
né udita né pensata. C’è una coscienza tacita e non tematica che accompagna e sostiene ogni
mio stato mentale consapevole, del quale è il presupposto, “la riflessione non ha alcun
privilegio nei confronti della coscienza riflessa” e il “cogito preriflessivo è la condizione per il
cogito cartesiano” afferma Sartre (Sartre 1943). È questo il livello che i fenomenologi
chiamano della coscienza preriflessiva, al quale Guidano si riferiva orientativamente come
conoscenza tacita, ove l’esperienza vissuta - prima di ogni riflessione o spiegazione esplicita
– “è imbevuta di significato, ha un’articolazione interna che è razionale e possiede
un’autocomprensione spontanea e immediata” (Heidegger 1919). Questo vuol dire che ogni
vissuto è per definizione dotato di un suo significato, anche prima di essere tematizzato nella
coscienza superiore o sottoposto ad una osservazione introspettiva, mentre la riflessione ne
permette semplicemente il disvelamento, consente di cogliere consapevolmente un’esperienza
che è già propria (Husserl dice che è “qualcosa che era già lì per me”), è già pienamente
sensata e non ha bisogno di essere ordinata nel linguaggio, autoriferita o spiegata per avere
una sua coerenza. In sintesi, per quello che per la pratica psicoterapeutica può essere utile, la
Fenomenologia ci indica che l’esperienza, anche quando viene semplicemente vissuta senza
essere organizzata nel linguaggio o senza alcuna attenzione consapevole, ha una sua
completezza di significati, una sua coerenza narrativa con il proprio passato e con le proprie
aspettative per il futuro, un riferimento agli accadimenti del presente, una sua qualità emotiva
e non è una semplice successione di elementi ai quali cognitivamente diamo un senso
compiuto e che possiamo anche narrare in modo diverso, cambiandone il valore; il senso
dell’esperienza è impresso permanentemente nell’esperienza e non possiamo certo cambiarlo
raccontandocela diversamente, possiamo solamente tradurre più o meno fedelmente in parole
quello che abbiamo già vissuto.
L’esperienza ha una struttura intenzionale
Nella tradizione fenomenologica il concetto di intenzionalità ha sempre rivestito un ruolo
centrale nello studio della coscienza e dei contenuti di coscienza. Per Husserl “la caratteristica
85
delle esperienze vissute (erlebnisse) […] è l’intenzionalità. Essa rappresenta una caratteristica
essenziale della sfera delle esperienze vissute, in quanto tutte le esperienze hanno, in qualche
modo, intenzionalità” (Husserl 1913). Il concetto di base dal quale partire è che in ogni atto
umano è presente “il riferimento a un oggetto diverso da sé” (Abbagnano 1971) ad esempio in
un’idea c’è il riferimento alla cosa pensata, in un atto di volontà c’è il riferimento alla cosa
voluta, ecc. È un concetto antico che viene fatto risalire ad Aristotele, ma all’interno della
Fenomenologia è stato formalizzato da Franz Brentano che nel 1874 afferma che “ogni
fenomeno psichico contiene in sé qualcosa come oggetto […] nell’amore qualcosa viene
amato, nell’odio odiato, nel desiderio desiderato, ecc”. In sostanza si rendono necessari due
termini, due poli, uno soggettivo e l’altro oggettivo, per il costituirsi dell’esperienza e
l’esperienza stessa non è altro che quella relazione - assolutamente unica e irripetibile - che si
crea fra questi due poli. Questa relazione fra me e un oggetto del mondo, non è il pormi un
obiettivo, non sta nel cercare di raggiungere uno scopo, il polo oggettivo non può essere un
fine da perseguire, è semplicemente l’aspetto della realtà - reale o immaginato - sul quale è
diretta o al quale si riferisce la mia coscienza, l’elemento sul quale essa si posa, stabilendo una
relazione unica fra questi due termini che rappresenta l’esperienza ( che conseguentemente
non potrà che essere unica e nuova ogni momento visto che la coscienza prospettica si
trasforma continuamente e intenziona oggetti sempre nuovi). Questa relazione unica che si
crea in un tempo fra me e un aspetto del mondo costituisce un’esperienza, ed avere
un’esperienza fa un effetto nei termini di suscitare emozioni, sensazioni, sentimenti, ecc. Non
è un determinato oggetto sul quale è diretta la mia coscienza che mi fa un effetto, al più di
quell’oggetto posso registrarne qualità o caratteristiche, ma è vivere quell’esperienza che mi
fa sentire in un certo modo e l’esperienza è fatta indissolubilmente della relazione fra due
termini, soggettivo e oggettivo. Il termine soggettivo, la coscienza, varia continuamente,
momento per momento nel corso della vita, e contiene, sintetizzati, un’infinità di elementi
soggettivi che contribuiscono a creare quella disposizione personale nei confronti del mondo
che è il polo immanente dell’esperienza. In altri termini, guardiamo il mondo sempre da uno
specifico punto di vista, in un preciso momento nell’arco dell’esistenza, con una storia
personale alle spalle e una determinata aspettativa per il futuro davanti, in una condizione
emotiva e in uno stato somatico, ecc., tutto ciò modifica la coscienza, che in virtù di questo
potremmo definire “prospettica”, trasformandola incessantemente e creando una disposizione
nei confronti del mondo che si rinnova continuamente. Della coscienza “prospettica” fanno
parte tutti quegli aspetti psicologici e biologici più stabili nel tempo, quali la configurazione di
attaccamento, lo stile relazionale, il temperamento, la personalità, la posizione esistenziale,
l’organizzazione di significato personale, ecc., ma anche elementi più fugaci e momentanei
come una reazione emotiva, un malessere fisico, la gioia per un successo, l’irritazione per un
contrattempo, ecc., tutto contribuisce a creare quella specifica disposizione personale che
nell’incontro con un determinato oggetto del mondo costituisce un’esperienza. Ogni
esperienza fa un effetto, ha una sua qualità fenomenica, suscita emozioni e questo vuol dire
che ad uno stato d’animo deve corrispondere necessariamente un’esperienza, quale specifica
relazione fra una coscienza prospettica ed un oggetto intenzionale; questo ci permette di
riconoscere una struttura “tripartita” dell’esperienza (Gaetano, Maselli, Meldolesi e Picardi
2015). Possiamo infatti distinguere per ogni vissuto:
1. una coscienza prospettica, intesa come posizione esistenziale nel ciclo di vita con la
propria storia ed il proprio orizzonte di aspettative
2. un oggetto intenzionale, inteso come accadimento, evento della vita, al quale si riferisce
la coscienza e che insieme a questa costituisce l’esperienza
86
un’emozione, intesa come l’effetto che fa l’esperienza in termini di sentimenti, stati
d’animo, sensazioni
Tale struttura “tripartita” può essere ricercata attivamente nella pratica clinica per poter
mettere a fuoco l’esperienza, poiché individuando i tre elementi strutturali e riscontrando fra
di essi una piena coerenza, una corrispondenza univoca, potremo avere una ragionevole
sicurezza di aver colto le effettive dinamiche coinvolte nell’episodio preso in esame. Potremo
usare, in altri termini, la struttura intenzionale e tripartita dell’esperienza come strumento utile
per esplorare e il riconoscere i vissuti “originari” con il paziente.
3.
Il tempo della coscienza è il futuro
La psicologia, ancora di più la psicanalisi e gran parte degli approcci psicoterapeutici, hanno
guardato l’individuo principalmente attraverso la sua storia, inquadrando la persona in
funzione del suo percorso evolutivo, concentrando maggiormente l’attenzione su ciò che è
stato per poter comprendere correttamente le dinamiche del presente. La Fenomenologia ha
una prospettiva profondamente diversa sull’uomo nel suo determinarsi rapportandosi al
tempo. In questo approccio, ed in particolare nell’opera di Heidegger (Heidegger 1927), la
mia identità, il “Chi” di me stesso, non corrisponde alla sintesi delle mie esperienze passate,
non rappresenta la semplice sedimentazione della mia storia e del mio percorso di vita, ma è il
mio rapportarmi all’insieme delle possibilità nella dimensione del poter essere, scegliendo,
nell’agire, chi voglio essere, e determinando, nell’essere in gioco nell’azione, il me stesso del
futuro. È evidente che lo sguardo non è tanto orientato su ciò che è stato, quale causa di ciò
che sono adesso, quanto su ciò che mi aspetto per il domani, sulle possibilità che si
dischiudono davanti a me: è rapportandomi a tutto ciò che si genera la mia autocoscienza
preriflessiva e il mio io. “Nella vita di coscienza il futuro viene prima del passato” afferma
Vincenzo Costa (Costa 2011), il passato è ricordo di anticipazioni, ogni memoria è memoria
di un’attesa soddisfatta o delusa, “il privilegio dell’anticipazione è all’opera in ogni istante: è
la coscienza” (idem). Nell’atto di riflettere non troviamo dentro di noi semplici sensazioni, ma
vissuti fatti di anticipazioni di senso e memorie di progetti, la coscienza è in relazione ad
unità di senso che si manifestano all’interno di orizzonti di senso, posti all’interno di un
orizzonte complessivo che è il mondo. Nell’agire adesso in vista del domani per essere chi
voglio essere - rapportandomi all’insieme delle mie possibilità e scegliendo come consumarle
- il futuro è già all’opera nel presente; decidendo ora come utilizzare il tempo che ho, agisco
autodeterminandomi. Nel guardare avanti consumando le mie possibilità non mi anticipo
solamente l’azione e le sue conseguenze, ma anche chi sarò dopo quell’azione, sperimentando
preriflessivamente quel futuro prima del suo effettivo accadere. L’ascrivere a sé e vivere
interiormente quell’azione avviene dunque, nella coscienza, prima del compiersi dell’azione,
non dopo. Questo, in sintesi, vuol dire che quello che intimamente sentiamo è più legato a
quello che ci aspettiamo per il domani, a chi saremo dopo aver agito nella direzione di chi
vogliamo essere, che esser legato a chi siamo stati nel passato. Sul piano della pratica clinica
questo può portare a cercare il senso di un’emozione più nell’orizzonte delle aspettative che
nel ricordo della storia personale, più guardando avanti a quello che immagino sarà, che
guardando indietro a quello che è stato. È evidente che l’aspettativa del futuro è funzione e si
compone sulla base dei vissuti del passato, ma nella vita di coscienza il futuro ha una sua
primarietà rispetto al passato e più che cercare il riferimento del sentire nella storia del
paziente, possiamo cercarlo nel chi si aspetta di essere. Chiaramente, nel caso di una
psicoterapia abbiamo a che fare con una condizione di disagio e per il domani non ci sarà
verosimilmente l’aspettativa di una piena realizzazione di sé, quanto, più probabilmente, una
87
prospettiva di vita non così rosea, ma guardare al futuro più che al passato ci può permettere
di arrivare più facilmente a comprendere l’esperienza del paziente.
L’effetto dell’esperienza si compone di diversi strati
Vivere un’esperienza fa un effetto, questo ci insegna molto semplicemente la Fenomenologia;
ad ogni specifica esperienza corrisponde uno specifico effetto con una specifica qualità del
sentire. Pur considerando ogni singola esperienza assolutamente unica e irripetibile, possiamo
però suddividere in categorie (teoriche, utili per uno studio astratto del sentire umano, con
tutti i limiti delle categorie) l’effetto di tale esperienza, categorie di “effetto interiore” che si
dispongono in strati sovrapposti - dai più superficiali ai più profondi48 - e compresenti nella
coscienza (Gaetano, Maselli, Meldolesi e Picardi 2015). Categorie di stati interiori che vanno
da reazioni universali a stimoli universali, praticamente sovrapponibili a quelle che avrebbe
chiunque in quella condizione, a tonalità emotive assolutamente personali e uniche, che
riassumono l’intera esistenza personale, compreso l’orizzonte del futuro; da raggruppamenti
di sensazioni che occupano un arco temporale brevissimo e che sono suscettibili di
cambiamenti rapidi, a vissuti che durano una vita intera e si modificano - se si modificano con estrema lentezza. Pur essendo tutti coesistenti, sempre presenti contemporaneamente,
questi “strati” del sentire si presentano alla coscienza con una rilevanza e una preminenza che
varia continuamente momento per momento, rendendo conto della mutevolezza
dell’esperienza interiore nel corso del tempo.
superficiale
universale
breve
mondo
profondo
personale
prolungato
Sé
Sensazioni sensibili
Sensazioni affettive
Reazioni emotive
Emozioni
Umore
Tonalità emotiva
fondo
di
Le sensazioni, in generale, sono la componente di base della vita emotiva e rappresentano,
secondo Stumpf (Stumpf C. 1924), delle funzioni inferiori, che non richiedono un’attività
cognitiva, anche prelinguistica, non presuppongono la presenza di una psiche dotata di
credenze. Le sensazioni sono sostanzialmente stati passivi che ci informano, quelle sensibili,
sulle caratteristiche concrete del mondo, sugli aspetti materiali di ciò che ci circonda: suoni,
48 “C’è poi il fatto che molti affetti , senza essere necessariamente connessi come nel caso precedente,
coesistono in noi senza che la nostra vita affettiva somigli necessariamente a un caos: che non c’è
dunque solo un ordine nella successione, ma anche un ordine nella coesistenza, o come vedremo, nella
profondità. Il pianto di un mattino può essere, dice il linguaggio comune, un’esperienza più superficiale
che la passione di una vita. “ R. De Monticelli 2003
88
odori, colori, percezioni tattili, ecc., mentre le sensazioni affettive aggiungono una qualità di
piacere o dolore a tali stati che ci informa su ciò che è utile o dannoso per noi; il piacere di
potersi riposare dopo un grande sforzo fisico o la sofferenza per una ustione ne sono degli
esempi.
Le reazioni emotive ci indicano la presenza nel mondo di uno stimolo universalmente
correlato a quella emozione, un evento che per qualsiasi essere umano susciterebbe quel
sentimento, seppur con le dovute differenze individuali di intensità e durata; ad esempio
un’emozione di tristezza sarà la reazione interiore ad una perdita, come la paura ci informerà
della presenza nell’ambiente di un pericolo, la rabbia di un impedimento, ecc.
Riguardo alle emozioni vere e proprie, o sentimenti, come spesso vengono chiamate,
l’approccio fenomenologico non segue una teoria cognitiva, in altri termini secondo questa
corrente filosofica non ci sono pensieri, credenze, giudizi all’origine del sentire, ma
l’emozionarsi è considerato a tutti gli effetti un atto intenzionale con i suoi elementi costitutivi
e le sue specifiche caratteristiche. Questo fa sì che per ogni sentimento possa essere
riconosciuto uno specifico oggetto intenzionale, al quale quel modo di sentirsi fa riferimento.
L’emozione, in sintesi, ci informa del valore che ha per noi in quel momento l’aspetto del
mondo sul quale è diretta la coscienza, ci dà una percezione, preriflessiva ed antepredicativa,
di quello che rappresenta per noi quell’elemento che viene “intenzionato” (Husserl 1913,
1923). Il percepire il valore di un oggetto per me nell’emozionarmi “non è un atto teoretico”,
avviene nel campo dell’emotività, dove si realizza “la costituzione più originaria del valore”
(Husserl E 1913); questo non vuol dire che la cognizione non abbia un ruolo, ma solamente
che una valutazione razionale può esserci solamente sulla base di una precedente
comprensione emotiva, per approvarla o eventualmente rifiutarla. Inquadrare le emozioni
come atti intenzionali vuol dire anche che queste”fanno apparire oggetti di nuovo tipo, fanno
vedere qualcosa di nuovo […]rispetto a cui l’elemento intellettuale e cognitivo è cieco”
(Costa 2009). In sostanza, perché si generi un’emozione è necessario che si presenti nel
campo di coscienza un oggetto nuovo, il cui valore viene “sentito emozionalmente e su cui il
giudizio può poi esercitarsi” (idem), quindi ogni sentimento fa riferimento ad uno specifico
aspetto del mondo che non era presente prima del sorgere dell’emozione. Questo può essere
un elemento molto prezioso nella pratica clinica, poiché ci orienta nella ricostruzione
dell’esperienza a cercare quel fatto, quell’elemento nuovo in relazione al quale si è attivata
quell’emozione, potendo escludere con ragionevole sicurezza tutti quegli aspetti che erano già
presenti nel campo di coscienza prima del manifestarsi di quel sentimento. Inoltre
un’emozione sorge in relazione ad uno specifico “oggetto intenzionale”, non ad una serie di
oggetti o un’insieme di situazioni, e ricostruire in terapia questo specifico nesso ci permette di
mettere a fuoco efficacemente l’esperienza e quindi di condurre il paziente a comprendersi
meglio.
Quello dell’umore rappresenta un argomento ampiamente dibattuto dalla psicopatologia
classica alla psichiatria biologica, alla psicoterapia (Maggini 2000, Nardi, Brandoni e Capecci
2007), ma non è il caso di entrare un questa disquisizione e possiamo considerarlo come
un’indicazione generale riguardo alla riuscita o al fallimento dei propri progetti di vita,
principalmente in ambito sentimentale e lavorativo. In altri termini il tono dell’umore ci
segnala preriflessivamente l’andamento dei nostri piani, la nostra realizzazione personale, più
che per i risultati che otteniamo nel presente o che abbiamo ottenuto nel passato, per quello
che ci aspettiamo nel futuro, per chi immaginiamo di essere nel domani.
La tonalità emotiva di fondo rappresenta la fondamentale disposizione verso l’esistenza,
l’atmosfera generale all’interno della quale si presentano tutti i singoli sentimenti che ci
rivelano le “qualità di valore, positive o negative, delle cose” (De Monticelli 2003), è il senso
89
complessivo del mondo che permette l’apparire del senso specifico dei singoli elementi ed è
“un sentimento che si diffonde sui contenuti di coscienza, colorando con la sua luce tutti gli
oggetti” (Husserl 1934). Non è la somma di tutti i sentimenti e neanche la propagazione a
tutta la vita di coscienza di uno specifico sentimento che prevale sugli altri, non rivela l’essere
delle cose per noi, la tonalità emotiva di fondo rivela l’essere del mondo per noi (Costa 2009),
il correlato intenzionale non è un oggetto in particolare, è il mondo nella sua totalità,
l’orizzonte complessivo dell’esistenza. Come l’emozione mostra alla coscienza un oggetto di
nuovo tipo, così la tonalità emotiva porta a manifestazione un mondo nuovo; nella tonalità di
fondo della speranza vivremo un mondo diverso da quello in cui viviamo quando questo
sentimento fondamentale è la disperazione o la noia e tutti i singoli vissuti verranno invasi e
colorati da questo sentimento.
Per concludere, questa può essere considerata come una proposta di un metodo per mettere a
fuoco l’esperienza che utilizzi principalmente gli insegnamenti della Fenomenologia, seppur
adattati alla pratica clinica della psicoterapia; pur non avendo la pretesa di essere un modello
completo dell’esperienza soggettiva, può rappresentare un valido aiuto, soprattutto per chi non
ha una grande pratica clinica e non ha ancora acquisito una adeguata padronanza del campo.
Partendo dal presupposto che l’esperienza abbia una struttura intenzionale, svelare
l’esperienza originaria vuol dire, in sintesi, individuare il sentimento prevalente, lo “strato”
del sentire primariamente coinvolto e la sua qualità, riconoscere a cosa fa riferimento quel
sentire, e anche qual è la coscienza prospettica in quel momento. Ricostruire tutto ciò
permette di condurre il paziente a comprendere e validare la propria esperienza, per poter
adeguatamente regolare le emozioni ed agire consapevolmente, nella direzione di una propria
realizzazione.
Bibliografia
Abbagnano N. (1971) Dizionario di filosofia. UTET, Torino
Bercelli F Lenzi S. Riascoltando una seduta II. Quaderni di Psicoterapia Cognitiva 1999;
4:42-60
Brentano F. (1874) La psicologia dal punto di vista empirico. Ed. it. Laterza, Bari: 1998
Costa V. (2009) I modi del sentire: un percorso nella tradizione fenomenologica. Macerata:
Quodlibet Studio
Costa V. (2011) Distanti da sé: verso una fenomenologia della volontà. Milano: Jaca Book
De Monticelli R. (2003) L’ordine del cuore: etica e teoria del sentire. Milano: Garzanti
editore
Gaetano P., Maselli P., Meldolesi G.N., Picardi A.: Una psicoterapia cognitiva centrata
sull'esperienza: verso una terapia fenomenologicamente orientata. Rivista di Psichiatria, 2;
2015. In stampa
Gallagher S., Zahavi D.(2008) The phenomenological mind, Routledge, New York
Guidano V.F. (1987) La Complessità del Sé. Ed. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1988
Guidano V.F. (1991) Il Sé nel suo Divenire. Ed.it. Bollati Boringhieri, Torino, 1992
Guidano V.F. (1995) Self-observation in constructivist psychotherapy, in Neimeyer R.A.,
Mahoney M.J. (Eds.) Constructivism in Psychotherapy. American Psychological Association,
Washington DC.
Heidegger M. (1919) I problemi fondamentali della fenomenologia. Ed.It. Il Nuovo
Melangolo, Genova: 1998
Heidegger M. (1927) Essere e tempo. Ed.It. Longanesi, Milano: 2005
Husserl E. (1913) Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Ed. it.
90
Einaudi, Torino: 2002.
Husserl E. (1923) Filosofia prima. Teoria della riduzione fenomenologica Ed. it. Rubettino,
Cosenza: 2007.
Husserl E. (1934) La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale. Ed. it. Il
Saggiatore, Milano: 2008.
James W.: The principles of psychology. New York: Holt 1890
Lenzi S., Bercelli F. (2010) Parlar di Sé con un esperto dei Sé, Eclipsi, Firenze
Lenzi S., Bercelli F. Riascoltando una seduta III. Quaderni di Psicoterapia Cognitiva 1999; 5:
50-81.
Lenzi S., La sostenibile densità dell’esperienza: l’approccio di Vittorio Guidano alla
conoscenza di Sé tra pratiche e modelli, Quaderni di Psicoterapia Cognitiva 25 (14/2), 72102, 2009.
Maggini C. (2000) Umore. In AA.VV: L’Universo del Corpo, Vol.4. Roma: Istituto della
Enciclopedia Italiana.
Maselli P.: La moviola e l’esperienza soggettiva; alcune riflessioni cliniche. In Nardi B.,
Arimatea E. (a cura di): Lavorare con la conoscenza tacita. Atti del XIV Convegno di
Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista. Accademia dei Cognitivi della Marca, Ancona
2013.
Nardi B., Brandoni M., Capecci I. (2007) L’umore e i suoi disturbi. Atti del VII convegno di
psicopatologia post-razionalista. Ancona: Università Politecnica delle Marche
Sartre J.P. (1943) L’essere e il nulla. Ed. it. Il Saggiatore, Milano: 2008
Schooler J.W., Scheiber C.A.: Experience, meta-consciousness and the paradox of
introspection. Journal of Consciuosness Studies 2004; 11 n. 7-8: p. 17-39
Stumpf C. (1924) Autobiografia intellettuale. Ed. it. Ponte alle Grazie, Firenze: 1992
91
LA STABILITÀ NEL TEMPO DELL’ORGANIZZAZIONE DI SIGNIFICATO
PERSONALE
Angelo Picardi
Reparto Salute Mentale, Centro Nazionale di Epidemiologia Sorveglianza e Promozione della
Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma
Nella concezione teorica post-razionalista, il Sé è visto come un processo in continuo
svolgimento, che prende originariamente forma nella relazione con la figura di attaccamento
primaria. Tale relazione costituirebbe la “impalcatura” che guida lo sviluppo dell’identità
personale nella matrice socio-culturale. Tale “impalcatura” implica dei vincoli costitutivi che
danno forma ai principi organizzativi del Sé. Il Sé è concettualizzato dunque come un
processo unitario autoreferenziale che organizza, attraverso una “gamma coerente di
rappresentazioni semantiche”, il proprio sentirsi in modo da renderlo riconoscibile e
consistente (Guidano 1987; 1991).
L’esperienza immediata è sottoposta a distinzioni linguistiche e viene riordinata in termini di
proposizioni simboliche distribuite attraverso reti concettuali. L’organizzazione di significato
personale (OSP), attraverso la quale una persona riordina continuamente le esperienze passate
e presenti in modo tale che ne risulti un senso di continuità personale, è dunque concepita
come l’espressione dell’operare di un insieme di regole di riordinamento dell’esperienza
immediata nel linguaggio.
Si postula che ogni OSP abbia un nucleo organizzativo centrale che mantiene una relativa
stabilità nel tempo, quantomeno nelle sue caratteristiche essenziali: stile di regolazione
emozionale, processi di costituzione e articolazione dell’identità personale, modalità di
rapporto con sé e con gli altri, temi di vita, modi dell’adattamento alle circostanze. Questa
predizione teorica, tuttavia, non è mai stata saggiata.
Vengono qui presentati dati da due studi condotti su popolazioni diverse, che costituiscono dei
paradigmi sperimentali “naturali” di cambiamento. Si tratta di persone andate incontro a
ospedalizzazione psichiatrica valutate all’ammissione e alla dimissione dopo mediamente due
mesi di degenza, e di persone con epilessia grave farmacologicamente intrattabile, andate
incontro a guarigione in seguito a intervento chirurgico, valutate prima dell’intervento e a due
anni di distanza. In ambo gli studi la OSP è stata valutata mediante il medesimo strumento
ampiamente validato, il Questionario per la valutazione dell’organizzazione di Significato
Personale (QSP).
IL QSP è costituito da 4 scale, una per ogni OSP, ciascuna composta da 17 item
autodescrittivi. Le scale hanno un’affidabilità soddisfacente, in termini sia di omogeneità
(alfa=0,66-0,82), sia di riproducibilità a 1 mese (coefficiente di correlazione intraclasse=0,700,83). I loro punteggi sono scarsamente influenzati dai livelli di depressione, misurati con la
Zung Depression Scale (ZDS) e di ansia, misurati con la forma di stato dello State-Trait
Anxiety Inventory (STAI): sono infatti state osservate correlazioni trascurabili con le scale
delle organizzazioni ossessiva (Oss) e fobica (Fob), modeste con le scale delle organizzazioni
depressiva (Dep) e tipo disturbi alimentari psicogeni (DAP), nonché una scarsa correlazione
tra le variazioni nel tempo dei punteggi dello STAI e della ZDS e modificazioni dei punteggi
QSP. Per lo strumento sono inoltre disponibili evidenze di validità rispetto a varie forme di
criterio esterne: la diagnosi clinica effettuata durante il corso in 41 allievi di training
(concordanza 71%); il profilo delle correlazioni tra le scale del QSP e misure validate dello
92
stile di attaccamento (ECR), dell’alessitimia (TAS-20), dei Cinque Grandi Fattori (BFQ), e di
Temperamento e Carattere (TCI) (Picardi, 2003; Picardi et al., 2003; Picardi et al., 2004); le
configurazioni di attivazione di aree cerebrali coinvolte nella regolazione emozionale in studi
di neuroradiologia funzionale (Bertolino et al., 2005; Nardi et al., 2008).
Nel primo studio, che fa parte di un progetto di ricerca del quale sono stati già pubblicati
alcuni risultati (Picardi et al., 2011; Picardi et al., 2012), sono stati inclusi 58 pazienti andati
incontro a ricovero presso una casa di cura psichiatrica, valutati all’ingresso e alla dimissione
con una serie di strumenti psicometrici, tra cui, oltre al QSP, la Hamilton Depression Rating
Scale (HDRS), la Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS), il Temperament and Character
Inventory (TCI-125), la Toronto Alexithymia Scale (TAS-20) e il questionario Experiences in
Close Relationships (ECR). Sebbene il QSP sia stato validato su popolazioni non cliniche, la
sua validità in questa popolazione di pazienti psichiatrici è suggerita dal fatto che altri
strumenti autocompilati come ECR e TAS-20 hanno mostrato sufficiente affidabilità in questi
pazienti (Picardi et al., 2011; Picardi et al., 2012).
Nello studio sono stati inclusi 26 uomini (45%) e 32 donne (55%), aventi una età media di
43,1±13 anni. La maggior parte sono non coniugati (55%), un quarto circa (26%) è sposato o
convivente, minore è la proporzione di persone divorziate o separate (15%) o vedove (3%). Il
livello d’istruzione prevalente è la media superiore (43%), seguita da media inferiore (28%),
elementare (22%) e universitaria (7%). La diagnosi psichiatrica principale è di disturbo
bipolare (N=15), disturbo depressivo maggiore (N=12), schizofrenia (N=8), disturbo da uso di
sostanza (N=5), disturbo di personalità (N=5), disturbo psicotico non altrimenti specificato
(N= 3), disturbo distimico (N=2), anoressia mentale (N=2), disturbo schizoaffettivo (N=2),
mentre altri disturbi rendono conto dei rimanenti 4 casi. La durata media della degenza è
risultata pari a 56±33 giorni. Sul piano psicopatologico, i pazienti hanno beneficiato
sensibilmente del ricovero, come mostrato dal riscontro di una netta diminuzione dei punteggi
della BPRS (p<0,001) e della HDRS per la depressione (p<0,001).
Sul piano dimensionale, tutte e 4 le scale del QSP hanno mostrato significativa stabilità
relativa nel tempo, come misurata da valori del coefficiente di correlazione intraclasse (ICC)
compresi tra 0,60 e 0,69 (p<0,001). A titolo di confronto, costrutti molto affermati come stile
di attaccamento e alessitimia hanno mostrato una stabilità più elevata, ma non di molto, con
ICC tra 0,64 e 0,72 (p<0,001). Simile risultato è stato osservato anche per temperamento e
carattere, con le scale del TCI che hanno mostrato valori di ICC compresi tra 0,59 e 0,85
(p<0,001).
Considerando tuttavia che il modello post-razionalista della personalità è di tipo categoriale,
la prova di stabilità più appropriata attiene non ai punteggi delle scale intesi come variabili
continue, ma alla diagnosi di organizzazione posta mediante lo strumento. Alla valutazione
basale, circa il 60% dei profili sono risultati classificabili secondo il criterio della scala più
alta di almeno un 5% sopra le altre, mentre soltanto meno di un terzo dei profili è risultato
classificabile con il criterio più stringente del 10% di elevazione relativa. In entrambi i casi, la
corrispondenza tra la classificazione ottenuta al momento del ricovero e quella ottenuta alla
dimissione è risultata significativa (p<0,001). Per la classificazione con criterio di elevazione
relativa del 5%, la percentuale di concordanza è risultata del 43%. In 7 casi la classificazione
era mutata da una OSP a un'altra, mentre gli altri 13 casi di non concordanza riguardavano
pazienti il cui profilo era divenuto non classificabile. Per quanto concerne la classificazione
con criterio di elevazione relativa del 10%, la percentuale di concordanza è risultata del 43%.
Con tale criterio, in nessun paziente la classificazione era mutata da una OSP a un'altra, in
quanto tutti i casi di non concordanza riguardavano pazienti il cui profilo era divenuto non
classificabile.
93
Nel secondo studio, che deriva da una linea di ricerca che ha consentito di approfondire vari
aspetti delle caratteristiche e del decorso dei pazienti trattati chirurgicamente per epilessia
refrattaria ai comuni trattamenti (Di Gennaro et al., 2013; Di Gennaro et al., 2014;
Grammaldo et al., 2009; Meldolesi et al., 2006; Meldolesi et al., 2007; Meletti et al., 2014;
Picardi et al., 2007; Picardi et al., 2013), sono stati inclusi 46 pazienti affetti da epilessia
resistente al trattamento farmacologico. Si tratta di 32 maschi (70%) e 14 femmine (30%),
aventi un’età media di 33,9±9,8 anni. La maggior parte sono non coniugati (57%), un terzo
(33%) è sposato, il 7% convive con un partner, mentre un paziente è vedovo (2%). Il livello
d’istruzione prevalente è la media superiore (59%), seguita da media inferiore (39%) e
universitaria (2%). La sede dell’epilessia è temporale nella maggior parte dei casi (79%),
frontale, posteriore, o estesa a più zone nei rimanenti. Il lato dell’epilessia è il destro nel 54%
dei casi, il sinistro nel 46%. Si tratta di una popolazione clinica caratterizzata da alti livelli di
cronicità e gravità: la durata di malattia è molto lunga, in media di 20,5±12,3 anni; la
frequenza delle crisi è giornaliera o plurigiornaliera nel 15%, settimanale o plurisettimanale
nel 39%, mensile o plurimensile nel 44%, annuale nel 2%.
La prima valutazione psicometrica è stata effettuata in fase di studio prechirurgico, e ha
incluso, oltre al QSP, il Beck Depression Inventory (BDI), la la forma di stato dello StateTrait Anxiety Inventory (STAI), il Temperament and Character Inventory (TCI-125), la
Toronto Alexithymia Scale (TAS-20), e il questionario Experiences in Close Relationhips
(ECR). I pazienti sono stati sottoposti a intervento chirurgico di rimozione dell’area
epilettogena e rivalutati a distanza di due anni. Il miglioramento osservato sul piano degli esiti
clinici e funzionali è stato marcato: il 78% dei pz non ha avuto più alcuna crisi epilettica (il
72% neanche aure); si è osservata una riduzione considerevole del livello di depressione
(p<0,01) e ansia (p<0,001); un paziente diplomato si è laureato, due pazienti con licenza
media inferiore si sono diplomati; di 11 pazienti che non svolgevano lavoro retribuito, 3
lavorano a tempo parziale e 4 a tempo pieno; di 4 pz che lavoravano a tempo parziale, 3
lavorano a tempo pieno; infine, di 18 pazienti che non guidavano, 9 guidano l’automobile.
Sul piano dimensionale, solo le scale DAP e Depressiva del QSP hanno mostrato una stabilità
relativa nel tempo statisticamente significativa, anche se con valori di ICC non elevati,
rispettivamente di 0,57 (p<0,001) e 0,34 (p<0,01). A titolo di confronto, i costrutti dello stile
di attaccamento e dell’alessitimia hanno mostrato una stabilità più alta, con ICC tra 0,42 e
0,58 (rispettivamente p<0,05 e p<0,001). Stabilità mediamente ancora migliore è stata
osservata per le dimensioni del Temperamento e del Carattere, con le scale del TCI che hanno
mostrato valori di ICC compresi tra 0,43 e 0,81 (p<0,001). Unica eccezione la scala RD, per
una marcata instabilità della sottodimensione “dipendenza vs. indipendenza”, su cui ha
verosimilmente influito il marcato cambiamento nel livello di autonomia reso possibile nella
maggior parte dei pazienti dalla guarigione dell’epilessia ottenuta con l’intervento chirurgico.
Per quanto riguarda la stabilità categoriale, alla valutazione basale circa due terzi dei profili
(63%) sono risultati classificabili secondo il criterio dell’elevazione relativa di una scala di
almeno il 5%, mentre metà dei profili (50%) sono risultati classificabili con il criterio del 10%
di elevazione relativa. Per la classificazione con criterio di elevazione relativa del 5%, la
percentuale di concordanza tra la classificazione ottenuta al momento del ricovero e alla
dimissione è risultata del 48% (p<0,01). Solo in 3 casi, la classificazione era mutata da una
OSP a un'altra, mentre gli altri 12 casi di non concordanza riguardavano pazienti il cui profilo
era divenuto non classificabile. Per la classificazione con criterio di elevazione relativa del
10%, la percentuale di concordanza è risultata del 30% (p=0,13). Solo in un caso, la
classificazione era mutata da una OSP a un'altra, mentre gli altri 15 casi di non concordanza
riguardavano pazienti il cui profilo era divenuto non classificabile.
94
Questi due studi hanno rappresentato un severo banco di prova per il modello teorico postrazionalista della personalità. Infatti, in entrambi i gruppi di partecipanti i cambiamenti nello
stato mentale e nelle condizioni di vita sono stati drammatici, e in un gruppo c’è stato anche il
passaggio di un lungo lasso di tempo. Se un ricovero psichiatrico della durata media di circa
due mesi è un’esperienza certamente fuori dal comune, la guarigione chirurgica di una
malattia grave e intrattabile, durata in media per oltre venti anni, costituisce un mutamento
così drammatico da costituire un paradigma naturale pressoché unico per lo studio del
cambiamento.
Le scale del QSP, considerate dimensionalmente, hanno mostrato una discreta stabilità: 0,700,83 dopo un mese trascorso senza eventi di particolare rilevanza nello studio di validazione
(Picardi et al., 2003); 0,61-0,68 due mesi dopo una ospedalizzazione psichiatrica; 0,15-0,57
due anni dopo un intervento curativo per epilessia intrattabile. Tale stabilità, pur se in generale
significativa, è tuttavia moderatamente inferiore a quella osservata per costrutti come lo stile
di attaccamento, l’alessitimia e, soprattutto, il temperamento e il carattere. È pur vero che tali
costrutti, molto affermati nel campo delle teorie della personalità, costituiscono senz’altro un
termine di paragone piuttosto elevato.
Per la stabilità categoriale, il vero banco di prova per un modello tipologico come quello postrazionalista, il bicchiere può essere visto sia come mezzo pieno che mezzo vuoto. Il passaggio
da una classificazione a un’altra in termini di OSP è infatti stato raro, ma si è osservato
frequentemente il passaggio da un profilo classificabile a uno non classificabile, con il
risultato di un numero relativamente basso di persone con una classificazione stabile.
I risultati mostrano dunque chiaramente sia stabilità che cambiamento, sia per quanto riguarda
le differenze relative tra le persone nei punteggi, sia rispetto alla scala predominante. Sebbene
vada rilevato che una parte dell’instabilità osservata è da ascriversi all’errore di misura,
tuttavia è poco probabile che essa sia tutta spiegabile in tal modo, considerato che il QSP è
uno strumento di appropriata affidabilità. D’altronde, è pur vero che l’idea di una rigida
immutabilità non trova riscontro nella maggior parte delle teorie della personalità, che
riconoscono un ruolo fondamentale delle esperienze individuali nel corso della vita nel
plasmare gli aspetti della personalità di ciascun individuo. Anche nel pensiero di Maturana e
Varela, si ammette che un sistema autopoietico, attraverso cicli di assimilazione e
accomodamento, possa andare incontro a cambiamenti organizzativi (Maturana e Varela,
1980). Finanche i modelli operativi interni postulati dalla teoria dell’attaccamento, pur se
ritenuti molto stabili, sono concepiti come aperti all’esperienza e suscettibili di modificarsi in
relazione a eventi significativi. In effetti, gli studi longitudinali, pur evidenziando stabilità nel
tempo (Fraley, 2000; Grossman et al., 2005), hanno rivelato l’occorrenza di modificazioni
correlate a cambiamenti nelle circostanze di vita, che includono anche cambiamenti da un tipo
di insicurezza a un altro (Waters et al., 2000; Crowell et al., 2002).
Nell’interpretare i risultati, va osservato che il QSP non misura letteralmente il “significato
personale”, ma piuttosto i modi di pensare, sentire e agire attraverso cui le OSP si
manifestano. L’enfasi è soprattutto sui modelli semantici (p.es. convinzioni, spiegazioni), e
dunque sulle regole di riordinamento riflessivo, anche se vengono anche valutati aspetti
procedurali ed episodici (p.es. esperienze ricorrenti). È possibile che ciò che è invariante nel
tempo sia colto solo in parte da questo tipo di misura e da una certa concezione che identifica
la OSP soprattutto nelle regole di riordinamento. Una visione teorica più orientata a
sottolineare il primato dell’esperienza sulla riflessione e l’occorrenza dell’auto-organizzarsi
dell’esperienza a livello preriflessivo (Gaetano et al., 2015) suggerisce che ciò che di una OSP
è manifesto in forma di racconto di sé e di spiegazioni potrebbe essere, rispetto agli aspetti
95
preriflessivi, maggiormente suscettibile di cambiamento in relazione al mutare di situazioni e
circostanze, cioè dell’esperienza.
In conclusione, va sottolineato con forza che la ricerca è fondamentale per informare il
dibattito teorico, che senza di essa rischia di rimanere sterile e di non progredire. Gli studi qui
presentati mostrano che le OSP sono costrutti stabili, ma non immutabili. Questi studi non
possono tuttavia fornire risposte ultime su quale concezione delle OSP sia più fondata, se una
che privilegi il ruolo delle regole di riordinamento riflessivo o una che conferisca maggior
peso agli aspetti preriflessivi. La risposta potrà venire soltanto da un insieme di studi
longitudinali ben condotti, che includano diversi modi di operazionalizzare e misurare il
costrutto di OSP. Tali studi dovrebbero includere una misura autodescrittiva degli aspetti
riflessivi secondo la concezione tradizionale, come il QSP, includere misure autodescrittive
(al momento ancora da costruirsi) degli ipotetici aspetti preriflessivi, e utilizzare misure
psicofisiologiche (Blanco e Reda, 2002; Canestri et al., 2008) e neurobiologiche in modo da
estendere quanto mostrato dagli studi fMRI disponibili, che hanno disegno trasversale. Simili
studi, pur se difficili da condurre, rivestirebbero un grande potenziale per l’incremento della
comprensione dell’evoluzione della personalità, come concepita nel modello post-razionalista,
durante l’arco di vita.
Bibliografia
Blanco S, Reda MA, Stabilità e cambiamento terapeutico: una prospettiva psicofisiologica, in
Reda MA, Canestri L, Pilleri MF (Eds.) Continuità e Cambiamento in Psicoterapia. Atti del
III Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista, Cantagalli, Siena, 2002.
Canestri L, Donati della Lunga S, Pilleri MF, Reda MA, Profili psicofisiologici in
psicoterapia: implicazioni emozionali del paziente e del terapeuta, Quaderni di Psicoterapia
Cognitiva, 22, vol.13, n°1, 2008.
Crowell JA, Treboux D, Waters E. Stability of attachment representations: The transition to
marriage. Dev Psychology 2002; 38: 467-479.
Di Gennaro G, D'Aniello A, De Risi M, Quarato PP, Mascia A, Grammaldo LG, Meldolesi
GN, Esposito V, Fabi E, Picardi A. Prognostic significance of acute postoperative seizures in
extra-temporal lobe epilepsy surgery. Clinical Neurophysiology 2013;124:1536-1540.
Di Gennaro G, Casciato S, D'Aniello A, De Risi M, Quarato PP, Mascia A, Grammaldo LG,
Meldolesi GN, Esposito V, Picardi A. Serial postoperative awake and sleep EEG and longterm seizure outcome after anterior temporal lobectomy for hippocampal sclerosis. Epilepsy
Research 2014;108:945-952.
Fraley RC. Attachment stability from infancy to adulthood. Meta-analysis and dynamic
modelling of developmental mechanisms. Pers Soc Psychol Bull 2002; 30: 123-151.
Gaetano P, Maselli P, Meldolesi GN, Picardi A. Una psicoterapia cognitiva centrata
sull'esperienza: verso una terapia fenomenologicamente orientata. Rivista di Psichiatria, 2015,
in corso di stampa.
Grossman KE, Grossman K, Waters E (Eds). Attachment from infancy to adulthood: the
major longitudinal studies. New York: Guilford Press 2005.
Guidano VF. Complexity of the Self. New York, Guilford Press, 1987. Trad. it. La
complessità del Sé. Torino, Boringhieri, 1988.
Guidano VF. The Self in Process. New York, Guilford Press, 1991. Trad. it. Il Sé nel suo
divenire. Torino, Boringhieri, 1992.
96
Grammaldo LG, Di Gennaro G, Giampà T, De Risi M, Meldolesi GN, Mascia A, Esposito V,
Quarato PP, Picardi A. Memory outcome two years after anterior temporal lobectomy in
patients with drug-resistant epilepsy. Seizure 2009;18:139-144.
Maturana HR, Varela FJ. Autopoiesis and cognition. the realization of the living. In Cohen R,
Wartofsky M (eds.): Boston studies in the philosophy of science 42. Dordrecht: Reidel
Publishing, 1980. Trad. it. Autopoiesi e cognizione. Padova: Marsilio, 2001.
Meldolesi GN, Picardi A, Quarato PP, Grammaldo LG, Esposito V, Mascia A, Sparano A,
Morosini P, Di Gennaro G. Factors associated with generic and disease-specific quality of life
in temporal lobe epilepsy. Epilepsy Research 2006;69:135-146.
Meldolesi GN, Di Gennaro G, Quarato PP, Esposito V, Grammaldo LG, Morosini P,
Cascavilla I, Picardi A. Changes in depression, anxiety, anger, and personality after resective
surgery for drug-resistant temporal lobe epilepsy: a 2-year follow-up study. Epilepsy
Research, 2007, 77, 22-30.
Meletti S, Picardi A, De Risi M, Monti G, Esposito V, Grammaldo LG, Di Gennaro G. The
affective value of faces in patients achieving long-term seizure freedom after temporal
lobectomy. Epilepsy and Behavior 2014;36:97-101.
Picardi A. First steps in the assessment of cognitive-emotional organisation within the
framework of Guidano’s model of the Self. Psychotherapy and Psychosomatics, 2003, 72,
363-365.
Picardi A, Mannino G, Arciero G, Gaetano P, Pilleri MF, Arduini L, Vistarini L, Reda MA.
Costruzione e validazione del QSP, uno strumento per la valutazione dello stile di personalità
secondo la teoria delle “organizzazioni di significato personale”. Rivista di Psichiatria, 2003,
38, 13-34.
Picardi A, Gaetano P, Toni A, Caroppo E, Arciero G. Sostegno alla teoria delle
organizzazioni di significato personale da altre elaborazioni teoriche nell’area della
personalità: uno studio di validità convergente del QSP. Rivista di Psichiatria, 2004, 39, 112124.
Picardi A, Di Gennaro G, Meldolesi GN, Grammaldo LG, Esposito V, Quarato PP. Partial
seizures due to sclerosis of the right amygdala presenting as panic disorder: On the
importance of psychopathological assessment in the differential diagnosis. Psychopathology
2007;40:178-183.
Picardi A, Martinotti G, Paci M, Simi C, Caroppo E. Reliability of self-reported attachment
style in patients with severe psychopathology. Journal of Personality Assessment
2011;93:491-499.
Picardi A, Caroppo E, Porcelli P, Di Maria G, Munittola G, Martinotti G. Alexithymia and
severe psychopathology: a study on psychiatric inpatients. Psychopathology 2012;45:159-166.
Picardi A, Caroppo E, Fabi E, Proietti S, Di Gennaro G, Meldolesi GN, Martinotti G.
Attachment and parenting in adult patients with anxiety disorders. Clinical Practice and
Epidemiology in Mental Health 2013;9:157-163.
Waters E, Merrick S, Treboux D, Crowell J, Albersheim L. Attachment security in infancy
and early adulthood: A twenty-year longitudinal study. Child Dev 2000; 71: 684-689.
97
IL SENSO AFFETTIVO PERSONALE NELL’ESPERIENZA DI CONTINUITÀ
IDENTITARIA
Juan Balbi
Il modello post-razionalista, a causa di una sfortunata scelta di termini, ancora a tutt’oggi non si è
totalmente liberato di connotazioni associazioniste e oggettiviste che gli rendono più difficile lo
sviluppo. E’ stato giustamente segnalato da Fernando González Rey (2009), che questa ambiguità
concettuale si esprime particolarmente nella categoria di “Organizzazione del “significato”
personale”. Questo psicologo ed epistemologo cubano, avvalora il concetto di “Organizzazione
del significato personale” come l’apertura di un “campo euristico”, nel senso della produzione di
nozioni che hanno punti convergenti nella forma di rappresentarsi un fenomeno; e segnala come
particolarmente interessante, l’enfasi che Guidano pone nella complessità di un’organizzazione,
che può manifestarsi in diverse forme particolari. In un’acuta critica, González Rey riconosce un
certo residuo cognitivo computazionale nella formulazione che Guidano fa della nozione di
“Organizzazione del significato personale”; puntualizza che dal momento stesso nel quale
Guidano la descrive come “…un continuo ordinamento di networks di eventi significativi
correlati tra loro che configurano una percezione del mondo in grado de produrre pattern ricorsivi
di modulazione emozionale” (Guidano, 1992 p. 33) la sta confinando, semanticamente, nel
campo della metafora dell’elaborazione dell’informazione, dalla quale egli stesso si differenziò.
Credo che questo problema epistemologico possa essere risolto adottando la nozione di “senso
personale soggettivo” come una categoria che può gettare le basi per la genesi di un’alternativa
ontologica particolarmente fedele alla naturalità della soggettività umana (Balbi, Gonzalez Rey,
2009, 2011).
Storicamente, il focus sulla categoria di significato può essere attribuito alla pubblicazione di
“Acts of Meaning” di Jerome Bruner (1990). Bruner, con l’intento di recuperare l’iniziativa della
prima rivoluzione cognitiva, nella quale insieme ai suoi colleghi cercavano di dare il primato al
carattere costruttivo della mente, dichiara che la psicologia deve essere una scienza che “si occupi
essenzialmente del significato”. Da qui dunque il termine inglese “meaning” si è mantenuto
centrale nel movimento cognitivista, e la sua traduzione “significato” ha invaso il mondo
cognitivo ispanico e italiano. Sfortunatamente, nonostante il tentativo di abbandonare la
connotazione associata alla metafora informatica, il termine “significato” continua portandosi
dietro un peso cognitivo computazionale che sembra non lasciare spazio né a fattori esperienziali
affettivi, né emozionali nella sua definizione. Al suo posto, il concetto di senso personale
soggettivo, inteso come “... quell’unità dei processi simbolici ed emozionali, dove l’emergenza di
uno di essi evoca l’altro, senza convertirsi nella sua causa, (...) ci permette di comprendere la
produzione soggettiva nell’azione della persona”. “I processi operatori, sensoriali o di
elaborazione dell’informazione, al di fuori della loro relazione con il sistema soggettivo della
persona, possono apparire in un piano formal-operazionale, però non generatore di emozioni.
Questi processi sono processi psichici, però non li consideriamo come soggettivi”, sottolinea
Gonzalez Rey (2011, pag. 212-213)
La categoria di senso è stata studiata approfonditamente da Gonzalez Rey in “O social na
Psicologia e a Psicologia Social. A emergencia do sojeito” (2004) e in “Psicoterapia subjetividad
y posmodernidad” (2009) in questi testi egli analizza parte dell’opera di Lev S. Vigotsky (18961934), poco diffusa in occidente, nella quale questo autore introduce la nozione di “senso” come
un termine chiave per la comprensione della mente umana. González Rey identifica diverse fasi
nel pensiero di Vigotsky, nelle quali il grande psicologo sovietico sviluppò vari principi teorici
ed epistemologici. La parte più diffusa e conosciuta della sua opera, la “seconda fase”, si
98
caratterizza, secondo González Rey, per l’enfasi posta nella mediazione del segno linguistico
sulle funzioni psicologiche superiori, che sono descritte come un’interiorizzazione diretta
dell’attività sociale della persona; a questa fase appartiene il concetto dell’origine e la
organizzazione semeiotica della coscienza (Vigotsky, 1934, 1988). In questa fase il pensiero
vigotskiano presenta una tendenza materialista e oggettivista a spese de i processi affettivi e
dialettici dell’esperienza personale. Il superamento di questo “giro oggettivista”, secondo
González Rey, avviene quando Vigotsky (1927, 1932 a e b) (nel primo e terzo periodo)
preoccupato per l’insieme del cognitivo e l’affettivo, riconosce il carattere sistemico e generativo
della personalità e introduce il concetto di “senso”, come una manifestazione singolare
dell’attività sistemica di essa, che non obbedisce alle stesse leggi del significato. González Rey
(2002, 2004) riprende il concetto di “senso” e coincidendo con Vigotsky, giudica che il senso
appartiene a una dimensione diversa dal significato, poiché non implica, come questo, una
corrispondenza tra il simbolo e ciò che il simbolo rappresenta, se non un aggregato di tutti i fatti
psicologici che sorgono nella coscienza in relazione ad un significato. In tal senso afferma: “i
sensi soggettivi sono l’espressione di un mondo vissuto nell’unità attuale dell’esperienza”
(González Rey, 2011 pag.313)
La nozione di significato coinvolge una relazione di corrispondenza tra il mondo soggettivo e il
mondo oggettivo delle relazioni tra individui; tra il simbolo e quello che il simbolo rappresenta in
una certa comunità semantica, la nozione di senso, invece, fa riferimento ad un ordine ontologico
totalmente diverso, proprio unicamente della soggettività; “senso” non specifica come significato,
un dominio di coordinazioni consensuali in una comunità di soggetti parlanti, bensì definisce una
porzione di esperienza pura non semiotica, che esiste come un istante di un processo soggettivo
individuale. Questa porzione unitaria di esperienza non prende senso in riferimento a qualcosa di
esterno al proprio processo soggettivo personale, ma unicamente a spese della sua corrispondenza
con altre unità di esperienze soggettive, con altri stati intenzionali e configurazioni soggettive di
qualità simili sperimentate dalla persona in altre istanze del suo ciclo vitale. Diciamo di qualità
simili, perché, come giustamente afferma González Rey, “i sensi soggettivi non sono contenuti
identici, che possono ripetersi nelle diverse azioni della persona; essi sono unici, rappresentano
un’unità simbolico-emozionale che emerge nel contesto e sempre risulta dalla confluenza di varie
configurazioni soggettive della personalità in un momento concreto della persona” (2011, p. 313).
In sintesi, concepiamo l’esperienza di senso personale come un processo la cui qualità è,
momento per momento, il risultato di una particolare articolazione dialettica tra l’esperienza
affettiva attuale e il mondo affettivo tacito e storicamente strutturato del soggetto. I sensi
soggettivi non sono sensibili alle rappresentazioni coscienti della persona, per questo non sono
suscettibili in forma diretta ai processi di re-significazione che intendono i modelli terapeutici
narrativisti di matrice costruzionista. Secondo il punto di vista esposto, la psicoterapia è un
processo dialogico e affettivo complesso, orientato a facilitare nell’esperienza del paziente,
l’emergenza di nuove configurazioni di senso affettivo personale che prendano il posto di quelle
associate ai sintomi. (Balbi, 2004, 2009, 2013; González Rey 2009, 2011).
Bibliografia
Balbi, J. (2004). La mente narrativa. Hacia una concepción posracionalista de la identidada
personal. Paidós, Buenos Aires. (Trad. it.: La mente narrativa. Verso una concezione postrazionalista dell’identità personale. FrancoAngeli, Roma, 2009.)
Balbi, J. (2009). “Prólogo”, in, González Rey, F. L.; Psicoterapia, subjetividad y posmodernidad.
Una aproximación desde Vigotsky hacia una perspectiva histórica-cultural. Noveduc, Buenos
Aires, 2009.
99
Balbi, J. (2013). “Il ruolo del processo tacito dell’affettività nello sviluppo del senso di identità
personale e nella psicopatologia in adolescenza”. In, Bernardo Nardi e Emidio Arimatea (ed.),
“Lavorare con la conoscenza tacita - Atti del XIV Convegno di Psicologia e Psicopatologia Postrazionalista ed aggiornamento del Progetto UE "Health25", p. 39-46, Accademia dei Cognitive
della Marca, Ancona, 2013.
Balbi, J. (2014). Terapia cognitiva post-razionalista. Conversazioni con Vittorio Guidano, Alpes,
Roma.
González Rey, F. L. (2002). Sujeto y Subjetividad: una perspectiva histórico-cultural, Thomson,
Messico.
González Rey, F. L. (2004). O Social na Psicología e a Psicología Social. A emergencia do
sujeito. Voces, Rio de Janeiro.
González Rey, F. L. (2009). Psicoterapia, subjetividad y posmodernidad. Una aproximación
desde Vigotsky hacia una perspectiva histórica-cultural. Noveduc, Buenos Aires.
González Rey, F. L. (2011). “Sentidos subjetivos, lenguaje y sujeto: avanzando en una
perspectiva posracionalista en psicoterapia”. Rivista di Psichiatria. Vol.46, N 5-6, pp. 310-314.
Guidano, V. F. (1992). Il Sé nel suo devenire. Verso una terapia cognitive post-razionalista,
Bollati Boringhieri, Torino.
Vigostky, L. (1927). “El significado histórico de la crisis de la psicología. Una investigación
metodológica”, en Lev Vygotsky, Obras escogidas, Madrid, Visor, 1991, t. I.
Vigostky, L. (1932a). “Las emociones y su desarrollo en la edad infantil”, in Lev Vygotsky,
Obras escogidas, Madrid, Visor, 1993, t. II.
Vigostky, L. (1932b). “La imaginación y su desarrollo en la edad infantil”, in Lev Vygotsky,
Obras escogidas, Madrid, Visor, 1993, t. II.
Vigostky, L. (1934b). “Pensamiento y lenguaje”, en Obras escogidas, Madrid, Visor, 1993, t. II.
Vigostky, L. (1988). El desarrollo de los procesos psicológicos superiores, México, Grijalbo.
100
L’ELABORAZIONE DELLE NARRATIVE PERSONALI NELL’INTERVENTO
PSICOTERAPICO IN AMBITO ONCOLOGICO
S. Lenzi *, A. Samolsky-Dekel *°, S. Varani °, D. Capilupi *
* SBPC, Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva
° ANT, Associazione Nazionale Tumori
Introduzione: l’attività narrativa
La narrazione di storie e in particolare il racconto di aspetti ed episodi della propria vita, è parte
essenziale dell’esistenza di ogni persona. Lo studio delle modalità narrative e interattive implicate
nel racconto di storie e nelle conversazioni autobiografiche può far luce sulle modalità con cui
gli individui organizzano le attività della propria mente e creano coerenza all’interno di essa.
Secondo Jerome Bruner (1964, 1990), è la mente stessa che viene formata “in un grado
sorprendente” dall’atto di inventare narrativamente l’io, costruendo e chiarendo, attraverso la
narrazione, la relazione tra quello che si pensa, quello che si sente e quello che si fa.
Attraverso le modalità narrative e interattive implicate nel racconto di storie e nelle conversazioni
autobiografiche gli individui organizzano le attività della propria mente e creano coerenza
all’interno di essa. Tali resoconti vengono elaborati secondo precise convenzioni stilistiche e
regole che riguardano non solo quello che viene detto ma anche come viene detto, a chi è rivolto
e le modalità con cui gli ascoltatori ci rispondono. Bruner arriva al punto di sostenere che le
svolte di una vita non sarebbero provocate da fatti esterni e relativi alla realtà oggettiva, ma dalle
revisioni della storia o delle storie usate per raccontare della vita e di sé.
L’autobiografia trasforma dunque la vita in testo, per quanto implicito o esplicito esso possa
essere, e in tal modo la rende sempre aperta all’interpretazione e alla reinterpretazione e quindi al
cambiamento. Uno degli ambiti e dei modi in cui questa operazione viene realizzata è la
ricostruzione della memoria. Ogni volta che la memoria è sottoposta a tale ricostruzione – o
reinterpretazione – diviene possibile inferire, prevedere, rischiare e in sostanza vivere in un modo
unico e personale che non sarebbe stato altrimenti possibile.
Il resoconto su di sé diventa quindi una forma fondamentale non solo per prendere in
considerazione e fare i conti con il passato, ma anche per cambiare le modalità precostituite di
reazione e di organizzazione delle proprie risposte e quindi orientare diversamente il proprio
futuro.
I. La rielaborazione delle narrative in ottica post-razionalista
Al centro della Terapia Cognitiva vi è il metodo utilizzato per esplorare e modificare l’attività
cognitiva (Dobson, 2009).
Il metodo di esplorazione originario dei pensieri automatici, sempre mantenendo il carattere di
procedura esplicita e riproducibile, ha sviluppato nuove valenze epistemologiche (Lenzi in press)
e ha esteso il suo target ad ulteriori aspetti della soggettività, quali ad esempio quelli emotivi.
Negli sviluppi attuali esso si è venuto a configurare come una metodologia esplicita di cocostruzione delle cosiddette narrative personali, ovvero della narrazione delle vicende,
problematiche e non, della propria vita. In una prospettiva conversazionale la costruzione e la
101
rielaborazione terapeutica delle narrative personali si realizzano attraverso due attività di base:
l’Indagine e la Ridefinizione.
Caratteristica principale di tale metodologia risulta essere quella di orientare la rielaborazione di
eventi problematici all’evidenziazione dei contenuti dell’esperienza soggettiva del soggetto,
dando rilevanza alle modalità di elaborazione della conoscenza e di costruzione soggettiva dei
significati (detti significati personali), che idiosincraticamente l’individuo attribuisce agli eventi
stessi.
Nella Terapia Cognitiva Post-Razionalista, l’ordine del giorno della seduta riguarda
esplicitamente la ricostruzione e rielaborazione di situazioni ed episodi problematici della vita del
paziente (attuali e passati, in relazione a determinati temi).
Tali ricostruzioni sono guidate dal terapeuta con particolari mosse conversazionali in ossequio a
un preciso protocollo che, a seguito di una analisi cognitivo conversazionale realizzata sui
trascritti di sedute di Vittorio Guidano e altri terapeuti dello stesso orientamento (Lenzi &
Bercelli, 2010), abbiamo denominato Rielaborazione delle Narrative Personali. Tale modalità di
conduzione della seduta è quindi parte della Tecnica della Moviola di Guidano (Guidano, 1992;
Dodet, 1998) ma allo stesso tempo ne deborda per alcuni aspetti, che non possiamo approfondire
qui (vedi comunque Lenzi, 2009).
Nel merito la rielaborazione narrativa di un tema/problema che si realizza nelle sedute di terapia
cognitivo post-razionalista consta delle seguenti tappe, che indichiamo preliminarmente in modo
schematico:
1. Costruzione attiva e mantenimento da parte del terapeuta di un sintonico contesto interattivoconversazionale
2. Individuazione e definizione consensuale di un tema o di un problema ritenuto
“significativo”
3. Descrizione di come sono andate le cose seguendo un filo conduttore cronologico (registro
narrativo sovra-episodico)
4. Ricostruzione dettagliata di alcuni episodi tipici (registro narrativo “episodico”, frame di
rievocazione di episodio)
5. Individuazione e analisi dettagliata dell’esperienza soggettiva del paziente e degli eventuali
protagonisti nei momenti “chiave” dell’episodio
6. Elaborazione, anche col contributo attivo del terapeuta, di una versione esplicativa della
vicenda con introduzione di elementi di riformulazione interna, cioè legata al funzionamento
psicologico. Tale versione della vicenda va costruita integrando gli elementi esperienziali
emersi dalla rievocazione degli episodi
7. Favorire il posizionamento del paziente, individuale e relazionale, verso la vicenda e in
particolare il fronteggiamento (coping) degli aspetti problematici.
Senza entrare nel merito della funzione terapeutica di ogni singola fase, vale la pena comunque di
evidenziare come nel contesto terapeutico, attraverso la rielaborazione narrativa, il richiamo dei
ricordi possa agire da modificatore della memoria, permettendo ad esempio una riorganizzazione
delle memorie episodiche in un insieme di rappresentazioni maggiormente e più armonicamente
integrate tra loro, tale da permettere da un lato un miglior inquadramento e quindi soluzione dei
problemi, dall’altro la rielaborazione della vicenda a livello semantico in termini interni.
La Rielaborazione delle Narrative Personali è dunque orientata a facilitare l’integrazione
conoscitiva attraverso l’attivazione selettiva e la successiva integrazione dei sistemi di memoria.
Riveste pertanto una valenza auto-organizzativa rispetto alla conoscenza di sé.
102
II. La rielaborazione delle narrazioni di malattia
L’ordine del giorno della seduta, nella Terapia Cognitiva Post-razionalista, riguarda
esplicitamente la ricostruzione e rielaborazione di situazioni ed episodi problematici della vita del
paziente (attuali e passati). Naturalmente prima di articolare un vero e proprio repertorio del
problema presentato e di procedere alle rielaborazioni esterne, viene chiesto al paziente di narrare
il problema nei termini dei fatti che lo realizzano, di ricostruire cioè la vicenda di vita in cui si è
presentato. Si tratta cioè di raccontare come sono andate le cose, intendendo per cose da un lato le
circostanze contestuali e gli aspetti comportamentali esteriori del protagonista dell’episodio,
dall’altro anche l’esperienza soggettiva vissuta allora, che viene trattata come rilevabile
osservativamente dal paziente (Lenzi Bercelli 2010, Lenzi in press).
Alla base del presente lavoro vi è la volontà di applicare in campo oncologico la metodologia di
intervento post-razionalista, a partire dalla convinzione – che diviene ipotesi da verificare
sperimentalmente con studi di esito - che per i pazienti affetti da malattie fisiche gravi, ed anche
nei loro care-giver sia utile ed efficace rispetto alla soluzione di problemi costruire in seduta il
racconto delle vicende relative alla malattia stessa seguendo le modalità tipiche della
rielaborazione post-razionalista delle narrative.
L’obiettivo del progetto è dunque di formulare, testandone l’efficacia, un protocollo di intervento
psicoterapico breve consistente in una conversazione guidata che in un numero standard di sedute
–paragonabile al trattamento abituale- si prefigga di realizzare una narrativa ben costruita delle
vicende problematiche, al fine di un miglioramento delle capacità di fronteggiamento delle
difficoltà e di Problem Solving.
Uno dei presupposti alla base del progetto di implementare la metodologia di elaborazione
narrativa post razionalista in un contesto specifico e orientandola a precisi scopi di problem
solving è che il racconto di per sé costituisca una risorsa generale e fondamentale del pensiero,
condizione preliminare e facilitatrice di funzioni specifiche del pensiero stesso. Oltre a
suggestioni teoriche e cliniche, vi sono anche dati provenienti dalle scienze cognitive a supporto
di tale razionale.
In pieno assenso con quanto sostenuto da Bruner e qui accennato nell’introduzione, nell’ambito
delle scienze cognitive viene riconosciuta alla pratica del raccontare una sorta di circolarità
virtuosa tra il processo di analisi della realtà e la costruzione della realtà stessa: è la ricorsività tra
raccontare e racconto, tra processo e prodotto, a consentire agli oggetti e fenomeni del mondo di
assumere il ruolo di elaborati cognitivi (Shore, 1996).
In una rassegna sull’argomento David Herman (Herman, 2003) rivendica per il racconto lo status
di sistema cognitivo fondamentale per la formazione di schemi inerenti sequenze vissute nel
tempo. In tal senso il racconto costituisce uno strumento prioritario per la mappatura dei processi
non orientati verso un preciso obiettivo – equivalenti a un semplice flusso temporale- in schemi di
successione temporale. A partire da questo processo di base si articolano, sempre secondo
Herman, diverse modalità attraverso cui il racconto promuove abilità cruciali di pensiero e di
Problem Solving. Innanzitutto troviamo l’attività di segmentazione dell’esperienza (chunking) e
l’assegnazione di relazioni causali tra avvenimenti. Riferendoci al nostro contesto terapeutico
risulta evidente come la co-costruzione di una narrativa condivisa delle vicende problematiche sia
un mezzo idoneo a realizzare questi due basilari aspetti. Anche le ulteriori proprietà del racconto
come facilitatore della soluzione di problemi risultano pertinenti alla situazione clinico
terapeutica qui affrontata: la gestione dei problemi attraverso il racconto si realizza infatti per
mezzo della ‘tipologizzazione dei fenomeni’, l’organizzazione dei comportamenti in sequenze e
non ultimo attraverso quel processo di costruzione interpersonale del racconto stesso fatta di
103
narratori, destinatari e racconti indicato come processo di “distribuzione dell’intelligenza”
(Rosch, 2001, Galatolo, 2004). A tutto ciò si deve aggiungere che il racconto autobiografico
rappresenta un caso ulteriormente specifico di racconto, in cui anche la coerenza stessa del
racconto e il suo rapporto con gli altri testi narrativi autobiografici assumono il ruolo di variabili
chiave che ne governano la costruzione e la armonica realizzazione. Dunque anche secondo i dati
provenienti dalle scienze cognitive sono molteplici le ragioni per cui la costruzione condivisa del
racconto autobiografico, oltre ad essere necessaria per l’applicazione di specifiche tecniche
terapeutiche, risulta di per sé importante ai fini terapeutici.
A queste cornici si aggiunge, su un piano applicativo questa volta, un aspetto tipico del punto di
vista costruttivista ed evolutivo sulle narrative cioè la possibilità di correlare, in maniera
sistematica e articolata, la costruzione delle narrative alla attivazione e integrazione dei diversi
Sistemi di Memoria (Crittenden & Landini, 2011), secondo procedure codificabili e riproducibili
(Lenzi & Bercelli, 2010).
Di seguito verranno esemplificate, attraverso alcuni stralci dell’intervento effettuato con una
giovane donna che chiameremo Arianna, le fasi principali della metodologia di Rielaborazione
delle Narrative Personali evidenziando alcuni aspetti tipici della sua applicazione orientata alla
soluzione di problemi.
Arianna è una donna di 40 anni, sposata con 2 figli, insegnante di musica, che decide di seguire
un percorso psicoterapico a fronte di una serie di difficoltà personali nell’assistere la madre,
affetta da neoplasia polmonare e seguita da un servizio di assistenza medico-infermieristica
domiciliare per pazienti oncologici. Nello specifico la difficoltà è legata all’assolvimento di tale
compito assieme al padre, le cui perplessità e paure di fronte alla situazione rappresentano per
Arianna un ostacolo al proprio caregiving.
I principali obiettivi dell’intervento sono stati la costruzione di una narrativa condivisa di quello
che viene considerato il problema attuale, la sua ridefinizione in termini interni e l’utilizzo di tale
formulazione come risorsa di problem solving.
La successione di queste parti dell’intervento è ricorsivamente articolata.
Se la prima componente dell’intervento standard è centrata sullo stimolare il racconto del
soggetto, ad esempio facendolo rispondere ad una serie di domande volte alla produzione di un
resoconto tematico focalizzato su quello che si presenta come il problema, la seconda parte
riguarda l’esplorazione del cosiddetto significato personale del problema (vedi Guidano, 1988;
Guidano, 1991), facendo emergere in proposito specifiche punteggiature interpretative del
funzionamento soggettivo del paziente.
Con Arianna una volta condiviso il riconoscimento di aspetti soggettivi del suo funzionamento se
ne è riscostruita la storia principalmente individuando alcuni episodi significativi del passato,
intensi come una sorta di matrice della difficoltà attuale. È su tale matrice problematica, in
particolare relativa a episodi passati di interazione negativa col padre, che si è attuato l’intervento
di ridefinizione interna (Guidano, 1988; Lenzi & Bercelli, 2010), i cui principali aspetti si sono
poi riportati alla occorrenza presente, in modo specificamente direttivo.
Attraverso la costruzione di queste nuove prospettive sulla vicenda problematica è stato quindi
possibile per Arianna vedere in una luce diversa la difficoltà attuale riuscendo a reclutare le
risorse per affrontare e risolvere il problema del portare la madre fuori all’ippodromo nonostante
le obiezioni e l’ostruzionismo del padre.
Presentazione della situazione e focalizzazione del problema
La madre di Arianna non esce di casa per una riduzione importante della deambulazione e un
generale peggioramento delle condizioni cliniche dovuto alla progressione della patologia
104
oncologica. Un momentaneo miglioramento dello stato di salute assieme ad un carattere volitivo,
portano la mamma a chiedere ai famigliari di essere portata all’ippodromo. Arianna riferisce che
vorrebbe soddisfare quella che considera una delle ultime richieste della madre prima che le sue
condizioni cliniche precipitino. Vorrebbe portarla con l’aiuto del padre, il quale però esprime forti
perplessità al riguardo che sono vissute da Arianna come molto problematiche e tali da impedire
ogni iniziativa.
Le fasi della rielaborazione
Le fasi della rielaborazione narrativa applicata alla ricostruzione di vicenda di malattia e alla
soluzione di problemi sono rispecchiate dall’andamento di una seduta di cui proponiamo alcuni
brani rappresentativi.
1. Focus su un aspetto problematico: opposizione del padre di Arianna alla richiesta della
madre
A Cioè i dubbi di mio padre delle volte, appunto, si riflettono anche su di me
T Sì
A e delle volte, alcune volte mi mettono in dubbio anche a me.
…
A perchè anche poco tempo fa, quando lei doveva uscire
T mh
A dice: «ah ma io questa responsabilità, ah se la volete prendere te e Marco», mio
marito
T Mh. E lì lei come ci rimane, quando papà dice così.
A Eh male, anche questa cosa qui mi ha fatto rimanere male per dire, ma insomma
perché devi dire così?
T Mh. Perché deve dire così papà?
A Eh, perché ha paura
In questo frammento vediamo come il terapeuta porta il focus della narrazione sugli aspetti
dell’esperienza soggettiva di Arianna di fronte al comportamento del padre. È il cosiddetto
resoconto episodico dettagliato, la narrazione della scena di una occorrenza specifica che
consente di evidenziare ulteriormente la configurazione intenzionale (Lenzi & Bercelli, 1998).
Quello che dice il padre – come stimolo- e la reazione soggettiva di Arianna – come risposta.
A conclusione di una siffatta costruzione narrativa, in questo estratto si realizza una ridefinizione
del comportamento paterno: le critiche del genitore vengono viste come l’espressione della sua
paura di fronte alla situazione e non come un attacco alla figlia. L’Indagine porta dunque ad una
più precisa descrizione dell’atteggiamento del padre che come vedremo così posta verrà a dire di
lui e dei suoi stati affettivi interni e non della figlia, a definizione del valore personale o delle
capacità di lei.
Vale la pena di notare qui due aspetti specifici di questo tipo di intervento. Il primo è relativo a
come la nuova descrizione e la ri-definizione vengano compiute con il contributo della stessa
Arianna, a suffragio della valenza non istruttiva e quindi decisamente auto-organizzativa della
metodologia di Rielaborazione delle Narrative Personali. Il secondo riguarda l’evidente
incremento della funzione metacognitiva di rappresentazione della mente altrui che viene
realizzato da Anna nel momento in cui è facilitata dalla specifica struttura della conversazione a
portare la descrizione e la possibilità di attenzione riflessiva sulla esperienza del padre (aumento
della capacità di rappresentazione della mente propria e altrui, Carcione et al ).
105
2. Stare davanti alle obiezioni di papà: approfondimento di indagine sull’esperienza
soggettiva e ridefinizione
Il colloquio prosegue orientando il resoconto su come la paziente vive le difficoltà del padre.
T in quei momenti lì, in cui papà è un po’ in difficoltà facciamo fatica anche noi, perché
quando il proprio genitore ha paura o è in difficoltà
A sì certo
T Ci si sente poco sicuri, pure noi
A sì diventa un po’ un :: ci si sente come una bolla un po’ che un pochino vieni un po’
preso no?
T eh! Sì!
A da questa cosa qua, ecco
Troviamo qui una ridefinizione del terapeuta che propone, attraverso il noi di condivisione, la
descrizione validante di un probabile stato d’animo di un figlio di fronte alle difficoltà del proprio
genitore. Si tratta di uno stato interno suggerito al terapeuta non solo a partire dalla propria
intuizione empatica, che pure talvolta potrebbe essere fallace (vedi sui limiti dell’empatia
implicita, Stanghellini, 2007, Stanghellini et al 2008), ma sulla base della conoscenza di un
modello del funzionamento soggettivo, quello delle Organizzazioni di Significato Personale
formulato da Vittorio Guidano, che funge come ipotesi da verificare, e quindi da guida
all’indagine stessa. In questo caso la proposta di ridefinizione è effettuata dal terapeuta in modo
piuttosto sommario secondo una modalità descritta in precedenti lavori (Bercelli, Lenzi 2002) che
in parte sembra deviare delle modalità proposte dal metodo classico guidaniano, che prevede dei
pareri dell’esperto più rigorosamente e fedelmente fondati su aspetti emersi dall’indagine.
Riteniamo che il carattere di intervento breve e orientato sul sintomo qui in corso di realizzazione
giustifichi e pure privilegi una tale modalità di procedere. Sintetizzando una delle tesi di questo
lavoro possiamo dire che la logica della terapia breve sia a giustificazione e richieda una maggior
presenza dell’intervento informativo, nonché, ma questo risulta abbastanza scontato, della
direttività del terapeuta.
Si tratta comunque di una proposta che Arianna, a conferma di una buona sintonizzazione
conversazionale e quindi di una buona alleanza terapeutica, accoglie ed amplia, riportando
l’immagine della “bolla”. L’aspetto relativo al “venir presi”, il meccanismo psicologico qui
suggerito dal Terapeuta e intuito dalla paziente verrà meglio esplicitato nel seguito della
conversazione.
3. La “bolla” e il conservatorio: indagine storica con rievocazione di episodio passato
Nel proseguire del dialogo il terapeuta invita Arianna a rievocare eventi del passato inerenti al
tema individuato, in modo da ampliare prima e riordinare poi la lettura e la comprensione della
propria esperienza soggettiva, realizzando la costruzione “in buona forma” di una narrazione
diacronica inerente il tema.
A E mi ricorderò sempre una volta, che io ero nella mia camera così che, ero chiusa che
stavo studiando, e loro battibeccavano, perché comunque loro han sempre battibeccato..
T Ok
A e mi ricordo benissimo che lui insomma disse: «sì perché poi cosa va a fare se studia,
poi che cosa le darà il conservatorio, non farà mai niente»
T mh..
106
A e:: e quindi questa cosa un pochino::.. a proposito della bolla …, mi aveva un po’
disturbato nel senso che mi aveva messo un po’ così dicendo: «be’ allora forse io ho
sbagliato tutto..»
Arianna rievoca e riporta un episodio di quando aveva 16 anni, in cui ascolta il padre discutere
con la moglie sulla scelta della figlia di studiare al conservatorio: «poi cosa le darà il
conservatorio, non farà mai niente!». Il giudizio di questi è perentorio e negativo e viene
percepito da Arianna come una valutazione o addirittura definizione di sé e della propria scelta.
Le frasi del padre infatti mettono in crisi Arianna («be’ allora forse io ho sbagliato tutto») e la
fanno sentire non valida e incapace. L’indagine episodica porta qui alla individuazione di una
unità intenzionale di base, di stimolo-risposta, a tema analogo a quella relativa al tempo attuale:
un giudizio del padre e una risposta soggettiva di Arianna che si conforma ad esso, secondo una
modalità cosiddetta di definizione esterna (Guidano, 1988).
4. Indagine strategicamente orientata e ridefinizione
A questo punto il terapeuta conduce Arianna ad una riflessione da un punto di vista esterno, in III
persona diremmo, sui possibili sentimenti del padre riguardo al percorso di studi della figlia, per
una più ampia comprensione del pensiero del genitore. Partendo dalle descrizioni della paziente,
propone una nuova lettura dell’obiezione del genitore con un ulteriore intervento informativo - un
parere dell’esperto relativo all’atteggiamento del padre che viene letto non come una valutazione
della figlia ma come espressione delle proprie preoccupazioni. Le informazioni del padre vanno a
dare una definizione, ovvero una descrizione ed una valutazione, non della figlia ma di sé stesso,
lasciando lo spazio ad una definizione interna di sé da parte di Arianna
A lui non lo vedeva come una cosa:: adatta come sbocco lavorativo come..
T quindi per il suo futuro.
A Per il mio futuro, sì.
T Allora forse più che una questione di talento o di capacità da parte sua
A mh
T Se, se l’obiezione di papà era sullo sbocco lavorativo forse è più un discorso di
preoccupazione per il suo futuro
A Un po’ sì, probabilmente sì.
T mh.
A Solo che in quel momento per me non, non l’avevo letto in quella chiave lì
Come già rilevato, il parere informativo del Terapeuta non è un intervento frequente nella Terapia
Post Razionalista in quanto implica il rischio di una sovrascrittura dell’esperienza del paziente o
l’adesione ad una interpretazione dei fatti del terapeuta. È interessante quindi notare come qui il
parere informativo venga ricevuto dalla paziente all’inizio con una certa perplessità e comunque
con un lucido riconoscimento del carattere discrepante con la propria visione di allora. Si tratta di
una negoziazione sulla costruzione dei significati di eventi o atteggiamenti personali che è
assolutamente tipica sia delle conversazione ordinarie che in quelle terapeutiche. La possibilità di
osservare il processo di costruzione conversazionale dei significati ci consente di valutare
l’effetto del parere informativo e l’effettiva ristrutturazione di significato che si realizza nel
paziente indipendentemente dal tipo di intervento che ne è all’origine. Si evitano così visioni
manichee sull’intervento informativo stesso, a volte considerato in sé stesso negativo.
Tornando alla nostra analisi vediamo come l’Indagine dell’evento passato e il parere dell’esperto
del Terapeuta portano la paziente, attraverso la negoziazione conversazionale dei significati, ad
107
una nuova lettura dell’atteggiamento paterno: non più in termini di giudizio su di sé e sulle
proprie scelte ma in termini di preoccupazione verso il futuro.
5. Comprendere e superare le difficoltà di papà per aiutare mamma: reclutamento e utilizzo
di risorse
Il terapeuta procede ora verificando assieme alla paziente la possibilità di integrare la nuova
lettura della situazione passata alla situazione attuale, ovvero ritornare al problema presentato con
una riformulazione delle perplessità paterne, viste non più in chiave di giudizio verso di sè ma di
preoccupazione del padre, nel caso specifico per le conseguenze e i rischi legati alla richiesta
della moglie di andare all’ippodromo.
T Eh. E l’idea di portarla lei? La mamma?
A Non mi spaventa, lo farei, però so che lui ci rimarrebbe male… Molto…
T Perchè ?
A Eh be’ perchè viene un po’ schiacciato da questa…
T Cioè ?
A eh be’ dice : «ecco vedi io non sono… tu sei brava io non sono buono a niente» e poi
magari in altre cose dice «te sei brava su quello o su questo poi la mattina quando c’è
da fare questo, questo e questo la diamo a te»
T Mh.
A e mi fa::, mi mette cioè, mi vuole castigare tra virgolette
T Eh, perchè papà c’ha queste preoccupazioni, ma gli pesa ammetterle
A ah,questo è vero
In questo frammento viene descritta una reazione negativa del padre, che di fronte alla attuazione
dell’iniziativa da parte della figlia da un lato ostenta una autosvalutazione lamentosa e negativa,
dall’altro sembra voler vincolare la figlia a impegni futuri, facendoglieli pesare.
È la stessa Arianna, attivando una ulteriore fase di co-costruzione negoziata del significato degli
atteggiamenti del padre, ad attribuirgli una intenzione negativa verso la sua iniziativa, una sorta di
atteggiamento punitivo. Di fronte a questo commento il terapeuta reagisce con un nuovo parere
informativo, relativo all’atteggiamento del padre, riportando l’attenzione sulle preoccupazione di
lui e sulla difficoltà che gli provocano e quindi ridefinendone indirettamente l’intenzione punitiva
o comunque non accogliendo la punteggiatura conflittuale proposta da Arianna. A fronte di un
assenso netto da parte di Arianna, il terapeuta proseguirà in una ulteriore ridefinizione
dell’atteggiamento paterno che andrà a toccare anche la conseguente risposta di Arianna.
Vediamo come.
T Eh, forse papà fa un po’ fatica a capire le proprie emozioni, i propri stati d’animo.
Sono cose un po’ con le quali ha poca dimestichezza, forse
A Forse…
T E quindi…
A Ma io cioè, nella mia veste come potrei cioè aiutarlo io come mi… mi devo sentire
tranquilla.
(…)
T ad un certo punto è un po’, tra virgolette, un problema di papà.
A Sì sì, no, ma infatti… sicuramente è così. Me ne sto rendendo conto, che è anche
soltanto una cosa sua
108
Come si può vedere in questi turni, l’azione terapeutica non solo conduce ad una ridefinizione
dell’aspetto problematico iniziale, che implica il superamento della lettura delle critiche paterne
in termini di “giudizio” su di sé, ma il dialogo terapeutico porta anche ad un incremento del senso
di competenza (efficacy) di Arianna nella comprensione e gestione degli stati emotivi del padre e
quindi alla effettiva soluzione del problema in questione.
Arianna infatti, partendo dalle conoscenze acquisite, chiede come aiutare il padre. Il terapeuta
suggerisce una linea di azione che, comprendendo la difficoltà del padre, permette di soddisfare
la richiesta della madre senza che le risposte paterne di enfatizzazione di difficoltà e rischi vadano
a influire sulla valutazione e sulla realizzazione dell’iniziativa stessa o sulla valutazione che
Arianna fa di sé.
Si noti come una proposta di questo tipo inizialmente non sarebbe stata realizzabile da parte del
terapeuta: è solo a seguito della ri-lettura degli stati emotivi del padre che Arianna può, a partire
da un senso di sé più capace ed efficace, reclutare e ri-allocare nel presente le risorse interne
necessarie per gestire sia le difficoltà paterne che le richieste materne.
Interessante osservare a tal proposito il diverso posizionamento di Arianna nei confronti dei dubbi
del genitore prima («i dubbi di mio padre delle volte…mi mettono in dubbio anche a me») e dopo
(«Me ne sto rendendo conto è anche soltanto una cosa sua ») la rielaborazione in seduta:
l’iniziale pervasività intrusiva delle incertezze paterne si riduce fino alla piena demarcazione da
esse e quindi al conseguente fronteggiamento positivo della situazione problematica.
III. Costruzione narrativa e soluzione di problemi in un contesto di terapia breve
In riferimento alle pur brevi sequenze analizzate, le fasi di realizzazione di una rielaborazione
narrativa volta al reclutamento di risorse relative ad una situazione problematica attuale possono
essere riassunte e schematizzate nel modo seguente:
1.
2.
3.
4.
5.
Focalizzazione del dialogo sul problema attuale e sua costruzione narrativa in
termini episodici (perplessità e resistenze del padre alla richiesta della madre che ne
bloccano il soddisfacimento)
Approfondimento di indagine sull’esperienza soggettiva di fronte alla situazione
critica (l’esperienza e il proprio modo soggettivo di stare davanti alle obiezioni di papà)
Indagine sul significato personale attribuito al problema con eventuale excursus
storico, rievocazione di episodio passato (la “bolla” negativa di fronte ai giudizi
paterni e la capacità di decisione autonoma sul conservatorio)
Riformulazione con ritorno al problema attuale (dal giudizio alla preoccupazione di
papà riguardo a conservatorio e all’ippodromo)
Reclutamento e utilizzo di risorse ovvero individuare a partire dalla nuova
prospettiva una soluzione al problema (comprendere e superare le difficoltà di papà ed
essere in grado di aiutare mamma).
I brevi stralci presentati hanno anche evidenziato alcuni aspetti relativi alla declinazione della
metodologia di conduzione in questo contesto clinico specifico.
In particolare è risultata in diversi passaggi di fondamentale importanza per il carattere breve
dell’intervento la direttività del terapeuta. Va detto però che il fatto che il terapeuta sia direttivo
nella conduzione del dialogo di seduta non necessariamente implica una partecipazione più
passiva da parte del paziente o ancora una sorta di atteggiamento istruttivo del terapeuta nel
fornire soluzioni prefabbricate. Né vi è a causa della direttività un diminuito rispetto delle
109
inclinazioni o un atteggiamento poco attento alle sfumature e alla unicità dell’esperienza
personale del paziente.
Questa potrebbe essere al limite una caratteristica inerente l’uso pareri informativi relativi al
funzionamento individuale, altro aspetto specifico della co-costruzione di narrative personali in
questo contesto. È però la costante presenza delle negoziazioni conversazionali del significato e
ovviamente il suo esito che deve essere tenuto presente nella valutazione di questo aspetto
decisivo per le conversazioni terapeutiche. Negli stralci che abbiamo mostrato appare evidente
come non sia la provenienza del nuovo significato a determinarne l’integrazione e l’efficacia
clinica ma viceversa l’andamento e l’esito della sua negoziazione conversazionale.
Un ulteriore elemento caratterizzante questa specifica declinazione della metodologia di
Rielaborazione Narrativa risulta essere una fase specifica della procedura, per certi versi
innovativa anche rispetto a quanto avevamo mostrato in altri lavori (Bercelli & Lenzi, 2002) cioè
quella relativa al Reclutamento di risorse nel Problem Solving. Tale fase vede l’uso della
Riformulazione Interna come risorsa specifica. Del resto la metodologia guidaniana della
Moviola, da cui deriva la Rielaborazione Narrativa, nasce come tecnica terapeutica legata
all’intervento su sindromi cliniche specifiche e, sebbene non vi siano prove empiriche in merito,
non va escluso che possa essere sensato vederne l’applicazione come capace di provocare un
diretto effetto sul sintomo o su un determinato prodotto conoscitivo (vedi Giannantonio & Lenzi
2009). Riflessioni più approfondite e ricerche empiriche circostanziate (sulla scia della Task
Analysis di Leslie Greenberg ad esempio) potranno farci fare qualche passo in avanti su questo
punto.
In questo lavoro abbiamo tentato di mettere a fuoco alcune delle potenzialità applicative che il
metodo della Rielaborazione delle Narrative Personali è in grado di sviluppare. Anche a questo
livello non si tratta certo delle sole possibilità evolutive che l’elaborazione narrativa offre, persino
in situazioni critiche come quelle di malattia. Basti pensare alle elaborazioni al congiuntivo
tipiche delle narrazioni di malattia descritte da Byron Good (Good 1994) o, per fare un esempio
più specifico e concreto, alla complessità delle prospettive temporali e dei sé del protagonista e
del narratore annidati uno nell’altro (Bercelli, 2002) che caratterizzano il racconto Profezia dello
scrittore Sandro Veronesi (Veronesi, 2011), in cui un sé del futuro ammonisce un ignaro sé del
passato sulle terribile traversie che dovrà affrontare nell’assistere i genitori malati, realizzando
una mirabile integrazione conoscitiva.
Su questi aspetti torneremo in successivi lavori, nel tentativo di definire e articolare ulteriormente
una metodologia e un protocollo breve di intervento basati sulla rielaborazione narrativa.
Bibliografia
Bercelli F. (2002), Identità e narrazione: di sé e di altri. In Lorenzetti R., Stame S. (a cura di)
Narrazione e identità, Bari, Laterza, 2002
Bercelli F., Lenzi S. (2002), Analisi conversazionale di una terapia lampo, Quaderni di
Psicoterapia Cognitiva 11, 145-26, 2002
Bruner, J. S. (1990), La ricerca del significato. Per una psicologia culurale. Trad. it. Torino,
Bollati Boringhieri, 1992
Bruner, J. S. (1964), Il conoscere. Saggi per la mano destra. Trad. it Roma, Armando, 1995
Calabrese, S. (2012), Neuronarratologia. Il futuro dell’analisi del racconto, Bologna, CLUEB
Crittenden P.M. (1999), Attaccamento in età adulta. L'approccio dinamico-maturativo alla Adult
Attachment Interview. Edizione Italiana a cura di G. Fava Vizziello e A. Landini, Milano,
Raffaello Cortina Editore
110
Crittenden, P., Landini, A. (2011), Assessing Adult Attachment. A Dinamic-Maturational
Approach to Discourse Analysis, Norton, New York-London.
Dobson K.S., (2009), Handbook of Cognitive-Behavioral Therapies, 3d Edition, New York,
Guilford
Dodet, M. (1998). La Moviola. Psicoterapia, 4, 13, pp. 89-93.
Galatolo R., (2004), La narrazione nella conversazione. (Di)mostrare l’ascolto e la comprensione.
In: Lorenzetti, R., Stame, S. (a cura di), Narrazione e identità, Laterza, Bari-Roma
Giannantonio M., Lenzi S. (2009), Il disturbo di panico. Psicoterapia cognitiva, ipnosi e EMDR,
Milano, Raffaello Cortina Editore
Good B. J. (1994), Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente.
Trad. it. Torino: Einaudi, 2006
Greenberg, L. (2007), A Guide to Conducting a Task Analysis of Psychotherapeutic Change.
Psychotherapy Research, 17(1): 15-30
Guidano V. (1987), La complessità del Sé. Un approccio sistemico-processuale alla
psicopatologia e alla terapia cognitiva. Trad. it. Torino: Boringhieri, Torino, 1988
Guidano V. (1991), Il sè nel suo divenire. Trad. it. Torino: Boringhieri, 1992
Herman D. (2003). Narrative Theory and Cognitive Science, Stanford, CSLI Publications
Lenzi S., (2009), La tecnica della moviola come rielaborazione delle narrative personali. Aspetti
conversazionali e valenze terapeutiche, in Quaderni di Psicoterapia Cognitiva, vol 14, N 1, pp
10-54, 2009
Lenzi S. (In press), Epistemologia dell’assessment cognitivista, in Blasi S., Rossi Monti, M (a
cura di) Epistemologia e Psicologia Clinica, in Press
Lenzi S., Bercelli F. (2010), Parlar di sé con un esperto dei sé. L’elaborazione delle narrative
personali: strategie avanzate di psicoterapia cognitiva. Firenze, Eclipsi
Rosch E. (2001), ‘If You Depict a Beard, Give It Space to Fly’: Eastern Psychologies, the Arts,
and Self Knowledge, SubStance, 94/95, 236-53
Shore B. (1996), Culture in Mind: Cognition, Culture, and the Problem of Meaning. New York,
Oxford University Press
Stanghellini G. (2007), The grammar of the psychiatric interview (Editorial). Psychopathology
40:69–74.
Stanghellini G., Ambrosini A., Ciglia R., Fusilli A. (2008), Atlante di fenomenologia dinamica,
Roma, Edizioni Magi
Veronesi S. (2011), Baci scagliati altrove, Roma, Fandango Libri.
111
LA PARABOLA DEL CIECO POST-RAZIONALISTA 2: DAL DETERMINISMO
DELLA TEORIA DELLA RECIPROCITÀ ALLA DOTTRINA DELLO SPAZIO
AUTONOMICO
Salvatore Blanco
ASL 7 Carbonia (CA)
Dipartimento di Scienze Neurologiche e del Comportamento, Università di Siena
Il titolo del congresso “Continuità, Cambiamento, Coerenza Sistemica e Complessità” e un rapido
flashback degli ultimi trenta anni di studio e di ricerca clinica, nel riportarmi alla mente le
vicissitudini connesse alla transizione dal determinismo paradigmatico degli anni settanta alle più
recenti teorie della complessità (Blanco, Reda e Guidano, 1990), mi hanno fatto sentire come uno
dei personaggi della parabola buddista “I ciechi e l'elefante”.
Succedeva in India tanto tempo fa, ma avviene ancora oggi ai nostri Congressi. Nel parco della
città di Jetavana, come ogni giorno, dotti e scienziati litigavano furiosamente, si accapigliavano e
si offendevano: ognuno pensava di sapere ciò che era giusto e ciò che era sbagliato e ognuno era
convinto che era vero ciò che lui diceva ed errato quello che sostenevano gli altri. Litigavano su
qualsiasi argomento e, nonostante fossero tutte persone colte e istruite, ognuno usava la propria
sapienza per contraddire e offendere l’altro. Tra i saggi della città ce n’era uno che, per non
cadere nei facili tranelli delle discussioni, viveva in disparte ma era sempre disposto ad accettare
l’idea espressa da un’altra persona. Sarebbe potuto intervenire anche lui cercando di capire cosa
diceva uno e cosa l’altro, ma rendendosi conto che non sarebbe servito a nulla entrare nella
discussione decise di raccontare una storia che li aiutasse a riflettere.
La storia narrata era quella di un gruppo di sei ciechi e di un elefante: in un tempo molto antico,
un re mandò a chiamare sei abitanti che erano nati ciechi e, dopo averli raccolti in una piazza,
fece portare un elefante. Poi chiamando ad uno ad uno i ciechi diceva loro: “questo è un elefante,
secondo te a cosa somiglia?” Il primo gli toccò l’orecchio grande e piatto e, sentendolo muoversi
lentamente avanti e indietro, esclamò: “l’elefante è come un ventaglio”.
Il secondo toccò la
zampa dell’elefante e affermò: “è come un albero”.
“Siete entrambi in errore l’elefante è simile a
una fune”, disse il terzo nel palpare la coda dell’elefante. Quando il quarto toccò con la mano la
punta aguzza della zanna esclamò: “l’elefante è come una lancia”. “No, no è simile a un’alta
muraglia”, disse il quinto dopo aver tastato il fianco dell’elefante. Il sesto nell’afferrare la
proboscide sostenne: “avete torto, l’elefante è come un serpente”. Discussero animatamente
perché ognuno era assolutamente convinto di quello che aveva toccato: se uno diceva una
muraglia e l’altro un serpente volavano insulti perché nessuno metteva in dubbio quello che
aveva percepito toccando la parte del corpo dell’elefante.
Il re, vedendoli così convinti delle loro idee e litigiosi, decise di aiutarli a capire; a due a due li
invitò a toccare quello che aveva toccato l’altro, chiedendo loro a cosa somigliasse. Così tutti
cominciarono a dire quello che, precedentemente, aveva sostenuto l’altro, invertendo i ruoli.
Come in un gioco, li invitò a parlare tra di loro e, alla fine, tutti si formarono l’idea di come in
realtà l’elefante fosse. Tutti furono d’accordo che era come una muraglia sostenuta da alberi e
tirata da una fune, con un serpente nel mezzo e ai lati due lance con due ventagli sopra. Dopo che
il saggio ebbe finito di raccontare questa storia, disse: “miei cari amici voi fate la stessa cosa.
Ritenendo di avere la certezza di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato, di ciò che è bene e di
ciò che è male, litigate, vi accapigliate e v’insultate. Se ognuno di voi parlasse e ascoltasse l’altro,
la verità vi apparirebbe nella complessità delle sue molteplici possibili forme”.
La nostra storia comincia i primi anni ’70, quando io e Mario Reda, come i ciechi della parabola,
durante il trattamento in biofeedback (BFB) di pazienti affetti da ansia cronica, ci imbattemmo in
112
alcune incongruenze rispetto alla teoria, all’epoca in voga, dell’inibizione reciproca fra branche
simpatica e parasimpatica del Sistema Nervoso autonomo (SNA). Con sorpresa e sgomento,
notammo che in alcuni pazienti con sintomatologia agorafobica, alla diminuzione della tensione
muscolare corrispondeva un notevole aumento della conduttanza cutanea (GSR), presa da noi
come indice dell'arousal autonomico. In quegli anni, la risposta elettrodermica era concordemente
riconosciuta come un parametro che forniva indicazioni significative sullo stato emozionale di un
individuo; per cui un suo rapido incremento dal livello basale, che invece forniva informazioni
sullo stato generale di vigilanza, rappresentava un indice attendibile di una risposta di ansia. In
base ai principi dell’inibizione reciproca, ci saremmo aspettati una diminuzione dell’arousal
simpatico conseguente al rilassamento muscolare; ma nei soggetti agorafobici, contrariamente
alle nostre aspettative, osservammo costantemente una reazione di allarme (rilevata dall’aumento
significativo della conduttanza) sin dai primi tentativi di rilassamento muscolare. Tali
osservazioni erano confermate dallo STAI X-1 (Scala di autovalutazione per l'ansia di stato di
Spielberger) i cui punteggi, in prossimità della delle fasi di rilassamento muscolare, tendevano ad
aumentare: in alcuni casi l'ansia post-seduta era superiore a quella pre-seduta. Ulteriore sostegno
all'ipotesi di una reazione di allarme e di ansia a sensazioni e percezioni di ridotto tono muscolare
erano le verbalizzazioni di questi pazienti che esprimevano sensi di depersonalizzazione e di
derealizzazione quali: “... quando rilasso i miei muscoli mi vengono pensieri che mi creano ansia;
... penso di diventare omosessuale o pazzo; ... senso di stanchezza; ... paura di cadere davanti o
dietro; ... perdita della posizione degli arti nello spazio come se avessi molte mani che si
estendono nello spazio verso l'alto; ... mi sembra di avere la destra sul bracciolo sinistro e
viceversa; … avevo deciso di non rilassarmi troppo; ... non voglio perdere il controllo e poi più
mi rilasso e più mi sembra di essere eccitato; … sensazione di precipitare; ... devo stare sempre
all'erta per paura di cadere o ruotare verso sinistra; … quando mi rilasso sento freddo; ... mi
sembra d'essere irrigidito ... come una tavola; ... sensazione di fatica mentale”.
Tale risposta, definita da noi allora come “paradossale”, nonostante si riducesse durante
l’addestramento col BFB, persisteva nel tempo e tendeva a ripresentarsi al follow-up (Congia e
coll., 1982; Blanco e coll., 1982; 1982a; 1982b; 1982c; 1983; 1984). Poichè i dati registrati erano
incongruenti con la teoria della reciprocità, anche se confermati dalle osservazioni cliniche di altri
autori (Gelder e Marks, 1966; Gelder, Marks and Wolff, 1967), furono da noi ritenuti degli
artefatti sperimentali o al massimo delle anomalie personologiche da correggere; questo in
accordo con gli altri clinici che avevano riscontrato le difficoltà dei soggetti con sintomatologia
fobica ad apprendere il rilassamento e gli scarsi risultati che avevano su di loro le tecniche usuali
di rilassamento, training autogeno, ipnosi e la desensibilizzazione sistematica (DS) nelle sue
forme classiche, nonché la scarsa efficacia del trattamento con benzodiazepine. Convinti che si
trattassero degli errori di varianza o delle anomalie personologiche, nel 1984, io e Mario Reda,
nel libro dal titolo “Terapia in Medicina Comportamentale”, pubblicammo un articolo dal titolo
“Risposta paradossale dei pazienti agorafobici all’EMG-BFB training”. Le conseguenti strategie
terapeutiche da noi adottate consistevano nel addestrare i pazienti al controllo della conduttanza
cutanea durante la diminuzione del tono muscolare (dal 1969 grazie a Neal Miller, il SNA non era
considerato più involontario) e alla ristrutturazione cognitiva delle attribuzioni di significato circa
il rilassamento muscolare etichettato come perdita di controllo.
In questa nostra fase scientifica e clinica, i principi del corpus dottrinale della Behavior Therapy
(Schachter e Singer, 1962; Bandura, 1969) sembravano soddisfare la dimensione metodologica
che andavamo cercando, giacché ci mettevano a disposizione metodi di osservazione, di
rilevazione dei dati clinici e d’intervento terapeutico alternativi a quelli psicoanalitici o, in
generale, a quelli tradizionalmente in uso negli ambienti accademici. Per cui nel rivolgerci
all'individuo in termini di principi dell'apprendimento classico e operante, consideravamo il
113
comportamento umano alla stregua di un congegno di precisione regolato, passo dopo passo, dal
gioco delle contingenze che le azioni acquistavano con l'ambiente circostante (Blanco et al.,
1990).
A una più attenta lettura dei dati in nostro possesso, però, ci imbattemmo in altre incongruenze
“psicofisiologiche” sempre da noi ritenute come sgradevoli “artefatti” personologici. Per
esempio, osservammo che i soggetti con disturbi ossessivi frequentemente rispondevano con
significative diminuzioni della temperatura corporea a ogni tentativo di riduzione del tono
muscolare, mettendo in atto una sorta di "allarme cutaneo" (EMG e TEMP correlati
positivamente), con, in alcuni casi, variazioni termiche intraseduta di 10-12 gradi centigradi. Le
eccezioni alla teoria dell’inibizione reciproca sembravano eccedere più che confermare la regola:
nei soggetti con disturbi del comportamento alimentare rilevammo che un dato discrepante era
rappresentato da una quasi totale assenza di correlazione fra espressione somatica (EMG) e
risposte viscerali (GSR, TEMP, HR). Poiché alle fluttuazioni rapide e ampie di questi tre ultimi
parametri (raramente correlati fra loro), regolarmente non si verifica nessuna variazione
nell'attività muscolare, questo fenomeno autorizzava a ipotizzare, in questi pazienti, una sorta di
confusione interocettiva (Reda et al. 1988, 1996). Infine, notammo che ciò che caratterizzava il
gruppo con disturbi depressivi era un’estrema povertà e rigidità in tutti i parametri registrati. Le
variazioni ritmiche temporali erano minime e questi soggetti sembravano caratterizzati da
un'assenza di risposte, con conseguente difficoltà percettivo-motoria. A conforto delle nostre
osservazioni, successivamente, attraverso la PET (positron emission tomography), Drevets et al.
(1997) evidenziarono una scarsa attivazione nella corteccia prefrontale sinistra dei pazienti
depressi.
La sempre più evidente l’incapacità, da parte della dottrina della reciprocità, di spiegare alcuni
aspetti fenomenici fu uno dei motivi che ci spinse, negli anni 80, al passaggio da una paradigma
razionalista a uno post-razionalista; contemporaneamente in quegli anni, cominciarono ad
emergere nella letteratura alcune prospettive rivoluzionarie sull'organizzazione e il controllo del
Sistema Nervoso Autonomo (SNA).
La scoperta dei riflessi ganglionari periferici, l'identificazione di cotrasmettitori e di modulatori
peptidici, e un aumento di conoscenze sui meccanismi di controllo autonomico portarono a
sostanziali progressi nella comprensione della regolazione autonomica. Sfortunatamente,
l'evoluzione dei modelli concettuali dell'organizzazione del SNA era rimasta drammaticamente
indietro rispetto all'esplosione degli sviluppi empirici. In assenza di una cornice concettuale
generale, i dati discrepanti e le continue scoperte potevano, come nel nostro caso, essere trascurati
o denigrati nel tentativo di spiegarli per mezzo di punti di vista arcaici sulle modalità di controllo
autonomico. La dottrina imperante della reciprocità autonomica continuava a sostenere che le
risposte simpatiche e parasimpatiche erano soggette a un reciproco controllo strettamente
accoppiato, con un incremento di attività in una branca associato ad un decremento di attività
nell'altra; ciò nonostante fossero state dimostrate ripetutamente eccezioni a questa modalità di
controllo autonomico.
Appariva sempre più chiaro che l'attività nelle due divisioni del SNA poteva essere sia accoppiata
che non-accoppiata; per di più, le risposte accoppiate potevano essere sia reciproche che nonreciproche, queste ultime implicavano incrementi (coattivazione) o decrementi (coinibizione)
simultanei in entrambe i flussi sia vagale che simpatico (Berntson , Cacioppo, e Quigley, 1991).
Cominciammo così a riflettere sulle possibili modalità di regolazione del SNA, sui dati empirici
che documentavano tali modalità, e sulle potenziali origini fisiologiche di tali pattern. Iniziò a
delinearsi l’idea che le funzioni autonomiche non potevano essere viste adeguatamente come
situate lungo un singolo vettore o continuum che si estendeva dal controllo parasimpatico a
quello simpatico; si rendeva necessario ipotizzare, piuttosto, una superficie autonomica
114
bidimensionale, quale rappresentazione minima richiesta per cogliere la complessità del controllo
autonomico. Da un'appropriata comprensione di questo spazio autonomico, si potevano derivare
un certo numero di leggi e di principi subordinati che regolavano la complessità delle modalità
autonomiche, le loro specifiche dimensioni e le condizioni di confine. Era ormai evidente che la
teoria della reciprocità autonomica dovesse essere incorporata in una più ampia dottrina dello
spazio autonomico, i cui elementi includessero principi di organizzazione e controllo congruenti
con uno spazio autonomico multidimensionale. Un modello più articolato di controllo del SNA
sembrava spiegare la
ragione di molti degli
errori di varianza che
avevano afflitto le nostre
ricerche
psicofisiologiche.
Per poter spiegare tutte le
risposte da noi definite
paradossali o errori di
varianza
è
stato
necessario,
perciò,
ipotizzare un modello
complesso. I potenziali
pattern
di
controllo
autonomico sugli organi
Figura 2 - Combinazioni attività simpatica-parasimpatica
bersaglio doppiamente
innervati possono essere delineati nella Fig. 1, con una descrizione dettagliata di tutte le
combinazioni di incremento, di decremento o di attività inalterata nelle due branche del SNA. Le
nove celle della Fig. 1
possono
essere
ulteriormente
raggruppate
in
tre
categorie più vaste: (a)
modalità
accoppiate
reciproche,
in
cui
l'attività
nelle
due
branche
sono
negativamente correlate;
(b) modalità accoppiate
non reciproche, in cui le
attività sono correlate
positivamente; e (c)
modalità non accoppiate,
in cui i cambiamenti di
attività
non
sono
correlati (Fig. 2). I
Figura 1 - Modalità di controllo autonomico
pattern reciproci classici,
in cui le branche sono
correlate negativamente, sono rappresentati dalle celle situate nella parte superiore destra
(modalità simpatica reciproca) e nella parte inferiore sinistra (modalità parasimpatica reciproca)
(Fig. 1). Le risposte accoppiate in cui le attività delle due branche sono correlate positivamente
115
sono rappresentate dalle celle della parte più alta sinistra (coattivazione) e nella parte destra in
basso (coinibizione). Le rimanenti celle (ad eccezione del baseline) descrivono le risposte
autonomiche in una branca del SNA che non sono correlate con i cambiamenti nell'altra (modalità
non accoppiate simpatiche e parasimpatiche).
Le celle della Fig. 1 esauriscono le potenziali modalità di risposta autonomica in ogni dato
momento. Queste modalità sono proposte come descrittori tassonomici di pattern empirici di
risposte autonomiche, e non possono rappresentare isomorficamente i meccanismi sottostanti
funzionalmente distinti. Come avremo modo di discutere in altri lavori, le modalità elementari di
controllo, rappresentate una per una nelle celle, possono essere distribuite lungo una dimensione
funzionale che si estende da un accoppiamento reciproco ad uno non reciproco.
Il SNA era stato visto nel passato come un sistema dicotomico, con le sue divisioni simpatica e
parasimpatica (vagale) che esercitavano influenze funzionalmente opposte sotto controllo
reciproco centrale. Questa concezione, definita come dottrina della reciprocità autonomica,
comportava tre principi fondamentali strettamente correlati fra loro: (a) il principio di una doppia
innervazione degli organi bersaglio viscerali, (b) il principio dell'antagonismo funzionale delle
doppie innervazioni, e (c) il principio di un controllo reciproco fra le divisioni del SNA.
Nonostante numerose evidenze supportassero il concetto generale di un'organizzazione del SNA
reciproca ed antagonista, anche in passato, da parte di numerosi ricercatori, erano state
individuate numerose deviazioni da questo modello. Queste eccezioni avevano evidenziato: (a)
alcuni organi bersaglio che non erano doppiamente innervati, (b) le influenze simpatiche e
parasimpatiche su alcuni organi doppiamente innervati si erano rivelate sinergiche o ortogonali
piuttosto che antagoniste, e (c) i processi simpatici e parasimpatici non erano sempre soggetti a
reciproche variazioni (Rosenbleuth e Bard, 1932; Rosenbleuth e Cannon, 1932; Richter, 1927;
Tower & Richter, 1932; Root & Bard, 1947; Gellhorn, Cortell, & Feldman, 1941). Queste
eccezioni alla dottrina di reciprocità autonomica avevano vaticinato l'emergenza delle prospettive
contemporanee che più appropriatamente enfatizzano le influenze interattive fra branche
simpatica e parasimpatica del SNA (Fig. 3).
Malgrado le riconosciute limitazioni della dottrina
della reciprocità, fino agli anni ’80 non era emersa
alcuna cornice concettuale generale che spiegasse
totalmente la complessità dei meccanismi autonomici
di controllo. Una cornice concettuale quantitativa è
fondamentale per la direzione strategica degli studi
sperimentali e lo sviluppo di ipotesi di verifica. Una
simile cornice può offrire importanti parametri per
quantificare gli effetti dei compiti, per esaminare le
dimensioni delle differenze individuali, o per
identificare fonti di errore di varianza negli studi
psicofisiologici. Una cornice concettuale generale
può anche conferire una prospettiva più integrata dei
processi autonomici, minimizzando la proliferazione
di microteorie correlate a innervazioni autonomiche
Figura 3 – Spazio autonomico
specifiche. Questa più ampia prospettiva potrebbe
probabilmente facilitare lo comprensione di
correlazioni psicofisiologiche con processi comportamentali più molari.
Era necessaria, perciò, una concezione generale di organizzazione del SNA che includesse sia le
caratteristiche veridiche della dottrina della reciprocità sia incorporasse contemporaneamente le
eccezioni a questa teoria. Una visione dell’attività autonomica più complessa, insieme ad un
116
modello quantitativo derivato, può gettare luce su questioni psicofisiologiche che vanno dagli
effetti ambientali sull'attività del SNA alle differenze individuali nella sua reattività.
La dottrina della reciprocità, pur spiegando alcune delle modalità di controllo, doveva essere
integrata in una teoria più articolata; per cui, per chiarire la varietà delle risposte osservate nei
nostri pazienti è stato necessario adottare un modello di controllo complesso e passare dalla
dottrina della reciprocità alla teoria dello spazio autonomico; ciò ha comportato la
rappresentazione di una superficie multidimensionale delle risposte simpatiche e parasimpatiche
che incorporasse la complessità del controllo autonomico. Come illustrato nella Fig. 3, questa
superficie (a) classifica la dottrina della reciprocità come un vettore diagonale, (b) rappresenta le
modalità non reciproche sulla diagonale alternative, e (c) descrive le modalità non accoppiate
come vettori situati lungo gli assi. Inoltre, le famiglie di vettori paralleli a quelli appena
menzionate rappresentano
le categorie generali di
controllo
autonomico
espresse da vari punti di
partenza con uno spazio
multidimensionale.
Una
caratteristica della dottrina
dello spazio autonomico è
la sua indifferenza alla
natura
degli
impatti
funzionali
delle
innervazioni autonomiche
sull'organo
bersaglio.
Figura 4 - Dottrina dello Spazio Autonomico
Benché la natura delle
influenze
autonomiche
chiaramente governi la traduzione dallo spazio autonomico agli effetti funzionali sull'organo, ciò
non altera le rappresentazioni basiche all'interno dello spazio autonomo. I tre principi della
dottrina della reciprocità possono essere inclusi nella prospettiva più ampia della dottrina dello
spazio autonomico (Fig. 4). Specificatamente:
1.
Il principio di una doppia innervazione è inserito nel principio più ampio
dell'innervazione, che asserisce che un organo viscerale può essere sia singolarmente che
dualmente innervato dal SNA.
2.
Il principio dell'antagonismo funzionale è assorbito dal principio dell'azione congiunta,
che sostiene che le due branche del SNA possono esercitare influenze sia antagoniste che
sinergiche sugli organi doppiamente innervati.
3.
Il principio del controllo reciproco è assimilato dal più generale principio delle modalità
multiple, che asserisce che la modalità di controllo sulle innervazioni sia simpatiche che
parasimpatiche può essere reciproca, non reciproca, o non accoppiata.
Le diverse proprietà delle modalità generali di controllo autonomico sull'organo bersaglio
possono essere descritte da funzioni sigmoidali di attività delle due branche del SNA della
risposta, derivate dagli input che variano lungo un continuum di attivazione:

ij
dove
=  + csi * si + cpj * p + csipj * si p + e,
j

ij
j
(1)
è lo stato funzionale dell'organo bersaglio al punto ij su un continuum di attivazione,

è lo stato funzionale basale in assenza di input autonomico, si e pj sono le attività funzionali
117
indipendenti
delle
innervazioni simpatiche
e parasimpatiche al
punto di attivazione ij,
csi
e
cpj
sono
coefficienti accoppiati
che riflettono il relativo
impatto funzionale delle
attività simpatiche e
parasimpatiche
sull'organo bersaglio (al
punto di attivazione ij),
csipj*sipj è un termine
che
rappresenta
le
potenziali interazioni fra
le branche del SNA, ed e
è un termine di errore
che include, fra le altre
cose, alcuni effetti locali
(non neurali) metabolici
Figura 5 –Spazio Autonomico e Superfice funzionale
e ormonali. Sebbene
l'equazione (1) sia un modello lineare, gli indici (i, j) sui coefficienti possono accomodare
potenziali non linearità nell'impatto funzionale del SNA sull'organo bersaglio (che si traduce in
variazioni nei coefficienti accoppiati a differenti livelli di attivazione, i.e., i, j diventano vettori)
(Fig. 5).
Quantunque relativamente comprensivo, questo modello semplifica alcune caratteristiche
dinamiche del controllo autonomico includendo un numero di variabili nel termine di errore. La
variazione associata a questi fattori è qui inclusa nel termine di errore. Molte di queste variabili
differiranno da organo a organo, tuttavia, le specifiche implementazioni di questo modello
generale possono beneficiare di un ulteriore analisi delle componenti della variazione del termine
di errore. La nostra intenzione, tuttavia, non è quello di fornire il modello del controllo
autonomico di un particolare organo, ma piuttosto di illustrare le proprietà generali delle modalità
di controllo autonomico.
I termini dell'equazione (1) riflettono ognuno dei principi della dottrina dello spazio autonomico.
Il principio di innervazione è espresso dalla presenza dei termini si e pj, che assumono un valore
fisso di zero in assenza di un input rilevante. Il principio di azione congiunta è manifesto nei
segni dei coefficienti csi e cpj, che sono equivalenti per le azioni concordi e opposti per le azioni
antagoniste. Infine, il principio di modalità multiple è inglobato dai relativi cambiamenti delle
funzioni di input.
Le proprietà formali delle risposte autonomiche, come delineato in precedenza, possono essere
associate a caratteristiche adattive e personali distinte. Le modalità reciproche, nel produrre
grandi cambiamenti direzionalmente stabili nello stato funzionale dell'organo bersaglio,
rappresentano una appropriata regolazione adattiva per le sfide alla sopravvivenza.
Conseguentemente, non è sorprendente che le regolazioni compensatorie baroriflesse critiche alle
perturbazioni della pressione ematica manifestano un pattern reciproco (Koizumi et al., 1983;
Spyer, 1981). Questa modalità reciproca simpatica può estendersi, attraverso i sistemi di organo,
fino a inibire o annullare la risposta baroriflessa-mediata dei controlli vagali (Bard, 1960;
118
Stephensen et al. 1981). In tal modo, gli stressor possono condurre ad un incremento nella
frequenza cardiaca, nonostante una pressione ematica elevata che servirebbe normalmente a
sopprimere l'output simpatico e ad aumentare il controllo vagale. Cannon (1929) affermò che
sfide alla sopravvivenza di forte intensità possono attivare un pattern simpatico reciproco
eccezionale e invadente. Una caratteristica adattiva delle modalità reciproche di controllo è il
cambiamento nella dominanza relativa alle due branche del SNA. Durante uno stato di quiete
comportamentale, il sistema parasimpatico può predominare nel controllo autonomico della
frequenza cardiaca, e le risposte a sfide moderate possono essere determinate in gran parte
dall'attivazione o dal ritiro del tono vagale (Haroutunian & Campbell, 1982; Levy, 1984; Obrist,
1981; Rowell, 1986). Un'attivazione autonomica, comunque, può invertire questa relativa
dominanza e trasferire il controllo cronotropico del cuore al sistema simpatico. Il risultato è una
transizione da un sistema di controllo tonico parasimpatico ad uno tonico simpatico nell'organo
bersaglio, spesso caratterizzata da un notevole incremento nella frequenza cardiaca. In tal modo,
le risposte fasiche reciproche generalmente conducono a cambiamenti nel livello tonico, a meno
che non siano seguite da una transizione ad un'altra modalità di controllo (come un pattern
reciproco opposto, che potrebbe condurre ad un ripristino del baseline).
Il significato adattivo dei controlli non reciproci è meno immediatamente chiaro, dal momento
che queste modalità tendono a preservare lo stato funzionale del baseline dell'organo. Infatti,
durante uno stato di coattivazione, non può essere visto nessun cambiamento nello stato basale se
le branche del SNA evidenziano soglie, pendenze e coefficienti di accoppiamento uguali; identici
parametri fra le due branche sono improbabili e vari gradi di coattivazione (o coinibizione) sono
probabilmente la norma. Disparità fra le branche coattivate del SNA rivelano proprietà funzionali
uniche delle modalità non reciproche di controllo. Cambiamenti nei controlli sia tonici sia fasici
sono correlati nelle modalità reciproche, ma possono dissociarsi nelle modalità non reciproche.
Le modalità non reciproche tendono, quindi, a preservare gli stati funzionali di baseline. Sebbene
i cambiamenti non reciproci possono produrre una moderata alterazione nel controllo tonico, ciò
è considerevolmente più piccolo del parallelo cambiamento sotto modalità reciproche. Inoltre,
questa alterazione nei controlli tonici è non monotonica e limitata alle regioni della risposta
dinamica delle branche del SNA. All’opposto delle modalità reciproche, il cambiamento
associato alla frequenza cardiaca può essere modesto.
Le riflessioni su questi dati conducono ad almeno due conclusioni: (a) una concezione
multidimensionale dello spazio autonomico fornisce una descrizione molto più articolata del
controllo autonomico e permette una migliore comprensione delle risposte psicofisiologiche da
noi osservate rispetto ad un modello a vettore singolo; (b) il modello multidimensionale dello
spazio autonomico proposto, espresso nell'equazione (1), offre un approccio quantitativo potente
necessario all’analisi delle risposte del SNA. Il modello a vettore singolo, conducendo ad una
concezione eccessivamente restrittiva dei controlli autonomici, non riusciva a spiegare la
complessità delle risposte che avevamo osservato ed era, spesso, smentita dai risultati empirici
osservati. Quantunque questo modello fosse stato riconosciuto da molti autori come insufficiente,
fino a poco tempo fa non è stata avanzata nessuna alternativa viabile; infatti, un modello almeno
bidimensionale rappresenta un importante e necessaria espansione della dottrina della reciprocità.
La dottrina dello spazio autonomico può assimilare le caratteristiche veritiere del precedente
punto di vista e, contemporaneamente, fornire una rappresentazione più esaustiva delle risposte
psicofisiologiche da noi osservate. Sebbene i dettagli specifici di questo modello possano subire
una revisione, l’attuale comprensione dell'organizzazione autonomica impedisce definitivamente
la resurrezione del concetto di singolo vettore di controllo autonomico.
Un punto di vista riduttivistico di controllo autonomico ha rappresentato un fondamentale
ingrediente delle critiche di Walter Cannon alle teorie periferialiste delle emozioni, poiché
119
riteneva le risposte viscerali del corpo troppo indifferenziate per spiegare la ricchezza delle
sensazioni emotive. Nonostante le numerose prove del contrario, ancora rimane ampiamente
accettato e, per quasi un secolo, ha lasciato irrisolta la questione se i segnali afferenti viscerali
sono essenziali o meno per l'esperienza emozionale. Recentemente in uno studio è stata
combinata la risonanza magnetica funzionale e la registrazione fisiologica multiorgano per
analizzare l'esperienza di due forme distinte di disgusto e la loro relazione con l'attività fisiologica
periferica e centrale. I risultati ottenuti hanno dimostrato che le risposte fisiologiche organospecifiche differenziano gli stati emotivi, supportando l'ipotesi che le rappresentazioni centrali di
omeostasi fisiologica dell'organismo costituiscono un aspetto critico delle basi neurali dei
sentimenti. Sono stati individuati pattern differenziali di risposta delle due branche autonomiche
attraverso sistemi d'organo o dimensioni funzionali. Altro esempio rilevante è la risposta di
orientamento che è frequentemente associata ad una decelerazione cardiaca (attivazione vagale),
dilatazione pupillare (ritiro vagale) e risposte elettrodermiche (attivazione simpatica) (Beatty,
1986; Lynn, 1966; Siddle, & Stephenson, & Spinks, 1983; Van der Molen, Boosma, Jennings, &
Nieuwboer, 1989). Tali pattern di risposta autonomica, attraverso gli organi bersaglio,
rappresentano le basi di più raffinati tentativi per desumere legittime relazioni fra stati
comportamentali, emozionali e funzioni autonomiche (Cacioppo & Tassinary, 1990).
Una visione complessa del controllo autonomico favorisce la comprensione del ruolo che svolge
l’interocezione nella percezione degli stati emozionali e, quindi, dell’esperienza immediata. Così
come differenti tipi di emozioni sono associati a distinti profili di attività viscerale (Critchley,
2005; Rainville, Bechara, Naqvi e Damasio, 2006), diverse modalità di assemblaggio somatico e
autonomico sembrano delineare l’esistenza di profili psicofisiologici corrispondenti ai tipi di
personalità descritte dal post-razionalismo (Blanco, 1984, 1986; Reda et al., 1986, 1988, 1991;
Guidano, 1992; ). Le persone accedono in maniera differente alle proprie esperienze emotive,
prestando maggiore o minore attenzione ai propri stati corporei (consapevolezza interocettiva),
per cui diventa legittimo chiedersi come differenti persone avvertono in maniera diversa una
stessa emozione o se il modo di emozionarsi è determinato dal carattere di una persona. Lo studio
del rapporto fra le modalità di controllo viscerale e il ruolo dell’interocezione nella percezione
dell’esperienza immediata rappresentano degli importanti stimoli per la comprensione di quei
processi che costituiscono le fondamenta tacite della costruzione dell’identità personale.
Possiamo definire come sensibilità interocettiva la capacità/consapevolezza e il modo che le
persone utilizzano per processare e regolare la propria stabilità emotiva; tale sensibilità riguarda
gli stimoli provenienti dal nostro corpo in senso sia di viscero-percezione sia di propriocezione
(pelle, articolazioni, tendini e muscoli), una sorta di un generale “come ci si sente?” (Craig,
2004). Sin dai tempi della teoria di James (1884), che enfatizzava la centralità dei segnali
viscerali per l’esperienza associata a ciascuna distinta emozione, è dominante, in ambito della
topica delle emozioni, il dibattito sul ruolo dei segnali corporei nell’esperienza emozionale (teorie
periferialiste delle emozioni, James, 1884; Schachter & Singer, 1962; Damasio, 2000).
Affermava, infatti, James che “non scappiamo perché abbiamo paura … ma abbiamo paura
perché scappiamo” e aggiungeva “che tipo di emozione di paura sarebbe se non fosse presente la
percezione dei battiti cardiaci, della respirazione superficiale, del tremore alle labbra, degli arti
indeboliti, della pelle d'oca e dei movimenti viscerali?” (James, 1884); secondo la sua teoria, una
situazione stimolo, perturbando un organismo, genera in un individuo dei cambiamenti corporei
che a loro volta producono un’esperienza emozionale come conseguenza della loro percezione.
A tutt’oggi è dibattuto il ruolo che gli stati corporei hanno nell’esperienza emozionale
(processamento, regolazione) degli esseri umani. Il fascino degli stati corporei nell’esperienza
emotiva (Damasio, 1999; James, 1894; Schachter & Singer, 1962; Valins, 1966) ha recentemente
portato alle teorie note con il termine “embodiment”, oggi di supporto alle teorie periferialiste
120
delle emozioni, le quali sottolineano il ruolo della consapevolezza interocettiva nei differenti stati
emotivi\ (Craig, 2004; James, 1884; Damasio, 1994). Vi sono attualmente numerose evidenze
empiriche relative alle emozioni “embodied” (Barrett et al., 2004; Critchley et al., 2004; Pollatos,
Gramann, & Schandry, 2007; Wiens, 2005); per esempio, le persone più capaci di individuare il
proprio battito cardiaco sembrerebbero rispondere con un grado più alto d’intensità emotiva a
spezzoni di film a contenuto emozionale (gioia, rabbia, tristezza) e individui con maggiore
capacità di individuare i cambiamenti viscerali sembrerebbero rispondere in maniera molto più
intensa a “eventi” emotivi, rispetto alla popolazione generale (Wiens et al., 2000).
Soggetti con alta consapevolezza interocettiva (CI), dimostratisi particolarmente abili nella
detezione del battito cardiaco, hanno manifestato una maggiore accuratezza nel predire
correttamente la scossa rispetto a individui con bassa CI: entrambe i gruppi sono stati sottoposti
per pochi secondi alla visione d’immagini subliminali (ragni e serpenti) alcune delle quali seguite
da una scossa (CS+) altre no (CS-). I soggetti ad alta CI, utilizzando i loro segnali interni per
anticipare lo stimolo nocivo, hanno mostrato una migliore capacità predittiva di quello che
sarebbe accaduto. In seguito alla registrazione dello stimolo sublimale a livello di non coscienza,
essi sembravano avvertire un’alterazione corporea che li rendeva più esperti nell’anticipare la
scossa; è come dire “io mi fido di quello che accade nel mio corpo come bussola per dirigermi nel
mondo” (Katkin et al., 2001). Persone con elevata consapevolezza interocettiva si sono, inoltre,
mostrate più abili nel cogliere differenti sfumature di attivazione emozionale; è stata osservata la
misura con cui questi soggetti enfatizzano o meno i livelli di attivazione/disattivazione quando
riportano la loro esperienza emotiva (arousal focus - AF) (Barrett, 1995; 1998; 2004).
Si può, perciò, affermare che gli individui con alta consapevolezza interocettiva tendono a
sviluppare l’inclinazione a focalizzare su una cornice di riferimento che usa soprattutto un
sistema di coordinate centrato sul corpo, ovvero, mettono a fuoco primariamente gli aspetti
viscerali delle emozioni per valutare gli eventi nel mondo (soggetti con tendenza inward); mentre
altri individui con bassa CI, per discriminare I propri stati emozionali (soggetti con tendenza
outward), tendono a mettere a fuoco su una cornice di riferimento che usa principalmente un
sistema di coordinate ancorate esternamente, come contesti o persone (Arciero, 2002, 2006,
2012).
Le risposte psicofisiologiche dei nostri soggetti a tendenza Inward con alta consapevolezza
interocettiva (stile di personalità tipo Fobico e Depressivo) hanno mostrato una correlazione
altamente significativa (p<0,0001) fra le risposte dell’attività muscolo-espressiva e le risposte
autonomiche, nonostante una differenza intragruppo nell’assemblaggio dei pattern
psicofisiologici. Durante la rievocazione di eventi a forte connotazione emotigena, la descrizione
degli stati interni è stata sempre effettuata con riferimento a stimoli di natura fisica (mi batte il
cuore forte, non respiro bene, sento un peso sul mio petto, ho le farfalle nello stomaco); si è anche
osservata una costante congruenza fra il narrato degli episodi sintomatici critici e le variazioni
delle risposte autonomiche (per esempio, la rievocazione di eventi connotati da paura erano
seguiti da un incremento dell’attività simpatica). I soggetti a tendenza Inward si sono dimostrati
più esperti anche nel cogliere le differenti sfumature di attivazione emozionale (Barrett et al.,
2004).
I soggetti a tendenza Outward con bassa consapevolezza interocettiva (stile di personalità tipo
DAP e Ossessivo) non hanno mostrato correlazioni significative fra i ritmi psicofisiologici e,
durante la rievocazione degli eventi scenici a loro dire emotigeni, al narrato non corrispondevano
variazioni psicofisiologiche congruenti (per esempio, la narrazione di un evento connotato
verbalmente da rabbia, non era accompagnata da nessuna variazione autonomica di rilievo; altre
volte, si assisteva ad ampie fluttuazioni viscerali nella descrizione di episodi definiti a valenza
emotiva neutra). Infine, le emozioni provate venivano descritte con termini vaghi e/o metaforici e
121
quasi mai con riferimento a sensazioni fisiche (mi sento vuoto, è come se non esistessi, mi sento
confuso).
I dati da noi registrati suggeriscono che, a livello psicofisiologico, le due polarità inward-outward
sembrano delimitare un continuum su cui possono essere lette le varie combinazioni emotive
individuali. Perciò è a partire dal corpo che va costruita sia una psicologia del Sé sia una
psicopatologia delle emozioni con alla base un’ontologia del corpo. Le polarità inward e outward
caratterizzano un modo di posizionarsi come essere-nel-mondo, prevalentemente in termini
‘body-bounded’ per la tendenza inward e ‘world anchored’ per la disposizione outward. È su
questo spazio interpersonale, caratterizzato dalla polarità “proprio corpo-alterità”, che occorre
riflettere: infatti, a seconda della modalità di emozionarsi, muta l’enfasi nell’ambito di questo
spazio, sul proprio corpo o sull’alterità e conseguentemente l’inclinazione della stabilità
personale. Nel primo caso il centro gravitazionale della dialettica è spostato su un contesto
referenziale centrato, in modo predominante, su coordinate che si riferiscono al proprio corpo,
dando luogo a un senso di stabilità prevalentemente focalizzato su stati “interni” (Inward).
Nell’altro caso la più rilevante focalizzazione su aspetti contestuali fa gravitare quello spazio su
un frame referenziale che usa un sistema di coordinate ancorato sull’alterità, dando così luogo a
un senso di permanenza orientato maggiormente su riferimenti “esterni” (Outward). Da
quest’altra prospettiva è evidente che l’alterità, intesa come tipo di ancoraggio attraverso cui
mantenere la stabilità nel tempo (persone, contesti, immagini, pensieri, regole etc.), diventa la
sorgente d’informazione per riconoscere l’esperienza emotiva personale divenendone quindi parte
(Arciero, 2002, 2006, 2012).
Se l’esperienza che noi facciamo, non è che un modo di incontrare di volta in volta il mondo e gli
altri, le variazioni interne al proprio corpo corrispondono alle diverse modalità attraverso le quali
accediamo sia all’uno sia agli altri. L’essere incarnati corrisponde al come ci si avverte di volta in
volta situati e, contemporaneamente, a come appare il mondo; è proprio attraverso i diversi modi
in cui incontra il mondo e l’altro che il corpo scopre ciò che è significativo e,
contemporaneamente, una propria modalità di essere. Questo sentimento della situazione in cui
effettivamente si è, il fatto cioè di essere in un certo stato emotivo, riguarda sempre un modo di
trovarsi e un modo di disporsi riguardo a quella certa circostanza. A questi diversi modi di sentirsi
situati, corrispondono dei tipi peculiari di emozione oltre che l’attivazione di differenti circuiti
neurali e di differenti assemblaggi psicofisiologici o, come abbiamo precedentemente osservato, a
stessi assemblaggi possono corrispondere modi dissimili di avvertirsi (Reda M.A. et al., 1986,
1988, 1991; Blanco S. et al., 1984, 1986, 1990). È utile porre l’accento che questo nostro
approccio allo studio delle emozioni permette di raccogliere attraverso uno sguardo sinottico sia
la prospettiva di James e dei neo-Jamesiani sia quella evolutiva di Tomkins, Ekmann e Izard
(Blanco S. et al., 1984, 1986, 1990; Reda M.A. et al., 1986, 1988, 1991; Ekman P. et al., 1983;
Guidano V.F., 1988, 1992).
Da questa prospettiva, le situazioni e le circostanze della vita quotidiana appaiono come
perturbazioni di cui il soggetto, come organizzazione biologica, ha esperienza immediata
attraverso le modificazioni corporee: un’esperienza confusa, caotica, per lo più costituita da
aspetti taciti tanto da portare Maturana (1985, 1987, 1992) a sostenere che, a questo livello, non è
possibile distinguere una percezione da un’illusione. Da questa esperienza bruta le categorie del
discernimento e dell’intelletto costruiranno la comprensione a posteriori, introducendo
quell’ordine che può essere identificato come un corpus di spiegazioni della realtà organizzato
secondo “deep syntactic rules” (Guidano 1983, 1988, 1992). La soggettività, ovvero l’essere un
“chi”, non può che corrispondere, perciò, a un continuo riordinamento, attraverso ritmi
psicofisiologici stabili, che unifica la varietà delle singole esperienze in un senso di unitarietà e di
continuità personale. È quindi evidente che il significato della mia esperienza concerne come io
122
connetto la molteplicità delle esperienze. Questo continuo e incessante processo di unificazione
corrisponde all’organizzazione biologica stessa: l’essere è il meccanismo ordinante incarnato
come sistema auto-organizzato; in questo senso, il vivere corrisponde al sentire e al conoscere.
Lo strutturarsi di profili psicofisiologici stabili e le loro modalità di controllo autonomico
rappresentano alcuni degli aspetti corporei di quella dimensione preriflessiva che riguarda sempre
il significato sentito di una certa situazione e il modo di disporsi riguardo a quella circostanza.
L’emozionarsi non può essere separato dal suddetto rapporto originario come se non ne facesse
parte, come se l’emozione fosse un epifenomeno di origine casuale che si presenta di per sé. La
“situazione emotiva” insieme alla sua “comprensione” è una delle modalità principali, chiamate
da Heidegger (1927, 1969, 1970, 1973, 1975, 1982, 1984, 1990, 1993, 1995, 1997 2005)
“esistenziali”, attraverso cui sperimentiamo il nostro essere-nel-mondo. Essere-nel-mondo,
pertanto, significa essere sempre coinvolti in una situazione emotiva: l’uomo non è uno spettatore
disinteressato dei fenomeni e dei suoi significati.
Da questo processo preriflessivo, denominato ipseità, emerge il Sé dell’identità narrativa come
una vera sua riappropriazione che si dispiega nel tempo (Ricoeur 1974, 1981, 1985a, 1985b,
1986a, 1986b, 1986c, 1986d, 1987a, 1987b, 1988a, 1988b, 1989, 1990, 1991a, 1991b, 1991c,
1993a, 1993b, 1994a, 1994b, 1994c, 1996a, 1996b, 1997, 1998a, 1998b, 2004, 2005). Non si
tratta più di afferrare il sé soltanto attraverso un atto di riflessione, ma di coglierlo dalla
comprensione dei suoi modi reali di esistere e di sentire; si rende necessario comprendere il come
l’essere sé è presente a se stesso, è cosciente preriflessivamente nella sua quotidianità, nella sua
esperienza concreta, alla luce dell’avere a che fare col mondo e con gli altri. Un paradigma più
complesso delle modalità di controllo autonomico sembra chiarire quelle differenze
personologiche nel sentire che rendono unici gli esseri umani.
Gli assemblaggi psicofisiologici contribuiscono a colorare emozionalmente il fare esperienza e ci
fanno sentire di essere presso le cose con cui interagiamo; se la coscienza non è nient’altro che la
comprensione dell’esistere e del dimorare nel mondo, allora la coscienza non è chiusa in se
stessa, ma è nel mondo. Ciò significa che esistere è essere sempre aperti a qualcuno ed essere in
rapporto col mondo. La coscienza di sé sottintende perciò un rapporto indispensabile, primario,
originario che la costituisce e la rende possibile: la relazione con il mondo e il rapporto con l’altro
da sé.
L’ipseità non è l’identità e non è la sua riconfigurazione narrativa. Solamente afferrando questa
distinzione è possibile comprendere come l’appropriazione dell’esperienza, attraverso varie
modalità di controllo autonomico, sia alla base della costituzione dell’identità personale.
Considerare il sé come un oggetto e non un “chi” rende priva di senso la differenziazione fra il sé
e l’identità personale. La differenza fra questi due processi non può essere colta da una visione
che ritiene la costruzione del significato possibile solamente attraverso l’atto riflessivo, attraverso
la spiegazione dell’esperienza immediata. Questo modo di intendere non può distinguere il sé
dall’identità perché fa nascere il significato dalla riflessione, dalla spiegazione o dalla metarappresentazione.
Con l’ipseità e i sottostanti ritmi psicofisiologici invarianti si prospetta, inoltre, una forma nuova
di intendere la relazione fra l’esperienza di sé e la permanenza di sé nel tempo. Non più la
variabilità dell’esperienza ricondotta a ciò che resta identico, ma un trovarsi di volta in volta
come il medesimo nelle identiche circostanze sperimentando le stesse tonalità emozionali. Per
meglio comprendere tale prospettiva, è utile introdurre un altro elemento di fondamentale
importanza: la medesimezza, un certo modo di sentirsi che sedimenta nel tempo in una
inclinazione a emozionarsi che corrisponde alla costituzione di uno stile di personalità, mantenuta
stabile dai sottostanti ritmi fisiologici ricorrenti ed invarianti, costituenti veri e propri profili
psicofisiologici. Come abbiamo osservato in altri lavori, tali profili psicofisiologici, registrati
123
durante il follow-up, si mantengono stabili nel tempo, nonostante la remissione sintomatica e i
cambiamenti personali del paziente. Questa nozione costituisce insieme all’ipseità una delle due
polarità dell’esperienza antepredicativa e trova la sua prima concettualizzazione in Heidegger. La
relazione fra l’esperienza attuale e possibile di sé (ipseità) e l’inclinazione di sé (medesimezza),
che muta via via con il maturare della vita, è la necessaria dialettica che caratterizza la struttura
ontologica preriflessiva.
Guidano ha posto a fondamento dell’organizzazione della conoscenza una teoria delle emozioni,
per cui l’esperienza emozionale personale diventa la matrice del significato. L’organizzazione
emotiva fornisce quel senso di unitarietà, di continuità personale e di permanenza di sé a fronte
della molteplicità dei mutamenti; l’esperienza diretta assume, così, la dimensione ontologica
dell’irripetibilità dell’essere, a dispetto della seduzione ontica del parlarne, dove conoscere è
esistere e, in quanto tale, solo una piccola parte può essere verbalizzata: il sé non è più inteso
come una cosa ma come un “chi”. Una parte rilevante dell’opera di Heidegger (1962, 1969, 1970,
1973, 1975, 1982, 1984; 1988, 1990, 1993, 1995, 1997, 2001, 2005) è stata quella di richiamare
la distinzione irriducibile tra ontologico e ontico, nonostante il linguaggio rappresenti lo
strumento di trasformazione ontica per eccellenza perché, per sua natura, separa il contenuto
affettivo dall’informazione e rende l’affettività stessa un’informazione (Guidano, 1999).
Il presentare il problema del significato dell’esperienza da questo punto di vista disloca il tema
dell’identità personale a un livello di articolazione dove il linguaggio gioca un ruolo centrale. Il
linguaggio, attraverso l’uso narrativo, permette di appropriarsi, di connettere e articolare nel
tempo la propria esperienza di esistere e di costituire cosi l’identità della propria persona a cui le
esperienze rimandano. È per questo che possiamo parlare di identità narrativa. La persona appare,
nella sua individualità, attraverso la riconfigurazione dell’esperienza che genera il racconto
attraverso l’uso del linguaggio. La ricomposizione di accadimenti nella storia di una vita, mentre
integra il sentire e l’agire in una connessione narrativa (intrecciandoli insieme con esperienze
possibili e con quelle già fatte), fornisce al protagonista di quelle esperienze l’identità e la
stabilità di sé nel tempo; il racconto che la persona fa di sé riconfigura, in modo personale, la
relazione fra medesimezza, ipseità e alterità.
La ricomposizione di accadimenti nella storia di una vita, mentre integra il sentire e l’agire in una
concatenazione narrativa intrecciandoli insieme con eventi possibili e con esperienze già fatte,
fornisce l’identità e la stabilità di sé nel tempo al protagonista di quelle esperienze. Paul Ricoeur
(1974, 1981, 1985a,1985b, 1986a, 1986b, 1986c, 1986d, 1987a, 1987b, 1988a, 1988b, 1989,
1990, 1991a, 1991b, 1991c, 1993a, 1993b, 1994a, 1994b, 1996a, 1996b, 1997, 1998a, 1998b,
2004, 2005) ci ha descritto la costruzione dell’identità personale come un processo
d’interpretazione, appropriazione e riconfigurazione dell’esperienza preriflessiva.
Gli errori di varianza degli anni ‘70 e le incongruenze rispetto al paradigma della reciprocità,
anziché costituire un problema, si sono trasformati, negli anni, nell'asse portante della nostra
ricerca. Riproponendo la discussione sull’esperienza immediata sotto un profilo psicofisiologico,
vogliamo enfatizzare la questione dell'ipseità portando al centro dell’indagine l’esperienza
effettiva di esistere: il modo in cui ognuno di noi di volta in volta è se stesso in relazione al
mondo e agli altri. L’essere sé infatti si rivela e si riflette nelle circostanze della vita di tutti i
giorni e nell’incontrarle genera la propria traiettoria singolare d’esistenza. Riprendendo Ricoeur
(1990), possiamo affermare che l’alterità appartiene alla costituzione ontologica dell’ipseità.
Se nella sfera affettiva trovano fondamento le due differenti modalità della permanenza nel tempo
che definiscono le polarità dell’identità personale, allora è attraverso l’analisi della storia e
dell’identità del protagonista in essa composta che dovremmo accedere alle inclinazioni del
dominio affettivo su cui il racconto si basa e si riconfigura narrativamente. È la persistenza dei
ritmi psicofisiologici e delle inclinazioni che si riflettono nei modi in cui la persona costruisce
124
l’identità che permette di afferrarle come tratti stabili e quindi di dare conto del carattere del
racconto in termini di pattern astratti dall’esperienza viva. I diversi ritmi psicofisiologici alla base
della ipseità contribuiscono alla costituzione delle diverse categorie d’identità del protagonista del
racconto. Ritmi invarianti ciclici che, generando combinazioni di significati ricorrenti, rimandano
a tendenze emozionali collocabili lungo un continuum all’interno delle polarità Inward- Outward.
Il passaggio da un modello a singolo vettore a un modello complesso del controllo autonomico ci
ha permesso di meglio comprendere il ruolo dei processi preriflessivi nella costruzione
dell’identità narrativa. I ritmi psicofisiologici invarianti identificati sembrano rappresentare quei
vincoli taciti dello stile affettivo la cui flessibilità diventa la misura di adattabilità del sistema e
della capacità di assimilazione dei dati di realtà. La capacità di assimilare le fluttuazioni dà i
parametri di articolazione del paradigma organizzativo col reale. Potremmo quindi riassumere
dicendo che le fluttuazioni si autorganizzano a partire da forme i cui vincoli rappresentano le
condizioni psicobiologiche su cui si vanno sviluppando ipseità e medesimezza; alla luce di
questo, guardiamo alle due modalità di sentire emotivo che il cognitivismo post-razionalista ci
fornisce, come a tracce della complessità del suo livello tacito.
Memori della parabola dei sei ciechi, cercare di identificare processi taciti stabili nel tempo non
significa frantumare la storia personale nella costruzione di un ritratto biologico determinato da
una riconfigurazione del passato che come un’eredità irrinunciabile limita per sempre la biografia
dell’individuo. Per mezzo della tipizzazione, la temporalità perde il suo carattere individuale
poiché la storicità dell’esperienza è riferita, attraverso l’applicazione di categorie, a forme
invarianti ma impersonali. In tal modo, la storia personale è trasfigurata nelle sue invarianze
biologiche tralasciando il rapporto con la storicità come noi la incontriamo nella vita quotidiana.
Io, tu, noi e voi, tutti siamo trasformati in ciò che rimane invariante nel tempo e trasversale ai
singoli individui nel dare all’organizzazione di questi pattern emozionali il nome generico di stili
affettivi. Vogliamo concludere dicendo che quei processi taciti che abbiamo chiamato profili
psicofisiologici, pur rendendo possibile un ambito di dialogo con le scienze naturali, lasciano
fuori la comprensione dell’unicità dell’esperienza personale e della storia caratteristica di una
vita.
Bibliografia
Arciero G, Studi e dialoghi sull'identità personale, Bollati Boringhieri, Milano, 2002.
Arciero G, Sulle tracce di sé, Bollati Boringhieri, Milano, 2006.
Arciero G e Bondolfi G., Sé, Identita e Stili di Personalità, Bollati Boringhieri, Milano, 20012.
Bandura A., Principles of Behavior Modification, Holt Rinehart & Winstol, N.Y., 1969.
Bard, P.(1960).Anatomicalorganizationofthecentralnervoussystem in relation to control of the
heart and blood vessels. Physiological Review,40(Suppl. 4), 3-21.
Barrett, L.F. (2004). Feelings or words? Understanding the content in self-report ratings of
experienced emotion. Journal of Personality & Social Psychology, 87, 266–281.
Barrett, L.F., Mesquita, B., Ochsner, K.N., & Gross, J.J. (2007). The experience of emotion.
Annual Review of Psychology, 58, 373–403.
Beatty, J. (1986). The pupillary system. In M. (3. H. Coles, E. Donchin, & S. W.Porges (Eds.),
Psychophysiology:Systems, processes,and applications (pp. 43-50). New York: Guilford.
Berntson G.G., Cacioppo J.T., e Quigley K.S., Autonomic determinism: the modes of Autonomic
control, the Doctrine of Autonomic space, and the Law of Autonomic constraint, Psychological
Review, Vol. 98, 4, 459-487, 1991.
Blanco S. - Elementi di tecnica psicofisiologica - In Chiari G.: Biofeedback, emozione e malattia,
pagg. 142-168, F. Angeli Ed., Milano, 1982.
125
Blanco S. - Le tecniche di biofeedback in neurologia e in terapia della riabilitazione: Epilessia In Chiari G.: Biofeedback, emozione e malattia, pagg. 200-210, F. Angeli Ed., Milano, 1982a.
Blanco S., Marchi E., Reda M.A. - Correlazione tra EMG e GSR in pazienti agorafobici - 3°
Congr. Naz. Di Biofeedback e di Medicina Comportamentale, Catania, 2-3 ott. 1982b, Abs. pag.
101.
Blanco S., Marchi E., Reda M.A. - Modificazioni cognitive dopo trattamento in biofeedback - 3°
Congr. Naz. di Biofeedback e di Medicina Comportamentale, Catania, 2-3 ott. 1982c, Abs. pag.
67.
Blanco S., Marchi E., Reda M.A. - Risposta paradossale dei pazienti agorafobici all'EMG-BFBtraining - Riv. di Psichiatria, 3, 243-252, 1983.
Blanco S., Marchi E., Reda M.A., Risposta paradossale dei pazienti agorafobici all'EMG-BFB
training, In Terapia in Medicina Comportamentale, (a cura di Pancheri P.), II Pensiero Scientifico
Editore, Roma, 1984.
Blanco S., Mahoney M.J. - Il "Mirror Time": un approccio alla comprensione del Se (Aspetti
psicofisiologici alla Complessità) – Atti 3° Congr. Naz. Soc. Ital. di Terapia Comportamentale e
Cognitiva, Milano, 17- 19 ott. 1986, Ed. Unicopli, pag. 41-43. 14.
Blanco S., Guidano V.F., Reda M.A. - Problemi inerenti alla formazione professiona-le dello
psicoterapeuta cognitivo - In Benvenuto S. Nicolaus O. ( a cura di): La bottega dell'anima, Ed. F.
Angeli, Milano, 1990.
Blanco S., Cultrera G., Filippone L., Reda M.A.- Emozione, Conoscenza, Schizofrenia (un
approccio psicobiologico complesso alla problematica psicotica) - Audiotape a cura di Scrimali
T. e Grimaldi L., New Media- Edizioni Multime-diali, Enna, 1992.
Blanco S. - Oscillazioni cliniche di alcuni patterns psicofisiologici in soggetti psicotici,
Complessità & Cambiamento, Vol. II, 2, 70-77, 1993.
Blanco S. e Reda M.A., Il Corpo: uno Specchio dell’Anima (un Approccio Psicofisiologico ai
Disturbi Alimentari Psicogeni), Salute Donna 2000, AME, Grafica Pistolesi, Siena, 1996.
Blanco S. e Reda M.A., Stabilità e cambiamento terapeutico: una prospettiva psicofisiologica, In
Reda M.A., Pilleri M.F., Canestri L. (a cura di): Continuità e cambiamento in Psicoterapia,
Cantagalli. Edit., Siena, 2001.
Blanco S. e Reda M.A., Stabilità e Cambiamento Terapeutico: una Prospettiva Psicofisiologica,
Psicoterapia e Scienze Cognitive, La realtà clinica tra procedure, dialogo terapeutico e ricerca
scientifica, XI Congresso SITCC (Società I-taliana di Terapia Comportamentale e Cognitiva), 1922 settembre 2002, Bologna.
Blanco S., Perra E. e Reda M.A., “Ordine e disordine” nelle risposte psicofisiologiche dei
pazienti schizofrenici, V Convegno Nazionale di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista:
“La Psicoterapia PostRazionalista delle Psicosi”, Siena, 28 Maggio 2004.
Blanco S. e Reda M.A., Il Corpo: uno Specchio dell’Anima (un Approccio Psicofisio-logico ai
Disturbi Alimentari Psicogeni), Salute Donna 2000, AME, Grafica Pistolesi, Siena, 1996.
Blanco S. e Reda M.A., Qualità dell’informazione e prevenzione, Indagine sulle conoscenze
relative all'anoressia in una popolazione scolastica, Rivista Italiana di Psicosomatica, 2004.
Blanco S., Benevento D., Raffagnino R., Reda M.A., Differenze di genere e rapporto con il
proprio corpo in un gruppo di adolescenti, Cibus, 1, 3, International University Press, Rome,
London, New York, Hong Kong, 1997.
Blanco S., Benevento D., Reda M.A., I disturbi alimentari psicogeni precoci, un’interferenza
nello sviluppo del senso di sé?, Cibus, IUP edizioni, Roma, 2000.
Blanco S., Marchi E., Reda M.A., Risposta paradossale dei pazienti agorafobici all'EMG-BFB
training, In Pancheri P. (a cura di): Terapia in medicina comportamentale, Pensiero Scientifico
Editore, Roma, 1984.
126
Blanco S., Oscillazioni cliniche di alcuni patterns psicofisiologici in soggetti psicotici,
Complessità & Cambiamento, II, 2, 70-77, 1993.
Blanco S., Reda M.A., Stabilità e cambiamento terapeutico: una prospettiva psicofisiologica. In
Reda M.A., Pilleri M.F., Canestri L. (a cura di), Continuità e cambiamento in psicoterapia,
Cantagalli Ed., Siena, 2001.
Cacioppo, J. C., & Tassinary, L. G. (1990). Inferring psychologicalsignificance from
physiologicalsignals. American Psychologist, 45, 16- 28.
Cannon, W. B. (1929). Bodily changes in pain, hunger, fear, and rage. New York: Appleton.
Critchley HD, Wiens S, Rotshstein P, O hman A, Dolan RJ. 2004. Neural systems supporting
interoceptive awareness. Nat Neurosci 7:189 –195.
Critchley H. D., Neural Mechanisms of Autonomic, Affective, and Cognitive Integration, The
Journal of Comparative Neurology, 493:154–166, 2005.
Craig, A.D., 2002., How do you feel? Interoception: the sense of the physiological condition of
the body. Nat. Rev., Neurosci. 3, 655–666.
Craig, A.D., 2003., Interoception: the sense of the physiological condition of the body. Curr.
Opin. Neurobiol. 13, 500–505.
Craig, A.D., Human feelings: why are some more aware than others?, Trends Cogn Sci. , 2004
Jun;8(6):239-41.
Damasio A. , Descartes' Error: Emotion, Reason, and the Human Brain, Putnam, 1994; revised
Penguin edition, 2005.
Damasio A. , The Feeling of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness,
Harcourt, 1999.
Drevets W. C. e al., Subgenual prefrontal cortex abnormalities in mood disorders, Nature 386,
824 - 827 (1997).
Drevets W. C. e al., Brain structural and functional abnormalities in mood disorders: implications
for neurocircuitry models of depression, Brain Struct Funct. 2008 Sep; 213(1-2): 93–118.
Ekman P., Levenson R.W., Friesen W.V., Autonomic Nervous System Activity Distinguishes
Among Emo- tions, Science, 221, 1208-1210, 1983.
Ekman P. & Davidson R. J. (Eds.), The nature of emotion: Fundamental questions. New York:
Oxford Uni- versity Press, 1994.
Gelder M. G., Marks I. M.: Severe agoraphobia: A controlled prospective trial of behaviour
therapy. British Journal of Psychiatry, 1966, 112, 309-319.
Gelder M. G., Marks I. M., Wolff H. H.: Desensitization and psychotherapy in the treatment of
phobic states: A controlled inquiry. British Journal of Psychiatry, 1967, 113, 53-73.
Gellhorn, E., Cortell, R., & Feldman, The effect of emotion, sham rage and hypothalamic
stimulation on the vago-insulin system. Am. /. Physiol. 132, 532-41, 1941.
Guidano F.V., La Complessità del Sé. Bollati Boringhieri, Torino, 1988.
Guidano F.V., Il Sé nel suo Divenire. Bollati Boringhieri, Torino, 1992.
Heidegger M., Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976 (ed.orig. Sein und Zeit, Max Niemeyer
Verlag, Tübingen, 1927).
Heidegger M., Identity and Difference. Trans. Stambaugh. New York: Harper & Row, 1969.
Heidegger M., Hegel’s Concept of Experience. Trans. Gray. New York: Harper & Row, 1970.
Heidegger M., The End of Philosophy. Trans. Stambaugh. New York: Harper & Row, 1973.
Heidegger M., Die Grundprobleme der Phanomenologie, Gesamptausgabe, Vol. 24. Frankfurt,
1975.
Heidegger M., The Basic Problems of Phenomenology. Trans. Hofstadter. Bloomington: Indiana
University Press, 1982.
127
Heidegger M., The Metaphysical Foundations of Logic. Trans. Heim. Bloomington: Indiana
University Press, 1984.
Heidegger M., Kant and the Problem of Metaphysics, trans. R. Taft (Bloomington, Ind.: Indiana
University Press, 1990).
Heidegger M., Basic Writings, ed. Krell, David Farrell, San Francisco: HarperCollins, 1993.
Heidegger M., The Fundamental Concepts of Metaphysics: World, Finitude, Solitude. Trans.
McBride and Walker. Bloomington: Indiana University Press, 1995.
Heidegger M., Plato’s Sophist. Trans. Rojcewicz and Schuwer. Bloomington: Indiana University
Press, 1997.
Haroutunian, V.,& Campbell, B. A. (1982). Neural control of the heart- rate-orienting response in
preweanling rats. Behavioral and Neural Biology, 36, 24-39.
James, W., 1894. Physical basis of emotion. Psychol. Rev. 1, 516–529 reprinted in 1994.
Psychological Review 101, 205–210.
Katkin, E. S., Wiens, S., & Ohman, A. (2001). Nonconscious fear conditioning, visceral
perception, and the development of gut feelings. Psychological Science,12, 366–370.
Koizumi, K., Terui, N., & Kollai, M. (1983). Neural control of the heart: Significance of double
innervation re-examined. Journal of the Autonomic Nervous System, 7, 279-294.
Koizumi K., Reflections on my autonomic research in the past fifty years. The Autononic
Nervous System, Journ. Japan Society Neurovegetative Research, 39:111-113, 2002.
Levy, M. N. (1984). Cardiac sympathetic-parasympathetic interac- tions. Federation Proceedings,
43, 2598-2602.
Lynn, R. (1966). Attention, arousal and the orientation reaction. Oxford, England: Pergamon.
Maturana, H. R. (1970) The neurophysiology of cognition. In Cognition: A Multiple View. Paul
L. Garvin, ed. Spartan Books, New York, U.S.A. pp. 3-23.
Maturana, H. R. (1988) Reality: The search for objectivity or the quest for a compelling
argument. Irish J. Psychol. 9: 25-82.
Maturana H., Biology of Cognition and epistemology, Ed Universidad de la Frontera, Temuco,
Chile, 1990.
Maturana, Humberto R. and Varela, Francisco J. (1980) eds. Autopoiesis and Cognition - The
Realization of the Living. Boston Studies in the Philosophy of Science, Volume 42. D. Reidel
Publishing Company, Dordrecht, Holland.
Maturana, Humberto R. and Varela, Francisco J. (1987) The Tree of Knowledge - The Biological
Roots of Human Understanding. New Science Library, Shambala Publications, Boston, U.S.A.
Obrist, E A. (1981). Cardiovascularpsychophysiology New York: Plenum.
Pollatos O., Gramann K., & Schandry R., Neural systems connecting interoceptive awareness and
feelings, Human Brain Mapping 28 (1):9-18 (2007).
Rainville P, Bechara A, Naqvi NH & Damasio AR (2006). Basic emotions are associated with
distinct patterns of cardiorespiratory activity. International Journal of Psychophysiology. 61(6), 518.
Reda M.A., Sistemi complessi e psicoterapia, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1986.
Reda M. A., Arciero G., Blanco S., Organizzazioni cognitive, strutture psicofisiologiche e
diagnosi di schizofrenia, Riv. di Psichiatria, 1986, 21, 142-158.
Reda M. A., Blanco S., Guidano V.F., Mahoney M.J., Physiological deregulation and
psychological disorders: data from the clinical use of Mirror Time, 22nd Annual AABT
Convention, New York, 17-20 nov. 1988
Reda M.A., Demontis D., Blanco S. - Profili psicofisiologici e organizzazioni cognitive - Atti 5°
Congr. Naz. A.I.A.M.C.: Salute e stile di vita, Treviso, 20-23 0tt. 1988a, abs.
128
Reda M.A., Blanco S., Demontis D. - Problemi psicoterapeutici con pazienti psicotici: una ricerca
sperimentale - Newtrends in Schizofrenia, Ed. Fondazione "Centro Praxis", S. Maria a Vico
(Caserta), 1990.
Reda M. A., Blanco S., Demontis D., Problemi psicoterapeutici con pazienti psicotici: una ricerca
sperimentale, Neurologia Psichiatria Scienze Umane, New Trends in Schizofrenia, 379-386,
1991.
Reda M.A., Blanco S., Benevento D., Il corpo: uno specchio dell’anima, Saluto Donna 2000,
AME, Grafica Pistolesi, Siena, 1996.
Ricoeur P., La sfida semiologica, Armando, Roma,1974.
Ricoeur P., La metafora viva, Jaca Book, Milano,1981.
Ricoeur P., History as Narrative and Practice, “Philosophy Today”, 29 (3), Fall, 1985a.
Ricoeur P., Narrated Time, “Philosophy Today”, 29 (4), Winter, 1985b.
Ricoeur P., Il tempo raccontato, trad. di Federica Sossi, “Aut Aut”, 216, 1986a.
Ricoeur P., Ipséité / Altérité / Socialité, “Archivio di filosofia”, 54, 1986b.
Ricoeur P., La semantica dell’azione. Discorso e azione, a cura di A. Pieretti, Jaca Book,
Milano,1986c.
Ricoeur P., Tempo e racconto, volume 1, a cura di G. Grampa, Jaca Book, Milano, 1986d.
Ricoeur P., Tempo e racconto, volume 2, La configurazione nel racconto di finzione, a cura di G.
Grampa, Jaca Book, Milano,1987a.
Ricoeur P., Individu et identité personelle, in AA. VV., Sur l’individu, Éditions du Seuil, Paris,
1987b.
Ricoeur P., Il tempo raccontato. Tempo e racconto, volume 3, Il tempo raccontato, a cura di G.
Grampa, Jaca Book, Milano, 1988a.
Ricoeur P., L’identité narrative, “Esprit”, 7-8, pp. 295-304, 1988b.
Ricoeur P., Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, trad. it. di G. Grampa, Jaca Book, Milano,
1989.
Ricoeur P., Soi-même comme un autre, Editions du Seuil, Paris, 1990.
Ricoeur P., Discussion: Ricoeur on Narrative, in WOOD D. (a cura di), On Paul Ricoeur.
Narrative and Interpretation, London, Routledge, 1991a.
Ricoeur P., Narrative Identity, in WOOD D. (a cura di), On Paul Ricoeur. Narrative and
Interpretation, London, Routledge, 1991b.
Ricoeur P. [], Il tripode etico della persona, in DANESE A. (a cura di) [1991], Persona e
sviluppo. Un dibattito interdisciplinare, Edizioni Dehoniane, Roma1991c.
Ricoeur P., Sé come un altro, a cura di D. Iannotta, Jaca Book, Milano. 1993a.
Ricoeur P., L’attestazione. Tra fenomenologia e ontologia, a cura di B. Bonato, Edizioni
Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1993b.
Ricoeur P., Filosofia e linguaggio, a cura di D. Jervolino, Guerini e Associati, Milano, 1994a.
Ricoeur P., La vita: un racconto in cerca di narratore, in ID., Filosofia e linguaggio, a cura di D.
Jervolino, Guerini e Associati, Milano, 1994b.
Ricoeur P., Mimesis, referenza e rifigurazione in Tempo e Racconto, in Filosofia e linguaggio, a
cura di D. Jervolino, Guerini e Associati, Milano, 1994c.
Ricoeur P. , The Crisis of the “Cogito”, “Synthese”, 106 (1), 1996a.
Ricoeur P., Ermeneutica del sé e filosofia dell’attestazione, colloquio a cura di M. Minelli,
“Humanitas” II, 1996b.
Ricoeur P., La persona, Editrice Morcelliana, Brescia, 1997.
Ricoeur P., Il giusto, Società Editrice Italiana, Torino, 1998a.
Ricoeur P., Riflessione fatta. Autobiografia intellettuale, a cura di D.Iannotta, Jaca Book, Milano,
1998b.
129
Ricoeur P., Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, introduzione di R. Bodei, Il
Mulino, Bologna, 2004.
Ricoeur P., Percorsi del riconoscimento. Tre studi, a cura di F. Polidori, Raffaello Cortina
Editore, Milano, 2005.
Ritcher C. P., On the interpretation of the electromyogram from voluntary and reflex
contractions, Quart. J. Exper. Psysiol., 18: 55-77, 1927.
Root W. S. & Bard P., The mediation of feline erection through sympathetic pathways with some
remarks on sexual behavior after deafferentation of the genitalia. American Journal of
Physiology, 151, 80-88, 1947.
Rosenblueth A. & Bard P. (1932), Amer. J. Physiol., 100, 537.
Rosenblueth A. & Cannon W. B. (1932), Amer. J. Physiol. 99, 398.
Rowell, L. B. (1986). Human circulation regulation during physical stress. New York: Oxford
University Press.
Schachter S., J. Singer, Cognitive, Social and Psychological Determinants of motional State,
Psych. Review, 69, 379-399, 1962.
Siddle, D., Stephenson, D., & Spinks, J. A. (1983). Elicitation and habi- tuation of the orienting
response. In D. Siddle (Ed.), Orienting and habituation: Perspectives in human research (pp. 109181). New York: Wiley.
Spyer, K. M. (1981). Neural organizationand control of the baroreceptor reflex. Review of
Physiology, Biochemistry and Pharmacology, 88, 23-124.
Spyer, K. M. (1989). Neural mechanisms involved in cardiovascular control during affective
behavior. Trendsin Neuroscience,12, 506-513.
Stephensen, R. B., Smith, O. A., & Sober, A. M. (1981). Baroreflex regulation of heart rate in
baboons during different behavioral states. American Journal of Physiology, 241, 277-285.
Tower S. S., Richter C. P., Injury and Repair within the Sympathetic Nervous System. I. The
Preganglionic Neurons, Arch. Neurol. Psychiat.», 26, 485, 1931.
Valins S. (1966) Cognitive effects of false heart rate feedback. J. Person. sot. Psychol. 4, 400408.
Valins S. (1967) Emotionality and autonomic reactivity. J. exp. Res. Person. 2, 41-48.
Van der Molen, M. W., Boosma, D. I., Jennings, J. R., & Nieuwboer, R. T. (1989). Does the heart
know what the eye sees? A cardiac/pupillometric analysis of motor preparation and response
execution. Psychophysiology, 26, 70-80.
Wiens S, Mezzacappa ES, Katkin ES. 2001. Heartbeat detection and the experience of emotions.
Cogn Emotion 14:417–427.
Wiens, S. (2005). Interoception in emotional experience. Current Opinion in Neurology, 18, 442–
447.
130
PSICOTERAPIA E COMPLESSITÀ: ALCUNE CONSIDERAZIONI IN OTTICA POSTRAZIONALISTA
Luca Canestri
Dipartimento Interaziendale Salute Mentale-Dipendenze Siena
Continuità, cambiamento, coerenza sistemica e complessità
“… In altri termini, si vive imprescindibilmente
all’interno di una pluralità di possibili mondi e di
realtà personali, la cui esistenza dipende dalle
distinzioni effettuate da un osservatore, e alle possibili
distinzioni che un osservatore può mettere in atto
corrispondono
altrettanti
domini
possibili
dell’esperienza… Guidano (1992)
Temi come continuità, cambiamento, coerenza sistemica e complessità pongono una serie di
limitazioni rispetto alla possibilità di descrizione e di spiegazione di questi fenomeni; in effetti un
approccio di tipo analitico che li scompone nelle singole entità li può caratterizzare singolarmente
ma rimane il problema di come le relazioni tra queste entità siano simultanee e indistinguibili in
una unità funzionale come quella conoscitiva. Secondo l’approccio costruttivista tale attività non
è la somma o la passiva convergenza associativa delle varie singole attività neuronali, anatomofunzionali, cognitive ecc., ma rappresenta la proprietà emergente di un processo sistemico
complesso in cui il senso di sé e del mondo viene attivamente costruito dallo stesso soggetto
conoscente, questo avviene in modo personale e differenziato per ogni individuo ed è possibile
descriverlo solo come processo sistemico unitario, non riducibile all’attività dei singoli
componenti (Guidano, 1988, 1992; Reda 1986, 2005). Secondo Von Glasersfeld (1990,1982)
qualsiasi conoscenza, che non può essere definita come innata, non può che essere generata dalle
attività fisiche e concettuali del soggetto stesso. Prescindendo dalla questione se la conoscenza sia
o no una rappresentazione di una realtà indipendente, se non si vuol immaginare un neonato con
in testa tutto ciò che saprà nella sua vita, bisogna spiegare il modo in cui egli conosce. Tale
spiegazione, comunque la si guardi, dovrà porre in rilievo un processo di auto-costruzione
(autopoiesi) in cui lo stesso soggetto struttura progressivamente i propri sistemi conoscitivi in
accoppiamento strutturale con il proprio medium o ambience (Maturana e Varela, 1972).
La conoscenza emerge come proprietà a sé della vita già negli organismi più semplici; i virus
“riconoscono” la tipologia di cellule che gli consente la replicazione e “sanno” come infettarle e
riprodurvisi; organismi monocellulari sono in grado di migrare verso gradienti di concentrazioni
crescenti di nutrienti o di allontanarsi da luoghi in cui c’è un incremento di sostanze
potenzialmente pericolose. L’autopoiesi produce inevitabilmente conoscenza, ma per essere
mantenuta ha necessità di una adattabilità nei propri processi costitutivi che consentano sia il
mantenimento della propria integrità strutturale (prerequisito indispensabile per poter funzionare)
ma che preservino anche la coerenza dei processi che la rendono un sistema vivente, e quindi
implicitamente sistema conoscitivo, di tipo autopoietico.
Il sistema autopoietico ha varie possibilità funzionali purchè mantenga la coerenza tra i diversi
processi che lo costituiscono, altrimenti si disintegra. Questo è particolarmente evidente
nell’attività biologica cellulare in cui i meccanismi autopoietici che delimitano e definiscono il
processo-sistema cellulare hanno necessità di operare in modi definiti e sequenziali secondo le
131
possibilità che il sistema cellula stesso e il medium con cui è in accoppiamento strutturale gli
consentono. In questa accezione è molto difficile immaginare sistemi in cui la omeostasi non sia
statica, cristallizzata in processi identici a sé stessi che auto-producono e mantengono un sistema
stabile sebbene statico. Nella realtà però tale sistema vivente è continuamente sottoposto a
variazioni sia degli stati interni che del medium con cui è in relazione. Questo conduce il sistema
a doversi continuamente ri-organizzare per adattare la propria autopoiesi a queste continue
perturbazioni in modo da mantenere la propria auto-costruzione adattando i propri processi
costitutivi in modo da mantenere la propria integrità strutturale e la propria coerenza funzionale,
in caso contrario, e cioè se l’adattamento non è possibile, il sistema vivente si disintegra e muore.
Finchè il discorso è applicato ad un sistema biologico come una cellula o un organismo
pluricellulare, per quanto complesso, è piuttosto facile intuire e immaginare tali cambiamenti e
adattamenti, quando però ci si sposta su concetti meno concreti come la organizzazione dei
sistemi conoscitivi, le cose si fanno meno intuitive e molto più complesse. Nell’uomo la
conoscenza si costruisce e prende forma fin dalla fase prenatale, si struttura in un mondo
relazionale fin dalla primissima infanzia (Threvarten, 1992), assume in seguito maggiore
complessità attraverso la produzione di forme dichiarative esplicite e razionali, sebbene la propria
modalità costitutiva di base prenda forma attraverso processi impliciti e non coscienti (Weimer,
1977, Balbi, 2009); molta della nostra conoscenza è strutturata in sistemi prevalentemente sensomotori appartenenti a domini non dichiarativi, di cui l’individuo può o meno avere
consapevolezza (Polanyi, 1967). La non consapevolezza non significa necessariamente non
intenzionalità, i processi di costruzione del senso di sé sono processi attivi e la direzionalità di tali
processi dipende dai bisogni e dai desideri del singolo individuo che ne caratterizzano un proprio
modo di funzionare e ne orientano i comportamenti e le scelte di vita. La componente sensoriale e
motoria, immediata, esperienziale, che non è completamente descrivibile semanticamente, è parte
della conoscenza, nell’esperienza l’azione è istintiva, immediata, rappresenta una “conoscenza
incarnata”, che orienta gli individui verso la costruzione di un proprio senso di realtà. Maturana e
Varela (1980, 1987)
Conoscenza e complessità
…Dal momento che possiamo percepire la realtà in cui
viviamo solo attraverso l’ordinamento che essa assume
nella nostra impalcatura percettiva, l’esperienza
umana si origina e prende forma a partire dalla praxis
del nostro sentirci vivere intesa come dimensione
ontologica primaria e, in tal senso, assolutamente
irriducibile” (Guidano 1992, p.p. 6,7).
Un sistema complesso è un sistema in cui gli elementi subiscono continue modifiche
singolarmente prevedibili, ma di cui non è possibile, o è molto difficile, prevedere uno stato
futuro. Nei sistemi complessi, le singole parti che li compongono sono semplici, ma interagendo
tra di loro danno luogo a un comportamento molto più complesso, le parti che compongono un
sistema complesso non sono organizzate dall’esterno, ma si auto-organizzano. Maggiore è la
quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di un sistema e maggiore è la sua complessità.
Le relazioni sono di regola con influssi non lineari. Un sistema è tanto più complesso quanto
maggiori parametri sono necessari per la sua descrizione. Dunque la complessità di un sistema
non è una sua proprietà intrinseca, ma si riferisce sempre ad una sua descrizione, e dipende quindi
dal modello utilizzato nella descrizione e dalle variabili prese in considerazione. Una proprietà
132
fondamentale dei sistemi complessi è quindi la possibilità di essere descritti sia a livello
microscopico, sia a un livello più alto in cui bisogna usare categorie e concetti diversi. Il
principale obiettivo delle teorie della complessità è di comprendere il comportamento di tali
sistemi, caratterizzati da elementi numerosi e diversi tra di loro e da connessioni numerose e non
lineari in una dimensione processuale. In particolare sistemi complessi in grado di adattarsi e
cambiare in seguito all'esperienza, come ad esempio gli organismi viventi, caratterizzati dalla
capacità di evoluzione (Holland, 2002; Buchanan, 2003, 2004; Barabasi, 2004. Orsucci ,2009)
In generale i sistemi complessi presentano delle caratteristiche che li caratterizzano in termini
descrittivi. La dinamica caotica del sistema-processo produce un evoluzione del sistema con un
comportamento non lineare e impredicibile, in termini deterministici, anche se è noto il modello
del fenomeno; i processi dei sistemi complessi tendono alla reciproca interazione e
sincronizzazione, la dinamica di un singolo elemento influenza e viene influenzato dall’altro
elemento, sincronizzando le proprie attività in modo via via sempre più armonico; il
comportamento collettivo si intende l’emergenza di proprietà di un gruppo irriducibili a quelle dei
singoli individui che lo compongono, caratteristiche per lo più dipendenti dalle mutue interazioni
tra di essi. la descrizione macroscopica è molto ricca e la meccanica statistica può essere
utilizzata per calcolare la probabilità che un sistema generico (appartenente a una data classe)
abbia un dato numero di stati differenti e le relazioni esistenti tra questi stati. in pratica, non è
possibile ricostruire il comportamento collettivo del sistema a partire dalla sua struttura
microscopica, in quanto una piccola variazione delle leggi microscopiche può produrre o non
produrre un significativo cambiamento al livello macroscopico; le strutture sono necessarie a
mantenere in funzione il sistema e, d'altro lato, l'effetto delle attività funzionali determina la
struttura del sistema. nei sistemi complessi organizzati gerarchicamente, sia le proprietà delle
strutture, sia le funzioni di un livello superiore non possono essere dedotte dalle strutture e dal
funzionamento di un livello inferiore di organizzazione. Le proprietà dei livelli superiori possono
essere osservate durante il loro svolgimento. Le funzioni sono invece tipiche del sistema: i
passaggi tra livelli gerarchici sono accompagnati da nuove funzioni, dette sistemiche, dipendenti
da interazioni e rapporti reciproci tra le parti. Le funzioni sistemiche, che sono dipendenti
dall'organizzazione, non possono essere studiate mediante procedimenti che implichino
separazione delle parti (riduzionismo), in quanto ciò ne causa la perdita. Per le funzioni vanno
dunque considerati i sistemi nella loro globalità. Joe Zhou Tsien (2012), propone un’interessante
lavoro sui meccanismi attraverso i quali la mente trasforma l’esperienza in memoria/conoscenza
aprendo interessanti prospettive sul meccanismo di base che il cervello usa per trasformare le
informazioni in ricordi. Il lavoro di ricerca indica però chiaramente come un flusso lineare di
segnali da un neurone all’altro non è sufficiente a spiegare come il cervello rappresenta le
percezioni e i ricordi. Per far ciò è necessaria la formazione e l’organizzazione di attività
coordinata di grandi ed eterogenee popolazioni di neuroni, denominati clan di neuroni, in grado
nel loro complesso di elaborare e codificare le esperienze memorizzate, attribuendo loro un senso
e trasformandole in conoscenza. Thompson e Varela, da altra prospettiva, affrontano in maniera
radicale il problema della natura relazionale della conoscenza/coscienza umana. Senza tralasciare
l’esperienza soggettiva (descrizione in prima persona). Il rapporto tra il descrittivo neuronale e il
vissuto esperenziale viene spiegato in termini di emergentismo enattivo, riscontrabile nella
risonanza che si stabilisce tra cellule corticali in alcuni particolari momenti della vita
coscienziale. L’identità coscienziale assume, in questo contesto, una natura puramente relazionale
ed esiste solo come pattern relazionale. Questa ipotesi apre nuove strade alla riflessione sulla
nascita e sulla localizzazione degli stati di coscienza, creando un modello interattivo dinamicofunzionale-reciproco o bi-direzionale tra stati di coscienza incarnata e attività neuronale locale
(Thompson,Varela, 2001). In ogni caso il sistema conoscitivo ha contemporaneamente perlomeno
133
una descrizione valida in ogni metadominio accessibile all’osservazione, in certi metadomini il
sistema processo potrà evolvere in modo lineare, in altri si modifica in modo caotico
probabilistico, in ogni caso deve rispettare i limiti strutturali e funzionali degli elementi che lo
producono, mantenendo al tempo stesso una coerenza e una continuità sistemica e processuale
che garantiscono la relativa omeostasi e stabilità nell’integrazione del flusso processuale.
Alcune considerazioni su complessità e psicoterapia
Se non c'è l'altro, non c 'è nessun io. Se non c'è nessun
io, non ci sarà nessuno a fare distinzioni.
Chuang-tsu, IV sec. a. C.
Alla luce di quanto è stato finora esposto la descrizione, per quanto accurata, dei costituenti
“fisici” dell’attività di un sistema biologico definisce una descrizione topologica e topografica di
varie strutture, tali strutture sono definibili nei loro componenti atomici, molecolari, strutturali,
anche funzionali, ma tale descrizione non da nessuna possibilità di caratterizzare il sistema
conoscitivo di tale unità, dato che tale sistema è frutto di dinamiche complesse e armoniche che i
vari costituenti stabiliscono tra di loro. Il contributo di altri approcci come quello fisicomatematico, cibernetico, meccanicistico, possono spiegare a chi osserva parte di ciò che accade in
quel sistema in un determinato istante e in una sequenza di istanti, ma non possono essere
combinate in nessun modo per definire in termini oggettivi il sistema conoscitivo di quell’unità
autopoietica. Ne discende che ogni approccio ermeneutico-ontologico applicato a quel sistema
non da la possibilità di caratterizzare nessun’altra ontologia se non quella di chi osserva, il
sistema osservato ha una propria ontologia alla quale ha, egli, esclusivamente accesso attraverso
la produzione di ricorsività autopoietiche di secondo e terzo livello, a tali livelli il sistema stesso
diventa osservatore di sé e attraverso il dominio rappresentativo e linguistico fornirà la propria
descrizione ontologica che è comunque prodotta da un sistema “osservatore
L’approccio alla complessità del sistema-processo “persona” non può quindi considerarsi mai
oggettivo, vero, esaustivo, ogni spiegazione sarà valida nel proprio dominio di interazioni,
qualsiasi tentativo di oggettivazione, specie se operato mescolando diversi metadomini
operazionali o descrittivi, necessita di una “forzatura” di tipo inferenziale da parte di chi osserva
con la conseguenza che la descrizione prodotta è discende da ciò che vogliamo osservare rispetto
a ciò che si osserva. Cercare spiegazioni relative alla fenomenologia del pensiero, delle emozioni
e del comportamento sia nelle fasi di compenso che in quelle di scompenso, ha portato alla
produzione di teorie e modelli psicologici e psicopatologici che spaziano da teorie quanticoatomiche, molecolari, genetiche, cibernetico-meccanicistiche, etologico-comportamentali,
spirituali, che molto hanno di chi le ha formulate e poco o nulla hanno di chi si trova in una fase
di scompenso emotivo (Giudano, Cutolo, 2008). Lo scompenso psicopatologico rappresenta
sempre un tentativo di adattamento dell’individuo ad una fluttuazione dell’ambiente interno o
esterno che non rende possibile il mantenimento della coerenza sistemica strutturale (sia essa
biologica, emotiva o cognitiva); l’adattamento del sistema avviene attraverso una sequenza di
fluttuazioni critiche a cui segue o meno una evoluzione verso una nuova e maggiormente adattata
dinamica di omeostasi. Purtroppo da tali teorie e da tali verità assolute e galileianamente misurate
discendono tecniche terapeutiche volte a correggere i deficit biochimici, comportamentali,
cognitivi, emotivi e spirituali di chi sperimenta un momento di scompenso emotivo.
Nell’ottica del post-razionalismo la psicoterapia è il contesto specifico in cui paziente e terapeuta
possono produrre domini consensuali di tipo esplicito ma anche tacito, possono sintonizzarsi in
134
modo immediato al proprio materiale conoscitivo implicito, relativo a sé, all’altro e alla relazione,
operando quelle specifiche perturbazioni che producono fluttuazioni critiche, nella pratica clinica
ciò permette una ri-organizzazione del materiale conoscitivo con una maggiore integrazione tra
sensazioni e significati. Il terapeuta ha quindi dato che un sistema autopoietico chiuso come il
sistema nervoso non può essere direttamente informato.
Nel setting psicoterapeutico quindi l’atteggiamento non può essere orientato in modo pedagogico
in modo da sostituire convinzioni con convinzioni, secondo uno schema manualizzato
progressivo e con modificazioni lineari, la tecnica terapeutica incide in modo indiretto sul sistema
conoscitivo del paziente, determina una fluttuazioni critiche che innescano un processo di riorganizzazione dei pattern conoscitivi, tale processo si verifica contemporaneamente in modo non
lineare in tutti i metalivelli operativi (emotivo, cognitivo, propriocettivo, biologico, genetico,
anatomo-funzionale) in un processo temporale che parte dalla seduta psicoterapeutica e si articola
nella vita del paziente attraverso una processualità discontinua, non lineare, pur sempre nei limiti
del mantenimento di una coerenza sistemica che non può essere semplicemente diretta, ma che
attraverso la terapia si articola verso un cambiamento strutturale che produce una migliore
integrazione delle informazione dei sistemi conoscitivi taciti ed impliciti, generando stati di
equilibrio dinamico dei livelli di fluttuazione che sono maggiormente adattivi rispetto ai
precedenti (dei quali rappresentano l’evoluzione non sempre lineare) nei limiti e nel rispetto delle
caratteristiche del sistema-paziente.
Bibliografia
Balbi, J. La mente narrativa. Verso una concezione post-razionalista dell’identità personale.
Franco Angeli, Roma, 2009.
Barabasi, Link. La scienza delle reti, Einaudi, 2004
Buchanan, Nexus. Perché la natura, la società, l’economia, la comunicazione funzionano allo
stesso modo, Mondadori, 2004
Buchanan, Ubiquità. Dai terremoti al crollo dei mercati: la nuova legge universale dei
cambiamenti, Mondadori, 2003 •
Canestri L., Donati della Lunga S., Reda M.A., Correlaciones psicofisiológicas durante una
sesión standard de psicoterapia entre paciente y terapeuta: Observaciones preliminares, Revista
Argentina de Clínica Psicológica XIX, Agosto:183-187. 2010
Fung Yu-lan, Chuang-tzu: A new selected translation. Shanghai: The Commercial Press, 1933
Guidano V.F. , Il Sé nel suo divenire. Bollati Boringhieri, Torino. 1992
Guidano V.F. (a cura di Cutolo G.) La psicoterapia tra arte e scienza, Franco Angeli, Torino.
2008
Holland J. H. Exploring the evolution of complexity in signaling networks Complexity Volume 7,
Issue 2, pages 34–45, November/December 2001
Maturana H.R. , Varela F. J. Autopoiesis and Cognition: The Realization of the Living. Springer,
NY. 1980
Maturana, H. R., Varela, F. J. The Tree of Knowledge: The Biological Roots of Human
Understanding. Shambhala, Boston (trad it. L’albero della conoscenza. Milano: Garzanti) 1987
Orsucci F. Mind Force: on Human Attractions (1st ed.). River Edge, NJ: World Scientific
Publishing. 2009
Polanyi M., The Tacit Dimension, Anchor Books, New York. (tr. it. La conoscenza inespressa,
Armando, Roma 1979). 1966
135
Reda M.A., Canestri L., Pilleri M.F., La relazione post-razionalista, in Petrini P. Zucconi A. (a
cura di), La relazione che cura, Alpes edizioni Roma. 2008
Reda M.A., L’organizzazione della conoscenza. In Bara B. (a cura di), Nuovo Manuale di
Psicoterapia Cognitiva, vol.1: 259-68 Bollati Boringhieri, Torino. 2005
Reda M.A., Sistemi cognitivi complessi e psicoterapia, Carocci, Roma. 1986
Schiepek G.K., Tominschek I., Heinzel S. et Al, Discontinuous patterns of brain activation in the
psychotherapy process of obsessive-compulsive disorder: converging results from repeated FMRI
and daily self-reports. PLoS One 15;8(8):e71863. Epub 2013 Aug 15. 2013
Schiepek G.K., Tominschek I., Heinzel S. Self-organization in psychotherapy: testing the
synergetic model of change processes. Front Psychol 2;5:1089. Epub 2014 Oct 2. 2014
Thompson E., Varela F., (2001) Radical embodiment: neural dynamics and consciousness,
Cognitive Sciences.
Tsien J. Z., (2012) Genetic Overexpression of NR2B Subunit Enhances Social Recognition
Memory for Different Strains and Species, Plos One.
von Glasersfeld E., An Interpretation of Piaget's Constructivism, Revue Internationale de
Philosophie, 1982, 50,191-218.
von Glasersfeld E., Distinguere l'osservatore: Un tentativo di interpretare Maturana (traduzione
italiana): in Zur Biologie der Kognition, Gespraech mit Humberto Maturana und Beitraege zur
Diskussion seines Werkes, in Riegas V., Vetter C (a cura di)., Suhkamp Verlag, 1990
136
Scarica

2014 - “Continuità, Cambiamento, Coerenza