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Servizio 118
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Maria Grazia Cogliati Dezza
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LAVORO
TERRITORIALE E MEDICINA DI COMUNITà:
materiali
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Servizio 118
iversi attori:
LA CASSETTA
DEGLI ATTREZZI
Servizio 118
(l’intensità
ratore e utente);
“Laboratorio di comunicazione”:
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“Laboratorio di comunicazione”:
materiali e testi raccolti da Giovanna Gallio
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Trieste
Ideatodida
Maria Grazia Cogliati Dezza,
Azienda per i Servizi Sanitari n° 1 Triestina
Comitato di progetto:
Maria Grazia Cogliati Dezza, Azienda per i Servizi Sanitari n° 1 Triestina;
Giuditta Bambara, EnAIP FVG; Gianpaolo Quaia, EnAIP FVG;
Carolina Moreira, EnAIP FVG; Giovanni Manisi, EnAIP FVG;
Giovanna Gallio, ricercatrice
LAVORO TERRITORIALE E MEDICINA DI COMUNITÀ:
LA CASSETTA DEGLI ATTREZZI
MARIA GRAZIA COGLIATI DEZZA 1
Lavoro territoriale e medicina di comunità:
la cassetta degli attrezzi
1. Libertà - 2. “Fare salute”: un laboratorio aperto - 3. Sofferenza urbana e
sviluppo di comunità: il progetto Habitat - 4. Il salto nelle microaree - 5. Cosa
significa “deistituzionalizzare” in medicina - 6. Microaree e lavoro distrettuale - 7. Le
macrozone – 8. Coesione sociale.
[1. Libertà]
Giovanna Gallio
La prima volta che mi hai parlato del progetto “Fare salute”,
nell’estate del 2009, ero un po’ disorientata all’idea di ricostruire casi
clinici basandomi unicamente sull’oralità, senza attingere ad altre
fonti o documenti scritti. In seguito sono stata sorpresa dalla ricchezza
di queste narrazioni…
Maria Grazia Cogliati Dezza
Quando ho pensato al progetto, e te l’ho proposto, speravo di
trovare la ricchezza di cui parli, ma non ero certa che le storie
avrebbero rispecchiato la complessità delle pratiche. Un responsabile
di distretto, per quanto condivida un flusso intenso di scambi con gli
operatori e i servizi che coordina, svolge il suo ruolo a una certa
distanza dai luoghi. Perciò sono stata felicemente sorpresa di trovare
in questi racconti le peripezie e i rischi, le emozioni e soprattutto i
“gesti”, le sequenze della presa in carico, con i dilemmi che si aprono
ogni volta che si cerca di fare salute nei contesti di vita delle persone.
In qualche modo era questo che volevo ottenere: mettere in scena il
lavoro che noi facciamo nei suoi significati più profondi, coglierlo per
così dire in atto, convinta come sono che si tratti di un lavoro per lo
1
MARIA GRAZIA COGLIATI DEZZA è responsabile del Distretto 2, e
coordinatrice sociosanitaria della Ass n.1 “Triestina”. Il colloquio si è svolto
il 28 dicembre 2012.
3
più ignorato dalla popolazione, e non sempre compreso anche
all’interno dei servizi e delle strutture sanitarie. La concezione delle
attività di cura può essere disomogenea tra le diverse sedi operative e
amministrative dell’azienda, e a maggior ragione lo è tra i medici di
medicina generale, gli specialisti e gli operatori dell’ospedale.
Questi ultimi quando parlano del nostro lavoro lo raffigurano come
un’attività assistenziale, non medica, come se il nostro ruolo fosse
sovrapponibile a quello del servizio sociale del Comune, con cui a
volte ci confondono.
G. Gallio
A colpire in queste storie è soprattutto il tema della libertà. Persone
emarginate, silenti o passive, destinate all’abbandono o
all’istituzionalizzazione, sono messe in condizione di scegliere e a
volte realizzano, nel corso della malattia e perfino nella morte,
desideri e progetti. A emergere non è solo la questione dei diritti alla
cura, come riconoscerli e soddisfarli; prima ancora è una certa
concezione della malattia che si afferma. Da un lato le dimensioni più
private e intime del soffrire, il riconoscimento dell’unicità di ciascun
caso e storia; dall’altro le dimensioni etiche e politiche di un’attività di
cura che include nel proprio orizzonte di senso i luoghi abitati, le
microcomunità di appartenenza dei soggetti. Nell’intervento sanitario
queste dimensioni sono per lo più ignorate, o ridotte a categorie
standard – mediche, sociologiche, psicologiche…
M. G. Cogliati Dezza
Sono molti i significati e le parole-chiave che possiamo ricavare da
questi racconti, ma anch’io sono stata colpita dal tema della libertà: sia
dal modo in cui gli operatori si battono per ottenerla e renderla
possibile, sia dagli interrogativi che suscita, i cambiamenti che
produce nelle vite dei singoli mediante la restituzione del potere di
“dire”, di affermare i significati della sofferenza.
Quando ci si ammala il dolore non è mai solo fisico: accanto a
sentimenti di paura o vergogna, c’è il fatto di sentirsi umiliati e
succubi, dipendenti da chi ti assiste. Nella cesura tra il prima e il dopo
4
l’insorgenza di una malattia vengono messi in discussione sistemi di
valore, credenze e stili di vita; soprattutto si svela la fragilità dei
legami, l’inconsistenza delle reti di supporto ogni volta che la persona
è anziana, povera e socialmente isolata.
Il lavoro di cura non può ignorare questa complessità; per questo si
deve continuamente sottoporre a critica il riduzionismo medicospecialistico, che nella definizione di una patologia o di un disagio
rende illeggibile la storia e l’esperienza dei soggetti.
Questa concezione della malattia è stata da noi teorizzata fin dagli
anni 70, nel lavoro con Basaglia; è il cuore stesso del nostro modo di
procedere, anche se non siamo sempre in grado di esibire le prove che
effettivamente si realizzi. Quel che più mi interessa nel tema della
libertà, in cui si esprime il diritto di ciascuno di scegliere un proprio
modo di vivere e di morire, è il rapporto fra l’istituzione e la persona:
intanto il fatto che una relazione effettivamente si instauri, e in
secondo luogo che questa relazione sia in grado di mediare l’intreccio
tra la vita del malato e il mondo che lo circonda.
Se li cogliamo in questa prospettiva, i racconti mettono in evidenza
una grande prossimità dell’istituzione alla vita dei singoli:
un’istituzione elastica, che si piega ed entra in maniera molto difforme
a seconda dei bisogni, tenendo collegati i soggetti ai luoghi in cui
avviene l’incontro. Le prove di questa elasticità abbondano in tutte le
storie, ma diventano più visibili nei casi in cui le persone sarebbero
altrimenti abbandonate al loro destino, nella terra di nessuno.
Penso a Diego, l’uomo senza fissa dimora, o al giovane Amadou,
rifugiato politico. Penso soprattutto ai numerosi casi di donne – Edda,
Gabriella, Sarah, Corinna – dove il lavoro consiste nello sciogliere una
serie di resistenze ad avviare il percorso di cura, affrontando ostacoli
che sembrano insormontabili.
In questi e altri racconti ho apprezzato la capacità degli operatori di
“girare intorno”, quasi corteggiare il malato nel rispetto dei suoi ritmi
e tempi, mediante una presenza estenuante ma dialettica. Ad ogni
passo ci si interroga su che cosa è meglio fare e come farlo; si resta in
ascolto di ciò che la persona vuole e non vuole, anche quando tace e
5
non parla, mentre parallelamente si convocano attorno al caso le più
diverse competenze professionali e di aiuto.
Da anni a Trieste l’integrazione tra i servizi è un fatto consolidato,
una cultura portante in tutti i distretti, ma nelle microaree si realizza
qualcosa di più e di diverso, quello che io chiamo “servizio diffuso”.
L’asse in un certo senso si rovescia: non c’è un servizio che definisce
il suo target di popolazione-utenza sulla base di una lista di
prestazioni, ma interventi che si strutturano cammin facendo, attirando
competenze e abilità che di volta in volta inventano la soluzione a un
problema. In questo modo di procedere si esalta la capacità degli
operatori di saper usare tutto quello che trovano: il pulmino di non so
chi, il montascale prestato da un’associazione di volontari, lo spazio
della parrocchia o della scuola per organizzare una festa, la
professoressa in pensione che si fa aiutare da giovani un po’ sbandati,
il vicino di casa che di notte ascolta i rumori e le voci
dell’appartamento accanto e diventa parte attiva del percorso di cura.
È una capacità guadagnata nel lavoro sul campo, basata sullo
sviluppo di conoscenze e legami che vengono suscitati nei luoghi dove
la persona abita. Si valorizzano rapporti di vicinanza per creare una
socialità fatta di tanti pezzettini, un mosaico che si allarga giorno per
giorno nel dialogo tra i più diversi personaggi: operatori “naturali” e
di ruolo, studenti volontari, familiari e condomini, soci di cooperative
e membri di associazioni, gruppi di cittadini che si costituiscono in
itinere per realizzare piccoli progetti.
Guai se non fosse così; se ciascun operatore del distretto dovesse
seguire centinaia di malati con l’intensità di accompagnamento che
emerge in queste storie, l’azienda sanitaria chiuderebbe per fallimento.
Con le risorse a disposizione non ce la faremmo a reggere un impegno
così accurato, una cura così personalizzata.
Riuscire a utilizzare risorse per così dire infinite, mediante una
capacità d’intrapresa proiettata all’infinito, credo sia un punto di forza
che emerge da queste storie. Certo, non tutte le pratiche sono uguali,
vi sono differenze significative da un contesto all’altro, da una
microarea all’altra. Anche nei servizi più proiettati al territorio ci sono
ancora operatori che agiscono al riparo del loro ruolo professionale, e
6
in parte lo si può capire: per chi esercita una pratica sanitaria fuori dai
recinti ospedalieri, dagli ambulatori o dalle strutture protette, i rischi e
i dilemmi sono all’ordine del giorno. Anche su questo punto, che
investe la deontologia professionale, emergono dalle storie indicazioni
importanti di cui tener conto.
[2. Il progetto “Fare salute”: un laboratorio aperto]
G. Gallio
Il vero tema della nostra conversazione è cercare di ricostruire la
cornice generale, le finalità e le motivazioni che hanno ispirato il
progetto “Fare salute”. Questo ci permetterà di discutere la differenza
esistente tra il lavoro distrettuale e di microarea, evocando anche i
problemi e gli ostacoli che hanno caratterizzato la storia più recente
del sistema sanitario triestino.
Se ben ricordo, la tua intenzione iniziale era quella di applicare la
ricerca alle pratiche territoriali in senso esteso, utilizzando come
laboratorio soprattutto il Distretto 2. Solo in seguito, quando Enaip ha
fatto proprio il progetto, hai deciso di estenderlo agli altri distretti e di
concentrarlo sempre più sulle microaree. Come spieghi questo
cambiamento di rotta?
M. G. Cogliati Dezza
Il progetto ha avuto una lunga incubazione prima di essere
approvato; le sue finalità sono difficili da comprendere se non si mette
a fuoco la particolare fase di transizione politico-amministrativa in cui
è stato formulato. Il 2009 è stato l’anno in cui si è avuta la chiara
percezione di un cambiamento che investiva non solo i vertici
dell’azienda sanitaria, ma anche la concezione di servizio pubblico per
come l’avevamo sempre praticata. È stata questa forte preoccupazione
a spingermi a superare una serie di resistenze, dubbi ed esitazioni che
avevo avuto fino a quel momento nell’interpretare il mio ruolo di
coordinatrice sociosanitaria. L’incarico mi era stato conferito l’anno
prima, allo scopo di promuovere e facilitare i rapporti di
7
collaborazione e partnership con i vari enti, pubblici e privati, che
concorrono alla realizzazione di servizi sanitari.
Per quanto fosse implicito nel mio ruolo il coordinamento delle
microaree, era difficile realizzarlo per diverse ragioni. Da un lato si
erano evidenziati fin dal principio modi differenti di implementare gli
obiettivi del progetto nei diversi quartieri della città; dall’altro l’idea
stessa di un ruolo di coordinamento sovra-distrettuale suscitava
resistenze. Ciascuno, a partire dai capi-distretto, difendeva la propria
autonomia: un po’ perché si riteneva che la varietà delle esperienze di
microarea fosse di per sé un bene da salvaguardare, un po’ perché il
carattere sperimentale del progetto lo sottraeva a criteri di valutazione
univoci. Anche se c’era una lista di obiettivi a cui tutti eravamo
vincolati, molti aspetti del lavoro di microarea non erano riducibili a
variabili di computo statistico; non a caso negli anni precedenti erano
naufragati i tentativi di creare una scheda di valutazione condivisa.
Quando Win-Microarea è stato avviato, nel 2005, era stata istituita
una forma di coordinamento affidata a Chiara Strutti, e a un piccolo
team che lavorava alle dirette dipendenze di Franco Rotelli2. Per più di
due anni si è molto puntato sulla valorizzazione dei singoli operatori,
quasi tutte donne e infermiere che mettevano le loro capacità e la loro
esperienza al servizio del progetto. In qualche modo si proteggeva la
loro libertà di esplorare le aree territoriali e di costruire delle mappe,
immaginando l’instaurarsi di un rapporto dialettico, produttivo di
nuove conoscenze e stili di lavoro il più possibile aderenti alle realtà
locali incluse nell’esperimento. Per questo veniva anche scoraggiata
qualsiasi volontà egemonica: nessuno era autorizzato a mettere il
proprio cappello sui significati che solo la pratica avrebbe potuto
liberare, nel senso di “realizzare”.
G. Gallio
Si temeva che qualunque teoria, calata dall’alto o dall’esterno,
avrebbe potuto ostacolare il riconoscimento delle diversità –
2
F. Rotelli era all’epoca direttore generale della Ass n.1 “Triestina”.
8
antropologiche, culturali, organizzative – dei contesti territoriali,
omologandole in un linguaggio di tipo normativo o prescrittivo...
Maria Grazia
Sì, l’esperimento doveva essere tenuto aperto a diversi sviluppi, al
di fuori di concezioni o teorie preformate. Questo spiega come mai io
abbia a lungo esitato a prendere iniziative; il mio ruolo di
coordinamento sovra-distrettuale non era chiaro, i compiti che mi
venivano affidati erano rimasti impliciti. Tuttavia, nel 2009 mi sono
fatta coraggio, e ho deciso di avviare il progetto “Fare salute”.
Perché l’ho fatto, con quali finalità? Per rispondere a questa
domanda devo risalire ancora più indietro nel tempo, a tutto ciò che
collega l’esperienza delle microaree a un precedente progetto che ha
inaugurato lo sviluppo di pratiche comunitarie nell’azienda sanitaria
triestina. Sto parlando di Habitat, un progetto nato nel 1998,
fortemente voluto da Rotelli, da me e da altri dirigenti e operatori
dell’azienda. Anche se all’epoca non era ancora stata emanata la legge
328/00 di riforma dell’assistenza, avevamo la percezione che fosse
urgente intervenire in alcuni rioni della città, caratterizzati dalla
presenza di grandi insediamenti di case Ater, dove nel corso del tempo
era stata concentrata una popolazione per lo più anziana, per lo più
povera ed emarginata, trascurata nei secoli…
G. Gallio
… nei secoli dici?
M. G. Cogliati Dezza
Sì, nei secoli. È la stessa storia che si ripete, il problema della
disuguaglianza sociale con cui ci siamo confrontanti già a partire dagli
anni 70, iniziando il lavoro di smantellamento del manicomio.
Certo ricorderai il libro “Classi sociali e malattie mentali”,3 scritto
da Hollingshead e Redlich, su cui tutti ci siamo formati. I due autori,
3
A. B. Hollingshead, F. C. Redlich, Classi sociali e malattie mentali,
Einaudi, Torino 1965.
9
un sociologo e uno psichiatra, per raccogliere dati sull’incidenza e la
prevalenza dei disturbi mentali nella città di New Haven, nel
Connecticut, avevano disegnato una mappa a cerchi concentrici,
evidenziando che il maggior numero di ricoveri in ospedale
psichiatrico proveniva dai cerchi esterni: le periferie, gli slums, i
quartieri degradati dove viveva la popolazione più povera. Da allora
molte ricerche hanno confermato che tutto ciò che sta intorno alla
malattia, quelli che oggi chiamiamo i “determinanti non sanitari di
salute” (età, sesso, condizioni economiche e abitative, reti familiari e
di supporto sociale) sono molto più importanti dei fattori biologici nel
motivare l’insorgenza e il decorso di una malattia, o nel prevedere gli
esiti di un trattamento.
Anche di recente, nel corso di un convegno alla Stazione marittima
un epidemiologo dell’Università di Torino ha riprodotto una mappa
della città suddivisa in settori, dimostrando che le persone che si
ammalano di infarto provengono in maggioranza dalle periferie, dove
è più elevata la soglia di accesso alle strutture cardiologiche e alla
medicina d’urgenza.4
[3. Sofferenza urbana: il progetto Habitat]
G. Gallio
Che cosa si proponeva il progetto Habitat, quali erano i suoi
obiettivi?
M. G. Cogliati Dezza
Un primo obiettivo era mettere al centro della discussione e delle
pratiche distrettuali gli spazi fisici della povertà, i contesti della
sofferenza urbana, quelle che in seguito sono state definite le
“vulnerabilità collettive”, rendendo esplicito lo statuto interindividuale della malattia. Un secondo obiettivo era colmare la
distanza che separa le fasce più deboli e svantaggiate della
4
Si parla del convegno organizzato dalla “Rete nazionale di promozione
della salute”; l’epidemiologo a cui si fa riferimento è il prof. Geppino Costa.
10
popolazione dai servizi sanitari, mediante azioni e interventi che
coinvolgevano non solo i responsabili delle politiche assistenziali e
abitative, ma anche le parrocchie, le associazioni di volontariato, le
cooperative sociali.
In quegli anni si stavano diffondendo un po’ ovunque in Italia
progetti di risanamento dei territori dal punto di vista soprattutto
urbanistico, mentre i criteri di finanziamento delle politiche sanitarie e
sociali erano sempre più vincolati allo sviluppo locale o “welfare
municipale”. Dunque si può dire che con Habitat si affaccia per la
prima volta il problema dell’equità degli interventi e dei trattamenti
attorno all’idea di costruire progetti orientati alle comunità locali,
mediante strategie d’integrazione tra una pluralità di attori
istituzionali, privati e pubblici.
Nei progetti Habitat – realizzati nei quartieri di Ponziana,
Vaticano, Gretta, Rozzol Melara, Valmaura, Borgo San Sergio – le
dimensioni della salute vengono intrecciate alla qualità del vivere e
dell’abitare. Si afferma il diritto delle persone più fragili e
svantaggiate ad avere una casa decente, in un luogo dove passa
regolarmente l’autobus, dove i marciapiedi non siano pieni di buchi, e
vi sia un giardino o una panchina per sedersi. Ma la cura dell’habitat è
collegata a obiettivi di abilitazione e inclusione sociale.
G. Gallio
I risultati ottenuti dal progetto Habitat sono stati molto lusinghieri:
in breve tempo sono nati collettivi e gruppi che prima non c’erano,
nuove organizzazioni…
M. G. Cogliati Dezza
Più che altro si sono attivati dei “comitati territoriali”, ed è stato
sottoscritto un protocollo d’intesa fra i diversi enti che partecipavano
ai progetti. Nel protocollo, firmato anche dal Comune di Trieste, si
prevedeva tra l’altro di rinnovare i portierati delle case Ater,
appaltandoli a cooperative sociali che da tempo svolgevano progetti
educativi o d’inserimento al lavoro nei diversi territori. Questo ha
consentito ad alcune imprese sociali di investire sul progetto,
11
valorizzando i portierati come punto di ascolto dei bisogni della
popolazione residente, avviando esperienze interessanti.
Anche le associazioni di volontariato hanno ricevuto in quel
periodo un forte impulso: alcune sono state riconosciute grazie a
modesti contributi economici, che l’azienda sanitaria attribuiva loro
sulla base di obiettivi che venivano definiti volta per volta.
In tal modo si è creata una cornice di riferimento, un background
culturale che ha reso possibile ante litteram quell’integrazione
operativa poi auspicata dalla legge di riforma dell’assistenza, recepita
dalla regione Friuli Venezia Giulia con un certo ritardo, nel 2004.
Soprattutto abbiamo ottenuto le prove che, lavorando insieme in una
prospettiva di integrazione comunitaria, si poteva garantire ai cittadini
una diversa qualità dei servizi. Tuttavia, dai rapidi progressi che
Habitat aveva consentito emergevano questioni irrisolte, problemi che
investivano la dimensione propriamente sanitaria degli interventi.
È su questo terreno che va colta l’originalità del progetto WinMicroaree, il cui scopo era responsabilizzare in prima persona gli
operatori e i referenti delle strutture aziendali su una serie di obiettivi
incentrati sulla gestione della salute. Non starò a ripeterli, ma se si
legge la lista ci si accorge che i primi obiettivi riguardano la riduzione
dei ricoveri impropri, la diminuzione del consumo di farmaci e degli
esami specialistici, elevando l’appropriatezza diagnostica e delle
prestazioni terapeutiche. Solo nella seconda parte subentrano obiettivi
di equità e di partecipazione dei soggetti alla cura. Nell’insieme viene
scoraggiata ogni forma di istituzionalizzazione delle persone con
malattie di lunga durata, mettendo al centro del dispositivo sanitario il
problema della coesione sociale. 5
5
Sugli obiettivi del progetto Win-Microaree, che a partire dal 2005 ha
recepito i precedenti progetti Habitat trasformandone la concezione in senso
esplicitamente sanitario, cfr. il testo in appendice a questo volumetto. Sono
numerosi i siti internet, collegati all’Ass 1 “Triestina”, dedicati a presentare il
progetto delle microaree.
12
[4. Il salto nelle microaree]
G. Gallio
Win-Microarea configurava un nuovo passaggio, un vero e proprio
salto. Eri d’accordo con gli obiettivi del progetto?
Maria Grazia
Non solo ero d’accordo, ma ho collaborato a tutta la fase iniziale di
riflessione su quelle che avrebbero dovuto essere le ricadute del lavoro
di microarea sui distretti, prendendo molto sul serio il significato
dell’esperimento. Tuttavia quasi subito ho registrato una certa
difficoltà da parte degli operatori a fare propri gli obiettivi del
progetto, come se la risposta integrata al bisogno dei pazienti
costituisse il massimo oltre il quale era difficile andare.
G. Gallio
Cosa intendi dire?
M. G. Cogliati Dezza
Quando si parla di lavoro integrato, fra discipline o competenze
professionali diverse, si configura un percorso comunque
asimmetrico: da una parte c’è l’istituzione, rappresentata da un singolo
operatore o da un gruppo di operatori, che formula una diagnosi e una
prognosi, mettendo in atto una risposta il più possibile efficace;
dall’altra c’è il cittadino/utente che in maniera passiva recepisce la
bontà e la qualità dell’intervento che riceve. In questo modo di
concepire l’intervento sanitario manca l’idea che il soggetto debba
essere attivato nel suo contesto, diventando in qualche modo
responsabile del proprio progetto di salute.
Era questo principio – o criterio di attivazione – uno dei punti
centrali di Win-Microaree, ma quando il progetto è stato formulato
mancava, a una certa parte di operatori e dirigenti aziendali, la cultura
e l’esperienza della deistituzionalizzazione di cui parlavo agli inizi.
Non era cioè diffusa la consapevolezza che tra diagnosi e prognosi, tra
prescrizione di un trattamento e pratica della cura, esiste una distanza
13
abissale, un vuoto che non è riempito da nessuno se non sei tu a
problematizzarlo. Di questa distanza alcuni operatori fanno fatica
ancora oggi a prendere atto. In anni di lavoro ho potuto constatare in
che modo certi medici si trincerano dietro gli stereotipi della malattia,
attenendosi ai pochi punti da repere che stanno nella loro valigetta.
Pensano che, una volta fatta la diagnosi e scritta la ricetta, sia
automaticamente assicurata la capacità del paziente di curarsi.
Si presuppone che il malato di una malattia cronica sia in grado,
con le sue forze, di realizzare un cambiamento che investe lo stile di
vita, il sistema di alimentazione e via dicendo. La realtà ci dimostra
che le cose non vanno quasi mai così, e quanto più la persona è
isolata, povera dal punto di vista del reddito, o povera dal punto di
vista culturale e relazionale, tanto più le prescrizioni mediche cadono
nel vuoto.
G. Gallio
Delle cose che dici ciascuno, in misura maggiore o minore, fa
esperienza nella propria vita, anche senza essere povero. Credo infatti
che tu ti riferisca ad atteggiamenti e culture ovunque dominanti nel
mondo sanitario, dove a tuttora prevale o il modello clinico –
ospedaliero, che per definizione ignora le condizioni di vita del
paziente. È di questo che stai parlando?
M. G. Cogliati Dezza
Sì, mi sto riferendo a una cultura che, anche nelle sue versioni più
avanzate, prevede che per ogni malattia esistano delle procedure e
linee guida a cui attenersi, dando per scontato che il malato si adegui.
Negli ultimi anni il linguaggio dei professionisti si è in parte adattato
alla cultura dei pazienti, e c’è chi dedica molto tempo a spiegare come
fronteggiare una malattia, ma il cambiamento dello stile di vita viene
prescritto sulla carta e tutto finisce lì. Nessuno si chiede fino a che
punto la persona sarà in grado di assumere in proprio la gestione della
malattia, o fino a che punto il recupero di uno stato di salute comporti
il miglioramento della qualità di vita.
14
Tutto questo processo di comprensione della realtà, il farsi carico
delle dimensioni sociali o esistenziali della malattia, in passato non
accadeva mai, e anche ora è frequente che i problemi non siano
esplicitati da parte dei medici, in modo da mettere in rete le
conoscenze e le competenze. Per cui ancora oggi andiamo nelle case e
troviamo armadietti stracolmi di farmaci; ci viene mostrata la
prescrizione, ma quello che la persona fa è completamente altro.
Anche al di là dei medici, io ho avuto la netta sensazione in quegli
anni, quando il progetto delle microaree è stato avviato, che il mettere
in discussione la concezione degli interventi fosse una richiesta
eccessiva, in qualche modo inaspettata e difficile da mettere a fuoco.
Non rientrava negli schemi e nei modi di pensare di molti operatori,
che già ritenevano di sviluppare una pratica avanzata. Era come se le
numerose attività sviluppate dai progetti Habitat fossero di per sé
sufficienti, anche se coesistevano con un modo abbastanza
tradizionale di concepire l’intervento medico. E questa mi sembrava
una contraddizione.
G. Gallio
Anch’io ho avuto la sensazione che i progetti Habitat siano stati
per lo più interpretati come un’attività di animazione dei quartieri, una
sorta di complemento necessario del lavoro territoriale, ma non tali da
revocare in dubbio gli stili di lavoro. In certi casi questa idea di
animazione è stata trasferita, in maniera un po’ meccanica, nel
progetto delle microaree, come se fosse il semplice prolungamento di
qualcosa che era già stato sperimentato.
M. G. Cogliati Dezza
Habitat ha smosso molte cose, ma non aveva tra i suoi obiettivi
quello di trasformare la cultura medica dei servizi territoriali, e forse il
successo del progetto ha contribuito a confondere ancora di più
l’immagine pubblica del nostro lavoro. Me ne sono accorta un giorno
quando, parlando con alcuni medici che lavorano in ospedale,
trapelava involontariamente dai loro discorsi l’idea che noi eravamo
dei professionisti molto bravi perché facevamo al meglio una forma di
15
assistenza sociale. Io certamente non disdegno le politiche sociali, mi
sono anzi carissime, ma la nostra mission è quella di fare sanità e
salute, non assistenza.
Quindi, per tornare alla domanda che mi ponevi agli inizi, nel 2009
ho cominciato a pensare che tutto il portato della nostra azione, la
cultura della deistituzionalizzazione sviluppata a Trieste da Basaglia
in poi, con l’andata via di Rotelli rischiava di morire per sempre, non
essendosi abbastanza consolidata nel lavoro distrettuale. C’erano, sì,
degli spunti interessanti, tante buone pratiche che venivano messe in
atto, ma tutto questo non bastava a trasmettere agli operatori più
giovani una cultura critica della medicina. Perciò ho deciso di avviare
un percorso di formazione e ricerca che avesse, tra i suoi principali
obiettivi, la messa in discussione di questo tema prima di ogni altro.
G. Gallio
Intendevi aprire la questione, mostrare che c’è…
M. G. Cogliati Dezza
Aprirla, perché mi sembrava che la pratica fosse in certi casi più
avanti della teoria, e che di molte pratiche avanzate non ci fosse
visibilità o consapevolezza tra gli operatori. Perciò, sentendomi debole
e poco riconosciuta nel ruolo di coordinatrice sociosanitaria, ho deciso
che il percorso di ricerca dovesse cominciare dal mio distretto,
sperando che dalle prime storie da te raccolte potessero nascere nuove
idee, spunti o riflessioni che in seguito avrebbero potuto essere estesi,
contagiando le altre realtà distrettuali.
Il mio intento era portare allo scoperto le contraddizioni che
attraversano le pratiche, mettendo a fuoco le affinità esistenti tra le
microaree, senza tuttavia esercitare alcuna imposizione. Da qui il
carattere processuale della ricerca, e un metodo di lavoro che, oltre a
raccogliere storie e materiali di analisi, aveva lo scopo di aiutare le
referenti di microarea a discutere fra di loro e a riconoscersi come
gruppo. Questo in effetti è avvenuto con risultati molto soddisfacenti,
grazie al lavoro che hai svolto anche sul piano formativo, nel corso di
16
numerosi seminari e giornate di studio che abbiamo organizzato
cammin facendo.
[5. Cosa significa “deistituzionalizzare” in medicina]
G. Gallio
In generale con il termine “deistituzionalizzazione”, coniato verso
la fine degli anni 60 in coincidenza con il superamento degli ospedali
psichiatrici, si fa riferimento a un metodo di lavoro che scompone
l’assetto organizzativo e simbolico di istituzioni segreganti (“totali”,
diceva Goffman), sottoponendo a critica il paradigma medicoscientifico che giustifica l’isolamento del malato come precondizione
della cura. Nell’atto stesso di distruggere un’istituzione che sequestra
il corpo da curare, sospendendo la persona dai suoi diritti e ruoli
sociali, si crea un nuovo sistema decentrato di servizi, andando come a
ritroso, in un atto di restituzione dei poteri della cura ai soggetti e alle
comunità locali. Come dobbiamo intendere la deistituzionalizzazione
applicata alla medicina di territorio, se già questa dislocazione è
avvenuta e in apparenza non ci sono più istituzioni totali da abbattere?
M. G. Cogliati Dezza
Forse io semplifico un po’, ma credo che deistituzionalizzare
significhi in primo luogo non far coincidere il malato con la malattia,
mettendo tra parentesi la categoria diagnostica che lo classifica. Certo,
dobbiamo sapere che cos’è il diabete e come curarlo, ma ancora di più
dobbiamo avere riguardo, conoscenza e relazione con la persona che
ha un diabete. E siccome le persone sono tutte diverse le une dalle
altre, il progetto di cura deve incontrare la diversità di quel malato
senza omologarla. In particolare, come dicevamo agli inizi, bisogna
attribuire ai soggetti il potere di scegliere e decidere, facendo in modo
che se quel potere non c’è o è incostante, venga in qualche modo
supportato perché emerga e si affermi.
È evidente che nel fare questo gli operatori sono tenuti a esercitare
una riflessione critica sul loro ruolo, ben sapendo che il modo di
procedere delle istituzioni è definito da regole selettive, create apposta
17
per occultare le contraddizioni che la malattia apre nell’esistenza dei
soggetti. È questa pratica, che suscita domande o risveglia bisogni più
di quanti non ne possa soddisfare, a rendere possibile l’ingresso di
altri attori e soggetti, che vengono coinvolti a partecipare non perché
un protocollo lo ordina e lo prescrive, ma perché la loro competenza è
indispensabile al percorso di cura.
Prendiamo ad esempio la storia di Walt. Quando gli infermieri e il
medico del distretto entrano nella casa trovano i segni dell’inerzia e
dell’abbandono; ogni tentativo di insegnargli come curare il diabete
cade nel vuoto, per mesi non succede niente, non si modifica nulla.
Si instaura una relazione monotona, ripetitiva, costellata da crisi in
cui l’uomo rischia ogni volta di morire, finché il medico del distretto,
mettendo in discussione il suo ruolo, comincia a smontare tutto
l’ingranaggio. Agli inizi è una politica dei piccoli passi, che cerca di
dare risposte ai problemi più urgenti e immediati, ma in breve tempo
la situazione cambia, si trasforma. Con l’aiuto di una psicologa
volontaria Walt inizia un percorso di recupero: torna a parlare, a
camminare, finché comincia a chiedere, a desiderare, a scegliere.
Quando allora, discutendo con gli operatori di questa e altre storie,
mi tornavano indietro dilemmi e contraddizioni insanabili, in cui si
rimarcava la distanza tra la scienza medica e la possibilità di
migliorare in concreto lo stato di salute delle persone, è stato chiaro
per me che il vuoto esistente tra le persone e le istituzioni sanitarie
doveva essere colmato da noi prima di chiunque altro.
Non potevamo più continuare a criticare i medici di medicina
generale per la loro assenza o incapacità di farsi carico dei pazienti;
dovevamo innanzitutto guardare a quello che facevamo noi.
Devo dire che le cose sono cambiate negli ultimi anni anche per
l’arrivo nel distretto di giovani medici particolarmente acuti e capaci,
e di infermiere brave e coraggiose. Con loro, discutendo e ragionando
attorno ai problemi che mi venivano riportati, ci interrogavamo per
riuscire a declinare in maniera diversa la questione del fare salute
rispettando la soggettività, sostenendo la crescita di autonomia della
persona, e quindi mettendosi “al servizio di”.
18
Ovviamente non è un mettersi al servizio in maniera acritica; la
libertà di scelta non ha nulla a che vedere con le ideologie neoliberali
o liberiste, attualmente dominanti, che trasformano il malato in utenteconsumatore. La possibilità di una persona di scegliere non può essere
attribuita a priori, ma deve affermarsi sulla base di alternative che può
concretamente afferrare e cogliere, mentre è in corso una specie di
lotta tra i diversi significati che le scelte assumono su un piano di
realtà.
G. Gallio
In questo senso il termine “deistituzionalizzazione” è importante
anche nell’indicare una serie di limiti: sia del soggetto che scegliendo
impara ad aver cura di se stesso, sia di un servizio che non è più
autorizzato a presentarsi come onnipotente nelle promesse che fa.
Il limite è un orizzonte molto concreto che si delinea nel percorso
stesso della cura, quando il soggetto si costituisce come capace di
decidere nel senso che “vede”, mette alla prova la sua libertà. Quella
che nel frattempo cambia è la falsa idea di un’istituzione che
garantisce tutto, dal principio alla fine. Basaglia diceva che
l’istituzione mente, sapendo di mentire, ogni volta che promette il
miglioramento delle condizioni di salute senza definire il piano di
realtà in cui avviene l’incontro con il paziente.
M. G. Cogliati Dezza
Oggi non c’è nessuno che possa proporsi come garante esclusivo
della salute o della bontà di un intervento sanitario; perciò è
necessario rispettare le differenze esistenti tra gli individui. Non solo i
cosiddetti poveri, anche le persone di ceto medio-alto, provviste di
mezzi per ricorrere al privato, possono non adattarsi al percorso di
cura. Perché accade? Non si sa, ciascuno ha i suoi perché.
La domanda che dobbiamo porci è un’altra: il soggetto che decide
di non adeguarsi alla cura possiede gli strumenti per comprendere e
scegliere? Qui sta la differenza tra un lavoro ben fatto e uno mal fatto.
Solo quando l’operatore mette in atto una pratica di riconoscimento
del soggetto, oltrepassando la relazione duale che crea dipendenza,
19
solo allora può aspettarsi che il malato sia in condizioni di
comprendere, nel senso che tocca con mano le alternative tra cui
scegliere. Possibilità nuove, che non ha mai nemmeno vagheggiato o
supposto. Walt è un esempio di quello che sto dicendo. Da anni viveva
chiuso in casa, senza chiedere niente: non aveva idea di poter ricevere
aiuti dalle istituzioni, non sapeva nemmeno quali fossero i suoi diritti.
Soprattutto non sapeva che anche la sconfitta, il fallimento e l’inerzia
possono essere trasformati in relazione, ripresa di senso e quindi
miglioramento delle condizioni di salute.
Se faccio in modo che il soggetto acquisisca strumenti per
comprendere, metto cioè alla prova la mia capacità di coinvolgerlo in
un progetto di cambiamento, solo allora posso parlare di libera scelta.
A quel punto posso accettare anche il suo diniego alla cura, il rifiuto
del ricovero o del farmaco. Posso cioè accettare che la persona si
rifiuti di cambiare.
[6. Microaree e lavoro distrettuale]
G. Gallio
Dalle cose che hai detto risulta chiaro che, avviando il progetto
“Fare salute”, non avevi l’intenzione di appiattire o di omologare le
esperienze di microarea..
M. G. Cogliati Dezza
Al contrario, volevo far emergere ancora di più le soggettività e le
peculiarità delle pratiche, cercando di comprendere fino a che punto la
raccolta di materiali discorsivi e narrativi potesse far risaltare i temi e i
problemi che, in maniera forse un po’ sommaria, inscrivo nella parola
“deistituzionalizzazione”. Come dicevo agli inizi, non sapevo cosa
aspettarmi dalla ricerca, non avevo idea di quale fosse il punto di
arrivo degli operatori nemmeno nel mio distretto. Perciò quando ho
letto le prime storie ho avuto una specie di sobbalzo constatando che
era già all’opera, nei fatti, la capacità degli operatori di sottoporre a
critica il modello medico. Da questo punto di vista non c’è quasi
differenza tra le storie, e a maggior ragione si conferma che era
20
fondata la mia richiesta di portare allo scoperto non solo il racconto
dei casi, ma anche il modo degli operatori di argomentare o di
concettualizzare le pratiche.
G. Gallio
Tutti gli operatori che ho intervistato esprimono un livello alto di
cultura e consapevolezza critica, non solo degli strumenti che usano,
ma anche del campo che osservano e in cui intervengono. Questo mi
ha dato molta forza, tanto che a un certo punto ho desiderato estendere
all’infinito i racconti fino a comporre un paesaggio di storie parallele,
per mostrare la ricchezza dei percorsi e la pluralità delle visioni che
coesistono all’interno di schemi di azione molto simili.
Questa è la prova che a Trieste sono state create condizioni di
esercizio della medicina territoriale che agiscono di per sé; il sistema è
poggiato su basi così solide da costituire una sorta di rotaia su cui le
pratiche scorrono, potendo sopportare le contraddizioni, le inevitabili
confusioni e i conflitti…
M. G. Cogliati Dezza
Sì, ma a questo proposito vorrei aggiungere ulteriori riflessioni su
come cambiano gli stili di lavoro se li osserviamo in una realtà
piuttosto che in un’altra. Se ho voluto che tu iniziassi la ricerca
applicandola alle Unità operative distrettuali, è perché in qualche
modo pensavo che non ci fossero grandi differenze rispetto al lavoro
sviluppato nelle microaree. In generale ero scettica, mi dicevo:
“abbiamo arato in lungo e in largo, ma ancora non siamo in grado di
raccogliere quel che abbiamo seminato”. Mi tenevo bassa nelle mie
aspettative, per poi accorgermi che da un lato le pratiche erano molto
più avanti di quanto non sospettassi, e dall’altro che anche nel mio
distretto, dove mi sono sempre impegnata per integrare il lavoro delle
microaree con gli interventi distrettuali, anche lì c’erano notevoli
differenze tra i due ambiti.
Quindi è vero quello che tu dici: è il sistema operativo a immetterti
in uno scenario nel quale devi ricollocarti e prendere posizione, ma lo
scenario della microarea si differenzia profondamente da quello del
21
distretto perché sei tu l’artefice di tutto quello che accade, e dei
risultati che consegui. Entrando nella casa di una persona non sei
l’infermiere che fa la flebo, o medica la lesione da decubito; a volte fai
anche questo, ma in genere la referente di microarea ha un compito di
regia nella conduzione del caso. Deve cioè fare una diagnosi sistemica
per mettere in atto una cura sistemica, coinvolgendo via via gli
infermieri del Sid, il fisioterapista, l’assistente sociale del Comune, il
volontario, i familiari e via dicendo.
Sappiamo che le referenti di microarea sono operatrici scelte, ma
se hanno potuto fare un salto conoscitivo è perché è stato attribuito
loro il compito di mettere a fuoco la scena della malattia, tenendo
conto di tutte le variabili. Il risultato che devono ottenere è
subordinato al fatto di rafforzare la soggettività del malato, mettendo
in moto un processo in cui viene a lenta maturazione l’autonomia
della persona. Non a caso in tutte le storie risuona un passo delicato: le
operatrici bussano alla porta ed entrano con discrezione, vanno e
vengono, aspettano che le persone si convincano, che cresca la
fiducia…
G. Gallio
È una danza…
M. G. Cogliati Dezza
È una danza, un’attesa che la medicina assolutamente non
contempla, essendo molto rigida nei tempi che impone ai soggetti.
G. Gallio
Quindi è vero che la microarea è messa lì per vedere, come in una
lente di ingrandimento, tutto ciò che il distretto ignora o non vede.
In questo senso è un bene che le riflessioni che ho raccolto
contengano elementi di analisi critica della situazione. Come ha detto
una volta Franco Rotelli, la microarea è stata pensata come un
avamposto che serve a segnalare le potenzialità ma anche le carenze, i
difetti e i limiti del lavoro distrettuale...
22
M. G. Cogliati Dezza
Questo è il punto: come mai questa funzione della microarea non si
è ancora pienamente realizzata? Secondo me è per le ragioni che ho
detto prima: la messa in discussione del modello medico non è
abbastanza penetrata nello staff di governo dei distretti e delle
strutture sanitarie territoriali. Probabilmente una trasformazione
culturale di questa portata non poteva avvenire nel giro di pochi anni,
tanto più che i cambiamenti di indirizzo politico-amministrativo hanno
finito con l’oscurare tutto il processo riformatore, mettendo a rischio
anche l’esistente.
Non solo a Trieste, ma nell’intera regione, non si sono più avuti
negli ultimi anni stimoli di sviluppo o di innovazione dei servizi, e
ciascuno è sempre più obbligato a difendere i risultati del proprio
lavoro secondo codici di valorizzazione economica, di risparmio delle
risorse. A sostegno del progetto delle microaree era stata coinvolta, in
passato, anche la componente amministrativa: si raccoglievano dati,
venivano stilati dei report periodici sul numero di ricoveri, l’uso dei
farmaci e la quota di persone ad alto carico sanitario distribuite nelle
microaree. Tutti questi strumenti erano importanti per decidere come
incanalare gli interventi, e ora non ci sono quasi più.
L’unico dato che ci viene fornito è quello relativo alla frequenza
dei ricoveri, e sembra incoraggiante: nelle microaree dove il tasso di
ospedalizzazione è sempre stato elevato per le caratteristiche della
popolazione (anziana, con patologie croniche, ecc.), il numero dei
ricoveri si è abbassato di parecchi punti, fino a rientrare nei tassi medi
di ospedalizzazione della città. Tuttavia, anche su questo punto
l’analisi andrebbe approfondita: le operatrici si chiedono se si
continuano a praticare ricoveri impropri, o se la degenza ospedaliera
venga oggi utilizzata in maniera ottimale, scongiurando forme
precedenti di trascuratezza e di abbandono dei pazienti.
Dunque si può dire che il processo nel suo insieme si è abbastanza
fermato sotto il profilo della valutazione, riducendo la nostra capacità
di definire obiettivi mirati sulla base di evidenze statistiche. Questo ha
indubbiamente abbassato la capacità delle microaree di riportare alla
casa madre, e cioè ai distretti, i risultati del lavoro che viene svolto,
23
con la conseguenza di indebolire quel potere di influenzamento e di
contagio che era stato auspicato, e che era implicito nel carattere
sperimentale del progetto.
[7. Le macrozone]
G. Gallio
Resta il fatto che le microaree hanno avuto un grande successo nel
rapporto con la popolazione: il loro nome si è imposto come una
specie di marchio, la cifra di riconoscimento di un certo stile di
lavoro…
M. G. Cogliati Dezza
Quel che sicuramente abbiamo dimostrato, in alcuni rioni più che
in altri, è la capacità delle istituzioni di dare a tutti le risposte dovute, a
cominciare dagli ultimi. Molti risultati sono stati acquisiti nel
promuovere un’idea di comunità intesa come attivazione di legami tra
gli abitanti di un rione mediante l’organizzazione di feste, l’aiutarsi
reciprocamente, il condividere progetti di miglioramento dell’habitat
sociale. In questo senso si può dire che il risultato più importante delle
microaree è aver spostato l’attenzione non solo dai servizi alla
persona, ma anche dalla singola persona ai modi in cui gli individui si
incontrano e si aggregano fra di loro in quanto abitanti di un territorio.
Attualmente i servizi sanitari, anche quelli più avanzati, tendono a
definire come oggetto del loro lavoro il singolo caso, la singola
situazione individuale o familiare, ma non hanno occhio per il
contesto urbano, o per la trama di relazioni da cui i soggetti ricavano
appartenenza e identità. E quindi fanno fatica a vedere (o sono
programmati per non vedere) le possibilità di attivare le risorse che
circondano i soggetti in quanto abitanti di un luogo.
La microarea è partita dal singolo, ma non ha potuto fare a meno di
incontrarsi con i gruppi, prima di tutto quello dei condomini,
cominciando dal problema degli ascensori che non ci sono per i vecchi
del quinto piano, o dei piccioni che sporcano, i giardini incolti e
abbandonati, le cassette della posta che mancano, le porte sbrecciate e
24
i muri scrostati. La microarea aveva nel suo mandato il compito di
accorgersi di tutti questi ostacoli, ma non era certo che sarebbe riuscita
a tematizzarli come parte integrante del progetto di salute.
Dunque è l’intera città che dovrebbe essere suddivisa in tante
microaree, zone di piccole dimensioni dove la persona e il suo
contesto diventano al tempo stesso l’oggetto e il soggetto del lavoro.
I tentativi fatti finora, di coinvolgere una serie di enti privati e
pubblici per aprire nuove microaree (Enaip, Televita, Cacciaburlo,
Villacarsia, gli stessi Centri di salute mentale), non sono andati
sempre a buon fine, mentre vedo che sta cominciando a diventare
produttivo, se pure con lentezza, il progetto delle macrozone che ho
avviato nel mio distretto.
G. Gallio
In cosa consiste, vuoi parlarne?
M. G. Cogliati Dezza
Nell’ultimo anno, in collaborazione con altri operatori del distretto,
ho cercato di applicare il modello della microarea al Servizio
infermieristico domiciliare (Sid), suddividendo il territorio in cinque
sottozone, ciascuna delle quali comprendente dieci o dodicimila mila
abitanti. A ogni macrozona è stato assegnato un gruppo di quattro o
cinque infermieri, suddivisi per strade o caseggiati, in modo da
garantire il massimo di continuità nella cura delle persone di cui si
fanno carico. Il lavoro dei gruppi è coordinato da un “facilitatore”, un
ruolo che abbiamo cercato di rafforzare con i mezzi un po’ arcaici che
il Sistema sanitario mette a disposizione: piccoli incentivi e
riconoscimenti, anche finanziari, con cui si premia il raggiungimento
di determinati obiettivi. Ai coordinatori è stato chiesto di mettere a
punto una mappa delle aree territoriali di cui si occupano, in modo da
rilevare i bisogni sanitari e le risorse esistenti – abitative, culturali,
associative e di aiuto reciproco. Inoltre abbiamo organizzato un corso
di formazione in cui erano soprattutto le referenti di microarea a
trasmettere conoscenze sugli strumenti che utilizzano nel loro lavoro,
la “cassetta degli attrezzi”.
25
A distanza di un anno dall’avvio del progetto abbiamo constatato
dei cambiamenti significativi. Realizzando un intervento a tutto
campo, gli infermieri hanno trasformato la loro visione del territorio:
non solo perché sono più motivati e coinvolti di un tempo
nell’affrontare i singoli casi, ma anche perché riescono a cogliere le
dinamiche esistenti nei gruppi abitativi, e i diversi modi in cui la
particolare fisionomia di un rione o di un caseggiato può migliorare o
peggiorare i percorsi di salute. Su questo punto le verifiche sembrano
a volte paradossali: quanto più un edificio è vecchio, abitato da una
popolazione non benestante, tanto più migliora la qualità di vita.
Se questo accade è perché le abitazioni hanno un ballatoio interno:
le persone si conoscono e si parlano da un ballatoio all’altro, e anche
per questo più facilmente si aiutano. Bisogna infatti considerare che
nel Distretto 2, che comprende in prevalenza la parte centrale e ricca
della città, le aree più povere – che pure esistono – non hanno una
precisa identità sociale o architettonica. Nei rioni labirintici del Borgo
teresiano c’è anomia: ogni caseggiato ha una storia a sé, una
configurazione staccata e autonoma, nel bene come nel male.
G. Gallio
Quindi tu credi che la cultura degli infermieri del Sid sia
cambiata…
M. G. Cogliati Dezza
È cambiata nel senso che oggi c’è una valorizzazione, sia personale
che di gruppo, che viene ricercata e coltivata con continuità.
Gli operatori hanno acquisito più autonomia e potere rispetto alle
gerarchie aziendali: da una parte vengono investiti di responsabilità
dirette, dall’altra si misurano con risultati non più valutati secondo una
logica prestazionale, interna al servizio, ma guardando alle risorse
complessive della persona e del territorio in cui intervengono.
26
[8. Coesione sociale]
G. Gallio
In conclusione vorrei sottoporti una questione che non abbiamo
mai discusso, e che pure rappresenta una parola-chiave nel glossario
delle pratiche territoriali. Parlo della “medicalizzazione”, e di tutto ciò
che questo nome ricopre nella letteratura critica – sociologica,
filosofica, antropologica.
Sollevo il problema perché ci può essere un sospetto di abuso nella
medicina territoriale e di comunità, già a partire dalla pretesa di
egemonizzare le culture e i saperi della malattia e della salute.
Anch’io, quando ho iniziato la ricerca, temevo di trovare le tracce di
una sorta di invasione della medicina nella sfera privata dei soggetti.
Il budget di salute, l’individualizzazione dei trattamenti: mi
chiedevo in che modo queste procedure si potessero conciliare con
una medicina di comunità. Soprattutto mi domandavo fino a che punto
è lecito entrare nei caseggiati e bussare porta a porta, vincolando gli
abitanti a una sorta di responsabilità nella cura anche degli altri.
Se con il vicino di casa ho ragioni di ostilità o di conflitto, e se
riesco a regolare il rapporto solo conservando una certa distanza, non
vorrei essere forzata a stabilire un rapporto ravvicinato. Ciascuno a
casa propria ha dei diritti inalienabili; d’altra parte sappiamo che i
gruppi sociali più deboli si fanno più facilmente penetrare e
colonizzare...
M. G. Cogliati Dezza
Io leggo la questione in un altro modo, nei termini del potere
individuale di cui prima ho parlato. Dobbiamo partire dall’analisi che
in certe fasce di popolazione non c’è potere nei confronti della propria
vita, né nei confronti della collettività o della cosa pubblica, o nel dare
indicazioni precise, mature e consapevoli, a una rappresentanza
politica che sostanzialmente ti ignora, mentre dovrebbe difendere i
tuoi bisogni e i tuoi interessi. Viviamo in un’epoca di grande distanza
degli amministratori e dei politici dalla vita quotidiana delle persone;
se dunque immaginiamo di dover rafforzare il potere non solo di
27
singoli individui, ma di gruppi di cittadini che diventano capaci di
interloquire in maniera diretta con le istituzioni, avrei molto meno la
preoccupazione che tu esprimi.
Un punto su cui non abbiamo ancora lavorato abbastanza è la
coesione sociale, la promozione e la difesa dei legami sociali.
Nell’ottica della coesione sociale, tutte le attività comunitarie che
abbiamo svolto, dal progetto Habitat in poi, non rappresentano il fine
della nostra azione ma il mezzo, lo strumento per far sì che i singoli
individui – che di volta in volta abbiamo attivato, accompagnato,
supportato e riconosciuto – si confrontino gli uni con gli altri,
assumendo l’identità di soggetti collettivi.
Non sto parlando del comitato di quartiere fatto da cinque o sei
persone, sempre le stesse, che si aggregano per rivendicare qualcosa,
istituzionalizzandosi in una parodia di schemi politici obsoleti. Io
parlo del bisogno di esserci, di individuarsi come abitanti o come
cittadini in un campo dato, riuscendo a interloquire con
l’amministrazione pubblica nel governo dei beni comuni. Parlo del
fatto che la cultura del vivere e dell’abitare, e quindi anche del
combattere la malattia e preservare la salute, non può consistere solo
nel fatto che un cittadino usufruisce di prestazioni e servizi.
In futuro sarà sempre più importante assumersi responsabilità
dirette nel curare i legami sociali, o nell’accrescere le proprie
competenze nel contesto in cui si vive. Su questo punto ritengo che il
nostro lavoro non abbia ancora ottenuto tutti gli effetti sperati, i
risultati per i quali da anni ci stiamo impegnando.
G. Gallio
Gli effetti del lavoro di microarea non si possono valutare sul breve
periodo; tutto ciò che implica un cambiamento di cultura non è
immediatamente visibile. Mi sembra piuttosto che tu lamenti un
deficit culturale da parte di chi ha il potere di dirigere le politiche
sanitarie. Sono gli amministratori locali a non porsi abbastanza il
problema del legame sociale, o a interrogarsi troppo poco su come può
cambiare in meglio il tessuto sociale se la malattia non viene trattata
secondo schemi tradizionali…
28
M. G. Cogliati Dezza
Proprio così, e allora rivendico la necessità di problematizzare e
discutere questo tema. Nelle microaree dove si è cominciato a curare i
legami fra le persone sono nati gli embrioni di una nuova socialità.
Per fare un esempio, nella microarea di Ponziana si è svolto di
recente un incontro tra l’assessore ai lavori pubblici del Comune di
Trieste, e un gruppo di abitanti che chiedeva di ottenere in
affidamento un pezzo di giardino dove coltivare erbe aromatiche.
L’obiettivo era quello di aprire uno spazio di attività e di incontro,
soprattutto tra i vecchi e i bambini. Il fatto che questo progetto sia
sulla buona strada per essere approvato, mostra che esistono delle
possibilità per piegare le regole dell’amministrazione, in modo che gli
spazi non vengano concessi solo ai comitati di quartiere, o ad
associazioni ufficialmente riconosciute e regolate da uno statuto, ma
anche a gruppi di cittadini che si aggregano fra di loro nel
riconoscimento di un bene comune.
I politici, quando parlano del bisogno di preservare i legami sociali,
il che accade spesso, tendono a ripetere la stessa frase: “sviluppo
uguale coesione sociale”. Questa equazione, di per sé ovvia, è molto
opinabile una volta tradotta su un piano di realtà. Abbiamo infatti più
volte verificato che lo sviluppo è una prerogativa di determinati gruppi
sociali e non di altri, e che coloro che godono i benefici dello sviluppo
spesso non producono coesione sociale nemmeno tra di loro.
Il fatto di arricchire – e non impoverire – il capitale sociale degli
individui e delle comunità locali, è un parametro essenziale di
valutazione delle politiche stabilito in sede europea. Ma sono anche
gli amministratori in carne ed ossa a doversi mettere a disposizione
degli abitanti delle comunità, stabilendo un rapporto di vicinanza, di
ascolto e confronto.
G. Gallio
In tutto questo qual è il rapporto della medicina con la politica? La
medicina deve uscire da se stessa, ma deve poi continuamente
29
rientrare in se stessa, in un movimento che non è di appropriazione del
territorio…
M. G. Cogliati Dezza
Certo. Noi parliamo di territori dove, svolgendo ogni giorno il
nostro lavoro, discutiamo di come cambiare le politiche sanitarie e
sociali, mentre cerchiamo di trasformare nella pratica le relazioni dei
cittadini fra di loro nel governo della salute. Se prendiamo il concetto
di salute nel senso più ampio è evidente che non può essere disgiunto
dal bisogno di connettere le persone tra di loro, o di realizzare servizi
accessibili, una buona rete fognaria, una rete di trasporti, scuole non
cadenti, centri aggregativi per i giovani. Del resto, come dicevo, su
questa strada del “fare comunità” e rafforzare i legami sociali resta
ancora molto lavoro da fare nei prossimi anni.
30
Appendice: I dieci obiettivi-chiave del progetto Win-Microarea
1. Realizzare il massimo di conoscenza sui problemi di salute delle
persone residenti nelle microaree (con azioni proattive, capillari, di grande
prossimità, svolte “porta a porta” e individuando nelle banche dati sanitarie le
persone fragili);
2. Ottimizzare gli interventi per la permanenza delle persone nel proprio
domicilio, dove ottenere l’assistenza necessaria (iniziative volte a contrastare
ulteriori incrementi del numero di posti in residenze assistite, tenendo conto
che a Trieste esistono 100 case di riposo con oltre 3.200 ospiti anziani);
3. Elevare l’appropriatezza nell’uso di farmaci (ridurre i fenomeni di
consumismo);
4. Elevare l’appropriatezza per prestazioni diagnostiche (ridurre
l’accanimento/ dispersione diagnostica);
5. Elevare l’appropriatezza per prestazioni terapeutiche (evitare/ridurre le
prestazioni che non servono, che generano spreco o false attese);
6. Promuovere iniziative di auto-aiuto ed etero-aiuto da parte di non
professionali (costruire comunità, elevare il capitale sociale);
7. Promuovere la collaborazione di enti, associazioni e organismi profit e
no profit per elevare il ben-essere della popolazione di riferimento (gestire i
problemi in co-responsabilità);
8. Realizzare un coordinamento ottimale fra servizi diversi che agiscono
sullo stesso individuo singolo o sulla famiglia (pre-occuparsi più delle
ottimizzazioni che delle espansioni o delle razionalizzazioni);
9. Promuovere equità nell’accesso alle prestazioni, dando più qualità ai
cittadini più vulnerabili (ridurre le disuguaglianze, per dare in modo
disuguale ai diseguali);
10. Elevare il livello di qualità della vita quotidiana di persone a più alta
fragilità (consentire di più e meglio una vita attiva e indipendente, soprattutto
a chi parte svantaggiato).
31
FARE SALUTE – Laboratorio di formazion
ricerca e comunicazione sulla “medicina di comunità”
l’arte de
storie e racconti di malattia
FARE SALUTE - Laboratorio di formazione,
Il progetto,
realizzatodi nel
biennio
2010-2011, si propone
ricerca e comunicazione
sulla “medicina
comunità”
a Trieste:
con storie
la voce
dei protagonisti,
e racconti
di malattia la pratica medica dei Distretti e
FARE SALUTE – Laboratorio di formazione,
nella sfida che da anni, a Trieste, impegna gli operatori
FARE SALUTE ricerca
– Laboratorio
di formazione,
e
comunicazione
sulla
“medicina
comunità”
progetto,
avviatodinel
2010,
si èaproposto
di di
raccontare
conalaTrieste:
voce
unae medicina
radicata
nei luoghi,
nelledeicase, negli hab
comunicazioneIIsulla
“medicina
comunità”
Trieste:
storie
racconti
di
malattia
protagonisti
la
pratica
medica
dei
Distretti
e
delle
Microaree
nella
sfidaun
chelaboratorio p
L’idea-base del progetto è quella di aprire
storie e racconti di malattia
da anni, a Trieste, impegna gli operatori a sviluppare una medicina radicata
nuovi
metodi
di racconto
della malattia,
al fine di informa
Il progetto,
realizzato
nel biennio
2010-2011,
si propone
di raccontare,
nei
luoghi,
nelle
case,sinegli
habitat
L’idea-base
del progetto
è quella
realizzato nel
2010-2011,
propone
disociali.
raccontare,
rappresentare
i
contenuti
e
le
metodologie
dell’intervent
conbiennio
la
voce
dei
protagonisti,
la
pratica
medica
dei
Distretti
e
delle
Microaree,
aprire medica
un laboratorio
per sperimentare
nuovi metodi di racconto della
protagonisti, ladi
pratica
deianni,
Distretti
e delle
Microaree,
Ricostruendo
la
storia
di
singoli
casi,
nella
sfida
che
da
a
Trieste,
impegna
gli
operatori
a
sviluppare
malattia,
al fine digliinformare,
descrivere,
rappresentare i contenuti e le stabilendo co
che da anni, a Trieste,
impegna
operatori
a sviluppare
una medicina
radicata
luoghi,
nelle
case,
neglilahabitat
sociali.
tra
ilnei
linguaggio
delle
procedure
sanitarie
e la complessità
metodologie
dell’intervento
territoriale.
Ricostruendo
storia
di singoli
cina radicataL’idea-base
nei luoghi, del
nelle
case, negli
habitat
sociali.
progetto
è quella
di aprire
un
laboratorio
per
sperimentare
evidenziati
aspetti
specifici
casi, stabilendo
confronti
tra il vengono
linguaggio
delle
procedure
sanitarie
e la che differen
el progetto è quella
di aprirediun
laboratorio
per
sperimentare
nuovi
metodi
racconto
dellavengono
malattia,
al fine didi
informare,
descrivere,
complessità
delle
pratiche,
evidenziati
aspetti
specifici
chequella ospedalie
ladescrivere,
“medicina
comunità”
da
i di racconto della
malattia,
al
fine
di
informare,
rappresentare
i
contenuti
e
le
metodologie
dell’intervento
territoriale.
differenziano la “medicina
di comunità”
da quella
ospedaliera.
La
raccolta
di
materiali
orali,
così
come
l’elaborazion
re i contenuti e le metodologie
dell’intervento
territoriale.
Ricostruendo
la storia
di
singoli
stabilendodei
confronti
La raccolta
di materiali
orali,
così
comecasi,
l’elaborazione
testi,
serve a
serve
a
documentare
il
grado
di
coinvolgimento
dei di
truendo la storia
singoli casi,
stabilendo confronti
tra documentare
ildilinguaggio
sanitarie dei
e ladiversi
complessità
delle
ildelle
gradoprocedure
di coinvolgimento
attori:
da
un pratiche,
lato
la
da
un
lato
la
dimensione
affettiva
del
lavoro
di
cura (
gio delle procedure sanitarie
e
la
complessità
delle
pratiche,
vengono
aspetti
specifici che
dimensione
affettivaevidenziati
del lavoro di
cura (l’intensità
e ladifferenziano
frequenza dei contatti,
e
la
frequenza
dei
contatti,
le
relazioni
ravvicinate
fra
oper
gono evidenziati aspetti specifici
che
differenziano
la “medicina
di comunità”
da quella
ospedaliera.
le relazioni ravvicinate
fra operatore
e utente);
dall’altro
i dubbi e le scoperte,
a “medicina di comunità”
da
quella
ospedaliera.
dall’altro
i
dubbi
e
le
scoperte,
le
incertezze
e
i
conflitti
com
raccoltaedi
materiali
orali,
cosìdicome
testi,sul
le La
incertezze
i conflitti
come
punti
forza l’elaborazione
di un interventodei
basato
lta di materiali orali,
così
come
l’elaborazione
dei
testi,
di
un
intervento
basato
sul
continuo
confronto
e
sulla
n
serve
a
documentare
il
grado
di
coinvolgimento
dei
diversi
attori:
continuo confronto e sulla negoziazione; dall’altro ancora gli aspetti
ma
ocumentare il grado
dei affettiva
diversiancora
attori:
gli nel
aspetti
di un sistema d
da di
uncoinvolgimento
lato
del lavoro
ditempo,
curaco-evolutivi
(l’intensità
co-evolutivi
di la
undimensione
sistemadall’altro
d’intervento
protratto
e l’importanza
o la dimensione
affettiva
lavoro
di
(l’intensità
e lache
frequenza
contatti,
lepotere
relazioni
e utente);
assumedel
ladei
capacità
e ilcura
degliravvicinate
operatori
difra
esplorare
i differenti
protratto
nel tempo,
e operatore
l’importanza
che assume la c
a dei contatti,
le
relazioni
ravvicinate
fra
operatore
evariabili
utente);
dall’altro
i dubbi
e le conto
scoperte,
e i conflitti
come
di forza
contesti,
tenendo
di numerose
(determinanti
salute).
ele ilincertezze
potere
degli
operatori
didipunti
esplorare
i differenti c
bi e le scoperte,diAl
leunincertezze
e basato
i iconflitti
come
punticonfronto
forza erendono
intervento
sultenendo
continuo
sulla negoziazione;
tempo
stesso,
racconti
e le storie
didimalattia
conto
della(determinanti d
conto
di
numerose
variabili
vento basato sul
continuo ancora
confronto
easpetti
sullaorganizzativa,
negoziazione;
dall’altro
gli
co-evolutivi
di
un
sistema
complessità
della
dimensione
affettiva
ed etica
del lavoro
di case, le stra
Soprattutto
il racconto
mostra
glid’intervento
interni
delle
ancora gli aspetticura
co-evolutivi
di
un
sistema
d’intervento
protratto
tempo,
e l’importanza
assume la capacità
al di fuorinel
dello
spazio
ospedaliero
o che
ambulatoriale,
offrendo una
gli spaccati
di vita delle persone che, ammalandosi di una
tto nel tempo,straordinaria
e l’importanza
che
assume
la capacità
ricchezza
dioperatori
indicazioni
e riferimenti
che vanno
ulteriormente
e il potere
degli
di esplorare
i differenti
contesti,
possono
assumere
ruolo attivodiodegli
passivo,
interpretando
otere degli operatori
di esplorare
differenti
fruttatitenendo
nel
promuovere
lenumerose
capacitàcontesti,
valutative
e(determinanti
auto-formative
operatori.
contoi di
variabiliun
salute).
il
cambiamento
loro
richiesto
(stili
di
vita
o conto di numerose
variabili
(determinanti
di
salute).
Il progetto ilharacconto
individuato
nellegli
storie
parole-chiave:
sorta di
Soprattutto
mostra
interni
delle case,una
le strade
e iglossario
quartieri,e traiettorie
racconto mostra
gli
interni
delle
case,
le
strade
e
i
quartieri,
sui tratti
distintivi
della “medicina
territoriale edidiuna
comunità”.
gli spaccati
di vita
delle persone
che, ammalandosi
malattia grave,
i vita delle persone
che,
ammalandosi
diattivo
una non
malattia
grave,
L’elaborazione
delruolo
glossario,
definito
in
astratto o a tavolino
possono
assumere
un
o passivo,
interpretando
in modima
diversi
mere un ruolo attivo
o passivo,
in(stili
modididiversi
mediante
processiinterpretando
discorsivi
e nel
lavoro
di
gruppo,
accresce
il controllo
il cambiamento
loro
richiesto
vita
e traiettorie
della
cura).
mento loro richiesto
(stilidei
di significati
vita e traiettorie
della cura).cognitiva fra gli operatori che
personale
e apre all’empatia
diventano in tal modo capaci di immedesimarsi nel linguaggio in quanto
patrimonio simbolico condiviso.
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Lavoro territoriale e medicina di comunità: La cassetta degli attrezzi