Università degli Studi di Cagliari Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea Specialistica in Relazioni Internazionali (Classe 60/S) L'Islam Moderato Insulindiano e il Dialogo con l'Occidente Relatore Prof.ssa Annamaria Baldussi Tesi di: Trudu Ilaria Anno Accademico 2006/2007 Indice 1. Introduzione……………….………………………………………….. p. 4 2. Il lungo cammino verso la democrazia………………………. p. 6 p. 6 2.1 Excursus storico: avvicendamenti al potere in Insulindia….…… 2.1.2 Indonesia 2.1.3 Malaysia…………………………………………….………... p. 21 2.2 Islam e Politica…………………………………………………… p. 28 2.2.1 Pancasila 2.2.2 NU e Muhammadiyah…………………………………………. 2.2.3 Movimenti Dakwah (PAS, Darul Arqam, ABIM)………………….. p. 31 p. 31 2.3 Il Processo di Democratizzazione………………………….……….. p. 34 3. Dialogo con l’Occidente………………….………………….….… p. 46 3.1.Cooperazione Internazionale………………………………….…. 3.1.1 Relazioni USA – Indonesia – Malaysia fino 11/9/2001….………….. 3.1.2 UE – ASEAN: esempio di cooperazione Sudest Asiatico-Occidente….. 3.1.3 ONU, ONG e Diritti Umani……………………………………… p. 46 p. 47 p. 55 p. 57 3.2 11/9/2001 Una Nuova Sfida: Insieme contro il terrorismo….…. p. 63 3.3 Dialogo interreligioso…………….……………………………… p. 66 4. Conclusioni …………………………………………………………… p. 70 5. Bibliografia……………………………………………………………. P. 72 1.Introduzione Al giorno d’oggi ascoltando un telegiornale, un dibattito o leggendo qualsiasi quotidiano, ci si rende conto che una nuova parola è entrata ormai nel nostro dizionario quotidiano: “Islam”; purtroppo i fatti di cronaca legati a questo termine sono sempre caratterizzati da una connotazione negativa, e soprattutto dopo 11 settembre 2001 sono macchiati di rosso. Ma cos’è l’Islam? L’Islam è fede (dín), ma non solo, è anche stato, mondo (dunya) ed è diritto (dawla), questa religione trascende i confini occidentali che sono stati delimitati nel nostro passato con la frattura tra lo Stato Temporale e quello Secolare; per i musulmani l’Islam è il loro mondo che tutto comprende, la vita dei suoi seguaci è continuamente pervasa da aspetti religiosi, o per lo meno così era in passato, perché non esiste attualmente l’identità: Stato Islamico che applica la legge islamica (sharia) e che come capo abbia un’autorità religiosa. A partire dall’epoca di Maometto e per poche generazioni, la società musulmana conobbe e sperimentò tale identità, dove il capo religioso era allo stesso tempo, capo della comunità (umma), ossia colui che, illuminato da Allah, ne rappresentava il vicario (kalifa) in terra e come tale insegnava la legge divina alla sua unione di credenti. Questa triade costituisce la base per capire i popoli musulmani, i quali seppur messi in ombra da una minoranza di fanatici, costituiscono la vera realtà islamica. Nello studio che mi accingo a presentare, mi propongo di confutare la teoria secondo la quale non esista un Islam moderato e di conseguenza non esista concretamente la possibilità di un dialogo con esso. Al fine di servire questo scopo, ho preferito utilizzare fonti provenienti soprattutto dal mondo non-occidentale, nel tentativo di fornire una visione distaccata dalla mia cultura e di spogliarmi il più possibile da concetti e punti di vista propri dell’Occidente. Troppo spesso la civiltà islamica è stata oscurata dalla bandiera del terrorismo, purtroppo “pochi” sono riusciti con atti eclatanti a distruggere la reputazione di “tanti”, i quali a loro volta inorridiscono di fronte ad attentati alla vita umana. Soprattutto in seguito all’attentato dell’undici settembre si è sviluppata una tendenza, interna ai paesi occidentali, volta a demonizzare la religione Islamica, insieme a tutti i suoi fedeli, e volta a creare uno stereotipo del musulmano con pensieri e atteggiamenti, anti-sionisti, anti-americani, ergo, anti-occidentali. Ho deciso di prendere in esame due paesi del cosiddetto “Islam periferico”, da una prima analisi superficiale potrebbero anche sembrare erroneamente simili: sono infatti entrambi costituiti da una popolazione a maggioranza musulmana, con un comune background storico-culturale, inoltre appartengono entrambi al contesto dell’Asia Sudorientale; tuttavia l’elemento che li contraddistingue è fornito dai diversi risultati raggiunti in seguito alla loro indipendenza. L’Indonesia, per esempio, non ha sviluppato uno stato Islamico propriamente detto, ossia con l’elevazione della sharia a legge suprema, questo a causa dell’elevato tasso di multi-culturalismo all’interno dei suoi territori: durante la sua indipendenza ha dovuto affrontare continue sfide alla 4 su integrità territoriale, che era costantemente minacciata da movimenti separatisti che pervadevano tutto l’arcipelago, in un simile contesto non era certamente possibile istituire uno Stato musulmano. La Malaysia, invece è un ibrido di Stato Islamico, anche in questo caso la popolazione si suddivide in diverse categorie, ma da un punto di vista linguistico: accanto ai malesi doc, coesistono anche elementi cinesi ed indiani, i loro conflitti si sviluppano quindi su un livello “etnico” piuttosto che religioso, come accade in Indonesia. Un altro elemento che li distingue sono i diversi sistemi democratici, mentre il primo ha un tasso superiore, l’altro è ancora nella via della transizione democratica. La scelta di questi due stati potrebbe apparire inopportuna, proprio per la loro distanza dalla Terra Santa e dall’origine della fede Islamica, ma ho preferito scegliere la regione Insulindiana proprio per la realtà multiculturale che la contraddistingue, per la tolleranza e apertura mentale che fin dagli albori dei primi traffici marittimi non le ha mai impedito di intrecciare legami sia commerciali che intellettuali con altri popoli. Nonostante la sua distanza dalla “culla dell’Islam”, la fede in questi territori ha tuttavia mantenuto i caratteri essenziali che contraddistinguono il messaggio islamico originale, che, a discapito dell’opinione comune, si pregia di virtù quali tolleranza, universalità, versatilità, ma non solo, accanto a questi principi (che anche lo stesso Occidente concepisce come “propri”) vi è il germe della democrazia: la comunità musulmana originaria, nell’esplicare le sue decisioni, ha sempre ricorso ad un’assemblea dei saggi, i quali decidevano a rigor di maggioranza. Al fine di provare la mia tesi, procederò prima con un breve excursus storico sugli avvicendamenti al potere nei due stati, ponendo l’accento, di volta in volta, sul legame tra politica-religione e sulle modalità alle quali i movimenti islamici dei due paesi, ricorrono di volta in volta per influenzare o meno le scelte de rispettivi governi; successivamente analizzerò le transizioni democratiche insite all’interno dell’ambiente istituzionale e politico insulindiano, con le relative riforme e analizzando di volta in volta i limiti che ancora devono superare. Questo passaggio è necessario per due ragioni: innanzi tutto con l’intento di appurare che l’Islam non è incompatibile con il modello democratico, e consecutivamente per poter instaurare un dialogo proficuo con l’occidente è necessario avere al proprio interno qualche forma democratica. Una volta analizzato l’aspetto democratico proprio della Malaysia e dell’Indonesia mi concentrerò sulle modalità con le quali questi due Stati hanno raggiunto un dialogo con l’Occidente, prima come “individui” con il colosso statunitense, poi come regione asiatica rapportata all’Unione Europea e da ultimo come contesto globale nell’ambito dei diritti umani e i rapporti con l’ONU. Gli ultimi due paragrafi saranno dedicati agli sforzi compiuti da questi due paesi musulmani, per affrancarsi dalla bandiera che è caduta sul mondo musulmano, in seguito al tragico attentato al World Trade Center e infine sul dialogo continuo con le altre religioni per cooperare allo sviluppo della tanto agognata, quanto sognata, pace mondiale. 5 2. Il lungo cammino verso la democrazia 2.1 Excursus storico: avvicendamenti al potere in Insulindia 2.1.1 Indonesia Il variopinto panorama religioso presente in Indonesia è da considerarsi unico nel suo genere e nella sua natura: all’interno di questo stato a maggioranza musulmana, ovvero esattamente il 90% della popolazione, trovano posto altre religioni minoritarie come il Cristianesimo nelle sue versioni protestante che rappresenta il 6% (soprattutto nelle province di Irian Jaya e nella zona settentrionale di Sulawesi) e cattolica 3% (a Timor-Est, nella zona orientale di Nusa Tenggara, nelle Isole Flores e nelle Molucche) l’Induismo (Bali), il Buddismo (Borneo Occidentale) e infine una minima parte si reputa animista o segue pratiche sincretiche (soprattutto Giava) delle religioni precedentemente nominate. Questo cocktail di culti è tenuto insieme dal pilastro del Panca Sila, ossia una sorta di dottrina che venne creata dal primo presidente dell’Indonesia Sukarno al fine di mantenere la libertà di religione, dando piena legittimità di esistenza a ciascuna fede e fornendo anche il substrato che avrebbe funto da collagene per preservare l’unità nella diversità che è propria di questo Stato, nonché il suo motto: “Binneka Tunggal Ika”. Sin dalla nascita dello Stato Indonesiano la sua politica, proprio per la sua società multiculturale, è sempre stata intrisa di connotati religiosi, con organizzazioni che ne rappresentassero gli interessi; due erano e tuttora sono i maggiori i contenitori degli aspetti musulmani: il partito Madjelis Sjuro Muslim Indonesia (più comunemente noto come Masjumi) e successivamente Nahda’ul Ulama (NU)1, che significa Rinascita Ulama. I due schieramenti si distinguono per l’orientamento più tradizionalista del secondo rispetto al primo, Madjelis si distingue più per una tendenza modernista, da una parte premeva per la costituzione di uno stato musulmano, ma dall’altra era aperto alla collaborazione con l’occidente, pur aborrendo la posizione amichevole di Sukarno coi comunisti. Sukarno ai primi albori della sua instaurazione al potere ha dovuto affrontare immediatamente, il problema della multireligiosità; davanti a lui si ponevano due strade: quella di dare piena forma al nuovo stato sotto la bandiera dell’Islam oppure garantire la sopravvivenza dei vari 1 Nahda’ul Ulama: Il partito sorse per la prima volta nel 1926 dalla scissione di un altro partito: Sarekat Islam, successivamente verrà inglobato all’interno del Partito Masjumi e nel 1952 acquisterà nuovamente vita propria separandosi da quest’ultimo raggruppamento polico-religioso. 6 culti professati all’interno del paese preferendo l’instaurazione di uno Stato laico. La frammentazione arcipelagica propria del territorio richiedeva prima di tutto: unità e centralizzazione governativa, l’istituzione di uno stato musulmano avrebbe significato invece creare disordini all’interno della nuova entità statuaria, la quale era già abbastanza provata dalla autoproclamazione di indipendenza della Repubblica delle Molucche del Sud, in opposizione all’Indonesia; questa rivolta scaturì all’indomani della creazione del nuovo stato e non a caso ebbe come focolaio Ambon, una città a predominanza cristiana. Queste ribellioni necessitarono una forte contromisura da parte governo, che rispose appunto tramite una accentuazione del potere centrale e tramite la soluzione del dilemma tra l’istituzione di uno stato laico, o uno prettamente islamico, ed ecco porsi di fronte al nuovo presidente una terza via: le due correnti si accordarono, giungendo al compromesso rappresentato dall’istituzione del Panca Sila come ideologia nazionale. L’origine etimologica di questa parola è da cercare nella lingua sanscrita e significa “cinque principi”; essa è, infatti, composta da cinque concetti2. L’importanza di quest'istituzione è tale da essere stata forgiata allo scopo di creare un trait d’union tra le differenze culturali ed elevarle a nota caratteristica del paese, nonché base per una convivenza pacifica per i cittadini indonesiani professanti qualsiasi religione purché questa fosse monoteistica. Facendo un piccolo passo indietro, descriverò la situazione politica antecedente alla costituzione dello stato, per poi ricollegarmi a Sukarno. Ancor prima della Dichiarazione di Indipendenza Indonesiana iniziavano già a sorgere i primi partiti o movimenti di diverso indirizzo politico. I primi erano uno di corrente nazionalistica e l’altro islamico. La prima associazione: la Muhammaddyya, venne fondata nel 1906. La seconda, il Sarekat Islām venne costituita nel 1911. Entrambi i due movimenti associazionistici nacquero a Giava., ma il Sarekat Islām mise radici anche a Sumatra. L’impulso della sua creazione deve essere letto come risposta all’opera di cristianizzazione che il quel periodo si stava verificando nelle deu isole. Inizialmente il Sarekat Islām fu un’associazione di mercanti che si univano contro i cinesi, solo successivamente assunse un carattere politico e questo avvenne in concomitanza all’assorbimento e al successivo distacco di frange comuniste, le quali separandosi diedero vita al Perserikatan Komunist Indonesia (P.K.I.), il partito comunista indonesiano. Nel 1927 nacque Perserikatan Nasional Indonesia, un altro partito di corrente nazionalistica, i cui leader furono il futuro primo presidente indonesiano Sukarno e il suo vicepresidente Mohammed Hatta. Tra questi partiti, un ruolo predominante verrà assunto dal P.N.I. Nel 1923 il P.K.I. a seguito di un’insurrezione fallita a Giava venne dichiarato illegale e quando venne dichiarata l’Indipendenza i leader nazionalisti assunsero i due ruoli più importanti nel neonato stato. Sukarno si servì dei comunisti per contrastare la potenza delle idee islamiche, questo, al contrario del suo successore era un ammiratore della Cina Comunista. Questa sua approvazione per le idee comuniste gli causò il dissenso del partito Madjelis Sjuro Muslimin Indonesia, o più comunemente noto come Masjumi, questo era un raggruppamento di tutte le associazioni islamiche, nonché forza preponderante nei primi due governi della storia dello Stato indonesiano. 2 http://home.swipnet.se/zabonk/indons/instant/politics.htm 7 In seguito alla dissoluzione del governo coloniale olandese e alla successiva dimissione di tutte le più alte cariche manageriali, economiche, governative, le quali erano tutte ricoperte da personale olandese, l’Indonesia era in una situazione di deficit di personale competente per la sua amministrazione. Gli indonesiani non avevano mai avuto mansioni dirigenziali ed erano per questo in una situazione di completa incapacità. In questo clima di inadeguatezza direttiva si inserivano le proposte di alcune frange di correnti musulmane che erano aperte alla collaborazione con l’Occidente. Questi movimenti erano favorevoli a contatti con le nazioni più ricche del mondo, dalle quali erano certi si potesse imparare e riuscire in questo modo a far fiorire l’economia del proprio paese sotto l’effetto propulsore occidentale. All’interno della federazione Masjumi esistevano differenze tra le varie associazioni islamiche, infatti ad essa aderivano inizialmente riformisti, modernisti, progressisti e tradizionalisti. Nel 1952 l’ala tradizionalista si separò dalla federazione e diede così nuova vita al Nahdat’ul Ulama (Rinascita degli Ulama), il quale era già sorto nel 1926 dalla scissione dal Sarekat Islām. Questi tradizionalisti non contestavano la collaborazione di Sukarmo coi comunisti, mentre il restante dei Masjumi vi ci si opponeva e si mostrava più disponibile alla collaborazione con l’Occidente. Successivamente a questo allontanamento, le prime elezioni generali proclamavano la vittoria ex-equo del Masjumi e del P.N.I., seguiti dal movimento di Rinascita degli Ulama, e infine dal P.K.I. Nel 1959 Sukarno con decreto presidenziale sciolse l’Assemblea Costituente che stava lavorando alla costituzione provvisoria e ristabilì la precedente costituzione del 1945. Il presidente dopo aver incorporato alla sua carica anche quella di primo ministro, si occupò della formazione del governo, vietò allo stesso tempo lo svolgersi di attività politiche, bloccò il funzionamento del parlamento e infine interdisse il Masjumi. Veniva così avviata le politica di “Democrazia Guidata” che prevedeva la cooperazione tra tre schieramenti politici. Le correnti islamiche erano state relegate in un piano inferiore, in quanto i due partiti alla ribalta erano quello nazionalista e quello comunista. L’unico partito musulmano riconosciuto era quello tradizionalista, in quanto aveva accettato l’alleanza coi comunisti e non poteva però assumere una propria connotazione individuale. Nel 1965, dopo il fallimento di un colpo di Stato rivoluzionario, il governo di Sukarto venne rovesciato. Durante questa manovra politica vennero uccisi dei capi militari ed il P.K.I. venne ritenuto responsabile di questa strage. Questo partito venne eliminato e salì al potere un nuovo Presidente: Suharto e il governo del “Nuovo Ordine”. Suharto, per accentrare ancor di più il potere nelle sue mani, utilizzo il Panca Sila come filosofia fondamentale indonesiana e fece del suo quinto principio un baluardo per la lotta al comunismo, perseguendo atei o politeisti accusati di aderire a tale dottrina. Un esempio di questa persecuzione contro i comunisti è la conversione di numerosi cinesi alle religioni monoteiste per evitare l’oppressione del governo. Il partito della Rinascita degli Ulama cooperò a questa repressione, garantendosi cosi un ruolo prioritario tra gli schieramenti Islamici. La dottrina nazionale venne anche sfruttata per diminuire il ruolo dei movimenti musulmani e per attuare una depoliticizzazione dell’Islām. La prima mossa in tal senso, venne compiuta con la creazione ad opera del Orde Baru (Nuovo Ordine) di un partito musulmano, la cui attività sarebbe stata oggetto di controllo governativo. Questo nuovo raggruppamento 8 politico prese prima il nome di Partai Muslim Indonesia (P.M.I.)3. Nel 1973, per volere di Suharto, si formarono tre schieramenti: Partai Persatuan Pembangunan (PPP) che comprendeva al suo interno tutti i movimenti islamici, Partai Demokrasi Indonesia (P.D.I.): un composto eterogeneo costituito da Cristiani, Protestanti e nazionalisti; infine il G.O.L.K.A.R. , partito che era appoggiato dal nuovo presidente. “Dopo l’eliminazione del PKI e di Sukarno, i partiti politici, soprattutto quelli islamici, erano gli unici che potevano opporsi al dominio politico militare dell’Ordine Nuovo. E’sotto questa luce, che la semplificazione del sistema partitico del 1973 può essere vista come un modo per delimitare l’opposizione politica attraverso la precisazione di cosa il Panca Sila sia, in termini di comportamenti e organizzazioni politiche consentite e tramite l’utilizzo di tale dottrina come una sua giustificazione e spiegazione”4. I NU (Nahdat’ul Ulama), avendo partecipato alla disintegrazione del PKI, contavano sulla concessione da parte del governo di privilegi e favoritismi politici, che invece furono pochi. Suharto, nonostante la disponibilità che i NU avevano cercato di dimostrargli, concepiva questo movimento come un possibile avversario politico dal quale difendersi. Temeva un incremento di attivismo musulmano verso nuove istanze, che si sarebbero mosse verso la creazione di uno Stato Islamico. Nel 1978, per assicurarsi un ulteriore controllo sui movimenti musulmani e ostacolare la possibilità che questi avessero una presa maggiore nel popolo, venne inaugurata una nuova politica chiamata P-4 che era l’abbreviazione di Pedoman Penghayatan dan Pengamalan Pancasila, ovvero guida alla comprensione e pratica del Panca Sila. Tutto ciò significava la realizzazione di corsi educativi, allo scopo di produrre una maggiore autocoscienza della filosofia nazionale, con un conseguente depauperamento delle religioni ed ideologie presenti in Indonesia. Tra il 1980 e il 1982 al P-4 venne affiancato un progetto di “pancasilazione”5: non solo i funzionari dovevano seguire gli insegnamenti in materia, ma ciò che causò dissidi e disapprovazione fu l’obbligo per ogni associazione e raggruppamento politico di aderire formalmente alla dottrina nazionale. Il mancato consenso avrebbe significato l’automatica auto-esclusione dalla scena politica e l’illegittimità del gruppo in questione. Questa adesione doveva rappresentare il conformarsi dei gruppi al Panca Sila, il quale sarebbe diventato la dottrina cardine fondamentale, a cui l’orientamento del movimento doveva adeguarsi. Questa nuova imposizione scatenò il disdegno di tutte le associazioni, soprattutto a carattere islamico. Secondo la loro opinione, l’inserimento di tale filosofia alla base delle proprie associazioni aveva come scopo quello di spogliare ulteriormente il loro carattere prettamente religioso e per questo motivo si rifiutarono di accettare tale costrizione. Tutti i dissidenti vennero politicamente eliminati, in questi anni ci furono numerosi moti di protesta che avevano come protagonisti attivisti musulmani e cristiani. Nel 1985 il NU cedette nuovamente alla volontà del governo ed aderì al Panca Sila e allo stesso tempo liberò gli associati dall’obbligo di votare solo ed 3 Andrée Feillard, “Les Aulémas indonesien aujourd’hui: de l’opposition à une nouvelle légitimité”, Archipel, 46, 1993, pp. 89-110 4 Douglas E. Ramage, op. cit, p. 30 5 François Raillan, “Islam et Ordre Nouveau au l’imbroglio de la foi et de la politique”, Archipel, 30, 1985, pp. 229-261 9 unicamente per il PPP. Grazie a questa mossa vi fu un periodo di distensione tra il NU e il GOLKAR. Questo clima di tranquillità era stato in un certo modo anticipato dall’inizio degli anni ’70. In questi anni era stata approvata una legge che legittimava il matrimonio religioso; le materie a carattere sacro erano state affidate al ministro dell’educazione e cultura; la corte suprema era stata abilitata a giudicare in cassazione secondo la legge islamica; infine vennero emanati dei decreti per facilitare la predicazione musulmana, limitando inoltre le opere missionarie cristiane ad opera di religiosi stranieri. Un altro importante passo di avvicinamento venne compiuto nel 1983 con la prima compilazione del diritto islamico indonesiano. Gli Ulama si opposero ad una codificazione, in quanto avrebbe significato avventurarsi in un’operazione che neanche lo stesso Muhammad aveva intrapreso. Per questo motivo si preferisce il termine “compilazione”; questa consisteva in una definizione del diritto islamico, il quale doveva essere doppiamente conforme: prima alla sharī‘a e poi, a parità di livello, al Panca Sila. Mentre gli Ulama continuavano ad opporsi all’esistenza di un diritto tipicamente indonesiano, alcuni giudici progressisti proponevano di esaminare i casi che di volta in volta fossero stati oggetto di una sentenza, utilizzando i valori presenti nella società indonesiana. Sorgeva cosi un ulteriore quesito, ovvero quello relativo a chi dovesse essere considerato sotto la giurisdizione della legge islamica. Questa discussione sorse anche in seno al comitato per la formazione dell’indipendenza. La frase che è stata più volte oggetto di dibattito è quella che afferma “l’obbligo per gli aderenti all’Islām di osservare la legge islamica”, nonostante queste dispute ricorrenti, non si è giunti ad una chiara definizione del problema. Questo argomento diventerà nuovamente spunto per nuovi dissidi, quando nel 1991 il Ministro del Culto annuncerà la proposta per l’approvazione di matrimoni interreligiosi. Il progetto verrà poi abbandonato per la sollevazione dei musulmani, i quali rifiutavano questa possibilità per paura di un ulteriore depauperamento dell’Islām. In seguito all’adesione dei NU al Panca Sila Suharno ebbe un doppio atteggiamento nei confronti dell’Islām. Da una parte, essendo la religione maggioritaria, vi era un apparente appoggio. Questo si esplicava in interventi volti a sovvenzionare le scuole islamiche, per esempio, a Java–Est il NU ottiene aiuti per creare nuove scuole. Questo supporto economico veniva offerto solo a istituti con insegnamenti moderati i progressisti, i quali non minavano la stabilità del Panca Sila, e quindi dello stato. Dall’altra parte le scuole che usufruivano delle sovvenzioni, erano alle stesso tempo soggette ad un maggiore controllo da parte dello stato. Questo aveva cosi la possibilità di intromettersi all’interno della loro organizzazione, ad esempio, le nomine degli insegnanti erano vincolate da scelte governative ad opera del ministro di culto. Sotto il suo controllo6 (i) avveniva la raccolta della zakat, la quale, secondo l’usanza, dovrebbe avvenire ad opera della comunità musulmana; (ii) veniva finanziata la costruzione di moschee e scuole; (iii) era regolato ogni aspetto del pellegrinaggio. La doppia politica era quindi, quella di mascherare il proprio 6 Marcel Bonneff, “Récentes ètudes et points de vue sur la mentalité javanaise et le probleme du développement national en Indonesie”, Archipel, 12, 1976, pp. 231-248. 10 controllo con delle azioni di sostegno formale, coadiuvate da movimenti di sempre maggiore propaganda della propria filosofia nazionale. Lo Stato e l’Islām erano in continua competizione in diversi ambiti, entrambi cercavano di penetrare nel campo dell’altro. Vi erano scuole pubbliche, private e musulmane; da una parte vi erano le leggi dello Stato che regolavano la vita degli indonesiani e dall’altro vi era il diritto islamico che disciplinava le relazioni tra musulmani e tra questi e non-musulmani. Infine Suharto cercava di penetrare nell’animo degli indonesiani attraverso il Panca Sila, ponendolo come dottrina al di sopra di tutte le religioni. L’Ordine Nuovo si occupava anche del pellegrinaggio verso La Mecca. Questo non era solo un momento di partecipazione ad uno dei Pilastri dell’Islām, era anche un momento di aggregazione di musulmani provenienti da tutto il mondo. Il governo temeva l’Hağğ per le opportunità di dialogo e di raffronto tra musulmani. Si temeva che la conoscenza di altre realtà potesse rinvigorire le istanze islamiche e minacciare la precaria situazione di equilibrio in Indonesia. L’influenza del governo si manifestava attraverso la regolamentazione rivolta verso tutto ciò che coinvolgeva il pellegrinaggio. Gli aiuti stranieri elargiti da paesi musulmani venivano filtrati dal governo (era necessario disporre di un’elevata somma di denaro per adempiere a questo pilastro), i passaporti non erano validi per l’Arabia nei periodi in cui si svolgeva l’Hağğ. A causa di tutti questi elementi, con l’aggiunta di un attento controllo sui passaporti, il numero ufficiale di pellegrini diminuì di quasi la metà, coloro che non riuscivano a partire legalmente erano cosi costretti ad effettuare il pellegrinaggio come clandestini. Una nuova crescita del numero dei pellegrini si ebbe dal 1972, durante un periodo di distensione tra le due parti nel quale il governo si era assicurato la collaborazione degli Ulama. Nel 1993, a seguito di un controllo sempre maggiore dello Stato, il NU invitò le proprie scuole a non accettare l’ingerenza governativa, arrivando addirittura a convertirle in private e poter cosi sfuggire al controllo del ministro del culto. I movimenti modernisti che erano aperti ai contatti con l’Occidente preferirono attuare dei corsi con un indirizzo più generale, i quali, fermo restando l’insegnamento religioso, avrebbero conferito una maggiore istruzione e preparazione per un’eventuale futura occupazione di cariche amministrative e politiche. Negli anni ’90 ci fu un avvicinamento di Suharto ai musulmani. La dimostrazione più significativa fu la visita del presidente indonesiano a La Mecca. Altre prove non meno importanti furono la fine della proibizione del velo indossato dalle ragazze nelle scuole pubbliche, la creazione di un’organizzazione di intellettuali musulmani (ICMI) e la ricerca di un’alternativa alla lotteria nazionale, in quanto ai musulmani è vietato giocare d’azzardo. In questo periodo si assiste ad un’islamizzazione crescente, attraverso lo sviluppo dell’insegnamento religioso, una più assidua presenza nelle moschee e soprattutto alla preghiera collettiva del venerdì. Questo periodo di armonia è frutto di vari compromessi da entrambe le parti. Ad esempio, il governo lanciò un corso di Panca Sila secondo l’Islām, tramite il BP7: un organismo di diffusione dell’ideologia nazionale. A questo punto è importante effettuare due puntualizzazioni. E’vero che lo stato non aveva più un carattere ostile verso l’Islām, ma è necessario operare delle distinzioni. Innanzitutto si deve rilevare che, mentre i gruppi più moderati hanno goduto in un certo modo della benevolenza del governo, i movimenti di estremismo 11 musulmano sono sempre stati condannati dallo stato. Questi infatti, erano fermi sulle loro posizioni, auspicavano l’istituzione di uno stato islamico, erano in uno stato incessante di lotta alla crescente cristianizzazione, criticavano la diffusione dell’economia di mercato e infine non erano disposti a compromessi o al dialogo. La seconda precisazione si attiene ad una differenza intrinseca tra i vari gradi di adesione all’Islām. Gli abangan, sono una componente sincretica che unisce a questa fede elementi di animismo e induismo. All’altra estremità troviamo i santri, i quali aderiscono pienamente alla forma pura dell’Islām, seguono fedelmente i cinque pilastri e bramano l’entrata in vigore della legge islamica e quindi la costituzione di uno Stato Islamico. Per questa loro caratteristica estrema costituiscono un pericoloso fattore disgregante, nonostante il loro numero conta su una ristretta minoranza. Infine, la stragrande maggioranza dei musulmani non aderisce pienamente alla fede Islamica, non adempiono le cinque preghiere giornaliere, il digiuno del Ramadan è più o meno seguito, per le sue origini pre-islamiche. I più elevati livelli di osservanza si colgono nell’effettuazione della circoncisione, nel matrimonio e nei riti legati alla morte. La ragione della preponderanza di questa categoria di musulmani, va ricercata nella scarsa, se non inesistente conoscenze dell’arabo, elemento essenziale per la lettura del Corano e poter cosi recitare le cinque preghiere giornaliere. Il governo di Suharto si concluse con le sue dimissioni, causate dall’aggravamento della crisi di Timor-est e iniziò un periodo di crisi politica indonesiana appesantita ulteriormente dal nuovo presidente Bacharudin Jusuf Habibie. La carriera del nuovo capo indonesiano fu molto breve, in quanto venne accusato di appropriazione di fondi pubblici e perciò precocemente destituito. Tuttavia, prima della sua estromissione al potere, questi permise al popolo di scegliere il suo futuro tramite referendum e dichiarò che il governo avrebbe accettato qualunque responso, ma i militari non concordavano con questa dichiarazione del presidente e lo dimostrarono ampiamente. Le forze armate non volevano assolutamente concedere l’indipendenza a Timor.est, non perché esso fosse ricco, non perché fosse un importante punto geostrategico, ma semplicemente per la paura delle ripercussioni che una simile concessione avrebbe avuto sul futuro assetto indonesiano e sull’autorità che poteva essere messa in discussione da altri gruppi minoritari, i quali, seguendo l’esempio di questo piccolo lembo di terra, avrebbero potuto avanzare ulteriori istanze separatistiche. Nel 1999 si tenne il referendum e nonostante i militari spaventarono e minacciarono la popolazione, l’80% di essi votò per l’indipendenza; a questo punto, non poterono certo accettare la sconfitta segnata dal referendum e ripresero le loro opere terroristiche, facendo in modo cosi di eliminare e far fuggire tutti coloro che erano legati al settore dei mass media, per poter compiere le loro angherie sulla minoranza di Timor Est e non essere controllati o meglio spiati dall’occhio indiscreto dei giornalisti. Il governo di Jakarta attuò una minima resistenza ai massacri che avvenivano in questa zona dello Stato, questi continuarono fino a quando non vennero accettati gli aiuti da parte dell’ONU tramite un contingente di pace. Con l’arrivo dell’ONU iniziò a formarsi una collaborazione tra quest’ultimo e il Consiglio Nazionale della Resistenza di Timor, “fino a diventare una sorta di governo 12 provvisorio.”7 La salita al potere di un presidente Islamico causò numerose aspettative da parte dei musulmani i quali auspicavano una maggiore presenza della propria fede all’interno delle istituzioni e della vita politica del paese, tuttavia Habibie decise di continuare lungo il sentiero precedentemente percorso da Suharto, ossia quello di mantenere l’equilibrio religioso, compiacendo i militari e garantendosi così il loro prezioso appoggio. La sua figura si affacciava al panorama indonesiano in un momento particolarmente difficile per il paese, il quale stava manifestando problemi di ordine pubblico, altri relativi alla crisi economica, al processo di transizione e assestamento democratico, non da ultimo infine le lacune di legittimità del suo mandato. Per tutti questi motivi la politica di questo presidente sarà caratterizzata da dei tentativi di bilanciamento tra le varie voci degli attori politici, interni ed esterni: le sue scelte dovevano essere sempre ben ponderate da una logica di giochi di potere. La lobby musulmana doveva essere accontentata in quanto poteva costituire la base del suo potere, ma questa da sola non sarebbe bastata, soprattutto per la questione dei finanziamenti da parte del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e quindi dell’occidente, per la ripresa economica. Allo stesso tempo però non poteva neanche concedersi la possibilità di avere un atteggiamento troppo filoamericano, in quanto aveva comunque bisogno dell’amicizia di paesi musulmani come ad esempio l’Arabia Saudita, questa sua esigenza è testimoniata dalle pacate risposte dell’Indonesia durante i bombardamenti americani del 1998 in Afghanistan, in Sudan e in Iraq, il paese all’epoca si tenne infatti a distanza da eventuali critiche o prese di posizione per gli accaduti. 8 Nel 1999 si svolsero nuove elezioni e salì al potere un islamico moderato Abdurrahman Wahid; il nuovo Presidente era un musulmano e nonostante ciò era un sostenitore del Panca Sila: “Senza il Panca Sila, noi cesseremo di essere uno stato. Il Panca Sila è l’insieme dei nostri principi e vivrà per sempre. E’ l’idea dello stato che ognuno di noi dovrebbe avere, un’idea per la quale lottare. E io difenderò questo Panca Sila con la mia stessa vita. E sarò incurante di quale gruppo cercherà di abusarne, sia che siano le forze armate ad apporre delle censure o se saranno i musulmani a manipolarne i contenuti”9; questo nuovo capo sembrava cosi incarnare lo spirito dei compromessi fino ad allora raggiunti tra i musulmani e il governo. Queste tornate politiche furono caratterizzate da un incremento di partiti politici partecipanti alla lotta elettorale con matrice islamica, ossia raggruppamenti che si dichiaravano musulmani o che erano sorretti dalla comunità di tale religione; allo scopo di distinguere queste due formazioni politiche sarà conveniente utilizzare le due diverse terminologie di gruppi islamici formali e informali10. Con il primo concetto si intende un partito politico che si richiama espressamente alla religione di Maometto e che quindi accoglie all’interno della sua specificità partitica l’identità musulmana, i due maggiori esponenti di questa categoria sono il PPP (Partai Persatuan Pembangunan)11 e PBB (Perserikatan Bangsa-Bangsa)12. Alla seconda 7 Elisa Querci, Timor Est: nascita di un nuovo stato, in Crescita Economica e Tensioni Politiche in Asia all’Alba del Nuovo Millennio, Il Mulino, Asia Major, 2000, p. 192 8 Sukma Rizal, Islam in Indonesian Foreign Policy, London, RoutledgeCurzon, 2003, pp. 84-90 9 Douglas E. Ramage , op. cit. , p. 45 10 Sukma Rizal, op. cit. p. 95 11 PPP - Partai Persatuan Pembangunan: United Development Party 13 categoria appartengono invece i partiti PKB (Partai Kebangkitan Bangsa)13 e PAN (Partai Amanat Nasional)14: questo tipo di formazioni preferisce mostrarsi nello scenario politico come portatore di una mentalità aperta alla collaborazione partitica, e privilegia la leva del pluralismo religioso piuttosto che quella dell’Islam; resta comunque di fatto che attingano anch’essi dalla base musulmana, ma a differenza della prima categoria evitano di fare diretto riferimento alla religione coranica nel loro programma politico. Questa scelta venne premiata nelle elezioni del 1999, in cui furono proprio questi due partiti, ad aggiudicarsi la maggioranza di seggi tra le formazioni religiose: come partiti islamici informali hanno un range maggiore di possibilità di cooperazione, possono infatti ricorrere alla matrice comune culturale e accordarsi con gli altri partiti formali, oppure possono anche scegliere la strada della collaborazione col le altre formazioni secolari; è stato proprio grazie a questa flessibilità che PKB e PAN sono riusciti insieme ad aggiudicarsi una porzione di seggi superiore a quella degli altri partiti a formazione islamica PPP e PBB.15 Partito PDI-P16 percentuale 33,7 GOLKAR PPP 22,4 10,7 PKB 12,6 PAN 7,1 PBB 2 tipologia Nazionalistasecolare laico Islamico formale Islamico informale Islamico informale Islamico formale seggi 154 120 59 51 35 13 Figura 1 – Distribuzione seggi in Indonesia nelle elezioni del 1999 Un’altra variabile da interpellare è la forte presa dei due partiti informali sulla popolazione indonesiana: entrambi sono infatti sostenuti dalle due maggiori organizzazioni musulmane, ossia Muhammadiyah e NU, rispettivamente sostenitori di PAN e PKB.17 Nonostante dal punto di vista della distribuzione dei seggi le elezioni del 1999 decretino la disfatta dei partiti a caratterizzazione religiosa, osservando l’andamento della scelta presidenziale le due tuttavia parti si riequilibrano. Il neo presidente, chiamato anche Gus Dur, esprimeva al meglio un punto d’incontro tra l’asse secolare e quello prettamente religioso, si costituiva in questo modo un nuovo centro politico che racchiudeva in se alcuni partiti a base 12 PBB - Perserikatan Bangsa-Bangsa PKB - Partai Kebangkitan Bangsa: National Awakening Party 14 PAN - Partai Amanat Nasional: National Mandate Party 15 Sukma Rizal, op. cit. p. 96 16 PDI-P - Partai Demokrasi Indonesia Perjuangan: Indonesian Democratic Party-Struggle 17 Sukma Rizal, op. cit. p. 97 13 14 islamica con orientamento modernista: l’Asse Centrale.18 La sua figura acquista ancora più importanza per quelli che saranno i risvolti della sua presidenza: musulmano moderato, presidente del NU e depositario convinto nella causa democratica porterà l’Indonesia alla fase di transizione democratica. Nel 1999 si tennero le prime elezioni libere (dopo la lunga parentesi del governo di Suharto a partire dal 1955), primo passo necessario per la democratizzazione del paese; purtroppo il suo mandato si distinguerà anche per un esercizio fallace del potere in senso personale, relegando in un angolo la figura del vicepresidente Megawati Sukarnoputri e conferendole solo un ruolo puramente accessorio. 19 Concentrandosi però sulle prerogative positive del suo governo, si noterà che la politica estera espressa da Gus Dur era soprattutto incentrata su due punti fondamentali: l’equidistanza e l’equilibrio nelle relazioni internazionali; si voleva in questo modo assicurare il non allineamento dell’Indonesia e la sua indipendenza,20 senza però per questo ledere la sua sfera d’azione, che non restava dunque legata a priori ad una scelta tra Occidente, Asia e Islam. Esplicitando la sua politica, Wahid iniziò ad avvicinarsi ad Israele,21 grande alleato degli USA, contando sull’eventualità di usare questo legame per un ulteriore rafforzamento del legame con gli statunitensi; dall’altra parte però si proponeva la contributo economica con l’Asia, affermando l’importanza che assumeva per il continente una simile politica ad ampiezza regionale. Tra i suoi obiettivi immediati vi erano i maggiori paesi asiatici, quindi Cina, Giappone e India, per raggiungere questo obiettivo si prodigò nell’organizzazione di meeting, visite ufficiali e conferenze stampa, lanciando messaggi a questi paesi. Infine, sempre allo scopo di onorare la sua politica di equidistanza e buone relazioni con tutti i paesi, il presidente si rivolse anche ai paesi del Medio Oriente, prestando però notevole attenzione alla formulazione dei principi di collaborazione, ossia non facendo mai riferimento esplicito alla comunanza religiosa che li legava.22 Questo limite è lo stesso che sempre si è riproposto e tuttora si ripropone nell’esplicazione e nello sviluppo dell’indirizzo della politica estera. Il fattore islamico, dato il suo radicamento nella popolazione indonesiana, costituisce una variabile che deve essere sempre tenuta in considerazione per l’attuazione delle linee politiche: a partire da Sukarno, tutti i presidenti hanno sempre dovuto tenerla presente nei loro calcoli politici ed è per questo che si è arrivati all’attuazione del principio precedentemente nominato della indipendenza e attività (debas-aktif): principio che risolve il problema della duplicità degli interessi del paese, ossia rispetto della identità islamica e della laicità dello stato, fusi insieme per riuscire a perseguire gli interessi di politica estera. Nel 2001 in presidente Wahid sarà sostituito dal leader nazionalista Megawati Sukarnoputri, tuttavia Gus Dur sarà ricordato come il primo ad aver battuto la strada della transizione democratica in Indonesia, 18 Ivi, p. 99 Bertrand Romain, “Indonésie: les défis du nouveau président”, Politique Internationale, n°106, hiver 2004-2005, pp.391-417 20 Indipendenza dal punto di vista economico, in quanto l’Indonesia si sentiva troppo legata all’appoggio del FMI, pertanto era necessario trovare nuovi investitori e nuovi appoggi sullo scenario internazionale 21 Yegar Moshe, “The Republic of Indonesia and Israel”, Israel Affairs, vol.12, n°1, January 2006, pp. 136-158 22 Sukma Rizal, op. cit. pp. 99-105 19 15 riuscendo a fondere la duplice identità del suo paese tramite il saggio bilanciamento degli interessi nazionali, scindendo la sua posizione ufficiale di leader del NU in favore della democratizzazione del paese: “leading proponent of secular democracy in Indonesia whose views are often more nationalist than they are explicity Islamic, Wahid strongly envisages the creation of a civil democratic society in Indonesia where all citizens enjoy equal rights regardless of their religious, race, and other origins, Wahid contends that democracy in multicultural and multi-religious society such as Indonesia, […] can only flourish in an environment of religious harmony and tolerance.”23 La salita al potere di Megawati fu orchestrata dallo stesso movimento politico che aveva portato in auge Wahid, ossia l’Asse Centrale: secondo l’accordo la neopresidente avrebbe dovuto sostenere la candidatura di un Vice-Presidente islamico, ossia Hamzah Haz del PPP; questa intesa rappresentava la nuova situazione che si stava formando in Indonesia, il leader nazionalista accordava il suo favore ad un esponente musulmano in quanto la preponderanza nella scena politica di questa religione stava crescendo sempre più. Si formava così l’era del matrimonio di interesse tra nazionalismo e islamismo: la presidenza di Sukarnoputri sarà ancor più caratterizzata dall’impronta dell’Islam e delle sue tematiche, come la nuova richiesta di integrazione della Carta di Jakarta del nella Costituzione Indonesiana del 1945. Questa rivendicazione procurò notevoli scosse al potere di Megawati, la quale aveva all’interno del suo governo ben due partiti islamici: il PPP e PBB, entrambi sostenevano tenacemente l’applicazione della suddetta carta, la quale avrebbe significato la sottomissione di tutti i musulmani alla sharia, ossia la legge islamica, tuttavia questa posizione non era comune agli altri partiti religiosi, come ad esempio il PAN, che mirava piuttosto ad una politica reale e non dipinta di simboli. Secondo questo partito l’inclusione della Carta di Jakarta non era infatti necessario, e preferiva anzi lasciare ai musulmani la possibilità di autoregolarsi scegliendo liberamente se sottostare o meno a tale legge; un simile atteggiamento era stata adottatao da altri partiti laici come il Golkar, PDI-P (il partito del presidente) e PKB, i quali ostacolavano maggiormente tale proposta. La vera sorpresa arrivò dalle due maggiori organizzazioni musulmane: ad ulteriore dimostrazione della tolleranza e apertura democratica dell’islam indonesiano, sia NU che Muhammadiyah si opposero all’imposizione della sharia sui musulmani. Per quanto riguarda la politica estera, anche il suo governo si basò sulla elaborazione di una rete diplomatica, a differenza del suo predecessore però Sukarnoputri prediligerà intessere legami regionali nel Sudest asiatico, con l’Asia Orientale e con paesi del Sud Pacifico. Tuttavia, a differenza dei governi precedenti sia i rapporti coi paesi arabi-islamici, sia quelli con il Medio Oriente saranno tralasciati in favore di una più stretta collaborazione con 23 Traduzione: “guida della democrazia secolare in Indonesia, le quali visioni sono più nazionaliste che esplicitamente islamiche, Wahid sostiene fortemente la creazione di una società civile democratica in Indonesia dove tutti i cittadini possano condividere pari diritti rispetto alla loro religione, razza e altre origini, Wahid asserisce che la democrazia in una società multiculturale e multireligiosa come l’Indonesia,[…] possa fiorire in un ambiente di armonia e tolleranza religiosa” vedi Sukma Rizal, op. cit. pp. 118-119 16 USA, FMI e la Banca Mondiale, soluzione necessaria per controbilanciare l’appoggio economico fornito dai primi e compensato dai secondi. Le ultime elezioni svolte in Indonesia risalgono al 2004, in questa occasione si utilizzò un nuovo sistema elettorale di nomina semi-diretta (atto a sostituire il precedente metodo indiretto), sia per i membri dei corpi legislativi che per il presidente e il suo vice. L’elettorato attivo aveva così a disposizione una lista aperta a sistema proporzionale per il potere legislativo, il voto singolo non trasferibile per il Concilio dei Rappresentanti Regionali, Dewan Perwakilan Daerah (DPD), infine il sistema a doppio turno maggioritario per l’elezione del Presidente.24 Sarà il generale Susilo Bambang Yudhoyono (SBY), a salire al potere come presidente, il suo programma politico era totalmente incentrato nell’imprimere una decisa svolta democratica al paese, per cui era precipuo attuare i seguenti cinque punti prioritari: i. lotta alla corruzione tramite un movimento nazionale guidato dalla leadership nazionale; ii. attuare fermamente lo stato di diritto; iii. investire nello sviluppo delle risorse umane per il futuro; iv. adottare politiche economiche razionali miranti ad una crescita per creare migliori occupazioni per la maggior parte del popolo; v. consolidare il processo democratico.25 L’elezione di Susilo Bambang può apparire inusuale all’occhio occidentale, normalmente le preferenze parlamentari rappresentano e si riflettono nella scelta del Presidente dello Stato,26 in Indonesia invece la comunanza dello stesso colore partitico non si manifesta, si era già verificato con le elezioni di Wahid, ed ora si è ripresentato nel 2004. Controllando le due tabelle (fig.2 - fig.3) è possibile rilevare le differenze di risultati ottenuti nelle votazioni a livello legislativo nazionale e quelle a livello presidenziale. Il partito del Golkar continua a dominare nelle elezioni legislative come in passato, la sua forza però viene ancora una volta oscurata nelle presidenziali, dove sarà il partito democratico Partai Demokrat (PD) di Susilo a primeggiare. Una spiegazione a questa tendenza è da ritrovare nella diversa tempistica dello svolgimento delle votazioni: il popolo cerca di equilibrare le scelte legislative con quelle presidenziali; inoltre il sistema a doppio turno concede un ribilanciamento delle scelte facendo convergere quindi in soli due candidati le possibili opzioni. La presidenza dei SBY, per evitare la ripetizione di concetti verrà approfondita meglio nel paragrafo dedicato alla democratizzazione, in questa sede verranno semplicemente forniti degli spunti per l’analisi successiva, offerti da uno dei più attenti osservatori dello scenario politico, sociale e difensivo dell’Indonesia: Harry Tjan Silalahi.27 Il nuovo sistema elettorale grazie al suo metodo semidiretto permette al popolo di iniziare a familiarizzare coi candidati, supportando così un primo nucleo di accountability e responsiveness ossia quel rapporto che si instaura tra elettorato attivo e passivo, per mezzo del quale quei rappresentanti capaci di rispondere positivamente alle aspettative del popolo votante 24 Legowo, T.A., “The 2004 General Elections”, The Indonesian Quarterly, vol. XXXII n°3, third quarter, 2004, pp. 232-234 25 Soesastro Hadi, “ASEAN Economic Community: Ideas, Significance and Feasibility”, The Indonesian Quarterly, vol. XXXI n°3, third quarter, 2003, pp. 321-328 26 Mi riferisco ai sistemi presidenziali, nei quali il partito maggioritario è anche il partito del Presidente 27 Harry Tjan Silalahi: è uno dei membri fondatori di “Centre for Strategic and International Studies” (CSIS), già negli anni 50’ ha contribuito nell’elaborazione di politiche interne, anche tramite la produzione di numerosi articoli in riviste, pubblicazioni e libri 17 saranno premiati con una rielezione nelle successive votazioni, viceversa accadrà invece per coloro i quali non rispetteranno i punti del programma per il quale sono stati eletti; secondo Silalahi dunque l’Indonesia sta compiendo numerosi passi verso la democratizzazione, sarà però precipuo per i governanti mostrare la volontà di attuare effettivamente dei cambiamenti, come una ulteriore crescita della partecipazione popolare della società civile, uno sviluppo dell’imparzialità dello stato di diritto e maggiore accountability delle istituzioni rappresentative.28 Primo Turno Voti % Secondo Turno Voti % Candidati Partiti Susilo Bambang Yudhoyono Democratic Party 36,051,236 33.58 67,196,112 60.9 Megawati Sukarnoputri Indonesian Democratic Party-Struggle 28,171,063 26.24 43,198,851 39.1 Wiranto Golkar 23,811,028 22.18 - - Amien Rais National Mandate Party 16,035,565 14.94 - - Hamzah Haz United Development Party 3,275,011 3.06 - - Totale 106,228,247 100.0 110,394,163 100.0 Figura 2: Risultati delle elezioni politiche presidenziali del 2004 in Indonesia29 28 Silalahi Harry Tjan, “Towards a new Political Environment”, The Indonesian Quarterly, vol. XXXII n°3, third quarter, 2004, pp. 235-236 29 Fonte: KPU http://www.kpu.go.id/ 18 Partiti Voti % Seggi Golkar (Partai Golongan Karya) 24,480,757 21.6 128 Indonesian Democratic Party-Struggle (Partai Demokrasi Indonesia Perjuangan) 21,025,991 18.5 109 National Awakening Party (Partai Kebangkitan Bangsa) 11,994,877 10.6 52 United Development Party (Partai Persatuan Pembangunan) 9,248,265 8.1 58 Democratic Party (Partai Demokrat) 8,455,213 7.5 57 Prosperous Justice Party (Partai Keadilan Sejahtera) 8,324,909 7.3 45 National Mandate Party (Partai Amanat Nasional) 7,302,787 6.4 52 Crescent Star Party (Partai Bulan Bintang) 2,970,320 2.6 11 Reform Star Party (Partai Bintang Reformasi) 2,763,853 2.4 13 Prosperous Peace Party (Partai Damai Sejahtera) 2,425,201 2.1 12 Concern for the Nation Functional Party (Partai Karya Peduli Bangsa) 2,398,117 2.1 2 Justice and Unity Party (Partai Keadilan dan Persatuan din Indonesia) 1,423,427 1.2 1 19 United Democratic Nationhood Party (Partai Persatuan Demokrasi Kebangsaan) 1,313,654 1.2 5 Freedom Bull National Party (Partai Nasional Banteng Kemerdekaan) 1,230,455 1.1 1 Pancasila Patriots' Party (Partai Patriot Pancasila) 1,073,064 0.9 - Indonesian National Party Marheanism (Partai Nasional Indonesia Marhaenisme) 922,451 0.8 1 Vanguard Party (Partai Pelopor) 897,115 0.8 2 Indonesian Nahdlatul Community Party (Partai Persatuan Nahdlatul Ummah Indonesia) 895,566 0.8 - Indonesian Democratic Vanguard Party (Partai Penegak Demokrasi Indonesia) 855,218 0.7 1 Freedom Party (Partai Merdeka) 841,821 0.7 - Indonesian Unity Party (Partai Sarikat Indonesia) 679,296 0.6 - New Indonesia Alliance Party (Partai Perhimpunan Indonesia Baru) 672,952 0.6 - Regional United Party (Partai Persatuan Daerah) 657,907 0.6 - Social Democrat Labour Party (Partai Buruh Sosial Demokrat) 635,182 0.6 - 20 Totale 113,488,398 - 550 Figura 3 Risultati delle elezioni politiche legislative del 2004 in Indonesia30 2.1.2 Malaysia La Malaysia è una Federazione composta da tredici stati ed è suddivisa in due blocchi geografici costituiti dalla Penisola Malese, detta anche Malaysia Occidentale, e dal Borneo Malese, ovvero Malaysia Orientale, quest’ultimo occupa la parte settentrionale dell’Isola omonima. La sua popolazione, di cui 21,890 mila cittadini malesi (ossia il 94,1%) si divide dal punto di vista etnico in Bumiputra31 65,1%, cinesi 26.0% e indiani 7.7%, ma non solo, anche all’interno di questo territorio coesistono diversi culti, primo tra tutti l’Islam, elevato a religione ufficiale dello stato e professato dal 60,4% della popolazione32, accanto ad esso trovano tuttavia posto Buddismo 19,2%, Cristianesimo 9,1%, Induismo 6,3%, una piccola parte ed esattamente il 2,4%33 dei cittadini si divide tra animismo, Sciamanesimo, Bahá'ísmo, Sikhismo, mentre il 2,6% ha mantenuto delle tradizioni cinesi non propriamente religiose, come il taoismo e il confucianesimo che è per l'appunto un’ideologia. La Malaysia è uno stato in evoluzione democratica, pertanto le sue strutture istituzionali e politiche non sono ancora del tutto delineate, ma oscillano tra forme di monarchia costituzionale, democrazia parlamentare e unione federale;34 inoltre la realtà multiculturale e l’eterogeneità della popolazione non semplificano il quadro e contribuiscono anzi a complicarne ancora di più i possibili sviluppi. Facendo un piccolo passo nel passato coloniale della regione, lo scenario era notevolmente diverso: infatti questo stato godeva di una grande eterogeneità etnica e l’Islam era una religione tra tante, fu solo in seguito a delle politiche coloniali inglesi di trasferimento di forza lavoro cinese e indiana che il panorama iniziò a cambiare. L’immissione di nuovi lavoratori e soprattutto la preferenza degli inglesi ad adoperare questi due gruppi etnici creò il discontento nella popolazione malese, la quale si sentiva (a ragione) ingiustamente discriminata ed etichettata come forza lavoro secondaria, secondo fallaci teorie razziali che sostenevano presunte peculiarità genetiche di pigrizia proprie dei malesi. Non solo, il Regno Unito attuò anche una politica di 30 Fonte: KPU, annuncio del 5 maggio 2004, vedi Legowo, op. cit., pp. 232-234 Bumiputra: dopo l’inclusione delle province di Sabah e Sarawak nella Federazione della Malaysia i malesi e le popolazioni indigene sono state raggruppate all’interno di questa categoria. Vedi Kamarulnizam Abdullah, The Politics of Islam in Contemporary Malaysia, Bangi, Penerbit Università Kebangsaan Malaysia, 2003, pp. 15-17 32 I dati si riferiscono al censo del 2000 ad opera del Dipartimento Statistico della Malaysia 33 Fonte: http://www.statistics.gov.my/english/frameset_census.php?file=pressdemo 34 Shanti Nair, Islam in Malaysian Foreign Policy, London e Singapore, Routledge and ISEAS, 1997, p. 15 31 21 divisione religiosa in diverse zone urbane secondo la quale i musulmani occupavano le aree rurali, gli hindi detenevano le aree di coltivazione del caucciù, infine ai buddisti spettavano i distretti industriali.35 Questo atteggiamento preferenziale unito alla tipica politica del “divide et impera” furono la causa delle lotte intestine alla società di allora, le quali conseguenze si ripercuotono tuttora negli attuali problemi di integrazione in Malaysia: i malesi iniziarono a chiudersi nella loro identità sottolineando le differenze culturali rispetto ai nuovi arrivati, e fu proprio in seguito a questa presa di coscienza socio-religiosa che l’Islam si affermò come segno di distinzione affondando le sue radici nella malayness36, ossia l’interiorità malese.37 La paura di perdere la propria individualità e le proprie tradizioni spinsero i tre gruppi etnici ad estremizzare i propri confini culturali, costruendo delle barriere tra il “se” e “l’altro”: da una parte i malesi cominciarono cosi a richiedere la difesa dei propri diritti che reclamavano in qualità di antichi proprietari e abitanti della regione e come tali dovevano godere di un trattamento preferenziale da parte dell’amministrazione coloniale, dall’altra parte cinesi e indiani esigevano il riconoscimento di uno status paritario per aver abbandonato la propria terra al fine di servire gli scopi inglesi.38 Questa situazione perdurò fino alla Seconda Guerra Mondiale, quando l’occupazione giapponese mutò le dinamiche interne ai rapporti tra i gruppi etnici: i nipponici, a differenza degli inglesi, attuarono politiche discriminatorie nei confronti dei cinesi, i quali nei casi peggiori divennero anche vittime di torture, mentre ai malesi venivano accordati favori e spinti all’elaborazione ed espressione di programmi politici per la propria indipendenza. La rottura decisiva tra i gruppi si verificò a conclusione dell’occupazione giapponese, quando i cinesi richiedendo l’appoggio inglese cercarono di ostacolare i movimenti indipendentisti che si stavano sviluppando tra la popolazione malese.39 Negli anni 50’ si sviluppò un’ondata di politicizzazione dell’Islam: il Regno Unito accortosi della forte penetrazione di questa fede all’interno della società malese, decise di rivedere le sue posizioni e di adottare un’apertura verso i musulmani, agevolando i pellegrinaggi verso La Mecca e permettendo l’insegnamento islamico nelle scuole pubbliche vernacolari. Gli anglosassoni speravano che, attraverso il conferimento di una certa autonomia e libertà ai musulmani, fosse possibile mantenere un certo livello di pace sociale, ma la continua immissione di manodopera cinese nella regione aveva portato questi ultimi ad essere nel 1947 il gruppo dominante all’interno del territorio, con un 45%, mentre malesi costituivano il 43,5% e gli indiani il 10%.40 A questo punto il piano si rivoltò contro i 35 Barbara Watson Andaya e Leonard Andaya, “A History of Malaysia”, London, MacMillan Asian Histories, 1982, pp. 33-37 36 Malayness: in epoca coloniale l’identità malese era il fattore di distinzione tra le varie razze, ma con l’indipendenza e l’acquisizione della cittadinanza malese questo criterio non era più sufficiente, è proprio per questa ragione che in Malaysia religione e razza, a differenza di altri paesi, coincidono: “Una volta che un individuo si definisce come malese, virtualmente si considera sempre automaticamente musulmano” Vedi: Kamarulnizam Abdullah op.cit. pp. 65-66 37 Kamarulnizam Abdullah, The Politics of Islam in Contemporary Malaysia, Bangi, Penerbit Università Kebangsaan Malaysia, 2003, pp. 29-33 38 Kamarulnizam Abdullah, op. cit. pp.32-33 39 Barbara Watson Andaya e Leonard Andaya, op.cit. pp. 42-49 40 Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, Les musulmans d’Asie du Sud-Est face au vertice de la radicalisation, Paris, IRASEC – Les Indes Savantes, 2003, p. 23 22 suoi stessi creatori: l’Islam, approfittando degli spiragli di emancipazione offertigli dall’Inghilterra, divenne forza politica fondendosi al movimento nazionalista per l’indipendenza malese. Già a partire dagli anni 40’ alcuni ulama avevano aderito a dei movimenti congiunti tra il nazionalismo e ideali religiosi, la madre patria inglese non aveva fatto altro che fornire loro la legalità d’azione. La prima formazione partitica malese emerse nel 1946 col nome di UMNO (United Malays National Organization), negli anni successivi il panorama politico cominciò a popolarsi di nuove forze: nel 1947 nacque Hizbul Muslimin, mentre il primo gruppo aveva finalità nazionaliste, questo secondo partito mirava all’indipendenza tramite l’istituzione di uno stato islamico (Darul Islam) rispondente quindi alla legge coranica. Il vero avversario dell’UMNO sarà il PAS (Parti Islam Se-Malaysia)41 che accoglieva al suo interno un raggruppamento di leader religiosi.42 Nonostante la forte presa della fede coranica sulla popolazione, sarà l’alleanza dei tre gruppi etnici a vincere le prime elezioni federali del 1955, accanto alla UMNO nacquero MIC (Malayan Indian Congress) e la MCA (Malaysian Chinese Association), che rappresentavano rispettivamente il gruppo indiano e quello cinese. Le tre organizzazioni diedero vita all’Alliance Party conquistando 51 su 52 seggi disponibili nel consiglio legislativo, due anni più tardi verrà proclamata l’indipendenza della Federazione Malese: inizialmente costituita da 11 Stati, nel 1963 si uniranno Sabah, Sarawak e Singapore.43 Nel 1957 entrò in vigore la Costituzione del neo Stato, questa era stata oggetto di numerose discussioni, soprattutto sui punti caldi relativi a cittadinanza, lingua, religione, ed eventuali privilegi per i malesi, alla fine si giunse ad un compromesso politico nella quale il primo e l’ultimo punto furono usati come merce di scambio per accontentare tutte le parti in causa secondo lo schema “win-win”. Per quanto riguarda i primi due punti si decise di concedere la cittadinanza a tutti coloro nati nel territorio a partire dall’indipendenza, e l’utilizzo del malese Bahasa Malaysia come lingua ufficiale, con l’attenuante dell’inglese collocato accanto ad essa in funzione di lingua franca. Le ultime due questioni furono quelle più spinose. Ai Malesi vennero accordati dei privilegi, tuttavia per poterne godere venne definito giuridicamente lo status di Malese, un individuo per essere riconosciuto tale doveva corrispondere ai seguenti criteri: doveva essere musulmano, parlare il Bahasa Malaysia abitualmente ed conformarsi alla Consuetudine malese.44 Infine, collegato a quest’ultima fonte di dissidio, l’Islam venne elevato a religione nazionale, garantendo però allo stesso tempo la libertà di espressione per gli altri culti, i non-musulmani tuttavia non avevano la facoltà di effettuare opere di proselitismo nei confronti dei musulmani, mentre a questi ultimi invece non erano fatti gli stessi limiti.45 Il primato religioso non significava automaticamente la costituzione di uno Stato Islamico,46 era stato reputato necessario conservare le 41 PAS: venne fondato nel 1951, inizialmente assunse il nome di PMIP (Pan-Malayan Islamic Party) per poi cambiare nell’attuale PAS 42 Shanti Nair, op. cit. pp. 15-19 43 L’inclusione di Singapore ebbe vita breve, nel 1965 questo Stato si separò dichiarandosi indipendente dalla Federazione 44 Costituzione della Malaysia, 1957, art. 160, comma 2 45 Ivi, art. 3, comma 1 46 Ivi, art. 3 23 distanze tra l’elemento secolare e quello religioso, al fine di mantenere l’equilibrio già precario all’interno della società civile. Nei primi anni della sua esistenza la Federazione dovette far fronte a episodi sanguinosi: in occasione delle elezioni del 1969 i partiti di opposizione cinesi organizzarono delle parate dimostrative che degenerarono in manifestazioni aperte di disprezzo verso i malesi, il giorno dopo (12 maggio) venne disposta una contromanifestazione che diede luogo a lotte razziali, incendi, e uccisioni. Entrambi i gruppi etnici diffidavano l’uno dell’altro, soprattutto a causa della Costituzione i nonmalesi si sentivano defraudati degli stessi diritti concessi agli antichi abitanti della regione, mentre questi ultimi erano minacciati dal continuo aumento della presenza sinica, il governo dall’altro canto non disponeva della necessaria risolutezza per superare questi pregiudizi razziali.47 Il 1970 segnò un nuovo corso per la forza Islamica, sarà infatti a partire da questo anno che venne inaugurata una nuova politica economica, la DAB (Dasar Ekonomi Baru)48 la quale verteva sull’immissione graduale dei bumiputra49 nel capitale delle imprese nazionali, precedentemente alla NEP infatti, il potere economico era nelle mani dei cinesi: con questa misura si voleva effettuare un tentativo per colmare il divario sociale tra i gruppi etnici.50 Data l’identità tra l’essere malese (secondo la definizione della Costituzione) e l’essere musulmano, il nuovo orientamento economico era ovviamente rivolto alla valorizzazione delle suddette due specificità, grazie ad esso prese piede una fase di risveglio islamico. Se infatti le posizioni chiave venivano assegnate ai bumiputra e se questi erano in maggior parte musulmani, allora i quadri avevano in mano lo strumento di empowerment della loro categoria etnico-religiosa.51 Allo stesso tempo cominciavano a fiorire nuovi movimenti di rinascita islamica raggruppati sotto la denominazione di dakwah: questo fenomeno prettamente malese, sorto in seno alle nuove università istituite grazie alla NEP, deriva il suo nome dall’arabo da’wa che letteralmente significa chiamata, e rappresenta un’esortazione all’umanità ad abbracciare l’Islam.52 In questa sede mi limiterò a citare le tre organizzazioni che maggiormente si distinsero nello scenario di questa corrente, successivamente verranno analizzate nei paragrafi seguenti, ossia: Darul Arqam53, ABIM (Angkatan Belia Islam Malaysia)54 e PAS (Party Islamic SeMalaysia).55 I movimenti interni alla Dakwah non erano sicuramente immuni dalle vicissitudini internazionali ed anzi attinsero forza nuova dall’ondata di islamizzazione sprigionata in seguito alla Rivoluzione Iraniana, dalla corruzione culturale, dall’oil factor e dalla rapida modernizzazione che stava sperimentando il continente asiatico.56 Il governo malese 47 Barbara Watson Andaya e Leonard Andaya, op.cit. , p. 49 48 DAB detta anche NEP (New Economic Policy) 49 Bumiputra: figli del suolo 50 Haneef Mohamed Aslam, “Islam and Economic development in Malaysia – A reappraisal”, Journal of Islamic Studies, vol. 12 n° 3 september 2001, pp. 269-290 51 Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, op. cit. pp. 23-25 52 Stark Jan, “The Islamic debite in Malaysia: the unfinished project”, South East Asia Research, vol. 11 n°2, July 2003, pp. 173-201 53 Darul Arqam – Casa Arqam 54 ABIM - Angkatan Belia Islam Malaysia – Movimento della Gioventù Islamica Malese 55 PAS - Party Islamic SeMalaysia – Partito Islamico Panmalese 56 Kamarulnizam Abdullah, op. cit. pp. 52-59 24 non era riuscito ad attuare gli obiettivi della NEP, soprattutto a causa dell’incapacità dirigenziale delle agenzie preposte alla sua implementazione e alla corruzione che regnava nella leadership, la dakwah approfitterà della situazione per infliggere dure accuse all’integrità dell’autorità governativa, la quale aveva stretto dei legami con associazioni di scommesse (lotterie nazionali e corse di cavalli, attività che erano interdette ai musulmani). Ormai negli ambienti universitari regnava la disillusione e la sfiducia nelle istituzioni, la NEP aveva creato opportunità di studio all’estero per studenti malesi e questa apertura aveva però creato un senso di inferiorità per coloro che intraprendevano tali viaggi si formazione: la mancata conoscenza delle lingue e la differenza di stili di vita rafforzarono ancora di più il revival islamico, creando l’idea che l’Islam fosse l’unico mezzo su cui gli studenti insoddisfatti potessero contare. Oltretutto il contatto con altri studenti islamici all’estero produsse degli scambi di idee e la successiva presa di coscienza che lo Stato Malese non fosse effettivamente islamico e come tale avrebbe dovuto essere riformato, un’altra volta la dakwah si avvantaggiava del panorama internazionale: l’Islam infatti non effettua distinzioni di razza o lingua o cittadinanza, in quanto racchiude all’interno della sua bandiera tutti i musulmani di qualunque nazione. Anche la sconfitta araba del 1967 contro Israele concorse al rafforzamento del fenomeno: questa disfatta aveva incrementato la solidarietà tra paesi islamici fin tanto da spingere la Malaysia a partecipare all’OIC (Organisation of Islamic Conference), come membro e in qualità di paese a maggioranza islamica era pertanto obbligata a supportare la causa del ritorno alla Città Santa; inoltre negli anni 70’ la dakwah godrà anche di aiuti economici da parte della Libia per sussidiare attività islamiche malesi. In questo periodo la federazione iniziò a tagliare le relazioni con Israele, boicottando attività di import/export in questa direzione, questo passaggio culminò con l’ingresso nell’OPEC nel 1973.57 A questo punto la presa musulmana sulla società civile, economica e politica era totale, il movimento dakwah continuava a proliferare ed era talmente permeante che il governo malese decise di porsi esso stesso come veicolo d’espansione dell’Islam, accrescendo così la sua legittimazione al potere. A differenza dell’Indonesia di Suharto, l’amministrazione malese cercò di seguire una politica di non-confrontation e di accomodamento con la religione Coranica, laddove il governo indonesiano ostracizzava l’affermazione dei movimenti musulmani, giungendo addirittura all’abolizione di tutti i partiti tranne il GOLKAR e il PPP (che inglobava tutti gli schieramenti islamici), la Malaysia invece si faceva esso stesso Islam.58 All’interno della dakwah l’ABIM fu negli anni 70’ uno dei movimenti più attivi nel panorama islamico, il suo obiettivo era quello di rinforzare il ruolo della fede in Allah all’interno però di un contesto moderno. Poco avvezzi a pratiche missionarie, preferivano concentrarsi sugli aspetti della vita di tutti i giorni del musulmano: i valori islamici persi dovevano essere riscoperti con la pratica religiosa e con la reintroduzione dei principi culturali applicati alla vita mondana; i loro programmi puntavano perciò sull’educazione e sull’adesione al modello capitalistico occidentale, a patto però di mantenere i valori islamici. 57 58 Ivi, pp.71-77 Hoffman Nathalie, “La Malaisie”, Questiones Internationales, n°10 nov/déc 2004, pp. 101-108 25 Nel 1981 un membro dell’UMNO salì al potere in qualità di Primo Ministro59: Mahathir Mohammed, appena stabilito al governo impresse immediatamente un indirizzo di islamizzazione, promovendo valori musulmani nella società malese; l’anno successivo, nuova linfa venne infusa a tale processo tramite la collaborazione di Anwar Ibrahim uno dei fondatori dell’ABIM, nonché frutto del movimento universitario dakwah. La collaborazione di queste due figure introdusse una sferzata di vitalità al programma del governo, fu proprio in questo periodo che ebbero luce delle istituzioni atte all’implementazione dell’islamizzazione: la prima e più importante fu un comitato consultivo islamico il cui ruolo era quello di vagliare che ogni piano o politica varata dal governo non fossero contrari ai principi islamici60, ad esso seguirono un collegio per la formazione di insegnanti musulmani (1982), l’Università Internazionale Islamica (1983), la Banca Islamica (1984), la Fondazione per lo Sviluppo Islamico (1984), la Compagnia di Assicurazione Islamica (1985), senza contare l’introduzione dell’educazione islamica nel sistema scolastico nazionale.61 Anche l’economia venne fatta permeare da ideali islamici, ritenuti la base per lo sviluppo economico della regione: nei piani che vennero elaborati da questo governo si elencavano gli obiettivi di ripresa economica, modernizzazione della stessa e la riduzione delle disparità economico-sociali tra le etnie. Tuttavia il fallimento della riduzione della povertà all’interno del paese creò delle crepe nella credibilità dell’amministrazione pubblica, un altro movimento dakwah approfittò di queste falde per incrementare la sua presa sulla società malese: il PAS. Questo movimento era molto più radicale e rigido rispetto al precedente: auspicava la creazione di uno stato musulmano rispondente solo e unicamente alla sharia, queste sue posizioni estreme screditarono l’islamicità dello stato malese. Secondo il suo punto di vista, le politiche di islamizzazione professate dal governo non erano reali, e non potevano essere infuse dal vero spirito musulmano, in quanto non erano rappresentate da uno Stato a Costituzione islamica; la nefasta combinazione dell’insuccesso delle scelte economiche e delle critiche alla autenticità religiosa contribuirono ad attrarre le simpatie del popolo verso questa organizzazione. Inoltre nel 1982 questo partito sperimentò una trasformazione in seno alla sua composizione: la vecchia guardia nazionalista venne estromessa e sostituita da una nuova leadership costituita in maggior parte da ulama; questo cambiamento coincise con la crescente adesione dei malesi musulmani all’addin ossia il dodus vivendi islamico, il quale doveva permeare in tutte le sfere da quella privata a quella pubblica.62 Ritornando alla NEP è tuttavia necessaria una precisazione: il sistema non aveva fallito completamente, ma solo in parte; i suoi risultati infatti non si erano estesi a tutta la popolazione, ma avevano creato una nuova categoria sociale accanto a quella cinese: la middle class malese, che prendeva il nome di Melayu Baru (nuovi malesi). Questa categoria aveva beneficiato di aiuti finanziari e dell’opportunità offerte dalle 59 In Malaysia il Primo Ministro è il Capo del Governo, mentre il potere esecutivo è esercitato dal Governo 60 Haneef Mohamed Aslam, op. cit. pp. 278-279 61 Nair Shanti, op. cit. , pp. 33-35 62 Liow Joseph Chinyong, “Political Islam in Malaysia: Problematising Discorse and Practice in the UMNO-PAS <Islamisation Race>”, Commonwealth & Comparative Politics, vol.42, n°2, july 2004, pp. 184-205 26 università, sorte grazie alla NEP, diventava cosi essa stessa una classe borghese che si collocava accanto alla presenza sinica che fin dal periodo coloniale aveva ricoperto posizioni chiave nello scenario economico del paese e che adesso era pronta ad usurparne il posto.63 Il periodo temporale tra la fine degli anni 80’ e per tutto il decennio dei 90’ fu teatro di scontri ideologici tra il governo e il PAS: entrambi volevano essere riconosciuti come i depositari del vero Islam; a tal fine questo movimento radicale aveva anche tentato di prevaricare sullo stato attraverso la costruzione di un fronte comune per la difesa dei valori della fede coranica: la Barisan Islamiah che raggruppava al suo interno tutti i partiti malesi musulmani. Il biennio 1987-88 contribuì ad infliggere un altro colpo alla stabilità dell’UMNO, lotte interne alla sua maggioranza divisero l’organizzazione in due fazioni, una quella di Mahathir veniva reputata quella in cui l’Islam era maggiormente radicato, l’altra criticava la gestione del governo da parte del Primo Ministro, il quale veniva accusato di prendere decisioni unilateralmente senza consultare adeguatamente l’UMNO e di non aver prestato un’appropriata attenzione al fallimento della NEP nei confronti del popolo minuto. Fu per questi dissidi interni che, in seguito alla dichiarazione di illegalità dell’UMNO effettuata dall’Alta Corte di Kuala Lumpur, si formarono due diversi schieramenti: UMNO Baru con a capo Mahathir e l’altra UMNO Malaysia. Nelle elezioni del 1990 e 1995 il PAS si alleò con Segamat, riuscendo così a conquistare il controllo nello stato del Kelantan, un importante appello venne lanciato verso l’elettorato: quello di utilizzare il proprio diritto di voto come parte del jihad per far crollare il governo.64 Lo scontro passava dal livello regionale a quello nazionale, e verteva sui finanziamenti alle scuole islamiche di Kelantan, sullo sviluppo economico e sull’autorità dell’UMNO che era continuamente minacciata dai continui tentativi del PAS di prevaricare sul governo. Questa situazione da una parte deteriorava ulteriormente i già difficili rapporti tra governo centrale e periferia, mentre dall’altra spingeva l’amministrazione di Mahathir all’elaborazione di nuovi programmi politici per una maggiore inclusione dell’Islam. Un esempio della sopraccitata politica è l’inaugurazione nel 1991 della Wawasan 2020 (Visione 2020), ossia un piano che prevedeva la modernizzazione economica del paese da compiersi nell’arco di 30 anni nel pieno rispetto dei valori islamici predicati dall’UMNO; in questo modo si intendeva avversare i principi del diretto avversario del governo, il quale portava avanti un Islam troppo rigoroso e fondamentalista. Fu inaugurata un’era di apertura verso l’Occidente, dal quale si potevano ottenere tra l’altro nozioni tecnologiche utili allo sviluppo economico, si puntava ad una rapida modernizzazione del paese (sempre confacente ai principi islamici) il governo cercò anche di attrarre gli investimenti esteri tramite agevolazioni dei tassi di interesse. I principi della NDE, successa alla NEP, fecero sperimentare alla Malaysia degli interessanti trend di crescita fino al 1997, anno in cui subentrò la crisi economica per numerose Tigri 63 64 Jan Stark, op. cit. 186-187 Noor Farish A. , “The localization of Islamist Discorse”, in Editor Hooker Virginia e Othman Norani, Malaysia: Islam, Society and Politics , Singapore, ISEAS Series on Islam, Institute of Southeast Asian Studies, 2003, pp. 197-235 27 Asiatiche.65 Questi risultati positivi fecero sperare nell’esistenza di una nuova via per il progresso, un modello che avrebbe potuto servire per i paesi in via di sviluppo.66 Nel 2003 Mahathir si ritirò dalla carica di Presidente dell’UMNO, Abdullah Ahmad Badawi gli succedette sia in questa carica che come Primo Ministro, la sua popolarità e la ripresa economica gli procureranno la vittoria nelle elezioni del 2004 imponendosi anche sull’antico rivale PAS. 2.2 Islam e Politica 2.2.1 Pancasila Il termine Pancasila nasce formalmente al concludersi della seconda guerra mondiale, ma trae le sue radici in tempi molto lontani, quando non esisteva ancora una discriminazione conflittuale tra le varie religioni all’interno degli antichi regni asiatici, e non solo questo: le due grandi religioni monoteiste erano appena ai loro albori. Dopo il crollo dell’occupazione giapponese in Indonesia, avvenuto nel 1945, alcuni esponenti politici indigeni si mobilitarono per la creazione di uno stato indonesiano. Ciò avvenne quando, in seguito alla riunione di un comitato nazionale nel maggio del medesimo anno, due leader nazionalisti, Sukarno e Mohammed Hatta ottennero la maggioranza del governo. Sukarno divenne il presidente del neonato stato, Hatta il suo primo ministro ed insieme, dichiararono l’indipendenza dello stato; dopo 15 giorni fu redatta anche una costituzione. Nonostante ciò, il riconoscimento internazionale di tale indipendenza arrivò solo nel 1949. Nella compilazione della legge fondamentale della nuova repubblica apparve subito evidente la necessità di colmare le differenze culturali, etniche e religiose, che in un arcipelago formato da ben 13.677 isole si erano formate e perpetuate nel tempo e nello spazio. Era necessario trovare un motto che avrebbe funto da collante tra le popolazioni che, dal momento della proclamazione della Repubblica di Indonesia, erano ormai divenute un popolo. Data l’impossibilità di rendere omogeneo un cosi ampio gruppo, la soluzione adottata fu quella di accettare le diversità e fare di queste l’asse portante del nazionalismo indonesiano: “Unità nella Diversità”. Ciò nonostante, sussistono tuttora, degli elementi che causano ancora dei dissidi all’interno dello stato: le questioni di carattere religioso hanno una forte componente disgregante. In Indonesia sono presenti cinque forme religiose, le quali sono stanziate in precise parti del territorio del paese. L’Islām è la religione professata dalla maggioranza degli indonesiani ed è quindi ampiamente distribuita, è inoltre importante rilevare che a Sumatra vi è la più alta concentrazione di musulmani. Il Sowell Thomas, Affirmative Action around the World – an empirical study, New Haven e London, Yale University Press, 2004, pp. 55-77 66 Haneef Mohamed Aslam, op. cit. pp. 278-279 65 28 cristianesimo cattolico si trova nelle Molucche, nelle Isole di Flores, a Timor-Est e a Est di Nusa Tenggara mentre quello protestante a Irian Jaya e a Nord di Sulawesi, . Sebbene nella maggior parte dei casi non sia possibile distinguere tra tratti caratteristici del buddismo e dell’induismo si potrebbe delimitare il primo nella zona del Borneo Occidentale, mentre il secondo a Bali. Inoltre, vi sono anche presenti forme sincretistiche che hanno connotati delle precedenti cinque e sono fuse tra loro non solo tra loro, ma anche con culti animisti. Sukarno, aveva già intuito il problema in seno al comitato del 1945. La sua idea fu quella di creare un’ideologia nazionale che comprendesse al suo interno le cinque religioni presenti in Indonesia. Questa dottrina fu il Panca Sila. Kebangsaan (nazionalismo) Kemanusiaan (umanismo o internazionalismo) Kerakyatan (governo rappresentativo o “democrazia”) Keadilan Sosial (giustizia sociale e prosperità) Ketuhanan (monoteismo) Questo era l’ordine iniziale dei cinque elementi, successivamente è stato cambiato a seconda dei principi che si volevano evidenziare. Ora passeremo in rassegna il significato di ognuno di questi precetti del Panca Sila67. Il nazionalismo occupava il primo posto per sottolineare l’importanza dell’unione di tutti gli indonesiani sotto la loro bandiera comune, a dispetto delle differenze culturali, ideologiche e religiose. Elementi come la lingua franca, venivano utilizzati come fattori aggreganti, a discapito di altri come l’Islām, che era invece visto come una componente che minava la base dell’“Unità nella Diversità”. Questo principio poggiava su un identico passato che risaliva al periodo degli antichi regni di Srivijaya e di Majapahit e in epoca più recente alla loro esperienza comune sotto la dominazione portoghese prima ed olandese poi. Lo scopo di questa posizione prioritaria era quello di unire ulteriormente il popolo e cercare di appianare le differenze ponendo in primo piano la condivisione del proprio passato, piuttosto che porre in rilievo le divergenze che sorgevano. Il Panca Sila era già insito nel territorio indonesiano, nonostante non avesse ancora un nome, era presente durante l’induizzazione, l’islamizzazione e ogni qual volta vi era un nuovo arrivato che portava con sé il proprio bagaglio culturale e religioso. La caratteristica di assorbire, tollerare, imparare ed accettare nuovi saperi era nell’animo di un popolo che aspettava ancora di essere identificato con un proprio nome: indonesiani. Allo stesso tempo, si voleva riconoscere la preminenza di uno stato laico su uno stato islamico, nonostante molti musulmani, i quali costituivano e tuttora costituiscono la fetta più grande della popolazione, auspicavano il sorgere della seconda possibilità, si preferì optare per questa diversa suddivisione di importanza degli elementi del Panca Sila. L’umanismo e l’internazionalismo sono delle specificazioni del precedente, in quanto il primo enfatizza l’aspetto della tolleranza: quindi l’Indonesia deve unire i suoi cittadini sotto i suoi colori,68 ma non solo, con il secondo concetto, allo stesso 67 68 http://www.indonesia.nl La bandiera Indonesiana è rossa e bianca. 29 tempo riconosce le differenze all’interno del suo vasto territorio e le ammette e protegge da forme di intolleranza e discriminazione. Un altro aspetto di questo principio è quello di voler attenuare il nazionalismo per non dover arrivare a degenerazioni di quest’ultimo. L’Indonesia promuove la propria identità, ma rigetta le eventuali forme di superiorità razziale che avrebbero potuto degenerare in conflitti armati e minare le basi del neo-nato stato. La volontà di avere un governo rappresentativo a volte viene anche chiamata democrazia. Data la natura e i grandi poteri dei Presidenti Indonesiani, si ritiene più corretto utilizzare la prima definizione piuttosto che la seconda, per non incorrere in problemi espositivi e di confusione con la democrazia europea, si potrebbe anche parlare di democrazia asiatica o orientale. Questo elemento fu utilizzato da Sukarno per porre un freno all’avanzata delle richieste dei musulmani per uno Stato islamico. Grazie a questo principio i musulmani per poter continuare a rivendicare il primato della loro religione sulle altre e ottenere la realizzazione dei loro progetti sullo Stato, dovevano riuscire a conseguire la maggioranza delle adesioni al loro credo, aumentando ancora la loro opera di conversione. Solo in questo modo avrebbero potuto assicurarsi la costituzione di uno Stato musulmano, ossia tutti gli indonesiani dovrebbero credere nella fede islamica, cosi non sarebbero sorti dei conflitti interreligiosi causati dalle minoranze che si sentivano oppresse dalla preponderanza musulmana. La giustizia sociale e prosperità economica hanno come obbiettivi quelli di porre le basi per una crescita di prosperità per la popolazione. Da una parte, questo va ricercato sia da un punto di vista sociale, attraverso la protezione dei più deboli, ma anche tentando di incentivare tutti al lavoro senza permettere che la tutela dei più poveri o malati, o comunque cittadini in difficoltà, venga utilizzata come attenuante remunerativa. Dall’altra viene promosso da una legislazione che non discrimini, ma allo stesso tempo che protegga i più bisognosi. Lo scopo fondamentale è quello di migliorare il livello di benessere in Indonesia. L’adesione a una religione monoteistica è il principio sul quale si è insistito maggiormente. Nella prima formulazione del Panca Sila non vi era alcun riferimento all’adesione alla fede islamica, la quale, nonostante fosse quella con più adepti tra il popolo indonesiano, non veniva menzionata come religione di stato. L’unica indicazione era quella che la religione avrebbe dovuto essere una fede in un solo Dio. Citare una determinata confessione religiosa avrebbe significato porre le altre in una condizione inferiore e di subordinazione che avrebbe a sua volta causato spunti per ribellioni interne. L’ordine degli elementi è stato più volte modificato e anche completamente rivoluzionato dai vari personaggi che di volta in volta volevano far prevalere dei principi sugli altri. Una discussione molto accesa sopravvenne durante la stesura della Carta di Jakarta69, la quale è prova di un compromesso tra i sostenitori di uno Stato Islamico e i fautori di uno Stato laico. I primi chiedevano che nel preambolo della suddetta Carta (i) venisse incluso l’obbligo per i musulmani di sottoporsi alla sharī‘a, (ii) che il presidente indonesiano dovesse essere musulmano (iii) e che il precetto, 69 C. Van Dick, Rebellion under the banner of Islam – The Darul Islam in Indonesia, Leiden Olanda, The Hague – Martinus Nijhoff, 1981 30 inizialmente relegato all’ultimo posto, venisse spostato al primo con l’aggiunta della menzione alla religione islamica, invece di accennare l’adesione ad una religione monoteista. I secondi, erano ovviamente su posizioni opposte. Questi erano preoccupati per le ripercussioni di una simile scelta sulle minoranze che professavano diverse religioni. A conclusione di varie riunioni e discussioni si decise per il precedente ordine dei cinque principi. Questa soluzione mise in luce la possibilità, quasi certezza, che, essendo l’Indonesia uno stato a prevalenza islamica, era quindi conseguente che la scelta sarebbe ricaduta su un presidente musulmano. Allo stesso modo non era possibile escludere uomini o donne di diversa confessione dalla lotta per questo posto. Per quanto riguarda l’applicazione della legge islamica si preferiva lasciarla nell’ambito del diritto consuetudinario. Infine, non ci furono accenni all’Islām per non destare facili dissapori tra le religioni minoritarie e per rispettare il principio democratico che non ammette intolleranze di alcuna sorta. Inizialmente l’adesione a questa dottrina non venne reso obbligatorio, questo avvenne con la deposizione di Sukarno e con l’avvento di un nuovo presidente: Suharto. La sua presidenza dipese in gran parte dal colpo di Stato del 1965, avvenuto in seguito all’uccisione di sei generali. Il Partito Comunista venne accusato di questo massacro e tutti i comunisti vennero a loro volta eliminati dall’esercito, nella nuova espressione politica del governo: l’Ordine Nuovo. Il Panca Sila, in questo nuovo contesto politico, rafforzò la funzione di controllo e lotta al comunismo. Questa dottrina prevede un ateismo di base; lo stesso Marx definiva la religione come “oppio dei popoli” e questo veniva quindi concepito come un fattore da superare e da evitare. E’ per questo motivo che tutti i cittadini indonesiani devono professare una delle religioni monoteiste presenti nello stato, la mancata adesione, avrebbe significato quindi essere comunista. Il Panca Sila diventerà quindi lo strumento utilizzato dal regime per controllare e, allo stesso tempo, dominare le religioni all’interno dell’Indonesia. 2.2.2 Nahda’ul Ulama e Muhammadiyah Le due organizzazioni chiave indonesiane, sono il NU e la Muhammadiyah, questi due gruppi racchiudono al loro interno la maggioranza di musulmani in questo paese, è per tale folta rappresentanza che entrambi hanno acquisito pian piano, e governo permettendo, notevole importanza nello scenario politico dell’arcipelago. La Muhammadiyah esemplifica l’ala modernista dell’Islam, fondata nel 1912 e seguendo l’esempio dei padri fondatori del movimento riformista, ha scelto di liberare la pratica religiosa da tutti gli elementi devianti e superflui, per tornare alla forma originale della propria fede, riscoprendo i valori tramandati dal Corano e dalla Sunn, iniziando cosi la ricerca di un rinnovamento a livello culturale e sociale che si adattasse alla modernità. Dall’altra parte si pone invece il NU, criticando la troppa rigidità del pensiero della prima organizzazione, riconosce il valore della tradizione e permette le 31 pratiche popolari e il culto dei santi, pratiche che invece vengono abolite e condannate dalla Muhammadiyah.70 2.2.3 Movimenti Dakwah Come in precedenza accennato, i movimenti dakwah proliferarono agli inizi degli anni 70’in Malaysia in seguito ad un’ondata internazionale di revival islamico che ebbe effetti anche all’interno della federazione. Questi movimenti sono uniti dal comune intento di propagare l’Islam nelle diverse aree della società civile, per permettere quindi una maggiore presa di coscienza dell’identità musulmana. Segni della trasformazione della vita mondana si poterono osservare il venerdì, con una crescita della presenza dei fedeli alla preghiera canonica, persino la forma di saluto del comune buongiorno venne cambiato da “salawat pagi” a “assalamualaikum” ossia la pace sia con te, anche i mass media proponevano la nuova visione islamica, con la diffusione di programmi a tematica religiosa, infine i circoli pubblici e privati divennero arene per la proliferazione della dakwah. che era Tre sono i più importanti esponenti di questo fenomeno malese: Darul Arqam, ABIM e PAS. Tra i tre movimenti quello che aveva la fama di essere il più moderato e il più aperto alla penetrazione di nuove idee era l’ABIM, fondato nel 1971 da degli studenti attivisti tra cui Anwar Ibrahim, diventerà una delle forze più attive nello scenario politico, nonostante le sue dichiarazioni di organismo apolitico, in realtà i suoi leader supportarono apertamente i candidati del PAS alle elezioni generali del 1979.71 Il suo pensiero era influenzato sia da teorici classici dell’islamismo, quali Hassan Al-Banna padre spirituale dei Fratelli Musulmani egiziani e Mawdudi, creatore di Jama’at Islami pakistana, sia da pensatori più moderati come Ismail Raj Faruqi o il malese Seyyed Naguib al-Attas. Il suo obiettivo era quello di spingere la società malese all’evoluzione, non avversavano, infatti, né la modernizzazione né l’avvento di nuove tecnologie nella società musulmana né tanto meno i rapporti con i paesi occidentali, e favorivano anzi la formazione nelle università di questi stati. I leader di questo movimento provenivano, infatti, da questi istituti occidentali, ed erano fermamente convinti dell’infondatezza della teoria per la quale Islam e modernità siano l’uno in antitesi all’altro, si opponevano peraltro a chi non accettava i mezzi di comunicazione di massa o che come il Darul Arqam imponeva turbanti verdi e bianchi. Per quanto riguarda gli aspetti riguardanti gli usi e costumi, tenevano un comportamento rigorosamente consono alle norme del buon musulmano: astenendosi dal fumo, dall’alcool da manifestazioni d’affetto in pubblico (verso le donne) e utilizzavano l’abbigliamento tipico medio-orientale. Darul Arqam, a differenza dell’ABIM, era un movimento unitario con almeno una sede in quasi tutti gli stati nella Malaysia peninsulare, come setta neo-sufica seguiva un proprio codice di comportamento che ne regolava la vita comune. Venne fondato nel 1968 da Seikh Imam Ashaari Muhammad al-Tamimi e annoverava tra le sue fila 70 71 Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, op. cit. , pp. 54-58 Kamarulnizam Abdullah, op. cit. pp. 15-19 32 soprattutto seguaci reperiti dall’ambiente universitario, il suo orientamento era per lo più riformista e di tipo salafita, attingeva dalla idee della corrente wahabita (probabilmente finanziato dall’Arabia Saudita). A differenza del PAS, non bramava una trasformazione dall’alto dello Stato, ma si concentrava piuttosto sulla popolazione musulmana e sugli stili di vita che questa avrebbe dovuto assumere. Essendo un movimento salafita riprendeva i valori e il modus vivendi dei primi compagni del Profeta, i salafi, alla continua ricerca dell’Islam originario, vennero create delle comunità che riproducevano l’esistenza delle prime collettività islamiche: gli uomini utilizzavano turbanti, mentre le donne vivevano in zone separate e ricoperte di hijab neri; ogni aspetto della vita veniva ritrovato nel Corano, negli hadith72e pertanto l’itjihad73 non era affatto necessaria (altro elemento di differenza con l’ABIM che credeva in questa strumento del diritto). Arqam rifiutava ogni forma di contatto con l’emisfero occidentale, del quale condannava lo stile di vita, la cultura e soprattutto il secolarismo, tuttavia, e potrebbe sembrare un controsenso, non ne rifiutava l’economia capitalista.74 Accanto al ritorno alle fonti dell’Islam questa setta utilizzava anche pratiche sufiche come la “catena di trasmissione” che collegava tutti i maestri sufi fino ad entrare in collegamento con Profeta stesso. Nel 1979 il suo leader venne chiamato a spiegare la posizione del movimento riguardo alla questione delle tariqat, ossia le mistiche sufi, e costui rispose ponendo l’accento sullo sviluppo dell’illuminazione spirituale, come unico mezzo per raggiungere l’unione con Allah.75 Nel 1993 venne bandito dallo Stato per gli insegnamenti devianti del suo leader Ustaz Ashaari, il governo reputava sia la didattica che le metodologie dell’Arqam dannose per l’unità del paese e come tali potevano compromettere la sicurezza nazionale. PAS si distingue dalle altre due organizzazioni islamiche per la sua natura partitica, come tale questo movimento poteva partecipare più attivamente alla vita politica e in quanto partito di opposizione cercava continuamente di scalzare l’UMNO dal potere; a tal proposito si poneva come scelta alternativa per quei musulmani stanchi della centralità del “malaismo”, che veniva selezionato come elemento chiave e base del consenso creato attorno all’UMNO e sostituiva ad esso la predominanza dell’Islam sugli altri principi. All’inizio della sua esistenza questo partito non era fondato su idee radicali: il suo fondatore Haji Fuad Hassan era il capo dell’Ufficio degli Affari Religiosi durante il governo dell’UMNO. Inizialmente i due organismi non erano in netta opposizione, come accade ai nostri giorni, ma rappresentavano due diverse sensibilità della fede coranica, il PAS era semplicemente espressione di un Islam rurale e più tradizionale, e il governo ne aveva una considerazione benevola, tale da spingerlo alla collaborazione. Successivamente il PAS si trincererà in posizioni più rigide e tradizionaliste, auspicando e chiedendo a gran voce la trasformazione del paese, guidata dall’alto al fine di proclamare lo Stato Islamico: solo l’applicazione della sharia a livello nazionale conferirà alla Malaysia l’approvazione di Allah. Sarà proprio a questo punto che il partito del governo e PAS si proietteranno in una guerra di parole atta a decretare quale dei due schieramenti 72 hadith: insegnamento del Profeta Itjihad: Interpretazione della dottrina islamica 74 Dovert, Stéphan e Madinier Rémy, op. cit. pp. 25-27 75 Kamarulnizam Abdullah, op. cit. p. 109 73 33 incarnasse al meglio il vero spirito dell’Islam; a questo scopo l’UMNO iniziò a dipingere il suo avversario come movimento fondamentalista, fanatico, e misogino, promovendo invece se stesso come moderno e progressista, in virtù di queste sue caratteristiche propone una rivisitazione del concetto di jihad, abbandonando le armi e prendendo in mano carta e penna per delineare una nuova politica economica per combattere la povertà all’interno del paese. Ad onore del vero, bisogna però puntualizzare che più della metà dei membri del PAS, che include tra le sue fila 800 mila unità, sono donne, inoltre il nuovo statuto del partito prevede che nella VicePresidenza una posizione venga occupata da una donna, senza contare che nelle prossime elezioni vi saranno anche candidati in“rosa”.76 Vi sono poi degli analisti controcorrente, come ad esempio L. John Esposito, secondo cui partiti di opposizione islamici quali il PAS sviluppano delle tendenze favorevoli alla moderna democrazia parlamentare e alla competizione elettorale.77 2.3 Il processo di democratizzazione I due stati dell’area Insulindiana non hanno ancora raggiunto il pieno sviluppo democratico, ma sono ancora nella fase della transizione, ossia quell’intermezzo in cui le istituzioni politiche iniziano a subire delle modifiche, ma senza avere ancora acquisito pienamente i caratteri propri del nuovo regime. La Malaysia ad esempio viene catalogata da alcuni autori78 o meglio non viene catalogata né tra i regimi democratici, né tra quelli autoritari, mentre ufficialmente dovrebbe essere una democrazia parlamentare; questo a causa di alcuni aspetti democratici all’interno delle sue istituzioni, controbilanciato da una leadership autoritaria che non lascia ampi spazi all’opposizione. Il pattern seguito da questi due stati sudest asiatici non si discosta molto dal modello generale di decolonizzazione presente anche in Africa; la prima fase vede una sorta di accondiscendenza verso le idee occidentali di democratizzazione, gli intellettuali restano affascinati dai concetti di “autoderminazione dei popoli”, dai principi di uguaglianza e libertà. Inizialmente le elite nazionaliste si fecero quindi portatrici delle istanze democratiche, contrapponendosi in tal modo al vecchio schema di autorità tradizionale locale; successivamente però si svilupperà nei governanti una presa di coscienza dell’importanza dei valori tradizionali e la 76 Liow Joseph Chinyong, op. cit. pp. 190-193 Mahli Amrita, “The PAS-BN Conflict in the 1990s – Islamism and Modernity”, in Ed. Hooker Virginia; e Othman Norani: Malaysia: Islam, Society and Politics, Singapore, ISEAS Series on Islam, Institute of Southeast Asian Studies, 2003, pp. 236-259 78 Vedi Crouch in Verma Vidhu, Malaysia – State and Civil Society in Transition, Boulder e London, Lynne Rienner Publishers, 2002, pp. 148-152 77 34 conseguente paura dall’allontanarsi da questi ultimi. Inizierà cosi un recupero della cultura e della religiosità indigena ed un conseguente rifiuto dei valori importati dal dominio coloniale. Il caso dell’Indonesia è particolarmente esemplifico di questo modello: i nazionalisti riuscirono a conquistare l’indipendenza e a portarla avanti facendo appello a schemi di politica post-coloniale secondo lo stile democratico europeo; in seguito con Sukarno si abbandonerà questa via, recuperando la propria identità e tradizione, denunciando i valori sociali e politici occidentali e inaugurando una nuova fase, quella della “Democrazia Guidata”. Con questo termine si intendeva cosi definire un nuovo approccio alla democrazia, che fino ad allora aveva un’impostazione propria della tradizione occidentale, quello asiatico: nel quale l’autorità era basata su un governo e su principi politici tradizionali, come “gotongrotong” il consenso, “musjawarah” la mutua assistenza comunitaria e la discussione mirata al raggiungimento dell’accordo. 79 Anche gli avvicendamenti politici malesi finiranno per seguire lo stesso path dell’Indonesia. Negli anni ‘70 i gruppi e le associazioni islamiche malesi assunsero un ruolo importante dal punto di vista politico: pur mantenendo un orientamento reazionario e militante, iniziarono ad ottenere un certo seguito negli ambienti universitari. Il loro programma era volto ad un rinnovo islamico atto ad ottenere maggiori libertà di espressione, partecipazione al processo politico e soprattutto la penetrazione del fattore islamico nella cultura politica della società. Questo processo doveva partire dal futuro del paese, da quelle che sarebbero diventate le nuove menti, solo così sarebbe stato possibile ribaltare l’eredità del dominio coloniale: l’attuale forma di stato era il risultato di un’importazione-imposizione di un modello occidentale su un paese a predominanza islamica.80 La democrazia “alla occidentale” è stato il frutto di un processo europeo, facente riferimento al background storico, culturale propri del vecchio continente, modellato in base ai principi illuministi, giudaco-cristiani e come tale non può essere un format da esportate tout court in qualsiasi zona del mondo: in Malaysia e Indonesia oltretutto il fattore islamico costituisce secoli e secoli di fondamenta mentali della popolazione, impossibili da spazzar via in pochi anni di dominazione coloniale. Nel periodo intercorso tra gli anni ‘80 e ‘90 si è assistito sia al crollo di numerosi regimi post coloniali (di matrice autoritaria o dittatoriale), ciò non avvenne però nel caso malese. Il partito dominante UMNO, captò i primi segni di cambiamento reconditi nella società civile che diveniva sempre più attiva e consapevole: gli attivisti che si schieravano contro l’attuale regime, erano riusciti a cooptare gran parte della popolazione, ma avevano fallito nel guadagnare il consenso delle elite e non erano stati capaci di trasformare il supporto popolare in forza politica. Mahathir al contrario riuscirà ad accattivarsi le simpatie delle elite, ponendosi come interlocutore e mediatore tra queste stesse: in questo modo fu in grado di mantenere il potere, di 79 Acharya Amitaw, “Democratization and the prospects for participatory regionalism in Southeast Asia” in Ed. Kanishka Jayasuriya, Asian Regional Governance: Crisis and Change, London – New York, Routledge 2004, pp. 127-142 80 Othman Norani, Islamization and Democratization in Malaysia in regional and global context, in Ed. Ariel Heryanto, Sumit K Mandal, Challenging Authoritarianism in Southeast Asia: Comparing Indonesia and Malaysia, London – New York, Routledge/Curzon, 200, pp. 117-144 35 guadagnarne la fiducia, allo stesso tempo di controllarle e raggrupparle sotto la bandiera dell’UMNO.81 La sua mossa fu doppiamente vincente: da una parte ridusse le paure delle svariate elite di essere escluse dal potere, intrecciando solidi legami con esse ed il partito dominante e risolvendo i conflitti interni a questi gruppi grazie al ruolo mediatore di cui si era fatto “carico” l’UMNO; in questo modo le elite non avevano più interesse a sovvertire il potere preesistente, il regime dava loro delle garanzie che gli attivisti politici non avrebbero potuto garantire, avrebbero potuto rischiare riforme che le avrebbero depauperate di potere e privilegi; a conti fatti avevano più da guadagnare che da perdere, il regime chiedeva loro solo lealtà, in cambio non avrebbero dovuto scomodarsi a lottare con l’opposizione per ottenere riforme, ma avrebbero ottenuto i cambiamenti come partner interno all’UMNO. La comunanza della stessa fede religiosa non corrisponde imprescindibilmente a pari risultati politici: le circostanze politiche e l’ambiente sociale costituiscono il vero nucleo embrionale dello sviluppo e della definizione dello Stato-Nazione; negli anni ’90 il governo malese incoraggiava l’espansione dell’implementazione delle leggi islamiche sia in campo civile sia penale per tutti i musulmani, mentre l’Indonesia preferiva optare per uno stato laico, restringendo così il ruolo politico dell’Islam e concedendo alla religione una funzione di guida etica e culturale. Entrambi i due stati hanno sviluppato dei problemi in seno alla loro classe media, la quale non costituisce un gruppo omogeneo con uguali interessi o mentalità, ma al suo interno varia tra conservatori, modernisti, attivisti politici o apatici, e fin qui nulla appare particolarmente differente dalle democrazie nostrane, ma la varietà si moltiplica ulteriormente se si guarda al prospetto etnico e religioso.82 Il ruolo della classe media risulta molto rilevante in letteratura: a partire dalle considerazioni di Hungtington, la cosiddetta terza ondata di democratizzazione ha visto tra i suoi sostenitori più vigorosi proprio individui appartenenti alla suddetta categoria sociale.83 Per questo motivo procederò ad analizzare la funzione che ha assunto tale classe nei due paesi della regione Insulindiana. In Malaysia si registra un elevato livello di partecipazione sia nel processo elettorale che nei partiti politici da parte della middle class malese, la quale ha accettato e fatto proprie le regole per la lotta politica in un regime democratico, sia dal punto di vista dell’elettorato attivo che passivo, tuttavia la classe media cinese invece fa registrare una presenza meno significativa se paragonata sia agli indiani, che all’etnia dominante. Quest’ultima manifesta il suo attivismo politico sia partecipando alle campagne elettorali in sostegno dei propri candidati, sia finanziando i partiti da essi stessi preferiti: l’UMNO risulta essere l’organizzazione politica che meglio coincide con gli interessi di questa classe sociale, mentre per quanto riguarda il proletariato si identifica con esso solo dal punto di vista etnicoreligioso, ossia come malese.84 L’Indonesia invece registra dei migliori risultati: come si può notare dalla mappa (fig. 4) e tabella (fig. 5) elaborate da Freedom House, le 81 Brownlee Jason, Authoritarianism in an Age of Democratization, Cambridge – New York, Cambridge University Press, 2007, pp. 122-124 82 Heryanto Ariel e Mandal Sumit Kumar, Challenging Authoritarianism in Southeast Asia: Comparing Indonesia and Malaysia, New York e London, RoutledgeCurzon, 2003, pp. 25-27 83 Embong Abdul Rahman, State-led Modernization and the New Middle Class in Malaysia, Hampshire e New York, Palgrave, 2002, pp. 149-152 84 Verma Vidhu, op. cit. , pp. 156-157 36 viene infatti riconosciuto lo status di paese libero, questo a partire dalla fine degli anni 90’ a conclusione del New Order imposto da Suharto, al termine di questo nefasto periodo infatti, la sfiducia verso i cinesi e la conseguente minaccia palesata dal comunismo cessarono in concomitanza con la caduta di questo presidente: i diritti della comunità cinese iniziarono ad essere così riconosciuti grazie al processo di democratizzazione. Questo passaggio, risultato di una (s)fortunata congiuntura di valori incrociati (come la recessione post-crisi economica), venne sancito dalle elezioni politiche del 1999, le prime a carattere multipartitico per questo paese dopo 44 anni di regime autoritario.85 Inoltre non è possibile trascurare due personaggi che occuparono delle posizioni chiave nella caduta di Suharto: Abdurrahman Wahid e Amien Rais. Entrambi supportavano il cambiamento democratico, ponendo continuamente l’accento sulla compatibilità tra l’Islam e la democrazia, il loro contributo si rivelò determinante sia grazie alla forza del loro messaggio, sia per il periodo in cui questo messaggio veniva lanciato: la crisi del New Order era sempre più profonda e le nuove leve musulmane iniziavano a mostrarsi partecipi alle idee di Wahid e rais, ma non solo, anche i leader islamici erano favorevoli all’inversione di marcia verso il nuovo regime; fu proprio questa combinazione di favori ottenuti da diversi fronti che riuscì a prevenire nuove istanze volte alla creazione di uno stato Islamico.86 Anche lo scenario internazionale dimostrava una tempistica propizia al cambiamento: nel mese di luglio del 1998 un gruppo eterogeneo di artisti, scrittori turchi e attivisti democratici si incontrarono in Turchia ad Abant, città che ospitava il workshop sul tema “Islam and secularism”; in questa occasione venne elaborata una fruttuosa Proclamazione, secondo la quale: “l’Islam ha un ruolo pubblico da giocare ed è compatibile con la democrazia, senza dover per questo minare lo stato secolare” e ancora “la democratizzazione della società deve includere la creazione di uno spazio democratico che permetta l’esistenza di una maggiore libertà di religione sempre all’interno dello stato secolare”.87 Questi attivisti erano consapevoli che l’unico metodo per rispondere positivamente al crescente attivismo islamico e alle sfide che quest’ultimo rappresentava, non potesse essere trovato tramite un’inflessibile e aggressiva affermazione del secolarismo, bensì attraverso un progressivo processo di democratizzazione all’interno del quale venisse necessariamente ritagliato uno spazio per il dibattito e la negoziazione del ruolo pubblico e politico della religione.88 85 Papaioannou, Elias and Siourounis, Gregorios, Democratization and Growth, London Business School, First Version: July 2003, November 2004, London Business School Economics Working Paper http://www.iies.su.se/ESWM2004/papers/Papaioannou_paper.pdf 86 Carnegie Paul J. , “Indonesian Democratization and Islam”, Asian Social Science, vol. 3, n°10, october 2007, pp. 29-32, www.ccsenet.org/ass.html 87 Fonte: www.yazarlarvakfi.org.tr dal documento: “Islam and Secularism Workshop The Abant Final Proclamation” 16 luglio 1998, libera interpretazione personale. 88 Othman Norani, op. cit. pagg.117-144 37 Ratings della Libertà in Insulindia Indonesia Edizione Arco temporale Malaysia Jan.1973-Feb. 1974 1972-73 PR CL Status 5 5 PF PR: Diritti Politici 5 5 I punteggi da 7 a 1 rappresentano rispettivamente il massimo e il minimo livello di libertà. 5 5 5 5 CL: Libertà Civili 5 5 5 6 5 5 5 5 6 5 7 6 7 5 6 4 4 4 3 4 PR 2 Jan.-Feb. 1975 1974 PF 3 1976-1980 1975-1979 PF 3 1981 1980 PF 3 1982-84 Jan.1981-Nov. 1983 PF 3 1984-88 Nov.1983-Nov.1987 PF 3 Nov.1987-Nov.1988 PF 4 1989-90 Nov.1988-Dec.1989 PF 5 1990-93 1990-1992 PF 5 1993-96 1993-95 NF 4 1996-98 1996-97 NF 4 1998-99 1998 PF 5 1999-2000 1999 PF 5 2000-03 2000-02 PF 5 2004 2003 CL Status 3 F 3 PF 4 PF 4 PF 4 PF 5 PF 5 PF 4 PF 4 PF 5 PF 5 PF 5 PF 5 PF 5 PF 38 3 4 PF 3 4 PF 2 3 F 5 2005 2005-2004 3 2006-07 2005-06 4 4 PF 4 PF 4 PF Figura 4 – Andamento dello sviluppo della Malaysia e Indonesia dal 1975 al 200789 Figura 5 - Mappa dei paesi liberi 2007 90 89 90 Fonte: Freedom House – http://www.freedomhouse.org Fonte: Freedom House - http://www.freedomhouse.org 39 Attualmente la vera sfida per i paesi musulmani è costituita dalla contemporanea presenza nella società civile di due principi: il conformarsi fedelmente all’Islam come stile di vita e il far parte del mondo moderno; per permetterne la coesistenza sarà necessario adempiere a due compiti: assicurare che la democrazia non è minacciata dall’Islam, tutt’altro verrà ulteriormente perseguita all’interno dello stato secolare e in secondo luogo perseguire degli studi sullo stato islamico atti a trovare il migliore approccio tra il paese e al nuovo regime. A partire dalla crisi economica del 1997 e dalle ondate di dissensi registrate sia in Indonesia che in Malaysia, questi due paesi hanno portato avanti una politica di riforma91 capillare all’interno delle istituzioni politiche, a testimonianza dell’aumento delle aspirazioni di maggiore libertà e democratizzazione da parte dell’assetto civile. Il multiforme panorama indonesiano rivelava una pluralità di movimenti islamici, i quali si collocavano in diverse angolazioni rispetto al loro punto focale: l’Islam; ossia pur avendo la comune matrice religiosa, adottavano allo stesso tempo diverse lenti per leggerne il contenuto: come inquadrare la religione, il modo per attuarne i principi all’interno della società civile, la volontà o meno di creare uno stato Islamico; tutti questi punti, sono oggetto di continue discussioni e confronti tra i maggiori esponenti di organizzazioni disparate quali: NU, Muhammadiyah, ICMI (Ikatan Cendekiawan Muslim Indonesia);92 un orizzonte simile, caratterizzato dalla coesistenza di diversi movimenti in un ambiente progressista e aperto permette lo sviluppo di opinioni sull’Islam e sul suo ruolo politico;93 non solo, il principio cardine “Uniti nella Diversità” costituisce l’anima della tolleranza dell’Islam indonesiano, in questa società multireligiosa a differenza di altri paesi musulmani, come ad esempio la stessa Malaysia, il matrimonio interreligioso è ammesso.94 Per quanto riguarda la Malaysia invece, la mappa non la considera completamente libera, ma solo in maniera parziale, questo a causa delle ristrette libertà di manifestazione e di espressione registrate nell’area; inoltre la federazione è appena all’inizio del processo di transizione verso un regime democratico, infatti sono presenti solo alcuni elementi nelle istituzioni propri di tale forma. Diversamente dall’Indonesia, in questo paese si registrò una migliore propensione nei confronti dell’Islam, a partire dagli anni ‘80 sia il partito dominante BN che quello di opposizione PAS, attuarono delle politiche di Islamizzazione, quali l’espansione della shar’ia sia in ambito legislativo civile, penale, che emendamenti alle leggi sulla famiglia musulmana, questi ultimi influenzarono ampiamente i diritti delle donne e la parità dei sessi; nel 1995 venne approvata l’automatizzazione dell’entrata in vigore delle fatwa emanate dai muftì e dai “Consigli della Fatwa”95 sotto forma di legge. La posizione di inferiorità femminile all’interno delle società e famiglie musulmane, è un 91 Questa politica di riforma, assunse il nome di Reformasi in entrambi i paesi, ma nonostante la comunanza del nome, assunse diversi contenuti e sviluppi. 92 ICMI Associazione Indonesiana di Intellettuali Musulmani 93 Othman Norani, op. cit. p. 121 94 Cherie Nursalim, “Progress in Diversity: Fears and Hopes”, in Ed. Nguyen Thang D. e Richter FrankJürgen, Indonesia matters – Diversity, unity, and stability in a fragile time, Singapore, Times Editions, 2003, pp. 100-117 95 Fatwa Council sono degli organismi presenti in ogni Stato membro della Federazione malese 40 grande scoglio contro il quale si infrangono i tentavi di riforme democratiche negli stati islamici: il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, insieme con il divieto di non discriminazione (per motivi di sesso, religione, razza, colore) rappresentano la base dello stato democratico; la situazione Mediorientale è sicuramente più rigida rispetto ai due paesi qui presi in considerazione, infatti nell’area insulindiana, il fattore discriminante è rappresentato soprattutto dallo status sociale piuttosto che da quello di genere. Esempi di questa tendenza si possono ritrovare in alcune ricerche effettuate nella regione sudest asiatica,96 secondo le quali negli ultimi otto anni del XX secolo si è registrata una media abbastanza alta di donne musulmane che studiavano all’università, si sposavano in età matura (avendo la facoltà di scelta del proprio partner), e si annoveravano tra le fila della forza lavoro del paese, occupando anche posizioni a diversi livelli nei settori dell’economia. La crisi economica del 1997 accelerò l’attivismo femminista,97 che si proponeva come partner del processo di reformasi, questo movimento non costituiva un fenomeno isolato, bensì era eterogeneo e ad ampia portata, con un raggio di azione che si estendeva nella regione sudest asiatica: con esponenti illustri e tristemente famosi come Aung San Suu Kyi, in Birmania, Chandrika Bandaraneike Kumaratunga, in Sri Lanka, e infine rispettivamente per Indonesia e Malaysia, Megawati Sukarnoputri, e Wan Azizah Wan Ismail, moglie del Primo Ministro Anwar Ibrahim. In seguito all’arresto di quest’ultimo vennero organizzati dei movimenti di protesta (femminile) in favore dei diritti umani, contro lo stato e il trattamento che aveva riservato ad Anwar. Un importante passo avanti verso una maggiore emancipazione delle donne venne compiuto il 24 maggio 1999, quando una coalizione di quasi tutti gruppi e organizzazioni femministe malesi realizzò un manifesto dal nome “Women’s Agenda for Change” in preparazione delle elezioni del novembre 1999; in questa occasione si posero le basi per la lotta al riconoscimento di uguali diritti, nonché si iniziò a sfidare gli sforzi politici e religiosi di circoscrivere sempre più il ruolo delle donne all’interno delle quattro mura domestiche. Nonostante non siano mancati passi verso una parificazione dello status legale dei gender, purtroppo questi si sono sempre rilevati fallimentari e vani: la legge del 1984 “Muslim Family Law Act”, risultato degli sforzi riformisti risalenti agli anni ‘70, introduceva una serie di riforme per tutelare la donna, in materia di diritto civile: diritto al mantenimento e custodia dei figli sia in seguito al divorzio sia alla poligamia; data la natura di legge federale, l’atto doveva essere approvato e rettificato da ogni stato membro, da qui ci furono numerosi ritardi burocratici, causati soprattutto dalla mancanza di accettazione dello stesso, quando finalmente venne approvato tra il 1989 e 1991 questo documento aveva mutato forma e i suoi contenti erano stati svuotati di valore. I territori federali più sviluppati e urbanizzati di Kuala Lumpur e Labuan furono gli unici ad approvare velocemente il suddetto atto e a restargli fedeli, purtroppo a causa di ingenti pressioni da parte degli islamisti anche queste due “pecore nere” si conformarono alla tendenza generale retrograda e alla fine introdussero degli emendamenti che meglio sposavano la 96 97 Othman Norani, op. cit. p. 135 Melani Budianta, “The blessed tragedy – The making of women’s activism during the Reformasi years” , in Editors: Heryanto, Ariel e Mandal Sumit Kumar , Challenging Authoritarianism in Southeast Asia: Comparing Indonesia and Malaysia, New York e London, RoutledgeCurzon, 2003, pp. 145-175 41 propensione a depauperare le donne da diritti e tutele legali. Nell’agosto del 1996 l’organizzazione SIS Sisters in Islam organizzò un workshop nazionale sul tema "Islam and Women: the Question of Equality and Justice” e per tutto il 1996 insieme ad un’altra associazione AWL Association of Women Lawyers si impegnarono in meeting e discussioni con i membri di tutte le organizzazioni femministe presenti nel paese, cercarono di coinvolgere anche leader politici (sia uomini che donne), membri dell’Associazione degli Ulama Malesi, esponenti del diritto islamico, non facenti parte della burocrazia Islamica, intellettuali pubblici, membri leader del PAS e infine ONG islamiche. Questo attivismo servì come preparazione per un altro evento di portata nazionale: nel gennaio del 1997 vari gruppi femministi situati in alcuni stati, tra i quali anche Selangor, cercarono di ottenere nuovi cambiamenti alle leggi sulla famiglia musulmana, questo movimento era capeggiato da NCWO National Council for Women’s Organization, un’associazione partner del governo, da AWL e infine da SIS; questa mobilitazione generale sfociò in un workshop nazionale e nella produzione di due memoranda da sottoporre al governo federale. Questi due documenti invocavano l’uniformità della legge in tutto il territorio federale e la soppressione di applicazioni e di interpretazioni soggettive della stessa in favore di un’amministrazione inter partes e di una giustizia paritaria per entrambi i sessi. Uno strumento usato da SIS e da degli studiosi progressisti dell’Islam per avocare il diritto alla libera interpretazione del Corano è per l’appunto l’ijtihad, secondo il quale il Sacro Testo dovrebbe essere rivalutato secondo l’attuale periodizzazione nella quale industrializzazione, modernizzazione e globalizzazione hanno indotto notevoli cambiamenti negli stili di vita, e soprattutto nelle relazioni all’interno della famiglia, come si rileva da un discorso98 del 2007 del leader di Sisters in Islam, Zainah Anwar: “Women have begun to study the Qur'an for themselves, the traditions of the Prophet and the rich juristic heritage of Islam to understand the religion better, and with this knowledge and new-found conviction, have begun to stand up to fight for women's right to equality, justice, freedom and dignity within the religious framework. Our strength comes from our conviction and faith in an Islam that is just, liberating and empowering to us as women. Groups like Sisters in Islam are reclaiming for ourselves the Islam that liberated women and uplifted our status by giving us rights considered revolutionary 1400 years ago - the right to own, inherit or dispose of our own property, the right to divorce, the right to contract agreements - all introduced by Islam in the 7th century. It is this ethical vision of the Qur'an that insistently enjoins equality and justice, it is this liberating and revolutionary spirit of Islam that today guides our quest to be treated as fellow human beings of equal worth and dignity.”99 Secondo Zainah Anwar e SIS non sarebbe l’Islam ad aver condannato le 98 Islam and Women’s Rights, Zainah Anwar, Executive Director Sisters in Islam, Presented at University of California, Berkeley and Los Angeles, Distinguished Visitor Program, 30 September – 6 October 2007, http://repositories.cdlib.org/cgi/viewcontent.cgi?article=1037&context=international/uclacseas 99 “Le donne hanno iniziato a studiare autonomamente il Corano, le tradizioni del Profeta e il florido patrimonio giuridico dell’Islam, in funzione di una migliore comprensione della propria religione; grazie a questa rinnovata conoscenza e consapevolezza le donne musulmane hanno cominciato a ribellarsi e a lottare per i propri diritti di uguaglianza, giustizia e dignità sempre restando all’interno dei confini della religione. La nostra forza proviene dalla nostra convinzione e fede in un Islam giusto, liberale e verso noi donne. Gruppi come SIS reclamano per noi stesse un Islam che liberi le donne e ne 42 donne ad una posizione di inferiorità nei confronti dell’uomo, bensì un’errata interpretazione del Corano e la consuetudine di atteggiamenti derivanti da pratiche culturali e valori propri di una società patriarcale; grazie all’avvicinamento delle donne alla Parola di Allah queste hanno potuto scoprire messaggi nuovi alle quali non erano state esposte durante i loro precedenti insegnamenti islamici. Il loro lavoro di lobby politica si esplica attraverso strumenti plurimi, che spaziano dalla stampa di interpretazioni alternative del Corano, a lettere all’editore delle maggiori testate giornalistiche del paese, a memorandum indirizzati al governo, oltre ai temi già precedentemente citati se ne annoverano altri come la nomina di giudici donna alle Corti della Sharia, la patria potestà per entrambi i genitori, riforme alle leggi sulla poligamia e soprattutto riforme alle leggi criminali della sharia; attraverso i memorandum vengono cosi denunciate tutte le violazioni delle libertà fondamentali e si suggeriscono quali cambiamenti dovrebbero essere effettuati e si indicano le leggi che andrebbero emendate o addirittura abrogate. Il primo gradino per combattere la cultura dominante tradizionale è rappresentato sicuramente dall’informazione, da qui l’uso appropriato del mezzo mediatico, coadiuvato da due nuovi programmi di educazione: il primo viene organizzato in sessioni mensili nei quali studiosi stranieri dell’Islam progressista tengono dei seminari sui diritti umani, non solo negli ultimi cinque anni sono stati elaborati training programs sul ruolo della donna e sui suoi diritti allo scopo di attivare gruppi con un elevato potere di parola come attivisti dei diritti umani, avvocati, leader femminili, giornalisti, giovani leader politici; il secondo, più giovane è stato attivato due anni fa e il fruente viene individuato nelle donne comuni “grassroot.” Naturalmente una simile presa di posizione è attaccata sia dagli ulama sia da molti musulmani, vengono tacciate di essere un movimento forgiato ad immagine e somiglianza dell’Occidente, di non avere quindi un’educazione musulmana e di non parlare la lingua del Corano, per tutti questi motivi non vengono ritenute qualificate ad elaborare tesi sull’Islam, ma la loro ancor più forte risposta non lascia spazio ad ulteriore commento: “Within the context of modernizing Malaysia, Sisters in Islam takes the position that if religion is to be used to govern the public and private lives of its citizens, then everyone has a right to talk about religion and express their views and concerns on the impact of such laws and policies made in the name of Islam […]The democratization project in Muslim countries today go must go hand in hand with the debate on the public role of Islam. You cannot demand for more democracy, justice and respect for human rights on the one hand in order to get rid of an oppressive state, and at the same time demand that all these principles stop at the door of Islam.”100. Un’altra forte lacuna interna a sollevi lo status, secondo i principi rivoluzionari di 1400 anni fa – il diritto di ereditare o di disporre delle nostre proprietà , il diritto di divorziare e il diritto di stipulare contratti – diritti introdotti dall’Islam del VII secolo.” Libera interpretazione personale. 100 Islam and Women’s Rights, Zainah Anwar, op.cit. pp. 18-20 “Nel contesto di una Malaysia moderna, SIS afferma che se la religione viene usata per governare la vita pubblica e privata dei suoi cittadini, allora tutti devono avere il diritto di parola sulla religione, di poter esprimere le proprie opinioni e preoccupazioni nei riguardi di quelle leggi e politiche che vengono firmare sotto il nome dell’Islam […] l’attuale progetto di democratizzazione nei paesi musulmani deve andare di pari passo con il dibattito sul ruolo pubblico dell’Islam. Non è certo ammissibile auspicare maggiore democratizzazione, giustizia e rispetto dei diritti umani per disfarsi di uno stato oppressivo e allo stesso tempo pretendere di poter lasciare quegli stessi principi al di fuori delle porte dell’Islam” 43 questo paese è la mancanza di competizione per la lotta al potere, soprattutto non c’è parità di opportunità per i diversi gruppi etnici: questione che non solo causa cronicamente violente rivolte in periodo di elezioni,101 ma ostacola anche l’establishment democratico palesando sempre più i limiti della “democrazia liberale”. Purtroppo sul piatto della bilancia coesistono sia la democrazia che l’equilibrio interno, e la Melayu Baru pare essere divisa tra due fuochi: da una parte si dimostra favorevole all’instaurazione del nuovo regime, al conseguente allargamento della partecipazione politica, allo sviluppo sociale ed economico, ma allo stesso tempo non è pronta a sacrificare l’ordine sociale del paese; al momento l’unico garante sembra essere una leadership forte, pertanto questa classe si dimostra ancora tollerante verso forme autoritarie. Tuttavia qualora la democrazia dimostrasse di essere in grado di garantire essa stessa l’ordine interno, il nuovo regime non troverebbe opposizione all’interno di questa classe, com’è per l’appunto dimostrato dalle possibili soluzioni che vengono considerate per porre rimedio all’enorme potere di cui gode il partito dominante, come ad esempio i tentativi di votare per un’opposizione parlamentare più forte e una magistratura indipendente.102 L’Indonesia a prima vista potrebbe apparire come uno Stato garante di maggiori facoltà alle donne, come dimostra per l’appunto l’elezione di Megawati Sukarnoputri alla carica di Presidente, resta però da dimostrare quanto potere effettivo possa disporre e quindi quanto non si tratti invece di un potere nominale e svuotato da ogni contenuto. In questo paese la rottura dell’oscurantismo femminile iniziò durante il dominio coloniale olandese, per proseguire alle prime luci dell’indipendenza e ritornare con maggior impeto nel periodo post-reformasi, registrando una partecipazione differenziata sia per ceti sociali sia per classi di età.103 Anche in questo caso la crisi economica si era abbattuta soprattutto su quelle categorie più deboli: donne, bambini e anziani, come dimostrano i dati del periodo nei quali si registrò un aumento dei tassi di prostituzione, di violenza domestica sulle donne e di abbandono dei bambini all’ambiente delle strade.104 Era giunto il momento di una presa di posizione per porre rimedio (o perlomeno tentare) alla carestia: l’organizzazione Suara Ibu Peduli (SIP)105 si schierò in prima linea per risolvere la situazione. A metà febbraio 1998 un gruppo folto di attiviste, intellettuali e membri do varie organizzazioni si incontrarono nella sede di una testata giornalistica femminile: Jurnal Perempuan, Giornale delle donne, trovare una soluzione unanime fu molto difficile, le attiviste avevano paura di suscitare le antipatie attraverso azioni dirette come manifestazioni in piazza, affermando di non voler politicizzare troppo la loro azione; d’altra parte soluzioni più moderate come la distribuzione di latte in polvere gratuito pareva fornire un’ulteriore argomento in favore dell’identità donna-casa. Infine SIP riuscì a raccogliere US$ 1,000 al fine di vendere delle piccole confezioni di latte in polvere a prezzi minimi alle famiglie indigente, neomamme e bambini. Venne anche organizzata una piccola manifestazione, con lo scopo di dar voce allo sconforto e al tormento che le affliggeva, si trattava di un raduno pacifico, dove si 101 http://muse.jhu.edu/ Embong Abdul Rahman, op. cit. , pp. 161-167 103 Melani Budianta, op. cit. p. 151 104 Ivi. p. 150-153 105 SIP: Suara Ibu Peduli Voce delle Madri Preoccupate 102 44 pregava, si innalzavano striscioni, ma nonostante ciò nel giro di 15 minuti la polizia intervenne facendo diradare le partecipanti e arrestando le promotrici dell’attività.106 L’importanza di questa azione era costituita dalla partecipazione attiva di donne che si erano riunite per il bene della propria società a discapito di bandiere religiose, tra le fila del movimento si annoveravano musulmane in panjab, cristiane donne e madri, che usando il proprio abbigliamento religioso, mostravano la loro differenza, comunicando un messaggio di pluralità pacifica, in un periodo in cui il loro paese era attraversato da conflitti interreligiosi; ciò che le accomunava non era la medesima religione, bensì la loro angoscia di madri, la loro speranza patriottica di una pace imminente, che andava oltre le differenze culturali, superate dalla meravigliosa immagine di donne che camminavano unite mano nella mano.107 L’emancipazione femminile può essere infine ricapitolata da un breve excursus108 sugli avvicendamenti dei ministeri sotto alcuni capi di Stato Indonesiani; a partire dalla legislatura di Sukarno la carica di Ministro per gli Affari Sociali è sempre stata occupata da una donna, a dimostrare quasi una sorta di eredità femminile, la prassi si confermò sotto Wahid, ma venne interrotta nel nome di Megawati: quest’ultima affidò ad una donna il Ministero del Commercio e dell’Industria aggiungendo anche un’altra istituzione quella per l’ “empowerment” delle donne, che venne affidata per ovvi motivi a due leader femminili. Per quanto riguarda l’attuale Presidente Susilo Bambang, costui incrementò ulteriormente il numero di posti fino ad arrivare a quattro cariche, rispettivamente i Ministeri: I) Women’s empowerment, II) Commercio, III) Salute e IV) Programmazione dello Sviluppo Nazionale.109 Nonostante ci sia stato un miglioramento nella distribuzione delle cariche, tuttavia rimane irrisorio rispetto alla portata della popolazione, le donne scelte da SBY sono intellettuali e professionals, ma il loro numero limitato causa una altrettanto ridotta partecipazione politica femminile con effetti sulla qualità della democratizzazione, al contrario qualora si decidesse di affidare sempre più incarichi alle donne (soprattutto quelle che le riguardano direttamente) con relativa facoltà decisionale e altrettanta libertà di accesso alla competizione, a dispetto delle barriere costituite dalla inadeguatezza della soglia del numero di incarichi che possono essere affidati al sesso “debole”, allora il livello di democrazia ne gioverebbe per tutto lo stato. 106 Melani Budianta, op. cit. p. 153 Ivi, op. cit. p. 154 108 Woodward, Mark R. , “Indonesia, Islam, and the Prospect for Democracy”, SAIS Review, vol.XXI, n°2 , summer-fall 2001, pp. 29-37 109 Fonte: Documento: “Women Ministers in Indonesia’s Cabinet”, Image Indonesia, Vol. XI n°12, Dicembre 2004, Indonesia, pp. 4-8 107 45 3. Dialogo con l’Occidente Nel capitolo precedente sono stati presi in considerazione il ruolo dell’Islam nelle società islamiche dei nostri due paesi, l’apporto che i movimenti musulmani hanno dato alla creazione dell’indipendenza e la concezione della donna.; molto spesso si parla di un “unico” Islam con il quale non sia possibile intraprendere relazioni, per i più svariati motivi, dal ruolo centripeto occupato dalla religione, dalla posizione di inferiorità della donna che risulta incompatibile con il concetto di democrazia, ma soprattutto in seguito all’attentato alle Torri Gemelle del 11 settembre 2001 vigono le più disparate teorie, secondo le quali non esisterebbe un Islam moderato, né tanto meno un avvicinamento possibile con l’Occidente, oppure l’equazione per la quale l’Islam debba essere irriducibilmente in opposizione alla democrazia e a tutto ciò che l’Occidente rappresenta, tendendo inoltre a generalizzare e a estremizzare ancora di più qualora si associ l’Islam solo ed unicamente al terrorismo. Questo capitolo verterà sulle diverse modalità attraverso le quali è possibile instaurare un dialogo tra Occidente ed Islam, quindi si procederà ad analizzare la cooperazione internazionale, facendo riferimento a diversi profili quali: diplomatico, economico, assistenziale e da ultimo sotto l’aspetto confessionale, arrivando a concludere la disquisizione con l’esame delle arene religiose e degli incontri multi-culturali e inter-religiosi, sulle quali nasceranno le mie riflessioni. 3.1 Cooperazione Internazionale In questo paragrafo verranno prese in considerazione le relazioni tra l’area Insulindiana e US fino alla strage dell’Empire State Building, in quanto in seguito a questo tragico evento gli equilibri internazionali subiranno una drastica alterazione; i rapporti commerciali instaurati tra due organizzazioni regionali: quella asiatica dell’ASEAN e quella europea UE; da ultimo verranno analizzate le relazioni con l’ONU contestualmente ai progressi compiuti da questi due stati nel campo dei diritti umani. 46 3.1.1 Relazioni USA – Indonesia – Malaysia fino 11/09/2001 In seguito ai tragici eventi dell’11 settembre gli Stati Uniti hanno continuato a guardare con un occhio di riguardo all’area del Sud-est Asiatico, soprattutto ai due paesi caratterizzati da una popolazione maggioranza islamica moderata. In passato l’Indonesia ha sempre giocato un ruolo importante negli interessi commerciali americani, grazie alla sua posizione cruciale per il commercio lungo lo stretto di Malacca, porta d’accesso all’Oceano Indiano e Pacifico, inoltre questo paese sotto Suharto è stato un partner importante durante la Guerra Fredda, esattamente nella fase del contenimento del comunismo nella regione Sudest Asiatica, infine oggi si aggiunge a tutti questi elementi il fattore della lotta contro Al-Qaida: con la sua popolazione, il suo Islam moderato e il suo ampio territorio, costituisce un importante avamposto antiterrorista.110 Alle prime luci dell’indipendenza indonesiana, il neo stato causò notevoli preoccupazioni al governo statunitense, l’incrollabile volontà di Sukarno volta ad una posizione di “non allineamento” comportava, di fatto, un implicito allontanamento da Washington: in un periodo nel quale il mondo si era diviso in due, affermare di non volersi schierare con USA implicava un effetto contrario, per il quale “O sei con noi [americani] o sei contro di noi.” Il primo Presidente Indonesiano da parte sua, era fermamente convinto che l’unico modo per poter conseguire il suo obiettivo (ossia uno “Stato indipendente e attivo”) fosse continuare a perseguire la via battuta dal suo Vicepresidente Mohammad Hatta: secondo quest’ultimo, qualunque deviazione dalla neutralità avrebbe comportato una perdita di potere per il governo ed una parallela crescita dell’ingerenza esterna negli affari interni al neo-stato. Hatta si rifaceva alla teoria di Wilson, secondo il quale ogni popolo godeva del diritto alla propria autodeterminazione politica. Questa dottrina venne elaborata dal Presidente Statunitense all’indomani dalla conclusione del conflitto mondiale, Hatta se ne servì abilmente nel svincolarsi dalla presa americana nascosta sotto le spoglie di aiuti economici per la ricostruzione del paese in seguito alla desolazione postbellica. La nascita ufficiale dell’adozione di una politica estera, fondata sui principi dell’indipendenza e dell’attivismo, è fatta risalire al discorso del 2 settembre 1948111 del Vice Presidente, a.k.a. Bung Hatta, elaborato come risposta alle istanze del movimento comunista Front Demokrasi Rakyat (Fronte Democratico Popolare), il quale reclamava di schierarsi con l’URSS in funzione anti-americana: “The stand that we should take is to avoid being an object in an international conflict, but we should remain a subject with the right to determine our own position, the right to fight for our own cause.”112 110 Smith, Anthony L., “A glass Half Full: Indonesia-U.S. Relations in the Age of Terror”, Contemporary Southeast Asia, vol. 25, n°3, 2003, pp. 449-472 111 Djiwandono J. Soedjati, “Indonesia’s Post Cold War Foreign Policy”, The Indonesian Quarterly, vol.XXII n°2, 1994, pp. 90-102 112 Ivi, p. 92: “La situazione che dovremo sostenere è quella di evitare di divenire oggetto di una disputa internazionale, dovremo altresì divenire un soggetto con il diritto di determinare la prora posizione e con il diritto di lottare per la nostra causa. ” libera interpretazione personale. 47 La preoccupazione di Bung Hatta era il fantasma di un nuovo “colonialismo”, ossia gli Stati Uniti avevano sì aiutato l’Indonesia a svincolarsi dal dominio coloniale degli olandesi, ma a questo punto rischiava di cambiare semplicemente “padrone”. Nel contesto della Guerra Fredda, Washington aveva utilizzato tutto il suo potere persuasivo affinché l’Olanda desistesse dalle pretese sull’arcipelago; tuttavia l’iniziale diffidenza del 1948 mostrata dall’Indonesia aveva fatto trasalire l’amministrazione Truman. La rivolta presso la città di Madium del 18 settembre 1948 per opera di truppe fedeli al Fronte Democratico del Popolo, le quali si scontrarono con altre fazioni militari anticomuniste, creò terreno fertile per le due superpotenze postbelliche; Muso Suparto113, simpatizzante sovietico e detentore delle redini della sommossa, accusa pubblicamente il governo indonesiano di essere succube dei voleri dell’Occidente e del Giappone, nonché di peccare di scarsa incisività nell’affrancarsi dagli antichi “padroni” olandesi, asserendo: "For three years our government has licked the boots of the Americans, with the result that the Americans are still supporting the Dutch . . . Up to this moment this policy continues. We have got to fight it."114 Questa rivolta si rivelò determinante nelle relazioni tra US e Indonesia, la paura statunitense di perdere la pedina di Jakarta, era tale da far retrocedere le preferenze occidentali verso l’Olanda in favore della regione Sudest Asiatica; nel novembre dello stesso anno la Repubblica Indonesiana riuscì senza alcun aiuto esterno a neutralizzare la rivolta, guadagnandosi la stima della potenza Atlantica; lo stesso Muso perse la vita negli scontri, 35000 tra membri delle truppe e supporter comunisti vennero arrestati.115 Fu in seguito a questo evento che nacque una sorta di “tiro alla fune”: la rivolta nell’area aveva suscitato una tale preoccupazione a Washington da causare una rivalutazione degli interessi Europei in favore di Jakarta; il Sudest Asiatico stava diventando sempre più una zona calda della Guerra Fredda: lo stato di belligeranza continua nella Korea del Nord, aggiunto alla presenza incalzante della Cina Comunista, costituivano degli avamposti strategici per l’URSS e un’eventuale presa della politica sovietica in Indonesia diventava un fantasma sempre più concreto per Washington, tale da rendere il suo governo maggiormente disposto a concessioni verso questa regione, sacrificando le pretese olandesi. Il gioco Indonesiano era costituito dal palesare alla potenza americana una determinazione tale nel portare avanti le proprie scelte da rendere l’appoggio statunitense inutile; d’altra parte Washington poteva sempre “giocare la carta” del ritiro degli aiuti economici in favore della ricostruzione olandese, questi due elementi, la paura di perdere la presa su Jakarta e la certezza di poter rendere l’Olanda più tollerante, aumentarono le chances per la riuscita dell’indipendenza indonesiana; per quanto riguarda quest’ultimo paese 113 Muso Suparto: insegnante Giavanese, nel 1925 accecato dalla rabbia verso i suoi capi olandesi, si unisce ad un gruppo di studio marxista, divenendo cosi comunista, partecipa a dei movimenti di protesta e viene in seguito incarcerato; riesce a scappare e si rifugia a Mosca, dove si trattiene per 23 anni, maturando così una radicata fede nella dottrina comunista. Al suo ritorno in Indonesia organizza una ribellione comunista in una delle più grandi città nel cuore di Java. 114 Fonte: http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,799244,00.html articolo del 4 ottobre, 1948 “Time” Resurrection , libera interpretazione personale “Per tre anni, il nostro governo ha lustrato le scarpe agli Americani, con il risultato che gli stessi Americani stanno ancora supportando gli Olandesi… Fino ad oggi questa è la politica vigente. Dobbiamo combatterla.” 115 Gardner Paul F. , Shared Hopes, Separate Fears – Fifty Years of U.S.-Indonesian Relations, Boulder, Colorado, WestviewPress, 1997, p. 79 48 la dipendenza economica degli ex-colonizzatori nei confronti degli Stati Uniti era considerata come una debolezza da volgere in proprio favore.116 Entrambe le teorie però si rivelarono discordanti con la realtà dei fatti, gli US infatti non potevano non tenere conto dell’opinione generale europea, il suo progetto di aiuti economici per la ricostruzione post bellica, Piano Marshall, era stato elargito a gran parte dell’Europa; l’uso della minaccia della privazione di tali finanziamenti come deterrente per azioni avverse all’Indonesia da parte dell’Olanda, avrebbe costituito un precedente troppo scomodo, soprattutto in seguito alla risposta sovietica fornita attraverso il COMECON, Consiglio di Mutua Assistenza Economica, che costituiva una valida alternativa, nonché un futuro rivale all’egida americana. In questo nuovo scacchiere le possibilità di manovra si facevano sempre più ridotte e l’aiuto finanziario non poteva più essere un potenziale strumento di persuasione: la stabilità economica poteva essere raggiunta solo attraverso la ricostruzione dei sistemi produttivi, delle città, la conversione delle industrie e l’innalzamento dello status delle società europee per affrancarsi (secondo il punto di vista statunitense) dall’eventuale dominio sovietico e arrivare dunque alla tanto agognata indipendenza economica, vice versa qualora si fosse verificata una situazione di instabilità, allora il rischio di una ondata di diffusione del comunismo in Indonesia sarebbe stato maggiore.117 In secondo luogo la ripresa del Sudest Asiatico poneva un altro tassello per i giochi di potere nell’ottica della Guerra Fredda: la neo potenza Giapponese, uscita da poco dalla chiusura alle relazioni estere, costituiva un possibile alleato o nemico per Washington, era quindi cogente un’azione comune nella prassi della politica statunitense, volta al contenimento del comunismo: ossia, onde evitare un avvicinamento tra i due colossi asiatici (Cina e il sopraccitato Giappone), gli US dovevano creare un background di stabilità e ricrescita nell’area insulindiana, situazione che avrebbe favorito rapporti tra la regione Sudest asiatica piuttosto che con la Cina comunista, che avrebbe assecondato quindi un possibile avvicinamento all’URSS. In terzo luogo, l’approvvigionamento dell’area tra i due Oceani (Indiano e Pacifico) e il finanziamento della ristrutturazione delle sue rotte commerciali, era letta in una prospettiva di lungo termine di do ut des, che avrebbe visto i primi frutti durante il periodo della crescita delle cosiddette Tigri Asiatiche. L’Indonesia e la Malaysia, cosi come tutta la zona Sudest Asiatica beneficiarono ampiamente della politica statunitense del contenimento: questa dottrina aveva applicazioni come in precedenza citato in campo finanziario, ma anche in ambito di sicurezza globale, anticolonialismo, cooperazione internazionale e promozione dei valori occidentali; quest’ultimo punto fortunatamente non venne raggiunto. La facciata di paladino della lotta al neocolonialismo costituiva un elemento importante per accedere ai favori della suddetta zona: solo in questo modo i due paesi insulindiani non si sentivano minacciati dalla presenza che si faceva sempre più incombente sui loro cieli; soprattutto nei riguardi dell’Indonesia, l’immagine di potenza antimperialista costituiva un forte elemento di stabilità in uno scenario politico caratterizzato da labili equilibri: la coalizione anticomunista capeggiata dal Vice Presidente Muhammed Hatta, sostenuta dal Partito Musulmano Masjumi e dal 116 Kivimaki, Timo, US-Indonesian Hegemonic Bargaining – Strength of weakness, Burlington, Ashgate, 2003, pp. 57-63 117 Kivimaki, Timo, op. cit. , p.62 49 Partito Nazionalista Indonesiano, la cui gretta resistenza era retta dalla credibilità fornita dalla fallace immagine statunitense. Nel 1952 Washington rivelò il suo reale obiettivo: inserire l’Indonesia all’interno della sua orbita di paesi satellitari, al fine di creare lo scudo di contenimento dell’URSS; già nel 1950 l’eventualità di accettare aiuti economici da parte degli USA veniva ostracizzata dalle forze indonesiane dell’estrema sinistra, le quali accusavano il governo di voler deviare dalla rotta della sua politica estera che si auto-dichiarava un paese indipendente e attivo. Washington aveva premura di neutralizzare o per lo meno ridurre il potere di trattativa di cui godeva la Repubblica Indonesiana, d’altra parte quest’ultima non aveva alcun interesse a stipulare un accordo con US, in quanto la sua posizione neutrale tra i due schieramenti le consentiva la possibilità di guadagnare aiuti economici senza dover corrispondere qualcosa in cambio; al contrario il raggiungimento di un accordo avrebbe creato problemi interni al governo, il quale avrebbe in primo luogo dovuto ammettere di discostarsi dalla strada battuta dal Vice Presidente e in secondo luogo avrebbe dovuto affrontare lotte intestine alla maggioranza parlamentare, con l’ulteriore rischio di produrre delle scosse alla già modesta stabilità politica. Un primo tentativo per raggiungere un accordo sulla stipulazione del Mutual Security Act, si sviluppò trai Ministri degli Esteri dei due Stati, Cochran e Subardjo rispettivamente per i governi di Washington e Jakarta; queste prime trattative vennero fraintese dal pubblico indonesiano e vennero additate come una cospirazione che parteggiava per gli interessi americani a discapito di quelli indigeni, conseguentemente a questa reazione gli accordi vennero abbandonati e il caso passò alla storia sotto il nome di “Affare Cochran”118 Il popolo indonesiano temeva l’esistenza di un accordo segreto stipulato da Subardjo, che avrebbe legato l'arcipelago ad un’alleanza con l’Occidente, limitandone la sovranità sul proprio territorio; iniziarono così a espandersi dei primi sentimenti di anti-americanismo e nazionalismo. In seguito all’affare Cochran seguirono mutamenti non solo interni alla società indonesiana, ma anche all’assetto politico: un nuovo gabinetto, meno compiacente e sicuramente poco filoamericano, venne nominato per procedere con le trattative al Mutual Security Act; la nuova coalizione non solo aveva espulso dal suo interno le frange contrarie al comunismo (Masjumi e PSI), ma aveva nel suo seno Ministri per i quali Washington nutriva dei sospetti di connivenza con l’asse filosovietico. Occorsero cambiamenti anche all’interno dell’amministrazione statunitense, nella quale al governo Truman successe quello Eisenhower, quest’ultimo pose maggiore enfasi al contenimento del comunismo, portando la dottrina del suo predecessore ad estreme applicazioni: la neutralità veniva a questo punto osteggiata, così come Dante stesso nella sua Divina Commedia, allo stesso modo per gli USA la “scelta di non scegliere” tra i paesi liberi e quelli comunisti, veniva condannata come indifferenza assoluta ai destini del mondo.119 La situazione si complicò maggiormente nel corso degli anni 50’, prima con la crisi del potere di Sukarno, che era oscurato da una sempre più forte presenza del Partito Comunista, il quale richiedeva l’appoggio del proprio esercito (che non gli era precisamente favorevole) da una parte e di Washington dall’altra; per la prima volta il 118 119 Kivimaki Timo, op. cit. pp. 108-111 Gardner Paul F. , op. cit. p. 112 50 contenimento dell’URSS e ciò che essa rappresentava, veniva concepito non solo come tutela agli interessi statunitensi, ma anche salvaguardia della sovranità indonesiana, la quale si sentiva sempre più minacciata da tale movimento. In secondo luogo la divisione esistente tra il Presidente Indonesiano e il suo esercito, diventava sempre più profonda, fino ad esplodere nel 1955, quando al potere di Sukarno e al suo partito nazionalista, i partiti di opposizione gli contrapponevano l’autorità del suo Vice Presidente Hatta. Il Presidente doveva tentare di riconquistare il potere e l’unico modo per raggiungere codesto scopo era quello di sciogliere il Gabinetto e dichiarare la Legge Marziale, dando così all’esercito maggiore influenza e allo stesso tempo guadagnandosene per certi versi l’appoggio. Fu proprio in questi anni che i rapporti con gli USA iniziarono a destabilizzarsi maggiormente: le forze militari indonesiane stavano guadagnando sempre più potere e Sukarno si sentiva sempre più costretto a cercare nuove fonti di consenso: le trovò proprio nel Partito Comunista Indonesiano. La nuova formula di governo del Presidente fu caratterizzata dalla cosiddetta “Democrazia Guidata”, grazie alla quale Sukarno assumeva i pieni poteri dello Stato e si poneva come garante di uno sviluppo consono agli interessi della massa popolare, era ormai evidente che il suo potere fosse più propenso verso un orientamento a sinistra dell’asse politico. L’esercito, sentendosi minacciato, iniziò un dialogo con Washington al fine di ricevere supporto militare come tutela dall’incalzare del movimento comunista, allo stesso tempo Hatta si dimetteva nel dicembre 1956 dalla carica di Vice Presidente, a dimostrazione della rottura definitiva con Sukarno e a sostegno dei movimenti separatisti di Sumatra e Sulawesi: il lancio della democrazia guidata aveva accentrato i poteri all’amministrazione centrale e contestualmente aveva accresciuto il dissenso dei territori periferici, i quali acclamavano con forza l’affrancamento da Jakarta. A questo punto il Direttore della CIA dell’epoca, Allen Dulles informò Washington della concreta possibilità di rivolta nella suddetta zona, qualora Sukarno fosse riuscito a portare a termine il suo piano di accentramento amministrativo; la situazione si rivelava proficua per l’amministrazione statunitense, passando dallo malcontento popolare a quello militare nel marzo del 1957 si giunse alla dichiarazione della Legge Marziale da parte del Comandante dell’Indonesia Orientale con l’elaborazione di “Piagam Perjuangan Semesta Alam-Permesta” nella quale si richiedeva un’autonomia regionale, il ritorno al potere duale di Sukarno-Hatta e infine un cambiamento radicale nella leadership delle forze armate, sotto la minaccia di intraprendere un camino di scontri per ottenere la secessione dalla Repubblica. 120 Gli scontri degenerarono con il tentativo di assassinare Sukarno e la sua famiglia tramite un attentato dinamitardo a Cikini, in occasione di una cerimonia alla quale prendevano parte i suoi figli; Dulles prontamente elaborò una relazione nella quale spiegava lo svolgimento dei fatti e, nonostante non sapesse esattamente chi fossero le menti dell’attentato, si sbilanciò nel far ricadere le accuse in capo al movimento comunista o a delle frange impazzite islamiche; tuttavia, sebbene non ci fossero delle prove di connessione con tale episodio, il partito Masjumi venne incriminato per l’incidente (e bandito insieme al PSI) e i suoi membri furono costretti all’esilio in qualità di rifugiati politici. La stessa immagine americana fu adombrata dalla vicenda: anche in questo caso non esistono delle prove al riguardo, ma all’epoca si vociferò 120 Gardner Paul F. , op. cit. pp. 133-145 51 sull’esistenza di una connivenza della CIA o di un suo coinvolgimento nell’attentato.121 L’opinione popolare si rivoltò contro l’intelligence e indirettamente all’amministrazione Eisenhower, contro la quale vennero anche mosse accuse di aver non solo aiutato finanziariamente i ribelli, ma di averne anche pilotato le decisioni; a questo punto avvenne una rapida escalation per neutralizzare definitivamente le rivolte: il centro di Sumatra venne presidiato dall’esercito indonesiano, vennero requisiti gli armamenti bellici dei ribelli, mentre i leader del movimento furono costretti a rifugiarsi nella giungla, la prima a cadere il nord di Sulawesi, successivamente le forze della Repubblica si concentrarono nell’area meridionale in cui i ribelli avevano acquisito una forza aerea attraverso la quale bombardavano posizioni governative, in seguito vennero requisiti dei documenti da quali si evinceva che gli aerei provenivano da Taiwan ed erano comandati da piloti cinesi e americani.122 Ironicamente le ingerenze americane negli affari interni all’Indonesia, suscitò l’esatto opposto degli obiettivi che avrebbe voluto raggiungere, creando una via preferenziale per i rapporti tra Jakarta e Mosca, e facendo di quest’ultimo il maggiore fornitore di armamenti per l’Indonesia.123 Verso la fine del regime di Sukarno, i rapporti con US divennero sempre più distaccati, il presidente del Panca Sila aveva finito per isolare il suo paese con le sue istanze e pretese di leadership nella regione Sudest Asiatica, giungendo fino ad una definitiva rottura nel dicembre 1964 con l’uscita repentina dalle Nazioni Unite e iniziando un avvicinamento verso Pechino che secondo i suoi piani sarebbe stato sancito dall’unione con altri paesi nella Conference of the New Emerging Forces, CONEFO, organismo rivale dell’ONU.124 Al contrario dal suo predecessore, Suharto basò la sua politica sull’appoggio sul finanziamento americano e sulla conseguente opposizione ai movimenti comunisti interni all’Indonesia; il nuovo presidente contava molto sulle relazioni con Washington, arrivando addirittura a farne la maggiore fonte di commercio e investimento. Questa inversione di rotta, il cosiddetto “matrimonio di convenienza” avvantaggiava entrambe le parti, l’unico elemento che li accomunava era la paura dell’espansione comunista, per il resto Suharto poneva l’accento sulla stabilizzazione del proprio potere, neutralizzando le autorità locali periferiche, mentre Washington mirava sempre ad avere degli avamposti contro l’URSS. Oltre alle trattative politiche ed economiche è ad uopo porre l’accento sulle contrattazioni riguardanti la tutela dei diritti umani; soprattutto in seguito agli eventi di Timor Est, Washington era particolarmente preoccupata per lo scarso livello di protezione riconosciuta nei territori indonesiani. Nel quinquennio tra il 1974-1979, le relazioni politiche tra questi due paesi erano incentrate soprattutto sulle trattative per una definizione dei diritti umani; sebbene possa a prima vista parere poco consono agli interessi statunitensi, la liberazione dei dissidenti comunisti, va letta nell’ambito 121 Abriyanto M. , “US Subversion in Indonesia”, The Indonesian Quarterly, vol. XXV n°1, 1997, pp. 88-91 122 Gardner Paul F. , op. cit. p. 155 123 Masters Edward, “The Ups and Downs of US-Indonesia Relations”, in Editors Nguyen Thang D. , Richter Frank-Jürgen, Indonesia matters – Diversity, unity, and stability in a fragile time, Singapore, Times Editions, 2003, pp. 185-197 124 Bunnel Frederick, “American <Low Posture> Policy toward Indonesia in the Months Leading up to the 1965 <Coup>”, Indonesia, 25th Anniversary Edition, n°50, October, 1990, pp. 29-60 52 di una fase di distensione della Guerra Fredda, in un’epoca in cui agli US era necessario imporsi come paladino universale dei diritti dell’uomo, senza distinzione di alcuna bandiera o ideologia politica. Fino al 1975 Washington mantenne lo stesso atteggiamento verso gli eventi di Timor Est, ossia vi era un tacito consenso all’incorporazione indonesiana di questo territorio, e offriva i suoi uffici per il raggiungimento di un accordo sulla questione tra i due paesi contendenti: l’Indonesia da una parte e il Portogallo dall’altra.125 In quest’occasione Washington dovette usare tutta la sua capacità persuasiva su due lati: da una parte per rasserenare l’opinione della Comunità Internazionale nei confronti di Jakarta, dall’altra per convincere Suharto alla necessità di scarcerare i prigionieri politici e di superare le obiezioni sollevate dall’esercito e dai gruppi musulmani anti-comunisti sul rilascio; tuttavia nel paese non esistevano solo forze avverse alla liberazione, ma sussistevano anche dei gruppi giovanili orientati verso valori filo-occidentali, tra questi assunse importanza il Centre for Strategic and International Studies, CSIS che era saldamente legato a dei leader politici che simpatizzanti con gli interessi statunitensi. Infine nell’estate del 1975 l’ambasciata Indonesiana con sede a Washington venne cautamente avvertita dell’eventualità che un paese non in regola sotto il profilo dei diritti umanitari non avrebbe potuto beneficiare di appoggi da parte di uno stato democratico; questo argomento risuonò particolarmente valido nelle “orecchie” di Suharto, portandolo a elargire concessioni ai prigionieri politici, come il loro rilascio, in cambio di maggiori aiuti militari per il suo paese e la conseguente diminuzione della stessa per gli Stati vicini. 126 L’idillio del “matrimonio di convenienza” si dissolse verso la fine degli anni 80’ quando il potere sovietico veniva messo duramente alla prova dagli eventi in Iran, Afghanistan e DDR, fino al suo sfascio nel 1990: l’Indonesia perdeva così la sua posizione forte di testa di ponte contro l’espansionismo comunista e contestualmente il suo potere di trattativa. Durante l’amministrazione Reagan il punto focale slittò da aiuti economici, alla liberalizzazione come fonte primaria della stabilità dell’area Insulindiana: ci fu un’inversione negli autori delle concessioni, non erano più gli US a fornire aiuti economici, bensì Jakarta a dover elargire garanzie di allineamento e di convinta adesione agli ideali liberali di cui Washington era il depositario; a tal fine venne creata un’organizzazione ad hoc: USAID, US Agency for International Development tra i cui scopi annoverava: I) II) III) IV) V) Progetti per la cooperazione allo sviluppo, al fine di supportare l’investimento statunitense in Indonesia, Strumenti per regolarizzare scambi commerciali, Legislazione per i diritti della proprietà intellettuale, Mercati finanziari Infrastrutture per le comunicazioni I cinque punti erano interrelati tra loro: per poter investire era necessario disciplinarne i processi, gli investitori a loro volta per poter allocare le proprie risorse richiedevano garanzie di sicurezza politica come forma di tutela dei propri mezzi, affinché i loro 125 126 Gardner Paul F. op. cit. pp. 282-293 Kivimaki Timo, op. cit. pp. 187-197 53 capitali non andassero persi durante la prima sommossa popolare. Jakarta si dimostrava restia ad accettare gli aiuti di tale organizzazione, da parte sua temeva di perdere controllo sulla gestione dei traffici all’interno del territorio, sia potere decisionale, Washington tuttavia voleva monitorare da vicino le politiche economiche, primo passo verso un efficace processo di liberalizzazione e sviluppo finanziario. Un’altra motivazione della diminuzione delle influenze statunitensi e dell’USAID nelle politiche economiche di Jakarta è ritrovata nella crescita di una potenza vicina: il Giappone; questo nuovo colosso iniziò a porsi nei confronti dell’area Sudest Asiatica come una valida alternativa agli aiuti americani. Da un rapporto dell’USAID del 1991127 si evince che la somma elargita dagli US ammontava a 86 milioni di $US, mentre quella dell’arcipelago nipponico vantava 2 bilioni di $US, quest’ultimo stava ampliando la sua macchina economica, ampliando i settori di investimento, mentre gli US dovevano distribuire le proprie risorse in diverse aree di influenza “calde” come Taiwan, Korea del Sud e Hong Kong. L’Indonesia e la Malaysia dal canto loro, erano in una fase di espansione industriale e di crescita economica, ragion per cui non potevano più essere destinatari degli aiuti dei quali precedentemente godevano in qualità di Paesi in Via di Sviluppo; il primo Stato in passato stava godendo di liquidità economica per merito delle sue risorse petrolifere, grazie alle quali poteva anche finanziare le importazioni necessarie per la sua modernizzazione, con la caduta del prezzo “dell’oro nero” la spesa pubblica aveva subito una contrazione con una conseguente privatizzazione di alcuni settori statali. In questo contesto, Jakarta non potava più fare affidamento unicamente alle proprie risorse, ma dovette fare un passo indietro in direzione statunitense, dimostrandosi ben disposti verso le richieste d’oltre oceano, quali l’abbassamento delle barriere doganali, la revisione della legislazione in materia di scambi e investimenti più favorevole agli US, infine l’aumento della tutela ai beni e copyrights stranieri: in sintesi, tutte queste concessioni richiamavano i punti focali dell’USAID. La crisi finanziaria che investì il Sudest Asiatico nel 1997, distrusse anni di rapida crescita economica, segnando allo stesso tempo l’inizio del declino di Suharto. Sarà il suo successore Habibie a compiere i primi passi verso la risoluzione della crisi di Timor, annunciando la prossimità di un referendum previsto per il 1999, il quale scatenerà in seguito ondate di violenza, ma questo sarà trattato nel paragrafo 3.1.3 relativo ai diritti umani.128 127 128 Kivimaki Timo, op. cit. p. 209 Masters Edward, pp. 188-191 54 3.1.2 ASEAN-UE: esempio di cooperazione Sudest Asiatico-Occidente L’ASEAN Association of Southeast Asian Nations, nasce nell’agosto del 1967 ad opera dei cinque paesi fondatori: Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e Thailandia successivamente si aggiungeranno nell’ordine: Brunei 1984, Vietnam 1995, Laos, Birmania 1997 e infine Cambogia 1999; l’organizzazione vanta tra i suoi scopi l’accelerazione della crescita economica, la promozione del progresso sociale e culturale, nonché presuppone rapporti pacifici tra i suoi membri. Nei primi anni della sua nascita l’Associazione non fu molto produttiva, ad eccezion fatta della creazione di una zona di pace, libertà e neutralità ZOPFAN nel 1971; il passo successivo venne compiuto nel febbraio del 1976 a Bali dove venne organizzato un primo summit, in questa occasione venne istituita la prassi di sviluppare incontri regolari tra i Primi Ministri degli Stati Membri, allo scopo di elaborare e implementare successivamente una strategia di sviluppo per la cooperazione economica. Tra le varie politiche attuate in risultato degli numerosi incontri che seguirono il primo, due meritano particolarmente la nostra attenzione: Preferential Trading Arrangements, PTA del 1977, attraverso il quale si ridussero i livelli tariffari tra membri ASEAN e nel 1992 la creazione dell’AFTA ASEAN Free Trade Area la quale istituisce una tariffa comune: Common Effective Preferential Tariff CEPT, secondo cui ogni stato membro deve rispettare un limite di produzione in materia di manufatti e proventi agricoli; lo scopo di questa politica era nuovamente quello di incrementare i rapporti commerciali all’interno dell’area, ma non solo l’ASEAN già dalla sua nascita si poneva l’obiettivo di espandere le sue relazioni anche oltre oceano; difatti Nella Dichiarazione Costitutiva di Bangkok si faceva chiaro riferimento ad una predisposizione dell’ASEAN alla cooperazione con organismi internazionali preesistenti che vantavano scopi e obiettivi simili, era quindi implicito un riferimento alla CEE. L’iniziale motivazione di questa collaborazione è da ritrovare nelle preoccupazioni della Malaysia e Singapore, ex British Dominions, di perdere il loro rapporto di favore con la loro ex madre patria, giacché la stessa Gran Bretagna entrò a far parte dell’ “Europa Unita”. D’altro canto anche la CE nutriva dei forti interessi nell’intraprendere questo tipo di relazione: il Sudest Asiatico rappresentava l’area più stabile dei paesi in via di sviluppo con le migliori potenziali e prospettive di crescita.129 L’Unione Europea rappresenta l’evoluzione della Comunità Economica Europea, nata nel 1957 in un clima ancora memore degli orrori dei due conflitti mondiali e alimentato da una comune ricerca di serenità e pace. Nel 1972 l’ASEAN lanciò il progetto SCCAN, Special Coordination Committee of ASEAN Nations, al fine di generare un proficuo dialogo con l’allora detta Comunità Europea; tramite questo strumento l’associazione elevava la CE a primo partner riservandole cosi una corsia preferenziale, pochi mesi più tardi venne istituito un altro organo: ASEANBrussel Committee ABC, al quale partecipavano gli ambasciatori accreditati a 129 Dent Christopher M, The European Union and East Asia: An Economic Relationship, London Routledge, 1999, pp. 36-46 55 missioni diplomatiche relative alla CE per agire in qualità di sottoposti in Europa e affiancare i lavori dello SCCAN, inoltre i membri dell’ABC intrattenevano regolari rapporti con la Commissione Europea al dine di discutere su argomenti generali stabiliti di volta in volta. Nel 1975 avvennero anche i primi scambi di comunicazione tra ABC e COREPER,130 dando origine a quello che in seguito si costituirà sotto il nome di AEMM ASEAN-EC Ministerial Meeting , con sede a Brussel, divenendo il pilastro del dialogo polito tra le due regioni. I due Comitati vennero creati al fine di istituire una cooperazione tra le due associazioni regionali, il primo passo in tal senso avvenne dopo due anni dalla nascita del progetto SCCAN, tramite la costituzione di un Gruppo di Studio formato da membri delle due organizzazioni, alla fine dei lavori venne stipulato un Accordo di Cooperazione a Kual Lumpur nel 1980 nel quale si sottolineava una un rapporto paritario nello sviluppo delle relazioni tra ASEAN e CE.131 Punti focali dell’accordo riguardavano dei provvedimenti sulla cooperazione allo sviluppo e alle relazioni commerciali, promozione degli investimenti, joint ventures e altre tipologie di scambi e integrazioni tecnologiche. Negli anni ‘80 l’ASEAN ricevette offerte generose in termini di aiuti economici (anche forse troppo elevati rispetto allo standard di vita del sudest asiatico),132 da parte dell’UE, quest’ultimo divenne cosi il terzo paese estero per quantità di scambi con l’area Sudest Asiatica registrando un 14,4% nel totale dei suoi traffici di import ed export, mentre dal canto suo l’ASEAN era responsabile di un 3% di export verso UE e un 2,7% per l’import. I loro rapporti commerciali rispecchiano il classico schema NordSud, rispettivamente l’UE forniva prodotti a capitale intensivo, mentre l’ASEAN n’esportava altri a caratterizzati dallo sfruttamento del fattore lavoro, da qui ne deriva la dipendenza economica dell’area verso le importazioni europee prettamente tecnologiche; tuttavia in questo decennio i loro flussi commerciali crebbero da entrambi i lati rilevando un aumento dell’84% di esportazioni europee e un 44,7% per quanto riguarda quelle asiatiche. Un altro dato importante relativo al livello di integrazione e di cooperazione delle due organizzazioni è l’incredibile capacità di compensare i due diversi tipi di produzione, uno europeo, come precedentemente esaminato, basato sullo sfruttamento intensivo del fattore capitale K, l’altro, asiatico, incentrato sull’uso intensivo del fattore lavoro L; è proprio grazie a questa caratteristica peculiare asiatica che molte compagnie occidentali hanno espanso le proprio sedi in questa zona, riallocandovi la loro forza lavoro; risulta infatti più vantaggioso stabilire delle industri manifatturiere, ad esempio, in zone dove il fattore L è sfruttato intensivamente e quindi più remunerativo sotto il profilo del profitto imprenditoriale. In seguito alla stipulazione dell’Accordo del 1980 nacquero delle tendenze verso una collaborazione non più solamente a livello economico, ma soprattutto a livello politico: questi erano gli anni di instabilità decretati dalla crisi del Vietnam e 130 COREPER: Committee of Permanent Representatives è un organo dell’Unione Europea, composto da alti rappresentanti di ogni stato membro, le sue funzioni sono quelle di preparare i lavori del Consiglio dell'Unione Europea e di svolgere compiti da questo stesso assegnati, inoltre ha potere di proposta alla Commissione europea. 131 Connors Michael Kelly - Davison, Remy - Dosch, Jörn, The New Global Politics of the AsiaPacific, London e New York, Routledge, 2004, pp. 104-106 132 Dent Christopher M, op. cit. p. 49 56 dall’invasione sovietica dell’Afghanistan, argomenti che divennero oggetto di ampie discussioni in seno ai AEMM con conseguenti previsioni di nuovi piani per incrementare la collaborazione economico-politica. Nel primo caso, entrarono in gioco numerosi interessi polico-strategici della Francia (spalleggiata sa Grecia e Irlanda) la quale si dimostrava particolarmente favorevole all’invio interventi umanitari nelle terre del Mekong, mentre alla fine della riunione venne comunque negato a maggioranza l’invio di aiuti di qualsiasi natura civile e militare. Nel secondo caso ci fu una comune presa di posizione nel condannare l’azione sovietica e nell’auspicare un prossimo ritiro delle forze armate dall’Afghanistan, in questa vicenda sostennero fortemente una violazione del diritto internazionale da parte della potenza URSS.133 L’attacco alle due torri ha creato anche in questo caso un avvicinamento tra i due schieramenti economici, la scelta di collaborare allo sviluppo della sicurezza internazionale evitando l’isolazionismo, ha confermato le similitudini intrinseche all’ASEAN e UE. Il numero crescente di accordi economici e sulla sicurezza internazionale, fa prevedere un futuro di coesione tra Asia ed Europa, quest’ultima inizia a guardare con interesse all’area del Sudest asiatico, in quanto prevede che la zona assumerà pian piano un ruolo chiave grazie al suo veloce sviluppo economico.134 3.1.3 ONU, ONG e Diritti Umani La modernizzazione degli Stati da un punto di vista economico e sociale ha comportato anche un’evoluzione dal punto di vista giuridico, giungendo così prima ad elaborare dei diritti civili e politici, per poi giungere alla protezione dei diritti cosiddetti umani; questi ultimi sono quei prerogative che fanno capo all’individuo, la categoria racchiude al suo interno svariati diritti, come quello alla vita o alla dignità umana. Kofi Annan li definisce come segue: “Human rights are the foundation of human existence and coexistence. Human rights are universal, indivisible and interdependent. Human rights are what make us human. They are the principles by which we create the sacred home for human dignity.”135 L’insieme di questi diritti è stato trascritto in vari testi della giurisprudenza, come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo in sede ONU e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione 133 134 135 Doidge Mathew, “Inter-regionalism and Regional Actors: TheEU-ASEAN Example” in Ed. Wim Stokhof, Paul van der Velde, Lay Hwee Yeo, Yeo Lay Hwee, The Eurasian Space: Far More Than Two Continents, International Institute for Asian Studies, Institute of Southeast Asian Studies, Singapore, 2004, pp. 39-57 Bruun-Jensen Signe, Delman Jorgen, Van der Geest Willem, “Can the EU play a meaningful role in Asian Security?”, NIAS nytt: Nordic Newsletters of Asian Studies, n°1Marzo 2006, pp. 20-21 Fonte: http://www.suhakam.org.my/en/hr_what_is.asp “ Diritti Umani sono il fondamento dell’esistenza e coesistenza umana. I Diritti Umani sono universali, indivisibili e interdipendenti. I Diritti Umani sono ciò che ci rende esseri umani. Sono i principi grazie ai quali è possibile la creazione della sacra casa per la dignità umana” 57 Europea, solo per fare alcuni tra gli esempi più conosciuti nostrani. La prima UDHR136 fu adottata dall’Assemblea Generale degli Stati Uniti nel 1948, è fondata su quattro capisaldi: la libertà di parola e di professione di fede, infine la libertà di volere e dalla paura; si divide in due parti, una dedicata ai diritti civili e politici nei quali si ritrovano libertà dalla tortura punizioni inumane, crudeli e degradanti per la dignità della persona (art. 5), libertà dall’arresto arbitrario, detenzione o esilio (art.9), libertà di spostamento (art. 13), diritto alla libertà di associazione e assemblea pacifica (art.20), diritto di partecipazione elettorale attiva e passiva (art.21), nella seconda parte invece vengono elencati i diritti economici, sociali e culturali: diritto alla vita familiare (art. 16), diritto ad una giusta e sana condizione lavorativa (art. 23), diritto ad uno standard di vita adeguato alla salute e al benessere, nei quali vengono compresi l’alimentazione, abbigliamento, cure mediche e housing (art. 25), diritto all’educazione (art. 26) diritto a partecipare liberamente alla vita culturale della comunità, infine di condividere i frutti dello sviluppo scientifico e i benefici derivanti (art. 27). In Malaysia l’applicazione dell’UDHR è subordinata alla Costituzione Federale, ossia solo nella misura in cui non vi siano principi discordanti con quest’ultima, i Diritti Umani potranno godere di una copertura giuridica. Questo è un grosso limite per il livello di rule of law malaysiano, codesto stato si difende facendo riferimento al principio all’autodeterminazione, per il quale (attraverso un’interpretazione estensiva) non sarebbe legittimo imporre dei principi discordanti con la Legge Fondamentale, affermando che potrebbe essere considerato come una prevaricazione della sovranità e come intrusione negli affari interni al paese. Sebbene abbia provveduto a dotarsi di uno strumento, quale la Commissione per i Diritti Umani, UDHR, che all’atto 597 prevede quanto segue: “For the purpose of this Act, regard shall be had to the Universal Declaration of Human Rights 1948 to the extent that it is not inconsistent with the Federal Constitution”,137 tuttavia un certo livello di tutela ai diritti umani viene concesso nella stessa Costituzione Malese, negli articoli dal 5 al 13, i quali nominano i seguenti principi: diritto alla vita, alla libertà personale, all’uguaglianza di fronte alla legge, proibizione della schiavitù e ai lavori forzati, protezione contro leggi penali retroattive, proibizione di bandire un cittadino, libertà di movimento, libertà di parola, di libera associazione e assembleismo, libertà di religione e infine il diritto allo sviluppo economico. Un altro limite però viene allo stesso tempo posto dall’UDHR, ossia: l’esercizio dei suddetti diritti deve essere bilanciato e circoscritto nei limiti che solo la legge può delineare, potrà pertanto venir ridotta la capacità d’azione di quei diritti che possano in qualche modo minacciare il mancato rispetto dei principi di sicurezza o di libertà terze, per ragioni di ordine pubblico, morale, benessere generale propri di una società democratica; ulteriormente nessuno Stato, gruppo o individuo detiene la capacità legittima di intraprendere qualsiasi sorta di attività, il cui scopo precipuo sia la distruzione diritti e libertà compresi nella UDHR. L’iniziativa di costituire un’istituzione nazionale per i diritti umani in Malaysia, si pone sul trend positivo degli anni ’90, decennio in cui questo 136 137 Universal Declaration of Human Rights Per gli scopi di questo Atto, deve essere concesso attenzione alla Dichiarazione dei Diritti Umani del 1948, a patto che questo non risulti essere discordante con la Costituzione Federale. 58 paese ha partecipato intensamente alle attività del UNCHR, United Nations Commission on Human Rights, venendo anche eletto come leader della delegazione di varie sessioni in diversi archi temporali (1996-98 e 2001-2003). In questa sede è necessario inoltre sottolineare il ruolo del leader della delegazione malese in sede UNCHR, Tan Sri Musa, che già nel 1994 suggerì al governo l’opzione di creare un’istituzione nazionale per la protezione dei diritti umani. Ad influenzare l’avanzamento della proposta concorsero vari fattori: in primo luogo l’attenzione internazionale crescente nei confronti dell’argomento, seguita dalla partecipazione sempre più attiva del governo di Kuala Lumpur all’interno del sistema delle Nazioni Unite, anche la società civile aveva influito nella decisione; quest’ultima nel corso degli anni era divenuta sempre più attiva e partecipativa alla vita politica malese. Questo mutamento era il risultato di una democratizzazione che penetrava sempre più all’interno dell’area insulindiana, un elettorato dinamico che dimostra ampie capacità di scelta, influenza fortemente l’operato dei partiti, incrementando quindi il grado di responsability del governo. Nel 1999 venne finalmente emanato un decreto con il quale si predisponeva il paese a dotarsi del suddetto organo, il quale avrebbe preso il nome di: Human Rights Commission of Malaysia, il suo primo Presidente sarebbe stato proprio il fautore della proposta iniziale: Tan Sri Dato' Musa bin Hitam. Al suo interno, il SUHAKAM rispecchiava la diversità e il pluralismo della società malese, dando ampio spazio alle varie componenti che avrebbero pertanto rappresentato i vari interessi della Federazione. Al fine di facilitare e velocizzare i lavori dell’organismo, vennero creati dei gruppi di lavoro su particolari argomenti, come ad esempio nel settore dell’ educazione, delle riforme alle leggi, trattati, strumenti economici, diritti economici, sociali e culturali; questi gruppi venivano istituiti di volta in volta allo scopo di fornire competenza specifica e svolgere le funzioni efficacemente e in maniera produttiva. Accanto ai sistemi propri dell’ONU e dell’Unione Europea, esistono altri insiemi regionali che hanno cercato di darsi un comune accordo sulla questione dei Diritti Umani: in ambito Africano esiste, l’Unione Africana, mentre verso Oriente ritroviamo Commissione Asiatica dei diritti umani (AHRC) e la Carta comune dell'Asean. Nel campo dei diritti umani l’Indonesia ha avuto già alle prime luci della sua indipendenza numerosi tremblements, passando da un primo trentennio in cui dominava la dittatura militare, la quale fu interrotta da un golpe sanguinario al quale fece seguito una persecuzione degli oppositori, che si prolungò tristemente nel tempo, registrando elevati tassi di violazioni ai diritti umani, con esecuzioni e torture. Tuttavia, in tempi più o meno rapidi, l’arcipelago è diventato (senza passare per un cambiamento cruento), una democrazia riconosciuta anche dalla Freedom House. Le sfide alla stabilità e alla durata dello Stato indonesiano non risalgono unicamente alla politica e ai diversi Presidenti che si sono susseguiti dopo la caduta di Suharto, altre minacce hanno natura interna ed esterna; nel primo caso la mente richiama immediatamente i conflitti nati dai movimenti separatisti propri della regione dell’Aceh, o l’annessione di Timor Est e la contesa della regione Papua-Nuova Guinea. Il primo caso costituisce un esempio sulla nuova tendenza indonesiana su come affrontare i problemi interni, passando da un modello prettamente autoritario ad uno democratico, attraverso la 59 continua ricerca del dialogo.138 I territori hanno una lunga storia di militanza, questa zona già in passato aveva lottato contro i Portoghesi e gli Olandesi, per poi insorgere nel 1953 in una ribellione, Darul Islam, che mirava alla creazione dello Stato Islamico.139 L’eco di questa rivolta si espanse in tutta l’Indonesia creando, nella maggior parte dei territori, ansia per lo sviluppo della rivolta, mentre le aree di Sulawesi Meridionale e Java Occidentale fornirono appoggio morale e fisico al tumulto, l’ondata di violenza di spense solo con la promessa del governo di garantire uno statuto speciale alla regione, con ampi poteri di autonomia in ambito religioso, educativo e per quanto riguarda le leggi consuetudinarie. All’epoca questa promessa concluse le lotte, ma il mancato riscontro con la realtà fece scattare nuovamente la leva della secessione: nel 1976 ci fu una nuova dichiarazione di indipendenza da parte del leader del GAM140 Muhammed Hasan Ditiro, con successivi attacchi contro le truppe governo; solo nel 1983 Jakarta riuscì a battere il GAM e il suo leader che fuggiva in Svezia. Il movimento, tuttavia, non aveva abbandonato i suoi obiettivi e dopo anni di silenzio il GAM era riuscito a dare forma al suo braccio armato AGAM, per mezzo del quale lanciò nuove offensive nel 1989 e 1992, entrambe represse dal governo. Questi saranno gli anni di numerose violazioni dei diritti umani da parte di Jakarta; i soldati indonesiani utilizzarono immediatamente alcune delle lezioni che provenivano dal contemporaneo esercizio bellico in Iraq: il divieto alle organizzazioni umanitarie di intervenire o l'estrema difficoltà per i giornalisti di fare il loro lavoro se non affiliati ai militari, esecuzioni extragiudiziarie, bombardamento della popolazione civile.141 Uno spiraglio di luce si aprì finalmente sotto la presidenza Wahid, il quale inaugurò un dialogo con il GAM attraverso il raggiungimento di un accordo tra i rappresentanti dello stato e i ribelli, entrambe le parti firmarono un documento chiamato “Joint Understanding for Humanitarian Pause of Aceh.” Attraverso questo patto fu concesso l’ingresso agli aiuti umanitari e alle organizzazioni internazionali che volevano prestare i loro servizi alla popolazione bisognosa, altri tentativi furono intrapresi dal governo per raggiungere una qualche forma di intesa volta alla risoluzione del conflitto, tuttavia il GAM restava fermamente ancorato nelle sue opinioni, mostrando di non cedere alle offerte se queste non avessero incluso l’indipendenza. Verso la fine del 2002 le due parti riuscirono ad accordarsi attraverso COHA, Cessation of Hostilities Agreement, che implicava la formazione di un Comitato costituito da membri scelti dal governo indonesiano e dal GAM, avente le seguenti funzioni: monitorare l’andamento della chiusura delle ostilità, appurare la persistenza di violazioni all’intesa punibili con sanzioni. Per quanto riguarda le cause esterne, si può far riferimento alle pressioni effettuate dall’ONU, UE e varie ONG per le violazioni dei diritti umani; a queste se ne aggiunsero altre naturali come ad esempio il disastro del 2004 dello tsunami che distrusse ampie zone della regione Sudest Asiatica, infine un elemento outsider: il terrorismo islamico che si è abbattuto con tutta la sua forza nel paradisiaca isola di 138 Wanandi Jusuf, “Indonesia: a failed state?”, The Washington Quarterly, summer, vol. 25 n°3, 2002, pp. 135-146 139 Wiryono Sastrohandoyo., “The Aceh Conflict: The Long Road to Peace”, The Indonesian Quarterly, vol. XXXI n°3, 2003, pp. 262-267 140 GAM: Gerakan Aceh Merkeda, Movimento dell’Aceh Libero 141 Meuleman Johan, “From New Order to National Disintegration”, Archipel 64, 2002, pp. 81-99 60 Bali. Nella labile cornice si stagliano tuttavia dei notevoli risultati che quest’arcipelago è riuscito ad ottenere: la legge elettorale grazie alla quale l’elezione del Presidente avviene per opera della maggioranza del popolo (che giunge addirittura in un momento di profonda crisi), la nascita di numerosi partiti,142 ma soprattutto un punto di fondamentale importanza è costituito dalla riduzione dell’operatività dell’esercito e il sradicamento del potere e dell’influenza di cui precedentemente abusava. Nonostante i successi che il governo Indonesiano è riuscito a conquistare, è necessario analizzare anche le grosse violazioni ai diritti umani da esso stesso perpetuati, in modo tale da poter giudicare il livello di adeguatezza raggiunto dal organo preposto al controllo dei Diritti Umani nell’arcipelago: Indonesia's National Human Rights Commission; fu lo stesso Suharto a predisporre la sua istituzione, che avvenne nel 1993 con decreto Presidenziale n°50.143 All’indomani dalla sua istituzione, l’opinione pubblica internazionale nutrì forti dubbi nei confronti della concreta efficacia del nuovo corpo, era più propensa a giudicare l’iniziativa in termini di prestigio politico di Suharto piuttosto che ad una reale convinzione del Presidente Indonesiano alla lotta ai crimini umani, oppure come mero strumento capace di tutelare le violenze perpetuate dall’esercito nello zone calde (come il caso di Timor).. La Commissione nei suoi numerosi atti, si pronunciò anche sugli eventi di Timor, nella quale città istituì nel 1995 un ufficio avente lo scopo di monitorare lo sviluppo della vicenda, grazie a questa testa di ponte riuscì a compiere delle ricerche e a contraddire palesemente le relazioni finali elaborate dall’ABRI144 Qualunque fossero le vere intenzioni, dopo quattro anni dalla sua istituzione, l’organo iniziava a dare i primi segni di una concreta lotta alla tutela dei Diritti Umani e un elevato livello di indipendenza dal governo nel giudicare e condannare i casi che di volta in volta le venissero proposti. Nonostante l’Indonesia faccia parte dei principali strumenti volti alla tutela dei Diritti Umani, come “Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le donne, la Convenzione sui Diritti del Bambino; la Convenzione Contro la Tortura; la Convenzione sull’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione Razziale; il Patto sui Diritti Civili e Politici e il successivo sui Diritti Economici, Sociali e Culturali. Oltre all’aver sottoscritto a tutti questi patti, ha anche provveduto a rafforzare l’azione del suo organo attraverso l’istituzione di un altro commissioni nazionali volte alla tutela della donna e del bambino. Questo mutamento alle tendenze autoritarie proprie del governo Suharto, sono state man mano abbandonate, a dimostrazione di questo changement la Costituzione è stata arricchita da nuove tutele, facendo dei diritti umani un pilastro della nuova fase di democratizzazione, con una conseguente integrazione dell’arcipelago nel “concerto internazionale” e una nuova concezione della Comunità Internazionale nei confronti dell’Indonesia. La Commissione è guidata dal principio del Panca Sila e dalle Convenzioni Internazionali dei Diritti Umani, nello specifico si occupa di espandere la consapevolezza sulla tutela di tali diritti sia a livello nazionale che internazionale, utilizza anche gli strumenti posti in essere dall’ONU elaborando 142 In precedenza gli organismi partitici ammessi erano quello del governo GOLKAR, ed altri affini i quali dovevano godere dell’approvazione del regime 143 Documento: “Indonesia's National Human Rights Commission: A Step in the Right Direction?” di Talwar Monika, Fonte: http://www.wcl.american.edu/hrbrief/v4i2/indo42.htm 144 ABRI: è la sigla delle forze armate indonesiane 61 ratifiche e approvazioni, un'altra funzione è quella di monitorare ed effettuare delle indagini sul livello del rispetto dei diritti umani al fine di poter fornire delle opinioni e suggerimenti al governo stesso; infine ha anche l’obbligo morale di incoraggiare la cooperazione regionale e internazionale nella promozione e tutela dei diritti umani. Tuttavia un limite della Commissione è costituito dalla mancanza di una funzione di indagine attiva, ossia, una volta appurata la violazione, non ha potere di poter giudicare e condannare abusi comprovati dalle sue ricerche; l’assenza di questa capacità svuota in un certo senso di effettività l’azione di questo organo, limitandone le possibilità che avrebbe di poter fare la differenza. La legalità della Commissione trae la sua forza da un atto presidenziale, perciò molti osservatori giudicano ancora cautamente tale organo, la qualità di “creazione dello stato” porta a temere la possibilità da parte del Presidente di sciogliere l’ente, attraverso la semplice emanazione di un nuovo decreto, non solo, un’altra causa della sua indipendenza lacunosa è da ritrovare nei fondi statali dai quali trae finanziamento, facendo anche in questo caso temere una dipendenza da tali fondi che potrebbero venir ridotti o completamente annullati in qualsiasi momento, minando ulteriormente l’operatività della Commissione. Non esistono nemmeno dei meccanismi legali atti a proteggere l’integrità di quest’organo da commistioni con il governo o forme di clientelismo: durante il regime di Suharto, ad esempio, ventuno membri furono scelti dallo stesso presidente, in virtù dei legami che avevano intessuto con quest’ultimo, ma ancor più grave è la rivelazione che numerosi di questi “raccomandati” si macchiarono di violazioni nei territori di Timor. Questi suoi “anelli deboli” tuonarono durante le ribellioni degli anni ’90, in cui l’esercitò compì abusi di ogni genere al fine di neutralizzare le rivolte; tuttavia si deve apprezzare gli sforzi che la Commissione ha effettuato per affrancarsi in qualche modo dalla nube governativa, non bisogna certo dimenticare gli episodi in cui denunciò ingenti violazioni, rilasciando articoli che colpivano l’opinione internazionale, e quindi, solo indirettamente Jakarta. Nel 1994 la Commissione si adoperò nelle indagini dell’assassinio di un attivista di Timor Est, Marsinah, suscitando gravi critiche da parte del Segretario di Stato, che accusava l’organo di aver oltrepassato il limite dei suoi poteri con le sue dichiarazioni alla stampa. L’anno successivo sarà la volta del sopraccitato scandalo dell’ABRI, quest’ultimo aveva infatti “liquidato” l’assassinio di sei persone a Timor, con l’accusa essere membri del FRETELIN e come tali sospettati di essere coinvolti nella manovre di guerriglia; la Commissione invece appurò non solo che le sei vittime non fossero coinvolte nelle rivolte, ma addirittura fossero state esse stesse oggetto di torture da parte dell’ABRI. A partire dal 1986 si assiste ad un’escalation delle attività della Commissione, la quale diventa sempre più incalzante : in questo anno propose al governo l’abolizione la legge del 1963 sull’eliminazione delle azioni sovversive; l’amministrazione centrale faceva spesso uso e abuso di questa norma, secondo il suo testo, la neutralizzazione di frange sovversive che minacciavano la sicurezza e l’armonia del paese era una forte elemento disgregante, tale da giustificare il ricorso a numerose violazioni: era dunque permesso la condanna alla pena di morte per azioni che distorcevano o deviavano dall’ideologia dello stato, oppure per chi sobillava il popolo con la distribuzione di semplici libri; purtroppo in governo accolse il suggerimento, senza però dargli un’effettiva applicazione. A partire dal 1998 si sono susseguite numerose operazioni di promozione e di protezione dei diritti umani, 62 attualmente sta provvedendo a implementare il suo secondo piano nazionale per l’arco temporale 2004-2009, nel quale è prevista la creazione di numerosi comitati provinciali, regionali e agenzie con sede a Jakarta, questi nuovi avamposti avranno la funzione di coadiuvare e coordinare l’azione generale del Commissione. Il ruolo dell’Indonesia non si conclude all’interno dei suoi territori, ma si esplicita ancor più in sede ASEAN, in questo contesto Jakarta svolge un ruolo di leadership e guida verso lo sviluppo democratico della zona e per la promozione della tutela dei diritti umani. 3.2 11/9/2001 Una Nuova Sfida: Insieme contro il terrorismo Gli eventi dell’undici/nove hanno cambiato completamente il panorama delle relazioni internazionali e con esso la visione del globo terreste nei confronti dell’orizzone musulmano: le immagini dei due aerei che scorrevano a ripetizione in diretta mondiale, parevano il solito film apocalittico e invece era la dura realtà. L’attacco alle due Torri, ha inflitto un duro colpo al cuore dell’Occidente, laddove nessuno mai era arrivato; sebbene gli Stati Uniti abbiano combattuto numerose guerre, queste tuttavia si svolgevano sempre in territori lontani dalla propria patria, Al-Qaeda invece si è spinto fino alle porte Statunitensi, simbolo stesso della cultura occidentale. In seguito a questo tragico evento gli US hanno rivisto ampiamente la propria politica nei confronti dei territori musulmani, mentre nei riguardi dei due paesi oggetto di questa analisi si è assistito ad un avvicinamento delle tre amministrazioni, ma non solo, anche un’intensificarsi degli aiuti reciproci sia in seguito a Kathrina che allo Tsunami asiatico, e ancor più è nata una speranza per il futuro dell’Islam moderato, rappresentato proprio dall’Indonesia e dalla Malaysia. L’Indonesia all’indomani dell’undici settembre condanna prontamente l’azione di Al-Qeda e risponde elaborando un piano volto alla lotta al terrorismo, secondo il quale per fornire effettività e proficuità all’azione, sarebbe necessario formare un fronte comune con due elementi: braccio e mente, rispettivamente, forze di polizia e ulama, che cooperano fianco a fianco per la neutralizzazione del movimento terrorista. Il primo fattore si occuperebbe pertanto del fronte fisico con l’uso ponderato della forza, mentre il secondo porterebbe avanti una politica sul piano intellettuale ed ideologico, questo secondo approccio costituisce la chiave per la svolta in quanto minerebbe le basi dell’ideologia di Al-Qaeda, e i suoi inni allo Jihad come prova della fedeltà musulmana. La disapprovazione da parte degli ulama, ergo da una fonte autorevole islamica, è più intrisa di valore rispetto a qualunque mezzo militare, armato, o anche la stessa incarcerazione, tutte queste riposte generano solo astio: la violenza alimenta altra violenza, e si rischia addirittura di creare nuovi miti (propri dell’Islam sciita) ossia la figura del martire. La condanna al terrorismo, che utilizza impropriamente alcune parti dei versetti del Corano per giustificare i suoi scopi, da parte degli ulama, rende le basi del pensiero dei cosiddetti estremisti 63 islamici completamente infondate, tanto da depauperarli di qualsiasi autorità di poter emettere giudizi religiosi, in quanto a detta degli ulama indonesiani “i terroristi hanno frainteso e ancor più stravolto il messaggio originale della Parola di Allah.”145 Un’altra importante dichiarazione, effettuata dall’autorevole leader del NU e membro della forza antiterrorista: Hasyim Muzadi, il quale annuncia il 22 novembre 2005 un’iniziativa che prevede la stampa di libri, redatti dalle più importanti organizzazioni islamiche, allo scopo di opporsi alla fallace dottrina terrorista.146 Gli intellettuali moderati, attorno ai quali ruota la maggioranza di musulmani indonesiani, chiedono anch’essi una reinterpretazione legittima dei versetti Coranici; sarà proprio seguito a queste due prese di posizione che il NU agirà concretamente spingendo organizzazioni musulmane a provvedere alla stesura di codesti testi, il cui obiettivo sarebbe proprio quello di confutare le teorie terroriste sul concetto di jihad. Purtroppo l’Indonesia non è abitata solo dall’Islam moderato, al suo interno vi sono anche alcune frange estremiste, che inizialmente sono nate sotto forma di intolleranze religiose, con ambizioni separatiste, successivamente confluiranno in estremismi internazionali; riprendendo il discorso del Presidente NU, questi accenna anche alle idee di Imam Samudra147 proponendo addirittura la messa al bando dei suoi libri inneggianti al terrorismo.148 Susilo Bambang Yudhoyono, pone l’accento su un punto fondamentale nell’analisi della psicologia terrorista: ossia, tentare di ritrovare le basi sulle quali tale consenso poggi. Il Presidente Indonesiano suppone l’esistenza di una relazione direttamente proporzionale tra il livello di povertà e l’influenza terrorista: laddove esista povertà e ignoranza, magari per mancata informazione da parte dei mass media (che possono proprio non esistere o venire pilotati dal regime stesso), è allora in questi che Al-Qaeda trova terreno fertile per poter impiantare le sue radici.149 La Malaysia, alla stregua dell’Indonesia attuerà lo stesso atteggiamento ambivalente, elevandosi ad osservatore imparziale: condannando da una parte l’attentato alle due Torri, ma allo stesso tempo e modo, riterrà illegittimo l’attacco statunitense all’Afhanistan; la strategia adoperata in questo contesto da Mahathir, sarà appunto quella di formare un fronte comune con le vittime di entrambi gli Stati.150 Il suo obiettivo era quello di compiere una netta distinzione tra uno stato musulmano moderato e i terroristi, infatti, la Federazione Malese detiene insieme all’Indonesia un ruolo importante ai fini dell’immagine dell’Islam: entrambi sono due paesi a maggioranza musulmana ed entrambi e pertanto vengono visti da Bush come “due nazioni che si interporranno tra l’Occidente e gli estremisti nel ruolo di mediatori 145 Documento: “RI wages <<Two-Front War>> on Terrorism, Image Indonesia, Vol.13, n°12, Dicembre 2005, Indonesia, p.20 146 Documento: “Second International Roundtable on <<Islam and Democratization in Southeast Asia: Challenges and Opportunities>>”, Image Indonesia, Vol.XIII, n°1, Gennaio 2006, Indonesia, pp. 2729 147 Imam Samudra: scrittore molto popolare in Indonesia, e condannato a morte per l’attentato di Bali 148 Documento: “Ulema to Publish Books on Jihad”, Image Indonesia, Vol.13, n°12, Dicembre 2005, Indonesia, p. 41 149 Documento: “Susilo’s Priorities in 2005 and his diplomatic skill”, Image Indonesia, Vol.11, n°12, Dicembre 2004, Indonesia, pp. 2-3 150 64 pacifici”151 Il Presidente Statunitense si occupò personalmente di chiamare Mahathir per ringraziarlo del suo gesto carico di empatia per le vittime del Trade Center e per proporgli una collaborazione alla lotta contro il terrorismo. In quest’occasione discussero anche le ripercussioni economiche che sarebbero derivate dall’episodio in questione, accordandosi sulla tipologia di tattiche e di nuove forme di cooperazione internazionale, necessarie per superare il periodo di crisi. A questo rinnovata vena cooperativa seguirono numerosi incontri tra le due figure, Mahathir tuttavia tendeva a voler evidenziare i problema di fondo del terrorismo: la Palestina; per poter sradicare la forza prorompente dei talebani si rendeva assolutamente necessario passare per il conflitto Israelo-Palestinese. Attuando questa politica Mahathir riusciva a dare risalto alla sua figura di amico dell’Occidente, ma allo stesso modo dimostrava di non aver tuttavia dimenticato la “spina nel fianco” dei paesi arabi. All’indomani dell’attacco statunitense all’Afghanistan il Premier Malese non poté sottrarsi dal condannare tale azione, non solo risultava sprovvista da obiettivi tattico-militari, ma mirava ciecamente sulla popolazione afghana, che non era costituita unicamente da talebani; gli US con questa prepotente risposta, si poneva quasi alla stessa stregua di Al-Qaeda, Bush aveva ferito vittime civili estranee al terrorismo. Un nuovo atteggiamento si evinceva nella prassi dell’amministrazione statunitense, post-settembre 2001, ogni mezzo veniva ritenuto lecito per combattere ed estirpare il gene dell’Islam estremista; la stessa Malaysia si mostrava preoccupata dal nuovo trend, in un memorandum del 2002, che il governo malese sottopose all’ambasciata US, si denunciavano trattamenti e abusi verso prigionieri talebani nella base navale di Guantanamo, sita a Cuba. Un altro esempio d’inversione di rotta, è fornito dalle numerose limitazioni per ottenimento della carta verde necessaria per l’ingresso legale negli US, il governo intendeva in questo modo innalzare delle barriere ai movimenti di musulmani all’interno del proprio territorio: secondo questa norma, i musulmani di sesso maschile tra i 16 e 45 anni dovevano attendere un minimo di venti giorni prima che le loro domande fossero prese in considerazione; questo lungo periodo permetteva alla CIA e FBI di analizzare le schede dei richiedenti; i legami che i due paesi man mano intrecciavano, divenivano sempre più fitta in parallelo alla crescita dell’interdipendenza dei loro stessi interessi. L’insorgere del terrorismo a livello internazionale ha finanziato i vari focolai di guerra presenti nell’area del Sudest Asiatico, contribuendo a trasformare piccole lotte territoriali, in un movimento più ampio e organizzato. Nel gennaio 2002 il governo di Singapore rilasciò delle preoccupanti dichiarazioni relative ad un gruppo terrorista noto con il nome di Jamaah Islamiah, nelle quali svelava l’esistenza di alcune cellule operative nell’area indonesiana e malese, quest’ultimo stato già nel 2000 aveva accusato i primi colpi inferti dall’influenza di Al-Qaeda. Un gruppo partner di Osama Bin Laden, Al Maunah, era riuscito ad attaccare e derubare un campo militare della finanziato dalla Federazione Malese, mentre in tempi più recenti i “tentacoli” terrosti si sono espansi anche all’interno di un altro gruppo militante: Kumpulan Mujahieed 151 Shansul A. B. , “Beyond 11 September: A Malaysian Response”, NIAS nytt: Nordic Newsletters of Asian Studies, n°4 Dicembre 2001, pp 6-7 65 Movement (KMM), tra le varie accuse che gli si muovono, vi è quella di aver minacciato la sicurezza pubblica attraverso uccisioni, sequestri e rapine in banca.152 3.3 Dialogo Interreligioso Le tre grandi religioni monoteiste che ancor oggi sopravvivono, ossia l’Islam, il Cristianesimo e l’Ebraismo affondano le loro radici nella stessa cultura, ma non solo nascono anche negli stessi territori. E’ strano pensare come delle fedi che traggono origine dallo stesso contesto siano poi arrivate a combattersi l’una con l’altra. Il Cristianesimo aveva mosso un passo avanti rispetto all’Ebraismo, avendo riconosciuto Gesù come figlio di Dio, i musulmani a loro volta hanno riconosciuto le due religioni precedenti, aggiungendo un nuovo elemento: l’ultimo profeta mandato da Allah per consegnare l’ultimo messaggio prima del Giudizio Finale. A testimonianza della “parentela” tra le tre religioni del libro interviene un passo del Corano153, che recita: “Coloro che credono [i musulmani], coloro che praticano il giudaismo, i cristiani, i s sabées – coloro che credono in Allah e al Giorno del Giudizio e compiono opere pie - , avranno la loro retribuzione dal loro Signore. Costoro non dovranno aver paura, nè essere tristi”154 Questo versetto del Corano si eleva a religione realmente universale, perché pone sullo stesso livello tutte le religioni fondate su un libro sacro, garantendo a tutte queste le stesse possibilità di salvezza, senza far per questo distinzione su quale Dio adorare, perché fondamentalmente nonostante i mille nomi che gli si voglia attribuire, l’essenza della fede è sempre racchiusa nella sua entità superiore. Vorrei richiamare il pensiero di un grande pensatore contemporaneo tunisino che, nel 1997, ha ricevuto il premio che la Fondazione Agnelli ogni anno assegna per il dialogo tra le culture: Mohammed Talbi. Postula l’esistenza di due elementi propri dell’Islam e altri due per l’Occidente, il primo occuperebbe una sfera sociologia che si espande in un’area geografica più o meno determinata, ma che non implica la fede, ma racchiude in se una cultura e una civilizzazione specifica, poi subentra l’ingrediente religioso, come pura convinzione e fede; è importante sottolineare che per Talbi i due fattori non si identificano sempre fondendosi l’uno con l’altro, in quanto esiste la possibilità di un individuo che seppur nascendo nello spazio islamico, non appartenga tuttavia a questo credo. Per quanto riguarda l’Occidente, accanto all’elemento religioso, il quale ha comunque ispirato la cultura di quest’area mondiale, pone un fattore di tipo tecnologico, definendolo come lo sfruttamento intensivo della “terra” al quale corrisponde una cultura di tipo consumistica. 152 Sodhy Pamela, U.S.-Malaysian Relations during the Bush Administration: The Political Economic and Security Aspects, Contemporary Southeast Asia, vol. 25, n°3, 2003, pp. 363-386 153 Borrmans Maurice, “Regards coraniques sur les chrétiens”, Ètudes, décembre 2004, , pp 652-657 154 “Ceux qui croient [les musulmans], ceux qui pratiquent le judaisme, les chrétiens les sabées – ceux qui croient en Allah et au Dernier Jour et accomplissent oeuvre pie - , ont leur retribution auprès de leur Seigneur. Sur eux nulle crainte et ils seront point attristés” 66 Entrambe le due religioni hanno subito un processo di “deislamizzazione” e “decristianizzazione”, per la seconda un fattore importante è stata la secolarizzazione,155 si è assistito su entrambi i fronti ad una perdita lenta dell’elemento “convinzione religiosa”, con un abbandono dell’essere musulmano credente, praticante per spostarsi verso l’essere musulmano come identità, creando una confusione tra i due elementi in precedenza delineati. Si è registrata quindi, una confusione tra Islam come convinzione e come civilizzazione: l’appartenenza alla fede religiosa diventa a questo punto un segno identitario, una necessità per l’inserimento sociale. La secolarizzazione nel mondo Occidentale ha dato adito ad una separazione tra il sacro e la politica, rinchiudendo la fede nella sfera privata della società, d’altra parte il Cristianesimo, contando nella figura di un capo religioso, il Papa, come capo della comunità-Chiesa costituisce in ogni modo un punto saldo al quale fare riferimento; lo stesso processo avviene nel Giudaismo: la poca integrazione propria delle società ebraiche, le quali tendono a creare una comunità all’interno di una comunità maggiore, perciò si verifica una sovrapposizione tra l’appartenenza religiosa e quella sociale. Il problema di comunicazione nasce da questa asimmetria culturale: la nostra società delimita il ruolo della religione alla sfera privata e risulta pertanto difficile comprendere o condividere culture cosi diverse dalla propria; inoltre esiste anche uno scompenso di tipo economico. Mentre l’Occidente si presenta in zone economicamente sviluppate e assume una certa posizione “trionfalista”, l’Islam nasce invece soprattutto in zone sottosviluppate, da questo differente background derivano a loro volta interessi diversi. Secondo Talbi il mondo Occidentale dovrebbe prendere atto dei propri limiti e Islam da parte sua dovrebbe capire quali sono le sue possibilità, in modo tale da bilanciare maggiormente il quadro degli interlocutori, che potrebbero sedersi al tavolo delle negoziazioni in posizione in qualità di “pari.” Attualmente molti paesi musulmani sono produttori di petrolio, ma questa ricchezza, essendo un bene privato non costituisce un beneficio per tutta la zona in termine di popoli, e inoltre non crea un normale flusso di beni import-export, bensì un traffico d’armi in cambio di petrolio.156 Come già accennato in precedenza, nella patria del multiculturalismo e del sincretismo religioso, si è fatto ricorso all’ideologia del Panca Sila, in modo da pacificare tutti i diversi credi e di farli convivere sotto la comune bandiera indonesiana. Sotto il regime di Suharto, il troppo proselitismo cristiano venne in qualche modo limitato, allo scopo di evitare sommosse e riuscire a mantenere l’armonia e la tolleranza religiosa. La politica di armonizzazione delle diversità, ha sempre optato per un scelta nazionalista, che poneva appunto l’accento sull’appartenenza comune all’arcipelago, piuttosto che alla frammentazione culturale.157 Nel 1969 il governo lanciò un piano quinquennale per lo sviluppo, in questo piano si concedevano notevoli libertà di espressione alle varie confessioni religiose site nel territorio, venne anche creato un organo ad hoc, il cui scopo fosse 155 Secolarizzazione: mi riferisco in questo caso al Cristianesimo, in quanto nell’Islam, data la fusione tra l’elemento politico a quello religioso non è possibile parlare di questo fenomeno. 156 Talbi, Mohammed, “Islam et Occident ou-delà des affrontements, des ambiguities et des complexes”, Islamo- Christiana, 1981, n°7, pp. 57/77 157 Raillon François, “Chrétiens et Musulmans d’Indonésie – Des logiques de confrontation”, Les Cahiers de l’Orient, n°6, troisième trimestre 2002, pp. 94-103 67 quello di prevenire possibili contrasti tra le culture, proteggere e sviluppare la tolleranza inter-religiosa, infine stimolare il dialogo. Qualche hanno più avanti, nel 1974, venne approvato un secondo piano, nel quale si creava una Commissione Speciale all’interno del Dipartimento degli Affari Religiosi al fine di organizzare e finanziare il progetto dal nome: “Dialoghi tra uomini di diverse religioni.” La comunicazione inter-religiosa preferiva guardare alle somiglianze tra le diverse culture piuttosto che nelle differenze, sotto questa nuova ottica, di enfatizzazione delle similitudini, appariva il comune senso del sacro, e dell’azione umana: non era necessario essere cristiano piuttosto che musulmano, il comportamento del “buon fedele” richiama all’operato caratterizzato dai principi della bontà, giustizia, generosità e al sacrifico come strumento ultimo per giungere alla salvezza.158 Lo stesso Papa Giovanni Paolo II espresse lo stesso pensiero in diverse encicliche, in particolare in quella del 1963 elenca quattro capisaldi che sorpassano i confini imposti ai fedeli dei diversi culti, creando una sorta di “credo universale”. I quattro principi erano: i) la verità che pone lo stesso diritto in capo tutti gli individui a ricevere la giusta informazione; ii) giustizia ossia promuovere l’imparzialità attraverso ogni singola azione umana e proteggere i deboli; iii) libertà caratteristica propria dell’uomo, il quale è dotato di libero arbitrio; infine iv) amore, dono concesso da Dio stesso e per il quale tutti gli individui fanno parte della stessa famiglia. Un altro passo in favore del dialogo venne compiuto in occasione del Concilio Vaticano II, in cui il principio della libertà religiosa venne assunto come punto di partenza per una coabitazione dei vari credi, incoraggiando l’umanità alla tolleranza in funzione della pace.159 Nel 1986 Giovanni Paolo II invitò i leader delle diverse religioni mondiali per pregare insieme ad Assisi durante il World Day of Prayer for Peace, altre importanti eventi raggrupparono nazioni per una cooperazione pacifica. Nel luglio del 2005 si svolse a Bali un incontro tra l’Asia e l’Europa che diede vita alla “Dichiarazione di Armonia Interreligiosa”, questo documento fu firmato dopo l’attentato terroristico a Londra, per tradurre i valori di pace, compassione e tolleranza in programmi educativi per formare le nuove generazioni, i media al fine di prevenire la formazione di nuovi estremismi, marginalizzazioni e di stereotipi per le diverse culture.160 Per quanto concerneva le politiche governative, i vari Stati membri della Dichiarazione si impegnarono a sovvenzionare piani per la ricerca e sviluppo di nuovi progetti per rafforzare il dialogo interreligioso ed educare la società ad accettare ed imparare a confrontarsi con le diversità, accanto a queste proposte, fu anche concepito l’intento di creare scambi culturali a tutti i livelli e gradi della società. La conclusione della Dichiarazione con i complimenti dell’Assemblea verso l’Indonesia:161 “Noi 158 Fitzegerald Michael, “Christian Muslim Dialogue in South-East Asia”, Islamo-Christiana, 1976, n°2, pp. 171/185 159 Ghd Arinze Francis, Cardinal, “Interreligious Dialogue at the Service of Peace”, Islamo-Christiana, 1976, n°2, pp. 171/185 160 Documento: Bali Declaration on Interfaith Harmony”, Image Indonesia, Vol.12, n°8, Agosto 2005, Indonesia, p. 19 161 “We welcome the Indonesian initiative to establish an International Center for Religious and Cultural Cooperation (the Jogja Center) and encourage this and other similar initiatives in other countries. We congratulate the Government of Indonesia for initiating this Interfaith Dialogue and the excellent arrangement of this important event. We are especially honored by the presence of the President of Indonesia” libera interpretazione personale 68 acclamiamo l’iniziativa indonesiana di stabilire un Centro per la Cooperazione Religiosa e Culturale (Jogja Center) e incoraggiamo questa o ulteriori iniziative in altri paesi. Noi ci congratuliamo con il Governo d’Indonesia per aver promosso questo “Dialogo Interreligioso e l’eccellente organizzazione dell’evento. Noi siamo particolarmente onorati della presenza del Presidente Indonesiano.” Quest’ultima frase soprattutto, segna l’ulteriore l’importanza assunta da questo paese sia come leader dell’ASEAN, sia insieme alla Malaysia come veicolo del Dialogo con l’Occidente.162 162 Fonte: http://ec.europa.eu/external_relations/asem/asem_process/bali_declar.pdf 69 4. Conclusioni I due paesi a maggioranza musulmana presi in considerazione nella mia disquisizione, non detengono quelle paventate caratteristiche che si vogliono costantemente e ostinatamente accostare all’identità islamica. All’interno dei loro territori convivono da secoli e secoli popolazioni appartenenti a diverse culture e religioni, il multiculturalismo di cui godono queste due Nazioni e voglio sottolineare “godono”, in quanto il livello di tolleranza e di fusione delle diverse tradizioni ha dato vita ad un paese come l’Indonesia: culla delle differenze, che ha addirittura elevato le differenze a bandiera nazionale “Uniti nella differenza”; questo potente collante unito alla predominanza della popolazione musulmana sia davvero emblematico per capire la cultura islamica. Nonostante la presunzione dei mass media di voler rinchiudere questa meravigliosa religione, che non solo non pone le barriere che il Cristianesimo le contrappone, ma anzi, ne riconosce la stessa validità facendo propria la stessa storia degli ebrei prima e dei cristiani poi, l’Islam non condanna il Cristianesimo, tutt’altro la eleva a religione del “Libro”, sulla linea del quale lo stesso Corano si porrà. In passato i popoli arabi hanno sempre accolto gli occidentali nei loro traffici, senza porre alcuna barriera di principio (come invece fecero i Cristiani), e quale religione è più tollerante se non quella dove è la stessa comunità la “umma” a decidere e stabilire le proprie regole, non sono forse principi democratici? In questo caso si può certamente parlare di forme embrionali di democrazia diretta, dove un “assemblea di saggi” è il corpo deputato all’elaborazione delle decisioni. L’era in cui viviamo è impregnata di valori occidentali, internet ha sicuramente accorciato le distanze fisiche, ma non quelle culturali, addirittura si stanno anche sviluppando nuovi tipi di terrorismo, come il cyber-terrorismo che mira a colpire il cuore della cultura moderna. Purtroppo l’evento delle due torri ha decretato l’inizio di una nuova era in cui la grande potenza statunitense ha subito un duro colpo nei suoi stessi territori. In seguito all’undici nove, la visione del mondo è notevolmente mutata, e il tribunale globale ha condannato la cultura musulmana a carnefice dell’Occidente. Io capisco la paura degli statunitensi di sentirsi costantemente minacciati da Al-Qaeda dopo quel nefasto pomeriggio dell’undici/nove, tanto inatteso eppur annunciato, da far inginocchiare in poche ore una nazione e riaprire allo stesso tempo, piccole e nascoste tracce residue di quel “sopito razzismo dormiente” che portano una federazione moderna e liberale a guardare con un insieme di paura e diffidenza verso quel passeggero che sedendosi accanto a loro in aereo sente gli sguardi che gli cadono addosso, come invadenti, ha come sua unica colpa quella di indossare un hijab; di nuovo, capisco il terrore mondiale della ripetizione di ulteriori attentati, ma ormai si sta rischiando, a mio modesto parere, di cadere in una psicosi di massa, in una caccia all’uomo, dove l’identità musulmana diventa il target di discriminazioni e di accuse infondate. L’appartenere alla fede Islamica non significa essere necessariamente dei terroristi; purtroppo la società globale nella quale attualmente viviamo è talmente intrisa dai valori occidentali che annebbia la visuale neutrale che dovrebbe assumere 70 la storia. Mi spiego meglio, i libri che ci propinano i professori alle Scuole Medie Inferiori e Superiori assumono un’ottica di parte, nella quale, ad esempio, lo Stato d’Israele è vittima degli attacchi da parte dell’Autorità Palestinese, ignorando che gli stessi Palestinesi vivono anch’essi una situazione d’assoluto disagio, oltre alla miseria con la quale devono continuamente confrontarsi, si aggiunge anche un conflitto per le risorse idriche, nella quale gli indigeni hanno perso l’accesso libero all’acqua e hanno visto man mano ridursi, per opera d’Israele, l’utilizzo di un bene necessario per la vita. Non voglio certo mettere in dubbio le sofferenze causate dai ribelli Palestinesi al popolo Israeliano, ma è necessario altresì fare luce sulle sofferenze che anche i Palestinesi hanno subito per mano di Israele; un esempio che venne anche condannato dallo stesso Consiglio di Sicurezza Onu, è l’attacco degli anni ’80 di Israele verso la centrale nucleare Irakena: seppur glissando sul presupposto della liceità della difesa preventiva, tuttavia il CdS condanna il bombardamento per motivi infondati in quanto la costruzione della centrale nucleare non costituiva una minaccia per l’aggressore. Questa breve parentesi all’interno del general topic a mio avviso è necessaria per ribaltare la base della piramide secondo la quale, tutto ciò che è “occidentale,” e quindi più vicino alla nostra cultura, sarebbe giusto, mentre il cosiddetto “altro”, nel nostro caso, l’Islam, sarebbe sbagliato. Prese di posizioni così forti da portare dei politici ad affermare frasi, in trasmissioni nazionali Italiane, del genere “non è possibile instaurare un dialogo con l’Islam” e ancora “non esiste un Islam moderato”, andrebbero ponderate maggiormente prima di venir così pubblicamente espresse, perché rischiano di creare dei “falsi pregiudizi” che tuttavia albergheranno nella mente di chi, ignorando ingenuamente la realtà dei fatti, non avrà la premura di controllare la veridicità di date affermazioni. L’immagine dell’Occidente “paladino della democrazia” rischia di venir messa in discussione dalle discriminazioni religiose, di cui i musulmani sono ormai vittime. Ormai non è più il colore della pelle l’elemento discriminante, bensì l’appartenenza o meno alla fede islamica, l’essere rei di avere una cittadinanza ad esempio afgana o libanese, questi sono i nuovi fattori che all’alba del XXI secolo costituiscono le nuove frontiere razziste. A mio avviso, la dilagante propensione a collegare in maniera simbiotica l’Islam al terrorismo, la discriminazione a priori, l’emissione di giudizi solo in conformità all’appartenenza religiosa o nazionale, tutti questi elementi costituiscono la base di nuove teorie razziste. A questo punto, mi chiedo se lo stesso paladino della giustizia si eleva a giudice ed esecutore che futuro si potrà prospettare per le generazioni future? Non sono dell’avviso che né violenza né continui attacchi agli avamposti terroristi (ammettendo anche di riuscire a stanarli) siano proficui; fino a quando il pregiudizio albergherà nella mente dei popoli, Al-Qaeda riuscirà sempre a trovare l’humus ideale sul quale far attecchire e radicare i suoi tentacoli, solo il continuo tentativo di instaurare un dialogo tra i popoli, coadiuvato da programmi aventi i due scopi di abbattere le barriere che delimitano i confini con l’ “altro” e di effettuare una campagna informativa su entrambi i lati, potranno produrre un fruttuoso e pacifico scambio interculturale tra l’Islam e l’Occidente. 71 Bibliografia • Abad, M.C. Jr. “The Challenge of Balancing State Security with Human Society” The Indonesian Quarterly, vol. XXVIII n°4, 2000, pp. 403-410 • Abriyanto, M. “US Subversion in Indonesia” The Indonesian Quarterly, vol. XXV n°1, 1997, pp. 88-91 • Alatas, Ali “Indonesia, Latin America and the Caribbean” The Indonesian Quarterly, vol. 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