Il Convivio
Trimestrale di Poesia Arte e Cultura dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’
Fondato da Angelo Manitta
Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia
Anno V
numero 2
aprile-giugno 2004
17
Franco Clary, Orizzonte di pensieri, olio su tela, cm 50x50
Il Convivio
Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, fondato
da Angelo Manitta e organo ufficiale dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’
Registrazione al trib. di Catania n. 7 del 28 marzo
2000.
Direttore responsabile: Enza Conti
Direttore editoriale: Angelo Manitta
Redattore: Giuseppe Manitta
Redazione: Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012
Castiglione di Sicilia (CT) Italia. Tel. e fax 0942-986036,
cell. 333-1794694.
Conto corrente postale 12939971, intestato a Conti
Vincenza, via Pietramarina, 66 – 95012 Castiglione di Sic.
Stampa: Tipografia Messinatype, tel. 090-696841
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Siti Web (gestiti da Coco Salvatore, Treffiletti Salvatore,
Perlongo Gaetano, Maria Cristina Latorre):
www.il-convivio.com
http://web.tiscalinet.it/ilconvivio
http://ilconvivio.interfree.it
http://web.tiscali.it/ilconviviomattinata
Collaboratori: Giorgio Barberi Squarotti, Alvarez Velasco Francisco (Spagna), Andityas Soares de Moura (Brasile), Haxhia Miranda (Albania), Angelucci Sandro,
Castellani Fulvio, Coco Salvatore (rivista telematica),
Dilettoso Maristella, Izzi Rufo Antonia, Giannetto Maria
Enza, Lalli Franco Dino, La Torre Maria Cristina (rivista
telematica), (Natale Maria Pina), Perlongo Gaetano (rivista
telematica), Tamburrini Bruna, Topa Pacifico, Treffiletti
Salvatore (sito web), Vizzari Flavia.
Gli autori di questo numero
(il numero tra
parentesi indica la pagina): Adnane B.(51), Affinito I.M.(63,
84), Agnoloni G.(40), Ales S.A.(26), Aliberti C.(3), Alvarez V.F.(46), Amir B.(51), Anderson F.I.(44), Andrenacci
S.(18), Angelone A.(75), Antonelli M.(27), Aprile A.(76),
Aragona A. (29), Argentino U.(56), Assini A.(28, 82), Auddino E.(31), Baiotto M.(33), Banchini F.(77), Barbalinardo
L.(35), Barletta G.(78), Bedreddine H.(51), Belanger P.(48), Belluomini C.L.(81), Bender M.(74), Bernhardt D.(11,49), Bonucci L.(27), Brancatisano M.S.(32, 46), Bribi
K.(51), Bruno A.(30), Cambi M.(28), Cammarata M. (39),
Candido G.P.(26),Cannamela A. (49), Carandente G. (60),
Carfora C.(66), Carone L.(57), Carpignano G.(55), Carrieri
C.(58), Casotti A.(77), Castellani F.(17), Castiglione G.A.
(78), Casucci A.(21), Ceccarello M.(31), Celi F.(31, 66),
Cesaro G.(27, 65), Cianci A.(65), Cicala A.(59), Cipollini
E.M.(79), Civardi F.C.(43), Clary F.(52, prima e ult. Cop.),
Coello D.(54), Colajanni P.(50), Colelli S. (30,82), Condorcet A.(43), Conserva A.(84), Contarino R. (27,79), Craviotto S.(11,29,74), Cristaudo N.(4,29), D’Angelo R.(45),
Dal Zilio R.(26), De Napoli F.(65), Di Girolamo G.(83), Di
Rocco F.(64), Di Stefano M.E.(28), Emmy E.(73), Epifani
F.M.T.(80), Felici C.(70), Fella D.(51), Fernades L.(43),
Ferraresi R.(34), Fiorese F.F.F. (44), Fontana M.(79),
Francischetti P.(66), Fraqueza M.J. (44), Frenna M.(19),
Galvagni M.(29, 69), Garcia S.S.(45), Genovese P.A.(26),
Giangrasso E.(31), Gomes F.S.(44), Greco A. (32), Grillo
R.(70), Guerrera A.G.(37), Guidotto V.(30), Gunjaca D.
(38), Haxhia M.(42), Hilgenberg L(44), Hocine G.(51),
Iacopini E.(20), Iraci A.(25), Izzi R.A(11, 26, 28, 67, 79),
Janne G.(39, 75), Jimeno M.O.(75), Juvara P.(45, 74), Juvara P.(74), Koob S.(51), La Franca S.(30, 83), La Pica F.
(71), La Rosa L.(7), La Torre M.C.(26, 68), Lalli F. (73,
84), Lauretta C.(62), Lazazi S.(51), Leiro R.V. (63), Lenisa
M.G.(74), Li Volti G.G.(28), Mafhoum M.(50), Magli
S.(64), Manitta G.(22,77), Manitta Gu.(37), Manzi C.(16),
Manzini G.(28), Marandino O.(36), Masone B.R. (67), Mastrodonato P.(39,67,73), Mauget J.(47), Mazzucco M.G.(7),
Meli G.(56), Merighi R.(26,31), Messina S.(69), Micozzi
T.837), Millico M.(28), Milone G.(39), Moschella G.
(27,64), Moschella G.(64), Motta S.(54), Moulinier P. (50),
Musmeci P.(78), Natale M.P(5), Nigro P.(68), Nobis M.T.
(34), Palmieri M.P.(32,84), Pandolfo R.(5), Papillo S.R.(32),
Paternò G.(29), Peluso A.(6), Perlongo G.G.(28), Peschiera
C.(30), Piazza G.(10), Picardi E.(41), Piccirilli P.L.(81),
Pirrotta L.(82), Poerio R.A.(55), Puccio F.(3), Pumpo L.
(17), Quartieri B.(32), Quasimodo F.F.(72), Rescigno G.
(62), Rigano U.(71), Rimi M.(35), Ruffato C.(35), Rusca
Z.R.(58,59), Russo A.M.(26), Santoro P.(57), Sarraméa J.
(47), Scaramozzino V.(84), Semiane S.(51), Spaziani M.L.
(1), Spera R.(27), Speranza V.(26), Spina A.(78), Spina
I.(28), Strano M.(70), Tamburrini B.(12,72), Tavcar G.(14),
Tedeschi L.(80), Tocci L.(58), Tomarchio L.(78), Torrente
B.(73), Tortora N.(84), Trefiletti C.(29,78), Trevisani
S.(26), Turco B.(11), Turco C.M.(33), Tuttolomondo J.(32),
Vacchetta F.(28), Valentini R.(30), Valle G.(43), Varriale
A. (37), Venturini G.(83), Vidotto V.P.(27), Viglialoro L.
(29), Villarreal E.(44), Visconti P.(61), Vizzari F.M.T.
(3,23,31), Zacon Z.C.(45), Zingales V.B.(72).
Associarsi all’Accademia Internazionale Il
Convivio è semplice. È sufficiente versare la quota
associativa annua di € 25,00 (adulti), € 20,00 (per
associazioni culturali), € 15,00 (giovani e ragazzi);
estero: € 30,00; dagli altri continenti: $Usa 35,00 o
equivalente in altre monete. Socio Sostenitore: € 50,00.
Socio Benemerito: almeno € 100,00, la somma è da
versare sul Conto Corrente Postale n. 12939971 o
tramite assegno circolare non trasferibile o vaglia postale o sul conto bancario con coordinate: U 01020
84160 000417 014040, o anche in contanti; per l’estero: contanti o vaglia internazionale (giro postal internacional) o sul conto corrente bancario del Banco di
Sicilia, agenzia di Randazzo, con coordinate: IT83 U
01020 84160 000417 014040, tutto intestato a Conti
Vincenza, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia. Il Socio ha la possibilità di: 1) ricevere gratis la rivista; 2) avere inserita
una poesia (max. 30 versi) e una recensione durante l’anno, oppure un racconto (max. 2 cartelle), oppure un quadro in bianco e nero e un articolo sulla personalità dell’artista; 3) partecipare gratuitamente ai concorsi banditi
dall’Accademia; 4) partecipare alle attività del gruppo.
La collaborazione e la distribuzione della rivista sono gratuite, ma si accettano liberi contributi.
Ogni autore comunque si assume la responsabilità dei
propri scritti. Manoscritti, dattiloscritti, fotografie o altro materiale non vengono restituiti. Attività cultura-le
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Risultati concorsi
La donna nell’arte del telaio
Si è svolta domenica 18 aprile 2004 presso la Sala Dante al teatro
Vittorio Emanuele di Noto (SR) la quinta edizione della mostra
“Donna nell’arte del telaio – pizzi e ricami”, organizzata dal Club
Soroptimist International di Noto con il patrocinio del comune di
Noto, assessorato al turismo, pro loco Noto e la provincia regionale di Siracusa. La Mostra è stata presentata dalla dott.ssa Elise
Le Vot davanti ad un folto pubblico, alle autorità politiche e religiose ed ad alcuni presidenti di Associazioni culturali che sono intervenuti, quale l’Associazione Selene di Pedalino, presieduta da
Nicola Rampin. Hanno esposto le artigiane artiste: Di Quattro Maria (responsabile sfilato ragusano dell’Ass.Cult.Selene) di Ragusa,
Occhipinti Giovanna di Ragusa, Sercia Maria di Modica, D’amico
Maria di Noto e Marras Maria Giovanna di Nuoro.
Premio Nazionale di Poesia “CITTA' DI SOLOFRA”
Si comunicano i risultati: Sez. poesia edita: 1° Dante Maffia, 2°
Miranda Clementoni, 3° Michelangelo Cammarata. Segnalazione
di merito ad Angelo Coco, Rosaria Di Mattia, Pietro Pelosi, Luciano De Angelis, Mario M. Gabriele, Adriano Napoli, Valentina
Meola, Lorenzo Piccirillo, Erika Maffei. Sez. Poesia inedita: 1°
Mina Antonelli, 2° Katia Olivieri, 3° Benito Galilea. Segnalazione
di merito a: Ciro Carfora, Vincenzo Capodiferro, Giovanni Caso,
Giuseppe A. Graziano, Rocco G. Tassone, Gloria Venturini, Ottorino Vigliotta. Sez. poesia dialetto napoletano: 1° Franca Molinaro, 2° Paolo Sangiovanni, 3° Salvatore Masullo. Segnalazione di
merito a: Salvatore Cangiani, Alberto Cerbone, Rosalia D’Ambrosio Boi, Salvatore Calabrese, Aristide Casucci, Rodolfo B. Tretola. Premio speciale della giuria: alla memoria di Maria Luisa
Ripa già segnala alla città di Solofra nel 1996, poetessa; Premio
alla cultura: all’artista Saverio Cecere esponente dell’Arte mady in
Italy, creativo; Premio per le tradizioni: al prof. Gerardo Palmieri,
scrittore, archeologo, artista poliedrico; Medaglia del Presidente
della Repubblica alla famiglia Florio Ricciardelli benemerita per
la Cultura e per l’Arte.
La Gorgone d’oro
Ecco i risultati del premio: Sez. A: poesia religiosa: 1° Agostino
Bagordo; 2° Franco Casadei; 3° Sr. Barbara Ferrari e Mario Giorgio Talio; 4° ex aequo a Livia Furno Rosso e Carla Carloni Mocavero; 5° ex aequo a Claudia Regnani e Ruggero Serra; 6° ex aequo a Milvia Lauro e Maria Stella Brancatisano, Romeo Battaglio,
Germana Maggio e Maria Giovanna Mossa Trincas. La Giuria ha
inoltre segnalato le poesie dei poeti Giuseppe Bagnasco, Alfonsina
Campisano Cancemi, Ciro Carfora, Grazia Cannata, Esmeralda
Cernigliaro, Adriana Comollo, Silvana Crotti, Riccardo Di Pasquale, Silvano Forte, Riccardo Fragapane, Pietro Fratta, Gianni Ianuale, Milvia Lauro, Vincenzo Macauda, Francesco Musante,
Rosa Perna, Luisa Pestrin, Maria Rosa Pino, Alfredo Quinto,
Roberta Rendini, Gianni Rescigno. Sez. B - poesia a tema libero:
1° Giancarlo Interlandi; 2° Giovanni Caso; 3° ex aequo Elena Cimino e Massimo Cassarà; 4° ex aequo ai poeti Giuseppe Giacalone, Mara Librizzi, Rosa Perna e Luisa Pestrin; 5° ex aequo ai
poeti Paola Barbieri, Domenico Luiso, Silvano Placenti, Antonietta Tafuri e Giuseppe Vetromile; 6° ex aequo ai poeti Livia
Furno Rosso; Paolo Sangiovanni, Mina Antonelli, Renato Greco,
Wladimiro Tomaino, Angelo Moro Episcopo e Armando Giorgi.
La giuria ha inoltre segnalato i poeti: Angela Aprile, Fausta
Atanasio Pezzino, Paola Barbieri, Carmela Basile, Maria Bella,
Silvano Forte, Maria Gisella Giumento, Pasquale Martiniello,
Maria Teresa Massavelli, don Ottaviano Menato, Loredana Pistritto, Gaetano Quinci, Beatrice Torrente e Adelina Voltolina.
Quaderni - dell’Aslas è in corso di stampa il nn.174-176 di
gennaio-giugno 2004. Oltre alle normali rubriche (libri in vetrina,
notiziario letterario, recensioni, mostre personali è collettive d’arte) la Rivista pubblica l’esito del Premi e Concorsi di poesia, narrativa e saggistica indetti dall’ASLA nel 2003, notizie e servizi di
grande attualità e di notevole interesse culturale. La collaborazione è libera a tutti. La spedizione a tutti i Soci (in regola con le
quote sociali) ed a coloro che hanno prenotato relative copie, è
prevista per maggio / giugno.
La rivista Omero
Omero è una rivista letteraria ed artistica trimestrale. Parte dalla
civiltà preellenica ed il pensiero epico, lirico e poetico di Omero
con un progetto grafico classico che si coniuga con tematiche
moderne. Omero uno strumento itinerante ben curato e strutturato
in interessanti rubriche dove il lettore o abbonato diventa parte
attiva nel realizzare questa rivista di poesia per un pensiero aperto
che si confronta nella diversità con lo spirito della ricerca. Si
sostiene con gli abbonameti e gli abbonati in qualità di soci collaboratori sostengono le attività culturali della rivista e del centro,
nonchè del gruppo opreativo, redattori: A. Farina, E. Picardi, R.
Tani, P. Topa. Fondato nel 1999 a Napoli dal direttore Vincenzo
Muscarella ed il Direttore Responsabile Francesco Ruotolo
insieme ad un gruppo di operatori culturali, poeti, autori ed artisti.
Il volano è la poesia nelle varie Arti e quindi rubriche di poesia
classica, dialettale, moderno, in ambito nazionale ed internazionale, cinema, teatro, arte, spazio dedicato agli artisti: pittori, fotografi ecc. presentazioni, recensioni ed altre iniziative. Per informazioni dettagliate e materiale divulgativo richiederlo all’indirizzo di Omero Piazza E. De Nicola, 30 - 80139 Napoli Dir.
Vincenzo Muscarella - Tel. 081 44 74 34 ore serali. e-mail:
[email protected]
Libri ricevuti:
Isabella Michela Affinito, Ho raccolto un raggio di sole
(Penna d’autore, Febbraio 1999).
Carmelo La Rosa, Il Vomere. I giovani del Koso-vo
raccontano il genocidio (Gribaudi Milano 2001).
Carlo Chiarenza, Una storia da ripensare. Le omelie del
Giovedì Santo ed altri scritti (1973-2001) (Acireale – 2001).
Il Club degli autori: le più belle poesie del premio letterario
(collana Le schegge d’oro, Montedit, Milano 2003). Nell’antologia figurano, tra i soci del Convivio, Claudia Manuela Turco e
Marco Baiotto.
Rappresentanti delegati
del Convivio in Italia
Italia: Acerra (NA): Piero Borgo, Via Zara 45.
Aci Bonaccorsi (CT): Leone Salvo, via Stadio, 20; Aci S.
Filippo (CT): Pulvirenti Filippo, Via Nizzeti, 155/Z. Grotte
(Agrigento): Aristotele Cuffaro, via P.le Vinti, 4. Assergi
(AQ): Franco Dino Lalli, Via Portella, 23. Bellante (TE):
Giovanni Di Girolamo, Via Collerenti 42. Belluno: Puglisi
Ferruccio, Piazza San Lucano 46. Bitonto (BA): Barone
Rosaria, Via U. La malfa 8. Cinto Euganeo (Pd): Deborah
Coron, via Via Bomba, 38. Giarre(CT): Filippo Nasello,
Corso Lombardia 1. L’Aquila: Mario Cavallo, via Castello
2/8. Marigliano(NA): Vincenzo Cerasuolo, Corso Umberto I,
259. Mattinata: Maria Cristina Latorre, via Madonna
Incoronata 103. Messina: Flavia Vizzari, via Via G.B. Caruso,
3 - Camaro Inf.. Montegiorgio(AP): Tamburrini Bruna, via
Angelelli 11. Quinto di Treviso: Rina Dal Zilio, via Marconi,
3. Paternò(CT): Angela Aragona, via Pordenone, 48; e
Giacomo Paternò, via Costanzo, 43. Pescara: Francesco Di
Rocco, Via fiume Verde, 24. Reggio Calabria: Fiorente
Franco, Via Trapezi 19. Roma: Amalia Maria Amendola, via
Federico Nansen, 104 B/2. Rutigliano(BA): Albanese
Michele, Via Due pozzi 17. Sant’Antonio di G.(SS): Serena
Careddu, via Giotto, 6. S. Domenica Vittoria(ME), Nino
Mantineo, Piazza Germanà, 8; Trappeto(PA): Gaetano
Perlongo, via Vittorio Emanuele, 47. Treviso: Ferruccio
Gemmellaro, via S. Filippo 54, Meolo (VE). Udine: Claudia
Turco, Via Volturno, 89/9.
Dal prossimo numero tutti i Delegati del
Convivio non in regola con la quota
associativa annuale saranno depennati
Il Convivio
Rappresentanti delegati
Italia: Acerra (NA): Piero Borgo, Via Zara 45.
Aci Bonaccorsi (CT): Leone Salvo, via Stadio, 20; Aci S.
Filippo (CT): Pulvirenti Filippo, Via Nizzeti, 155/Z. Acireale
(CT): Pinella Musmeci, Via Wagner 30. Agrigento: Beniamino Biondi, Via Alessio Di Giovanni, 22. Grotte (Agrigento): Aristotele Cuffaro, via P.le Vinti, 4. Assergi (AQ):
Franco Dino Lalli, Via Portella, 23. Bellante (TE): Giovanni
Di Girolamo, Via Collerenti 42. Belluno: Puglisi Ferruccio,
Piazza San Lucano 46. Bitonto (BA): Barone Rosaria, Via U.
La malfa 8. Catania: Grazia Butano, via Castagnola, 7/p –
95121. Cinto Euganeo (Pd): Deborah Coron, via Via Bomba,
38. Giarre(CT): Filippo Nasello, Corso Lombardia 1. L’Aquila: Mario Cavallo, via Castello 2/8. Marigliano(NA): Vincenzo Cerasuolo, Corso Umberto I, 259. Mattinata: Maria Cristina Latorre, via Madonna Incoronata 103. Messina: Flavia
Vizzari, via Via G.B. Caruso, 3 - Camaro Inf.. Montegiorgio(AP): Tamburrini Bruna, via Angelelli 11. Quinto di
Treviso: Rina Dal Zilio, via Marconi, 3. Paternò(CT): Angela
Aragona, via Pordenone, 48; e Giacomo Paternò, via Costanzo, 43. Pescara: Francesco Di Rocco, Via fiume Verde,
24. Reggio Calabria: Fiorente Franco, Via Trapezi 19. Roma:
Amalia Maria Amendola, via Federico Nansen, 104 B/2.
Rutigliano(BA): Albanese Michele, Via Due pozzi 17.
Sant’Antonio di G.(SS): Serena Careddu, via Giotto, 6. S.
Domenica Vittoria(ME), Nino Mantineo, Piazza Germanà, 8;
Trappeto(PA): Gaetano Perlongo, via Vittorio Emanuele, 47.
Treviso: Ferruccio Gemmellaro, via S. Filippo 54, Meolo
(VE). Udine: Claudia Turco, Via Volturno, 89/9.
Estero: Albania : Miranda Haxhia (L. “G. Muco”,
p. 69 – Lushnje). Algeria: M.lle Kidad, cete des 200 lgto
BNTN=10 – 42100 Cerchell. Argentina: Buenos Aires: Clara
Lourdes Bango, Rue Rio de Janeiro 622 P.B. C – 1405 Buenos
Aires. Australia: Melbourne: Giovanna Li Volti Guzzardi,
29, Ridley Ave Avondale Heights 3034 – Victoria. Brasile:
Barbacena: Andityas Soares de Moura, Rua Theobaldo
Tollendal, 144 – Centro – Barbacena-MG, Cep 36200-010;
Brasilia: Nilto Fernando Maciel, Caixa Postal n. 02205, DFCEP 70.349-970. São Paulo: Arlindo Nóbrega, Rua Rego
Barros, 316 - São Paulo - CEP 03460-000. Ciad: Darma
Sylvain Gadourang s/c Mahamat Laye, B.C-T-R. – S.T.P.E. –
N’djamena. Colombia: Wiston Morales Chavarro, A. A 068
Neiva-Huila. Croazia: Gunjaca Drazan, Pula, Kandlerova 3/I.
Cuba : Carlos Chacón Zaldivar, edificio 41 C apto 1, escalera
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Lagny sur Marne (77400): Frédéric Tessier, - 62, allée Louis
Braille; Flize (08160): Jean-Claude Leroy, 1, rue de l’Isère; St.
Claude, Christian Vandroux, 4 rue du Commandant Vallin. St.
Raphael: Jean Sarraméa, 1565 A. Valescure, Bt Al Les Hts de
Valescure. Cannes: Robert Botto, 147, avenue Maurice Chevalier “Le fenix A” – F-06150. Portogallo : João Vilela Rasteiro,
Rua José Gomes Ferreira, lote 125 1° C - Bairro de Santa
Apolonia, 3020-105 Coimbra. Spagna: Gijón (Asturias):
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33207. Segovia: Juan Montero Lobo, Camino de la Presa 7-3°D. Madrid: Mélanie Lafonteyn, C/o école maternelle, Plaza de
Platón, 1 – 28027 Madrid. Stati Uniti: Prof. Orazio Tanelli, 32
Mt Prospect Avenue - Verona NJ – 07044; Uruguay: Montevideo: Norma Suiffet, casilla 5088 – succ.1.
Controvento
di Athos Bruscoli
La vagabonda Luna è tramontata,
il silenzio lontano rompe l’aria!
L’infinito desiderio di Luce
è il concerto cosmico dei violini,
vento stanco, malinconico!
Randagio,
sull’isola della Miseria,
attendo invano all’Orizzonte,
la nave, con la stiva colma
d’altri naufraghi.
Domani, ad Oriente,
l’Occhio Solare
affiorerà dall’Oceano
e consolerà, ancora e per sempre,
la mia Solitudine.
Nel silenzio dell’amore
di Ivana Burattini
Il risveglio di assenti ricordi
destano amore.
E di quelle carezze
perdute nel balenio dei sensi
non rimangono che note fuggenti
dei miei desideri.
Eppure mormorano ancora le voci
e ferite parole lasciate andare
dove vagano le ombre e riposano i pensieri.
Saranno pullulanti sospiri
a parlarmi d’amore
ed il sentire di cose vicine ai miei silenzi,
alle ore vuote senza più sogni
e profumi della fanciullezza.
Chi potrà rivelare i ritorni del passato
se i volti delle rimembranze
sono discesi nell’abisso dell’anima
e nulla più mi appartiene,
né richiami di fiamma, né fugaci malinconie
nell’incedere dei giorni.
Chi potrà rivelare i ritorni di tenerezze
se il tempo ha proibito palpiti alla giovinezza
e sorrisi alle mie primavere.
Sì, forse il mio cuore morirà d’amore
lontano dagli amati sguardi,
lontano dalle care nostalgie.
Sì, perirà senza l’amore
disperdendo tutta la sua linfa
nei frammenti d’eternità e canti di solitudine.
Ricezioni
di Maurizio Cafaggi
Dei passi s’alimenta l’entropia
il caos si nutre, evolve, dilaga
le suola contrite s’arrestano
auspicano la quiete
per ascoltare le grida inudibili del Cosmo
ed oltre, l’urlo silente del nulla.
Senz’altro lo sono. Proprio non riesco a scindere le
due cose anche se io, che sono prustiana, dovrei proprio dire
il contrario e cioè che l’opera d’arte ha una sua autonomia
assoluta che non deve essere condizionata dalla vita. Però
penso che non sia così. Si ha un bel dire che le poesie dovrebbero uscire anonime per evitare i narcisismi e i piccoli
orgogli. C’è poco da dire: la poesia è un riflesso della vita,
ma un riflesso altissimo, un riflesso simbolico. Se uno raccontasse tutti i fatti minuti della sua esistenza non avrebbe
nessun interesse. Ma se li vedi in una luce di simbolo, in
una luce esemplare che, quindi, ingloba anche tutte le altre
creature umane, allora quella poesia diventa, oltre che una
vera poesia, anche un messaggio.
La lirica d’amore nella letteratura italiana è un
filone molto ampio. Nelle sue opere il tema è ricorrente.
Cosa rappresenta per lei l’amore? Un’oasi felice da frequentare nel deserto dei sentimenti, un riflusso romantico sdolcinato da considerare disdicevole, un elemento
magico? Vede l’amore come tenerezza, come dimensione onirica, come ricerca incessante dell’assoluto?
Ha detto tutte queste cose insieme e tutte vanno
benissimo. L’amore è il più grosso motore che sia stato
inventato al mondo per dare l’impressione di vivere, per far
sentire vivi coloro che sono sulla terra. Quindi io credo che
pochissime siano le persone al mondo che in vita loro non
abbiano avuto un momento di innamoramento. Forse anche
i pastori dell’Asia, gente che si considera così vicina alla vita rozza e animale, qualche piccolo momento d’amore devono averlo avuto pure loro. Naturalmente con l’avanzare della civiltà, ovverosia del linguaggio, questa prima cosa ha
preso forma ed è diventata fra l’altro la lirica d’amore che
può essere tutto quello che lei ha detto. Un’osai felice lo
può essere per poco tempo, poi può essere un’oasi di ripensamento sull’amore, un modo per allargare questo sentimento meraviglioso anche alle altre cose. Quindi rendere le
persone più sensibili, direi addirittura anche in ambito sociale, perché amare i bambini, specialmente in questi giorni
in cui assistiamo a testimonianze atroci su quello che devono vivere i bambini e morirne, tutto questo non è altro che
un allargamento dell’amore, anche se l’amore per un uomo
o per una donna continua a rimanere la perla centrale di
tutto il movimento e di tutto l’universo.
La Sicilia è una terra in cui lei ha soggiornato a
lungo e ha lavorato per molto tempo. Che ricordo conserva della Sicilia e di Messina in particolare? In che
misura esse sono presenti nella sua poesia?
Ho un ricordo meraviglioso della Sicilia. Io ho vissuto in Paesi diversi, dall’America al Giappone ecc., però
questi sono degli episodi, diciamo, mentre invece la Sicilia
ha costituito veramente una parte della mia vita. Ci sono stata benissimo, ho avuto un contatto straordinario con gli studenti, tant’è vero che ancora adesso mi vengono a trovare.
Abbiamo fatto veramente amicizia. C’è stato da parte mia
anche un tentativo di avviare i giovani alla poesia, che è
l’unico modo per aprire le nostri sorgenti interiori e addirittura il nostro subconscio ad un’espressione cosciente o comunque sentita. Io ho insegnato prima tedesco e poi francese, ma fuori dall’università facevo dei seminari di poesia
italiana, perché era quella che mi interessava soprattutto. E
poi c’è la bellezza della Sicilia. Se io penso ai Peloritani, se
penso a quegli immensi cespi di margherite che sono disseminate qua e là in modo selvaggio, quelle notti di luna con
l’orizzonte di cani, come dice Garcia Lorca. Sono tutte cose
Maria Luisa Spaziani:
una voce di primo piano della
poesia italiana contemporanea
di Nello Cristaudo
Nell’ampio panorama letterario italiano, per quanto riguarda la poesia (dopo la scomparsa dei grandi autori
del secondo Novecento, come Quasimodo, Montale, Ungaretti, per fare solo qualche nome) si può certo oggi annoverare Maria Luisa Spaziani, autrice di vari volumi, candidata più volte al premio Nobel per la letteratura e docente di
lingue straniere per quasi un trentennio presso l’Università
di Messina. Maria Luisa Spaziani nasce a Torino nel 1924,
dove ancora vive ed opera. Ma la città di Torino compare
pochissimo nella sua poesia, mentre più presenti sono paesaggi piemontesi, liguri o siciliani.
A dodici anni scopre la figura di Giovanna d’Arco, che
ammira tanto da
dedicarvi un intero
poema. «Per me
Giovanna d’Arco scrive - è semplicemente la poesia; è
la donna come dovrebbe essere dopo ogni femminismo riuscito, è cioè una
creatura che abbia le stesse potenzialità di un uomo ma che
agisce autonomamen-te, secondo il suo personale destino,
secondo i suoi gusti, le sue scelte, in stretta simbiosi con
l’universo maschile».
A diciannove anni dirige la rivista «Il dado», che le
ha dato la possibilità di conoscere numerosi poeti contemporanei, tra cui Sandro Penna, Vasco Pratolini, Leonardo
Sinisgalli, Virginia Woolf ed Eugenio Montale. Sarà certo
quest’ultimo a lasciare un segno nella sua vita e nella sua
poesia. Trasferitisi entrambi a Milano intorno al 1950, iniziano a vedersi ogni giorno, avendo un comune interesse: il
canto. «È nata così un’amicizia quasi amorosa, che non è
paragonabile però a una storia d’amore. Ci vorrebbe una
lunga analisi per dire che cosa è stato questo legame».
Maria Luisa Spaziani, annovera nel suo curriculum
editoriale, tra i più recenti: il poema-romanzo Giovanna
d’Arco (1990) e I fasti dell’ortica (1996). Nel 2000 è uscita
per Mondadori la raccolta Poesie 1954-1966 e per Marsilio
i racconti di La freccia.
L’obiettivo di questa intervista è di avvicinare l’autrice ai nostri lettori, soprattutto cercando di penetrare il
rapporto arte-vita ed analizzando il tema dell’amore, uno
dei principali della poetessa piemontese, vissuta a lungo in
Sicilia. Perciò le ho chiesto:
In ogni autore spesso la vita ha influenzato l’arte, la biografia ha influenzato le opere. Si veda Dante,
Petrarca, Foscolo, Leopardi, Ungaretti, per fare solo degli esempi. Nella sua vita, prof.ssa Maria Luisa Spaziani, quali elementi, in un mondo dominato dagli uomini e
in cui la donna ha cercato di emergere con la propria
tenacia e forza, l’hanno resa donna forte, viva e appassionata della vita e della poesia? In altre parole nella sua
poesia vita ed arte sono in un rapporto biunivoco?
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quella di Montale è stata preziosa. E ancora oggi mi manca
moltissimo Montale. Quando io faccio una qualche passeggiata e noto un qualcosa di bello, io dico: «Che peccato che
Eugenio non sia qui con me a condividere quest’emozione!». Ecco, dal punto di vista oggettivo che cosa vale Montale. Direi che, a parte l’altezza speculativa della sua poesia,
c’è stato in lui il riuscito tentativo di riattaccarsi alla nostra
poesia delle origini. Per esempio lui amava le rime petrose
di Dante, ma allo stesso tempo, voleva svecchiare tutto quello che doveva essere svecchiato. La poesia del Novecento
sapeva ancora un po’ d’accademia. Io mi ricordo, una volta,
un critico professore che ha detto ad un tale: «Lei usa
‘tramonto’, che è una brutta parola, perché non dice invece
‘occaso’?». Ora, usare queste vecchie parole che sanno proprio di calamaio, è una cosa molto diffusa oppure fa pensare che la rima sia obbligatoria. La rima è una cosa bellissima e utile certe volte, però deve essere scelta con personale criterio critico da chi la usa. Non posso dire: tu devi
scrivere in rima o tu non devi scrivere in rima.
Comunque, anche oggi a volte si afferma che la
poesia è tale se riflette alcuni canoni tipici tradizionali,
come gli endecasillabi a rima baciata.
No, no! Questi sono i vecchi professori di provincia che dicono sciocchezze del genere. Chi scrive oggi con
le rime? Non c’è nessun poeta valido in questo momento
nello scenario letterario, anche se alcuni l’hanno sfiorata.
Per esempio Alfonso Gatto e Giorgio Caprone l’hanno toccata appena, l’hanno usata qualche volta. Però non c’è nessuna regola valida in poesia: un poeta deve fare tutto quello
che sente di dover fare, senza guardarsi intorno e assolutamente senza pensare alle mode e, possibilmente, addirittura, senza pensare a modelli.
L’inizio del Novecento era il periodo dei
manifesti letterari, andati per molti decenni in voga.
Oggi vede lei la validità di un manifesto letterario? E
che funzione potrebbe assumere?
Ma sa, si può sempre fare. Anche se nella marea di
cose che si dicono in questo momento rischia di essere un
pochino una “vox clamantis in deserto”. Ora nel Novecento
ce ne sono stati, prendiamo ad esempio il futurismo. Il
futurismo ha avuto un impatto storico e letterario molto
forte. Non ha lasciato quasi niente. In pittura sì, ma in poesia poco: c’è un libro di Marinetti che si chiama “Il tramonto della luna”, molto bello. Allora sembrava audacissimo, poi tutti hanno incominciato ad usare questo tipo di
associazioni un po’ folli, un po’ strane e sono entrate nell’uso. Per cui allora era molto importante un manifesto. Ma
si è dimostrato che si è sciolta nel corso della letteratura seguente e, quindi, neanche più come moda dovrebbe essere
tanto originale.
Quel che si spera è forse un rinnovamento della
poesia contemporanea. Ma sarà il tempo e l’azione dei
poeti a determinarlo. Intanto non mi resta che ringraziare la poetessa Maria Luisa Spaziani per la sua amabile
disponibilità. E mi piace concludere con un suo stesso
pensiero, già per altro pubblicato, che può essere di
incitamento e di incoraggiamento per i giovani: «Io ho
vissuto come volevo. Non ho grandi rimpianti, né rimorsi. Tra le sofferenze più grandi metterei i tradimenti
dell’amicizia e dell’amore... Quando si è soli, come in
fondo sono sempre stata io, bisogna continuare a guidare la propria barca, anche se si è stanchi, anche se c’è
la bufera».
che hanno veramente nutrito la mia poesia e la mia vita.
Anche se io ho dedicato soltanto un libro alla Sicilia,
L’occhio del ciclone, in realtà essa vi ritorna in tutti gli altri.
Oggi in Italia si realizzano migliaia di premi
letterari. Lei crede nella validità di questi premi? Ma
soprattutto cosa rappresenta per lei il premio Montale e
quale spazio viene dato in esso ai giovani poeti?
Lo spazio che viene dato ai giovani è grandissimo
in quanto, addirittura, c’è un limite di età: non si può concorrere al Montale se si sono compiuti i cinquanta anni. Io
l’ho fatto proprio per evitare che i premi vadano ai sessantenni, ai settantenni e così via. Certo, tutti protestano dicendo: ma a quell’età si scrivono più poesie. È chiaro, si scrivono poesie bellissime e lo dimostrano quasi tutti i poeti,
pensi ad Ungaretti, Montale che hanno scritto tante poesie
superati i sessantanni. Però, dare per esempio, tre mila euro
ad un giovane è una cosa importantissima perché ne ha bisogno, perché li adopererà per studiare o per comprare libri,
per viaggiare.
Una sorta di input?
Ma certo. Mentre, invece, quando si ricevono grossi premi a settanta anni, va bene è un grosso piacere e si
fanno tante belle cose, ma non è essenziale più per la carriera. Io so che quando ho ricevuto la prima borsa di studio
a Parigi, è stata per me una tale fortuna, mi ha spalancato
tutti gli orizzonti possibili, mi ha trasformata. Benedetti
quelli che promuovono le borse di studio perché veramente
è un momento magico della vita, momento di passaggio fra
la preistoria e la storia di un’esistenza. Ora, i premi buoni
che ci sono in Italia non sono più di dieci, gli altri sono
meno visibili. Fanno piacere a chi li riceve, a chi li dà, c’è
una bella cena finale, ma tutto finisce lì. Non fa storia! Per
questo io ho voluto che per gli inediti vincitori del Montale,
ogni anno, si facesse un’antologia che si chiama “I sette del
Montale”, in modo che rimanga un’antologia, non casuale,
prima fatta da Scheiwiller e ora da Crocetti. Io vorrei dire
una cosa a tutti: non fidarsi dei premi letterari dove c’è la
tassa di lettura. Questa è veramente una truffa, anche con le
migliori intenzioni di questo mondo, perché quando tu chiedi dei soldi a qualcuno gli devi dare qualcosa in cambio.
Non puoi dire semplicemente mi mandi, su una speranza
vaga, dei soldi. No! Bisogna che tu gli dica: le rispondiamo,
le diamo un giudizio, la sua opera potrà fare parte di una
raccolta, come facciamo noi al Montale dove, peraltro, non
c’è tassa di lettura. Si cerca di inglobare tutti questi giovani
nella nostra vita per fare amicizia, farli venire, offrire libri
che possiamo dare. Quindi la tassa di lettura è una cosa da
evitare e lo dico soprattutto a quelli che organizzano premi.
Io ho ricevuto un bando di un premio dove c’è venticinque
euro di tassa di lettura e c’è duecentocinquanta euro per il
primo vincitore. Vuol dire che bastano dieci per fare la moneta del premio. Ma questo è assurdo! È un fatto illogico,
non va assolutamente.
Montale è uno dei maggiori poeti italiani, non
solo perché ha ricevuto il premio Nobel (altri lo hanno
ricevuto ma non sono all’altezza di Montale, a mio modesto parere), ma anche per la sua profondità di pensiero ed elevatezza lirica. Parlare di Montale ci vorrebbe
un’intervista intera, anzi potrebbe essere argomento di
una prossima conversazione, ma così, brevemente, cosa
ha significato Montale nella sua vita e nella sua poesia?
Guardi, in tutte e due, tanto nella mia vita come
nella mia poesia, naturalmente una grande amicizia come
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perversi del potere, fatto di «bustarelle lubrificanti in varie
zone» e di «estorsioni - esenzioni fiscali». In quel contesto
sociale, perverso e corrotto, il poeta, perso già da tempo il
ruolo ottocentesco di mediatore ideologico, è “senza aureola”, riducendosi ad una semplice pedina nella convulsa scacchiera della vita. La scrittura, da alta e sacrale espressione
di una scienza sapienziale, si involve a puro atto compilatorio di varie pratiche sociali, a «denuncia dei redditi».
È una catabasi irreversibile che genera cinismo, egoismo,
allineamento con la
cultura dell’effimero
e soprattutto il pericolo strisciante di
essere inglobato nel
sistema. E nella tempesta
apocalittica
Dio resta lontano e
sconosciuto
(dioIgnoto), «Cristo è
morto, è morto lacerato», le generazioni
future non riceveranno alcun insegnamento positivo dai
padri, «forse ti malediranno forse ti rinnegheranno»: è la religiosità dialettica dell’anima del poeta,
che più sancisce la lontananza del divino più ne desidera
accoratamente la presenza. Ma, e qui si evince la componente dialettica di Aliberti, il poemetto non si conclude con
gli accenti tonanti e corrosivi, tipici di chi dichiara di avere
perso la propria battaglia con la vita: nella parte finale il
canto si innalza nella ricerca del vero senso della vita, dopo
l’orgia dei nonsenso, e si eleva nell’anelito a «verità-verifiche assolute», che possano esorcizzare le tenebre del materialismo e che riscoprano la libertà dello spirito. Il procedimento dialettico della lirica di Aliberti non può non coesistere con precise scelte stilistiche e retoriche. Quando i
toni si fanno veementi, il poeta ricorre spesso (qui ed in
altre raccolte) alla figura retorica dell’epanalessi che, attraverso l’iterazione martellante ed ossessiva di un termine
(lavora lavora lavora... non importa non importa... non
importa... scrivi scrivi scrivi ... ), ne esaspera e ne rende più
incisivo il messaggio poetico. Tale figura, quando debba
insistere su forme verbali, innesta l’ossessione paratattica
che, aggiunta alla quasi totale mancanza di interpunzione,
attiva ritmi incisivi, dinamici ed incalzanti. Non mancano
ovviamente i nessi analogici, arditi ed efficaci, e di ungarettiana memoria, spesso battenti sul lemma “tempo”: «la
macina del tempo», «la lava del tempo». Sono immagini
speculativi di un «Io» che avverte l’inesorabile trascorrere
del tempo assassino, che “macina” e brucia tutto ciò che attraversa nel suo cammino.
Carmelo Aliberti:
Il pianto del poeta, poesia
della dialettica esistenziale
di Francesco Puccio
Aliberti, poeta del Novecento
La raccolta di poesie di Carmelo Aliberti, “Il pianto del poeta” (Bastogi 2002), raggruppa liriche scritte nell’ultimo ventennio del Novecento. La silloge si distingue
per un incessante agonismo dell’essere e del vivere, suggellato da una battente dialettica esistenziale. Gli eterni temi
della vita e della morte, del nulla e dell’infinito si coagulano in un tessuto poetico ove i toni apocalittici coesistono
con il sogno di una palingenesi, ove l’urlo espressionistico
si coniuga con immagini delicate ed elegiache, ove l’esperienza della poesia novecentesca viene filtrata da una
sensibilità aperta ad una meditazione sui destini umani. Professore e poeta, Aliberti ha saputo coniugare la sua fine ed
attenta analisi dei testi della poesia novecentesca con l’attività letteraria. Attraverso l’uso sapiente e misurato dell’intertestualità, egli si inserisce a pieno nei suoi tempi, ereditando gli alti messaggi di Montale, Quasimodo, Ungaretti
- fra i tanti - ed innestandoli sul proprio vissuto. In modo
particolare, Montale gli ha prestato alcuni sintagmi («balugina... foglie accartocciate... male di vivere... distorte sillabe... traccia di una lumaca... il muro con i cocci di bottiglia...) ma anche la volontà di infrangere le maglie tentacolari della rete e l’attesa miracolistica dell’evento; con
Quasimodo ha vissuto uno stretto gemellaggio spirituale
sullo sfondo di una Sicilia sospesa tra mito e storia; Ungaretti (quello del Sentimento del tempo) lo ha aperto al recupero di una innocenza preadamitica, fra battiti d’ali e tormento della fede religiosa.
“Caro, dolce poeta” e la dialettica tra la spirale dell’effimero ed il vagheggiamento di un sogno di innocenza.
Lo spirito dialettico di Aliberti compare sin da
“Caro, dolce Poeta” (1978-80), un poemetto in cui il poeta
ripercorre circa quarant’anni di storia, dagli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza agli anni Ottanta.
Tra metafore calviniane (sentiero dei nidi di ragno), contornate da immagini di morte (bufere di scoppi e di cadaveri)
e dalle efferatezze della guerra (mani che falciavano i fratelli), il poeta coglie il fiorire della vita sia nell’Eros pervasivo (inseguivano caldi seni che nell’inesausto approdo a
«sogni di libertà e d’amore». Poeta dei contrasti e della ricerca, attento indagatore delle inquietudini esistenziali, Aliberti esplora gli anni del dopoguerra e denuncia la perversione degli ossimori ideologici, che con spirito mistificatorio tendevano a sancire il «patto di Marx con Dio». In quel
«caro dolce poeta» si assiste al transfert proiettivo di un
«Io» che ha vissuto gli anni della miseria (pazienza della
fame), che ha conosciuto la vita alienante della fabbrica
(catena di montaggio), che ha assistito ai miti effimeri della
società del benessere (auto di grossa cilindrata... roulotte, tv
a colori, jeans) e che versa le sue lacrime per le sperequazioni sociali, per l’altra Italia, quella di un Sud abbandonato, scolpita in quella tremula «ombra del padre che rincasa / con il vuoto nel cuore e nelle mani». La requisitoria
procede fra rabbia ed amarezza, penetrando nei meandri
“Il Limbo, la vertigine” e la dialettica ontologica
Nel 1980 Aliberti dava alle stampe “Il limbo, la
vertigine” una raccolta ove lo spirito dialettico segue una
strada diversa in rapporto a quella percorsa in “Caro, dolce
poeta”. Non più l’incontro-scontro sul terreno storico-sociale, ma su quello esistenziale. La pregnanza semantica di termini come «limbo» e «vertigine» si fa allusiva a dimensioni
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determinato dal forte sostrato tradizionale e primitivo proprio della sua isola. Da puntualizzare che la Sicilia si
configura per il Nostro in una zolla intermedia tra mito e
storia: egli prende della storia la realtà di «un Sud esiliato»
(È stato un attimo), recupera dal mito - nei poemetti “Aiamotomea” (1986) e “Nei luoghi del tempo” (1987) - la violenza dei paesaggi riarsi dal sole, il persistere di tradizioni
ataviche, il legame con la cultura contadina e con dimensioni sacrali e primigenie.
dello spirito diafane ed evanescenti, proprie di chi si sente
decentrato e proiettato in zone periferiche, lontane dalla solarità del centro. La condizione limbica, genera per conseguenza uno stato di smarrimento, di vertigine, ove saltano
tutti parametri dell’esistenza. La lirica che dà l’incipit alla
raccolta si intitola “La tua storia”. È un’esplorazione attenta
e profonda che il poeta fa della propria vita e dell’intera
umanità. Si sente l’eco pressante delle «ferite degli attriti»,
si constata la presenza di un orizzonte ove incombono la
«nebbia», il «vortice», il «risucchio», ma in questo vuoto
c’è sempre un raggio di luce, fossero «gli estremi di un filo
che balugina», fosse «la colonna stremata dei mortali» che
«in marcia barcolla verso il sole». La ricognizione dei destini umani si ripropone in “Vaghiamo”, ove viene scolpita
un’umanità che va alla deriva, tra ferite del vivere, immobilità dell’«Io», essiccamento dell’esistenza, caduta dell’agonismo interiore. Ma quello stesso «Io» non cede: pur attanagliato da una «vertigine» corrosiva, vorrebbe perforare la
fitta maglia della catena necessitante per respirare il vivifico
odore delle «zagare» (Vorresti bucare). E in quei momenti
di altissima tensione cognitiva per un attimo il velo di Maya
sembrerebbe squarciarsi e al di là dell’inestricabile «giungla
del mondo» si intravede una zona subliminare, via di accesso per una dimensione metafisica ove le cose sembrerebbero rivelare il loro senso più autentico (Nei luoghi comuni).
Ma è solo la folgorazione di un attimo, perché lo “spleen” è
sempre in agguato, con il suo potere distruttivo che vanifica
ogni certezza, che inquina il colore puro dell’azzurro (Rasa
al suolo), che trafigge con la «fiocina del nulla» l’uomo,
monade sperduta in un universo nientificato (Parziale totale). In questa raccolta la tensione dialettica raggiunge vertici epici. Aliberti manifesta la propria tempra etica e volitiva
chiamando all’appello tutte le proprie energie culturali, mentali e spirituali, fortemente teso a perforare “il muro della
terra”. Ed ecco l’attesa dell’evento salvifico che «rimargini
/ i frantumi del buio» o del «lampo» che possa squarciare le
tenebre dell’inerzia e della passività (Nel cespuglio delle
linee); ecco la preghiera accorata, al di là di ogni enfasi
misticistica, al «Dio del nulla e del dolore», perché l’uomo
Aliberti non affondi nella «poltiglia del sangue e del pensiero», ma possa innalzarsi verso le purezze metafisiche della
«nuvola» e dell’«azzurro». È un’ansia conoscenziale e teleologica che, sulla scia di Baudelaire, vuole andare sino in
fondo, e che, incollata «al vetro dei perché», è protesa ad
indagare le ragioni ultime del bene e del male (Dio del nulla). La raccolta si chiude con una lirica intitolata “Il tuo
risveglio”, da leggersi in forma indirettamente proporzionale a quella iniziale. È come se quel «filo che balugina»,
presente in “La tua storia”, improvvisamente si illuminasse
di un raggio di luce vivificatrice, riflessa dal fortissimo
legame che lega il padre al figlio. Un fatto comune e quotidiano, come il risveglio di un bambino dopo un sonno sereno, si ricopre di simbolismi riposti e si eleva a trampolino
di lancio per l’anima perché possa perforare la fitta maglia
del tempo. È l’improvviso travalicamento dell’hic et nunc,
con le sue «turpitudini» ed i suoi «gorghi» malefici; è il
rigenerarsi di un uomo che non ha mai gettato la spugna e
che interpreta il proprio cammino etico e spirituale non
relegandolo al singolo individuo ma lo intende come un
percorso generazionale, ove i figli partano dal punto in cui i
padri si sono fermati. In questa espansione della vita oltre il
tempo si racchiude la punta più alta della positività di
Aliberti, ma anche la presenza di un inconscio collettivo,
“Le tue soavi sillabe” ed “Il pianto del poeta”: i picchi
drammatici della dialettica
Nel poemetto “Le tue soavi sillabe" (1999) e ne “Il
pianto dei poeta”, da cui è tratto il titolo della raccolta da
noi esaminata, Aliberti, ancora una volta, dopo i toni della
rabbia e dell’apocalisse, ritrova il sentiero di un percorso
interiore, lontano sia da punte epicuree che misticistiche.
Nel poemetto si intravede il cammino di chi vuole ripristinare con sé e con gli altri «un colloquio di speranza», tentando il difficile travalicamento del «male di vivere» e delle
muraglie dell’incomprensione e dell’inerzia. Ancora una
volta appare la sicilitudine del poeta nella denuncia di un
«Sud assetato d’acqua e di giustizia», ma i toni abbandonano subito le note di amarezza e si ricaricano nell’immagine gioiosa delle colombe, che con il loro canto d’amore e
di pace indicheranno la strada per scoprire l’armonia dietro
la disarmonia. La lirica “Il pianto del poeta” rappresenta il
punto di arrivo della dialettica esistenziale del poeta. Nella
prima parte si contraddistingue per il sentimento dell’assenza e della mancanza, attraverso l’anafora sferzante di «non
vedo». Dopo un arioso ingresso nella rievocazione del mito
greco-siculo ed in una natura pura ed incontaminata, segue
l’amara requisitoria dei mali del tempo, dai delitti di origine
mafiosa alle tante guerre che onnubilano la terra. A questo
punto i toni si infiammano e si fanno incandescenti. Il dolore si fonde con la rabbia. Non c’è più posto per le parole
sussurrate o per la voce singhiozzante, ma il pianto deve
essere urlato a squarciagola perché possa estendersi all’immenso «teatro di violenza e di guerra», sul cui palcoscenico
si consumano i destini umani, sul filo di un «qui» anaforico
ed ossessivo, fra urgenza paratattica, forme nominali e personificazioni (la pietà muore senza mirra ed oro). Ma nella
parte finale, svuotata la figura del poeta di ogni prosopopea
salvifica ed illuminatrice (non chiedermi vibrazioni di luce), l’elegia si trasformia in inno, la rabbia in speranza.
Ritornano le immagini delicate degli uccelli (prima le
colombe, ora i gabbiani) e l’attesa di un risveglio mattutino.
L’anima del poeta e con sé l’anima del mondo, attingendo
alle fonti dell’infanzia, fra smaterializzazione e rarefazione,
potrà recuperare il sogno di un’innocenza primordiale ed
attendere, con sacrificio e volitività, l’alba della resurrezione, vista non come una conquista perenne, ma come un
momento di luce fra le tenebre striscianti, nell’eterno, drammatico ed incessante divenire della storia.
La tua e-mail con il
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Il Convivio tipo: [email protected],
con la quale si avranno 10 MB di spazio.
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immagini di sconvolgimenti apocalittici, dentro cui una voce disperata gridava la condizione umana come tempo breve divorato dalla morte e l’uomo evento illusorio, un nulla
nella vastità del cosmo: «La vecchia terra è dura / morto
l’abbrivo... boati / si susseguono a catena / urgono da fremiti profondi, da spazi imponderabili / s’attaccano alle viscere
/ si spengono nel Caos». In quel momento creativo la Natale aveva proposto, con grande impatto espressivo, la poesia
cosmica. Anche nel poemetto All’uscita dal tunnel e in altri
libri, la poetica dell’angoscia cosmica parlava con un linguaggio incandescente che rendeva palese il dolore, dilatato
oltre i limiti personali, di questa autrice vulnerabile e delusa
nel sentimento di dare e ricevere amore, continuamente ferita nell’anima, frustrata nella generosa disponibilità a capire e lenire le pene morali degli altri. «Pruni ho raccolto e dune di rifiuti / fughe di anni, anni, anni / delusioni impietose
/ le braccia nell’attesa / per rimanere vuote e inaridite».
Maria Pina Natale
vive attraverso la sua poesia
di Rina Pandolfo
Maria Pina Natale non è più tra noi, tra gli amici,
gli estimatori della sua arte, nella città che amava. È scomparsa silenziosamente con i suoi talenti umani e letterari,
che elargiva generosamente, la sua ricchezza interiore, la
spiritualità profonda e la solitudine che in lei era riflessione
ontologica e conoscenza (amara) dell’anima umana: «Siamo
timidi / incerti / senza meta / senza risposta / soli». Anche se
non vedremo più il volto gentile illuminato dagli arguti occhi azzurri e la grazia dei suoi modi amichevoli, non si può
dire che sia scomparsa veramente e per sempre, perché i
poeti (e lei lo era al massimo grado) non muoiono. Esiste,
infatti, una presenza “altra”, il carisma spirituale della parola di cui è l’essenza viva dell’arte che trasfonde la verità dei
sentimenti e del pensiero nei versi ricchi di amore.
Autrice versatile, letterata finissima, il suo talento
artistico si è estrinsecato in più direzioni: è stata, principalmente, poetessa (una voce nota in campo nazionale), narratrice, saggista, attenta e acuta nell’esercizio della critica letteraria, traduttrice dal greco, dal latino, dallo spagnolo. Tutte le varie espressioni letterarie sono state arricchite dal punto di vista formale dalla sensibilità poetica e dall’intelligenza critica.
Donna fragile, ma forte nella vocazione, ipersensibile, ripiegata con grande umiltà in un quotidiano che richiedeva il sacrificio personale, dava aiuto a chi ne aveva
bisogno con amore, con spirito cristiano. Infatti nella scala
dei valori metteva al primo posto la persona umana, al secondo la letteratura. Maria Pina Natale ha scritto tantissimi
versi, un numero che bisognerebbe calcolare, in una quindicina circa di pubblicazioni, in cui appariva veramente se
stessa: anima, sentimenti fondamentali di dolore e di gioia,
della vita, dell’amore e della morte; mostrava una conoscenza lucida del proprio stato d’animo e del variegato mondo
interiore, con l’autenticità e la tensione lirica della poesia di
grande qualità.
Dalle prime sillogi giovanili in versi latini alle opere della maturità (tra le tante Un cirro di speranza, I Telezonti, Officina di sogni) si è delineata una sicura personalità
creativa capace di fondere, con un’intelligente azione di sintesi formale, tematiche scaturite dall’osservazione dolorosa
e pessimistica dell’attuale condizione dell’uomo che, poeticamente, immaginava coinvolto in una visionaria apocalissi
cosmica, e la struttura tradizionale del verso di nobile scuola letteraria (l’autrice è stata docente nei licei classici).
La fusione avveniva grazie alla maestria di composizione unita ad una sensibilità accesa, in forza di un’angoscia tutta novecentesca di origine esistenziale e cosmica (lo
spazio intergalattico e la piccolezza dell’essere terrestre).
L’autrice siciliana ha espresso il suo dramma interiore con
straordinaria evidenza in uno dei suoi più, significativi libri
di poesie, il postermetico I Telezonti del 1984. La visione
del mondo della poetessa, sconvolta dalla constatazione che
il Male imperava nelle coscienze e nella società contemporanea, intorbidita dallo strazio del cuore per il destino degli
esseri umani privi di valori, concretizzava questo grande disagio morale e sentimentale con visionarietà poetica, in
Maria Pina Natale, poetessa e scrittrice, è stata per tre anni
Presidente del Premio Internazionale Il Convivio
Nella vita artistica Maria Pina Natale ha subito ingiustizie, silenzi con i quali si volevano oscurare i meriti
culturali, indifferenza da parte di intelletti mediocri e ignoranti, ma per fortuna, e soprattutto, encomi entusiastici, ammirazione, numerosi premi letterari, recensioni e saggi firmati da personalità eminenti della critica letteraria italiana
anche da lettori comuni, dai veri amanti della poesia, bravi a
scoprire il tesoro là dove è profuso: nell’anima del poeta, donatore del bello e del bene. I temi dell’ambivalenza del bene
e del male («Se i cieli si dilatano insieme a neri abissi...);
dello smarrimento ( ...ora tutto è vertigine... ); il tema del
tempo e dell’inutilità della vita stigmatizzavano il commovente stato di un’anima che soffriva la solitudine atroce di
chi non spera in niente, ha paura: «volgo le spalle a frane
che m’inseguono / mi oscurano il cammino / e che iraconde
mi sommergeranno / fino all’ultima spiaggia / come belve
affamate». Dalla riflessione filosofica sul mondo e sulla na5
tura dell’uomo, dalle amarezze del vissuto, nasceva il flusso
poetico che pervade la poesia conturbante della Natale, poesia che suscita in chi legge emozioni profonde e senso di
fraternità; offre la condivisione della sofferenza a chi attraversa periodi negativi, e a tutti il meraviglioso dono di grazia poetica cioè la luce intensa dei momenti d’amore, di
gioia, di speranza che abbondano nei suoi testi. Infatti l’io
poetico trovava la risoluzione morale nella forza miracolosa
dell’arte; si affidava con nativa fiducia, alla comprensione
di chi ha sofferto tribolazioni esistenziali e spirituali ed alla
rispondenza affettiva di coloro che amano vivamente, la
bellezza della natura e credono nei valori perduti.
Augusto Peluso:
Poesia del colore e della luce
di Angelo Manitta
«Piacevoli profumi ed armonie / ascendono dolcemente al cielo, / bianche farfalle volteggiando / orbitano nel
sole e nella luce». Questi versi, tratti dalla lirica di Augusto
Peluso Colori di primavera, inserita nel volume antologico
dei Quaderni del Calamaio, può considerarsi sintesi dell’intera espressività poetica dell’autore e delle sue tematiche. Si
tratta di una poesia inondata di luce e di felicità, di calore e
di colori, di suoni e di immagini altamente poetici. Le dieci
liriche della raccolta, infatti, sono permeate da una visione
solare ed astrale della vita. La parola ‘sole’ ricorre con insistenza, accanto alla parola ‘luce’ ed altre semanticamente
affini. È la solarità mediterranea espressa attraverso vivificanti immagini, che offrono serenità ed estasi.
La vita umana, così come il ciclo vitale nel suo
complesso, è espressione di luce e si manifesta attraverso il
succedersi delle azioni e degli eventi, delle stagioni e del
tempo che corrono in una direzione univoca, mai equivoca,
in parallelo con la luminosità interiore, che in senso metaforico e realistico illumina le menti. Emblematica è la prima lirica, che presenta il tepore primaverile in un’alba che
lumeggia. Se volessimo analizzare sotto l’aspetto semantico
solo questa poesia, i termini che riportano alla solarità e all’estaticità concettuale suono molti. Ad esempio: albore,
sole, cielo, sfavillante, lumeggia, aria, orizzonte, tepore,
primavera; termini, questi, che si ricollegano ad altri vocaboli altamente poetici, come gabbiano, onda, mare, riva,
trasparenza, pensiero, tempo, amore, tenerezza, e così via.
Al calore e colore, espressioni di felicità, si interseca il tempo, il tempo astronomico, che permette di segnare
la successione degli eventi, ma pure il tempo metaforico,
quale trasformazione di pensieri e movimenti dell’animo, il
tempo che ognuno di noi sa crearsi e che sfocia nell’Assoluto o nel Nulla. L’Assoluto è quell’aspirazione verso l’alto
insita in ognuno di noi, quella tendenza verso l’infinito azzurro, luce vera che dà serenità. La vita esiste perché esiste
la luce, il tempo esiste perché esiste la vita. Attraverso quest’equazione filosofico-matematica concludo che la luce e il
tempo sono i due principi che danno origine alla vita ed alla
coscienza dell’uomo, come si nota in Mattutini albori:
Maria Pina Natale e Angelo Manitta durante la cerimonia
di premiazione del Convivio nell’ottobre del 2003
Per Maria Pina Natale la poesia non era arte consolatoria (forse non solo), bensì arte del colloquio d’amore e,
al più alto grado espressivo, elevazione dello spirito che
aspira all’assoluto e transito dall’umano al divino: «È Tabor
la poesia, trasfigura / realtà, le fa più belle / più grandi e
luminose / ...È Tabor la poesia / la sua luce / sfiora e rischiara i vicoli del mondo». Il cuore del poeta effonde liricamente la speranza con cui far rinverdire lo spirito; ha momenti di riposo: «L’onda riposa / dimentica dei suoi antri...». Dimentica delle sue pene profonde, la poetessa si
apriva alla dolcezza di visioni rasserenanti, sentiva nell’anima «risonanze di albe lontane / leggere brezze... la terra sotto un velo di latte / stillato da candidi cirri».
Complessa, dunque, è la poesia di Maria Pina Natale, propria di chi è condannato al pensiero che indaga,
mentre il cuore palpita per stimoli diversi e intensi e contraddittori. Nell’ebbrezza lirica delle ultime poesie, un pensiero amaro chiude lo straordinario iter poetico: «Troppe
sono le maglie ancora aperte / a chiuderle non so / se la vita
sarà oppur la morte». Purtroppo per molti l’incompiutezza è
lo stigma della morte: non così per i poeti.
Al primo albore del mattino
stormi di uccelli spiegando le ali
s’accingono a migrar per l’infinito.
Tra chiare acque e la silente riva
dondolano le chiome da aura scosse
di salici piangenti lungo il fiume.
Lumeggia il sole sulle alte cime
sul verdi prati e sui pineti
sul mare che talvolta s’adira.
Ogni pensier mio fugge dal petto
e di diversi colori al sol si tinge;
effluvio di resina al cor s’appressa.
Una dolce melodia s’aggira attorno
lieve come un murmure dape,
freme il vento e rumoreggia il mare.
Un bagliore simile a incendio
mi accarezza dolcemente l’anima
e in mille modi appaga i sogni miei!
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per trovare al di là dell’oceano la speranza di un domani
migliore. E soprattutto la storia di Vita, questa donna magnifica, vitale, conturbante, di cui Diamante finisce per innamorarsi senza però imparare da lei la cosa più importante: il talento del vivere.
Vita rappresenta indubbiamente un altro dei poetici
ritratti umani usciti dalla penna di Melania G. Mazzucco.
Le appartengono grazia, mistero, onestà. E una scrittura che
asseconda i registri cangianti del quotidiano, i suoni di tutto
un popolo alla ricerca di sé, insieme ai turbamenti di quanti
si videro costretti, senza sicurezza e garanzie di sopravvivenza, ad affrontare le difficoltà e le inquietudini del costruirsi una nuova identità sul suolo di una terra straniera,
alle prese con lingue sconosciute, sotto un cielo inesplorato
cui levare la propria nostalgia.
Melania G. Mazzucco
e le motivazioni letterarie di «Vita»
di Luigi La Rosa
Melania Mazzucco ripercorre le motivazioni letterarie di «Vita», libro con cui ha
conquistato il Premio Strega 2003 e dal
quale verrà tratto un film per il cinema.
Una narratrice feconda, geniale e poeticissima,
che si confronta apertamente con la passione
della scrittura e il bisogno di lasciare il segno.
Un romanzo per comprendere una pagina irrinunciabile della storia del nostro Paese.
Da due anni abito a Roma, città che amo e ho scelto per vivere, scrivere, raccontare le mie storie. Da anni incontro scrittori e giovani autori che, come me, hanno fatto
della parola il sogno della loro vita. La loro unica ragione
d’esistere. Da qualche anno, poi, ho dalla mia la fortuna
maggiore che la capitale poteva regalarmi. La conoscenza
diretta, personale, amichevole di quella che la critica europea definisce, senza ombra di errore, la maggiore narratrice italiana dei giorni nostri: Melania G. Mazzucco.
Qualcuno ha paragonato il suo nome a quello di Elsa Morante. Giustamente. Qualcun altro ribadisce come i
suoi romanzi siano tradotti in almeno dodici lingue diverse.
Giustamente. E soprattutto, in soli trentasette anni di vita,
una collezione di premi eccezionali che vanno dal Vittorini
al Napoli, all’ultimo Strega 2003, conferitole nel luglio
scorso.
La produzione della narratrice romana mette a nudo una verità importantissima: la certezza che è ancora possibile raccontare delle buone storie. Lo avevo capito sin da
subito, dal giorno di molti anni addietro quando in una libreria messinese mi trovai a sfogliare le pagine del suo primo
lavoro “Il bacio della Medusa” (Baldini & Castaldi, 1996).
Il libro era il primo dei suoi quattro, presto candidato a Strega e Viareggio, e caratterizzato da un titolo di singolare effetto poetico: «Il bacio della Medusa». Mi addentravo nelle esistenze autentiche delle due protagoniste del
racconto (due donne mosse dal desiderio e dalla voglia di
essere se stesse pur nell’intrico di un mondo indifferente e
retto da ipocrite imposizioni) con quel senso di ebbrezza che
sempre ci rapisce quando sentiamo che qualcosa di straordinario sta avvenendo sotto i nostri occhi... Ma Melania G.
Mazzucco ha voluto offrirci qualcosa di più, ricollegandosi
in modo commovente e insieme fedele all’eredità di se stessa e della propria famiglia.
«Vita» consacra definitivamente la scrittrice al primato artistico che le spettava di diritto. L’assegnazione del
Premio Strega 2003 rappresenta l’apice di un successo assai
meritato, che avevamo abbondantemente previsto e desiderato. La storia delle radici, di un uomo di nome Diamante
(il nonno dell’autrice) che si trasferisce in America alla ricerca di fortuna. Che fugge da una condizione di povertà
Incontrare l’autrice di «Vita» ha realmente rappresentato per me il coronamento di un sogno... Il mattino trascorso in compagnia della Mazzucco è sempre con me, voglio conservarlo tra i ricordi più belli. Insieme all’accoglienza nella sua casa affollata di libri, in una di quelle
grigie giornate d’inverno che solo Roma sembra saperti
regalare. Quel mattino posso affermare di aver conosciuto da
vicino la più grande scrittrice italiana di questo secolo.
Come comincia il racconto di «Vita»?
«Vita» parte dalla leggenda legata alla figura di
mio nonno. Di quest’uomo di cui si è discusso in famiglia,
sapevo solo che era andato in America per fuggire la povertà ancestrale dei Mazzucco. È stata questa la motivazione
prima che ha ispirato in me la vicenda narrativa del romanzo, spingendomi alla ricerca di quei rari documenti rimasti
che potessero ridarmi le fila degli eventi. Le cose che avevo
erano: un paio di occhiali di Diamante, alcune lettere mandate a nonna Elma, qualche brandello di giornale e una targa con sopra il nome di un Mazzucco di New York. Come
una detective sono andata a caccia di quelle tracce che mi
restituissero il sentimento di quelle esistenze lontane, cercando di colmare il vuoto attraverso le lettere e gli archivi
esistenti.
Quanto erano distanti da te gli avvenimenti del
romanzo?
Erano distanti eppure vicinissimi, perché in quegli
stessi anni anche in Italia avveniva qualcosa di simile. Passando dalla stazione assistevamo alla presenza di un grandissimo numero di immigrati che, come quei nostri parenti
andati in America mezzo secolo prima, cercavano da noi lo
sbocco agli stenti dei loro paesi di provenienza. Anche loro
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si erano affidati a un sogno: quello di cambiare la loro vita.
E tutto questo richiede forza, coraggio, talento. Mentre pensavo di scrivere la storia di mio nonno mi guardavo intorno
e in quegli uomini vedevo la stessa disperazione.
A differenza di altri tuoi libri, in «Vita» tu
stessa diventi personaggio insieme agli altri, mescolandoti all’intreccio della storia. È stato facile obbedire a
questa volontà di rappresentazione?
Non è stato facile affatto. Scrivere di sé significa
mettersi a nudo, darsi in pasto al lettore e questo implica
inevitabilmente un atto di fiducia verso gli altri. Inoltre,
questa scelta è stata dettata dall’idea che chi scrive acquisisce comunque libertà e privilegi rispetto a chi è morto e
non può darci la sua testimonianza. Raccontare di mio nonno, mio padre e degli altri uomini appartenuti alla famiglia
mi costringeva a una grandissima responsabilità perché mi
permetteva di penetrare nel perimetro esistenziale di persone ormai lontane nel tempo e nello spazio. Scegliere di dar
voce a me stessa come personaggio ha un po’ alleviato questo senso di responsabilità, facilitando in qualche modo la
comprensione dei silenzi di chi non aveva più voce.
Melania Mazzucco prima e dopo lo Strega 2003.
Cosa è cambiato nella tua vita?
Da un punto di vista strettamente narrativo nulla.
Dall’altro punto di vista, e cioè dal punto di vista della sicurezza materiale, sono cambiate molte cose. Sapere di aver
finalmente raggiunto un numero elevato di lettori è comunque una grandissima soddisfazione, che ti ripaga degli anni
di attesa, silenziosa scrittura, rifiuti editoriali. Scrivere è un
atto di comunicazione, per cui il successo di un autore finisce inevitabilmente col fare i conti anche col numero di lettori ai quali arriva il suo messaggio. Tanto più numerosi e
vicini sono questi lettori, tanto più lo scrittore è riuscito a
trasmettere il suo pensiero.
Quando hai avuto la percezione piena e completa del tuo successo?
Alcuni mesi addietro, durante una serata in teatro
dedicata al libro. In quell’occasione non lontana, mi accorsi
che anche le persone meno abituate alla frequentazione dei
libri avevano letto con attenzione il romanzo. Si avvicinavano di continuo, mi facevano domande, erano incuriosite
dal mestiere di scrittrice. Ecco, quella sera ho capito che la
scrittura non era più qualcosa di confinato, di intellettualmente aristocratico, ma qualcosa che aveva il dovere di arrivare alla gente comune, quella di tutti i giorni, di qualsiasi
estrazione sociale e culturale. E «Vita» è probabilmente il
libro in cui questo tentativo si è compiuto in modo più
profondo e riuscito, anche in virtù della vocazione sociale
della storia e del fatto che essa coinvolge un momento fondamentale della memoria del paese.
Molti dei lettori rimangono colpiti dalla tua
maniera di raccontare e mescolare tra loro i diversi piani temporali dell’azione. Come consideri questo procedimento narrativo?
Lo considero importante per il fatto che considero
il tempo non lineare ma circolare e multiforme. Delle volte
mi si dice che racconto sempre il presente. Probabilmente è
vero, ma lo faccio perché quello che mi interessa è l’attimo
presente, l’attimo stesso in cui il lettore sta raccogliendo il
senso delle parole, in funzione del quale passato e futuro si
trovano a interagire e convergere. Lo stesso accade nel mio
metodo di scrittura…
In che senso?
Nel senso che io non ho scritto mai in maniera
ordinaria e cronologica. Non sviluppo mai un capitolo dopo
l’altro progressivamente, ma lavoro soprattutto per salti
temporali, dando vita al capitolo trentotto e solo successivamente al capitolo undici. Anche nella redazione dei miei testi seguo questo principio di casualità, perché ritengo che
non esista un tempo lineare nel quale si distendono gli
eventi, ma il tempo varia in base a come noi lo percepiamo
e in funzione del valore che diamo all’accadere di determinati eventi rispetto ad altri.
In molta scrittura ritorna la figura di tuo padre.
Chi era realmente quest’uomo cui va il merito del tuo
amore e della tua gratitudine?
Il merito umano di mio padre è legato alla gratitudine che qualsiasi figlia porta nei confronti di colui che l’ha
messa al mondo. Credo sia più giusto discutere del merito
letterario che ha avuto sulla mia formazione di scrittrice. I
ricordi che ho di quest’uomo sono legati al suo senso di sacrificio. Era uno scrittore che ha lavorato per il teatro con
stagioni di grande fortuna alternate a periodi di sofferenza.
Tuttavia, la sua costanza e la sua forza mi hanno insegnato
a concepire la scrittura come qualcosa di estremamente artigianale, cui devi mettere te stesso, al limite delle forze.
Ricordo le notti in teatro, i pomeriggi delle prove, dove ho
potuto apprendere in modo diretto come si aggiusta il testo,
come si lavora sul ritmo, come ci si confronta senza distogliere l’attenzione dal lavoro finché una cosa non abbia
raggiunto la sua forma ultima e migliore. Ecco, se penso a
mio padre penso a tutte queste cose, e sento di dovergli
davvero molto. Tuttavia, mi trascino un unico piccolo dispiacere: quello di non esser riuscita a fargli vedere in tempo
il successo che avrei avuto negli anni.
Hai in mente un nuovo romanzo?
Posso anticiparti che ho in mente non una, ma due possibili
storie alle quali sto già lavorando. La prima dovrebbe essere ambientata ai giorni nostri, ed è un romanzo di carattere contemporaneo. La seconda dovrebbe invece narrare una
figura vissuta nel diciannovesimo secolo, scomparsa senza
lasciare tracce. Sto faticando a ricostruire la sua fisionomia,
data la scarsità di fonti a disposizione. In ogni caso, so che
ogni buona storia ha un suo tempo, e ogni scrittore vero deve imparare ad abbandonarsi alla scrittura secondo le necessità.
Flavia Vizzari, Solitudine (olio su tela)
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quí están precisamente en su más alta expresión los «senderos del absoluto». Giuseppe Manitta se ha entregado a
una experimentación inventiva de gran originalidad, un propósito explicitado suficientemente por el propio autor en las
páginas preliminares y que puede sintetizarse en los siguientes puntos: a) la diferenciación entre pasajes lírico y
pasajes épicos mediante el uso de un interesante nuevo sistema métrico (los versos tienen sus apoyos acentuales en
un número determinado de palabras clave); universalización
de conceptos principales con la incorporación al texto, junto
a los significantes italianos, de los significantes corre-spondientes en griego, latín, francés, alemán, español, in-glés y
portugués; c) creaciones de neologismos mediante manipulaciones de los morfemas, al modo de Gavino Ledda...
El proyecto del autor de Sentieri d´Assoluto es, según sus
propias palabras, el «estudio
de la lengua, de la forma, de
la estructura del poema, de la
métrica». Parecería, pues, que
se trata de una pura propuesta
experimental y formal, casi un
ejercicio de preceptiva literaria. Sin embargo, junto a lo dicho anteriormente, lo que se
oye en Sentieri d´Assoluto es
una auténtica voz de poeta, en
cuya materialización habría
que destacar especialmente el sentido del ritmo, el acervo
de imágenes y el acierto en el manejo de la estructura.
Por otra parte, Giuseppe Manitta poeta lleva muy
marcada la huella del artista plástico que es en el tratamiento del paisaje y de la Naturaleza. Ha seleccionado de
ésta los elementos más emblemáticos enfrentados a menudo
dialécticamente en parejas antitéticas: el alba y el ocaso, el
abismo y las estrellas, el vacío gris de la niebla y la plenitud
cromática del arco iris, el bosque y la caverna, el sol y la
nube, la luz y la sombra. El libro se cierra con un canto
lírico de despedida a los cuatro elementos (terra, acqua, fuoco, aria) y a los elementos naturales presentes a lo largo del
poema-ranconto. Es la Naturaleza con mayúscula “all´apice
della sua gloria, una vez que se ha redescubierto “les correspondances” que Baudelaire había buscado por su templo:
correspondencias que nuestro poeta ha sabido expresar en
las pinceladas sinestésicas de su creación. Una Naturaleza,
además, sublimada y solemnizada mediante ciertas recurrencias de la mitología clásica: Apolo, la Fortuna, ninfas los
misteriosos asfódelos... Y siempre, explícita o implícitamente, la temporalidad: la «immensa armonia del divenire.»
En todo esto nos parece ver los reflejos del Absoluto. A los filósofos les toca entrar en las precisiones conceptuales del Absoluto: tò ólon? tò téleion? (Aristóteles);
¿la verdad infinita? (Leibniz); ¿principio infinito de la realidad? (Fichte); ¿la realidad suprema? (Hegel); ¿el infinito
mismo? (Romanticismo). El poeta Giuseppe Manitta, en
cambio, que ha renunciado a los vías de la racionalidad y
que sabe que se mueve en un mondo de realidades inefables
(«Entréme donde no supe / y quedéme no sabiendo, / toda
ciencia trascendiendo», San Juan de la Cruz dixit) se obstina en recorrer y ofrecer al lector los senderos inescrutables del absoluto “poético”. Y es que el poeta que recorre
los senderos del Absoluto no hace otra cosa que transitar
por la verdadera palabra poética.
Giuseppe Manitta:
Sentieri d’Assoluto
di Francisco Alvarez Velasco
Giuseppe Manitta clasifica esta su segunda entrega
poética (Sentieri d’assoluto, Accademia Internazionale Il
Convivio, 2003) en un subgénero literario mixto muy poco
frecuente: poema-relato. Indudablemente desde ya hace
mucho tiempo, especialmente a partir del Romanticismo, entraron en crisis para siempre los clásicos géneros literarios y
quedaron borradas las fronteras entre lírica y narrativa. La
novedad de nuestro poeta ha de buscarse en una lúcida conciencia de la necesidad de encontrar un nuevo camino de
decir poético, una “remodelación de la poesía”. Lo primero
que llama la atención del lector al abrir Sentieri d´Assoluto
es la estructura formal externa del discurso poético: la alternancia de prosa y de verso, formas textuales que se van
solapando. Los fragmentos en prosa podrían leerse sucesivamente como un relato autónomo; no ocurre lo mismo con
los poemas, que son generados por los primeros. Poemarelato, por consiguiente; sin embargo, en su estructura externa, un relato y un poema fragmentados en secuencias
textuales que se van intercalando. O, dicho de otro modo,
camino (prosa) y senderos (verso). El camino es de ida y
vuelta (empieza en el campo, lleva a la ciudad y retorna al
punto de partida) y está definido espacialmente con sus
coordenadas geográficas. Los senderos son, en cambio, imprecisos y no son “hacia”, sino “de”: léase bien la preposición del título del libro, con su polisemia de posesión y de
ubicación.
El relato - la prosa - además del espacio (rural y
urbano), cuenta con los elementos propios del género narrativo: personajes, tiempo e historia contada. El tiempo histórico corresponde al siglo XXI, a la “plena era del ordenador y de la tecnología”; el tiempo de la narración se corresponde con un viaje de ida y vuelta. Los personajes son
pocos: el narrador-protagonista, el perro Sam (el único que
tiene nombre propio), una madre sacrificada, un padre kafkiano (recuerda mucho en su prepotencia al personaje de la
“Carta al padre”: «Con i capelli arruffati e la barba lunga,
con gli occhi rosso sangue e le braccia robuste»), personajes ocasionales propios de un relato itinerante, el hombre
vestido de blanco en la Basílica (la “Basilicissia”)...
La historia contada se nutre de elementos muy
simples narrados con técnica impresionista: el abandono del
hogar, el encuentro con algún viajero, el encuentro con la
naturaleza observada desde una perspectiva estática o desde
medios de locomoción, el descubrimiento de la ciudad, el
encuentro con gentes anónimas o singularizadas («Mi siedo
e riosservo il reale. É bello analizzare con minuzia la gente
che passa»), el retorno... Coexisten aquí elementos realistas
y elementos oníricos, o, mejor, de duermevela, lo que hace
que la narración se revista de cierto aire de realismo mágico. La razón de ser de la historia tiene su punto de apoyo
en el carácter altamente simbólico: en palabras del narrador
- «il figlio dei boscchi» - se trata del «incerto viaggio dell´evasione e della speranza», un ir y volver que al final se
convierte en un viaje de iniciación y de aprendizaje - «sono
diventato adulto».
Y a lo largo del texto en prosa – decíamos - se van
engastando los fragmentos del poema, en ocasiones de lirismo puro; en otras, en formas narrativas o descriptivas.. A9
dell’impiccato. Eppure, caro versosciolto, rieccomi a ripetere
che tu non esisti, se non in qualche sporadico caso di eccelsa
liricità che ti fa perdonare quella tua disarmante poliedricità.Perché quella metrica che ha preventivamente e faticosamente definito le proprie regole non può, dopo averle abiurate e superate, non tornare al suo originario stato di prosa,
nemmanco in nome della libertà più assoluta. Perché, arrogandoti il diritto di tornare a capo quando ti pare (e questo, in
teoria, non dovresti concedertelo nemmeno tu), non solo crei il
paradosso di una stessa lirica scritta in mille modi diversi che
mantiene sempre la stessa, prosaica musicalità, rimanendo
eccelsa in ognuno di quei mille (con il conseguente pericolo di
non poter essere ascoltata senza prima essere vista), ma soprattutto rischi di legittimare come creazione poetica puranco
questa mia, qualora io decidessi di scriverla a tocchetti e
spezzatini. Ma può davvero, questa, riscritta andando a capo
ogni tre o quattro vocaboli, o addirittura spezzando gli stessi,
potersi definire poesia? Basta davvero, come sosteneva Mallarmè, un qualsiasi sforzo verso uno stile per far nascere la
versificazione e che non esiste prosa ma un alfabeto che, sempre, si trasforma in verso più o meno compatto? O piuttosto
(cito a memoria, utilizzandoli spudoratamente pro domo mea)
i rigurgiti della deriva massimalista e della anarco-democratica totale libertà di opinioni di non nominata memoria,
identificando il verso allo sforzo stilistico e creando, quindi,
lo stile infinito fine a se stesso, concedono la legittimazione
assoluta a quanti, ormai troppi, pretendono di spacciare per
poesia anche la lista della spesa? Ma se non si vuole negarne
l’esistenza, è evidente che anche e soprattutto la prosa riesce a
comunicare e trasmettere in maniera sublime emozioni e
sentimenti (bella forza, dispone dell’intero rigo!). Ed allora, la
nuova domanda sorge spontanea: possono, i miei versi di
piccolo, ridicolo operaio della metrica, nelle mie piccole,
ridicole opere, confrontarsi con le difficoltà del regale endecasillabo, dei suoi accenti variabili ma mai arbitrari, della
tanto vituperata rima e restare sullo stesso piano che tu hai
attribuito a te stesso (piano, questo, non migliore o peggiore,
ma semplicemente diverso)? Possono giocare la stessa partita
ed avere, gli uni, regole che gli altri ricusano? Possono accettare la unilaterale, mistificante e pericolosa identificazione
della partita con la regola stessa? E qual è, allora, la differenza tra prosa lirica e poesia lirica a verso sciolto, se non
l’indiscriminato e soggettivo uso dell’a capo ad ogni costo?
Ecco che allora, nello stesso modo in cui gli stessi siciliani
han-no tradito la Sicilia (ma questo è tutt’altro discorso),
risulta a me evidente che la quasi totalità dei poeti ha tradito
la preventiva e stimolante determinazione delle pur variabili
regole, adagiandosi comodamente tra gli assunti (e per la
poesia, pericolosamente autolesivi) di quella giabbenprima
esistente prosa lirica alla quale avrebbero potuto e dovuto
orgogliosamente appartenere, ostinatamente continuando, però, a rivendicare non l’affiliazione lirica, bensì quella poetica.Ecco che, ancora, a me basterà convincere l’universo
dell’esistenza di questa contraddizione in termini, non rimettendo in discussione gli sconquassi linguistici dell’ultimo secolo (o poco più) nello stesso modo in cui quegli stessi sconquassi hanno messo in discussione la metrica, non paventando
la nascita (come per la famosa ‘merda’) di una ‘poesia di
artista’, ma, molto più semplicemente, tentando di ricondurti
alla tua naturale e splendida condizione di lirica prosa. E se
non sarò certo io il tenutario del diritto di tale trasferimento,
ho, irremisibilmenti, il dovere di pronunciarmi, non foss’altro
che per la consapevolezza di appartenere ad una razza ormai
in via di estinzione, sia per convincimento, sia per condizione
di cinquantenne scapolo dalla nascita, con il tempo e la voglia
di polemizzare e con l’esigenza del non accontentarsi (ripu-
Per un manifesto letterario:
Lettera aperta ad un versoscioltista
di Giovanni Piazza
È quantomeno singolare che dopo vari e più o meno
illustri pareri sostenenti che la poesia contemporanea non esiste, dopo la constatazione di Giorgio Barberi Squarotti che
rileva il dissolvimento della neoavanguardia (a parte Sanguineti), dopo lo svolgersi, annualmente, di oltre duemila concorsi
letterari (molti dei quali premiano tutto ed il contrario di tutto),
dopo la assoluta libertà di espressione propugnata dalla quasi
totalità di spiriti liberi od incapaci, la poesia senta la necessità
di auto-decalogarsi. Ma è veramente percorribile la strada indicata da Claudia Manuela Turco, nel momento in cui asserisce che «ognuno deve giudicare se stesso e cercare di valutare
onestamente la propria opera»? Ma non era meglio, allora, lasciare la “arida” metrica a far da spartiacque?
Ma se mi è permesso provocare molto più provocatoriamente, l’equivoco di fondo che rende soggettiva e fuorviante la
pretesa di essere “osservatori privilegiati” grazie ai quali
“l’umanità risplenderà” e che non riesce a spiegare l’esistenza
di opere d’arte di altissimo livello di matti od assassini (il cui
scopo non era certamente la illuminazione) è proprio quello di
soggettivare la regola invece che il gradimento. Il rimaiolo,
attribuendo la qualifica di poesia al risultato di una tecnica
oggettiva e preventivamente regolata, definisce tale qualunque
opera utilizzi un parametro metrico. Conseguentemente, coesisterà (semplificando al massimo e scusandomi col grande Micio non erotico) poesia elementare (filastrocca), ridicola e
demenzialpopolare (la mia), arguta (Trilussa), morale (Meli),
erotica (Tempio), maestosamente lirica (Dante) etc.etc.
Il versosciòltico, invece, definisce poesia la capacità di
comunicare e provocare emozioni, rendendo così soggettivi i
parametri della questione. Mapperò, ecco che in questo modo,
tagliando fuori dal filone poetico le filastrocche e quant’altro
non fraseggia con lo spirito e non tocca le alte sfere, non solo
rischia di tagliar fuori poeti del calibro di Trilussa, Martoglio,
Belli e via dicendo, ma soprattutto definisce poesia solo ciò
che riesce a permearlo, dando così agli impermeabili (o diversamente permeabili) la possibilità di dissentire ed a se stesso la
certezza di non poter definir tali nemmanco le sue, perché sarà
preventivamente costretto ad indagarne i contenuti (questa si,
questa no, questa non lo so…). Praticamente, sarebbe come
sostenere che un quadro è un quadro solo quando rappresenta
la Madonna...
Di conseguenza, da questo mio provocatorio punto di
svista, considerando ragionevole il dubbio che induce a credere
che il proliferar di poeti a verso sciolto sia determinato dalla
estrema facilità di tale uso, potrebbe, una possibile via di salvezza, essere quella di regolamentare non i poeti, ma questa
imperversante anarchia poetica? E come farlo, se non uccidendo il verso sciolto? Il mio Io rimaiolo ne sarebbe felice e lo
ha pure sostenuto pubblicamente nella sottoriportata Lettera ad
un versosciolto mai nato.
«Caro versosciolto,
rieccomi a te nello splendore della mia donchisciottesca
incoscienza, a combattere i giganteschi mulini a vento eccitati
dalle infinite schiere dei proseliti tuoi. So bene di scontrarmi
contro l’universo intero, e mai un sanciopanzico amico intervenne a tergere la mia essudatio non petita (scusa il francesismo). Eppure, rieccomi ostinatamente a sostenere questa
impari lotta e, manco fossi interista, a sopportare l’insopportàbile. Eppure, rieccomi a parlar di metrica e rima ad un
sito d’avanguardia, praticamente a parlar di corda in casa
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diando, così, uno dei pochissimi espedienti che ancora gli
consentirebbero di godere). E allora addio, versosciolto, perché se cotanto trapasso non dovesse verificarsi, anche se metricamente non esisti, sicuramente un giorno, nell’ultimo, disperato tentativo di salvare la Poesia, qualcuno ti ucciderà ed
uno stupido rimaiolo come il sottoscritto dedicherà alla tua
mai prematura scomparsa un ridicolo, metrico, sonetto.Io, che
certamente danzerò sulla tua tomba, ho già scolpito l’epitaffio:
Qui giace il verso sciolto
che s’attivò sittanto
sin da elevare al canto
puranco il bla-bla-bla
giammentre la Poesia
tornata al suo costrutto
ma disdegnando il lutto
di estinta libertà
dinnanzi al freddo avello
sconvolta dall’eccesso
sibila al compromesso:
‘Vigliacco, ben ti sta!’.
Caro versosciolto,
rieccomi a te nello splendore della mia donchisciottesca incoscienza a combattere i giganteschi mulini a vento
eccitati dalle infinite schiere dei proseliti tuoi».
3° Tratta con amore e rettitudine i buoni (ce ne sono), i
deboli, le persone di buona volontà, sicuro che, ingannando un
figlio della luce, inganni te stesso.
4° Vai così anche controcorrente pur di trovarti nel cammino che porta verso la luce.
5° Accompàgnati in tale strada ai cultori del bello, del
vero e del buono, perché sappi che non c’è autentico artista che
non porti a Dio.
6° Allora scoprirai la poesia delle cose nella commozione
dell’esistenza, nel singulto di ciò che finisce, nella gioia di ciò
che nasce.
7° Coltiva l’arte, ogni forma d’arte, purché serva a farti
crescere, a farti sentire più uomo.
8° Tue aspirazioni siano l’infinito, l’eterno, l’incorruttibile.
9° Luce, luce, luce: nella vita e nell’arte contro le tenebre
di ogni tipo, la miseria, l’ingiustizia, l’errore.
10° Soprattutto: fatti guidare dall’amore, perché Dio è
Amore; e mai dalla Paura che, figlia dell’ansia, è cattiva consigliera e toglie pace e serenità.
Tra le altre riflessioni:
«Ognuno di noi ha un modo tutto suo di esprimere le
proprie idee e i propri pensieri, sia che si tratti della forma che
del contenuto. È questa la caratteristica che ci distingue l’uno
dall’altro, ci differenzia, ci fa “riconoscere”, ci colloca in uno
dei tanti filoni letterari o artistici che si sono avvicendati, e
continuano ad avvicendarsi nel tempo. C’è chi usa un linguaggio semplice, chi un linguaggio elaborato, chi avvince con
la parola e l’idea e si lascia leggere con piacere e interesse, chi
stanca e suscita indifferenza e, anziché rilassare, rende pesante
e noiosa la lettura. Qualunque sia l’argomento, se valido e
coerente, se espresso con chiarezza e trasparenza, non produce
rigetto ma viene assimilato e trasformato in concetti utili e
formativi» (Antonia Izzi Rufo).
«La poesia circolerà sempre oltre come una linfa rigeneratrice tra gli uomini, partecipando delle forze positive del
mondo. Si farà messaggera di speranza, di amicizia, di ideali,
temporeggiando le energie negative. La scrittura poetica, attività più segreta dello spirito e più intima dell’anima prenderà
coscienza della sua realtà e del suo valore planetario. I Poeti di
ogni nazionalità scambieranno le loro opere ed anche le loro
idee. Sarà come oggi un forum, una forza di pensiero, di tolleranza, di chiaroveggenza. Ogni artista si arricchirà dell’apporto delle molteplici sensibilità, e dell’eredità delle differenti
civiltà. Così come lo definiva Rimbaud, il poeta diventerà
“Veggente” non “per la sregolatezza di tutti i sensi”, ma per la
strutturazione della conoscenza, per l’accesso ad altre verità,
per l’apertura del suo spirito e del suo cuore ad una dimensione
nuova di coscienza... Finché il cuore di un poeta sarà sospeso
ad una lacrima di luce che trema a bordo di un ciglio, all’ombra di una duna che esalta il deserto, all’effimero incanto
dell’alba, all’abbaglio infinito di un sguardo, rimane il rifugio
consacrato della più alta espressione dell’anima, creatore dell’opera incomparabile che collega, attraverso la fragilità intermedia del Segno, lo spirito allo spirito. Arte maggiore, l’espressione poetica resterà nei secoli a venire, il testimone della
nostra capacità di trascendenza per perpetuare il fiamma iniziale d’amore, da cui siamo sgorgati (Denise BERNHARDT,
trad. di Angelo Manitta).
Tentativo di Decalogo di Silvio Craviotto:
1. Arte e pensiero puro o filosofia hanno una comune
matrice nel linguaggio creativo;
2. Per linguaggio creativo intendiamo ogni forma di comunicazione mediante immagini o concetti;
3. L’arte è linguaggio metaforico, il pensiero linguaggio
logico;
4. La prima si manifesta grazie all’intuizione, il secondo
attraverso il ragionamento;
5. Ancora: la prima è sintesi tra esperienza sensibile (osservazione, ascolto) e idea, il secondo è analisi delle strutture
mentali o trascendentali, in quanto immanenti al pensiero e
non derivanti dall’esperienza sensibile;
6. L’arte sottende una visione, o la ricerca di essa nel senso forte di “schauen” e “anschauen” (vedere coscientemente)
ed ha le caratteristiche del “dono” (Gabe);
7. Il pensiero filosofico, in quanto analisi critica del linguaggio, è “compito” (Aufgabe), è costruzione e riflessione;
8. Nell’arte prevale la misteriosa scintilla detta creatività
suscitatrice di emozioni e di affetti; nel pensiero prevale la ricerca di obiettività (distacco). Non va trascurato il fatto che
nell’arte è presente sempre l’elemento ludico, che sarebbe di
disturbo nel mondo del pensiero (J.Huizinga);
9. Nessun artista moderno può rinunciare ai corroboranti
ed insieme critici ed autocritici stimoli che a lui fornisce il
pensiero;
10 - La filosofia non può ignorare i problemi che ad essa
pone l’inevitabile riflessione sull’arte (l’Estetica è da sempre
un capitolo della Filosofìa) e sulla scienza. L’epistemologia, da
Kant in poi, è studio del rapporto che intercorre tra la mente
umana e la realtà nei processi di percezione e conoscenza.
Conclusione (provvisoria).
Decalogo di Baldassare Turco:
1° Rispondi agli schiaffi della vita schiaffeggiandola con
il tuo buon senso, con cui potrai guardare tutto dall’alto con distacco.
2° Per non cadere nel gioco del numero infinito di stolti
(ignoranti-prepotenti-commedianti) serviti del tuo buon gusto.
Chi ha proposte serie da fare sull’ipotesi di un manifesto letterario, le invii
al Convivio per essere valutate.
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22). Nella XIX dinastia si può parlare di “emancipazione
femminile” in quanto la donna pretende di godere di una libertà pari a quella dell’uomo.
Esiste anche il divorzio, e forse già dall’Antico regno. Si nota questo fatto nei monumenti funerari, in quanto
sono citati i figli di uno stesso padre e di diverse madri. La
donna divorziata di solito ritorna dai genitori o va a vivere
con il fratello o con un figlio. I figli devono sempre mantenere i propri genitori, altrimenti perdono l’eredità. Come
viene condannato l’adulterio? La moglie in questo caso
viene ripudiata, ma se presta giuramento di non colpevolezza, ella non subisce la punizione del marito. Se il marito è
colpevole di adulterio, la moglie ha diritto al divorzio e ad
un indennizzo. Secondo quanto raccontato da Diodoro Siculo l’adulterio è comunque una colpa grave e viene punito
con l’evirazione nel caso dell’uomo e con l’ablazione del
naso nel caso della donna.
La concezione della donna
nell’antico Egitto
di Bruna Tamburrini
Nell’antico Egitto la donna comincia ad assumere
più importanza a partire dalla III dinastia, mentre prima vigeva una mentalità patriarcale. Con la III dinastia i membri
della famiglia stessa acquisiscono entità giuridica e diventano indipendenti È in questo periodo che la donna egizia
diventa una “persona”, titolare di diritti e proprietaria di beni. Marito e moglie sono su un piano di completa uguaglianza e ambedue possiedono terre e sono economicamente indipendenti. «Nelle tombe della III e IV dinastia, infatti,
la moglie, generalmente, ma non sempre, figura in piedi, o
seduta vicino a lui, nella tomba del marito, gli cinge con un
braccio le spalle: è la sua uguale in dignità come in diritto»
(Leospo e Tosi, La donna nell’antico Egitto, pag.10).
Anche le statue spesso sono di uguale grandezza.
La famiglia è, comunque, un’entità importante, l’uomo si risposa diverse volte, anche perché la mortalità femminile, a
causa del parto, è alta. Il concetto di “famiglia” è ovviamente diverso da quello odierno e non segue regole tassative e precostituite. A volte, per meglio esprimere l’uguaglianza tra i coniugi, essi si chiamano con “fratello “ e “sorella”,
comportamento diffuso soprattutto tra i giovani nelle liriche
d’amore (1540-1080 a. C). Ne citiamo alcune: «Mi alzerò in
casa / e fingerò di essere malato. / Verranno i miei vicini a
visitarmi / e verrà mia sorella con loro: Essa renderà inutile il medico / poiché essa conosce il mio male!» (Papiro
Harris, r.II, 9,11). E ancora: «L’unica, la sorella, la senza
pari ,/ più bella di tutte, / ecco, guardala, / è come la stella
fulgente / all’inizio di una bella annata. / Lei, che splende
di perfezione, / brillante di pelle, / con gli occhi belli quando guardano, / con le labbra dolci quando parlano, / essa
non ha una parola di troppo; / lei che alto ha il collo, / il
petto luminoso, / con capelli di veri lapislazzuli, / le cui
braccia superano (lo splendore) dell’oro, / le cui dita sono
come boccioli di loto, / lei, che ha languide le reni, / strette
le anche, / le cui gambe difendono la bellezza, / il cui passo
è pieno di nobiltà / quando posa i piedi sul suolo, / con il
suo abbraccio mi prende il cuore. / Essa fa che la nuca di
ogni uomo / si volga per guardarla. / Ognuno che essa abbraccia è felice, / si sente il primo degli uomini. / Quando
esce dalla sua casa, / è come si vedesse “colei che è unica”
(cioè Hathor). Vi sono molte liriche su questi argomenti ed
è sempre un’esaltazione lirica della bellezza femminile.
Esistono due tipi di matrimonio: patrilocale e matrilocale. Il primo significa che la sposa va nella casa del marito, mentre il secondo il contrario. C’è da dire che è molto
diffuso il matrimonio matrilocale. Vi sono anche coppie “irregolari”, vale a dire donne che convivono con i loro compagni, ma dai documenti risulta che tali coppie vengono per
lo più considerate “legali” negli archivi di stato civile. Può
anche succedere, comunque, che non vengano registrati matrimoni e nascite, ma questo solo se i due possiedono beni
di modesta entità. Sono identificate come donne di facili
costumi le straniere “siriane” e “babilonesi”. Riporto una
citazione abbastanza significativa: «Guardati dalla donna
straniera che nessuno conosce in città, non guardare quando segue il suo compagno, non conoscerla carnalmente: è
un’acqua profonda, non se ne conosce il limite» (op.cit.
Nell’Egitto la figura della regina assume un aspetto davvero importante. A tal proposito ricordiamo la bella
Nefertari, moglie di Ramesse II, la più bella, la regina amata da tutti. Nefertari ha onori divini ed ha un posto di primo
piano a fianco della figura del marito. Evidenziando Nefertari non vuol dire che le altre regine abbiano un posto inferiore: è il concetto stesso della regina che si pone sullo stesso piano del faraone. Ricordiamo anche Nefertiti, Tausert
(anche se quest’ultima regna solo per breve tempo). Nefertiti (della XVIII dinastia) e Nefertari (della XIX dinastia)
spose rispettivamente di Akhenaten e di Ramesse II sono ricordate in numerose biografie. Il nome stesso di Nefertiti è
un epiteto della dea Hathor e significa «la bella (dea) che è
venuta», vale a dire rientrata dalla Nubia in Egitto. Nefertari, (grande sposa reale) è, forse, di origine texana. Di questa
bellissima regina, morta giovane a circa quaranta anni, è
stata scoperta da poco (da Schiapparelli) la tomba nella valle delle Regine. Dalle immagini dei dipinti sulle pareti si
comprende la sua bellezza ed appare anche molto evidente
l’amore che il popolo nutre per lei. Per la prima volta l’immagine del viso, sempre visto di profilo, appare con le ombre che ne danno un gradevole senso di plasticità. Dal viso si
comprende anche il sentimento della regina, che viene, per
esempio, rappresentata in lacrime davanti al libro dei morti.
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e per superare tutti gli ostacoli. Questa raccolta è stata riordinata all’inizio della XIII dinastia ad opera degli scribi. Le
formule sono di varia lunghezza e sono arricchite da disegni
e miniature. Tutto questo perché gli Egiziani credono nella
vita ultraterrena e, nelle pitture sulle pareti della Valle delle
regine, questo concetto è espresso molto bene. Al momento
della sua morte il defunto è già considerato “giustificato”,
cioè assolto e identificato con Osiri per diventare poi come
Ra, il dio del sole.
Il libro dei morti si divide in quattro sezioni:
La prima comprende i capitoli 1-16 ed è collegata
con il corteo funebre e con l’arrivo del defunto nel regno dei
morti, al quale potrà accedere grazie a specifiche formule;
La seconda comprende i capitoli 17-63 e viene rappresentata la rigenerazione del defunto. Egli ritrova la sua
individualità, vince i nemici infernali ed acquisisce più poteri simili agli dei per diventare così inattaccabile;
La terza comprende i capitoli 64-129 e rappresenta
la trasfigurazione del defunto dopo la sua rigenerazione;
egli effettua le dodici trasformazioni per apparire nel cielo
orientale come RA. «Egli prende il posto sulla barca solare
per attraversare il cielo, conosce le anime dei luoghi santi
(Ermopoli, Eliopoli, Buto e Ieraconpoli) e rientra nella necropoli per presentarsi nel tribunale di Osiri, dove viene
giudicato secondo il rituale descritto nel celebre capitolo
125, detto della “psicostasia” o ”pesatura” dell’anima»
(Leblanc, Siliotti, Nefertari, pag.121);
La quarta comprende i capitoli 130-162 e tratta del
viaggio del morto nel mondo sotterraneo. Egli deve dimostrare di conoscere i nomi degli dei, di Osiri, delle sette porte, dei 21 cancelli che hanno accesso al suo regno ecc.
Gli ultimi capitoli sono dedicati alla protezione del
defunto.
In una pittura rinvenuta nella tomba di Nefertari, la
regina è raffigurata davanti ad una pagina del libro dei morti. Nella tomba l’immagine è abbastanza estesa sulla stessa
parete e si nota anche Nefertari mentre si rivolge ai tre geni
della prima porta del regno di Osiri (cap. 144 del regno dei
morti): Sekhed-her-‘asha-iru, seguito dal guardiano Tekatmeseger e da un essere femminile con la testa di ippopotamo che impugna due coltelli e da un’altra figura femminile
(si tratta del terzo genio detto “l’annunciatore”) senza caratteristiche specifiche.
Il testo riferito alla regina dice: «La grande sposa
del re, Signora delle due Terre, Sovrana dell’Alto e del basso Egitto, Nefertari Mery-en-Mut, giustificata presso Osiri,
il dio grande, protezione, vita, durata, vigore, salute, ogni
gioia, ogni difesa, come Ra». In tutta l’immagine della parete sono riportati i passi del capitolo 144 del libro dei morti
riguardanti le porte del regno di Osiri, come specifica l’inizio dell’iscrizione: «Formula per conoscere le porte del regno di Osiri nell’occidente e degli dei che risiedono nei loro recessi (i geni delle porte): come uno si potrebbe rivolgere a loro nel mondo terreno. Parole dette dall’Osiri, la
Grande Sposa del Re, Signora delle due terre, Nefertari
Mery-en-Mut, giustificata presso Osiri» (Op. cit. pag. 154).
I lavori delle donne nel periodo egiziano
Nel nuovo regno le donne sono dedite anche ad attività religiose femminili: gruppi di prefiche, infatti, accompagnano i funerali, le sacerdotesse curano la continuità del
culto degli antenati attraverso le offerte e si presentano alla
pari con il ruolo maschile. Quindi la donna assume anche un
ruolo di primo piano nel clero e nella corte. L’educazione
che viene impartita alla femmina è uguale a quella dei maschi, non solo, ma la donna può anche accedere all’istruzione e alle specializzazioni. Non a caso ricordiamo Seshat,
la dea della scrittura. Le donne scriba, dopo un periodo di
apprendistato, possono intraprendere la carriera civile o religiosa. Le nutrici d’altronde devono possedere un’istruzione adeguata per allevare ed educare le figlie del re. Le donne possono assurgere anche ai rami della chirurgia e della
medicina. Nel Medio Regno decadono le cariche amministrative femminili per lasciare spazio alla “donna signora
della casa”. Nel Nuovo Regno l’amministrazione statale è
affidata al personale maschile. Vi sono, comunque, donne
d’affari, donne proprietarie di terreni.
Nelle pitture parietali vediamo le donne intente
anche ai lavori agricoli, come per esempio la ventilazione,
la stacciatura e pulitura del grano, la raccolta del lino, la
vendemmia e il lavoro nei frutteti. Le donne possono partecipare anche alle battute di caccia, di solito sono nobili che
accompagnano il marito, o anche ancelle che aiutano gli
uomini a sistemare la preda. Possono essere anche venditrici nei mercati, sono anche intente alla filatura e alla tessitura. Nel corso dei banchetti vi è la presenza femminile alla
pari con quella dell’uomo. Può essere interessante sapere
che gli uomini nelle pitture sono rappresentati intenti nel lavoro di lavandai! Pare che vi siano anche le donne “serve”
che aiutano le nobili, lavorano nella cucina, sono donne che
appartengono alla comunità, sono sotto il controllo del re
anche se i loro salari (pagati generalmente con grano) sono
inferiori agli operai normali. A volte anche le donne libere
effettuano lavori a pagamento presso altri lavoratori e questo generalmente succede per pagare dei debiti. C’è da precisare, comunque, che non conosciamo molto sulla situazione delle donne-serve, pare anzi che in certi periodi esse non
siano per niente esistite.
Note bibliografiche
Nefertari e il libro dei morti
LEBLANC C. SILIOTTI A., Nefertari e la Valle delle regine, Giunti,
Prato, 2002.
LEOSPO E. TOSI M., La donna nell’antico Egitto, Giunti, Prato, 1997
KOLPAKTCHY G. (a cura), “Il libro dei morti degli antichi egiziani, ed.
Atanòr, Roma,1984
Il Libro dei morti raccoglie, nell’antico Egitto, tutte le formule magiche, redatte con scrittura geroglifica corsiva su papiri arrotolati, formule che hanno la funzione di
fornire al defunto gli strumenti per aprire le porte dell’aldilà
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rità numerose richieste che arrivavano da ogni dove, non gli
permisero di sviluppare fino in fondo questo suo affrancamento dal modello rossiniano e di arrivare a un suo definitivo e chiaramente identificativo linguaggio personale.
Giovanni Pacini e la sua
Maria, regina d’Inghilterra
di Giovanni Tavčar
Giovanni Pacini nacque a Catania l’11 febbraio
1792, nove anni prima del suo celebre concittadino Vincenzo Bellini. Al contrario di Bellini, però, la sua nascita a
Catania è frutto del puro caso. La sua famiglia era di origini
toscane e la loro presenza a Catania, in quell’anno 1792, era
dovuta esclusivamente a ragioni di lavoro. Pacini era, infatti, figlio di cantanti lirici. Il padre, Luigi, era uno dei più
noti bassi-buffi dell’epoca. Fu, tra l’altro, il primo interprete
del Turco in Italia di Rossini. Tutta la famiglia aveva d’altronde innate predisposizioni musicali. Non si può non menzionare l’anno 1832, nel quale Pacini rappresentò la sua opera Il convitato di pietra, una versione del Don Giovanni.
Suo padre cantò nel ruolo di Ficcanaso (Leporello), il fratello Francesco la parte tenorile di Don Giovanni, la sorella
Claudia la parte sopranile di Zerlina, sua cognata Rosa la
parte di contralto di Donna Anna. Praticamente tutta la famiglia. Da notare poi, che la seconda moglie di Pacini, Marietta Albini, cantò nella prima della sua opera Il corsaro,
andata in scena a Roma nel 1831.
La produzione operistica di Pacini fu enorme, superiore a quella di Donizetti. Scrisse, infatti, ben 89 opere,
oltre a numerose cantate, oratori e musiche strumentali varie. Il suo esordio avvenne a Milano, con la farsa Annetta e
Lucindo nel 1813, a soli 21 anni. Da quel momento la sua
attività (tranne un periodo di silenzio di cinque anni) si
prolungò per un lungo cinquantennio. Fece una rapida carriera, propiziata da un buon mestiere e soprattutto da una
spontanea vena melodica. Fu certamente uno dei più stimati
compositori operistici del periodo rossiniano. Le sue opere
giovanili, come quelle di tutti i compositori di quel periodo,
nascono sotto l’influsso del genio rossiniano; sono composte di getto, senza badare troppo a dilemmi stilistici e approfondimenti culturali. Più che cercare uno stile proprio,
un linguaggio personale, si rifanno a schemi generali, già
collaudati e codificati, stampati nel gusto del pubblico. Fu
l’unico compositore importante di quel periodo a non avere
esperienze internazionali.
Nel 1825, a ventinove anni, egli scrisse l’opera
L’ultimo giorno di Pompei che rappresenta una pietra miliare nella produzione del suo primo periodo, rappresentata
il 19 novembre a Teatro San Carlo di Napoli. «Il maggiore
successo del mio primo periodo artistico» scrive lo stesso
Pacini nella sue Memorie. Per la prima volta egli tenta,
coscientemente, di affrancarsi dal modello rossiniano, con il
chiaro desiderio di una maggiore comunicazione emotiva.
L’impianto generale è ancora rossiniano, imperniato su
grandi scene d’insieme, ma la geometria fraseologica viene
infranta a beneficio di una più fedele aderenza dell’invenzione musicale all’espressività della parola. Il grande successo di questa sua produzione procurò all’ancora giovane
compositore un contratto novennale come direttore dei teatri musicali napoletani, succedendo nella prestigiosa carica
proprio al grande Rossini. Pacini lascia con quest’opera una
testimonianza creativa di esemplare efficacia e apre l’era
del “dopo Rossini”. Un vero punto di riferimento per tutti i
musicisti della prima metà dell’Ottocento. L’abilità compositiva, che gli consentiva di soddisfare con puntuale regola-
Egli, da persona intelligente, se ne rese pienamente
conto. La sua produzione subì infatti negli anni Trenta (causa i continui dubbi che lo attanagliavano) un vistoso rallentamento, fino a interrompersi del tutto nel 1834. Egli aveva
deciso, coscientemente, che aveva bisogno di un periodo di
pausa, poiché era arrivato, dal punto di vista artistico, ad un
punto morto, dal quale non sapeva uscire. Onestamente riconobbe: «Bellini, il divino Bellini, e Donizetti, mi avevano
sorpassato!». Nel periodo di silenzio compositivo, che durò
ben cinque anni (dal 1834 al 1839), egli assimilò le novità e
le esperienze di Bellini e di Donizetti. Giunse così, finalmente, anche la sua ora. Certo, fu facilitato in questo anche
dalle circostanze in cui versava il teatro d’opera a quel tempo. Rossini si era ritirato dalle scene e viveva nel suo dorato
esilio in Francia, Bellini era morto a Parigi nel 1834, Donizetti si era a sua volta trasferito a Parigi, Verdi era appena
agli inizi della sua carriera. Ma, bisogna specificarlo bene,
non fu solo la fortuna ad aiutarlo, ma anche e soprattutto i
suoi meriti personali.
Egli abbandonò definitivamente lo stile imitativo
del-le sue precedenti produzioni, l’opera cosiddetta di agilità (nel suo cosiddetto primo periodo, che va dal 1813 al
1834, egli compose una cinquantina d’opere), e si cimentò
in un linguaggio nuovo che non ripudiava i valori della
melodia e del lirismo, ma che tentava di aderire più fedelmente al testo drammatico, affidandosi a un’armonia più accurata e a un’orchestrazione più rifinita e di maggiore spessore. I personaggi risultano più approfonditi e meglio caratterizzati, più fedelmente delineati. La sua coscienza musicale scopre il valore della concisione, della frase breve, dell’inciso drammatico.
Il suo grande momento coincide con la prima parte
del suo secondo periodo artistico, più precisamente con il
decennio che va dal 1839 al 1849, nel quale si situa la buona decina di opere che rappresentano il vertice della sua produzione. Saffo è la prima opera composta da Pacini dopo il
periodo di maturazione che si era volontariamente imposto;
ed è subito capolavoro. La prima andò in scena al Teatro
San Carlo di Napoli il 29 novembre del 1840. Fu un vero
trionfo. Critica e pubblico furono unanimi nel giudizio.
L’opera è ritagliata sul modello greco della tragedia, cioè
sull’impianto corale. I pezzi solistici sono solo tre in tutta
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cellona, con franco successo. Poi, per sette anni, non se ne
sentì più parlare. Nel 1852 fu approntata una ripresa a Palermo, che ottenne un buon successo, senza rinnovare però i
furori delle rappresentazioni originarie. Un po’ per colpa
dei cantanti, un po’ perché c’era ormai già Verdi a spadroneggiare sulle scene italiane; il gusto del pubblico stava
cambiando. Seguì, nel gennaio 1853, un allestimento a Messina, con scarsi risultati. In ottobre si ebbe una ripresa a Lisbona, con risultati altrettanto deboli e fiacchi. L’ultima conosciuta ripresa dell’Ottocento ebbe luogo a Malta, durante
la stagione di Carnevale, nel 1858. Poi fu l’oblio totale.
Sembra quasi incredibile che un’opera del genere,
che tanti furori aveva suscitato agli inizi, sia stata del tutto
dimenticata tanto presto. Morto Bellini, Pacini aveva saputo
offrire ai siciliani un omaggio che più belliniano non poteva
essere; un omaggio con tutti i crismi del capolavoro. Per
prima cosa bisogna specificare che Pacini aveva una grande
conoscenza delle voci, dei loro registri e delle loro possibilità tecniche. Egli compose sempre le parti vocali per determinati solisti, scelti già in precedenza, adeguando la
scrittura alle loro peculiarità e possibilità tecniche. Ciò andava a suo vantaggio, se gli interpreti rimanevano sempre
gli stessi o se venivano sostituti con altri di pari o similari
caratteristiche, ma diventava uno svantaggio se subentravano cantanti con caratteristiche diverse. Pezzi che risultavano fantastici, cantati dai cantanti ai quali le parti erano
state confezionate su misura, risultavano poi addirittura disastrosi se interpretati da cantanti meno dotati e con differenti caratteristiche vocali e timbriche. E il discorso vale
anche per questa Maria, Regina d’Inghilterra. Finché a cantarla furono gli interpreti originali, il successo fu pieno, addirittura strepitoso, quando i cantanti cambiarono, cambiarono anche le sorti dell’opera.
Un altro grande pregio di Pacini è l’abilità di dare
a ogni opera una particolare coloritura musicale che la
distingue da tutte le altre. Qualcuno ha detto che Bellini è il
compositore di un solo stile, stile che ha però in ogni singola opera una coloritura diversa, che la rende unica e immediatamente riconoscibile e che solo Pacini ha saputo fare
la stessa cosa. Importante è poi l’uso del recitativo, che non
è mai accompagnato da secchi accordi convenzionali, ma
da una serie di brevi incisi melodici, in costante trasformazione, la cui lezione risale inequivocabilmente al giovane e sfortunato compositore calabrese, morto prematuramente nel 1813, a soli ventidue anni, Nicola Manfroce. Maria, Regina d’Inghilterra ce ne offre un esempio lampante,
specialmente nell’ultima scena, dove non si riesce a trovare
un solo recitativo scritto alla vecchia maniera.
Se il Donizetti maturo e il giovane Verdi si industriavano a cercare sempre nuove e più ardite forme di espressione, Pacini era tutto intento a mantenere il nuovo, che
il suo talento gli suggeriva, nelle collaudate forme tradizionali, che egli era ben attento a non manomettere e a non
incrinare. Egli non fu quindi, per sua stessa natura artistica,
un rivoluzionario nella storia della musica; ciò ha sicuramente contribuito al suo ingiusto oblio. In questa Maria, Regina d’Inghilterra egli comunque raggiunge, grazie anche
al librettista Tarantini, un’unità formale e drammatica di raro pregio. I tre atti si susseguono in un crescendo che raggiunge nel meraviglioso finale il suo apice. Finale degno
del miglior Donizetti drammatico. Ci sono poi brani dell’opera (per esempio la cavatina di Maria, nel secondo atto, In
quel volto accolse il cielo) che Bellini avrebbe sottoscritto a
l’opera. Il resto è composto da brani corali e da brani
d’insieme. L’atmosfera è piena di corrusca passionalità, intervallata da brani di espansiva e dolente liricità, scritti nel
migliore stile belliniano e donizettiano.
Bellini e Donizetti avrebbero potuto, infatti, sottoscrivere senza remore molte di queste pagine fortemente
ispirate e piene di potenza creativa. Ma se lo stile può richiamare alla mente Bellini o Donizetti, l’ispirazione di Pacini è del tutto genuina e originale e crea un’opera di ammirevole fattura, degna di ritornare nel grande repertorio.
Veniamo ora all’opera per la quale è sorto questo
breve saggio: Maria, Regina d’Inghilterra L’opera gli era
stata commissionata dal Teatro Carolino di Palermo per la
stagione di Carnevale del 1843, sulla scia dei grandi successi di Saffo (1840) e della Fidanzata corsa (1842). Essendo impegnato a Napoli proprio nella messa in scena di quest’ultima, egli poté partire per Palermo appena a metà dicembre del 1842. Nel frattempo però l’andata in scena della
nuova opera che gli era stata commissionata era stata, di
comune accordo, anticipata al 12 gennaio 1843, giorno del
compleanno del re Ferdinando I. Pacini aveva commissionato il lavoro, tratto dal dramma di Victor Hugo, Maria
Tudor, al noto librettista Salvatore Cammarano, che tanti
buoni libretti aveva approntato per Donizetti. Cammarano
era stato d’altronde il librettista della sua opera più nota
Saffo e anche della Fidanzata corsa che si stava rappresentando a Napoli proprio in quel periodo. Il Cammarano rifiutò però inaspettatamente l’incarico, con la giustificazione
che era oberato di lavoro. Subentrò perciò Leopoldo Tarantini, di professione avvocato, che nel 1875 fu anche deputato nel Parlamento Italiano e che tracciò un ottimo libretto.
Pacini arrivò a Palermo senza aver ancora scritto
una nota. Ma la sua grande bravura tecnica e il tanto mestiere, uniti a una genuina ispirazione, gli consentirono di
comporre l’opera in ventitré giorni. Ottima risultò la compagnia di canto, composta dalle soprano Teresa Merli Clerici
e Antonietta Rainieri-Marini, dal tenore russo Nicola Ivanoff e dal baritono Antonio Superchi. La stagione in corso a
Palermo non andava per niente bene. Si confidava perciò
molto nella nuova opera di Pacini per risollevarne le sorti.
La prima di Maria, Regina d’Inghilterra andò in
scena l’undici febbraio 1843. Fu un grande e indiscusso
trionfo, un delirio senza precedenti. Gli applausi mareggiavano in dense e intervallanti ondate e non davano cenno di
voler finire. Il duetto del primo atto (Ivanoff -Superchi) fu
bissato due volte, la stessa cosa accade con il duetto del secondo atto (Marini-Clerici); il coro del terzo atto fu ripetuto per ben tre volte. Pacini (secondo il cronista del giornale
Salvator Rosa) fu chiamato alla ribalta per ben 42 volte
(!!!), con entusiastiche esclamazioni e con insistenti lanci di
fiori. Alla fine dello spettacolo un numeroso gruppo di ammiratori lo accompagnò alla sua residenza al lume delle torce.
Il giorno dopo, alla seconda recita, il grandioso
successo si ripeté. Pacini fu nuovamente accompagnato a
casa da un nugolo di persone, questa volta al suono di una
banda. Seguirono numerose entusiastiche repliche. Nell’ottobre dello stesso anno l’opera fu ripresa al Teatro Carignano di Torino, con grande successo. In dicembre apparve alla
Scala (Pacini approntò per le recite scaligere delle modifiche e rinforzò l’orchestrazione) con tiepido successo. Le
rappresentazioni di Genova, nel febbraio del 1834, incorsero invece in un semifiasco. L’opera sparì pian piano dalle
scene italiane. Nell’ottobre del 1845 fu rappresentata a Bar15
occhi chiusi. E con Bellini egli aveva il dono della frase
melodica assoluta. Ma proprio questa affinità con Bellini
non gli permise di diventare il suo successore, ma solo un
suo imitatore. La storia, con parziale giudizio, ha innalzato
Bellini nell’olimpo della musica e ha fatto precipitare Pacini nell’oblio. Ha preservato (giustamente) il genio assoluto e ha scartato (ingiustamente) il grande talento.
Per fortuna, negli ultimi anni, alcune opere di Pacini sono state felicemente riesumate: Saffo, Medea, L’ultimo giorno di Pompei e l’opera di cui stiamo parlando Maria, Regina d’Inghilterra. Probabilmente altre seguiranno,
traendo così Pacini dal lungo sonno dell’oblio. Queste riesumazioni permettono al nostro tempo riscoperte, recuperi e
eventuali ridimensionamenti del giudizio della storia (che
non è poi altro che il giudizio degli uomini). Questo perché
permette alla nostra sensibilità odierna di giudicare con il
nostro sentire e non con il sentire degli ascoltatori dell’epoca. Il nostro ascoltare odierno, corroborato dall’ampia conoscenza della musica di quel tempo, dei suoi stili, del suo
evolversi, ci permette di immetterci nella sensibilità degli
ascoltatori di allora, senza però alcun genere di condizionamento, come potevano essere allora le mode, i gusti, le disposizioni d’animo, gli accadimenti di scena, le simpatie o le
antipatie, le rivalità, le partigianerie, le situazioni politiche...
Tante opere, dimenticate per contingenze del tutto
estranee al loro intrinseco valore musicale, vengono giustamente riportate alla luce (partiture autografe permettendo),
dando loro l’occasione di rientrare in repertorio Che sia poi
la cecità degli enti lirici odierni a vanificare spesso questo
genere di operazioni è tutto un altro genere di discorso. Anche il giudizio odierno di questa Maria, Regina d’Inghilterra risulta, dopo un attento e ripetuto ascolto, altamente
positivo, e giustifica l’entusiasmo degli ascoltatori di allora,
modificando così l’ingiusta sentenza della storia musicale
che l’ha relegata d’ufficio nel dimenticatoio.
Da notare che questa pregevole riesumazione non si
è potuta basare sul manoscritto originale, a tutt’oggi introvabile, ma su una copia non manoscritta esistente al Conservatorio di Milano, che riporta solo le parti orchestrali. Le
parti vocali, invece, sono state recuperate dall’edizione stampata dall’editore Lucca nel 1843, l’anno dell’andata in scena della prima rappresentazione a Palermo. Sappiamo che
Pacini fece per l’edizione milanese delle modifiche, rielaborando certe scene e soprattutto irrobustendo la strumentazione. Ci sono pertanto molte discordanze tra le parti vocali della prima palermitana e le parti orchestrali dell’allestimento milanese. La versione che possiamo pertanto oggi
ascoltare non è la partitura originale palermitana, ma, per
quanto possibile, la versione scaligera.
Per un giudizio definitivo su Pacini compositore bisognerebbe però avere il conforto dell’ascolto diretto di altre sue composizioni, perché solo l’esecuzione dal vivo riesce a formare un giudizio attendibile e veritiero. Finora i giudizi dei critici odierni sono basati solo sulle cronache d’epoca. Giudizi certamente non sempre attendibili. Partiture
ritenute, infatti, scialbe e deboli alla sola lettura, si sono poi
rivelate vive e funzionanti sulle scene, per le quali sono
nate. La grande produzione di Pacini e i relativi ritrovamenti degli autografi originali sono però oggi più un ostacolo
che un vantaggio per la riscoperta e la rivalutazione delle
sue opere. Giovanni Pacini morì a Pescia il 6 dicembre del
1867, all’età di 75 anni, sopravvivendo al suo celebre concittadino e modello, Vincenzo Bellini, di ben 33 anni.
Carmine Manzi:
Sessantacinque anni dal primo libro
Sessantacinque anni di
un’attiva e feconda presenza
nel campo letterario, dal
1938 in cui vide la luce la
sua prima raccolta di poesie
“Parve faville” e Luigi Bellotti salutò nella prefazione
come un poeta da essere
premiato per il suo giovanile
slancio generoso e da essere
seguito, nella sua ascesa per
luminose alte mete. Carmine
Manzi iniziò allora il suo
lungo percorso e conta ora
al suo attivo 127 e più pubblicazioni, tra opere di saggistica, di narrativa e di poesia, come è testimonianza in un
libretto curato per l’occasione dal comune di Mercato S.
Severino, e che è corredato da numerosi testi critici di personalità del mondo universitario ed accademico.
Nel salone di Rappresentanza della Provincia di
Salerno il 5 marzo, per ricordare la data, si sono dati convegno poeti ed artisti, autorità ed estimatori di Carmine
Manzi per dare vita ad una importante serata, voluta dall’Amministrazione Comunale di Mercato S. Severino e
molto abilmente condotta da Monica Matano, inviata su
RAIUNO de “La vita in diretta”. A fare gli onori di casa
l’assessore provinciale Gerardo Giordano che, a nome del
presidente Alfonso Andria, ha consegnato una Targa della
Provincia a Carmine Manzi «sensibile poeta, prestigioso intellettuale e animatore instancabile della vita culturale
salernitana». Sono poi intevenuti il vicesindaco di Salerno,
Carmine Mastalia, ed il Sindaco, Giovanni Romano, che ha
tratteggiato con fervide parole la figura dell’illustre concittadino ed ha proceduto alla consegna di una medaglia d’oro
da parte del Comune e delle tre medaglie inviate dalle massime Autorità dello Stato: i1 Presidente della Repubblica, i
Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati.
Il Convegno, che è stato introdotto da una brillante
relazione del Prof. Alberto Granese dell’Università di Salerno, con una disamina a largo raggio dell’attività letteraria
e poetica di Carmine Manzi, è stato arricchito dalle pregevoli testimonianze di alcuni suoi biografi, autori di interessanti monografie sulla sua vita e sulla sua opera, da Carlo
Bianco, ad Antonio Crecchia, a Maria Teresa Epifani Furno, a Luigi Pumpo, che si sono soffermati sui temi umani e
sociali della sua conoscenza, anche come promotore di arte
e di cultura, nella sua qualità di presidente fondatore dell’Accademia di Paestum e della rivista “Fiorisce un cenacolo”, anch’essa al suo 65° anno di vita.
Le conclusioni della grande serata sono state tratte
con sensibilità e raffinata eleganza di stile da Giovanna
Scarsi, la conosciuta e fervida animatrice dei “ martedì letterari”, che ha terminato con la dizione di una tra le più
belle poesie di Carmine Manzi, “Canzone dei giorni d’infanzia”. Ed è stato lo stesso Autore a calare il sipario con
accenti vibranti, ma pervasi di intima e giustificata commozione.
16
Sono tanti per la verità, in quanto poi costituiscono,
sul quadrante della memoria, momenti magici della mia vita. Ricordo Elio Morlino, poeta lucano; Giovanni Coiro,
scrittore di vaglia nonché alto funzionario nel Ministero della Pubblica Istruzione; Nino Muccioli, palermitano. Sono voci scomparse, ma che rivivono nel cammino dei miei giorni.
Con quali scrittori e poeti ha avuto, o ha, un
particolare rapporto di amicizia e di stima?
Ho avuto rapporti di amicizia e di stima con tantissimi autori con i quali ho intrattenuto anche una forma di
collaborazione impegnata con testi critici sulle loro opere e
che mi appresto a pubblicare, anche se sono già stati ospitati in quotidiani e periodici sotto l’etichetta di “Occasioni
di lettura”. Domenico Rea, Fabio Tombari, Alberto Bevilacqua, Nino Palumbo, Michele Prisco, Lanfranco Orsini, Bruno Lucrezi, Francesco Bruno... sono soltanto alcuni degli autori che hanno rappresentato nella mia vita ed attività artistica istanti magici di confronto e di amicizia; di tutti conservo, nella mia biblioteca, una documentazione epistolare
che mi sta particolarmente a cuore.
Lei si dedica anche alle ricerche storiche. In tutta confidenza, quali sono state le “novita” che è riuscito
a portare alla luce oppure a riscoprire con successo?
Per quanto attiene le ricerche storiche, ricordo che
qui a Striano, dove vivo da tanti anni, mi sono impegnato in
una ricerca territoriale di ottima cultura, e la scoperta del
territorio mi ha consentito di scoprire una civiltà che mi
stava dinanzi e che ignoravo. Lo testimoniano le mie pubblicazioni “Dossier Striano”, “C’erano una volta a Striano”,
“Uomini e mestieri antichi”, “Il colore del sacro”...
Esiste una qualche differenza tra la poesia al
femminile e la poesia al maschile?
La poesia è poesia per tutti. Tra quella maschile e
quella femminile esiste soltanto una differenza che si fonda
sulle motivazioni psicologiche ed espressive.
Da che cosa trae spunto per le sue elaborazioni
poetiche e narrative?
È la vita che nei suoi risvolti mi offre spunto per
tutte le mie elaborazioni. Anche la memoria gioca in questo
appiglio per spunti e riflessioni.
Ha un suo metro per valutare gli altri poeti e
scrittori, visto che ha curato diverse antologie di autori
contemporanei?
No, assolutamente. Sono le loro pagine, nella essenzialità del discorso, che mi spingono a giudizi vari. Poi,
dedicarsi alla poesia, oggi costituisce ricercarsi uno spazio
lontano dalle tante brutture che ci assediano. Con la poesia
respiriamo aria pulita.
Un’ultima cosa: ha avuto delle difficoltà ad
aprirsi uno spiraglio nel contesto della letteratura italiana vivendo ed operando nel Sud?
Devo confessare che le difficoltà non mi sono
mancate. Ho avuto modo di scrivere su molti quotidiani,
sulla loro terza pagina, ma su quelli del Sud mai. Ho scritto
sul “Corriere del Giorno" di Taranto, “La Nuova Sardegna”
di Sassari, “Voce Adriatica” di Ancona, “La Provincia” di
Como, “Il Cittadino” di Lodi, “Messaggero Veneto” di
Udine... Ma sui quotidiani di casa nostra non c’è stato mai
spazio per le mie pagine.
Luigi Pumpo
si confessa tra memoria
e lettura creativa
di Fulvio Castellani
Le occasioni per conoscere ed entrare nel mondo
letterario di Luigi Pumpo non sono mancate nel corso degli
anni. Attivo com’è, è sempre riuscito a coinvolgere ed a proporsi nel segno di un modernismo non di facciata, ma ricco
di sfumature innovative pur senza perdere mai di vista la
storia, la tradizione, la memoria, la cultura classica. Non si
contano ormai le opere che Luigi Pumpo ha messo assieme,
e sono opere che spaziano dalla poesia alla saggistica, dalla
ricerca storica alla narrativa, all’indagine... Ho già avuto
modo di evidenziare, alcuni anni or sono, come ogni sua tappa equivalga ad una sosta e ad un dialogo. Le sue riflessioni
sulla vita si accompagnano, infatti, alle sue accensioni liriche, al suo impegno nella focalizzazione di realtà non soltanto culturali. Il poeta, il saggista, il narratore, il giornalista
si fondono, dunque, in maniera esemplare dando vita ad un
personaggio che, grazie anche alla sua attività di operatore
culturale (ha fondato e dirige la rivista “Presenza” ed è il
trascinatore instancabile dei Premi Letterari “Primavera
Strianese” e “Città di Pompei”), è diventato un prezioso
punto di riferimento per quanti si avvicinano alla letteratura
e vivono la letteratura in maniera non effimera. Dire oltre di
Luigi Pumpo non mi sembra necessario; per questo preferisco dare spazio a quanto, con l’abitudinaria disponibilità,
ha inteso rispondere alle domande che, non senza curiosità
ed interesse, ho inteso rivolgergli.
Cos’è cambiato nel corso degli anni a livello di
cultura e di poesia dopo il suo esordio sulle pagine della
rivista “Pensiero ed Arte” del lontano 1945?
Da allora molto è cambiato. In quegli anni, che
erano poi gli anni dell’immediato dopoguerra, si avvertiva
il bisogno di ricerca degli ideali, il bisogno di una ripresa
immediata e le pubblicazioni che nascevano avevano una
spinta di libertà nuova e di fratellanza vera. E “Pensiero ed
Arte”, che nacque a Bari diretta da Gino Spinelli de’ Santelena, costituì una autentica bandiera ed una palestra di
grande libertà.
Si sente più poeta o più scrittore e critico?
A dire il vero mi sento più scrittore e critico che
poeta. I motivi? Mi ritrovo di più nella scrittura e nella saggistica, tanto è vero che le pagine di poesia per me costituiscono momenti di rilassamento spirituale ed ideale.
Quale direttore della rivista “Presenza” ed organizzatore di concorsi letterari ha avuto modo di leggere e di conoscere molti scrittori e poeti. Quali sono gli
autori che maggiormente l’hanno impressionato?
In tutti questi anni di direzione del periodico “Presenza” e promotore di tantissime manifestazioni, confesso
che gli autori bravi sono stati pochissimi e tra questi ricordo
quelli poi che hanno conquistato un loro spazio nell’area
delle poesia contemporanea: Pasquale Martiniello, Giò Ferri, Selim Tietto, Francesco Mannoni, Fryda Rota, Giuseppe
Vetromile, Giuseppe Iuliano.
Ha un poeta che le sta particolarmente a cuore
e che ritiene un suo maestro?
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sempre la prodigiosa caratteristica del vate, unita ad una
cultura oceanica. La vanità distoglie l’arciere di Dio dalla
modestia. Ma si riprende gettando con sprezzo, ai piedi di
Diocleziano, il simulacro della dea della Vittoria. «Soffocatelo» - grida Cesare - «sotto le collane, sotto i fiori, sotto
la musica, l’oro, sotto i desideri, sotto i rimpianti, perché
egli è bello».
Le martyre de Saint Sébastien,
opera teatrale di Gabriele
D’Annunzio
di Silvana Andrenacci
Dal prologo del dramma: «O buona, buona gente,
ora udite suoni e canti. Noi vi preghiamo per Santo Dionigi
e per l’Orifiamma. Poi mirate quanto cielo azzurro, quanto
sangue rosso, nel nome di Dio, per il rimedio dell’anima
vostra! Amen». Il martirio di San Sebastiano di Gabriele
d’Annunzio, il cui allestimento parigino con Ida Rubistein
del 1911 durò più di cinque ore, alla “Produzione teatro
scientifico” ne bastarono due. Fra l’altro, Sebastiano-Albertazzi ha recitato le parole e Toni Candeloro ha espresso
gestualmente quanto egli diceva. Una riduzione dell’opera,
oserei dire un rifacimento, che ha avuto successo. Ma vediamo la Passio del santo che appare come un giovane
ardito e piacevole, caro all’Imperatore Diocleziano e al Papa Caio. E se il sovrano dava all’ufficiale il principato della
prima schiera, il Papa gli attribuiva il titolo di difensore
della chiesa. Perciò Sebastiano, cavaliere romano, frequentava il palazzo imperiale e nello stesso tempo, confortava e
sosteneva i confessori nelle carceri e i martiri nei supplizi.
Venne ucciso a frecciate sul Palatino dai suoi arcieri (288),
sepolto nel cimitero ad Catacumbas dove è sorta la chiesa a
lui dedicata fuori le Mura, nell’area dell’Appia. Il vate volle
sublimare un personaggio rappresentato da innumerevoli
artisti, quindi di grande popolarità. Il dramma, nato in lingua francese, tradotto in altri idiomi, ebbe strepitoso successo. Rappresentata più volte in Italia, composta di cinque
mansioni e del prologo, la tragedia costituisce esempio di
teatro totale. Musica, poesia, canto, danza, scenografia, coreografia, mitologia, donano all’opera efficienza e bellezza.
Nel primo atto il protagonista esorta una famiglia intera a
non rinnegare la fede. La madre dolorosa che istigava amorevolmente i figli a mentire, per salvarsi, viene coinvolta
con le figliole da affrontare il martirio tanto è grande l’amore alla Croce. L’intervento di Sebastiano suscita sorpresa,
indignazione, dolore, tra liberti, magistrati, carnefici, arcieri. Il santo esclude il giudizio dell’imperatore; pronto a
morire, resta con le parti d’armatura del busto e delle braccia sulla nudità delle gambe. Il roggio della brace imporpora il portico; avvengono miracoli: il cieco vede, il sordo
sente. Sebastiano entra nel parallelogramma del fuoco; i
primi movimenti della danza estatica alleggeriscono i suoi
piedi. Tutto il cielo canta! Verificatosi il supplizio incruento, il miracolato insieme ai catecumeni, agli schiavi, demolisce gli idoli nei luoghi accessibili ma è bloccato presso
stanze segrete. Osserva le orribili streghe che rappresentano
i pianeti e le loro diaboliche arti. Mentre tutti chiedono a
gran voce un segno da Sebastiano, entra in scena la donna
febbricitante che si rivela custode della sacra sindone nascosta nell’insanabile piaga del patto. Questa seconda mansione del dramma è toccante per la rivisitazione della Passione e Morte di nostro signore. È sottinteso che il ritrovamento della sindone ebbe altre origini, ma la fiction esige
attenzione spasmodica. Ormai il Santo è davanti all’Augusto. L’imperatore gli offre onori, templi, gloria (D’Annunzio lo immagina innamorato del giovane come lo fu
Adriano dell’adolescente di Bitinia). L’invenzione è stata
Pietro Vannucci, detto il Perugino, San Sebastiano
Per il giovane che resta indenne, l’imperatore ordina: «Traetelo al bosco di Apollo, legatelo al tronco del lauro più bello, poi, contro il suo corpo nudo, scoccate tutte le
vostre fecce sin che non vi restino le faretre e il suo corpo
non sia pari all’istrice selvaggio». I fedelissimi del santo
vogliono aiutarlo a fuggire. L’inflessibile risponde: «Dai
profondi, dai profondi io chiamo il vostro amore, eletti!
Ogni freccia è per la salvezza, perché io possa rivivere. Non
tremate, non piangete, ma siate ebbri, siate ebbri di sangue
come nelle battaglie. Mirate da presso. Io sono il segno. Dai
profondi, dai profondi io chiamo il vostro terribile amore!».
La gola gli viene trafitta; il corpo è straziato dalle frecce
tirate da persone afflitte, disperate, le braccia tenute dai legami si stirano. Le donne, piangenti, nel ricevere il cadavere fra le loro braccia, vedono improvvisamente svanire le
frecce come raggi nelle ferite. Ora è il tronco del lauro di
Apollo che appare irto di tutto quel ferro! L’ultima e breve
mansione è il Paradiso. L’anima dell’arciere di Dio canta:
«Io vengo io salgo ho le ali / tutto è bianco. Il mio sangue è
la manna / che imbiancò il deserto di Sin…». Il mistero termina con le lodi al Signore. Bibbia, Vangeli apocrifi, Vangeli autentici, Atti degli apostoli, mitologia fenicia e grecoromana sono le fonti presso cui attinse ispirazione il vate.
Claude Debussy seppe intonare con voce profonda
e calda il misticismo ardente e appassionato di Gabriele
D’Annunzio, grande conoscitore di musica. L’insigne maestro musicò per il drammaturgo: cori siriaci, cori delle Vergini, dei giovani, dei Martiri, degli Angeli, dei Serafini, Cori
e semicori, Canto dei gemelli Martiri, della maga fenissa, di
Erigone, della donna febbricitante e dell’arciere di Dio, della Madonna (vox celestis) ultimo il coro: chorus sanctorum
omnium. Leggendo il testo scritto in lingua francese, si possono apprezzare di più tecnica e musicalità dei versi, euritmia di assonanze dei raffinati vocaboli. Bisogna riconoscere all’immaginifico la propria inimitabile regia dell’opera
teatrale, il cui infiammato misticismo si fonde armoniosamente con l’eros delle danze.
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drico dell’arte di Frenna e non fa che convalidare sentimenti di stima - nella sua conferma universale - che ogni ammiratore prova di fronte a così alti capolavori, unici nella loro
armoniosa ingenuità e pudica sobrietà.
Carmine Manzi, I mosaici di
Michele Frenna
di Antonia Izzi Rufo
Mi perdoni Carmine Manzi se, prima che sui suoi
scritti, il mio sguardo s’è posato - incantato - sui magici
mosaici di Michele Frenna (Edizioni Gutemberg, Salerno).
Dalle straordinarie, splendide immagini ho visto emergere
caldi colori d’autunno, sobri ed armonici, e ho avuto la sensazione di trovarmi nel boschetto di querce e pioppi e platani nel quale mi reco ogni giorno, in questo periodo, per
gioire dei giochi di luci ed ombre del sole tra i rami per immergermi nella policroma bellezza delle foglie che, nella
gamma variegata del giallo, del verde, del marrone e del rosso, sfoggiano il più bel vestito dell’anno.
Michele Frenna accanto ad una sua opera
Il personaggio Michele Frenna ci viene presentato
nella sua autenticità, nella sua elevata statura artistica, nella
sua umanità, nella sua innata e profonda religiosità, nel suo
desiderio di socializzare, nel suo amore di pace e di partecipazione alla sofferenza del prossimo, nei suoi costanti tuffi
panici nella natura per riceverne ispirazione e goderne intimamente, nel suo frequente ritorno alla primavera «della
sua terra siciliana - al suo mare di sogno, alla sua lussureggiante vegetazione mediterranea, ai suoi antichi e pregevoli
ruderi - per risvegliare il canto della giovinezza della vita».
Madonna di Lourdes, (mosaico, cm 30x40, 1988)
Un senso di pace e di tranquillità mi invade a contatto con la natura, e di piacere intimo che mi predispone
all’ottimismo e mi mostra la vita nel suo aspetto di maggiore positività. Un’uguale percezione di distensione e benessere psicologico ho avvertito al cospetto dei quadri di
Michele Frenna, anche se da alcune figure traspare una velata malinconia... Quanto grande, nella sua delicata semplicità, l’arte del Nostro! Avere qualcuno dei suoi mosaici sulle pareti di casa, rallegrerebbe la vista, darebbe serenità allo
spirito. Chiedo scusa della digressione.
Chiaro ed esauriente il saggio. Solo un poeta poteva recepire con tanta sensibilità l’interiore bellezza emanata
dalle opere di Frenna. Ed è ciò che Carmine Manzi è riuscito a comunicarci con il suo linguaggio poetico che combacia perfettamente con il lirismo del nostro eccellente mosaicista. Manzi penetra nel profondo, interpreta il significato simbolico delle immagini e riesce a intuire l’intima fusione che conduce la mano dell’artista a trasferire, a incidere, sui tasselli, la voce della sua anima... Da vero intenditore, e competente anche di tecniche specifiche, egli trasmette
al lettore le sue impressioni e le sue emozioni, si soffonde
in descrizioni particolareggiate sull’afflato poetico e polie-
Pensieri nostalgici (mosaico, cm 30x40)
Diversi i critici menzionati: Mario Domenico Storaro che accosta l’opera di Frenna alla grande tradizione
bizantina, Salvo Santucci che si sofferma sui «colori netti e
marcati dei tasselli», Orazio Tanelli che lo definisce «mosaicista della pittura ellenica che fonde l’antico e al moderno», Mazzetti che auspica la creazione di scuole di mosaico
per i giovani, Vincenzo Rossi, il biografo più attento, Carolina Citrigno, Rosa Masone Beltrame e altri. Così chiude il
testo Manzi: «Modello da imitare, Frenna non ama ripetersi, non si ripete».
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bel po’, senza distinguere niente di significativo, poi, di colpo, vidi i geroglifici, piccoli, precisi, perfetti. Era accaduto
come in quell’illusione ottica in cui si vede il disegno di
una coppa, bianca su sfondo nero, poi si guardano i contorni neri e si distinguono due visi di profilo; in quel momento la coppa scompare e si vedono solo i profili. Incisi e riempiti con una vernice marrone, la stessa che disegna tutti i
contorni dello scarabeo, ci sono un’anfora, un cesto, una
pian- ta di papiro, una linea ondulata, segno dell’acqua, una
civetta e uno scettro di Seth. Fu un momento di emozione
intensa: una scoperta. Nessuno lo aveva visto, tanto meno
l’orefice che l’aveva barbaramente nascosto quasi del tutto.
A quel punto sorse la curiosità di saperne di più
sulla provenienza dell’oggetto. Scoprimmo così che l’amico
di mio marito non era lui il venditore, che, pur esperto del
settore, non aveva visto il geroglifico e non aveva pensato
che potesse essere autentico, altrimenti non lo avrebbe lasciato comprare a noi, e non a quel prezzo. Il possessore era
un ometto vestito di scuro, con una borsa di pelle nera sotto
al braccio, che quella sera, e solo quella sera, gli aveva
chiesto di potersi appoggiare alla sua bancarella. Nessuno
lo conosceva, nemmeno mio marito, e nessuno lo vide più.
Un orefice che smontò il ciondolo e lo rifece in
modo più consono all’oggetto, disse allora che la lavorazione, artigianale, sembrava roba degli anni venti. Ho cominciato a studiare per cercare di decifrare la scritta. Ho imparato tanto, ma non ne sono venuta a capo. Qualche anno fa
ho parlato personalmente con il Dott. Zahi Hawass, il soprintendente alle antichità di Giza, quando venne per una
conferenza a Civitanova Marche, ma o non me lo ha voluto
leggere o Zahi Hawass legge il geroglifico tanto quanto lo
leggo io. Poi il caso ha voluto che un ex collega, appassionato di archeologia Picena, conoscesse la Dott.ssa Capriotti,
egittologa a Roma. L’ho incontrata ad una conferenza sui
Piceni e i loro rapporti con il mondo medio-orientale. La
Dottoressa ha escluso che sia un falso e ha letto senza ombra di dubbio: Khonsu em uas, cioè Khonsu di Tebe.
Khonsu è il dio bambino della triade tebana; Amon,
il padre, Mut, la madre e Khonsu il figlio, dio lunare, con
una falce di luna sulla testa, connesso con la guarigione.
Una storia, messa per iscritto solo nel IV secolo A.C. (stele
conservata al Louvre), quindi contemporanea al mondo Piceno (VI – II a.C.) racconta che una sua statua fu chiesta e
portata al re di Bakhtar per curare una grave malattia della
principessa Betresh, sorella della moglie del Faraone, Neferure. Questi riferimenti fanno pensare a Ramesse II che sposò una principessa hittita, la quale prese il nome egizio di
Maneferure, indicando quindi una fama diffusa anche fuori
dai confini dell’Egitto e ben radicata nella tradizione.
Lo scarabeo non è di terracotta come mi sembrava,
ma d’avorio, che prende quel colore e quella consistenza
quando è molto, molto antico. In mancanza di un contesto archeologico, non si saprà mai la provenienza né l’età di quest’oggetto. A giudicare dalla perfezione della fattura, possiedo, legalmente, uno scarabeo risalente almeno al Nuovo Regno, cioè grossomodo prima del 1000 a.C. Le tombe italiche, non solo picene, sono piene di oggetti del genere; dalla
tomba di una signora tarantina ne provengono addirittura
58, ma la maggior parte è di fattura più rozza e di materiali
meno pregiati, fatti dai Greci per l’esportazione. Erano ritenuti amuleti particolarmente adatti ai fanciulli. È bello pensare che era già antico quando fu portato qui; un dio bambino per un bambino, e per la speranza di una guarigione.
Uno scarabeo egiziano
di Enerina Iacopini
Quell’anno, 1984, avevo contagiato tutta la famiglia con la mia passione per l’antico Egitto. Di ritorno dalla
Val d’Aosta li avevo convinti a fare una capatina a Torino
per visitare il Museo Egizio. I miei figli, allora piuttosto piccoli, mi seguivano e pendevano dalle mie labbra mentre con
passione spiegavo come potevo quel che stavano vedendo.
Le statue della dea Sekhmet, con la testa di leone, la celebre
e bellissima statua di Ramesse II, i geroglifici dei nomi reali
incisi sui basamenti, il papiro e il giglio d’acqua intrecciati
a simbolizzare l’unione del Basso e dell’Alto Egitto, e poi
la tomba di Kha, il modellino in legno della tomba di Nefertari, i modellini delle barche e mille altri oggetti, tutti a
loro modo, straordinari.
Visto il successo, addirittura mi si erano accodati
dei turisti nel sentirmi parlare ai miei figli, convinsi la famiglia a fare un’altra deviazione prima di tornare a casa e
passare a Venezia dove quell’anno si teneva a Palazzo Ducale una mostra di oggetti provenienti dal Museo del Cairo
intitolata “I Tesori dei Faraoni”. Pezzi scelti, tutti molto
noti, eccezionali davvero. Fra tutti, quello che maggiormente colpì mio marito, che s’interessava per la prima volta
a queste “egizianerie”, fu un anello d’oro con sopra, al posto del castone, uno scarabeo girevole, anepigrafo, luogo di
rinvenimento ignoto, databile probabilmente al Nuovo Regno, come diceva la targhetta esplicativa sul vetro della teca.
Sempre nell’estate di quell’anno si tenne per la prima volta a Fermo, la mia città, un mercatino serale dell’antiquariato, divenuto poi negli anni il mercatino delle cianfrusaglie. Lo girammo in lungo e in largo con la curiosità
che si ha per le cose nuove; trovai libri fuori edizione, curiosai fra profumi orientali e tazzine sbeccate, poi mi stancai e decisi che per quell’anno poteva bastare. Un giovedì
sera di agosto dormivo da un’ora buona quando mio marito,
di ritorno dal mercatino, mi svegliò e, tutto elettrizzato, mi
disse: «Alzati, vestiti! Devi venire in piazza, subito. Ho visto uno scarabeo bellissimo, come quello di Venezia. Sotto
c’è qualcosa inciso, ma devi venirlo a vedere tu. È inserito
in un ciondolo d’oro. Credo che possa essere autentico ma,
prima di comprarlo, voglio che lo veda tu».
Alzarmi, vestirmi, uscire a quell’ora era impensabile, al di sopra delle mie forze. Per che cosa, poi? La solita
patacca, figuriamoci! Ce ne sono milioni di falsi, pensai, di
tutti i tipi, non ultimi i famosi scarabei, falsi ottocenteschi,
dati da mangiare ai tacchini perché acquistassero una certa
patina d’antico. Ma mio marito insistette e, più per farlo contento che per altro, ci andai. Insonnolita e frastornata dall’alzataccia, mi trovai ad esaminare sotto la scarsa luce della piazza un ciondolo a goccia su cui era incastonato a mo’
di anello uno scarabeo grande quanto l’unghia del mio indice, di un anonimo color beige, ben fatto, questo si. Sulla
parte inferiore, parzialmente coperti dal cerchio d’oro che lo
reggeva, si vedevano dei segni, non ben distinguibili. L’amico di mio marito, che aveva una bancarella di oggetti vari
e disparati, insistette nel dire che era un affare, che dopotutto avremmo pagato quasi soltanto il peso dell’oro. Vista
l’ora, il sonno, l’insistenza di tutti, mi lasciai convincere
all’acquisto. Il giorno dopo, alla luce del sole, cercai di studiare l’oggetto per capire cosa fossero quei segni che si vedevano sul retro. L’osservai girandolo e rigirandolo per un
20
giugno 1099: conquista di Betlemme e Gerusalemme, ove si videro inauditi atti di violenza. Agosto 1099: sconfitta ad Alascona di un esercito proveniente dall’Egitto da parte di Goffredo di Buglione che non volle essere incoronato re di Gerusalemme, caduta, ma prese il titolo di Avvocato dei luoghi santi.
Nonostante la vigilanza dei Crociati la Terrasanta, riconquistata dai Cristiani, non poteva ritenersi sicura, benché
fossero state create strutture valide di assistenza e di difesa armata dei pellegrini che in grosso numero si muovevano, pur
essendo assaliti spesso da bande di briganti. Ecco affacciarsi
alla storia Ugo de Payns cavaliere crociato di grande valore
che, con altri otto suoi pari, si portò in terrasanta, dove si
stabilì vivendo in comunità. Nel 1118 costui fondò l’ordine
“Militum Xristi” impegnato a difendere ed assistere i pellegrini
fino al sacrificio personale. La loro prima sede fu l’antica moschea di Al-Aqsa sita sulla spianata del tempio di Salomone.
Questi cavalieri dopo poco tempo si dettero, per intervento di
Papa Clemente III, una regola ispirata a San Bernardo di Chiaravalle (cistercensi) il “doctor mellifluus” della Chiesa, cambiando il loro nome in “cavalieri dei tempio di Gerusalemme”,
comunemente chiamati Templari.
I Cavalieri Templari: nascita e vita
di Aristide Casucci
Secondo la tradizione Elena, madre di Costantino che
nel 313, con l’editto promulgato a Milano, aveva dato inizio al
riconoscimento del Cristianesimo e del relativo culto, fu la prima ad avvertire la necessità di salvaguardare i luoghi sacri siti
in Palestina e legati alla vita di Gesù. La sua azione si esplicitò
nel favorire pellegrinaggi religiosi di massa ed il suo esempio,
nei secoli successivi, fu seguito da altri esponenti del mondo
bizantino, come l’imperatrice Eudochia. In sostanza vi fu un
grande afflusso di Cristiani da tutto il mondo.
Intanto nel VII secolo nacque l’Islamismo che diede
una svolta negativa alla tolleranza che la Palestina aveva sempre dimostrato nei confronti dei Cristiani; prima fu imposta
una tassa per l’accesso ai luoghi santi, peraltro esosa per i
poveri, poi i popoli musulmani, spinti dal fondamentalismo
insito nelle loro credenze, iniziarono una politica di ostilità
aperta. Ciò causò la nascita di ospizi e ricoveri per iniziativa di
alcuni nobili francesi che si servirono di cavalieri tedeschi,
italiani oltre che di compatrioti, nonché di monaci benedettini,
con lo scopo di mantenere un ordine e difendere, nel contempo, i loro traffici con i musulmani della Palestina. Naturalmente questo tipo di provvedimenti non piacque ai musulmani
che iniziarono una specie di persecuzione intenzionale. Era
chiaro che il mondo della Cristianità non poteva tollerare uno
stato simile, pertanto le sedi papali erano sollecitate continuamente, anche se impotenti, da mezzo mondo.
Intanto, fra tutte le vicende che avevano visto gli Arabi nel mediterraneo fare da padroni, si superò l’anno mille. Nel
1054 si ebbe lo scisma d’oriente che indebolì le eventuali azioni congiunte, inoltre il Papato era anche impelagato nelle lotte
per le investiture. Nel 1086 Gerusalemme era caduta nelle mani dei Turchi, tanto che Alessio I Comneno, imperatore d’Oriente, si rivolse al Papa per organizzare una guerra santa che
liberasse il Santo Sepolcro. Siamo nel 1095 quando Urbano II
dal Concilio di Piacenza, seguito nello stesso anno da quello di
Clermont, si appellò a tutti i regnanti, facendo presente che era
inoltre necessario fermare gli Arabi ed i Turchi che, attraverso
il Bosforo, si erano spinti fino in Romania. Il Papa sollecitò
interventi affermando di non guardare tanto per il sottile, anche
i briganti potevano divenire ottimi soldati! Inoltre occorreva
liberare Gerusalemme.
La voce fu raccolta da molti e possiamo parlare a
questo proposito di due crociate, quella dei pezzenti e quella
dei nobili. Per dovere di cronaca diremo che una gran massa di
popolani, al seguito di Pietro l’eremita e di tale Gualtieri, senza
averi, avventurieri, galeotti a cui era stata concessa la libertà,
mercanti e varia umanità, si mise in viaggio col biglietto di
sola andata, raggiungendo Costantinopoli già decimati e, passato lo stretto furono annientati dai Turchi. Solo Pietro l’eremita si salvò, grazie ai Bizantini, e alla fine raggiunse la crociata dei nobili, altrimenti preparata e forte di 300.000 uomini
agli ordini di Ademaro di Monteil delegato del Papa. I nobili
erano rappresentati da Goffredo di Buglione con i fratelli Baldovino ed Eustachio, Ugo di Vermandois Roberto di Normandia, Raimondo di Tolosa, Beomondo d’Altavilla e Tancredi suo nipote. Lo stesso imperatore Alessio I non si aspettava
tanto e, temendo che le eventuali conquiste fatte non sarebbero
poi rientrate sotto i suoi domini, decise, dopo aspre trattative,
di accompagnarli e vettovagliarli oltre lo stretto, pretendendo
un giuramento circa i possedimenti occupati.
Cronologia delle azioni militari: Maggio 1097: assedio e caduta di Nicea - assedio di Antiochia. 1098: occupazione di Edessa - caduta di Antiochia ad opera di Beomondo, che
se ne fece signore unico, con uscita di scena dei Bizantini. 7
L’ordine dei Templari si divideva in tre classi: Cavalieri, Scudieri e Cappellani. I primi erano nobili, i secondi attendevano ai servizi monastici e militari ed i terzi provvedevano all’amministrazione dei Sacramenti. Tutti facevano capo
al principe “Magister Militum templi” assistito dal siniscalco,
dai consiglieri e dignitari con varie funzioni. Da quel momento
in poi l’ordine si attestò in tante parti del mondo ed iniziò,
mediante i lasciti, a costituire un onusto patrimonio che consentiva loro di armare e mantenere i frati in terrasanta a difesa dei
luoghi sacri.
L’ordine si affermò anche in Palestina con casa madre a Gerusalemme, tanto che il successore di Ugo de Payns,
Robert de Craon detto “Le Bourghuignon”, riuscì ad ottenere
dal Papa Innocenzo III l’assoluta indipendenza da ogni principe o sovrano, rimanendo legato soltanto allo stesso Papa. Nel
1148 il gran maestro adottò una nuova uniforme, che prevedeva un mantello bianco per i cavalieri e bruno per gli scudieri
con cucita su un lato la Croce vermiglia a due bracci di disuguale misura, per concessione di Papa Eugenio III. Intanto la
storia del regno di Gerusalemme procedeva; Goffredo di Buglione, che non volle assumere la carica di re di Gerusalemme,
dopo aver fondato dei nuovi stati di tipo feudale nelle città
conquistate, morendo, nel 1100, lasciò il regno al fratello minore Baldovino che, con diverse campagne, vinse le resistenze
dei Selgiuchidi (turchi) e dei Fatimiti (egiziani), i quali non andavano d’accordo, occupando un grande territorio, ma non
riuscendo a vincere Damasco.
Baldovino nel 1118 moriva, senza aver potuto conquistare Damasco, lasciando il trono a Baldovino II che nel
21
1131 lo lasciò a suo genero Folco d’Anjou, mentre compariva
sulla scena un capo musulmano di valore, detto Zengi il sanguinario, che nel 1144 rioccupò Edessa difesa dai Templari
che spalleggiavano il figlio di Folco e la sua vedova reggente
per conto del loro figlio Baldovino III. Alla morte di Zengi, i
suoi due figli, Norandino e Ghazi si divisero le città riconquistate dal padre e cominciarono, a loro volta, una campagna
di riconquista che determinò la seconda crociata condotta da
Corrado III e da Luigi VII di Francia. In questa occasione ben
1300 cavalieri partirono dalla Francia, ma ebbero una triste
sorte. Infatti, fra le traversie del viaggio, gli scontri con i Bizantini di Emanuele Comneno e i litigi sulle strategie, se non
fosse stato per i Templari di Corrado de Barres, gran maestro
dell’ordine, che prestò un’ingente somma, la spedizione sarebbe naufragata totalmente. Comunque la spedizione fu un fallimento, tanto che Norandino ridusse in breve il territorio cristiano alle sole Gerusalemme e Tripoli, difese solo da Baldovino III. Intorno al 1169 si ebbe l’allenza fra Norandino e Saladino, cosa che gettò le basi per la completa disfatta di tutta la
cristianità d’oriente. Nel 1174 Saladino assediò Aleppo senza
esito per l’intervento di Baldovino IV, valente re ma dal destino segnato per essere lebbroso. Ciò mentre giungeva dall’Alsazia la terza crociata promossa da Filippo d’Alsazia. Gran
maestro dei Templari era Oddone di Saint Amand a cui Baldovino regalò un castello detto “Guado di Giacobbe”, nominandolo difensore della Galilea; strategia inutile poiché Saladino
seppe come espugnarlo facendo decapitare tutti i Templari
arrestati. Lo stesso Saladino, intuita la debolezza del regno di
Gerusalemme, operò da quel momento con tutta la ferocia possibile e con strategie geniali si impossessò delle fortezze di San
Giovanni D’Acri, Giaffa, Beiruthe Alascona fino a raggiungere
Gerusalemme che cadde. Solo i Templari riuscirono a salvare
il loro tesoro, mentre i restanti Cristiani furono massacrati o
ridotti in schiavitù.
L’Europa fremette di sdegno, la
perdita dei luoghi santi era un fatto
ed il Papa tuonò da Roma. Risposero Filippo Augusto di Francia
e Riccardo Cuor di Leone. Nasceva
la terza crociata alla quale si aggregò Federico Barbarossa che precedette tutti ed ebbe qualche immediato successo, perendo però banalmente nell’attraversare un fiumiciattolo. La sua armata si dissolse, ma in quella occasione fu fondato a San Giovanni d’Acri,
dall’arcivescovo di Magonza, l’ordine teutonico, anch’esso di
ordinamento monastico-militare. Giunti in Palestina, Filippo e
Riccardo riconquistarono Cipro, venduta poi ai Templari a
peso d’oro e assegnata a Guido da Lusignano con la carica di
re. Gli stessi Templari brigarono molto per rimettere sul trono
di Gerusalemme questo re, senza riuscirvi, perché il marchese
Corrado di Monferrato, sposata a sorpresa la sorella della
regina Sibilla già morta, si guadagnò la successione al regno.
Questa terza crociata si dissolse nel 1191, quando il
re di Francia si ritirò dalla scena, lasciando Riccardo d’Inghilterra a contrastare Saladino con l’aiuto dei Templari. Riccardo,
avendo ottenuto la resa di San Giovanni d’Acri con la mediazione templare, non ritenne di dover rispettare i termini dell’accordo facendo massacrare la popolazione musulmana. Fu a
questo punto che i cavalieri del tempio gli consigliarono di tornarsene in Inghilterra, cosa che il re fece travestendosi ed imbarcandosi su una nave dell’ordine. Dal 1202 al 1204 si ebbe
la IV crociata, dove i Templari si impegnavano al ritorno della
chiesa di Costantinopoli sotto l’influenza del Papa di Roma.
Conclusioni disomogenee
di un giovane poeta che memorizza
sulla sua breve esistenza dopo la morte
di Giuseppe Manitta
Era un giorno, un giorno solare e il sole splendeva, ma
era un’illusione. Splendeva di un sole non splendido e poi...
[lacuna].
Non si può romanzare una vita, ma un’arte, perché l’arte
è vita. Ma l’arte è morta. L’arte è morta per paura di se stessa e quindi anche la vita, la mia vita è morte. Sono morto,
sono morto! Ma dalla morte rivivo, rivivo nell’esperimento,
nell’esperimento di una vita - verso che gli altri non riescono a cogliere. Sono morto prima che nascessi, sono morto
nel 1963. Rivivo oggi quando ho capito questa verità, anzi è
la mia verità che assolutizzo. Nel 1963 è avvenuta l’ultima
catastrofe inevitabile che oggi riviviamo: il Neoavanguardismo. Il processo estetico si è distrutto, la libertà ha distrutto... tutto. Oggi dobbiamo riprendere quel tutto senza
dimenticare quella distruzione. Zanzotto, Sanguineti, la Spaziani, la Merici, hanno fatto la loro epoca, non possono più
rinnovare niente, niente...
I Variatio: Il cielo si affusca, un solo raggio di sole mi
colpisce, ferisce la retina e poi, poi... [lacuna]. Arte senza comunicazione non è arte, l’arte è creazione e invenzione, ma
la vera poesia, (mi scrisse una volta un vero amico, come
Antonio Piromalli) la dà la vita. Non parlo dell’estetismo di
D’Annunzio! Il mio processo poetico è iniziato da bambino,
sono cresciuto e ho conosciuto: ma ero ancora morto. Non
avevo capito che l’arte doveva rivivere. Il mio risultato è la
fusione, la sincresi. Leggendo l’ultimo Zanzotto, l’ultimo
Luzi (per portare esempi opposti) la poesia va dall’incompresione concettuale - e per certi versi anche fonica - ad una
prosaicità che scade nella non-poesia. Non voglio riprendere una distinzione crociana, ma solo giungere alla conclusione che la poesia non si legge per questi due eccessi. Gli
altri? I mediocri sono ancora ermetici. Io non sono mediocre, né grande. Io sono io, un giovane che sogna come gli
altri, che sogna cose diverse dagli altri. Sono la fusione tra
prosa e poesia, sono l’inizio di questa realizzazione.
II Variatio: Ho conosciuto una donna, anziana, bassa,
gentile. Mi ha accolto, mi ha guidato lasciandomi libero, mi
ha voluto bene come un nipote. Un giorno, mi scrisse che
ero grande in poesia (ha esagerato) e mi disse di stare
attento ai cerberi (i grandi cerberi della letteratura) che sbranano la carne fresca. Forse è vero! Ma Lei è morta davvero,
più vivendo nella parola. La mia poesia va dal detto al non
detto, questo mi hanno insegnato i grandi del passato. Ho
recuperato la metrica (basandomi sul numero di ictus nel
verso), non la rima (ristrettissiva direbbe il mio maestro di
“linguistica neologica” Gavino Ledda). Ho ripreso il fonosimbolismo di Zanzotto, il plurilinguismo di Sanguineti,
l’ermetismo della Spaziani.
III Variatio: Un incontro mi è stato di grande importanza, quello con Giorgio Bàrberi Squarotti. Un vecchietto,
classe 1929, pregno di cultura letteraria, un mago. La sua
parola ha qualcosa di magico, di grande...
Oggi scrivo dopo la morte, scrivo dopo la rinascita! Si
tratta di memorie e non-memorie, di schemi, di follie, di
appunti, di ricordi. Forse si vive di ricordi e di sogni, sono
gli unici che leopardianamente ci danno un segno di gioia.
Oggi sono vivo e continuerò a vivere.
22
stica. Nel sito del Convivio è possibile trovare tutto ciò che
esce sulla rivista omonima, che è diretta dalla giornalista
Enza Conti. La rivista, elogiata anche dal noto critico Giorgio Barberi Squarotti, è divenuta una delle più prestigiose
riviste italiane nel suo genere. Essa viene diffusa capillarmente, non solo in tutta Italia, ma anche nelle 23 delegazioni estere di Spagna, Francia, Croazia, Albania, Portogallo,
Brasile, Algeria, Ciad, Colombia, Argentina, Uruguay, Cuba e Australia.
Messina in Arte 2004:
poeti e pittori in una grande manifestazione del Convivio
di Flavia Maria Vizzari Terranova
Domenica 14 Marzo è stata inaugurata, al Salone
degli Specchi della Provincia di Messina, la manifestazione
artistico-culturale Messina in Arte, con esposizione collettiva di opere pittoriche e poesie, che ha coinvolto la partecipazione di ben 70 artisti messinesi. Grande è stata la gioia e
la partecipazione all’incontro, che potrebbe costituire un segno positivo per il risveglio dell’attività artistica nella città.
La mostra è stata fruibile fino al 19 Marzo. Essa è
stata organizzata dall’Accademia Internazionale Il Convivio
di Catania, tramite la delegata per la provincia di Messina,
la pittrice Flavia Vizzari, la quale ha introdotto la manifestazione comunicando il proprio entusiasmo profuso nell’organizzare l’incontro, nato sia per il desiderio della pittrice di
creare in città una maggiore attenzione per lo sviluppo dell’Arte, oggi in crisi, sia per far maggiormente conoscere
l’Accademia il Convivio, data l’importanza che essa riveste, anche attraverso l’omonima rivista, per la qualità e
l’approfondimento culturale.
Da sinistra: Antonello Irrera, Piera Ierna, Aldo Ciolino,
Antonio Gabriele, Corrado Arcella e Nicola Bardetta
L’obiettivo a cui oggi punta l’Accademia è anche
quello di raggiungere la creazione di un manifesto letterario-artistico; si vuole aprire un ampio dibattito culturale per
il progresso ed il confronto degli amanti dell’Arte. L’interesse verso questo raggiungimento va anche all’estero; la rivista argentina diretta da Miguel Martinez Marquez, ha dedicato quattro pagine sull’argomento. Tra le altre attività dell’Accademia c’è anche l’organizzazione di premi letterari e
artistici, collettive ed incontri culturali per mirare al progresso umano anche attraverso contatti con prestigiose personalità. Il presidente, prof. Manitta ha proseguito il suo
discorso prestando particolare attenzione ai giovani, invitandoli ad amare sempre più l’Arte, perché sono esattamente i giovani, i creatori del futuro. Ringraziando i convenuti
ha espresso il pensiero, condiviso da Barberi Squarotti, che
il Convivio possa dalla periferia dell’Italia emergere a centro culturale ed artistico. Ha evidenziato le collaborazioni
che l’Accademia attua con coloro che hanno esperienza e
ricoprono prestigiosi incarichi, dal delegato del Brasile il
docente universitario Andityas Soares De Moura, alla scrittrice messinese, da poco scomparsa e molto vicina all’associazione, Maria Pina Natale, ricordandola con commozione
all’assemblea.
Nel corso della manifestazione hanno espresso i loro pensieri sull’Arte i relatori Serena Calderoni e Antonello
Bruno. La prima, appassionata messinese delle bellezze artistiche della sua città, ha parlato dell’Arte in generale, facendo un excursus sulla funzione di essa, nel fruire dei tempi e evidenziandone l’importanza che riveste oggi in una
società dove la massificazione del linguaggio e la globalizzazione dei costumi e delle idee rischiano di farci dimenticare ciò che siamo e ciò che sentiamo. Perché l’Arte infatti
sottrae la creatività dell’uomo all’appiattimento generale,
risvegliando in lui le passioni e la voglia di raccontare e di
raccontarsi e rende immortali, perpetrando la propria esistenza nelle singole opere.
Parlando di se stesso, il poeta Antonello Bruno ha
raccontato agli amici artisti il suo continuo lottare, già
Da sinistra: Antonello Bruno, Serena Calderoni, Flavia
Vizzari, Angelo Manitta, Luciana Cafiero Doddis
La parola poi è passata al presidente del Convivio,
prof. Angelo Manitta, che ha parlato dell’Accademia che,
sorta alla fine del 2000, ha oggi raggiunto, grazie all’impegno ed alla partecipazione di tutti coloro che ovunque hanno creduto in questa iniziativa, un’espansione ed un consolidamento inaspettati al suo partire. L’Accademia nasce come luogo di confronto tra persone che, rispettando la comunità, abbiano interesse verso tutto ciò che l’uomo produce
sotto l’aspetto artistico; essa vuole essere espressione di un
intenso impegno culturale e sociale, vuole essere sintesi tra
un forte senso etico e una profonda sensibilità verso l’Arte
e si propone di contribuire il raggiungimento di un futuro
sempre più giusto e vivibile e di giungere alla formazione
di uomini che sappiano proporsi quali elementi creativi e
propositivi nella società, per educare ai valori della solidarietà ed ai fondamenti sociali della persona e della comunità.
L’Accademia il Convivio ha quattro siti telematici,
di cui uno ha sede a Palermo, due a Castiglione ed uno a
Foggia; in quest’ultimo sito (Mattinata) è possibile, per tutti
gli associati dell’Accademia, inserire gratuitamente tre pagine personali (minisito), inerenti alla propria attività arti23
menico, Scolari Papalia Franca, o come scenario a realistici
gattini nell’opera di Cavallaro Sebastiano.
Altri quadri, che hanno per soggetto l’uomo, sono
stati esposti alla mostra collettiva da Arena Caterina, Di
Bella Fabio (Fadibe’), Di Bella Massimo (Madibe’), Panzera Maria Pia e rappresentate in opere figurativo-astratte da
Gabriele Antonio e Rampello Roberta e altresì è predominante nell’opera naif di Crisafulli Carmen. composizioni di
fiori sono il soggetto delle opere di Caterinaki Bruno Irene,
Lenzo Maria Grazia, Pizzi Vittorio, Signorino Lina, Silvano
Motta e dell’opera astratta di De Salvo Pietro e fiori predominano anche nella composizione di Gravina Umberto; il
frutto del fico d’india è stato fonte d’ispirazione per Arcella
Corrado e Giannetto Cettina.
dall’età di 13 anni, tra la sua maniera di apparire agli altri e
la sua sensibilità di animo poetico, sensibilità che avvertiva
già, prepotentemente in sé, ponendosi l’interrogativo di
quale senso potesse avere per lui scrivere poesie, sentendosi
inadatto. Fu un giorno, leggendo uno dei versi di Ungaretti
sulla sofferenza degli uomini, che fu colpito da una metafora dirompente “Fratelli, foglia appena nata”. Fu questo
verso a far comprendere a Bruno, cosa significava per lui
scrivere poesie, e cioè significava sentirsi parte dell’Universo. «Allora non ebbi più paura, tutto mi sembrò naturale,
come una foglia appena nata. Il bisogno di scrivere divenne
solo l’esigenza di ricercarsi nell’Universo, nella natura. Così semplicemente; di spogliarsi di quella personalità indotta
dall’ambiente in cui nasciamo e viviamo ed arrivare ad essere niente per poi fondersi con il tutto».
La poetessa Fortunata Cafiero Doddis ha espresso
il suo positivo giudizio per l’ottima realizzazione dell’evento culturale. Anche lei messinese, ha a cuore lo sviluppo culturale della città. Da anni si dedica attivamente alla poesia e
alla musica. Infatti, oltre ad essere una brava poetessa è anche una brava soprano, ed è tra le prime presenze ad adoperarsi per l’incremento culturale della città, mettendoci cuore
e disponibilità oltre alle capacità artistiche.
Da sinistra: Alba Terranova, Carmelo Dinaro, Maria
Grazia Lenzo, Enrica Giordano, Renata Squillaci, Maria
Costa, Benito Commisso, Piera Ierna, Puccio La Fauci,
Carmelo Cacciola, Lina Signorino, Irene Caterinaki Bruno
Scorci paesaggistici, centri urbani, giostre, antiche
mura, sono stati soggetti ispirativi, invece, per le opere di
Foti Tullio, Bicchieri Scudery Rosy, Vanfiori Eugenio, Lattene Giacomo per l’acquerello realizzato da Gaudenti Paolo
e per la grafica di Velardi Marianna, nonché per l’opera con
tecnica a sbalzo di La Versa Maria Antonietta. La Torre Ernesto ha esposto invece, un quadro con tecnica a tempera su
strati di fogli. Tra le opere astratte si colloca pure l’opera di
Costa Maria. Completano l’esposizione pittorica l’installazione eseguita dal giovane Castano Giuseppe, Osvaldo (un
fantoccio realizzato dai ragazzi dell’associazione Spazio
Libero Officina Artistica) e l’esposizione delle poesie di
coloro che hanno aderito a “Messina in arte”.
Le liriche lette dai poeti presenti sono state: “Canto
alla luna” di Arena Vittoria; “Signuruzzu” preghiera tratta
da “Siciliana” di Gianni Argurio; “L’eternità che mi rimane” di Bernava Manuela; “Tu, terra mia” di Bruno Antonello; “Epoche” di Buccheri Barbara; “17marzo” di Cacciola Carmelo; “Favola” di Cacciotto Francesco; “L’età dei
ricordi” di Cafiero Doddis Fortunata; “Primavera” di Caterinaki Bruno Irene; “Ritratto” di Di Blasi Marialuisa; “C’è
bisogno d’amore” di Dinaro Sara; “Le ali del pensiero” di
Carmela Mazzotta; “Il Tritone e la Sirena” di Murdaca
Maria Grazia; “Nozze d’oro” di Orifici Rabe Rosita; “Gabbiani” di Giusy Papale; “Rosita, bene mio” di Rabe Teodoro; “Mi fu madre la terra” di Rossello Melania; “E venne
l’ora (le tre età)” di Scolari Papalia Franca; “Inverno” di
Squillaci Renata.
Da sinistra: Melania Rossello, Maria Pia Panzera, Nathalie
Lisitano, Maria Antonietta La Versa e Alba Terranova
Molti artisti dunque hanno aderito all’iniziativa e
di conseguenza si è avuta una grande partecipazione. Anche le tematiche ispiratrici sono state molteplici. A “Messina in Arte” sono stati esposti i soggetti a tema sacro, del
Cristo seduto, crocifisso secondo gli usi dei vetusti romani,
di Guglielmo Giovanni e il S. Padre Pio di Bardetta Salvatore. Presente il tema del mare; mare per il quale la città di
Messina vanta bellezze naturali. Esso è soggetto predominante nelle opere figurative di Bardetta Nicola, De Francesco Giovanni, Antonino D’Arrigo, Puccio La Fauci, e nell’acquerello di JACOB; è mare, come veduta, rappresentato nelle tele di Brianti Elisabetta; Squillaci Renata, Urzi’
Orazio, mare presente anche nelle composizioni figurative
di Aliffi Gaetano e Manazza Lina, oltre che nelle opere
astratte di Dinaro Carmelo, Irrera Antonello, Rossello Melania, Serboli Piero.
Nature morte sono state esposte da Cacciola Carmelo, Minissale Giuseppe, Vizzari Flavia e Ciolino Aldo.
La forza della natura espressa dai poderosi tronchi d’albero
è raffigurata nelle tele di Ierna Piera, Scandurra Tiziana, e
ancora nella veduta di Ciraolo Pietro e nell’opera astratta di
Lisitano Nathalie. Paesaggi di campagna si ammirano nei
lavori di Buda Nino (nibu), Giordano Enrica, Raneri Maria
e come sfondo alle figure umane in quelli di Piccione Do24
Lavoro collettivo delle Scuole elementari di Motta Camastra. Al secondo posto si è classificato Giuseppe Giannetto, (Castiglione di Sicilia), Giovanni Pizzolo (Gaggi),
Classe V elementare (Castiglione di Sicilia). Delle Scuole
Medie Motta sono stati premiati per la pittura: Luana Bartucciotto, Caterina Nassi, Marina Caschiglio, Katia Pafumi, Lorena Intelisano, Lorenzo D’amico, Nadia Seminara, Maria Luisa Indiana. Per le Scuole Superiori: Anna
Elia del Liceo Psico-pedagogico di Castiglione di Sicilia.
Premio Speciale è andato alla Classe IV Elementare di Gaggi; e alle Classi I e II elementare di Castiglione di Sicilia.
Motta Camastra:
Premio per ragazzi “Carmelo Grassi”
di Alessandra Iraci
Sabato 24 aprile si è tenuta a Motta Camastra, in
provincia di Messina (Italia), all’interno della duecentesca
chiesa della Madonna Annunziata, la cerimonia di premiazione del Premio di poesia e pittura per ragazzi “Carmelo
Grassi”, sponsorizzato e promosso dall’amministrazione
Co-munale di Motta Camastra, guidata dal sindaco Andrea
Scarpignato, e organizzato dall’Accademia Internazionale il
Convivio, presieduta da Angelo Manitta. La giuria era composta dal Presidente Angelo Manitta, e dai Giurati: Guenda
Statella, Anna Coglitore, Andrea Giusa, Maria Grazia Granato. Alla realizzazione della manifestazione, che ha visto
oltre 250 partecipanti, hanno collaborato Lucia Monaco e
Nino Lo Monaco. La serata è stata introdotta da alcuni canti
preparati dal coro “Maria Santissima di Montalto” di Motta
Camastra, tutti ragazzi dai sei ai 14 anni, e diretto dal giovanissimo Alessandro Indiana, mentre alla pianola stava
Eleonora Dilettoso.
Dopo un breve saluto del Sindaco, che ha fatto gli
onori di casa, ringraziando gli interventuti, ed ha commemorato la triste evenienza della scomparsa del parroco don
Concetto Lo Giudice, avvenuta proprio quella stessa mattina, è intervenuto il presidente dell’Accademia Il Convivio,
che ha apprezzato i lavori dei ragazzi, e soprattutto elogiato
il loro impegno e l’attenzione dei loro insegnanti. Sono
quindi intervenuti l’editore di Patti Armando Siciliano, il
presidente dei Lions di Giardini Naxos-Valle Alcantara e
infine il critico e poeta Carmelo Aliberti, che ha evidenziato
l’impegno del Sud per la cultura e soprattutto il grande percorso che l’Accademia Il Convivio è riuscito a fare nell’arco di pochi anni.
Si è passati quindi alla premiazione. Ai primi tre
premiati sono stati consegnati una coppa, agli altri classificati un diploma, a tutti i partecipanti diploma di partecipazione. Per la Poesia e la prosa sono stati premiati: Scuole
Elementari: Michele Mannino (Motta Camastra). con la
poesia Il Cane; Gaetano Viola (Motta Camastra) con la
poesia Il cielo; Alessandro Gullo (Motta Camastra) con la
poesia Vorrei; Manuela Ucchino (Castiglione di Sicilia).
Scuola Media: Marco Messina con la poesia Volare (Giarre); Alunni della classe 2 A della Scuola Media Macherione
di Giarre, con il racconto Una goccia di sole; Domenico
Trifilò (Gaggi) con C’era una volta un fiume: l’Alcantara,
Maria Catena Ucchino, (Castiglione di Sicilia), Ramona
Camuglia, (Castiglione di Sicilia) Arianna Currenti
(Francavilla di Sicilia), Massimiliano Morano (Catania).
Scuole Superiori: Miriam Fedele del Liceo Scientifico di
Barcellona P.G. con Un mondo che uccide. Cristina Saja
del Liceo Scientifico di Barcellona P.G. con il racconto Il
ragazzo della panchina. Elisa Rotella del Liceo Classico di
Randazzo, con la poesia Insidie nell’animo. Valentina
Sgroi dell’Istituto Agrario di Randazzo. Soraya Puglisi del
Liceo Classico di Randazzo. Vanessa Imbrogio – Federica Capizzi dell’Istituto Agrario di Randazzo.
Per la sezione disegno e pittura sono stati premiati
i lavori collettivi delle Scuole Materna Francavilla di Sic.
III sezione. Scuola Materna Motta Camastra, Scuola Materna Francavilla di Sic. I sezione. Scuole Elementari:
Fare poesia per questi ragazzi significa esprimersi
con un mezzo raffinatissimo che richiede anzitutto un pubblico vicino, che senta il nerbo sotto la lingua di ogni esternazione emotiva, che si scontra con la razionalizzazione dei
rapporti sociali, con la scrematura delle emozioni e l’inconoscibilità degli archetipi istintuali. È poesia che mette a
nudo, con bruschi scarti temporali, un rapporto col genere
umano. I novelli poeti si oppongono, con le armi della poesia, al senso troppo accarezzato di civiltà, a società che rimuovono ciò che sarebbero tabù fosse solo ascoltato, evidenziandone altresì la molteplicità di tali occorrenze. Nessuno dei ragazzi lo ha fatto adottando un linguaggio che si
appiattisce nel concetto, né ostentando le proprie conclusioni che, una alla volta, apparirebbero poca cosa. A quest’intelligenza di fondo corrisponde la capacità di coinvolgere chi li ascolta, grazie a movenze prosodiche e richiami
di immagine, che piace pensare come “danza”, un danzare
della lingua e un coinvolgere gli ascoltatori.
Quanto ai piccoli artisti che sono stati in grado di
miscidiare con maestria immagini e colori va aggiunto un
aspetto non secondario che riguarda le loro personalità,
qualcosa che poco ha che vedere con le doti artistiche e
intellettuali, ma che si trovano di rado: la disponibilità di
porsi nel mondo riaffacciandosi a temi sondati, per poi
riacquistarli, in un recupero che fa delle valenze implicative
di senso e delle scelte cromatiche di volta in volta utilizzate.
Un punto di forza davvero straordinario, e che li rende sicuri e incantevoli maestri di vita.
La serata si è conclusa con un breve intervento del
Presidente del Consiglio Comunale, Salvatore Maugeri, che
ha tratteggiato con viva commozione la figura del parroco,
ricordandone l’impegno per la comunità e soprattutto per i
giovani.
25
Poesia italiana
fulmini e tuoni, vento e pioggia
e tu mangi una carota che lei ti regalò
prima che tu partissi.
E così finì l’amore
tra un uomo ed una donna.
Come brezza di vento
sento le tue mani sulla mia bocca
febbrile.
Rugiada del cielo a tacermi
i tuoi segreti.
Non sono mia
di Maria Russo Aquilino
Il mare
Io non mi appartengo, non sono “mia”.
Vorrei che tu
non avessi dimenticato
i giorni felici
incendiati dai baci.
Poesia
di Maria Cristina La Torre
Poesia rubata
dai gorghi dei giorni
chiusi e seghetti
sospinti da un ansia
del vivere.
Poesia celata
tra i fogli bianchi
sparsi nel dentro
di chi sogna
di chi aspira
a pensieri onesti
e semplicemente giusti.
Strette nelle mani le mie ore le ho
intrecciate coi fili d’oro dell’aurora.
Le ho cullate nel seno del mio dolore.
Lo ho donate alle stelle per illuminare
il mio cammino.
Prigioniera dell’amore
appartengo a loro...
Io non mi appartengo, non sono “mia”.
Occhi di pietà
di Nino Agnello
I tuoi occhi
di Antonina Ales Scurti
Tronco in sussulto
di ragazzo iracheno
le braccia recise
da granata impazzita
lo salvano occhi di pietà
ravvicinati in mestizia
gli fanno barella
mani di tutti i colori
la fretta copre il sangue
con stracci d’immediato soccorso.
Li miravo stasera:
due pezzetti di cielo,
azzurri, penetranti.
Ora è notte, vorrei dormire,
ma i tuoi occhi mi scrutano,
fendono il buio...
Mi giro di lato, mi seguono:
lame lampeggianti
appiccano il fuoco...
Il cuore è stanco,
è restio alle fiamme,
sarebbe letale un incendio
Invoco la tregua
con voce di pianto...
Stille di lacrime scendono,
come pioggia benefica,
per un lavacro, foriero
di pace, d’afflato fraterno,
per un sublime anelito
di bene per la gente.
Ci aspettano i bimbi, i poveri,
l’umanità sofferente!
Ti perderò
di Angela Genovese Petronio
Come fiume
che scende al mare
io corro verso
di te.
Per tante strade
giungerò
ad un’unica via?
Follie,
follie!
Io ti perderò.
Fine tra un uomo ed una donna
di Simona Trevisani
Il blu e l’azzurro sono i colori del cielo
e del mare immenso e pieno di misteri.
Qui, sulla spiaggia,
si svolge la Fine di un amore.
Lui dedica a lei la canzone Tu,
poi lui e lei così ricordano
[il loro incontro
e poi ecco un addio
mentre tramonta quel grande sole rosso.
Poi lui la bacia e dice:
«Scusa, ma non succederà
più che io ti riveda».
Poi sotto tempeste in alto mare,
Lilith
di Gian Paolo Candido
Hai varcato oceani abissali
per amore di grazia e giustizia.
Quando t’incorpori
gli occhi determinano incanti
e la bocca cela un gioco sottile.
Mai avrei creduto d’incontrarti
amata Regina.
La tua voce opaca e maligna
la cambi per me in dolcezza sensuale.
Luce nera e profonda
nella mistica rosa
che emana il nero splendente
in punte di lance che trafiggono
[il mio cuore.
26
di Vanni Speranza
Se ancora ti dico
T’amo è come morire
per vivere ancora insieme
questo delirio ...ancora.
Lo so non parliamone...
Per te, per me,
fu un giuoco scontato
la paura che ha soffocato
i giardini del cuore.
Ora si sa, è stato il mare
che ha diviso le dolenti strade.
Figli d’Italia
Ai caduti di Nassiriya (Iraq)
di Paolo Visconti
È finita così…
nel tricolore intriso
di sangue e di amore,
in una lacrima stretta
in un pugno di rabbia.
Un pugno che presto
libererà la sua lacrima,
affinché testimoni al mondo
il sacrificio e la vittoria
di diciannove martiri…
figli nostri, figli d’Italia.
Pensare all’impensabile?!
No!… tra fratelli tanto lontani
da sentirsi a casa…
nell’abbraccio di un figlio
che diverso non è dai propri,
nello sguardo di una madre
amorevole ed apprensiva
quanto la loro.
Lacrima, che mai t’asciugherai,
consola chi va fiero di te… e,
guarda lontano oltre l’odio.
È lì… che germogliano gli eroi,
è lì, che nasce la speranza
di noi tutti… e di un mondo
tradito nella pace!
Donne del Sud
di Mina Antonelli
È sera
Legati da fili di luna
i covoni sui campi
brillavano nella notte
e quando sbocciavano
profumi d’albe
le donne andavano
a spigolare tra i solchi.
Fiumi d’arsura
S’aprivano allo sguardo,
il vento sonnecchiava
nella calura del giorno
e lo stridore delle cicale
graffiava il cielo.
Al tramonto le ombre
S’allungavano sulla via
e dall’orizzonte salivano
cantilene di grano.
Mani dure di terra
stringevano carezze
e sacchi colmi
di spighe mature.
I vecchi spezzavano
il pane della fatica
e una preghiera saliva
nel canto della sera.
Balconi fioriti di stelle
profumano il cielo di ricordi
e nell’ombra i vicoli
stanchi di solitudine
aspettano le voci.
Felice il cuore ascolta
respirare favole nella notte
e lanterne le lucciole
accendono i silenzi.
È sera:
il cielo
è coperto di nuvole
e pioviggina
piccole gocce
di argento,
pioviggina
sulla natura.
Qualche uccello
canta armonioso
in questa sera
ombrata
di nuvole.
Vicissitudine di vita
di Rosario Contarino
La strada accidentata,
percorsa dalla vita,
conduce fatalmente a conclusione
del suo impervio tragitto,
nonché all’esordio
di un’eterna esistenza,
decisa prima da un supremo “editto”.
Oh misero mortale,
perché t’affanni a disprezzar
“tapino” o ad invidiare “Creso”?
Del tempo, assai fugace
nello spazio volgente,
resterà solo traccia:
“insulsa oppur salace”.
Un incerto epitaffio,
di mortal ricordanza,
sbirciato da distratto passante
che identifica muto
la vita fra due date:
“nato, vissuto… morto”,
perché… chissà… è vissuto?”.
di Loretta Bonucci
Ti ammiro
di Loretta Bonucci
Ti ammiro
eremita:
tu uomo
che rinunci
ai piaceri
della vita
per dedicarti
alla contemplazione
della natura.
Tu sei semplice
modesto, sapiente,
e fuggi
dalle lusinghe
mondane
e presto al mattino
saluti l’alba
e nel cuore
e nell’anima
tu hai la presenza
di Dio.
Tu puoi...
di Giovanni Moschella
Poesia!
Puoi ancora illuminarmi
con un miraggio...
rinverdire nel cuore
di tanta essenza
la pianta della sensibilità;
trasformare gli occhi
di uomini depressi:
da deserti aridi
a giardini fiorenti.
Poesia!
Sei l’impossibile,
un’arpa
che infiamma
e vibra i cuori
oltre i suoni della sera!
Sei vita di un infinito
nei colori del cielo,
sei Colui
che guida la nostra barca
senza rotta!
27
A sera... l’amore
di Rosa Spera
A sera, amore,
un afflato arcano ci accomuna
eppure in me pulsa un fiorire di sospiri
che s’adagia su creste brunite
ove s’addensano coltri di rimpianti.
Sconfina oltre i margini del lecito
lo scoglio irto del delirio
che coglie l’attimo all’apice estremo
d’una luce che si affievolisce
e con arguzia mirabile mi sfugge.
Dorme la luna
a ciglia chiuse dalle brume del cielo
adagiata sui guanciali delle sera,
melograni di stelle
s’inerpicano a grappoli su neri velluti
sprofondando in vortici d’infinito,
timori ancestrali incutono sgomento
tracciando ansie sulla soglia della notte.
Varcare quei dirupi
per placare respiri
[che bramano imperiosi
fluviali oasi d’abbandono,
ma tu mi vibri accanto, amore,
e sempre schiudi empirei al mio cuore
plasmando l’estro
che infervora i pensieri
d’un desiderio acceso d’armonie
in un tripudio d’anime che mai si placa.
Il fiore rosso della siepe
di Giuseppe Cesaro
Ancora si nasconde al nostro sguardo
tra le foglie verdi del fiume,
nella brina del mattino
lasciò nel rigagnolo tutte le avventure.
Dimmi, rosa del giardino,
se anche lei torna nella notte
a cercarlo con un bacio,
se ricorda i piccoli
gesti di affetto.
La rosa del giardino andò a cercarlo
nel verde reame del sogno.
Vittorio Pio Vidotto, Emanuela
(olio su tela cm 70x50)
Un altro cielo
di Antonia Izzi Rufo
Non vedo il mio mare
stamani!
Al suo posto
un altro cielo,
liscio uniforme immobile,
meraviglioso,
del colore magia
della volta celeste
della quale è tutt’uno.
A briglie sciolte
di Giovanna Li Volti Guzzardi
Un palpitare di emozioni
mi prende il cuore
e comincia sfrenato
il suo incedere galoppante
che come briglie sciolte
non posso frenare
ed esausta mi accascio
ad implorare.
Aspetto la calma
e a mani giunte prego
che mi si plachi il cuore
da questo batter convulso
che mi scatena
un tafferuglio di confusione
e non riesco
a trovare la soluzione.
Oh! Cuore mio
che corri come un treno
e non ti fermi nemmeno
se urlo dallo spavento,
sì, urlo e mi dispero,
non posso fermare questo sentimento
che mi ha preso anche la gola
e son muta, ma vorrei gridare
una frase sola:
«Ti amo!» e il mio cuore vola.
Quest’amore
che mi ha sconvolto il cuore,
è diventato un ammasso di emozioni
che vanno a frantumarsi
tra le onde dell’anima mia!
Terra pellegrina
di Flavio Vacchetta
Sogni incompiuti
figli crocifissi
nel tempo respiro di morti e sepolti,
ma la memoria
libera l’azzurro
dove la mia terra
è rimasta pellegrina.
In silenzio
di Flavio Vacchetta
In silenzio vivo
Del mio silenzio,
in lontananza un latrato
flebile e solitario
di oltretomba.
Così annaspo di morte
brancolando inquieto
nel mio destino
Di suoni. Di dolori.
di Ilaria Spina
Di flauti danzanti
non mi restan tra le dita
che schegge di legno.
Ed il suono ovattato e soave
smorzato, strozzato, stuprato
giace docile oltre i miei occhi.
Carpe diem
di Mayra Millico
Eccomi qui insieme a te
la mia più grande amica
adesso è qui accanto a me.
Colei che è così sincera e così grande,
sa veramente colpirmi nel fato.
È lei la mia amica per l’eternità, colei
che sa farmi essere qualcuno,
che sa cos’è l’inferno e il paradiso,
che sa che cos’è l’amore
e star male per esso;
ecco che significa averla accanto!
Ehi, dico a voi, se la incontrate
non approfittate di lei
perché anch’essa è
fragile.
Baggio, circense balistico
di Gaetano G. Perlongo
Tu sai
di essere figlio
della terra intermedia
tra l’Ovest del pensiero dominante
e il Sud-Est del nulla
circense balistico
e acrobata euclideo
o forse
semplicemente
ultimo mohicano
del calcio crepuscolare
Fede
di Mario Cambi
Nella vampa infocata del tramonto,
nel rosato chiarore dell’aurora,
nel lento tremolar della marina
all’alitar di réfola leggera,
nell’ulular del vento di bufera,
nel candore di brina mattutina,
nel mar che frange sopra la scogliera
gemme lucenti dispergendo intorno,
nel fioccare silente della neve,
nel luccichio dei prati di rugiada,
nella sottile pioggia marzolina,
nel violento crosciar del temporale,
nel rombo greve di pauroso tuono,
nel cielo taciturno, d’infinite
stelle trapunto, cui lontani mondi
ruotano intorno in lento giro eterno,
nella calura del meriggio estivo,
nel freddo algente d’uno spoglio inverno,
nei colori dorati dell’autunno,
nel rotear di un volo di gabbiani,
nel garrire di rondini alla sera,
nel mondo che rinasce a primavera,
nello sbocciare magico d’un fiore,
scorgo un disegno d’infinito amore.
Sei sola
di Gabriella Manzini
Fuori e dentro fa freddo
gli alberi sono spogli
i rovi taglienti...
Il gelido vento impietoso
ti sferza i pensieri ed il viso,
mentre l’acqua del fiume
che scende alla valle con suoni di
ghiaccio
copre i battiti del tuo cuore...
L’oscuro silenzio della sera
ti lascia senza un suono
nei tuoi solitari pensieri
mentre la nuvola... e la notte
che ora stanno scendendo
avvolgono di nero
la tua dolorosa incoscienza.
Risonanze
di Maria Elena Di Stefano
Nella voce del vento
odo un sordo lamento
un pianto segreto
un riso innocente.
Codici ermetici
formule tragiche
scalfiscono
l’altare segreto
ove invoca umanità
fraterna pace.
28
Adriana Assini, Tra i girasoli,
Acquerello, 2003, cm 15x21)
L’azzurro del mare
di Nello Cristaudo
L’azzurro del mare germoglia
dai fulgidi occhi che sprigionano
sapori e sensazioni mai assopite.
Dolce e soave fiore
varchi la soglia del mio cuore:
luce risplendente come faro
[per i naviganti.
Leggiadra melodia che m’accarezzi
[il crine,
ruscello che s’immette nelle onde
[dell’abisso.
Perla sgorgata dalla florida conchiglia
la fugace vita non ti separerà,
né l’infinito vuoto mai ti allontanerà.
Il silenzio acuto del mattino
di Marco Galvagni
Ho annodato
a ciottoli levigati
il fluire dei miei ricordi.
Forse era l’aurora cremisi
che si specchiava nei solchi
delle rare onde,
forse la magia
del silenzio acuto del mattino.
Forse la quiete infinita
ed il confluire d’umane speranze
tipici d’ogni alba
in qualunque angolo del mondo.
Forse un po’ di tutto ciò
mischiato all’amore per la vita:
e noi in simbiotica armonia
su questi greti ci trovavamo,
padre,
ed era l’elogio dolce
delle nostre illusioni,
la genesi
delle nostre buone intenzioni.
Era la folgorante attesa
d’un alito di luce
a farci muovere,
padre,
laddove ormai sono avanzate
poche manciate di rena
l’acqua ha reso canute
persino le amiche conchiglie.
Dedica triste
di Angela Aragona
Rimane solo un tralcio
di nuvole abbarbicate,
queste, al cielo trasparente,
attraverso lo spazio immateriale
delle solitudini che dividono,
lo stesso impalpabile spazio
tra due anime che si sintetizzano
in una fuga di piani paralleli:
in congruenza
è l’eclissi.
Ed è dolce eclissarsi,
scomparire, intrapresi
i tuoi passi, nulla è certo
oltre l’oblìo.
E se guardo tra i volti della gente
non c’è nulla che desideri,
nessuna delle immagini mi appartiene.
Tutto invano pare
distendersi il mondo.
È leggere ancora
di Giacomo Paternò
Può essere bello
voltarsi indietro
e doloroso
quanto ogni sorriso
che riempie di Senso
la memoria.
Ora noi
interroghiamo il Caso,
ci dimeniamo impotenti
nella morsa dell’evidenza
per sentire, capire
e distinguere: ma dobbiamo sapere
che la Giustizia
è lo sguardo di Dio
mentre qui condividiamo
il dono della libertà.
Io brucio
nell’inutilità
del mio libero arbitrio
che ha perso l’orizzonte.
Dove guarderò?
L’amore
è leggere ancora
una lettera
come il mio cuore.
Olio
di Silvio Craviotto
Olio, calmo prodigio scaturito
dalle zolle assolate dei miei monti,
alimenti la fiamma ai casolari
remoti e la scintilla che pur sempre
mi cova in cuore.
Ed è vessillo l’albero
nodoso che resiste a venti avversi,
monumento sereno eretto a scorno
d’ogni violenza.
Pallido il suo argento
cangiante, vibra ai soffi dell’inverno
e si costella d’astri, firmamento
di bianche stelle in fiore a primavera.
Olio, tu mite balsamo,
lenisci le ferite che la vita
a nessuno risparmia e, misto a vino,
infondi rinnovato estro al cammino.
29
Erba del poeta
di Luca Viglialoro
Le foglie intorpidite tormentate
[nel clima
affossano i miei piedi
presi nel liquido danzante,
blesa, la rappresentazione
che mi si manifesta,
fluido
scorro sulla pendenza che l’erba addita,
dentro e fuori me.
Scatenandosi l’impero invisibile
[delle forze
nelle strette vie ammantate
fa oscuro silenzio l’albero
[senza capelli, frutti
dea sfrondata, analfabeta
perché a cantare come Calliope
bisogna essere radi
per mangiare terra e morte
vita, vermi
premere le palme nelle irregolarità,
le delizie
pungenti compiutamente squisite.
In coro di mente e mano
trasfondere in ordinata semenza,
ciò che per chimismo
si raggiunge rincorrendo la sua fioritura
di parole germoglianti
nella loro finitudine.
Gelsomino notturno
di Chiara Trefiletti
Quando sbocceranno i gelsomini
[notturni
forse tu mi penserai.
L’aria era satura
non più di grano
di mare o di ulivo
ma odore terroso di funghi
e di castagni in fiore
aroma autunnale di foglie
[cadenti e cadute.
Cogliemmo i semi delle più belle
- rosse viola e gialle per gettarli nella tua campagna
nel mio giardino.
Ora adornano siepi di gardenie
filari di basilico
il nostro nido sfiorito.
Forse anche lassù
tra silenzi diurni
sbocceranno gelsomini notturni.
Li cogliemmo li cogli li coglierà lei...
io sarò sempre tra i gelsomini notturni
ad aspettar la notte
quando sbocceranno
[i gelsomini notturni
e forse tu mi penserai.
L’amore fonte di felicità (1995)
di Vera Guidotto
L’amore, fonte inesauribile di
gioia e dolore, che alberga silenzioso
nel tuo cuore, ormai spaurito e palpitante per un’emozione mai vissuta.
È come un caldo e tenero invito alla vita, sì, a quella vita che vuol
ora insorgere dal torpore che molti, anzi troppi anni ha accompagnato la tua
complicata esistenza.
Come un rumore, improvvisamente dilaga per tutta la stanza, ostacolando inevitabilmente il sonno, così
l’amore, spezzando il silenzio incessante, cela da sempre in fondo al tuo
cuore, si fa strada in esso, impedendoti
di vivere. Con quella voglia che hai di
tirarlo fuori, senza più paure, senza più
dubbi né incertezze e sotterfugi, ma con
infinita speranza che forse un giorno
troverà riscontro e rifugio nel cuore di
chi ami.
Viandante
di Giuliana Milone
Viandante,
lo senti il vento
che urla nel tempio demolito?
Lo senti il vento?
Grida di figli
vivi eternamente,
figli che si tormentano.
Il sole è a picco.
Ma io ne sento l’affanno
sull’altura spianata;
Mi senti?
Ma forse non mi ascolti;
dentro quell’altura
i figli hanno scavato
fori
come abisso d’inferno;
Il sole sta cadendo
e l’ombra scura
si getta sulla roccia...
Lo senti il mare?
Voi discendete invece di salire
e scrutate
nel fondo della grotta
nel blu di tuono
che cela lava di fuoco.
Lo senti ora l’afrore?
Li senti i vivi morti?
Sotto i loro occhi chiusi
dicono parole
loro non sanno
vivere insieme,
dividere
il cibo quotidiano...
Il sole ora è caduto
e tu viandante
senti la mia voce
nel silenzio terribile
dell’Immenso.
E non mi stanco
di Antonello Bruno
E non mi stanco
di bussare alle porte serrate del tempo
fino a che il tempo
segnato dai miei pugni chiusi
non divenga immagine del mio tempo.
E non mi stanco
di correre per le gole del mondo
fino a che il mondo
segnato dai miei passi arditi
non divenga essenza del mio mondo.
E non mi offendo
se la notte della vita mi graffia
con gli artigli della saccenteria
poiché la notte è vita e sogno
e dalla vita rinasce ogni giorno
nuova aurora.
E non mi stanco di portare
L’acqua pesante della mia sete.
E non mi stanco di schivare
il putridume delle mie bugie.
E non mi stanco di inseguire
i sogni che ho deciso di sognare.
Continuo a correre e a bussare
lungo la soglia delle mie porte serrate.
Continuo a morire e a resuscitare,
a cercarmi nello spazio infinito
che fa di me il tempo e il mondo.
Continuo a gridare a me stesso
affinché la mia anima gridi a me.
E non mi stanco.
I gabbiani
di Spartaco Colelli
Nel cielo grigio
d’un mattino d’autunno
volano numerosi i gabbiani;
a stormi, leggeri,
planano sulla battigia;
con ritmo lento batton l’ali,
e infin s’adagiano
sulla ruvida scogliera.
Sembrano far festa
al meravigliato
visitator:
ad ali spiegate,
volteggiano, virano, decollano;
quindi ritornano veloci
e con soavi gorgheggi, cortesi,
sembran far l’inchino!
Così, in quel grigio cielo
d’un mattino d’autunno
echeggiava la gioia viva
d’ogni allegro gabbiano!
Andata
di Salvatore La Franca
Giovane, fresco e pien di vigoria
lasciai la casa mia e mia gente.
Con gli amici lasciai la Terra mia,
mi ritrovai nel Ligure ponente.
Passai da una a un’altra leggiadria
col far del novellino indifferente
ma, sconsolatamente, prese il via
il muto mio soffrir rapidamente.
Desidero soltanto ritornare
nel tuo capace sen, terra natia,
e amarti tanto, quanto si può amare;
Voglio spezzare questa mia agonia,
bramo soltanto di dimenticare,
voglio tornare nella antica via.
Paura di me
di Rita Valentini
A Dio
Ho scoperto che hai paura di me.
Sì, ti capisco… mi faccio
[paura anch’io,
quando amo così inesorabilmente.
Ti sei sentito come un detenuto
[in mano del carceriere.
Egli è un boia dalla mente sottile,
dall’animo eletto.
Quel boia che sa fin dove
[può portarti in alto
e fin dove può lasciati cadere.
Ma, sai, fai bene a fuggire
perché è risaputo
che ci si può innamorare
[del proprio boia.
Vago per strade conosciute e
sconosciute
lastricate di ghiaccio sola...
con l’ultimo vestito colorato,
il mio corpo è un letto di spine,
sto annegando.
Dio, ti cerco, Dio: chi sono?
Sto bruciando, anelo amore,
ma, sono... sola...
Il piatto di minestra davanti a me
si sta raffreddando
e sto navigando in un mare crudele.
30
di Carmela Peschiera
Grida feroce l’aquila nera
di Mario Ceccarello
La vita
Bianca fra gli alberi
ai piedi delle Alpi
con le aiuole fiorite
e il Monumento
io ti rivedo là
vecchia Caserma.
Scalpitano i muli
dalle nere code
sotto l’esperta man
dei conducenti,
e tutt’intorno
nell’aria rarefatta,
profuma il tiglio
le abetaie, il pino.
Da te partirono
i Valligiani,
dell’ “Invitta Armata”,
lasciata indietro
su bianche steppe
con l’occhio fisso
verso la Patria.
“Nikolajewka”
Italia o Morte!
Grida feroce
l’aquila nera,
col becco adunca
la carne cruda,
sorride a tutti
la “Madonnina”
che guarda i figli
della Montagna!
La vita è fatta di attimi,
tutto passa,
il presente è solo un soffio
che subito diventa passato,
mentre poco prima era futuro.
Quante sere ho passato
davanti al fuoco
con gli occhi fissi sulla fiamma.
Si può immaginare
un mondo migliore
di quello in cui viviamo.
Ogni scintilla parte da noi,
bisogna soffiare sul fuoco.
altrimenti tutto è destinato
a spegnersi senza speranza.
Mario Ceccarello, con i suoi novantasette anni ben portati, è il decano dei
poeti e scrittori veneziani. Dopo i numerosi successi riportati nella sua lunga attività letteraria, afferma che la vita
continua e che ognuno dovrebbe fare
quello che può per migliorare l’ambiente. Ceccarello, nato nel 1907, ex
ufficiale degli alpini e funzionario di
banca in pensione, è anche un buon pittore, essendosi perfezionato sotto la
guida di Luigi Tito dell’Accademia delle Belle Arti. Ha pubblicato sette libri
di poesie, sia in dialetto che in italiano.
Ad una posizione Ceccarello tiene particolarmente: difendere l’integrità di
Venezia unita a Mestre e non divisa.
Ha ottenuto numerosi premi, tra cui
nell’81 una Coppa gigante del Ministero dell’Interno, Premio Assoc. Reduci-Desio (Milano), mentre solo nel
2003 ha ottenuto una decina di premi,
tra cui un primo premio a Milano (Streghetta 2003) per la poesia ed un altro a
Diano Marina (Imperia) per la narrativa.
di Rosanna Merighi
Flavia Vizzari, Il cigno (olio su tela)
Ricordi
di Enza Giangrasso
Cuore solitario te ne stai
in una terra che non è la tua
e in un cantuccio
tristemente pensi
alla terra bruna
che ti ha visto traballante camminare,
alla vecchia casa
con tutti i suoi ricordi
e i suoi sorrisi;
al dolce e caldo sole
che spesso t’ha imperlato di sudore;
ai cari amici con i quali uscivi
e facevi allegre scampagnate.
Ricordi!
Ecco: in un attimo
il volto tristo e teso
fu bagnato dalle lacrime
del Ricordo.
31
Ultimo zappatore
di Elena Auddino
Ultimo zappatore, solingo
[esile vecchietto,
al canto di usignolo hai faticato
e sul limitare della casa avita,
accanto all’aia,
riposi le tue membra stanche
sul calar del sole.
Il capo reclinato, gli occhi chiusi,
come lucertolina
ti offri ai tiepidi raggi
e piano piano scivoli
tra le braccia di Morfeo.
Le tue mani callose rilasci,
cade la zappa e sogni.
E nel sogno ritrovi, l’effluvio
[del vangato,
l’orto, la semente, il campo irriguo,
il sibilo del vento tra i rami,
la tua semplicità.
Indefesso cultore senza fama
[ imperitura
né serto di lauro sul capo,
medico della Natura,
alle piante curi ferite senza sangue
e della terra comprendi lamenti
[senza voce.
Custode di ideali e libertà,
ti ridesti e già rosso è l’orizzonte,
riponi ormai la zappa
[sotto il pergolato,
rimiri gli uccelli in alto
e sai che è il loro ultimo
[volteggiar della sera
prima dell’apparire in cielo delle stelle.
La mia finestra
di Francesco Celi
Datemi una finestra aperta
su un’onda blu cobalto,
un vecchio amico di scuola,
un verso in latino,
un discorso del “CHE”,
un ciuffo alla “ELVIS”
una nenia per bimbo
e nascerà uomo nuovo.
Datemi una finestra aperta
sui pini romani,
un piccolo campo da calcio,
una storia del mio Sud,
le favole di mio padre,
una tela bianca, dei rossi capelli,
un abito da Arlecchino e la luna,
non intera, no, solo uno spicchio...
Continuerà così il mio viaggio
alla ricerca dei ricordi
ai quali ancorare questo lembo di vita.
Il mondo
di Rosa Papillo Schiavello
Vite
Questo mondo irrealistico
che è attirato dalla violenza
circondato da tanta crudeltà
un disastro e un flagello per l’umanità
Alta e severa con il volto triste
anche a ottant’anni pensi solo agli altri.
Nel tuo destino c’era un uomo solo
e l’hai perduto nel fiore dei tuoi anni.
Porti raccolti a crocchia i tuoi capelli
cadono le forcine...
e la mano tua stanca le raccoglie.
Vedo forcine e treccia
anche nel volto tuo di giovinezza
molti son stati i frutti del tuo grembo
nessuno bello e forte come te.
Madre sei tu d’istinto
perché la tua mai l’hai conosciuta.
Fra malattie e preghiere hai visto scorrere
gli anni infelici della tua fanciullezza.
Pochi i sorrisi e i baci
mai la dolcezza della ninna nanna.
Ora sei lì che curi
le malattie degli altri, la vita senza vita
cercando di donar la forza che non hai.
Oggi il popolo ha tanto timore
pensa sempre com’è incerta la vita
perché difficile oggi sarà
avere fiducia alla furia della realtà.
Ma nel bersaglio dell’attacco finale
c’è Dio che prende la sua posizione,
riconduce il Suo popolo alla salvezza
perché grande è l’arma della sua
grandezza.
Ma nel mondo ci sono tanti ribelli
gli occhi piangono senza riposo
la vita cerca speranza e non c’è più
e tutto il popolo si sente in schiavitù.
La sfida di questo mondo
è molto amareggiata, ma Dio ci sarà
alla fine del tramonto
quando la luce si spegnerà.
Sacro e profano
di Antonio Greco
Lieta e sacra, tal nacque
la Gran Solennità del Redentore
venuto a portar pace e allegria,
ma che a guardar d’intorno
osservar si potea solo tal volgarità
che a ragionar non v’era più alcuna via.
Fuggir lontano volea la mia mente,
sulle ali leggere del pensiero,
a ritrovar sereni momenti
ed umana gente
che a profanar tali Sacralità,
potevan solo le malate menti.
Povera e infelice anima mia,
che a subir essa dovea
d’ogni profana specie,
che a pensare al Sacro e al Divino
potea soltanto la follia.
Tal io mi trovai a prender atto
che a viaggiar d’esotico
si trovavan tutti a far la fila,
e a far incetta di cotanti beni
che a contenerli ci volea una stiva.
Profane gesta
che per morboso amore
di tal dissoluto vivere,
nulla v’era a lenir
lo strazio di cotanto orrore,
che il vergognoso scempio
d’una tal Sacralità,
sol rifiutarsi di accettar potea
la mente mia.
di Maria Pia Palmieri
Ai giardini
di Bruna Quartieri
Arriva il nonno ai giardini
nella mano ancor callosa
la tenera manina
del garrulo nipotino.
Passi lenti, passi stanchi
passettini saltellanti.
«Quando piccolo ero io,
racconta il nonno al bambino,
avevo un prato grande:
molto più grande di questo giardino...
A giocar eravamo in tanti:
noi fratelli coi cugini
e qualche amico dei vicini».
E mentre camminavan lentamente
ammirando la fontana maestosa,
che sventaglia verso il cielo
i suoi zampilli senza posa,
chiede il bimbo al nonnino
che allontana
dagli spruzzi ricadenti,
mentre il piccolo gioisce
delle perle iridescenti:
«Nonno, come mai
il grande prato più non hai?».
«Il progresso, bambino mio,
ci ha portati tutti via,
ma il mio grande prato
d’alberi tutto circondato
non lo compensa neppure il laghetto
con alteri cigni e paperette...
naviganti recintati.
Il campo con le bionde spighe
l’uva nera... l’uva dorata,
mai lo potrà uguagliare
nessun giardino di città.
32
Duro lavoro...
pane duro...
anni verdi...
anni maturi...
Qui devo solo riposare
e, grazie a Dio, ci sei tu
che al mondo mi tieni allenato:
nella prossima partenza
sarò meno affaticato...».
«Ma non andrai tanto lontano?»
chiede il piccolo allarmato
che gli manchi il suo nonnino
per accompagnarlo ai giardini.
A mio figlio Enzo
di Jole Tuttolomondo
Quando mi soffermo a guardarti,
di gioia freme il mio cuore;
in quell’istante, con mille
pennelli e mille colori, dipingere
vorrei la perfetta armonia che
c’è in te, tra bellezza fisica
e qualità interiori.
Nella vita di relazione, ami
la pace e non l’orrore;
la concordia e non la discordia;
la luce e non le tenebre. La
verità e non l’orrore.
Come figlio, da quando sei
nato, la mia vita di verde
hai colorato; in mano hai
tenuto il mio cuore
e per la famiglia unita un grande
amore.
Come medico sei “un fiore
all’occhiello” e nella cultura
un vero modello.
A Mirella
di Jole Tuttolomondo
Nei tuoi occhi luce e mistero
l’un con l’altro
insieme si fondono.
Il tuo viso: un grazioso petalo
ornato da una chioma bruna.
Dio, creandoti, sorrise e la tua anima
e il tuo corpo armonizzò. Volle
dare alla terra una creatura soave
simile ad un fiore di primavera
che profuma da mane a sera.
L’armonia, che è in te, è sempre
evidente: nell’incedere elegante,
nella personalità, nello stile
e nel grande amore
che sprigiona il tuo cuore.
Haiku
di Maria S. Brancatisano
Meriggio di caldo
e solitudine
regala l’estate...!
Claudia Manuela Turco
Profondità autunnali
Carte da gioco
sparse
tra le pagine di un vocabolario,
incomprensibili significati
intrecciati al caso,
amori eterni
confusi
con piume in volo.
Polline di foglie e neve,
in una cascata di cangianti colori,
ora tenui,
ora violenti,
ancora carte da gioco
invadono
strade contorte e cieche.
Un sole stanco
continua a inseguire
labirintiche pieghe,
aspro ricama
sogni e spine
sul sudario del vento.
Tende, infuocate
di foglie tardive,
urtano
finestre colorate,
mentre avvolgono
montagne strappate
a ricordi vetrati.
Chiodi profumati
d’avorio incidono
cancelli impalpabili.
Serrano e isolano
cuori impegnati
in truculenti solitari,
simulando innocui dialoghi.
Ancora una partita
prima dell’inverno.
Un’ultima passeggiata
impregnati d’autunno,
nel vortice di pioggia
che travolge ogni mia stagione passata
e futura,
nell’eco dell’inespresso silenzio.
Gioco le parole
estraendole con cura
dal mazzo della vita,
ma continue sono le sorprese.
Ricamo come il sole,
e incido con chiodi
piccole isole,
salvagenti di quel poco che di me
rimane,
e che mai nessuno potrà vedere.
Marco Baiotto
Inutili previsioni
di maghi e scienziati,
inutili brame
di nemici e amanti.
Parole sferzanti o accoglienti,
amiche di carta io creo,
mie gemelle,
regine di cuori
senza re,
orpelli esornativi
di case altrimenti vuote.
E libera
nel paese dei prigionieri,
in un branco di cani
corro gridando
per sogni divenuti spine.
E senza aver neppure sperato,
scopro e ritrovo,
nell’aureo inchiostro
che riscrive
nel perdono
l’orrore,
la pura luce smeraldina del mio cuore
non solo dentro di me.
Poesia si sprigiona,
e ossigena
ogni mio gesto
e ogni mio pensiero,
anche se forse
solo le parole meno belle
lasceranno qualche traccia di sé.
Marco Baiotto, nato nel 1975 a
Chieri, ha come grandi passioni la
pesca, la montagna, le esplorazioni
speleologiche e... la poesia, che è
fortemente interiozizzata e rapresenta in versi brevi e intensi grandi
concetti universali, nella complessità dell’esistenza.
La macedonia
Sublime,
notte di passione,
tra femminee presenze,
di tutte le razze e colori,
e conturbanti profumi.
Io solo,
unico uomo sopraffatto,
disperso nel branco assaporo,
ineguagliabili piaceri.
Visione globale
Tarpami o Diva,
un sorriso dalle piccole ali,
una volta ancora.
Claudia Manuela Turco, nata a Codropio, nel 1970, vive a Udine. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali a pieni voti, ha lavorato in diverse
gallerie d’arte. La sua poesia è profondamente drammatica, pur nella semplicità espositiva. Il malessere esistenziale universale viene personalizzato e
fatto proprio in una visione della vita
intrecciata di dolore e felicità.
33
Come passero caduto dal nido,
e spezzato alla vita,
io vivo in ogni istante,
l’insostenibile peso,
degli anni a venire.
Commento. Il poeta, metaforicamente scomodando illustri fonti in
una “citazione d’arte”, con musicalità sospinge l’attenzione sulla maledizione che da sempre ne contraddistingue l’esistenza.
Quello sguardo troppo acuto
che ne proietta la vita emozionale
ben oltre i tremuli confini del tempo presente.
Quella maledizione che sa
rendere forse immortale o più spesso pazzo o forse ancora solo, tremendamente solo.
Maria Teresa Nobis
Renzo Ferraresi:
Uomini nuovi e Donne nuove
La poesia di Maria Teresa Nobis sprizza felicità ed
emozione. Gli occhi attenti della poetessa e la mente volta
al ricordo manifestano un’estasi del pensiero, che però non
cancella il passato, anzi ne custodisce la memoria senza
falsificarlo. In questo processo rievocativo la natura fa da
tramite fra l’uomo e la sua essenzialità spirituale.
L’unica speranza è che l’Uomo e la Donna “risorgano” finalmente attraverso un uso corretto, umano e saggio delle scoperte scientifiche e delle tecnologie, dall’abisso
esistenziale in cui li costringono a vivere come bestie i detentori del potere temporale religioso e i tiranni politici ed
economici; e ne escano rigenerati, per essere veramente “simili agli Dei” e non più schiavi di superstizioni e di maledizioni bibliche. Le Nuove Generazioni non dovranno più
brutalizzarsi tra di loro per motivi ideologici, religiosi ed
economici: ovunque l’uomo cammini sulla Terra, trova il
terreno insanguinato dal sangue sparso da innocenti bambini, uomini e donne, calpestati, stuprati e assassinati in nome di Dio e in nome delle Ideologie! Ogni uomo, stupidamente, da secoli e secoli continua a predicare che il suo dio
è migliore del dio degli altri e bestialmente, in nome del suo
dio ha umiliato, torturato, brutalizzato, schiavizzato, stuprato, commercializzato, discriminato e assassinato altri bambini e bambine, altri uomini e donne, solo e soltanto perché
erano di un altro dio e diverso dal suo! Potrebbe essere
un’Utopia, quella di sperare in Uomini Nuovi e in Donne
Nuove per questa Terra in cui viviamo. Ma, io credo che
questo sia l’imperativo categorico per continuare a sperare
e a credere in un futuro migliore, oggi pericolosamente compromesso da una incontrollabile “esplosione” demografica
e da una egoistica distruzione delle risorse planetarie abbinata ad un continuo ed irresponsabile saccheggio dell’ambiente ecologico. Nella Storia dell’Umanità non esistono e
non sono esistiti “tempi migliori” e “tempi peggiori”, secondo il mio modesto parere storico-filosofico. Quello che oggigiorno è necessario, è tornare ad un rapporto più divino con
la Natura; tornare ad un rapporto più amichevole, considerando che, gli uomini hanno “bisogno” della Natura; mentre
la Natura può benissimo fare a meno degli uomini e, in pochi istanti, con uno spaventoso cataclisma, essa può benissimo sbarazzarsi di centinaia di milioni e più di loro! Per
quanto l’Uomo possa indagare, scrutare, osservare, studiare,
capire, esplorare, intendere e volere, tuttavia, rimane e rimarrà sempre qualcosa di misterioso, di imperscrutabile e
di incomprensibile nei confronti di quella che da sempre defìniamo “Natura”.
Gabbiano Jonathan
Voli alto nei cieli
per raggiungere
l’infinito,
o gabbiano Jonathan!
Mi hai fatto
gioire intensamente
fino a raggiungere
la profondità del mare,
gli abissi dell’oceano,
la sommità delle cime innevate.
E, in un palpito superbo,
in uno slancio vitale,
ho visto il Creatore.
Padus
Passeggio di frequente
lungo le tue rive
e mi scopro ad osservare
il lento tuo corso, o Padus amico,
fiume che attraversi la mia terra
con la tua portata d’acque poderosa.
Ti ho visto, sai,
quando violentemente
allagavi le golene e i pioppeti.
Inesorabilmente trascinavi con te
tronchi d’albero, carogne d’animali
insensibili al futuro
degli atterriti abitanti,
costretti ad abbandonare,
spesso, nel cuore della notte,
le loro case ormai sommerse
dalle tue minacciose
acque grigiastre.
Un uomo e una donna
Ritratto di bimba
Occhi di cielo
che fissano l’orizzonte,
boccuccia pronta
al sorriso,
capelli sciolti e mossi
dal vento,
s’aprono sorridenti
al nuovo giorno.
Ritratto di una bimba speciale
che si muove sicura
nel bel giardino
da lei conosciuto,
amato e frequentato.
Un Uomo e una Donna
camminano lentamente
tenendosi per mano
lungo il viale del tramonto.
Forse
sono rimasti incantati
dal magico splendore
e dal fiabesco dell’Autunno.
Forse
sono partiti insieme
dalla fresca e vivace
verginale Primavera.
Placido e solenne
l’Inverno li tiene per mano
e li conduce alla Madre Terra
che già è feconda
[di nuovi germogli.
Forse
si sono incontrati
in una lussureggiante
e calda giornata d’Estate.
34
Margherita Rimi:
Cesare Ruffato
personalità sensibile e animo forte e deciso
Synopser1
di Francesca Incandela
Med avund betrakta en privatpark
från himlen en gåva
som stoltserar med måne fontän
sekelgamla träd gröna kyrkvalv
blomstrande bersåer
där någon stjärna alltid faller,
berätta vackra sagor om klorofyll
med suckande tjänarinnor i väntan
på rimsmidare med honungsharpa.
En dämpad melodi från de himmelska
sfärerna skingrar smog och buller
nynnar om det rena syret
i universums ekosofiska sfär.
En raffinerad orkidé beger sig
oberörd och bevingad på flykt
bland skaror av änglar
i stum kör och respektfyllda
inför trafíken föroreningen tigandet.
Jag tror inte mer vad mina ögon ser
också den inledande parken
som var till glädje verkar för mig
främmande och tarvlig i sitt öde.
Il dettato poetico di Margherita Rimi s’impone con
un sentimento di protesta letteraria nel panorama lirico isolano, quasi volesse distinguersi o rompere già consolidati
schemi, per due motivi principali: il primo risiede nella novità linguistica che rinnova da sé il contenuto, soprattutto
quando sconvolge a suo piacimento i lemmi trasformandoli
in enunciati dietro i quali nasconde il pensiero; il secondo è
rappresentato dallo stile versificatorio usato, nella sistemazione grafica che ripercorre sì da un lato tecniche poetiche
note agli addetti ai lavori ma, dall’altro, ella tende più che
alla riduzione o essenzialità, all’essenza del significato stesso. Ho già scritto in altra occasione che i suoi “lampi fonici” non lasciano di certo indifferente il lettore il quale sente
l’urgere di una rilettura delle poesie della Rimi, dopo avere
soddisfatto un iniziale momento di godimento visivo. Ed è
allora che scopriamo le qualità artistiche ma anche i concetti di Margherita che, nell’apparente disordine e frammentarietà, rivela una personalità sensibile ed un animo forte e
deciso. L’animo che penetra i temi della solitudine e dell’assenza, del dolore, della incomunicabilità umana è sine
dubio un animo sensibile perché avverte, registra, annota
evitando deliberatamente di raccontare, o di far fluire le
emozioni... ella non si perde dietro le storie, volutamente le
denuda e le riduce con pochi essenziali tratti. È forte quando sceglie le modalità per scrivere sulle pagine sapendo che
le sue composizioni agli altri spesso sono incomprensibili
ed enigmatiche. L’estremo pudore del suo mondo interiore
ha trovato, proprio in questo singolare modulo espressivo,
solide barriere di protezione attraverso l’immediatezza e la
brevità di un lessico piegato ad arte al suo sentire. Persino
l’ironia - dote non comune in una donna che scrive - si trasforma in mutevoli metafore dagli accostamenti arditi, o dalle mescolanze. La Rimi in molte sue poesie semina e lascia
tracce della sua esperienza umana e del suo percorso di vita,
per quanto cerchi accuratamente di non farlo trapelare, rompendo e spezzando le frasi, eliminando anelli di congiunzione, giocando con le parole in libertà ha lasciato aperta
qualche folgorante “finestra di dialogo”, consentendo ai
lettori di ascoltare le vibrazioni degli eterni sentimenti.
Generazionale
A sottintesi...
Cosa abbiamo creduto
A sottintesi...
Sembra la notte
cede un solido
rimpianto
sotto
crocifissione.
Si bara
senza più
orientarsi
sulle carte
perdenti.
Lasciata in piedi
non so più ricadere
né rincorrere
una croce che manca
inizio come te
sdottrinata
muta a dondolare.
Sinopsìe
Scrutare con invidia un parco
privato dono del cielo che ostenta
luna fontana alberi secolari
navate verdi bersò floreali
ove cade sempre qualche stella
narrando favole belle di clorofilla
con ancille sospirose in attesa
di troviere con arpa di miele.
Una melodia soffusa di sfere
celesti dilegua smog e rumore
neniando il puro ossigeno
dell’anima ecosofica universale.
Sofisticata orchidea accingersi
al volo senza battere ciglio
ed ali fra stuoli d’angeli a coro
muto con rispetto del traffico
dell’inquinamento e del silenzio.
Non credo ora al mio sguardo e pure
il parco d’avvìo e desìo mi pare
straniero e meschino nel suo destino.
Lino
Barbalinardo,
Paesaggio
(olio su tela)
1
35
In lingua svedese
Poesia dialettale
quasi un preludio per quella sinfonia (di odori e sapori
antichi) che si sarebbe diffusa, più tardi (all’ora di pranzo)
per tutta la casa! Che si trattasse di fusilli(2) preparati a
mano col ‘ferro’ (3), o di ravioli gonfi, o di cavatelli
(gnocchetti incavati) ...non c’era altro bene che tu potessi
desiderare: che la ricotta secca si abbracciasse col ragù! (4)
...Col naso titillato da quell’odore,
con le orecchie ancora piene di quel rumore,
mi sono svegliato, madido di sudore! (5)
...Fuori, una chiassosa confusione degna di una cagnara,
si fonde con le grida di una comare:
«Che disgrazia! Ha preso fuoco la discarica!».
La ‘fortuna’ è tutta mia, non pare anche a voi?! (6).
Sentir musica dove c’è solo frastuono, trasformare
fetori in profumi: è come riuscire a veder
la Luna pur stando con la faccia in terra!
Certi miracoli li può fare solo Amore…
ah, potesse durare questa Fortuna! (7).
N’abbaglio, ntra veglia e suonno
di Ottavio Marandino* (Battipaglia – SA)
Primm’e me sosere, ll’ata matina
m’aggio fatt’ n’atu muorz’e sunnellino.
È cchiù sapurit’ sì, pecché è arrubbato
a ‘o tiempo nfame, nfra nu rintocco e n’ato!
Comm’a nu film, ca spost’a nquadratura...
nu mumento... aggio turnato criatura.
Mputrunito a lietto, ntra veglia e suonno
na matina ‘e festa e chi sà qual anno!
D’a senga d’a porta ‘o rraù se nsinuava,
e a dduje rummur’, a tiempo, s’ammescava.
Era mamma, a fore, ca laganiava.
Papà grattava ‘o ccaso, puveriello!
(E sienze, allerta primma d’o cerviello,
arravogliano verità e fantasia!)
...Nzieme ntunavano sta melodia
pe... laganaturo solo e grattacasa:
quasi un preludio a chella sinfunia
ca se spanneva cchiù tarde int’a casa!
Ca fosseno fusilli arravugliati,
bucchinotti tunni, o pure cavati...
nun c’era bene ca tu vuliv’e cchiù:
quann’a recotta s’abbracciava c’o rraù!
...Cu o naso tellechiato a chill’ addore,
cu e rrecchie ancora chiene d’o rummore,
m’aggio scetato, nfuso de sudore!
...Fore, n’ammuina degna e na cagnara
se fonne nzieme a ‘llucchi e na cummara:
«Sciorta mia!... S’è appicciato o munnezzaro!»
A “sciorta”... è a mia: embè che ve ne pare?!
Sentì museca addò nce sta rummore...
na puzza ‘e chelle c’addeventa addore:
a faccia nterra riuscì a vede’... a Luna!
Sti miracul’ e po’ ffa’ sul’ Ammore...
ah, putesse durà chesta Furtuna!
Ottavio Maria Marandino, nato a Salerno il 19
febbraio 1959, è autore di racconti e di poesie in lingua e in
dialetto salernitano. Pur avendo esordito solo recentemente
nella passione dello scrivere, ha già raccolto lusinghieri riconoscimenti, quali: il primo premio assoluto, Medaglia d’argento del Presidente della Repubblica, in occasione della VI
edizione del Concorso Internazionale di Poesia Il Saggio Città di Eboli, l’8 febbraio 2003; il primo premio, sezione
Narrativa, in occasione della XXXV edizione del Premio
Letterario Nazionale Silarus, in Salerno, il 7 giugno 2003.
La presente poesia è stata invece premiata al Premio Il Convivio 2003 Publio Virgilio Marone, sezione poesia dialettale, con la seguente motivazione: «Non c’è dubbio
che questa poesia sia illuminata da un clima evocativo della memoria. Qui il poeta si addentra nel tessuto umano del
mondo della provincia salernitana, o meglio in un piccolo
ritratto di una storia ben localizzata in un preciso spazio
sociale vissuto nella sua infanzia. L’autore rievoca uno
spaccato di vita familiare, quasi a voler rivivere un momento sereno tra sogno e realtà favoleggiante. Gli occhi gli si
aprono poi su una realtà in cui il suo ottimismo regna, ancora una volta, sul mondo fantastico che egli ha costruito
nella sua introspezione. È una poesia che nella sua apparente semplicità nasconde alcune metafore, create apposta
per meglio chiarire lo scorrere della vita e il suo mutamento nel corso delle generazioni che si susseguono» (Pasquale
Francischetti).
Un abbaglio, nel dormiveglia*
- ...quando sonno e sogni giocano a sublimare la realtà (traduzione dal dialetto salernitano)
Prima di alzarmi, l’altra mattina,
mi sono concesso un piccolo prolungamento di sonno.
Ha un gusto particolare, proprio perché rubato al tempo
infame, nel breve lasso di tempo che intercorre
tra un rintocco e l’altro. Come in un film basta spostare
un’inquadratura,(per introdurre un flashback)
in un momento... mi son ritrovato bambino,
a poltrire nel letto, nel dormiveglia
di un mattino di festa di chissà quale anno!
Dalla porta socchiusa si insinuava l’odore del ragù,
che si mescolava con due rumori quasi sincroni.
Era mamma che preparava la pasta fatta in casa (1)
con papà che grattugiava il formaggio, poverino!
(Quando i sensi (in questo caso olfatto e udito)
si destano prima del cervello, finiscono
per rimescolare realtà e immaginazione).
...Insieme (madre e padre) intonavano quasi una melodia
(scritta apposta) per ‘matterello solo e grattugia’:
Note
*La poesia originale, in dialetto salernitano, è in endecasillabi.
(1) Tradizionale menù del dì di festa: pasta fatta in casa condita con
ragù ristretto e formaggio, grattugiato a mano con la ‘grattacasa’ (meglio
ancora la ricotta secca, ancor più cremosa e saporita). A svolgere questo
compito, meno nobile ma un po’ più faticoso, era chiamato l’uomo di casa.
Ma purtroppo, al momento del sogno, il papà è presente solo nel ricordo.
(2) Tipica ‘pasta lunga’ del salernitano.
(3) Classico attrezzo affusato a sezione quadrata.
(4) L’idillio musical-gastronomico è la metafora onirica di un ideale
idillio familiare, anelato da ogni bambino, tra il papà (‘grattugiatore’) e la
mamma (artefice della pasta e del ragù)!
(5) Si arriva, alfine, al disvelamento di quell’abbaglio dei sensi annunciato nel titolo.
(6) Gioco di parole sul doppio significato di ‘sciorta’ che è vox media
ed equivale alla latina ‘fortuna’.
(7) Il ricordo onirico dell’infanzia ormai non è più solo un luogo della
memoria, ma un vero e proprio filtro magico tra realtà e fantasia. In grado
di influire profondamente, sublimandole, persino sulle percezioni sensoriali, evocando idilliache ambientazioni familiari di un passato che non
potrà ritornare.
36
Er sogno, io... e... Dio
L’ amuri veru
di Tito Micozzi
di Annalisa Grazia Guerrera
Nta la me vita, aju sfardatu
n’mari di pagini,
quantu voti m’arribuccu
li mirudda
quantu voti fazzu àvula
la fantasia
e la fazzu curriri, senza abbentu!
Traversu diserti scunfinati
comu si m’assicutassiru
curru, finu a perdiri lu ciatu
curru, finu a li visciri di la terra
curru e stramazzu pirduta n’terra!
Ntuttuna di fronti a mia
vidu «l’omu».
Sturduta, iddu mi duna
un bicchieri d’acqua,
la so facci è n’mestu surrisu
l’occhi d’un cori spizzittatu,
senza chiù primavera
e mancu estati.
E mentri m’aiuta a susirimi
vardu ca li so carni hannu
l’impronti comu a chiddi mei
di l‘ugnia azziccati!
E pi essiri sicuri ch’esistemu
n’appuggiamu nta n’muru friddu
di cimentu armatu.
Và tutto male, non mi sembra giusto:
qui, mi parlano sempre... del mistero
so du millenni, e và sempre peggio!
Tu, me lo devi spiegà stò indovinello!
E continuo a parlà... col Padreterno,
e no, e no... non me la... bevo!
E basta... co stò mistero perenne,
sei... o... non sei er Padreterno?
L’anni so tanti, i misteri aumentano.
Me fai pensà! Che a te, sta bene tutto,
me fai pensà! Se nte stà bé ce marci!
De straforo, t’avessero mandato le tangenti ?
Me pia pé mano, io non li fò sti giocarelli!
E... s’avvicina a me con tanto affetto,
guarda! Me dice! Dentro sto bughetto!
Osserva bene, lo vedi... er Parlamento!
Osserva quelle capocce, e quei cervelli!
Ogni mattina se scambiano i pensieri,
prendendo i poteri, invece dei loro doveri!
A me!... me mannano solo le preghiere!
Figlietto bello! Te vedo un po’ perplesso!
Non convinto, vorressi, che io ti spiegassi!
Ma poi perderesti lo scopo dell’indovinello!
Soddisfatto! Ma il cervello t’arimarebbe vuoto.
Ce vò chi sbaglia... e chi rimette a posto.
Ancora pensi che io... non ce vedo?
Me rimette la mano sopra la spalla!
Ste guerre, sta violenza, sti ladri! Io vedo!
È primavera
di Guglielmo Manitta (di anni 7)
So quello che pensano! Quello che fanno!
E me mettono, sempre a me de mezzo!
Loro lo sanno... si si!!! Non se vergognano,
sanno pure, sarvognuno se perdo la pazienza!
C’è la mimosa, c’è il sole,
c’è la rosa, c’è il canarino
che cinguetta.
Ve dovrebbe mannà!!! Solo a pensacce!!!
A sti filibustieri dovrebbero avé i brividi
se perdo la pazienza! Spariscono tutti!!!
Antro che martiri... santi madonne e Gesù Cristi!
È primavera,
l’arancio è bianco di zagara
gli uccellini preparano il nido.
È primavera,
i prati sono verdi
e fioriti
il cielo è splendente.
Mannavve nà carestia... che pe magnà
dovressivo tutti piegarvi in ginocchio
sulla terra! E adorarla, di più baciarla!
Perché soltanto lei è la nostra Manna!
Pane e Pace
di Alfredo Varriale
S’i’ fosse ‘na palomma o n’aucello
me mettarria a vulà p’’o “Terzo-Munno”
spenzanno pane a ‘e pòvere a zeffunno
Eequacche arnese buono pe’ zappà.
E quanno l’avarria dignuto ‘a vozza
cu tanta grazia ‘e ddio, sarria capace
‘e da’ a stù Munno finalmente ‘a pace
ca troppo se fa mò desiderà.
37
Racconto
ma gioventù, gli spiego. Non mi capisce. O almeno non dimostra di capire. Scuoto le spalle ed entro lentamente nell’edificio principale del museo. Deserto. Solo enormi fotografie appese ai muri piene di uniformi a righe e sguardi
spenti... Gente senza nome né cognome. Gente con numeri.
«Il mondo è perfido e triste» mi romba in testa Nabukov.
Cammino da solo nelle sale deserte dell’ex campo di concentramento. Ex? Non resisto. Conati di vomito. La vecchiaia non riesce a sopportare troppi ricordi tutti in una
volta. Esco in fretta. Il più veloce possibile. Fuori, un passerotto mi guarda da una zolla d’erba ingiallita. Mi fissa. Mi
sta aspettando? Come se volesse dirmi qualcosa. Mio Dio,
lo spirito di chi si trova in quel corpicino? Forse di Anna
Frank? Forse sta volando di campo in campo in cerca dell’infanzia rubata... Dev’essere il suo spirito, così piccolo,
non protetto e innocente. Gli occhi spalancati. Così guardano solo i bambini. Le cose belle e quelle brutte. Mi avvicino. Non ha paura. Gli siedo accanto ed inizio a parlare. A
lei. Tutto quello che è successo da quando me ne sono andato da qui. Tante cose e niente. In effetti, molto. Troppe cose brutte e qualcuna buona. Cerco di ricordare le cose buone e di raccontargliele. Non ci riesco. Qualcun altro dentro
di me le sta dicendo che anche oggi si uccidono i bambini.
In tutto il mondo vanno incontro alla morte a cuore aperto.
Anche peggio. Persino i bambini hanno iniziato a uccidere.
In nome di quelli che hanno bisogno di campi di concentramento, ghetti, muri, isolamenti...
Passeggio per il viale dei vecchi pioppi che portano ancora i chiodi arrugginiti ai quali impiccavano la gente...
L’uomo riesce a convincere anche i pioppi a ricordare, ma
non se stesso. Si è preso il diritto di dimenticare. E lo usa in
modo selettivo. Il metodo della minor resistenza. Quel metodo tanto amato dai grandi leader.
A cosa serve Dachau oggi? Non ci va più nessuno. Il ricordo dura finché c’è coscienza. Dachau è stato dimenticato.
Sta morendo anche lui. Sta scomparendo dalla realtà. Lo in
contri ogni tanto in qualche libro di storia che capisco sempre più difficilmente. Forse riprenderà a vivere. Forse proprio in questo momento qualche leader lo sta pensando in
qualche birreria. Forse le nevi di nuovo non saranno più
bianche. Quando dimentichi, tutto diventa possibile, non è
vero?
Quello di cui i leader non parlano non è successo. Quello di cui parlano doveva succedere. Leggi le loro memorie,
la peggior letteratura che l’uomo abbia mai scritto, e vedrai.
Mio caro amico, non lo so cosa farai di questi pensieri
confusi, ma sono sicuro che non li dimenticherai. Scusami
per le lettere macchiate... Dicono di non avere un inchiostro
resistente alle lacrime...
Tuo S. Isakov
Dachau 2004
(Il ricordo dimenticato)
di Drazan Gunjaca
Ogni tanto maledico il giorno in cui ho iniziato a scrivere. La scrittura mi ha avvicinato a tante tragedie altrui che
qualche volta vorrei, è più che umano, non aver mai sentito,
incontrato o visto. Faccio sempre più fatica a far fronte ai
propri ricordi, e col tempo si accumulano anche quelli degli
altri. Una persona si abitua a tutto fuorché alle tragedie. Non
è possibile abituarsi, puoi solamente sopportarle o fuggire,
se hai la possibilità. Comunque sia, una volta che la guardi
in faccia devi scegliere tra le sue facce della realtà. Tra uomo e uomo. Il buon vecchio S. Isakov, prima del suo ultimo
viaggio, malato e vecchio com’era, decise di visitare Dachau
ancora una volta. Di scrivere le impressioni con mano tremante, a lettere grandi, perché la sua vista è sempre peggio...
Caro amico,
una mattinata fredda e triste a Monaco di Baviera. Sto
aspettando il taxi. Finalmente arriva e vi esce un giovane
cercando con gli occhi il mio bagaglio. Non ho niente oltre
a questo po’ di anima che mi rimane. Per fortuna, lui non lo
vede. I resti dell’anima. Gli dico in tedesco di portarmi a Dachau. Mi guarda un po’ perplesso ma senza fare commenti.
Non dice niente. Guardo i campi prima di arrivare a Dachau, macchiati di bianco dalla neve che si sta sciogliendo.
Appaiono così innocenti, quegli stessi campi sui quali per
giorni, mesi e anni si accumulava la cenere del vicino crematorio. La neve in quegli anni non era bianca, per quanto
cadesse fitta. Sovvengono i ricordi. Vedo una striscia di
fumo che si innalza verso il cielo portando con sé migliaia
di Eveline, Natase, Ane, Radmile... Le nuvole avevano un
colore grigio uniforme particolare, senza sfumature, non ho
mai più visto niente di simile. Anche quando c’era bel tempo stavano lì, tra noi ed il cielo, tinte di questo colore strano. Il colore del fumo. Anche la pioggia era grigia. Cadeva
sull’erba, bagnava i fiori campestri intorno al campo di concentramento... E nelle sue gocce restituiva le Eveline e le
Natase... In quei campi bagnati si sono sposate con la terra... Ai matrimoni cantavano gli uccelli, e i topi e le formiche preparavano per loro le prime notti...
Anche oggi, dopo tanti decenni, c’è una leggera brezza
che passa sopra quei campi, canticchiando poesie mai cantate, disturbando questo silenzio sacro. Non ci sono più quelle urla terribili... Solo l’eco nella mia testa. Faccio sempre
più fatica a distinguere i suoni. Quelli dall’esterno da quelli
che ho dentro.
Sto davanti al portone del campo di concentramento.
Chiuso. Non ci sono più le guardie. C’è ancora il filo spinato, con le torrette per le sentinelle vuote. Pago il taxi. Il giovane prende il denaro e si allontana in fretta, turbato. Perché? Di cosa ha paura? Aspetto l’orario di apertura, alle 10.
Arriva una vecchia Opel rossa dalla quale esce un uomo
che mi guarda come se fossi arrivato da un altro pianeta. I
suoi occhi chiedono cosa sto facendo qui. Ritorno alla pri-
Il Calendario del
2005
L’accademia internazionale Il Convivio anche
quest’anno promuove l’iniziativa di un calendario per i suoi associati ed amici Pittori
e Poeti. Per informazioni telefona o scrivi
alla Redazione del Convivio o alla sede
dell’Acca-demia: via Pietramarina, 66 - 95012
38
gnazzando e tutt’al più ad afferrarli, ché così allacciati era
più facile, per poi separarli e liberarli, probabilmente appagati dalla soddisfazione di avere così interrotto quella sfrontata esibizione.
Ma io non mi limitavo a questi giochi infantili. La
mia crudeltà si manifestava in operazioni ben più raffinate:
avevo trovato in un cassetto del ripostiglio la bobina di un
trasformatore, su cui era avvolto un sottilissimo filo di rame. Ne tagliavo un breve tratto e c’infilzavo le mosche ad
una ad una, dopo averle acchiappate mentre oziavano da
qualche parte a progettare probabilmente arabeschi da
tracciare sugli specchi del soggiorno. E dopo averne infilzate un buon numero, osservavo con beffarda indifferenza
lo svolazzio sul pavimento di quella collana animata.
Altre volte, in vena di esperimenti scientifici, chiudevo alcuni esemplari ancora vivi di quei poveri insetti dentro un barattolino di vetro trasparente e ne aspettavo la decomposizione, per contemplare stupito il brulichio di vermi
che dopo qualche giorno ne derivava. Era uno spettacolo affascinante e nauseante allo stesso tempo che mi turbava profondamente, tanto che ben presto mi precipitavo a buttare il
recipiente nella pattumiera, e innescava in me tutta una serie di ingenue riflessioni sui misteri della vita e della morte.
Queste amene estrosità le tenevo però tutte per me
e non avevo il coraggio di parlarne ai miei amici e tanto meno ai miei genitori, segregandole nel mio minuscolo bagaglio di esperienze strettamente personali. E tali restarono
per anni e anni fino alla stesura di questo racconto.
Grazie al cielo questi bizzarri impulsi infantili sfumarono presto nel disgusto e dopo di allora le mie uniche
violenze hanno preso di mira formiche e scarafaggi, ma al
solo scopo di liberarne i vari appartamenti nei quali ho vissuto, e, in ogni caso, senza sofisticati accorgimenti atti a causare in essi sofferenza.
Sadismo coi calzoni corti
di Michelangelo Cammarata
A pensarci adesso, certi tratti di crudeltà che attraversarono la mia infanzia sembrano inverosimili. E mi lasciano tuttora nell’incertezza se considerarli innati e poi
gradualmente superati con l’istruzione e l’affinamento della
sensibilità o frutto di contingenti azioni e suggestioni che
senza volerlo condizionarono in maniera così discutibile alcuni mesi della mia vita.
Erano le mosche le mie vittime preferite. A dire il
vero nei primi anni cinquanta Gela pullulava di questa sorta
d’insetti. Ricordo ancora che il grande specchio della credenza spesso esibiva tutt’intorno un informe ricamo costituito da centinaia di cacchine che, giorno dopo giorno, vi si
depositavano con metodica pervicacia. Devo anche dire che,
vista l’insufficienza delle consuete dosi di DDT, sebbene
spruzzate con generosità, a contrastare il fenomeno, questi
ghirigori erano diventati uno spettacolo usuale e nemmeno
tanto mortificante; tanto che mia madre, con il suo pacioso
fatalismo, non se ne preoccupava più di tanto, per cui gli
specchi, che le mosche mostravano di prediligere per le loro
esibizioni artistiche, si conservavano per giorni e giorni
sfacciatamente imbellettati da una miriade di minuscoli nei.
Al fine almeno di limitare i danni e mettere un freno a quella fastidiosa invasione, si studiava di tenere abbassati durante il giorno gli avvolgibili e di evitare la sera di
accendere le luci; ma con quale animo si poteva, di giorno,
esiliare all’esterno la straripante luminosità dell’estate siciliana e ci si poteva confinare la sera nell’opprimente camicia di forza dell’oscurità? Così ci si rassegnava a convivere
con quella molesta realtà, limitandosi a contrastarla all’ora
dei pasti, quando la presenza del cibo rendeva ineludibile
difendersene con maggiore decisione. Fortunatamente prima
o poi (invero più poi che prima) arrivava la periodica disinfestazione del Comune a ridimensionare entro limiti tollerabili quel flagello.
Come si comprende facilmente la materia prima
per dare sfogo alle mie ingenue pulsioni di sadismo non mi
mancava davvero. La caccia alla mosca era un passatempo
che appassionava anche i miei amici: ci armavamo di elastici, li allungavamo e li fiondavamo sui vetri delle finestre
dove quei poveri insetti si aggiravano ignari e indifesi. Ovviamente ad ogni colpo andato a segno erano schiamazzi di
gioia, quasi fossimo al luna park dove eravamo soliti sfogarci su piramidi di barattoli di latta che cercavamo di colpire con palle di pezza. Dopo due o tre ore di continui armeggi ci si fermava accaldati e felici ad ammirare gli insetti
stecchiti per terra e quelli che, appena feriti, ancora si avvoltolavano su se stessi nel vano tentativo di riprendere il
volo. Altri restavano spiaccicati sui vetri offrendo uno spettacolo a dire il vero stomachevole che tuttavia non ci esponeva ai rimbrotti degli adulti che, tutto sommato, consideravano la nostra un’attività meritevole di encomio.
Fra di noi c’era anche chi riusciva ad afferrare a
volo le mosche con grande abilità e, dopo averle fatte filtrare con cautela negli interstizi fra dito e dito per evitare
che scappassero, le privava delle ali, le buttava sul tavolo e
ne seguiva ilare la fuga scomposta e disperata.
Altra fonte di divertimento che dava origine a lazzi
e scurrilità era quando scorgevamo gli insetti nell’atto di accoppiarsi. Ma in questo caso ci si limitava a guardarli sghi-
Pantaleo Mastrodonato, Preistoria e civiltà
(Simposiacus, Bisceglie 2003). Il volume tratta tematiche interessanti e affascinanti: Le origini dell’universo, Origini della terra, Nascita dell’uomo, Primi rudimenti di cultura, Nascita della civiltà, I popoli preistorici, Le quattro età del mondo, L’Oriente mediterraneo, La civiltà in Cina e in India, L’Europa agli albori
della storia, Preistoria e storia nei paesi extraeuropei,
Epica ed epopea orientale, Volumi epici e testi religiosi, L’indoeuropeo e le sue ramificazioni, Letteratura
europea alle soglie della storia, Omero e i suoi poemi.
Pantaleo Mastrodonato, La mimolodia, una
nuova forma di melodramma (Simposiacus, Bisceglie 2003). «La mimolodia è la forma mimica per eccellenza che si propone di ricordare agli uomini che
tutti abbiamo una missione da compiere sulla terra. La
mimolodia è qualcosa in più del poemetto dialogato, è
un’azione drammatica in due parti ed un epilogo, che
ha la nobile missione di istruire l’umanità, ricordando
che tutti sulla terra viviamo per volontà di Dio».
Giuseppe Janne, Poesie per un’ora (ed.
I.E.I., Marzo 1993). «Devo congratularmi con te per la
schiettezza e la profondità dei sentimenti che alimenta
questo tuo impegno ‘letterario’. Sono cose delicate e
care, che definiscono una sensibilità e parlano a chi è
sensibile e gentile» (Arcangelo Leone De Castris).
39
co. Niente di male. Dopo tutto, quando aveva ricevuto la lettera di risposta di Saramago all’e-mail che gli era stata inviata dieci giorni prima, non aveva creduto alla propria fortuna. Molte grazie per la vostra risposta, erano state le parole
del celebre autore, sarei molto felice di poter collaborare
con la Vostra rivista. Che colpo! Con quell’intervista, Craig
avrebbe potuto anche sperare di fare un salto di carriera.
«Trattamelo bene, mi raccomando» lo aveva pregato il
suo capo. «Sai che vuol dire per noi un contatto del genere,
vero?».
«Certo, capo» lui si era limitato a rispondere, sicuro di
non poter fallire. «Non si preoccupi».
Adesso arrancava ansimante, mentre la sua pelle rossa
e sudaticcia allagava i suoi abiti, simili ad una carta assorbente di ottima qualità. Ai semafori, lui, educato alla cultura anglosassone del rispetto delle regole, si fermava anche
se non passava nessuno. Dopo un po’, però, si rese conto
che duravano secoli e che nessuno si curava di aspettare,
così ritenne fosse il caso di meridionalizzarsi e di imitare i
Lisbonesi, che lo guardavano tra il meravigliato e l’ironico.
Ad un tratto, gli parve di vedere in lontananza la sagoma chiara e luminosa del famoso monastero. L’aveva vista
in almeno venti guide turistiche, prima di partire, per cui
non c’era verso che si sbagliasse. Sapeva che, a quel punto,
la pasticceria non doveva essere molto lontana: infatti, dopo
non molte decine di metri si accorse di esserci praticamente
davanti. Si fermò all’improvviso, cercando di recuperare
parte del fiato che aveva speso.
«Che diamine» pensò rinvigorito. «Non era poi così
lontano».
Quindi entrò.
All’inizio gli parve un bar normalissimo, ma poi, quando si fu abituato alla sua gradevole penombra, realizzò che
non consisteva in una sola stanza, ma proseguiva all’interno. Un cameriere lo accolse. Craig riuscì a capire che gli
stava chiedendo se volesse sedersi, e rispose di sì, aggiungendo che aspettava José Saramago. A quel punto, si sarebbe aspettato di vedere una faccia ammirata, mentre il ragazzo in giacchetta bianca mantenne l’espressione indifferente
di prima. «Forse non lo conosce» pensò lo Scozzese.
Il giovane lo accompagnò ad un tavolo nella seconda
stanza, dove lo fece accomodare. C’era un’altra sedia a disposizione, così Craig chiese al cameriere se poteva informare il signor Saramago che lui era all’interno, non appena
fosse arrivato. Quello rispose: “Claro, claro…”, e Craig si
tranquillizzò alquanto. Poi il giovane gli chiese che cosa
gradisse, e lui ordinò una fetta di torta e una birra. Il ragazzo se ne andò, con l’aria di chi non ha problemi dalla vita.
Sarebbe ritornato due minuti dopo con l’ordinazione servita
su un vassoio.
Iniziò così un’attesa destinata a protrarsi per almeno
venti minuti, interrotta solo da sporadici e muti passaggi
dello stesso cameriere, nonché dall’arrivo di altri avventori,
alcuni discreti e signorili, altri rumorosi, altri ancora stranieri. Ma di Saramago neanche l’ombra. Craig aveva volutamente centellinato la torta e la birra, ma adesso stavano
comunque finendo. Cominciò a temere che si fosse trattato
di un crudele scherzo, e si alzò in piedi.
Per poco non si urtò con il cameriere, che stava venendo proprio da lui. “Senhor, José Saramago está aqui!”
gli disse tutto contento, e poi se ne andò. Craig si emozionò
a tal punto che avrebbe gradito usufruire della toilette, ma il
tempo scarseggiava, così si risistemò l’abito e si rimise a
L’intervista
di Giovanni Agnoloni
All’incrocio non passava nessuna macchina. Una donna
controllava un bambino che attraversava da solo la strada, e
gli sorrideva nel calore del primo pomeriggio. Il vento muoveva le fronde degli alberi, il cui verde adesso appariva più
intenso del solito. Craig Bennett avanzava nell’afa delle tre
a Lisbona, mentre le sirene di un’ambulanza lontana propagavano un’eco distorta per le strade della capitale portoghese.
«Che caldo…» si sorprese a dire.
Il lungofiume si perdeva a vista d’occhio, e lui, Scozzese in viaggio di lavoro, non sapeva proprio come affrontare
la lunga camminata che lo aspettava. Saranno stati almeno
due chilometri, fino al Mosteiro dos Jerónimos, e sembrava
che la maggior parte dei mezzi pubblici avesse aderito allo
sciopero annunciato la sera prima al telegiornale. «Si sconsiglia di muoversi nelle ore più calde del giorno» aveva detto il notiziario. Ma Craig doveva lavorare, e non poteva fare
altrimenti.
Lui commerciava libri e scriveva articoli per lo Scottish
Literary Newsweek, una rivista letteraria di Glasgow, dove
viveva. Era stato incaricato di recarsi in Portogallo per intervistare il grande scrittore José Saramago, e l’incontro sarebbe avvenuto, per scelta dello stesso autore, in una prestigiosa pastelaria del quartiere di Belém. Craig sapeva che
molti artisti sono piuttosto eccentrici, ma non credeva di
poter andare a finire in una pasticceria, per parlare con uno
dei più famosi in assoluto. Di solito, se non altro per ragioni
di privacy, riservavano spazi appositi in grandi alberghi, o
addirittura invitavano gli intervistatori nel proprio studio.
Evidentemente, oggi era destino che non fosse così. Il
suo giornale gli aveva passato lo stretto necessario per il
viaggio in aereo e per due notti in albergo. Così Craig si era
astenuto dall’idea, che pur lo tentava, di prendere un taxi,
perché non ci voleva rimettere di tasca sua. Ma ora cominciava a rimpiangere di non aver fatto quella scelta. Comunque era in perfetto orario, sempre che non si accasciasse al
suolo per un colpo di calore. Glielo aveva detto, sua madre:
«Preparati, ci sarà un’afa terribile». In effetti aveva ragione,
ma non del tutto: c’era pur sempre una gradevole ventilazione che rendeva i raggi del sole più sopportabili.
I piccioni vagavano per i marciapiedi in cerca di cibo,
lasciando dappertutto tracce appiccicose del loro passaggio.
Di tanto in tanto gli sembrava di sentire lo sferragliare di un
tram in lontananza, ma generalmente era un’illusione, prodotta dagli echi lontani di qualche cantiere. Aveva avuto
appena il tempo di fare un giro panoramico della città, che
aveva colpito non poco la sua immaginazione di nordico
girovago. Abituato com’era alle geometrie moderniste di
Glasgow, o a limite al rigore classicheggiante di Edimburgo, lo stile approssimativo e pittoresco di Lisbona lo aveva
sedotto, e anche il bacalhau della sera prima, accompagnato con vinho verde, aveva dato un contributo non indifferente alla sua soddisfazione turistica.
Ma per il resto era stato molto impegnato con la preparazione delle domande da fare al grande scrittore, che implicavano la conoscenza pressoché completa della sua opera
e del suo stile. Impegni extra che, naturalmente, non comportavano nessuna provvigione, ma facevano parte del gio40
sedere, pronto a scattare in piedi non appena il Premio
Nobel fosse spuntato da dietro l’angolo. Il problema, però,
era che ancora non veniva. «Avrà incontrato qualcuno che
conosce» pensò Craig. Dopodiché vide solo passare una
ragazza bionda in jeans, una coppia sportiva ed un omino
basso e grassoccio. Con sua sorpresa, vide che quest’ultimo
si avvicinava proprio a lui.
«O senhor Bennett?» chiese timidamente, con una voce
quasi effeminata.
«Sì, prego?» rispose lui.
«Sono José Saramago, e dovevo incontrarla» l’omino
replicò con fare insicuro.
Craig non poteva credere alle sue orecchie. «Lei è José
Saramago?» chiese, sbigottito.
«Sì, posso accomodarmi?».
«Prego, si sieda…». Craig udì la propria voce rispondergli, mentre si chiedeva dove potesse essere l’equivoco.
«Scusi» si decise quindi a parlare, ma è lei che ha
risposto alla e-mail di Scottish Literary Newsweek?».
«Sì, la settimana scorsa. Perché, signor Bennett, c’è
qualche problema?».
«“In effetti sì», ammise Craig. «Lei completamente diverso dall’uomo che ho visto sui giornali».
«Quali giornali, scusi?».
Craig si sentì preso in giro.
«Beh, potrei fargliene un elenco lunghissimo. Praticamente quelli di tutto il mondo…».
«Temo davvero ci sia stato un fraintendimento, allora,
signor Bennett».
«Lei è un omonimo, vero?» Craig chiese, sentendosi
venir meno.
«Le dirò, signor Bennett, è la terza volta che mi capita,
quest’anno. Io sono José Miguel Saramago, e sono un commediografo poco conosciuto. Ho la fortuna e la disgrazia di
chiamarmi come il vincitore del Premio Nobel, per cui non
passo inosservato, ma poi quando i critici leggono i miei lavori finiscono sempre per fare il confronto con l’altro Saramago, e…».
«Capisco…» fece Craig, che già pensava alle spese che
avrebbe dovuto rimborsare alla propria rivista.
«Non le interesserebbe leggere qualcosa che ho scritto?» il timido José si fece avanti.
«Eh?» Craig rispose, ancora mezzo assorto nei suoi
pensieri. «Leggere qualcosa?».
«Sì, vuole?».
Craig si guardò intorno, e vide la coppia che mangiava
e tubava, i signori distinti che discorrevano, la ragazza in
jeans che si faceva ammirare, e poi se stesso e quell’omuncolo che non avevano niente da fare lì, in quel momento. Se
non altro, forse avrebbe scoperto un talento inespresso, o
almeno in Scozia qualcuno si sarebbe fatto una sana risata,
sorseggiando un whisky col giornale in mano.
«Mi dica…» infine si rassegnò, tirando fuori di tasca
un taccuino e una penna.
Il “gioco” di Djalma
di Elio Picardi
Djalma vola quando ancheggia lieve sui tacchi sottili: e
una danza armoniosa che sembra il ritmo di una samba, un
movimento che attira l’attenzione di tutti, dei compratori
che la vedono passare e dei venditori che si affacciano dalle
bancarelle della Fiera del Sabato. Djalma cammina tra due
ali di mercanzie esposte ai lati della strada, una lunga via di
un quartiere popolare che, a tratti, è così zeppa di oggetti e
di persone, che si avverte l’impressione che manchi l’aria.
Quando la strada si restringe ad imbuto, è inevitabile
incrociare i bellissimi occhi verdi della ragazza, occhi luminosi, sorridenti, spensierati, che si guardano intorno con
sfrontata sicurezza... Ogni tanto si arresta accanto ad una
bancarella: prende dal banco dove sono in mostra orecchini
dalle varie fogge e colori una coppia di luccicanti pendagli,
se li misura e accoglie con un sorriso lo sguardo d’ammirazione del giovane bruno al quale li restituisce dopo la prova, poi riprende il suo coreografico incedere con la splendida grazia che la contraddistingue.
Più avanti chiede al venditore di rossetti di provare sulle labbra la tinta accesa di uno stick campione, ne controlla
l’effetto nello specchio che l’uomo le porge e, attraverso di
esso, calcola quanti uomini si siano fermati ad ammirarla.
Riprende la sua “passerella”, per un attimo si ferma a prendere a volo un fermacapelli rosso-fuoco: è un’intensa macchia di vivace colore sulla sua nerissima chioma sfilzata, poi
stacca da una gruccia un paio di jeans sfrangiati decorati
con disegni floreali, un modello di quelli che si portano
adesso, con la vita bassissima che lascia scoperto l’ombelico e parte della schiena, più o meno come gli aderenti pantaloni bianchi che indossa. Con mano esperta li fa combaciare perfettamente con i suoi per considerarne le misure,
poi li restituisce al riccioluto addetto al banchetto che è
accorso incantato dalla presenza di una così bella cliente,
gli fa un malizioso occhiolino e prosegue oltre...
Djalma è venuta da un paese sudamericano alcuni
anni fa: la sua poverissima famiglia soffriva talmente la
fame ch’era stata costretta a venderla per sopravvivere. Tra
coloro che si erano fatti avanti, i suoi genitori avevano accordato fiducia ad Hector, un omone sui quarant’anni, di
pelle scura, con un paio di grossi baffi ed i capelli a spazzola. Hector era una specie di faccendiere e si arrangiava a
trattare ogni tipo d’affare: quando aveva visto per la prima
volta la quindicenne Djalma era rimasto colpito dall’acerba
bellezza della ragazza, una bellezza che stava sbocciando in
un fisico che si preannunciava favoloso. Per rassicurare i parenti aveva detto che la loro figliola, colla sua invidiabile linea, avrebbe potuto fare la modella e che l’avrebbe condotta
in Europa dove aveva dei contatti con alcune Case di moda.
In effetti Djalma non era stata mai bambina e già a dodici anni, quando rubava nei Supermercati, i suoi furti più
frequenti consistevano in calze, matite per gli occhi e
rossetti perché gia si sentiva una piccola donna. Hector l’aveva condotta in Europa, ma una volta giunti lì, non aveva
interpellata nessuna Casa di moda, ma aveva iniziato ad
insegnare alla ragazza il “gioco”. Dalle lezioni di Hector,
Djalma aveva appreso che l’elemento essenziale affinché il
“gioco” riuscisse era la capacita di sollecitare al massimo
l’interesse maschile, poi il resto sarebbe venuto da sé.
Evocare, in un’ombra
apposita, l’oggetto taciuto,
con parole allusive, mai
dirette, che si riducono a
silenzio uguale, comporta
tentativo vicino a creare
41
Quando ne era divenuta padrona ed aveva ottenuto i
primi risultati importanti, ella aveva talmente apprezzata la
tecnica trasmessale da Hector, che n’era stata entusiasta e
più del denaro che le faceva guadagnare (e che inviava per
la maggior parte alla famiglia) amava i preamboli e le manovre da cui era costituita. Il primo successo era coinciso
con la certezza di essere finalmente donna, una certezza che
le aveva fatto scoprire le infinite potenzialità della sua
femminilità. Ora, alla Fiera del Sabato, Djalma vola leggera
con movenze studiate e quando gli uomini si voltano a guardarla, sorride orgogliosa. Si ferma accanto a dei costumi da
bagno, prende il pezzo superiore di un policromo bikini e se
lo accosta strettamente al procace seno per controllare se le
coppe coincidano con le sue forme, poi si sposta rapidamente alla bancarella contigua e inforca un paio di lenti da
sole, voltandosi repentinamente a guardare un giovanotto
che si è fermato a fissarla con evidente interesse.
Djalma prosegue con passi leggeri e morbidi, ha plastiche movenze feline, va avanti tra la folla ed ha sul volto il
sorriso splendente della sua verde età e la gioia che si sprigiona dall’armoniosità della sua figura e danza fresca e graziosa. E procede luminosa senza che la domanda sul significato della sua vita e su ciò che le riserverà il futuro neanche la sfiori...
Brevi riflessioni sulla letteratura albanese
di Miranda Haxhia
Guardando il percorso della nascita della nostra
letteratura non è possibile fissare una data esatta dell’inizio
della scrittura in Albania, perché tutta la produzione letteraria che precede la metà del XVI secolo è andata dispersa.
Sappiamo che essa ha origini antiche ed è contrassegnata
dall’esistenza d’alcuni poemi epici popolari che inneggiano
agli eroi mitologici; la prima opera giunta fino ad oggi è “Il
messale” di Gjon Buzuk (1555), il cui originale si conserva
nella biblioteca del Vaticano. Fu Naim Frashëri (18461900) il vero fondatore della letteratura unitaria albanese,
oltre che patriota, maestro e apostolo del popolo albanese al
suo nascere come nazione. Scrittore ricco di una spiritualità
e religiosità straordinaria, Frashëri creò tutto un mondo
filosofico - religioso personale in cui il concetto del Cosmo
e di Dio si confondono nell’amore e nella bontà universali e
riescono a trasformarsi in altissima poesia. I versi patriottici
di questo gran poeta sono seguiti da quelli di Gjergj Fishta,
(1871-1940), tesi ad esaltare le azioni di difesa del territorio
albanese contro le ambizioni espansive degli Slavi del Sud.
Lasgush Poradeci (1899-1987) ci tramanda delle opere poetiche celestiali pregne di concetti filosofici e di tendenza
all’amore.
In quest’ultimo secolo è iniziata anche la prosa
moderna con narratori come Ernest Koliqi (1903-1975),
Mitrush Kuteli (1907-1967), Migjeni (1911-1938). Ismail
Kadarè (1936) con i suoi innumerevoli romanzi, tradotti in
tutto il mondo, affronta in profondità l’evoluzione dello spirito albanese ed i condizionamenti storici e sociali che l’hanno portato alla realtà attuale, rappresentando con la sua opera quasi l’intera enciclopedia del cammino del popolo d’Albania.
La storia della letteratura albanese e gli sviluppi
della nostra società questi dieci anni sono uno specchio
delle vere ricerche letterarie. Una letteratura condizionata
dal realismo socialista non poté mai essere libera nell’esprimere delle idee. Invece in questi dieci anni c’è stato un
flusso di libri, di autori che liberi da ogni censura hanno
pubblicato le loro opere letterarie. La letteratura albanese si
scrive dentro ai confini d’Albania. Essa è parte di una
letteratura con i suoi problemi e le sue caratteristiche, condizionata dai fattori che la portano al termine. Far parte di
un popolo con una lingua che si parla pochissimo nel mondo, porta la difficoltà di pubblicare la nostra letteratura
all’estero e confrontarci con altre culture, restando isolati
Riguardo ai racconti rari sono gli autori che ne
scrivono di belli. Esistono racconti in fase sperimentale, narrazioni tra poesia e prosa, che definiamo prose poetiche. Il
loro effetto, non è un gran che, perché quando manca la fabula, quando un autore scrive più per se stesso e non per i
lettori, allora cosa rimane dalle sue opere? Quasi niente.
La poesia è cambiata quasi completamente; prima
si scrivevano poemi, leggende in versi, le poesie erano pochissime. Ma condizionati dal tema, mancava veramente
una critica professionale.
Il calendario
del Convivio 2005
È in preparazione il “Calendario degli artisti e dei poeti del Convivio”, in elegante veste
editoriale, dedicato a pittori, scrittori e poeti del Convivio tra i più significativi del nostro tempo.
Il Calendario sarà stampato in 12 ff. +
copertina con stampa interamente in quadricromia
ft. 30x42. Per ogni mese saranno inserite la foto a
colori di un’opera di pittura e una poesia, con relativi
cenni o breve nota critica sugli autori. Il contributo
richiesto per ogni calendario è di euro 4,80 per copia
per una richiesta minima di 25 copie. Oltre le 25 il
contributo è di euro 4,00 ciascuna.
Le adesioni e tutto il materiale fotografico
e/o cartaceo, con l’invio della quota di adesione da
versare sul CCP n° 12939971, intestato a: Conti
Vincenza, via Pietramarina 66, 95012 Castiglione di
Sicilia – CT (si prega di allegare fotocopia di ricevuta
di versamento effettuato), dovranno pervenire entro il
15 luglio 2004 presso la sede della delegazione del
Convivio di Messina: Flavia Vizzari via G. Battista
Caruso n° 3, 98149 Messina,.
Le prime adesioni avranno la possibilità di
scelta del mese in cui apparire. Nei casi in cui è prevista la consegna dei calendari non personalmente all’artista inserito, l’Associazione può inviare su richiesta le copie dei 25 calendari per posta, con pagamento
contrassegno a carico dell’artista stesso. Per ulteriori
chiarimenti e informazioni si prega contattare la
delegata Flavia Vizzari: tel. 090-671391- cell. 3289180850 – e-mail: [email protected], oppure la sede del Convivio: tel. 0942-986036 – cell.
3331794694, e-mail [email protected]
42
Lingua Portoghese
Poesia Straniera
Duros versos al Pai
de Condorcet Aranha
Versi duri al Padre
Trad. di Angelo Manitta
A grande incerteza
di Luna Fernandes
Meus versos podem ser duros,
mas são a pura expressão,
dos homens que, já maduros,
pelo sim ou pelo não,
estão vivendo o futuro.
Cada lágrima escorrida,
nas fundas rugas da face,
é só lembrança da vida,
que embora no tempo passe,
jamais ficou esquecida.
Assim poesias brotam,
surgindo das emoções,
de verdades abarrotam,
o peito, com as sensações,
sofridas, que não se esgotam.
Porém não posso esconder,
entre as sombras do destino,
por onde andei ao viver.
Porque sei que o sol a pino,
à tarde, há de morrer.
Foram tantos meus amores,
tanta fé para abrigar,
que agora entendo que as dores,
me levaram a duvidar,
dos tais sagrados "senhores".
Me perdoem, se existirem,
pois não hei de ficar mudo.
Até, se me permitirem,
acho mesmo um absurdo,
se, pra sofrer que se vem.
E agora que a noite cai,
sobre o sonho derradeiro,
inseguro aqui se vai,
esse homem verdadeiro,
quem sabe, se unir ao Pai?
I miei versi possono sembrare duri,
ma sono l’espressione pura
degli uomini che, già maturi
per il sì o per il no,
stanno vivendo il futuro.
Ogni lacrima scorsa
nelle profonde rughe del viso,
è solo memoria della vita,
che benché nel tempo passa,
non è stata mai dimenticata.
Così germogliano delle poesie,
facendo sorgere delle emozioni,
delle verità riempiono
il petto, con le sensazioni
sofferte, che non si esauriscono.
Però non posso nascondere,
fra le ombre del destino,
dove sono andato a vivere.
Perché so che il sole allo zenit,
di pomeriggio, deve morire.
Sono stati tanti i miei amori,
tanta fede per avere un riparo,
da capire ora che i dolori,
mi hanno spinto a dubitare,
di tali sacri “signori”.
Perdonami, se esisti,
perché non posso restar muto
fino a che, se mi permetti,
io trovo un’assurdità,
se sei venuto per soffrire.
Ora che cade la notte,
sull’ultimo sogno,
insicuro di qui va via,
quest’uomo vero,
che, chissà, si unisce al Padre?
O que existe, afinal, depois da vida?
O céu ?... O purgatório?... O nada?...
Uma outra vida, longa e atribulada
como essa que acabou
[de ser vivida?...
Capuz
Cappuccio
Trad. di Angelo Di Mauro
di Gerson Valle
Às vezes,
passeando no tempo
de meus jardins anacrônicos,
avisto uma gata miando
no mel da voz e postura.
Seu passo algodoado
parece coberto por capa e capuz,
protegida da violência
de nossas cidades densas.
Seus olhos observam perigos externos,
mas quieta e meiga
se deixa
roçar entre flores fora do tempo,
para onde eu também me transponho,
sem que o resto do mundo apareça...
Qualche volta,
passeggiando nel tempo
dei miei giardini anacronici,
vedo una gatta che miagola
nella dolcezza di voce e posizione.
Il suo passo di cotone
sembra coperto da mantello e cappuccio,
protetto dalla violenza
delle nostre dense città.
I suoi occhi osservano pericoli esterni,
ma quieta e affettuosa
si lascia
sfiorare tra fiori fuori del tempo,
dove io tuttavia mi traspongo,
senza che il resto del mondo appaia...
43
E o que è dado levar, na retirada ?...
A semente plantada?... A flor colhida?...
A chama da paixão interrompida?...
A pauta da canção inacabada?...
Para onde... E por que... E como...
[E quando...
Vivemos, há milênios, perguntando
e ninguém nos responde com clareza...
Tolos e sábios, crédulos e ateus,
por mais que se confie e crea em Deus,
Todos temos, no fundo, essa incerteza !...
La grande incertezza
Trad. di Angelo Manitta
Che cosa esiste, in fine, dopo la vita?
Il cielo?... Il purgatorio?... Il nulla?...
Un’altra vita, lunga e tribolata
come questa che è sul finire
[di essere vissuta?...
E ciò che è dato prendere, nella ritirata?
Il seme piantato?... Il fiore scelto?...
La fiamma della passione sospesa?...
Il rigo della canzone non finita?...
Dove... E perché... E come...
[E quando...
Siamo vissuti, da millenni, chiedendo
e nessuno ci risponde con chiarezza...
Sciocchi e savi, creduloni ed atei
per quanto si confidi e creda in Dio,
tutti hanno, in fondo, quest’incertezza!
Cinzia Civardi Foschia
(olio su tela, cm 50x70)
Fábio Silva Gomes,
Cântico celeste, poemas
religiosos (Brasile 2001)
Fabio Silva
Gomes, giovanissimo
autore
brasiliano,
pubblica
questa
silloge
di
poesie
all’età di 13
anni. È nato
infatti il 2
febbraio
1988. In quest’opera dal titolo Canto
Celeste egli eleva quasi un salmo alla
vita. La silloge, in cui l’autore si pone
entro la sfera ecclesiastica, quasi creatore di salmi, è certo paradigmatica. Ogni lirica e ogni verso rappresentano un
io profondamente cattolico nell’ambito
di una struttura sociale ben definita. Il
quadro delle sensazioni in questa raccolta di liriche è quasi una tela rivelatrice di ogni evento principale del cattolicesimo, onde il Natale è la molla referenziale. A questa festività, infatti, vista sotto mille aspetti, mille luci e mille
colori, sono dedicate la più parte delle
poesie. Canto celeste è l’inno di un autore alimentato ogni giorno dal contatto
con la propria immaginifica visione mitico-mistica, filtrata attraverso il cristianesimo. La presenza della religiosità
nella quotidianità appare chiara.
Leonilda Hilgenberg Justus,
Amor
Pedra Sem Fendas (Ponta Grossa, Brasile 2002). «Leonilda, na talentosa
abrangência da poesia, não esqueceu um
capítulo sobre o trevo. Mas o que significa, para mim, o trevo na poesia? As
antologias e a gramática poéticas o relegaram para o plano do esquecimento.
No entanto, para mim, se a lira é o
símbolo da música poética, sem dúvida,
podemos ter o trevo como o símbolo
flor da poesia! E, mais ainda, o trevo
branco simbolizando a pureza imaculada da Poesia! E são todos brancos, na
pintura poética, os trevos de Leonilda
Hilgenberg Justus! Empolguei-me brasileiramente com «Na Escola de Samba, / quantas raças diferentes / em Fratem idade...» (J. Caruso Madalena).
Amor, palavra bela, sentimento
Difícil controlar cada emoção…
Nasce dentro de nós, num bom
[momento
Chama que nos aquece o coração!
Tal como astro de luz no firmamento
É um mundo a girar
[em nossa mão
Aquece como a lava dum vulcão
Sabe esquecer a dor e o sofrimento!
O amor puro vive dentro de nós
Tal como um rio que corre para foz
E que sai sempre puro da nascente
Renasce sempre em horas de carinho
Com asas mais douradas faz seu ninho
Voos de primavera mais ardente!
Fernando Fabio Fiorese Furtado,
Amore
Dicionário minimo, (Funalfa, Brasile
2003). «Das belas imagens evocadas,
boa parte se vincula à interpretação
entre a linguagem e o espaço circunstante, bem como à rasura biográfica da
infância, núcleoda oficina vivencial do
poeta» (Iacyr Anderson Freitas).
Iacyr Anderson Freitas,
Trinca dos Traídos, (Funalfa, Brasile
2003). «È curioso que, num momento
em que apela, uma certa linhagem de
prosadores, para a linguagem neonaturalista, quase jornalística, ou até mesmo
mimética, pseudorealista, Iacyr venha se
apresentar vestito numa roupagem clássica, em tudo estranha e em tudo próxima» (Luiz Ruffato).
Qualcuno che ha solo fatto bene
Trad. di Angelo Manitta
Alguém que só fazia o bem
di Fábio Silva Gomes
Io mi ricordo di qualcuno
Che ha solo fatto il bene
Era un signore di lontano
Che per tutto sentiva amore
E ogni giorno che albeggiava
Tutti vedevano la sua felicità
Quello sì, non sapeva
Ciò che era sentire dolore
Che si prendeva cura di un essere
Che quasi non poteva essere visto
Molto bianca, la puoi credere
Rosa Bambina
Che crebbe, divenne adulta
Tutti vedevano la sua lotta
Migliorava il mondo, con poco
In una vita che insegna
Questa rosa ancora esiste
Io sono allegro, io sono triste
Ben fortunati, che ha visto
Rosa Bianca, divina.
Lembro-me de alguém
Que só fazia o bem
Era um senhor do além
Mas por tudo sentia amor
Que todo dia que amanhecia
Todos viam sua alegria
Aquele sim, não sabia
O que era sentir uma dor
Que cuidava de um ser
Que quase não podia se ver
Muito branca, podes crer
Rosa Menina
Que cresceu, ficou adulta
Todos viam sua luta
Melhorava o mundo, sem multa
Numa vida que ensina
Essa rosa ainda existe
Estou alegre, estou triste
Bem-aventurados, quem a viste
Rosa Branca, divina.
44
di Maria José Fraqueza
Trad. di Angelo Manitta
Amore, bella parola, sentimento
difficile controllare ogni emozione...
Nasce dentro di noi, un buon
[momento
fiamma che ci scalda il cuore!
Come astro di luce nel firmamento
è un mondo che, girando
[nella nostra mano
scalda come la lava di un vulcano,
sa dimenticare il dolore e la sofferenza!
L’amore vive dentro di noi
come un fiume che scorre verso la foce
e che nasce sempre puro dalla sorgente
rinasce sempre nelle ore di dolcezza
con ali molto dorate fa il suo nido
voli di primavera molto ardente!
Emma Villarreal (Messico),
Iglesia, (matita cm 55x100
Lingua Spagnolo
Salvador Garcia
Sánchez, Apuntes II
di Angelo Manitta
Apuntes (Las Palmas de Gran
Canaria, Spagna 2003), cioè appunti, di
Salvador Sánchez è quasi un taccuino
di viaggio, un diario in cui appare
l’uomo con i suoi pensieri e le sue riflessioni, pur nella descrizione di una
bellezza naturale e di un paesaggio fantastico: quello delle isole Canarie, quasi poggiate sull’oceano Atlantico, con
la loro bellezza, ma pure con le sue
modifiche paesaggistiche apportate dalla civiltà dei consumi. Si tratta di una
seconda edizione, dopo quarant’anni,
di un precedente taccuino condotto sul
filo del ricordo, frutto di letture e soprattutto di una capacità creativa. L’opera è stata curata dai figli dell’autore,
Yuri e Isora, ed è corredata di un prologo ed un epilogo, l’uno di Teodoro
Santana e l’altro di Gustavo Navarro.
Attraverso queste riflessioni, quasi poesie, l’autore ci fa percepire, trascinandoci con sé, immagini che scaturiscono dal profondo, eternizzando sensazioni concrete per trasformarle in
simboli. Si è cioè di fronte ad una poesia essenziale, in cui la vita dell’autore si riflette nel movimento delle
cose. I versi rispondono ad una realtà
esteriore, con cui il poeta si identifica e
con la quale ci possiamo identificare.
Si tratta, infatti, di una poesia corale ed
umana. “Apuntes” presenta una percezione sensoriale trasparente. Ogni poesia è una finestra aperta sulla realtà dell’essere isolani, di trovarsi in una situazione particolare dell’essere umano,
stabilendo un’unione indissolubile tra
l’oggetto che si descrive e il soggetto
che percepisce l’emozione. Una poesia
che viene dal cuore, dall’anima di un
uomo che si riconosce nella sua terra, e
nella sua cultura.
di Piero Juvara
Morire senza storia
senza nemmeno un cane
che scriva “ALLA MEMORIA”
dell’oggi e dei domani
Morire senza un fato
in un giorno soleggiato.
Morire senza l’attesa
d’entrare in una chiesa,
Morire come si muore
in genere da sempre:
Morire come muore
chi è normale
con la coscienza d’essere molecola
CHE NON HA CERTEZZA, D’ESSERE
IMMORTALE.
Bailarina
Para Estrella en pleno ensayo
di Carlos Chacón Zaldivar
Que tibio vendaval mueve
su figura en la penumbra
ya gira
todo se alumbra
como sueño
en cristal
leve.
Torna el paso brusco
y mueve
la cintura de amapola.
Tras el espejo se inmola
sobre el azul que la cubre
si el dibujo la descubre
pálida
frente al mar
sola.
Ode alla Ceiba
di Carlos Chacón Zaldivar
Un piacere cosmico
mi sorprende nel tuo abbraccio
quando emergi dalla nebbia
che invoco e tutto si fa riposo.
Pura diviene la solitudine che mi abita
se al tuo fianco una folla di serrate mani
spogliano con il tamburo
le notti, i giorni, le ore
e la sua pelle si fa pietra, luce, spasimo
ridente battere di ciglia, forse vento
che scardina portoni
e gli schiavi entrano in quella intimità.
Un cosmico piacere
mi sorprende nel tuo abbraccio
ogni gesto, ogni grido, ogni movimento
coniugano timore, attesa, presenza
folla che in agguato mi sorprende
sopra il sonnolento verde
al quale sempre ritorno
poiché la tua parola spezza l’abitudine
e riprendo dal tempo il mio nutrimento.
Morire senza storia
45
Morirse sin historia
Trad. spagnola di Riccardo D’Angelo
Morirse sin historia
Ni siquiera un perro
qué escriba “A LA MEMORIA"
de hoy y del futuro
Morirse sin el hado
de un día soleado.
Morirse sin la espera
de verse llevado a la iglesia,
Morirse como se muere
En general desde siempre:
Morirse como se muere
quienes es normal
teniendo conciencia de ser molécula
QUÉ NO TIENE CERTEZA DE SER
INMORTAL.
Ballerina
Per Stella durante il saggio
Traduzione di Angelo Manitta
Che tiepido uragano muove
la sua immagine nella penombra
già gira
tutto si illumina
come sogno
in cristallo
lieve.
Torna il passo brusco
e muove
la cintura di papavero.
Dietro lo specchio si immola
Sull’azzurro che la copre
se il disegno la scopre
pallida
di fronte al mare
sola.
Cardón (Euphorbia Canariensis)
di Salvador Garcia Sánchez
Órgano vegetal
de tierras bajas
y climas insulares,
airoso, esbelto,
tupido, impenetrable,
fantasmagórico.
Casi irreal,
geométrico,
paciente, sufridor,
ahorrativo, coronado.
Fuente, refugio
de vita
imperceptible.
Maria Stella Brancatisano
Per Safiya
A Safiya
(donna nigeriana condannata a morte)
di Maria Stella Brancatisano
(mujer nigeriana condenada a muerte)
traduzione spagnola di Francisco Álvarez Velasco
Ti sei annidata nel mio grembo, bambina.
Con violenza hai fecondato il mio grembo già
di madre.
Te has acurrucado en mi seno, niña.
Con violencia has fecundado mi seno ya
de madre.
Sono tante le prigioni del mio cuore. Sono stata
sempre violata. Sono donna e musulmana. Vivo da
sempre in prigioni senza sbarre.
Son tantas las cárceles de mi corazón. Fui
siempre violada. Soy mujer y musulmana. Vivo desde
siempre en cárcel sin barrotes.
Attendo di essere giustiziata.
Aguardo mi ajusticiamiento.
Accendete per me una candela, voi dell’occidente,
fate pure una fiaccolata.
Encended por mí una candela, vosotros los de Occidente,
haced también una procesión con antorchas.
La vita, spesso, dopo breve riverbero si spegne...!
Simile a candela...! Conta poco la vita di una donna
se musulmana...! Accendete ancora per me una candela.
Vi prego, fate ancora per me
una fiaccolata...!
¡La vida, con frecuencia, tras de un breve relumbrar se apaga...!
¡Semejante a la candela...! ¡Vale poco la vida de una mujer
si es musulmana...! Encended de nuevo por mí una candela.
Os lo ruego, ¡haced de nuevo por mí
una procesión con antorchas...!
Guardate...
Mirad...
Sul viso porto ancora i segni della mia
vita violata...!
Innalzate, per me, ancora una preghiera...!
¡Llevo todavía en el rostro las señales
de mi vida violada...!
¡Elevad, por mí, de nuevo una plegaria!
New York - 11 sett. 2001
Nueva York – 11-S
di Maria Stella Brancatisano
traduzione spagnola di Francisco Álvarez Velasco
Contavamo i dollari, quel giorno,
a New York, seguivano il Nasdaq e
il Daw jones alla borsa e poi all’improvviso
si udì: “Trac... splash... Aaaaaaaahhh ...!
Un enorme boato e le Twin Towers l’aereo
sventrò e MANHATTAN crollò... ! ... SEIMILA morti
si contarono tra macerie e rovine. Non tutti
hanno un volto ancora.
New York ora è polvere e morte, gas
purulento e fuoco, detriti e parole, tante
parole e fiori e bare e bare, troppe
bare e tante preghiere.
PERCHÈ?... ci si chiede... ora
“Io sono americano”... ripetono bianchi,
cinesi, ebrei e neri per convincersi di esistere
e celebrare la potenza d’America
e la sua unità. Solo i Talebani odiano,
solo Bin Laden ora
viene definito: il diavolo...!
Ma tu, New York, eri troppo grande,
troppo ricca e le tue torri ed i tuoi grattacieli
troppo alti e disumani. Forse per questo
quell’11 settembre 2001 crollarono...
Contábamos los dólares, ese día,
en Nueva York, segíamos el Nasdaq y
el Daw Jones en la bolsa y luego de improviso
se oyó ¡Trac ... splash... Aaaaaaaahhh ...!
Un enorme bramido y el avión reventó las Torres Gemelas
y MANHATTAN se desplomó...! ...Seis mil muertos
se contaron entre los escombros y ruinas. No todos
tienen rostro todavía.
Nueva York ahora es muerte, gas
purulento y fuego, destrucción y palabras, tantas
palabras y flores y ataúdes y ataúdes, demasiados
ataúdes y tantas plegarias.
¿POR QUÉ?... alguien pregunta aquí... o bien
«Yo soy americano» ...repiten blancos,
chinos, hebreos y negros para convencerse de que existen
y celebrar el poderío de América
y su unidad. Sólo los talibanes odian,
sólo Bin Laden ahora
queda definido: ¡el diablo!
Pero tú, Nueva York, eres demasiado grande,
demasiado rica y tus torres y rascacielos
demasiado altos e inhumanos. Quizás por ello
aquel 11 de septiembre se derrumbaron.
Ma oggi tutti gridiamo: ...FERMATEVI...!
PACE...! PACE ...! PACE...!
Pero hoy todos gritamos: ¡...DETENEOS...!
¡PAZ...! ¡PAZ...! ¡PAZ...!
46
Lingua Francese
A mio Padre
Jean Sarraméa
Ô Bigorro
(à mis peros d’aou pelous gris!)
testo originale in dialetto occitanico-bigordano
Ô Bigorro, beroyo patrio daou me coo, bouy essaya,
louen de tu, touchtem fidelo, de sounya a lous bouna gens
d’aou passat. Ben sabes pla qu’aymi la pouesio
e que ma pensado es messatgero de beütat:
brabos higassès, cebassès, hourmatjayrès;
praoubes gaudinès, brouto-cardoux, crabès
carbouès, milhassès, castagnarès, tisnès;
ô majès aulhès, burrayrès, oussatès!
Churrous claouétous, escloupès, bencillès
et tilhous bouscassès, bardissès et loudès ;
prégouns courdelayrès, saoum atès, coursiès;
et poulit berretès, fayanssayrès, toupiès;
noublesso de menusès et tisterayrès;
arrebourritz camparoulès, et cassayrès,
pescayrès, maquinhous, tiro-bi, carretés;
glouero aou lurous cantadous, dansayrès.
2003
di Jean Mauget
Con il sudore della tua fronte hai costruito la tua vita,
senza perdere tempo, lavoro di notte di giorno,
vacanze poche, fino alla tua agonia,
il bel lavoro per te valorizzava l’amore.
L’altro secolo ti ha visto rafforzare la bella Opera
quella dei Compagni che conoscono il tratto,
il sapere ancestrale, del Grande Maestro al Manovale,
che senza pretesa tu ci comunicavi.
I drammi della storia hanno rotto il tuo bel sogno
sotto i colori della Francia, valorosamente in color kaki,
difendendo il nostro onore hai versato la tua linfa,
senza predire che invano sarebbe la tua devozione.
Ô Bigorre2! (à mes parents aux cheveux gris)
Testo francese de Jean Sarraméa
Per molto tempo privato di te, vivendo nell’ignoranza,
non abbiamo potuto salvare le esperienze degli avi.
Questa guerra strana ha rovinato la nostra infanzia,
decimato la famiglia e fatto piangere i nostri occhi.
Ô Bigorre, belle patrie de mon coeur, je vais essayer,
loin de toi, toujours fidèle, de songer aux braves gens
du passé. Tu sais bien que j’aime la poésie
et que ma pensée est messagère de beauté:
braves producteurs de figues, d’oignons, de fromages;
pauvres mangeurs de maïs, «broute-chardons», chevriers;
charbonniers, mangeurs de millet, de chataignes, tisserands;
fiers bergers, beurriers, chasseurs d’ours!
Petits fabricants de clous, de sabots; ramasseurs d’osier
robustes bucherons, tuiliers et ardoisiers; trapus étaient
les conducteurs d’attelages, de bêtes de somme et coursiers
jolis fabricants de bérets, de faïence, de poteries;
noblesse des menuisiers et des vanniers,
rusés ramasseurs de champignons, chasseurs,
pêcheurs, maquignons, vignerons, charretiers
gloire à ces lurons de chanteurs et de danseurs!
Dopo sette anni persi, di ritorno dall’esercito,
una medaglia in tasca, per ringraziamento,
bisognò ricostruire una vita tratteggiata,
senza nessun conforto da questo governo.
Oggi, non sei più, il rancore mi tormenta.
Chi potrebbe vendicarci? Satana, questo iettatore,
insegue ciecamente la sua opera demente,
e sotto altri cieli semina spavento e morte.
In ricordi felici, con perseveranza,
tu hai raccolto per noi, proprio lungo la via,
i colori dell’arcobaleno e i semi di speranza
per meglio rifiorire il nostro intimo giardino.
Oh Bigorre!
(ai miei genitori dai capelli grigi)
traduzione dal francese di Angelo Manitta
Hai meritato bene la nostra riconoscenza,
noi ti seguiamo e sfidiamo il destino.
Oh Bigorre, bella patria del mio cuore, lontano da te,
sempre fedele, cerco di pensare alle brave persone
del passato. Sai bene che amo la poesia e che il mio
pensiero è messaggero di bellezza: Bravi produttori
di fichi, di cipolle, di formaggi;
poveri mangiatori di mais, “bruca cardi”, caprai;
carbonai, mangiatori di miglio, di castagne, tessitori,
fieri pastori, fabbricanti di burro, cacciatori di orsi!
Piccoli fabbricanti di chiodi, di zoccoli, raccoglitori di vimini,
robusti taglialegna, costruttori di tegole e ardesie;
tarchiati erano i conduttori di gioghi di bestie da soma
e da corsa, bravi fabbricanti di baschi, di maiolica,
di vasellami; nobiltà di falegnami e di cestai furbi
raccoglitori di funghi, cacciatori,
pescatori, mercanti di cavalli, vignaioli, carrettieri,
gloria a questi buontemponi di cantanti e danzatori!
Jean Mauget, poeta francese è il fondatore di “Le
funambule”, Gazzetta Poetica pubblicata dall’Associazione “Echos de Venus”, di cui è anche presidente.
Proprio dalle colonne di questa rivista è tratta la poesia “A mio padre”. Tra i collaboratori della rivista figurano: Jean-Noël Nicolau, Nicolle Chedeville, Majo
Daffix, Régis Bonicatto, Robert Nicolleau, Elisabeth
Nicolau, Nadia Bobet, Liliane Naya, Marie Dupuy,
Jean-Marie Monfeuillard, Andrée Bonicatto, Simone
Roudergue, Mohamed Boutada.
2
Bigorre: regione francese del Dipartimento degli Alti Pirenei,
con le città di Tarbes e Lourdes
47
De son destrier, il descend
e de Plume s’approche lentement.
Il l’interpelle doucement :
«Plume, ma douce amie...».
«Jocrisse, mon tendre...».
Leurs paroles vont se suspendre
s’envoler, ils restent interdits.
Ils se sont enlacés
et couvrent leurs fronts de baisers.
«Jocrisse, te voilà revenu,
ton retour je n’espérais plus.
De toi, qu’est-il advenu
durant tout ce temps dépourvu
de toi, de la moindre nouvelle?»
Plume s’assied et lui près d’elle.
Il commence sa plaidoirie :
«Après avoir tout vendu
comme il était convenu
je revenais du marché
quand perdu dans mes rêveries
et mes projets d’hyménée
qu’avec toi je voulais sceller
je rencontrais une jeune fille en pleurs...
Pascale Bélanger
La Jocrisse épopée
di Angelo Manitta
La Jocrisse epopée (Editions du Pantheon,
Parigi 2004), cioè L’epopea di Jocrisse, è un
romanzo moderno e antico nello stesso tempo,
un romanzo che corre
tra simbolismo e passionalità, ma che affonda le sue radici nel
Medioevo. Infatti l’opera è scritta in poesia
con una rima ricorrente
e frenetica, baciata e
alternata, ma soprattutto ogni verso ha una
cadenza ed una musicalità affascinante e accattivante, sullo stile di
uno dei maggiori poeti del Medioevo, Chrétien de Troyes.
Pascale Bélanger con il suo romanzo tiene il lettore con il
fiato sospeso, dal momento in cui la narrazione corre tra avventure ed amori, tra mostri e desiderio di libertà, tra desiderio di vita e di aiutare gli altri, così come era nello spirito
della cavalleria medievale, e come è nello spirito dell’uomo
contemporaneo. Nel romanzo reale e favolistico si intrecciano, la passione e la ragione si incontrano e si scontrano, il paesaggio affascinante e il mondo della paura si toccano, personaggi strani ed eroi coraggiosi si confrontano tra loro, belle dame si ingelosiscono. I personaggi acquisiscono un valore simbolico e rappresentano la lotta tra il bene e il male.
La trama racconta come il protagonista Jocrisse,
dopo un’infanzia un po’ triste, costretto ad allontanarsi dalla famiglia, diventato cavaliere, si ferma in un castello. Si
tratta del castello della bella Plume, di cui si innamora e alla quale promette di sposarla, promettendo che sarebbe ben
presto ritornato. Ma come ogni cavaliere medievale, il suo
desiderio è di portare aiuto agli indifesi. L’occasione non
manca e Jocrisse, vinto dal vortice delle avventure, dimentica quasi la promessa, cosi come Ivano, il perfetto cavaliere del romanzo di Chrétien de Troyes, dimentica la promessa che aveva fatto alla moglie, la dama di Landuc. Intanto Jocrisse cerca ed affronta Arcande, quasi simbolo del
male, il malvagio e il cattivo che deve essere sconfitto.
Questi aveva rapito e violentato la bella Azurée, la ragazza
prigioniera del male. Il cavaliere in un crudele duello, combattuto con tutte le forze, sconfigge Arcande: il male viene
vinto, la ragazza liberata. Ritorna allora il pensiero di Plume, rimasta nel suo castello a lamentare con rabbia e disperazione la lontananza dell’amato. Giunge finalmente il giorno del ritorno. Jocrisse chiede perdono alla sua donna e
questa lo perdona, perché capisce che la sua impresa era
stata condotta per il trionfo del bene e non del male. Jocrisse, abbracciata la sua dama, le racconta le sue avventure, che è bene leggere anche nel testo originale, per la
profondità emotiva che l’autrice sa trasmettere al lettore:
Dal suo destriero, scende
e a Plume si avvicina lentamente.
Egli le parla dolcemente:
«Plume, mia dolce amica...»
«Jocrisse, mio tenero...».
Le loro parole rimangono sospese
volano via, restano a metà.
Si sono intrecciati
e coprono di baci le loro fronti.
«Jocrisse, eccoti ritornato,
il tuo ritorno non speravo più.
Di te, che cosa è accaduto
durante questo tempo che mi ha privato
di te, della pur minima novella?».
Plume si siede ed egli vicino a lei.
Lui comincia il suo discorso:
«Dopo aver tutto venduto
siccome era convenuto
ritornavo dal mercato
quando perso nelle mie fantasticherie
e nei miei progetti di matrimonio
che con te volevo concludere
incontrai un ragazza in lacrime...
Pascal Bélanger si presenta quale trovatore che ci
mette a contatto con un mondo fantastico e meraviglioso.
L’autrice, nata nel 1969, ha già pubblicato la raccolta “Mots
en echo”, con cui ha ottenuto numerosi premi, in concorsi
letterari. Tra gli altri ha ottenuto il primo premio nel 2002
per la novella ai “Jeux Floraux du Béarn” e il primo premio
per il racconto in lingua francese al Concorso Internazionale il Convivio nel 2003.
La pace universale è la
migliore tra le cose
che concorrono alla
nostra felicità.
(D
48
Ali hi i)
Adrien Cannamela
Denise Bernhardt
Respirations I Poèmes
L’âme nue
di Angelo Manitta
di Angelo Manitta
Si tratta di una raccolta di
poesie di ampio respiro, sia
sotto l’aspetto metrico-formale che contenutistico.
L’autore infatti nella silloge
di Poesie Respirations I
Poèmes (Collection Rouge
Gorge, Parigi 2004) tratta
una vasta tematica sotto una
forma versificatoria tradizionale, ma non pesante. Il
dolore del mondo, che passa
indifferente, è una delle situazioni maggiormente cantate tra i versi. E l’uomo che
cos’è in questo percorso che
sembra ormai giungere alla fine? Non esistono più sogni.
La distruzione è incombente, ma Adrien Cannamela non è
un disfattista, vede con realismo i problemi dell’umanità, in
cui non manca la gioia e la felicità. Interessante da questo
punto di vista è la posizione nei confronti della guerra in
Iraq. Una punta di ribellione ed un anelito di libertà contro
tutte le oppressioni. Non bisogna essere schiavi e non gli
importa quando Bush sceglie una sua errata via. Nelle poesie appare anche un’ampia dose di ricordo e di emozioni. Il
passato emerge come parte del presente, quasi visione dorata di sentimenti ed emozioni. Intermediaria in ciò è la parola, che lascia comunicare ed anche protestare, messaggio che
colpisce l’uomo. Ma vi si riscontra pure un elevato lirismo
che emerge in alcune poesie: «Nella notte io volevo scoprire le stelle, ritrovare nel cielo ciò che amavo di bello, ma
oggi ecco che si copre di viole. Dimmi, mio cuore, dove
sono i miei occhi?». Ma è nella poesia intimistica che l’autore raggiunge il massimo dell’emozione, come in Nadia.
Si tratta di una silloge di
poesie della poetessa francese
Denise Barnhardt, nata a
Cannes, che negli ultimi anni
si è distinta in numerosi concorsi letterari. Ultimamente è
stata segnalata al premio
Publio Virgilio Marone, promosso dall’Accademia Internazionale Il Convivio, la cui
premiazione si è svolta nella
sala del Cenacolo a Roma,
proprio con quest’opera pubblicata da Collection Florilège Les Presses Litteraires
(Francia 2004). Il volume ha
la prefazione di Claude Luezior, di cui si riportano i passi
essenziali:
«Con le sue armi fragili, Denise Bernhardt pone il
suo sguardo sugli esseri, l’ombra di un desiderio, le lacrime
di un bacio. Aspetta, perduta, un volo di uccelli bianchi che
attraversano il silenzio. Approccio delicato alla vita dove si
svolgono, in aurore successive, questi istanti a bordo dell’abisso. Solo la desolazione del poeta, solo la sua fragilità
apparente e la sua squisita semplicità di fronte alle linfe dimenticate ed al sangue risorto sono i garanti del volo immobile cosparso di chimere: bella definizione dell’istante
creatore. Il poeta è innanzitutto artigiano. Lavora le sue vetrate, lavora la materia prima del linguaggio, traccia le sue
linee ed i suoi ritmi. Denise Bernhardt raccoglie nella maniera più elegante le sue parole-crisalidi. Umile approccio
delle mani sulla carta, nella penombra dell’anima. Silenziosamente, esse tessono la bellezza in filigrane.
«Ma le parole sono materia fissile. Si strofinano le
une alle altre, si infiammano, esplodono in covoni di immagini; fondono i loro raggi, irradiano colori che nessun vetro
è stato mai capace di produrre. La luce poetica emerge: magia di una creazione nuova. Come un bambino che ha dato
fuoco alla paglia, il poeta è preso allora dall’effervescenza
delle sue proprie intuizioni...
«Siamo attirati spesso dall’oggetto che si chiama libro, la sua copertina, dalle linee appuntate sul suo dorso.
Percorriamo queste pagine per scoprire l’anima della scrittrice, aperta e calda. Per ammirare non ciò che è tracciato,
ma il modo con cui la poetessa l’esprime. L’importante non
è che la ninfea sia reale, ma il modo con cui il pittore la rappresenta sulla tela.
«Ciò significa che ogni libro ha una storia, un tema,
un significato nel percorso dello scrittore. Qui, Denise Bernhardt rievoca in un infinito pudore l’amore degli alti tradimenti e delle ferite gemelle. Amore straziato, dubbi, indicibile cesura. Scrivere al di là dell’arte di scrivere non è mai
un atto gratuito. Questo può essere un modo per cicatrizzare
tutto in fondo a se stessi, per coltivare questa tenerezza
immensa, indelebile, e che è proprio dell’essere.
«Sì, la poesia è quest’arma fragile per la grande battaglia: quella della vita».
Mi ricordo di te, Nadia, bella italiana
Il tuo giovane corpo vibrante come arpa eolia,
Il tuo rifiuto, poi il tuo ‘sì’ al mio desiderio ardente
Quando apprezzavo la tua lingua tra i tuoi denti.
Mordevo a gara il tuo bel frutto di gioventù
Ghermito in un torrente di vertigine e di ebbrezza
Per andare ad annegarmi nel lago esaltante
Dei tuoi seni pienamente colmi di linfa e primavera!
Mi ricordo di te, Nadia, i nostri incontri,
Slanci incandescenti dei nostri diciassette anni pazzi,
I nostri progetti insensati ed i nostri scoppi di riso,
Questa gioiosa fede che sapeva di delirio.
La tua pelle, profumo perlato come un campo di lavanda,
Il tuo soffio un dolce brivido sgranato sulla landa
I tuoi occhi di un blu profondo sul mare di cobalto
Le tue labbra di ciliegia su cui il tuo dito faceva “Alt”.
Questa sera alla candela e sessant’anni dopo,
Commosso, confusamente, ti sento qua vicino:
Nei fogli ormai sgualciti di un vecchio taccuino
Il tuo viso affascinante non ha preso una ruga...
49
La romance
di Paul Moulinier (testo francese)
La cançon
La romanza
di Paul Moulinier (testo provenzale)
Traduzione di Angelo Manitta
La romance que j’ai chantée
Est la romance d’un homme,
D’un homme qui pleurait.
Et la chanson est restée
Dans ma vie
Sans pouvoir l’oublier.
La cançon qu’ai cantada
Es la cançon d’un óme,
D’un óme que plorava.
E la cançon es demorada
Dins ma vida
Sens la porre oblida.
La romanza che ho cantato
È la romanza di un uomo,
Di un uomo che piangeva.
E la canzone è rimasta
Nella mia vita
Senza poterla dimenticare.
La romance que j’ai chantée
Est la romance d’un homme,
D’un homme qui jouait.
Et la romance, aujourd’hui, encore
Comme pour lui, provoque le rire,
Provoque le rire et le jeu.
La cançon qu’ai cantada
Es la cançon d’un óme
D’un óme que jogava.
E la cançon, duei, encara
Comò el se ris,
Se ris e joga.
La romanza che ho cantato
È la romanza di un uomo,
Di un uomo che giocava.
E la romanza, oggi, ancora
Come per lui, provoca il riso,
Provoca il riso e il gioco.
La romance que j’ai chantée
Est la romance d’un homme,
D’un homme très amoureux
Amoureux de la vie,
Une vie de rires,
Une vie de pleurs.
La cançon qu’ai cantada
Es la cançon d’un óme
D’un òme tot amoros
Amoros de la vida.
Coma ela se ris,
Coma ela se plora.
La romanza che ho cantato
È la romanza di un uomo,
Di un uomo molto innamorato
Innamorato della vita,
Una vita di risa,
Una vita di lacrime.
La romance que j’ai chantée
Est la romance amoureuse,
Amoureuse de la vie.
La romance que j’ai chantée
Est la romance de chaque jour
Est la romance de toujours.
La cançon qu’ai cantada
Es la cançon amorosa,
Amorosa de la vida.
La cançon qu’ai cantada
Es la cançon de cada jorn,
Es la cançon di totjorn.
La romanza che ho cantato
È la romanza innamorata,
Innamorata della vita.
La romanza che ho cantato
È la romanza di ogni giorno
È la romanza di sempre.
Il soldato
di Patrizia Colajanni
Le soldat
Trad. di Mohammed Mafhoum
Adagiò il suo corpo stanco
sul letto
e sospirò.
Aveva combattuto
tutto il giorno
contro i soldati nemici
ed era stato battuto.
Non ci poteva fare niente
lui,
contro la guerra:
si doveva solo combattere
giorno dopo giorno
senza mai fermarsi.
E la povertà aumentava
insieme alla fame
e all’orrore degli scempi;
vittime della guerra
erano bambini e donne
e non solo soldati come lui.
I potenti giocavano a fare
la guerra con gli scacchi,
mentre loro la facevano
con i fucili veri.
Ma lui non ci poteva fare niente:
era solo un soldato.
Il a étendu son corps fatigué
sur le lit
et il a soupiré.
Il avait combattu
toute la journée
contre les adversaires
et il a été battu.
Il ne pouvait rien faire
lui,
contre la guerre:
il fallait seulement combattre
jour après jour
ne jamais s’arrêter.
Et la pauvreté augmentait
aussi la faim
l’horreur des massacres;
les victimes de la guerre
étaient des femmes et des enfants
et non seulement des soldats comme lui.
Les puissants jouaient à faire
la guerre aux échecs,
cependant les autres la faisaient
avec des vrais fusilles.
Mais il ne pouvait faire rien:
il était seulement un soldat.
Eugen Evu, Port rànile tale (Cogito,
Romania 2003). «Eugen Evu sorprende certamente molti lettori che si accostano alla sua poesia. Strano, inspiegabile, pieno di una mitologia personale e
capricciosa, marcato con il sigillo dell’assurdo, sull’orlo della rabbia, mostra
compassione per ogni forma di sofferenza. La sua espressione possiede certe qualità autenticamente vere».
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Poésie jeune
I ragazzi dell’Algeria
si aprono all’Europa
Traduzioni a cura di
Angelo Manitta
La nature
de Djafri Fella (12 anni)
La natura
La pauvre et le riche
de Guerdad Hocine (12 anni)
La nature est belle avec ses hirondelles.
La nature est sauvage
avec ses animaux sauvages.
La nature est simple
avec ses fleurs multicolores.
La nature est calme
quand les gens sont calmes.
La natura è bella con le sue rondini.
La natura è selvaggia
coi suoi animali selvaggi.
La natura è semplice
coi suoi fiori multicolori.
La natura è calma
quando le persone sono calme.
Le pauvre pleure, le riche rit.
Le riche connaît les bonnes choses.
Le pauvre connaît la souffrance.
Une grande différence entre eux.
Mais la gentillesse entre eux sera une.
Grande chose qui se terminera
par l’amitié.
Quel Monde !
de Berkane Amir (12 anni)
Quale Mondo !
Il povero ed il ricco
La rue se promène sue les hommes
Les ratures effacent la gomme.
La table se cache sous le chat.
La caserne s’ennuie avec le soldat.
Le pont passe sous les gens.
Le cocon tisse la chenille.
Le jardin pousse dans l’oignon.
Le poème fait naître un poète.
La via passeggia saputa gli uomini
Le cancellature cancellano la gomma.
Il tavolo si nasconde sotto il gatto.
La caserma si annoia col soldato.
Il ponte passa sotto le persone.
Il bozzolo tesse il bruco.
Il giardino germoglia nella cipolla.
La poesia fa nascere un poeta.
Mon papa
de Semiane Sarah (12 anni)
Mio papà
Mon papa m’achète mon rêve...
Mon papa est brave,
mais quand tu le fais rire.
Il rit de bon coeur
et puis à ce moment-là tu peux
tout lui demander.
Mio papà acquista il mio sogno...
Mio papà è bravo,
ma quando lo fai ridere.
Ride di buon cuore
e poi in quel momento puoi
chiedergli tutto.
Le dieu
Dio
de Koob Sid-Ali (13 Anni)
J’aime le dieu, le tout puissant.
C’est lui qui m’a créé.
C’est lui qui m’enseigne
ce que j’ignore.
J’aime le dieu.
C’est lui qui me bénit, me protége.
J’aime le dieu de tout mon coeur.
Amo Dio, il tutto potente.
È Lui che mi ha creato.
È Lui che mi insegna
ciò che ignoro.
Amo Dio.
È Lui che mi benedice, mi protegge.
Amo Dio con tutto il mio cuore.
Mon amie
de Katia Bribi (12 anni)
La mia amica
Mon amie c’est un trésor.
Mon amie partage avec moi le douleur.
Mon amie est très forte.
J’aime mon amie comme ma soeur.
Je compte sur elle
dans les moments sévères.
J’aime mon amie
et lui souhaite du bonheur.
La mia amica è un tesoro.
La mia amica divide con me il dolore.
La mia amica è molto brava.
Amo la mia amica come mia sorella.
Conto su di lei
nei momenti tristi.
Amo la mia amica
e le auguro felicità.
Liberté
Libertà
de Bedjaoui Adnane (12 anni)
Les oiseaux sont tous libres.
J’aime leur liberté !
J’aime toutes les belles choses :
La terre, la planète et la lune.
Gli uccelli sono tutti liberi.
Amo la loro libertà !
Amo tutte le cose belle:
La terra, il pianeta e la luna.
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Il povero piange, il ricco ride.
Il ricco conosce le buone cose.
Il povero conosce la sofferenza.
Una grande differenza tra loro.
Ma la cortesia tra loro sarà una.
Grande cosa che si concluderà
con l’amicizia.
Le bavard
de Houadji Bedreddine (12 anni)
Le bavard c’est la le mal de la bouche.
Le bavard c’est la cassette de la classe.
Le bavard c’est la souffrance des profs.
Le bavard c’est le vacarme de l’école.
Il chiacchierone
Il chiacchierone è male della bocca.
Il chiacchierone è cofanetto della classe.
Il chiacchierone è sofferenza
dei professori.
Il chiacchierone è il baccano
della scuola.
Le travail
de Lazazi Sofiane (12 anni)
Je regarde faire.
Je fais à mon tour.
C’est le travail que je préfère.
On travaille toute sa vie.
Le travail est notre source de vie.
Il lavoro
Guardo fare.
Faccio da parte mia.
È il lavoro che preferisco.
Si lavora tutta la vita.
Il lavoro è
la nostra sorgente di vita.
I ragazzi algerini sono
seguiti dall’insegnante
M.lle Kidad, delegata
del Convivio in Algeria
Pittura
malinconica poetica. Gli angoli incantevoli del paesaggio,
intonato su forme melodiche che trattano lo sfumato quale
assonanza vitale e linfa del gusto cromatico, ricordano le visioni del Berkeley. La tensione verso un infinito, leopardianamente inteso, affiora come squarcio della tela, ne fa
emergere la dimensione esistenziale che si proietta all’esterno di una finestra, oltre la quale c’è il tutto tanto desiderato
dalla ragione, intuito dall’intelletto, ma inspiegabile.
Rubrica a cura di Giuseppe Manitta
Franco Clary
di Giuseppe Manitta
La centralità della sperimentazione, della libertà
espressivo-immaginifica ci mette oggi in diretto contatto
con una realtà artistica molto eterogenea, a volte riproposizione di tecniche fuori dal tempo. È vero che l’arte nella
sua peculiarità e universalità riesce quasi sempre a cogliere
il Tutto in un processo estetico che sa di fantasia, immaginazione e rappresentazione, ma è anche vero che ogni opera
di genio si trova in bilico tra il presente, in cui è generata, e
il futuro. Ciò chiarisce perché molti autori, pur dalla mirabile tecnica espressiva, vengano poco valutati da un ipercriticismo in voga. Oggi l’arte non è corrente, è ars solitaria, punto di fuga psicologico-espressivo che non fa scuola. E, mi sembra, che niente o quasi niente faccia scuola in
Italia: sarà colpa dell’egoismo artistico o di una carenza
formativa? Forse non è questa la sede adatta per un discorso
del genere, forse la «mirabile rappresentazione dell’Assoluto» esige oggi una scissione dei maestri.
Il sogno invade la stanza, (olio su tela cm 100x120)
Funzioni come questa emergono da “Il sogno invade una stanza” (opera emblematica del Clary) che ci permette di dare un abbozzo della funzione esplicativa della pittura quale surreale realizzazione dell’animo. L’impostazione di quest’opera (e di molte altre) verte realisticamente sulle diagonali, molto accentuate, che danno la sensazione del
movimento quale stravolgimento conoscitivo ed invasivo di
una strana tinta multitonale.
Un giorno diverso, (olio su tela, cm 50x60)
Un autore che potrebbe fare scuola (chi ha poi detto l’ultima parola?) è Franco Clary, pittore che valica una
concezione paradigmatica per cogliere, in una fusione tecnico-espressiva, una realtà tra simbolo e inconscio. La crisi
estetica contemporanea tra arte e bellezza in Clary assume
la dimensione di «apertura dell’essere», di linguaggio che
non esula dalla funzione delle ‘poietiche’ avanguardiste. Ma
cos’è la realtà per Clary? Essa è la pittura quale essenzialità
dell’uomo e della società, quale speculazione sul concetto
(espressione del Tutto) e sulla letterarietà dello stile.
Le immagini dunque si tramutano in espressione
dell’inconscio, forse meglio del subconscio, della realtà
intellettiva non materica, ma surreale. Il sogno diviene metafora coloristica e grafica, memoria dello spazio-tempo e
Paesaggio, (olio su tela)
L’intonazione luminosa che tende all’artificio e la
tessitura timbrica rivelano un’armonia complessiva che ha
forte incidenza sul fruitore. La pittura di Clary si rivela
pittura di forze. Su queste, infatti, s’imperniano le espressioni disegnativo-cromatiche, la rimembranza, l’amorosa osservazione e le sensazioni provocate da quest’ultima. Mi
52
viene subito in mente il quadro di copertina dell’ultimo catalogo di Franco Clary, emblematico per constatare le forze
contrastanti che si trovano nella parte più bassa del quadro,
che si allentano nella parte centrale e che infine cambiano
direzione. Spettatore è il cielo, immagine dell’intuizione dell’autore che s’immedesima in ogni minuscolo tassello del
quadro.
La finestra, (olio su tela cm 50x50)
La dimensione spirituale della sintesi pittorica si
attualizza nell’equilibrio, come affermavo prima, anche nella poesia. Può sembrare, la mia, una rivisitazione di un luogo comune, già scritto da Orazio e riproposto nel Trattato
della pittura di Leonardo, ma la “poiesis” di Clary trova
una realizzazione non solo concettuale, bensì anche materiale. Così ci fa rivivere la musicalità del verso, la profondità della filosofia, la magia del piacere estetico, e poi il
chiasmo, l’assonanza tra struttura e colore, l’analogia immaginativa. Non a caso in questo processo la sfumatura e ogni
tratto di pennello assumono una vibratile emozione che si
confronta con la società, di cui le figure sono espres-sione e
critica, rappresentante e rappresentazione, secondo la definizione di Schopenhauer.
Riflessione, (olio su tela)
Il binomio onirismo-forze si affianca ad una terza
funzione: quella immaginifico-realistica. L’impostazione
delle opere di Clary, (in cui il fenomeno si piega al noumeno, per ricordare la terminologia kantiana), sfrutta a pieno
la pregnanza delle immagini. La razza umana, per dirla con
Eliot, non può sopportare troppa realtà. Se, infatti, essa è
oppressa da immagini reali tende a dimenticare l’immaginazione del bello, se invece accade il contrario dimentica la
realtà. Così l’arte del Nostro assume una posizione mediana
tra surrealismo e realismo, tra impostazione classicistica e il
modernismo dell’assoluta libertà. Il sogno e l’illusione non
si oppongono alla realtà, il sentimento non oscura la concezione classicistica dell’opera.
Con questi termini non dico che l’arte di Franco
Clary sia avulsa e fuori dal tempo, ma anzi che la sua sincresi colga a pieno l’assoluta possibilità delle cose. Pittura
come spazio mentale, in bilico tra assoluto e assoluta possibilità: l’immaginazione. Così l’impostazione generale delle opere di quest’autore ricordano le mirabili pose di un realismo, di una tradizione nudista tra l’arte tizianesca e l’impressionismo, di una tradizione della linea e del colore che
ricordano le secessioni e l’espressionismo. Inoltre non possiamo tralasciare che tale letterarietà dell’opera di Clary risente, oltre che ovviamente del surrealismo, anche delle conquiste disgregatrici rispetto al passato dell’iperrealismo e
del neoavanguardismo. Ovviamente si tratta di spunti che
nella loro complessità a volte sono difficili da cogliere in un
linguaggio che mirabilmente vive giorno dopo giorno nella
metafora.
Ritorno in paese, (olio su tela cm 60x60)
Per questo l’arte di Clary è degna di fare scuola, di
essere discussa e studiata, perché il suo stile è complesso,
ma allo stesso tempo semplice, spontaneo, immediato e riflessivo. A volte di fronte ad opere del genere il senso del
vuoto e del silenzio ci fa andare oltre la parola, semiotica
rappresentazione che trova la sua realizzazione in quello
che non dice.
Indirizzo: Via Messapia, 8 – 74100 Taranto
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Silvano Motta
Dimas Coello
Concetto dell’Arte
Dimas Coello, pregevole pittore spagnolo residente
nelle Isole Canarie, fornisce al lettore moderno una dimensione artistica di vibratile sensibilità lirica e tecnica. La funzione estetica dell’opera d’arte assurge ad una dimensione
contemporaneamente etica e sensitiva, in un continuo raffronto fra tecnica-dettato e significante-significato. L’arte
non diviene solo autoliberazione, pur approdando alla sfera
dell’inconscio, ma le sensazioni vengono filtrate, per certi
versi anche razionalizzate. Queste si intessono di sfumature,
di lirici tocchi di colore che colgono la sfera esistenziale nel
suo rapporto con l’Assoluto.
La pittura è un linguaggio non parlato, né scritto,
ma espresso attraverso certe regole tecnico-grammaticali di
conoscenza che stanno alla base di ogni tendenza artistica.
Anzi, una vera e propria tendenza artistica non esiste, esiste
solo un modo di sentire la realtà che ci circonda e di trasmetterla liberamente in pittura sulla tela: con gli occhi, con
la mente o con il sentimento, avvalendosi soprattutto dell’uso dei colori per dare luce al proprio “Io” interiore e materializzare il tutto. Pertanto l’arte, intesa come espressione
della realtà o come materializzazione di forme o cose, trova
nella pittura motivo di esaltazione non solo dei valori spirituali dell’essere, ma anche e soprattutto, specie con le tendenze più avanzate, motivo di trasmissione di usi, di concetti, di mentalità in un dialogo sempre aperto tra l’artista
ed il mondo di oggi.
Visione di un
sacrificio
(Olio su tela,
cm 35x50)
L’arte non può, né deve essere fine o se stessa, ma
deve formare e informare, cioè deve costituire cultura. Essa,
non può, né deve rimanere chiusa entro schemi fissi che ne
limiterebbero, non solo il suo contenuto, ma soprattutto la
sua genuinità espressiva. Un artista si riconosce soprattutto
dallo stile personale che riesce a dare alle sue opere, e deve
essere e rimanere inconfondibile anche nel tempo. L’importanza di ciò che esprime non è rivolta a tutti, ma solo a se
stesso e a coloro che lo sanno capire e ne sono attratti fino
ad immedesimarsi in lui e formare un tutt'uno con la recita
o l’immaginazione che l’artista crea e riuscire a carpire, fino in fondo, i suoi più intimi segreti. Il tema di un dipinto è
e rimane sempre un fatto personale egocentrico tra l’artista
che lo trae dalla realtà quotidiana o lo crea dal niente e il
suo punto di vista, o quello dei suoi pensieri o dei suoi sentimenti. Per dirla come Georges Braque: «...In arte non c’è
che una cosa che valga quella che non si può spiegare. Non
bisogna chiedere all’artista più di quello che può dare, né al
critico più di quello che può vedere. Contentiamoci di far
riflettere, non pretendiamo di convincere...».
Silvano Motta
Arte non come ricerca di verità, ma come immagine sensibile e sensitiva in cui il paesaggio e ogni altro soggetto si dimensiona in un linguaggio simbolico, secondo le
regole della buona figurazione, sintetizzando eleganza e armonia. L’armonia nelle opere di Dimas Coello nasce dall’equilibrio tra dinamicità e staticità, dall’espressività cadenzata ed essenziale: queste le caratteristiche principali di un’opera come “Agonía”, pregevole acquerello in cui la dimensione divina e umana si fondono in un connubio di rara
intensità. L’equilibrio tra umano e divino si fonda da un
lato sulla compostezza dell’impostazione, dall’altro sull’agonia pseudo-umanizzata di un Cristo senza volto. Ma il
vuoto penetra il fruitore: il nulla del volto e la parte bianca
che domina la parte centrale del quadro enfatizzano l’agonia vera e propria del corpo rossastro del figlio di Dio.
Giuseppe Manitta
Indirizzo: Nuova panoramica dello stretto, Pal.
A., n. 1330 – 98168 Messina.
Indirizzo: Dimas Coello, Doctor Wölffel, 8-3° 38004 S. Cruz de Tenerife Islas Canarias – Spagna
Agonia, acquerello (cm 70x74)
54
Anna Poerio Riverso
Giovanni Carpignano
Nelle raffigurazioni di Anna Poerio Riverso, pittrice e saggista, emergono immagini di esperienza quotidiana
in una costante aspirazione verso la sinuosità delle forme
proprie della danza. Infatti i soggetti principali delle sue opere pittoriche rappresentano momenti peculiari di danza che
toccano l’animo, ma contemporaneamente stuzzicano la fantasia del fruitore. Nella apparente compostezza delle figure
si cela un’incessante ricerca pittorica che va alla scoperta
del metafisico, del surreale. L’artista vi concentra memorie
ed emozioni che rivivono nella plasticità dei soggetti e si
riflettono su uno sfondo generalmente neutro, quasi la scena
di un teatro unica tinta. Così l’assonanza tra momenti ispiratori e impianto cromatico, ritmico e formale, si concentra
in una intonazione simbolica intrisa di accentuato lirismo
evocativo. Il tema della danza ricorda inequivocabilmente il
grande maestro Degas, ma in Anna Poerio Riverso non è il
colore a prevalere sulla forma, bensì la forma a prevalere
sul colore. Inoltre la monoliticità classicista prevale sulla
dinamicità delle figure che non mirano ad una rappresentazione reale, ma idealizzata, in un contesto quasi fiabesco
ed estremamente razionale.
Freud in Linguistica, estetica e psicanalisi scriveva
che l’artista cerca per prima cosa l’autoliberazione. È anche
vero però che «egli rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio più personali, ma queste divengono opera
d’arte soltanto attraverso una trasformazione che mitiga l’aspetto urtante di questi desideri e ne cela l’origine personale» per offrire al fruitore il piacere estetico. La forza della
‘libido’ sublima così nel piacere estetico, ed esempio mirabile è l’opera di Giovanni Carpignano.
Menhir, olio su tela (cm 70x50)
Il sublime, nelle opere dell’artista pugliese, non è
solo onirico, ma si avvicina alla sfera della metafisica con
sensuale evidenza. Il problema che apertamente si prospetta
è quale funzione l’artista assegni alla sua opera e quale nesso vi sia tra messaggio e tecnica: a questo punto sarebbe più
corretto parlare non di metafisica ma di surrealtà, surrealtà
che scaturisce dall’inconscio, estraniandosi dalla dimensione storico-temporale. Lo spazio esiste nella sua friabile e
dinamica pluridimensionalità coglitiva, la sfera dell’umano
si mitizza nell’atemporalità del corpo-pietra. Si intuisce nelle opere di Carpignano una rimembranza primordiale, legata alla bella forma sia nella dinamicità sia nella staticità.
Piacere estetico e piacere onirico ritraggono l’angoscia di
una Nike che si fonde con la natura; la Nike però non è solo
riflesso di una stagione artistica, ma è soprattutto rifrazione
esistenziale di ciò che è andato perduto: l’unione essenziale
Uomo-Natura. Dalla morte del mito si passa, così, ad una
ricomposizione angosciosa del mito tra sfumature espressioniste e armonie timbriche.
Giuseppe Manitta
Aurora, olio su tela (cm 100x120)
In queste opere il cromatismo non procede per
contrasti ma per assimilazione e affinità, non si tratta di
materia sfavillante, ma con toni pacati e luminosi tutto si
tramuta in compostezza formale. Una delle opere più particolari è “Amore rapito”, mirabile olio e acrilico su tela. È
evidente come i corpi resi da Anna Poerio Riverso richiamano la compostezza greca, una statuaria dei soggetti che si
trasporta verso una dimensione atemporale. La forza espressiva nasce dall’intensità dei volti, dall’equilibrio strutturale,
dallo studio delle pose piuttosto che degli atteggiamenti. Le
tre figure si compongono sino a fondersi tra di loro, si lasciano e si abbandonano senza manifestare molta dinamica.
La pittura della Poerio Riverso che al primo impatto potrebbe sembrare sconvolgente, è molto intensa e a dir poco
originale in una fusione tra modernismo e classicismo, tra
libertà e razionalità, tra emozione e armonia formale.
Giuseppe Manitta
Indirizzo: Contrada serra Pizzuta, 8 – 78018
Palagianello (TA).
Indirizzo: Via Roma, 206 – 81030 Teverola (CE)
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Umberto Argentino
Gerlando Meli
L’equilibrio formale e coloristico sembrano le caratteristiche fondamentali della pittura di Umberto Argentino. Ma la storia dell’artista-uomo sembra rivivere l’immagine di uno storicismo idealistico che in successione tra
tesi, antitesi e sintesi afferma un continuo superamento della condizione iniziale per approdare a nuove forme artistiche. È difficile dare una definizione della pittura di Argentino, ma non impossibile. Alcune peculiarità, infatti, sono
proprie dell’arte classica, altre invece, risentono delle funzioni artistiche che hanno segnato le grandi correnti del Novecento.
Gerlando meli, pittore e scenografo, è nato ad
Aragona (AG) nel 1962. La sua produzione estetica è contrassegnata da una profonda ricerca dello stile e del colore,
egli indaga con straordinaria sensibilità il nesso che lega
reale ed esistenziale. Le costruzioni dinamiche dell’opera di
Gerlando Meli, infatti, con lirica evocazione animano e proseguono una ricerca della linea e del timbro molto in voga
nella seconda metà del Novecento. La sua opera è linguaggio-simbolo delle contraddizioni contemporanee approdate ad una società di consumo. L’oggettivo e il soggettivo,
in una sintesi esemplare, colgono la spazialità del sentimento in una omogenea realizzazione che rimanda alla tecnica
del dripping inaugurata da Pollock.
La spiaggia delle bambole, (olio su tela, cm60x40)
Interessante è l’approccio esistenziale al reale sia
nelle espressioni disegnative che pittoriche, sia nelle composizioni grafiche, che rimandano a bozzetti di Guttuso, sia
nel gusto cromatico che passa dalla dimensione materica ad
una pittura di maniera. Però, se ci accostassimo solo alla
concezione di ‘maniera’, per quanto vaga possa essere come espressione, non avremmo capito niente dell’arte di
Umberto Argentino. La maniera di Argentino è solo apparente. Infatti la dimensione del reale, anzi dell’arte come
mistione tra sentimento e realtà, si fonde all’espressività
tecnica equilibrata, derivante dalla concezione di un odierno impressionismo e dalla rielaborazione del tratto effettuata nelle due Secessioni (quella viennese e quella berlinese) e nell’Espressionismo. Allora alla cautela di Riccardo
Zigrino per una definizione sulla pittura di Umberto Argentino si potrebbe affiancare la concezione quanto mai poetica di ‘Modernismo classicheggiante’. Il pittore dà voce,
così, ad ogni elemento divenendo «schizzofrenico ma nel
senso più positivo della parola, dato che la sua personalità
non è divisa, sdoppiata, ma assommata, moltiplicata per
due; un pittore che quando dipinge compone sinfonie di
suoni, orchestrazioni che arpeggiano sulle scale cromatiche,
spaziando dalle più velate vibrazioni di luce, quasi respiri di
bimbi, alle più rassodate di colori pieni e vigorosi» (Antonio Nardi).
Giuseppe Manitta
Lo spazio, nella sua concezione classica, viene distrutto e ricomposto in un sinolo di materia e forma che
estende concettualmente l’opera all’infinito, finanche oltre
la tela. Gerlando Meli ha esposto con i maggiori esponenti
dell’arte contemporanea nei più importanti centri artistici
mondiali, ha ottenuto oltre 150 riconoscimenti, le sue opere
fanno parte di pregevoli collezioni private d’importantissimi nomi del campo della cultura, della religione e dello
spettacolo. Sta riscuotendo quindi un notevolissimo successo con presenze artistiche anche in città come New
York, Malta, Parigi, Venezia, Roma e moltissime altre. La
sua arte va oltre i limiti del volume, coglie la dinamica essenziale del segno primitivo, ne orienta con il gusto cromatico il significato simbolico. L’informale razionale diventa formale concettuale, diventa forma del sentimento e
dell’anima contemporanea. Un’arte universale, quella di
Meli, che rimodula con molta originalità alcune conquiste
artistiche degli anni cinquanta portando a pieno compimento la fusione tra disegno e non-disegno, tra linea e colore,
tra pittura e grafica. Emerge dunque dall’opera un forte vitalismo che cattura il fruitore trasportandolo nel turbine incessante del colore.
Giuseppe Manitta
Indirizzo: Via Antonio Cimarosa, 7 – 04022
Fondi (LT)
Indirizzo: Via Nazareno, 182 – 92921 Aragona
(AG). Tel 368-3726971.
Gerlando Meli dona una sua tela a Ivana Spagna
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Laura Carone
Paolo Santoro
Laura Carone, pittrice pugliese, è nata a Gallipoli
(LE) nel 1964. Attualmente vive a Francavilla Fontana (BR)
dove dirige uno studio e una galleria insieme ad altri amici.
Artista giovane, realizza la sua prima mostra nel 1993, incuriosendo e affascinando subito critica e pubblico. Da allora sono passati soli undici anni e Laura Carone è riuscita a
conquistare stima e notorietà che preannunciano un futuro
ricco di riconoscimenti e innovazioni estetiche. Nel 1996
con il disegno Persefone Gaia vince a Venezia il primo premio alla Biennale Mediterranea GraficaMultipla. La suggestività della natura, le immagini affascinanti della mistione
cromatica sono alla base della pittura di Laura Carone.
Paolo Santoro è nato a Bari nel 1949. Pittore, è stato allievo di Colonna, De Bellis e di altri maestri. L’impegno nel campo artistico è molto proficuo. Infatti molte sono
le mostre personali tenute dall’artista pugliese sia in città italiane, come Bari, Varese, Cormano, Milano, Pachino, Gioia
del Colle, sia in Svezia (Kastelmar), Australia (Brisbane) e
Lisbona. La sua partecipazione a rassegne lo ha portato a
ricevere numerosi riconoscimenti tra i premi conseguiti. Tra
i critici che si sono interessati alla sua produzione artistica
si ricordano Vittorio Sgarbi, G. Spinelli, N. Punzo. Le opere di Santoro si possono anche ammirare in musei di Piacenza, Forlì, Bari, Firenze e Foggia, nonché in collezioni
private anche oltre oltreoceano. La pittura di Santoro è mirabile per la naturalezza d’espressione, che va alla ricerca
della natura sfuggente, dell’attimo emozionale che rinchiude l’essenza di un soggetto.
Dune 2002, inchiostro di china su cartoncino (diam. 18)
L’emozione e il colore diventano un tutt’uno sulla
tela, si trasfondono in immagini e in soggetti che fungono
da cornice. Le pennellate sono rapide, luminose, riescono
ad imprimere con freschezza i timbri di un’emozionalità
profonda ed affascinante. Il suo linguaggio, in un tempo in
cui la libertà d’espressione è la regola fondamentale, riesce
a cogliere le orchestrazioni angosciose dell’espressionismo,
il misticismo onirico, la pennellata fresca e naturale dell’impressionismo. In Laura Carone concetto, immagine, colore e sentimento divengono un connubio di mirabile lirismo. La pittura diviene così anche materia, plastica effusione e luogo privilegiato di esperimenti, riuscendo a dare un
effetto naturale meditato e studiato. Esemplari per la tecnica
di sintesi e per il gusto espressivo appaiono gli acquerelli, i
quali rimodulano la frantumazione onirica ed estetica degli
oli per abbandonare il fruitore in un nostalgico abbraccio.
Non meno interessante è l’opera in china, come ‘Dune’, in
cui meglio si realizza quella combinazione uomo-natura presente anche nelle altre opere. La Natura, così, si antropomorfizza svelando all’uomo il disagio dello Spirito universale
nelle vibrazioni ben equilibrate. Si realizza così in Laura
Carone una spinta originale che nel dettato trasfonde la sua
giovinezza. L’artista filtra i soggetti nel suo Io, attingendo
anche ad una dimensione precosciente che equilibra il quadro rendendolo campo di battaglia tra razionalità e pulsione.
Giuseppe Manitta
Contadinotta, olio su tela (cm 70x50)
La tessitura delle sue opere è molto suggestiva tanto da vivacizzare magici toni di luce che riempiono il quadro. Legato ad una tradizione fauvista, va alla ricerca della
linea, pur mantenendo una vivissima orchestrazione di toni
cromatici. Interessante, in questo senso, è l’autoritratto in cui
il tema centrale non è la figura fisionomica, ma l’emozionalità della pennellata e il cromatismo che rapisce il fruitore.
Alla luce di quanto detto V. Cracas scrive: «Ricca di vibrazioni è la pittura di Paolo Santoro, che nei rutilanti ritmi
della materia cromatica imprime le palpitanti emozioni del
suo animo, dando vita ad immagini che interpretano sentimenti diversi ispirati dalla vita quotidiana, dall’osservazione della natura e del paesaggio e comunicati con fresca immediatezza in uno stile personale e incisivo». Così non solo
perizia del soggetto e del colore, ma anche il non-detto e il
fascino di esso assumono nelle sue opere importante valenza per la comprensione della sfera emozionale dell’autore.
Giuseppe Manitta
Indirizzo: Via De Deo, 70 – 70126 Bari
Indirizzo: Via Cesare Teofilato, 10 – 72021
Francavilla Fontana (BR)
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Luciano Tocci
Claudio Carrieri
«Luciano Tocci è un artista che ha già trovato
un’ispirazione potente, dotato di quella forza interpretativa
che induce al trasporto. Il suo lavoro è una commistione di
perizia pittorica, di frammentazione e ricomposizione della
luminosità e non solo della luce, è una perifrasi sul mondo
che lo attornia». Così Dina Turco definisce il pittore Luciano Tocci, artista che attraverso incantevoli giochi di colore impreziosisce le forme che prendono vita nelle sue tele.
L’arte di Tocci diviene finestra sul mondo, ma non finestra
passiva. La sua analisi acuta del reale riesce ad esprimere
bene non solo l’esistenziale, ma anche una surrealtà verso
cui tendere.
Non c’è dubbio che
l’arte debba far riflettere l’uomo sui problemi del proprio
tempo. Per far ciò,
Claudio Carrieri (nato a Prince GeorgeCanada nel 1956, ma
risiede e lavora a San
Bernardo in Valle,
Savona) è un eclettico artista che nella
sua professione ha
sperimentato mezzi e
tecniche assai diversi, e inizia un cammino che va alle origini della storia dell’essere umano. Infatti, nell’agricoltura, nella pacifica convivenza, nella non
violenza, sono le basi di una grande civiltà in cui la donna
madre, personificazione della fertilità e della continuità
della vita, ha un posto primario. Ecco allora le accoglienti
“odali-sche”, vasi-statue in ceramica che si forgiano partendo dal basso, con una tecnica usata già nel neolitico, un
processo uguale e ripetitivo. «La forma è quasi un pretesto afferma l’autore; - importante è raggiungere un risultato di
metodo e ripetere il gesto». Le odalische si ispirano alle
forme delle madri mediterranee, nella più assoluta semplicità della rappresentazione, in un ritorno ad una ragguardevole civiltà arcaica abbandonata, purtroppo, per seguire il
progresso del-l’uomo guerriero alla conquista di dominio e
onnipotenza... La Madonna, infine, è l’apice della spiritualità femminile, il punto più alto del percorso, che accoglie
noi figli e sa ciò di cui abbiamo bisogno. Quindi, recentemente, l’artista ha allestito una mostra di tele ad olio, tutte
di ugual misura con cornici di legno chiaro e decorazione
intagliata a greca, rap-presentanti la Madonna.
Ma questo non è l’unico filone indagativo di Carrieri che, in una progressione di crescita dagli spunti leonardeschi, ha sperimentato, tra l’altro, il disegno grafico. Si
è cimentato con ritratti di vari personaggi, noti e meno noti,
tra cui gli atleti dello sport della pallapugno, una disciplina
un tempo molto diffusa ma praticata oggi in poche aree, tra
cui la Liguria di ponente ed il basso Piemonte, ritratti
eseguiti con la tecnica delle silhouette e contornati da una
cornice dipinta non sul legno ma sulla tela stessa del quadro. Anche la pittura-scultura con vari materiali lo ha
sempre affascinato...
Infinite sono dunque le curiosità che spingono l’intelligenza di Carrieri a “provare” con entusiasmo nuovi itinerari artistici, partecipando attivamente alla vita contemporanea, in una tensione di comunicazione di sé e delle sue
idee che affascina il visitatore delle sue molteplici esposizioni.
Renata Rusca Zargar
Il patriarca, (tecnica mista su tela , cm 50x70)
Tocci è nato nel 1955 a San Donato Val di Comino
(FR), mentre il suo cammino artistico lo ha visto presente in
numerose città italiane ed estere. L’amore verso il bello
scaturisce con energia dalle sue opere in cui forme e colori
s’intrecciano alla fantasia. L’esaltazione delle figure affusolate e dei colori nelle svariate tonalità diviene nell’arte di
Luciano Tocci un motivo martellante che affianca all’equilibrio del dettato una forma onirica e che trasfonde un certo
mistero. Il dræma onirico si carica, dunque, di sconfinate
armonie che manifestano le intense vibrazioni. Il mondo di
fiaba diviene analogia del reale e metaforica sublimazione
del bello. Riccardo Zigrino ha definito la pittura di Tocci
«specchio fedele della sua natura e chi osserva le sue opere
legge con estrema facilità le pagine della sua vita, la cifra
precisa della sua esistenza. I sapienti impianti coloristici e
la ricercata perfezione del disegno, l’accordo cromatico e la
nobiltà di quest’arte respingono le putridi commistioni della
vita di consumo che il materiale (sostantivo) umano (aggettivo) vuole proporre ad un mondo senza ideali e senza
speranze».
Giuseppe Manitta
Indirizzo: Piazza C. Colletti, 4 – 03046 San
Donato Val di Comino (FR); Studio: C.da S.
Maria Cellarola – 03040 Gallinaro (FR).
Indirizzo: via Riborgo, 22 - 17044 San Bernardo
in Valle, Savona.
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Infatti, c’è il carro dei pazzi dove sono caricati tutti, legati e fasciati, tirati da un fauno, c’è un albero che
ascolta con le orecchie mentre la gente, invece, non ascolta
affatto. La stoltezza di un rinoceronte con l’armatura che ha
tolto la sua vera corazza, il pesce grande mangia il pesce
piccolo e si trasforma tutto in oro: anche l’ammirazione diventa denaro… Ci sono poi i lunatici: ognuno ha la sua luna
e se la tiene stretta, i buffoni possono dire tutto, anche la
verità. Oppure c’è il quadro del potere composto da ranocchio, anatra e burattino (ogni persona è un po’ un burattino). L’amore è cieco. Infatti i cupidi colpiscono tutti, tranne le persone! E c’è anche la morte: scoppia l’orologio, cade l’ultima goccia d’acqua, un uomo guarda il cane amico.
Attilio Cicala
Attilio Cicala è nato a
Messina nel 1945, diplomato
all’Istituto
d’Arte di Messina e poi
all’Accademia di Belle
Arti di Reggio Calabria, oggi vive ad Albisola Superiore (Savona)
ed è titolare della cattedra di Discipline pittoriche al Liceo Artistico Statale “A. Martini” di Savona. Entrando nel suo studio, si nota subito che è zeppo di
lavori dei suoi diversi
periodi: il figurativo,
l’informale, il simbolico… così come la sua
piccola casa (nella scala c’è il “vascello dei
pazzi”) ha gli spazi tutti
occupati da oggetti,
ognuno con un suo significato e tanti libri
per studiare… Le culture del mondo, come ad
esempio quella egizia, ed egli ha ricreato
faraoni e meravigliosi
sarcofagi - lo affascinano e, prima di produrre un quadro, fa un accurato lavoro
di ricerca delle informazioni.
«L’artista non può essere ignorante - mi spiega, la base è sempre la cultura, il contesto in cui si vive, i fatti
di attualità. Anzi, in ogni tempo, l’artista rappresenta la sua
epoca e può addirittura avere l’intuizione del futuro. Oggi,
ad esempio, non si può fare ciò che si faceva nel Cinquecento. L’abilità tecnica si impara dai secoli passati ma il contesto, la visione del mondo, devono essere quelli attuali».
E senz’altro egli ha imparato e sperimentato tecniche, mezzi, forme diverse, ha prodotto quadri ma anche sculture, piatti, pannelli, e illustrato libri. Ha saputo dare, con
poche pennellate di colore, forma all’astrattezza dei pensieri, come nel bellissimo “Vado via”, in cui la fuga, vera o
desiderata di ognuno di noi è chiara, proprio come ce
l’eravamo immaginata. O quando ci dice: “Vorrei volare” e
la sua nave, piccola piccola, nel blu intenso di un enorme
mare-spazio terrestre, piano piano si prepara, fino ad avere
le ali (e non è forse quello che vorremmo anche noi, perduti
nella ristrettezza della nostra materialità e stoltezza?).
«Una volta ho sentito gridare per la strada - mi
confida ancora: - deve essere un pazzo, mi avevano informato. Ma forse ha le sue ragioni, ho pensato io. Così mi sono documentato, ho letto l’Elogio della follia di Erasmo da
Rotterdam che mi è sembrato fatto su misura per noi. Da
ciò sono usciti una serie di quadri “non razionali, con
qualcosa che non sia dato per sicuro».
Trapasso, olio su tela (cm 93x137)
Ogni lavoro è, dunque, il racconto di una storia dell’uomo, la messa a fuoco di un suo problema, di un suo modo di comportarsi. È qualcosa che si rimane incantati a
guardare, sia per i colori: forti, luminosi, caldi, ben contrastati, che per i soggetti. “I remember”, ad esempio, dove
i pensieri sono, forse, appesi agli attaccapanni, dietro la
testa dell’uomo. C’è una grande forza di rappresentazione,
nelle forme, nei colori e, soprattutto, nelle idee. L’arte vera
è questo percepire le idee di tutti ma saperle esprimere attraverso l’unicità e l’originalità della propria inventiva e
creatività, è nella decisione con cui si affronta un tema, magari difficile, è nell’opera di trasformazione della realtà pura quale ci appare all’occhio, è nell’obbligare la mente degli
altri a pensare, anche oggi, quando si è trascinati dalle obbligazioni sociali e si pensa così poco!
«C’è sempre una simbologia di oggetti - aggiunge
l’artista. - Il quadro deve essere una lettura per chi lo vede.
Se tu riproduci solo un paesaggio, anche in modo perfetto,
non serve, perché è scontato, non lo puoi leggere. È meglio
allora fare una fotografia. Invece la simbologia deve farti
pensare, deve comunicarti qualcosa, anche se poi tutti lo
comprendono ancora in modo diverso».
Molti dei suoi lavori sono ormai in prestigiose raccolte di amici o colleghi, egli ha allestito mostre in Italia e
all’estero. Ed ora sta preparando un’esposizione presso
l’Am-basciata italiana in Turchia e le decorazioni per un
ospedale a Nuova Sirdisk, in Russia.
Renata Rusca Zargar
Indirizzo: Via Stella, 38/2, loc. Ellera, - 17011
Albisola Superiore (SV).
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damento che infine, in particolare con le serie dedicate a
Bassano e ai comuni vicini, Carandente ritrova anche nella
Storia, essa stessa estrinsecazione del medesimo principio
vitale, essa stessa quindi, piranesianamente, Natura: nelle
sue opere più recenti gli edifici, non più fondali scheletrici
all’indistinto passare della gente, riacquistano una propria
dimensione storica e vitale, germogliano simili a piante attraverso forme inusitate eppure riconoscibili in una profusione di fantasiosi tentacoli, che li radicano nelle coscienze come incancellabile e irrinunciabile monumento-documento.
Giulio Carandente
l’emozianilità umana
di Chiara Marin
Giulio Carandente è nato Poeta: l’animo aperto a
contemplare la bellezza della Vita in ogni sua manifestazione. La sua Salerno, azzurro nel cielo e limone nell’aria,
gli ha insegnato la sottile poesia dei colori: le intime corrispondenze che esistono tra le multiformi vibrazioni tonali.
E Giulio Carandente è diventato Musicista: ha imparato la
magia delle pause, dell’equilibrio di note e silenzi, composizioni che palpitano in una struttura razionalmente fondata.
Nel Bassanese, dove si è trasferito, la sua melodia si è
immersa nella storia, ha ricalcato le strade insanguinate dai
conflitti, ha ripopolato i mercati e i palazzi della prosperità
rinascimentale, ha innalzato inni medioevali di devozione.
E Giulio Carandente è diventato Narratore: ha compreso
l’importanza di preservare il passato, di farlo rivivere nella
catarsi del dramma, perché sia fondamento di un presente,
che senza di esso, non può avere futuro. Attraverso lunghi
anni di studio e di esperienze, Giulio Carandente ha compiuto la sua formazione: ed è, finalmente, un Uomo.
Bassano del Grappa “Via Jacopo da Ponte”,
(olio su tela, cm 80x100)
Il segno grafico di Carandente, sicuro e netto, si pone con piena umiltà di fronte all’oggetto, organismo vitale,
concede perfetta espressione a questa manifestazione estemporanea di un unico gorgo energetico, tuttavia importante
proprio per la sua realtà presente: ciascun dettaglio infatti,
carico di una precipua significazione, si fa latore di quel
surplus di significati, che la memoria dello spettatore, così
vividamente attivata dalla saggia distribuzione di massa e
colore carandentiana, e in grado di conferirgli, recuperando
una dimensione presensoriale e forse anche pre o alter-umana, come suggeriscono talune forme fetali o persino aliene.
Attraverso una composizione che sfugge da ogni
componente retorica o di autocelebrazionismo stilistico, privilegiando invece una visione semplificata, attenta ai motivi
essenziali, e per ciò - pur nella loro iconicità ambigua e provocatoria - riconoscibili, Carandente riesce a guidarci, con
un’interrogazione incessante ma aprioristica del dato naturale, ad una comprensione più completa e profonda di un
mondo che, sebbene da lui stesso interrogato per rispondere
alle sue domande, non si limita per questo ad essere il suo
mondo, ma diviene il nostro mondo: nelle sue alchemiche
germinazioni infatti possiamo individuare la risposta a quelle esigenze, a quei dubbi e soprattutto a quelle paure che ci
attanagliano nel confronto con la realtà contemporanea.
Così in Carandente se il colore si lega al dato reale,
acquista altresì, grazie all’azione del ricordo, un surplus di
Bassano del Grappa “Ponte degli alpini”,
(olio su tela, cm 80x100)
Questa incessante recherche del policromo rigoglio della Vita, che lo ha portato ad indagarne le diverse
manifestazioni nel campo artistico - il non economico kantiano, campo libero per un’analisi lontana dalle logiche alienanti del guadagno - è evidente in tutta la sua produzione
pittorica: dagli esordi figurativi, poetica e quasi immediata
introiezione della Natura, al fine di coglierne i meccanismi
operativi; alle musicali serie grafiche e serigrafiche, scansioni ritmiche di griglie dagli spazi chiusi e compatti, carichi di simboli tormentosi e instabili, ove il segno grafico ha
valore di principio costruttivo, sì da rivelare la presenza di
un quid razionale ed universale, al di là del suo divagante
manifestarsi in questo magma confusionario e caotico. Fon60
intensità quasi espressionistica; ogni segno è un richiamo illuminante, una madeleine proustiana, che però satura la propria significazione solo in rapporto all’universo che lo circonda. La sua pittura quindi, lungi dall’essere riposante, è
una pittura liberatoria, che garantisce, attraverso la riconoscibilità di alcuni elementi - sollecitazioni al tentativo di
una comprensione globale dell’insieme che, per pulsare ondeggiante del suo oceano di forme, non può, non vuole mai
darsi nella sua completezza - una Epifania, secondo un processo per cui l’immagine, anziché essere fine a se stessa,
diviene un mezzo per giungere ad una superiore sophia.
Si è conclusa nella città di Cassola (Vicenza) la
rassegna “Multiartissima”, che ha visto la partecipazione di
oltre trecento artisti locali e nazionali, cui è seguito un
grande successo di critica e di pubblico. Giunta quest’anno
alla sua quinta edizione e, come da tradizione, ideata e diretta dal maestro Giulio Carandente, la rassegna ha potuto
contare numerosi eventi espositivi e concertistici, di recitazione e letterari, per esprimere il concetto del movimento
culturale definito dallo stesso Carandente “Multiarte”.
Bassano del Grappa “Torre ser Ivano”,
(tela, cm 80x100)
Bassano del Grappa, “Fontana di Piazza delle Erbe”
(Olio su tela, cm 80x100)
La produzione di Carandente acquista pertanto un
significato altamente sociale, non solo denuncia di particolari tensioni del mondo d’oggi, ma come proposta per una
ricomposizione organica dei frammenti dell’esistenza in una
nuova dimensione, che permetta la compiuta espressione di
ciascuno di questi atomi e ne esalti l’intima connessione in
un fluido balletto, che forse non è errato chiamare agape.
Ecco dunque che l’interconnessione tra le arti, come esperienza basilare per un successivo connubio dei diversi aspetti dell’esperienza, propugnata da Carandente nel
corso di tutta la sua esperienza artistica, ha trovato la sua
perfetta realizzazione nel movimento da lui fondato Multiarte. Perché l’impegno di Giulio Carandente, che attraverso i suoi dipinti si esprime nella sua compiuta umanità, è
quello di guidare, attraverso le proprie opere e le proprie
iniziative, anche gli altri uomini alla piena realizzazione di
sé: e con le sue grafiche e la vivezza dei suoi colori - così
tonali, così straordinariamente veneziani - continua a ricordarci quanto sia ricco il mondo che c’è oltre.
Tra questi da segnalare la lirica “Fratelli d’Italia”,
del noto poeta salernitano Paolo Visconti: un sentito omaggio ai caduti di Nassiriya che, nella serata conclusiva con i
cantori e l’orchestra dei Cantori Castellani, presso l’auditorium A. Vivaldi, è stata recitata dal soprano Paola Bugnato,
accompagnato dalle struggenti note del violino del Maestro
Radu Jelescu (la poesia si può leggere alla pagina 25).
Emozionato, il pubblico ha manifestato la propria commozione con un sentito e lungo applauso, accomunato nelle
parole che ricordavano il tragico e vicino evento.
Multiartissima
Indirizzo: M° Giulio Carandente (pittore e grafico) Ideatore e direttore artistico rassegne interdisciplinari Fondatore del movimento internazionale della Cultura Multiarte. Via G. Leopardi
N° 15 - 36022 Cassola (Vicenza). E-mail:
[email protected] Tel. 0424-31057;
339-7823672 - Fax 0424/31057. Internet:
www.paolovisconti.it/rubriche/arte_e_cultura/giul
io_carandente. Htm
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Lezioni d’amore di Gianni Rescigno (Lineacultura, Milano 2003)
Recensioni
Il paesaggio mediterraneo fa da sfondo
alle 30 liriche della
silloge “Lezioni d’amore”, con cui Gianni
Rescigno ha vinto la
XV edizione del
premio-pubblicazione
inedita di “Iniziative
letterarie – Lineacultura”. Anche per questa raccolta valgono i
commenti che Giorgio Bàrberi Squarotti
aveva premesso ad altre sillogi del medesimo autore: «Un’alacre, ilare, festosa, luminosa, solare esperienza d’amore giovane, e lo sguardo colmo di malinconia
della memoria che ripassa il primo tempo del sentimento,
rievoca con pena la persona amata, la rivede, sì, ma ferita e
raggelata dal tempo trascorso, dall’età fuggita, dall’impronta
del distacco, della diversa sorte, della morte, che, nella rievocazione, il poeta legge sul volto amato, anche nel momento in cui cerca di reimmergerlo nella natura di frutti e
luci entro cui era apparso nell’inizio gioioso». «Lo spazio
popolato di cose cerca di vincere il trascorrere del tempo.
Le cose non si perdono, proprio perché hanno la durata
della natura». Rescigno scrive: «Poco più d’un giro di sole /
durò quel cielo spalmato di miele.» «Forse siamo / quelli
che non eravamo / e che non volevamo essere / forse quelli
che eravamo / e altri volevamo essere. / Forse non siamo /
né questi né quelli: / soltanto tempo della terra / senza il vestito della primavera». Come Pascoli, Rescigno conosce
con precisione le specie vegetali della sua terra e nominandole in modo dettagliato cerca di riempire i vuoti dell’anima. La musicalità delle poesie riecheggia l’armonia della
natura in immagini immediate.
Protagonista assoluta la donna, dal nome e dall’identità mutevoli e sempre sfuggente («Sorrisi per tutti
sguardi per nessuno»). La bellezza femminile domina trascinando in atmosfere oniriche e incantate e penetra la natura circostante. Il poeta pare sprofondare nell’abisso della
giovinezza per inseguire la donna ammaliatrice, quasi fosse
la sirena di “Abisso verde” di Sartorio. Egli cerca di catturare la preda irraggiungibile donando ai suoi versi tensione
e una sensualità espressiva carica di sensazioni tattili. Talvolta vi sono affinità con alcune poesie di Franco Bignotto.
Però, come osserva Marina Caracciolo, «anche l’aspetto più
sensuale finisce per rivelarsi ingannevole, come l’effetto di
una visione così nitida da sembrare davvero esistente: ma è
la realtà fittizia e fallace del sogno. Concreto, invece, vero
per sempre, è paradossalmente proprio il fantasma d’amore
che il poeta ha evocato». L’essenza di queste “lezioni” è
racchiusa in un proverbio cinese: «Il cuore di donna è
sfuggente come una goccia d’acqua su una foglia di loto».
Claudia Manuela Turco
Ventu di lu Golgota di Carmelo Lauretta
Il dialetto siciliano abbraccia la Fede. Gli autori e
gli esempi in vero non difettavano. Ci sovvengono anzi numerosi e per certo abbiamo notizia di Concorsi Letterari a
tema religioso promossi nell’Isola. Per la più parte, tuttavia,
tali componimenti sono soliti esaurirsi nella formula della
accorata preghiera, riecheggiare gli stilemi tradizionali sul
Natale, assumere il cliché del poemetto rimato in gloria del
Santo Patrono o (come assai spesso pure accade ) della Santa Patrona; in ogni caso, la devozione non valica il quartiere
o la regione, eccezion fatta per il sempreverde San Francesco d’Assisi e di recente per Padre Pio da Pietrelcina.
La novità a nostro avviso, l’aspetto saliente di questa nuova, breve silloge di liriche di Carmelo Lauretta, sta
nell’estendere oltre tale precedente misura l’ambito degli
exempla spirituali, sta giusto nel dare una connotazione universale al proprio credere. Coloro che conoscono le opere
dell’ultimo decennio di Carmelo Lauretta non ne rimarranno sorpresi. Già “L’acqua di lu Giordanu” e “Oasi di Sion”
infatti – come è ben facile dedurre a partire dai titoli - si
erano volti in questa direzione, per dare origine alla trilogia
che con “Ventu di lu Golgota” oggi si perfeziona. Trilogia
che conduce il lettore dal momento iniziale della vita pubblica del Cristo sul Giordano al momento finale dell’esistenza terrena del Nazareno sul Golgota. Se non fosse, in
verità, che per la Fede, questo rappresenta piuttosto – sconfitta la morte con la Resurrezione - il principio della Vita.
I motivi ispiratori del progetto della Trilogia scaturiscono, verosimilmente, dall’intento di pervenire alla propria e all’altrui salvezza. Salvezza da conseguire col testimoniare la propria fede anche attraverso la Poesia, il mezzo
che più gli è congeniale; col riproporre i valori autentici del
percorso terreno di ogni uomo; col partecipare - specie in
questi tempi così difficili - la propria vocazione alla pace,
che è umana e cristiana al contempo; con l’esortare, quanti
da tutto ciò sono distanti, a coltivare l’aspirazione ad una
dimensione più “alta” del proprio vivere, a nutrire la virtù
che segni con una ragione “forte” l’esistenza, in risposta
quasi al pensiero debole affermatosi nel secolo appena trascorso. Gli effetti per il dialetto siciliano sono di notevole
portata. Questo difatti viene catapultato in un palcoscenico
globale vieppiù dimostrando - ove ve ne fosse ancora bisogno - di essere in grado di districarsi su ogni argomento,
in ogni circostanza, di sapersi spingere verso latitudini e
longitudini di pensiero inesplorate, di potere affrontare ogni
contenuto e non già - come in taluni ambienti si sosterrebbe
- doversi relegare agli aspetti del folklore, ai temi della tradizione, all’iconografia della terra di Sicilia nel suo eterno,
sofferto sopravvivere.
Carmelo Lauretta ci conduce sulle ali del suo Ventu, nello spazio, dal Vaticano a Berlino, dalla Cambogia al
Ciad, dal Bengala all’Uganda e, nel tempo, dall’Apostolo
Pietro al Giubileo del Duemila. Egli ci parla senza perifrasi,
in un idioma da presa diretta - immediato, intenso, attuale di lebbra, di donne martiri, di fame che ammazza… In buona sostanza, si e ci proietta dalla terra… al cielo.
Maria Pia e Marco Scalabrino
62
Rodolfo V. Leiro, Imagénes, Selección Poética
(Cuadernillo n. 3. Revista literaria “Alas del
Alma”, Argentina 2003)
Pesci e coralli nella silloge C’era una volta il
mare… di Isabella Michela Affinito (Casa
Editrice Menna - Avellino 2002)
Come autore credo che, la collezione di queste
dodici “Immagini” della mia serie, rappresentano un tentativo nuovo, una specie di prova su una forma o uno stile
differente da considerare la mia Poesia. La maggioranza dei
commenti ricevuti, non sono stati precisamente elogiativi.
Sono certamente confuso riguardo alla possibilità di continuare questa serie di “Immagini”. Non riesco a capire se la
loro dimensione letteraria comunica qualche segno incisivo
per il futuro. Nonostante, ho voluto riunirle nel presente
libretto per evitare che finiscano nell’anonimato totale
(l’autore Rodolfo V. Leiro).
La penso come l’autore in quanto Immagini percorrono sentieri poco usuali nella Letteratura Poetica. Ma, non
è stato necessario, durante la sua storia, tentare nuovi percorsi? Non hanno spinto questi “coraggiosi” Poeti alla creazione di nuove forme (Romanticismo, Modernismo, ecc.)
che più tardi furono accettate e perfino adottate? Rodolfo
Leiro, senza dubbio è artefice della Poesia, non si accontenta dell’idioma usuale che utilizza la maggioranza dei nostri
colleghi... Immerge nelle ubertose acque del mare della nostra lingua e riscatta parole dimenticate, che egli spolvera da
immeritate ragnatele ed oscurità. Immagini sorprende per la
sua forma ed il suo linguaggio peculiare. Scivola come un
ruscello di acqua chiara, rinfrescando progressivamente le
nostre corde segrete o, in altri, facendole vibrare col suono
di un più genuino sentimento (Eva Falótico Gandolfi).
Isabella Michela Affinito
può considerarsi un’artista
eclettica. Nata in Ciociaria, fin da piccola manifesta una vera inclinazione
per il disegno, che si concretizza poi, nel quadriennio di studi presso l’Accademia di Costume e Moda
di Roma, nell’acquisizione
degli strumenti che faranno di lei un’artista, soprattutto nel campo della grafica. Matura, però, negli
anni successivi, anche l’amore per la scrittura e
pubblica diverse opere di
poesia, l’ultima delle quali è C’era una volta il mare. Perché
proprio il mare? «Perché il mare - scrive l’Autrice nel retro
di copertina – è sempre il mare e la sua esistenza è la
nostra esistenza, legati assieme da sempre e raccontare di
esso è come dire la nostra storia, i nostri desideri nascosti
come perle nel guscio dell’anima e non trovarsi a dire un
giorno: “C’era una volta il mare...” e per non lasciarlo in
solitudine il mio mare adesso è diventato Poesia».
La silloge, che accoglie 14 poesie, si apre con l’immagine di una donna mediterranea dai capelli scuri, con «il
coraggio / in gola e sangue / di amazzone non ferita», una
donna con gli occhi che hanno «il colore / antico di un’anfora / greca»; e si conclude con la figura di Ulisse il temerario, il quale, dopo dieci anni di avventure fra mostri e ninfe, sente ancora violento il richiamo del mare che lo attira
come canto di sirena ammaliatrice e parte, assetato di conoscenza, per essere infine inghiottito con i suoi compagni in
un vortice assassino.
Si avverte la presenza di una certa classicità anche
nelle citazioni: Poseidone con i suoi «splendidi cavalli / che
controvento / trainavano la sua grande conchiglia», Medea
«che giura vendetta / in riva al mare» ,Nausicàa che va incontro ad Ulisse svenuto sulla spiaggia, Narciso che si specchia nell’acqua e s’innamora della sua immagine. Ma al di
là di questa classicità diffusa, un po’ di scuola, le poesie sono ricche di colori e suoni: «Alghe marine / tra gli azzurri /
di un oceano in / movimento», sirene che «danzando richiamano / gli uomini del mare», «un alito di corallo / che vibra per tutta / la profondità…», conchiglie che portano racchiusa nel cuore la voce misteriosa e segreta del mare, i fondali di sabbia pieni di antichi ori e argenti e bronzi rimasti
laggiù per secoli. E l’amore della poetessa per l’acqua, elemento primordiale di vita, giunge fino a confondersi essa
stessa con la natura del mare in una poesia in cui si avverte
un sentimento panico di sapore quasi dannunziano. «Cambierò colore / - canta la poetessa - secondo l’umore / e tutti
i verdi smeraldo / saranno sulle mie dita / e ci sarà anche /
l’acquamarina». E più oltre: «Io come l’alta marea / attirata dalla luna / farò delle onde / le balze del mio vestito /
che resterà sospeso / a galleggiare in riva al mare».
Alfonsina Campisano Cancemi
Sicofantes
Como un cerval sicofante
el tiempo labra su herida,
sobre una pelvis urdida
en un carmín desafiante.
Una hipérbole constante
de las hojas desvalidas,
como un palpito de vidas
que nace y muere en instantes.
Y en el pulso delirante
de las venturas perdidas,
mecen manos desvaídas
una Luna aventurera,
como lágrimas postreras
dentro de cuencas baldías
Sicofanti
Come un cervino sicofante
il tempo coltiva la sua ferita,
sopra una pelvi ordita
d’un carminio provocatorio.
Un’iperbole costante
di foglie indifese,
come un palpito di vite
che nasce e muore in un istante.
E nel polso delirante
delle sorti perdute,
cullano mani sgraziate
una Luna avventurosa,
come lacrime ultime
dentro bacini vani.
63
Realtà e sogno s’intrecciano nella raccolta I
riflessi dell’anima di Giovanni Moschella,
(Carello editore, Catanzaro 2003)
Francesco Di Rocco, Dicta nocturna, (Edizioni
NOUBS, Pescara 2003)
Olimpiche, mitologiche classiche reminiscenze, o
suggestioni fantascientifiche e postmoderne, titolano i brevi
ed intensi componimenti che Francesco Di Rocco ha raccolto in questo tascabile ed essenziale volumetto,che si
fregia, sulla copertina, di in inquietante disegno di Donato
Di Zio. Inevitabile, come un passaggio obbligato, il riferimento all’evento dell’11 settembre 2001, che, oltre a modificare il corso della storia, ha cambiato le coscienze e il modo di pensare di noi tutti: «Ti tengo con me, barbaro settembre! / Nella confusione della cenere / Incerto tra cento
e cento babele / mi prenderai nella tua Desolation Row /
Biascicando dialoghi nel tuo edonismo / ridicolo. / Altro
non desidero dal mio passato! / In quanto al mio presente,
semmai sarà / indosserò nero il manto dell’oblio…» (da XI
settembre). Solitudini metropolitane, dove echeggia più
disperato l’isolamento dell’uomo tecnologico, ansie esistenziali che vanno a fluire e decantarsi in immagini e ritmi di
olimpica compostezza: «Segmenti lunari recano / le favole
in una conchiglia / sugli specchi incisi nella / notte / sebbene io mendicante / di turgidi dormiveglia / nei vicoli cristallini / indurisco rimpianti / a forma di folgore. / L’insonnia, elegante felino / istiga l’attesa dell’essenza / Caos necessario sfumato / nei vascelli di sale / L’Assassino rigenera / l’ordine delle colonne / istante spetrale dei muri /
effimeri nelle brezze / il crepuscolo squarcia / la glacialità
dell’assenza» (Metropolis). Echi di reminiscenze classiche
vanno ad attualizzarsi in circuiti mitteleuropei, nel verso
che riesce a fondere suggestioni di tempi e luoghi diversi.
Dice Massimo Pamio nella sua Prefazione: «Sembra usare
le parole come punti di non ritorno, Di Rocco, perché secondo la sua visione poetica, il dire non delimita, non è argine, bensì è deriva che emerge disperatamente in noi come
palude marina di cui noi costituiamo l’immaginario... ».
Maristella Dilettoso
Dopo i numerosi riconoscimenti ottenuti, gli svariati titoli
accademici e l’inserimento di parecchie
sue liriche in antologie a distribuzione
nazionale e internazionale,
Giovanni
Moschella si è deciso
finalmente a regalarci
la sua prima raccolta
di versi “I riflessi dell’anima”, dedicata alla sua città natale,
Atripalda. Mi vien fatto di pensare che mai titolo fu più
appropriato, perché la silloge è veramente piena di “riflessi”
(“questa sera dormirò sull’arcobaleno”), che si trasformano di volta in volta in acqua, aria, luna, stelle, “bagliori dorati del tramonto”, come se il poeta, da quel bravo pittore
ch’egli è, usasse davvero la tavolozza dei colori.
Capita raramente di leggere poesie così limpide e
semplici nello stile e così intense e vibranti nei contenuti. Il
poeta, sensibile alle problematiche sociali, sente dentro di
sé la sofferenza dei più deboli e canta con profonda partecipazione l’innocenza negata ai bambini più sfortunati, da
quelli che imbracciano un fucile troppo pesante per le loro
tenere braccia a quelli dimenticati negli orfanotrofi come
pupazzi, a quelli ancora costretti a vendersi l’anima ai semafori. Avverte con dolore lo scorrere del tempo che tutto
travolge, l’impossibilità di comunicare con i propri simili e
soprattutto il dramma della solitudine “…scavata / da lance
/ che trafiggono un cuore / lacerato / da assurdità violente…”. Talora i toni si fanno più duri e il poeta si sente “come un gomitolo / da sciogliere / e non si trova il capo; /
come un pulcino / chiuso a riccio in un angolo aspettando /
che passi un treno…”. E su quel treno il poeta salta per rifugiarsi nel passato, per tornare bambino, “tra i sogni e le
stelle”, per “credere nell’impossibile”, con le speranze
legate al filo di un aquilone che un tempo sfiorava il cielo!
E nel passato ritrova la donna amata, pronta a donarsi e
dargli forza (Quante volte correndo / siamo caduti insieme /
e tu con la forza / mi hai aiutato a rialzarmi”). Ora lei non
c’è e il poeta “murato fuori dal mondo” offre le sue lacrime
alla luna, silenziosa e pura, che gli consente di sognare ancora in una notte in cui le stelle “come meteore / illuminano
/ e accarezzano / leggermente il cielo”; affida le sue sofferenze alla poesia, “un’arpa che infiamma i cuori”, unica
consolazione nell’inferno della sua vita. Ma al di là dello
strazio, (“vagabondo con un cane e / i miei stracci”), il poeta ha conservato una purezza interiore che nulla potrà intaccare (“…la mia anima inquieta / è segnata da cicatrici /
ma dentro vi è il bianco / che non riesci a sporcare”).
Alfonsina Campisano Cancemi
È sera di Salvatore Magli (Convivio n. 15 pag. 22)
C’è nostalgica tristezza in questa poesia di Magli,
egli ricorda la scomparsa del babbo, il clima più adatto per
questa ricordanza è quello della sera. «Il silenzio che mi è
d’intorno / intesse immagini di pace?». È nella crepuscolarità che «la memoria / percorre a passi felpati / il labirinto
dei ricordi». Efficace espressione per dire lo stato d’animo,
questo favorisce la pietosa sensazione di una quasi presenza
reale ...e ci sei! Come ala di sogno». Il clima si fa idilliaco
e, nella penombra della sera., «si leva i concerto di violini..» che accresce la suggestività del momento. Torna la
cruda realtà: «Te ne sei andato / non senza avvertire.. »
delicata sensibilità per affievolire il dolore, te ne sei andato
«come uccello / al suo ultimo volo...». Tornano alla mente
tutte queste cose nel silenzio della sera... lontano dai tumulti del mondo.. l’autore riassapora nella loro realisticità quei
momenti dell’estremo trapasso, acuito... dall’intenso odore
di spigo. Una mesta rievocazione affettiva, intristita dal
clima crepuscolare della sera in cui il mormorio del vento
fa da sottofondo alla «canzone / che mi lasciasti per vivere
/ padre mio...». Appassionata riproposizione di un momento
drammatico: la morte del babbo!
Pacifico Topa
64
L’Altra Diagonale di Giuseppe Cesaro (Blu di
Prussia editrice, Piacenza 2001)
Angelo Cianci, la ricerca filosofica del Sé in
Momenti visivi (Ed. Menna, Avellino 2003)
La silloge poetica “L’Altra Diagonale”, pur riunendo un numero esiguo di liriche di Giuseppe Cesaro, poeta
che ha spesso pubblicato sotto lo pseudonimo di Angelo Elmo, rappresenta, come osserva l’editore Eugenio Rebecchi
nell’introduzione, «un lungo percorso emotivo dove si assemblano velate malinconie e sguardi sul mondo, ricordi ed
emozioni, voli del pensiero e osservazioni, nomi di donna e
tentativi d’amore, suggestioni e fremiti, filosofia esistenziale e vita vissuta o soltanto voluta, desiderata, immaginata».
Nelle sedici poesie proposte alla nostra attenzione
è ben evidente come il poeta e l’uomo si compenetrino e si
completino a vicenda. Infatti, Giuseppe Cesaro, che in passato ha lavorato come agente educatore in un carcere minorile, definisce se stesso come «il poeta dell’infanzia reclusa». Nella silloge “L’Altra Diagonale” il canto viene gradevolmente modulato anche dalle poche ma meditate ripetizioni e dalla dosata punteggiatura. La diagonale bianca tracciata dal poeta su un foglio nero (nella poesia che dà il titolo all’intera raccolta) incide e cattura l’attenzione del lettore
come un taglio di Lucio Fontana e, nella sinestesia del vento colorato di blu (nella lirica “Vento blu” che potremmo
definire come la più geometrica), l’autore pare riecheggiare
“Il Suono Giallo” di Vassily Kandinskij, donandoci sensazioni molteplici. Ogni lirica svela immagini inedite che si
innestano nel solco della tradizione.
Giuseppe Cesaro dimostra come sia ancora possibile sognare e come sia ancora possibile sperare di realizzare i nostri sogni, pur continuando a osservare attentamente e con lucidità la realtà quotidiana. Egli traccia una diagonale bianca su un foglio nero, ovvero la luce laddove ogni
speranza si era spenta. Ma la sua non è soltanto una luce
che consente di vedere, di vedere davvero. È anche una luce
da vedere, una luce che inonda e pervade. È la luce del sogno poetico. Altri potranno disegnare, sulla diagonale tracciata dal poeta, la loro diagonale. I versi che ne scaturiscono non sono sempre delicati. A volte è lo spirito del ribelle
sognatore a prevalere, come si evince dalle parole dello stesso Cesaro: «Mi rialzerò come un eroe / cadrò ancora come
un bambino». Egli pare voler dialogare con la parte migliore di ognuno di noi, quella parte che rimarrà sempre giovane, per ricordarci che «Non è forte colui che non cade mai, /
ma colui che cadendo ha la forza di rialzarsi» (Goethe).
Claudia Manuela Turco
«Subito prende, della poesia di Angelo
Cianci, un senso come di tesa e sottilmente drammatica
ricerca di sé: una ricerca che si consuma tutta all’interno
degli spazi dell’essere, che anzi dell’essere fa il punto di
forza e di limite della propria esistenza,
di accettazione e di
negazione, entro un
dualismo ideologico
ed espressivo in apparenza lieve, descritto con pudore, in realtà teso, lacerante, inconcluso».
Questa visione della poesia di Angelo Cianci, così come si
può dedurre dalla prefazione di Giorgio Agnisola al volume
“Momenti visivi”, è pienamente condivisa da me, in quanto
la poesia, quella lirica soprattutto, non è altro che ricerca di
sé, una ricerca interiore che sfocia poi nella comunicazione
con gli altri, così come nella riflessione filosofica e nella
contemplazione mistica, o forse meglio estatica, della realtà. L’antico detto socratico, conosci te stesso, è quella ricerca interiore che conduce proprio alla filosofia, e la poesia è
pure filosofia, cioè appagamento dell’animo attraverso la riflessione. E tale è la poesia di Angelo Cianci: profonda, riflessiva, mistica, mostrando una continua tensione volta al
«grido alla vita / di coloro che cercano / di ritrovare se stessi». Ma questa ricerca non è fatta con parole altisonanti, o
versi contorti e complessi, bensì con le semplici parole di
chi ha padronanza completa del linguaggio e sa con umiltà
accostarsi alle cose e a se stesso per prenderne coscienza.
La ricerca è frutto di dubbio esistenziale, è quasi
una continua domanda del perché della vita, del pensiero,
della gioia, del dolore. La ricerca è espressione di sentimenti e di affetti, di ricordi filtrati attraverso la quotidianità
dell’esistere, dell’essere e del sentire. La ricerca di sé non è
quindi ricerca sterile e futile, non è mera filosofia, in quanto
essa sfocia nella ricerca dell’Altro da sé. Neppure l’Altro da
sé è entità filosofica, ma termine di confronto e di dialogo,
quasi parte integrante del Sé. È come dire che il conoscibile
si scontra o si confronta con l’inconoscibile.
Si può quindi affermare che la poesia di Angelo
Cianci è costituita da una ricerca interiore e attiva, una riscoperta che parte dall’intimo per andare all’esterno, che
prende le mosse dalla fanciullezza in un percorso lineare e
progressivo in cui si sente «bussare il pianto, la speranza, il
grido alla vita». Il tempo, infatti, è l’elemento che fa da tramite in questa ricerca, in cui sentimenti ed emozioni si fondono. Il silenzio-tempo conduce alla quiete e l’animo gode
«della gioia di essere e si lascia cullare dalla brezza di una
pace armoniosa». Versi bellissimi e pieni di incanto, pieni
di umanità e di semplicità, pieni di amore estatico e mistico.
Il passato si fonde al presente. «Il continuo succedersi delle
stagioni / che inseguono il tempo / senza riuscire a fermarlo, / si abbatte sul mio corpo / fino a quando / il suo peso /
Per una cultura del libro, di Francesco De
Napoli: (Edizioni Eva).
Cassino, centro ci cultura europea, noto per la sua
abbazia e per i numerosi manoscritti che hanno conservato
la cultura classica e medievale per millenni, è oggetto di
un’interessante e approfondita analisi da parte di Francesco
De Napoli, ‘bibliotecario”, che ama davvero la cultura, e che
si rammarica quando vede le difficoltà che la società di oggi incontra per accostarsi al libro. Si tratta di un volumetto
agile e snello, dal titolo “Per una cultura del libro”, che evidenzia come il mezzo di informazione, televisione e giornale, possa influenzare la gente e come personalità quali Berlusconi possa raggiungere l’apice del potere, attraverso il
mezzo informativo.
Angelo Manitta
65
non lo appiattirà». Il tempo, sotto alcuni aspetti distruttivo,
sotto altri costruttivo, porta alla metamorfosi, alla trasformazione di sé, del Sé e delle cose. Il trasformarsi riporta al
punto di partenza, al principio, quasi in un cerchio chiuso,
in un rapporto biunivoco di tempo e spazio. Emblematica in
tal senso è la poesia “Pianto dell’anima”:
Pasquale Francischetti, I paesaggi dell’anima
Poesie 1983-2002 (Giuseppe Laterza, Bari 2003)
Pasquale
Francischetti, con la silloge
“I paesaggi dell’anima”, edizioni G. Laterza, s’addentra nel
mondo della introspezione, cercando
di individuarne le essenzialità; egli analizza la realtà nella
sua concretezza, ne
trae utili suggerimenti necessari per
affrontare le diuturne battaglie della vita. Trattasi di una
corposa silloge che
spazia ampiamente
nel mondo circostante e ne sonda la consistenza. Sono argomenti alla nostra
portata, ma che troppo spesso vengono sottovalutati, non
così per questo attento osservatore che evidenzia ogni minuzia pur di dare ad essa la valenza che merita. Trattasi di
un metodo poetico assai limpido, che elude ogni involuzione, ma proteso verso quella sostanziale ricerca del nuovo,
del diverso dell’imponderabile. Nella sua vena ispiratrice
costante incognita, egli stesso non ne fa mistero: «Figlio
mio, quando mi chiedi / il senso della vita io risponderò...
tutto si dissolve al confine del sogno». Da questi versi si ha
la percezione di una personalità che guarda al concreto, non
si lascia influenzare dall’effimero. In tutta la poesia di Francischetti c’è senso di ottimismo, necessario a chi si dispone
a distribuire il suo pensiero. I paesaggi dell’anima è una panoramica di eventi che trovano sempre pronto l’ideatore nel
definirne la consistenza, delucidarne la sostanza; occasioni
che servono all’autore per chiarire la sua presa di posizione
sempre eticamente valida. Una vena ispiratrice che è pervasa di velata mestizia e spunti di rimpianto, ma nel contempo
adeguata realisticità del momento. Una panoramica assai vasta di un mondo quello nostro, che offre occasioni di ponderazione ma anche spunti critici, di oculato commento; momenti di una realtà che noi diutunamente riscontriamo, ma
che ci colpiscono, perché saputi proporre con precisione
linguistica. Vi aleggia anche una nota di tristezza, ma essa
viene accolta con rassegnazione, mai disperazione. Panoramica circostanziata di fatti che si avvicendano nella nostra
esistenza che si prestano a spunti osservativi. Trattasi di poesia sensibile, che fa appello alle più intime corde dell’animo, che rifugge ogni sdolcinatura, ma si attiene agli schemi
del realismo; poesia quanto mai accattivante per semplicità
stilistica, per concretezza descrittiva, arte poetica vera e propria senza mezzi termini, se adeguata a chiunque desideri di
arricchirsi culturalmente. Il mondo di Francischetti è quello
di tutti noi visto con occhi attenti, indagatori, composizioni
che si confanno con la tendezialità di una poesia che vuol
penetrare negli animi, stimolando sentimenti. Poesia descrittiva, ispirata da sensazioni quanto mai profonde di un
personaggio che fa della poesia il suo stesso senso di vivere!
Angelo Manitta
Ora, che sto per esaurire
le riserve del mio fervore,
sento il pianto dell’anima mia
che vuole, ma non può
più donare ad altri
i suoi affetti
trafugati in fretta dal tempo.
Enza Conti
Ciro Carfora, Finestra (Convivio n.16 pag. 27)
Carfora ha focalizzato la sua attenzione poetica
sulla finestra, proponendoci le diverse angolature con le
quali questo utile mezzo di comunicazione con l’esterno
viene descritto. Simbologicamente sono testimoni di momenti lieti ed altri tristi; dalla finestra ci si mette in comunicazione coll’esterno nella sua differenzazione. Addirittura l’autore definisce “dolci le mie finestre..”, perché sul
loro davanzale occhieggiano i policromi gerani, ma da esse
anche si osserva il cielo stellato e ci si inebria delle
bizzarrie di una fantasiosa rugiada. Giustamente le finestre
sono anche “gentili”... “Salutano il viandante...” dinanzi a
loro passa come in una visione filmica, la realtà concreta,
quella operativa. Carfora conclude questa sua creazione con
un pensiero di gratitudine. «Sono grato alle mie finestre /
che cancellano la noia / rompono la solitudine». Leggendo
questi versi si ha la sensazione che la finestra allarghi le sue
braccia per accogliere nel suo amplesso una realtà che “...in
fondo chiede poco...”. Infatti non è la realtà che s’impone,
ma siamo noi che la individuiamo nella sua ecletticità.
Apprezzo la composizione di Carfora che propone una
tematica inusuale, ma sempre validissima.
Pacifico Topa
Francesco Celi, Non parole (Convivio n.16 pag.
30)
Celi ha un modo del tutto originale per mettersi in
contatto col prossimo, gli occhi e le mani sono per lui utili
ad intavolare una circostanziata conversazione, un mezzo
idoneo per comprendersi reciprocamente. «...Per dar voce
alle emozioni / non userò / parole» esordisce così. Esprime
subito il desiderio di parlare con gli occhi, ma aggiunge che
i segni del tempo che si potranno rilevare da questa osservazione non sono vecchiaia, ma frutto di esperienza. «Nessun altro potrà parlarti / con i miei occhi...» Poi aggiunge
ancora: «Voglio parlarti con le mani...» che, aggiunge, nella
loro esistenza hanno instancabilmente operato, hanno combattuto contro le avversità, lottato per conquistarsi uno spazio di libertà, mani che nei momenti delicati hanno accarezzato amori conservandosi robuste, stimolate dal ricordo.
Celi conclude questa sua composizione ribadendo che non
userà le parole per comunicare ma, questi due organi che
riescono a dire forse più delle parole stesse, perché consentono di comprendersi a fondo!
Pacifico Topa
66
zerello / le tempeste di neve”. E in seno alla natura, che
l’accoglie regina, lei smaltisce la solitudine (lo spirito si
scinde dal reale / e vola, imponderabile piuma, / nell’azzurro dei sogni / dove tutto è magia).
Alfonsina Campisano Cancemi
Eros e Thanatos nella silloge Omnia vincit amor
di Antonia Izzi Rufo (Ed. Eva – Venafro - 2004)
L’ultima silloge poetica di Antonia Izzi
Rufo “Omnia vincit
amor” presenta 25
liriche con la traduzione in lingua greca
del poeta e scrittore
Costas M. Stamatis,
il quale ha cercato di
rimanere quanto più
possibile aderente al
testo. Tale apprezzabile operazione culturale può considerarsi
un omaggio a quella
matrice greca da cui
derivò tutta la cultura
latina, (eccezion fatta
per la satira, la quale “tota nostra est”), e di cui possiamo
sicuramente considerarci eredi. Il titolo lascerebbe presupporre la vittoria dell’amore, ma in realtà la poetessa canta
l’amore come assenza e tormento, come aspirazione massima dell’anima, che si scontra però con l’amarezza del reale.
L’amore vince nel senso che domina l’amante deluso schiacciandolo sotto il suo peso, ma, così come il Petrarca, anche
la Izzi non potrebbe mai farne a meno. Simbolo e cifra della
potenza dell’amore è il meraviglioso mito di Amore e Psiche, i quali, nati per amarsi, superarono tutte le prove e furono accolti, teneramente abbracciati, “nella schiera sempiterna / degli dei immortali”. Ma la poetessa si identifica
con l’infelice Saffo e la coglie nell’attimo della massima
disperazione quando, innamorata invano di Faone, decide di
gettarsi in mare per trovare finalmente la pace. Nemmeno le
Pieridi riusciranno a consolarla della sua bruttezza, ricordandole che la bellezza interiore e la poesia cancellano i
segni del tempo. Rimane, doloroso, sull’acqua che ha pietosamente accolto il corpo della giovane, il pianto delle Muse
e della natura a fare da controcanto alla “voce dolente della
sventurata: / Qualcuno si ricorderà di me…”
Il desiderio di eternità ha sempre accompagnato
l’uomo che, sin dalla notte dei tempi, si è creato un mitico
aldilà per fugare la paura della morte. Come Saffo, anche
Antonia Izzi Rufo, che ama non riamata, (“Perché non affondi / mio tormento d’amore? / Rimbalzi ostinato / alle mie
compressioni / come boa a fior d’acqua. / Saturo, trabocca
l’animo mio, / e più non regge”) spera che quando Thanatos annullerà tutto il suo essere, qualcuno possa almeno pensare a lei “qualche volta / con amore non con spirito pietoso”. Ma la poetessa non si lascerà schiacciare da questo
sentimento dolceamaro che la tortura, e si rifugia nel ricordo dell’infanzia dorata, quando faceva capriole sull’erba e
tendeva le braccia alle farfalle in volo; quando le acque del
ruscello le carezzavano la pelle e «un ragazzo innamorato /
che catturava lucciole / gliele offriva come pegno d’amore».
E, al di sopra di tutto, brilla di una luce che nulla
potrà offuscare la divina Poesia, suo rifugio e sua consolazione. Tutto, al suo passaggio, si tramuta in poesia: “i fiori /
il silenzio dei boschi / il mormorio dei ruscelli / il lamento
dell’usignolo /…la voce burbera del mare /…il vento paz-
Pantaleo Mastrodonato, Piramo e Tisbe (La
casa delle muse, Simposiacus, 2003)
La trasposizione e rielaborazione teatrale di Pantaleo Mastrodonato, (mimolodia la chiama lui), si rifà alla
nota leggenda raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi, Piramo e Tisbe. Si tratta di una delle più commoventi narrazioni
che il mondo classico ci ha tramandato e che ha molti punti
comuni con la vicenda di Romeo e Giulietta, raccontata da
molti autori italiani tra il Trecento e il Cinquecento, in particolare da Luigi Da Porto, poi brillantemente messa in scena da Shakespeare, nel Seicento. Ma la “Piramo e Tisbe” di
Pantaleo Mastrodonato non è un puro rifacimento del mito
classico, vi è una novità espressiva e concettuale, una religiosità profonda, una cristianizzazione del mito che meraviglia, ma tutto è fatto con una tale naturalezza che quei
personaggi sembrano davvero cristiani. L’apertura è quasi
da “Cantico dei cantici”, uno dei libri più belli della Bibbia:
«O sposo diletto, che tanto ti bramo, vieni in aiuto! Splendore divino, allieta i dì, o celeste dio». Ma la religiosità
dell’opera appare molto evidente nella parte finale, quando
il coro celeste canta: «Lodato sia il Signore, che fece il
cielo e la terra. Ogni alma vivente Lo lodi perenne tra tutti i
secoli, perché protegge l’uomo che osserva i suoi precetti e
guida le anime nostre da tutte le strane insidie del perfido
Male che intacca il cosmo celeste e divino». L’elevatezza
lirica del dramma emerge soprattutto nei cori, dove l’amore
si sublima in uno dei perenni e perfetti sentimenti cui
l’uomo aspira. La morte diventa purificazione, diventa passaggio da uno stato mortale ad uno eterno. Tisbe si consola
in questo, si consola nella speranza di un futuro migliore e
perciò la morte per lei è aspirazione perfettiva. Se la ricerca
conduce attraverso l’amore alla morte, questa non è espressione di Male e di Terrore, ma di Vita e di Felicità. In questa prospettiva Piramo appare profondamente religioso e cristiano nella continua ricerca della verità e della divinità. Ma
il procedimento di cristianizzazione del mito da parte di
Mastrodonato è lecito o è una forzatura? A questo interrogativo non si vuole dare una risposta, sarà il lettore a decidere da sé.
Angelo Manitta
Inquietudine quarantanove percorso rieducativo
di Rosalba Masone Beltrame (Book editore,
Bologna 1989)
“Inquietudine quarantanove”, una raccolta poetica
che Rosalba Masone Beltrame ha riordinato per concretizzare un percorso rievocativo in cui predomina l’incertezza,
il timore dell’avvenire. «Perché aspetto domani? / Anche
ieri / aspettavo domani». Incognita sibillina di un atroce
dubbi riguardo il futuro. Questo assillo è persistente «per
un’alba che sorge c’é una misera / che muore». Ricorrono
spesso queste locuzioni realistiche che accentuano la credibilità di chi è immerso nel pelago poetico. La Masone ha
insito nel suo DNA caratterologico questa propensione alla
67
realisticità, l’immaginario le viene incontro per addolcire
quella sua vena forte di saggia proverbialità. Non trascura
l’isolamento, la solitudine che è ritenuta danno fisico e morale, apocalitticità esistenziale. Nella sua poesia c’è una nota di pessimismo, larvata fiducia, ma sempre una paura dell’ignoto. Una versificazione snella, rapida, che riesce a dare
l’esatta significazione del tema. L’autrice preferisce il realismo ed è assolutista nel dichiarare, senza mezzi termini, il
suo pensiero. Spesso si fa trasportare dalla fantasia ed allora
la sua poetica diviene più armoniosa. «L’eco / rapiva il sorriso / alla luna / ed era già una primavera / vicina all’estate».
Ogni tanto si evidenzia questa delicatezza ispirativa tipico
prodotto femmineo. Il verso svolazza leggero nel clima tipico di una poesia sentimentale. La rimembranza è sempre
più o meno presente e si propone con i toni aggraziati del
rimpianto, del rammarico. La seconda parte “Rossa di stelle” è una rivisitazione del passato, rivivere momenti evidenziandone gli aspetti più appariscenti. Il ricordo di persona
scomparsa. «Su queste scale / volte alla corte / è salito / e
disceso una vita / di ottantrè anni». Il tono s’eleva con la
speranza. C’è esasperazione, quasi sdegno. «Cuore mio / ti
nutri di nulla / il tuo colore del vento». Versi aulici, sia nella stesura che nella simbolizzazione, rispecchianti uno stato
d’animo. Sulla ineluttabilità dell’esistenza si presenta un
pessimismo indiscusso, un realismo puro!
Pacifico Topa
per finire di crescere, della sua forza. Ma il destino crudele
ha voluto così ed ella deve sopravvivere... Il suo canale d’emergenza sono i ricordi; essi l’aiutano a conservare viva la
memoria di lei... Contempla la foto in cui la mamma sorride
e sorride pure lei, raccoglie fiori e ne orna la sua tomba, scrive poesie per lei e imprime nei versi tutto l’amore che trabocca dal suo cuore... Ma quanto doloroso rimpianto c’è
nelle parole che si sprigionano dal suo animo intrise di
pianto: «Pochi anni ti ho chiamata mamma... Questo nome
non posso più pronunciarlo... Solo nei sogni posso chiamarti mamma».
Antonia Izzi Rufo
Pietro Nigro, Riverberi e 9 Canti Parigini,
(Poeti nella società, Napoli 2003)
Esposizione scorrevole e musicale che
sa di nostalgia, di
malinconia a volte,
di ricordi che tornano a galla per lenire
la tristezza... Quadretti idilliaci nei
quali protagonisti in
primo piano sono il
vento e i sogni che
procedono per mano,
in sintonia... Il vento
accarezza la foglia e
s’immerge nelle acque che scorrono tra
i ciottoli per intrecciare con esse dialoghi di suoni e canti di melodie... Sogno d’infinito sperare
l’eterna vita. Il vento arriva dal mare... Hai riso, hai pianto,
hai sognato con occhi di gabbiano... Il vento serale porta via
le parole in un mondo dove i sogni s’acquietano... E la natura è sempre presente con le sue meraviglie, con i monticastelli di ghiaccio e di neve, i boschi declinanti su placide
acque di lago, canti d’uccelli, “frinire” di grilli, sorriso di
verde, di sole, d’azzurro, di luce, svettare di limpidi cieli,
volo di bianche colombe... Luoghi ai quali la memoria
riporta l’autore, Pietro Nigro, per fargli rivivere l’incanto
d’un tempo felice... Persone scomparse che hanno lasciato
nell’animo un vuoto incolmabile e un’angoscia che ancora
brucia... Così per la madre: «Una volta ancora / disfatto hai
l’eterno dramma / d’un sogno di vita». Problemi esistenziali, rigetto di tutto quanto mostra di negativo la società moderna. Ciò che colpisce, nella panoramica delle trasmissioni
televisive, è quel volto di bimbo che giace su un letto d’ospedale con due bende sugli occhi: «Quegli occhi volevo
che rivedessero / il cielo, il monte, i campi e il blu del suo
mare solare». I “9 Canti Parigini”, con testo a fronte, tradotti dall’autore stesso, ripercorrono i giorni del piacevole
soggiorno a Parigi in compagnia della sua donna (luna di
miele?), giorni indimenticabili che hanno inciso nell’animo
immagini eterne: la collina di Montmartre, dove «piange
una chitarra di notte / a ripetere canzoni di un eterno rimpianto»; Place du Tertre, Rue Norvins, Quartiere Latino,
Boulevard Saint Michel, Saint Germain... Sempre con lei,
in dolce amplesso: «Mentre tu t’abbandoni / mi perdo tra i
Poesie per una madre di Maria Cristina La
Torre, (Penna d’Autore, Torino 2003)
L’amore vince ogni
altro sentimento. È
sempre stato così dal
primo apparire dell’uomo nel mondo, e
sempre così sarà. La
mamma è calore, protezione, rifugio, conforto, sostegno fisico
e morale. Ne rimpiangiamo la presenza anche quando essa
ci lascia, per sempre,
a tarda età, se poi la
sua dipartita avviene
prematuramente, il
dolore è maggiore, il
vuoto incolmabile, la
sua mancanza insostituibile. La madre di Maria Cristina La
Torre morì a soli cinquant’anni, quando la poetessa adolescente, ne aveva appena quindici. L’adolescenza è un periodo critico, delicato, che va vissuto in un ambiente sereno,
nella comprensione e nell’affetto dei familiari perché possa
essere superato senza traumi e senza complessi... «Mi manchi tanto» si lamenta Maria Cristina, «non ho più nessuno
con cui giocare / la storia della madre e della figlia». «Madre, dammi un pezzo di pane / che ho fame». Una grande angoscia traspare da queste espressioni, una profonda solitudine. La poetessa si rivolge alla madre perché le faccia compagnia, le dia del pane, come una volta... Il legame con colei che le dette la vita è solido, non si spezza, le è necessario
per andare avanti. Ed ella vi si aggrappa per non crollare
perché è stata lasciata sola quando ancora aveva bisogno,
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tuoi capelli / e si scioglie il mio languore nelle tue carni».
La poesia del Nigro non si può collocare in un determinato
filone letterario perché in essa confluiscono - così come per
quasi tutti i poeti contemporanei - i sentimenti universali
propri di ogni poeta. Potremmo imbatterci nel pessimismo
leopardiano, nel romanticismo delicato del Pascoli, nell’amore per le piccole cose dei crepuscolari e così via. La lettura è piacevole, distende, rilassa, coinvolge, come in “Rosaviolaceo pensiero”:
Vivevi ritmica essenza
dello stesso colore
rosaviolaceo
di un’insegna che vidi
di notte immerso nel pensiero
di una vita di prima giovinezza.
Antonia Izzi Rufo
Silvano Messina, Clodia e le altre, poesie
giovanili (Ed. Vivamacondo, Niscemi 2004)
È un bel libro, piace
e si legge d’un fiato.
È una voce giovane,
quella che si sprigiona dalle liriche dal contenuto giovane - e giovane è
l’autore. È tutto in
sintonia. Quale l’interesse precipuo di
un giovane (chiedo
scusa dell’iterazione)? L’amore e le
donne, pardon, le ragazze (il termine
donna, oggi che la
giovinezza s’è allungata di molto, sa di persona già troppo matura); l’amore
inteso nella sua accezione integrale, “agape ed eros”, sentimento, sogno, sesso; le ragazze viste come attrazione, piacere, estasi, possesso fisico e spirituale, appagamento completo. Silvano Messina trabocca di vitalità e di esuberanza
giovanile. Egli si rivela un sentimentale e un sognatore.
È attratto dalle meraviglie del creato e dal mondo
sano, adamantino, genuino dei suoi antenati, amici degli
animali e della natura, i quali vivevano liberi nelle “giungle
vergini” e rigettavano il futuro e il progresso; è “ipnotizzato” dalla luna, «quell’occhio immenso che ti guarda senza
tregua, vuoi afferrarla e non ci riesci»; è amico della notte e
delle sue contraddizioni; della notte, evasione «dall’insensata vita diurna»,che ti parla con parole mute... In essa trova
rifugio e conforto, cerca la fede, riesce a provare «la sensazione di essere vivo». Nel suo silenzio e nel suo mistero ritrova la sua identità, riesce a dialogare con se stesso e a riconoscersi... Ma il nostro Poeta è affascinato soprattutto
dalle ragazze, siano esse bionde o brune, purché belle... Sono esse le vere protagoniste del libro... Egli ce le mostra in
passerella, come in una sfilata di moda, quasi sempre in
blue-jeans aderenti, che mettono in rilievo le «forme armoniose e provocanti». Splendide tutte, tranne una, quella che
si «dà le arie», «racchia, bassa e brutta» e che egli ha avvicinato solo perché gli serviva da “tramite”. Non sempre i
suoi approcci hanno esito positivo, spesso deludono e lo
fanno soffrire, ma egli non si scoraggia, ripiega nel “sogno
riparatore”, si rifà degli insuccessi e appaga i suoi desideri...
Ma quanto sarebbe meglio vivere nella realtà ciò che avviene nel sogno... Tutte le ama, le sue straordinarie ragazze,
ma ce n’è una che ha conquistato il suo cuore in «modo
violento», che rappresenta «l’eterno amore», intramontabile,
della sua vita: è Clodia. Per lei dimentica, ogni volta che la
rivede, gli amorazzi che lo hanno consolato durante l’assenza di lei, e torna a sentirla sua come «il solo, unico irrealizzabile sogno». Avvincente e divertente, “Sfogo”, la pagina
in prosa, tra le ultime della silloge. Tarzan redivivo, l’innamorato dagli «istinti bestiali», si trasforma in un bruto e come tale si comporta. Il linguaggio esula dall’oscurità di certe espressioni ermetiche: è semplice, schietto, scorrevole,
trasparente.
Antonia Izzi Rufo
Marco Galvagni, Nel germoglio vergine, (Le
Schegge d’Oro, Montedit, Milano 2003).
Nel germoglio vergine è una nuova e raffinata silloge di Marco Galvagni che presenta un quadretto bucolico
che sa d’antico e riporta lontano, ai tempi sani e autentici degli antenati, non inquinati dal progresso e dalla civiltà: la
figura patriarcale di un vecchio che contempla (orgoglioso
e speranzoso) il suo campo di grano appena seminato e pregusta un nuovo raccolto e il Poeta che, senza essere visto, lo
“ammira e rimira” e porta con sé «l’estatico esilio delle sue
conoscenze». E non solo. Augura al vecchio, «ora che la
(sua) sera s’è fatta scura», di godere della pace e della tranquillità che gli sono dovute, che sia di nuovo padrone del
suo «quieto senso di vivere», che ritrovi, nella «immemore
memoria», nei ricordi, «ghirlande di luce lasciate lungo il
cammino» e possa, finalmente, «ricostruire le geometrie
della sua vita». Nei versi di questa significativa poesia è
concentrato, e preannunciato, il percorso seguito dall’autore
nell’analizzare le problematiche esistenziali che riguardano
se stesso, l’uomo in generale e la società e il modo come
risolverle per uscirne vincitori. Sembra prevenuto verso il
roseo dell’esistenza, vede tutto nero. Infatti si esprime con
acredine, vede svolgersi la vita in un cielo costantemente grigio nel quale il sole di rado mostra il suo volto allegro... Le
sue meditazioni non restano nel superficiale ma si spingono
nel profondo e affrontano, nella loro drammatica realtà, tutte le situazioni, traendone amare conclusioni. La vita è lotta
continua, è dolore, angoscia, delusione. Non si scoraggia,
però, e non si arrende e riesce, «con gli artigli», ad abbattere gli ostacoli, a “disincagliarsi” e a spiccare il volo verso
l’infinito... Diventa tenero quando si abbandona ai ricordi,
che rivive con nostalgia, e a momenti che hanno inciso segni indelebili nel suo cuore... La natura rappresenta l’evasione dallo smog e dal ritmo frenetico e incessante delle macchine; essa dà serenità, favorisce l’approccio alla poesia, gli
permette di dialogare con la Musa: «In te cerco la pace / che
nel pomeriggio della vita mia, / s’è fatta rara e disusata». La
certezza-speranza di poter realizzare, un giorno, il suo sogno d’amore, lo mandano in estasi. Così alla donna del cuore: «È con timida speranza / che ogni giorno / t’ammiro mentre cammini leggiadra». Vari gli argomenti, tre le sezioni:
Nel germoglio della vita, Genesi, Poesie scelte. Linguaggio
ricercato e raffinato, simbolismo, contenuto consistente e incisivo, espressioni allegoriche e metafora ma trasparenza.
Antonia Izzi Rufo
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squisizione filologica; era stato ripreso con la consapevolezza di chi innestava la ricerca dotta nella vita, dove la parola non è flatus vocis, ma concrezione di esperienza viva.
Sapeva discorrere di tutto, dalle lettere alla matematica,
all’astronomia. Un sapere completo, non di chi si affanna
per accumulare erudizione, ma di chi dà senso alla vita della terra, dell’uomo, di chi si china a guardare la piccola fioritura delle cose anche minime e con uno sguardo dei suoi
occhi attenti sa leggere in fondo al cuore.
Molti di lui ricordano la dimensione georgica, virgiliana: la campagna lo accoglieva come homo artifex, sebbene preferisse definirsi un campagnolo. Aveva la manualità come valore: dissodare, innestare, coltivare con cura sapiente, anche uomini. Io voglio ricordarlo piccolo grande
uomo, vicino alla tristezza degli altri. Sensibile, come Didimo di foscoliana memoria, alla compassione e al pudore,
due forze pacifiche le quali temprano sole tutte le altre forze
guerriere del genere umano, si accostava alle colleghe con
devota simpatia, pronto a cogliere, al di là della facciata, il
lavorio dei conti con la vita, lui che aveva imparato ad affrontarla con segreto coraggio. Te lo trovavi accanto, a portare un sorriso nei momenti duri, te lo ritrovavi intorno a
smuovere le ombre, a rallegrare con spirito delicato fatiche
e sofferenze, piccolo genio buono e amico. Voglio soprattutto testimoniare la sua forza. Dell’ultimo incontro, a casa sua,
riporto in me il grande controllo e l’affetto delicato: non pesare con la sua sofferenza sulla mia fragilità, e di questo ancora lo ringrazio.
Rosa Grillo
Michele Strano, Memoria e ...memorie (ed.
Conarte, Giarre 2004)
Michele Strano nasce a Catania il 2 febbraio 1930 da Angelo
e Margherita Trovato. Trascorre la sua
infanzia ad Acireale,
città di origine della
famiglia e, per qualche anno, in Calabria.
Nel 1948 si iscrive
alla facoltà di Lettere
Classiche a Catania,
dove nel 1961 consegue la laurea. Le vicende della vita lo
portarono ad insegnare dal 1951 al 1977
nelle scuole elementari: sono anni di densa esperienza umana e pedagogica che egli considerò una ricchezza... Nel
1956 sposa Maria Castorina e da questa unione nascono
quattro figli. Viene stroncato dalla morte il 30 Agosto 1993.
Dal volume pubblicato in sua memoria si propone la prefazione scritta da Rosa Grillo, docente di lettere presso il Liceo Classico di Acireale:
I suoi studenti lo hanno amato come un padre e un
maestro. I giovani sono capaci di fissare l’indole di una persona con tratti efficaci, così lo vede una sua allieva: «Mi è
capitato di osservarLa spesso mentre guardava fuori dalla
finestra, con lo sguardo immerso nel vuoto, gli occhi socchiusi, gli occhi che per me contengono una saggezza antica». Così Michele Strano torna tra noi, con la sua grazia e il
suo mistero.
Questo libro è una raccolta di testimonianze amorose: 1) il suo amore per i classici, che nelle ricerche che
conduceva, dotte e documentatissime, passavano dalla frantumazione filologica alla vita. La vita che sedimenta nei secoli, nell’incessante trasformazione delle cose in parole e
conserva, passando dal mondo dei dotti alla sapienza popolare, la sua antica relazione con il cielo della vita; 2) l’amore dei suoi familiari, intimo e ricco delle cose non dette,
che non si dicono a chi ci sta accanto forse per eccesso di pudore o perché si è certi che lui le sappia bene; 3) l’amore degli amici e degli studenti che scoprivano altri volti della sua
dimensione umana, l’ironia, la lealtà, la fraterna vicinanza.
Era un uomo che, per scelta di vita e per lunga
esperienza vissuta a contatto con la sofferenza dei semplici,
aveva abolito i maneggi e le fisime del mondo borghese. Il
suo tratto era la semplicità, la schiettezza, mentre lo ferivano profondamente l’ipocrisia e l’inganno, che a fatica stemperava nel sorriso con il suo umorismo.
Era passato attraverso il dopoguerra da maestro
elementare, pioniere in tempi di malessere e povertà, in un
meridione senza speranza, maestro tra dirupi e forre e lì si
era costruito la pazienza sapiente che fa fronte a tutte le
evenienze e improvvisa soluzioni umanissime.
Da quella scuola, dalla scuola elementare, praticata
come arte di famiglia, era tornato agli studi dilettissimi del
mondo classico e all’insegnamento nei Licei. Ma il suo studio aveva perso, se mai lo aveva avuto, l’orgoglio della di-
Caterina Felici, Tessere di vita, (Longo editore,
Ravenna Marzo 2004)
Il volume di poesie
di Caterina Felici è
diviso in tre sezioni:
Forza della memoria,
Umani
percorsi,
Squarci di natura.
Appare subito un
contrasto tra la prima
e l’ultima parte: ciò
che sembrerebbe essere finito per sempre, l’Autrice lo riporta in vita tramite i
ricordi, e lo rende
imperituro; ciò che è
vivo e reale (la natura) viene recepito come immagini lugubri:
«Rami marciti», «Pesce morto», «Luce e
allegria di morte»...
Se il ricordo è vita riscoperta, certi aspetti della natura sanno di squallore, di
tristezza, di disfacimento... È la rivalsa dell’animo che trasferisce la morte in ciò che è vivo per recuperare ciò che è
perduto; dello spirito che si ribella all’ineluttabile, lo sfida,
ne rigetta “i decreti”, riesce a vincerlo slittando nel canale
della “memoria”. La prima lirica è dedicata alla sorella Ione, recentemente scomparsa. Ella resta viva nel ricordo ed è
per questo che la morte «non la possiede». Viva in tutto ciò
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che la legava all’esistenza: nelle foto, nei giochi sportivi,
mentre nuotava e scompariva «in un trionfo di spuma», nelle corse in bici, nei capelli biondi svolazzanti al vento, mentre scivolava sui pattini, nei sogni che si elevavano ad altezze inverosimili, mentre diffondeva intorno riso ed umorismo... Anche gli oggetti sono legati ai ricordi, ci riportano
al passato, ci fanno riscoprire luoghi, persone, noi stessi
«che fummo». Nel cristallo d’una coppa di champagne si
alternano visioni che «oscillano tra il passato e il presente».
I ricordi ridanno vita, splendore, giovinezza alle cose scomparse per sempre, e ripescate rappresentano un viso fanciullo che il tempo non è riuscito a solcare di rughe... Sovrapposizioni di immagini, nel tempo; ci si ritrova nello
stesso luogo, di fronte a un quadro identico, nulla sembra
cambiato, nemmeno le sensazioni e le emozioni... Ma noi
siamo realmente “mutati” negli anni... Riflessioni, meditazioni, autocritica. Molto spesso i versi sono aforismi che
nascondono significati allegorici, traggono conclusioni amare, esprimono sentenze, registrano esperienze di vita vissuta... Un mare inquinato può ingannare con la sua «calma
e il suo incanto d’azzurro e di luce». La capacità di «abbandono alla vita» si conquista con la maturità: è in questo
stadio che si sanno apprezzare le «semplici gioie»... L’immaginazione ti aiuta a capire «le zone oscure» perché ha un
potere che vince la realtà: «Più umana avverti / la figura di
un bassorilievo / che la fantasia / completa ed anima» (più
umana della figura di un uomo). La Poetessa si dimena in
un saliscendi di ottimismo e pessimismo, ma riesce sempre
ad emergere nella speranza, grazie al “Fanciullino” che è in
lei, che non invecchia... Bisogna saperlo cercare «in una
barchetta di carta nel mare d’una pozzanghera», «in una
bella fiaba», «negli incantevoli mondi della fantasia». L’apparenza inganna, spesso siamo vittime di certe difese: «Mi
vedevi immobile / rigida roccia... ma avrei voluto abbandonarmi a te». La maschera che mettiamo serve per difenderci, nasconde la verità, ciò che vogliamo, che siamo, realmente.
Antonia Izzi Rufo
Umberto Rigano, Sogni e ricordi (Giardini
Naxos, settembre 2003)
Umberto Rigano, nasce a Santa Teresa di
Riva(ME) il 22 aprile
del 1926 e risiede a
Giardini Naxos da
circa cinquant’anni,
dopo una lunga vita
di lavoro come bracciante agricolo. Oggi
si dedica alla poesia,
sia in dialetto che in
lingua italiana, si tratta di una poesia spontanea, che manifesta la genuinità dei suoi sentimenti. Tra
ricordo ed emozione, le sue poesie sono un percorso che
parte dall’infanzia, attraversa l’età giovanile per giungere
all’età adulta e alla vecchia, attraverso l’analisi di un mondo, quello contemporaneo, con le riflessioni e i pensieri di
un uomo comune, che ama eternare se stesso e comunicare
le proprie emozioni. Ha ottenuto vari riconoscimenti. Nel
settembre del 2001 l’Accademia Internazionale il Convivio
gli conferisce il diploma di accademico, mentre nel marzo
del 2002, il centro di divulgazione ‘Arte e cultura europea’,
lo nomina suo membro honoris causa a vita. Nel marzo del
2003 al Pala-naxos di Giardini Naxos viene premiato con
una targa al merito per la poesia “U vastuni sicilianu”.
Dall’opera poetica di Umberto Rigano emerge un
uomo che, giunto felicemente alla pensione, si dedica a curare l’anima e lo spirito, mirando ad un pizzico di quell’immortalità che la poesia dona ai suoi autori. Scrive infatti in
una delle sue poesie: «Ju n’ontravagghiu chiu, sugnu arriposu, scrivu sti frasi e mi passu lu tempu, cu leggi sti paroli
e li capisci su frasi dimpueta», ma proprio secondo l’espressione di Gibran «poeti non sono quelli che scrivono poesie,
ma tutti coloro che hanno il cuore pieno di questo spirito
sacro». Nasce allora dalla poesia di Umberto Rigano, l’amore per la sua terra e per le sue tradizioni, per la sua donna e per la vita. La semplicità espositiva raggiunge un tono
elevato, quando prevale il sentimento. Non vi sono infatti
frasi stravaganti, né ricercatezze linguistiche, perché è il
cuore che parla, il cuore di un uomo che nella vita ha provato felicità e dolore, sofferenza e gratificazioni, che ha saputo vivere con intensità ma soprattutto con coerenza e vitalità. A volte sono le occasioni a far nascere le poesie. Può
essere la festa degli anziani o il limone in fiore, la rosa
sbocciata o un fatto di cronaca che ha segnato le coscienze
degli uomini e quindi anche del Poeta. La Sicilia è certo
l’emblema del legame di Rigano con la sua terra, una Sicilia che profuma di zagara, piena di amore e di fantasia.
L’Etna con la sua imponenza si mostra gigante buono, la
terra porta i suoi frutti. Ma Umberto Rigano, poeta estroso e
pieno di idee, sa offrire anche una punta di ironia e di
rammarico, soprattutto quando i cattivi costumi imperversano. Una frecciatina dà pure ai politici, che pensano solo a sé
a volte e non alla gente, quando afferma che alla fin fine
tutti i partiti sono uguali. Bisogna cambiare, bisogna innovare tante cose ed è giusto così. Dalle sue poesie ecco scaturire un impulso verso la felicità umana, una felicità conquistata con le semplici cose, senza troppi grilli per la testa.
Enza Conti
Nostalgia di Franco La Pica (Convivio n. 14 pag.
31)
Composizione grondante mestizia quella che Franca la Pica ci propone: rammarico per tutto ciò che fu e che
ora non è più. È una realtà per chi è avanti negli anni e sente la nostalgia... «di cose / che mai più potrò vedere..» precisamente «la gioventù / con tutte le sue doglie..» che “svolazza” nella mente come foglie portate dal vento. Proprio
quella gioventù? “Che è durata un niente..”. Ormai tutto è
passato e non resta che “la nostalgia”, il ricordo triste! Il
tempo sta cancellando ogni cosa, eppure La Pica sente forte
il desiderio di rievocare ...«giorni senza orari / notti senza
sonno..» momenti felici della esistenza. Si rimpiange anche
qualsiasi cosa che in gioventù c’era ed ora non più, magari...«il terrore di un esame» momenti difficili in cui l’ansia
aveva il sopravvento, momenti anche di difficoltà materiale
...«quando andavo a letto / e come compagnia / era la fame..». Sembra una assurdità, ma si rimpiange anche la miseria, se questa era affrontata nella pienezza degli anni giovanili. Franco La Pica ha voluto puntualizzare quello che,
ognuno prova trovandosi nella sua situazione.
Pacifico Topa
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Fedel Franco Quasimodo: il trigono della verità
nei Colloqui con Cristo
Bruna Tamburrini, Sceneggiature teatrali, con
brevi riferimenti alla storia del teatro (Nicola
Calabria, Settembre 2003)
A dir di Johann Wolfgang Goethe «il proprio del poeta è di
rappresentare». Egli
tocca il culmine
quando gareggia con
la realtà, cioè quando
le sue descrizioni sono, per lo spirito che
le anima, talmente vive da dare a tutti
l’impressione di trovarsi di fronte alle
cose stesse. Sulla sua
cima più alta la poesia appare del tutto
esterna; quando più si
ritrae
nell’interno
tanto più essa è in via
di
decadimento.
Quella che rappresenta soltanto le cose interiori senza
incorporarle in qualcosa di esterno o senza lasciar sentire
l’esterno attraverso l’interno, è in entrambi i casi l’ultimo
grado, muovendo dal quale essa rientra nella vita comune.
Fedel Franco Quasimodo, nell’ultima silloge, Colloqui con Cristo, elabora un tessuto teologico che richiama
totalmente l’interno e l’esterno coinvolgendo gli animi ad
accorate riflessioni perché egli vive la Luce come bisogno
indelebile che muove il silenzio tra versificazioni e immagini mai lontane dalla Realtà. Nelle vesti di un apostolo
della fede, il poeta, sprofonda in luoghi beatificati dal Cielo, scruta coscienze con il potere dell’anima, avanza con i
fiori della carità verso il vangelo e nel mistero scopre l’alito
della religiosità, il “Trigono” della verità, verità che descrive quando afferma «Uno e Trino - Uguale e Distinto Unica bandiera - delle Nazioni della terra - Una sola verità che la menzogna del serpente – smaschererà», dalla lirica
“Gesù”. E poi: «Del nome Tuo - luccica persino - un
granello di polvere - Irraggi i cuori più duri - innalzi i beati,
i puri - ispiri gli artisti a creare», dalla lirica “Dio”.
Il poeta consacra messaggi evangelici, mette a
fuoco salmi, un’ontologica spiritualità, accoglie nel suo animo il sigillo divino della fede e alimenta il proprio orgoglio
con la misericordia di un pellegrino convertendo il lettore a
seguire il Valore del Cosmo, il concetto della Fede. Fedel
Franco Quasimodo raggiunge così un elevato concetto spirituale e lo rende alla società per sopperire quanto succede
nel mondo e mai disdegnando la dottrina dell’umano amore
verso un sistema che non decolla. Da una lettura approfondita di questo testo mi viene spontaneo estrapolare queste parole: «Mio Dio - è un divino desiderio - l’apostolato e l’umiltà dello Spirito Santo - è Fede che raggiunge la Pietà - nel Giubileo di conversione - è gioia di un angelo cristiano - che abbraccia la carità - colloquiando con Cristo - È
azzurra tentazione - e scoprire il “Natale” ogni giorno perché nell’orto - Gesù - è Pianta e Fiore della Vergine
Beata - e s’identifica nel Santo Padre».
Gianni Ianuale
Bruna Tamburrini vive a Montegiorgio (AP) ed è
insegnante di Lettere nelle Scuole Medie Superiori. Nota è
la sua attività culturale e soprattutto la sua attenzione all’arte. È infatti poetessa, pittrice e saggista. Ma in questo volume è il mondo della scuola che ci interessa. Infatti, come
dice il titolo del libro, nel volume vengono presentate sceneggiature teatrali, nate a scuola e per la scuola, ma che
travalicano il mondo della scuola per l’originalità della rielaborazione e per l’interesse dell’argomento presentato. Le
sceneggiature offrono a Bruna Tamburrini l’occasione per
fare una storia del teatro, una storia del pensiero e dell’evoluzione teatrale a partire dal Duecento per giungere all’età
contemporanea. Ma innanzitutto «l’autrice ha sapientemente esposto i vari passaggi necessari alla stesura di una sceneggiatura e utili a chi vuole cimentarsi in quest’arte antica,
ma in continua evoluzione» scrive nella presentazione Donatella Garitta. La letteratura e la drammatizzazione spingono i ragazzi ad accostarsi alla cultura, ma soprattutto fanno comunicare con loro e rendono il mondo della scuola più
affascinante, quando gli insegnanti sono profondamente motivati, come Bruna Tamburrini. «In questo lavoro ho voluto
ripercorrere – scrive l’autrice – i momenti essenziali e più
importanti dello sviluppo del teatro italiano e soprattutto ho
rappresentato, sotto forma di sceneggiatura teatrale, alcune
opere (racconti e novelle) che ho ritenuto significative per il
messaggio, per la peculiarità ed anche per la predisposizione ad essere rappresentate in veste di commedia o di dramma. Tali sceneggiature sono interpretazioni libere delle opere e la trasposizione teatrale è immaginata su determinati e
specifici palcoscenici, con musiche ed effetti di luce particolari».
Il consiglio principale che si dà a chi vuole realizzare una sceneggiatura è quello di riprendere i dialoghi
principali, ma tenendo sempre conto del linguaggio usato
dallo scrittore, dopo aver letto attentamente il testo e capito
il contesto per rielaborarlo in rapporto all’autore. Nel volume vengono riproposte diverse sceneggiature: la “Storia
della città di Troia, del re Laomedonte e del gigante Eracle”, quale esempio che si rifà al mondo classico; Andreuccio da Perugia, dal Decameron di Boccaccio, e Guerrin Meschino, quali esempi di drammaturgia medievale;
trattando il teatro del Cinquecento, viene rielaborata la
novella di Nicolò Machiavelli “Belfagor Arcidiavolo”; per
il Seicento “La gatta cenerentola” di Giovan Battista Basile,
e infine, dopo aver trattato la scomposizione della personalità di Pirandello e la sua ‘rivoluzione’ in campo teatrale,
le “Metamorfosi” di Franz Kafka. Il volume di Bruna Tamburrini, si presenta quindi non solo quale ottima guida per
la storia del teatro, ma pure quale testo per trarre delle scene
teatrali da rappresentare con gli alunni.
Angelo Manitta.
Cosa di noi romanzo di Vito Benicio Zingales
(Edizioni clandestine – Marina di Massa - 2003)
Lo scrittore palermitano Vito Benicio Zingales ci
offre con il suo ultimo romanzo “Cosa di noi” uno spaccato di un certo ambiente di Palermo in cui “i cristiani
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pesanti e colla dignità” godono di quei privilegi e di quelle
fortune che “i menzi cristiani” e “i cristianeddi”non riusciranno mai ad avere e a conoscere. L’influenza di Sciascia è
evidente. Al di sopra della massa informe di “bravi ragazzi” crudeli e di sbirri sadici e corrotti emergono due
figure che si fronteggiano fino alla fine: Don Giacomo Galanti, uomo d’onore, costretto dalla “famiglia” ad assistere
sin da bambino ad esecuzioni agghiaccianti, che diviene “il
re della strada, il don più celebrato della città”; e l’ispettore di polizia Sebastiano Maurizio Vinci, sbirro per
vocazione e per mestiere, che vive con il pensiero fisso di
potere un giorno mettere le mani sul Padrino.
Percorso mistico attraverso sensazioni personali
nel volume In difesa dell’aldilà di Elsa Emmy
(ed. Sovera, settembre 2003)
“In difesa dell’aldilà” di Elsa Emmy è
una ricca e circostanziata
testimonianza di fede, una
minuziosa descrizione del cammino che
l’essere terreno deve
compiere per cercare
di raggiungere la conoscenza dell’aldilà.
Trattasi di un testo la
cui profonda peculiarità contenutistica
travalica una superficiale conoscenza,
richiede una base di
disponibilità ad accogliere e condividere certe concezioni. L’argomento che affronta è dei più impegnativi in quanto richiede da parte del lettore apertura
mentale e non prevenzione. Quando si parla di paranormale, di spiritismo, di miracolistica, solitamente si arriccia il
naso; c’è molta ignoranza in proposito e non sempre si è disposti ad ascoltare questi argomenti, o, addirittura, si rifiutano. Con questo non voglio dire che tutto debba essere accolto passivamente, ma un certo stimolo per avventurarsi nei
meandri del paranormale potrebbe derivare proprio da questo volume di Elsa Emmy, un testo che dovrebbe andare
nelle mani di chi aspira ad informarsi e documentarsi circa
la reale consistenza di certi fenomeni che hanno dell’irrazionale, del poco logico, ma che sono presenti.
L’autrice compie un percorso mistico riproponendo sensazioni avute a seguito di fatti concreti, risultati di
esperienze, reazioni personali. Una tematica, questa, quanto
mai ardua, perché tocca il tasto della moralità, dei principi
religiosi. La Emmy e protagonista di molti eventi non comuni e li ripropone nella loro realisticità, mai sottacendo quello
che profondamente le suggeriscono. È un diario di una vita
vissuta intensamente nel clima mistico e misterioso che s’addentra in una dialogazione di pretta ispirazione ieratica che
assume toni profetici e ribadisce una costante presenza d’Assoluto. In conclusione si cerca di precisare che se «i profeti
a suo tempo furono inviati per annunciare la buona novella
in un mondo pervertito, non può essere che i sensitivi di
oggi siano delegati ad annunciare il disagio dello stato dell’anima?». È attorno a questo interrogativo che noi lasciamo al lettore l’impegno di cercare una risposta adeguata.
Pacifico Topa
Pantaleo Mastrodonato, il dramma Il Narciso,
(La casa delle Muse, Bisceglie 2003)
È necessario, in pieno XXI secolo, che l’uomo torni a reimmergersi nel mito perché ritrovi la propria intima
ed autentica essenza? A quanto pare sì, per Pantaleo Mastrodonato, che ripropone la metafora immortale di Narciso,
circondato da tutta una corte di personaggi mitologici, onde
dar vita a questo moderno dramma in quattro atti, la cui
vicenda si dipana tra Tebe e l’Assiria, nel regno del corrottissimo re Sardanapalo. Il linguaggio con cui Mastrodonato affronta questa difficile tematica è ovviamente classicheggiante, ma solenne e limpido al tempo stesso. Egli stesso, in una proposizione introduttiva, chiarisce il messaggio
e le finalità che emanano dall’opera: «Beati coloro che si
fanno guidare dallo Spirito di Dio, lo Spirito Santo, principio e motore di tutto l’Universo, e non si lasciano sedurre
da ogni forma idolatra del mondo... ».
Maristella Dilettoso
La mattanza: pesca sacra di Beatrice Torrente
(ed. Clio)
Il saggio di Beatrice Torrente, dal titolo La mattanza pesca sacra, è uno studio che analizza l’aspetto socioreligioso e storico di una delle più antiche tradizioni che
ogni anno puntualmente si ripete in uno degli angoli naturali tra i più suggestivi della terra di Sicilia: Favignana. L’autrice, partendo da quello che ancora oggi è un evento folcloristico-turistico, dà una collocazione storica e mitologica
della mattanza. Il saggio, suddiviso in tre parti, si apre proprio con il concetto di sacralità dell’evento. L’autrice sottolinea, infatti, come in fondo dietro al rituale folcloristico si
nasconde un vero e proprio atto sacrificale, in seguito trasformato in un supporto economico per la popolazione. Così quello che mitologicamente è un gesto sacro per ringraziare la divinità, si trasforma in un evento essenziale per la
sopravvivenza stessa di intere comunità. La pesca, insieme
alla caccia, come sottolinea Beatrice Torrente, diventa quindi il simbolo di un linguaggio prima primitivo poi sempre
più raffinato: «La forza dell’animale è qualcosa che deve essere sopraffatta, come un rito in cui l’uomo vince e possiede». L’aspetto storico-sociale prende vigore nelle pagine
del saggio fino a condurre il lettore alla rivalutazione della
tradizione e della propria terra. Scrive l’autrice che «la
“Terra” sostiene l’uomo, lo nutre e gli procura le materie
prime per la vita, diventa per l’uomo primitivo una divinità,
la “Madre Terra”, la grande Madre, divinità a cui si affiancava una divinità maschile, quella del Grande Essere».
Enza Conti
Flora Lalli, ‘N’amica pe’ la vita, poesie in
vernacolo molisano (Ed. Cannarsa, ottobre 2003).
Flora Lalli è nata a Roma, ma ha trascorso ben 27
anni nella terra paterna, il Molise. Nel 1980 è andata ad insegnare nella scuola materna del Circondario di Milano.
Nel 1986 ha sposato un bresciano, trasferendosi in Val
Trompia, a Pezzaze. «Semplicità di sapori e freschezza di
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sentimenti contraddistinguono questa silloge, che trova il
suo humus ispiratore in una terra, il Molise, di forti tradizioni familiari e sociali... Per parlare della vita, che desidera, la Lalli non trova altra immagine più significativa che
quella di un piatto di spaghetti con pomodoro, basilico, olio
d’oliva e peperoncino. Tutta roba genuina, quindi, che indica
qual è l’etica seguita dalla poetessa: quella di un impegno
morale senza ipocrisie o tentennamenti, in ciò accompagnata da una vera amica, la poesia. Di grande efficacia descrittiva è il percorso memoriale che richiama i momenti più
belli, vissuti dalla poeteessa durante la fanciullezza»
Luigi Alfiero Medea.
sciuto le poesie di Maria Grazia Lenisa grazie ad una compagna di viaggio in un campeggio di Stoccolma. E il caso
ha voluto che avesse trovato su un tavolo alla Sorbona il
manoscritto de “La ragazza di Arthur”, provvisoriamente lasciato da Giorgio Bàrberi Squarotti e glielo abbia sottratto.
Bàrberi Squarotti dovette fare la prefazione o meglio i risvolti del libro sulle bozze. Si dichiara imitatore dello stile
lenisiano, per la verità assai vario, meglio gli riesce quando
può coglierne una melodia. MARIA GRAZIA LENISA è la
poetessa imitata da Max Bender e lo ringrazia per averle
dedicato un minicanzoniere che nessuno ha mai scritto per
lei, se si escludono i moltissimi poemi sparsi che però non
fanno un corpo unitario. Lei spera che Max Bender le dia
fama come Dante a Beatrice, come Petrarca a Laura, Saba ai
pazienti animali metafora della buona moglie, Montale assai degnamente alla volpe e ad altro.
La colpa di esistere, silloge di poesie di Silvio
Craviotto (Cultura 2000, Ragusa 1990)
Silvio Craviotto, con “La colpa d’esistere” ci propone una panoramica ad ampio raggio, affrontando tematiche di vario genere, caratterizzate da una versificazione
snella, sintetica, realistica, mai ampollosa, piuttosto protesa
verso quella immediatezza interpretativa che è virtù d’una
poesia aperta a tutti. C’è sarcasmo, cinismo, capacità critica, ma anche concettuazione e rispetto di regole morali che
sono base indiscussa di questo genere creativo. È lo stesso
Craviotto a definire la sua poesia “usa e getta”, disquisendo
sulla opportunità attuale di comporre; è vero che egli confessa di comporre di getto, ma è anche vero che la sua verve
ispirativa è ricca di ammaestramenti molto utili a chi si
dispone a creare. Una poetica concretizzata da una esposizione linguistica che fa subito breccia. Infatti sono composizioni che hanno il merito di evidenziare lo stato d’animo,
il modo di pensare dell’autore, lasciando ampia libertà di
giudizio; poetica che lascia spazio alla concezione individuale e che si sbriciola con conseguenzialità e con pluralità
di intendimenti. A questo proposito riportiamo: «C’è un’erba diversa oltre questa erba...» chiara l’allusione alla plurivalenza delle cose a seconda del punto di vista. La originalità di questa poesia è determinata dalla capacità che ha
l’autore di estrapolare significazioni, intuizioni, contenuti,
nelle più disparate circostanze, traendone conclusioni sempre oculate e coerenti. Occorre anche precisare che l’orizzonte analizzato è assai vasto, non escludendo citazioni mitologiche, storiografiche, filosofiche, oltre che geografiche,
politiche e religiose. “La colpa di esistere” è una specie di
vademecum per un itinerario poetico moderno ed originale
per chi vuol saggiare le capacità creative di questo estroso
ed imprevedibile autore. D’altro canto è lui stesso a dirlo...
«C’è sapore di eresia nei miei versi / ogni cosa vissuta e detta ha pure / sapore d’eresia di trasgressione...». È la chiave
di lettura di questa silloge così poliedrica sebbene tanto
uniforme nella composizione.
Pacifico Topa
Costante e istintiva esplosione di sentimento in
Melanconie di Piero Juvara (Edizioni del Girasole, Ravenna 2002)
Piero Juvara, con
“Melanconie”, poesie andaluse e mediterranee, esalta l’amore; la silloge è
una costante istintiva
esplosione di sentimento che l’autore
destina a persone diverse, ma con un
unico filo conduttore. È un amore sviscerato che si è inserito profondamente nel suo animo a
tal punto da ribadirlo
ripetutamente. «Amore mio / Amore
mio / piccolo insicuro / amore che in cima al mondo / hai i
confini». Questo suo animo traboccante lo porta a ottimisticizzare la realtà intravedendo in essa gli aspetti migliori.
Nella panoramica poetica c’è anche spazio per quella mestizia che è conseguente a negatività terrene, da qui la ribellione contro “ogni morte inutile”. Infatti nella realtà esistenziale tutto si ripete. «Nulla cambia, nulla / nascerà e morirà il giorno...». Quest’ineluttabile conclusione trapela dai
versi, dando una nota di triste presagio. La mestizia è vibrante nei versi di questo sensibile creatore come nel caso
di una madre che «porta un fiore / ai lati del binario / dove è
morto tuo figlio...». È un dolore inimmaginabile! Uno degli
aspetti caratterizzanti della poetica di Juvara è la sinteticità,
l’immediatezza, le parole si scolpiscono come lapidarie definizioni e puntualizzano il senso con certosina precisione.
La sua poesia assume quel caldo tono di mediterraneo fervore. In essa si sente vibrare la corda d’un cuore sensibile
ed aperto ad accogliere nuove sensazioni... «Tu fosti per me
/ come un fiore rosso / sfuggito dalle mani / e caduto nell’acqua / limpida del fiume/ e portato via lontano / dalla corrente...». Immaginifica creazione suggestiva di un amore che
sta sfuggendo e lascia solo disperato rimpianto. Di fronte
alla bellezza egli si esalta... «Tu splendida donna / i tuoi
Max Bender – Maria Grazia Lenisa, Il Canzoniere Bifronte, introduzione di Pietre Visser
(Pomezia Notizia, Il Croco marzo 2004.
MAX BENDER è nato ad Amsterdam, di professione fa il viaggiatore ed è figlio di un noto commerciante
di diamanti, a tal fine usa lo pseudonimo. Ha studiato lingue orientali, non conseguendo nessuna laurea, ma imparando in loco con estrema facilità lingue e dialetti. Ha cono74
mandorli, i peschi fioriti. Diresti: che gioia copiosa può
scendere dal cielo; quanta innocente delizia occhieggia per
incanto. Vedendo penseresti: non tutto è brutto nella vita.
C’è l’amore e la novella rifiorita». In una catarsi interiore,
l’amore unisce tutto, proprio perché esso è dire, gioie, penare, inghiottire, non dormire. Ma l’amore, che è vita, è anche morte. «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte», scrive Giacomo Leopardi nella famosa lirica dal titolo appunto “Amore e Morte”. Ed “Amore e
morte” è il titolo di due composizioni di Janne che, nel-l’economicità dell’opera, hanno una funzione strutturale ben
precisa. L’autore assume quasi una posizione diversa in
tempi diversi sullo stesso tema: l’amore e la morte sono in
continua evoluzione. Nella prima lirica, infatti, muore l’estate, ma non muore l’amore, anche se una patina di nostalgia avvolge l’essere umano: «Presto verrà l’autunno, e
tu innamorata, ti sentirai sommersa in un viluppo blando di
languore». Nella seconda poesia dello stesso titolo, l’evoluzione si è conclusa, la speranza è stata recisa, l’essere amato
non tornerà più. Nella prima lirica prevale l’amore, nella seconda la morte: «Upupa dall’obliquo volo fra le chiome d’ulivi, non venire più qua per fare l’amore... La primavera è
una favola, come l’amore, ma la morte no. La primavera ritorna: tu non tornerai mai più».
Enza Conti
occhi come gemme / levigata è la tua pelle / tonde le tue
forme...». È in questi momenti d’esaltazione affettiva che
l’autore sente la forza stimolante della passione che alberga
nel suo animo. “Melanconie” è una panoramica di constatazioni che hanno quasi sempre quel filo conduttore della
soffusa mestizia, tipica del romanticismo nostrano.
Pacifico Topa
Giuseppe Janne, Poesie d’amore (Istituto Editoriale Internazionale, 1993)
In tema dell’amore è
stato ed è uno dei temi fondamentali della
poesia italiana ed europea fin dagli inizi
della nostra storia letteraria. Basti pensare
alla greca Saffo o ai
latini Catullo, Tibullo, Properzio e Ovidio, o agli autori italiani dello stilnovo, a
Dante e a Petrarca.
Lo stesso Boccaccio,
ha composto belle poesie d’amore. Poi c’è
il petrarchismo: una
miriade di autori che
ci lasciano scoprire,
poesia dopo poesia,
uno dei sentimenti
più profondi dell’umanità. Nel mondo
contemporaneo, così distratto e disattento, l’amore non è
passato di moda e non è raro trovare dei veri e propri canzonieri d’amore. Non ultima la silloge di poesie di Giuseppe Janne, dal titolo appunto “Poesie d’amore”. «In questa raccolta – scrive l’autore – l’amore cantato è quasi sempre un ricordo: tempo passato, sofferenze, gioia. Ma queste
poesie sono anche un omaggio a tutte le donne che mi hanno amato; un omaggio alla donna che deve essere la vera e
grande compagna nella vita. La compagna nella gioia come
nel dolore... È un inno all’Amore». La sua poesia nasce
«dalle immagini, dai desideri, dagli affetti profusi a piene
mani, nella realtà che lo circonda» scrive nella prefazione
Angelo Esposito. Essa esalta la bellezza, la vitalità e l’emozione nell’attimo presente e nel ricordo. L’amore è un susseguirsi di voci e di suoni interiori, nelle implicazioni psicologiche e sensuali. Il senso e lo spirito si fondono, così come la materia e l’anima. Attraverso l’amore il mondo si trasfigura, la vita continua il suo percorso, l’uomo volge a nuove conquiste. In questo scenario totalmente etereo appaiono
gli animali, le piante, i fiori, gli oggetti e il cielo, per assumere una loro aulicità poetica, una loro esaltante trasumanazione. «Anche quest’anno è già passato. Il pettirosso è tornato nel giardino, e il vento di scirocco le nuvole spingeva
chi sa dove!... i sogni più belli della tua malia culli col
murmure chiomoso dei cipressi». Nella poesia di Giuseppe
Janne la natura è, accanto all’amore, la tematica essenziale,
una natura che però è parte integrante della vita e termine di
paragone, in una simbiosi perfetta, come si può evidenziare
nella lirica “Guarda”: «Guarda, nei campi, nei giardini, i
Antonio Angelone, La banda Centrillo Brigantaggio postunitario, da Vallerotonda a Forlì
del Sannio, commedia dialettale (ed. il Ponte
Italo-americano, New York 2000).
Antonio Angelone, come artista si è rivelato molto
sensibile alla fenomenologia del tempo e del paesaggio, rivolgendo la sua attenzione alla natura, agli animali ed alla
gente umile. La commedia dialettale “La banda Centrillo,
brigantaggio postunitario” è molto interessante e mostra un
ulteriore sforzo nel voler unire tradizione e cultura, storia e
letteratura. «Di questo ulteriore sforzo, che si aggiunge a
quello, già di per sé gravoso, della composizione, dobbiamo
certo rendergli merito. Non sempre, infatti, perfino in alcuni
grandi film e sceneggiati in costume un tempo prodotti dal
nostro cinema e dalla RAI, si ha modo di constatare un simile scrupolo documentario, un’analoga sensibilità al problema della fedeltà e della verosimiglíanza storica. Andrà
poi notato che i singoli episodi scorrono via “lisci”, essendo
riproposti senza reticenze o compiacimenti, senza prese di
posizione “partigiane”. Se la rude fierezza del brigante Centrillo e la sua (per noi, oggi) ingenua fedeltà a un ideale possono suscitare simpatia, ciò non ci impedisce di partecipare
intensamente al dolore delle famiglie derubate dalla sua banda, un dolore manifestato - com’è logico - in primo luogo
dalle figure femminili, come Caterina, Carmela Capretta o
Filomena, la cui intensità viene fuori in pochi tratti, dopo
appena qualche battuta.
La seconda novità di rilievo è rappresentata da un
elevato grado di sperimentazione linguistica, che - a differenza di quanto fatto in passato - dà vita ad un originale impasto di “italiano” e dialetto (anzi, dialetti, perché nelle battute sono pur sempre riconoscibili le diverse varianti municipali della zona, messe in bocca ai singoli personaggi, di
cui Angelone ha accertato l’esatto luogo di origine), impasto che, in più punti, ricorda da vicino proprio quello dei
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documenti d’archivio, delle risposte fornite dai briganti durante gli interrogatori e i processi - e verbalizzate dai loro
inquisitori - o dei loro stessi componimenti, non di rado autobiografici. Ciò potrebbe quasi sembrare un paradosso, visto l’argomento della commedia e l’epoca della sua ambientazione, che sembrano quasi fatti apposta per far pendere la bilancia dei registri dialettali verso arcaismi o veri e
propri “scavi” lessicali e fonetici».
Francesco Avolio
Passionalità ed emozione in Palpiti d’amore di
Angela Aprile (Montedit, gennaio 2004)
“Palpiti d’amore” di
Angela Aprile, una
raccolta di versi con
cui l’autrice sottolinea, con nostalgia, il
suo affetto ribadito,
ma non sempre ricambiato. Potrebbe
ben definirsi poesia
della delusione, perché nei suoi versi
ricorre spesso l’invocazione di un
amore che le sfugge.
Non si ha difficoltà
nel definire questa
poetessa l’eterna innamorata, colei, cioè, che vive nel disperato desiderio di un
affetto che purtroppo
non giunge mai ed allora lei indugia, tergiversa, temporeggia illudendosi. L’amore è al centro delle sue composizioni, lei ne fa motivo di costante elaborazione, magari inventando sognando, sperando, auspicando, rimpiangendo,
rammaricandosi per questa mancanza. Nei versi di questa
autrice c’è passionalità, esasperato sentimento, intensa evocazione, ma non disperazione, malgrado tutto lei non dispera e non rinuncia mai a sognare questo grande amore che
la ossessiona, ma la eccita. Per lei l’amore è una trappola
entro la quale una volta caduti, non se ne esce più, un tormento che si prolunga e che non lascia scampo. Per averne
conferma basta, scorrere i titoli delle composizioni, sono
una sistematica affermazione d’amore, un amore ardente,
ossessivo, persistente, amore che conquide, invischia, esalta, affascina, sconvolge, traumatizza. Questa silloge è un’apoteosi d’amore, tema prediletto di tutte le composizioni.
La silloge si apre con la classica dichiarazione d’amore: “Ti
amo”, per proseguire comparando l’amore alla purezza e
limpidità dell’acqua, alla suadenza della musica, alle angosce che provoca l’altrui indifferenza per inebriarsi nel sogno d’amore... Vi sono espressioni di elevato lirismo. «Io ti
regalo puri i miei pensieri», ed ancora più avanti. «Vorrei
vivere di te e non morire / ma tu mi manchi, mentre io non
manco a te...». In quest’eterno dualismo si dibatte l’angosciato animo di Angela Aprile, animo semplice, sincero,
fervido di passionalità; un singhiozzante cammino poetico
che si appaga di aspirazioni. Il sentimento che lei agogna è
al di sopra della fugace attrazione sensuale, è una profonda
convinzione che c’è qualcosa di più serio ed intenso del solo amplesso. Insomma l’amore che Angela Aprile desidera
è quello sincero, eterno, indimenticabile che trascina e travolge, restando sempre nel clima euforico di una passionalità quasi morbosa della cui carenza si sente il bisogno,
del suo appagamento l’insaziabilità. Forse giustamente nella prefazione Massimo Barile definisce questa autrice «falena che si dibatte alla luce notturna, come prigioniera chiusa
nel suo labirinto d’amore alimentato solo da memorie perdute».
Pacifico Topa
Otilia Jimeno Mateo il poema esistenziale di
Genesi di un’alba e Tramonto di un tempo (Ed.
Il Convivio, traduzione dallo spagnolo di Angelo
Manitta e Maria Enza Giannetto)
Questa poetessa spagnola si presenta in Italia con
quello che potrebbe chiamarsi poema esistenziale. Lei percorre sistematicamente tutto l’arco della sua esistenza, sintetizzandone i momenti salienti, sottolineandone i passaggi
più significativi, rievocando ciò che il tempo non è riuscito
a cancellare dalla sua mente: «Apri i tuoi occhi, bambina /
sopra il cielo / sotto l’universo intero». S’apre così la silloge che ha per protagonista una bimba alla quale viene presentato l’universo ove trascorrerà la sua vita nel contingente, il suo mondo sarà un “pezzo di casa”, accudita da una
madre affettuosa e qui emetterà i primi vagiti, ma l’avverte
che il mondo è più vasto, abitato da esseri che lavorano. La
prima domanda che la piccola si pone è: “Che cos’é la
vita?”. Qui elenca elementi fisici e psichici, dita, carne, ossa, pene, ansie, godimenti. L’essere sente, nella sua iniziale
ignoranza, la musicalità dei suoni, ma non riesce a distinguerli, è solo un gioco di fantasia, ecco che idealizza quello
che non sa percepire «i sogni sono nuvole / petali di rose /
farfalle che volano, / piume / volteggiar di campane». Assillante si fa il dubbio «Che cosa è il tutto e il nulla?». Subentra quel timore che la non conoscenza alimenta, la pochezza
umana è evidente, il paragone del giorno di fronte all’eternità conferma che l’essere è nulla di fronte all’universo, tuttavia è importante, perché col piccolo si forma il grande.
Concettuazioni altamente concrete e logiche! Il cosmo suscita curiosità, ecco il globo che gira e «raccoglie tutti i lamenti del mondo». Eppure l’uomo è capace di grandi opere,
percorre gli spazi siderali, domina i popoli, tuttavia egli non
sa come nasce un sogno, non sa neppure quale sarà il suo
destino. In questi versi c’è l’angoscia esistenziale. A questo
punto inizia il lento cammino umano, il tempo passa: «non
avere fretta / di percorrere / il tuo universo... vedrai!».“Ecco
allora che la piccola s’addentra nella realtà terrena, fra luci
ed ombre, gioie e dolori... «Andrai di corsa / salendo gradini» sarà come scoprire cose nuove: è la storia umana. Pur
nella sua pochezza l’essere merita rispetto dato che egli riesce a vitalizzare, senza di lui tutto sarebbe immobile. Il genio creerà macchine che gli permetteranno opere grandiose.
Il cammino della vita prosegue, i giorni s’inseguono e con
essi anche la nostra esistenza. La ineluttabilità di questo
mutamento assilla chi cerca di conoscere l’essenza delle cose. È il destino dell’uomo camminare con passo spedito fin
dalla infanzia per poi gradualmente rallentare man mano
che ci si avvicina alla meta, quello che assilla è il non sapere quando e come. Jimeno Mateo ha focalizzato anche la
nostra realtà!
Pacifico Topa
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Taci, oh vento! poesia, quasi testamento di fede,
di Adua Casotti (Alkaest, Genova 2003)
Ferdinando Banchini, i moduli del vivere aggrappato alla realtà in Approdi (Joker, Novi
Ligure settembre 2003)
“Taci, oh vento!”: la
raccolta poetica che
Adua Casotti ha pubblicato per i tipi di
Alkaest, è un testamento di fede, di piena confidenza nella
divinità. «Prego Dio
per ringraziarlo /
quando sto bene /
prego Dio per implorarlo / quando sto
male / dentro me prego sempre...». Che
dire più! Ma la silloge è anche panoramica di avvenimenti
che, giornalmente si
succedono e che danno spunti ispirativi. Già da questa premessa si ha chiara l’impostazione spiritualistica di questa
poetessa che s’immerge nella natura, ispirandosi ai principi
di un francescanesimo oggi poco di moda. Le sue composizioni sono prevalentemente ispirate ad elevata eticità, dato
che lei si rifugia nella fede dalla quale attingere gli stimoli
per aspirare ad un mondo migliore. Spirito piuttosto romantico, si lascia facilmente trascinare dagli eventi naturali per
esaltarli: «Taci, non far rumore, oh vento / non mi distrarre
dal tramonto / sto ammirando la sera d’oro immenso...».
Adua Casotti è una esaltatrice delle bellezze del creato, ne
difende la validità, ne esalta le peculiarità; la natura l’affascina. «Sono l’onda / che nella notte avanza / sotto l’ombra dello scoglio...» e più oltre: «Il mare mi fa sentire / in
cuore poesie e canzoni / parole d’amore». L’elemento dominante è il romanticismo, intensamente vissuto, pienamente condiviso. Ogni argomento che lei affronta la esalta, lei
riesce a trovarne le angolazioni più positive, gli aspetti più
prestigiosi. La mestizia di un giorno nuvoloso le fa dire:
«Oh sole / son tanti i giorni che non ti fai vedere...». L’assenza dell’astro provoca rimpianto! Lei alterna momenti di
serenità ad altri di larvata mestizia, tuttavia prevale sempre
uno stato d’animo aperto a nuovi spiragli di speranza. Una
poesia, quella di Adua Casotti, che nella limpidezza di una
esternazione istintiva trova largo consenso, stimolando il
lettore a penetrare senza difficoltà nell’intimo di una poetessa che ha nella genuinità l’arma migliore per illustrare la
realtà circostante. Il sentimento è diluito nelle composizioni
e serve per dare una vera consistenza a quelli che sono tasselli di un mosaico che va gradualmente componendosi. Come è intuibile, nell’animo di Adua Casotti alberga anche
l’amore, anzi lei ne fa argomento più volte: «T’amerò, disse
un cuore / a un altro cuore, / sin quando non s’incontreranno i monti...». Ma non mancano accenni ad una cruda
realtà: «Lo scheletro con la falce / avvolto nel mantello nero...» è la simbologia della morte... «un regno buio / che
non arriva la luce / dove l’anime staccandosi dal corpo /
s’allontanano sole!...». Sentimento, passione, rimpianto,
evocazione del passato sono gli argomenti che Adua Casotti
affronta con semplicità e ne trae utili suggerimenti.
Pacifico Topa
Come giustamente afferma Sandro Montalto nella
prefazione alla silloge “Approdi” di Ferdinando Banchini...
trattasi di moduli del vivere aggrappato alla realtà, mai abbandonando la musicalità del verso che ritma un lungo e
vasto processo di ricerca di sé attraverso l’agitarsi di una
morale urtata dalla volgarità quotidiana». Questo originale
creatore poetico s’addentra nei misteri dell’ignoto alla affannosa ricerca di un quid esplicativo, una luce che possa
illuminare la mente nella caotica confusione in cui oggi si
vive. Poeta ispirato e sensibile oltre che intuitivo e realistico, poiché prende lo spunto dalla realtà, la sviscera con arguzia, ne esalta gli aspetti evidenti, ne perifrasa le assonanze per trarne il vero ed intimo contenuto. Poesia piuttosto elaborata, ricca di simbologie, si inserisce nel novero
della modernità con pieno merito. Con “Effimeri” Banchini
passa in rassegna l’esistenza nella sua vacuità esteriore per
far emergere quello che fu e che oggi non ha più corposità,
ma è solo memoria. C’é nella sua ispirazione poetica quel
crepuscolarismo che è tipico di animi ultra sensibili; il
dolore lo assilla, sapersi imprigionato dal male e tentare
disperatamente di uscirne e un impegno costante; per lui
questo è «il dolce mistero dell’esistere». Trattasi di poesia
essenzialmente concettuale che s’insinua nella mente per
spronarla a fare una ricerca che possa garantire esaurienti
risposte alle numerose incognite esistenziali. Per potersi
avvicinare alla poesia di Banchini occorrerebbe fare propri i
versi di “Ombra”: «Dal fitto di tenebre l’ombra / sottile si
stacca, inquieta / dilegua tenace, ritorna / mi segue, mi segue
mi affianca, mi avvolge...». È questo dubbioso stato d’animo, questa impalpabile ombra che simboleggia la nostra
stessa essenza, che ci tortura, ci angoscia, è una costante ansiosa ricerca di scoprire l’ignoto, abbattere il muro di fronte
al quale l’essere e impotente. “Approdi” è una silloge svolazzante, trapunta di sagaci considerazioni saltellante nella
crepuscolarità di significazioni non sempre immediate, poesia che richiede concentrazione, impegno, disponibilità per
seguire involuzioni linguistiche tipiche di questa musa ispiratrice. Questo autore ha momenti di esaltazione e di slanci
lirici come in “Dono”: «Dono di gioia è il tuo sorriso... perché quando mi guardi... sento svanire in me i silenzi». Ispirazione profonda di un sentimento che sorvola la diuturnità
per addentrarsi nell’imprevedibile!
Pacifico Topa
Il cammino dell’essere umano in Meteore di
Luce di Giuseppe Manitta (Il Convivio 2002)
“Meteore di luce” è il titolo della prima silloge
pubblicata da Giuseppe Manitta, un giovane poeta siciliano.
Il volume si apre, dopo interessanti prefazioni di eminenti
letterati, con l’Epigrafe I, una dichiarazione d’intenti del suo
tema. È «il canto dell’uomo che soffre» che si svolgerà tra
le pagine, ma sono, però, anche canti di gioia e «s’innalzano sospinti dal vento», fortemente improntati dalla cultura classica e cristiana. I capitoli dell’opera ci conducono a
riflettere su fatti che permeano il cammino dell’essere umano, come quando «Idoli immaginari sorreggono / valli e
città deserte / trasformandosi in polvere / che fugge tra gli
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composizioni si intravede un angoscioso senso di solitudine, un isolamento in cui si sente rinchiusa: è istintivo il bisogno di rompere questo cerchio per rituffarsi nella pluralità.
Angelo Manitta, una figura poliedrica nel panorama culturale italiano, una mente ricca di suggestioni e di realismo che esterna con una versificazione forbita concettualmente elevata pregna di significazioni e di contenuti. Manitta vanta un bagaglio creativo notevole e quel che più conta
è che esso ha già ottenuto il consenso generale. Il suo modo
di versificare è quanto mai tagliente, preciso, quasi scultoreo, più che vergare Manitta scolpisce i suoi versi che s’inseriscono nella mente con chiarezza. La sua tematica è vasta. Alta poesia e pieno soddisfacimento della vena creativa,
riesce con le sue composizioni a creare quel clima mistico
di suggestioni che sono alla base di un valido personaggio
moderno che non disdegna di lumeggiare quel mondo che è
vicino a noi, ma che spesso ci lascia indifferenti per non dire insensibili.
Lio Tomarchio, cantore di Sicilia. Eminente figura di dialettologo Lio Tomarchio viene definito “cantore di
Sicilia”, questo per sottolineare la sua particolare propensione verso l’esaltazione della sua terra. Persona complessa
di una realtà, quella siciliana, che offre abbondante materia
creativa e consente interpretazioni molteplici. Il patrimonio
folklorico della “Trinacria” è assai conosciuto, tuttavia Tomarchio ha saputo coglierne aspetti imprevedibili ed originali, rispolverando dal bagaglio tradizionale, quegli spunti
che sono alla base dell’esistenza stessa di un’entità popolare... Tomarchio non è tipo di rassegnarsi alla realtà contingente, guarda con occhio attento gli eventi e non di rado si
chiede se anche lui non ne sia il responsabile. Questi interrogativi non lo turbano più di tanto. Essendo egli fornito di
un notevole bagaglio di valori, sa ben discernere il bene dal
male, encomiando il primo e biasimando il secondo.
Alfio Spina viene definito “poeta delle piccole
cose” non per minimizzarne il valore, ma perché ha avuto
l’accortezza di puntare il suo obiettivo nella percezione delle cose più umili, semplici, comuni. La sua sensibilità gli
conferisce questa capacità e lui sa farne buon uso senza trasgressioni. La sua personalità poetica parte dalla schiettezza
intuitiva, dalla genuinità per sviluppare tematiche attinenti
ad una realtà contingente. Amante delle bellezze della natura se ne fa strenuo difensore. Stigmatizzando lo scempio che
spesso se ne fa per egoistici interessi. La reminiscenza e l’elemento basilare di molte sue composizioni, ma una reminiscenza non solo nostalgica, bensì impreziosita dalla fantasia. È naturale che il ricordo del passato suscita rimpianto,
nostalgia. Alfio Spina se ne fa portavoce dal profondo spirito religioso, ostile ad ogni materialità si avvale dell’esperienza del vissuto e da buon cronista precisa eventi clamorosi accaduti, sottolinea le gravi conseguenze, umanizzando
il dolore che sovente aleggia nelle creazioni. La sua creatività lo porta ad illustrare le bellezze artistiche della sua terra. Ne descrive con maestria il fascino, consapevole che la
realtà è fonte inesauribile di ispirazione.
Chiara Trefiletti è una giovane poetessa, che si affaccia prepotentemente alla ribalta culturale e vanta un bagaglio cognitivo quanto mai invidiabile, frutto di assidui ed
approfonditi studi universitari. La sua poetica è improntata
alla realtà che, sagacemente manipolata, ben si presta a caratterizzare questo personaggio eclettico e poliedrico e dire
che una fonte d’ispirazione l’autrice la trova nel patrimonio
classico della poesia, senza trascurare certo l’immediato, il
astri» o «porte infernali imprigionano anime di universi». Il
viaggio dell’uomo è lungo, difficile, duro, ma «la Morte non
gli ha oscurato gli occhi... ha attraversato l’ignoto / alla
conquista della libertà... e tutto finì / e i corpi infangati dalla
neve / lasciarono il suono della libertà / alle dita colorate
d’arcobaleno». Ovunque sorgono difficoltà nelle «parole di
sabbia», mentre le speranze «che ardevano / alte tra gli
astri, / ora cadono come meteore al suolo». Infine, però,
l’ultima lirica si apre alla fiducia e si conclude con il verso:
«Finalmente è fiorita la pace».
Le immagini delle composizioni di questo testo
sono definite e ricche di metafore -meteore di luce appuntocome quando ad esempio, il poeta scrive: «Il cielo sussurra
il suono violento / dei rami alla catena di pietra. / Il mondo
s’inarca sul gioco / delle foglie /…e la clessidra s’inclina /
al sognare del tempo». Sono sembianze colorate come
quelle dei dipinti che le accompagnano, opere dell’autore
stesso. C’è nelle raffigurazioni pittoriche una grande
capacità d’interpretazione che trascorre attraverso le tinte.
Le figure stilizzate, quasi infantili, allungate, aperte,
intrecciate, incarnano e rappresentano, nelle loro forme
primitive, l’umanità che si agita sulla terra. Ma è soprattutto
il colore che stupisce ed attrae, riprendendo un po’
l’astrattismo lirico-simbolista di Kandinskij o i toni accesi
dei Fauves.
Renata Rusca Zargar
Voci Nostre, Il lunedì letterario, (Società Giarrese di Storia Patria, a cura di Girolamo Barletta
e Anna Castiglione Garozzo).
Il volume, curato
dalla Società giarrese
di storia patria con
sede a Giarre in provincia di Catania,
presenta poeti e scrittori del territorio ionico-etneo. Gli autori
sono stati presentati
in incontri che si sono svolti durante i
‘lunedì letterari’ dell’anno scorso «per
raccogliere attorno a
poeti in maggioranza
poco conosciuti, un
pubblico sempre numeroso di persone disponibili ad un rispettoso ascolto» scrivono gli autori della
premessa Girolamo Barletta e Anna Castiglione Garozzo.
«Poeti ‘scoperti’ malgrado le loro ripulse alla notorietà, altri
già affermati: gli uni e gli altri presentati da autorevoli critici prodighi di notazioni positivi». Tra di essi diversi sono
gli amici del Convivio, sui quali fermiamo in particolare la
nostra attenzione.
Pinella Musmeci confida prevalentemente sul sentimento, ne fa un trampolino di lancio per le sue creazioni
che aleggiano di velata serenità e di speranza. Si rende conto che sovente la realtà è crudele, perseguita l’essere e tenta
di distruggerlo. Essa cerca di venirne fuori confidando nella
speranza, ma non è compito facile. Attraverso alcune sue
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mo, conferendo chiarezza espressiva; trattasi di versi facili,
d’immediata assimilazione, schematici, che fanno della primordialità un pregio, non sempre apprezzato, ma pur valido
specie se si vuole che il messaggio giunga a tutti senza distinzione di livello culturale.
I suoi versi spesso
sono rivolti agli esseri viventi, come gli
uccelli: «Volatili che
venite da lontano...». Già la migrazione gli suggerisce
pensieri fantasiosi,
ma non nasconde il
timore che durante il
viaggio ci sia chi
insidia la loro vita.
Fontana è un esaltatore delle bellezze
naturali:
«Liguria
che sei bella e profumata» non disdegna definirla «Regione mondiale». Più oltre: «E tu Sicilia che sei in mezzo al
mare..» sei il sogno di tanta gente. V’è istintività indiscussa,
immediatezza interpretativa, non disdegnando anche qualche spunto buono come in Pesciolino innamorato che deve
stare sottoacqua, giochicchia scodinzolando e racconta barzellette. Scherzi a parte, è nella facilità espressiva di Mariano Fontana l’essenza di una poetica senza pretese, umile
come è umile chi si confessa per quello che veramente è!».
Pacifico Topa
contingente, quella realtà nella quale lei opera e che le ispira spunti creativi di notevole contenuto. La giovane età le
suggerisce quel senso di ottimismo che è tipico della spensieratezza, un ottimismo che poggia sulle speranze di un domani migliore. La fonte creativa va ricercata nella individualità, ecco perché per lei può parlarsi di poesia intimistica
di facile acquisizione, accattivante, dato che le sue caratteristiche sono inconfondibili e di indiscussa originalità.
Rosario Contarino fa della poesia un mezzo idoneo per esternare il suo stato d’animo lo fa con composizioni poeticamente elaborate, ma anche in vernacolo e forse
questa seconda sua capacità gli consente meglio di esprimersi, favorendo le sue capacità intuitive e la creazione di
un mondo suo particolare. La produzione di Contarino, voluminosa e già consacrata dai successi di critica, si sviluppa
attorno ad un vissuto che non è soltanto rievocazione e ricordo ma sopratutto constatazione di una esistenza che ha
avuto le sue peculiarità. La sua poetica aleggia nel clima
idilliaco della illusione, ne consegue spesso sconforto e delusione. C’è in lui un clima di velata mestizia, quel senso di
ponderata convinzione che tutto il meglio è passato e che il
futuro è sconosciuto. Non mancano note di speranza che
hanno una moderata considerazione, non perché egli non ne
nutra, ma perché le esperienze della vita gli fanno dire che
occorre molta cautela nell’affidarsi alla sola speranza. Un
poeta eclettico che cerca nella esternazione quella musicalità che e virtù di veri poeti.
Tra gli autori figurano anche Enrico Carbone,
Francesco Sciacca, Pietro Guarnotta, Isidoro Raciti,
Mario Pafumi, Antoinette Calabretta, Emma Calì.
Pacifico Topa
Mariano Fontana: La gioia della vita, esplosione di pace interiore (La Versiliana, aprile 2002)
Antonia Izzi Rufo, Les couleurs de l’ame - I
colori dell’anima, (Venafro 2003)
Con “La gioia della
vita” Mariano Fontana si presenta nella
sua indiscussa personalità spirituale, assertore convinto dei
principi
essenziali
della religione e della
morale cristiana. La
sua poetica è di una
semplicità disarmante e questo conferma
la istintività creativa,
la spontaneità, il senso chiaro delle cose.
Dai suoi versi si desume una personalità
schietta, ingenua, profondamente convinta di quanto asserisce. I temi sono dei più disparati, tutti però osannanti ed
elevati al rango di puri e fulgidi esempi di serena letizia. Un
linguaggio quasi fanciullesco che sconcerta e sorprende per
la innegabile genuinità. I suoi versi sono un’esplosione di
pace interiore; leggendolo si intravede questo personaggio
dotato di profondo spirito religioso, fervente praticante, solerte nella solidarietà, disponibile a sovvenire agli altrui bisogni, egli fa della sua stessa esistenza un itinerario verso
obiettivi di alto valore etico. La musicalità di alcune sue
composizioni accentua la delicatezza ispirativa del suo ani-
Testo bilingue con tr. francese a fronte di Paul
Courget, I colori dell’anima sono una raccolta della traboccante intuizione della poetessa e scrittrice Antonia Izzi Rufo di Castelnuovo al Volturno. La traduzione è impeccabile
e rispecchia il suono della poesia in italiano, onde un merito
da ascrivere al poeta e traduttore Paul Courget, laureato
dell’Accademie Française nonché di altre notevoli istituzioni in Patria che all’estero. In Colori riscontriamo il sentire, il percepire della nostra autrice nei vari stati d’animo,
non volendo trarre in inganno con codesta locuzione ad una
adesione ad un “rinnovato romanticismo”. Anzi, la Nostra
resta una persona solare e spumeggiante anche se a volte lo
“spleen” baudelairiano la assale, scoprendone in positivo le
poesie brevi, come una scheggia, un frammento che ti giungono subito a colpire e a farti travolgere nel tuo remoto “intus”. Verità di vita vissuta e in quanto tali universi per il lettore/rice. E in “Nostalgia”, pag 8, i puntini sospensivi e il
ripetersi di “lontano” danno una sensazione vera, quasi tangibile in contrapposizione alla vettura che «scivola... sul nastro d’asfalto» che rende ancora più vivido il concetto di
lontananza proprio quello scivolare sinonimo di velocizzare. In francese “chez moi” rende forse meglio che in italiano “casa mia”, meno elegante, meno fruibile subito. Così
emergono le poesie Sensualità, Nel silenzio dei boschi,
Agosto o la stupenda “Pausa” nonché le prime della breve
raccolta. Un merito “ad majora” alla poetessa molisana.
Enrico Marco Cipollini
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Maria Teresa Epifani Furno La Scoperta di
Eva (Casa Ed. Menna, Avellino 2003)
Lydia Tedeschi, Gran Galà Sistina Broadway
d’Italie, (Pellegrini editore, Cosenza 2002)
La scoperta di Eva
della nota poetessa di
Sorrento, riteniamo
sua stessa rivelazione, ci ha svelato una
nuova Maria Teresa
Epifani Fumo. Concordiamo pienamente
con quanto afferma
Carmine Manzi nella
bella
prefazione:
«Questa nuova silloge, è invece in tutto
diversa, perché domina in essa la sua voce
di donna, di donna...
Si potrebbe pensare
ad un aspetto nuovo
della sua poesia. In effetti l’elemento innovativo consiste
proprio nella esplorazione da parte della sua Eva di quell’universo femminile così impareggiabilmente ricco di luce
e di vita e nella sofferta conquista, attraverso le tre fasi, in
cui risulta suddiviso il libro, della “prima” donna del primo,
nel senso di primordiale ed autentico, amore.
Ancor prima che s’inizi a sfogliare, in copertina, la
coinvolgente opera pittorica di Teresa Correnti, dall’appropriato quanto sintomatico titolo Simbiosi, introduce il lettore in quello che sarà il tema di fondo dell’intera raccolta.
Poi, come si diceva, la sezione introduttiva, L’Essenza, insieme alle altre, La Metamorfosi e Il Contrasto, a simboleggiare, a nostro avviso, altrettante tappe di un cammino che
si snoda flessuoso e sensuale e puro. Può sembrare strano
che Il Contrasto sia quella conclusiva ma, a ben riflettere,
intuitiva e sostanziale è la sua collocazione al termine della
silloge; la sua funzione di sintesi è davvero esemplare: l’amore trova la forma più alta di realizzazione nella opposizione, nel contrasto appunto. È qui che si attua la metamorfosi, che l’essenza s’incarna nel vivere. È qui che si compie
l’estasiante scoperta di Eva. Dalla contrapposizione fra Adolescenza (Essenze mutabili / di nudità senza pudori) e Senilità (Essenze immutabili / di vergogne e rimorsi), la storia
della vita rinasce armoniosa dall’idillio del “lungo bacio”
dell’acqua del Balaton col cielo e ad Eva, infine, si rivela.
Ma se indubbia è la novità da un punto di vista tematico, se nuovo è il sapore epigrammatico, oseremmo dire
aforistico (“E se perduti / nasceranno amori / t’includeresti?”), delle triadi di versi disseminate nel testo, è vero altresì che lo stile è inequivocabilmente suo: nella sezione centrale, forse quella che preferiamo sotto il profilo dell’affiato
lirico, ci sono poesie dove il ritmo e la musicalità interna
conferiscono profondo respiro all’incedere del dettato. Ci
riferiamo soprattutto a Eri tumulto d’erba, a Uccello migratore e alla metaforica metamorfosi di Quello spazio d’azzurro in cui il dono della “perla promessa”al mare è indicativo di vera e intensa spiritualità. Ma tutto è dono; dono
d’amore, dono di sé, della sua anima messa a nudo, in questo lavoro. Il regalo più grande che tutti noi potessimo attendere dalla creatività, dalla “scoperta di Eva”.
Sandro Angelucci
Con Gran Galà Sistina Broadway d’Italie Lidia Tedeschi,
giornalista pubblicista, ha voluto rendere
un doveroso omaggio
ad un teatro che ha
caratterizzato la vita
brillante romana nel
dopoguerra. Con pregevole sagacia ha saputo raccogliere il
materiale sparso un
po’ ovunque, riassettarlo, ordinandolo a
seconda della progressione per farne
un resoconto arricchito da foto ed opportune annotazioni, offrendolo «a chi non c’era o non ha avuto la fortuna di assistere all’incantesimo dei primi spettacoli
dell’araldo Sistina». Siamo nell’immediato dopoguerra, periodo in cui si cercava di dimenticare le atrocità e le sofferenze patite, istintivo si sente il bisogno di dimenticare, divertirsi, di cercare qualcosa di diverso. Gli influssi di musiche straniere, jazz, blues, spirituals, il rock, si vanno diffondendo dopo la lunga stasi dovuta all’evento bellico. Roma si risveglia un po’ stordita, cominciano a fare capolino
le prime sale cinematografiche, si pensò alla costruzione di
un nuovo teatro e, su progetto di Marcello Piacentini, sorse,
accanto a Piazza Barberini, il Sistina che ben presto divenne il fulcro della commedia musicale all’Italiana, frutto dell’ingegno di una coppia diventata poi famosa: Sandro Giovannini e Pietre Garinei. È qui che furoreggia Ettore Petrolini con “Gastone” ed altre parodie. Man mano si passa dal
varietà alla rivista per iniziativa di impresari come Galdieri
e Remigio Paone. Gorni Kramer ed Armando Trovaioli furono creatori di colonne sonore d’indiscusso successo mentre andavano di moda i testi di Garinei, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Terzoli, Vaime, Verde, Lina
Wertmuller. Ovvio che il successo del Sistina lo si deve anche a personaggi che l’hanno onorato calcandone le scene:
la coppia Billi e Riva, Carlo Daporto, Carlo Campanini,
Walter Chiari, Renato Rascel, Ernesto Calindri e le dive
Andreina Pagnani, Wanda Osiris, Delia Scala, Franca Gandolfí ed ancora Gianni Agus, Lauretta Masiero, Nino Manfredi, Paolo Panelli. Ne1 frattempo riemerge lo spirito nazionalistico e per le celebrazioni del centenario dell’unità
d’Italia vennero messe in scena alcune commedie a sfondo
patriottico: “Rinaldo in campo” ed “Enrico 61”. Il primo vide l’esordio di Domenico Modugno con a fianco Delia Scala. La Tedeschi sottolinea anche la validità poetica degli autori, geniali creatori di parodie e motivetti musicali orecchiabili. È anche il momento della commedia dialettale; qui
emerge la figura di Aldo Fabrizi che insieme a Modugno
animano Rugantino. Il Sistina ospita anche spettacoli personalizzati come “Ciao Rudy” con Marcello Mastroianni,
Paola Borboni, Raffaella Carrà, la Lojodice, Ilaria Occhini,
musiche di Trovaioli. Nel frattempo emergono Enrico Ma80
ria Salerno, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia; Jonny Dorelli, Loretta Goggi e Alberto Sordi. È l’epoca del Musical
“Aggiungi un posto a tavola” poi “Sette spose per sette
fratelli” “West Side Story”, merito questo di Saverio Marconi dinamico organizzatore. La morte di Giovannini nel
1977 conclude il ciclo inteso di questo teatro famoso.
Pacifico Topa
C’era una volta... un medico condotto: Ferdinando Piccirilli, appunti e ricordi di Luciana
Piccirilli Profenna (Ed. Noubs, Pescara 2003)
Quest’opera di Luciana Piccirilli Profenna altro non è che
la meticolosa raccolta
di appunti che il
marito, Fernando Piccirilli, medico condotto, ebbe a trascrivere durante la sua
lunga carriera. Come
cronistoria quindi si
avvale di un linguaggio quanto mai scorrevole, improntato all’immediatezza.
Quello che si evidenzia è la meticolosità
descrittiva, realisticità di una vita spesa al servizio degli altri, contraddistinta da
intermezzi caratteristici di figure originali e fatti particolari.
È facile intuire che casi piuttosto strani ne sono enunciati in
questo volume diario, eventi che solitamente si sono risolti
positivamente. Ne scaturisce una sia pur larvata curiosità
per il lettore che incontra questo personaggio sempre disponibile, pronto ad affrontare le problematiche ardue. Ciò
che accentua la validità di questa iniziativa e anche la dettagliata descrizione di episodi tipici e di luoghi, ove spesso
l’ignoranza e la violenza provocavano incidenti ai quali il
dottore doveva porre riparo.
È opportuno anche precisare che colei che ha
raccolto questa documentazione, Luciana Piccirilli, è stata
una validissima collaboratrice del marito, avendolo aiutato
a svolgere le sue mansioni nel paesino di Lettomanoppello,
alle falde della Maiella. Di episodi strani se ne enunciano
ricorrenti in una comunità agreste ove il medico è ritenuto
non solo indispensabile, ma anche unico mezzo di comunicazione con il resto della società. Un resoconto dettagliato
di oltre un quarantennio di attività, un comprensibile segno
di riconoscenza da parte di Luciana Piccirilli verso colui
che ha dedicato tutta la sua vita per il bene del prossimo. Il
volume si conclude con una serie di attestazioni di personalità ed umili cittadini che hanno voluto dare testimonianza
dei meriti acquisiti, culminati con la targa che l’Amministrazione Comunale ha consegnato al dottore al momento
del suo pensionamento. Tra le personalità alla fine del volume compaiono: Dede Brutti Cinquino, Fedele Carriero,
Donatelli Adriano, De Sanctis Giovanni, Aceto Giovanni,
Mancini Camillo, Dionisio Giuseppe (sindaco), Ubaldo
Amoroso. “Cera una volta... un medico condotto: Fernando
Piccirilli” è senza dubbio una genuina testimonianza di
determinata fedeltà odontologica di una persona che ha lasciato grato ricordo di sé nel mondo in cui ha operato. La sua
autrice è impegnata in molte associazioni come L’AMMI
(mogli medici italiani), la Croce Rossa, ed è socia dell’Accademia d’Abruzzo, dell’ASSCA e del Convivio. I diritti d’autore del volume saranno devoluti all’Associazione
“Marco Di Martino”.
Pacifico Topa
Come rondini le primavere volano di Narcisa
Belluomini Celeghini (Museo della poesia)
La poesia di Narcisa Belluomini Celeghini volteggia sulle ali della rimembranza, la sua ispirazione attinge
nei ricordi del passato sempre evocati con tanta nostalgia. È
una vena ispiratrice semplice, scorrevole, limpida come acqua che sgorga da fresca sorgente, la lettura di queste creazioni ha l’effetto balsamico di un bagno di serenità, di fiducia e di speranza. Il titolo della silloge, “Come rondini le
primavere volano”, è sintomatico! V’è un evidente rimpianto per la fugacità del tempo e con esso per tutto quello che
trascina con sé. Un cruccio l’assilla: «Qui il tempo dei
ricordi s’e fermato», quello che la vedeva felice, spensierata
non c’è più, non restano che i ricordi, i rimpianti, specie se
allude a persone care scomparse: «Quando penso a te, mamma adorata...» sente nel cuore tanta mestizia e nell’immaginifico le fa dire: «Nei momenti più difficili ti sento vicina...». Indubbiamente con un animo saturo di sentimento
affettivo Narcisa Belluomini non può non dare libero sfogo
alle sue espressioni espansive, come in “Nonna e nipotina”
quando afferma: «Dolci attimi di felicità / sublime, profonda / che confonde / i nostri respiri...».
Oltre al sentimento in questa poetessa abbonda anche la fantasia e basta un non nulla per rimembrare, con ricchezza di sfumature, attimi di vita gioiosa, momenti irrepetibili che s’accavallano nel viaggio a ritroso del tempo.
Ecco allora la fascinosa bellezza delle festività natalizie
quando tutti uniti in allegria ci si disponeva a consumare il
pranzo, ma ora questo non c’e più! La panoramica di Narcisa Belluomini si allarga rievoca la spensieratezza di un’estate al mare ove «l’infinità dell’acqua / fa sentire liberi e in
trappola / schiavi e padroni / senza volontà». Questo ambivalente abbandono al gioco delle onde, incontrollabile, le
suggerisce la realtà di un destino che domina l’essere, disponendone a suo piacimento. La morte ha un ruolo determinante poiché elimina la presenza fisica, ma non cancella
quella spirituale... «Ora che il tuo essere non c’è più / io ti
vedo e ti sento / tutte le volte che voglio...». Dolce illusione
che può appagare un animo sognante.
Ciò che emerge da questa poesia è anche quel senso di fiducioso ottimismo, non vi è disperazione, rinuncia
definitiva, ma soltanto fiduciosa speranza, auspicio di un
costante ricordo, indizio di affetto profondo ed incancellabile. Lo asserisce anche G. P. Canavese nella premessa:
«Non c’è rabbia nella sua poesia, ci sono ricordi di vita,
storie mai dimenticate e traspare un grande affetto misto a
malinconia...». Validissima poesia di questa pluripremiata
poetessa romana.
Pacifico Topa
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Il bacio del diavolo storia della contessa
sanguinaria di Adriana Assini (Spring Edizioni,
Caserta, 2004)
XXV Anno Personaggi ed interpreti: “Misciagni
Nuestru”, il volontariato dell’Associazione “Misciagni Nuestru” a 25 anni dalla sua fondazione
(Comune di Mesagne, novembre 2001)
Il bacio del diavolo di Adriana Assini narra le vicende della contessa Erzsébet Báthory, imputata di aver assassinato decine di fanciulle reclutate alle sue dipendenze e
di averne impiegato il sangue per abluzioni a scopo cosmetico. La cupa eroina del male chiuderà i suoi giorni segregata in una stanza della propria dimora, il castello di Čachtice, su disposizione del conte palatino d’Ungheria György Thurzó, fino alla morte avvenuta nel 1614, senza aver
mai subito un processo ufficiale. In questo romanzo, Adriana Assini opera uno scavo profondo sulle figure di protagonisti e comparse. Dire che si tratti di mera analisi psicologica sarebbe riduttivo, perché solo un puntuale studio bibliografico preventivo può consentire di disciplinare la fantasia
narrativa tipica di certi filoni entro gli schemi rigorosi dell’attendibilità storica. Attraverso la calibrata dosatura dei
dialoghi affiorano in una sorta di affresco progressivo non
solo la viltà dei subalterni, le incombenze quotidiane, le effimere contese locali ma anche gli intrighi che intessono la
rete politico-diplomatica di buona parte della vecchia Europa centrale. Al centro della rappresentazione, lei, Erzsébet,
all’esterno sprezzante e blasfema, eppure, nell’intimo, incerta, superstiziosa, fragile creatura che assiste impotente alla
procella che monta e finirà per travolgerla. Il racconto si fa
man mano più intenso col precipitare degli eventi: Erzsébet
accresce infatti delitti e imprudenze proprio quando si coagula intorno la congiura ai suoi danni. Un discorso a sé va
fatto per Anna Darvulia, la diabolica confidente della contessa cui viene attribuita l’escogitazione dei tormenti più efferati; qui l’autrice raggiunge davvero uno stato di grazia regalandoci un ritratto a tutto tondo della perfida suggeritrice.
Anna è infatti l’interfaccia di Erzsébet, il lascivo demone
esteriorizzato delle sue pulsioni più inconfessabili continuamente bisbigliante la tentazione estrema: attingere l’assoluto tuffandosi nell’abisso senza fondo del male incondizionato. Adriana Assini ha colto in profondità questo aspetto
complesso con una felicità di scrittura che raggiunge talvolta vertici di eccellenza. Vi si intravede la lezione di
Freud, Sade e Bataille, quell’incontro con l’‘ombra’ che ci
attrae e terrorizza perché la lotta più ardua è sempre il duello condotto al nostro interno, malgrado lo scontro continuo
con le insidie della realtà contingente. Nella effigie della
Darvulia riverberano tutte le accuse, le fantasie morbose, le
diagnosi neurologiche, aventi per oggetto Erzsébet: era una
sadica lucida, una narcisista criminale, un’adepta della stregoneria? L’autrice de Il bacio del diavolo non si pronuncia
mai esplicitamente (condivide la tesi del complotto ordito ai
danni della nobildonna ma non la assolve dalle sue colpe);
certo manifesta indubbia preferenza per l’enigmatico universo femminile descritto, a fronte del prosaico machiavellismo del mondo degli uomini. Ma saranno comunque ancora una volta proprio gli uomini a porre fine a questo
‘caso’ anomalo: all’altera aristocratica, ‘murata’ in una sala
del suo maniero, pare fosse lasciato in dotazione uno specchio, affinché potesse rimirarvi, giorno dopo giorno, lo sfiorire di quella bellezza sul cui altare aveva sacrificato –
ebbra del culto di sé – ogni residua traccia di umanità.
Luciano Pirrotta
Spartaco Colelli ha
voluto codificare il
lavoro dell’associazione culturale “Misciagni Nuestru”, benemerita operatrice
culturale nata circa
25 anni fa per iniziativa di alcuni appassionati impegnati a
valorizzare il dialetto,
la cultura e le tradizioni locali allo scopo di favorire le giovani generazioni ad
aggregarsi per dare
vita ad iniziative culturali, specie teatrali.
Il volume ha la veste di un dettagliato carnet in cui sono
riportati cronologicamente gli eventi che si sono succeduti
in questo lasso di tempo. Dopo brevi presentazioni del Presidente, del Sindaco, dell’Assessore alla cultura, viene fatta
una dettagliata descrizione del “teatro mentale” inteso come
riproposizione di una realtà personalizzata. Quindi si passa
alla storiografia di “Misciagni Nuestru”, desunto dal nome
della cittadina Mesagne, si elencano i fondatori di questa
associazione e si inizia con la presentazione di intrattenimenti ideati e redatti dagli stessi concittadini. Si dà anche
spazio alla poesia, espressione ispirata alla realtà ed agli
eventi. Il testo riporta un brano del dramma “Padre vuol dire”, vi sono poi altri titoli come “Lu matrimoniu scumbinatu”. Una seconda parte, con inizio nell’anno 1977, riguarda il varietà, il dramma di Ibsen “Spettri” ed una sequela di commedie, concerti, sempre come protagonisti dilettanti locali, spettacoli di varietà, pezzi classici come “Natale in casa Cupiello” di De Filippo, musica classica. Il volume poi contiene un’interessante dissertazione sul dialetto,
curata dallo studioso e autore di teatro Spartaco Colelli, in
quanto parte degli spettacoli viene proposto nella lingua
locale, ovviamente s’è cercato di creare anche un pregevole
glossario che agevoli la comprensione delle parole. Ecco allora che il termine viene analizzato nel suo etimo con dettagliata spiegazione e facendo riferimenti ad altri linguaggi di
origine. Un valido testo di consultazione oltre che di informazione che il Comune di Mesagne ha sponsorizzato con la
collaborazione oltre che di Spartaco Colelli anche di Enzo
di Pietrangelo. Tra i vocaboli di un certo interesse si trovano “Camastri”, dal greco ‘kremaster’ (appendere) = catene
metalliche a cui si appende il paiuolo sul fuoco. Ad ogni
‘capo’ si trovano gli uncini per agganciare sia la catena sia
il paiuolo. “Attani”: il padre. Forse si può rintracciare un
influsso del germanico ‘atta, attane’: padre. Si tratta di un
termine ancora usato tra i ceti più umili. “Scrafazzatu”, dallo spagnolo descabezar = schiacciare e quindi dal dialetto
brindisino ‘scrafazzari’, il termine ricorre anche nel dialetto
siciliano, con lo stesso significato e grafia.
Pacifico Topa
82
Il ponte sul fiume rapido di Giovanni Di
Girolamo (G.D.G. Teramo maggio 2003)
La poesia è palingenesi ne L’Arcobaleno della
vita di Gloria Venturini (Rovigo, giugno 2003)
“Il ponte sul fiume
rapido”, sottotitolato
“racconto lungo”,può
ben definirsi specchio di un realismo
che solitamente viene
minimizzato o sottaciuto. Di Girolamo,
invece, ha voluto dare alla sua trama
quell’impronta di verismo che raggiunge
gli apici specie nei
momenti cruciali della passione amorosa.
A prima vista quello
che si evidenzia dalla
lettura è un costante
paragone fra il passato ed il presente una dettagliata analisi
dei mutamenti che il progresso produce sia in positivo che
in negativo, tale mutazione non si limita agli ambienti, ma
si trasferisce anche sui personaggi per cui anche i modi di
pensare si adeguano ad un modernismo talvolta estremo. Il
contrasto d’amore e la pantomima amorosa sono il pasto
con cui il racconto si colora, il tutto gestito con genuinità,
ma con un crescendo che sbocca nella scena forte del connubio fisico.
Forse quello che maggiormente colpisce in questo
racconto è il verismo sessuale, frutto di una travolgente passione che l’autore fa scattare al momento opportuno in tutta
la sua crudezza. Il ritorno al villaggio natio del dott. Franchini dà l’avvio ad una serie di considerazioni, reminiscenze che evidenziano le mutazioni. La scena cruciale nella quale i due si avvinghiano è la risultante di una grande
passione amorosa, ne consegue qualche considerazione piuttosto fredda, cioè quella che è valido il principio del “carpe
diem”, una filosofia che è andata facendosi strada col passare degli anni, ma che è in netto contrasto con i convincimenti di un’etica tradizionalistica. Di Girolamo ha voluto
proporre la fase evolutiva di un proletariato che si riscatta e,
pur nel trambusto di una vita dispersiva, non trascura i
sentimenti. Talvolta ci si chiede se il moderno è meglio del
passato, al lettore l’ardua sentenza!
Pacifico Topa
C’è del fosco in
questi versi. È la
notte dei sentieri
dell’anima, a tratti
squarciata da qualche barbaglio di luce. Vi insiste la
Venturini, ma senz’alcuna antinomia
tra sentimento e gesto. Scrivere è salvifico; è spesso dar
corpo al dolore che
corpo non ha. L’Autrice
materializza
quel male che ne ha
segnato l’esistenza,
lo rigetta e torna alla
vita con nuovo vigore. L’Arcobaleno è allusione inconscia
al placarsi delle forze ostili, ad un nuovo ciclo che inizia e
ad una quiete a lungo cercata, cui si accede attraverso la
corposa levità del canto. L’ossimoro è d’obbligo. In un
mondo che ci ha resi servi del profitto, insensibili alle istanze dell’Io, la velleità dell’arte ci spoglia di ogni impostura,
e riaffiora in noi un ardente desiderio di pienezza che la
poesia appaga, facendosi veste elegante del linguaggio quotidiano. Quel lessico ormai logoro, che senza posa decliniamo da che siamo al mondo, è una smunta congerie di parole, e nessuno bada più né ad essa né al suo messaggio. Reclama così la bellezza che soltanto l’armonia del verbo poetico può darle; il verbo che celebra quel che l’umano spirito
conosce e produce, lo rende vero ed uguale solo a se stesso,
e vi dà un “perché”. Un esempio ne è Un’eco nella bufera:
Come un’onda mi muovo nel mare della vita.
Sono accarezzata dalla brezza mattutina,
frustrata dalla violenza della pioggia.
Vedo i tramonti ed il sorgere del sole,
vago tra questi misteri della natura
ed ovunque io possa essere, so di esistere,
anche quando arriverò a riva per finire il mio viaggio.
Non mi importa se mi infrangerò sopra uno scoglio,
o tra i piedini scalzi di un bambino,
so solo che ho sentito in me il tepore del giorno
ed il gelo della notte,
ho sentito l’eco del tuo nome perso nel vento
quando la bufera infuriava,
mentre la nave del nostro amore, piano piano
si inabissava nel cuore del mare, ed io,
piccola onda, continuo a custodire questo relitto,
fino a spegnermi dolcemente in esso.
Demetrio Nunnari
Silentium sive Deus, Antologia poetica (Betania
editrice, Caltanissetta 2004).
«Credo che la preghiera sia dichiarazione di prontezza e di sintesi di un’esperienza religiosa. Dispone l’anima ad un percorso di senso e ne sacralizza l’azione che ne
consegue. La poesia viene dalla vita: la testimonia» (Vincenzo Salsetta). L’antologia, che riposta le migliori liriche
del concorso di poesia religiosa La Gorgone d’oro, è promossa dal centro di Cultura e Spiritualità Cristiana. Tra gli
amici del Convivio figurano: Mario Giorgio Talio, Maria
Stella Brancatisano, Alfonsina Campisano Cancemi, Ciro
Carfora, Gianni Ianuale, Milvia Lauro, Vincenzo Macauda,
Gianni Rescigno, Giovanni Caso, Mina Antonelli, Angela
Aprile, Beatrice Torrente...
Salvatore La Franca. Abbiamo ricevuto le seguenti opere: L’arca della pace (Editrice il Cardo,
Viareggio 1990); Opere sparse (Gabrieli ed. Roma
1999); Specchiamoci (ed. Lo Faro, Roma 1984);
Crimini guerra e politica (Gabrieli ed., Roma 2000).
83
Maria Pia Palmieri, la narrazione attraverso il
ricordo di Non è una favola (Publisfera, Cosenza
1996)
Libri ricevuti
Alcuni dei seguenti testi saranno recensiti, sui
prossimi numeri del Convivio
Recensire il volume dal titolo “Non è una favola”
di Maria Pia Palmieri è cosa piacevole, perché fa affondare
il presente nel passato, presente che è sintesi ed evoluzione
del passato. Il libro è rivolto ai giovani, la speranza del futuro. E per chi è a contatto con il loro mondo non può pensarla diversamente, perché i giovani di oggi saranno gli uomini che guideranno le sorti della società civile del domani.
Questa è la linea direttiva del volume di Maria Pia Palmieri,
così come lei stessa evidenza nella nota di presentazione.
Lei, infatti, dedica la sua opera «ai ragazzi che saranno gli
uomini del prossimo millennio», cioè del Duemila. «Miei
cari, voi siete la speranza di chi ha vissuto anni di storia per
nulla entusiasmanti». Il volume è uno spaccato di storia
contemporanea, di esperienze personali, di emozioni e sentimenti, di vita vissuta ogni giorno attraverso il filo del ricordo, ma soprattutto nell’attualità dell’esistere. I personaggi sono uomini e donne reali, esistiti nella loro semplicità di
esseri umani che nulla hanno preteso o pretendono di insegnare. Si tratta della memoria delle piccole cose, dei piccoli
affetti, delle piccole gioie, ma anche dei tempi duri della
guerra, delle sofferenze e delle privazioni. L’obiettivo dell’opera non è quello di insegnare qualcosa ai giovani, ma
evidenziare come l’esperienza di vita porta alla maturità
dell’individuo, attraverso la scansione del tempo della protagonista, che è l’autrice, partendo dall’infanzia vissuta a S.
Giovanni in Fiore, nella provincia di Cosenza, dove vigeva
solo miseria e povertà soprattutto subito dopo la seconda
guerra mondiale. C’erano allora poche scuole e scarse possibilità di frequentarle, ma soprattutto erano fredde e senza
riscaldamento, Tanti erano i sogni, ma pochi quelli che
effettivamente si potevano realizzare. Tra i tanti personaggi
dell’infanzia che emergono attraverso la memoria, si staglia
la figura del padre, un padre ideale, che in tempi di miseria
è visto da certa gente del paese come ‘antagonista’: «Mio
padre era “ladro di tavolino”, mia madre la “padrona” che
dava l’uovo fresco ai suoi figli, io la “principessa” figlia del
“padrone” che succhiava il sangue degli operai» scrive l’autrice con rammarico. L’infanzia e l’adolescenza diventano il
tempo delle scoperte: la morte (che incute profonde paure)
e l’amore che fa dimenticare la morte. Dai ricordi familiari
si passa ai ricordi degli amici e quindi agli eventi politici e
militari che in quegli anni, nel ‘45, hanno segnato la storia
dell’Italia. Ma la figura che forse emerge da tutta l’opera per
la profondità psicologica è quella della ‘cameriera’: «analfabeta e priva di umiltà, era bravissima nel seminare zizzania.
Mia madre, religiosissima, ne era succube e non saprei dire
se per compassione sublime o perché si sforzasse di non trascurare il comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso. In certo senso era lei che comandava in casa. Lei che stabiliva elemosine e rimbrotti». Infine è la storia di D.P. che
fa vedere lo spirito di iniziativa e di riscossa, anche economica, del buon calabrese. D.P. infatti, dopo aver perduto il
padre, fa di tutto per mettere su un’impresa, ma la fortuna
non è dalla sua parte. D.P. è morto all’età di 50 anni e viene
ricordato come una persona onesta, tanto che alla sua morte
‘hanno pianto anche le pietre’. Il libro si fa leggere con facilità e colpisce per la passionalità che l’autrice vi infonde.
Angelo Manitta
Vincenzo Scaramozzino, Nerone Poesie e apologia di reato (Joker, Marzo 2003). «Come che sia, il libro
offre una geografia semiotica riccamente strutturata, di cui
sono spia alcune occorrenze quasi ossessive: se l’onnicomprensivo (mai piattamente filosofeggiante) ‘cose’ occorre
ben 25 volte, non si possono non sottolineare le 13 occorrenze di superfici/e...» (Mauro Ferrari).
Francesco de Napoli, Rocco Scotellaro oltre il
sud, nel 50° anniversario della morte. Antologia letteraria
(Edizioni Eva, Cassino 2003).
Autobiografia di Gilbert Paraschiva Ma ‘ndo
vai... (Il Pianeta dell’amore, Giardini Naxos 2003).
Flora Lalli, Il vento tra i capelli Poesie (Ed. la
Conca, Roma 1999). «Flora Lalli con i suoi versi essenziali
ed asciutti riesce a manifestare molti elementi qualitativi che
determinano non solo meditazione, recupero dei ricordi vissuti in intima essenza con se stessa, ricerca della verità e
proiezione continua delle proprie reazioni agli accadimenti
nel presente, potenza delle metafore, musicalità e ritmo, ma
anche la coscienza di sentirsi legata umanamente e spiritualmente agli uomini, ai suoi compagni di vita e alla sua terra,
culla della sua gioia e del suo tormento» (Romeo Iurescia).
Antonio Conserva, Dialogo con il silenzio (Ed.
Auditorium, Ceglie Messapica 2004). «Nelle sue liriche si
coglie pertanto una proposta di risposta agli interrogativi
della vita. Tale risposta risiede nel recupero di un’affettività
pura, sincera; nel senso della sacralità della vita umana e
della morte. La ricerca di Antonio Conserva, il suo sforzo
di dare risposte approda, di fronte a un tempo umano scandito da violenze di ogni genere, al bisogno di affermare la
centralità di Dio, del Dio cristiano, porto di pace per l’affanno di un uomo che intende liberarsi dalle brutali contingenze della realtà» (Cosimo Francesco Palmisano).
Nello Tortora, Hai Visto mai? (ed. Brontolo, Salerno 2004). «Si tratta di quarantuno Racconti Umoristici
già pubblicati su “Brontolo” e che hanno già ottenuto lo
vostra simpatia – scrive l’autore nella breve presentazione
rivolgendosi ai lettori -, la vostra approvazione e le vostre
critiche favorevoli, per i quali vi prometto, per compensarvi
della vostra gentile Collaborazione, di farvi sganasciare dalle risate solo quel tanto che non vi si deturpi il viso. Ciao,
sono sempre Io. Nello Tortora, non ancora Cavaliere».
Isabella Michela Affinito, Una raccolta di stili 7°
volume (Penna d’autore, aprile 2002).
Isabella Michela Affinito, Redenzione (Casa ed.
Menna – Avellino luglio 2003).
Isabella Michela Affinito, Luoghi non comuni
(Poesie), II volume (Terzo Millennio 2002),
Isabella Michela Affinito, Luoghi non comuni
(Poesie), III volume (Terzo Millennio 2003). «Ancora “Luoghi non comuni” sul mio cammino di artista. Un ventaglio
di parole ho aperto per far rivivere i miei luoghi consacrati
all’immortalità. Apostoli, zarine, santi, soldati di Sparta e
filosofi di Atene, regine, eroi e il poeta di Recanati ho incontrato in questi luoghi, di loro ho raccontato e una cellula
di città ho conservato per moltiplicarla all’infinito fra queste pagine che hanno tanto viaggiato»(L’autrice).
84
64.12.56 dall’Estero ++39 ( 0965 ) 64.12.56 oppure scrivendo al
seguente indirizzo: Centro Studi Universum Calabria, Via Trapezi 19, Trav. Priv. - 89060 Croce Valanidi ( Reggio Calabria )
E-mail: [email protected] E-mail: [email protected] Internet: web.ticino.com/studiuniversum Tel. ( 0965 ) 64.12. Cell. (
328-12.44.802.
Concorsi
Premio nazionale “città di Mesagne”
Scadenza 31 maggio 2004. L’Associazione Culturale “MISCIAGNI NUESTRU”, con il patrocinio e secondo gli intendimenti
dell’Amministrazione Comunale di Mesagne (BR) – Ufficio Cultura, promuove la III edizione del Premio Nazionale di Poesia,
Narrativa e Teatro in lingua nelle categorie A e B (quest’ultima riservata ai giovani di età non superiore ai 18 anni (fino a tutto il
2004) e limitatamente alle Sezioni di Poesia e Narrativa). Si
partecipa con opere non vincitrici di precedenti premi: 1) nr. 1
(uno) racconto breve, di contenuto non superiore alle 3 (tre) cartelle, 2) n.ro 3 (tre) liriche, di contenuto non superiore ai 30 versi
ciascuna, 3) n.ro 1 (uno) Atto Unico teatrale di carattere drammatico o brillante, di contenuto non superiore alle 20 cartelle, durata
non superiore ai 30 (trenta) minuti, mai rappresentato e da non
rappresentare fino a tutto ottobre c.a., devono pervenire alla Sede
dell’Associazione in 8 (otto) copie, di cui solo una recante in calce
le generalità complete dell’autore, indirizzo, telefono, titolo degli
elaborati e dichiarazione sottoscritta di paternità degli stessi, con
rinuncia ad ogni eventuale diritto. È facoltà del concorrente allegarvi curriculum e foto, mentre è richiesto, per la Sezione Narrativa e Teatro, includere un dischetto (floppy) contenente l’opera in
concorso. L’assenza del floppy preclude la possibilità per i meglio
classificati di essere compresi nella stampa del volume antologico
in programma per l’anno successivo. A parziale copertura delle
spese organizzative, si richiede un contributo di 10 (dieci) Euro
per ciascuna Sezione della categoria “A”, ridotto a 5 (cinque) Euro
per la fascia giovanile (cat. “B”), da far pervenire unitamente alle
opere o con versamento su cc.p. n. 22206296 intestato all’Associazione Culturale “MISCIAGNI NUESTRU” – Piazza Caduti di
Via D’Amelio 12-13 – 72023 MESAGNE (BR). Premi in denaro.
I vincitori dei primi due premi per categoria/Sezione saranno
tenuti a presenziare e ritirare di persona i premi loro attribuiti.. Per
maggiori informazioni: tel 347 2349752 - 335 5285633 - 340
9701864; Sito Comune di Mesagne: www.comune.mesagne.br.it
Sito Associazione organizzatrice Premio: www.misciagninuestru.it
E-mail: Ufficio Cultura: [email protected]. Associazione organizzatrice Premio: [email protected]
Premio internazionale “L’Attualità-Bartalucci”
Scadenza: 30 giugno. L’ottava edizione dei Premio letterario è dedicata ad autori italiani e stranieri (testi con traduzione in lingua
italiana a fronte). Il Concorso si articola in 5 sezioni: a) Poesia
Inedita: Silloge composta da un minimo di 3 ad un massimo di
120 poesie; Poesia Edita: libro edito dal 1998 ad oggi; c) Narrativa inedita: racconti, da un minimo di 3 cartelle dattiloscritte
ad un massimo di 20; se raccolta di racconti o romanzo, anche oltre le 20; d) Narrativa edita (libro edito dal 2000 ad oggi; e)
Saggistica (argomenti umanistici). Gli elaborati vanno inviati entro 30 giugno 2004, in via P. L. Guerra 8, 00173, Roma, tel/fax.
06-7223365, 4 copie già ordinate in fascicolo, senza alcuna indicazione, unitamente ad una busta chiusa: all’interno vanno indicati
il nome, cognome, la dichiarazione di autenticità; all’esterno della
busta vanno indicati i titoli delle opere. Per la poesia edita: dati
anagrafici ed indirizzo. Per ogni sezione a parziale copertura delle
spese di segreteria, occorre effettuare il versamento di 15 euro sul
c/c 56777006, intestato al Movimento Gaetano Salvemini. I premi
consistono in coppe, targhe, medaglie e diplomi con recensioni da
pubblicare. Ai finalisti verranno assegnati Diplomi di merito. I
vincitori di primo e secondo premio nelle passate edizioni sono
esclusi dai premi. I premi dovranno essere ritirati personalmente o
tramite delega scritta. Presidente della giuria: Antonietta Mancuso.
Membri: Flora Longhi, Gian Federico Brocco, segretraia: Elena
Andreoli. Presidenti onorari Mara Ferlito, Augusto Giordano.
Premio Teatrale “Angelo Musco”
Scadenza: 30 giugno 2004. L’Accademia Internazionale “Il Convivio” e la sede delegata del Convivio di Grotte (AG), insieme all’omonima rivista e con la collaborazione della Provincia di Agrigento, bandiscono la prima edizione del premio Teatrale “Angelo
Musco”, diviso in tre sezioni: 1) Opera teatrale inedita in dialetto
siciliano. 2) Opera teatrale inedita in lingua italiana (anche dialettale, ma con traduzione italiana). 3) Opera teatrale edita o inedita
in qualunque lingua o dialetto. Premiazione: Agrigento, in data da
stabilirsi. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera
per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati
vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità, indirizzo
e numero telefonico, alla Redazione de “Il Convivio”: Premio Teatrale “Angelo Musco”, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012
Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso
è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio. È richiesto da
parte dei non soci un contributo complessivo per tutte le sezioni di
euro 10,00 (o moneta straniera corrispondente) da inviare in
contanti. Per ulteriori: tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, email: [email protected].
Trofeo del Bergamotto
Scadenza: 21 giugno 2004. Il premio si svolge sotto l’Alto Patrocinio della Presidenza Internazionale del Centro Studi Universum
di Lugano – Switzerland, dell’ A.P.T. (Azienda Promozione Turistica ) di Reggio Calabria, della XIII Circoscrizione del Comune
di Reggio Calabria, e con la collaborazione del Consorzio del Bergamotto di Reggio Calabria e dell’Accademia Internazionale “Il
Convivio” Catania. Il Concorso si articola in quattro sezioni: 1)
Poesia in Lingua Italiana a tema “ Il Bergamotto”, 2) Poesia in
vernacolo a tema “ Il Bergamotto “ 3) Poesia in lingua italiana a
tema Libero, 4) Poesia in vernacolo a tema libero. È possibile
partecipare con una sola poesia per sezione in 4 copie chiaramente
dattiloscritte di cui solo una corredata dei dati anagrafici, indirizzo
completo e numero telefonico. Ad ogni autore, per ogni sezione a
cui partecipa, è richiesto un contributo di partecipazione di Euro
10.00 che va versato sul Conto Corrente Postale N° 16172397 intestato a Centro Studi Universum Calabria. Gli elaborati, con acclusa la ricevuta dell’avvenuto versamento, devono pervenire entro e non oltre il 21 Giugno 2004 al seguente indirizzo: Associazione Culturale Internazionale Centro Studi Universum
Calabria, Via Trapezi 19, Trav. Priv. 89060 Croce Valanidi
(Reggio Calabria ) Italia. I premi consistono in targhe, coppe,
trofei, medaglie con attestati di partecipazione, Menzioni d’Onore
e Segnalazioni di Merito. Non sono ammesse deleghe per i primi 3
classificati. L’esito del concorso potrà essere consultato sul nostro
sito internet web.ticino.com/studiuniversum. Ulteriori informazioni si possono richiedere telefonando al Presidente Regionale del
Centro Studi Universum Acc. Francesco Fiorente al numero (0965)
Premio nazionale “Paestum”
Scadenza: 30 giugno. Regolamento della quarantacinquesima edizione: È possibile concorrere con uno o più elaborati (poesie in
lingua ed in vernacolo, novelle, racconti e saggi). Ciascuno dei
componimenti partecipanti, in 5 copie chiaramente dattiloscritte,
di cui una sola firmata e con l’indirizzo dell’autore, va accompagnato dalla quota di euro 15 (a titolo di parziale concorso alle
spese postali, di segreteria e di organizzazione). Ogni poesia non
deve superare i 40 versi ed ogni elaborato in prosa deve essere
contenuto entro le 4 cartelle dattiloscritto a spazio due. Il tema è
libero. Sono in palio Medaglia del Presidente della Repubblica,
Medaglie d’Oro, Targhe, Trofei, Coppe, Medaglioni messi a disposizione dall’Accadenia di Paestun e da Comuni, Enti, Aziende
di Credito e di soggiorno e turismo. Ogni premio è accompagnato
da un’artistica pergamena di conferimento. I risultati del concorso
e la cronaca della cerimonia di assegnazione del premio, oltre ad
85
essere diffusi da radio e televisioni, saranno riportati nella loro
stesura integrale dalla rivista “Fiorisce un Cenacolo”, organo
ufficiale dell’Accademia di Paestum. Inviare l’adesione entro la
data del 30 GIUGNO 2004 all’indirizzo: ACCADEMIA DI
PAESTUM (Segreteria Concorsi Letterari) 84085 MERCATO S.
SEVERINO (SA).
La voce dell’emigrante
Scadenza: 31 luglio 2004. L’Associazione Culturale “La voce dell’emigrante” e il comune di Pratola Peligna, in collaborazione con
la regione Abruzzo, con il comitato regionale emigranti abruzzesi,
e sotto l’alto patrocinio del Ministero per gli italiani nel mondo e
dell’ordine dei giornalisti d’Abruzzo, bandiscono la XXVIII edizione del premio internazionale emigrazione. Il premio si articola
nelle seguenti sezioni: saggistica, giornalismo, narrativa edita ed
inedita, poesia edita ed inedita. Tutte le sezioni hanno per oggetto
l'emigrazione. Sezione saggistica: si concorre con un saggio edito in data non anteriore al 1 gennaio 1990. Sezione giornalismo:
Si concorre con un articolo apparso su un quotidiano o periodico;
o con un servizio televisivo su cassetta, della durata massima di
un’ora; o con un servizio radiofonico su nastro, della durata massima di un’ora. Sezione narrativa edita: Si concorre con un racconto pubblicato su periodico, o con una raccolta di racconti, o
con un romanzo; tutti editi in data non anteriore al 1 gennaio 1995.
Sezione narrativa inedita: Si concorre con un racconto inedito di
massimo venti cartelle (40.000 caratteri). Sezione poesia edita in
lingua: Si concorre con una raccolta di poesie edita in data non
anteriore al 1 gennaio 1995. Sezione lingua poesia inedita in lingua: Si concorre con massimo di tre poesie in lingua. Premio speciale di giornalismo sul trentennale de “La voce dell’emigrante”. Si concorre con un articolo apparso su un (quotidiano o periodico o con un servizio televisivo su cassetta; o con un servizio
radiofonico su nastro. Il bando prevede anche le sezioni: pittura
e fotografia. Per informazioni. Segreteria del Premio: “La Voce
dell’Emigrante” vico Sportello, 10 - Cas. Post. N. 7 - 67035
Pratola Peligna (AQ) Tel-Fax 0864/53147.
Premio Carta e Penna
Scadenza: 30 giugno 2004. L’Associazione Culturale Carta e Penna, in collaborazione con la Federazione delle Associazioni Prader
Willi italiane, ha deciso di bandire questo concorso letterario al
fine di far conoscere ad un vasto pubblico la Sindrome di Prader
Willi; si è anche stabilito di devolvere alla Federazione il 10% delle quote di partecipazione al concorso. Il premio si divide in due
sezioni: NARRATIVA: si partecipa con un racconto (tema libero,
anche edito) non superiore alle 10 cartelle (60 battute per 30 righe)
POESIA: si partecipa con un massimo di tre poesie (anche edite,
di max. 35 versi più il titolo). Gli autori possono partecipare ad
entrambe le sezioni, versando le relative quote. Gli scrittori di
lingua straniera dovranno allegare la traduzione italiana del testo.
Ogni autore dovrà inviare all’associazione CARTA E PENNA Via Susa 37 - 10138 - Torino: tre copie di ogni elaborato; una copia deve contenere le complete generalità dell’autore ed essere firmata; bollettino del versamento di euro 10,00 sul c.c. postale n.
43279447 (CAB 01000 - ABI 07601) intestato a Carta e Penna,
Via Susa 37 - 10138 Torino. La somma può essere allegata in contanti o con assegno non trasferibile intestato a Carta e Penna; breve curriculum, entro un massimo di 5 righe; un francobollo di posta prioritaria per la comunicazione dei risultati; Saranno premiati
i primi tre classificati per ogni sezione. L’autore conserva la piena
proprietà delle opere e concede all’Associazione Carta e Penna il
diritto di pubblicarle senza richiedere alcun compenso. Per ogni
altra informazione: [email protected] - Tel.: 3392543034
Concorso Zacem
Scadenza: 30 luglio 2004. IL concorso è diviso in 7 sezioni. SEZIONE A: Il concorrente dovrà inviare una poesia in lingua italiana a tema libero di non oltre 36 versi. SEZIONE B Il concorrente dovrà inviare una poesia in vernacolo completa di traduzione
in lingua a tema libero di non oltre 36 versi. SEZIONE C Il
concorrente dovrà inviare una poesia in lingua italiana a tema GLI
ANZIANI di non oltre 36 versi. SEZIONE D Il concorrente dovrà
inviare tre haiku a tema libero Le poesie, in sette copie, dovranno
essere inviate insieme ad una busta chiusa contenente una ulteriore copia firmata con le generalità dell’autore, l’indirizzo di
posta elettronica se possibile e qualsiasi notizia utile. SEZIONE E
Riservata a concorrenti residenti all’estero. (Uno speciale bando
verrà inviato agli interessati). SEZIONE F Il concorrente dovrà
inviare un volume edito di poesia in italiano in cinque copie accompagnate dalle generalità dell’autore, l’indirizzo di posta elettronica se possibile, e qualsiasi notizia utile. SEZIONE G Il concorrente dovrà inviare un volume edito di poesia in vernacolo in
cinque copie accompagnate dalle generalità dell’autore, l’indirizzo
di posta elettronica se possibile, e qualsiasi notizia utile. (I volumi
dell’una e dell’altra sezione verranno, dopo la valutazione della
giuria, donati e inseriti nella Biblioteca dell’Associazione Anziani
Vadese e dell’Associazione Culturale Savonese “ZACEM” in modo da essere letti da molte persone. I volumi ancora eccedenti saranno donati, se l’autore sarà d’accordo, ad autorità e persone meritevoli durante le premiazioni dei concorsi banditi da ZACEM.)
PREMIAZIONE: dal I al IV classificato per la sezione A è previsto l’inserimento delle liriche su di una piastrella decorata che
sarà apposta a tempo indeterminato sulla parte esterna dell’edificio
“MARINELLA” nel pieno centro dei giardini a mare della località
di Vado Ligure (SV) esposta al passaggio e quindi alla lettura di
innumerevoli persone. Tre piastrelle sono riservate per i vincitori
delle sezioni B, C, D, E. I successivi due classificati per ogni
sezione riceveranno (solo se presenti alla premiazione) un’opera
artistica ed un volume. L’Associazione Culturale “ZACEM” si
riserva di pubblicare l’antologia del premio con le liriche vincitrici
e meritevoli. Le opere dovranno essere inviate entro il 30 luglio
2004 presso la sede dell’Associazione (cui si possono chiedere
anche informazioni) in via Pietro Scotti 4/4 - 17100 Savona (tel.
019- 822541; e-mail: [email protected]; cell. 3890839771) accom-
Concorso Riviera Adriatica
Scadenza 15 luglio 2004. Il circolo culturale Carlo Antognini di
Ancona, in collaborazione con gli assessorati ai Beni e alle attività
culturali e alla Pubblica istruzione del Comune, nonché con la II
circoscrizione, indice il XX concorso nazionale di poesia e
narrativa “Riviera Adriatica”. Il concorso è diviso in 3 sezioni:
sezione A: poesie inedite in lingua italiana; sezione B: racconto
inedito in lingua italiana (massimo 7 cartelle, 30 righe per pagina);
sezione C: poesie in lingua italiana per gli alunni della scuola
elementare, media e superiore. I lavori, massimo 3 poesie o 2 racconti per ogni concorrente, dovranno essere inviati in quattro copie dattiloscritte, di cui una sola firmata e completa di indirizzo e
numero telefonico. Per la sezione C occorre indicare se si partecipa
singolarmente o con la classe, il nome della scuola e classe frequentata ed eventuali insegnanti che propongono i lavori. Gli
elaborati dovranno essere inviati entro il 15 luglio 2004 presso il
circolo culturale Carlo Antognini, piazzale Camerino 3/a,
60126 Ancona, tel. 07142028 e 071891023. Quota di partecipazione: 15 euro per ogni sezione, da inviare tramite vaglia postale o
in contanti con gli elaborati. La sezione C è gratuita, così come la
partecipazione di tutti coloro che non hanno ancora compiuto i 20
anni (indicare la data di nascita). Indicare sulla busta la sezione
alla quale si vuole partecipare. Tutti i lavori devono avere la
scritta: produzione propria inedita. Le poesie scritte cambiando
le parole di altre poesie verranno cestinate. Premi: sezione A euro
260.00, coppa o targa. Sezione B euro 260, coppa o targa. Sezione
C coppe, targhe, medaglie, libri. Verrà inoltre premiata con il trofeo “Il grido del gabbiano” una personalità marchigiana che si è
distinta per la sua attività negli ultimi anni. La premiazione sarà
nel novembre 2004, nel giorno e luogo da destinarsi. I vincitori dei
primi premi della precedente edizione potranno concorrere in una
diversa sezione. I lavori non verranno restituiti e il giudizio della
giuria è insindacabile. L’esito sarà reso noto a tutti.
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zella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. È richiesto
invece da parte dei non sociun contributo complessivo per tutte le
sezioni di euro 10,00 (o moneta estera corrispondente) da inviare
in contanti. Per ulteriori informazioni: tel. 0942-986036, cell. 3331794694, e-mail: [email protected].
pagnate dalla cifra di EURO 18,00 per la partecipazione a una o
DUE SEZIONI del Concorso più euro 5,00 per ogni eventuale
altra sezione a cui si intendesse partecipare.
Premio Agorà
Scadenza: 31 Agosto 2004. L’Associazione Culturale Megarese di
Augusta, bandisce il Premio Agorà. A) poesia, B) racconto a tema
libero riservati a poeti italiani e stranieri; C) Racconto a tema
libero riservato ad autori residenti nel territorio di Augusta; D)
Nuovi linguaggi della poesia riservato a poeti augustani, italiani e
stranieri che propongono opere innovative. Le poesie max 25
versi. I racconti max tre cartelle. Si può partecipare con un solo
lavoro inedito anche in più sezioni. Le opere, redatte in sei copie,
solo una con generalità, dovranno essere inoltrate presso: l’Ass.
Cult. Megarese c/o Giarrusso Carmelo, via Roma 164 - 96011
Augusta (SR), unitamente alla quota di partecipazione di Euro 10
per ogni opera.
Premio Città d’arte Cassino
Scadenza 31 ottobre. L’associazione Astra indice i seguenti premi:
8° premio letterario nazionale “Città d’arte Cassino” (Poesia, Romanzo, narrativa, saggistica a tema libero); Premio letterario internazionale San Benedetto (Poesia dedicata al Santo o all’Abbazia
di Montecassino). Per informazioni scrivere al Gazzettino del Lazio - Piazza De Gasperi n. 41 - 03043 Cassino - Tel. 338 7931001
- 338 6316883.
Centro studi Agorà
Scadenza: 31 ottobre 2004. Il centro studi Agorà bandisce il 6°
concorso nazionale “Premio Ungaretti” per la lingua italiana e in
dialetto e secondo lo stile “haiku”. Per le opere in dialetto, ad eccezione di quelle in napoletano, è opportuno inviare la traduzione.
Si può partecipare con opere già edite che hanno vinto in altri
concorsi. Inviare tre poesie (max. 30 versi), in tre copie, di cui una
con generalità, a: Piero Borgo, Via Zara 45 - 80011 Acerra (NA)
telefax. 081- 8850793. Quota d’iscrizione: 10 euro. Per la sezione
giovani (max 25 anni), dedicata alla poetessa greca Saffo, la quota
è di 5 euro. Premi: targhe e attestati.
Premio Eraldo Miscia
Scadenza: 31 agosto. Si partecipa con un racconto di massimo 20
cartelle dattiloscritte, in sette copie di cui una con generalità. Sono
previsti premi in denaro. Per maggiori informazioni: Premio Eraldo Miscia, Via S. Spirito, 65 – 66034 Lanciano (CH). Tel e fax:
0872-715448
Premio Cuore di Sicilia
Scadenza: 31 agosto. L’associazione Astra indice i seguenti premi:
8° premio Cuore di Sicilia (Romanzo inedito o edito, Narrativa,
Poesia); 4° premio letterario Salvatore Quasimodo (Poesia edita o
inedita, una lettera d’amore); 6° premio Le zolfare di Sicilia (Un
racconto di vita vissuta inedito o edito). Per richiesta dei bandi:
Associazione Culturale ASTRA - Casella Postale n. 77 - 03043 Cassino Tel. 0776 367055 - Fax 0776 367859.
Premio Internazionale Publio Virgilio Marone
Scadenza: 30 dicembre 2004. L’Accademia Internazionale “Il
Convivio”, insieme all’omonima rivista e con la collaborazione
del Comune di Castiglione di Sicilia e del “Parco dell’Etna” bandisce la seconda edizione del premio “Publio Virgilio Marone”,
diviso in 4 sezioni: 1) Una poesia inedita sul tema: l’amore nei
suoi molteplici aspetti. 2) Poesia inedita a tema libero che utilizzi
una struttura metrica classica (endecasillabo, settenario ecc. ecc.)
o forme tradizionali (sonetto, canzone, ecc. ecc. con rime e strofe).
3) Silloge di poesie senza limiti di versi, ma che comprenda
almeno 10 liriche. 4) Poesia in qualunque dialetto europeo con traduzione nella corrispettiva lingua neolatina. Premiazione: Roma,
primavera 2005. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola
opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli
elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità,
indirizzo e numero telefonico, alla Redazione de “Il Convivio”:
Premio “Publio Virgilio Marone”, Via Pietramarina–Verzella, 66 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al
concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio È richiesto da parte dei non soci un contributo complessivo per tutte le
sezioni di euro 10,00 (o moneta estera corrispondente) da inviare
in contanti. Per ulteriori informazioni: tel. 0942-986036, cell. 3331794694, e-mail: [email protected]
Premio Letterario La Fonte - Città di Caserta
Scadenza: 11 settembre 2004. Il Movimento di Cultura Fulvio
Nuvolone in collaborazione con SPRING Edizioni e col Centro
Studi ACQUAVIVA, bandisce la XII Edizione del Premio Letterario Nazionale di Poesia e Giornalismo “La Fonte - Città di
Caserta”. Il Premio si articola nei seguenti settori: Letterario,
Giornalismo, Giovani. E nelle seguenti sezioni: A - Poesia inedita
in Lingua e/o in Vernacolo. B - Narrativa inedita. C - Romanzi
gialli e Fiabe. D - Teatro e Saggistica inedita. E - Sezione Giovani.
F Giornalismo. Quota di Partecipazione: Per le Sezioni A, B, C, D,
la quota è di Euro 15, 00. È ammesso la partecipazione a più
sezioni; Per le sezioni E, F, nessuna quota di partecipazione. Ai
soci del Movimento di Cultura “Fulvio Nuvolone” e del Centro
Studi ACQUAVIVA non è richiesta quota di partecipazione. Il
contributo di adesione si potrà versare sul c.c.p. n. 16475816
Intestato a Movimento di Cultura “Fulvio Nuvolone” Via Tevere,
18 - 81100 Caserta. Spedire le opere concorrenti a tutte le sezioni
entro l’11 settembre 2004 a Movimento di Cultura “Fulvio
Nuvolone” Via Tevere, 18 - 81100 Caserta. Allegare copia del
bollettino di versamento e scheda di partecipazione. Premi vari,
anche in denaro. Per maggiori informazioni: tel. 0823-327266. email: [email protected]
Premio “Santa Maria della Luce”
Scadenza: 30 dicembre 2004. Il Convivio di Mattinata (FG), sede
delegata dell’Accademia Internazionale Il Convivio, con la collaborazione del Comune di Mattinata Assessorato alla cultura, indice la I° edizione del concorso di poesia a tema religioso, “Santa
Maria della Luce”. Ad esso possono partecipare autori italiani e
stranieri di tutte le religioni. Il concorso si divide in tre sezioni.
1) Sezione poesia religiosa in lingua italiana, inedita o edita. 2)
Sezione poesia religiosa in dialetto, inedita o edita con traduzione
italiana. 3) Sezione poesia religiosa riservata agli studenti. Le poesie devono essere di massimo 40 versi e si possono inviare fino a 3
poesie. Le opere sono da inviare in 5 copie, di cui una con i propri
dati ed indirizzo, un breve curriculum e la dichiarazione che l’opera è di propria creazione. Quota di partecipazione: 5,00 € a sezione da inviare in contanti insieme alle opere. Gratis per i soci
dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. Premi: Coppe, targhe e diplomi ai primi tre classi-
Premio Fra Urbano della Motta-Natale 2004
Scadenza: 15 ottobre 2004. Promulgato dall’Accademia Internazionale “Il Convivio”, insieme all’omonima rivista e con la sponsorizzazione del Comune di Motta Camastra è diviso in 3 sezioni:
1) Poesia inedita in lingua italiana con tema il Natale nei suoi
svariati aspetti. 2) Poesia inedita sul Natale in lingua dialettale. 3)
Le due sezioni precedenti per gli studenti delle scuole primarie e
secondarie. Premiazione: Motta Camastra, in provincia di Messina, durante il periodo natalizio. Si può partecipare a più sezioni,
ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva
creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una
con generalità, indirizzo e numero telefonico, alla Redazione de
“Il Convivio”: Premio “Natale 2004”, Via Pietramarina–Ver-
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ficati per sezione. Le opere vincitrici e selezionate potranno essere
pubblicate su un’antologia del premio, sulla rivista “Il Convivio” e
sul sito Il Convivio di Mattinata. Le opere e la quota devono
essere inviate a: Premio Santa Maria della Luce c/o Accademia
Internazionale Il Convivio, Via Pietramarina-Verzella 66, 95012
Castiglione di Sicilia- CT. Per ulteriori informazioni: Maria
Cristina La Torre, via Madonna Incoronata 103 - 71030 Mattinata
(FG) - tel. 0884/550503; e-mail: [email protected],
http://web.tiscali.it/ilconviviomattinata; Angelo Manitta c/o Il
Convivio, Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di
Sicilia
(CT),
tel.0942-986036,
[email protected],
http://web.tiscalinet.it/ilconvivio
l’ordine progressivo di consegna. I premi consisteranno: 1° premio
€. 300,00; 2° premio €. 150,00; 3° premio €. 100,00; 4° premio
€. 100,00; 5° premio €. 100,00. Delle opere vincitrici, le prime
tre classificate resteranno in dotazione al Comune, le opere 4° e 5°
Classificate resteranno in dotazione dell’Accademia Internazionale Il Convivio, sia le une che le altre per la creazione di una pinacoteca. Oltre ai primi cinque premiati, saranno assegnate n. 3
segnalazioni da parte della giuria. Per ulteriori informazioni: Accademia Internazionale Il Convivio: tel: 0942-986036; cell. 3331794694 e-mail: [email protected] Delegata del Convivio per
Messina e provincia: Flavia Vizzari. Tel: 090671391; cell. 3289180850e-mail: [email protected]
Agorà centro studi
Scadenza 31 dicembre. Il centro studi Agorà indice la quarta edizione del premio “Franz Anton Mesmer” sui fenomini paranormali. Sono previsti tre sezioni: 1° sez: racconto di una propria o
altrui esperienza realtiva ad un evento paranormale, max. 10 cartelle; 2° sezione: la partecipazione di un edito; 3° sezione: saggioricerca. Nella prima sezione occorre inviare 3 copie, una sola firmata, per la seconda un solo libro mentre per la terza, che non
deve superare le 30 cartelle, 3 copie, di cui una firmata. La quota
per ogni sezione è di 10 euro da inviare esclusivamente in contanti. È previsto un premio giovani, dedicato a “Peter Kolosimo”.
La quota giovane è di 5 euro. Per informazioni: Pietro Borgo, via
Zara 45 – 80011 Acerra (NA), tel-fax. 081-8850793.
Premio d’Arte figurativa Filippo Juvara
L’Accademia Internazionale Il Convivio e la Delegazione del Convivio di Messina organizzano la 1° Edizione del Premio d’Arte Figurativa “Filippo Juvara”. Il premio è diviso in due sezioni a)
Pittura, b) Scultura. Esso prevede una preselezione ed una classifica finale. Si partecipa alla preselezione, inviando le foto ben
chiare, di tre diverse opere a colori con indicato sul retro in
maniera leggibile il nome dell’artista, il suo indirizzo e recapito
telefonico, titolo e dimensione dell’opera, che se pittorica non deve superare i cm. 50x70, se plastica i kg18, tecnica e prezzo in
euro. Le fotografie devono giungere presso la sede dell’Accademia Internazionale Il Convivio, Premio “Filippo Juvara”, Via
Pietramarina 66 – 96012 Castiglione di Sicilia (CT), entro il 31
ottobre 2004. Per partecipare al Premio bisogna inviare un contributo di adesione di € 48,00 in contanti, o tramite assegno
bancario o da versare sul C.C.P. n° 12939971, intestato a Conti
Vincenza, Via Pietramarina, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia, per
diritti di segreteria ed inse-rimento gratuito nella pubblicazione
antologica inbianco e nero del Premio Juvara. Al fine dell’inserimento dell’artista nell’opera antologica è necessario far pervenire
con l’adesione un proprio testo biografico e critico con note di
curriculum e quotazioni. La mancanza di questi dati implica la
possibilità di esclusione dalla partecipazione al Premio. Dopo
un’attenta preselezione, saranno scelti gli artisti più meritevoli, i
quali saranno successivamente invitati a partecipare, con le tre
loro opere, (non superiori come dimensioni a cm 50x70), ad una
esposizione finale, che si terrà nel prestigioso Salone degli Specchi della Provincia Regionale della città di Messina e che avrà
termine il giorno della Premiazione, da svolgersi la terza domenica
di marzo del 2005. Le opere finaliste dovranno pervenire (dopo
esplicita richiesta da parte dell’ente organizzatore e dopo la preselezione fatta tramite le foto) presso la delegazione del Convivio di
Messina, in via G. B. Caruso, 3 – Camaro Inferiore – 98149 Messina, entro e non oltre il 15 febbraio 2005, e dovranno essere decorosamente incorniciate. Le opere possono essere consegnate
personalmente o possono essere spedite a mezzo posta celere o
corriere e viaggiano a spese e rischio del partecipante. I Premi
consistono in: Trofeo Il Convivio, coppe targhe e diplomi, pubblicazione in antrologia, mostra nella città di Messina. Per ulteriori
informazioni: Accademia Internazionale Il Convivio: tel: 0942986036; cell. 333-1794694 e-mail: [email protected] Delegata
del Convivio per Messina e provincia: Flavia Vizzari. Tel:
090671391; cell. 328-9180850.
R.A.L.F.I. ricerche artistiche e letterarie
Lo studio Ralfi bandisce la 21ª edizione del premio Phintia 2002.
Il premio è diviso in tre sezioni: a) Poesia in lingua italiana; b)
Poesia in vernacolo (tutti i dialetti italiani); c) Narrativa (racconto,
silloge di poesie e di racconti, romanzi, componimenti musicali,
canzoni, filastrocche, inni, ecc.). La partecipazione è aperta a tutti,
italiani e stranieri di ogni età. Le opere possono essere edite ed
inedite, senza limite di lunghezza e il numero delle opere da presentare è illimitato. Premi: coppe, targhe, trofei e medaglie. La
giuria menzionerà inoltre 20 autori tra coloro che si sono distinti,
pur non essendo stati premiati. Per informazioni: Studio Ralfi, via
Salso, trav. C, 65 – 92027 Licata (AG). Tel. 0922-804265; e-mail:
[email protected]
Concorso di Poesia “Val di Magra - R. Micheloni”
Il premio è articolato in cinque edizioni: A - Poesia Singola; B –
Raccolta di Poesie; C - Libro edito di Poesia; D - Narrativa e Saggistica; E - Poesia religiosa. Il vincitore della raccolta di poesie sarà premiato con la pubblicazione della silloge. Il primo classificato
delle sez. A, C, D, sarà premiato con 500,00 euro. Il primo classificato sez. E - Poesia Religiosa, sarà premiato con un Trofeo. Per
la richiesta del bando di concorso e per ulteriori informazioni
scrivere alla Segreteria del Premio “Val di Magra - R. Micheloni”,
C.P. 63 -54011 Aulla (MS). Con le stesse modalità è possibile partecipate al Concorso “Val di Vara - Alessandra Marziale”. Gli interessati possono richiedere il bando alla Segreteria del Premio
Val di Vara, C.P. 42 -19020 Piano di Follo(SP). Per ulteriori informazioni telefonare ai seguenti numeri: 0187736696 - 0187733536.
Estemporanea di pittura a Motta Camastra
Djanira Pio, A cidade dos sonhos, (Via 7 Editorial,
Brasile 2003). «A contista e poetisa Djanira Pio, entrega se à literatura com a mais intensa paixão. Funde a
sensibilidade com a capacidade de intuir e, mansamente, revela-nos os dramas do ser humano. È uma intelectual que vem demonstrando sua força de criação».
Pietro Guarnotta, Varie ed eventuali, Poesia e
Prosa (Collana editorinproprio, Catania 2003). Si tratta di un volume di poesie e prose composte dall’autore
negli ultimi quattro anni. Esso è formato da una
silloge di poesie: “Amo”, da due commedie: “Fausto”
e “La stanza dei ricordi” e dal racconto “Lo zingaro”.
Prima domenica di Agosto. Organizza l’Accademia internazionale, con la sponsorizzazione del comune di Motta Camastra. Il tema
del concorso è libero, purché i soggetti siano compresi nell’ambito
della città di Motta Camastra, suoi dintorni e frazioni: le gole
dell’Alcantara, le rocce, il paesaggio urbano, i monumenti, i personaggi, gli ambienti. La quota di iscrizione è fissata in €. 12,00
(dodici) per ogni artista in gara. Ogni artista può presentare una
sola opera, la cui tela (dim. min. 40x50) sarà timbrata e vidimata
dalle ore 8,00 alle ore 10,30 di domenica 1 Agosto 2004 presso il
Municipio. La consegna della tela dovrà avvenire entro le 20,00
dello stesso giorno 1 agosto 2004. Le opere in concorso saranno
esposte in Piazza Verga (o locale apposito messo a disposizione
dal Comune di Motta Camastra) dal 2/08/03 al 27/08/03, secondo
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Franco Clary
Tempo ritrovato, olio su tela, cm 50x60
Volto di luna, olio su tela, cm 80x100
Finestra illuminata, olio su tela, cm 40x60
L’attesa, olio su tela, cm 80x100
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Convivo 17 - Il Convivio