Il Convivio Trimestrale di Poesia Arte e Cultura dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’ Fondato da Angelo Manitta Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia Anno V numero 2 aprile-giugno 2004 17 Franco Clary, Orizzonte di pensieri, olio su tela, cm 50x50 Il Convivio Trimestrale di Poesia Arte e Cultura, fondato da Angelo Manitta e organo ufficiale dell’Accademia Internazionale ‘Il Convivio’ Registrazione al trib. di Catania n. 7 del 28 marzo 2000. Direttore responsabile: Enza Conti Direttore editoriale: Angelo Manitta Redattore: Giuseppe Manitta Redazione: Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) Italia. Tel. e fax 0942-986036, cell. 333-1794694. Conto corrente postale 12939971, intestato a Conti Vincenza, via Pietramarina, 66 – 95012 Castiglione di Sic. Stampa: Tipografia Messinatype, tel. 090-696841 E-mail: [email protected] Siti Web (gestiti da Coco Salvatore, Treffiletti Salvatore, Perlongo Gaetano, Maria Cristina Latorre): www.il-convivio.com http://web.tiscalinet.it/ilconvivio http://ilconvivio.interfree.it http://web.tiscali.it/ilconviviomattinata Collaboratori: Giorgio Barberi Squarotti, Alvarez Velasco Francisco (Spagna), Andityas Soares de Moura (Brasile), Haxhia Miranda (Albania), Angelucci Sandro, Castellani Fulvio, Coco Salvatore (rivista telematica), Dilettoso Maristella, Izzi Rufo Antonia, Giannetto Maria Enza, Lalli Franco Dino, La Torre Maria Cristina (rivista telematica), (Natale Maria Pina), Perlongo Gaetano (rivista telematica), Tamburrini Bruna, Topa Pacifico, Treffiletti Salvatore (sito web), Vizzari Flavia. Gli autori di questo numero (il numero tra parentesi indica la pagina): Adnane B.(51), Affinito I.M.(63, 84), Agnoloni G.(40), Ales S.A.(26), Aliberti C.(3), Alvarez V.F.(46), Amir B.(51), Anderson F.I.(44), Andrenacci S.(18), Angelone A.(75), Antonelli M.(27), Aprile A.(76), Aragona A. (29), Argentino U.(56), Assini A.(28, 82), Auddino E.(31), Baiotto M.(33), Banchini F.(77), Barbalinardo L.(35), Barletta G.(78), Bedreddine H.(51), Belanger P.(48), Belluomini C.L.(81), Bender M.(74), Bernhardt D.(11,49), Bonucci L.(27), Brancatisano M.S.(32, 46), Bribi K.(51), Bruno A.(30), Cambi M.(28), Cammarata M. (39), Candido G.P.(26),Cannamela A. (49), Carandente G. (60), Carfora C.(66), Carone L.(57), Carpignano G.(55), Carrieri C.(58), Casotti A.(77), Castellani F.(17), Castiglione G.A. (78), Casucci A.(21), Ceccarello M.(31), Celi F.(31, 66), Cesaro G.(27, 65), Cianci A.(65), Cicala A.(59), Cipollini E.M.(79), Civardi F.C.(43), Clary F.(52, prima e ult. Cop.), Coello D.(54), Colajanni P.(50), Colelli S. (30,82), Condorcet A.(43), Conserva A.(84), Contarino R. (27,79), Craviotto S.(11,29,74), Cristaudo N.(4,29), D’Angelo R.(45), Dal Zilio R.(26), De Napoli F.(65), Di Girolamo G.(83), Di Rocco F.(64), Di Stefano M.E.(28), Emmy E.(73), Epifani F.M.T.(80), Felici C.(70), Fella D.(51), Fernades L.(43), Ferraresi R.(34), Fiorese F.F.F. (44), Fontana M.(79), Francischetti P.(66), Fraqueza M.J. (44), Frenna M.(19), Galvagni M.(29, 69), Garcia S.S.(45), Genovese P.A.(26), Giangrasso E.(31), Gomes F.S.(44), Greco A. (32), Grillo R.(70), Guerrera A.G.(37), Guidotto V.(30), Gunjaca D. (38), Haxhia M.(42), Hilgenberg L(44), Hocine G.(51), Iacopini E.(20), Iraci A.(25), Izzi R.A(11, 26, 28, 67, 79), Janne G.(39, 75), Jimeno M.O.(75), Juvara P.(45, 74), Juvara P.(74), Koob S.(51), La Franca S.(30, 83), La Pica F. (71), La Rosa L.(7), La Torre M.C.(26, 68), Lalli F. (73, 84), Lauretta C.(62), Lazazi S.(51), Leiro R.V. (63), Lenisa M.G.(74), Li Volti G.G.(28), Mafhoum M.(50), Magli S.(64), Manitta G.(22,77), Manitta Gu.(37), Manzi C.(16), Manzini G.(28), Marandino O.(36), Masone B.R. (67), Mastrodonato P.(39,67,73), Mauget J.(47), Mazzucco M.G.(7), Meli G.(56), Merighi R.(26,31), Messina S.(69), Micozzi T.837), Millico M.(28), Milone G.(39), Moschella G. (27,64), Moschella G.(64), Motta S.(54), Moulinier P. (50), Musmeci P.(78), Natale M.P(5), Nigro P.(68), Nobis M.T. (34), Palmieri M.P.(32,84), Pandolfo R.(5), Papillo S.R.(32), Paternò G.(29), Peluso A.(6), Perlongo G.G.(28), Peschiera C.(30), Piazza G.(10), Picardi E.(41), Piccirilli P.L.(81), Pirrotta L.(82), Poerio R.A.(55), Puccio F.(3), Pumpo L. (17), Quartieri B.(32), Quasimodo F.F.(72), Rescigno G. (62), Rigano U.(71), Rimi M.(35), Ruffato C.(35), Rusca Z.R.(58,59), Russo A.M.(26), Santoro P.(57), Sarraméa J. (47), Scaramozzino V.(84), Semiane S.(51), Spaziani M.L. (1), Spera R.(27), Speranza V.(26), Spina A.(78), Spina I.(28), Strano M.(70), Tamburrini B.(12,72), Tavcar G.(14), Tedeschi L.(80), Tocci L.(58), Tomarchio L.(78), Torrente B.(73), Tortora N.(84), Trefiletti C.(29,78), Trevisani S.(26), Turco B.(11), Turco C.M.(33), Tuttolomondo J.(32), Vacchetta F.(28), Valentini R.(30), Valle G.(43), Varriale A. (37), Venturini G.(83), Vidotto V.P.(27), Viglialoro L. (29), Villarreal E.(44), Visconti P.(61), Vizzari F.M.T. (3,23,31), Zacon Z.C.(45), Zingales V.B.(72). Associarsi all’Accademia Internazionale Il Convivio è semplice. È sufficiente versare la quota associativa annua di € 25,00 (adulti), € 20,00 (per associazioni culturali), € 15,00 (giovani e ragazzi); estero: € 30,00; dagli altri continenti: $Usa 35,00 o equivalente in altre monete. Socio Sostenitore: € 50,00. Socio Benemerito: almeno € 100,00, la somma è da versare sul Conto Corrente Postale n. 12939971 o tramite assegno circolare non trasferibile o vaglia postale o sul conto bancario con coordinate: U 01020 84160 000417 014040, o anche in contanti; per l’estero: contanti o vaglia internazionale (giro postal internacional) o sul conto corrente bancario del Banco di Sicilia, agenzia di Randazzo, con coordinate: IT83 U 01020 84160 000417 014040, tutto intestato a Conti Vincenza, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) – Italia. Il Socio ha la possibilità di: 1) ricevere gratis la rivista; 2) avere inserita una poesia (max. 30 versi) e una recensione durante l’anno, oppure un racconto (max. 2 cartelle), oppure un quadro in bianco e nero e un articolo sulla personalità dell’artista; 3) partecipare gratuitamente ai concorsi banditi dall’Accademia; 4) partecipare alle attività del gruppo. La collaborazione e la distribuzione della rivista sono gratuite, ma si accettano liberi contributi. Ogni autore comunque si assume la responsabilità dei propri scritti. Manoscritti, dattiloscritti, fotografie o altro materiale non vengono restituiti. Attività cultura-le senza scopo di lucro ai sensi dell’art. 4 del D.P.R. del 26-10-72, n. 633 e successive modifiche. Tutti i dati saranno trattati nel più completo rispetto della legislazione italiana in termini di “tutela dei dati personali” L 675/96. Risultati concorsi La donna nell’arte del telaio Si è svolta domenica 18 aprile 2004 presso la Sala Dante al teatro Vittorio Emanuele di Noto (SR) la quinta edizione della mostra “Donna nell’arte del telaio – pizzi e ricami”, organizzata dal Club Soroptimist International di Noto con il patrocinio del comune di Noto, assessorato al turismo, pro loco Noto e la provincia regionale di Siracusa. La Mostra è stata presentata dalla dott.ssa Elise Le Vot davanti ad un folto pubblico, alle autorità politiche e religiose ed ad alcuni presidenti di Associazioni culturali che sono intervenuti, quale l’Associazione Selene di Pedalino, presieduta da Nicola Rampin. Hanno esposto le artigiane artiste: Di Quattro Maria (responsabile sfilato ragusano dell’Ass.Cult.Selene) di Ragusa, Occhipinti Giovanna di Ragusa, Sercia Maria di Modica, D’amico Maria di Noto e Marras Maria Giovanna di Nuoro. Premio Nazionale di Poesia “CITTA' DI SOLOFRA” Si comunicano i risultati: Sez. poesia edita: 1° Dante Maffia, 2° Miranda Clementoni, 3° Michelangelo Cammarata. Segnalazione di merito ad Angelo Coco, Rosaria Di Mattia, Pietro Pelosi, Luciano De Angelis, Mario M. Gabriele, Adriano Napoli, Valentina Meola, Lorenzo Piccirillo, Erika Maffei. Sez. Poesia inedita: 1° Mina Antonelli, 2° Katia Olivieri, 3° Benito Galilea. Segnalazione di merito a: Ciro Carfora, Vincenzo Capodiferro, Giovanni Caso, Giuseppe A. Graziano, Rocco G. Tassone, Gloria Venturini, Ottorino Vigliotta. Sez. poesia dialetto napoletano: 1° Franca Molinaro, 2° Paolo Sangiovanni, 3° Salvatore Masullo. Segnalazione di merito a: Salvatore Cangiani, Alberto Cerbone, Rosalia D’Ambrosio Boi, Salvatore Calabrese, Aristide Casucci, Rodolfo B. Tretola. Premio speciale della giuria: alla memoria di Maria Luisa Ripa già segnala alla città di Solofra nel 1996, poetessa; Premio alla cultura: all’artista Saverio Cecere esponente dell’Arte mady in Italy, creativo; Premio per le tradizioni: al prof. Gerardo Palmieri, scrittore, archeologo, artista poliedrico; Medaglia del Presidente della Repubblica alla famiglia Florio Ricciardelli benemerita per la Cultura e per l’Arte. La Gorgone d’oro Ecco i risultati del premio: Sez. A: poesia religiosa: 1° Agostino Bagordo; 2° Franco Casadei; 3° Sr. Barbara Ferrari e Mario Giorgio Talio; 4° ex aequo a Livia Furno Rosso e Carla Carloni Mocavero; 5° ex aequo a Claudia Regnani e Ruggero Serra; 6° ex aequo a Milvia Lauro e Maria Stella Brancatisano, Romeo Battaglio, Germana Maggio e Maria Giovanna Mossa Trincas. La Giuria ha inoltre segnalato le poesie dei poeti Giuseppe Bagnasco, Alfonsina Campisano Cancemi, Ciro Carfora, Grazia Cannata, Esmeralda Cernigliaro, Adriana Comollo, Silvana Crotti, Riccardo Di Pasquale, Silvano Forte, Riccardo Fragapane, Pietro Fratta, Gianni Ianuale, Milvia Lauro, Vincenzo Macauda, Francesco Musante, Rosa Perna, Luisa Pestrin, Maria Rosa Pino, Alfredo Quinto, Roberta Rendini, Gianni Rescigno. Sez. B - poesia a tema libero: 1° Giancarlo Interlandi; 2° Giovanni Caso; 3° ex aequo Elena Cimino e Massimo Cassarà; 4° ex aequo ai poeti Giuseppe Giacalone, Mara Librizzi, Rosa Perna e Luisa Pestrin; 5° ex aequo ai poeti Paola Barbieri, Domenico Luiso, Silvano Placenti, Antonietta Tafuri e Giuseppe Vetromile; 6° ex aequo ai poeti Livia Furno Rosso; Paolo Sangiovanni, Mina Antonelli, Renato Greco, Wladimiro Tomaino, Angelo Moro Episcopo e Armando Giorgi. La giuria ha inoltre segnalato i poeti: Angela Aprile, Fausta Atanasio Pezzino, Paola Barbieri, Carmela Basile, Maria Bella, Silvano Forte, Maria Gisella Giumento, Pasquale Martiniello, Maria Teresa Massavelli, don Ottaviano Menato, Loredana Pistritto, Gaetano Quinci, Beatrice Torrente e Adelina Voltolina. Quaderni - dell’Aslas è in corso di stampa il nn.174-176 di gennaio-giugno 2004. Oltre alle normali rubriche (libri in vetrina, notiziario letterario, recensioni, mostre personali è collettive d’arte) la Rivista pubblica l’esito del Premi e Concorsi di poesia, narrativa e saggistica indetti dall’ASLA nel 2003, notizie e servizi di grande attualità e di notevole interesse culturale. La collaborazione è libera a tutti. La spedizione a tutti i Soci (in regola con le quote sociali) ed a coloro che hanno prenotato relative copie, è prevista per maggio / giugno. La rivista Omero Omero è una rivista letteraria ed artistica trimestrale. Parte dalla civiltà preellenica ed il pensiero epico, lirico e poetico di Omero con un progetto grafico classico che si coniuga con tematiche moderne. Omero uno strumento itinerante ben curato e strutturato in interessanti rubriche dove il lettore o abbonato diventa parte attiva nel realizzare questa rivista di poesia per un pensiero aperto che si confronta nella diversità con lo spirito della ricerca. Si sostiene con gli abbonameti e gli abbonati in qualità di soci collaboratori sostengono le attività culturali della rivista e del centro, nonchè del gruppo opreativo, redattori: A. Farina, E. Picardi, R. Tani, P. Topa. Fondato nel 1999 a Napoli dal direttore Vincenzo Muscarella ed il Direttore Responsabile Francesco Ruotolo insieme ad un gruppo di operatori culturali, poeti, autori ed artisti. Il volano è la poesia nelle varie Arti e quindi rubriche di poesia classica, dialettale, moderno, in ambito nazionale ed internazionale, cinema, teatro, arte, spazio dedicato agli artisti: pittori, fotografi ecc. presentazioni, recensioni ed altre iniziative. Per informazioni dettagliate e materiale divulgativo richiederlo all’indirizzo di Omero Piazza E. De Nicola, 30 - 80139 Napoli Dir. Vincenzo Muscarella - Tel. 081 44 74 34 ore serali. e-mail: [email protected] Libri ricevuti: Isabella Michela Affinito, Ho raccolto un raggio di sole (Penna d’autore, Febbraio 1999). Carmelo La Rosa, Il Vomere. I giovani del Koso-vo raccontano il genocidio (Gribaudi Milano 2001). Carlo Chiarenza, Una storia da ripensare. Le omelie del Giovedì Santo ed altri scritti (1973-2001) (Acireale – 2001). Il Club degli autori: le più belle poesie del premio letterario (collana Le schegge d’oro, Montedit, Milano 2003). Nell’antologia figurano, tra i soci del Convivio, Claudia Manuela Turco e Marco Baiotto. Rappresentanti delegati del Convivio in Italia Italia: Acerra (NA): Piero Borgo, Via Zara 45. Aci Bonaccorsi (CT): Leone Salvo, via Stadio, 20; Aci S. Filippo (CT): Pulvirenti Filippo, Via Nizzeti, 155/Z. Grotte (Agrigento): Aristotele Cuffaro, via P.le Vinti, 4. Assergi (AQ): Franco Dino Lalli, Via Portella, 23. Bellante (TE): Giovanni Di Girolamo, Via Collerenti 42. Belluno: Puglisi Ferruccio, Piazza San Lucano 46. Bitonto (BA): Barone Rosaria, Via U. La malfa 8. Cinto Euganeo (Pd): Deborah Coron, via Via Bomba, 38. Giarre(CT): Filippo Nasello, Corso Lombardia 1. L’Aquila: Mario Cavallo, via Castello 2/8. Marigliano(NA): Vincenzo Cerasuolo, Corso Umberto I, 259. Mattinata: Maria Cristina Latorre, via Madonna Incoronata 103. Messina: Flavia Vizzari, via Via G.B. Caruso, 3 - Camaro Inf.. Montegiorgio(AP): Tamburrini Bruna, via Angelelli 11. Quinto di Treviso: Rina Dal Zilio, via Marconi, 3. Paternò(CT): Angela Aragona, via Pordenone, 48; e Giacomo Paternò, via Costanzo, 43. Pescara: Francesco Di Rocco, Via fiume Verde, 24. Reggio Calabria: Fiorente Franco, Via Trapezi 19. Roma: Amalia Maria Amendola, via Federico Nansen, 104 B/2. Rutigliano(BA): Albanese Michele, Via Due pozzi 17. Sant’Antonio di G.(SS): Serena Careddu, via Giotto, 6. S. Domenica Vittoria(ME), Nino Mantineo, Piazza Germanà, 8; Trappeto(PA): Gaetano Perlongo, via Vittorio Emanuele, 47. Treviso: Ferruccio Gemmellaro, via S. Filippo 54, Meolo (VE). Udine: Claudia Turco, Via Volturno, 89/9. Dal prossimo numero tutti i Delegati del Convivio non in regola con la quota associativa annuale saranno depennati Il Convivio Rappresentanti delegati Italia: Acerra (NA): Piero Borgo, Via Zara 45. Aci Bonaccorsi (CT): Leone Salvo, via Stadio, 20; Aci S. Filippo (CT): Pulvirenti Filippo, Via Nizzeti, 155/Z. Acireale (CT): Pinella Musmeci, Via Wagner 30. Agrigento: Beniamino Biondi, Via Alessio Di Giovanni, 22. Grotte (Agrigento): Aristotele Cuffaro, via P.le Vinti, 4. Assergi (AQ): Franco Dino Lalli, Via Portella, 23. Bellante (TE): Giovanni Di Girolamo, Via Collerenti 42. Belluno: Puglisi Ferruccio, Piazza San Lucano 46. Bitonto (BA): Barone Rosaria, Via U. La malfa 8. Catania: Grazia Butano, via Castagnola, 7/p – 95121. Cinto Euganeo (Pd): Deborah Coron, via Via Bomba, 38. Giarre(CT): Filippo Nasello, Corso Lombardia 1. L’Aquila: Mario Cavallo, via Castello 2/8. Marigliano(NA): Vincenzo Cerasuolo, Corso Umberto I, 259. Mattinata: Maria Cristina Latorre, via Madonna Incoronata 103. Messina: Flavia Vizzari, via Via G.B. Caruso, 3 - Camaro Inf.. Montegiorgio(AP): Tamburrini Bruna, via Angelelli 11. Quinto di Treviso: Rina Dal Zilio, via Marconi, 3. Paternò(CT): Angela Aragona, via Pordenone, 48; e Giacomo Paternò, via Costanzo, 43. Pescara: Francesco Di Rocco, Via fiume Verde, 24. Reggio Calabria: Fiorente Franco, Via Trapezi 19. Roma: Amalia Maria Amendola, via Federico Nansen, 104 B/2. Rutigliano(BA): Albanese Michele, Via Due pozzi 17. Sant’Antonio di G.(SS): Serena Careddu, via Giotto, 6. S. Domenica Vittoria(ME), Nino Mantineo, Piazza Germanà, 8; Trappeto(PA): Gaetano Perlongo, via Vittorio Emanuele, 47. Treviso: Ferruccio Gemmellaro, via S. Filippo 54, Meolo (VE). Udine: Claudia Turco, Via Volturno, 89/9. Estero: Albania : Miranda Haxhia (L. “G. Muco”, p. 69 – Lushnje). Algeria: M.lle Kidad, cete des 200 lgto BNTN=10 – 42100 Cerchell. Argentina: Buenos Aires: Clara Lourdes Bango, Rue Rio de Janeiro 622 P.B. C – 1405 Buenos Aires. Australia: Melbourne: Giovanna Li Volti Guzzardi, 29, Ridley Ave Avondale Heights 3034 – Victoria. Brasile: Barbacena: Andityas Soares de Moura, Rua Theobaldo Tollendal, 144 – Centro – Barbacena-MG, Cep 36200-010; Brasilia: Nilto Fernando Maciel, Caixa Postal n. 02205, DFCEP 70.349-970. São Paulo: Arlindo Nóbrega, Rua Rego Barros, 316 - São Paulo - CEP 03460-000. Ciad: Darma Sylvain Gadourang s/c Mahamat Laye, B.C-T-R. – S.T.P.E. – N’djamena. Colombia: Wiston Morales Chavarro, A. A 068 Neiva-Huila. Croazia: Gunjaca Drazan, Pula, Kandlerova 3/I. Cuba : Carlos Chacón Zaldivar, edificio 41 C apto 1, escalera A, calle 24 de Febbrero – 42800 Limonmar Matanzas. Francia: Lagny sur Marne (77400): Frédéric Tessier, - 62, allée Louis Braille; Flize (08160): Jean-Claude Leroy, 1, rue de l’Isère; St. Claude, Christian Vandroux, 4 rue du Commandant Vallin. St. Raphael: Jean Sarraméa, 1565 A. Valescure, Bt Al Les Hts de Valescure. Cannes: Robert Botto, 147, avenue Maurice Chevalier “Le fenix A” – F-06150. Portogallo : João Vilela Rasteiro, Rua José Gomes Ferreira, lote 125 1° C - Bairro de Santa Apolonia, 3020-105 Coimbra. Spagna: Gijón (Asturias): Francisco Álvarez Velasco, Avda de Portugal, 35, 1°, A – 33207. Segovia: Juan Montero Lobo, Camino de la Presa 7-3°D. Madrid: Mélanie Lafonteyn, C/o école maternelle, Plaza de Platón, 1 – 28027 Madrid. Stati Uniti: Prof. Orazio Tanelli, 32 Mt Prospect Avenue - Verona NJ – 07044; Uruguay: Montevideo: Norma Suiffet, casilla 5088 – succ.1. Controvento di Athos Bruscoli La vagabonda Luna è tramontata, il silenzio lontano rompe l’aria! L’infinito desiderio di Luce è il concerto cosmico dei violini, vento stanco, malinconico! Randagio, sull’isola della Miseria, attendo invano all’Orizzonte, la nave, con la stiva colma d’altri naufraghi. Domani, ad Oriente, l’Occhio Solare affiorerà dall’Oceano e consolerà, ancora e per sempre, la mia Solitudine. Nel silenzio dell’amore di Ivana Burattini Il risveglio di assenti ricordi destano amore. E di quelle carezze perdute nel balenio dei sensi non rimangono che note fuggenti dei miei desideri. Eppure mormorano ancora le voci e ferite parole lasciate andare dove vagano le ombre e riposano i pensieri. Saranno pullulanti sospiri a parlarmi d’amore ed il sentire di cose vicine ai miei silenzi, alle ore vuote senza più sogni e profumi della fanciullezza. Chi potrà rivelare i ritorni del passato se i volti delle rimembranze sono discesi nell’abisso dell’anima e nulla più mi appartiene, né richiami di fiamma, né fugaci malinconie nell’incedere dei giorni. Chi potrà rivelare i ritorni di tenerezze se il tempo ha proibito palpiti alla giovinezza e sorrisi alle mie primavere. Sì, forse il mio cuore morirà d’amore lontano dagli amati sguardi, lontano dalle care nostalgie. Sì, perirà senza l’amore disperdendo tutta la sua linfa nei frammenti d’eternità e canti di solitudine. Ricezioni di Maurizio Cafaggi Dei passi s’alimenta l’entropia il caos si nutre, evolve, dilaga le suola contrite s’arrestano auspicano la quiete per ascoltare le grida inudibili del Cosmo ed oltre, l’urlo silente del nulla. Senz’altro lo sono. Proprio non riesco a scindere le due cose anche se io, che sono prustiana, dovrei proprio dire il contrario e cioè che l’opera d’arte ha una sua autonomia assoluta che non deve essere condizionata dalla vita. Però penso che non sia così. Si ha un bel dire che le poesie dovrebbero uscire anonime per evitare i narcisismi e i piccoli orgogli. C’è poco da dire: la poesia è un riflesso della vita, ma un riflesso altissimo, un riflesso simbolico. Se uno raccontasse tutti i fatti minuti della sua esistenza non avrebbe nessun interesse. Ma se li vedi in una luce di simbolo, in una luce esemplare che, quindi, ingloba anche tutte le altre creature umane, allora quella poesia diventa, oltre che una vera poesia, anche un messaggio. La lirica d’amore nella letteratura italiana è un filone molto ampio. Nelle sue opere il tema è ricorrente. Cosa rappresenta per lei l’amore? Un’oasi felice da frequentare nel deserto dei sentimenti, un riflusso romantico sdolcinato da considerare disdicevole, un elemento magico? Vede l’amore come tenerezza, come dimensione onirica, come ricerca incessante dell’assoluto? Ha detto tutte queste cose insieme e tutte vanno benissimo. L’amore è il più grosso motore che sia stato inventato al mondo per dare l’impressione di vivere, per far sentire vivi coloro che sono sulla terra. Quindi io credo che pochissime siano le persone al mondo che in vita loro non abbiano avuto un momento di innamoramento. Forse anche i pastori dell’Asia, gente che si considera così vicina alla vita rozza e animale, qualche piccolo momento d’amore devono averlo avuto pure loro. Naturalmente con l’avanzare della civiltà, ovverosia del linguaggio, questa prima cosa ha preso forma ed è diventata fra l’altro la lirica d’amore che può essere tutto quello che lei ha detto. Un’osai felice lo può essere per poco tempo, poi può essere un’oasi di ripensamento sull’amore, un modo per allargare questo sentimento meraviglioso anche alle altre cose. Quindi rendere le persone più sensibili, direi addirittura anche in ambito sociale, perché amare i bambini, specialmente in questi giorni in cui assistiamo a testimonianze atroci su quello che devono vivere i bambini e morirne, tutto questo non è altro che un allargamento dell’amore, anche se l’amore per un uomo o per una donna continua a rimanere la perla centrale di tutto il movimento e di tutto l’universo. La Sicilia è una terra in cui lei ha soggiornato a lungo e ha lavorato per molto tempo. Che ricordo conserva della Sicilia e di Messina in particolare? In che misura esse sono presenti nella sua poesia? Ho un ricordo meraviglioso della Sicilia. Io ho vissuto in Paesi diversi, dall’America al Giappone ecc., però questi sono degli episodi, diciamo, mentre invece la Sicilia ha costituito veramente una parte della mia vita. Ci sono stata benissimo, ho avuto un contatto straordinario con gli studenti, tant’è vero che ancora adesso mi vengono a trovare. Abbiamo fatto veramente amicizia. C’è stato da parte mia anche un tentativo di avviare i giovani alla poesia, che è l’unico modo per aprire le nostri sorgenti interiori e addirittura il nostro subconscio ad un’espressione cosciente o comunque sentita. Io ho insegnato prima tedesco e poi francese, ma fuori dall’università facevo dei seminari di poesia italiana, perché era quella che mi interessava soprattutto. E poi c’è la bellezza della Sicilia. Se io penso ai Peloritani, se penso a quegli immensi cespi di margherite che sono disseminate qua e là in modo selvaggio, quelle notti di luna con l’orizzonte di cani, come dice Garcia Lorca. Sono tutte cose Maria Luisa Spaziani: una voce di primo piano della poesia italiana contemporanea di Nello Cristaudo Nell’ampio panorama letterario italiano, per quanto riguarda la poesia (dopo la scomparsa dei grandi autori del secondo Novecento, come Quasimodo, Montale, Ungaretti, per fare solo qualche nome) si può certo oggi annoverare Maria Luisa Spaziani, autrice di vari volumi, candidata più volte al premio Nobel per la letteratura e docente di lingue straniere per quasi un trentennio presso l’Università di Messina. Maria Luisa Spaziani nasce a Torino nel 1924, dove ancora vive ed opera. Ma la città di Torino compare pochissimo nella sua poesia, mentre più presenti sono paesaggi piemontesi, liguri o siciliani. A dodici anni scopre la figura di Giovanna d’Arco, che ammira tanto da dedicarvi un intero poema. «Per me Giovanna d’Arco scrive - è semplicemente la poesia; è la donna come dovrebbe essere dopo ogni femminismo riuscito, è cioè una creatura che abbia le stesse potenzialità di un uomo ma che agisce autonomamen-te, secondo il suo personale destino, secondo i suoi gusti, le sue scelte, in stretta simbiosi con l’universo maschile». A diciannove anni dirige la rivista «Il dado», che le ha dato la possibilità di conoscere numerosi poeti contemporanei, tra cui Sandro Penna, Vasco Pratolini, Leonardo Sinisgalli, Virginia Woolf ed Eugenio Montale. Sarà certo quest’ultimo a lasciare un segno nella sua vita e nella sua poesia. Trasferitisi entrambi a Milano intorno al 1950, iniziano a vedersi ogni giorno, avendo un comune interesse: il canto. «È nata così un’amicizia quasi amorosa, che non è paragonabile però a una storia d’amore. Ci vorrebbe una lunga analisi per dire che cosa è stato questo legame». Maria Luisa Spaziani, annovera nel suo curriculum editoriale, tra i più recenti: il poema-romanzo Giovanna d’Arco (1990) e I fasti dell’ortica (1996). Nel 2000 è uscita per Mondadori la raccolta Poesie 1954-1966 e per Marsilio i racconti di La freccia. L’obiettivo di questa intervista è di avvicinare l’autrice ai nostri lettori, soprattutto cercando di penetrare il rapporto arte-vita ed analizzando il tema dell’amore, uno dei principali della poetessa piemontese, vissuta a lungo in Sicilia. Perciò le ho chiesto: In ogni autore spesso la vita ha influenzato l’arte, la biografia ha influenzato le opere. Si veda Dante, Petrarca, Foscolo, Leopardi, Ungaretti, per fare solo degli esempi. Nella sua vita, prof.ssa Maria Luisa Spaziani, quali elementi, in un mondo dominato dagli uomini e in cui la donna ha cercato di emergere con la propria tenacia e forza, l’hanno resa donna forte, viva e appassionata della vita e della poesia? In altre parole nella sua poesia vita ed arte sono in un rapporto biunivoco? 1 quella di Montale è stata preziosa. E ancora oggi mi manca moltissimo Montale. Quando io faccio una qualche passeggiata e noto un qualcosa di bello, io dico: «Che peccato che Eugenio non sia qui con me a condividere quest’emozione!». Ecco, dal punto di vista oggettivo che cosa vale Montale. Direi che, a parte l’altezza speculativa della sua poesia, c’è stato in lui il riuscito tentativo di riattaccarsi alla nostra poesia delle origini. Per esempio lui amava le rime petrose di Dante, ma allo stesso tempo, voleva svecchiare tutto quello che doveva essere svecchiato. La poesia del Novecento sapeva ancora un po’ d’accademia. Io mi ricordo, una volta, un critico professore che ha detto ad un tale: «Lei usa ‘tramonto’, che è una brutta parola, perché non dice invece ‘occaso’?». Ora, usare queste vecchie parole che sanno proprio di calamaio, è una cosa molto diffusa oppure fa pensare che la rima sia obbligatoria. La rima è una cosa bellissima e utile certe volte, però deve essere scelta con personale criterio critico da chi la usa. Non posso dire: tu devi scrivere in rima o tu non devi scrivere in rima. Comunque, anche oggi a volte si afferma che la poesia è tale se riflette alcuni canoni tipici tradizionali, come gli endecasillabi a rima baciata. No, no! Questi sono i vecchi professori di provincia che dicono sciocchezze del genere. Chi scrive oggi con le rime? Non c’è nessun poeta valido in questo momento nello scenario letterario, anche se alcuni l’hanno sfiorata. Per esempio Alfonso Gatto e Giorgio Caprone l’hanno toccata appena, l’hanno usata qualche volta. Però non c’è nessuna regola valida in poesia: un poeta deve fare tutto quello che sente di dover fare, senza guardarsi intorno e assolutamente senza pensare alle mode e, possibilmente, addirittura, senza pensare a modelli. L’inizio del Novecento era il periodo dei manifesti letterari, andati per molti decenni in voga. Oggi vede lei la validità di un manifesto letterario? E che funzione potrebbe assumere? Ma sa, si può sempre fare. Anche se nella marea di cose che si dicono in questo momento rischia di essere un pochino una “vox clamantis in deserto”. Ora nel Novecento ce ne sono stati, prendiamo ad esempio il futurismo. Il futurismo ha avuto un impatto storico e letterario molto forte. Non ha lasciato quasi niente. In pittura sì, ma in poesia poco: c’è un libro di Marinetti che si chiama “Il tramonto della luna”, molto bello. Allora sembrava audacissimo, poi tutti hanno incominciato ad usare questo tipo di associazioni un po’ folli, un po’ strane e sono entrate nell’uso. Per cui allora era molto importante un manifesto. Ma si è dimostrato che si è sciolta nel corso della letteratura seguente e, quindi, neanche più come moda dovrebbe essere tanto originale. Quel che si spera è forse un rinnovamento della poesia contemporanea. Ma sarà il tempo e l’azione dei poeti a determinarlo. Intanto non mi resta che ringraziare la poetessa Maria Luisa Spaziani per la sua amabile disponibilità. E mi piace concludere con un suo stesso pensiero, già per altro pubblicato, che può essere di incitamento e di incoraggiamento per i giovani: «Io ho vissuto come volevo. Non ho grandi rimpianti, né rimorsi. Tra le sofferenze più grandi metterei i tradimenti dell’amicizia e dell’amore... Quando si è soli, come in fondo sono sempre stata io, bisogna continuare a guidare la propria barca, anche se si è stanchi, anche se c’è la bufera». che hanno veramente nutrito la mia poesia e la mia vita. Anche se io ho dedicato soltanto un libro alla Sicilia, L’occhio del ciclone, in realtà essa vi ritorna in tutti gli altri. Oggi in Italia si realizzano migliaia di premi letterari. Lei crede nella validità di questi premi? Ma soprattutto cosa rappresenta per lei il premio Montale e quale spazio viene dato in esso ai giovani poeti? Lo spazio che viene dato ai giovani è grandissimo in quanto, addirittura, c’è un limite di età: non si può concorrere al Montale se si sono compiuti i cinquanta anni. Io l’ho fatto proprio per evitare che i premi vadano ai sessantenni, ai settantenni e così via. Certo, tutti protestano dicendo: ma a quell’età si scrivono più poesie. È chiaro, si scrivono poesie bellissime e lo dimostrano quasi tutti i poeti, pensi ad Ungaretti, Montale che hanno scritto tante poesie superati i sessantanni. Però, dare per esempio, tre mila euro ad un giovane è una cosa importantissima perché ne ha bisogno, perché li adopererà per studiare o per comprare libri, per viaggiare. Una sorta di input? Ma certo. Mentre, invece, quando si ricevono grossi premi a settanta anni, va bene è un grosso piacere e si fanno tante belle cose, ma non è essenziale più per la carriera. Io so che quando ho ricevuto la prima borsa di studio a Parigi, è stata per me una tale fortuna, mi ha spalancato tutti gli orizzonti possibili, mi ha trasformata. Benedetti quelli che promuovono le borse di studio perché veramente è un momento magico della vita, momento di passaggio fra la preistoria e la storia di un’esistenza. Ora, i premi buoni che ci sono in Italia non sono più di dieci, gli altri sono meno visibili. Fanno piacere a chi li riceve, a chi li dà, c’è una bella cena finale, ma tutto finisce lì. Non fa storia! Per questo io ho voluto che per gli inediti vincitori del Montale, ogni anno, si facesse un’antologia che si chiama “I sette del Montale”, in modo che rimanga un’antologia, non casuale, prima fatta da Scheiwiller e ora da Crocetti. Io vorrei dire una cosa a tutti: non fidarsi dei premi letterari dove c’è la tassa di lettura. Questa è veramente una truffa, anche con le migliori intenzioni di questo mondo, perché quando tu chiedi dei soldi a qualcuno gli devi dare qualcosa in cambio. Non puoi dire semplicemente mi mandi, su una speranza vaga, dei soldi. No! Bisogna che tu gli dica: le rispondiamo, le diamo un giudizio, la sua opera potrà fare parte di una raccolta, come facciamo noi al Montale dove, peraltro, non c’è tassa di lettura. Si cerca di inglobare tutti questi giovani nella nostra vita per fare amicizia, farli venire, offrire libri che possiamo dare. Quindi la tassa di lettura è una cosa da evitare e lo dico soprattutto a quelli che organizzano premi. Io ho ricevuto un bando di un premio dove c’è venticinque euro di tassa di lettura e c’è duecentocinquanta euro per il primo vincitore. Vuol dire che bastano dieci per fare la moneta del premio. Ma questo è assurdo! È un fatto illogico, non va assolutamente. Montale è uno dei maggiori poeti italiani, non solo perché ha ricevuto il premio Nobel (altri lo hanno ricevuto ma non sono all’altezza di Montale, a mio modesto parere), ma anche per la sua profondità di pensiero ed elevatezza lirica. Parlare di Montale ci vorrebbe un’intervista intera, anzi potrebbe essere argomento di una prossima conversazione, ma così, brevemente, cosa ha significato Montale nella sua vita e nella sua poesia? Guardi, in tutte e due, tanto nella mia vita come nella mia poesia, naturalmente una grande amicizia come 2 perversi del potere, fatto di «bustarelle lubrificanti in varie zone» e di «estorsioni - esenzioni fiscali». In quel contesto sociale, perverso e corrotto, il poeta, perso già da tempo il ruolo ottocentesco di mediatore ideologico, è “senza aureola”, riducendosi ad una semplice pedina nella convulsa scacchiera della vita. La scrittura, da alta e sacrale espressione di una scienza sapienziale, si involve a puro atto compilatorio di varie pratiche sociali, a «denuncia dei redditi». È una catabasi irreversibile che genera cinismo, egoismo, allineamento con la cultura dell’effimero e soprattutto il pericolo strisciante di essere inglobato nel sistema. E nella tempesta apocalittica Dio resta lontano e sconosciuto (dioIgnoto), «Cristo è morto, è morto lacerato», le generazioni future non riceveranno alcun insegnamento positivo dai padri, «forse ti malediranno forse ti rinnegheranno»: è la religiosità dialettica dell’anima del poeta, che più sancisce la lontananza del divino più ne desidera accoratamente la presenza. Ma, e qui si evince la componente dialettica di Aliberti, il poemetto non si conclude con gli accenti tonanti e corrosivi, tipici di chi dichiara di avere perso la propria battaglia con la vita: nella parte finale il canto si innalza nella ricerca del vero senso della vita, dopo l’orgia dei nonsenso, e si eleva nell’anelito a «verità-verifiche assolute», che possano esorcizzare le tenebre del materialismo e che riscoprano la libertà dello spirito. Il procedimento dialettico della lirica di Aliberti non può non coesistere con precise scelte stilistiche e retoriche. Quando i toni si fanno veementi, il poeta ricorre spesso (qui ed in altre raccolte) alla figura retorica dell’epanalessi che, attraverso l’iterazione martellante ed ossessiva di un termine (lavora lavora lavora... non importa non importa... non importa... scrivi scrivi scrivi ... ), ne esaspera e ne rende più incisivo il messaggio poetico. Tale figura, quando debba insistere su forme verbali, innesta l’ossessione paratattica che, aggiunta alla quasi totale mancanza di interpunzione, attiva ritmi incisivi, dinamici ed incalzanti. Non mancano ovviamente i nessi analogici, arditi ed efficaci, e di ungarettiana memoria, spesso battenti sul lemma “tempo”: «la macina del tempo», «la lava del tempo». Sono immagini speculativi di un «Io» che avverte l’inesorabile trascorrere del tempo assassino, che “macina” e brucia tutto ciò che attraversa nel suo cammino. Carmelo Aliberti: Il pianto del poeta, poesia della dialettica esistenziale di Francesco Puccio Aliberti, poeta del Novecento La raccolta di poesie di Carmelo Aliberti, “Il pianto del poeta” (Bastogi 2002), raggruppa liriche scritte nell’ultimo ventennio del Novecento. La silloge si distingue per un incessante agonismo dell’essere e del vivere, suggellato da una battente dialettica esistenziale. Gli eterni temi della vita e della morte, del nulla e dell’infinito si coagulano in un tessuto poetico ove i toni apocalittici coesistono con il sogno di una palingenesi, ove l’urlo espressionistico si coniuga con immagini delicate ed elegiache, ove l’esperienza della poesia novecentesca viene filtrata da una sensibilità aperta ad una meditazione sui destini umani. Professore e poeta, Aliberti ha saputo coniugare la sua fine ed attenta analisi dei testi della poesia novecentesca con l’attività letteraria. Attraverso l’uso sapiente e misurato dell’intertestualità, egli si inserisce a pieno nei suoi tempi, ereditando gli alti messaggi di Montale, Quasimodo, Ungaretti - fra i tanti - ed innestandoli sul proprio vissuto. In modo particolare, Montale gli ha prestato alcuni sintagmi («balugina... foglie accartocciate... male di vivere... distorte sillabe... traccia di una lumaca... il muro con i cocci di bottiglia...) ma anche la volontà di infrangere le maglie tentacolari della rete e l’attesa miracolistica dell’evento; con Quasimodo ha vissuto uno stretto gemellaggio spirituale sullo sfondo di una Sicilia sospesa tra mito e storia; Ungaretti (quello del Sentimento del tempo) lo ha aperto al recupero di una innocenza preadamitica, fra battiti d’ali e tormento della fede religiosa. “Caro, dolce poeta” e la dialettica tra la spirale dell’effimero ed il vagheggiamento di un sogno di innocenza. Lo spirito dialettico di Aliberti compare sin da “Caro, dolce Poeta” (1978-80), un poemetto in cui il poeta ripercorre circa quarant’anni di storia, dagli anni della Seconda guerra mondiale e della Resistenza agli anni Ottanta. Tra metafore calviniane (sentiero dei nidi di ragno), contornate da immagini di morte (bufere di scoppi e di cadaveri) e dalle efferatezze della guerra (mani che falciavano i fratelli), il poeta coglie il fiorire della vita sia nell’Eros pervasivo (inseguivano caldi seni che nell’inesausto approdo a «sogni di libertà e d’amore». Poeta dei contrasti e della ricerca, attento indagatore delle inquietudini esistenziali, Aliberti esplora gli anni del dopoguerra e denuncia la perversione degli ossimori ideologici, che con spirito mistificatorio tendevano a sancire il «patto di Marx con Dio». In quel «caro dolce poeta» si assiste al transfert proiettivo di un «Io» che ha vissuto gli anni della miseria (pazienza della fame), che ha conosciuto la vita alienante della fabbrica (catena di montaggio), che ha assistito ai miti effimeri della società del benessere (auto di grossa cilindrata... roulotte, tv a colori, jeans) e che versa le sue lacrime per le sperequazioni sociali, per l’altra Italia, quella di un Sud abbandonato, scolpita in quella tremula «ombra del padre che rincasa / con il vuoto nel cuore e nelle mani». La requisitoria procede fra rabbia ed amarezza, penetrando nei meandri “Il Limbo, la vertigine” e la dialettica ontologica Nel 1980 Aliberti dava alle stampe “Il limbo, la vertigine” una raccolta ove lo spirito dialettico segue una strada diversa in rapporto a quella percorsa in “Caro, dolce poeta”. Non più l’incontro-scontro sul terreno storico-sociale, ma su quello esistenziale. La pregnanza semantica di termini come «limbo» e «vertigine» si fa allusiva a dimensioni 3 determinato dal forte sostrato tradizionale e primitivo proprio della sua isola. Da puntualizzare che la Sicilia si configura per il Nostro in una zolla intermedia tra mito e storia: egli prende della storia la realtà di «un Sud esiliato» (È stato un attimo), recupera dal mito - nei poemetti “Aiamotomea” (1986) e “Nei luoghi del tempo” (1987) - la violenza dei paesaggi riarsi dal sole, il persistere di tradizioni ataviche, il legame con la cultura contadina e con dimensioni sacrali e primigenie. dello spirito diafane ed evanescenti, proprie di chi si sente decentrato e proiettato in zone periferiche, lontane dalla solarità del centro. La condizione limbica, genera per conseguenza uno stato di smarrimento, di vertigine, ove saltano tutti parametri dell’esistenza. La lirica che dà l’incipit alla raccolta si intitola “La tua storia”. È un’esplorazione attenta e profonda che il poeta fa della propria vita e dell’intera umanità. Si sente l’eco pressante delle «ferite degli attriti», si constata la presenza di un orizzonte ove incombono la «nebbia», il «vortice», il «risucchio», ma in questo vuoto c’è sempre un raggio di luce, fossero «gli estremi di un filo che balugina», fosse «la colonna stremata dei mortali» che «in marcia barcolla verso il sole». La ricognizione dei destini umani si ripropone in “Vaghiamo”, ove viene scolpita un’umanità che va alla deriva, tra ferite del vivere, immobilità dell’«Io», essiccamento dell’esistenza, caduta dell’agonismo interiore. Ma quello stesso «Io» non cede: pur attanagliato da una «vertigine» corrosiva, vorrebbe perforare la fitta maglia della catena necessitante per respirare il vivifico odore delle «zagare» (Vorresti bucare). E in quei momenti di altissima tensione cognitiva per un attimo il velo di Maya sembrerebbe squarciarsi e al di là dell’inestricabile «giungla del mondo» si intravede una zona subliminare, via di accesso per una dimensione metafisica ove le cose sembrerebbero rivelare il loro senso più autentico (Nei luoghi comuni). Ma è solo la folgorazione di un attimo, perché lo “spleen” è sempre in agguato, con il suo potere distruttivo che vanifica ogni certezza, che inquina il colore puro dell’azzurro (Rasa al suolo), che trafigge con la «fiocina del nulla» l’uomo, monade sperduta in un universo nientificato (Parziale totale). In questa raccolta la tensione dialettica raggiunge vertici epici. Aliberti manifesta la propria tempra etica e volitiva chiamando all’appello tutte le proprie energie culturali, mentali e spirituali, fortemente teso a perforare “il muro della terra”. Ed ecco l’attesa dell’evento salvifico che «rimargini / i frantumi del buio» o del «lampo» che possa squarciare le tenebre dell’inerzia e della passività (Nel cespuglio delle linee); ecco la preghiera accorata, al di là di ogni enfasi misticistica, al «Dio del nulla e del dolore», perché l’uomo Aliberti non affondi nella «poltiglia del sangue e del pensiero», ma possa innalzarsi verso le purezze metafisiche della «nuvola» e dell’«azzurro». È un’ansia conoscenziale e teleologica che, sulla scia di Baudelaire, vuole andare sino in fondo, e che, incollata «al vetro dei perché», è protesa ad indagare le ragioni ultime del bene e del male (Dio del nulla). La raccolta si chiude con una lirica intitolata “Il tuo risveglio”, da leggersi in forma indirettamente proporzionale a quella iniziale. È come se quel «filo che balugina», presente in “La tua storia”, improvvisamente si illuminasse di un raggio di luce vivificatrice, riflessa dal fortissimo legame che lega il padre al figlio. Un fatto comune e quotidiano, come il risveglio di un bambino dopo un sonno sereno, si ricopre di simbolismi riposti e si eleva a trampolino di lancio per l’anima perché possa perforare la fitta maglia del tempo. È l’improvviso travalicamento dell’hic et nunc, con le sue «turpitudini» ed i suoi «gorghi» malefici; è il rigenerarsi di un uomo che non ha mai gettato la spugna e che interpreta il proprio cammino etico e spirituale non relegandolo al singolo individuo ma lo intende come un percorso generazionale, ove i figli partano dal punto in cui i padri si sono fermati. In questa espansione della vita oltre il tempo si racchiude la punta più alta della positività di Aliberti, ma anche la presenza di un inconscio collettivo, “Le tue soavi sillabe” ed “Il pianto del poeta”: i picchi drammatici della dialettica Nel poemetto “Le tue soavi sillabe" (1999) e ne “Il pianto dei poeta”, da cui è tratto il titolo della raccolta da noi esaminata, Aliberti, ancora una volta, dopo i toni della rabbia e dell’apocalisse, ritrova il sentiero di un percorso interiore, lontano sia da punte epicuree che misticistiche. Nel poemetto si intravede il cammino di chi vuole ripristinare con sé e con gli altri «un colloquio di speranza», tentando il difficile travalicamento del «male di vivere» e delle muraglie dell’incomprensione e dell’inerzia. Ancora una volta appare la sicilitudine del poeta nella denuncia di un «Sud assetato d’acqua e di giustizia», ma i toni abbandonano subito le note di amarezza e si ricaricano nell’immagine gioiosa delle colombe, che con il loro canto d’amore e di pace indicheranno la strada per scoprire l’armonia dietro la disarmonia. La lirica “Il pianto del poeta” rappresenta il punto di arrivo della dialettica esistenziale del poeta. Nella prima parte si contraddistingue per il sentimento dell’assenza e della mancanza, attraverso l’anafora sferzante di «non vedo». Dopo un arioso ingresso nella rievocazione del mito greco-siculo ed in una natura pura ed incontaminata, segue l’amara requisitoria dei mali del tempo, dai delitti di origine mafiosa alle tante guerre che onnubilano la terra. A questo punto i toni si infiammano e si fanno incandescenti. Il dolore si fonde con la rabbia. Non c’è più posto per le parole sussurrate o per la voce singhiozzante, ma il pianto deve essere urlato a squarciagola perché possa estendersi all’immenso «teatro di violenza e di guerra», sul cui palcoscenico si consumano i destini umani, sul filo di un «qui» anaforico ed ossessivo, fra urgenza paratattica, forme nominali e personificazioni (la pietà muore senza mirra ed oro). Ma nella parte finale, svuotata la figura del poeta di ogni prosopopea salvifica ed illuminatrice (non chiedermi vibrazioni di luce), l’elegia si trasformia in inno, la rabbia in speranza. Ritornano le immagini delicate degli uccelli (prima le colombe, ora i gabbiani) e l’attesa di un risveglio mattutino. L’anima del poeta e con sé l’anima del mondo, attingendo alle fonti dell’infanzia, fra smaterializzazione e rarefazione, potrà recuperare il sogno di un’innocenza primordiale ed attendere, con sacrificio e volitività, l’alba della resurrezione, vista non come una conquista perenne, ma come un momento di luce fra le tenebre striscianti, nell’eterno, drammatico ed incessante divenire della storia. La tua e-mail con il Convivio Da oggi sarà possibile avere una tua e-mail con Il Convivio tipo: [email protected], con la quale si avranno 10 MB di spazio. Informati con una e-mail indirizzata a 4 immagini di sconvolgimenti apocalittici, dentro cui una voce disperata gridava la condizione umana come tempo breve divorato dalla morte e l’uomo evento illusorio, un nulla nella vastità del cosmo: «La vecchia terra è dura / morto l’abbrivo... boati / si susseguono a catena / urgono da fremiti profondi, da spazi imponderabili / s’attaccano alle viscere / si spengono nel Caos». In quel momento creativo la Natale aveva proposto, con grande impatto espressivo, la poesia cosmica. Anche nel poemetto All’uscita dal tunnel e in altri libri, la poetica dell’angoscia cosmica parlava con un linguaggio incandescente che rendeva palese il dolore, dilatato oltre i limiti personali, di questa autrice vulnerabile e delusa nel sentimento di dare e ricevere amore, continuamente ferita nell’anima, frustrata nella generosa disponibilità a capire e lenire le pene morali degli altri. «Pruni ho raccolto e dune di rifiuti / fughe di anni, anni, anni / delusioni impietose / le braccia nell’attesa / per rimanere vuote e inaridite». Maria Pina Natale vive attraverso la sua poesia di Rina Pandolfo Maria Pina Natale non è più tra noi, tra gli amici, gli estimatori della sua arte, nella città che amava. È scomparsa silenziosamente con i suoi talenti umani e letterari, che elargiva generosamente, la sua ricchezza interiore, la spiritualità profonda e la solitudine che in lei era riflessione ontologica e conoscenza (amara) dell’anima umana: «Siamo timidi / incerti / senza meta / senza risposta / soli». Anche se non vedremo più il volto gentile illuminato dagli arguti occhi azzurri e la grazia dei suoi modi amichevoli, non si può dire che sia scomparsa veramente e per sempre, perché i poeti (e lei lo era al massimo grado) non muoiono. Esiste, infatti, una presenza “altra”, il carisma spirituale della parola di cui è l’essenza viva dell’arte che trasfonde la verità dei sentimenti e del pensiero nei versi ricchi di amore. Autrice versatile, letterata finissima, il suo talento artistico si è estrinsecato in più direzioni: è stata, principalmente, poetessa (una voce nota in campo nazionale), narratrice, saggista, attenta e acuta nell’esercizio della critica letteraria, traduttrice dal greco, dal latino, dallo spagnolo. Tutte le varie espressioni letterarie sono state arricchite dal punto di vista formale dalla sensibilità poetica e dall’intelligenza critica. Donna fragile, ma forte nella vocazione, ipersensibile, ripiegata con grande umiltà in un quotidiano che richiedeva il sacrificio personale, dava aiuto a chi ne aveva bisogno con amore, con spirito cristiano. Infatti nella scala dei valori metteva al primo posto la persona umana, al secondo la letteratura. Maria Pina Natale ha scritto tantissimi versi, un numero che bisognerebbe calcolare, in una quindicina circa di pubblicazioni, in cui appariva veramente se stessa: anima, sentimenti fondamentali di dolore e di gioia, della vita, dell’amore e della morte; mostrava una conoscenza lucida del proprio stato d’animo e del variegato mondo interiore, con l’autenticità e la tensione lirica della poesia di grande qualità. Dalle prime sillogi giovanili in versi latini alle opere della maturità (tra le tante Un cirro di speranza, I Telezonti, Officina di sogni) si è delineata una sicura personalità creativa capace di fondere, con un’intelligente azione di sintesi formale, tematiche scaturite dall’osservazione dolorosa e pessimistica dell’attuale condizione dell’uomo che, poeticamente, immaginava coinvolto in una visionaria apocalissi cosmica, e la struttura tradizionale del verso di nobile scuola letteraria (l’autrice è stata docente nei licei classici). La fusione avveniva grazie alla maestria di composizione unita ad una sensibilità accesa, in forza di un’angoscia tutta novecentesca di origine esistenziale e cosmica (lo spazio intergalattico e la piccolezza dell’essere terrestre). L’autrice siciliana ha espresso il suo dramma interiore con straordinaria evidenza in uno dei suoi più, significativi libri di poesie, il postermetico I Telezonti del 1984. La visione del mondo della poetessa, sconvolta dalla constatazione che il Male imperava nelle coscienze e nella società contemporanea, intorbidita dallo strazio del cuore per il destino degli esseri umani privi di valori, concretizzava questo grande disagio morale e sentimentale con visionarietà poetica, in Maria Pina Natale, poetessa e scrittrice, è stata per tre anni Presidente del Premio Internazionale Il Convivio Nella vita artistica Maria Pina Natale ha subito ingiustizie, silenzi con i quali si volevano oscurare i meriti culturali, indifferenza da parte di intelletti mediocri e ignoranti, ma per fortuna, e soprattutto, encomi entusiastici, ammirazione, numerosi premi letterari, recensioni e saggi firmati da personalità eminenti della critica letteraria italiana anche da lettori comuni, dai veri amanti della poesia, bravi a scoprire il tesoro là dove è profuso: nell’anima del poeta, donatore del bello e del bene. I temi dell’ambivalenza del bene e del male («Se i cieli si dilatano insieme a neri abissi...); dello smarrimento ( ...ora tutto è vertigine... ); il tema del tempo e dell’inutilità della vita stigmatizzavano il commovente stato di un’anima che soffriva la solitudine atroce di chi non spera in niente, ha paura: «volgo le spalle a frane che m’inseguono / mi oscurano il cammino / e che iraconde mi sommergeranno / fino all’ultima spiaggia / come belve affamate». Dalla riflessione filosofica sul mondo e sulla na5 tura dell’uomo, dalle amarezze del vissuto, nasceva il flusso poetico che pervade la poesia conturbante della Natale, poesia che suscita in chi legge emozioni profonde e senso di fraternità; offre la condivisione della sofferenza a chi attraversa periodi negativi, e a tutti il meraviglioso dono di grazia poetica cioè la luce intensa dei momenti d’amore, di gioia, di speranza che abbondano nei suoi testi. Infatti l’io poetico trovava la risoluzione morale nella forza miracolosa dell’arte; si affidava con nativa fiducia, alla comprensione di chi ha sofferto tribolazioni esistenziali e spirituali ed alla rispondenza affettiva di coloro che amano vivamente, la bellezza della natura e credono nei valori perduti. Augusto Peluso: Poesia del colore e della luce di Angelo Manitta «Piacevoli profumi ed armonie / ascendono dolcemente al cielo, / bianche farfalle volteggiando / orbitano nel sole e nella luce». Questi versi, tratti dalla lirica di Augusto Peluso Colori di primavera, inserita nel volume antologico dei Quaderni del Calamaio, può considerarsi sintesi dell’intera espressività poetica dell’autore e delle sue tematiche. Si tratta di una poesia inondata di luce e di felicità, di calore e di colori, di suoni e di immagini altamente poetici. Le dieci liriche della raccolta, infatti, sono permeate da una visione solare ed astrale della vita. La parola ‘sole’ ricorre con insistenza, accanto alla parola ‘luce’ ed altre semanticamente affini. È la solarità mediterranea espressa attraverso vivificanti immagini, che offrono serenità ed estasi. La vita umana, così come il ciclo vitale nel suo complesso, è espressione di luce e si manifesta attraverso il succedersi delle azioni e degli eventi, delle stagioni e del tempo che corrono in una direzione univoca, mai equivoca, in parallelo con la luminosità interiore, che in senso metaforico e realistico illumina le menti. Emblematica è la prima lirica, che presenta il tepore primaverile in un’alba che lumeggia. Se volessimo analizzare sotto l’aspetto semantico solo questa poesia, i termini che riportano alla solarità e all’estaticità concettuale suono molti. Ad esempio: albore, sole, cielo, sfavillante, lumeggia, aria, orizzonte, tepore, primavera; termini, questi, che si ricollegano ad altri vocaboli altamente poetici, come gabbiano, onda, mare, riva, trasparenza, pensiero, tempo, amore, tenerezza, e così via. Al calore e colore, espressioni di felicità, si interseca il tempo, il tempo astronomico, che permette di segnare la successione degli eventi, ma pure il tempo metaforico, quale trasformazione di pensieri e movimenti dell’animo, il tempo che ognuno di noi sa crearsi e che sfocia nell’Assoluto o nel Nulla. L’Assoluto è quell’aspirazione verso l’alto insita in ognuno di noi, quella tendenza verso l’infinito azzurro, luce vera che dà serenità. La vita esiste perché esiste la luce, il tempo esiste perché esiste la vita. Attraverso quest’equazione filosofico-matematica concludo che la luce e il tempo sono i due principi che danno origine alla vita ed alla coscienza dell’uomo, come si nota in Mattutini albori: Maria Pina Natale e Angelo Manitta durante la cerimonia di premiazione del Convivio nell’ottobre del 2003 Per Maria Pina Natale la poesia non era arte consolatoria (forse non solo), bensì arte del colloquio d’amore e, al più alto grado espressivo, elevazione dello spirito che aspira all’assoluto e transito dall’umano al divino: «È Tabor la poesia, trasfigura / realtà, le fa più belle / più grandi e luminose / ...È Tabor la poesia / la sua luce / sfiora e rischiara i vicoli del mondo». Il cuore del poeta effonde liricamente la speranza con cui far rinverdire lo spirito; ha momenti di riposo: «L’onda riposa / dimentica dei suoi antri...». Dimentica delle sue pene profonde, la poetessa si apriva alla dolcezza di visioni rasserenanti, sentiva nell’anima «risonanze di albe lontane / leggere brezze... la terra sotto un velo di latte / stillato da candidi cirri». Complessa, dunque, è la poesia di Maria Pina Natale, propria di chi è condannato al pensiero che indaga, mentre il cuore palpita per stimoli diversi e intensi e contraddittori. Nell’ebbrezza lirica delle ultime poesie, un pensiero amaro chiude lo straordinario iter poetico: «Troppe sono le maglie ancora aperte / a chiuderle non so / se la vita sarà oppur la morte». Purtroppo per molti l’incompiutezza è lo stigma della morte: non così per i poeti. Al primo albore del mattino stormi di uccelli spiegando le ali s’accingono a migrar per l’infinito. Tra chiare acque e la silente riva dondolano le chiome da aura scosse di salici piangenti lungo il fiume. Lumeggia il sole sulle alte cime sul verdi prati e sui pineti sul mare che talvolta s’adira. Ogni pensier mio fugge dal petto e di diversi colori al sol si tinge; effluvio di resina al cor s’appressa. Una dolce melodia s’aggira attorno lieve come un murmure dape, freme il vento e rumoreggia il mare. Un bagliore simile a incendio mi accarezza dolcemente l’anima e in mille modi appaga i sogni miei! 6 per trovare al di là dell’oceano la speranza di un domani migliore. E soprattutto la storia di Vita, questa donna magnifica, vitale, conturbante, di cui Diamante finisce per innamorarsi senza però imparare da lei la cosa più importante: il talento del vivere. Vita rappresenta indubbiamente un altro dei poetici ritratti umani usciti dalla penna di Melania G. Mazzucco. Le appartengono grazia, mistero, onestà. E una scrittura che asseconda i registri cangianti del quotidiano, i suoni di tutto un popolo alla ricerca di sé, insieme ai turbamenti di quanti si videro costretti, senza sicurezza e garanzie di sopravvivenza, ad affrontare le difficoltà e le inquietudini del costruirsi una nuova identità sul suolo di una terra straniera, alle prese con lingue sconosciute, sotto un cielo inesplorato cui levare la propria nostalgia. Melania G. Mazzucco e le motivazioni letterarie di «Vita» di Luigi La Rosa Melania Mazzucco ripercorre le motivazioni letterarie di «Vita», libro con cui ha conquistato il Premio Strega 2003 e dal quale verrà tratto un film per il cinema. Una narratrice feconda, geniale e poeticissima, che si confronta apertamente con la passione della scrittura e il bisogno di lasciare il segno. Un romanzo per comprendere una pagina irrinunciabile della storia del nostro Paese. Da due anni abito a Roma, città che amo e ho scelto per vivere, scrivere, raccontare le mie storie. Da anni incontro scrittori e giovani autori che, come me, hanno fatto della parola il sogno della loro vita. La loro unica ragione d’esistere. Da qualche anno, poi, ho dalla mia la fortuna maggiore che la capitale poteva regalarmi. La conoscenza diretta, personale, amichevole di quella che la critica europea definisce, senza ombra di errore, la maggiore narratrice italiana dei giorni nostri: Melania G. Mazzucco. Qualcuno ha paragonato il suo nome a quello di Elsa Morante. Giustamente. Qualcun altro ribadisce come i suoi romanzi siano tradotti in almeno dodici lingue diverse. Giustamente. E soprattutto, in soli trentasette anni di vita, una collezione di premi eccezionali che vanno dal Vittorini al Napoli, all’ultimo Strega 2003, conferitole nel luglio scorso. La produzione della narratrice romana mette a nudo una verità importantissima: la certezza che è ancora possibile raccontare delle buone storie. Lo avevo capito sin da subito, dal giorno di molti anni addietro quando in una libreria messinese mi trovai a sfogliare le pagine del suo primo lavoro “Il bacio della Medusa” (Baldini & Castaldi, 1996). Il libro era il primo dei suoi quattro, presto candidato a Strega e Viareggio, e caratterizzato da un titolo di singolare effetto poetico: «Il bacio della Medusa». Mi addentravo nelle esistenze autentiche delle due protagoniste del racconto (due donne mosse dal desiderio e dalla voglia di essere se stesse pur nell’intrico di un mondo indifferente e retto da ipocrite imposizioni) con quel senso di ebbrezza che sempre ci rapisce quando sentiamo che qualcosa di straordinario sta avvenendo sotto i nostri occhi... Ma Melania G. Mazzucco ha voluto offrirci qualcosa di più, ricollegandosi in modo commovente e insieme fedele all’eredità di se stessa e della propria famiglia. «Vita» consacra definitivamente la scrittrice al primato artistico che le spettava di diritto. L’assegnazione del Premio Strega 2003 rappresenta l’apice di un successo assai meritato, che avevamo abbondantemente previsto e desiderato. La storia delle radici, di un uomo di nome Diamante (il nonno dell’autrice) che si trasferisce in America alla ricerca di fortuna. Che fugge da una condizione di povertà Incontrare l’autrice di «Vita» ha realmente rappresentato per me il coronamento di un sogno... Il mattino trascorso in compagnia della Mazzucco è sempre con me, voglio conservarlo tra i ricordi più belli. Insieme all’accoglienza nella sua casa affollata di libri, in una di quelle grigie giornate d’inverno che solo Roma sembra saperti regalare. Quel mattino posso affermare di aver conosciuto da vicino la più grande scrittrice italiana di questo secolo. Come comincia il racconto di «Vita»? «Vita» parte dalla leggenda legata alla figura di mio nonno. Di quest’uomo di cui si è discusso in famiglia, sapevo solo che era andato in America per fuggire la povertà ancestrale dei Mazzucco. È stata questa la motivazione prima che ha ispirato in me la vicenda narrativa del romanzo, spingendomi alla ricerca di quei rari documenti rimasti che potessero ridarmi le fila degli eventi. Le cose che avevo erano: un paio di occhiali di Diamante, alcune lettere mandate a nonna Elma, qualche brandello di giornale e una targa con sopra il nome di un Mazzucco di New York. Come una detective sono andata a caccia di quelle tracce che mi restituissero il sentimento di quelle esistenze lontane, cercando di colmare il vuoto attraverso le lettere e gli archivi esistenti. Quanto erano distanti da te gli avvenimenti del romanzo? Erano distanti eppure vicinissimi, perché in quegli stessi anni anche in Italia avveniva qualcosa di simile. Passando dalla stazione assistevamo alla presenza di un grandissimo numero di immigrati che, come quei nostri parenti andati in America mezzo secolo prima, cercavano da noi lo sbocco agli stenti dei loro paesi di provenienza. Anche loro 7 si erano affidati a un sogno: quello di cambiare la loro vita. E tutto questo richiede forza, coraggio, talento. Mentre pensavo di scrivere la storia di mio nonno mi guardavo intorno e in quegli uomini vedevo la stessa disperazione. A differenza di altri tuoi libri, in «Vita» tu stessa diventi personaggio insieme agli altri, mescolandoti all’intreccio della storia. È stato facile obbedire a questa volontà di rappresentazione? Non è stato facile affatto. Scrivere di sé significa mettersi a nudo, darsi in pasto al lettore e questo implica inevitabilmente un atto di fiducia verso gli altri. Inoltre, questa scelta è stata dettata dall’idea che chi scrive acquisisce comunque libertà e privilegi rispetto a chi è morto e non può darci la sua testimonianza. Raccontare di mio nonno, mio padre e degli altri uomini appartenuti alla famiglia mi costringeva a una grandissima responsabilità perché mi permetteva di penetrare nel perimetro esistenziale di persone ormai lontane nel tempo e nello spazio. Scegliere di dar voce a me stessa come personaggio ha un po’ alleviato questo senso di responsabilità, facilitando in qualche modo la comprensione dei silenzi di chi non aveva più voce. Melania Mazzucco prima e dopo lo Strega 2003. Cosa è cambiato nella tua vita? Da un punto di vista strettamente narrativo nulla. Dall’altro punto di vista, e cioè dal punto di vista della sicurezza materiale, sono cambiate molte cose. Sapere di aver finalmente raggiunto un numero elevato di lettori è comunque una grandissima soddisfazione, che ti ripaga degli anni di attesa, silenziosa scrittura, rifiuti editoriali. Scrivere è un atto di comunicazione, per cui il successo di un autore finisce inevitabilmente col fare i conti anche col numero di lettori ai quali arriva il suo messaggio. Tanto più numerosi e vicini sono questi lettori, tanto più lo scrittore è riuscito a trasmettere il suo pensiero. Quando hai avuto la percezione piena e completa del tuo successo? Alcuni mesi addietro, durante una serata in teatro dedicata al libro. In quell’occasione non lontana, mi accorsi che anche le persone meno abituate alla frequentazione dei libri avevano letto con attenzione il romanzo. Si avvicinavano di continuo, mi facevano domande, erano incuriosite dal mestiere di scrittrice. Ecco, quella sera ho capito che la scrittura non era più qualcosa di confinato, di intellettualmente aristocratico, ma qualcosa che aveva il dovere di arrivare alla gente comune, quella di tutti i giorni, di qualsiasi estrazione sociale e culturale. E «Vita» è probabilmente il libro in cui questo tentativo si è compiuto in modo più profondo e riuscito, anche in virtù della vocazione sociale della storia e del fatto che essa coinvolge un momento fondamentale della memoria del paese. Molti dei lettori rimangono colpiti dalla tua maniera di raccontare e mescolare tra loro i diversi piani temporali dell’azione. Come consideri questo procedimento narrativo? Lo considero importante per il fatto che considero il tempo non lineare ma circolare e multiforme. Delle volte mi si dice che racconto sempre il presente. Probabilmente è vero, ma lo faccio perché quello che mi interessa è l’attimo presente, l’attimo stesso in cui il lettore sta raccogliendo il senso delle parole, in funzione del quale passato e futuro si trovano a interagire e convergere. Lo stesso accade nel mio metodo di scrittura… In che senso? Nel senso che io non ho scritto mai in maniera ordinaria e cronologica. Non sviluppo mai un capitolo dopo l’altro progressivamente, ma lavoro soprattutto per salti temporali, dando vita al capitolo trentotto e solo successivamente al capitolo undici. Anche nella redazione dei miei testi seguo questo principio di casualità, perché ritengo che non esista un tempo lineare nel quale si distendono gli eventi, ma il tempo varia in base a come noi lo percepiamo e in funzione del valore che diamo all’accadere di determinati eventi rispetto ad altri. In molta scrittura ritorna la figura di tuo padre. Chi era realmente quest’uomo cui va il merito del tuo amore e della tua gratitudine? Il merito umano di mio padre è legato alla gratitudine che qualsiasi figlia porta nei confronti di colui che l’ha messa al mondo. Credo sia più giusto discutere del merito letterario che ha avuto sulla mia formazione di scrittrice. I ricordi che ho di quest’uomo sono legati al suo senso di sacrificio. Era uno scrittore che ha lavorato per il teatro con stagioni di grande fortuna alternate a periodi di sofferenza. Tuttavia, la sua costanza e la sua forza mi hanno insegnato a concepire la scrittura come qualcosa di estremamente artigianale, cui devi mettere te stesso, al limite delle forze. Ricordo le notti in teatro, i pomeriggi delle prove, dove ho potuto apprendere in modo diretto come si aggiusta il testo, come si lavora sul ritmo, come ci si confronta senza distogliere l’attenzione dal lavoro finché una cosa non abbia raggiunto la sua forma ultima e migliore. Ecco, se penso a mio padre penso a tutte queste cose, e sento di dovergli davvero molto. Tuttavia, mi trascino un unico piccolo dispiacere: quello di non esser riuscita a fargli vedere in tempo il successo che avrei avuto negli anni. Hai in mente un nuovo romanzo? Posso anticiparti che ho in mente non una, ma due possibili storie alle quali sto già lavorando. La prima dovrebbe essere ambientata ai giorni nostri, ed è un romanzo di carattere contemporaneo. La seconda dovrebbe invece narrare una figura vissuta nel diciannovesimo secolo, scomparsa senza lasciare tracce. Sto faticando a ricostruire la sua fisionomia, data la scarsità di fonti a disposizione. In ogni caso, so che ogni buona storia ha un suo tempo, e ogni scrittore vero deve imparare ad abbandonarsi alla scrittura secondo le necessità. Flavia Vizzari, Solitudine (olio su tela) 8 quí están precisamente en su más alta expresión los «senderos del absoluto». Giuseppe Manitta se ha entregado a una experimentación inventiva de gran originalidad, un propósito explicitado suficientemente por el propio autor en las páginas preliminares y que puede sintetizarse en los siguientes puntos: a) la diferenciación entre pasajes lírico y pasajes épicos mediante el uso de un interesante nuevo sistema métrico (los versos tienen sus apoyos acentuales en un número determinado de palabras clave); universalización de conceptos principales con la incorporación al texto, junto a los significantes italianos, de los significantes corre-spondientes en griego, latín, francés, alemán, español, in-glés y portugués; c) creaciones de neologismos mediante manipulaciones de los morfemas, al modo de Gavino Ledda... El proyecto del autor de Sentieri d´Assoluto es, según sus propias palabras, el «estudio de la lengua, de la forma, de la estructura del poema, de la métrica». Parecería, pues, que se trata de una pura propuesta experimental y formal, casi un ejercicio de preceptiva literaria. Sin embargo, junto a lo dicho anteriormente, lo que se oye en Sentieri d´Assoluto es una auténtica voz de poeta, en cuya materialización habría que destacar especialmente el sentido del ritmo, el acervo de imágenes y el acierto en el manejo de la estructura. Por otra parte, Giuseppe Manitta poeta lleva muy marcada la huella del artista plástico que es en el tratamiento del paisaje y de la Naturaleza. Ha seleccionado de ésta los elementos más emblemáticos enfrentados a menudo dialécticamente en parejas antitéticas: el alba y el ocaso, el abismo y las estrellas, el vacío gris de la niebla y la plenitud cromática del arco iris, el bosque y la caverna, el sol y la nube, la luz y la sombra. El libro se cierra con un canto lírico de despedida a los cuatro elementos (terra, acqua, fuoco, aria) y a los elementos naturales presentes a lo largo del poema-ranconto. Es la Naturaleza con mayúscula “all´apice della sua gloria, una vez que se ha redescubierto “les correspondances” que Baudelaire había buscado por su templo: correspondencias que nuestro poeta ha sabido expresar en las pinceladas sinestésicas de su creación. Una Naturaleza, además, sublimada y solemnizada mediante ciertas recurrencias de la mitología clásica: Apolo, la Fortuna, ninfas los misteriosos asfódelos... Y siempre, explícita o implícitamente, la temporalidad: la «immensa armonia del divenire.» En todo esto nos parece ver los reflejos del Absoluto. A los filósofos les toca entrar en las precisiones conceptuales del Absoluto: tò ólon? tò téleion? (Aristóteles); ¿la verdad infinita? (Leibniz); ¿principio infinito de la realidad? (Fichte); ¿la realidad suprema? (Hegel); ¿el infinito mismo? (Romanticismo). El poeta Giuseppe Manitta, en cambio, que ha renunciado a los vías de la racionalidad y que sabe que se mueve en un mondo de realidades inefables («Entréme donde no supe / y quedéme no sabiendo, / toda ciencia trascendiendo», San Juan de la Cruz dixit) se obstina en recorrer y ofrecer al lector los senderos inescrutables del absoluto “poético”. Y es que el poeta que recorre los senderos del Absoluto no hace otra cosa que transitar por la verdadera palabra poética. Giuseppe Manitta: Sentieri d’Assoluto di Francisco Alvarez Velasco Giuseppe Manitta clasifica esta su segunda entrega poética (Sentieri d’assoluto, Accademia Internazionale Il Convivio, 2003) en un subgénero literario mixto muy poco frecuente: poema-relato. Indudablemente desde ya hace mucho tiempo, especialmente a partir del Romanticismo, entraron en crisis para siempre los clásicos géneros literarios y quedaron borradas las fronteras entre lírica y narrativa. La novedad de nuestro poeta ha de buscarse en una lúcida conciencia de la necesidad de encontrar un nuevo camino de decir poético, una “remodelación de la poesía”. Lo primero que llama la atención del lector al abrir Sentieri d´Assoluto es la estructura formal externa del discurso poético: la alternancia de prosa y de verso, formas textuales que se van solapando. Los fragmentos en prosa podrían leerse sucesivamente como un relato autónomo; no ocurre lo mismo con los poemas, que son generados por los primeros. Poemarelato, por consiguiente; sin embargo, en su estructura externa, un relato y un poema fragmentados en secuencias textuales que se van intercalando. O, dicho de otro modo, camino (prosa) y senderos (verso). El camino es de ida y vuelta (empieza en el campo, lleva a la ciudad y retorna al punto de partida) y está definido espacialmente con sus coordenadas geográficas. Los senderos son, en cambio, imprecisos y no son “hacia”, sino “de”: léase bien la preposición del título del libro, con su polisemia de posesión y de ubicación. El relato - la prosa - además del espacio (rural y urbano), cuenta con los elementos propios del género narrativo: personajes, tiempo e historia contada. El tiempo histórico corresponde al siglo XXI, a la “plena era del ordenador y de la tecnología”; el tiempo de la narración se corresponde con un viaje de ida y vuelta. Los personajes son pocos: el narrador-protagonista, el perro Sam (el único que tiene nombre propio), una madre sacrificada, un padre kafkiano (recuerda mucho en su prepotencia al personaje de la “Carta al padre”: «Con i capelli arruffati e la barba lunga, con gli occhi rosso sangue e le braccia robuste»), personajes ocasionales propios de un relato itinerante, el hombre vestido de blanco en la Basílica (la “Basilicissia”)... La historia contada se nutre de elementos muy simples narrados con técnica impresionista: el abandono del hogar, el encuentro con algún viajero, el encuentro con la naturaleza observada desde una perspectiva estática o desde medios de locomoción, el descubrimiento de la ciudad, el encuentro con gentes anónimas o singularizadas («Mi siedo e riosservo il reale. É bello analizzare con minuzia la gente che passa»), el retorno... Coexisten aquí elementos realistas y elementos oníricos, o, mejor, de duermevela, lo que hace que la narración se revista de cierto aire de realismo mágico. La razón de ser de la historia tiene su punto de apoyo en el carácter altamente simbólico: en palabras del narrador - «il figlio dei boscchi» - se trata del «incerto viaggio dell´evasione e della speranza», un ir y volver que al final se convierte en un viaje de iniciación y de aprendizaje - «sono diventato adulto». Y a lo largo del texto en prosa – decíamos - se van engastando los fragmentos del poema, en ocasiones de lirismo puro; en otras, en formas narrativas o descriptivas.. A9 dell’impiccato. Eppure, caro versosciolto, rieccomi a ripetere che tu non esisti, se non in qualche sporadico caso di eccelsa liricità che ti fa perdonare quella tua disarmante poliedricità.Perché quella metrica che ha preventivamente e faticosamente definito le proprie regole non può, dopo averle abiurate e superate, non tornare al suo originario stato di prosa, nemmanco in nome della libertà più assoluta. Perché, arrogandoti il diritto di tornare a capo quando ti pare (e questo, in teoria, non dovresti concedertelo nemmeno tu), non solo crei il paradosso di una stessa lirica scritta in mille modi diversi che mantiene sempre la stessa, prosaica musicalità, rimanendo eccelsa in ognuno di quei mille (con il conseguente pericolo di non poter essere ascoltata senza prima essere vista), ma soprattutto rischi di legittimare come creazione poetica puranco questa mia, qualora io decidessi di scriverla a tocchetti e spezzatini. Ma può davvero, questa, riscritta andando a capo ogni tre o quattro vocaboli, o addirittura spezzando gli stessi, potersi definire poesia? Basta davvero, come sosteneva Mallarmè, un qualsiasi sforzo verso uno stile per far nascere la versificazione e che non esiste prosa ma un alfabeto che, sempre, si trasforma in verso più o meno compatto? O piuttosto (cito a memoria, utilizzandoli spudoratamente pro domo mea) i rigurgiti della deriva massimalista e della anarco-democratica totale libertà di opinioni di non nominata memoria, identificando il verso allo sforzo stilistico e creando, quindi, lo stile infinito fine a se stesso, concedono la legittimazione assoluta a quanti, ormai troppi, pretendono di spacciare per poesia anche la lista della spesa? Ma se non si vuole negarne l’esistenza, è evidente che anche e soprattutto la prosa riesce a comunicare e trasmettere in maniera sublime emozioni e sentimenti (bella forza, dispone dell’intero rigo!). Ed allora, la nuova domanda sorge spontanea: possono, i miei versi di piccolo, ridicolo operaio della metrica, nelle mie piccole, ridicole opere, confrontarsi con le difficoltà del regale endecasillabo, dei suoi accenti variabili ma mai arbitrari, della tanto vituperata rima e restare sullo stesso piano che tu hai attribuito a te stesso (piano, questo, non migliore o peggiore, ma semplicemente diverso)? Possono giocare la stessa partita ed avere, gli uni, regole che gli altri ricusano? Possono accettare la unilaterale, mistificante e pericolosa identificazione della partita con la regola stessa? E qual è, allora, la differenza tra prosa lirica e poesia lirica a verso sciolto, se non l’indiscriminato e soggettivo uso dell’a capo ad ogni costo? Ecco che allora, nello stesso modo in cui gli stessi siciliani han-no tradito la Sicilia (ma questo è tutt’altro discorso), risulta a me evidente che la quasi totalità dei poeti ha tradito la preventiva e stimolante determinazione delle pur variabili regole, adagiandosi comodamente tra gli assunti (e per la poesia, pericolosamente autolesivi) di quella giabbenprima esistente prosa lirica alla quale avrebbero potuto e dovuto orgogliosamente appartenere, ostinatamente continuando, però, a rivendicare non l’affiliazione lirica, bensì quella poetica.Ecco che, ancora, a me basterà convincere l’universo dell’esistenza di questa contraddizione in termini, non rimettendo in discussione gli sconquassi linguistici dell’ultimo secolo (o poco più) nello stesso modo in cui quegli stessi sconquassi hanno messo in discussione la metrica, non paventando la nascita (come per la famosa ‘merda’) di una ‘poesia di artista’, ma, molto più semplicemente, tentando di ricondurti alla tua naturale e splendida condizione di lirica prosa. E se non sarò certo io il tenutario del diritto di tale trasferimento, ho, irremisibilmenti, il dovere di pronunciarmi, non foss’altro che per la consapevolezza di appartenere ad una razza ormai in via di estinzione, sia per convincimento, sia per condizione di cinquantenne scapolo dalla nascita, con il tempo e la voglia di polemizzare e con l’esigenza del non accontentarsi (ripu- Per un manifesto letterario: Lettera aperta ad un versoscioltista di Giovanni Piazza È quantomeno singolare che dopo vari e più o meno illustri pareri sostenenti che la poesia contemporanea non esiste, dopo la constatazione di Giorgio Barberi Squarotti che rileva il dissolvimento della neoavanguardia (a parte Sanguineti), dopo lo svolgersi, annualmente, di oltre duemila concorsi letterari (molti dei quali premiano tutto ed il contrario di tutto), dopo la assoluta libertà di espressione propugnata dalla quasi totalità di spiriti liberi od incapaci, la poesia senta la necessità di auto-decalogarsi. Ma è veramente percorribile la strada indicata da Claudia Manuela Turco, nel momento in cui asserisce che «ognuno deve giudicare se stesso e cercare di valutare onestamente la propria opera»? Ma non era meglio, allora, lasciare la “arida” metrica a far da spartiacque? Ma se mi è permesso provocare molto più provocatoriamente, l’equivoco di fondo che rende soggettiva e fuorviante la pretesa di essere “osservatori privilegiati” grazie ai quali “l’umanità risplenderà” e che non riesce a spiegare l’esistenza di opere d’arte di altissimo livello di matti od assassini (il cui scopo non era certamente la illuminazione) è proprio quello di soggettivare la regola invece che il gradimento. Il rimaiolo, attribuendo la qualifica di poesia al risultato di una tecnica oggettiva e preventivamente regolata, definisce tale qualunque opera utilizzi un parametro metrico. Conseguentemente, coesisterà (semplificando al massimo e scusandomi col grande Micio non erotico) poesia elementare (filastrocca), ridicola e demenzialpopolare (la mia), arguta (Trilussa), morale (Meli), erotica (Tempio), maestosamente lirica (Dante) etc.etc. Il versosciòltico, invece, definisce poesia la capacità di comunicare e provocare emozioni, rendendo così soggettivi i parametri della questione. Mapperò, ecco che in questo modo, tagliando fuori dal filone poetico le filastrocche e quant’altro non fraseggia con lo spirito e non tocca le alte sfere, non solo rischia di tagliar fuori poeti del calibro di Trilussa, Martoglio, Belli e via dicendo, ma soprattutto definisce poesia solo ciò che riesce a permearlo, dando così agli impermeabili (o diversamente permeabili) la possibilità di dissentire ed a se stesso la certezza di non poter definir tali nemmanco le sue, perché sarà preventivamente costretto ad indagarne i contenuti (questa si, questa no, questa non lo so…). Praticamente, sarebbe come sostenere che un quadro è un quadro solo quando rappresenta la Madonna... Di conseguenza, da questo mio provocatorio punto di svista, considerando ragionevole il dubbio che induce a credere che il proliferar di poeti a verso sciolto sia determinato dalla estrema facilità di tale uso, potrebbe, una possibile via di salvezza, essere quella di regolamentare non i poeti, ma questa imperversante anarchia poetica? E come farlo, se non uccidendo il verso sciolto? Il mio Io rimaiolo ne sarebbe felice e lo ha pure sostenuto pubblicamente nella sottoriportata Lettera ad un versosciolto mai nato. «Caro versosciolto, rieccomi a te nello splendore della mia donchisciottesca incoscienza, a combattere i giganteschi mulini a vento eccitati dalle infinite schiere dei proseliti tuoi. So bene di scontrarmi contro l’universo intero, e mai un sanciopanzico amico intervenne a tergere la mia essudatio non petita (scusa il francesismo). Eppure, rieccomi ostinatamente a sostenere questa impari lotta e, manco fossi interista, a sopportare l’insopportàbile. Eppure, rieccomi a parlar di metrica e rima ad un sito d’avanguardia, praticamente a parlar di corda in casa 10 diando, così, uno dei pochissimi espedienti che ancora gli consentirebbero di godere). E allora addio, versosciolto, perché se cotanto trapasso non dovesse verificarsi, anche se metricamente non esisti, sicuramente un giorno, nell’ultimo, disperato tentativo di salvare la Poesia, qualcuno ti ucciderà ed uno stupido rimaiolo come il sottoscritto dedicherà alla tua mai prematura scomparsa un ridicolo, metrico, sonetto.Io, che certamente danzerò sulla tua tomba, ho già scolpito l’epitaffio: Qui giace il verso sciolto che s’attivò sittanto sin da elevare al canto puranco il bla-bla-bla giammentre la Poesia tornata al suo costrutto ma disdegnando il lutto di estinta libertà dinnanzi al freddo avello sconvolta dall’eccesso sibila al compromesso: ‘Vigliacco, ben ti sta!’. Caro versosciolto, rieccomi a te nello splendore della mia donchisciottesca incoscienza a combattere i giganteschi mulini a vento eccitati dalle infinite schiere dei proseliti tuoi». 3° Tratta con amore e rettitudine i buoni (ce ne sono), i deboli, le persone di buona volontà, sicuro che, ingannando un figlio della luce, inganni te stesso. 4° Vai così anche controcorrente pur di trovarti nel cammino che porta verso la luce. 5° Accompàgnati in tale strada ai cultori del bello, del vero e del buono, perché sappi che non c’è autentico artista che non porti a Dio. 6° Allora scoprirai la poesia delle cose nella commozione dell’esistenza, nel singulto di ciò che finisce, nella gioia di ciò che nasce. 7° Coltiva l’arte, ogni forma d’arte, purché serva a farti crescere, a farti sentire più uomo. 8° Tue aspirazioni siano l’infinito, l’eterno, l’incorruttibile. 9° Luce, luce, luce: nella vita e nell’arte contro le tenebre di ogni tipo, la miseria, l’ingiustizia, l’errore. 10° Soprattutto: fatti guidare dall’amore, perché Dio è Amore; e mai dalla Paura che, figlia dell’ansia, è cattiva consigliera e toglie pace e serenità. Tra le altre riflessioni: «Ognuno di noi ha un modo tutto suo di esprimere le proprie idee e i propri pensieri, sia che si tratti della forma che del contenuto. È questa la caratteristica che ci distingue l’uno dall’altro, ci differenzia, ci fa “riconoscere”, ci colloca in uno dei tanti filoni letterari o artistici che si sono avvicendati, e continuano ad avvicendarsi nel tempo. C’è chi usa un linguaggio semplice, chi un linguaggio elaborato, chi avvince con la parola e l’idea e si lascia leggere con piacere e interesse, chi stanca e suscita indifferenza e, anziché rilassare, rende pesante e noiosa la lettura. Qualunque sia l’argomento, se valido e coerente, se espresso con chiarezza e trasparenza, non produce rigetto ma viene assimilato e trasformato in concetti utili e formativi» (Antonia Izzi Rufo). «La poesia circolerà sempre oltre come una linfa rigeneratrice tra gli uomini, partecipando delle forze positive del mondo. Si farà messaggera di speranza, di amicizia, di ideali, temporeggiando le energie negative. La scrittura poetica, attività più segreta dello spirito e più intima dell’anima prenderà coscienza della sua realtà e del suo valore planetario. I Poeti di ogni nazionalità scambieranno le loro opere ed anche le loro idee. Sarà come oggi un forum, una forza di pensiero, di tolleranza, di chiaroveggenza. Ogni artista si arricchirà dell’apporto delle molteplici sensibilità, e dell’eredità delle differenti civiltà. Così come lo definiva Rimbaud, il poeta diventerà “Veggente” non “per la sregolatezza di tutti i sensi”, ma per la strutturazione della conoscenza, per l’accesso ad altre verità, per l’apertura del suo spirito e del suo cuore ad una dimensione nuova di coscienza... Finché il cuore di un poeta sarà sospeso ad una lacrima di luce che trema a bordo di un ciglio, all’ombra di una duna che esalta il deserto, all’effimero incanto dell’alba, all’abbaglio infinito di un sguardo, rimane il rifugio consacrato della più alta espressione dell’anima, creatore dell’opera incomparabile che collega, attraverso la fragilità intermedia del Segno, lo spirito allo spirito. Arte maggiore, l’espressione poetica resterà nei secoli a venire, il testimone della nostra capacità di trascendenza per perpetuare il fiamma iniziale d’amore, da cui siamo sgorgati (Denise BERNHARDT, trad. di Angelo Manitta). Tentativo di Decalogo di Silvio Craviotto: 1. Arte e pensiero puro o filosofia hanno una comune matrice nel linguaggio creativo; 2. Per linguaggio creativo intendiamo ogni forma di comunicazione mediante immagini o concetti; 3. L’arte è linguaggio metaforico, il pensiero linguaggio logico; 4. La prima si manifesta grazie all’intuizione, il secondo attraverso il ragionamento; 5. Ancora: la prima è sintesi tra esperienza sensibile (osservazione, ascolto) e idea, il secondo è analisi delle strutture mentali o trascendentali, in quanto immanenti al pensiero e non derivanti dall’esperienza sensibile; 6. L’arte sottende una visione, o la ricerca di essa nel senso forte di “schauen” e “anschauen” (vedere coscientemente) ed ha le caratteristiche del “dono” (Gabe); 7. Il pensiero filosofico, in quanto analisi critica del linguaggio, è “compito” (Aufgabe), è costruzione e riflessione; 8. Nell’arte prevale la misteriosa scintilla detta creatività suscitatrice di emozioni e di affetti; nel pensiero prevale la ricerca di obiettività (distacco). Non va trascurato il fatto che nell’arte è presente sempre l’elemento ludico, che sarebbe di disturbo nel mondo del pensiero (J.Huizinga); 9. Nessun artista moderno può rinunciare ai corroboranti ed insieme critici ed autocritici stimoli che a lui fornisce il pensiero; 10 - La filosofia non può ignorare i problemi che ad essa pone l’inevitabile riflessione sull’arte (l’Estetica è da sempre un capitolo della Filosofìa) e sulla scienza. L’epistemologia, da Kant in poi, è studio del rapporto che intercorre tra la mente umana e la realtà nei processi di percezione e conoscenza. Conclusione (provvisoria). Decalogo di Baldassare Turco: 1° Rispondi agli schiaffi della vita schiaffeggiandola con il tuo buon senso, con cui potrai guardare tutto dall’alto con distacco. 2° Per non cadere nel gioco del numero infinito di stolti (ignoranti-prepotenti-commedianti) serviti del tuo buon gusto. Chi ha proposte serie da fare sull’ipotesi di un manifesto letterario, le invii al Convivio per essere valutate. 11 22). Nella XIX dinastia si può parlare di “emancipazione femminile” in quanto la donna pretende di godere di una libertà pari a quella dell’uomo. Esiste anche il divorzio, e forse già dall’Antico regno. Si nota questo fatto nei monumenti funerari, in quanto sono citati i figli di uno stesso padre e di diverse madri. La donna divorziata di solito ritorna dai genitori o va a vivere con il fratello o con un figlio. I figli devono sempre mantenere i propri genitori, altrimenti perdono l’eredità. Come viene condannato l’adulterio? La moglie in questo caso viene ripudiata, ma se presta giuramento di non colpevolezza, ella non subisce la punizione del marito. Se il marito è colpevole di adulterio, la moglie ha diritto al divorzio e ad un indennizzo. Secondo quanto raccontato da Diodoro Siculo l’adulterio è comunque una colpa grave e viene punito con l’evirazione nel caso dell’uomo e con l’ablazione del naso nel caso della donna. La concezione della donna nell’antico Egitto di Bruna Tamburrini Nell’antico Egitto la donna comincia ad assumere più importanza a partire dalla III dinastia, mentre prima vigeva una mentalità patriarcale. Con la III dinastia i membri della famiglia stessa acquisiscono entità giuridica e diventano indipendenti È in questo periodo che la donna egizia diventa una “persona”, titolare di diritti e proprietaria di beni. Marito e moglie sono su un piano di completa uguaglianza e ambedue possiedono terre e sono economicamente indipendenti. «Nelle tombe della III e IV dinastia, infatti, la moglie, generalmente, ma non sempre, figura in piedi, o seduta vicino a lui, nella tomba del marito, gli cinge con un braccio le spalle: è la sua uguale in dignità come in diritto» (Leospo e Tosi, La donna nell’antico Egitto, pag.10). Anche le statue spesso sono di uguale grandezza. La famiglia è, comunque, un’entità importante, l’uomo si risposa diverse volte, anche perché la mortalità femminile, a causa del parto, è alta. Il concetto di “famiglia” è ovviamente diverso da quello odierno e non segue regole tassative e precostituite. A volte, per meglio esprimere l’uguaglianza tra i coniugi, essi si chiamano con “fratello “ e “sorella”, comportamento diffuso soprattutto tra i giovani nelle liriche d’amore (1540-1080 a. C). Ne citiamo alcune: «Mi alzerò in casa / e fingerò di essere malato. / Verranno i miei vicini a visitarmi / e verrà mia sorella con loro: Essa renderà inutile il medico / poiché essa conosce il mio male!» (Papiro Harris, r.II, 9,11). E ancora: «L’unica, la sorella, la senza pari ,/ più bella di tutte, / ecco, guardala, / è come la stella fulgente / all’inizio di una bella annata. / Lei, che splende di perfezione, / brillante di pelle, / con gli occhi belli quando guardano, / con le labbra dolci quando parlano, / essa non ha una parola di troppo; / lei che alto ha il collo, / il petto luminoso, / con capelli di veri lapislazzuli, / le cui braccia superano (lo splendore) dell’oro, / le cui dita sono come boccioli di loto, / lei, che ha languide le reni, / strette le anche, / le cui gambe difendono la bellezza, / il cui passo è pieno di nobiltà / quando posa i piedi sul suolo, / con il suo abbraccio mi prende il cuore. / Essa fa che la nuca di ogni uomo / si volga per guardarla. / Ognuno che essa abbraccia è felice, / si sente il primo degli uomini. / Quando esce dalla sua casa, / è come si vedesse “colei che è unica” (cioè Hathor). Vi sono molte liriche su questi argomenti ed è sempre un’esaltazione lirica della bellezza femminile. Esistono due tipi di matrimonio: patrilocale e matrilocale. Il primo significa che la sposa va nella casa del marito, mentre il secondo il contrario. C’è da dire che è molto diffuso il matrimonio matrilocale. Vi sono anche coppie “irregolari”, vale a dire donne che convivono con i loro compagni, ma dai documenti risulta che tali coppie vengono per lo più considerate “legali” negli archivi di stato civile. Può anche succedere, comunque, che non vengano registrati matrimoni e nascite, ma questo solo se i due possiedono beni di modesta entità. Sono identificate come donne di facili costumi le straniere “siriane” e “babilonesi”. Riporto una citazione abbastanza significativa: «Guardati dalla donna straniera che nessuno conosce in città, non guardare quando segue il suo compagno, non conoscerla carnalmente: è un’acqua profonda, non se ne conosce il limite» (op.cit. Nell’Egitto la figura della regina assume un aspetto davvero importante. A tal proposito ricordiamo la bella Nefertari, moglie di Ramesse II, la più bella, la regina amata da tutti. Nefertari ha onori divini ed ha un posto di primo piano a fianco della figura del marito. Evidenziando Nefertari non vuol dire che le altre regine abbiano un posto inferiore: è il concetto stesso della regina che si pone sullo stesso piano del faraone. Ricordiamo anche Nefertiti, Tausert (anche se quest’ultima regna solo per breve tempo). Nefertiti (della XVIII dinastia) e Nefertari (della XIX dinastia) spose rispettivamente di Akhenaten e di Ramesse II sono ricordate in numerose biografie. Il nome stesso di Nefertiti è un epiteto della dea Hathor e significa «la bella (dea) che è venuta», vale a dire rientrata dalla Nubia in Egitto. Nefertari, (grande sposa reale) è, forse, di origine texana. Di questa bellissima regina, morta giovane a circa quaranta anni, è stata scoperta da poco (da Schiapparelli) la tomba nella valle delle Regine. Dalle immagini dei dipinti sulle pareti si comprende la sua bellezza ed appare anche molto evidente l’amore che il popolo nutre per lei. Per la prima volta l’immagine del viso, sempre visto di profilo, appare con le ombre che ne danno un gradevole senso di plasticità. Dal viso si comprende anche il sentimento della regina, che viene, per esempio, rappresentata in lacrime davanti al libro dei morti. 12 e per superare tutti gli ostacoli. Questa raccolta è stata riordinata all’inizio della XIII dinastia ad opera degli scribi. Le formule sono di varia lunghezza e sono arricchite da disegni e miniature. Tutto questo perché gli Egiziani credono nella vita ultraterrena e, nelle pitture sulle pareti della Valle delle regine, questo concetto è espresso molto bene. Al momento della sua morte il defunto è già considerato “giustificato”, cioè assolto e identificato con Osiri per diventare poi come Ra, il dio del sole. Il libro dei morti si divide in quattro sezioni: La prima comprende i capitoli 1-16 ed è collegata con il corteo funebre e con l’arrivo del defunto nel regno dei morti, al quale potrà accedere grazie a specifiche formule; La seconda comprende i capitoli 17-63 e viene rappresentata la rigenerazione del defunto. Egli ritrova la sua individualità, vince i nemici infernali ed acquisisce più poteri simili agli dei per diventare così inattaccabile; La terza comprende i capitoli 64-129 e rappresenta la trasfigurazione del defunto dopo la sua rigenerazione; egli effettua le dodici trasformazioni per apparire nel cielo orientale come RA. «Egli prende il posto sulla barca solare per attraversare il cielo, conosce le anime dei luoghi santi (Ermopoli, Eliopoli, Buto e Ieraconpoli) e rientra nella necropoli per presentarsi nel tribunale di Osiri, dove viene giudicato secondo il rituale descritto nel celebre capitolo 125, detto della “psicostasia” o ”pesatura” dell’anima» (Leblanc, Siliotti, Nefertari, pag.121); La quarta comprende i capitoli 130-162 e tratta del viaggio del morto nel mondo sotterraneo. Egli deve dimostrare di conoscere i nomi degli dei, di Osiri, delle sette porte, dei 21 cancelli che hanno accesso al suo regno ecc. Gli ultimi capitoli sono dedicati alla protezione del defunto. In una pittura rinvenuta nella tomba di Nefertari, la regina è raffigurata davanti ad una pagina del libro dei morti. Nella tomba l’immagine è abbastanza estesa sulla stessa parete e si nota anche Nefertari mentre si rivolge ai tre geni della prima porta del regno di Osiri (cap. 144 del regno dei morti): Sekhed-her-‘asha-iru, seguito dal guardiano Tekatmeseger e da un essere femminile con la testa di ippopotamo che impugna due coltelli e da un’altra figura femminile (si tratta del terzo genio detto “l’annunciatore”) senza caratteristiche specifiche. Il testo riferito alla regina dice: «La grande sposa del re, Signora delle due Terre, Sovrana dell’Alto e del basso Egitto, Nefertari Mery-en-Mut, giustificata presso Osiri, il dio grande, protezione, vita, durata, vigore, salute, ogni gioia, ogni difesa, come Ra». In tutta l’immagine della parete sono riportati i passi del capitolo 144 del libro dei morti riguardanti le porte del regno di Osiri, come specifica l’inizio dell’iscrizione: «Formula per conoscere le porte del regno di Osiri nell’occidente e degli dei che risiedono nei loro recessi (i geni delle porte): come uno si potrebbe rivolgere a loro nel mondo terreno. Parole dette dall’Osiri, la Grande Sposa del Re, Signora delle due terre, Nefertari Mery-en-Mut, giustificata presso Osiri» (Op. cit. pag. 154). I lavori delle donne nel periodo egiziano Nel nuovo regno le donne sono dedite anche ad attività religiose femminili: gruppi di prefiche, infatti, accompagnano i funerali, le sacerdotesse curano la continuità del culto degli antenati attraverso le offerte e si presentano alla pari con il ruolo maschile. Quindi la donna assume anche un ruolo di primo piano nel clero e nella corte. L’educazione che viene impartita alla femmina è uguale a quella dei maschi, non solo, ma la donna può anche accedere all’istruzione e alle specializzazioni. Non a caso ricordiamo Seshat, la dea della scrittura. Le donne scriba, dopo un periodo di apprendistato, possono intraprendere la carriera civile o religiosa. Le nutrici d’altronde devono possedere un’istruzione adeguata per allevare ed educare le figlie del re. Le donne possono assurgere anche ai rami della chirurgia e della medicina. Nel Medio Regno decadono le cariche amministrative femminili per lasciare spazio alla “donna signora della casa”. Nel Nuovo Regno l’amministrazione statale è affidata al personale maschile. Vi sono, comunque, donne d’affari, donne proprietarie di terreni. Nelle pitture parietali vediamo le donne intente anche ai lavori agricoli, come per esempio la ventilazione, la stacciatura e pulitura del grano, la raccolta del lino, la vendemmia e il lavoro nei frutteti. Le donne possono partecipare anche alle battute di caccia, di solito sono nobili che accompagnano il marito, o anche ancelle che aiutano gli uomini a sistemare la preda. Possono essere anche venditrici nei mercati, sono anche intente alla filatura e alla tessitura. Nel corso dei banchetti vi è la presenza femminile alla pari con quella dell’uomo. Può essere interessante sapere che gli uomini nelle pitture sono rappresentati intenti nel lavoro di lavandai! Pare che vi siano anche le donne “serve” che aiutano le nobili, lavorano nella cucina, sono donne che appartengono alla comunità, sono sotto il controllo del re anche se i loro salari (pagati generalmente con grano) sono inferiori agli operai normali. A volte anche le donne libere effettuano lavori a pagamento presso altri lavoratori e questo generalmente succede per pagare dei debiti. C’è da precisare, comunque, che non conosciamo molto sulla situazione delle donne-serve, pare anzi che in certi periodi esse non siano per niente esistite. Note bibliografiche Nefertari e il libro dei morti LEBLANC C. SILIOTTI A., Nefertari e la Valle delle regine, Giunti, Prato, 2002. LEOSPO E. TOSI M., La donna nell’antico Egitto, Giunti, Prato, 1997 KOLPAKTCHY G. (a cura), “Il libro dei morti degli antichi egiziani, ed. Atanòr, Roma,1984 Il Libro dei morti raccoglie, nell’antico Egitto, tutte le formule magiche, redatte con scrittura geroglifica corsiva su papiri arrotolati, formule che hanno la funzione di fornire al defunto gli strumenti per aprire le porte dell’aldilà 13 rità numerose richieste che arrivavano da ogni dove, non gli permisero di sviluppare fino in fondo questo suo affrancamento dal modello rossiniano e di arrivare a un suo definitivo e chiaramente identificativo linguaggio personale. Giovanni Pacini e la sua Maria, regina d’Inghilterra di Giovanni Tavčar Giovanni Pacini nacque a Catania l’11 febbraio 1792, nove anni prima del suo celebre concittadino Vincenzo Bellini. Al contrario di Bellini, però, la sua nascita a Catania è frutto del puro caso. La sua famiglia era di origini toscane e la loro presenza a Catania, in quell’anno 1792, era dovuta esclusivamente a ragioni di lavoro. Pacini era, infatti, figlio di cantanti lirici. Il padre, Luigi, era uno dei più noti bassi-buffi dell’epoca. Fu, tra l’altro, il primo interprete del Turco in Italia di Rossini. Tutta la famiglia aveva d’altronde innate predisposizioni musicali. Non si può non menzionare l’anno 1832, nel quale Pacini rappresentò la sua opera Il convitato di pietra, una versione del Don Giovanni. Suo padre cantò nel ruolo di Ficcanaso (Leporello), il fratello Francesco la parte tenorile di Don Giovanni, la sorella Claudia la parte sopranile di Zerlina, sua cognata Rosa la parte di contralto di Donna Anna. Praticamente tutta la famiglia. Da notare poi, che la seconda moglie di Pacini, Marietta Albini, cantò nella prima della sua opera Il corsaro, andata in scena a Roma nel 1831. La produzione operistica di Pacini fu enorme, superiore a quella di Donizetti. Scrisse, infatti, ben 89 opere, oltre a numerose cantate, oratori e musiche strumentali varie. Il suo esordio avvenne a Milano, con la farsa Annetta e Lucindo nel 1813, a soli 21 anni. Da quel momento la sua attività (tranne un periodo di silenzio di cinque anni) si prolungò per un lungo cinquantennio. Fece una rapida carriera, propiziata da un buon mestiere e soprattutto da una spontanea vena melodica. Fu certamente uno dei più stimati compositori operistici del periodo rossiniano. Le sue opere giovanili, come quelle di tutti i compositori di quel periodo, nascono sotto l’influsso del genio rossiniano; sono composte di getto, senza badare troppo a dilemmi stilistici e approfondimenti culturali. Più che cercare uno stile proprio, un linguaggio personale, si rifanno a schemi generali, già collaudati e codificati, stampati nel gusto del pubblico. Fu l’unico compositore importante di quel periodo a non avere esperienze internazionali. Nel 1825, a ventinove anni, egli scrisse l’opera L’ultimo giorno di Pompei che rappresenta una pietra miliare nella produzione del suo primo periodo, rappresentata il 19 novembre a Teatro San Carlo di Napoli. «Il maggiore successo del mio primo periodo artistico» scrive lo stesso Pacini nella sue Memorie. Per la prima volta egli tenta, coscientemente, di affrancarsi dal modello rossiniano, con il chiaro desiderio di una maggiore comunicazione emotiva. L’impianto generale è ancora rossiniano, imperniato su grandi scene d’insieme, ma la geometria fraseologica viene infranta a beneficio di una più fedele aderenza dell’invenzione musicale all’espressività della parola. Il grande successo di questa sua produzione procurò all’ancora giovane compositore un contratto novennale come direttore dei teatri musicali napoletani, succedendo nella prestigiosa carica proprio al grande Rossini. Pacini lascia con quest’opera una testimonianza creativa di esemplare efficacia e apre l’era del “dopo Rossini”. Un vero punto di riferimento per tutti i musicisti della prima metà dell’Ottocento. L’abilità compositiva, che gli consentiva di soddisfare con puntuale regola- Egli, da persona intelligente, se ne rese pienamente conto. La sua produzione subì infatti negli anni Trenta (causa i continui dubbi che lo attanagliavano) un vistoso rallentamento, fino a interrompersi del tutto nel 1834. Egli aveva deciso, coscientemente, che aveva bisogno di un periodo di pausa, poiché era arrivato, dal punto di vista artistico, ad un punto morto, dal quale non sapeva uscire. Onestamente riconobbe: «Bellini, il divino Bellini, e Donizetti, mi avevano sorpassato!». Nel periodo di silenzio compositivo, che durò ben cinque anni (dal 1834 al 1839), egli assimilò le novità e le esperienze di Bellini e di Donizetti. Giunse così, finalmente, anche la sua ora. Certo, fu facilitato in questo anche dalle circostanze in cui versava il teatro d’opera a quel tempo. Rossini si era ritirato dalle scene e viveva nel suo dorato esilio in Francia, Bellini era morto a Parigi nel 1834, Donizetti si era a sua volta trasferito a Parigi, Verdi era appena agli inizi della sua carriera. Ma, bisogna specificarlo bene, non fu solo la fortuna ad aiutarlo, ma anche e soprattutto i suoi meriti personali. Egli abbandonò definitivamente lo stile imitativo del-le sue precedenti produzioni, l’opera cosiddetta di agilità (nel suo cosiddetto primo periodo, che va dal 1813 al 1834, egli compose una cinquantina d’opere), e si cimentò in un linguaggio nuovo che non ripudiava i valori della melodia e del lirismo, ma che tentava di aderire più fedelmente al testo drammatico, affidandosi a un’armonia più accurata e a un’orchestrazione più rifinita e di maggiore spessore. I personaggi risultano più approfonditi e meglio caratterizzati, più fedelmente delineati. La sua coscienza musicale scopre il valore della concisione, della frase breve, dell’inciso drammatico. Il suo grande momento coincide con la prima parte del suo secondo periodo artistico, più precisamente con il decennio che va dal 1839 al 1849, nel quale si situa la buona decina di opere che rappresentano il vertice della sua produzione. Saffo è la prima opera composta da Pacini dopo il periodo di maturazione che si era volontariamente imposto; ed è subito capolavoro. La prima andò in scena al Teatro San Carlo di Napoli il 29 novembre del 1840. Fu un vero trionfo. Critica e pubblico furono unanimi nel giudizio. L’opera è ritagliata sul modello greco della tragedia, cioè sull’impianto corale. I pezzi solistici sono solo tre in tutta 14 cellona, con franco successo. Poi, per sette anni, non se ne sentì più parlare. Nel 1852 fu approntata una ripresa a Palermo, che ottenne un buon successo, senza rinnovare però i furori delle rappresentazioni originarie. Un po’ per colpa dei cantanti, un po’ perché c’era ormai già Verdi a spadroneggiare sulle scene italiane; il gusto del pubblico stava cambiando. Seguì, nel gennaio 1853, un allestimento a Messina, con scarsi risultati. In ottobre si ebbe una ripresa a Lisbona, con risultati altrettanto deboli e fiacchi. L’ultima conosciuta ripresa dell’Ottocento ebbe luogo a Malta, durante la stagione di Carnevale, nel 1858. Poi fu l’oblio totale. Sembra quasi incredibile che un’opera del genere, che tanti furori aveva suscitato agli inizi, sia stata del tutto dimenticata tanto presto. Morto Bellini, Pacini aveva saputo offrire ai siciliani un omaggio che più belliniano non poteva essere; un omaggio con tutti i crismi del capolavoro. Per prima cosa bisogna specificare che Pacini aveva una grande conoscenza delle voci, dei loro registri e delle loro possibilità tecniche. Egli compose sempre le parti vocali per determinati solisti, scelti già in precedenza, adeguando la scrittura alle loro peculiarità e possibilità tecniche. Ciò andava a suo vantaggio, se gli interpreti rimanevano sempre gli stessi o se venivano sostituti con altri di pari o similari caratteristiche, ma diventava uno svantaggio se subentravano cantanti con caratteristiche diverse. Pezzi che risultavano fantastici, cantati dai cantanti ai quali le parti erano state confezionate su misura, risultavano poi addirittura disastrosi se interpretati da cantanti meno dotati e con differenti caratteristiche vocali e timbriche. E il discorso vale anche per questa Maria, Regina d’Inghilterra. Finché a cantarla furono gli interpreti originali, il successo fu pieno, addirittura strepitoso, quando i cantanti cambiarono, cambiarono anche le sorti dell’opera. Un altro grande pregio di Pacini è l’abilità di dare a ogni opera una particolare coloritura musicale che la distingue da tutte le altre. Qualcuno ha detto che Bellini è il compositore di un solo stile, stile che ha però in ogni singola opera una coloritura diversa, che la rende unica e immediatamente riconoscibile e che solo Pacini ha saputo fare la stessa cosa. Importante è poi l’uso del recitativo, che non è mai accompagnato da secchi accordi convenzionali, ma da una serie di brevi incisi melodici, in costante trasformazione, la cui lezione risale inequivocabilmente al giovane e sfortunato compositore calabrese, morto prematuramente nel 1813, a soli ventidue anni, Nicola Manfroce. Maria, Regina d’Inghilterra ce ne offre un esempio lampante, specialmente nell’ultima scena, dove non si riesce a trovare un solo recitativo scritto alla vecchia maniera. Se il Donizetti maturo e il giovane Verdi si industriavano a cercare sempre nuove e più ardite forme di espressione, Pacini era tutto intento a mantenere il nuovo, che il suo talento gli suggeriva, nelle collaudate forme tradizionali, che egli era ben attento a non manomettere e a non incrinare. Egli non fu quindi, per sua stessa natura artistica, un rivoluzionario nella storia della musica; ciò ha sicuramente contribuito al suo ingiusto oblio. In questa Maria, Regina d’Inghilterra egli comunque raggiunge, grazie anche al librettista Tarantini, un’unità formale e drammatica di raro pregio. I tre atti si susseguono in un crescendo che raggiunge nel meraviglioso finale il suo apice. Finale degno del miglior Donizetti drammatico. Ci sono poi brani dell’opera (per esempio la cavatina di Maria, nel secondo atto, In quel volto accolse il cielo) che Bellini avrebbe sottoscritto a l’opera. Il resto è composto da brani corali e da brani d’insieme. L’atmosfera è piena di corrusca passionalità, intervallata da brani di espansiva e dolente liricità, scritti nel migliore stile belliniano e donizettiano. Bellini e Donizetti avrebbero potuto, infatti, sottoscrivere senza remore molte di queste pagine fortemente ispirate e piene di potenza creativa. Ma se lo stile può richiamare alla mente Bellini o Donizetti, l’ispirazione di Pacini è del tutto genuina e originale e crea un’opera di ammirevole fattura, degna di ritornare nel grande repertorio. Veniamo ora all’opera per la quale è sorto questo breve saggio: Maria, Regina d’Inghilterra L’opera gli era stata commissionata dal Teatro Carolino di Palermo per la stagione di Carnevale del 1843, sulla scia dei grandi successi di Saffo (1840) e della Fidanzata corsa (1842). Essendo impegnato a Napoli proprio nella messa in scena di quest’ultima, egli poté partire per Palermo appena a metà dicembre del 1842. Nel frattempo però l’andata in scena della nuova opera che gli era stata commissionata era stata, di comune accordo, anticipata al 12 gennaio 1843, giorno del compleanno del re Ferdinando I. Pacini aveva commissionato il lavoro, tratto dal dramma di Victor Hugo, Maria Tudor, al noto librettista Salvatore Cammarano, che tanti buoni libretti aveva approntato per Donizetti. Cammarano era stato d’altronde il librettista della sua opera più nota Saffo e anche della Fidanzata corsa che si stava rappresentando a Napoli proprio in quel periodo. Il Cammarano rifiutò però inaspettatamente l’incarico, con la giustificazione che era oberato di lavoro. Subentrò perciò Leopoldo Tarantini, di professione avvocato, che nel 1875 fu anche deputato nel Parlamento Italiano e che tracciò un ottimo libretto. Pacini arrivò a Palermo senza aver ancora scritto una nota. Ma la sua grande bravura tecnica e il tanto mestiere, uniti a una genuina ispirazione, gli consentirono di comporre l’opera in ventitré giorni. Ottima risultò la compagnia di canto, composta dalle soprano Teresa Merli Clerici e Antonietta Rainieri-Marini, dal tenore russo Nicola Ivanoff e dal baritono Antonio Superchi. La stagione in corso a Palermo non andava per niente bene. Si confidava perciò molto nella nuova opera di Pacini per risollevarne le sorti. La prima di Maria, Regina d’Inghilterra andò in scena l’undici febbraio 1843. Fu un grande e indiscusso trionfo, un delirio senza precedenti. Gli applausi mareggiavano in dense e intervallanti ondate e non davano cenno di voler finire. Il duetto del primo atto (Ivanoff -Superchi) fu bissato due volte, la stessa cosa accade con il duetto del secondo atto (Marini-Clerici); il coro del terzo atto fu ripetuto per ben tre volte. Pacini (secondo il cronista del giornale Salvator Rosa) fu chiamato alla ribalta per ben 42 volte (!!!), con entusiastiche esclamazioni e con insistenti lanci di fiori. Alla fine dello spettacolo un numeroso gruppo di ammiratori lo accompagnò alla sua residenza al lume delle torce. Il giorno dopo, alla seconda recita, il grandioso successo si ripeté. Pacini fu nuovamente accompagnato a casa da un nugolo di persone, questa volta al suono di una banda. Seguirono numerose entusiastiche repliche. Nell’ottobre dello stesso anno l’opera fu ripresa al Teatro Carignano di Torino, con grande successo. In dicembre apparve alla Scala (Pacini approntò per le recite scaligere delle modifiche e rinforzò l’orchestrazione) con tiepido successo. Le rappresentazioni di Genova, nel febbraio del 1834, incorsero invece in un semifiasco. L’opera sparì pian piano dalle scene italiane. Nell’ottobre del 1845 fu rappresentata a Bar15 occhi chiusi. E con Bellini egli aveva il dono della frase melodica assoluta. Ma proprio questa affinità con Bellini non gli permise di diventare il suo successore, ma solo un suo imitatore. La storia, con parziale giudizio, ha innalzato Bellini nell’olimpo della musica e ha fatto precipitare Pacini nell’oblio. Ha preservato (giustamente) il genio assoluto e ha scartato (ingiustamente) il grande talento. Per fortuna, negli ultimi anni, alcune opere di Pacini sono state felicemente riesumate: Saffo, Medea, L’ultimo giorno di Pompei e l’opera di cui stiamo parlando Maria, Regina d’Inghilterra. Probabilmente altre seguiranno, traendo così Pacini dal lungo sonno dell’oblio. Queste riesumazioni permettono al nostro tempo riscoperte, recuperi e eventuali ridimensionamenti del giudizio della storia (che non è poi altro che il giudizio degli uomini). Questo perché permette alla nostra sensibilità odierna di giudicare con il nostro sentire e non con il sentire degli ascoltatori dell’epoca. Il nostro ascoltare odierno, corroborato dall’ampia conoscenza della musica di quel tempo, dei suoi stili, del suo evolversi, ci permette di immetterci nella sensibilità degli ascoltatori di allora, senza però alcun genere di condizionamento, come potevano essere allora le mode, i gusti, le disposizioni d’animo, gli accadimenti di scena, le simpatie o le antipatie, le rivalità, le partigianerie, le situazioni politiche... Tante opere, dimenticate per contingenze del tutto estranee al loro intrinseco valore musicale, vengono giustamente riportate alla luce (partiture autografe permettendo), dando loro l’occasione di rientrare in repertorio Che sia poi la cecità degli enti lirici odierni a vanificare spesso questo genere di operazioni è tutto un altro genere di discorso. Anche il giudizio odierno di questa Maria, Regina d’Inghilterra risulta, dopo un attento e ripetuto ascolto, altamente positivo, e giustifica l’entusiasmo degli ascoltatori di allora, modificando così l’ingiusta sentenza della storia musicale che l’ha relegata d’ufficio nel dimenticatoio. Da notare che questa pregevole riesumazione non si è potuta basare sul manoscritto originale, a tutt’oggi introvabile, ma su una copia non manoscritta esistente al Conservatorio di Milano, che riporta solo le parti orchestrali. Le parti vocali, invece, sono state recuperate dall’edizione stampata dall’editore Lucca nel 1843, l’anno dell’andata in scena della prima rappresentazione a Palermo. Sappiamo che Pacini fece per l’edizione milanese delle modifiche, rielaborando certe scene e soprattutto irrobustendo la strumentazione. Ci sono pertanto molte discordanze tra le parti vocali della prima palermitana e le parti orchestrali dell’allestimento milanese. La versione che possiamo pertanto oggi ascoltare non è la partitura originale palermitana, ma, per quanto possibile, la versione scaligera. Per un giudizio definitivo su Pacini compositore bisognerebbe però avere il conforto dell’ascolto diretto di altre sue composizioni, perché solo l’esecuzione dal vivo riesce a formare un giudizio attendibile e veritiero. Finora i giudizi dei critici odierni sono basati solo sulle cronache d’epoca. Giudizi certamente non sempre attendibili. Partiture ritenute, infatti, scialbe e deboli alla sola lettura, si sono poi rivelate vive e funzionanti sulle scene, per le quali sono nate. La grande produzione di Pacini e i relativi ritrovamenti degli autografi originali sono però oggi più un ostacolo che un vantaggio per la riscoperta e la rivalutazione delle sue opere. Giovanni Pacini morì a Pescia il 6 dicembre del 1867, all’età di 75 anni, sopravvivendo al suo celebre concittadino e modello, Vincenzo Bellini, di ben 33 anni. Carmine Manzi: Sessantacinque anni dal primo libro Sessantacinque anni di un’attiva e feconda presenza nel campo letterario, dal 1938 in cui vide la luce la sua prima raccolta di poesie “Parve faville” e Luigi Bellotti salutò nella prefazione come un poeta da essere premiato per il suo giovanile slancio generoso e da essere seguito, nella sua ascesa per luminose alte mete. Carmine Manzi iniziò allora il suo lungo percorso e conta ora al suo attivo 127 e più pubblicazioni, tra opere di saggistica, di narrativa e di poesia, come è testimonianza in un libretto curato per l’occasione dal comune di Mercato S. Severino, e che è corredato da numerosi testi critici di personalità del mondo universitario ed accademico. Nel salone di Rappresentanza della Provincia di Salerno il 5 marzo, per ricordare la data, si sono dati convegno poeti ed artisti, autorità ed estimatori di Carmine Manzi per dare vita ad una importante serata, voluta dall’Amministrazione Comunale di Mercato S. Severino e molto abilmente condotta da Monica Matano, inviata su RAIUNO de “La vita in diretta”. A fare gli onori di casa l’assessore provinciale Gerardo Giordano che, a nome del presidente Alfonso Andria, ha consegnato una Targa della Provincia a Carmine Manzi «sensibile poeta, prestigioso intellettuale e animatore instancabile della vita culturale salernitana». Sono poi intevenuti il vicesindaco di Salerno, Carmine Mastalia, ed il Sindaco, Giovanni Romano, che ha tratteggiato con fervide parole la figura dell’illustre concittadino ed ha proceduto alla consegna di una medaglia d’oro da parte del Comune e delle tre medaglie inviate dalle massime Autorità dello Stato: i1 Presidente della Repubblica, i Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati. Il Convegno, che è stato introdotto da una brillante relazione del Prof. Alberto Granese dell’Università di Salerno, con una disamina a largo raggio dell’attività letteraria e poetica di Carmine Manzi, è stato arricchito dalle pregevoli testimonianze di alcuni suoi biografi, autori di interessanti monografie sulla sua vita e sulla sua opera, da Carlo Bianco, ad Antonio Crecchia, a Maria Teresa Epifani Furno, a Luigi Pumpo, che si sono soffermati sui temi umani e sociali della sua conoscenza, anche come promotore di arte e di cultura, nella sua qualità di presidente fondatore dell’Accademia di Paestum e della rivista “Fiorisce un cenacolo”, anch’essa al suo 65° anno di vita. Le conclusioni della grande serata sono state tratte con sensibilità e raffinata eleganza di stile da Giovanna Scarsi, la conosciuta e fervida animatrice dei “ martedì letterari”, che ha terminato con la dizione di una tra le più belle poesie di Carmine Manzi, “Canzone dei giorni d’infanzia”. Ed è stato lo stesso Autore a calare il sipario con accenti vibranti, ma pervasi di intima e giustificata commozione. 16 Sono tanti per la verità, in quanto poi costituiscono, sul quadrante della memoria, momenti magici della mia vita. Ricordo Elio Morlino, poeta lucano; Giovanni Coiro, scrittore di vaglia nonché alto funzionario nel Ministero della Pubblica Istruzione; Nino Muccioli, palermitano. Sono voci scomparse, ma che rivivono nel cammino dei miei giorni. Con quali scrittori e poeti ha avuto, o ha, un particolare rapporto di amicizia e di stima? Ho avuto rapporti di amicizia e di stima con tantissimi autori con i quali ho intrattenuto anche una forma di collaborazione impegnata con testi critici sulle loro opere e che mi appresto a pubblicare, anche se sono già stati ospitati in quotidiani e periodici sotto l’etichetta di “Occasioni di lettura”. Domenico Rea, Fabio Tombari, Alberto Bevilacqua, Nino Palumbo, Michele Prisco, Lanfranco Orsini, Bruno Lucrezi, Francesco Bruno... sono soltanto alcuni degli autori che hanno rappresentato nella mia vita ed attività artistica istanti magici di confronto e di amicizia; di tutti conservo, nella mia biblioteca, una documentazione epistolare che mi sta particolarmente a cuore. Lei si dedica anche alle ricerche storiche. In tutta confidenza, quali sono state le “novita” che è riuscito a portare alla luce oppure a riscoprire con successo? Per quanto attiene le ricerche storiche, ricordo che qui a Striano, dove vivo da tanti anni, mi sono impegnato in una ricerca territoriale di ottima cultura, e la scoperta del territorio mi ha consentito di scoprire una civiltà che mi stava dinanzi e che ignoravo. Lo testimoniano le mie pubblicazioni “Dossier Striano”, “C’erano una volta a Striano”, “Uomini e mestieri antichi”, “Il colore del sacro”... Esiste una qualche differenza tra la poesia al femminile e la poesia al maschile? La poesia è poesia per tutti. Tra quella maschile e quella femminile esiste soltanto una differenza che si fonda sulle motivazioni psicologiche ed espressive. Da che cosa trae spunto per le sue elaborazioni poetiche e narrative? È la vita che nei suoi risvolti mi offre spunto per tutte le mie elaborazioni. Anche la memoria gioca in questo appiglio per spunti e riflessioni. Ha un suo metro per valutare gli altri poeti e scrittori, visto che ha curato diverse antologie di autori contemporanei? No, assolutamente. Sono le loro pagine, nella essenzialità del discorso, che mi spingono a giudizi vari. Poi, dedicarsi alla poesia, oggi costituisce ricercarsi uno spazio lontano dalle tante brutture che ci assediano. Con la poesia respiriamo aria pulita. Un’ultima cosa: ha avuto delle difficoltà ad aprirsi uno spiraglio nel contesto della letteratura italiana vivendo ed operando nel Sud? Devo confessare che le difficoltà non mi sono mancate. Ho avuto modo di scrivere su molti quotidiani, sulla loro terza pagina, ma su quelli del Sud mai. Ho scritto sul “Corriere del Giorno" di Taranto, “La Nuova Sardegna” di Sassari, “Voce Adriatica” di Ancona, “La Provincia” di Como, “Il Cittadino” di Lodi, “Messaggero Veneto” di Udine... Ma sui quotidiani di casa nostra non c’è stato mai spazio per le mie pagine. Luigi Pumpo si confessa tra memoria e lettura creativa di Fulvio Castellani Le occasioni per conoscere ed entrare nel mondo letterario di Luigi Pumpo non sono mancate nel corso degli anni. Attivo com’è, è sempre riuscito a coinvolgere ed a proporsi nel segno di un modernismo non di facciata, ma ricco di sfumature innovative pur senza perdere mai di vista la storia, la tradizione, la memoria, la cultura classica. Non si contano ormai le opere che Luigi Pumpo ha messo assieme, e sono opere che spaziano dalla poesia alla saggistica, dalla ricerca storica alla narrativa, all’indagine... Ho già avuto modo di evidenziare, alcuni anni or sono, come ogni sua tappa equivalga ad una sosta e ad un dialogo. Le sue riflessioni sulla vita si accompagnano, infatti, alle sue accensioni liriche, al suo impegno nella focalizzazione di realtà non soltanto culturali. Il poeta, il saggista, il narratore, il giornalista si fondono, dunque, in maniera esemplare dando vita ad un personaggio che, grazie anche alla sua attività di operatore culturale (ha fondato e dirige la rivista “Presenza” ed è il trascinatore instancabile dei Premi Letterari “Primavera Strianese” e “Città di Pompei”), è diventato un prezioso punto di riferimento per quanti si avvicinano alla letteratura e vivono la letteratura in maniera non effimera. Dire oltre di Luigi Pumpo non mi sembra necessario; per questo preferisco dare spazio a quanto, con l’abitudinaria disponibilità, ha inteso rispondere alle domande che, non senza curiosità ed interesse, ho inteso rivolgergli. Cos’è cambiato nel corso degli anni a livello di cultura e di poesia dopo il suo esordio sulle pagine della rivista “Pensiero ed Arte” del lontano 1945? Da allora molto è cambiato. In quegli anni, che erano poi gli anni dell’immediato dopoguerra, si avvertiva il bisogno di ricerca degli ideali, il bisogno di una ripresa immediata e le pubblicazioni che nascevano avevano una spinta di libertà nuova e di fratellanza vera. E “Pensiero ed Arte”, che nacque a Bari diretta da Gino Spinelli de’ Santelena, costituì una autentica bandiera ed una palestra di grande libertà. Si sente più poeta o più scrittore e critico? A dire il vero mi sento più scrittore e critico che poeta. I motivi? Mi ritrovo di più nella scrittura e nella saggistica, tanto è vero che le pagine di poesia per me costituiscono momenti di rilassamento spirituale ed ideale. Quale direttore della rivista “Presenza” ed organizzatore di concorsi letterari ha avuto modo di leggere e di conoscere molti scrittori e poeti. Quali sono gli autori che maggiormente l’hanno impressionato? In tutti questi anni di direzione del periodico “Presenza” e promotore di tantissime manifestazioni, confesso che gli autori bravi sono stati pochissimi e tra questi ricordo quelli poi che hanno conquistato un loro spazio nell’area delle poesia contemporanea: Pasquale Martiniello, Giò Ferri, Selim Tietto, Francesco Mannoni, Fryda Rota, Giuseppe Vetromile, Giuseppe Iuliano. Ha un poeta che le sta particolarmente a cuore e che ritiene un suo maestro? 17 sempre la prodigiosa caratteristica del vate, unita ad una cultura oceanica. La vanità distoglie l’arciere di Dio dalla modestia. Ma si riprende gettando con sprezzo, ai piedi di Diocleziano, il simulacro della dea della Vittoria. «Soffocatelo» - grida Cesare - «sotto le collane, sotto i fiori, sotto la musica, l’oro, sotto i desideri, sotto i rimpianti, perché egli è bello». Le martyre de Saint Sébastien, opera teatrale di Gabriele D’Annunzio di Silvana Andrenacci Dal prologo del dramma: «O buona, buona gente, ora udite suoni e canti. Noi vi preghiamo per Santo Dionigi e per l’Orifiamma. Poi mirate quanto cielo azzurro, quanto sangue rosso, nel nome di Dio, per il rimedio dell’anima vostra! Amen». Il martirio di San Sebastiano di Gabriele d’Annunzio, il cui allestimento parigino con Ida Rubistein del 1911 durò più di cinque ore, alla “Produzione teatro scientifico” ne bastarono due. Fra l’altro, Sebastiano-Albertazzi ha recitato le parole e Toni Candeloro ha espresso gestualmente quanto egli diceva. Una riduzione dell’opera, oserei dire un rifacimento, che ha avuto successo. Ma vediamo la Passio del santo che appare come un giovane ardito e piacevole, caro all’Imperatore Diocleziano e al Papa Caio. E se il sovrano dava all’ufficiale il principato della prima schiera, il Papa gli attribuiva il titolo di difensore della chiesa. Perciò Sebastiano, cavaliere romano, frequentava il palazzo imperiale e nello stesso tempo, confortava e sosteneva i confessori nelle carceri e i martiri nei supplizi. Venne ucciso a frecciate sul Palatino dai suoi arcieri (288), sepolto nel cimitero ad Catacumbas dove è sorta la chiesa a lui dedicata fuori le Mura, nell’area dell’Appia. Il vate volle sublimare un personaggio rappresentato da innumerevoli artisti, quindi di grande popolarità. Il dramma, nato in lingua francese, tradotto in altri idiomi, ebbe strepitoso successo. Rappresentata più volte in Italia, composta di cinque mansioni e del prologo, la tragedia costituisce esempio di teatro totale. Musica, poesia, canto, danza, scenografia, coreografia, mitologia, donano all’opera efficienza e bellezza. Nel primo atto il protagonista esorta una famiglia intera a non rinnegare la fede. La madre dolorosa che istigava amorevolmente i figli a mentire, per salvarsi, viene coinvolta con le figliole da affrontare il martirio tanto è grande l’amore alla Croce. L’intervento di Sebastiano suscita sorpresa, indignazione, dolore, tra liberti, magistrati, carnefici, arcieri. Il santo esclude il giudizio dell’imperatore; pronto a morire, resta con le parti d’armatura del busto e delle braccia sulla nudità delle gambe. Il roggio della brace imporpora il portico; avvengono miracoli: il cieco vede, il sordo sente. Sebastiano entra nel parallelogramma del fuoco; i primi movimenti della danza estatica alleggeriscono i suoi piedi. Tutto il cielo canta! Verificatosi il supplizio incruento, il miracolato insieme ai catecumeni, agli schiavi, demolisce gli idoli nei luoghi accessibili ma è bloccato presso stanze segrete. Osserva le orribili streghe che rappresentano i pianeti e le loro diaboliche arti. Mentre tutti chiedono a gran voce un segno da Sebastiano, entra in scena la donna febbricitante che si rivela custode della sacra sindone nascosta nell’insanabile piaga del patto. Questa seconda mansione del dramma è toccante per la rivisitazione della Passione e Morte di nostro signore. È sottinteso che il ritrovamento della sindone ebbe altre origini, ma la fiction esige attenzione spasmodica. Ormai il Santo è davanti all’Augusto. L’imperatore gli offre onori, templi, gloria (D’Annunzio lo immagina innamorato del giovane come lo fu Adriano dell’adolescente di Bitinia). L’invenzione è stata Pietro Vannucci, detto il Perugino, San Sebastiano Per il giovane che resta indenne, l’imperatore ordina: «Traetelo al bosco di Apollo, legatelo al tronco del lauro più bello, poi, contro il suo corpo nudo, scoccate tutte le vostre fecce sin che non vi restino le faretre e il suo corpo non sia pari all’istrice selvaggio». I fedelissimi del santo vogliono aiutarlo a fuggire. L’inflessibile risponde: «Dai profondi, dai profondi io chiamo il vostro amore, eletti! Ogni freccia è per la salvezza, perché io possa rivivere. Non tremate, non piangete, ma siate ebbri, siate ebbri di sangue come nelle battaglie. Mirate da presso. Io sono il segno. Dai profondi, dai profondi io chiamo il vostro terribile amore!». La gola gli viene trafitta; il corpo è straziato dalle frecce tirate da persone afflitte, disperate, le braccia tenute dai legami si stirano. Le donne, piangenti, nel ricevere il cadavere fra le loro braccia, vedono improvvisamente svanire le frecce come raggi nelle ferite. Ora è il tronco del lauro di Apollo che appare irto di tutto quel ferro! L’ultima e breve mansione è il Paradiso. L’anima dell’arciere di Dio canta: «Io vengo io salgo ho le ali / tutto è bianco. Il mio sangue è la manna / che imbiancò il deserto di Sin…». Il mistero termina con le lodi al Signore. Bibbia, Vangeli apocrifi, Vangeli autentici, Atti degli apostoli, mitologia fenicia e grecoromana sono le fonti presso cui attinse ispirazione il vate. Claude Debussy seppe intonare con voce profonda e calda il misticismo ardente e appassionato di Gabriele D’Annunzio, grande conoscitore di musica. L’insigne maestro musicò per il drammaturgo: cori siriaci, cori delle Vergini, dei giovani, dei Martiri, degli Angeli, dei Serafini, Cori e semicori, Canto dei gemelli Martiri, della maga fenissa, di Erigone, della donna febbricitante e dell’arciere di Dio, della Madonna (vox celestis) ultimo il coro: chorus sanctorum omnium. Leggendo il testo scritto in lingua francese, si possono apprezzare di più tecnica e musicalità dei versi, euritmia di assonanze dei raffinati vocaboli. Bisogna riconoscere all’immaginifico la propria inimitabile regia dell’opera teatrale, il cui infiammato misticismo si fonde armoniosamente con l’eros delle danze. 18 drico dell’arte di Frenna e non fa che convalidare sentimenti di stima - nella sua conferma universale - che ogni ammiratore prova di fronte a così alti capolavori, unici nella loro armoniosa ingenuità e pudica sobrietà. Carmine Manzi, I mosaici di Michele Frenna di Antonia Izzi Rufo Mi perdoni Carmine Manzi se, prima che sui suoi scritti, il mio sguardo s’è posato - incantato - sui magici mosaici di Michele Frenna (Edizioni Gutemberg, Salerno). Dalle straordinarie, splendide immagini ho visto emergere caldi colori d’autunno, sobri ed armonici, e ho avuto la sensazione di trovarmi nel boschetto di querce e pioppi e platani nel quale mi reco ogni giorno, in questo periodo, per gioire dei giochi di luci ed ombre del sole tra i rami per immergermi nella policroma bellezza delle foglie che, nella gamma variegata del giallo, del verde, del marrone e del rosso, sfoggiano il più bel vestito dell’anno. Michele Frenna accanto ad una sua opera Il personaggio Michele Frenna ci viene presentato nella sua autenticità, nella sua elevata statura artistica, nella sua umanità, nella sua innata e profonda religiosità, nel suo desiderio di socializzare, nel suo amore di pace e di partecipazione alla sofferenza del prossimo, nei suoi costanti tuffi panici nella natura per riceverne ispirazione e goderne intimamente, nel suo frequente ritorno alla primavera «della sua terra siciliana - al suo mare di sogno, alla sua lussureggiante vegetazione mediterranea, ai suoi antichi e pregevoli ruderi - per risvegliare il canto della giovinezza della vita». Madonna di Lourdes, (mosaico, cm 30x40, 1988) Un senso di pace e di tranquillità mi invade a contatto con la natura, e di piacere intimo che mi predispone all’ottimismo e mi mostra la vita nel suo aspetto di maggiore positività. Un’uguale percezione di distensione e benessere psicologico ho avvertito al cospetto dei quadri di Michele Frenna, anche se da alcune figure traspare una velata malinconia... Quanto grande, nella sua delicata semplicità, l’arte del Nostro! Avere qualcuno dei suoi mosaici sulle pareti di casa, rallegrerebbe la vista, darebbe serenità allo spirito. Chiedo scusa della digressione. Chiaro ed esauriente il saggio. Solo un poeta poteva recepire con tanta sensibilità l’interiore bellezza emanata dalle opere di Frenna. Ed è ciò che Carmine Manzi è riuscito a comunicarci con il suo linguaggio poetico che combacia perfettamente con il lirismo del nostro eccellente mosaicista. Manzi penetra nel profondo, interpreta il significato simbolico delle immagini e riesce a intuire l’intima fusione che conduce la mano dell’artista a trasferire, a incidere, sui tasselli, la voce della sua anima... Da vero intenditore, e competente anche di tecniche specifiche, egli trasmette al lettore le sue impressioni e le sue emozioni, si soffonde in descrizioni particolareggiate sull’afflato poetico e polie- Pensieri nostalgici (mosaico, cm 30x40) Diversi i critici menzionati: Mario Domenico Storaro che accosta l’opera di Frenna alla grande tradizione bizantina, Salvo Santucci che si sofferma sui «colori netti e marcati dei tasselli», Orazio Tanelli che lo definisce «mosaicista della pittura ellenica che fonde l’antico e al moderno», Mazzetti che auspica la creazione di scuole di mosaico per i giovani, Vincenzo Rossi, il biografo più attento, Carolina Citrigno, Rosa Masone Beltrame e altri. Così chiude il testo Manzi: «Modello da imitare, Frenna non ama ripetersi, non si ripete». 19 bel po’, senza distinguere niente di significativo, poi, di colpo, vidi i geroglifici, piccoli, precisi, perfetti. Era accaduto come in quell’illusione ottica in cui si vede il disegno di una coppa, bianca su sfondo nero, poi si guardano i contorni neri e si distinguono due visi di profilo; in quel momento la coppa scompare e si vedono solo i profili. Incisi e riempiti con una vernice marrone, la stessa che disegna tutti i contorni dello scarabeo, ci sono un’anfora, un cesto, una pian- ta di papiro, una linea ondulata, segno dell’acqua, una civetta e uno scettro di Seth. Fu un momento di emozione intensa: una scoperta. Nessuno lo aveva visto, tanto meno l’orefice che l’aveva barbaramente nascosto quasi del tutto. A quel punto sorse la curiosità di saperne di più sulla provenienza dell’oggetto. Scoprimmo così che l’amico di mio marito non era lui il venditore, che, pur esperto del settore, non aveva visto il geroglifico e non aveva pensato che potesse essere autentico, altrimenti non lo avrebbe lasciato comprare a noi, e non a quel prezzo. Il possessore era un ometto vestito di scuro, con una borsa di pelle nera sotto al braccio, che quella sera, e solo quella sera, gli aveva chiesto di potersi appoggiare alla sua bancarella. Nessuno lo conosceva, nemmeno mio marito, e nessuno lo vide più. Un orefice che smontò il ciondolo e lo rifece in modo più consono all’oggetto, disse allora che la lavorazione, artigianale, sembrava roba degli anni venti. Ho cominciato a studiare per cercare di decifrare la scritta. Ho imparato tanto, ma non ne sono venuta a capo. Qualche anno fa ho parlato personalmente con il Dott. Zahi Hawass, il soprintendente alle antichità di Giza, quando venne per una conferenza a Civitanova Marche, ma o non me lo ha voluto leggere o Zahi Hawass legge il geroglifico tanto quanto lo leggo io. Poi il caso ha voluto che un ex collega, appassionato di archeologia Picena, conoscesse la Dott.ssa Capriotti, egittologa a Roma. L’ho incontrata ad una conferenza sui Piceni e i loro rapporti con il mondo medio-orientale. La Dottoressa ha escluso che sia un falso e ha letto senza ombra di dubbio: Khonsu em uas, cioè Khonsu di Tebe. Khonsu è il dio bambino della triade tebana; Amon, il padre, Mut, la madre e Khonsu il figlio, dio lunare, con una falce di luna sulla testa, connesso con la guarigione. Una storia, messa per iscritto solo nel IV secolo A.C. (stele conservata al Louvre), quindi contemporanea al mondo Piceno (VI – II a.C.) racconta che una sua statua fu chiesta e portata al re di Bakhtar per curare una grave malattia della principessa Betresh, sorella della moglie del Faraone, Neferure. Questi riferimenti fanno pensare a Ramesse II che sposò una principessa hittita, la quale prese il nome egizio di Maneferure, indicando quindi una fama diffusa anche fuori dai confini dell’Egitto e ben radicata nella tradizione. Lo scarabeo non è di terracotta come mi sembrava, ma d’avorio, che prende quel colore e quella consistenza quando è molto, molto antico. In mancanza di un contesto archeologico, non si saprà mai la provenienza né l’età di quest’oggetto. A giudicare dalla perfezione della fattura, possiedo, legalmente, uno scarabeo risalente almeno al Nuovo Regno, cioè grossomodo prima del 1000 a.C. Le tombe italiche, non solo picene, sono piene di oggetti del genere; dalla tomba di una signora tarantina ne provengono addirittura 58, ma la maggior parte è di fattura più rozza e di materiali meno pregiati, fatti dai Greci per l’esportazione. Erano ritenuti amuleti particolarmente adatti ai fanciulli. È bello pensare che era già antico quando fu portato qui; un dio bambino per un bambino, e per la speranza di una guarigione. Uno scarabeo egiziano di Enerina Iacopini Quell’anno, 1984, avevo contagiato tutta la famiglia con la mia passione per l’antico Egitto. Di ritorno dalla Val d’Aosta li avevo convinti a fare una capatina a Torino per visitare il Museo Egizio. I miei figli, allora piuttosto piccoli, mi seguivano e pendevano dalle mie labbra mentre con passione spiegavo come potevo quel che stavano vedendo. Le statue della dea Sekhmet, con la testa di leone, la celebre e bellissima statua di Ramesse II, i geroglifici dei nomi reali incisi sui basamenti, il papiro e il giglio d’acqua intrecciati a simbolizzare l’unione del Basso e dell’Alto Egitto, e poi la tomba di Kha, il modellino in legno della tomba di Nefertari, i modellini delle barche e mille altri oggetti, tutti a loro modo, straordinari. Visto il successo, addirittura mi si erano accodati dei turisti nel sentirmi parlare ai miei figli, convinsi la famiglia a fare un’altra deviazione prima di tornare a casa e passare a Venezia dove quell’anno si teneva a Palazzo Ducale una mostra di oggetti provenienti dal Museo del Cairo intitolata “I Tesori dei Faraoni”. Pezzi scelti, tutti molto noti, eccezionali davvero. Fra tutti, quello che maggiormente colpì mio marito, che s’interessava per la prima volta a queste “egizianerie”, fu un anello d’oro con sopra, al posto del castone, uno scarabeo girevole, anepigrafo, luogo di rinvenimento ignoto, databile probabilmente al Nuovo Regno, come diceva la targhetta esplicativa sul vetro della teca. Sempre nell’estate di quell’anno si tenne per la prima volta a Fermo, la mia città, un mercatino serale dell’antiquariato, divenuto poi negli anni il mercatino delle cianfrusaglie. Lo girammo in lungo e in largo con la curiosità che si ha per le cose nuove; trovai libri fuori edizione, curiosai fra profumi orientali e tazzine sbeccate, poi mi stancai e decisi che per quell’anno poteva bastare. Un giovedì sera di agosto dormivo da un’ora buona quando mio marito, di ritorno dal mercatino, mi svegliò e, tutto elettrizzato, mi disse: «Alzati, vestiti! Devi venire in piazza, subito. Ho visto uno scarabeo bellissimo, come quello di Venezia. Sotto c’è qualcosa inciso, ma devi venirlo a vedere tu. È inserito in un ciondolo d’oro. Credo che possa essere autentico ma, prima di comprarlo, voglio che lo veda tu». Alzarmi, vestirmi, uscire a quell’ora era impensabile, al di sopra delle mie forze. Per che cosa, poi? La solita patacca, figuriamoci! Ce ne sono milioni di falsi, pensai, di tutti i tipi, non ultimi i famosi scarabei, falsi ottocenteschi, dati da mangiare ai tacchini perché acquistassero una certa patina d’antico. Ma mio marito insistette e, più per farlo contento che per altro, ci andai. Insonnolita e frastornata dall’alzataccia, mi trovai ad esaminare sotto la scarsa luce della piazza un ciondolo a goccia su cui era incastonato a mo’ di anello uno scarabeo grande quanto l’unghia del mio indice, di un anonimo color beige, ben fatto, questo si. Sulla parte inferiore, parzialmente coperti dal cerchio d’oro che lo reggeva, si vedevano dei segni, non ben distinguibili. L’amico di mio marito, che aveva una bancarella di oggetti vari e disparati, insistette nel dire che era un affare, che dopotutto avremmo pagato quasi soltanto il peso dell’oro. Vista l’ora, il sonno, l’insistenza di tutti, mi lasciai convincere all’acquisto. Il giorno dopo, alla luce del sole, cercai di studiare l’oggetto per capire cosa fossero quei segni che si vedevano sul retro. L’osservai girandolo e rigirandolo per un 20 giugno 1099: conquista di Betlemme e Gerusalemme, ove si videro inauditi atti di violenza. Agosto 1099: sconfitta ad Alascona di un esercito proveniente dall’Egitto da parte di Goffredo di Buglione che non volle essere incoronato re di Gerusalemme, caduta, ma prese il titolo di Avvocato dei luoghi santi. Nonostante la vigilanza dei Crociati la Terrasanta, riconquistata dai Cristiani, non poteva ritenersi sicura, benché fossero state create strutture valide di assistenza e di difesa armata dei pellegrini che in grosso numero si muovevano, pur essendo assaliti spesso da bande di briganti. Ecco affacciarsi alla storia Ugo de Payns cavaliere crociato di grande valore che, con altri otto suoi pari, si portò in terrasanta, dove si stabilì vivendo in comunità. Nel 1118 costui fondò l’ordine “Militum Xristi” impegnato a difendere ed assistere i pellegrini fino al sacrificio personale. La loro prima sede fu l’antica moschea di Al-Aqsa sita sulla spianata del tempio di Salomone. Questi cavalieri dopo poco tempo si dettero, per intervento di Papa Clemente III, una regola ispirata a San Bernardo di Chiaravalle (cistercensi) il “doctor mellifluus” della Chiesa, cambiando il loro nome in “cavalieri dei tempio di Gerusalemme”, comunemente chiamati Templari. I Cavalieri Templari: nascita e vita di Aristide Casucci Secondo la tradizione Elena, madre di Costantino che nel 313, con l’editto promulgato a Milano, aveva dato inizio al riconoscimento del Cristianesimo e del relativo culto, fu la prima ad avvertire la necessità di salvaguardare i luoghi sacri siti in Palestina e legati alla vita di Gesù. La sua azione si esplicitò nel favorire pellegrinaggi religiosi di massa ed il suo esempio, nei secoli successivi, fu seguito da altri esponenti del mondo bizantino, come l’imperatrice Eudochia. In sostanza vi fu un grande afflusso di Cristiani da tutto il mondo. Intanto nel VII secolo nacque l’Islamismo che diede una svolta negativa alla tolleranza che la Palestina aveva sempre dimostrato nei confronti dei Cristiani; prima fu imposta una tassa per l’accesso ai luoghi santi, peraltro esosa per i poveri, poi i popoli musulmani, spinti dal fondamentalismo insito nelle loro credenze, iniziarono una politica di ostilità aperta. Ciò causò la nascita di ospizi e ricoveri per iniziativa di alcuni nobili francesi che si servirono di cavalieri tedeschi, italiani oltre che di compatrioti, nonché di monaci benedettini, con lo scopo di mantenere un ordine e difendere, nel contempo, i loro traffici con i musulmani della Palestina. Naturalmente questo tipo di provvedimenti non piacque ai musulmani che iniziarono una specie di persecuzione intenzionale. Era chiaro che il mondo della Cristianità non poteva tollerare uno stato simile, pertanto le sedi papali erano sollecitate continuamente, anche se impotenti, da mezzo mondo. Intanto, fra tutte le vicende che avevano visto gli Arabi nel mediterraneo fare da padroni, si superò l’anno mille. Nel 1054 si ebbe lo scisma d’oriente che indebolì le eventuali azioni congiunte, inoltre il Papato era anche impelagato nelle lotte per le investiture. Nel 1086 Gerusalemme era caduta nelle mani dei Turchi, tanto che Alessio I Comneno, imperatore d’Oriente, si rivolse al Papa per organizzare una guerra santa che liberasse il Santo Sepolcro. Siamo nel 1095 quando Urbano II dal Concilio di Piacenza, seguito nello stesso anno da quello di Clermont, si appellò a tutti i regnanti, facendo presente che era inoltre necessario fermare gli Arabi ed i Turchi che, attraverso il Bosforo, si erano spinti fino in Romania. Il Papa sollecitò interventi affermando di non guardare tanto per il sottile, anche i briganti potevano divenire ottimi soldati! Inoltre occorreva liberare Gerusalemme. La voce fu raccolta da molti e possiamo parlare a questo proposito di due crociate, quella dei pezzenti e quella dei nobili. Per dovere di cronaca diremo che una gran massa di popolani, al seguito di Pietro l’eremita e di tale Gualtieri, senza averi, avventurieri, galeotti a cui era stata concessa la libertà, mercanti e varia umanità, si mise in viaggio col biglietto di sola andata, raggiungendo Costantinopoli già decimati e, passato lo stretto furono annientati dai Turchi. Solo Pietro l’eremita si salvò, grazie ai Bizantini, e alla fine raggiunse la crociata dei nobili, altrimenti preparata e forte di 300.000 uomini agli ordini di Ademaro di Monteil delegato del Papa. I nobili erano rappresentati da Goffredo di Buglione con i fratelli Baldovino ed Eustachio, Ugo di Vermandois Roberto di Normandia, Raimondo di Tolosa, Beomondo d’Altavilla e Tancredi suo nipote. Lo stesso imperatore Alessio I non si aspettava tanto e, temendo che le eventuali conquiste fatte non sarebbero poi rientrate sotto i suoi domini, decise, dopo aspre trattative, di accompagnarli e vettovagliarli oltre lo stretto, pretendendo un giuramento circa i possedimenti occupati. Cronologia delle azioni militari: Maggio 1097: assedio e caduta di Nicea - assedio di Antiochia. 1098: occupazione di Edessa - caduta di Antiochia ad opera di Beomondo, che se ne fece signore unico, con uscita di scena dei Bizantini. 7 L’ordine dei Templari si divideva in tre classi: Cavalieri, Scudieri e Cappellani. I primi erano nobili, i secondi attendevano ai servizi monastici e militari ed i terzi provvedevano all’amministrazione dei Sacramenti. Tutti facevano capo al principe “Magister Militum templi” assistito dal siniscalco, dai consiglieri e dignitari con varie funzioni. Da quel momento in poi l’ordine si attestò in tante parti del mondo ed iniziò, mediante i lasciti, a costituire un onusto patrimonio che consentiva loro di armare e mantenere i frati in terrasanta a difesa dei luoghi sacri. L’ordine si affermò anche in Palestina con casa madre a Gerusalemme, tanto che il successore di Ugo de Payns, Robert de Craon detto “Le Bourghuignon”, riuscì ad ottenere dal Papa Innocenzo III l’assoluta indipendenza da ogni principe o sovrano, rimanendo legato soltanto allo stesso Papa. Nel 1148 il gran maestro adottò una nuova uniforme, che prevedeva un mantello bianco per i cavalieri e bruno per gli scudieri con cucita su un lato la Croce vermiglia a due bracci di disuguale misura, per concessione di Papa Eugenio III. Intanto la storia del regno di Gerusalemme procedeva; Goffredo di Buglione, che non volle assumere la carica di re di Gerusalemme, dopo aver fondato dei nuovi stati di tipo feudale nelle città conquistate, morendo, nel 1100, lasciò il regno al fratello minore Baldovino che, con diverse campagne, vinse le resistenze dei Selgiuchidi (turchi) e dei Fatimiti (egiziani), i quali non andavano d’accordo, occupando un grande territorio, ma non riuscendo a vincere Damasco. Baldovino nel 1118 moriva, senza aver potuto conquistare Damasco, lasciando il trono a Baldovino II che nel 21 1131 lo lasciò a suo genero Folco d’Anjou, mentre compariva sulla scena un capo musulmano di valore, detto Zengi il sanguinario, che nel 1144 rioccupò Edessa difesa dai Templari che spalleggiavano il figlio di Folco e la sua vedova reggente per conto del loro figlio Baldovino III. Alla morte di Zengi, i suoi due figli, Norandino e Ghazi si divisero le città riconquistate dal padre e cominciarono, a loro volta, una campagna di riconquista che determinò la seconda crociata condotta da Corrado III e da Luigi VII di Francia. In questa occasione ben 1300 cavalieri partirono dalla Francia, ma ebbero una triste sorte. Infatti, fra le traversie del viaggio, gli scontri con i Bizantini di Emanuele Comneno e i litigi sulle strategie, se non fosse stato per i Templari di Corrado de Barres, gran maestro dell’ordine, che prestò un’ingente somma, la spedizione sarebbe naufragata totalmente. Comunque la spedizione fu un fallimento, tanto che Norandino ridusse in breve il territorio cristiano alle sole Gerusalemme e Tripoli, difese solo da Baldovino III. Intorno al 1169 si ebbe l’allenza fra Norandino e Saladino, cosa che gettò le basi per la completa disfatta di tutta la cristianità d’oriente. Nel 1174 Saladino assediò Aleppo senza esito per l’intervento di Baldovino IV, valente re ma dal destino segnato per essere lebbroso. Ciò mentre giungeva dall’Alsazia la terza crociata promossa da Filippo d’Alsazia. Gran maestro dei Templari era Oddone di Saint Amand a cui Baldovino regalò un castello detto “Guado di Giacobbe”, nominandolo difensore della Galilea; strategia inutile poiché Saladino seppe come espugnarlo facendo decapitare tutti i Templari arrestati. Lo stesso Saladino, intuita la debolezza del regno di Gerusalemme, operò da quel momento con tutta la ferocia possibile e con strategie geniali si impossessò delle fortezze di San Giovanni D’Acri, Giaffa, Beiruthe Alascona fino a raggiungere Gerusalemme che cadde. Solo i Templari riuscirono a salvare il loro tesoro, mentre i restanti Cristiani furono massacrati o ridotti in schiavitù. L’Europa fremette di sdegno, la perdita dei luoghi santi era un fatto ed il Papa tuonò da Roma. Risposero Filippo Augusto di Francia e Riccardo Cuor di Leone. Nasceva la terza crociata alla quale si aggregò Federico Barbarossa che precedette tutti ed ebbe qualche immediato successo, perendo però banalmente nell’attraversare un fiumiciattolo. La sua armata si dissolse, ma in quella occasione fu fondato a San Giovanni d’Acri, dall’arcivescovo di Magonza, l’ordine teutonico, anch’esso di ordinamento monastico-militare. Giunti in Palestina, Filippo e Riccardo riconquistarono Cipro, venduta poi ai Templari a peso d’oro e assegnata a Guido da Lusignano con la carica di re. Gli stessi Templari brigarono molto per rimettere sul trono di Gerusalemme questo re, senza riuscirvi, perché il marchese Corrado di Monferrato, sposata a sorpresa la sorella della regina Sibilla già morta, si guadagnò la successione al regno. Questa terza crociata si dissolse nel 1191, quando il re di Francia si ritirò dalla scena, lasciando Riccardo d’Inghilterra a contrastare Saladino con l’aiuto dei Templari. Riccardo, avendo ottenuto la resa di San Giovanni d’Acri con la mediazione templare, non ritenne di dover rispettare i termini dell’accordo facendo massacrare la popolazione musulmana. Fu a questo punto che i cavalieri del tempio gli consigliarono di tornarsene in Inghilterra, cosa che il re fece travestendosi ed imbarcandosi su una nave dell’ordine. Dal 1202 al 1204 si ebbe la IV crociata, dove i Templari si impegnavano al ritorno della chiesa di Costantinopoli sotto l’influenza del Papa di Roma. Conclusioni disomogenee di un giovane poeta che memorizza sulla sua breve esistenza dopo la morte di Giuseppe Manitta Era un giorno, un giorno solare e il sole splendeva, ma era un’illusione. Splendeva di un sole non splendido e poi... [lacuna]. Non si può romanzare una vita, ma un’arte, perché l’arte è vita. Ma l’arte è morta. L’arte è morta per paura di se stessa e quindi anche la vita, la mia vita è morte. Sono morto, sono morto! Ma dalla morte rivivo, rivivo nell’esperimento, nell’esperimento di una vita - verso che gli altri non riescono a cogliere. Sono morto prima che nascessi, sono morto nel 1963. Rivivo oggi quando ho capito questa verità, anzi è la mia verità che assolutizzo. Nel 1963 è avvenuta l’ultima catastrofe inevitabile che oggi riviviamo: il Neoavanguardismo. Il processo estetico si è distrutto, la libertà ha distrutto... tutto. Oggi dobbiamo riprendere quel tutto senza dimenticare quella distruzione. Zanzotto, Sanguineti, la Spaziani, la Merici, hanno fatto la loro epoca, non possono più rinnovare niente, niente... I Variatio: Il cielo si affusca, un solo raggio di sole mi colpisce, ferisce la retina e poi, poi... [lacuna]. Arte senza comunicazione non è arte, l’arte è creazione e invenzione, ma la vera poesia, (mi scrisse una volta un vero amico, come Antonio Piromalli) la dà la vita. Non parlo dell’estetismo di D’Annunzio! Il mio processo poetico è iniziato da bambino, sono cresciuto e ho conosciuto: ma ero ancora morto. Non avevo capito che l’arte doveva rivivere. Il mio risultato è la fusione, la sincresi. Leggendo l’ultimo Zanzotto, l’ultimo Luzi (per portare esempi opposti) la poesia va dall’incompresione concettuale - e per certi versi anche fonica - ad una prosaicità che scade nella non-poesia. Non voglio riprendere una distinzione crociana, ma solo giungere alla conclusione che la poesia non si legge per questi due eccessi. Gli altri? I mediocri sono ancora ermetici. Io non sono mediocre, né grande. Io sono io, un giovane che sogna come gli altri, che sogna cose diverse dagli altri. Sono la fusione tra prosa e poesia, sono l’inizio di questa realizzazione. II Variatio: Ho conosciuto una donna, anziana, bassa, gentile. Mi ha accolto, mi ha guidato lasciandomi libero, mi ha voluto bene come un nipote. Un giorno, mi scrisse che ero grande in poesia (ha esagerato) e mi disse di stare attento ai cerberi (i grandi cerberi della letteratura) che sbranano la carne fresca. Forse è vero! Ma Lei è morta davvero, più vivendo nella parola. La mia poesia va dal detto al non detto, questo mi hanno insegnato i grandi del passato. Ho recuperato la metrica (basandomi sul numero di ictus nel verso), non la rima (ristrettissiva direbbe il mio maestro di “linguistica neologica” Gavino Ledda). Ho ripreso il fonosimbolismo di Zanzotto, il plurilinguismo di Sanguineti, l’ermetismo della Spaziani. III Variatio: Un incontro mi è stato di grande importanza, quello con Giorgio Bàrberi Squarotti. Un vecchietto, classe 1929, pregno di cultura letteraria, un mago. La sua parola ha qualcosa di magico, di grande... Oggi scrivo dopo la morte, scrivo dopo la rinascita! Si tratta di memorie e non-memorie, di schemi, di follie, di appunti, di ricordi. Forse si vive di ricordi e di sogni, sono gli unici che leopardianamente ci danno un segno di gioia. Oggi sono vivo e continuerò a vivere. 22 stica. Nel sito del Convivio è possibile trovare tutto ciò che esce sulla rivista omonima, che è diretta dalla giornalista Enza Conti. La rivista, elogiata anche dal noto critico Giorgio Barberi Squarotti, è divenuta una delle più prestigiose riviste italiane nel suo genere. Essa viene diffusa capillarmente, non solo in tutta Italia, ma anche nelle 23 delegazioni estere di Spagna, Francia, Croazia, Albania, Portogallo, Brasile, Algeria, Ciad, Colombia, Argentina, Uruguay, Cuba e Australia. Messina in Arte 2004: poeti e pittori in una grande manifestazione del Convivio di Flavia Maria Vizzari Terranova Domenica 14 Marzo è stata inaugurata, al Salone degli Specchi della Provincia di Messina, la manifestazione artistico-culturale Messina in Arte, con esposizione collettiva di opere pittoriche e poesie, che ha coinvolto la partecipazione di ben 70 artisti messinesi. Grande è stata la gioia e la partecipazione all’incontro, che potrebbe costituire un segno positivo per il risveglio dell’attività artistica nella città. La mostra è stata fruibile fino al 19 Marzo. Essa è stata organizzata dall’Accademia Internazionale Il Convivio di Catania, tramite la delegata per la provincia di Messina, la pittrice Flavia Vizzari, la quale ha introdotto la manifestazione comunicando il proprio entusiasmo profuso nell’organizzare l’incontro, nato sia per il desiderio della pittrice di creare in città una maggiore attenzione per lo sviluppo dell’Arte, oggi in crisi, sia per far maggiormente conoscere l’Accademia il Convivio, data l’importanza che essa riveste, anche attraverso l’omonima rivista, per la qualità e l’approfondimento culturale. Da sinistra: Antonello Irrera, Piera Ierna, Aldo Ciolino, Antonio Gabriele, Corrado Arcella e Nicola Bardetta L’obiettivo a cui oggi punta l’Accademia è anche quello di raggiungere la creazione di un manifesto letterario-artistico; si vuole aprire un ampio dibattito culturale per il progresso ed il confronto degli amanti dell’Arte. L’interesse verso questo raggiungimento va anche all’estero; la rivista argentina diretta da Miguel Martinez Marquez, ha dedicato quattro pagine sull’argomento. Tra le altre attività dell’Accademia c’è anche l’organizzazione di premi letterari e artistici, collettive ed incontri culturali per mirare al progresso umano anche attraverso contatti con prestigiose personalità. Il presidente, prof. Manitta ha proseguito il suo discorso prestando particolare attenzione ai giovani, invitandoli ad amare sempre più l’Arte, perché sono esattamente i giovani, i creatori del futuro. Ringraziando i convenuti ha espresso il pensiero, condiviso da Barberi Squarotti, che il Convivio possa dalla periferia dell’Italia emergere a centro culturale ed artistico. Ha evidenziato le collaborazioni che l’Accademia attua con coloro che hanno esperienza e ricoprono prestigiosi incarichi, dal delegato del Brasile il docente universitario Andityas Soares De Moura, alla scrittrice messinese, da poco scomparsa e molto vicina all’associazione, Maria Pina Natale, ricordandola con commozione all’assemblea. Nel corso della manifestazione hanno espresso i loro pensieri sull’Arte i relatori Serena Calderoni e Antonello Bruno. La prima, appassionata messinese delle bellezze artistiche della sua città, ha parlato dell’Arte in generale, facendo un excursus sulla funzione di essa, nel fruire dei tempi e evidenziandone l’importanza che riveste oggi in una società dove la massificazione del linguaggio e la globalizzazione dei costumi e delle idee rischiano di farci dimenticare ciò che siamo e ciò che sentiamo. Perché l’Arte infatti sottrae la creatività dell’uomo all’appiattimento generale, risvegliando in lui le passioni e la voglia di raccontare e di raccontarsi e rende immortali, perpetrando la propria esistenza nelle singole opere. Parlando di se stesso, il poeta Antonello Bruno ha raccontato agli amici artisti il suo continuo lottare, già Da sinistra: Antonello Bruno, Serena Calderoni, Flavia Vizzari, Angelo Manitta, Luciana Cafiero Doddis La parola poi è passata al presidente del Convivio, prof. Angelo Manitta, che ha parlato dell’Accademia che, sorta alla fine del 2000, ha oggi raggiunto, grazie all’impegno ed alla partecipazione di tutti coloro che ovunque hanno creduto in questa iniziativa, un’espansione ed un consolidamento inaspettati al suo partire. L’Accademia nasce come luogo di confronto tra persone che, rispettando la comunità, abbiano interesse verso tutto ciò che l’uomo produce sotto l’aspetto artistico; essa vuole essere espressione di un intenso impegno culturale e sociale, vuole essere sintesi tra un forte senso etico e una profonda sensibilità verso l’Arte e si propone di contribuire il raggiungimento di un futuro sempre più giusto e vivibile e di giungere alla formazione di uomini che sappiano proporsi quali elementi creativi e propositivi nella società, per educare ai valori della solidarietà ed ai fondamenti sociali della persona e della comunità. L’Accademia il Convivio ha quattro siti telematici, di cui uno ha sede a Palermo, due a Castiglione ed uno a Foggia; in quest’ultimo sito (Mattinata) è possibile, per tutti gli associati dell’Accademia, inserire gratuitamente tre pagine personali (minisito), inerenti alla propria attività arti23 menico, Scolari Papalia Franca, o come scenario a realistici gattini nell’opera di Cavallaro Sebastiano. Altri quadri, che hanno per soggetto l’uomo, sono stati esposti alla mostra collettiva da Arena Caterina, Di Bella Fabio (Fadibe’), Di Bella Massimo (Madibe’), Panzera Maria Pia e rappresentate in opere figurativo-astratte da Gabriele Antonio e Rampello Roberta e altresì è predominante nell’opera naif di Crisafulli Carmen. composizioni di fiori sono il soggetto delle opere di Caterinaki Bruno Irene, Lenzo Maria Grazia, Pizzi Vittorio, Signorino Lina, Silvano Motta e dell’opera astratta di De Salvo Pietro e fiori predominano anche nella composizione di Gravina Umberto; il frutto del fico d’india è stato fonte d’ispirazione per Arcella Corrado e Giannetto Cettina. dall’età di 13 anni, tra la sua maniera di apparire agli altri e la sua sensibilità di animo poetico, sensibilità che avvertiva già, prepotentemente in sé, ponendosi l’interrogativo di quale senso potesse avere per lui scrivere poesie, sentendosi inadatto. Fu un giorno, leggendo uno dei versi di Ungaretti sulla sofferenza degli uomini, che fu colpito da una metafora dirompente “Fratelli, foglia appena nata”. Fu questo verso a far comprendere a Bruno, cosa significava per lui scrivere poesie, e cioè significava sentirsi parte dell’Universo. «Allora non ebbi più paura, tutto mi sembrò naturale, come una foglia appena nata. Il bisogno di scrivere divenne solo l’esigenza di ricercarsi nell’Universo, nella natura. Così semplicemente; di spogliarsi di quella personalità indotta dall’ambiente in cui nasciamo e viviamo ed arrivare ad essere niente per poi fondersi con il tutto». La poetessa Fortunata Cafiero Doddis ha espresso il suo positivo giudizio per l’ottima realizzazione dell’evento culturale. Anche lei messinese, ha a cuore lo sviluppo culturale della città. Da anni si dedica attivamente alla poesia e alla musica. Infatti, oltre ad essere una brava poetessa è anche una brava soprano, ed è tra le prime presenze ad adoperarsi per l’incremento culturale della città, mettendoci cuore e disponibilità oltre alle capacità artistiche. Da sinistra: Alba Terranova, Carmelo Dinaro, Maria Grazia Lenzo, Enrica Giordano, Renata Squillaci, Maria Costa, Benito Commisso, Piera Ierna, Puccio La Fauci, Carmelo Cacciola, Lina Signorino, Irene Caterinaki Bruno Scorci paesaggistici, centri urbani, giostre, antiche mura, sono stati soggetti ispirativi, invece, per le opere di Foti Tullio, Bicchieri Scudery Rosy, Vanfiori Eugenio, Lattene Giacomo per l’acquerello realizzato da Gaudenti Paolo e per la grafica di Velardi Marianna, nonché per l’opera con tecnica a sbalzo di La Versa Maria Antonietta. La Torre Ernesto ha esposto invece, un quadro con tecnica a tempera su strati di fogli. Tra le opere astratte si colloca pure l’opera di Costa Maria. Completano l’esposizione pittorica l’installazione eseguita dal giovane Castano Giuseppe, Osvaldo (un fantoccio realizzato dai ragazzi dell’associazione Spazio Libero Officina Artistica) e l’esposizione delle poesie di coloro che hanno aderito a “Messina in arte”. Le liriche lette dai poeti presenti sono state: “Canto alla luna” di Arena Vittoria; “Signuruzzu” preghiera tratta da “Siciliana” di Gianni Argurio; “L’eternità che mi rimane” di Bernava Manuela; “Tu, terra mia” di Bruno Antonello; “Epoche” di Buccheri Barbara; “17marzo” di Cacciola Carmelo; “Favola” di Cacciotto Francesco; “L’età dei ricordi” di Cafiero Doddis Fortunata; “Primavera” di Caterinaki Bruno Irene; “Ritratto” di Di Blasi Marialuisa; “C’è bisogno d’amore” di Dinaro Sara; “Le ali del pensiero” di Carmela Mazzotta; “Il Tritone e la Sirena” di Murdaca Maria Grazia; “Nozze d’oro” di Orifici Rabe Rosita; “Gabbiani” di Giusy Papale; “Rosita, bene mio” di Rabe Teodoro; “Mi fu madre la terra” di Rossello Melania; “E venne l’ora (le tre età)” di Scolari Papalia Franca; “Inverno” di Squillaci Renata. Da sinistra: Melania Rossello, Maria Pia Panzera, Nathalie Lisitano, Maria Antonietta La Versa e Alba Terranova Molti artisti dunque hanno aderito all’iniziativa e di conseguenza si è avuta una grande partecipazione. Anche le tematiche ispiratrici sono state molteplici. A “Messina in Arte” sono stati esposti i soggetti a tema sacro, del Cristo seduto, crocifisso secondo gli usi dei vetusti romani, di Guglielmo Giovanni e il S. Padre Pio di Bardetta Salvatore. Presente il tema del mare; mare per il quale la città di Messina vanta bellezze naturali. Esso è soggetto predominante nelle opere figurative di Bardetta Nicola, De Francesco Giovanni, Antonino D’Arrigo, Puccio La Fauci, e nell’acquerello di JACOB; è mare, come veduta, rappresentato nelle tele di Brianti Elisabetta; Squillaci Renata, Urzi’ Orazio, mare presente anche nelle composizioni figurative di Aliffi Gaetano e Manazza Lina, oltre che nelle opere astratte di Dinaro Carmelo, Irrera Antonello, Rossello Melania, Serboli Piero. Nature morte sono state esposte da Cacciola Carmelo, Minissale Giuseppe, Vizzari Flavia e Ciolino Aldo. La forza della natura espressa dai poderosi tronchi d’albero è raffigurata nelle tele di Ierna Piera, Scandurra Tiziana, e ancora nella veduta di Ciraolo Pietro e nell’opera astratta di Lisitano Nathalie. Paesaggi di campagna si ammirano nei lavori di Buda Nino (nibu), Giordano Enrica, Raneri Maria e come sfondo alle figure umane in quelli di Piccione Do24 Lavoro collettivo delle Scuole elementari di Motta Camastra. Al secondo posto si è classificato Giuseppe Giannetto, (Castiglione di Sicilia), Giovanni Pizzolo (Gaggi), Classe V elementare (Castiglione di Sicilia). Delle Scuole Medie Motta sono stati premiati per la pittura: Luana Bartucciotto, Caterina Nassi, Marina Caschiglio, Katia Pafumi, Lorena Intelisano, Lorenzo D’amico, Nadia Seminara, Maria Luisa Indiana. Per le Scuole Superiori: Anna Elia del Liceo Psico-pedagogico di Castiglione di Sicilia. Premio Speciale è andato alla Classe IV Elementare di Gaggi; e alle Classi I e II elementare di Castiglione di Sicilia. Motta Camastra: Premio per ragazzi “Carmelo Grassi” di Alessandra Iraci Sabato 24 aprile si è tenuta a Motta Camastra, in provincia di Messina (Italia), all’interno della duecentesca chiesa della Madonna Annunziata, la cerimonia di premiazione del Premio di poesia e pittura per ragazzi “Carmelo Grassi”, sponsorizzato e promosso dall’amministrazione Co-munale di Motta Camastra, guidata dal sindaco Andrea Scarpignato, e organizzato dall’Accademia Internazionale il Convivio, presieduta da Angelo Manitta. La giuria era composta dal Presidente Angelo Manitta, e dai Giurati: Guenda Statella, Anna Coglitore, Andrea Giusa, Maria Grazia Granato. Alla realizzazione della manifestazione, che ha visto oltre 250 partecipanti, hanno collaborato Lucia Monaco e Nino Lo Monaco. La serata è stata introdotta da alcuni canti preparati dal coro “Maria Santissima di Montalto” di Motta Camastra, tutti ragazzi dai sei ai 14 anni, e diretto dal giovanissimo Alessandro Indiana, mentre alla pianola stava Eleonora Dilettoso. Dopo un breve saluto del Sindaco, che ha fatto gli onori di casa, ringraziando gli interventuti, ed ha commemorato la triste evenienza della scomparsa del parroco don Concetto Lo Giudice, avvenuta proprio quella stessa mattina, è intervenuto il presidente dell’Accademia Il Convivio, che ha apprezzato i lavori dei ragazzi, e soprattutto elogiato il loro impegno e l’attenzione dei loro insegnanti. Sono quindi intervenuti l’editore di Patti Armando Siciliano, il presidente dei Lions di Giardini Naxos-Valle Alcantara e infine il critico e poeta Carmelo Aliberti, che ha evidenziato l’impegno del Sud per la cultura e soprattutto il grande percorso che l’Accademia Il Convivio è riuscito a fare nell’arco di pochi anni. Si è passati quindi alla premiazione. Ai primi tre premiati sono stati consegnati una coppa, agli altri classificati un diploma, a tutti i partecipanti diploma di partecipazione. Per la Poesia e la prosa sono stati premiati: Scuole Elementari: Michele Mannino (Motta Camastra). con la poesia Il Cane; Gaetano Viola (Motta Camastra) con la poesia Il cielo; Alessandro Gullo (Motta Camastra) con la poesia Vorrei; Manuela Ucchino (Castiglione di Sicilia). Scuola Media: Marco Messina con la poesia Volare (Giarre); Alunni della classe 2 A della Scuola Media Macherione di Giarre, con il racconto Una goccia di sole; Domenico Trifilò (Gaggi) con C’era una volta un fiume: l’Alcantara, Maria Catena Ucchino, (Castiglione di Sicilia), Ramona Camuglia, (Castiglione di Sicilia) Arianna Currenti (Francavilla di Sicilia), Massimiliano Morano (Catania). Scuole Superiori: Miriam Fedele del Liceo Scientifico di Barcellona P.G. con Un mondo che uccide. Cristina Saja del Liceo Scientifico di Barcellona P.G. con il racconto Il ragazzo della panchina. Elisa Rotella del Liceo Classico di Randazzo, con la poesia Insidie nell’animo. Valentina Sgroi dell’Istituto Agrario di Randazzo. Soraya Puglisi del Liceo Classico di Randazzo. Vanessa Imbrogio – Federica Capizzi dell’Istituto Agrario di Randazzo. Per la sezione disegno e pittura sono stati premiati i lavori collettivi delle Scuole Materna Francavilla di Sic. III sezione. Scuola Materna Motta Camastra, Scuola Materna Francavilla di Sic. I sezione. Scuole Elementari: Fare poesia per questi ragazzi significa esprimersi con un mezzo raffinatissimo che richiede anzitutto un pubblico vicino, che senta il nerbo sotto la lingua di ogni esternazione emotiva, che si scontra con la razionalizzazione dei rapporti sociali, con la scrematura delle emozioni e l’inconoscibilità degli archetipi istintuali. È poesia che mette a nudo, con bruschi scarti temporali, un rapporto col genere umano. I novelli poeti si oppongono, con le armi della poesia, al senso troppo accarezzato di civiltà, a società che rimuovono ciò che sarebbero tabù fosse solo ascoltato, evidenziandone altresì la molteplicità di tali occorrenze. Nessuno dei ragazzi lo ha fatto adottando un linguaggio che si appiattisce nel concetto, né ostentando le proprie conclusioni che, una alla volta, apparirebbero poca cosa. A quest’intelligenza di fondo corrisponde la capacità di coinvolgere chi li ascolta, grazie a movenze prosodiche e richiami di immagine, che piace pensare come “danza”, un danzare della lingua e un coinvolgere gli ascoltatori. Quanto ai piccoli artisti che sono stati in grado di miscidiare con maestria immagini e colori va aggiunto un aspetto non secondario che riguarda le loro personalità, qualcosa che poco ha che vedere con le doti artistiche e intellettuali, ma che si trovano di rado: la disponibilità di porsi nel mondo riaffacciandosi a temi sondati, per poi riacquistarli, in un recupero che fa delle valenze implicative di senso e delle scelte cromatiche di volta in volta utilizzate. Un punto di forza davvero straordinario, e che li rende sicuri e incantevoli maestri di vita. La serata si è conclusa con un breve intervento del Presidente del Consiglio Comunale, Salvatore Maugeri, che ha tratteggiato con viva commozione la figura del parroco, ricordandone l’impegno per la comunità e soprattutto per i giovani. 25 Poesia italiana fulmini e tuoni, vento e pioggia e tu mangi una carota che lei ti regalò prima che tu partissi. E così finì l’amore tra un uomo ed una donna. Come brezza di vento sento le tue mani sulla mia bocca febbrile. Rugiada del cielo a tacermi i tuoi segreti. Non sono mia di Maria Russo Aquilino Il mare Io non mi appartengo, non sono “mia”. Vorrei che tu non avessi dimenticato i giorni felici incendiati dai baci. Poesia di Maria Cristina La Torre Poesia rubata dai gorghi dei giorni chiusi e seghetti sospinti da un ansia del vivere. Poesia celata tra i fogli bianchi sparsi nel dentro di chi sogna di chi aspira a pensieri onesti e semplicemente giusti. Strette nelle mani le mie ore le ho intrecciate coi fili d’oro dell’aurora. Le ho cullate nel seno del mio dolore. Lo ho donate alle stelle per illuminare il mio cammino. Prigioniera dell’amore appartengo a loro... Io non mi appartengo, non sono “mia”. Occhi di pietà di Nino Agnello I tuoi occhi di Antonina Ales Scurti Tronco in sussulto di ragazzo iracheno le braccia recise da granata impazzita lo salvano occhi di pietà ravvicinati in mestizia gli fanno barella mani di tutti i colori la fretta copre il sangue con stracci d’immediato soccorso. Li miravo stasera: due pezzetti di cielo, azzurri, penetranti. Ora è notte, vorrei dormire, ma i tuoi occhi mi scrutano, fendono il buio... Mi giro di lato, mi seguono: lame lampeggianti appiccano il fuoco... Il cuore è stanco, è restio alle fiamme, sarebbe letale un incendio Invoco la tregua con voce di pianto... Stille di lacrime scendono, come pioggia benefica, per un lavacro, foriero di pace, d’afflato fraterno, per un sublime anelito di bene per la gente. Ci aspettano i bimbi, i poveri, l’umanità sofferente! Ti perderò di Angela Genovese Petronio Come fiume che scende al mare io corro verso di te. Per tante strade giungerò ad un’unica via? Follie, follie! Io ti perderò. Fine tra un uomo ed una donna di Simona Trevisani Il blu e l’azzurro sono i colori del cielo e del mare immenso e pieno di misteri. Qui, sulla spiaggia, si svolge la Fine di un amore. Lui dedica a lei la canzone Tu, poi lui e lei così ricordano [il loro incontro e poi ecco un addio mentre tramonta quel grande sole rosso. Poi lui la bacia e dice: «Scusa, ma non succederà più che io ti riveda». Poi sotto tempeste in alto mare, Lilith di Gian Paolo Candido Hai varcato oceani abissali per amore di grazia e giustizia. Quando t’incorpori gli occhi determinano incanti e la bocca cela un gioco sottile. Mai avrei creduto d’incontrarti amata Regina. La tua voce opaca e maligna la cambi per me in dolcezza sensuale. Luce nera e profonda nella mistica rosa che emana il nero splendente in punte di lance che trafiggono [il mio cuore. 26 di Vanni Speranza Se ancora ti dico T’amo è come morire per vivere ancora insieme questo delirio ...ancora. Lo so non parliamone... Per te, per me, fu un giuoco scontato la paura che ha soffocato i giardini del cuore. Ora si sa, è stato il mare che ha diviso le dolenti strade. Figli d’Italia Ai caduti di Nassiriya (Iraq) di Paolo Visconti È finita così… nel tricolore intriso di sangue e di amore, in una lacrima stretta in un pugno di rabbia. Un pugno che presto libererà la sua lacrima, affinché testimoni al mondo il sacrificio e la vittoria di diciannove martiri… figli nostri, figli d’Italia. Pensare all’impensabile?! No!… tra fratelli tanto lontani da sentirsi a casa… nell’abbraccio di un figlio che diverso non è dai propri, nello sguardo di una madre amorevole ed apprensiva quanto la loro. Lacrima, che mai t’asciugherai, consola chi va fiero di te… e, guarda lontano oltre l’odio. È lì… che germogliano gli eroi, è lì, che nasce la speranza di noi tutti… e di un mondo tradito nella pace! Donne del Sud di Mina Antonelli È sera Legati da fili di luna i covoni sui campi brillavano nella notte e quando sbocciavano profumi d’albe le donne andavano a spigolare tra i solchi. Fiumi d’arsura S’aprivano allo sguardo, il vento sonnecchiava nella calura del giorno e lo stridore delle cicale graffiava il cielo. Al tramonto le ombre S’allungavano sulla via e dall’orizzonte salivano cantilene di grano. Mani dure di terra stringevano carezze e sacchi colmi di spighe mature. I vecchi spezzavano il pane della fatica e una preghiera saliva nel canto della sera. Balconi fioriti di stelle profumano il cielo di ricordi e nell’ombra i vicoli stanchi di solitudine aspettano le voci. Felice il cuore ascolta respirare favole nella notte e lanterne le lucciole accendono i silenzi. È sera: il cielo è coperto di nuvole e pioviggina piccole gocce di argento, pioviggina sulla natura. Qualche uccello canta armonioso in questa sera ombrata di nuvole. Vicissitudine di vita di Rosario Contarino La strada accidentata, percorsa dalla vita, conduce fatalmente a conclusione del suo impervio tragitto, nonché all’esordio di un’eterna esistenza, decisa prima da un supremo “editto”. Oh misero mortale, perché t’affanni a disprezzar “tapino” o ad invidiare “Creso”? Del tempo, assai fugace nello spazio volgente, resterà solo traccia: “insulsa oppur salace”. Un incerto epitaffio, di mortal ricordanza, sbirciato da distratto passante che identifica muto la vita fra due date: “nato, vissuto… morto”, perché… chissà… è vissuto?”. di Loretta Bonucci Ti ammiro di Loretta Bonucci Ti ammiro eremita: tu uomo che rinunci ai piaceri della vita per dedicarti alla contemplazione della natura. Tu sei semplice modesto, sapiente, e fuggi dalle lusinghe mondane e presto al mattino saluti l’alba e nel cuore e nell’anima tu hai la presenza di Dio. Tu puoi... di Giovanni Moschella Poesia! Puoi ancora illuminarmi con un miraggio... rinverdire nel cuore di tanta essenza la pianta della sensibilità; trasformare gli occhi di uomini depressi: da deserti aridi a giardini fiorenti. Poesia! Sei l’impossibile, un’arpa che infiamma e vibra i cuori oltre i suoni della sera! Sei vita di un infinito nei colori del cielo, sei Colui che guida la nostra barca senza rotta! 27 A sera... l’amore di Rosa Spera A sera, amore, un afflato arcano ci accomuna eppure in me pulsa un fiorire di sospiri che s’adagia su creste brunite ove s’addensano coltri di rimpianti. Sconfina oltre i margini del lecito lo scoglio irto del delirio che coglie l’attimo all’apice estremo d’una luce che si affievolisce e con arguzia mirabile mi sfugge. Dorme la luna a ciglia chiuse dalle brume del cielo adagiata sui guanciali delle sera, melograni di stelle s’inerpicano a grappoli su neri velluti sprofondando in vortici d’infinito, timori ancestrali incutono sgomento tracciando ansie sulla soglia della notte. Varcare quei dirupi per placare respiri [che bramano imperiosi fluviali oasi d’abbandono, ma tu mi vibri accanto, amore, e sempre schiudi empirei al mio cuore plasmando l’estro che infervora i pensieri d’un desiderio acceso d’armonie in un tripudio d’anime che mai si placa. Il fiore rosso della siepe di Giuseppe Cesaro Ancora si nasconde al nostro sguardo tra le foglie verdi del fiume, nella brina del mattino lasciò nel rigagnolo tutte le avventure. Dimmi, rosa del giardino, se anche lei torna nella notte a cercarlo con un bacio, se ricorda i piccoli gesti di affetto. La rosa del giardino andò a cercarlo nel verde reame del sogno. Vittorio Pio Vidotto, Emanuela (olio su tela cm 70x50) Un altro cielo di Antonia Izzi Rufo Non vedo il mio mare stamani! Al suo posto un altro cielo, liscio uniforme immobile, meraviglioso, del colore magia della volta celeste della quale è tutt’uno. A briglie sciolte di Giovanna Li Volti Guzzardi Un palpitare di emozioni mi prende il cuore e comincia sfrenato il suo incedere galoppante che come briglie sciolte non posso frenare ed esausta mi accascio ad implorare. Aspetto la calma e a mani giunte prego che mi si plachi il cuore da questo batter convulso che mi scatena un tafferuglio di confusione e non riesco a trovare la soluzione. Oh! Cuore mio che corri come un treno e non ti fermi nemmeno se urlo dallo spavento, sì, urlo e mi dispero, non posso fermare questo sentimento che mi ha preso anche la gola e son muta, ma vorrei gridare una frase sola: «Ti amo!» e il mio cuore vola. Quest’amore che mi ha sconvolto il cuore, è diventato un ammasso di emozioni che vanno a frantumarsi tra le onde dell’anima mia! Terra pellegrina di Flavio Vacchetta Sogni incompiuti figli crocifissi nel tempo respiro di morti e sepolti, ma la memoria libera l’azzurro dove la mia terra è rimasta pellegrina. In silenzio di Flavio Vacchetta In silenzio vivo Del mio silenzio, in lontananza un latrato flebile e solitario di oltretomba. Così annaspo di morte brancolando inquieto nel mio destino Di suoni. Di dolori. di Ilaria Spina Di flauti danzanti non mi restan tra le dita che schegge di legno. Ed il suono ovattato e soave smorzato, strozzato, stuprato giace docile oltre i miei occhi. Carpe diem di Mayra Millico Eccomi qui insieme a te la mia più grande amica adesso è qui accanto a me. Colei che è così sincera e così grande, sa veramente colpirmi nel fato. È lei la mia amica per l’eternità, colei che sa farmi essere qualcuno, che sa cos’è l’inferno e il paradiso, che sa che cos’è l’amore e star male per esso; ecco che significa averla accanto! Ehi, dico a voi, se la incontrate non approfittate di lei perché anch’essa è fragile. Baggio, circense balistico di Gaetano G. Perlongo Tu sai di essere figlio della terra intermedia tra l’Ovest del pensiero dominante e il Sud-Est del nulla circense balistico e acrobata euclideo o forse semplicemente ultimo mohicano del calcio crepuscolare Fede di Mario Cambi Nella vampa infocata del tramonto, nel rosato chiarore dell’aurora, nel lento tremolar della marina all’alitar di réfola leggera, nell’ulular del vento di bufera, nel candore di brina mattutina, nel mar che frange sopra la scogliera gemme lucenti dispergendo intorno, nel fioccare silente della neve, nel luccichio dei prati di rugiada, nella sottile pioggia marzolina, nel violento crosciar del temporale, nel rombo greve di pauroso tuono, nel cielo taciturno, d’infinite stelle trapunto, cui lontani mondi ruotano intorno in lento giro eterno, nella calura del meriggio estivo, nel freddo algente d’uno spoglio inverno, nei colori dorati dell’autunno, nel rotear di un volo di gabbiani, nel garrire di rondini alla sera, nel mondo che rinasce a primavera, nello sbocciare magico d’un fiore, scorgo un disegno d’infinito amore. Sei sola di Gabriella Manzini Fuori e dentro fa freddo gli alberi sono spogli i rovi taglienti... Il gelido vento impietoso ti sferza i pensieri ed il viso, mentre l’acqua del fiume che scende alla valle con suoni di ghiaccio copre i battiti del tuo cuore... L’oscuro silenzio della sera ti lascia senza un suono nei tuoi solitari pensieri mentre la nuvola... e la notte che ora stanno scendendo avvolgono di nero la tua dolorosa incoscienza. Risonanze di Maria Elena Di Stefano Nella voce del vento odo un sordo lamento un pianto segreto un riso innocente. Codici ermetici formule tragiche scalfiscono l’altare segreto ove invoca umanità fraterna pace. 28 Adriana Assini, Tra i girasoli, Acquerello, 2003, cm 15x21) L’azzurro del mare di Nello Cristaudo L’azzurro del mare germoglia dai fulgidi occhi che sprigionano sapori e sensazioni mai assopite. Dolce e soave fiore varchi la soglia del mio cuore: luce risplendente come faro [per i naviganti. Leggiadra melodia che m’accarezzi [il crine, ruscello che s’immette nelle onde [dell’abisso. Perla sgorgata dalla florida conchiglia la fugace vita non ti separerà, né l’infinito vuoto mai ti allontanerà. Il silenzio acuto del mattino di Marco Galvagni Ho annodato a ciottoli levigati il fluire dei miei ricordi. Forse era l’aurora cremisi che si specchiava nei solchi delle rare onde, forse la magia del silenzio acuto del mattino. Forse la quiete infinita ed il confluire d’umane speranze tipici d’ogni alba in qualunque angolo del mondo. Forse un po’ di tutto ciò mischiato all’amore per la vita: e noi in simbiotica armonia su questi greti ci trovavamo, padre, ed era l’elogio dolce delle nostre illusioni, la genesi delle nostre buone intenzioni. Era la folgorante attesa d’un alito di luce a farci muovere, padre, laddove ormai sono avanzate poche manciate di rena l’acqua ha reso canute persino le amiche conchiglie. Dedica triste di Angela Aragona Rimane solo un tralcio di nuvole abbarbicate, queste, al cielo trasparente, attraverso lo spazio immateriale delle solitudini che dividono, lo stesso impalpabile spazio tra due anime che si sintetizzano in una fuga di piani paralleli: in congruenza è l’eclissi. Ed è dolce eclissarsi, scomparire, intrapresi i tuoi passi, nulla è certo oltre l’oblìo. E se guardo tra i volti della gente non c’è nulla che desideri, nessuna delle immagini mi appartiene. Tutto invano pare distendersi il mondo. È leggere ancora di Giacomo Paternò Può essere bello voltarsi indietro e doloroso quanto ogni sorriso che riempie di Senso la memoria. Ora noi interroghiamo il Caso, ci dimeniamo impotenti nella morsa dell’evidenza per sentire, capire e distinguere: ma dobbiamo sapere che la Giustizia è lo sguardo di Dio mentre qui condividiamo il dono della libertà. Io brucio nell’inutilità del mio libero arbitrio che ha perso l’orizzonte. Dove guarderò? L’amore è leggere ancora una lettera come il mio cuore. Olio di Silvio Craviotto Olio, calmo prodigio scaturito dalle zolle assolate dei miei monti, alimenti la fiamma ai casolari remoti e la scintilla che pur sempre mi cova in cuore. Ed è vessillo l’albero nodoso che resiste a venti avversi, monumento sereno eretto a scorno d’ogni violenza. Pallido il suo argento cangiante, vibra ai soffi dell’inverno e si costella d’astri, firmamento di bianche stelle in fiore a primavera. Olio, tu mite balsamo, lenisci le ferite che la vita a nessuno risparmia e, misto a vino, infondi rinnovato estro al cammino. 29 Erba del poeta di Luca Viglialoro Le foglie intorpidite tormentate [nel clima affossano i miei piedi presi nel liquido danzante, blesa, la rappresentazione che mi si manifesta, fluido scorro sulla pendenza che l’erba addita, dentro e fuori me. Scatenandosi l’impero invisibile [delle forze nelle strette vie ammantate fa oscuro silenzio l’albero [senza capelli, frutti dea sfrondata, analfabeta perché a cantare come Calliope bisogna essere radi per mangiare terra e morte vita, vermi premere le palme nelle irregolarità, le delizie pungenti compiutamente squisite. In coro di mente e mano trasfondere in ordinata semenza, ciò che per chimismo si raggiunge rincorrendo la sua fioritura di parole germoglianti nella loro finitudine. Gelsomino notturno di Chiara Trefiletti Quando sbocceranno i gelsomini [notturni forse tu mi penserai. L’aria era satura non più di grano di mare o di ulivo ma odore terroso di funghi e di castagni in fiore aroma autunnale di foglie [cadenti e cadute. Cogliemmo i semi delle più belle - rosse viola e gialle per gettarli nella tua campagna nel mio giardino. Ora adornano siepi di gardenie filari di basilico il nostro nido sfiorito. Forse anche lassù tra silenzi diurni sbocceranno gelsomini notturni. Li cogliemmo li cogli li coglierà lei... io sarò sempre tra i gelsomini notturni ad aspettar la notte quando sbocceranno [i gelsomini notturni e forse tu mi penserai. L’amore fonte di felicità (1995) di Vera Guidotto L’amore, fonte inesauribile di gioia e dolore, che alberga silenzioso nel tuo cuore, ormai spaurito e palpitante per un’emozione mai vissuta. È come un caldo e tenero invito alla vita, sì, a quella vita che vuol ora insorgere dal torpore che molti, anzi troppi anni ha accompagnato la tua complicata esistenza. Come un rumore, improvvisamente dilaga per tutta la stanza, ostacolando inevitabilmente il sonno, così l’amore, spezzando il silenzio incessante, cela da sempre in fondo al tuo cuore, si fa strada in esso, impedendoti di vivere. Con quella voglia che hai di tirarlo fuori, senza più paure, senza più dubbi né incertezze e sotterfugi, ma con infinita speranza che forse un giorno troverà riscontro e rifugio nel cuore di chi ami. Viandante di Giuliana Milone Viandante, lo senti il vento che urla nel tempio demolito? Lo senti il vento? Grida di figli vivi eternamente, figli che si tormentano. Il sole è a picco. Ma io ne sento l’affanno sull’altura spianata; Mi senti? Ma forse non mi ascolti; dentro quell’altura i figli hanno scavato fori come abisso d’inferno; Il sole sta cadendo e l’ombra scura si getta sulla roccia... Lo senti il mare? Voi discendete invece di salire e scrutate nel fondo della grotta nel blu di tuono che cela lava di fuoco. Lo senti ora l’afrore? Li senti i vivi morti? Sotto i loro occhi chiusi dicono parole loro non sanno vivere insieme, dividere il cibo quotidiano... Il sole ora è caduto e tu viandante senti la mia voce nel silenzio terribile dell’Immenso. E non mi stanco di Antonello Bruno E non mi stanco di bussare alle porte serrate del tempo fino a che il tempo segnato dai miei pugni chiusi non divenga immagine del mio tempo. E non mi stanco di correre per le gole del mondo fino a che il mondo segnato dai miei passi arditi non divenga essenza del mio mondo. E non mi offendo se la notte della vita mi graffia con gli artigli della saccenteria poiché la notte è vita e sogno e dalla vita rinasce ogni giorno nuova aurora. E non mi stanco di portare L’acqua pesante della mia sete. E non mi stanco di schivare il putridume delle mie bugie. E non mi stanco di inseguire i sogni che ho deciso di sognare. Continuo a correre e a bussare lungo la soglia delle mie porte serrate. Continuo a morire e a resuscitare, a cercarmi nello spazio infinito che fa di me il tempo e il mondo. Continuo a gridare a me stesso affinché la mia anima gridi a me. E non mi stanco. I gabbiani di Spartaco Colelli Nel cielo grigio d’un mattino d’autunno volano numerosi i gabbiani; a stormi, leggeri, planano sulla battigia; con ritmo lento batton l’ali, e infin s’adagiano sulla ruvida scogliera. Sembrano far festa al meravigliato visitator: ad ali spiegate, volteggiano, virano, decollano; quindi ritornano veloci e con soavi gorgheggi, cortesi, sembran far l’inchino! Così, in quel grigio cielo d’un mattino d’autunno echeggiava la gioia viva d’ogni allegro gabbiano! Andata di Salvatore La Franca Giovane, fresco e pien di vigoria lasciai la casa mia e mia gente. Con gli amici lasciai la Terra mia, mi ritrovai nel Ligure ponente. Passai da una a un’altra leggiadria col far del novellino indifferente ma, sconsolatamente, prese il via il muto mio soffrir rapidamente. Desidero soltanto ritornare nel tuo capace sen, terra natia, e amarti tanto, quanto si può amare; Voglio spezzare questa mia agonia, bramo soltanto di dimenticare, voglio tornare nella antica via. Paura di me di Rita Valentini A Dio Ho scoperto che hai paura di me. Sì, ti capisco… mi faccio [paura anch’io, quando amo così inesorabilmente. Ti sei sentito come un detenuto [in mano del carceriere. Egli è un boia dalla mente sottile, dall’animo eletto. Quel boia che sa fin dove [può portarti in alto e fin dove può lasciati cadere. Ma, sai, fai bene a fuggire perché è risaputo che ci si può innamorare [del proprio boia. Vago per strade conosciute e sconosciute lastricate di ghiaccio sola... con l’ultimo vestito colorato, il mio corpo è un letto di spine, sto annegando. Dio, ti cerco, Dio: chi sono? Sto bruciando, anelo amore, ma, sono... sola... Il piatto di minestra davanti a me si sta raffreddando e sto navigando in un mare crudele. 30 di Carmela Peschiera Grida feroce l’aquila nera di Mario Ceccarello La vita Bianca fra gli alberi ai piedi delle Alpi con le aiuole fiorite e il Monumento io ti rivedo là vecchia Caserma. Scalpitano i muli dalle nere code sotto l’esperta man dei conducenti, e tutt’intorno nell’aria rarefatta, profuma il tiglio le abetaie, il pino. Da te partirono i Valligiani, dell’ “Invitta Armata”, lasciata indietro su bianche steppe con l’occhio fisso verso la Patria. “Nikolajewka” Italia o Morte! Grida feroce l’aquila nera, col becco adunca la carne cruda, sorride a tutti la “Madonnina” che guarda i figli della Montagna! La vita è fatta di attimi, tutto passa, il presente è solo un soffio che subito diventa passato, mentre poco prima era futuro. Quante sere ho passato davanti al fuoco con gli occhi fissi sulla fiamma. Si può immaginare un mondo migliore di quello in cui viviamo. Ogni scintilla parte da noi, bisogna soffiare sul fuoco. altrimenti tutto è destinato a spegnersi senza speranza. Mario Ceccarello, con i suoi novantasette anni ben portati, è il decano dei poeti e scrittori veneziani. Dopo i numerosi successi riportati nella sua lunga attività letteraria, afferma che la vita continua e che ognuno dovrebbe fare quello che può per migliorare l’ambiente. Ceccarello, nato nel 1907, ex ufficiale degli alpini e funzionario di banca in pensione, è anche un buon pittore, essendosi perfezionato sotto la guida di Luigi Tito dell’Accademia delle Belle Arti. Ha pubblicato sette libri di poesie, sia in dialetto che in italiano. Ad una posizione Ceccarello tiene particolarmente: difendere l’integrità di Venezia unita a Mestre e non divisa. Ha ottenuto numerosi premi, tra cui nell’81 una Coppa gigante del Ministero dell’Interno, Premio Assoc. Reduci-Desio (Milano), mentre solo nel 2003 ha ottenuto una decina di premi, tra cui un primo premio a Milano (Streghetta 2003) per la poesia ed un altro a Diano Marina (Imperia) per la narrativa. di Rosanna Merighi Flavia Vizzari, Il cigno (olio su tela) Ricordi di Enza Giangrasso Cuore solitario te ne stai in una terra che non è la tua e in un cantuccio tristemente pensi alla terra bruna che ti ha visto traballante camminare, alla vecchia casa con tutti i suoi ricordi e i suoi sorrisi; al dolce e caldo sole che spesso t’ha imperlato di sudore; ai cari amici con i quali uscivi e facevi allegre scampagnate. Ricordi! Ecco: in un attimo il volto tristo e teso fu bagnato dalle lacrime del Ricordo. 31 Ultimo zappatore di Elena Auddino Ultimo zappatore, solingo [esile vecchietto, al canto di usignolo hai faticato e sul limitare della casa avita, accanto all’aia, riposi le tue membra stanche sul calar del sole. Il capo reclinato, gli occhi chiusi, come lucertolina ti offri ai tiepidi raggi e piano piano scivoli tra le braccia di Morfeo. Le tue mani callose rilasci, cade la zappa e sogni. E nel sogno ritrovi, l’effluvio [del vangato, l’orto, la semente, il campo irriguo, il sibilo del vento tra i rami, la tua semplicità. Indefesso cultore senza fama [ imperitura né serto di lauro sul capo, medico della Natura, alle piante curi ferite senza sangue e della terra comprendi lamenti [senza voce. Custode di ideali e libertà, ti ridesti e già rosso è l’orizzonte, riponi ormai la zappa [sotto il pergolato, rimiri gli uccelli in alto e sai che è il loro ultimo [volteggiar della sera prima dell’apparire in cielo delle stelle. La mia finestra di Francesco Celi Datemi una finestra aperta su un’onda blu cobalto, un vecchio amico di scuola, un verso in latino, un discorso del “CHE”, un ciuffo alla “ELVIS” una nenia per bimbo e nascerà uomo nuovo. Datemi una finestra aperta sui pini romani, un piccolo campo da calcio, una storia del mio Sud, le favole di mio padre, una tela bianca, dei rossi capelli, un abito da Arlecchino e la luna, non intera, no, solo uno spicchio... Continuerà così il mio viaggio alla ricerca dei ricordi ai quali ancorare questo lembo di vita. Il mondo di Rosa Papillo Schiavello Vite Questo mondo irrealistico che è attirato dalla violenza circondato da tanta crudeltà un disastro e un flagello per l’umanità Alta e severa con il volto triste anche a ottant’anni pensi solo agli altri. Nel tuo destino c’era un uomo solo e l’hai perduto nel fiore dei tuoi anni. Porti raccolti a crocchia i tuoi capelli cadono le forcine... e la mano tua stanca le raccoglie. Vedo forcine e treccia anche nel volto tuo di giovinezza molti son stati i frutti del tuo grembo nessuno bello e forte come te. Madre sei tu d’istinto perché la tua mai l’hai conosciuta. Fra malattie e preghiere hai visto scorrere gli anni infelici della tua fanciullezza. Pochi i sorrisi e i baci mai la dolcezza della ninna nanna. Ora sei lì che curi le malattie degli altri, la vita senza vita cercando di donar la forza che non hai. Oggi il popolo ha tanto timore pensa sempre com’è incerta la vita perché difficile oggi sarà avere fiducia alla furia della realtà. Ma nel bersaglio dell’attacco finale c’è Dio che prende la sua posizione, riconduce il Suo popolo alla salvezza perché grande è l’arma della sua grandezza. Ma nel mondo ci sono tanti ribelli gli occhi piangono senza riposo la vita cerca speranza e non c’è più e tutto il popolo si sente in schiavitù. La sfida di questo mondo è molto amareggiata, ma Dio ci sarà alla fine del tramonto quando la luce si spegnerà. Sacro e profano di Antonio Greco Lieta e sacra, tal nacque la Gran Solennità del Redentore venuto a portar pace e allegria, ma che a guardar d’intorno osservar si potea solo tal volgarità che a ragionar non v’era più alcuna via. Fuggir lontano volea la mia mente, sulle ali leggere del pensiero, a ritrovar sereni momenti ed umana gente che a profanar tali Sacralità, potevan solo le malate menti. Povera e infelice anima mia, che a subir essa dovea d’ogni profana specie, che a pensare al Sacro e al Divino potea soltanto la follia. Tal io mi trovai a prender atto che a viaggiar d’esotico si trovavan tutti a far la fila, e a far incetta di cotanti beni che a contenerli ci volea una stiva. Profane gesta che per morboso amore di tal dissoluto vivere, nulla v’era a lenir lo strazio di cotanto orrore, che il vergognoso scempio d’una tal Sacralità, sol rifiutarsi di accettar potea la mente mia. di Maria Pia Palmieri Ai giardini di Bruna Quartieri Arriva il nonno ai giardini nella mano ancor callosa la tenera manina del garrulo nipotino. Passi lenti, passi stanchi passettini saltellanti. «Quando piccolo ero io, racconta il nonno al bambino, avevo un prato grande: molto più grande di questo giardino... A giocar eravamo in tanti: noi fratelli coi cugini e qualche amico dei vicini». E mentre camminavan lentamente ammirando la fontana maestosa, che sventaglia verso il cielo i suoi zampilli senza posa, chiede il bimbo al nonnino che allontana dagli spruzzi ricadenti, mentre il piccolo gioisce delle perle iridescenti: «Nonno, come mai il grande prato più non hai?». «Il progresso, bambino mio, ci ha portati tutti via, ma il mio grande prato d’alberi tutto circondato non lo compensa neppure il laghetto con alteri cigni e paperette... naviganti recintati. Il campo con le bionde spighe l’uva nera... l’uva dorata, mai lo potrà uguagliare nessun giardino di città. 32 Duro lavoro... pane duro... anni verdi... anni maturi... Qui devo solo riposare e, grazie a Dio, ci sei tu che al mondo mi tieni allenato: nella prossima partenza sarò meno affaticato...». «Ma non andrai tanto lontano?» chiede il piccolo allarmato che gli manchi il suo nonnino per accompagnarlo ai giardini. A mio figlio Enzo di Jole Tuttolomondo Quando mi soffermo a guardarti, di gioia freme il mio cuore; in quell’istante, con mille pennelli e mille colori, dipingere vorrei la perfetta armonia che c’è in te, tra bellezza fisica e qualità interiori. Nella vita di relazione, ami la pace e non l’orrore; la concordia e non la discordia; la luce e non le tenebre. La verità e non l’orrore. Come figlio, da quando sei nato, la mia vita di verde hai colorato; in mano hai tenuto il mio cuore e per la famiglia unita un grande amore. Come medico sei “un fiore all’occhiello” e nella cultura un vero modello. A Mirella di Jole Tuttolomondo Nei tuoi occhi luce e mistero l’un con l’altro insieme si fondono. Il tuo viso: un grazioso petalo ornato da una chioma bruna. Dio, creandoti, sorrise e la tua anima e il tuo corpo armonizzò. Volle dare alla terra una creatura soave simile ad un fiore di primavera che profuma da mane a sera. L’armonia, che è in te, è sempre evidente: nell’incedere elegante, nella personalità, nello stile e nel grande amore che sprigiona il tuo cuore. Haiku di Maria S. Brancatisano Meriggio di caldo e solitudine regala l’estate...! Claudia Manuela Turco Profondità autunnali Carte da gioco sparse tra le pagine di un vocabolario, incomprensibili significati intrecciati al caso, amori eterni confusi con piume in volo. Polline di foglie e neve, in una cascata di cangianti colori, ora tenui, ora violenti, ancora carte da gioco invadono strade contorte e cieche. Un sole stanco continua a inseguire labirintiche pieghe, aspro ricama sogni e spine sul sudario del vento. Tende, infuocate di foglie tardive, urtano finestre colorate, mentre avvolgono montagne strappate a ricordi vetrati. Chiodi profumati d’avorio incidono cancelli impalpabili. Serrano e isolano cuori impegnati in truculenti solitari, simulando innocui dialoghi. Ancora una partita prima dell’inverno. Un’ultima passeggiata impregnati d’autunno, nel vortice di pioggia che travolge ogni mia stagione passata e futura, nell’eco dell’inespresso silenzio. Gioco le parole estraendole con cura dal mazzo della vita, ma continue sono le sorprese. Ricamo come il sole, e incido con chiodi piccole isole, salvagenti di quel poco che di me rimane, e che mai nessuno potrà vedere. Marco Baiotto Inutili previsioni di maghi e scienziati, inutili brame di nemici e amanti. Parole sferzanti o accoglienti, amiche di carta io creo, mie gemelle, regine di cuori senza re, orpelli esornativi di case altrimenti vuote. E libera nel paese dei prigionieri, in un branco di cani corro gridando per sogni divenuti spine. E senza aver neppure sperato, scopro e ritrovo, nell’aureo inchiostro che riscrive nel perdono l’orrore, la pura luce smeraldina del mio cuore non solo dentro di me. Poesia si sprigiona, e ossigena ogni mio gesto e ogni mio pensiero, anche se forse solo le parole meno belle lasceranno qualche traccia di sé. Marco Baiotto, nato nel 1975 a Chieri, ha come grandi passioni la pesca, la montagna, le esplorazioni speleologiche e... la poesia, che è fortemente interiozizzata e rapresenta in versi brevi e intensi grandi concetti universali, nella complessità dell’esistenza. La macedonia Sublime, notte di passione, tra femminee presenze, di tutte le razze e colori, e conturbanti profumi. Io solo, unico uomo sopraffatto, disperso nel branco assaporo, ineguagliabili piaceri. Visione globale Tarpami o Diva, un sorriso dalle piccole ali, una volta ancora. Claudia Manuela Turco, nata a Codropio, nel 1970, vive a Udine. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali a pieni voti, ha lavorato in diverse gallerie d’arte. La sua poesia è profondamente drammatica, pur nella semplicità espositiva. Il malessere esistenziale universale viene personalizzato e fatto proprio in una visione della vita intrecciata di dolore e felicità. 33 Come passero caduto dal nido, e spezzato alla vita, io vivo in ogni istante, l’insostenibile peso, degli anni a venire. Commento. Il poeta, metaforicamente scomodando illustri fonti in una “citazione d’arte”, con musicalità sospinge l’attenzione sulla maledizione che da sempre ne contraddistingue l’esistenza. Quello sguardo troppo acuto che ne proietta la vita emozionale ben oltre i tremuli confini del tempo presente. Quella maledizione che sa rendere forse immortale o più spesso pazzo o forse ancora solo, tremendamente solo. Maria Teresa Nobis Renzo Ferraresi: Uomini nuovi e Donne nuove La poesia di Maria Teresa Nobis sprizza felicità ed emozione. Gli occhi attenti della poetessa e la mente volta al ricordo manifestano un’estasi del pensiero, che però non cancella il passato, anzi ne custodisce la memoria senza falsificarlo. In questo processo rievocativo la natura fa da tramite fra l’uomo e la sua essenzialità spirituale. L’unica speranza è che l’Uomo e la Donna “risorgano” finalmente attraverso un uso corretto, umano e saggio delle scoperte scientifiche e delle tecnologie, dall’abisso esistenziale in cui li costringono a vivere come bestie i detentori del potere temporale religioso e i tiranni politici ed economici; e ne escano rigenerati, per essere veramente “simili agli Dei” e non più schiavi di superstizioni e di maledizioni bibliche. Le Nuove Generazioni non dovranno più brutalizzarsi tra di loro per motivi ideologici, religiosi ed economici: ovunque l’uomo cammini sulla Terra, trova il terreno insanguinato dal sangue sparso da innocenti bambini, uomini e donne, calpestati, stuprati e assassinati in nome di Dio e in nome delle Ideologie! Ogni uomo, stupidamente, da secoli e secoli continua a predicare che il suo dio è migliore del dio degli altri e bestialmente, in nome del suo dio ha umiliato, torturato, brutalizzato, schiavizzato, stuprato, commercializzato, discriminato e assassinato altri bambini e bambine, altri uomini e donne, solo e soltanto perché erano di un altro dio e diverso dal suo! Potrebbe essere un’Utopia, quella di sperare in Uomini Nuovi e in Donne Nuove per questa Terra in cui viviamo. Ma, io credo che questo sia l’imperativo categorico per continuare a sperare e a credere in un futuro migliore, oggi pericolosamente compromesso da una incontrollabile “esplosione” demografica e da una egoistica distruzione delle risorse planetarie abbinata ad un continuo ed irresponsabile saccheggio dell’ambiente ecologico. Nella Storia dell’Umanità non esistono e non sono esistiti “tempi migliori” e “tempi peggiori”, secondo il mio modesto parere storico-filosofico. Quello che oggigiorno è necessario, è tornare ad un rapporto più divino con la Natura; tornare ad un rapporto più amichevole, considerando che, gli uomini hanno “bisogno” della Natura; mentre la Natura può benissimo fare a meno degli uomini e, in pochi istanti, con uno spaventoso cataclisma, essa può benissimo sbarazzarsi di centinaia di milioni e più di loro! Per quanto l’Uomo possa indagare, scrutare, osservare, studiare, capire, esplorare, intendere e volere, tuttavia, rimane e rimarrà sempre qualcosa di misterioso, di imperscrutabile e di incomprensibile nei confronti di quella che da sempre defìniamo “Natura”. Gabbiano Jonathan Voli alto nei cieli per raggiungere l’infinito, o gabbiano Jonathan! Mi hai fatto gioire intensamente fino a raggiungere la profondità del mare, gli abissi dell’oceano, la sommità delle cime innevate. E, in un palpito superbo, in uno slancio vitale, ho visto il Creatore. Padus Passeggio di frequente lungo le tue rive e mi scopro ad osservare il lento tuo corso, o Padus amico, fiume che attraversi la mia terra con la tua portata d’acque poderosa. Ti ho visto, sai, quando violentemente allagavi le golene e i pioppeti. Inesorabilmente trascinavi con te tronchi d’albero, carogne d’animali insensibili al futuro degli atterriti abitanti, costretti ad abbandonare, spesso, nel cuore della notte, le loro case ormai sommerse dalle tue minacciose acque grigiastre. Un uomo e una donna Ritratto di bimba Occhi di cielo che fissano l’orizzonte, boccuccia pronta al sorriso, capelli sciolti e mossi dal vento, s’aprono sorridenti al nuovo giorno. Ritratto di una bimba speciale che si muove sicura nel bel giardino da lei conosciuto, amato e frequentato. Un Uomo e una Donna camminano lentamente tenendosi per mano lungo il viale del tramonto. Forse sono rimasti incantati dal magico splendore e dal fiabesco dell’Autunno. Forse sono partiti insieme dalla fresca e vivace verginale Primavera. Placido e solenne l’Inverno li tiene per mano e li conduce alla Madre Terra che già è feconda [di nuovi germogli. Forse si sono incontrati in una lussureggiante e calda giornata d’Estate. 34 Margherita Rimi: Cesare Ruffato personalità sensibile e animo forte e deciso Synopser1 di Francesca Incandela Med avund betrakta en privatpark från himlen en gåva som stoltserar med måne fontän sekelgamla träd gröna kyrkvalv blomstrande bersåer där någon stjärna alltid faller, berätta vackra sagor om klorofyll med suckande tjänarinnor i väntan på rimsmidare med honungsharpa. En dämpad melodi från de himmelska sfärerna skingrar smog och buller nynnar om det rena syret i universums ekosofiska sfär. En raffinerad orkidé beger sig oberörd och bevingad på flykt bland skaror av änglar i stum kör och respektfyllda inför trafíken föroreningen tigandet. Jag tror inte mer vad mina ögon ser också den inledande parken som var till glädje verkar för mig främmande och tarvlig i sitt öde. Il dettato poetico di Margherita Rimi s’impone con un sentimento di protesta letteraria nel panorama lirico isolano, quasi volesse distinguersi o rompere già consolidati schemi, per due motivi principali: il primo risiede nella novità linguistica che rinnova da sé il contenuto, soprattutto quando sconvolge a suo piacimento i lemmi trasformandoli in enunciati dietro i quali nasconde il pensiero; il secondo è rappresentato dallo stile versificatorio usato, nella sistemazione grafica che ripercorre sì da un lato tecniche poetiche note agli addetti ai lavori ma, dall’altro, ella tende più che alla riduzione o essenzialità, all’essenza del significato stesso. Ho già scritto in altra occasione che i suoi “lampi fonici” non lasciano di certo indifferente il lettore il quale sente l’urgere di una rilettura delle poesie della Rimi, dopo avere soddisfatto un iniziale momento di godimento visivo. Ed è allora che scopriamo le qualità artistiche ma anche i concetti di Margherita che, nell’apparente disordine e frammentarietà, rivela una personalità sensibile ed un animo forte e deciso. L’animo che penetra i temi della solitudine e dell’assenza, del dolore, della incomunicabilità umana è sine dubio un animo sensibile perché avverte, registra, annota evitando deliberatamente di raccontare, o di far fluire le emozioni... ella non si perde dietro le storie, volutamente le denuda e le riduce con pochi essenziali tratti. È forte quando sceglie le modalità per scrivere sulle pagine sapendo che le sue composizioni agli altri spesso sono incomprensibili ed enigmatiche. L’estremo pudore del suo mondo interiore ha trovato, proprio in questo singolare modulo espressivo, solide barriere di protezione attraverso l’immediatezza e la brevità di un lessico piegato ad arte al suo sentire. Persino l’ironia - dote non comune in una donna che scrive - si trasforma in mutevoli metafore dagli accostamenti arditi, o dalle mescolanze. La Rimi in molte sue poesie semina e lascia tracce della sua esperienza umana e del suo percorso di vita, per quanto cerchi accuratamente di non farlo trapelare, rompendo e spezzando le frasi, eliminando anelli di congiunzione, giocando con le parole in libertà ha lasciato aperta qualche folgorante “finestra di dialogo”, consentendo ai lettori di ascoltare le vibrazioni degli eterni sentimenti. Generazionale A sottintesi... Cosa abbiamo creduto A sottintesi... Sembra la notte cede un solido rimpianto sotto crocifissione. Si bara senza più orientarsi sulle carte perdenti. Lasciata in piedi non so più ricadere né rincorrere una croce che manca inizio come te sdottrinata muta a dondolare. Sinopsìe Scrutare con invidia un parco privato dono del cielo che ostenta luna fontana alberi secolari navate verdi bersò floreali ove cade sempre qualche stella narrando favole belle di clorofilla con ancille sospirose in attesa di troviere con arpa di miele. Una melodia soffusa di sfere celesti dilegua smog e rumore neniando il puro ossigeno dell’anima ecosofica universale. Sofisticata orchidea accingersi al volo senza battere ciglio ed ali fra stuoli d’angeli a coro muto con rispetto del traffico dell’inquinamento e del silenzio. Non credo ora al mio sguardo e pure il parco d’avvìo e desìo mi pare straniero e meschino nel suo destino. Lino Barbalinardo, Paesaggio (olio su tela) 1 35 In lingua svedese Poesia dialettale quasi un preludio per quella sinfonia (di odori e sapori antichi) che si sarebbe diffusa, più tardi (all’ora di pranzo) per tutta la casa! Che si trattasse di fusilli(2) preparati a mano col ‘ferro’ (3), o di ravioli gonfi, o di cavatelli (gnocchetti incavati) ...non c’era altro bene che tu potessi desiderare: che la ricotta secca si abbracciasse col ragù! (4) ...Col naso titillato da quell’odore, con le orecchie ancora piene di quel rumore, mi sono svegliato, madido di sudore! (5) ...Fuori, una chiassosa confusione degna di una cagnara, si fonde con le grida di una comare: «Che disgrazia! Ha preso fuoco la discarica!». La ‘fortuna’ è tutta mia, non pare anche a voi?! (6). Sentir musica dove c’è solo frastuono, trasformare fetori in profumi: è come riuscire a veder la Luna pur stando con la faccia in terra! Certi miracoli li può fare solo Amore… ah, potesse durare questa Fortuna! (7). N’abbaglio, ntra veglia e suonno di Ottavio Marandino* (Battipaglia – SA) Primm’e me sosere, ll’ata matina m’aggio fatt’ n’atu muorz’e sunnellino. È cchiù sapurit’ sì, pecché è arrubbato a ‘o tiempo nfame, nfra nu rintocco e n’ato! Comm’a nu film, ca spost’a nquadratura... nu mumento... aggio turnato criatura. Mputrunito a lietto, ntra veglia e suonno na matina ‘e festa e chi sà qual anno! D’a senga d’a porta ‘o rraù se nsinuava, e a dduje rummur’, a tiempo, s’ammescava. Era mamma, a fore, ca laganiava. Papà grattava ‘o ccaso, puveriello! (E sienze, allerta primma d’o cerviello, arravogliano verità e fantasia!) ...Nzieme ntunavano sta melodia pe... laganaturo solo e grattacasa: quasi un preludio a chella sinfunia ca se spanneva cchiù tarde int’a casa! Ca fosseno fusilli arravugliati, bucchinotti tunni, o pure cavati... nun c’era bene ca tu vuliv’e cchiù: quann’a recotta s’abbracciava c’o rraù! ...Cu o naso tellechiato a chill’ addore, cu e rrecchie ancora chiene d’o rummore, m’aggio scetato, nfuso de sudore! ...Fore, n’ammuina degna e na cagnara se fonne nzieme a ‘llucchi e na cummara: «Sciorta mia!... S’è appicciato o munnezzaro!» A “sciorta”... è a mia: embè che ve ne pare?! Sentì museca addò nce sta rummore... na puzza ‘e chelle c’addeventa addore: a faccia nterra riuscì a vede’... a Luna! Sti miracul’ e po’ ffa’ sul’ Ammore... ah, putesse durà chesta Furtuna! Ottavio Maria Marandino, nato a Salerno il 19 febbraio 1959, è autore di racconti e di poesie in lingua e in dialetto salernitano. Pur avendo esordito solo recentemente nella passione dello scrivere, ha già raccolto lusinghieri riconoscimenti, quali: il primo premio assoluto, Medaglia d’argento del Presidente della Repubblica, in occasione della VI edizione del Concorso Internazionale di Poesia Il Saggio Città di Eboli, l’8 febbraio 2003; il primo premio, sezione Narrativa, in occasione della XXXV edizione del Premio Letterario Nazionale Silarus, in Salerno, il 7 giugno 2003. La presente poesia è stata invece premiata al Premio Il Convivio 2003 Publio Virgilio Marone, sezione poesia dialettale, con la seguente motivazione: «Non c’è dubbio che questa poesia sia illuminata da un clima evocativo della memoria. Qui il poeta si addentra nel tessuto umano del mondo della provincia salernitana, o meglio in un piccolo ritratto di una storia ben localizzata in un preciso spazio sociale vissuto nella sua infanzia. L’autore rievoca uno spaccato di vita familiare, quasi a voler rivivere un momento sereno tra sogno e realtà favoleggiante. Gli occhi gli si aprono poi su una realtà in cui il suo ottimismo regna, ancora una volta, sul mondo fantastico che egli ha costruito nella sua introspezione. È una poesia che nella sua apparente semplicità nasconde alcune metafore, create apposta per meglio chiarire lo scorrere della vita e il suo mutamento nel corso delle generazioni che si susseguono» (Pasquale Francischetti). Un abbaglio, nel dormiveglia* - ...quando sonno e sogni giocano a sublimare la realtà (traduzione dal dialetto salernitano) Prima di alzarmi, l’altra mattina, mi sono concesso un piccolo prolungamento di sonno. Ha un gusto particolare, proprio perché rubato al tempo infame, nel breve lasso di tempo che intercorre tra un rintocco e l’altro. Come in un film basta spostare un’inquadratura,(per introdurre un flashback) in un momento... mi son ritrovato bambino, a poltrire nel letto, nel dormiveglia di un mattino di festa di chissà quale anno! Dalla porta socchiusa si insinuava l’odore del ragù, che si mescolava con due rumori quasi sincroni. Era mamma che preparava la pasta fatta in casa (1) con papà che grattugiava il formaggio, poverino! (Quando i sensi (in questo caso olfatto e udito) si destano prima del cervello, finiscono per rimescolare realtà e immaginazione). ...Insieme (madre e padre) intonavano quasi una melodia (scritta apposta) per ‘matterello solo e grattugia’: Note *La poesia originale, in dialetto salernitano, è in endecasillabi. (1) Tradizionale menù del dì di festa: pasta fatta in casa condita con ragù ristretto e formaggio, grattugiato a mano con la ‘grattacasa’ (meglio ancora la ricotta secca, ancor più cremosa e saporita). A svolgere questo compito, meno nobile ma un po’ più faticoso, era chiamato l’uomo di casa. Ma purtroppo, al momento del sogno, il papà è presente solo nel ricordo. (2) Tipica ‘pasta lunga’ del salernitano. (3) Classico attrezzo affusato a sezione quadrata. (4) L’idillio musical-gastronomico è la metafora onirica di un ideale idillio familiare, anelato da ogni bambino, tra il papà (‘grattugiatore’) e la mamma (artefice della pasta e del ragù)! (5) Si arriva, alfine, al disvelamento di quell’abbaglio dei sensi annunciato nel titolo. (6) Gioco di parole sul doppio significato di ‘sciorta’ che è vox media ed equivale alla latina ‘fortuna’. (7) Il ricordo onirico dell’infanzia ormai non è più solo un luogo della memoria, ma un vero e proprio filtro magico tra realtà e fantasia. In grado di influire profondamente, sublimandole, persino sulle percezioni sensoriali, evocando idilliache ambientazioni familiari di un passato che non potrà ritornare. 36 Er sogno, io... e... Dio L’ amuri veru di Tito Micozzi di Annalisa Grazia Guerrera Nta la me vita, aju sfardatu n’mari di pagini, quantu voti m’arribuccu li mirudda quantu voti fazzu àvula la fantasia e la fazzu curriri, senza abbentu! Traversu diserti scunfinati comu si m’assicutassiru curru, finu a perdiri lu ciatu curru, finu a li visciri di la terra curru e stramazzu pirduta n’terra! Ntuttuna di fronti a mia vidu «l’omu». Sturduta, iddu mi duna un bicchieri d’acqua, la so facci è n’mestu surrisu l’occhi d’un cori spizzittatu, senza chiù primavera e mancu estati. E mentri m’aiuta a susirimi vardu ca li so carni hannu l’impronti comu a chiddi mei di l‘ugnia azziccati! E pi essiri sicuri ch’esistemu n’appuggiamu nta n’muru friddu di cimentu armatu. Và tutto male, non mi sembra giusto: qui, mi parlano sempre... del mistero so du millenni, e và sempre peggio! Tu, me lo devi spiegà stò indovinello! E continuo a parlà... col Padreterno, e no, e no... non me la... bevo! E basta... co stò mistero perenne, sei... o... non sei er Padreterno? L’anni so tanti, i misteri aumentano. Me fai pensà! Che a te, sta bene tutto, me fai pensà! Se nte stà bé ce marci! De straforo, t’avessero mandato le tangenti ? Me pia pé mano, io non li fò sti giocarelli! E... s’avvicina a me con tanto affetto, guarda! Me dice! Dentro sto bughetto! Osserva bene, lo vedi... er Parlamento! Osserva quelle capocce, e quei cervelli! Ogni mattina se scambiano i pensieri, prendendo i poteri, invece dei loro doveri! A me!... me mannano solo le preghiere! Figlietto bello! Te vedo un po’ perplesso! Non convinto, vorressi, che io ti spiegassi! Ma poi perderesti lo scopo dell’indovinello! Soddisfatto! Ma il cervello t’arimarebbe vuoto. Ce vò chi sbaglia... e chi rimette a posto. Ancora pensi che io... non ce vedo? Me rimette la mano sopra la spalla! Ste guerre, sta violenza, sti ladri! Io vedo! È primavera di Guglielmo Manitta (di anni 7) So quello che pensano! Quello che fanno! E me mettono, sempre a me de mezzo! Loro lo sanno... si si!!! Non se vergognano, sanno pure, sarvognuno se perdo la pazienza! C’è la mimosa, c’è il sole, c’è la rosa, c’è il canarino che cinguetta. Ve dovrebbe mannà!!! Solo a pensacce!!! A sti filibustieri dovrebbero avé i brividi se perdo la pazienza! Spariscono tutti!!! Antro che martiri... santi madonne e Gesù Cristi! È primavera, l’arancio è bianco di zagara gli uccellini preparano il nido. È primavera, i prati sono verdi e fioriti il cielo è splendente. Mannavve nà carestia... che pe magnà dovressivo tutti piegarvi in ginocchio sulla terra! E adorarla, di più baciarla! Perché soltanto lei è la nostra Manna! Pane e Pace di Alfredo Varriale S’i’ fosse ‘na palomma o n’aucello me mettarria a vulà p’’o “Terzo-Munno” spenzanno pane a ‘e pòvere a zeffunno Eequacche arnese buono pe’ zappà. E quanno l’avarria dignuto ‘a vozza cu tanta grazia ‘e ddio, sarria capace ‘e da’ a stù Munno finalmente ‘a pace ca troppo se fa mò desiderà. 37 Racconto ma gioventù, gli spiego. Non mi capisce. O almeno non dimostra di capire. Scuoto le spalle ed entro lentamente nell’edificio principale del museo. Deserto. Solo enormi fotografie appese ai muri piene di uniformi a righe e sguardi spenti... Gente senza nome né cognome. Gente con numeri. «Il mondo è perfido e triste» mi romba in testa Nabukov. Cammino da solo nelle sale deserte dell’ex campo di concentramento. Ex? Non resisto. Conati di vomito. La vecchiaia non riesce a sopportare troppi ricordi tutti in una volta. Esco in fretta. Il più veloce possibile. Fuori, un passerotto mi guarda da una zolla d’erba ingiallita. Mi fissa. Mi sta aspettando? Come se volesse dirmi qualcosa. Mio Dio, lo spirito di chi si trova in quel corpicino? Forse di Anna Frank? Forse sta volando di campo in campo in cerca dell’infanzia rubata... Dev’essere il suo spirito, così piccolo, non protetto e innocente. Gli occhi spalancati. Così guardano solo i bambini. Le cose belle e quelle brutte. Mi avvicino. Non ha paura. Gli siedo accanto ed inizio a parlare. A lei. Tutto quello che è successo da quando me ne sono andato da qui. Tante cose e niente. In effetti, molto. Troppe cose brutte e qualcuna buona. Cerco di ricordare le cose buone e di raccontargliele. Non ci riesco. Qualcun altro dentro di me le sta dicendo che anche oggi si uccidono i bambini. In tutto il mondo vanno incontro alla morte a cuore aperto. Anche peggio. Persino i bambini hanno iniziato a uccidere. In nome di quelli che hanno bisogno di campi di concentramento, ghetti, muri, isolamenti... Passeggio per il viale dei vecchi pioppi che portano ancora i chiodi arrugginiti ai quali impiccavano la gente... L’uomo riesce a convincere anche i pioppi a ricordare, ma non se stesso. Si è preso il diritto di dimenticare. E lo usa in modo selettivo. Il metodo della minor resistenza. Quel metodo tanto amato dai grandi leader. A cosa serve Dachau oggi? Non ci va più nessuno. Il ricordo dura finché c’è coscienza. Dachau è stato dimenticato. Sta morendo anche lui. Sta scomparendo dalla realtà. Lo in contri ogni tanto in qualche libro di storia che capisco sempre più difficilmente. Forse riprenderà a vivere. Forse proprio in questo momento qualche leader lo sta pensando in qualche birreria. Forse le nevi di nuovo non saranno più bianche. Quando dimentichi, tutto diventa possibile, non è vero? Quello di cui i leader non parlano non è successo. Quello di cui parlano doveva succedere. Leggi le loro memorie, la peggior letteratura che l’uomo abbia mai scritto, e vedrai. Mio caro amico, non lo so cosa farai di questi pensieri confusi, ma sono sicuro che non li dimenticherai. Scusami per le lettere macchiate... Dicono di non avere un inchiostro resistente alle lacrime... Tuo S. Isakov Dachau 2004 (Il ricordo dimenticato) di Drazan Gunjaca Ogni tanto maledico il giorno in cui ho iniziato a scrivere. La scrittura mi ha avvicinato a tante tragedie altrui che qualche volta vorrei, è più che umano, non aver mai sentito, incontrato o visto. Faccio sempre più fatica a far fronte ai propri ricordi, e col tempo si accumulano anche quelli degli altri. Una persona si abitua a tutto fuorché alle tragedie. Non è possibile abituarsi, puoi solamente sopportarle o fuggire, se hai la possibilità. Comunque sia, una volta che la guardi in faccia devi scegliere tra le sue facce della realtà. Tra uomo e uomo. Il buon vecchio S. Isakov, prima del suo ultimo viaggio, malato e vecchio com’era, decise di visitare Dachau ancora una volta. Di scrivere le impressioni con mano tremante, a lettere grandi, perché la sua vista è sempre peggio... Caro amico, una mattinata fredda e triste a Monaco di Baviera. Sto aspettando il taxi. Finalmente arriva e vi esce un giovane cercando con gli occhi il mio bagaglio. Non ho niente oltre a questo po’ di anima che mi rimane. Per fortuna, lui non lo vede. I resti dell’anima. Gli dico in tedesco di portarmi a Dachau. Mi guarda un po’ perplesso ma senza fare commenti. Non dice niente. Guardo i campi prima di arrivare a Dachau, macchiati di bianco dalla neve che si sta sciogliendo. Appaiono così innocenti, quegli stessi campi sui quali per giorni, mesi e anni si accumulava la cenere del vicino crematorio. La neve in quegli anni non era bianca, per quanto cadesse fitta. Sovvengono i ricordi. Vedo una striscia di fumo che si innalza verso il cielo portando con sé migliaia di Eveline, Natase, Ane, Radmile... Le nuvole avevano un colore grigio uniforme particolare, senza sfumature, non ho mai più visto niente di simile. Anche quando c’era bel tempo stavano lì, tra noi ed il cielo, tinte di questo colore strano. Il colore del fumo. Anche la pioggia era grigia. Cadeva sull’erba, bagnava i fiori campestri intorno al campo di concentramento... E nelle sue gocce restituiva le Eveline e le Natase... In quei campi bagnati si sono sposate con la terra... Ai matrimoni cantavano gli uccelli, e i topi e le formiche preparavano per loro le prime notti... Anche oggi, dopo tanti decenni, c’è una leggera brezza che passa sopra quei campi, canticchiando poesie mai cantate, disturbando questo silenzio sacro. Non ci sono più quelle urla terribili... Solo l’eco nella mia testa. Faccio sempre più fatica a distinguere i suoni. Quelli dall’esterno da quelli che ho dentro. Sto davanti al portone del campo di concentramento. Chiuso. Non ci sono più le guardie. C’è ancora il filo spinato, con le torrette per le sentinelle vuote. Pago il taxi. Il giovane prende il denaro e si allontana in fretta, turbato. Perché? Di cosa ha paura? Aspetto l’orario di apertura, alle 10. Arriva una vecchia Opel rossa dalla quale esce un uomo che mi guarda come se fossi arrivato da un altro pianeta. I suoi occhi chiedono cosa sto facendo qui. Ritorno alla pri- Il Calendario del 2005 L’accademia internazionale Il Convivio anche quest’anno promuove l’iniziativa di un calendario per i suoi associati ed amici Pittori e Poeti. Per informazioni telefona o scrivi alla Redazione del Convivio o alla sede dell’Acca-demia: via Pietramarina, 66 - 95012 38 gnazzando e tutt’al più ad afferrarli, ché così allacciati era più facile, per poi separarli e liberarli, probabilmente appagati dalla soddisfazione di avere così interrotto quella sfrontata esibizione. Ma io non mi limitavo a questi giochi infantili. La mia crudeltà si manifestava in operazioni ben più raffinate: avevo trovato in un cassetto del ripostiglio la bobina di un trasformatore, su cui era avvolto un sottilissimo filo di rame. Ne tagliavo un breve tratto e c’infilzavo le mosche ad una ad una, dopo averle acchiappate mentre oziavano da qualche parte a progettare probabilmente arabeschi da tracciare sugli specchi del soggiorno. E dopo averne infilzate un buon numero, osservavo con beffarda indifferenza lo svolazzio sul pavimento di quella collana animata. Altre volte, in vena di esperimenti scientifici, chiudevo alcuni esemplari ancora vivi di quei poveri insetti dentro un barattolino di vetro trasparente e ne aspettavo la decomposizione, per contemplare stupito il brulichio di vermi che dopo qualche giorno ne derivava. Era uno spettacolo affascinante e nauseante allo stesso tempo che mi turbava profondamente, tanto che ben presto mi precipitavo a buttare il recipiente nella pattumiera, e innescava in me tutta una serie di ingenue riflessioni sui misteri della vita e della morte. Queste amene estrosità le tenevo però tutte per me e non avevo il coraggio di parlarne ai miei amici e tanto meno ai miei genitori, segregandole nel mio minuscolo bagaglio di esperienze strettamente personali. E tali restarono per anni e anni fino alla stesura di questo racconto. Grazie al cielo questi bizzarri impulsi infantili sfumarono presto nel disgusto e dopo di allora le mie uniche violenze hanno preso di mira formiche e scarafaggi, ma al solo scopo di liberarne i vari appartamenti nei quali ho vissuto, e, in ogni caso, senza sofisticati accorgimenti atti a causare in essi sofferenza. Sadismo coi calzoni corti di Michelangelo Cammarata A pensarci adesso, certi tratti di crudeltà che attraversarono la mia infanzia sembrano inverosimili. E mi lasciano tuttora nell’incertezza se considerarli innati e poi gradualmente superati con l’istruzione e l’affinamento della sensibilità o frutto di contingenti azioni e suggestioni che senza volerlo condizionarono in maniera così discutibile alcuni mesi della mia vita. Erano le mosche le mie vittime preferite. A dire il vero nei primi anni cinquanta Gela pullulava di questa sorta d’insetti. Ricordo ancora che il grande specchio della credenza spesso esibiva tutt’intorno un informe ricamo costituito da centinaia di cacchine che, giorno dopo giorno, vi si depositavano con metodica pervicacia. Devo anche dire che, vista l’insufficienza delle consuete dosi di DDT, sebbene spruzzate con generosità, a contrastare il fenomeno, questi ghirigori erano diventati uno spettacolo usuale e nemmeno tanto mortificante; tanto che mia madre, con il suo pacioso fatalismo, non se ne preoccupava più di tanto, per cui gli specchi, che le mosche mostravano di prediligere per le loro esibizioni artistiche, si conservavano per giorni e giorni sfacciatamente imbellettati da una miriade di minuscoli nei. Al fine almeno di limitare i danni e mettere un freno a quella fastidiosa invasione, si studiava di tenere abbassati durante il giorno gli avvolgibili e di evitare la sera di accendere le luci; ma con quale animo si poteva, di giorno, esiliare all’esterno la straripante luminosità dell’estate siciliana e ci si poteva confinare la sera nell’opprimente camicia di forza dell’oscurità? Così ci si rassegnava a convivere con quella molesta realtà, limitandosi a contrastarla all’ora dei pasti, quando la presenza del cibo rendeva ineludibile difendersene con maggiore decisione. Fortunatamente prima o poi (invero più poi che prima) arrivava la periodica disinfestazione del Comune a ridimensionare entro limiti tollerabili quel flagello. Come si comprende facilmente la materia prima per dare sfogo alle mie ingenue pulsioni di sadismo non mi mancava davvero. La caccia alla mosca era un passatempo che appassionava anche i miei amici: ci armavamo di elastici, li allungavamo e li fiondavamo sui vetri delle finestre dove quei poveri insetti si aggiravano ignari e indifesi. Ovviamente ad ogni colpo andato a segno erano schiamazzi di gioia, quasi fossimo al luna park dove eravamo soliti sfogarci su piramidi di barattoli di latta che cercavamo di colpire con palle di pezza. Dopo due o tre ore di continui armeggi ci si fermava accaldati e felici ad ammirare gli insetti stecchiti per terra e quelli che, appena feriti, ancora si avvoltolavano su se stessi nel vano tentativo di riprendere il volo. Altri restavano spiaccicati sui vetri offrendo uno spettacolo a dire il vero stomachevole che tuttavia non ci esponeva ai rimbrotti degli adulti che, tutto sommato, consideravano la nostra un’attività meritevole di encomio. Fra di noi c’era anche chi riusciva ad afferrare a volo le mosche con grande abilità e, dopo averle fatte filtrare con cautela negli interstizi fra dito e dito per evitare che scappassero, le privava delle ali, le buttava sul tavolo e ne seguiva ilare la fuga scomposta e disperata. Altra fonte di divertimento che dava origine a lazzi e scurrilità era quando scorgevamo gli insetti nell’atto di accoppiarsi. Ma in questo caso ci si limitava a guardarli sghi- Pantaleo Mastrodonato, Preistoria e civiltà (Simposiacus, Bisceglie 2003). Il volume tratta tematiche interessanti e affascinanti: Le origini dell’universo, Origini della terra, Nascita dell’uomo, Primi rudimenti di cultura, Nascita della civiltà, I popoli preistorici, Le quattro età del mondo, L’Oriente mediterraneo, La civiltà in Cina e in India, L’Europa agli albori della storia, Preistoria e storia nei paesi extraeuropei, Epica ed epopea orientale, Volumi epici e testi religiosi, L’indoeuropeo e le sue ramificazioni, Letteratura europea alle soglie della storia, Omero e i suoi poemi. Pantaleo Mastrodonato, La mimolodia, una nuova forma di melodramma (Simposiacus, Bisceglie 2003). «La mimolodia è la forma mimica per eccellenza che si propone di ricordare agli uomini che tutti abbiamo una missione da compiere sulla terra. La mimolodia è qualcosa in più del poemetto dialogato, è un’azione drammatica in due parti ed un epilogo, che ha la nobile missione di istruire l’umanità, ricordando che tutti sulla terra viviamo per volontà di Dio». Giuseppe Janne, Poesie per un’ora (ed. I.E.I., Marzo 1993). «Devo congratularmi con te per la schiettezza e la profondità dei sentimenti che alimenta questo tuo impegno ‘letterario’. Sono cose delicate e care, che definiscono una sensibilità e parlano a chi è sensibile e gentile» (Arcangelo Leone De Castris). 39 co. Niente di male. Dopo tutto, quando aveva ricevuto la lettera di risposta di Saramago all’e-mail che gli era stata inviata dieci giorni prima, non aveva creduto alla propria fortuna. Molte grazie per la vostra risposta, erano state le parole del celebre autore, sarei molto felice di poter collaborare con la Vostra rivista. Che colpo! Con quell’intervista, Craig avrebbe potuto anche sperare di fare un salto di carriera. «Trattamelo bene, mi raccomando» lo aveva pregato il suo capo. «Sai che vuol dire per noi un contatto del genere, vero?». «Certo, capo» lui si era limitato a rispondere, sicuro di non poter fallire. «Non si preoccupi». Adesso arrancava ansimante, mentre la sua pelle rossa e sudaticcia allagava i suoi abiti, simili ad una carta assorbente di ottima qualità. Ai semafori, lui, educato alla cultura anglosassone del rispetto delle regole, si fermava anche se non passava nessuno. Dopo un po’, però, si rese conto che duravano secoli e che nessuno si curava di aspettare, così ritenne fosse il caso di meridionalizzarsi e di imitare i Lisbonesi, che lo guardavano tra il meravigliato e l’ironico. Ad un tratto, gli parve di vedere in lontananza la sagoma chiara e luminosa del famoso monastero. L’aveva vista in almeno venti guide turistiche, prima di partire, per cui non c’era verso che si sbagliasse. Sapeva che, a quel punto, la pasticceria non doveva essere molto lontana: infatti, dopo non molte decine di metri si accorse di esserci praticamente davanti. Si fermò all’improvviso, cercando di recuperare parte del fiato che aveva speso. «Che diamine» pensò rinvigorito. «Non era poi così lontano». Quindi entrò. All’inizio gli parve un bar normalissimo, ma poi, quando si fu abituato alla sua gradevole penombra, realizzò che non consisteva in una sola stanza, ma proseguiva all’interno. Un cameriere lo accolse. Craig riuscì a capire che gli stava chiedendo se volesse sedersi, e rispose di sì, aggiungendo che aspettava José Saramago. A quel punto, si sarebbe aspettato di vedere una faccia ammirata, mentre il ragazzo in giacchetta bianca mantenne l’espressione indifferente di prima. «Forse non lo conosce» pensò lo Scozzese. Il giovane lo accompagnò ad un tavolo nella seconda stanza, dove lo fece accomodare. C’era un’altra sedia a disposizione, così Craig chiese al cameriere se poteva informare il signor Saramago che lui era all’interno, non appena fosse arrivato. Quello rispose: “Claro, claro…”, e Craig si tranquillizzò alquanto. Poi il giovane gli chiese che cosa gradisse, e lui ordinò una fetta di torta e una birra. Il ragazzo se ne andò, con l’aria di chi non ha problemi dalla vita. Sarebbe ritornato due minuti dopo con l’ordinazione servita su un vassoio. Iniziò così un’attesa destinata a protrarsi per almeno venti minuti, interrotta solo da sporadici e muti passaggi dello stesso cameriere, nonché dall’arrivo di altri avventori, alcuni discreti e signorili, altri rumorosi, altri ancora stranieri. Ma di Saramago neanche l’ombra. Craig aveva volutamente centellinato la torta e la birra, ma adesso stavano comunque finendo. Cominciò a temere che si fosse trattato di un crudele scherzo, e si alzò in piedi. Per poco non si urtò con il cameriere, che stava venendo proprio da lui. “Senhor, José Saramago está aqui!” gli disse tutto contento, e poi se ne andò. Craig si emozionò a tal punto che avrebbe gradito usufruire della toilette, ma il tempo scarseggiava, così si risistemò l’abito e si rimise a L’intervista di Giovanni Agnoloni All’incrocio non passava nessuna macchina. Una donna controllava un bambino che attraversava da solo la strada, e gli sorrideva nel calore del primo pomeriggio. Il vento muoveva le fronde degli alberi, il cui verde adesso appariva più intenso del solito. Craig Bennett avanzava nell’afa delle tre a Lisbona, mentre le sirene di un’ambulanza lontana propagavano un’eco distorta per le strade della capitale portoghese. «Che caldo…» si sorprese a dire. Il lungofiume si perdeva a vista d’occhio, e lui, Scozzese in viaggio di lavoro, non sapeva proprio come affrontare la lunga camminata che lo aspettava. Saranno stati almeno due chilometri, fino al Mosteiro dos Jerónimos, e sembrava che la maggior parte dei mezzi pubblici avesse aderito allo sciopero annunciato la sera prima al telegiornale. «Si sconsiglia di muoversi nelle ore più calde del giorno» aveva detto il notiziario. Ma Craig doveva lavorare, e non poteva fare altrimenti. Lui commerciava libri e scriveva articoli per lo Scottish Literary Newsweek, una rivista letteraria di Glasgow, dove viveva. Era stato incaricato di recarsi in Portogallo per intervistare il grande scrittore José Saramago, e l’incontro sarebbe avvenuto, per scelta dello stesso autore, in una prestigiosa pastelaria del quartiere di Belém. Craig sapeva che molti artisti sono piuttosto eccentrici, ma non credeva di poter andare a finire in una pasticceria, per parlare con uno dei più famosi in assoluto. Di solito, se non altro per ragioni di privacy, riservavano spazi appositi in grandi alberghi, o addirittura invitavano gli intervistatori nel proprio studio. Evidentemente, oggi era destino che non fosse così. Il suo giornale gli aveva passato lo stretto necessario per il viaggio in aereo e per due notti in albergo. Così Craig si era astenuto dall’idea, che pur lo tentava, di prendere un taxi, perché non ci voleva rimettere di tasca sua. Ma ora cominciava a rimpiangere di non aver fatto quella scelta. Comunque era in perfetto orario, sempre che non si accasciasse al suolo per un colpo di calore. Glielo aveva detto, sua madre: «Preparati, ci sarà un’afa terribile». In effetti aveva ragione, ma non del tutto: c’era pur sempre una gradevole ventilazione che rendeva i raggi del sole più sopportabili. I piccioni vagavano per i marciapiedi in cerca di cibo, lasciando dappertutto tracce appiccicose del loro passaggio. Di tanto in tanto gli sembrava di sentire lo sferragliare di un tram in lontananza, ma generalmente era un’illusione, prodotta dagli echi lontani di qualche cantiere. Aveva avuto appena il tempo di fare un giro panoramico della città, che aveva colpito non poco la sua immaginazione di nordico girovago. Abituato com’era alle geometrie moderniste di Glasgow, o a limite al rigore classicheggiante di Edimburgo, lo stile approssimativo e pittoresco di Lisbona lo aveva sedotto, e anche il bacalhau della sera prima, accompagnato con vinho verde, aveva dato un contributo non indifferente alla sua soddisfazione turistica. Ma per il resto era stato molto impegnato con la preparazione delle domande da fare al grande scrittore, che implicavano la conoscenza pressoché completa della sua opera e del suo stile. Impegni extra che, naturalmente, non comportavano nessuna provvigione, ma facevano parte del gio40 sedere, pronto a scattare in piedi non appena il Premio Nobel fosse spuntato da dietro l’angolo. Il problema, però, era che ancora non veniva. «Avrà incontrato qualcuno che conosce» pensò Craig. Dopodiché vide solo passare una ragazza bionda in jeans, una coppia sportiva ed un omino basso e grassoccio. Con sua sorpresa, vide che quest’ultimo si avvicinava proprio a lui. «O senhor Bennett?» chiese timidamente, con una voce quasi effeminata. «Sì, prego?» rispose lui. «Sono José Saramago, e dovevo incontrarla» l’omino replicò con fare insicuro. Craig non poteva credere alle sue orecchie. «Lei è José Saramago?» chiese, sbigottito. «Sì, posso accomodarmi?». «Prego, si sieda…». Craig udì la propria voce rispondergli, mentre si chiedeva dove potesse essere l’equivoco. «Scusi» si decise quindi a parlare, ma è lei che ha risposto alla e-mail di Scottish Literary Newsweek?». «Sì, la settimana scorsa. Perché, signor Bennett, c’è qualche problema?». «“In effetti sì», ammise Craig. «Lei completamente diverso dall’uomo che ho visto sui giornali». «Quali giornali, scusi?». Craig si sentì preso in giro. «Beh, potrei fargliene un elenco lunghissimo. Praticamente quelli di tutto il mondo…». «Temo davvero ci sia stato un fraintendimento, allora, signor Bennett». «Lei è un omonimo, vero?» Craig chiese, sentendosi venir meno. «Le dirò, signor Bennett, è la terza volta che mi capita, quest’anno. Io sono José Miguel Saramago, e sono un commediografo poco conosciuto. Ho la fortuna e la disgrazia di chiamarmi come il vincitore del Premio Nobel, per cui non passo inosservato, ma poi quando i critici leggono i miei lavori finiscono sempre per fare il confronto con l’altro Saramago, e…». «Capisco…» fece Craig, che già pensava alle spese che avrebbe dovuto rimborsare alla propria rivista. «Non le interesserebbe leggere qualcosa che ho scritto?» il timido José si fece avanti. «Eh?» Craig rispose, ancora mezzo assorto nei suoi pensieri. «Leggere qualcosa?». «Sì, vuole?». Craig si guardò intorno, e vide la coppia che mangiava e tubava, i signori distinti che discorrevano, la ragazza in jeans che si faceva ammirare, e poi se stesso e quell’omuncolo che non avevano niente da fare lì, in quel momento. Se non altro, forse avrebbe scoperto un talento inespresso, o almeno in Scozia qualcuno si sarebbe fatto una sana risata, sorseggiando un whisky col giornale in mano. «Mi dica…» infine si rassegnò, tirando fuori di tasca un taccuino e una penna. Il “gioco” di Djalma di Elio Picardi Djalma vola quando ancheggia lieve sui tacchi sottili: e una danza armoniosa che sembra il ritmo di una samba, un movimento che attira l’attenzione di tutti, dei compratori che la vedono passare e dei venditori che si affacciano dalle bancarelle della Fiera del Sabato. Djalma cammina tra due ali di mercanzie esposte ai lati della strada, una lunga via di un quartiere popolare che, a tratti, è così zeppa di oggetti e di persone, che si avverte l’impressione che manchi l’aria. Quando la strada si restringe ad imbuto, è inevitabile incrociare i bellissimi occhi verdi della ragazza, occhi luminosi, sorridenti, spensierati, che si guardano intorno con sfrontata sicurezza... Ogni tanto si arresta accanto ad una bancarella: prende dal banco dove sono in mostra orecchini dalle varie fogge e colori una coppia di luccicanti pendagli, se li misura e accoglie con un sorriso lo sguardo d’ammirazione del giovane bruno al quale li restituisce dopo la prova, poi riprende il suo coreografico incedere con la splendida grazia che la contraddistingue. Più avanti chiede al venditore di rossetti di provare sulle labbra la tinta accesa di uno stick campione, ne controlla l’effetto nello specchio che l’uomo le porge e, attraverso di esso, calcola quanti uomini si siano fermati ad ammirarla. Riprende la sua “passerella”, per un attimo si ferma a prendere a volo un fermacapelli rosso-fuoco: è un’intensa macchia di vivace colore sulla sua nerissima chioma sfilzata, poi stacca da una gruccia un paio di jeans sfrangiati decorati con disegni floreali, un modello di quelli che si portano adesso, con la vita bassissima che lascia scoperto l’ombelico e parte della schiena, più o meno come gli aderenti pantaloni bianchi che indossa. Con mano esperta li fa combaciare perfettamente con i suoi per considerarne le misure, poi li restituisce al riccioluto addetto al banchetto che è accorso incantato dalla presenza di una così bella cliente, gli fa un malizioso occhiolino e prosegue oltre... Djalma è venuta da un paese sudamericano alcuni anni fa: la sua poverissima famiglia soffriva talmente la fame ch’era stata costretta a venderla per sopravvivere. Tra coloro che si erano fatti avanti, i suoi genitori avevano accordato fiducia ad Hector, un omone sui quarant’anni, di pelle scura, con un paio di grossi baffi ed i capelli a spazzola. Hector era una specie di faccendiere e si arrangiava a trattare ogni tipo d’affare: quando aveva visto per la prima volta la quindicenne Djalma era rimasto colpito dall’acerba bellezza della ragazza, una bellezza che stava sbocciando in un fisico che si preannunciava favoloso. Per rassicurare i parenti aveva detto che la loro figliola, colla sua invidiabile linea, avrebbe potuto fare la modella e che l’avrebbe condotta in Europa dove aveva dei contatti con alcune Case di moda. In effetti Djalma non era stata mai bambina e già a dodici anni, quando rubava nei Supermercati, i suoi furti più frequenti consistevano in calze, matite per gli occhi e rossetti perché gia si sentiva una piccola donna. Hector l’aveva condotta in Europa, ma una volta giunti lì, non aveva interpellata nessuna Casa di moda, ma aveva iniziato ad insegnare alla ragazza il “gioco”. Dalle lezioni di Hector, Djalma aveva appreso che l’elemento essenziale affinché il “gioco” riuscisse era la capacita di sollecitare al massimo l’interesse maschile, poi il resto sarebbe venuto da sé. Evocare, in un’ombra apposita, l’oggetto taciuto, con parole allusive, mai dirette, che si riducono a silenzio uguale, comporta tentativo vicino a creare 41 Quando ne era divenuta padrona ed aveva ottenuto i primi risultati importanti, ella aveva talmente apprezzata la tecnica trasmessale da Hector, che n’era stata entusiasta e più del denaro che le faceva guadagnare (e che inviava per la maggior parte alla famiglia) amava i preamboli e le manovre da cui era costituita. Il primo successo era coinciso con la certezza di essere finalmente donna, una certezza che le aveva fatto scoprire le infinite potenzialità della sua femminilità. Ora, alla Fiera del Sabato, Djalma vola leggera con movenze studiate e quando gli uomini si voltano a guardarla, sorride orgogliosa. Si ferma accanto a dei costumi da bagno, prende il pezzo superiore di un policromo bikini e se lo accosta strettamente al procace seno per controllare se le coppe coincidano con le sue forme, poi si sposta rapidamente alla bancarella contigua e inforca un paio di lenti da sole, voltandosi repentinamente a guardare un giovanotto che si è fermato a fissarla con evidente interesse. Djalma prosegue con passi leggeri e morbidi, ha plastiche movenze feline, va avanti tra la folla ed ha sul volto il sorriso splendente della sua verde età e la gioia che si sprigiona dall’armoniosità della sua figura e danza fresca e graziosa. E procede luminosa senza che la domanda sul significato della sua vita e su ciò che le riserverà il futuro neanche la sfiori... Brevi riflessioni sulla letteratura albanese di Miranda Haxhia Guardando il percorso della nascita della nostra letteratura non è possibile fissare una data esatta dell’inizio della scrittura in Albania, perché tutta la produzione letteraria che precede la metà del XVI secolo è andata dispersa. Sappiamo che essa ha origini antiche ed è contrassegnata dall’esistenza d’alcuni poemi epici popolari che inneggiano agli eroi mitologici; la prima opera giunta fino ad oggi è “Il messale” di Gjon Buzuk (1555), il cui originale si conserva nella biblioteca del Vaticano. Fu Naim Frashëri (18461900) il vero fondatore della letteratura unitaria albanese, oltre che patriota, maestro e apostolo del popolo albanese al suo nascere come nazione. Scrittore ricco di una spiritualità e religiosità straordinaria, Frashëri creò tutto un mondo filosofico - religioso personale in cui il concetto del Cosmo e di Dio si confondono nell’amore e nella bontà universali e riescono a trasformarsi in altissima poesia. I versi patriottici di questo gran poeta sono seguiti da quelli di Gjergj Fishta, (1871-1940), tesi ad esaltare le azioni di difesa del territorio albanese contro le ambizioni espansive degli Slavi del Sud. Lasgush Poradeci (1899-1987) ci tramanda delle opere poetiche celestiali pregne di concetti filosofici e di tendenza all’amore. In quest’ultimo secolo è iniziata anche la prosa moderna con narratori come Ernest Koliqi (1903-1975), Mitrush Kuteli (1907-1967), Migjeni (1911-1938). Ismail Kadarè (1936) con i suoi innumerevoli romanzi, tradotti in tutto il mondo, affronta in profondità l’evoluzione dello spirito albanese ed i condizionamenti storici e sociali che l’hanno portato alla realtà attuale, rappresentando con la sua opera quasi l’intera enciclopedia del cammino del popolo d’Albania. La storia della letteratura albanese e gli sviluppi della nostra società questi dieci anni sono uno specchio delle vere ricerche letterarie. Una letteratura condizionata dal realismo socialista non poté mai essere libera nell’esprimere delle idee. Invece in questi dieci anni c’è stato un flusso di libri, di autori che liberi da ogni censura hanno pubblicato le loro opere letterarie. La letteratura albanese si scrive dentro ai confini d’Albania. Essa è parte di una letteratura con i suoi problemi e le sue caratteristiche, condizionata dai fattori che la portano al termine. Far parte di un popolo con una lingua che si parla pochissimo nel mondo, porta la difficoltà di pubblicare la nostra letteratura all’estero e confrontarci con altre culture, restando isolati Riguardo ai racconti rari sono gli autori che ne scrivono di belli. Esistono racconti in fase sperimentale, narrazioni tra poesia e prosa, che definiamo prose poetiche. Il loro effetto, non è un gran che, perché quando manca la fabula, quando un autore scrive più per se stesso e non per i lettori, allora cosa rimane dalle sue opere? Quasi niente. La poesia è cambiata quasi completamente; prima si scrivevano poemi, leggende in versi, le poesie erano pochissime. Ma condizionati dal tema, mancava veramente una critica professionale. Il calendario del Convivio 2005 È in preparazione il “Calendario degli artisti e dei poeti del Convivio”, in elegante veste editoriale, dedicato a pittori, scrittori e poeti del Convivio tra i più significativi del nostro tempo. Il Calendario sarà stampato in 12 ff. + copertina con stampa interamente in quadricromia ft. 30x42. Per ogni mese saranno inserite la foto a colori di un’opera di pittura e una poesia, con relativi cenni o breve nota critica sugli autori. Il contributo richiesto per ogni calendario è di euro 4,80 per copia per una richiesta minima di 25 copie. Oltre le 25 il contributo è di euro 4,00 ciascuna. Le adesioni e tutto il materiale fotografico e/o cartaceo, con l’invio della quota di adesione da versare sul CCP n° 12939971, intestato a: Conti Vincenza, via Pietramarina 66, 95012 Castiglione di Sicilia – CT (si prega di allegare fotocopia di ricevuta di versamento effettuato), dovranno pervenire entro il 15 luglio 2004 presso la sede della delegazione del Convivio di Messina: Flavia Vizzari via G. Battista Caruso n° 3, 98149 Messina,. Le prime adesioni avranno la possibilità di scelta del mese in cui apparire. Nei casi in cui è prevista la consegna dei calendari non personalmente all’artista inserito, l’Associazione può inviare su richiesta le copie dei 25 calendari per posta, con pagamento contrassegno a carico dell’artista stesso. Per ulteriori chiarimenti e informazioni si prega contattare la delegata Flavia Vizzari: tel. 090-671391- cell. 3289180850 – e-mail: [email protected], oppure la sede del Convivio: tel. 0942-986036 – cell. 3331794694, e-mail [email protected] 42 Lingua Portoghese Poesia Straniera Duros versos al Pai de Condorcet Aranha Versi duri al Padre Trad. di Angelo Manitta A grande incerteza di Luna Fernandes Meus versos podem ser duros, mas são a pura expressão, dos homens que, já maduros, pelo sim ou pelo não, estão vivendo o futuro. Cada lágrima escorrida, nas fundas rugas da face, é só lembrança da vida, que embora no tempo passe, jamais ficou esquecida. Assim poesias brotam, surgindo das emoções, de verdades abarrotam, o peito, com as sensações, sofridas, que não se esgotam. Porém não posso esconder, entre as sombras do destino, por onde andei ao viver. Porque sei que o sol a pino, à tarde, há de morrer. Foram tantos meus amores, tanta fé para abrigar, que agora entendo que as dores, me levaram a duvidar, dos tais sagrados "senhores". Me perdoem, se existirem, pois não hei de ficar mudo. Até, se me permitirem, acho mesmo um absurdo, se, pra sofrer que se vem. E agora que a noite cai, sobre o sonho derradeiro, inseguro aqui se vai, esse homem verdadeiro, quem sabe, se unir ao Pai? I miei versi possono sembrare duri, ma sono l’espressione pura degli uomini che, già maturi per il sì o per il no, stanno vivendo il futuro. Ogni lacrima scorsa nelle profonde rughe del viso, è solo memoria della vita, che benché nel tempo passa, non è stata mai dimenticata. Così germogliano delle poesie, facendo sorgere delle emozioni, delle verità riempiono il petto, con le sensazioni sofferte, che non si esauriscono. Però non posso nascondere, fra le ombre del destino, dove sono andato a vivere. Perché so che il sole allo zenit, di pomeriggio, deve morire. Sono stati tanti i miei amori, tanta fede per avere un riparo, da capire ora che i dolori, mi hanno spinto a dubitare, di tali sacri “signori”. Perdonami, se esisti, perché non posso restar muto fino a che, se mi permetti, io trovo un’assurdità, se sei venuto per soffrire. Ora che cade la notte, sull’ultimo sogno, insicuro di qui va via, quest’uomo vero, che, chissà, si unisce al Padre? O que existe, afinal, depois da vida? O céu ?... O purgatório?... O nada?... Uma outra vida, longa e atribulada como essa que acabou [de ser vivida?... Capuz Cappuccio Trad. di Angelo Di Mauro di Gerson Valle Às vezes, passeando no tempo de meus jardins anacrônicos, avisto uma gata miando no mel da voz e postura. Seu passo algodoado parece coberto por capa e capuz, protegida da violência de nossas cidades densas. Seus olhos observam perigos externos, mas quieta e meiga se deixa roçar entre flores fora do tempo, para onde eu também me transponho, sem que o resto do mundo apareça... Qualche volta, passeggiando nel tempo dei miei giardini anacronici, vedo una gatta che miagola nella dolcezza di voce e posizione. Il suo passo di cotone sembra coperto da mantello e cappuccio, protetto dalla violenza delle nostre dense città. I suoi occhi osservano pericoli esterni, ma quieta e affettuosa si lascia sfiorare tra fiori fuori del tempo, dove io tuttavia mi traspongo, senza che il resto del mondo appaia... 43 E o que è dado levar, na retirada ?... A semente plantada?... A flor colhida?... A chama da paixão interrompida?... A pauta da canção inacabada?... Para onde... E por que... E como... [E quando... Vivemos, há milênios, perguntando e ninguém nos responde com clareza... Tolos e sábios, crédulos e ateus, por mais que se confie e crea em Deus, Todos temos, no fundo, essa incerteza !... La grande incertezza Trad. di Angelo Manitta Che cosa esiste, in fine, dopo la vita? Il cielo?... Il purgatorio?... Il nulla?... Un’altra vita, lunga e tribolata come questa che è sul finire [di essere vissuta?... E ciò che è dato prendere, nella ritirata? Il seme piantato?... Il fiore scelto?... La fiamma della passione sospesa?... Il rigo della canzone non finita?... Dove... E perché... E come... [E quando... Siamo vissuti, da millenni, chiedendo e nessuno ci risponde con chiarezza... Sciocchi e savi, creduloni ed atei per quanto si confidi e creda in Dio, tutti hanno, in fondo, quest’incertezza! Cinzia Civardi Foschia (olio su tela, cm 50x70) Fábio Silva Gomes, Cântico celeste, poemas religiosos (Brasile 2001) Fabio Silva Gomes, giovanissimo autore brasiliano, pubblica questa silloge di poesie all’età di 13 anni. È nato infatti il 2 febbraio 1988. In quest’opera dal titolo Canto Celeste egli eleva quasi un salmo alla vita. La silloge, in cui l’autore si pone entro la sfera ecclesiastica, quasi creatore di salmi, è certo paradigmatica. Ogni lirica e ogni verso rappresentano un io profondamente cattolico nell’ambito di una struttura sociale ben definita. Il quadro delle sensazioni in questa raccolta di liriche è quasi una tela rivelatrice di ogni evento principale del cattolicesimo, onde il Natale è la molla referenziale. A questa festività, infatti, vista sotto mille aspetti, mille luci e mille colori, sono dedicate la più parte delle poesie. Canto celeste è l’inno di un autore alimentato ogni giorno dal contatto con la propria immaginifica visione mitico-mistica, filtrata attraverso il cristianesimo. La presenza della religiosità nella quotidianità appare chiara. Leonilda Hilgenberg Justus, Amor Pedra Sem Fendas (Ponta Grossa, Brasile 2002). «Leonilda, na talentosa abrangência da poesia, não esqueceu um capítulo sobre o trevo. Mas o que significa, para mim, o trevo na poesia? As antologias e a gramática poéticas o relegaram para o plano do esquecimento. No entanto, para mim, se a lira é o símbolo da música poética, sem dúvida, podemos ter o trevo como o símbolo flor da poesia! E, mais ainda, o trevo branco simbolizando a pureza imaculada da Poesia! E são todos brancos, na pintura poética, os trevos de Leonilda Hilgenberg Justus! Empolguei-me brasileiramente com «Na Escola de Samba, / quantas raças diferentes / em Fratem idade...» (J. Caruso Madalena). Amor, palavra bela, sentimento Difícil controlar cada emoção… Nasce dentro de nós, num bom [momento Chama que nos aquece o coração! Tal como astro de luz no firmamento É um mundo a girar [em nossa mão Aquece como a lava dum vulcão Sabe esquecer a dor e o sofrimento! O amor puro vive dentro de nós Tal como um rio que corre para foz E que sai sempre puro da nascente Renasce sempre em horas de carinho Com asas mais douradas faz seu ninho Voos de primavera mais ardente! Fernando Fabio Fiorese Furtado, Amore Dicionário minimo, (Funalfa, Brasile 2003). «Das belas imagens evocadas, boa parte se vincula à interpretação entre a linguagem e o espaço circunstante, bem como à rasura biográfica da infância, núcleoda oficina vivencial do poeta» (Iacyr Anderson Freitas). Iacyr Anderson Freitas, Trinca dos Traídos, (Funalfa, Brasile 2003). «È curioso que, num momento em que apela, uma certa linhagem de prosadores, para a linguagem neonaturalista, quase jornalística, ou até mesmo mimética, pseudorealista, Iacyr venha se apresentar vestito numa roupagem clássica, em tudo estranha e em tudo próxima» (Luiz Ruffato). Qualcuno che ha solo fatto bene Trad. di Angelo Manitta Alguém que só fazia o bem di Fábio Silva Gomes Io mi ricordo di qualcuno Che ha solo fatto il bene Era un signore di lontano Che per tutto sentiva amore E ogni giorno che albeggiava Tutti vedevano la sua felicità Quello sì, non sapeva Ciò che era sentire dolore Che si prendeva cura di un essere Che quasi non poteva essere visto Molto bianca, la puoi credere Rosa Bambina Che crebbe, divenne adulta Tutti vedevano la sua lotta Migliorava il mondo, con poco In una vita che insegna Questa rosa ancora esiste Io sono allegro, io sono triste Ben fortunati, che ha visto Rosa Bianca, divina. Lembro-me de alguém Que só fazia o bem Era um senhor do além Mas por tudo sentia amor Que todo dia que amanhecia Todos viam sua alegria Aquele sim, não sabia O que era sentir uma dor Que cuidava de um ser Que quase não podia se ver Muito branca, podes crer Rosa Menina Que cresceu, ficou adulta Todos viam sua luta Melhorava o mundo, sem multa Numa vida que ensina Essa rosa ainda existe Estou alegre, estou triste Bem-aventurados, quem a viste Rosa Branca, divina. 44 di Maria José Fraqueza Trad. di Angelo Manitta Amore, bella parola, sentimento difficile controllare ogni emozione... Nasce dentro di noi, un buon [momento fiamma che ci scalda il cuore! Come astro di luce nel firmamento è un mondo che, girando [nella nostra mano scalda come la lava di un vulcano, sa dimenticare il dolore e la sofferenza! L’amore vive dentro di noi come un fiume che scorre verso la foce e che nasce sempre puro dalla sorgente rinasce sempre nelle ore di dolcezza con ali molto dorate fa il suo nido voli di primavera molto ardente! Emma Villarreal (Messico), Iglesia, (matita cm 55x100 Lingua Spagnolo Salvador Garcia Sánchez, Apuntes II di Angelo Manitta Apuntes (Las Palmas de Gran Canaria, Spagna 2003), cioè appunti, di Salvador Sánchez è quasi un taccuino di viaggio, un diario in cui appare l’uomo con i suoi pensieri e le sue riflessioni, pur nella descrizione di una bellezza naturale e di un paesaggio fantastico: quello delle isole Canarie, quasi poggiate sull’oceano Atlantico, con la loro bellezza, ma pure con le sue modifiche paesaggistiche apportate dalla civiltà dei consumi. Si tratta di una seconda edizione, dopo quarant’anni, di un precedente taccuino condotto sul filo del ricordo, frutto di letture e soprattutto di una capacità creativa. L’opera è stata curata dai figli dell’autore, Yuri e Isora, ed è corredata di un prologo ed un epilogo, l’uno di Teodoro Santana e l’altro di Gustavo Navarro. Attraverso queste riflessioni, quasi poesie, l’autore ci fa percepire, trascinandoci con sé, immagini che scaturiscono dal profondo, eternizzando sensazioni concrete per trasformarle in simboli. Si è cioè di fronte ad una poesia essenziale, in cui la vita dell’autore si riflette nel movimento delle cose. I versi rispondono ad una realtà esteriore, con cui il poeta si identifica e con la quale ci possiamo identificare. Si tratta, infatti, di una poesia corale ed umana. “Apuntes” presenta una percezione sensoriale trasparente. Ogni poesia è una finestra aperta sulla realtà dell’essere isolani, di trovarsi in una situazione particolare dell’essere umano, stabilendo un’unione indissolubile tra l’oggetto che si descrive e il soggetto che percepisce l’emozione. Una poesia che viene dal cuore, dall’anima di un uomo che si riconosce nella sua terra, e nella sua cultura. di Piero Juvara Morire senza storia senza nemmeno un cane che scriva “ALLA MEMORIA” dell’oggi e dei domani Morire senza un fato in un giorno soleggiato. Morire senza l’attesa d’entrare in una chiesa, Morire come si muore in genere da sempre: Morire come muore chi è normale con la coscienza d’essere molecola CHE NON HA CERTEZZA, D’ESSERE IMMORTALE. Bailarina Para Estrella en pleno ensayo di Carlos Chacón Zaldivar Que tibio vendaval mueve su figura en la penumbra ya gira todo se alumbra como sueño en cristal leve. Torna el paso brusco y mueve la cintura de amapola. Tras el espejo se inmola sobre el azul que la cubre si el dibujo la descubre pálida frente al mar sola. Ode alla Ceiba di Carlos Chacón Zaldivar Un piacere cosmico mi sorprende nel tuo abbraccio quando emergi dalla nebbia che invoco e tutto si fa riposo. Pura diviene la solitudine che mi abita se al tuo fianco una folla di serrate mani spogliano con il tamburo le notti, i giorni, le ore e la sua pelle si fa pietra, luce, spasimo ridente battere di ciglia, forse vento che scardina portoni e gli schiavi entrano in quella intimità. Un cosmico piacere mi sorprende nel tuo abbraccio ogni gesto, ogni grido, ogni movimento coniugano timore, attesa, presenza folla che in agguato mi sorprende sopra il sonnolento verde al quale sempre ritorno poiché la tua parola spezza l’abitudine e riprendo dal tempo il mio nutrimento. Morire senza storia 45 Morirse sin historia Trad. spagnola di Riccardo D’Angelo Morirse sin historia Ni siquiera un perro qué escriba “A LA MEMORIA" de hoy y del futuro Morirse sin el hado de un día soleado. Morirse sin la espera de verse llevado a la iglesia, Morirse como se muere En general desde siempre: Morirse como se muere quienes es normal teniendo conciencia de ser molécula QUÉ NO TIENE CERTEZA DE SER INMORTAL. Ballerina Per Stella durante il saggio Traduzione di Angelo Manitta Che tiepido uragano muove la sua immagine nella penombra già gira tutto si illumina come sogno in cristallo lieve. Torna il passo brusco e muove la cintura di papavero. Dietro lo specchio si immola Sull’azzurro che la copre se il disegno la scopre pallida di fronte al mare sola. Cardón (Euphorbia Canariensis) di Salvador Garcia Sánchez Órgano vegetal de tierras bajas y climas insulares, airoso, esbelto, tupido, impenetrable, fantasmagórico. Casi irreal, geométrico, paciente, sufridor, ahorrativo, coronado. Fuente, refugio de vita imperceptible. Maria Stella Brancatisano Per Safiya A Safiya (donna nigeriana condannata a morte) di Maria Stella Brancatisano (mujer nigeriana condenada a muerte) traduzione spagnola di Francisco Álvarez Velasco Ti sei annidata nel mio grembo, bambina. Con violenza hai fecondato il mio grembo già di madre. Te has acurrucado en mi seno, niña. Con violencia has fecundado mi seno ya de madre. Sono tante le prigioni del mio cuore. Sono stata sempre violata. Sono donna e musulmana. Vivo da sempre in prigioni senza sbarre. Son tantas las cárceles de mi corazón. Fui siempre violada. Soy mujer y musulmana. Vivo desde siempre en cárcel sin barrotes. Attendo di essere giustiziata. Aguardo mi ajusticiamiento. Accendete per me una candela, voi dell’occidente, fate pure una fiaccolata. Encended por mí una candela, vosotros los de Occidente, haced también una procesión con antorchas. La vita, spesso, dopo breve riverbero si spegne...! Simile a candela...! Conta poco la vita di una donna se musulmana...! Accendete ancora per me una candela. Vi prego, fate ancora per me una fiaccolata...! ¡La vida, con frecuencia, tras de un breve relumbrar se apaga...! ¡Semejante a la candela...! ¡Vale poco la vida de una mujer si es musulmana...! Encended de nuevo por mí una candela. Os lo ruego, ¡haced de nuevo por mí una procesión con antorchas...! Guardate... Mirad... Sul viso porto ancora i segni della mia vita violata...! Innalzate, per me, ancora una preghiera...! ¡Llevo todavía en el rostro las señales de mi vida violada...! ¡Elevad, por mí, de nuevo una plegaria! New York - 11 sett. 2001 Nueva York – 11-S di Maria Stella Brancatisano traduzione spagnola di Francisco Álvarez Velasco Contavamo i dollari, quel giorno, a New York, seguivano il Nasdaq e il Daw jones alla borsa e poi all’improvviso si udì: “Trac... splash... Aaaaaaaahhh ...! Un enorme boato e le Twin Towers l’aereo sventrò e MANHATTAN crollò... ! ... SEIMILA morti si contarono tra macerie e rovine. Non tutti hanno un volto ancora. New York ora è polvere e morte, gas purulento e fuoco, detriti e parole, tante parole e fiori e bare e bare, troppe bare e tante preghiere. PERCHÈ?... ci si chiede... ora “Io sono americano”... ripetono bianchi, cinesi, ebrei e neri per convincersi di esistere e celebrare la potenza d’America e la sua unità. Solo i Talebani odiano, solo Bin Laden ora viene definito: il diavolo...! Ma tu, New York, eri troppo grande, troppo ricca e le tue torri ed i tuoi grattacieli troppo alti e disumani. Forse per questo quell’11 settembre 2001 crollarono... Contábamos los dólares, ese día, en Nueva York, segíamos el Nasdaq y el Daw Jones en la bolsa y luego de improviso se oyó ¡Trac ... splash... Aaaaaaaahhh ...! Un enorme bramido y el avión reventó las Torres Gemelas y MANHATTAN se desplomó...! ...Seis mil muertos se contaron entre los escombros y ruinas. No todos tienen rostro todavía. Nueva York ahora es muerte, gas purulento y fuego, destrucción y palabras, tantas palabras y flores y ataúdes y ataúdes, demasiados ataúdes y tantas plegarias. ¿POR QUÉ?... alguien pregunta aquí... o bien «Yo soy americano» ...repiten blancos, chinos, hebreos y negros para convencerse de que existen y celebrar el poderío de América y su unidad. Sólo los talibanes odian, sólo Bin Laden ahora queda definido: ¡el diablo! Pero tú, Nueva York, eres demasiado grande, demasiado rica y tus torres y rascacielos demasiado altos e inhumanos. Quizás por ello aquel 11 de septiembre se derrumbaron. Ma oggi tutti gridiamo: ...FERMATEVI...! PACE...! PACE ...! PACE...! Pero hoy todos gritamos: ¡...DETENEOS...! ¡PAZ...! ¡PAZ...! ¡PAZ...! 46 Lingua Francese A mio Padre Jean Sarraméa Ô Bigorro (à mis peros d’aou pelous gris!) testo originale in dialetto occitanico-bigordano Ô Bigorro, beroyo patrio daou me coo, bouy essaya, louen de tu, touchtem fidelo, de sounya a lous bouna gens d’aou passat. Ben sabes pla qu’aymi la pouesio e que ma pensado es messatgero de beütat: brabos higassès, cebassès, hourmatjayrès; praoubes gaudinès, brouto-cardoux, crabès carbouès, milhassès, castagnarès, tisnès; ô majès aulhès, burrayrès, oussatès! Churrous claouétous, escloupès, bencillès et tilhous bouscassès, bardissès et loudès ; prégouns courdelayrès, saoum atès, coursiès; et poulit berretès, fayanssayrès, toupiès; noublesso de menusès et tisterayrès; arrebourritz camparoulès, et cassayrès, pescayrès, maquinhous, tiro-bi, carretés; glouero aou lurous cantadous, dansayrès. 2003 di Jean Mauget Con il sudore della tua fronte hai costruito la tua vita, senza perdere tempo, lavoro di notte di giorno, vacanze poche, fino alla tua agonia, il bel lavoro per te valorizzava l’amore. L’altro secolo ti ha visto rafforzare la bella Opera quella dei Compagni che conoscono il tratto, il sapere ancestrale, del Grande Maestro al Manovale, che senza pretesa tu ci comunicavi. I drammi della storia hanno rotto il tuo bel sogno sotto i colori della Francia, valorosamente in color kaki, difendendo il nostro onore hai versato la tua linfa, senza predire che invano sarebbe la tua devozione. Ô Bigorre2! (à mes parents aux cheveux gris) Testo francese de Jean Sarraméa Per molto tempo privato di te, vivendo nell’ignoranza, non abbiamo potuto salvare le esperienze degli avi. Questa guerra strana ha rovinato la nostra infanzia, decimato la famiglia e fatto piangere i nostri occhi. Ô Bigorre, belle patrie de mon coeur, je vais essayer, loin de toi, toujours fidèle, de songer aux braves gens du passé. Tu sais bien que j’aime la poésie et que ma pensée est messagère de beauté: braves producteurs de figues, d’oignons, de fromages; pauvres mangeurs de maïs, «broute-chardons», chevriers; charbonniers, mangeurs de millet, de chataignes, tisserands; fiers bergers, beurriers, chasseurs d’ours! Petits fabricants de clous, de sabots; ramasseurs d’osier robustes bucherons, tuiliers et ardoisiers; trapus étaient les conducteurs d’attelages, de bêtes de somme et coursiers jolis fabricants de bérets, de faïence, de poteries; noblesse des menuisiers et des vanniers, rusés ramasseurs de champignons, chasseurs, pêcheurs, maquignons, vignerons, charretiers gloire à ces lurons de chanteurs et de danseurs! Dopo sette anni persi, di ritorno dall’esercito, una medaglia in tasca, per ringraziamento, bisognò ricostruire una vita tratteggiata, senza nessun conforto da questo governo. Oggi, non sei più, il rancore mi tormenta. Chi potrebbe vendicarci? Satana, questo iettatore, insegue ciecamente la sua opera demente, e sotto altri cieli semina spavento e morte. In ricordi felici, con perseveranza, tu hai raccolto per noi, proprio lungo la via, i colori dell’arcobaleno e i semi di speranza per meglio rifiorire il nostro intimo giardino. Oh Bigorre! (ai miei genitori dai capelli grigi) traduzione dal francese di Angelo Manitta Hai meritato bene la nostra riconoscenza, noi ti seguiamo e sfidiamo il destino. Oh Bigorre, bella patria del mio cuore, lontano da te, sempre fedele, cerco di pensare alle brave persone del passato. Sai bene che amo la poesia e che il mio pensiero è messaggero di bellezza: Bravi produttori di fichi, di cipolle, di formaggi; poveri mangiatori di mais, “bruca cardi”, caprai; carbonai, mangiatori di miglio, di castagne, tessitori, fieri pastori, fabbricanti di burro, cacciatori di orsi! Piccoli fabbricanti di chiodi, di zoccoli, raccoglitori di vimini, robusti taglialegna, costruttori di tegole e ardesie; tarchiati erano i conduttori di gioghi di bestie da soma e da corsa, bravi fabbricanti di baschi, di maiolica, di vasellami; nobiltà di falegnami e di cestai furbi raccoglitori di funghi, cacciatori, pescatori, mercanti di cavalli, vignaioli, carrettieri, gloria a questi buontemponi di cantanti e danzatori! Jean Mauget, poeta francese è il fondatore di “Le funambule”, Gazzetta Poetica pubblicata dall’Associazione “Echos de Venus”, di cui è anche presidente. Proprio dalle colonne di questa rivista è tratta la poesia “A mio padre”. Tra i collaboratori della rivista figurano: Jean-Noël Nicolau, Nicolle Chedeville, Majo Daffix, Régis Bonicatto, Robert Nicolleau, Elisabeth Nicolau, Nadia Bobet, Liliane Naya, Marie Dupuy, Jean-Marie Monfeuillard, Andrée Bonicatto, Simone Roudergue, Mohamed Boutada. 2 Bigorre: regione francese del Dipartimento degli Alti Pirenei, con le città di Tarbes e Lourdes 47 De son destrier, il descend e de Plume s’approche lentement. Il l’interpelle doucement : «Plume, ma douce amie...». «Jocrisse, mon tendre...». Leurs paroles vont se suspendre s’envoler, ils restent interdits. Ils se sont enlacés et couvrent leurs fronts de baisers. «Jocrisse, te voilà revenu, ton retour je n’espérais plus. De toi, qu’est-il advenu durant tout ce temps dépourvu de toi, de la moindre nouvelle?» Plume s’assied et lui près d’elle. Il commence sa plaidoirie : «Après avoir tout vendu comme il était convenu je revenais du marché quand perdu dans mes rêveries et mes projets d’hyménée qu’avec toi je voulais sceller je rencontrais une jeune fille en pleurs... Pascale Bélanger La Jocrisse épopée di Angelo Manitta La Jocrisse epopée (Editions du Pantheon, Parigi 2004), cioè L’epopea di Jocrisse, è un romanzo moderno e antico nello stesso tempo, un romanzo che corre tra simbolismo e passionalità, ma che affonda le sue radici nel Medioevo. Infatti l’opera è scritta in poesia con una rima ricorrente e frenetica, baciata e alternata, ma soprattutto ogni verso ha una cadenza ed una musicalità affascinante e accattivante, sullo stile di uno dei maggiori poeti del Medioevo, Chrétien de Troyes. Pascale Bélanger con il suo romanzo tiene il lettore con il fiato sospeso, dal momento in cui la narrazione corre tra avventure ed amori, tra mostri e desiderio di libertà, tra desiderio di vita e di aiutare gli altri, così come era nello spirito della cavalleria medievale, e come è nello spirito dell’uomo contemporaneo. Nel romanzo reale e favolistico si intrecciano, la passione e la ragione si incontrano e si scontrano, il paesaggio affascinante e il mondo della paura si toccano, personaggi strani ed eroi coraggiosi si confrontano tra loro, belle dame si ingelosiscono. I personaggi acquisiscono un valore simbolico e rappresentano la lotta tra il bene e il male. La trama racconta come il protagonista Jocrisse, dopo un’infanzia un po’ triste, costretto ad allontanarsi dalla famiglia, diventato cavaliere, si ferma in un castello. Si tratta del castello della bella Plume, di cui si innamora e alla quale promette di sposarla, promettendo che sarebbe ben presto ritornato. Ma come ogni cavaliere medievale, il suo desiderio è di portare aiuto agli indifesi. L’occasione non manca e Jocrisse, vinto dal vortice delle avventure, dimentica quasi la promessa, cosi come Ivano, il perfetto cavaliere del romanzo di Chrétien de Troyes, dimentica la promessa che aveva fatto alla moglie, la dama di Landuc. Intanto Jocrisse cerca ed affronta Arcande, quasi simbolo del male, il malvagio e il cattivo che deve essere sconfitto. Questi aveva rapito e violentato la bella Azurée, la ragazza prigioniera del male. Il cavaliere in un crudele duello, combattuto con tutte le forze, sconfigge Arcande: il male viene vinto, la ragazza liberata. Ritorna allora il pensiero di Plume, rimasta nel suo castello a lamentare con rabbia e disperazione la lontananza dell’amato. Giunge finalmente il giorno del ritorno. Jocrisse chiede perdono alla sua donna e questa lo perdona, perché capisce che la sua impresa era stata condotta per il trionfo del bene e non del male. Jocrisse, abbracciata la sua dama, le racconta le sue avventure, che è bene leggere anche nel testo originale, per la profondità emotiva che l’autrice sa trasmettere al lettore: Dal suo destriero, scende e a Plume si avvicina lentamente. Egli le parla dolcemente: «Plume, mia dolce amica...» «Jocrisse, mio tenero...». Le loro parole rimangono sospese volano via, restano a metà. Si sono intrecciati e coprono di baci le loro fronti. «Jocrisse, eccoti ritornato, il tuo ritorno non speravo più. Di te, che cosa è accaduto durante questo tempo che mi ha privato di te, della pur minima novella?». Plume si siede ed egli vicino a lei. Lui comincia il suo discorso: «Dopo aver tutto venduto siccome era convenuto ritornavo dal mercato quando perso nelle mie fantasticherie e nei miei progetti di matrimonio che con te volevo concludere incontrai un ragazza in lacrime... Pascal Bélanger si presenta quale trovatore che ci mette a contatto con un mondo fantastico e meraviglioso. L’autrice, nata nel 1969, ha già pubblicato la raccolta “Mots en echo”, con cui ha ottenuto numerosi premi, in concorsi letterari. Tra gli altri ha ottenuto il primo premio nel 2002 per la novella ai “Jeux Floraux du Béarn” e il primo premio per il racconto in lingua francese al Concorso Internazionale il Convivio nel 2003. La pace universale è la migliore tra le cose che concorrono alla nostra felicità. (D 48 Ali hi i) Adrien Cannamela Denise Bernhardt Respirations I Poèmes L’âme nue di Angelo Manitta di Angelo Manitta Si tratta di una raccolta di poesie di ampio respiro, sia sotto l’aspetto metrico-formale che contenutistico. L’autore infatti nella silloge di Poesie Respirations I Poèmes (Collection Rouge Gorge, Parigi 2004) tratta una vasta tematica sotto una forma versificatoria tradizionale, ma non pesante. Il dolore del mondo, che passa indifferente, è una delle situazioni maggiormente cantate tra i versi. E l’uomo che cos’è in questo percorso che sembra ormai giungere alla fine? Non esistono più sogni. La distruzione è incombente, ma Adrien Cannamela non è un disfattista, vede con realismo i problemi dell’umanità, in cui non manca la gioia e la felicità. Interessante da questo punto di vista è la posizione nei confronti della guerra in Iraq. Una punta di ribellione ed un anelito di libertà contro tutte le oppressioni. Non bisogna essere schiavi e non gli importa quando Bush sceglie una sua errata via. Nelle poesie appare anche un’ampia dose di ricordo e di emozioni. Il passato emerge come parte del presente, quasi visione dorata di sentimenti ed emozioni. Intermediaria in ciò è la parola, che lascia comunicare ed anche protestare, messaggio che colpisce l’uomo. Ma vi si riscontra pure un elevato lirismo che emerge in alcune poesie: «Nella notte io volevo scoprire le stelle, ritrovare nel cielo ciò che amavo di bello, ma oggi ecco che si copre di viole. Dimmi, mio cuore, dove sono i miei occhi?». Ma è nella poesia intimistica che l’autore raggiunge il massimo dell’emozione, come in Nadia. Si tratta di una silloge di poesie della poetessa francese Denise Barnhardt, nata a Cannes, che negli ultimi anni si è distinta in numerosi concorsi letterari. Ultimamente è stata segnalata al premio Publio Virgilio Marone, promosso dall’Accademia Internazionale Il Convivio, la cui premiazione si è svolta nella sala del Cenacolo a Roma, proprio con quest’opera pubblicata da Collection Florilège Les Presses Litteraires (Francia 2004). Il volume ha la prefazione di Claude Luezior, di cui si riportano i passi essenziali: «Con le sue armi fragili, Denise Bernhardt pone il suo sguardo sugli esseri, l’ombra di un desiderio, le lacrime di un bacio. Aspetta, perduta, un volo di uccelli bianchi che attraversano il silenzio. Approccio delicato alla vita dove si svolgono, in aurore successive, questi istanti a bordo dell’abisso. Solo la desolazione del poeta, solo la sua fragilità apparente e la sua squisita semplicità di fronte alle linfe dimenticate ed al sangue risorto sono i garanti del volo immobile cosparso di chimere: bella definizione dell’istante creatore. Il poeta è innanzitutto artigiano. Lavora le sue vetrate, lavora la materia prima del linguaggio, traccia le sue linee ed i suoi ritmi. Denise Bernhardt raccoglie nella maniera più elegante le sue parole-crisalidi. Umile approccio delle mani sulla carta, nella penombra dell’anima. Silenziosamente, esse tessono la bellezza in filigrane. «Ma le parole sono materia fissile. Si strofinano le une alle altre, si infiammano, esplodono in covoni di immagini; fondono i loro raggi, irradiano colori che nessun vetro è stato mai capace di produrre. La luce poetica emerge: magia di una creazione nuova. Come un bambino che ha dato fuoco alla paglia, il poeta è preso allora dall’effervescenza delle sue proprie intuizioni... «Siamo attirati spesso dall’oggetto che si chiama libro, la sua copertina, dalle linee appuntate sul suo dorso. Percorriamo queste pagine per scoprire l’anima della scrittrice, aperta e calda. Per ammirare non ciò che è tracciato, ma il modo con cui la poetessa l’esprime. L’importante non è che la ninfea sia reale, ma il modo con cui il pittore la rappresenta sulla tela. «Ciò significa che ogni libro ha una storia, un tema, un significato nel percorso dello scrittore. Qui, Denise Bernhardt rievoca in un infinito pudore l’amore degli alti tradimenti e delle ferite gemelle. Amore straziato, dubbi, indicibile cesura. Scrivere al di là dell’arte di scrivere non è mai un atto gratuito. Questo può essere un modo per cicatrizzare tutto in fondo a se stessi, per coltivare questa tenerezza immensa, indelebile, e che è proprio dell’essere. «Sì, la poesia è quest’arma fragile per la grande battaglia: quella della vita». Mi ricordo di te, Nadia, bella italiana Il tuo giovane corpo vibrante come arpa eolia, Il tuo rifiuto, poi il tuo ‘sì’ al mio desiderio ardente Quando apprezzavo la tua lingua tra i tuoi denti. Mordevo a gara il tuo bel frutto di gioventù Ghermito in un torrente di vertigine e di ebbrezza Per andare ad annegarmi nel lago esaltante Dei tuoi seni pienamente colmi di linfa e primavera! Mi ricordo di te, Nadia, i nostri incontri, Slanci incandescenti dei nostri diciassette anni pazzi, I nostri progetti insensati ed i nostri scoppi di riso, Questa gioiosa fede che sapeva di delirio. La tua pelle, profumo perlato come un campo di lavanda, Il tuo soffio un dolce brivido sgranato sulla landa I tuoi occhi di un blu profondo sul mare di cobalto Le tue labbra di ciliegia su cui il tuo dito faceva “Alt”. Questa sera alla candela e sessant’anni dopo, Commosso, confusamente, ti sento qua vicino: Nei fogli ormai sgualciti di un vecchio taccuino Il tuo viso affascinante non ha preso una ruga... 49 La romance di Paul Moulinier (testo francese) La cançon La romanza di Paul Moulinier (testo provenzale) Traduzione di Angelo Manitta La romance que j’ai chantée Est la romance d’un homme, D’un homme qui pleurait. Et la chanson est restée Dans ma vie Sans pouvoir l’oublier. La cançon qu’ai cantada Es la cançon d’un óme, D’un óme que plorava. E la cançon es demorada Dins ma vida Sens la porre oblida. La romanza che ho cantato È la romanza di un uomo, Di un uomo che piangeva. E la canzone è rimasta Nella mia vita Senza poterla dimenticare. La romance que j’ai chantée Est la romance d’un homme, D’un homme qui jouait. Et la romance, aujourd’hui, encore Comme pour lui, provoque le rire, Provoque le rire et le jeu. La cançon qu’ai cantada Es la cançon d’un óme D’un óme que jogava. E la cançon, duei, encara Comò el se ris, Se ris e joga. La romanza che ho cantato È la romanza di un uomo, Di un uomo che giocava. E la romanza, oggi, ancora Come per lui, provoca il riso, Provoca il riso e il gioco. La romance que j’ai chantée Est la romance d’un homme, D’un homme très amoureux Amoureux de la vie, Une vie de rires, Une vie de pleurs. La cançon qu’ai cantada Es la cançon d’un óme D’un òme tot amoros Amoros de la vida. Coma ela se ris, Coma ela se plora. La romanza che ho cantato È la romanza di un uomo, Di un uomo molto innamorato Innamorato della vita, Una vita di risa, Una vita di lacrime. La romance que j’ai chantée Est la romance amoureuse, Amoureuse de la vie. La romance que j’ai chantée Est la romance de chaque jour Est la romance de toujours. La cançon qu’ai cantada Es la cançon amorosa, Amorosa de la vida. La cançon qu’ai cantada Es la cançon de cada jorn, Es la cançon di totjorn. La romanza che ho cantato È la romanza innamorata, Innamorata della vita. La romanza che ho cantato È la romanza di ogni giorno È la romanza di sempre. Il soldato di Patrizia Colajanni Le soldat Trad. di Mohammed Mafhoum Adagiò il suo corpo stanco sul letto e sospirò. Aveva combattuto tutto il giorno contro i soldati nemici ed era stato battuto. Non ci poteva fare niente lui, contro la guerra: si doveva solo combattere giorno dopo giorno senza mai fermarsi. E la povertà aumentava insieme alla fame e all’orrore degli scempi; vittime della guerra erano bambini e donne e non solo soldati come lui. I potenti giocavano a fare la guerra con gli scacchi, mentre loro la facevano con i fucili veri. Ma lui non ci poteva fare niente: era solo un soldato. Il a étendu son corps fatigué sur le lit et il a soupiré. Il avait combattu toute la journée contre les adversaires et il a été battu. Il ne pouvait rien faire lui, contre la guerre: il fallait seulement combattre jour après jour ne jamais s’arrêter. Et la pauvreté augmentait aussi la faim l’horreur des massacres; les victimes de la guerre étaient des femmes et des enfants et non seulement des soldats comme lui. Les puissants jouaient à faire la guerre aux échecs, cependant les autres la faisaient avec des vrais fusilles. Mais il ne pouvait faire rien: il était seulement un soldat. Eugen Evu, Port rànile tale (Cogito, Romania 2003). «Eugen Evu sorprende certamente molti lettori che si accostano alla sua poesia. Strano, inspiegabile, pieno di una mitologia personale e capricciosa, marcato con il sigillo dell’assurdo, sull’orlo della rabbia, mostra compassione per ogni forma di sofferenza. La sua espressione possiede certe qualità autenticamente vere». 50 Poésie jeune I ragazzi dell’Algeria si aprono all’Europa Traduzioni a cura di Angelo Manitta La nature de Djafri Fella (12 anni) La natura La pauvre et le riche de Guerdad Hocine (12 anni) La nature est belle avec ses hirondelles. La nature est sauvage avec ses animaux sauvages. La nature est simple avec ses fleurs multicolores. La nature est calme quand les gens sont calmes. La natura è bella con le sue rondini. La natura è selvaggia coi suoi animali selvaggi. La natura è semplice coi suoi fiori multicolori. La natura è calma quando le persone sono calme. Le pauvre pleure, le riche rit. Le riche connaît les bonnes choses. Le pauvre connaît la souffrance. Une grande différence entre eux. Mais la gentillesse entre eux sera une. Grande chose qui se terminera par l’amitié. Quel Monde ! de Berkane Amir (12 anni) Quale Mondo ! Il povero ed il ricco La rue se promène sue les hommes Les ratures effacent la gomme. La table se cache sous le chat. La caserne s’ennuie avec le soldat. Le pont passe sous les gens. Le cocon tisse la chenille. Le jardin pousse dans l’oignon. Le poème fait naître un poète. La via passeggia saputa gli uomini Le cancellature cancellano la gomma. Il tavolo si nasconde sotto il gatto. La caserma si annoia col soldato. Il ponte passa sotto le persone. Il bozzolo tesse il bruco. Il giardino germoglia nella cipolla. La poesia fa nascere un poeta. Mon papa de Semiane Sarah (12 anni) Mio papà Mon papa m’achète mon rêve... Mon papa est brave, mais quand tu le fais rire. Il rit de bon coeur et puis à ce moment-là tu peux tout lui demander. Mio papà acquista il mio sogno... Mio papà è bravo, ma quando lo fai ridere. Ride di buon cuore e poi in quel momento puoi chiedergli tutto. Le dieu Dio de Koob Sid-Ali (13 Anni) J’aime le dieu, le tout puissant. C’est lui qui m’a créé. C’est lui qui m’enseigne ce que j’ignore. J’aime le dieu. C’est lui qui me bénit, me protége. J’aime le dieu de tout mon coeur. Amo Dio, il tutto potente. È Lui che mi ha creato. È Lui che mi insegna ciò che ignoro. Amo Dio. È Lui che mi benedice, mi protegge. Amo Dio con tutto il mio cuore. Mon amie de Katia Bribi (12 anni) La mia amica Mon amie c’est un trésor. Mon amie partage avec moi le douleur. Mon amie est très forte. J’aime mon amie comme ma soeur. Je compte sur elle dans les moments sévères. J’aime mon amie et lui souhaite du bonheur. La mia amica è un tesoro. La mia amica divide con me il dolore. La mia amica è molto brava. Amo la mia amica come mia sorella. Conto su di lei nei momenti tristi. Amo la mia amica e le auguro felicità. Liberté Libertà de Bedjaoui Adnane (12 anni) Les oiseaux sont tous libres. J’aime leur liberté ! J’aime toutes les belles choses : La terre, la planète et la lune. Gli uccelli sono tutti liberi. Amo la loro libertà ! Amo tutte le cose belle: La terra, il pianeta e la luna. 51 Il povero piange, il ricco ride. Il ricco conosce le buone cose. Il povero conosce la sofferenza. Una grande differenza tra loro. Ma la cortesia tra loro sarà una. Grande cosa che si concluderà con l’amicizia. Le bavard de Houadji Bedreddine (12 anni) Le bavard c’est la le mal de la bouche. Le bavard c’est la cassette de la classe. Le bavard c’est la souffrance des profs. Le bavard c’est le vacarme de l’école. Il chiacchierone Il chiacchierone è male della bocca. Il chiacchierone è cofanetto della classe. Il chiacchierone è sofferenza dei professori. Il chiacchierone è il baccano della scuola. Le travail de Lazazi Sofiane (12 anni) Je regarde faire. Je fais à mon tour. C’est le travail que je préfère. On travaille toute sa vie. Le travail est notre source de vie. Il lavoro Guardo fare. Faccio da parte mia. È il lavoro che preferisco. Si lavora tutta la vita. Il lavoro è la nostra sorgente di vita. I ragazzi algerini sono seguiti dall’insegnante M.lle Kidad, delegata del Convivio in Algeria Pittura malinconica poetica. Gli angoli incantevoli del paesaggio, intonato su forme melodiche che trattano lo sfumato quale assonanza vitale e linfa del gusto cromatico, ricordano le visioni del Berkeley. La tensione verso un infinito, leopardianamente inteso, affiora come squarcio della tela, ne fa emergere la dimensione esistenziale che si proietta all’esterno di una finestra, oltre la quale c’è il tutto tanto desiderato dalla ragione, intuito dall’intelletto, ma inspiegabile. Rubrica a cura di Giuseppe Manitta Franco Clary di Giuseppe Manitta La centralità della sperimentazione, della libertà espressivo-immaginifica ci mette oggi in diretto contatto con una realtà artistica molto eterogenea, a volte riproposizione di tecniche fuori dal tempo. È vero che l’arte nella sua peculiarità e universalità riesce quasi sempre a cogliere il Tutto in un processo estetico che sa di fantasia, immaginazione e rappresentazione, ma è anche vero che ogni opera di genio si trova in bilico tra il presente, in cui è generata, e il futuro. Ciò chiarisce perché molti autori, pur dalla mirabile tecnica espressiva, vengano poco valutati da un ipercriticismo in voga. Oggi l’arte non è corrente, è ars solitaria, punto di fuga psicologico-espressivo che non fa scuola. E, mi sembra, che niente o quasi niente faccia scuola in Italia: sarà colpa dell’egoismo artistico o di una carenza formativa? Forse non è questa la sede adatta per un discorso del genere, forse la «mirabile rappresentazione dell’Assoluto» esige oggi una scissione dei maestri. Il sogno invade la stanza, (olio su tela cm 100x120) Funzioni come questa emergono da “Il sogno invade una stanza” (opera emblematica del Clary) che ci permette di dare un abbozzo della funzione esplicativa della pittura quale surreale realizzazione dell’animo. L’impostazione di quest’opera (e di molte altre) verte realisticamente sulle diagonali, molto accentuate, che danno la sensazione del movimento quale stravolgimento conoscitivo ed invasivo di una strana tinta multitonale. Un giorno diverso, (olio su tela, cm 50x60) Un autore che potrebbe fare scuola (chi ha poi detto l’ultima parola?) è Franco Clary, pittore che valica una concezione paradigmatica per cogliere, in una fusione tecnico-espressiva, una realtà tra simbolo e inconscio. La crisi estetica contemporanea tra arte e bellezza in Clary assume la dimensione di «apertura dell’essere», di linguaggio che non esula dalla funzione delle ‘poietiche’ avanguardiste. Ma cos’è la realtà per Clary? Essa è la pittura quale essenzialità dell’uomo e della società, quale speculazione sul concetto (espressione del Tutto) e sulla letterarietà dello stile. Le immagini dunque si tramutano in espressione dell’inconscio, forse meglio del subconscio, della realtà intellettiva non materica, ma surreale. Il sogno diviene metafora coloristica e grafica, memoria dello spazio-tempo e Paesaggio, (olio su tela) L’intonazione luminosa che tende all’artificio e la tessitura timbrica rivelano un’armonia complessiva che ha forte incidenza sul fruitore. La pittura di Clary si rivela pittura di forze. Su queste, infatti, s’imperniano le espressioni disegnativo-cromatiche, la rimembranza, l’amorosa osservazione e le sensazioni provocate da quest’ultima. Mi 52 viene subito in mente il quadro di copertina dell’ultimo catalogo di Franco Clary, emblematico per constatare le forze contrastanti che si trovano nella parte più bassa del quadro, che si allentano nella parte centrale e che infine cambiano direzione. Spettatore è il cielo, immagine dell’intuizione dell’autore che s’immedesima in ogni minuscolo tassello del quadro. La finestra, (olio su tela cm 50x50) La dimensione spirituale della sintesi pittorica si attualizza nell’equilibrio, come affermavo prima, anche nella poesia. Può sembrare, la mia, una rivisitazione di un luogo comune, già scritto da Orazio e riproposto nel Trattato della pittura di Leonardo, ma la “poiesis” di Clary trova una realizzazione non solo concettuale, bensì anche materiale. Così ci fa rivivere la musicalità del verso, la profondità della filosofia, la magia del piacere estetico, e poi il chiasmo, l’assonanza tra struttura e colore, l’analogia immaginativa. Non a caso in questo processo la sfumatura e ogni tratto di pennello assumono una vibratile emozione che si confronta con la società, di cui le figure sono espres-sione e critica, rappresentante e rappresentazione, secondo la definizione di Schopenhauer. Riflessione, (olio su tela) Il binomio onirismo-forze si affianca ad una terza funzione: quella immaginifico-realistica. L’impostazione delle opere di Clary, (in cui il fenomeno si piega al noumeno, per ricordare la terminologia kantiana), sfrutta a pieno la pregnanza delle immagini. La razza umana, per dirla con Eliot, non può sopportare troppa realtà. Se, infatti, essa è oppressa da immagini reali tende a dimenticare l’immaginazione del bello, se invece accade il contrario dimentica la realtà. Così l’arte del Nostro assume una posizione mediana tra surrealismo e realismo, tra impostazione classicistica e il modernismo dell’assoluta libertà. Il sogno e l’illusione non si oppongono alla realtà, il sentimento non oscura la concezione classicistica dell’opera. Con questi termini non dico che l’arte di Franco Clary sia avulsa e fuori dal tempo, ma anzi che la sua sincresi colga a pieno l’assoluta possibilità delle cose. Pittura come spazio mentale, in bilico tra assoluto e assoluta possibilità: l’immaginazione. Così l’impostazione generale delle opere di quest’autore ricordano le mirabili pose di un realismo, di una tradizione nudista tra l’arte tizianesca e l’impressionismo, di una tradizione della linea e del colore che ricordano le secessioni e l’espressionismo. Inoltre non possiamo tralasciare che tale letterarietà dell’opera di Clary risente, oltre che ovviamente del surrealismo, anche delle conquiste disgregatrici rispetto al passato dell’iperrealismo e del neoavanguardismo. Ovviamente si tratta di spunti che nella loro complessità a volte sono difficili da cogliere in un linguaggio che mirabilmente vive giorno dopo giorno nella metafora. Ritorno in paese, (olio su tela cm 60x60) Per questo l’arte di Clary è degna di fare scuola, di essere discussa e studiata, perché il suo stile è complesso, ma allo stesso tempo semplice, spontaneo, immediato e riflessivo. A volte di fronte ad opere del genere il senso del vuoto e del silenzio ci fa andare oltre la parola, semiotica rappresentazione che trova la sua realizzazione in quello che non dice. Indirizzo: Via Messapia, 8 – 74100 Taranto 53 Silvano Motta Dimas Coello Concetto dell’Arte Dimas Coello, pregevole pittore spagnolo residente nelle Isole Canarie, fornisce al lettore moderno una dimensione artistica di vibratile sensibilità lirica e tecnica. La funzione estetica dell’opera d’arte assurge ad una dimensione contemporaneamente etica e sensitiva, in un continuo raffronto fra tecnica-dettato e significante-significato. L’arte non diviene solo autoliberazione, pur approdando alla sfera dell’inconscio, ma le sensazioni vengono filtrate, per certi versi anche razionalizzate. Queste si intessono di sfumature, di lirici tocchi di colore che colgono la sfera esistenziale nel suo rapporto con l’Assoluto. La pittura è un linguaggio non parlato, né scritto, ma espresso attraverso certe regole tecnico-grammaticali di conoscenza che stanno alla base di ogni tendenza artistica. Anzi, una vera e propria tendenza artistica non esiste, esiste solo un modo di sentire la realtà che ci circonda e di trasmetterla liberamente in pittura sulla tela: con gli occhi, con la mente o con il sentimento, avvalendosi soprattutto dell’uso dei colori per dare luce al proprio “Io” interiore e materializzare il tutto. Pertanto l’arte, intesa come espressione della realtà o come materializzazione di forme o cose, trova nella pittura motivo di esaltazione non solo dei valori spirituali dell’essere, ma anche e soprattutto, specie con le tendenze più avanzate, motivo di trasmissione di usi, di concetti, di mentalità in un dialogo sempre aperto tra l’artista ed il mondo di oggi. Visione di un sacrificio (Olio su tela, cm 35x50) L’arte non può, né deve essere fine o se stessa, ma deve formare e informare, cioè deve costituire cultura. Essa, non può, né deve rimanere chiusa entro schemi fissi che ne limiterebbero, non solo il suo contenuto, ma soprattutto la sua genuinità espressiva. Un artista si riconosce soprattutto dallo stile personale che riesce a dare alle sue opere, e deve essere e rimanere inconfondibile anche nel tempo. L’importanza di ciò che esprime non è rivolta a tutti, ma solo a se stesso e a coloro che lo sanno capire e ne sono attratti fino ad immedesimarsi in lui e formare un tutt'uno con la recita o l’immaginazione che l’artista crea e riuscire a carpire, fino in fondo, i suoi più intimi segreti. Il tema di un dipinto è e rimane sempre un fatto personale egocentrico tra l’artista che lo trae dalla realtà quotidiana o lo crea dal niente e il suo punto di vista, o quello dei suoi pensieri o dei suoi sentimenti. Per dirla come Georges Braque: «...In arte non c’è che una cosa che valga quella che non si può spiegare. Non bisogna chiedere all’artista più di quello che può dare, né al critico più di quello che può vedere. Contentiamoci di far riflettere, non pretendiamo di convincere...». Silvano Motta Arte non come ricerca di verità, ma come immagine sensibile e sensitiva in cui il paesaggio e ogni altro soggetto si dimensiona in un linguaggio simbolico, secondo le regole della buona figurazione, sintetizzando eleganza e armonia. L’armonia nelle opere di Dimas Coello nasce dall’equilibrio tra dinamicità e staticità, dall’espressività cadenzata ed essenziale: queste le caratteristiche principali di un’opera come “Agonía”, pregevole acquerello in cui la dimensione divina e umana si fondono in un connubio di rara intensità. L’equilibrio tra umano e divino si fonda da un lato sulla compostezza dell’impostazione, dall’altro sull’agonia pseudo-umanizzata di un Cristo senza volto. Ma il vuoto penetra il fruitore: il nulla del volto e la parte bianca che domina la parte centrale del quadro enfatizzano l’agonia vera e propria del corpo rossastro del figlio di Dio. Giuseppe Manitta Indirizzo: Nuova panoramica dello stretto, Pal. A., n. 1330 – 98168 Messina. Indirizzo: Dimas Coello, Doctor Wölffel, 8-3° 38004 S. Cruz de Tenerife Islas Canarias – Spagna Agonia, acquerello (cm 70x74) 54 Anna Poerio Riverso Giovanni Carpignano Nelle raffigurazioni di Anna Poerio Riverso, pittrice e saggista, emergono immagini di esperienza quotidiana in una costante aspirazione verso la sinuosità delle forme proprie della danza. Infatti i soggetti principali delle sue opere pittoriche rappresentano momenti peculiari di danza che toccano l’animo, ma contemporaneamente stuzzicano la fantasia del fruitore. Nella apparente compostezza delle figure si cela un’incessante ricerca pittorica che va alla scoperta del metafisico, del surreale. L’artista vi concentra memorie ed emozioni che rivivono nella plasticità dei soggetti e si riflettono su uno sfondo generalmente neutro, quasi la scena di un teatro unica tinta. Così l’assonanza tra momenti ispiratori e impianto cromatico, ritmico e formale, si concentra in una intonazione simbolica intrisa di accentuato lirismo evocativo. Il tema della danza ricorda inequivocabilmente il grande maestro Degas, ma in Anna Poerio Riverso non è il colore a prevalere sulla forma, bensì la forma a prevalere sul colore. Inoltre la monoliticità classicista prevale sulla dinamicità delle figure che non mirano ad una rappresentazione reale, ma idealizzata, in un contesto quasi fiabesco ed estremamente razionale. Freud in Linguistica, estetica e psicanalisi scriveva che l’artista cerca per prima cosa l’autoliberazione. È anche vero però che «egli rappresenta come appagate le sue fantasie di desiderio più personali, ma queste divengono opera d’arte soltanto attraverso una trasformazione che mitiga l’aspetto urtante di questi desideri e ne cela l’origine personale» per offrire al fruitore il piacere estetico. La forza della ‘libido’ sublima così nel piacere estetico, ed esempio mirabile è l’opera di Giovanni Carpignano. Menhir, olio su tela (cm 70x50) Il sublime, nelle opere dell’artista pugliese, non è solo onirico, ma si avvicina alla sfera della metafisica con sensuale evidenza. Il problema che apertamente si prospetta è quale funzione l’artista assegni alla sua opera e quale nesso vi sia tra messaggio e tecnica: a questo punto sarebbe più corretto parlare non di metafisica ma di surrealtà, surrealtà che scaturisce dall’inconscio, estraniandosi dalla dimensione storico-temporale. Lo spazio esiste nella sua friabile e dinamica pluridimensionalità coglitiva, la sfera dell’umano si mitizza nell’atemporalità del corpo-pietra. Si intuisce nelle opere di Carpignano una rimembranza primordiale, legata alla bella forma sia nella dinamicità sia nella staticità. Piacere estetico e piacere onirico ritraggono l’angoscia di una Nike che si fonde con la natura; la Nike però non è solo riflesso di una stagione artistica, ma è soprattutto rifrazione esistenziale di ciò che è andato perduto: l’unione essenziale Uomo-Natura. Dalla morte del mito si passa, così, ad una ricomposizione angosciosa del mito tra sfumature espressioniste e armonie timbriche. Giuseppe Manitta Aurora, olio su tela (cm 100x120) In queste opere il cromatismo non procede per contrasti ma per assimilazione e affinità, non si tratta di materia sfavillante, ma con toni pacati e luminosi tutto si tramuta in compostezza formale. Una delle opere più particolari è “Amore rapito”, mirabile olio e acrilico su tela. È evidente come i corpi resi da Anna Poerio Riverso richiamano la compostezza greca, una statuaria dei soggetti che si trasporta verso una dimensione atemporale. La forza espressiva nasce dall’intensità dei volti, dall’equilibrio strutturale, dallo studio delle pose piuttosto che degli atteggiamenti. Le tre figure si compongono sino a fondersi tra di loro, si lasciano e si abbandonano senza manifestare molta dinamica. La pittura della Poerio Riverso che al primo impatto potrebbe sembrare sconvolgente, è molto intensa e a dir poco originale in una fusione tra modernismo e classicismo, tra libertà e razionalità, tra emozione e armonia formale. Giuseppe Manitta Indirizzo: Contrada serra Pizzuta, 8 – 78018 Palagianello (TA). Indirizzo: Via Roma, 206 – 81030 Teverola (CE) 55 Umberto Argentino Gerlando Meli L’equilibrio formale e coloristico sembrano le caratteristiche fondamentali della pittura di Umberto Argentino. Ma la storia dell’artista-uomo sembra rivivere l’immagine di uno storicismo idealistico che in successione tra tesi, antitesi e sintesi afferma un continuo superamento della condizione iniziale per approdare a nuove forme artistiche. È difficile dare una definizione della pittura di Argentino, ma non impossibile. Alcune peculiarità, infatti, sono proprie dell’arte classica, altre invece, risentono delle funzioni artistiche che hanno segnato le grandi correnti del Novecento. Gerlando meli, pittore e scenografo, è nato ad Aragona (AG) nel 1962. La sua produzione estetica è contrassegnata da una profonda ricerca dello stile e del colore, egli indaga con straordinaria sensibilità il nesso che lega reale ed esistenziale. Le costruzioni dinamiche dell’opera di Gerlando Meli, infatti, con lirica evocazione animano e proseguono una ricerca della linea e del timbro molto in voga nella seconda metà del Novecento. La sua opera è linguaggio-simbolo delle contraddizioni contemporanee approdate ad una società di consumo. L’oggettivo e il soggettivo, in una sintesi esemplare, colgono la spazialità del sentimento in una omogenea realizzazione che rimanda alla tecnica del dripping inaugurata da Pollock. La spiaggia delle bambole, (olio su tela, cm60x40) Interessante è l’approccio esistenziale al reale sia nelle espressioni disegnative che pittoriche, sia nelle composizioni grafiche, che rimandano a bozzetti di Guttuso, sia nel gusto cromatico che passa dalla dimensione materica ad una pittura di maniera. Però, se ci accostassimo solo alla concezione di ‘maniera’, per quanto vaga possa essere come espressione, non avremmo capito niente dell’arte di Umberto Argentino. La maniera di Argentino è solo apparente. Infatti la dimensione del reale, anzi dell’arte come mistione tra sentimento e realtà, si fonde all’espressività tecnica equilibrata, derivante dalla concezione di un odierno impressionismo e dalla rielaborazione del tratto effettuata nelle due Secessioni (quella viennese e quella berlinese) e nell’Espressionismo. Allora alla cautela di Riccardo Zigrino per una definizione sulla pittura di Umberto Argentino si potrebbe affiancare la concezione quanto mai poetica di ‘Modernismo classicheggiante’. Il pittore dà voce, così, ad ogni elemento divenendo «schizzofrenico ma nel senso più positivo della parola, dato che la sua personalità non è divisa, sdoppiata, ma assommata, moltiplicata per due; un pittore che quando dipinge compone sinfonie di suoni, orchestrazioni che arpeggiano sulle scale cromatiche, spaziando dalle più velate vibrazioni di luce, quasi respiri di bimbi, alle più rassodate di colori pieni e vigorosi» (Antonio Nardi). Giuseppe Manitta Lo spazio, nella sua concezione classica, viene distrutto e ricomposto in un sinolo di materia e forma che estende concettualmente l’opera all’infinito, finanche oltre la tela. Gerlando Meli ha esposto con i maggiori esponenti dell’arte contemporanea nei più importanti centri artistici mondiali, ha ottenuto oltre 150 riconoscimenti, le sue opere fanno parte di pregevoli collezioni private d’importantissimi nomi del campo della cultura, della religione e dello spettacolo. Sta riscuotendo quindi un notevolissimo successo con presenze artistiche anche in città come New York, Malta, Parigi, Venezia, Roma e moltissime altre. La sua arte va oltre i limiti del volume, coglie la dinamica essenziale del segno primitivo, ne orienta con il gusto cromatico il significato simbolico. L’informale razionale diventa formale concettuale, diventa forma del sentimento e dell’anima contemporanea. Un’arte universale, quella di Meli, che rimodula con molta originalità alcune conquiste artistiche degli anni cinquanta portando a pieno compimento la fusione tra disegno e non-disegno, tra linea e colore, tra pittura e grafica. Emerge dunque dall’opera un forte vitalismo che cattura il fruitore trasportandolo nel turbine incessante del colore. Giuseppe Manitta Indirizzo: Via Antonio Cimarosa, 7 – 04022 Fondi (LT) Indirizzo: Via Nazareno, 182 – 92921 Aragona (AG). Tel 368-3726971. Gerlando Meli dona una sua tela a Ivana Spagna 56 Laura Carone Paolo Santoro Laura Carone, pittrice pugliese, è nata a Gallipoli (LE) nel 1964. Attualmente vive a Francavilla Fontana (BR) dove dirige uno studio e una galleria insieme ad altri amici. Artista giovane, realizza la sua prima mostra nel 1993, incuriosendo e affascinando subito critica e pubblico. Da allora sono passati soli undici anni e Laura Carone è riuscita a conquistare stima e notorietà che preannunciano un futuro ricco di riconoscimenti e innovazioni estetiche. Nel 1996 con il disegno Persefone Gaia vince a Venezia il primo premio alla Biennale Mediterranea GraficaMultipla. La suggestività della natura, le immagini affascinanti della mistione cromatica sono alla base della pittura di Laura Carone. Paolo Santoro è nato a Bari nel 1949. Pittore, è stato allievo di Colonna, De Bellis e di altri maestri. L’impegno nel campo artistico è molto proficuo. Infatti molte sono le mostre personali tenute dall’artista pugliese sia in città italiane, come Bari, Varese, Cormano, Milano, Pachino, Gioia del Colle, sia in Svezia (Kastelmar), Australia (Brisbane) e Lisbona. La sua partecipazione a rassegne lo ha portato a ricevere numerosi riconoscimenti tra i premi conseguiti. Tra i critici che si sono interessati alla sua produzione artistica si ricordano Vittorio Sgarbi, G. Spinelli, N. Punzo. Le opere di Santoro si possono anche ammirare in musei di Piacenza, Forlì, Bari, Firenze e Foggia, nonché in collezioni private anche oltre oltreoceano. La pittura di Santoro è mirabile per la naturalezza d’espressione, che va alla ricerca della natura sfuggente, dell’attimo emozionale che rinchiude l’essenza di un soggetto. Dune 2002, inchiostro di china su cartoncino (diam. 18) L’emozione e il colore diventano un tutt’uno sulla tela, si trasfondono in immagini e in soggetti che fungono da cornice. Le pennellate sono rapide, luminose, riescono ad imprimere con freschezza i timbri di un’emozionalità profonda ed affascinante. Il suo linguaggio, in un tempo in cui la libertà d’espressione è la regola fondamentale, riesce a cogliere le orchestrazioni angosciose dell’espressionismo, il misticismo onirico, la pennellata fresca e naturale dell’impressionismo. In Laura Carone concetto, immagine, colore e sentimento divengono un connubio di mirabile lirismo. La pittura diviene così anche materia, plastica effusione e luogo privilegiato di esperimenti, riuscendo a dare un effetto naturale meditato e studiato. Esemplari per la tecnica di sintesi e per il gusto espressivo appaiono gli acquerelli, i quali rimodulano la frantumazione onirica ed estetica degli oli per abbandonare il fruitore in un nostalgico abbraccio. Non meno interessante è l’opera in china, come ‘Dune’, in cui meglio si realizza quella combinazione uomo-natura presente anche nelle altre opere. La Natura, così, si antropomorfizza svelando all’uomo il disagio dello Spirito universale nelle vibrazioni ben equilibrate. Si realizza così in Laura Carone una spinta originale che nel dettato trasfonde la sua giovinezza. L’artista filtra i soggetti nel suo Io, attingendo anche ad una dimensione precosciente che equilibra il quadro rendendolo campo di battaglia tra razionalità e pulsione. Giuseppe Manitta Contadinotta, olio su tela (cm 70x50) La tessitura delle sue opere è molto suggestiva tanto da vivacizzare magici toni di luce che riempiono il quadro. Legato ad una tradizione fauvista, va alla ricerca della linea, pur mantenendo una vivissima orchestrazione di toni cromatici. Interessante, in questo senso, è l’autoritratto in cui il tema centrale non è la figura fisionomica, ma l’emozionalità della pennellata e il cromatismo che rapisce il fruitore. Alla luce di quanto detto V. Cracas scrive: «Ricca di vibrazioni è la pittura di Paolo Santoro, che nei rutilanti ritmi della materia cromatica imprime le palpitanti emozioni del suo animo, dando vita ad immagini che interpretano sentimenti diversi ispirati dalla vita quotidiana, dall’osservazione della natura e del paesaggio e comunicati con fresca immediatezza in uno stile personale e incisivo». Così non solo perizia del soggetto e del colore, ma anche il non-detto e il fascino di esso assumono nelle sue opere importante valenza per la comprensione della sfera emozionale dell’autore. Giuseppe Manitta Indirizzo: Via De Deo, 70 – 70126 Bari Indirizzo: Via Cesare Teofilato, 10 – 72021 Francavilla Fontana (BR) 57 Luciano Tocci Claudio Carrieri «Luciano Tocci è un artista che ha già trovato un’ispirazione potente, dotato di quella forza interpretativa che induce al trasporto. Il suo lavoro è una commistione di perizia pittorica, di frammentazione e ricomposizione della luminosità e non solo della luce, è una perifrasi sul mondo che lo attornia». Così Dina Turco definisce il pittore Luciano Tocci, artista che attraverso incantevoli giochi di colore impreziosisce le forme che prendono vita nelle sue tele. L’arte di Tocci diviene finestra sul mondo, ma non finestra passiva. La sua analisi acuta del reale riesce ad esprimere bene non solo l’esistenziale, ma anche una surrealtà verso cui tendere. Non c’è dubbio che l’arte debba far riflettere l’uomo sui problemi del proprio tempo. Per far ciò, Claudio Carrieri (nato a Prince GeorgeCanada nel 1956, ma risiede e lavora a San Bernardo in Valle, Savona) è un eclettico artista che nella sua professione ha sperimentato mezzi e tecniche assai diversi, e inizia un cammino che va alle origini della storia dell’essere umano. Infatti, nell’agricoltura, nella pacifica convivenza, nella non violenza, sono le basi di una grande civiltà in cui la donna madre, personificazione della fertilità e della continuità della vita, ha un posto primario. Ecco allora le accoglienti “odali-sche”, vasi-statue in ceramica che si forgiano partendo dal basso, con una tecnica usata già nel neolitico, un processo uguale e ripetitivo. «La forma è quasi un pretesto afferma l’autore; - importante è raggiungere un risultato di metodo e ripetere il gesto». Le odalische si ispirano alle forme delle madri mediterranee, nella più assoluta semplicità della rappresentazione, in un ritorno ad una ragguardevole civiltà arcaica abbandonata, purtroppo, per seguire il progresso del-l’uomo guerriero alla conquista di dominio e onnipotenza... La Madonna, infine, è l’apice della spiritualità femminile, il punto più alto del percorso, che accoglie noi figli e sa ciò di cui abbiamo bisogno. Quindi, recentemente, l’artista ha allestito una mostra di tele ad olio, tutte di ugual misura con cornici di legno chiaro e decorazione intagliata a greca, rap-presentanti la Madonna. Ma questo non è l’unico filone indagativo di Carrieri che, in una progressione di crescita dagli spunti leonardeschi, ha sperimentato, tra l’altro, il disegno grafico. Si è cimentato con ritratti di vari personaggi, noti e meno noti, tra cui gli atleti dello sport della pallapugno, una disciplina un tempo molto diffusa ma praticata oggi in poche aree, tra cui la Liguria di ponente ed il basso Piemonte, ritratti eseguiti con la tecnica delle silhouette e contornati da una cornice dipinta non sul legno ma sulla tela stessa del quadro. Anche la pittura-scultura con vari materiali lo ha sempre affascinato... Infinite sono dunque le curiosità che spingono l’intelligenza di Carrieri a “provare” con entusiasmo nuovi itinerari artistici, partecipando attivamente alla vita contemporanea, in una tensione di comunicazione di sé e delle sue idee che affascina il visitatore delle sue molteplici esposizioni. Renata Rusca Zargar Il patriarca, (tecnica mista su tela , cm 50x70) Tocci è nato nel 1955 a San Donato Val di Comino (FR), mentre il suo cammino artistico lo ha visto presente in numerose città italiane ed estere. L’amore verso il bello scaturisce con energia dalle sue opere in cui forme e colori s’intrecciano alla fantasia. L’esaltazione delle figure affusolate e dei colori nelle svariate tonalità diviene nell’arte di Luciano Tocci un motivo martellante che affianca all’equilibrio del dettato una forma onirica e che trasfonde un certo mistero. Il dræma onirico si carica, dunque, di sconfinate armonie che manifestano le intense vibrazioni. Il mondo di fiaba diviene analogia del reale e metaforica sublimazione del bello. Riccardo Zigrino ha definito la pittura di Tocci «specchio fedele della sua natura e chi osserva le sue opere legge con estrema facilità le pagine della sua vita, la cifra precisa della sua esistenza. I sapienti impianti coloristici e la ricercata perfezione del disegno, l’accordo cromatico e la nobiltà di quest’arte respingono le putridi commistioni della vita di consumo che il materiale (sostantivo) umano (aggettivo) vuole proporre ad un mondo senza ideali e senza speranze». Giuseppe Manitta Indirizzo: Piazza C. Colletti, 4 – 03046 San Donato Val di Comino (FR); Studio: C.da S. Maria Cellarola – 03040 Gallinaro (FR). Indirizzo: via Riborgo, 22 - 17044 San Bernardo in Valle, Savona. 58 Infatti, c’è il carro dei pazzi dove sono caricati tutti, legati e fasciati, tirati da un fauno, c’è un albero che ascolta con le orecchie mentre la gente, invece, non ascolta affatto. La stoltezza di un rinoceronte con l’armatura che ha tolto la sua vera corazza, il pesce grande mangia il pesce piccolo e si trasforma tutto in oro: anche l’ammirazione diventa denaro… Ci sono poi i lunatici: ognuno ha la sua luna e se la tiene stretta, i buffoni possono dire tutto, anche la verità. Oppure c’è il quadro del potere composto da ranocchio, anatra e burattino (ogni persona è un po’ un burattino). L’amore è cieco. Infatti i cupidi colpiscono tutti, tranne le persone! E c’è anche la morte: scoppia l’orologio, cade l’ultima goccia d’acqua, un uomo guarda il cane amico. Attilio Cicala Attilio Cicala è nato a Messina nel 1945, diplomato all’Istituto d’Arte di Messina e poi all’Accademia di Belle Arti di Reggio Calabria, oggi vive ad Albisola Superiore (Savona) ed è titolare della cattedra di Discipline pittoriche al Liceo Artistico Statale “A. Martini” di Savona. Entrando nel suo studio, si nota subito che è zeppo di lavori dei suoi diversi periodi: il figurativo, l’informale, il simbolico… così come la sua piccola casa (nella scala c’è il “vascello dei pazzi”) ha gli spazi tutti occupati da oggetti, ognuno con un suo significato e tanti libri per studiare… Le culture del mondo, come ad esempio quella egizia, ed egli ha ricreato faraoni e meravigliosi sarcofagi - lo affascinano e, prima di produrre un quadro, fa un accurato lavoro di ricerca delle informazioni. «L’artista non può essere ignorante - mi spiega, la base è sempre la cultura, il contesto in cui si vive, i fatti di attualità. Anzi, in ogni tempo, l’artista rappresenta la sua epoca e può addirittura avere l’intuizione del futuro. Oggi, ad esempio, non si può fare ciò che si faceva nel Cinquecento. L’abilità tecnica si impara dai secoli passati ma il contesto, la visione del mondo, devono essere quelli attuali». E senz’altro egli ha imparato e sperimentato tecniche, mezzi, forme diverse, ha prodotto quadri ma anche sculture, piatti, pannelli, e illustrato libri. Ha saputo dare, con poche pennellate di colore, forma all’astrattezza dei pensieri, come nel bellissimo “Vado via”, in cui la fuga, vera o desiderata di ognuno di noi è chiara, proprio come ce l’eravamo immaginata. O quando ci dice: “Vorrei volare” e la sua nave, piccola piccola, nel blu intenso di un enorme mare-spazio terrestre, piano piano si prepara, fino ad avere le ali (e non è forse quello che vorremmo anche noi, perduti nella ristrettezza della nostra materialità e stoltezza?). «Una volta ho sentito gridare per la strada - mi confida ancora: - deve essere un pazzo, mi avevano informato. Ma forse ha le sue ragioni, ho pensato io. Così mi sono documentato, ho letto l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam che mi è sembrato fatto su misura per noi. Da ciò sono usciti una serie di quadri “non razionali, con qualcosa che non sia dato per sicuro». Trapasso, olio su tela (cm 93x137) Ogni lavoro è, dunque, il racconto di una storia dell’uomo, la messa a fuoco di un suo problema, di un suo modo di comportarsi. È qualcosa che si rimane incantati a guardare, sia per i colori: forti, luminosi, caldi, ben contrastati, che per i soggetti. “I remember”, ad esempio, dove i pensieri sono, forse, appesi agli attaccapanni, dietro la testa dell’uomo. C’è una grande forza di rappresentazione, nelle forme, nei colori e, soprattutto, nelle idee. L’arte vera è questo percepire le idee di tutti ma saperle esprimere attraverso l’unicità e l’originalità della propria inventiva e creatività, è nella decisione con cui si affronta un tema, magari difficile, è nell’opera di trasformazione della realtà pura quale ci appare all’occhio, è nell’obbligare la mente degli altri a pensare, anche oggi, quando si è trascinati dalle obbligazioni sociali e si pensa così poco! «C’è sempre una simbologia di oggetti - aggiunge l’artista. - Il quadro deve essere una lettura per chi lo vede. Se tu riproduci solo un paesaggio, anche in modo perfetto, non serve, perché è scontato, non lo puoi leggere. È meglio allora fare una fotografia. Invece la simbologia deve farti pensare, deve comunicarti qualcosa, anche se poi tutti lo comprendono ancora in modo diverso». Molti dei suoi lavori sono ormai in prestigiose raccolte di amici o colleghi, egli ha allestito mostre in Italia e all’estero. Ed ora sta preparando un’esposizione presso l’Am-basciata italiana in Turchia e le decorazioni per un ospedale a Nuova Sirdisk, in Russia. Renata Rusca Zargar Indirizzo: Via Stella, 38/2, loc. Ellera, - 17011 Albisola Superiore (SV). 59 damento che infine, in particolare con le serie dedicate a Bassano e ai comuni vicini, Carandente ritrova anche nella Storia, essa stessa estrinsecazione del medesimo principio vitale, essa stessa quindi, piranesianamente, Natura: nelle sue opere più recenti gli edifici, non più fondali scheletrici all’indistinto passare della gente, riacquistano una propria dimensione storica e vitale, germogliano simili a piante attraverso forme inusitate eppure riconoscibili in una profusione di fantasiosi tentacoli, che li radicano nelle coscienze come incancellabile e irrinunciabile monumento-documento. Giulio Carandente l’emozianilità umana di Chiara Marin Giulio Carandente è nato Poeta: l’animo aperto a contemplare la bellezza della Vita in ogni sua manifestazione. La sua Salerno, azzurro nel cielo e limone nell’aria, gli ha insegnato la sottile poesia dei colori: le intime corrispondenze che esistono tra le multiformi vibrazioni tonali. E Giulio Carandente è diventato Musicista: ha imparato la magia delle pause, dell’equilibrio di note e silenzi, composizioni che palpitano in una struttura razionalmente fondata. Nel Bassanese, dove si è trasferito, la sua melodia si è immersa nella storia, ha ricalcato le strade insanguinate dai conflitti, ha ripopolato i mercati e i palazzi della prosperità rinascimentale, ha innalzato inni medioevali di devozione. E Giulio Carandente è diventato Narratore: ha compreso l’importanza di preservare il passato, di farlo rivivere nella catarsi del dramma, perché sia fondamento di un presente, che senza di esso, non può avere futuro. Attraverso lunghi anni di studio e di esperienze, Giulio Carandente ha compiuto la sua formazione: ed è, finalmente, un Uomo. Bassano del Grappa “Via Jacopo da Ponte”, (olio su tela, cm 80x100) Il segno grafico di Carandente, sicuro e netto, si pone con piena umiltà di fronte all’oggetto, organismo vitale, concede perfetta espressione a questa manifestazione estemporanea di un unico gorgo energetico, tuttavia importante proprio per la sua realtà presente: ciascun dettaglio infatti, carico di una precipua significazione, si fa latore di quel surplus di significati, che la memoria dello spettatore, così vividamente attivata dalla saggia distribuzione di massa e colore carandentiana, e in grado di conferirgli, recuperando una dimensione presensoriale e forse anche pre o alter-umana, come suggeriscono talune forme fetali o persino aliene. Attraverso una composizione che sfugge da ogni componente retorica o di autocelebrazionismo stilistico, privilegiando invece una visione semplificata, attenta ai motivi essenziali, e per ciò - pur nella loro iconicità ambigua e provocatoria - riconoscibili, Carandente riesce a guidarci, con un’interrogazione incessante ma aprioristica del dato naturale, ad una comprensione più completa e profonda di un mondo che, sebbene da lui stesso interrogato per rispondere alle sue domande, non si limita per questo ad essere il suo mondo, ma diviene il nostro mondo: nelle sue alchemiche germinazioni infatti possiamo individuare la risposta a quelle esigenze, a quei dubbi e soprattutto a quelle paure che ci attanagliano nel confronto con la realtà contemporanea. Così in Carandente se il colore si lega al dato reale, acquista altresì, grazie all’azione del ricordo, un surplus di Bassano del Grappa “Ponte degli alpini”, (olio su tela, cm 80x100) Questa incessante recherche del policromo rigoglio della Vita, che lo ha portato ad indagarne le diverse manifestazioni nel campo artistico - il non economico kantiano, campo libero per un’analisi lontana dalle logiche alienanti del guadagno - è evidente in tutta la sua produzione pittorica: dagli esordi figurativi, poetica e quasi immediata introiezione della Natura, al fine di coglierne i meccanismi operativi; alle musicali serie grafiche e serigrafiche, scansioni ritmiche di griglie dagli spazi chiusi e compatti, carichi di simboli tormentosi e instabili, ove il segno grafico ha valore di principio costruttivo, sì da rivelare la presenza di un quid razionale ed universale, al di là del suo divagante manifestarsi in questo magma confusionario e caotico. Fon60 intensità quasi espressionistica; ogni segno è un richiamo illuminante, una madeleine proustiana, che però satura la propria significazione solo in rapporto all’universo che lo circonda. La sua pittura quindi, lungi dall’essere riposante, è una pittura liberatoria, che garantisce, attraverso la riconoscibilità di alcuni elementi - sollecitazioni al tentativo di una comprensione globale dell’insieme che, per pulsare ondeggiante del suo oceano di forme, non può, non vuole mai darsi nella sua completezza - una Epifania, secondo un processo per cui l’immagine, anziché essere fine a se stessa, diviene un mezzo per giungere ad una superiore sophia. Si è conclusa nella città di Cassola (Vicenza) la rassegna “Multiartissima”, che ha visto la partecipazione di oltre trecento artisti locali e nazionali, cui è seguito un grande successo di critica e di pubblico. Giunta quest’anno alla sua quinta edizione e, come da tradizione, ideata e diretta dal maestro Giulio Carandente, la rassegna ha potuto contare numerosi eventi espositivi e concertistici, di recitazione e letterari, per esprimere il concetto del movimento culturale definito dallo stesso Carandente “Multiarte”. Bassano del Grappa “Torre ser Ivano”, (tela, cm 80x100) Bassano del Grappa, “Fontana di Piazza delle Erbe” (Olio su tela, cm 80x100) La produzione di Carandente acquista pertanto un significato altamente sociale, non solo denuncia di particolari tensioni del mondo d’oggi, ma come proposta per una ricomposizione organica dei frammenti dell’esistenza in una nuova dimensione, che permetta la compiuta espressione di ciascuno di questi atomi e ne esalti l’intima connessione in un fluido balletto, che forse non è errato chiamare agape. Ecco dunque che l’interconnessione tra le arti, come esperienza basilare per un successivo connubio dei diversi aspetti dell’esperienza, propugnata da Carandente nel corso di tutta la sua esperienza artistica, ha trovato la sua perfetta realizzazione nel movimento da lui fondato Multiarte. Perché l’impegno di Giulio Carandente, che attraverso i suoi dipinti si esprime nella sua compiuta umanità, è quello di guidare, attraverso le proprie opere e le proprie iniziative, anche gli altri uomini alla piena realizzazione di sé: e con le sue grafiche e la vivezza dei suoi colori - così tonali, così straordinariamente veneziani - continua a ricordarci quanto sia ricco il mondo che c’è oltre. Tra questi da segnalare la lirica “Fratelli d’Italia”, del noto poeta salernitano Paolo Visconti: un sentito omaggio ai caduti di Nassiriya che, nella serata conclusiva con i cantori e l’orchestra dei Cantori Castellani, presso l’auditorium A. Vivaldi, è stata recitata dal soprano Paola Bugnato, accompagnato dalle struggenti note del violino del Maestro Radu Jelescu (la poesia si può leggere alla pagina 25). Emozionato, il pubblico ha manifestato la propria commozione con un sentito e lungo applauso, accomunato nelle parole che ricordavano il tragico e vicino evento. Multiartissima Indirizzo: M° Giulio Carandente (pittore e grafico) Ideatore e direttore artistico rassegne interdisciplinari Fondatore del movimento internazionale della Cultura Multiarte. Via G. Leopardi N° 15 - 36022 Cassola (Vicenza). E-mail: [email protected] Tel. 0424-31057; 339-7823672 - Fax 0424/31057. Internet: www.paolovisconti.it/rubriche/arte_e_cultura/giul io_carandente. Htm 61 Lezioni d’amore di Gianni Rescigno (Lineacultura, Milano 2003) Recensioni Il paesaggio mediterraneo fa da sfondo alle 30 liriche della silloge “Lezioni d’amore”, con cui Gianni Rescigno ha vinto la XV edizione del premio-pubblicazione inedita di “Iniziative letterarie – Lineacultura”. Anche per questa raccolta valgono i commenti che Giorgio Bàrberi Squarotti aveva premesso ad altre sillogi del medesimo autore: «Un’alacre, ilare, festosa, luminosa, solare esperienza d’amore giovane, e lo sguardo colmo di malinconia della memoria che ripassa il primo tempo del sentimento, rievoca con pena la persona amata, la rivede, sì, ma ferita e raggelata dal tempo trascorso, dall’età fuggita, dall’impronta del distacco, della diversa sorte, della morte, che, nella rievocazione, il poeta legge sul volto amato, anche nel momento in cui cerca di reimmergerlo nella natura di frutti e luci entro cui era apparso nell’inizio gioioso». «Lo spazio popolato di cose cerca di vincere il trascorrere del tempo. Le cose non si perdono, proprio perché hanno la durata della natura». Rescigno scrive: «Poco più d’un giro di sole / durò quel cielo spalmato di miele.» «Forse siamo / quelli che non eravamo / e che non volevamo essere / forse quelli che eravamo / e altri volevamo essere. / Forse non siamo / né questi né quelli: / soltanto tempo della terra / senza il vestito della primavera». Come Pascoli, Rescigno conosce con precisione le specie vegetali della sua terra e nominandole in modo dettagliato cerca di riempire i vuoti dell’anima. La musicalità delle poesie riecheggia l’armonia della natura in immagini immediate. Protagonista assoluta la donna, dal nome e dall’identità mutevoli e sempre sfuggente («Sorrisi per tutti sguardi per nessuno»). La bellezza femminile domina trascinando in atmosfere oniriche e incantate e penetra la natura circostante. Il poeta pare sprofondare nell’abisso della giovinezza per inseguire la donna ammaliatrice, quasi fosse la sirena di “Abisso verde” di Sartorio. Egli cerca di catturare la preda irraggiungibile donando ai suoi versi tensione e una sensualità espressiva carica di sensazioni tattili. Talvolta vi sono affinità con alcune poesie di Franco Bignotto. Però, come osserva Marina Caracciolo, «anche l’aspetto più sensuale finisce per rivelarsi ingannevole, come l’effetto di una visione così nitida da sembrare davvero esistente: ma è la realtà fittizia e fallace del sogno. Concreto, invece, vero per sempre, è paradossalmente proprio il fantasma d’amore che il poeta ha evocato». L’essenza di queste “lezioni” è racchiusa in un proverbio cinese: «Il cuore di donna è sfuggente come una goccia d’acqua su una foglia di loto». Claudia Manuela Turco Ventu di lu Golgota di Carmelo Lauretta Il dialetto siciliano abbraccia la Fede. Gli autori e gli esempi in vero non difettavano. Ci sovvengono anzi numerosi e per certo abbiamo notizia di Concorsi Letterari a tema religioso promossi nell’Isola. Per la più parte, tuttavia, tali componimenti sono soliti esaurirsi nella formula della accorata preghiera, riecheggiare gli stilemi tradizionali sul Natale, assumere il cliché del poemetto rimato in gloria del Santo Patrono o (come assai spesso pure accade ) della Santa Patrona; in ogni caso, la devozione non valica il quartiere o la regione, eccezion fatta per il sempreverde San Francesco d’Assisi e di recente per Padre Pio da Pietrelcina. La novità a nostro avviso, l’aspetto saliente di questa nuova, breve silloge di liriche di Carmelo Lauretta, sta nell’estendere oltre tale precedente misura l’ambito degli exempla spirituali, sta giusto nel dare una connotazione universale al proprio credere. Coloro che conoscono le opere dell’ultimo decennio di Carmelo Lauretta non ne rimarranno sorpresi. Già “L’acqua di lu Giordanu” e “Oasi di Sion” infatti – come è ben facile dedurre a partire dai titoli - si erano volti in questa direzione, per dare origine alla trilogia che con “Ventu di lu Golgota” oggi si perfeziona. Trilogia che conduce il lettore dal momento iniziale della vita pubblica del Cristo sul Giordano al momento finale dell’esistenza terrena del Nazareno sul Golgota. Se non fosse, in verità, che per la Fede, questo rappresenta piuttosto – sconfitta la morte con la Resurrezione - il principio della Vita. I motivi ispiratori del progetto della Trilogia scaturiscono, verosimilmente, dall’intento di pervenire alla propria e all’altrui salvezza. Salvezza da conseguire col testimoniare la propria fede anche attraverso la Poesia, il mezzo che più gli è congeniale; col riproporre i valori autentici del percorso terreno di ogni uomo; col partecipare - specie in questi tempi così difficili - la propria vocazione alla pace, che è umana e cristiana al contempo; con l’esortare, quanti da tutto ciò sono distanti, a coltivare l’aspirazione ad una dimensione più “alta” del proprio vivere, a nutrire la virtù che segni con una ragione “forte” l’esistenza, in risposta quasi al pensiero debole affermatosi nel secolo appena trascorso. Gli effetti per il dialetto siciliano sono di notevole portata. Questo difatti viene catapultato in un palcoscenico globale vieppiù dimostrando - ove ve ne fosse ancora bisogno - di essere in grado di districarsi su ogni argomento, in ogni circostanza, di sapersi spingere verso latitudini e longitudini di pensiero inesplorate, di potere affrontare ogni contenuto e non già - come in taluni ambienti si sosterrebbe - doversi relegare agli aspetti del folklore, ai temi della tradizione, all’iconografia della terra di Sicilia nel suo eterno, sofferto sopravvivere. Carmelo Lauretta ci conduce sulle ali del suo Ventu, nello spazio, dal Vaticano a Berlino, dalla Cambogia al Ciad, dal Bengala all’Uganda e, nel tempo, dall’Apostolo Pietro al Giubileo del Duemila. Egli ci parla senza perifrasi, in un idioma da presa diretta - immediato, intenso, attuale di lebbra, di donne martiri, di fame che ammazza… In buona sostanza, si e ci proietta dalla terra… al cielo. Maria Pia e Marco Scalabrino 62 Rodolfo V. Leiro, Imagénes, Selección Poética (Cuadernillo n. 3. Revista literaria “Alas del Alma”, Argentina 2003) Pesci e coralli nella silloge C’era una volta il mare… di Isabella Michela Affinito (Casa Editrice Menna - Avellino 2002) Come autore credo che, la collezione di queste dodici “Immagini” della mia serie, rappresentano un tentativo nuovo, una specie di prova su una forma o uno stile differente da considerare la mia Poesia. La maggioranza dei commenti ricevuti, non sono stati precisamente elogiativi. Sono certamente confuso riguardo alla possibilità di continuare questa serie di “Immagini”. Non riesco a capire se la loro dimensione letteraria comunica qualche segno incisivo per il futuro. Nonostante, ho voluto riunirle nel presente libretto per evitare che finiscano nell’anonimato totale (l’autore Rodolfo V. Leiro). La penso come l’autore in quanto Immagini percorrono sentieri poco usuali nella Letteratura Poetica. Ma, non è stato necessario, durante la sua storia, tentare nuovi percorsi? Non hanno spinto questi “coraggiosi” Poeti alla creazione di nuove forme (Romanticismo, Modernismo, ecc.) che più tardi furono accettate e perfino adottate? Rodolfo Leiro, senza dubbio è artefice della Poesia, non si accontenta dell’idioma usuale che utilizza la maggioranza dei nostri colleghi... Immerge nelle ubertose acque del mare della nostra lingua e riscatta parole dimenticate, che egli spolvera da immeritate ragnatele ed oscurità. Immagini sorprende per la sua forma ed il suo linguaggio peculiare. Scivola come un ruscello di acqua chiara, rinfrescando progressivamente le nostre corde segrete o, in altri, facendole vibrare col suono di un più genuino sentimento (Eva Falótico Gandolfi). Isabella Michela Affinito può considerarsi un’artista eclettica. Nata in Ciociaria, fin da piccola manifesta una vera inclinazione per il disegno, che si concretizza poi, nel quadriennio di studi presso l’Accademia di Costume e Moda di Roma, nell’acquisizione degli strumenti che faranno di lei un’artista, soprattutto nel campo della grafica. Matura, però, negli anni successivi, anche l’amore per la scrittura e pubblica diverse opere di poesia, l’ultima delle quali è C’era una volta il mare. Perché proprio il mare? «Perché il mare - scrive l’Autrice nel retro di copertina – è sempre il mare e la sua esistenza è la nostra esistenza, legati assieme da sempre e raccontare di esso è come dire la nostra storia, i nostri desideri nascosti come perle nel guscio dell’anima e non trovarsi a dire un giorno: “C’era una volta il mare...” e per non lasciarlo in solitudine il mio mare adesso è diventato Poesia». La silloge, che accoglie 14 poesie, si apre con l’immagine di una donna mediterranea dai capelli scuri, con «il coraggio / in gola e sangue / di amazzone non ferita», una donna con gli occhi che hanno «il colore / antico di un’anfora / greca»; e si conclude con la figura di Ulisse il temerario, il quale, dopo dieci anni di avventure fra mostri e ninfe, sente ancora violento il richiamo del mare che lo attira come canto di sirena ammaliatrice e parte, assetato di conoscenza, per essere infine inghiottito con i suoi compagni in un vortice assassino. Si avverte la presenza di una certa classicità anche nelle citazioni: Poseidone con i suoi «splendidi cavalli / che controvento / trainavano la sua grande conchiglia», Medea «che giura vendetta / in riva al mare» ,Nausicàa che va incontro ad Ulisse svenuto sulla spiaggia, Narciso che si specchia nell’acqua e s’innamora della sua immagine. Ma al di là di questa classicità diffusa, un po’ di scuola, le poesie sono ricche di colori e suoni: «Alghe marine / tra gli azzurri / di un oceano in / movimento», sirene che «danzando richiamano / gli uomini del mare», «un alito di corallo / che vibra per tutta / la profondità…», conchiglie che portano racchiusa nel cuore la voce misteriosa e segreta del mare, i fondali di sabbia pieni di antichi ori e argenti e bronzi rimasti laggiù per secoli. E l’amore della poetessa per l’acqua, elemento primordiale di vita, giunge fino a confondersi essa stessa con la natura del mare in una poesia in cui si avverte un sentimento panico di sapore quasi dannunziano. «Cambierò colore / - canta la poetessa - secondo l’umore / e tutti i verdi smeraldo / saranno sulle mie dita / e ci sarà anche / l’acquamarina». E più oltre: «Io come l’alta marea / attirata dalla luna / farò delle onde / le balze del mio vestito / che resterà sospeso / a galleggiare in riva al mare». Alfonsina Campisano Cancemi Sicofantes Como un cerval sicofante el tiempo labra su herida, sobre una pelvis urdida en un carmín desafiante. Una hipérbole constante de las hojas desvalidas, como un palpito de vidas que nace y muere en instantes. Y en el pulso delirante de las venturas perdidas, mecen manos desvaídas una Luna aventurera, como lágrimas postreras dentro de cuencas baldías Sicofanti Come un cervino sicofante il tempo coltiva la sua ferita, sopra una pelvi ordita d’un carminio provocatorio. Un’iperbole costante di foglie indifese, come un palpito di vite che nasce e muore in un istante. E nel polso delirante delle sorti perdute, cullano mani sgraziate una Luna avventurosa, come lacrime ultime dentro bacini vani. 63 Realtà e sogno s’intrecciano nella raccolta I riflessi dell’anima di Giovanni Moschella, (Carello editore, Catanzaro 2003) Francesco Di Rocco, Dicta nocturna, (Edizioni NOUBS, Pescara 2003) Olimpiche, mitologiche classiche reminiscenze, o suggestioni fantascientifiche e postmoderne, titolano i brevi ed intensi componimenti che Francesco Di Rocco ha raccolto in questo tascabile ed essenziale volumetto,che si fregia, sulla copertina, di in inquietante disegno di Donato Di Zio. Inevitabile, come un passaggio obbligato, il riferimento all’evento dell’11 settembre 2001, che, oltre a modificare il corso della storia, ha cambiato le coscienze e il modo di pensare di noi tutti: «Ti tengo con me, barbaro settembre! / Nella confusione della cenere / Incerto tra cento e cento babele / mi prenderai nella tua Desolation Row / Biascicando dialoghi nel tuo edonismo / ridicolo. / Altro non desidero dal mio passato! / In quanto al mio presente, semmai sarà / indosserò nero il manto dell’oblio…» (da XI settembre). Solitudini metropolitane, dove echeggia più disperato l’isolamento dell’uomo tecnologico, ansie esistenziali che vanno a fluire e decantarsi in immagini e ritmi di olimpica compostezza: «Segmenti lunari recano / le favole in una conchiglia / sugli specchi incisi nella / notte / sebbene io mendicante / di turgidi dormiveglia / nei vicoli cristallini / indurisco rimpianti / a forma di folgore. / L’insonnia, elegante felino / istiga l’attesa dell’essenza / Caos necessario sfumato / nei vascelli di sale / L’Assassino rigenera / l’ordine delle colonne / istante spetrale dei muri / effimeri nelle brezze / il crepuscolo squarcia / la glacialità dell’assenza» (Metropolis). Echi di reminiscenze classiche vanno ad attualizzarsi in circuiti mitteleuropei, nel verso che riesce a fondere suggestioni di tempi e luoghi diversi. Dice Massimo Pamio nella sua Prefazione: «Sembra usare le parole come punti di non ritorno, Di Rocco, perché secondo la sua visione poetica, il dire non delimita, non è argine, bensì è deriva che emerge disperatamente in noi come palude marina di cui noi costituiamo l’immaginario... ». Maristella Dilettoso Dopo i numerosi riconoscimenti ottenuti, gli svariati titoli accademici e l’inserimento di parecchie sue liriche in antologie a distribuzione nazionale e internazionale, Giovanni Moschella si è deciso finalmente a regalarci la sua prima raccolta di versi “I riflessi dell’anima”, dedicata alla sua città natale, Atripalda. Mi vien fatto di pensare che mai titolo fu più appropriato, perché la silloge è veramente piena di “riflessi” (“questa sera dormirò sull’arcobaleno”), che si trasformano di volta in volta in acqua, aria, luna, stelle, “bagliori dorati del tramonto”, come se il poeta, da quel bravo pittore ch’egli è, usasse davvero la tavolozza dei colori. Capita raramente di leggere poesie così limpide e semplici nello stile e così intense e vibranti nei contenuti. Il poeta, sensibile alle problematiche sociali, sente dentro di sé la sofferenza dei più deboli e canta con profonda partecipazione l’innocenza negata ai bambini più sfortunati, da quelli che imbracciano un fucile troppo pesante per le loro tenere braccia a quelli dimenticati negli orfanotrofi come pupazzi, a quelli ancora costretti a vendersi l’anima ai semafori. Avverte con dolore lo scorrere del tempo che tutto travolge, l’impossibilità di comunicare con i propri simili e soprattutto il dramma della solitudine “…scavata / da lance / che trafiggono un cuore / lacerato / da assurdità violente…”. Talora i toni si fanno più duri e il poeta si sente “come un gomitolo / da sciogliere / e non si trova il capo; / come un pulcino / chiuso a riccio in un angolo aspettando / che passi un treno…”. E su quel treno il poeta salta per rifugiarsi nel passato, per tornare bambino, “tra i sogni e le stelle”, per “credere nell’impossibile”, con le speranze legate al filo di un aquilone che un tempo sfiorava il cielo! E nel passato ritrova la donna amata, pronta a donarsi e dargli forza (Quante volte correndo / siamo caduti insieme / e tu con la forza / mi hai aiutato a rialzarmi”). Ora lei non c’è e il poeta “murato fuori dal mondo” offre le sue lacrime alla luna, silenziosa e pura, che gli consente di sognare ancora in una notte in cui le stelle “come meteore / illuminano / e accarezzano / leggermente il cielo”; affida le sue sofferenze alla poesia, “un’arpa che infiamma i cuori”, unica consolazione nell’inferno della sua vita. Ma al di là dello strazio, (“vagabondo con un cane e / i miei stracci”), il poeta ha conservato una purezza interiore che nulla potrà intaccare (“…la mia anima inquieta / è segnata da cicatrici / ma dentro vi è il bianco / che non riesci a sporcare”). Alfonsina Campisano Cancemi È sera di Salvatore Magli (Convivio n. 15 pag. 22) C’è nostalgica tristezza in questa poesia di Magli, egli ricorda la scomparsa del babbo, il clima più adatto per questa ricordanza è quello della sera. «Il silenzio che mi è d’intorno / intesse immagini di pace?». È nella crepuscolarità che «la memoria / percorre a passi felpati / il labirinto dei ricordi». Efficace espressione per dire lo stato d’animo, questo favorisce la pietosa sensazione di una quasi presenza reale ...e ci sei! Come ala di sogno». Il clima si fa idilliaco e, nella penombra della sera., «si leva i concerto di violini..» che accresce la suggestività del momento. Torna la cruda realtà: «Te ne sei andato / non senza avvertire.. » delicata sensibilità per affievolire il dolore, te ne sei andato «come uccello / al suo ultimo volo...». Tornano alla mente tutte queste cose nel silenzio della sera... lontano dai tumulti del mondo.. l’autore riassapora nella loro realisticità quei momenti dell’estremo trapasso, acuito... dall’intenso odore di spigo. Una mesta rievocazione affettiva, intristita dal clima crepuscolare della sera in cui il mormorio del vento fa da sottofondo alla «canzone / che mi lasciasti per vivere / padre mio...». Appassionata riproposizione di un momento drammatico: la morte del babbo! Pacifico Topa 64 L’Altra Diagonale di Giuseppe Cesaro (Blu di Prussia editrice, Piacenza 2001) Angelo Cianci, la ricerca filosofica del Sé in Momenti visivi (Ed. Menna, Avellino 2003) La silloge poetica “L’Altra Diagonale”, pur riunendo un numero esiguo di liriche di Giuseppe Cesaro, poeta che ha spesso pubblicato sotto lo pseudonimo di Angelo Elmo, rappresenta, come osserva l’editore Eugenio Rebecchi nell’introduzione, «un lungo percorso emotivo dove si assemblano velate malinconie e sguardi sul mondo, ricordi ed emozioni, voli del pensiero e osservazioni, nomi di donna e tentativi d’amore, suggestioni e fremiti, filosofia esistenziale e vita vissuta o soltanto voluta, desiderata, immaginata». Nelle sedici poesie proposte alla nostra attenzione è ben evidente come il poeta e l’uomo si compenetrino e si completino a vicenda. Infatti, Giuseppe Cesaro, che in passato ha lavorato come agente educatore in un carcere minorile, definisce se stesso come «il poeta dell’infanzia reclusa». Nella silloge “L’Altra Diagonale” il canto viene gradevolmente modulato anche dalle poche ma meditate ripetizioni e dalla dosata punteggiatura. La diagonale bianca tracciata dal poeta su un foglio nero (nella poesia che dà il titolo all’intera raccolta) incide e cattura l’attenzione del lettore come un taglio di Lucio Fontana e, nella sinestesia del vento colorato di blu (nella lirica “Vento blu” che potremmo definire come la più geometrica), l’autore pare riecheggiare “Il Suono Giallo” di Vassily Kandinskij, donandoci sensazioni molteplici. Ogni lirica svela immagini inedite che si innestano nel solco della tradizione. Giuseppe Cesaro dimostra come sia ancora possibile sognare e come sia ancora possibile sperare di realizzare i nostri sogni, pur continuando a osservare attentamente e con lucidità la realtà quotidiana. Egli traccia una diagonale bianca su un foglio nero, ovvero la luce laddove ogni speranza si era spenta. Ma la sua non è soltanto una luce che consente di vedere, di vedere davvero. È anche una luce da vedere, una luce che inonda e pervade. È la luce del sogno poetico. Altri potranno disegnare, sulla diagonale tracciata dal poeta, la loro diagonale. I versi che ne scaturiscono non sono sempre delicati. A volte è lo spirito del ribelle sognatore a prevalere, come si evince dalle parole dello stesso Cesaro: «Mi rialzerò come un eroe / cadrò ancora come un bambino». Egli pare voler dialogare con la parte migliore di ognuno di noi, quella parte che rimarrà sempre giovane, per ricordarci che «Non è forte colui che non cade mai, / ma colui che cadendo ha la forza di rialzarsi» (Goethe). Claudia Manuela Turco «Subito prende, della poesia di Angelo Cianci, un senso come di tesa e sottilmente drammatica ricerca di sé: una ricerca che si consuma tutta all’interno degli spazi dell’essere, che anzi dell’essere fa il punto di forza e di limite della propria esistenza, di accettazione e di negazione, entro un dualismo ideologico ed espressivo in apparenza lieve, descritto con pudore, in realtà teso, lacerante, inconcluso». Questa visione della poesia di Angelo Cianci, così come si può dedurre dalla prefazione di Giorgio Agnisola al volume “Momenti visivi”, è pienamente condivisa da me, in quanto la poesia, quella lirica soprattutto, non è altro che ricerca di sé, una ricerca interiore che sfocia poi nella comunicazione con gli altri, così come nella riflessione filosofica e nella contemplazione mistica, o forse meglio estatica, della realtà. L’antico detto socratico, conosci te stesso, è quella ricerca interiore che conduce proprio alla filosofia, e la poesia è pure filosofia, cioè appagamento dell’animo attraverso la riflessione. E tale è la poesia di Angelo Cianci: profonda, riflessiva, mistica, mostrando una continua tensione volta al «grido alla vita / di coloro che cercano / di ritrovare se stessi». Ma questa ricerca non è fatta con parole altisonanti, o versi contorti e complessi, bensì con le semplici parole di chi ha padronanza completa del linguaggio e sa con umiltà accostarsi alle cose e a se stesso per prenderne coscienza. La ricerca è frutto di dubbio esistenziale, è quasi una continua domanda del perché della vita, del pensiero, della gioia, del dolore. La ricerca è espressione di sentimenti e di affetti, di ricordi filtrati attraverso la quotidianità dell’esistere, dell’essere e del sentire. La ricerca di sé non è quindi ricerca sterile e futile, non è mera filosofia, in quanto essa sfocia nella ricerca dell’Altro da sé. Neppure l’Altro da sé è entità filosofica, ma termine di confronto e di dialogo, quasi parte integrante del Sé. È come dire che il conoscibile si scontra o si confronta con l’inconoscibile. Si può quindi affermare che la poesia di Angelo Cianci è costituita da una ricerca interiore e attiva, una riscoperta che parte dall’intimo per andare all’esterno, che prende le mosse dalla fanciullezza in un percorso lineare e progressivo in cui si sente «bussare il pianto, la speranza, il grido alla vita». Il tempo, infatti, è l’elemento che fa da tramite in questa ricerca, in cui sentimenti ed emozioni si fondono. Il silenzio-tempo conduce alla quiete e l’animo gode «della gioia di essere e si lascia cullare dalla brezza di una pace armoniosa». Versi bellissimi e pieni di incanto, pieni di umanità e di semplicità, pieni di amore estatico e mistico. Il passato si fonde al presente. «Il continuo succedersi delle stagioni / che inseguono il tempo / senza riuscire a fermarlo, / si abbatte sul mio corpo / fino a quando / il suo peso / Per una cultura del libro, di Francesco De Napoli: (Edizioni Eva). Cassino, centro ci cultura europea, noto per la sua abbazia e per i numerosi manoscritti che hanno conservato la cultura classica e medievale per millenni, è oggetto di un’interessante e approfondita analisi da parte di Francesco De Napoli, ‘bibliotecario”, che ama davvero la cultura, e che si rammarica quando vede le difficoltà che la società di oggi incontra per accostarsi al libro. Si tratta di un volumetto agile e snello, dal titolo “Per una cultura del libro”, che evidenzia come il mezzo di informazione, televisione e giornale, possa influenzare la gente e come personalità quali Berlusconi possa raggiungere l’apice del potere, attraverso il mezzo informativo. Angelo Manitta 65 non lo appiattirà». Il tempo, sotto alcuni aspetti distruttivo, sotto altri costruttivo, porta alla metamorfosi, alla trasformazione di sé, del Sé e delle cose. Il trasformarsi riporta al punto di partenza, al principio, quasi in un cerchio chiuso, in un rapporto biunivoco di tempo e spazio. Emblematica in tal senso è la poesia “Pianto dell’anima”: Pasquale Francischetti, I paesaggi dell’anima Poesie 1983-2002 (Giuseppe Laterza, Bari 2003) Pasquale Francischetti, con la silloge “I paesaggi dell’anima”, edizioni G. Laterza, s’addentra nel mondo della introspezione, cercando di individuarne le essenzialità; egli analizza la realtà nella sua concretezza, ne trae utili suggerimenti necessari per affrontare le diuturne battaglie della vita. Trattasi di una corposa silloge che spazia ampiamente nel mondo circostante e ne sonda la consistenza. Sono argomenti alla nostra portata, ma che troppo spesso vengono sottovalutati, non così per questo attento osservatore che evidenzia ogni minuzia pur di dare ad essa la valenza che merita. Trattasi di un metodo poetico assai limpido, che elude ogni involuzione, ma proteso verso quella sostanziale ricerca del nuovo, del diverso dell’imponderabile. Nella sua vena ispiratrice costante incognita, egli stesso non ne fa mistero: «Figlio mio, quando mi chiedi / il senso della vita io risponderò... tutto si dissolve al confine del sogno». Da questi versi si ha la percezione di una personalità che guarda al concreto, non si lascia influenzare dall’effimero. In tutta la poesia di Francischetti c’è senso di ottimismo, necessario a chi si dispone a distribuire il suo pensiero. I paesaggi dell’anima è una panoramica di eventi che trovano sempre pronto l’ideatore nel definirne la consistenza, delucidarne la sostanza; occasioni che servono all’autore per chiarire la sua presa di posizione sempre eticamente valida. Una vena ispiratrice che è pervasa di velata mestizia e spunti di rimpianto, ma nel contempo adeguata realisticità del momento. Una panoramica assai vasta di un mondo quello nostro, che offre occasioni di ponderazione ma anche spunti critici, di oculato commento; momenti di una realtà che noi diutunamente riscontriamo, ma che ci colpiscono, perché saputi proporre con precisione linguistica. Vi aleggia anche una nota di tristezza, ma essa viene accolta con rassegnazione, mai disperazione. Panoramica circostanziata di fatti che si avvicendano nella nostra esistenza che si prestano a spunti osservativi. Trattasi di poesia sensibile, che fa appello alle più intime corde dell’animo, che rifugge ogni sdolcinatura, ma si attiene agli schemi del realismo; poesia quanto mai accattivante per semplicità stilistica, per concretezza descrittiva, arte poetica vera e propria senza mezzi termini, se adeguata a chiunque desideri di arricchirsi culturalmente. Il mondo di Francischetti è quello di tutti noi visto con occhi attenti, indagatori, composizioni che si confanno con la tendezialità di una poesia che vuol penetrare negli animi, stimolando sentimenti. Poesia descrittiva, ispirata da sensazioni quanto mai profonde di un personaggio che fa della poesia il suo stesso senso di vivere! Angelo Manitta Ora, che sto per esaurire le riserve del mio fervore, sento il pianto dell’anima mia che vuole, ma non può più donare ad altri i suoi affetti trafugati in fretta dal tempo. Enza Conti Ciro Carfora, Finestra (Convivio n.16 pag. 27) Carfora ha focalizzato la sua attenzione poetica sulla finestra, proponendoci le diverse angolature con le quali questo utile mezzo di comunicazione con l’esterno viene descritto. Simbologicamente sono testimoni di momenti lieti ed altri tristi; dalla finestra ci si mette in comunicazione coll’esterno nella sua differenzazione. Addirittura l’autore definisce “dolci le mie finestre..”, perché sul loro davanzale occhieggiano i policromi gerani, ma da esse anche si osserva il cielo stellato e ci si inebria delle bizzarrie di una fantasiosa rugiada. Giustamente le finestre sono anche “gentili”... “Salutano il viandante...” dinanzi a loro passa come in una visione filmica, la realtà concreta, quella operativa. Carfora conclude questa sua creazione con un pensiero di gratitudine. «Sono grato alle mie finestre / che cancellano la noia / rompono la solitudine». Leggendo questi versi si ha la sensazione che la finestra allarghi le sue braccia per accogliere nel suo amplesso una realtà che “...in fondo chiede poco...”. Infatti non è la realtà che s’impone, ma siamo noi che la individuiamo nella sua ecletticità. Apprezzo la composizione di Carfora che propone una tematica inusuale, ma sempre validissima. Pacifico Topa Francesco Celi, Non parole (Convivio n.16 pag. 30) Celi ha un modo del tutto originale per mettersi in contatto col prossimo, gli occhi e le mani sono per lui utili ad intavolare una circostanziata conversazione, un mezzo idoneo per comprendersi reciprocamente. «...Per dar voce alle emozioni / non userò / parole» esordisce così. Esprime subito il desiderio di parlare con gli occhi, ma aggiunge che i segni del tempo che si potranno rilevare da questa osservazione non sono vecchiaia, ma frutto di esperienza. «Nessun altro potrà parlarti / con i miei occhi...» Poi aggiunge ancora: «Voglio parlarti con le mani...» che, aggiunge, nella loro esistenza hanno instancabilmente operato, hanno combattuto contro le avversità, lottato per conquistarsi uno spazio di libertà, mani che nei momenti delicati hanno accarezzato amori conservandosi robuste, stimolate dal ricordo. Celi conclude questa sua composizione ribadendo che non userà le parole per comunicare ma, questi due organi che riescono a dire forse più delle parole stesse, perché consentono di comprendersi a fondo! Pacifico Topa 66 zerello / le tempeste di neve”. E in seno alla natura, che l’accoglie regina, lei smaltisce la solitudine (lo spirito si scinde dal reale / e vola, imponderabile piuma, / nell’azzurro dei sogni / dove tutto è magia). Alfonsina Campisano Cancemi Eros e Thanatos nella silloge Omnia vincit amor di Antonia Izzi Rufo (Ed. Eva – Venafro - 2004) L’ultima silloge poetica di Antonia Izzi Rufo “Omnia vincit amor” presenta 25 liriche con la traduzione in lingua greca del poeta e scrittore Costas M. Stamatis, il quale ha cercato di rimanere quanto più possibile aderente al testo. Tale apprezzabile operazione culturale può considerarsi un omaggio a quella matrice greca da cui derivò tutta la cultura latina, (eccezion fatta per la satira, la quale “tota nostra est”), e di cui possiamo sicuramente considerarci eredi. Il titolo lascerebbe presupporre la vittoria dell’amore, ma in realtà la poetessa canta l’amore come assenza e tormento, come aspirazione massima dell’anima, che si scontra però con l’amarezza del reale. L’amore vince nel senso che domina l’amante deluso schiacciandolo sotto il suo peso, ma, così come il Petrarca, anche la Izzi non potrebbe mai farne a meno. Simbolo e cifra della potenza dell’amore è il meraviglioso mito di Amore e Psiche, i quali, nati per amarsi, superarono tutte le prove e furono accolti, teneramente abbracciati, “nella schiera sempiterna / degli dei immortali”. Ma la poetessa si identifica con l’infelice Saffo e la coglie nell’attimo della massima disperazione quando, innamorata invano di Faone, decide di gettarsi in mare per trovare finalmente la pace. Nemmeno le Pieridi riusciranno a consolarla della sua bruttezza, ricordandole che la bellezza interiore e la poesia cancellano i segni del tempo. Rimane, doloroso, sull’acqua che ha pietosamente accolto il corpo della giovane, il pianto delle Muse e della natura a fare da controcanto alla “voce dolente della sventurata: / Qualcuno si ricorderà di me…” Il desiderio di eternità ha sempre accompagnato l’uomo che, sin dalla notte dei tempi, si è creato un mitico aldilà per fugare la paura della morte. Come Saffo, anche Antonia Izzi Rufo, che ama non riamata, (“Perché non affondi / mio tormento d’amore? / Rimbalzi ostinato / alle mie compressioni / come boa a fior d’acqua. / Saturo, trabocca l’animo mio, / e più non regge”) spera che quando Thanatos annullerà tutto il suo essere, qualcuno possa almeno pensare a lei “qualche volta / con amore non con spirito pietoso”. Ma la poetessa non si lascerà schiacciare da questo sentimento dolceamaro che la tortura, e si rifugia nel ricordo dell’infanzia dorata, quando faceva capriole sull’erba e tendeva le braccia alle farfalle in volo; quando le acque del ruscello le carezzavano la pelle e «un ragazzo innamorato / che catturava lucciole / gliele offriva come pegno d’amore». E, al di sopra di tutto, brilla di una luce che nulla potrà offuscare la divina Poesia, suo rifugio e sua consolazione. Tutto, al suo passaggio, si tramuta in poesia: “i fiori / il silenzio dei boschi / il mormorio dei ruscelli / il lamento dell’usignolo /…la voce burbera del mare /…il vento paz- Pantaleo Mastrodonato, Piramo e Tisbe (La casa delle muse, Simposiacus, 2003) La trasposizione e rielaborazione teatrale di Pantaleo Mastrodonato, (mimolodia la chiama lui), si rifà alla nota leggenda raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi, Piramo e Tisbe. Si tratta di una delle più commoventi narrazioni che il mondo classico ci ha tramandato e che ha molti punti comuni con la vicenda di Romeo e Giulietta, raccontata da molti autori italiani tra il Trecento e il Cinquecento, in particolare da Luigi Da Porto, poi brillantemente messa in scena da Shakespeare, nel Seicento. Ma la “Piramo e Tisbe” di Pantaleo Mastrodonato non è un puro rifacimento del mito classico, vi è una novità espressiva e concettuale, una religiosità profonda, una cristianizzazione del mito che meraviglia, ma tutto è fatto con una tale naturalezza che quei personaggi sembrano davvero cristiani. L’apertura è quasi da “Cantico dei cantici”, uno dei libri più belli della Bibbia: «O sposo diletto, che tanto ti bramo, vieni in aiuto! Splendore divino, allieta i dì, o celeste dio». Ma la religiosità dell’opera appare molto evidente nella parte finale, quando il coro celeste canta: «Lodato sia il Signore, che fece il cielo e la terra. Ogni alma vivente Lo lodi perenne tra tutti i secoli, perché protegge l’uomo che osserva i suoi precetti e guida le anime nostre da tutte le strane insidie del perfido Male che intacca il cosmo celeste e divino». L’elevatezza lirica del dramma emerge soprattutto nei cori, dove l’amore si sublima in uno dei perenni e perfetti sentimenti cui l’uomo aspira. La morte diventa purificazione, diventa passaggio da uno stato mortale ad uno eterno. Tisbe si consola in questo, si consola nella speranza di un futuro migliore e perciò la morte per lei è aspirazione perfettiva. Se la ricerca conduce attraverso l’amore alla morte, questa non è espressione di Male e di Terrore, ma di Vita e di Felicità. In questa prospettiva Piramo appare profondamente religioso e cristiano nella continua ricerca della verità e della divinità. Ma il procedimento di cristianizzazione del mito da parte di Mastrodonato è lecito o è una forzatura? A questo interrogativo non si vuole dare una risposta, sarà il lettore a decidere da sé. Angelo Manitta Inquietudine quarantanove percorso rieducativo di Rosalba Masone Beltrame (Book editore, Bologna 1989) “Inquietudine quarantanove”, una raccolta poetica che Rosalba Masone Beltrame ha riordinato per concretizzare un percorso rievocativo in cui predomina l’incertezza, il timore dell’avvenire. «Perché aspetto domani? / Anche ieri / aspettavo domani». Incognita sibillina di un atroce dubbi riguardo il futuro. Questo assillo è persistente «per un’alba che sorge c’é una misera / che muore». Ricorrono spesso queste locuzioni realistiche che accentuano la credibilità di chi è immerso nel pelago poetico. La Masone ha insito nel suo DNA caratterologico questa propensione alla 67 realisticità, l’immaginario le viene incontro per addolcire quella sua vena forte di saggia proverbialità. Non trascura l’isolamento, la solitudine che è ritenuta danno fisico e morale, apocalitticità esistenziale. Nella sua poesia c’è una nota di pessimismo, larvata fiducia, ma sempre una paura dell’ignoto. Una versificazione snella, rapida, che riesce a dare l’esatta significazione del tema. L’autrice preferisce il realismo ed è assolutista nel dichiarare, senza mezzi termini, il suo pensiero. Spesso si fa trasportare dalla fantasia ed allora la sua poetica diviene più armoniosa. «L’eco / rapiva il sorriso / alla luna / ed era già una primavera / vicina all’estate». Ogni tanto si evidenzia questa delicatezza ispirativa tipico prodotto femmineo. Il verso svolazza leggero nel clima tipico di una poesia sentimentale. La rimembranza è sempre più o meno presente e si propone con i toni aggraziati del rimpianto, del rammarico. La seconda parte “Rossa di stelle” è una rivisitazione del passato, rivivere momenti evidenziandone gli aspetti più appariscenti. Il ricordo di persona scomparsa. «Su queste scale / volte alla corte / è salito / e disceso una vita / di ottantrè anni». Il tono s’eleva con la speranza. C’è esasperazione, quasi sdegno. «Cuore mio / ti nutri di nulla / il tuo colore del vento». Versi aulici, sia nella stesura che nella simbolizzazione, rispecchianti uno stato d’animo. Sulla ineluttabilità dell’esistenza si presenta un pessimismo indiscusso, un realismo puro! Pacifico Topa per finire di crescere, della sua forza. Ma il destino crudele ha voluto così ed ella deve sopravvivere... Il suo canale d’emergenza sono i ricordi; essi l’aiutano a conservare viva la memoria di lei... Contempla la foto in cui la mamma sorride e sorride pure lei, raccoglie fiori e ne orna la sua tomba, scrive poesie per lei e imprime nei versi tutto l’amore che trabocca dal suo cuore... Ma quanto doloroso rimpianto c’è nelle parole che si sprigionano dal suo animo intrise di pianto: «Pochi anni ti ho chiamata mamma... Questo nome non posso più pronunciarlo... Solo nei sogni posso chiamarti mamma». Antonia Izzi Rufo Pietro Nigro, Riverberi e 9 Canti Parigini, (Poeti nella società, Napoli 2003) Esposizione scorrevole e musicale che sa di nostalgia, di malinconia a volte, di ricordi che tornano a galla per lenire la tristezza... Quadretti idilliaci nei quali protagonisti in primo piano sono il vento e i sogni che procedono per mano, in sintonia... Il vento accarezza la foglia e s’immerge nelle acque che scorrono tra i ciottoli per intrecciare con esse dialoghi di suoni e canti di melodie... Sogno d’infinito sperare l’eterna vita. Il vento arriva dal mare... Hai riso, hai pianto, hai sognato con occhi di gabbiano... Il vento serale porta via le parole in un mondo dove i sogni s’acquietano... E la natura è sempre presente con le sue meraviglie, con i monticastelli di ghiaccio e di neve, i boschi declinanti su placide acque di lago, canti d’uccelli, “frinire” di grilli, sorriso di verde, di sole, d’azzurro, di luce, svettare di limpidi cieli, volo di bianche colombe... Luoghi ai quali la memoria riporta l’autore, Pietro Nigro, per fargli rivivere l’incanto d’un tempo felice... Persone scomparse che hanno lasciato nell’animo un vuoto incolmabile e un’angoscia che ancora brucia... Così per la madre: «Una volta ancora / disfatto hai l’eterno dramma / d’un sogno di vita». Problemi esistenziali, rigetto di tutto quanto mostra di negativo la società moderna. Ciò che colpisce, nella panoramica delle trasmissioni televisive, è quel volto di bimbo che giace su un letto d’ospedale con due bende sugli occhi: «Quegli occhi volevo che rivedessero / il cielo, il monte, i campi e il blu del suo mare solare». I “9 Canti Parigini”, con testo a fronte, tradotti dall’autore stesso, ripercorrono i giorni del piacevole soggiorno a Parigi in compagnia della sua donna (luna di miele?), giorni indimenticabili che hanno inciso nell’animo immagini eterne: la collina di Montmartre, dove «piange una chitarra di notte / a ripetere canzoni di un eterno rimpianto»; Place du Tertre, Rue Norvins, Quartiere Latino, Boulevard Saint Michel, Saint Germain... Sempre con lei, in dolce amplesso: «Mentre tu t’abbandoni / mi perdo tra i Poesie per una madre di Maria Cristina La Torre, (Penna d’Autore, Torino 2003) L’amore vince ogni altro sentimento. È sempre stato così dal primo apparire dell’uomo nel mondo, e sempre così sarà. La mamma è calore, protezione, rifugio, conforto, sostegno fisico e morale. Ne rimpiangiamo la presenza anche quando essa ci lascia, per sempre, a tarda età, se poi la sua dipartita avviene prematuramente, il dolore è maggiore, il vuoto incolmabile, la sua mancanza insostituibile. La madre di Maria Cristina La Torre morì a soli cinquant’anni, quando la poetessa adolescente, ne aveva appena quindici. L’adolescenza è un periodo critico, delicato, che va vissuto in un ambiente sereno, nella comprensione e nell’affetto dei familiari perché possa essere superato senza traumi e senza complessi... «Mi manchi tanto» si lamenta Maria Cristina, «non ho più nessuno con cui giocare / la storia della madre e della figlia». «Madre, dammi un pezzo di pane / che ho fame». Una grande angoscia traspare da queste espressioni, una profonda solitudine. La poetessa si rivolge alla madre perché le faccia compagnia, le dia del pane, come una volta... Il legame con colei che le dette la vita è solido, non si spezza, le è necessario per andare avanti. Ed ella vi si aggrappa per non crollare perché è stata lasciata sola quando ancora aveva bisogno, 68 tuoi capelli / e si scioglie il mio languore nelle tue carni». La poesia del Nigro non si può collocare in un determinato filone letterario perché in essa confluiscono - così come per quasi tutti i poeti contemporanei - i sentimenti universali propri di ogni poeta. Potremmo imbatterci nel pessimismo leopardiano, nel romanticismo delicato del Pascoli, nell’amore per le piccole cose dei crepuscolari e così via. La lettura è piacevole, distende, rilassa, coinvolge, come in “Rosaviolaceo pensiero”: Vivevi ritmica essenza dello stesso colore rosaviolaceo di un’insegna che vidi di notte immerso nel pensiero di una vita di prima giovinezza. Antonia Izzi Rufo Silvano Messina, Clodia e le altre, poesie giovanili (Ed. Vivamacondo, Niscemi 2004) È un bel libro, piace e si legge d’un fiato. È una voce giovane, quella che si sprigiona dalle liriche dal contenuto giovane - e giovane è l’autore. È tutto in sintonia. Quale l’interesse precipuo di un giovane (chiedo scusa dell’iterazione)? L’amore e le donne, pardon, le ragazze (il termine donna, oggi che la giovinezza s’è allungata di molto, sa di persona già troppo matura); l’amore inteso nella sua accezione integrale, “agape ed eros”, sentimento, sogno, sesso; le ragazze viste come attrazione, piacere, estasi, possesso fisico e spirituale, appagamento completo. Silvano Messina trabocca di vitalità e di esuberanza giovanile. Egli si rivela un sentimentale e un sognatore. È attratto dalle meraviglie del creato e dal mondo sano, adamantino, genuino dei suoi antenati, amici degli animali e della natura, i quali vivevano liberi nelle “giungle vergini” e rigettavano il futuro e il progresso; è “ipnotizzato” dalla luna, «quell’occhio immenso che ti guarda senza tregua, vuoi afferrarla e non ci riesci»; è amico della notte e delle sue contraddizioni; della notte, evasione «dall’insensata vita diurna»,che ti parla con parole mute... In essa trova rifugio e conforto, cerca la fede, riesce a provare «la sensazione di essere vivo». Nel suo silenzio e nel suo mistero ritrova la sua identità, riesce a dialogare con se stesso e a riconoscersi... Ma il nostro Poeta è affascinato soprattutto dalle ragazze, siano esse bionde o brune, purché belle... Sono esse le vere protagoniste del libro... Egli ce le mostra in passerella, come in una sfilata di moda, quasi sempre in blue-jeans aderenti, che mettono in rilievo le «forme armoniose e provocanti». Splendide tutte, tranne una, quella che si «dà le arie», «racchia, bassa e brutta» e che egli ha avvicinato solo perché gli serviva da “tramite”. Non sempre i suoi approcci hanno esito positivo, spesso deludono e lo fanno soffrire, ma egli non si scoraggia, ripiega nel “sogno riparatore”, si rifà degli insuccessi e appaga i suoi desideri... Ma quanto sarebbe meglio vivere nella realtà ciò che avviene nel sogno... Tutte le ama, le sue straordinarie ragazze, ma ce n’è una che ha conquistato il suo cuore in «modo violento», che rappresenta «l’eterno amore», intramontabile, della sua vita: è Clodia. Per lei dimentica, ogni volta che la rivede, gli amorazzi che lo hanno consolato durante l’assenza di lei, e torna a sentirla sua come «il solo, unico irrealizzabile sogno». Avvincente e divertente, “Sfogo”, la pagina in prosa, tra le ultime della silloge. Tarzan redivivo, l’innamorato dagli «istinti bestiali», si trasforma in un bruto e come tale si comporta. Il linguaggio esula dall’oscurità di certe espressioni ermetiche: è semplice, schietto, scorrevole, trasparente. Antonia Izzi Rufo Marco Galvagni, Nel germoglio vergine, (Le Schegge d’Oro, Montedit, Milano 2003). Nel germoglio vergine è una nuova e raffinata silloge di Marco Galvagni che presenta un quadretto bucolico che sa d’antico e riporta lontano, ai tempi sani e autentici degli antenati, non inquinati dal progresso e dalla civiltà: la figura patriarcale di un vecchio che contempla (orgoglioso e speranzoso) il suo campo di grano appena seminato e pregusta un nuovo raccolto e il Poeta che, senza essere visto, lo “ammira e rimira” e porta con sé «l’estatico esilio delle sue conoscenze». E non solo. Augura al vecchio, «ora che la (sua) sera s’è fatta scura», di godere della pace e della tranquillità che gli sono dovute, che sia di nuovo padrone del suo «quieto senso di vivere», che ritrovi, nella «immemore memoria», nei ricordi, «ghirlande di luce lasciate lungo il cammino» e possa, finalmente, «ricostruire le geometrie della sua vita». Nei versi di questa significativa poesia è concentrato, e preannunciato, il percorso seguito dall’autore nell’analizzare le problematiche esistenziali che riguardano se stesso, l’uomo in generale e la società e il modo come risolverle per uscirne vincitori. Sembra prevenuto verso il roseo dell’esistenza, vede tutto nero. Infatti si esprime con acredine, vede svolgersi la vita in un cielo costantemente grigio nel quale il sole di rado mostra il suo volto allegro... Le sue meditazioni non restano nel superficiale ma si spingono nel profondo e affrontano, nella loro drammatica realtà, tutte le situazioni, traendone amare conclusioni. La vita è lotta continua, è dolore, angoscia, delusione. Non si scoraggia, però, e non si arrende e riesce, «con gli artigli», ad abbattere gli ostacoli, a “disincagliarsi” e a spiccare il volo verso l’infinito... Diventa tenero quando si abbandona ai ricordi, che rivive con nostalgia, e a momenti che hanno inciso segni indelebili nel suo cuore... La natura rappresenta l’evasione dallo smog e dal ritmo frenetico e incessante delle macchine; essa dà serenità, favorisce l’approccio alla poesia, gli permette di dialogare con la Musa: «In te cerco la pace / che nel pomeriggio della vita mia, / s’è fatta rara e disusata». La certezza-speranza di poter realizzare, un giorno, il suo sogno d’amore, lo mandano in estasi. Così alla donna del cuore: «È con timida speranza / che ogni giorno / t’ammiro mentre cammini leggiadra». Vari gli argomenti, tre le sezioni: Nel germoglio della vita, Genesi, Poesie scelte. Linguaggio ricercato e raffinato, simbolismo, contenuto consistente e incisivo, espressioni allegoriche e metafora ma trasparenza. Antonia Izzi Rufo 69 squisizione filologica; era stato ripreso con la consapevolezza di chi innestava la ricerca dotta nella vita, dove la parola non è flatus vocis, ma concrezione di esperienza viva. Sapeva discorrere di tutto, dalle lettere alla matematica, all’astronomia. Un sapere completo, non di chi si affanna per accumulare erudizione, ma di chi dà senso alla vita della terra, dell’uomo, di chi si china a guardare la piccola fioritura delle cose anche minime e con uno sguardo dei suoi occhi attenti sa leggere in fondo al cuore. Molti di lui ricordano la dimensione georgica, virgiliana: la campagna lo accoglieva come homo artifex, sebbene preferisse definirsi un campagnolo. Aveva la manualità come valore: dissodare, innestare, coltivare con cura sapiente, anche uomini. Io voglio ricordarlo piccolo grande uomo, vicino alla tristezza degli altri. Sensibile, come Didimo di foscoliana memoria, alla compassione e al pudore, due forze pacifiche le quali temprano sole tutte le altre forze guerriere del genere umano, si accostava alle colleghe con devota simpatia, pronto a cogliere, al di là della facciata, il lavorio dei conti con la vita, lui che aveva imparato ad affrontarla con segreto coraggio. Te lo trovavi accanto, a portare un sorriso nei momenti duri, te lo ritrovavi intorno a smuovere le ombre, a rallegrare con spirito delicato fatiche e sofferenze, piccolo genio buono e amico. Voglio soprattutto testimoniare la sua forza. Dell’ultimo incontro, a casa sua, riporto in me il grande controllo e l’affetto delicato: non pesare con la sua sofferenza sulla mia fragilità, e di questo ancora lo ringrazio. Rosa Grillo Michele Strano, Memoria e ...memorie (ed. Conarte, Giarre 2004) Michele Strano nasce a Catania il 2 febbraio 1930 da Angelo e Margherita Trovato. Trascorre la sua infanzia ad Acireale, città di origine della famiglia e, per qualche anno, in Calabria. Nel 1948 si iscrive alla facoltà di Lettere Classiche a Catania, dove nel 1961 consegue la laurea. Le vicende della vita lo portarono ad insegnare dal 1951 al 1977 nelle scuole elementari: sono anni di densa esperienza umana e pedagogica che egli considerò una ricchezza... Nel 1956 sposa Maria Castorina e da questa unione nascono quattro figli. Viene stroncato dalla morte il 30 Agosto 1993. Dal volume pubblicato in sua memoria si propone la prefazione scritta da Rosa Grillo, docente di lettere presso il Liceo Classico di Acireale: I suoi studenti lo hanno amato come un padre e un maestro. I giovani sono capaci di fissare l’indole di una persona con tratti efficaci, così lo vede una sua allieva: «Mi è capitato di osservarLa spesso mentre guardava fuori dalla finestra, con lo sguardo immerso nel vuoto, gli occhi socchiusi, gli occhi che per me contengono una saggezza antica». Così Michele Strano torna tra noi, con la sua grazia e il suo mistero. Questo libro è una raccolta di testimonianze amorose: 1) il suo amore per i classici, che nelle ricerche che conduceva, dotte e documentatissime, passavano dalla frantumazione filologica alla vita. La vita che sedimenta nei secoli, nell’incessante trasformazione delle cose in parole e conserva, passando dal mondo dei dotti alla sapienza popolare, la sua antica relazione con il cielo della vita; 2) l’amore dei suoi familiari, intimo e ricco delle cose non dette, che non si dicono a chi ci sta accanto forse per eccesso di pudore o perché si è certi che lui le sappia bene; 3) l’amore degli amici e degli studenti che scoprivano altri volti della sua dimensione umana, l’ironia, la lealtà, la fraterna vicinanza. Era un uomo che, per scelta di vita e per lunga esperienza vissuta a contatto con la sofferenza dei semplici, aveva abolito i maneggi e le fisime del mondo borghese. Il suo tratto era la semplicità, la schiettezza, mentre lo ferivano profondamente l’ipocrisia e l’inganno, che a fatica stemperava nel sorriso con il suo umorismo. Era passato attraverso il dopoguerra da maestro elementare, pioniere in tempi di malessere e povertà, in un meridione senza speranza, maestro tra dirupi e forre e lì si era costruito la pazienza sapiente che fa fronte a tutte le evenienze e improvvisa soluzioni umanissime. Da quella scuola, dalla scuola elementare, praticata come arte di famiglia, era tornato agli studi dilettissimi del mondo classico e all’insegnamento nei Licei. Ma il suo studio aveva perso, se mai lo aveva avuto, l’orgoglio della di- Caterina Felici, Tessere di vita, (Longo editore, Ravenna Marzo 2004) Il volume di poesie di Caterina Felici è diviso in tre sezioni: Forza della memoria, Umani percorsi, Squarci di natura. Appare subito un contrasto tra la prima e l’ultima parte: ciò che sembrerebbe essere finito per sempre, l’Autrice lo riporta in vita tramite i ricordi, e lo rende imperituro; ciò che è vivo e reale (la natura) viene recepito come immagini lugubri: «Rami marciti», «Pesce morto», «Luce e allegria di morte»... Se il ricordo è vita riscoperta, certi aspetti della natura sanno di squallore, di tristezza, di disfacimento... È la rivalsa dell’animo che trasferisce la morte in ciò che è vivo per recuperare ciò che è perduto; dello spirito che si ribella all’ineluttabile, lo sfida, ne rigetta “i decreti”, riesce a vincerlo slittando nel canale della “memoria”. La prima lirica è dedicata alla sorella Ione, recentemente scomparsa. Ella resta viva nel ricordo ed è per questo che la morte «non la possiede». Viva in tutto ciò 70 che la legava all’esistenza: nelle foto, nei giochi sportivi, mentre nuotava e scompariva «in un trionfo di spuma», nelle corse in bici, nei capelli biondi svolazzanti al vento, mentre scivolava sui pattini, nei sogni che si elevavano ad altezze inverosimili, mentre diffondeva intorno riso ed umorismo... Anche gli oggetti sono legati ai ricordi, ci riportano al passato, ci fanno riscoprire luoghi, persone, noi stessi «che fummo». Nel cristallo d’una coppa di champagne si alternano visioni che «oscillano tra il passato e il presente». I ricordi ridanno vita, splendore, giovinezza alle cose scomparse per sempre, e ripescate rappresentano un viso fanciullo che il tempo non è riuscito a solcare di rughe... Sovrapposizioni di immagini, nel tempo; ci si ritrova nello stesso luogo, di fronte a un quadro identico, nulla sembra cambiato, nemmeno le sensazioni e le emozioni... Ma noi siamo realmente “mutati” negli anni... Riflessioni, meditazioni, autocritica. Molto spesso i versi sono aforismi che nascondono significati allegorici, traggono conclusioni amare, esprimono sentenze, registrano esperienze di vita vissuta... Un mare inquinato può ingannare con la sua «calma e il suo incanto d’azzurro e di luce». La capacità di «abbandono alla vita» si conquista con la maturità: è in questo stadio che si sanno apprezzare le «semplici gioie»... L’immaginazione ti aiuta a capire «le zone oscure» perché ha un potere che vince la realtà: «Più umana avverti / la figura di un bassorilievo / che la fantasia / completa ed anima» (più umana della figura di un uomo). La Poetessa si dimena in un saliscendi di ottimismo e pessimismo, ma riesce sempre ad emergere nella speranza, grazie al “Fanciullino” che è in lei, che non invecchia... Bisogna saperlo cercare «in una barchetta di carta nel mare d’una pozzanghera», «in una bella fiaba», «negli incantevoli mondi della fantasia». L’apparenza inganna, spesso siamo vittime di certe difese: «Mi vedevi immobile / rigida roccia... ma avrei voluto abbandonarmi a te». La maschera che mettiamo serve per difenderci, nasconde la verità, ciò che vogliamo, che siamo, realmente. Antonia Izzi Rufo Umberto Rigano, Sogni e ricordi (Giardini Naxos, settembre 2003) Umberto Rigano, nasce a Santa Teresa di Riva(ME) il 22 aprile del 1926 e risiede a Giardini Naxos da circa cinquant’anni, dopo una lunga vita di lavoro come bracciante agricolo. Oggi si dedica alla poesia, sia in dialetto che in lingua italiana, si tratta di una poesia spontanea, che manifesta la genuinità dei suoi sentimenti. Tra ricordo ed emozione, le sue poesie sono un percorso che parte dall’infanzia, attraversa l’età giovanile per giungere all’età adulta e alla vecchia, attraverso l’analisi di un mondo, quello contemporaneo, con le riflessioni e i pensieri di un uomo comune, che ama eternare se stesso e comunicare le proprie emozioni. Ha ottenuto vari riconoscimenti. Nel settembre del 2001 l’Accademia Internazionale il Convivio gli conferisce il diploma di accademico, mentre nel marzo del 2002, il centro di divulgazione ‘Arte e cultura europea’, lo nomina suo membro honoris causa a vita. Nel marzo del 2003 al Pala-naxos di Giardini Naxos viene premiato con una targa al merito per la poesia “U vastuni sicilianu”. Dall’opera poetica di Umberto Rigano emerge un uomo che, giunto felicemente alla pensione, si dedica a curare l’anima e lo spirito, mirando ad un pizzico di quell’immortalità che la poesia dona ai suoi autori. Scrive infatti in una delle sue poesie: «Ju n’ontravagghiu chiu, sugnu arriposu, scrivu sti frasi e mi passu lu tempu, cu leggi sti paroli e li capisci su frasi dimpueta», ma proprio secondo l’espressione di Gibran «poeti non sono quelli che scrivono poesie, ma tutti coloro che hanno il cuore pieno di questo spirito sacro». Nasce allora dalla poesia di Umberto Rigano, l’amore per la sua terra e per le sue tradizioni, per la sua donna e per la vita. La semplicità espositiva raggiunge un tono elevato, quando prevale il sentimento. Non vi sono infatti frasi stravaganti, né ricercatezze linguistiche, perché è il cuore che parla, il cuore di un uomo che nella vita ha provato felicità e dolore, sofferenza e gratificazioni, che ha saputo vivere con intensità ma soprattutto con coerenza e vitalità. A volte sono le occasioni a far nascere le poesie. Può essere la festa degli anziani o il limone in fiore, la rosa sbocciata o un fatto di cronaca che ha segnato le coscienze degli uomini e quindi anche del Poeta. La Sicilia è certo l’emblema del legame di Rigano con la sua terra, una Sicilia che profuma di zagara, piena di amore e di fantasia. L’Etna con la sua imponenza si mostra gigante buono, la terra porta i suoi frutti. Ma Umberto Rigano, poeta estroso e pieno di idee, sa offrire anche una punta di ironia e di rammarico, soprattutto quando i cattivi costumi imperversano. Una frecciatina dà pure ai politici, che pensano solo a sé a volte e non alla gente, quando afferma che alla fin fine tutti i partiti sono uguali. Bisogna cambiare, bisogna innovare tante cose ed è giusto così. Dalle sue poesie ecco scaturire un impulso verso la felicità umana, una felicità conquistata con le semplici cose, senza troppi grilli per la testa. Enza Conti Nostalgia di Franco La Pica (Convivio n. 14 pag. 31) Composizione grondante mestizia quella che Franca la Pica ci propone: rammarico per tutto ciò che fu e che ora non è più. È una realtà per chi è avanti negli anni e sente la nostalgia... «di cose / che mai più potrò vedere..» precisamente «la gioventù / con tutte le sue doglie..» che “svolazza” nella mente come foglie portate dal vento. Proprio quella gioventù? “Che è durata un niente..”. Ormai tutto è passato e non resta che “la nostalgia”, il ricordo triste! Il tempo sta cancellando ogni cosa, eppure La Pica sente forte il desiderio di rievocare ...«giorni senza orari / notti senza sonno..» momenti felici della esistenza. Si rimpiange anche qualsiasi cosa che in gioventù c’era ed ora non più, magari...«il terrore di un esame» momenti difficili in cui l’ansia aveva il sopravvento, momenti anche di difficoltà materiale ...«quando andavo a letto / e come compagnia / era la fame..». Sembra una assurdità, ma si rimpiange anche la miseria, se questa era affrontata nella pienezza degli anni giovanili. Franco La Pica ha voluto puntualizzare quello che, ognuno prova trovandosi nella sua situazione. Pacifico Topa 71 Fedel Franco Quasimodo: il trigono della verità nei Colloqui con Cristo Bruna Tamburrini, Sceneggiature teatrali, con brevi riferimenti alla storia del teatro (Nicola Calabria, Settembre 2003) A dir di Johann Wolfgang Goethe «il proprio del poeta è di rappresentare». Egli tocca il culmine quando gareggia con la realtà, cioè quando le sue descrizioni sono, per lo spirito che le anima, talmente vive da dare a tutti l’impressione di trovarsi di fronte alle cose stesse. Sulla sua cima più alta la poesia appare del tutto esterna; quando più si ritrae nell’interno tanto più essa è in via di decadimento. Quella che rappresenta soltanto le cose interiori senza incorporarle in qualcosa di esterno o senza lasciar sentire l’esterno attraverso l’interno, è in entrambi i casi l’ultimo grado, muovendo dal quale essa rientra nella vita comune. Fedel Franco Quasimodo, nell’ultima silloge, Colloqui con Cristo, elabora un tessuto teologico che richiama totalmente l’interno e l’esterno coinvolgendo gli animi ad accorate riflessioni perché egli vive la Luce come bisogno indelebile che muove il silenzio tra versificazioni e immagini mai lontane dalla Realtà. Nelle vesti di un apostolo della fede, il poeta, sprofonda in luoghi beatificati dal Cielo, scruta coscienze con il potere dell’anima, avanza con i fiori della carità verso il vangelo e nel mistero scopre l’alito della religiosità, il “Trigono” della verità, verità che descrive quando afferma «Uno e Trino - Uguale e Distinto Unica bandiera - delle Nazioni della terra - Una sola verità che la menzogna del serpente – smaschererà», dalla lirica “Gesù”. E poi: «Del nome Tuo - luccica persino - un granello di polvere - Irraggi i cuori più duri - innalzi i beati, i puri - ispiri gli artisti a creare», dalla lirica “Dio”. Il poeta consacra messaggi evangelici, mette a fuoco salmi, un’ontologica spiritualità, accoglie nel suo animo il sigillo divino della fede e alimenta il proprio orgoglio con la misericordia di un pellegrino convertendo il lettore a seguire il Valore del Cosmo, il concetto della Fede. Fedel Franco Quasimodo raggiunge così un elevato concetto spirituale e lo rende alla società per sopperire quanto succede nel mondo e mai disdegnando la dottrina dell’umano amore verso un sistema che non decolla. Da una lettura approfondita di questo testo mi viene spontaneo estrapolare queste parole: «Mio Dio - è un divino desiderio - l’apostolato e l’umiltà dello Spirito Santo - è Fede che raggiunge la Pietà - nel Giubileo di conversione - è gioia di un angelo cristiano - che abbraccia la carità - colloquiando con Cristo - È azzurra tentazione - e scoprire il “Natale” ogni giorno perché nell’orto - Gesù - è Pianta e Fiore della Vergine Beata - e s’identifica nel Santo Padre». Gianni Ianuale Bruna Tamburrini vive a Montegiorgio (AP) ed è insegnante di Lettere nelle Scuole Medie Superiori. Nota è la sua attività culturale e soprattutto la sua attenzione all’arte. È infatti poetessa, pittrice e saggista. Ma in questo volume è il mondo della scuola che ci interessa. Infatti, come dice il titolo del libro, nel volume vengono presentate sceneggiature teatrali, nate a scuola e per la scuola, ma che travalicano il mondo della scuola per l’originalità della rielaborazione e per l’interesse dell’argomento presentato. Le sceneggiature offrono a Bruna Tamburrini l’occasione per fare una storia del teatro, una storia del pensiero e dell’evoluzione teatrale a partire dal Duecento per giungere all’età contemporanea. Ma innanzitutto «l’autrice ha sapientemente esposto i vari passaggi necessari alla stesura di una sceneggiatura e utili a chi vuole cimentarsi in quest’arte antica, ma in continua evoluzione» scrive nella presentazione Donatella Garitta. La letteratura e la drammatizzazione spingono i ragazzi ad accostarsi alla cultura, ma soprattutto fanno comunicare con loro e rendono il mondo della scuola più affascinante, quando gli insegnanti sono profondamente motivati, come Bruna Tamburrini. «In questo lavoro ho voluto ripercorrere – scrive l’autrice – i momenti essenziali e più importanti dello sviluppo del teatro italiano e soprattutto ho rappresentato, sotto forma di sceneggiatura teatrale, alcune opere (racconti e novelle) che ho ritenuto significative per il messaggio, per la peculiarità ed anche per la predisposizione ad essere rappresentate in veste di commedia o di dramma. Tali sceneggiature sono interpretazioni libere delle opere e la trasposizione teatrale è immaginata su determinati e specifici palcoscenici, con musiche ed effetti di luce particolari». Il consiglio principale che si dà a chi vuole realizzare una sceneggiatura è quello di riprendere i dialoghi principali, ma tenendo sempre conto del linguaggio usato dallo scrittore, dopo aver letto attentamente il testo e capito il contesto per rielaborarlo in rapporto all’autore. Nel volume vengono riproposte diverse sceneggiature: la “Storia della città di Troia, del re Laomedonte e del gigante Eracle”, quale esempio che si rifà al mondo classico; Andreuccio da Perugia, dal Decameron di Boccaccio, e Guerrin Meschino, quali esempi di drammaturgia medievale; trattando il teatro del Cinquecento, viene rielaborata la novella di Nicolò Machiavelli “Belfagor Arcidiavolo”; per il Seicento “La gatta cenerentola” di Giovan Battista Basile, e infine, dopo aver trattato la scomposizione della personalità di Pirandello e la sua ‘rivoluzione’ in campo teatrale, le “Metamorfosi” di Franz Kafka. Il volume di Bruna Tamburrini, si presenta quindi non solo quale ottima guida per la storia del teatro, ma pure quale testo per trarre delle scene teatrali da rappresentare con gli alunni. Angelo Manitta. Cosa di noi romanzo di Vito Benicio Zingales (Edizioni clandestine – Marina di Massa - 2003) Lo scrittore palermitano Vito Benicio Zingales ci offre con il suo ultimo romanzo “Cosa di noi” uno spaccato di un certo ambiente di Palermo in cui “i cristiani 72 pesanti e colla dignità” godono di quei privilegi e di quelle fortune che “i menzi cristiani” e “i cristianeddi”non riusciranno mai ad avere e a conoscere. L’influenza di Sciascia è evidente. Al di sopra della massa informe di “bravi ragazzi” crudeli e di sbirri sadici e corrotti emergono due figure che si fronteggiano fino alla fine: Don Giacomo Galanti, uomo d’onore, costretto dalla “famiglia” ad assistere sin da bambino ad esecuzioni agghiaccianti, che diviene “il re della strada, il don più celebrato della città”; e l’ispettore di polizia Sebastiano Maurizio Vinci, sbirro per vocazione e per mestiere, che vive con il pensiero fisso di potere un giorno mettere le mani sul Padrino. Percorso mistico attraverso sensazioni personali nel volume In difesa dell’aldilà di Elsa Emmy (ed. Sovera, settembre 2003) “In difesa dell’aldilà” di Elsa Emmy è una ricca e circostanziata testimonianza di fede, una minuziosa descrizione del cammino che l’essere terreno deve compiere per cercare di raggiungere la conoscenza dell’aldilà. Trattasi di un testo la cui profonda peculiarità contenutistica travalica una superficiale conoscenza, richiede una base di disponibilità ad accogliere e condividere certe concezioni. L’argomento che affronta è dei più impegnativi in quanto richiede da parte del lettore apertura mentale e non prevenzione. Quando si parla di paranormale, di spiritismo, di miracolistica, solitamente si arriccia il naso; c’è molta ignoranza in proposito e non sempre si è disposti ad ascoltare questi argomenti, o, addirittura, si rifiutano. Con questo non voglio dire che tutto debba essere accolto passivamente, ma un certo stimolo per avventurarsi nei meandri del paranormale potrebbe derivare proprio da questo volume di Elsa Emmy, un testo che dovrebbe andare nelle mani di chi aspira ad informarsi e documentarsi circa la reale consistenza di certi fenomeni che hanno dell’irrazionale, del poco logico, ma che sono presenti. L’autrice compie un percorso mistico riproponendo sensazioni avute a seguito di fatti concreti, risultati di esperienze, reazioni personali. Una tematica, questa, quanto mai ardua, perché tocca il tasto della moralità, dei principi religiosi. La Emmy e protagonista di molti eventi non comuni e li ripropone nella loro realisticità, mai sottacendo quello che profondamente le suggeriscono. È un diario di una vita vissuta intensamente nel clima mistico e misterioso che s’addentra in una dialogazione di pretta ispirazione ieratica che assume toni profetici e ribadisce una costante presenza d’Assoluto. In conclusione si cerca di precisare che se «i profeti a suo tempo furono inviati per annunciare la buona novella in un mondo pervertito, non può essere che i sensitivi di oggi siano delegati ad annunciare il disagio dello stato dell’anima?». È attorno a questo interrogativo che noi lasciamo al lettore l’impegno di cercare una risposta adeguata. Pacifico Topa Pantaleo Mastrodonato, il dramma Il Narciso, (La casa delle Muse, Bisceglie 2003) È necessario, in pieno XXI secolo, che l’uomo torni a reimmergersi nel mito perché ritrovi la propria intima ed autentica essenza? A quanto pare sì, per Pantaleo Mastrodonato, che ripropone la metafora immortale di Narciso, circondato da tutta una corte di personaggi mitologici, onde dar vita a questo moderno dramma in quattro atti, la cui vicenda si dipana tra Tebe e l’Assiria, nel regno del corrottissimo re Sardanapalo. Il linguaggio con cui Mastrodonato affronta questa difficile tematica è ovviamente classicheggiante, ma solenne e limpido al tempo stesso. Egli stesso, in una proposizione introduttiva, chiarisce il messaggio e le finalità che emanano dall’opera: «Beati coloro che si fanno guidare dallo Spirito di Dio, lo Spirito Santo, principio e motore di tutto l’Universo, e non si lasciano sedurre da ogni forma idolatra del mondo... ». Maristella Dilettoso La mattanza: pesca sacra di Beatrice Torrente (ed. Clio) Il saggio di Beatrice Torrente, dal titolo La mattanza pesca sacra, è uno studio che analizza l’aspetto socioreligioso e storico di una delle più antiche tradizioni che ogni anno puntualmente si ripete in uno degli angoli naturali tra i più suggestivi della terra di Sicilia: Favignana. L’autrice, partendo da quello che ancora oggi è un evento folcloristico-turistico, dà una collocazione storica e mitologica della mattanza. Il saggio, suddiviso in tre parti, si apre proprio con il concetto di sacralità dell’evento. L’autrice sottolinea, infatti, come in fondo dietro al rituale folcloristico si nasconde un vero e proprio atto sacrificale, in seguito trasformato in un supporto economico per la popolazione. Così quello che mitologicamente è un gesto sacro per ringraziare la divinità, si trasforma in un evento essenziale per la sopravvivenza stessa di intere comunità. La pesca, insieme alla caccia, come sottolinea Beatrice Torrente, diventa quindi il simbolo di un linguaggio prima primitivo poi sempre più raffinato: «La forza dell’animale è qualcosa che deve essere sopraffatta, come un rito in cui l’uomo vince e possiede». L’aspetto storico-sociale prende vigore nelle pagine del saggio fino a condurre il lettore alla rivalutazione della tradizione e della propria terra. Scrive l’autrice che «la “Terra” sostiene l’uomo, lo nutre e gli procura le materie prime per la vita, diventa per l’uomo primitivo una divinità, la “Madre Terra”, la grande Madre, divinità a cui si affiancava una divinità maschile, quella del Grande Essere». Enza Conti Flora Lalli, ‘N’amica pe’ la vita, poesie in vernacolo molisano (Ed. Cannarsa, ottobre 2003). Flora Lalli è nata a Roma, ma ha trascorso ben 27 anni nella terra paterna, il Molise. Nel 1980 è andata ad insegnare nella scuola materna del Circondario di Milano. Nel 1986 ha sposato un bresciano, trasferendosi in Val Trompia, a Pezzaze. «Semplicità di sapori e freschezza di 73 sentimenti contraddistinguono questa silloge, che trova il suo humus ispiratore in una terra, il Molise, di forti tradizioni familiari e sociali... Per parlare della vita, che desidera, la Lalli non trova altra immagine più significativa che quella di un piatto di spaghetti con pomodoro, basilico, olio d’oliva e peperoncino. Tutta roba genuina, quindi, che indica qual è l’etica seguita dalla poetessa: quella di un impegno morale senza ipocrisie o tentennamenti, in ciò accompagnata da una vera amica, la poesia. Di grande efficacia descrittiva è il percorso memoriale che richiama i momenti più belli, vissuti dalla poeteessa durante la fanciullezza» Luigi Alfiero Medea. sciuto le poesie di Maria Grazia Lenisa grazie ad una compagna di viaggio in un campeggio di Stoccolma. E il caso ha voluto che avesse trovato su un tavolo alla Sorbona il manoscritto de “La ragazza di Arthur”, provvisoriamente lasciato da Giorgio Bàrberi Squarotti e glielo abbia sottratto. Bàrberi Squarotti dovette fare la prefazione o meglio i risvolti del libro sulle bozze. Si dichiara imitatore dello stile lenisiano, per la verità assai vario, meglio gli riesce quando può coglierne una melodia. MARIA GRAZIA LENISA è la poetessa imitata da Max Bender e lo ringrazia per averle dedicato un minicanzoniere che nessuno ha mai scritto per lei, se si escludono i moltissimi poemi sparsi che però non fanno un corpo unitario. Lei spera che Max Bender le dia fama come Dante a Beatrice, come Petrarca a Laura, Saba ai pazienti animali metafora della buona moglie, Montale assai degnamente alla volpe e ad altro. La colpa di esistere, silloge di poesie di Silvio Craviotto (Cultura 2000, Ragusa 1990) Silvio Craviotto, con “La colpa d’esistere” ci propone una panoramica ad ampio raggio, affrontando tematiche di vario genere, caratterizzate da una versificazione snella, sintetica, realistica, mai ampollosa, piuttosto protesa verso quella immediatezza interpretativa che è virtù d’una poesia aperta a tutti. C’è sarcasmo, cinismo, capacità critica, ma anche concettuazione e rispetto di regole morali che sono base indiscussa di questo genere creativo. È lo stesso Craviotto a definire la sua poesia “usa e getta”, disquisendo sulla opportunità attuale di comporre; è vero che egli confessa di comporre di getto, ma è anche vero che la sua verve ispirativa è ricca di ammaestramenti molto utili a chi si dispone a creare. Una poetica concretizzata da una esposizione linguistica che fa subito breccia. Infatti sono composizioni che hanno il merito di evidenziare lo stato d’animo, il modo di pensare dell’autore, lasciando ampia libertà di giudizio; poetica che lascia spazio alla concezione individuale e che si sbriciola con conseguenzialità e con pluralità di intendimenti. A questo proposito riportiamo: «C’è un’erba diversa oltre questa erba...» chiara l’allusione alla plurivalenza delle cose a seconda del punto di vista. La originalità di questa poesia è determinata dalla capacità che ha l’autore di estrapolare significazioni, intuizioni, contenuti, nelle più disparate circostanze, traendone conclusioni sempre oculate e coerenti. Occorre anche precisare che l’orizzonte analizzato è assai vasto, non escludendo citazioni mitologiche, storiografiche, filosofiche, oltre che geografiche, politiche e religiose. “La colpa di esistere” è una specie di vademecum per un itinerario poetico moderno ed originale per chi vuol saggiare le capacità creative di questo estroso ed imprevedibile autore. D’altro canto è lui stesso a dirlo... «C’è sapore di eresia nei miei versi / ogni cosa vissuta e detta ha pure / sapore d’eresia di trasgressione...». È la chiave di lettura di questa silloge così poliedrica sebbene tanto uniforme nella composizione. Pacifico Topa Costante e istintiva esplosione di sentimento in Melanconie di Piero Juvara (Edizioni del Girasole, Ravenna 2002) Piero Juvara, con “Melanconie”, poesie andaluse e mediterranee, esalta l’amore; la silloge è una costante istintiva esplosione di sentimento che l’autore destina a persone diverse, ma con un unico filo conduttore. È un amore sviscerato che si è inserito profondamente nel suo animo a tal punto da ribadirlo ripetutamente. «Amore mio / Amore mio / piccolo insicuro / amore che in cima al mondo / hai i confini». Questo suo animo traboccante lo porta a ottimisticizzare la realtà intravedendo in essa gli aspetti migliori. Nella panoramica poetica c’è anche spazio per quella mestizia che è conseguente a negatività terrene, da qui la ribellione contro “ogni morte inutile”. Infatti nella realtà esistenziale tutto si ripete. «Nulla cambia, nulla / nascerà e morirà il giorno...». Quest’ineluttabile conclusione trapela dai versi, dando una nota di triste presagio. La mestizia è vibrante nei versi di questo sensibile creatore come nel caso di una madre che «porta un fiore / ai lati del binario / dove è morto tuo figlio...». È un dolore inimmaginabile! Uno degli aspetti caratterizzanti della poetica di Juvara è la sinteticità, l’immediatezza, le parole si scolpiscono come lapidarie definizioni e puntualizzano il senso con certosina precisione. La sua poesia assume quel caldo tono di mediterraneo fervore. In essa si sente vibrare la corda d’un cuore sensibile ed aperto ad accogliere nuove sensazioni... «Tu fosti per me / come un fiore rosso / sfuggito dalle mani / e caduto nell’acqua / limpida del fiume/ e portato via lontano / dalla corrente...». Immaginifica creazione suggestiva di un amore che sta sfuggendo e lascia solo disperato rimpianto. Di fronte alla bellezza egli si esalta... «Tu splendida donna / i tuoi Max Bender – Maria Grazia Lenisa, Il Canzoniere Bifronte, introduzione di Pietre Visser (Pomezia Notizia, Il Croco marzo 2004. MAX BENDER è nato ad Amsterdam, di professione fa il viaggiatore ed è figlio di un noto commerciante di diamanti, a tal fine usa lo pseudonimo. Ha studiato lingue orientali, non conseguendo nessuna laurea, ma imparando in loco con estrema facilità lingue e dialetti. Ha cono74 mandorli, i peschi fioriti. Diresti: che gioia copiosa può scendere dal cielo; quanta innocente delizia occhieggia per incanto. Vedendo penseresti: non tutto è brutto nella vita. C’è l’amore e la novella rifiorita». In una catarsi interiore, l’amore unisce tutto, proprio perché esso è dire, gioie, penare, inghiottire, non dormire. Ma l’amore, che è vita, è anche morte. «Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte ingenerò la sorte», scrive Giacomo Leopardi nella famosa lirica dal titolo appunto “Amore e Morte”. Ed “Amore e morte” è il titolo di due composizioni di Janne che, nel-l’economicità dell’opera, hanno una funzione strutturale ben precisa. L’autore assume quasi una posizione diversa in tempi diversi sullo stesso tema: l’amore e la morte sono in continua evoluzione. Nella prima lirica, infatti, muore l’estate, ma non muore l’amore, anche se una patina di nostalgia avvolge l’essere umano: «Presto verrà l’autunno, e tu innamorata, ti sentirai sommersa in un viluppo blando di languore». Nella seconda poesia dello stesso titolo, l’evoluzione si è conclusa, la speranza è stata recisa, l’essere amato non tornerà più. Nella prima lirica prevale l’amore, nella seconda la morte: «Upupa dall’obliquo volo fra le chiome d’ulivi, non venire più qua per fare l’amore... La primavera è una favola, come l’amore, ma la morte no. La primavera ritorna: tu non tornerai mai più». Enza Conti occhi come gemme / levigata è la tua pelle / tonde le tue forme...». È in questi momenti d’esaltazione affettiva che l’autore sente la forza stimolante della passione che alberga nel suo animo. “Melanconie” è una panoramica di constatazioni che hanno quasi sempre quel filo conduttore della soffusa mestizia, tipica del romanticismo nostrano. Pacifico Topa Giuseppe Janne, Poesie d’amore (Istituto Editoriale Internazionale, 1993) In tema dell’amore è stato ed è uno dei temi fondamentali della poesia italiana ed europea fin dagli inizi della nostra storia letteraria. Basti pensare alla greca Saffo o ai latini Catullo, Tibullo, Properzio e Ovidio, o agli autori italiani dello stilnovo, a Dante e a Petrarca. Lo stesso Boccaccio, ha composto belle poesie d’amore. Poi c’è il petrarchismo: una miriade di autori che ci lasciano scoprire, poesia dopo poesia, uno dei sentimenti più profondi dell’umanità. Nel mondo contemporaneo, così distratto e disattento, l’amore non è passato di moda e non è raro trovare dei veri e propri canzonieri d’amore. Non ultima la silloge di poesie di Giuseppe Janne, dal titolo appunto “Poesie d’amore”. «In questa raccolta – scrive l’autore – l’amore cantato è quasi sempre un ricordo: tempo passato, sofferenze, gioia. Ma queste poesie sono anche un omaggio a tutte le donne che mi hanno amato; un omaggio alla donna che deve essere la vera e grande compagna nella vita. La compagna nella gioia come nel dolore... È un inno all’Amore». La sua poesia nasce «dalle immagini, dai desideri, dagli affetti profusi a piene mani, nella realtà che lo circonda» scrive nella prefazione Angelo Esposito. Essa esalta la bellezza, la vitalità e l’emozione nell’attimo presente e nel ricordo. L’amore è un susseguirsi di voci e di suoni interiori, nelle implicazioni psicologiche e sensuali. Il senso e lo spirito si fondono, così come la materia e l’anima. Attraverso l’amore il mondo si trasfigura, la vita continua il suo percorso, l’uomo volge a nuove conquiste. In questo scenario totalmente etereo appaiono gli animali, le piante, i fiori, gli oggetti e il cielo, per assumere una loro aulicità poetica, una loro esaltante trasumanazione. «Anche quest’anno è già passato. Il pettirosso è tornato nel giardino, e il vento di scirocco le nuvole spingeva chi sa dove!... i sogni più belli della tua malia culli col murmure chiomoso dei cipressi». Nella poesia di Giuseppe Janne la natura è, accanto all’amore, la tematica essenziale, una natura che però è parte integrante della vita e termine di paragone, in una simbiosi perfetta, come si può evidenziare nella lirica “Guarda”: «Guarda, nei campi, nei giardini, i Antonio Angelone, La banda Centrillo Brigantaggio postunitario, da Vallerotonda a Forlì del Sannio, commedia dialettale (ed. il Ponte Italo-americano, New York 2000). Antonio Angelone, come artista si è rivelato molto sensibile alla fenomenologia del tempo e del paesaggio, rivolgendo la sua attenzione alla natura, agli animali ed alla gente umile. La commedia dialettale “La banda Centrillo, brigantaggio postunitario” è molto interessante e mostra un ulteriore sforzo nel voler unire tradizione e cultura, storia e letteratura. «Di questo ulteriore sforzo, che si aggiunge a quello, già di per sé gravoso, della composizione, dobbiamo certo rendergli merito. Non sempre, infatti, perfino in alcuni grandi film e sceneggiati in costume un tempo prodotti dal nostro cinema e dalla RAI, si ha modo di constatare un simile scrupolo documentario, un’analoga sensibilità al problema della fedeltà e della verosimiglíanza storica. Andrà poi notato che i singoli episodi scorrono via “lisci”, essendo riproposti senza reticenze o compiacimenti, senza prese di posizione “partigiane”. Se la rude fierezza del brigante Centrillo e la sua (per noi, oggi) ingenua fedeltà a un ideale possono suscitare simpatia, ciò non ci impedisce di partecipare intensamente al dolore delle famiglie derubate dalla sua banda, un dolore manifestato - com’è logico - in primo luogo dalle figure femminili, come Caterina, Carmela Capretta o Filomena, la cui intensità viene fuori in pochi tratti, dopo appena qualche battuta. La seconda novità di rilievo è rappresentata da un elevato grado di sperimentazione linguistica, che - a differenza di quanto fatto in passato - dà vita ad un originale impasto di “italiano” e dialetto (anzi, dialetti, perché nelle battute sono pur sempre riconoscibili le diverse varianti municipali della zona, messe in bocca ai singoli personaggi, di cui Angelone ha accertato l’esatto luogo di origine), impasto che, in più punti, ricorda da vicino proprio quello dei 75 documenti d’archivio, delle risposte fornite dai briganti durante gli interrogatori e i processi - e verbalizzate dai loro inquisitori - o dei loro stessi componimenti, non di rado autobiografici. Ciò potrebbe quasi sembrare un paradosso, visto l’argomento della commedia e l’epoca della sua ambientazione, che sembrano quasi fatti apposta per far pendere la bilancia dei registri dialettali verso arcaismi o veri e propri “scavi” lessicali e fonetici». Francesco Avolio Passionalità ed emozione in Palpiti d’amore di Angela Aprile (Montedit, gennaio 2004) “Palpiti d’amore” di Angela Aprile, una raccolta di versi con cui l’autrice sottolinea, con nostalgia, il suo affetto ribadito, ma non sempre ricambiato. Potrebbe ben definirsi poesia della delusione, perché nei suoi versi ricorre spesso l’invocazione di un amore che le sfugge. Non si ha difficoltà nel definire questa poetessa l’eterna innamorata, colei, cioè, che vive nel disperato desiderio di un affetto che purtroppo non giunge mai ed allora lei indugia, tergiversa, temporeggia illudendosi. L’amore è al centro delle sue composizioni, lei ne fa motivo di costante elaborazione, magari inventando sognando, sperando, auspicando, rimpiangendo, rammaricandosi per questa mancanza. Nei versi di questa autrice c’è passionalità, esasperato sentimento, intensa evocazione, ma non disperazione, malgrado tutto lei non dispera e non rinuncia mai a sognare questo grande amore che la ossessiona, ma la eccita. Per lei l’amore è una trappola entro la quale una volta caduti, non se ne esce più, un tormento che si prolunga e che non lascia scampo. Per averne conferma basta, scorrere i titoli delle composizioni, sono una sistematica affermazione d’amore, un amore ardente, ossessivo, persistente, amore che conquide, invischia, esalta, affascina, sconvolge, traumatizza. Questa silloge è un’apoteosi d’amore, tema prediletto di tutte le composizioni. La silloge si apre con la classica dichiarazione d’amore: “Ti amo”, per proseguire comparando l’amore alla purezza e limpidità dell’acqua, alla suadenza della musica, alle angosce che provoca l’altrui indifferenza per inebriarsi nel sogno d’amore... Vi sono espressioni di elevato lirismo. «Io ti regalo puri i miei pensieri», ed ancora più avanti. «Vorrei vivere di te e non morire / ma tu mi manchi, mentre io non manco a te...». In quest’eterno dualismo si dibatte l’angosciato animo di Angela Aprile, animo semplice, sincero, fervido di passionalità; un singhiozzante cammino poetico che si appaga di aspirazioni. Il sentimento che lei agogna è al di sopra della fugace attrazione sensuale, è una profonda convinzione che c’è qualcosa di più serio ed intenso del solo amplesso. Insomma l’amore che Angela Aprile desidera è quello sincero, eterno, indimenticabile che trascina e travolge, restando sempre nel clima euforico di una passionalità quasi morbosa della cui carenza si sente il bisogno, del suo appagamento l’insaziabilità. Forse giustamente nella prefazione Massimo Barile definisce questa autrice «falena che si dibatte alla luce notturna, come prigioniera chiusa nel suo labirinto d’amore alimentato solo da memorie perdute». Pacifico Topa Otilia Jimeno Mateo il poema esistenziale di Genesi di un’alba e Tramonto di un tempo (Ed. Il Convivio, traduzione dallo spagnolo di Angelo Manitta e Maria Enza Giannetto) Questa poetessa spagnola si presenta in Italia con quello che potrebbe chiamarsi poema esistenziale. Lei percorre sistematicamente tutto l’arco della sua esistenza, sintetizzandone i momenti salienti, sottolineandone i passaggi più significativi, rievocando ciò che il tempo non è riuscito a cancellare dalla sua mente: «Apri i tuoi occhi, bambina / sopra il cielo / sotto l’universo intero». S’apre così la silloge che ha per protagonista una bimba alla quale viene presentato l’universo ove trascorrerà la sua vita nel contingente, il suo mondo sarà un “pezzo di casa”, accudita da una madre affettuosa e qui emetterà i primi vagiti, ma l’avverte che il mondo è più vasto, abitato da esseri che lavorano. La prima domanda che la piccola si pone è: “Che cos’é la vita?”. Qui elenca elementi fisici e psichici, dita, carne, ossa, pene, ansie, godimenti. L’essere sente, nella sua iniziale ignoranza, la musicalità dei suoni, ma non riesce a distinguerli, è solo un gioco di fantasia, ecco che idealizza quello che non sa percepire «i sogni sono nuvole / petali di rose / farfalle che volano, / piume / volteggiar di campane». Assillante si fa il dubbio «Che cosa è il tutto e il nulla?». Subentra quel timore che la non conoscenza alimenta, la pochezza umana è evidente, il paragone del giorno di fronte all’eternità conferma che l’essere è nulla di fronte all’universo, tuttavia è importante, perché col piccolo si forma il grande. Concettuazioni altamente concrete e logiche! Il cosmo suscita curiosità, ecco il globo che gira e «raccoglie tutti i lamenti del mondo». Eppure l’uomo è capace di grandi opere, percorre gli spazi siderali, domina i popoli, tuttavia egli non sa come nasce un sogno, non sa neppure quale sarà il suo destino. In questi versi c’è l’angoscia esistenziale. A questo punto inizia il lento cammino umano, il tempo passa: «non avere fretta / di percorrere / il tuo universo... vedrai!».“Ecco allora che la piccola s’addentra nella realtà terrena, fra luci ed ombre, gioie e dolori... «Andrai di corsa / salendo gradini» sarà come scoprire cose nuove: è la storia umana. Pur nella sua pochezza l’essere merita rispetto dato che egli riesce a vitalizzare, senza di lui tutto sarebbe immobile. Il genio creerà macchine che gli permetteranno opere grandiose. Il cammino della vita prosegue, i giorni s’inseguono e con essi anche la nostra esistenza. La ineluttabilità di questo mutamento assilla chi cerca di conoscere l’essenza delle cose. È il destino dell’uomo camminare con passo spedito fin dalla infanzia per poi gradualmente rallentare man mano che ci si avvicina alla meta, quello che assilla è il non sapere quando e come. Jimeno Mateo ha focalizzato anche la nostra realtà! Pacifico Topa 76 Taci, oh vento! poesia, quasi testamento di fede, di Adua Casotti (Alkaest, Genova 2003) Ferdinando Banchini, i moduli del vivere aggrappato alla realtà in Approdi (Joker, Novi Ligure settembre 2003) “Taci, oh vento!”: la raccolta poetica che Adua Casotti ha pubblicato per i tipi di Alkaest, è un testamento di fede, di piena confidenza nella divinità. «Prego Dio per ringraziarlo / quando sto bene / prego Dio per implorarlo / quando sto male / dentro me prego sempre...». Che dire più! Ma la silloge è anche panoramica di avvenimenti che, giornalmente si succedono e che danno spunti ispirativi. Già da questa premessa si ha chiara l’impostazione spiritualistica di questa poetessa che s’immerge nella natura, ispirandosi ai principi di un francescanesimo oggi poco di moda. Le sue composizioni sono prevalentemente ispirate ad elevata eticità, dato che lei si rifugia nella fede dalla quale attingere gli stimoli per aspirare ad un mondo migliore. Spirito piuttosto romantico, si lascia facilmente trascinare dagli eventi naturali per esaltarli: «Taci, non far rumore, oh vento / non mi distrarre dal tramonto / sto ammirando la sera d’oro immenso...». Adua Casotti è una esaltatrice delle bellezze del creato, ne difende la validità, ne esalta le peculiarità; la natura l’affascina. «Sono l’onda / che nella notte avanza / sotto l’ombra dello scoglio...» e più oltre: «Il mare mi fa sentire / in cuore poesie e canzoni / parole d’amore». L’elemento dominante è il romanticismo, intensamente vissuto, pienamente condiviso. Ogni argomento che lei affronta la esalta, lei riesce a trovarne le angolazioni più positive, gli aspetti più prestigiosi. La mestizia di un giorno nuvoloso le fa dire: «Oh sole / son tanti i giorni che non ti fai vedere...». L’assenza dell’astro provoca rimpianto! Lei alterna momenti di serenità ad altri di larvata mestizia, tuttavia prevale sempre uno stato d’animo aperto a nuovi spiragli di speranza. Una poesia, quella di Adua Casotti, che nella limpidezza di una esternazione istintiva trova largo consenso, stimolando il lettore a penetrare senza difficoltà nell’intimo di una poetessa che ha nella genuinità l’arma migliore per illustrare la realtà circostante. Il sentimento è diluito nelle composizioni e serve per dare una vera consistenza a quelli che sono tasselli di un mosaico che va gradualmente componendosi. Come è intuibile, nell’animo di Adua Casotti alberga anche l’amore, anzi lei ne fa argomento più volte: «T’amerò, disse un cuore / a un altro cuore, / sin quando non s’incontreranno i monti...». Ma non mancano accenni ad una cruda realtà: «Lo scheletro con la falce / avvolto nel mantello nero...» è la simbologia della morte... «un regno buio / che non arriva la luce / dove l’anime staccandosi dal corpo / s’allontanano sole!...». Sentimento, passione, rimpianto, evocazione del passato sono gli argomenti che Adua Casotti affronta con semplicità e ne trae utili suggerimenti. Pacifico Topa Come giustamente afferma Sandro Montalto nella prefazione alla silloge “Approdi” di Ferdinando Banchini... trattasi di moduli del vivere aggrappato alla realtà, mai abbandonando la musicalità del verso che ritma un lungo e vasto processo di ricerca di sé attraverso l’agitarsi di una morale urtata dalla volgarità quotidiana». Questo originale creatore poetico s’addentra nei misteri dell’ignoto alla affannosa ricerca di un quid esplicativo, una luce che possa illuminare la mente nella caotica confusione in cui oggi si vive. Poeta ispirato e sensibile oltre che intuitivo e realistico, poiché prende lo spunto dalla realtà, la sviscera con arguzia, ne esalta gli aspetti evidenti, ne perifrasa le assonanze per trarne il vero ed intimo contenuto. Poesia piuttosto elaborata, ricca di simbologie, si inserisce nel novero della modernità con pieno merito. Con “Effimeri” Banchini passa in rassegna l’esistenza nella sua vacuità esteriore per far emergere quello che fu e che oggi non ha più corposità, ma è solo memoria. C’é nella sua ispirazione poetica quel crepuscolarismo che è tipico di animi ultra sensibili; il dolore lo assilla, sapersi imprigionato dal male e tentare disperatamente di uscirne e un impegno costante; per lui questo è «il dolce mistero dell’esistere». Trattasi di poesia essenzialmente concettuale che s’insinua nella mente per spronarla a fare una ricerca che possa garantire esaurienti risposte alle numerose incognite esistenziali. Per potersi avvicinare alla poesia di Banchini occorrerebbe fare propri i versi di “Ombra”: «Dal fitto di tenebre l’ombra / sottile si stacca, inquieta / dilegua tenace, ritorna / mi segue, mi segue mi affianca, mi avvolge...». È questo dubbioso stato d’animo, questa impalpabile ombra che simboleggia la nostra stessa essenza, che ci tortura, ci angoscia, è una costante ansiosa ricerca di scoprire l’ignoto, abbattere il muro di fronte al quale l’essere e impotente. “Approdi” è una silloge svolazzante, trapunta di sagaci considerazioni saltellante nella crepuscolarità di significazioni non sempre immediate, poesia che richiede concentrazione, impegno, disponibilità per seguire involuzioni linguistiche tipiche di questa musa ispiratrice. Questo autore ha momenti di esaltazione e di slanci lirici come in “Dono”: «Dono di gioia è il tuo sorriso... perché quando mi guardi... sento svanire in me i silenzi». Ispirazione profonda di un sentimento che sorvola la diuturnità per addentrarsi nell’imprevedibile! Pacifico Topa Il cammino dell’essere umano in Meteore di Luce di Giuseppe Manitta (Il Convivio 2002) “Meteore di luce” è il titolo della prima silloge pubblicata da Giuseppe Manitta, un giovane poeta siciliano. Il volume si apre, dopo interessanti prefazioni di eminenti letterati, con l’Epigrafe I, una dichiarazione d’intenti del suo tema. È «il canto dell’uomo che soffre» che si svolgerà tra le pagine, ma sono, però, anche canti di gioia e «s’innalzano sospinti dal vento», fortemente improntati dalla cultura classica e cristiana. I capitoli dell’opera ci conducono a riflettere su fatti che permeano il cammino dell’essere umano, come quando «Idoli immaginari sorreggono / valli e città deserte / trasformandosi in polvere / che fugge tra gli 77 composizioni si intravede un angoscioso senso di solitudine, un isolamento in cui si sente rinchiusa: è istintivo il bisogno di rompere questo cerchio per rituffarsi nella pluralità. Angelo Manitta, una figura poliedrica nel panorama culturale italiano, una mente ricca di suggestioni e di realismo che esterna con una versificazione forbita concettualmente elevata pregna di significazioni e di contenuti. Manitta vanta un bagaglio creativo notevole e quel che più conta è che esso ha già ottenuto il consenso generale. Il suo modo di versificare è quanto mai tagliente, preciso, quasi scultoreo, più che vergare Manitta scolpisce i suoi versi che s’inseriscono nella mente con chiarezza. La sua tematica è vasta. Alta poesia e pieno soddisfacimento della vena creativa, riesce con le sue composizioni a creare quel clima mistico di suggestioni che sono alla base di un valido personaggio moderno che non disdegna di lumeggiare quel mondo che è vicino a noi, ma che spesso ci lascia indifferenti per non dire insensibili. Lio Tomarchio, cantore di Sicilia. Eminente figura di dialettologo Lio Tomarchio viene definito “cantore di Sicilia”, questo per sottolineare la sua particolare propensione verso l’esaltazione della sua terra. Persona complessa di una realtà, quella siciliana, che offre abbondante materia creativa e consente interpretazioni molteplici. Il patrimonio folklorico della “Trinacria” è assai conosciuto, tuttavia Tomarchio ha saputo coglierne aspetti imprevedibili ed originali, rispolverando dal bagaglio tradizionale, quegli spunti che sono alla base dell’esistenza stessa di un’entità popolare... Tomarchio non è tipo di rassegnarsi alla realtà contingente, guarda con occhio attento gli eventi e non di rado si chiede se anche lui non ne sia il responsabile. Questi interrogativi non lo turbano più di tanto. Essendo egli fornito di un notevole bagaglio di valori, sa ben discernere il bene dal male, encomiando il primo e biasimando il secondo. Alfio Spina viene definito “poeta delle piccole cose” non per minimizzarne il valore, ma perché ha avuto l’accortezza di puntare il suo obiettivo nella percezione delle cose più umili, semplici, comuni. La sua sensibilità gli conferisce questa capacità e lui sa farne buon uso senza trasgressioni. La sua personalità poetica parte dalla schiettezza intuitiva, dalla genuinità per sviluppare tematiche attinenti ad una realtà contingente. Amante delle bellezze della natura se ne fa strenuo difensore. Stigmatizzando lo scempio che spesso se ne fa per egoistici interessi. La reminiscenza e l’elemento basilare di molte sue composizioni, ma una reminiscenza non solo nostalgica, bensì impreziosita dalla fantasia. È naturale che il ricordo del passato suscita rimpianto, nostalgia. Alfio Spina se ne fa portavoce dal profondo spirito religioso, ostile ad ogni materialità si avvale dell’esperienza del vissuto e da buon cronista precisa eventi clamorosi accaduti, sottolinea le gravi conseguenze, umanizzando il dolore che sovente aleggia nelle creazioni. La sua creatività lo porta ad illustrare le bellezze artistiche della sua terra. Ne descrive con maestria il fascino, consapevole che la realtà è fonte inesauribile di ispirazione. Chiara Trefiletti è una giovane poetessa, che si affaccia prepotentemente alla ribalta culturale e vanta un bagaglio cognitivo quanto mai invidiabile, frutto di assidui ed approfonditi studi universitari. La sua poetica è improntata alla realtà che, sagacemente manipolata, ben si presta a caratterizzare questo personaggio eclettico e poliedrico e dire che una fonte d’ispirazione l’autrice la trova nel patrimonio classico della poesia, senza trascurare certo l’immediato, il astri» o «porte infernali imprigionano anime di universi». Il viaggio dell’uomo è lungo, difficile, duro, ma «la Morte non gli ha oscurato gli occhi... ha attraversato l’ignoto / alla conquista della libertà... e tutto finì / e i corpi infangati dalla neve / lasciarono il suono della libertà / alle dita colorate d’arcobaleno». Ovunque sorgono difficoltà nelle «parole di sabbia», mentre le speranze «che ardevano / alte tra gli astri, / ora cadono come meteore al suolo». Infine, però, l’ultima lirica si apre alla fiducia e si conclude con il verso: «Finalmente è fiorita la pace». Le immagini delle composizioni di questo testo sono definite e ricche di metafore -meteore di luce appuntocome quando ad esempio, il poeta scrive: «Il cielo sussurra il suono violento / dei rami alla catena di pietra. / Il mondo s’inarca sul gioco / delle foglie /…e la clessidra s’inclina / al sognare del tempo». Sono sembianze colorate come quelle dei dipinti che le accompagnano, opere dell’autore stesso. C’è nelle raffigurazioni pittoriche una grande capacità d’interpretazione che trascorre attraverso le tinte. Le figure stilizzate, quasi infantili, allungate, aperte, intrecciate, incarnano e rappresentano, nelle loro forme primitive, l’umanità che si agita sulla terra. Ma è soprattutto il colore che stupisce ed attrae, riprendendo un po’ l’astrattismo lirico-simbolista di Kandinskij o i toni accesi dei Fauves. Renata Rusca Zargar Voci Nostre, Il lunedì letterario, (Società Giarrese di Storia Patria, a cura di Girolamo Barletta e Anna Castiglione Garozzo). Il volume, curato dalla Società giarrese di storia patria con sede a Giarre in provincia di Catania, presenta poeti e scrittori del territorio ionico-etneo. Gli autori sono stati presentati in incontri che si sono svolti durante i ‘lunedì letterari’ dell’anno scorso «per raccogliere attorno a poeti in maggioranza poco conosciuti, un pubblico sempre numeroso di persone disponibili ad un rispettoso ascolto» scrivono gli autori della premessa Girolamo Barletta e Anna Castiglione Garozzo. «Poeti ‘scoperti’ malgrado le loro ripulse alla notorietà, altri già affermati: gli uni e gli altri presentati da autorevoli critici prodighi di notazioni positivi». Tra di essi diversi sono gli amici del Convivio, sui quali fermiamo in particolare la nostra attenzione. Pinella Musmeci confida prevalentemente sul sentimento, ne fa un trampolino di lancio per le sue creazioni che aleggiano di velata serenità e di speranza. Si rende conto che sovente la realtà è crudele, perseguita l’essere e tenta di distruggerlo. Essa cerca di venirne fuori confidando nella speranza, ma non è compito facile. Attraverso alcune sue 78 mo, conferendo chiarezza espressiva; trattasi di versi facili, d’immediata assimilazione, schematici, che fanno della primordialità un pregio, non sempre apprezzato, ma pur valido specie se si vuole che il messaggio giunga a tutti senza distinzione di livello culturale. I suoi versi spesso sono rivolti agli esseri viventi, come gli uccelli: «Volatili che venite da lontano...». Già la migrazione gli suggerisce pensieri fantasiosi, ma non nasconde il timore che durante il viaggio ci sia chi insidia la loro vita. Fontana è un esaltatore delle bellezze naturali: «Liguria che sei bella e profumata» non disdegna definirla «Regione mondiale». Più oltre: «E tu Sicilia che sei in mezzo al mare..» sei il sogno di tanta gente. V’è istintività indiscussa, immediatezza interpretativa, non disdegnando anche qualche spunto buono come in Pesciolino innamorato che deve stare sottoacqua, giochicchia scodinzolando e racconta barzellette. Scherzi a parte, è nella facilità espressiva di Mariano Fontana l’essenza di una poetica senza pretese, umile come è umile chi si confessa per quello che veramente è!». Pacifico Topa contingente, quella realtà nella quale lei opera e che le ispira spunti creativi di notevole contenuto. La giovane età le suggerisce quel senso di ottimismo che è tipico della spensieratezza, un ottimismo che poggia sulle speranze di un domani migliore. La fonte creativa va ricercata nella individualità, ecco perché per lei può parlarsi di poesia intimistica di facile acquisizione, accattivante, dato che le sue caratteristiche sono inconfondibili e di indiscussa originalità. Rosario Contarino fa della poesia un mezzo idoneo per esternare il suo stato d’animo lo fa con composizioni poeticamente elaborate, ma anche in vernacolo e forse questa seconda sua capacità gli consente meglio di esprimersi, favorendo le sue capacità intuitive e la creazione di un mondo suo particolare. La produzione di Contarino, voluminosa e già consacrata dai successi di critica, si sviluppa attorno ad un vissuto che non è soltanto rievocazione e ricordo ma sopratutto constatazione di una esistenza che ha avuto le sue peculiarità. La sua poetica aleggia nel clima idilliaco della illusione, ne consegue spesso sconforto e delusione. C’è in lui un clima di velata mestizia, quel senso di ponderata convinzione che tutto il meglio è passato e che il futuro è sconosciuto. Non mancano note di speranza che hanno una moderata considerazione, non perché egli non ne nutra, ma perché le esperienze della vita gli fanno dire che occorre molta cautela nell’affidarsi alla sola speranza. Un poeta eclettico che cerca nella esternazione quella musicalità che e virtù di veri poeti. Tra gli autori figurano anche Enrico Carbone, Francesco Sciacca, Pietro Guarnotta, Isidoro Raciti, Mario Pafumi, Antoinette Calabretta, Emma Calì. Pacifico Topa Mariano Fontana: La gioia della vita, esplosione di pace interiore (La Versiliana, aprile 2002) Antonia Izzi Rufo, Les couleurs de l’ame - I colori dell’anima, (Venafro 2003) Con “La gioia della vita” Mariano Fontana si presenta nella sua indiscussa personalità spirituale, assertore convinto dei principi essenziali della religione e della morale cristiana. La sua poetica è di una semplicità disarmante e questo conferma la istintività creativa, la spontaneità, il senso chiaro delle cose. Dai suoi versi si desume una personalità schietta, ingenua, profondamente convinta di quanto asserisce. I temi sono dei più disparati, tutti però osannanti ed elevati al rango di puri e fulgidi esempi di serena letizia. Un linguaggio quasi fanciullesco che sconcerta e sorprende per la innegabile genuinità. I suoi versi sono un’esplosione di pace interiore; leggendolo si intravede questo personaggio dotato di profondo spirito religioso, fervente praticante, solerte nella solidarietà, disponibile a sovvenire agli altrui bisogni, egli fa della sua stessa esistenza un itinerario verso obiettivi di alto valore etico. La musicalità di alcune sue composizioni accentua la delicatezza ispirativa del suo ani- Testo bilingue con tr. francese a fronte di Paul Courget, I colori dell’anima sono una raccolta della traboccante intuizione della poetessa e scrittrice Antonia Izzi Rufo di Castelnuovo al Volturno. La traduzione è impeccabile e rispecchia il suono della poesia in italiano, onde un merito da ascrivere al poeta e traduttore Paul Courget, laureato dell’Accademie Française nonché di altre notevoli istituzioni in Patria che all’estero. In Colori riscontriamo il sentire, il percepire della nostra autrice nei vari stati d’animo, non volendo trarre in inganno con codesta locuzione ad una adesione ad un “rinnovato romanticismo”. Anzi, la Nostra resta una persona solare e spumeggiante anche se a volte lo “spleen” baudelairiano la assale, scoprendone in positivo le poesie brevi, come una scheggia, un frammento che ti giungono subito a colpire e a farti travolgere nel tuo remoto “intus”. Verità di vita vissuta e in quanto tali universi per il lettore/rice. E in “Nostalgia”, pag 8, i puntini sospensivi e il ripetersi di “lontano” danno una sensazione vera, quasi tangibile in contrapposizione alla vettura che «scivola... sul nastro d’asfalto» che rende ancora più vivido il concetto di lontananza proprio quello scivolare sinonimo di velocizzare. In francese “chez moi” rende forse meglio che in italiano “casa mia”, meno elegante, meno fruibile subito. Così emergono le poesie Sensualità, Nel silenzio dei boschi, Agosto o la stupenda “Pausa” nonché le prime della breve raccolta. Un merito “ad majora” alla poetessa molisana. Enrico Marco Cipollini 79 Maria Teresa Epifani Furno La Scoperta di Eva (Casa Ed. Menna, Avellino 2003) Lydia Tedeschi, Gran Galà Sistina Broadway d’Italie, (Pellegrini editore, Cosenza 2002) La scoperta di Eva della nota poetessa di Sorrento, riteniamo sua stessa rivelazione, ci ha svelato una nuova Maria Teresa Epifani Fumo. Concordiamo pienamente con quanto afferma Carmine Manzi nella bella prefazione: «Questa nuova silloge, è invece in tutto diversa, perché domina in essa la sua voce di donna, di donna... Si potrebbe pensare ad un aspetto nuovo della sua poesia. In effetti l’elemento innovativo consiste proprio nella esplorazione da parte della sua Eva di quell’universo femminile così impareggiabilmente ricco di luce e di vita e nella sofferta conquista, attraverso le tre fasi, in cui risulta suddiviso il libro, della “prima” donna del primo, nel senso di primordiale ed autentico, amore. Ancor prima che s’inizi a sfogliare, in copertina, la coinvolgente opera pittorica di Teresa Correnti, dall’appropriato quanto sintomatico titolo Simbiosi, introduce il lettore in quello che sarà il tema di fondo dell’intera raccolta. Poi, come si diceva, la sezione introduttiva, L’Essenza, insieme alle altre, La Metamorfosi e Il Contrasto, a simboleggiare, a nostro avviso, altrettante tappe di un cammino che si snoda flessuoso e sensuale e puro. Può sembrare strano che Il Contrasto sia quella conclusiva ma, a ben riflettere, intuitiva e sostanziale è la sua collocazione al termine della silloge; la sua funzione di sintesi è davvero esemplare: l’amore trova la forma più alta di realizzazione nella opposizione, nel contrasto appunto. È qui che si attua la metamorfosi, che l’essenza s’incarna nel vivere. È qui che si compie l’estasiante scoperta di Eva. Dalla contrapposizione fra Adolescenza (Essenze mutabili / di nudità senza pudori) e Senilità (Essenze immutabili / di vergogne e rimorsi), la storia della vita rinasce armoniosa dall’idillio del “lungo bacio” dell’acqua del Balaton col cielo e ad Eva, infine, si rivela. Ma se indubbia è la novità da un punto di vista tematico, se nuovo è il sapore epigrammatico, oseremmo dire aforistico (“E se perduti / nasceranno amori / t’includeresti?”), delle triadi di versi disseminate nel testo, è vero altresì che lo stile è inequivocabilmente suo: nella sezione centrale, forse quella che preferiamo sotto il profilo dell’affiato lirico, ci sono poesie dove il ritmo e la musicalità interna conferiscono profondo respiro all’incedere del dettato. Ci riferiamo soprattutto a Eri tumulto d’erba, a Uccello migratore e alla metaforica metamorfosi di Quello spazio d’azzurro in cui il dono della “perla promessa”al mare è indicativo di vera e intensa spiritualità. Ma tutto è dono; dono d’amore, dono di sé, della sua anima messa a nudo, in questo lavoro. Il regalo più grande che tutti noi potessimo attendere dalla creatività, dalla “scoperta di Eva”. Sandro Angelucci Con Gran Galà Sistina Broadway d’Italie Lidia Tedeschi, giornalista pubblicista, ha voluto rendere un doveroso omaggio ad un teatro che ha caratterizzato la vita brillante romana nel dopoguerra. Con pregevole sagacia ha saputo raccogliere il materiale sparso un po’ ovunque, riassettarlo, ordinandolo a seconda della progressione per farne un resoconto arricchito da foto ed opportune annotazioni, offrendolo «a chi non c’era o non ha avuto la fortuna di assistere all’incantesimo dei primi spettacoli dell’araldo Sistina». Siamo nell’immediato dopoguerra, periodo in cui si cercava di dimenticare le atrocità e le sofferenze patite, istintivo si sente il bisogno di dimenticare, divertirsi, di cercare qualcosa di diverso. Gli influssi di musiche straniere, jazz, blues, spirituals, il rock, si vanno diffondendo dopo la lunga stasi dovuta all’evento bellico. Roma si risveglia un po’ stordita, cominciano a fare capolino le prime sale cinematografiche, si pensò alla costruzione di un nuovo teatro e, su progetto di Marcello Piacentini, sorse, accanto a Piazza Barberini, il Sistina che ben presto divenne il fulcro della commedia musicale all’Italiana, frutto dell’ingegno di una coppia diventata poi famosa: Sandro Giovannini e Pietre Garinei. È qui che furoreggia Ettore Petrolini con “Gastone” ed altre parodie. Man mano si passa dal varietà alla rivista per iniziativa di impresari come Galdieri e Remigio Paone. Gorni Kramer ed Armando Trovaioli furono creatori di colonne sonore d’indiscusso successo mentre andavano di moda i testi di Garinei, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Terzoli, Vaime, Verde, Lina Wertmuller. Ovvio che il successo del Sistina lo si deve anche a personaggi che l’hanno onorato calcandone le scene: la coppia Billi e Riva, Carlo Daporto, Carlo Campanini, Walter Chiari, Renato Rascel, Ernesto Calindri e le dive Andreina Pagnani, Wanda Osiris, Delia Scala, Franca Gandolfí ed ancora Gianni Agus, Lauretta Masiero, Nino Manfredi, Paolo Panelli. Ne1 frattempo riemerge lo spirito nazionalistico e per le celebrazioni del centenario dell’unità d’Italia vennero messe in scena alcune commedie a sfondo patriottico: “Rinaldo in campo” ed “Enrico 61”. Il primo vide l’esordio di Domenico Modugno con a fianco Delia Scala. La Tedeschi sottolinea anche la validità poetica degli autori, geniali creatori di parodie e motivetti musicali orecchiabili. È anche il momento della commedia dialettale; qui emerge la figura di Aldo Fabrizi che insieme a Modugno animano Rugantino. Il Sistina ospita anche spettacoli personalizzati come “Ciao Rudy” con Marcello Mastroianni, Paola Borboni, Raffaella Carrà, la Lojodice, Ilaria Occhini, musiche di Trovaioli. Nel frattempo emergono Enrico Ma80 ria Salerno, Franco Franchi e Ciccio Ingrassia; Jonny Dorelli, Loretta Goggi e Alberto Sordi. È l’epoca del Musical “Aggiungi un posto a tavola” poi “Sette spose per sette fratelli” “West Side Story”, merito questo di Saverio Marconi dinamico organizzatore. La morte di Giovannini nel 1977 conclude il ciclo inteso di questo teatro famoso. Pacifico Topa C’era una volta... un medico condotto: Ferdinando Piccirilli, appunti e ricordi di Luciana Piccirilli Profenna (Ed. Noubs, Pescara 2003) Quest’opera di Luciana Piccirilli Profenna altro non è che la meticolosa raccolta di appunti che il marito, Fernando Piccirilli, medico condotto, ebbe a trascrivere durante la sua lunga carriera. Come cronistoria quindi si avvale di un linguaggio quanto mai scorrevole, improntato all’immediatezza. Quello che si evidenzia è la meticolosità descrittiva, realisticità di una vita spesa al servizio degli altri, contraddistinta da intermezzi caratteristici di figure originali e fatti particolari. È facile intuire che casi piuttosto strani ne sono enunciati in questo volume diario, eventi che solitamente si sono risolti positivamente. Ne scaturisce una sia pur larvata curiosità per il lettore che incontra questo personaggio sempre disponibile, pronto ad affrontare le problematiche ardue. Ciò che accentua la validità di questa iniziativa e anche la dettagliata descrizione di episodi tipici e di luoghi, ove spesso l’ignoranza e la violenza provocavano incidenti ai quali il dottore doveva porre riparo. È opportuno anche precisare che colei che ha raccolto questa documentazione, Luciana Piccirilli, è stata una validissima collaboratrice del marito, avendolo aiutato a svolgere le sue mansioni nel paesino di Lettomanoppello, alle falde della Maiella. Di episodi strani se ne enunciano ricorrenti in una comunità agreste ove il medico è ritenuto non solo indispensabile, ma anche unico mezzo di comunicazione con il resto della società. Un resoconto dettagliato di oltre un quarantennio di attività, un comprensibile segno di riconoscenza da parte di Luciana Piccirilli verso colui che ha dedicato tutta la sua vita per il bene del prossimo. Il volume si conclude con una serie di attestazioni di personalità ed umili cittadini che hanno voluto dare testimonianza dei meriti acquisiti, culminati con la targa che l’Amministrazione Comunale ha consegnato al dottore al momento del suo pensionamento. Tra le personalità alla fine del volume compaiono: Dede Brutti Cinquino, Fedele Carriero, Donatelli Adriano, De Sanctis Giovanni, Aceto Giovanni, Mancini Camillo, Dionisio Giuseppe (sindaco), Ubaldo Amoroso. “Cera una volta... un medico condotto: Fernando Piccirilli” è senza dubbio una genuina testimonianza di determinata fedeltà odontologica di una persona che ha lasciato grato ricordo di sé nel mondo in cui ha operato. La sua autrice è impegnata in molte associazioni come L’AMMI (mogli medici italiani), la Croce Rossa, ed è socia dell’Accademia d’Abruzzo, dell’ASSCA e del Convivio. I diritti d’autore del volume saranno devoluti all’Associazione “Marco Di Martino”. Pacifico Topa Come rondini le primavere volano di Narcisa Belluomini Celeghini (Museo della poesia) La poesia di Narcisa Belluomini Celeghini volteggia sulle ali della rimembranza, la sua ispirazione attinge nei ricordi del passato sempre evocati con tanta nostalgia. È una vena ispiratrice semplice, scorrevole, limpida come acqua che sgorga da fresca sorgente, la lettura di queste creazioni ha l’effetto balsamico di un bagno di serenità, di fiducia e di speranza. Il titolo della silloge, “Come rondini le primavere volano”, è sintomatico! V’è un evidente rimpianto per la fugacità del tempo e con esso per tutto quello che trascina con sé. Un cruccio l’assilla: «Qui il tempo dei ricordi s’e fermato», quello che la vedeva felice, spensierata non c’è più, non restano che i ricordi, i rimpianti, specie se allude a persone care scomparse: «Quando penso a te, mamma adorata...» sente nel cuore tanta mestizia e nell’immaginifico le fa dire: «Nei momenti più difficili ti sento vicina...». Indubbiamente con un animo saturo di sentimento affettivo Narcisa Belluomini non può non dare libero sfogo alle sue espressioni espansive, come in “Nonna e nipotina” quando afferma: «Dolci attimi di felicità / sublime, profonda / che confonde / i nostri respiri...». Oltre al sentimento in questa poetessa abbonda anche la fantasia e basta un non nulla per rimembrare, con ricchezza di sfumature, attimi di vita gioiosa, momenti irrepetibili che s’accavallano nel viaggio a ritroso del tempo. Ecco allora la fascinosa bellezza delle festività natalizie quando tutti uniti in allegria ci si disponeva a consumare il pranzo, ma ora questo non c’e più! La panoramica di Narcisa Belluomini si allarga rievoca la spensieratezza di un’estate al mare ove «l’infinità dell’acqua / fa sentire liberi e in trappola / schiavi e padroni / senza volontà». Questo ambivalente abbandono al gioco delle onde, incontrollabile, le suggerisce la realtà di un destino che domina l’essere, disponendone a suo piacimento. La morte ha un ruolo determinante poiché elimina la presenza fisica, ma non cancella quella spirituale... «Ora che il tuo essere non c’è più / io ti vedo e ti sento / tutte le volte che voglio...». Dolce illusione che può appagare un animo sognante. Ciò che emerge da questa poesia è anche quel senso di fiducioso ottimismo, non vi è disperazione, rinuncia definitiva, ma soltanto fiduciosa speranza, auspicio di un costante ricordo, indizio di affetto profondo ed incancellabile. Lo asserisce anche G. P. Canavese nella premessa: «Non c’è rabbia nella sua poesia, ci sono ricordi di vita, storie mai dimenticate e traspare un grande affetto misto a malinconia...». Validissima poesia di questa pluripremiata poetessa romana. Pacifico Topa 81 Il bacio del diavolo storia della contessa sanguinaria di Adriana Assini (Spring Edizioni, Caserta, 2004) XXV Anno Personaggi ed interpreti: “Misciagni Nuestru”, il volontariato dell’Associazione “Misciagni Nuestru” a 25 anni dalla sua fondazione (Comune di Mesagne, novembre 2001) Il bacio del diavolo di Adriana Assini narra le vicende della contessa Erzsébet Báthory, imputata di aver assassinato decine di fanciulle reclutate alle sue dipendenze e di averne impiegato il sangue per abluzioni a scopo cosmetico. La cupa eroina del male chiuderà i suoi giorni segregata in una stanza della propria dimora, il castello di Čachtice, su disposizione del conte palatino d’Ungheria György Thurzó, fino alla morte avvenuta nel 1614, senza aver mai subito un processo ufficiale. In questo romanzo, Adriana Assini opera uno scavo profondo sulle figure di protagonisti e comparse. Dire che si tratti di mera analisi psicologica sarebbe riduttivo, perché solo un puntuale studio bibliografico preventivo può consentire di disciplinare la fantasia narrativa tipica di certi filoni entro gli schemi rigorosi dell’attendibilità storica. Attraverso la calibrata dosatura dei dialoghi affiorano in una sorta di affresco progressivo non solo la viltà dei subalterni, le incombenze quotidiane, le effimere contese locali ma anche gli intrighi che intessono la rete politico-diplomatica di buona parte della vecchia Europa centrale. Al centro della rappresentazione, lei, Erzsébet, all’esterno sprezzante e blasfema, eppure, nell’intimo, incerta, superstiziosa, fragile creatura che assiste impotente alla procella che monta e finirà per travolgerla. Il racconto si fa man mano più intenso col precipitare degli eventi: Erzsébet accresce infatti delitti e imprudenze proprio quando si coagula intorno la congiura ai suoi danni. Un discorso a sé va fatto per Anna Darvulia, la diabolica confidente della contessa cui viene attribuita l’escogitazione dei tormenti più efferati; qui l’autrice raggiunge davvero uno stato di grazia regalandoci un ritratto a tutto tondo della perfida suggeritrice. Anna è infatti l’interfaccia di Erzsébet, il lascivo demone esteriorizzato delle sue pulsioni più inconfessabili continuamente bisbigliante la tentazione estrema: attingere l’assoluto tuffandosi nell’abisso senza fondo del male incondizionato. Adriana Assini ha colto in profondità questo aspetto complesso con una felicità di scrittura che raggiunge talvolta vertici di eccellenza. Vi si intravede la lezione di Freud, Sade e Bataille, quell’incontro con l’‘ombra’ che ci attrae e terrorizza perché la lotta più ardua è sempre il duello condotto al nostro interno, malgrado lo scontro continuo con le insidie della realtà contingente. Nella effigie della Darvulia riverberano tutte le accuse, le fantasie morbose, le diagnosi neurologiche, aventi per oggetto Erzsébet: era una sadica lucida, una narcisista criminale, un’adepta della stregoneria? L’autrice de Il bacio del diavolo non si pronuncia mai esplicitamente (condivide la tesi del complotto ordito ai danni della nobildonna ma non la assolve dalle sue colpe); certo manifesta indubbia preferenza per l’enigmatico universo femminile descritto, a fronte del prosaico machiavellismo del mondo degli uomini. Ma saranno comunque ancora una volta proprio gli uomini a porre fine a questo ‘caso’ anomalo: all’altera aristocratica, ‘murata’ in una sala del suo maniero, pare fosse lasciato in dotazione uno specchio, affinché potesse rimirarvi, giorno dopo giorno, lo sfiorire di quella bellezza sul cui altare aveva sacrificato – ebbra del culto di sé – ogni residua traccia di umanità. Luciano Pirrotta Spartaco Colelli ha voluto codificare il lavoro dell’associazione culturale “Misciagni Nuestru”, benemerita operatrice culturale nata circa 25 anni fa per iniziativa di alcuni appassionati impegnati a valorizzare il dialetto, la cultura e le tradizioni locali allo scopo di favorire le giovani generazioni ad aggregarsi per dare vita ad iniziative culturali, specie teatrali. Il volume ha la veste di un dettagliato carnet in cui sono riportati cronologicamente gli eventi che si sono succeduti in questo lasso di tempo. Dopo brevi presentazioni del Presidente, del Sindaco, dell’Assessore alla cultura, viene fatta una dettagliata descrizione del “teatro mentale” inteso come riproposizione di una realtà personalizzata. Quindi si passa alla storiografia di “Misciagni Nuestru”, desunto dal nome della cittadina Mesagne, si elencano i fondatori di questa associazione e si inizia con la presentazione di intrattenimenti ideati e redatti dagli stessi concittadini. Si dà anche spazio alla poesia, espressione ispirata alla realtà ed agli eventi. Il testo riporta un brano del dramma “Padre vuol dire”, vi sono poi altri titoli come “Lu matrimoniu scumbinatu”. Una seconda parte, con inizio nell’anno 1977, riguarda il varietà, il dramma di Ibsen “Spettri” ed una sequela di commedie, concerti, sempre come protagonisti dilettanti locali, spettacoli di varietà, pezzi classici come “Natale in casa Cupiello” di De Filippo, musica classica. Il volume poi contiene un’interessante dissertazione sul dialetto, curata dallo studioso e autore di teatro Spartaco Colelli, in quanto parte degli spettacoli viene proposto nella lingua locale, ovviamente s’è cercato di creare anche un pregevole glossario che agevoli la comprensione delle parole. Ecco allora che il termine viene analizzato nel suo etimo con dettagliata spiegazione e facendo riferimenti ad altri linguaggi di origine. Un valido testo di consultazione oltre che di informazione che il Comune di Mesagne ha sponsorizzato con la collaborazione oltre che di Spartaco Colelli anche di Enzo di Pietrangelo. Tra i vocaboli di un certo interesse si trovano “Camastri”, dal greco ‘kremaster’ (appendere) = catene metalliche a cui si appende il paiuolo sul fuoco. Ad ogni ‘capo’ si trovano gli uncini per agganciare sia la catena sia il paiuolo. “Attani”: il padre. Forse si può rintracciare un influsso del germanico ‘atta, attane’: padre. Si tratta di un termine ancora usato tra i ceti più umili. “Scrafazzatu”, dallo spagnolo descabezar = schiacciare e quindi dal dialetto brindisino ‘scrafazzari’, il termine ricorre anche nel dialetto siciliano, con lo stesso significato e grafia. Pacifico Topa 82 Il ponte sul fiume rapido di Giovanni Di Girolamo (G.D.G. Teramo maggio 2003) La poesia è palingenesi ne L’Arcobaleno della vita di Gloria Venturini (Rovigo, giugno 2003) “Il ponte sul fiume rapido”, sottotitolato “racconto lungo”,può ben definirsi specchio di un realismo che solitamente viene minimizzato o sottaciuto. Di Girolamo, invece, ha voluto dare alla sua trama quell’impronta di verismo che raggiunge gli apici specie nei momenti cruciali della passione amorosa. A prima vista quello che si evidenzia dalla lettura è un costante paragone fra il passato ed il presente una dettagliata analisi dei mutamenti che il progresso produce sia in positivo che in negativo, tale mutazione non si limita agli ambienti, ma si trasferisce anche sui personaggi per cui anche i modi di pensare si adeguano ad un modernismo talvolta estremo. Il contrasto d’amore e la pantomima amorosa sono il pasto con cui il racconto si colora, il tutto gestito con genuinità, ma con un crescendo che sbocca nella scena forte del connubio fisico. Forse quello che maggiormente colpisce in questo racconto è il verismo sessuale, frutto di una travolgente passione che l’autore fa scattare al momento opportuno in tutta la sua crudezza. Il ritorno al villaggio natio del dott. Franchini dà l’avvio ad una serie di considerazioni, reminiscenze che evidenziano le mutazioni. La scena cruciale nella quale i due si avvinghiano è la risultante di una grande passione amorosa, ne consegue qualche considerazione piuttosto fredda, cioè quella che è valido il principio del “carpe diem”, una filosofia che è andata facendosi strada col passare degli anni, ma che è in netto contrasto con i convincimenti di un’etica tradizionalistica. Di Girolamo ha voluto proporre la fase evolutiva di un proletariato che si riscatta e, pur nel trambusto di una vita dispersiva, non trascura i sentimenti. Talvolta ci si chiede se il moderno è meglio del passato, al lettore l’ardua sentenza! Pacifico Topa C’è del fosco in questi versi. È la notte dei sentieri dell’anima, a tratti squarciata da qualche barbaglio di luce. Vi insiste la Venturini, ma senz’alcuna antinomia tra sentimento e gesto. Scrivere è salvifico; è spesso dar corpo al dolore che corpo non ha. L’Autrice materializza quel male che ne ha segnato l’esistenza, lo rigetta e torna alla vita con nuovo vigore. L’Arcobaleno è allusione inconscia al placarsi delle forze ostili, ad un nuovo ciclo che inizia e ad una quiete a lungo cercata, cui si accede attraverso la corposa levità del canto. L’ossimoro è d’obbligo. In un mondo che ci ha resi servi del profitto, insensibili alle istanze dell’Io, la velleità dell’arte ci spoglia di ogni impostura, e riaffiora in noi un ardente desiderio di pienezza che la poesia appaga, facendosi veste elegante del linguaggio quotidiano. Quel lessico ormai logoro, che senza posa decliniamo da che siamo al mondo, è una smunta congerie di parole, e nessuno bada più né ad essa né al suo messaggio. Reclama così la bellezza che soltanto l’armonia del verbo poetico può darle; il verbo che celebra quel che l’umano spirito conosce e produce, lo rende vero ed uguale solo a se stesso, e vi dà un “perché”. Un esempio ne è Un’eco nella bufera: Come un’onda mi muovo nel mare della vita. Sono accarezzata dalla brezza mattutina, frustrata dalla violenza della pioggia. Vedo i tramonti ed il sorgere del sole, vago tra questi misteri della natura ed ovunque io possa essere, so di esistere, anche quando arriverò a riva per finire il mio viaggio. Non mi importa se mi infrangerò sopra uno scoglio, o tra i piedini scalzi di un bambino, so solo che ho sentito in me il tepore del giorno ed il gelo della notte, ho sentito l’eco del tuo nome perso nel vento quando la bufera infuriava, mentre la nave del nostro amore, piano piano si inabissava nel cuore del mare, ed io, piccola onda, continuo a custodire questo relitto, fino a spegnermi dolcemente in esso. Demetrio Nunnari Silentium sive Deus, Antologia poetica (Betania editrice, Caltanissetta 2004). «Credo che la preghiera sia dichiarazione di prontezza e di sintesi di un’esperienza religiosa. Dispone l’anima ad un percorso di senso e ne sacralizza l’azione che ne consegue. La poesia viene dalla vita: la testimonia» (Vincenzo Salsetta). L’antologia, che riposta le migliori liriche del concorso di poesia religiosa La Gorgone d’oro, è promossa dal centro di Cultura e Spiritualità Cristiana. Tra gli amici del Convivio figurano: Mario Giorgio Talio, Maria Stella Brancatisano, Alfonsina Campisano Cancemi, Ciro Carfora, Gianni Ianuale, Milvia Lauro, Vincenzo Macauda, Gianni Rescigno, Giovanni Caso, Mina Antonelli, Angela Aprile, Beatrice Torrente... Salvatore La Franca. Abbiamo ricevuto le seguenti opere: L’arca della pace (Editrice il Cardo, Viareggio 1990); Opere sparse (Gabrieli ed. Roma 1999); Specchiamoci (ed. Lo Faro, Roma 1984); Crimini guerra e politica (Gabrieli ed., Roma 2000). 83 Maria Pia Palmieri, la narrazione attraverso il ricordo di Non è una favola (Publisfera, Cosenza 1996) Libri ricevuti Alcuni dei seguenti testi saranno recensiti, sui prossimi numeri del Convivio Recensire il volume dal titolo “Non è una favola” di Maria Pia Palmieri è cosa piacevole, perché fa affondare il presente nel passato, presente che è sintesi ed evoluzione del passato. Il libro è rivolto ai giovani, la speranza del futuro. E per chi è a contatto con il loro mondo non può pensarla diversamente, perché i giovani di oggi saranno gli uomini che guideranno le sorti della società civile del domani. Questa è la linea direttiva del volume di Maria Pia Palmieri, così come lei stessa evidenza nella nota di presentazione. Lei, infatti, dedica la sua opera «ai ragazzi che saranno gli uomini del prossimo millennio», cioè del Duemila. «Miei cari, voi siete la speranza di chi ha vissuto anni di storia per nulla entusiasmanti». Il volume è uno spaccato di storia contemporanea, di esperienze personali, di emozioni e sentimenti, di vita vissuta ogni giorno attraverso il filo del ricordo, ma soprattutto nell’attualità dell’esistere. I personaggi sono uomini e donne reali, esistiti nella loro semplicità di esseri umani che nulla hanno preteso o pretendono di insegnare. Si tratta della memoria delle piccole cose, dei piccoli affetti, delle piccole gioie, ma anche dei tempi duri della guerra, delle sofferenze e delle privazioni. L’obiettivo dell’opera non è quello di insegnare qualcosa ai giovani, ma evidenziare come l’esperienza di vita porta alla maturità dell’individuo, attraverso la scansione del tempo della protagonista, che è l’autrice, partendo dall’infanzia vissuta a S. Giovanni in Fiore, nella provincia di Cosenza, dove vigeva solo miseria e povertà soprattutto subito dopo la seconda guerra mondiale. C’erano allora poche scuole e scarse possibilità di frequentarle, ma soprattutto erano fredde e senza riscaldamento, Tanti erano i sogni, ma pochi quelli che effettivamente si potevano realizzare. Tra i tanti personaggi dell’infanzia che emergono attraverso la memoria, si staglia la figura del padre, un padre ideale, che in tempi di miseria è visto da certa gente del paese come ‘antagonista’: «Mio padre era “ladro di tavolino”, mia madre la “padrona” che dava l’uovo fresco ai suoi figli, io la “principessa” figlia del “padrone” che succhiava il sangue degli operai» scrive l’autrice con rammarico. L’infanzia e l’adolescenza diventano il tempo delle scoperte: la morte (che incute profonde paure) e l’amore che fa dimenticare la morte. Dai ricordi familiari si passa ai ricordi degli amici e quindi agli eventi politici e militari che in quegli anni, nel ‘45, hanno segnato la storia dell’Italia. Ma la figura che forse emerge da tutta l’opera per la profondità psicologica è quella della ‘cameriera’: «analfabeta e priva di umiltà, era bravissima nel seminare zizzania. Mia madre, religiosissima, ne era succube e non saprei dire se per compassione sublime o perché si sforzasse di non trascurare il comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso. In certo senso era lei che comandava in casa. Lei che stabiliva elemosine e rimbrotti». Infine è la storia di D.P. che fa vedere lo spirito di iniziativa e di riscossa, anche economica, del buon calabrese. D.P. infatti, dopo aver perduto il padre, fa di tutto per mettere su un’impresa, ma la fortuna non è dalla sua parte. D.P. è morto all’età di 50 anni e viene ricordato come una persona onesta, tanto che alla sua morte ‘hanno pianto anche le pietre’. Il libro si fa leggere con facilità e colpisce per la passionalità che l’autrice vi infonde. Angelo Manitta Vincenzo Scaramozzino, Nerone Poesie e apologia di reato (Joker, Marzo 2003). «Come che sia, il libro offre una geografia semiotica riccamente strutturata, di cui sono spia alcune occorrenze quasi ossessive: se l’onnicomprensivo (mai piattamente filosofeggiante) ‘cose’ occorre ben 25 volte, non si possono non sottolineare le 13 occorrenze di superfici/e...» (Mauro Ferrari). Francesco de Napoli, Rocco Scotellaro oltre il sud, nel 50° anniversario della morte. Antologia letteraria (Edizioni Eva, Cassino 2003). Autobiografia di Gilbert Paraschiva Ma ‘ndo vai... (Il Pianeta dell’amore, Giardini Naxos 2003). Flora Lalli, Il vento tra i capelli Poesie (Ed. la Conca, Roma 1999). «Flora Lalli con i suoi versi essenziali ed asciutti riesce a manifestare molti elementi qualitativi che determinano non solo meditazione, recupero dei ricordi vissuti in intima essenza con se stessa, ricerca della verità e proiezione continua delle proprie reazioni agli accadimenti nel presente, potenza delle metafore, musicalità e ritmo, ma anche la coscienza di sentirsi legata umanamente e spiritualmente agli uomini, ai suoi compagni di vita e alla sua terra, culla della sua gioia e del suo tormento» (Romeo Iurescia). Antonio Conserva, Dialogo con il silenzio (Ed. Auditorium, Ceglie Messapica 2004). «Nelle sue liriche si coglie pertanto una proposta di risposta agli interrogativi della vita. Tale risposta risiede nel recupero di un’affettività pura, sincera; nel senso della sacralità della vita umana e della morte. La ricerca di Antonio Conserva, il suo sforzo di dare risposte approda, di fronte a un tempo umano scandito da violenze di ogni genere, al bisogno di affermare la centralità di Dio, del Dio cristiano, porto di pace per l’affanno di un uomo che intende liberarsi dalle brutali contingenze della realtà» (Cosimo Francesco Palmisano). Nello Tortora, Hai Visto mai? (ed. Brontolo, Salerno 2004). «Si tratta di quarantuno Racconti Umoristici già pubblicati su “Brontolo” e che hanno già ottenuto lo vostra simpatia – scrive l’autore nella breve presentazione rivolgendosi ai lettori -, la vostra approvazione e le vostre critiche favorevoli, per i quali vi prometto, per compensarvi della vostra gentile Collaborazione, di farvi sganasciare dalle risate solo quel tanto che non vi si deturpi il viso. Ciao, sono sempre Io. Nello Tortora, non ancora Cavaliere». Isabella Michela Affinito, Una raccolta di stili 7° volume (Penna d’autore, aprile 2002). Isabella Michela Affinito, Redenzione (Casa ed. Menna – Avellino luglio 2003). Isabella Michela Affinito, Luoghi non comuni (Poesie), II volume (Terzo Millennio 2002), Isabella Michela Affinito, Luoghi non comuni (Poesie), III volume (Terzo Millennio 2003). «Ancora “Luoghi non comuni” sul mio cammino di artista. Un ventaglio di parole ho aperto per far rivivere i miei luoghi consacrati all’immortalità. Apostoli, zarine, santi, soldati di Sparta e filosofi di Atene, regine, eroi e il poeta di Recanati ho incontrato in questi luoghi, di loro ho raccontato e una cellula di città ho conservato per moltiplicarla all’infinito fra queste pagine che hanno tanto viaggiato»(L’autrice). 84 64.12.56 dall’Estero ++39 ( 0965 ) 64.12.56 oppure scrivendo al seguente indirizzo: Centro Studi Universum Calabria, Via Trapezi 19, Trav. Priv. - 89060 Croce Valanidi ( Reggio Calabria ) E-mail: [email protected] E-mail: [email protected] Internet: web.ticino.com/studiuniversum Tel. ( 0965 ) 64.12. Cell. ( 328-12.44.802. Concorsi Premio nazionale “città di Mesagne” Scadenza 31 maggio 2004. L’Associazione Culturale “MISCIAGNI NUESTRU”, con il patrocinio e secondo gli intendimenti dell’Amministrazione Comunale di Mesagne (BR) – Ufficio Cultura, promuove la III edizione del Premio Nazionale di Poesia, Narrativa e Teatro in lingua nelle categorie A e B (quest’ultima riservata ai giovani di età non superiore ai 18 anni (fino a tutto il 2004) e limitatamente alle Sezioni di Poesia e Narrativa). Si partecipa con opere non vincitrici di precedenti premi: 1) nr. 1 (uno) racconto breve, di contenuto non superiore alle 3 (tre) cartelle, 2) n.ro 3 (tre) liriche, di contenuto non superiore ai 30 versi ciascuna, 3) n.ro 1 (uno) Atto Unico teatrale di carattere drammatico o brillante, di contenuto non superiore alle 20 cartelle, durata non superiore ai 30 (trenta) minuti, mai rappresentato e da non rappresentare fino a tutto ottobre c.a., devono pervenire alla Sede dell’Associazione in 8 (otto) copie, di cui solo una recante in calce le generalità complete dell’autore, indirizzo, telefono, titolo degli elaborati e dichiarazione sottoscritta di paternità degli stessi, con rinuncia ad ogni eventuale diritto. È facoltà del concorrente allegarvi curriculum e foto, mentre è richiesto, per la Sezione Narrativa e Teatro, includere un dischetto (floppy) contenente l’opera in concorso. L’assenza del floppy preclude la possibilità per i meglio classificati di essere compresi nella stampa del volume antologico in programma per l’anno successivo. A parziale copertura delle spese organizzative, si richiede un contributo di 10 (dieci) Euro per ciascuna Sezione della categoria “A”, ridotto a 5 (cinque) Euro per la fascia giovanile (cat. “B”), da far pervenire unitamente alle opere o con versamento su cc.p. n. 22206296 intestato all’Associazione Culturale “MISCIAGNI NUESTRU” – Piazza Caduti di Via D’Amelio 12-13 – 72023 MESAGNE (BR). Premi in denaro. I vincitori dei primi due premi per categoria/Sezione saranno tenuti a presenziare e ritirare di persona i premi loro attribuiti.. Per maggiori informazioni: tel 347 2349752 - 335 5285633 - 340 9701864; Sito Comune di Mesagne: www.comune.mesagne.br.it Sito Associazione organizzatrice Premio: www.misciagninuestru.it E-mail: Ufficio Cultura: [email protected]. Associazione organizzatrice Premio: [email protected] Premio internazionale “L’Attualità-Bartalucci” Scadenza: 30 giugno. L’ottava edizione dei Premio letterario è dedicata ad autori italiani e stranieri (testi con traduzione in lingua italiana a fronte). Il Concorso si articola in 5 sezioni: a) Poesia Inedita: Silloge composta da un minimo di 3 ad un massimo di 120 poesie; Poesia Edita: libro edito dal 1998 ad oggi; c) Narrativa inedita: racconti, da un minimo di 3 cartelle dattiloscritte ad un massimo di 20; se raccolta di racconti o romanzo, anche oltre le 20; d) Narrativa edita (libro edito dal 2000 ad oggi; e) Saggistica (argomenti umanistici). Gli elaborati vanno inviati entro 30 giugno 2004, in via P. L. Guerra 8, 00173, Roma, tel/fax. 06-7223365, 4 copie già ordinate in fascicolo, senza alcuna indicazione, unitamente ad una busta chiusa: all’interno vanno indicati il nome, cognome, la dichiarazione di autenticità; all’esterno della busta vanno indicati i titoli delle opere. Per la poesia edita: dati anagrafici ed indirizzo. Per ogni sezione a parziale copertura delle spese di segreteria, occorre effettuare il versamento di 15 euro sul c/c 56777006, intestato al Movimento Gaetano Salvemini. I premi consistono in coppe, targhe, medaglie e diplomi con recensioni da pubblicare. Ai finalisti verranno assegnati Diplomi di merito. I vincitori di primo e secondo premio nelle passate edizioni sono esclusi dai premi. I premi dovranno essere ritirati personalmente o tramite delega scritta. Presidente della giuria: Antonietta Mancuso. Membri: Flora Longhi, Gian Federico Brocco, segretraia: Elena Andreoli. Presidenti onorari Mara Ferlito, Augusto Giordano. Premio Teatrale “Angelo Musco” Scadenza: 30 giugno 2004. L’Accademia Internazionale “Il Convivio” e la sede delegata del Convivio di Grotte (AG), insieme all’omonima rivista e con la collaborazione della Provincia di Agrigento, bandiscono la prima edizione del premio Teatrale “Angelo Musco”, diviso in tre sezioni: 1) Opera teatrale inedita in dialetto siciliano. 2) Opera teatrale inedita in lingua italiana (anche dialettale, ma con traduzione italiana). 3) Opera teatrale edita o inedita in qualunque lingua o dialetto. Premiazione: Agrigento, in data da stabilirsi. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità, indirizzo e numero telefonico, alla Redazione de “Il Convivio”: Premio Teatrale “Angelo Musco”, Via Pietramarina–Verzella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio. È richiesto da parte dei non soci un contributo complessivo per tutte le sezioni di euro 10,00 (o moneta straniera corrispondente) da inviare in contanti. Per ulteriori: tel. 0942-986036, cell. 333-1794694, email: [email protected]. Trofeo del Bergamotto Scadenza: 21 giugno 2004. Il premio si svolge sotto l’Alto Patrocinio della Presidenza Internazionale del Centro Studi Universum di Lugano – Switzerland, dell’ A.P.T. (Azienda Promozione Turistica ) di Reggio Calabria, della XIII Circoscrizione del Comune di Reggio Calabria, e con la collaborazione del Consorzio del Bergamotto di Reggio Calabria e dell’Accademia Internazionale “Il Convivio” Catania. Il Concorso si articola in quattro sezioni: 1) Poesia in Lingua Italiana a tema “ Il Bergamotto”, 2) Poesia in vernacolo a tema “ Il Bergamotto “ 3) Poesia in lingua italiana a tema Libero, 4) Poesia in vernacolo a tema libero. È possibile partecipare con una sola poesia per sezione in 4 copie chiaramente dattiloscritte di cui solo una corredata dei dati anagrafici, indirizzo completo e numero telefonico. Ad ogni autore, per ogni sezione a cui partecipa, è richiesto un contributo di partecipazione di Euro 10.00 che va versato sul Conto Corrente Postale N° 16172397 intestato a Centro Studi Universum Calabria. Gli elaborati, con acclusa la ricevuta dell’avvenuto versamento, devono pervenire entro e non oltre il 21 Giugno 2004 al seguente indirizzo: Associazione Culturale Internazionale Centro Studi Universum Calabria, Via Trapezi 19, Trav. Priv. 89060 Croce Valanidi (Reggio Calabria ) Italia. I premi consistono in targhe, coppe, trofei, medaglie con attestati di partecipazione, Menzioni d’Onore e Segnalazioni di Merito. Non sono ammesse deleghe per i primi 3 classificati. L’esito del concorso potrà essere consultato sul nostro sito internet web.ticino.com/studiuniversum. Ulteriori informazioni si possono richiedere telefonando al Presidente Regionale del Centro Studi Universum Acc. Francesco Fiorente al numero (0965) Premio nazionale “Paestum” Scadenza: 30 giugno. Regolamento della quarantacinquesima edizione: È possibile concorrere con uno o più elaborati (poesie in lingua ed in vernacolo, novelle, racconti e saggi). Ciascuno dei componimenti partecipanti, in 5 copie chiaramente dattiloscritte, di cui una sola firmata e con l’indirizzo dell’autore, va accompagnato dalla quota di euro 15 (a titolo di parziale concorso alle spese postali, di segreteria e di organizzazione). Ogni poesia non deve superare i 40 versi ed ogni elaborato in prosa deve essere contenuto entro le 4 cartelle dattiloscritto a spazio due. Il tema è libero. Sono in palio Medaglia del Presidente della Repubblica, Medaglie d’Oro, Targhe, Trofei, Coppe, Medaglioni messi a disposizione dall’Accadenia di Paestun e da Comuni, Enti, Aziende di Credito e di soggiorno e turismo. Ogni premio è accompagnato da un’artistica pergamena di conferimento. I risultati del concorso e la cronaca della cerimonia di assegnazione del premio, oltre ad 85 essere diffusi da radio e televisioni, saranno riportati nella loro stesura integrale dalla rivista “Fiorisce un Cenacolo”, organo ufficiale dell’Accademia di Paestum. Inviare l’adesione entro la data del 30 GIUGNO 2004 all’indirizzo: ACCADEMIA DI PAESTUM (Segreteria Concorsi Letterari) 84085 MERCATO S. SEVERINO (SA). La voce dell’emigrante Scadenza: 31 luglio 2004. L’Associazione Culturale “La voce dell’emigrante” e il comune di Pratola Peligna, in collaborazione con la regione Abruzzo, con il comitato regionale emigranti abruzzesi, e sotto l’alto patrocinio del Ministero per gli italiani nel mondo e dell’ordine dei giornalisti d’Abruzzo, bandiscono la XXVIII edizione del premio internazionale emigrazione. Il premio si articola nelle seguenti sezioni: saggistica, giornalismo, narrativa edita ed inedita, poesia edita ed inedita. Tutte le sezioni hanno per oggetto l'emigrazione. Sezione saggistica: si concorre con un saggio edito in data non anteriore al 1 gennaio 1990. Sezione giornalismo: Si concorre con un articolo apparso su un quotidiano o periodico; o con un servizio televisivo su cassetta, della durata massima di un’ora; o con un servizio radiofonico su nastro, della durata massima di un’ora. Sezione narrativa edita: Si concorre con un racconto pubblicato su periodico, o con una raccolta di racconti, o con un romanzo; tutti editi in data non anteriore al 1 gennaio 1995. Sezione narrativa inedita: Si concorre con un racconto inedito di massimo venti cartelle (40.000 caratteri). Sezione poesia edita in lingua: Si concorre con una raccolta di poesie edita in data non anteriore al 1 gennaio 1995. Sezione lingua poesia inedita in lingua: Si concorre con massimo di tre poesie in lingua. Premio speciale di giornalismo sul trentennale de “La voce dell’emigrante”. Si concorre con un articolo apparso su un (quotidiano o periodico o con un servizio televisivo su cassetta; o con un servizio radiofonico su nastro. Il bando prevede anche le sezioni: pittura e fotografia. Per informazioni. Segreteria del Premio: “La Voce dell’Emigrante” vico Sportello, 10 - Cas. Post. N. 7 - 67035 Pratola Peligna (AQ) Tel-Fax 0864/53147. Premio Carta e Penna Scadenza: 30 giugno 2004. L’Associazione Culturale Carta e Penna, in collaborazione con la Federazione delle Associazioni Prader Willi italiane, ha deciso di bandire questo concorso letterario al fine di far conoscere ad un vasto pubblico la Sindrome di Prader Willi; si è anche stabilito di devolvere alla Federazione il 10% delle quote di partecipazione al concorso. Il premio si divide in due sezioni: NARRATIVA: si partecipa con un racconto (tema libero, anche edito) non superiore alle 10 cartelle (60 battute per 30 righe) POESIA: si partecipa con un massimo di tre poesie (anche edite, di max. 35 versi più il titolo). Gli autori possono partecipare ad entrambe le sezioni, versando le relative quote. Gli scrittori di lingua straniera dovranno allegare la traduzione italiana del testo. Ogni autore dovrà inviare all’associazione CARTA E PENNA Via Susa 37 - 10138 - Torino: tre copie di ogni elaborato; una copia deve contenere le complete generalità dell’autore ed essere firmata; bollettino del versamento di euro 10,00 sul c.c. postale n. 43279447 (CAB 01000 - ABI 07601) intestato a Carta e Penna, Via Susa 37 - 10138 Torino. La somma può essere allegata in contanti o con assegno non trasferibile intestato a Carta e Penna; breve curriculum, entro un massimo di 5 righe; un francobollo di posta prioritaria per la comunicazione dei risultati; Saranno premiati i primi tre classificati per ogni sezione. L’autore conserva la piena proprietà delle opere e concede all’Associazione Carta e Penna il diritto di pubblicarle senza richiedere alcun compenso. Per ogni altra informazione: [email protected] - Tel.: 3392543034 Concorso Zacem Scadenza: 30 luglio 2004. IL concorso è diviso in 7 sezioni. SEZIONE A: Il concorrente dovrà inviare una poesia in lingua italiana a tema libero di non oltre 36 versi. SEZIONE B Il concorrente dovrà inviare una poesia in vernacolo completa di traduzione in lingua a tema libero di non oltre 36 versi. SEZIONE C Il concorrente dovrà inviare una poesia in lingua italiana a tema GLI ANZIANI di non oltre 36 versi. SEZIONE D Il concorrente dovrà inviare tre haiku a tema libero Le poesie, in sette copie, dovranno essere inviate insieme ad una busta chiusa contenente una ulteriore copia firmata con le generalità dell’autore, l’indirizzo di posta elettronica se possibile e qualsiasi notizia utile. SEZIONE E Riservata a concorrenti residenti all’estero. (Uno speciale bando verrà inviato agli interessati). SEZIONE F Il concorrente dovrà inviare un volume edito di poesia in italiano in cinque copie accompagnate dalle generalità dell’autore, l’indirizzo di posta elettronica se possibile, e qualsiasi notizia utile. SEZIONE G Il concorrente dovrà inviare un volume edito di poesia in vernacolo in cinque copie accompagnate dalle generalità dell’autore, l’indirizzo di posta elettronica se possibile, e qualsiasi notizia utile. (I volumi dell’una e dell’altra sezione verranno, dopo la valutazione della giuria, donati e inseriti nella Biblioteca dell’Associazione Anziani Vadese e dell’Associazione Culturale Savonese “ZACEM” in modo da essere letti da molte persone. I volumi ancora eccedenti saranno donati, se l’autore sarà d’accordo, ad autorità e persone meritevoli durante le premiazioni dei concorsi banditi da ZACEM.) PREMIAZIONE: dal I al IV classificato per la sezione A è previsto l’inserimento delle liriche su di una piastrella decorata che sarà apposta a tempo indeterminato sulla parte esterna dell’edificio “MARINELLA” nel pieno centro dei giardini a mare della località di Vado Ligure (SV) esposta al passaggio e quindi alla lettura di innumerevoli persone. Tre piastrelle sono riservate per i vincitori delle sezioni B, C, D, E. I successivi due classificati per ogni sezione riceveranno (solo se presenti alla premiazione) un’opera artistica ed un volume. L’Associazione Culturale “ZACEM” si riserva di pubblicare l’antologia del premio con le liriche vincitrici e meritevoli. Le opere dovranno essere inviate entro il 30 luglio 2004 presso la sede dell’Associazione (cui si possono chiedere anche informazioni) in via Pietro Scotti 4/4 - 17100 Savona (tel. 019- 822541; e-mail: [email protected]; cell. 3890839771) accom- Concorso Riviera Adriatica Scadenza 15 luglio 2004. Il circolo culturale Carlo Antognini di Ancona, in collaborazione con gli assessorati ai Beni e alle attività culturali e alla Pubblica istruzione del Comune, nonché con la II circoscrizione, indice il XX concorso nazionale di poesia e narrativa “Riviera Adriatica”. Il concorso è diviso in 3 sezioni: sezione A: poesie inedite in lingua italiana; sezione B: racconto inedito in lingua italiana (massimo 7 cartelle, 30 righe per pagina); sezione C: poesie in lingua italiana per gli alunni della scuola elementare, media e superiore. I lavori, massimo 3 poesie o 2 racconti per ogni concorrente, dovranno essere inviati in quattro copie dattiloscritte, di cui una sola firmata e completa di indirizzo e numero telefonico. Per la sezione C occorre indicare se si partecipa singolarmente o con la classe, il nome della scuola e classe frequentata ed eventuali insegnanti che propongono i lavori. Gli elaborati dovranno essere inviati entro il 15 luglio 2004 presso il circolo culturale Carlo Antognini, piazzale Camerino 3/a, 60126 Ancona, tel. 07142028 e 071891023. Quota di partecipazione: 15 euro per ogni sezione, da inviare tramite vaglia postale o in contanti con gli elaborati. La sezione C è gratuita, così come la partecipazione di tutti coloro che non hanno ancora compiuto i 20 anni (indicare la data di nascita). Indicare sulla busta la sezione alla quale si vuole partecipare. Tutti i lavori devono avere la scritta: produzione propria inedita. Le poesie scritte cambiando le parole di altre poesie verranno cestinate. Premi: sezione A euro 260.00, coppa o targa. Sezione B euro 260, coppa o targa. Sezione C coppe, targhe, medaglie, libri. Verrà inoltre premiata con il trofeo “Il grido del gabbiano” una personalità marchigiana che si è distinta per la sua attività negli ultimi anni. La premiazione sarà nel novembre 2004, nel giorno e luogo da destinarsi. I vincitori dei primi premi della precedente edizione potranno concorrere in una diversa sezione. I lavori non verranno restituiti e il giudizio della giuria è insindacabile. L’esito sarà reso noto a tutti. 86 zella, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. È richiesto invece da parte dei non sociun contributo complessivo per tutte le sezioni di euro 10,00 (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Per ulteriori informazioni: tel. 0942-986036, cell. 3331794694, e-mail: [email protected]. pagnate dalla cifra di EURO 18,00 per la partecipazione a una o DUE SEZIONI del Concorso più euro 5,00 per ogni eventuale altra sezione a cui si intendesse partecipare. Premio Agorà Scadenza: 31 Agosto 2004. L’Associazione Culturale Megarese di Augusta, bandisce il Premio Agorà. A) poesia, B) racconto a tema libero riservati a poeti italiani e stranieri; C) Racconto a tema libero riservato ad autori residenti nel territorio di Augusta; D) Nuovi linguaggi della poesia riservato a poeti augustani, italiani e stranieri che propongono opere innovative. Le poesie max 25 versi. I racconti max tre cartelle. Si può partecipare con un solo lavoro inedito anche in più sezioni. Le opere, redatte in sei copie, solo una con generalità, dovranno essere inoltrate presso: l’Ass. Cult. Megarese c/o Giarrusso Carmelo, via Roma 164 - 96011 Augusta (SR), unitamente alla quota di partecipazione di Euro 10 per ogni opera. Premio Città d’arte Cassino Scadenza 31 ottobre. L’associazione Astra indice i seguenti premi: 8° premio letterario nazionale “Città d’arte Cassino” (Poesia, Romanzo, narrativa, saggistica a tema libero); Premio letterario internazionale San Benedetto (Poesia dedicata al Santo o all’Abbazia di Montecassino). Per informazioni scrivere al Gazzettino del Lazio - Piazza De Gasperi n. 41 - 03043 Cassino - Tel. 338 7931001 - 338 6316883. Centro studi Agorà Scadenza: 31 ottobre 2004. Il centro studi Agorà bandisce il 6° concorso nazionale “Premio Ungaretti” per la lingua italiana e in dialetto e secondo lo stile “haiku”. Per le opere in dialetto, ad eccezione di quelle in napoletano, è opportuno inviare la traduzione. Si può partecipare con opere già edite che hanno vinto in altri concorsi. Inviare tre poesie (max. 30 versi), in tre copie, di cui una con generalità, a: Piero Borgo, Via Zara 45 - 80011 Acerra (NA) telefax. 081- 8850793. Quota d’iscrizione: 10 euro. Per la sezione giovani (max 25 anni), dedicata alla poetessa greca Saffo, la quota è di 5 euro. Premi: targhe e attestati. Premio Eraldo Miscia Scadenza: 31 agosto. Si partecipa con un racconto di massimo 20 cartelle dattiloscritte, in sette copie di cui una con generalità. Sono previsti premi in denaro. Per maggiori informazioni: Premio Eraldo Miscia, Via S. Spirito, 65 – 66034 Lanciano (CH). Tel e fax: 0872-715448 Premio Cuore di Sicilia Scadenza: 31 agosto. L’associazione Astra indice i seguenti premi: 8° premio Cuore di Sicilia (Romanzo inedito o edito, Narrativa, Poesia); 4° premio letterario Salvatore Quasimodo (Poesia edita o inedita, una lettera d’amore); 6° premio Le zolfare di Sicilia (Un racconto di vita vissuta inedito o edito). Per richiesta dei bandi: Associazione Culturale ASTRA - Casella Postale n. 77 - 03043 Cassino Tel. 0776 367055 - Fax 0776 367859. Premio Internazionale Publio Virgilio Marone Scadenza: 30 dicembre 2004. L’Accademia Internazionale “Il Convivio”, insieme all’omonima rivista e con la collaborazione del Comune di Castiglione di Sicilia e del “Parco dell’Etna” bandisce la seconda edizione del premio “Publio Virgilio Marone”, diviso in 4 sezioni: 1) Una poesia inedita sul tema: l’amore nei suoi molteplici aspetti. 2) Poesia inedita a tema libero che utilizzi una struttura metrica classica (endecasillabo, settenario ecc. ecc.) o forme tradizionali (sonetto, canzone, ecc. ecc. con rime e strofe). 3) Silloge di poesie senza limiti di versi, ma che comprenda almeno 10 liriche. 4) Poesia in qualunque dialetto europeo con traduzione nella corrispettiva lingua neolatina. Premiazione: Roma, primavera 2005. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità, indirizzo e numero telefonico, alla Redazione de “Il Convivio”: Premio “Publio Virgilio Marone”, Via Pietramarina–Verzella, 66 95012 Castiglione di Sicilia (CT) - Italia. La partecipazione al concorso è gratuita per i soci dell’Accademia Il Convivio È richiesto da parte dei non soci un contributo complessivo per tutte le sezioni di euro 10,00 (o moneta estera corrispondente) da inviare in contanti. Per ulteriori informazioni: tel. 0942-986036, cell. 3331794694, e-mail: [email protected] Premio Letterario La Fonte - Città di Caserta Scadenza: 11 settembre 2004. Il Movimento di Cultura Fulvio Nuvolone in collaborazione con SPRING Edizioni e col Centro Studi ACQUAVIVA, bandisce la XII Edizione del Premio Letterario Nazionale di Poesia e Giornalismo “La Fonte - Città di Caserta”. Il Premio si articola nei seguenti settori: Letterario, Giornalismo, Giovani. E nelle seguenti sezioni: A - Poesia inedita in Lingua e/o in Vernacolo. B - Narrativa inedita. C - Romanzi gialli e Fiabe. D - Teatro e Saggistica inedita. E - Sezione Giovani. F Giornalismo. Quota di Partecipazione: Per le Sezioni A, B, C, D, la quota è di Euro 15, 00. È ammesso la partecipazione a più sezioni; Per le sezioni E, F, nessuna quota di partecipazione. Ai soci del Movimento di Cultura “Fulvio Nuvolone” e del Centro Studi ACQUAVIVA non è richiesta quota di partecipazione. Il contributo di adesione si potrà versare sul c.c.p. n. 16475816 Intestato a Movimento di Cultura “Fulvio Nuvolone” Via Tevere, 18 - 81100 Caserta. Spedire le opere concorrenti a tutte le sezioni entro l’11 settembre 2004 a Movimento di Cultura “Fulvio Nuvolone” Via Tevere, 18 - 81100 Caserta. Allegare copia del bollettino di versamento e scheda di partecipazione. Premi vari, anche in denaro. Per maggiori informazioni: tel. 0823-327266. email: [email protected] Premio “Santa Maria della Luce” Scadenza: 30 dicembre 2004. Il Convivio di Mattinata (FG), sede delegata dell’Accademia Internazionale Il Convivio, con la collaborazione del Comune di Mattinata Assessorato alla cultura, indice la I° edizione del concorso di poesia a tema religioso, “Santa Maria della Luce”. Ad esso possono partecipare autori italiani e stranieri di tutte le religioni. Il concorso si divide in tre sezioni. 1) Sezione poesia religiosa in lingua italiana, inedita o edita. 2) Sezione poesia religiosa in dialetto, inedita o edita con traduzione italiana. 3) Sezione poesia religiosa riservata agli studenti. Le poesie devono essere di massimo 40 versi e si possono inviare fino a 3 poesie. Le opere sono da inviare in 5 copie, di cui una con i propri dati ed indirizzo, un breve curriculum e la dichiarazione che l’opera è di propria creazione. Quota di partecipazione: 5,00 € a sezione da inviare in contanti insieme alle opere. Gratis per i soci dell’Accademia Il Convivio e per gli studenti che partecipano tramite scuola. Premi: Coppe, targhe e diplomi ai primi tre classi- Premio Fra Urbano della Motta-Natale 2004 Scadenza: 15 ottobre 2004. Promulgato dall’Accademia Internazionale “Il Convivio”, insieme all’omonima rivista e con la sponsorizzazione del Comune di Motta Camastra è diviso in 3 sezioni: 1) Poesia inedita in lingua italiana con tema il Natale nei suoi svariati aspetti. 2) Poesia inedita sul Natale in lingua dialettale. 3) Le due sezioni precedenti per gli studenti delle scuole primarie e secondarie. Premiazione: Motta Camastra, in provincia di Messina, durante il periodo natalizio. Si può partecipare a più sezioni, ma con una sola opera per sezione, dichiarata di propria esclusiva creazione. Gli elaborati vanno inviati in cinque copie, di cui una con generalità, indirizzo e numero telefonico, alla Redazione de “Il Convivio”: Premio “Natale 2004”, Via Pietramarina–Ver- 87 ficati per sezione. Le opere vincitrici e selezionate potranno essere pubblicate su un’antologia del premio, sulla rivista “Il Convivio” e sul sito Il Convivio di Mattinata. Le opere e la quota devono essere inviate a: Premio Santa Maria della Luce c/o Accademia Internazionale Il Convivio, Via Pietramarina-Verzella 66, 95012 Castiglione di Sicilia- CT. Per ulteriori informazioni: Maria Cristina La Torre, via Madonna Incoronata 103 - 71030 Mattinata (FG) - tel. 0884/550503; e-mail: [email protected], http://web.tiscali.it/ilconviviomattinata; Angelo Manitta c/o Il Convivio, Via Pietramarina-Verzella 66 - 95012 Castiglione di Sicilia (CT), tel.0942-986036, [email protected], http://web.tiscalinet.it/ilconvivio l’ordine progressivo di consegna. I premi consisteranno: 1° premio €. 300,00; 2° premio €. 150,00; 3° premio €. 100,00; 4° premio €. 100,00; 5° premio €. 100,00. Delle opere vincitrici, le prime tre classificate resteranno in dotazione al Comune, le opere 4° e 5° Classificate resteranno in dotazione dell’Accademia Internazionale Il Convivio, sia le une che le altre per la creazione di una pinacoteca. Oltre ai primi cinque premiati, saranno assegnate n. 3 segnalazioni da parte della giuria. Per ulteriori informazioni: Accademia Internazionale Il Convivio: tel: 0942-986036; cell. 3331794694 e-mail: [email protected] Delegata del Convivio per Messina e provincia: Flavia Vizzari. Tel: 090671391; cell. 3289180850e-mail: [email protected] Agorà centro studi Scadenza 31 dicembre. Il centro studi Agorà indice la quarta edizione del premio “Franz Anton Mesmer” sui fenomini paranormali. Sono previsti tre sezioni: 1° sez: racconto di una propria o altrui esperienza realtiva ad un evento paranormale, max. 10 cartelle; 2° sezione: la partecipazione di un edito; 3° sezione: saggioricerca. Nella prima sezione occorre inviare 3 copie, una sola firmata, per la seconda un solo libro mentre per la terza, che non deve superare le 30 cartelle, 3 copie, di cui una firmata. La quota per ogni sezione è di 10 euro da inviare esclusivamente in contanti. È previsto un premio giovani, dedicato a “Peter Kolosimo”. La quota giovane è di 5 euro. Per informazioni: Pietro Borgo, via Zara 45 – 80011 Acerra (NA), tel-fax. 081-8850793. Premio d’Arte figurativa Filippo Juvara L’Accademia Internazionale Il Convivio e la Delegazione del Convivio di Messina organizzano la 1° Edizione del Premio d’Arte Figurativa “Filippo Juvara”. Il premio è diviso in due sezioni a) Pittura, b) Scultura. Esso prevede una preselezione ed una classifica finale. Si partecipa alla preselezione, inviando le foto ben chiare, di tre diverse opere a colori con indicato sul retro in maniera leggibile il nome dell’artista, il suo indirizzo e recapito telefonico, titolo e dimensione dell’opera, che se pittorica non deve superare i cm. 50x70, se plastica i kg18, tecnica e prezzo in euro. Le fotografie devono giungere presso la sede dell’Accademia Internazionale Il Convivio, Premio “Filippo Juvara”, Via Pietramarina 66 – 96012 Castiglione di Sicilia (CT), entro il 31 ottobre 2004. Per partecipare al Premio bisogna inviare un contributo di adesione di € 48,00 in contanti, o tramite assegno bancario o da versare sul C.C.P. n° 12939971, intestato a Conti Vincenza, Via Pietramarina, 66 - 95012 Castiglione di Sicilia, per diritti di segreteria ed inse-rimento gratuito nella pubblicazione antologica inbianco e nero del Premio Juvara. Al fine dell’inserimento dell’artista nell’opera antologica è necessario far pervenire con l’adesione un proprio testo biografico e critico con note di curriculum e quotazioni. La mancanza di questi dati implica la possibilità di esclusione dalla partecipazione al Premio. Dopo un’attenta preselezione, saranno scelti gli artisti più meritevoli, i quali saranno successivamente invitati a partecipare, con le tre loro opere, (non superiori come dimensioni a cm 50x70), ad una esposizione finale, che si terrà nel prestigioso Salone degli Specchi della Provincia Regionale della città di Messina e che avrà termine il giorno della Premiazione, da svolgersi la terza domenica di marzo del 2005. Le opere finaliste dovranno pervenire (dopo esplicita richiesta da parte dell’ente organizzatore e dopo la preselezione fatta tramite le foto) presso la delegazione del Convivio di Messina, in via G. B. Caruso, 3 – Camaro Inferiore – 98149 Messina, entro e non oltre il 15 febbraio 2005, e dovranno essere decorosamente incorniciate. Le opere possono essere consegnate personalmente o possono essere spedite a mezzo posta celere o corriere e viaggiano a spese e rischio del partecipante. I Premi consistono in: Trofeo Il Convivio, coppe targhe e diplomi, pubblicazione in antrologia, mostra nella città di Messina. Per ulteriori informazioni: Accademia Internazionale Il Convivio: tel: 0942986036; cell. 333-1794694 e-mail: [email protected] Delegata del Convivio per Messina e provincia: Flavia Vizzari. Tel: 090671391; cell. 328-9180850. R.A.L.F.I. ricerche artistiche e letterarie Lo studio Ralfi bandisce la 21ª edizione del premio Phintia 2002. Il premio è diviso in tre sezioni: a) Poesia in lingua italiana; b) Poesia in vernacolo (tutti i dialetti italiani); c) Narrativa (racconto, silloge di poesie e di racconti, romanzi, componimenti musicali, canzoni, filastrocche, inni, ecc.). La partecipazione è aperta a tutti, italiani e stranieri di ogni età. Le opere possono essere edite ed inedite, senza limite di lunghezza e il numero delle opere da presentare è illimitato. Premi: coppe, targhe, trofei e medaglie. La giuria menzionerà inoltre 20 autori tra coloro che si sono distinti, pur non essendo stati premiati. Per informazioni: Studio Ralfi, via Salso, trav. C, 65 – 92027 Licata (AG). Tel. 0922-804265; e-mail: [email protected] Concorso di Poesia “Val di Magra - R. Micheloni” Il premio è articolato in cinque edizioni: A - Poesia Singola; B – Raccolta di Poesie; C - Libro edito di Poesia; D - Narrativa e Saggistica; E - Poesia religiosa. Il vincitore della raccolta di poesie sarà premiato con la pubblicazione della silloge. Il primo classificato delle sez. A, C, D, sarà premiato con 500,00 euro. Il primo classificato sez. E - Poesia Religiosa, sarà premiato con un Trofeo. Per la richiesta del bando di concorso e per ulteriori informazioni scrivere alla Segreteria del Premio “Val di Magra - R. Micheloni”, C.P. 63 -54011 Aulla (MS). Con le stesse modalità è possibile partecipate al Concorso “Val di Vara - Alessandra Marziale”. Gli interessati possono richiedere il bando alla Segreteria del Premio Val di Vara, C.P. 42 -19020 Piano di Follo(SP). Per ulteriori informazioni telefonare ai seguenti numeri: 0187736696 - 0187733536. Estemporanea di pittura a Motta Camastra Djanira Pio, A cidade dos sonhos, (Via 7 Editorial, Brasile 2003). «A contista e poetisa Djanira Pio, entrega se à literatura com a mais intensa paixão. Funde a sensibilidade com a capacidade de intuir e, mansamente, revela-nos os dramas do ser humano. È uma intelectual que vem demonstrando sua força de criação». Pietro Guarnotta, Varie ed eventuali, Poesia e Prosa (Collana editorinproprio, Catania 2003). Si tratta di un volume di poesie e prose composte dall’autore negli ultimi quattro anni. Esso è formato da una silloge di poesie: “Amo”, da due commedie: “Fausto” e “La stanza dei ricordi” e dal racconto “Lo zingaro”. Prima domenica di Agosto. Organizza l’Accademia internazionale, con la sponsorizzazione del comune di Motta Camastra. Il tema del concorso è libero, purché i soggetti siano compresi nell’ambito della città di Motta Camastra, suoi dintorni e frazioni: le gole dell’Alcantara, le rocce, il paesaggio urbano, i monumenti, i personaggi, gli ambienti. La quota di iscrizione è fissata in €. 12,00 (dodici) per ogni artista in gara. Ogni artista può presentare una sola opera, la cui tela (dim. min. 40x50) sarà timbrata e vidimata dalle ore 8,00 alle ore 10,30 di domenica 1 Agosto 2004 presso il Municipio. La consegna della tela dovrà avvenire entro le 20,00 dello stesso giorno 1 agosto 2004. Le opere in concorso saranno esposte in Piazza Verga (o locale apposito messo a disposizione dal Comune di Motta Camastra) dal 2/08/03 al 27/08/03, secondo 88 Franco Clary Tempo ritrovato, olio su tela, cm 50x60 Volto di luna, olio su tela, cm 80x100 Finestra illuminata, olio su tela, cm 40x60 L’attesa, olio su tela, cm 80x100