ANNO XVII NUMERO 215 - PAG 3
MARTEDÌ 11 SETTEMBRE 2012
EDITORIALI
L’aiuto di Draghi e il piano inclinato della perdita di sovranità
Il Guatemala ringrazia
QUELLA DELLA BCE È UNA SVOLTA, MA NON AVER POTUTO IMITARE IN TUTTO E PER TUTTO LA FED HA LE SUE CONSEGUENZE
L’
incontro di oggi a Francoforte tra il primo ministro greco, Antonis Samaras, e
il presidente della Banca cen-
L’Anm, bontà sua, si accorge che Ingroia fa politica (e pure male)
L
ì dove s’era soltanto affacciato il Csm
– di cui pure Giorgio Napolitano è formalmente il capo – irrompe infine l’Anm,
associazione corporativa dei togati con
una censura da urlo: “Tutti i magistrati, e
soprattutto quelli che svolgono indagini
delicatissime, devono astenersi da comportamenti che possono offuscare la loro
immagine di imparzialità, cioè da comportamenti politici. Con il suo invito a
cambiare la classe dirigente del paese, Ingroia si è spinto a fare un’affermazione
che ha oggettivamente un contenuto politico”; con l’effetto di “appannare” la sua
immagine di “imparzialità”. Non male come censura, per il magistrato palermitano
prestato al ruolo di gran moralizzatore da
ogni palco raggiungibile, non ultimo quello congressuale dei Comunisti italiani;
non male, come sberla, per il capofila
d’un gruppo di pressione che intorno alla mitologia della trattativa stato-mafia ha
procurato uno scontro istituzionale senza
precedenti con il Quirinale. Ad Antonio
Ingroia e al suo collega Nino Di Matteo, il
presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli contesta un’oggettiva intelligenza (silenzio assenso) con gli assatanati del Fatto nel corso d’una “manifestazione plateale di dissenso nei confronti del capo dello stato”.
Meglio tardi che mai. E adesso Travaglio
e i suoi vadano pure in cerca di fantasmatiche telefonate tra Napolitano e Sabelli,
se hanno altro tempo da gettar via.
Manhattan, Gerusalemme, Nairobi
Cosa c’entra la guerra in Somalia con il mondo post 11 settembre
E’
l’undicesimo anniversario dell’attacco dell’11 settembre sul suolo
americano e in Somalia sta succedendo
una rivoluzione politico-militare che
c’entra molto (no, non è la notizia di apertura per i telegiornali, ma è importante
lo stesso). Ieri a Mogadiscio il Parlamento ha votato per un nuovo presidente, come primo passo verso un governo vero.
Il Parlamento è stato aperto a fine agosto
dentro il perimetro fortificato dell’aeroporto della capitale, dove un giorno apriranno anche le sedi diplomatiche occidentali, perché è la zona più sicura della città dagli attacchi di Shabaab, il gruppo africano che ha giurato fedeltà a Osama bin Laden e ai suoi successori. Si tratta comunque di un passo da gigante rispetto a prima: l’assemblea precedente
si riuniva in un silos per il grano vicino
al confine – con sedie portate da Amisom
– in modo che i deputati potessero scappare in fretta in caso di minacce. Questo
cambiamento è reso possibile dalla vittoria dei soldati dell’Unione africana contro Shabaab dopo uno stallo che è sembrato durare un’eternità.
Shabaab è stato cacciato da Mogadiscio e si è rintanato nel sud, dove finisce
sempre per rifugiarsi – aveva fatto così
anche nel 2007, quando era inseguito dalle truppe dell’Etiopia. Si è trincerato a
Kismayo, un porto in posizione invidiabile sull’Oceano indiano che garantisce ai
fanatici armati un milione di dollari di
ricavi ogni mese. In questi giorni è in corso una furiosa battaglia. L’esercito del
Kenya è avanzato da sud e tenta di sloggiare Shabaab anche dalla sua roccaforte numero due. Le navi keniane bombardano dal mare. I capi del movimento, secondo notizie d’intelligence, si sono incontrati poco lontano con emissari di al
Qaida – venuti da fuori – per decidere cosa fare nell’ora della disperazione.
Il Kenya in guerra riconosce di essere aiutato da Israele, che interviene con
consiglieri militari ed equipaggiamento
contro quelli che Netanyahu nel 2011 definì “gli stessi nemici, sia per Israele sia
per il Kenya”. Al tempo il premier israeliano promise di formare con i paesi dell’Africa orientale una coalizione regionale contro il fondamentalismo, che sta
funzionando. La minaccia è globale, da
Manhattan a Mogadiscio, e richiede una
risposta altrettanto globale, poca timidezza e buona inventiva nelle alleanze.
Troppa retorica sulla corruzione
Dubbi sulle cause di un’economia ferma al di là della mazzetta
P
aola Severino, ministro della Giustizia,
ha promesso lotta dura alla corruzione. Non è solo una missione etica, perché
– ha detto a Cernobbio raccogliendo il
plauso della platea di manager, imprenditori e ministri – il malaffare toglie tra il 2
e il 4 per cento del reddito e rappresenta
una tassa del 20 per cento sugli investimenti esteri. L’Italia è tra i paesi più litigiosi, ai primi posti per il peso del pubblico marciume, il peggiore in assoluto per la
lentezza della giustizia civile. Tutti lacci e
lacciuoli terribili che impediscono lo sviluppo e ritardano la modernizzazione. I
giornali ieri erano pieni di grafici e tabelle impressionanti, anche se non nuovi. E’
bene che la “questione morale” venga vista anche come “questione civile” e non
solo in termini moralistici. Tuttavia il circo mediatico ha ancora una volta saltato
il fosso alla ricerca del grande colpevole
per il grande male che affligge il paese.
Così, giù a scrivere che i capitali stranieri
non vengono in Italia perché non vogliono
pagare le tangenti che invece versano volentieri in Cina, India, Arabia Saudita e
Brasile. O che non si aprono fabbriche per
paura di essere denunciati (e allora dove
la class action è pratica comune come negli Stati Uniti?). E’ vero che la memoria
storica non è patrimonio universale, tuttavia bisognerebbe farsi qualche semplice
domanda. La giustizia era più rapida negli
anni 60? C’era più sicurezza negli anni 70
quando nelle linee di Mirafiori regnava la
P38? Il paese era più stabile quando rapivano Aldo Moro? Negli anni 80 i capitali
arrivavano a frotte, la valuta si rafforzava
e Bettino Craxi voleva introdurre la lira
pesante: allora c’era meno corruzione?
Può darsi che Mani pulite fosse un complotto della Cia, ma se il buon senso c’è,
sta nascosto per paura del senso comune.
L’Italia si è fermata vent’anni fa, possiamo
dire che non si è più ripresa dalla caduta
della lira nel 1992 né dalla traumatica fine
della cosiddetta Prima Repubblica. Con
qualche breve eccezione, l’economia ristagna da allora e certo non per le politiche
di austerità, visto che il debito pubblico
era al 117 per cento del pil e oggi supera
quota 120. Con l’euro le cose non sono migliorate. Infine è arrivato il collasso del
2008. Tra i tanti dati diffusi a Cernobbio ce
n’è uno davvero impressionante: dal 1998,
anno in cui è stato fissato il cambio tra lira ed euro, il costo del lavoro è aumentato del 40 per cento, quattro volte più della media europea, mentre in Germania è
diminuito. Se i capitali non arrivano è perché investire in Italia non rende nulla. Le
società quotate a Milano, dal crac Lehman, hanno perso due terzi del loro valore, nelle altre Borse oggi valgono più di
prima. Forse è qui, in questo divario, la
causa di fondo della stagnazione. Chiaro,
senza trascurare i giudici troppo lenti e le
tangenti troppo esose.
L’afasia dei liberal sulla bomba iraniana
Keller e gli altri si rifugiano nella noncuranza e aspettano l’inevitabile
D
IL FOGLIO QUOTIDIANO
alle colonne del New York Times, che
ha diretto per molti anni, Bill Keller
ieri ha vergato un editoriale per sostenere che è meglio un Iran nuclearizzato a
una guerra preventiva contro Teheran e
che in ogni caso Teheran con la bomba all’uranio non sarà la fine del mondo. Dieci anni fa Keller si arruolò in quella nobile pattuglia di liberal che avrebbe sostenuto l’invasione dell’Iraq (assieme a
Paul Berman, Christopher Hitchens,
George Packer, Kenneth Pollack, Thomas
Friedman, Kanan Makiya e altri). Oggi
però, sulla bomba atomica iraniana, la
stessa intellighenzia vive in una pericolosa afasia. Si fa portavoce di una sorta di
fatalismo in cui abbiamo tutto da perdere,
quello secondo il quale l’Iran diventerà in
ogni caso nucleare e che comunque si deve tenere ferma la mano dello stato ebraico, che potrebbe trascinarci tutti nell’abisso in nome dell’Olocausto. Oppure i liberal si fanno portavoci di bizzarre teorie.
Una in particolare campeggiava nel
numero di agosto di Foreign Affairs, titolo: “Perché l’Iran dovrebbe avere l’atomica”. L’autore è Kenneth Waltz, fondatore
della scuola neorealista nella teoria delle relazioni internazionali. Waltz sostiene
che il problema in medio oriente è l’arsenale nucleare di Israele, che deve essere bilanciato da un altro potere, in questo
caso l’Iran. In secondo luogo, Waltz ritiene che tale equilibrio atomico possa intrinsecamente stabilizzare la situazione,
in tal modo riducendo, non aumentando,
il rischio di conflitti. Siamo al delirio. Circola questa strana sensazione, che è come un rumore di fondo, per cui l’occidente non se la senta di imbarcarsi in una
nuova spedizione preventiva in medio
oriente e che prima o poi Teheran si doterà della bomba nucleare. Se Saddam
Hussein era una minaccia per Israele e
per gli Stati Uniti, immaginiamoci cosa
possa diventare una teocrazia famelica di
egemonia e dotata di armi di distruzione
di massa. Dan Margalit, giornalista moderato fra i più noti d’Israele, ha scritto ieri che i liberal, “fra la scelta se attaccare o accettare un Iran nucleare, preferiscono sedersi e non fare niente”. Un po’
troppo poco come deterrenza contro il
messianismo degli ayatollah.
PENNSYLVANIA AVENUE
DOMENICO LOMBARDI
DI
trale europea, Mario Draghi, testimonia il
ruolo sempre più centrale dell’Eurotower.
Dopo l’incontro di ieri con i rappresentanti della Troika – durante il quale i rappresentanti di Ue, Bce e Fondo monetario internazionale avrebbero espresso dubbi su
alcune misure, del valore di 2,2 miliardi di
euro, relative al settore pubblico, della sanità e della difesa, contenute nel pacchetto approntato dal governo di Atene – facendo leva sull’importante decisione della scorsa settimana, con la quale l’Eurotower ha rinunciato alla condizione di creditore privilegiato nell’ambito delle operazioni Omt (Outright Monetary Transactions), Samaras chiederà a Draghi una rinuncia simmetrica a valere anche sui titoli greci che la Bce ha in portafoglio. Proprio un atteggiamento più conciliante della Bce nei confronti di Atene spianerebbe
la strada a una nuova ristrutturazione del
debito greco. Tale ristrutturazione rappresenta una delle condizioni necessarie per
il rilancio dell’economia e, nell’immediato, favorirebbe un nuovo pieno coinvolgimento del Fmi nella partita ellenica. Se il
vertice di oggi non sarà risolutivo sulla
questione, a qualche giorno dalla decisione di Draghi di introdurre l’Omt, è invece
possibile un’analisi più accurata delle implicazioni di una richiesta di assistenza da
parte italiana.
La piattaforma tecnico-istituzionale
che è stata approntata da Francoforte è
del tutto inedita, ma la sua apparente
complessità rischia di celare alcuni
aspetti problematici che pure presenta.
Procediamo con ordine. L’acquisto di soli titoli a breve rischia di creare qualche
problema alla gestione del nostro debito
pubblico. Infatti una delle ragioni per cui
l’Italia è stata in grado di resistere a pressioni speculative senza precedenti nella
storia recente sta proprio nella durata
media del nostro debito che si aggira sui
7 anni. E’ evidente che un programma
Omt sull’Italia, presubilmente protratto
nel tempo, tenderà a far ridurre la sca-
denza media del debito poiché le nuove
emissioni si concentreranno sui titoli acquistabili dalla Bce che quoteranno rendimenti inferiori. Per converso, per quelli a più lunga scadenza, il Tesoro dovrà
pagare un premio che ne renderà più costosa l’emissione.
La scelta della Bce, inoltre, è andata in
direzione opposta a quella della Federal
Reserve americana che, anzi, ha addirittura privilegiato l’acquisto di titoli a lunga scadenza con la recente operazione
“twist”. In realtà, per un paese ad alto debito, includere negli acquisti anche titoli
a lungo termine non altererebbe l’incentivo a mantenere gli impegni. Se l’Italia
rinnegasse tali impegni e la Bce terminasse i suoi acquisti, gli spread salirebbero
istantaneamente portando i rendimenti
dei titoli a livelli considerevolmente più
elevati. Data la mole di debito da rifinanziare, l’incentivo a “rigar dritto” risulterebbe comunque significativo. Per converso nella versione attuale, poiché il programma di assistenza, se attivato, non
sarà di breve durata, la scadenza media
del debito verrà compressa, creando paradossalmente una condizione di maggiore vulnerabilità nel caso di futuri attacchi
speculativi. Ciò rischia di rendere l’Italia
sempre più dipendente da forme di assistenza sovranazionale e da quei paesi,
leggi Germania, che tali istituzioni influenzano pesantemente.
Per quanto riguarda il ruolo del Fondo
salva stati (oggi è Efsf, domani sarà sostituito dall’Esm) in questo schema di intervento, esso potrebbe acquistare, sulla base delle sue attuali linee guida, sino alla
metà delle emissioni di titoli sul mercato
primario. Nel caso dell’Italia, tuttavia, tale limite è teorico. Il Fondo infatti dispone, al netto degli impegni già in essere, di
150 miliardi di euro che coprirebbero a
malapena la metà delle emissioni primarie nette che il Tesoro, mediamente, effettua in un anno. Questo, solo nell’ipotesi
inverosimile che nessun altro paese dell’Eurozona richieda il suo intervento. Il
ruolo del Fondo salva stati è, piuttosto,
quello di introdurre l’obbligo per il paese beneficiario di impegnarsi a un programma di condizioni ben definite. Attraverso questo escamotage, la Bce evita il
serio imbarazzo di imporre una piattaforma formale di condizionalità ai suoi paesi membri. Eppure, l’Efsf/Esm non ha delle competenze autonome nel disegno di
programmi di stabilizzazione. Proprio per
questo, la piattaforma dell’Omt prevede
l’intervento del Fmi che offrirebbe la propria opera nel disegnare le condizioni del
programma e verificarne l’applicazione
da parte del paese beneficiario.
La supplenza futura del Fmi
La domanda è che tipo di condizionalità verrà introdotta dal Fmi. Sulla scorta dei programmi già in essere nell’Eurozona, è probabile che copra le politiche
strutturali e di competitività. Nel caso
dell’Italia, infatti, è difficile immaginare
una condizionalità fiscale che vada oltre
gli impegni presi dal governo Monti e dalle forze politiche che lo appoggiano in
Parlamento. Inoltre, la politica fiscale è
già blindata dal Fiscal compact e dal quadro regolamentare europeo. In realtà, la
presenza del Fmi aiuterebbe in maniera
duplice. Da un lato, consentirebbe di alleviare il problema delle scarse risorse finanziarie del Fondo salva stati una volta
che queste si esaurissero, offrendo una
modalità meno umiliante e stigmatizzante per ricorrere a un finanziamento del
Fmi nell’ambito di un programma formalmente tripartitico e a maggioranza europea. Dall’altro offrirebbe una exit strategy alla Bce, per cui, terminati in modo
consensuale i suoi interventi, il paese in
parola passerebbe una fase di convalescenza monitorato dal Fmi, per esempio,
attraverso un programma di tipo precauzionale, con l’impegno ex ante a non effettuare alcun tiraggio.
Vi è, infine, un ultimo aspetto da considerare. Con l’estensione dell’autorità
multinazionale anche alle politiche economiche strutturali e di “competitività”,
l’Italia avrà completato il processo di devoluzione della propria sovranità in materia di politica economica nella gestione
dell’attuale crisi. Può essere che questo
agevolerà l’impeto riformista del prossimo governo. E’, comunque, un aspetto di
cui essere consapevoli.
Glencore pensa prima di tutto a salvare se stessa e non l’Alcoa
Milano. Una scena così non l’avrebbe
immaginata nemmeno lo scrittore Ken
Follett. Aeroporto di Luton, periferia londinese, giovedì 6 settembre, 15,53 (ora italiana), ovvero sette minuti prima delle 3 di
pomeriggio dalle parti di Greenwich. In
palio una fusione da 90 miliardi di dollari, quella tra Glencore e Xstrata: la più importante operazione corporate dell’anno
da cui potrebbe nascere la quarta potenza
nel mondo di tutte le materie prime, comprese quelle alimentari. E forse ne beneficerà anche l’alluminio di Portovesme di
cui, per certo, non hanno parlato i giocatori della roulette più ricca dell’anno. Perché la società svizzera Glencore sta pensando innanzitutto a salvare se stessa.
Così da una parte c’è Ivan Glasenberg,
sudafricano che ha gareggiato in atletica
anche sotto le insegne di Israele, numero
uno di Glencore, il colosso delle materie
prime minerarie e alimentari, balzato agli
onori delle cronache italiane per l’interesse manifestato per lo stabilimento sardo di
Alcoa. Dall’altra, lo sceicco Al Thani, numero uno del potente fondo sovrano del Qatar, grande azionista di Xstrata, gigante del
carbone, vanadio e altre preziose materie
prime, che fino all’ultimo si è opposto alle
nozze. In mezzo, a far da arbitro, l’ex primo
ministro inglese Tony Blair, passato dalla
diplomazia al più lucroso mestiere di mediatore d’affari. Per niente facile: per mesi Glasenberg ha ripetuto che non avrebbe
alzato il prezzo, così come chiedeva lo
sceicco. Per mesi, Al Thani ha risposto picche. Glasenberg ha sparato la carta dell’ultimatum: l’offerta di Glencore valeva fino
alle tre del pomeriggio, ora di Londra. Poi
Ivan il terribile, miliardario dopo la quotazione alla City nel 2011 del colosso fondato
da Marc Rich, sarebbe volato in Cina per
l’assemblea dei soci. Al Thani non ha fatto
una piega: il Qatar può permettersi di perdere una manciata di miliardi. Glasenberg
no. E così, sette minuti prima dell’ora X, il
ceo sudafricano ha alzato l’offerta e rinviato l’assemblea. Ieri, secondo Bloomberg,
avrebbe fatto sapere che non intende migliorare i termini finanziari dell’offerta di
fusione, attualmente pari a 36 miliardi di
dollari. Ora la parola passa a soci e manager di Xstrata che decideranno il giorno 24.
Prima di allora, poco ma sicuro, ci saranno altri colpi di scena. Perché tutti, da Mick
Davis, numero uno di Xstrata, ai trader che
in tutto il mondo trattano affari per conto
dei due gruppi, praticano con coerenza la
legge del denaro, senza alcuna preferenza
politica, a ogni latitudine del globo. Glencore e Xstrata, entrambe domiciliate nel
cuore della Svizzera, nel cantone di Zug,
operano quasi ovunque. Glencore è leader
nel business del rame, zinco, commercio di
gas e petrolio ma anche dei cereali. Mentre
Xstrata è prima nel carbone. Glencore è di
casa in Africa così come in Sudamerica,
mentre la base privilegiata di Xstrata è
l’Australia.
Le ragioni della fusione sono evidenti.
Dopo anni di vacche grasse il trading di
materie prime arranca, al punto che i pro-
fitti di Glencore nel primo semestre sono
calati del 44 per cento pur toccando la cifra di 1,8 miliardi di dollari, cosa che aveva fatto dire a Glasenberg che “la fusione
per noi non è una necessità”. Forse. Ma il
fatto che al momento decisivo lo zar di
Glencore abbia chinato per la prima volta il capo dimostra che i problemi non
mancano. I “cugini” svizzeri, entrambi nati per volontà di Rich, il finanziere cui Bill
Clinton concesse la grazia il giorno prima
dell’uscita dalla Casa Bianca, sono abituate a navigare tra le polemiche. Rich, che
all’inizio degli anni 70 inventò il mercato
spot del petrolio, è al centro di intrighi di
ogni tipo, compresi i traffici con l’Iran.
Una volta ottenuto il perdono di Clinton,
si è ritirato in Svizzera cedendo il bastone del comando ai suoi luogotenenti, spesso dalla vita (quasi) altrettanto avventurosa. A proposito, in caso di fusione, il presidente di Glencore-Xstrata sarà John
(alias James) Bond. E chissà se Mr. Bond
sbarcherà in Sardegna.
Non sente, il presidente siriano Assad, il fuoco amico alle spalle?
E’
dopo il recente endorsement del presidente egiziano Mohammed Morsi, a
favore dei ribelli siriani, che sarebbe iniziato il conto alla rovescia per il regime di
DI
PIO POMPA
Bashar el Assad. Un endorsement preceduto, di qualche ora, da quello di Hamas
e seguito, a distanza di pochi giorni, dal
nuovo discorso (pubblicato in esclusiva
mercoledì scorso sul sito del Foglio) del
leader egiziano di al Qaida, Ayman al
Zawahiri, che rivolgendosi al popolo turco
lo incita a unirsi alla guerra santa contro il
regime siriano definito “un pericolo per
tutto l’islam e i musulmani”. Secondo
quanto rivelato al Foglio da una fonte d’intelligence araba, “una simile concatenazione di eventi, sicuramente non casuale, è
suonata a Damasco come un ultimatum
cui, è stato accertato, non sarebbero estranei Teheran, nella persona del presidente
D
a una vita, si può dire, da quando era
giovanissimo collaboratore di Mondo
e missione al fianco di padre Piero Gheddo, Rodolfo Casadei segue le vicende dei
cristiani sparsi per il mondo. Le segue
per davvero, viaggiando spesso a incontrarli specie lì dove le loro condizioni sono più dure; i suoi libri perciò sono sempre reportage in presa diretta, che raccontano quel che ha visto con i suoi occhi
e ascoltato con le sue orecchie. Quattro
anni fa aveva dato alle stampe “Il sangue
dell’agnello”, dedicato alle violenze di
cui erano oggetto i cristiani dell’Iraq e
della Turchia. Ora è la volta di questo
“Tribolati, ma non schiacciati” che racconta ancora le sofferenze di perseguitati cristiani iracheni (ma anche libanesi,
iraniani, sud-sudanesi e ugandesi), “però
soprattutto vuole far conoscere la loro fede, il coraggio, la capacità di costruire, l’amore per Cristo e per il prossimo che hanno mostrato proprio nelle circostanze della persecuzione”. Casadei è stato l’ultimo
giornalista occidentale a intervistare
Paulos Faraj Rahho, l’arcivescovo caldeo
di Mosul – la città martire in cui la presenza cristiana è stata ridotta al lumicino
– che fu rapito e fatto morire di stenti nel
2008, e il primo a incontrare il suo successore, Amel Nona, che per raggiungere i fedeli della città vecchia – un tempo sede
della maggioranza dei cristiani, ora roccaforte degli estremisti islamici è costretto a camuffarsi. Gli ha chiesto perché ha
Mahmoud Ahmadinejad, e Hezbollah.
Tant’è che sia Ahmadinejad sia Hassan
Nasrallah (capo del Partito di Dio), avrebbero segretamente fornito il loro assenso
alla clamorosa sortita contro Assad, di
Morsi e del vicepresidente dell’ufficio politico di Hamas, Mousa Abu Marzuk, compiuta dichiarando il loro pieno appoggio
alla causa del popolo siriano”.
Due sarebbero gli obiettivi di una siffatta scelta strategica. Da un lato, impedire a
ogni costo che Stati Uniti, Arabia Saudita
e Turchia possano favorire l’affermazione,
in Siria, di un regime sunnita che, oltre ad
affievolire, partendo dal Libano, le prerogative dell’Iran e di Hezbollah sull’intera
regione, finirebbe fatalmente col porsi al
fianco di Riad. Dall’altro mantenere integro lo schieramento dei nemici d’Israele
acuendone l’isolamento e lo stato di tensione, cosa che sta accadendo in questi
giorni, attraverso la minaccia di un nuova
LIBRI
Rodolfo Casadei
TRIBOLATI, MA NON SCHIACCIATI
Lindau, 140 pp., 15 euro
accettato una nomina tanto rischiosa.
“Non potevo rifiutare di servire un popolo di cui conosco le sofferenze. La mia
missione pastorale consiste nel mostrare
che non bisogna avere paura della morte”. Monsignor Nona non è l’unico che,
nel nord dell’Iraq, ha scelto di resistere.
Hasim Harboli è novizio al monastero di
Nostra Signora delle Messi, estremità settentrionale della piana di Ninive. La sua
vocazione è maturata in Grecia, dove la
famiglia si era rifugiata; ma dopo la morte di monsignor Rahho ha deciso, nonostante l’opposizione dei familiari, di tornare a vivere qui. Yessef Dured ha vissuto diciassette anni in Olanda, è tornato
con la moglie e le tre figlie per prendersi cura del padre. Osserva: “I cristiani iracheni sono migliori di quelli olandesi. In
Olanda i musulmani chiedono e ottengono tutto in nome dei diritti umani, e gli
olandesi non capiscono che ai musulmani
non interessa la realizzazione dei diritti
offensiva, al confine israeliano, da parte di
Hezbollah con lo scopo, non dichiarato, di
rendere più difficile un eventuale strike di
Gerusalemme contro i siti nucleari iraniani. “Sennonché – confida al Foglio la fonte d’intelligence – il successo di tale strategia è basata su uno snodo cruciale. Eliminare Bashar el Assad, esiliandolo o uccidendolo, in modo tale da togliere l’iniziativa ai ribelli e a coloro i quali, con in testa Stati Uniti e Arabia Saudita, possono
favorire la vittoria sunnita costringendoli
a scendere a trattative sui futuri assetti politici di quel paese. In questo momento,
Assad e il suo entourage, sono praticamente tenuti in ostaggio e costantemente controllati da un centinaio di Guardie rivoluzionarie della Brigata al Quds e da altrettanti agenti di Hezbollah. Quel che il rais
siriano, e suoi più stretti collaboratori, non
sanno, ma forse sospettano, è di poter essere assassinati da fuoco amico. Tanto, come
umani, ma vogliono far trionfare la loro
religione”. Non c’è, peraltro, solo contrapposizione. Poco più in là, a Kirkuk, Louis
Sako, arcivescovo caldeo, si è conquistato la stima di molte autorità islamiche:
“Osama bin Laden non rappresenta noi
musulmani, così come le vignette danesi
su Maometto non rappresentano voi cristiani”, commenta lo sceicco Ali Kh-Samed, che tiene appesa a una parete dello
studio una foto di Benedetto XVI. “Ma di
questo abbiamo certezza solo quando ci
conosciamo personalmente”.
Un’ultima storia – tra le molte altre che
Casadei racconta e che lasciamo al lettore – arriva dall’Africa nera. Margaret Arach Orech viaggiava su uno sgangherato
bus lungo una strada dell’Uganda del
nord. Una granata dei guerriglieri che attaccano il veicolo le trancia di netto una
gamba. Si finge morta, anche mentre le
strappano di dosso i vestiti, e così riesce
a salvarsi; ma viene abbandonata da tutti, perché in Africa un mutilato, come un
handicappato, è motivo di vergogna. Allora ha fatto appello alla sua fede: “Se Dio
mi aveva salvato, doveva esserci un motivo. La risposta arrivò subito, leggendo la
Bibbia, Isaia 43: ‘Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?’”. Ora gira il mondo come ambasciatrice della Campagna per la messa al bando
delle mine antiuomo.
da copione, è facile poi addossarne la responsabilità ad al Qaida o, ancora meglio,
al Mossad”.
Tutto questo avviene mentre velleitariamente si pensa, da parte americana e turca, di bombardare le postazioni del nocciolo duro dell’esercito lealista siriano attardandosi, in analisi e controanalisi, sulla
possibilità che Assad possa ricorrere all’uso di armi chimiche. In realtà nessuno dei
paesi presenti vuole un coinvolgimento diretto nella crisi siriana. Questo Ahmadinejad lo sa bene, e ora cercherà di giocare d’anticipo nonostante le resistenze della Guida suprema, Ali Khamenei. Per il
presidente iraniano tutto è possibile quando si tratta di contrastare i disegni del miglior alleato d’Israele concordando, in ciò,
con al Zawahiri: “Ricordatevi che la liberazione di Gerusalemme, da parte di Salahuddin, è iniziata con la liberazione di
Damasco”.
IL FOGLIO
quotidiano
Direttore Responsabile: Giuliano Ferrara
Vicedirettore Esecutivo: Maurizio Crippa
Vicedirettore: Alessandro Giuli
Coordinamento: Claudio Cerasa
Redazione: Michele Arnese, Annalena Benini,
Stefano Di Michele, Mattia Ferraresi, Giulio Meotti,
Salvatore Merlo, Paola Peduzzi, Daniele Raineri,
Marianna Rizzini, Paolo Rodari, Nicoletta Tiliacos,
Piero Vietti, Vincino.
Giuseppe Sottile (responsabile dell’inserto del sabato)
Editore: Il Foglio Quotidiano società cooperativa
Via Carroccio 12 - 20123 Milano
Tel. 02/771295.1
La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90
Presidente: Giuseppe Spinelli
Direttore Generale: Michele Buracchio
Redazione Roma: Lungotevere Raffaello Sanzio 8/c
00153 Roma - Tel. 06.589090.1 - Fax 06.58335499
Registrazione Tribunale di Milano n. 611 del 7/12/1995
Telestampa Centro Italia srl - Loc. Colle Marcangeli - Oricola (Aq)
Poligrafico Europa srl - Via Enrico Mattei, 2 - Villasanta (Mb)
Distribuzione: PRESS-DI S.r.l.
Via Cassanese 224 - 20090 Segrate (Mi)
Pubblicità: Mondadori Pubblicità S.p.A.
Via Mondadori 1 - 20090 Segrate (Mi)
Tel. 02.75421 - Fax 02.75422574
Pubblicità legale: Il Sole 24 Ore Spa System
Via Monterosa 91 - 20149 Milano, Tel. 02.30223594
e-mail: [email protected]
Abbonamenti e Arretrati: STAFF srl 02.45702415
Copia Euro 1,50 Arretrati Euro 3,00+ Sped. Post.
ISSN 1128 - 6164
www.ilfoglio.it
e-mail: [email protected]
Scarica

L`aiuto di Draghi e il piano inclinato della perdita di sovranità