PARTE SECONDA
CONVERGENZE E DIVERGENZE TRA LA GIURISPRUDENZA ITALIANA
ED EUROPEA IN MATERIA DI RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO
E DI DIRITTO ALL’EQUO INDENNIZZO
ALESSANDRA CITATI∗ - VALENTINA ZAMBRANO∗∗
SOMMARIO: 1. Breve nota introduttiva. – 2. La sentenza Brusco e la giurisprudenza italiana successiva. – 3. L’accumulo delle violazioni del principio della durata ragionevole del processo. – 4. Dalla causa Scordino alle sentenze del 10 novembre
2004. – 5. I criteri di valutazione della ragionevolezza della durata del processo. –
6. L’ammontare dell’indennizzo: la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e delle Corti italiane a confronto. – 7. Il ritardo con cui le autorità italiane versano
l’indennizzo alle vittime di processi eccessivamente lunghi. – 8. Osservazioni conclusive.
1. Breve nota introduttiva
La questione della durata del processo nell’ordinamento italiano ha rappresentato (e, per certi versi, rappresenta ancora) una nota dolente nei rapporti tra
lo Stato italiano e la Corte di Strasburgo. Infatti, come si vedrà di seguito, moltissime sono state le condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti
dell’uomo per violazione dell’articolo 6 CEDU in termini di mancato rispetto
della “ragionevolezza” della durata del processo. Ciò si è verificato, inizialmente, per l’incapacità dell’ordinamento italiano di garantire tale diritto e, dopo l’adozione della legge Pinto, per un’applicazione della stessa non compatibile con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo1. D’altra parte, non è pos
∗
Avvocato e redattore giuridico presso la Juranet s.r.l. Ad Alessandra Citati si devono i
paragrafi 2, 3 e 4.
∗∗
Ricercatrice di diritto internazionale presso la Facoltà di giurisprudenza dell’Università
delle Scienze Umane, Niccolò Cusano. A Valentina Zambrano si devono i paragrafi 1, 5, 6, 7 e 8.
1
Sulla legge Pinto v. PADELLETTI M.L., L’applicazione della legge Pinto sull’equa riparazione in caso di irragionevole durata del processo: qualche luce e tante ombre, in Rivista di diritto internazionale, 2002, p. 954 ss.; ROMANO G.- PARROTTA D.A.-LIZZA E., Il diritto ad un giu-
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sibile non ricordare che la legge in questione non ha introdotto strumenti per
ridurre i tempi del processo ma si è limitata a prevedere un mezzo attraverso
cui dare riparazione ai singoli che avessero subìto una violazione del diritto ad
una durata ragionevole del procedimento.
Il presente contributo si concentrerà sull’analisi delle convergenze e delle
divergenze esistenti in materia tra la giurisprudenza nazionale e quella della
Corte europea dei diritti dell’uomo. Una prima parte si occuperà del periodo
compreso tra il 2001 ed il 2004 in cui, dopo alcuni anni di “conflitto” tra le corti italiane e quella di Strasburgo, si è evidenziata la tendenza dei tribunali interni ad adeguarsi alla giurisprudenza di quest’ultima relativamente a determinati
aspetti. La seconda parte, invece, tratterà del periodo successivo caratterizzato
dal persistere di divergenze tra gli organi giudiziari nazionali e quello europeo
in relazione all’indennizzo riconosciuto ai ricorrenti (sia in termini di ammontare che di ritardo nella liquidazione dello stesso).
2. La sentenza Brusco e la giurisprudenza italiana successiva
All’indomani dell’emanazione della legge Pinto la Corte di Strasburgo
(Brusco c. Italia, 6 settembre 2011, n. 69789/01; Di Cola c. Italia, 11 ottobre
2011, n. 44897/98) plaudeva alla tanto agognata introduzione da parte dell’Italia di un meccanismo di riparazione interna delle violazioni del principio
della ragionevole durata del processo.
Il rimedio apprestato dalla legge n. 89 del 2001, infatti, permetteva di arginare il pericoloso fenomeno dell’incessante aumento dei ricorsi ex articolo 6,
paragrafo 1, della CEDU, che snaturava la natura sussidiaria dello strumento di
sto processo tra corte internazionale e corti nazionali. L’equa riparazione dopo la legge Pinto,
Milano, 2002; PANCHERI G., Rapporti tra Corte di cassazione e Corte europea dei diritti
dell’uomo in materia di ragionevole durata del processo, disponibile online su federalismi.it,
2003; FALLETTI E., Si ricompone il contrasto tra la Corte di Strasburgo e la giurisprudenza italiana sull’effettività del rimedio interno previsto dalla legge Pinto, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 2005, p. 209 ss.; NIGRO C.-PROSPERI L., L’irragionevole durata del processo: cause e rimedi per la violazione del diritto alla giustizia, Forlì, 2009; FALCONE I., La ragionevolezza del processo: tra vincoli europei e autonomia dell’ordinamento interno, in Giustizia
civile, 2010, p. 251 ss; PIROLLO M., Profili di costituzionalità e questioni interpretative della legge Pinto in punto di “durata ragionevole”. La prassi interna e l’orientamento della Corte di
Strasburgo, in Rassegna dell’avvocatura dello Stato, 2010, p. 145 ss.
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salvaguardia da proporsi innanzi al giudice europeo e, come autorevolmente
sottolineato2, rischiava di vederci, di lì a poco, sospesi dal Consiglio d’Europa.
Grazie al sigillo di ”accessibilità” nonché “efficacia” del rimedio italiano,
inequivocabilmente attribuito dal giudice europeo (“ (…) nulla permette di
pensare che il ricorso introdotto dalla legge Pinto non offrirebbe al ricorrente la
possibilità di fare riparare la sua doglianza, o che non avrebbe alcuna prospettiva ragionevole di successo”)3, la Corte ha potuto veder alleggerito il tradizionale carico di lavoro4.
Purtroppo, però, l’applicazione della legge n. 89/2001 ha placato ben presto
ogni velleità di pronta soluzione della questione in discorso.
La giurisprudenza italiana in materia, ha mostrato una tendenza quanto meno alla reformatio in peius5 di quanto espresso dai giudici di Strasburgo, e proprio analizzando la sentenza Scordino, che ha consacrato il revirement della
giurisprudenza europea in tema di ricevibilità dei ricorsi provenienti dall’Italia,
è possibile individuare i consolidati principi di matrice europea dai quali la suprema Corte ha progressivamente preso le distanze6.
Nella decisione di cui trattasi, effettuando un’analisi comparativa di circa
cento pronunce della Corte di cassazione italiana, i giudici europei hanno riscontrato che la giurisprudenza italiana non riconosce lo status di diritto fondamentale al diritto ad una ragionevole durata del processo e, di fatto, nega la
diretta applicabilità della CEDU e della giurisprudenza di Strasburgo in materia
di equa soddisfazione.
Con riguardo alla natura del diritto ad una ragionevole durata del processo
va detto che i giudici europei hanno più volte ricordato come l’inosservanza del
délai raisonnable costituisca violazione di un diritto fondamentale sancito dalla
2
CONSO G., La legge Pinto: passo ineluttabile anche se certamente non decisivo, in Diritti
dell’uomo: cronache e battaglie, 2001, p. 24 ss.
3
Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, caso Brusco c. Italia, n. 69789.
4
Sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 26 gennaio 2004, n. 1339: “Il rimedio interno introdotto dalla legge n. 89 del 2001, in precedenza, non esisteva nell'ordinamento
italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per la violazione dell'articolo 6 della
CEDU avevano "intasato" (è il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28
settembre 2000) il giudice europeo”.
5
DE STEFANO M., Le Corti d’appello e la Cassazione, sezioni distaccate in Italia della Corte di Strasburgo: in margine alla sentenza Scordino ed altri c. Italia, in Diritti dell’uomo: cronache e battaglie, 2003, p. 70 ss.
6
Decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, 27 marzo 2003, Scordino e altri c. Italia, n. 36813/97.
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CEDU. Proprio nella decisione Scordino la Corte ha affermato: “The right to a
hearing within a “reasonable time”, as protected by Article 6 § 1 of the Convention, is a fundamental right and an imperative for all proceedings to which
Article 6 applies; in so providing, the Convention underlines the importance of
administering justice without delays which might jeopardise its effectiveness
and credibility”.
Ora, alcuni passaggi logici di una delle sentenze menzionate dai ricorrenti
della decisione Scordino sembrano essere d’ausilio al fine di comprendere le
ragioni addotte dalla suprema Corte italiana a conforto della sua adesione ad un
orientamento di segno completamente contrario a quello dello Corte di Straburgo (Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 8 agosto 2002, n. 11987).
Nella specie i giudici di ultima istanza chiariscono che il danno derivante
dalla violazione del diritto ad una ragionevole durata del processo non può
considerarsi un diritto fondamentale della persona. Esso, difatti, trova il suo
fondamento normativo in una legge ordinaria (legge Pinto), la quale: “contrariamente a quanto pur da taluni affermato non è direttamente riconducibile alla
previsione dell'articolo 111 della Costituzione. Disposizione, quest'ultima, che
– per il profilo della ragionevole durata, che assume come connotato del giusto
processo – prefigura un canone oggettivo di disciplina della funzione giurisdizionale e non direttamente una garanzia del singolo strutturata in termini di diritto soggettivo; contiene cioè una norma meramente programmatica, non utilizzabile come strumento di controllo della durata del singolo processo (a ciò
appunto ora provvedendo la legge 89/01) e che, rileva, invece, unicamente come parametro di controllo della legge che sia in tesi in contrasto con gli obbiettivi della ragionevole durata dei processi. Spettando, dunque, in tale contesto,
al legislatore bilanciare le istanze di ragionevolezza della durata del processo
con il quantum delle garanzie concedibili, al suo interno, alle parti”.
Alla luce di quanto sopra riportato pare agevole comprendere perché la
Cassazione in quella stessa pronuncia neghi che con riferimento alla lesione del
diritto ad una ragionevole durata del processo si possa ipotizzare che il danno
derivante dalla violazione di quel diritto possa considerarsi in re ipsa (danno
evento), così come ritenuto in alcune pronunce (nella sentenza di che trattasi si
menzionano le pronunce nn. 7713/2000 e 6507/2001 della stessa suprema Corte italiana) le quali, però, fanno esclusivo riferimento a diritti ai quali, contrariamente a quello sancito dall’articolo 6, paragrafo 1, della CEDU, è riconosciuto lo status di diritti fondamentali della persona.
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Come sopra accennato, l’analisi della giurisprudenza italiana effettuata dalla Corte di Strasburgo ha evidenziato, altresì, che la Cassazione italiana disconosce la diretta applicabilità della giurisprudenza di Strasburgo in materia di
equa soddisfazione. All’uopo sembra opportuno fare un accenno alle sentenze
in cui la Corte italiana palesa tale convincimento e, come ovvio data la contiguità delle questioni, tratta altresì il tema dei diritti fondamentali e del danno in
re ipsa.
Nelle predette pronunce la Cassazione ha sostenuto che, sebbene la legge
Pinto vada interpretata in modo da assicurare una tutela effettiva sia del principio della ragionevole durata del processo sia del diritto all’equa riparazione in
caso di sua inosservanza, il meccanismo di tutela convenzionale riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti fondamentali, restando dunque di competenza degli Stati la definizione dei meccanismi
di ricorso effettivi. Di conseguenza, la normativa di riferimento deve essere
quella interna e solo nel caso in cui fosse provato un contrasto tra la normativa
nazionale e quella convenzionale si porrebbe il problema della prevalenza della
seconda sulla prima. La Corte di cassazione, quindi, afferma che, sebbene alla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo relativa ai criteri elaborati per la valutazione della ragionevole durata del processo debba riconoscersi valore di precedente di cui non si può non tenere conto nell’interpretazione della legge Pinto (dato che questa richiama l’articolo 6 CEDU), le decisioni della Corte europea non sono direttamente vincolanti per il giudice interno. Ai parametri elaborati dai giudici europei può, quindi, riconoscersi un carattere meramente
orientativo7.
Venendo alla questione della natura del danno da lesione del diritto alla ragionevole durata del processo la Cassazione italiana precisa come la legge Pinto (articolo 2) riconosca un’equa riparazione esclusivamente a chi ha subìto un
danno patrimoniale o non patrimoniale, per il mancato rispetto del termine ragionevole del processo e non per il fatto in sé dell’avvenuto superamento di
detto termine. Di conseguenza, tale circostanza non è considerata quale dannoevento risarcibile, bensì come fatto costitutivo necessario (ma non sufficiente)
per l’insorgenza del diritto e nel contempo fonte dei danni che la parte dimostri
di aver subìto in conseguenza della irragionevole durata del processo.
Inoltre, la Corte afferma che l’equa riparazione, così come prevista dalla
7
V. le sentenze della Corte di cassazione, Civile, Sezione I: 10 settembre 2003, n. 13211; 5
novembre 2003, n. 16600; 8 agosto 2002, n. 11987.
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legge Pinto, nell’ordine: “a) non costituisce una mera sanzione pecuniaria, multa o pena privata, dovuta nei confronti dell'apparato per il solo fatto del danno
irragionevole, ma attribuisce, appunto, un equo indennizzo, riconducibile, in
base all'articolo 1173 c.c., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di
obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico, ed in tutto e per tutto
corrispondente all’équitable satisfaction menzionata dalla Convenzione e dalla
giurisprudenza della CEDU, in favore del soggetto che per effetto della eccessiva durata del giudizio, lesiva del riconosciuto suo diritto ad una ragionevole
durata dello stesso, abbia subìto un danno patrimoniale e/o non patrimoniale;
b) non rientra fra i diritti fondamentali della persona, come quello alla salute, la cui inviolabilità è garantita da norme costituzionali immediatamente precettive e la cui lesione va incontro alla sanzione risarcitoria per il fatto in sé
della violazione indipendentemente dalla ricaduta patrimoniale che la stessa
possa comportare (danno conseguenza);
c) è assicurata dalla legge ordinaria, in quanto l'articolo 111 Cost. nel testo
modificato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999 che pur prevede quale requisito costituzionale del giusto processo proprio la ragionevole durata, prefigura un canone oggettivo di disciplina della funzione giurisdizionale e non direttamente una garanzia del singolo strutturata in termini di diritto soggettivo.
E perché l'articolo 2 della legge n. 89 del 2001, pur successivo alla menzionata
legge costituzionale n. 2 del 1999, non rinvia a quest'ultima norma, ma al rispetto “del termine ragionevole di cui all'articolo 6, § 1, della Convenzione”
(358/2003; 14885/2002; 13422/2002; 11987/2002; 11046/2002)”8.
La Corte, infine, ribadisce che sulla parte ricorrente incombe l’onere della
prova dell’an e del quantum del danno, patrimoniale e non, da esso subìto a seguito dell’eccessiva durata del procedimento.
3. L’accumulo delle violazioni del principio della ragionevole durata del processo
La Corte di Strasburgo, sempre in quegli anni, si è trovata a constatare come in Italia continui a perdurare la pratica, contraria alla Convenzione, dovuta
ad un “accumulo” di violazioni del principio della durata ragionevole del processo; “accumulo” che costituisce una circostanza aggravante della violazione
8
V. la sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 17 luglio 2003, n. 11172.
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127
dell’articolo 6 della CEDU. Questa norma, infatti, obbliga gli Stati contraenti
ad organizzare il loro sistema giudiziario in maniera tale che i tribunali nazionali possano garantire quanto previsto dalla suddetta norma (e nello specifico la
durata ragionevole del processo)9.
Ancora dopo le storiche pronunce delle Sezioni unite del 2004, con le decisioni del 10 novembre 2004, di cui si tratterà in seguito, la Corte di Strasburgo
ha avuto modo di riscontrare, ancora una volta, l’eccessiva lunghezza dei procedimenti giudiziari italiani, circostanza questa indicativa di una prassi giudiziaria contraria alla Convenzione, costituta da plurime violazioni dell’articolo 6
della CEDU.
In quell’occasione i giudici europei sono tornati a precisare che la ripetizione della violazione genera una vera e propria prassi, che costituisce
un’aggravante della violazione della Convenzione e ogni decisione che accerta
un’infrazione obbliga lo Stato convenuto a porre termine alla violazione stessa
e ad eliminarne le conseguenze: “La Corte ricorda di aver constatato in numerose sentenze (vedere, per esempio, Bottazzi c. Italia [ GC], n. 34884/97, § 22,
CEH 1999-V) l’esistenza in Italia d’una prassi contraria alla Convenzione risultante da un accumulo di mancanze all’esigenza del termine ragionevole.
Nella misura in cui la Corte constata una tale mancanza, questo cumulo costituisce una circostanza aggravante della violazione dell’articolo 6 § 1”10.
In merito, sembra doveroso altresì menzionare la decisione Procaccini c.
Italia, nella quale i giudici europei, dopo aver ricordato l’obbligo pendente in
capo agli Stati membri di apprestare un’organizzazione virtuosa del sistema
giudiziario tale da garantire il rispetto dell’articolo 6, paragrafo 1, della CEDU,
elogiano i vantaggi di quei sistemi che prevedono dei meccanismi di preven
9
V. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 12 febbraio 2002, V. Pe
F.D.R. c. Italia, n. 44333/98; 12 febbraio 2002, Union Servizi c. Italia (n. 1, 2 e 3), n. 44396/98,
n. 44913/98, n. 44914/98; 12 febbraio 2002, Bazzana c. Italia, n. 56086/00; 12 febbraio 2002,
Pelagatti c. Italia, n. 56098/00; 12 febbraio 2002, E.M. c. Italia, n. 44519/98; 12 febbraio 2002,
I.P.A. s.r.l. c. Italia, n. 52957/99; 28 febbraio 2002, Gentile c. Italia, n. 47186/99; 28 febbraio
2002, Mario Francesco Palmieri c. Italia, n. 51022/99; 28 febbraio 2002, Maddalena Palmieri c.
Italia, n. 51023/99; 28 febbraio 2002, Porto c. Italia, n. 51024/99; 4 luglio 2002, Casadei c. Italia, n. 37249/97; 4 luglio 2002, Spinello c. Italia, n. 40231/98; 4 luglio 2002, Boldrin c. Italia, n.
41863/98 (ed altri dieci casi decisi nel medesimo giorno); 28 novembre 2002, F.M. c. Italia, n.
43621/98; 28 novembre 2002, Massimo Pugliese c. Italia, n. 45798/99; 6 novembre 2003, Peroni
c. Italia, n. 44521/98; 11 dicembre 2003, Bassani c. Italia, n. 47778/99.
10
Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 10 novembre 2004, Mostacciuolo c.
Italia, n. 64705/01, § 21.
128
PARTE SECONDA
zione dell’eccessiva durata dei processi e mettono, per contro, in luce i limiti
della scelta di quegli Stati, come l’Italia, che si affidano unicamente a rimedi a
posteriori di tipo indennitari11.
4. Dalla causa Scordino alle sentenze del 10 novembre del 2004
Tornando indietro nel tempo, dopo che, come suesposto, la Corte aveva
cominciato a negare la ricevibilità dei ricorsi provenienti dall’Italia in considerazione dell’effettività del rimedio ex legge Pinto (sentenza Brusco), la giurisprudenza italiana, di cui si è trattato sopra, ha portato i giudici europei a mutare il proprio indirizzo.
Nella decisione Scordino (27 marzo 2003, Scordino c. Italia, n. 36813/97),
infatti, la Corte europea si è pronunciata per la ricevibilità del ricorso ad essa
rivolto, nonostante i ricorrenti non avessero previamente rivolto alla Corte di
cassazione la loro doglianza avente ad oggetto l’insufficienza dell’indennizzo
concesso dalla Corte d’appello.
Nell’argomentare la propria decisione i giudici europei hanno fatto riferimento alla costante applicazione da parte della Cassazione italiana dei due
principi di cui si è ampiamente già discusso: la negazione tanto del riconoscimento dello status di diritto fondamentale al diritto al reasonable time del processo quanto della diretta applicabilità della Convenzione e della giurisprudenza di Strasburgo in materia di equa soddisfazione.
Ma la Corte europea menziona altresì quello che era diventato un altro granitico assioma della giurisprudenza italiana: “La Corte non ha trovato alcun ca
11
Sentenza 29 marzo 2006, Procaccini c. Italia, n. 65075/01, § 72: “Force est de constater
que le meilleur remède dans l’absolu est, comme dans de nombreux domaines, la prévention. La
Cour rappelle qu’elle a affirmé à maintes reprises que l’article 6 § 1 astreint les Etats contractants
à organiser leur système judiciaire de telle sorte que leurs juridictions puissent remplir chacune
de ses exigences, notamment quant au délai raisonnable (voir, parmi de nombreux autres,
Süßmann c. Allemagne, arrêt du 16 septembre 1996, Recueil 1996-IV, p. 1174, § 55 et Bottazzi,
arrêt précité, § 22). Lorsque le système judiciaire s’avère défaillant à cet égard, un recours permettant de faire accélérer la procédure afin d’empêcher la survenance d’une durée excessive
constitue la solution la plus efficace. Un tel recours présente un avantage incontestable par rapport à un recours uniquement indemnitaire car il évite également d’avoir à constater des violations successives pour la même procédure et ne se limite pas à agir uniquement a posteriori
comme le fait un recours indemnitaire, tel que celui prévu par la loi italienne par exemple”.
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129
so in cui la Corte di cassazione abbia preso in considerazione una doglianza
perché l’ammontare accordato dalla Corte d’appello era insufficiente in rapporto al presunto pregiudizio o inadeguato in rapporto alla giurisprudenza di Strasburgo. In effetti si tratta di doglianze rigettate dalla Corte di cassazione poiché
considerate o come questioni di fatto non di sua competenza o come questioni
sollevate alla luce di disposizioni che non sono direttamente applicabili. (...) In
conclusione la Corte ritiene che nella fattispecie i ricorrenti non erano tenuti, ai
fini dello sfruttamento delle vie di ricorso, a ricorrere in cassazione”.
Infine, nell’esprimere il suo convincimento la Corte europea rende manifesto il seguente principio: viene, infatti, sottolineato che, sebbene in capo agli
Stati membri non sussista l’obbligo formale di incorporare la Convenzione
nell’ordinamento interno, i giudici di Strasburgo sono nondimeno chiamati a
verificare che il diritto nazionale, in ossequio al principio di sussidiarietà, venga interpretato e applicato nel modo il più possibile conforme ai principi della
CEDU di cui la giurisprudenza della Corte è parte integrante.
Non è trascorso tuttavia molto tempo prima che la Cassazione italiana abbia risposto alla presa di posizione assunta a Strasburgo: difatti, trascorso
nemmeno un anno dalla decisione Scordino, la suprema Corte con le sentenze
nn.1338, 1339, 1340 e 1341 del 24 gennaio 2004 abbraccia le considerazioni e
i principi espressi dalla Corte di Strasburgo. In particolare, il giudice italiano ha
riconosciuto il dovere del giudice interno di interpretare ed applicare il diritto
nazionale conformemente ai dettami della CEDU così come interpretata dalla
Corte europea ed ha, inoltre, sottolineato che il ruolo di garante della “conformità” in discorso spetta proprio ai giudici di Strasburgo.
Al riguardo, peraltro, le Sezioni unite hanno sottolineato come ai sensi
dell’articolo 41 della CEDU competa proprio al predetto foro europeo accertare
la completezza della riparazione consentita secondo il diritto interno a seguito
della violazione delle norme della Convenzione europea.
Interessanti sono, altresì, le critiche che la Cassazione rivolge nei confronti
dell’applicazione di orientamenti difformi: “La tesi secondo cui, nell’applicare
la legge n. 89 del 2001, il giudice italiano può seguire un’interpretazione non
conforme a quella che la Corte europea ha dato della norma dell’articolo 6
CEDU (la cui violazione costituisce il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo
attribuito dalla data legge nazionale), comporta che la vittima della violazione,
qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea, ottenga da quest’ultimo Giudice l’equa soddisfazione prevista
130
PARTE SECONDA
dall’articolo 41 CEDU. Il che costringerebbe l’interessato ad un duplice giudizio, uno davanti al giudice nazionale per chiedere l’indennizzo previsto dalla
legge n. 89 del 2001 e l’altro davanti alla Corte europea per ottenere
l’integrazione della riparazione che il diritto interno ha consentito, in ipotesi, in
modo soltanto incompleto (secondo il giudizio della stessa Corte europea). In
tal modo il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89 del
2001 diverrebbe sostanzialmente inutile e si realizzerebbe una violazione del
menzionato principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo”12.
In merito, la suprema Corte ha precisato, altresì, che la legge Pinto non è di
alcun impedimento al dovere di conformità all’orientamento giurisprudenziale
europeo in tema di equa riparazione del danno non patrimoniale di cui si fa
esplicita menzione nella decisione Scordino, poiché la legge n. 89 del 2001 richiama, “attraverso l’articolo 2056 c.c., l’articolo 1226 c.c., che prevede una
valutazione con criteri equitativi, i quali possono essere commisurati, in linea
generale, all’equa soddisfazione prevista dall’articolo 41 CEDU. Consegue che
i criteri di determinazione del quantum della riparazione applicati dalla Corte
europea non possono essere ignorati dal giudice nazionale, anche se questi può
discostarsi in misura ragionevole dalle liquidazioni effettuate a Strasburgo in
casi simili”13.
La Cassazione, quindi, precisa che “tale regola di applicazione della legge
n. 89 del 2001, per quanto attiene alla riparazione del danno non patrimoniale,
ha natura giuridica”14 in quanto concerne i rapporti tra la legge Pinto e la CEDU, perciò, il suo mancato rispetto da parte del giudice nazionale si atteggia a
vizio di violazione di legge censurabile innanzi alla Cassazione italiana. La suprema Corte, però, sottolinea altresì come il danno non patrimoniale riconosciuto e liquidato dalla Corte di Strasburgo non sia insito nella mera esistenza
della violazione (danno in re ipsa)15; al contrario, anche secondo la Corte euro
12
V. la sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezioni unite, 26 gennaio 2004, n. 1340.
Ibidem.
14
Ibidem.
15
La Cassazione menziona alcune sentenze emanate dalla Corte di Strasburgo nell’ambito
dei ricorsi contro l’Italia, in data 31 luglio 2003 (cause Battistoni, Ferroni Rossi, La Paglia,
Tempesti Chiesi, Fezia, Marigliano, De Gennaro, Miscioscia, Gatti), in data 28 marzo 2002
(cause Soave, Contardi, Lattanzi, Cascia), in data 19 febbraio 2002 (cause Piacenti, De Cesaris,
Sardo, Donato, Di Pede) e in data 12 febbraio 2002 (cause Ventrone, Seccia, E.M., De Rosa,
It.R., società Croce Gialla Romana s.a.s.).
13
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
131
pea, esso costituisce una “conseguenza della detta violazione, la quale, però, a
differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola,
per effetto della violazione stessa. Ed invero è normale che l’anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d'animo, un'ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elementi presuntivi. Trattasi di conseguenze non patrimoniali che
possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno
di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso”16.
Vale, inoltre la pena di ricordare che i giudici della suprema Corte hanno ritenuto di conformarsi all’indirizzo della Corte di Strasburgo in materia di riparazione dei danni non patrimoniali derivante dall’irragionevole durata del processo anche con riferimento al riconoscimento del sopramenzionato diritto in
capo alle persone giuridiche17.
In particolare, la Cassazione dopo aver preso atto che la Corte europea pone su un piede di parità persone fisiche e persone giuridiche rispetto alla possibilità di ottenere la riparazione del danno non patrimoniale cagionato dalla durata irragionevole del processo, riconoscendo espressamente, sia nell’uno che
nell’altro caso, la riparabilità dei danni non patrimoniali correlati all’insorgere
di turbamenti di carattere psicologica, chiarisce i seguenti punti:
“1) le persone giuridiche hanno una soggettività meramente transitoria e
strumentale, in quanto le situazioni giuridiche loro imputate sono destinate a
tradursi, secondo le regole dell'organizzazione interna, in situazioni giuridiche
riferite (e questa volta definitivamente) ad individui persone fisiche, e che,
quindi, nella personalità giuridica non deve essere ravvisato lo statuto di un'entità diversa dalle persone fisiche, ma una particolare normativa avente pur
sempre ad oggetto relazioni tra uomini (Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151; 12 dicembre 1995, n. 12733);
2) per tale ragione, non si dubita che alle persone giuridiche possono essere
imputati stati soggettivi legati al possesso di qualità psichiche tipicamente
umane, come quelli di buona o mala fede, di dolo o di colpa (Cass. 22 novembre 1996, n. 10359; 22 ottobre 1997, n. 10383; 11 agosto 2000, n. 10719);
16
V. la sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezioni unite, 26 gennaio 2004, n. 1339.
V. le seguenti sentenze: Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 16 luglio 2004, n. 13163;
Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 30 agosto 2005, n. 17500; Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 29 marzo 2006, n. 7145; Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 28 ottobre 2005, n.
21094.
17
132
PARTE SECONDA
3) non sembrano quindi esistere nel nostro ordinamento ostacoli normativi
insuperabili al riconoscimento del diritto delle persone giuridiche di ottenere la
riparazione del danno non patrimoniale secondo i criteri stabiliti dalla Corte europea e, quindi, anche nelle ipotesi in cui tale danno sia correlato a turbamenti
di carattere psichico”18.
L’emanazione delle sopra descritte decisioni della Cassazione italiana del
gennaio 2004 hanno convinto la Corte europea a mutare nuovamente il proprio
indirizzo in tema di ricevibiltà dei ricorsi provenienti dall’Italia con riguardo
alla regola del previo esaurimento dei ricorsi interni.
Nella causa Di Sante c. Italia (21 giugno 2004, n. 56079/00), difatti, i giudici di Strasburgo, hanno, in primis, ricordato il principio di seguito esposto.
L’articolo 35 CEDU impone il previo esaurimento delle vie di ricorso interne
perché ci si possa rivolgere alla Corte europea e prescrive l’esaurimento solo di
quei ricorsi che possono considerarsi disponibili e adeguati con un grado di
sufficiente certezza non solo in teoria ma anche nella prassi. Esaurita tale doverosa premessa, la Corte di Strasburgo – facendo espresso riferimento alle summenzionate decisioni della suprema Corte italiana ed alla regola di conformazione alla giurisprudenza europea ivi espressa – ha stabilito che, a partire dalla
data di deposito della sentenza 1340 (26 gennaio 2004), il meccanismo di ricorso interno innanzi al giudice italiano di ultima istanza aveva nuovamente acquisito un grado di certezza giuridica sufficiente non solo in teoria ma anche
nella prassi, dell’articolo 35 CEDU.
Pertanto, i giudici di Strasburgo, ritenendo che le più volte citate sentenze
della Cassazione, e segnatamente la decisione 1340, non potessero più essere
ignorate dal pubblico a decorrere dal 26 luglio 2004, ha statuito che, a decorrere da questa data, ai fini dell’articolo 35 CEDU, prima di adire la Corte europea
occorreva aver previamente esperito il ricorso innanzi alla Corte suprema italiana.
Con le decisioni del 10 novembre 2004 (Apicella c. Italia, n. 64890/01;
Carletti e Bonetti c. Italia, n. 62457/00; Cocchiarella c. Italia, n. 64886/01;
Ernestina Zullo c. Italia, n. 64897/01; Finazzi c. Italia, n. 62152/00; Giuseppe
Mostacciuolo c. Italia (n. 1), n. 64705/01; Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n.
2), n. 65102/01; Giuseppina e Orestina Procaccini c. Italia, n. 65075/01; Musci c. Italia, n. 64699/01; Riccardi Pizzati c. Italia, n. 2361/00), la Corte di
18
V. la sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 16 luglio 2004, n. 13163.
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
133
Strasburgo torna a pronunciarsi sull’equa riparazione dei danni patiti in conseguenza della violazione dell’articolo 6 CEDU.
Con riferimento alla ricevibilità dei ricorsi proposti le conclusioni dei giudici europei, concernenti il rifiuto dei ricorrenti di rivolgersi previamente alla
Corte di cassazione, sono analoghe a quelle già formulate nella causa Di Sante.
Più precisamente nelle sentenze in discorso la Corte motiva con le parole di seguito riportate il rigetto delle eccezioni formulate dal Governo aventi ad oggetto il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne: “La Corte ricorda inoltre
che essa ha giudicato ragionevole statuire che il mutamento di giurisprudenza
della Corte di cassazione, non poteva più essere ignorato dal pubblico a partire
dal 26 luglio 2004 e che a decorrere da tale data deve essere preteso dai ricorrenti che facciano uso di questo ricorso ai fini dell’articolo 35 § 1 della Convenzione (di Sante c. Italia (decisione), n. 56079/00, 24 giugno 2004). Poiché il
termine per ricorrere in Cassazione è scaduto prima del 26 luglio 2004, la Corte
reputa che in queste circostanze il ricorrente era dispensato dall’obbligo di
esaurire le vie di ricorso”.
Nonostante le apparenze, però, la ritrovata comunità d’intenti tra la giurisprudenza italiana ed europea risulterà priva di solide fondamenta. Come si
avrà modo di rilevare di seguito, nuovi e vecchi “punti di rottura” faranno nuovamente vacillare la già precaria fiducia degli operatori del diritto nella legge
Pinto e nella sua applicazione.
5. I criteri di valutazione della ragionevolezza della durata del processo
Nonostante gli elementi di convergenza più sopra evidenziati tra la giurisprudenza di Strasburgo e quella delle Corti italiane, un importante elemento di
divergenza (e contrasto) tra le suddette giurisprudenze è rappresentato dalla
quantificazione dell’ammontare dell’indennizzo19 dovuto alle persone (fisiche
19
Si noti che, in base alla giurisprudenza di legittimità, con la legge Pinto non si è previsto
un risarcimento del danno ma un’equa riparazione per l’eccessiva durata del processo, ossia un
indennizzo da attività lecita. Infatti, il protrarsi della durata del processo non rende illecita
un’attività, quale quella dell’amministrazione della giustizia, che è lecita e, di conseguenza, non
si richiede l’individuazione di una specifica colpa o di dolo a carico di singoli agenti. Cfr. sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 13 settembre 2002, n. 13422. Parte della dottrina evidenzia come tale qualificazione non convinca poiché la somma di denaro riconosciuta
deve compensare quello che è definito un danno patrimoniale o non patrimoniale e che va liqui-
134
PARTE SECONDA
o giuridiche) vittime di un processo eccessivamente lungo20.
Prima di passare all’analisi di tale aspetto, è necessario individuare i criteri
di valutazione della ragionevolezza della durata del processo elaborati dalla
Corte di Strasburgo da cui deriva, poi, il riconoscimento o meno di un indennizzo21.
Primo criterio è quello della complessità del caso: è del tutto evidente che
quanto più il caso sarà complesso tanto più tempo sarà necessario affinché il
procedimento si concluda. Per complessità si intende l’insieme degli elementi
di fatto e di diritto valutati dalla Corte, vale a dire: il numero delle parti processuali e delle domande su cui statuire nonché dei testimoni, la difficoltà di ottenere prove, la lunghezza e la complessità delle indagini, la necessità di analizzare numerosi documenti, la presentazione di una questione giuridica nuova,
ecc22. Inoltre, nell’opinione dei giudici della Corte di Strasburgo, è necessario
dato in base all’articolo 2056 c.c., il quale indica i parametri per il risarcimento dovuto al danneggiato in termini di danno emergente e di lucro cessante. V. PETROLATI F., I tempi del processo
e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d. “legge Pinto”), Milano, 2005, p. 15.
20
Sull’equa riparazione ex legge Pinto v. SACCUCCI A., Riparazione per irragionevole durata dei processi tra diritto interno e Convenzione europea, in Diritto penale e processo, 2001, p.
893 ss.; DIDONE A., Equa riparazione e ragionevole durata del processo, Milano, 2002; LONGO
P., Violazione della durata del processo: natura della riparazione e danno risarcibile. Nota a
App. Genova 29 novembre 2001, in Giurisprudenza di merito, 2003, p. 18 ss.; PADELLETTI M.L.,
L’applicazione della legge Pinto sull’equa riparazione in caso di irragionevole durata del processo: qualche luce e tante ombre, cit.; ID., Ancora sulla legge Pinto: “equa riparazione” o indennizzo iniquo per la durata irragionevole del processo, in Rivista di diritto internazionale,
2003, p. 771 ss.; ROMANO G.-PARROTTA D.A.-LIZZA E., Il diritto ad un giusto processo tra corte
internazionale e corti nazionali. L’equa riparazione dopo la legge Pinto, Milano, 2002; COLONNA G., La liquidazione del danno nella legge Pinto, in Giurisprudenza italiana, 2003, p. 198 ss.;
PETROLATI F., I tempi del processo e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d.
“legge Pinto”), cit.; RECCHIA C., Il danno da ragionevole durata del processo ed equa riparazione, Milano, 2006; SANNA C., La durata ragionevole dei processi nel dialogo tra giudici italiani ed europei, Milano, 2008; DE MARZO G., La ragionevole durata del processo nella giurisprudenza CEDU. Riflessi pratici sull’applicazione delle legge Pinto, disponibile online su
http://appinter.csm.it/incontri/relaz/17601.pdf.
21
Cfr. per tutti CITTARELLO A., La durata ragionevole del processo: criteri di valutazione
della “ragionevolezza” elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed ordinamento italiano, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2003, p. 161 ss.; RECCHIA C., Il danno
da ragionevole durata del processo ed equa riparazione, cit., p. 71 ss.; SANNA C., La durata ragionevole dei processi nel dialogo tra giudici italiani ed europei, cit., p. 163 ss.
22
Cfr. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 27 aprile 1999, Brusolino c. Italia, n. 35757/97; 16 luglio 1971, Ringeisen c. Austria, n. 2614/65; 27 giugno 1968,
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
135
rivolgere una particolare attenzione all’oggetto del procedimento, o della “posta in gioco”, poiché alcuni casi (adozioni, cause di lavoro, risarcimento a persone malate) richiedono da parte delle autorità una particolare diligenza, dato
che un procedimento eccessivamente lungo potrebbe avere gravi ripercussioni
su diritti fondamentali dell’individuo23. Si noti che, mentre quest’ultimo parametro è sempre stato presente nella giurisprudenza di Strasburgo, altrettanto
non può dirsi per quella interna che ha iniziato a farvi riferimento solo negli ultimi anni, stabilendo che il giudice deve valutare la portata degli interessi in
gioco nel procedimento considerato così da utilizzare una speciale solerzia nel
caso in cui essi siano particolarmente rilevanti24. D’altra parte, l’esiguità degli
Neumeister c. Austria, n. 1936/63; 8 luglio 1987, H. c. Regno Unito, n. 9580/81. In tale senso si è
espressa anche la Corte di cassazione italiana, affermando, ad esempio nella sentenza 1° marzo
2007, n. 4848, che: “nonostante la lunghezza del procedimento, di fronte all’affermazione della
Corte di appello circa la complessità del caso il ricorrente non ha addotto alcuna specifica contestazione in relazione ad eventuali ritardi o inefficienze dell’attività della pubblica amministrazione”. Nel 2008, la Corte afferma inoltre che “la Corte europea dei diritti dell’uomo, ai cui principi
il giudice nazionale deve tendenzialmente uniformarsi nella determinazione della durata ragionevole del procedimento, ha in linea di massima stimato tale durata in anni tre per quanto riguarda
il giudizio di primo grado ed in anni due per quello di secondo grado, parametro da cui il giudice
interno può discostarsi in considerazione della maggiore o minore complessità del procedimento”
(v. la sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezione I, 3 aprile 2008, n. 8521). In Italia una
delle prime sentenze che ha teso a specificare il criterio della complessità del caso è stata la pronuncia della Corte di appello di Torino del giugno 2001 la quale elencava, tra gli elementi in base ai quali determinare la complessità del caso: la pluralità di domande, l’elevato numero delle
parti e dei testimoni, lo svolgimento di consulenze tecniche, la quantità e complessità dei documenti da esaminare (tra cui gli scritti difensivi), il fatto che la questione sia dibattuta in dottrina e
giurisprudenza, l’esistenza di eventuali questioni di costituzionalità (v. la sentenza della Corte di
appello di Torino, 25 giugno 2001, n. 48).
23
Cfr. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 27 febbraio 1992, Maciariello c. Italia, n. 12284/86, A 230; 31 marzo 1992, X. c. Francia, n. 18020/91, A 234-C; 26
aprile 1994, Vallèe c. Francia, n. 22122/93, A-289-A; 30 ottobre 1998, F.E. c. Francia, n.
38212/97; 18 febbraio 1999, Laino c. Italia, n. 33158/96; 31 marzo 2009, Simaldone c. Italia, n.
22644/03, in cui la Corte ha affermato: “Toutefois, elle rappelle que, même lorsque cet enjeu est
de faible importance, les procédures portant, comme en l’espèce, sur le droit du travail ainsi que
celles concernant l’état et la capacité des personnes doivent être menées de manière particulièrement rapide”.
24
V. sentenza della Corte di cassazione, 2 luglio 2004, n. 12116; decreto della Corte di appello di Roma, Civile, Sezione I (volontaria giurisdizione), 26 giugno-10 luglio 2001, in cui la
Corte evidenzia che l’ammontare dell’equa riparazione non dipende solo dalla durata del processo ma sopratutto dagli interessi in gioco (corsivo aggiunto).
136
PARTE SECONDA
interessi in gioco non può essere un motivo sufficiente per negare il diritto
all’equa riparazione qualora si sia subìto un processo irragionevolmente lungo
poiché resta comunque risarcibile il danno non patrimoniale derivante dalla
lunghezza del procedimento25. Così nella sentenza del 2008, n. 28501, la Cassazione ha affermato: “D’altronde, la indennizzabilità del danno di cui si tratta
non può essere esclusa sulla base del rilievo dell’esiguità della posta in gioco
nel processo presupposto, in quanto l’ansia ed il patema d’animo conseguenti
alla pendenza del processo si verificano anche nei giudizi in cui la posta in gioco è esigua, onde tale aspetto può avere solo un effetto riduttivo dell’entità del
risarcimento, ma mai escluderlo totalmente”26.
Il secondo criterio cui fa ricorso la Corte europea dei diritti dell’uomo è
quello della condotta delle parti, ossia del comportamento tenuto dall’individuo o dagli individui che lamentano di essere vittime di una durata eccessiva
del procedimento. Secondo la giurisprudenza di Strasburgo, infatti, una persona
non può invocare la violazione della durata ragionevole del procedimento nel
caso in cui abbia appositamente ritardato il processo ad esempio con frequenti
cambi di domicilio o con il ripetuto mutamento del difensore o attraverso la
proposizione di mezzi di impugnazione a scopo puramente dilatorio o ostruzionistico27.
Inoltre, rimanendo nell’ambito del comportamento delle parti, la Corte di
cassazione ha affermato che dalla durata complessiva del procedimento va detratto il tempo trascorso per rinvii esclusivamente dilatori voluti dalla parte e
ciò dovrà essere tenuto in considerazione al momento della determinazione del
quantum da riconoscere alla vittima, a meno che questi ritardi siano la sola
causa della lunghezza del processo nel qual caso la domanda di equo indennizzo dovrà essere rigettata28. Ora, a differenza della giurisprudenza della Corte di
Strasburgo dove si riconosce la massima rilevanza al comportamento delle au
25
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 10 gennaio 2005, n. 297; 12 dicembre 2007, n.
26014; 14 novembre 2008, n. 27239; 1° dicembre 2008, n. 28501.
26
V. la sentenza della Corte di cassazione, 1° dicembre 2008, n. 28501.
27
V. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 25 giugno 1987, Capuano c. Italia, n. 9381/81; 21 febbraio 1991, Vernillo c. Francia, n. 11889/85; 4 dicembre 1995,
Ciricosta e Viola c. Italia, n. 19753/92, A 337; 9 marzo 2000, Farina c. Italia, n. 50622/99.
28
Cfr. la sentenza della Corte di cassazione, 16 aprile 2004, n. 7254. Per un’analisi approfondita del criterio del comportamento delle parti (e di ogni autorità coinvolta) e della relativa
giurisprudenza interna si veda DE MARZO G., La ragionevole durata del processo nella giurisprudenza CEDU. Riflessi pratici sull’applicazione delle legge Pinto, cit., p. 13 ss.
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
137
torità giudiziarie ed al loro potere di impulso (come si vedrà a breve), la giurisprudenza interna sembra mettere maggiormente l’accento sul comportamento
delle parti e solo, successivamente, valutare quello dell’autorità giudiziaria29.
Tuttavia, la Corte di cassazione ha escluso che il tempo intercorrente tra
un’udienza ed un’altra derivante dalla richiesta di rinvio di una parte debba necessariamente essere imputato alla parte; infatti, l’eccessiva durata del suddetto
lasso di tempo potrebbe essere conseguenza non della richiesta di rinvio ma
dell’organizzazione (o, meglio, disorganizzazione) del sistema giudiziario30.
Infine, il terzo, ed ultimo, criterio considerato per valutare la ragionevolezza della durata del procedimento è, per l’appunto, il comportamento delle autorità giudiziarie competenti, dato che sugli Stati contraenti incombe anche
l’obbligo di organizzare il loro sistema giudiziario così da garantire il rispetto
dell’articolo 6, paragrafo 1, CEDU31. La Corte europea dei diritti dell’uomo,
seguita in questo dalla giurisprudenza nazionale, considera, quindi, tanto
l’attività del giudice chiamato ad occuparsi del caso specifico quanto quella
dell’apparato giudiziario nel suo insieme e, quindi, rilevano anche i comportamenti tenuti dalle cancellerie, dai consulenti tecnici, ecc. Così lo Stato sarà responsabile della violazione dell’articolo 6 sia se il giudice non ha risolto velocemente questioni procedurali semplici o ha tenuto un comportamento negligente o passivo sia se le disfunzioni ed i ritardi sono dovuti ad una cattiva organizzazione del sistema giudiziario o ad una mancanza di risorse umane32.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha, quindi, stabilito una lunghezza
standard del processo, superata la quale si presume che la durata sia stata irragionevole (a meno che le circostanze specifiche del caso non portino a concludere diversamente), corrispondente a tre anni per il primo grado, due anni per il
29
Cfr. RECCHIA C., Il danno da ragionevole durata del processo ed equa riparazione, cit.,
pp. 78-82.
30
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 21 marzo 2003, n. 4142; 9 gennaio 2004, n.
119; 7 aprile 2004, n. 6856.
31
Cfr. caso Capuano c. Italia, cit.
32
V. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 10 dicembre 1982, Foti e
altri c. Italia, n. 7604/76, n. 7719/76, n. 7781/77, n. 7913/77; Capuano c. Italia, cit; 6 aprile
1995, Lupo c. Italia, n. 20543/92; 10 febbraio 1995, Allenet de Ribemont c. Francia, n.
15175/89. V. anche in tal senso: sentenza della Corte di cassazione, 3 gennaio 2003, n. 8; sentenza della Corte di cassazione, 28 dicembre 2004, n. 24062; decreto della Corte di appello di Brescia, Civile, Sezione I, 29 giugno 2001, n. 43; decreto della Corte di appello di Brescia, Sezione
feriale, 23-30 agosto 2001, n. 2860.
138
PARTE SECONDA
secondo e un anno per il terzo. Se, inizialmente, le corti nazionali hanno negato
la necessità di seguire tale parametro nel valutare la ragionevolezza della durata
della procedura, ritenendo che non la si possa predeterminare ma che dipenda
dalle circostanze del caso33, in seguito vi si sono adeguate34 (pur lasciando al
giudice un margine di valutazione delle caratteristiche specifiche del caso che
gli consente anche di discostarsene)35.
6. L’ammontare dell’indennizzo: la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e
delle Corti italiane a confronto
Si è visto che, a seguito del revirement giurisprudenziale attuato dalla Corte
di cassazione con le tre sentenze del 200436, sui giudici nazionali grava
l’obbligo di adeguarsi all’interpretazione data dal giudice europeo del diritto
alla ragionevole durata del processo e, quindi, ai criteri di determinazione della
riparazione stabiliti da Strasburgo (pur mantenendo un margine di discrezionalità che gli permette di discostarsi parzialmente da tali criteri). Se dal punto di
vista della lunghezza considerata ragionevole questo adeguamento da parte delle corti nazionali vi è stato, altrettanto non può dirsi per l’ammontare
dell’indennizzo liquidato in caso di durata irragionevole che è sempre inferiore
a quello riconosciuto a Strasburgo.
In base alla giurisprudenza dell’organo giurisdizionale europeo detto in
33
V. le sentenze della Corte di cassazione: 27 dicembre 2002, n. 18332; 10 settembre 2003,
n. 13211; 5 novembre 2003, n. 16600. Nella sentenza da ultimo richiamata, la Corte evidenzia
che “la nozione di ragionevole durata del procedimento non ha carattere assoluto ma deve essere
valutato in relazione alle specifiche caratteristiche di ogni caso e che i parametri elaborati dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo hanno carattere orientativo ma non tassativo. Inoltre, la
Corte aggiunge che il termine ragionevole è concetto diverso da quello di tempo strettamente
necessario per la trattazione della causa essendo caratterizzato da maggiore elasticità”.
34
Anche in questo caso il cambiamento in giurisprudenza si è assistito a partire dal 2004. V.
la sentenza della Corte di cassazione, 2 marzo 2004, n. 4207.
35
V. l’ordinanza della Corte di cassazione, Civile, 9 marzo 2009, n. 5665: “Inoltre, la Corte
ha anche evidenziato che la durata irragionevole va determinata sulla base delle circostanze del
caso e non può essere predeterminata rigidamente. Così il parametro di sei anni indicato dalla
Corte europea deve essere, in linea generale, osservato, ma è possibile discostarvisi se vi sono
delle argomentazioni concrete, congrue e coerenti che lo permettano”.
36
V. la sentenza della Corte di cassazione, Civile, Sezioni unite, 26 gennaio 2004, nn. 1338,
1339, 1340. Cfr. supra, paragrafo 4.
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
139
dennizzo deve essere calcolato attribuendo tra i 1.000 ed i 1.500 euro per ogni
anno di durata del procedimento. Tale ammontare può, poi, essere aumentato
fino a raggiungere la somma di 2.000 euro nel caso in cui l’oggetto della controversia riguardi diritti particolarmente rilevanti per l’individuo (come il diritto alla salute o al lavoro) e, parimenti, può essere diminuito in considerazione
del comportamento dilatorio della parte, del numero dei gradi di giudizio, della
scarsa rilevanza degli interessi in gioco, ecc37.
La giurisprudenza nazionale si è discostata da tali parametri sia accordando
cifre inferiori ai 1.000/1.500 euro su indicati (motivando ciò in base alla non
rilevanza della posta in gioco38) sia considerando, come base per il calcolo
dell’indennizzo, non tutti gli anni di durata del processo ma solo quelli eccedenti la durata ragionevole dello stesso39.
Ora, per quanto riguarda il primo aspetto a partire dal 2004 si è assistito ad
un allineamento sulle posizioni della Corte di Strasburgo dal momento che la
Cassazione ha affermato che il giudice interno, pur mantenendo un margine di
valutazione che gli permette di allontanarsi da un’applicazione rigorosa e formale dei criteri adottati dalla Corte europea, non può liquidare somme che non
37
V. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 novembre 2004:
Zullo c. Italia, n. 64897/01; Cocchiarella c. Italia, n. 64886/01; Apicella c. Italia, n. 64890/01;
Carletti e Bonetti c. Italia, n. 62457/00; Finazzi c. Italia, n. 62152/00; Giuseppina e Orestina
Procaccini c. Italia, n. 65875/01; Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n. 1), n. 64705/01; Giuseppe
Mostacciuolo c. Italia (n. 2), n. 65102/01; Musci c. Italia, n. 64699/01; Riccardi Pizzati c. Italia,
n. 62361/00.
38
Cfr. RECCHIA C., Il danno da ragionevole durata del processo ed equa riparazione, cit., p.
121.
39
Per quanto concerne il riconoscimento dell’indennizzo tanto la giurisprudenza di Strasburgo quanto quella nazionale hanno affermato che il diritto ad ottenere detto indennizzo prescinde dalla fondatezza della pretesa che l’interessato ha fatto valere in giudizio o dal fatto che
risulti soccombente in un processo penale. Ciò che rileva è, infatti, solamente l’aver subìto un
processo irragionevolmente lungo, come confermato anche dalla legge Pinto la quale prevede
che l’interessato possa presentare domanda di equa riparazione per eccessiva durata del procedimento anche mentre questo è pendente (articolo 4). In tale senso, è significativo che la Cassazione abbia riconosciuto il diritto all’equa riparazione anche a chi, grazie alla durata irragionevole
del processo, abbia goduto della prescrizione del reato a causa dello stress psicologico da esso
comunque provato per la lunghezza del procedimento, per lo meno fino a quando non abbia acquisito la certezza della prescrizione. Chiaramente, tale discorso decade nel momento in cui la
lunghezza del processo deriva da una specifica volontà dilatoria dell’interessato. V. sul punto
DIDONE A., La Cassazione, la legge Pinto e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in Rivista
trimestrale di diritto e procedura civile, 2004, p. 193 ss., p. 200.
140
PARTE SECONDA
siano in relazioni ragionevoli con la somma accordata dalla Corte negli affari
simili. Egli ha, quindi, il dovere di conformarsi alla giurisprudenza della Corte
accordando somme adeguate, potendosi discostare solo se tale deroga appare
motivata, ragionevole e logica (in base alle circostanze del caso)40, integrando,
in caso contrario, una violazione di legge41. Inoltre, di recente, la Corte di cassazione ha specificato che, per quanto concerne la quantificazione del danno
non patrimoniale, questo deve essere non inferiore a 750 euro per i primi tre
anni di durata eccessiva del procedimento e non inferiore a 1.000 euro per gli
anni successivi42. Per quanto concerne l’attribuzione di un bonus, nell’opinione
della suprema Corte, questo può essere accordato dal giudice di merito qualora
riconosca che la causa ha una particolare rilevanza per la parte, senza necessità
di motivare tale sua decisione. Ugualmente, se esso non si pronuncia su questo
aspetto significa che non ha ritenuto sussistere tale particolare rilevanza43.
Altro elemento che viene in rilievo nella determinazione del quantum da
versare è l’adozione di misure cautelari o di provvedimenti anticipatori. È qui
possibile distinguere due situazioni. Qualora la misura cautelare o il provvedimento anticipatorio siano confermati nel giudizio finale, l’indennizzo potrà essere limitato (o addirittura escluso in alcune circostanze) nonostante la durata
irragionevole del procedimento, poiché l’individuo ha già ottenuto una anticipazione degli effetti della sentenza definitiva. Se, invece, tali misure o provvedimenti non sono confermati nel giudizio finale o quest’ultimo è perfino di segno contrario si potrà prevedere un aggravarsi dell’indennizzo dovuto per eccessiva durata del processo44.
40
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 26 gennaio 2004, n. 1340; 30 settembre 2004,
n. 19639; 23 aprile 2005, n. 8568; 2 gennaio 2007, n. 2254; 24 gennaio 2007, n. 1605; 7 agosto
2008, n. 21400; 10 novembre 2008, n. 26911; 14 ottobre 2009, n. 21840. V. anche l’ordinanza
della Corte di cassazione, 9 marzo 2009, n. 5665.
41
Cfr. PETROLATI F., I tempi del processo e l’equa riparazione per la durata non ragionevole (la c.d. “legge Pinto”), cit., p. 12.
42
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 14 ottobre 2009, n. 21840; 30 dicembre 2009,
n. 27742. Si noti che la legge Pinto, all’articolo 2, comma 3, prevede anche che “il danno non
patrimoniale è riparato, oltre che con il pagamento di una somma di denaro, anche attraverso
adeguate forme di pubblicità della dichiarazione dell'avvenuta violazione”.
43
Cfr. sentenza della Corte di cassazione, 30 dicembre 2009, n. 27742; ordinanza della Corte di cassazione, 2 febbraio 2010, n. 2403; ordinanze della Corte di cassazione, 2 marzo 2010,
nn. 4990, 4997, 5000, 5001, 5002, 5003, 5004.
44
Cfr. CITTARELLO A., La durata ragionevole del processo: criteri di valutazione della “ragionevolezza” elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed ordinamento italiano, cit.,
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
141
Ciò che, invece, è rimasto inalterato e che continua ad essere motivo di
condanna da parte della Corte di Strasburgo è il fatto che venga concesso
l’indennizzo solo per il periodo eccedente alla durata ragionevole del processo
e non per l’intera durata dello stesso. In effetti, è la stessa legge Pinto a prevedere, all’articolo 2, comma 3, che la riparazione sia dovuta solo per il periodo
eccedente45. La giurisprudenza interna, allo scopo di determinare la porzione di
tempo che abbia violato la suddetta ragionevolezza, ha stabilito che dall’intero
arco temporale deve essere sottratto il segmento temporale attribuibile alle parti46. Inoltre, una volta superato il periodo ragionevole, “dalla durata irragionevole possono essere detratti i tempi derivanti da rinvii richiesti dalla parte solo
se sono dovuti ad una volontà dilatoria o a negligenza della stessa”47. Ciò che
resta è il tempo imputabile all’apparato giustizia che non può essere considerato tutto come non ragionevole in quanto ogni processo ha una durata fisiologica
legata alle caratteristiche specifiche dello stesso48; ne deriva che di volta in volta il giudice interno dovrà valutare se le attività che sono state compiute siano
tali da giustificarne la durata49. Inoltre, il giudice di legittimità ha affermato la
necessità di valutare la ragionevolezza della durata del procedimento nel suo
complesso e non con riferimento ai singoli termini interni ad esso perché, altrimenti, qualsiasi violazione di quest’ultimi porterebbe ad una durata irragionevole del processo50. In tale modo il concetto di tempo ragionevole verrebbe,
pp. 170-171.
45
Il su citato articolo 2, comma 3, della legge Pinto così statuisce: “Il giudice determina la
riparazione a norma dell’articolo 2056 del codice civile, osservando le disposizioni seguenti: a)
rileva solamente il danno riferibile al periodo eccedente il termine ragionevole di cui al comma
1; (…)”.
46
Cfr. la sentenza della Corte di cassazione, 3 febbraio 2004, n. 4.
47
Cfr. la sentenza della Corte di cassazione, 18 dicembre 2008, n. 29543.
48
Ad esempio, in relazione al processo penale la giurisprudenza della Cassazione, adeguandosi a quella europea, afferma che il dies a quo decorre dal momento in cui l’individuo ha conoscenza diretta dell’esistenza di un procedimento nei suoi confronti. In tale durata va, quindi, considerato anche il periodo di custodia cautelare in carcere così come possono entrarvi le indagini
“preliminari” da quando non sono più segrete, le quali, di conseguenza, sono idonee ad incidere
sulla psiche dell’individuo. Cfr. sentenze della Corte di cassazione: 6 febbraio 2003, n. 1740 e 11
settembre 2007, n. 19093.
49
V. la sentenza della Corte di cassazione, 3 febbraio 2004, n. 4.
50
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione 17 marzo 2003, n. 5386 e 11 settembre 2008, n.
23506, dove la Corte ha statuito che “in tema di equa riparazione ai sensi della legge 24 marzo
2001, n. 89, pur essendo possibile individuare degli standard di durata media ragionevole per
ogni fase del processo, quando quest’ultimo si sia articolato in vari gradi e fasi, agli effetti
142
PARTE SECONDA
erroneamente, a coincidere con quello di minor tempo possibile o di tempo
strettamente necessario alla trattazione della causa, mentre questi concetti
vanno tenuti separati in quanto il primo è caratterizzato da una maggiore flessibilità51.
La Corte europea ha costantemente condannato la su citata giurisprudenza
interna52 sottolineando che, sebbene la legge Pinto resti un rimedio interno efficace in quanto è idonea a sanzionare l’eccessiva durata del procedimento (negando, quindi, che vi sia violazione anche dell’articolo 13 della CEDU), i ricorrenti restano “vittime” ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione europea dei
diritti dell’uomo dato che ricevono un indennizzo inadeguato ed insufficiente
rispetto a quello accordato dalla stessa Corte in casi simili. In effetti, nel caso
Provide la Corte di Strasburgo ha dichiarato: “la Cour a déjà indiqué que,
même si un recours est ‘effectif’ dès lors qu’il permet soit de faire intervenir
plus tôt la décision des juridictions saisies, soit de fournir au justiciable une réparation adéquate pour les retards déjà accusés, cette conclusion n’est valable
que pour autant que l’action indemnitaire demeure elle-même un recours efficace, adéquat et accessible permettant de sanctionner la durée excessive d’une
procédure judiciaire. La Cour note d’abord que la procédure ‘Pinto’ a duré du
6 septembre 2001 au 15 avril 2003, soit dix-neuf mois, ce qui est encore raisonnable dans la mesure où deux juridictions ont eu à se prononcer. Elle estime
ensuite qu’en constatant un dépassement du délai raisonnable et en rejetant la
dell’apprezzamento del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6.1 della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, occorre avere riguardo all’intero svolgimento del
processo medesimo, dall’introduzione fino al momento della proposizione della domanda di equa
riparazione, dovendosi cioè addivenire ad una valutazione sintetica e complessiva dell’unico
processo da considerare nella sua complessiva articolazione. Non rientra, pertanto, nella disponibilità della parte riferire la sua domanda ad uno solo dei gradi di giudizio, optando per quello
nell’ambito del quale si sia prodotta una protrazione oltre il limite della ragionevolezza”.
51
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 10 settembre 2003, n. 13211 e 5 novembre
2003, n. 16600.
52
V. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (grande camera): 29 marzo 2006, Scordino c. Italia, n. 36813/97; 29 marzo 2006, Riccardi Pizzati c. Italia, n. 62361/00;
29 marzo 2006, Musci c. Italia, n. 64699/01; 29 marzo 2006, Giuseppe Mostacciuolo c. Italia (n.
2), n. 65102/01; 29 marzo 2006, Cocchiarella c. Italia, n. 64886/01; 29 marzo 2006, Apicella c.
Italia, n. 64890/01; 29 marzo 2006, Zullo c. Italia, n. 64897/01; 29 marzo 2006, Giuseppina e
Orestina Procaccini c. Italia, n. 65075/01; 5 ottobre 2007, Provide s.r.l. c. Italia, n. 62155/00; 8
gennaio 2008, Viola e altri c. Italia, n. 7842/02; 18 febbraio 2008, Serino c. Italia, n. 679/03; 1°
luglio 2008, Conceria Madera s.r.l. c. Italia, n. 4012/03.
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
143
demande de réparation du dommage moral, la Cour d’appel de Venise n’a pas
réparé de manière appropriée et suffisante l’infraction qu’elle venait de constater. En conclusion, la Cour considère que le redressement s’est révélé insuffisant et que la requérante peut toujours se prétendre ‘victime’ au sens de
l’article 34 de la Convention”53.
È del tutto evidente che nel caso italiano l’inadeguatezza del risarcimento
deriva, innanzitutto, dal fatto le corti interne, nel computo dell’indennizzo, non
considerano tutta la durata del procedimento ma solamente quella ritenuta eccessiva. Infatti, come sottolinea l’organo giurisdizionale di Strasburgo, non è
sufficiente una decisione favorevole al ricorrente affinché venga meno la sua
qualità di vittima ma è necessario che le autorità nazionali abbiano riconosciuto
ed effettivamente riparato la violazione della Convenzione54. Spetta, poi, alla
Corte europea dei diritti dell’uomo stabilire se tale riconoscimento vi è stato e
se i cambiamenti introdotti dalle autorità nazionali siano appropriati e sufficienti a riparare alla violazione55. Ora, sebbene un ricorso possa essere considerato effettivo se favorisce l’adozione in tempi brevi della decisione della giurisdizione adita e se fornisce un compenso adeguato per i ritardi lamentati, tale
conclusione resta valida solo se l’azione indennitaria costituisce essa stessa un
ricorso efficace, adeguato ed accessibile che permette di sanzionare la durata
eccessiva del processo56. Inoltre, la necessità di adeguare l’applicazione della
legge Pinto alla giurisprudenza di Strasburgo deriva dal principio di sussidia
53
Cfr. caso Provide s.r.l. c. Italia, cit., paragrafi 22-25. Come evidenzia la Corte di Strasburgo, gli indennizzi riconosciuti dalle corti italiane talvolta corrispondono a meno del 10% di
quanto accordato dalla Corte europea in casi simili. Cfr. le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, 5 giugno 2007, Delle Cave e Corrado c. Italia, n. 14626/03 e Simaldone c. Italia,
cit.
54
Cfr. le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 21 giugno 1983, Eckle
c. Germania, n. 8130/78, A 51; 25 giugno 1996, Amuur c. Francia, n. 19776/92; 28 settembre
1999, Dalban c. Romania, n. 28114/95; 14 febbraio 2002, Jensen c. Danimarca, n. 48470/99; 24
febbraio 2005, Petrouchko c. Russia, n. 36494/02; Scordino c. Italia (n .1), cit.; Delle Cave e
Corrado c. Italia, cit.; 15 gennaio 2009, Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04.
55
Cfr. caso Delle Cave e Corrado c. Italia, cit.
56
Cfr. caso Delle Cave e Corrado c. Italia, cit.: “la Cour a déjà indiqué que, même si un recours doit être regardé comme “effectif ” dès lors qu’il permet soit de faire intervenir plus tôt la
décision des juridictions saisies, soit de fournir au justiciable une réparation adéquate pour les
retards déjà accusés, cette conclusion n’est valable que pour autant que l’action indemnitaire demeure elle-même un recours efficace, adéquat et accessible permettant de sanctionner la durée
excessive d’une procédure judiciaire” (paragrafo 27).
144
PARTE SECONDA
rietà in base al quale sono, innanzitutto, gli Stati parte a dover garantire in maniera effettiva il diritto alla durata ragionevole del processo all’interno dei loro
ordinamenti e di fronte alle loro istanze nazionali, avendosi l’intervento
dell’organo giurisdizionale del Consiglio d’Europa solo nel caso in cui i suddetti Stati non siano in grado di garantire tale diritto. In altre parole, gli Stati
hanno l’obbligo di introdurre meccanismi che non solo garantiscano, sul piano
interno, i diritti enunciati dalla Convenzione ma che siano anche idonei ad assicurare la riparazione in caso di violazione di detti diritti57.
Dalla giurisprudenza della Corte europea deriva, dunque, un giudizio sulla
legge Pinto che si potrebbe definire “doppio”: da un lato, detto ricorso è di per
sé ritenuto efficace e in linea con i parametri previsti dalla CEDU e dalla relativa giurisprudenza, dall’altro lato, la sua applicazione è considerata contraria
ai principi convenzionali e giurisprudenziali (tanto che l’Italia continua ad essere condannata per l’insufficienza dell’indennizzo e per il ritardo con cui viene versato, aspetto questo di cui ci occuperemo di seguito)58.
Non è possibile non rilevare come tale posizione sia criticabile, considerato
che la legge Pinto non prevede nessun rimedio tendente a ridurre i tempi del
processo59, che è l’obiettivo precipuo dell’articolo 6, paragrafo 1, CEDU, limitandosi a stabilire solo un procedimento attraverso il quale ottenere un indennizzo nel caso in cui tale violazione si sia verificata. Detto rimedio dovrebbe,
quindi, essere considerato come provvisorio in attesa di interventi che portino a
procedimenti più celeri, a meno di ammettere che il pagamento di una somma
di denaro sia equivalente alla realizzazione (ed al godimento effettivo) di un
diritto fondamentale60. Per tali ragioni, ci si sarebbe aspettati che la Corte non
57
Cfr. DE MARZO G., La ragionevole durata del processo nella giurisprudenza CEDU. Riflessi pratici sull’applicazione delle legge Pinto, cit.
58
Cfr. CITTARELLO A., La durata ragionevole del processo: criteri di valutazione della “ragionevolezza” elaborati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo ed ordinamento italiano, cit.,
p. 173.
59
Lo stesso Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha evidenziato questo elemento:
“S’agissant du recours interne introduit en 2001 par la “loi Pinto”, il reste un certain nombre de
défaillances à régler, notamment liées à l’effectivité de ce recours et à son application en conformité avec la Convention: en particulier, cette loi ne permet toujours pas d’accélérer les procédures pendantes”. Cfr. CM/Inf/DH(2004)23, 24 septembre 2004, par. 11; Résolution intérimaire
ResDH(2005)114 concernant les arrêts de la Cour européenne des droits de l’homme et les décisions du Comité des ministres dans 2.183 affaires contre l’Italie relatives à la durée excessive
des procédures judiciaires.
60
Cfr. PADELLETTI M.L., Ancora sulla legge Pinto: “equa riparazione” o indennizzo iniquo
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
145
fosse così “benevola” nel considerare detto rimedio come efficace e in linea
con il dettato convenzionale61.
Nonostante i continui richiami fatti alle autorità italiane dall’organo giurisdizionale di Strasburgo affinché si adeguino ai parametri previsti dalla sua
giurisprudenza, il nostro giudice di legittimità ha costantemente confermato la
posizione su esposta. La suprema Corte ha, innanzitutto, evidenziato che il giudice interno è tenuto a rispettare la norma nazionale62 che prevede che
l’indennizzo debba essere calcolato prendendo in considerazione solo il periodo “eccedente” la durata ragionevole del processo, non potendo prevalere su
tale previsione normativa la giurisprudenza della Corte europea, dato che i giudici nazionali hanno l’obbligo di interpretare la Convenzione in maniera conforme alla relativa giurisprudenza se ciò è reso possibile dal testo della norma
interna63. La Cassazione richiama la giurisprudenza costituzionale (sentenze
nn. 348 e 349 del 2007) la quale ha affermato che la Convenzione europea dei
diritti dell’uomo “non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non pro
per la durata irragionevole del processo, cit., p. 774.
61
Non è possibile non ricordare che l’adozione della legge Pinto è avvenuta in un momento
in cui la Corte di Strasburgo era letteralmente subissata di ricorsi contro l’Italia a causa della
lunghezza dei processi. Di conseguenza, il fatto che venisse introdotto un nuovo ricorso interno
per sanzionare tale lunghezza è stato accolto con favore dalla Corte europea che si vedeva, così,
liberata (per lo meno temporaneamente) di un notevole “fardello”.
62
Cfr. sentenza della Corte di cassazione, 3 gennaio 2008, n. 14; sentenza della Corte di
cassazione, 22 gennaio 2008, n. 1354; ordinanza della Corte di cassazione, 30 dicembre 2009, n.
27742; ordinanza della Corte di cassazione, 21 gennaio 2010, n. 1079; ordinanza della Corte di
cassazione, 2 febbraio 2010, n. 2403; ordinanza della Corte di cassazione, 15 febbraio 2010, n.
3502; ordinanze della Corte di cassazione, 2 marzo 2010, nn. 4990, 4997, 5000, 5001, 5002,
5003, 5004; ordinanze della Corte di cassazione, 15 marzo 2010, nn. 6286, 6287; ordinanze della
Corte di cassazione, 17 marzo 2010, nn. 3791, 3792, 3793, 3794, 3795, 3796, 3797, 3798, 3799,
3800.
63
Cfr. l’ordinanza della Corte di cassazione, Civile, 9 marzo 2009, n. 5665 in cui la Corte
ribadisce: “il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla legge n. 89/2001, deve interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea. Siffatto dovere opera, entro i limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge n. 89 del 2001”. V. ancora la sentenza della Corte di cassazione,
Civile, Sezione, I, 30 dicembre 2009, n. 27742: “(…) la precettività per il giudice nazionale non
concerne anche il profilo relativo al moltiplicatore di tale base di calcolo: per il giudice è infatti
vincolante l’articolo 2 della legge Pinto in base al quale è influente solo il danno riferibile al periodo eccedente la durata ragionevole del processo, diversità di calcolo che non incide
sull’attitudine della suddetta legge ad assicurare un serio ristoro per la lesione del diritto ad una
durata ragionevole del processo”.
146
PARTE SECONDA
duce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti. Essa, infatti,
è configurabile come un trattato internazionale multilaterale, da cui derivano
‘obblighi’ per gli Stati contraenti (e quindi anche quello dei giudici nazionali di
uniformarsi ai parametri CEDU, esclusi i casi, come quello di specie, in cui
siano tenuti a rispettare una norma nazionale, della cui legittimità costituzionale non si possa dubitare), ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico
italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare
norme vincolanti per tutte le autorità interne degli Stati membri”64.
Inoltre, la Corte di cassazione in una sentenza del gennaio 2008, pronunciata a ridosso dell’uscita delle sentenze nn. 348 e 349 della Corte costituzionale,
ha escluso che potesse ravvisarsi l’incostituzionalità dell’articolo 2 della legge
Pinto per violazione dell’articolo 117 della Costituzione, a causa della indiretta
violazione dell’articolo 6 CEDU. Il ricorrente aveva, infatti, evidenziato che
l’interpretazione data dalla Corte europea dell’articolo 6 (nell’aspetto particolare della durata ragionevole del processo) comportava l’indennizzo di ogni anno
di durata di un procedimento eccessivamente lungo. Ne discendeva, quindi,
sempre secondo il ricorrente, l’incostituzionalità dell’articolo 2 della legge Pinto, nel punto in cui prevede l’indennizzo solo per il periodo eccedente quello
ritenuto ragionevole, per violazione dell’articolo 117 della Costituzione (indicando quale fonte intermedia l’articolo 6 CEDU), non potendo il legislatore derogare con legge ordinaria alla Costituzione e alle convenzioni internazionali.
La Corte di cassazione ha, invece, sottolineato che l’indennizzo per eccessiva durata del procedimento trova il suo fondamento giuridico non
nell’articolo 6 della Convenzione ma negli articoli 41 (diritto ad un equo indennizzo) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo)65. Questo perché l’articolo 6
CEDU individua le caratteristiche che deve avere un processo per essere equo e
gli obblighi che ne derivano agli Stati nell’organizzazione del sistema giudiziario ma non disciplina le conseguenze derivanti da una sua violazione e le modalità di riparazione. Quest’ultima, quindi, trova il suo fondamento nei suddetti
articoli 13 e 41.
Ora, anche a voler ammettere tale interpretazione, si potrebbe mettere in
dubbio la costituzionalità dell’articolo 2, comma 3, della legge n. 89/2001 per
violazione dell’articolo 117 della Costituzione, a causa dell’indiretta violazione
64
65
10415.
V. la sentenza della Corte di cassazione, 3 gennaio 2008, n. 14.
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 3 gennaio 2008, n. 14 e 6 maggio 2009, n.
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
147
degli articoli 13 e 41 CEDU. Tale soluzione, ove fosse dichiarata l’incostituzionalità del su citato articolo, permetterebbe di superare il limite principale
all’applicazione della giurisprudenza CEDU concernente questo aspetto
dell’equa riparazione per durata irragionevole dei procedimenti, vale a dire
l’obbligo del giudice interno di interpretare la Convenzione europea conformemente alla relativa giurisprudenza solo nel caso in cui ciò appaia compatibile con il testo della norma nazionale.
In secondo luogo, la Corte afferma che il criterio adottato dal nostro legislatore non incide sulla capacità della legge Pinto di assicurare una seria riparazione per l’eccessiva durata del procedimento66 e, di conseguenza, non pone
dubbi circa la sua compatibilità con gli obblighi internazionali assunti dallo
Stato italiano allorché ha ratificato la CEDU67. Tale affermazione appare perlomeno azzardata dato che la riparazione assicurata dalle corti italiane è ritenuta inadeguata ed insufficiente dal giudice di Strasburgo (e, di conseguenza, non
può essere definita una “seria riparazione”) e considerando che tra gli obblighi
derivanti dalla CEDU vi è anche quello di adeguarsi alle sentenze della Corte
europea dei diritti dell’uomo (le quali, nel caso specifico, stabiliscono che
l’indennizzo deve riguardare tutto il procedimento eccessivamente lungo e non
solo gli anni “eccedenti”).
Infine, la Cassazione pone in rilievo la conformità della legge Pinto alla
Costituzione poiché, in base all’articolo 111 della Carta costituzionale,
nell’ordinamento italiano ogni processo deve avere una durata ragionevole e
perché il legislatore deve uniformarsi agli obblighi internazionali derivanti dalla CEDU ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione solo se i principi da essa
affermati non sono in contrasto con i fondamenti e le norme della Carta costituzionale68. Non appare, tuttavia, chiaro il motivo per cui adeguarsi alla giuri
66
V. sentenza della Corte di cassazione, 22 gennaio 2008, n. 1354; ordinanza della Corte di
cassazione, 30 dicembre 2009, n. 27742; ordinanza della Corte di cassazione, 21 gennaio 2010,
n. 1079; ordinanza della Corte di cassazione, 2 febbraio 2010, n. 2403; ordinanza della Corte di
cassazione, 15 febbraio 2010, n. 3502; ordinanze della Corte di cassazione, 2 marzo 2010, nn.
4990, 4997, 5000, 5001, 5002, 5003, 5004; ordinanze della Corte di cassazione, 15 marzo 2010,
nn. 6286, 6287; ordinanze della Corte di cassazione, 17 marzo 2010, nn. 3791, 3792, 3793, 3794,
3795, 3796, 3797, 3798, 3799, 3800.
67
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 22 gennaio 2008, n. 1354; 14 febbraio 2008, n.
3716.
68
Cfr. le sentenze della Corte di cassazione: 22 ottobre 2008, n. 25585; 23 ottobre 2008, n.
25630.
148
PARTE SECONDA
sprudenza della Corte europea considerando la durata complessiva del procedimento e non solo il tempo “eccedente” nel calcolare l’indennizzo dovrebbe
risultare contrastante con i fondamenti e le norme della Carta costituzionale (al
massimo sarebbe in contrasto con la legge Pinto).
7. Il ritardo con cui le autorità italiane versano l’indennizzo alle vittime di
processi eccessivamente lunghi
Un altro aspetto che si è posto all’attenzione dei giudici di Strasburgo è il
ritardo con cui l’indennizzo riconosciuto dalle sentenze interne ex legge Pinto è
versato alle “vittime”. In effetti, non solo l’indennizzo è di un ammontare inferiore rispetto a quello liquidato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, come
si è detto, ma esso viene versato dopo anni e, spesso, a seguito di una procedura di esecuzione forzata.
L’organo giurisdizionale del Consiglio d’Europa ha affermato che, se è
ammissibile che un’amministrazione impieghi un certo periodo di tempo per
versare un indennizzo anche in considerazione delle circostanze del caso e della complessità della procedura di esecuzione69, tale lasso di tempo non dovrebbe superare i sei mesi (lasso di tempo che parte dalla data in cui la sentenza diviene esecutiva), tanto più perché si tratta del risarcimento per la lunghezza del
procedimento70. In caso contrario si avrebbe un’ulteriore violazione del diritto
ad un equo processo e, in particolare, del diritto di accesso a un tribunale che
sarebbe illusorio se una decisione giudiziaria definitiva ed obbligatoria restasse
inoperante71. L’esecuzione di una sentenza è, infatti, parte integrante del diritto
69
Cfr. caso Bourdov c. Russia (n. 2), cit..
Cfr. sentenze Cocchiarella c. Italia, cit., Delle Cave e Corrado c. Italia, cit., Scordino c.
Italia (n. 1), cit. Cfr. anche le seguenti sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 29 luglio 2008, Maria Romano c. Italia, n. 7615/03; 29 luglio 2008, Gardisan c. Italia, n. 35772/03;
29 luglio 2008, D’Iglio c. Italia, n. 32678/03; 29 luglio 2008, Boiano c. Italia, n. 22768/03; 29
luglio 2008, Di Micco c. Italia, n. 35770/03; 29 luglio 2008, Giovanni Valentina c. Italia, n.
31434/03; 29 ottobre 2008, Vallone c. Italia, n. 34904/03; 29 ottobre 2008, Cappuccitti c. Italia,
n. 34646/03; Simaldone c. Italia, cit.
71
Cfr. caso Delle Cave e Corrado c. Italia, cit., in cui la Corte afferma: “La Cour rappelle
avoir déjà admis qu'une administration puisse avoir besoin d'un certain laps de temps pour procéder à un paiement. Néanmoins, s'agissant d'un recours indemnitaire déjà précisément institué
pour redresser les conséquences de la durée excessive de procédures, ce laps de temps ne devrait
généralement pas dépasser six mois à compter du moment où la décision d'indemnisation est de70
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
149
all’equo processo72; ciò perché essa costituisce la seconda fase della procedura
e perché il diritto rivendicato trova la sua realizzazione effettiva soltanto al
momento dell’esecuzione del giudicato73. Inoltre, il pregiudizio derivante dal
ritardo con cui viene versato l’indennizzo non può essere eliminato dalla concessione degli interessi moratori (come affermato dal Governo italiano), poiché
detta concessione non implica il riconoscimento di una violazione dei diritti
dell’individuo e, quindi, non è atta a riparare il pregiudizio morale che ne deriva né il mancato godimento del diritto di accesso al tribunale74.
Ugualmente, il giudice europeo afferma che non è ammissibile che lo Stato
chieda alla persona che si è vista riconoscere un indennizzo per irragionevole
durata del processo di intentare una procedura di esecuzione forzata al fine di
ottenere soddisfazione75. Infatti, il pagamento tardivo delle somme dovute al
ricorrente per mezzo della procedura d’esecuzione non costituisce un rimedio
ed una riparazione adeguata al rifiuto prolungato delle autorità nazionali di
adeguarsi alla sentenza interna76.
Nel medesimo senso non è possibile sostenere, come ha fatto il Governo
italiano, che il ricorrente, cui non venga versato l’indennizzo in tempi ragionevoli, ha l’obbligo di attivare un’altra procedura Pinto. Infatti, come sottolineato
dalla Corte di Strasburgo, ciò condurrebbe ad una situazione assurda ed instau
venue exécutoire (Cocchiarella c. Italie, précité, § 101). De plus, il est inopportun de faire peser
sur un individu qui a obtenu une créance contre l'Etat à l'issue d'une procédure judiciaire le devoir d'engager de surcroît une procédure d'exécution forcée afin d'obtenir satisfaction. Le fait que
les sommes dues aux requérants leur aient finalement été versées – au demeurant tardivement et
après introduction d'une procédure d'exécution forcée – ne saurait remédier au refus prolongé des
autorités nationales de se conformer à l'arrêt et ne fournit pas une réparation adéquate des carences en question” (paragrafo 23). E ancora: “A cet égard, la Cour rappelle que le droit à un tribunal garanti par l'article 6 § 1 de la Convention serait illusoire si l'ordre juridique interne d'un
Etat contractant permettait qu'une décision judiciaire définitive et obligatoire reste lettre morte au
détriment d'une partie. L'exécution d'un jugement, de quelque juridiction que ce soit, doit être
considérée comme faisant partie intégrante du ‘procès’ au sens de l'article 6” (paragrafo 30).
72
Cfr. caso Scordino c. Italia (n. 1), cit.
73
V. le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 26 settembre 1996, Di Pede c.
Italia, n. 15797/89; 26 settembre 1996, Zappia c. Italia, n. 24295/94; 23 marzo 1994, Silva Pontes c. Portogallo, n. 14940/89; Scordino c. Italia (n. 1), cit.
74
Cfr. Cocchiarella c. Italia, cit. e Delle Cave e Corrado c. Italia, cit. V. anche la sentenza
21 dicembre 2010, Gaglione e altri c. Italia, n. 45867/07.
75
Cfr. le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo: 27 maggio 2004, Metaxas c.
Grecia, n. 8415/02; Scordino c. Italia (n. 1), cit.; Bourdov c. Russia (n. 2), cit.
76
Cfr. caso Scordino c. Italia (n. 1), cit.
150
PARTE SECONDA
rerebbe un circolo vizioso in cui ad un ricorso Pinto ne seguirebbe un altro e
così via (c.d. meccanismo Pinto su Pinto)77.
Tanto meno la mancata, o ritardata, esecuzione delle suddette sentenze è
giustificabile in base all’insufficienza di risorse finanziarie78. Proprio su questo
punto la legge Pinto sembra essere in contrasto con la giurisprudenza di Strasburgo poiché afferma, ambiguamente, che l’erogazione degli indennizzi agli
aventi diritto avviene, nei limiti delle risorse disponibili, a decorrere dal 1
gennaio 2002 (articolo 3, comma 7). L’inciso nei limiti delle risorse disponibili
potrebbe addirittura condurre ad un risultato inaccettabile ossia che, una volta
esaurite le risorse finanziarie destinate a questo scopo, gli individui vittime di
una durata del processo eccessivamente lunga non otterrebbero alcun indennizzo79.
Di conseguenza, il fatto che la legge Pinto considerata nel suo insieme ed in
particolare nella fase di esecuzione non faccia venir meno la qualità di “vittima” del ricorrente costituisce una circostanza aggravante in un contesto di violazione dell’articolo 6, paragrafo 1, CEDU per il superamento della durata ragionevole del processo80.
Ciò, unito al numero elevatissimo di ricorsi per il ritardo con cui lo Stato
italiano versa l’indennizzo81, ha recentemente condotto la Corte ad affermare
che tale costante inadempienza costituisce una violazione strutturale della
Convenzione: “La Cour voit dans cette défaillance de l’État non seulement un
facteur aggravant quant à sa responsabilité au regard de la Convention à raison
d’une situation passée ou actuelle, mais également une menace pour
77
Cfr. caso Simaldone c. Italia, cit. In tale sentenza la Corte afferma: “la Cour considère que
la thèse du Gouvernement selon laquelle l'intéressé aurait dû exercer un nouveau recours “Pinto”
pour faire valoir ses griefs relatifs à la durée d'exécution de la décision “Pinto” revient à enfermer le requérant dans un cercle vicieux où le dysfonctionnement d'un recours l'obligerait à en
engager un autre. Une telle conclusion serait déraisonnable et constituerait un obstacle disproportionné à l'exercice efficace par le requérant de son droit de recours individuel, tel que défini à
l'article 34 de la Convention” (paragrafo 44).
78
Cfr. la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, 7 maggio 2002, Bourdov c. Russia, n. 59498/00; v. anche Scordino c. Italia (n. 1), cit.
79
Cfr. BERTI ARNOALDI VELI G., La legge Pinto e l’Europa tradita (riflessioni di un avvocato dalla parte del cittadino), in Questione giustizia, 2003, p. 157 ss.
80
Cfr. Maria Romano c. Italia, cit., Gardisan c. Italia, cit., D’Iglio c. Italia, cit., Boiano c.
Italia, cit., Di Micco c. Italia, cit., Giovanni Valentina c. Italia, cit., Vallone c. Italia, cit., Cappuccitti c. Italia, cit.
81
La Corte europea sottolinea che davanti ad essa sono pendenti 3.900 ricorsi in materia.
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
151
l’effectivité à l’avenir du dispositif mis en place par la Convention”. Di conseguenza, la Corte evidenzia la necessità di interventi generali e strutturali a livello nazionale per porre rimedio alla situazione descritta: “Bien qu’en principe il
ne lui appartienne pas de définir quelles peuvent être les mesures de redressement appropriées pour que l’État défendeur s’acquitte de ses obligations au regard de l’article 46, de la Convention, eu égard à la situation de caractère structurel qu’elle constate, la Cour observe que des mesures générales au niveau national s’imposent sans aucun doute dans le cadre de l’exécution du présent
arrêt”82. L’organo giurisdizionale di Strasburgo evidenzia quindi che lo Stato
italiano, per ristabilire l’efficacia del rimedio interno “Pinto”, dovrebbe mettere
fine al ritardo nel pagamento degli indennizzi ampliando, ad esempio, la copertura finanziaria destinata a questo scopo e, in generale, prendendo in considerazione i rilievi della Corte nell’ambito della riforma della legge Pinto in corso di
approvazione alle Camere83. Detto organo continua, per tanto, a ritenere che il
rimedio Pinto sia un rimedio effettivo la cui concreta applicazione necessita,
invece, di correttivi per poterne garantire l’efficacia84.
Inoltre, anche il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha ripetutamente sottolineato (e condannato) il mancato rispetto della giurisprudenza di
Strasburgo nell’applicazione interna del rimedio Pinto sia in relazione
all’ammontare dell’indennizzo che al ritardo con cui viene corrisposto e
all’eccessiva onerosità del giudizio85.
Da quanto fino ad ora esposto risulta evidente che la legge Pinto, da un lato, non prevede mezzi per ridurre i tempi del processo e, dall’altro, nella sua
attuale formulazione ed applicazione, non è neppure in grado di garantire la riparazione economica della violazione derivante da una durata irragionevole del
procedimento, vanificando l’obiettivo per cui la legge è stata adottata. Ne discende che, se non vi sarà un allineamento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non solo in relazione all’ammontare dell’in
82
Cfr. Gaglione e altri c. Italia, cit., paragrafi 55 e 58. Sulla sentenza v. SANNA C., Il ritardato pagamento degli indennizzi per la durata irragionevole dei processi: una violazione strutturale destinata a restare tale?, in Diritti umani e diritto internazionale, 2011, p. 16.
83
Cfr. Gaglione e altri c. Italia, cit.
84
In tale senso, SANNA C., Il ritardato pagamento degli indennizzi per la durata irragionevole dei processi, cit., p. 22.
85
Cfr. SANNA C., La durata ragionevole dei processi nel dialogo tra giudici italiani ed europei, cit., p. 175.
152
PARTE SECONDA
dennizzo ma anche ai tempi di corresponsione dello stesso, i ricorsi a quest’ultima seguiteranno e l’Italia continuerà ad essere oggetto di condanna.
8. Osservazioni conclusive
Volendo tirare le fila di quanto sopra esposto, è possibile individuare due
direttrici della giurisprudenza interna.
La prima vede detta giurisprudenza adeguarsi a quella della Corte di Strasburgo relativamente ad aspetti importanti della durata ragionevole del processo ed, innanzitutto, circa la necessità per le corti nazionali di seguire
un’interpretazione dell’articolo 6 CEDU (e nello specifico del diritto alla durata ragionevole del processo) conforme a quella data dall’organo giurisdizionale
europeo. Così, sotto l’impulso di quest’ultimo, la Cassazione ha modificato la
sua impostazione iniziale che faceva dipendere il risarcimento del danno derivante dalla violazione del diritto in questione dalla dimostrazione della sussistenza di un danno (dove l’onere della prova incombeva sul ricorrente), affermando che, sebbene non si possa parlare di un danno in re ipsa nel caso di violazione della durata ragionevole del procedimento, non di meno il danno morale da esso derivante deve essere considerato sussistente a causa delle sofferenze
psicologiche che questo provoca alla vittima, sempre che le circostanze particolari del caso non portino ad escludere che il ricorrente abbia subìto detto danno.
Altra evoluzione avutasi in questo senso è costituita dal fatto che si è ritenuto il danno morale invocabile non solo dalle persone fisiche ma anche dalle
persone giuridiche mentre prima del revirement realizzatosi con le sentenze del
2004 tale possibilità veniva esplicitamente esclusa.
Ugualmente vi è una tendenziale convergenza riguardante i criteri di valutazione per determinare la ragionevolezza della durata del procedimento,
vale a dire: complessità del caso, condotta delle parti (anche se qui la Corte di
Strasburgo sembra dare la massima rilevanza al comportamento delle autorità
giudiziarie nazionali, mentre la Cassazione pare rivolgere maggiore attenzione al comportamento del ricorrente) ed, infine, comportamento delle autorità
giudiziarie (intendendo per queste ultime tutto l’apparato giudiziario nazionale).
L’ultimo elemento sul quale le giurisprudenze qui analizzate appaiono concordare è la durata di un processo ragionevole. Così, come stabilito dalla Corte
CONVERGENZE E DIVERGENZE GIURISPRUDENZIALI
153
europea dei diritti dell’uomo la lunghezza standard dovrebbe essere di tre anni
per il primo grado, due per il secondo ed uno per il terzo (a meno che le circostanze specifiche del caso non richiedano diversamente).
La seconda direttrice, invece, si caratterizza per una persistente divergenza
sulla questione dell’ammontare dell’indennizzo riconosciuto alle vittime di un
procedimento eccessivamente lungo. Infatti, i tribunali nazionali, da un lato, si
adeguano, sotto l’impulso della Corte di cassazione, alla somma di 1.000/1.500
euro accordata da Strasburgo per ogni anno di durata del processo, dall’altro
lato, calcolano l’ammontare non in base agli anni di durata del procedimento
ma agli anni eccedenti la durata considerata ragionevole. Ciò viene giustificato
dal Supremo giudice ricordando che la legge Pinto, all’articolo 2, comma 3,
statuisce che la riparazione è dovuta solo per il periodo eccedente quello considerato ragionevole e che, quindi, le corti interne non hanno il potere di disapplicare la norma nazionale per adeguarsi alla norma internazionale così come
interpretata dal giudice europeo, dato che ciò è ammissibile solo per le norme
dell’Unione europea dotate di effetto diretto.
A questo aspetto se ne aggiunge un altro: il ritardo con cui le autorità italiane versano l’indennizzo a soggetti che hanno subìto la violazione del diritto ad
una durata ragionevole del procedimento. Nella maggioranza dei casi, infatti,
viene abbondantemente superato il limite temporale di sei mesi stabilito dalla
giurisprudenza CEDU in relazione al suddetto versamento. Ne discende che,
nonostante l’introduzione nel nostro ordinamento della legge Pinto, l’Italia
continua a subire condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Quest’ultima, infatti, ritiene che i ricorrenti non perdano la loro qualità di “vittime” ai sensi dell’articolo 34 della Convenzione, anche nel caso in cui abbiano
ottenuto la riparazione in base alla legge su richiamata, poiché l’indennizzo che
ricevono è insufficiente e questo viene corrisposto in tempi eccessivamente
lunghi. La legge Pinto è dunque considerata un ricorso efficace al fine di sanzionare l’eccessiva durata dei procedimenti; tuttavia tale assunto resta valido se
a sua volta l’azione indennitaria costituisce un ricorso adeguato, efficace ed accessibile (il che non si verifica quando il risarcimento è versato con grande ritardo). Inoltre, quest’ultimo aspetto integra la violazione del diritto di accesso
al tribunale poiché lascia inoperante una sentenza definitiva (situazione chiaramente non compatibile con il diritto ad un equo processo e, più in generale,
con lo Stato di diritto). Ciò è stato reso evidente dalla recente sentenza Gaglione dove la Corte di Strasburgo ha evidenziato che tale ritardo costituisce una
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PARTE SECONDA
violazione strutturale della Convenzione che richiede l’adozione di misure nazionali a carattere generale.
In conclusione, risulta evidente che se molti passi in avanti sono stati fatti
nell’avvicinamento delle posizioni della corti interne a quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo, restano gli elementi critici su evidenziati. Sarebbe,
quindi, auspicabile una nuovo revirement nella giurisprudenza nazionale così
da garantire una maggiore tutela degli individui e dei loro diritti e da preservare
l’obiettivo per cui è stata adottata la legge Pinto nonché l’interesse dello Stato a
non essere oggetto di continue condanne da parte della Corte di Strasburgo.
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Convergenze e divergenze tra la giurisprudenza italiana ed