UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CASSINO FACOLTA’ DI INGEGNERIA DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA CIVILE E MECCANICA XIX CICLO CARATTERIZZAZIONE MICROSTRUTTURALE E COMPORTAMENTO MECCANICO DELLE GHISE SFEROIDALI CANDIDATA Ornella Di Bartolomeo a.a. 2005-2006 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CASSINO FACOLTA’ DI INGEGNERIA DOTTORATO DI RICERCA IN INGEGNERIA CIVILE E MECCANICA XIX CICLO CARATTERIZZAZIONE MICROSTRUTTURALE E COMPORTAMENTO MECCANICO DELLE GHISE SFEROIDALI COORDINATORE TUTORE Chiar.mo Prof. Chiar.mo Prof. Elio Sacco Francesco Iacoviello CANDIDATA Ornella Di Bartolomeo a.a. 2005-2006 Indice INDICE Pag. 1 INDICE INTRODUZIONE 5 CAPITOLO I: LE GHISE 7 1.1 Definizione 7 1.2 Proprietà 8 1.3 Struttura della ghisa 9 1.3.1 Velocità di raffreddamento 10 1.3.2 Influenza degli elementi di lega 11 1.4 Caratterizzazione della microstruttura delle ghise 12 1.5 Classificazione delle ghise 12 1.6 Ghisa sferoidale: generalità 12 1.6.1 Influenza degli elementi di lega 13 1.6.2 Formazione degli sferoidi 14 1.6.3 Confronto tra una ghisa grigia ed una ghisa sferoidale 14 1.7 Produzione e controlli metallurgici 15 1.8 Distribuzione e forma della grafite 15 1.9 Proprietà meccaniche 16 1.9.1 Effetti sulle proprietà meccaniche 16 1.9.2 Effetto della composizione 16 1.9.3 Effetto della forma della grafite: resistenza a fatica 17 1.9.4 Trattamenti termici 17 1.9.5 Applicazione ed impieghi 20 CAPITOLO II: LE GHISE SFEROIDALI 21 2.1 Introduzione 21 2.2 Ghise sferoidali e principali proprietà meccaniche 21 2.3 Processo produttivo in fonderia 27 2.3.1 Fusione della ghisa sferoidale di base e trattamento del 28 metallo 2.3.1.1 Fusione in cubilotto 29 2.3.1.2 Fusione elettrica 31 1 Indice 2.3.1.3 Preparazione del metallo di base 35 2.3.1.4 Trattamento sferoidizzante: metodi 37 2.3.2 Tecniche di formatura 40 2.3.2.1 La formatura transitoria 42 2.3.2.2 La formatura con forme permanenti 45 2.3.3 La fase di colata 45 2.3.4 Trattamenti di finitura 46 2.3.5 Trattamenti termici 46 2.4 Controllo di qualità della ghisa sferoidale CAPITOLO III: RETI NEURALI 47 48 3.1 Introduzione 48 3.2 Modello di neurone 49 3.3 Architettura rete neurale 50 3.4 Diversi tipi di apprendimento 51 3.4.1 Apprendimento supervisionato 51 3.4.2 Apprendimento non supervisionato 51 3.5 Architettura delle diverse reti neurali 3.5.1 Reti MLP 52 52 3.5.1.2 Algoritmo di addestramento back-propagation 53 3.5.1.3 Varianti dell’algoritmo di back-propagation 57 3.5.1.3.1 Aggiunta del termine “momentum” 58 3.5.1.3.2 Learning rate variabile 58 3.5.1.3.3 Resilient Backpropagation 59 3.5.1.3.4 Algoritmo di Newton 60 3.5.1.3.5 Metodo Montecarlo 61 3.5.1.3.6 Intervento sul solo training-set 61 3.5.2 Reti Radial Basis Function (RBF) 61 3.5.3 Reti Self-Organizing 63 3.5.3.1 Reti Competitive (CN) 63 3.5.3.2 Reti SOM (Self-Organizing Maps) 65 3.5.3 Reti Learning Vector Quantization (LVQ) 66 3.5.3.1 Regola di addestramento LVQ 67 3.5.3.2 Reti Ricorrenti (RN = Recurrent Network) 67 3.5.3.4 Reti di Hopfield 69 2 Indice 3.5.4 Reti ricorrenti per modellare i sistemi dinamici 3.6 Commenti CAPITOLO IV: RESISTENZA A FATICA 69 75 79 4.1 Nozioni introduttive 79 4.2 Criteri di progettazione e valori caratteristici utilizzati nella fatica 82 4.3 Diagramma di Wohler 83 4.4 Introduzione alla meccanica della frattura 85 4.4.1 Cenni di meccanica della frattura 86 4.4.2 Effetto di chiusura 87 4.4.3 Modelli di propagazione di cricche di fatica 88 4.4.4 Modello di Paris 89 4.4.5 Meccanica della frattura e fenomeni di fatica 90 4.4.6 Apparato di prova 91 CAPITOLO V: MATERIALI: GHISE SFEROIDALI 94 INVESTIGATE 5.1 Composizioni chimiche e trattamenti termici 94 5.2 Microstrutture 96 CAPITOLO VI: METODOLOGIE SPERIMENTALI 6.1 Determinazione dei parametri morfologici di interesse nelle ghise 100 100 sferoidali 6.1.1 Analisi metallografia: applicazioni reti neurali 101 6.1.2 Reti neurali: struttura locale dell’immagine e alfabeto di 103 addestramento della rete. 6.1.3 Analisi metallografia: segmentazione mediante contorni 105 attivi. 6.1.3.1 Procedura sperimentale 108 6.2 Avanzamento della cricca di fatica in aria: procedura di prova 110 6.3 Analisi delle superfici di frattura 110 6.3.1 Metodi di analisi al SEM e al LOM 110 6.3.2 Ricostruzione tridimensionale dei profili di frattura 111 6.4 Procedura di osservazione al SEM di prove di trazione 117 6.5 Appendice 120 CAPITOLO VII: RISULTATI ED ANALISI 7.1 Impiego delle reti neurali e della segmentazione mediante 122 122 3 Indice contorni attivi nell’identificazione dei parametri morfologici di interesse nelle ghise sferoidali 7.1.1 Applicazione della procedura di segmentazione mediante 125 contorni attivi: risultati 7.2 Risultati di fatica ottenuti per una ghisa sferoidale ferritica 129 7.3 Risultati di fatica ottenuti per una ghisa sferoidale perlitica 132 7.4 Risultati di fatica ottenuti per una ghisa sferoidale ferrito- 134 perlitica 7.5 Risultati di fatica ottenuti per una ghisa sferoidale a matrice 137 prevalentemente ferritica 7.6 Risultati di fatica ottenuti per una ghisa sferoidale austemperata 139 7.7 L’influenza del rapporto di carico sulla resistenza alla 142 propagazione della cricca di fatica in una ghisa sferoidale ferritoperlitica mediante sperimentazione e reti neurali artificiali 7.8 Ricostruzione tridimensionale dei profili di frattura 147 7.9 Risultati delle prove di trazione effettuate con osservazione al 151 SEM: in ghisa sferoidale a matrice completamente ferritica 7.10 Risultati delle prove di trazione effettuate con osservazione al 154 SEM: in ghisa sferoidale a matrice perlitica 7.11 Risultati delle prove di trazione effettuate con osservazione al 156 SEM: in ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica 7.12 Risultati delle prove di trazione effettuate con osservazione al 158 SEM: in ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica 161 CAPITOLO VIII: CONFRONTI E COMMENTI 8.1 Confronto del comportamento a fatica delle ghise sferoidali 161 ferritiche, perlitiche e ferrito-perlitiche 8.2 Confronto del comportamento a fatica delle ghise 166 sferoidaliaustemperate ripetto alle ghise sferoidali ferritiche, perlitiche e ferrito-perlitiche 8.3 Confronto dei meccanismi di danneggiamento nelle ghise 168 sferoidali investigate CONCLUSIONI 173 BIBLIOGRAFIA 176 4 Introduzione INTRODUZIONE Le ghise sferoidali sono le leghe ferrose più utilizzate dopo gli acciai. Queste costituiscono una famiglia di ghise piuttosto versatile caratterizzata da un ampio intervallo di proprietà meccaniche che possono essere ottenute mediante il controllo della microstruttura e degli sferoidi. Il controllo della microstruttura della matrice è ottenuto mediante sia il controllo della composizione chimica che del processo di produzione. Le ghise sferoidali presentano caratteristiche meccaniche simili all’acciaio con il vantaggio di avere una bassa temperatura di fusione e una colabilità tale da consentire la realizzazione di getti anche di forma molto complicata e spessore sottile. In funzione della microstruttura si può ottenere un’ampia varietà delle combinazioni delle possibili proprietà meccaniche. Per quanto riguarda il comportamento alla frattura, la caratteristica fondamentale di queste ghise è la presenza della grafite sotto forma di noduli che, grazie alla loro morfologia, possono agire come “crack arresters”. Ovviamente tale risultato viene ottenuto solo nel caso di una buona nodularizzazione della grafite medesima. Una sua degenerazione può altresì implicare un indebolimento della matrice metallica, con gli elementi di grafite che non agiscono più come “crack arresters”, ma, piuttosto, possono generare cricche secondarie. Le caratteristiche geometriche dei noduli sono analizzate in campo industriale secondo la normativa ASTM o normative analoghe: le procedure proposte essenzialmente consistono in un’analisi semi-quantitativa della dimensione, grado di nodularizzazione e distribuzione degli sferoidi di grafite, in cui l’esperienza e la sensibilità dell’operatore svolgono un ruolo importante. Attualmente, grazie al supporto di tecniche software di elaborazione delle immagini, sono state implementate diverse procedure in grado di ottenere da una determinata immagine numerosi parametri, di effettuare misurazioni e di eseguire calcoli statistici su un gran numero di osservazioni, applicando le procedure proprie della metallografia quantitativa, che impongono comunque per ogni immagine una segmentazione a soglia che seppur molto semplice ed efficiente, è tuttavia euristica nella scelta dei valori e richiede comunque l’intervento dell’esperto per l’analisi d’immagine. In questo lavoro di tesi, sono state considerate delle ghise con matrice ferritica, ferritoperlitica e perlitica, ampiamente utilizzate in campo automobilistico e nella autotrazione (supporti motore, alberi motore, corpi pompa, ecc.). Inoltre sono state considerate due ghise sferoidali austemperate (ADI), caratterizzate da valori di resistenza a trazione, 5 Introduzione duttilità, tenacità, resistenza a fatica ed all’usura molto più elevate rispetto alle altre ghise sferoidali. Gli obiettivi di questo lavoro di tesi sono stati: • l’individuazione automatica degli elementi metallografici, utili alla valutazione delle caratteristiche meccaniche delle ghise sferoidali in esame attraverso l’utilizzo delle reti neurali per la determinazione dei parametri morfologici di interesse e l’utilizzo di più sofisticate tecniche di segmentazione (mediante contorni attivi) in grado di quantificare la distribuzione della matrice metallica delle ghise sferoidali (percentuale di ferrite e perlite); • l’analisi dell’influenza della degenerazione degli sferoidi di grafite sul meccanismo di propagazione delle cricche di fatica nelle quattro differenti famiglie di ghise sferoidali; • l’analisi dell’influenza della microstruttura delle differenti ghise sferoidali sulla resistenza alla propagazione delle cricche di fatica confrontando i meccanismi di danneggiamento, anche attraverso analisi tridimensionali dei profili di frattura ed analisi SEM. 6 Le ghise CAPITOLO I LE GHISE 1.1 DEFINIZIONE Le strutture di equilibrio delle leghe ferro-carbonio, come l’acciaio e la ghisa, sono rappresentate dal diagramma di stato Fe-C. Dal momento che in condizioni normali il ferro e il carbonio sono combinati sotto forma di cementite (Fe3C), il diagramma utilizzato è il diagramma ferro-cementite (figura 1). La cementite è caratterizzata da un contenuto stechiometrico del carbonio pari al 6.69% in peso. T(°C) 1538° δ 1500 δ+L 1495° Liquido δ+γ 1400 1394° 1300 L+γ L+Fe3C 1200 1154° γ 1100 1148° 1000 γ+Fe3C 912° 900 800 α+γ 700 α 738° 727° α+ Fe3C 600 0 0.77% 1 2.11% 3 4.30% 5 C(%) 6.69 Figura 1: Diagrammi Fe-Fe3C(____) ed Fe-C(_ _ _ _). 7 Le ghise Nel caso di una lega binaria Fe-C, si definisce ghisa una lega con un tenore di carbonio superiore allo 2.06% (limite di solubilità del C nell’austenite), ovvero con una percentuale di carbonio maggiore di quella di solubilizzazione nell’austenite. Queste solidificano formando una matrice ledeburitica, ossia un eutettico formato da austenite e cementite oppure grafite. 1.2 PROPRIETÀ Le proprietà meccaniche e fisiche delle ghise sono notevolmente influenzate oltre che dalla natura delle fasi presenti, anche dalla loro distribuzione e, quindi, dalla microstruttura di queste leghe [1]. Una di queste fasi è la cementite che tende a decomporsi più o meno velocemente in funzione della temperatura secondo la reazione: Fe3C → 3Fe + C ( gr ) (1) ove il carbonio è sotto forma di grafite . Per temperature non elevate, la reazione avviene però così lentamente che la cementite permane tale per ampi intervalli di tempo. Per temperature più elevate, in presenza soprattutto di particolari elementi di lega (per esempio il Si), si può riscontrare una rapida grafitizzazione dei carburi di Fe; se la grafitizzazione è completa, il diagramma d’equilibrio ferro-grafite rappresenta la struttura delle leghe Fe-C. Proprio questo ultimo diagramma, come è mostrato in figura 1, presenta un andamento analogo a quello Fe-Fe3C ma con le linee leggermente spostate verso l’alto (tratteggiate). In figura 1 si può ancora osservare che tanto più elevata è la percentuale di carbonio, tanto più bassa è la temperatura di fusione, fino ad arrivare ad un tenore di carbonio del 4.30%, in corrispondenza del quale la temperatura coincide con quella eutettica (1148°C). La bassa temperatura di fusione infatti rende le ghise molto adatte alla realizzazione di getti. Una elevata percentuale di carbonio rende le ghise molto dure e fragili e quindi poco adatte ad essere lavorate per deformazione plastica sia a freddo che a caldo. La lavorabilità alle macchine utensili dei materiali contenenti grafite è superiore a quella dell’acciaio di eguale durezza, poiché la presenza di grafite agisce da lubrificante durante il taglio e rende più facile la frantumazione dei trucioli. E’ possibile osservare inoltre che: • al diminuire della temperatura (T<1148°C) la solubilità del carbonio nel ferro γ diminuisce. 8 Le ghise • Al di sotto di 727°C si ha la trasformazione allotropica del ferro γ in ferro α, in cui il carbonio è praticamente insolubile. Ciò implica la trasformazione dell’austenite (alla temperatura eutettoidica) in perlite, la quale risulta costituita dal 12% di cementite e dall’88% di ferrite. • A seconda della velocità di raffreddamento durante la trasformazione eutettica , si può ottenere cementite o grafite: Liq (4.30%) = A (2.11% C) + Cementite (6.67%C) oppure Liq (4.26%) = A (2.08%C) + Grafite. È importante specificare che dalla reazione espressa dalla (1): • La cementite formata a T>1148°C con C>4.3% si dissocia facilmente. • La cementite formata a T=1148°C con 2.11%< C < 4.33% si dissocia più lentamente. • La cementite formata a 727°C< T < 1148°C con C<2.11% si decompone facilmente. La presenza comunque di alcuni elementi di lega quali lo zolfo, il silicio, ed il manganese può modificare la velocità di decomposizione della cementite (il Si, ad esempio, aumenta la velocità di grafitizzazione). 1.3 STRUTTURA DELLA GHISA La struttura di una ghisa con un determinato tenore di carbonio può essere modificata: 1. aumentando la velocità di raffreddamento 2. aggiungendo elementi di lega. 1.3.1 Velocità di raffreddamento L’effetto della velocità di raffreddamento sulla microstruttura delle ghise è illustrato nel diagramma di figura 2. Aumentando la velocità di raffreddamento diminuisce la tendenza alla formazione di grafite rispetto a quello di cementite. Ciò consente di modificare la microstruttura della ghisa e di definire quindi le differenti tipologie quali ghisa bianca, trotata, grigia etc. 9 Le ghise Figura 2: Variazione della microstruttura delle ghise in funzione della velocità di raffreddamento. 1.3.2 Influenza degli elementi di lega Gli elementi alliganti modificano notevolmente le proprietà di tutte le leghe Fe-C. Essi agiscono sul tenore di carbonio corrispondente all’eutettico ed, inoltre, influenzano in modo vario e complesso le varie fasi di solidificazione. Gli elementi alliganti agiscono sulla microstruttura delle ghise provocando i seguenti effetti: • grafitizzante • carburigeno • stabilizzante di ferrite, perlite etc Esaminiamo quali sono questi elementi e i loro specifici effetti. IL Silicio è l’elemento che influisce maggiormente sulla microstruttura delle ghise. Infatti dal digramma di figura 3 si può notare come la sua presenza restringe il campo di esistenza del ferro γ favorendo la formazione del ferro α. Ιn particolare il Silicio abbassa fortemente la %C dell’eutettico, in accordo con la relazione: %C = 4.3 − Si 3 .2 (2) All’aumentare del tenore di Silicio diminuisce la quantità di carbonio all’eutettoide, svolgendo inoltre una forte azione grafitizzante. 10 Le ghise Ιl Nichel ha anch’esso un effetto grafitizzante, ma è circa quattro volte inferiore a quello del Silicio. T(°C) 1500 δ+L δ 1400 Liquido 1300 L+γ L+Fe3C 1200 γ 1100 1000 γ+Fe3C 900 α+γ γ+α+ Fe3C 800 α 700 α+ Fe3C 600 0 1 2 3 4 C(%) Figura 3: Diagramma Fe-C-Si,con il 2% di Si. L’Alluminio, il Titanio, lo Zirconio agiscono in modo simile al Silicio. Il Rame ha durante la solidificazione è un debole effetto grafitizzante e promuove la formazione di perlite. Il Cromo invece favorisce notevolmente la formazione di carburi e quindi la sua aggiunta riduce la possibilità di grafitizzazione. Analogo comportamento è riscontrabile con il Vanadio,il Molibdeno, il Manganese ed il Tungsteno. Il Tellurio agisce efficacemente da stabilizzante dei carburi; la sua influenza è elevata, tanto che è sufficiente una piccola quantità percentuale per avere ghisa bianca in luogo di quella grigia. Un miglioramento notevole delle proprietà della ghisa si osserva con l’aggiunta di elementi di lega quali Nichel, Cromo e Molibdeno, soprattutto per quello che concerne una maggiore uniformità e compattezza dei getti, nonché per l’affinamento del grano cristallino: ciò comporta una maggiore facilità nell’ottenere per tutti gli spessori una matrice perlitica cui corrispondono migliori proprietà. L’aggiunta di elementi speciali può rendere inoltre la ghisa : • resistente al calore o alla corrosione • in grado di sopportare meglio condizioni di usura. 11 Le ghise 1.4 CARATTERIZZAZIONE DELLA MICROSTRUTTURA DELLE GHISE Sostanzialmente per migliorare le proprietà delle ghise si utilizzano procedimenti atti a modificare la forma della grafite; nel passare dalla forma “lamellare” a quella “sferoidale” si ottengono miglioramenti della resistenza della matrice metallica a causa di una notevole diminuzione dell’effetto di intaglio. La normativa europea [2 relativa alla designazione della microstruttura della ghisa classifica la grafite presente nelle leghe Fe-C, qualora siano analizzate al microscopio ottico, secondo: a) la sua forma b) la sua distribuzione c) le sue dimensioni. 1.5 CLASSIFICAZIONE DELLE GHISE Le ghise possono essere classificate secondo diversi criteri in base all’aspetto della frattura, ai costituenti microstrutturali o a particolari proprietà; tuttavia il metodo tradizionalmente utilizzato prevede la suddivisione in cinque gruppi : - ghise grigie: dal colore della superficie di frattura poiché presentano grafite libera; - ghise bianche: con aspetto della frattura che si differenzia dal precedente in quanto il carbonio è combinato; - ghise malleabili : dalla capacità di deformarsi permanentemente; - ghise legata: dalla caratteristica di avere una elevata percentuale degli elementi di lega per consentire una buona resistenza alla corrosione e al calore; - ghise sferoidali: nelle quali la grafite libera è presente sotto forma di noduli. 1.6 GHISE SFEROIDALI: GENERALITÀ Le ghise sferoidali sono le leghe ferrose più utilizzate dopo la ghisa grigia e l’acciaio. In esse, attraverso opportuni procedimenti, si ha la formazione di grafite non più in forma lamellare ma in forma sferoidale (Figura 4a). Eliminato così il problema dovuto all’indebolimento delle lamelle di grafite (effetto di intaglio), la ghisa sferoidale presenta un notevole miglioramento di tutte le proprietà 12 Le ghise meccaniche con l’aggiunta di una: la duttilità. Essa ha pertanto le stesse caratteristiche meccaniche dell’acciaio, col vantaggio di avere una temperatura di fusione bassa ed una buona fluidità. Di conseguenza può essere impiegata anche per la produzione di getti forma complicata. Di seguito verranno analizzati la composizione chimica ed il meccanismo di formazione degli sferoidi; per quanto riguarda le proprietà meccaniche e gli impieghi si rimanda più dettagliatamente al capitolo successivo. Figura 4a): Immagine al microscopio ottico Figura 4b: Possibili fasi nella crescita di uno sferoide di grafite secondo la teoria del di una ghisa sferoidale ferrito-perlitica “limite di fase”. (Ingrandimento 100X). A: gas B: whisker di grafite C: fuso D: austenite 1.6.1 Influenza degli elementi di lega Possiamo distinguere tre diversi tipi di elementi: a) Elementi abituali La composizione chimica di una ghisa sferoidale è: C=3.3 – 3.8% Si=1.8 – 2.8% Mn≤0.6% P≤0.10% S≤0.03% . Lo Zolfo è presente in quantità minima a causa del suo potere antigrafitizzante: una desolforazione spinta è necessaria anche perché lo zolfo combinandosi con il magnesio potrebbe neutralizzare l’effetto sferoidizzante del manganese. b) Elementi da aggiungere per fini specifici La sferoidizzazione delle particelle di grafite durante il processo di solidificazione della ghisa è da imputare all’aggiunta in un processo a “step” detto nodulizzazione di una 13 Le ghise piccola ma definita quantità di Magnesio (0.04 – 0.08%) o Cerio (0.005%) o Calcio, Litio, Azoto, Bario (anche se questi hanno una minore importanza commerciale). Nella maggior parte delle applicazioni commerciali sono aggiunti sia il Magnesio, come principale agente nodulizzante, che il Cerio (in quantità di 20 ppm) principalmente per ridurre la sensibilità del Magnesio alla presenza del Piombo, Bismuto, Antimonio , Titanio e di tutti gli elementi che inibiscono la formazione di grafite sferoidale e che sono perciò annoverati come elementi nocivi. 1.6.2 Formazione degli sferoidi Il meccanismo di formazione degli sferoidi non risulta ancora ben chiaro. Elliot [10] ipotizza che durante la solidificazione avvenga (Figura 4b): • formazione di sferoidi di grafite e loro crescita a contatto con il liquido sottoraffreddato, che nucleano per presenza di bolle gas; • formazione di un guscio di austenite attorno agli sferoidi ed ulteriore crescita in fase solida. La crescita dello sferoide circondato dall’austenite risulta notevolmente rallentata dalla bassa diffusività del Carbonio nell’austenite. Malgrado ciò, più della metà della grafite dello sferoide ha origine a seguito della diffusione del C attraverso l’austenite. 1.6.3 Confronto tra una ghisa sferoidale ed una ghisa grigia La ghisa contenente grafite nodulare è molto più resistente e più duttile di una ghisa grigia di simile composizione. Queste proprietà consentono di utilizzare la lega in molte applicazioni strutturali, non richiedendo prolungati trattamenti termici. Tipicamente la composizione chimica di una ghisa sferoidale è simile ad una ghisa grigia, come riportatato nella tabella 1. Le ghise grigie e le ghise sferoidali sono prodotte utilizzando le medesime materie prime, ma quelle usate per la ghisa sferoidale sono in genere più pure. Come la ghisa grigia, quella sferoidale può essere fusa all’arco elettrico o in forni ad induzione; allo stato liquido presenta una fluidità tale da consentire il suo utilizzo in getti con forme anche molto complicate. 14 Le ghise Tabella 1: Composizione % degli elementi tipici per una ghisa grigia e una ghisa sferoidale. Elemento C Mn Si Cr Ni Mo Cu P S Ce Mg Ghisa grigia 3,25 − 3,50 0,60 − 0,90 1,80 − 2,30 0,05 − 0,20 0,05 − 0,20 0,05 − 0,10 0,15 − 0,40 0,12 max 0,15 max − − Ghisa sferoidale 3,50 − 3,80 0,30 − 1,00 2,00 − 2,80 0,08 max 0,05 − 0,20 0,01 − 0,10 0,15 − 0,40 0,08 max 0,02 max 0,005 − 0,020 0,03 − 0,05 Il suo ritiro in fase solidificazione assomiglia a quello della ghisa grigia, sebbene la presenza di noduli di grafite durante il raffreddamento provochi un incremento di volume, richiedendo pertanto un discreto numero di materozze. 1.7 PRODUZIONE E CONTROLLI METALLURGICI Nella produzione di ghisa sferoidale sono richiesti molti controlli chimici, meccanici e metallurgici in modo che siano soddisfatte le specifiche richieste. Prima di tutto è necessario selezionare nel ciclo di fonderia una materia prima relativamente pura in modo che non siano presenti elementi residui indesiderati. Carbonio, Manganese, Silicio, Fosforo e Zolfo devono essere presenti nel tenore richiesto. Magnesio e Cerio [4], e, certi altri elementi devono essere controllati in modo da ottenere la forma della grafite desiderata; elementi come Antimonio, Piombo, Titanio, Tellurio, Bismuto e Zirconio interferiscono con il processo di nodulizzazione e devono essere eliminati o presenti in tenori comunque molto bassi. Gli elementi quali Cromo, Nickel, Molibdeno, Vanadio e Boro agiscono come formatori di Carbonio, come stabilizzatori di perlite o promotori di ferrite, in modo simile a come agiscono nella ghisa grigia [1]. 1.8 DISTRIBUZIONE E FORMA DELLA GRAFITE Ci sono tre tipi di agenti nodulizzanti ognuno dei quali contiene Magnesio : magnesio non legato, nodulizzatori base nickel e nodulizzatori magnesio ferro-silicio. 15 Le ghise Il magnesio non legato può essere introdotto nei pori del coke metallurgico oppure, come generalmente accade, nella lega appena fusa. In quest’ultimo caso si utilizza il metodo del “contenitore in pressione” (che contiene già la lega fusa), in cui è posto magnesio non legato; successivamente il contenitore viene ruotato e il Magnesio scorre sulla lega. In ogni caso esso viene vaporizzato ed i suoi vapori attraversano la lega favorendo la formazione di grafite sferoidale. I nodulizzatori base nickel e i ferro-silicei sono aggiunti dopo gli elementi di lega per promuovere la formazione di un elevato numero di noduli e di microstutture preferenziali. Quindi agendo esclusivamente sulla forma e distribuzione degli sferoidi si ottiene una ghisa con buone proprietà senza sottoporla a trattamenti di tipo termico. 1.9 PROPRIETÀ MECCANICHE La norma UNI EN 1563 [5] definisce la classificazione del getto di ghisa sferoidale in base alle caratteristiche meccaniche del materiale . Queste ultime possono essere valutate su provette lavorate di macchina a partire da : 1. Saggi colati separatamente; 2. Saggi costituenti appendici rispetto al getto o al sistema di riempimento della forma; 3. Saggi ottenuti dal getto. 1.9.1 Effetti sulle proprietà meccaniche E’ possibile osservare in quale maniera la composizione chimica, la forma della grafite, la microstruttura ed i trattamenti termici influenzino le proprietà meccaniche dei getti di ghisa sferoidali (detta anche ghisa duttile). 1.9.2 Effetto della composizione Gli elementi di maggiore importanza sono quelli che influenzano la struttura della matrice e la distribuzione dei noduli di grafite. Il Carbonio caratterizza la fluidità della lega fusa ed influenza la dimensione e il numero delle particelle di grafite che si formano durante la solidificazione. 16 Le ghise Il Silicio è un potente agente grafitizzante. Un aumento del suo tenore rispetto al limite, causa la formazione di strutture che progressivamente presentano un ammontare maggiore di ferrite. Ciò comporta un aumento della duttilità, ma nel contempo una riduzione della durezza. Inoltre il Silicio provoca un innalzamento della temperatura media di transizione della ghisa duttile in corrispondenza di tutti i trattamenti termici. Per esempio, si passa per una ghisa sferoidale normalizzata da temperatura ambiente ad una temperatura pari a 65°C. Tra gli elementi di lega comunemente utilizzati per migliorare le proprietà meccaniche della ghisa sferoidale bisogna ricordare il Manganese, che oltre a stabilizzare la perlite, aumenta la resistenza a trazione (ma riduce la duttilità ). Il Nickel è usato per incrementare la resistenza a trazione del getto attraverso la formazione di perlite fine. Il Rame può essere usato sia come stabilizzatore di perlite, sia per aumentare la resistenza. Il Molibdeno può essere aggiunto per stabilizzare la struttura a temperature elevate ( buona resistenza a temperature intorno ai 650°C. 1.9.3 Effetto della forma della grafite: resistenza a fatica La conversione della grafite dalla forma lamellare a quella nodulare comporta un notevole miglioramento delle proprietà meccaniche. Infatti: • la sezione resistente a parità di volume è maggiore; • la sensibilità all’effetto di intaglio è minore che nelle ghise lamellari. La resistenza a fatica della ghisa sferoidale è superiore a quella di qualsiasi altra ghisa lamellare sia per l’elevato rapporto di durata (rapporto tra il limite di fatica e il carico di rottura), che per la bassa sensibilità all’intaglio paragonabile a quella degli acciai (figura 5). In figura 5 si può osservare il comportamento di due ghise a diversa struttura: all’aumentare della resistenza a trazione, che provoca un incremento del limite di fatica, diminuisce il rapporto di durata [6]. 17 Le ghise rapporto di durata 0.55 matrice ferritica (dopo ricottura) 0.50 matrice perlitica (grezzo di colata) 0.45 0.40 0.35 resistenza alla 300 400 500 600 700 800 trazione ⎛⎜ N ⎞⎟ 2 ⎝ mm ⎠ Figura 5: Relazione tra il rapporto di durata e la resistenza alla trazione per le ghise sferoidali con la struttura della matrice da completamente ferritica (dopo la ricottura) a completamente perlitica. 1.9.4 Trattamenti termici La maggior parte delle ghise sferoidali è utilizzata allo stato grezzo di fusione o tutt’al più dopo aver subito un trattamento termico di distensione che non ne modifica la struttura [3]. Tuttavia per ottenere caratteristiche meccaniche particolari, esiste una gamma di trattamenti termici specifici che sono : • Trattamento di stabilizzazione: serve ad eliminare le tensioni interne residue che nascono durante la fase di raffreddamento. Si porta il pezzo a circa 600°C, con velocità di salita di 500 – 600 °C/h e lo si fa permanere a tale temperatura per 2 – 6 ore. Poi si fa raffreddare con velocità di 25 – 50 °C/h fino ad arrivare a 100 – 250°C. Si può vedere dalla figura 6 come la temperatura di stabilizzazione influenzi l’eliminazione delle sollecitazioni residue alte (A) e basse (B). • Trattamento di ricottura: tale trattamento rende i getti capaci di deformazioni plastiche superiori alle altre ghise. Quindi se si vuole un pezzo che non abbia come priorità la duttilità ma la resilienza e l’allungamento, allora lo si sottopone a ricottura in modo che dalla matrice austenitica si abbia una matrice ferritica. Si riscalda il pezzo fino a 920°C e lo si fa permanere a tale temperatura per 2 o 3 ore in modo da avere la decomposizione della cementite. Poi si raffredda fino a 800°C con velocità di 100°C/h, successivamente si continua a raffreddare lentamente con velocità di 20°C/h per impedire la formazione di perlite fino a 650°C.Poi si può di nuovo raffreddare velocemente. Il ciclo termico è riportato in figura 7. 18 Le ghise Sollecitazioni Residue (%) 100 80 B 60 A 40 20 0 300 temperatura di 400 500 600 700 800 stabilizzazione (°C) Figura 6: Variazione delle sollecitazioni residue. Temperatura (°C) 1000 800 600 400 200 0 durata (h) 0 4 8 12 16 Figura 7 : Ciclo di ricottura per ottenere ghisa sferoidale a matrice ferritica. Il fatto di operare a temperature così elevate può portare ad alcuni inconvenienti come decarburazioni superficiali, deformazioni e rigonfiamenti dei getti; per evitare ciò, in particolare nei casi in cui non vi sia elevata quantità di cementite libera, vengono eseguiti trattamenti temici a temperature inferiori. • Trattamento di normalizzazione: è utilizzato al fine di ottenere una struttura perlitica dalla matrice austenitica, la quale assicura al getto un’ottima resistenza meccanica. Si riscalda il pezzo fino a 900°C e si permane a tale temperatura per 2 – 5 ore. Il raffreddamento viene effettuato prima in forno, poi a partire da temperature di 800°C circa, si estrae il pezzo e lo si lascia raffreddare in aria calma. In seguito a tale 19 Le ghise trattamento possono nascere tensioni interne, allora si può effettuare un rinvenimento a temperature comprese tra i 450 – 650 °C. • Trattamento di tempra e di rinvenimento: con il primo trattamento si ottiene una microstruttura finale martensitica, che rende il getto molto duro e nel contempo fragile. Il pezzo viene portato alla temperatura di 850 – 900 °C e la permanenza è fissata in base alla struttura del materiale di partenza e allo spessore del getto; segue poi un raffreddamento in olio. Di norma, dopo la tempra, è necessario un rinvenimento con il duplice scopo di eliminare le tensioni interne e di aumentare la capacità di deformazione, oltre che di riportare la durezza a valori desiderati. • Tempra superficiale: permette di trattare termicamente solo determinate zone superficiali. I metodi di applicazione sono due: 1. Tempra superficiale alla fiamma : una o più zone da indurire sono riscaldate sopra il punto di austenitizzazione per mezzo di una fiamma o più fiamme per un tempo molto breve e poi temprate con olio o acqua . 2. Tempra superficiale ad induzione : il mezzo riscaldante è costituito da una o più bobine di forma adeguata e variamente disposte, attraverso cui passa corrente elettrica . In entrambi i procedimenti è molto importante eliminare le tensioni interne presenti da processi precedenti in quanto potrebbero innescarsi cricche. E’ consuetudine perciò applicare un trattamento di rinvenimento a 200°C dopo quello superficiale. 1.9.5 Applicazioni ed impieghi La ghisa sferoidale ha un rapporto di carbonio tale da rendere la sua composizione prossima a quella eutettica. Ciò, come già detto, implica una bassa temperatura di fusione, e, poiché ha come proprietà la buona colabilità può essere utilizzata per stampi sottili e complicati. Essa viene utilizzata per la realizzazione di alberi motori, ingranaggi, in quanto con il trattamento di tempra le superfici di contatto sono rese molto dure e resistenti all’usura. Inoltre è possibile effettuare processi di saldatura tramite cannello ossiacetilenico, elettrodi e brasatura. E’ anche possibile saldarla con altri materiali come acciai al Carbonio, inossidabili e leghe al Nickel. 20 Le ghise sferoidali CAPITOLO II LE GHISE SFEROIDALI 2.1 INTRODUZIONE Nel corso della prima metà del novecento, il tentativo di ottenere un materiale capace di unire la colabilità delle ghise e la tenacità degli acciai fu coronato da un successo, almeno parziale, con le ghise malleabili. Queste sono ottenute mediante un lungo e costoso processo di ricottura di ghise bianche, durante il quale la cementite presente si decompone in grafite che precipita sotto forma di aggregati differenti, in funzione della modalità di raffreddamento dalla temperatura di ricottura. L’elevato costo della procedura, e le oggettive difficoltà nell’ottenere pezzi di grandi dimensioni limitano però l’applicabilità di questa procedura. Nel 1948, H.Morrogh della British Cast Iron Research Association (BCIRA) annunciò alla American Fondrymen Society Convention la formazione di grafite in forma sferoidale all’interno di una ghisa grigia ipereutettica, mediante l’aggiunta di piccole quantità di cerio. Nello stesso anno, l’International Nickel Company annunciò il raggiungimento del medesimo risultato mediante l’utilizzo di magnesio come sferoidizzante (brevetto del 1949). Le ghise sferoidali (solitamente indicate in inglese con il termine “ductile iron”) hanno avuto uno sviluppo continuo negli ultimi decenni, grazie ad un miglioramento del controllo del processo di sferoidizzazione ed un’ottimizzazione delle microstrutture, mediante sia un controllo degli elementi di lega aggiunti, sia una ottimizzazione del trattamento termico. 2.2 GHISE SFEROIDALI E PRINCIPALI PROPRIETÀ MECCANICHE Possono essere ottenute ghise sferoidali caratterizzate da matrici anche notevolmente diverse (figura 8): ferritica (caratterizzate da una buona duttilità e da una resistenza alle 21 Le ghise sferoidali sollecitazioni di trazione comparabile con quella di un acciaio non legato a basso tenore di carbonio); perlitica (caratterizzate da una elevata resistenza a trazione, ma da duttilità e resilenza non elevate); ferrito-perlitica (sono le ghise sferoidali più largamente utilizzate, con una resistenza a trazione intermedia rispetto a quella offerta dalle ghise completamente ferritiche e completamente perlitiche); martensitica (con una resistenza a trazione elevata, ma con livelli inferiori di duttilità e resilienza); bainitica (con una durezza intermedia); austenitica (caratterizzate da una resistenza alla corrosione migliorata e da una buona resistenza a trazione); austemperata (caratterizzate da una resistenza a trazione quasi doppia rispetto alle ghise sferoidali a matrice perlitica, con un elevato valore dell’allungamento e della tenacità). Le caratteristiche di queste ghise, spesso indicate con l’acronimo ADI (Austempered Ductile Iron), sono legate alla particolare microstruttura ottenuta con il trattamento denominato “austempering”, a seguito del quale la microstruttura è costituita da austenite trasformata (arricchita in carbonio), austenite residua e ferrite aciculare (possono essere anche presenti quantità inferiori di martensite e di carburi). Ferritica Rm = 414 MPa Ferrito-perlitica Rm = 552 MPa Perlitica Martensitica Martensite rinvenuta ADI Rm = 690 MPa (con austenite res.) Rm = 793 MPa Rm = 1050 MPa ADI Rm = 1600 MPa Austenitica Rm = 310 MPa Figura 8: Ghise sferoidali: differenti microstrutture e resistenza a trazione (nota: le foto corrispondono a differenti ingrandimenti) [1]. L’influenza della microstruttura sul comportamento meccanico è riportata nella figura 9, per ciò che riguarda la resistenza a trazione, e nella figura 10, nel caso della resistenza alla propagazione della cricca di fatica. In ogni caso, al di là delle caratteristiche relative alle differenti microstrutture, la peculiarità di queste ghise è data certamente dalla morfologia degli elementi di grafite. Caratterizzate da una forma approssimativamente sferica, le particelle di grafite agiscono come “crack arresters”, con una conseguente incremento della tenacità, della duttilità e della resistenza alla propagazione della cricca di fatica Tale risultato è comunque ottenuto solo nel caso di una buona “nodulizzazione” delle particelle di grafite. Questa viene ottenuta mediante l’aggiunta di magnesio, magnesio+calcio, terre rare, oppure magnesio+terre rare. 22 Le ghise sferoidali Figura 9: Resistenza a trazione per acciai, ghise grigie e ghise sferoidali ferritiche e perlitiche [1]. -6 da/dN [m/ciclo] 10 R = 0,1 100% F 50% F + 50% P 100% P ADI R = 0,75 100% F 50% F + 50% P 100% P ADI -7 10 -8 10 -9 10 10 -10 3 10 1/2 ΔK [MPa m ] 40 Figura 10: Influenza della microstruttura e del rapporto di carico sulla resistenza alla propagazione delle cricche di fatica [1,8]. Sebbene il processo di nodulizzazione sia comunemente ritenuto eterogeneo, il substrato di nucleazione non è stato ancora chiaramente identificato. E’ stato infatti proposto che la nucleazione abbia luogo sia sulle differenti inclusioni che possono formarsi (MnS, CaS, SrS, MgO etc. [4,9]), oppure in corrispondenza di bolle gassose [10]. Dopo la nucleazione, i noduli di grafite si accrescono grazie alla diffusione degli atomi di carbonio attraverso il 23 Le ghise sferoidali guscio di austenite. A seguito di tale processo, si possono ottenere differenti morfologie, le cui principali sono quelle riportate nella figura 11. A partire da noduli con la superficie liscia (Figura 11a) oppure rugosa (Figura 11b), si arriva a differenti forme di grafite degenerata (ad esempio, figura 11c). Più ci si allontana dalla forma perfettamente sferica dell’elemento di grafite, peggiori sono le proprietà meccaniche, in particolare la tenacità e la resistenza alla propagazione della cricca di fatica. La forma degli elementi di grafite può essere controllata sia direttamente (mediante misure metallografiche) che indirettamente (ad esempio mediante ultrasuoni). Figura 11: Differenti forme degli elementi di grafite nelle ghise sferoidali [7]. Per una completa caratterizzazione di una ghisa sferoidale è quindi necessario controllare sia la microstruttura che la morfologia degli sferoidi. Il metodo diretto, implica una preparazione metallografica, seguita da una osservazione al microscopio ottico, effettuata solitamente ad un ingrandimento pari a 100x. Nel caso sia necessario effettuare una analisi della microstruttura, si effettua un attacco chimico (ad esempio utilizzando una soluzione Nital 1 o 3 per qualche secondo), prima dell’osservazione al microscopio. Nel caso di una preparazione effettuata con l’obiettivo di analizzare gli elementi di grafite, non è necessario effettuare un attacco chimico della superficie lucidata. Il risultato tipico è quello riportato nella figura 12. Dall’esempio riportato nella figura 12, si può osservare che la densità delle particelle (definita come numero di particelle per unità di superficie, n/mm2) è piuttosto elevata. Considerando che le proprietà macroscopiche della ghisa in oggetto dipendono dalle condizioni microscopiche degli elementi di grafite, ne consegue che è necessario caratterizzare un elevato numero di particelle, effettuando un numero di osservazioni elevato. 24 Le ghise sferoidali Figura 12: Osservazione al microscopio ottico di una ghisa sferoidale (senza attacco chimico). Questa analisi è solitamente effettuata in modo semiquantitativo, utilizzando un parametro di “nodularità” che descrive la percentuale degli elementi di grafite che sono descritti in maniera accettabile da una sfera, e valutando la dimensione dei noduli e la loro distribuzione [14-16]. E’ necessario sottolineare che le immagini ottenute mediante la preparazione metallografica possono presentare “artefatti” (quali ad esempio graffi ed ombre) che rendono problematica una identificazione automatica o anche solo semiautomatica del livello di nodularità. Tale identificazione viene solitamente effettuata in maniera semiquantitativa, fondamentalmente basandosi sull’esperienza e l’abilità dell’operatore. Alcuni software sono commercialmente disponibili, ma le prestazioni offerte non sono assolutamente soddisfacenti, vista la loro usuale derivazione dal campo biologico [25]. Problematiche simili sono offerte dall’analisi della microstruttura del campione, che, oltre ai problemi relativi alla presenza degli “artefatti” relativi ad una non perfetta procedura di lucidatura, presenta anche tutti i problemi relativi alle procedure di attacco chimico, con la possibile ulteriore formazione di “artefatti” estranei alla microstruttura, ed alla identificazione delle fasi e dei costituenti strutturali. La quantificazione automatica delle frazioni volumetriche delle fasi e dei costituenti strutturali presenti, sebbene in linea di principio possibile, purtroppo non è supportata da software dedicati soddisfacenti. Ne consegue che gli operatori solitamente procedono ad una quantificazione delle frazioni volumetriche manuale oppure semiquantitativa, ovvero basata su una valutazione soggettiva dell’immagine. 25 Le ghise sferoidali Per quanto riguarda la caratterizzazione delle proprietà meccaniche, è necessario sottolineare che, a fronte di un continuo incremento del numero e dell’importanza delle applicazioni relative alle numerose tipologie di ghise sferoidali disponibili in commercio, e nonostante il fatto che la sua quota di mercato stia praticamente sopravanzando quello della ghisa grigia (figura 13, fonte Rete Italiana per la Diffusione dell’Innovazione e il Trasferimento Tecnologico alle Imprese, RIDITT), e nonostante una intensa attività di ricerca relativa alle identificazione delle proprietà meccaniche [17-20], corrosionistiche e tecnologiche delle ghise sferoidali, non sono ad oggi disponibili dei modelli costitutivi in grado di considerare l’influenza della microstruttura sul comportamento meccanico, neppure per la classe di ghise sferoidali di più agevole caratterizzazione, ovvero quella relativa alle matrici ferrito-perlitiche [34]. Figura 13: Produzione dei tre tipi di ghisa nei principali paesi europei (anno 2000, fonte RIDITT). Ad esempio, nella figura 10, in cui si riporta l’influenza della microstruttura e del rapporto di carico sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica, si osserva che, mentre per bassi rapporti di carico l’influenza della microstruttura sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica è praticamente trascurabile per qualunque valore di ΔK, nel caso dei rapporti di carico elevati si ha una influenza trascurabile solo in corrispondenza dei valori prossimi alla soglia (ΔKth), mentre nel caso dello stadio II (zona di Paris) e dello stadio III (rottura di schianto) della propagazione si ha una più marcata influenza della microstruttura, con la ghisa ferrito-perlitica (50% F + 50% P) che presenta un comportamento decisamente più interessante rispetto alle ghisa completamente ferritica oppure completamente perlitica. In taluni casi, sia nel caso delle ghise sferoidali che di 26 Le ghise sferoidali altre leghe, si è tentato di quantificare e simulare l’influenza della microstruttura e delle modalità di sollecitazione sulla resistenza meccanica mediante l’impiego delle reti neurali artificiali [21-24]. Queste infatti ben si prestano alla simulazione di fenomeni in cui l’influenza dei parametri non è lineare. I risultati, interessanti e promettenti, consentono di prendere in considerazione le reti neurali artificiali come strumento per una completa simulazione dell’influenza della microstruttura e delle modalità di sollecitazione sul comportamento meccanico delle ghise sferoidali a matrice ferrito-perlitica. 2.3 PROCESSO PRODUTTIVO IN FONDERIA. Il processo produttivo attuato nelle fonderie può essere ricondotto alle seguenti fasi: 1. Fusione e trattamento del metallo 2. Formatura e preparazione anime 3. Colata del metallo nella forma e raffreddamento. 4. Distaffatura (estrazione dei getti dalla forma) 5. Finitura del getto. Per ogni lega prodotta, risulta rilevante il sistema di realizzazione della forma, ed il sistema di colata del metallo all’interno di essa. Tradizionalmente le fonderie si suddividono in fonderie con forma a perdere (ciascuna forma è utilizzata una sola volta, e viene distrutta al momento dell’estrazione del getto) o con forme permanenti (la medesima forma viene utilizzata per produrre innumerevoli quantità di getti); la formatura con forme permanenti viene molto utilizzata nel campo dei metalli non ferrosi (in particolare per la produzione di getti di alluminio), associate a tecniche di colata a pressione (alta pressione o bassa pressione). Nelle fonderie di metalli ferrosi, fatta eccezione per la realizzazione di getti centrifugati, la formatura viene realizzata in forme a perdere; in alcuni casi possono essere realizzati getti utilizzando sistemi di formatura misti (parte della forma a perdere e parte permanente). Il tipo di lega da produrre ed il tipo di forma utilizzata, condizionano le caratteristiche degli impianti e la scelta dei processi utilizzati. Le scelte tecnico– impiantistiche sono, inoltre, condizionate dal tipo di mercato al quale la fonderia si rivolge, in particolare rispetto alle dimensioni dei getti da produrre e le relative serie. Il processo produttivo di una fonderia può essere rappresentato dal seguente schema: 27 Le ghise sferoidali Figura 14: Schema a blocchi del processo fusorio in fonderia 2.3.1 Fusione della ghisa sferoidale di base e trattamento del metallo Tutti i forni destinati a fondere ghisa o acciaio possono essere impiegati anche per la fusione della ghisa di base. Dal punto di vista economico e qualitativo, la miglior produzione viene realizzata attraverso l’impiego abbinato di cubilotti e forni ad induzione, ma ciò è evidentemente realizzabile soltanto da parte di aziende con grandi volumi di 28 Le ghise sferoidali produzione. Per restare di interesse generale, la discussione della fusione abbinata verrà da quella relativa alla fusione semplice in cubilotti e forni ad induzione. 2.3.1.1 Fusione in cubilotto La quantità maggiore di ghisa sferoidale di base viene fusa, direttamente o per successivo abbinamento in cubilotti. Oltre ad essere il più comune e sperimentato dispositivo di fusione per la ghisa, il cubilotto offre anche taluni vantaggi di qualità e di economia di fusione. Le ghise sferoidali base fuse in cubilotti, sono adatte ad ottenere strutture esenti da carburi. Naturalmente tale condizione dipende dalla qualità dei controlli metallurgici. Tuttavia tale processo produttivo è entrato ormai in disuso, diventando sempre più imponenti gli imperativi di protezione ambientale. In generale si può affermare che le fonderie a cubilotto possono essere distinte in due gruppi: a) quelle che hanno ereditato gli impianti dal passato e non possiedono controlli adeguati e pertanto sono in via di disarmo passando alla fusione elettrica; b) quelle che realizzando anche produzioni combinate, giustificate da volumi di produzione elevati, esercitano i controlli necessari, il cui costo viene recuperato dai risparmi realizzati. L’impianto di fusione a cubilotto in generale è un impianto di tipo semicontinuo, cilindrico ed asse verticale (figura 15), e si presta alla produzione di un solo tipo di ghisa (a vantaggio dei volumi di produzione) e può essere distinto a seconda del tipo di rivestimento e alla composizione della scoria. Nel processo fusorio la carica, scendendo lungo il cubilotto, viene riscaldata controcorrente dai gas di combustione del coke e giunge a completa fusione nella zona antistante gli ugelli di immissione del vento. La ghisa liquida si raccoglie nella parte più bassa del forno, detta crogiuolo che si separano dalle scorie che galleggiano e vengono eliminate attraverso l’apposito scarico. La composizione della scoria esercita una profonda influenza sulla qualità della ghisa ed anche sulle condizioni operative. La scoria viene definita, a seconda del suo contenuto in CaO, MgO e SiO2, come acida o basica. La basicità della scoria è espressa dal rapporto: CaO (%) + MgO (%) SiO2 (%) (3) Se tale rapporto è maggiore di uno la scoria è basica; se è minore di uno è acida. Alcuni esempi sono riportati in Tabella 2. 29 Le ghise sferoidali Figura 15: Forno a cubilotto per produzione ghisa. Tabella 2: Composizione di scorie dei cubilotti Tipo di scoria SiO2(%) CaO(%) MgO(%) Basicità Acida 45 35 1 0,8 Basica 30 40 20 2,0 Esistono ovviamente, oltre alla composizione della scoria, molti altri parametri che influenzano la produzione della ghisa sferoidale base, come il rapporto coke/carica, altezza del letto di fusione, disegno del cubilotto, carica metallica, temperatura di spillatura, ecc.(figura 16). In generale le ghise fuse in cubilotto presentano un certo tenore di Zolfo, che diventa elevato nel caso di scoria acida (0,08-0,12%). In operazioni di piccolo volume tale tenore viene abbattuto dalla lega sferoidizzante durante il trattamento di sferoidizzazione. In caso di elevati volumi di produzione, è preferibile per l’economicità della fusione realizzare una desolforazione prima della colata in staffa. Per suddetti limiti di carattere tecnico oltre che per limiti di carattere ambientale, si è verificato un sostanziale regresso del loro impiego soprattutto perché dal punto di vista della qualità dei getti non si riescono a garantire getti dimensionalmente piccoli e sottili esenti da galleggiamento di grafite o grafite esplosa, a causa degli elevati tenori di Carbonio e Zolfo (figura 17). 30 Le ghise sferoidali Figura 16: Forno a cubilotto con recupero dei gas di scarico. Figura 17: Esempio di grafite esplosa. 2.3.1.2 Fusione elettrica La fusione elettrica è semplice, pulita ed affidabile. Essa offre inoltre la massima flessibilità nella fusione di ghise di diverso tipo. I forni ad arco elettrico sono molto meno diffusi di quelli ad induzione. Il loro funzionamento, di tipo discontinuo, può fornire una produzione continua solo se vengono usate simultaneamente diverse unità. Ciò significa un grande volume produttivo, ed in questo caso la fusione primaria fornisce ghisa sferoidale di base con qualità metallurgiche superiori. 31 Le ghise sferoidali I forni elettrici ad induzione sono i più comuni (figura 18, figura 19), sia per il funzionamento semplice nelle fonderie di piccole dimensioni, sia come apparecchiature in abbinamento. Di solito, il tipo a crogiuolo viene usato per la fusione primaria ed il tipo a canale per la fusione abbinata. Gli apparecchi ad alta frequenza sono solo strumenti di laboratorio. Nella produzione commerciale vengono usate frequenze basse (leghe di rame ed alluminio) e medie (per leghe ferrose) comprese tra 50 e 180 Hz. Tanto più è bassa la frequenza, tanto migliore è l’azione di agitazione e quindi l’omogenizzazione. I forni elettrici ad induzione sfruttano il principio dell’induzione elettromagnetica e cioè sviluppano nella carica metallica delle correnti indotte da un campo magnetico che per effetto joule scaldano il metallo. Sebbene i forni a crogiuolo possono funzionare in modo discontinuo, ciò comporta una scarsa economia ed una scarsa utilizzazione del forno stesso. È certamente consigliabile mantenere un fondo di metallo fuso (o piede di bagno) di almeno il 25% della capacità totale durante tutta la vita utile del rivestimento refrattario. Per avere condizioni metallurgiche ottimali si richiederebbe un crogiuolo ancora più pieno, dove sol il 20% della capacità totale venisse spillato ed immediatamente rimpiazzato con carica solida Figura 18: Forno ad induzione a bassa frequenza con nucleo magnetico 32 Le ghise sferoidali Figura 19: Forno ad induzione a media frequenza senza nucleo magnetico, circondato da spira induttrice. È da notare che la capacità e la potenza dei forni debbono essere scelte indipendentemente. La migliore capacità si ha al quintuplo del peso di ogni singola spillatura (trattamento). La potenza necessaria viene determinata dalla velocità di fusione richiesta. Figura 20: Forno fusorio a media frequenza per la produzione di ghisa. 33 Le ghise sferoidali Figura 21: Sistema di caricamento annesso al forno fusorio Figura 22: Spillata di metallo fuso da forno fusorio 34 Le ghise sferoidali 2.3.1.3 Preparazione del metallo base La qualità metallurgica della ghisa sferoidale base liquida è influenzata da tre variabili: a) sequenza di caricamento, (figura 23) b) massima temperatura del forno e temperatura di stazionamento, c) contenuto in silicio della ghisa base. a) Per quanto concerne la sequenza di caricamento, le condizioni ottimali si ottengono mediante spillatura ed immediata ricarica, in modo da ridurre al minimo la formazione di carburi di fusione. b) Si afferma talvolta ancora che, sovrariscaldando la ghisa ad alta temperatura, si beneficia erroneamente della omogeneizzazione del fuso e della dissoluzione della rimanente grafite lamellare che può essere stata caricata. In realtà la grafite lamellare si scioglie quasi istantaneamente nel ferro liquido, cioè viene espulsa e resta intrappolata nella scoria. Ciò rende ovviamente imperativo agitare il bagno metallico nella fase di carburazione e non surriscaldare il bagno prima della spillata. c) Dal punto di vista teorico il silicio è il solo elemento in un processo fusorio, in grado di trattenere l’ossigeno nel fuso. Allo stesso tempo, l’ossido di silicio diventa instabile al crescere della temperatura ed al di sopra della temperatura di solidificazione l’ossido di SiO2 viene attaccato dal Carbonio con formazione di CO gassoso fungendo da luoghi di nucleazione per la grafite. a) b) Figura 23: Sistema di caricamento forni fusori. a) Schema di caricamento, b) Caricamento ghisa in pani mediante magnete La carica metallica media per una ghisa base consiste di: 35 Le ghise sferoidali • Ghisa in pani o ghisa d’altoforno con quota di carica pari al 15-20%: fornisce, seppur relativamente costosa, essendo una pura lega ferro-carbonio, un contributo significativo al controllo della composizione chimica in quanto trasmette alla ghisa base favorevoli proprietà ereditarie come assenza di carburi, buona risposta all’inoculazione, bassi tenori di Zolfo (0.05-0.20%). • Rottame di acciaio con quota di carica pari al 40-50%: è un importante componente della carica della ghisa sferoidale. È comunque importante dal punto di vista metallurgico il reperimento di acciaio di “buona qualità” sia dal punto di vista della composizione chimica sia dal punto di vista della forma fisica. Più significativamente, quegli elementi che favoriscono la formazione di carburi (Cr, B, V, Mo) e quelli che interferiscono con la forma della grafite (S, Pb, Zn) dovrebbero essere presenti in quantità piccole e costanti. Tuttavia previsioni future fanno ritenere che la qualità del rottame di acciaio, per quanto concerne la produzione di ghisa sferoidale, tenderà a peggiorare poiché nel tentativo di aumentare il rapporto resistenza/peso crescerà l’apporto degli elementi di lega. Inoltre nel tentativo di migliorare la resistenza alla corrosione tenderà ad aumentare l’apporto dello Zinco soprattutto sui componenti automobilistici. La forma fisica comprende dimensioni e superficie specifica (esempio ritagli di lamiere zincate e sottili) • Ritorni di ghisa sferoidale con quota di carica di circa il 20-30%: è pratica comune nel processo produttivo di ghisa sferoidale tenere separati e ritorni di ghisa sferoidale (canali di colata, materozze ecc.) e successivamente riutilizzarli nella preparazione della carica metallica. A tutti gli effetti tali rottami presentano lo stesso costo dei getti commerciabili: il rottame infatti viene fuso dalla stessa miscela di ghisa d’altoforno e rottame di acciaio, trattato, inoculato e colato entro la stessa forma del getto da produrre. Per questo motivo tale materiale, avente in genere bassi tenori di Zolfo, di Manganese e di Fosforo, presenta caratteristiche metallurgiche confrontabili alla ghisa in pani e deve essere utilizzato con parsimonia, anche per tenere sotto controllo eventuali effetti di ereditarietà. • Ferro-leghe e carburo di silicio con quota necessaria al raggiungimento dei tenori di Carbonio e Silicio previsti dalla composizione chimica. 36 Le ghise sferoidali 2.3.1.4 Trattamento sferoidizzante: metodi La sferoidizzazione delle particelle di grafite durante il processo di solidificazione della ghisa è da imputare all’aggiunta in un processo a “step” detto nodulizzazione di una piccola ma definita quantità di Magnesio (0.04 – 0.08%) o Cerio (0.005%) o Calcio, Litio, Azoto, Bario (anche se questi hanno una minore importanza commerciale). Nella maggior parte delle applicazioni commerciali sia il Cerio che il Magnesio sono aggiunti – il secondo come principale agente nodulizzante il primo (in quantità di 20 ppm) principalmente per ridurre la sensibilità del Magnesio alla presenza del Piombo, Bismuto, Antimonio , Titanio e di tutti quelli che inibiscono la formazione di grafite sferoidale. Di seguito si riportano i metodi di sferoidizzazione più ampiamente utilizzati. • Metodo di trasferimento in siviere: la lega madre di Magnesio viene posta sul fondo della siviera di trattamento vuota ed aperta con o senza pozzetto e la ghisa base liquida viene versata su di essa. Si ritiene che il getto della ghisa liquida debba essere diretto lontano dalla in cui è collocata la lega, ed il riempimento deve avvenire il più velocemente possibile. Una variante di tale metodo è il cosiddetto “sandwich”, in cui la lega madre viene ricoperta con piccoli pezzi di acciaio (circa il 2% della peso della ghisa da trattare) in modo quindi da ritardare l’inizio della reazione ed abbassare localmente la temperatura del liquido attorno alla lega di Mg (Figura 24). • Metodo a siviera coperta o tundish cover: la presenza di coperchio ad imbuto limita ovviamente, rispetto al metodo di cui sopra, la velocità di riempimento e la violenza della reazione, consentendo in parte il recupero del Magnesio diminuendo la formazione di MgO (Figura 25). • Metodo mediante convertitore Fisher: questo processo utilizza magnesio metallico puro di basso costo in una camera di reazione che è separata dal liquido quando il convertitore è orizzontale. Quando il convertitore viene ruotato in posizione verticale, la ghisa reagisce con il magnesio e viene trattata. Una ulteriore rotazione del convertitore lo riporta nella condizione di scarico. • Metodo di sferoidizzazione in forma o “in-mold”: il trattamento avviene all’interno della forma e l’agente sferoidizzante (MgFeSi) è posto in una camera di reazione che fa parte del dispositivo di colata (Figura 26). I vantaggi di tale metodo sono l’eccellente recupero del Magnesio e l’assenza di inquinanti nell’aria. Gli svantaggi sono un minor rendimento di colata e la 37 Le ghise sferoidali necessità di accertare microscopicamente l’avvenuta sferoidizzazione, poiché non risulta possibile verificare mediante analisi chimica l’effettivo tenore di Mg residuo nel metallo liquido. • Metodo di sferoidizzazione mediante filo animato: esso consiste nell’alimentare delle barrette, o un filo di Magnesio metallico attraverso un’apertura vicino al fondo della siviera, entro il liquido. Questo metodo per introdurre nel fondo della siviera la ferrolega ed il Mg. In figura 27 e 28 sono mostrati rispettivamente un tipico schema di installazione dei dispositivi filo animato ed una bobina contenente Mg dal diametro di circa 13 mm per un peso complessivo di 2 tonnellate circa . Sicuramente tale metodo risulta essere quello maggiormente diffuso in quanto si riesce ad ottenere una buona riproducibilità delle caratteristiche del metallo rispettando le proporzioni ed il rapporto percentuale tra metallo e metri di filo introdotto in modo del tutto automatizzato, colando in forma direttamente il metallo trattato senza ulteriori travasi (Figura 29). Figura 24: Metodo con siviera, presenza Figura 25: Metodo tundish cover di lega madre sul fondo. automatico 38 Le ghise sferoidali Figura 26: Metodo in-mold Figura 27: Schema per installazione dispositivo filo animato. 39 Le ghise sferoidali Figura 28: Bobina filo animato Figura 29: Esempio di impianto filo animato automatizzato. 2.3.2 Tecniche di formatura (preparazione delle forme e delle anime). I metodi di formatura, cioè di preparazione della forma, si distinguono solitamente in due gruppi: (1) i metodi di formatura in forma transitoria, caratterizzati dal fatto che ogni forma può essere utilizzata per una sola colata e viene distrutta al momento di estrazione del greggio 40 Le ghise sferoidali (2) i metodi di formatura in forma permanente, (o in conchiglia), nei quali la forma è progettata e realizzata in modo da poter essere utilizzata per un numero elevato di colate. Le cavità eventualmente presenti all’interno del getto sono realizzate mediante parti di forma chiamate anime (figura 30); realizzate in sabbia agglomerata con leganti chimici, e sono introdotte nella forma prima della sua chiusura. Le anime vengono utilizzate nella produzione di getti sia nei sistemi con formatura transitoria (a perdere), sia nei sistemi con forma permanente, nei processi per colata a gravità. Figura 30: Disposizione dell’anima nella forma a verde (ramolaggio). 2.3.2.1 La formatura transitoria I vari procedimenti di formatura in forma transitoria hanno in comune il fatto che il materiale di formatura è costituito da: - un elemento refrattario - un elemento legante, che garantisce la coesione della forma - degli additivi, che hanno la funzione di correggere alcune caratteristiche del materiale di formatura, poco adatte all’uso della fonderia (non sempre presenti); spesso gli elementi leganti hanno anche la funzione di additivi. I principali elementi refrattari sono delle terre (sabbie) costituite da: 41 Le ghise sferoidali - Quarzo (SiO2): questo tipo di terra è una delle più comuni e una delle più usate, anche per il suo basso costo - Cromite (FeO.Cr2O3): questo tipo di terra ha una refrattarietà maggiore rispetto a quella silicea, e i grani sono mediamente più piccoli, in modo da far ottenere una migliore finitura superficiale del prodotto finito. - Silicato di zirconio (ZrSiO4): questo tipo di terra ha caratteristiche simili a quella di cromite, ma permette finiture superficiali ancora migliori. - Olivine: questo tipo di terra è prodotta macinando le rocce naturali. È utilizzata soprattutto per la produzione di pezzi in acciaio al Mn. I principali elementi leganti sono: - Bentonite: questo legante è una argilla con componente attivo la montmorillonite. La bentonite è spesso attivata con soda, per originare un legante che insieme alla sabbia, dà una miscela con un’ottima resistenza meccanica a secco e una lunga durata anche a temperature elevate. - Resine: le resine sono dei leganti chimici che possono essere classificate in base al processo di indurimento a cui sono sottoposte: • Indurimento a freddo (cold-setting resins) • Indurimento con gas (gas-hardened resins) • Indurimento a caldo (hot curing resins) Insieme alle resine sono spesso utilizzati catalizzatori gassosi per iniziare il processo di indurimento. - Nero minerale: questo additivo è utilizzato soprattutto nelle fonderie di metalli ferrosi. Ha la proprietà di migliorare la finitura superficiale del pezzo fuso e di facilitare le operazioni di sformatura. - Farina di cereali: questo legante ha la proprietà di eliminare i difetti dovuti all'espansione della forma. - Ossidi di ferro: additivo utilizzato soprattutto nella fabbricazione delle anime. • Metodologie per la formatura in forma transitoria Procedimento con formatura in terra verde (figura 30): si utilizzano terra e bentonite (max 10%). La terra è compatta intorno al modello tramite apposite macchine di formatura, che funzionano a pressione o a vibro-compressione. Questa formatura è utilizzata sia per i metalli ferrosi che non. Procedimento con formatura in terra non legata (o sotto vuoto): in questo caso non è presente nessun legante. La forma si realizza mediante sabbia sciolta depositata sul 42 Le ghise sferoidali modello, al quale è applicato un sottile film plastico (PEVA), che garantisce la tenuta una volta che la forma è posta in depressione. Il vuoto consente di mantenere la geometria dell’impronta realizzata, quando si estrae il modello e nelle successive fasi di colata del metallo. La sformatura avviene semplicemente eliminando il vuoto; la sabbia si stacca dal modello ed è riciclata, senza nessun tipo di trattamento di recupero. Procedimento con formatura con terra e leganti chimici: i procedimenti principali sono tre: 1. Procedimento con indurimento a freddo effettuato a temperatura ambiente. 2. Procedimento di formatura con indurimento con gas (cold box) 3. Procedimento di formatura con indurimento termico (hot box, shell-molding). 43 Le ghise sferoidali Procedimento di formatura con modello in materiale espanso In questo caso il modello non è rimosso dalla forma prima della colata, ma rimane all’interno di essa ed è distrutto quando si cola il metallo. Il processo porta ad una elevata accuratezza dimensionale ed ad un’ottima precisione superficiale. Può essere utilizzato sia con terre senza leganti, sia con terre con leganti chimici. 2.3.2.2 La formatura con forme permanenti In questo caso le forme sono fatte di metallo, e sono quindi riutilizzate più volte. L’elevato costo di lavorazione rende giustificabile questo tipo di formatura per le produzioni di serie. La forma è realizzata in lega metallica, normalmente acciai legati o ghise speciali, in modo da essere utilizzata per un numero elevato di getti uguali. 2.3.3 La fase di colata Colata nelle forme transitorie Il metallo è colato nelle forme attraverso la siviera, o mediante un apposito forno di colata. Una volta colato il metallo, ha inizio la prima parte del raffreddamento del pezzo, che può richiedere tempi differenti in funzione della massa del getto. Finita questa fase, la forma viene aperta e distrutta ed il getto viene separato dalla terra di formatura, permettendo il successivo recupero di parte di questa. Colata in forme permanenti Colata a gravità Il procedimento consiste nel versare il metallo nella conchiglia per il semplice effetto della gravità, analogamente alla colata nelle forme di terra a perdere. La colata a pressione, 44 Le ghise sferoidali diversamente che per i metalli non ferrosi, non viene utilizzata per i getti di ghisa e di acciaio. Figura 31: Schema di colata per centrifugazione Colata centrifuga Questa tecnica si applica per produrre pezzi cilindrici o simmetrici rispetto ad un asse longitudinale. Con questa tecnica si riescono ad ottenere proprietà meccaniche del pezzo non ottenibili con gli altri metodi (Figura 31). Colata continua La colata continua è uno dei principali metodi per ottenere barre, tubi e profilati metallici, con un’alta produttività. Il metallo fuso passa attraverso la conchiglia e acquista la forma desiderata. Appena al di fuori è raffreddato e poi tagliato alla lunghezza richiesta (Figura 32). Figura 32: Schema di colata continua 45 Le ghise sferoidali 2.3.4 Trattamenti di finitura I principali trattamenti meccanici che si applicano sui pezzi colati, una volta raffreddati, sono: - rimozione del sistema di colata - rimozione dei residui di sabbia della forma - rimozione delle bave - riparazione di eventuali imprecisioni dovute ad errori durante la colata. Si cerca di effettuare tutte queste operazioni in modo automatizzato, in modo da aumentare la produttività. Per quanto riguarda la sbavatura, soprattutto nelle produzioni di serie, si cerca di fare in modo che le bave si formino in parti del pezzo facilmente accessibili, in modo da ridurre i tempi di lavorazione. 2.3.5 Trattamenti termici Per i pezzi metallici, i trattamenti termici che sono principalmente sono quello di ricottura e quello di tempera. In particolare, per la ghisa sferoidale, i trattamenti termici che possono essere praticati sono: - Ricottura di distensione: consiste in un riscaldamento del pezzo ad una velocità di 50100°C all’ora fino a 600°C, seguito da un mantenimento a tale temperatura per un minimo di un’ora, e a un raffreddamento di 50 – 100 °C all’ora. - Eliminazione dei carburi: consiste nel mantenere il pezzo ad una temperatura di 900925°C dalle 3 alle 5 ore. - Bonifica: consiste nel riscaldare il pezzo alla temperatura di austenitizzazione, intorno ai 1000°C, con un successivo rinvenimento intorno ai 500°C. - Ricottura per produrre una matrice ferritica: consiste nel mantenere il pezzo ad una temperatura di 900-925°C dalle 3 alle 5 ore, seguito da un lento raffreddamento a 20 – 35°C/h attraverso l’intervallo di temperatura critica (710 – 800°C), e da un raffreddamento a 50-100°C all’ora fino ai 200°C. - Normalizzazione per produrre una matrice perlitica: riscaldamento a 900-925°C per decomporre i carburi, seguito da raffreddamento in aria calma per attraversare in discesa la temperatura critica, ottenendo una struttura perlitica. - Ottenimento di strutture di tempra: mediante austenitizzazione a 900-920 °C, con successiva tempra in olio a 600°C . 46 Le ghise sferoidali - Processo di “austempering” della ghisa sferoidale: L’austempering è un processo di tempra isotermica, per ottenere strutture austemprate. Questo processo è utilizzato, in particolare per produrre getti in ghisa sferoidale (ADI) con elevate caratteristiche meccaniche. Il processo è in due stadi: riscaldamento in campo austenitico intorno a 815-930°C, seguito da tempra isotermica in bagno di sali a temperatura compresa tra 400 e 230°C. 2.4 CONTROLLO DI QUALITÀ DELLA GHISA SFEROIDALE. Il crescente utilizzo di getti in ghisa sferoidale nella realizzazione di particolari di sicurezza soprattutto in campo automobilistico, impone alle fonderie una forte attenzione alla qualità dei greggi di fusione. Per qualità in un processo produttivo si intende qualità a partire dal controllo delle forniture delle materie prime sino ad arrivare al controllo e verifica delle proprietà meccaniche del getto finito. Di seguito si riporta per sintesi un tipico schema di controllo di qualità nella produzione di getti in ghisa sferoidale (figura 33). Figura 33: Schema del controllo di qualità della ghisa sferoidale. 47 Le reti neurali CAPITOLO III LE RETI NEURALI 3.1 INTRODUZIONE Le reti neurali artificiali (RNA) presentano una struttura simile a quelle del cervello umano. In particolare, esse sono costituite da un certo numero di neuroni sensori, o neuroni di input, che costituiscono l’ingresso della rete, da un certo numero di neuroni motori, o neuroni di output, che costituiscono l’uscita della rete, e da un certo numero di neuroni intermedi, o neuroni nascosti, che connettono l’ingresso e l’uscita della rete. Ogni neurone riceve diversi segnali in input ed emette un unico segnale di output. Quest’ultimo si propaga, grazie ad una serie di collegamenti sinaptici, ai neuroni posti a valle. Sostanzialmente, in ogni intervallo di tempo, il neurone somma tutti i segnali al suo ingresso e, se questa somma supera una certa soglia caratteristica, esso si attiva ed invia un segnale di output, altrimenti rimane quiescente. Siccome nelle reti neurali artificiali, così come nel cervello umano, la conoscenza è distribuita su un gran numero di neuroni, le reti neurali risultano essere strutture piuttosto “robuste”. 3.2 MODELLO DI NEURONE La struttura del singolo neurone è riportata in figura 34. Gli R ingressi del neurone si possono rappresentare come un unico vettore p di R elementi. Ad ognuno di questi ingressi è associato un diverso peso sinaptico w. I diversi pesi associati ai diversi ingressi costituiscono la cosiddetta matrice dei pesi W. L’ingresso pesato del neurone, pari al prodotto matriciale W ⊕ p, viene confrontato con la soglia caratteristica b. Quest’ultima si 48 Le reti neurali può considerare come un’ulteriore ingresso di ampiezza costante e pari ad 1, a cui è associato un peso pari proprio a b. Figura 34: Struttura del singolo neurone. La funzione f è detta funzione di attivazione o funzione di trasferimento del neurone. Inizialmente come funzione di attivazione fu utilizzata la funzione a gradino. Questo per limitare in ampiezza l’uscita del neurone. In seguito, invece, con la diffusione dell’algoritmo di addestramento back-propagation, la funzione a gradino ha lasciato il posto alla funzione sigmoide. Quest’ultima, infatti, pur continuando a garantire un’uscita limitata, presenta, a differenza della prima, anche una derivata continua. Ciò risulta particolarmente importante visto che l’algoritmo back-propagation necessita, durante la sua implementazione, della derivata della funzione di attivazione [25]. La figura 35 mostra la struttura del singolo neurone in forma più compatta. Figura 35: Rappresentazione equivalente del singolo neurone. 49 Le reti neurali 3.3 ARCHITETTURA RETE NEURALE Una rete neurale artificiale è costituita da più strati neurali, ognuno dei quali contiene più neuroni. La figura 36 mostra uno strato neurale. Figura 36: Esempio di strato neurale. Ad ogni neurone dello strato si può associare una diversa funzione di attivazione, anche se, in genere, per tutti i neuroni dello stesso strato si sceglie un’unica funzione di attivazione. In genere ogni rete neurale è costituita da almeno tre strati neurali: • Strato di ingresso o input layer; • Strato di uscita o output layer; • Strato intermedio o hidden layer. In figura 37 è riportato un esempio di rete multistrato. Perché una rete neurale possa essere utilizzata è necessario, a valle della fase di progetto (che consiste nel fissare il numero di strati ed il numero di neuroni costituenti ogni singolo strato), compiere una fase di addestramento o di apprendimento. Questa fase serve alla rete per modificare in modo opportuno i diversi pesi sinaptici tra i vari strati, in modo da minimizzare l’errore tra le uscite effettive e quelle desiderate. In un secondo momento, a valle della fase di addestramento, la rete sarà in grado di produrre uscite significative anche per ingressi diversi da quelli visti durante l’addestramento. E’ questa la principale caratteristica delle reti neurali, che è nota con il nome di proprietà di generalizzazione. 50 Le reti neurali Figura 37: Esempio di rete multistrato. 3.4 DIVERSI TIPI DI APPRENDIMENTO Per i diversi tipi di reti neurali esistono sostanzialmente due tipi di apprendimento: 1. Apprendimento supervisionato; 2. Apprendimento non supervisionato. 3.4.1 Apprendimento supervisionato L’apprendimento supervisionato si basa sulla disponibilità di una collezione di coppie ingresso uscita. Questa collezione di coppie è in genere ripartita in due insiemi: un training-set, utilizzato per l’apprendimento, è un test-set o validation-set, utilizzato per verificare, ad addestramento concluso, che la rete non si limiti a memorizzare i casi del training-set, ma che riesca a produrre un’uscita appropriata anche per ingressi simili a quelli del training-set, ma ad essa ignoti, manifestando così una buona proprietà di generalizzazione [26]. Durante l’apprendimento supervisionato, la rete, per ogni ingresso In di ogni coppia [In, Out desiderato] del training-set, produce un’uscita effettiva Out effettivo, diversa, almeno nelle fasi iniziali, dall’uscita desiderata Outdesiderato. L’apprendimento si conclude quando l’errore tra l’uscita effettiva e quella desiderata non diventa minore di una certa soglia prefissata. 3.4.2 Apprendimento non supervisionato L’apprendimento non supervisionato, invece, non fa riferimento ad una casistica precostituita di esempi. La rete impara a rispondere in modo ordinato agli stimoli esterni, 51 Le reti neurali auto-organizzando la propria struttura in modo tale che stimoli simili attivino neuroni vicini e stimoli diversi attivino neuroni lontani. La rete impara così a classificare gli ingressi in N possibili classi di uscita. E’ importante sottolineare che l’apprendimento supervisionato è di tipo competitivo, nel senso che per ogni ingresso vengono attivati più neuroni, ma uno solo di essi (quello con attivazione maggiore) vince la competizione e viene premiato con una modifica dei suoi pesi sinaptici, tale da sintonizzarlo maggiormente con quell’ingresso. 3.5 ARCHITETTURA DELLE DIVERSE RETI NEURALI Esamineremo adesso le diverse reti neurali e i corrispondenti algoritmi di addestramento. 3.5.1 Reti MLP Le reti neurali più diffuse sono le reti MLP (Multi-Layer-Perceptron). Si tratta di reti a più strati, tutti di tipo feed-forward, nel senso che l’uscita di ogni neurone è collegata solo ai neuroni dello strato successivo, mentre mancano connessioni di tipo feed-back tra un neurone e quelli dello strato precedente o tra un neurone e se stesso o connessioni laterali tra un neurone ed un altro dello stesso strato. In figura 38 è riportato un esempio di rete MLP ad una sola uscita. Figura 38: Architettura di una rete MLP 52 Le reti neurali 3.5.1.2 Algoritmo di addestramento Back-Propagation L’algoritmo di back-propagation nasce come generalizzazione della legge di addestramento di Windrow-Hoff. Esso si basa sulla regole del gradiente discendente (GDA = GRADIENT DISCENT ALGORITHM). Se si indica con E l’errore quadratico medio tra l’uscita prodotta dalla rete e l’uscita attesa e con on wjk il generico elemento della matrice dei pesi, la regola del gradiente discendente si può esprimere nel seguente modo: Δw jk = −η ∂E ∂w jk (4) Tale regola equivale ad una discesa lungo la superficie d’errore, secondo le linee a massima pendenza. In particolare, si può facilmente notare che, se l’errore E cresce con l’aumentare dei pesi sinaptici, se cioè 0) di una quantità proporzionale l’aumentare dei pesi, cioè se ∂E > 0, la (4) prevede la diminuzione ( Δw jk < ∂w jk η , detto learning rate. Viceversa, se E diminuisce con ∂E ∂w jk < 0, la (4) prevede una diminuzione dei pesi ( Δw jk > 0). Consideriamo una rete neurale con n ingressi ( xi con i=1,…, n), con un solo strato nascosto costituito da q neuroni ( zk con k=1,…, q) e con uno strato d’uscita costituito da m neuroni ( y j con j=1,…, m). Supponiamo inoltre che il training-set sia costituito da p esempi (cr con r=1,…, p) ed indichiamo con W1 = [wki ] la matrice dei pesi tra lo strato d’ingresso e quello intermedio, e con W2 = [wjk ] la matrice dei pesi tra lo strato intermedio è quello d’uscita (vedi figura 39). L’errore quadratico medio tra uscita prodotta dalla rete e l’uscita attesa è allora: E= 1 p m ( y rj − d rj ) 2 ∑ ∑ = 1 = 1 r j 2 (5) 53 Le reti neurali Figura 39: rete MLP Dove y rj e d rj sono, rispettivamente, l’uscita prodotta e l’uscita attesa del neurone yj quando x= cr. . Per semplificare la notazione, omettiamo nella (5) la sommatoria con l’indice r, omettendo: E= 1 m ∑ ( y rj − d rj ) 2 2 j =1 (6) Consideriamo quindi la regola del gradiente discendente Δw jk = −η ∂E ∂w jk (7) che può essere scritta come: Δw jk = −η ∂E ∂y j ∂p j ⋅ ⋅ ∂y j ∂p j ∂w jk (8) dove q p j = ∑ w jk ⋅ z k k =1 (9) rappresenta l’ingresso del neurone y j . Indichiamo infine con f2 la funzione di attivazione dello strato di uscita. Si ha allora: y j = f2(pj) (10) Dalla (10) si può ricavare: 54 Le reti neurali ∂E = ( yi − d j ) ∂y j mentre dalla (11) si può ricavare: ∂y j ∂pi = f 2' ( p j ) (11) (12) Infine, dalla (9) si può ricavare ∂p j = zk ∂w jk (13) Sostituendo la (11), (12), (13) nella (8) si ottiene: Δw jk = −η ⋅ ( yi − d j ) ⋅ f 2' ( p j ) ⋅ z k (14) Ponendo quindi δ j = ( yi − d j ) ⋅ f 2' ( p j ) (15) la (14) si può scrivere come: Δw jk = −η ⋅ δ j ⋅ z k (16) La (16) rappresenta la variazione da apportare ai pesi sinaptici tra lo strato intermedio e lo strato d’uscita alfine di minimizzare l’errore quadratico medio in uscita. Con analogo ragionamento si ottiene che la variazione da apportare ai pesi tra lo strato di ingresso e lo strato intermedio è espressa dalla seguente relazione rappresenta l’ingresso del neurone zk . Δwki = −η ⋅ ∂E ∂E ∂z k ∂pk =η ⋅ ⋅ ⋅ ∂wki ∂z k ∂pk ∂z k (17) dove n p = ∑w ⋅ x k i =1 ki i (18) rappresenta l’ingresso del neurone zk. Indicando con f1 la funzione di attivazione dello strato nascosto, si ha anche zk = f1 (pk) (19) da cui si può ricavare ∂z k = f1' ( p k ) ∂p k (20) 55 Le reti neurali Dalla (18) si può invece ricavare ∂pk = xi ∂wki (21) Sostituendo la (20) e la (21) nella (17) si ottiene: Δwki = −η ⋅ ∂E ⋅ f1' ( pk ) ⋅ xi ∂wki (22) La (22) rappresenta la variazione da apportare ai pesi tra lo strato di ingresso e lo strato intermedio. Tale variazione dipende dal termine ∂E , per calcolare il quale è necessario ∂z k retropropagare l’errore dello strato d’uscita ad ogni neurone dello strato nascosto. Di qui il nome di algoritmo di back-propagation. In particolare, il termine ∂E si può esprimere ∂zk come m ∂E ∂yi ∂p j ∂E ⋅ ⋅ =∑ ∂zk j =1 ∂yi ∂p j ∂zk (23) Tenendo presente la (10) e la (11) si ha ancora ∂ pj ∂E ' = ∑ ( yi − d j ) ⋅ f 2 ( pj ) ⋅ ∂ zk ∂y j (24) Dalla (9) si può quindi ricavare ∂p j ∂zk = w jk (25) Sostituendo la (25) e la (15) nella (24) si ottiene ancora ∂E ∂zk m = ∑ δ j ⋅ w jk j =1 (26) 56 Le reti neurali Se a questo si sostituisce la (26) nella (22) e si pone δ k = (∑ δ j ⋅ w jk )⋅ f1' ( pk ) (27) si ottiene Δwki = −η ⋅ δ k ⋅ xi (28) La (28) è valida non solo per aggiornare i pesi sinaptici tra lo strato di ingresso e lo strato nascosto, ma, in reti più complesse, anche per aggiornare i pesi sinaptici tra due strati nascosti consecutivi. Come detto in precedenza, il learning rate η fissa l’entità dello spostamento lungo la superficie d’errore (nella direzione del gradiente d’errore) alla ricerca del minimo assoluto. Non esiste un criterio preciso per la scelta del valore da associare a questo parametro, anche se è bene ribadire che la scelta del learning rate risulta fondamentale ai fini dell’efficienza dell’algoritmo di addestramento: un learning rate troppo grande potrebbe rendere instabile l’algoritmo, portando ad oscillazioni intorno al punto di minimo assoluto della superficie dell’errore, mentre un learning rate troppo piccolo potrebbe allungare troppo tempi necessari alla convergenza dell’algoritmo. 3.5.1.3 Varianti dell’algoritmo di back-propagation I maggiori difetti dell’algoritmo di back-propagation sono: • Convergenza generalmente lenta; • Rischio di intrappolarsi in minimi relativi o di oscillazioni attorno al minimo assoluto della superficie d’errore; • Tempi di convergenza che aumentano molto più che linearmente con l’aumentare delle dimensioni (numeri di strati e numeri di nodi per strato) della rete. Per risolvere questi inconvenienti sono state proposte molte varianti all’algoritmo di backpropagation [27]. Alcune varianti usano conoscenze euristiche oppure maggiori conoscenze matematiche della superficie d’errore (conoscenze del secondo ordine); altre adottano un learning rate variabile, adattandolo continuamente alle caratteristiche locali della superficie d’errore; altre ancora cambiano addirittura la metrica dell’errore o lasciano tutto invariato e si limitano ad intervenire sul training-set. 57 Le reti neurali 3.5.1.3.1 Aggiunta del termine “momentum” La prima è più popolare variante all’algoritmo di back-propagation classico è quella che prevede l’aggiunta del termine momentum. In questo caso l’aggiornamento dei pesi avviene seconda la seguente legge: w jk (t + 1) = w jk (t ) + Δw jk (t ) + β ⋅ Δw jk (t − 1) (29) dove β è il coefficiente di momentum (anch’esso, come il learnig rate, compreso tra 0 ed 1 e senza un criterio rigoroso per definirne il valore). Come è facile osservare dalla (1.26), il termine aggiunto rappresenta un “ricordo” dell’aggiornamento effettuato al passo precedente. In sostanza, grazie al termine momentum, l’aggiornamento dei pesi non dipende più solo dal valore attuale del gradiente d’errore, ma anche dagli spostamenti precedenti lungo la superficie d’errore. L’effetto del termine momentum è paragonabile a quello di un filtro spaziale di tipo passa-basso. Esso, infatti, filtra le variazioni spaziali ad alta frequenza della superficie d’errore, evitando così rischi di intrappolamento in minimi relativi poco interessanti, cioè molto lontani dal minimo assoluto. In definitiva, quindi, il termine momentum tende ad accelerare il processo di apprendimento della rete. 3.5.1.3.2 Learning rate variabile Solitamente il learning rate viene mantenuto costante sia nel tempo, sia per ogni peso sinaptico, con il pericolo quindi che esso sia talvolta troppo piccolo, rallentando così l’apprendimento, talvolta troppo grande, innescando oscillazioni. Esistono allora numerose varianti che cercano di adattare il learning rate alle proprietà locali della superficie d’errore . Una prima variante usa criteri euristici, rappresentati da regole del tipo: • Se l’errore attuale è maggiore dell’errore al passo precedente, allora il learning rate deve essere leggermente diminuito; • Se l’errore attuale è minore dell’errore al passo precedente, allora il learning rate deve essere leggermente aumentato. Una seconda variante (Schiffmann, 1993) propone invece un adattamento analitico del learning rate, modificandolo non solo ad ogni ciclo t del processo di apprendimento, ma 58 Le reti neurali anche per ogni connessione di peso wjk (t). Indicando con ηjk (t) il learning rate relativo al tempo t e alla connessione di peso wjk (t), la regola suggerita, che ha consentito di accelerare la convergenza dell’apprendimento, è: η jk (t ) = u ⋅η jk (t − 1) (30) dove il coefficiente u deve essere leggermente inferiore ad 1 (tipicamente u = 0.7) o leggermente superiore ad 1 (tipicamente u =1.05), a seconda che siano dello stesso segno o meno le due derivate: ∂E ∂E , ∂w jk ∂w jk (t − 1) Il coefficiente momentum è invece mantenuto costante nel tempo e per tutti i pesi sinaptici. 3.5.1.3.3 Resilient Backpropagation Come precedentemente anticipato, nelle reti feed-forward la funzione di trasferimento generalmente usata è la sigmoide. Questa funzione è caratterizzata dall’avere una pendenza praticamente nulla non appena il suo argomento cresce in modulo. Questo potrebbe costituire un problema. Infatti, visto che la variazione dei pesi associati ai collegamenti sinaptici tra lo strato i e lo strato i+1 è proporzionale alla pendenza della funzione di ' attivazione dello strato i (Δw∞f ) , potrebbe accadere che la correzione apportata ai pesi sia piccola, malgrado i pesi siano lontani dal loro valore ottimale. Questo comporterebbe un aumento dei tempi necessari all’addestramento. Per risolvere questo problema si può ricorrere ad una variante dell’algoritmo backpropagation classico, nota come resilient back-propagation. Tale algoritmo si basa sulle seguenti regole: 1. I valori aggiornati dei pesi vengono aumentati di un fattore Δs quando ∂E ∂w jk conserva lo stesso segno per due step consecutivi; 2. I valori aggiornati dei pesi vengono diminuiti di un fattore ΔI quando ∂E ∂w jk cambia segno tra due step consecutivi. 3.5.1.3.4 Algoritmo di Newton Questa variante usa conoscenze del secondo ordine della superficie d’errore (l’algoritmo di back-propagation classico, invece, realizza una discesa lungo il gradiente della superficie 59 Le reti neurali d’errore, usando la sola derivata prima dell’errore). I pesi vengono aggiornati secondo la legge W (t + 1) = W (t ) − H −1 ⋅ (t ) ⋅ g (t ) (31) dove W è la matrice dei pesi, H è la matrice Hessiana dell’errore, cioè è la matrice delle derivate seconde dell’errore rispetto a pesi, e g è il gradiente dell’errore. L’algoritmo di Newton garantisce, in genere, una convergenza più rapida dell’algoritmo di back-propagation, ma, nel contempo, richiede una capacità computazionale molto maggiore in quanto, in fase di addestramento, occorre calcolare, ad ogni step, la matrice Hessiana. Esiste una classe di algoritmi che si basano sul metodo di Newton, ma che non richiedono il calcolo della matrice Hessiana. Tali algoritmi sono conosciuti come QuasiNewton Alghorithms. Tra questi, particolare importanza ricopre l’algoritmo di LevenbergMarquardt. Quest’ultimo si basa su un’approssimazione della matrice Hessiana. Quando, infatti, la funzione d’errore ha la forma di una somma al quadrato (così come accade in genere per le reti feedforward) la matrice Hessiana e il gradiente d’errore si possono approssimare, ripettivamente, come T H = J ⋅J (32) T g = J ⋅e (33) dove J è la matrice Jacobiana, cioè la matrice delle derivate prime dell’errore rispetto ai pesi, ed e è il vettore rappresentativo dell’errore nello spazio dei pesi. Con tali approssimazioni la legge di addestramento (31) diventa: [ T ] T W (t + 1) = W (t ) − J ⋅ J ⋅ J ⋅ e 3.5.1.3.5 (34) Metodo Montecarlo Questo algoritmo si basa sul seguente ciclo: 1. Inizializzazione casuale dei pesi sinaptici e calcolo dell’errore E ; 2. Variazione casuale dei pesi sinaptici, calcolo del nuovo errore E′ e di ΔE = E′ − E ; 3. Se ΔE ≤ 0, accettazione dei nuovi pesi e ritorno al punto 2; 4. Se ΔE ≥ 0, rifiuto dei nuovi pesi, riadozione dei precedenti e ritorno al punto 2. Suddetto ciclo continua per un numero prefissato di volte o fino a che l’errore E non scende sotto una soglia minima prefissata. Va sottolineato che a differenza degli algoritmi 60 Le reti neurali precedenti, l’algoritmo Montecarlo è di tipo greedy (avaro) nel senso che accetta solo le variazioni dei pesi che diminuiscono l’errore E. 3.5.1.3.6 Intervento sul solo training-set Questo metodo lascia invariato l’algoritmo di addestramento ed interviene sul solo training-set, modificandone la struttura e la modalità di presentazione durante la fase di addestramento. Per quanto riguarda la struttura, una pre-elaborazione statistica provvede ad eliminare dal set di esempi quelli che presentano un’alta correlazione e, quindi, sono poco significativi ai fini dell’apprendimento della rete. Il training-set resterà così costituito solo da esempi tra loro correlati e, quindi, si eviterà di fornire alla rete informazioni ridondanti. Per quanto riguarda invece la modalità di presentazione, una possibile procedura può essere: 1. Se l’errore E è maggiore di un ε prefissato, usare tutto il training-set; 2. Se l’errore E non è diventato molto prossimo a zero, ma la rete ha appreso circa il 50% di esempi, creare con l’altro 50% un secondo training-set. Proseguire poi l’addestramento, alternando il training-set completo con quello degli esempi più “difficili”. 3.5.2 Reti Radial Basis Function (RBF) Le reti Radial Basis Function sono ancora reti di tipo feed-forward, la cui particolare struttura è riportata in figura 40. Queste reti, rispetto alle reti MLP, hanno il vantaggio di non presentare più il problema dei minimi locali e di richiedere, per la fase di addestramento, tempi notevolmente minori. Di contro, però, le reti RBF presentano una scarsa proprietà di generalizzazione e, a parità di problema, richiedono un numero molto maggiore di neuroni. 61 Le reti neurali Figura 40: Architettura di una rete RBF Come è possibile osservare dalla figura, la rete è costituita da due strati: il primo di tipo radial basis e il secondo di tipo lineare. Il blocco ||dist|| riceve il vettore di ingresso p, e produce in uscita un vettore di S1 elementi. Tali elementi rappresentano i prodotti scalari tra gli S1 vettori costituiti dalle righe della matrice dei pesi IW ed il vettore di ingresso p, cioè rappresentano un indice della distanza euclidea tra le S1 righe di IW e il vettore p. Se il vettore di ingresso p è completamente diverso dalle righe della matrice IW , gli S1 elementi del vettore d’uscita dello strato radial basis saranno prossimi a zero. Pertanto anche gli S2 elementi del vettore d’uscita dello strato lineare saranno prossimi a zero. Viceversa, se il vettore di ingresso p è prossimo ad una delle righe della matrice IW , ad esempio alla j-esima, il neurone j-esimo dello strato radial basis restituirà un’uscita prossima ad 1. In questo caso gli S2 elementi del vettore d’uscita dello strato lineare saranno praticamente coincidenti con gli S2 elementi della colonna j-esima della matrice LW . Le reti RBF in genere si utilizzano per la risoluzione di problemi semplici, come possono essere i problemi di classificazione, laddove le possibili uscite sono limitate, per cui non è richiesta una particolare capacità di generalizzazione ed il numero di nodi necessari può essere contenuto. 3.5.3 Reti Self-Organizing 62 Le reti neurali Le reti con capacità di auto-organizzazione sono in grado di rilevare le regolarità e le correlazioni tra gli ingressi, e, in base a queste, di adattare il loro comportamento futuro. Esse, pertanto, apprendono senza necessità di supervisione, cioè senza richiedere un training-set di esempi noti, e ciò le rende affini ad alcune strutture del sistema neurobiologico. Nel cervello umano, infatti, si vengono a formare, in base all’autoapprendimento, mappe corticali tali che neuroni vicini sono attivati da stimoli simili. Analogamente, le reti self-organizing modificano autonomamente i loro pesi in funzione degli stimoli esterni, in modo che ingressi simili producano uscite uguali. Le reti self-organizing più conosciute sono: • Le reti competitive (CN = Competitive Network); • Le reti di Kohonen, dette anche reti SOM (Self Organizing Maps). 3.5.3.1 Reti Competitive (CN) L’architettura di una rete competitiva è mostrata in figura 41. Figura 41: Architettura di una rete competitiva L’uscita del blocco ||ndist|| è un vettore, le cui componenti rappresentano la distanza (espressa in termini di prodotto scalare), con segno “-“, tra il vettore di ingresso p e le righe della matrice dei pesi IW . Tale vettore viene sommato al vettore degli offset b, ottenendo così il vettore n . Supponiamo per il momento che tutte le componenti del vettore b siano nulle. In questo caso ogni componente del vettore n potrà al più essere nulla (visto che le uscite del blocco ||ndist|| sono negative o al più nulle). In particolare, la componente j-esima del vettore n 63 Le reti neurali sarà nulla solo nel caso in cui la riga j-esima della matrice IW è uguale al vettore di ingresso p. La funzione di attivazione c è di tipo competitivo (di qui il nome della rete), essa cioè produce in uscita un vettore a le cui componenti sono tutte nulle, fatta eccezione per la componente di posto j, dove j e la posizione occupata in n dalla componente di ampiezza massima. Il neurone j, a cui è associato al vettore dei pesi (riga della matrice IW ) vincitore della competizione, si dice neurone vincitore (winner neuron). Quando un neurone risulta vincitore di una competizione, il vettore dei pesi ad esso associato viene avvicinato al vettore d’ingresso corrente. In questo modo, si aumenta la probabilità che in futuro, per ingressi simili, risulti vincente ancora lo stesso neurone, e nel contempo, si riduce la probabilità che, per ingressi diversi, suddetto neurone risulti il vincitore della competizione. E’ proprio su questa filosofia che si basa la regola di addestramento di Kohonen. Secondo quest’ultima, infatti, se j è il neurone vincitore della competizione all’istante t e se IW j è il vettore dei pesi associato al neurone j, la correzione da apportare ai pesi all’istante t deve essere: ( IW j (t ) = IW j (t − 1) + α p(t ) − IW j (t − 1) ) (35) La (35) equivale ad una piccola (α < 1) rotazione del vettore dei pesi verso il vettore di ingresso, ossia ad un avvicinamento dei due. Le reti competitive presentano un grosso limite. Può accadere, infatti, che alcuni vettori dei pesi siano inizialmente molto lontani dai vettori posti in ingresso alla rete e, pertanto, non risultino mai vincitori della competizione. In questo caso, secondo quanto previsto dalla regola di addestramento di Kohonen, i pesi di tali vettori non verrebbero mai aggiornati e, quindi, tali vettori continuerebbero a non risultare mai vincenti. I neuroni associati a tali vettori si dicono morti (dead neuron), in quanto, in concreto, non partecipano al funzionamento della rete. Per ovviare a questo inconveniente, vengono introdotti gli offset, il cui scopo è quello di “avvantaggiare” i neuroni che risultano raramente vincenti, e di “svantaggiare” i neuroni che risultano spesso vincenti. Un offset positivo aggiunto ad uno dei termini (negativi) in uscita dal blocco ||ndist||, fa aumentare la probabilità che il neurone corrispondente risulti vincitore della competizione. In questo modo è possibile “riattivare” i neuroni in precedenza morti. 64 Le reti neurali Per scegliere opportunamente gli offset è sufficiente conoscere, in ogni istante, il valore medio di ogni componente dell’uscita a. Quest’ultimo, infatti, è indice del numero di volte in cui il corrispondente neurone è risultato vincitore della competizione (se, ad esempio, il valore medio della componente j-esima di a è pari a 0.5, vuol dire che, fino a quel momento, il neurone j ha vinto il 50% delle competizioni). Pertanto, quando il valore medio di una componente di a è alto, il corrispondente offset va diminuito, mentre quando il valore medio di una componente di a è basso, il corrispondente offset va aumentato. La regola appena enunciata è nota come Bias Learning Rule. 3.5.3.2 Reti SOM (Self-Organizing Maps) L’architettura delle reti SOM è mostrata in figura 42. Figura 42: Architettura delle reti SOM. Tale architettura è simile a quella vista per le reti CN, dalla quale si differenzia solo per l’assenza del vettore degli offset. Un’altra differenza sostanziale rispetto alle reti CN è legata alla procedure di aggiornamento dei pesi. Stavolta, infatti, quando il neurone j vince la competizione, non viene aggiornato il solo vettore dei pesi associato al neurone j, ma anche i vettori dei pesi associati a tutti i neuroni posti in un intorno N j(d) del neurone j, dove N j(d) è l’insieme dei neuroni posti ad una distanza non superiore a d dal neurone j: N j(d)= {i, dij ≤ d} Le reti self-organizing sono particolarmente adatte per risolvere problemi di classificazione. Esse, infatti, dividono lo spazio delle possibili uscite in S1 regioni distinte e si limitano a classificare il vettore di ingresso come appartenente ad una di queste 65 Le reti neurali regioni. Ciò che veramente le contraddistingue rispetto alle reti precedentemente esaminate è però la loro capacità di addestramento senza supervisione. 3.5.3 Reti Learning Vector Quantization (LVQ) La tecnica di addestramento Learning Vector Quantization permette di addestrare in maniera supervisionata, cioè con un adeguato training-set, le reti con una struttura di tipo competitivo. Le reti che utilizzano questa modalità di apprendimento sono note come reti LVQ (Learning Vector Quantization). L’architettura di una rete LVQ è riportata in figura 43. Come si può osservare dalla figura, il primo strato della rete è uno strato di tipo competitivo, mentre il secondo strato è di tipo lineare. Lo strato competitivo classifica gli ingressi, adottando la stessa tecnica usata dalle reti CN. Quindi, se tale strato è costituito da S 1 neuroni, il vettore di ingresso sarà classificato come appartenente ad una tra S 1 distinte classi, dette sottoclassi (subclasses). Lo strato lineare, invece, “mappa” le S 1 sottoclassi dello strato competitivo in S 2 classi (con S 2 < S1 ), dette classi target (target classes). Figura 43: Architettura di una rete LVQ Supponiamo, ad esempio, che le sottoclassi associate ai neuroni 1, 2 e 3 dello stato competitivo debbano rientrare tutte nella stessa classe target, ad esempio la 2, dello strato lineare. Allora i pesi tra i neuroni 1, 2 e 3 dello strato competitivo e il neurone 2 dello strato lineare dovranno essere pari ad 1, mentre tutti gli altri pesi che legano i neuroni dello strato competitivo al neurone 2 dello strato lineare dovranno essere pari a 0. In altre parole, la seconda riga della matrice dei pesi LW dovrà presentare degli “1” nelle prime tre posizioni, e degli “0” nelle restanti posizioni. Questo per dire che, una volta stabilito quante e quali sottoclassi dello strato competitivo debbano essere “mappate” in una stessa 66 Le reti neurali classe target dello strato lineare, la matrice dei pesi LW resta univocamente fissata. L’addestramento della rete, dunque, modifica solo i pesi della matrice IW . 3.5.3.1 Regola di addestramento LVQ Ogni target ti presentato alla rete in fase di addestramento è un vettore di S 2 elementi, dei quali (S2 −1) sono pari a “0” ed uno, quello occupante la posizione j (se j è la classe target a cui deve appartenere l’ingresso), è pari ad “1”. La fase di addestramento si svolge come segue. Ogni vettore pi del training-set viene confrontato con le righe della matrice dei pesi . Se j è la riga più vicina (in termini di prodotto scalare) al vettore di ingresso pi, allora il vettore d’uscita a1dello strato competitivo presenterà un 1 nella posizione j-esima, e uno 0 in tutte le altre posizioni. Lo strato lineare, a seconda della posizione j occupata dall’1 nel vettore a1, determinerà la classe target k a cui il vettore di ingresso appartiene, restituendo un vettore a2 , che presenta un 1 nella posizione k-esima, e uno 0 in tutte le altre posizioni. A questo punto si possono presentare due casi: • a2 ≠ ti , cioè il vettore di ingresso è stato riconosciuto come appartenente ad una classe diversa da quella imposta dal target ti. In questo caso la riga j-esima della matrice IW viene allontanata, mediante una rotazione, dal vettore pi: ( IW j (t ) = IW j (t − 1) + α p(t ) − IW j (t − 1) ) • a2 = ti , cioè il vettore di ingresso è stato riconosciuto come appartenente alla classe imposta dal target ti. In questo caso la riga j-esima della matrice IW viene avvicinata, mediante una rotazione, al vettore pi: ( IW j (t ) = IW j (t − 1) + α p(t ) − IW j (t − 1) ) 3.5.3.2 Reti Ricorrenti (RN = Recurrent Network) Le reti finora esaminate sono, come già anticipato, delle reti feed-forward, cioè i segnali neurali si possono propagare in una sola direzione (dall’input all’output), mancando sia connessioni laterali (tra i neuroni dello stesso strato), sia connessioni di tipo feed-back (tra i neuroni di uno strato è quelli del precedente o tra un neurone è se stesso). Tra le tante reti che si possono ottenere connettendo insieme N neuroni in tutti i modi possibili, sono 67 Le reti neurali particolarmente interessanti, anche se il loro funzionamento è piuttosto complesso, le reti ricorrenti, che presentano connessioni laterali e feed-back . Tra le reti ricorrenti più usate vi sono le reti di Elman e le reti di Hopfield. 3.5.3.3 Reti di Elman Le reti di Elman sono in genere costituite da tre strati (lo strato di ingresso, uno strato nascosto e lo strato di uscita) e presentano una retroazione tra l’uscita dello strato nascosto e l’ingresso (vedi figura 43). Figura 43: Architettura di una rete Elmann Tale retroazione rende la rete un sistema dinamico, particolarmente adatto, quindi, ad esaminare grandezze tempo-varianti. La funzione di attivazione dello strato ricorrente è la sigmoide, mentre la funzione di attivazione dello strato di uscita è di tipo lineare. Questa combinazione è particolarmente adatta in quanto consente di approssimare qualsiasi funzione del tempo con un numero finito di discontinuità. Vale però la pena di osservare che, maggiore è la complessità della funzione che con la rete si intende approssimare, maggiore deve essere il numero di neuroni costituenti lo strato nascosto della rete. Il blocco di ritardo D immagazzina il vettore a1 all’istante t-1, per poi ripresentarlo in ingresso alla rete all’istante t. L’algoritmo di addestramento per le reti di Elman è l’algoritmo di backpropagation classico, già ampiamente discusso quando sono state trattate le reti MLP. Vale però la pena di osservare che nel caso delle reti di Elman tale algoritmo lavora su un valore 68 Le reti neurali approssimato del gradiente d’errore in quanto il contributo al calcolo dell’errore dovuto alla retroazione viene trascurato. Per questo motivo le reti di Elman si rivelano in genere meno affidabili rispetto ad altri tipi di reti. 3.5.3.4 Reti di Hopfield L’obiettivo di queste reti è quello di simulare un sistema con un certo numero di punti di equilibrio stabili. Una rete di Hopfield, quindi, per certe condizioni iniziali tende a lasciare il suo attuale punto di equilibrio per portarsi in un nuovo punto di equilibrio, ed ivi rimanere. Il fatto che la rete di Hopfield possa evolvere verso punti di equilibrio stabili ne ha favorito l’impiego come memoria auto-associativa. Rileviamo che, in una memoria autoassociativa, presentando in input una forma (pattern) inquinata da disturbi e “rumore” o addirittura incompleta, viene restituita in uscita la forma depurata dal rumore ed adeguatamente completata. Ad esempio, se l’input è una lettera dell’alfabeto con numerosi pixel deteriorati o mancanti (figura 44a), l’output sarà la versione perfetta di quella lettera (figura 44b). Figura 44: Ricerca di una forma F partendo da una sua versione inquinata. Per ottenere ciò occorre, ovviamente, che la forma depurata dal rumore sia uno stato finale stabile per la rete. Si capisce allora che la capacità p della memoria auto-associativa realizzata con una rete di Hopfield coincide con il numero p di stati stabili della rete. Va però precisato che in genere non si riesce a progettare reti di Hopfield che abbiano come punti di equilibrio tutti e soli quelli desiderati. Molto spesso, infatti, si vengono a creare una serie di punti di equilibrio spuri, che, in certe situazioni, rendono il comportamento della rete imprevedibile. 69 Le reti neurali Fortunatamente il numero di questi punti è limitato ed il loro dominio di attrazione è minore di quello dei punti di equilibrio desiderati. L’architettura di una rete di Hopfield è mostrata in figura 45. L’ingresso p rappresenta le condizioni iniziali per la rete. Una volta che alla rete viene applicato un nuovo ingresso p , la rete produce una nuova uscita, che retroazionata, diventano il nuovo ingresso. Questo ciclo continua fino a quando la rete non raggiunge un nuovo punto di equilibrio stabile. Le reti di Hopfield non necessitano di una fase di addestramento. Per progettare e realizzare una nuova rete, infatti, è necessario solo fissare i punti di equilibrio stabili che la rete deve avere. 3.5.4 Reti ricorrenti per modellare i sistemi dinamici Supponiamo di considerare un sistema dinamico descritto dall’equazione differenziale non lineare: dx = F (x(t ), u (t ) ) dt (36) dove x(t) è il vettore delle variabili di stato e u(t) è il vettore degli ingressi al sistema. Se è possibile approssimare la soluzione dell’equazione (36) al primo ordine, se cioè è possibile scrivere x(t) come Figura 45: Architettura di una rete di Hopfield 70 Le reti neurali x(t ) = x(t − 1) + ∂ x ⋅ (t − Δt ) ⋅ Δt ∂t (37) dove Δt è un infinitesimo di ordine sufficiente per poter trascurare nella (1.34) i termini di ordine superiore, allora il sistema descritto dalla (1.33) può essere modellato utilizzando la rete ricorrente di figura 46. I due strati della rete servono ad approssimare la funzione F , mentre la retroazione serve a ricreare in ingresso alla rete, con l’approssimazione espressa dalla (1.34), lo stato x(t). Nella sua interezza, quindi, la rete di figura 45 permette di ricostruire l’equazione (36). Da un punto di vista di principio, la rete di figura 46 può essere addestrata in modo classico, con la solita procedura di minimizzazione dell’errore quadratico medio. Per applicare tale procedura, però, è necessario disporre di una relazione che esprima il gradiente d’errore rispetto ai pesi della rete. A tal proposito, si consideri la generica componente k-esima del vettore x(t), che, in base alla (37), può essere espressa come: xk (t ) = xk (t − 1) + dove y k = ∂xk ⋅ (t − Δt ) ⋅ Δt = xk (t − 1) + yk (t − 1) ⋅ Δt ∂t (38) ∂xk (t ) rappresenta l’uscita della rete. Dalla (38) si può ricavare facilmente ∂t ∂xk (t ) ∂xk ⋅ (t − 1) ∂yk ⋅ (t − 1) + ⋅ Δt = ∂t ∂t ∂t (39) poniamo inoltre • pm(t)= ingressi dei neuroni dello strato nascosto; • hm(t)= uscite dei neuroni dello strato nascosto; • f = funzione di attivazione dei neuroni dello strato nascosto; • qk (t)= ingressi dei neuroni dello strato di uscita; • yk (t)= uscite dei neuroni dello strato di uscita; • g = funzione di attivazione dei neuroni dello strato nascosto; Si avrà allora: pm (t ) = ∑ wkm ⋅ xk (t − 1) + ∑ wlm ⋅ ul (t − 1) k (40) l 71 Le reti neurali hm (t − 1) = f [ pm (t − 1)] (41) qk (t − 1) = ∑ wkm ⋅ hm (t − 1) (42) m yk (t − 1) = g [qk (t − 1)] (43) Dalla (43) si può ricavare Figura 46: Esempio di rete per il modellamento dei sistemi dinamici ∂yk (t − 1) ∂q ⋅ (t − 1) = g ' [qk (t − 1)] ⋅ k ∂wij ∂wij (44) mentre dalla (42) si può ricavare ⎛ ∂w ∂qk (t − 1) ∂h (t − 1) ⎞⎟ = ∑ ⎜ mk ⋅ hm (t − 1) + wkm ⋅ m ⎜ ∂wij ∂wij ⎟⎠ m ⎝ ∂wij (45) 72 Le reti neurali Siccome ogni peso sinaptico è indipendente da tutti gli altri, il primo termine nella sommatoria al secondo membro della (45) è non nullo e pari ad 1 solo per wmk = wij . Pertanto la (45) si può ancora scrivere come: ∂qk (t − 1) ∂h (t − 1) = δ kj ⋅ δ iH ⋅ hi ⋅ (t − 1) + ∑ wmk ⋅ m ∂wij ∂wij m dove δ kj è la delta di Dirac, mentre δ iH = δ iH (46) è definita come: { 1 se i è un hidden neuron 0 altrimenti Analogamente, dalla (41) si può ricavare ∂hm (t − 1) ∂p ⋅ (t − 1) = f ' [ pm (t − 1)]⋅ m ∂wij ∂wij (47) Mentre dalla (40) si può ricavare: ⎛ ∂w ∂w ∂x (t − 1) ⎞⎟ ∂pm (t − 1) + ∑ lm ⋅ ul (t − 1) = = ∑ ⎜ km ⋅ xk (t − 1) + wkm ⋅ k ⎜ ∂wij ⎟⎠ l ∂wij ∂wij k ⎝ ∂wij δ mj ⋅ δ iX ⋅ xi (t − 1) + ∑ wkm ⋅ k Dove δ mj ∂xk (t − 1) + δ mj ⋅ δ iU ⋅ ui (t − 1) ∂wij è la delta di Dirac, mentre δ iX e δ iU i è un neurone δ iX = {10 sealtrimenti δ iU = (48) sono definite come dello strato d' uscita { 1 se i è un neurone dello strato d' ingresso 0 altrimenti Se a questo punto si pone: ∂xk (t ) = Φ ijk (t ) ∂wij (49) 73 Le reti neurali ∂yk (t ) = Ψkij (t ) ∂wij (50) l’equazione diventa (39) diventa: Φ ijk (t ) = Φ ijk (t − 1) + Ψkij (t − 1) ⋅ Δt (51) Sostituendo la (46) nella (44) si ottiene ⎛ ∂h (t − 1) ⎞⎟ Ψkij (t − 1) = g ' [qk (t − 1)]⋅ ⎜ δ kj ⋅ δ iH ⋅ hi (t − 1) + ∑ wkm m ⎜ ∂wij ⎟⎠ m ⎝ (52) Mentre sostituendo la (48) nella (47) si ottiene ⎧δ mj ⋅ [δ iX ⋅ xi (t − 1) + δ iX ⋅ ui (t − 1)] + ⎫ ∂hm (t − 1) ⎪ ⎪ ' = f [ pm (t − 1)] ⋅ ⎨ ij ⎬ wkm ⋅ Φ k (t − 1) ∂wij ⎪⎩∑ ⎪⎭ k (53) Sostituendo infine la (53) nella (52) si ottiene ⎧ Ψkij (t − 1) = g ' [qk (t − 1)]⋅ ⎨δ kj ⋅ δ iH ⋅ hi (t − 1) + ∑ wkm ⋅ f ' [ pm (t − 1)]× m ⎩ ⎞⎫ ⎛ × ⎜ δ mj ⋅ [δ iX ⋅ xi (t − 1) + δ iX ⋅ ui (t − 1)] + ∑ wkm ⋅ Φ ijk (t − 1) ⎟⎬ k ⎠⎭ ⎝ (54) La (54) è una relazione ricorsiva, che permette di calcolare Φ k (t ) a partire da Φ k (t ij Per risolvere questa equazione e sufficiente fissare il valore iniziale ij − 1) . Φ ijk (0) . Quest’ultimo è pari a zero visto che lo stato iniziale del sistema è indipendente dai pesi della rete stessa. Una volta noto Φ ijk (t ) è facile ricavare anche il gradiente dell’errore in funzione dei pesi della rete. Basta infatti, notare che, essendo l’errore quadratico medio definito come E (t ) = 1 ⋅∑ 2 k [x (t ) − t (t )] 2 k k = 1 2 ⋅ ∑ ek (t ) 2 k 74 Le reti neurali con t k (t ) indicante il target all’istante t, il gradiente dell’errore si può calcolare come: ∂E ∂x (t ) ∂x (t ) = ∑ [xk (t ) − t k (t )] ⋅ k = ∑ ek (t ) ⋅ k k k ∂wij ∂wij ∂wij (55) La (55), tenuto conto della (49) si può ancora scrivere come ∂E = ∑ ek (t ) ⋅ Φ ijk (t ) k ∂wij (56) La (56) rappresenta la relazione cercata, che consente il calcolo del gradiente d’errore rispetto a pesi e, quindi, l’addestramento della rete. 3.6 Commenti È possibile a questo punto fare una serie di considerazioni generali, utili ai fini del progetto e della realizzazione delle reti neurali, con un occhio di riguardo nei confronti delle reti MLP, che, come anticipato, sono di gran lunga le più diffuse. Innanzitutto è importante stabilire in quali applicazioni è conveniente riccone all’uso di reti neurali. Sarebbe ovviamente assurdo ricorrere alle reti in applicazioni basate su algoritmi noti, facilmente programmabili ed eseguibili in tempi ragionevoli su calcolatori tradizionali [28]. Ciò vale, in modo particolare, se i dati necessari sono quantitativi, certi e completi e i risultati devono essere matematicamente precisi [1]. In questo caso, infatti, risulterebbe completamente inutile, ed anzi controproducente, la principale proprietà delle reti neurali: la proprietà di generalizzazione. Le reti neurali sono invece convenienti quando: a. La modalità di risoluzione del problema è prevalentemente qualitativa, empirica, basata anche sul buon senso; b. Sono consentiti risultati “sfumati”, cioè variabili entro un certo range; c. L’applicazione non riveste un’importanza critica, poiché le reti neurali non sono infallibili al 100%; d. E’ richiesta la consulenza di esperti del problema, che però non sono disponibili o, se disponibili, hanno conoscenze incomplete e difficilmente formalizzabili in algoritmi o regole per sistemi esperti; e. Il compito che la rete deve eseguire ha carattere ripetitivo e consente quindi l’ammortamento della lunga fase di addestramento e messa a punto. 75 Le reti neurali Una volta stabilito che il problema da risolvere può essere trattato con una rete neurale, occorre definirne l’architettura. Per quanto riguardo il numero di neuroni di uno strato, non esistono criteri rigorosi di scelta, ma solo criteri empirici, dettati dall’esperienza. Una formula empirica suggerisce, ad esempio, di assumere un numero N n di neuroni nascosti, tale che sia 10 × Numeri pesi < Numero esempi Un’altra formula suggerisce: Nn = Numero esempi × Errore percentuale consentito Numero input + Numero output Vale la pena di osservare che pochi neuroni nascosti impediscono un adeguato apprendimento, mentre troppi neuroni nascosti portano ad un “iper-apprendimento” della rete, cioè ad un apprendimento “a memoria” del training-set, e, quindi, ad una scarsa proprietà di generalizzazione. Per ovviare a questo problema, esistono una serie di varianti adattative all’algoritmo di backpropagation, che possono essere definite Apprendimento Strutturale (Structural Learning). Una prima variante, proposta da Ash nel 1989, consente la creazione dinamica di neuroni intermedi secondo necessità. Il processo inizia con un numero relativamente piccolo di neuroni nascosti che, ove non si consegua una determinata tolleranza d’errore dopo un numero prefissato di cicli, viene incrementato, conservando i pesi delle vecchie connessioni ed assegnando valori random ai pesi delle nuove. L’apprendimento può così riprendere dal punto in cui si era giunti, aggiungendo eventualmente nuovi esempi al training-set. Questo schema adattativo è anche utile per aggiornare reti già esistenti. Una seconda variante, anziché partire da pochi neuroni intermedi e poi incrementarli secondo necessità, adotta il criterio opposto di partire da tanti neuroni intermedi e diminuirli secondo necessità (pruning). Per quanto concerne invece i neuroni dello strato di ingresso, il loro numero è fissato dal numero di variabili che la rete deve monitorare, così come il numero di neuroni dello strato d’uscita è fissato dal numero di variabili rappresentanti la soluzione del problema. La funzione di attivazione dei diversi strati, invece, ha come unico vincolo quello di dover avere derivata continua. Le funzioni di attivazione più usate sono la sigmoide o la funzione lineare. In particolare, si sceglie come funzione di attivazione di uno strato la sigmoide quando si vuole che l’uscita dello strato sia limitata, mentre si sceglie la funzione lineare 76 Le reti neurali quando si vuole che l’uscita dello strato possa assumere un qualsiasi valore compreso tra −∞ e +∞. Per quanto riguarda gli esempi da utilizzare in fase di apprendimento, vale la pena di osservare che la loro scelta riveste un’importanza critica, visto che le prestazioni di una rete neurale sono direttamente proporzionali al training-set. Circa il numero di esempi che deve contenere il training set, va osservato che esso deve essere proporzionale alla complessità del problema e della rete. Non esistono criteri rigorosi di scelta, ma solo criteri empirici del tipo Numero esempi >>5 × Numero output × Numero pesi Spesso, inoltre, risulta utile aggiungere rumore al training-set; ciò, infatti, forza la rete verso una maggiore proprietà di generalizzazione. Per quanto riguarda invece la qualità degli esempi, questi devono costituire un campione statisticamente significativo del problema in esame. Inoltre è evidente la necessità di avere una distribuzione omogenea degli esempi, nel senso che non ci si dovrebbe mai soffermare a mostrare alla rete i soli casi “normali” del problema, ma includere, in parti uguali, anche le situazioni “eccezionali”. Gli esempi disponibili devono infine essere ripartiti in due sottoinsiemi equilibrati con distribuzione omogenea: l’uno costituente il training-set, da impiegare nella fase di apprendimento e, alla fine, per valutare le prestazioni di richiamo degli esempi appresi; l’altro, che costituisce il validation-set, da utilizzare per la verifica delle prestazioni di generalizzazione. Restano infine da scegliere i parametri dell’addestramento, quali il learning rate η, il coefficiente momentum β ed il numero di epoche (cioè il numero di volte, che, in fase di addestramento, si presenta alla rete il training-set). Anche per questi parametri non esistono criteri rigorosi di scelta, ma solo criteri empici come quello di adottare valori inizialmente grandi e diminuirli progressivamente, con il progredire dell’apprendimento, in base al valore corrente dell’errore quadratico medio. Altri gradi di libertà che influenzano l’apprendimento sono l’errore minimo min E , raggiunto il quale il processo di addestramento è da considerasi concluso, nonché la modalità di presentazione degli esempi. Generalmente è bene che l’errore minimo prefissato min E sia prima relativamente grande, per un apprendimento preliminare grossolano, per poi diminuirlo, in modo da raffinare l’apprendimento. Per quanto concerne la modalità di presentazione degli esempi, invece, va detto che questa può essere di due tipi: batch (aggiornamento dei pesi alla fine di ogni epoca) oppure ondine (aggiornamento 77 Le reti neurali dei pesi alla fine di ogni esempio): quest’ultima modalità favorisce, in genere, la fuoriuscita dai minimi relativi della superficie d’errore nello spazio dei pesi. In questo lavoro di tesi il problema dell’identificazione e della caratterizzazione degli sferoidi di grafite nelle ghise sferoidali è stato affrontato utilizzando le reti neurali artificiali. Negli ultimi anni le reti neurali sono state impiegate con risultati interessanti in molti campi, in particolare nell’analisi di immagini mediche, nel riconoscimento di oggetti e nell’analisi di testi; solo recentemente le reti neurali sono state applicate nell’analisi della microstruttura dei materiali. Nel caso delle ghise sferoidali, le immagini ricavabili dalla analisi metallografica al microscopio ottico mostrano, oltre agli sferoidi, profili irregolari e artefatti dovuti alla procedura di acquisizione, che devono essere distinti dagli elementi di interesse. Si propone una procedura di identificazione basata sulle reti neurali in grado di riconoscere i profili relativi agli sferoidi. L’addestramento viene effettuato mediante un alfabeto di strutture locali tipiche; l’addestramento viene effettuato anche in presenza di livelli diversi di degradazione dell’alfabeto stesso. La rete cosi’ addestrata è stata quindi utilizzata su immagini ottenute da campioni metallografici ricavati da differenti ghise sferoidali ferrito-perlitiche. La procedura proposta risulta robusta rispetto agli artefatti e al rumore additivo. 78 Resistenza a fatica CAPITOLO IV RESISTENZA A FATICA 4.1 NOZIONI INTRODUTTIVE La fatica di un materiale si riscontra ogni volta che esso viene sottoposto a sforzi variabili ciclicamente nel tempo, che possono provocare la rottura (detta appunto rottura per fatica) se il numero di cicli di ripetizione è sufficientemente alto, pur essendo il valore massimo degli sforzi molto minore di quello di snervamento o di rottura in condizioni statiche. Per ogni valore di sforzo minimo esiste un valore limite di sforzo massimo al di sotto del quale non si verifica la rottura del materiale per quanto grande sia il numero di ripetizioni del ciclo di sforzi: a tale valore limite si dà il nome di limite di fatica. Per inquadrare il fenomeno della fatica (che interessa strutture, materiali e meccanismi, in particolare sottoposti a sollecitazioni cicliche), occorre in primo luogo definire le possibili leggi di variazione della sollecitazione, per ognuna delle quali sarà diverso il limite di fatica; queste si possono in pratica ricondurre a quattro cicli fondamentali (schematizzati in figura 47): ♦ alterno simmetrico, in cui la sollecitazione oscilla con legga sinusoidale tra due valori di segno opposto, ma di uguale valore assoluto; ♦ alterno asimmetrico, in cui i due estremi di sollecitazione hanno segno opposto e diverso valore assoluto; ♦ dello zero, in cui uno degli estremi di sollecitazione è uguale a zero; ♦ pulsante, in cui la sollecitazione varia tra due estremi dello stesso segno. 79 Resistenza a fatica = m max + 2 min a 2 max =0 max = min =0 min max min = m a = max 2 = a m tempo t min a = m a tensione ciclo alterno asimmetrico ciclo alterno simmetrico ciclo pulsante ciclo dallo zero Figura 47: Cicli fondamentali con cui è possibile sollecitare i provini [30] . In tutti i materiali omogenei si trova una corrispondenza biunivoca tra il numero dei cicli necessari ed il valore massimo della sollecitazione, che ripetuta quel determinato numero di volte, ne provoca la rottura. Benchè la natura del fenomeno non sia ancora del tutto conosciuta, si ritiene che la rottura a fatica derivi da una progressiva alterazione dello strato superficiale del materiale, che, estendendosi, riduce la sezione resistente fino a determinarne il cedimento senza che precedentemente si siano prodotte deformazioni permanenti apprezzabili. La rottura per fatica può inoltre essere influenzata dalla struttura interna del materiale (sua natura, lavorazione e tipo di finitura superficiale), dalla forma, dalle dimensioni e dallo stato della struttura di cui fa parte il materiale, dal tipo di sollecitazione, dai suoi valori estremi, nonché dal limite di fatica. Il fattore più significativo è la finitura superficiale del materiale impiegato. Le microcricche di fatica, di solito, hanno origine dalla superficie del pezzo in corrispondenza di eccessiva microrugosità, intagli, zone filettate, fenditure per chiavette non raccordate, fori, angoli acuti, ecc. Così nei limiti del possibile, vanno evitate, attraverso un’attenta progettazione ed esecuzione dell’elemento strutturale, tutte queste zone di concentrazione degli sforzi agenti, come sede preferenziale di innesco di rottura a fatica. Il limite di fatica può essere accresciuto mediante l’indurimento superficiale dell’elemento con trattamenti di diffusione (cementazione, nitrurazione) o meccanici (pallinatura, sabbiatura, ecc.). Sul limite di fatica ha importanza fondamentale inoltre l’aggressività dell’ambiente nel quale l’elemento (o la struttura) si trova ad operare, nel senso che la sollecitazione a fatica può favorire la corrosione (corrosione a fatica). 80 Resistenza a fatica La determinazione del limite di fatica viene fatta sperimentalmente su un provino di forma e dimensioni standard, mediante prove dinamiche di resistenza che si avvalgono di apposite macchine capaci di realizzare uno dei casi semplici di sollecitazione (trazione e compressione, flessione o torsione). Tra le macchine più utilizzate,vi sono quelle per prove di fatica a flessione rotante. In queste il provino, sollecitato da un carico che produce un momento flettente costante, è tenuto in rotazione intorno al suo asse da un motore; nel corso di tale rotazione le fibre del materiale, situate lungo la circonferenza esterna, sono sottoposte ad uno sforzo massimo, oscillante con legge sinusoidale, passando, durante un’intera rotazione, da uno stato di massima compressione ad uno di massima trazione. Tale rotazione viene ripetuta sullo stesso provino parecchie migliaia di volte al minuto. Il limite di fatica a flessione rotante viene determinato applicando a provini diversi carichi decrescenti (e quindi momenti decrescenti) e contando in corrispondenza di questi il numero delle rotazioni complete fino a rottura del provino. Molto importante è l’aspetto che assume la superficie di frattura quando avviene la rottura del provino. Nella zona più sollecitata della superficie si osservano, dopo un certo tempo, scorrimenti localizzati con formazione di microprotuberanze e rientranze. Queste ultime diventano le zone di innesco delle microcricche che avanzano per deformazione plastica localizzata. Si forma così una superficie di rottura opaca, vellutata, più o meno liscia , sulla quale generalmente si notano delle linee di andamento parallelo che, dal punto dove la frattura ha origine, proseguono, ricoprendola completamente (zona di rottura per fatica propriamente detta) (figura 48). Allo stadio di propagazione della microfessura segue quello della rottura di schianto del provino, quando, per eccessiva riduzione di sezione, lo sforzo massimo applicato sulla parte di sezione ancora intatta supera quello di rottura del materiale. Nell’ambito degli 4 6 organi meccanici il numero di cicli critico pericoloso è attorno a 10 ÷ 10 cicli per ampiezza di sollecitazione costante, mentre sale a valori molto più elevati per ampiezza variabile. Il fenomeno della fatica non è visibile. In un organo non si sa cioè in genere quando si è vicino al numero di cicli per il quale è stato progettato ed oltre il quale si potrebbe avere rottura. La fatica non si manifesta con fenomeni premonitori, nemmeno per i materiali duttili, il cedimento statico dei quali invece comporta una grande deformazione plastica prima della rottura e quindi la possibilità di accorgersi della rottura incipiente. La rottura a fatica invece avviene in modo fragile anche per materiali duttili. 81 Resistenza a fatica rottura istantanea linee di riposo Figura 48: Schema di superficie di frattura di un provino con le righe parallele della zona di rottura per fatica propriamente detta [31]. 4.2 CRITERI DI PROGETTAZIONE E VALORI CARATTERISTICI UTILIZZATI NELLA FATICA Negli ultimi anni si sono sviluppati dei criteri di progettazione diversi: ♦ criterio safe life che è normalmente usato in campo meccanico; ♦ criterio fail safe che è un concetto di progettazione considerato più attendibile in campi ad alto rischio e consiste nel seguire lo sviluppo della cricca, dopo che si è innescata, cercando di determinare la vita residua. Nel caso di pezzi senza effetto d’intaglio sollecitati ripetutamente nello stesso modo (ad ampiezza costante) i parametri che servono per caratterizzare la fatica sono: ♦ il numero di cicli “n” a cui il pezzo è sottoposto; ♦ la modalità di variazione delle tensioni. Normalmente si fa riferimento alle tensioni ingegneristiche, anche se in alcuni casi sarebbe più corretto utilizzare le tensioni vere. I valori caratteristici usati nei vari casi per definire il ciclo di fatica, possono essere [32] : 1) σ max , σ min ; 2) σ m , σ a ; 3) σ m , Δσ ; 4) σ a , rapporto di sollecitazione R = σ min . σ max 82 Resistenza a fatica A questo punto è indispensabile chiarire il significato dei simboli appena usati: σ max + σ min sollecitazione media σm = ampiezza Δσ = σ a = rapporto di carico R= 2 σ max − σ min 2 σ min . σ max Nel caso della fatica classica (in assenza di difetti) la caratterizzazione è abitualmente effettuata nel modo 2) o in quello 4), mentre nel campo della meccanica della frattura (cioè quando sono presenti dei difetti) la caratterizzazione è effettuata nel modo 3). È consuetudine parlare di numero di cicli n (inteso come numero di onde complete) in caso di fatica in controllo di forza, mentre si parla di “alternanze” o “inversioni”, del carico, n’ (inteso come numero di semionde, per cui n'= 2n ) se si è in fatica con controllo della deformazione. In particolare le prove di fatica effettuate in controllo di tensione e con sollecitazioni elastiche ricadono nel campo della fatica ad alto numero di cicli ( 5000 ≤ N ≤ 2 ⋅ 10 6 ), mentre le prove sono svolte in controllo di deformazione quando i carichi agiscono in campo elasto-plastico e si cade nel campo della fatica oligociclica ( N p 5000 ). 4.3 DIAGRAMMA DI WOHLER Fu l’ingegnere tedesco Wohler, attorno alla metà dell’800, che scoprì e cercò di affrontare la rottura per fatica. Dai propri studi, effettuati per organi sottoposti ad ampiezza di sollecitazione costante, egli ricavò un diagramma che prende il suo nome e che riporta in ascissa il numero di cicli N che portano a rottura ed in ordinata l’ampiezza di sollecitazione Δσ . Il diagramma di Wohler dice che passando dal carico statico a quello alterno, la resistenza di rottura σ R valida per il carico statico diminuisce man mano che aumenta il numero dei cicli per stabilizzarsi dopo due milioni di cicli sul valore detto σ f o di resistenza a fatica, tale valore è indicato, in letteratura, anche come Δσ la (limite di fatica alterno simmetrico), che è il valore al di sotto del quale il materiale è capace di resistere indefinitamente alla fatica. 83 Resistenza a fatica la log N Figura 49: Diagramma di Wohler. Di solito, quando ci si occupa di rottura per fatica, si usa il diagramma di Wohler σ a in funzione del numero di cicli (figura 49), mentre nella meccanica della frattura si sostituisce σ a con Δσ , il che è del tutto equivalente. Per poter tracciare il diagramma di Wohler ci si riferisce ad un provino a sezione costante e con sollecitazione monoassiale, il carico deve variare con legge armonica avente σ m = 0 ed un rapporto di sollecitazione R = σ min = −1 . σ max Nel diagramma di Wohler la curva sarà limitata superiormente dal valore di σ a per cui la σ max raggiunge il carico di rottura, poiché se il carico arriva al carico di rottura il pezzo si rompe staticamente (figura 50). Questo diagramma non è facile da riportare ed utilizzare a causa del suo andamento non lineare e dell’ampiezza della scala delle ascisse, per tali motivi ed anche per semplificare la curva, che in questo caso diventa una retta nel tratto inclinato, si usa una rappresentazione doppio logaritmica con log 10 σ a sulle ordinate e log10 N sulle ascisse (figura 51). La differenza più significativa tra i diagrammi di Wohler per i diversi materiali è rappresentata dalla curva dopo il punto “G”. Mentre per gli acciai si ha un limite di fatica, per alcuni materiali la retta continua a decrescere, anche se con pendenza minore; ciò equivale a dire che in pratica alcuni materiali non presentano limite di fatica e quindi qualsiasi ampiezza di oscillazione, anche la più piccola, può portare a rottura per N elevati. Questo è il comportamento tipico delle leghe leggere. 84 Resistenza a fatica a R S R=-1 G la 10 2 10 6 Figura 50: Curva di Wohler, limitata superiormente dalla tensione di rottura ed inferiormente dal limite di fatica log a R S andamento schematico andamento reale la G 10 2 10 6 log N Figura 51: Andamento reale (linea a tratti) ed andamento schematico (linea continua) della curva di Wohler in un diagramma doppio logaritmico [32]. Si precisa che l’andamento di figura 51 è una schematizzazione e quindi la configurazione reale della curva sarà molto probabilmente quella tratteggiata, che raccorda con continuità i diversi tratti. 4.4 INTRODUZIONE ALLA MECCANICA DELLA FRATTURA La meccanica classica segue un approccio alla fatica attraverso un criterio di punto, mediante la relazione tra la vita a fatica e lo stato tensionale massimo. Tale approccio si è dimostrato insufficiente per la spiegazione dei fenomeni che si hanno in corrispondenza di difetti o di piccoli intagli in prossimità dei quali la teoria della meccanica del continuo 85 Resistenza a fatica fornisce una soluzione degenere. La meccanica della frattura supera questo limite grazie ad un approccio di campo secondo il quale attraverso un parametro si definisce non lo stato tensionale puntuale, ma lo stato di sollecitazione di un intero campo [29]. Con questo approccio è possibile tenere conto anche della ridistribuzione delle tensioni all’apice di una cricca (intaglio) caricata che secondo la teoria della meccanica del continuo dovrebbe avere un valore di tensione infinito, e quindi della plasticizzazione che ne consegue. 4.4.1 CENNI DI MECCANICA DELLA FRATTURA I principi della meccanica della frattura permettono di affrontare il problema della "life extention" in un pezzo meccanico, sollecitato ripetutamente. L'evoluzione della cricca segue le successive fasi di nucleazione, crescita ed evoluzione a rottura. La nucleazione avviene generalmente in corrispondenza della superficie, a causa di zone critiche per particolarità geometriche o di discontinuità del materiale o di distribuzioni delle tensioni. La crescita delle microcricche formatesi con la nucleazione avviene ciclo dopo ciclo con il meccanismo rappresentato in figura 52, la quale mostra come inizialmente si formi una zona plasticizzata nella quale si verifica scorrimento e la formazione di nuova superficie (fase di carico); successivamente avviene un arrotondamento dell'apice della microcricca e quindi un suo avanzamento (fase di scarico). δmin σ 1 3 2 2 1 nuova superficie 4 5 δmax t 3 nuova superficie 4 Δa 5 Figura 52: Meccanismo di avanzamento della cricca. 86 Resistenza a fatica 4.4.2 Effetto di chiusura La propagazione delle cricche di fatica è dipendente dalle condizioni di applicazione del carico. Mentre la frequenza ha una influenza modesta per prove effettuate in aria e per K P valori compresi fra 1 e 100 Hz, il rapporto di carico R ( = min = min ) influenza Pmax Kmax notevolmente le curve di propagazione nel diagramma da da - ΔK ( , velocità di dN dN avanzamento della cricca; a, lunghezza cricca; N, numero di cicli; ΔK, ampiezza del fattore di intensificazione degli sforzi). A causa della sollecitazione ciclica, il ΔK applicato varia fra Kmax e Kmin. In realtà, a seguito di fenomeni di chiusura all'apice della cricca, il valore del ΔKeff (ΔK effettivo) è minore del ΔK applicato. Questo effetto è noto come effetto di chiusura ed è stato studiato da Elber [30]. Tale effetto è importante perché altera la relazione tra il ΔK calcolato (in base alla sollecitazione e alla lunghezza della cricca) e quello misurato all'apice della cricca. Le varie cause e meccanismi di tale effetto sono stati compresi solo parzialmente. Si ritiene che l’effetto di chiusura sia influenzata dalla microstruttura, dal ΔK, dalla lunghezza della cricca, dall'ambiente, dalle modalità di sollecitazione e dalla temperatura. Le cause più importanti per l'effetto chiusura sono (figura 52): 1. La plasticizzazione del materiale nella regione in prossimità dell'apice della cricca. Tale plasticizzazione comporta la formazione di uno sforzo di compressione all'apice della cricca che aumenta il valore del Kmin reale. 2. La rugosità della superficie della cricca. Tale rugosità comporta, in corrispondenza dei valori prossimi al Kmin, un contatto anticipato delle superfici di frattura, con una sollecitazione di fatica che dal modo I puro diviene un modo misto I+II. Il modo misto I+II implica un ΔKeff inferiore a quello applicato. 3. La formazione di ossidi sulla superficie della cricca causati dall'interazione del materiale con l'ambiente. La presenza di questi ossidi impedisce una completa chiusura dell'apice della cricca in corrispondenza del Kmin, con il ΔKeff che risulta essere inferiore a quello applicato. 87 Resistenza a fatica Kmax Kop Kmin (A) (B) (C) ΔKeff=Kmax-Kmin (D) ΔKeff=Kmax-Kop Figura 53: Meccanismi di chiusura della cricca dovuti a: (A) Apertura teorica, (B) Plasticizzazione, (C) Prodotti di corrosione, (D) Rugosità. 4.4.3 Modelli di propagazione di cricche di fatica I risultati di una prova di propagazione di cricca di fatica in un diagramma da - ΔK si dN distribuiscono con un andamento che, solitamente, può essere interpolato utilizzando una curva di tipo sigmoidale (figura 54). In questo diagramma si possono individuare tre zone: I. Zona di soglia; in tale zona, delimitata da un ΔKth (dove “th” significa “threshold" cioè soglia) al di sotto del quale, la velocità da con cui si propaga la cricca è dN nulla. II. Zona di propagazione stabile della cricca; in tale zona si ha un legame lineare tra logΔK e log III. da . dN Zona di rottura di schianto; in tale zona, delimitata da ΔKIC statico del materiale, il ΔK (campo delle tensioni) della cricca è talmente elevato che la velocità da tende dN all’infinito e quindi si ha rottura di schianto di tipo statico. 88 Resistenza a fatica log da dN (m/ciclo) I II III logΔK( MPa m ) ΔKth ΔK=KIC Figura 54: Diagramma bilogaritmico della velocità di propagazione della cricca ( da ) in dN funzione del campo di tensione (ΔK). In fase di progetto e controllo occorre fissare dei criteri operativi: • Non ammettere alcuna cricca; • Ammettere cricche che generano ΔK>ΔKth; • Ammettere cricche nella zona II, però occorre seguire la loro crescita con metodi non distruttivi; • Si eseguono dei controlli non invasivi ad intervalli di tempo prefissati e verificare che la cricca, qualora si sviluppasse, non porti a rottura il pezzo. 4.4.4 Modello di Paris Nella zona II di propagazione è valida una relazione empirica nota come legge di Paris [31]: log da = log C + m log ΔK dN (57) dove “m” è il coefficiente angolare di figura 55. Tale relazione può essere scritta come: da = C (ΔK ) m dN (58) dove: “C” ed “m” (generalmente 2<m<4) sono costanti dipendenti dal materiale, dalla microstruttura e dalle condizioni ambientali. 89 Resistenza a fatica Il modello di Paris permette di interpolare i risultati nella zona II e di ottenere la curva: log da dN (m/ciclo) I II III m LogΔK ( MPa m ) ΔKth ΔKmax=(1-R)KIC Figura 55: Curva di Paris 4.4.5 Meccanica della frattura e fenomeni di fatica Le prove di fatica sono state effettuate in aria e a temperatura ambiente su provini CT (Compact Tensile) [32]. La geometria del provino è mostrata nelle figure 56 e 57. Il precriccaggio, mostrato in figura 57, consiste nel sollecitare il provino con una serie di cicli a fatica al fine di ottenere una propagazione della cricca di 2 mm. Il carico utilizzato in questa fase deve essere necessariamente inferiore ai valori oltre i quali si otterrebbe una elevata plasticizzazione all'apice della cricca con conseguente rallentamento della propagazione della frattura stessa. Il provino deve soddisfare vari requisiti: • E' necessario che la lunghezza dell'intaglio a0 sia almeno di 0.2W, affinché si possa evitare che il ΔK sia influenzato dalle piccole variazioni di dimensione e posizione dei fori di afferraggio. Lo spessore B deve essere compreso nell'intervallo • W W ≤B≤ . 20 4 Le dimensioni del provino devono rispettare la seguente relazione empirica : ⎛ 4 ⎞⎛ K (W − a) ≥ ⎜ ⎟⎜ max ⎝ π ⎠⎜⎝ σ ΥS ⎞ ⎟ ⎟ ⎠ 2 (59) (W-a)=lunghezza del provino non ancora fratturato. σΥS = scostamento dello 0.2 % dello sforzo indotto nel provino, misurato alla stessa temperatura a cui viene effettuata la prova. 90 Resistenza a fatica Figura 56: Provino standard CT. Figura 57: Caratteristiche dell'intaglio e della cricca ottenuta tramite precriccaggio. 4.4.6 Apparato di prova Le prove di fatica possono essere effettuate considerando diversi parametri: 1. Tipo di sollecitazione: si possono avere sollecitazioni di • Trazione - compressione • Flessione nel piano rotante • Rotazione • Torsione • Flessione • Varie combinazioni 91 Resistenza a fatica 2. Modalità di variazione della sollecitazione: si possono considerare sollecitazioni di vario tipo • Costante • Variabile • Random 3. Funzione della tipologia dell’elemento in prova: si possono prendere in considerazione provini • Provini standard • Provini di strutture complesse. 4. Sistema di applicazione del carico: possono essere • Sistemi meccanici o elettromeccanici (sono poco adatti al controllo di deformazione) • Sistemi idraulici (permettono un buon controllo in deformazione). Nel nostro caso è stata utilizzata una macchina idraulica servoidraulica INSTRON 8501, controllata mediante calcolatore. Figura 58: Macchina INSTRON 8501. Su tale apparato si possono svolgere molteplici prove, dalle più semplici prove a trazione e compressione a quelle più impegnative come le prove a fatica. La macchina è composta dal telaio, dall'attuatore, dalla cella di carico e da un sistema elettronico di controllo e di comando. 92 Resistenza a fatica Il telaio è una struttura rigida che non deve deformarsi durante la prova per non inficiare i risultati. Esso è costituito da una base che funge da attuatore e da due martinetti idraulici che sorreggono una trave, su cui è attaccata la cella di carico. La cella di carico è il vero e proprio strumento di misura. Infatti l’attuatore esercita una forza sul provino che è rilevata dalla cella di carico, la quale manda un segnale al calcolatore. Se la forza rilevata non è quella impostata precedentemente, allora la macchina modifica i suoi parametri per riportare il sistema in equilibrio. Tutto ciò avviene iterativamente continuamente. L’attuatore è il sistema che imprime la forza al provino. Esso scarica la sua forza attraverso due martinetti pneumatici, che agiscono lungo l’asse dei cilindri. L'attuatore è alimentato da una pompa mediante un circuito idraulico ad olio. Tale pompa lavora sommersa per assicurare un continuo flusso. Il fluido pneumatico è raffreddato da uno scambiatore di calore ad acqua corrente. La macchina è collegata al provino tramite degli afferraggi (Figura 69). La geometria degli afferraggi è funzione della lunghezza del provino (W), e dal suo spessore (B). Il gioco tra spinotto e il foro dell’afferraggio è imposto per evitare carichi non lineari dovuti alla presenza di attrito del provino. E’ fondamentale che ci sia un allineamento perfetto tra i due afferraggi per non falsare il carico applicato. Figura 59: Afferraggi per provino CT. 93 Materiali investigati CAPITOLO V MATERIALI: GHISE SFEROIDALI INVESTIGATE 5.1 COMPOSIZIONI CHIMICHE E TRATTAMENTI TERMICI In questo lavoro di tesi sono state considerate sei differenti ghise sferoidali, tre delle quali caratterizzate da una composizione chimica as cast comune, ma con microstrutture differenti ottenute mediante trattamenti termici. Tabella 3: Composizione chimica ghisa sferoidale as cast C Si Mn S P Cu Cr Mg Sn 3,70 2,70 0,28 0,010 0,032 0,14 0,063 0,050 0,036 Ghisa sferoidale EN GJS 350-22, 100% ferrite, di seguito indicata come GSA, ottenuta mediante il seguente trattamento termico di ricottura : • Riscaldamento in forno fino a 750°C • Permanenza per 2h a 750°C • Raffreddamento 50°C/h fino a 500°C • Permanenza a 500°C per 2h • Raffreddamento in aria calma Ghisa sferoidale EN GJS 700-2, 100% perlite, di seguito indicata come GSB, ottenuta mediante il seguente trattamento termico di normalizzazione: • Riscaldamento in forno fino a 890°C • Permanenza per 2,5h a 890°C 94 Materiali investigati • Raffreddamento 50°C/h fino a 500°C • Raffreddamento in aria forzata Ghisa sferoidale EN GJS 500-7: 50% ferrite, 50% perlite, di seguito indicata come GSC, ottenuta as cast (Tabella 1). Ghisa sferoidale EN GJS 450-10, 70% ferrite- 30% perlite di seguito indicata come GSD, la cui composizione chimica è riportata in tabella 4. Tabella 4: Composizione chimica ghisa sferoidale EN GJS 450-10 (GSD) C Si Mn S P Cu Cr Mg Sn 3,66 2,72 0,18 0,013 0,021 - 0,028 0,043 0,021 Successivamente a partire da una ghisa ferrito-perlitica con un tenore più elevato di Mn, sono stati effettuati due differenti trattamenti di austempering, ottenendo in entrambi i casi una struttura completamente bainitica, ma con differenti livelli di degenerazione degli elementi di grafite. Nel caso della ghisa austemperata caratterizzata da una maggiore degenerazione degli elementi di grafite (ghisa qui di seguito denominata ADIA) il trattamento è stato il seguente: - riscaldamento in forno a 910°C (70 minuti); - raffreddamento in forno in bagno di sali fusi (2 ore a 370°C e successivamente 60 s a 320°C); - raffreddamento in aria fino alla temperatura ambiente. Nel caso della ghisa austemperata caratterizzata da una minore degenerazione degli elementi di grafite (ghisa qui di seguito denominata ADIB) il trattamento è stato il seguente: - riscaldamento in forno a 910°C (70 minuti); - raffreddamento in forno in bagno di sali fusi (1 ora a 370°C e successivamente 60 s a 300°C); - raffreddamento in aria fino alla temperatura ambiente. Tabella 5: Ghisa sferoidale austemperata GGG 70BA (completamente bainitica) C Si Mn Mo Ni Sn S 3,61 2,23 0,32 0,42 0,52 0,045 0,015 95 Materiali investigati 5.2 MICROSTRUTTURE Per l’osservazione al microscopio ottico sono stati ricavati dai provini CT, dei campioni a forma di parallelepipedo avente un’area pari circa ad 1 cm2. In seguito dopo aver riposto i campioni in resina, con opportuna macchina inglobatrice a caldo, è stata lucidata la superficie a contatto con il microscopio ottico in modo da non presentare sfaccettature. Successivamente i campioni sono stati attaccati chimicamente con una soluzione di 1 ml di HNO3 e 50 ml di etanolo per una durata di 5 s. Scelto l’ingrandimento (100X) dall’osservazione al microscopio ottico si evidenziano le microstrutture di seguito riportate (Figure 61-67). Figura 61: Ghisa sferoidale EN GJS 350-22 (GSA) Figura 62: Ghisa sferoidale EN GJS 700-2 (GSB) 96 Materiali investigati Figura 63: Ghisa sferoidale EN GJS 500-7 (GSC) Figura 64: Ghisa sferoidale EN GJS 450-10 (GSD) Con la stessa procedura è possibile osservare al microscopio ottico la microstruttura della ghisa austemperata. Dall’osservazione al microscopio ottico è possibile notare come al variare del trattamento termico, per la medesima composizione chimica, può essere presente una maggiore degenerazione dei noduli di grafite, come mostrato in figura 67. 97 Materiali investigati Figura 65: Ghisa sferoidale austemperata GG70BA (ADIA) Figura 66: Ghisa sferoidale austemperata GG70BA (ADIB) Dal momento che le caratteristiche geometriche degli sferoidi di grafite, insieme alla microstruttura della matrice determinano le proprietà meccaniche delle ghise sferoidali in questo lavoro di tesi è stato dapprima affrontato il problema dell’identificazione degli sferoidi di grafite, in quanto gli stessi possono agire da “crack arresters”, permettendo di ottenere valori di duttilità e di tenacità di assoluto interesse per impieghi per i quali sono previste sollecitazioni elevate, anche variabili nel tempo. Ovviamente tale risultato viene ottenuto solo nel caso di una buona nodularizzazione della grafite medesima. La determinazione dei parametri morfologici di interesse è stato affrontato utilizzando 98 Materiali investigati dapprima le reti neurali e successivamente per la caratterizzazione della microstruttura è stata utilizzata la tecnica di segmentazione mediante contorni attivi. Figura 67: Ghisa sferoidale austemperata GGG70BA (ADIA) 99 Metodologie sperimentali CAPITOLO VI METODOLOGIE SPERIMENTALI 6.1 DETERMINAZIONE DEI PARAMETRI MORFOLOGICI DI INTERESSE NELLE GHISE SFEROIDALI. Le ghise sferoidali sono fondamentalmente delle leghe ternarie Fe-C-Si nelle quali i tenori di carbonio e di silicio sono compresi rispettivamente fra 3,5-3,9% e 1,8-2,8%. La scelta della composizione chimica è generalmente determinata dalla dimensione del getto e dalle proprietà meccaniche desiderate. Le particelle di grafite sono presenti sotto forma di noduli e la loro formazione e controllo sono determinati dalla purezza della lega e dall’aggiunta di elementi sferoidizzanti [1]. I noduli di grafite nucleano nel liquido solitamente in corrispondenza di vari tipi di inclusioni (ad esempio MgS, CaS, SrS, MgO etc., ma è stata osservata la nucleazione di sferoidi di grafite anche nel ferro ultra puro), e crescono per diffusione allo stato solido del carbonio attraverso il guscio di austenite che viene a formarsi intorno al nucleo [34, 35]. Le caratteristiche geometriche degli sferoidi di grafite, insieme alla microstruttura della matrice determinano le proprietà meccaniche delle ghise sferoidali. In particolare gli sferoidi possono agire come “crack arresters”, permettendo di ottenere valori di duttilità e di tenacità di assoluto interesse per impieghi per i quali sono previste sollecitazioni elevate, anche variabili nel tempo. Ovviamente tale risultato viene ottenuto solo nel caso di una buona nodularizzazione della grafite medesima. Una sua degenerazione può altresì implicare un indebolimento della matrice metallica, con gli elementi di grafite che non agiscono più come “crack arresters”, ma, piuttosto, possono generare cricche secondarie [36]. 100 Metodologie sperimentali Le caratteristiche geometriche dei noduli sono analizzate in campo industriale secondo la normativa ASTM [32] o normative analoghe: le procedure proposte essenzialmente consistono in una analisi semi-quantitativa della dimensione, grado di nodularizzazione e distribuzione degli sferoidi di grafite, in cui l’esperienza e la sensibilità dell’operatore svolgono un ruolo importante. Attualmente, grazie al supporto di tecniche software di elaborazione delle immagini, sono state implementate diverse procedure in grado di ottenere da una determinata immagine numerosi parametri, di effettuare misurazioni e di eseguire calcoli statistici su un gran numero di osservazioni, applicando le procedure proprie della metallografia quantitativa. Questa consente un approccio quantitativo e statistico alla determinazione di grandezze quali, ad esempio il numero di particelle presenti per unità di volume, la dimensione dei grani, la frazione di volume delle fasi presenti nel provino. Nel caso dell’analisi quantitativa degli sferoidi, sono stati proposti numerosi fattori di forma [7], fra cui il fattore di forma SAA, definito come il rapporto fra l’area della sezione del nodulo S e l’area del cerchio che circoscrive il nodulo medesimo S0, risulta essere fra i più utilizzati [37]. Tale parametro però riesce solo a descrivere il livello di nodularizzazione della sezione, ma non il grado di rugosità della sezione medesima. In questo lavoro di tesi il problema dell’identificazione e della caratterizzazione degli sferoidi di grafite e della distribuzione della matrice metallica nelle ghise sferoidali è stato affrontato utilizzando dapprima le reti neurali e successivamente applicando la tecnica di segmentazione mediante contorni attivi [38, 39]. Questa è una tecnica di analisi delle immagini che permette di separare gli elementi di interesse dallo sfondo e di misurarne le caratteristiche morfologiche. 6.1.1 Analisi metallografia: applicazioni reti neurali Negli ultimi anni le reti neurali sono state impiegate con risultati interessanti in molti campi, in particolare nell’analisi di immagini mediche, nel riconoscimento di oggetti e nell’analisi di testi; solo recentemente le reti neurali sono state applicate nell’analisi della microstruttura dei materiali [38-40]. Nel caso delle ghise sferoidali, le immagini ricavabili dalla analisi metallografica al microscopio ottico mostrano, oltre agli sferoidi, profili irregolari e artefatti dovuti alla procedura di acquisizione, che devono essere distinti dagli elementi di interesse. Si propone una procedura di identificazione basata sulle reti neurali in grado di riconoscere i profili relativi agli elementi di grafite. L’addestramento viene 101 Metodologie sperimentali effettuato mediante un alfabeto di strutture locali tipiche; la rete così addestrata è stata quindi utilizzata su immagini ottenute da campioni metallografici ricavati da differenti ghise sferoidali ferrito-perlitiche. La procedura proposta risulta robusta rispetto agli artefatti. L’osservazione al microscopio ottico di campioni di ghisa sferoidali preparati metallograficamente (ma non attaccati) produce immagini simili a quella riportata in figura 68. Gli elementi grafici di interesse sono gli sferoidi che corrispondono ai noduli di grafite della ghisa e lo sfondo che costituisce la matrice; lo sfondo può essere sede di artefatti dovuti principalmente ad una non perfetta preparazione del provino, nonchè alla presenza nella sezione effettuata di inclusioni ed impurezze. Figura 68: Immagine ottenuta al microscopio ottico di un campione di ghisa sferoidale preparato metallograficamente (ma non attaccato). L’immagine digitale ottenuta dal microscopio ottico è rappresentata da una matrice Y di numeri interi nella scala [ 0, 255] (8 bit di codifica) che sono il livello di grigio quantizzato del provino analizzato. La dimensione M × N della matrice Y dipende dalla risoluzione del sistema di acquisizione. La prima difficoltà che si incontra nell’analisi automatica di un’immagine del tipo riportato nella figura 68 consiste nel separare gli oggetti di interesse dallo sfondo e dagli artefatti; infatti, nonostante l’immagine appaia, ad una ispezione visiva, di buona qualità, il segnale è abbastanza irregolare. La figura 69 rappresenta l’andamento del livello di grigio della riga 300 del segnale della figura 68, dove non è di immediata individuazione il contorno dell’oggetto e le sue parti omogenee. Generalmente, il riconoscimento di oggetti in una scena viene ottenuto rilevando i pixel di contorno che separano i vari oggetti dallo sfondo; gli algoritmi proposti si basano più o 102 Metodologie sperimentali meno direttamente sul calcolo approssimato della derivata prima e seconda del livello di grigio, in quanto un modello semplificato del segnale ne prevede una brusca variazione quando si attraversa una linea di contorno [40]. Tuttavia la figura 69 evidenzia come tale assunzione sia in questo caso inadeguata in quanto si hanno brusche variazioni del segnale anche in zone omogenee determinate dall’interno degli oggetti e dallo sfondo. In questi casi gli algoritmi di stima dei contorni basati sul calcolo delle derivate fanno ricorso a tecniche di regolarizzazione (filtraggio) del segnale e necessitano inoltre di opportuni test (operazioni di soglia, test statistici) per ridurre al minimo l’incidenza di rilevamenti spuri. Come ultima osservazione, vale la pena di notare che tali metodi risultano efficaci per strutture locali del contorno assimilabili ad un gradino; strutture in cui il contorno presenta punti angolosi o cuspidi comportano un notevole aumento di complessità dell’algoritmo. In questo lavoro di tesi è presentata una procedura di riconoscimento degli sferoidi basata sull’impiego di una rete neurale che sia in grado di evidenziare la struttura locale dell’immagine distinguendo le zone omogenee sia dello sfondo che dell’interno dei noduli di grafite dalle zone di contorno. La capacità delle reti neurali di classificare oggetti differenti appartenenti ad un certo insieme (alfabeto ammissibile) permette di superare i problemi connessi alla irregolarità del segnale. Figura 69: Andamento del livello di grigio della riga 300 del segnale della figura 68. 6.1.2 Reti neurali: struttura locale dell’immagine e alfabeto di addestramento della rete. Le reti neurali artificiali (RNA) sono state introdotte per la prima volta nel 1943, ad opera del neurofisiologo Warren McCulloch e del matematico Walter Pits, allo scopo di riprodurre i processi di generalizzazione e di addestramento tipici del cervello umano. Verso la fine degli anni ’70 è emerso un rinnovato interesse verso le reti neurali ed oggi 103 Metodologie sperimentali molteplici sono i campi applicativi: il controllo dei processi industriali, i problemi di previsione e di validazione dei dati, di analisi delle immagini, di classificazione, applicazioni alle telecomunicazioni e nell’ambito biomedico, per citare solo alcuni esempi, [25-28]. L’aspetto più interessante per le applicazioni di nostro interesse risiede nella capacità di eseguire la classificazione degli elementi appartenenti ad un insieme dato e nel dettaglio si rimanda al capitolo III. L’obiettivo consiste nell’ottenere un’immagine risultante costituita dagli sferoidi, aventi un livello di grigio pari a zero (nero), su uno sfondo costante di livello pari a uno (bianco); tale tipo di immagine è quella richiesta da procedure standard (ad esempio il Toolbox di Image Processing del Matlab) per poter numerare i singoli noduli di grafite e misurarne le caratteristiche morfologiche utili per valutare la qualità del materiale analizzato. A tale scopo è stato definito un alfabeto di strutture locali di segnale tipiche che tiene conto delle regioni omogenee e delle varie configurazioni di contorno [29]. Gli elementi dell’alfabeto sono riportati nella figura 70. Figura 70: Elementi dell’alfabeto di strutture locali di segnale tipiche. Tutte le celle sono costituite da matrici di dimensione p × q (nel caso di Figura 3 p = q = 3 ): le celle della prima riga danno la struttura elementare dello sfondo e dell’interno degli sferoidi. Le celle nelle righe 2 e 3 rappresentano alcune strutture elementari di zone di contorno. Tale alfabeto può essere arricchito con strutture locali di zone di contorno più articolate senza aumentare la complessità della procedura. In questo lavoro ci si è limitati all’alfabeto della figura in quanto ha fornito risultati soddisfacenti sul tipo di dati analizzati. 104 Metodologie sperimentali La procedura di training della rete neurale è stata effettuata in tre passi, come suggerito dalla teoria generale per le applicazioni di classificazione e pattern recognition: • addestramento della rete con alfabeto rappresentato nella figura 70; • un nuovo addestramento con versioni perturbate dell’alfabeto (le perturbazioni consistono nell’aggiunta di un disturbo di natura statistica e una diminuzione del contrasto mediante filtraggio passa-basso (blurring)); • ultima sessione di addestramento nuovamente con l’alfabeto di figura 70. A questo punto l’immagine da analizzare viene divisa in celle di dimensione p × q ; ciascuna cella viene presentata all’ingresso della rete per il riconoscimento della eventuale struttura di contorno presente (elementi 3-10 dell’alfabeto) o di zona omogenea appartenente allo sfondo o all’interno degli sferoidi (elementi 1 e 2 dell’alfabeto). Tuttavia, la rete così addestrata, applicata alle immagini sperimentali, non sempre fornisce in uscita elementi del target scelto; per questo motivo è necessario elaborare ulteriormente l’uscita prodotta dalla rete mediante un algoritmo di decisione che seleziona all’interno dell’insieme obiettivo l’elemento che più si avvicina all’uscita fornita dalla rete. In generale questo passo può essere implementato da un ulteriore strato della rete; in questo caso è stato applicato un semplice algoritmo di minima distanza fra l’uscita della rete e gli elementi dell’insieme obiettivo. Nel seguito si farà riferimento al termine di rete intendendo anche questa seconda elaborazione. 6.1.3 Analisi metallografia: segmentazione mediante contorni attivi Per un generico provino metallografico, il dato sperimentale è costituito da un’immagine digitale a 8 bit rappresentata mediante una matrice di numeri interi compresi tra 0 e 255, che codificano 256 livelli di grigio convenzionalmente compresi tra 0 e 1; il generico elemento della matrice fornisce il valore del livello di grigio nel pixel corrispondente dell’immagine. Tale matrice quindi è una rappresentazione digitalizzata e quantizzata del segnale fornito dal microscopio ottico. L’analisi automatica delle immagini dei provini metallografici presenta notevoli difficoltà. Gli elementi grafici di interesse (noduli di grafite, zone dell’attacco chimico, matrice metallica) non sono in generale separati nettamente in modo tale da poterli individuare mediante semplici operazioni di soglia. In tale modo si cerca di individuare i differenti elementi grafici in base al valore del livello di grigio che corrisponde loro: per esempio i noduli di grafite sono certamente le zone più 105 Metodologie sperimentali scure dell’immagine del provino, figura 71 a). Questi quindi potrebbero essere facilmente individuati fissando una soglia ad esempio di 0.3 e classificare i pixel il cui valore sia non superiore a 0.3 come pixel che appartengono agli sferoidi; in questo modo si effettuerebbe una segmentazione dell’immagine originale in due livelli di segnale: nero (sferoidi) e bianco (sfondo). Tuttavia, se la soglia scelta va bene per un provino, il più delle volte deve essere aggiornata quando si cambia provino. La segmentazione a soglia, seppur molto semplice ed efficiente, è tuttavia euristica nella scelta dei valori di soglia e richiede comunque l’intervento dell’esperto per l’analisi d’immagine. Inoltre, nell’immagine sono presenti vari tipi di degradazione; alcuni sono legati alla preparazione del provino, come i graffi e aloni dovuti all’ossidazione del provino e alla presenza di pulviscolo; gli altri tipi sono essenzialmente legati al processo di acquisizione dell’immagine. Nonostante le immagini dei provini appaiano, ad una ispezione visiva, di buona qualità (Figura 71a)), il segnale è fortemente irregolare (Figura 71b)). Ne consegue una accentuazione dei limiti del metodo a soglia, e la conseguente necessità di modificare la soglia per il medesimo campione analizzato, al variare della zona ispezionata. L’individuazione automatica degli elementi grafici, utili alla valutazione delle caratteristiche meccaniche del materiale in esame, deve essere effettuata con una tecnica molto più sofisticata di segmentazione [40]. Questa consiste nella riduzione del numero dei livelli di grigio senza alterare il contenuto informativo dell’immagine, in particolare senza alterare la forma degli elementi grafici di interesse; si ottiene in tale modo un’immagine estremamente più semplice dove gli elementi di interesse sono ben separati. Il numero di livelli di grigio dell’immagine segmentata dipende dal livello di dettaglio dell’informazione che si intende preservare; usualmente due livelli (immagine binarizzata in bianco e nero, Figura 71c)) o quattro livelli (Figura 71d)) sono adeguati per il tipo di analisi richiesta in metallurgia. La tecnica utilizzata è basata su un metodo variazionale che va sotto il nome di segmentazione mediante contorni attivi [41, 42]: una curva iniziale di forma qualunque viene fatta evolvere sul piano dell’immagine in modo tale da collocarsi sulle frontiere degli oggetti di interesse, che quindi possono essere separati gli uni dagli altri. Con riferimento alla figura 72, la curva iniziale divide l’immagine in due zone, la zona interna alla curva e quella ad essa esterna. La curva viene via via deformata in modo tale che all’interno di ciascuna delle due zone il livello di grigio sia il più possibile omogeneo, mentre risulti molto differente passando da una regione all’altra. 106 Metodologie sperimentali a) b) 1-st level segmentation 2-nd level segmentation 50 50 100 100 150 150 200 200 250 250 300 300 350 350 400 400 450 450 500 500 100 200 300 400 500 600 700 c) 100 200 300 400 500 600 700 d) Figura 71. a) Immagine originale di un provino metallografico (EN GJS 450-10); b) andamento del livello di grigio di una riga dell’immagine a); c) segmentazione con 2 livelli; d) segmentazione con 4 livelli. In figura 72 h) la configurazione finale definisce la segmentazione ottima che separa totalmente lo sferoide dallo sfondo; tale configurazione finale, e quindi la segmentazione ottimale (figura 72i)), non dipende dalla scelta iniziale della curva che evolve, e dipende esclusivamente dalla distribuzione del livello di grigio dell’immagine stessa. La procedura non richiede né aggiornamenti al variare delle immagini da elaborare né interventi da parte dell’esperto, per cui lo stesso algoritmo fornisce la segmentazione ottima per ogni immagine elaborata anche a fronte dei vari livelli di degradazione presenti. La convergenza dell’algoritmo è molto rapida, e può essere implementato su un personal computer di normali prestazioni. I dettagli tecnici possono essere consultati in [42] dove è presentata una procedura innovativa di segmentazione con i contorni attivi; per comodità una schematizzazione della procedura è riportata in Appendice al paragrafo 6.5. La procedura proposta è stata applicata sia considerando il problema della caratterizzazione della matrice metallica, considerando ghise sferoidali a matrice ferritoperlitica, sia analizzando il problema della caratterizzazione della eventuale degenerazione dovuta a trattamento termico degli elementi di grafite considerando due differenti ghise 107 Metodologie sperimentali sferoidali austemperate. Nel caso delle ghise austemperate, i risultati ottenuti con la procedura di segmentazione mediante contorni attivi sono stati confrontati con i risultati delle prove di propagazione di cricca di fatica, in modo da poter sia accertare la sensibilità della procedura proposta, sia quantificare l’influenza dei parametri microstrutturali sul comportamento meccanico. a) b) c) d) e) f) g) h) i) Figura 72 a)-h) evoluzione del contorno attivo dalla configurazione arbitraria iniziale a quella finale; i) segmentazione a 2 livelli. 6.1.3.1 Procedura sperimentale Per quanto riguarda l’analisi della matrice metallica, sono state considerate due ghise sferoidali ferrito-perlitiche caratterizzate dalla composizione chimica riportata nelle Tab V-3,4. La valutazione delle frazioni di ferrite e perlite riportata è stata inizialmente valutata visivamente per confronto. Le ghise austemperate utilizzate per la valutazione della degenerazione degli sferoidi sono invece caratterizzate dalla medesima composizione chimica riportata nella TabV-5. A partire da una ghisa ferrito-perlitica con un tenore più elevato di Mn, sono stati effettuati 108 Metodologie sperimentali due differenti trattamenti di austempering, ottenendo in entrambi i casi una struttura completamente bainitica, ma con differenti livelli di degenerazione degli elementi di grafite di seguito denominate ADIA ed ADIB. 6.2 AVANZAMENTO DELLA CRICCA DI FATICA IN ARIA: PROCEDURA DI PROVA Le prove di propagazione di cricche di fatica sono state effettuate in aria utilizzando provini CT (Compact Type) di 11 mm di spessore, secondo la normativa ASTM E647 [32].La misura dell’avanzamento della cricca di fatica è stata effettuata mediante l’utilizzo di un estensimetro meccanico che ha permesso di calcolare, attraverso le formule interpolanti previste dalla normativa UNI 9159, la lunghezza della cricca in tempo reale. In figura 73 si riporta il provino montato sulla macchina di prova equipaggiato con estensimetro meccanico. La macchina utilizzata è una INSTRON 8501 da 100kN, azionata mediante pompa idraulica separata e controllata tramite PC. Prima di effettuare le prove di fatica, è stato effettuato un precriccaggio al fine di ottenere una cricca con basso raggio all’apice. A questo punto i provini sono stati sottoposti a fatica applicando una sollecitazione con una forma d’onda sinusoidale, in condizioni di ampiezza di carico costante e considerando tre differenti rapporti di carico (R = Pmin/Pmax = 0,1; 0,5; 0,75). Le prove di propagazione sono state svolte in aria nelle condizioni di laboratorio, con una frequenza di sollecitazione pari a 20 Hz . La misura dell’avanzamento della cricca è stato effettuato mediante estensimetro meccanico, e controllato mediante microscopio ottico (40x). I risultati ottenuti nel diagramma da/dN-ΔK sono stati interpolati nello stadio lineare di propagazione utilizzando la relazione di Paris [6]: da/dN = C ΔKm dove C ed m sono parametri di interpolazione. 109 Metodologie sperimentali Figura 73: Apparecchiatura utilizzata per il precriccaggio e per le prove di fatica in aria. 6.3 ANALISI DELLE SUPERFICI DI FRATTURA Tutte le superfici di frattura ottenute sono state analizzate mediante un microscopio elettronico a scansione (SEM). Inoltre su ogni provino è stata effettuata un’analisi al microscopio ottico (LOM) del profilo di avanzamento della cricca. Successivamente a partire dalle immagini stereoscopiche ottenute al SEM è stata realizzata una ricostruzione tridimensionale dei profili di frattura in modo da effettuare un’analisi quantitativa dell’influenza della degli sferoidi di grafite nei modelli di distacco (debonding) duttile e fragile per diverse microstrutture. 6.3.1 Metodi di analisi al SEM e al LOM Dopo la prova di fatica, ciascuna superficie di frattura, dopo permanenza in alcool etilico per almeno 3 minuti in ultrasuoni ed essiccate, è stata posta all’interno del SEM. Le osservazioni sono state effettuate alle tensioni di 25 e di 30,5 kV ed utilizzando spot da 50nm. Tutte le frattografie sono state effettuate ponendo la superficie con la direzione di propagazione della cricca da sinistra verso destra. Per analizzare i profili di frattura al microscopio ottico, le superfici sono state preventivamente protette mediante nichelatura chimica, effettuata immergendo una metà del provino per due ore in soluzione di iposolfito di sodio (160g/l) e di fosfato di nichel (90 g/l) a 89°C. La soluzione pari a 500 ml si è resa costante nelle due ore con aggiunta di acqua distillata. Quindi è stato possibile effettuare il taglio in modo da ottenere la superficie mediana del provino, come riportato in Figura 74. La superficie ottenuta è stata inglobata mediante resina termoindurente ed è stata successivamente attaccata. 110 Metodologie sperimentali da/dN In aria ΔK ΔK2 ΔK3 Distanza dalla superficie di frattura ΔK1 Figura 74: Modalità di taglio del provino CT ed analisi superficie frattura. 6.3.2 Ricostruzione tridimensionale dei profili di frattura Le immagini stereoscopiche sono le immagini di partenza per la creazione di un modello tridimensionale digitale DEM. Per ricostruire le immagini stereoscopiche effettuate al SEM è stato utilizzato un programma chiamato Alicona MeX . Lo scopo di tale programma è quello di ricreare un’immagine tridimensionale partendo da un’immagine in due dimensioni, cioè trasforma un dispositivo di misurazione in una rappresentazione in 3D. Alicona MeX descrive la topografia della superficie del provino e permette l’analisi di immagini tridimensionali, partendo direttamente dalle immagini ottenute al SEM; è un prodotto software per computare ed analizzare i modelli digitali DEM partendo dalle immagini stereoscopiche del microscopio elettronico a scansione SEM. Alicona MeX apre la terza dimensione, per determinare la topografia delle microstrutture e per poter misurare i profili, i valori di rugosità, i parametri di zona e perfino i volumi del campione dalle immagini del SEM. 111 Metodologie sperimentali Una volta ricostruita l’immagine tridimensionale è possibile farla ruotare per ottenere un’immagine migliore circa la geometria 3D. E’ importante che le immagini SEM che vengono catturate siano nitide. Immagini confuse non porteranno, come risultato, ad una buona ricostruzione superficiale. Inoltre, se nelle immagini esistono aree molto luminose, cioè aree in cui sulle immagini risulta un livello di grigio pari a 255 (ciò vuol dire che le immagini sono sature), è necessario ridurre la lucentezza, eliminando la saturazione. Di seguito si riportano i punti fondamentali per ottenere una immagine tridimensionale. Figura 75: corretta illuminazione • Determinazione del piano di massa: posizionare il provino analizzato in modo che questo sia approssimativamente nella posizione che noi vogliamo fargli avere nel DEM finale. Questa sarà la posizione di riferimento per il processo di creazione DEM e le seguenti procedure di analisi. Così in un campione che ha, per esempio, diversi tipi di riscontri sul piano naturale, si cercherà di osservare perpendicolarmente tale piano, senza però utilizzare quantitativamente l’immagine su tale piano. • Rotazione eucentrica verso destra e verso il basso: inclinare eucentricamente il campione verso destra intorno all’asse verticale; se il microscopio non consente di fare un’inclinazione lungo l’asse verticale, ma verso l’asse orizzontale, avremo un’inclinazione verso il basso. E’ molto importante che l’inclinazione segua una procedura eucentrica ( figura 76a) e 76b)). Nel caso ideale, l’asse principale e l’asse di inclinazione si intersecano in un punto K(ez) nella parte più alta della superficie. In questo modo l’inclinazione è effettuata in un punto centrale fisso dell’immagine. 112 Metodologie sperimentali Figura 76a): Inclinazione eucentrica Figura 76b): Inclinazione errata con l’asse corretta in cui l’asse principale e l’asse di di inclinazione al di sotto della superficie del inclinazione si intersecano, nella parte campione superiore dell’immagine, in un punto K(ez) centrale. Nel caso non ideale, l’asse principale e l’asse di inclinazione non si intersecano sulla sommità della superficie, ma sotto o sopra in un punto indicato con K(ne). In un caso non ideale si avrà quindi uno spostamento del punto centrale dell’immagine, di lato nel caso di inclinazione verticale e verso l’alto nel caso di inclinazione orizzontale. Così è possibile convertire un caso reale in uno ideale seguendo le seguenti procedure di inclinazione: a) Prima di inclinare, usando una penna, segnare sullo schermo il punto centrale dell’immagine (che potrebbe essere la nostra struttura significativa); b) Inclinare fino a quando la struttura significativa è quasi scomparsa dal bordo dell’immagine; c) Sistemare la posizione del campione fino a che la struttura significativa si trovi un’altra volta nel punto centrale dell’immagine; d) Se le distanze di lavoro cambiano, allora bisogna ripetere i passi precedenti fino a quando si trova l’angolo di inclinazione cercato. L’angolo di inclinazione idoneo (detto α) tra la posizione determinata dal piano e la posizione di inclinazione a destra dipende dalla relativa altezza e dall’ingrandimento. I valori tipici di range vanno da 1° grado (per alti ingrandimenti e grandi variazioni di altezza) a 7° (per bassi ingrandimenti e piccole variazioni di altezza). • Inclinazione eucentrica a sinistra o in alto: si inclina il campione a sinistra (nel caso di un’asse di inclinazione verticale) o verso l’alto (nel caso di asse di inclinazione 113 Metodologie sperimentali orizzontale). L’angolo di inclinazione dovrebbe essere approssimativamente 2α ; in questo modo si catturano due immagini che sono simmetriche al piano di massa. Non è importante che l’inclinazione sia esattamente 2α , ma l’importante è che la misura del relativo angolo di inclinazione tra l’immagine destra e l’immagine sinistra sia il più esatto possibile. Un errore nell’angolo di inclinazione è la più grave causa di inesattezza nel risultato finale del DEM. Se l’asse di inclinazione non è in posizione eucentrica, bisogna ripetere la procedura descritta prima. Figura 77: Micrografia effettuata al SEM di una ghisa ferritica Immagine di sinistra e di destra • Salvare l’immagine sinistra (verso il basso): si cattura l’immagine salvandola in un comune formato file; questa sarà l’immagine di sinistra (LEFT) nel programma Mex. • Spostare le immagini in Alicona Mex: si trasferiscono le immagini nel Mex. E’ molto importante che, nel caso di un’asse di inclinazione orizzontale, le immagini siano ruotate di 90° gradi in senso antiorario prima di cominciare a trasferirle nel Alicona Mex. L’immagine in basso diventa l’immagine di sinistra e l’immagine in alto diventa l’immagine di destra. Gli angoli di inclinazione che noi specifichiamo nel Mex per le immagini sono di 0° gradi per quella di sinistra e il relativo angolo di inclinazione per quella di destra. 114 Metodologie sperimentali Figura 78: Micrografia effettuata al SEM di una ghisa sferoidale perlitica. Immagine di sinistra e di destra. Figura 79: Micrografia effettuata al SEM di una ghisa ferritico-perlitica. Immagine di sinistra e di destra 115 Metodologie sperimentali Figura 80: Ricostruzione 3D di una ghisa sferoidale ferritica Figura 81: Ricostruzione di una immagine tridimensionale di ghisa a matrice perlitica. 116 Metodologie sperimentali Figura 82: Ricostruzione di una immagine tridimensionale di una ghisa sferoidale a matrice ferritico-perlitica 6.4 PROCEDURA DI OSSERVAZIONE AL SEM DI PROVE DI TRAZIONE In questo lavoro di tesi è stato proposto un metodo di analisi di meccanismi di danneggiamento attraverso prove di trazione con microprovette (Figura 83) in ghisa ferritica, perlitica e ferrito-perlitica (50% ferrite e 50% perlite, 70% ferrite e 30% perlite) eseguite su micromacchina di trazione (Figura 84) disposta direttamente nel SEM [46]. La forza di trazione applicata al microprovino viene direttamente trasmessa dalla rotazione di una vite a brucola (come mostrato in figura 84). Il legame esistente tra il numero di giri da compiere e la sollecitazione da applicare alla microprovetta è stabilito dal nomogramma determinato a partire dal diagramma σ ing − ε ing (figura 85) ed è funzione della deformazione come indicato nella relazione (60). L n = 0 ⋅ ε ing p (60) essendo noti Lo= 14 mm (tratto utile) p= 0,8 (passo vite a brucola) 117 Metodologie sperimentali Figura 83: Microprovetta di trazione Figura 84: Micromacchina di trazione (progettazione La.M.E.I - Ing. Piacente) In tal modo è possibile osservare al SEM il reale comportamento nel tratto elastico e plastico del diagramma σ ing − ε ing delle ghise sferoidali ferritiche, ferrito-perlitiche e perlitiche, ma soprattutto seguire per step successivi i meccanismi di innesco di cricche secondarie in corrispondenza di elementi di grafite degenerati che propagano nella matrice 118 Metodologie sperimentali metallica e la reale influenza degli sferoidi di grafite nei modelli di distacco (debonding) duttile e fragile per diverse microstrutture delle ghise sferoidali. 900 4.50 EN GJS 350-22 EN GJS 400-15 EN GJS 700-2 EN GJS 500-7 Giri 800 700 Stress [MPa] 600 4.00 3.50 3.00 500 2.50 400 2.00 300 1.50 200 1.00 100 0.50 0 0.00 0.10 0.20 0.30 0.40 0.00 0.50 Strain Figura 85: Nonogramma complessivo relativo ai diversi tipi di ghise sferoidali. 119 Metodologie sperimentali 6.5 APPENDICE Viene presentata una procedura di segmentazione innovativa in quanto è formulata direttamente nel dominio discreto dei dati. Un’immagine I è definita come una matrice di numeri interi {I } i, j su una griglia di punti D = {( i, j ) , i = 1,K, N ; j = 1,K, M } . Senza perdita di generalità si può assumere I : D → [ 0 255] . segmentazione di {Dk } , k = 1, 2,K, K I si consideri la rappresentazione Come caso particolare di costante a tratti: sia una partizione finita del dominio D con frontiera ∂D ; una segmentazione costante a tratti è definita come segue ⎧1 ⎩0 K I s = ∑ ck χ Dk , χ Dk (i, j ) = ⎨ k =1 ⎛ K ⎞ dove B = ⎜ U ∂Dk ⎟ ⎝ k =1 ⎠ for (i, j ) ∈ Dk altrimenti (1) è la frontiera della segmentazione (si noti che per definizione ∂D ⊂ B ), i ck sono i valori costanti assegnati ad ogni sottoregione Dk scelti in un insieme di nC ≤ K valori. Una semplice formulazione del problema di segmentazione è la seguente: data un’immagine I : D → [ 0 255] , si scelga un intero nC ≥ 2 e si trovino una partizione { Dk } , k = 1, 2,K, K di D e delle costanti c1 ,K, cK tali che I s data dalla (1) sia una buona rappresentazione di I secondo un opportuno criterio di ottimo. Un criterio ragionevole consiste nell’ottimizzare l’errore di approssimazione ed una misura dell’efficienza della segmentazione: una buona segmentazione è costituita dal minimo numero di sottoregioni disgiunte con area minima e frontiera regolare. Ogni sottoregione può essere definita per mezzo delle funzioni di livello. Consideriamo per semplicità un’immagine con un solo oggetto differente dallo sfondo, per cui si avranno due sottoregioni D1 , che corrisponde all’oggetto, e D2 = D \ D1 , che corrisponde allo sfondo. Sia φ = {φ i , j }: D → ℜ una funzione continua; D1 e D2 possono essere definite nel modo seguente D1 = {( i, j ) :φi, j ≥ 0} , D2 = {( i, j ) :φi, j < 0} (2) La frontiera della segmentazione è nota una volta che siano individuati i punti di frontiera di D1 e D2 . Questi non sono semplicemente l’insieme di livello zero di φ , come nella formulazione nel continuo, ma devono essere definiti in base al numero di cambi di segno di φ in un opportuno intorno del pixel esaminato. In [42] è stata definita una funzione 120 Metodologie sperimentali γ (φi , j ) che vale 1 se il pixel ( i, j ) è di frontiera e 0 nel caso contrario. A questo punto può essere definito il seguente funzionale di costo ( )( Ii, j − c1 ) E ( c1 , c2 ;φ ) = λ ∑ H φi , j i, j ( ) 2 ( ( )) ( Ii, j − c2 ) + λ ∑ 1 − H φi , j i, j 2 + α 2 ∑ φi2, j i, j ( ) (3) + μ ∑ H φi , j + ν ∑ γ φi , j i, j i, j dove H ( ⋅) è la funzione di Heaviside e λ , α , μ , ν sono parametri da fissare opportunamente in modo da pesare diversamente l’influenza dei vari termini dell’indice di costo. In [42] sono state trovate condizioni necessarie e sufficienti di minimo globale per la funzione (3) c1 = ∑ H (φi, j ) Ii, j i, j ∑ H (φi, j ) c2 = , i, j ∑ (1 − H (φi, j )) Ii, j i, j (4) ∑ (1 − H (φi, j )) i, j ⎞ 1⎛ φi , j = − ⎜ λ pi , j + μ + ν ∑ ⎡ H (φi + l, j ) − H (φi , j ) − H (φi , j + l ) − H (φi , j ) ⎤ qi. j ⎟ δ (φi , j ) ⎣ ⎦ α⎝ l =−1 ⎠ 1 ( ) ( ) (5) dove pi , j e qi , j sono funzioni ausiliarie opportunamente definite. Mentre le (4) forniscono in forma chiusa i valori ottimi di c1 , c2 , la (5) può essere risolta mediante uno schema ricorsivo [42, 43]. 121 Risultati ed analisi CAPITOLO VII RISULTATI ED ANALISI 7.1 IMPIEGO MEDIANTE DELLE RETI CONTORNI NEURALI ATTIVI E DELLA SEGMENTAZIONE NELL’IDENTIFICAZIONE DEGLI ELEMENTI METALLOGRAFICI E MORFOLOGICI DI INTERESSE NELLE GHISE SFEROIDALI. Il primo obiettivo di questo lavoro di tesi è la caratterizzazione morfologica degli sferoidi di grafite e quindi l’individuazione di parametri che possano quantitativamente definire il grado di degenerazione degli stessi. Nelle figure 73 ed 74 sono mostrate due situazioni molto differenti: nella figura 73 è evidenziato uno sferoide di forma piuttosto circolare con profilo regolare mentre nella figura 74, la particella di grafite è caratterizzata da un profilo molto frastagliato con una forma abbastanza lontana dalla sfera ideale. Queste caratteristiche vengono normalmente valutate qualitativamente per ispezione visiva da un esperto che raffronta il provino in esame con alcuni campioni di riferimento. Tale comparazione è tuttavia suscettibile di una definizione quantitativa una volta che gli sferoidi sono separati dallo sfondo e possono essere caratterizzati singolarmente. L’impiego della rete neurale permette di segmentare le immagini precedenti ottenendo gli sferoidi come regioni di colore nero separati dallo sfondo di colore bianco. La struttura delle rete neurale utilizzata si compone di un unico strato con 30 neuroni; come funzione di trasferimento si è scelta la logsig (figura 75) ed infine come training si è adottato un tipico algoritmo di backpropagation basato sul gradiente, con un numero di epoche pari a 6 ×104 . Nelle figure 76 e 77 sono rappresentate le uscite ottenute dalla rete. 122 Risultati ed analisi Figura 73: Sferoide di grafite Figura 74: Sferoide degenerato (o “grafite esplosa”) Figura 75: Funzione di trasferimento logsin Figura 76: Uscita della rete (a partire dalla figura 73). Area: 203190 Centroid: [414.3902 270.3934] BoundingBox: [135.5000 22.5000 551 503] MajorAxisLength: 528.4243 MinorAxisLength: 494.1898 Eccentricity: 0.3541 Orientation: 0.5322 ConvexHull: [46x2 double] ConvexImage: [503x551 logical] ConvexArea: 213406 Image: [503x551 logical] FilledImage: [503x551 logical] FilledArea: 204011 EulerNumber: -7 Extrema: [8x2 double] EquivDiameter: 508.6350 Solidity: 0.9521 Extent: 0.7331 PixelList: [203190x2 double] 123 Risultati ed analisi Figura 77: Uscita della rete (a partire dalla figura 74). ] Area: 106718 Centroid: [358.4913 368.6075] BoundingBox: [84.5000 193.5000 521 349] MajorAxisLength: 519.3000 MinorAxisLength: 314.1605 Eccentricity: 0.7962 Orientation: -13.5768 ConvexHull: [41x2 double] ConvexImage: [349x521 logical] ConvexArea: 142508 Image: [349x521 logical] FilledImage: [349x521 logical] FilledArea: 114637 EulerNumber: -60 Extrema: [8x2 double] EquivDiameter: 368.6158 Solidity: 0.7489 Extent: 0.5869 PixelList: [106718x2 double Le figure 76 e 77 così ottenute sono accompagnate da una lista di proprietà morfologiche delle particelle di dimensioni maggiori presenti. Di particolare interesse per la caratterizzazione delle ghise sferoidali risultano l’eccentricità e la solidità. L’eccentricità è definita in base all’ellissoide che in cui è inscritto lo sferoide, ed è data dal rapporto tra la distanza dei fuochi e la lunghezza dell’asse maggiore. Essa permette di valutare quanto la forma dello sferoide si discosti dal cerchio, che ha eccentricità pari a zero; nel caso dello sferoide riportato nella figura 76, che, se valutato qualitativamente, può essere considerato di buona qualità, ha eccentricità pari a 0.3541, mentre la particella più grande riportata nella figura 77, ha eccentricità pari a 0.7962. La solidità è definita come il rapporto tra l’area dello sferoide e l’area del poligono convesso in cui esso risulta essere inscritto; essa valuta quanto il profilo dello sferoide sia frastagliato: una solidità pari a 1 denota un profilo regolare senza insenature. Infatti lo sferoide presente nella figura 76 ha solidità pari a 0.9521, mentre la particella più grande presente nella figura ha solidità pari a 0.7489. Tali parametri possono costituire una base oggettiva per la valutazione quantitativa della qualità dei campioni esaminati. Ad esempio, la figura 78 riporta l’immagine ottenuta al microscopio ottico (ad un ingrandimento inferiore rispetto alle figure 73 ed 74) in cui sono presenti contemporaneamente particelle con caratteristiche differenti; la valutazione complessiva della qualità della grafite può essere effettuata mediante una analisi statistica della distribuzione dei valori dei parametri morfologici di interesse sull’insieme delle particelle presenti nella figura 79, individuati dalla rete neurale. 124 Risultati ed analisi Figura 78: Immagine di partenza. Figura 79: Immagine elaborata mediante RNA. Considerando i risultati ottenuti dalla elaborazione dei due casi riportati nelle figure 76 e 77, si è scelto come valore di soglia per l’eccentricità 0.4 e per la solidità 0.8. Il risultato ottenuto per l’esempio nella figura 79 è quello di una percentuale del 7% di particelle con eccentricità inferiore al valore di soglia (ovvero particelle la cui sezione è da considerarsi circolari), e una percentuale dell’82% di particelle con una solidità superiore al valore di soglia (ovvero particelle da considerarsi non frastagliate). Il problema della determinazione quantitativa dello stato di nodulizzazione degli elementi di grafite nelle ghise sferoidali è particolarmente sentito, vista l’influenza che la forma delle particelle ha sulle proprietà meccaniche delle ghise sferoidali. Tuttavia per poter analizzare immagini ricavate dal microscopio ottico più “complesse”, sulle quali cioè, dopo aver effettuato attacco chimico, sia possibile osservare anche la microstruttura, è stata utilizzata in questo lavoro di tesi una più sofisticata tecnica di segmentazione nota con il nome di segmentazione mediante contorni attivi, come in VI. 7.1.1 Applicazione della procedura di segmentazione mediante contorni attivi: risultati Utilizzando la procedura di segmentazione descritta in [42], per ogni provino sono state ottenute le segmentazioni a 2 e a 4 livelli. Tali segmentazioni sono il risultato di una procedura di ottimizzazione globale che approssima l’immagine originale con una sua versione costante a tratti: questa è ottenuta minimizzando un funzionale di costo (formula 125 Risultati ed analisi (3) in Appendice) che pesa opportunamente l’errore globale di approssimazione, l’area delle regioni della segmentazione e la lunghezza delle loro frontiere [42]. a) b) c) Figura 80 a) immagine originale con 70% di ferrite (valutazione soggettiva fatta da un esperto (EN GJS 450-10)); b) segmentazione a 2 livelli; c) segmentazione a 4 livelli. Per l’immagine riportata nella figura 80, relativa alla ghisa EN GJS450-10, è possibile stabilire la percentuale di ferrite misurando il rapporto tra l’area della parte più chiara (che corrisponde alla ferrite) e l’area totale della matrice metallica (area totale del provino diminuita dell’area dei noduli); questo può essere ottenuto dall’immagine segmentata a 2 livelli (bianco e nero) di figura 80b): in questa infatti è possibile valutare l’area della zona che corrisponde alla ferrite contando i pixel della zona bianca, ottenendo in tal modo un rapporto percentuale di 75%. Bisogna sottolineare la precisione con cui la segmentazione permette di separare la zona chiara dalle altre; la qualità del risultato dipende essenzialmente dal carattere globale della procedura, per cui ciò che avviene in un generico pixel influenza il risultato in tutti gli altri pixel. Una operazione di soglia, che è una semplice operazione locale in cui il valore assegnato in un pixel dipende solo dal valore in pochi pixel adiacenti, commetterebbe invariabilmente molti errori nel tentativo di separare i noduli dallo sfondo, dato il tipo di segnale della figura 80 a) con un elevato numero di livelli di grigio. Inoltre la procedura di segmentazione proposta consente di accedere ad ogni singolo elemento grafico dell’immagine e di poterlo analizzare indipendentemente dagli altri oggetti presenti. Per tale motivo queste procedure globali vengono dette region- based. Al contrario le procedure locali, per via degli errori di detezione, determinano contorni spessi e frammentati degli oggetti per cui non sono in grado di definire alcuna relazione fra i pixel di uno stesso oggetto; queste procedure sono tipicamente dette pixel- oriented. Per l’immagine riportata nella figura 81, relativa alla ghisa EN GJS350-22, è stata applicata la medesima procedura, ottenendo una percentuale di ferrite pari a 96%. 126 Risultati ed analisi a) b) c) Figura 81 a) immagine originale con 100% di ferrite (valutazione soggettiva fatta da un esperto(EN GJS 350-22)); b)segmentazione a 2 livelli; c) segmentazione a 4 livelli. Nel caso delle ghise sferoidali l’influenza della matrice sulla propagazione della cricca di fatica risulta piuttosto modesta nel caso di bassi valori del DK applicato e/o del rapporto di carico R , mentre risulta piuttosto evidente nel caso di valori di R elevati, nella zona II e nella zona III di avanzamento della cricca di fatica [8]. Ruolo essenziale viene quindi anche svolto dalla morfologia degli elementi di grafite. La medesima procedura è stata applicata agli elementi di grafite nelle due ghise sferoidali austemperate ADIA ed ADIB (rispettivamente figura 82 e figura 83). Per la caratterizzazione degli elementi di grafite sono stati utilizzati i parametri Eccentricità e Solidità, già utilizzate nel paragrafo 7.1. Le due ghise austemperate investigate sono state analizzate considerando 20 immagini per ognuna, ottenendo i valori medi riportati nelle tabelle 6 e 7. Figura 82 a): Elementi di grafite nella Figura 82 b): Microstruttura ghisa ghisa austemperata ADIA. austemperata ADIA. (Nital 5%) 127 Risultati ed analisi Figura 83a): Elementi di grafite nella ghisa Figura 83b): Microstruttura ghisa austemperata ADIB (Nital 5%) austemperata ADIB (Nital 5%) Tabella 6: quadro riassuntivo relativo agli elementi di grafite (ghisa ADIA) 25<Area<250 250<Area<750 Area>750 (pixel) (pixel) (pixel) Numero noduli per classi di area 71 6 7 ⎧valor medio Solidità ⎨ ⎩deviazione s tan dard 0.8779 0.7478 0.6401 0.0625 0.0909 0.1427 ⎧valor medio Eccentricità ⎨ ⎩deviazione s tan dard 0.6845 0.7940 0.6680 0.1974 0.1394 0.2201 L’analisi effettuata evidenzia e quantifica la degenerazione degli elementi di grafite. La ghisa designata come ADIA è caratterizzata da una minore solidità, specialmente per quanto riguarda gli elementi di grafite di dimensioni maggiori, e da una eccentricità decisamente più elevata per tutte e tre le classi dimensionali considerate. 128 Risultati ed analisi Tabella 7: quadro riassuntivo relativo agli elementi di grafite (ghisa ADIB) 25<Area<250 250<Area<750 Area>750 (pixel) (pixel) (pixel) Numero noduli per classi di area 40 12 6 ⎧valor medio Solidità ⎨ ⎩deviazione s tan dard 0.9039 0.9250 0.9391 0.0374 0.0228 0.0359 ⎧valor medio Eccentricità ⎨ ⎩deviazione s tan dard 0.6416 0.5644 0.5797 0.1460 0.1431 0.1279 7.2 RISULTATI DI FATICA OTTENUTI PER UNA GHISA SFEROIDALE FERRITICA I risultati da/dN-ΔK relativi alle prove di fatica effettuate in aria sui provini CT realizzati in ghisa sferoidale a matrice ferritica (100% ferrite), la cui composizione chimica ed il cui trattamento sono riportati in V, sono stati riportati nel grafico di figura 84. Si può notare come il rapporto di carico influenzi il comportamento a fatica di questo tipo di ghisa sia sui valori di soglia sia sullo stadio II in cui è valida la legge di Paris. Infatti al crescere del rapporto di carico, per uno stesso valore di ΔK applicato si ottengono valori crescenti della velocità di avanzamento della cricca di fatica. Inoltre sempre al crescere di R si ha una diminuzione del valore di ΔKth e di ΔKmax (=(1-R) KIC). Le analisi frattografiche al SEM effettuate sui provini sottoposti a fatica al variare dei rapporti di carico sono riportate nelle figure 85-86-87. 129 Risultati ed analisi -6 da/dN [m/ciclo] 10 -7 10 -8 10 R = 0.1 R = 0.5 R = 0.75 -9 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 84: Curve di propagazione della cricca di fatica da/dN-ΔK per la ghisa ferritica GSA e per tutti e tre i rapporti di carico esaminati R=0,1, 0,5, 0,75. a) b) Figura 85: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino in ghisa sferoidale a matrice ferritica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,1 a ΔK=15 MPa m1/2: a) zone di microduttilità; b) rotture per clivaggio. In figura 85 a) e b) si può notare che per rapporti di carico R=0,1 e ΔK=15 MPa m1/2 si hanno nella matrice completamente ferritica zone di microduttilità con formazione di “dimples” e presenza di rotture per clivaggio che non necessariamente hanno origine in corrispondenza delle interfacce sferoide-matrice . In alcuni casi (figure 86 e 87) al variare di R e ΔK è piuttosto evidente una microplasticità che si riflette nella formazione di cricche secondarie all'interfaccia sferoidi-matrice ed un costante distacco degli sferoidi dalla matrice metallica. 130 Risultati ed analisi a) b) Figura 86: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice ferritica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2: a) cricche secondarie all’interfaccia sferoide matrice; b) la cricca avanza verso destra. a) b) Figura 87: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice ferritica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,75 a ΔK=8 MPa m1/2: a) zone di microplasticità ; b) evidente distacco degli sferoidi dalla matrice ferritica. Questi meccanismi di rottura sono confermati dall’analisi dei profili di frattura riportati in figura 88. 131 Risultati ed analisi Figura 88: Analisi al LOM del profilo di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice ferritica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2. 7.3 RISULTATI DI FATICA OTTENUTI PER UNA GHISA SFEROIDALE PERLITICA. I risultati da/dN-ΔK relativi alle prove di fatica effettuate in aria sui provini CT realizzati in ghisa sferoidale a matrice perlitica, la cui composizione ed il cui trattamento sono riportati al V, sono stati riportati nel grafico di figura 89. -6 da/dN [m/ciclo] 10 -7 10 -8 10 -9 R = 0,1 R = 0,5 R = 0,75 10 -10 10 3 10 50 1/2 ΔK [MPa m ] Figura 89: Curve di propagazione della cricca di fatica da/dN-ΔK per la ghisa perlitica GSB e per tutti e tre i rapporti di carico esaminati R=0.1, 0.5, 0.75. 132 Risultati ed analisi Anche per una ghisa sferoidale a matrice perlitica al crescere del rapporto di carico R, si hanno, per un dato ΔK applicato, valori crescenti della velocità di avanzamento della cricca di fatica. a) b) Figura 90: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice perlitica sottoposto a fatica: a) rapporto di carico R=0,1 a ΔK=15 MPa m1/2: clivaggio e striature; b) rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2: evidente distacco degli sferoidi dalla matrice ferritica. a) b) Figura 91: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino ghisa sferoidale a matrice perlitica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,75 a ΔK=10 MPa m1/2: a) morfologia di frattura a delta di fiume ; b) evidente distacco degli sferoidi dalla matrice perlitica. Le figure 90-91 mostrano la morfologia di frattura di una ghisa sferoidale perlitica e, come sia evidente, indipendentemente dal rapporto di carico R, la presenza di clivaggio e 133 Risultati ed analisi striature nella matrice perlitica sino alla formazione di striature fragili, e alla formazione della morfologia di frattura detta a “delta di fiume”. Risulta inoltre evidente il distacco delle particelle di grafite. Inoltre il “debonding” fragile degli sferoidi di grafite è possibile osservare che le superfici interne lasciate libere dagli elementi di grafite presentano evidenti zone di microduttilità ( generazione di “microdimples” [44]). Questi meccanismi di rottura sono confermati dall’analisi dei profili di frattura riportati in figura 92. Figura 92: Analisi al LOM del profilo di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice perlitica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2. 7.4 RISULTATI DI FATICA OTTENUTI PER UNA GHISA SFEROIDALE FERRITO-PERLITICA. I risultati da/dN-ΔK relativi alle prove di fatica effettuate in aria sui provini CT realizzati in ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica, la cui composizione chimica è riportata al V, sono stati riportati nel grafico di figura 93. La figura mostra una evidente influenza dell’effetto di chiusura sulla propagazione delle cricche di fatica nella ghisa a matrice ferrito-perlitica. Si può infatti, come per le precedenti ghise analizzate , ottenere la medesima velocità di avanzamento della cricca di fatica per valori sempre più bassi della ampiezza del fattore di intensificazione degli sforzi applicato (ΔK) all’aumentare di R. Dall’osservazione della morfologia della superficie di frattura al SEM una ghisa sferoidale ferrito-perlitica risente in modo evidente della distribuzione delle differenti fasi all’interno della matrice metallica (da figura 94 a figura 96). 134 Risultati ed analisi -6 da/dN [m/ciclo] 10 -7 10 -8 10 R = 0,1 R = 0,5 R = 0,75 -9 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 93: Curve di propagazione della cricca di fatica da/dN-ΔK per la ghisa ferrito- perlitica GSC e per tutti e tre i rapporti di carico esaminati R=0,1, 0,5, 0.75. a) b) Figura 94: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica sottoposto a fatica rapporto di carico R=0,1 a ΔK=15 MPa m1/2: a) la ferrite è disposta a guscio; b) distacco degli sferoidi dalla matrice. Infatti in queste ghise la ferrite si dispone prevalentemente in modo da formare un guscio intorno agli sferoidi di grafite, mentre la perlite costituisce la matrice vera e propria. La superficie di frattura mostra una prevalente rottura per clivaggio dei gusci ferritici, con un certo distacco dello sferoide dalla matrice metallica (figure 94-95), con una rottura della matrice perlitica. 135 Risultati ed analisi a) b) Figura 95: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino in ghisa sferoidale ferrito-perlitica sottoposto a fatica: a) rapporto di carico R=0,5 a ΔK=15 MPa m1/2: debonding; b) rapporto di carico R=0,75 a ΔK=10 MPa m1/2: evidente evidente debonding L’analisi delle sezioni trasversali al microscopio ottico evidenzia la presenza del debonding degli elementi di grafite che, talvolta, comporta la disgregazione dell’elemento di grafite (figura 96). Figura 96: Analisi al LOM del profilo di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2. 136 Risultati ed analisi 7.5 RISULTATI DI FATICA OTTENUTI PER UNA GHISA SFEROIDALE A MATRICE PREVALENTEMENTE FERRITICA (70% FERRITE, 30% PERLITE). I risultati da/dN-ΔK relativi alle prove di fatica effettuate in aria sui provini CT realizzati in ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica (70% ferrite, 30% ferrite), la cui composizione chimica è riportata alla TabV, 4 sono rappresentati sul grafico di figura 97. -6 da/dN [m/ciclo] 10 -7 10 -8 10 -9 R = 0,1 R = 0,5 R = 0,75 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 97: Curve di propagazione della cricca di fatica da/dN-ΔK per la ghisa ferrite 70% e 30% perlite (GSD) e per tutti e tre i rapporti di carico esaminati R=0,1, 0.5, 0,75. La figura mostra che l’andamento delle curve di propagazione delle cricche di fatica per tale ghisa risultano simili a quelle di una ghisa a matrice completamente ferritica (100% ferrite). Tuttavia dall’analisi della morfologia della frattura al SEM per i diversi rapporti di carico, si osserva come per le ghise completamente ferritiche zone di microduttilità e dimples, ma anche una certa frazione di clivaggio dovuta alla presenza di una piccola frazione volumetrica di perlite (20-30%) (figura 98). Questi meccanismi di rottura sono confermati dall’analisi dei profili di frattura al LOM riportati in figura 99. 137 Risultati ed analisi a) b) Figura 98: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino in ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica sottoposto a fatica: a) rapporto di carico R=0,1 a ΔK=15 MPa m1/2: zone di microduttilità; b) rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2:debonding; c) d) Figura 98: Analisi al SEM della superficie di frattura di un provino in ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica sottoposto a fatica: c), d) rapporto di carico R=0,75 a ΔK=15 MPa m1/2: clivaggio. 138 Risultati ed analisi Figura 99: Analisi al LOM del profilo di frattura di un provino di ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2. 7.6 RISULTATI DI FATICA OTTENUTI PER UNA GHISA SFEROIDALE AUSTEMPERATA. I risultati da/dN-ΔK relativi alle prove di fatica effettuate in aria sui provini CT realizzati in ghisa austemperata rispettivamente già denominate ADIA ed ADIB (figura 82c) e figura 83c)), la cui composizione chimica e cui trattamenti termici sono riportati alla Tab V-5 sono rappresentati sui grafici delle figure 100-101-102. Si ricorda che la ghisa austemperata ADIA presenta dall’analisi al LOM una maggiore degenerazione degli sferoidi di grafite (figura 82c) e figura 83 c)). Si può osservare che per tutti i valori di R considerati, le due ghise hanno un comportamento praticamente identico negli stadi II e III della propagazione della cricca di fatica (rispettivamente propagazione lineare, ove è valida la relazione di Paris, e la rottura di schianto), mentre vi sono delle differenze nello stadio I (soglia, ΔK th). La ghisa ADIA, ovvero quella caratterizzata da una minore solidità e da una maggiore eccentricità (paragrafo 7.1.2) degli elementi di grafite, è caratterizzata da valori inferiori del ΔK th rispetto alla ghisa ADIB, per tutti e tre i rapporti di carico investigati. I valori più bassi del ΔK applicato implicano valori del raggio di plasticizzazione ciclica (rrpz = (ΔK/σy)2/12π) comparabili con le dimensioni degli elementi di grafite. La loro eventuale degenerazione implica quindi un peggioramento della resistenza alla propagazione della cricca di fatica. 139 Risultati ed analisi All’aumentare del ΔK applicato diminuisce l’importanza degli elementi di grafite, mentre aumenta l’importanza delle caratteristiche della matrice metallica: le due ghise austemperate, distinte esclusivamente dal grado di degenerazione degli sferoidi, mostrano da/dN [m/ciclo] una resistenza praticamente identica. 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 R = 0.1 ADIA ADIB -10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 100: Resistenza alla propagazione della cricca di fatica per le due ghise ADIA ed da/dN [m/ciclo] ADIB (R = 0,1) 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 R = 0.5 ADIA ADIB -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 101: Resistenza alla propagazione della cricca di fatica per le due ghise ADIA ed ADIB (R = 0,5). 140 Risultati ed analisi -6 10 -7 da/dN [m/ciclo] 10 -8 10 R = 0,75 ADIA ADIB -9 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 102: Resistenza alla propagazione della cricca di fatica per le due ghise ADIA ed ADIB (R = 0,75). a) b) Figura 103: Analisi al SEM della superficie di frattura di provini in ghisa austemperata sottoposti a fatica: a) ADIA rapporto di carico R=0,5 a ΔK=6 MPa m1/2: cricca secondaria; b) ADIB rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2: evidente debondin L’analisi al SEM delle superfici di frattura consente lo studio dell’influenza della degenerazione degli elementi grafite sui micromeccanismi di avanzamento. Nel caso della ghisa austemperata caratterizzata da una maggiore degenerazione degli elementi di grafite (ADIA, figura 103 a)), si può osservare per bassi valori del ΔK applicato la presenza di cricche secondarie che si innescano in corrispondenza degli elementi di grafite. Nel caso della ghisa ADIB, tale meccanismo non viene mai rilevato: la cricca propaga nella matrice 141 Risultati ed analisi ed in corrispondenza degli elementi di grafite si verifica un distacco con deformazione plastica (figura 103 b) e figura 104). Figura 104: Analisi al LOM del profilo di frattura di un provino di ghisa sferoidale austemperata (ADIB) sottoposto a fatica con rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2. 7.7 INFLUENZA DEL RAPPORTO DI CARICO SULLA PROPAGAZIONE DELLA CRICCA DI FATICA IN UNA GHISA SFEROIDALE FERRITOPERLITICA MEDIANTE SPERIMENTAZIONE E RETI NEURALI ARTIFICIALI. L’approccio fenomenologico alla propagazione della cricca di fatica mediante modelli del tipo “Paris” non consente di considerare l’influenza di tutte le variabili. Fra queste sicuramente il rapporto di carico R è una di quelle più considerate, e, nonostante negli ultimi decenni si sia cercato di identificare i principali meccanismi che dipendono da R (ad esempio l’effetto chiusura), tale parametro ancora è considerato come una variabile in molte applicazioni. Un metodo alternativo per considerare l’influenza di tutti i parametri è basato sull’utilizzazione di una rete neurale artificiale (RNA), ed in questo lavoro è stata investigata l’influenza del rapporto di carico sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica in una ghisa sferoidale ferrito-perlitica. Sono stati considerati otto differenti rapporti di carico (R = Kmin/Kmax, da 0,1 a 0,8) ed è stato sviluppato un modello basato sulle reti neurali artificiali. A seconda del problema da risolvere è possibile scegliere in modo opportuno la struttura della rete e il tipo di funzioni di attivazione. Il caso allo studio è un tipico problema di interpolazione dei dati; per tale classe di problemi un utile 142 Risultati ed analisi strumento è rappresentato dalle reti neurali radial basis. Una tipica funzione radial basis è la funzione gaussiana: ( φ ( r ) = exp − r 2 2σ 2 ) 0.16 0.14 0.12 0.1 0.08 0.06 0.04 0.02 0 -3 -2 -1 0 1 2 3 Figura 105: Funzione di trasferimento radial basis. Ora, sia dato un insieme di vettori di ℜ n , { yi } ,i = 1,K ,M , che rappresentino ad esempio le misure sperimentali di una grandezza fisica determinate in M differenti condizioni, rappresentate da M valori distinti di un parametro R (nel caso qui analizzato, il rapporto di carico). Le reti neurali radial basis permettono di approssimare la funzione F : R → ℜ n che lega il generico valore di R al corrispondente vettore di valori y : yk = F ( Rk ) La struttura della rete radial basis ha due strati di neuroni: il primo strato è caratterizzato da una matrice di pesi W 1 di dimensione ( M × S1) . L’ingresso dello strato è dato dal vettore R a M componenti che raccoglie gli M valori disponibili del parametro R; lo strato genera S1 uscite nel seguente modo: ⎛ 1 M ηh = exp ⎜ − 2 ∑ W 1( j,h ) − R j ⎜ 2σ j =1 ⎝ ( ) 2⎞ ⎟ , h = 1,K ,S1 ⎟ ⎠ Il secondo strato è caratterizzato da una matrice di pesi W 2 di dimensione ( S1 × n ) . Esso riceve in ingresso le S1 uscite dello strato radial basis e produce un’uscita costituita da un vettore a n componenti nel seguente modo: ⎡ η1 ⎤ $y = W 2 ⎢ M ⎥ ⎢ ⎥ ⎢⎣ηS1 ⎥⎦ 143 Risultati ed analisi L’addestramento della rete deve determinare le matrici dei pesi del primo e secondo strato, una volta stabilita la dimensione S1 dello strato radial basis. Questo viene ottenuto minimizzando la distanza tra l’uscita $y prodotta dalla rete e i valori sperimentali { yi } , che costituiscono il training set. La procedura di implementazione della rete neurale radial basis (capitolo III) usata per il fenomeno allo studio è basata sul Toolbox Neural Networks di Matlab. Le principali istruzioni utilizzate sono riportate di seguito: R=[0.1 0.2 0.3 0.4 0.5 0.7 0.8]; Y=[y1 y2 y3 y4 y5 y7 y8]; net = newgrnn(R,Y,0.08); Rp=0.6 (valore utilizzato per la simulazione e non utilizzato nell’addestramento) ; v = sim(net,Rp); Le prime due istruzioni servono a creare il vettore dei valori del parametro R e la matrice Y dei dati corrispondenti da utilizzare per il training; come si vede è stato escluso il valore R = 0.6 ed il corrispondente vettore di dati y6 ; questo infatti sarà poi utilizzato per valutare il potere predittivo della rete. La funzione Matlab newgrnn è quella che genera la struttura della rete neurale radial basis e l’addestra usando il training set scelto; il valore 0.08 definisce la varianza delle funzioni radial basis. Successivamente, l’istruzione sim da/dN [m/ciclo] determina l’uscita corrispondente al valore R p del parametro. 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 R = 0.1 R = 0.2 R = 0.3 R = 0.4 R = 0.5 R = 0.6 R = 0.7 R = 0.8 -10 3 10 1/2 ΔK [MPa m ] 50 Figura 106: Influenza del rapporto di carico sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica nella ghisa sferoidale ferrito-perlitica EN GS 500-7. 144 Risultati ed analisi L’influenza del rapporto di carico sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica in una ghisa sferoidale ferrito-perlitica è riportata nel diagramma di figura 106. Si può osservare una evidente influenza del rapporto di carico, con un andamento nel diagramma da/dN-ΔK sostanzialmente convergente. L’analisi al microscopio elettronico a scansione delle superfici di frattura evidenzia la presenza del distacco delle particelle sferoidali di grafite dalla matrice metallica (debonding, figura 107) e la presenza, talora piuttosto estesa, di clivaggio (figura 108) in prossimità degli elementi di grafite (guscio ferritico). Figura 107: Analisi al SEM: debonding (R = Figura 108:Analisi al SEM: debonding (R = 0,1; DK = 11 MPa√m). Figura 109: Sezione 0,1; DK= 16 MPa√m). trasversale della Figura 110: Sezione trasversale superficie di superficie di frattura (R = 0,1; ΔK=11 frattura (R = 0,1; ΔK = 16 MPa√m) MPa√m). 145 Risultati ed analisi L’analisi delle sezioni trasversali evidenzia la presenza del debonding degli elementi di grafite (figura 109) che, talvolta, comporta la disgregazione dell’elemento di grafite (figura 110). L’applicazione della procedura numerica proposta basata sulla rete neurale radial basis consente di ottenere una elevata capacità predittiva. La simulazione applicata al valore di R = 0,6 (non considerato nell’addestramento della rete) consente di ottenere dei risultati da/dN [m/ciclo] praticamente coincidenti con quelli ottenuti sperimentalmente (figura 111). 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 R = 0,6 Risultati sperimentali Risultati simulazione -10 3 10 1/2 ΔK [MPa m ] 50 da/dN [m/ciclo] Figura 111: Confronto fra i risultati sperimentali ed i risultati della simulazione (R = 0,6). 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 R = 0,4 (sperimentale) R = 0,45 (numerico) R = 0,5 (sperimentale) -10 3 10 1/2 ΔK [MPa m ] 50 Figura 112: Risultati sperimentali (R = 0,4 ed R = 0,5) e risultati della simulazione (R = 0,45). 146 Risultati ed analisi Nel caso di un valore di R non investigato sperimentalmente (R = 0,45) ma compreso fra due valori di R considerati nell’attività sperimentale (rispettivamente R = 0,4 e 0,5), si ottiene una simulazione compatibile con i risultati sperimentali riportati in figura 112. 7.8 RICOSTRUZIONE TRIDIMENSIONALE DEI PROFILI DI FRATTURA. Per ricostruire le immagini stereoscopiche delle superfici di frattura delle ghise sferoidali sino ad ora analizzate al SEM è stato utilizzato un programma chiamato Alicona MeX . Lo scopo di tale programma è quello di ricreare un’immagine tridimensionale partendo da un’immagine in due dimensioni, cioè trasforma un dispositivo di misurazione in una rappresentazione in 3D (Figura 113). In corrispondenza della medesima posizione del provino analizzato, si ottiene una immagine stereoscopica inclinando eucentricamente il campione intorno al proprio asse verticale e catturando due diversi immagini con un angolo di inclinazione pari a 5°. I profili delle superfici di frattura sono stati quantitativamente investigati come riportato in figura 114. Figura 113: Ricostruzione tridimensionale della superficie di frattura per una ghisa ferritio-perlitica 147 Risultati ed analisi Figura 114: Analisi quantitativa del profilo della superficie di frattura Sono stati investigati in questo lavoro di tesi 50 cavità o vuoti corrispondenti all’impronta lasciata dagli sferoidi di grafite per tutte le ghise sferoidali sino ad ora considerate. Ogni vuoto è stato geometricamente approssimato ad una sfera con i seguenti parametri geometrici: o profondità del vuoto “K” [μm]; o diametro del vuoto “L” [μm]; o approssimazione al diametro della sfera “D” [μm]. Le relazione tra questi parametri geometrici dipendono dal processo di “debonding”. Se il processo di debonding degli elementi di grafite è completamente fragile si avrà K≤ D D D e L ≤ . Un processo duttile di debonding implica invece K f e 2 2 2 Lf D differenziandosi comunque in funzione dell’entità del meccanismo di 2 danneggiamento. 148 da/dN [m/cycle] Risultati ed analisi 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 R = 0.1 100% F 50% F + 50% P 100% P ADI R = 0.5 100% F 50% F + 50% P 100% P ADI R = 0.75 100% F 50% F + 50% P 100% P ADI 5 10 ΔK [MPa m1/2] Figura 115: Influenza della microstruttura e del rapporto di carico sul meccanismo di propagazione delle cricche di fatica. Tuttavia i risultati relativi ai meccanismi di danneggiamento delle ghise sferoidali sino ad ora investigate devono essere comunque correlati per una loro più approfondita comprensione ai risultati delle prove di propagazione delle cricche di fatica riportate nel diagramma di figura 115. Si può osservare una evidente influenza dell’effetto di chiusura per bassi valori del rapporto di carico, mentre al di sopra di R = 0,5 non si notano differenze evidenti nelle curve di propagazione negli stadi I (soglia) e II (propagazione lineare) mentre permane la differenza nello stadio III (rottura di schianto). Il confronto con le curve di propagazione caratteristiche delle ghise austemperate, mostra che la resistenza alla propagazione della cricca di fatica risulta comparabile con quella della ghisa sferoidale ferrito-perlitica (50% di ferrite e 50% di perlite). Non si evidenzia né un incremento del valore di soglia (ΔK th), né una sistematica diminuzione della pendenza dello stadio lineare per tutti i rapporti di carico, e neppure un incremento del valore di K corrispondente alla rottura di schianto [45]. Il debonding degli elementi di grafite come evidenziato già dall’analisi al SEM per le diverse microstrutture è caratterizzato da una morfologia che dipende dalla microstruttura e dalla relazione tra i parametri morfologici dei vuoti (figura 116 e figura 117). 149 Diametro della sede dello sferoide "L" [μm] Risultati ed analisi 100 80 60 40 100% F 50% F + 50% P 5% F + 95% P ADI 20 0 0 20 40 60 80 100 Diametro della sfera di approssimazione "D" [μm] Figura 116: Approssimazione diametro della sfera – diametro dei vuoti per le quattro Profondità della sede dello sferoide "K" [μm] ghise sferoidali investigate. 50 100% F 50% F + 50% P 5% F + 95% P ADI 40 30 20 10 0 0 20 40 60 80 100 Diametro della sfera di approssimazione "D" [μm] Figura 117: Approssimazione diametro della sfera – profondità dei vuoti per le quattro ghise sferoidali investigate. Quasi tutte le ghise investigate sono caratterizzate da vuoti aventi “ L > D” e quindi una componente duttile nel meccanismo di debonding è sempre presente. La ghisa sferoidale a matrice perlitica è caratterizzata da più bassi valori della differenza “L-D” (un debonding completamente fragile è caratterizzato da “L-D”= 0), e una ghisa 150 Risultati ed analisi sferoidale a matrice completamente ferritica è caratterizzata da “L-D” più elevati (maggiore deformazione duttile durante il debonding). La ghisa sferoidale ferrito-perlitica mostra valori “L-D” intermedi. Ciò è probabilmente una conseguenza del differente comportamento meccanico del guscio di ferrite rispetto alla matrice perlitica, che induce uno stato di compressione sul guscio ferritico corrispondente a Kmin , tale cioè da ottenere in fase di chiusura dimensioni della zona plasticizzata all’apice della cricca superiori a quelle degli sferoidi. La ghisa sferoidale austemperata è caratterizzata da una distribuzione di risultati sperimentali “L-D” simile alla ghisa sferoidale ferrito-perlitica, dovuto presumibilmente alla presenza di ferrite residua intorno agli sferoidi di grafite. Anche l’analisi della profondità dei vuoti come un’approssimazione del diametro di una sfera “D” consente di ottenere un’analoga classificazione dell’importanza della deformazione duttile nel meccanismo di “debonding”, ottenendo per le ghise a matrice completamente perlitica “ K ≤ 7.9 RISULTATI OSSERVAZIONE DELLE AL D ” (comportamento fragile degli sferoidi nel debonding). 2 PROVE SEM: DI GHISA TRAZIONE EFFETTUATE SFEROIDALE A CON MATRICE COMPLETAMENTE FERRITICA. Il nomogramma assunto come riferimento per effettuare le prove di trazione con osservazione della superficie al SEM su microprovini in ghisa sferoidale a matrice completamente ferritica è riportato in figura 118. Per poter analizzare il fenomeno del distacco degli sferoidi di grafite è stato utilizzato un procedimento per step successivi partendo, in campo elastico, dai valori di sollecitazione riportati su nomogramma per risalire alla deformazione (controllo di tensione) e quindi forza di trazione da imprimere, corrispondente evidentemente (paragrafo 6.4) al numero di giri da imprimere alla vite a brucola. In campo plastico al contrario si è partito dai valori di deformazione per risalire, utilizzando il nomogramma, ai valori di sollecitazione ed al numero di giri da compiere (controllo di deformazione). In figura 119 si riportano le micrografie del comportamento alla trazione di un singolo sferoide di grafite ottenute al SEM per step successivi corrispondentemente ai valori di sollecitazione e deformazione imposti. 151 Risultati ed analisi 600 500 Stress [MPa] 400 300 200 100 0 0,00 0,05 0,10 0,15 4,50 4,25 4,00 3,75 3,50 3,25 3,00 2,75 2,50 2,25 2,00 1,75 1,50 1,25 1,00 0,75 0,50 0,25 0,00 0,20 Strain Figura 118: Nomogramma utilizzato per prove di trazione al SEM per una ghisa sferoidale a matrice ferritica. Figura 119: Analisi al SEM: comportamento a trazione per step successivi, tenendo conto del diagramma σ ing − ε ing , del singolo sferoide di grafite in una ghisa sferoidale a matrice completamente ferritica; analisi del comportamento in campo elastico (a)- b)), analisi del comportamento in campo plastico (f)-s)). 152 Risultati ed analisi Dall’osservazione della figura 119 c) si può notare come inizino ad essere presenti, al di sopra del limite elastico (normalmente alla direzione principale di trazione), sul bordo esterno dello sferoide di grafite, microcricche, che con l’aumentare della deformazione, sino cioè al raggiungimento del carico di rottura, danno origine a veri e propri fenomeni di “scollamento” dalla matrice ferritica (figura 120 e figura 121), tanto maggiori quanto sia la degenerazione degli sferoidi di grafite. In modo particolare un danneggiamento evidente degli sferoidi di grafite secondo una morfologia “a cipolla”, solo in corrispondenza di elevati valori di deformazione (figura 119 e) e figura 119 f)). a) b) Figura 120: Analisi al SEM della superficie di frattura: vista laterale- a) e b) evidente distacco degli sferoidi dalla matrice metallica. a) b) Figura 121: Analisi al SEM della superficie dopo la rottura di un microprovino di ghisa sferoidale ferritica. 153 Risultati ed analisi 7.10 RISULTATI OSSERVAZIONE DELLE AL PROVE SEM: DI GHISA TRAZIONE EFFETTUATE SFEROIDALE A CON MATRICE COMPLETAMENTE PERLITICA. Il nomogramma assunto come riferimento per effettuare le prove di trazione al SEM su microprovini in ghisa sferoidale a matrice completamente perlitica è riportato in figura 122. Anche per questo tipo di ghisa è stata effettuata la prova di trazione al SEM su microprovini di trazione per step successivi, inizialmente in campo elastico in controllo di tensione, successivamente in campo plastico in controllo di deformazione come indicato in alcuni step di figura 123. 900 2.50 800 2.25 700 2.00 1.75 Stress [MPa] 600 1.50 500 1.25 400 1.00 300 0.75 200 0.50 100 0.25 0 0.00 0.00 0.01 0.02 0.03 0.04 0.05 0.06 0.07 0.08 0.09 0.10 0.11 0.12 Strain Figura 122: Nomogramma utilizzato per prove di trazione al SEM per una ghisa sferoidale a matrice perlitica. Anche dall’analisi della figura 123 si osserva durante la prova di trazione, già in campo elastico e per bassi valori del carico applicati, la presenza di danneggiamento all’interno degli sferoidi di grafite [47-48]. Tuttavia alla rottura (figura 123 e)) risulta evidente una vera e propria frantumazione dello sferoide di grafite, peraltro evidente anche dall’analisi SEM della superficie di frattura dopo rottura (figura 124). 154 Risultati ed analisi Figura 123: Analisi al SEM: comportamento a trazione per step successivi, tenendo conto del diagramma σ ing − ε ing , del singolo sferoide di grafite in una ghisa sferoidale a matrice completamente perlitica; analisi del comportamento in campo elastico (a)- c)), analisi del comportamento in campo plastico (d)-f)). La figura 124 invece mostra che in corrispondenza della frattura (vista laterale) non risulta presente in modo evidente il fenomeno di debonding tra lo sferoide di grafite e la matrice perlitica. a) b) Figura 124: Analisi al SEM della superficie dopo la rottura di un microprovino di ghisa sferoidale perlitica. a)Evidente frantumazione di alcuni sferoidi di grafite; b) superficie di frattura dopo rottura. 155 Risultati ed analisi a) b) Figura 125: Analisi al SEM della superficie vista laterale dopo la rottura di un microprovino di ghisa sferoidale perlitica. a) cricca generatasi all’interno della matrice perlitica; b) assenza di debonding. 7.11 RISULTATI DELLE PROVE DI TRAZIONE EFFETTUATE CON OSSERVAZIONE AL SEM: GHISA SFEROIDALE A MATRICE FERRITOPERLITICA. Il nomogramma assunto come riferimento per effettuare le prove di trazione al SEM su microprovini in ghisa sferoidale a matrice completamente perlitica è riportato in figura 126. Anche per questo tipo di ghisa è stata effettuata la prova di trazione al SEM su microprovini di trazione per step successivi, inizialmente in campo elastico in controllo di tensione, successivamente in campo plastico in controllo di deformazione come indicato in alcuni step di figura 127. Durante la prova di trazione gli sferoidi di grafite di Una ghisa ferrito-perlitica è caratterizzata da una peculiare distribuzione delle fasi, presentando gusci ferritici intorno agli sferoidi di grafite immersi in una matrice perlitica. Per tali famiglie di ghise risulta assente in campo elastico un evidente danneggiamento (microcricche, vuoti, figura 128 a)). In campo plastico si verifica un innesco della cricca essenzialmente in corrispondenza degli sferoidi di grafite ed una deformazione plastica della matrice metallica (gusci ferritici, figura 128b). In corrispondenza di valori crescenti di deformazione si ha propagazione della cricca ed ulteriore nuovo innesco all’interno dello sferoide di grafite con deformazione plastica dei gusci ferritici. Non si osserva quindi un evidente debonding all’interfaccia matrice-sferoide. 156 Risultati ed analisi 700 2.50 2.25 600 2.00 Stress [MPa] 500 1.75 1.50 400 1.25 300 1.00 0.75 200 0.50 100 0.25 0 0.00 0.00 0.01 0.02 0.03 0.04 0.05 0.06 0.07 0.08 0.09 0.10 0.11 0.12 Strain Figura 126: Nomogramma utilizzato per prove di trazione al SEM per una ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica. Figura 127: Analisi al SEM: comportamento a trazione per step successivi, tenendo conto del diagramma σ ing − ε ing , del singolo sferoide di grafite in una ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica; analisi del comportamento in campo elastico (a)- b)), analisi del comportamento in campo plastico (c-d)). 157 Risultati ed analisi 7.12 RISULTATI OSSERVAZIONE DELLE AL PROVE SEM: DI TRAZIONE GHISA EFFETTUATE SFEROIDALE A CON MATRICE PREVALENTEMENTE FERRITICA. Il nomogramma assunto come riferimento per effettuare le prove di trazione al SEM su microprovini in ghisa sferoidale a matrice completamente perlitica è riportato in figura 130. Anche per questo tipo di ghisa è stata effettuata la prova di trazione al SEM su microprovini di trazione per step successivi, inizialmente in campo elastico in controllo di tensione, successivamente in campo plastico in controllo di deformazione come indicato in alcuni step di figura 131. 4.50 4.25 4.00 3.75 3.50 3.25 3.00 2.75 2.50 2.25 2.00 1.75 1.50 1.25 1.00 0.75 0.50 0.25 0.00 500 Stress [MPa] 400 300 200 100 0 0.00 0.05 0.10 0.15 0.20 0.25 Strain Figura 130: Nomogramma utilizzato per prove di trazione al SEM per una ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica ( 70% ferrite e 30% perlite). Tale ghisa sferoidale è caratterizzata da una differente evoluzione del danneggiamento che risulta peraltro assente in campo elastico. In campo plastico il danneggiamento si evolve sia nella matrice (sostanzialmente nella ferrite) con un evidente deformazione plastica, sia all’interfaccia matrice metallica – elemento di grafite, con un debonding che inizia sul guscio più esterno del nodulo e che propaga implicando un suo completo debonding. 158 Risultati ed analisi Figura 131: Analisi al SEM: comportamento a trazione per step successivi, tenendo conto del diagramma σ ing − ε ing , del singolo sferoide di grafite in una ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica (/0% ferrite 30% perlite); analisi del comportamento in campo elastico (a)b)), analisi del comportamento in campo plastico (c-d)). Ciò risulta anche evidente dall’analisi al SEM della superficie laterale di frattura il debonding degli sferoidi con rottura della matrice perlitica (figura 132 a),b) figura 133 a), b) e c),). a) b) Figura 133: Analisi al SEM della superficie dopo la rottura di un microprovino di ghisa sferoidale ferrito-perlitica (70% ferrite e 30% perlite):a) Evidente debonding; b) superficie di frattura dopo rottura. 159 Risultati ed analisi a) b) c) Figura 132: Analisi al SEM della superficie vista laterale dopo la rottura di un microprovino di ghisa sferoidale ferrito-perlitica (70% ferrite e 30% perlite) a) presenza di debonding; b) presenza di debonding e rottura della matrice perlitica; c) evidente debonding. 160 Confronti e commenti CAPITOLO VIII CONFRONTI E COMMENTI 8.1 CONFRONTO DEL COMPORTAMENTO A FATICA DELLE GHISE SFEROIDALI FERRITICHE, PERLITICHE E FERRITO-PERLITICHE. I risultati delle prove di propagazione della cricca di fatica effettuate sulle ghise sferoidali a matrice ferritica (100%F e 70%F + 30%P), perlitica (100%P) e ferrito-perlitica (50%F + 50%P) per tre differenti rapporti di carico (R=0,1, R=0,5 e R=0,75) sono rispettivamente rappresentati nelle figure 134, 135 e 136. Le curve di propagazione risultano decisamente influenzate dalla matrice metallica, in modo particolare in corrispondenza di elevati valori di R e del ΔK applicato. Infatti, per valori bassi del rapporto di carico (R=0,1), le curve di propagazione risultano praticamente sovrapposte sia in prossimità della zona di soglia, sia per valori di ΔK, più elevati, ovvero nella zona di Paris e nella zona di schianto (figura 134). Per valori del rapporto di carico più elevati, già per R=0,5, si può osservare che il valore della soglia risulta indipendente dalla matrice, mentre nella zona di Paris si osserva una pendenza della curva che cresce passando da una matrice ferrito-perlitica, ad una ferritica, ad una perlitica. Tale comportamento diviene più evidente al crescere del valore di R. In figura 136 si può osservare l’andamento per R = 0,75. La sostanziale indipendenza delle curve di propagazione dalla natura della matrice metallica per bassi valori del rapporto di carico e per bassi valori del ΔK applicato è dovuto, presumibilmente, alle dimensioni della zona plasticizzata all’apice della cricca che, per le condizioni di 161 Confronti e commenti sollecitazione sopra citate, risultano dello stesso ordine di grandezza degli sferoidi di grafite (aventi un diametro medio compreso fra 100 e 200 μm, [45]). Dato che gli sferoidi costituiscono una vera e propria soluzione di continuità della matrice metallica, si ottiene una redistribuzione delle sollecitazioni dipendente più dalla densità e dalle dimensioni medie degli sferoidi stessi, piuttosto che dall’effettivo comportamento meccanico della matrice metallica, sia essa ferritica, perlitica o ferrito-perlitica. -6 da/dN [m/ciclo] 10 -7 10 -8 10 100% F 70% F + 30% P 50% F + 50% P 100% P -9 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 134: Risultati delle prove di fatica per le quattro ghise (R=0,1). -6 10 -7 da/dN [m/ciclo] 10 -8 10 100% P 50% P + 10% F 30% P + 70% F 100% F -9 10 10 -10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 135: Risultati delle prove di fatica per le quattro ghise (R=0,5). 162 Confronti e commenti -6 da/dN [m/ciclo] 10 -7 10 -8 10 100% F 70% F + 30% P 50% F + 50% P 100% P -9 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 136: Risultati delle prove di fatica per le quattro ghise (R=0,75). Presumibilmente, per le suddette condizioni di applicazione del carico, il fattore di intensificazione degli sforzi K non è in grado di descrivere adeguatamente il reale andamento delle sollecitazioni all’apice della cricca. Invece, per elevati valori del rapporto di carico e di ΔK applicato, e, quindi, di Kmax applicato, aumentando la dimensione della zona plasticizzata, si ha che gli sferoidi, sebbene sempre presenti, risultino di minore importanza. Il fattore K è di nuovo in grado di descrivere compiutamente l’andamento delle sollecitazioni all’apice della cricca e le curve di propagazione risultano nuovamente dipendenti dalla matrice metallica (figura 137). -6 da/dN [m/cycle] 10 -7 10 -8 10 R = 0.1 100% F R = 0.5 R = 0.75 R = 0.1 100% P R = 0.5 R = 0.75 R = 0.5 50% F + 50% P R = 0.1 R = 0.75 -9 10 -10 10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 137: Confronto dei risultati ottenuti per ghise sferoidali a matrice completamente ferritica, perlitica e ferrito-perlitica per tutti i rapporti di carico considerati . 163 Confronti e commenti a) b) c) d) Figura 138: Analisi al SEM delle superfici di frattura per diversi rapporti di carico per tutte e quattro le ghise sferoidali. a) ghisa sferoidale a matrice completamente ferritica analizzata per rapporto di carico R=0,75 a ΔK=8 MPa m1/2: evidente debonding; b) ghisa sferoidale a matrice perlitica analizzata per rapporto di carico R=0,75 a ΔK=10 MPa m1/2 morfologia di frattura a delta di fiume; c) ghisa sferoidale a matrice prevalentemente ferritica (90% F+ 10%P) analizzata per rapporto di carico R=0,5 a ΔK=10 MPa m1/2: debonding e clivaggio della frazione di perlite. Dal confronto delle analisi al SEM delle superfici di frattura (figura 138) risulta chiaro che per tutte le ghise analizzate, si può evidenziare una sostanziale indipendenza della superficie di frattura dal rapporto di carico. La cricca di fatica tende a propagarsi all’interno della matrice metallica, senza evidenziare alcun percorso preferenziale. Il distacco degli sferoidi risulta essere più frequente e completo nel caso di matrice ferritica o ferrito-perlitica. In quest’ultimo caso il distacco dello sferoide avviene comunque con il guscio di ferrite che risulta spesso rotto per clivaggio. Nel caso della ghisa sferoidale ferrito-perlitica, la resistenza alla propagazione della cricca di fatica risulta migliorata grazie alla morfologia composita (sferoide, guscio ferritico, matrice perlitica) che, nel 164 Confronti e commenti corso della propagazione stessa permette un incremento dell’effetto di chiusura dovuto alla plasticizzazione dell’apice stesso. Col fine di evidenziare l’influenza del rapporto di carico sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica in una ghisa sferoidale ferrito-perlitica, sono state poi effettuate prove di propagazione in condizioni di ampiezza di carico costante, considerando otto differenti rapporti di carico (R = Kmin/Kmax, da 0,1 a 0,8) ed è stato sviluppato un modello basato sulle reti neurali artificiali (radial basis) in grado di simulare l’influenza del rapporto di carico. Dai risultati dell’attività sperimentale e numerica è possibile dedurre che: - il rapporto di carico ha una decisa influenza sulla propagazione della cricca di fatica; - fra i meccanismi di avanzamento, vanno evidenziati il debonding degli sferoidi di grafite ed il clivaggio dei grani di ferrite in prossimità degli elementi di grafite; in alcune occasioni gli elementi di grafite sono stati disgregati. - la procedura di simulazione basata sulla rete neurale radial basis è risultata in grado di simulare in maniera ampiamente soddisfacente l’influenza del rapporto di carico sulle curve di avanzamento della cricca di fatica nel diagramma da/dN-ΔK (figura da/dN [m/ciclo] 139). 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 R = 0,6 Risultati sperimentali Risultati simulazione -10 3 10 1/2 ΔK [MPa m ] 50 Figura 139: Confronto fra i risultati sperimentali ed i risultati della simulazione (R = 0,6). 165 Confronti e commenti 8.2 CONFRONTO DEL COMPORTAMENTO A FATICA DELLE GHISE AUSTEMPRATE RISPETTO ALLE GHISE SFEROIDALI FERRITICHE, PERLITICHE E FERRITO-PERLITICHE. Dai risultati di fatica ottenuti nel VII, paragrafo 7.6 si è potuto evincere che relativamente alle ghise austemperate denominate ADIA ed ADIB (caratterizzate da una differente nodularità e cioè una maggiore degenerazione degli sferoidi di grafite per la ghisa ADIA) che per tutti i valori di R considerati, le due ghise hanno un comportamento praticamente identico negli stadi II e III della propagazione della cricca di fatica (rispettivamente propagazione lineare, ove è valida la relazione di Paris, e la rottura di schianto), mentre vi sono delle differenze nello stadio I (soglia, ΔKth). La ghisa ADIA, ovvero quella caratterizzata da una minore solidità e da una maggiore eccentricità (paragrafo 7.1.2) degli elementi di grafite, è caratterizzata da valori inferiori del ΔK th rispetto alla ghisa ADIB per tutti e tre i rapporti di carico investigati. da/dN [m/ciclo] 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 100% P 50% P + 50% F 100% F ADIA ADIB -10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 140: Confronto del comportamento a fatica delle ghise ADIA ed ADIB e delle ghise sferoidali GSA GSB E GSC per rapporto di carico R=0,1. Dal confronto poi, del comportamento a fatica delle ghise austemprate investigate con le ghise sferoidali a matrice ferritica, perlitica e ferrito-perlitica (figure 140-141-142) si può osservare un’evidente influenza dell’effetto di chiusura per bassi valori del rapporto di carico, mentre al di sopra di R = 0,5 non si notano differenze evidenti nelle curve di propagazione negli stadi I (soglia) e II (propagazione lineare) mentre permane la differenza 166 Confronti e commenti nello stadio III (rottura di schianto). Il confronto con le curve di propagazione caratteristiche delle ghise austemperate mostra che la resistenza alla propagazione della cricca di fatica risulta comparabile con quella della ghisa sferoidale ferrito-perlitica (50% di ferrite e 50% di perlite). Non si evidenzia né un incremento del valore di soglia (ΔKth), né una sistematica diminuzione della pendenza dello stadio lineare per tutti i rapporti di carico (figura 142), e neppure un incremento del valore di ΔK corrispondente alla rottura da/dN [m/ciclo] di schianto. 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 100% P 50% P + 50% F 100% F ADIA ADIB -10 10 3 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 141: Confronto del comportamento a fatica delle ghise ADIA ed ADIB e delle da/dN [m/ciclo] ghise sferoidali GSA GSB E GSC per rapporto di carico R=0,5. 10 -6 10 -7 10 -8 10 -9 10 100% P 50% P + 50% F 100% F ADIA ADIB -10 3 10 ΔK [MPa m1/2] 50 Figura 142: Confronto del comportamento a fatica delle ghise ADIA ed ADIB e delle ghise sferoidali GSA GSB E GSC per rapporto di carico R=0,75. 167 Confronti e commenti Per la caratterizzazione della matrice metallica (identificazione e quantificazione della matrice) e per l’identificazione e la caratterizzazione morfologica dei noduli di grafite (valutazione dello stato di degenerazione) delle ghise sferoidali investigate è stata utilizzata una procedura di segmentazione mediante contorni attivi basato su un metodo variazionale. In quest’ultimo caso è stata analizzata l’influenza di tale degenerazione sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica e sui micromeccanismi di avanzamento. I risultati ottenuti hanno consentito di dedurre che: - la procedura di analisi di immagine proposta consente una caratterizzazione quantitativa ed oggettiva sia delle frazioni volumetriche delle fasi e dei costituenti presenti, sia del livello di degenerazione degli elementi di grafite, evitando la necessità di un particolare addestramento dell’operatore; - la matrice metallica ha una particolare influenza sulla resistenza alla propagazione della cricca di fatica per elevati valori di R e/o di ΔK, mentre il grado di degenerazione degli elementi di grafite influenza il comportamento a fatica solo per bassi valori di ΔK, qualunque sia il valore di R considerato; - la presenza di elementi di grafite degenerati implica l’innesco di cricche secondarie che propagano nella matrice metallica. 8.3 CONFRONTO DEI MECCANISMI DI DANNEGGIAMENTO NELLE GHISE SFEROIDALI INVESTIGATE. In questo lavoro di tesi sono state analizzate le superfici di frattura delle ghise sferoidali investigate ottenute dai provini CT sottoposti a fatica per verificare i meccanismi di danneggiamento. Le analisi SEM delle superfici di frattura hanno permesso di osservare i meccanismi di chiusura delle cricche di fatica. Le ghise sferoidali monofasiche, caratterizzate cioè da una matrice prevalentemente ferritica presentano in modo evidente il meccanismo di debonding; le ghise sferoidali bifasiche sono caratterizzate da una plasticizzazione dell’apice della cricca indotta dal differente comportamento meccanico della ferrite-perlite o della ferrite-bainite (nelle ghise austemperate) e dalla peculiare distribuzione delle fasi (guscio ferritico intorno agli elementi di grafite, nelle ghise ferritoperlitiche). 168 Confronti e commenti Figure 143: Analisi al SEM della superficie di frattura (R = 0.5, ΔK = 10 MPa√m). Da sinistra a destra: ghisa sferoidale a matrice ferritica, ferrito-perlitica, perlitica ed austemperata. La cricca avanza da sinistra a destra. Tali considerazioni sono state validate dalla procedura sperimentale dell’analisi tridimensionale delle superfici di frattura. L’analisi quantitativa del profilo di frattura (figura 137) ha confermato che il processo di debonding è caratterizzato da valori più elevati della differenza “L-D” (rispettivamente diametro del vuoto “L” [μm] ed approssimazione al diametro della sfera “D” [μm]) per una ghisa sferoidale ferritica, sebbene tale differenza sia sempre maggiore di zero per tutte le ghise investigate. Figura 144: Analisi quantitativa del profilo della superficie di frattura. 169 Confronti e commenti Il medesimo meccanismo di danneggiamento nelle ghise sferoidali a matrice ferritica, perlitica e ferrito-perlitica è stato confrontato in condizioni di plain stress attraverso l’osservazione al SEM di prove di trazione effettuate su microprovini di trazione di ghisa sferoidale ferritica, perlitica e ferrito-perlitica. Anche in condizioni di plain stress le superfici di frattura osservate al SEM (figura 145) dei microprovini di trazione di tutte e tre le famiglie di ghise hanno confermato che il meccanismo di debonding è presente in modo evidente nella ghisa sferoidale a matrice ferritica e ferrito-perlitica, mentre nella ghisa sferoidale a matrice perlitica si osserva una vera e propria frantumazione dello sferoide di grafite e rottura per clivaggio delle matrice perlitica. a) b) c) Figura 145: Analisi al SEM delle superfici di rottura dei microprovini dopo prova di trazione: a) ghisa sferoidale a matrice ferritica: evidente debonding; b) ghisa sferoidale a matrice ferrito-perlitica: evidente debonding; c) ghisa sferoidale a matrice perlitica: evidente frantumazione di alcuni sferoidi di grafite nella matrice perlitica. 170 Confronti e commenti In particolare per verificare che l’osservazione di quest’ultimo fenomeno nella ghisa sferoidale perlitica non fosse stato in qualche modo indotto dai tradizionali metodi di preparazione metallografica (lucidatura manuale mediante lucidatrice metallografia e/o taglio mediante troncatrice metallografia) per l’osservazione al SEM dei microprovini sottoposti a trazione, è stata realizzata in laboratorio LaMEI una prova di rottura non standardizzata. Tradizionali provini uniassiali a sezione cilindrica con teste di afferraggio raccordate [48] in ghisa sferoidale perlitica sottoposti e non a prove di trazione lenta (8% deformazione) sono stati intagliati manualmente nel tratto utile sino ad un terzo della sezione e posti in una cella frigorifera a -40°C per 48 ore e successivamente si è provocata loro una rottura fragile con un colpo di martello. In figura 146 ed in figura 147 sono riportate le superfici di rottura fragile analizzate al SEM . In figura 146 si riportano le superfici di frattura di provini cilindrici di ghisa sferoidale perlitica sottoposti a rottura fragile (-40°C). In figura 146a) si osserva che le superfici interne lasciate libere dagli elementi di grafite presentano evidenti zone di microduttilità (generazione di “microdimples” [44]) ed in figura 146b) la presenza di sferoidi perfettamente integri. a) b) Figura 146: Analisi al SEM delle superfici frattura di provini cilindrici di ghisa sferoidale perlitica sottoposti a rottura fragile (-40°C). a) cavità lasciate dagli sferoidi di grafite (zone di microdimples); b) sferoidi di grafite integri 171 Confronti e commenti a) b) Figura 147: Analisi al SEM delle superfici frattura di provini cilindrici di ghisa sferoidale perlitica sottoposti a prove di trazione lenta e a rottura fragile (-40°C).a) frantumazione degli sferoidi di graf In figura 147 si riportano le superfici di frattura di provini cilindrici di ghisa sferoidale perlitica sottoposti a prove di trazione lenta e a rottura fragile (-40°C). È possibile osservare in figura 147a) una evidente frantumazione degli sferoidi di grafite provocata presumibilmente da minore comportamento duttile nella prova di trazione della matrice perlitica (figura 147b)). 172 Conclusioni CONCLUSIONI Questo lavoro di tesi nasce dalla esigenza di analizzare l’influenza della degenerazione degli sferoidi di grafite e della microstruttura sui micromeccanismi di danneggiamento nel processo di propagazione di cricche di fatica nelle ghise sferoidali. Tali leghe ferrose sono caratterizzate dalla presenza di elementi sferoidali di grafite che, seppur danneggiando la matrice metallica, grazie alla loro forma hanno una minore influenza sulla resistenza meccanica rispetto ad elementi lamellari. Allo scopo di poter analizzare sia l’influenza della matrice metallica, sia l’influenza degli sferoidi, in questa tesi sono stati considerati i risultati di propagazione di cricche di fatica in: - quattro differenti microstrutture ferrito-perlitiche (GSA 100% ferrite, GSB 100% perlite, GSC 50% perlite e 50% ferrite, GSD 70% ferrite e 30% perlite); - due ghise austemperate, denominate ADIA ed ADIB, caratterizzate rispettivamente da una maggiore e minore degenerazione degli noduli di grafite. L’attività sperimentale ha comportato una estesa analisi quantitativa attraverso l’utilizzo di reti neurali artificiali e sofisticate tecniche di segmentazione (mediante contorni attivi) sia per l’individuazione automatica degli elementi metallografici di interesse sia per la determinazione automatica della distribuzione della percentuale di ferrite e perlite nelle ghise sferoidali ferrito-perlitiche. Le prove di fatica per le sei ghise sferoidali investigate sono state condotte in aria secondo la normativa ASTM considerando dapprima tre rapporti di carico (R=0,1; 0,5; 0,75) e successivamente per una ghisa ferrito-perlitica per rapporti di carico R da 0,1 a 0,8. Per ciascun provino, dopo la rottura a fatica, è stata effettuata una estesa osservazione della superficie di frattura al microscopio elettronico a scansione (SEM), una analisi del profilo di avanzamento della cricca al microscopio ottico (LOM), una analisi dei profili di frattura con elaborazione tridimensionale per la determinazione dei meccanismi di danneggiamento. Questi ultimi meccanismi sono stati successivamente posti a confronto in condizioni di plain stress osservando prove di trazione al SEM di microprovini di ghisa sferoidale ferritica, ferrito-perlitica e perlitica. 173 Conclusioni Le curve di propagazione hanno mostrato decisamente una influenza dalla matrice metallica, in modo particolare in corrispondenza di elevati valori di R e del ΔK applicato. Infatti, per valori bassi del rapporto di carico (R=0,1), le curve di propagazione risultano praticamente sovrapposte sia in prossimità della zona di soglia, sia per valori di ΔK, più elevati, ovvero nella zona di Paris e nella zona di schianto. Per valori del rapporto di carico più elevati, si può osservare che il valore della soglia risulta indipendente dalla matrice, mentre nella zona di Paris si osserva una pendenza della curva che cresce passando da una matrice ferrito-perlitica, manifestando quindi un miglior comportamento alla propagazione delle cricca di fatica, ad una ferritica, ad una perlitica. Tale comportamento diviene più evidente al crescere del valore di R. Si può osservare che la ghisa sferoidale ferritico-perlitica presenta una resistenza alla propagazione delle cricche di fatica migliorata rispetto alla ghisa sferoidale ferritica e perlitica grazie alla morfologia composita (sferoide, guscio ferritico, matrice perlitica) che, nel corso della propagazione stessa permette un incremento dell’effetto di chiusura dovuto alla plasticizzazione dell’apice stesso. Per i vari valori di R investigati, in corrispondenza dei valori più elevati di ΔK, è visibile un certo distacco dei noduli di grafite rispetto alla matrice (“debonding”), simile (seppur meno evidente) a quello evidenziato in ghise sferoidali a matrice prevalentemente ferritica, 70% ferrite e 30% perlite, (peraltro completamente assente nel caso delle ghise sferoidali a matrice completamente perlitica). Il confronto, poi con le curve di propagazione caratteristiche delle ghise austemperate hanno mostrato che la resistenza alla propagazione della cricca di fatica risulta comparabile con quella della ghisa sferoidale ferrito-perlitica (50% di ferrite e 50% di perlite) e tale resistenza è tanto migliorata quanto minore è la degenerazione degli sferoidi di grafite (ADIB) e cioè, la presenza di elementi di grafite degenerati implica l’innesco di cricche secondarie che propagano nella matrice metallica. La validazione di tali meccanismi di danneggiamento è stata ottenuta mediante elaborazione tridimensionale dei profili di frattura e dal confronto delle superfici di rottura di microprovini di trazione osservati al SEM. In modo particolare l’osservazione al SEM di tale superfici hanno evidenziato l’assenza del debonding, ma una vera e propria frantumazione degli sferoidi di grafite nella ghisa sferoidale perlitica, provocata presumibilmente da una minore duttilità della matrice metallica. Ovviamente questo lavoro di tesi non conclude in modo esaustivo la caratterizzazione microstrutturale ed il comportamento meccanico delle ghise sferoidali. 174 Conclusioni I risultati ottenuti in questo lavoro di tesi aprono nuove prospettive per ulteriori approfondimenti. Anzitutto l’analisi quantitativa mediante reti neurali artificiali potrebbe essere applicata anche per la determinazione automatica di tutte le microstrutture caratterizzanti le ghise sferoidali. In tal modo anche le aziende metallurgiche potrebbero usufruire di un mezzo veloce, non soggettivo e legato alla sensibilità dell’operatore di immagini, per il riconoscimento in controllo di processo delle matrici metalliche dei getti prodotti. Inoltre si può pensare di implementare l’analisi della morfologia di frattura delle ghise sferoidali ottenute da prove di fatica estendendo le prove di trazione con microprovini anche alle ghise austemperate. 175 Bibliografia BIBLIOGRAFIA [1] C. LABRECQUE, M. GAGNE, “Ductile iron review: fifty years of continuous development”, Canadian Metallurgical Quarterly, 37, 1998,343-378; [2] NORMATIVA UNI EN ISO 945 “Designazione della microstruttua della ghisa”, Luglio, 1994; [3] J.F. WALLACE, C. VISHNEVSKYC “ The effect of heat treatment on impact proprieties of ductile iron, gray iron News, July, 1962. [4] F. KEMING, M. BAIHE, Y. ZONGSEN “Cerium distribution in spheroidal graphite of cast iron” Journal of Rare Earths, 10, 3, 1992, 208-211. 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