BERLINO : in viaggio con la letteratura parte seconda L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Marco Polo a Kublai Kan, Italo Calvino, Le città invisibili, Mondadori A cura di Patrizia Fazzini Ute Lemper canta Kurt Weill, September song No. Niente più senso di colpa. La stanchezza nelle aule con il passare delle ore mi faceva anzi al contrario diventare riottoso o arrabbiato. Era in genere meno l'aria viziata e lo stare stipati degli studenti a centinaia, quanto piuttosto la non partecipazione degli insegnanti alla materia che pure avrebbe dovuto essere la loro. Mai più ho visto gente così inerte rispetto al proprio campo come quei professori e docenti dell'università; chiunque, dico, qual-siasi impiegato di banca nello smazzare le banconote, neppure sue, tutti gli asfaltatori di strade negli spazi di calura tra il sole in alto e il ribollire del catrame in basso avevano un'aria più partecipe. Dignitari che parevano imbottiti di segatura, le cui voci mai una volta erano indotte, da quello che commentavano, a una vibrazione di stupore (del buon maestro stesso sul proprio oggetto), di entusiasmo, di simpatia, di autointerrogazione, di venerazione, di collera, di indignazione, di propria inadeguatezza, ma invece si limitavano a biascicare, smozzicare, scandire - certo non nel tono aedico di un Omero, ma in quello di chi anticipa l'esame- al massimo qua e là con una nota spiritosa o una allusione maliziosa per iniziati, mentre fuori davanti alle finestre si faceva verde e blu e poi già buio: finché la stanchezza dell'ascoltatore si ribaltava in irritazione, l'irritazione in malevolenza. Di nuovo, come nell'infanzia, il «Fuori! Via da tutti voi qui!». Ma per andare dove? A casa, come allora? Ma là, nella stanza in affitto, adesso, al tempo degli studi, c'era da temere una stanchezza diversa, nuova, sconosciuta nella casa dei genitori: la stanchezza in una stanza, ai margini della città, solo; la «stanchezza solitaria». Peter Handke, Saggio sulla stanchezza,Garzanti, 1991 Neue Galerie Peter Handke (Griffen, Carinzia, 6 dicembre 1942) è un romanziere e drammaturgo d'avanguardia austriaco. Le sue opere in lingua tedesca sono note a livello mondiale. Inizialmente si è mosso sulla linea narrativo-linguistica influenzata dal nouveau roman. Una ricerca sulla funzione del linguaggio è alla base anche dei suoi primi lavori teatrali. Nella produzione successiva ha apparentemente rivalutato i classici, ricollocandoli nel solco della tradizione. Del 1975 è il racconto-sceneggiatura Falso movimento scritto per il film omonimo di Win Wenders e ripreso dal Wilhelm Meister di Goethe. Un nuovo mutamento di prospettiva si osserva con Lento ritorno a casa (1979) in cui lo scrittore si propone di "narrare del mondo buono celato e sempre celantesi", intento presente anche nelle opere successive. Forte l'elemento provocatorio anche nella saggistica, esempio recente è Giustizia per la Serbia del 1996. KEMAL KAYANKAYA INVESTIGATORE PRIVATO Ero detective da tre anni.Turco lo ero dalla nascita. Mio padre Tarik Kayankaya e mia madre Ulkii Kayankaya erano entrambi di Ankara. Mia madre morì nel 1957 mettendomi al mondo, all'età di ventotto anni. Mio padre, di mestiere fabbro, decise quindi un anno dopo di emigrare in Germania. La guerra e la dittatura avevano sterminato la sua famiglia; ai parenti di mia madre non piaceva, per motivi che mi sono tuttora ignoti, così decise di portarmi con sé, perché non sapeva a chi lasciarmi. Andò a Francoforte dove lavorò per tre anni alla nettezza urbana, finché non fu investito da un furgone postale. Io finii in un istituto, ma ebbi fortuna, perché dopo qualche settimana venni adottato dai signori Holzheim. Mi fu concessa la cittadinanza tedesca. La coppia aveva un altro figlio adottivo, il mio cosiddetto fratello Fritz. Fritz aveva all'epoca cinque anni, quindi un anno più di me. Max Holzheim insegnava matematica ed educazione fisica in una scuola elementare, Anneliese Holzheim si occupava tre giorni alla settimana di un asilo infantile. Avevano adottato dei bambini per convinzione. Crebbi dunque in un ambiente genuinamente tedesco e soltanto a una certa età cominciai a indagare sui miei veri genitori. A diciassette anni andai in Turchia, ma non riuscii a scoprire nulla di più sulla mia famiglia di quanto non sapessi già dai documenti dell'orfanotrofio. Jakob Arjouni, Happy birthday, turco!, Marcos y Marcos Kreuzberg, quartiere turco. Casa popolare di Aldo Rossi Radiodervish, Amara terra mia, Taci Jacob Arjouni nasce l’8 ottobre 1964 a Francoforte sul Meno. Nel 1983 consegue la Maturità nella zona dell’Odenwald ; ha vissuto due anni a Montpellier (Francia meridionale) e ha lavorato anche come cameriere. Nel 1986 frequenta la Scuola d’Arte Drammatica di Berlino e un anno dopo vince il Premio del BadenWürttemberg per gli autori del teatro per ragazzi in lingua tedesca con l’opera Nazim schieb ab. Nel 1991 viene realizzata la trasposizione cinematografica di Happy Birthday, Türke per la regia di Doris Dörrie. Nel 1992 ottine il Premio tedesco per il romanzo giallo con l’opera Ein Mann, ein Mord. Oggi vive tra Berlino e Francoforte