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Antonio Ghirelli
L’eccidio di Fantina
Sellerio editore
Palermo
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1986 © Sellerio editore via Siracusa 50 Palermo
Seconda edizione
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L’eccidio di Fantina
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Introduzione
«È con grande commozione che ho visitato i luoghi
dell’eccidio di Fantina, uno degli episodi più dolorosi
dell’epopea garibaldina; una pagina tragica della storia
del nostro Risorgimento, un episodio che la storiografia ufficiale ha voluto dimenticare e seppellire nell’oblio,
tanto che a quasi trent’anni dal suo svolgersi non fu
ancora possibile, per gli ostacoli frapposti dalle autorità
del tempo, erigere un monumento ai sette volontari garibaldini che ne furono le vittime».
Si apriva con queste parole il discorso che il Presidente
del Consiglio Bettino Craxi pronunciò il 24 novembre
1984, nello stesso paese in cui era avvenuto, sei giorni
dopo l’infausto episodio dell’Aspromonte, l’eccidio
delle sette camicie rosse per mano di ufficiali e militari
dell’esercito regolare italiano.
Dinanzi alla chiesa di Santa Maria Santissima della
Provvidenza, su cui era stata murata la lapide commemorativa dettata dal patriota Raffaele Villari, in mezzo a
una piccola folla di abitanti del luogo, alla presenza del
sindaco Giuseppe Munafò e del parroco, Craxi rendeva
omaggio «ai martiri dimenticati» di Fantina per sottolineare «la ricongiunzione permanente di tutti gli spiriti
liberi con coloro che più di cento anni or sono si sono
sacrificati per ideali che oggi sono comuni a tutti gli italiani». Il sindaco Munafò gli rispondeva ringraziandolo
vivamente per la visita e sospirando che forse il paese non
avrebbe avuto più l’onore di ospitare un altro Presidente
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del Consiglio: «Qui non si vive», concludeva Munafò:
«Si lavora aspettando la vita».
Anche se non è molto evidente, esiste senza dubbio
un nesso tra l’episodio rievocato da Craxi e l’amaro
accenno del sindaco di Fantina ai problemi del sottosviluppo meridionale; il nesso sta nella maniera in cui la
classe dirigente sabauda realizzò l’unificazione del Paese,
disprezzando i grandi valori di libertà, di democrazia e
di emancipazione popolare rappresentati da Garibaldi,
da Mazzini e dai loro generosi compagni di lotta, e disconoscendo ad un tempo le grandi tradizioni culturali, i
grandi bisogni spirituali ed economici delle popolazioni
del Sud. Fantina può essere assunto perciò come un simbolo altamente emblematico dell’uno e dell’altro errore,
talché approfondire la storia dell’eccidio del settembre
1862 può forse aiutare a capire anche il grido di dolore
lanciato dal sindaco Munafò nel novembre 1984.
La cerimonia a cui Craxi assité il 24 novembre 1984 e
il discorso che pronunciò dinanzi alla lapide della chiesa
di Fantina, alla presenza del sindaco e di una piccola
folla, ristabilirono la verità almeno per quanto riguarda
il barbaro episodio delle sette camicie rosse giustiziate
dai loro connazionale dell’esercito. Dopo aver ricordato
che Carlo Trasselli era «un reduce delle rivolte contro
i Borboni», il primo Presidente del Consiglio socialista
della storia d’Italia aggiungeva: «Quando i rapporti del
colonnello Trasselli rendono noto l’episodio, i giornali
repubblicani e garibaldini protestano con veemenza e
sotto le pressioni della Camera il Governo è costretto ad
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avviare un’inchiesta giudiziaria. Tutte le pressioni sono
esercitate per mettere a tacere la stampa; e quando il
magistrato di Messina mostra di voler andare a fondo
nell’accertamento dei fatti, egli viene rimosso e sostituito con un altro magistrato che chiude l’inchiesta. Esercito e Governo, cioè, fecero blocco e si assunsero tutta la
responsabilità di un atto efferato prodotto da una mentalità militarista ottusa e reazionaria.
«La storiografia ufficiale ha rimosso Fantina dalla
propria memoria che tuttora resta viva solo per i documenti dell’epoca; e per la denuncia coraggiosa che tornò
a farne, ai primi del secolo, Napoleone Colajanni, sulla
sua “Rivista Popolare”. Fu un comportamento grave,
poiché le vittime di Fantina non erano soldati codardi
che avevano fuggito il campo di battaglia, ma soldati
coraggiosi infiammati dall’ideale della patria unita, che
avevano lasciato l’esercito per tornare con i garibaldini
in prima linea, a battersi e a sfidare la morte per la libertà
di Roma e l’unità d’Italia.
«L’epopea garibaldina è colma della parola “libertà”.
Essa spiega la popolarità e il successo dell’azione garibaldina. La patria unita, perché gli uomini siano liberi.
La storia ufficiale dell’Italia è stata invece per molti
colma di ragioni di Stato».
Alle ragioni di Stato il Presidente socialista sostituiva
la ragione della verità, facendo luce sul passato per trasformare l’arrogante successo di una frazione nella vittoria tormentata di tutti gli italiani.
A.G.
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Parte prima
Roma o morte
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Il 27 marzo 1861, tredici giorni dopo la proclamazione
del Regno d’Italia alla cui unificazione Garibaldi aveva
offerto un contributo determinante con la travolgente conquista delle due Sicilie, la Camera dei Deputati approvava
per acclamazione un ordine del giorno Oudinot-Boncompagni che auspicava la liberazione di Roma per farne la
capitale d’Italia. Il Partito d’Azione non si lasciò tuttavia
trarre in inganno da questa astratta petizione di principio, dietro cui indovinava la preoccupazione del conte di
Cavour di realizzare il grande obiettivo senza suscitare
reazioni apprezzabili nel Papa e soprattutto in Napoleone iii. Anzi nei primi mesi dell’anno, secondo informazioni che garibaldini e mazziniani ritenevano affidabili,
il Conte sarebbe entrato in trattative con il Segretario di
Stato, Cardinale Antonelli e avrebbe addirittura tentato
di corromperlo con promesse di denaro per lui e di favori
per i suoi familiari. Quali ne fossero esattamente le premesse, le trattative in questione erano comunque fallite
e Cavour si stava accingendo probabilmente a battere
un’altra pista, in direzione di Venezia (a questo proposito gli si accreditava una spedizione clandestina di armi
nei Balcani, per creare difficoltà all’Austria) allorché, il 6
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giugno 1861, usciva prematuramente di scena. La morte
del grande statista rappresentò un colpo irreparabile per
la costruzione del nuovo organismo statale e, in modo
abbastanza paradossale, si rivelò funesta alla distanza
anche per l’uomo che aveva sempre considerato Cavour
un suo nemico giurato.
In quel tempo Garibaldi attraversava uno dei suoi
periodi di affollata solitudine a Caprera, dove era appena
scampato ad un ulteriore attentato allorché ricevette una
singolare proposta dagli Stati Uniti, lacerati dalla guerra
di secessione. Latore delle proposta era l’ambasciatore
americano a Bruxelles Sandford che, a nome del presidente Lincoln, veniva ad offrire al Generale un comando
di primo piano nell’esercito dell’Unione. Pur se commosso e lusingato per un così solenne riconoscimento,
che in fondo premiava anche la sua efficienza professionale, Garibaldi avanzò dapprima condizioni impossibili, come l’abolizione immediata della schiavitù per
parte di un governo che non poteva non muovere da posizioni assai più prudenti, e quindi finì per declinare un
invito che lo avrebbe portato troppo lontano dall’Italia.
In quel momento non sarebbe tornato volentieri neppure nell’America del Sud. Il suo sogno era di completare l’unità del suo Paese con la liberazione di Venezia e
Roma, magari attraverso lo stesso abile dosaggio tra iniziativa ribellistica e tacita intesa col Governo, che aveva
propiziato il successo dell’impresa dei Mille.
Naturalmente si trattava di un’ipotesi irrealizzabile
perché molte circostanze erano cambiate sul piano inter11
nazionale e su quello interno e soprattutto era venuto
meno il solo statista italiano capace di coniugare il più
spietato e talora cinico realismo con l’utopia più generosa. I successori di Cavour restarono purtroppo assai al
di sotto dell’inimitabile modello: il barone Ricasoli, gran
galantuomo e grande patriota, era troppo inviso a Vittorio Emanuele e all’imperatore dei francesi per reggere a
lungo alla concorrenza di Urbano Rattazzi che per suo
conto, assunta la direzione del governo nella primavera
del 1862, avrebbe dato via libera agli intrighi del Re, illudendosi di potersi barcamenare tra la Corona, il Partito
d’Azione ed il concerto delle nazioni europee, come era
riuscito al Conte.
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Garibaldi, in ogni modo, non era uomo da sofisticate
analisi politiche. Via via che i mesi passavano cresceva
la sua impazienza, alimentata dalle ricorrenti offerte di
alleanza che gli faceva pervenire Mazzini e dai contatti
con altri gruppi come quello rappresentato da Ferdinando
Lassalle, il quale sbarcò a Caprera nel settembre ’61 per
prospettare al Generale l’immaginaria ipotesi di un’ondata rivoluzionaria da Mantova a Galatz, intesa a far tremare dalle fondamenta l’impero austriaco. Entusiasmato
dalle fantasia del bollente ospite, Garibaldi se ne congedò
con una frase enigmatica: «In primavera saprò mostrarmi
degno del mio passato».
Poche settimane dopo, in effetti, il meccanismo si rimetteva in movimento.
In dicembre, nel corso di una rapida visita a Torino, il
Generale era ricevuto in udienza privata dal Re; nel febbraio successivo, tornato nell’isola, riceveva a sua volta
la visita di un emissario del barone Ricasoli. Con il pretesto di partecipare ad una partita di caccia, il senatore
Plezza veniva a rassicurarlo che «il Governo non aveva
rallentato, né rallenterebbe un istante dagli apparecchi
dell’impresa nazionale» ma, in attesa che maturassero le
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condizioni, pregava il Generale «a non voler con moti
intempestivi guastare l’opera ben avviata». Ricasoli
mandava a dire, comunque, che egli sarebbe stato avvertito tra i primi ed era invitato a considerare come pegno
delle buone intenzioni del Governo la imminente inaugurazione della Società Nazionale di Tiro a Segno, un’associazione paramilitare alla cui sorte Garibaldi avrebbe
dovuto interessarsi più da vicino.
Il 2 marzo, in compagni della stesso Plezza, «l’irrequieto
capitano» sbarcava a Genova per piombare a Torino proprio alla vigilia della caduta di Ricasoli. In apparenza lo
scenario non era cambiato: il nuovo Presidente del Consiglio lo confermava nell’incarico di vice presidente, e animatore, della Società di Tiro a Segno, affidandogli un giro
di propaganda in molte città del nord. Poco dopo, anzi,
Rattazzi gli consentiva di costruire, sotto il comando del
figlio Menotti, due battaglioni di «carabinieri genovesi»
che, formalmente, avrebbero dovuto essere dislocati nel
Mezzogiorno per combattere il brigantaggio: una destinazione che pareva comunque rievocare il magico ricordo
della spedizione di due anni prima. Secondo Crispi ed
altri esponenti del Partito d’Azione, sarebbe stato promesso anche il finanziamento di un milione di lire ma per
un’impresa del tutto diversa, un’incursione delle camicie
rosse in Grecia, dove era scoppiata una rivolta contro Re
Ottone, sempre nell’intento di creare un focolaio antiaustriaco nei Balcani.
Per un verso o per l’altro, Garibaldi tornava alla ribalta.
«Ospite del senatore Plezza», a Torino, «la sua casa
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pareva un ministero: una processione perpetua di garibaldini, di patrioti, di ministri, di deputati d’ogni colore,
di ammiratori e sollecitatori d’ogni fatta passava e ripassava a visitarlo, ad onorarlo, a consultarlo; i principi reali
di Savoia lo convitavano alla loro mensa». Lo stesso successo, assai più in grande, riscosse nel giro propagandistico in Lombardia e in Emilia dove ricevette l’omaggio
delle autorità, vescovi compresi, ed un frenetico tributo
di entusiasmo di «turbe immense di popolo» che lo evocavano al balcone al grido di «Venezia, Venezia», cui egli
rispondeva invariabilmente: «Andiamo»; o scandivano il
motto fatale «Roma o morte», suscitando naturalmente
nell’eroe del ’49 un’emozione profonda. A questo punto
il cerchio era chiuso: al sostegno, non esplicito ma concreto, del Governo e del Re corrispondeva il voto popolare. Il disegno che si andava delineando nella mente di
Garibaldi poteva essere ancora vago ma appariva certamente legittimo, almeno quanto l’impresa dei Mille.
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Nondimeno, al contrario dell’impresa dei Mille, questa
volta il disegno fallì, in due tempi. Il primo obiettivo mancato fu Venezia. A fine aprile, dopo aver incontrato nella
sua tournée propagandistica anche Alessandro Manzoni,
Garibaldi si trovò a Trescore, una località climatica poco
lontana dal confine trentino con l’Austria, col pretesto
di curarsi i reumatismi. Naturalmente non fu creduto da
nessuno, tanto meno dagli agenti di Vienna e di Parigi.
Sul posto cominciarono ad affluire giovani e men giovani
borghesi che avevano tutta l’aria di garibaldini travestiti,
mentre il Generale riceveva la visita di un aiutante di Vittorio Emanuele ed apriva febbrili consultazioni (iniziativa per lui inconsueta) con i suoi collaboratori, ai quali
espose un tortuoso progetto che prevedeva uno sbarco
in Dalmazia per prendere Venezia dal mare. Non bastò
l’accenno al sicuro appoggio del Governo a placare i
dubbi di molti degli interlocutori, che vi scorgevano anzi
la conferma ai loro peggiori sospetti circa l’intenzione
del perfido Rattazzi di spingere Garibaldi fuori del paese,
d’accordo con Napoleone, per emarginarlo dal gioco.
Ma l’impresa era destinata ad andare in fumo per un
caso del tutto fortuito e non privo di risvolti misteriosi,
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una sorta di piccolo «giallo». Poche settimane prima del
convegno patriottico-termale di Sarnico, una banda di
rapinatori aveva assaltato a Genova il Banco Parodi e si
era data quindi alla fuga attraverso i carrugi, trovando
scampo su una tartana ormeggiata nel porto. La polizia,
tuttavia, era piombata fulmineamente sulle tracce dei
malfattori e li aveva catturati in mare tutti. Senonché nel
corso dell’operazione si venne a scoprire che la stessa
tartana era stata noleggiata, qualche tempo prima, dal
colonnello garibaldino Cattabeni, per tenerla a disposizione del Generale in vista della famosa spedizione in
Grecia. Quando fu rinvenuto a bordo il suo contratto di
affitto, si mise in moto la macchina della giustizia. Il colonnello venne raggiunto a Sarnico e, nonostante le proteste
dei suoi compagni, tradotto nel carcere di Alessandria,
mentre una perquisizione ordinata dalla magistratura nel
suo domicilio permise di scoprire, al posto delle prove
della presunta complicità con i rapinatori, «gli apparati,
gli ordini, i piani» dell’invasione del Tirolo vagheggiata
da Garibaldi.
A questo punto, avvertito dagli inquirenti, il Presidente
del Consiglio si spaventò, tanto più che la concentrazione dei volontari nei dintorni del lago d’Iseo si andava
facendo sempre più nutrita e vistosa. Da Torino partirono
ordini perentori alle autorità locali: il colonnello Nullo e
una cinquantina di garibaldini furono catturati a Palazzolo, altrettanti nei pressi di Sarnico. Ma quando una
parte degli arrestati venne avviata nel carcere di Brescia,
la folla tentò di dare l’assalto alla prigione, fu respinta
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brutalmente dal picchetto di guardia e lasciò sul terreno
tre morti, fra cui un ragazzo di 14 anni, e quattro feriti. Lo
sdegno e la commozione di Garibaldi si riversarono in un
messaggio al Paese in cui affermò di non voler credere
che «soldati italiani» potessero «aver ammazzato e ferito
fanciulli e donne inermi»; che gli uccisori non potevano
essere che «sgherri mascherati da soldati» e chi aveva
comandato la strage «un boia». Alle proteste dei farisei,
che si stracciavano le vesti per il presunto oltraggio arrecato all’onore dell’esercito, il Generale replicò che non
aveva né, da «soldato italiano», poteva aver avuto l’intenzione di «lanciare contumelie» all’esercito nazionale
ma che si era limitato a sottolineare che «il dovere dei
soldati italiani è di combattere i nemici della patria e del
re, e non già di uccidere e ferire cittadini inermi».
Nei fatti, comunque, il progetto tirolese era fallito. Rattazzi cercò alquanto goffamente di dissociare le proprie
responsabilità da quelle di Garibaldi, fino ad emanare il
24 maggio una dichiarazione ufficiale che escludeva ogni
connivenza del Governo con il tentativo di Sarnico. La
reazione di Garibaldi questa volta fu incerta. Dopo una
prima generica protesta, un abboccamento con il Re e
con Rattazzi lo indusse a più miti consigli, al punto che
il 3 giugno il Generale rinunciò a intervenire al dibattito
parlamentare, limitandosi a mandare al Presidente della
Camera una diplomatica dichiarazione che minimizzava
il tentativo di Sarnico alla stregua di una normale esercitazione, anche se si chiudeva con un avvertimento piuttosto brusco: «Chi vuole opporsi di fronte al generoso
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movimento, assume tutta la responsabilità delle disgrazie
che si possono minacciare».
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Il secondo obiettivo fallito fu Roma, e implicò un costo
assai più alto. Garibaldi, che pure aveva vissuto l’avventura di Sarnico con scarsa convinzione, passò al contrattacco dopo pochi giorni. L’occasione gli fu offerta da
una mozione indirizzata dal Parlamento a Re Vittorio per
protestare contro l’arroganza di taluni alti prelati ma, ad
orientarlo verso la nuova impresa, furono soprattutto i
rapporti che gli fecero tenere Crispi e i suoi amici sulla
situazione del Mezzogiorno, dove cresceva di giorno in
giorno la delusione per l’ottusità burocratica del nuovo
governo. Incoraggiato dalle notizie di Sicilia e sedotto dai
gloriosi fantasmi del ’60, il Generale concepì pertanto il
piano di marciare su Roma dal sud della penisola, nella
lusinga di poter contare sulla complicità di Torino e sulla
sorpresa di Parigi.
Il primo passo fu di chiedere al Re, attraverso il senatore Plezza, una delega, una specie di luogotenenza per il
Mezzogiorno ma Vittorio Emanuele ii trovò curiosamente
la richiesta «troppo mistica», affermando di considerare
Garibaldi «buon amico e buonissimo soldato, ma non
buon amministratore né buon conoscitore di uomini». Il
Re suggeriva piuttosto di dirigersi verso la Grecia, sul
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cui trono sperava di insediare il figlio Amedeo al posto
del pericolante Ottone di Baviera, anche perché escludeva l’eventualità di una rivolta borbonica nel Mezzogiorno. Senonché Plezza concluse imprudentemente la
lettera in cui riferiva le opinioni del sovrano, con un’invocazione ambigua: «Per carità, Generale, alzate la voce
contro chiunque volesse condurci alla guerra civile. Voi
solo potete salvare la patria».
Il destinatario della missiva la prese come un invito ad
agire e, a fine giugno, lasciò improvvisamente Caprera,
imbarcandosi sul «Tortoli» con un gruppo di uomini
alla volta di Palermo, dove sapeva di essere atteso con
enorme simpatia non solo dalla popolazione, ma anche
dal rappresentante del Governo, Pallvicino-Trivulzio, già
suo pro-dittatore ed amico personale. A giudicare dalle
confidenze cui si abbandonò durante la traversata, non
aveva in mente un piano preciso ma contava piuttosto
di affidarsi alle circostanze, sapendo perfettamente in
ogni caso che avrebbe incontrato l’ostilità dell’armata.
Sperava, tuttavia, nella saggezza di Rattazzi: «Dovranno
pensarci prima di lanciarla contro di noi!» E qui si sbagliava.
Il 28 giugno, il «Tortoli» gettò le ancore nel porto di
Palermo proiettando il Generale verso l’avventura più
amara della sua vita. L’avvio, per la verità, fu poco meno
che trionfale. Il prefetto Pallavicino-Trivulzio mise a sua
disposizione lo stesso appartamento del Palazzo Reale
che Garibaldi aveva occupato nel 1860 e anche questa
volta fu teatro di un continuo pellegrinaggio di visita21
tori, ammiratori, seguaci, autorità di ogni ordine e grado.
Non meno entusiastica fu l’accoglienza dei giornali, della
popolazione e soprattutto dei giovani, con i quali l’illustre ospite andò intrecciando una serie di dialoghi sempre
più accesi sui temi che gli stavano più a cuore: Napoleone, il Papato, le terre irredente, e che di solito culminavano nel grido: «Sì, a Roma, a Roma; a Roma presto
a dispetto di chi non vuole!». Il 30 giugno, parlando dal
balcone del Municipio, annunciò che Roma sarebbe stata
presto italiana; due giorni dopo, in un teatro che portava
il suo nome, all’ovazione del pubblico per Roma e Venezia, replicò ricordando che nei plebisciti monarchici si
era votato per «l’Italia unita»; e più tardi, passando in
rassegna la Guardia Nazionale, avrebbe intimato addirittura: «Napoleone sgomberi Roma». All’amico Plezza
rispondeva ironicamente di essere a disposizione di Re
Vittorio per una eventuale spedizione in Grecia, anche se
en passant sperava di prendere «gli ultimi suoi ordini a
Roma». Era il pensiero fisso, la stella polare.
Da Palermo, il Generale si spostò in periferia, ricevendo
accoglienze ancor più frenetiche da Alcamo, Partinico,
Calatafimi, Corleone, Sciacca, Marsala, le tappe iniziali
più gloriose dei Mille. In un crescendo di entusiasmo, parlando a Marsala dal balcone di casa Grignani, raccolse un
grido partito spontaneamente dalla folla, il grido famoso:
«Roma o morte», e perse ogni remora: «Noi non vogliamo
l’altrui, vogliamo quello che è nostro. Napoleone è un
ladro, un rapace, un usurpatore! Ha lavorato per ingrandire la sua famiglia, ha pronto un principino per Roma,
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un signorino per Napoli, e così via… Infame! Traditore!|
Napoleone, fuori fuori!». Il 20 luglio, nella cattedrale di
Palermo, gremita da una folla immensa, il celebrante, che
era fra Pantaleo, tenne un sermone sulle città irredente e
alla fine chiamò il Generale perché giurasse, il braccio
levato verso l’altare: «O Roma, o morte».
Non tutti i compagni di avventura condividevano la sua
determinazione. I più moderati, come Guerzoni, Enrico
Guastalla, Giovanni Chiassi, temevano l’intervento
dell’esercito sabaudo e si permisero di consigliargli prudenza, se non la rinuncia all’impresa almeno una sua
accelerazione via mare, che avrebbe evitato la traversata
di tutta l’isola, ma sopraggiunsero Corrao, Bentivegna ed
altri garibaldini siciliani, al colmo dell’eccitazione, raccontando che nel bosco della Ficuzza si erano raccolti in
armi migliaia di picciotti e garantendo che tutta la Sicilia
era pronta ad insorgere. Non ci voleva altro per strappare
il Generale alle ultime perplessità ed indurlo a partire
immediatamente per il luogo dove si erano concentrati i
volontari. Nel frattempo, le notizie dei preparativi e delle
dichiarazioni di Garibaldi raggiunsero Torino, gettando
nel panico il Governo. Rattazzi decise di destituire immediatamente Pallavicino-Trivulzio, sostituendolo con il
prefetto De Ferrari cui fu ordinato di affiggere in tutta
Palermo proclami contro i garibaldini. La popolazione,
convinta in larga parte che, come nel 1860, esistesse un
accordo segreto fra autorità e volontari, li strappò uno
per uno dai muri. Ma stavolta il Presidente del Consiglio
faceva sul serio.
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A Mezzojuso, dove giunse il 2 agosto, il Generale fu
informato delle drammatiche novità in arrivo da Torino.
Il Governo Rattazzi, dimenticando le intese segrete e le
concrete promesse, lo dichiarava fuorilegge proclamando
lo stato d’assedio in tutta l’isola e designando il generale Cugia come commissario a Palermo con pieni poteri
civili e militari. Il «prode esercito» col quale aveva sperato che i suoi garibaldini potessero offrire «un ultimo
saggio del valore italiano», diventava un nemico dichiarato e nell’odioso ruolo di una forza di polizia. Per giunta,
la massa dei volontari accorsi al richiamo era certamente
più numerosa che nel 1860, ma la qualità morale e militare
della truppa era ben diversa: salvo un nucleo di palermitani, battezzato come «il battaglione della cittadinanza»,
e un pugno di veterani del continente, il grosso era giudicato dagli stessi superstiti dei Mille «un’accozzaglia di
vagabondi e di ragazzacci razzolata a caso».
Niente affatto scosso da questo particolare non del tutto
trascurabile e dalle allarmanti iniziativa del Governo,
Garibaldi aveva dato inizio alla campagna, suddividendo
i tremila volontari raccolti nel bosco della Ficuzza in tre
colonne ed assumendo personalmente il comando della
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più folta, mentre la seconda colonna era affidata al bollente Bentivegna e il colonnello Trasselli si metteva a capo
della terza, destinata ad operare in retroguardia. Sarebbe
maturato nel suo ambito il dramma di Fantina.
Prima di lasciare Mezzojuso, Garibaldi era stato invitato ad assistere in chiesa ad un Te Deum che era culminato nella benedizione delle camicie rosse da parte
di «preti cattolici», incuranti del fatto che l’obiettivo
finale della spedizione fosse la liquidazione del potere
temporale. Il 3 agosto arrivarono due vecchi amici del
Generale, il duca della Verdura e il dottor Gaetano La
Loggia che portavano gravi notizie, confermate da una
lettera di Medici del Vascello: un proclama di Re Vittorio al popolo italiano sottolineava ufficialmente il ripudio
di ogni sostegno alla nuova impresa delle camicie rosse,
definendo «appello alla ribellione e alla guerra civile»
ogni iniziativa che non partisse dalla Corona e ammonendo i volontari a guardarsi «dalle colpevoli impazienze
e dalle improvvide agitazioni». Se una frase del proclama
sembrava annunciare una prospettiva più incoraggiante
per il futuro, là dove il sovrano assicurava i patrioti che,
«giunta l’ora della grande opera», la voce del loro Re
si sarebbe fatta udire, il documento si chiudeva tuttavia
con la minaccia di applicare il rigore della legge a quanti
disobbedivano alle direttive sovrane. La lettera di Medici
era scritta nello stesso spirito del proclama: «Mettiti una
mano sul cuore, pensa all’Italia, pensa a tutto quello che
miracolosamente si è fatto. Non ostinarti nella via che percorri, essa conduce inevitabilmente alla guerra civile».
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Ma né il proclama, né le argomentazioni dei due amici
siciliani e neppure la lettera del vecchio difensore della
Repubblica Romana valsero a distogliere il Generale
da una decisione ormai irrevocabile. Anche perché egli
attribuiva l’iniziativa del Re alle pressioni di Napoleone, basandosi soprattutto sull’accenno del proclama
ai doveri di gratitudine verso «i nostri migliori alleati»,
nonché agli intrighi di un Governo che a suo avviso non
interpretava affatto i sentimenti del paese. Tutt’al più, il
voltafaccia di Vittorio Emanuele gli suggeriva di rinunciare definitivamente all’appoggio dell’esercito sabaudo,
con cui adesso conveniva evitare per quanto possibile il
contatto. Per il resto, il dado era tratto. Né molto diversa
fu la reazione dei suoi ufficiali, ispirati da una fiducia
senza limiti nell’uomo che li guidava e, almeno in parte,
convinti che il proclama fosse dettato esclusivamente da
preoccupazioni diplomatiche.
Continuò così attraverso la Sicilia la marcia trionfale
che stava comunicando a Garibaldi la sensazione illusoria di una reiterazione dell’impresa del ’60, mentre le
voci di scontri fra l’esercito e le camicie rosse rimbalzarono sempre più frequentemente a Torino, costringendo
Rattazzi ad imbarazzanti smentite in Parlamento: «Non
abbiamo ricevuto alcuna notizia allarmante dalla Sicilia.
Il generale Garibaldi non ha sinora ceduto alla voce autorevole del Re; speriamo vorrà cedere presto». E alle insistenti richieste di precisazioni, specialmente da parte di
Minghetti, il Presidente del Consiglio ribadiva: «Non vi
fu scontro tra truppa e volontari; non vi furono diserzioni
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nell’esercito».
Diserzioni, in realtà, cominciarono ad esserci mentre
scontri effettivamente non ve ne furono né a Caltanissetta
né a Castrogiovanni (come si chiamava allora Enna); vi
furono invece festose manifestazioni popolari e – nonostante i proclami regi – il cerimonioso ossequio di autorità locali ma anche governative. Da Roma arrivò un certo
numero di volontari che furono ripartiti in due gruppi,
affidati al comando di Menotti Garibaldi e di Giovanni
Corrao, l’ardente patriota siciliano che avrebbe conosciuto la morte, pochi anni dopo, per mano di un oscuro
sicario.
Nondimeno, i compagni più esperti del Generale
avvertivano un clima assai diverso da quello dei giorni
esaltanti del ’60: due anni di «dissolvente lavoro» del
Governo sabaudo, con il La Farina alla testa, avevano
logorato l’entusiasmo di molti giovani, suscitando profondo malcontento tra i contadini, diffuso scetticismo e
indifferenza nella popolazione isolana, un quadro grigio
sul quale l’operazione di Garibaldi gettava un fascio di
luce abbagliante ma fuggevole. Probabilmente i vecchi
compagni del Generale risentivano anche delle perplessità e delle riserve che andavano crescendo in Alta Italia
contemporaneamente all’avanzata delle colonne garibaldine verso Catania. la pressione era forte. A Regalbuto
piombò una delegazione di parlamentari della Sinistra
che venivano da Torino a rappresentare, a nome di tutto
il gruppo, il timore che un intervento francese o austriaco
sbarrasse ai garibaldini la strada di Roma o addirittura
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che l’ostilità dell’esercito sabaudo provocasse la guerra
civile. Non senza qualche sollievo, i deputati scoprirono
che molti ufficiali della Stato Maggiore condividevano
le loro preoccupazioni, ma quando Mordini ne accennò
cautamente al Generale, fu investito dalla sua ruggente
collera: «Vadano, vadano subito; io non ho mai avuto
bisogno di nessuno, basto da solo!». Poco prima era arrivata una lettera dell’ammiraglio Albini, che si dichiarava
«lusingato» di mettere a disposizione di Garibaldi e del
suo Stato Maggiore una pirofregata ancorata al largo di
Acireale per accompagnarli «in qualsiasi punto dei Regi
Stati»: documento che costituiva probabilmente un tentativo di dirottare la spedizione verso lidi più tranquilli ma
si trasformò paradossalmente in una specie di salvacondotto regio.
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Anche a prescindere dalle difficoltà politiche, la situazione dei volontari stava diventando pesante. Mancavano
le armi, le scarpe e anche le vettovaglie, visto che le autorità civili e militari avevano ricevuto addirittura l’ordine
di proibire ai mugnai la vendita della farina alla camicie
rosse, evidentemente per affamarle, mentre le truppe del
Governo avanzavano da tre direzioni sulla piana catanese
per bloccare la marcia. Garibaldi decise allora di abbandonare la rotabile inerpicandosi per Centorbi, un villaggio
che domina la valle, in attesa di essere raggiunto a tappe
forzate dalla colonna di Corrao. A Paternò, tuttavia, non
riuscì ad evitare il contatto con il battaglione regio, il cui
comandante, maggiore Gallois, pur accordando i rifornimenti pretendeva in un primo momento di sbarrargli il
passo, ma poi si lasciò convincere dalla lettera dell’ammiraglio Albini, che gli fu mostrata, appunto, come un
salvacondotto. La discussione avrebbe potuto tuttavia
provocare reazioni inconsulte tra i volontari se una gran
folla di popolani non fosse intervenuta a trascinare trionfalmente in paese le camicie rosse. Più tardi fu a sua volta
il Generale ad impedire che le truppe sabaude entrassero
in collisione con la colonna di Corrao, che in poco più di
29
24 ore aveva compiuto una marcia di 44 miglia.
La sera dello stesso giorno 18 Garibaldi entrava a Catania, accompagnato da un immenso festante corteo di
popolo, «una grande striscia di luce che somigliava ad
una corrente di lava e, all’avvicinarsi, prendeva l’apparenza di una di quelle processioni religiose che si fanno
la notte» nei paesi del Sud. La luce era quella delle torce
«con le quali i catanesi erano andati ad incontrare il
Generale ad alcune miglia di distanza». In città l’illuminazione era ancora più festosa, le bandiere innumerevoli,
l’entusiasmo dilagante, soprattutto quando Garibaldi
si affacciò al balcone del palazzo dove aveva sede la
Società degli Operai e rilanciò lo slogan fatale, «Roma
o morte», asserendo che era venuto il tempo di abbattere
«il potere del vampiro sacerdotale». L’atmosfera si arroventò quando si sparse la voce che i reparti governativi si
avvicinavano alla città con intenzioni poco amichevoli:
il popolo corse alle barricate, i volontari furono spediti
a sorvegliare le vie di accesso, le campane suonarono a
stormo come se arrivasse Federico Barbarossa. Il risultato fu che le truppe regie si ritirarono prudentemente a
Misterbianco, quattro miglia da Catania, mentre il prefetto, barone di Tholosano, si rifugiava a bordo di una
nave da guerra alla fonda nel porto e il generale Mella
assicurava a una deputazione municipale che la città non
sarebbe stata attaccata. In realtà il morale dell’esercito
sabaudo era piuttosto depresso: alle dimissioni di 34 ufficiali del terzo e del quarto reggimento, si aggiungeva di
ora in ora la diserzione di sottufficiali e soldati, che veni30
vano accolti, sia pure a malincuore, nelle file garibaldine.
Era stato lo stesso Mella a peggiorare le cose allorché,
durante un rapporto tenuto agli ufficiali ad Adernò, si era
lasciato sfuggire una frase più che infelice: «Voi avete a
fronte il nemico, eccovi un’occasione di acquistarvi della
gloria e voi la coglierete».
Quando la frase si era risaputa, i garibaldini se ne erano
sentiti malamente offesi, a riprova di una tensione degli
animi che, una volta partito Garibaldi, avrebbe provocato
gravi torbidi in città. Gli esponenti più reazionari della
nobiltà e i generali di Farini erano furiosi con i democratici
catanesi che avevano offerto alle camicie rosse non solo
luminarie ed applausi, ma anche denaro, vestiario, 5.000
fucili e 600 volontari, cui si erano aggiunti altri patrioti
provenienti dai paesi vicini e una sessantina di disertori
dell’esercito regio, accolti questi, come si è detto, con un
certo disagio, ma con spirito fraterno. Nascerà proprio
nell’ambito di questo gruppo il momento più lacerante
del dramma di Fantina.
31
Parte seconda
La ferita di Aspromonte
32
1
A Catania, apparsa ai volontari come «un vulcano di
patriottismo», si era conclusa la fase preliminare della
campagna. La lunga permanenza nella città, i sei giorni
di discorsi, di festeggiamenti e di preparativi, erano
stati imposti anche dalla difficoltà di risolvere il principale problema logistico della spedizione, lo sbarco sul
continente. Ma la mattina del 24 agosto, occhieggiando
sul mare dalla torre del Convento dei Benedettini, dove
aveva stabilito il suo quartier generale, Garibaldi scoprì
nella rada «con lo sguardo appassionato di un amante»
due piroscafi che potevano fare al suo caso. Una delle
navi era italiana; l’altra francese, ma il Generale decise
di non lasciarsi paralizzare da eccessivi scrupoli: «Bonaparte non ci aveva rubato Roma e non se la teneva da
tredici anni? e perché non potrò io disporre di un suo
piccolo legno per una notte?». In ogni caso, scrupoli a
parte, l’impresa non era facile. Un serio ostacolo era rappresentato dalla natura della costa, che intorno al porto
di Catania è ira di scogli e di lava; un altro e ancor più
arduo, dalla presenza di due fregate della Marina italiana
che incrociavano al largo, evidentemente con il compito
di sorvegliare i volontari.
33
Ma il pericolo maggiore veniva dall’esercito che andava
stringendo la sua morsa intorno alla città. Bisognava,
perciò, decidersi a partire, e Garibaldi non indugiò oltre:
lasciato il convento, si precipitò al porto e prese a dirigere
personalmente le operazioni di imbarco sui due piroscafi:
il «Dispaccio» e il «Général Abbatucci». In teoria, non
avrebbero potuto ospitare più di mille garibaldini in tutto,
ma si riuscì a farne entrare più del doppio, stivandoli oltre
ogni limite di prudenza, anche se, con sommo rammarico
del Generale, ne restarono a terra molte centinaia e, tra
essi, i ragazzi che sarebbero stati trucidati a Fantina. La
piccola flotta uscì verso le dieci di sera, bordeggiando a
poco distanza dalla costa per non essere intercettata dalle
fregate regie, giacché Garibaldi non era soltanto un insuperabile guerrigliero, ma anche un provetto marinaio. A
bordo regnava una confusione indescrivibile, ma la maggior parte dei volontari e tutti gli ufficiali si rendevano
conto della preoccupazione che aveva ispirato al loro
comandante l’apparente fuga da Catania, il timore cioè
che lo scontro con le truppe governative si rendesse inevitabile. Al tempo stesso, avvertivano di andare incontro
ad oscuri pericoli, ad imprevedibili insidie.
La prima trappola si aprì appena toccata la sponda calabrese, a Lazzaro, una frazione di Reggio. Alcuni esponenti moderati del Partito d’Azione si fecero ricevere
da Garibaldi per consigliargli prudenza: la popolazione
della città, secondo loro, era favorevole ai volontari ma il
giorno prima la guarnigione regia era stata rinforzata con
reparti spediti da Messina e il generale Cialdini, giunto a
34
Reggio da poche ore, aveva impartito ordini severissimi.
I tiepidi patrioti consigliarono, perciò, di aggirare la città
a scanso di gravi complicazioni. In un primo tempo, Garibaldi parve deciso ad ignorare i loro suggerimenti, ricordando che aveva traversato tutta la Sicilia senza incontrare
ostacoli e che l’insegna dei suoi uomini – «Italia e Vittorio Emanuele» – li metteva al riparo da un’impossibile
aggressione delle truppe di Cialdini. In ogni caso, la spedizione puntava a Reggio soltanto per rifornirsi di viveri.
A questa affermazione i galantuomini calabresi colsero
la palla al balzo e garantirono che avrebbero provveduto
in prima persona a far trovare sull’Aspromonte tutti i
viveri di cui i volontari potevano avere bisogno. Il Generale era abbastanza ingenuo da non mettere in dubbio
questa affermazione irresponsabile dei suoi interlocutori ma, se si decise effettivamente a prendere la strada
che essi gli avevano additato, lo fece soprattutto perché
la cannoniera «Terribile» ancorata a poche miglia dalla
costa minacciava sul fianco sinistro i suoi uomini. Garibaldi si era appena affacciato a una curva prospiciente al
mare che venne fatto oggetto di schioppettate partite dai
fianchi della nave: col suo inimitabile candore, rispose
al fuoco agitando la sciabola in segno di saluto, come
se gli ignoti fucilieri gli avessero reso omaggio, ma rendendosi perfettamente conto che era preferibile cambiare
rotta. Di fatto, giunto in vista di Pellaro, a breve distanza
dagli avamposti regi, deviò la direttrice di marcia nella
fiumara di San Gregorio, sul lato destro della strada che
conduceva a Reggio. Era, paradossalmente, una sorta di
35
fuga ed insieme di salto in avanti a cui le camicie rosse si
vedevano costrette dal timore di incrociare il fuoco con
reparti dell’esercito italiano: forse entrando a Reggio si
sarebbe forzata la resistenza delle truppe di Cialdini e
magari ne sarebbe stata ingrossata la colonna dei volontari, ma il Generale era dominato dal terrore dello scontro
fratricida e avrebbe continuata ad esserlo fino alla fine
della malinconica avventura in terra di Calabria.
36
2
Dall’altra parte, invece, si nutriva la speranza opposta:
Cialdini si proponeva di incalzare dappresso Garibaldi, di
metterlo con le spalle al muro, di schiacciarlo. Munito dal
Governo di poteri straordinari, si era imbarcato a Genova
con l’idea fissa di impartirgli una lezione di modestia e
di disciplina. E non si trattava soltanto della vecchia ruggine maturata due anni prima, quando il generale modenese aveva guidato l’armata del Re alle facili vittorie di
Castelfidardo e di Ancona, consentendo a Vittorio Emanuele di piombare dal nord sul Volturno giusto in tempo
per avvelenare il trionfo dei garibaldini ed umiliare il loro
comandante. Il reciproco odio, o disprezzo, nasceva da
un’antitesi ben più profonda tra i due uomini, irrimediabilmente diversi, emblematici di due modi diametralmente
opposti di essere italiani. Il duca di Gaeta, prode soldato,
eccellente tecnico, colonnello in Spagna contro i carlisti,
poi generale sardo in Crimea a soli 40 anni, comandante
di divisione a Palestro, simbolo incarnato di devozione
al Re, alle istituzioni e al regolamento, non poteva capire
né amare un uomo come Garibaldi, generoso campione
dell’unità nazionale e devoto quanto lui al sovrano ma
anticonformista, ribelle, libero da ogni angustia mentale.
37
Fin da quando era rimasto in vita a mediare tra questa
due Italie il conte di Cavour, era stato possibile conseguire una sintesi felice dell’interesse del Paese attraverso
una sapiente alternanza di iniziative, di freni, di complicità non confessate; ma ormai non c’erano diaframmi tra
un uomo d’ordine come Cialdini e il suo gretto sogno di
rivincita sulla grandezza e sulla popolarità di Garibaldi.
La rivalità tra i due generali aveva già avuto modo di
manifestarsi in forma clamorosa l’anno prima, quando
Garibaldi aveva pronunciato un discorso ai delegati della
Società Operaia e lanciato un progetto per l’istituzione
della Guardia Nazionale, molto polemici l’uno e l’altro,
il primo contro i consiglieri del Re, il secondo contro le
prerogative dell’esercito regio. Queste prese di posizioni,
confermate da un duro attacco in Parlamento al Governo
Cavour, avevano indignato Cialdini, che il 22 aprile 1861
pubblicava sulla «Perseveranza» una lettera aperta colma
di soldatesco furore: «Voi non siete l’uomo che io credevo, voi non siete il Garibaldi che amai. Con lo sparire
dell’incanto è scomparso l’affetto che a voi mi legava.
Non sono più vostro amico, e francamente passo nelle
file dei politici avversari vostri». Gli rimproverava di
essersi messo «al livello» del Re, di collocarsi al di sopra
degli usi, presentandosi alla Camera «in un costume stranissimo», e al di sopra del Governo e del Parlamento,
chiamando traditori i ministri che non gli erano devoti
e colmando di «vituperii» i deputati che non pensavano
come lui, nonché al di sopra del Paese, volendolo spingere dove e come meglio gli aggradava. Cialdini arrivava
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a contestare almeno parzialmente l’impresa dei Mille,
ricordando che le camicie rosse erano «in pessime condizioni» quando l’armata regia sopraggiunse sul Volturno,
«distruggendo più della metà dell’esercito napoletano» e
prendendo Capua, Gaeta, Messina e Civitella. La lettera
aperta del generale modenese aveva suscitato collera e
indignazione fra i garibaldini, ma il suo destinatario non
l’aveva presa troppo sul serio, limitandosi a replicare che
non si sarebbe certamente abbassato a giustificarsi e che,
come deputato, si era limitato ad esporre alla Camera «soltanto» una piccolissima parte dei torti ricevuti dall’esercito meridionale ad opera del Ministero. Quanto al ricordo
del Volturno, i volontari erano «al vespro della più splendida vittoria» allorché erano giunte, virtualmente a cose
fatte, le truppe regie. E infine se «qualcuno» si fosse ritenuto offeso dal suo «modo di procedere», era «tranquillamente» pronto a dargli soddisfazione.
Era una risposta formalmente serena, sostanzialmente
severa che Cialdini si vedeva costretto a incassare ma
non poteva dimenticare. Fu il Re che, morto Cavour e
senza curarsi di un così grave precedente, ebbe il cattivo gusto di affidare proprio a lui il comando dei reparti
cui si assegnava cinicamente il compito di «distruggere»
Garibaldi e i garibaldini. Cialdini, «il pigmeo insultatore
del gigante» era andato a guerra «come a festa». Partito
da Genova, aveva fatto scalo a Napoli per concertare un
disegno tattico con La Marmora, cui aveva assegnato il
controllo della Basilicata e della Calabria settentrionale,
riservando a se stesso l’intervento nel Reggino, dove
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aveva raccolto 8 battaglioni di linea e 2 di bersaglieri, con
4 pezzi di artiglieria da montagna. Per giunta, pescando
nelle riserve dell’esercito destinato alla repressione del
brigantaggio, aveva messo 8 battaglioni agli ordini del
colonnello Pallavicini con una consegna di incredibile
asprezza: raggiungere Garibaldi, inseguirlo senza dargli
tregua, attaccarlo e distruggerlo se avesse accettato il
combattimento. Era un’impostazione irresponsabile e
delirante, considerando la grandezza, le benemerenze e
la popolarità dell’uomo che si intendeva braccare come
un pericoloso bandito; ma dietro la protervia arrogante
del generale sabaudo, v’era sicuramente il consenso di
Vittorio Emanuele. In privato il Re aveva ammesso che
inizialmente i garibaldini avevano eseguito ordini suoi,
ma si era lamentato che successivamente si fossero spinti
troppo lontano.
40
3
Dal momento in cui Garibaldi aveva rinunciato ad attaccare Reggio, era cominciato il calvario delle sue truppe,
costrette a battere strade isolate senza la possibilità di
rifornirsi di viveri o da difendersi dal crescente rigore
del clima e vedendosi per giunta esposte nelle retrovie
e ai fianchi ad attacchi di disturbo dell’esercito sabaudo.
Marciando per quattro giorni «attraverso boschi e dirupi,
lottando col sonno, con la fame, senza capanne, senza
tende, col caldo di giorno e il freddo della notte», le
camicie rosse si avventurarono alla disperata sulle balze
dell’Aspromonte. Il grosso della colonna aveva perduto
il contatto con l’avanguardia del Generale, che era già
arrivata sopra Santo Stefano e ai Forestali, e questo isolamento accentuava la demoralizzazione degli uomini
che, come si è già osservato, non potevano essere lontanamente paragonati ai Mille Né per l’efficienza, né
per la saldezza morale. Fu perciò soltanto un pugno di
valorosi che raggiunse sull’imbrunire, attraverso impervi
sentieri, l’altopiano sul quale Garibaldi si era accampato
alla meglio, installando il suo comando in una casetta di
legno al limite di una bellissima foresta di pini mentre i
volontari giacevano sdraiati a gruppi per la campagna,
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sfiniti, affamati e tormentati da una pioggia sottile che
accresceva la loro frustrazione. C’era aria di sconfitta
anche se il Generale tentò di rianimare gli spiriti depressi
accendendo un fuoco di fortuna con una bracciata di rami
secchi e invitando i soldati a improvvisare rifugi di fortuna contro il freddo della notte. I più fortunati si inoltravano tra gli alberi, trovando rifugio sotto il fitto fogliame
che non lasciava passare una goccia d’acqua; gas ribaldi
discuteva animatamente con Corrao, che era appena arrivato, e con altri ufficiali superiori della situazione generale e dei piani da predisporre per l’indomani.
L’indomani mattina, 29 agosto 1862, passò in rassegna
gli uomini che avevano trascorso la notte sull’altopiano
e i drappelli di picciotti in arrivo da Santo Stefano. La
traversata della Stretto e le vicissitudini successive avevano ridotto a poco meno di 1.200 i 3.000 uomini partiti
dalla Sicilia: il Generale li contemplò, probabilmente con
una certa malinconia, dall’alto di una mula, mentre un
pastore calabrese appena sceso dalla montagna intonava
con la zampogna l’Inno di Garibaldi, una scena bucolicomarziale che colpì la fantasia di qualcuno dei presenti.
«Il sole» scrisse poeticamente Edoardo Pantano «versava
raggi luminosi sugli alberi del bosco, rifrangendosi in
mille svariati colori sulle foglie gocciolanti, scintillando
sulle baionette che come parafulmini si ergevano fuori dal
tetto delle improvvisate tende. L’aere era pregno di fragranze boscherecce, il cielo splendeva di un mite azzurro
e la natura ci sorrideva tutt’intorno. In seno a quel panorama dolce e sereno, quella musica agreste, meglio che
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l’inno di guerra, sembrava la melodia della speranza».
Il Generale parlò brevemente, esaltando la faticosa
marcia dei volontari come un’impresa che valeva Calatafimi. «A compagni come voi» disse «non debbono perciò
rivolgersi né parole di coraggio, né promesse di vittorie;
ma soltanto una parola d’amore: amore ed abnegazione
fra voi. I militi pensino all’inevitabile necessità della
disciplina; gli ufficiali ricordino che il comando impone
loro, più che diritti di superiori, obblighi di fratello a fratello. Siamo uniti: ancora uno sforzo e avremo superato
i maggiori ostacoli; Noi raggiungeremo, ad onta di tutto,
la nostra meta: O Roma o morte!».
Poche parole tutt’altro che convenzionali, anzi assolutamente insolite sulla bocca di un guerrigliero, ma tipicamente del nobile idealismo di Garibaldi. Distribuiti i
pochi viveri disponibili, il comandante diede l’ordine di
partenza, dopo aver appreso che una colonna di truppe
regie era giunta a pochi chilometri dai Forestali e minacciava di attaccare le camicie rosse. L’idea era di dividere
gli uomini in due colonne per avviarli in parallelo verso
Bagnara sulla via di Cosenza, e verso Monteleone sulle
via di Catanzaro, dove erano state spedite in avanscoperta durante la notte pattuglie comandate da Missori, da
Nicotera e da un altro paio di ufficiali. Ma dopo un’ora
di marcia fu evidente che non era possibile evitare l’impatto con l’esercito: rischiava di realizzarsi insomma
quell’ipotesi drammatica che Garibaldi aveva cercato di
scongiurare in ogni modo sin dal primo giorno della spedizione, non solo perché ripugnava profondamente al suo
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patriottismo ma perché poteva compromettere il successo
dell’impresa. Ora non si poteva far altro che fronteggiare
la spiacevole congiuntura cercando di limitarne i danni
e perciò bisognava fermarsi ed attendere gli uomini di
Cialdini, accampandosi nella miglior posizione, ossia
sulle alture di Aspromonte. La postazione si presentava
come una specie di semicerchio allungato, al cui centro
una vallata spoglia e arida digradava dolcemente verso la
piana dei Forestali, mentre una stupenda foresta di pini ne
delimitava i bordi. Fu appunto ai margini del bosco che
si accamparono i volontari, prima che il comando distribuisse i pochi viveri ancora disponibili, nonché i posti di
combattimento.
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L’impostazione tattica della giornata prevedeva il classico schieramento imperniato su un centro che era affidato agli uomini di Bedeschini e di Menotti Garibaldi e
affiancato alle ali della colonna Badia sulla sinistra e da
reparti di Corrao sull’altro lato. La posizione era salda,
tale da intimidire anche un nemico più forte e numeroso,
a condizione beninteso che si intendesse affrontarlo in
campo aperto. Garibaldi era paralizzato dall’incubo della
guerra civile, per quanto si illudesse ancora che l’esercito
non avrebbe osato attaccare i suoi volontari. Cominciò a
dubitarne allorché scorse, nelle prime ore del pomeriggio,
una marea di soldati, all’incirca 14 battaglioni, spiegarsi
in fondo alla sottostante pianura, inquadrati in ordine di
marcia, le baionette scintillanti al sole ancora vivo. Una
breve sosta, poi guide a cavallo si lanciarono al galoppo
in tutte le direzioni per portare le istruzioni ai comandi di
battaglioni. le ipotesi ottimistiche crollarono.
Poco dopo infatti la colonna sabauda si mise in movimento, muovendo sui fianchi dello schieramento garibaldino reparti di bersaglieri il cui atteggiamento bellicoso
non ammetteva equivoci. Ma neppure questa volta,
persuaso che l’assalto regio era inevitabile, il Generale
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perse il controllo. I suoi ufficiali lo videro emanare ordini
secchi, assurdi e sacrosanti: «Nessuno faccia fuoco», una
dolorosa rinuncia a combattere; «Siano tolte le capsule ai
fucili, abbassare le baionette», la sola tecnica possibile
per non lasciarsi compromettere nello scontro a fuoco; e,
finalmente: «Se attaccati, non rispondere, lasciarsi fucilare al grido di: Viva l’Italia!», il sacrificio spinto fino al
limite sublime dell’eroismo. Solo Garibaldi poteva impartire ordini del genere e aspettarsi di essere obbedito.
Nello stesso momento il 6° bersaglieri, comandato dal
colonnello Pallavicini apriva il fuoco contro i volontari
garibaldini, lanciandosi a passo di carica su per l’erta
montagna. Paralizzati insieme dalle direttive e dalla
collera, i garibaldini vedevano cadersi intorno, feriti o
esanimi, i compagni e sentivano fischiare sulla testa le
pallottole sabaude senza poter reagire, senza poter far uso
delle armi. Era un supplizio di Tantalo al quale non tutti
seppero resistere: fu la colonna di Corrao a rispondere
per prima al fuoco di un reparto comandato, per colmo
d’ironia, da un ex-garibaldino, lo svizzero Eberhardt, al
quale la voce comune rimproverava di aver abbandonato
in fuga una postazione preziosa, due anni prima, ai Ponti
della Valle mettendo nei guai Bixio. Momentaneamente
bloccato dalla reazione di Corrao, il reparto di Eberhardt
fece per irrompere di nuovo all’assalto quando Menotti
non ci vide più e, sebbene fosse già leggermente ferito
ad una gamba, comandò ai suoi picciotti di sferrare il
contrattacco alla baionetta, subito imitato dal volontari
dell’altra colonna. La confusione salì al massimo: in una
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zona dell’Aspromonte si combatteva, nell’altra si assisteva sconsolatamente al combattimento, qualcuno urlava
di abbandonare le armi, altri sparavano inneggiando a
Garibaldi. E la confusione si sarebbe trasformata in una
massacro se di colpo, mentre le trombe dei volontari lanciavano disperati segnali di cessare il fuoco, non fosse
dilagata per tutto il campo – echeggiata come da un misterioso tam tam – la voce che Garibaldi era stato ferito.
«Quella voce poté più di ogni ordine, più di ogni appello:
tutte le armi caddero come per incanto dalle mani dei
volontari».
Del grave episodio e di tutti gli avvenimenti che lo precedettero, ci forniscono una versione piuttosto precisa le
memorie dello stesso Generale. In primo luogo egli riconobbe di aver commesso un errore, che «per deferenza
non è citato da nessuno di quanti scrissero sul doloro
fatto di Aspromonte», l’errore di aspettare l’assalto delle
truppe regie anziché precederle verso Santa Eufemia.
Ammise altresì di essere stato condizionato da una «irresoluzione», una incertezza di fondo, di fronte alla incredibile prospettiva di una battaglia fratricida ma escluse,
in ogni caso, che in quel momento fosse possibile battere
in ritirata: «ciò sarebbe stato una fuga – e poca voglia vi
era di fuggire». L’esitazione fu fatale. I soldati di Cialdini
si erano distesi in linea, al di là del torrente, e avevano
aperto un fuoco d’inferno, mentre il Generale continuava
a raccomandare ai suoi trombettieri di far cessare il fuoco
sul fianco destro, dove Menotti tambureggiava le posizioni sabaude, provocando in una decina di minuti 5 morti
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e 24 feriti. In condizioni diverse, Garibaldi non avrebbe
esitato ad applicare un piano molto lucido che corrispondeva a un suo schema molto semplice e preciso, che, in
casi analoghi, aveva sempre funzionato. Secondo questo
schema, si sarebbero appostati i fucilieri garibaldini sotto
i primi alberi del bosco, in attesa che i reparti nemici traversassero il torrente tagliandosi automaticamente la via
della ritirata, e quindi si sarebbe aperto a bruciapelo un
fuoco di fucileria caricandoli sul fianco, con il vantaggio
dell’altura, prima che i bersaglieri sabaudi del marchese
Pallavicini di Proia potessero sopraggiungere, passando
attraverso la foresta. Ovviamente, dal momento che mancava la possibilità, o la volontà di usare le armi, il piano
risultava inapplicabile e, per giunta, nell’atto stesso in
cui si rinunciava a contrastare l’attacco regio, si registrò
l’episodio del ferimento di Garibaldi, di cui avrebbero
parlato, discusso o favoleggiato, tra la furente indignazione e il livido compiacimento, molte generazioni di italiani.
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I realtà le ferite furono due. Lo stesso Garibaldi annotò
molto sobriamente sulle memorie: «Io fui ferito al principio della fucilata ed accompagnato all’orlo del bosco, ove
fui obbligato a sedermi, rimanendo quasi nell’impossibilità di più poter distinguere ciò che succedeva sulla linea.
Ebbi la prima medicatura al piede destro. Alla coscia sinistra un’altra palla mi aveva contuso, ma fu poca cosa».
La voce popolare narrò che il Generale era caduto ferito
mentre comandava ai ragazzi di Menotti la cessazione
del fuoco, salutando con il cappello «i fratricidi» al grido
di «Viva l’Italia!». Sostenne pure che, nell’istante in cui
avvertì la fitta del proiettile, fu colto da un incontenibile
impeto d’ira e tracciò nell’aria, cadendo, «terribile in
volto», un cenno di minaccia.
Enrico Cairoli che gli era vicino, raccontò di averlo
visto fermarsi di colpo e portare istintivamente la mano
alle gambe, pur tentando di restare in piedi per rassicurare il compagni: «Non è nulla!». Ma naturalmente dopo
pochi passi non ce la fece più a reggersi e cadde tra le
braccia di Cairoli che, aiutato da Nullo e da Guastalla, lo
trasportò amorevolmente verso l’albero più vicino contro
il quale venne adagiato, mentre continuava a sventolare il
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berretto e gridare: «Non fate fuoco! lasciateli appressare!
Viva l’Italia!».
In effetti sul campo della mancata battaglia non si sparava più. Intorno al Generale, i medici garibaldini – il
capo-ambulanza Ripari, Albanese e Basile – disputavano
sulla opportunità di un intervento immediato. Dopo aver
tolto lo stivaletto e aver scoperto una ferita «a bordi sottili e netti», quasi fosse stata aperta da un «coltello anatomico», Albanese avrebbe voluto operare subito, Ripari vi
si oppose invocando l’autorità del grado. Durava ancora
il non facile consulto quando altre camicie rosse trasportarono, sotto l’albero, accanto a Garibaldi, suo figlio
Menotti, anche lui ferito ad un polpaccio da una pallottola
di rimbalzo. I suoi picciotti e quelli di Corrao avevano
ormai rinunciato a rispondere al fuoco dei bersaglieri e
si mescolavano agli altri volontari che imprecavano, ai
feriti che si lamentavano e ai soldati regi che andavano
sopravvenendo e con i quali le camicie rosse presero a
scambiare saluti, domande, spiegazioni, rimproveri.
Imperturbabile nella confusione generale Garibaldi
stava accendendo un sigaro, quando accadde qualcosa
che gli fece perdere la calma. Il comando regio ebbe la
cattiva idea di spedire un tenentino dei bersaglieri ad intimare, sciabola sguainata, la resa incondizionata all’eroe
dei due mondi. Era troppo. Furente per l’oltraggio, il
Generale ordinò che il giovanotto fosse disarmato e alle
sue proteste replicò duramente: «Faccio la guerra da
trent’anni e ne conosco meglio di voi le leggi. Non è così
che si presentano i parlamentari». La stessa sorte toccò a
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un altro malcapitato, il maggiore Giolitti, latore di analoga intimazione, anche se poco dopo le spade furono
restituite ad entrambi gli ufficiali, il più giovane dei quali
fu spedito al comando per chiamare Pallavicini.
Garibaldi continuava intanto a fumare il suo sigaro e a
discutere flemmaticamente con i medici, ai quali chiese
se ritenevano necessario amputargli la gamba, dichiarandosi pronto ad ogni evenienza. Dopo venti minuti di
attesa giunse alfine il colonnello Pallavicini, che era teso
ed imbarazzato, pieno di rispetto per il suo illustre prigioniero, affianco al quale si inginocchiò, a capo scoperto,
per pregarlo di arrendersi a discrezione «non avendo
patti da offrire, ma soltanto ordini di combattimento».
Aveva confessato poco prima agli ufficiali dello Stato
Maggiore garibaldino, molti dei quali erano suoi vecchi
conoscenti, che si trattava di istruzioni inequivocabili:
attaccare e battere Garibaldi, farlo prigioniero. Aveva
anche anticipato la loro richiesta di resa, ricevendo una
risposta polemica, e cioè che non si poteva parlare di resa
dal momento che non c’era stato combattimento. Garibaldi, invece, tranquillo e sereno come se ricevesse un
invitato nell’orto di Caprera, si dichiarò a disposizione
del Governo, manifestando preoccupazioni soltanto per
la sorte dei volontari. Personalmente, spiegò, avrebbe
preferito potersi imbarcare su un legno inglese ed andare
esule lontano dalla patria. Il Colonnello, che stava sulle
spine, fornì qualche vaga assicurazione senza compromettersi troppo, osservando di non aver nulla da obiettare
sulla sua destinazione ma di essere obbligato a chiedere
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istruzioni a Torino. Quanto ai prigionieri, pensava che
sarebbero stati trasferiti a Messina e messi in libertà dopo
qualche ora, al massimo dopo un giorno.
Appena Pallavicini si fu allontanato, il Generale fece
chiamare Corrao per raccomandargli di raccogliere quanti
più disertori potesse e trarli in salvo aprendosi, con le
buone o con le cattive, un varco attraverso le linee governative. Misurata la grettezza e la crudeltà dei suoi avversari, non nutriva più alcuna illusione sul loro conto e,
quasi presagisse l’eccidio di Fantina, era angosciato per
la sorte dei ragazzi che in Sicilia, esaltati dal richiamo
della camicia rossa, avevano abbandonato i reparti regolari. Corrao riuscì a raccoglierne parecchi insieme con
qualche centinaio di volontari, e se li trascinò dietro «per
monti e dirupi» fino alla costa reggina, dove tuttavia
giunsero in pochi perché i più compromessi avevano trovato rifugio, con l’aiuto dei «comitati patriottici», presso
compiacenti famiglie calabresi.
Al pomeriggio dell’indomani, mentre i superstiti della
colonna Corrao travestiti da marinai si imbarcavano su
una lancia alla volta di Messina, a poche miglia di distanza
Garibaldi veniva trasferito a bordo del «Duca di Genova».
Era stato trasportato in barella «per un cammino faticoso
e pieno di accidenti», con una sosta notturna nel cascinale
«La Marchesina», proprietà di un pastore calabrese, Vincenzo, che era una vecchia conoscenza dei primi Mille
sbarcati nell’agosto di due anni prima in Calabria. Alle
14 del giorno dopo il melanconico corteo, scortato dai
bersaglieri del maggiore Pinelli, giungeva a Scilla dove il
52
colonnello Pallavicini aspettava Garibaldi per riferirgli,
non senza visibile imbarazzo, le drastiche disposizioni
ricevute dal Ministero: non si permetteva al Generale di
imbarcarsi su legno inglese, non gli si lasciavano scegliere gli ufficiali da cui aveva chiesto di essere accompagnato e gli si ingiungeva di imbarcarsi con Menotti a
bordo della pirofregata «Duca di Genova». Preferì farlo
subito.
Allorché il convoglio passò dinanzi al vapore «Stella
d’Italia», i prigionieri scorsero il Generale Cialdini che
troneggiava in uniforme dal ponte, insieme con il contrammiraglio Albini e diversi altri ufficiali superiori. Nessuno
di loro salutò Garibaldi, anzi Cialdini gli voltò le spalle.
La sera prima aveva telegrafato a Torino la sua delirante
versione dei fatti: «Dopo accanito combattimento in
Aspromonte, Garibaldi, ferito, è caduto nelle nostre mani
e quasi tutti i suoi sono nostri prigionieri. La colonna
delle regie truppe era comandata dal colonnello Pallavicini». In un successivo rapporto al Ministro della Guerra,
avrebbe definito lo scontro dell’Aspromonte addirittura
come «un fatto d’armi, che per le conseguenze assume
l’importanza di una battaglia», proponendo la promozione del Pallavicini e il conferimento della medaglia di
bronzo a tutti i battaglioni partecipanti all’azione «per
avere dato speciali prove di valore e sagacia militare».
Una volta giunta all’altezza della pirofregata, la barca
che portava il grande prigioniero fu posta su un paranco
e issata con una macchinosa manovra che il Generale,
seduto sulla barella, a testa alta, reggendosi con le mani
53
ad una corda, regolava egli stesso tra l’attonita ammirazione dei marinai. Sul «Duca di Genova» dove fu trasbordato in compagnia di Menotti, dei suoi medici e di
altri amici, si congedò salutando con la mano i compagni
che tornavano a Scilla e che si levavano commossi sulla
barca, gridando «Viva Garibaldi! A Roma, a Roma!».
54
Parte terza
Un massacro insensato
55
1
Per accelerare la marcia dei suoi picciotti nella ritirata
dall’Aspromonte a Scilla, Corrao li aveva incitati più di
una volta: «Avanti, avanti! Salviamo i disertori: questo
è il comando di Garibaldi». E per suo conto, utilizzando
i «comitati patriottici» era riuscito a metterne molti al
riparo della collera sabauda. Ancora al momento di congedarsi dal marchese Pallavicini, Garibaldi aveva insistito con lui perché raccomandasse al Governo la causa
dei disertori dell’Armata e se ne era sentito rispondere
che lo avrebbe fatto ma se ne aspettava «poco buon esito»
perché conosceva «le severe istruzioni in proposito». Due
giorni dopo, nello stilare il suo gelido rapporto al Ministero della Guerra, il generale Cialdini aveva precisato
che non tutti i «seguaci» di Garibaldi avevano potuto
imbarcarsi con lui alla volta della Calabria, 700 e più
erano stati catturati a Catania dalle truppe del generale
Ricotti e di essi qualche centinaio era stato «improvvidamente» rinviato a casa con foglio di via. «Oltre a ciò, un
certo maggiore Trasselli vagava alla testa di una banda la
cui forza, da quanto ripetutamente dicevasi, sembrava di
800 o 900 uomini». Il rapporto del Comandante in capo
proseguiva con lo stesso stile: «Fu dunque mestiere di
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concertare la persecuzione di questa banda facendola
eseguire da truppe di Catania e dalle poche di Messina,
non permettendo lo stato degli animi di questa città un
soverchio allontanamento di forze». Naturalmente il corsivo non sta nel testo originale del rapporto.
Un decreto dello stesso Cialdini, in data 31 agosto,
aveva invitato le truppe regie a considerare e a trattare
«come briganti» i garibaldini che non si fossero costituiti
all’autorità militare entro cinque giorni. Di fucilazione
avrebbe parlato più tardi il già citato colonnello Eberhardt
a proposito di chi fosse «colto indebitamente portatore o
semplicemente detentore di armi». Il linguaggio dei capi
era dunque quello di chi, occupando un paese straniero in
rivolta, applica la più spietata legge di guerra.
Del resto, già prima ancora della vergogna di Aspromonte l’ostilità contro i garibaldini si era manifestata
in un episodio odioso che aveva coinvolto i colonnelli
comandanti i due reggimenti della brigata Piemonte.
Costoro dubitavano della lealtà dei numerosi ufficiali che
avevano militato con Garibaldi durante la campagna del
1859 e del 1860 e ricorsero perciò a un espediente miserabile per accertare i loro effettivi sentimenti: durante la
sosta a Paternò e Adernò li chiamarono a rapporto, invitandoli a presentare le dimissioni se non se la sentivano
di «agire rigorosamente» contro il loro vecchio Generale e i suoi seguaci. Naturalmente il sottinteso era che la
richiesta sarebbe stata accolta senza alcuna conseguenza
disciplinare, diversamente gli ufficiali in questione non
avrebbero di sicuro accettato l’invito. Erano 32, tra capi57
tani, tenenti o sottotenenti, più il maggiore Botta cospiratore contro i Borboni e più tardi molte volte deputato a
Cefalù, tutti decorati al valore, coraggiosi e generosi. La
maggior parte di loro lasciò l’esercito per arruolarsi nuovamente con Garibaldi, ma qualcuno come il sottotenente
napoletano Armanni lo fece nella onesta convinzione che
il Governo «eccitando una parte degli ufficiali del suo
esercito a negarsi di combattere Garibaldi» avesse inteso
dimostrare a Napoleone III che non poteva opporsi alla
volontà della nazione di ritrovare la sua capitale.
Ma quali che ne fossero i motivi ispiratori, gli ufficiali dimissionati ebbero presto modo di pentirsi della
loro ingenuità. Appena accettato l’invito dei rispettivi
colonnelli, si videro privati della sciabola e si sentirono
avvertire che avrebbero dovuto consegnarsi agli arresti di
rigore nella fortezza di Alessandria. Il terrore del diverso,
dell’irregolare, del ribelle era più forte, in quei valentuomini, perfino del senso dell’onore e della lealtà.
58
2
L’ottuso terrore degli ufficiali di Cialdini preparava di
peggio che quello spregevole inganno. Fu il 4 settembre,
sei giorni dopo il ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte,
che i primi reparti della colonna Trasselli arrivarono, in
preda allo smarrimento, alla fame e alla sete, in vista delle
prime case di Fantina. «Piccolo e modesto villaggio»,
avrebbe scritto più tardi il garibaldino Edoardo Pantano,
«sta Fantina sul dorso di uno di quei monti che circoscrivono le fertili pianure di Barcellona e di Milazzo»,
dunque in provincia di Messina, «e si ergono in alto quasi
a specchiarsi sul mare e a contemplarvi l’incantato panorama delle isole Eolie. La sua storia è la storia di tutti
i gruppi agricoli che hanno attraversato i secoli, martiri
dell’aratro e vittime della solitudine campagnola, santificanti col lavoro la legge del riscatto sociale. Sfortunatamente, la sua celebrità non è dovuta a questi modesti
ricordi, ma ad un grande misfatto».
La prosa appassionata del vecchio patriota rende vigorosamente la melanconica realtà del piccolo villaggio anche
se, per completare la descrizione, occorre aggiungere che
il villaggio è lambito da un torrente che nasce dai Peloritani, all’altezza di Novara di Sicilia, e sfocia in mare pro59
prio di fronte alle Eolie. La colonna Trasselli era diretta
appunto a Novara, dove il comandante e i suoi ufficiali si
proponevano di consegnare le armi al sindaco Bertolani
e alle altre autorità municipali, per evitare la umiliazione
di capitolare di fronte ai loro colleghi sabaudi, e magari
anche per ottenere qualche soldo da distribuire ai volontari smobilitati. Gli uomini, però, erano stanchi e l’ora
tarda: Trasselli ordinò l’alt ai reparti e spedì a Novara una
pattuglia in avanscoperta con la consegna di acquistare
del pane con i tre scudi che gli restavano e di accertare la
consistenza degli effettivi regi nella zona.
La conferma non si fece attendere. A Tripi, otto miglia
dalla località in cui si erano accampati i volontari, era
stato avvistato un battaglione di soldati governativi. Dopo
essersi inerpicato su un picco per avere una visione panoramica della situazione, Trasselli collocò agli avamposti i bersaglieri disertori ordinando che tutti i volontari,
mano a mano che avessero consumato la magra cena, li
raggiungessero sulla stessa posizione, che era inaccessibile da ogni lato. Spedì poi qualche ufficiale alla fiumara per rastrellare i dispersi e avviarli in quota, ma fu
impossibile scovare una cinquantina di volontari che si
erano sparpagliati fra i sabbioni del torrente e le poche
casupole dei contadini, in preda ai morsi della fame e
ad un avvilimento senza limiti. A prescindere dalla loro
misera condizione personale, la ferita e l’arresto di Garibaldi sull’Aspromonte avevano distrutto un mito a cui si
era consacrata tutta la vita di quei giovani combattenti,
il mito dell’invincibilità e dell’invulnerabilità dell’eroe,
60
una sorta di sacralità laica. Una volta infranto quel totem,
al primo impulso di collera subentrava in ciascuno dei
volontari l’amara riflessione sul proprio destino individuale, sui rischi e sui pericoli dell’immediato futuro. Tornava in continuazione nei loro discorsi quel maledetto
bando di Cialdini, di cui tutti parlavano come di una
minaccia incombente; e il sonno arrivava piuttosto come
una folla di incubi che come una liberazione.
61
3
Il dramma dei volontari rimasti a valle si consumò poco
dopo la mezzanotte, mentre le lunghe file dei volontari di
Trasselli, che al lume notturno potevano essere scambiati
per «ombre fantastiche», si arrampicavano faticosamente
sul dorsale del monte. Vinti dalla stanchezza i garibaldini si erano addormentati, chi sulle sabbie dei torrenti,
chi nelle case più ospitali di Fantina o nella chiesetta,
che era rimasta aperta, in un silenzio carico di attese e
di sgomento. D’un tratto quel silenzio fu rotto, in lontananza, dal passo cadenzato di un grosso reparto militare che si avvicinava: era il 47° battaglione di fanteria,
composto in grande maggioranza di effettivi meridionali
già in forza nell’esercito borbonico e che ora militavano
in quello regio sotto gli ordini di un inflessibile ufficiale
piemontese, il maggiore Giuseppe C. De Villata. Costui
condusse tutta l’operazione come se si trovasse in territorio nemico e dovesse fronteggiare non un pugno di
sbandati senza armi e senza speranza, ma una banda di
pericolosi guerriglieri.
Cominciò con lo spedire i suoi uomini all’assalto di
Fantina, mettendo a sacco le case dei poveri contadini
e catturando i garibaldini che vi si erano rifugiati, per
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avviarli lungo il greto del torrente dove già i soldati di
un’altra compagnia del 47°, sorpresi i volontari nel sonno,
li avevano svegliati brutalmente, puntandogli la baionetta
al collo ed urlando con tutto il borbonico rancore di cui
erano capaci: «Al Sessanta tu ed al Sessantadue noi!».
Frastornati, stupiti, indignati per un così brusco risveglio, i volontari avevano appena accennato ad alzarsi e
a scuotersi gli indumenti dalla polvere quando un ufficiale avanzò dal reparto per comunicare ai prigionieri gli
ordini del comando: «Volontari!» disse «se in mezzo a
voi si celano dei disertori, si facciano innanzi. Il Re li
perdona e li lascierà immediatamante raggiungere i loro
corpi». Tutte le testimonianze concordano sull’esattezza
di questa citazione, di cui siamo debitori a Ernesto Pantano. A nome del comandante in capo, anzi addirittura del
Re, l’ufficiale garantì ai disertori il perdono e il recupero
nell’esercito governativo, un provvedimento generoso
ma che non avrebbe avuto nulla di sorprendente visto che
quei giovani avevano seguito Garibaldi per un’impresa
patriottica e che, per giunta, non erano stati catturati in
combattimento.
Meno concordi, comunque, sono le testimonianze su
quanto accadde dopo qeull’annuncio che, per le circostanze e il momento in cui veniva fatto, aveva assunto
un tono solenne alle orecchie di chi l’aveva raccolto. La
grande maggioranza delle fonti parla di sette uomini che,
alle parole dell’ufficiale (rimasto anonimo), mossero fiduciosamente un passo avanti. Secondo Aurelio Saffi, che
si occupò dell’episodio nel Proemio all’ottavo volume
63
degli scritti editi ed inediti di Mazzini, pubblicato 22 anni
dopo, oltre ai sette dispersi se ne sarebbe fatto avanti un
ottavo, un reduce dell’impresa dei Mille, Pietro Castagna, che avrebbe poi narrato la sua disavventura (a lieto
fine) nel «Fascio della Democrazia», giornale bresciano.
In ogni caso, sembra certo che due dei sette volontari
sollecitati a presentarsi dal miraggio di una totale riabilitazione, non erano affatto disertori ma avevano risposto all’appello dell’ufficiale di De Villata, forse con la
speranza di proseguire nelle file sabaude la marcia verso
Roma, forse semplicemente con l’obiettivo di restare in
servizio nell’esercito o addirittura per un banalissimo
equivoco.
Sette o otto che fossero, gli infelici vennero immediatamente circondati da un drappello del battaglione in assetto
di guerra e condotti dinanzi ad un altro ufficiale, incaricato di interrogarli. Dovettero fornire le loro generalità,
spiegare da che parte d’Italia venivano e a quale reparto
avevano appartenuto prima di disertare: a parte Castagna, di cui si è già detto, i sette rispondevano ai nomi di
Giovanni Botteri e Ulisse Grazioli di Parma, Ernesto o
Giovanni Pensieri di Pavia, Costante Bianchi, Barnaba
della Momma e Giovanni Balestra di Roma e Luigi o
Cornelio Cerretti di Rovigo, di cui si sa che apparteneva
al 29° battaglione bersaglieri, mentre della Momma era
anche lui bersagliere ma del 25°, un reparto che aveva
combattuto all’Aspromonte. Tre romani dunque e quattro settentrionali, cone del resto erano stati in gran parte
i Mille.
64
Il breve interrogatorio non era neppure concluso che
da Tripi, dove aveva stabilito il proprio quartier generale,
arrivava il maggiore De Villata. «Nei suoi occhi» scrisse
un patriota garibaldino «brillava un raggio di quella luce
sinistra che illuminava i figli della dea Boania». Così
dovettero vederlo, comunque, i sette (o otto) volontari
che avevano abboccato ingenuamente all’invito del suo
ufficiale e che ora sempre più furenti e spaventati scoprivano l’inganno. Il Maggiore cancellò la promessa del suo
portavoce senza neppure menzionarla: «Soldati» disse
freddamente «voi siete spergiuri verso la patria ed il Re.
In nome della legge militare vigente, voi siete condannati
alla pena di morte da eseguirsi all’istante». E concluse
con lo stesso tono, come se stesse leggendo una pagina
del regolamento dell’esercito: «Disertori ribelli, vi concedo dieci minuti da dedicare alla preghiera». Parole dure,
tremende, che facevano passare fulmineamente i sette
(o otto) volontari da una vaga preoccupazione alla certezza della morte, e di una morte tanto imminente quanto
imprevista e inaccettabile. Le udirono con stupore muto,
il volto solcato dalle lagrime e stravolto da un’ingiustizia
che appariva troppo grande per suscitare anche soltanto
una protesta. Quattro garibaldini caddero in ginocchio,
chiedendo al Signore la forza di morire con dignità, mentre
uno dei loro compagni restava fermo, immobile, rifiutandosi sdegnosamente alla preghiera, e i due giovani volontari realizzavano di colpo inorriditi, l’assurdità del loro
destino. Gli infelici che si erano spacciati per disertori
senza esserlo, presero improvvisamente e pietosamente
65
a protestare disperati dinanzi a Dio e agli uomini la loro
innocenza piangendo gli affetti più cari, la città perduta,
il maledetto calcolo che li aveva indotti in errore. Uno
dei due, Costante Bianchi, un esule romando di 18 anni,
quasi ancora un ragazzo «mesto e bello», non aveva al
mondo che la madre, e lo disse urlando e scongiurando
i vincitori di strapparlo alla morte, di non costringerlo a
lasciarla sola, di non commettere l’estrema infamia. Il
maggiore De Villata, che non aveva mosso un muscolo
dinanzi alla preghiera degli altri condannati a morte, non
si commosse neppure per le strazianti invocazioni dei
due volontari, a cui del resto non prestava alcuna fede.
Disse solo «Niente, briganti! non meritate che piombo
nello stomaco» e fece cenno all’ufficiale che comandava
il plotone di esecuzione di sbrigarsi.
Caricate le armi, i soldati del plotone si schierarono su
un’unica lunga fila. Nel buio sepolcrale della notte cadde
un rullo di tamburo come un cupo, lento preannuncio di
morte. Piangevano perfino gli ufficiali dell’esercito regio
allorché dal gruppo dei condannati si staccò il giovane
garibaldino romano alzando le mani per scongiurare i
giustizieri: «In questo supremo momento lasciatemi il
conforto», disse «di scrivere almeno una parola a mia
madre». L’ufficiale che comandava il plotone, commosso,
fece segno con la sciabola ai suoi uomini di abbassare
i fucili e si avvicinò al maggiore De Villata, appostato
poco lontano, prettamente alla distanza di appena una
decina di metri dal luogo dove poi fu eretta una cappella.
Non fu possibile udire ciò che egli diceva al Coman66
dante ma costui dovette sicuramente confermare la sua
indiscriminata e aberrante sentenza visto che l’ufficiale
tornò lentamente verso il piccolo gruppo di camicie rosse
e allargando le braccia, costernato, mormorò: «Impossibile», senza avere neppure il coraggio di fissare negli
occhi il ragazzo, che accolse la sua risposta trincerandosi
dietro uno sprezzante silenzio.
Un secondo rullo squarciò quella tragica notte siciliana.
I condannati si guardarono in viso per l’ultima volta, qualcuno col volto inondato di pianto, qualcuno sorridendo
malinconicamente per un così triste epilogo dell’avventura. Quando si udì il terzo e ultimo rullo di tamburi, dal
piccolo gruppo dei morituri si levò il grido fatale «Roma
o morte!» prima che una nube di fuoco li avvolgesse nel
crepitio degli spari. Dilatata la nebbia, furono visti sette
corpi inerti, sette giovani che pareva dormissero, co il
«sangue che spicciava dai loro petti e si confondeva con
il rosso delle loro camicie».
Pochi istanti e l’ufficiale del plotone mandò alcuni
dei suoi soldati a seppellire i morti. Uno dei volontari,
il Castagna, a dare credito al racconto di Saffi, era rimasto illeso e riuscì più tardi, con l’appoggio del medico di
battaglione ed il conforto dei documenti che aveva con
sé, a convincere De Villata di non essere un disertore.
Ma sul momento i soldati scoprirono con raccapriccio
che un altro dei garibaldini, il Bianchi, era ancora in vita.
Rianimato per un istane dal soffio della brezza notturna,
aveva sollevato il capo e scorgendo i suoi giustizieri li
aveva richiamati con un debole cenno ed un filo di voce:
67
«Fratelli, il voto dei morenti è sacro». Gli eroi del Risorgimento non dimenticavano nemmeno in punto di morte
le regole della buona oratoria. «Se avete una madre che
amate anche voi» riuscì ad aggiungere il giovane romano
«lasciate che io scriva una parola alla mia».
Uno dei soldati dell’esercito governativo che erano
accorsi al richiamo del moribondo gli si inginocchiò a
fianco e gli resse amorevolmente la testa, mentre il suo
compagno passava un fazzoletto sulle sue labbra spumeggianti di sangue. Altri soldati fecero cerchio intorno a
Bianchi, commentando impietositi la sua richiesta e suggerendo di appagarla, allorché qualcuno venne a portare
l’ordine formale del maggiore De Villata: niente lettera e
colpo di grazia. Una scarica di moschetto troncò così la
vita di un ragazzo che aveva avuto il solo torto di sognare
la sua Roma italiana.
Compiuto il misfatto, il battaglione del maggiore e Villata si allontanò frettolosamente nella notte verso Novara
di Sicilia, abbandonando sulla fiumara le spoglie dei
martiri. Per fortuna, i contadini di Fantina dimostrarono
maggior rispetto per i morti dei civilissimi piemontesi.
All’alba del giorno 5 raccolsero i poveri resti dei sette
garibaldini fucilati, li trasportarono nella vicina chiesa e
li inumarono in una fossa già aperta nel pavimento. Anzi,
secondo una testimonianza raccolta quando i protagonisti
dell’episodio erano ancora in vita, la fossa dovette essere
allargata per accogliere la salma di Costante Bianchi, «un
giovane dalle forme atletiche», che ovviamente eccedeva
le normali misure: sulle sponde del torrente dove i volon68
tari erano stati massacrati insensatamente sorsero, per
iniziativa del sacerdote Giovanni D’Aveni e delle signore
Búcalo, proprietarie del terreno, due edicole affrescate
alla buona da un pittore della domenica, un altro prete,
certo don Mariano Fontana. Una delle cappellette fu scoperta molti anni dopo, su un muro roccioso, seminascosto da una folta siepe, dal fotografo Affannato, che stava
visitando la zona in cerca di ricordi dell’epoca.
69
4
Non fu facile per Trasselli placare gli animi esacerbati
dei suoi uomini quando ebbero appreso la notizia dell’eccidio di Fantina. Dimenticando le delusioni e le sofferenze
degli ultimi giorni, e trascurando perfino il messaggio
pacificatore di Garibaldi, i volontari avrebbero voluto
impugnare finalmente le armi contro gli uomini del 47°
fanteria per vendicare la memoria dei loro compagni così
vilmente trucidati. Il colonnello comandante riuscì per
miracolo a trascinarli verso Novara e ad indurli a tenere
le armi a disposizione del sindaco Bertolani, al quale fece
sapere che non volendo essere «complice degli assassinî»
commessi «da soldati italiani contro fratelli italiani», non
aveva tirato un sol colpo, sebbene ne avesse avuto l’occasione in più di una tappa della sua lunga marcia, per
esempio a Mandanici, dove «poteva bruciare tutti i soldati che ivi salivano».
Veniquattr’ore dopo, giunto a Catania, Trasselli spediva al maggiore De Villata una lettera che, per il suo
tono sferzante e provocatorio, equivaleva a una sfida.
La lettera cominciava con un sarcastico complimento al
Maggiore per il modo con cui aveva diretto «il valoroso
attacco» contro i garibaldini, ma subito dopo cambiava
70
bruscamente tono: «Miserabile che siete, credevate con
tutta la bonomia possibile che con i vostri, croati come
voi, potevate vincere, disperdere, arrestare e fucilare,
mentre la mia forza era composta da 800 individui tutti
risoluti, e col magnetismo trasfuso in essi dal loro capo,
con una posizione presa e nel cuore della notte?». Il capo,
naturalmente era Garibaldi e croati sta per austriaci, tedeschi, insomma gli stranieri del Giusti, quelli che Vienna
«schiavi [li] manda per tenerci schiavi». Ma ciò che, fuor
di invettiva, al colonnello Trasselli premeva di sottolineare era che la presunta disfatta della sua colonna nasceva
esclusivamente da una ragione ideale: «Se io non era
italiano e non avessi avuto ad orrore lo spargere sangue
italiano, credetelo, signore, sul mio onore voi non esistereste più con l’ultimo soldato che comandavate».
Esclusivamente le istruzioni «del primo cittadino italiano» Garibaldi, che soltanto i soldati regi «da non italiani» avevano osato «maltrattare», indussero Trasselli
ad evitare lo scontro, a non abusare mai della sua forza,
a rispettare sempre i carabinieri che incontrava e che
avrebbe potuto «per lo meno disarmare». Così diceva
la lettera al maggiore piemontese, dopo aver elencato
una per una le istruzioni di Garibaldi che cominciavano
con lo slogan più famoso e glorioso del Risorgimento:
«Il nostro programma è sempre lo stesso: Italia e Vittorio Emanuele». La sola idea di poter uccidere un fratello
faceva orrore al colonnello Trasselli, mentre De Villata
non si era fatto scrupolo di fucilarne sette, innocenti.
«Voi abusaste contro gli inermi» proseguiva la lettera
71
con un’altra impennata di generoso furore, «voi ordinaste il sacco ai vostri soldati nel villaggio di Fantina, ed
essi hanno tutto depredato di quanto si avevano nelle loro
case quei villici, servendosi della vile menzogna che l’oro
e gli oggetti dai vostri infamemente posseduti li avevano
comperati dai garibaldini». Questo è un passo particolarmente interessante della lettera, perché accenna ad episodi di cui, diversamente, non si avrebbe notizia. Vi si
indovina anche una certa angustia morale dei vincitori e
non solo una generica prepotenza soldatesca.
Il documento di Trasselli si conclude così vigorosamente, come se il Colonnello schiaffeggiasse il suo antagonista dinanzi ai reparti schierati: «Signore, con tutta la
lealtà dell’animo mio, dopo il vostro operato io vi dichiaro
vile e non italiano; e sappiate che la prima volta che avrò
il bene di incontrarvi, avrò il coraggio di lacerarvi quella
divisa che voi avete infamata e che sola è degna di portarsi da soldato italiano». Era un guanto di sfida, una precisa provocazione al duello, ma il maggiore De Villata
ritenne più prudente fingere un disguido e opporre alla
sferzante lettera dell’ufficiale garibaldino una fin de non
recevoir, tanto più che la poco eroica impresa di Fantina
stava per procurargli la promozione a tenente colonnello
e il trasferimento a Genova in una col suo reggimento.
Più ardimentoso si sarebbe dimostrato qualche anno più
tardi, nel luglio del 1865, quando ebbe minacciato fuoco
e fiamme contro gli autori rimasti anonimi di una scritto
sui fatti di Sicilia, che era comparso su un giornale repubblicano, «Il Genova», e che in realtà ripeteva il racconto
72
di Ernesto Pantano e gli elementi essenziali della lettera
di Trasselli. Ma neppure questa volta fu necessario scomodare il codice Gelli: il Maggiore si accontentò della
pubblicazione di una lettera di solidarietà che evidentemente gli ufficiali del suo reggimento non ebbero modo
di ricusargli. Fu invece, più tardi, un capitano del 20°
reggimento a battersi, in nome di De Villata, contro lo
scrittore garibaldino Giulio Barrili, un letterato di buona
fama, ed a ferirlo leggermente ad una mano.
Abbastanza comicamente, poi, il trionfatore di Fantina
ottenne dal Governo una soddisfazione di carattere non
cavalleresco, ma burocratico: un comunicato sulla «Gazzetta Ufficiale» in cui si dichiarava che il De Villata «era
un galantuomo» ed aveva agito «in conformità dei suoi
doveri e delle istruzioni ricevute». Una specie di attestato
di buona condotta rilasciato dalli superiori.
73
5
I garibaldini e più in generale i democratici vicini al
Partito d’Azione non dimenticarono i ragazzi fucilati sulla
fiumara. Sette anni dopo l’eccidio, un gruppo di studenti
di Novara di Sicilia incoraggiati da alcuni fogli locali di
sinistra propose di dedicare un monumento ai martiri di
Fantina, costituendo un comitato che presto trovò corrispondenza in un altro comitato sorto a Messina, da cui
lanciata anche una sottoscrizione popolare. Ma nel 1869 il
clima politico nazionale era poco propizio a un’iniziativa
del genere. Aspromonte e Mentana erano ancora considerati atti di ribellione, le camucie rosse ancora escluse dal
novero dei reduci delle patrie battaglie, le celebrazioni
delle loro imprese fortunate o sfortunate appena tollerate o addirittura proibite come manifestazioni di spirito
sovversivo. Le censura sabauda non scherzava davvero e
fu inevitabile rimandare a tempi migliori il progetto del
monumento.
Ma i comitati di Messina e di Novara di Sicilia non
si arresero e, in mancanza del monumento ripiegarono
su una lapide da apporre sulla facciata della chiesa di
Fantina. S’incaricò di preparare il testo Raffaele Villari,
un vecchio garibaldino che faceva parte del Comitato di
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Novara e che, in un primo momento, dettò un’iscrizione
assai vibrante, nello stile magniloquente ma solenne
dell’epoca:
su quest’albo di marmo
stanno incisi i nomi
dei sette eroi assassinati vilmente
sulla contesa marcia su roma
ma dalla istoriata pietra
si sprigiona
un grido di vendetta
all’italia e a dio
contro il carnefice impunito
I documenti non dicono perché mai il testo del Villari
sia stato modificato, probabilmente nel timore che accenni
alla vendetta, a Dio e soprattutto al «carnefice impunito»,
il quale era in definitiva un ufficiale del Regio esercito,
potessero scandalizzare le autorità costituite e i benpensanti. Sul prospetto della chiesa di Fantina, in ogni caso,
figura una iscrizione radicalmente diversa, nella seconda
parte, da quella originaria:
su quest’albo di marmo
stanno incisi i nomi
di eroi trucidati
sulla contesa marcia su roma
nel settembre
1862
ma dalla istoriata pietra
un torrente di luce si sprigiona
che ricorda i morti
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che mantengono viva
e sempiterna l’italia
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Le preoccupazioni censorie, come sempre succede, avevano peggiorato sensibilmente lo stile e il contenuto del
messaggio che, da preciso atto di accusa si trasformava
in una sorta di enfatica esaltazione delle vittime, senza
indicazione alcuna dei responsabili dell’eccidio: in meno
di trent’anni, il cammino della libertà nel nostro Paese
si era ristretto anziché dilatarsi. Comunque, la lapide fu
inaugurata l’8 settembre 1890, a cura del Comitato presieduto dall’ingegner Felice Siracusano e con un alato
discorso dello stesso Raffaele Vllari. Nessuna obiezione
aveva mosso alla muratura della lapide sulla facciata della
chiesa di Santa Maria Serenissima della Provvidenza,
l’arciprete don Luigi Stancanelli, un parente del quale,
l’avvocato Salvatore, figurava tra i promotori dell’iniziativa; ma pochi mesi dopo, probabilmente su pressioni del
Prefetto, l’arcivescovo di Messina monsignor Giuseppe
Guarino ne ordinò la rimozione. Si accese allora tra preti,
savoiardi e partito repubblicano una feroce polemica, che
gli studenti democratici di Novara di Sicilia troncarono
allegramente una bella notte restituendo la lapide del Villari alla facciata della chiesa di don Luigi, donde nessuno
osò più smontarla.
Sarebbero trascorsi, tuttavia, quasi altri cento anni prima
che la grande maggioranza degli italiani fosse messa al
corrente – e nel modo più autorevole – dell’incredibile
misfatto compiuto dal maggiore De Villata. L’episodio
di Fantina rimase del tutto sconosciuto alle cronache ufficiali del Risorgimento italiano e delle guerre di indipen-
denza perfino nell’ambito delle rievocazioni popolari del
ferimento di Garibaldi sull’Aspromonte, mentre avrebbe
dovuto suggerire severe riflessioni sulla ferocia con cui i
vincitori imposero la loro legge nel Mezzogiorno, tanto
nei confronti del «brigantaggio» più o meno filo-borbonico, quanto e forse ancor più rigorosamente rispetto agli
esponenti del Partito d‘Azione, ai volontari garibaldini e
agli affiliati della «Giovane Italia». Nella versione edulcorata che del complesso processo risorgimentale la propaganda monarchica e poi fascista diede invece fino alle
soglie della seconda guerra mondiale, contrasti e repressioni scomparvero d’incanto, per dar luogo ad una ricostruzione apologetica nella quale la dinastia e il conte di
Cavour svolgevano un ruolo provvidenziale con l’occasionale, e non sempre avveduta, collaborazione di Garibaldi e Mazzini.
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Indice
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L’eccidio di Fantina
Introduzione
6
Parte prima
Roma o morte
9
Parte seconda
La ferita di Aspromonte
32
Parte terza
Un massacro insensato
55
79
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L`eccidio di Fantina