Domenica
l’attualità
Il megafono, una storia rivoluzionaria
La
di
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
FILIPPO CECCARELLI e VALERIO GUALERZI
la società
Repubblica
Tutti i colori delle tribù del calcio
MARINO NIOLA
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JENNER MELETTI
NATALIA ASPESI
cultura
olpa di una cena al ristorante. «Lei mi disse: “Lo
champagne mi fa impazzire”. Paghi il conto per
due, dai la mancia, fai il pieno all’Audi, paghi la discoteca… Ma perché deve essere sempre l’uomo a
pagare?». Colpa di un week end a Venezia. «Lei ha
voluto fare anche il giro in gondola, cento euro. Con
il conto dell’hotel, avevo già finito il bancomat. E così un bel giorno mi sono chiesto: e se riuscissi a rovesciare il mondo? E se fossero le donne a pagare, per portarmi al ristorante, in piazza San
Marco e poi a letto?». Nascono così le storie degli uomini che si arrabbiano se li chiami gigolò e che si presentano come «escort». Sono gli «accompagnatori», gli eredi dei cicisbei. Promettono «coccole e tanta attenzione», dicono di essere «premurosi e attenti» e
in grado di soddisfare «tutte, ma proprio tutte le esigenze delle
donne moderne». A pagamento, naturalmente.
(segue nelle pagine successive)
ra i due film American Gigolò e Cliente sono passati ventotto anni, tanti, e forse per questo appaiono
molto cambiati sia i gigolò che le pretese delle donne verso piacevoli giovanotti da comprare, usare e
poi lavarsene le mani. Nel primo film, diretto da
Paul Schrader, l’uomo in vendita era Richard Gere, allora, a trentuno anni, di una sontuosa bellezza malinconica, indimenticabile nei secoli; magnifica casa ultramoderna, guardaroba grigio Armani inappuntabile, auto Mercedes
450 SL argento, e come acquirenti signore molto ricche, belle
come l’ex modella Lauren Hutton, in grado di mantenerlo nel
lusso dovuto sia a lui che a loro in cambio del suo commovente sperdimento, senza contare le probabili meraviglie di tutto
il resto.
(segue nelle pagine successive)
con un servizio fotografico di MICHAEL ROBERTS
Apollinaire, pittore prestato alla poesia
C
T
DARIA GALATERIA e MASSIMO NOVELLI
spettacoli
L’officina di Aldo, Giovanni e Giacomo
ANNA BANDETTINI
l’incontro
La seconda vita di Marianne Faithfull
GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica Nazionale
26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Italian gigolò
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
C’era una volta il latin lover: ricche signore da corteggiare
in cambio di regali, vita agiata e scalate sociali. Oggi,
in un mondo sempre più frettoloso e pratico, si chiama escort
e fa un mestiere che ha le sue regole, i suoi rischi e le sue tariffe
Un “mondo alla rovescia” dove sono le donne a prendere
i maschi in affitto per concedersi un’avventura a cinque stelle
Casanova anni Duemila
(segue dalla copertina)
erché nel mondo alla rovescia il maschio
viene preso in affitto — per un’ora, una
notte, una settimana di vacanza — e trattato come un re. Hotel cinque stelle, regali, cene solo in ristoranti con le stelle e poi i
contanti infilati quasi di nascosto nella tasca della giacca. «È stato bello. Giovedì mio marito
parte per la Romania. Ti richiamo».
Mica facile, comunque, la vita dell’escort. Ci sono
quelli che rovinano l’immagine («La storia della miliardaria tedesca Susanne Klatten, ricattata dall’amante, ci
ha provocato un danno enorme»), ci sono «i gigolò da
strapazzo, pronti ad andare con tutte, magari in cambio
di una cena e di cinquanta euro». Ci sono le telefonate
trabocchetto, «con lei che ti dà
l’appuntamento e poi a letto ti
ritrovi anche il marito, che non
si accontenta di stare a guardare». «Ci vuole intuito a fare questo lavoro. Ci vuole psicologia».
Flavio, trentaquattro anni, abita a Roma. «Il momento più importante è la prima telefonata.
Le donne sono timide, chiedono se davvero sono un escort
come se parlassero per conto
di un’amica. E così si informano. Cosa fai, quanto costi, si sta
solo in compagnia o si va anche
a letto… Io parlo con calma, la
telefonata dura dai venti muniti all’ora intera. Chiarisco tutto,
innanzitutto i prezzi. Almeno
trecento euro per cena e dopocena, più la trasferta. Se mi telefona l’impiegata, vanno bene i trecento. Se capisco che
dall’altra parte c’è la manager,
chiedo di più. Ma non bisogna
essere ingordi. Il nostro lavoro
ci permette di vivere benissimo ma è un lavoro precario. Ci
vuole la «fidelizzazione», come
nei supermercati. La cliente
deve tornare da me, solo così ti
fai un mercato abbastanza solido. Io sono bravo e gentile, e
posso dire che nel 95 per cento
dei casi non c’è soltanto una
botta e via».
Liceo classico, laurea in giurisprudenza. «Sono gentile —
devo esserlo — anche con le
sguaiate che ti chiedono subito misure e durata… Non le voglio nel mio carnet ma non
posso maltrattarle altrimenti
continuano a perseguitarti al
telefono. Io esco solo con donne di classe. In fin dei conti,
questo mestiere l’ho sempre
fatto. Mi chiamavano nei salotti romani, le signore mi
guardavano e poi con una scusa mi invitavano a casa o in albergo. Era bello, ma era
gratis. E allora ho deciso di diventare professionista.
Patti chiari vuol dire che non puoi partire da Roma per
Milano e poi scoprire che la signora non si è presentata. E allora, prima di fissare l’incontro, dai anche il numero della tua carta ricaricabile e chiedi almeno il quaranta per cento di anticipo. Trecento-cinquecento euro per una serata, dai seicento ai mille per un fine settimana, tremila per una vacanzina di cinque o sei giorni.
Questi i prezzi minimi, più le spese, ovviamente. In media ho due appuntamenti alla settimana: una serata
singola e una doppia, sabato e domenica. Non mi posso certo lamentare del reddito. Ma se fossi gay, sarei ricco. Più di metà delle telefonate mi arrivano da chi vorrebbe incontri omosessuali, che io non accetto. Non
voglio nemmeno incontri con coppie, perché detesto i
mariti che dicono “io sto solo a guardare, sono un contemplativo” poi non stanno mai fermi. Incidenti? Quasi mai, dopo un’attenta selezione. Certo, mi è capitato
di andare lontanissimo per incontrare una “bella e focosa signora” e mi sono trovato davanti una vecchierella. Ma non mi sono tirato indietro. In quel momento
mi sono sentito come un attore che interpreta la parte
assegnata. Pensi agli altri incontri, a quando sei a letto
con donne ancora belle. Le mie clienti hanno dai ventuno ai cinquantacinque anni, le più numerose hanno
un’età compresa fra i quaranta e i cinquanta. È un bel
divertimento e sei pure pagato. È il massimo».
Se l’ereditiera della Bmw, sotto ricatto, consegna milioni di euro al suo gigolò, la storia finisce su tutti i giornali del mondo. Ma non mancano cronache che restano nascoste perché non contengono reati ma solo follia. «Un industriale — racconta Max Maiellaro, direttore dell’agenzia di investigazioni milanese Agata Christie
— ha scoperto che la moglie aveva una relazione guardando il conto corrente. Nel febbraio e marzo di quest’anno erano scomparsi 155mila euro. Abbiamo fatto
le nostre indagini e abbiamo scoperto che la signora non
andava a trovare le amiche ma il suo escort di vent’anni
più giovane. I soldi? Li aveva spesi per comprargli abiti
firmati, Rolex e anche una Bmw Cabrio. Oltre, naturalmente, i grandi alberghi e le cene a lume di candela. Abbiamo riferito al marito, lei ha protestato. “È solo un
amico”. Noi non possiamo violare la privacy, non sappiamo cosa succeda in una camera da letto. Ma possiamo ritenere che se due persone, dopo la cena, vanno
nella stessa camera dell’hotel a cinque stelle e ci restano
fino all’una di notte, forse non lo fanno per giocare a bri-
P
scola. Consegniamo i risultati delle indagini e basta.
Spetta poi al marito decidere che fare».
Vita impegnativa, quella dell’escort. Quasi da camionista. «In un anno — racconta Roy, «best italian boy»,
trentasette anni, perito agrario marchigiano — faccio
centomila chilometri in macchina. Così riesco a organizzare tre o quattro incontri alla settimana. Io faccio
anche l’accompagnatore vero e proprio, in pratica l’attore. Domani, ad esempio, vado a una mostra con una
signora assessore che vuol fare bella figura con il sindaco. Le tariffe? Decido caso per caso. Anch’io sto al telefono a lungo, per capire chi ci sia dall’altra parte. Per la
stessa serata, posso chiedere trecento o duemila euro,
dipende dal portafoglio della donna, dall’età, dalla bellezza… Le ricche sono davvero una miniera. Alla fine di
un appuntamento te ne chiedono un altro dopo due o
tre giorni, al massimo dopo una settimana. Mi piace anche l’altra mia faccia, quella dell’attore. Ci sono ragazze
“Sono timide,
chiamano
per informarsi
come se parlassero
per conto
di un’amica:
cosa fai,
quanto costi,
si sta solo
in compagnia
o si va anche a letto
Io parlo con calma,
la prima telefonata
può durare un’ora”
che mi acquistano per fare ingelosire il fidanzato, donne che mi affittano per andare al matrimonio dell’ex fidanzato facendo vedere a tutti che si sono trovate un bel
pezzo d’uomo… Certe volte, dopo l’accompagnamento, arriva anche il sesso. Io non dico mai no. Però un trecento euro li aggiungo sempre».
La vita degli escort-gigolò a volte entra anche nelle
questure. A Milano F. S., quarant’anni, è stato condannato per avere sottratto denaro alle signore sue «fidanzate». Sfilava dalle borsette bancomat e codici,
comprava mobili antichi e anche fiori (per dodicimila euro) con i quali cercare nuove conquiste. «Non è facile — dice Federico Francese, della Ivi investigazioni
con sedi in tutta Italia — scoprire questo nuovo tipo di
relazione extraconiugale. Quando c’erano le “scappatelle”, in un paio d’ore risolvevi tutto. Con questi
escort, per capirci qualcosa, devi seguire una signora
per una settimana. La vedi con un ragazzo, più giovane di una ventina d’anni. Ma lei sta molto attenta: passeggia, beve un Martini con lui ma non lo prende nemmeno per mano. Li trovi al ristorante, li segui per strada… E alla fine scopri che alla sera, uno dopo l’altro,
entrano nello stesso albergo. A questo punto avvertiamo il marito che ci ha ingaggiato. C’è chi perdona, chi
chiede la separazione. E c’è chi dopo avere perdonato, passato un anno torna da noi, perché “ha saputo”
che la signora non è andata dalla zia malata a Reggio
Emilia ma è stata vista in un albergo di Treviso».
Raul, trentatré anni, lavora soprattutto in Friuli. «Bisogna stare molto attenti alle fregature. Solo così si sopravvive». Non basta il pagamento anticipato via carta
ricaricabile. «Io le donne — spiega l’escort friulano — le
voglio vedere in faccia. Per questo chiedo che mi mandino una foto via email o con un mms. Le donne le voglio giovani, massimo quarantacinque anni, e piacenti.
Le richieste non mancano, posso scegliere». Patti chiari anche per le tariffe. «Per cena e dopocena, facciamo
dalle otto di sera alle due della notte, sono seicento euro. Dalla sera al mattino, mille euro. Per fine settimana
o vacanza, si tratta volta per volta. Le clienti? Ce ne sono
di ogni tipo. C’è quella che vuole sesso e basta, due ore e
via. C’è quella che si sente sola e cerca coccole. C’è chi mi
paga per essere accompagnata a fare shopping. C’è la
manager super impegnata che però ogni due settimane
mi chiama e mi fa anche fretta. “Sono all’hotel… Sbrigati”. E poi ci sono le ragazze normali, impiegate, commesse e anche operaie, che per una sera hanno deciso
di fare follie. P. mi ha affittato per la festa del suo compleanno: voleva farsi vedere dalle amiche, per essere invidiata. G. invece ha voluto venire a letto con me per “ripagare” il fidanzato che l’aveva appena lasciata. Io sono
pronto a tutte le situazioni. L’importante è che il mio cellulare non resti muto».
Non manca la concorrenza e, come in tutto il commercio, bisogna investire in pubblicità. «Benvenuta nel
mio universo… io sono colui che adorerà vederti sorridere… allontanerò i tuoi pensieri dipinti di nero… Voglio esaudire i tuoi desideri, i tuoi vizi…». «Sono gentile,
discreto, simpatico, sensuale, dolce e trasgressivo».
«Sono un escort esclusivo etero per donne di classe».
«Specializzato in preliminari, amo ascoltare e fare le
coccole, sono riservato e disposto a farti compagnia in
qualsiasi tipo di occasione». Sogni e promesse da biglietti dei cioccolatini. «Per te che ami la perfezione, interpreterò l’uomo dei tuoi sogni». Meglio comunque essere precisi. «Sì cara, stasera sarò solo tuo. Dalle nove a
mezzanotte, cinquecento euro».
FOTO MICHAEL ROBERTS / MACONOCHIE PHOTOGRAPHY
JENNER MELETTI
I FILM
LA PRIMAVERA
ROMANA DELLA
SIGNORA STONE
LE FOTOGRAFIE
Le immagini di queste
pagine sono tratte
da Shot in Sicily
di Michael Roberts
pubblicato
da Edition 7L Paris
Warren Beatty
è il gigolò che
seduce una Vivien
Leigh sul viale
del tramonto
Da Tennessee
Williams (di José
Quintero, 1961)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27
Cacciatori di dote
e shopping sessuale
NATALIA ASPESI
(segue dalla copertina)
el secondo film, francese, appena presentato al Festival di Roma, diretto da
una signora senza grandi pretese, Josiane Balasko, c’è sul mercato cui ricorre una cinquantenne molto graziosa, Nathalie Baye, un
ragazzotto dall’aria magrebina, nervoso, insicuro, mal vestito, con amici battoni, che si vende per pagare il mutuo del negozio da parrucchiera della bionda amata moglie, vivendo con
suocera e cognata in pochi rumorosi metri quadri. Una vita d’inferno. Questo Eric Caravaca,
tale è il nome dell’attore, nel ruolo di gigolò parigino non potrebbe attirare molti pur scarni
portafogli femminili e neppure maschili, tanto
meno avrà diritto ad entrare nei nostri sogni anche molto modesti.
Se si ricordano altri cine-gigolò o la loro aristocrazia, i cacciatori di dote, vengono in mente solo stupendi seduttori: Montgomery Clift
(L’ereditiera), Warren Beatty (La primavera romana della signora Stone), Paul Newman (La
dolce ala della giovinezza), David Bowie (Gigolò). Quindi la domanda, riguardo alla metamorfosi gigoliana in Cliente, è: perché oggi,
2008, avendo a disposizione un certo budget
per gli svaghi, la protagonista dello shopping
sessuale, non centenaria né orribile, anziché
raccattare quel poverino, quale opera buona
più che erotica, non si procura uno di quei giovanotti lucidati tipo pubblicità dei profumi che
spuntano in ogni angolo di internet, fotografati anche, maliziosi, nella candida schiuma da
bagno? Evitando quelli che sarebbero allettanti se non abitassero a Bombay o a Kuala Lumpur, le occasioni sono infinite anche nel ramo
saldi. E per esempio se ne vendono pure a pacchetti, tra cui scegliere, a ottanta-cento euro l’ora, «sensibile, maturo, con carriera propria,
buona compagnia», «bello, giovane, raffinato,
buon ascoltatore, molto gentleman», «abile nei
massaggi rilassanti ma anche in servizi più accuratamente personali». Alcuni perfezionisti
insistono sul «male male escort», sulla doppia
mascolinità del prodotto, e le agenzie apposite
assicurano che i loro chaperon sono rigorosamente etero e non sprecano la loro professionalità anche con uomini. Le più eleganti mettono in chiaro che i loro cavalieri, e senza sovrapprezzo, sono disponibili anche per compagnia
«non sexual», offerta pare, per ora, troppo chic
per essere molto richiesta.
La moltitudine (dicono) di uomini che da
sempre si guadagnano duramente da vivere,
talvolta anche nel massimo lusso, a carico di signore o signori si divide in varie categorie o classi, del resto come le donne: alla base della scala
ci sono i prostituti e i mignotti, cui si chiedono,
immagino, prestazioni a buon mercato e non
impegnative; poi i gigolò, in grado almeno di
spiccicare parola e di mimare modesti corteggiamenti, persino (per modico sovrapprezzo)
con invito a cena a lume di candela; più su, l’indefinibile ma vasta categoria dei mantenuti,
spesso mariti della signora che lavora, orgogliosa di consentire al suo uomo di studiare, prepararsi a un grande avvenire, fare l’artista non ancora compreso, eccetera. La nobiltà del ramo è
costituita dai playboy, di cui quel Helg Sgarbi,
ricattatore senza talento della ultramilionaria
tedesca Susanne Klatten è la degenerazione da
tempi bui.
Dice Beppe Piroddi, famoso playboy italiano
anni Sessanta, autore della divertente autobiografia Amateur: «Eravamo giovani e ardenti,
frequentavamo donne bellissime e uomini celebri, il denaro allora non contava, contava solo il piacere, il divertimento, le passioni. Oggi invece l’unico metro di misura sono i soldi, che
guastano ogni avventura». Veramente il denaro contava eccome anche in passato, perlomeno per certi playboy entrati nella storia. Ad
esempio Porfirio Rubirosa, professionista raffinato della seduzione come investimento, che
non chiedeva, non ricattava, ma sposava: solo
miliardarie naturalmente, una in fila all’altra,
tra cui le disordinate e infelici Barbara Hutton e
Doris Duke.
Più che un gigolò, forse quell’Helg Sgarbi è un
epigone fallito dei grandi playboy alla Rubirosa:
tutte quelle ricche signore forse attraenti, neppure vecchie, che smaniavano per lui, che si
contendevano il suo charme, i suoi modi, le sue
attenzioni, la sua capacità di farle sentire belle,
desiderate, uniche, come ormai gli uomini non
professionisti del fascino non fanno più, potevano ricompensarlo per tanta dedizione. Come
si paga un gioiello, o una pelliccia, pagavano e
molto lo sciocco Helg. Avrebbe potuto diventare ricco, senza vendersi, solo venendo ricompensato per la sua capacità di farne felici tante,
come un generoso samaritano dell’eros, o magari riuscendo a sposarne una particolarmente
ricca. Che sia precipitato nel ricatto, e quindi
nella galera, significa che si sottostimava, che il
suo socio lo aveva irretito, che lui stesso, con tutta la sua professionalità, delle donne ancora
non aveva capito niente.
N
UN UOMO
DA MARCIAPIEDE
Jon Voight
sbarca il lunario
a New York
accompagnando
donne benestanti
Dustin Hoffman
è il suo migliore
amico (di John
Schlesinger, 1969)
AMERICAN
GIGOLÒ
GIGOLÒ
PER SBAGLIO
L’ULTIMO
GIGOLÒ
CLIENTE
(A FRENCH GIGOLO)
Richard Gere,
vestito di Armani,
incarna il gigolò
perfetto
per Lauren Hutton
Ma viene incastrato
in un misterioso
omicidio... (di Paul
Schrader, 1980)
Commedia
degli equivoci
in cui il venditore
di acquari Deuce
è costretto
a improvvisarsi
gigolò per bisogno
di soldi (di Mike
Mitchell, 2000)
Le illusioni
perdute del gigolò
(e scrittore)
Andy Garcia
Nel cast
James Coburn
e Mick Jagger
(di George
Hickenlooper, 2001)
Una cinquantenne
parigina
(Nathalie Baye)
inganna
la solitudine
ricorrendo
a un giovane
escort (di Josiane
Balasko, 2008)
Repubblica Nazionale
28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’attualità
In piazza
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
Messo da parte negli anni del disimpegno
politico e del riflusso, è tornato in auge
grazie al nuovo movimento studentesco
Dall’indimenticabile “Vota Antonio” di Totò
ai cortei dei no-global: ecco i motivi per cui
quest’oggetto vince la lotta contro il tempo
Il revival del megafono
voce delle parole ribelli
FILIPPO CECCARELLI
entornatoil megafono. Bentornato di moda — se mai fosse scivolato nel dimenticatoio — sull’onda dell’Onda
anomala degli studenti. Megafono a tracolla nei cortei;
megafono che risuona davanti ai cancelli delle scuole;
megafono per fare lezione universitaria in piazza. Incredibile, ma vero, adesso se ne va addirittura a ruba, il megafono, arma dei senza voce, dei senza diritti, dei senza quattrini. Così
informano le cronache che il 22 ottobre scorso, a Firenze, durante l’occupazione dell’istituto professionale alberghiero Saffi, tre giovani (e
malintenzionati) si sono messi a girare per le aule e quindi, approfittando del fervido e gioioso clima, sono usciti quatti quatti con un bel
megafono nascosto sotto il giaccone. A temeraria e malandrina conferma, si direbbe, di un revival senza limiti di tempo.
E sarebbe anche un segno di speranza che questa nuova visibilità si
accompagnasse al rilancio della parola motivata e autentica, da condividere negli assembramenti all’aria aperta, «gridatela dai tetti!», si diceva una volta, oppure soffiatela nell’umile magico imbuto della viva
voce che risuona.
In principio, in effetti, il megafono era poco più di un imbuto, senza pile né elettricità a dargli forza e clamore in tutte le possibili occasioni e modalità d’uso. Di ottone brunito era il megafono con cui
l’ammiraglio Nelson guidava la disposizione e i movimenti dei marinai sulle cannoniere britanniche prima e durante la battaglia. Di
latta o banda stagnata, plausibilmente, oltre che di oblunga e curiosissima foggia quello impugnato da Totò in un comizio alla finestra sulla piazza ciociara di Roccasecca ne Gli onorevoli (di Sergio
Corbucci, 1963). Indimenticabile e profetico quel suo comizio dadaista: «Vota Antonio! Vota Antonio!».
Attrezzo al tempo stesso famigliare e desueto, comunque pre-televisivo, eppure forse proprio per questo oggi riscoperto come capace di
evocare la più vasta e anche contraddittoria varietà di atmosfere. Per
Federico Fellini, che ne fece uso e spettacolo, il megafono raffigurava il
potere: «Non avrei mai pensato di fare il regista, di minacciare come un
domatore urlando dai megafoni — ha confessato una volta il Maestro
—. La prima volta che vidi dei registi in azione pensai che era un mestiere ridicolo, cialtronesco, maleducato. Non credevo di avere una voce per imporre un’autorità carismatica, ma dal primo giorno in cui mi
sono trovato dietro una macchina da presa, quella voce mi è venuta
fuori in modo naturale». Per quanto trasfigurata in metallica e cavernosa, nel bel mezzo di un carosello musicato da Nino Rota.
Dunque, può essere il comando che ispira l’immediata suggestione dell’amplificatore. Ma quando una notte di cinque anni orsono due scalatori inglesi si ritrovarono incrodati, irraggiungibili e
senza apparenti speranze in parete lungo la via Dimai sulla Tofana
di Rozes, ecco, è esattamente a un megafono del Soccorso alpino
della Guardia di Finanza che devono la loro salvezza. Così come, sulle macerie fumanti di Ground Zero, c’erano megafoni a incoraggiare le squadre dei vigili del fuoco: un esemplare in plastica fu poi donato al presidente George W. Bush.
Perché poi insomma è la vita, a pensarci bene, che è fatta di altoparlanti, e a volte sono anche troppi, e non solo negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, sui luoghi del disastro, sul set, in montagna o nelle agitazioni di piazza. Il rumore infatti è contagioso e nel caso dei residenti
del centro storico di Roma, specie intorno a Campo de’ Fiori, il guaio o
meglio l’incubo deriva dall’irruzione sul mercato di piccoli megafoni
di produzione cinese, pure dotati di registratore, al prezzo di 5 euro e 79
centesimi. Ebbene, la scorsa estate in quell’area già di suo poco silenziosa le notti erano funestate dalla curiosa tendenza di diversi giovinastri a parlarsi l’un l’altro, ma tutti insieme, da un lato all’altro della piazza: al modo di urlatori tecnologici, fino all’arrivo della polizia e al sequestro massivo dell’evoluta merce che diffondeva e dilatava quella
chiacchiera selvaggia.
Difficile stabilire con esattezza quando il megafono era parso entrare nell’ambiguo, nostalgico e pacificatissimo comparto del modernariato. Certo un velo di polvere aveva finito per depositarsi sulla memo-
B
ria in bianco e nero di certe fotografie inequivocabilmente sessantottine o, se si preferisce, sessantottesche. Per una volta nei ricordi il mezzo tradiva il messaggio e allora i volti, l’aspetto, gli atteggiamenti, gli
stessi sentimenti di chi maneggiava quel fatidico apparecchio facevano premio su qualsiasi argomento propagato in quegli anni di effervescenza sociale. Di quella stagione restano impressi semmai pochi
frammenti vocali: «Compagni... il concentramento... operai e studenti... crrrr...». Perché a volte l’arnese si rompeva mettendosi a ronzare o
più spesso funzionava a intermittenza.
«Megafono della rivoluzione» si definì d’altra parte Vladimir Vladimirovic Majakovskji. L’impegnativa qualifica deve aver contribuito a
collegare inestricabilmente questo strumento alla lotta politica, con il
che è ragionevole pensare che a determinarne l’apparente declino siano stati il riflusso, la stanchezza, il disimpegno, la delusione. Lontano
dagli occhi, e quindi dal cuore, il megafono sopravvisse tuttavia nel
mondo dei simboli e delle metafore, negative o positive che fossero. Si
poteva essere «megafoni» di tutto, della pace e della guerra, della Cina
e della Cia, della provocazione e in fondo anche della speranza. «Voi siete il megafono del Papa», disse un giorno Karol Wojtyla ai giornalisti della Radio Vaticana; «Rutelli è un megafono che gracchia», accusò un’altra volta Sandro Bondi per replicare all’allora leader del centrosinistra.
E però c’è modo e ragione di ritenere che la manifesta decadenza, più che alla politica fosse dovuta anche allo sviluppo della tecnologia, al superamento
pratico del vecchio altoparlante fisso o manuale, alla sua sostituzione
con gli asettici sintetizzatori regolati da sistemi
automatici, voci pre-registrate, distanti, robotiche. Nel suo recente Il
tramezzino del dinosauro, sintomatico catalogo
di «oggetti, comportamenti e manie della vita
quotidiana» (Guanda),
Marco Belpoliti spiega
bene il «secco impoverimento» cognitivo causato alla società dalla fine o comunque dalla
mancanza della voce
umana, certo amplificata dalla meccanica, ma
pur sempre «carica di intenzioni, di allusioni,
sottintesi, evocazioni di
stati d’animo».
E qui giocoforza vale comprendere nella ripresa d’interesse per il
vecchio e caro megafono pure la sua inaspettata declinazione per
così dire armonica, non per caso messa in opera dal movimento giovanile no-global: vedi il «concerto per megafoni, slogan e orchestra»
eseguito dai gruppi “Terra terra” e “Fiati perduti” al Social Forum di
Firenze dell’ottobre 2001, un gran miscuglio di suoni e di generi, rullanti e tromboni, rap e risonanze di Carosone («Tu vuo’ fa’ l’americano»), inframmezzate da rime ritmate e più specificamente polemiche tra cui spiccava: «A tutti diamo il benvenuto, / ma se viene
D’Alema zitto e muto!».
E sempre in tema musicale, a parte qualche pezzo in cui Franco
Battiato si diverte a modulare la voce in risonanze artificiali («Sul
ponte sventola bandiera bianca»), arrivò più esplicitamente a Sanremo L’uomo con il megafono di Daniele Silvestri, canzone abbastanza malinconica per quanto disposta ad offrire un raggio di sole:
«L’uomo col megafono parlava parlava / parlava di cose importanti, purtroppo / i passanti, passando distratti, a tratti / soltanto sembravano ascoltare il suo / monologo, ma l’uomo col megafono / credeva nei propri argomenti».
Di quella stagione
sessantottina restano
impressi pochi
frammenti vocali
“Compagni....
il concentramento...
Crr...”
Perché spesso
l’arnese si rompeva
Repubblica Nazionale
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29
Fenomenologia di uno strumento-simbolo
dai teatri dell’antica Grecia alle manifestazioni
VALERIO GUALERZI
cquistare l’originale Rcf Mg80 visto in piazza anche negli anni Settanta: 115 euro. Comprare una volgare imitazione da uno dei tanti ambulanti di Campo de’ Fiori: venti euro. Gridarci dentro «la vostra crisi non la paghiamo»: non ha prezzo. In fondo, parafrasando il fortunato spot pubblicitario, è proprio questo uno dei segreti della longevità del megafono, gioiello della tecnologia rimasto solidamente al
centro di tutte le rivolte studentesche malgrado dal ‘68 a oggi la comunicazione abbia fatto un fantascientifico salto dal ciclostile ai social
network. «Il bisogno e il piacere di sentire la propria voce amplificata accompagna l’umanità da millenni, il primo megafono è stato probabilmente una grande conchiglia forata», spiega Vittorio Marchis, docente di Storia della tecnologia al Politecnico di Torino. A far
compiere un ulteriore balzo sono state nel Sesto secolo avanti Cristo le compagnie teatrali dell’antica Grecia, che utilizzavano imbuti inseriti all’interno delle maschere di scena per farsi sentire anche dalle ultime file. Nel Diciassettesimo secolo sarà il gesuita tedesco Athanasius Kircher, tipica figura di erudito universale con interessi che spaziavano dalla
filosofia alla meccanica, ad abbozzare qualcosa di vagamente simile all’apparecchio che conosciamo oggi.
«Ma il padre della versione odierna — dice Marchis — è senz’altro Thomas Alva Edison, padre anche del
fonografo». Lo sbocco ideale per una versione commerciale del prodotto era la marineria, dove è fondamentale far arrivare gli ordini da un capo all’altro delle navi sovrastando il rumore delle onde e del vento.
Spulciando negli archivi dell’ufficio americano dei brevetti si scopre ancora che a depositare il disegno di
un megafono sostanzialmente identico nella forma a quelli che ancora oggi scandiscono le parole d’ordine
delle manifestazioni di piazza è stato nel luglio del 1951 un tale Shitetsu Kamimori, dimenticato inventore
giapponese che lo registrò con la definizione di electric megaphone. Da allora il megafono è rimasto pressoché
identico e anche l’azienda leader che li produce in Italia, la Rcf di Reggio Emilia, continua a vendere lo stesso
modello Mg80 da oltre trent’anni piazzando sul mercato italiano un migliaio di pezzi l’anno, soprattutto a forze
dell’ordine, vigili del fuoco, marina mercantile e protezione civile. Un bel record se si pensa a trovate meno fortunate divenute obsolete nel giro di poco tempo. «Il megafono è composto da una cassa acustica, da una membrana
che vibra e da una forma a imbuto che protegge il suono dal vento e orienta le onde sonore; difficile immaginare cosa potrebbe funzionare meglio», ammette Paco Lanciano, fisico e divulgatore scientifico che siamo abituati ad apprezzare al fianco di Piero Angela. «Oggi — sottolinea — viviamo con molti oggetti cordless, senza fili, ma rispetto ad
altri il megafono è stato uno dei primi, forse il primo insieme alla valigetta mangiadischi. Però mentre questa è stata presto superata e sostituita infine dall’iPod, la genialità del megafono è che l’invenzione iniziale è stata definitiva, non ha
avuto bisogno di evoluzione, un po’ come è avvenuto con i binari del treno, rimasti identici (a parte le traversine) dai tempi della locomotiva a vapore». E pensare che dare a qualcuno del megafono non è esattamente un complimento.
A
BIPARTISAN
Dall’alto in senso orario,
brevetti di megafoni
a partire da inizio Novecento;
manifestazione contro i tagli
alla scuola; Silvio Berlusconi
nel ’97; George W. Bush
a Ground Zero; Nanni Moretti
sul set del film La stanza
del figlio; il dirigente comunista
russo Anatoly Lukyanov;
Totò nel film Gli onorevoli;
Federico Fellini sul set
Il disegno è di Fortunato Depero
Il brano non deve essere sfuggito a un signore, Pierluigi Lenoci,
che su Internet ha giustappunto aperto un sito intitolato “L’uomo col megafono” (www. lenoci. org/megafono) nel quale, con
la tecnica del fotomontaggio e il caldo invito a «supportare anche tu questa follia», egli si colloca — Zelig digitale e risonante — nelle più varie situazioni: in una cena con il Papa
e i cardinali, in uno studio televisivo, fra i colori dell’Urlo
di Munch, al Gay Pride, con alcuni bimbi travestiti da
Halloween, sullo schermo di un telefonino, ma sempre con l’inseparabile strumento.
Alla lunga, le immagini dell’ottimo Lenoci fanno
cortocircuito e inesorabilmente rievocano altre foto,
però vere, di personaggi con megafoni. L’onorevole
Gramazio (An) su di un gigantesco camion a caccia di
viados; il presidente Berlusconi che dal predellino di
un’automobile dichiara la nascita del Popolo della libertà; Di
Pietro che raccoglie firme al Circo Massimo; Oreste Scalzone, ormai
anziano, ritornato alla Sapienza ad arringare le folle. Sembrano sogni, suoni, visioni e stati di eccezione. Parole sugli occhi, megafonate nelle orecchie.
Repubblica Nazionale
30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
la società
Guerre ritualizzate
Nerazzurri, bianconeri, giallorossi, blucerchiati, viola...
Come nascono, dove affondano le radici gli emblemi
araldici di quell’epica moderna che è il football? E cosa
lega due personaggi così lontani come Lancillotto
e Maradona? Ora un libro dà le risposte scavando dentro
l’intreccio di miti e storie del gioco più bello del mondo
ROMA
I colori porpora e oro dell’impero romano
erano quelli della Roman, squadra fondata
nel 1901. Hanno resistito fino al 1927
con la nascita della Roma dalla fusione
di sette squadre e maglie diverse
FIORENTINA
Il rosso del giglio in campo bianco, simbolo
di Firenze, era richiamato nella maglia del 1926
dopo la fusione di C.S. Firenze e Libertas
Un lavaggio sbagliato nel ’29 fu la causa
del successivo e attuale colore viola
I colori delle tribù del calcio
MARINO NIOLA
uore bianconero, anima
blucerchiata, fede giallorossa. Sono espressioni
che non hanno bisogno di
spiegazioni, significano
immediatamente, quasi
naturalmente, un’identità, un’appartenenza, una passione, una storia. Sono
gli emblemi araldici di quell’epica moderna che è il calcio. Dove i veri protagonisti sono i colori. Più delle parole, che
passano. E più degli stessi campioni le
cui gesta acquistano il loro significato
eroico soprattutto se compiute al servizio di una maglia.
Esattamente come le imprese dei cavalieri medievali, quelle di cui si favoleggiava di torneo in torneo, apparivano
tanto più gloriose quanto più erano
messe al servizio di una causa nobile,
contro un nemico comune. Simboleggiati immancabilmente da un colore.
Dal cavaliere verde e da quello bianco
che nei racconti della Tavola rotonda
C
combattono contro i prodi Galvano e
Galahad, all’invincibile Ivanhoe, il cavaliere nero che nel romanzo di Walter
Scott cela dietro il non colore per eccellenza la sua condizione di diseredato,
senza casato e senza nome. Per non dire
del turbolento Giovanni de’ Medici, il
condottiero rinascimentale passato alla
storia come Giovanni dalle bande nere
perché, in segno di lutto per la morte di
Papa Leone X, cambiò le sue insegne a
strisce bianche e viola con le celebri
bande nere. E del non meno famoso
Guidoriccio da Fogliano, immortalato
dal grande pittore Simone Martini che fa
letteralmente scomparire il corpo del
guerriero sotto la divisa a scacchi gialloneri che coprono lui e il cavallo. Come
dire che la forza e il valore dell’uomo sono in funzione dei colori che rappresenta, delle insegne di cui è campione. Le
giostre d’armi, le sfide equestri, le gare
militari erano in realtà delle guerre simulate combattute tra colori contrapposti. Elmi, pennacchi, mantelli e scudi,
era tutto un variopinto carosello in cui
ciascuno era il suo colore.
«Non sono io a portare la maglia ma è
lei che porta me». Lo ha detto il fuoriclasse interista Patrick Vieira, ma potrebbe averlo detto molto prima il fiero
Lancillotto che si batteva per i colori di
re Artù e, soprattutto, della bella Ginevra. E la frase non sarebbe dispiaciuta
nemmeno ai quattro moschettieri il cui
motto — «uno per tutti, tutti per uno» —
ricorda tanto la filosofia di Arrigo Sacchi,
prima maniera. Proprio al rapporto tra i
colori e lo sport, fra antiche guerre rituali e moderni rituali agonistici, è dedica-
“Non sono io
a portare la maglia,
è lei che porta me”,
dice il fuoriclasse
Patrick Vieira
to un bel libro di Sergio Salvi e Alessandro Savorelli intitolato Tutti i colori del
calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere). Un racconto
dei miti e delle storie che girano intorno
al calcio italiano e internazionale e che
ne fanno, come diceva Pasolini, l’ultimo
autentico rituale popolare. Un deposito
di memoria collettiva, una macchina
mitologica che costruisce leggende, inventa tradizioni, celebra i suoi eroi e distribuisce i suoi quarti di nobiltà.
In realtà un lungo filo rosso unisce il
calcio a quei conflitti ritualizzati che furono i tornei cavallereschi. Due mondi
lontani ma entrambi accomunati da una
ragione araldica. Basata sul rango quella
della cavalleria, sulla passione sportiva e
sull’appartenenza territoriale quella del
football. In un caso e nell’altro si tratta
comunque di passioni umane e vicende
sociali che si esprimono nel linguaggio
del colore. Forse il più semplice, il più
elementare tra i segni cui gli uomini, e
ancor prima gli animali, ricorrono per
scriversi sul corpo identità e differenze.
In realtà il gioco più bello del mondo eredita una grammatica dei colori che una
volta fu il vero evidenziatore delle identità, dei ruoli e delle categorie sociali. A
ciascuno la sua tinta, la sua sfumatura, la
sua gradazione, il suo mélange. Giovani,
anziani, ricchi, notabili, mercanti, aristocratici, medici, notai, folli, malati si riconoscevano dall’abito che portavano e
dal colore che vestivano. L’essere e l’apparire obbedivano al codice cromatico
che assegnava a ogni tinta determinati
significati condivisi e noti a tutti, in modo da rendere facile il riconoscimento
della persona vestita in una certa maniera e di un certo colore. Dal nero lampeggiante dei velluti preziosi al rosso cremisi dei corsetti, dal rosa polveroso dei giustacuori, al candido traforo dei collari di
pizzo, all’azzurro dei pantaloni, al grigio
delle tonache era sempre l’abito a fare il
monaco. Ma anche il signore, il medico,
il precettore, la mercantessa, l’educanda, la vergine, la cortigiana.
E soprattutto il soldato. I colori delle divise, gli stemmi e le insegne dei reggi-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31
LO STUDIO
Si intitola Tutti i colori
del calcio. Storia e araldica
di una magnifica ossessione
(Le Lettere,
224 pagine, 19 euro)
Lo hanno scritto Sergio
Salvi e Alessandro Savorelli
È una storia
delle divise del calcio
dalle loro radici
cavalleresche a oggi
Con 32 tavole a colori
(alcune riprodotte
in queste pagine),
sarà in libreria da domani
INTER
Fondata cent’anni fa, l’Internazionale Milano
ha la maglia a strisce nere e azzurre
In seguito alla fusione con l’Unione Sportiva
Milanese, nel 1928, adotta i colori della città
ma presto ritorna al nerazzurro delle origini
menti ebbero una funzione fondamentale nella guerra ancien régime. Che era
uno scontro in campo aperto e all’arma
bianca, un groviglio inestricabile di corpi
in cui era fondamentale distinguersi, riconoscersi e farsi riconoscere. Anche per
non essere confusi con i nemici. Ecco il
perché delle giubbe rosse e pantaloni
bianchi delle armate inglesi, delle giubbe
blu e pantaloni rossi di quelle francesi,
delle giubbe bianche e pantaloni azzurri
degli austriaci, delle camicie rosse dei garibaldini contro il bianco dei borbonici,
dei soldati blu nordisti contro le divise
grigie dei ranger sudisti. Una sorta di caleidoscopio dove i colori si combinano e
si oppongono gli uni in funzione degli altri, un colore contro l’altro.
Lo sport di massa fa totalmente suo il
linguaggio dei colori e lo adatta a quella
ritualizzazione della guerra che è l’anima stessa dell’agonismo moderno. Una
guerra a salve dove gli eserciti si trasformano in quella che l’etologo Desmond
Morris ha chiamato la soccer tribe, la
tribù del calcio. L’anima tribale del cal-
cio, e in generale degli sport di squadra,
si rivela in tutta la sua forza simbolica
proprio nella venerazione dei colori e
dei simboli sociali: stemmi, gagliardetti,
bandiere, animali mascotte. E nei rituali di iniziazione e di appartenenza che
hanno qualcosa di guerriero, di cavalleresco e di primitivo al tempo stesso. Al
punto da dipingersi con le tinte della
propria squadra, di tatuarsi sulla pelle i
suoi emblemi, proprio come nella guerra tribale. Nel 1987, quando il Napoli di
Maradona vinse il suo primo scudetto
non solo gli ultras ma anche tantissimi
distinti signori di mezza età andarono in
giro per giorni con il volto completamente dipinto di azzurro. E molte signore della buona società ostentavano
con orgoglio parrucche dello stesso colore, ricce e boccolute come i capelli del
Pibe de oro. Anche l’identificazione nell’animale simbolo della propria squadra è una forma totemica, tipicamente
tribale, un modo per cifrare la propria
identità sportiva legandola ai miti d’origine della propria città. Così i romanisti
SAMPDORIA
Anche nel nome la squadra del capoluogo
ligure porta il ricordo della fusione
tra Andrea Doria e Sampierdarenese,
avvenuta nel 1946. Sulla maglia, il blu
viene dalla prima, i cerchi dalla seconda
si trasformano in lupi, i torinisti in tori, i
baresi in galletti, gli alessandrini in orsi,
i genoani e i perugini in grifoni, i supporter del Catania in elefanti, quelli del
Chelsea in leoni, quelli del Valencia in
pipistrelli.
Spesso il modo stesso di raccontare la
storia della propria maglia contribuisce
a creare la mitologia di una squadra legando i simboli del proprio club a quelli della propria terra. Ma soprattutto
conservando la memoria delle origini.
Così la maglia della Juve che in principio
era rosa sarebbe diventata bianconera
La Juventus
dal rosa alla zebra
grazie al dono
di uno stock
di seconda mano
solo perché un generoso sostenitore inglese spedì a Torino uno stock di casacche del Notts County. Mentre quella viola della Fiorentina pare sia dovuta a un
lavaggio difettoso che stinse il biancorosso originario. In altri casi il colore della maglietta nasce in maniera assolutamente casuale, come nel caso del Boca
Junior, la gloriosa équipe di Buenos Aires fondata nel 1905 da un gruppo di immigrati genovesi tanto litigiosi da non
riuscire a trovare un accordo sui colori
della maglia. Si decise così di adottare
quelli della prima nave che fosse entrata in porto. Fu una nave svedese. E così il
gialloblù diventò l’emblema della futura squadra di Maradona.
Ogni colore racconta una storia, dunque. E dove i colori sono più d’uno vuol
dire che di tante storie se n’è fatta una.
Come nel caso della Sampdoria, nata
nel 1927 dall’unione tra la Sampierdarenese e l’Andrea Doria, rossonera la prima e biancoblu la seconda. Il risultato
della fusione fu una sfilza di colori sovrapposti: blu, bianco, rosso, nero,
bianco, blu, con al centro lo scudo di San
Giorgio simbolo della Repubblica genovese. È questa l’origine della casacca
blucerchiata, un autentico compromesso cromatico. Che per i tifosi diventa un indiscutibile articolo di fede, facendo dei colori sociali una seconda
pelle. Uno scudo collettivo che porta inciso il proprio blasone. Proprio come
quelli coloratissimi che nei tornei gli
araldi presentavano al pubblico magnificando quei simboli e quei colori per i
quali i campioni si battevano.
Forse non è un caso che l’etimologia
della parola colore nelle lingue indoeuropee sia strettamente imparentata con
quella di parole come pelle e scudo. In
ogni caso un contrassegno che unisce,
una copertura che difende, un colore
che identifica. Del resto come diceva
Wolfgang Goethe, massima autorità in
materia, il colore è l’espressione più naturale della divisione, dell’identificazione e della contrapposizione. E il variopinto mondo del calcio sembra fatto apposta per dargli ragione.
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
Esattamente novant’anni fa,
il 9 novembre 1918, il grande
poeta moriva di influenza
spagnola. Adesso
un libro pubblicato
in Francia, ma stampato
da un editore torinese,
raccoglie per la prima
volta disegni e dipinti
dell’autore
dei “Calligrammes”
ARLECCHINO
Arlecchino
nell’acquerello
Gli uccelli cantano
con le dita; a destra,
dall’alto in basso:
un autoritratto;
Il passo dell’imboscato;
una figura umana
schizzata a margine
di una bozza di versi
Un album surreale,
popolato
da Arlecchini
e buffi personaggi,
che aiuta a capire
l’opera di un innovatore
p
Ap
che ha segnato
il Novecento
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CULTURA*
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IL LIBRO
Les Dessins
de Guillaume
Apollinaire a cura
di Claude Debon
e Peter Read,
pubblicato
da Buchet/Chastel
e stampato
da Graphot
(160 pagine,
39,50 euro)
ovant’annifa, il 9 novembre del 1918, due giorni prima dell’armistizio della Germania con le potenze alleate, Guillaume Apollinaire moriva a Parigi di influenza spagnola. Se ne andava ad appena trentotto
anni un grande poeta, esponente di spicco dei movimenti d’avanguardia, che era già stato gravemente ferito al fronte nel corso della guerra mondiale e che negli ultimi
momenti della sua vita aveva detto a un medico: «Salvatemi, dottore! Io voglio vivere, voglio vivere. Ho tante cose da fare».
Tra le «choses à faire» c’erano di sicuro le poesie, i racconti, i
drammi da scrivere, ma
anche il disegno e la pittura. Fin da bambino
avevano stimolato la sua
fantasia e il suo talento,
accompagnando e compenetrando l’attività letteraria. In particolare nel
1916, durante la convalescenza in un ospedale
parigino, l’autore di AlMASSIMO NOVELLI
cools e di Calligrammessi
era dedicato con intensità all’acquerello inseguendo, tra le figure di Arlecchini e di Pulcinella, i nudi femminili, i ricordi d’Algeria e le immagini di soldati, quel suo ideale che lo aveva portato a dire come la pittura
fosse «propriamente un linguaggio luminoso». Amico e fautore
dei maggiori artisti dell’epoca (da Giorgio de Chirico a Picasso,
da Chagall a Delaunay, Dufy, Duchamp, Gontcharova, Larionov,
N
L’immaginario
di Guillaume
Repubblica Nazionale
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
Con Picasso & soci
nella Parigi di inizio secolo
DARIA GALATERIA
avinio incontrò Guillaume Apollinaire che correva; andava
alla Prefettura, spiegò, a far firmare il visto di soggiorno. Savinio fu commosso da quella confidenza «rarissima»; Apollinaire soffriva delle sue origini «nebulose». Era nato a Roma, da
un Flugi d’Aspermont — figlio di un maresciallo di campo di Ferdinando II delle Due Sicilie — che era però rimasto nell’ombra.
Spettava comunque a Guillaume Apollinaire de Kostrowitzky (famiglia polacca, ma il nonno materno era cameriere d’onore di
cappa e spada in Vaticano) fare gli spaghetti per gli amici, nell’abbaino al 202 di boulevard Saint-Germain; tra gli incunaboli vegliati dagli occhi a mandorla di idoli congolesi, i primi oggetti cubisti e frutti tropicali «mammelluti», il poeta intanto creava il Novecento. Li chiamarono «gli anni Apollinaire», perché, agli inizi del
nuovo secolo, fu lui il “cemento” di tutte le linee di forza artistiche
del moderno. Fu lui a portare Braque al “Bateau Lavoir”, lo studio
di Picasso a Montmartre; come tutti, Braque rimase interdetto davanti alle Demoiselles d’Avignon. Non si dava pace dell’angolo
piazzato in mezzo al viso delle due donne sulla destra; «è un naso», assicurava Picasso. Matisse, che Picasso inquietava, gli regalò
un ritratto di sua figlia Marguerite, che diventò un bersaglio a freccette; ma fu Matisse a mostrare «allo spagnolo» la prima statuetta
di arte negra. Poi, dal «Rendez-vous dei poeti», come Picasso chiamava il suo atelier, si passava ai caffè della Butte Montmartre, e
c’erano Utrillo, Modì, Braque, Van Dongen, Dupuy. Apollinaire
faceva occasionalmente il critico d’arte; e scriveva, per il Salon des
Indépendants del 1908: «Van Dongen manifesta brutalmente appetiti formidabili. Ci trasporta presso giganti che risolvono la questione sociale con l’impudicizia» e: «Braque con la madreperla dei
suoi quadri ci rende iridescenti».
Quell’anno Apollinaire aveva anche scritto la prefazione alla
mostra di Braque; ma trovava incolto il Doganiere Rousseau — il
ritratto del generale Cadorna, dirà Ardengo Soffici, che faceva la
fame a Parigi dal 1900, e diventò inseparabile con Apollinaire e Picasso; prima della Grande guerra li chiamavano i Tre Moschettieri. A differenza di Apollinaire, Picasso aveva un culto per il Doganiere Rousseau, e volle fare un vasto banchetto in suo onore; era il
dicembre 1908, e la cena è rimasta leggendaria perché, per un malinteso, i cibi arrivarono l’indomani, e ci si arrangiò con riso e alici; i vini fecero solo più effetto. Poi Picasso, che trovava Braque «stimolante», decise di trovargli una ragazza; Braque si ritrovò sposato e contento a vita; a Apollinaire Picasso presentò invece Marie
Laurencin, la pittrice («Sous le pont Mirabeau coule la Seine/ et nos
amours»…). Solo nel 1911 ci fu la prima vera mostra cubista, con
Léger, Glaizes, Delaunay; più tardi aderì Picabia, quello che in Entr’actedi René Clair balla col barbone nero e il tutù. Nel 1913 Apollinaire celebrerà nei Peintres cubistesgli amici pittori, e il cubismo
«squartato» nelle sue reincarnazioni. Coinvolgeva tutti ai martedì
della Closeries de Lilas; e nel romanzo postumo La Femme assise
racconterà Montparnasse, che attorno a lui diventava un capitolo, tra i più vivaci di tutti i tempi, di storia dell’arte.
A quindici anni, Apollinaire componeva già poesie che facevano corpo coi suoi disegni. Costantemente le sue raccolte alternavano versi e incisioni (di Derain, di Rouveyre). Ma con i
Calligrammiil rapporto col disegno cambia natura. Apollinaire riprendeva, al suo solito, una tradizione, i carmina figurata
medievali dei suoi studi eruditi; ma il senso è nuovo. L’Occidente scrive con le righe, sciogliendo i concetti e le emozioni
in un ordinato scorrere di un prima e un dopo; l’esperienza
invece ci assale con mille concomitanti sensazioni. Solo un
disegno di parole poteva rendere la simultaneità delle percezioni. Allora Apollinaire cantò la postazione radio in cima
alla Tour Eiffel, avvolgendone tratti di emissioni in un’aureola, mescolandovi cablogrammi, sirene, spezzoni di frasi («Jacques era delizioso», «Carrozza!»), il «cré cré» delle
scarpe nuove del poeta; l’euforia multipla del moderno
esplodeva. Da mezzo italiano, Apollinaire, dal 1911, doveva fare “il ponte” coi futuristi; nel ‘13 scrisse per loro un
manifesto, e da futurista cancellò dalle bozze della raccolta Alcools la punteggiatura. Ma già nel 1914 cominciava a rifiutare le formule; scriveva «cubisti, orfisti, futuristi eccetera». Partì subito volontario in guerra per far
colpo su un’aristocratica, Louise detta Lou, dai seni «come obici»
— e anche per avere la sospirata cittadinanza francese; ottenne
entrambe, ma quasi ci rimetteva la pelle, colpito al capo nel punto indicato come un bersaglio in un ritratto profetico di de Chirico. Morì invece subito dopo la guerra, di spagnola; sopra il letto del
poeta, Ungaretti notò il quadro che Picasso gli aveva regalato di recente, per il matrimonio.
S
NAPOLEONE
Salomè, 1975, olio su tela, 150x180 cm
Il caporale
della legione,
acquerello
dedicato
al collezionista
Paul Guillaume;
a sinistra,
una pagina
con alcuni
bozzetti
che ritraggono
Napoleone
L’OROLOGIO DI DOMANI
Da sinistra, in senso orario, alcuni Calligrammes
acquerellati; L’orologio di domani: versi
intrecciati con disegno e colore; schizzi
di copricapi medievali; ancora un Calligramme;
l’Alfabeto di Apollonius de Thyane
Marie Laurencin, Picabia), critico e collezionista, nel 1914 aveva
lanciato a sua volta la sfida: «Et moi aussi je suis peintre!» («E ora
anch’io sono pittore!»).
A differenza di quella letteraria, universalmente nota, a lungo l’opera pittorica di Apollinaire non ha avuto un adeguato riconoscimento da parte degli studiosi. A colmare il vuoto, adesso, è il libro
Le dessins de Guillaume Apollinaire, appena pubblicato in Francia
da Buchet/Chastel nella collana “Le Cahiers Dessinés” diretta da
Frédéric Pajak, e stampato dalla casa editrice torinese Graphot. Curato da Claude Debon e Peter Read, il volume presenta per la prima
volta oltre trecento tra disegni, lavori grafici, e dipinti di Apollinaire. Costituiscono, affermano i curatori, «un documento indispensabile per gli amanti del poeta, e meraviglioso per tutti i lettori curiosi». Il fantastico, il surreale, il grottesco, l’erotismo, l’amore per
uomini e animali, affollano con ricchezza lussureggiante questi lavori. Soprattutto quelli del periodo estremo della sua esistenza, poi,
sembrano anticipare le avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta. Come rileva Debon, «bisognerà attendere il movimento internazionale della poesia concreta, visuale, spaziale negli anni Cinquanta, e la sua fioritura nel colore alla fine del Ventesimo secolo,
per avere la vera misura di queste innovazioni».
Apollinaire amava i pittori, da loro era riamato. Nel suo libro L’ami des peintres, lo scrittore francese Francis Carco rammenta che,
quando parlava Guillaume, «i pittori l’ascoltavano perché li “liberava”, li rivelava alle loro aspirazioni segrete e, sempre pieno di
gaiezza, di malizia, di spirito, li persuadeva a non dubitare di nulla». Lui stesso aveva sempre disegnato, dai tempi della scuola. Era
appassionato, scrive Read, «da tutto ciò che coglieva nell’arte visuale, sia antica sia moderna, popolare o di alta cultura, e diventò
un critico d’arte perspicace, combattivo e dallo spirito aperto».
Dai primi quaderni dell’adolescenza alle poesie sue o di altri autori impreziosite e commentate da disegni, a mano a mano il suo
tratto si affina. Passa attraverso le caricature, i ritratti, i paesaggi, approda agli interventi grafici che scandiscono la preparazione de Le
Bestiaire. Sono disegni che, spiega Debon, «a più di un titolo servono a penetrare meglio la sua opera. Più immediati delle parole,
esprimono in modo diverso, ma più direttamente, gli affetti che sono in gioco nella scrittura» del rinnovatore della poesia francese.
Nel manoscritto-bozzetto di Calligrammes del 1917, che in apparenza pare avere il senso di una prova d’autore, Apollinare si spinge più in là, sovrapponendo poesie vecchie e nuove, disegni. Per
Debon, «questa maniera di procedere dona a quella versione dei
poemi un aspetto sorprendente e unico».
Apollinaire, del resto, ha imboccato con decisione la strada della pittura con gli acquerelli del 1916, realizzati anche come terapia
per la lunga degenza ospedaliera. In lavori del genere, come ne Les
Fraises au Mexique, annota Read, riluce e si compendia la «totalità
dell’opera grafica e pittorica di Apollinaire, simultaneamente radicata in un paese lontano, collegata all’arte contemporanea, volta
verso l’avvenire». Formate da «pulsioni profonde, modellate attraverso una cultura visuale espansiva ed eteroclita, le anatomie immaginarie del poeta-disegnatore, le sue creature ibride, le sue folle
di visi contratti e onirici, prefigurano già l’avventura surrealista».
Un’avventura che non potrà vivere. Morirà come in un suo verso, quello sulle bandiere che sono «i ricchi vestiti dei poveri», scritto nel 1909. «Nove anni dopo — dirà Carco — altre bandiere, quelle dell’Armistizio, palpitavano alle finestre delle case di Parigi, il
giorno stesso che Guillaume Apollinaire fu seppellito».
OPERE SCELTE 1971 _ 2006
BRESCIA, MUSEO DI SANTA GIULIA
11 OTTOBRE 2008 _ 11 DICEMBRE 2008
LA PITTURA MITICA DI ZOTTI
VENEZIA, MUSEO CORRER
19 DICEMBRE 2008 _ 08 FEBBRAIO 2009
ORIZZONTI ONIRICI
NEW YORK, CHELSEA ART MUSEUM
26 FEBBRAIO 2009 _ 22 APRILE 2009
www.carmelozotti.it
Con il concorso di
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
SPETTACOLI
Ogni giorno dalle tre alle sei si ritrovano nella stessa casa
Scrivono, provano, divagano, giocano a calcetto. Così sono nati
personaggi mitici, dal “geco” ai bulgari a Tafazzi. Così è nato
il loro successo. Pochi sanno però della loro gavetta
di mimi nei supermercati e del provino della vita
con i soldi dei due Bot che avevano
In attesa del prossimo film di Natale,
il trio delle meraviglie
racconta i segreti e mostra
i canovacci di scena dell’arte
più difficile: far ridere
ANNA BANDETTINI
I
MILANO
l torneo di calciobalilla prima di iniziare a lavorare non lo fanno più. Diradate anche le partite
di tennis con la pallina di carta da un divano all’altro del salotto di Aldo. Il trio comico più amato d’Italia, adesso si è fatto solerte, subito sotto, al lavoro. Ma il clima di lieta follia resta. Aldo porta una idea
(«ne ha quintalate; per forza, non fa niente tutto il giorno», chiosano gli altri), poi tutti e tre insieme chiacchierano, giocano, inventano, provano, scrivono, cambiano, la sviluppano… Una scena che era partita da due serial killer diventa l’irresistibile sketch del bancomat di Anplagghed, lo
spettacolo record di incassi del
2006: quello dove Giacomo è uno di
noi che vuole solo prelevare dei soldi ma inciampa nel mondo surreale
di Aldo e dell’ineffabile punkabbestia
Giovanni. Oppure una vecchia storia di
vent’anni fa su due scienziati e un intervistatore, tornata alla memoria, diventa Il
cosmo sul comò, titolo del nuovo film che
dal 19 dicembre affronterà il mercato di Natale, dopo un anno di incontri, sedute e due
mesi di set a Milano.
Il bello di Aldo, Giovanni e Giacomo è che vivono e lavorano con la stessa leggerezza, allegria
e generosità di certe loro storie comiche. Sono carichi di
popolarità, record, fan appassionati che conoscono a
memoria i loro sketch, ma sono rimasti tre giovanotti
(rispettivamente cinquanta, cinquantuno, cinquantadue anni) che ancora si regalano il piacere del gioco, del
divertimento, dello spreco. E infatti la loro è un’officina
di risate un po’ speciale: fabbrica film, spettacoli, pubblicità, libri, dvd e milioni di euro (trentotto Chiedimi se
sono felice, il film del 2000; trentatré Così è la vita, del
1998; diciannove Tu la conosci Claudia, del 2004) ma
prospera da diciassette anni in una sua simpatica dimensione domestica.
A partire dalla scelta del luogo: la casa di
Aldo, tra Monza e Milano, dove si riuniscono da anni, tutti i giorni se devono fare un film o uno spettacolo, qualche giorno alla settimana se non c’è un progetto
preciso. Sempre dalle tre alle sei del pomeriggio. «Ci troviamo ma così, rilassati, senza stress», mette le mani
avanti Aldo. E Giacomo: «Uno lancia
l’idea, di solito Aldo, che ne ha anche
di incredibili. Poi gli altri sono bravi
a entrarci dentro, costruendo personaggi e situazioni. A me viene in
mente un poliziotto, a Giovanni
magari una vecchietta… buttiamo giù sui nostri quaderni lo
scheletro dello sketch, poi andiamo avanti. Il tutto in un’atmosfera molto di relax, chiacchierando, divagando… Aldo in genere scarabocchia
disegni su fogli volanti. In
questo modo di storie ogni
volta ne vengono fuori a
decine. Alla fine ci accorgiamo che potremmo
mettere insieme due o tre spettacoli. Ma l’importante è divertirci, se no che
gusto c’è?».
Per il nuovo film, il sesto della loro carriera
(settimo col progetto audiovisivo di Anplagghed), il primo con la regia di Marcello Cesena,
assicurano che si sono divertiti molto costruendo cinque episodi — tre storie “normali”, una
folle e una quinta filo di Arianna che collega tutte
le altre — e una caterva di personaggi nuovi, tra cui
un prete, Aldo coi capelli, loro tre nei panni di alcune figure di quadri famosi che si animano. Spiega Giovanni: «Per noi creare vuol dire inventare. Le
nostre storie non sono mai dialogo, sceneggiatura.
Non siamo Woody Allen che forgia le battute. Noi accenniamo l’idea, poi la improvvisiamo. Il dialogo
cambia continuamente. A restare fissi sono i personaggi. Tant’è che i nostri quaderni di lavoro sono fitti
di canovacci, storie appena abbozzate, non di veri e
propri testi perché battute e intrecci sono molto scarni,
vengono fuori poi, scherzando, rimpallandoci l’un l’altro le frasi. Provando molto specie se facciamo teatro».
All’inizio, raccontano, erano molto più incoscienti:
«Nel ’91, quando ci siamo messi insieme la prima volta
sul palco del Cafè Teatro di Verghera di Samarate, vicino Legnano, arrivavamo senza nulla di pronto: un’ora
prima dello spettacolo facevamo lì per lì una sorta di canovaccio con tre o quattro idee e si andava in scena. Eppure eravamo un fiume in piena. È un peccato che all’epoca non scrivevamo nulla sui quaderni, sarebbero
stati un serbatoio comico cui attingere ancora oggi. Per
dire che pazzi: io mi ero rotto una gamba e andavo in
scena su una carrozzina a rotelle, perciò ci eravamo inventati la parodia della ruota della fortuna e in palio c’era l’Opel tamarro di Aldo, una Opel con una pantera sul
cofano, da vero terrone. Chi riusciva a metterla in moto
era sua. Mi pare che ci riuscì solo uno spettatore una volta, ma l’auto si rifiutò di prenderla».
In questo clima di spensieratezza artigianale ognuno ci mette del suo. «Aldo è il nostro macina-idee, è incontenibile. Ma è anche il terrone, quella parte dell’Italia che ci dà la possibilità di litigare sulla scena», dicono
gli altri due. «Giacomo è quello che pur essendo una
schiappa nelle cose fisiche, mentre noi siamo lì a sudare e faticare, trova quei due o tre gesti maledetti che la
gente poi ricorda. Prendi Tafazzi, l’interista masochista
in tuta nera che si martellava i genitali… con quella cazzata è pure entrato nello Zingarelli. L’anno prossimo lo
Aldo
L’officina della risata
Giovanni
APPUNTI
In queste pagine, gli appunti
e i disegni che Aldo,
Giovanni e Giacomo
prendono quando
si incontrano a casa di Aldo
per preparare i loro
personaggi, le loro gag,
i loro spettacoli teatrali
e le loro sceneggiature
cinematografiche
inviteranno all’Isola». Giovanni è il mimo, la fisicità ma
anche «il pilastro, quello che nei momenti chiave ha deciso il nostro destino». Senza le idee di Giovanni, raccontano, non ci sarebbe mai stato il successo.
Bisogna risalire a Mai dire gol, la trasmissione tv che
nel triennio ’95-97 ha segnato il momento più elettrizzante e incredibile della storia del Trio. È Giacomo a ricostruire: «Ogni settimana inventavamo cose nuove,
dividendoci per di più tra tv e teatro, prima con Paolo
Rossi, poi nel ’96 con i nostri Corti, e l’anno dopo ancora con il nostro primo film. Non si finiva mai. Che energia. Ma che umiliazioni all’inizio. Mai dire gol per noi
non era partito bene: i tre della Gialappa’s ci bocciavano idee. Poi c’era Teo Teocoli che, non avendo saputo
del nostro arrivo, l’aveva presa male. Dopo le prime tre
puntate pensavamo di andar via, di essere cacciati. I tre
vecchietti non funzionavano. I bulgari nemmeno. C’eravamo inventati Aldo che faceva l’arbitro e noi due i
guardalinee, ma in realtà eravamo tre capacchioni. Ci
voleva qualcosa. La Gialappa’s insisteva a dirci di creare ognuno un personaggio. Forse pescando dalla lontana memoria di quando faceva il mimo, Giovanni a un
certo punto s’inventa il geco, una cosa da pazzi perché
se ne stava appeso a un muletto con una corda che poteva pure stritolarlo, ma quell’animale strano che strisciava sul muro fu un successo enorme».
Da lì nacquero il cammello (Giovanni), gli struzzi (Aldo e Giovanni), l’avvoltoio (Giacomo): personaggi tornati in vita in una serie di spot. E poi Nico il sardo, l’inventore dello “sgracchia e vinci” e del primo dizionario
sardo Cuccureddu, suo fratello Sgracchiu (Aldo) e il
nonno (Giacomo), per non parlare degli indimenticati
svizzeri, Rezzonico (Giovanni), Huber (Aldo) e Gervasoni (Giacomo), nati intrecciando personaggi preesistenti, accenti ticinesi depositati nella
memoria, la presa in giro della Svizzera efficiente, e un po’ di viaggi Milano-Chiasso. Non tutti gli
incontri di lavoro sono ugualmente fervidi, effervescenti. Aldo: «Ci sono giorni che non viene fuori
niente. Ed è meglio lasciar perdere. Piuttosto giochiamo a calcetto. Litigi? Pochi, mai stato un vero
scontro». Giovanni: «Lavoriamo insieme da così tanto
“Per noi creare vuol dire
inventare. Le nostre storie
non sono mai dialogo,
sceneggiatura
Non siamo Woody Allen
Noi improvvisiamo”
tempo che nessuno si sognerebbe di dire una cosa che
non diverte l’altro. Anzi basta che uno non sia convinto
di una scena che gli altri si tirano indietro». Niente protagonismi, esibizionismi, sopraffazioni, nessuna frenesia personale. Dov’è il segreto di questa meravigliosa officina? «Siamo tre estranei, ci odiamo e finito il lavoro speriamo di non vederci più», ironizzano.
Dice Giacomo: «Come altro definire se non una grande amicizia quello che Aldo e Giovanni hanno fatto per
me quando ancora non eravamo insieme? Mi passavano le loro serate per tirar su duecentomila lire in anni, la
metà degli Ottanta, difficili per tutti, in cui loro facevano i mimi nei supermercati, e io con Marina Massironi
l’annunciatore di pubblicità, e per guadagnare un po’
di più sognavo il doppiaggio. Una volta ci chiamarono
pure, me e Giovanni, per le tartarughe Ninja. No, mica
le voci, dovevamo solo fare “uch” “ah” “hu”, i suoni, ma
eravamo così scarsi che dopo un turno ci mandarono
via». Aldo: «E io come posso dimenticare che Giacomo
mi ha ospitato per sei mesi a casa sua quando io non avevo nemmeno i soldi per piangere? O che fu Giovanni a
pagare l’affitto del furgone necessario a firmare il nostro
primo contratto con un agente vero? Fu un’avventura.
Gli amici, Anna Guri che oggi lavora con noi, Susanna
Wachter che gestiva il Teatro Ciak di Milano, allora un
tempio per i comici, ci dicevano che per crescere dovevamo andare all’Agidi, l’agenzia di Paolo Guerra, la stessa di Paolo Rossi. Dopo molto insistenze sbottò: “Affitto un teatro a Modena, voi mi fate vedere il vostro spettacolino e non mi rompete più le scatole”. Quel santo di
Giovanni, che pure aveva famiglia, tirò fuori novecentomila lire per affittare il camioncino e trasportare le
scene dello spettacolo Lampi d’estate che già gli era costato dieci milioni di lire, disinvestendo gli unici due Bot
che aveva. Meno male che finì bene: facemmo lo spettacolo, non so nemmeno come, visto che in sala c’erano solo Guerra, la moglie, il figlio Mattia di tre anni, i suoceri, il cane, ma chiuso il sipario venne con le lacrime
agli occhi dal ridere, ci portò al ristorante e sulla carta del
pesce firmò il contratto».
La comicità li ha fatti conoscere, li tiene legati nell’amicizia e continua ad arricchire il loro legame. Fruttuoso anche perché talvolta ognuno prende la propria strada: Giacomo impegnato nelle iniziative del Centro San
Fedele di Milano, luogo del cattolicesimo milanese più
aperto al dialogo; Giovanni con la sua passione ecologista coltivata letteralmente in Monferrato, dove ha
preso casa; e l’irrefrenabile Aldo che dipinge, canta,
compone canzoni. Dice: «Potremmo tirare i remi in
barca e dire: sì, abbiamo ricevuto molto più di quello
che aspettavamo dalla vita. Però forse è proprio questo
a renderci più rilassati, a permetterci di non tradire noi
stessi e fare solo ciò che noi riteniamo sia di qualità. Insomma a essere felici. Anche se il nostro agente dice che
le banche sono crollate, i risparmi persi e bisogna ricominciare da capo».
Repubblica Nazionale
FOTO PHOTOMOVIE / ALESSI
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
&
Giacomo
Per essere al 100%
dai 50 anni in su
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Comfort food
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
Nutrono e appagano, sono economici e digeribili,
si cuociono in un attimo e acquistano cento sapori diversi
Alla base ci sono le patate, ma non solo: dai canederli
trentini agli gnocchetti sardi le tradizioni e gli ingredienti
sono tanti e le contaminazioni gastronomiche infinite
LICIA GRANELLO
iovedì gnocchi, venerdì pesce, sabato
trippa, recitava il menù delle osterie
d’antàn. Facile spiegare il piatto di magro per il giorno che i cristiani dedicano alla penitenza, o quello succulento
e povero che precede il pranzo della festa. Ma perché gli gnocchi di giovedì? Consolazione
preventiva delle mancanze del giorno dopo? Premio
allo stomaco dopo mezza settimana di lavoro?
Nel dubbio, addentiamo uno dei piccoli ditali sugosi morbidamente ammonticchiati nel piatto: i migliori si sfarinano in bocca, sciolti come una caramella, suadenti e irresistibili. Bimbi inappetenti e vecchi
dalla masticatura incerta, adolescenti svogliati e
adulti incupiti: davvero difficile restare indifferenti
davanti a un piatto di gnocchi fumanti, comfort food
per eccellenza. Impossibile servirli in porzioni risicate, mangiarli con sufficienza, lasciarli a metà. Perché
gli gnocchi nutrono e appagano, sono economici e
digeribili, si cuociono in un attimo e acquistano cento sapori diversi: basta condirli con sapienza.
Generazioni di bambini hanno imparato da mamme e nonne il rito complice della “rigatura” degli
gnocchi. In una sorta di iniziazione ai misteri della cucina, là dove ancora non era consentito infarinarsi fino ai gomiti per assemblare il delicato impasto di patate e farina — poca, pochissima, in quantità inversamente proporzionale all’abilità della massaia — un
gesto semplice e decisivo marcava l’ultimo passaggio. Forchetta o grattugia (girata al contrario) in pugno, la rapida pressione del pollice a tracciare un paio
di impronte sul tocchetto d’impasto, per permettergli di accogliere, una volta cotto, la giusta quantità di
condimento.
Tra uno gnocco spiaccicato per troppa foga e un altro inspiegabilmente uscito senza solchi, piccoli cuochi in erba scoprivano il piacere di un piatto passepartout, a seconda delle declinazioni: con poco
olio/burro o salsa di pomodoro per un primo piatto
G
Il piatto
che fu
giovedì
facile e leggero; con legumi, carni o formaggi per addizionare proteine; impastato con farina di castagne
e accompagnato da cioccolato fuso per il più infantile, inusuale e goloso dei dessert.
Chi ha conservato memoria del palato fatica a farsi piacere la maggior parte dei prodotti industriali. Rispetto alla ricetta-madre degli gnocchi più popolari
(con le patate), infatti, la quota di farina, che costa
molto meno, cresce a dismisura insieme alla standardizzazione di forma e gusto. Risultato: piccoli sassi indigeribili e impermeabili al condimento, che resta immancabilmente in fondo al piatto. Va un poco
meglio nelle versioni pret-à-manger di pastifici artigiani — quei pochi che resistono — e gastronomie,
soprattutto quando vengono scelte le patate giuste:
vecchie, farinose, sane. In questa ricerca degli gnocchi “di una volta”, naturalmente, anche il prezzo ha
smesso di essere quello di un alimento povero, per assumere lo status di gourmandise.
Ma non di sole patate vivono gli gnocchi. Dai canederli trentini agli gnocchetti sardi, gli ingredienti sono tanti e vari, figli di tradizioni locali e felici contaminazioni, come nel caso degli gnocchi alla romana,
fatti col semolino ma conditi col burro (quindi di origine nordica). Così, soprattutto al Sud, i condimenti
diventano talmente ricchi — salsiccia e pecorino nei
malloreddus campidanesi, pomodoro e mozzarella
nella ricetta alla sorrentina — da lasciare la storica
collocazione del giovedì per assurgere a piatto della
domenica.
Se volete recuperare l’abilità di un tempo, nelle
prossime tre settimane, all’interno del “Baccanale”,
Imola ospita lezioni di cucina, protagonisti cuochi e
sfogline. Tra una patata bollente da sbucciare e i baffi di farina sulla faccia, canticchierete allegri: ridi, che
mamma ha fatto gli gnocchi.
Gnocchi
Repubblica Nazionale
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Patate
Zucca
Parigina
Canederli
Fritto
È la ricetta più classica
Si lessano in acqua salata
patate farinose con la buccia
Si pelano – ancora calde –
e si passano subito
nello schiacciapatate
Impasto con poca farina
e un uovo, rigatura
dei tocchetti con la forchetta
Gli spicchi si cuociono
a vapore, si sbucciano
e si privano dei semi,
si asciugano, si passano
nel mix con aggiunta
di uova, farina, latte, noce
moscata. Breve cottura
in acqua salata, condimento
con burro fuso e parmigiano
La ricetta à la parisienne
ha come base dei piccoli
bigné fatti con farina, latte,
uova, burro, noce moscata
e groviera grattugiata
Poi si sbollenta in acqua,
e si fa dorare in forno
con besciamella e spolverata
di un altro formaggio
I knödel trentini si basano
sul riciclo gustoso del pane
raffermo, ammollato in latte,
uova, noce moscata, sale,
impreziosito con formaggio,
speck o erbette. I bocconi,
grandi quanto una pallina
da golf, vanno cotti
un quarto d’ora nel brodo
Battezzato “il gnocco”
nella campagna modenese,
dove si serve con salumi
e formaggi freschi
Impasto di farina, strutto,
lievito, latte (o acqua), sale
In frittura (nello strutto)
i rettangoli di sfoglia riescono
gonfi e dorati
itinerari
Matteo Baronetto, finalista del premio spagnolo
“Mejor de la gastronomia”, è il braccio destro dello chef
Carlo Cracco. Tra le ricette create insieme, gnocchi
di maionese, tartufo nero e cime di rapa
Trento
Piacenza
Modena
Spatzle e canederli,
cucinati secondo
le tante ricette familiari,
popolano i menù
del Trentino Alto-Adige,
arricchiti di profumi
e sapori: primo fra tutti,
il maiale affumicato
In ristoranti e gastronomie si possono trovare
le versioni in brodo o al burro
Niente quanto pisarei
e fasoi rappresenta
la cucina contadina
tra Lombardia ed Emilia
Tale il radicamento
di questo piatto,
da essere proposto
in modo trasversale,
con poche varianti, nelle trattorie classiche
come nei ristoranti più moderni
La terra modenese
è generosa di ricette
per accompagnare
i salumi e i formaggi
Come lo gnocco
fritto, anche
borlenghi, chizze
e strie devono essere
gustati caldi con il lard pistà, lardo pestato
finemente con aromi
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL AMERICA
Via Torre Verde 52
Tel. 0461-983010
Camera doppia da 108 euro,
colazione inclusa
B & B PILGRIMS
Via G. Morigi 36
Tel. 0523-453527
Camera doppia da 90 euro,
colazione inclusa
LOCANDA DEL FEUDO
Via Trasversale 2
Località Castelvetro
Tel. 059-708711
Camera doppia da 110 euro con colazione
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
SCRIGNO DEL DUOMO
Piazza Duomo 29
Tel. 0461-220030
Senza chiusura,
menù da 25 euro
CASABELLA
Località Casabella
Ziano Piacentino
Tel. 0523-862840
Chiuso martedì, menù da 25 euro
TRATTORIA PASTORE
Frazione Coscogno
Pavullo
Tel. 339-3506926 chiuso lunedì,
menù da 22 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
GASTRONOMIA FRANCESCHINI
Via Roggia Grande 12
Tel. 0461-235217
GASTRONOMIA GARETTI
Piazza Duomo 44
Tel. 0523-322747
FORNO SAN GIORGIO
Via Taglio 6
Tel. 059-223514
Quei “maccheroni” del Bengodi descritti da Boccaccio
MASSIMO MONTANARI
maccheroni di Boccaccio erano gnocchi. Precipitavano sui
fianchi della «montagna tutta di formaggio parmigiano
grattugiato» situata nel bel mezzo del paese di Bengodi, dopo essere stati cotti lassù in cima dentro un enorme paiolo: e
giù in fondo, «chi più ne pigliava più se n’aveva». Fu Luigi Messedaglia, il primo vero storico dell’alimentazione italiana, a
spiegare che quei maccheroni erano in realtà gnocchi, perché
in origine era questo il senso della parola — da maccare cioè
ammaccare, impastare. Vivanda cara alla cucina contadina,
gli gnocchi erano come una variante delle polente, le pultes, i
pulmenta. I ricettari del tardo Medioevo e del Rinascimento ce
ne forniscono le prime ricette, all’insegna della più assoluta
semplicità: farina, o pane grattugiato, mescolati con formaggio o rossi d’uovo, fino a ottenere polpettine da cuocere in acqua bollente (o meglio ancora in brodo di cappone, come accadeva a Bengodi).
Semplici ma golosi, i maccheroni ovvero gnocchi. Dopo la
scoperta di un nuovo continente al di là dell’Oceano, si favoleggiavano le delizie alimentari che facilmente vi si sarebbero
trovate: ed ecco rispuntare, in un testo modenese del Cinquecento, l’idea di una montagna di formaggio grattugiato, isolata in mezzo alla pianura, in cima alla quale una gigantesca caldaia «sempre bolle, cuoce macheroni», che scivolano giù, ben
informaggiati, per la gioia di tutti. Quello che si sogna non è un
cibo esotico e nuovo, ma l’abbondanza dei sapori conosciuti.
Ma se questo era il sogno popolare, neppure i cuochi di corte del Rinascimento intendevano rinunciarvi: Cristoforo Messisbugo prevede gnocchi per la tavola degli Estensi a Ferrara, e
anche Bartolomeo Scappi (che lavorava a Roma nelle cucine
del papa) ricorda questi «maccaroni, detti gnocchi», «fatti con
fiore di farina, mollica di pane e acqua bollente, su la grataca-
I
l’appuntamento
A Imola da oggi al 23
novembre la sesta edizione
del “Baccanale”, dedicato
quest’anno al “Bello
da mangiare”. Degustazioni
e convegni, percorsi culturali
e didattica alimentare, menù
dedicati e scuole di cucina
con l’amatissimo gnocco fritto
locale tra i protagonisti. Originali
le mostre che si alterneranno
nei giorni della manifestazione
Su tutte, spicca “Il bello di ciò
che resta” dell’artista catalano
Joan Crous, che vetrifica
gli avanzi delle cene
scio, allessati, coperti di agliata» ossia di salsa all’aglio.
Dall’America, poi, vennero le patate, ma anche il nuovo prodotto fu assoggettato all’uso tradizionale, ed entrò nella composizione degli gnocchi (che a cominciare dal Diciottesimo secolo assunsero il sapore dolce a cui siamo oggi prevalentemente abituati). Un esempio fra i tanti di come le culture alimentari sappiano rielaborare le novità adattandole alla propria storia.
Non per questo gli gnocchi medievali scomparvero. Pane
grattato e farina, variamente mescolati e arricchiti di ingredienti e sapori, restano protagonisti delle ricette di canederli o
knödel (stessa etimologia di gnocchi) che la gastronomia di
area tedesca continua a proporci nelle varianti in brodo o
asciutte, condite con burro, formaggio e spezie dolci (cannella, noce moscata, semi di papavero…). Esattamente come
mezzo millennio fa. Gli gnocchi di patate hanno invece accolto il pomodoro, e non poteva forse essere diversamente: due
prodotti americani si sono di nuovo accoppiati in una ricetta
europea.
Ma che forma ha uno gnocco? Se il suo carattere è di essere
semplicemente un frammento di impasto, un pezzo di qualcosa, l’estetica non dovrebbe entrarci molto. Invece le forme
sono tante: piccoli o grandi, larghi o stretti, ovali, oblunghi, cilindrici, sferici, cubici… La fantasia e l’immaginazione, come
sempre, hanno aggiunto sapore al cibo e accompagnato gioiosamente lo stimolo del ventre affamato. Il sogno del paese di
Bengodi non è solo quello della fame soddisfatta, ma anche
quello del piacere di mangiare. Piacere di cui le forme — il “bello da mangiare” a cui è dedicato in questi giorni il Baccanaledi
Imola — sono parte essenziale, integrante. Il bello non è uno
sfizio per pochi, ma un’esigenza quotidiana di tutti noi.
Bava
Ricotta&spinaci
Semolino
Pisarei
Spatzle
La ricetta degli gnocchi
in versione montana
vede protagonisti i latticini
d’alpeggio: fontina, toma,
raschera tagliati a tocchetti
e mischiati col burro
Dopo la cottura, si ripassano
in padella o si lasciano
in forno, fino a far la bava
Di pecora, bufala o vaccina,
la ricotta viene lavorata
con spinaci sbollentati,
asciugati e tritati, più uova,
parmigiano, noce moscata,
farina, sale. Infarinati prima
di lessarli, gli gnocchi
si condiscono su piatti caldi
con burro fuso e salvia
Nella ricetta alla romana,
latte e (poco) burro da bollire
con sale e noce moscata,
versando a pioggia
il semolino e completando
con groviera e tuorlo d’uovo
I dischetti si fanno dorare
in forno, guarniti
con burro e parmigiano
Nel piatto unico
della campagna piacentina,
un mix di pane grattugiato –
scottato con acqua o latte –
e farina. I piccoli gnocchi
sodi si condiscono coi fagioli
borlotti, stufati in salsa
di pomodoro. Nella versione
rustica, strutto e pancetta
È una sorta di grattugia a fori
larghi l’attrezzo tirolese
per trasformare la pastella
di spinaci, latte, uova, farina,
sale in tocchettini da lessare
Poi in padella con una salsa
di burro e prosciutto cotto,
sfumata al vino bianco,
panna e parmigiano
Repubblica Nazionale
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
le tendenze
Tecnomassaie
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
1. COME UNA VOLTA
2. IL FUTURO DEL BUCATO
3. SUPER AUTOMATICA
4. IL PANE SU MISURA
5. PIACEVOLI RISVEGLI
Impasta, lievita e cuoce
per sfornare pane fresco
in una sola ora. BM 210
di Kenwood ha dodici
programmi di lavorazione
e due di capienza:
700 o 900 grammi
Dopo i celebri aspirapolvere,
Dyson crea Contrarotator,
la prima lavatrice con due
cestelli in grado di riprodurre
l’effetto di lavaggio manuale,
più efficace. A breve
sul mercato
Singer, che nel 1851 inventò
la prima macchina da cucire,
con Curvy automatizza oggi
le due fasi di maggiore
difficoltà per chi si diletta
nel cucito: l’infilatura
e la carica della bobina
BDM 1200S De Longhi
sforna all’ora desiderata
pane con crosta morbida,
normale o croccante
Dotata di funzione
per cottura senza glutine,
prepara anche la marmellata
La Mokona Bialetti si rinnova
con nuovi colori e funzioni:
la pressione della pompa
sale a venti Bar, per caffè
più intensi e cremosi
Funziona con miscela,
cialde o capsule
2
3
1
4
9
5
8
6
7
6. LA SARTA IN CASA
7. MAXI SPUNTINO
8. STILE CARTOON
9. LA FASHION TV
La tagliacuci Necchi 845
ha tutte le informazioni
per la cucitura nel pannello
programmi: quattro tipi
di punto copertura, cucitura
a cinque fili, sopraggitto
a tre fili e orlo arrotolato
Veste avveniristica e colore
sgargiante per Volo
di Bugatti, tostapane
a 900 watt di potenza
con controllo elettronico
per quattro tipi di tostatura
e anche per fette maxi
Sotto la veste ludica,
una cucina di grande
potenza. Cook Ooh!
ha quattro fuochi con valvole
di sicurezza, forno a gas
ventilato o elettrico
Linea Daily Design di Ardo
Più che un televisore
da borsetta è un televisore
a forma di borsetta: piccolo
(lo schermo è da 9,6 pollici)
e leggero, è dotato
di una maniglia per il trasporto
Per sole donne, Hannspree
na volta si chiamava economia domestica. Le nostre nonne la studiavano perfino a scuola. Per imparare a essere brave massaie. Ora l’economia
domestica è tornata, come si usava
dire, di bruciante attualità. Bruciante
come le scottature lasciate dalla crisi sui conti delle
famiglie italiane. Siamo tutti più poveri, e anche chi
non lo è, si sente così. Quella stessa paura che affonda le Borse induce a risparmi e rinunce. Stringere la
cinghia è lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, un atteggiamento preventivo, prima ancora di un comportamento obbligato.
In questo clima, il fai-da-te domestico smette di
essere roba da “poveri ma belli” e diventa un dovere, un piacere, perfino una moda da esibire, come facevano le signore della ricca borghesia durante l’autarchia, che invitavano patriotticamente le amiche
a bere il karkadè invece del tè e del caffè ormai interdetti dalle «inique sanzioni». E così tornano gesti e riti antichi, perfino ancestrali. Per esempio, con i cereali ancora alle stelle, si scopre l’inedito gusto del
pane fatto in casa. Il caffè, meglio berlo a casa prima
di uscire, conquistandosi il diritto di fantasticare come zio Paperone su quei novanta centesimi sottratti ogni giorno al bar sotto l’ufficio.
Anche per lo spuntino di mezza giornata, tornano
le gavette portate da casa, o al limite il toast fatto in
un minuto nello spazio comune attrezzato apposta.
Bisogno e ingegno riempiono le ore vuote dell’im-
U
Lezione di economia
elettrodomestica
AURELIO MAGISTÀ
piegata in mobilità che respinge le frustrazioni da
forzata casalinga e si mette a tagliare e cucire, magari aiutandosi con i cartamodelli stile Burda, e confeziona abiti che costano quasi niente, e pazienza se
non sono impeccabili.
Tanto più che, se i gesti sono appunto antichi, l’economia domestica è profondamente cambiata
grazie a tecnologia e design. Chiamiamola piuttosto
economia elettrodomestica. Alleati del fai-da-te,
eclettici robot popolano la casa e spesso permettono anche al debuttante di non andare allo sbaraglio,
ma di prodursi in performance di tutto rispetto e di
coniugare l’utile del taglio alle spese con il dilettevole di attività divertenti e risultati gratificanti. Il caso
Cucinare il pane in casa. Confezionarsi abiti da soli
Rinunciare all’espresso al bar per il piacere della moka
usando oggetti antichi ripensati per questi tempi di crisi
Ecco come il design scopre la nuova sobrietà
del pane fatto in casa è esemplare. Costa un’ottantina di euro una macchina che basta riempire con la
miscela di farine preferita per poi programmare il timer: il mattino dopo il pane, fragrante, tenuto in caldo, è pronto per una colazione sana e saporita. E la
spesa si ammortizza in poco tempo risparmiando
dal panettiere: risparmio che poi è il lato oscuro del
fenomeno, considerato che la recessione consiste
proprio in questi ripiegamenti dei consumi che tolgono ossigeno al commercio. Ma questo è un problema dei governi, la cronaca può solo registrare il
dato di fatto. Con gli elettrodomestici si può fare quasi di tutto. Si diceva del caffè: se non siete cultori di
quello fatto con la moka, con la macchina giusta a casa potete ottenerlo praticamente identico a quello
del bar, e naturalmente avere anche il cappuccino
con la prescritta schiuma densa e spessa. Il design,
infine, rende ogni oggetto più divertente, colorato,
facile da usare, senza dimenticarsi dei nostalgici:
nella linea daily design di Ardo, per esempio, si può
trovare una fedele versione della storica cucina economica.
Restano i casi limite di soluzioni raffinatamente
hi-tech per umili problemi di quotidiana economia
domestica. Uno per tutti: un ingegnere inglese si è
posto il problema dell’usura dei vestiti lavati in lavatrice a causa del traumatico attrito con il cestello e ne
ha inventata una che risolveva l’inconveniente con
due cestelli uno dentro l’altro rotanti in direzioni opposte, ma per ora è solo un prototipo.
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008
l’incontro
Bella, sensuale, vulnerabile, testarda
Era la bad girl che si buttò senza rete
nell’effervescenza della Londra
anni Sessanta. “Volevo tutto”,
ricorda oggi con la voce ruvida
che l’ha rilanciata
dopo anni persi dietro
all’alcol, alla droga,
agli amori celebri
“Invecchiare – dice
parlando di “Easy come,
easy go”, il suo ultimo
cd – ha fatto bene
alla mia voce. Puoi anche fare i fuochi
d’artificio ma a che serve se non riesci
a comunicare le emozioni?”
Seconde vite
Marianne Faithfull
u la swingin’London a farla
così bella, testarda e vulnerabile? O quel peculiare corredo cromosomico? Papà,
Robert Glynn Faithfull, maggiore dell’esercito inglese (impegnato nel controspionaggio, leggenda vuole) e professore di psicologia; mamma, la baronessa Eva Erisso, austriaca, della stirpe
von Sacher-Masoch, ballerina nella
Germania degli anni Trenta alla corte
di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Fosse nata tra le due guerre, Marianne Faithfull
sarebbe stata una perfetta Lotte Lenya.
Non è stata una indimenticabile Jenny
delle Spelonche nell’Opera da tre soldi,
nel 1993? Sublime ne I sette vizi capitali, pubblicato su disco cinque anni dopo? Non c’è dubbio, d’altro canto, che
se Lotte Lenya, la musa di Brecht &
Weill, avesse avuto diciotto anni quando Beatles e Rolling Stones mettevano
a soqquadro il pop sarebbe stata una
perfetta Marianne Faithfull.
Un bel tailleur pantalone, borsa elegante, passo aristocratico, gli occhi azzurri tuffati in un viso dove ogni secondo dei suoi sessantuno anni ha lasciato
un piccolo segno. Oggi Marianne
Faithfull è la diva espressionista per eccellenza. Un colpo di tosse da fumatrice incallita, poi un saluto cordiale con
la voce roca, sgranata, diversa. Agli
esordi, timida e bellissima, le canzoni le
accarezzava soavemente. Oggi le graffia, le maltratta, le divora. Come Tom
Waits. Stringe in mano una copia appena stampata del doppio cd Easy come,
easy go, in cui canta classici come Solitude o Somewhere con un timbro rotto,
disperato e ubriaco che è diventata la
caratteristica della sua seconda vita
parte, ho sempre l’opportunità di fare
un altro disco o un progetto teatrale. E
quando arriva un copione interessante
come Irina Palm, prendo la palla al balzo e congelo per un po’ i miei interessi
musicali. Sbaglia chi dice che per me il
mestiere di attrice è un’occupazione
secondaria. Al contrario, lo prendo
molto sul serio. Il recital di sonetti di
Shakespeare che ho tenuto qui a Milano è stata un’avventura emozionante.
Anche se devo ammettere che per una
della mia età è assai più facile trovare
una buona canzone che un copione
convincente. La maggior parte delle
sceneggiature che mi propongono sono spazzatura, mi vorrebbero relegata
in ruoli degradanti, avvilenti, e io non
accetto».
Il set di Irina Palm (una donna che
per poter pagare le spese mediche di
suo nipote masturba clienti in un peep
show) l’ha riportata nella Soho maledetta dove consumò gli anni più bui
della sua esistenza, in un appartamento di mattoni crudi, senza luce né acqua
corrente. Eroinomane e anoressica,
Abito a Parigi,
città adorabile,
anche se a volte
mi sento una donna
senza radici,
che in ogni posto
trova qualcosa
di piacevole
FOTO GRAZIA NERI
F
MILANO
d’artista. La copertina evoca immagini
di dive jazz d’altri tempi, Blossom Dearie, Anita O’Day, Chris Connor, June
Christy. «Ho voluto esagerare, incidere
un album ricco e lussuoso», spiega. Si
guarda intorno, il salone è sovraccarico
di stucchi dorati. Esita ad accomodarsi
sulla poltrona vistosamente impero,
troppo confortevole per una che della
vita scomoda ha fatto un’arte. «Ho una
lunga storia che mi lega all’Italia», mormora. «Ricordo quando mi chiamarono a cantare a Sanremo (C’è chi spera in
coppia con i Camaleonti, 1967). Ripassavo il testo della canzone con mio padre, che parlava perfettamente la vostra lingua. La prima volta che visitai il
paese, con la mia famiglia, ero una
bambina. Papà mi diceva sempre, peccato che non sei portata per le lingue, tu
insegui le note, come tua madre».
Bella, innocente, sensuale, Marianne
si buttò senza paracadute nell’effervescenza degli anni Sessanta. «Cosa volevo? Tutto», ammette, squassando la hall
con una risata cavernosa. Tanto sesso,
molta droga. E un precoce matrimonio
con John Dunbar dal quale ebbe un figlio, Nicholas (è nonna dal ‘93), di cui
perse subito l’affidamento (primo tentativo di suicidio). Era già moglie e madre quando finì nell’universo vorticoso
dei Rolling Stones; un matrimonio naufraga in fretta quando un diavolo come
Jagger ci mette la coda. Andò a letto (o
amò? ma faceva differenza allora?) anche con Keith Richards e Brian Jones,
«ma poi scelsi Mick». Quando la polizia
fece irruzione nel loro appartamento in
cerca di stupefacenti, lei si rifugiò sotto
un tappeto di pelliccia per non farsi fotografare nuda. «Quell’episodio mi distrusse. Un rocker che si droga è cool,
una ragazza una poco di buono». Le leggende metropolitane si moltiplicarono, una storia piccante di sesso al Toblerone tra Marianne e Mick fece il giro
del mondo (molti dettagli li ha svelati
nell’autobiografia Faithfull, pubblicata nel 1994). Quando Andrew Loog
Oldham, il manager degli Stones, decise di convocarla per incidere As tears go
by, dovette mandarle un telegramma, i
Faithfull non avevano ancora il telefono
nella casa di Reading. In meno di una
settimana la Françoise Hardy della
swingin’Londonera pronta per le prime
pagine.
«Tutto era esaltante e frustrante allo
stesso tempo», ricorda. «Non solo divertimento per quelli come noi; dovevamo lavorare, produrre. Ma ero molto
determinata e non mollavo. In realtà
non ero cresciuta pensando di fare la
cantante. Volevo fare la musicista, l’attrice, l’interprete di musica classica e
leggera. Tutte cose che in qualche modo sono poi diventate realtà, anche se
in tempi diversi. Artista… questa era la
parola magica che mi ronzava in testa.
Che non significava successo, denaro,
lusso. Essere cantante e attrice mi ha
aiutato a fare quel che mi piace e in cui
credo. Se non mi offrono una buona
abbandonata dai suoi amici rocker, alla frenetica ricerca di una dose («Mi
iniettavo eroina anche ventiquattro
volte al giorno», racconta in Faithfull).
Gli scintillanti party londinesi, le feste
folli a casa di Dirk Bogarde, gli incontri
con Dylan e Ginsberg, dischi e film
d’autore, le spensierate trasferte a Tangeri con George Harrison e Pattie Boyd,
i viaggi in Italia con Anita Pallemberg e
i weekend romani col pittore Mario
Schifano sembravano roba di un secolo addietro. Nei momenti in cui lo spacciatore non era a portata di mano, non
le restava che bussare alla porta di Eric
Clapton, che era nel suo stesso inferno.
«Chi ancora mi frequentava, nel ‘72,
cercava di terrorizzarmi raccontandomi di come erano morti Jim Morrison,
Jimi Hendrix e Janis Joplin», ricorda,
«ma quando sei in quello stato non accetti consigli, ti senti invulnerabile,
non ti ammali nemmeno. Ho preso il
primo raffreddore quando ne sono venuta fuori. Non basterebbe un libro per
raccontare quei due anni. In poche parole: volevo scomparire dalla faccia
della terra». Eppure non ha nessuno di
quei segni evidenti che la droga lascia
sul volto di alcune sue vittime. Nella
frenesia dell’hotel milanese isterizzato
per la sfilata del pomeriggio, ha più
classe e self control di qualsiasi fashion
editor. Solo la voce racconta gli abusi,
risultato di laringiti recidive causate da
cocaina, sigarette e whisky. «Che volgarità!», scrissero in molti quando la riascoltarono, alla fine degli anni Settanta. Invece quella nuova voce le ha salvato vita e carriera. Broken English, il
disco della rinascita pubblicato nel
1979 che, aggressivo e slabbrato, catturava perfettamente l’essenza postpunk, è ancora considerato il suo capolavoro.
«Fu l’occasione di mostrare al mondo
quel che sono davvero. Tutti avevano
dei preconcetti sul mio conto, la ragazzina che faceva bisboccia con gli Stones, la remissiva amante di Mick Jagger,
la biondina che si era fatta trascinare
nell’abisso dalla swingin’London. Così
decisi di incidere un album drammatico, perfettamente nelle mie corde, sperando che arrivasse al pubblico come
un pugno nello stomaco. Se in quel momento della mia carriera mi avessero
impedito di fare un disco come Broken
English, avrei chiuso per sempre col la
musica. Avevo fatto tanto per gli altri, a
quel punto dovevo fare qualcosa per
me, qualcosa di cui fossi fiera. Mi dissero: ma che ti viene in mente di riproporre una canzone come Working class hero di John Lennon? E io: perché no? non
sono anch’io una lavoratrice che ne ha
passate di tutti i colori?».
Con il mestiere che fa, il passato, minaccioso o piacevole che sia, è sempre
dietro l’angolo. Ma non sempre è doloroso incontrare i vecchi amici. Con
Keith Richards, Marianne fa scintille in
Sing me back home (nel nuovo disco,
zeppo di ospiti illustri: Antony, Sean
Lennon, Nick Cave, Rufus Wainwright,
Jarvis Cocker). «Quella con Keith non è
stata una vera e propria riunione. Abbiamo continuato a vederci in questi
anni. Lo confesso: ci siamo commossi
cantando la canzone di Merle Haggard.
È stato lui a svelarmi i misteri del blues,
come Mick quelli del rock e Charlie
Watts quelli del jazz. Sono i miei idoli.
Insieme a Bessie Smith, Billie Holiday,
Oscar Wilde, William Shakespeare,
Screaming Lord Sutch, Elvis, Little Richard, Miles Davis (a quattordici anni
rimasi folgorata da Sketches of Spain),
Otis Redding. Ho avuto un’educazione
musicale molto eclettica. So di non
avere un bel timbro, elegante e perfettamente educato. Ma invecchiare ha
fatto bene alla mia voce, me ne sono accorta quando ho inciso Strange
weather. Con l’ugola puoi anche fare i
fuochi d’artificio come Barbra Streisand, ma a che serve se non riesci a comunicare delle emozioni?».
La vita da sessantenne, racconta, è
più dolce. Abita a Parigi col suo compagno, il produttore François Ravard. Gli
ha dedicato il suo ultimo libro, Memories, dreams & reflections. « A volte mi
sento una donna senza radici, che in
ogni città trova qualcosa di piacevole»,
ammette perplessa. «Ho vissuto anche
negli Usa e in Olanda. Ma Parigi è adorabile, le giornate scorrono serene, riesco a difendere la mia privacy. Ormai si
va avanti cercando di esorcizzare le
paure. Paura di ammalarmi, paura della morte...», dice alludendo al cancro
che ha dovuto affrontare due anni fa e
alla brutta epatite che l’anno scorso
l’ha costretta a cancellare tutti gli impegni. «Per schivare le ossessioni cerco
di vivere alla giornata. Sembra che funzioni. Adesso sono concentrata su Easy
come, easy go. E sulla vita, che di per sé
è già un bell’impegno».
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GIUSEPPE VIDETTI
Repubblica Nazionale
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