Domenica l’attualità Il megafono, una storia rivoluzionaria La di DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 FILIPPO CECCARELLI e VALERIO GUALERZI la società Repubblica Tutti i colori delle tribù del calcio MARINO NIOLA lover n i t a l l a D ’escort l l a , y o b al play FOTO WEBPHOTO da La vicen Bmw”, di “lady daria tedesca la miliar Klatten Susanne dall’amante, ricattata nuovo svela un sociale spaccatoolla dove la f e delle donne crescent ate emancipiera e in carr ia si specch a sommersa nella foll hi a gettone dei masc JENNER MELETTI NATALIA ASPESI cultura olpa di una cena al ristorante. «Lei mi disse: “Lo champagne mi fa impazzire”. Paghi il conto per due, dai la mancia, fai il pieno all’Audi, paghi la discoteca… Ma perché deve essere sempre l’uomo a pagare?». Colpa di un week end a Venezia. «Lei ha voluto fare anche il giro in gondola, cento euro. Con il conto dell’hotel, avevo già finito il bancomat. E così un bel giorno mi sono chiesto: e se riuscissi a rovesciare il mondo? E se fossero le donne a pagare, per portarmi al ristorante, in piazza San Marco e poi a letto?». Nascono così le storie degli uomini che si arrabbiano se li chiami gigolò e che si presentano come «escort». Sono gli «accompagnatori», gli eredi dei cicisbei. Promettono «coccole e tanta attenzione», dicono di essere «premurosi e attenti» e in grado di soddisfare «tutte, ma proprio tutte le esigenze delle donne moderne». A pagamento, naturalmente. (segue nelle pagine successive) ra i due film American Gigolò e Cliente sono passati ventotto anni, tanti, e forse per questo appaiono molto cambiati sia i gigolò che le pretese delle donne verso piacevoli giovanotti da comprare, usare e poi lavarsene le mani. Nel primo film, diretto da Paul Schrader, l’uomo in vendita era Richard Gere, allora, a trentuno anni, di una sontuosa bellezza malinconica, indimenticabile nei secoli; magnifica casa ultramoderna, guardaroba grigio Armani inappuntabile, auto Mercedes 450 SL argento, e come acquirenti signore molto ricche, belle come l’ex modella Lauren Hutton, in grado di mantenerlo nel lusso dovuto sia a lui che a loro in cambio del suo commovente sperdimento, senza contare le probabili meraviglie di tutto il resto. (segue nelle pagine successive) con un servizio fotografico di MICHAEL ROBERTS Apollinaire, pittore prestato alla poesia C T DARIA GALATERIA e MASSIMO NOVELLI spettacoli L’officina di Aldo, Giovanni e Giacomo ANNA BANDETTINI l’incontro La seconda vita di Marianne Faithfull GIUSEPPE VIDETTI Repubblica Nazionale 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina Italian gigolò DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 C’era una volta il latin lover: ricche signore da corteggiare in cambio di regali, vita agiata e scalate sociali. Oggi, in un mondo sempre più frettoloso e pratico, si chiama escort e fa un mestiere che ha le sue regole, i suoi rischi e le sue tariffe Un “mondo alla rovescia” dove sono le donne a prendere i maschi in affitto per concedersi un’avventura a cinque stelle Casanova anni Duemila (segue dalla copertina) erché nel mondo alla rovescia il maschio viene preso in affitto — per un’ora, una notte, una settimana di vacanza — e trattato come un re. Hotel cinque stelle, regali, cene solo in ristoranti con le stelle e poi i contanti infilati quasi di nascosto nella tasca della giacca. «È stato bello. Giovedì mio marito parte per la Romania. Ti richiamo». Mica facile, comunque, la vita dell’escort. Ci sono quelli che rovinano l’immagine («La storia della miliardaria tedesca Susanne Klatten, ricattata dall’amante, ci ha provocato un danno enorme»), ci sono «i gigolò da strapazzo, pronti ad andare con tutte, magari in cambio di una cena e di cinquanta euro». Ci sono le telefonate trabocchetto, «con lei che ti dà l’appuntamento e poi a letto ti ritrovi anche il marito, che non si accontenta di stare a guardare». «Ci vuole intuito a fare questo lavoro. Ci vuole psicologia». Flavio, trentaquattro anni, abita a Roma. «Il momento più importante è la prima telefonata. Le donne sono timide, chiedono se davvero sono un escort come se parlassero per conto di un’amica. E così si informano. Cosa fai, quanto costi, si sta solo in compagnia o si va anche a letto… Io parlo con calma, la telefonata dura dai venti muniti all’ora intera. Chiarisco tutto, innanzitutto i prezzi. Almeno trecento euro per cena e dopocena, più la trasferta. Se mi telefona l’impiegata, vanno bene i trecento. Se capisco che dall’altra parte c’è la manager, chiedo di più. Ma non bisogna essere ingordi. Il nostro lavoro ci permette di vivere benissimo ma è un lavoro precario. Ci vuole la «fidelizzazione», come nei supermercati. La cliente deve tornare da me, solo così ti fai un mercato abbastanza solido. Io sono bravo e gentile, e posso dire che nel 95 per cento dei casi non c’è soltanto una botta e via». Liceo classico, laurea in giurisprudenza. «Sono gentile — devo esserlo — anche con le sguaiate che ti chiedono subito misure e durata… Non le voglio nel mio carnet ma non posso maltrattarle altrimenti continuano a perseguitarti al telefono. Io esco solo con donne di classe. In fin dei conti, questo mestiere l’ho sempre fatto. Mi chiamavano nei salotti romani, le signore mi guardavano e poi con una scusa mi invitavano a casa o in albergo. Era bello, ma era gratis. E allora ho deciso di diventare professionista. Patti chiari vuol dire che non puoi partire da Roma per Milano e poi scoprire che la signora non si è presentata. E allora, prima di fissare l’incontro, dai anche il numero della tua carta ricaricabile e chiedi almeno il quaranta per cento di anticipo. Trecento-cinquecento euro per una serata, dai seicento ai mille per un fine settimana, tremila per una vacanzina di cinque o sei giorni. Questi i prezzi minimi, più le spese, ovviamente. In media ho due appuntamenti alla settimana: una serata singola e una doppia, sabato e domenica. Non mi posso certo lamentare del reddito. Ma se fossi gay, sarei ricco. Più di metà delle telefonate mi arrivano da chi vorrebbe incontri omosessuali, che io non accetto. Non voglio nemmeno incontri con coppie, perché detesto i mariti che dicono “io sto solo a guardare, sono un contemplativo” poi non stanno mai fermi. Incidenti? Quasi mai, dopo un’attenta selezione. Certo, mi è capitato di andare lontanissimo per incontrare una “bella e focosa signora” e mi sono trovato davanti una vecchierella. Ma non mi sono tirato indietro. In quel momento mi sono sentito come un attore che interpreta la parte assegnata. Pensi agli altri incontri, a quando sei a letto con donne ancora belle. Le mie clienti hanno dai ventuno ai cinquantacinque anni, le più numerose hanno un’età compresa fra i quaranta e i cinquanta. È un bel divertimento e sei pure pagato. È il massimo». Se l’ereditiera della Bmw, sotto ricatto, consegna milioni di euro al suo gigolò, la storia finisce su tutti i giornali del mondo. Ma non mancano cronache che restano nascoste perché non contengono reati ma solo follia. «Un industriale — racconta Max Maiellaro, direttore dell’agenzia di investigazioni milanese Agata Christie — ha scoperto che la moglie aveva una relazione guardando il conto corrente. Nel febbraio e marzo di quest’anno erano scomparsi 155mila euro. Abbiamo fatto le nostre indagini e abbiamo scoperto che la signora non andava a trovare le amiche ma il suo escort di vent’anni più giovane. I soldi? Li aveva spesi per comprargli abiti firmati, Rolex e anche una Bmw Cabrio. Oltre, naturalmente, i grandi alberghi e le cene a lume di candela. Abbiamo riferito al marito, lei ha protestato. “È solo un amico”. Noi non possiamo violare la privacy, non sappiamo cosa succeda in una camera da letto. Ma possiamo ritenere che se due persone, dopo la cena, vanno nella stessa camera dell’hotel a cinque stelle e ci restano fino all’una di notte, forse non lo fanno per giocare a bri- P scola. Consegniamo i risultati delle indagini e basta. Spetta poi al marito decidere che fare». Vita impegnativa, quella dell’escort. Quasi da camionista. «In un anno — racconta Roy, «best italian boy», trentasette anni, perito agrario marchigiano — faccio centomila chilometri in macchina. Così riesco a organizzare tre o quattro incontri alla settimana. Io faccio anche l’accompagnatore vero e proprio, in pratica l’attore. Domani, ad esempio, vado a una mostra con una signora assessore che vuol fare bella figura con il sindaco. Le tariffe? Decido caso per caso. Anch’io sto al telefono a lungo, per capire chi ci sia dall’altra parte. Per la stessa serata, posso chiedere trecento o duemila euro, dipende dal portafoglio della donna, dall’età, dalla bellezza… Le ricche sono davvero una miniera. Alla fine di un appuntamento te ne chiedono un altro dopo due o tre giorni, al massimo dopo una settimana. Mi piace anche l’altra mia faccia, quella dell’attore. Ci sono ragazze “Sono timide, chiamano per informarsi come se parlassero per conto di un’amica: cosa fai, quanto costi, si sta solo in compagnia o si va anche a letto Io parlo con calma, la prima telefonata può durare un’ora” che mi acquistano per fare ingelosire il fidanzato, donne che mi affittano per andare al matrimonio dell’ex fidanzato facendo vedere a tutti che si sono trovate un bel pezzo d’uomo… Certe volte, dopo l’accompagnamento, arriva anche il sesso. Io non dico mai no. Però un trecento euro li aggiungo sempre». La vita degli escort-gigolò a volte entra anche nelle questure. A Milano F. S., quarant’anni, è stato condannato per avere sottratto denaro alle signore sue «fidanzate». Sfilava dalle borsette bancomat e codici, comprava mobili antichi e anche fiori (per dodicimila euro) con i quali cercare nuove conquiste. «Non è facile — dice Federico Francese, della Ivi investigazioni con sedi in tutta Italia — scoprire questo nuovo tipo di relazione extraconiugale. Quando c’erano le “scappatelle”, in un paio d’ore risolvevi tutto. Con questi escort, per capirci qualcosa, devi seguire una signora per una settimana. La vedi con un ragazzo, più giovane di una ventina d’anni. Ma lei sta molto attenta: passeggia, beve un Martini con lui ma non lo prende nemmeno per mano. Li trovi al ristorante, li segui per strada… E alla fine scopri che alla sera, uno dopo l’altro, entrano nello stesso albergo. A questo punto avvertiamo il marito che ci ha ingaggiato. C’è chi perdona, chi chiede la separazione. E c’è chi dopo avere perdonato, passato un anno torna da noi, perché “ha saputo” che la signora non è andata dalla zia malata a Reggio Emilia ma è stata vista in un albergo di Treviso». Raul, trentatré anni, lavora soprattutto in Friuli. «Bisogna stare molto attenti alle fregature. Solo così si sopravvive». Non basta il pagamento anticipato via carta ricaricabile. «Io le donne — spiega l’escort friulano — le voglio vedere in faccia. Per questo chiedo che mi mandino una foto via email o con un mms. Le donne le voglio giovani, massimo quarantacinque anni, e piacenti. Le richieste non mancano, posso scegliere». Patti chiari anche per le tariffe. «Per cena e dopocena, facciamo dalle otto di sera alle due della notte, sono seicento euro. Dalla sera al mattino, mille euro. Per fine settimana o vacanza, si tratta volta per volta. Le clienti? Ce ne sono di ogni tipo. C’è quella che vuole sesso e basta, due ore e via. C’è quella che si sente sola e cerca coccole. C’è chi mi paga per essere accompagnata a fare shopping. C’è la manager super impegnata che però ogni due settimane mi chiama e mi fa anche fretta. “Sono all’hotel… Sbrigati”. E poi ci sono le ragazze normali, impiegate, commesse e anche operaie, che per una sera hanno deciso di fare follie. P. mi ha affittato per la festa del suo compleanno: voleva farsi vedere dalle amiche, per essere invidiata. G. invece ha voluto venire a letto con me per “ripagare” il fidanzato che l’aveva appena lasciata. Io sono pronto a tutte le situazioni. L’importante è che il mio cellulare non resti muto». Non manca la concorrenza e, come in tutto il commercio, bisogna investire in pubblicità. «Benvenuta nel mio universo… io sono colui che adorerà vederti sorridere… allontanerò i tuoi pensieri dipinti di nero… Voglio esaudire i tuoi desideri, i tuoi vizi…». «Sono gentile, discreto, simpatico, sensuale, dolce e trasgressivo». «Sono un escort esclusivo etero per donne di classe». «Specializzato in preliminari, amo ascoltare e fare le coccole, sono riservato e disposto a farti compagnia in qualsiasi tipo di occasione». Sogni e promesse da biglietti dei cioccolatini. «Per te che ami la perfezione, interpreterò l’uomo dei tuoi sogni». Meglio comunque essere precisi. «Sì cara, stasera sarò solo tuo. Dalle nove a mezzanotte, cinquecento euro». FOTO MICHAEL ROBERTS / MACONOCHIE PHOTOGRAPHY JENNER MELETTI I FILM LA PRIMAVERA ROMANA DELLA SIGNORA STONE LE FOTOGRAFIE Le immagini di queste pagine sono tratte da Shot in Sicily di Michael Roberts pubblicato da Edition 7L Paris Warren Beatty è il gigolò che seduce una Vivien Leigh sul viale del tramonto Da Tennessee Williams (di José Quintero, 1961) Repubblica Nazionale DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 Cacciatori di dote e shopping sessuale NATALIA ASPESI (segue dalla copertina) el secondo film, francese, appena presentato al Festival di Roma, diretto da una signora senza grandi pretese, Josiane Balasko, c’è sul mercato cui ricorre una cinquantenne molto graziosa, Nathalie Baye, un ragazzotto dall’aria magrebina, nervoso, insicuro, mal vestito, con amici battoni, che si vende per pagare il mutuo del negozio da parrucchiera della bionda amata moglie, vivendo con suocera e cognata in pochi rumorosi metri quadri. Una vita d’inferno. Questo Eric Caravaca, tale è il nome dell’attore, nel ruolo di gigolò parigino non potrebbe attirare molti pur scarni portafogli femminili e neppure maschili, tanto meno avrà diritto ad entrare nei nostri sogni anche molto modesti. Se si ricordano altri cine-gigolò o la loro aristocrazia, i cacciatori di dote, vengono in mente solo stupendi seduttori: Montgomery Clift (L’ereditiera), Warren Beatty (La primavera romana della signora Stone), Paul Newman (La dolce ala della giovinezza), David Bowie (Gigolò). Quindi la domanda, riguardo alla metamorfosi gigoliana in Cliente, è: perché oggi, 2008, avendo a disposizione un certo budget per gli svaghi, la protagonista dello shopping sessuale, non centenaria né orribile, anziché raccattare quel poverino, quale opera buona più che erotica, non si procura uno di quei giovanotti lucidati tipo pubblicità dei profumi che spuntano in ogni angolo di internet, fotografati anche, maliziosi, nella candida schiuma da bagno? Evitando quelli che sarebbero allettanti se non abitassero a Bombay o a Kuala Lumpur, le occasioni sono infinite anche nel ramo saldi. E per esempio se ne vendono pure a pacchetti, tra cui scegliere, a ottanta-cento euro l’ora, «sensibile, maturo, con carriera propria, buona compagnia», «bello, giovane, raffinato, buon ascoltatore, molto gentleman», «abile nei massaggi rilassanti ma anche in servizi più accuratamente personali». Alcuni perfezionisti insistono sul «male male escort», sulla doppia mascolinità del prodotto, e le agenzie apposite assicurano che i loro chaperon sono rigorosamente etero e non sprecano la loro professionalità anche con uomini. Le più eleganti mettono in chiaro che i loro cavalieri, e senza sovrapprezzo, sono disponibili anche per compagnia «non sexual», offerta pare, per ora, troppo chic per essere molto richiesta. La moltitudine (dicono) di uomini che da sempre si guadagnano duramente da vivere, talvolta anche nel massimo lusso, a carico di signore o signori si divide in varie categorie o classi, del resto come le donne: alla base della scala ci sono i prostituti e i mignotti, cui si chiedono, immagino, prestazioni a buon mercato e non impegnative; poi i gigolò, in grado almeno di spiccicare parola e di mimare modesti corteggiamenti, persino (per modico sovrapprezzo) con invito a cena a lume di candela; più su, l’indefinibile ma vasta categoria dei mantenuti, spesso mariti della signora che lavora, orgogliosa di consentire al suo uomo di studiare, prepararsi a un grande avvenire, fare l’artista non ancora compreso, eccetera. La nobiltà del ramo è costituita dai playboy, di cui quel Helg Sgarbi, ricattatore senza talento della ultramilionaria tedesca Susanne Klatten è la degenerazione da tempi bui. Dice Beppe Piroddi, famoso playboy italiano anni Sessanta, autore della divertente autobiografia Amateur: «Eravamo giovani e ardenti, frequentavamo donne bellissime e uomini celebri, il denaro allora non contava, contava solo il piacere, il divertimento, le passioni. Oggi invece l’unico metro di misura sono i soldi, che guastano ogni avventura». Veramente il denaro contava eccome anche in passato, perlomeno per certi playboy entrati nella storia. Ad esempio Porfirio Rubirosa, professionista raffinato della seduzione come investimento, che non chiedeva, non ricattava, ma sposava: solo miliardarie naturalmente, una in fila all’altra, tra cui le disordinate e infelici Barbara Hutton e Doris Duke. Più che un gigolò, forse quell’Helg Sgarbi è un epigone fallito dei grandi playboy alla Rubirosa: tutte quelle ricche signore forse attraenti, neppure vecchie, che smaniavano per lui, che si contendevano il suo charme, i suoi modi, le sue attenzioni, la sua capacità di farle sentire belle, desiderate, uniche, come ormai gli uomini non professionisti del fascino non fanno più, potevano ricompensarlo per tanta dedizione. Come si paga un gioiello, o una pelliccia, pagavano e molto lo sciocco Helg. Avrebbe potuto diventare ricco, senza vendersi, solo venendo ricompensato per la sua capacità di farne felici tante, come un generoso samaritano dell’eros, o magari riuscendo a sposarne una particolarmente ricca. Che sia precipitato nel ricatto, e quindi nella galera, significa che si sottostimava, che il suo socio lo aveva irretito, che lui stesso, con tutta la sua professionalità, delle donne ancora non aveva capito niente. N UN UOMO DA MARCIAPIEDE Jon Voight sbarca il lunario a New York accompagnando donne benestanti Dustin Hoffman è il suo migliore amico (di John Schlesinger, 1969) AMERICAN GIGOLÒ GIGOLÒ PER SBAGLIO L’ULTIMO GIGOLÒ CLIENTE (A FRENCH GIGOLO) Richard Gere, vestito di Armani, incarna il gigolò perfetto per Lauren Hutton Ma viene incastrato in un misterioso omicidio... (di Paul Schrader, 1980) Commedia degli equivoci in cui il venditore di acquari Deuce è costretto a improvvisarsi gigolò per bisogno di soldi (di Mike Mitchell, 2000) Le illusioni perdute del gigolò (e scrittore) Andy Garcia Nel cast James Coburn e Mick Jagger (di George Hickenlooper, 2001) Una cinquantenne parigina (Nathalie Baye) inganna la solitudine ricorrendo a un giovane escort (di Josiane Balasko, 2008) Repubblica Nazionale 28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’attualità In piazza DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 Messo da parte negli anni del disimpegno politico e del riflusso, è tornato in auge grazie al nuovo movimento studentesco Dall’indimenticabile “Vota Antonio” di Totò ai cortei dei no-global: ecco i motivi per cui quest’oggetto vince la lotta contro il tempo Il revival del megafono voce delle parole ribelli FILIPPO CECCARELLI entornatoil megafono. Bentornato di moda — se mai fosse scivolato nel dimenticatoio — sull’onda dell’Onda anomala degli studenti. Megafono a tracolla nei cortei; megafono che risuona davanti ai cancelli delle scuole; megafono per fare lezione universitaria in piazza. Incredibile, ma vero, adesso se ne va addirittura a ruba, il megafono, arma dei senza voce, dei senza diritti, dei senza quattrini. Così informano le cronache che il 22 ottobre scorso, a Firenze, durante l’occupazione dell’istituto professionale alberghiero Saffi, tre giovani (e malintenzionati) si sono messi a girare per le aule e quindi, approfittando del fervido e gioioso clima, sono usciti quatti quatti con un bel megafono nascosto sotto il giaccone. A temeraria e malandrina conferma, si direbbe, di un revival senza limiti di tempo. E sarebbe anche un segno di speranza che questa nuova visibilità si accompagnasse al rilancio della parola motivata e autentica, da condividere negli assembramenti all’aria aperta, «gridatela dai tetti!», si diceva una volta, oppure soffiatela nell’umile magico imbuto della viva voce che risuona. In principio, in effetti, il megafono era poco più di un imbuto, senza pile né elettricità a dargli forza e clamore in tutte le possibili occasioni e modalità d’uso. Di ottone brunito era il megafono con cui l’ammiraglio Nelson guidava la disposizione e i movimenti dei marinai sulle cannoniere britanniche prima e durante la battaglia. Di latta o banda stagnata, plausibilmente, oltre che di oblunga e curiosissima foggia quello impugnato da Totò in un comizio alla finestra sulla piazza ciociara di Roccasecca ne Gli onorevoli (di Sergio Corbucci, 1963). Indimenticabile e profetico quel suo comizio dadaista: «Vota Antonio! Vota Antonio!». Attrezzo al tempo stesso famigliare e desueto, comunque pre-televisivo, eppure forse proprio per questo oggi riscoperto come capace di evocare la più vasta e anche contraddittoria varietà di atmosfere. Per Federico Fellini, che ne fece uso e spettacolo, il megafono raffigurava il potere: «Non avrei mai pensato di fare il regista, di minacciare come un domatore urlando dai megafoni — ha confessato una volta il Maestro —. La prima volta che vidi dei registi in azione pensai che era un mestiere ridicolo, cialtronesco, maleducato. Non credevo di avere una voce per imporre un’autorità carismatica, ma dal primo giorno in cui mi sono trovato dietro una macchina da presa, quella voce mi è venuta fuori in modo naturale». Per quanto trasfigurata in metallica e cavernosa, nel bel mezzo di un carosello musicato da Nino Rota. Dunque, può essere il comando che ispira l’immediata suggestione dell’amplificatore. Ma quando una notte di cinque anni orsono due scalatori inglesi si ritrovarono incrodati, irraggiungibili e senza apparenti speranze in parete lungo la via Dimai sulla Tofana di Rozes, ecco, è esattamente a un megafono del Soccorso alpino della Guardia di Finanza che devono la loro salvezza. Così come, sulle macerie fumanti di Ground Zero, c’erano megafoni a incoraggiare le squadre dei vigili del fuoco: un esemplare in plastica fu poi donato al presidente George W. Bush. Perché poi insomma è la vita, a pensarci bene, che è fatta di altoparlanti, e a volte sono anche troppi, e non solo negli aeroporti, nelle stazioni ferroviarie, sui luoghi del disastro, sul set, in montagna o nelle agitazioni di piazza. Il rumore infatti è contagioso e nel caso dei residenti del centro storico di Roma, specie intorno a Campo de’ Fiori, il guaio o meglio l’incubo deriva dall’irruzione sul mercato di piccoli megafoni di produzione cinese, pure dotati di registratore, al prezzo di 5 euro e 79 centesimi. Ebbene, la scorsa estate in quell’area già di suo poco silenziosa le notti erano funestate dalla curiosa tendenza di diversi giovinastri a parlarsi l’un l’altro, ma tutti insieme, da un lato all’altro della piazza: al modo di urlatori tecnologici, fino all’arrivo della polizia e al sequestro massivo dell’evoluta merce che diffondeva e dilatava quella chiacchiera selvaggia. Difficile stabilire con esattezza quando il megafono era parso entrare nell’ambiguo, nostalgico e pacificatissimo comparto del modernariato. Certo un velo di polvere aveva finito per depositarsi sulla memo- B ria in bianco e nero di certe fotografie inequivocabilmente sessantottine o, se si preferisce, sessantottesche. Per una volta nei ricordi il mezzo tradiva il messaggio e allora i volti, l’aspetto, gli atteggiamenti, gli stessi sentimenti di chi maneggiava quel fatidico apparecchio facevano premio su qualsiasi argomento propagato in quegli anni di effervescenza sociale. Di quella stagione restano impressi semmai pochi frammenti vocali: «Compagni... il concentramento... operai e studenti... crrrr...». Perché a volte l’arnese si rompeva mettendosi a ronzare o più spesso funzionava a intermittenza. «Megafono della rivoluzione» si definì d’altra parte Vladimir Vladimirovic Majakovskji. L’impegnativa qualifica deve aver contribuito a collegare inestricabilmente questo strumento alla lotta politica, con il che è ragionevole pensare che a determinarne l’apparente declino siano stati il riflusso, la stanchezza, il disimpegno, la delusione. Lontano dagli occhi, e quindi dal cuore, il megafono sopravvisse tuttavia nel mondo dei simboli e delle metafore, negative o positive che fossero. Si poteva essere «megafoni» di tutto, della pace e della guerra, della Cina e della Cia, della provocazione e in fondo anche della speranza. «Voi siete il megafono del Papa», disse un giorno Karol Wojtyla ai giornalisti della Radio Vaticana; «Rutelli è un megafono che gracchia», accusò un’altra volta Sandro Bondi per replicare all’allora leader del centrosinistra. E però c’è modo e ragione di ritenere che la manifesta decadenza, più che alla politica fosse dovuta anche allo sviluppo della tecnologia, al superamento pratico del vecchio altoparlante fisso o manuale, alla sua sostituzione con gli asettici sintetizzatori regolati da sistemi automatici, voci pre-registrate, distanti, robotiche. Nel suo recente Il tramezzino del dinosauro, sintomatico catalogo di «oggetti, comportamenti e manie della vita quotidiana» (Guanda), Marco Belpoliti spiega bene il «secco impoverimento» cognitivo causato alla società dalla fine o comunque dalla mancanza della voce umana, certo amplificata dalla meccanica, ma pur sempre «carica di intenzioni, di allusioni, sottintesi, evocazioni di stati d’animo». E qui giocoforza vale comprendere nella ripresa d’interesse per il vecchio e caro megafono pure la sua inaspettata declinazione per così dire armonica, non per caso messa in opera dal movimento giovanile no-global: vedi il «concerto per megafoni, slogan e orchestra» eseguito dai gruppi “Terra terra” e “Fiati perduti” al Social Forum di Firenze dell’ottobre 2001, un gran miscuglio di suoni e di generi, rullanti e tromboni, rap e risonanze di Carosone («Tu vuo’ fa’ l’americano»), inframmezzate da rime ritmate e più specificamente polemiche tra cui spiccava: «A tutti diamo il benvenuto, / ma se viene D’Alema zitto e muto!». E sempre in tema musicale, a parte qualche pezzo in cui Franco Battiato si diverte a modulare la voce in risonanze artificiali («Sul ponte sventola bandiera bianca»), arrivò più esplicitamente a Sanremo L’uomo con il megafono di Daniele Silvestri, canzone abbastanza malinconica per quanto disposta ad offrire un raggio di sole: «L’uomo col megafono parlava parlava / parlava di cose importanti, purtroppo / i passanti, passando distratti, a tratti / soltanto sembravano ascoltare il suo / monologo, ma l’uomo col megafono / credeva nei propri argomenti». Di quella stagione sessantottina restano impressi pochi frammenti vocali “Compagni.... il concentramento... Crr...” Perché spesso l’arnese si rompeva Repubblica Nazionale DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29 Fenomenologia di uno strumento-simbolo dai teatri dell’antica Grecia alle manifestazioni VALERIO GUALERZI cquistare l’originale Rcf Mg80 visto in piazza anche negli anni Settanta: 115 euro. Comprare una volgare imitazione da uno dei tanti ambulanti di Campo de’ Fiori: venti euro. Gridarci dentro «la vostra crisi non la paghiamo»: non ha prezzo. In fondo, parafrasando il fortunato spot pubblicitario, è proprio questo uno dei segreti della longevità del megafono, gioiello della tecnologia rimasto solidamente al centro di tutte le rivolte studentesche malgrado dal ‘68 a oggi la comunicazione abbia fatto un fantascientifico salto dal ciclostile ai social network. «Il bisogno e il piacere di sentire la propria voce amplificata accompagna l’umanità da millenni, il primo megafono è stato probabilmente una grande conchiglia forata», spiega Vittorio Marchis, docente di Storia della tecnologia al Politecnico di Torino. A far compiere un ulteriore balzo sono state nel Sesto secolo avanti Cristo le compagnie teatrali dell’antica Grecia, che utilizzavano imbuti inseriti all’interno delle maschere di scena per farsi sentire anche dalle ultime file. Nel Diciassettesimo secolo sarà il gesuita tedesco Athanasius Kircher, tipica figura di erudito universale con interessi che spaziavano dalla filosofia alla meccanica, ad abbozzare qualcosa di vagamente simile all’apparecchio che conosciamo oggi. «Ma il padre della versione odierna — dice Marchis — è senz’altro Thomas Alva Edison, padre anche del fonografo». Lo sbocco ideale per una versione commerciale del prodotto era la marineria, dove è fondamentale far arrivare gli ordini da un capo all’altro delle navi sovrastando il rumore delle onde e del vento. Spulciando negli archivi dell’ufficio americano dei brevetti si scopre ancora che a depositare il disegno di un megafono sostanzialmente identico nella forma a quelli che ancora oggi scandiscono le parole d’ordine delle manifestazioni di piazza è stato nel luglio del 1951 un tale Shitetsu Kamimori, dimenticato inventore giapponese che lo registrò con la definizione di electric megaphone. Da allora il megafono è rimasto pressoché identico e anche l’azienda leader che li produce in Italia, la Rcf di Reggio Emilia, continua a vendere lo stesso modello Mg80 da oltre trent’anni piazzando sul mercato italiano un migliaio di pezzi l’anno, soprattutto a forze dell’ordine, vigili del fuoco, marina mercantile e protezione civile. Un bel record se si pensa a trovate meno fortunate divenute obsolete nel giro di poco tempo. «Il megafono è composto da una cassa acustica, da una membrana che vibra e da una forma a imbuto che protegge il suono dal vento e orienta le onde sonore; difficile immaginare cosa potrebbe funzionare meglio», ammette Paco Lanciano, fisico e divulgatore scientifico che siamo abituati ad apprezzare al fianco di Piero Angela. «Oggi — sottolinea — viviamo con molti oggetti cordless, senza fili, ma rispetto ad altri il megafono è stato uno dei primi, forse il primo insieme alla valigetta mangiadischi. Però mentre questa è stata presto superata e sostituita infine dall’iPod, la genialità del megafono è che l’invenzione iniziale è stata definitiva, non ha avuto bisogno di evoluzione, un po’ come è avvenuto con i binari del treno, rimasti identici (a parte le traversine) dai tempi della locomotiva a vapore». E pensare che dare a qualcuno del megafono non è esattamente un complimento. A BIPARTISAN Dall’alto in senso orario, brevetti di megafoni a partire da inizio Novecento; manifestazione contro i tagli alla scuola; Silvio Berlusconi nel ’97; George W. Bush a Ground Zero; Nanni Moretti sul set del film La stanza del figlio; il dirigente comunista russo Anatoly Lukyanov; Totò nel film Gli onorevoli; Federico Fellini sul set Il disegno è di Fortunato Depero Il brano non deve essere sfuggito a un signore, Pierluigi Lenoci, che su Internet ha giustappunto aperto un sito intitolato “L’uomo col megafono” (www. lenoci. org/megafono) nel quale, con la tecnica del fotomontaggio e il caldo invito a «supportare anche tu questa follia», egli si colloca — Zelig digitale e risonante — nelle più varie situazioni: in una cena con il Papa e i cardinali, in uno studio televisivo, fra i colori dell’Urlo di Munch, al Gay Pride, con alcuni bimbi travestiti da Halloween, sullo schermo di un telefonino, ma sempre con l’inseparabile strumento. Alla lunga, le immagini dell’ottimo Lenoci fanno cortocircuito e inesorabilmente rievocano altre foto, però vere, di personaggi con megafoni. L’onorevole Gramazio (An) su di un gigantesco camion a caccia di viados; il presidente Berlusconi che dal predellino di un’automobile dichiara la nascita del Popolo della libertà; Di Pietro che raccoglie firme al Circo Massimo; Oreste Scalzone, ormai anziano, ritornato alla Sapienza ad arringare le folle. Sembrano sogni, suoni, visioni e stati di eccezione. Parole sugli occhi, megafonate nelle orecchie. Repubblica Nazionale 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 la società Guerre ritualizzate Nerazzurri, bianconeri, giallorossi, blucerchiati, viola... Come nascono, dove affondano le radici gli emblemi araldici di quell’epica moderna che è il football? E cosa lega due personaggi così lontani come Lancillotto e Maradona? Ora un libro dà le risposte scavando dentro l’intreccio di miti e storie del gioco più bello del mondo ROMA I colori porpora e oro dell’impero romano erano quelli della Roman, squadra fondata nel 1901. Hanno resistito fino al 1927 con la nascita della Roma dalla fusione di sette squadre e maglie diverse FIORENTINA Il rosso del giglio in campo bianco, simbolo di Firenze, era richiamato nella maglia del 1926 dopo la fusione di C.S. Firenze e Libertas Un lavaggio sbagliato nel ’29 fu la causa del successivo e attuale colore viola I colori delle tribù del calcio MARINO NIOLA uore bianconero, anima blucerchiata, fede giallorossa. Sono espressioni che non hanno bisogno di spiegazioni, significano immediatamente, quasi naturalmente, un’identità, un’appartenenza, una passione, una storia. Sono gli emblemi araldici di quell’epica moderna che è il calcio. Dove i veri protagonisti sono i colori. Più delle parole, che passano. E più degli stessi campioni le cui gesta acquistano il loro significato eroico soprattutto se compiute al servizio di una maglia. Esattamente come le imprese dei cavalieri medievali, quelle di cui si favoleggiava di torneo in torneo, apparivano tanto più gloriose quanto più erano messe al servizio di una causa nobile, contro un nemico comune. Simboleggiati immancabilmente da un colore. Dal cavaliere verde e da quello bianco che nei racconti della Tavola rotonda C combattono contro i prodi Galvano e Galahad, all’invincibile Ivanhoe, il cavaliere nero che nel romanzo di Walter Scott cela dietro il non colore per eccellenza la sua condizione di diseredato, senza casato e senza nome. Per non dire del turbolento Giovanni de’ Medici, il condottiero rinascimentale passato alla storia come Giovanni dalle bande nere perché, in segno di lutto per la morte di Papa Leone X, cambiò le sue insegne a strisce bianche e viola con le celebri bande nere. E del non meno famoso Guidoriccio da Fogliano, immortalato dal grande pittore Simone Martini che fa letteralmente scomparire il corpo del guerriero sotto la divisa a scacchi gialloneri che coprono lui e il cavallo. Come dire che la forza e il valore dell’uomo sono in funzione dei colori che rappresenta, delle insegne di cui è campione. Le giostre d’armi, le sfide equestri, le gare militari erano in realtà delle guerre simulate combattute tra colori contrapposti. Elmi, pennacchi, mantelli e scudi, era tutto un variopinto carosello in cui ciascuno era il suo colore. «Non sono io a portare la maglia ma è lei che porta me». Lo ha detto il fuoriclasse interista Patrick Vieira, ma potrebbe averlo detto molto prima il fiero Lancillotto che si batteva per i colori di re Artù e, soprattutto, della bella Ginevra. E la frase non sarebbe dispiaciuta nemmeno ai quattro moschettieri il cui motto — «uno per tutti, tutti per uno» — ricorda tanto la filosofia di Arrigo Sacchi, prima maniera. Proprio al rapporto tra i colori e lo sport, fra antiche guerre rituali e moderni rituali agonistici, è dedica- “Non sono io a portare la maglia, è lei che porta me”, dice il fuoriclasse Patrick Vieira to un bel libro di Sergio Salvi e Alessandro Savorelli intitolato Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere). Un racconto dei miti e delle storie che girano intorno al calcio italiano e internazionale e che ne fanno, come diceva Pasolini, l’ultimo autentico rituale popolare. Un deposito di memoria collettiva, una macchina mitologica che costruisce leggende, inventa tradizioni, celebra i suoi eroi e distribuisce i suoi quarti di nobiltà. In realtà un lungo filo rosso unisce il calcio a quei conflitti ritualizzati che furono i tornei cavallereschi. Due mondi lontani ma entrambi accomunati da una ragione araldica. Basata sul rango quella della cavalleria, sulla passione sportiva e sull’appartenenza territoriale quella del football. In un caso e nell’altro si tratta comunque di passioni umane e vicende sociali che si esprimono nel linguaggio del colore. Forse il più semplice, il più elementare tra i segni cui gli uomini, e ancor prima gli animali, ricorrono per scriversi sul corpo identità e differenze. In realtà il gioco più bello del mondo eredita una grammatica dei colori che una volta fu il vero evidenziatore delle identità, dei ruoli e delle categorie sociali. A ciascuno la sua tinta, la sua sfumatura, la sua gradazione, il suo mélange. Giovani, anziani, ricchi, notabili, mercanti, aristocratici, medici, notai, folli, malati si riconoscevano dall’abito che portavano e dal colore che vestivano. L’essere e l’apparire obbedivano al codice cromatico che assegnava a ogni tinta determinati significati condivisi e noti a tutti, in modo da rendere facile il riconoscimento della persona vestita in una certa maniera e di un certo colore. Dal nero lampeggiante dei velluti preziosi al rosso cremisi dei corsetti, dal rosa polveroso dei giustacuori, al candido traforo dei collari di pizzo, all’azzurro dei pantaloni, al grigio delle tonache era sempre l’abito a fare il monaco. Ma anche il signore, il medico, il precettore, la mercantessa, l’educanda, la vergine, la cortigiana. E soprattutto il soldato. I colori delle divise, gli stemmi e le insegne dei reggi- Repubblica Nazionale DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31 LO STUDIO Si intitola Tutti i colori del calcio. Storia e araldica di una magnifica ossessione (Le Lettere, 224 pagine, 19 euro) Lo hanno scritto Sergio Salvi e Alessandro Savorelli È una storia delle divise del calcio dalle loro radici cavalleresche a oggi Con 32 tavole a colori (alcune riprodotte in queste pagine), sarà in libreria da domani INTER Fondata cent’anni fa, l’Internazionale Milano ha la maglia a strisce nere e azzurre In seguito alla fusione con l’Unione Sportiva Milanese, nel 1928, adotta i colori della città ma presto ritorna al nerazzurro delle origini menti ebbero una funzione fondamentale nella guerra ancien régime. Che era uno scontro in campo aperto e all’arma bianca, un groviglio inestricabile di corpi in cui era fondamentale distinguersi, riconoscersi e farsi riconoscere. Anche per non essere confusi con i nemici. Ecco il perché delle giubbe rosse e pantaloni bianchi delle armate inglesi, delle giubbe blu e pantaloni rossi di quelle francesi, delle giubbe bianche e pantaloni azzurri degli austriaci, delle camicie rosse dei garibaldini contro il bianco dei borbonici, dei soldati blu nordisti contro le divise grigie dei ranger sudisti. Una sorta di caleidoscopio dove i colori si combinano e si oppongono gli uni in funzione degli altri, un colore contro l’altro. Lo sport di massa fa totalmente suo il linguaggio dei colori e lo adatta a quella ritualizzazione della guerra che è l’anima stessa dell’agonismo moderno. Una guerra a salve dove gli eserciti si trasformano in quella che l’etologo Desmond Morris ha chiamato la soccer tribe, la tribù del calcio. L’anima tribale del cal- cio, e in generale degli sport di squadra, si rivela in tutta la sua forza simbolica proprio nella venerazione dei colori e dei simboli sociali: stemmi, gagliardetti, bandiere, animali mascotte. E nei rituali di iniziazione e di appartenenza che hanno qualcosa di guerriero, di cavalleresco e di primitivo al tempo stesso. Al punto da dipingersi con le tinte della propria squadra, di tatuarsi sulla pelle i suoi emblemi, proprio come nella guerra tribale. Nel 1987, quando il Napoli di Maradona vinse il suo primo scudetto non solo gli ultras ma anche tantissimi distinti signori di mezza età andarono in giro per giorni con il volto completamente dipinto di azzurro. E molte signore della buona società ostentavano con orgoglio parrucche dello stesso colore, ricce e boccolute come i capelli del Pibe de oro. Anche l’identificazione nell’animale simbolo della propria squadra è una forma totemica, tipicamente tribale, un modo per cifrare la propria identità sportiva legandola ai miti d’origine della propria città. Così i romanisti SAMPDORIA Anche nel nome la squadra del capoluogo ligure porta il ricordo della fusione tra Andrea Doria e Sampierdarenese, avvenuta nel 1946. Sulla maglia, il blu viene dalla prima, i cerchi dalla seconda si trasformano in lupi, i torinisti in tori, i baresi in galletti, gli alessandrini in orsi, i genoani e i perugini in grifoni, i supporter del Catania in elefanti, quelli del Chelsea in leoni, quelli del Valencia in pipistrelli. Spesso il modo stesso di raccontare la storia della propria maglia contribuisce a creare la mitologia di una squadra legando i simboli del proprio club a quelli della propria terra. Ma soprattutto conservando la memoria delle origini. Così la maglia della Juve che in principio era rosa sarebbe diventata bianconera La Juventus dal rosa alla zebra grazie al dono di uno stock di seconda mano solo perché un generoso sostenitore inglese spedì a Torino uno stock di casacche del Notts County. Mentre quella viola della Fiorentina pare sia dovuta a un lavaggio difettoso che stinse il biancorosso originario. In altri casi il colore della maglietta nasce in maniera assolutamente casuale, come nel caso del Boca Junior, la gloriosa équipe di Buenos Aires fondata nel 1905 da un gruppo di immigrati genovesi tanto litigiosi da non riuscire a trovare un accordo sui colori della maglia. Si decise così di adottare quelli della prima nave che fosse entrata in porto. Fu una nave svedese. E così il gialloblù diventò l’emblema della futura squadra di Maradona. Ogni colore racconta una storia, dunque. E dove i colori sono più d’uno vuol dire che di tante storie se n’è fatta una. Come nel caso della Sampdoria, nata nel 1927 dall’unione tra la Sampierdarenese e l’Andrea Doria, rossonera la prima e biancoblu la seconda. Il risultato della fusione fu una sfilza di colori sovrapposti: blu, bianco, rosso, nero, bianco, blu, con al centro lo scudo di San Giorgio simbolo della Repubblica genovese. È questa l’origine della casacca blucerchiata, un autentico compromesso cromatico. Che per i tifosi diventa un indiscutibile articolo di fede, facendo dei colori sociali una seconda pelle. Uno scudo collettivo che porta inciso il proprio blasone. Proprio come quelli coloratissimi che nei tornei gli araldi presentavano al pubblico magnificando quei simboli e quei colori per i quali i campioni si battevano. Forse non è un caso che l’etimologia della parola colore nelle lingue indoeuropee sia strettamente imparentata con quella di parole come pelle e scudo. In ogni caso un contrassegno che unisce, una copertura che difende, un colore che identifica. Del resto come diceva Wolfgang Goethe, massima autorità in materia, il colore è l’espressione più naturale della divisione, dell’identificazione e della contrapposizione. E il variopinto mondo del calcio sembra fatto apposta per dargli ragione. Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 Esattamente novant’anni fa, il 9 novembre 1918, il grande poeta moriva di influenza spagnola. Adesso un libro pubblicato in Francia, ma stampato da un editore torinese, raccoglie per la prima volta disegni e dipinti dell’autore dei “Calligrammes” ARLECCHINO Arlecchino nell’acquerello Gli uccelli cantano con le dita; a destra, dall’alto in basso: un autoritratto; Il passo dell’imboscato; una figura umana schizzata a margine di una bozza di versi Un album surreale, popolato da Arlecchini e buffi personaggi, che aiuta a capire l’opera di un innovatore p Ap che ha segnato il Novecento e r i a n olli CULTURA* i r e o tt IL LIBRO Les Dessins de Guillaume Apollinaire a cura di Claude Debon e Peter Read, pubblicato da Buchet/Chastel e stampato da Graphot (160 pagine, 39,50 euro) ovant’annifa, il 9 novembre del 1918, due giorni prima dell’armistizio della Germania con le potenze alleate, Guillaume Apollinaire moriva a Parigi di influenza spagnola. Se ne andava ad appena trentotto anni un grande poeta, esponente di spicco dei movimenti d’avanguardia, che era già stato gravemente ferito al fronte nel corso della guerra mondiale e che negli ultimi momenti della sua vita aveva detto a un medico: «Salvatemi, dottore! Io voglio vivere, voglio vivere. Ho tante cose da fare». Tra le «choses à faire» c’erano di sicuro le poesie, i racconti, i drammi da scrivere, ma anche il disegno e la pittura. Fin da bambino avevano stimolato la sua fantasia e il suo talento, accompagnando e compenetrando l’attività letteraria. In particolare nel 1916, durante la convalescenza in un ospedale parigino, l’autore di AlMASSIMO NOVELLI cools e di Calligrammessi era dedicato con intensità all’acquerello inseguendo, tra le figure di Arlecchini e di Pulcinella, i nudi femminili, i ricordi d’Algeria e le immagini di soldati, quel suo ideale che lo aveva portato a dire come la pittura fosse «propriamente un linguaggio luminoso». Amico e fautore dei maggiori artisti dell’epoca (da Giorgio de Chirico a Picasso, da Chagall a Delaunay, Dufy, Duchamp, Gontcharova, Larionov, N L’immaginario di Guillaume Repubblica Nazionale DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 Con Picasso & soci nella Parigi di inizio secolo DARIA GALATERIA avinio incontrò Guillaume Apollinaire che correva; andava alla Prefettura, spiegò, a far firmare il visto di soggiorno. Savinio fu commosso da quella confidenza «rarissima»; Apollinaire soffriva delle sue origini «nebulose». Era nato a Roma, da un Flugi d’Aspermont — figlio di un maresciallo di campo di Ferdinando II delle Due Sicilie — che era però rimasto nell’ombra. Spettava comunque a Guillaume Apollinaire de Kostrowitzky (famiglia polacca, ma il nonno materno era cameriere d’onore di cappa e spada in Vaticano) fare gli spaghetti per gli amici, nell’abbaino al 202 di boulevard Saint-Germain; tra gli incunaboli vegliati dagli occhi a mandorla di idoli congolesi, i primi oggetti cubisti e frutti tropicali «mammelluti», il poeta intanto creava il Novecento. Li chiamarono «gli anni Apollinaire», perché, agli inizi del nuovo secolo, fu lui il “cemento” di tutte le linee di forza artistiche del moderno. Fu lui a portare Braque al “Bateau Lavoir”, lo studio di Picasso a Montmartre; come tutti, Braque rimase interdetto davanti alle Demoiselles d’Avignon. Non si dava pace dell’angolo piazzato in mezzo al viso delle due donne sulla destra; «è un naso», assicurava Picasso. Matisse, che Picasso inquietava, gli regalò un ritratto di sua figlia Marguerite, che diventò un bersaglio a freccette; ma fu Matisse a mostrare «allo spagnolo» la prima statuetta di arte negra. Poi, dal «Rendez-vous dei poeti», come Picasso chiamava il suo atelier, si passava ai caffè della Butte Montmartre, e c’erano Utrillo, Modì, Braque, Van Dongen, Dupuy. Apollinaire faceva occasionalmente il critico d’arte; e scriveva, per il Salon des Indépendants del 1908: «Van Dongen manifesta brutalmente appetiti formidabili. Ci trasporta presso giganti che risolvono la questione sociale con l’impudicizia» e: «Braque con la madreperla dei suoi quadri ci rende iridescenti». Quell’anno Apollinaire aveva anche scritto la prefazione alla mostra di Braque; ma trovava incolto il Doganiere Rousseau — il ritratto del generale Cadorna, dirà Ardengo Soffici, che faceva la fame a Parigi dal 1900, e diventò inseparabile con Apollinaire e Picasso; prima della Grande guerra li chiamavano i Tre Moschettieri. A differenza di Apollinaire, Picasso aveva un culto per il Doganiere Rousseau, e volle fare un vasto banchetto in suo onore; era il dicembre 1908, e la cena è rimasta leggendaria perché, per un malinteso, i cibi arrivarono l’indomani, e ci si arrangiò con riso e alici; i vini fecero solo più effetto. Poi Picasso, che trovava Braque «stimolante», decise di trovargli una ragazza; Braque si ritrovò sposato e contento a vita; a Apollinaire Picasso presentò invece Marie Laurencin, la pittrice («Sous le pont Mirabeau coule la Seine/ et nos amours»…). Solo nel 1911 ci fu la prima vera mostra cubista, con Léger, Glaizes, Delaunay; più tardi aderì Picabia, quello che in Entr’actedi René Clair balla col barbone nero e il tutù. Nel 1913 Apollinaire celebrerà nei Peintres cubistesgli amici pittori, e il cubismo «squartato» nelle sue reincarnazioni. Coinvolgeva tutti ai martedì della Closeries de Lilas; e nel romanzo postumo La Femme assise racconterà Montparnasse, che attorno a lui diventava un capitolo, tra i più vivaci di tutti i tempi, di storia dell’arte. A quindici anni, Apollinaire componeva già poesie che facevano corpo coi suoi disegni. Costantemente le sue raccolte alternavano versi e incisioni (di Derain, di Rouveyre). Ma con i Calligrammiil rapporto col disegno cambia natura. Apollinaire riprendeva, al suo solito, una tradizione, i carmina figurata medievali dei suoi studi eruditi; ma il senso è nuovo. L’Occidente scrive con le righe, sciogliendo i concetti e le emozioni in un ordinato scorrere di un prima e un dopo; l’esperienza invece ci assale con mille concomitanti sensazioni. Solo un disegno di parole poteva rendere la simultaneità delle percezioni. Allora Apollinaire cantò la postazione radio in cima alla Tour Eiffel, avvolgendone tratti di emissioni in un’aureola, mescolandovi cablogrammi, sirene, spezzoni di frasi («Jacques era delizioso», «Carrozza!»), il «cré cré» delle scarpe nuove del poeta; l’euforia multipla del moderno esplodeva. Da mezzo italiano, Apollinaire, dal 1911, doveva fare “il ponte” coi futuristi; nel ‘13 scrisse per loro un manifesto, e da futurista cancellò dalle bozze della raccolta Alcools la punteggiatura. Ma già nel 1914 cominciava a rifiutare le formule; scriveva «cubisti, orfisti, futuristi eccetera». Partì subito volontario in guerra per far colpo su un’aristocratica, Louise detta Lou, dai seni «come obici» — e anche per avere la sospirata cittadinanza francese; ottenne entrambe, ma quasi ci rimetteva la pelle, colpito al capo nel punto indicato come un bersaglio in un ritratto profetico di de Chirico. Morì invece subito dopo la guerra, di spagnola; sopra il letto del poeta, Ungaretti notò il quadro che Picasso gli aveva regalato di recente, per il matrimonio. S NAPOLEONE Salomè, 1975, olio su tela, 150x180 cm Il caporale della legione, acquerello dedicato al collezionista Paul Guillaume; a sinistra, una pagina con alcuni bozzetti che ritraggono Napoleone L’OROLOGIO DI DOMANI Da sinistra, in senso orario, alcuni Calligrammes acquerellati; L’orologio di domani: versi intrecciati con disegno e colore; schizzi di copricapi medievali; ancora un Calligramme; l’Alfabeto di Apollonius de Thyane Marie Laurencin, Picabia), critico e collezionista, nel 1914 aveva lanciato a sua volta la sfida: «Et moi aussi je suis peintre!» («E ora anch’io sono pittore!»). A differenza di quella letteraria, universalmente nota, a lungo l’opera pittorica di Apollinaire non ha avuto un adeguato riconoscimento da parte degli studiosi. A colmare il vuoto, adesso, è il libro Le dessins de Guillaume Apollinaire, appena pubblicato in Francia da Buchet/Chastel nella collana “Le Cahiers Dessinés” diretta da Frédéric Pajak, e stampato dalla casa editrice torinese Graphot. Curato da Claude Debon e Peter Read, il volume presenta per la prima volta oltre trecento tra disegni, lavori grafici, e dipinti di Apollinaire. Costituiscono, affermano i curatori, «un documento indispensabile per gli amanti del poeta, e meraviglioso per tutti i lettori curiosi». Il fantastico, il surreale, il grottesco, l’erotismo, l’amore per uomini e animali, affollano con ricchezza lussureggiante questi lavori. Soprattutto quelli del periodo estremo della sua esistenza, poi, sembrano anticipare le avanguardie degli anni Cinquanta e Sessanta. Come rileva Debon, «bisognerà attendere il movimento internazionale della poesia concreta, visuale, spaziale negli anni Cinquanta, e la sua fioritura nel colore alla fine del Ventesimo secolo, per avere la vera misura di queste innovazioni». Apollinaire amava i pittori, da loro era riamato. Nel suo libro L’ami des peintres, lo scrittore francese Francis Carco rammenta che, quando parlava Guillaume, «i pittori l’ascoltavano perché li “liberava”, li rivelava alle loro aspirazioni segrete e, sempre pieno di gaiezza, di malizia, di spirito, li persuadeva a non dubitare di nulla». Lui stesso aveva sempre disegnato, dai tempi della scuola. Era appassionato, scrive Read, «da tutto ciò che coglieva nell’arte visuale, sia antica sia moderna, popolare o di alta cultura, e diventò un critico d’arte perspicace, combattivo e dallo spirito aperto». Dai primi quaderni dell’adolescenza alle poesie sue o di altri autori impreziosite e commentate da disegni, a mano a mano il suo tratto si affina. Passa attraverso le caricature, i ritratti, i paesaggi, approda agli interventi grafici che scandiscono la preparazione de Le Bestiaire. Sono disegni che, spiega Debon, «a più di un titolo servono a penetrare meglio la sua opera. Più immediati delle parole, esprimono in modo diverso, ma più direttamente, gli affetti che sono in gioco nella scrittura» del rinnovatore della poesia francese. Nel manoscritto-bozzetto di Calligrammes del 1917, che in apparenza pare avere il senso di una prova d’autore, Apollinare si spinge più in là, sovrapponendo poesie vecchie e nuove, disegni. Per Debon, «questa maniera di procedere dona a quella versione dei poemi un aspetto sorprendente e unico». Apollinaire, del resto, ha imboccato con decisione la strada della pittura con gli acquerelli del 1916, realizzati anche come terapia per la lunga degenza ospedaliera. In lavori del genere, come ne Les Fraises au Mexique, annota Read, riluce e si compendia la «totalità dell’opera grafica e pittorica di Apollinaire, simultaneamente radicata in un paese lontano, collegata all’arte contemporanea, volta verso l’avvenire». Formate da «pulsioni profonde, modellate attraverso una cultura visuale espansiva ed eteroclita, le anatomie immaginarie del poeta-disegnatore, le sue creature ibride, le sue folle di visi contratti e onirici, prefigurano già l’avventura surrealista». Un’avventura che non potrà vivere. Morirà come in un suo verso, quello sulle bandiere che sono «i ricchi vestiti dei poveri», scritto nel 1909. «Nove anni dopo — dirà Carco — altre bandiere, quelle dell’Armistizio, palpitavano alle finestre delle case di Parigi, il giorno stesso che Guillaume Apollinaire fu seppellito». OPERE SCELTE 1971 _ 2006 BRESCIA, MUSEO DI SANTA GIULIA 11 OTTOBRE 2008 _ 11 DICEMBRE 2008 LA PITTURA MITICA DI ZOTTI VENEZIA, MUSEO CORRER 19 DICEMBRE 2008 _ 08 FEBBRAIO 2009 ORIZZONTI ONIRICI NEW YORK, CHELSEA ART MUSEUM 26 FEBBRAIO 2009 _ 22 APRILE 2009 www.carmelozotti.it Con il concorso di Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 SPETTACOLI Ogni giorno dalle tre alle sei si ritrovano nella stessa casa Scrivono, provano, divagano, giocano a calcetto. Così sono nati personaggi mitici, dal “geco” ai bulgari a Tafazzi. Così è nato il loro successo. Pochi sanno però della loro gavetta di mimi nei supermercati e del provino della vita con i soldi dei due Bot che avevano In attesa del prossimo film di Natale, il trio delle meraviglie racconta i segreti e mostra i canovacci di scena dell’arte più difficile: far ridere ANNA BANDETTINI I MILANO l torneo di calciobalilla prima di iniziare a lavorare non lo fanno più. Diradate anche le partite di tennis con la pallina di carta da un divano all’altro del salotto di Aldo. Il trio comico più amato d’Italia, adesso si è fatto solerte, subito sotto, al lavoro. Ma il clima di lieta follia resta. Aldo porta una idea («ne ha quintalate; per forza, non fa niente tutto il giorno», chiosano gli altri), poi tutti e tre insieme chiacchierano, giocano, inventano, provano, scrivono, cambiano, la sviluppano… Una scena che era partita da due serial killer diventa l’irresistibile sketch del bancomat di Anplagghed, lo spettacolo record di incassi del 2006: quello dove Giacomo è uno di noi che vuole solo prelevare dei soldi ma inciampa nel mondo surreale di Aldo e dell’ineffabile punkabbestia Giovanni. Oppure una vecchia storia di vent’anni fa su due scienziati e un intervistatore, tornata alla memoria, diventa Il cosmo sul comò, titolo del nuovo film che dal 19 dicembre affronterà il mercato di Natale, dopo un anno di incontri, sedute e due mesi di set a Milano. Il bello di Aldo, Giovanni e Giacomo è che vivono e lavorano con la stessa leggerezza, allegria e generosità di certe loro storie comiche. Sono carichi di popolarità, record, fan appassionati che conoscono a memoria i loro sketch, ma sono rimasti tre giovanotti (rispettivamente cinquanta, cinquantuno, cinquantadue anni) che ancora si regalano il piacere del gioco, del divertimento, dello spreco. E infatti la loro è un’officina di risate un po’ speciale: fabbrica film, spettacoli, pubblicità, libri, dvd e milioni di euro (trentotto Chiedimi se sono felice, il film del 2000; trentatré Così è la vita, del 1998; diciannove Tu la conosci Claudia, del 2004) ma prospera da diciassette anni in una sua simpatica dimensione domestica. A partire dalla scelta del luogo: la casa di Aldo, tra Monza e Milano, dove si riuniscono da anni, tutti i giorni se devono fare un film o uno spettacolo, qualche giorno alla settimana se non c’è un progetto preciso. Sempre dalle tre alle sei del pomeriggio. «Ci troviamo ma così, rilassati, senza stress», mette le mani avanti Aldo. E Giacomo: «Uno lancia l’idea, di solito Aldo, che ne ha anche di incredibili. Poi gli altri sono bravi a entrarci dentro, costruendo personaggi e situazioni. A me viene in mente un poliziotto, a Giovanni magari una vecchietta… buttiamo giù sui nostri quaderni lo scheletro dello sketch, poi andiamo avanti. Il tutto in un’atmosfera molto di relax, chiacchierando, divagando… Aldo in genere scarabocchia disegni su fogli volanti. In questo modo di storie ogni volta ne vengono fuori a decine. Alla fine ci accorgiamo che potremmo mettere insieme due o tre spettacoli. Ma l’importante è divertirci, se no che gusto c’è?». Per il nuovo film, il sesto della loro carriera (settimo col progetto audiovisivo di Anplagghed), il primo con la regia di Marcello Cesena, assicurano che si sono divertiti molto costruendo cinque episodi — tre storie “normali”, una folle e una quinta filo di Arianna che collega tutte le altre — e una caterva di personaggi nuovi, tra cui un prete, Aldo coi capelli, loro tre nei panni di alcune figure di quadri famosi che si animano. Spiega Giovanni: «Per noi creare vuol dire inventare. Le nostre storie non sono mai dialogo, sceneggiatura. Non siamo Woody Allen che forgia le battute. Noi accenniamo l’idea, poi la improvvisiamo. Il dialogo cambia continuamente. A restare fissi sono i personaggi. Tant’è che i nostri quaderni di lavoro sono fitti di canovacci, storie appena abbozzate, non di veri e propri testi perché battute e intrecci sono molto scarni, vengono fuori poi, scherzando, rimpallandoci l’un l’altro le frasi. Provando molto specie se facciamo teatro». All’inizio, raccontano, erano molto più incoscienti: «Nel ’91, quando ci siamo messi insieme la prima volta sul palco del Cafè Teatro di Verghera di Samarate, vicino Legnano, arrivavamo senza nulla di pronto: un’ora prima dello spettacolo facevamo lì per lì una sorta di canovaccio con tre o quattro idee e si andava in scena. Eppure eravamo un fiume in piena. È un peccato che all’epoca non scrivevamo nulla sui quaderni, sarebbero stati un serbatoio comico cui attingere ancora oggi. Per dire che pazzi: io mi ero rotto una gamba e andavo in scena su una carrozzina a rotelle, perciò ci eravamo inventati la parodia della ruota della fortuna e in palio c’era l’Opel tamarro di Aldo, una Opel con una pantera sul cofano, da vero terrone. Chi riusciva a metterla in moto era sua. Mi pare che ci riuscì solo uno spettatore una volta, ma l’auto si rifiutò di prenderla». In questo clima di spensieratezza artigianale ognuno ci mette del suo. «Aldo è il nostro macina-idee, è incontenibile. Ma è anche il terrone, quella parte dell’Italia che ci dà la possibilità di litigare sulla scena», dicono gli altri due. «Giacomo è quello che pur essendo una schiappa nelle cose fisiche, mentre noi siamo lì a sudare e faticare, trova quei due o tre gesti maledetti che la gente poi ricorda. Prendi Tafazzi, l’interista masochista in tuta nera che si martellava i genitali… con quella cazzata è pure entrato nello Zingarelli. L’anno prossimo lo Aldo L’officina della risata Giovanni APPUNTI In queste pagine, gli appunti e i disegni che Aldo, Giovanni e Giacomo prendono quando si incontrano a casa di Aldo per preparare i loro personaggi, le loro gag, i loro spettacoli teatrali e le loro sceneggiature cinematografiche inviteranno all’Isola». Giovanni è il mimo, la fisicità ma anche «il pilastro, quello che nei momenti chiave ha deciso il nostro destino». Senza le idee di Giovanni, raccontano, non ci sarebbe mai stato il successo. Bisogna risalire a Mai dire gol, la trasmissione tv che nel triennio ’95-97 ha segnato il momento più elettrizzante e incredibile della storia del Trio. È Giacomo a ricostruire: «Ogni settimana inventavamo cose nuove, dividendoci per di più tra tv e teatro, prima con Paolo Rossi, poi nel ’96 con i nostri Corti, e l’anno dopo ancora con il nostro primo film. Non si finiva mai. Che energia. Ma che umiliazioni all’inizio. Mai dire gol per noi non era partito bene: i tre della Gialappa’s ci bocciavano idee. Poi c’era Teo Teocoli che, non avendo saputo del nostro arrivo, l’aveva presa male. Dopo le prime tre puntate pensavamo di andar via, di essere cacciati. I tre vecchietti non funzionavano. I bulgari nemmeno. C’eravamo inventati Aldo che faceva l’arbitro e noi due i guardalinee, ma in realtà eravamo tre capacchioni. Ci voleva qualcosa. La Gialappa’s insisteva a dirci di creare ognuno un personaggio. Forse pescando dalla lontana memoria di quando faceva il mimo, Giovanni a un certo punto s’inventa il geco, una cosa da pazzi perché se ne stava appeso a un muletto con una corda che poteva pure stritolarlo, ma quell’animale strano che strisciava sul muro fu un successo enorme». Da lì nacquero il cammello (Giovanni), gli struzzi (Aldo e Giovanni), l’avvoltoio (Giacomo): personaggi tornati in vita in una serie di spot. E poi Nico il sardo, l’inventore dello “sgracchia e vinci” e del primo dizionario sardo Cuccureddu, suo fratello Sgracchiu (Aldo) e il nonno (Giacomo), per non parlare degli indimenticati svizzeri, Rezzonico (Giovanni), Huber (Aldo) e Gervasoni (Giacomo), nati intrecciando personaggi preesistenti, accenti ticinesi depositati nella memoria, la presa in giro della Svizzera efficiente, e un po’ di viaggi Milano-Chiasso. Non tutti gli incontri di lavoro sono ugualmente fervidi, effervescenti. Aldo: «Ci sono giorni che non viene fuori niente. Ed è meglio lasciar perdere. Piuttosto giochiamo a calcetto. Litigi? Pochi, mai stato un vero scontro». Giovanni: «Lavoriamo insieme da così tanto “Per noi creare vuol dire inventare. Le nostre storie non sono mai dialogo, sceneggiatura Non siamo Woody Allen Noi improvvisiamo” tempo che nessuno si sognerebbe di dire una cosa che non diverte l’altro. Anzi basta che uno non sia convinto di una scena che gli altri si tirano indietro». Niente protagonismi, esibizionismi, sopraffazioni, nessuna frenesia personale. Dov’è il segreto di questa meravigliosa officina? «Siamo tre estranei, ci odiamo e finito il lavoro speriamo di non vederci più», ironizzano. Dice Giacomo: «Come altro definire se non una grande amicizia quello che Aldo e Giovanni hanno fatto per me quando ancora non eravamo insieme? Mi passavano le loro serate per tirar su duecentomila lire in anni, la metà degli Ottanta, difficili per tutti, in cui loro facevano i mimi nei supermercati, e io con Marina Massironi l’annunciatore di pubblicità, e per guadagnare un po’ di più sognavo il doppiaggio. Una volta ci chiamarono pure, me e Giovanni, per le tartarughe Ninja. No, mica le voci, dovevamo solo fare “uch” “ah” “hu”, i suoni, ma eravamo così scarsi che dopo un turno ci mandarono via». Aldo: «E io come posso dimenticare che Giacomo mi ha ospitato per sei mesi a casa sua quando io non avevo nemmeno i soldi per piangere? O che fu Giovanni a pagare l’affitto del furgone necessario a firmare il nostro primo contratto con un agente vero? Fu un’avventura. Gli amici, Anna Guri che oggi lavora con noi, Susanna Wachter che gestiva il Teatro Ciak di Milano, allora un tempio per i comici, ci dicevano che per crescere dovevamo andare all’Agidi, l’agenzia di Paolo Guerra, la stessa di Paolo Rossi. Dopo molto insistenze sbottò: “Affitto un teatro a Modena, voi mi fate vedere il vostro spettacolino e non mi rompete più le scatole”. Quel santo di Giovanni, che pure aveva famiglia, tirò fuori novecentomila lire per affittare il camioncino e trasportare le scene dello spettacolo Lampi d’estate che già gli era costato dieci milioni di lire, disinvestendo gli unici due Bot che aveva. Meno male che finì bene: facemmo lo spettacolo, non so nemmeno come, visto che in sala c’erano solo Guerra, la moglie, il figlio Mattia di tre anni, i suoceri, il cane, ma chiuso il sipario venne con le lacrime agli occhi dal ridere, ci portò al ristorante e sulla carta del pesce firmò il contratto». La comicità li ha fatti conoscere, li tiene legati nell’amicizia e continua ad arricchire il loro legame. Fruttuoso anche perché talvolta ognuno prende la propria strada: Giacomo impegnato nelle iniziative del Centro San Fedele di Milano, luogo del cattolicesimo milanese più aperto al dialogo; Giovanni con la sua passione ecologista coltivata letteralmente in Monferrato, dove ha preso casa; e l’irrefrenabile Aldo che dipinge, canta, compone canzoni. Dice: «Potremmo tirare i remi in barca e dire: sì, abbiamo ricevuto molto più di quello che aspettavamo dalla vita. Però forse è proprio questo a renderci più rilassati, a permetterci di non tradire noi stessi e fare solo ciò che noi riteniamo sia di qualità. Insomma a essere felici. Anche se il nostro agente dice che le banche sono crollate, i risparmi persi e bisogna ricominciare da capo». Repubblica Nazionale FOTO PHOTOMOVIE / ALESSI DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 & Giacomo Per essere al 100% dai 50 anni in su Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori Comfort food DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 Nutrono e appagano, sono economici e digeribili, si cuociono in un attimo e acquistano cento sapori diversi Alla base ci sono le patate, ma non solo: dai canederli trentini agli gnocchetti sardi le tradizioni e gli ingredienti sono tanti e le contaminazioni gastronomiche infinite LICIA GRANELLO iovedì gnocchi, venerdì pesce, sabato trippa, recitava il menù delle osterie d’antàn. Facile spiegare il piatto di magro per il giorno che i cristiani dedicano alla penitenza, o quello succulento e povero che precede il pranzo della festa. Ma perché gli gnocchi di giovedì? Consolazione preventiva delle mancanze del giorno dopo? Premio allo stomaco dopo mezza settimana di lavoro? Nel dubbio, addentiamo uno dei piccoli ditali sugosi morbidamente ammonticchiati nel piatto: i migliori si sfarinano in bocca, sciolti come una caramella, suadenti e irresistibili. Bimbi inappetenti e vecchi dalla masticatura incerta, adolescenti svogliati e adulti incupiti: davvero difficile restare indifferenti davanti a un piatto di gnocchi fumanti, comfort food per eccellenza. Impossibile servirli in porzioni risicate, mangiarli con sufficienza, lasciarli a metà. Perché gli gnocchi nutrono e appagano, sono economici e digeribili, si cuociono in un attimo e acquistano cento sapori diversi: basta condirli con sapienza. Generazioni di bambini hanno imparato da mamme e nonne il rito complice della “rigatura” degli gnocchi. In una sorta di iniziazione ai misteri della cucina, là dove ancora non era consentito infarinarsi fino ai gomiti per assemblare il delicato impasto di patate e farina — poca, pochissima, in quantità inversamente proporzionale all’abilità della massaia — un gesto semplice e decisivo marcava l’ultimo passaggio. Forchetta o grattugia (girata al contrario) in pugno, la rapida pressione del pollice a tracciare un paio di impronte sul tocchetto d’impasto, per permettergli di accogliere, una volta cotto, la giusta quantità di condimento. Tra uno gnocco spiaccicato per troppa foga e un altro inspiegabilmente uscito senza solchi, piccoli cuochi in erba scoprivano il piacere di un piatto passepartout, a seconda delle declinazioni: con poco olio/burro o salsa di pomodoro per un primo piatto G Il piatto che fu giovedì facile e leggero; con legumi, carni o formaggi per addizionare proteine; impastato con farina di castagne e accompagnato da cioccolato fuso per il più infantile, inusuale e goloso dei dessert. Chi ha conservato memoria del palato fatica a farsi piacere la maggior parte dei prodotti industriali. Rispetto alla ricetta-madre degli gnocchi più popolari (con le patate), infatti, la quota di farina, che costa molto meno, cresce a dismisura insieme alla standardizzazione di forma e gusto. Risultato: piccoli sassi indigeribili e impermeabili al condimento, che resta immancabilmente in fondo al piatto. Va un poco meglio nelle versioni pret-à-manger di pastifici artigiani — quei pochi che resistono — e gastronomie, soprattutto quando vengono scelte le patate giuste: vecchie, farinose, sane. In questa ricerca degli gnocchi “di una volta”, naturalmente, anche il prezzo ha smesso di essere quello di un alimento povero, per assumere lo status di gourmandise. Ma non di sole patate vivono gli gnocchi. Dai canederli trentini agli gnocchetti sardi, gli ingredienti sono tanti e vari, figli di tradizioni locali e felici contaminazioni, come nel caso degli gnocchi alla romana, fatti col semolino ma conditi col burro (quindi di origine nordica). Così, soprattutto al Sud, i condimenti diventano talmente ricchi — salsiccia e pecorino nei malloreddus campidanesi, pomodoro e mozzarella nella ricetta alla sorrentina — da lasciare la storica collocazione del giovedì per assurgere a piatto della domenica. Se volete recuperare l’abilità di un tempo, nelle prossime tre settimane, all’interno del “Baccanale”, Imola ospita lezioni di cucina, protagonisti cuochi e sfogline. Tra una patata bollente da sbucciare e i baffi di farina sulla faccia, canticchierete allegri: ridi, che mamma ha fatto gli gnocchi. Gnocchi Repubblica Nazionale DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Patate Zucca Parigina Canederli Fritto È la ricetta più classica Si lessano in acqua salata patate farinose con la buccia Si pelano – ancora calde – e si passano subito nello schiacciapatate Impasto con poca farina e un uovo, rigatura dei tocchetti con la forchetta Gli spicchi si cuociono a vapore, si sbucciano e si privano dei semi, si asciugano, si passano nel mix con aggiunta di uova, farina, latte, noce moscata. Breve cottura in acqua salata, condimento con burro fuso e parmigiano La ricetta à la parisienne ha come base dei piccoli bigné fatti con farina, latte, uova, burro, noce moscata e groviera grattugiata Poi si sbollenta in acqua, e si fa dorare in forno con besciamella e spolverata di un altro formaggio I knödel trentini si basano sul riciclo gustoso del pane raffermo, ammollato in latte, uova, noce moscata, sale, impreziosito con formaggio, speck o erbette. I bocconi, grandi quanto una pallina da golf, vanno cotti un quarto d’ora nel brodo Battezzato “il gnocco” nella campagna modenese, dove si serve con salumi e formaggi freschi Impasto di farina, strutto, lievito, latte (o acqua), sale In frittura (nello strutto) i rettangoli di sfoglia riescono gonfi e dorati itinerari Matteo Baronetto, finalista del premio spagnolo “Mejor de la gastronomia”, è il braccio destro dello chef Carlo Cracco. Tra le ricette create insieme, gnocchi di maionese, tartufo nero e cime di rapa Trento Piacenza Modena Spatzle e canederli, cucinati secondo le tante ricette familiari, popolano i menù del Trentino Alto-Adige, arricchiti di profumi e sapori: primo fra tutti, il maiale affumicato In ristoranti e gastronomie si possono trovare le versioni in brodo o al burro Niente quanto pisarei e fasoi rappresenta la cucina contadina tra Lombardia ed Emilia Tale il radicamento di questo piatto, da essere proposto in modo trasversale, con poche varianti, nelle trattorie classiche come nei ristoranti più moderni La terra modenese è generosa di ricette per accompagnare i salumi e i formaggi Come lo gnocco fritto, anche borlenghi, chizze e strie devono essere gustati caldi con il lard pistà, lardo pestato finemente con aromi DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL AMERICA Via Torre Verde 52 Tel. 0461-983010 Camera doppia da 108 euro, colazione inclusa B & B PILGRIMS Via G. Morigi 36 Tel. 0523-453527 Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa LOCANDA DEL FEUDO Via Trasversale 2 Località Castelvetro Tel. 059-708711 Camera doppia da 110 euro con colazione DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE SCRIGNO DEL DUOMO Piazza Duomo 29 Tel. 0461-220030 Senza chiusura, menù da 25 euro CASABELLA Località Casabella Ziano Piacentino Tel. 0523-862840 Chiuso martedì, menù da 25 euro TRATTORIA PASTORE Frazione Coscogno Pavullo Tel. 339-3506926 chiuso lunedì, menù da 22 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE GASTRONOMIA FRANCESCHINI Via Roggia Grande 12 Tel. 0461-235217 GASTRONOMIA GARETTI Piazza Duomo 44 Tel. 0523-322747 FORNO SAN GIORGIO Via Taglio 6 Tel. 059-223514 Quei “maccheroni” del Bengodi descritti da Boccaccio MASSIMO MONTANARI maccheroni di Boccaccio erano gnocchi. Precipitavano sui fianchi della «montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato» situata nel bel mezzo del paese di Bengodi, dopo essere stati cotti lassù in cima dentro un enorme paiolo: e giù in fondo, «chi più ne pigliava più se n’aveva». Fu Luigi Messedaglia, il primo vero storico dell’alimentazione italiana, a spiegare che quei maccheroni erano in realtà gnocchi, perché in origine era questo il senso della parola — da maccare cioè ammaccare, impastare. Vivanda cara alla cucina contadina, gli gnocchi erano come una variante delle polente, le pultes, i pulmenta. I ricettari del tardo Medioevo e del Rinascimento ce ne forniscono le prime ricette, all’insegna della più assoluta semplicità: farina, o pane grattugiato, mescolati con formaggio o rossi d’uovo, fino a ottenere polpettine da cuocere in acqua bollente (o meglio ancora in brodo di cappone, come accadeva a Bengodi). Semplici ma golosi, i maccheroni ovvero gnocchi. Dopo la scoperta di un nuovo continente al di là dell’Oceano, si favoleggiavano le delizie alimentari che facilmente vi si sarebbero trovate: ed ecco rispuntare, in un testo modenese del Cinquecento, l’idea di una montagna di formaggio grattugiato, isolata in mezzo alla pianura, in cima alla quale una gigantesca caldaia «sempre bolle, cuoce macheroni», che scivolano giù, ben informaggiati, per la gioia di tutti. Quello che si sogna non è un cibo esotico e nuovo, ma l’abbondanza dei sapori conosciuti. Ma se questo era il sogno popolare, neppure i cuochi di corte del Rinascimento intendevano rinunciarvi: Cristoforo Messisbugo prevede gnocchi per la tavola degli Estensi a Ferrara, e anche Bartolomeo Scappi (che lavorava a Roma nelle cucine del papa) ricorda questi «maccaroni, detti gnocchi», «fatti con fiore di farina, mollica di pane e acqua bollente, su la grataca- I l’appuntamento A Imola da oggi al 23 novembre la sesta edizione del “Baccanale”, dedicato quest’anno al “Bello da mangiare”. Degustazioni e convegni, percorsi culturali e didattica alimentare, menù dedicati e scuole di cucina con l’amatissimo gnocco fritto locale tra i protagonisti. Originali le mostre che si alterneranno nei giorni della manifestazione Su tutte, spicca “Il bello di ciò che resta” dell’artista catalano Joan Crous, che vetrifica gli avanzi delle cene scio, allessati, coperti di agliata» ossia di salsa all’aglio. Dall’America, poi, vennero le patate, ma anche il nuovo prodotto fu assoggettato all’uso tradizionale, ed entrò nella composizione degli gnocchi (che a cominciare dal Diciottesimo secolo assunsero il sapore dolce a cui siamo oggi prevalentemente abituati). Un esempio fra i tanti di come le culture alimentari sappiano rielaborare le novità adattandole alla propria storia. Non per questo gli gnocchi medievali scomparvero. Pane grattato e farina, variamente mescolati e arricchiti di ingredienti e sapori, restano protagonisti delle ricette di canederli o knödel (stessa etimologia di gnocchi) che la gastronomia di area tedesca continua a proporci nelle varianti in brodo o asciutte, condite con burro, formaggio e spezie dolci (cannella, noce moscata, semi di papavero…). Esattamente come mezzo millennio fa. Gli gnocchi di patate hanno invece accolto il pomodoro, e non poteva forse essere diversamente: due prodotti americani si sono di nuovo accoppiati in una ricetta europea. Ma che forma ha uno gnocco? Se il suo carattere è di essere semplicemente un frammento di impasto, un pezzo di qualcosa, l’estetica non dovrebbe entrarci molto. Invece le forme sono tante: piccoli o grandi, larghi o stretti, ovali, oblunghi, cilindrici, sferici, cubici… La fantasia e l’immaginazione, come sempre, hanno aggiunto sapore al cibo e accompagnato gioiosamente lo stimolo del ventre affamato. Il sogno del paese di Bengodi non è solo quello della fame soddisfatta, ma anche quello del piacere di mangiare. Piacere di cui le forme — il “bello da mangiare” a cui è dedicato in questi giorni il Baccanaledi Imola — sono parte essenziale, integrante. Il bello non è uno sfizio per pochi, ma un’esigenza quotidiana di tutti noi. Bava Ricotta&spinaci Semolino Pisarei Spatzle La ricetta degli gnocchi in versione montana vede protagonisti i latticini d’alpeggio: fontina, toma, raschera tagliati a tocchetti e mischiati col burro Dopo la cottura, si ripassano in padella o si lasciano in forno, fino a far la bava Di pecora, bufala o vaccina, la ricotta viene lavorata con spinaci sbollentati, asciugati e tritati, più uova, parmigiano, noce moscata, farina, sale. Infarinati prima di lessarli, gli gnocchi si condiscono su piatti caldi con burro fuso e salvia Nella ricetta alla romana, latte e (poco) burro da bollire con sale e noce moscata, versando a pioggia il semolino e completando con groviera e tuorlo d’uovo I dischetti si fanno dorare in forno, guarniti con burro e parmigiano Nel piatto unico della campagna piacentina, un mix di pane grattugiato – scottato con acqua o latte – e farina. I piccoli gnocchi sodi si condiscono coi fagioli borlotti, stufati in salsa di pomodoro. Nella versione rustica, strutto e pancetta È una sorta di grattugia a fori larghi l’attrezzo tirolese per trasformare la pastella di spinaci, latte, uova, farina, sale in tocchettini da lessare Poi in padella con una salsa di burro e prosciutto cotto, sfumata al vino bianco, panna e parmigiano Repubblica Nazionale DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 le tendenze Tecnomassaie LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 1. COME UNA VOLTA 2. IL FUTURO DEL BUCATO 3. SUPER AUTOMATICA 4. IL PANE SU MISURA 5. PIACEVOLI RISVEGLI Impasta, lievita e cuoce per sfornare pane fresco in una sola ora. BM 210 di Kenwood ha dodici programmi di lavorazione e due di capienza: 700 o 900 grammi Dopo i celebri aspirapolvere, Dyson crea Contrarotator, la prima lavatrice con due cestelli in grado di riprodurre l’effetto di lavaggio manuale, più efficace. A breve sul mercato Singer, che nel 1851 inventò la prima macchina da cucire, con Curvy automatizza oggi le due fasi di maggiore difficoltà per chi si diletta nel cucito: l’infilatura e la carica della bobina BDM 1200S De Longhi sforna all’ora desiderata pane con crosta morbida, normale o croccante Dotata di funzione per cottura senza glutine, prepara anche la marmellata La Mokona Bialetti si rinnova con nuovi colori e funzioni: la pressione della pompa sale a venti Bar, per caffè più intensi e cremosi Funziona con miscela, cialde o capsule 2 3 1 4 9 5 8 6 7 6. LA SARTA IN CASA 7. MAXI SPUNTINO 8. STILE CARTOON 9. LA FASHION TV La tagliacuci Necchi 845 ha tutte le informazioni per la cucitura nel pannello programmi: quattro tipi di punto copertura, cucitura a cinque fili, sopraggitto a tre fili e orlo arrotolato Veste avveniristica e colore sgargiante per Volo di Bugatti, tostapane a 900 watt di potenza con controllo elettronico per quattro tipi di tostatura e anche per fette maxi Sotto la veste ludica, una cucina di grande potenza. Cook Ooh! ha quattro fuochi con valvole di sicurezza, forno a gas ventilato o elettrico Linea Daily Design di Ardo Più che un televisore da borsetta è un televisore a forma di borsetta: piccolo (lo schermo è da 9,6 pollici) e leggero, è dotato di una maniglia per il trasporto Per sole donne, Hannspree na volta si chiamava economia domestica. Le nostre nonne la studiavano perfino a scuola. Per imparare a essere brave massaie. Ora l’economia domestica è tornata, come si usava dire, di bruciante attualità. Bruciante come le scottature lasciate dalla crisi sui conti delle famiglie italiane. Siamo tutti più poveri, e anche chi non lo è, si sente così. Quella stessa paura che affonda le Borse induce a risparmi e rinunce. Stringere la cinghia è lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, un atteggiamento preventivo, prima ancora di un comportamento obbligato. In questo clima, il fai-da-te domestico smette di essere roba da “poveri ma belli” e diventa un dovere, un piacere, perfino una moda da esibire, come facevano le signore della ricca borghesia durante l’autarchia, che invitavano patriotticamente le amiche a bere il karkadè invece del tè e del caffè ormai interdetti dalle «inique sanzioni». E così tornano gesti e riti antichi, perfino ancestrali. Per esempio, con i cereali ancora alle stelle, si scopre l’inedito gusto del pane fatto in casa. Il caffè, meglio berlo a casa prima di uscire, conquistandosi il diritto di fantasticare come zio Paperone su quei novanta centesimi sottratti ogni giorno al bar sotto l’ufficio. Anche per lo spuntino di mezza giornata, tornano le gavette portate da casa, o al limite il toast fatto in un minuto nello spazio comune attrezzato apposta. Bisogno e ingegno riempiono le ore vuote dell’im- U Lezione di economia elettrodomestica AURELIO MAGISTÀ piegata in mobilità che respinge le frustrazioni da forzata casalinga e si mette a tagliare e cucire, magari aiutandosi con i cartamodelli stile Burda, e confeziona abiti che costano quasi niente, e pazienza se non sono impeccabili. Tanto più che, se i gesti sono appunto antichi, l’economia domestica è profondamente cambiata grazie a tecnologia e design. Chiamiamola piuttosto economia elettrodomestica. Alleati del fai-da-te, eclettici robot popolano la casa e spesso permettono anche al debuttante di non andare allo sbaraglio, ma di prodursi in performance di tutto rispetto e di coniugare l’utile del taglio alle spese con il dilettevole di attività divertenti e risultati gratificanti. Il caso Cucinare il pane in casa. Confezionarsi abiti da soli Rinunciare all’espresso al bar per il piacere della moka usando oggetti antichi ripensati per questi tempi di crisi Ecco come il design scopre la nuova sobrietà del pane fatto in casa è esemplare. Costa un’ottantina di euro una macchina che basta riempire con la miscela di farine preferita per poi programmare il timer: il mattino dopo il pane, fragrante, tenuto in caldo, è pronto per una colazione sana e saporita. E la spesa si ammortizza in poco tempo risparmiando dal panettiere: risparmio che poi è il lato oscuro del fenomeno, considerato che la recessione consiste proprio in questi ripiegamenti dei consumi che tolgono ossigeno al commercio. Ma questo è un problema dei governi, la cronaca può solo registrare il dato di fatto. Con gli elettrodomestici si può fare quasi di tutto. Si diceva del caffè: se non siete cultori di quello fatto con la moka, con la macchina giusta a casa potete ottenerlo praticamente identico a quello del bar, e naturalmente avere anche il cappuccino con la prescritta schiuma densa e spessa. Il design, infine, rende ogni oggetto più divertente, colorato, facile da usare, senza dimenticarsi dei nostalgici: nella linea daily design di Ardo, per esempio, si può trovare una fedele versione della storica cucina economica. Restano i casi limite di soluzioni raffinatamente hi-tech per umili problemi di quotidiana economia domestica. Uno per tutti: un ingegnere inglese si è posto il problema dell’usura dei vestiti lavati in lavatrice a causa del traumatico attrito con il cestello e ne ha inventata una che risolveva l’inconveniente con due cestelli uno dentro l’altro rotanti in direzioni opposte, ma per ora è solo un prototipo. Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 9 NOVEMBRE 2008 l’incontro Bella, sensuale, vulnerabile, testarda Era la bad girl che si buttò senza rete nell’effervescenza della Londra anni Sessanta. “Volevo tutto”, ricorda oggi con la voce ruvida che l’ha rilanciata dopo anni persi dietro all’alcol, alla droga, agli amori celebri “Invecchiare – dice parlando di “Easy come, easy go”, il suo ultimo cd – ha fatto bene alla mia voce. Puoi anche fare i fuochi d’artificio ma a che serve se non riesci a comunicare le emozioni?” Seconde vite Marianne Faithfull u la swingin’London a farla così bella, testarda e vulnerabile? O quel peculiare corredo cromosomico? Papà, Robert Glynn Faithfull, maggiore dell’esercito inglese (impegnato nel controspionaggio, leggenda vuole) e professore di psicologia; mamma, la baronessa Eva Erisso, austriaca, della stirpe von Sacher-Masoch, ballerina nella Germania degli anni Trenta alla corte di Bertolt Brecht e Kurt Weill. Fosse nata tra le due guerre, Marianne Faithfull sarebbe stata una perfetta Lotte Lenya. Non è stata una indimenticabile Jenny delle Spelonche nell’Opera da tre soldi, nel 1993? Sublime ne I sette vizi capitali, pubblicato su disco cinque anni dopo? Non c’è dubbio, d’altro canto, che se Lotte Lenya, la musa di Brecht & Weill, avesse avuto diciotto anni quando Beatles e Rolling Stones mettevano a soqquadro il pop sarebbe stata una perfetta Marianne Faithfull. Un bel tailleur pantalone, borsa elegante, passo aristocratico, gli occhi azzurri tuffati in un viso dove ogni secondo dei suoi sessantuno anni ha lasciato un piccolo segno. Oggi Marianne Faithfull è la diva espressionista per eccellenza. Un colpo di tosse da fumatrice incallita, poi un saluto cordiale con la voce roca, sgranata, diversa. Agli esordi, timida e bellissima, le canzoni le accarezzava soavemente. Oggi le graffia, le maltratta, le divora. Come Tom Waits. Stringe in mano una copia appena stampata del doppio cd Easy come, easy go, in cui canta classici come Solitude o Somewhere con un timbro rotto, disperato e ubriaco che è diventata la caratteristica della sua seconda vita parte, ho sempre l’opportunità di fare un altro disco o un progetto teatrale. E quando arriva un copione interessante come Irina Palm, prendo la palla al balzo e congelo per un po’ i miei interessi musicali. Sbaglia chi dice che per me il mestiere di attrice è un’occupazione secondaria. Al contrario, lo prendo molto sul serio. Il recital di sonetti di Shakespeare che ho tenuto qui a Milano è stata un’avventura emozionante. Anche se devo ammettere che per una della mia età è assai più facile trovare una buona canzone che un copione convincente. La maggior parte delle sceneggiature che mi propongono sono spazzatura, mi vorrebbero relegata in ruoli degradanti, avvilenti, e io non accetto». Il set di Irina Palm (una donna che per poter pagare le spese mediche di suo nipote masturba clienti in un peep show) l’ha riportata nella Soho maledetta dove consumò gli anni più bui della sua esistenza, in un appartamento di mattoni crudi, senza luce né acqua corrente. Eroinomane e anoressica, Abito a Parigi, città adorabile, anche se a volte mi sento una donna senza radici, che in ogni posto trova qualcosa di piacevole FOTO GRAZIA NERI F MILANO d’artista. La copertina evoca immagini di dive jazz d’altri tempi, Blossom Dearie, Anita O’Day, Chris Connor, June Christy. «Ho voluto esagerare, incidere un album ricco e lussuoso», spiega. Si guarda intorno, il salone è sovraccarico di stucchi dorati. Esita ad accomodarsi sulla poltrona vistosamente impero, troppo confortevole per una che della vita scomoda ha fatto un’arte. «Ho una lunga storia che mi lega all’Italia», mormora. «Ricordo quando mi chiamarono a cantare a Sanremo (C’è chi spera in coppia con i Camaleonti, 1967). Ripassavo il testo della canzone con mio padre, che parlava perfettamente la vostra lingua. La prima volta che visitai il paese, con la mia famiglia, ero una bambina. Papà mi diceva sempre, peccato che non sei portata per le lingue, tu insegui le note, come tua madre». Bella, innocente, sensuale, Marianne si buttò senza paracadute nell’effervescenza degli anni Sessanta. «Cosa volevo? Tutto», ammette, squassando la hall con una risata cavernosa. Tanto sesso, molta droga. E un precoce matrimonio con John Dunbar dal quale ebbe un figlio, Nicholas (è nonna dal ‘93), di cui perse subito l’affidamento (primo tentativo di suicidio). Era già moglie e madre quando finì nell’universo vorticoso dei Rolling Stones; un matrimonio naufraga in fretta quando un diavolo come Jagger ci mette la coda. Andò a letto (o amò? ma faceva differenza allora?) anche con Keith Richards e Brian Jones, «ma poi scelsi Mick». Quando la polizia fece irruzione nel loro appartamento in cerca di stupefacenti, lei si rifugiò sotto un tappeto di pelliccia per non farsi fotografare nuda. «Quell’episodio mi distrusse. Un rocker che si droga è cool, una ragazza una poco di buono». Le leggende metropolitane si moltiplicarono, una storia piccante di sesso al Toblerone tra Marianne e Mick fece il giro del mondo (molti dettagli li ha svelati nell’autobiografia Faithfull, pubblicata nel 1994). Quando Andrew Loog Oldham, il manager degli Stones, decise di convocarla per incidere As tears go by, dovette mandarle un telegramma, i Faithfull non avevano ancora il telefono nella casa di Reading. In meno di una settimana la Françoise Hardy della swingin’Londonera pronta per le prime pagine. «Tutto era esaltante e frustrante allo stesso tempo», ricorda. «Non solo divertimento per quelli come noi; dovevamo lavorare, produrre. Ma ero molto determinata e non mollavo. In realtà non ero cresciuta pensando di fare la cantante. Volevo fare la musicista, l’attrice, l’interprete di musica classica e leggera. Tutte cose che in qualche modo sono poi diventate realtà, anche se in tempi diversi. Artista… questa era la parola magica che mi ronzava in testa. Che non significava successo, denaro, lusso. Essere cantante e attrice mi ha aiutato a fare quel che mi piace e in cui credo. Se non mi offrono una buona abbandonata dai suoi amici rocker, alla frenetica ricerca di una dose («Mi iniettavo eroina anche ventiquattro volte al giorno», racconta in Faithfull). Gli scintillanti party londinesi, le feste folli a casa di Dirk Bogarde, gli incontri con Dylan e Ginsberg, dischi e film d’autore, le spensierate trasferte a Tangeri con George Harrison e Pattie Boyd, i viaggi in Italia con Anita Pallemberg e i weekend romani col pittore Mario Schifano sembravano roba di un secolo addietro. Nei momenti in cui lo spacciatore non era a portata di mano, non le restava che bussare alla porta di Eric Clapton, che era nel suo stesso inferno. «Chi ancora mi frequentava, nel ‘72, cercava di terrorizzarmi raccontandomi di come erano morti Jim Morrison, Jimi Hendrix e Janis Joplin», ricorda, «ma quando sei in quello stato non accetti consigli, ti senti invulnerabile, non ti ammali nemmeno. Ho preso il primo raffreddore quando ne sono venuta fuori. Non basterebbe un libro per raccontare quei due anni. In poche parole: volevo scomparire dalla faccia della terra». Eppure non ha nessuno di quei segni evidenti che la droga lascia sul volto di alcune sue vittime. Nella frenesia dell’hotel milanese isterizzato per la sfilata del pomeriggio, ha più classe e self control di qualsiasi fashion editor. Solo la voce racconta gli abusi, risultato di laringiti recidive causate da cocaina, sigarette e whisky. «Che volgarità!», scrissero in molti quando la riascoltarono, alla fine degli anni Settanta. Invece quella nuova voce le ha salvato vita e carriera. Broken English, il disco della rinascita pubblicato nel 1979 che, aggressivo e slabbrato, catturava perfettamente l’essenza postpunk, è ancora considerato il suo capolavoro. «Fu l’occasione di mostrare al mondo quel che sono davvero. Tutti avevano dei preconcetti sul mio conto, la ragazzina che faceva bisboccia con gli Stones, la remissiva amante di Mick Jagger, la biondina che si era fatta trascinare nell’abisso dalla swingin’London. Così decisi di incidere un album drammatico, perfettamente nelle mie corde, sperando che arrivasse al pubblico come un pugno nello stomaco. Se in quel momento della mia carriera mi avessero impedito di fare un disco come Broken English, avrei chiuso per sempre col la musica. Avevo fatto tanto per gli altri, a quel punto dovevo fare qualcosa per me, qualcosa di cui fossi fiera. Mi dissero: ma che ti viene in mente di riproporre una canzone come Working class hero di John Lennon? E io: perché no? non sono anch’io una lavoratrice che ne ha passate di tutti i colori?». Con il mestiere che fa, il passato, minaccioso o piacevole che sia, è sempre dietro l’angolo. Ma non sempre è doloroso incontrare i vecchi amici. Con Keith Richards, Marianne fa scintille in Sing me back home (nel nuovo disco, zeppo di ospiti illustri: Antony, Sean Lennon, Nick Cave, Rufus Wainwright, Jarvis Cocker). «Quella con Keith non è stata una vera e propria riunione. Abbiamo continuato a vederci in questi anni. Lo confesso: ci siamo commossi cantando la canzone di Merle Haggard. È stato lui a svelarmi i misteri del blues, come Mick quelli del rock e Charlie Watts quelli del jazz. Sono i miei idoli. Insieme a Bessie Smith, Billie Holiday, Oscar Wilde, William Shakespeare, Screaming Lord Sutch, Elvis, Little Richard, Miles Davis (a quattordici anni rimasi folgorata da Sketches of Spain), Otis Redding. Ho avuto un’educazione musicale molto eclettica. So di non avere un bel timbro, elegante e perfettamente educato. Ma invecchiare ha fatto bene alla mia voce, me ne sono accorta quando ho inciso Strange weather. Con l’ugola puoi anche fare i fuochi d’artificio come Barbra Streisand, ma a che serve se non riesci a comunicare delle emozioni?». La vita da sessantenne, racconta, è più dolce. Abita a Parigi col suo compagno, il produttore François Ravard. Gli ha dedicato il suo ultimo libro, Memories, dreams & reflections. « A volte mi sento una donna senza radici, che in ogni città trova qualcosa di piacevole», ammette perplessa. «Ho vissuto anche negli Usa e in Olanda. Ma Parigi è adorabile, le giornate scorrono serene, riesco a difendere la mia privacy. Ormai si va avanti cercando di esorcizzare le paure. Paura di ammalarmi, paura della morte...», dice alludendo al cancro che ha dovuto affrontare due anni fa e alla brutta epatite che l’anno scorso l’ha costretta a cancellare tutti gli impegni. «Per schivare le ossessioni cerco di vivere alla giornata. Sembra che funzioni. Adesso sono concentrata su Easy come, easy go. E sulla vita, che di per sé è già un bell’impegno». ‘‘ GIUSEPPE VIDETTI Repubblica Nazionale