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Separazioni e alimenti
Gustavo De Santis
([email protected])
Mauro Maltagliati
([email protected])
Relazione preparata per il Convegno
Instabilità familiare: aspetti causali e conseguenze demografiche, economiche e sociali
Messina, 10-11 novembre 2006
Abstract
Marriage breakdown is on the rise in Italy, and court decisions about child custody and related
support payments must be taken more and more frequently. Until recently, child custody was
normally granted to mothers, with fathers forced to pay monthly instalments, as a form of child
support. But what is the "fair" amount that should be paid in these cases? A recent law (No. 54,
February 2006), breaking away from the past, states that the standard practice shall now be that of
shared custody and responsibility between parents. The economic issue remains open, however:
should child support payments still exist? Who should give to whom, and how much?
This papers sets out to show that, given accepted equivalence scales, several lines of reasoning
may appear plausible, at first, but only one among them eventually emerges as preferable. The
implications and the limitations of this approach are discussed with reference to a few standard
cases.
Versione provvisoria, su cui sono graditi commenti, ma che si prega di non citare.
Preliminary: comments welcome. Please, do not quote.
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Di cosa si parla: pagamento di alimenti, e altri effetti economici delle rotture coniugali
Numerosi sono gli effetti di una rottura coniugale, ad esempio in termini di stress psicologico per
le persone coinvolte, di interruzione della carriera riproduttiva, di necessità di ricerca di un nuovo
alloggio per almeno uno dei due ex-coniugi, ecc. In queste pagine ci interesseremo principalmente
di un particolare aspetto economico di tale fenomeno: come determinare il giusto ammontare
dell'assegno che un partner deve corrispondere a favore a favore del figlio, e, in taluni casi, anche a
favore dell'ex-coniuge.
La questione ha interesse sia dal punto di vista teorico, dove, come vedremo, molte sono ancora
le zone d'ombra, sia dal punto di vista pratico, perché quotidianamente, e sempre più spesso, i 165
tribunali civili italiani si trovano a dover prendere decisioni su casi concreti di separazione e
divorzio, e normalmente lo fanno in assenza sia di strumenti tecnici adeguati, sia di criteri guida
chiari, se non universalmente condivisi. Questo non vuol dire che le decisioni prese siano sbagliate:
vuol dire però che esse sono estremamente variabili da caso a caso, pur in presenza di fattispecie
simili.
Un inquadramento generale
Benché meno frequenti che non negli altri paesi industrializzati, le rotture coniugali sono ormai
diffuse anche in Italia, e in costante crescita: le separazioni legali, ad esempio, sono passate dalle 51
mila del 1994 alle 83 mila del 2004 (ultimo dato disponibile, al momento), con un tasso di
separazione totale stimabile ormai nell'ordine del 27%, su base trasversale. Solo il 60% delle
separazioni è seguito da un divorzio (con un ritardo minimo di tre anni), e anche per i divorzi il
trend è in ascesa: dai 27 mila del 1994, ai 45 mila del 2004 (Figura 1).
Figura 1 - Andamento recente di separazioni e divorzi in Italia
90 000
80 000
70 000
60 000
50 000
40 000
30 000
20 000
Separazioni
10 000
Divorzi
0
1992
1994
1996
1998
2000
2002
2004
2006
Fonte: Istat (2005a, 2006) e aggiornamenti successivi
(http://giustiziaincifre.istat.it/Nemesis/jsp/Introduzione.jsp?id=1A|1A)
Il 70% circa delle separazioni avviene tra coppie con figli, e quasi 100 mila ragazzi, tra cui circa
64 mila minorenni, ne sono stati coinvolti nel 2004. Questi si aggiungono a quelli, solo di poco
meno numerosi, che sono passati dalla stessa esperienza in ciascuno degli anni precedenti. Con chi
vivranno in seguito questi figli, e chi provvederà al loro mantenimento?
Fino a poco tempo fa, l’affidamento dei figli minori nei procedimenti di separazione e divorzio
era disciplinato dal codice civile (art. 155) e dalla legge n. 898 del 1 dicembre 1970, modificata
dalla legge n. 74 del 6 marzo 1987 (art. 6). Il giudice che pronunciava la separazione o il divorzio
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dichiarava a quale genitore venivano affidati i figli, nel cui esclusivo interesse prendeva anche tutti
gli eventuali altri provvedimenti relativi alla prole, tra cui in particolare l'affido, che poteva anche
essere riconosciuto a entrambi i genitori, in modo congiunto o alternato, tenuto anche conto dell'età
dei figli e degli eventuali accordi intervenuti tra i coniugi1. In pratica, però, con la vecchia
normativa, il giudice affidava molto spesso i figli alla sola madre (83% dei casi nel 2004, e anche di
più negli anni precedenti), e solo molto raramente a entrambi i genitori (14% dei casi).
Dal 1° marzo 2006, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, è invece entrata in vigore la
legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento
condiviso dei figli), che, sotto questo profilo, ribalta l'impostazione precedente. Si noti, intanto, che
l'impatto della nuova legge è potenzialmente molto rilevante, perché non copre soltanto i nuovi casi
di rottura coniugale. Tra le sue disposizioni finali, infatti, si legge che "nei casi in cui il decreto di
omologa dei patti di separazione consensuale, la sentenza di separazione giudiziale, di
scioglimento, di annullamento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio sia già stata emessa
alla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuno dei genitori può richiedere [...]
l’applicazione delle disposizioni della presente legge." In pratica, tutti i rapporti, economici e di
convivenza, già decisi sulla base della vecchia normativa potrebbero essere rimessi in discussione,
alla luce delle nuove disposizioni, su richiesta degli interessati.
Cosa cambia? Dal punto di vista dell'affido, il giudice adesso "valuta prioritariamente la
possibilità che i figli minori restino affidati a entrambi i genitori oppure stabilisce a quale di essi i
figli sono affidati, determina i tempi e le modalità della loro presenza presso ciascun genitore,
fissando altresì la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla
cura, all’istruzione e all’educazione dei figli."
Ai fini della sfera economica, che è ciò che più interessa in questa sede, bisogna distinguere. Per
quanto riguarda i rapporti tra i coniugi, valgono ancora le precedenti disposizioni, per cui "il
tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo
personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del
patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti
elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di
somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi
adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive." Inoltre, "la sentenza deve
stabilire anche un criterio di adeguamento automatico dell'assegno, almeno con riferimento agli
indici di svalutazione monetaria."
Per quanto concerne l'assegno di mantenimento per i figli, invece, le cose sono cambiate. Prima
si diceva, genericamente, che "il tribunale stabilisce la misura ed il modo con cui il genitore non
affidatario deve contribuire al mantenimento, all'istruzione e all'educazione dei figli, nonché le
modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi". E si precisava anche che "l'abitazione
nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli
convivono oltre la maggiore età. In ogni caso, ai fini dell'assegnazione, il giudice dovrà valutare le
condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione, e favorire il coniuge più debole."
Adesso, invece, le norme di legge danno qualche indicazione più puntuale. Si dice infatti che,
salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al
mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito. A questo fine, il giudice
stabilisce, se necessario, la corresponsione di un assegno periodico, da determinare considerando:
1) le attuali esigenze del figlio;
2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori;
3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore;
4) le risorse economiche di entrambi i genitori;
5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore.
1
Il giudice poteva anche procedere invece all’affidamento familiare (cioè a terze persone), nei casi di temporanea
impossibilità di affidare la prole ai genitori.
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L’assegno è automaticamente adeguato agli indici ISTAT in difetto di altro parametro indicato
dalle parti o dal giudice. Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non
risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria
sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi
Ma, in pratica, che impatto avrà tutto ciò sulla sfera economica? Fino a ieri, all'affidamento
esclusivo alla madre si accompagnava di norma un onere economico a carico del padre, sotto tre
forme: un assegno mensile per i figli per i figli (mediamente di 530 euro nel 2004), uno per la
moglie (mediamente di 507 euro nel 2004) e spesso (nel 58% dei casi) anche la cessione della casa
coniugale alle moglie e ai figli, con necessità quindi, per il padre, di ricerca di un nuovo alloggio.
Queste poche cifre non dicono, però, che i 165 tribunali civili chiamati a pronunciarsi su
separazioni e divorzi, anche a causa della mancanza di una guida operativa, decidevano in maniera
molto difforme, in termini sia di criteri di scelta, sia di risultato finale.
Sotto questo profilo dell'eterogeneità, purtroppo, le cose potrebbero non migliorare molto
neanche con la nuova legge, le cui indicazioni di massima non appaiono sufficientemente
"operative". Il punto (5), ad esempio, puntualizza che il lavoro domestico deve essere
adeguatamente valutato, ma non fornisce indicazioni su come valutarlo. Il punto (3), coerentemente
con la nuova impostazione generale, sottolinea il fatto che un genitore che passa una certa quota del
tempo con il figlio (che quindi, in questo periodo, lo nutre, lo veste, gli cede parte della sua casa,
ecc.), già così contribuisce al suo mantenimento economico. Purtroppo, però non è detto che le
spese siano direttamente proporzionali al tempo trascorso con i genitori: poiché la maggior parte di
esse può essere differita, o concentrata nel tempo, potrebbe anche capitare che un genitore, che pure
passa la metà del tempo con il figlio, non provveda però mai alle spese "rilevanti", come ad
esempio, acquisto di vestiti, pagamento di visite mediche specialistiche, iscrizioni varie, ecc. In
questo caso, tali spese resterebbero tutte a carico dell'altro genitore, che sarebbe quindi
economicamente penalizzato. Il punto (1) è ambiguo: cosa sono le attuali "esigenze" di un figlio?
Un motorino, un vestito "griffato", una visita medica specialistica e costosa, ma forse non
necessaria?
Il punto (2), infine, appare pericoloso, perché fa riferimento a una situazione precedente che non
esiste più e che non è ragionevolmente replicabile. Come discuteremo più in dettaglio tra breve,
vivere insieme permette risparmi (ad esempio, in termini di affitto e di mezzi di trasporto). Questo
significa che il tenore di vita possibile per una famiglia di 3 componenti che vive unita è più alto di
quello che, con gli stessi soldi, possono raggiungere due nuclei familiari distinti, formati da madre e
figlio da una parte e dal solo padre dall'altra. Ma se separarsi equivale a un impoverimento della
famiglia, ha senso cercare di mantenere un componente solo (il figlio) a un tenore di vita che non è
ormai più possibile per gli altri?
In breve: tra indicazioni di massima corrette, ma difficili da tradurre in pratica, e altre forse
meno difendibili, e comunque anch'esse non immediatamente operative, il nodo economico delle
separazioni con figli appare ancora da sciogliere. Lo scopo di nostro lavoro è appunto questo:
evidenziare alcuni dei criteri guida che potrebbero essere adottati in sede giudiziale per calcolare il
"giusto" ammontare degli alimenti, e esaminare le implicazioni teoriche e pratiche di tali possibili
scelte.
Richiamo sulle scale di equivalenza
Apriamo a questo punto una breve parentesi per ricordare che i coefficienti di equivalenza E, che
nel loro insieme formano una scala di equivalenza (SDE), sono numeri puri e relativi con cui,
rispetto a una famiglia convenzionalmente posta come termine di riferimento, si indicano le
necessità economiche di famiglie con caratteristiche diverse, ad esempio in termini di numerosità o
di età dei componenti.
Determinare il valore dei coefficienti di equivalenza è un'operazione estremamente delicata, sia
dal punto di vista delle scelte di valore, sia dal punto di vista tecnico, e non è stato sin qui possibile
giungere a una convergenza di opinioni tra gli specialisti, né sul metodo da seguire, né sui risultati
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pratici di tale operazione2. Esistono quindi numerose scale di equivalenza, tra le quali si possono
ricordare quelle più rilevanti per l'Italia: la scala modificata OECD (generalmente usata per i
confronti internazionali), la scala Carbonaro (utilizzata dall'Istat nelle sue pubblicazioni sulla
povertà relativa in Italia; es. Istat, 2005b), e la scala cui fa riferimento l'ISEE, o Indicatore della
Situazione Economica Equivalente. Di queste si parla più in dettaglio in appendice, ma per
comprendere ciò che segue è sufficiente concentrarsi sui valori della tabella 1.
Tabella 1 - Alcuni esempi di scale di equivalenza
Scale di equivalenza selezionate, per alcune tipologie familiari
ISEE
ISEE
Dim.Fam. OECD mod. OECD mod. Carbonaro
(P, M, F)
(M, F)
(P, M, F)
(M, F)
1.00
1.00
1
1.00
1.00
1.00
1.57
1.77
2
1.50
1.30
1.67
2.04
3
1.80
2.23
Legenda: P=Padre; M=Madre; F=figlio
Per convenzione, le famiglie con un solo componente (adulto) sono qui utilizzate come termine
di paragone, e il loro coefficiente E1 vale 1. I coefficienti successivi cambiano in funzione della
numerosità e, talvolta, anche delle altre caratteristiche familiari. Ad esempio, nella scala OECD
modificata, i giovani fino a 14 anni "costano" solo 0,3, mentre ogni adulto o anziano aggiuntivo
costa 0,5. Per contro, nella scala ISEE, la presenza di persone "giovani" (che qui però significa
"minorenni") non ha effetti di per sé, ma diventa rilevante se si combina con altre circostanze
particolari. Ad esempio, il coefficiente aumenta di 0,2 se la presenza di un minore si accompagna
all'assenza di un genitore, come si suppone che avvenga qui per la famiglia descritta nell'ultima
colonna della tabella, quella formata da madre e figlio dopo la separazione.
Per la ricordata assenza di un chiaro criterio di preferibilità di una scala rispetto all'altra, nel
seguito utilizzeremo le scale di equivalenza ISEE, che sono già ufficialmente in uso in Italia,
concentrandoci solo su tre famiglie-tipo: una "pre-separazione", che immagineremo formata da
padre, madre e figlio (Eh=2,04), e due post-separazione, che immagineremo formate, da un lato, dal
padre solo (Ep=1), e, dall'altro, dalla madre con un figlio minorenne (Emf=1,77).
Tenore di vita e costo del figlio
Consideriamo una famiglia (household) H, formata da un padre P una madre M e un figlio F,
minorenne e privo di reddito. Il reddito della famiglia Yh è dato dalla somma dei redditi dei due
adulti che la compongono, quello del padre Yp e quello della madre Ym
1)
Yh = Yp + Ym
Il tenore di vita Th che la famiglia si può permettere non è direttamente misurabile, ma lo si può
valutare trasformando il reddito monetario Yh in reddito equivalente tramite il coefficiente di
equivalenza Eh
2)
Th = Yh / Eh
Il reddito equivalente, nonostante il nome in parte ingannevole, è una grandezza ordinale:
consente cioè di ordinare famiglie diverse, e permette anche dire quando due famiglie si trovano
allo stesso livello di tenore di vita ma, in caso di differenza, non permette di dire di quanto una
famiglia stia meglio dell'altra. In pratica, come vedremo subito, questo significa che una traduzione
2
La letteratura sul tema è pressoché sconfinata, e in continuo aggiornamento. Per una rassegna si veda, ad esempio,
Perali (2003).
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dei confronti in termini monetari è possibile solo quando si può supporre che il tenore di vita T sia
identico tra due famiglie diverse.
Benché non ci sia accordo sulle scale di equivalenza, c'è però accordo sull'idea che vivere
insieme permetta economie di scala, e cioè risparmi, grazie ai quali ogni membro aggiuntivo, o
"marginale", costa meno della media dei membri precedenti. Di conseguenza, lo scioglimento di un
nucleo familiare comporta sempre un aggravio di costi e quindi, in assenza di risorse aggiuntive, un
abbassamento del tenore di vita. Ad esempio, con la scala ISEE, per ogni dato tenore di vita, una
famiglia di tre persone ha bisogno di risorse proporzionali a 2,04,3 mentre, in caso di separazione, le
risorse teoricamente necessarie a preservare lo stesso tenore di vita dovrebbero essere proporzionali
a 1 (per il padre) + 1,77 (per madre e figlio minorenne), e cioè a 2,77. In termini percentuali, si
tratta di una crescita tutt'altro che trascurabile, pari quasi al 36%. Con altre scale l'incremento dei
costi è un po' meno pronunciato, ma è comunque sensibile, e pari almeno al 20% negli esempi
mostrati in tabella.
Una scala di equivalenza fissa implicitamente il costo dei componenti in termini relativi,
nell'ipotesi - un po' forte, per il vero - che esso cresca in proporzione al reddito della famiglia. Nel
caso del figlio, ad esempio, tale costo relativo è pari a (Eh-Epm)/Eh, e corrisponde alla parte dei
bisogni familiari imputabili al figlio (Eh-Epm) in rapporto ai bisogni totali della famiglia Eh.4
In termini monetari, il costo del figlio, Cf, risulta quindi
C f = Yh
3)
E h − E pm
Eh
 E pm
= Yh 1 −
Eh




Ad esempio, con la scala ISEE, per una coppia con un reddito mensile di 2000 Euro, il costo
relativo del figlio risulta pari a (1-1,57/2,04=) 23% circa, e il costo monetario Cf si valuta in
(2000x23%=) 461 Euro/mese circa. Conviene ricordare che questa è solo una stima indiretta della
parte del reddito (cioè dei 2000 Euro) che i genitori usano non per se stessi ma per il figlio,
nell'ipotesi che i tre membri della famiglia condividano lo stesso tenore di vita.
In caso di separazione: cinque possibili criteri guida
Ammettiamo adesso che i genitori si separino, che il figlio venga affidato alla madre, come
avveniva nella grande maggioranza dei casi fino alla ricordata legge 8 febbraio 2006, n. 54,5 e che
un giudice debba stabilire l'ammontare degli alimenti A da corrispondere mensilmente. Chi deve
dare a chi? E quanto?
Ammettiamo, intanto, che il reddito complessivo non sia variato, e sia ancora Yh. Queste sono le
risorse totali a disposizione dei due nuclei familiari, che vanno in qualche modo ripartite. E qui si
incrociano due piani diversi, perché vi è, sì, un problema tecnico, di come fare a ottenere
esattamente il risultato che si vuole conseguire, ma prima ancora vi è un problema "politico": quale
risultato si vuole ottenere? Tanto nella letteratura specializzata (**) quanto nella pratica dei
tribunali (**) manca, a nostra conoscenza, un criterio guida universalmente accettato, e gli obiettivi
che si possono perseguire sono diversi, e non sempre conciliabili tra di loro.
Consideriamo dunque, rapidamente, alcune delle possibili logiche che un tribunale potrebbe
adottare, e precisamente:
3
Ipotizzando che in famiglia non ci siano portatori di handicap (maggiorazione prevista: 0,5), e che non si applichi
neppure la maggiorazione di 0,2 prevista per il caso di nuclei familiari con figli minori, in cui entrambi i genitori
svolgono attività di lavoro e di impresa.
4
La formula del testo, applicata come nella (3) ad esempio, consente di imputare al figlio una certa quota del
reddito effettivamente percepito dalla famiglia. Non useremo qui la formula alternativa (Eh-Epm)/Epm,: concettualmente
sarebbe preferibile, perché pone al denominatore la famiglia senza figlio, ma in pratica richiede l'introduzione di un
reddito teorico. Usarla, infatti, equivale a porsi la seguente domanda: "Partiamo da una coppia con reddito Ypm, e
ammettiamo che a questa coppia nasca un figlio. Qual è il reddito teorico Y*h che garantirebbe alla famiglia di 3
componenti lo stesso tenore di vita che era prima possibile alla famiglia di 2?".
5
Più avanti considereremo anche il caso dell'affidamento congiunto.
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a) parità di tenore di vita dei due nuovi nuclei familiari;
b) protezione del nucleo madre-figlio;
c) suddivisione proporzionale del precedente costo del figlio;
d) suddivisione proporzionale del nuovo costo del figlio.
e) avvicinamento ai "redditi obiettivo".
a. Parità di tenore di vita dei due nuovi nuclei familiari
Cercare di uguagliare il tenore di vita dei due nuovi nuclei familiari (da una parte il padre da solo
e dall'altra la madre con il figlio) costituisce il criterio apparentemente più logico e intuitivo. I
calcoli sono facili: basta considerare che il tenore di vita del padre da solo, detratti gli alimenti A
che trasferisce all'altro nucleo, è Tp=(Yp-A)/Ep, con Ep=1, solitamente, mentre quello della coppia
madre-figlio è Tmf=(Ym+A)/Emf. Uguagliando i due tenori di vita
T p = Tmf ⇒
4)
Yp − A
Ep
=
Ym + A
Emf
si ottiene l'ammontare degli alimenti che il padre deve corrispondere (o ricevere, se il segno di A è
negativo), che risulta
A=
5)
Y p Emf − Ym E p
Emf + E p
Per poter tradurre tutto questo in numeri bisogna formulare un'ipotesi anche sui redditi di
ciascuno dei genitori. Ammettiamo allora che il padre guadagni 1500 e la madre 5006. In questo
caso, il padre deve corrispondere, in alimenti, circa 778, restando con (1500-778)=722, mentre la
coppia madre-figlio vivrà con (500+778)=1278, il che corrisponde a un reddito equivalente pari a
1278/1,77=722 - esattamente identico a quello del padre.
Tuttavia questa soluzione presenta anche qualche svantaggio, perché nel calcolo delle somme da
trasferire entra il benessere non del solo figlio, ma quello dei due nuclei familiari globalmente
intesi, comprensivi degli adulti, e senza distinzione dei beneficiari. Per evidenziarlo, consideriamo
ancora il caso precedente, ma ipotizziamo ora che a lavorare sia solo il padre (e quindi
Yp=Yh=2000), mentre la madre non guadagna nulla (Ym=0). Adesso il padre deve trasferire tutti i
1278 Euro che servono al nucleo madre-figlio per raggiungere il reddito equivalente obiettivo, di
722, ed è chiaro che nel calcolo di questa somma si è tenuto conto del tenore di vita anche della
madre. Ancora più evidente è il caso contrario: immaginiamo che il padre (non affidatario) non
guadagni nulla, mentre è la madre a guadagnare tutto il reddito della famiglia (Ym=Yh=2000).
Adesso è lei, con questa logica, a dover pagare 722 di alimenti all'ex-marito (A=-722 nella formula
5), benché questo non vada, evidentemente a vantaggio del figlio, ma vada, anzi, a suo detrimento.
Infine, notiamo che il costo del figlio è cambiato
C f (a ) = (Ym + A)
6)
Emf − Em
Emf
Nel nostro caso base (Yp=1500, Ym=500, A=778), ad esempio, il costo è salito a 556 Euro al
mese, contro i 461 precedenti. L'aumento, come si era anticipato, si deve al fatto che, a parità di
tenore di vita, "costa di più" vivere in famiglie piccole. Qui il tenore di vita è in realtà minore, ma
prevale l'effetto contrario: il peggioramento della scala di equivalenza è tale che i costi risultano,
nel complesso, maggiori.
6
Tutte le grandezze sono qui espresse in "Euro al mese".
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b. Protezione del nucleo madre-figlio
Si può preferire una situazione in cui, al tempo (1), e cioè dopo la separazione, il nucleo madrefiglio preservi il tenore di vita che caratterizzava la famiglia prima della separazione, al tempo (0).
Si noti che il riferimento al tenore di vita precedente, ha ispirato alcune sentenze (**), e, come
abbiamo visto, è espressamente richiamato nella Legge 8 febbraio 2006.
. In questo caso, la condizione che si impone è
7)
Tmf (1) = Th(0 ) ⇒
Ym(1) + A
Emf
=
Yh(0 )
Eh
da cui si può calcolare l'ammontare degli alimenti che il marito deve corrispondere, pari a
8)
A=
Yh(0 )Emf − Ym(1)Eh
Eh
Nel nostro esempio, se il padre guadagna 1500 e la madre 500, il trasferimento per alimenti
dovrà essere A=1235 Euro circa. Si noti però che il padre dovrebbe a questo punto sopravvivere con
soli (1500-1235=) 265 Euro al mese per permettere alla ex-coniuge e al figlio di vivere con
(500+1235=) 1735 Euro, e cioè allo stesso tenore che era loro possibile quando la famiglia era unita
(Eh=2,04) e guadagnava Yh=2000.
Questa appare nel complesso una soluzione poco soddisfacente, per almeno due motivi. Intanto
perché, come la precedente, non distingue, nei trasferimenti, quanto va al figlio e quanto al genitore
affidatario, e poi perché, peggiorando quanto visto in precedenza, non riconosce che il divorzio
equivale a un impoverimento generale della famiglia, e protegge solo una parte di essa (il nucleo
madre-figlio), con conseguenze potenzialmente molto (troppo) onerose per l'altra parte.
c. Suddivisione proporzionale del precedente costo del figlio
Per introdurre altri possibili modi di calcolo degli alimenti, occorre ipotizzare che sia possibile
ottenere un tenore di vita diverso per persone che, pure, appartengono a uno stesso nucleo familiare.
Benché, in senso stretto, quest'ipotesi contraddica lo stesso uso delle scale di equivalenza su cui
sono qui condotti i calcoli, in alcuni casi almeno, essa potrebbe non essere del tutto indifendibile.
Ad esempio, quando i genitori fanno sacrifici per permettere al figlio di studiare, abbassano il
proprio tenore di vita per poter mantenere elevato quello del figlio. Ed è a questo scenario, in varie
forme, che faremo riferimento nei prossimi paragrafi.
Un primo, possibile modo di ragionare è il seguente: come abbiamo visto nella formula (3), con
le scale di equivalenza è possibile calcolare, sia pure in via ipotetica, la parte del reddito familiare
da imputare al figlio nella vecchia famiglia, prima della separazione, e cioè il precedente costo del
 E pm 
.
figlio C f = Yh 1 −

E
h 

Ebbene, il giudice potrebbe riferirsi proprio a questa somma, partendo dall'assunto che il figlio
non debba essere penalizzato dalla decisione dei genitori di separarsi. Si pone ancora il problema di
come ripartire questo costo tra i due genitori, e un criterio possibile, oggi peraltro imposto dalla
legge, è quello di un'attribuzione proporzionale al reddito di ciascuno di essi. In pratica, converrà
imporre genitore non affidatario il pagamento in denaro della somma di sua competenza (gli
alimenti A di cui stiamo discutendo), e lasciare invece che il genitore affidatario paghi
implicitamente la sua parte, nella condivisione con il figlio della vita quotidiana.
In questo caso, gli alimenti a carico del padre, non affidatario, risultano essere
9)
A=Cf
 E pm 

= Y p 1 −

Y p + Ym
E
h 

Yp
p. 9/17
come si ricava dalla (3), imponendo al padre una quota della spesa complessiva pari a YP/Yh, e
ricordando che Yh=Yp+Ym, anche se adesso i due ex-coniugi non vivono più uniti. Con i nostri
numeri, ad esempio, si ottiene, A=346, il che significa che il padre dovrebbe vivere con
(1500-346=) 1154, e il nucleo madre-figlio con (500+346)=846.
Il ragionamento può apparire convincente (il padre trasferisce solo il denaro che serve per il
figlio), ma non è molto coerente, perché ignora che il costo del figlio era, sì, di 461 Euro in un certo
contesto (famiglia unita, di tre membri, che guadagna 2000 Euro al mese), ma che adesso potrebbe
essere cambiato, sia per un diverso reddito dei genitori (caso qui non considerato) sia per la diversa
situazione familiare che si è determinata dopo la separazione.
d. Suddivisione proporzionale del nuovo costo del figlio
Con un reddito complessivo Yh=Yp+Ym e un nuovo coefficiente di equivalenza per la famiglia
divisa, pari a (Ep+Emf), il costo relativo imputabile al figlio è (Emf-Em)/(Ep+Emf), che in termini
monetari diventa
 Emf − Em 

C f (d ) = Y p + Ym 
 E p + Emf 


(
10)
)
Questo costo può essere suddiviso in maniera proporzionale tra i due genitori, attribuendo al non
affidatario, cioè al padre nel nostro esempio, la quota Y pn Y pn + Ymn (tra un attimo spiegheremo
(
)
l'esponente n, che sta per netto). Di conseguenza, gli alimenti A diventano
11)
(
A = Y p + Ym
n
) EEmf −+ EEm Y Y+pY
mf
p
p
m
= Y pn
Emf − Em
Emf + E p
Con i nostri dati, il costo relativo del figlio è adesso pari a 0,77/2,77=28% circa del reddito delle
due famiglie (Yh=2000), che si traduce in Cf=556 Euro al mese circa. Questa somma deve essere
ripartita tra madre e padre in proporzione ai redditi guadagnati da ciascuno, e la quota che il padre
(non affidatario) deve versare al nucleo madre-figlio è pari ai 3/4 del totale, e cioè 417 circa. In
conclusione, il padre resta con un reddito di (1500-417=) 1083, mentre madre e figlio restano con
un reddito di (500+417)=917.
Incidentalmente, questo modo di ragionare rappresenta un sensibile progresso rispetto ai
precedenti, perché consente di imputare i costi anche degli altri membri della famiglia. Padre e
madre pesano infatti, ciascuno, 1/2,77 sul totale, il che significa che a ognuno "toccherebbero", in
caso di divisione del reddito perfettamente equa in termini di reddito equivalente, (2000/2,77=) 722
euro.7 Questa cifra può essere usata come termine di riferimento dal giudice per stabilire anche,
separatamente dall'assegno per il figlio, l'ammontare dell'eventuale trasferimento a favore del
coniuge più debole. Ad esempio, nel nostro caso, il giudice potrebbe osservare che la madre, cui
"spetterebbero", secondo questa logica, 722 Euro, ma che già ne guadagna 500 con il proprio
lavoro, ha diritto a ricevere dall'ex coniuge una certa parte dei 222 Euro di differenza - o, al limite,
tutta questa differenza.8 Ammettiamo che il giudice decida che questo assegno di mantenimento a
favore della ex moglie debba essere pari a 100: in questo caso, il reddito del marito, che era
7
Apparentemente questo ragionamento sembra vero anche per il precedente criterio, perché basterebbe trovare il
precedente "costo" della moglie. Tuttavia, tale costo cambia a seconda che si consideri la moglie come primo
componente della famiglia (costo Em=1), o come secondo componente (costo Epm-Em=0,57). E' possibile aggirare
l'ostacolo, ad esempio con una media tra questi due casi, ma si è preferito non parlarne, per non complicare il
ragionamento.
8
Come si è visto, la legge prevede che nel prendere questa si tenga anche conto di molti altri elementi, tra cui le
condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla
conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi, e la
durata del matrimonio.
p. 10/17
Yp=1500 si riduce a un reddito netto di Y pn =1400, mentre il reddito della moglie, da Ym=500 che
era, sale a Ymn =600. Ed è sulle base di questi redditi netti, che tengono conto degli eventuali assegni
di mantenimento tra coniugi, che la formula (11) calcola gli alimenti.
e. Avvicinamento ai "redditi obiettivo"
La logica adombrata alla fine del paragrafo precedente, di individuazione delle somme
teoricamente spettanti a ciascun membro della famiglia (o "redditi obiettivo"), può essere applicata
nella sua forma pura. Abbiamo detto che padre e madre pesano, ciascuno, 1/2,77≈36% sul totale, il
che significa che, in caso di divisione del reddito perfettamente equa in termini di reddito
equivalente, a ognuno "toccherebbe" il 36% circa del reddito, mentre al figlio toccherebbe il
restante 28% (0,77/2,77). Ad esempio, con un reddito familiare complessivo di 2000 euro/mese, a
ogni genitore toccherebbero 722 Euro, e al figlio 556 Euro al mese.
Ebbene, una possibile logica è quella di suddividere questo costo (556) tra i due genitori in
maniera tale che, alla fine, per ciascuno di essi, sia minima la distanza tra il reddito effettivo e il
reddito obiettivo. In concreto, chi, tra i due genitori, guadagna meno del reddito obiettivo non dovrà
corrispondere nulla, mentre chi guadagna di più dovrà pagare fino all'eventuale raggiungimento del
reddito obiettivo. Nel nostro esempio, la madre guadagna Ym=500, che è inferiore all'obiettivo
Ymo =722, e non deve quindi pagare nulla del costo del figlio. Paga dunque tutto il padre, che rimane
con (1500-556=) 944, mentre madre e figlio insieme vivranno con (500+556=)1056.
Anche in questo caso, è possibile individuare separatamente la somma massima che il padre
deve corrispondere all'ex-coniuge a titolo di alimenti, che, come nel caso (d) è pari a (944-722=)
222 Euro. In breve, con questa logica, il giudice può imporre al padre 778 Euro di alimenti
complessivi, esattamente come nel caso (a), ma la grossa differenza, adesso, è che, così come
richiede la legge, si esplicita che, di questi 778, 556 sono per il figlio e 222 sono invece a favore
della ex-coniuge.
Quale criterio è preferibile?
Non è facile decidere quale, tra i criteri sopra elencati, sia preferibile, perché nella scelta bisogna
tener conto di molti aspetti, tra cui, ad esempio, i seguenti:
1) la suddivisione dei redditi familiari tra quelli attribuibili al padre e quelli attribuibili alla madre;
2) la possibilità di distinguere la parte dei trasferimenti che va a favore del figlio o dell'ex-coniuge;
3) la possibilità che, nel corso del tempo, varino i redditi dei membri della famiglia;
4) la possibilità che, nel corso del tempo, varino le situazioni familiari di entrambi gli ex-coniugi,
che possono restare soli, o tornare da propri genitori, o trovare nuovi partner, magari anch'essi
con prole, ecc.
Per cominciare a orientarsi nel problema, si può intanto scorrere la tab. 2, in cui, alla nostra
famiglia di divorziati, si sono applicati i cinque criteri discussi sopra, in tre diversi scenari di
guadagno del padre e della madre, ma con il vincolo che il reddito complessivamente guadagnato
dalla famiglia sia sempre pari a 2000 Euro mensili.
p. 11/17
Tabella 2 - Esito pratico di alcuni criteri di scelta della determinazione degli alimenti, per una
famiglia con reddito mensile pari a Yh=2000 e tenore di vita Th=980 (=2000/2,04)
Criteri di scelta
a)
b)
c)
d)
e)
a)
b)
c)
d)
e)
a)
b)
c)
d)
e)
Parità di tenore di vita
Protezione di madre e figlio
Suddivisione precedente costo figlio
Suddivisione attuale costo figlio
Avvicinamento ai "redditi obiettivo"
Reddito e tenore di vita
Alimenti
Padre
Madre e figlio
Y mf
T mf
Y p (=T p )
A
Scenario 1: Yp=1500, Ym=500
778
722
1278
722
1235
265
1735
980
346
1154
846
478
417
1083
917
518
556
944
1056
597
Distinzione
tra A per
madre o figlio?
no
no
(sì)
sì
sì
Parità di tenore di vita
Protezione di madre e figlio
Suddivisione precedente costo figlio
Suddivisione attuale costo figlio
Avvicinamento ai "redditi obiettivo"
1278
1735
461
556
556
Scenario 2: Yp=2000, Ym=0
722
1278
265
1735
1539
461
1444
556
1444
556
722
980
260
314
314
no
no
(sì)
sì
sì
Parità di tenore di vita
Protezione di madre e figlio
Suddivisione precedente costo figlio
Suddivisione attuale costo figlio
Avvicinamento ai "redditi obiettivo"
Scenario 3: Yp=0, Ym=2000
-722
722
1278
-265
265
1735
0
0
2000
0
0
2000
0
0
2000
722
980
1130
1130
1130
no
no
(sì)
sì
sì
Nota: In tutti e tre gli scenari si ipotizza che il reddito complessivo della famiglia sia 2000, variamente
suddiviso tra padre e madre, e che siano esclusi espliciti assegni di mantenimento a favore dell'ex coniuge. Si
noti però che con i criteri a) e b), tali trasferimenti avvengono implicitamente; mentre con gli altri criteri, è
possibile calcolarli a parte (cfr. l'ultima colonna della tabella). Si ipotizza, inoltre, che il reddito dei due
coniugi (Yp e Ym) non vari dopo la separazione, o comunque che il tribunale non tenga conto di tale
cambiamento. Il tenore di vita, T, ottenuto dal rapporto Y/E (E=coefficiente di equivalenza, che vale 1 per il
padre solo e 1,77 per la madre con il figlio minorenne), è qui solo indicativo: per ipotesi, con i criteri c), d) e
e), madre e figlio non condividono lo stesso tenore di vita. Un valore negativo degli alimenti A segnala che le
somme vanno dal nucleo madre-figlio alla famiglia formata dal solo padre.
Il criterio (a), che mira a mantenere la parità di tenore di vita dei due nuovi nuclei familiari,
appare difendibile, ma non consente di distinguere la parte dei trasferimenti che va a favore del
figlio da quella che va a favore della madre, e, in casi estremi (padre povero e madre ricca), può
portare a un flusso di denaro a segno inverso, con il genitore affidatario che deve trasferire qualcosa
al genitore non affidatario.
Lo stesso difetto si osserva con il criterio (b), che soffre però, soprattutto, di un vizio logico,
perché tenta di mantenere madre e figlio al precedente tenore di vita, ignorando che adesso, a causa
del divorzio, la famiglia è più povera. In condizioni "normali" (scenari 1 e 2) questo porta a un
costo a carico del padre che, nella maggior parte dei casi, appare del tutto spropositato. Il criterio
(b), in breve, è probabilmente il peggiore tra tutti quelli proposti.
Anche il criterio (c) è un po' debole sul piano logico, perché calcola il costo del figlio sulla base
di una situazione demografica ormai superata, ma va notata la sua capacità (presente anche nei
criteri seguenti) di esplicitare l'ammontare di trasferimento dovuto a favore del solo figlio, e di
ammettere quindi, implicitamente, che nel nucleo madre-figlio, a seguito di una particolare
p. 12/17
divisione delle risorse, la madre possa trovarsi a un tenore di vita inferiore a quello del figlio. Il
criterio (c) ha anche il piccolo vantaggio aggiuntivo di permettere il calcolo sulla base della
conoscenza dei soli redditi del genitore non affidatario, come si vede dalla formula (9). Per contro,
(c) permette di individuare l'assegno di mantenimento a favore dell'ex-coniuge solo con qualche
forzatura.
Con il criterio (d) si compiono due decisi passi in avanti: si possono determinare separatamente,
e senza forzature, i trasferimenti teoricamente dovuti a favore del figlio e dell'ex coniuge, e i calcoli
sono determinati sulla base della situazione demografica attuale, successiva alla separazione, e non
di quella precedente.
Il criterio (e) infine, appare probabilmente il migliore. E' identico al precedente quanto alla
determinazione dei costi dei vari componenti, ma se ne distacca riguardo alla decisione sul come
ripartirli tra i genitori, ed è più coerente sotto questo profilo. In un caso particolare (imposizione
dello stesso tenore di vita a ciascuno dei tre componenti), si ritrovano le stesse cifre del criterio (a),
con il vantaggio aggiuntivo, però, di distinguere la parte del trasferimento che va a favore del figlio
da quella che va a favore dell'ex-coniuge.
Alcune difficoltà
Anche se le soluzioni proposte, e in particolare l'ultima, a nostro avviso, consentono di superare
alcune delle difficoltà del problema in esame, e cioè il calcolo degli alimenti che il genitore non
affidatario deve corrispondere al genitore affidatario, molti problemi restano sul tappeto.
Consideriamone alcuni.
Dubbi sulla scelta della scala di equivalenza
Abbiamo sin qui ragionato sulla base di una scala di equivalenza arbitraria, per quanto più
importante di altre, per l'Italia almeno, grazie alla sua adozione a fini di calcolo dell'ISEE. Benché
non ci siano, per il momento, valide ragioni per abbandonare questa scala a favore di altre, bisogna
anche osservare che non ci sono neppure ragioni per preferirla, e che scelte diverse possono portare
a risultati pratici anche sensibilmente diversi. In ogni caso, come accennato, la scala non contempla
tutte le possibili fonti di "costo": ad esempio, varia, sì, in funzione di alcuni aspetti dello stato di
salute dei componenti (per handicap psicofisico permanente, o invalidità superiore al 66%), ma non
per tutti gli aspetti, e inoltre non dipende dal luogo di residenza (Nord/Sud, città/campagna), dallo
stato lavorativo dei componenti9, dalla disponibilità di certi servizi (ad esempio, di custodia
dell'infanzia), né da molte altre variabili che potrebbero invece influenzare sensibilmente il tenore
di vita, dato il reddito. Del resto non è neppure scontato che siano fondate alcune delle ipotesi su
cui le scale di equivalenza si basano, come ad esempio che i costi dei componenti siano
proporzionali al reddito, o, come abbiamo già detto, che tutti i componenti di una stessa famiglia
godano dello stesso tenore di vita.
Consumi o redditi?
Le scale di equivalenza sono normalmente calcolate sulla base dei consumi delle famiglie, ma
vengono poi applicate ai redditi, e in questo passaggio si cela una difficoltà non trascurabile.
Ammettiamo, ad esempio, che, in condizioni "normali", una famiglia, guadagni 100, spenda 80 e
risparmi 20. Nel risparmio è compresa una quota cautelativa, per far fronte a spese impreviste,
oppure previste ma lontane nel tempo (ad esempio, l'acquisto di un'automobile, l'iscrizione
all'università, ecc.).
Gli alimenti a carico del padre non affidatario possono essere calcolati sulla base dei redditi
(100), o delle spese (80). Data la formula, basarsi sugli uni o sulle altre comporta per il padre una
spesa diversa, ma, con l'ammontare, cambiano anche le implicazioni del contratto implicito che si
viene a stipulare tra le due famiglie. Nel primo caso, il padre paga di più, ma questa cifra
9
Con eccezioni per casi particolari: v. appendice.
p. 13/17
comprende anche la quota di risparmio cautelativo: in pratica, si addossano alla madre affidataria i
rischi di eventuali spese impreviste, ad esempio legate a una malattia del figlio. Nel secondo caso,
invece, il padre paga di meno, ma questo esborso copre solo le spese "ordinarie". Le spese
straordinarie, invece, richiedono un contributo ulteriore da parte del padre, e l'inconveniente, in
questo caso, è quello di dover decidere ogni volta cosa è straordinario, con probabile aumento del
contenzioso tra i due ex- coniugi, che rischiano così di doversi rivolgere relativamente spesso al
giudice.
Variazione dei redditi nel corso del tempo
In tutti i casi, la variazione dei redditi di lui o di lei nel corso del tempo non costituisce un
problema teorico, perché in alcuni schemi interpretativi questa evoluzione non è rilevante - i criteri
b) e c) - mentre in altri lo è, ma è sufficiente sostituire, nelle formule, i redditi correnti al posto dei
redditi precedenti, e si trovano immediatamente le cifre dovute, "calibrate" alle nuove circostanze.
Vi sono però, e non sono trascurabili, problemi di altra natura, pratici e "politici".
I problemi pratici derivano dal fatto che la rilevazione dei redditi raramente è agevole, perché
occorre tener conto non solo dei redditi dichiarati, ma anche di quelli eventualmente nascosti al
fisco, cosa relativamente frequente in Italia, quelli imputati (ad esempio il fitto figurativo delle
eventuali case di proprietà, siano esse di residenza o tenute a disposizione per i periodi di ferie), e
bisogna in qualche modo considerare anche gli eventuali altri patrimoni posseduti, come ad
esempio i titoli azionari. Le attività economiche da lavoro autonomo, inoltre, si caratterizzano
spesso per una forte variabilità temporale dei redditi, per cui anche la scelta del periodo di
riferimento non risulta neutra ai fini dei calcoli. E il problema è ulteriormente aggravato dalla
possibilità, che talvolta si presenta, di imputare ad altri i propri redditi: ad esempio, un padre che ha
un reddito di impresa in compartecipazione con un fratello, o con una nuova compagna, potrebbe
far risultare il partner commerciale come titolare della maggior parte del reddito, e apparire quindi
come un nullatenente o quasi, al solo fine di ridurre l'ammontare degli alimenti da corrispondere.
Per questi motivi, la rilevazione dei redditi e dei patrimoni è solitamente affidata a un perito, il
quale, procedendo anche per via indiretta (ad esempio: giudicando del tenore di vita in base ai
consumi, o ai beni di lusso posseduti), fornisce una risposta che, nella migliore delle ipotesi, è
corretta per momento in cui viene formulata, ma che certamente non può essere considerata valida
anche per il futuro. Ma se si ignora l'evoluzione dei redditi, come si possono applicare le formule
del testo e far evolvere correttamente le cifre dovute a titolo di trasferimento?
I problemi "politici" derivano da una decisione cruciale: gli eventi successivi alla rottura del
matrimonio devono essere tenuti presenti nel calcolo dei trasferimenti? Ad esempio, un
peggioramento delle condizioni di salute di uno dei due partner, che potrebbe aver bisogno di
costose cure mediche; o un avanzamento in carriera, frutto dell'impegno di solo uno dei due exconiugi (ma che in certi schemi di trasferimento finisce con l'andare a vantaggio anche dell'altro),
devono essere considerati? E se sì, come? La risposta a queste domande si lega anche allo spinoso
problema della durata del periodo con pagamento obbligatorio degli assegni: per quanti anni (o fino
a che età) un padre o una madre devono ancora provvedere economicamente al figlio? E all'ex
coniuge?
A parte l'ultimo interrogativo, che resta aperto (**ma v. giurisprudenza**), nel complesso,
appare preferibile l'approccio indicato dal legislatore, e cioè stabilire un ammontare iniziale,
prevederne una rivalutazione automatica in base all'inflazione, e lasciare che solo in casi particolari,
e su richiesta della parti, si proceda eventualmente a una ri-determinazione del valore degli alimenti
da corrispondere. Aggiungiamo solo che, nelle disposizione di legge, dovrebbero essere
automaticamente inclusi, al variare del tempo, i cambiamenti che si legano direttamente alla
formula di calcolo. Ad esempio, la scala Isee prevede un "premio" di 0,2 per i figli minori che non
vivono con entrambi i genitori, e che va dunque a vantaggio del nucleo madre-figlio minorenne.
Ebbene, questo "premio" dovrebbe decadere automaticamente nel momento in cui il figlio
raggiunge la maggiore età.
p. 14/17
Variazione delle strutture familiari
In quasi tutte le formule di calcolo, entrano coefficienti di equivalenza che riflettono i "costi"
della situazione familiare corrente. Per semplicità, abbiamo sin qui supposto che, in seguito alla
rottura del matrimonio, il padre vada a vivere da solo (Ep=1) e la madre viva con il figlio piccolo
(Emf=1,77). In realtà, però, non è infrequente che la situazione familiare successiva alla separazione
sia più complessa: si può tornare a vivere dai genitori, trovare un/a nuovo/a partner, o formare altri
tipi di famiglia ancora. Qual è dunque, in questo caso, il corretto coefficiente di equivalenza da
applicare?
Il tentativo di tener conto della situazione effettiva, si scontra con due ordini di difficoltà. La
prima è che occorre arbitrariamente stabilire una gerarchia tra i membri della nuova famiglia.
Ammettiamo, ad esempio, che la madre trovi un nuovo partner. Con la scala Isee, il secondo
componente "costa" 0,57, e il terzo 0,47. Il figlio appare dunque più o meno caro a seconda che lo si
consideri come secondo o come terzo membro della nuova famiglia. Inoltre, la scala Isee prevede
l'aggiunta di un "costo" di 0,2 per la presenza di minori senza entrambi i genitori. Ma un nuovo
compagno della madre potrebbe, entro certi limiti, far le veci del padre (ad esempio, prendendosi
cura del piccolo quando la madre è fuori per lavoro), e in questo caso il costo del bambino
scenderebbe da 0,77 a 0,47. Si tratta di un calo non trascurabile, che si traduce in minori alimenti
dovuti dal padre.
E questo è il secondo inconveniente: un sistema di calcolo siffatto finirebbe col tradursi in una
tassa implicita su certe forme familiari, che ne risulterebbero pertanto penalizzate.
L'alternativa è quella di procedere ai calcoli come abbiamo visto nelle formule precedenti, e cioè
assumendo che il padre viva da solo e la madre viva esclusivamente con il figlio, a prescindere dalla
situazione effettiva. La logica è la seguente: dopo la separazione, i due ex-coniugi potrebbero
optare per la situazione abitativa più semplice (lui da solo, lei con il figlio). Ogni altra scelta rientra
nel libero arbitrio delle nuove famiglie, ma, poiché è presa successivamente alla rottura del
matrimonio, non interferisce con il meccanismo di calcolo degli alimenti. Il vantaggio di questo
modo di ragionare è che la decisione del giudice non influenza le successive scelte familiari dei due
ex-coniugi, né richiede accertamenti - spesso penosi - di stati di fatto che possono non
corrispondere a situazioni di diritto, come avviene, ad esempio, nel caso di convivenze more-uxorio
in cui però i due partner hanno formalmente mantenuto residenze diverse (una situazione spesso
indicata con l'acronimo inglese LAT - Living Apart Together).10
Il costo opportunità e il lavoro domestico
Con l'utilizzo delle scale di equivalenza si ipotizza, implicitamente, che il figlio costi solo in
termini di maggiori esborsi di denaro necessari per raggiungere un certo tenore di vita, ma che non
abbia effetti sulla produzione del reddito. Questa ipotesi è probabilmente falsa. Nella tipologia
familiare che abbiamo considerato in precedenza, ad esempio, il padre guadagnava 1500 e la madre
500, ma è possibile che il reddito della madre fosse relativamente basso, proprio per la presenza del
figlio, che, ad esempio, potrebbe averla indotta a scegliere un lavoro part-time, mentre con un
lavoro a tempo pieno sarebbe probabilmente riuscita a guadagnare di più.
A questo proposito, in letteratura, si sono posti due obiettivi di ricerca, distinti, seppur collegati:
α) stimare quanto in più avrebbe potuto guadagnare una donna con quelle caratteristiche (di età,
istruzione, residenza, ecc.) ma senza figli; e
β) stimare il valore del lavoro che la donna svolge informalmente per la casa.
Premettiamo, intanto, che entrambe le stime, α) e β), sono estremamente difficili da ottenere, sia
per la frequente mancanza di informazioni sufficientemente dettagliate, sia per l'intrinseca
endogeneità delle variabili di cui si parla qui (studiare, sposarsi, fare figli, lavorare, migrare, ecc.),
10
Si noti però che, con la legge 28/2006, nel codice civile è comparso l'articolo 155-quater che recita "Il diritto al
godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa
familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio."
p. 15/17
per cui tutto è al tempo stesso causa e effetto di tutto (Di Pino, Mucciardi, 2003). A parte questo,
ricordiamo che una stima corretta del costo opportunità del figlio non è data da α), ma da α)-β). In
altre parole, il mancato guadagno della donna legato alla presenza del figlio va valutato al netto del
reddito "domestico" che la donna produce stando in casa, e che si traduce in servizi che altrimenti la
famiglia o non avrebbe (ad esempio: di custodia della casa durante il giorno), o dovrebbe acquistare
sul mercato (ad esempio: di pulizia della casa).
Ai fini della valutazione degli effetti economici del divorzio, le cose sono comunque un poco più
semplici perché sembra possibile accontentarsi di una stima della sola grandezza β), o meglio solo
di una parte di essa, per poter arrivare alla stima del reddito complessivo del nucleo madre-figlio
Ymc =500+Yd, dove Yd è appunto β), cioè reddito prodotto con il lavoro domestico.11
Un modo di risolvere la questione è quello di imputare alle ore di lavoro domestico una certa
paga oraria, e aumentare il reddito prodotto dalla madre di una somma che sia pari a questa paga
oraria moltiplicata per le ore presumibilmente lavorate in casa, che si possono in prima
approssimazione assumere uguali alla differenza tra le ore lavorare dal marito e quelle lavorate
dalla moglie. In breve, si sta qui assumendo che, finché la famiglia era unita, i coniugi
contribuissero al benessere familiare per lo stesso numero totale di ore. Ammettiamo, ad esempio,
che, prima della separazione, il padre lavorasse 8 ore al giorno, e la madre 3, per 20 giorni al mese.
La paga oraria della madre è dunque 500/(3x20)=8,3. Ipotizzando per la madre 5 h. al giorno (100
h. al mese) di lavoro domestico, con questa paga si ottiene un valore del lavoro domestico pari a
Yd=833 circa, e quindi un reddito complessivo prodotto dalla madre pari a Ymc =1333. Certo, si
potrebbe qui obiettare che, considerando anche le cure domestiche, le donne lavorano mediamente
molto più degli uomini: persino quando sono impegnate a tempo pieno, si impegnano, nei lavori di
casa, molto più dei loro partner (Istat, **). Nel nostro caso, però, ciò ha poca rilevanza, perché noi
ci stiamo qui occupando di casi di separazione, in cui il lavoro domestico eventualmente svolto
dalla donna al di là delle ore imputate qui va a vantaggio della sola diade madre-figlio, e comunque
potrebbe, in teoria, essere svolto anche dal marito, in casa propria.
La sola cosa che conta, qui, è essere giunti una stima del reddito della madre Ymc (=1333, nel
nostro caso) che è comparabile con quello del padre Yp (=1500 nel nostro esempio) perché calcolato
sulla base dello stesso numero di ore di lavoro. I calcoli andrebbero quindi rifatti sulla base di
queste nuove cifre. Se ci limitiamo alla soluzione e), di equità tendenziale, notiamo che, con
Yp=1500, Ymc =1333 e Yhc =2833, il costo imputato del figlio sale a Cf=788, mentre quello imputato
di ognuno dei due genitori sale a Cp=Cm=1023. Il padre, che guadagna Yp=1500, deve dunque
pagare in alimenti A=477 (mentre nella versione precedente, in cui non si contava il valore del
reddito domestico della madre, il padre contribuiva per 556 Euro). Il valore di A è calcolato in
modo tale da portare il padre a un reddito che è pari al suo "reddito obiettivo" Y po =Cp=1023. Madre
c
e figlio rimangono invece con un reddito complessivo (imputato) pari a Ymf
=1333+477=1810, di
cui Ym+A=500+477=977 di reddito monetario, e Yd=833 di valore (imputato) del lavoro domestico.
Cosa cambia con la nuova legge sull'affidamento condiviso?
La recente Legge 54/2006, come abbiamo visto, privilegia l'affidamento congiunto, o alternato,
sull'affidamento esclusivo. Che effetti ha questa soluzione sui nostri calcoli?
Per la parte economica, si richiede adesso un passaggio logico in più. Dopo aver determinato il
costo del figlio nella nuova situazione Cf, e la parte di questo costo che compete al padre π (mentre
11
L'esemplificazione si basa sull'assunto che la donna sia impegnata sul mercato del lavoro per un numero di ore
inferiore a quello dell'uomo. Ciò apparire sessista, ma l'esempio è presentato in questo modo soltanto per favorire la
comprensione, e perché questo caso è più frequente del suo contrario. Invertire i ruoli di padre e madre è banale: la sola
cosa importante, qui, è conoscere per entrambi i coniugi il numero di ore di lavoro non domestico, e la retribuzione.
p. 16/17
la restante parte µ=1-π compete alla madre), il giudice dovrà anche considerare che, della parte di
sua competenza, il padre già paga implicitamente, o almeno dovrebbe pagare, una quota τp,
corrispondente, almeno in prima approssimazione, alla quota di tempo che il figlio trascorre con lui
(mentre rimane con la madre la restante parte τm= 1−τp).
In breve, il padre deve dunque trasferire alla madre, a titolo di alimenti per il figlio, la somma
12)
(
A = πC f − τ p C f = C f π − τ p
)
Ammettiamo, ad esempio, che il giudice stabilisca che il figlio deve trascorrere la stessa quota di
tempo con il padre e con la madre, per cui τp=τm=0.5. Ebbene, se il costo del figlio è determinato in
Cf=556 Euro/mese, come nell'esempio proposto con i criteri (d) ed (e), e se la parte di questa pesa
che compete al padre è π=0.75, allora il padre, oltre a tenere il figlio con sè per 15 giorni al mese,
deve ancora dare alla madre [556•(0.75-0.50)=] 139 Euro/mese.
Con l'introduzione dell'affidamento condiviso, però, emergono due aspetti rilevanti sotto il
profilo economico, che conviene sottolineare. Il primo è che i criteri a (parità di tenore di vita dei
due nuovi nuclei familiari) e b (protezione del nucleo madre-figlio) adesso non sono più applicabili.
Entrambi, infatti, partono dal presupposto che il costo da coprire, e quindi anche l'assegno a carico
del padre, collegato al costo, riguardino l'insieme del nucleo madre-figlio, mentre la formula (12) si
concentra sul solo costo del figlio. Ma forse questo non è particolarmente grave, visto che entrambi
i criteri, per vari motivi, non convincevano del tutto.
Più grave è invece il secondo aspetto: non è affatto detto che il padre (o la madre), per il solo
fatto di passare una quota τp (τm) di tempo con il figlio, paghi anche una quota τp (τm) delle spese,
visto che molte di queste possono essere rinviate o anticipate. Di nuovo, la spiegazione è forse più
facile se si ricorre a un esempio numerico. Riprendiamo il caso (d): il costo del figlio è fissato dal
giudice in 556 Euro/mese, di cui il 75%, e cioè 417, a carico del padre. Il padre paga il suo debito
verso il figlio in due modi: 139 li dà mensilmente alla madre, che li spenda per il bambino, e 278 li
dovrebbe spendere direttamente lui, nel tempo in cui tiene il figlio, e cioè per 15 giorni al mese.
Ammettiamo, però, che il costo del figlio (556) sia determinato essenzialmente da due voci,
ugualmente importanti: cibo e vestiti. Dei 278 Euro di diretta competenza del padre siamo quindi
ora in grado di distinguere la spesa in cibo (139, che ammetteremo giornaliera e inevitabile), e
quella in vestiti (altri 139). Quest'ultima, però, può essere differita: un paio di scarpe o un giubbotto
possono normalmente aspettare fino al giorno o alla settimana dopo. Qual è allora la garanzia che il
padre spenda effettivamente in vestiti per bambini i 139 Euro che dovrebbe? Potrebbe non farlo, per
mancanza di tempo, per distrazione, oppure anche per calcolo, contando sul ricatto morale che verrà
così a essere esercitato sulla madre, la quale certamente non mancherà di provvedere alle necessità
del figlio.
E qui, purtroppo, non sembrano esserci soluzioni facili, perché la gestione comune della vita del
figlio richiede un certo grado di coordinamento tra genitori: per restare all'esempio precedente, pur
in presenza di un ammontare di spese perfettamente in linea con le disposizioni del giudice, sarebbe
però inopportuno che entrambi i genitori comprassero scarpe, lasciando il figlio senza giubbotto, o
viceversa. In presenza di bassa conflittualità, sarebbe ipotizzabile una compensazione periodica tra
ex coniugi, ad esempio su base mensile, in cui entrambi porterebbero la documentazione delle spese
non correnti sostenute per il figlio, e la parte che ha speso meno del "dovuto" verserebbe all'altra la
differenza.
In pratica, però, una soluzione di questo tipo difficilmente potrebbe funzionare: intanto perché
costringerebbe a tenere una contabilità certosina delle spese effettuate da ciascuno dei genitori, per
data e per beneficiario, e poi perché aprirebbe il campo alle contestazioni: il padre deve accollarsi
anche la spesa per una gita del figlio con la madre (e magari anche con il nuovo partner di lei)? La
madre deve finanziare un corso di karaté, che aborrisce?
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Il problema, resta aperto: ma lo spirito della legge è che, almeno per quel che riguarda il figlio, i
genitori trovino un modus vivendi che consenta loro di andare avanti senza sfruttare troppo spesso
la possibilità, pur prevista dalla legge, di ricorrere nuovamente al giudice.
Appendice A. Origini e caratteristiche di alcune scale di equivalenza
Originariamente, la scala di equivalenza OECD (1982) attribuiva i seguenti pesi: 1 al primo
adulto della famiglia, 0,7 a ogni altro adulto, 0,5 a ogni giovane, considerando convenzionalmente
il compimento del 14° anno come discrimine tra la condizione di giovane e di adulto.
La scala, anche nota come scala di Oxford o vecchia scala OECD, era prudentemente suggerita
per una possibile adozione da parte dei paesi che non avevano ancora definita una propria.
Successivamente, tuttavia, a partire dai primi anni '90, l'EUROSTAT adottò la scala di equivalenza
OECD modificata (cioè: "appiattita"), originariamente proposta da Hagenaars A., de Vos K., Zaidi
M.A. (1994), che attribuisce invece i seguenti pesi: 1 al primo adulto della famiglia, 0,5 a ogni
altro adulto, 0,3 a ogni giovane.
La scala ISEE è quella utilizzata nella tab. 2 del Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 109
"Definizioni di criteri unificati di valutazione della situazione economica dei soggetti che
richiedono prestazioni sociali agevolate, a norma dell'articolo 59, comma 51, della Legge 27
dicembre 1997, n. 449. (GU n. 90 del 18-4-1998)"
Numero dei componenti
Parametro
1
1,00
2
1,57
3
2,04
4
2,46
5
2,85
Maggiorazione di: 0,35 per ogni ulteriore componente; 0,2 in caso di assenza del coniuge e
presenza di figli minori; 0,5 per ogni componente con handicap psicofisico permanente di cui all'art.
3, comma 3, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, o di invalidità superiore al 66%; 0,2 per nuclei
familiari con figli minori, in cui entrambi i genitori svolgono attività di lavoro e di impresa.
La scala Carbonaro, infine, è quella proposta da Giuseppe Carbonaro (1996), e utilizzata
correntemente dall'Istat per il monitoraggio della diffusione della povertà in Italia (es. Istat, 2005b)
Bibliografia
Carbonaro G. (1996) "L'ineguaglianza in Italia dal 1973 al 1981.Un'analisi dei consumi delle
famiglie", in Studi in onore di Silvio Vianelli, 2 voll., Istituto di Statistica, Facoltà di Economia,
Palermo, vol. II, pp. 881-924.
Di Pino A., Mucciardi M. (2003) "An endogenous dummy variable estimator of women’s
opportunity costs of children in Italy", in C. Dagum e G. Ferrari (Eds.) Equivalence scales,
household behaviour and welfare, Physica Verlag, New York/Berlin, pp. 55-74.
Istat (2005a) Affidamento dei figli minori nelle separazioni e divorzi, "Statistiche in breve", Roma
(http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20050706_00/)
Istat (2005b) La povertà relativa in Italia nel 2004, "Statistiche in breve", Roma.
Istat (2006) Matrimoni, separazioni e divorzi. Anno 2002, Roma.
Hagenaars A., de Vos K., Zaidi M.A. (1994) Poverty statistics in the late 1980s: research based on
micro-data, Office for Official Publications of the European Communities, Luxembourg.
OECD (1982) The OECD List of Social Indicators, Paris.
Perali F. (2003) The behavioural and welfare analysis of consumption, Kluwer,
Dordrecht/Boston/London.
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