SCRITTI IN ONORE
di
MARIO CANTIANI
a cura di
Luigi Hermanin e Orazio la Marca
Edizioni Polistampa
Hanno contribuito alla stampa:
- Federazione Regionale Toscana degli Ordini provinciali
dei Dottori agronomi e Dottori forestali
- Associazione Forestale dell’Appennino
© 2009 Edizioni Polistampa
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PREFAZIONE
Il 20 giugno dello scorso anno, presso l’Accademia Italiana di Scienze Forestali si è svolta una giornata dedicata alla memoria del Professor Mario Cantiani.
Gli intervenuti hanno ricordato la Sua opera nel campo della pianificazione
forestale e degli studi dendro-auxometrici, ma anche hanno portato testimonianza
della Sua vita, della Sua personalità, del Suo modo di essere padre, ricercatore,
forestale, docente, segretario dell’Accademia Italiana di Scienze forestali.
Troppi sono i ricordi che si sono sovrapposti, di testimonianze dirette e indirette, che hanno attestato una profonda umanità, un rigoroso rispetto dell’interlocutore, sia che fosse un’autorità sia che fosse uno studente, e nel lavoro un
grande senso pratico a supporto di una volontà di fare anche senza apparire.
Poche persone sono state tanto degne di rispetto, ricercando così poco la gratificazione del consenso.
Il Professor Cantiani aveva certamente un atteggiamento schivo, ma nello
stesso tempo attento alla sostanza dei problemi e delle situazioni. Anche il Suo
essere docente rivelava questo naturale comportamento.
Tutti quello che lo hanno conosciuto in questa veste, concordano nel dire che non
amava la lezione ex cathedra, mentre in bosco era efficacissimo nello spiegare i problemi selvicolturali e assestamentali, nel proporre soluzioni appropriate, spesso originali, nel far intravedere gli effetti pratici delle azioni proposte o applicate.
Come tutte le persone profondamente oneste, il Professor Cantiani più che
affermare testimoniava: con il Suo comportamento e con la discussione, facendo
spesso riferimento ai casi reali affrontati nella Sua lunga esperienza professionale.
Il Suo patrimonio di esperienze e di umanità lo ha trasferito ai Suoi allievi e
anche ai Suoi colleghi durante innumerevoli sopralluoghi in ogni parte d’Italia.
Firenze, giugno 2009
Luigi Hermanin e Orazio la Marca
5
INDICE
SCRITTI
IN RICORDO DI MARIO CANTIANI
Giovanni Bernetti - considerazioni di tecnica forestale
nel ricordo di mario cantiani
11
Mario Buccianti - ricordo di mario cantiani
21
Orazio Ciancio - mario cantiani e la scuola forestale fiorentina
23
Antonio De Marinis - ricordo di mario cantiani
29
Luigi Falasca - ricordo di mario cantiani
33
Antonio Gabbrielli - i rimboschimenti delle coste sabbiose in italia
35
Bernardo Hellrigl - ricordo di mario cantiani
39
Orazio la Marca - ricordo del maestro
43
Fiorenzo Mancini - ricordo di mario cantiani
47
Marcello Mazzucchi - ricordo del mio professore
49
Riccardo Morandini - ricordo di mario cantiani
51
Stefano Puglisi - l’eredità del professor mario cantiani nel ricordo
e nelle esperienze professionali di un allievo devoto
53
Paolo Talamucci - ricordo di mario cantiani
7
55
CONTRIBUTI SCIENTIFICI
IN RICORDO DI MARIO CANTIANI
Massimo Bianchi, Paolo Cantiani, Isabella De Meo, Fabrizio Ferretti,
Mauro Frattegiani, Giorgio Iorio - la pianificazione forestale:
dagli indirizzi alle scelte di dettaglio - il caso del territorio
della comunità montana alto molise
61
Francesco Cantiani, Maria Giulia Cantiani, Paolo Cantiani,
Manuela Plutino - prove di conversione a fustaia di un ceduo
di faggio appenninico in post-coltura. sperimentazione
di metodi di trattamento comparati
75
Roberto Fratini - indagine storica sulla vendita di legname
nella foresta di san rossore
93
Luigi Hermanin, Matteo Coppini - studio su la valorizzazione
multifunzionale e dimostrativa del bosco nell’azienda
“montebello” in comune di modigliana
107
Orazio la Marca - sul metodo colturale e… altro
139
Orazio la Marca, Giuseppe Notarangelo - selvicoltura e uso
conservativo del bosco: il caso di una fustaia di querce
149
Marco Paci - le pinete delle cerbaie: struttura, dinamismo
e possibili indirizzi selvicolturali
173
Roberto Scotti, Cristian Ibba - usi civici a seneghe (or): leggenda,
storia e fallimento
185
8
SCRITTI
IN RICORDO DI MARIO CANTIANI
CONSIDERAZIONI DI TECNICA FORESTALE
NEL RICORDO DI MARIO CANTIANI
Giovanni Bernetti
RIASSUNTO - Mario Cantiani (1918-1993) fu professore di Assestamento Forestale
all’Università di Firenze. Si illustra brevemente la sua attività nei seguenti argomenti: tavole di cubatura, tavole alsometriche (o tavole di produzione), compilazione dei piani di assestamento forestale sulla base delle operazioni colturali
necessarie, studi di caso su importanti foreste della Toscana, applicazioni dendrometriche delle fotografie terrestri, analisi dell’accrescimento diametrico con il
dendrometro a banda.
ABSTRACT - Consideration on forest tecniques in memory of Mario Cantiani.
Mario Cantiani (1918-1993) was professor of Forest management at the University of Florence. Here are shortly reminded the main fields of is researches: volume tables, yield tables, planning methods concealing forest production with
forest amelioration, use of terrestrial photographs in forest mensuration, mensuration of girth growth by means of band dendrometers
INTRODUZIONE
Il professore Mario Cantiani viene qui ricordato, in un modo forse troppo
sobrio e schematico. Si trascura il lavoro svolto come funzionario del Corpo
Forestale nella provincia di Campobasso dove si adoperò per l’acquisto alle Foreste Demaniali della tenuta di Montedimezzo. Ci si concentra, invece, sull’opera
scientifica facendo per ciascuno dei suoi temi di ricerca un breve semplice
richiamo seguito da un commento sulle applicazioni e sui possibili sviluppi futuri.
Segue una bibliografia di quaranta titoli; non si può garantire che sia completa,
ma secondo il nostro comune maestro (il prof. Patrone) le pubblicazioni dovevano
essere poche, ma conclusive.
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GIOVANNI BERNETTI
TAVOLE STEREOMETRICHE (O TAVOLE DI CUBATURA)
Anche Cantiani, come era uso alla metà del secolo scorso, ha intrapreso gli
studi sull’Assestamento e la Dendrometria cominciando con la compilazione di
tavole stereometriche. Questo era anche una buona esperienza sull’elaborazione
statistica e sull’esame di quanto condiziona la forma degli alberi.
In questo campo le pubblicazioni di Cantiani (1, 2, 3, 8, 10, 12, 13, 16) presentano interessanti elementi di originalità. Per le latifoglie (le più difficili da
misurare) fu superata la spinosa questione della ripartizione della massa in
assortimenti applicando (per ogni specie e località) un sistema di tavole ad una
entrata differenziate in classi di fertilità (10). Ci furono anche tavole per alcune
delle specie più sporadiche (acero montano e ontano napoletano) e tavole per
popolamenti di castagno di straordinaria fertilità (12, 13 e 16).
Oggi l’evidenziamento tabellare è sostituito dall’espressione in formule, ma
questa è una novità più di forma che di sostanza perché nulla vieta di derivare
una formula da una tavola espressa in veste tabellare. Gli sviluppi futuri, piuttosto, sono condizionati dal modo con cui l’andamento delle correlazioni è
influenzato dal cambiamento da allora ad oggi della struttura e delle dimensioni
di molti popolamenti provocato dal ritiro dell’applicazione dei sistemi selvicolturali tradizionalì. Visto che le vecchie tavole hanno perduto di attendibilità,
si renderebbe necessaria una vasta opera di aggiornamento, ma questa è impedita dagli elevati costi di determinazione, abbattimento e misura degli albericampione.
Un esempio del rimedio che si può adottare sta nelle tavole che sono state
elaborate dall’Istituto Sperimentale di Villazzano in occasione dell’Inventario
Forestale Nazionale. Sono tavole di validità nazionale che ai vari dubbi relativi
alle variazioni di forma dovute alla località, contrappongono il vantaggio di
poter diventare uno strumento di larga accettazione edito da un Ente dello
Stato.
L’altra novità è che oggi, oltre alla massa geometrica espressa in metri
cubi, interessa la biomassa espressa in peso secco. Questo interesse sorge per
due ragioni, una di natura commerciale e l’altra di natura ambientale. La prima
ragione sta nell’aumento del consumo di legno allo stato triturato, l’altra è che
la biomassa in peso secco è direttamente correlata all’ossigeno prodotto dalle
piante. I primi tentativi in Italia furono fatti proprio da Cantiani (27 e 31), poi
sono venute le più complete tavole della biomassa elaborate dall’Istituto di Villazzano.
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CONSIDERAZIONI DI TECNICA FORESTALE NEL RICORDO DI MARIO CANTIANI
TAVOLE ALSOMETRICHE (O TAVOLE DI PRODUZIONE)
Le tavole di produzione offrono una rappresentazione del probabile sviluppo
di un bosco coetaneo e di una data specie nel corso della sua età, secondo la sua
la fertilità ed in assenza di danni. Vengono costruite misurando popolamenti di
tutte le età e di tutte le classi di produttività con aree di saggio a densità colma.
Le tavole di produzione soddisfano a tutte le applicazioni professionali che
richiedono una stima sulle dimensioni potenziali un bosco, come è necessario
nella valutazione dei danni ai popolamenti giovani e nell’esame critico dei criteri di recidibilità. Le tavole di produzione costruite per i boschi italiani non
sono molte; Cantiani ne ha fatte sette (5, 14, 16, 20, 21, 24, 28).
Le tavole di produzione destano delle perplessità anche perché la loro compilazione segue procedimenti adeguati al vecchio modo di raccogliere dati per
scrivere una monografia, ma non adatti alle moderne esigenze di rigore nel
metodo statistico. Più precisamente: dopo una esplorazione generale dei boschi
dalle caratteristiche volute si misuravano, in particelle di varia età e fertilità,
delle aree di saggio stabilite (soggettivamente) in punti dove si stimava (soggettivamente) che il bosco fosse della densità voluta. Resta da precisare che le
stime soggettive di allora si basavano su livelli di esperienza diretta che il personale scientifico di oggi è lontanissimo dall’avere.
All’atto pratico l’attendibilità è tanto maggiore quanto minore è il campo di
età abbracciato: massima dunque per i cedui e le piantagioni da legno. Invece,
nei boschi maturi o vetusti la mortalità delle piante interviene a ridurre la densità del popolamento in un modo troppo imprevedibile.
Tuttavia, il criterio monografico seguito nell’esame di tutti i popolamenti di
una data specie e regione è servito a segnalare problemi di particolare interesse:
attacchi di parassiti (11, 14), particolari fattori che influenzano l’incremento
(16, 20), studio delle tecniche dei diradamenti, confronto fra specie (20), rapporti fra densità e sviluppo diametrico e ipotesi di innovazione del sistema selvicolturale (24).
Oggi la costruzione di nuove tavole di produzione dovrebbe per lo meno
modificare il concetto di “densità normale”, elaborare metodi di raccolta dei
dati più obiettivi e considerare anche lo sviluppo della biomassa in peso secco.
Il grande impedimento sta nel fatto che costruire una tavola di produzione
è possibile solo se si dispone di particelle di più età, ma tale condizione rimane
solo per i boschi cedui di alcune regioni, mentre per il rimanente prevalgono
boschi invecchiati.
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GIOVANNI BERNETTI
Un surrogato più limitato, ma ancora utile ed espressivo potrebbe essere
quello delle “tavole della fertilità”, che consistono in sistemi di curve dello sviluppo in altezza in funzione dell’età. In mancanza di popolamenti di età graduata
resta possibile operare mediante l’analisi del fusto di piante dominanti abbattute.
PIANI DI ASSESTAMENTO. IL METODO COLTURALE
Alle sue origini l’Assestamento forestale era improntato agli aspetti burocratici ed amministrativi connessi con la conservazione del bosco; si preoccupava,
infatti, di disciplinare e dosare i tagli ricorrendo a schemi e proporzioni che permettessero la chiarezza univoca delle prescrizioni e la facile contestazione degli
abusi. Inoltre, per garantire la continuità della produzione, si imponevano operazioni selvicolturali volte a garantire il pronto insediamento della rinnovazione dopo
i tagli, anche intervenendo con piantagioni.
A partire dalla fine dell’Ottocento si sono diffusi i criteri naturalistici. Tali
criteri attribuiscono la massima importanza all’equilibrio ed al funzionamento
ecologico dei popolamenti; la rinnovazione è vista come una automatica conseguenza della buona salute del bosco su cui ogni intervento umano sarebbe
superfluo.
Il contesto in cui fu elaborato il metodo colturale di Cantiani (17, 30) era quello
di foreste che richiedono importanti modifiche nel senso di una maggiore stabilità e naturalità dei popolamenti come per le fustaie d’impianto e per i boschi cedui
da avviare all’alto fusto. Rispetto alle due tendenze accennate si colloca a metà
strada nel senso che applica una soluzione razionale a problemi di naturalità.
Sul lato della regolamentazione il metodo del Cantiani dà regole chiare e dettagliate, verifica l’incidenza dei tagli adottando gli schemi classici, conserva la
preoccupazione per gli interventi sulla rinnovazione. Lo scopo, invece, è naturalistico: la trasformazione verso boschi misti che potessero essere trattati a rinnovazione naturale. Gli interventi seguono una diagnosi di caso. La piantagione è prevista purché fosse di più specie, sempre indigene.
Nell’applicazione di questo metodo un elemento di costo non indifferente è la
necessità di suddividere la foresta in particelle omogenee che contengano un
popolamento bene definito per composizione di specie, età ed altri caratteri. Tali
particelle, poi, debbono essere rilevate topograficamente, descritte in dettaglio e
corredate di una diagnosi sulla necessità e sull’urgenza dell’intervento futuro. La
superficie delle particelle dipende dalla forma di trattamento adottata.
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CONSIDERAZIONI DI TECNICA FORESTALE NEL RICORDO DI MARIO CANTIANI
Ad ogni tipo di popolamento si attribuisce un modulo selvicolturale adeguato
al suo grado di deviazione dallo scopo prefisso ed alle possibilità della rinnovazione naturale. Per esempio tagli d’avviamento a fustaia disetanea nei popolamenti
di già misti e di già con rinnovazione naturale affermata, tagli di sementazione
dove la rinnovazione manca, ma ha prospettive di insediamento, tagli a raso e rinnovazione d’impianto nei boschi di specie indesiderata o nei boschi in cui non si
ravvisano speranze di rinnovazione. Nei popolamenti giovani, la pianificazione dei
diradamenti segue il criterio di una preparazione alla futura possibilità dell’insediamento della rinnovazione naturale.
Il coronamento del piano è lo schema cronologico delle particelle in cui si propongono interventi specificandone le particolarità di esecuzione. L’elenco delle
particelle mature in taglio si chiude quando la massa supera il limite dettato da una
formula dell’assestamento classico.
STUDI DI CASO NELL’AMBITO DEI PIANI DI ASSESTAMENTO FORESTALE
Ovviamente la prima cosa da fare affrontando la compilazione di un piano di
assestamento era quello di fissare uno scopo di pianificazione improntato ai problemi
centrali della foresta in esame. In ciò Cantiani era facilitato dalle sue capacità di indagatore pronto nell’intuito, tenace nell’inchiesta e, per problemi particolari, disposto
a chiedere l’aiuto di colleghi di altre materie. È doveroso ricordare le frequenti consultazioni con Ezio Magini, Francesco Moriondo e Fiorenzo Mancini.
La compilazione del piano di assestamento della foresta demaniale di Vallombrosa (1961) suscitò tre questioni. La prima fu l’avere scorto che nelle abetine
di Vallombrosa (tradizionalmente considerate come negate alla rinnovazione naturale) era pur sempre possibile trovare un nucleo di popolamenti evoluti al punto
di essere adatti all’applicazione immediata del trattamento a taglio saltuario. Era,
poi, impressione comune che l’accrescimento della Pseudotsuga di Menzies fosse
il doppio di quello dell’abete bianco; dal dubbio derivò l’idea di una verifica
(19) da cui il divario apparve molto ridimensionato. Infatti la conifera americana
ha il tronco più rastremato e forma boschi meno densi. Emerse, infine, la suscettibilità delle abetine ai danni di Eterobasidio annoso da cui vennero approfondimenti (11) poi affidati ad allievi.
La compilazione del piano della foresta di Maresca (21) fu l’occasione da cui
ebbe inizio l’attività del GLAB (un gruppo di lavoro per l’abete bianco stabilito
in seno all’Accademia) poi seguita soprattutto dal prof. Magini.
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GIOVANNI BERNETTI
La Foresta dell’Abetone (18) sollevò due problemi per la cui soluzione ci si è
avvalsi (per la prima volta in Italia) di indagini storiche di archivio. La prima fu
quella della struttura delle fustaie di faggio che apparivano stratificate in tre generazioni di piante; risultò che in Toscana fino a tutto il Granducato, il faggio si trovava
solo allo stato ceduo e che all’Abetone la conversione fu ottenuta mediante il progressivo rilascio di 3 scaglioni di matricine. L’altra questione ben più interessante e
notoria era quella di fare una precisa distinzione fra le peccete autoctone e quelle di
impianto. I popolamenti autoctoni si distinguevano anche per la localizzazione in
ambienti tutti particolari e suggestivamente condizionati dalle tracce dell’antico
glacialismo. A indagini ultimate venne concordata la proposta della costituzione di
una riserva naturale orientata.
La pineta costiera di Cecina mostrò subito il grave degrado della vegetazione e
del territorio. Le proposte di riassetto (25) vennero basate sui risultati di una indagine
a tutto campo che in particolare riguardò le conseguenze dell’aerosol marino inquinato, della falda freatica divenuta salmastra, dell’estrazione di ghiaia e sabbia dai fiumi
e l’influenza di alcuni moli turistici ed industriali sull’andamento delle correnti
marine. Questa ultima apparve come la causa fondamentale dell’erosione delle
spiagge. In pratica si ebbe un esempio di grande inchiesta di polizia ambientale.
La Tenuta di San Rossore (36) aveva una grande superficie di pinete di pino
domestico in fase di totale invecchiamento. Sono pinete a suo tempo impiantate su
terreni dunali mai boscati, che poi sono invecchiate accusando diffusi attacchi da
marciume sia delle radici che dei rami dovute rispettivamente all’Eterobasidio
annoso ed al Fellino del pino. Mancano forme di evoluzione: il sottobosco è fatto da
soli sporadici macchioni di rovo. Il rimedio di tagliate a raso rimboschite col pino
misto a specie mediterranee (benché ufficialmente approvato da una nutrita commissione) fu subito avversato a furore di ambientalismo.
Viene ora da domandarsi se il taglio a raso (oramai così universalmente avversato) in casi eccezionali non possa essere visto come mezzo di introduzione di biodiversità di ecosistemi in opposizione alla tendenza a concentrare tutta la capacità
di produzione dell’ecosistema sulla biomassa arborea.
APPLICAZIONI METRICHE DELLE FOTOGRAFIE TERRESTRI
Da questo studio derivò una strumentazione che purtroppo è rimasta allo stato
di prototipo. Lo “stereodendrometro” è una combinazione fra uno strumento che
produce coppie stereoscopiche di fotografie scattate da terra e uno strumento su
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CONSIDERAZIONI DI TECNICA FORESTALE NEL RICORDO DI MARIO CANTIANI
cui le coppie vengono montate per misurare le altezze ed i diametri degli alberi
fotografati. La misurazione su fotografie terrestri implica problemi di calcolo
molto maggiori che per le fotografie aeree, perché bisogna tenere conto dell’inclinazione del terreno, della diversa distanza e delle deformazioni ottiche; a questo fine, con la collaborazione del geodeta prof. Ugo Bartorelli (15) è stato predisposto un apposito sistema di calcolo elettronico.
Lo scopo era quello di elaborare un modo di misura di aree di saggio permanenti
che, ripetute periodicamente, permettessero di seguire in modo univoco lo sviluppo
di un popolamento con la possibilità di ripetere le misure per adeguarle a nuovi
metodi ed esigenze e di poter seguire nel tempo lo sviluppo e l’evoluzione del
popolamento sempre col medesimo modo di misura. Inoltre le fotografie terrestri
sarebbero un ottimo aiuto nella costruzione delle tavole stereometriche perché permetterebbero la raccolta di dati da alberi modello (senza bisogno di abbatterli).
Questo studio è stato interrotto troppo presto. Oggi potrebbe essere utilmente
ripreso tanto più che le moderne tecniche di misura delle distanze col laser possono portare molte semplificazioni.
ANALISI DEI RITMI DI ACCRESCIMENTO DELLA CIRCONFERENZA DEGLI ALBERI
Abitualmente, in dendrometria ed in assestamento la misura di accrescimento
degli alberi è quella dell’incremento annuo o addirittura quinquennale. Resta
aperta la curiosità di conoscere lo svolgimento dell’accrescimento durante la stagione vegetativa.
Nella versione più semplice, si tratta di disporre (per tutta la stagione vegetativa) sui tronchi di alberi delle strisce di metallo tenute ferme da una chiusura che,
però, è capace di scorrere con l’aumentare della circonferenza. Periodicamente (per
esempio ogni settimana) si incide una tacca. Alla fine si rimuove la striscia e la lettura permette di seguire l’andamento dell’incremento di circonferenza per tutta la
stagione vegetativa.
Poi sono stati adottati strumenti dotati di tamburo registratore sul tipo dei termografi (23, 26, 40, 41).
Nel corso di queste indigini Cantiani fu incuriosito dal fatto che le dimensioni
del fusto avevano continue non trascurabili oscillazioni in più o in meno dovute
non all’attività del cambio, ma ai rigonfiamenti e restrigimenti per il variare dei
movimenti della linfa. Un ulteriore affinamento è venuto con lo studio dell’accrescimento “circadiano” cioè studiato durante le ore del giorno.
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GIOVANNI BERNETTI
CONCLUSIONI
L’intenzione era di fare un riassunto dei principali temi di ricerca di cui Cantiani si è occupato. Il commento sugli sviluppi vuole servire a sottolinearne l’importanza. La conclusione che può trarre un testimone ravvicinato (e talvolta collaboratore) è che l’attività fu dominata dall’attitudine e dalla passione dell’indagatore. Una volta trovato un argomento ritenuto importante non si mollava la presa
finché non si era giunti ad una conclusione.
Cantiani fu anche un suscitatore di studi di altri, perché i suoi amici e consulenti illustravano la loro parte con pubblicazioni separate.
BIBLIOGAFIA DI MARIO CANTIANI
1. CANTIANI M., 1950. Tavola cormometrica dell’abete bianco del Molise. L’Italia Forestale e Montana.
2. CANTIANI M., 1953. Tavola dendrometrica dei cedui di cerro del Molise. L’Italia
Forestale e Montana.
3. CANTIANI M., 1954. Tavola dendrometrica dei polloni di cerro del Molise. Ricerche
Sperimentali di Dendrometria e di Auxometria n° 2.
4. CANTIANI M., 1955. Ricerche sperimentali sulla carbonizzazione della legna di cerro
e di faggio. L’Italia Forestale e Montana.
5. CANTIANI M., 1957. Tavole alsometriche delle fustaie coetanee di faggio dell’Irpinia.
L’Italia Forestale e Montana.
6. CANTIANI M., 1957. Il prezzo di macchiatico del travame uso Trieste di Vallombrosa.
L’Italia Forestale e Montana.
7. CANTIANI M. 1958. Ricerche sperimentali sul rendimento della lavorazione delle
traverse ferroviarie di cerro e di faggio. L’Italia Forestale e Montana.
8. CANTIANI M., 1958. Tavola cormometrica dell’abete bianco e dell’abete rosso di Paularo cresciuti in fustaia da dirado. L’Italia Forestale e Montana.
9. CANTIANI M., 1958. Osservazioni sugli effetti della siccità estiva nelle faggete dell’Irpinia. L’Italia Forestale e Montana.
10. CANTIANI M., 1959. Tavola dendrometrica del faggio dell’Irpinia cresciuto in fustaia
coetanea. Ricerche sperimentali di Dendrometria e di Auxometria n° 3.
11. CANTIANI M., 1960. Note sulla diffusione del marciume radicale nelle abetine di Vallombrosa. L’Italia Forestale e Montana.
12. CANTIANI M., 1961. Tavola dendrometrica dell’ontano napoletano dell’Alta Irpinia.
L’Italia Forestale e Montana.
18
CONSIDERAZIONI DI TECNICA FORESTALE NEL RICORDO DI MARIO CANTIANI
13. CANTIANI M., 1961. Tavola dendrometrica dell’acero montano dell’Alta Irpinia.
L’Italia Forestale e Montana.
14. CANTIANI M. e BERNETTI G., 1962. Tavola alsometrica delle abetine della Toscana.
Annali dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali.
15. BARTORELLI U. e CANTIANI M., 1962. Lo stereodendrometro. L’Italia Forestale e Montana.
16. CANTIANI M., 1963. Ricerche alsometriche e dendrometriche dei cedui di castagno dei
Monti Cimini. L’Italia Forestale e Montana.
17. CANTIANI M., 1963. Sviluppi del metodo colturale nell’assestamento forestale. L’Italia
Forestale e Montana.
18. CANTIANI M. e BERNETTI G., 1963. Piano di assestamento della Foresta dell’Abetone
per il dodicennio 1961-1972.
19. CANTIANI M., 1965. La programmazione e l’assestamento nella moderna legge forestale del Giappone. L’Italia Forestale e Montana.
20. CANTIANI M., 1965. Tavola alsometrica della Pseudotsuga douglasii in Toscana.
L’Italia Forestale e Montana.
21. CANTIANI M., 1965. Tavola alsometrica delle pinete di laricio dell’Etna. L’Italia
Forestale e Montana.
22. BERNETTI G. e CANTIANI M., 1967. Piano di assestamento della Foresta di Maresca.
Tipografia Coppini.
23. CANTIANI M., 1967. L’influenza dell’andamento stagionale sulla evoluzione dell’accrescimento della douglasia, dell’abete bianco e di altre specie forestali. Annali dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali.
24. BERNETTI G., CANTIANI M. e HELLRIGL B., 1969. Ricerche alsometriche e dendrometriche sulle pinete di pino nero e laricio in Toscana. L’Italia Forestale e Montana.
25. CANTIANI M., 1971. Sui rimedi per salvare dal deperimento la pineta litoranea di
Cecina. Annali dell’Accademia Italiana di Scienze Forestali.
26. CANTIANI M., 1971. Ricerche sperimentali sul ritmo di accrescimento dell’abete
bianco e della douglasia nell’Appennino toscano. L’Italia Forestale e Montana.
27. CANTIANI M., 1974. Prime indagini sulla biomassa dell’abete bianco. Ricerche Sperimentali di Dendrometria e Auxometria.
28. CANTIANI M., 1975. Il pino marittimo in Toscana. Indagini auxometriche. Ricerche
Sperimentali di Dendrometria e Auxometria n° 6.
29. CANTIANI M., 1975. I cedui di eucalipto (E. globulus ed E. camaldulensis) nella
Sicilia orientale. Ricerche Sperimentali di Dendrometria e di Auxometria.
30. BAGNARESI U., BERNETTI G., CANTIANI M., HELLRIGL B., (1980). Nuove metodologie
nella elaborazione dei piani di assestamento dei boschi. I.S.E.A. (Istituto per lo Sviluppo Economico dell’Appennino). Bologna.
31. BAGNARESI U., CANTIANI M., MASSEI M., MINOTTA G., 1982. Ricerche sulla produzione di biomassa e sui bilanci energetici di una azienda pioppicola padana. Prima
Conferenza Internazionale Energia e Agricoltura. Milano.
19
GIOVANNI BERNETTI
32. BARTORELLI U, CANTIANI M., MONDINO G.P., PAGANUCCI L., PIROLA A., 1983. Norme
per l’esecuzione e collaudo della carta forestale d’Italia. Pubbl. Accademia Italiana
di Scienze Forestali.
33. CANTIANI M., 1984. Il trattamento selvicolturale delle faggete dei Monti Picentini.
Comunità Montana Terminio-Cervialto. L’Italia Forestale e Montana.
34. CANTIANI M. e MASSEI M., 1986. Tenuta di San Rossore. Piano di di assestamento dei
boschi per il decennio 1985-1994. Segreteria Generale della Presidenza della Repubblica.
35. CANTIANI M., 1986. Considerazioni sulla validità delle tavole alsometriche. L’Italia
Forestale e Montana.
36. CANTIANI M., 1988. Euroforesta legno e “manutenzione del bosco”. L’Italia Forestale
e Montana.
37. CANTIANI M., 1988. Parchi e riserve naturali: luci ed ombre. L’Italia Forestale e Montana.
38. CANTIANI M., 1988. Relazione introduttiva alla presentazione dei risultati degli studi
di pianificazione coordinata realizzati nel territorio della Comunità Montana Terminio
Cervialto. L’Italia Forestale e Montana.
39. CANTIANI M. e SORBETTI GUERRI F., 1989. Traspirazione e ritmo circadianao delle variazioni reversibili del diametro dei fusti di alcune piante arboree (11 parte) L’Italia Forestale e Montana.
40. CANTIANI M., CANTIANI M.G. e SORBETTI GUERRI F., 1994. Rythmes d’accroissement
en diamètre des arbres forestiers. Revue Forestière Française.
20
RICORDO DI MARIO CANTIANI
Mario Buccianti
Ho incontrato Cantiani alla fine degli anni ’50; mi fu sufficiente quell’incontro seguito da un colloquio di dieci minuti per rendermi subito conto del valore
dello studioso che avevo avuto la fortuna di conoscere.
Ebbe inizio la nostra frequentazione che si palesava di mano in mano più gratificante per me perché ad ogni occasione si allargavano le mie conoscenze nel settore a lui più congeniale. Più che un allargamento era un arricchimento, talvolta
anche accompagnato da episodi che contribuivano ad aumentare la mia stima per
lui. Ne cito uno che mi pare significativo: uno studente doveva sostenere un
esame con Patrone da quale era già stato respinto due volte (Patrone era spesso
imprevedibile); così lo studente (peccato che non ricordi il nome) non sapendo a
quale santo votarsi chiese a Cantiani di aiutarlo e Cantiani senza esitare si addossò
l’incarico preparandolo al meglio. Al terzo esame, Patrone ricordando i passati, lo
tartassò nella maniera più dura possibile senza riuscire a coglierlo in fallo. Alla fine
Patrone si arrese e promovendolo disse a Cantiani “Stiamoci attenti perché questi ci soffiano il posto!”.
Negli anni ’70 ebbi la fortuna di fare con lui uno studio sul “Pino marittimo
in Toscana” nel quale lui ovviamente di interessò della parte incrementale, ma nel
percorso che ci vide spesso accomunati fu largo di consigli e suggerimenti sempre centrati. Le sue tavole incrementali misero in luce la straordinaria capacità produttiva della specie e segnò una svolta negli studi che la riguardavano (peccato che
poi il Matsuccoccus vanificasse molte previsioni).
Ma prima, la sua mente che spaziava in ogni campo che riguardasse la selvicoltura, aveva puntualizzato con ulteriori studi e ricerche molti punti che non sempre erano stati affrontati col necessario rigore.
Ed è nel ’63 che prende corpo il suo “metodo colturale in assestamento”. A mio
sommesso parere e non solo mio, segnò una svolta nella selvicoltura. Ben ha fatto
Ciancio nel ricordarlo rivendicando la continuazione di una scuola fiorentina.
21
MARIO BUCCIANTI
Il metodo era come una grammatica che fosse stata tutta scritta: bastava
saperla leggere. Se è vero come è vero che il metodo non seguendo schemi rigidi
si adattava a seguire l’evoluzione della foresta nel tempo, ne discende che contiene
parte delle premesse della “selvicoltura sistemica” che poi Ciancio doveva chiaramente definire.
E mi dispiace riandare con la memoria ad un momento del tutto particolare.
Ad un certo punto del tormentato percorso della sua malattia, questa sembrò
dargli una tregua e lui ne approfittò per riapparire nel luogo che aveva segnato gran
parte della sua vita di studioso: l’Accademia. Io quel giorno ero presente e la commozione mi prende ancora; ricordo che gli dissi: “Cantiani, questo sì che è un
regalo!”
Dr. Mario Buccianti, Lucca
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MARIO CANTIANI
E LA SCUOLA FORESTALE FIORENTINA
Orazio Ciancio
Da un uomo grande c’è qualcosa
da imparare anche quando tace.
LUCIO ANNEO SENECA
LA SCUOLA DI VALLOMBROSA E QUELLA FIORENTINA
La scuola forestale italiana, iniziata a Vallombrosa nel 1869, ha seguito nel
tempo due direttrici, due rami del grande albero delle scienze, che ancor oggi sono
presenti negli studi forestali. La prima direttrice è quella selvicolturale che si fonda
sugli insegnamenti di ADOLFO DE BÉRENGER e si realizza con gli studi di VITTORIO PERONA, GIUSEPPE DI TELLA, ALDO PAVARI e MARIO CANTIANI. La seconda
direttrice segue le indicazioni di Galileo quando afferma che «la natura parla
matematica»; essa ha i suoi fondamenti negli scritti di FRANCESCO PICCIOLI e si
concreta negli studi teorici e pratici di GENEROSO PATRONE, proseguiti poi da
BERNARDO HELLRIGL. Questo è un ramo molto importante che cerca di dare una
interpretazione matematica del sistema biologico bosco radicato tra molti forestali.
PERONA, DI TELLA e CANTIANI si occupano e lasciano molti scritti di dendrometria e di assestamento, ma il loro fondamentale contributo deriva dalla conoscenza dei sistemi e metodi bioselvicolturali che essi pongono alla base dell’assestamento forestale. In breve, si può affermare che PICCIOLI, PATRONE ed HELLRIGL
nei loro studi utilizzano gli strumenti che danno forza all’idea di scienza delle discipline del settore forestale, mentre DE BÉRENGER, DI TELLA, PAVARI e CANTIANI prediligono la conoscenza del bosco come base di studio, sperimentazione e applicazione tecnica a elevati livelli. Qui interessa sottolineare che dall’esame dell’opera
di questi insigni maestri emerge una vicinanza di pensiero e di tecnica operativa tra
DI TELLA e CANTIANI.
23
ORAZIO CIANCIO
In definitiva, su queste due direttrici si fonda una Scuola, che a giusto titolo si
può definire la Scuola Fiorentina, dalla quale sono scaturiti studi disciplinari originali di assoluto valore e di estremo interesse pratico applicativo.
LA SVOLTA SCIENTIFICA
C’è da chiedersi quale sia stato in concreto il contributo che ha dato MARIO
CANTIANI allo sviluppo e all’innovazione del settore forestale. In estrema sintesi
si può asserire che negli anni sessanta del secolo scorso si intravidero i prodomi
di una svolta scientifica e tecnica di notevole rilevanza che doveva rivoluzionare
le scienze forestali: a quel tempo si cominciava a ripensare due aspetti che prima
mai erano stati messi in discussione.
Il primo riguardava la normalizzazione del bosco: una teoria enfatizzata in tutti
i testi di Assestamento forestale europei e mondiali. In Italia per merito di CANTIANI si cominciava ad avvertire che questa teoria era una chimera, ovvero un’ipotesi assurda, un sogno vano, una vera e propria utopia. E appunto perché tale non
poteva avere un reale significato scientifico e, a maggior ragione, una concreta
applicazione. Il secondo aspetto concerneva la percezione sempre più viva da parte
di accademici, ricercatori e studiosi, oltre che da tecnici e amministratori, che molti
sistemi selvicolturali non si applicavano perché il più delle volte apparivano irrealizzabili se si volevano adottare le tecniche descritte nei manuali del tempo.
In breve: i piani restavano nei cassetti degli uffici preposti all’applicazione e
la selvicolura, almeno quella canonica, cioè quella che secondo la logica epicurea
era rivolta a fissare i criteri della conoscenza, continuava a languire, ovvero a perdere di efficacia, di consistenza. A dire il vero, dispiace sottolineare che ancor oggi
la situazione non è molto cambiata, e ciò malgrado l’impegno di CANTIANI in questo senso. Ma, lo si sa, in campo forestale le idee si affermano con i tempi forestali: lunghi, a volte molto lunghi!
In questo quadro, allora non così netto come lo è oggi, si inserisce l’opera di
CANTIANI che da un lato smentisce – anche se parzialmente, a dire il vero – la validità della teoria della normalizzazione del bosco – non bisogna dimenticare che
egli era profondamente legato alla Scuola di PATRONE che della nomalizzazione del
bosco aveva fatto un capisaldo dell’assestamento forestale – e dall’altro enuncia
i principi di un nuovo metodo di assestamento: il metodo colturale.
Per quanto riguarda la normalizzazione del bosco egli nel 1963 così si esprime:
«Nella generalità dei casi i nostri boschi hanno strutture alterate da utilizzazioni
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MARIO CANTIANI E LA SCUOLA FORESTALE FIORENTINA
disordinate […]. È ovvio che in presenza di soprassuoli così disordinati e disformi
qualsiasi tentativo di studiare il bosco normale, ideale per quella determinata stazione, deve considerarsi difficilmente realizzabile».
IL METODO COLTURALE
Sulla base di tali considerazioni che derivavano dalla sua profonda conoscenza dei nostri boschi egli elabora e illustra il metodo colturale. Invero, questo
metodo parte da molto lontano: dal metodo del controllo di ADOLPHE GURNAUD
(1890) e di HENRY BIOLLEY (1920) fino alla teoria del Dauerwald di ALFRED MÖLLER (1920). Un accenno si trova anche in LEON PARDÉ (1930) e la conferma della
validità del metodo colturale si trova in KNUCHEL (1950). Ma la spinta decisiva per
la sua affermazione nel nostro Paese si deve a MARIO CANTIANI (1963; 1986) che
ne ha dato una interpretazione originale ed estensiva.
Riferendosi ai boschi prima descritti egli così scrive: «[…] Tali inconvenienti
e pericoli si possono attenuare con l’applicazione del metodo colturale, che consiste
nel fissare la ripresa analiticamente particella per particella, secondo le particolari
esigenze colturali del bosco. Questo metodo è indubbiamente semplice in quanto
prescinde dallo studio del bosco normale e non richiede faticose e lunghe elaborazioni […]. L’assestatore deve precisare, a vista, con criterio sintetico la percentuale di massa utilizzabile in ciascuna particella e prestabilire, sempre in base alle
esigenze selvicolturali, l’ordine di urgenza dei tagli e delle altre cure colturali. […]
La semplicità, l’elasticità e la sicurezza sono dei pregi talmente importanti da far
passare in seconda linea l’unico difetto attribuito al metodo colturale che è quello
di non garantire la costanza della ripresa».
Il motivo della rapida diffusione e applicazione di questo metodo è riconducibile, appunto, alla sua semplicità e flessibilità. Infatti, si lascia ampia libertà all’operatore di scegliere gli interventi colturali caso per caso, situazione per situazione.
E si prescinde dallo studio del bosco normale e dalla predeterminazione della
ripresa (CIANCIO e NOCENTINI, 1996).
Il metodo colturale ha rappresentato e rappresenta un momento importante nello
sviluppo del pensiero forestale. Ha influito sull’avanzamento tecnico-scientifico
della selvicoltura, dell’assestamento e dell’economia forestale: una vera e propria rivoluzione culturale, un originale significativo passo avanti nel campo della ricerca.
Insomma, un salto di qualità: il passaggio dalla cosiddetta «selvicoltura regolata» a
quella «libera», con tutte le implicazioni che ciò comporta (CIANCIO et al., 1995).
25
ORAZIO CIANCIO
UN RICORDO PERSONALE
Sugli aspetti scientifici e tecnici dell’opera di CANTIANI molto avrei da dire
se il tempo a disposizione lo consentisse. Mi riservo però a breve di pubblicare
un saggio su questo argomento. Ma al di là del lavoro di studioso e di ricercatore
desidero ricordare alcuni aspetti della sua statura etica, intellettuale e umana dei
quali non tutti sono a conoscenza.
I ricordi corrono ai tempi in cui operavo come ispettore forestale a Piazza
Armerina e ambedue, seppure con intenti diversi, studiavamo gli eucalitteti. Poi
quando sono stato chiamato a Firenze alla cattedra di Assestamento forestale
egli insistette fino all’inverosimile perché assumessi l’incarico di direttore dell’allora Istituto di Assestamento e Tecnologia forestale. Di fronte alle mie perplessità non esitò, con fermezza anche se con estrema cortesia, a richiamarmi
ai miei doveri e alle mie responsabilità. Poi, a distanza di pochi mesi, mi
chiese con perseveranza di candidarmi per entrare a far parte del Consiglio dell’Accademia.
Basterebbe questo per dire quanta grande sia la mia riconoscenza verso questa personalità che in ogni occasione dimostrava grande conoscenza, e non parlo
qui del bosco che come tutti sanno costituiva la base della sua cultura tecnica, ma
anche e soprattutto eccezionale capacità di interpretare in modo autorevole le
necessità contingenti delle istituzioni alle quali aveva dato un grande contributo
sul piano della ricerca e sul piano dell’organizzazione.
Di più: molto ancora devo a MARIO CANTIANI – a lui che in genere parlava
così poco – per le serene e illuminanti discussioni sui problemi dell’Università,
del settore forestale in genere e, soprattutto, su specifici temi scientifici e tecnici.
E, su quest’ultimo aspetto, anche quando ci si trovava su sponde opposte, come
è ovvio, direi naturale, tra chi si occupa di ricerca, i rapporti di stima e di amicizia invece di deteriorarsi, come spesso malauguratamente accade in simili frangenti, si cementavano fortificandosi ancor di più. Il motivo è semplice: ambedue
eravamo convinti che il progresso in campo scientifico e tecnico avviene solo e
solo attraverso un sereno confronto di idee.
Prima di scomparire mi disse ciò che non ho più dimenticato e che non potrò
mai dimenticare: caro Ciancio dico a lei quello che il professor Patrone disse a me
prima di morire: faccia in modo che l’Accademia non debba chiudere. E ancora:
so che i tempi non sono propizi come lo erano anni addietro, ma chiedo il suo
impegno, anzi la sua dedizione, affinché questa Istituzione continui a dare un contributo di conoscenza, innovazione e informazione scientifica e tecnica.
26
MARIO CANTIANI E LA SCUOLA FORESTALE FIORENTINA
Infine voglio sottolineare un fatto: il profondo e forte attaccamento per
l’Accademia lo aveva portato, in un momento difficile per la sopravvivenza di
questa Istituzione, a fare un passo indietro e lasciare l’incarico di segretario che
aveva ricoperto sin dal 1964, dimostrando ancora una volta la sua disponibilità
e il suo grande impegno per l’interesse generale che sempre poneva al di sopra
delle proprie ambizioni. E di questo tutti dovremmo prendere esempio ed essergli grati.
Se mi è consentito vorrei riportare una frase che ho ripreso dall’Epistularum
moralium ad Lucilium di SENECA che bene si addice alla personalità che oggi ricordiamo: «Sappi che ci sono disuguaglianze dove si notano cose che si alzano al di
sopra delle altre. Un albero non si distingue in mezzo a un bosco in cui le piante
hanno la stessa altezza». Ebbene, è indubbio che MARIO CANTIANI ha rappresentato una disuguaglianza: un albero che si è distinto tra tante piante della stessa
altezza.
Secondo la vulgata CANTIANI parlava poco: caso del tutto strano in un mondo
dove si fa a gara per parlare, talvolta anche a sproposito. È vero egli parlava
poco, ma come diceva PITAGORA «L’inizio della saggezza è il silenzio». Ecco, il
nostro, oltre a essere un uomo di scienza e di tecnica, era anche e soprattutto un
uomo saggio. A mio avviso questo è il migliore riconoscimento che si possa fare
pensando a MARIO CANTIANI.
BIBLIOGRAFIA
BIOLLEY H., 1920. L’aménagement des forets par la méthode experimentale et spécialement la méthode du controle. Attinger Frères, Neuchatel.
CANTIANI M., 1963. Sviluppi del metodo colturale nell’assestamento forestale. L’Italia
forestale e Montana 18 (1): 46-48.
CANTIANI M., 1986. La determinazione dello stato normale. In: Nuove metodologie nella
elaborazione dei piani di assestamento dei boschi. ISEA, Bologna.
CIANCIO O., IOVINO F., NOCENTINI S., 1994a. The theory of the normal forest. La teoria del
bosco normale. L’Italia Forestale e Montana 49 (5): 446-462.
CIANCIO O., IOVINO F., NOCENTINI S., 1994b. Still more on the theory of the normal
forest: why we insist on saying no to it. Ancora sulla teoria del bosco normale: perché si insiste nel dire no. L’Italia Forestale e Montana 50 (2): 118-134.
CIANCIO O., NOCENTINI S., 1996. Il bosco e l’uomo: l’evoluzione del pensiero forestale dall’umanesimo moderno alla cultura della complessità. La selvicoltura sistemica e la
gestione su basi naturali. In: Il bosco e l’uomo (a cura di Orazio Ciancio). Firenze,
27
ORAZIO CIANCIO
Accademia Italiana di Scienze Forestali; pp. 21-115. (Versione in inglese: The forest
and man: the evolution of forestry thought from modern humanism to the culture of
complexity. Systemic silviculture and management on natural bases. In: “The forest
and man” (Edited by Orazio Ciancio), Firenze, Accademia Italiana di Scienze Forestali, 1997; pp. 21-114).
GURNAUD A., 1890. La méthode du controle et la tradition forestière. Revue des eaux et
forets: 209-218.
KNUCHEL H., 1950. Planung und Kontrolle in Forstbetrieb. Aarau.
MÖLLER A., 1922. Der Dauwerldgedanke. Sein Sinn und seine Bedeutung. Berlin.
PARDÉ L., 1930. Traité pratique d’aménagement des forêts. Paris.
28
RICORDO DI MARIO CANTIANI
Antonio De Marinis
Sono grato, Sig. Presidente, a Lei ed agli Accademici per avermi offerta l’opportunità di ricordare, in questa sede prestigiosa, la mia fortunata esperienza collaborativa col Prof. Mario Cantiani.
Egli, profondo conoscitore ed attento osservatore dei boschi e del delicato
ambiente naturalistico della Tenuta di S. Rossore, è stato la guida ed al tempo
stesso lo stimolo per la vasta casistica dei problemi gestionali.
La collaborazione divenne più intensa ed assidua da gennaio 1981 per la preparazione, la redazione del Piano di Assestamento per il decennio 1985-1994 e la
successiva attuazione e per i lavori della Commissione per lo studio delle cause
della degradazione della vegetazione, istituita nell’aprile 1982 e di cui Egli era
autorevole componente. Ebbi modo di riscontrare in quel periodo l’importanza,
direi preminente, che Egli attribuiva alla pratica attuazione degli indirizzi programmatici: il Forestale, affermava, deve percorrere i boschi.
Gli interventi e le fasi di attuazione vennero svolti con la diretta partecipazione
Sua e dei Suoi collaboratori che qui ringrazio tutti di cuore. Per noi operatori in
Tenuta ciò costituiva confortevole sostegno ed al tempo stesso certezze e garanzie tecnico-scientifiche.
Ricordo brevemente gli interventi più significativi intrapresi ed interrotti dopo
poco tempo per le vicende a molti note.
Dopo la costituzione delle parcelle sperimentali dislocate sul territorio in
maniera strategica, parcelle che rappresentavano il campo di prova, si iniziò ad
operare sulle pinete di “marittimo” e lungo la fascia dunale litoranea per la ricostituzione delle vegetazione distrutta prevalentemente a causa dell’erosione marina
e degli agenti inquinanti.
Nel primo caso il trattamento selvicolturale, reintrodotto dopo circa 30 anni di
abbandono in ossequio a specifici indirizzi di Esperti dell’epoca, mirò specialmente al risanamento della pineta fortemente degradata.
29
ANTONIO DE MARINIS
Una favorevole circostanza ci consentì di alienare un materiale fino ad allora
assolutamente inutilizzabile, perché proveniente da piante malate in piedi o stramazzate al suolo, deperite, alterate. Fu possibile eseguire una radicale ripulitura
con evidenti benefici per le piante rimaste.
Nel secondo caso fu avviata una vasta opera di ricostituzione e ripristino con
le specie ed i criteri suggeriti nel Piano. Fu da taluni criticata la scelta del cosiddetto arretramento, ma per la verità in queste parcelle i risultati furono e credo
siano ancora di tutta evidenza.
Per questo comparto vorrei ricorda che, nella impossibilità di approvvigionamento di “Ginestrone” (Ulex europeus) presso i vivai della zona, col Prof. Cantiani
organizzammo il prelevamento presso un vivaio del Basso Molise dove Egli nel
passato era stato chiamato a costituire una fascia vegetale litoranea.
In questa circostanza ebbe modo di osservare che ai margini di un grosso
invaso ricavato dallo sbarramento del fiume Biferno nel tratto prossimo al mare,
stavano sorgendo piccole aree a pineta pura o mista a leccio dislocate in modo
disordinato. Cercò allora di suggerire alle Autorità locali la realizzazione di un
Parco Regionale che, senza ledere i diritti dei privati proprietari, si estendesse dal
“Lago del Liscione” come è denominati l’invaso, sulle colline retrostanti fino alle
altitudini più elevate dove esistono considerevoli aree a bosco ceduo con presenza
di roverella.
Questa idea, a mio parere attuale e condivisa da molti, mi auguro venga finalmente recepita ad esempio dalla giovane Università del Molise.
Per l’assetto futuro della Tenuta di S. Rossore, il Prof. Cantiani espresse in privato parere favorevole per due ipotesi di iniziative non comprese nel Piano: l’ampliamento dell’Ippodromo che con accesso indipendente e con opportuna redistribuzione delle aree in concessione poteva divenire autonomo, cioè scorporato
dal resto del territorio; la costituzione di aree attrezzate a destinazione-turistico
ricreativa. Egli cioè riteneva possibile salvaguardare l’integrità del complesso ed
al tempo stesso avere nella giusta considerazione le reali necessità socio-economiche del contesto.
Un altro intervento, degno di rilievo e previsto nel Piano, fu la realizzazione
del bosco misto di latifoglie in località “La Punta” su area agricola fino ad allora
coltivata. Anche in questo caso i risultati furono decisamente positivi.
Quando si decise di intraprendere il vasto programma dei tagli di rinnovazione
delle pinete di “domestico”, il Prof. Cantiani mi avvertì che questi interventi nel
contesto di S. Rossore assumevano carattere di estrema delicatezza, di cui naturalmente ero consapevole.
30
RICORDO DI MARIO CANTIANI
In ottemperanza delle raccomandazioni della Commissione di studio ed alle
direttive del Piano approvato, com’è noto, in tutte le sedi competenti decidemmo
di iniziare, se ricordo bene, sulle parcelle n. 249, 250, 252, 253 in località “Illatro”.
Qui, dopo i tagli delle vecchie piante sopravvissute, venne eseguita una
profonda opera di bonifica e di risanamento che ebbe inizio con la rimozione e l’allontanamento delle grosse ceppaie, proseguì con la disinfezione e fu completata
col pareggiamento e la preparazione del terreno per i nuovi impianti. Si costruì la
recinzione perimetrale dell’area in difesa della selvaggina e dei roditori e quindi
si passò al reimpianto: in un’area sperimentale mediante seme e nella restante
superficie con piantine di pino e leccio.
Ricordo che fra i tanti visitatori che il Prof. Cantiani accompagnava a visitare
quei rimboschimenti, un giorno vi condusse il Prof. Bernetti (credo di non errare)
il quale mentre saliva sullo scalandrino disse: caro Mario devo farTi anch’io un
rimprovero. L’impianto è fatto troppo bene!
Poco dopo, nonostante i consensi di molti Studiosi, Esperti e Tecnici,
dovemmo interrompere tutti gli interventi contemplati nel Piano per superiore
disposizione che mi venne impartita con nota a firma dell’allora Segretario Generale del Quirinale del 29 dicembre 1989. In virtù dei nuovi criteri di massima per
la conduzione della Tenuta, in buona sostanza mi si autorizzava ad attenermi alle
nuove indicazioni, “anche nel caso che queste dovessero discostarsi da criteri, piani
di gestione o progetti preesistenti”.
In proposito vorrei qui ricordare che la Commissione di studio si era espressa
come segue. “Si può quindi affermare che, per la conservazione del patrimonio
vegetale, nella Tenuta di S.Rossore non potrà più venire trascurata, in futuro,
l’applicazione di appropriati interventi colturali, che dovranno venire graduati
tenendo conto della evoluzione delle condizioni vegetative dei vari soprassuoli”.
Questi, a mio parere, erano i principi ed i contenuti del Piano ribaditi nel
seguente concetto e quasi ammonimento del Prof. Cantiani.
“Ci troviamo, infatti, di fronte a foreste fortemente antropizzate destinate a
subire degradazioni e deperimenti in assenza di interventi colturali”.
Antonio De Marinis
31
RICORDO DI MARIO CANTIANI
Luigi Falasca
Non ho avuto molte frequentazioni con il professor Cantiani. Quanto ricordo
deriva da quello che ho sentito dire in ufficio dal personale che aveva avuto il piacere di lavorare con Lui. Ed è proprio per i giudizi positivi di colleghi e di altro personale che Gli chiesi, con una semplice telefonata, di avere il conforto di un Suo
parere in merito al piano di assestamento forestale di San Polo Matese e ad una utilizzazione di una sezione del bosco di cerro sito nei pressi del centro ospedaliero
di Campobasso che doveva svolgere, per la sua posizione, una funzione diversa da
quella canonica. Lui rispose che, in occasione di una Sua venuta in Molise, mi
avrebbe contattato, cosa che avvenne regolarmente poco tempo dopo. Ebbi modo
di apprezzare così, durante i sopralluoghi, sia il professore attento e consapevole
anche dei problemi del funzionario del C.F.S., sia l’uomo arguto e brillante. Da
quanto mi risulta, ha compilato diversi piani di assestamento forestale e le tavole
alsometriche che tutt’oggi sono in uso in Molise. Ha avviato per primo la progettazione e l’esecuzione di numerosi imboschimenti, diffusi dal mare alla montagna. Ha istruito i capi operai del C.F.S. a compiere tutte le operazioni tecniche
di un cantiere di imboschimento e di sistemazione idraulico-forestale.
Notevole poi è stata la Sua progettazione e l’esecuzione, intorno agli anni ’50,
di lavori di imboschimento della costa molisana, immediatamente a ridosso del
mare, con la risoluzione di notevoli problemi legati sia all’esistenza di zone
acquitrinose nelle quali mise a dimora (e tutt’ora resistono) Taxodium disticum
ed Ontano nero, che all’azione erosiva dei venti a cui pose freno formando fasce
prima con Psamma arenaria, poi con bandinelle e, dietro queste, con Acacia Saligna. Per la realizzazione di tali lavori, aveva inoltre allestito in Petacciato anche
un vivaio forestale, addestrando per primo la manodopera locale a tale attività.
Questo vivaio, che doveva essere volante, divenne definitivo ed è tuttora in attività. Tale lavoro ha impreziosito paesaggisticamente la zona costiera molisana e
ha fornito riparo sia alle coltivazioni agricole di pregio, che alle vie di comuni-
33
LUIGI FALASCA
cazione poste ad immediato ridosso della fascia di imboschimento. Purtroppo la
pressione umana, concentrata specialmente nei periodi estivi, con continue richieste di passaggi pedonali per giungere al mare, di campeggi, di porticcioli turistici
e di costruzioni ad uso abitativo e l’incuria della gestione dei lavori da parte della
Regione stanno creando i presupposti per la vanificazione di quanto realizzato da
Lui oltre cinquant’anni or sono.
Degno di menzione è anche l’imboschimento di circa un ettaro con olivi realizzato in Comune di San Giuliano di Puglia che oggi consente al suddetto comune
di realizzare anche un discreto reddito. Questo è quanto ricordo. Se avessi avuto
più tempo avrei potuto, chiedendone il permesso, consultare i fascicoli che Lo
riguardano presso l’ex Ispettorato Dipartimentale, oggi Comando Provinciale, di
Campobasso. Purtroppo, con lo scarto d’archivio per i molti trasferimenti d’ufficio, molte cose, tra cui anche le foto storiche sui primi lavori svolti sulla costa,
sono andate perse.
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I RIMBOSCHIMENTI
DELLE COSTE SABBIOSE IN ITALIA
Antonio Gabbrielli
Dedico alla memoria dell’amico Mario Cantiani questa breve nota, sintesi di un mio lavoro, in
ricordo della Sua opera sulle sabbie litoranee alla
foce del Sele in provincia di Salerno.
Tutte le regioni italiane che si affacciano sul mare sono state interessate, prima
o poi, da lavori di rimboschimento nella fascia sabbiosa litoranea, ad eccezione della
Liguria che praticamente non ha coste sabbiose.
Il rimboschimento dei litorali italiani, deserti e generalmente malsani, ebbe fin
dalla fine dell’Ottocento la funzione principale di azione di recupero di terre incolte
(legge del 1874), fissando un triplice scopo: tecnico (immobilizzazione delle sabbie),
igienico (contro la dominante malaria), economico-politico (protezione di colture e
di manufatti).
Dopo l’ultima guerra si è manifestato e con notevole veemenza un’altra azione
ben diversa e densa di pericoli: quella turistico-residenziale che, condotta spesso con
spirito speculativo, ha creato in non poche località, distruzioni o quanto meno seri
problemi di sopravvivenza ai rimboschimenti a suo tempo eseguiti.
In passato si riteneva che dal punto di vista igienico non fosse consigliabile il rimboschimento dei litorali; anzi lo si riteneva addirittura pericoloso. Si responsabilizzava, allora, il bosco palustre che, quando esiste, alligna di solito negli spazi interdunali o retro dunali, ed il presupposto era che il bosco fitto e intricato, sul tipo della
macchia mediterranea, mantenesse troppa umidità sul suolo favorendo lo sviluppo
della malaria. Tuttavia fin dalla metà del Seicento Giovan Battista Doni, medico e
naturalista romano, consigliava, nella sua opera postuma De restituenda salubritate
agri romani, la coltivazione di boschi che mantenessero costantemente asciutto il
35
ANTONIO GABBRIELLI
suolo, preferendo, in tal senso, la pineta al bosco di latifoglie, in particolare di
querce.
Quando l’opera di bonifica dei litorali divenne problema nazionale, l’apporto del
legislatore non mancò, per quanto incerto e poco conscio della sua importanza. In
effetti la legislazione nazionale in materia risaliva, come si è accennato, al 1874, con
la normativa sui beni incolti comunali che dovevano essere o alienati o rimboschiti.
Fra questi erano inclusi le dune e i tomboli del mare sempreché non fossero già vestiti
di vegetazione erbosa o dati a qualche speciale coltura. La legge, che ebbe una applicazione scarsissima, si dovette prorogare con le altre del 1882 e del 1886 che dettero
ugualmente scarsissimo risultato. Con altro provvedimento del marzo 1888, recante
disposizioni generali sui rimboschimenti, era prevista la promozione del rimboschimento sul lido del mare nelle dune incolte ma anche questa legge ebbe scarsa applicazione.
All’inizio del XX secolo, tra il 1900 ed il 1904, uscì il Testo Unico, col relativo
Regolamento, sulle bonificazioni di paludi e terreni paludosi che, all’articolo 7,
poneva tra le opere di bonifica di I categoria i lavori di rimboschimento e di rinsaldamento delle dune, purché coordinati alle opere di bonificamento.
Altra legge fu quella del luglio 1911 recante provvedimenti per la sistemazione
idraulico-forestale dei bacini montani e per le opere idrauliche e le bonifiche. Questa legge, che implicitamente abrogava quella del 1888 nelle parti relative ai rimboschimenti collegati alle opere idrauliche, dette allo Stato l’iniziativa e l’onere dei
lavori, riconoscendo che era vano attendersi dai proprietari impegni di grande portata
come erano i rimboschimenti. Infatti, secondo i calcoli, questa doveva interessare
lavori di bonifica su almeno 1450 km. (1160 peninsulari e 290 insulari) di coste basse
e con sabbie generalmente mobili.
Uno dei primi interventi (1878) di consolidamento di sabbie litoranee e successivo rimboschimento, fu quello della Plaia di Catania. Si trattò di una bonifica essenzialmente antimalarica dei 31 ettari di dune e di stagni mediante canali di scolo e piantagioni di psamma, canne, saccharum, e persino palme.
Sempre in Sicilia alcuni anni più tardi (1897) si tentò, da parte della Direzione
degli scavi archeologici di Palermo, di imboschire le sabbie mobili di Selinunte in presenza di dune alte fino a 50 metri. Nell’area di Balestrate (Trapani) si intervenne sulle
sabbie che si muovevano non solo ad opera dei venti perpendicolari alla costa ma
anche con quelli paralleli a questa (est-ovest) e che invadevano i campi circostanti,
molti dei quali tenuti a vigne, e che insabbiavano la ferrovia Palermo-Trapani che
attraversa tutta la zona. Nella parte meridionale della Sicilia, da Gela all’Isola delle
Correnti, la costa è formata da una fascia di alluvioni recenti costituite da sabbie,
36
I RIMBOSCHIMENTI DELLE COSTE SABBIOSE IN ITALIA
argille e ciottoli di origine terrestre e da sabbie di origine marina che si estendono
verso l’interno mediamente per circa 1500 metri. Qui la popolazione, dopo aver eliminato la macchia mediterranea esistente sull’alluvium terrestre, ha impiantato colture agrarie più redditizie. I lavori per il rimboschimento di quelle dune, iniziati nel
1927, si basarono sulla costituzione di una prima linea di difesa costituita da una
spessa piantagione di psamma, saccharum, ononis, opuntia.
Verso i primi del Novecento assumono grande importanza e notorietà i lavori di
immobilizzazione delle sabbie ed i successivi rimboschimenti del litorale veneto-friulano. I perimetri di lavoro interessarono gli arenili che si estendevano da Sottomarina
di Chioggia, a Cavamarima (l’odierna Jesolo) fino a Lignano. Oggi solo la pineta in
destra della foce del Tagliamento (Pineta Caccia) è rimasta abbastanza indenne ed in
grado di testimoniare i lavori fatti. Le bellissime piantagioni di tamerice del litorale
di Sottomarina sono completamente scomparse e le case si affacciano sulla battigia.
In Toscana è ben nota la sistemazione della duna Feniglia iniziata nel 1910.
Boscata ancora alla fine del XVIII secolo, fu venduta nel 1804 dal comune di Orbetello (proprietario) ad alcuni privati che utilizzando l’esistente bosco di latifoglie in
maniera vandalica col taglio e col pascolo finirono per distruggerlo. Dopo quasi
cent’anni è ancora un’oasi di verde sulla costa meridionale toscana.
In Campania un importate perimetro di rimboschimento è quello del GariglianoVolturno, il cui litorale decorre pianeggiante dalla foce del Garigliano al lago Fusaro
in due larghe curve separate dalla foce del Volturno che si protende leggermente in
mare. Altre opere di sistemazione litoranea di notevole importanza, sempre sulla costa
campana, sono state quelle effettuate alla Foce del Sele in una fascia di terreni sabbiosi in destra e sinistra del fiume, da Torre Angitola al fiume Solofrone, per un tratto
di oltre trenta chilometri. Completamente distrutte durante la seconda guerra mondiale, furono riprese negli anni Cinquanta ed oggi formano un Parco Regionale.
Notissime le opere nei litorali della Sardegna, le più importanti delle quali sono
state quella di Is Arenas a nord di Oristano, di Arborea (già Mussolinia), del Poetto
a Cagliari, oggi quasi completamente distrutta dall’avanzata edilizia della città. Più
significativa, almeno dal punto di vista tecnico, la sistemazione forestale di Is Arenas-Foce Tirso. Questa ha interessato i sette chilometri di costa nel nord della penisola del Sinis, su una superficie di circa 1000 ettari, battuta dai venti di maestrale che
raggiungono anche i 130 chilometri orari e sono causa, quindi, di pronunciati fenomeni di movimenti sabbiosi. I lavori iniziarono nel 1952 con la formazione di un cordone dunoso artificiale ottenuto mediante la realizzazione di una serie di palizzate
unita ad una densa piantagione di tamerici e di una vasta rete con maglie di siepi
morte e vive per infrenare le sabbie in modo da consentirne il rimboschimento.
37
ANTONIO GABBRIELLI
Riguardo ad Arborea, i cui impianti delle pinete risalgono al 1932, forse si può
ancora scongiurarne la scomparsa anche se il soprassuolo si è ridotto dai 229 ettari
del 1955 agli attuali 186.
In Basilicata i rimboschimenti litoranei hanno interessato la zona tra Metaponto e Policoro, caratterizzata da una costa bassa, lunga una ventina di chilometri.
Iniziarono nel 1935 con lo scopo di formare una fascia di protezione dai venti
marini ai terreni agricoli retrostanti. Le aree rimboschite furono quelle non suscettibili di trasformazione agricola, come le dune e le zone retrodunali tendenzialmente
acquitrinose. La vegetazione spontanea di queste zone era costituita dalla macchia
mediterranea a prevalenza di ginepro e lentisco mantenuta a difesa dei giovani rimboschimenti.
Analogamente per alcuni tratti del litorale ionico in Calabria, da Punta Alice a
Badolato, si costituì una piccola fascia di pineta domestica preceduta verso mare da
acacia saligna a difesa degli oliveti e delle vigne retrostanti.
Se quelle sopra indicate sono state le operazioni in un certo senso moderne e vengono ricordate più frequentemente, certe zone costiere italiane vantano interventi ben
più antichi quanto altrettanto famosi. Primo esempio fra tutti la pineta di Ravenna di
impianto romano per le necessità della flotta che aveva sede a Classe.
In Toscana sono ben note la pineta domestica di San Rossore, iniziata verso la fine
del Cinquecento dai granduchi medicei per scopi più commerciali che estetici e l’altra pineta selvatica, tra il Gombo ed il Serchio, che alla fine del Settecento sostituì
quella naturale dei Monti Pisani rilasciata ai rispettivi proprietari per favorirvi l’impianto di vigne e di oliveti.
Più a nord troviamo i pini domestici di Migliarino che trasformarono, verso la
metà dell’Ottocento, la lecceta preesistente in un bosco misto di singolare bellezza e
di elevata redditività.
Le pinete della Versilia e di Viareggio, anch’esse d’impianto nella prima metà del
XIX secolo, sostituirono le macchie di latifoglie preesistenti con una cornice sempreverde di particolare bellezza.
Non dobbiamo dimenticare quelle di Cecina e di Follonica impiantate dalla fine
del XVIII secolo alla metà del successivo, per non parlare delle pinete naturali che
ammantavano ed in parte tuttora ammantano, il Tombolo di Grosseto e quello della
Giannella (Orbetello), ricordate rispettivamente in documenti del 1418 e del 1414.
Nel Lazio si ricorda la pineta di Castelfusano, dal 1932 grande parco di Roma,
il cui impianto, risalente all’inizio del Settecento, è stato ultimato alla fine dell’Ottocento, quando nel 1870 fu ampliata fino al mare la vecchia pineta piantata un
secolo prima dal marchese Sacchetti antico proprietario.
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RICORDO DI MARIO CANTIANI
Bernardo Hellrigl
Celebriamo oggi in questa sede, che ha tanto amato, a cui ha tanto dato, la
commemorazione, a quindici anni di distanza, della prematura scomparsa di un
uomo che abbiamo conosciuto e stimato come collega nell’Università o nel Corpo
Forestale dello Stato, come docente e anche – non solo i più giovani – attraverso
le sue opere e i suoi scritti. Molti poi hanno avuto anche il privilegio e la fortuna
di averlo compagno di ricerca, consigliere, amico e anche confortatore nei
momenti difficili.
Mario, che non ha mai amato né cercato la ribalta, non avrebbe gradito la
parola commemorazione: ma sono sicuro che gradirà il caloroso e affettuoso
ricordo che qui singolarmente e collegialmente gli attestiamo in pubblico.
Essendo, unicamente per meriti anagrafici, il primo a parlare, non voglio
approfittarne per fare anticipazioni di riflessioni sui punti più eccellenti della sua
ricerca scientifica e culturale, che altri sicuramente non faranno mancare, né
voglio cimentarmi in una sintesi biografica che difficilmente potrebbe aggiungere
qualcosa di rilevante a quella già curata dal collega Gabbrielli.
Voglio invece, mi sia concesso, riproporre in pubblico quanto di tanti incontri, spesso quotidiani, mi è rimasto più impresso nella memoria.
Inizio così col pomeriggio del 4 Novembre 1966, quando, da poco tornato da
un sopralluogo nella foresta di Cadino in Trentino che sarebbe stata anch’essa
pesantemente ferita dall’alluvione, dal balcone della mia casa in Viale Redi mi resi
conto che l’acqua che continuava a esondare dall’Arno stava per invadere il quartiere San Jacopino-Cure. Pensai subito a Mario e alla sua famiglia, che stavano laggiù in basso, in Via Galliano, impotenti davanti all’incedere della marea montante,
e mi avviai per andare a vedere se si fossero messi al sicuro. Non era così: li trovai, consapevoli di ciò che poteva accadere, intenti a portare al primo piano
quanto di mobile e suscettibile di essere danneggiato dall’acqua poteva essere portato al sicuro.
39
BERNARDO HELLRIGL
Nel volto affaticato di Mario non vidi panico o disperazione, ma incredulità e
razionale volontà di prevenire ciò che di ora in ora sembrava non più inevitabile:
la perdita di cose care e l’incertezza del dopo.
Per un paio di ore cercai di dare una mano e poi, visto che Mario – nonostante
in strada l’acqua fosse salita ad altezza di polpaccio – continuava a non accettare
l’offerta di traslocare a casa mia almeno la famiglia, me ne tornai a casa dove mi
sentivo al sicuro.
Più tardi verso le undici di sera, sentito dell’altezza raggiunta dall’acqua in via
Ponte alle Mosse, uscii di nuovo e incamminandomi lungo l’argine del Mugnone
mi resi conto della drammaticità della situazione in tutto il quartiere fin giù alla
Manifattura Tabacchi. In Via Monteverdi, all’altezza del portone di casa abitato dal
fedele Maresciallo Martino Fabbio, vidi un pontone dei vigili del fuoco con due
agenti di Polizia a bordo. Con la scusa di andare a vedere come fosse messo un
“Colonnello della Forestale”, riuscii a farmi accettare a bordo e poco dopo, imbarcate altre persone, il mezzo si mise in moto come se fossimo a Venezia.
Raggiunta casa Cantiani, che vidi sommersa fino a metà altezza del pianterreno, diedi una voce e Mario si affacciò ad una finestra del primo piano. Meravigliato dal vedermi, mi chiese cosa stessi facendo. Gli dissi che ero venuto per riproporgli l’offerta di ospitalità; ma egli, che nel frattempo era stato raggiunto alla finestra dalla moglie, nuovamente rifiutò dicendo: “Rimango, sono due ore che l’acqua non sale più, anzi pare che stia iniziando a calare” e aggiunse “speriamo che
alle Cascine siano rimasti salvi i faldoni coi miei alberi modello”.
Mi resi conto così, forse per la prima volta, della grande forza interiore e psichica di questo uomo, marito, padre e studioso.
Il resto è triste e dolorosa storia vissuta da gran parte dei fiorentini presenti in aula.
Un secondo episodio, più breve e mio personale, riguarda la mattina del
lunedì di penitenza seguito al sabato dello sciopero della partita.
Non ricordo la data, ma era nel “mese di Vallombrosa”. Un sabato gli studenti,
fra cui diversi futuri ispettori C.F.S., chiesero al prof. Patrone di potersi assentare
di pomeriggio dal lavoro in aula per assistere alla TV ad una importantissima finale
di campionato di calcio, che doveva essere vinta dall’Italia. La risposta alla
domanda, divenuta “umile prece”, alla terza reiterazione fu sempre un secco e
fermo “no”; al che gli studenti altrettanto decisero di disertare le esercitazioni,
cosicché Patrone, arrivato al Paradisino verso le tre, trovò chiusa la porta esterna
dell’aula e un Bernardo impacciato che stava nel cortile quasi marcando la distanza
fra le due parti contrapposte.
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RICORDO DI MARIO CANTIANI
Ferito nell’autorità, il Professore abbassò il finestrino ed esclamò: “Le esercitazioni sono chiuse, ci vediamo lunedì a Firenze” e ordinò al Brigadiere Mariucci
di girare la macchina e tornare alla sua villetta.
Il messaggio era chiaro. Per gli studenti: allo sciopero segue la serrata; per me:
con te farò i conti lunedì.
Dopo un lungo pomeriggio e un’interminabile domenica, venne il lunedì, che
mi vide sin dalle otto ad attendere il Professore nel mio studiolo. Arrivato, egli
passò senza salutarmi, facendomi crollare ancora più pesantemente il cielo
addosso: se non confermato, mi vidi almeno privato della sua benevolenza e
forse anche della stima, alle quali tenevo moltissimo.
Dopo aver preso il caffé e informato Cantiani dei fatti, mi chiamò per chiedermi la mia versione dell’accaduto, che potei solo illustrare senza poter anche
giustificare la mia posizione di ambigua neutralità. Non mi rimproverò, ma
quando mi accomiatò in freddo silenzio lessi nei suoi occhi il disappunto e
anche la delusione.
Poco dopo venne a trovarmi Mario, che anzitutto mi manifestò anche il suo
disappunto per non essere stato capace di mantenere la disciplina del corso e mi
spiegò che Patrone non poteva non risentirsi di tale mia mancanza. Ma subito dopo
mi tranquillizzò e mi confortò dicendomi che conosceva bene il Maestro ed era
certo che, passata l’ira, sarebbe venuto il perdono e i rapporti sarebbero tornati
quelli di prima.
Mi parlò come un fratello che cerca di spiegare al fratello la punizione che il
padre non poteva non dare e mi accorsi di avere veramente trovato il fratello che
mai avevo avuto. Sentii, in quel momento, più intensamente che mai prima né mai
dopo, il grande cuore e la profonda umanità di questo grande uomo venuto dal Sud.
Mi rendo conto oggi che anche questo, e soprattutto questo, è il Mario che dobbiamo ricordare al di là dei suoi meriti scientifici e didattici.
Un terzo, molto diverso, ricordo mi porta all’estremo Nord, a Sesto di Pusteria, dove Mario venne a trovarmi mentre vi trascorrevo le ferie e dove Giulia si
meravigliò di trovare al mattino di Ferragosto due dita di neve sul balcone.
Portai Mario a vedere le peccete subalpine delle valli Casies e Anterselva; qui
ancora una volta potei ammirare la Sua profonda capacità di interpretazione e comprensione di realtà boschive problematiche. In queste formazioni così diverse dai
suoi boschi appenninici, che ben conosceva dall’Abetone all’Aspromonte, e
diversi anche da quelli di Borca di Cadore, che avevamo visitato assieme a Patrone
e di quelli di Paularo, in cui pure aveva lavorato, con poche domande ben mirate
41
BERNARDO HELLRIGL
seppe formulare ipotesi e postulare interventi che spesso collimavano con quelli
maturati in lunga esperienza dagli ispettori locali.
Guardammo insieme anche un piano di assestamento, del quale egli, fautore
e promotore del metodo colturale, apprezzò le indicazioni e prescrizioni selvicolturali e criticò il troppo stretto legame del prelievo con specifiche formule del
calcolo della ripresa.
Ma ciò che più mi impressionò fu la sua comprensione del modo di vivere e
della cultura di questi montanari per tanti versi così diversi da quelli che avevo
conosciuto in Calabria e nel Molise.
Si meravigliò, si, di usi e pratiche tipiche dell’area – il pane, nero e di segala
per l’altitudine, cotto solo poche volte all’anno; il riporto a monte, con la gerla a
spalla, del terreno del campo trascinato a valle dalla pioggia; le rape coltivate sul
letame messo a maturare – ma più che soffermarsi sulle differenze dovute alle
diverse origini e storie, colse ciò che li accomunava nelle soluzioni di molti problemi comuni a tutte le popolazioni di montagna, a cominciare da quelli della scarsità di non poche risorse fondamentali.
Anche quest’uomo, l’uomo che riusciva a vedere l’essenziale celato sotto un
mare di particolari, è uno dei tanti Mario che voglio ricordare oggi, domani e
sempre.
42
RICORDO DEL MAESTRO
Orazio la Marca
La commemorazione del proprio Maestro rappresenta un momento emotivamente toccante innanzitutto per il ricordo della persona e dell’insegnamento ricevuto,
poi per i tanti ricordi di intere giornate trascorse assieme in occasione dei rilievi di
campagna per una ricerca, per un piano di assestamento, per una tesi di laurea, per il
tempo dedicato alla revisione di un lavoro.
Ho conosciuto il Professore nel 1975, dopo la laurea, mentre ero in servizio militare di leva a Firenze e con una decisione importante da assumere: alla fine della leva
prendere servizio come direttore di un’Azienda silvo-pastorale oppure come insegnante di Scienze naturali? Il Professore mi propose di frequentare l’Istituto e mi offrì
una modesta partecipazione in una ricerca che aveva in corso.
Il Suo modo di fare, il Suo insegnamento, il rispetto e la considerazione che Egli
aveva per il prossimo, le idee e l’entusiasmo profuso nel lavoro, mi fecero ben presto prendere una decisione: alla fine del servizio militare, senza ripensamenti, andai
a lavorare con il Professor Cantiani, come precario dell’Università. Sono stati gli anni
più belli, che ricordo volentieri, ed anche i più proficui per la mia formazione.
L’allora Istituto di Assestamento forestale era impegnato con la Direzione
Generale delle foreste alla compilazione del Piani di Assestamento delle Foreste dell’ASFD.
Ho avuto in questo modo la fortuna di trascorrere diverse giornate in bosco per
la perlustrazione generale del singolo complesso forestale da assestare e per cercare
le soluzioni più opportune ai problemi prioritari che, caso per caso, emergevano.
In questo tipo di lavoro il Professore era impareggiabile, aveva una notevolissima
capacità di sintesi che derivava dalla Sua solida formazione, dalla lunga esperienza
nell’assestamento di complessi boscati, soprattutto dell’Italia meridionale, e dall’impegno che Egli dedicava al lavoro.
Si partiva la mattina di buon ora, si perlustrava a piedi la foresta e immancabilmente il Professore richiamava l’attenzione su aspetti importanti per le decisioni da
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ORAZIO LA MARCA
assumere nelle prescrizioni del Piano di Assestamento: l’assenza di rinnovazione dopo
un taglio di sementazione oppure il momento opportuno per un taglio secondario in
una faggeta, o ancora la presenza di rinnovazione invecchiata, non più affidabile.
Quando se ne presentava l’occasione non mancava di fare commenti e di dare
spunti per ricerche e sperimentazioni. Si è trattato di momenti formativi irripetibili.
Ricordo ancora bene, sulle montagne di Chiarano-Sparvera, in Abruzzo, dopo una
mattina di sopralluoghi, di osservazioni, di descrizioni particellari, consumata la
colazione, il Professore pretese, ed ottenne, di portare lo zaino con gli strumenti che
portavamo al seguito. A nulla valse la mia strenua opposizione. Era il Suo modo di
rispettare le persone, di non prevaricare.
Non ho ricordo di code di studenti e men che mai di colleghi davanti alla Sua
porta. Dopo le lezioni teoriche si dedicava alle esercitazioni didattiche nella Foresta
di Vallombrosa, con l’obiettivo di consentire, in modo pragmatico, a qualsiasi studente
di elaborare un piano di assestamento. Un metodo efficace, con risultati didattici sorprendenti.
Seguiva in prima persona gli studenti che si affidavano a lui per la tesi di laurea,
spesso si trattava delle linee generali per la compilazione di un Piano di Assestamento,
talvolta di indagini dendro auxometriche, non mancava di visitare i luoghi della tesi
di laurea, di chiarire aspetti che difficilmente uno studente avrebbe potuto affrontare
da solo. Dopo la revisione dell’elaborato scritto, dispensava consigli e suggerimenti
per la presentazione. Qualche giorno prima della seduta di laurea, dedicava ancora del
tempo per ascoltare la prova finale.
Il patrimonio scientifico e metodologico che ha lasciato spazia dall’Assestamento forestale, alla Dendrometria, alla Biologia, all’Auxologia.
I numerosi contributi offerti allo sviluppo delle conoscenze scientifiche degli argomenti trattati e la costante opera di formazione nei confronti degli studenti, di giovani
dottorandi, di noi assistenti, colloca il Prof. Cantiani tra i MAESTRI della Scuola forestale italiana.
Il Professore era impareggiabile nell’affrontare e nel proporre, in maniera semplice e pragmatica, gli interventi essenziali al miglioramento delle condizioni bioecologiche di un dato bosco. Amava ripetere che era inutile fare riferimento a modelli
complessi, difficilmente attuabili dal personale che era chiamato ad applicare il
Piano. Nelle prime fasi dell’Assestamento di boschi alterati nelle strutture sosteneva
che era prioritario impostare un buon particellare, indicare gli interventi selvicolturali per le singole particelle, definire il trattamento da impartire alle varie comprese.
Il resto lo rimandava alle revisioni successive. Le aree dimostrative del trattamento
rappresentavano il coronamento del suo pragmatismo.
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RICORDO DEL MAESTRO
Durante i numerosi viaggi nell’Italia meridionale era frequente incontrare persone
che lo avevano conosciuto e che esaltavano le Sue doti intellettuali ma anche umane.
Ricordo numerose visite ad ambienti in cui aveva operato prima come Ispettore del
CFS, poi come docente universitario, frequentemente aveva realizzato esperienze che
amava mostrare, esaminare, mettere in discussione (vedi i tagli di rinnovazione in
diverse formazioni di cerro del Molise, gli interventi nelle faggete dell’Irpinia, o più
semplicemente un impianto di Taxodium disticum realizzato dal Professore con il
metodo della baulatura su un litorale sabbioso dell’Adriatico).
Ricordo anche la gratitudine di tante persone incontrate che, molti anni prima, avevano lavorato con il Professore dal quale, riferivano, di aver ricevuto cordialità, professionalità e rispetto.
Pochi giorni fa, in occasione di una perizia sui danni causati da un incendio
durante la scorsa estate, mi è stato di molto aiuto un Suo originale intuito per accertare la direzione del fuoco e, conseguentemente, la responsabilità civile per i danni
causati da un incendio boschivo, sulla base delle tracce lasciate dalle fiamme sui fusti
delle piante ancora in piedi. A dimostrazione della tesi che Egli sosteneva realizzò
un audiovisivo di un modello in cui le piante furono ricostruite in miniatura mentre
l’azione del vento venne simulata con potenti ventilatori.
Nonostante i suoi numerosi impegni era sempre disponibile per ascoltare, per consigliare in merito ad un’idea, ad una ricerca. Era una persona che sapeva ascoltare e
che sapeva rimettere in discussione teorie e metodi, anche radicati nel nostro settore.
Ricordo i miei dubbi e i preziosi consigli ricevuti nel corso delle ricerche sulla statica delle piante sottoposte a sollecitazioni da agenti meteorici, le discussioni sull’intensità della matricinatura nei cedui, ricordo le discussioni avute con il Maestro
ed il Suo senso critico. Succedeva che ritornava sull’argomento dopo averci pensato,
per approfondire la discussione.
Ricordo il mio pathos quando dovetti parlargli dei risultati delle ricerche sulle faggete che, per frequenza e intensità dei tagli intercalari, si discostavano da quanto Egli
aveva scritto molti anni prima. Dopo avermi ascoltato attentamente e, sicuramente,
intuito il mio imbarazzo, oltre a darmi buoni consigli, mi incoraggiò a proseguire sul
cammino che, assieme ad altri Suoi allievi, avevo intrapreso.
Il lavoro sulle faggete italiane è stato dedicato al Prof. Cantiani, indiscutibile Maestro di Selvicoltura.
Grazie Maestro.
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RICORDO DI MARIO CANTIANI
Fiorenzo Mancini
La mia amicizia con Mario Cantiani, iniziata in tempi assai lontani, si fece via
via più stretta ed affettuosa anche per una collaborazione scientifica. A Mario che
preparava piani di assestamento in varie regioni italiane interessava sapere che
caratteristiche avessero i suoli su cui crescevano i boschi che assestava.
Due piccoli esempi. Scopriamo insieme che in varie faggete dell’Irpinia e del
Molise i suoli si erano originati non già dalle rocce calcareo-dolomitiche che costituiscono le ossature di quelle montagne ma di sottili coltri di prezioso materiale
piroclastico di provenienza dal vulcanesimo napoletano come capita anche, per
citare una località ben nota, nella faggeta di Monte Vergine. Queste fertilissime
deposizioni oltre ad aver modesto spessore, talvolta un metro o tre, sono molto erodibili. Il trattamento della foresta di conseguenza deve essere molto prudente e tale
da impedire perdite per erosione.
Se ciò avvenisse si avrebbe una perdita di fertilità gravissima e definitiva.
Il suolo rinascerebbe soltanto da substrato calcareo.
Il secondo esempio riguarda l’Abetone dove Cantiani preparò il piano di assestamento nel 1971/72. Facemmo parecchie escursioni e trovammo nella foce di
Capolino ad alta quota sotto l’abete rosso, il cui locale indigenato era stato scoperto
e illustrato da Alberto Chiarugi, dei suoli con vivaci processi di podzolizzazione.
Un sistema dunque con suoli e soprassuoli di uno schietto sapore alpino.
Anche il panorama è veramente montano stante anche le molto abbondanti precipitazioni che caratterizzano l’area.
Era sempre piacevole e costruttivo conversare ma ancor meglio lavorare con
Mario Cantiani, che era un acuto osservatore, naturae coriosus, ma anche interessato alle opere dell’uomo. Nella faggeta dell’Abetone, a quote decisamente più
basse di quelle dove alligna la picea, mi fece vedere dei muretti a secco che delimitavano piccoli terrazzi in cui in passato, magari in tempi di carestia o quasi, era
forse stata seminata della segale.
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FIORENZO MANCINI
Sono ricordi di incontri di un passato ormai lontano in cui ho potuto avere
numerose occasioni di mio arricchimento anche morale con un uomo di grande
dirittura, di sincera passione per il suo lavoro, capace di insegnare con successo
ai giovani forestali che seguivano i suoi corsi e che a lui sempre si affezionavano.
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RICORDO DEL MIO PROFESSORE
Marcello Mazzucchi
Ho avuto la fortuna di essere uno dei primi allievi del Prof. Mario Cantiani, con
lui ho discusso la tesi di laurea e sono stato il suo primo laureato. È passato tanto
tempo da allora eppure il ricordo non si perde ma si arricchisce e mi rendo sempre più conto che egli non è stato per me solo il professore di assestamento, è stato
e continua ad essere una guida, un maestro di vita e di pensiero.
Ricordo la sua prima lezione 40 anni fa, all’Università di Padova. Lui veniva
da Firenze col treno, di pomeriggio. Entrato in classe avvertì subito in noi studenti
il timore per una materia che ci veniva descritta come molto difficile. Vedrete, ci
disse, che si può imparare l’assestamento in tutta tranquillità, per facilitarvi
aggiunse io stesso ritorno studente, mi metto nei vostri panni.
E infatti ogni timore svanì ben presto grazie alla passione che trasmetteva, alla
sua competenza, al modo di insegnare, alla sua grande disponibilità. Era un assestamento ben ancorato alle radici scientifiche della disciplina ma che nello stesso
tempo guardava avanti, attento a cogliere e governare il dinamismo dei valori del
bosco ed a coniugare i tanti aspetti del rapporto tra il bosco e l’uomo. Basti dire
che la mia tesi di laurea verteva sui valori economici, ambientali e sociali della
foresta dell’Abetone ed eravamo nel 1969.
Ma ciò che il Prof. Cantiani ha trasmesso a me – e sono certo ai tanti suoi
allievi – va oltre gli ambiti dell’assestamento, ha segnato il mio essere forestale ed
i messaggi che mi ha consegnato in tanti modi e circostanze sono sempre attuali.
E così quella sua umiltà che era lo specchio di una grande onestà intellettuale per
me continua ad essere uno stimolo a sentirsi sempre allievi di fronte a una natura
maestra, un invito ad osservare, a saper ascoltare, proprio a mettersi nei panni dell’altro per operare con vero spirito di servizio nei riguardi del bosco, dell’ambiente
e della gente. Non è forse questa la missione del forestale?
E ancora quel suo tendere all’essenziale, alla concretezza, quel finalizzare l’assestamento all’operatività sul campo sono tutti aspetti della sua personalità che
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MARCELLO MAZZUCCHI
sono lì a rammentarci che la selvicoltura quando è vera è azione, è fare più che
disquisire, certamente fare con cognizione di causa. Non l’ho mai sentito enfatizzare la sua materia, anzi egli considerava l’assestamento al servizio della selvicoltura, lo riteneva una tessera del sapere forestale per gestire al meglio i patrimoni forestali e le tante funzioni che ad essi si riconoscono. Collaborare, fare
insieme, partire dal positivo che c’è in ogni cosa, situazione, in ogni persona, sono
valori che egli trasmetteva con la sua testimonianza di vita.
Parlava in modo semplice il Prof. Cantiani, peraltro senza alcun cedimento
all’autorevolezza e al rigore scientifico, semplice e chiaro perché capissero tutti e
questo per me oltre che segno di nobiltà d’animo è a tutt’oggi uno stimolo per la
professionalità forestale tutta ad aprirsi all’esterno, a saper parlare al grande pubblico che si avvicina al mondo del bosco e del verde ed a farlo con un linguaggio
appropriato e non con quello di casta dei pochi addetti ai lavori.
Mi resta forte il ricordo del suo tratto umano che metteva tutti a proprio agio,
non dimentico quel volto sorridente e tranquillo di un uomo buono, di un vero
signore che mi ha trasmesso insegnamenti e valori che non hanno tempo.
Grazie Professore.
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RICORDO DI MARIO CANTIANI
Riccardo Morandini
Ho conosciuto Mario Cantiani nel 1949 a Campobasso, dove era in servizio
all’Ispettorato Forestale: mi ha portato a conoscere le abetine del Molise e le cerrete di Montedimezzo. In quei pochi giorni ho potuto apprezzare le sue solide
conoscenze e la sua grande passione per il bosco.
Ci siamo ritrovati qualche anno dopo a Firenze e le frequenti occasioni di
incontro, di scambi di idee, di collaborazione, hanno presto trasformato la simpatia
in solida amicizia.
Ricordo i suoi validi consigli per l’impostazione dei miei rilievi nel Gran
Bosco di Salbertrand in Piemonte e, qualche anno dopo, la preziosa collaborazione
per l’impostazione del Piano generale per i boschi della nostra Magnifica Comunità di Fiemme.
Poi la lunga collaborazione nel quadro dell’Accademia per l’organizzazione
di visite o di letture di colleghi stranieri molti dei quali, ricorderò tra i grandi Kurth,
Pardé, Schober, ben conoscevano ed apprezzavano i lavori di Cantiani: modesto,
riservato, ma sempre aperto al dialogo, si era fatto ben conoscere anche negli
ambienti forestali internazionali.
Di Mario Cantiani ricordo le vaste conoscenze scientifiche e professionali, ma
anche e soprattutto le doti morali: ho molto apprezzato la sua chiarezza, la sua
dirittura di carattere che ha ben dimostrato, ed io l’ho appoggiato in pieno in quell’occasione, nella nota controversia con l’allora Direttore generale delle Foreste,
che gli ha portato tanta amarezza.
Ricorderò sempre con affetto e con profondo rimpianto un valoroso collega ed
un carissimo amico.
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L’EREDITÀ DEL PROFESSOR MARIO CANTIANI
NEL RICORDO E NELLE ESPERIENZE PROFESSIONALI
DI UN ALLIEVO DEVOTO
Stefano Puglisi1
RIASSUNTO - La figura, il valore ed i meriti del Professor Mario Cantiani vengono
rievocati attraverso i ricordi di un suo allievo che, a partire dalla tesi di laurea e proseguendo con le successive esperienze professionali, ha avuto modo di apprezzare
a fondo la validità dei suoi insegnamenti e le sue peculiari qualità scientifiche,
morali ed umane, sottolineando l’unicità del suo contributo al progresso delle
Scienze Forestali in Italia.
ABSTRACT - Professor Mario Cantiani’s heritage in the reminiscences and in the
professional experiences of a devoted follower. The figure, worth and merits of
Professor Mario Cantiani are recalled by a follower of his who – starting from his
own degree thesis and through his subsequent professional experiences – has
had a chance to appreciate thoroughly the validity of his precepts and his peculiar
scientific, moral and human qualities, highlighting the uniqueness of his contribution to the progress of Forest Sciences in Italy.
Sono un ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche, ma, prima ancora,
sono un forestale, laureato a Firenze nell’ormai lontano 1983. Un forestale che ha
avuto il grande privilegio di eseguire il lavoro relativo alla propria tesi di laurea
sperimentale sotto la guida del Professor Mario Cantiani, e quindi di apprezzare
a fondo, anche al di fuori delle aule delle Cascine e delle esercitazioni a Vallombrosa, le sue non comuni qualità professionali, morali ed umane.
Mario Cantiani era un grande uomo di scienza e uno straordinario docente, ed
aveva la capacità di seguire i suoi allievi e di prendersene cura come un padre
1
Ricercatore, Istituto di Genetica Vegetale – CNR, Via Amendola 165/A, 70126 Bari.
Tel.: 080.5583400-210. E-mail: [email protected].
53
STEFANO PUGLISI
farebbe con i propri figli; in una parola, era un vero Maestro, di una specie che
tende oggi a divenire sempre più rara.
Di quel grande personaggio colpivano subito, oltre alla profonda umanità, l’insaziabile curiosità scientifica e la fervida creatività, qualità che facevano di lui un
grande innovatore. Anche la sua apparenza esteriore, un po’ all’antica, contribuiva
a caratterizzarlo come personaggio, nella sua unicità.
Seguendo le indicazioni e i suggerimenti di un così illustre Relatore, preparai una tesi di assestamento e selvicoltura sulla rinnovazione naturale in una faggeta lucana che, pur presentando una struttura coetanea e perfettamente monoplana, era stata sottoposta, seguendo le prescrizioni del piano di assestamento in
vigore a quell’epoca, ad un taglio a raso su piccole superfici (2-3 per ettaro, di
dimensioni non superiori a 300-400 m2 ciascuna), al fine di provocarne la disetaneizzazione a gruppi mediante l’insediamento della rinnovazione sul terreno
rimasto scoperto.
Contrariamente alle aspettative dell’autore del piano, i risultati furono disastrosi: quella che si insediò nelle buche create dai tagli non fu rinnovazione, ma
una rigogliosa vegetazione nitrofila che impedì l’insediamento dei semenzali di
faggio e bloccò lo sviluppo dei pochi già presenti.
Inoltre, i soprassuoli interessati dal trattamento avevano un’età di 120-150 anni,
ed erano stati precedentemente sottoposti solo a diradamenti bassi di intensità
moderata, ma non a tagli di rinnovazione; i diradamenti si erano rivelati insufficienti a garantire alle piante uno sviluppo adeguato, dato che la densità risultava
eccessiva e i valori di diametro medio relativamente bassi in rapporto all’età dei
popolamenti. Di conseguenza, in una delle zone in cui era stato eseguito il taglio
a buche, un nubifragio verificatosi nell’autunno del 1981 provocò danni ingenti
(documentati fotograficamente) poiché molte piante ai margini delle buche furono
sradicate, stroncate, piegate dal vento o dal peso di altre piante che vi erano
cadute sopra. In quel soprassuolo gli alberi si presentavano sottili e con chiome
poco sviluppate, e pertanto poco adatti a resistere alla brusca esposizione agli
agenti atmosferici provocata dal taglio a buche.
Quell’indagine contribuì in modo significativo a dimostrare quanto possano
essere rischiose ed azzardate operazioni di quel genere, e, più in generale, i tentativi di trasformazione di strutture ben definite e, nonostante la loro uniformità,
caratterizzate da una stabilità che solo quel genere di intervento – paradossalmente
finalizzato alla creazione di una struttura disetaneiforme apparentemente più stabile ed equilibrata – ha potuto compromettere.
54
L’EREDITÀ DEL PROFESSOR MARIO CANTIANI
Quella tesi di laurea, pubblicata l’anno successivo sull’Italia Forestale e Montana (PUGLISI, 1984), mi ha dato molte soddisfazioni, come quella di trovare il
lavoro citato ben due volte nel capitolo sul faggio del testo di selvicoltura speciale
di BERNETTI (1995), e quella, che risale a pochi mesi fa, di constatare – nel corso
di una piacevole conversazione tenutasi a Bari, dove ci siamo incontrati in occasione di un convegno – che il Professor Piussi, a 25 anni di distanza, si ricordava
ancora di quel lavoro.
Ebbene, il merito principale del contributo che quell’indagine ha fornito alle
conoscenze sull’assestamento ed il trattamento selvicolturale delle faggete appenniniche è, naturalmente, del Maestro che l’ha impostata e seguita.
Ho anche avuto l’opportunità di godere, a pochi giorni dalla laurea (conseguita
il 20 aprile 1983), di un altro grande privilegio: quello di poter lavorare – sotto la
guida di Mario Cantiani e Massimo Bianchi – in Irpinia, dove si erano da poco
conclusi i lavori relativi al piano di assestamento del Comune di Montella (durante
i quali, l’anno precedente, aveva perso la vita un grande allievo del Professor Cantiani, l’indimenticabile Vito Bianucci, caro amico e forestale appassionatissimo)
e stavano per iniziare i rilievi per il piano di Bagnoli Irpino, paese che aveva dato
i natali ad un altro Maestro: Generoso Patrone (AA.VV., 1988).
Il periodo trascorso in Irpinia rappresentò per me un’esperienza fondamentale
sul piano professionale ed umano, durante la quale ebbi modo più volte di apprezzare quale tesoro di conoscenze ed esperienze il Professor Cantiani riuscisse a trasmettere ai suoi allievi quando si trovava immerso nel suo elemento naturale: il
bosco. Un’ora in bosco con il Professor Cantiani valeva più di tante ore trascorse
in aula o sui libri.
Le circostanze della vita (in primis il servizio militare) mi hanno purtroppo
costretto a lasciare quei luoghi meravigliosi e amatissimi prima della conclusione dei lavori, e, in seguito, a prendere un’altra strada. Ma il Professor Giovanni
Bernetti, incontrato ad un convegno diversi anni fa, mi aveva predetto che sarei
ritornato ai miei vecchi amori, l’assestamento e la selvicoltura; e così è stato.
Gli intrecci del destino hanno fatto in modo che ciò avvenisse, negli ultimi
anni, proprio negli stessi luoghi e in occasione della revisione degli stessi piani di
assestamento, di Bagnoli Irpino e Montella, redatti vent’anni prima e firmati,
rispettivamente, da BERTANI et al. (1984) e da BIANCHI (1985). Infatti, essendo stata
tale revisione assegnata alla locale Comunità Montana, questa ha richiesto la mia
consulenza.
55
STEFANO PUGLISI
Tornare a lavorare come assestatore e selvicoltore, sulle stesse montagne in cui
– insieme ad altri giovani colleghi – ricevetti una grande ed insostituibile formazione professionale, è stata per me un’esperienza bellissima ed esaltante, che mi
ha dato oltretutto modo di apprezzare la validità ed il solido impianto dei piani da
rinnovare: merito dei rispettivi autori, ovviamente, ma anche della scuola di cui
erano espressione, la grande scuola forestale fiorentina di Generoso Patrone e
Mario Cantiani, che ha lasciato una traccia profonda in quello stesso territorio che
ha rappresentato per essa una palestra, un laboratorio. E quella traccia è stata così
profonda che la Legge Regionale Forestale tuttora vigente in Campania, la n.
11/96, è stata edificata proprio su quelle fondamenta, sugli insegnamenti e sulle
direttive tecniche che quella scuola ha sperimentato, sviluppato e diffusamente
applicato soprattutto in Irpinia, ma anche in vasti territori di altre province campane. Ed avendo recepito tutto questo, non può che essere una buona legge,
ottimo esempio di quanto estese ed incisive possano essere le ricadute sul territorio
di una lunga ed accurata attività di ricerca e di sperimentazione, alimentata da
solide conoscenze teoriche, valida esperienza professionale e, soprattutto, tanto
amore ed entusiasmo per la professione forestale.
Per ciò che ha dato a me personalmente e al mondo forestale italiano, per il suo
insostituibile contributo al progresso delle Scienze Forestali nel nostro Paese, ho
continuato negli anni, e continuerò in futuro, a coltivare profondi sentimenti di gratitudine, ammirazione e affetto per questo straordinario personaggio, per questo
grande Maestro che è stato il Professor Mario Cantiani.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV., 1988. Presentazione dei risultati degli studi di pianificazione coordinata realizzati nel territorio della Comunità Montana Terminio-Cervialto (AV). L’Italia Forestale e Montana 43: 201-267.
BERNETTI G., 1995. Selvicoltura speciale. UTET, Torino.
BERTANI R., MORGANTE L., ORADINI A., 1984. Piano di assestamento dei boschi del
Comune di Bagnoli Irpino per il decennio 1984-1993. Comunità Montana TerminioCervialto – Istituto di Assestamento Forestale dell’Università di Firenze.
BIANCHI M., 1985. Piano di assestamento dei boschi comunali di Montella per il decennio 1985-1994. Comunità Montana Terminio-Cervialto – Istituto di Assestamento
Forestale dell’Università di Firenze.
PUGLISI S.R., 1984. Osservazioni preliminari sulla rinnovazione naturale delle fustaie di
faggio del Comune di Viggiano (Potenza). L’Italia Forestale e Montana 39: 13-27.
56
RICORDO DI MARIO CANTIANI
Paolo Talamucci
Aggiungere qualcosa di originale parlando per ultimi è arduo, ma forse mi resta
un piccolo spazio per toccare due aspetti, del resto ben noti a chi lo conosceva,
della personalità del Professor Cantiani: e cioè la sua larghezza di vedute, particolarmente apprezzata proprio da chi, come me, non era di stretta specializzazione
forestale; e la sua concretezza, che gli derivava dalla lunga esperienza operativa nel
territorio. Aspetti, questi, che sono stati alla base della nostra bella collaborazione
e della nostra lunga amicizia.
Mario Cantiani era di larghe vedute perché sapeva guardare molto bene dentro la foresta, nell’insieme dei suoi valori, ma conosceva a fondo anche le cose che
si trovano al di fuori di essa, nelle chiarie, nei pascoli e nei coltivi, in una visione
globale, che inquadrava alla perfezione i problemi tecnici ed economici e lo portava a infondere fiducia e entusiasmo ai suoi tanti giovani collaboratori che lo
hanno seguito per lunghi anni perché da Lui ottenevano credito e incoraggiamento.
E a me, Mario Cantiani ha insegnato davvero molto. In primo luogo a capire
i boschi; poi a scoprire il parallelismo e la complementarietà che c’è fra questi e
i pascoli, e ancora a verificare che l’approccio di studio dei boschi e dei pascoli è
sostanzialmente il medesimo se inquadrato in sistemi silvo-pastorali stabili e
equilibrati; e infine a comprendere meglio anche la mia specifica materia, il
pastoralismo di cui il Professor Cantiani era un acuto osservatore. E il pascolo è
in effetti una risorsa rinnovabile polifunzionale che va oltre l’aspetto produttivo
come il bosco; che deve il suo equilibrio, e la sua perennità alla oculata utilizzazione come la foresta; che deve essere gestito nel tempo e nello spazio come si fa
con i piani di assestamento forestale.
Questa identità di approccio si è andata consolidando nel tempo, proprio con
l’esperienza maturata con Lui e alcuni Colleghi Forestali qui presenti fra i quali
la carissima figlia Giulia, che vedo sempre con piacere, in molte campagne di
ricerca degli anni Settanta e Ottanta, in Abruzzo e Molise prima e successivamente
57
PAOLO TALAMUCCI
in Irpinia. E sono state esperienze davvero molto utili, perché mi hanno consentito di continuare il lavoro in molte aree appenniniche e anche di mettere a punto
metodologie di studio innovative.
Uso questo termine impegnativo perché Mario Cantiani, al di là della Sua
innata modestia, proprio per la sua concretezza, un innovatore lo è stato davvero
e non esito a riconoscere che ha intuito fra i primi i grandi cambiamenti che
avrebbero interessato i boschi, i pascoli e i loro rapporti. Cambiamenti che
abbiamo iniziato a vivere proprio insieme.
Così, dai pascoli come risorsa primaria indispensabile per mantenere gli animali, si è passati agli animali, domestici e selvatici che siano, come risorsa per
mantenere i pascoli; dai sovraccarichi animali distruttori del territorio si è passati
alle utilizzazioni pascolive minimali conservatrici del paesaggio; dal pascolo nel
bosco si è passati al bosco nel pascolo; dall’animale nemico della foresta, si è passati all’animale amico, strumento di gestione del territorio e talvolta, addirittura
strumento selvicolturale nella lotta contro l’incendio e nella gestione dei parchi.
È per tutto questo che considero Mario Cantiani un mio Maestro, come ho
voluto ricordare anche il giorno che ho lasciato l’università nel febbraio del 2001.
E ancor oggi, rileggo con piacere i Suoi scritti, ricordo con emozione molte delle
Sue parole, e sopratutto conservo gelosamente nel mio cuore il Suo esempio.
E proprio qui, nella solenne occasione del ricordo, davanti ai Suoi Colleghi e alla
Sua Famiglia, desidero rivolgere a Mario Cantiani il mio più grande ringraziamento.
58
CONTRIBUTI SCIENTIFICI
IN RICORDO DI MARIO CANTIANI
LA PIANIFICAZIONE FORESTALE: DAGLI INDIRIZZI
ALLE SCELTE DI DETTAGLIO - IL CASO DEL TERRITORIO
DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE1
Massimo Bianchi2, Paolo Cantiani3, Isabella De Meo2, Fabrizio Ferretti4,
Mauro Frattegiani5, Giorgio Iorio5
RIASSUNTO - Il presente contributo illustra gli obiettivi e la struttura metodologica
del Piano Forestale Territoriale di Indirizzo (PFT) scaturiti dal Progetto Finalizzato Ri.Selv.Italia (Sottoprogetto 4.2 sulla pianificazione forestale). Il PFT è uno
strumento di pianificazione intermedio tra il livello regionale e il livello aziendale
strutturato in modo da poter rispondere alle attuali esigenze della gestione forestale
grazie ad una visione integrata del territorio silvo-pastorale. Obiettivi del PFT sono
la conoscenza delle foreste e dell’economia del territorio, l’individuazione dei conflitti e delle opportunità che il bosco può fornire alla popolazione locale e la formulazione di indirizzi gestionali partecipati. A differenza dell’assestamento, che
ha obiettivi e contenuti tecnici prefissati, la pianificazione forestale territoriale non
è necessariamente prescrittiva, ma intende offrire una gamma di indirizzi selvicolturali e di scenari gestionali alternativi.
Si riporta un esempio applicativo riferito al metodo adottato per la realizzazione
del Piano Forestale Territoriale di Indirizzo e a numerosi piani di assestamento
comunali ad esso correlati, nel comprensorio della Comunità Montana Alto Molise
(Isernia).
ABSTRACT - Forest land planning: an experimental study in the Comunità Montana
Alto Molise. This paper describes goals and methodologies of the Land Plan for
Forest and Natural Environment Management Guidance (PFT) out coming from the
1 Lavoro svolto dagli autori in parti uguali, coordinato da Fabrizio Ferretti, finanziato dalla
Regione Molise.
2 CRA-MPF, Trento.
3 CRA-SEL, Arezzo.
4 CRA-SEL, Firenze.
5 Libero professionista.
61
M. BIANCHI, P. CANTIANI, I. DE MEO, F. FERRETTI, M. FRATTEGIANI, G. IORIO
Ri.Selv.Italia national project (within the subproject 4.2: “Forest Land Planning”).
The PFT geographic range of application is at an intermediate level between single forest-management-unit-level plan and regional forest plans, therefore is a
plan dealing with forest and pastures resources management. PFT’s main purposes are forest resource and forest economy analysis and assessment of the benefits that can be provided the local population through a rational forest management,
taking into account also the social structure and potential local conflicts. PFT’s final
task is then to weigh up all these issues in order to give specific participated forest
management guidelines at a territorial scale. Unlike the forest-management-unitlevel plan, whose specific duties are predetermined and fixed, the PFT is not necessarily a mandatory plan, but on the opposite, aims at giving several specific
sylviculture guidelines and alternative management scenarios.
The paper describes an experimental study carried out in Molise region, in the
Comunità Montana Alto Molise. The study concern with a Land Plan for Forest
and Natural Environment Management Guidance (PFT) and with various forest
management plans wich are deeply linked to the land plan.
Il Molise fu una tappa importante per Mario Cantiani, di vita e di attività professionale. Nelle sue lezioni quell’esperienza riaffiorava spesso. All’epoca non ci
furono possibilità di lavorare con lui in Molise, occasione che invece si presentò
successivamente. È un impegno che il nostro gruppo di lavoro ha affrontato con
scrupolo particolare, consapevole di portare l’insegnamento ricevuto dal Maestro
proprio nei boschi dove lui operò.
INTRODUZIONE
Il piano forestale territoriale
In Appennino la pianificazione forestale è attuata finora quasi esclusivamente a
livello di assestamento forestale. Il piano di assestamento (o di gestione) è lo strumento tecnico che consente di programmare la conduzione del bosco a scala aziendale (CANTIANI, 1984), allo scopo di organizzare nello spazio e nel tempo gli interventi selvicolturali in funzione di uno specifico indirizzo colturale definito dal proprietario (BIANCHI et al., 2004, CIANCIO e NOCENTINI, 2004). Il piano di assestamento
identifica analiticamente le possibilità o esigenze di intervento nei singoli appezzamenti boscati di un’azienda (BERNETTI, 2005), e cerca di programmare attività di
gestione che consentano al bosco di esplicare la multifunzionalità a esso riconosciuta.
62
IL CASO DEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE
Quando la gestione forestale si confronta prioritariamente con la multifunzionalità e la sostenibilità del rapporto tra l’uomo ed il bosco, la scala che appare più idonea a impostare le analisi e a definire gli indirizzi di intervento appare essere piuttosto quella sovraziendale (SOTTOVIA, 2001; BIANCHI et al., 2003; CANTIANI, 2006).
A questa scala le valutazioni di piano si allargano all’insieme degli ecosistemi forestali e pastorali di un intero territorio, indipendentemente dai confini di proprietà, considerando tutte le componenti di uso del suolo e l’assetto sociale ed economico. I piani
forestali territoriali stanno progressivamente diffondendosi nelle varie regioni italiane
come strumenti atti a definire ed indirizzare la gestione delle risorse a livello sovraziendale, con metodi e procedure che, in relazione alle diverse situazioni, sono ormai
consolidate o in via definizione (BAGNARESI, 1986; TERZUOLO, 2001; GOTTERO et al.).
Oggetto del presente contributo è l’analisi del metodo adottato e dei risultati conseguiti da un gruppo di lavoro multidisciplinare, nell’ambito di un progetto Pilota per
la realizzazione del Piano Forestale Territoriale di Indirizzo della Comunità Montana
Alto Molise e per la redazione di Piani di Gestione Forestale di foreste pubbliche.
Struttura del piano
Per Piano Forestale Territoriale di Indirizzo (PFT) si intende uno strumento di
pianificazione di un territorio più ampio di quello aziendale, omogeneo da un punto
di vista geografico e amministrativo. Si tratta di una scala intermedia tra la pianificazione forestale particolareggiata e quella regionale, scala che sembra la più idonea a considerare la sostenibilità del rapporto tra l’uomo ed il bosco e a garantire la
tutela degli interessi della collettività nei confronti del bosco stesso.
Per BERNETTI (1989) la pianificazione territoriale consiste nella “raccolta di
notizie e conseguente formulazione di decisioni relative all’uso di tutte le risorse e
alla conservazione delle caratteristiche dell’ambiente”.
La pianificazione a scala sovraziendale non può derivare da un processo che si
origina dal basso, come aggregazione e analisi di informazioni derivate dai piani
forestali particolareggiati, a causa dell’incompletezza della copertura territoriale di
questo livello di pianificazione in Italia. D’altronde la natura stessa delle informazioni richieste dalla pianificazione forestale territoriale può divergere da quella dei
piani di gestione. È invece valido il contrario: una dote di informazioni proprie della
dimensione territoriale (raccolte per esempio a scala di comunità montana o di
bacino) può essere di valido supporto informativo per le esigenze della pianificazione
di dettaglio. Ovviamente, affinché il processo pianificatorio sia razionale, l’impalcatura della pianificazione dei territori extra agricoli deve godere di un supporto normativo adeguato e corretto.
63
M. BIANCHI, P. CANTIANI, I. DE MEO, F. FERRETTI, M. FRATTEGIANI, G. IORIO
Oggetto della pianificazione sono gli elementi del territorio propri dell’ambito
forestale, ovvero i “boschi”, i “pascoli” e gli “incolti”. L’analisi del territorio
non può però prescindere dalle connessioni del bosco e dei pascoli con le altre
componenti paesaggistiche (superfici ad uso agricolo e urbano), in una visione unitaria e complessiva del comprensorio esaminato. In questo senso la pianificazione
forestale territoriale è integrata e corente con gli altri strumenti di pianificazione
del territorio, sia quelli propri del contesto silvopastorale (piani di assestamento
forestale, piani di aree protette, piani di pascolo, etc.), sia quelli propri di altri settori (piani urbanistici, di assetto territoriale, faunistici, antincendio boschivo ecc.).
L’analisi territoriale è intimamente correlata con studi della componente
umana che insiste sul territorio stesso. Saranno quindi parte integrante del piano
l’analisi delle componenti sociali degli abitanti del comprensorio e specifiche analisi economiche e paesaggistiche (con accezione ampia del termine). L’attenzione alle componenti antropiche che insistono sul territorio si esprime al suo massimo nella “partecipazione” della popolazione alla definizione delle aspettative e
alle ricadute del piano.
Obiettivi
Il Piano Forestale Territoriale di Indirizzo vuole essere uno strumento utile alla
gestione di un territorio forestale e pastorale amministrativamente omogeneo,
anche quando composito per proprietà e vincoli, fornendo specifici indirizzi di
intervento per le formazioni forestali e pastorali presenti. I risultati del Piano
saranno quindi indicazioni puntuali utili alla gestione attiva del patrimonio silvo
pastorale, prive di carattere prescrittivo in senso stretto, ma in grado di rappresentare scenari gestionali ottimali per il soddisfacimento della multifunzionalità
del territorio. In questa prospettiva è fondamentale che il processo di piano veda
la presenza attiva della popolazione locale e dei gruppi di interesse specifico presenti sul territorio. Il PFT non va dunque percepito come semplice surrogato
della pianificazione forestale di dettaglio laddove essa manchi. Gli indirizzi gestionali possono essere topograficamente definiti oppure correlati ad oggetti non spazialmente definiti. Essi sono comunque sempre riferiti alle categorie di bosco o di
pascolo presenti sul territorio, e possono quindi rappresentare una sorta di prescrizioni gestionali di massima contestualizzate.
Gli obiettivi specifici di un PFT variano in funzione del livello di approfondimento definito in fase preliminare di impostazione. Il PFT è concepito come strumento che prevede input ed output variabili proprio in funzione di tale grado di
approfondimento. La scelta dipende dalla valutazione dei problemi da affrontare,
64
IL CASO DEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE
dal budget disponibile e anche da considerazioni politico-istituzionali di opportunità. Il PFT è quindi uno strumento flessibile e modulare, progettato per garantire un livello minimo e standardizzato di informazione e di programmazione di
intervento e livelli successivi di maggiore dettaglio a seconda delle esigenze specifiche di piano.
Vantaggi e limiti
I benefici di uno strumento di pianificazione di questo tipo sono molteplici, ma
occorre anche tenere conto di alcuni limiti. Pianificare su area vasta significa elaborare una visione unitaria delle risorse naturali e delle esigenze espresse dalle
popolazioni che vivono nel territorio analizzato. Significa avere la percezione dei
divergenti interessi sociali, delle emergenze naturalistiche, delle opportunità economiche ed ambientali di tutti i settori del territorio legati al bosco e alle attività
silvo pastorali. Avere quindi un quadro unitario dei beni e dei problemi come
livello indispensabile per fornire indirizzi il più possibile puntuali ed efficaci per
la gestione di tutto il patrimonio.
I limiti più vincolanti consistono nei costi che un tale processo di pianificazione
richiede e nell’efficacia applicativa di tale strumento, qualora esso non sia codificato espressamente da normative specifiche di elaborazione a livello regionale.
Appare indispensabile quindi che le Regioni collochino opportunamente il PFT
nella propria rete di programmazione territoriale, disegnando con nitidezza i
legami e le gerarchie rispetto ai vari strumenti di pianificazione già esistenti.
Un altro limite apparente risiede nella limitata efficacia prescrittiva. Il PFT
infatti, a differenza del classico piano di assestamento forestale, non ha la finalità
di prescrivere “dove” e “quando” effettuare determinati interventi selvicolturali o
strutturali; intende piuttosto definire scenari alternativi per la gestione globale del
territorio in tutte le sue componenti, tenendo conto anche dei diritti di proprietà e
dei vincoli d’uso esistenti. Il piano ha quindi il compito di definire “come” gli
interventi dovranno essere effettuati, in termini di modalità tecniche di esecuzione
e in termini di entità ammessa. L’onere di definire prescrittivamente in dettaglio
il luogo e la scadenza degli interventi viene demandato ai tradizionali strumenti di
piano specificamente previsti (piani di gestione forestale, piani faunistici, piani
antincendio boschivo, etc.).
L’importanza del PFT risiede quindi nel suo valore conoscitivo di fattori naturali ed economici e sociali (oggi carente nella pianificazione territoriale di aree non
urbanizzate) e nel suo livello programmatorio di “indirizzo” in rapporto alle funzioni e alle potenzialità di un territorio.
65
M. BIANCHI, P. CANTIANI, I. DE MEO, F. FERRETTI, M. FRATTEGIANI, G. IORIO
La soluzione di “ProgettoBosco”
I costi di un PFT sono evidentemente assai variabili in funzione del livello di
approfondimento richiesto. Il metodo ProgettoBosco proposto dal nostro gruppo
di lavoro, in virtù della sua modularità e ampia flessibilità, consente la ricerca della
migliore combinazione possibile fra costi da sostenere e dettaglio delle informazioni prodotte. I migliori risultati si ottengono quando il PFT è parte di un Sistema
Informativo unitariamente progettato a scala regionale, poiché in questo caso gli
ouput di piano sono coerenti con quelli di tutte le altre forme di programmazione
e di rilievo dati già codificate (per esempio compatibilità con le tipologie forestali
nazionali e regionali, con le procedure regionali di assestamento forestale, con gli
inventari forestali regionali e nazionali). Così agendo, anche i costi del PFT si
abbattono notevolmente, poiché parte dei dati necessari all’elaborazione del piano
può essere ricavata da fonti informative preesistenti.
La base dati di conoscenza degli elementi territoriali rilevati appositamente per
il PFT e le trasparenti metodologie di rilievo (input) costituiscono inoltre una banca
dati opportunamente a disposizione per altre esigenze di pianificazione. A titolo
di esempio si pensi alla base cartografica necessaria per il PFT (carte delle categorie forestali e delle aree colturalmente omogenee, della viabilità forestale, degli
elementi paesaggistici, etc.), alle analisi sul clima, alle analisi socio-economiche,
etc. Tutti questi elementi di analisi, indispensabili per il processo di PFT, sono rilevati a una scala informativa che le rende di impiego immediato a livello comprensoriale e, se codificati nell’ottica di un SIT regionale, possono costituire una
base dati utile per rendere più snella (e dunque meno costosa) la pianificazione di
maggiore dettaglio, prima fra tutte quella dell’assestamento forestale.
MATERIALI E METODI
Il metodo adottato
L’attività di ricerca è stata articolata su due livelli: i) sovraziendale, in ambito
di Comunità Montana, con il “Progetto Pilota di Piano Forestale Territoriale di
Indirizzo”; ii) aziendale o di gestione che ha interessato diverse foreste di proprietà
pubblica ricadenti nell’area e di particolare valenza ambientale. Il metodo adottato
è stato ProgettoBosco (Gestione e Territorio), definito nell’ambito delle attività realizzate nel sottoprogetto 4.2 “Sistema informativo geografico per la gestione forestale” del Progetto Finalizzato Ri.Selv.Italia. ProgettoBosco è un protocollo coordinato ed integrato di sistemi informativi a supporto della pianificazione forestale
66
IL CASO DEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE
ai diversi livelli e per le diverse fonti informative relative alla foresta (BIANCHI et
al., 2006). I due metodi, coerenti ed integrati, sono ProgettoBosco Gestione per la
raccolta ed elaborazione di dati per produrre piani di gestione, ProgettoBosco Territorio per i piani forestali territoriali.
I piani di gestione della Comunità Montana sono stati prodotti utilizzando ProgettoBosco Gestione, sistema informativo ormai consolidato ed impiegato diffusamente sul territorio nazionale.
Il Piano Forestale Territoriale di Indirizzo Alto Molise (PFT) rientra tra i 7
piani sperimentali realizzati al fine di testare il metodo messo a punto, con una
logica finalizzata a rispondere ad una serie di obiettivi prioritari (FERRETTI, 2008):
– affrontare in una visione di insieme il complesso dei problemi e delle esigenze
che riguardano la gestione delle risorse forestali, considerando tutto il territorio
non-urbano e non-agricolo nel quale i problemi selvicolturali si manifestano;
– fornire indirizzi gestionali a medio-lungo termine per valorizzare gli specifici
obiettivi richiesti dalle componenti del territorio;
– fissare un quadro coordinato di indirizzi di azione selvicolturale da trasformare
in un sistema semplificato di regole e controllo dove l’assestamento non serve
o non può essere fatto;
– evidenziare le aree dove realizzare una pianificazione di dettaglio e fornire
elementi per predisporre piani di gestione.
Oltre alla realizzazione del PFT e alla pianificazione puntuale, nell’area della
Comunità Montana è stata avviata un’attività di sperimentazione (Figura 1), al fine
di monitorare nel tempo l’efficacia degli indirizzi selvicolturali definiti con il PFT.
Figura 1 - Struttura del sistema di pianificazione adottato.
67
M. BIANCHI, P. CANTIANI, I. DE MEO, F. FERRETTI, M. FRATTEGIANI, G. IORIO
È stata quindi realizzata un’attività di pianificazione integrata su più livelli, tra
loro correlati e coerenti, a cui si affianca un monitoraggio degli indirizzi selvicolturali definiti, il tutto supportato da un sistema informativo duttile, in grado di
operare a livelli territoriali differenziati.
L’area di studio – la Comunità Montana Alto Molise
Il comprensorio della Comunità Montana Alto Molise è costituito da 12
comuni ed ha una superficie territoriale di quasi 41.000 ettari, pari al 9,5% della
superficie regionale. La copertura del suolo da parte dei boschi e delle “altre
superfici forestali”6 (Figura 2) si avvicina ai 24.000 ettari occupando il 58,5% del
territorio, superficie ben al di sopra della media nazionale (34,7%) e regionale.
Emerge l’elevata consistenza delle “altre superfici forestali” – arbusteti e formazioni di latifoglie di invasione – che ammontano a quasi 5.000 ettari, con una concentrazione particolare nei comuni di Agnone e S. Pietro Avellana.
Figura 2 - Distribuzione della superficie forestale in Alto Molise.
6
Secondo la definizione FAO Forest Resources Assessment 2000 (UN-ECE/FAO Paper
GE.97-2223I, 1997).
68
IL CASO DEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE
I tipi forestali che caratterizzano il comprensorio sono ascrivibili alla fascia
basale - orizzonte submontano e alla fascia montana - orizzonte montano inferiore.
La prima è rappresentata prevalentemente dal querceto misto mesofilo a dominanza di cerro (Quercus cerris L.) e secondariamente dal querceto submontano
mesoxerofilo (sempre a prevalenza di cerro). La seconda fascia è costituita dal
bosco di faggio (Fagus sylvatica L.) montano e submontano. Sono inoltre presenti
le abetine naturali, gli arbusteti e le formazioni di latifoglie miste d’invasione, le
formazioni riparali a pioppo (Populus nigra L.) e salici (Salix sp.), i querceti di
roverella (Quercus pubescens Willd.), i rimboschimenti prevalentemente a Pinus
nigra Arn. e gli ostrieti. Dal punto di vista della diffusione, la cerreta è la formazione più importante, occupando il 47% della superficie; seguono le faggete con
il 13%, poi le formazioni arbustive e le latifoglie di invasione rispettivamente con
l’11% e il 9% (IORIO, 2008). L’orografia del territorio della Comunità Montana
distribuisce i 12 Comuni che ne fanno parte tra due aree ben distinte tra loro, separate dal cuore montuoso della Comunità.
Nella parte orientale è evidente la vocazione agro-zootecnica e una rete insediativa più diffusa. In quella occidentale, invece, le condizioni orografiche determinano una rarefazione sia della rete insediativa che degli usi del territorio. I dati
demografici molto negativi registrano una scarsa antropizzazione, invecchiamento della popolazione e continuità del fenomeno dell’emigrazione. Il territorio
dell’Alto Molise presenta indubbie potenzialità positive, che sostanzialmente si
identificano con la presenza di risorse naturali e storico-culturali di notevole pregio, che proprio per lo scarso sviluppo produttivo e la debole pressione antropica
sono conservati a buoni livelli qualitativi (AUTORI VARI, 2005).
Di seguito saranno analizzati i criteri ed i metodi con cui sono stati definiti gli
indirizzi gestionali del Piano Territoriale e l’attività di sperimentazione avviata al
fine di monitorare e validare nel tempo l’efficacia degli indirizzi selvicolturali proposti. Sarà esaminata altresì la pianificazione puntuale avviata anche in relazione
alle indicazioni emerse dal Piano.
RISULTATI
Negli ultimi 20 anni nell’ambito della Regione Molise ed in particolare della
Comunità Montana sono stati redatti diversi strumenti di analisi e di pianificazione
del territorio che durante la redazione del PFT sono stati esaminati per una verifica di eventuali conflitti e sinergie con gli obiettivi e gli indirizzi che vengono pro-
69
M. BIANCHI, P. CANTIANI, I. DE MEO, F. FERRETTI, M. FRATTEGIANI, G. IORIO
posti nel PFT stesso. Tale verifica è parsa indispensabile considerando che il
Piano è lo strumento mediante il quale la Regione e le Autorità di Bacino possono
trovare gli approcci e le soluzioni tecniche più adatte per il raggiungimento degli
obiettivi prefissati dai loro propri Piani, ottenendo che le superfici forestali e preforestali svolgano le funzioni necessarie per l’assetto idrogeologico, paesaggistico
e naturalistico del comprensorio.
Indirizzi gestionali
Gli indirizzi gestionali sono definiti per categoria forestale, tenendo in considerazione l’importanza territoriale, colturale o naturalistica delle formazioni esaminate.
Per ogni categoria forestale è descritta l’attuale distribuzione nell’ambito del
territorio della Comunità Montana, analizzando nel dettaglio le forme di gestione
in atto: funzioni prevalenti che le formazioni svolgono, forme di governo e trattamento adottate, destinazione principale della produzione legnosa.
Particolare attenzione è data alla valutazione della gestione passata ed attuale
e agli effetti indotti sui soprassuoli, identificando gli elementi di forza e le criticità derivanti dalla gestione stessa. Sulle singole criticità evidenziate sono definiti
indirizzi gestionali generali e puntuali, indicando gli interventi selvicolturali idonei a perseguire gli obiettivi definiti.
Al fine di fornire indicazioni relative alla pianificazione puntuale, per le
diverse formazioni è specificato se esse saranno o meno interessate dai piani di
assestamento forestale in corso o in programma; nel caso in cui il Piano è previsto sono fornite sintetiche indicazioni di tipo assestamentale.
Attività di sperimentazione
Nell’ambito della definizione degli indirizzi gestionali, il PFT indica una
serie di indirizzi selvicolturali da adottare nelle diverse formazioni forestali presenti nel comprensorio. Gli indirizzi sono definiti riferendosi alle diverse sottocategorie forestali presenti ed indicando i trattamenti più opportuni, in relazione
a tutte le considerazioni emerse nel corso dell’elaborazione del Piano.
Per le scelte selvicolturali indicate, sono stati costituiti protocolli permanenti
nei quali i diversi trattamenti proposti sono eseguiti sperimentalmente. Tale attività di sperimentazione riguarda le formazioni più importanti in termini di superficie della sottocategoria forestale e di criticità del trattamento previsto, per le quali
sarà possibile “dimostrare” tecnicamente i trattamenti e monitorare nel tempo l’effettiva efficacia degli stessi. L’importanza delle parcelle sperimentali-dimostrative
70
IL CASO DEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE
sta quindi nella testimonianza nel tempo del trattamento proposto e nella possibilità
di adattare le scelte selvicolturali a successive revisioni del PFT (CANTIANI et al.,
2008).
Sono state realizzate 22 aree sperimentali-dimostrative sulle principali formazioni forestali del comprensorio della Comunità Montana. Delle aree finora realizzate 17 interessano le cerrete che, oltre ad occupare quasi la metà della superficie forestale, meritano particolare attenzione nella definizione dei trattamenti selvicolturali sulle diverse forme di governo presenti. Le 5 aree nelle abetine sono
distribuite essenzialmente tra le formazioni pure con faggio e quelle miste con
latifoglie.
I piani di gestione
La pianificazione di dettaglio è strettamente correlata e integrata con il PFT,
che ha il compito di individuare dove è necessario dotarsi del piano di gestione.
In Comunità Montana sono stati individuati 12 siti, che per le loro specificità
gestionali è stato ritenuto necessario sottomettere a pianificazione di dettaglio. In
totale sono in corso di pianificazione tra territori comunali e demaniali circa
10.400 ettari di bosco.
Il piano di gestione, recepita la parte generale descrittiva del PFT e gli indirizzi
gestionali, diventa uno strumento tecnico snello, poco costoso, col quale sono prescritte puntualmente le specifiche colturali, adattandole al territorio nel tempo e
nello spazio. Il metodo di raccolta e restituzione dei dati è coerente tra i due
livelli di pianificazione.
DISCUSSIONE
Per programmare ed organizzare la gestione delle risorse forestali su scale territoriali diverse ma tra loro integrate e coerenti, è utile la confrontabilità dei dati
nel tempo e nello spazio e la snellezza nel passaggio delle informazioni dalla scala
aziendale a quella sovraziendale (BIANCHI et al., 2006; FERRETTI et al., 2004).
L’attività sperimentale svolta ha contribuito a mettere a punto strumenti adatti
ad una pianificazione diffusa su più livelli, che richiede di poter sfruttare il potenziale informativo caratteristico di ogni piano al di là del singolo processo.
È stato testato il sistema informativo ProgettoBosco verificandone la sua duttilità quale strumento di pianificazione in grado di operare a livelli territoriali differenziati e di adattarsi anche a problematiche ed esigenze di carattere locale.
71
M. BIANCHI, P. CANTIANI, I. DE MEO, F. FERRETTI, M. FRATTEGIANI, G. IORIO
BIBLIOGRAFIA
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72
IL CASO DEL TERRITORIO DELLA COMUNITÀ MONTANA ALTO MOLISE
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73
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO
DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
SPERIMENTAZIONE DI METODI DI TRATTAMENTO COMPARATI
Francesco Cantiani, Maria Giulia Cantiani,
Paolo Cantiani, Manuela Plutino
RIASSUNTO - Si descrive lo stato di una prova di conversione a fustaia di un ceduo
di faggio a circa 25 anni dall’impostazione del protocollo sperimentale permanente. Il popolamento originario era costituito da un ceduo trattato irregolarmente a sterzo, con rilascio eccessivo di matricinatura di più classi di età. Le tesi
di trattamento sono state: i) conversione diretta con tagli successivi (Tesi A);
ii) conversione indiretta tramite avviamento all’alto fusto del ceduo e conseguenti
tagli successivi del “soprassuolo temporaneo” (Tesi B). Si discute della dinamica della struttura dei soprassuoli dopo gli interventi sperimentali e del processo
di rinnovazione della tesi A.
ABSTRACT - Experimental researches on a beech coppice conversion to high forest in the Apennines, by means of two different methods. Two experimental plots
in a beech coppice, 25 years after the beginning of the research, are described. The
original forest had been irregularly managed by means of coppice selection system and a big amount of standards of different ages were present.
Two different treatments were experimented: direct conversion by means of shelterwood method (A) and indirect conversion through coppice conversion cuts
and finally regeneration cuts with the shelterwood method (B).
The dynamics of the stand structure after the cuts and the regeneration process in
the plot A are illustrated.
INTRODUZIONE
La gestione dei cedui di faggio in post-coltura rappresenta un problema particolarmente rilevante in Appennino. La sospensione del governo a ceduo, soprattutto nelle zone più elevate della montagna, correlata all’abbandono della popo-
75
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
lazione residente, ha definito i processi dinamici che hanno modellato le strutture
attuali dei popolamenti di faggio.
La struttura dei cedui di faggio appenninici è estremamente variabile in relazione ai diversi ambienti climatici ed edafici e alla storia selvicolturale specifica.
La ceduazione è stata effettuata con modalità diverse, in modo spesso non razionale. Molti cedui di faggio appenninici sono stati trattati con modalità riconducibili allo sterzo, spesso semplificato a due sole classi cronologico-dimensionali dei
polloni, ancora più spesso senza uno schema prefissato, risultato di prelievi occasionali a seconda delle necessità (COPPINI et al., 2008). Una costante nella gestione
dei cedui è stato anche il rilascio particolarmente intenso delle matricine e il
mancato “svecchiamento” della matricinatura alle successive utilizzazioni. Nei
cedui a sterzo il fenomeno è accentuato proprio a causa della copertura continua
della componente agamica. Nei cedui disetanei, infatti, l’abbattimento di matricine,
soprattutto quelle a chioma particolarmente espansa, comporterebbe un danno
certo ai polloni, pertanto la copertura del piano delle matricine ha teso a divenire
nel tempo via via più consistente, per lo sviluppo della chioma dei rilasci più vecchi e il contemporaneo reclutamento di nuovi allievi. Sulla struttura attuale dei
cedui di faggio in post coltura influiscono “in misura a volte sorprendente, le catteristiche della preesistente matricinatura del ceduo, soprattutto in relazione alla
numerosità ed all’età delle matricine ancora presenti” (BIANCHI, 1976; BIANCHI e
HERMANIN, 1988). Anche BERNETTI (1995) ribadisce come sull’evoluzione postcoltura delle faggete pesino notevolmente le conseguenze dell’azione antropica;
in particolare se il trattamento pregresso aveva favorito la disetaneità (cedui composti, cedui a sterzo), l’evoluzione della faggeta tenderebbe verso popolamenti
costituiti da pochi soggetti a chioma particolarmente espansa.
Si descrive lo stato di una prova di conversione ad alto fusto di un ceduo di faggio a circa 25 anni dall’impostazione del protocollo sperimentale. Il lavoro fa
seguito ad una pubblicazione del 1994 (CANTIANI M.G. e CANTIANI P., 1994) alla
quale si rimanda per una descrizione più puntuale del protocollo sperimentale e per
i primi risultati.
Il ceduo oggetto della sperimentazione presentava una struttura irregolare
dovuta al trattamento a sterzo effettuato in modo non rigoroso e al rilascio eccessivo di matricinatura di diverse classi, tanto che la fisionomia era assimilabile a
quella di un “ceduo composto”.
La prova ha previsto la definizione, la realizzazione e il monitoraggio nel
tempo degli effetti a medio termine di due distinti metodi di conversione ad alto
fusto di un ceduo di faggio in abbandono colturale.
76
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
Le tesi di trattamento, finalizzato alla rinnovazione naturale del ceduo verso
la fustaia coetanea sono state: i) conversione diretta con tagli successivi; ii) conversione indiretta tramite avviamento all’alto fusto del ceduo.
La scelta delle tesi di trattamento deriva dalla struttura del ceduo dopo il suo
abbandono colturale. Il numero notevole di matricinatura di più cicli e la disetaneità intra ceppaia dei polloni ha definito una struttura verticale del popolamento
di tipo biplano, con una forte variabilità nella distribuzione diametrica della componente delle matricine.
Per quanto riguarda la conversione indiretta (Tesi B), tale struttura rende problematica la corretta esecuzione e l’efficacia del taglio di avviamento. Il diradamento infatti, soprattutto nei cedui nei quali il periodo di sospensione del trattamento è più lungo, è condizionato dalle matricine di maggiori dimensioni che
hanno di fatto già determinato una forte selezione negativa sulla componente dei
polloni. In queste strutture è difficile selezionare polloni o matricine tra quelle
più giovani in quanto essi si trovano già morfologicamente compromessi dalla
concorrenza subita. D’altronde un diradamento dal basso che si limiti all’utilizzazione delle sole piante dominate non produce effetti positivi sulla struttura
della fustaia transitoria o, più correttamente, del “soprassuolo transitorio” (sensu
CIANCIO e NOCENTINI, 2004). La mancata selezione di fenotipi di buon portamento a chioma non eccessivamente espansa, a favore invece di soggetti particolarmente ramosi e “aggressivi” verso i soggetti circostanti, determina un
popolamento che mal si adatta al trattamento per tagli successivi uniformi o a
gruppi, che allo stato della sperimentazione selvicolturale in Appennino rimane,
quando correttamente applicato, il trattamento più opportuno per la rinnovazione
delle fustaie di faggio (CANTIANI M., 1984; PUGLISI, 1984; HOFFMANN, 1991;
LA MARCA et al., 1994; BERNETTI, 1995; BAGNARESI e GIANNINI, 1999; DEL
FAVERO, 2008). Il grosso limite sta nell’eccesso di sviluppo delle chiome delle
piante portaseme e nei prevedibili danni alla rinnovazione al momento del
taglio di sgombero, che rappresenta l’atto finale della conversione. Il timore di
compromettere la nuova generazione con l’utilizzazione finale, ha causato
spesso nelle fustaie di faggio l’omissione di questo fondamentale momento del
trattamento, determinando strutture ibride assolutamente deficitarie in termini di
funzionalità del sistema.
Il trattamento “conversione diretta” (Tesi A) prevede di mettere il ceduo direttamente in conversione operando un taglio di sementazione col rilascio delle
matricine di migliore conformazione, scelte preferibilmente tra quelle di media
dimensione e con rami laterali non troppo espansi. Nel periodo di conversione si
77
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
prevedono anche eventuali tagli secondari da operare nel caso che la rinnovazione
abbia stentato ad affermarsi. La scelta di testare la tesi di conversione diretta è
dipesa dalla valutazione che il suolo della faggeta fosse già recettivo alla rinnovazione; il rilascio diretto di portaseme con chiome di dimensione già notevole, per
evitare il loro ulteriore sviluppo, potrebbe limitare i danni alla rinnovazione che
comunque si verificheranno al momento del necessario taglio di sgombero. La
conversione diretta, laddove ritenuta possibile, può rappresentare una tecnica selvicolturale alternativa al classico avviamento all’alto fusto; riducendo rispetto a
questo i tempi della rinnovazione, può permettere scelte gestionali utili nell’assestamento di vasti comprensori di cedui in conversione.
MATERIALI E METODI
La sperimentazione di metodi di conversione diretta di cedui di faggio in
abbandono colturale è stata intrapresa alla fine degli anni ’70 da parte dell’Istituto di assestamento forestale dell’Università di Firenze. Il protocollo sperimentale prevedeva la realizzazione di parcelle sperimentali permanenti per il
monitoraggio nel tempo degli effetti della conversione diretta in comparazione col
classico metodo della conversione tramite avviamento all’alto fusto. Le prove sperimentali sono state effettuate in faggete appenniniche centro settentrionali e centro meridionali.
Il protocollo Sant’Antonio è stato impostato nel 1981. L’area di studio è posta
in località Prato di Dietro ad una quota pari a circa 1.150 metri s.l.m., in pieno orizzonte di vegetazione del faggio, nella sottoparticella A44/3 del Piano di Assestamento in vigore (ex particella 39 del Piano di Assestamento 1970-1984).
La base geologica della Foresta di Sant’Antonio è costituita dalla formazione
dell’oligocene (Macigno del Chianti) con notevoli banchi di arenaria compatta,
intercalata da sottili strati scistosi (ELISI O LISI, 1997). Da tale matrice si sono sviluppati buoni suoli forestali. Pur non profondi, i suoli delle faggete sono relativamente evoluti, per la presenza di un orizzonte Bw (orizzonte B di alterazione), e
quindi ben conservati (DREAM, 2003).
Il protocollo sperimentale è costituito da due parcelle permanenti contigue di
5.000 m2 poste su un versante omogeneo per esposizione (ovest), pendenza
(60% circa) e struttura del popolamento forestale. Le parcelle sono intersecate da
un transect strutturale permanente (10x110 metri) su curva di livello a metà
quota.
78
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
Il popolamento oggetto della sperimentazione era, al momento dell’impianto
del protocollo, un ceduo trattato a sterzo con una ricca matricinatura di più classi,
tanto da poter essere definito quale ceduo composto. L’età era variabile in funzione
del trattamento effettuato; i polloni più giovani avevano 18 anni, con 2-3 classi di
età, le matricine più vecchie 70-80 anni (3 classi cronologiche). La struttura si presentava irregolare, tendenzialmente biplana a causa del piano dominante delle
matricine quasi totalmente chiuso e quello dei polloni conseguentemente aduggiato
e poco rigoglioso. La densità delle ceppaie era di 1.150 per ettaro con un rapporto
polloni/ceppaia alquanto scarso (circa 1,5). Le matricine si presentavano particolarmente vigorose, con la chioma espansa e ramosa. Soprattutto la configurazione
delle chiome delle matricine e quindi la copertura quasi totale del suolo, piuttosto
che la loro densità (circa 80 per ettaro), aveva determinato l’assenza di un piano
arbustivo ed erbaceo e di semenzali di faggio.
Le due parcelle sono state sottoposte a 2 tesi di trattamento comparate:
– TESI A: conversione diretta per tagli successivi.
1981: taglio di preparazione
1992: taglio di sementazione
2008: taglio secondario
– TESI B: conversione indiretta tramite avviamento all’alto fusto del ceduo e
conseguenti tagli successivi.
1981: taglio di avviamento ad alto fusto
1992: inventario dendrometrico.
2008: diradamento del soprassuolo temporaneo.
Gli inventari dendrometrici e strutturali sono stati ripetuti, per controllo, ad
intervento effettuato. La cubatura è stata stimata con il modello previsionale del
volume di fustaie da polloni di faggio toscane relativamente al fusto sotto corteccia comprensivo di ceppaia (BIANCHI et al., 1991).
I rilievi nel transect, ripetuti ai successivi inventari dendrometrici, consistono
nella misurazione di diametri, altezze dendrometriche e di inserzione delle
chiome e di 4 raggi della chioma (8 per chiome di forma irregolare) secondo
direzioni prefissate. L’analisi del transect permette di definire il grado di copertura delle chiome e il grado di ricoprimento, ovvero la somma delle proiezioni
delle chiome di tutti gli alberi del popolamento rapportata alla superficie del
transect.
79
poll. matr.
anno
1981
1992
2008
tot.
tot. %
poll.
1788 100,0
1546 86,5
242 13,5
10,0
7,0
19,0
41,0
100,0
28,9
71,1
24,0
20,0
25,0
47,0
100,0
34,5
65,5
30,2
30,3
30,0
prima dell'intervento 1712
intervento
1546
dopo l'intervento
166
76
prima dell'intervento 166
intervento
70
dopo l'intervento
96
76
76
242
70
172
prima dell'intervento
intervento
dopo l'intervento
72
4
68
168
58
110
96
54
42
76
N
anno
1981
prima dell'intervento 1522
intervento
1224
dopo l'intervento
298
84
1992
(nessun intervento)
2008
tot.
tot. %
poll.
hm
m
matr.
tot.
poll.
13,0
7,0
28,0
12,4
10,2
16,4
21,1
20,4
19,0
20,7
25,3
47,0
33,0
20,0
37,0
51,5
40,4
52,1
40,7
31,1
44,9
23,6
23,6
23,6
41,0
dm
Area B
poll. matr.
dm
cm
matr.
cm
matr.
21,1
g
m2
tot.
poll.
matr.
tot.
tot. %
poll.
14,1 12,4
10,2 7,5
18,8 4,9
10,0
22,4
7,5
14,9
100,0
33,5
66,5
129,8 47,8 177,5 100,0
45,2
45,2 25,5
84,6 47,8 132,3 74,5
100,0
11,4
88,6
139,6 73,6 213,2 100,0
19,7 9,2
119,9 73,6 193,5 90,8
100,0
20,2
79,8
73,6 193,7 267,3 100,0
41,8 6,1 47,9 17,9
31,8 187,6 219,4 82,1
10,0
25,3
22,7
19,0
23,5
7,1
2,3
4,9
12,9
12,9
20,1
2,3
17,8
28,7
26,4
28,8
26,5
23,9
27,4
6,9
3,9
3,0
15,0
0,5
14,5
21,9
4,4
17,5
hm
g
v
m
matr.
m2
m3
tot.
poll.
11,8
10,2
14,1
21,0
tot.
poll.
matr.
tot.
tot. %
poll.
matr.
10,4
21,0
14,1 10,5
10,2 4,7
17,6 5,9
10,4
21,0
4,7
16,3
100
22,4
77,6
76,9
26,4
50,5
89,3 166,2
26,4
89,3 139,8
9
7
13
40
84
1606 100,0
1224 76,2
382 23,8
40
13
7
23
292
84
376
18,0
46,0
27,0
18,2
25,1
21,2
7,8
13,8
21,6
prima dell'intervento 252
intervento
138
dopo l'intervento
112
86
336
138
194
23,5
17,2
26,2
51,0
32,8
17,2
38,4
23,5
20,8
24,4
30,2
26,4 10,9
20,8 3,2
27,8 6,0
17,5
28,4
3,2
22,5
82
100,0
41,6
58,4
50,5
v
m3
matr. tot.
30,1
16,5
tot.
tot. %
tot. %
100
15,9
84,1
166,7 55,2 221,9
100,0
12,5
87,5
125,1 239,9 364,5 100,0
30,9
30,9 9,6
67,3 223,7 291,0 90,4
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
80
Tabella 1 - Sintesi dei parametri dendrometrici per le tesi A e B ed entità degli interventi
sperimentali.
N
Area A
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
RISULTATI
Interventi del 1981
Si è trattato di diradamenti del ceduo composto a diversa finalità e modalità:
TESI A (conversione diretta): diradamento per favorire lo sviluppo delle
matricine e dei migliori polloni scelti come candidati portaseme.
L’intervento può essere assimilato ad un forte taglio di preparazione. Il diradamento dal basso di forte intensità ha inciso sul 33,5% dell’area basimetrica, pari
al corrispondente 86,5% del numero delle piante. L’intervento ha teso a selezionare i portaseme di miglior fenotipo.
Il soprassuolo dopo il taglio era costituito da 176 soggetti per ettaro (di cui le
76 matricine preesistenti) disposti il più possibile omogeneamente sul terreno per
evitare la creazione di zone ad eccessiva illuminazione (Tabella 1). La copertura
delle chiome era pari al 66,2% (Figura 1).
TESI B (conversione indiretta): diradamento con finalità di avviamento all’alto
fusto.
Lo scopo dell’intervento è la realizzazione di una struttura assimilabile a quella
di una fustaia monoplana da trattare a tagli successivi, uniformi o per gruppi. I problemi maggiori per questo tipo di intervento sono rappresentati dalla matricinatura.
Ove la componente di matricine è eccessiva (in termini di copertura delle chiome)
la fisionomia della “fustaia transitoria” ne viene necessariamente condizionata. L’intervento ha interessato il 22,4% dell’area basimetrica (76% del numero delle
piante). Sono state preservate tutte le matricine e rilasciati polloni tirasucchio da
ogni ceppaia (Tabella 1). Il grado di copertura delle chiome è analogo a quello della
tesi A; il “ricoprimento” invece è superiore (77,8% rispetto a 72,5% della Tesi A),
per effetto del rilascio di polloni anche nel piano dominato (Figura 2).
Intervento del 1992
In entrambe le aree le ceppaie non hanno ricacciato. Il piano delle chiome si
è completamente richiuso a soli 4-5 anni dagli interventi. Ciò ha fatto sì che per
le due tesi la rinnovazione sia stata praticamente assente.
Il diradamento ha generato una forte risposta incrementale in entrambe le tesi
(7,4 m3 di incremento di volume annuo medio). Il contributo all’incremento di
volume è relativo alle sole classi diametriche medie e grandi, mentre, per la Tesi
B, la dinamica di accrescimento delle piante di piccolo diametro (la componente
dominata del popolamento) è praticamente nulla. Il popolamento trattato col
81
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
1
2
3
4
Figura 1 - Tesi A. Risultati dei rilievi effettuati nel transect successivamente al taglio di
avviamento (1) e al rilievo 1992 (2). In basso si riportano i risultati prima (3) e dopo (4) il diradamento del soprassuolo transitorio.
82
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
1
2
3
4
Figura 2 - Tesi B. Risultati dei rilievi effettuati nel transect successivamente al taglio di
avviamento (1) e al rilievo 1992 (2). In basso si riportano i risultati prima (3) e dopo (4) il diradamento del soprassuolo transitorio.
83
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
taglio di avviamento dopo un decennio è già soggetto a forte competizione,
soprattutto nella componente dei polloni.
Nel 1992 si è scelto di effettuare il taglio di sementazione nella parcella trattata con la Tesi A. L’intervento è stato di modesta entità, essendo il popolamento
già stato decisamente plasmato dal precedente diradamento. Anche in questo
caso il criterio di selezione è stato quello della regolamentazione dell’afflusso di
luce al suolo. Il prelievo ha interessato l’11,4% dell’area basimetrica, pari al
Figura 3 - Tesi A. Entità dell’intervento sperimentale. Distribuzione del numero di piante prima
e dopo l’intervento. Distribuzione dell’area basimetrica prima e dopo l’intervento.
84
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
28,9% del numero delle piante. Dopo l’intervento il grado di copertura delle
chiome è risultato del 68%.
In occasione del rilievo del 1992 è stata presa definitivamente la decisione di
indirizzare la tesi B verso il soprassuolo transitorio, ritenendo opportuno posticipare il diradamento di qualche stagione.
Interventi del 2008
– Tesi A
Nel periodo successivo al taglio di sementazione (1993-2008) non si è insediata rinnovazione, così come la vegetazione dei piani arbustivo ed erbaceo. La
copertura delle chiome si è sviluppata rapidamente in seguito all’intervento, tanto
da apparire oggi colma (80% di copertura con più del 100% del ricoprimento).
La martellata del taglio secondario è stata finalizzata a determinare nuovamente
una leggera discontinuità nella copertura per creare condizioni di luce al suolo in
modo il più possibile omogeneo. L’entità dell’intervento è stata leggera (Figura 3). La
quasi totalità delle piante al taglio sono polloni (di diametro medio pari a 30,3 cm) e
solo 4 matricine (diametro medio 40,4 cm). Il rapporto tra il diametro medio delle
piante diradate e quello delle piante prima del diradamento (Kd) risulta elevato (0,9).
Con il taglio secondario la copertura arborea si riduce al 64% (67% di ricoprimento). Il valore è inferiore a quello successivo al taglio di sementazione del 1992
(Tabella 2).
copertura
%
Tesi A
ricoprimento
%
copertura
%
Tesi B
ricoprimento
%
anno
1981
66,2
72,5
66,2
77,8
1994
68,2
71,4
72,5
92,5
2008 (prima del taglio)
80,0
101,1
84,9
113,8
2008 (dopo il taglio)
64,3
67,6
83,6
106,9
Tabella 2 - Caratteristiche della copertura delle chiome per tesi.
85
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
– Tesi B
Nel periodo di analisi, dal taglio di avviamento ad oggi (1982-2008), la dinamica
del popolamento ha visto una marcata strutturazione sociale, evidenziata da una sensibile mortalità naturale. La mortalità dei polloni morti nel periodo è stata pari al
15,5%, quella delle matricine al 12%. La mortalità è concentrata soprattutto dopo il
1992; in questo periodo sono morte ben 46 piante di diametro medio pari a 25 cm.
Prima dell’intervento il popolamento aveva una densità di 336 piante per
ettaro (di cui 86 matricine) per un’area basimetrica di 28,4 m2.
L’intervento è un diradamento dal basso moderato (relativamente incisivo nel
piano dominante), il prelievo è a carico solo del piano dei polloni, le matricine non
sono state interessate. L’entità del diradamento è pari al 42% del numero totale
Figura 4 - Immagini relative alle due tesi nel 1992 e nel 2008.
86
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
delle piante (il 55% del numero dei polloni) (Figura 4). L’area basimetrica complessiva asportata è pari al 12,5%. Il Kd del diradamento è di 0,5.
L’intervento incide molto poco sulla copertura delle chiome che rimane colma
e sul grado di ricoprimento (Tabella 2).
DISCUSSIONE
L’analisi comparata fra tesi di trattamento relativamente alla dinamica di
sviluppo del popolamento in seguito agli interventi sperimentali fa ritenere possibile l’alternativa della conversione diretta da un punto di vista della struttura
del bosco. Infatti, a distanza di 17 anni dall’inizio del periodo di conversione
(Tesi A – 3 interventi) e di avviamento (Tesi B – taglio di avviamento e diradamento), nonostante le forti differenze tra tesi per quanto riguarda il numero
totale delle piante e l’area basimetrica, nonché i valori del grado di copertura
e, soprattutto, del grado di ricoprimento, la maggior parte dei soggetti potenzialmente atti alla disseminazione (la matricinatura originaria del ceduo) ha
dimensioni simili tra le due tesi in termini di diametro e di altezza dendrometrica. Maggiori differenze si hanno soprattutto per gli sporadici polloni del
piano dominante che si sono potuti avvantaggiare, nella Tesi A, grazie al
regime dei diradamenti ed alla loro maggiore intensità; essi partecipano (anche
se in numero esiguo) alla fase di disseminazione. Le chiome delle piante dominanti nella Tesi A hanno potuto espandersi maggiormente grazie al trattamento
effettuato. Appare invece irrilevante ai fini della potenziale disseminazione la
componente dei polloni nel piano dominato. La difficoltà nel reclutare candidati di valore dalla componente dei polloni è la diretta conseguenza della struttura irregolare originaria del ceduo.
D’altro canto, se si considerano gli esiti del taglio di sementazione, l’assenza
di rinnovazione in seguito a questo desta preoccupazioni circa l’idoneità del
metodo di conversione diretta (Tesi A) alle specifiche condizioni stazionali
del sito.
L’impostazione del protocollo non ha previsto nella fase iniziale specifici
rilievi sui parametri ecofisiologici (radiazione luminosa, umidità del terreno) e chimico-fisici del suolo. La mancanza di attecchimento della rinnovazione nel quindicennio successivo all’intervento fa ritenere necessario implementare la ricerca
con appropriati studi in proposito. Le possibili cause dell’assenza della rinnovazione potrebbero riguardare: 1) la non corretta regolazione della luce al suolo otte-
87
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
nuta con l’intervento; 2) l’assenza di favorevoli annate di produzione di faggiola
(annate di pasciona piena o di mezza-pasciona) nel periodo successivo al taglio di
sementazione, prima della chiusura della copertura arborea; 3) il susseguirsi di particolari annate climaticamente sfavorevoli (in particolare nei riguardi delle precipitazioni durante il periodo vegetativo; 4) la predazione del seme o danneggiamenti
irreversibili ai semenzali da parte della fauna selvatica.
I parametri climatici classici (temperatura e precipitazioni) sono stati valutati
nel periodo successivo al taglio di sementazione della Tesi A (1992-2005) e comparati con l’andamento di lungo periodo. La stazione termopluviometrica considerata è stata quella di Vallombrosa, attiva fin dal 1872 ed oggetto di analisi su
serie di dati ultracentenarie (GANDOLFO e SULLI, 1990) (Tabella 3).
Nel tredicennio successivo al taglio di sementazione nella tesi di conversione
diretta, i valori di precipitazione annuali medi sono stati sensibilmente inferiori a
quelli di lungo periodo. In particolare le precipitazioni appaiono inferiori soprattutto nel periodo primavera-estate. Le temperature all’opposto sono maggiori
negli ultimi anni rispetto alle medie ultracentenarie, sia nei valori medi annuali, sia
in quelli di primavera e estate. Il fenomeno è in accordo con il trend riscontrato
nella serie dei dati analizzati dalla fine del 1800 da GANDOLFO e SULLI. La tendenza
all’aumento dell’aridità estiva associata alle maggiori temperature potrebbe avere
avuto riflessi negativi sull’attecchimento dei semenzali.
Circa le recenti annate di pasciona del faggio, purtroppo non siamo provvisti di dati attendibili relativamente alla Foresta di Sant’Antonio. Dati di produzione di faggiola dal 1991 al 2005 si hanno relativamente alla zona di Alpe di
Catenaia in Casentino (Arezzo) ad una quota di poco superiore i 1.000 metri
primavera
periodo
precipitazioni (mm)
1872 -1989
temperature medie (°C)
1992 -2005
estate
autunno
inverno
anno
397
224
438
356
1426
8
17,3
10,7
2,4
9,6
precipitazioni (mm)
279
123
492
320
1214
temperature medie (°C)
8,6
18,3
10,7
2,5
10,0
Tabella 3 - Dati climatici per la stazione di Vallombrosa nei periodi 1872-1989 e 1992-2005.
88
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
s.l.m., relativamente ad un recente lavoro sperimentale sui danni da fauna selvatica in una fustaia transitoria di faggio in comparazione con cedui di castagno e
di cerro (CUTINI et al., 2007). Secondo BERNETTI (2005) le annate di pasciona per
il faggio si manifestano per ampie zone geografiche; è quindi ipotizzabile che le
produzioni di faggiola possano avere avuto un andamento parallelo nella stazione
oggetto di indagine. Nel periodo considerato vi sono state annate con forti produzioni di faggiole nel 1994, 1999, 2002 e 2004.
Sull’interazione tra la fauna selvatica e la rinnovazione del faggio, CUTINI
et al. (op. cit.) mostrano come circa la metà del seme prodotto in seguito al
taglio di sementazione di una fustaia transitoria viene utilizzato dalla fauna (4/5
da parte degli ungulati, 1/5 da parte dell’avifauna). Nelle annate di pasciona l’influsso dei danni da fauna (capriolo e cinghiale) sui semenzali è statisticamente
significativo. I risultati sembrano comparabili con quanto sarebbe potuto accadere nella nostra area di studio, in quanto gli indici chilometrici di abbondanza
della fauna (IKA) calcolati con la medesima metodologia, nel corso dei rilievi
per i piani di assestamento di Alpe di Catenaia e Sant’Antonio mostrano valori
comparabili circa la presenza del cinghiale nelle faggete dei due comprensori;
il capriolo risulta meno presente nella Foresta di Sant’Antonio.
Nei prossimi anni diventa assai importante seguire direttamente con opportuni protocolli di raccolta, la produzione di faggiola nella Tesi A e gli eventuali
danni della fauna, tramite recinzioni per valutazioni comparate con l’esterno. Si
ritiene altrettanto importante verificare se l’assenza di rinnovazione possa
essere attribuita alle caratteristiche del’humus o alle particolari caratteristiche
microclimatiche venutesi a creare a seguito degli interventi, soprattutto nella
Tesi A.
Si ritiene assai importante che siano incrementati in Italia gli studi sperimentali sul trattamento in relazione alla rinnovazione naturale, considerata la
notevole estensione della superficie forestale governata a ceduo nel recente
passato che, per azione del trattamento eseguito oppure per l’abbandono colturale, si sta avviando verso la fase di conversione. Il momento della maturità
fisiologica dei cedui in abbandono o in conversione attiva sarà concentrato in un
lasso di tempo particolarmente ristretto, e quindi si renderà necessaria una pianificazione razionale degli interventi per dilazionare nel tempo il momento
della rinnovazione. Vista la variabilità delle strutture dei cedui in post-coltura,
soprattutto per quanto riguarda il faggio, sarà utile sperimentare l’efficacia
delle forme tradizionali di trattamento per le diverse strutture insieme a nuove
possibili modalità del trattamento.
89
F. CANTIANI, M.G. CANTIANI, P. CANTIANI, M. PLUTINO
RINGRAZIAMENTI
Si desidera ringraziare Stefano Samaden e Antonio Ventre, responsabili tecnici
delle due Comunita Montane che si sono succedute come amministratrici della
Foresta di Sant’Antonio, rispettivamente il Pratomagno e la Collina Fiorentina, che
hanno creduto nella sperimentazione e che hanno trasferito i risultati nella gestione
attiva.
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Pubblicazione della Comunità Montana Terminio Cervialto: 21-37.
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90
PROVE DI CONVERSIONE A FUSTAIA DI UN CEDUO DI FAGGIO APPENNINICO IN POST-COLTURA
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91
INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME
NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
Roberto Fratini1
RIASSUNTO - Dalla consultazione dell’archivio storico della Tenuta di San Rossore
è emersa una vastissima documentazione che interessa diversi decenni della storia di questa area della Toscana. Si hanno notizie e reperti sino dalla metà dell’800.
Nei registri di contabilità, nei libri mastri, nei capitolati di vendita, vi è una corrispondenza di tutti gli spostamenti ed i passaggi delle merci conseguenti all’attività produttiva dell’azienda. In questo lavoro è stato considerato il commercio del
materiale legnoso: in particolare una serie storica di dati che va dal 1915 al 1975.
Le conclusioni ed i suggerimenti che si traggono dall’analisi della contabilità e dei
prezzi sono purtroppo limitate ai soli anni in cui si hanno informazioni precise:
infatti capita spesso che una serie di prezzi di mercato si interrompa oppure risulti
incompleta nelle sue informazioni.
Oltre all’esame dei prezzi, un altro scopo del lavoro è stato quello di analizzare le
consuetudini di lavorazione, i contratti di vendita e di lavoro adottati, le specie forestali dalle quali sono stati ricavati gli assortimenti legnosi commerciali.
ABSTRACT - Historical research about commercial trade of wood products in the
forest of San Rossore. From the historical archive of the presidential residence of
San Rossore has emerged a large documentation which affects several decades of
the history of this area of Tuscany. We found news until the mid 19th century. In the
accounting registers, in the ledger and journal entries we have found an interesting correspondence of all exchange and passage of goods resulting from activity
of wood production.
1
Ricercatore presso il dipartimento di economia agraria e delle risorse territoriali, Università
degli Studi di Firenze. [email protected].
93
ROBERTO FRATINI
In this paper we consider the commercial trade of firewood: in particular a historical series of data that goes from 1915 to 1975.
The conclusions and the suggestions which will derive from the analysis of the
accounts and prices are unfortunately limited to only the years for which we
have precise information: in fact often a series of market prices is broken or is
incomplete in its information.
In addition to the discussion of the prices, another aim of the work is to analyze
the working habits, sale and labor contracts adopted and the forest species from
which are derived the wood products.
Questo contributo rappresenta il primo lavoro da me svolto in ambito accademico
sotto l’attenta guida del Prof. Mario Cantiani. Siamo nel 1983, l’Accademia Italiana di Scienze Forestali sta realizzando il piano di assestamento della Tenuta
Presidenziale di San Rossore. Coadiuvato dal Prof. Antonio Gabbrielli mi sono
occupato, attraverso i documenti contenuti negli archivi della Tenuta, di ricostruire
il commercio di legname svolto dagli amministratori della Tenuta dall’inizio del
secolo scorso alla metà degli anni settanta.
INTRODUZIONE
Dalla consultazione dell’archivio storico della Tenuta di San Rossore2 è emersa
una vastissima documentazione che interessa diversi decenni della storia di questa area della Toscana. Si hanno notizie e reperti sino dalla metà dell’800.
Nei registri di contabilità, nei libri mastri, nei capitolati di vendita, vi è una corrispondenza di tutti gli spostamenti ed i passaggi delle merci conseguenti all’attività produttiva dell’azienda. Nel caso specifico è stato preso in considerazione
2
È importante sottolineare alcune vicende storiche che hanno caratterizzato la Tenuta di San
Rossore. Nella seconda metà ’800, quando la Toscana fu annessa al nuovo Regno d’Italia e a San
Rossore arrivarono i Savoia che frequentarono la tenuta per lunghi periodi dell’anno, usando la Villa
Reale all’interno di Cascine Vecchie e la Villa del Gombo come dependance a mare. Dopo il passaggio della guerra e con la caduta della monarchia, San Rossore diventa proprietà della Presidenza
della Repubblica. Per volontà del Presidente Giovanni Gronchi viene ricostruita la Villa del Gombo
fortemente danneggiata dal passaggio della guerra. Nel 1999 il Presidente della Repubblica di allora,
Oscar Luigi Scalfaro trasferisce San Rossore in proprietà alla Regione Toscana che ne demanda la
gestione all’Ente Parco Migliarino San Rossore Massaciuccoli.
94
INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
il commercio del materiale legnoso: in particolare della legna da ardere, sulla cui
vendita e produzione esiste una serie molto vasta di dati, che va dal 1915 al 1975.
Le conclusioni ed i suggerimenti che si traggono dall’analisi della contabilità e dei
prezzi sono purtroppo limitate ai soli anni in cui si hanno informazioni precise:
infatti capita spesso che una serie di prezzi di mercato si interrompa oppure risulti
incompleta.
Oltre all’esame dei prezzi, un altro scopo del lavoro è stato quello di analizzare le consuetudini di lavorazione, i contratti di vendita e di lavoro adottati, le specie forestali dalle quali sono stati ricavati gli assortimenti legnosi commerciali.
LE SPECIE LEGNOSE PREDOMINANTI NELLE UTILIZZAZIONI IN FORESTA
La maggior parte del legname prodotto in San Rossore, proveniva dalla utilizzazione dei boschi di conifere, ovvero principalmente dal pino domestico e dal
pino marittimo, che volgarmente era chiamato “pino selvatico”. Gli assortimenti
ricavati dalle utilizzazioni comprendevano principalmente: puntellame, utilizzato
poi nelle miniere della zona, legname da opera, tavole per casseformi ed impalcature, legna da ardere. Tra le latifoglie, molto richieste per la produzione di
legname da opera di notevole pregio, vi erano la farnia, il frassino e l’olmo.
Intorno agli anni settanta le maggiori richieste si sono concentrate sul legname di
pioppo venduto in gran parte all’esterno della Tenuta ed impiegato oltre che per
compensati anche dall’industria della carta. Il legno proveniente dai cedui di
ontano era impiegato nella fabbricazione di utensili e di varia oggettistica: produzione di rocchetti di filanda, fabbricazione artigianale di zoccoli e modelli per
fonderia.
Più volte in passato gli amministratori della Reale Agenzia hanno realizzato
delle stime sulla quantità e qualità di assortimenti da lavoro ricavabili dall’abbattimento di singole piante di specie diverse, in età vicino alla maturità. La Tabella 1
ne illustra in un esempio eseguito nell’ambito di un bilancio preventivo. Per ciascuna specie si evidenziano, oltre alla produttività (espresse in peso) le percentuali
di ciascuno assortimento ricavato (catasta, fascine, legname da opera). La legna da
ardere (catasta) proveniva in gran parte da piante di pino domestico, quantitativi
minori dal leccio e dalla farnia. Commercialmente la legna da ardere era classificata in pezzatura “grossa” o “minuta”. In genere quella grossa formava la catasta
di varie dimensioni e pesi. La catasta era a sua volta distinta in “dolce” e “forte”
a seconda delle specie prevalenti, in genere le querce fanno parte della legna
95
ROBERTO FRATINI
forte, a più elevato potere calorifico, come pure di “pedagna” e di “spacco”, a
seconda che sia formata da ceduo o da tronchi o rami di matricine.
Secondo quanto riportato dai documenti di archivio (si tratta di scritture risalenti al 1903), la produzione di legna da ardere non scaturiva tanto dall’utilizzazione tradizionale del bosco ceduo a fine turno quanto dagli “stramazzi”, dal
taglio a sterzo, dalle potature, dai residui di lavorazione del legname da lavoro proveniente dai boschi di alto fusto di querce. Il bosco ceduo in San Rossore è stato
introdotto dal governo Granducale intorno al 1843. Venti anni dopo la superficie
a ceduo raggiungeva una superficie di poco superiore ai 750 ettari, con caratteristiche tipiche del ceduo composto. Si trattava prevalentemente di specie quercine.
La superficie cosiddetta a “sopraceduo” risultava di età diverse, in maggioranza
molto prossima alla maturità; in molti casi si parlava di cedui invecchiati, in
quanto si trattava di soprassuoli che avevano superato il turno consuetudinario di
qualche decennio. Negli anni settanta la superficie a bosco ceduo era stimata in
circa 115 ettari ed era in prevalenza costituita da ontano nero.
Leccio
Farnia
Ontano nero
Pioppo bianco
Pino marittimo
e domestico
catasta
q.li
%
13,42
84
9
74
10,67
100
20,6
98
17,7
43
fascine
q.li
%
1,77
11
1,17
9,4
tronchi da costruzione
q.li
%
0,79
5
2,06
16,6
0,34
1,6
0,084
0,4
18
44
5,15
13
Tabella 1 - Ragguaglio medio generale del prodotto di ogni pianta. Fonte: n.s. elaborazione
documenti archivio storico di San Rossore.
CONSUETUDINI SULLE LAVORAZIONI
Per quanto concerne la lavorazione del legname in San Rossore, alcune convenzioni di particolare interesse sono rimaste in vigore per un certo numero di
anni. Fra queste ne ricordiamo alcune risalenti al 1923. Nelle ordinanze si stabiliva, ad esempio, che per tutti coloro che avevano acquistato boschi o tagli di
boschi, ovvero per le “lavorazioni per produrre legnami, solitamente paleria per
alberature di navi o per miniera, di legna da ardere o di carbone vegetale”, c’era
l’obbligo di denunciare al Commissario generale per i combustibili nazionali i con-
96
INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
tratti d’acquisto con l’indicazione della località in cui i boschi sono situati, il
prezzo pagato, la quantità della legna da ardere o di carbone ricavabile, lo stato di
andamento delle lavorazioni, con l’indicazione esatta del luogo preciso in cui avvenivano le utilizzazioni e la data entro cui dovevano essere ultimate. Nel caso in cui
non si fossero ottemperate le precisate prescrizioni, il Commissario generale si
riservava di sostituirsi e di sostituire altre ditte all’acquirente o all’assuntore per
l’utilizzazione del bosco. Vigeva inoltre l’obbligo per tutti i produttori di legna e
di carbone che avevano ricevuto generali facilitazioni di mano d’opera o di trasporti, di mettere a disposizione il 5% della rispettiva produzione, a prezzo di costo
da fissarsi dal Prefetto, per il rifornimento degli spacci e delle mense popolari.
LA VENDITA DEL LEGNAME
La vendita sia del legname da lavoro che della legna da ardere era effettuata
sul luogo stesso di abbattimento, per cui l’esbosco ed il successivo trasporto
restava a carico della ditta acquirente, che si impegnava a sgombrare il terreno
entro il termine di 90 giorni da quello della consegna dei prodotti legnosi, rendendosi responsabile verso l’Amministrazione della Tenuta degli eventuali danni
sia diretti che indiretti procurategli. Il prezzo unitario per il legname in tronchi era
riferito al metro cubo misurato sottocorteccia, la legna da ardere invece era riunita
in cataste all’interno del bosco stesso. È da precisare che soltanto il legname con
diametro in punta superiore a cm 15 era lavorato per fare tronchi. Di solito la vendita del legname da opera era accoppiata a quella del combustibile. Per le fascine
era invece consentita la carbonizzazione sul posto e l’eventuale asportazione
della legna non carbonizzata. Le carbonaie erano solitamente costruite in quegli
spazi vuoti di vegetazione in modo da non impedire il libero transito.
Molto frequentemente nei capitolati di vendita si indicava e talvolta si specificava in maniera accurata il modo in cui dovevano essere effettuate le operazioni di
taglio della pianta: “…il taglio degli alberi preventivamente contrassegnati col
marchio della Real Tenuta, deve compiersi in modo da effettuare un taglio netto, la
cui superficie sia uniformemente inclinata da un lato…” l’atterramento delle piante
di alto fusto avveniva mediante taglio al piede “…nel qual caso i fusti saranno recisi
a poca altezza da terra, o al fittone, per cui le radici si taglieranno più profondamente
possibile”; in alcuni casi l’abbattimento avveniva anche mediante l’estirpazione. La
legna da ardere era solitamente preparata depezzando i fusti ed i rami utilizzabili
solo per combustibile, trasversalmente per mezzo del “segone” in tanti tronchetti
97
ROBERTO FRATINI
di un metro preciso, con l’obbligo per gli operai di tagliarli con la scure quando il
diametro era di dimensioni maggiori a quelle previste per il normale taglio. Le cataste dovevano essere effettuate accuratamente e con un’altezza media pari a m
1,10. L’allestimento delle fascine con la ramaglia avveniva mediante una legatura
a ritorte: si univano le fascine per formare grossi cumoli.
ELARGIZIONI DI LEGNA ALLE COMUNITÀ LOCALI
L’agenzia della Real Tenuta effettuava delle “elargizioni” di materiale legnoso
(soprannominate allora “reali munificenze”) verso comunità, asili, conventi, famiglie di contadini particolarmente povere. Si trattava di una forma assistenziale, di
carità, sorta in tempi di restrizioni e proseguita fino agli anni settanta. Queste elargizioni erano giustificate oltre che da motivazioni sociali anche da aspetti di
carattere tecnico come la carenza di magazzini ove conservare il materiale legnoso,
generalmente sparso nelle boscaglie o ammucchiato alla rinfusa in prossimità degli
abitati, lungo le strade, nelle radure del bosco. Vi era inoltre la difficoltà di trovare
nei modi ordinari una possibilità di smercio abbastanza sollecito, al fine di evitare
il deterioramento o il rinnovarsi di inconvenienti susseguenti alla vendita sul mercato di materiale di non prima qualità. Da questo la necessità degli amministratori
di sbarazzarsene nella maniera più rapida possibile.
LA LAVORAZIONE DEI COMBUSTIBILI
Per un periodo piuttosto lungo di tempo nella foresta di San Rossore le lavorazioni del legname sono state effettuate da operai cottimisti. L’assunzione avveniva più che altro direttamente da parte della Agenzia, o anche a mezzo degli uffici
di collocamento; alla sorveglianza provvedeva in genere il personale della Tenuta
(amministratori, agenti agrari, guardie, etc.). I contratti di lavoro per le maestranze boschive erano quasi ovunque codificati in contratti collettivi tra le Unioni
Industriali, le Federazioni Agricoltori, le Unioni Provinciali Sindacati Fascisti dell’Agricoltura (questo succedeva prevalentemente nel periodo 1923-1944). Le
assunzioni avvenivano per “compagnie” o “squadre” costituite da un numero
variabile di membri da due a sei, tra cui un caporale. Le tariffe di cottimo riguardavano l’intero ciclo di lavorazione boschiva o più spesso direttamente il taglio e
la riduzione di assortimenti mercantili da una parte, e dall’altra l’esbosco. Le lavo-
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INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
razioni più ricorrenti in San Rossore comprendevano: la sporratura3, la potatura,
le tagliature cosiddette a tacca, le recisioni, l’accatastatura della legna e lo smacchio (GABBRIELLI, 1983).
Le forme di cottimo allora esistenti prevedevano:
a) per il taglio della legna da ardere: un tanto a catasta, in genere una misura pari
a 1,16x1,16x3,48 m oppure a metro stero;
b) per la preparazione delle fascine: un tanto per ogni 100 fascine abbarcate in
bosco;
c) per la sporratura, per la potatura, per la tagliatura a tacca, un tanto per ciascuna
pianta abbattuta;
d) per l’esbosco a soma (smacchiatura con animali) un tanto per quintale o soma
di carbone.
Il lavoro variava molto non soltanto in funzione delle capacità tecniche individuali ma anche in funzione della giacitura del suolo e della presenza di sottobosco. Nel caso specifico delle operazioni di taglio e riduzione del legname in
assortimenti mercantili, le tariffe di cottimo consideravano la specie legnosa, il tipo
di assortimento, le condizioni ambientali in cui si svolgeva il lavoro, il luogo della
consegna del legname abbattuto ed altri fattori variabili. La determinazione della
tariffa per il lavoro di taglio e per la riduzione in assortimenti era fatta su basi empiriche, tenendo conto delle quantità che secondo l’esperienza si potevano ottenere
in un determinato tempo e del correlativo salario, misurato in tariffe orarie. Alla
fine del 1957 è invece subentrato il contratto a giornata: si stabiliva una tariffa e
una produttività per giornata lavorativa di operaio, generalmente si andava dalle
8 alle 10 ore di lavoro continuato; la tariffa stabilita poteva essere modificata se le
rese di lavorazione non erano quelle stipulate in precedenza. Nel 1965 l’Agenzia
della Tenuta cambiava anche questa forma di prestazione lavorativa ed introduceva
il contratto a tempo indeterminato, ancora oggi vigente per gli operai.
I PREZZI DI VENDITA DEL MATERIALE LEGNOSO
Nei registri contabili della Tenuta di San Rossore tra le voci di costo si riscontra
spesso la voce fattura. Con questo termine si intendono le spese relative al taglio e
all’allestimento ed eventuale accatastamento del materiale legnoso in foresta. I libri
3
Si intende quell’intervento colturale che si attua mediante sradicamento dell’intera pianta.
99
ROBERTO FRATINI
maestri, i registri di cassa non evidenziano ulteriori indicazioni per quanto concerne le altre componenti del costo quali spese di smacchio, trasporto, direzione dei
lavori, che non sono conteggiate. Si desume perciò quello che viene indicato come
“prezzo di macchiatico” è un prezzo al netto delle sole spese di fattura. Tale impostazione di calcolo probabilmente è giustificata dal fatto che questo prezzo non era
quello praticato per la vendita di un lotto boschivo, ma di un valore che gli amministratori della Tenuta attribuivano al momento che il materiale combustibile veniva
immagazzinato. Si calcolava l’importo totale del quantitativo ricavato da una qualche utilizzazione (sterzo, potatura, stramazzi) utilizzando un prezzo di mercato fissato volta per volta internamente alla Tenuta, si deducevano le spese di fattura
(molto spesso il prezzo pagato al cottimista per quel determinato lavoro) e si calcolava l’importo netto indicato come prezzo di macchiatico. Al momento che il
legname era commercializzato all’esterno della tenuta si aggiungevano al prezzo di
macchiatico le spese di fattura, più alcuni oneri amministrativi (mediamente pari a
60 lire per metro stero) per ottenere quello che generalmente viene chiamato prezzo
di mercato del legname riferito al luogo di raccolta (magazzino o ciglio strada).
Illustriamo un esempio ripreso dal registro di cassa dell’anno 1954 (Tabella 2).
Valori unitari (lire)
Legna di quercia
Legna di pino
Legna di pioppo
Fascine di querce
Totale
mst
301
357
31
470
fattura
300
300
300
15
Valore totale (Lire)
Prezzo
Prezzo
macchiatico fattura
macchiatico
3200
90.300
963.200
2200
107.100
785.400
2200
9.300
68.200
16.450
1.833.250
Prezzo di
mercato
1.071.560
913.920
79.360
44.650
2.109.490
Tabella 2 - Legname combustibile ricavabile dalla lavorazione di piante da stramazzo. Fonte:
n.s. elaborazione documenti archivio storico di San Rossore.
È importante ricordare che gran parte del materiale combustibile prodotto a
San Rossore era spesso commerciato all’interno della stessa tenuta; in questo caso
non venivano applicati gli oneri amministrativi sul prezzo di vendita. Acquirenti
in molti casi erano i coloni, le guardie, gli impiegati dell’Agenzia. Nelle Tabelle
3-4 e 5-6 sono riportati i prezzi mercantili della legna da ardere, riferito alle specie maggiormente utilizzate e i prezzi a valore costante (1914 e 1945) in modo da
valutare quanto influisce l’elemento inflattivo sulla formazione del prezzo. Osser-
100
INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
viamo l’andamento di due tipologie di materiale legnoso: legna di pino, la più utilizzata, e quella di querce, la più richiesta ed idonea sia per il riscaldamento dei
focolari che per la preparazione dei cibi.
Tabella 3 - Prezzi di mercato espressi a valore corrente della legna da ardere (1914-1939) £/q.le. Fonte: n.s. elaborazione documenti archivio storico di San Rossore.
Tabella 4 - Prezzi di mercato espressi a valore corrente della legna da ardere (1945-1975) £/q.le. Fonte: n.s. elaborazione documenti archivio storico di San Rossore.
Tabella 5 - Prezzi di mercato espressi a valore costante (anno 1914) - £/q.le. Fonte: n.s. elaborazione su base dati Istat (2008).
Tabella 6 - Prezzi di mercato espressi a valore costante (anno 1945) - £/q.le. Fonte: n.s. elaborazione su base dati Istat (2008).
Se consideriamo il periodo compreso tra 1914 il 1926, si denota un andamento
manifestamente crescente dei prezzi correnti: la legna di farnia ed altre specie quercine raggiunge il massimo incremento proprio nel 1926. I prezzi subiscono tra il 1930
ed il 1935 un calo evidente (la diminuzione in realtà ha avuto inizio ancora prima).
101
ROBERTO FRATINI
Siamo in un periodo di recessione economica e le influenze negative del mercato si
fanno sentire in modo più evidente per merci di maggiore pregio commerciale (così
era infatti considerata in quelli anni la legna da ardere di specie quercine). Il fenomeno
è presente anche per la legna di pino, merce considerata più povera e con minore
potere calorifico, ma presente in grande quantità all’interno della Tenuta.
Se gli stessi andamenti vengono analizzati mediante i prezzi della lira a valore
costante (ISTAT, 2008) si può notare che la caduta maggiore dei prezzi avviene già
negli anni venti, per poi dopo avere manifestato una leggero incremento diminuire
nuovamente nel 1929 e anche negli anni successivi.
Dopo il 1935 e sino all’inizio della guerra i prezzi tendono a risalire in maniera
sempre contenuta, per poi rallentare nell’ultimo anno della serie considerato (1939).
Negli anni quaranta ed in particolare nel periodo compreso tra il 1943 ed il
1945 si assiste a delle vere e proprie utilizzazioni a carattere industriale per
coprire il fabbisogno di materiale combustibile e di legname da lavoro. Le truppe
anglo-americane, nel corso del passaggio del fronte -si rileva dalla documentazione
dell’epoca- fecero abbattere centinaia di alberi, proprio per approvvigionarsi di
legna da fuoco. Appena cessata l’influenza del regime vincolistico, molti fattori
della produzione e della libera concorrenza hanno adeguato le condizioni post-belliche a quelle pre-belliche in rapporto naturalmente alla svalutazione e quindi
anche al potere di acquisto della moneta: indice medio in aumento di 40 volte nel
periodo compreso tra il 1938 ed il 1950. Tale andamento si mantiene crescente fino
al 1962-63, da questo momento in poi inizia una flessione, che raggiunge i suoi
effetti più evidenti nel 1966: il fenomeno è particolarmente evidente nel confronto
tra prezzi costanti; non vi è inoltre molta differenza tra il legname di querce e
quello di pino in termini di tendenza dei prezzi nel tempo: permane una differenza
percentuale del prezzo compresa tra un minimo del 25% nel 1945 ed un massimo
del 57% nel 1975. La caduta del prezzo alla metà degli anni sessanta è dovuta presumibilmente al riversarsi sul mercato di altri fonti energetiche quali il petrolio ed
i suoi derivati, il gas metano, etc., i cui effetti si sono risentiti in maniera diretta
sulla domanda di legna da ardere e di carbone. La diminuzione misurata in termini
di prezzi costanti varia da un minimo del 6% ad un massimo del 38%.
Intorno al 1972 assistiamo ad una ripresa dei prezzi che raggiunge il suo culmine nel 1975 (ricordiamo che a livello nazionale il governo, al fine di rallentare
l’inflazione decideva un blocco dei prezzi delle merci di prima necessità - decreto
legge n° 427 del luglio 1973). La svalutazione monetaria, la crescita incontrollata
dei prezzi all’ingrosso si riversava, anche se in toni minori, su merci di valore meno
pregiato come la legna da fuoco.
102
INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
Nel Grafico 1 si evidenzia la differenza tra i prezzi di mercato relativi alla legna
da ardere praticati sulla piazza di San Rossore e quelli ricavati dalle rassegne commerciali delle Camere di Commercio (fino al 1926) e dall’Istituto Centrale di Statistica (dal 1926 al 1975). Dal confronto scaturisce che i prezzi fatti nella Tenuta
sono leggermente inferiori negli anni 1914, 1917, 1920, 1923, maggiori invece nel
1926; pressoché identici nel 1930, nel 1933 e nel 1939-40. I prezzi forniti dalla statistica sono come sappiamo delle medie su scala nazionale o regionale, nel migliore
dei casi si arriva ad un dato medio della provincia, perciò risentono e sono condizionati dalle più diverse situazioni locali.
18
16
14
12
L
10
i
r
e
8
6
4
Istat
2
San Rossore
0
1914
1917
1920
1923
1926
1929 - 30
1933
1936
1939 - 40
Grafico 1 - Confronto tra i prezzi di mercato della legna da ardere, a valore corrente, rilevazioni San Rossore ed Istat- £/q.le.
Nel secondo periodo questa differenza appare ancora più evidente: i prezzi di
San Rossore (ad eccezione del solo 1948) sono superiori a quelli della statistica ufficiale. Va sottolineato a questo riguardo che San Rossore ha rappresentato dal
punto di vista commerciale un centro particolarmente fiorente ed attivo, ricco di vie
di comunicazione ed in ottima vicinanza con i mercati interni: la piazza commerciale di Pisa, il porto di Livorno, la via Aurelia per il collegamento con importanti
centri dell’entroterra toscano. A puro titolo di curiosità si ricorda, secondo quanto
103
ROBERTO FRATINI
riportato in alcuni bollettini commerciali del porto di Livorno, che nel 1954 quantitativi di legname da opera e da ardere provenienti dall’area di Migliarino-San
Rossore, furono imbarcati per gli Stati Uniti e per alcune località del Centro America. Vi era perciò un’intensa attività commerciale che oltre ad interessare località dell’entroterra pisano e livornese si spingeva anche fuori del normale giro commerciale.
La nostra analisi si è limitata alla metà degli anni settanta; si possono però citare
alcuni dati importanti relativi a tempi più recenti. Negli agli anni ottanta dopo una crisi
iniziale della produzione si è registrata una forte ripresa delle utilizzazioni sia di legna
da ardere (olmo, querce, etc.) che di legna da macero (pino soprattutto). Nel 19831984, come risulta dalle schede di magazzino, la domanda è eccezionalmente elevata:
sono stati venduti 69.838 q.li di legna da ardere e 56.200 q.li di legna da macero.
ALCUNE NOTE CONCLUSIVE
La superficie complessiva della regione Toscana, che risulta di poco inferiore
a 22.990 km2, è coperta per circa la metà del territorio da formazioni boschive delle
quali più del 68% costituite da cedui (IFT, 1986). Questa netta prevalenza del
governo a ceduo nei confronti della fustaia indica inequivocabilmente l’importanza
che questo ha avuto per la sopravvivenza e lo sviluppo della società e dell’economia della regione. Come appare evidente dalla tabella n° 7 il quantitativo di
legname utilizzato in Toscana (ISTAT, 2007) risulta compreso tra un minimo di
973.000 metri cubi ed un massimo di 1.376.027 metri cubi. È probabile che il quantitativo trattato risulti anche più elevato, laddove soprattutto sfugge alla rilevazione
ufficiale il taglio occasionale avvenuto per semplice dichiarazione di taglio secondo
le norme previste dal Regolamento forestale (in attuazione della Lr. 39/2000).
anni
2001
2002
2003
2004
2005
2006
Legname Legna da
da lavoro
ardere
180.272
924.334
191.743 1.167.962
254.162 1.093.000
225.113 1.376.027
232.385 1.228.670
167.653
973.179
Totale
1.104.606
1.359.705
1.347.162
1.601.140
1.461.055
1.140.832
Tabella 7 - Utilizzazioni legnose in Toscana. Fonte:
ISTAT, 2007.
104
INDAGINE STORICA SULLA VENDITA DI LEGNAME NELLA FORESTA DI SAN ROSSORE
Negli anni cinquanta, come per certi versi abbiamo potuto osservare anche per
la foresta di San Rossore, i prezzi di “macchiatico” presentavano oscillazioni
evidenti: passavano da un valore di 253 lire al quintale per la catasta, a 882 lire al
quintale per il carbone e 58 lire per la fascina. La produzione lorda vendibile aziendale media annua e riferita all’ettaro presentava delle variazioni notevoli da un’azienda all’altra risultando compresa fra un minimo di 7.371 lire per il ceduo di
rovere e cerro delle colline cortonesi (provincia di Arezzo) alle 20.000 lire per un
ceduo misto di castagno e cerro delle colline grevigiane (provincia di Firenze)
(BELLUCCI, 1952). Attualmente cinquant’anni più tardi l’assortimento legnoso
per cui esiste un effettivo interesse da parte del mercato all’interno della Regione
è la legna da ardere. Il carbone di cannello non viene più fatto e la fascina resta in
genere abbandonata in bosco. La produzione di legna da ardere va ad alimentare
i camini ed i riscaldamenti di numerose abitazioni. Infatti il verificarsi di fenomeni
quali la fuga delle famiglie dal centro metropolitano verso la fascia dei comuni
situata ad una distanza di 20-40 chilometri dal capoluogo deve aggiungersi la crescita del turismo nella provincia di Firenze che ha incrementato i consumi di legna
da ardere. Il processo produttivo legato alla legna da ardere, che non è mutato nel
corso di questi cinquant’anni, è riassumibile nelle seguenti tre fasi: acquisto del
soprassuolo in piedi, taglio ed esbosco della massa legnosa, essiccazione e commercializzazione del prodotto (BERNETTI et al., 2001). Il prezzo medio nel 2006
(CASINI, 2008) con il riferimento a tre piazze commerciali importanti, Firenze,
Arezzo e Grosseto, risulta pari a € 6,35 al quintale4, con una variazione percentuale media dell’8%. Se lo stesso prezzo è invece considerato non più all’imposto
ma a domicilio e/o presso l’abitazione, si registra un incremento del 60% circa
(prezzo medio del periodo: 10,30 euro). È interessante notare come l’incremento
del prezzo del prodotto sia in gran parte da attribuirsi alla fase della commercializzazione al dettaglio, mentre la maggior parte dei costi ricade nelle fasi di taglio
ed utilizzazione.
Resta fondamentale constatare che si tratta di un mercato molto attivo, che si
rivolge all’ambito regionale ma anche quello interregionale e che fino ad oggi tale
assortimento rappresenta, in termini quantitativi, quello preponderante della produzione forestale toscana.
4
Prezzo legna secca caricata su camion riferita all’imposto.
105
ROBERTO FRATINI
BIBLIOGRAFIA
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Forestali, Firenze.
BERNETTI I., FRATINI R. 2001. La rilevanza territoriale e la sostenibilità economica delle
risorse forestali: i boschi di querce nella provincia di Firenze, pp. 33-52. Accademia
Italiana di Scienze Forestali.
CASINI L., 2008. Prezzi indicativi. Tecniko e Pratiko° 46. Compagnia delle Foreste.
CASINI L. ROMANO D., 1988. Analisi del mercato della legna da ardere in Toscana dal
dopoguerra ad oggi. Accademia Italiana di Scienze Forestali, Annali, vol. XXXVI:
263-303, Firenze.
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Maestrelli e Alessandro Canestrelli. Ristampa, Pisa: Felici, XXIX, 182 p., [2] c. di tav.:
ill.; 28 cm. Biblioteca Universitaria di Pisa Cons. Sez. Tosc. 80.
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GIUNTINI A., 2005. Il Gombo. Storia e curiosità nella tenuta di San Rossore. Felici Editore.
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ISTAT, 2008. Il valore della moneta in Italia dal 1861 al 2005.
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Regionale, Firenze. www.regione.toscana.it/pro/indexsel.htm.
SIMONI D., 1993. San Rossore nella Storia. Felici Editore. Riproduzione anastatica della
prima edizione. Ospedaletto (PI). (Storia della città e del territorio).
106
STUDIO SU LA VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE
E DIMOSTRATIVA DEL BOSCO NELL’AZIENDA
“MONTEBELLO” IN COMUNE DI MODIGLIANA
Nel 2006 il dottor Gabriele Locatelli, tecnico forestale della Comunità
Montana Acquacheta, mi invitò a effettuare un sopraluogo per esaminare la
situazione e per formulare delle linee guida per un piano di gestione forestale dell’Azienda Agricola Montebello, pervenuta in proprietà del Comune di Modigliana
dopo la liquidazione della Società Agricola Forestale per le piante da cellulosa
e da carta.
Era questa un’occasione di ripercorrere l’esperienza del professor Cantiani
quando era titolare della cattedra di Assestamento forestale all’Università di
Firenze, il quale, in diverse occasioni, veniva chiamato da amici e colleghi di
studi, o da persone che per conoscenza indiretta ne avevano stima, per sentire il suo
parere su problemi di gestione di complessi forestali di cui erano responsabili o per
affidargli la stesura di un piano di assestamento.
Così, fin dal primo momento in cui divenni suo assistente nel 1974, mi capitava di accompagnarlo o di vederlo partire e poi raggiungerlo in diverse parti
d’Italia. Dal versante ionico della provincia di Reggio Calabria, al monte Taburno
e alla Cerreta Cognole in Campania, alle faggete nel centro dell’Abruzzo o in
quelle dell’alto Molise.
Cantiani, spinto da inesauribile curiosità tecnica per i boschi, ma forse più
ancora per le condizioni di scenario, ovvero dei boschi con il loro contorno di
uomini, maestranze o amministratori, partiva per rendersi conto della situazione.
Era in queste occasioni che la sua capacità di osservazione, mediata dall’esperienza, lo portava ad individuare il nocciolo del problema con relativa semplicità.
Una naturale cortesia e l’onestà intellettuale gli consentivano di ascoltare con
attenzione e poi di individuare e proporre soluzioni concrete, in particolare, tra
queste, il tipo di trattamento selvicolturale, che vedeva non solo come funzionale
alla tipologia del bosco, ma soprattutto mai avulso dal contesto sociale e tecnico.
Una delle variabili che considerava importanti era la preparazione professionale
107
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
degli operatori, operai, sottufficiali o ispettori forestali che fosse. La sua esperienza gli forniva la chiave di lettura di situazioni incancrenite da errori di
gestione o dalla non curanza o dall’abuso. Aveva per norma di non gettarsi dietro le spalle questo tipo di problema rifugiandosi in complicate sentenze, ma
sapeva evidenziare in bosco e fuori le problematiche ed eventualmente le contraddizioni della prassi in vigore. E amava dare seguito alla sua visione del
modo di affrontare le situazioni lasciando sul terreno delle prove concrete di
quanto aveva in mente.
Ove c’era la possibilità realizzava aree dimostrative del trattamento da
applicare perché servissero di riferimento e di modello a chi avrebbe applicato le
indicazioni di un piano di assestamento. Quando ne aveva la possibilità visitava,
anche a distanza di anni, le aree dove aveva fatto piani di assestamento con gli studenti o con i collaboratori, e andava a verificare i risultati delle aree dimostrative realizzate.
In ricordo di questa prassi e dell’esperienza umana che mi ha legato ad essa
ho voluto inserire in questa raccolta di scritti lo STUDIO PER LA VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE E DIMOSTRATIVA DEL BOSCO NELL’AZIENDA “MONTEBELLO”.
Ciò che si è fatto si può prescrivere, non sempre viceversa.
Luigi Hermanin
108
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
STUDIO SU LA VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE
E DIMOSTRATIVA DEL BOSCO NELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
IN COMUNE DI MODIGLIANA1
Luigi Hermanin, Matteo Coppini
PREMESSA
Questo studio è stato eseguito grazie ad un accordo di collaborazione tra la
Comunità Montana “Acquacheta” e il Dipartimento di Scienze e Tecnologie
Ambientali Forestali dell’Università degli Studi di Firenze nell’ambito del progetto:
“PIANO DI GESTIONE SILVO-PASTORALE MULTIFUNZIONALE (PERIODO 2008-2017)
DELL’AZIENDA MONTEBELLO nei comuni di Modigliana, Tredozio e Rocca San
Casciano (FC)”, realizzato da Studio Verde di Forlì.
Lo studio che ha lo scopo di fornire indicazioni per formazioni arboree particolari che sono comprese nell’Azienda Montebello si compone di tre parti:
1. studio di dettaglio sulla produzione dei boschi cedui: verifica del turno, della
tipologia della matricinatura, delle cure colturali idonee a formazioni con
funzione multipla;
2. monitoraggio delle fustaie artificiali da realizzare mediante una rete di aree di
saggio permanenti e la programmazione di interventi di conservazione e dimostrativi;
3. studio di dettaglio teso a realizzare i pascoli alberati.
1 Hanno contribuito e collaborato nelle diverse fasi di lavoro e nell’elaborazione dell’indagine:
– i Dottori Forestali Alberto Belosi e Pierluigi Molducci dello Studio Verde di Forlì;
– il Dottore Forestale Alessandro Liverani, dirigente della Protezione Civile di Modigliana, responsabile della tenuta Montebello;
– i Dottori Forestali Stefano Casalbordino e Ginevra Salvadori, collaboratori del Dipartimento di
Scienze e Tecnologie Ambientali Forestali dell’Università degli Studi di Firenze;
– gli studenti del Corso di Laurea “Gestione dei sistemi forestali” che hanno partecipato a uno stage
formativo nel giugno 2007 e hanno eseguito alcuni rilievi dendrometrici.
109
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
STUDIO DI DETTAGLIO SULLA PRODUZIONE DEI BOSCHI CEDUI: VERIFICA DEL TURNO,
DELA TIPOLOGIA DELLA MATRICINATURA, DELLE CURE COLTURALI NEI POPOLAMENTI
DI CARPINO NERO
Nel Piano di Gestione silvo-pastorale multifunzionale dell’Azienda Montebello, i boschi di latifoglie, a seconda della destinazione, sono suddivisi nelle due
Classi colturali:
– Classe Colturale D: Ceduo di produzione
– Classe Colturale F: Fustaia transitoria e ceduo in conversione
Le formazioni che vi sono comprese hanno in comune l’origine agamica,
derivata dal governo a ceduo, e la forte presenza di carpino nero (Ostrya carpinifolia Scop.).
Poiché la somma delle superfici delle due classi è poco superiore a 100 ha, e
poiché una parte dei soprassuoli, segnatamente quelli a prevalenza di querce,
sono stati oggetto di interventi di avviamento ad alto fusto, si può affermare che
nell’Azienda vi siano circa 80 ha di bosco ceduo di carpino nero, sia puro, sia
misto ad altre latifoglie. Si tratta di soprassuoli su pendii marginali ad appezzamenti già a destinazione agricola.
Queste formazioni in passato erano trattate a ceduo semplice matricinato,
con matricine scelte, ove presenti, tra altre specie come roverella (Quercus pubescens Willd.) e ciliegio (Prunus avium L.).
Dai rilievi effettuati per questo studio risulta che i popolamenti cedui, se considerati nei confronti dell’uso, si possono comprendere in tre classi:
1. i popolamenti in turno,
2. i popolamenti oltre turno,
3. i popolamenti derivati da interventi colturali di avviamento a fustaia; questi
ultimi sono in elevata percentuale popolamenti misti.
Per l’analisi della funzionalità e delle possibili destinazioni d’uso del ceduo, è
opportuno valutarne la capacità produttiva. A questo scopo sono state eseguite
numerose aree di saggio per rilevare i parametri dendrometrici significativi, ovvero:
– l’età dei polloni;
– le distribuzioni diametriche, da cui si ricavano i valori per ettaro del numero
di piante, dell’area basimetrica e il diametro medio;
– un campione di altezze, per determinare l’altezza media.
Infine per determinare il volume per ettaro si è utilizzata l’equazione
vu = 0,07052 d1,79540 · h0,97391,
110
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
che esprime il volume unitario (vu ) in dm3 in funzione del diametro a 1,30 m (d)
in cm e dell’altezza (h) in metri, come indicato nella “Tavola alsometrica dei cedui
di carpino dell’Appennino romagnolo” (HERMANIN e BELOSI, 1993).
Per stimare la capacità produttiva dei popolamenti i dati per ettaro ottenuti dai
rilievi nelle aree di saggio sono stati confrontati con i valori riportati dalla “Tavola
alsometrica”.
RISULTATI
L’indagine sull’età ha rivelato che i popolamenti hanno età comprese tra 15 e
45 anni, secondo la distribuzione appresso indicata:
età
11-15 16-20 21-25 26-30 31-35 36-40 41-15 46-51 totale
ha
13,09
12,58
7,44
9,20
8,46
11,33
11,59
7,00
80,69
Produttività
Riguardo alla produttività i popolamenti esaminati si possono ascrivere alla
seconda classe di fertilità della Tavola alsometrica. I valori dell’incremento medio,
corretti in base alla densità reale (area basimetrica per ettaro), sono compresi tra
4 e 5 m3 ha-1 anno-1.
Pertanto la produzione complessiva del ceduo di carpino nero su 80 ha è 320400 m3 anno-1.
Turno
Nelle Prescrizioni di massima e di polizia forestale della Regione EmiliaRomagna è indicato in 20 anni, il turno minimo, e in 30 anni l’età oltre la quale
il popolamento non può essere ceduato senza autorizzazione.
In base alle condizioni dei popolamenti, e ai livelli di produttività riscontrati, si
ritiene invece che il turno possa essere superiore a tali valori. (cfr. Tabella 1). Infatti,
poiché il carpino nero conserva un’elevata capacità pollonifera anche in età avanzata,
si può fissare come turno di riferimento 35 anni, età alla quale, secondo la Tavola
alsometrica, l’incremento medio di massa totale è massimo (6,6 m3 ha-1 anno-1),
mentre quello di massa corrente è vicino ai valori massimi (5,5 m3 ha-1 anno-1).
L’applicazione del turno di 35 anni garantisce inoltre, in tale arco di tempo, grazie
alla mortalità naturale, un deposito di ben 20 m3 ha-1 di necromassa.
111
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
area
età
n/ha
1.1
1.2
2.1
2.2
2.3
3.1
3.2
4.1
4.2
38
15
28
40
40
25
45
30
26
12060
19433
17314
15600
15127
13662
15634
17741
13433
d medio
cm
11
15
16
18
19
15
18
17
15
h media
m
10,5
10,0
11,2
14,5
12,4
17,8
11,0
10,2
18,3
g
m2 ha -1
20,41
16,22
19,03
30,17
30,88
26,04
28,07
30,47
25,14
v
m3 ha -1
108,59
102,32
127,32
239,85
207,51
118,56
164,40
179,68
127,79
im v
m3 ha-1 y-1
*
6,82
4,55
6,00
5,19
4,74
3,65
5,99
4,91
Tabella 1 - Dati dendro-auxometrici rilevati nelle aree di saggio nei cedui di carpino nero.
(*Dato non calcolato perché l’area si riferisce ad un popolamento avviato all’alto fusto).
Si deve infine considerare che la Tavola alsometrica indica una più elevata produttività nei popolamenti derivati dal taglio del carpino in età avanzata. Ovvero,
si può confidare che le produttività del ceduo nel ciclo successivo al taglio del
ceduo stramaturo sarà maggiore di quella del ciclo precedente.
Matricinatura
I rilievi eseguiti hanno evidenziato una matricinatura relativamente disforme per
numero e per specie. Il numero delle matricine varia da un minimo di 50 a circa 100
per ettaro. Le matricine sono costituite in parte da piante di roverella o di cerro
(Quercus cerris L.) nelle stazioni più fresche, e di altre specie sporadicamente presenti come acero opalo (Acer opalus Mill.), ciliegio, castagno (Castanea sativa
Mill.)… Si è tuttavia rilevato che, nei popolamenti di età maggiore, più sviluppati,
le matricine di roverella appaiono in stato di avanzato deperimento e in molti casi
sono morte, palesemente a causa della concorrenza del soprassuolo di carpino nero.
È questo un fenomeno che si riscontra nei popolamenti misti in ambiente mediterraneo, ovvero caratterizzato da crisi di aridità. La specie più xerofila soffre la concorrenza per l’umidità esercitata da specie più esigenti rispetto a questo fattore.
Scelte colturali
Le scelte colturali devono tenere conto di un’ampia serie di fattori e di considerazioni.
Per la funzione produttiva, per quella di conservazione degli assetti culturale e
paesistico si dovrebbe mantenere il governo a ceduo, certamente adeguato a garantire lo status quo.
112
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Viceversa il governo a fustaia, che si può imporre tramite conversione, è idoneo alla tutela di alcuni tratti particolari del bosco di carpino in cui l’età avanzata,
la fertilità e la giacitura stazionale hanno già prodotto un bosco di alto valore scenico e ambientale. Mentre, per quanto espresso alla voce matricinatura, l’avviamento ad alto fusto, essendo il naturale prolungamento dello status di ceduo di età
avanzata, non sarà sufficiente ad aumentare la presenza delle specie diverse dal carpino nero. Ciò implica che la conversione tramite avviamento ad alto fusto debba
necessariamente salvare mediante isolamento tutte le specie altre presenti nel
ceduo di carpino.
Una terza opzione colturale tiene conto dell’importante utilizzo a pascolo bovino
di una parte del territorio e mira a integrare la funzione di produzione legnosa con
quella di produzione foraggera. È questo un obiettivo ambizioso, decisamente innovativo se inserito in un contesto di gestione razionale e puntuale, e che purtuttavia
non può venire applicato su ampia scala senza un’adeguata verifica sperimentale.
Pertanto si auspica la realizzazione di un’area da sottoporre ad un trattamento
selvicolturale basato sul seguente schema:
1. ceduazione del popolamento maturo
2. (da anni 0 e 16)
sviluppo dei polloni per 16 anni
3. (a 16 anni)
diradamento che rilasci circa 1/3 dei polloni viventi, da
eseguire nel periodo estivo
4. (da anni 16 e 25) ulteriore sviluppo dei polloni
5. (ad anni 28-32)
ceduazione
Rispetto a quanto indicato per il ceduo in produzione questo schema prevede
alcune varianti:
– turno abbreviato, rispetto a quello indicativo di 35 anni,
– massa cormometrica a fine turno equivalente o superiore,
– maggiori dimensioni unitarie dei polloni (diametro > 7 cm invece che < 6 cm).
Il diradamento a 16 anni, effettuato nei mesi estivi, ha lo scopo principale di
fornire frasca verde al bestiame al pascolo nel periodo di più accentuata penuria
di cotico erbaceo. Il materiale abbattuto deve essere lasciato in bosco a disposizione del bestiame. Dal punto di vista finanziario, il miglioramento colturale
dovuto alla riduzione del numero di piante, all’accorciamento del turno e all’aumento delle dimensioni unitarie non è forse in grado di giustificare l’intervento,
mentre diviene interessante per l’aspetto dell’offerta di foraggio in periodo di crisi.
Il materiale legnoso risultante dal diradamento potrà essere lasciato a disposizione
dei cittadini interessati alla raccolta di legna da ardere.
113
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
MONITORAGGIO DELLE FUSTAIE ARTIFICIALI DA REALIZZARE MEDIANTE UNA RETE DI
AREE DI SAGGIO PERMANENTI E LA PROGRAMMAZIONE DI INTERVENTI DI CONSERVAZIONE E DIMOSTRATIVI
Nel Piano di Gestione silvo-pastorale multifunzionale dell’Azienda Montebello, sono individuate una serie di particelle (U.d.C.) che comprendono soprassuoli derivati da piantagioni eseguite con finalità sperimentali, nonché soprassuoli
già sottoposti a trattamento ordinario, ma destinati a sperimentazione. L’insieme
di queste particelle costituisce la Classe Colturale S. Soprassuoli di interesse
scientifico.
Il DISTAF (Dipartimento di Scienze e Tecnologie Ambientali Forestali), in
forza dell’Accordo di collaborazione stipulato con la Comunità Montana Acquacheta, ha eseguito all’interno di tali soprassuoli una serie di rilievi per definire
interventi finalizzati alla conservazione e alla sperimentazione, nonché per seguire
nel tempo lo sviluppo delle fustaie artificiali.
Il periodo molto ristretto concesso per lo studio e l’indisponibilità dei fondi nel
periodo utile ai lavori non hanno consentito di eseguire rilievi in tutti i soprassuoli.
Quelli eseguiti sono però sufficienti a definire lo stato, la possibile destinazione
colturale, nonché gli interventi colturali più immediati, per i popolamenti più
rappresentativi.
Sono stati sottoposti a rilevamento dendrometrico i seguenti soprassuoli tipo:
1. fustaia di Pinus brutia Ten. (U.d.C. 10b),
2. fustaia di Pinus ponderosa P. & C. Lawson (U.d.C. 8c),
3. fustaia di Cedrus deodara (D. Don) G. Don fil (U.d.C. 3g),
4. fustaia di Prunus avium L. (U.d.C. 3d),
5. fustaia di Ostrya carpinifolia Scop. (U.d.C. 3e),
6. fustaia di Sorbus aria (L.) Crantz (U.d.C. 3f).
I soprassuoli di conifere (casi 1, 2 e 3), sono relativamente ben sviluppati, mentre quelli di latifoglie (casi 4, 5 e 6) hanno avuto uno sviluppo stentato e pertanto
sarebbe più aderente alla realtà definirli “piantagioni sperimentali parzialmente sviluppate”.
In considerazione di questa differenza di sviluppo, si è programmato un
diverso tipo di monitoraggio.
Nelle conifere si sono eseguite 4 aree di saggio permanenti: una per specie, più
una ripetizione nel Pinus brutia.
Nelle latifoglie invece sono stati eseguiti rilievi lineari di 2 file affiancate in
forma di transetto.
114
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Nelle aree permanenti, oltre ai rilievi, sono state eseguite simulazioni di intervento. Nei transetti, a causa dello scadente sviluppo, non si sono individuati interventi utili e per tanto non si sono effettuate simulazioni.
Le descrizioni delle aree e le simulazioni sono contenute in apposite schede di
cui alcuni esempi sono riportati nell’Allegato 1.
Monitoraggio permanente
Al fine di consentire il monitoraggio delle aree è essenziale che i limiti delle
aree siano perfettamente rintracciabili. Pertanto l’amministrazione dell’Azienda
Montebello deve provvedere a mantenere identificabili i limiti che, nel corso del
primo rilievo, sono stati marcati con strisce di vernice sulle piante esterne alle aree
di saggio.
Il monitoraggio prevede che il rilevamento dei parametri dendrometrici dovrà
essere eseguito ogni 2 anni.
Il rilevamento completo prevede il rilievo di:
– tutti i diametri,
– l’aggiornamento delle altezza delle piante già misurate,
– la registrazione di danni alle piante o alterazioni dell’area,
– individuazione dell’opportunità, della tipologia e dell’entità di un intervento.
Interventi
Nelle aree di saggio permanenti che ricadono in popolamenti di conifere sono
state individuate le seguenti tipologie di intervento colturale ordinario:
– diradamento dal basso di media intensità (20-25% del numero di piante),
– spalcatura (fino ad almeno 2,5 m dal suolo),
– ripulitura dalla vegetazione arbustiva ed arborea entrante.
Quest’ultima operazione è indispensabile per la buona conservazione dei
popolamenti compresi nelle aree permanenti, ai quali è riconosciuta preminente
funzione sperimentale. Pertanto non sarà necessario seguire in essi alcun criterio
di rinaturalizzazione.
Gli interventi prescritti per le aree di saggio vanno estesi a tutto il soprassuolo
di cui sono parte.
Oltre a quelli già indicati, interventi sperimentali particolari potranno interessare alcuni dei soprassuoli monitorati e altri compresi nella classe colturale.
Nei popolamenti di Cedrus deodara (U.d.C. 3g) e di Cedrus atlantica (U.d.C.
2c), in cui si registra una notevole differenza di sviluppo tra le parti marginali del
soprassuolo e quelle interne, si dovrà sperimentare, almeno su parte della superfi-
115
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
cie, la ripulitura del cotico erbaceo seguita da sarchiatura. Scopo della sperimentazione è la verifica della concorrenza per l’umidità tra strato erbaceo e strato arboreo.
Nelle “piantagioni sperimentali parzialmente sviluppate” di ciliegio, di carpino
nero e di sorbo si proverà, limitatamente ad alcuni filari, la tecnica della succisione,
taglio del fusto all’altezza del colletto, con lo scopo di verificare la possibilità di
riequilibrare il fusto delle piante, rispetto allo sviluppo dell’apparato radicale. Successivamente al riscoppio della ceppaia si procederà alla selezione dei migliori polloni fino a lasciarne uno solo.
Questo tipo di intervento non viene prescritto per i popolamenti in cui è presente il noce (Juglans regia L.), perché su questa specie è già stato sperimentato
senza tangibile successo.
Infine, nel popolamento di ciliegio, e limitatamente agli individui di migliore
forma e sviluppo, potrà essere effettuata la potatura per innalzare la chioma.
Il monitoraggio permanente e la messa in funzione di nuove aree di saggio permanenti consentirà di ampliare la sperimentazione sui soprassuoli di questa classe
colturale.
STUDIO DI DETTAGLIO FINALIZZATO ALLA REALIZZAZIONE DEI PASCOLI ALBERATI CON
INDICAZIONI ANCHE PER IL BOSCO PASCOLATO
Nella Classe Colturale A sono illustrate “le formazioni aperte con funzioni paesaggistiche, turistico-ricreative e di supporto all’attività di pascolo”. Si tratta in tutti
i casi di soprassuoli discontinui o radi già destinati ad arboricoltura da legno
derivati da piantagioni eseguite in aree già destinate a coltivi o a prati pascoli (vedi
l’Allegato 2).
Tali formazioni, che sono ben descritte nel Capitolo 4.B del Piano, sono
oggetto di un rilievo di dettaglio nel quale, oltre allo stato attuale, viene riportato
un modello di intervento, o simulazione, al fine di migliorarne la funzione di supporto all’attività di pascolo, in linea con gli obiettivi individuati.
Il rilievo di dettaglio ha preso in considerazione i tipi fisionomici più rilevanti,
ovvero riguardo alla composizione dei soprassuoli:
1. soprassuolo discontinuo misto di Picea abies e Juglans regia, con gruppi di
Alnus cordata, età 15-17 anni, copertura 30% (U.d.C. 8d);
2. soprassuolo discontinuo misto di Alnus cordata e Juglans regia, età 15-17 anni,
copertura 30% (U.d.C. 3c);
116
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
3. soprassuolo molto rado di Cedrus atlantica, con Pinus brutia e Pinus sylvestris,
sviluppo e struttura irregolari, copertura 30% (U.d.C. 10a);
4. soprassuolo rado misto di Pinus nigra e Pinus strobus.
Nei casi indicati ai punti 1, 2 e 3, si tratta di soprassuoli destinati ad arboricoltura da legno mediante piantagione su filari ampiamente distanziati tra loro. Si va
da un minimo di 3,6 m nel soprassuolo misto di Picea abies e Juglans regia tra filari
delle due specie, fino a 7 m nel soprassuolo misto di Alnus cordata e Juglans. Ne
deriva un soprassuolo rado, sia per la densità di partenza, sia per lo scarso sviluppo.
Il soprassuolo misto di Pinus nigra e Pinus strobus, che è derivato da piantagione a sesto più ristretto (2x3 m), è invece lacunoso a seguito di abbondanti fallanze non risarcite e per lo scadente sviluppo di parti del soprassuolo.
Di pari passi con il rilievo, realizzato mediante diversi transects, è stata attuata
una simulazione del primo intervento da eseguire. Criterio guida nel recupero della
destinazione a pascolo è attuare interventi incisivi seppure all’interno di una trasformazione progressiva. Si dovrà alleggerire la copertura arborea, asportando
piante arboree di sviluppo e portamento scadente, ma anche di piante considerate
sovranumerarie nella prospettiva dell’uso a pascolo.
Nel caso dei filari alternati di noce e abete rosso, è prevista l’eliminazione di
gran parte delle piante di noce, in prevalenza poco e male sviluppate, e di un elevato numero (50%) di piante di abete rosso in modo da interrompere la continuità
dei filari (cfr. “Transetto 6”, All. 2). Ne risulterà un’area di prato pascolo, in cui
le poche piante di noce risparmiate e i residui segmenti di filare di abete rosso
avranno la funzione di costituire delle aree di meriggio (protezione dal sole nel
periodo di massima calura) e delle quinte protettive, creando così un ambiente
favorevole al bestiame domestico e selvatico e di aspetto gradevole. Sui tempi lunghi si potrà diversificare gli interventi di recupero. Infatti, mentre la lunghezza dei
segmenti di filare dovrà essere ulteriormente ridotta, si potrà altresì mettere a
dimora, fuori dai filari e con le opportune protezioni, piante di latifoglie locali per
aumentare il valore estetico e naturalistico delle aree di bosco pascolato.
Di aspetto meno particolare risulterà il pascolo ove attualmente insistono
filari alternati di noce e ontano napoletano. Qui si prevede di ridurre di 1/3 il
numero delle piante lasciando una copertura rada, circa 200 piante/ha, in grande
prevalenza formata da ontano. Nel tempo, il numero di piante verrà periodicamente
ridotto in modo da regolare l’espansione della copertura arborea.
Nel soprassuolo molto rado di Cedrus atlantica con Pinus brutia e Pinus sylvestris, derivato da una piantagione a maglia larga (3x5 m), in cui il pino è presente
in modo episodico nell’interfilare, e la copertura arborea è allo stato attuale
117
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
ancora così poco sviluppata da consentire la presenza di un cotico erbaceo folto
e continuo, si prevede di operare per mantenere nel tempo la discontinuità tra le
chiome riducendo progressivamente il numero delle piante (cfr. “Transetto 8”,
All. 2). Il primo intervento asporterà fino al 40% delle piante presenti (solo 25%
in volume), e dovrà essere attuato in modo da realizzare aree prive di alberi con
sviluppo lineare tipo parcours. In considerazione della copertura della chioma più
leggera, si tenderà a conservare le piante di pino ben sviluppate che sono sparse
nel popolamento.
Un caso completamente diverso è rappresentato dal soprassuolo rado misto di
Pinus nigra e Pinus strobus (cfr. “Transetto 9”, All. 2). Questo popolamento è
situato in una particella in cui il pascolo rappresenta un uso accessorio, non prioritario. Esso tuttavia ben si presta a rappresentare la situazione del pascolo in
bosco. Il popolamento ha densità scarsa ed è caratterizzato da lacune con cotico
erbaceo del tipo a brachipodio (Brachypodium pinnatum (L.) Beauv.). Qui l’obiettivo è di mantenere la copertura arborea consentendo il miglior uso della
risorsa del pascolo. In sintesi si opereranno i normali diradamenti che saranno del
tipo “dal basso” e di intensità medio-forte. In concomitanza di questi si opererà sul
margine delle lacune esistenti con il duplice obiettivo di allagarle e di consolidare
il margine del bosco, selezionando gli alberi più robusti atti a sopportare l’isolamento e a costituire dei punti di resistenza nei confronti delle avversità climatiche
(vento e neve). All’interno delle lacune verranno lasciate in piedi le piante isolate
che presentino i requisiti di vitalità e robustezza (elevato rapporto ipsodiametrico).
RINGRAZIAMENTI
Si ringrazia il Sindaco di Modigliana e Presidente della Comunità Montana
“Acquacheta” Claudio Samorì, e il dottor Gabriele Locatelli dell’Ufficio tecnico
della Comunità, per il supporto offerto e per la convinzione con cui hanno sostenuto i lavori.
BIBLIOGRAFIA
HERMANIN L., BELOSI A., 1993. Tavola alsometrica dei cedui di carpino nero dell’Appennino romagnolo. L’Italia Forestale e Montana 6: 353-372.
118
ALLEGATO 1
Il monitoraggio delle fustaie
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
Area di saggio 2 – U.d.C. 8 – Pinus ponderosa e Pinus sylvestris
Caratteristiche dell’area
Specie principale
Specie secondaria
(m2)
Caratteristiche dendrometriche
ante
int. post
Pinus ponderosa
Pinus sylvestris
N
833
178
654
21
G
(m2
ha-1)
32
5
28
14
(m3
ha-1)
11
Superficie
Anno d’impianto
1177
1974
V
dg (cm)
194
22
21
18
174
23
Tasso di sopravvivenza
70%
hm (m)
12
11
13
distribuzione del numero di piante in classi diametriche di 3 cm
120
%
ha-1
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Curva ipsometrica
altezza (m)
16
14
12
10
8
6
4
2
0
0
10
20
diametro (cm)
30
Posizione dell’area su foto aerea
121
40
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
prima dell’intervento
dopo l’intervento
122
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Area di saggio 4 – U.d.C. 10 b – Pinus brutia e Pinus sylvestris
Caratteristiche dell’area
Specie principale
Specie secondaria
(m2)
Caratteristiche dendrometriche
ante
int. post
Pinus brutia
Pinus sylvestris
N
632
169
463
27
G
(m2
ha-1)
40
5
35
12
(m3
ha-1)
9
Superficie
Anno d’impianto
1187
1978
V
dg (cm)
356
28
32
19
324
31
Tasso di sopravvivenza
60%
hm (m)
15
13
16
distribuzione del numero di piante in classi diametriche di 3 cm
123
%
ha-1
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
Curva ipsometrica
altezza (m)
25
20
15
10
5
0
0
10
20
30
diametro (cm)
Posizione dell’area su foto aerea
124
40
50
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
prima dell’intervento
dopo l’intervento
125
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
Transetto 1 – U.d.C. 3 h – Sorbus aria
Caratteristiche dell’area
Specie principale
Caratteristiche dendrometriche
N ha-1
Sorbus aria
Specie secondaria
(m2)
G
757
(m2
ha-1)
2
(m3
ha-1)
Superficie
Anno d’impianto
238
1975
V
dg (cm)
8
6
Tasso di sopravvivenza
90%
hm (m)
5
distribuzione del numero di piante in classi diametriche di 3 cm
Curva ipsometrica
126
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Posizionamento del transetto su foto aerea
ricostruzione tridimensionale della distribuzione delle piante nel transetto
127
ALLEGATO 2
Studio di dettaglio per la realizzazione di pascoli arborati
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
Transetto 6 – U.d.C. 8 d – Picea abies e Juglans regia
Caratteristiche dell’area
Specie principale
Specie secondaria
(m2)
Caratteristiche dendrometriche
ante
int. post
Picae abies
Juglans regia
N
1377
669
708
49
G
(m2
ha-1)
3
1
2
43
(m3
ha-1)
43
Superficie
Anno d’impianto
254
1987
V
dg (cm)
8,6
6
3,7
5
4,9
6
Tasso di sopravvivenza
60%
hm (m)
4
4
4
distribuzione del numero di piante in classi diametriche di 3 cm
130
%
ha-1
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Curva ipsometrica
altezza (m)
7
6
5
4
3
2
1
0
0
2
4
6
diametro (cm)
Posizione dell’area su foto aerea
131
8
10
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
prima dell’intervento
dopo l’intervento
132
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Transetto 8 – U.d.C. 10 a – Cedrus atlantica e Pinus brutia
Caratteristiche dell’area
Specie principale
Specie secondaria
(m2)
Caratteristiche dendrometriche
ante
int. post
Cedrus atlantica
Pinus brutia
N
708
320
388
45
G
(m2
ha-1)
20
6
14
28
(m3
ha-1)
23
Superficie
Anno d’impianto
593
1978
V
dg (cm)
121
19
28
15
93
22
Tasso di sopravvivenza
100%
hm (m)
10
9
11
distribuzione del numero di piante in classi diametriche di 3 cm
133
%
ha-1
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
Curva ipsometrica
altezza (m)
16
14
12
10
8
6
4
2
0
0
10
20
30
diametro (cm)
40
Posizione del transetto su foto aerea
134
50
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
prima dell’intervento
dopo l’intervento
135
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
Transetto 9 – U.d.C. 11 – Pinus strobus e Pinus nigra
Caratteristiche dell’area
Specie principale
Specie secondaria
(m2)
Caratteristiche dendrometriche
ante
int. post
Pinus strobus
Pinus nigra
N
1088
344
744
32
G
(m2
ha-1)
30
16
14
52
(m3
ha-1)
51
Superficie
Anno d’impianto
349
1978
V
dg (cm)
211
19
108
24
103
16
Tasso di sopravvivenza
60%
hm (m)
14
16
12
distribuzione del numero di piante in classi diametriche di 3 cm
136
%
ha-1
VALORIZZAZIONE MULTIFUNZIONALE DELL’AZIENDA “MONTEBELLO”
Curva ipsometrica
altezza (m)
20
15
10
5
0
0
10
20
diametro (cm)
30
Posizione del transetto su foto aerea
137
40
LUIGI HERMANIN, MATTEO COPPINI
prima dell’intervento
dopo l’intervento
138
SUL METODO COLTURALE E… ALTRO
Orazio la Marca
Il metodo colturale, formulato da LÉON PARDÉ (1930) per i boschi della Francia,
fu perfezionato e adattato alle realtà del nostro Paese da MARIO CANTIANI (1963) e
dallo stesso Autore ampiamente applicato, sia per i boschi coetanei che disetanei, in
tutte quelle situazioni in cui esistevano “strutture alterate da utilizzazioni disordinate
condotte, per mancanza di piani di assestamento, senza uniformità di indirizzo;
impoveriti di provvigione e con una variabilità di forme e di composizione che rendono a prima vista perfino difficile stabilire la forma di trattamento”.
Chi ha trascorso con il Professor Cantiani giornate indimenticabili nei boschi,
soprattutto dell’Italia meridionale, sa bene che Egli non ha mai pensato di codificare queste situazioni di disordine, confondendo l’irregolarità strutturale con la
complessità bio-ecologica, che è cosa profondamente diversa.
Il bosco normale rimaneva comunque un punto di riferimento, anche se in
termini pratici non raggiungibile in tempi ragionevoli in quanto, a livello di compresa assestamentale, sarebbe risultato irrealizzabile perseguire alla lettera l’equilibrio tra lo stato reale e quello normale. Ciò nonostante, nelle situazioni in cui
è stato proposto il metodo colturale, lo studio del bosco normale era semplicemente rinviato. In siffatte situazioni, i rilievi provvigionali ed i successivi calcoli
della ripresa avrebbero costituito, giustamente, uno spreco di risorse senza dare
utili indicazioni programmatiche atte a migliorare le condizioni di “dissesto” del
bosco in esame.
Si tratta della trasposizione pragmatica delle decisioni che in assestamento tendono a stabilire una scala prioritaria dei problemi da risolvere e di concentrare la
propria attenzione, e le risorse disponibili, su quelli più urgenti per migliorare le
condizioni del bosco da assestare.
In questo contesto una delle operazioni più importanti nelle prime fasi dell’assestamento è costituita dall’impostazione di un particellare a larghe maglie
finalizzato a contenere tipologie vegetazionali, anche soltanto potenzialmente
139
ORAZIO LA MARCA
omogenee, allo scopo di non frazionare eccessivamente questo importante supporto all’assestamento di una foresta.
La ripresa stabilita con il metodo colturale, se effettuata come l’illustre Maestro ci ha insegnato, “…con grandissimo impegno nei rilievi delle caratteristiche
selvicolturali delle particelle e con intuito ed esperienza nel prescrivere i tipi di
intervento, …confrontata e contenuta nei limiti prudenziali tanto da non superare
il saggio di accrescimento naturale del bosco”, comporterà il miglioramento
delle condizioni strutturali e provvigionali del popolamento nel suo complesso.
Il Metodo colturale è stato impiegato dalla Scuola fiorentina, che ha visto nel Prof.
Cantiani una personalità di spicco che, come riferisce l’Illustre Autore, …ha
sempre calcolato la ripresa con criteri colturali anche nei boschi poco dissestati.
In questi casi… l’applicazione dei metodi provvigionali è servita solo per controllare la ripresa fissata secondo indirizzi selvicolturali.
L’interpretazione sopra riportata del Metodo colturale, oltre che frutto di indimenticabili approfondimenti sull’argomento avuti con il compianto Maestro,
trova piena conferma in un articolo di PETTINÀ (1989) sulla Rivista L’Italia Forestale e Montana, all’epoca diretta dal Prof. Cantiani.
Raffaella Pettinà, dottore di ricerca in Economia e Pianificazione forestale
presso l’Istituto di Assestamento e Tecnologia forestale, diretto da Mario Cantiani,
in maniera esplicita afferma che…il Metodo colturale è un metodo di emergenza,
di primo approccio, da adottare cioè in boschi irregolari nella prima fase dell’assestamento. In altra parte del testo, oltre a ribadire il carattere di provvisorietà
del metodo, viene riconosciuto il carattere programmatico transitorio in attesa di
sviluppi verso situazioni normali… Riconoscere che un popolamento non può
essere normalizzato entro un primo periodo di intervento non significa negare in
assoluto una possibilità di normalizzazione.
HELLRIGL (1986), nell’ambito di un lavoro relativo alle metodologie adottate
nell’Assestamento forestale del nostro Paese, scritto a più mani con altri Autori tra
cui Mario Cantiani, partendo dall’esame delle correnti di pensiero che hanno
portato al concetto di “bosco permanente” (Dauerwald) ed alla selvicoltura naturalistica, giunge ad individuare una filosofia assestamentale che chiama metodo
selvicolturale per la determinazione della ripresa. Il fine Studioso premette che
in Italia la descrizione del metodo e delle sue pratiche applicazioni non risulta
facile, per mancanza di una dottrina consolidata e di una sufficiente bibliografia.
Ciò nonostante analizza ed ordina i criteri sino all’epoca applicati ed individua possibili future evoluzioni.
140
SUL METODO COLTURALE E… ALTRO
Da un punto di vista metodologico e concettuale vengono intraviste tre forme
di applicazione che, in maniera diretta o indiretta, fanno riferimento ad uno stadio rappresentato dal bosco normale:
1. il procedimento selvicolturale incondizionato, non viene formulato alcun
modello normale mentre le prescrizioni colturali vengono formulate nei singoli popolamenti con il solo fine di migliorarne l’assetto e la funzionalità. Par
di capire che si tratti delle situazioni più difficili dal punto di vista strutturale.
L’Autore parla di casi in cui il problema prioritario è quello di assicurare la
sopravvivenza del bosco mentre risulta impossibile, prematuro o troppo incerto
preconfigurare uno stato normale ovvero soltanto qualche suo parametro
indicativo;
2. il procedimento selvicolturale orientato in cui in modo esplicito, ai fini delle
prescrizioni selvicolturali per i singoli popolamenti, si fa riferimento ai parametri del bosco normale;
3. il procedimento selvicolturale integrato, che l’Autore ritiene ancora in fase di
collaudo operativo, rivolto a quei boschi in cui sia chiaramente preconfigurabile un modello di bosco normale.
A questo riguardo è opportuno puntualizzare che oggi il concetto di normalità è oltremodo più ampio di quello cui si è fatto riferimento in passato in
quanto più numerose e complesse sono le aspettative che la società attuale pone
nelle foreste.
Si tratta di aspettative che in parte ricalcano quelle per così dire storiche, in
parte ne ridimensionano la portata (vedi ad esempio la ricerca della massimizzazione della ripresa e della sua costanza nel tempo, un tempo ricercata in maniera
talvolta maniacale, oggi avente un’importanza spesso relativa, soprattutto nella
gestione delle foreste di proprietà pubblica), in parte sono nuove e riflettono le
condizioni culturali, economiche e sociali delle popolazioni. A questo riguardo non
rappresenta certamente una novità che nelle prescrizioni selvicolturali per l’assestamento di un bosco “si sacrifichi” una parte della produttività a favore di un
assetto vegetazionale più vicino alle condizioni naturali in cui si opera, oppure per
ragioni storiche o paesaggistiche. Nessuno oggi si sognerebbe di trasformare
boschi naturali, ad esempio di faggio, in rimboschimenti di abete o di douglasia
in una foresta demaniale in ragione della maggiore convenienza economica della
coltivazione delle suddette conifere rispetto alla latifoglia sopra riportata. Eppure
tutti sappiamo che quanto sopra è avvenuto in un determinato contesto storico e
socio economico, sia nel nord Europa sia nel nostro Paese, anche in una foresta che
ha rappresentato il tempio dei forestali italiani.
141
ORAZIO LA MARCA
La gestione del bosco, oggi come una volta, deve tener conto del contesto socio
economico e delle aspettative che la società si attende da questo bene, rivelatosi
nel tempo di primaria importanza per la stessa sopravvivenza dell’uomo.
Nell’attuale realtà del nostro Paese ciò che si intende gradualmente raggiungere per ciascun ambiente e in un certo periodo di tempo è una tipologia vegetazionale stabile e durevole, il più possibile vicina, per composizione specifica, a
quella naturale. Per tutti i boschi che hanno subìto l’azione dell’uomo (praticamente la totalità del nostro patrimonio forestale) sarà necessario mettere in atto
interventi finalizzati a favorire la rinaturalizzazione.
Il processo di rinaturalizzazione coinvolge necessariamente tutte le componenti
vegetazionali: in effetti il riferimento alla esclusiva componente arborea sarebbe
limitante, mentre bisogna estendere l’analisi a tutte le specie vegetali presenti nell’ecosistema, non escludendo l’eventuale impiego di altri bioindicatori.
In questo contesto si rendono necessari tutti quegli interventi selvicolturali a
sostegno di un progressivo miglioramento strutturale e bioecologico del popolamento forestale e che favoriscano la biodiversità; interventi che mirano al ripristino
di strutture e composizioni specifiche complesse più vicine al nostro concetto di
natura, non necessariamente naturali nel senso stretto del termine, non essendo in
molte situazioni chiaramente identificabile e/o raggiungibile il suddetto stadio.
All’Assestamento è demandato il ruolo di interpretare lo stato delle differenti
formazioni boschive di un’azienda, di un complesso demaniale, di una riserva e
ricercare il miglior compromesso possibile per far si che, sulla base dei meccanismi che garantiscono la perpetuazione del bosco e nel rispetto delle leggi in
vigore, lo stesso eserciti al meglio le funzioni e le aspettative che la proprietà da
esso si attende.
Anche fattori culturali locali concorrono a scegliere il trattamento, poiché la
selvicoltura di una determinata area dipende anche dalla familiarità che le popolazioni hanno con le specie e le relative forme di coltivazione (BOVIO, 1995). Prescrizioni selvicolturali complesse o addirittura di difficile trasposizione in termini
pragmatici aumentano le probabilità di accantonamento (in un cassetto) del piano
di assestamento. CANTIANI (1986) sull’argomento specifico qui in discussione, a
proposito della scelta dei modelli colturali, inequivocabilmente ed in linea con il
Suo insegnamento, afferma che …l’assestatore deve con la sua capacità ed esperienza sapere adottare i metodi più semplici e duttili che consentano di operare
con il criterio della massima economicità.
142
SUL METODO COLTURALE E… ALTRO
Pertanto, atteso che in ogni caso la gestione forestale non può che essere
integrata, le prescrizioni per una compresa di protezione saranno diverse da quelle
che ben si adattano ad una compresa in cui le funzioni turistico-ricreative, oppure
quelle produttive, sono preminenti o comunque rappresentano una componente
importante. Il forestale in questo modo, nel rispetto degli indirizzi gestionali stabiliti ad un livello gerarchico superiore a quello di un Piano aziendale, sulla base
delle condizioni stazionali, stabilisce di assicurare alcune funzioni ritenute prioritarie (vedi difesa del suolo, biodiversità), successivamente attribuisce un peso agli
obiettivi di produzione legnosa e non legnosa, di valorizzazione del paesaggio etc.
Da ciò scaturisce il trattamento da applicare e, quello che più è importante, gli
interventi selvicolturali coerenti con il trattamento o che assecondano i processi
evolutivi in accordo con il trattamento precedentemente individuato.
Questo modus operandi ha fornito concreti risultati in numerose realtà, non
soltanto italiane, in cui l’Assestamento forestale vanta antiche tradizioni. In Italia, se facciamo riferimento ad alcune Regioni del nord (Piemonte, Valle d’Aosta,
Veneto, Friuli…) ed alle Province autonome di Trento e Bolzano, la risultante della
gestione secondo indirizzi (costantemente aggiornati per tener conto delle mutate
aspettative della società e delle conoscenze acquisite proprio dall’esame di risultati conseguiti con la panificazione forestale), è costituita da un generale miglioramento delle condizioni del patrimonio forestale dal punto di vista provvigionale,
strutturale e compositivo e, conseguentemente, del ruolo che esso svolge nella
società moderna.
In Francia ad esempio, la Revue Forestière Francaise (1999) ha dedicato un
numero speciale all’Assestamento forestale in cui tra l’altro si ribadisce con chiarezza e lucidità che l’Assestamento, in accordo con PARDÉ (1930), con VANNIÈRE
(1981), con MORMICHE (1984), consiste …nell’adattare la foresta alle aspettative
dell’uomo (PEYRON, 1999). La prima parte del volume è dedicata all’evoluzione
concettuale dell’Assestamento forestale, la seconda è dedicata all’Assestamento
forestale nella pratica, la terza all’Assestamento nei principali Paesi che vantano
tradizione in questo settore.
Emerge chiaramente un approccio pragmatico, nel contempo ecologico ed economico, a scala territoriale in quanto la flora e la fauna, come giustamente fa osservare PEYRON (1999), ignorano i confini di proprietà. Rispetto alla tradizione italiana, c’è da osservare che in Francia normalmente il Piano di assestamento forestale, oltre alla gestione della flora, si occupa anche della gestione della fauna. Un
interessante contributo di BASTIEN (1999) si riferisce all’Assestamento delle
fustaie irregolari in Francia. Si tratta ancora una volta di un approccio pragmatico
143
ORAZIO LA MARCA
che riconosce all’assestamento l’obiettivo della gestione “durevole” secondo un
approccio multifunzionale che si prefigge di raccordare le tre grandi funzioni della
foresta: produttiva, protettiva e sociale. All’assestamento è demandato il compito
di fissare le strategie di gestione ed alla selvicoltura la possibilità di esprimersi. Nel
caso della fustaia a struttura irregolare, in cui coesistono piante di dimensioni differenti, è necessaria un’analisi a livello di sottoparticella che, a seconda dei casi,
può interessare anche unità di superficie modesta. Secondo l’Autore …gli interventi colturali (di rinnovazione e di diradamento) possono essere distinti a livello
di sottoparticella quando le sottounità, aventi strutture elementari regolari, sono
reperibili e cartografabili. Se l’irregolarità dei popolamenti può momentaneamente impedire la ricerca dell’equilibrio a livello della particella, l’obiettivo
dell’assestamento è di tendere a detto equilibrio. Si tratta quindi ancora una volta
di un’impostazione pragmatica che caratterizza la Scuola forestale francese.
D’altra parte sicuramente non sono casuali le due edizioni del Manuel d’Amenagemet foréstier (DUBOURDIEU, 1986 e 1997), un testo ufficialmente adottato
dall’Office National des foretes francese, che per la sua efficacia didattica è stato
tradotto anche in italiano (BOVIO e LA MARCA, 1996), un manuale estremamente
pratico che, oltre a ribadire i concetti fondamentali dell’Assestamento forestale,
indica metodologie chiare e coerenti con le realtà da affrontare.
Un’ultima notazione riguarda i rapporti e le relazioni tra dottrina e didattica.
La dottrina, nell’accezione dell’insieme del sapere e della speculazione teorica proveniente dagli studiosi del settore, contribuisce ad approfondire conoscenze in un
determinato settore e ad aggiungerne di nuove, la didattica, dal greco didàsko
(insegno), comprende la teoria e la pratica dell’insegnare. La didattica si occupa
anche dell’efficacia dei metodi per trasmettere il sapere, comprende, quindi,
anche la tecnica della semplificazione e della relazione finalizzata a favorire l’apprendimento. In questo senso vanno intesi anche la proposizione del trattamento
selvicolturale, esso stesso composto di interventi schematici, del turno da adottare,
dello studio del bosco normale… e di altro.
Bisogna, mi sembra persino banale, osservare inoltre che qualsiasi innovazione, prima ancora di essere proposta, necessita di una puntuale sperimentazione
per verificare effettivamente i risultati del nuovo rispetto al tradizionale. Se quanto
sopra affermato è vero in senso generale, diventa ancora più importante in un settore, come quello che qui interessa, caratterizzato da tempi lunghi, molto spesso
lunghissimi.
Un ulteriore compito dell’Assestamento è rappresentato dalla funzione di
controllo dell’operato del selvicoltore attraverso parametri descrittivi e den-
144
SUL METODO COLTURALE E… ALTRO
droauxometrici che, in tal modo, oltre ad assumere il significato di indicatori
dello stato generale del bosco, rappresentano importanti punti di riferimento dell’operato trascorso e delle prescrizioni per il futuro. Se le prescrizioni assestamentali non sono chiare, o peggio ancora lasciano mano libera a chi è incaricato
dell’applicazione del piano con l’assunto, che potrebbe essere anche pretestuoso,
che ogni intervento è conseguenza di quello precedente e condiziona quello successivo, è possibile una generale disattenzione degli obiettivi specifici che hanno
dato origine all’Assestamento forestale. In siffatte condizioni gli abusi sarebbero
di difficile evidenza.
Non bisogna infatti dimenticare che le origini dell’Assestamento forestale si
fanno coincidere con l’emanazione di regolamenti e norme finalizzate a garantire
la durevolezza e la continuità dell’uso dei boschi da parte dell’uomo (cfr. Ordinanza di Colbert del 1669, norme della Repubblica di Venezia, etc.) in conseguenza di un generalizzato abuso che aveva determinato un progressivo impoverimento e degrado delle foreste. Quanto sopra sarebbe in contrasto con le leggi
forestali emanate dalle Regioni che, in accordo con quanto previsto già dal R.D.L.
30 dicembre 1923, n° 3267, con il provvedimento di approvazione del Piano di
assestamento (e di eventuali altri elaborati richiesti in particolari situazioni – vedi
valutazioni di incidenza ambientale per aree che ricadono nell’ambito della rete
Natura 2000), autorizzano l’uso delle risorse come indicato dal piano stesso e per
la durata del medesimo;
Numerose Regioni hanno fatto proprio anche l’articolo 130 del suddetto
R.D.L., relativo all’obbligo per le proprietà pubbliche di utilizzare i boschi in
conformità ad un piano economico. La stessa “Pianificazione paesistica e tutela
dei beni e delle aree sottoposti a vincolo paesistico“ emanata da alcune Regioni,
individua nel Piano di Assestamento forestale lo strumento per la gestione dei
patrimoni forestali in conformità agli obiettivi di tutela paesistica (cfr. Lazio L.R.
6 luglio, 1998, n° 24).
Questo per ribadire la stretta connessione tra aspetti normativi, che si preoccupano della tutela del bosco, e Piani di Assestamento forestale.
I rilievi multitemporali, eseguiti in occasione della compilazione dei Piani di
Assestamento forestale, si prestano a verificare l’aderenza del trattamento praticato e, laddove dovesse risultare opportuno, ad operare le correzioni del caso. Un
esempio da manuale viene offerto dall’applicazione del “Metodo del controllo”,
proposto da GURNAUD (1980) per le foreste del Giura e ripreso in Svizzera da BIOLLEY (1920), che sottolinea l’approccio sperimentale e l’analisi a posteriori dei risultati conseguiti con la gestione del bosco.
145
ORAZIO LA MARCA
Il Metodo del controllo, sebbene con sfaccettature differenti in Svizzera, in
Francia ed in Italia, pur partendo da un modello colturale di riferimento, stabilito
sperimentalmente sul terreno, ne mette continuamente in discussione la validità
e, per approcci successivi, tende a raggiungere una situazione di equilibrio tra
provvigione, incremento e ripresa. Si tratta di una normalità soltanto in prima
approssimazione predefinita, successivamente verificata sperimentalmente in
seguito ad esigenze diverse che vanno dalla multifunzionalità della stragrande
maggioranza dei nostri boschi, alla necessità di contemplare vincoli di carattere
naturalistico e ambientale oppure alla necessità di salvaguardare una particolare
domanda da parte della società. In questo modo, agendo per successivi tentativi
sul diametro di recidibilità, sui criteri colturali per la cura delle singole piante in
relazione alle differenti esigenze, è possibile giungere a situazioni di equilibrio
anche sostanzialmente differenti da quelle iniziali. Un esempio a questo riguardo,
come ho avuto modo di vedere di persona, è rappresentato dai lavori di SUSMEL
e KLEPAÇ relativamente alle abetine disetanee miste del Gorski Kotar, un ampio
altopiano carsico tra la Slavonia e la Croazia, in cui i suddetti Studiosi, agendo sul
diametro di recidibilità e sui criteri di selezione delle piante, hanno gradualmente
reso la struttura e la composizione di questi boschi sempre più articolata fino a più
che raddoppiare la provvigione e l’incremento.
Sia nella realtà svizzera sia in quella francese ed anche italiana, ad opera degli
studi di SUSMEL, 1955 e 1956, sono stati codificati modelli di riferimento che,
ovviamente, rappresentano una guida e, pertanto, come tali vanno interpretati
(vedi la norma del bosco disetaneo, oppure l’equilibrio tra classi diametriche piccole, medie e grosse).
In Italia risultati importanti dal punto di vista applicativo si sono avuti in
alcune Regioni del nord in seguito all’applicazione di sistemi di gestione forestale
che fanno riferimento alla selvicoltura naturalistica proposti da CRISTOFOLINI per
il Trentino, da HOFMANN per il Friuli e teorizzati da SUSMEL per le foreste dell’arco
alpino. La risultante è stata un generale miglioramento dei principali parametri biologici e funzionali degli ecosistemi forestali.
Un ulteriore passo in avanti si è avuto più di recente con l’introduzione in molte
regioni italiane delle tipologie forestali, in particolare per il supporto alle decisioni
assestamentali e selvicolturali che da esse è possibile trarre (DEL FAVERO, 1996).
Nonostante la lunghezza dei cicli forestali il suddetto approccio ha resistito
all’usura del tempo anche se, bisogna dirlo, non sono mancate e non mancano teorie che si discostano dal rigore della ricerca e della sperimentazione.
146
SUL METODO COLTURALE E… ALTRO
BIBLIOGRAFIA
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BOVIO G., LA MARCA O., 1996. Manuale di Assestamento. Editore Bosco e Ambiente.
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natura. Dendronatura 2: 7-12.
DUBOURDIEU J., 1997. Manuel d’Aménagement. Office National des Forêts.
GURNAUD A., 1890. La méthode du controle et la tradition forestière. Revue des eaux et
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forestale. ISEA (BO): 1028-1045.
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et du sud-ouest, tome 55, fasc. 2: 129-140.
PARDÉ L., 1930. Traité pratique d’aménagement des forêts. Paris.
PEYRON J.L., 1999. L’aménagement forestier: une discipline ancienne, evolutive et
féconde. Revue forèstiere francaise. Numero speciale LI: 13-20.
PETTINÀ R., 1989. Il Metodo colturale nell’Assestamento forestale. L’Italia Forestale e
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Pubblicazione della Stazione Sperimentale di Selvicoltura, n. 9, Firenze.
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L’Italia Forestale e Montana, n. 3: 105-116.
VANNIERE B., 1981. Cours d’aménagement; 2e partie: aménagement générale. Nancy:
ENGREF.
147
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO
DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Orazio la Marca1, Giuseppe Notarangelo2
RIASSUNTO - Gli Autori riportano i risultati di indagini sperimentali dendroauxometriche e sulla qualità dei prodotti ritraibili, ottenute dopo circa 20 anni di
sperimentazione, relativamente a due differenti intensità di diradamento di tipo
basso in una fustaia di querce (a prevalenza di cerro), originatasi da tagli successivi uniformi applicati su vaste superfici, confrontati con aree lasciate ad
evoluzione naturale. Vengono infine riportati alcuni dati sulla produzione di lettiera relativamente ad un periodo immediatamente successivo alla realizzazione
degli interventi selvicolturali ed alcune considerazioni di carattere economicofinanziario.
ABSTRACT - Forest management or conservative use: the case of a turkey oak forest.
The authors report the results of experimental investigations about forest growth,
yield and quality of timber assortments, carried out in Turkey oak high forest
stands, grown after shelterwood cuttings applied on a wide forest area. The results,
obtained after about 20 years of testing, relate to two different intensity of thinning “from below”, compared with areas left to natural evolution. Moreover
some data are reported about the production of litter on a period immediately following the experimental fellings; finally, some comments are made on economic
and financial results resulting from intermediate thinnings.
1
2
D.I.S.T.A.F. Università degli Studi di Firenze.
CRA-MPF unità di ricerca per il Monitoraggio e la Pianificazione Forestale.
149
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
INTRODUZIONE
Il tema relativo all’opportunità di coltivare i boschi per un loro uso conservativo non è nuovo né in Italia né all’estero, nonostante il concetto di gestione
durevole fosse ben noto da epoche remote. Un dibattito che risale a circa 20 anni
fa, incentrato sull’inopportunità di coltivare i boschi, si basava soprattutto su dati
di letteratura. Secondo qualche sostenitore di questa teoria (CLAUSER 1985) non
sarebbe opportuno coltivare i boschi dato che:
1. la produzione legnosa non è influenzata positivamente dagli interventi colturali;
2. la realizzazione di tagli intercalari spesso non è remunerativa;
3. la realizzazione dei tagli intercalari può peggiorare i meccanismi di difesa del
bosco nei confronti di alcune avversità.
L’argomento, per la sua intrinseca importanza, stimolò diversi contributi scientifici tra i quali spiccava quello del Prof. de Philippis, uno dei Padri fondatori della
Selvicoltura italiana, che nel 1986 così si esprimeva in proposito “che i tagli
intercalari non apportino apprezzabili variazioni alla produzione totale (intercalare+definitiva) di massa legnosa, per lo meno nei soprassuoli a turni lunghi o medi
è ormai un fatto ben noto, ma è altrettanto noto che essi ci consentono di modificare sostanzialmente la ripartizione di detta massa in assortimenti di varia qualità
e valore” (DE PHILIPPIS 1986). Leibundgut, citato dallo stesso de Philippis, già nella
terza edizione del suo trattato sulla “Cura del bosco” (1984), parla del diradamento
selettivo come trattamento per una produzione di massimo valore. A sostegno dell’opportunità di applicare appropriati interventi colturali ai boschi giocano le
relazioni esistenti sul piano ecologico e fisiologico tra accrescimento e vari tipi di
diradamento. Altri riferimenti, per alcuni aspetti antesignani per l’epoca cui ci si
riferisce, riguardano le relazioni tra interventi selvicolturali ed efficienza funzionale, nonché stabilità del bosco.
L’illustre maestro, giustamente, considerava errata allo stesso modo la visione
esclusivamente produttiva di massa legnosa e le funzioni esclusivamente ambientali dimenticando che l’una e le altre sono strettamente interdipendenti e legate al
grado di efficienza funzionale del bosco.
Sull’argomento relativo all’opportunità di eseguire i diradamenti per accrescere
sia la stabilità dei soprassuoli forestali, sia per migliorare la qualità del prodotto
realizzabile alla fine del turno, sia per prolungare la longevità del bosco, sia per
finalità naturalistiche, ci fu un vivace dibattito cui parteciparono anche PIUSSI
(1986) e BERNETTI (1986).
150
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Il presente contributo riporta i risultati di indagini dendro-auxometriche, dopo
circa 20 anni di sperimentazione, relative a due differenti intensità di diradamento di tipo basso, confrontate con aree lasciate ad evoluzione naturale, in una
fustaia di querce (a prevalenza di cerro) originata da tagli successivi uniformi
applicati su vaste superfici. La ricerca sperimentale prende in esame in modo particolare le produzioni ottenibili in termini sia qualitativi che quantitativi.
Vengono infine riportati alcuni dati sulla produzione di lettiera relativi ad un
periodo immediatamente successivo alla realizzazione degli interventi selvicolturali ed alcune considerazioni di carattere economico-finanziario conseguenti
all’anticipazione dei redditi derivanti dai tagli intercalari.
MATERIALI E METODI
Il bosco in esame è costituito da una fustaia in cui il taglio di rinnovazione
fu iniziato nel 1915, praticamente interrotto durante il primo conflitto mondiale,
e completato nel 1920. Successivamente sono stati eseguiti i tagli secondari e di
sgombero delle piante del vecchio ciclo. In definitiva, quindi, si può affermare
che il popolamento in esame prima degli interventi sperimentali non aveva
subito alcun intervento selvicolturale e che le aree testimoni sono rappresentative del bosco che, in queste condizioni ambientali, si è evoluto naturalmente.
(LA MARCA, 1994).
Da dati di archivio e da informazioni assunte risulta che si trattò di un taglio
molto intenso, quasi un taglio con riserva, eseguito per ottenere soprattutto traverse
ferroviarie, legname da opera per imbarcazioni e legna da ardere. Il bosco fu chiuso
al pascolo e, per oltre 40 anni, assunse l’aspetto di un denso forteto in cui, da un
punto di vista quantitativo, dominavano il prugnolo e il biancospino, mentre il
cerro e le specie arboree che ad esso si accompagnano (acero campestre, acero
opalo, carpino bianco, carpino nero), erano numericamente dominate. Successivamente c’è stata una progressiva evoluzione strutturale e vegetazionale per cui,
al momento dell’avvio della sperimentazione (circa 70 anni dai tagli di rinnovazione) si era in presenza di una fustaia a prevalenza di cerro con le suddette specie arboree di accompagnamento relegate soprattutto nel piano dominato e codominante. Lo strato arbustivo mancava quasi del tutto mentre tra le specie tipiche
dello strato erbaceo erano presenti Mercurialis perennis, Anemone apennina,
Ranunculus sp., Geranium sp., Sanicula europaea, Physospermum verticillatum,
Lathyrus sp., Teucrium siculum.
151
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Le aree sono dislocate nel complesso forestale “Bosco Quarto” del Comune
di Monte Sant’Angelo (FG) in località “Inversa dei cerri”, e sono comprese nel
perimetro del Parco Nazionale del Gargano. Sono situate ad una quota compresa
tra 650 e 700 m s.l.m., sono esposte a Nord su suoli costituiti da terre brune forestali e terre rosse, le prime molto ricche di humus, su matrice dolomitica o su calcari paleogenici, le seconde con struttura compatta e con grosse quantità di argilla.
Il clima della zona è in generale di tipo mediterraneo con precipitazioni concentrate nel periodo autunnale-invernale ed in minor misura in quello primaverile.
A ciò si contrappone un periodo di accentuata siccità estiva, in particolare fra i
mesi di luglio e agosto, durante i quali, al valore minimo delle precipitazioni corrisponde il valore massimo delle temperature. Le cerrete sono localizzate nella
parte Sud-ovest del “Bosco Quarto”, si estendono su di una superficie di circa 900
ha, formano un insieme abbastanza compatto anche se con confini molto frastagliati (GUALDI, 1978; NOTARANGELO, 1994).
Il materiale di studio è rappresentato da 9 aree sperimentali della superficie di
0.5 ettari cadauna, in cui ogni pianta è stata numerata e catalogata per dimensioni
diametriche e per entità tassonomica.Le tesi poste a confronto, replicate tre volte,
secondo uno schema sperimentale a blocchi randomizzati, sono state:
TESI A - Testimone (nessun intervento);
TESI B - Diradamenti di tipo basso e di grado debole all’età di 70 e 82 anni;
TESI C - Diradamento di tipo basso e di grado forte all’età di 70 anni.
Lo schema sperimentale a blocchi randomizzati permette il confronto comparato delle differenze tra i diversi fattori sperimentali: ogni blocco contiene un
numero di unità sperimentali pari al numero di tesi poste a confronto e tutte le tesi
sono rappresentate in ciascun blocco. Inoltre lo schema sperimentale è bilanciato
e permette di scomporre la variabilità sperimentale nelle due componenti principali: quella dovuta ai trattamenti impartiti (variabilità principale) e quella dovuta
al raggruppamento in blocchi (variabilità secondaria - CAMUSSI et al., 1995). In
ogni area sono state inoltre individuate, con criteri sistematici, 3 parcelle della
superficie di 9 m2 cadauna, opportunamente recintate, in cui per 4 anni a partire
dagli interventi sperimentali, è stata raccolta la lettiera prodotta suddivisa in
foglie, parti legnose, semi. Le aree sperimentali sono state sottoposte a monitoraggio periodico relativamente alla mortalità naturale, ai danni dovuti a sollecitazioni da parte di agenti meteorici, alla crescita delle piante e alla produzione di lettiera (relativamente al periodo 1989-92).
152
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Nell’estate del 1998 è stata condotta un’indagine allo scopo di valutare, in relazione ai trattamenti selvicolturali impartiti alcuni anni prima, alcuni aspetti qualiquantitativi dei fusti delle piante di cerro. Ciò è avvenuto mediante misurazioni
quantitative dirette e con stime qualitative realizzate con metodologia dedotta in
parte da quanto già realizzato per uno studio preliminare sulla qualità del legno di
cerro del Gargano (LA MARCA et al., 1983).
In questo contesto per qualità del fusto si intendono alcune caratteristiche che
influenzano l’impiego tecnologico del legname ricavabile dai popolamenti in
esame. Nel dettaglio sono stati presi in considerazione: le sezioni del fusto a
varie altezze, la circolarità della sezione a 2 m, i nodi, le ginocchiature, le sciabolature, le biforcature, la presenza di ferite e altri difetti. I rilievi, limitati alle sole
piante di cerro, sono stati effettuati procedendo lungo la diagonale di ogni parcella,
partendo dal vertice superiore sinistro e misurando 20 piante in modo alternato
(una sì ed una no). I rilievi effettuati hanno riguardato i seguenti parametri:
– misura dei diametri a diverse sezioni da terra, a partire da 1 m fino a 9-10 m
(cavalletto dendrometrico, cavalletto ottico di Wheeler e asta graduata);
– misura dei diametri in croce all’altezza di 2 m (cavalletto dendrometrico e asta
graduata);
– conteggio del numero e misura dell’altezza dei nodi (asta graduata); stima a
vista del tipo di nodo (nodo sano, nodo cadente) e delle dimensioni (classi
dimensionali: ø<5cm Ia classe; 5cm<ø<10cm IIa classe; ø>10cm IIIa classe);
– conteggio, descrizione e misura dell’altezza di altri difetti (sciabolature, biforcature, marciumi, monconi di rami, ginocchiature, ferite).
In merito alla misura dei diametri a diverse sezioni da terra si aveva un duplice
scopo: da una parte poter effettuare una valutazione quantitativa delle sezioni diametriche a varie altezze, comparando eventuali differenze tra le tesi, dall’altra
quello di costruire una funzione di profilo in modo da poter valutare eventuali differenze anche dal punto di vista della forma. Le funzioni di profilo nascono a
seguito di studi dendrometrici improntati alla descrizione analitico-matematica
della forma del profilo dei fusti arborei (CORONA e FERRARA 1987). A partire dalla
fine degli anni sessanta del secolo scorso, sono state elaborate equazioni basate su
modelli a struttura funzionale singola. In questi modelli una sola equazione descrive
l’intero profilo del fusto. Gli studi di KOZAK et al., (1969) sono alla base delle funzioni di profilo a struttura singola che hanno la formula generale del tipo: f (h/H)
= d2/D2. Nella fattispecie si è optato per un modello a struttura funzionale singola,
impiegando come variabile dipendente il diametro delle sezioni da 1 a 9-10 m.
153
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Poiché si tratta di piante con altezze totali superiori a 10 m e disponendo di
un intervallo di misure compreso tra 1 e 10 m, il profilo perequato è valido per
le sezioni comprese in tale intervallo. Inoltre non disponendo della misura reale
dell’altezza totale (Htot), per la costruzione del modello è stato utilizzato il valore
di Htotcalcolato dalla curva ipsometrica elaborata da LA MARCA (1983) per le aree
in questione. Per quanto riguarda in dettaglio i risultati dendro-auxometrici e
quelli relativi alla stabilità del cerro, si rimanda ai lavori di LA MARCA et al.,
(1996, 2008).
RISULTATI E DISCUSSIONE
Per quanto riguarda la crescita in termini di massa legnosa, è stato osservato
che le aree sperimentali, perfettamente confrontabili al momento dell’avvio della
sperimentazione, hanno avuto una sostanziale differenziazione in termini di massa
corrente per effetto del trattamento praticato (Fig. 1). Il confronto eseguito sulla
massa totale evidenzia con particolare efficacia i risultati conseguiti.
Per quanto riguarda la massa corrente, all’età attuale, i maggiori volumi si hanno
nelle aree testimoni (circa 500 m3 ad ettaro), mentre i volumi più bassi si registrano
nelle aree sottoposte a diradamento di grado forte (circa 420 m3 ad ettaro).
Fig. 1 - Andamento della massa corrente e della massa totale. Dati medi per ettaro delle aree
sperimentali.
154
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Per quanto riguarda la massa totale, invece, sebbene le differenze non siano
sostanziali e statisticamente non significative, i maggiori valori si hanno per le aree
fortemente diradate (Tab. 1, Tab. 2).
Tab. 1 - Principali parametri dendrometrici delle aree sperimentali (dati riferiti ad ettaro).
Tesi
Test
N_pte
700
Dg [cm]
25,29
G [m²]
35,17
V [m³]
383,37
Anno 1988
Dir.Deb
Dir.For
Test
854
892
0
23,10
22,71
-
35,80
36,14
-
379,23
381,63
-
Entità diradamento
Dir.Deb
387
13,97
5,94
43,59
Anno 1988
Ante-diradamento
Dir.For
509
16,69
11,14
100,58
Anno 1988
Test
663
25,72
34,47
384,03
Post-diradamento
Dir.Deb
467
28,54
29,86
335,64
Dir.For
383
28,84
25
281,05
Test
545
31,03
41,24
469,15
2000
Ante-diradamento
2000
Entità diradamento
Dir.Deb
431
32,79
36,42
416,62
Dir.For
376
33,54
33,22
376,16
Test
0
-
-
-
Dir.Deb
112
25,18
5,58
60,78
Dir.For
0
-
-
-
2000
Test
545
31,03
41,24
469,15
Post-diradamento
Dir.Deb
319
35,05
30,81
355,85
Dir.For
376
33,54
33,22
376,16
Test
477
34,10
43,53
500,36
2006
Piante morte e/o danneggiate
1988-2006
Dir.Deb
302
37,60
33,54
390,20
Dir.For
364
35,70
36,43
419,58
Test
186
15,82
3,67
34,45
Dir.Deb
53
25,48
2,72
30,16
Dir.For
19
22,08
0,74
7,44
Le differenze nell’inventario del 1988 prima e dopo gli interventi sono da attribuire alla presenza di
piante morte o deperienti e, quindi, non inventariate in entrambi i rilievi.
155
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Tab. 2 - Incrementi periodici ed incrementi correnti di massa totale nel periodo 1988-2006. Dati
riferiti ad ettaro delle singole aree di saggio e valori medi per tesi.
Inversa dei
Cerri
1988 -2006
1988-2000 ante diradamento
2000 -2006 post diradamento
Area di saggio
(AdS)
Incr_periodico
[m³]
Incr_periodico
[m³]
Incr_corrente
[m³]
Incr_periodico
[m³]
Incr_corrente
[m³]
1
93,609
69,984
5,832
23,625
3,937
6
138,767
101,262
8,438
37,505
6,251
8
118,591
86,108
7,176
32,484
5,414
TEST. Valore
medio
2
116,989
85,785
7,149
31,204
5,201
84,834
52,090
4,341
32,744
5,457
5
145,832
102,123
8,510
43,709
7,285
7
115,335
88,747
7,396
26,588
4,431
DIR 15%
Valore medio
3
115,334
80,987
6,749
34,347
5,725
140,648
97,295
8,108
43,354
7,226
4
120,327
85,739
7,145
34,588
5,765
9
154,616
102,320
8,527
52,296
8,716
DIR 30%
Valore medio
138,530
95,118
7,926
43,413
7,235ȱ
I dati di incremento periodico di massa totale relativi al periodo 1988-2006,
sottoposti ad analisi della varianza, non hanno manifestato differenze significative
fra le tesi.
I dati relativi alla lettiera hanno confermato innanzitutto che, durante il periodo
di osservazione, il ritorno in sostanza organica al suolo è notevole e che la biomassa fogliare rappresenta circa i 2/3 della lettiera (Fig. 2 e 3, Tab. 3).
156
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Fig. 2 - Valori medi annui della biomassa fogliare ripartita per tesi (Mg ha-1).
Fig. 3 - Valori medi annui della lettiera ripartita per tesi (Mg ha-1).
157
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Un’ulteriore considerazione riguarda la rapidità con la quale la cerreta, una
volta sottoposta a tagli intercalari, ristabilisce i livelli di area fogliare preesistenti al
diradamento. Dalle osservazioni di campagna è emerso che ciò è dovuto all’abbondante emissione di rami epicormici in conseguenza del diradamento. Man mano
che le piante ampliano la loro chioma, i rami epicormici tendono a scomparire.
Tab. 3 - Valori medi relativi alla produzione annuale di biomassa fogliare e lettiera (*): Valori
espressi in Mg ha-1.
Tesi
Anno
N
Biomassa
foglie*
Lettiera*
1989
3
4.04
5.51
1990
3
4.05
5.78
1991
3
3.54
4.63
1992
1989
3
3
3.41
2.72
5.65
5.4
1990
3
3.61
5.45
1991
3
3.29
4.47
1992
1989
3
3
2.74
3.09
3.85
4.48
1990
3
4.75
4.75
1991
3
4.06
6.13
1992
3
3.51
5.76
Diradamento 15%
Diradmento 33%
Testimone
La lettiera, in termini di sostanza secca, almeno per il periodo considerato,
supera l’incremento legnoso prodotto dal bosco, indipendentemente dal trattamento praticato.
158
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
L’analisi della varianza condotta sulla variabile biomassa foglie ha evidenziato
differenze significative nelle medie dei totali dei quantitativi prodotti nel periodo
dal 1989 al 1992. In particolare è la tesi Diradamento 33% ad avere prodotto
mediamente un minor quantitativo di biomassa fogliare. Non ci sono, invece,
differenze significative per la lettiera. Nelle Tab. 4 e Tab. 5 vengono riportate
rispettivamente le statistiche descrittive e le statistiche dell’analisi della varianza
per le variabili dipendenti biomassa foglie e lettiera nel periodo 1989-1992.
Tab. 4 - Statistiche descritive.
Trattamento
Diradamento 15%
Diradamento 33%
Testimone
All Grps
Biomassa foglie
Means N Std.Dev. Std.Err.
3,758750 12 0,556047 0,160517
3,088417 12 0,433286 0,125079
3,853250 12 0,711003 0,205249
3,566806 36 0,659002 0,109834
Means N
5,392500 12
4,791417 12
5,745917 12
5,309944 36
Lettiera
Std.Dev.
0,910577
1,019563
0,886933
0,997103
Std.Err.
0,262861
0,294322
0,256036
0,166184
Tab. 5 - Analisi della varianza.
DEPENDENT: 2 variables: Biomassa foglie; Lettiera;
GROUPING: Diradamento 15%; Diradamento 33%; Testimone;
SS
df
MS
SS
df
MS
Effect Effect Effect
Error Error Error
F
p
Variable
2 2,086494 11,02696 33 0,334150 6,244178 0,005013
biomassa foglie 4,172988
5,589099
2 2,794550 29,20840 33 0,885103 3,157316 0,055633
lettiera
Il diagramma in Fig. 4 mostra come la tesi diradamento 33% abbia mediamente prodotto un quantitativo di biomassa fogliare significativamente inferiore
alle altre due tesi.
Infine la Tab. 6 riporta la posticipazione dei ricavi ottenuti dai diradamenti
secondo la variazione dei prezzi pubblicata dall’ISTAT e secondo i rendimenti che,
per il periodo in esame, hanno offerto i titoli di Stato.
159
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Fig. 4 - Quantitativi medi di biomassa foglie nel periodo 1989-1992. Valori espressi in Mg ha-1
anno-1.
Tab. 6 - Posticipazioni ricavi diradamenti. Valori ad ettaro. (*I rendimenti dei BTP sono stati
desunti dai titoli a scadenza ventennale nel 2008).
Interventi
intercalari
Anno
1988:
ricavi
( )
Anno
2000:
ricavi
( )
Ricavi
aggiornati
al 2006
(ISTAT)
( )
Diradamento
forte
1639,23
0,00
Diradamento
debole
676,56 1098,50
160
Ricavi aggiornati
secondo i rendimenti
BTP riferimento 19882006*
( )
3067
4589,86
2525
3651,97
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Diametri delle sezioni a diverse altezze da terra
In figura 5 sono riportati i valori medi per le sezioni diametriche a varie
altezze del fusto. La Fig. 5 mostra che, per ogni sezione, la tesi diradamento
forte ha diametri con valori superiori alle altre due tesi.
Fig. 5 - Profilo dei diametri medi, ripartiti per tesi, delle sezioni lungo il fusto a partire da 1 a 10 m.
(LEGENDA: Test = testimone; Dir deb = diradamento debole; Dir for = diradamento forte).
L’analisi della varianza ha confermato che tali differenze sono statisticamente
significative (Tab. 7). Inoltre, le differenze tra le tesi diradamento debole e testimone
sono minime, anzi a certe altezze (a partire da 5-6 m circa) il testimone mostra
valori leggermente superiori. Sempre dalla Fig. 5 si nota che i diametri delle
sezioni lungo il profilo del fusto seguono un andamento tendenzialmente decrescente precedendo dal basso verso l’alto; tuttavia si osserva una netta inversione di
tendenza con andamento crescente, generalizzato per le tre tesi, a partire da 8 m.
161
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Invece raggruppando i dati per parcella e limitandoci alla porzione di fusto da
1 ad 8 m, è da osservare la formazione di due gruppi distinti: il primo gruppo formato dalle parcelle 1, 2, 3 e 4; il secondo formato dalle parcelle 5, 6, 7, 8 e 9
(Fig. 6). Nei due raggruppamenti sono rappresentate quasi alla pari tutte le tesi.
Fig. 6 - Profili dei diametri medi delle sezioni da 1 a 8 metri, ripartiti per parcella con indicazione della tesi. (LEGENDA: t = testimone; dd = diradamento debole; df = diradamento
forte. Il numero identifica l’area di saggio).
Un tale raggruppamento, dovuto essenzialmente all’effetto delle ripetizioni,
potrebbe spiegarsi con una variazione delle condizioni micro-stazionali: più favorevoli nel primo raggruppamento, meno favorevoli nel secondo. L’analisi delle varianza
condotta su questi due raggruppamenti di parcelle ha mostrato differenze statisticamente significative fra le sezioni dei diametri a varie altezze da terra (Tab. 7).
Tab. 7 - ANOVA per la variabile dipendente Diametro sezioni (Dsez). (a) Variabili di raggruppamento: tesi (Test, Dirdeb, Dirfor), ripetizioni (Rip: 3), altezza delle sezioni (Hsez: 10); (b) Variabili di raggruppamento: altezza delle sezioni (Hsez: 10); gruppo condizioni favorevoli - condizioni
sfavorevoli (ID_grp: 2). SS: somma dei quadrati; df: gradi di libertà; MS: media dei quadrati.
Dep.
SS
df
MS
SS
Df
V ariable
Effect
Eff.
Effect
Error Error
(a) Dsez 23166.21 83 279.1110 102538.0 1424
162
MS
Error
72.007
F
p
3.8761
0.000
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
INFLUENZA DEI DIRADAMENTI SULLA PRODUZIONE LEGNOSA IN UNA FUSTAIA DI CERRO
Funzioni di profilo
Una funzione di profilo (taper function) serve per rispondere alla domanda: a
quale altezza (hsez) si trova la sezione del fusto che ha diametro pari a dsez?
Le funzioni di profilo elaborate per le aree di Inversa dei Cerri sono derivate
a partire dalla relazione di KOZAK (1969): hsez/Htot= d2sez/D2130. Le curve perequatrici sono state valutate in base all’esame del coefficiente di determinazione R2
che descrive la proporzione tra la variabilità dei dati e la correttezza del modello
regressivo utilizzato. Le curve che meglio approssimano tale relazione hanno
formule di tipo esponenziale:
dove x =
d2
sez
/
D2
y=a·bx
130, y = hsez / Htote ae bsono parametri positivi
Previa linearizzazione, i parametri a e b delle equazioni di regressione sono
stati stimati secondo il metodo dei minimi quadrati che si adatta al caso di modelli
perequativi a struttura funzionale singola (CORONA e FERRARA 1987).
Successivamente si è cercato di vincolare i modelli facendo in modo che per
dsez= D130 le funzioni fornissero come risultato di hsez un valore uguale a 1.3
metri. Per fare questo è stato necessario sottrarre una costante, individuata empiricamente, pari a 1.2 per le aree trattate ed a 1.3 per le aree testimone.
Posto che 10 > hsez> 1 e per x= d2sez/ D2130, le tre equazioni finali per le funzioni di profilo relative alle tesi sperimentali sono:
– testimone: hsez= -1.3+[(2.18 · 0.04x) · Htot];
– diradamento debole: hsez= -1.2+[(1.65 · 0.05x) · Htot];
– diradamento forte: hsez= -1.2+[(2.1 · 0.04x) · Htot];
A titolo di esempio si riportano in Tabb. 8a, 8b e 8c alcuni valori di altezza
della sezione ottenuti dalle funzioni di profilo, partendo da coppie di valori di diametro a 1.3 m (D130, cm) e diametro della sezione (cm).
163
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
Tab. 8a - Testimone (altezze in metri).
D130
21 22 23
28 9,2 7,5 6,0
29
8,8 7,2
8,5
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
Diametro delle sezioni
24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
4,7 3,6 2,7 1,9 1,3
5,8 4,6 3,5 2,7 1,9 1,3
7,0 5,6 4,5 3,5 2,6 1,9 1,3
8,2 6,7 5,5 4,4 3,4 2,6 1,9 1,3
7,9 6,5 5,3 4,3 3,3 2,6 1,9 1,3
7,6 6,3 5,2 4,2 3,3 2,5 1,9 1,3
8,7 7,3 6,1 5,0 4,1 3,2 2,5 1,9 1,3
8,4 7,1 5,9 4,9 4,0 3,2 2,5 1,9 1,3
8,1 6,9 5,7 4,8 3,9 3,1 2,4 1,8 1,3
7,8 6,7 5,6 4,6 3,8 3,1 2,4 1,8 1,3
8,8 7,6 6,5 5,4 4,5 3,7 3,0 2,4 1,8 1,3
8,6 7,4 6,3 5,3 4,4 3,7 3,0 2,4 1,8 1,4
8,3 7,2 6,1 5,2 4,3 3,6 2,9 2,3 1,8 1,4
Tab. 8b - Diradamento debole (altezze in metri)
D130
21
28 7,8
29 8,9
30
31
32
33
34
35
36
37
38
39
40
22
6,4
7,5
8,6
23
5,2
6,2
7,2
8,2
Diametro delle sezioni
24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40
4,2 3,3 2,5 1,8 1,2
5,1 4,1 3,2 2,4 1,8 1,2
6,0 4,9 4,0 3,1 2,4 1,8 1,2
6,9 5,8 4,8 3,9 3,1 2,4 1,8 1,3
7,9 6,7 5,6 4,6 3,8 3,0 2,3 1,8 1,3
7,7 6,5 5,5 4,5 3,7 3,0 2,3 1,8 1,3
8,6 7,4 6,3 5,3 4,4 3,6 2,9 2,3 1,8 1,3
8,3 7,2 6,1 5,2 4,3 3,5 2,9 2,3 1,7 1,3
8,0 6,9 5,9 5,0 4,2 3,5 2,8 2,2 1,7 1,3
8,9 7,8 6,7 5,8 4,9 4,1 3,4 2,8 2,2 1,7 1,3
8,6 7,5 6,5 5,6 4,8 4,0 3,3 2,7 2,2 1,7 1,3
8,4 7,3 6,4 5,5 4,7 3,9 3,3 2,7 2,2 1,7 1,3
8,1 7,1 6,2 5,3 4,6 3,9 3,2 2,7 2,2 1,7 1,3
164
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
Tab. 8c - Diradamento forte (altezze in metri).
D130
21 22 23 24 25
28 8,9 7,3 5,8 4,6 3,5
29
8,5 7,0 5,6 4,5
30
8,2 6,7 5,5
31
7,9 6,5
32
7,6
33
34
35
36
37
38
39
40
Diametro delle sezioni
26 27 28 29 30 31 32 33
2,6 1,9 1,3
3,5 2,6 1,9 1,3
4,3 3,4 2,6 1,9 1,3
5,3 4,2 3,3 2,5 1,9 1,3
6,3 5,1 4,1 3,2 2,5 1,9 1,3
7,3 6,1 5,0 4,0 3,2 2,5 1,8 1,3
8,4 7,1 5,9 4,8 3,9 3,1 2,4 1,8
8,1 6,8 5,7 4,7 3,8 3,1 2,4
7,8 6,6 5,6 4,6 3,8 3,0
8,8 7,6 6,4 5,4 4,5 3,7
8,5 7,3 6,3 5,3 4,4
8,3 7,1 6,1 5,1
8,0 6,9 5,9
34 35 36 37 38 39 40
1,3
1,8
2,4
3,0
3,6
4,3
5,0
1,3
1,8
2,4
2,9
3,6
4,2
1,3
1,8
2,3
2,9
3,5
1,3
1,8 1,3
2,3 1,8 1,3
2,9 2,3 1,8 1,3
Diametri in croce all’altezza di 2 metri
L’analisi del rapporto d/D (d = diametro minore, D = diametro maggiore) per
la sezione a 2 m dice che in tutte le tesi la maggior parte delle piante ha un rapporto d/D < 1 (testimone 80%; diradamento debole = 73%; diradamento forte =
87%). Il valore medio del rapporto d/D a 2 m oscilla nelle tre tesi tra 0.95 e 0.96
(testimone = 0.95; diradamento debole = 0.96; diradamento forte = 0.95). Il confronto statistico, come era da aspettarsi, non ha evidenziato significatività nelle differenze.
Difetti
Per quanto riguarda la presenza di difetti, in tutte le tesi si è osservato che circa
la metà delle piante è difettosa e quasi l’80% delle piante difettose ha un solo
difetto. Rispetto alle tesi selvicolturali, nessuno dei difetti presi in considerazione è risultato statisticamente significativo perciò i trattamenti impartiti non
hanno influenzato la presenza dei difetti. Ad ogni modo analizzando i difetti
separatamente per tipi, si possono fare le seguenti considerazioni:
– i nodi sono il difetto più frequente, in tutte le tesi sono prevalenti i nodi di
grosse dimensioni (nodi con diametro > 10 cm) di tipo cadente;
– per quanto riguarda il difetto sciabolatura (stima a vista della deviazione dalla
rettilineità dell’asse del fusto) in tutte le tesi il difetto è poco presente; anche
165
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
il difetto biforcatura (perdita dell’andamento monopodiale del fusto principale)
si può considerare poco presente in tutte le tesi; infine, in tutte le tesi incide con
una certa frequenza la ginocchiatura mentre sono del tutto sporadici altri
difetti (ferite, presenza di fluidi essudati).
CONCLUSIONI
I danni causati da eventi meteorici non sono stati omogenei per tipo di trattamento: i danni maggiori si sono avuti nelle aree “testimone”, seguono per intensità dei danni le aree debolmente diradate ed, infine, quelle con diradamento più
forte. Se a questi danni si aggiungono le piante morte per selezione naturale dall’inizio della sperimentazione (1988) fino al 2006 i valori di mortalità nelle aree
non gestite aumentano sensibilmente. Gli interventi eseguiti hanno anche contribuito a mantenere alto il livello di biodiversità delle specie arboree nei popolamenti
esaminati. Nelle aree dove non è stato eseguito alcun intervento, le specie diverse
dal cerro sono diminuite in maniera significativa. È probabile che la mortalità delle
specie consociate al cerro, tenuto conto delle esigenze di luce delle specie interessate, sia imputabile al maggior grado di copertura delle chiome delle aree
“testimoni”.
Alla luce di quanto esposto emerge che negli interventi per la gestione delle
risorse forestali occorre tener ben presenti sia gli effetti della selezione naturale,
sia gli effetti potenziali di questi eventi. La mancanza di interventi colturali e il susseguirsi di eventi meteorici, e dunque il susseguirsi anche di danni al soprassuolo,
ha come conseguenza l’accumulo progressivo di non indifferenti quantità di
necromassa al suolo che, al contrario di quanto avviene nel caso dei diradamenti,
non viene recuperata in quanto l’operazione sarebbe economicamente non conveniente. Inoltre c’è da considerare che le piante morte o danneggiate non rispondono a criteri selettivi. Tali biomasse, nel trasformarsi in necromasse, al di là di
considerazioni di carattere ecologico, possono rivelarsi estremamente pericolose
sia per l’aumentare dei rischi di fitopatie sia come esca per gli incendi.
Da un punto di vista ecologico gli eventi perturbativi possono avere un impatto
positivo legato all’aumento di necromassa di varie dimensioni depositata periodicamente al suolo e distribuita casualmente che funge da habitat, da serbatoio di
umidità e rappresenta una fonte di nutrienti disponibili anche per lunghi periodi
(STEVENS 1997). Ad esempio nelle foreste di douglasia e di Tsuga heterophylla
della British Columbia, fra componente detritica legnosa e suolo è accumulato il
166
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
25-30% del carbonio totale (HARMON et al., 1990). Tuttavia va anche precisato che
nelle foreste in equilibrio naturale (o paranaturale), l’apporto di necromassa all’ecosistema è massimo dopo un evento catastrofico e si mantiene sostenuto finché
il soprassuolo originatosi è giovane, poiché è forte la competizione e conseguentemente alta la mortalità. Al crescere dell’età il soprassuolo si differenzia – come
nel caso delle cerrete oggetto di questo studio – e l’apporto si riduce sempre più,
approssimandosi a zero quando il bosco è maturo. In questa fase il tasso di immissione di nuova necromassa è uguale al tasso di decadimento (STEVENS 1997).
Gli interventi selvicolturali non hanno influito sostanzialmente sulla produzione totale. Le differenze si attestano su valori di circa circa 20 m3ha-1nel caso
delle parcelle sottoposte a diradamento di grado forte. Tenuto conto che la massa
totale ammonta a circa 500 m3ha-1, si è avuta una maggiore produzione legnosa del
+4% circa. L’analisi dei dati dendrometrici tuttavia ha messo in evidenza una differente distribuzione delle piante in classi diametriche al variare delle tesi poste a
confronto.
Il grafico delle sezioni diametriche da 1 a 9-10 m (Fig. 5) mostra che soltanto
i popolamenti sottoposti a diradamento di forte intensità hanno diametri superiori
lungo tutto il profilo mentre quelli sottoposti a diradamento di debole intensità
hanno diametri lungo il fusto del tutto simili al testimone. Queste differenze, non
casuali, sono dovute all’intensità del diradamento. Ciò sta ad indicare sicuramente un maggior valore dei soprassuoli in piedi sottoposti a diradamento di
forte intensità sia per quanto riguarda i differenti costi di utilizzazione sia per le
differenti dimensioni delle piante in piedi. È noto che i boschi costituiti da piante
di dimensioni diametriche elevate, in genere, hanno valori di mercato superiori
rispetto a boschi che, a parità di massa, hanno piante di più piccole dimensioni.
La ripartizione delle sezioni diametriche lungo il profilo del fusto per singola
unità sperimentale (Fig. 6) permette di osservare due gruppi distinti, dei quali il
primo ha sempre valori maggiori delle sezioni diametriche lungo il fusto. Nei due
gruppi sono rappresentate quasi alla pari tutte le tesi. Le analisi statistiche indicano
che tali differenze non sono casuali. Un tale comportamento può essere dovuto a
variazioni di fattori micro-stazionali che favoriscono il primo gruppo costituito
dalle parcelle 1-2-3-4 a svantaggio delle restanti aree. In definitiva esiste un forte
gradiente di fertilità passando dal primo al terzo blocco.
Le funzioni di profilo individuate hanno termini noti e coefficienti delle basi
sostanzialmente simili. Ciò indica che i profili delle piante nelle aree a diverso trattamento non sono molto diversi per quanto riguarda la forma. L’impiego di tali funzioni potrà rivelarsi utile per le stime degli assortimenti ritraibili dagli interventi
167
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
selvicolturali su popolamenti adulti dai quali è perlomeno ragionevole ipotizzare
di poter ritrarre prodotti diversi dalla legna da ardere.
L’analisi dei valori del rapporto d/D calcolato nelle sezioni a 2 m dice che nelle
tre tesi si hanno per lo più sezioni ellittiche (d/D<1) con valori dell’indice assai
vicini (0.95-0.96). Ne consegue che l’ellitticità della sezione non è influenzata dal
trattamento selvicolturale e, verosimilmente, è determinata da caratteristiche
intrinseche alla specie. L’elevata frequenza delle sezioni ellittiche (oltre l’80%
delle piante in tutte le tesi) è in accordo con quanto riportato in letteratura
(LA MARCA et al., 2008). La distribuzione dei difetti in tipi più frequenti è rappresentata dalla sequenza decrescente nei valori assoluti: nodi, ginocchiature,
sciabolature, biforcature e altro. Cumulando tutti i tipi di difetti, nelle tre tesi circa
la metà di piante sono difettose e di queste la maggior parte ha un solo tipo di
difetto. Il difetto più frequente è rappresentato dai nodi, di cui quelli cadenti di
grosse dimensioni (diametro > 10 cm) rappresentano circa la metà di tutti i nodi.
Ai fini della destinazione commerciale degli assortimenti, in particolar modo
per i tranciati, la presenza di grossi nodi cadenti incide negativamente mentre per
assortimenti meno pregiati, quali il tondo da sega, i nodi potrebbero non essere così
vincolanti. La ginocchiatura è un difetto in assoluto poco presente così come la
sciabolatura e la biforcatura. Questo dato si discosta da quanto riportato in letteratura dove questi difetti sono annoverati tra quelli più frequentemente riscontrabili (LA MARCA et al., 2008). Ad ogni modo, nelle tesi messe a confronto non si
riscontrano differenze significative nella presenza dei difetti. Dunque i trattamenti selvicolturali, probabilmente per il fatto che sono stati realizzati tardivamente, non hanno influenzato la presenza e la distribuzione dei difetti.
I dati sulla produzione di lettiera che ogni anno ritorna al suolo sono oltremodo
interessanti per gli aspetti ecologici connessi alle utilizzazioni forestali soprattutto
in un periodo, come quello attuale, in cui talvolta si prospetta una utilizzazione
sempre più spinta delle biomasse epigee in occasione degli interventi selvicolturali. I dati raccolti indicano che nel periodo osservato (4 anni) le aree trattate con
diradamento di grado forte accumulano mediamente un quantitativo minore di
biomassa fogliare.
Da un punto di vista economico-finanziario si deve osservare che gli interventi
eseguiti nel 1988 hanno reso all’Ente proprietario, mediamente per ettaro e per
tipologia di intervento, i ricavi (in euro) di cui alla Tab. 8. Nessun reddito è stato
invece ricavato dai popolamenti lasciati ad evoluzione naturale.
Allo stato attuale si hanno in piedi le masse legnose riportate nella Tab. 1 per
cui, nell’ipotesi di esecuzione dei tagli di maturità, se facciamo riferimento all’in-
168
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
tero ciclo produttivo e se il valore della massa legnosa in piedi dovesse spuntare
lo stesso macchiatico, indipendente dalla qualità degli assortimenti, si può affermare che i popolamenti esaminati hanno dato ricavi più vantaggiosi nel caso di
esecuzione dei tagli intercalari. In questa ipotesi un ulteriore vantaggio economico
a favore dei popolamenti sottoposti a diradamenti deriverebbe dalla maggiore produttività del lavoro in conseguenza delle differenti dimensioni delle piante che
caratterizzano il soprassuolo diradato rispetto a quello lasciato ad evoluzione
naturale. Le differenze di valore dei soprassuoli, come sopra caratterizzati, riferite
a ettaro, sono riportate nelle ultime due colonne della Tab. 8. Questa ipotesi
sarebbe reale nel caso l’intera produzione fosse destinata a legna da ardere. Un’ulteriore considerazione, che nel nostro caso fa spostare l’ago della bilancia a favore
di una maggiore convenienza ad eseguire gli interventi colturali, riguarda il minor
rischio corso (per danni da incendio, danni da eventi meteorici, attacchi parassitari etc.), nel caso del soprassuolo sottoposto a tagli intercalari rispetto al soprassuolo lasciato ad evoluzione naturale. Ciò è vero in quanto nel soprassuolo sottoposto a diradamenti le provvigioni legnose (e quindi i capitali investiti) sono più
basse rispetto all’opzione “non intervento”.
Se invece, come è plausibile, dal taglio di maturità di questi popolamenti si
ricaveranno sia assortimenti da lavoro che legna da ardere, il valore del soprassuolo
sottoposto ad interventi aumenterà rispetto a quello lasciato ad evoluzione naturale. Le differenze di valore aumenteranno all’aumentare dell’incidenza del
legname da lavoro sulla massa totale ed all’aumentare del divario dei prezzi tra la
legna da ardere ed il legname da opera. In quest’ultima ipotesi si aprirebbe uno
spazio ad ulteriori considerazioni di carattere ecologico-ambientale, legate ai
tempi di ritorno del carbonio in atmosfera, decisamente diversi per gli assortimenti
da lavoro rispetto alla legna da ardere.
Analizzando la questione dal punto di vista dei flussi di carbonio “da” e “verso”
l’atmosfera, riferendosi a quanto riportato da HELLRIGL (2003), nel confronto tra
“strategia del prelievo” fondata sull’equilibrio gestionale-assestamentale (con o
senza accumulazione parziale dell’incremento) e “strategia di accumulazione”
(evoluzione naturale con sospensione delle utilizzazioni), si ha che alla prima è sempre legato un beneficio carbonico-atmosferico irreversibile, conseguente all’avvenuto risparmio di combustibili fossili per produrre energia. Inoltre con la gestione
selvicolturale su basi durevoli si possono conseguire ulteriori benefici carbonicoatmosferici legati alla sostituzione di materiali energeticamente costosi con il
legno, nonché al procrastinamento di emissioni di carbonio circolante derivanti dalla
ritenzione carbonica operata dal legno impiegato come materia prima per prodotti
169
ORAZIO LA MARCA, GIUSEPPE NOTARANGELO
finiti (travi, mobili, rivestimenti, suppellettili, ecc.). Nella strategia di accumulazione
legata all’evoluzione naturale il bosco funge da accumulatore di carbonio sottraendo in modo sempre decrescente carbonio all’atmosfera, per un lungo periodo
fino al raggiungimento dello stato di equilibrio quando i flussi di carbonio in
entrata eguagliano i flussi in uscita. A questo punto il bosco non è più un accumulatore di carbonio ma si comporta come un deposito dinamicamente saturo. Ad ogni
istante il deposito di carbonio nel bosco è il risultato di tutta l’accumulazione pregressa e, per non perdere il beneficio carbonico-atmosferico, deve essere mantenuto
in essere con il perdurare della rinuncia alle utilizzazioni. I limiti principali della
strategia dell’accumulo provvigionale, rispetto alla strategia del prelievo, risiedono: nella graduale riduzione del tasso annuale di accumulazione conseguente alla
decrescita dell’incremento; nel rischio in ogni istante di perdita totale o parziale del
beneficio carbonico-atmosferico nel caso di un incendio o di un evento catastrofico;
nella non riduzione dell’impiego di combustibili fossili che induce indirettamente
un aumento della quantità globale di carbonio circolante in atmosfera.
Alla luce di quanto detto, una considerazione finale sulle due strategie e sul
loro impatto sulla sottrazione di carbonio atmosferico può esser fatta circa i tempi
di applicazione: in generale nel breve-medio termine può essere vantaggiosa la
strategia dell’accumulo provvigionale ma sul lungo periodo (turni lunghi) risulta
maggiormente efficace la strategia del prelievo. Per i cedui di faggio il vantaggio
della strategia di accumulazione si annulla a 90 anni per divenire poi sempre
negativo rispetto alla strategia del prelievo (HELLRIGL 2003).
In una interessante recensione di un lavoro in lingua tedesca di BRANDL, HELLRIGL (2002) riporta il pensiero del suddetto Autore relativamente all’economia del
carbonio in foreste vergini e in boschi gestiti. Un bosco gestito in maniera durevole contribuisce alla strategia che vuole ridurre l’effetto serra molto più di un
bosco non sottoposto ad utilizzazioni. In merito all’opzione che prevede la sospensione delle utilizzazioni allo scopo di creare grandi riserve, si afferma che “…bisogna prestare attenzione non solo alle conseguenze dirette della cessazione dei prelievi legnosi sugli effetti economici (mancati introiti per i proprietari, perdite di
posti di lavoro) ma anche alle conseguenze negative per i bilanci della CO2”.
Il boschi costituiti da piante di grandi dimensioni sono sicuramente ben apprezzati per finalità turistico-ricreative e c’è da aspettarsi che siano anche più longevi
rispetto ai boschi non sottoposti ad alcun intervento colturale (BERNETTI 1986).
Infine, come confermano gli studi eseguiti proprio per queste parcelle sperimentali (CASTELLANETA 1997) è risultato che con l’intensità dei tagli intercalari
sono aumentate le risorse pabulari offerte agli erbivori dallo strato erbaceo. La pro-
170
SELVICOLTURA E USO CONSERVATIVO DEL BOSCO: IL CASO DI UNA FUSTAIA DI QUERCE
duzione foraggera infatti è risultata in rapporto di 1 a 1.5 passando rispettivamente
dalle aree testimoni a quelle sottoposte a diradamento dal basso di grado forte.
I diradamenti, come è ampiamente riportato in letteratura (CANTIANI 1980),
hanno prodotto un ritardo nella culminazione dell’incremento medio. Ciò conferma
l’opportunità di sottoporre a gestione selvicolturale i popolamenti da trattare a turni
lunghi, come nel nostro caso (vedi indirizzi selvicolturali per le aree protette). I
valori dell’incremento medio di massa totale confermano una produttività piuttosto alta per queste cerrete. I valori medi si attestano tra 5 e 6 m3 ha-1 all’età di 90
anni circa. In generale, per quanto sopra esposto, il non uso del bosco, al pari di un
uso che va oltre le capacità portanti dell’ecosistema, rappresenta un’opzione svantaggiosa per lo spreco di biomasse che inevitabilmente comporta, per la diminuzione del potenziale turistico-ricreativo ed estetico dei boschi, per le negative
variazioni paesaggistiche, per l’aumento dello sbilancio tra domanda ed offerta di
legname sui mercati, per i rischi di deterioramento dei boschi causati dall’incuria
(DE PHILIPPIS 1986). Si pone dunque il problema di ricercare uno stato del bosco che
sia in grado di assicurare sicuro beneficio all’utente ed un equilibrio stabile nel
tempo; mettere in atto forme di gestione ecocompatibili con l’uomo rappresenta un
obiettivo ambizioso per la corretta utilizzazione delle risorse naturali. Quanto
sopra è tanto più urgente in un Parco Nazionale per il ruolo di modello di gestione
che ad essi deve essere assegnato (LA MARCA e VIDULICH 1997). Si tratta di una
visione intersistemica che vede l’Uomo ed il Bosco inseriti in un processo integrato
di azioni, fondato su base etica, nella consapevolezza che l’uomo, le sue attività e
la sua cultura rappresentano un unicum con il territorio da gestire.
Si ringrazia il Comune di Monte S. Angelo per aver reso possibile la sperimentazione, il prof. Nicola Moretti per la partecipazione ai rilievi di campagna.
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172
LE PINETE DELLE CERBAIE: STRUTTURA, DINAMISMO E
POSSIBILI INDIRIZZI SELVICOLTURALI
Marco Paci
RIASSUNTO - Si sono individuate le principali strutture spaziali dei soprassuoli di
pino marittimo delle Cerbaie di Fucecchio, evidenziando i rapporti con il dinamismo della vegetazione sotto copertura.
Gli attacchi di Matsucoccus feytaudi hanno determinato variazioni della copertura
arborea che, a loro volta, hanno creato le condizioni ecologiche per l’insediamento
e/o l’affermazione di uno o più piani successionali. Secondo i casi, si osservano
strutture biplane (alte o basse) o multiplane: il piano inferiore è per lo più rappresentato da specie tipiche della brughiera (scope e calluna) e da corbezzolo, ma
spesso anche da felci e ginestra dei carbonai, mentre il piano successionale arboreo è caratterizzato dalla presenza, variabile da caso a caso, di cerro, roverella
(rovere), castagno, orniello e robinia. In alcune situazioni (generalmente dopo il
passaggio del fuoco) è lo stesso pino marittimo a rinnovarsi.
Si propongono infine le operazioni selvicolturali ritenute idonee ad affrontare
l’emergenza: si tratta, in molti casi, di accelerare i processi evolutivi in direzione
del querceto misto; non si trascura la possibilità di procedere, in particolare nei
soprassuoli devastati, a vere e proprie opere di rimboschimento. In questo senso,
si è preso spunto da opere eseguite recentemente nella zona in esame.
ABSTRACT - The pinewoods of Cerbaie di Fucecchio (Tuscany): structure, dynamics
and sylviculture. In stands of Pinus pinaster located in Cerbaie di Fucecchio
(Tuscany), the main space structures are described, and the relations with vegetation dynamic under the forest canopy are stressed. Matsucoccus feytaudi infestations produced a decrease of forest cover, that gave rise to ecological modifications suitable to the settling and/or the release of one or more successional layers. According to the case, two-layer (high and low) or multi-layer structures are
observed: the lower layer is frequently characterized by the presence of shrubs
typical of the heat-land (heater) and strawberry tree, but also by fern and broom,
173
MARCO PACI
whereas the tree successional layer, according to the case, is marked by the
presence of Turkey oak, pubescent oak, durmast, chestnut, locust, ash. In some
situations (usually after the fire) cluster pine itself regenerates. Sylvicultural
choices aimed to face the emergency caused by Matsucoccus feytaudi are finally
proposed. More frequently the priority is to hasten the evolution towards the
mixed oak forest. In some sites, corresponding to the devastated stands, suitable
plantations are proposed. Concerning this, works recently accomplished in the
zone are the starting point for the projects.
PREMESSA
Dalla seconda metà degli anni ’90, periodo in cui si manifestarono i primi
danni da Matsucoccus feytaudi a carico del pino marittimo, la gestione selvicolturale delle pinete delle Cerbaie ha assunto un ruolo di primo piano fra i problemi
forestali della Toscana. La questione è assai complessa: infatti, se da un lato la
patologia innesca successioni secondarie che orientano la vegetazione in direzione
del bosco di latifoglie mesofile, dall’altro tale evoluzione, pur garantendo la continuità della copertura forestale, non risolve problemi legati ad aspetti paesaggistici ed economici molto sentiti nella zona.
Il presupposto di qualsiasi proposta gestionale resta comunque un attento
esame dei popolamenti interessati dagli attacchi: si è reso perciò necessario,
prima di avanzare precise proposte di intervento, definire i caratteri strutturali e
dinamici dei popolamenti di pino marittimo. Successivamente a tale indagine è
stato possibile ipotizzare modelli selvicolturali.
DESCRIZIONE DELLE PINETE: STRUTTURA E DINAMISMO
Gli attacchi, fisionomicamente ben definiti (cioè a carico di soprassuoli, non
di poche piante isolate) di Matsucoccus feytaudi rappresentano un elemento
capace di discriminare le pinete di pino marittimo delle Cerbaie dalle altre del territorio toscano: ne è riprova il fatto che nella tipologia delle pinete toscane esse
costituiscono un tipo evolutivo a sé stante (BIANCHI et al., 2005).
Sotto il profilo fisionomico, la caratteristica dominante è il basso grado di
copertura offerto dai pini, che presentano chiome arrossate e colate di resina su
tutto il tronco. Il dinamismo varia da caso a caso; generalmente è evidente la ten-
174
LE PINETE DELLE CERBAIE
denza alla sostituzione del pino da parte delle latifoglie presenti nel piano di successione, per quanto la rinnovazione dello stesso pino non sia rara.
È noto che la patologia, oltre a portare più o meno rapidamente alla morte gli
individui della conifera, aumenta la suscettibilità del soprassuolo agli incendi.
Infatti, nel caso l’insetto attacchi pinete pure, non solo i pini vengono uccisi, ma
l’eccesso di resina prodotta dalle piante colpite causa, nel caso di incendi, vere e
proprie devastazioni da fuoco, al punto che anche le ceppaie delle latifoglie vengono distrutte o comunque devitalizzate (BINAZZI, 2005; BINAZZI et al., 2007).
Alle Cerbaie il pinastro, pur risultando dominante in termini sia di numero di
individui che di biomassa sulle altre specie, dà luogo a popolamenti in cui sono
presenti, in proporzioni variabili, latifoglie. La componente arborea è costituita da
orniello, cerro, robinia, sorbi (domestico e ciavardello) e, in minore misura, da
roverella, rovere, leccio, sughera, castagno. Nel piano arbustivo prevalgono le specie di brughiera (calluna, erica arborea ed erica scoparia), spesso associate a corbezzolo; tuttavia nelle aree più assolate sono frequenti lentisco, filliree, alaterno
e ginepro, mentre felci, ginestra dei carbonai, ginestrone, pungitopo, edera e
agrifoglio sono diffusi nelle stazioni più umide.
In conseguenza della patologia, la quota delle latifoglie è in continua crescita.
Le strutture identificate possono essere ricondotte, schematicamente, alle
seguenti (Figura 1):
1. Strutture biplane basse, spesso (ma non necessariamente) legate a fasi iniziali
di deperimento. Sotto il piano superiore (alto da 15 a 20 m), occupato dai pini
(alcuni dei quali mostrano vistosi alleggerimenti delle chiome, mentre altri
sono ormai ridotti a alberi scheletriti), si espande un sottopiano a brughiera
(dominato da erica scoparla e calluna) e corbezzolo.
2. Strutture biplane alte, in cui sotto il piano dei pini si è affermato un piano di
latifoglie decidue (secondo i casi cerro, rovere, orniello, castagno, robinia), che
si attesta sui 6-8 m.
3. Strutture pluristratificate. Nell’ambito di queste è possibile distinguere un tipo
evolutivo a latifoglie decidue arboree, il cui ingresso sotto copertura è avvenuto progressivamente nel tempo (le latifoglie si distribuiscono tra 2 e 8 m) da
un tipo in cui è possibile distinguere, in modo piuttosto definito, tre piani:
piano superiore (pinastro, a copertura più o meno rada, alto da 15 a 20 m),
piano intermedio (latifoglie decidue arboree), piano inferiore (specie di brughiera e corbezzolo).
Va osservato che la classificazione è riferita alle strutture più frequenti nella
zona, ma non esclude altre situazioni, come novelleti puri di pino marittimo
175
MARCO PACI
Figura 1 – Strutture spaziali osservate nelle pinete delle Cerbaie.
Dall’alto in basso compaiono, rispettivamente, le strutture:
biplana bassa, biplana alta e pluristratificata.
176
LE PINETE DELLE CERBAIE
(spesso originati in seguito al passaggio del fuoco, per quanto il pino si rinnovi con
relativa facilità sui margini dei popolamenti e sulle scarpate, anche in assenza di
fuoco), oppure cedui quercini coniferati con pino marittimo: in quest’ultimo caso
la presenza delle piante di pino è spesso ridotta a pochi individui svettanti sul
ceduo, quelli sopravvissuti agli attacchi dell’insetto.
INDIRIZZI E PROBLEMATICHE GESTIONALI
La premessa a qualsiasi proposta gestionale è che il problema fitopatologico
comporta una serie di conseguenze a vario livello: i problemi vanno dalla difesa
del suolo, agli aspetti finanziari legati alla perdita di produzione legnosa, ai cambiamenti paesaggistici, alle condizioni di sicurezza dei fruitori dei boschi. Alle
misure selvicolturali, infatti, non sarebbe male accompagnare un’opera di informazione del pubblico sulle possibili conseguenze della permanenza in bosco di
piante adulte di pino marittimo indebolite dagli attacchi della cocciniglia: in questo modo sarebbero chiari i motivi delle utilizzazioni, e inoltre si informerebbe sui
rischi legati alla caduta di piante (PIUSSI, 2005).
Il problema fitopatologico è comunque così grave che ogni scelta selvicolturale che punti sulla conservazione del pino marittimo comporta un altissimo
rischio.
Le alternative possibili appaiono due: conservare comunque la pineta, oppure
favorirne l’evoluzione verso il bosco a prevalenza di latifoglie decidue o di sclerofille sempreverdi. La conservazione della pineta, tuttavia, può avere un senso
dove questa costituisca una rarità o dove le condizione ecologiche della stazione
siano particolarmente favorevoli al pinastro e di conseguenza rendano il popolamento più resistente agli attacchi della cocciniglia. Fino ad oggi, vista la facilità
di rinnovazione e di espansione naturale del pino marittimo, la gestione di gran
parte delle pinete si è limitata al taglio delle piante mature. Allo stato attuale questo tipo di gestione esporrebbe ulteriormente il soprassuolo ad attacchi della cocciniglia, per cui, nell’ottica della conservazione della pineta, è necessario intervenire con le opportune cure colturali.
Una gestione mirata a favorire l’evoluzione verso il bosco misto di latifoglie
appare comunque la soluzione più logica, sia per diminuire rischi di incendi, sia
per cautelarsi dalla devastazione ad opera dell’insetto. Per favorire l’evoluzione dei
soprassuoli si può prevedere il passaggio a strutture simili a cedui sotto fustaia: il
taglio fitosanitario a carico dei pini malati potrebbe essere accompagnato, nei casi
177
MARCO PACI
in cui il piano di latifoglie decidue sia ormai affermato sotto copertura, da una
ceduazione delle latifoglie, in modo da creare i presupposti per un futuro governo
a ceduo (BIANCHI, 2006).
Nel caso in cui l’evoluzione proceda invece verso formazioni a prevalenza di
Ericaceae (brughiera), diverrà prioritario adottare misure aggiuntive sia per la
difesa dal fuoco sia per favorire l’ingresso delle latifoglie arboree, dati i tempi lunghi previsti.
SELVICOLTURA
Si esaminano le possibili opzioni selvicolturali, in relazione ad alcuni casi
tipici.
1. Soprassuoli che mostrano discrete condizioni fitosanitarie
A. Nelle pinete dense e monoplane, in cui non sono visibili (o dove questi sono
appena accennati) i danni da cocciniglia, senza segni di dinamiche evolutive, una
possibilità è la conservazione temporanea della pineta, con la prospettiva di prolungare la copertura del pino per un periodo di tempo variabile da pochi anni a un
massimo di una trentina di anni (PIUSSI, 2005). Nel caso di soprassuoli giovani e
molto densi, come le spessine originate dopo il passaggio del fuoco, la priorità
spetta ai tagli intercalari, in modo da favorire la vigoria delle piante. Si dovrebbe
intervenire dopo che il soprassuolo ha raggiunto 5-8 m di altezza (15-20 anni di
età), con diradamenti misti (geometrici a strisce combinati con interventi selettivi
fra le strisce). Nei popolamenti maturi, il taglio raso a strisce o a buche sembra il
più indicato per la rinnovazione del pinastro (BERNETTI, 1995). In ogni caso, i pini
dovranno essere allontanati prima di arrivare al collasso fisiologico; un rischio, in
tal senso, è rappresentato dal fatto che la biomassa accumulata (ricca di resina)
rappresenta un’esca per il fuoco, senza sottovalutare i rischi per l’uomo della
caduta accidentale delle piante malate. Nel caso di boschi da seme o di pinete di
grande valore paesaggistico o turistico, e comunque solo su aree limitate, si
potrebbero fare investimenti molto costosi, con forme di lotta biologica mirate (le
misure per contenere gli attacchi sono comunque in fase di sperimentazione:
BINAZZI, 2005). Questa opzione trova una giustificazione nell’importanza che il
pino assume, nella zona, sotto il profilo economico (molte pinete sono di proprietà
privata, e va rimarcato che il pino delle Cerbaie presenta caratteristiche idonee per
la produzione di legno da opera). In prospettiva (ma di sicuro a lungo termine), non
178
LE PINETE DELLE CERBAIE
è escluso che alcuni tratti di pineta possano sopravvivere alla patologia: studi in
corso in Francia e in Italia sottolineano non solo una certa variabilità individuale
del pinastro nella resistenza alla malattia, ma anche l’esistenza di provenienze (spagnole e marocchine) più resistenti (SCHVESTER e UGHETTO, 1986; FUSARO, 2005;
RAFFIN, 2005). Per il momento, anche nelle stazioni dove le devastazioni hanno
suggerito la necessità di provvedere al rimboschimento, si consiglia di rilasciare
giovani e vigorose piante di pino eventualmente presenti nel piano di rinnovazione.
B. Nelle zone più fertili, dove sono in atto ben definiti fenomeni successionali
sotto copertura, uno o due interventi di alleggerimento della copertura dovrebbero
portare a un soprassuolo stratificato, in cui 50-70 pini ad ettaro, scelti fra quelli più
vigorosi e di migliore conformazione, svettano su uno o più piani di latifoglie.
Altrimenti, nei casi in cui (fertilità inferiori) i nuclei di latifoglie siano meno diffusi e più localizzati, si può procedere all’apertura di buche, magari integrando, ove
se ne riconosca la necessità, con semine e piantagioni. Nelle pinete di fertilità peggiore, sotto la cui copertura si sviluppa un sottopiano a brughiera, l’alleggerimento
della copertura a favore dei pini più vigorosi potrebbe accompagnarsi all’apertura
di piccole (1000 m2) buche, in cui eseguire semine o piantagioni con latifoglie indigene (BIANCHI, 2006).
2. Pinete in cui l’attacco è evidente ma non ha assunto ancora il carattere di devastazione
In questi casi si possono adottare precauzioni per limitare o circoscrivere i
danni. La via migliore è quella che consiste nell’attenuare l’impatto dell’infestazione: la gestione si dovrà basare dunque su cure colturali come diradamenti
più o meno intensi, in grado isolare le chiome del pino e favorire l’evoluzione del
popolamento verso il bosco misto con le latifoglie. Si ricorda che le pinete
devastate da Matsucoccus feytaudi sono soggette a interventi di lotta obbligatoria, di cui al D.M. del 22/11/96, da eseguire in aree infestate la cui localizzazione
è stata comunicata all’ARPAT (RFT art. 49). Si tratta in pratica di limitare l’ulteriore diffusione del patogeno eliminando i soggetti colpiti e, al tempo stesso,
diminuire l’esposizione al pericolo di incendio a cui vanno incontro i soprassuoli
infestati. Sarebbe opportuno bruciare il materiale asportato; tale operazione
dovrà tenere conto delle limitazioni imposte per la prevenzione, salvaguardia e
tutela del territorio dagli incendi boschivi (RFT Sez. III capo IV). Purtroppo, nel
territorio delle Cerbaie si sono osservati alcuni casi di tagli fitosanitari che non
hanno previsto l’allontanamento delle piante colpite (le piante abbattute giacciono a terra non scortecciate). Secondo l’art. 50 comma 1 del RFT, “quando, a
179
MARCO PACI
seguito di invasioni di parassiti o di altri fatti dannosi, si verifichi la distruzione
totale o parziale dei boschi…, il proprietario o il possessore sono tenuti a gestire
il bosco secondo criteri che consentano la ricostituzione o il miglioramento
dello stesso”. In questo senso è opportuno distinguere i tagli preventivi dai tagli
a carico dei pini malati. In quest’ultimo caso il taglio serve, più che a diminuire
i rischi per la diffusione del patogeno, a creare spazi per l’ingresso delle latifoglie e per sicurezza (allontanamento piante rischiose). Vista l’eccezionalità e la
gravità del problema, il taglio fitosanitario non dovrebbe limitarsi all’abbattimento e allontanamento dei pini malati, ma prevedere anche la ricostituzione
della copertura arborea e l’aumento della stabilità del sistema. I tagli fitosanitari,
del resto, sono uno strumento inadeguato ai fini di un approccio efficace al problema degli attacchi da parte dell’insetto: l’isolamento delle chiome dei pini sani
può rivelarsi inefficace, sia per la possibilità che i sintomi di attacco si verifichino
a distanza di pochi anni, sia perché il brusco isolamento rende gli alberi estremamente instabili. L’alleggerimento della copertura a favore dei pini più sani e
vigorosi può rivelarsi efficace soprattutto alla luce della evoluzione verso il
bosco misto di latifoglie. Nel caso le latifoglie siano nettamente dominate, è
meglio, dopo averle favorite con la scopertura del pino, ceduarle per consentire
la formazione di polloni più vigorosi (il cerro, ad esempio, reagisce bene a tale
operazione). In questo modo, dopo il taglio fitosanitario, si possono creare i presupposti per un cambio di governo (ceduo sotto fustaia rada di pino). Quando il
piano successionale non è uniformemente distribuito sotto copertura, gli interventi dovranno essere localizzati, con apertura di buche in prossimità dei nuclei
di latifoglie. La ricostituzione del soprassuolo non può fare affidamento – se non
parzialmente – sui nuclei di rinnovazione di pino marittimo eventualmente presenti; sarà pertanto necessario puntare sull’affermazione e sullo sviluppo delle
latifoglie arboree, controllando la concorrenza delle specie arbustive, oltre della
robinia; laddove l’evoluzione in direzione del bosco di latifoglie sia scarsa o mancante, è auspicabile ricorrere a piantagioni o semine di specie quercine a seconda
della stazione (rovere, roverella, cerro).
3. Brusche interruzioni della copertura (devastazioni)
In questi casi si determinano condizioni ecologiche favorevoli a una rapida
evoluzione in direzione della brughiera mediterranea, laddove evoluzioni graduali (quelle non soggette a fattori catastrofici) tendono a favorire l’evoluzione
verso il bosco misto di latifoglie decidue. È soprattutto in questi casi che si renderebbe quanto mai opportuna un’opera di rimboschimento. Tra Galleno e Staffoli,
180
LE PINETE DELLE CERBAIE
Figura 2 - Esempio di rimboschimento in una pineta colpita da Matsucoccus feytaudi nei pressi di Staffoli (PI). Si noti che le piantine messe a dimora, con le opportune protezioni, integrano piante nate spontaneamente da seme o per via agamica.
181
MARCO PACI
come tra Montefalcone e Galleno, si sono osservati esempi di rimboschimento: si
tratta di operazioni eseguite con criterio naturalistico, rilasciando giovani pini e
ricacci vigorosi del vecchio ciclo (nelle ceppaie è stata fatta una selezione a
favore del migliore pollone), e in certi casi anche arbusti come ginestra (ma radi,
in modo che non svolgano concorrenza). A dimora, con tanto di protezione (la
fauna selvatica è un altro problema da non sottovalutare: la gestione forestale non
può prescindere da una attenta quantificazione di tale problema), sono stati messi
cerro, roverella e orniello. In queste opere di ricostituzione della copertura boschiva
possono trovare impiego anche specie come aceri e frassini, in modo da accrescere
la biodiversità della componente arborea. Per quanto riguarda i pini, le piante più
vigorose in rinnovazione possono essere conservate (Figura 2). Infatti i novelleti
di pino sono frequenti non solo dopo il passaggio del fuoco, ma spesso in seguito
a tagli fitosanitari, e la loro copertura va ritenuta positiva per la protezione del terreno: nello sfollo o nel diradamento precoce andrebbero comunque favorite le
latifoglie (soprattutto il cerro), che in prospettiva promettono meno problemi del
pino. Tuttavia, si esclude una messa a dimora dei pini tramite rimboschimento,
almeno fino a quando la sperimentazione avrà indicato individui o provenienze di
sicura resistenza alla cocciniglia.
In ultima analisi, prima di qualsiasi intervento è necessario valutare: lo stato
sanitario della pineta, con completa rimozione dei pini in caso di infestazioni, o
esecuzione di diradamenti intensi e selettivi nei soprassuoli sani; la vigoria delle
latifoglie arboree, procedendo a eventuali ceduazioni o rinnovazioni artificiali; la
stabilità dei pini residui, vista la alta esposizione a rischi di crolli; il pericolo di
incendi, visto che la necromassa infiammabile e gli attacchi di cocciniglia incrementano i rischi di propagazione del fuoco.
Infine due parole sull’impiego di mezzi meccanici. È ancora aperta la questione
dei danni a carico delle ceppaie e del suolo; tuttavia, va ricordato che i mezzi tradizionali di utilizzazione risultano quasi sempre impraticabili, se non altro sotto
il profilo finanziario. Una viabilità più capillare e una puntuale organizzazione del
cantiere possono aiutare a rendere la meccanizzazione di certe operazioni meno
nociva.
182
LE PINETE DELLE CERBAIE
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183
USI CIVICI A SENEGHE (OR):
LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
Roberto Scotti1, Cristian Ibba2
INTRODUZIONE
Seneghe, in provincia di Oristano, è un piccolo paese (2000 abitanti) posto
sulle pendici meridionali del complesso vulcanico più antico della Sardegna, il
Montiferru.
L’abitato è posto a circa 300 m sul livello del mare ed è contornato, poco più
in alto, da ‘su Monte’: circa 900 ha di terreni boscati soggetti ad uso civico.
Si tratta principalmente di boschi di leccio, relativamente fertili e ben riforniti
di acqua, sia sotterranea (fonti) che atmosferica (almeno 800 mm/anno oltre la condensa), con un piccolo tratto a sughera e diversi lembi di macchia a corbezzolo o
di cisteto.
L’esercizio dell’uso civico di legnatico, praticato nelle forme attuali da oltre
due decenni, rappresenta oggi per la comunità un evento ed un periodo di particolare fibrillazione. Il motto ‘su Monte est su nostu’ (il bosco è proprietà nostra,
della comunità) viene molto energicamente declamato non appena si accenna ai
problemi che la gestione di questo bosco in realtà pone.
Oltre al legnatico si pratica ancora l’uso civico di pascolamento ma, attualmente, le richieste sono molto limitate e non determinano carichi di grande rilievo.
Tuttavia, in assenza di pianificazione e gestione, questa attività interferisce sia con
il legnatico sia, sopratutto, con le attività turistico ricreative: ‘su Monte e Seneghe’
è in fatti una meta la cui attrattività si estende almeno fino a Cagliari e costituisce
elemento essenziale dell’offerta turistica locale.
1
2
Università di Sassari - Forestry School of Nuoro.
Libero professionista forestale.
185
ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
Il Corpo forestale regionale (CFVA), messo sotto pressione ogni due anni per
ottenere l’autorizzazione a procedere all’assegno dei lotti, si adopera da oltre dieci
anni affinché venga redatto un piano di assestamento e si riconduca la gestione di
questo bosco ai termini della legge forestale. Ipotizzando di assumere direttamente l’antico ruolo tecnico, il CFVA ha cercato di procedere in proprio alla redazione del piano e, nel 2003-2004, ha coinvolto nell’operazione anche il Corso di laurea in scienze forestali di Nuoro3. Di fatto le possibilità di redigere un piano di assestamento in queste condizioni sono praticamente nulle: senza la determinazione di
un libero professionista che imponga al lavoro un minimo di coerenza operativa, le
energie si disperdono in mille rivoli e ostacoli anche minimi diventano blocchi.
Nel 2004, l’allora “servizio per lo sviluppo sostenibile” della Regione Sardegna stava procedendo all’implementazione di un progetto pilota teso a valutare e
dimostrare le possibili sinergie realizzabili dallo sfruttamento congiunto di crediti
di carbonio ed energia da biomasse. In quel quadro, avendo messo in opera a ‘su
Monte’ le prime attività tese a realizzare un Piano di Assestamento forestale,
risultò logico scegliere Seneghe quale destinatario del progetto che poi è stato
denominato ForEnCarb (foreste energia e carbonio). Con una disponibilità massima di 120.000 euro, ForEnCarb si proponeva di realizzare, in due anni, tre attività strettamente interrelate: 1) l’attivazione di processi di pianificazione partecipativa, 2) il coordinamento della gestione dell’agro tramite il “Piano Forestale Territoriale di indirizzo” e 3) il “Piano di assestamento” dei boschi di ‘su Monte’ soggetti ad uso civico.
A quel punto la redazione del Piano di assestamento assunse connotati solidi.
È stato possibile sviluppare in modo integrato le fasi informative della redazione
del piano di assestamento e del piano forestale territoriale, e procedere a più
approfondite ricerche di archivio. Quel materiale è stato in parte commentato e
discusso in precedenti lavori (CADONI et al., 2004; SCOTTI et al., 2007) e successivamente, con la stesura della relazione per il Piano di Assestamento, rielaborato,
integrato con altre fonti di informazione e sintetizzato in una ipotesi di periodizzazione della storia selvicolturale di su Monte di Seneghe. Infine, stralciando e
ricomponendo quanto esposto nel piano, tale ipotesi è stata sottoposta all’attenzione ed al vaglio dell’opinione pubblica seneghese nel corso dell’assemblea
conclusiva del progetto ForEnCarb.
3
Grazie anche al sostegno finanziario derivante dall’impegno nel progetto di ricerca nazionale
RiSelvItalia.
186
USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
Il professor Cantiani ha sempre praticato ed insegnato a prestare, anche nell’ambito dell’assestamento, massima attenzione alle vicende storiche e culturali che
hanno contribuito a comporre le formazioni e strutture forestali che oggi possiamo
rilevare, pena una errata interpretazione dello stato del sistema e delle sue potenzialità
evolutive. In omaggio al rilievo e all’attenzione che il professor Cantiani ha sempre
rivolto a questa componente del lavoro dell’assestatore, sintetizziamo nel seguito
quanto elaborato diffusamente nella relazione del Piano di Assestamento.
DOCUMENTI E DATI DI INTERESSE PER LA RICOSTRUZIONE DELLE VICENDE STORICHE
Il lavoro di ricerca svolto a sostegno delle attività di pianificazione sostenibile
del progetto ForEnCarb è stato esteso a tutte le fonti raggiungibili, pur nella limitatezza delle competenze disponibili.
Già nel corso della collaborazione con l’Ispettorato forestale di Oristano,
avendone avvertita la necessità, era iniziata l’analisi dei loro archivi. Nelle relazioni con la popolazione e con l’amministrazione comunale ci si trova infatti frequentemente a contrapporre versioni non sempre compatibili su cosa è successo
nel passato: a quando risale l’esercizio attuale dell’uso civico? quanti e quali
capi hanno utilizzato il Monte degli ultimi decenni? I documenti conservati presso
l’Ispettorato di Oristano non sono ancora organizzati in un archivio facilmente consultabile, è possibile ci sia ancora qualcosa da scoprire.
L’archivio comunale di Seneghe è stato analizzato in modo più sistematico raccogliendo con una apposita schedatura tutte le informazioni rinvenute in relazione
a: legnatico, produzione di carbone, pascolamento, incendi, gestione di su Monte
(infrastrutture: strade, fonti, …). Questa cernita lascia percepire quanto pesa la
gestione del Monte sull’amministrazione del comune di Seneghe. Oltre alle comunicazioni con la locale stazione del Corpo forestale, sono state schedate molte delibere del Comune e altri atti (totale 34 schede su 51 registrazioni).
Per quanto la produzione di carbone sia stata, notoriamente, di notevole rilievo
a Seneghe, è stato difficile rinvenire evidenze documentali in merito. Si è cercato
di valutare anche quanto offre l’Archivio di Stato di Oristano. In realtà invece, le
informazioni più importanti rinvenute da questa fonte sono rappresentate dalle
mappe e dai libri associati al “cessato catasto”, strumento sviluppato ed accantonato intorno alla metà dell’800 (cessazione 1866).
La fonte di informazione più dettagliata relativamente alla produzione di carbone
si è rivelata essere la più antica copertura aerofotografica disponibile. Le riprese sono
187
ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
in bianco e nero, datate 9 agosto 1955 e sono state effettuate da quote relativamente
elevate (6000 m) (foglio 205/206, serie 34-13351: 13355 e 35-13417: 13421).
Infine ha fornito un supporto informativo insperato l’analisi delle rotelle di base
dei fusti campione. Al fine di valutare con ragionevole dettaglio locale provvigioni
ed incrementi del bosco di Seneghe il rilievo dendrometrico vegetazionale ha
incluso anche uno specifico approfondimento sui fusti di diametro dalla classe 20
cm in su (d130 > 17.5 cm). Dato l’impegno che questa analisi comporta è stato possibile rilevare poco più di 60 campioni: 67 fusti con diametri fino a 56 (69) cm.
L’iportanza del Monte per i Seneghesi si riflette anche nella varietà e contraddittorietà delle storie ed opinioni che in merito gli abitanti raccontano. Sa di
leggenda, ad esempio, la storia che circola in merito all’origine del diritto di uso
del bosco da parte della comunità. Si racconta che il Monte costituisce il lascito
testamentario di una antica possidente la quale, non avendo figli, lo lasciò in eredità ai ‘bambini’ del paese. I bambini, si sà, non possono ‘vendere’. Su Monte
costituisce quindi un patrimonio indisponibile che la comunità è tenuta a curare
nella tutela dei propri figli.
La semplice collezione di tutti questi dati oggettivi e indiziari (testimonianze
orali) per quanto articolata, rimane frammentaria ma, analizzando trasversalmente le diverse fonti, è emersa una ipotesi di periodizzazione della storia del
Monte di Seneghe che è andata via via consolidandosi.
“IPOTESI DI RICOSTRUZIONE DELLE VICENDE DI SU MONTE DI SENEGHE (OR) DALL’800
2006” (DAL POSTER ILLUSTRATO IN ASSEMBLEA A SENEGHE)
AL
Introduzione
Le conseguenze della gestione (o non gestione) forestale si scaricano da una generazione a quelle successive. Ricostruire, con la maggiore fedeltà possibile, le vicende
che hanno modellato il bosco è premessa importante affinché la gestione forestale
possa contribuire a rendere il futuro della comunità possibile, civile, sostenibile.
Nell’ambito (ed a latere) del progetto ForEnCarb è stato possibile svolgere ricerche ed analisi particolarmente approfondite. Sono stati esaminati gli archivi del
Comune e del Corpo forestale, estrapolando tutte le notizie inerenti gli usi civici ed
il bosco (incendi ad esempio). Sono state svolte indagini presso l’Archivio di Stato
e sono state raccolte fotografie e testimonianze dirette delle attività svolte nel corso
della seconda metà del secolo scorso. Sono state infine condotte indagini bibliografiche e sulle più antiche fotografie da aereo disponibili (1955) e rilievi specifici in
bosco (catalogazione delle aie carbonili, analisi delle età di un campione di fusti).
188
USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
Elaborando ed incrociando questa estesa stratificazione di informazioni si è
tratteggiata una ipotesi (documentata) di periodizzazione significativa delle
vicende dei boschi di su Monte a partire dall’ ‘800 fino ai giorni nostri. Si sono evidenziate almeno quattro rilevanti discontinuità che delimitano 5 fasi principali: 1) il
periodo “antico”, 2) la fase dei carbonai, 3) una fase di relativa stasi, 4) il primo
ciclo del legnatico attuale e 5) una, più convulsa, fase corrente.
1. Periodo antico
Della storia del Monte precedente all’arrivo dei carbonai non si possono trovare riferimenti nella struttura del bosco ma solo nei manufatti e nei dati di
archivio. ANGIUS e CASALIS (1833-55) così accennano alle selve di Seneghe:
“dopo la continua distruzione che si è fatta finora dè grandi vegetali con la scure
e col fuoco, molte parti del terreno incolto sono povere di alberi d’alto fusto e solo
in due regioni si trovano così vicini da poter formare una selva. Il terreno occupato da queste due selve sarà di circa 1200 giornate [equivalente a 240 ha
(BECCU, 2000)]. Le specie ghiandifere sono la quercia e il leccio, frequentissimamente mescolate agli olivastri, che si trovano pure numerosi in altre parti
mescolati al bosco ceduo”. Alcuni bellissimi esemplari con chioma a forma di
enorme candelabro testimoniano dell’antica associazione tra bosco ed uso zootecnico del territorio (Figura 1).
Figura 1 - “Assidare”: pratica agroforestale caduta in disuso.
189
ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
Sulla base di diverse fonti della seconda metà del diciannovesimo secolo, BECCU
(2000) stima in 710 ha la superficie boscata esistente a Seneghe. Nel ‘cessato catasto’, rimasto in vigore fino al 1866, il territorio comunale era suddiviso in 12 “frazioni” somiglianti ai fogli del moderno catasto ma denominate con lettere (Figura 2).
La frazione, a sua volta, era suddivisa in “appezzamenti” paragonabili alle odierne
particelle catastali e la zona di Su Monte includeva tre unità (Tabella 1).
Figura 2 - Su Monte nel “cessato catasto” 1866.
appezzamento
possessore
qualità di coltura
superficie [ha]
1
Demanio dello Stato
selva ghiandifera senza sughero
394,07
2
Comune di Seneghe
selva ghiandifera senza sughero
609,20
3
Comune di Seneghe
pascolo
260,27
Tabella 1: Su Monte nel “cessato catasto” (1866).
L’appezzamento “1” (località di Su Lottu e Tramatza, Pischina, Aurras e Trobiulongu) è oggi rappresentato da proprietà private. Gli appezzamenti “2” e “3”
(superficie complessiva di 870 ha) sono ancora intestati al Comune di Seneghe e
corrispondono ai terreni attualmente gravati da uso civico (circa 896 ha).
190
USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
2. Fase dei carbonai: 1940-1960
Approssimativamente tra il 1940 e il 1960 i boschi del Monte vengono utilizzati per la produzione di carbone (Figura 3). Ne sono testimonianza l’alto numero
di aie cabonili riscontrabili (mediamente una per ettaro) nelle foto aeree del 1955
(e visibili ancora oggi) e la struttura del bosco caratterizzata, in gran parte di queste foto, da piccole macchie scure (interpretabili come “rilasci” della ceduazione:
alberi grandi e macchioni) distanziate tra loro più di 10 m (a Cuguzzu ad esempio). In altre zone si rileva al contrario un grado di copertura decisamente superiore, ad est di Funtanas ad esempio (Figura 4).
Figura 3 - Carbonaia anni
’50 (archivio Sgrignani).
Figura 4 - Carbonaie nelle foto aeree del 1955.
Questi interventi hanno prodotto formazioni molto diversificate: a tratti di
ceduo si alternano tratti di soprassuolo in cui l’eccesso di rilasci ha di fatto ostacolato il normale sviluppo dei polloni. L’analisi delle età dei fusti campione e la
distribuzione delle aie carbonili nelle foto aeree lasciano supporre che gli interventi
di questa fase abbiano interessato praticamente tutta la foresta. In alcune aree (ad
esempio a Pabassiu o a Pileddu) si individuano con una certa frequenza ceppaie che
lasciano ancora intravedere distintamente la loro origine: si intuisce che è stato
tagliato (probabilmente senza motosega) un tronco di grosse dimensioni (diametro
alla base superiore a mezzo metro) lasciando un moncone di almeno 40 cm fuori
terra (Figura 5). Parallelamente si possono individuare gruppi di fusti di leccio che
si dispongono quasi a formare un grosso cerchio e si può ipotizzare che siano pol-
191
ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
loni ora affrancati originati dal progressivo allargamento di una stessa ceppaia. Le
modalità di intervento dei carbonai sono ancora evidenti in quei tratti di bosco dove
non stati effettuati interventi significativi dopo il 1960. Qui (Matta Lada, ex recinto
dei cervi - particelle 5, 6 e 36) la struttura del bosco è quella di un ceduo matricinato (con matricine di diverso sviluppo) con numerosi polloni per ceppaia di
grandi dimensioni. Nel 1946 si sviluppò un incendio nelle località di Cuile Marzu,
Achettores e Sos Paris (fonte archivio CFVA OR) e gli effetti sono visibili anche
nelle foto aeree del 1955. Come evidenziato nella carta della distribuzione dei fusti
campione per anno di nascita (Figura 6), alcune di queste date possono essere, con
molta probabilità, attribuite a quell’evento. Anche per gli incendi di Cuguzzu del
1955 e di Funtanas del 1956 è possibile fare considerazioni analoghe.
Figura 5 - Ultime tracce delle utilizzazioni “antiche”, senza motosega.
3. Fase di relativa stasi: 1960-1980
Secondo testimonianze orali nel Monte di Seneghe la motosega fu impiegata la
prima volta nel 1959 e solo nella seconda metà degli anni settanta (1975-1978)
diventò di uso corrente. L’analisi delle età dei fusti campione evidenzia frequenze
particolarmente ridotte in questo intervallo temporale. Nell’archivio comunale si
rinvengono in questo periodo solo tre delibere che riguardano la gestione del
Monte, tutte e tre regolano il pascolamento: due sono del 1961 e si riferiscono a Sa
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USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
Figura 6 - Distribuzione spaziale dei fusti campione per anno di nascita.
Narva mentre una terza (1968) si riferisce a Sos Paris e Funtanas. I boschi interessati
vengono descritti come cedui matricinati ben sviluppati. Nessuna delibera di questo periodo riguarda il legnatico. A partire dal 1960 si assiste alla graduale scomparsa della pratica di carbonizzazione. Parallelamente al progressivo abbandono
delle campagne, si rileva uno scarsissimo interesse nell’utilizzazione del bosco
come fonte primaria per la produzione di legna per il riscaldamento delle case. La
riduzione dell’approvvigionamento di fitomassa per energia è stata compensata da
fonti esterne come carbone, gas o gasolio. Nel ventennio che parte dal 1960 si
abbandona la selvicoltura produttiva applicata dai carbonai. I prelievi effettuati
appaiono di intensità marginale con un effetto paragonabile a quello di un diradamento dei cedui, senza innescare la fase di rinnovazione dei boschi. I soprassuoli
derivati dai tagli dei carbonai apparivano come “bosco molto fitto” (ampi tratti di
ceduo giovane) e i primi tagli erano probabilmente assimilabili a diradamenti con
rilascio di almeno 3 o 4 polloni per ceppaia e taglio di grosse matricine. A quell’epoca il livello di meccanizzazione era scarso e l’esercizio del diritto di legnatico
impegnava poche persone, pertanto il prelievo era necessariamente limitato. Alcune
testimonianze orali riferiscono dell’esbosco di singoli tronchi piuttosto grandi,
altre relative a zone diverse, si riferiscono ad interventi effettuati a carico di polloni.
193
ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
Si possono trovare tracce di questa fase in diverse zone del Monte: per esempio in
piccoli nuclei di Fromigas o di Su Nou ‘e sa Pira (particelle 63 e 66) ancora oggi
ci sono ceppaie con 2 o 3 grossi polloni invecchiati che hanno subito solo un
primo diradamento. Tra gli incendi più importanti si ricordano quelli del 1961 e
1977 che percorsero buona parte di Cadennaghe.
4. Primo ciclo del legnatico attuale: 1980-2002
Risale al 1979 la deliberazione del primo regolamento per il legnatico. L’analisi
delle età dei fusti campione, a partire da quella stagione, registra un netto incremento
(Figura 7). Già dalla fine degli anni ’70, ma soprattutto a partire dai primi anni ’80,
è stata regolarmente documentata, a cura del Corpo Forestale, la storia delle utilizzazioni effettuate per il legnatico al Monte (Figura 8). La sequenza delle località interessate rappresenta approssimativamente un ciclo che percorre quasi tutto su Monte,
eccezion fatta per le zone di provvigione molto limitata: la parte alta di Cadennaghe,
Sa Pala e’ Sa Mazzigusa, M. Olia, Pileddu, la parte bassa di Funtanas e Matta Candida. Secondo alcune testimonianze, per le quali i tagli del periodo precedente non
erano così marginali, questo ciclo appare come la seconda volta che si percorre il
Monte. Al contrario, i prelievi effettuati in questa fase hanno approfittato sia dell’accumulo di massa realizzato nei 30 anni trascorsi dai tagli dei carbonai, sia degli
effetti colturali conseguenti agli interventi della fase di relativa stasi delle utilizzazioni.
Figura 7 - Distribuzione del numero di fusti campione per anno di nascita.
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USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
Figura 8 - Aree percorse con il legnatico tra il 1980 e il 2002.
Figura 9 - La catasta, il prodotto di un lotto.
195
ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
Le richieste di legna di questo periodo, a volte anche consistenti (Figura 9),
venivano soddisfatte senza effettuare vere e proprie ceduazioni e quindi senza procedere alla rinnovazione del bosco. Gli interventi effettuati non si configurano
esplicitamente come interventi di conversione all’altofusto: il prelievo non è
infatti stato guidato da questo criterio ma piuttosto dalla volontà di soddisfare le
richieste di legna. L’intensità dell’intervento ha invece rispettato tale criterio, il rilascio era sufficiente a limitare molto significativamente lo sviluppo dei polloni che
si generavano in conseguenza del taglio.
Le strutture boschive risultanti, se pure molto confuse, sono innegabilmente
apprezzabili sotto diversi profili: per la provvigione, per la capacità protettiva e per
la loro complessità. Tra l’altro con questa conformazione, l’uso zootecnico del
bosco, ancora costantemente praticato (Figura 10), non determina conflitti di
rilievo. Altrettanto evidenti sono le implicazioni negative per la “sostenibilità” del
legnatico: per quanto lentamente, di questo passo si costituisce una fustaia, una
struttura inadeguata all’esercizio del legnatico diretto che positivamente caratterizza la cultura seneghese corrente.
Figura 10 - Uso zootecnico corrente del bosco.
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USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
Nel 1983 un incendio interessò la zona ad ovest di Funtanas; in seguito si sviluppò un ceduo semplice di leccio, corbezzolo e fillirea che ancora oggi non ha
subito interventi selvicolturali eccetto che per alcune zone sottoposte a leggeri diradamenti in occasione del progetto Azione Bosco (1996).
5. Fase corrente
Con l’annata silvana 2004/05 si è aperta, in parte casualmente, una nuova fase
(SCOTTI, 2007). Avendo percorso nella fase precedente tutte le superfici più ricche
e facilmente accessibili e mancando nell’amministrazione la capacità e responsabilità gestionale necessaria ad effettuare, nelle aree più difficili, le necessarie cure
selvicolturali, l’intervento di questa annata ha interessato estese superfici percorse
solo venti anni prima. Non essendo stato quello precedente un intervento di rinnovazione del bosco, non erano riproponibili le stesse modalità di prelievo.
Il problema non è stato esplicitamente affrontato tuttavia, data la presenza al
Monte del gruppo di lavoro del Progetto di Ricerca RiSelvItalia, l’amministrazione
ha coinvolto i ricercatori nelle fasi preliminari all’assegno del legnatico. In risposta a tale sollecitazione è stata formulata una proposta di intervento basata su due
distinte direttrici: la specificazione dell’intenzione di avviare all’altofusto determinate porzioni del bosco e la sperimentazione della ceduazione frazionata, su una
superficie complessivamente limitata costituita da piccoli corpi disgiunti. La proposta di sperimentazione è stata presentata alla popolazione come possibile
opzione di una più complessiva gestione forestale ambientale sostenibile: un’opzione potenzialmente critica ma, se responsabilmente gestita, capace di fornire un
significativo contributo allo sviluppo sostenibile della comunità.
In fase di implementazione, superati i primi momenti di sconcerto determinati
dal forte impatto visivo conseguente alla ceduazione dei primi lotti, assegnati tutti
i lotti ricavabili nelle superfici disgiunte individuate per la sperimentazione della
ceduazione, nonostante la ferma opposizione del gruppo di ricerca, la ceduazione è stata estesa su una superficie accorpata di circa 33 ha e non si è dato corso
alla prima delle direttrici di intervento proposte (Figura 11). Con l’annata successiva (2006/07), pur aumentando un po’ il livello del rilascio, la ceduazione è
stata ulteriormente estesa ed interessa ora complessivamente 50 ha accorpati.
Se è ipotizzabile estendere (ovviamente non con questo grado di accorpamento) su 300 ha il governo a ceduo utilizzando mediamente 25 ha ogni 2 anni si
esauriscono le risorse in 24 anni, un tempo non sufficiente a rigenerarle, e men che
meno a ricostituirne il livello provvigionale attuale. La fase corrente non è soste-
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ROBERTO SCOTTI, CRISTIAN IBBA
Figura 11 - La prova (fallita) di ceduazione frazionata.
nibile innanzitutto sul piano ambientale e socio-culturale, per lo sbilanciamento
tra il forte impatto ambientale della ceduazione e la insufficiente capacità e
responsabilità gestionale, e poi sul piano ecologico ed economico, essendo il
tasso di utilizzazione superiore a quello di rinnovazione.
PROSPETTIVE DI APPROFONDIMENTO
L’ipotesi di ricostruzione delle vicende dei boschi di su Monte, pur tracciata
sulla base delle evidenze documentali illustrate, contiene necessariamente interpretazioni ed interpolazioni in qualche misura parziali e soggettive. L’indagine è
aperta, foto, testimonianze o anche semplicemente opinioni che concordano o che
contraddicono l’ipotesi delineata sono massimamente benvenute (specie se documentate).
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USI CIVICI A SENEGHE (OR): LEGGENDA, STORIA E FALLIMENTO
CONCLUSIONI
La storia non sempre e non necessariamente è edificante. Tuttavia, anche
quando le vicende, come in questo caso, configurano condizioni che contraddicono
l’ottimo e l’onorevole, è comunque importante documentarle: senza saper riconoscere di avere perso una battaglia è difficile che si vinca la guerra. La narrazione
degli eventi della storia recente di su Monte di Seneghe segna una distanza forte
tra il preteso senso di affezione della comunità per il bosco e la concreta mancanza
di senso civico da parte dei singoli cittadini nell’esercizio di quello che si pretende
essere un “uso civico”. Documentare il problema ha valore sopratutto nella convinzione che sia possibile affrontarlo e risolverlo in un futuro che si auspica
quanto più possibile prossimo.
BIBLIOGRAFIA
ANGIUS V., CASALIS G., 1833-1855. Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il re di Sardegna. Vol. I-XXVII. Editrice Sardegna-Cagliari,
Torino.
BECCU E., 2000. Tra la cronaca e la storia le vicende del patrimonio boschivo della Sardegna. Carlo Delfino Editore, CA.
CADONI M., SCOTTI R., 2006. Frammenti di storia forestale da ForEnCarb, progetto
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forestale. In: International Conference on Cultural Heritage and Sustainable Forest
Management: the role of traditional knowledge, held on 8-11 June, 2006 in Florence, Italy. Edited by: Parrotta J., Agnoletti M., Johann E. Published by: MCPFE,
2002. ISBN 10 83-922396-4-4 ISBN 13 978-83-922396-4-2.
SCOTTI R., 2007. L’assestamento forestale e il “valore civico” attuale degli “usi civici”:
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SCOTTI R., CADONI M., 2007. A historical analysis of traditional common forest planning
and management in Seneghe, Sardinia - Lessons for sustainable development. Forest
Ecol. Manage. (2007), doi:10.1016/j.foreco.2007.05.027.
199
Finito di stampare in Firenze
presso la tipografia editrice Polistampa
Giugno 2009
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Scritti in memoria di Mario Cantiani