INDUSTRIAL ECOLOGY
I principi, le applicazioni al supporto della Green Economy
“La Piattaforma Regionale Energia e Ambiente:
un percorso di ricerca industriale presso i
tecnopoli e le aziende operanti nel settore”
La Mascotte di Ecomondo 2011
SALAMANDRA dalla coda rossa
www.ecomondo.com
_____________________________________________________________
TRATTO DA: ATTI DEI SEMINARI A CURA DI LUCIANO MORSELLI
MAGGIOLI EDITORE
In collaborazione con
La Piattaforma Energia e Ambiente è una delle sei piattaforme in cui è articolata la Rete Alta Tecnologia
dell’Emilia-Romagna che, coordinata dal consorzio Aster, raccoglie le migliori competenze di ricerca e
strumentazioni delle Università e dei laboratori regionali nonché degli Enti di ricerca nazionali presenti sul
territorio, per metterle a servizio dello sviluppo e della competitività imprese .
Questo passaggio si è concretizzato in due strumenti: il catalogo della ricerca, che dà la possibilità alle
aziende di entrare in contatto con l’offerta dei laboratori regionali su temi specifici, e un cruscotto che ci
aggiorna sulla situazione dei contratti sottoscritti e dei lavori di ricerca in corso.
Queste prime fasi hanno prodotto progetti di grande interesse, grazie al coinvolgimento di aziende leader
dei vari settori e di piccole imprese, che ben difficilmente avrebbero potuto, da sole, sviluppare attività di
ricerca altrettanto qualificata e importante per il loro sviluppo.
Ma non ci siamo fermati qui: dopo questa fase, in cui le imprese hanno potuto usufruire di servizi e
opportunità, abbiamo scelto di offrire loro la possibilità di intervenire anche nel momento in cui si determina
la progettazione dell’attività di ricerca.
Nei comitati d’indirizzo delle Piattaforme sono entrati così i rappresentanti delle aziende, sei per la
Piattaforma Energia e Ambiente, dando di fatto avvio ad una fase nuova in cui il ruolo delle imprese è
destinato a mutare radicalmente: non più utilizzatrici di opportunità generate altrove, ma soggetti che
partecipano alla progettazione e all’evoluzione delle attività di ricerca, superando definitivamente la
dicotomia che troppo a lungo ha tenuto l’universo produttivo lontano dai laboratori universitari.
In questo modo nasceranno cluster tra imprese affini per tecnologie, filiere, aree di business, sempre più
integrati con il mondo della ricerca e capaci di coinvolgere un numero crescente di soggetti. Veri e propri
club per continuare a giocare un ruolo economico di primo piano sui mercati globali, coniugando la crescita
con il rispetto delle persone e dell’ambiente utilizzando l’innovazione come unico strumento chiave.
Paolo Bonaretti, Direttore Generale ASTER
LA PIATTAFORMA REGIONALE ENERGIA
E AMBIENTE:UN PERCORSO DI RICERCA
INDUSTRIALE PRESSO I TECNOPOLI E LE
AZIENDE OPERANTI NEL SETTORE
di Luciano Morselli, Referente Scientifico della Piattaforma Energia-Ambiente, Reta Alta
Tecnologia dell’Emilia-Romagna
La Piattaforma regionale ENA – Energia e Ambiente rappresenta
un punto di riferimento per tutte le attività inerenti al trasferimento
tecnologico e alla ricerca industriale nel settore energia e ambiente.
Conta 26 partners tra laboratori, centri di ricerca e rappresentanze
di associazioni, mentre, per quanto riguarda il personale, sono 87 i
nuovi ricercatori a tempo pieno e 168 gli strutturati nei vari enti a
tempo parziale, per un totale di 255 ricercatori impegnati. Allo
stato attuale, la ricerca industriale si basa su 61 contratti finanziati
di tipo regionale, nazionale, internazionale e da imprese, per un budget complessivo pari a circa
9.000 K€.
Il seminario realizzato in ambito Ecomondo vuole essere una rassegna degli obiettivi e delle
ricerche della Rete Alta Tecnologia dell’Emilia – Romagna. La presentazione dei lavori scientifici
per il convegno è stata riservata a tutte le Unità Operative dei Laboratori della piattaforma, del
Centri di ricerca delle Università coinvolte nel programma di piattaforma.
I circa 35 lavori tecnico-scientifici presentati, in rappresentanza di altrettanti laboratori e Centri di
ricerca, hanno visto l’impegno di un centinaio di autori.
I contributi che si riferiscono alla sezione Ambiente riguardano i principi dell?industrial Ecology e
le sue applicazioni nell’ambito del Sistema Integrato per la Gestione dei Rifiuti, studi LCA per
l’ottimizzazione di processi, gli aspetti chimici e tossicologici del regolamento REACH in
relazione alla sintesi di nuovi prodotti e all’impiego di organismi viventi per la valutazione della
tossicità delle sostanze chimiche, lo sviluppo di nuove tecnologie elettrochimiche per la
decontaminazione di rifiuti, la caratterizzazione di fanghi da dragaggio, di cartiera e dei flussi di
deposizione atmosferica in un’area limitrofa a quella di un termovalorizzatore ed il riciclo di
pannelli fotovoltaici.
Relativamente alla sezione Energia sono inerenti all’impiego di fonti rinnovabili, certificazione
energetica, la valutazione della sostenibilità di impianti basati sull’uso di biomasse a fini
energetici, l’utilizzo di Fuel Cell, l’ottimizzazione delle PEM, la produzione di idrogeno ed
energia dalla combustione di alluminio in acqua ed il calcolo di rese di co-digestione anaerobica di
sottoprodotti animali.
Lo spaccato delle attività di ricerca industriali presentate in un contesto nazionale quale può essere
Ecomondo che vede la presenza di circa 1200 aziende espositrici e di 70.000 qualificati visitatori
che operano nell’ambito delle tecnologie ambientali, rappresenta l’applicabilità dei processi
industriali e di modelli gestionali nel tessuto produttivo e dei servizi.
CONVEGNO
LA PIATTAFORMA REGIONALE
ENERGIA ED AMBIENTE:UN
PERCORSO DI RICERCA
INDUSTRIALE PRESSO I
TECNOPOLI E LE AZIENDE
OPERANTI NEL SETTORE
La Piattaforma ENA – Energia e Ambiente rappresenta un punto di riferimento per tutte le
attività inerenti al trasferimento tecnologico e alla ricerca industriale nel settore energia e
ambiente.
Il seminario realizzato in ambito Ecomondo vuole essere una rassegna degli obiettivi e delle
ricerche della Rete Alta Tecnologia dell’Emilia – Romagna.
La Call è riservata a tutte le Unità Operative (UO) dei Laboratori della piattaforma, del
CIRI delle Università e delle altre UO dei centri di ricerca pubblici e privati presenti sul
territorio regionale.
A cura di Piattaforma Regionale Energia e Ambiente, della rete Alta Tecnologia Emilia
Romagna e CTS Ecomondo
Presidenti della I sessione:
– Fabrizio Passarini, Università di Bologna, Polo di Rimini
– Edi Valpreda, ENEA, Bologna
Presidenti II sessione:
– Rebessi Roberto, Leap, Piacenza
– Daniela Sani, ASTER, Bologna
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I principi e le applicazioni al Sistema
Integrato Gestione Rifiuti
Fabrizio Passarini [email protected], Luciano Morselli, Silvia Boneschi, Ivano
Vassura, Alessandro Santini, Luca Ciacci - Università di Bologna, Facoltà di Chimica
Industriale, Polo di Rimini
Antonella Iacondini - CIRI Energia e Ambiente, Università di Bologna, Polo di Rimini
Riassunto
L’Ecologia Industriale è la disciplina che si occupa della progettazione e della gestione di sistemi
industriali, prendendo come modello i sistemi naturali. Il suo obiettivo consiste nel comprendere le
interazioni tra attività economiche ed esigenze ambientali, cercando di bilanciarli, attraverso forme di
collaborazione tra imprese, per la soluzione strutturata e collettiva di problemi ambientali. L’Ecologia
Industriale offre quindi alle aziende nuovi strumenti per un’economia sostenibile e competitiva (green economy). Il principio si cui si basa è la chiusura dei cicli, partendo dal presupposto che, analogamente ai sistemi naturali, non esistono rifiuti, ma solo sottoprodotti che devono essere riutilizzati o
riciclati. Così, gli scarti di un processo diventano materia prima per un processo diverso. In questo
modo, i principi dell’Ecologia Industriale, in sinergia con strumenti di validazione quali la Valutazione del Ciclo di Vita, il Sistema Integrato di Monitoraggio Ambientale e l’Analisi del Rischio, si
possono applicare ai Sistemi Integrati per la Gestione dei Rifiuti, in modo tale da minimizzarne gli
impatti e poter attuare una valorizzazione dei rifiuti stessi.
Summary
Industrial Ecology is a discipline that deals with industrial systems design and management, taking,
as model, natural systems. Its goal consists in understanding the interactions between economic
activities and environmental needs, trying to balance them through forms of collaboration among
companies for the structured and collective solution of environmental problems. Industrial Ecology, thus, offers to companies new tools for a sustainable and competitive economy (green economy). It is based on the principle of the closing cycles, starting with the assumption that, like
natural systems, there is no waste, but only byproducts which have to be reused or recycled. So,
scraps of a process, become raw material for a different one. In this way, the Industrial Ecology
principles, in synergy with validation tools as Life Cycle Assessment, Integrated Environmental
Monitoring System and Risk Assessment, can be applied to Integrated Waste Management Systems, in order to minimize impacts and to carry out their enhancement.
1. Introduzione
L’Ecologia Industriale trae la sua origine dalla Green Economy, un modello teorico di sviluppo economico che prende in considerazione non solo i processi produttivi, ma anche il loro
impatto ambientale, proponendo, come soluzione, l’incentivo di tutte quelle misure che consentono di ridurre il consumo di energia e risorse, le emissioni, i rifiuti e che promuovono
l’impiego di fonti di energia rinnovabile.
405
Il 20 giugno 2011 la Commissione Europea ha adottato una comunicazione (COM, 2011, 363
definitivo: Rio+20: verso un’economia verde e una migliore governance), che costituirà il fondamento per la posizione dell’UE alla conferenza delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, in programma per giugno 2012 a Rio de Janeiro (“Rio+20”). In tale comunicazione sono
definiti gli obiettivi e le azioni specifiche nel contesto dei due temi principali della conferenza
che sono: facilitare il passaggio ad un’economia verde nel contesto dello sviluppo sostenibile
e della lotta contro la povertà ed assicurare una migliore governance in materia di sviluppo
sostenibile.Vengono inoltre definiti il “cosa, come e chi” del passaggio ad un’economia verde
e proposte azioni specifiche che potrebbero essere attuate a livello internazionale, nazionale e
locale. I punti principali sono i seguenti [1]:
– investire in risorse chiave e capitale naturale (“cosa”), ovvero in: risorse idriche, energie
rinnovabili, risorse marine, biodiversità e servizi ecosistemici, agricoltura sostenibile, foreste,
rifiuti e riciclaggio.
– combinare strumenti normativi e di mercato (“come”), mediante l’introduzione di ecotasse,
l’eliminazione di sovvenzioni controproducenti sotto il profilo ambientale, la mobilitazione
delle risorse finanziarie pubbliche e private e l’investimento in competenze e professionalità
legate all’ambiente. Occorre poi mettere a punto indicatori che permettano di misurare il
progresso in senso più ampio, parallelamente al PIL (ossia tenendo conto degli aspetti ambientali e sociali).
– migliorare la governance ed incoraggiare la partecipazione del settore privato (“chi”), consolidando e razionalizzando le strutture attuali di governance internazionale (ad esempio potenziando il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente – UNEP). È essenziale anche
accrescere sensibilmente la partecipazione e l’impegno delle imprese e della società civile.
Considerando invece nello specifico lo sviluppo della Green Economy in Europa, negli scorsi
decenni l’UE ha promosso lo sviluppo sostenibile tramite una serie di politiche; ad esempio,
ha adottato obiettivi vincolanti per il clima, accompagnati da un sistema di scambio di quote
di emissioni ed ha emanato una gamma di strumenti legislativi sulla biodiversità, la gestione
dei rifiuti, la qualità dell’acqua e dell’aria. Questo approccio ha favorito la crescita nell’UE di
imprese al servizio dell’ambiente (“ecoindustrie”), che attualmente costituiscono il 2,5% del
PIL dell’Unione Europea ed impiegano oltre 3,4 milioni di persone [2].
Anche a livello regionale la Green Economy ha avuto un forte impulso, in quanto, in Emilia
Romagna, sono coinvolte quasi 2000 imprese in settori quali rifiuti e ciclo idrico, energie
rinnovabili, mobilità sostenibile, rigenerazione e ricostruzione di pneumatici e gestione patrimonio naturale. In queste imprese lavorano 230.000 addetti con oltre 61 miliardi di euro di
fatturato. La Regione anche ha investito in questo campo 95 milioni di euro (Finanziamento e
supporto Rete Alta Tecnologia -10 Tecnopoli) [3].
In Fig.1 vengono riportati due schemi che fanno riferimento al mercato delle aziende Emiliane Romagnole coinvolte nella Green Economy e alla suddivisione degli investimenti per l’attuazione, in regione, di un’economia verde e sostenibile.
406
Fig. 1 – Green economy in Emilia Romagna: aziende coinvolte ed investimenti.
In questo contesto di Green Economy, lo sviluppo dell’Ecologia Industriale ha permesso di
fornire uno strumento concettuale per comprendere quali sono i principali impatti di un sistema industriale sull’ambiente ed identificare o implementare le strategie per una loro riduzione,
nell’ottica di uno sviluppo sostenibile. Essa viene definita dall’UN Environmental Program come
uno “studio orientato ai sistemi, delle interazioni ed interrelazioni fisiche, chimiche e biologiche
sia all’interno dei sistemi industriali, che tra sistemi industriali e naturali”. L’accostamento dei
termini Ecologia ed Industriale risale alla fine degli anni ’80 quando Robeet Frosh e Nicholas
Gallopourus svilupparono l’idea che i sistemi industriali, essendo parte di un sistema naturale,
dovrebbero imitarne il comportamento. I sistemi naturali scambiano energia e nutrienti attraverso un ciclo chiuso senza che sia necessario, per garantirne la sopravvivenza, che nessun materiale entri o esca dal sistema stesso. Pertanto, i sistemi industriali, seguendo questo modello, da
lineari (Fig.2) con materiali ed energia in ingresso, sottoprodotti e rifiuti in uscita, i quali vengono dispersi nell’ambiente, devono organizzarsi in modo che gli scarti di un processo industriale
diventino materia prima per un’altra industria. In questo modo si introduce un modello a ciclo
chiuso in cui tutti i rifiuti generati e l’energia prodotta vengono recuperati per alimentare nuovi
processi (metabolismo industriale). L’attuazione di processi industriali a ciclo chiuso porta ad
ottenere benefici ambientali in quanto viene promosso l’uso sostenibile di risorse rinnovabili e
vengono evitati gli sprechi di risorse in via di esaurimento; in più, si vengono a creare, a livello
locale, sinergie che possono accrescere la competitività di un’industria. Oltre all’analogia con i
sistemi naturali e all’introduzione di un modello industriale a ciclo chiuso, altri concetti chiave
che contraddistinguono l’Ecologia Industriale, sono [4]:
– analisi di sistema che consente una visione più ampia delle interrelazioni fra lo spettro delle
attività umane e l’ambiente. Ci sono diverse tipologie di sistemi che possono essere inclusi in
un’analisi, i quali vanno da sistemi geopolitici ed economici globali ad organizzazioni e strut-
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ture su scala locale. La corretta valutazione dei sistemi interessati permette pertanto di pensare alla sostenibilità sia su scala globale che locale;
– studio dei flussi e trasformazione di materia ed energia, al fine di stabilire come i vari prodotti, sottoprodotti e rifiuti possono essere impiegati, riusati o convertiti in altri beni o servizi
utili. Questo aspetto è fondamentale in quanto permette di comprendere al meglio le varie
fasi di trasformazione di materia ed energia coinvolte nella produzione di un prodotto o un
servizio, le quali possono così essere ottimizzare riducendone i tempi, i consumi, le emissioni
ed i rifiuti generati;
– approccio multidisciplinare in quanto, per conoscere le interazioni tra diversi sistemi industriali, risulta indispensabile affrontare aspetti di tipo economico, politico, legale, sanitario,
ingegneristico, mentre, per comprendere i sistemi naturali è bene avere conoscenze di tipo
chimico, biologico, ecologico, geologico e relative alla gestione delle risorse naturali.
2. Relazione
2.1 I principi e gli elementi dell’Ecologia Industriale
L’Ecologia Industriale si fonda su 11 principi che sono stati formulati da Allenby nel 1995 [5];
essi riprendono quelli della green chemistry e della green engineering, che per primi si sono
focalizzati sulla necessità di incentivare la prevenzione alla produzione dei rifiuti, sviluppare
processi chimici puliti e sintetizzare composti non tossici e di impiegare fonti rinnovabili. Tali
11 principi sono i seguenti
1) prodotti, processi, servizi, attività possono produrre residui ma non rifiuti;
2) ogni processo, prodotto, impianto, infrastruttura e sistema tecnologico deve essere progettato per essere facilmente adattato ad innovazioni prevedibili ed ambientalmente preferibili;
3) ogni molecola che entri in uno specifico processo di lavorazione deve lasciare il processo
come parte di un prodotto commerciabile;
4) ogni erg di energia usato in processi di lavorazione deve produrre una trasformazione di
materia;
5) le industrie devono minimizzare l’uso di materiali ed energia nei prodotti, processi, servizi,
attività;
6) i materiali usati devono essere quelli meno tossici disponibili allo scopo;
7) le industrie devono reperire la maggior parte dei materiali necessari attraverso percorsi di
riciclo piuttosto che dall’estrazione di materie prime;
8) ogni processo e prodotto deve essere progettato per preservare l’intrinseca utilità dei materiali usati. Ciò include una progettazione che estenda la vita del prodotto o faciliti il riciclo
delle sue parti o componenti piuttosto che dei suoi semplici materiali;
9) ogni prodotto deve essere progettato al fine di poter essere usato per creare, alla fine della
sua vita corrente, altri prodotti utili;
10) ogni proprietà industriale, servizio, infrastruttura o componente deve essere sviluppato,
costruito o modificato facendo attenzione a mantenere o migliorare l’habitat locale, la diversità delle specie ed a minimizzare gli impatti sulle risorse locali o regionali;
11) deve essere promossa una stretta interazione fra fornitori di materiali, utenti, rappresentanti di altre industrie, allo scopo di sviluppare una via cooperativa per minimizzare il packaging, il riciclo ed il riuso di materiali.
Gli 11 principi, inoltre, sono la base per l’attuazione di cinque elementi a sostegno dell’Ecologia Industriale (Fig. 2), ovvero analisi dei flussi, ecodesign, politiche verdi, valutazione del
ciclo di vita e simbiosi industriale, che devono essere supportati ed attuati al fine di realizzare,
in ambito industriale, il concetto di ciclo chiuso e per conservare e riutilizzare le risorse come
avviene in natura.
408
Fig. 2 – Applicazione degli 11 principi ai 5 elementi dell’Ecologia Industriale.
L’Analisi dei Flussi consiste nella valutazione dei flussi e delle riserve di materiali all’interno di
un sistema definito nello spazio e nel tempo al fine di mettere in relazione le sorgenti, le vie di
consumo ed il destino finale di ogni materiale impiegato in un processo [6]. Lo strumento su
cui si basa è il bilancio di massa, il quale afferma che la massa di tutti i materiali in input deve
eguagliare la somma della massa di tutti i materiali in output e della massa di ciò che viene
accumulato o perduto. L’Analisi dei Flussi può essere condotta sia su scala locale che su scala
più vasta (un’azienda, un distretto industriale, una regione o tutta la filiera industriale) e può
essere associata alla dimensione geopolitica o socioeconomica.
La Valutazione del Ciclo di Vita (LCA) è un metodo oggettivo di valutazione e quantificazione
dei carichi energetici ed ambientali e degli impatti potenziali associati ad un prodotto, un
processo, un’attività, un servizio lungo il suo intero ciclo di vita, dall’acquisizione delle materie prime al fine vita (ovvero dalla Culla alla Tomba). L’LCA si articola in quattro fasi:
– definizione dello scopo e del campo di applicazione in cui si esplicita l’obiettivo dello studio,
vengono delineati i confini del sistema in oggetto ed è definita l’unità funzionale sulla base
della quale poi verranno espressi i risultati della valutazione;
– analisi di inventario dove viene schematizzato il processo con un flow-sheet dettagliato e
dove vengono determinati i dati relativi a tutti i flussi in input e in output per ciascuno step
del processo stesso;
– valutazione degli impatti che consente di valutare gli impatti ambientali delle sostanze identificate nell’inventario. Tali impatti sono suddivisi in categorie riconducibili a tre grandi aree,
ovvero esaurimento delle risorse, salute umana, conservazione dell’ambiente. Grazie ad una
classificazione per fattori di peso (weight factors), è possibile quantificare il contributo alle
categorie d’impatto;
– interpretazione dei risultati che è la fase finale nella quale sono valutate e selezionate le
opzioni per ridurre gli impatti e i carichi ambientali dell’unità funzionale in studio.
Le Politiche Verdi, invece, racchiudono tutte le azioni e le direttive comunitarie volte a promuovere la sostenibilità ambientale. Implicano pertanto l’attuazione della dematerializzazione per la prevenzione alla produzione dei rifiuti e la loro minimizzazione e l’impiego della
Certificazione Ambientale, la quale attesta che un’azienda ha implementato un sistema di
gestione ambientale conforme alla normativa vigente in materia di ambiente e che è in grado
di garantire il miglioramento continuo delle sue prestazioni. Prevedono anche il concetto di
409
responsabilità estesa al produttore che dunque deve provvedere alla gestione del fine vita dei
beni da esso prodotti.
Fa parte delle politiche verdi anche l’incentivo all’istituzione delle Aree Industriali e delle
Aree Ecologicamente Attrezzate; la legge Bassanini (D. Lgs. 112/98), con l’art. 26, dà inizio ad
un percorso virtuoso che alcune Regioni e Provincie hanno già intrapreso con l’emanazione di
leggi locali e linee guida ai fini della creazione delle APEA (Aree Produttive Ecologicamente
Attrezzate). Tali aree costituiscono, insieme agli Ecodistretti e ai Parchi Eco-Industriali, la risposta ai principi dell’ecologia industriale. Le APEA, sin dalla fase di progettazione, devono tenere
conto, come ad esempio richiesto in Emilia Romagna dalla Legge regionale n. 20 del 24 marzo
2000, dei sei seguenti aspetti:
a) salubrità e igiene dei luoghi di lavoro,
b) prevenzione e riduzione dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del terreno;
c) smaltimento e recupero dei rifiuti;
d) trattamento delle acque reflue;
e) contenimento del consumo dell’energia e al suo utilizzo efficace;
f) prevenzione, controllo e gestione dei rischi di incidenti rilevanti;
g) adeguata e razionale accessibilità delle persone e delle merci.
Alcune regioni (Emilia Romagna, Lazio, Liguria, Lombardia, Sardegna, Toscana) hanno costituito una rete (Rete Cartesio), che analizza le esperienze più significative a livello nazionale.
In Italia sono state contate 83 realtà, per un totale di 10 mila ettari di superficie interessata, di
cui 30 in Emilia Romagna, 21 in Friuli Venezia Giulia, 15 in Liguria, 9 in Toscana, 7 nelle
Marche, 1 in Piemonte.
A livello internazionale, invece, il caso più interessante di programma nazionale è il NISP
(National Industrial Symbiosis Programme) promosso e portato avanti nel Regno Unito, il
quale è l’unico, finora, che finanzia le imprese in azioni di progettazione nel rispetto dei principi dell’Ecologia Industriale, e, in particolare, della Simbiosi Industriale.
La Simbiosi Industriale si basa sull’idea dello scambio, ovvero sul concetto che i rifiuti di un
produttore (energia, acqua, materiali) diventano materie prime per un altro produttore (Fig.3).
Fig. 3 – Scambio di energia, materiali ed acqua che caratterizza la Simbiosi Industriale in un ambito Agricultural
Eco-Farm.
410
Seguendo questo principio sono nati i Parchi Eco-Industriali (EIP), definiti da Clavick e
Lukman come un insieme di attività, industrie e servizi collocati in una proprietà comune, che
mirano a migliorare le preformances ambientali, sociali ed economiche, attraverso la collaborazione nella gestione delle risorse; il beneficio che la comunità trae dalla simbiosi risulta
maggiore della somma dei benefici individuali [7]. Gli EIP, comunque, sono sistemi complessi molto difficili da pianificare a priori, infatti occorre considerare che tutti gli ecosistemi
industriali sono differenti, con proprie specifiche caratteristiche economiche, culturali, ecologiche, sociali [8]. Per raggiungere un elevato grado di integrazione fra le industrie di una
stessa area occorre che si verifichino alcune condizioni, quali: facilità nello scambio di utilities
(come vapore, energia, raffreddamento), facilità nello scambio di sottoprodotti, scarti ed energia, possibilità di costruire sistemi di trattamento dei rifiuti che offrano un’economia di scala,
alta efficienza. Inoltre, risultano indispensabili anche una buona capacità di collaborazione,
di comunicazione e di instaurare relazioni a lungo termine, poiché il volume di affari può
diminuire, la produzione cambiare in quantità e tipologia, con la necessità di avere input ed
output differenti e poiché potrebbero presentarsi ostacoli legislativi (ad esempio al trasferimento di materiali) e tecnici (come nel caso in cui un flusso di rifiuti provenienti da un’industria contiene un componente in grado di creare problemi al partner ricevente). Nonostante
ciò, in Europa, sono nati diversi i Parchi Eco-Industriali il più famoso dei quali è quello di
Kalundborg, in Danimarca, che, dal 1961 è cresciuto integrando diversi partner industriali,
per arrivare, nel 2006, a contare più di 20 accordi commerciali tra 6 aziende e alcune delle
utilities della municipalità locale [9].
Quindi, gli EIP, che a differenza delle APEA non sono ancora esistenti in Italia, sono aree
produttive in cui diverse attività rendono possibile il riutilizzo di scarti rendendoli risorse.
Prodotti secondari, acque reflue o energia sotto forma, per esempio, di calore contenuto nell’acqua di raffreddamento, sono utilizzati proprio come risorse. La tendenza in Italia è quella
di progettare le APEA in modo che possano assimilare anche il concetto di Simbiosi Industriale, avvicinandosi via via al concetto più completo di Parco Eco-Industriale, come descritto nelle Linee Guida per la realizzazione delle APEA della Provincia di Bologna [10].
L’Ecodesign è un concetto introdotto nella direttiva 2009/125/EC [10], che ne dà la seguente
definizione: “integrazione degli aspetti ambientali nella fase di progettazione di un prodotto
con lo scopo di migliorarne le prestazioni ambientali durante il suo intero ciclo di vita”. Si
ritiene infatti che l’80% dell’impatto di un prodotto si determini durante tale fase. Esso rappresenta, dunque, un approccio al design di prodotti e servizi in cui gli aspetti ambientali
sono internalizzati ed ottimizzati sin dalle prime fasi di progettazione. I principi che devono
essere integrati sono i seguenti: riduzione dei materiali utilizzati, dell’energia consumata e
delle sostanze tossiche, aumento della riciclabilità, massimizzazione dell’uso di risorse rinnovabili ed estensione della durata. A tale fine sono stati sviluppati diversi tipi di design (Fig.4),
che devono essere integrati per il miglioramento delle performances ambientali di beni di
consumo e servizi.
411
Fig. 4 – Strumenti di ecodesign che possono essere applicati nel settore rifiuti.
2.2 La Sostenibilità nel Sistema Integrato per la Gestione dei Rifiuti (SIGR)
La produzione dei Rifiuti, che riflette una perdita di materiali ed energia ed impone elevati
costi economici e sociali, è in continuo aumento ed è in diretta correlazione con l’andamento
del PIL di una Nazione. Le strategie adottate in materia di rifiuti negli ultimi 10-15 anni,
possiedono, come obiettivo principale, la prevenzione coniugata alla riduzione della loro pericolosità. La stessa finalità è evidenziata nella Direttiva Europea 2008/98/CE, la quale preve-
412
de di attuare azioni più stringenti nel rendere più moderna e semplice la politica di gestione
dei rifiuti, nel rafforzare la prevenzione e, soprattutto, nel proporre un concetto innovativo di
progettazione ecologica, ovvero un Ecodesign che ne riduca la produzione e la presenza di
sostanze nocive al loro interno, favorendo anche lo sviluppo di tecnologie incentrate sui prodotti sostenibili, riutilizzabili e riciclabili. In più, tale Direttiva, ridefinisce la gerarchia di
intervento delle azioni da compiere nel campo della gestione dei rifiuti. Essa è la seguente:
1. prevenzione alla produzione dei rifiuti;
2. preparazione per il riutilizzo;
3. riciclaggio;
4. recupero diverso dal riciclaggio (esempio: energetico);
5. smaltimento.
Per soddisfare gli obiettivi della Direttiva 98/2008/CE e per tendere sempre più ad una società europea del riciclaggio risulta fondamentale, per ogni bacino specifico di utenza in relazione all’Ambito Territoriale Ottimale di afferenza, arrivare a definire e realizzare un Sistema
Integrato per la Gestione dei Rifiuti (SIGR) che permetta di raggiungere una sostenibilità
ambientale, economica e sociale. A tal fine risulta indispensabile considerare la problematica
dei rifiuti con un approccio tecnico-scientifico, partendo dalla contabilità dei flussi di scarti
prodotti e proseguendo sia con una loro analisi merceologica per conoscere le tipologie di
rifiuti prevalentemente prodotti, sia con una loro caratterizzazione chimico-fisica al fine di
stabilirne le proprietà e le caratteristiche principali. In base alla tipologia di rifiuto e alle
proprietà, infatti, è possibile stabilire quali sono i sistemi di trattamento e valorizzazione più
efficaci da adottare per un recupero efficiente di materia ed energia, in impianti dotati delle
Migliori Tecnologie Disponibili (BAT). Per quanto riguarda le tecnologie di trattamento,
smaltimento e recupero che possono fare parte di un SIGR, si parte da quelle tradizionali che
sono l’Incenerimento, la Discarica Controllata ed il Compostaggio. Le tecnologie emergenti
che devono trovare una sempre maggiore diffusione, invece, sono quelle per il Recupero ed il
Riciclaggio di flussi specifici di rifiuto quali ad esempio plastica, legno, alluminio, vetro, carta
e cartone, rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, veicoli a fine vita. La Direttiva
98/2008/CE definisce il recupero come “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di
permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero stati
altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale
funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale”. Il termine Riciclaggio, invece, viene definito come “qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i materiali di rifiuto
sono ritrattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione
originaria o per altri fini”.
Recupero e riciclaggio portano quindi a considerare i rifiuti come una potenziale risorsa da
sfruttare in termini di materiali dai quali ottenere ri-prodotti ed energia nelle varie forme di
trattamento termico. Alcuni aspetti di riferimento a linee guida esistenti per una loro sempre
maggiore diffusione ed adozione sono:
– semplificazione della legislazione in vigore;
– specificazione di criteri ambientali per determinare quando un rifiuto cessa di essere tale;
– nuova definizione per le attività di recupero e di smaltimento introducendo i livelli di efficacia per ciascuna di esse, in modo da permettere una loro più facile distinzione;
– prevenzione dell’impatto negativo dei rifiuti, in quanto alcune tecnicologie che consentono
un’importante riduzione del volume di rifiuti si rivelano più inquinanti rispetto ad altre;
– diffusione delle migliori tecniche disponibili e dell’ecoprogettazione dei prodotti.
Strumento fondamentale per lo sviluppo del riciclaggio e del recupero è la Raccolta Differenziata, per la quale la Direttiva 98/2008/CE stabilisce i seguenti obiettivi futuri:
– riferire la raccolta differenziata almeno ai flussi di carta, metallo, plastica e vetro entro il
2015;
413
– aumentare del 50% in peso la preparazione per il riutilizzo ed il riciclaggio di carta, metallo,
plastica e vetro entro il 2020;
– raggiungere, entro il 2020, il target del 50% di raccolta differenziata per i rifiuti domestici e
assimilabili e del 70% per quelli da costruzione e demolizione.
Le politiche ambientali del nostro paese devono essere orientate ad introdurre ed ampliare
tutti quei sistemi che aiutano il raggiungimento degli obiettivi fissati. [13]
2.3 Strumenti di Validazione del Sistema Integrato per la Gestione dei Rifiuti
Gli strumenti di validazione che permettono di attuare una gestione sostenibile dei rifiuti
mediante l’adozione di un Sistema Integrato al fine di minimizzare gli impatti sul territorio,
scegliere tra più alternative il processo di trattamento o riciclo con minori emissioni e comprendere qual è il rischio connesso all’attuazione di un processo inerente il ciclo di vita dei
rifiuti, sono i seguenti:
– SIMA – Sistema Integrato di Monitoraggio Ambientale. E’ un approccio metodologico, applicabile a tutte le attività che sono coinvolte nella gestione dei rifiuti che possono presentare
problematiche di impatto ambientale. Esso si basa, da un lato, sulla previsione modellistica
della dispersione a livello locale delle emissioni di un impianto di trattamento, smaltimento o
riciclaggio, dall’altro, sulla verifica in campo di quanto indicato dal modello, attraverso la
creazione di reti di monitoraggio nei siti di maggiore interesse quali i punti di massima e di
minima ricaduta. In ogni sito scelto vengono svolti dei campionamenti di matrici ambientali
quali suolo, particolato, corpi idrici, deposizioni atmosferiche secche ed umide e vegetazione
per studiare quali sono gli impatti che l’ impianto stesso produce sul territorio, e come questi
sono distribuiti.
Alla base di un SIMA, quindi, vanno considerati in modo prioritario i controlli ambientali
applicati ai sistemi di trattamento rifiuti e che presentano specificità legate alla loro interazione con l’ambiente circostante e la salute dell’uomo. Il sistema rifiuti interagisce infatti con
tutti i comparti ambientali (atmosfera, idrosfera, geosfera e biosfera) in misura determinata
da fattori quali: qualità e quantità degli inquinanti emessi in relazione alla tecnologia adottata,
trasporto e diffusione sul territorio circostante e reazioni che intervengono a certe condizioni
nelle diverse matrici ambientali.
– LCA – Valutazione del Ciclo di Vita. Nel caso specifico della gestione dei rifiuti, si propone
di studiare gli aspetti ambientali e gli impatti potenziali delle scelte gestionali che riguardano
il fine vita di un bene di consumo. Questo strumento introduce un grande potenziale di sviluppo, in particolare in supporto alle decisioni dei programmatori e delle compagnie che
gestiscono la raccolta, il trasporto ed il servizio di riciclo o smaltimento [11]
– RA – Analisi di Rischio. Dal punto di vista metodologico, il percorso generale di analisi è
caratterizzato da 4 fasi successive: a) identificazione del pericolo; b) valutazione dell’esposizione; c) valutazione della dose-risposta; d) caratterizzazione del rischio (Fig.5). Gli strumenti utilizzati per condurre l’analisi sono: database costruiti ad hoc in funzione delle variabili che si
intendono indagare, fogli di calcolo elettronici, modelli “Fate & Transport” per la valutazione
della dispersione degli inquinanti nei comparti ambientali dalla sorgente al corpo recettore e
strumentazione GIS per la gestione, l’analisi e la visualizzazione di informazioni con contenuto geografico-spaziale. Ad oggi, l’analisi di rischio si avvale di numerosi suggerimenti specifici
presenti in letteratura, tra cui possiamo citare a livello internazionale i manuali dell’US EPA e
del DEFRA, mentre a livello nazionale è l’ISPRA a definire le linee guida di analisi per i siti
contaminati e le discariche.
414
Fig. 5 – Mappa del rischio totale per bambini (a) ed adulti (b) [12].
3. Conclusioni
I principi dell’Ecologia Industriale rispondono in modo sempre più esaustivo ai quesiti posti
a livello di attività produttive e di servizio ed allo stesso tempo rappresentano la base tecnicoscientifica a supporto della Sostenibilità e della Green Economy. Nella loro applicazione al
Sistema Integrato per la Gestione dei Rifiuti, ci si deve rapportare a normative avanzate quale
la recente Direttiva 2008/98/CE supportata da una nuova gerarchia di intervento, che dettano le linee guida per una pianificazione ed organizzazione territoriale, introducendo strumenti come l’Ecodesign e la Simbiosi Industriale che risultano indispensabili al fine di ottenere un
“Guadagno per l’Ambiente”. E’ possibile quindi includere una strategia di Ecologia Industriale in temi ed analisi declinabili in strumenti di validazione quali SIMA, LCA e RA. Secondo l’Ecologia Industriale, inoltre, ogni tipologia di rifiuto deve essere considerato come un
flusso specifico di materiali, che possono diventare materia prima secondaria per nuovi processi al fine di ottenere nuovi prodotti o che possono fornire energia per alimentare altri
impianti.
L’applicazione dei principi dell’Ecologia Industriale, infine, è già visibile in Italia grazie alla
creazione delle Aree Produttive Ecologicamente Attrezzate (APEA). Gli sviluppi futuri, che
dovranno essere incentivati dal governo tramite l’applicazione di politiche verdi, riguardano
l’incremento del numero di APEA e l’auspicabile trasformazione di queste ultime in Parchi
Eco-Industriali.
Bibliografia
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Rio+20
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establishing a framework for the setting of ecodesign requirements for energy-related products
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2010
416
Sustainability and the Life Cycle
Management: the Soya Milk case study
Stefano Bontempi [email protected], Alessandro Filisetti, Cosimo Rota, Marco Setti,
Cesare Zanasi – C.I.R.I. Energia e Ambiente U.O. Eco-design industriale, recupero rifiuti,
ciclo di vita dei prodotti, Università di Bologna (I)
Summary
A company pursuing cost abatement through eco-efficient choices raises the environmental variable
to a critical dimension, thus considering the environment an opportunity of profit and not a variable
to be “suffered”. Therefore, applying the “life cycle thinking” concept that re-shapes companies’
entire structure in a “cradle to cradle” perspective helps improving the product performance along
the whole pipeline. It is with reference to this context that the Life Cycle Management (LCM) of the
1 litre Valsoia Soyadrink Original has been implemented in this study, carrying out a Life Cycle
Analysis (LCA) and using the results to reorganise the energy policy with reference to the UNI CEI
EN 16001:2009 (now ISO 50001:2011) norm. This permits the enterprise to attain a better productive (eco)-efficiency and reduce the environmental impact of the product during its entire life cycle.
Riassunto
Un’Organizzazione che riduce i costi mediante scelte eco-efficienti eleva la variabile ambientale a
dimensione critica, considerando l’ambiente un’opportunità di profitto e non una variabile da
“subire”. Per questo motivo, l’applicazione del concetto del “life cycle thinking” che sia in grado di
rimodellare l’intera struttura dell’azienda secondo la prospettiva “dalla culla alla culla” permette
di migliorare la performance di prodotto lungo l’intera filiera. Seguendo tale ottica, lo studio ha
implementato il Life Cycle Management (LCM) di 1 litro di Soyadrink Original (Valsoia S.p.A.),
conducendo un Life Cycle Assessment (LCA) ed utilizzando i risultati allo scopo di ri-organizzare
la politica energetica in riferimento alla norma UNI CEI EN 16001:2009 (ora ISO 50001:2011),
consentendo all’Organizzazione di ottenere un miglioramento nella (eco)-efficienza produttiva e
di ridurre l’impatto ambientale del prodotto lungo l’intero ciclo di vita.
1. Introduction
Defined as a business toolbox [1], the Life Cycle Management (LCM) is a methodological
approach able to drive the Organisations that strategically choose to pursue sustainability in its
triple economic, environmental and social aspect towards an optimisation of their performance in terms of eco-efficiency and profitability.
A proactive innovation does not only revise the critical phases of the enterprise activity, but can
reshapes its entire structure: the extension of the enterprise responsibility “from cradle to
cradle” favours the enhancement of the performance of the “product system” along the entire
pipeline. The optimisation of all phases of the production process is pursued and made explicit in technological-structural terms and through a general reorganisation featuring managerial, technical and cultural elements.
The step-by-step implementation of the LCM permits the decision makers to efficiently monitor each phase of the transforming processes. The adoption of this systemic multi-approach
417
avails itself of the help of support tools for the evaluation of the economic performance (in
terms of cost reduction), and for the elicitation of the product and process related environmental impacts expressed in physical (Life Cycle Assessment, LCA) and monetary (Life Cycle
Costing, LCC) terms.
In particular, the LCC methodology “refers to all costs associated with the system as applied to
the defined life cycle” [2] and stands out as an innovative tool able to translate in to economic
terms the results attained through the LCA analysis, thus permitting the Organisation to identify all the possible trade-offs of the life cycle of a product and to adopt the best production
choices under the viewpoint of the economic and environmental sustainability.
Adopting the LCM toolbox, the food enterprise Valsoia S.p.A. has started an economic-environmental sustainability programme whose first step featured the implementation of a detailed
LCA analysis referred to one litre of soya milk.
2. Report
The aim of the study is to assessing the environmental impacts generated by 1 litre of soya milk
along its entire life cycle and stimulating the in-house revision of strategies in accordance of the
LCM methodology [3]. The originality element is displayed in the management implications
that the outcome reached in the LCA phase has attained in terms of eco-efficiency, cost saving
and energy performance enhancement along the entire life cycle of the product being examined [4].
The normative standard of reference establishes the phases in which the LCA analysis is structured, specifically determining [5, 6, 7, 8]:
– Goal Definition and Scoping;
– Life Cycle Inventory Analysis (LCI);
– Life Cycle Impact Assessment (LCIA) and
– Life Cycle Interpretation and Improvement.
In particular, the Impact Analysis (LCIA) phase is implemented through the help of the Impact 2002+ assessment method.
The calculation of the environmental impact generated along the entire pathway of the Soyadrink Original product in 1 litre Tetrabrik package (Functional Unit) is made individuating,
gathering and analysing the data made available by the enterprise at its Serravalle di Sesia
(Vercelli, Italy) factory and the Sterilgarda di Castiglione delle Stiviere (Mantova, Italy) production site for what concerns the drink Tetrabrik packaging. These data, concerning the 2008
production year, refer to the stages of soya cultivation, soya extract production and packaging,
till the distribution to the logistic platforms (system boundaries).
2.1 Results
The results attained through the LCA are expressed in terms of damage characterisation analysis (tab. 1), focusing on the result in equivalent CO2 (fig.1) and in terms of final impact assessment in damage scoring, through which the comparison can be made among the three macro
damage categories Human Health, Ecosystem Quality and Resource Depletion.
418
Damage Category
Human health
Ecosystem quality
Climate change
Resources
Unit
DALY
PDF*m2*yr
Kg CO2 eq.
MJ primary
Total
3,33x10-7
0,68
0,37
5,54
Tab. 1 – Results of the characterization by damage categories [UF:1l of soya milk].
Fig. 1 – Soya milk production incidence on CO2 emissions (0,37kg, UF: (%)kg [1l].
As outlined in Table 1, a total value of emitted equivalent CO2 equal to a 0,37 kg/l is found,
that impacts on the Global Warming damage category, splitting among the processes in accordance with the percentages portrayed in fig. 1.
Furthermore, the study has estimated the environmental impact determined by the production
of the Functional Unit “1 litre of soya milk” on human health (3,33·10-7 DALY), on the quality
of the ecosystem (a fraction of the species that are likely to disappear, 0,68 PDF*m2*yr) and on
the depletion of the resources (minerals and combustible fossils) in energy terms (5,54 MJ).
Table 2 represents the analysis of final damage assessment: this is a mathematical normalisation
through which the different units of measure are made uniform to compare the impacts provoked sub-divided in the three categories (Human Health, Ecosystem Quality and Resources).
The final damage is expressed in terms of “eco-scores” (Pt). The total damage scores due to the
production of 1 litre of soya milk are 0,00017 Pt, equivalent to the damage generated by a
petrol fuelled car travelling approx. 2 km.
Damage Category
TOTAL
Human health
Ecosystem quality
Climate change
Resources
Unit
Pt
Pt
Pt
Pt
Pt
Total
0,00017
4,7E-05
4,9E-05
3,8E-05
3,7E-05
Tab. 2 – Final damage scores (assessment analysis) [UF:1l of soya milk].
According to what emerged, the processes that impact most on the total damage are proven to be:
– the process of cultivation and production of the soya grains (26%);
– energy consumption (24,79%);
– transportation (of the ingredients, of the substances, of the grains etc.) (16,45%);
– the production of the product packaging, (Tetrabrik Aseptik) (15%).
The partition percentages of damage among the four categories are shown in fig. 2.
419
From the results got through the LCA it can be seen that energy consumption represents the
second ranking environmental impact source in the production of 1 litre of soya drink. Due to
this evidence, Valsoia S.p.A. has started an energy policy abiding by the UNI CEI EN 16001
norm (now UNI EN ISO 50001) [9, 10].
Fig. 2 – Percentage damage partition among categories [UF:1l of soya milk].
The implementation of an Energy Management System is not enacted only through technological innovation but also involves the entire enterprise Organisation structure.
In line with this strategy, Valsoia S.p.A. modified its management shape setting up a work
group that works along the lines established by the norm. In 2009, through monitoring, measuring and assessing the respect of the mandatory norms and of its own procedures of energy
management system, technical interventions have been organised aimed at enhancing energy
efficiency in the production phase at the Serravalle di Sesia factory. The savings attained in
Mwh/year feature 13% increase on 2008. The largest contribution came from the optimisation
of extraction of the soya and from the installation of a photovoltaic panel of 100 KWp for the
self-production of energy. Moreover, the company was able to quantify the reduction of the
emission in the atmosphere in terms of CO2, NOx, PM10 pertinent to each intervention implemented (Table 3).
Energy saving
Mwh/year
Sector
Intervention
Management
Air compressors
program
Southern well Inverter on 1
H2O
pump
NH2
New
compressors
compressor
FV plant, 100
Autoproduction
KWp
Seed
Soya extracts
consumption
reduction
Soya extracts
Heat recovery
TOT
Greenhouse gas (saving)
tons/year
PM10
NOx
CO2
128
0,000384
0,3968
60,16
14
0,000042
0,00434
6,58
80
0,00024
0,0248
6,58
100
0,00030
0,0310
47,00
48
0,000144
0,01488
22,56
688
1058
0,0008256
0,0019356
0,135605
0,6074
155,54786
298,43
Tab. 3 – Technical interventions and energy saving carried out by Valsoia S.p.A. (2009).
420
3. Conclusions
In the scientific research, an assessment of the life cycle of 1 litre of soya milk produced by
Valsoia S.p.A. was carried out. Making explicit the aspects connected with the environmental
impact (Global Warming), a total value of emitted CO2 equal to 0,47 Kg/l had been found. The
use of the Impact 2002+ method allowed the mathematical normalisation for the conversion of
the values into the same unit of measure, thus quantifying the damage generated by the production of 1 litre of soya milk in 0,000171 eco-points (Pt). The reached results motivated the
enterprise to start an energy policy along the lines of the UNI CEI EN 16001 norm (ISO
50001) that was able to produce 13% reduction of energy consumption at the production
factory and, subsequently, to reduce the emissions in the atmosphere. This result corresponds
to a production cost reduction per Functional Unit equal to 4.5% (Tab. 4).
According to what emerged, the next engagement of the Valsoia S.p.A. management is deemed necessary to use the Life Cycle Costing as an economic implementation of the LCA, defined as a complementary system analysis, coherent with the corresponding environmental assessment [11, 12].
Therefore, in the perspective of the Life Cycle Management, raising the assessment of the
environmental impacts expressed in physical terms (LCA) to the economic dimension (LCC)
allows the business to enhance its knowledge and monitoring level of its own activity in analytical terms in coherence with a systemic vision, optimizes its performance improving efficiency
and efficacy, and permits it to pursue economic and environmental results that place it in a
position of competitive advantage in comparison to its competitors.
Savings
Cost reduction
direct
indirect
Amount (physical)
Amount (-)
Soya milk extraction from seed (2009)
N.A.
-30.240
Energy consumption from fotovoltaic plant (2009)
-3.3%
(100,000 kwh/year)
-15.000
Total energy consumption reduction (Jan-Aug 2010) -257.846 kwh
-38.677
Refrigerator intervention for icecream production
(2009)
-42.000
-15%
(-280,000 kwh/year)
Final result
Production cost reduction per Functional Unit
-4.5%
Tab. 4 – Production physical and cost reduction.
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422
Valutazione del potenziale metanigeno
di biomasse di scarto dell’industria
agroalimentare
Mariangela Soldano, [email protected], Claudio Fabbri, Nicola Labartino, Sergio Piccinini –
C.R.P.A. S.p.A. (Centro Ricerche Produzioni Animali), Reggio Emilia
Riassunto
La digestione anaerobica è una filiera bioenergetica che permette di sfruttare con elevata efficienza indistintamente biomasse vegetali e/o animale, di scarto e/o dedicate, umide e/o secche, producendo un biocombustibile nobile (biogas/biometano), ottimale per la conversione in energia elettrica e/o termica o utilizzabile per autotrazione. Il CRPA Lab, sezione Ambiente ed Energia del
Tecnopolo di Reggio Emilia, è dotata di diversi sistemi di determinazione del potenziale metanigeno che permettono la conoscenza delle potenzialità produttive di diverse matrici e la reale efficienza/affidabilità di un impianto di biogas. In questo articolo vengono riportati i risultati di test
del “Potenziale metanigeno” o BMP (dall’Inglese Biochemical Methane Potential) di diverse biomasse di scarto di origine vegetale, provenienti dall’industria agro-alimentare, per la loro valorizzazione in biogas.
Summary
Anaerobic digestion is a bioenergy chain that allow to exploit with high efficiency equally crop
and/or animal, residues and/or dedicated, wet and/or dried biomass, producing a biofuel (biogas/
biomethane), ideal for conversion into electricity and/or heat or used for transport. The CRPA
Lab, Environment and Energy Section of Tecnopolo of Reggio Emilia, has several systems to
know the methanogenic potential production of different biomasses and the real efficiency/reliability of a biogas plant. This paper reports the results of tests of BMP (Biochemical Methane
Potential) of different residues biomass from the food industry, for its use in the biogas.
1. Introduzione
La digestione anaerobica è una filiera bioenergetica che permette di sfruttare con elevata efficienza indistintamente biomasse vegetali e/o animale, di scarto e/o dedicate, umide e/o secche,
producendo un biocombustibile nobile (biogas/biometano), ottimale per la conversione in
energia elettrica e/o termica o utilizzabile per autotrazione. Ogni impianto di digestione anaerobica ha un proprio equilibrio, definito dal tipo di biomasse caricate e dai parametri ingegneristici adottati (carico volumetrico, tempo di ritenzione idraulica, temperatura di processo,
tipo di riscaldamento e miscelazione, pretrattamenti ecc.) [1]. L’elemento di base che influenza
maggiormente qualunque tipo di analisi e dal quale gli studi di fattibilità per la realizzazione di
un impianto di digestione anaerobica devono partire è rappresentato dalla conoscenza del
Potenziale Metanigeno o BMP (dall’acronimo inglese Biochemical Methane Potential).
Questo parametro esprime la quantità di biogas/metano potenzialmente ottenibile dalla de-
423
gradazione di una biomassa, ed è espresso come Nm3/kgSV, ovvero normal metri cubi di biogas o metano per kg di solidi volatili [2,3].
Di seguito si riassumono i risultati ottenuti dalla caratterizzazione chimico- fisica e l’analisi del
BMP di biomasse di scarto e sottoprodotti organici generati dall’industria agroalimentare. Tali
biomasse sono di notevole interesse per l’elevata dotazione di sostanza organica e l’assenza di
frazioni indesiderate [4]; si presentano idonee all’invio in digestione anaerobica che diventa
una possibile soluzione per il loro recupero. Inoltre possono rappresentare un’interessante
alternativa alle colture energetiche il cui utilizzo in digestione anaerobica rappresenta attualmente un tema di forte discussione.
2. Relazione
2.1 Materiali e metodi
2.1.1 Potenziale metanigeno statico
L’analisi del BMP statico (analisi in batch o in discontinuo) è condotta in laboratorio simulando in un ambiente controllato quanto avviene in un digestore anaerobico. La biomassa da
valutare è inizialmente analizzata e poi miscelata ad un inoculo “affamato”, cioè un substrato
organico predigerito e proveniente da un impianto che già utilizza la biomassa da valutare, e ad
una soluzione di sali (per tamponare la produzione di acidi e fornire i micronutrienti essenziali
al corretto sviluppo del consorzio batterico). La predigestione dell’inoculo ha lo scopo di ridurre la generazione di gas non specifico, diminuendo di conseguenza l’influenza dello stesso
sul risultato finale.
La predigestione dell’inoculo avviene senza aggiungere nessun nutriente, a 35°C ± 2°C per una
durata di circa 7 giorni. Per evitare un’inibizione dell’inculo nelle fasi di avviamento, la quantità di solidi volatili (SV) del substrato non deve essere eccessiva rispetto alla quantità di solidi
volatili dell’inoculo. Il rapporto tra i solidi volatili del substrato da valutare e quelli dell’inoculo deve essere superiore ad almeno 0,5.
La miscela viene posta in un piccolo digestore, una bottiglia dal volume totale di circa 2.200 ml
(riempita per circa il 70%), posizionata in un armadio termostato in cui viene mantenuta costante la temperatura di processo (Fig.1). Contemporaneamente viene condotto un test in batch con solo inoculo, in modo da poter sottrarre alla produzione di biogas della miscela l’effetto di produzione residua dell’inoculo stesso. Il processo si innesca rapidamente, grazie alla
presenza della flora microbica presente nell’inoculo, e la produzione di biogas inizia sin dai
primi giorni del test. La curva di produzione cumulativa di biogas presenta, normalmente, una
prima parte di crescita intensa per poi ridurre la velocità di produzione, in una seconda fase,
sino a tendere nell’ultima parte ad un asintoto orizzontale, che rappresenta il valore massimo
di produzione.
La misura della quantità di biogas prodotto avviene con due metodologie: manometrica e
massica. Nel primo caso la misura avviene direttamente all’interno del digestore misurando
l’incremento di pressione nello spazio di testa dovuto alla generazione di anidride carbonica
(CO2 ) e di metano (CH4 ). Nel secondo caso la misura avviene all’atto dell’analisi della qualità
del biogas con un sensore massico a dispersione termica (misura la massa di biogas fluente
attraverso una correlazione con la dissipazione di calore da una superficie riscaldata, corretta
per la composizione specifica del biogas analizzato).
Accanto alla misura del volume, il test prevede anche la determinazione della qualità del biogas
prodotto. La composizione del biogas dipende dalla composizione chimica delle sostanze contenute nel substrato e dai parametri fisico-chimici della prova. Il contenuto di metano varia
solitamente tra il 50% e l’80% in volume, mentre quello dell’anidride carbonica varia nell’intervallo tra il 20 e il 50%. Nel biogas solitamente sono presenti anche basse concentrazioni di
424
idrogeno, ammoniaca, idrogeno solforato e altri gas in tracce.
Il test BMP statico viene generalmente prolungato fino a quando la produzione marginale del
giorno è pari a più dell’1% di tutta la produzione accumulata. La misura viene fatta in continuo e la curva cumulata della produzione fornisce anche importanti informazioni in merito alla
velocità di degradazione [5].
Fig.1 – Dispositivo per la determinazione del BMP con test statico progettato da CRPA.
2.1.2 Descrizione prova
Sono stati effettuati 6 test del potenziale biometanigeno di diversi sottoprodotti provenienti
dall’industria agro-alimentare:
1) Olio di scarto proveniente da un’industria alimentare dolciaria
2) Farinaccio proveniente dall’industria molitoria
3) Acqua di reidratazione di prugne proveniente dall’industria di trasformazione della frutta
4) Spezzato di mais proveniente dalla macinazione del granoturco
5) Scarto prodotto dolciario
6) Sansa non denocciolata proveniente dall’industria olearia
2.2 Risultati
I test di BMP sono stati condotti per periodi di tempo variabili a seconda della degradabilità
della matrice analizzata.
Preventivamente le matrici sono state caratterizzate chimicamente. Di seguito sono riportate le
analisi (Tab.1).
425
pH
ST
Solidi
Totali
SV
Solidi
Volatili
NTK
Azoto
totale
N-NH4+
Azoto
Ammon.
TOC
Carbonio
Totale
C/N
Matrice
[-]
[g/kg tq]
[% ST]
[% ST]
[%
NTK]
[% ST]
[-]
1) Olio di scarto
NR
999,6
99,8
0,10
NR
99,0
1028,7
2) Farinaccio
6,56
872,0
94,5
3,15
0,27
51,0
16,2
3) Acque reidrat.
prugne
4,14
147,9
74,3
0,46
NR
4) Spezzato di
mais
6,1
892,2
97,0
1,5
0,2
42,5
27,7
5) Scarto prodotto
dolciario
6,41
981,9
98,9
1,12
NR
53,2
47,6
6) Sansa
4,43
416,1
97,1
0,99
0,65
56,0
56,6
COD(*)
NR
198.000
(*) Domanda chimica di ossigeno [mg O2/l].
Tab. 1 – Caratteristiche analitiche delle matrici utilizzate nei test di digestione anaerobica.
Come si può osservare dalle caratteristiche chimico-fisiche, le matrici testate sono di notevole
interesse per l’invio in digestione anaerobica, perché ricche di sostanza organica. Oltre il 90%
dei solidi totali sono rappresentati dai solidi volatili nella maggior parte delle matrici, ad eccezione dell’acqua di reidratazione delle prugne (74% dei solidi totali). Un fattore da considerare è il tenore di umidità a volte elevato e variabile nel tempo che rende difficile una eventuale
conservazione. Nella Tab.2 vengono riportati i valori di BMP, ovvero la quantità di biogas e
metano ottenuto dalla degradazione dalle biomasse sottoposte ai test, espresso come Nm3/
kgSV. In tabella è inserito anche il valore di BMP del silomais che rappresenta la coltura energetica più comunemente trattata negli impianti di digestione anaerobica e quindi utile come
confronto con la potenzialità produttiva delle matrici agroindustriali analizzate. Tale dato è il
risultato della media di test di BMP effettuati su 5 campioni di insilato di mais.
BMP
Matrice
1) Olio di scarto industria dolciaria
2) Farinaccio industria molitoria
3) Acque di reidratazione prugne secche
4) Spezzato di mais
5) Scarto prodotto dolciario
6) Sansa industria olearia
Insilato di mais (*)
[Nm3biogas/tSV]
[Nm3CH4/tSV]
% CH4
nel biogas
1175,6
661,5
761,0
687,6
825,1
259,9
647,8 ± 28,7
817,8
345,0
404,6
340,3
441,6
182,8
323,3 ± 11,9
69,6%
52,2%
53,2%
49,5%
53,5%
70,3%
49,8 ± 1,3
(*)
Valore medio di 5 analisi BMP di differenti campioni di silomais con un tenore di ST medio pari al
327,5 ± 49,5 g/kg e i SV pari al 96,5 ± 0,3% degli ST.
Tab. 2 – Valori del potenziale metanigeno e percentuale di metano nel biogas.
426
I valori di potenziale metanigeno ottenuti sono in quasi tutti i campioni elevati e confrontabili
con quello dell’insilato di mais, ad eccezione della sansa che presenta un valore basso (182,8
Nm3CH4/tSV) dovuto alla lignina contenuta nei noccioli presenti in questa matrice, componente difficilmente degradabile. In particolare si osserva il potenziale estremamente alto nell’olio di scarto (817,8Nm3CH4/tSV) dovuto al contenuto elevato di lipidi.
Oltre alla produzione di biogas è stata misurata la composizione in metano del biogas necessaria anche per consentire il calcolo del BMP.
In Fig.2 vengono riportate le curve di produzione cumulativa del metano delle matrici testate.
Sull’asse delle ascisse viene rappresentato il tempo in giorni, sull’asse delle ordinate la produzione di metano.
Fig. 2 – Trend di produzione di metano nelle sei matrici sottoposte al test del BMP.
Si osservano evidenti differenze dovute principalmente alla natura e concentrazione di molecole organiche a diversa biodegradabilità contenute nella sostanza organica presente nelle biomasse sottoposte a test. L’attività enzimatica idrolitica determina la velocità complessiva del
processo. L’idrolisi di proteine e lipidi è più lenta di quella dei carboidrati. Inoltre una matrice
organica composta da sostanze organiche semplici e solubili viene rapidamente e completa-
427
mente convertita in biogas, rispetto ad una miscela più eterogenea. Nel caso dell’acqua di
reidratazione delle prugne (matrice omogenea e ricca di zuccheri) e dello scarto del prodotto
dolciario, si osserva nella prima parte delle curve una crescita più intensa, che invece, si evidenzia più lenta nell’olio di scarto in cui la lentezza dell’idrolisi è dovuta all’elevato contenuto
lipidico.
L’ultima parte corrispondente ad un asintoto orizzontale, rappresenta il valore massimo di
produzione. Nelle prove effettuate si raggiunge in tempi diversi: nello spezzato di mais già
dopo circa 10 giorni la curva non cresce più.
Nel grafico di Fig.3 è riportato il trend di produzione medio di biogas e metano degli insilati di
mais sottoposti ai test di BMP. Si osserva un comportamento netto differente nelle due fasi: la
prima più rapida dovuta alla presenza di componenti rapidamente biodegradabili (l’amido), la
seconda più lenta dovuta al contenuto di frazione fibrosa difficilmente attaccabile dalla flora
microbica. Il potenziale massimo viene raggiunto in circa 45 giorni, un periodo più lungo
rispetto alle matrici precedentemente analizzate.
Fig. 3 – Trend medio di produzione del biogas e del metano dell’insilato di mais.
3. Conclusioni
L’agro-industria produce quantità non trascurabili di scarti e sottoprodotti di natura organica
di ottima qualità e idonei all’uso in digestione anaerobica. Il loro utilizzo per la produzione di
biogas può consentire da un lato di aumentare la potenzialità produttiva dei piccoli impianti
alimentati a soli effluenti zootecnici e dall’altra di diminuire l’utilizzo di colture dedicate negli
impianti di maggior dimensione [6]. I tempi di digestione dei diversi sottoprodotti sono molto
diversi fra di loro e dipendono dalle caratteristiche chimiche delle singole matrici organiche. Il
test BMP consente di raccogliere molte informazioni in merito all’utilizzo e alla compatibilità
di co-digestione: oltre alla potenzialità di produzione di metano, vero e proprio scopo del test,
le curve di produzione possono essere utilizzate per verificare la presenza di eventuali latenze,
inibizioni, la velocità di degradazione (ovvero il tempo di ritenzione idraulico necessario) e la
compatibilità con l’inoculo utilizzato, ovvero del digestato presente nell’impianto di riferimento. In definitiva, la co-digestione dei sottoprodotti, per garantire il buon funzionamento di un
impianto, deve essere fatta verificando sempre la compatibilità delle diverse matrici utilizzate e
rispettando al contempo tutte le condizioni minime di processo delle biomasse a maggiore
valore energetico ed economico [7]. Dal punto di vista formale, infine occorre prestare la
massima attenzione alle modalità con cui si gestiscono i flussi di queste matrici, che devono
428
entrare nell’impianto di biogas agro-zootecnico come “sottoprodotti” ai sensi del D.Lgs. n.152/
2006 e successive modifiche ed integrazioni e come tali devono rispettare tutte le condizioni ivi
previste. In caso contrario tali flussi possono essere classificati “rifiuti”, con tutte le ripercussioni del caso che questo comporta.
Bibliografia
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Dario Flaccovio Editore.
429
Sustainable forest biomass exploitation:
An application of the CO2FIX model to
Emilia-Romagna
Giulia Fiorese [email protected], Giorgio Guariso – LEAP, Laboratorio Energia e
Ambiente Piacenza
Summary
Biomass from the forest sector can be an important source of renewable energy and can contribute
to climate change mitigation and bioenergy development. However, the removal of biomass has
significant impacts on the forest ecosystem. Our aim is to analyze alternatives of sustainable forest
management and to compare how they perform in terms of carbon savings. The analysis is performed with CO2FIX, a well-known carbon accounting model. The model was applied to the forests
of the Italian region Emilia-Romagna. The behaviour of the most important forest macro-categories is investigated under common management alternatives: no harvest, maintenance of a constant stock, different rotation lengths, and maximization of harvested biomass. We evaluate their
impact at landscape level on the regional carbon budget.
Riassunto
Le biomasse forestali possono essere un’importante fonte di energia rinnovabile e possono contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici e allo sviluppo delle bioenergie. Tuttavia, la
rimozione di biomassa ha un impatto significativo sull’ecosistema forestale. Obiettivo di questo
contributo è analizzare diverse alternative di gestione forestale sostenibile e di confrontare come
influenzano il bilancio del carbonio. L’analisi è svolta con CO2FIX, noto modello per il calcolo
dei bilanci di carbonio delle foreste. Il modello è stato applicato alle foreste dell’Emilia-Romagna.
Il comportamento delle più importanti macro-categorie forestali è indagato per diverse alternative
di gestione: nessuna raccolta, mantenimento di uno stock costante, taglio a diversi intervalli,
massimizzazione della biomassa raccolta. L’impatto di queste alternative di gestione sul bilancio
di carbonio è valutato a scala regionale.
1. Introduction
Forests supply many ecological services, from the reduction of hydrogeological risks, to the
preservation of biodiversity or to stocking a large amount of carbon. While most of forest
services have been understood and evaluated for years, their essential role in the carbon balance and the possibility of their use in mitigating global climate change is currently attracting
more and more attention. Within terrestrial systems, forests play a major role as recognized in
Article 3.3 of the Kyoto Protocol, where afforestation, reforestation and deforestation accountings are made mandatory. Countries can also choose to include management activities of existing forests as an addition to their carbon sinks. Furthermore, the use of forest biomass in
substitution of more energy-intensive products, such as fossil fuels or other materials, is another
major contribution that forests can provide [1].
430
Management can strongly affect the forest carbon balance. Forests of new formation sequester
carbon and store it in their biomass until an upper limit is reached; at this point, carbon losses
due to respiration, mortality, external causes of disturbances and other utilizations may overcome the photosynthetic activity [2].
The biomass extracted and transformed in wood products is itself a limited reservoir of carbon. If a forest has been used to extract biomass or if a forest is lost because of natural events,
its pool of carbon will disperse; the same happens when degraded woody products are not
replaced by analogous products. On the contrary, the benefits that derive from the replacement of fossil fuels with energy from biomass can be considered irreversible: when energy is
produced in substitution of any given fossil fuels, a defined amount of greenhouse gases will be
permanently avoided.
This paper concentrates on the carbon biogeochemical cycle and analyses how the management of forests for energy production can contribute to a regional carbon budget. We adopted
the CO2FIX V 3.1 model [3-4], which has been widely used [5-6].
2. Report
2.1 Methods and results
Different management strategies directly affect biomass compartments, carbon pools and flows,
both in trees and soil, and are determined by rotation length, whole-tree or conventional harvesting, thinning intensity, age-class distribution of the forests and many other factors. We
analyze alternatives of sustainable forest management and compare how they perform in terms
of carbon savings. The management of forests can be defined as sustainable when it maintains
the system biodiversity, productivity, capacity of renewal, vitality, and when it does not compromise the capacity of supplying, now and in the future, ecosystem services [7]. Standing
biomass is here considered to define the sustainability of a management policy: we assume that
a policy is sustainable if the biomass at the end of the management horizon is at least equal to
the initial one. CO2FIX V 3.1 allowed us to design and compare alternative management
policies and to compute the corresponding carbon budget and biomass removal.
2.1.1 The study region
The area of analysis is Emilia-Romagna, which has an extension of about 22,123 km2. Almost
half of the regional territory is in the river Po valley (48%); the remaining is divided between
hills (27%) and Apennines (25%). About a third of the region is covered with forests (Fig. 1).
The most widespread species are deciduous, such as oaks, beeches, poplars and willows, ash
trees and chestnuts. Conifer forests represent only 3% and conifer and deciduous mixed forest
another 3%.
Data available for the past years [8] show that wood removal range from about 250.000 to
300.000 m3 (in 2001 there was a extraordinary removal of 350.000 m3). The National Forest
Inventory [9] estimates that about half of the forests is suitable for management. The other half
is located on very steep or particularly rough land, and thus it is excluded from productive use.
Greenhouse gases (GHG) emissions in Emilia-Romagna in 2007 were 47.4 Mt CO2eq [10]; this
value is inclusive of the LULUCF sink activities. The energy sector (that includes all activities
that imply a combustion like transport, manufacturing, heating, etc.) is responsible for 80% of
the regional GHG emissions. In the 2004 regional energy plan [11], the administration declared the goal to comply to a 6.5% GHG emissions reduction with respect to 1990 emissions (32
million t CO2). Since emissions have increased to 37 million tCO2 by 2003, this goal translates
into a 7 million tCO2 cut.
431
2.1.2 The CO2FIX model and its application to Emilia-Romagna
CO2FIX is a carbon budget model. It describes a forest with a set of modules that model
standing biomass, litter and soil, wood products and atmosphere (Fig. 2) [3-4]. Each of these
modules assesses the incoming and outgoing flows of carbon so that, at the end, it is possible to
calculate the overall carbon balance with respect to the atmosphere. It explicitly considers the
production of wood from a forest and what this wood is used for.
Fig. 1 – Land use map of Emilia-Romagna.
Fig. 2 – Simplified structure of the CO2FIX model.
To apply CO2FIX to Emilia-Romagna, we identified the following four forest macro-categories: conifer forests, deciduous forests with a prevalence of beech trees, deciduous forests with
a prevalence of oak trees, conifer and deciduous mixed forests. CO2FIX simulations were run
for each macro-category assuming single cohort, even-aged forest stands.
For each macro-category we defined the set of parameters that describe the growth of biomass,
the dynamic of soil carbon, and the use of wood for energy.
The growth of biomass in CO2FIX is modelled through the growth of stem wood. The growth
of branches, foliage and roots is proportional to that of stem. Since there are no yield tables
available for the forests of Emilia-Romagna, we estimated stem growth as a function of the
cohort total and maximum aboveground biomass [4]. However, data on aboveground biomass
are scarce as well. Aboveground biomass and biomass growth for each forest macro-category
are available for 2004 from the National Inventory [9]. Since forests are old and scarcely managed, we assume that these values represent what happens at carrying capacity conditions. Data
on maximum aboveground biomass growth are derived from the literature [12]. Since we do
not have information about the density at which this growth corresponds, we assume this
happens for density half the carrying capacity (assuming a logistic growth curve). Finally, by
combining these data, we derive the biomass growth curve, as required by CO2FIX. Other
parameters, such as turnover and mortality rates, are those suggested in the default model
implementation.
The dynamic of the soil carbon, described in the soil module, depends on the initial carbon
content and on local climatic conditions that regulate both moisture and chemical, physical
and biological processes. The first information is derived from a regional study that estimated
the carbon content in the first 100 cm of depth [13]. The assessed soil carbon content is given
as average over the entire region, and is estimated to be 29 tC/ha in the litter and 107 tC/ha in
the decomposition compartments. Climatic data were derived from the regional environmental agency database. Soil carbon allocation in the compartments is modelled with the parameters suggested by CO2FIX, specific for each forest macro-category.
In the Product module, we assume that all log is used for energy production and that 30% of
biomass is left on the soil [4]. Finally, in the Bioenergy module, we assume that biomass is used
432
to produce thermal energy in a plant with 80% efficiency. This energy substitutes that produced with natural gas, with 85% efficiency. The avoided emissions are estimated with respect to
natural gas for all the GHG gases with the appropriate heating value and emission factors for
biomass (LHI 16 MJ/kgbiomass; 0.0 gCO2/kgbiomass; 0.48 gCH4/kgbiomass; 0.06 gN2O/kgbiomass) and
for natural gas (LHI 42.62 MJ/kggas; 3853 gCO2/kggas; 0.88 gCH4/kggas; 0.08 gN2O/kggas).
Throughout the analysis, we assume an average carbon content of 0.5 tC per dry ton of biomass and the same heating value for all the macro-categories. The dry wood mass density, on
the other hand, varies from species to species.
All variables are expressed in terms of carbon per hectare (tC/ha) for a single homogeneous
stand of forest. The output of the model is given in the form of two indicators, also in tC/ha.
The first (If) quantifies the annual average amount of GHG sequestered by the forest (standing
biomass and soil). The second (Ia) quantifies the annual average carbon emissions avoided by
using biomass instead of a fossil fuel to produce energy. The measure of carbon per hectare can
be converted, according to the appropriate parameters, into units of weight (dry t/ha) or of
volume (m3/ha) of the biomass. The time step used for the simulation of the forest dynamics is
one year.
2.1.3 The optimal management problem
For each forest macro-category, the optimal management problem can be formalized with the
objective of maximizing the sum of the average annual CO2 fixed by the forest (If) and the
average annual CO2eq avoided by the substitution of natural gas with biomass for heat production (Ia). These in turn depend on the biomass B, whose dynamics is obviously determined by
the management policy u. The optimal management policy is thus the solution of the following
optimal control problem:
1
u (⋅ )∈U N
max
{
N
∑ (I
f
)
(t) + I a (t)
t =1
(1)
B(t + 1) = f1 (B(t), u)
(2)
I f (t ) = g'(B(t )), I a (t ) = g"( B(t ))
B(N) ≥ B(0)
(3)
(4)
where constraint (2) is applied through CO2FIX. The time horizon N considered in this study
is 100 years. To guarantee the sustainability of the policy, the amount of standing biomass at the
end of the time horizon is constrained to be at least equal to the initial value (4). Since this
constraint may determine some initial and final transients that are due to the specific initial
conditions (and thus to the management of the past 20-30 years), If and Ia are referred only to
the average performances, transients excluded.
The considered management policies are:
– Complete protection: the forest is left evolving according to its natural cycle, without any
intervention or biomass removal.
– Conservation: each year, biomass is removed from the forest in such an amount that guarantees a constant stock; the annual net productivity of the current biomass level is therefore
removed each year.
– Maximum sustainable yield (MSY): the forest density is set to the value that allows the maximum growth from one year to the next; the annual net productivity is then removed each year.
433
– 5, 10 and 20 years rotation cycle: the biomass is harvested at regular intervals, every 5, 10 or
20 years.
2.1.4 Results
Optimal results for all the forest macro-categories are listed in Tab. 1. Once that the optimal
management policy has been defined for each macro-category, we estimate the potential contribution to climate change mitigation in the region. First, it is necessary to match each forest
macro-category to its extension. Regional land use cartography has been used for this purpose.
However, not all of the forest area can be managed because of natural or technical constraints
(for example, slope limits the accessibility of the forest and, at the same time, prevents from
extracting biomass where erosion might be more severe). We assume to manage only forests
with a moderate slope (lower than 30%) and close enough to the existing road network (distance less than 200 m). This constraint guarantees that the harvested biomass can be collected
and transported to the conversion facility at reasonable costs. These constraints were applied
to the forest areas through GIS operations on the land use map. Tab. 1 shows that the extension of the forest that satisfies these two manageability constraints is about one fifth of the
overall forest area. The management of forests over this area under the proposed policies leads
to a decrease of CO2eq of about 650 kt y-1 from avoided emissions and from sequestration in the
forest system (trees and soil).
Forest macrocategory
Optimal Harvested
management biomass
[m3ha-1y-1]
Conifer forests
Beech deciduous
forests
Oak deciduous
forests
Conifer and
deciduous mixed
forests
MSY
Medium
cycle
MSY
MSY
6.33
4.28
If
Ia
[t CO2eqha-1y1
]
-0.15 8.39
1.01
7.97
0.07
5.46
0.07
6.86
2.52
3.30
Regional
forest
area
Manageabl
e
area A
[ha]
15,494
4,909
120,012
13,463
365,510
80,933
20,600
6,298
521,616
105,603
A·(I f + I a)
[tCO2eqy1
]
40,451
120,898
447,559
43,645
652,553
Tab. 1 – For each forest macro-category, table lists: optimal policy, value of the indicators, regional extension,
its manageable part and estimated reduction GHG according to the optimal policy.
3. Conclusions
Historical harvests from the forest of Emilia-Romagna have covered about 28,700 hectares and
have produced an average of little less than 300,500 m3 [14], corresponding to about 10.5 m3
ha-1 y-1 – higher than any sustainable policy (as in Tab. 1). According to the management policies proposed in this paper, harvesting could cover a larger surface of 105,000 ha, with a total
harvest of about 310,000 m3 of wood, i.e. an average of about 3 m3 ha-1 y-1. It is possible thus to
shift from the overexploitation of only a small area, to a more sustainable harvesting of all the
forests, each with its own best policy.
From the figures above, it clearly emerges that the role of forest as bioenergy suppliers is quite
more important than their being carbon sinks (about 290 vs. 2 ktCO2eq y-1), but there is no
434
contradiction between these two functions. On the contrary, there might be a positive synergy.
In fact, in the absence of harvesting, our forests are not bound to increase their productivity/
growth or their carbon sequestration. Indeed, this analysis shows that if forests are let evolving
according to their own dynamics, without any intervention (complete protection policy), they
might become a source of carbon, instead of being a sink. The difference between the overall
sequestration under the optimal solution and the sequestration under such a protection policy,
can be considered the “price”, in terms of missing sequestration, that society pays for the lack
of proper management of forests. Moreover, the current abandonment of the forests constitutes a form of pressure as well, that might not just impact on the carbon sequestration aspect,
but also on the other ecosystem services, such as for instance the spreading of wildfires or the
diffusion of parasites.
Forest management can contribute to the regional GHG reduction goal. Specifically, under
the sustainable management policies proposed in the paper, regional forest management can
provide 9% of to the total expected reduction in the region (about 7 millions tCO2). Furthermore, this can be achieved in a sustainable way, i.e. without compromising the future biomass
production of the forests and without modifying current land cover.
Acknowledgments
This work was partially supported by Consolidamento ECATE and Tecnopolo projects, funded by LEAP
(Laboratorio Energia e Ambiente Piacenza) and Regione Emilia-Romagna.
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forestali e dell’approvvigionamento di legname”, Atti, Terzo Congresso nazionale di Selvicoltura, Firenze, p. 717-728.
435
Produzione di idrogeno ed energia
elettrica dalla combustione alluminio
in acqua
Massimo Milani [email protected], Stefano Mercati, Luca Montorsi, Daniele
Pacchioni – DISMI Dipartimento di Scienze e Metodi dell’Ingegneria, Università degli Studi
di Modena e Reggio Emilia
Riassunto
La relazione illustra il principio di funzionamento e l’analisi numerica delle prestazioni di un
innovativo sistema co-generativo per la produzione combinata di idrogeno ed energia elettrica.
Tale sistema è basato sulla combustione di particelle di alluminio in acqua attraverso cui è possibile sviluppare idrogeno e vapore surriscaldato sfruttando il calore rilasciato dalla reazione AlH2O. L’interesse verso questo tipo di tecnologia deriva dalla possibilità di ottenere idrogeno attraverso un processo in cui l’emissione totale di sostanze inquinanti e gas a effetto serra è molto
inferiore rispetto ai sistemi tradizionali di produzione di idrogeno. In particolare è stata analizzata
l’influenza delle condizioni operative del generatore di vapore sul comportamento dell’intero sistema di conversione dell’energia, con particolare attenzione alla potenza e all’efficienza totale in
funzione dei parametri di combustione.
Summary
The report shows the analysis and the behavior of the superheated steam generator used in a
novel hydrogen production and energy conversion system. The system is based on the combustion
of aluminum particles with water and it is aimed at producing hydrogen and pressurized superheated steam, using the heat released by the Al-H2O reaction. The interest on this type of technology arises because of the possibility of obtaining hydrogen with very low pollutant and greenhouse
gas emissions, compared to the traditional hydrogen production systems. The influence of the
steam generator performance on the whole energy conversion system behavior is addressed, with
particular care to the evaluation of the total power and efficiency variation with the combustion
parameters.
1. Introduzione
L’idrogeno è considerato uno dei più promettenti vettori di energia per il futuro grazie alla sua
applicazione su sistemi a celle a combustibile per la produzione di energia elettrica [1]. L’ossidazione dell’idrogeno è caratterizzata da basse emissioni inquinanti e offre grandi vantaggi in
termini di impatto ambientale. Un’analisi completa del’impatto ambientale deve però tenere in
considerazione la tecnologia utilizzata per la sua produzione: infatti, se le emissioni ‘tank to
wheel’ (dal serbatoio alla ruota) sono molto basse, le emissioni inquinanti ‘well to tank’ (dal
pozzo al serbatoio) variano in modo significativo in funzione del processo tecnologico adottato. I più comuni sistemi di produzione di idrogeno sono il reforming del gas naturale, la gassifi-
436
cazione del carbone e l’elettrolisi dell’acqua. Mentre i primi due processi sono caratterizzati
rispettivamente da una produzione di 7,33 e di 29.33 kg di CO2ogni kg di idrogeno prodotto,
l’emissione inquinante associata all’elettrolisi dell’acqua dipende dalla natura della fonte energetica primaria sfruttata per la produzione dell’energia elettrica necessaria al processo. Proprio
per questi motivi, ad oggi, l’idrogeno prodotto non può considerarsi una fonte energetica totalmente ‘verde’, in quanto circa il 90 % dell’idrogeno attualmente utilizzato viene prodotto
dal gas naturale.
2. Relazione
2.1 Progetto preliminare del cogeneratore
L’analisi sviluppata all’interno di questo progetto, è basata su un sistema co-generativo in grado di sfruttare la reazione di combustione di particelle di alluminio in acqua (sottoforma di
vapore). La Fig. 1 a) mostra uno schema concettuale del cogeneratore, mentre in Fig. 1 b) è
rappresentato lo schema dell’impianto basato sullo stesso concetto e definito all’interno del
progetto ENERCLEAN – Industria 2015 – Made in Italy. Tale sistema è descritto in modo più
dettagliato all’interno degli articoli [2, 3] e del brevetto [4].
a)
b)
Fig. 1 – a) Schema concettuale e b) layout preliminare del cogeneratore basato sulla combustione Al/H2O.
Uno dei vantaggi principali di questa reazione è quello di non emettere alcun gas inquinante o
a effetto serra [5]. Nell’uso normale dell’alluminio per i componenti industriali, il metallo o le
sue leghe risultano passivati da uno strato di ossido di alluminio che impedisce al metallo di
reagire con l’ossigeno contenuto nell’aria (o eventualmente in acqua). Il sistema oggetto di
studio è in grado di rimuovere meccanicamente lo strato di ossido dalla superficie di alluminio,
producendo particelle con una dimensione media inferiore a 0,05 mm [6-8] in modo da incrementare la superficie utile di reazione. All’interno della camera di combustione, la polvere di
alluminio reagisce con il flusso di vapore d’acqua producendo idrogeno e liberando una notevole quantità di calore secondo la reazione globale:
2 Al ( s ) + 3H 2O ( g ) → Al 2O3 ( s ) + 3H2 ( g ) − 954.8 kJ / mol
(T=298.15 K; p=1.00 atm)
1.000 kg Al ( s ) + 1.002 kg H2O ( g ) → 1.889 kg Al 2O3 ( s ) + 0.112 kg H2 ( g )
−17.90 MJ
437
(1)
(2)
In Fig.2 è riportato un confronto relativo alle densità energetiche tra l’alluminio e i principali
combustibili. Si può notare come nel trasporto di combustibili, l’alluminio risulti fortemente
avvantaggiato nei confronti anche dei combustibili tradizionali, in quanto a parità di volume la
quantità di energia che viene sviluppata attraverso la combustione dell’alluminio risulta notevolmente maggiore. Mentre la quantità di idrogeno prodotta durante la combustione può essere separata ed inviata ad una successiva fase di purificazione e stoccaggio, la quantità di calore
rilasciata dalla combustione viene utilizzata per surriscaldare il vapore di un convenzionale
ciclo a vapore per la produzione di energia elettrica. L’ossido di alluminio prodotto durante la
reazione si presenta sottoforma di polvere e può essere rimossa e riciclata per produrre nuovamente alluminio o utilizzata per scopi tecnologici.
Fig. 2 – Confronto sulle densità energetiche per kg di combustibile
2.2 Impatto ambientale
Come indicato nel precedente paragrafo, per una valutazione completa dell’impatto ambientale del sistema oggetto di studio, è necessario considerare anche il ciclo di produzione dell’alluminio (analisi ‘well to tank’). Il processo tradizionale di produzione dell’ alluminio primario
(costituito dal processo Bayer e dal processo Hall-Herault) presenta una produzione di anidride carbonica pari a circa 29.7 kg per ogni kg di idrogeno prodotto, riferendosi ad un bilancio
globale puramente stechiometrico [2]. Considerando di recuperare l’ossido di alluminio sviluppato dalla reazione di combustione per produrre nuovamente alluminio puro, è pertanto
possibile escludere la prima parte del processo di produzione dell’Al (dall’estrazione della
bauxite alla formazione dell’allumina), riducendo l’emissione di anidride carbonica a 14.58 kg
per ogni kg di idrogeno prodotto (in funzione del processo di riduzione per cella elettrolitica
Hall-Herault con consumo dell’anodo in carbonio). Tale risultato può essere ulteriormente
migliore sostituendo la cella elettrolitica classica basata sul Hall-Herault con la cella elettrolitica ad anodo inerte o con una cella a catodo in titanio diboride TiB2 (entrambe queste tecnologie sono già in fase di sperimentazione su impianti industriali di prova). Queste tecniche di
riduzione dell’Alluminata permettono di diminuire l’energia elettrica necessaria al processo di
circa il 25% (da 13 ÷ 16 kWh a 9.75 ÷ 12 kWh per kg di alluminio prodotto) e soprattutto di
eliminare la formazione di CO2 o altri gas ad effetto serra.
Tale sistema proposto risulta pertanto vantaggioso dal punto di vista delle emissioni rispetto
alla produzione di idrogeno mediante reforming da gas naturale e gassificazione del carbone.
Infatti, l’unica fonte di emissione di anidride carbonica o altri inquinanti diventa il processo di
produzione dell’energia elettrica necessaria alla riduzione elettrolitica dell’allumina. Nel caso
in cui vengano utilizzate fonti rinnovabili per ottenere tale energia (come quella solare o idro-
438
elettrica), il sistema di conversione dell’energia e di produzione di idrogeno studiato è in via
teorica completamente privo di emissioni ed eco-sostenibile. Infine, nel caso in cui si utilizzi
alluminio riciclato come combustibile primario, sia i costi di produzione dell’idrogeno che il
rispettivo apporto energetico necessario diminuiscono sensibilmente. Quest’ultima soluzione
sarà l’oggetto di indagini future.
2.3 Analisi energetica
L’analisi energetica dell’impianto studiato è stata condotta utilizzando un approccio numerico
a parametri concentrati sia della reazione che dell’intero sistema, applicando i fondamenti
teorici illustrati in [9]. Al fine di progettare un sistema basato sulla combustione di Al e H2, è
stato formulato un modello numerico della combustione tra le particelle di alluminio e l’acqua
e validato mediante il confronto con i risultati presenti in letteratura [6]. Il modello di combustione è stato quindi incluso in un modello globale del sistema, comprendente, oltre alla camera di combustione, anche tutti componenti caratterizzanti l’impianto (turbina, scambiatori di
calore,...). Il modello numerico dell’intero cogeneratore ha così permesso di stimare le prestazioni del sistema in termini di efficienza di conversione energetica e potenza, in funzione dei
principali parametri operativi (λ eccesso di acqua,...).
λ = (m H O / m Al ) (m H O / m Al )STOICH .
2
(3)
2
.
dove miè la portata in massa dell’i-esima sostanza introdotta nella camera di combustione e il
pedice STOICH. si riferisce alla reazione stechiometrica. Questo tipo di approccio ha permesso di valutare l’influenza dei principali parametri operativi (in particolare l’eccesso di acqua λ)
sull’efficienza elettrica e sulla potenza elettrica generata. I principali parametri operativi del
sistema utilizzati per le simulazioni sono riassunti in Tab. 1 e Tab. 2.
.
Portata in massa, mhz0
Eccesso di acqua, λ
Pressione di combustione, Pcc
Temperatura di ingresso turbina, Ttup
Velocità di rotazione della turbina, n
Pressione di scarico della turbina, Ptdown
0.09 kg/s ÷ 0.15 kg/s
λ 2.40 ÷ 4.00
1.04 bar
873.15 K
30000 rpm, 45000 rpm, 60000 rpm
0.2 bar
Tab. 1 – Principali parametri operativi del sistema.
Efficienza di combustione, ηc
Efficienza termica di combustione, ηth,cc
Efficienza del generatore di vapore, ηSG
Efficienza meccanica della turbina, ηm
95 %
90 %
92 %
95 %
Tab. 2 – Efficienze caratteristiche dei principali componenti.
In Fig. 3 sono riportate le mappe operative dell’impianto analizzato: si noti come un incremento dell’eccesso d’acqua produca una progressiva riduzione della temperatura in camera di combustione con effetti benefici sui materiali che costituiscono la camera stessa, di contro un eccesso di acqua troppo elevato può produrre effetti negativi sulla qualità dell’idrogeno prodotto
in termini di umidità della miscela finale. A seconda delle condizioni operative della turbina
439
utilizzata, la potenza elettrica generata varia da un minimo di 75 kW ad un massimo di 110 kW
(Fig. 3a): tali dati sono strettamente connessi alle mappe caratteristiche reali della tipologia di
turbina applicata all’impianto. Come mostrato in Fig. 3b, l’efficienza elettrica dell’impianto
vari tra 11% e il 17%; si deve considerare che questi valori non tengono conto del contenuto
energetico dell’idrogeno prodotto.
a)
b)
Fig. 3 – Mappe operative del sistema in funzione di λ: a) potenza elettrica (Pt) e temperatura in camera di
combustione (Tcc) e b) efficienza elettrica (ηtot) e temperatura in camera di combustione. Entrambe le mappe
sono relative a tre differenti velocità di rotazione della turbina: 30000 rpm, 45000 rpm, 60000 rpm.
2.4 Applicazione: stazione di rifornimento idrogeno
L’applicazione a cui si rivolge il progetto menzionato precedentemente è una stazione di rifornimento di idrogeno in grado di autosostenersi in termini di energia elettrica, ed eventualmente immettere in rete l’energia in eccesso. Considerando i risultati forniti dall’analisi energetica,
fissando la taglia scelta per il prototipo dell’impianto compatibile con le tecnologie attuali, il
sistema presenta le caratteristiche elencate in Tab. 3. In Tab. 4 è riportato il bilancio energetico
complessivo del sistema in termini di potenza. Si può notare come il rendimento puramente
elettrico del sistema sia di circa l’8% e pertanto risulti abbastanza bassa se confrontato con i
tradizionali sistemi di produzione dell’energia (?el?40/50%). Se però si considera anche la
quantità di energia associata all’idrogeno prodotto, l’efficienza globale di conversione dell’energia
dell’impianto diventa circa il 78%. Prendendo a riferimento un auto ad idrogeno realizzata per
la produzione in serie (HONDA Clarity CFX) che presenta un serbatoio con una capacità di
3.9 kgH2a 35MPa, il prototipo di impianto così definito permette di rifornire circa 120 veicoli
al giorno, producendo contemporaneamente una potenza elettrica pari a 80 kW che può essere utilizzata direttamente dalla stazione di servizio o immessa in rete.
.
Portata in massa di alluminio, mAl
.
Portata in massa di acqua (vapore), mHz0
Temperatura acqua (vapore), THz0
Pressione in camera di combustione, Pcc
ηc
Efficienza chimica di combustione,η
Efficienza termica di combustione, ηth,cc
.
Portata in massa di idrogeno prodotto, mHz
.
Portata in massa di ossido di alluminio prodotto, mAlz03
Tab. 3 – Caratteristiche principale del prototipo del sistema cogenerativo.
440
0.055 kg/s
0.105 kg/s
388.15 K
1.04 bar
95 %
90 %
0.006 kg/s
0.100 kg/s
abs.
%
Ptheoretic [kW]
994.39
100.00
PAlunb [kW]
49.72
5.00
Pthccloss [kW]
99.44
10.00
Pthloss [kW]
71.06
7.15
PH2 [kW]
694.17
69.81
Pel
80.00
8.05
Tab. 4 – Bilancio di potenza del sistema co-generativo in esame.
3. Conclusioni
In questo studio sono state analizzate le prestazioni di un sistema co-generativo per la
produzione di energia elettrica e idrogeno basato sulla combustione dell’alluminio in acqua. Mediante l’utilizzo di strumenti di analisi numerica è stato possibile definire una
taglia ottimale dell’impianto e predirne i principali parametri operativi in modo da rendere il sistema compatibile con le tecnologie presenti sul mercato con un conseguente contenimento dei costi complessivi. L’impianto progettato consente una produzione potenziale
di energia elettrica pari a 80 kW associata ad una produzione di idrogeno di 21 kg/h. Tale
impianto, applicato ad una stazione di rifornimento di idrogeno, permette di coprire il
fabbisogno energetico della stazione e fornire l’idrogeno necessario per rifornire circa 120
veicoli al giorno: una produttività comparabile con i tradizionali impianti di rifornimento
di gas metano. Fra le diverse evoluzioni del sistema è allo studio un sistema di iniezione
dell’alluminio in forma liquida anziché di particelle solide. Tale accorgimento, infatti, permetto l’utilizzo anche di alluminio secondario, oltre che primario, riducendo sia i costi che
la produzione di agenti inquinanti dovuti al processo di estrazione della bauxite e riduzione dell’ossido di alluminio.
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[9] Glassman I, Yetter R A. “Combustion”, 4th edition. Elsevier Academic Press 2007.
442
Energy System based on Integration
between a Thermo-Photo-Voltaic
generator and an Organic Rankine Cycle
Francesco Melino [email protected], Matteo Bosi, Claudio Ferrari – IMEM, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Parma, (I)
Michele Bianchi, Andrea De Pascale, Antonio Peretto – DIEM, Università di Bologna
Bologna, (I)
Mirko Morini, MechLav – Università di Ferrara, Cento (FE), (I)
Michele Pinelli, Pier Ruggero Spina – ENDIF, Università di Ferrara, Ferrara, (I)
Summary
T hermophotovoltaic O rganic R ankine C ycle I ntegrated S yThis paper presents the TORCIS (T
stem) that is an integration between a ThermoPhotoVoltaic generator (TPV) and an Organic
Rankine Cycle (ORC) for cogenerative application. The paper represents the start up of a research
program which involves three research teams from IMEM – CNR, MechLav – Technopole of
Ferrara and DIEM – University of Bologna; the aim of the research is the complete definition and
the pre-prototyping characterization of this system covering all the unresolved issues on this field.
More in details, TPV is a system to convert into electrical energy the radiation emitted from an
artificial heat source (i.e. the combustion of fuel) by the use of photovoltaic cells; the produced
electrical power is strictly connected to the thermal one as their ratio is almost constant and
cannot be changed without severe loss in performance; the coupling between TPV and ORC
allows to overcome this limitation and to realize a cogenerative system which can be regulated
with a large degree of freedom changing the ratio between the produced electrical and thermal
power.
A thermodynamic analysis of this system is presented and discussed in order to highlight its
potential in the distributed generation scenario.
Riassunto
T hermophotovoltaic O rganic R ankine C ycle I nIl presente studio riguarda il sistema TORCIS (T
tegrated S ystem) risultante dall’integrazione di un generatore Termo-Foto-Voltaico (TPV) ed un
Ciclo Rankine Organico (ORC) per applicazioni cogenerative. La presente memoria costituisce
l’inizio di un programma di ricerca che coinvolge tre gruppi di ricerca: IMEM – CNR, MechLav –
Tecnopolo di Ferrara e DIEM – Università di Bologna; l’obiettivo della ricerca è la definizione
completa e la pre-prototipazione del suddetto sistema.
In dettaglio si presenta e si discute l’analisi termodinamica di questo sistema al fine di evidenziarne le potenzialità nel campo della generazione distribuita.
1. Introduction
The Thermophotovoltaic Organic Rankine Cycle Integrated System (TORCIS) involves two
technologies which gained an increasing attention in the last years. In the following paragraphs
443
the current state of art regarding the thermo-photovoltaic generation and the organic Rankine
cycle will be respectively shown, highlighting the main aspects.
1.1 Thermo-photovoltaic conversion
A Thermo-Photo-Voltaic generator (TPV) is an innovative system able to convert into electrical energy the radiation emitted from a heat source (e.g. combustion) by the use of photovoltaic cells [1-2]. A scheme of a TPV system is presented in Fig. 1, in which the main components
and energy fluxes are highlighted.
A TPV generator consists of an heat source, an emitter (EM), a filter (F) and a photovoltaic
(PV) cells array, as sketched in Figure 1.
The main advantages of this energy system can be found in the (i) high fuel utilization factor
(close to the unity using TPV as a combined heat and power system), (ii) low produced noise
levels, (iii) easy maintenance (similar to a common domestic boiler) and (iv) great fuel flexibility (fossil fuels, biomass, municipal solid waste, nuclear fuels, etc.); also the concentrated solar
radiation can be used as TPV heat source.
The main use of a TPV generator can be in the distributed CHP generation, but also its application in the automotive sector, glass or other high temperature industrial applications has
been analysed [3].
Fig. 1 – Schematics of a Thermo-photovoltaic generator.
The power introduced with fuel (PIN) is converted into radiation (PRAD in Fig. 1) by the emitter.
The achievement of high temperature is a very important aspect and most heat sources used in
TPV systems are based on combustion systems; various types of premixed and not-premixed
combustors or radiant tube burner have been developed.
The radiant power from the emitter has to be characterized by an emission spectrum suitable for
the adopted PV cells; in fact only the photon energy in a narrow band above the bandgap of the
PV cells can be converted into electrical power. In order to achieve this goal a selective emitter or
a broadband emitter with a filter can be used. Many types of filters have been developed [4].
Only a part (PGAP) of the emitted power (PRAD) is filtered towards the PV cells and the remaining
part (Pback) is reflected towards the emitter itself. The PV cells convert the incident radiation (PU)
into electrical power (PEL). The cells adopted in the TPV generator are not conventional: special
semiconducting materials are used [5,6] due to the different nature of the photon source.
The amount of incident power on PV cells not converted into electrical energy (QTH) contributes to increase the cell temperature; this should be avoided because the conversion efficiency of
the cells rapidly falls with the increase of temperature.
444
1.2 Organic Rankine Cycle
A typical Organic Rankine Cycle (ORC) module is an energy system composed of a pump for
circulation and to increase the fluid (organic) pressure, an evaporator for heating a fluid by
means of an external heat source, a turbine to expand the heated fluid producing power, and a
condenser to discharge, into the ambient or toward a cogenerative utility, the residual lowtemperature heat. The ORC components are arranged in order to perform a thermodynamic
cycle which resembles a Rankine cycle.
Few ORC industrial manufacturers are currently proposing ORC systems with power output
size in the range 100-2000 kW [7], specifically developed to recover heat at temperature levels
typically in the range 200-500°C.
Many studies on the Organic Rankine Cycle (ORC) as energy system for the conversion of low/
medium enthalpy heat fluxes can be found (for example [8-12]).
In particular, an ORC system can use as external heat source the total amount of heat fluxes
discharged by a TPV system, as proposed in this study.
2. Report
2.1 TORCIS description
The proposed system TORCIS (Thermophotovoltaic Organic Rankine Cycle Integrated System) is based on the integration of two energy systems: a TPV generator and an ORC connected to obtain a CHP system. This system was conceived by the three unity involved in this
project which belong to the Institute of Materials for Electronics and Magnetism (IMEM) of
the National Research Council (CNR), to the MechLav Laboratory of Technopole of Ferrara
and to the DIEM Department of University of Bologna.
Fig. 2 – TORCIS lay-out.
The TORCIS system topping (TPV) and bottoming (ORC) sections are shown in Fig. 2; the
two sections are coupled by a thermal energy storage (TS).
445
Ambient air (sec. A1) is pre-heated in a regenerative heat exchanger (HX-A) by the use of the
combustion products (F1). The air pre-heating is used to increase the emitter temperature and
the emitted radiant energy. Others important aspects, in order to increase the radiant efficiency, are: the emitter typology (porous or not porous), the radiant surface and thickness, the type
of combustion and the excess of air. An optical filter instead of selective emitter is proposed in
order to: (i) obtain only the wavelengths (energy levels) of radiation which can be converted by
the PV cells and (ii), the remaining part of radiation is reflected towards the emitter and contributes to increase its temperature. The radiant emission will be converted by the PV cells which
have to be designed for the IR field. Combustion products from HX-A (F2) can be sent to the
TS and can be used for thermal energy production and/or electric energy production by the
ORC. Thermal energy is also recovered from the ORC condenser (COND) and from the PV
cells cooling circuit (HX-PV). The PV cells decrease their conversion efficiency with the increase of temperature; the fraction of radiant energy not converted into electrical energy results
into heat. In order to keep constant the performance of the cells, a cooling circuit for the PV
cells is required. The location of COND and HX-PV and of the TS is designed in order to
maximize the heat recovery efficiency for hot water production for residential applications.
The ORC allows the production of electrical energy by converting the enthalpy content of
combustion products if they are not used for the thermal production.
The integration of TPV with ORC allows to achieve flexibility in terms of electricity to heat
output ratio. The thermal storage further increases the system flexibility and makes it possible
to integrate TORCIS with others systems (e.g. solar thermal panels).
2.2 System combined heat and power performance
The overall performance of the system (ηCHP,TORCIS) can be written as the sum of the electrical
(ηEL,TORCIS) and thermal (ηTH,TORCIS) efficiency respectively:
ηCHP,TORCIS = ηEL,TORCIS + ηTH,TORCIS
(1)
The electrical efficiency can be written as:
PEL,TPV + PEL,ORC
PEL,ORC
ηEL,TORCIS =
= ηEL,TPV +
P IN
PIN
(2)
The first term is the TPV electrical efficiency and it is the result of the product of four partial
efficiencies describing different physical aspects, namely: the radiant efficiency, hRAD; the spectral
efficiency, hGAP; the view factor efficiency, hVF; the PV cells efficiency, hPV.
The above introduced values can be calculated according to [13] obtaining the TORCIS total
electrical efficiency:
ηEL,TORCIS =
PEL,TPV + PEL,ORC
P IN
= ηEL,TPV + ηEL,ORC · εf ·(1 – ηRAD · ηGAB)
(3)
The thermal efficiency is the result of the heat recovery from the ORC condensing section
(COND in Figure 2), from the PV cells cooling circuit (HX-PV) and from the additional heat
produced in the thermal storage (TS). It can be written as:
ηTH,TORCIS =
.
mHV · cL (T4 – T2)
P IN
=
QTH,COND + QTH,HX – PV + QTH,TS
PIN
446
(4)
.
being mHV the hot water mass flow rate.
A numerical model has been developed to calculate the TORCIS performance. The ORC calculation is performed by a commercial software [14], using toluene as fluid.
The CHP performance of the system are in Table 1 for two operating configurations: “maximum thermal” (MAXTH) and “maximum electrical” (MAXEL) production.
In the first configuration, the heat recovered from the combustion products is completely used
for the hot water production; the ORC is switched off and the electrical production is only
realized by the TPV furnace. In this case the TORCIS electrical efficiency (ηEL,TORCIS) coincides
with the TPV electrical efficiency (ηEL,TPV) and it is equal to 6.8%; this value is achieved with a
radiant efficiency greater than 77%, a spectral efficiency close to 24% and a PV cell efficiency
equal to 40%. The value of radiant efficiency is reached due to the pre-heating of combustion
air which reaches a temperature equal to 300°C (see Table 1). A value of thermal efficiency
greater than 84% is reached with hot water production (20°C to 60 °C).
In the second configuration the whole enthalpy content of the combustion products is converted into electric energy by the ORC; the hot water production is realized by means of the ORC
condenser and the PV cooling circuit. The system electric efficiency rises up to 24% due to a
ηEL,ORC value greater than 17%, while ηEL,TPV is constant. The thermal performance of the system decreases to about the 56% considering an hot water production from 20°C to 26 °C of
temperature. The residual enthalpy content at the stack could be used to further increase the
water temperature from the value of 26°C considered in the simulation (Table 1).
The CHP performance of the system is estimated with reference to the actual legislation [15]
in term of Primary Energy Saving (PES) and fuel utilization factor (ηU = ηCHP,TORCIS in Eq.1) as
presented in Figure 3. In both the configurations the system can be recognized as “high efficiency cogeneration unit” showing PES and ηU respectively greater than zero and 75%; in
particular a PES greater than 5% and 10% is realized respectively in MAXTH and MAXEL
configuration.
Tab. 1 – TORCIS CHP performance.
447
Fig. 3 – TORCIS combined heat and power performance.
3. Conclusions
This paper represents the start up of a research program which involves the three research
teams from IMEM – National Council of Researches, MechLav – Technopole of Ferrara and
DIEM – University of Bologna; the aim of the research is the complete definition and the preprototyping characterization of this system. This research can be divided into three main areas:
1) the development of optical and PV devices for the thermo-photovoltaic conversion;
2) the development of an ORC operating with fluids at both high and low temperature;
3) the development of a radiant combustor and of the heat recovery systems.
A preliminary calculation of the system performance shows a great flexibility in the ratio between
the produced electrical and thermal power. A thermal efficiency of about 91% and an electrical efficiency greater than 6.6% can be achieved in maximum thermal load configuration; the
previous values changes into about 56% (thermal efficiency) and 24% (electrical efficiency) in
case of maximum electrical load.
Acknowledgements
The research program on the Thermo – Photo – Voltaic generation developed in IMEM – CNR is supported from the project “Nuove tecnologie e strumenti per l’efficienza energerita e l’utilizzo delle fonti
rinnovabili negli usi finali civili” within the agreement between Regione Lombardia and CNR.
MechLav – Technopole of Ferrara carried out this work within the framework of the Programma Operativo FESR 2007-2013 della Regione Emilia-Romagna – Attività I.1.1 “Creazione di tecnopoli per la ricerca
industriale e il trasferimento tecnologico”
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sources”. Appl Energy (2010), doi:10.1016/j.apenergy.2010.11.013;
[8] V.M. Nguyen, P.S. Doherty, S.B. Riffat. “Development of a prototype low-temperature Rankine
cycle electricity generation system”. Applied Thermal Engineering, 21:169-181, 2001;
[9] J. Larjola. “Electricity from industrial waste heat using high-speed organic Rankine cycle (ORC)”.
Int. J. Production Economics, 41:227-235, 1995;
[10] M. Yari. “Thermodynamic analysis of a combined micro turbine with a micro ORC”. ASME Paper
GT2008-51163, 2008;
[11] B. Saleh, G. Koglbauer, M. Wendland, J. Fischer. “Working fluids for low-temperature organic
Rankine cycles”. Energy, 32:1210–1221, 2007;
[12] N. Inoue, A. Kaneko, H. Watanabe, T. Uchimura, K. Irie. “Development of electric power generation unit driven by waste heat (study on working fluids and expansion turbines)”. ASME Paper GT200727749, 2007;
[13] A. De Pascale, C. Ferrari, F. Melino, M. Morini, M. Pinelli, “Integration between a Thermo-PhotoVoltaic generator and an Organic Rankine Cycle”, 3rd International Conference on Applied Energy – 1618 May 2011 – Perugia, Italy;
[14] Thermoflow Inc., 2010, “Thermoflow 20.0, Revision 1”, Sudbury, MA, USA;
[15] European Directive 2004/8/EC.
449
GEO.POWER project: low-enthalpy
geothermal energy performance and
long-term strategies for Ground-Coupled
Heat Pumps (GCHP) in residential and
industrial building
Beatrice M.S. Giambastiani [email protected], Micòl Mastrocicco – Earth Sciences Department,
University of Ferrara
Marco Meggiolaro – Euris s.r.l., Padova
Summary
The general objective of GEO.POWER project is to exchange best practices related to low enthalpy energy supply and – after a technical and cost/benefit assessment to evaluate the potential of
reproducibility – to prepare action plans for the large scale introduction of Ground-Coupled Heat
Pumps (GCHP) in each of the member regions. Each action plan needs to provide an organized
set of legal/regulatory, economic and technical proposals to address long-term investments strategy for GCHP application at wide scale. The partnership, coordinated by the Province of Ferrara
(Italy) is composed by Ministries, Regions, Local Authorities, Universities and R&D agencies of
9 countries (Bulgaria, Hungary, Greece, Italy, Sweden, Estonia, UK, Belgium and Slovenia) that
are dealing at different level with the attainment of European policy objectives in relation to 20/
20/20 Kyoto targets and the EU Building Performance Directive.
Riassunto
L’obiettivo generale del progetto GEO.POWER è lo scambio di buone pratiche connesse all’approvvigionamento energetico geotermico a bassa entalpia e, dopo una valutazione tecnica e di
costi/benefici sul loro potenziale di trasferibilità, la realizzazione di un piano d’azione per ogni
regione coinvolta. Ciascun piano d’azione sarà basato su un set di proposte normative, economiche e tecniche finalizzate ad influenzare una strategia di investimenti di lungo termine per l’applicazione della geotermia a bassa entalpia su vasta scala. Il partenariato, coordinato dalla Provincia
di Ferrara (Italia), è composto da Ministeri, Regioni, Autorità Locali, Università e agenzie di
Ricerca e Sviluppo di 9 paesi (Bulgaria, Ungheria, Grecia, Italia, Svezia, Estonia, Gran Bretagna,
Belgio e Slovenia) che stanno cercando, a vari livelli, di realizzare gli obiettivi previsti dal Protocollo di Kyoto e dalla Direttiva EU relativa al miglioramento delle performance energetiche degli
edifici.
1. Introduction
In December 2008 EU adopted a comprehensive climate and energy package of measures to
reduce the EU’s contribution to global warming and ensure reliable and sufficient supplies of
450
energy, aiming to make Europe the world leader in renewable energy and low-carbon technologies. Determined to fight against climate change, the EU is committed to reducing its own
greenhouse gas emissions by at least 20% by 2020 (compared with 1990 levels) mainly by
improving the use of renewable energy and curbing energy consumption. Thus, the Member
States and their local authorities are encouraged to implement concrete measures within regional operational programmes in order to improve the yield of energy production and distribution, to facilitate financing and investments in the green sector, and to encourage rational energy consumption behaviour.
Geothermal energy is one of the most environmental-friendly and cost-effective energy resources in use and has the potential to help mitigate global warming if widely deployed in place of
fossil fuel. Recent technological progress, the variability of the cost, the difficult of oil and gas
supply, the need to reduce the use of fossil fuels to cut pollution have made the exploitation of
geothermal energy, especially low-enthalpy power generation, an attractive and viable alternative. Technological advances have expanded the range and size of viable resources, especially
for applications such as home heating and cooling, opening a potential for widespread exploitation. The GEO.POWER partners, being aware of energy challenges, decided to develop a
project on geothermal energy under the IVC Programme’s environmental sub-theme on the
energy and sustainable transport [1], to fill their legislation gaps and in that way actively contribute to the EU “20-20-20” objective as well as to international climate agreements like Kyoto and Copenhagen protocols. GEO.POWER project (“Geothermal energy to address energy
performance strategies in residential and industrial buildings” [2]) groups together the most
important practices experienced in nine EU countries in the field of the low enthalpy geothermal energy and addresses long-term investments strategies for Ground-Coupled Heat Pumps
(GCHP).
2. Report
2.1 Project description
The project idea was born from the Province of Ferrara, Italian leader in the field of renewable
energies and geothermal energy that wishes to explore new potentialities and new technological applications. The partnership, coordinated by the Province of Ferrara is composed by
Ministries, Regions, Local Authorities, and Universities of 9 Countries based on the following
list:
– Province of Ferrara [3] and Emilia-Romagna Region (Italy) [4];
– Centre for Renewable Energy Sources and Saving – CRES (Greece) [5];
– Ministry of Regional Development and Public Works (Bulgaria) [6];
– Észak-Alföld Regional Energy Agency – ENEREA [7] and “Energy Centre” Energy Efficiency, Environment and Energy Information Agency Non-profit (Hungary) [8];
– Reading Borough Council (United Kingdom) [9];
– SP Technical Research Institute [10] and KTH Royal Institute of Technology (Sweden) [11];
– Institute of Geology at Talling University of Technology (Estonia) [12];
– VITO Flemish Institute for Technological Research (Belgium) [13];
– GeoZS – Geological Survey of Slovenia (Slovenia) [14].
2.2 Project objectives
The general objective of the 2 year GEO.POWER project is to exchange best practices
(BPs) related to low-enthalpy energy supply and – after a technical and cost/benefit assessment to evaluate the potential of reproducibility – to produce an action plan for the large
scale introduction of GCHP in each of the member regions. The specific objectives are
listed as follow:
451
– investigation over the present status and future potential towards reducing greenhouses emissions and primary energy consumption by spreading geothermal energy option in the regions
involved in the project;
– evaluation of the most representative BPs experienced all over Europe and analyses of their
potential contribution/adaptation at local scale in line with EU environmental and sustainable
energy legislation;
– development of legislative, technical, economic and marketing initiatives and measures to
address the introduction and spread of the heat pump techniques;
– improvement of the expertise and capacity building of policymakers, local technicians and
professionals by delivering training actions and by sharing knowledge based on the BPs under
evaluation;
– realization of a broad promotional campaign addressing the awareness and attitudes of key
public and private stakeholders and professional groups towards the potentialities of GCHP.
The achievement of these objectives could contribute at promoting the switch to green energy
both in residential and industrial sectors and thus curbing emissions in compliance with EU
2020 goals.
2.3 Project phases
The project is divided in three phases as explained in the following paragraphs.
2.3.1. Phase 1
Phase 1 (January-May 2011) regards a review of the BPs achieved within GCHP sector and
their possible application for the sustainable heating/cooling technology. Expertise is shared
and exchanged within the partners (PPs) and local deep delegations (composed by energy
managers, technicians, stakeholders, urban planners, etc.) through the preparation of benchmarking reports and workshops. Out of the 31 BPs initially screened, 12 possible BPs have
been selected (4 in the public, 4 in the industry, 3 in private and 1 in the agriculture sector)
according to the following criteria: field of application; type of systems (BTES, ATES, horizontal or vertical pump); different hydrogeological setting; type of building (new buildings, renovations, etc.); efficiency parameters (COP, EER, SPF, SEER, etc.); quality of the monitoring
scheme; integration with other RES; benefits (energy saving, avoided emission, pay-back timeframe, etc.); and level of supposed transferability. The result of this first phase is reported in
table 1.
Case study
The
Avenue
Centre;
Reading (UK)
GCHP
sector
Public
building
Polytechnic
Institute
of
Setùbal,
Portugal
Headquarters
INFRAX,
Torhout (BE)
Public
building
Pi
P bli
d
Public
building
Description
Shared-occupancy building comprising a special needs school
and office accommodation;
Combined installation of closed loop ground-source heat pumps
and open loop for heating and cooling;
GSHP (closed loop) for heating and cooling of 200 m2.
Sustainable office project with several eco-innovative
technologies;
Integrated photo-voltaic elements, slab heating and cooling and
a ground coupled heat pump of 160 kW combined with a BTES
system (24 vertical heat exchangers 130m deep).
F
ll h
ih
b h l
l
l i d lli
(segue)
452
Stockholm
Arlanda
Airport,
Sweden
Industry
sector and
crosscutting
fields
TELENOR
Headquarter,
Törökbálint,
(HU)
Industry
sector and
crosscutting
fields
Casaglia,
District
Heating
System, Ferrara
(IT)
Industry
sector and
crosscutting
fields
Hotel
"Amalia", Nea
Tiryntha
Peloponessus
(GR)
Block of flats,
Budapest (HU)
Industry
sector and
crosscutting
fields
Private
sector
One-family
house,
Ohlsdorf,
Oberösterreich,
Austria
Private
sector
Two-family
house, Pikermi,
Attiki (GR)
Private
sector
Greenhouse,
Antwerpen,
(BE)
Agriculture
sector
The aquifer that supplies space cooling and heating for Arlanda
Airport is the world largest energy storage unit; during the
summer, the aquifer supplies cooling to the airport buildings
while at the same time storing heat. In the winter, this stored
heat is used in the ground heating system at the airport aircraft
parking stands, and to pre-heat ventilation air in buildings.
Environmentally-friendly engineering technology: 180 Borehole
Heat Exchanger (BHE) drilled 100m deep (diameter of 40 mm)
to provide cold and hot water, therein regulating temperature in
the building;
The energy efficiency of the building is controlled by an
intelligent building management system that allows efficient
measurement and control of various equipment parameters;
168 m2 of solar panels to heat water;
High efficiency insulation and external shades during summer.
Integrated Energy System in which the energy from the Waste
Treatment Plant (WTE, Waste To Energy) is added to the
geothermal source. Geothermal fluid (hot water at 100°C) is
pumped from depths of 1000m; the hot water transfers thermal
energy to the heating system. Then the water is re-introduced
into the ground to ensure the geotechnical stability;
Total area of 8980 m2.
Open-loop heat pump system for heating and cooling;
Two subsaline groundwater supplying wells (60m deep) and two
reinjection wells (60m deep), two titanium heat exchangers and
two electric water source heat pumps placed in cascade;
A ten-story panel building with 256 flats;
Insulation with new energy efficient windows, and controllable
heating;
Open loop system whit 4 wells and 6 injection wells (14 m
deep);
Three heat pumps (434kW for heating, 245 kW for domestic hot
water supply).
Area: 189 m2;
Floor heating;
Horizontal pumps (75m long and 1.2m deep);
Supply temperature: 35°C and return temperature: 30°C;
The domestic hot water is heated by a separate air-to-water heat
pump which uses the air of the surrounding air in the cellar.
Area: 180 m2;
Insulation with the use of synthetic windows with double glass
and Argon gas in-between;
Open loop system: The heat pump feeds the under-floor system
with warm or cold water for heating or cooling accordingly. Two
extra ceiling dehumidifiers are placed in the two floors of the
residence (each in every floor). The dehumidifiers are used only
in cooling mode during summer, are commanded by a wall
humidity sensor and dry the air when needed, thus operating
complementary to the floor-cooling. These dehumidifiers are
water chilled with the under-floor water.
Area: 13500 m2;
The air handling unit conditioning is coupled to an Aquifer
Thermal Energy Storage, a ground source heat pump and an oil
boiler;
b d
h
d
l
(segue)
453
Heat pump combined with a ground source open loop system.
During winter, the heat pump tries to cover the heating demand
of the greenhouse. The cold at the evaporator is stored into the
cold well. This 'stored' cold is used during summer to cool down
the greenhouse. If necessary, the heat pump can deliver
additional cold, while the heat will be stored into the warm well;
Two wells 140m deep and 200m spaced.
Tab. 1 – Case studies selected as Best Practices and their brief description.
2.3.2 Phase 2
Phase 2 (July-December 2011) is based on assessments of the reproducibility and transferability of the selected 12 BPs (see Table 1) in each recipient region. In this phase all partners go
through a SWOT analysis to estimate the weakness and potentialities for the application/adaptation of the identified GCHP technologies in their own areas based on the local technical,
economic and environmental situation. The SWOT analysis is based both on an internal analysis which has the objective to carefully define Strengths and Weaknesses of the selected BPs
(energy efficiency, reliability, economic efficiency, etc.), and an external analysis, which is compiled by each PP and concerns Opportunities and Threats of the PP’s target area where some
of the 12 selected BPs will be promoted for the replication. The external analysis is the evaluation of the local market (market segment size, price sensitivity, government subsidies and incentives, etc.), environment (impact, suitability of boundary conditions, government regulations, etc.), and vulnerability to competitors (selling power, competing energy sources and
plant technologies, financial resources, etc.).
2.3.3 Phase 3
Phase 3 (January-June 2012) consists in the elaboration of an action plan for each involved
region to support policymakers’ commitment. The action plan paves the way towards the transferability of the (adapted) BPs into the Mainstreaming Programmes and energy regulations
plans.
3. Conclusions
3.1 Project results
The main results of the project are the development of one action plan per each involved
region. These action plans will provide an organized set of legal/regulatory, economical, and
technical proposals and they will address long-term investments strategy for GCHP application at wide scale. The communication strategy is strictly connected with the ownership of the
results: an increase awareness, improved knowledge and better understanding of the GCHP
merit and benefits can effectively push less experienced regions to invest in such green-economy, while more experienced regions get exposed to new ideas and practical solutions in the
geothermal energy field.
The project is still ongoing but preliminary results are now available consisting in a selection of
BPs (Table 1). Currently (September 2011) each partner is about to complete SWOT analyses
and transferability assessments in order to assess the BPs reproducibility and adaptation of the
GCHP technology in the PPs’ target areas. The transferability assessment will be delivered by
all PPs and it will represent the technical and policy instruments to support the development
of the action plan.
454
References
[1] INTERREG IVC Programme website: http://i4c.eu/;
[2] GEO.POWER project website: http://geopower-i4c.eu/;
[3] Province of Ferrara (Italy) website: www.provincia.fe.it;
[4] Emilia-Romagna Region (Italy) website: www.regione.emilia-romagna.it;
[5] Centre for Renewable Energy Sources and Saving – CRES (Greece) website www.cres.gr;
[6] Ministry of Regional Development and Public Works (Bulgaria) website: www.mrrb.government.bg;
[7] ENEREA Eszak-Alfold Regional Energy Agency (Hungary) website: www.enerea.hu;
[8] ‘Energy Center’ Energy Efficiency, Environment and Energy Information Agency Non-profit Limited Company (Hungary) website: www.energiakozpont.hu;
[9] Reading Borough Council (UK) website: www.reading.gov.uk;
[10] SP Technical Research Institute of Sweden website: www.sp.se;
[11] Department of Energy Technology, Royal Institute of Science – KTH (Sweden) website: www.kth.se;
[12] Institute of Geology at Tallinn University of Technology (Estonia) website: www.gi.ee;
[13] VITO Flemish Institute for Technological Research (Belgium) website: www.vito.be;
[14] Geological Survey of Slovenia website: www.geo-zs.si.
455
Sintesi e caratterizzazione di nuovi nano
cristalli di interesse biologico e ambientale e la nuova normativa REACH
Isidoro Giorgio Lesci [email protected], Elisabetta Foresti, Marco Marchetti,
Norberto Roveri – Università di Bologna
Riassunto
Con l’aumento mondiale degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo dei prodotti nanotecnologici è previsto che nel 2015 il valore economico globale raggiungerà i 2,5 trilioni di dollari e che
saranno coinvolti dai 2 ai 10 milioni di lavoratori [1]. La produzione e l’utilizzo dei nanomateriali
può portare significative innovazioni e vantaggi alla società e benefici per la salute umana e per
l’ambiente. La normativa REACH [2] è particolarmente attenta al problema riguardante lo sviluppo delle nanotecnologie e dei nanomateriali a garanzia della sicurezza per la salute umana e per
l’ambiente durante l’intero ciclo di vita. In questo lavoro verranno messi in evidenza alcuni aspetti importanti della sintesi e caratterizzazione di alcuni nanomateriali, sia per valutarne le proprietà chimico fisiche, tossicologiche ed eco-tossicologiche sia per dare alcune indicazioni per redigere
il Chemical Safety Report.
Summary
As a consequence of the worldwide investment increases in the research and development of
nano-technologic products, it is foreseen that in 2015 the global economical value will reach 2.5
trillion dollars, involving 2 to 10 million workers [1]. The manufacture and utilization of nanotechnologic products is likely to bring significant innovations and advantages for society, for human health and environment. The safeguard for human health and environment during the entire life cycle of these products is a must in the REACH regulations [2]. In this study some very
important views will be underlined concerning the synthesis and chemical/physics characterization of some nano materials, to evaluate both their toxic and eco-toxic properties and to indicate
the guidelines to draw up the Chemical Safety Report.
1. Introduzione
Le nanotecnologie costituiscono un nuovo approccio che si basa sulla comprensione e la
conoscenza approfondita delle proprietà della materia su scala nanometrica. Allo stato attuale, la nanotecnologia è unanimemente riconosciuta come una disciplina rivoluzionaria in
termini del possibile impatto sulle applicazioni industriali e di converso sulle ricadute sulla
nostra vita quotidiana. Con l’aumento mondiale degli investimenti per la ricerca e lo sviluppo dei prodotti nanotecnologici è previsto che nel 2015 il valore globale raggiungerà i 2,5
trilioni di dollari e che saranno coinvolti dai 2 ai 10 milioni di lavoratori [1]. La produzione
e l’utilizzo dei nanomateriali può portare significative innovazioni e vantaggi alla società e
benefici per la salute umana e per l’ambiente. Allo stesso tempo sarà necessario garantire la
456
sicurezza per l’uomo e l’ambiente ed evitare impatti negativi sulla società [3]. Il primo giugno 2007 è entrato in vigore il Regolamento (CE) n. 1907/2006, noto come REACH (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemical substances) [2]. Il Regolamento istituisce un nuovo quadro normativo in materia di immissione in commercio delle
sostanze chimiche, abrogando in gran parte quello preesistente. La normativa REACH [2] è
particolarmente attenta al problema riguardante lo sviluppo delle nanotecnologie e dei nanomateriali a garanzia della sicurezza per la salute umana e per l’ambiente durante l’intero
ciclo di vita. Attualmente non vi sono provvedimenti specifici nel REACH che si riferiscano
ai nanomateriali, tuttavia il REACH prende in considerazione le sostanze indipendentemente dalla loro forma, dimensione e stato fisico. Sostanze in scala nanometrica rientrano quindi
nei provvedimenti emanati nel REACH [4]. Il comportamento e gli effetti sulla salute delle
sostanze in scala nanometrica dipendono da numerose caratteristiche che comprendono le
dimensioni, la concentrazione numerica delle particelle, l’area superficiale, la carica e la reattività superficiale. Queste caratteristiche devono essere prese in considerazione per la valutazione dei rischi per la salute umana e per l’ambiente. In quest’ultima decade molti autori
hanno messo in evidenza la possibile tossicità di alcuni materiali nanotecnologici, ad esempio alcuni studi hanno dimostrato come la tossicità di alcuni nanomateriali (es. nano tubi di
carbonio) presentino una tossicità simile al crisotilo [5], un amianto appartenente alla famiglia dei serpentini naturali.
2. Relazione
In questa relazione verranno presentati i risultati relativi alla sintesi e caratterizzazione di due
tipologie di nanomateriali (nano tubi di crisotilo e nano particelle di biossido di titanio) che
per le loro caratteristiche chimiche, fisiche e strutturali potrebbero avere importanti applicazioni nel campo delle nanotecnologie. Inoltre, verranno forniti informazioni per quanto riguarda la loro potenziale tossicità anche in funzione del rapporto esistente tra l’interfaccia della
superficie inorganica (e dunque tra morfologia, struttura e composizione chimica) rispetto al
sistema biologico preso come riferimento.
2.1 Sintesi e caratterizzazione di nanotubi “geoinspired”
Negli ultimi anni, l’interesse per i nano tubi è stato esteso a molti materiali inorganici, conduttori, semiconduttori e isolanti che possono avere applicazioni come materiali nanotecnologici,
nella catalisi, nell’elettronica o come drug delivery. Presso i nostri laboratori è stata messa a
punto una metodologia di sintesi idrotermica, altamente riproducibile, che permette di ottenere nanotubi di crisotilo sintetici come unica fase, avente morfologia e stechiometria definita
[6]. La microscopia a forza atomica mostra la morfologia cilindrica dei nanotubi e permette di
stimarne le dimensioni: il diametro esterno è pari a 24 ± 2nm e il diametro interno 7 ± 1nm, lo
spessore della parete esterna è di circa 10 ±1nm (figura 1). Questi valori indicano che sono
presenti circa 10 strati alternati ottaedrici, di composizione Mg(OH)2 e tetraedrici, di composizione SiO2 (strati OT), in accordo con lo spessore critico per il piano di sfaldatura del minerale.
457
Fig. 1 – Immagini TEM (a) e AFM (b) del crisotilo sintetico e la caratterizzazione al DRX (c) e FTIR (d) del
confronto tra nano tubi di crisotilo naturale e sintetico.
La disponibilità di crisotilo stechiometrico sintetico con struttura costante e morfologia uniforme ha permesso di approfondire le conoscenze sulle interazioni con sistemi biologici per
studiare il possibile legame tra fibre di asbesto inalate e patologie sviluppate quali fibrogenesi
(asbestosi) e carcinogenesi (carcinoma broncogenico e mesotelioma). Quindi, i nanotubi di
crisotilo sintetico stechiometrico sono stati utilizzati per studiare l’interazione sia con le cellule
sia con le proteine [6].
Il risultato degli studi hanno ben evidenziato il ruolo principale svolto dall’assenza nei nano
tubi di crisotilo sintetico di ioni estranei, utilizzando, in questa occasione, cellule epiteliali
A549 del polmone umano e confrontati con i risultati del ben noto asbesto naturale. Dopo 24
ore di incubazione, il naturale, ma non il sintetico, evidenzia un effetto citotossico tramite un
legame con la lattato deidrogenasi. La rottura omolitica del legame C-H e la lipoossidazione
delle cellule A549 ha luogo in presenza del crisotilo naturale, ma non del sintetico. I sistemi
antiossidanti sono attaccati diversamente. Il cammino del pentoso fosfato e il suo enzima regolatore deidrodrogenasi glucosio 6-fosfato non sono inibiti dai nanotubi di crisotilo sintetico e
stechiometrico, come ben evidenziato dal grafico in Figura 2. Quindi nanotubi di crisotilo
sintetico stechiometrico possono essere proposti come standard di riferimento (controllo negativo) per studi tossicologici [7].
Un risultato originale e di notevole importanza per gli studi futuri è stata la sintesi di cristalli di
crisotilo geoinspired contenenti quantità controllate di ferro. Dall’analisi di campioni con concentrazioni crescenti di Fe, mediante spettroscopia (FTIR) combinata con studi strutturali
(DRX) e morfologici (SEM-TEM), è stato verificato il ruolo svolto dalla presenza di Fe3+ nel
modificare non solo superficialmente le fibre, ma anche la morfologia e la struttura cristallina
attraverso una sostituzione del Fe al Mg nel sito ottaedrico. Le valutazioni genotossica e cito-
458
tossica effettuate sul crisotilo geoinspired Fe-sostituito hanno messo in evidenza che la produzione di specie reattive dell’ossigeno e di altri radicali è potenziato quando ioni Fe sostituiscono specifici siti cristallografici nel crisotilo. La presenza di Fe, anche in concentrazioni molto
basse (0,2% wt) trasforma le fibre di crisotilo da inerti a biologicamente dannose (Fig. 2). In
questo studio per la prima volta si è confrontato in modo specifico le fibre di crisotilo drogate
con diverso tenore di ferro, senza che le interferenze dovute ad altre variabili (tali come differenza in struttura, dimensioni o modificazioni chimico fisiche) [7].
Fig. 2 – Extracellular release of lactate dehydrogenase (LDH), accumulation of intracellular malonyldialdehyde
(MDA) and intracellular levels of glutathione (GSH) in MH-S cells incubated for 24 h in the absence (ctrl) or
presence of 6 ìg/cm2 UICC A chrysotile (chry), synthetic chrysotile (syn) or synthetic chrysotile doped with
0.57% iron (syn 0.57% Fe) or 0.94% iron (syn 0.94% Fe).
La dimostrata assenza di citossicità da parte dei nanotubi sintetici di crisotilo stechiometrico
ha permesso di utilizzare questo materiale per preparare “quantum wires”, riempiendo le cavità centrali con diversi tipi di nano particelle (Fig. 3) [8].
Fig. 3 – Quantum wire.
2.2 Sintesi e caratterizzazione di nanoparticelle di biossido di titanio
L’attività fotocatalitica del TiO2 (anatase) dipende da una serie di fattori quali la struttura cristallina la porosità, la densità dei gruppi OH- superficiali, adsorbimento e desorbimento di
specie chimiche in superficie e dall’area superficiale [9]. In questo studio sono stati ottimizzati
i parametri di sintesi per migliorare le performance tecnologiche dell’anatase rispetto ai mede-
459
simi prodotti in commercio, la nuova sintesi è stata ottenuta come unica fase cristallina attraverso un processo idrotermico.
In particolare sono stati valutati i seguenti parametri: pH, tempo di reazione, temperatura e
precursori iniziali del Ti (fig. 4).
Fig. 4 – Variazione della morfologia e dimensione in funzione dei diversi parametri:Precursori del Ti (a: TiO2
Butoxyde; b: TiO2 Isopropoxyde), influenza del pH (c: pH 9,7; d: pH 11,3), influenza del tempo (e: 16 ore; f: 1 ora).
L’azione fotocatalitica del TiO2 prodotto con sintesi diverse è stata testata mediante il test del
blu di metilene (Fig. 5), e dall’abbattimento degli NOx: i risultati ottenuti sono stati confrontati con i vari prodotti commerciali.
Fig. 5 – Test del blu di metilene.
460
Infine, l’azione antibatterica di una sospensione di TiO2 è stata testata nei confronti di due
ceppi batterici patogeni quali l’ Escherichia coli e lo Staphylococcus aureus.
3. Conclusioni
Le incertezze ancora presenti in merito ai potenziali rischi per la salute e sicurezza associati ai
nanomateriali e l’assenza di standards di esposizione lavorativa specifici per le nanoparticelle
suggeriscono comunque un approccio precauzionale per controllare la produzione, l’uso, lo
stoccaggio e la manipolazione di tali particelle [10]. Nel caso dei nanotubi di crisotilo i dati
hanno dimostrato come la tossicità dipenda soprattutto dal ruolo di ioni metallici estranei
(esempio Fe) rispetto alla stechiometria del minerale nei confronti del sistema biologico considerato. L’assenza, o quasi, di tossicità mostrata dai nanotubi di crisotilo sintetico stechiometrico permetterebbe l’utilizzo di questo nuovo materiale sia come standard di riferimento nello
studio degli equivalenti naturali sia come “ nanowires” nel campo delle nanotecnologie.
In questi ultimi anni c’è stato un notevole incremento di studi scientifici per testare la tossicità
delle nanoparticelle di biossido di titanio, dovuto soprattutto al suo importante utilizzo in
diversi prodotti commerciali. Il biossido di titanio (TiO2) è scarsamente solubile e generalmente considerato come una sostanza a bassa tossicità. Tuttavia studi sull’inalazione di nano TiO2
hanno dimostrato che se le nanoparticelle vengono inalate in dosi considerevoli, possono indurre il cancro polmonare, l’infiammazione e la fibrosi, mentre a basse dosi la risposta infiammatoria acuta è transitoria e senza significato clinico [11].
La possibilità di poter controllare i parametri di sintesi del TiO2 ci ha permesso di ottenere un
prodotto finale, che in funzione delle dimensioni, morfologia e area superficiale, presenta una
migliorata fotoattività nei confronti di inquinanti atmosferici e batterici.
Bibliografia
[1] LUXRESEARCH: The Nanotech report,4th edn.,New York,NY,LuxResearch Inc.;
[2] REACH (Registration, Evaluation, Authorisation of Chemicals Regolamento) (CE) n. 1907/2006 del
Parlamento Europeo e del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione delle
sostanze chimiche;
[3] Marconi A., Fanizza C., Castellet, G. Ballarà Y: “Particelle ultrafini e nanoparticelle: tecniche di
misura convenzionali ed avanzate per la determinazione dell’esposizione inalatoria”. Rivista degli infortuni e delle malattie professionali – Fascicolo n. 2/2007;
[4] European Commission: Nanomaterials in REACH. CA/59/2008 rev.1. International Standardization Organisation (ISO): 2008 ISO/TS 27687;
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461
Studio dell’adsorbimento di farmaci in
soluzione acquosa su zeoliti
Elena Sarti [email protected],Luisa Pasti, Francesco Dondi – Dipartimento di Chimica,
Università degli Studi di Ferrara, Ferrara
Annalisa Martucci – Dipartimento di Scienze della Terra, Università degli Studi di Ferrara
Riassunto
La presenza di farmaci nei corpi idrici naturali è un problema che sta acquisendo sempre maggior
interesse per i potenziali danni che può causare all’uomo e all’ecosistema. Dagli studi effettuati si
è constatato che i convenzionali impianti di trattamento di acque reflue riescono a degradare i
farmaci solo in modo parziale o talvolta nullo [1], perciò l’obiettivo è quello di studiare possibili
trattamenti che siano in grado di abbattere tali inquinanti. Una soluzione alternativa all’ossidazione avanzata o la filtrazione su membrana potrebbe essere l’impiego di zeoliti come materiale
adsorbente. In questo lavoro, è stato studiato l’adsorbimento di Idroclorotiazide (diuretico), Atenololo (â-bloccante) e Ketoprofene (anti-infiammatorio) su zeoliti Beta di diverso grado di idrofobicità, determinato dal rapporto SiO2/Al2O3 (SAR). Si è cercato inoltre di stabilire in che misura
l’adsorbimento venga influenzato da variazioni di pH e forza ionica del mezzo acquoso.
Summary
The presence of drugs in natural waters is a problem which is gaining increasing interest for
potential damage it can cause to humans and the ecosystem. From studies, it was found that
conventional wastewater treatment plants can degrade pharmaceuticals only partially or sometimes not at all [1], so the goal is to find another treatment that is able to reduce these pollutants .
An alternative solution to advanced oxidation or membrane filtration could be the use of zeolites
as adsorbent materials. In this study, the retention of atenolol (â-blocker), ketoprofen (anti-inflammatory) and hydrochlorothiazide (diuretic) on three types of zeolite Beta is investigated. The
zeolites have got the same structure but different hydrophobicity degree, that is different SiO2/
Al2O3 ratio (SAR). To accomplish this task, the adsorption properties are characterized by adsorption isotherm determination; the influence of both ionic strength and pH on the adsorption properties are single out.
1. Introduzione
Con la definizione di contaminanti emergenti si definisce una vasta gamma di composti chimici
(farmaci ad uso umano e veterinario, prodotti per la cura e l’igiene personale, etc..) ad elevato
potenziale inquinante e di rischio per la salute umana, per i quali non è attualmente ancora
prevista nessuna regolamentazione e monitoraggio ambientale [2]. La presenza di medicinali
nelle acque non mostra fluttuazioni stagionali, come quelle dei prodotti fitosanitari, ma risulta
essere costante a causa della continuità delle immissioni, prospettando un quadro di esposizione a bassi livelli e a lungo termine per gli organismi acquatici.
Come accennato, i convenzionali depuratori di acque reflue hanno una bassa efficienza di
abbattimento di questi inquinanti, perciò gli effluenti sono ancora ricchi di farmaci [3], i quali
462
raggiungono i corpi idrici [4,5]. Una volta nell’ambiente queste sostanze vengono degradate
(da batteri e microrganismi) a seconda delle loro caratteristiche chimico-fisiche, oppure possono persistere a lungo; il grado di tossicità a lungo termine verso esseri umani ed altri organismi
è tuttora sconosciuto.
Il presente lavoro si propone di determinare quantitativamente l’adsorbimento di soluzioni
acquose di farmaci su zeoliti idrofobiche di tipo Beta, allo scopo di verificare la possibilità
dell’impiego di questi materiali come adsorbenti in trattamenti terziari al termine dei convenzionali processi di depurazione.
Le zeoliti sono minerali, sia naturali sia di sintesi, con una struttura cristallina microporosa
costituiti da impalcature tridimensionali di tetraedri (framework) in cui la specie tetraedrica è
Si, Al, etc... e gli atomi di ossigeno sono condivisi tra tetraedri adiacenti. Caratteristica comune
a tutte le zeoliti è la presenza di cavità e canali, che ospitano cationi, principalmente metalli
alcalini e alcalino-terrosi, e molecole di acqua (extraframework), che possono essere scambiati
con l’esterno. Le zeoliti possono adsorbire in maniera selettiva molecole in funzione della loro
forma e dimensione, da cui deriva la terminologia di setaccio molecolare. Le zeoliti possono
inoltre fornire separazioni basate sull’adsorbimento competitivo: molecole grandi, per esempio, possono essere adsorbite e separate da molecole più piccole, come può essere il caso di un
inquinante disciolto in un solvente.
Il rapporto SiO2/Al2O3 (SAR) è un importante parametro per stimare le proprietà di una zeolite, in termini di idrofilicità, acidità e capacità di scambio cationico: zeoliti con SAR<5 sono
classificate idrofiliche, mentre quelle con SAR>5 idrofobiche. La diminuzione del SAR, e quindi
l’aumento di Al2O3 nella struttura infatti è stato correlato ad un aumento dei siti acidi di Brønsted nel reticolo cristallino ad un aumento nella capacità di adsorbire acqua ed ad un incremento nell’acidità di tipo Lewis. L’influenza di questo parametro sull’adsorbimento è fino ad
ora stato studiato solo per piccole molecole come acqua, metano o ammoniaca e non per molecole più complesse come i farmaci.
2. Relazione
I farmaci scelti per lo studio di adsorbimento sono ketoprofene, idroclorotiazide ed atenololo,
spesso rinvenuti in effluenti di impianti di depurazione ed acque superficiali di svariati Stati in
numerosi lavori di letteratura [6,7]. In particolare, recenti studi hanno evidenziato la tossicità
acuta dell’atenololo nei confronti della specie di acqua dolce Daphnia Magna [8].
La zeolite Beta è dotata di una struttura cristallina altamente difettiva e di un’elevata area
superficiale; è stata scelta per questo lavoro in quanto le dimensioni dei pori sono superiori
rispetto alle dimensioni delle molecole di soluto.
Lo studio di adsorbimento è stato condotto utilizzando questi allumosilicati (tre zeoliti Beta,
con valori di SAR di 25, 38 e 360) come fase stazionaria per misure in batch, valutando anche
la cinetica dell’adsorbimento stesso, utile per capire se tali zeoliti possono trattenere questi
composti in tempi compatibili con quelli degli impianti di trattamento dei reflui. Tali studi di
cinetica hanno dimostrato che l’adsorbimento è abbastanza veloce.
I dati sperimentali sono stati interpolati utilizzando come equazione di isoterma quella derivata dal modello di Langmuir. Lo studio dell’adsorbimento è stato condotto anche concentrazioni inferiori (dell’ordine dei ppb anziché dei ppm) in modo da mimare le condizioni dei corpi
idrici. A concentrazioni così basse, l’isoterma ha un andamento lineare, la cui costante di adsorbimento risulta in buon accordo con il valore calcolato dai parametri dell’isoterma di Langmuir.
Per stimare l’influenza di pH e forza ionica sull’adsorbimento, le misure in batch sono state
effettuate sia in acqua MilliQ sia in soluzione salina (NaH2PO4 e NaCl) a diversi valori di pH.
463
b)
a)
Fig. 1 – Isoterme di adsorbimento del ketoprofene a) sulle Beta 25, 38 e 360 in acqua MQ, b) sulla Beta 25 in
acqua MQ e in fosfato 20mM+NaCl 4mM a pH 5.85.
Dalla Fig. 1a, si può notare che l’adsorbimento in acqua del ketoprofene (KTP) è simile sulle
zeoliti con SAR 25 e 38, mentre è inferiore per quella a SAR 360. La Fig. 1b mostra come
l’adsorbimento sulla Beta 25 diminuisca all’aumentare del pH: infatti tale comportamento è
molto più vistoso sulle zeoliti con minore SAR rispetto a quelle maggiormente idrofobiche [9].
b)
a)
Fig. 2 – Isoterme di adsorbimento dell’idroclorotiazide a) sulle Beta 25, 38 e 360 in acqua MQ, b) sulla Beta
25 in acqua MQ e in fosfato 20mM+ NaCl 4mM a pH 7.56.
Per l’idroclorotiazide (HCT) in acqua MQ, si ha un andamento simile a quello riscontrato per
il ketoprofene, ma con differenze più vistose tra le tre zeoliti (Fig. 2a). L’aggiunta di un sale non
causa effetti significativi sull’adsorbimento a pH compresi tra 5.5-8.5 [9], come nel caso raffigurato in Fig. 2b.
464
b)
a)
Fig. 3 – Isoterme di adsorbimento dell’atenololo a) sulle Beta 25 e 360 in acqua MQ, b) sulla Beta 360 in
acqua MQ e in fosfato 20mM+NaCl 4mM a pH 7.45 e 10.01.
Infine, anche l’atenololo (ATN) è maggiormente adsorbito sulla Beta SAR 25 rispetto alla più idrofobica SAR 360 in acqua MQ (Fig. 3a). Analogamente al caso del ketoprofene, l’adsorbimento
diminuisce leggermente all’aumentare del pH (Fig. 3b); in questo caso la variazione non è statisticamente significativa, probabilmente in quanto l’adsorbente è la più idrofobica Beta SAR 360 [9].
Fig. 4 – Rilascio di atenololo al variare del pH da parte della Beta SAR 25.
La Fig. 4 mostra il rilascio di atenololo al variare del pH da parte della Beta SAR 25 saturata
con il medesimo: si assiste ad un rilascio massivo del farmaco soltanto a pH estremamente acidi
e basici, mentre ciò non avviene nel range di pH delle acque natturali.
Fig. 5 – Capacità di saturazione dell’adsorbente in funzione della solubilità in acqua del soluto.
465
Come mostrato dalla Fig. 5, è stato riscontrato un aumento dell’adsorbimento in funzione
della solubilità in acqua; tale comportamento risulta più evidente sulla zeolite meno idrofobica
SAR 25. Ciò è stato confermato dalle analisi termogravimetriche, le quali hanno evidenziato
che le zeoliti utilizzate per questo lavoro, nonostante siano classificate come idrofobiche, hanno un contenuto di acqua di circa il 15% del loro peso.
3. Conclusioni
– Rispetto all’adsorbimento, che si è dimostrato veloce, i tre farmaci hanno mostrato un andamento diversificato rispetto al SAR della zeolite.
– La Beta SAR 25 è quella che si è dimostrata più efficiente nell’adsorbimento: ciò può essere
dovuto alla maggiore idrofilicità, alla maggiore acidità e alla maggiore capacità di scambio
cationico, meccanismo fondamentale dell’adsorbimento insieme alle più deboli interazioni idrofobiche.
– L’atenololo è il composto maggiormente adsorbito, probabilmente poiché rispetto agli altri
due analiti presenta maggiore solubilità in acqua, maggior carattere basico e maggiore flessibilità della struttura molecolare: ciò dimostra come l’adsorbimento dipenda dal carattere acido/
base e dalla solubilità in acqua del soluto.
– Si è assistito a variazioni significative dell’entità dell’adsorbimento soltanto a pH fortemente
acidi e basici
– Zeoliti classificate idrofobiche adsorbono sia il farmaco in soluzione acquosa sia molecole
d’acqua.
Bibliografia
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[3] J. L. Zhou, Z. L. Zhang, E. Banks, D. Grover, J. Q. Jiang; “Pharmaceutical residues in wastewater
treatment works effluents and their impact on receiving river water”; Journal of Hazardous Materials
166 (2009) 655–661;
[4] D. Calamari, E. Zuccato, S. Castiglioni, R. Bagnati, R. Fanelli; “Strategic Survey of Therapeutic
Drugs in the Rivers Po and Lambro in Northern Italy”; Environmental Science & Technology 2003, 37,
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[5] M. Gros, M. Petroviæ, A. Ginebreda, D. Barceló; “Removal of pharmaceuticals during wastewater
treatment and environmental risk assessment using hazard indexes”; Environment International 36 (2010)
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466
La sostenibilità d’impianti basati
sull’utilizzo di biomassa a fini energetici
e di bioraffinerie a sostegno di politiche
nazionali e regionali
Diego Marazza [email protected], Andrea Contin – Ciri Energia e Ambiente, Unità
Operativa Biomasse, Università di Bologna, Polo di Ravenna
Riassunto
Il lavoro riguarda uno schema di valutazione della produzione di energia da biomasse, le bioraffinerie e la loro valutazione secondo criteri di sostenibilità. Lo schema di valutazione proposto
contiene 4 requisiti soglia e 7 requisiti premianti. L’indicatore più importante risponde alla richiesta della direttiva 2009/28/CE (RED) relativa al risparmio di gas serra (GHG). Il lavoro evidenzia quali condizioni è necessario soddisfare per rispettare la soglia del 35% di risparmio di gas
serra.
Summary
This work concerns an assessment scheme of the biorefineries and the use of energy from biomass
according to sustainability criteria. The proposed assessment scheme considers 4 threshold requirements and 7 bonus requirements. The main requirement meet the standard of the Renewable Energy Directive 2009/28/CE (RED) concerning the green house gases (GHG)savings. According to
this standard the GHG saving shall be at least 35%. The work highlights those conditions occurring
along the production pathway which is necessary to control in order to fulfill the GHG criteria.
1. Introduzione
Nell’ambito dei programmi di sviluppo in Europa e in Italia l’impiego di biomasse per ottenere
energia, biocarburanti, biometano e prodotti chimici ad alto valore ha un posto sempre più
importante. Il piano nazionale delle rinnovabili (PAN) varato dal governo assegna alle bioenergie il compito di coprire quasi il 45% dei consumi energetici da rinnovabili entro il prossimo
decennio, tra elettricità, calore/raffrescamento e trasporti. Oltre a tali obiettivi si consolida lo
scenario tecnologico che vede nelle biomasse la base materiale per sostituire tutti i materiali e
le sostanze derivate dal petrolio, concetto espresso meglio nella definizione di bioraffineria [1].
Tutto questo avviene in un contesto in cui la normativa europea e nazionale è stata fortemente
rivista e modificata negli ultimi due anni nel campo degli incentivi e della regolamentazione dei
biocarburanti e del biometano (D.Lgs 28/2011). Anche alla luce delle possibili esternalità di
tipo ambientale quali ad esempio determinare in maniera indiretta il cambio d’uso del suolo
con effetti controproducenti dal punto di vista del bilancio dei gas serra (ILUC) [2] [3].
La spinta del mercato e degli operatori profondamente interessati richiede una capacità di
guida e gestione dei processi di sviluppo che tenga conto degli scenari tecnologici e di una
467
visione sostenibile della crescita. Da qui la necessità d’individuare principii, criteri e indicatori
per la valutazione della sostenibilità delle filiere energetiche basate sulla biomassa che possono
trovare applicazione in diversi ambiti.
Tali criteri potranno essere applicati nella potestà espressa dalle Regioni a livello dell’autorizzazione d’impianti e progetti che rispondono al D.lgs 387/2003 relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità
e al ruolo esercitato dalla regioni all’interno della conferenza unica prevista all’interno del
Decreto. Il campo di applicazione di questi studi e delle relative raccomandazioni si applica a
impianti e filiere volte alla produzione di:
2. Relazione
2.1 La valutazione di sostenibilità di filiere e impianti basati sull’utilizzo di biomassa
Fig. 1 – Lo schema dei criteri considerati nella valutazione in oggetto.
I criteri di sostenibilità generali considerati sono riferiti a concetti derivanti dalla, RED, dalla
Global Reporting Initiative [4] e dalle politiche di Europa 2020 [5]. Sulla base di questi criteri,
di metodi di valutazione e di schemi di certificazione applicati dalla Commissione Europea [6]
sono stati presi in considerazione un numero di criteri classificati come soglie e bonus da applicare nella fase di valutazione.
2.1.1 Soglie
Per soglia s’intende un requisito limitante la selezione di una determinata soluzione o progetto;
questo attributo determina il respingimento di un progetto o una richiesta di adeguamento.
Soglia GHG: adozione del requisito comunitario e da estendere ai settori non coperti dalla
RED che impone un risparmio di emissioni di gas serra (GHG) pari ad almeno al 35% rispetto
al tradizionale fonte energetica fossile da calcolare sul ciclo di vita secondo un metodo derivato
dal protocollo Biograce adattato alla situazione tipica media regionale.
468
Soglia biodiversità: adozione di restrizioni circa la provenienza della biomassa, segnatamente
per le biomasse provenienti da territorio extra-regionale, con estensione dei requisiti della
direttiva RED (art. 17.3) per le biomasse a uso energetico
Soglia efficienza territoriale: per tutti i processi riguardanti la produzione di biogas adottare il
criterio della distanza di 70km rispetto alla provenienza delle biomasse; utilizzazione di una
quota pari ad almeno il 20% di energia derivata da scarti e sottoprodotti per tutti gli altri tipi
d’impianto.
Soglia aria: creazione di requisiti specifici per impianti sotto la soglia di 1MWe
2.1.2 Bonus e requisiti addizionali
Per bonus s’intende una requisito premiante una determinata soluzione o progetto, non escludente a priori l’autorizzazione, ma che comporta la preferenza in una graduatoria o soluzioni
d’incentivo.
Fattibilità: approvazione d’impianti basati su business plan di lungo termine e soggetti proponenti dotati di un’adeguata governance che garantiscano un piano d’impiego tra i 10 e 30 anni,
conformemente alla dimensione dell’impianto e al valore degli incentivi raccolti.
Bonus efficienza: adozione di soglie di efficienza progressive, in relazione alla natura dell’impianto e alla distribuzione di servizi di pubblica utilità, come ad esempio il teleriscaldamento.
Bonus land efficiency
efficiency: un sistema che favorisca in maniera netta l’uso residuale delle lavorazioni (sottoprodotti e scarti), l’uso di terre incolte e marginali, la rotazione delle coltivazioni [7].
Bonus acqua: un sistema che favorisca prestazioni del 10% migliori rispetto all’impronta idrica (water footprint) media rispetto al tipo di coltura considerata [8]
Bonus bioraffineria: favorire le soluzioni di bioraffinerie che sfruttino il concetto dell’energy
cascading misurato attraverso il differenziale di entalpia di una determinata unità di prodotto
rispetto all’equivalente prodotto derivante dalla via petrolchimica; si applica in particolare per
gli impianti di produzione di biocarburanti, biomateriale e sostanze ad alto valore aggiunto.
Bonus innovazione: adozione di misure volte a favorire il contenuto d’innovazione degli impianti basati su biomassa e calcolate sulla base del livello tecnologico presente nel business
plan, dell’originalità tecnologica del progetto e della qualificazione del soggetto proponente.
2.2 Calcolo del risparmio delle emissioni di gas serra
La direttiva RED impone che le emissioni di gas ad effetto serra (GHG) relative a tutte le fasi
del processo necessario alla produzione di un biocombustibile (coltivazione, trasporto finale,
lavorazioni), siano inferiori rispetto al corrispondente combustibile convenzionale di riferimento come richiesto di almeno il 35%, secondo la seguente formula:
RISPARMIO GAS SERRA= (EF – EB)/EF
EB = totale delle emissioni derivanti dal biocarburante o altro bioliquido; e
EF = totale delle emissioni derivanti dal carburante fossile di riferimento.
Per effettuare questa valutazione si è utilizzato lo strumento Biograce offerto dal JRC, riconosciuto dalla Commissione Europea [9], basato sulla RED e sulla Decisione 2010/335/EU [10].
In accordo a tale metodo è stato calcolato il valore relativo all’olio di palma proveniente dell’area dell’Indonesia utilizzato per la produzione di energia elettrica in centrali presenti in
Regione Emilia-Romagna. Per la determinazione del valore sono stati utilizzati i valori standard disponibili, rappresentativi dei casi peggiori. Il valore varia in in considerazione delle
modalità di produzione e segnatamente nel caso di un cambiamento d’uso del suolo diretto.
Una rappresentazione delle principali variazioni è illustrata nella figura seguente.
469
Fig. 2 – Risparmio di gas serra di bioliquidi e biodiesel derivato da olio di palma di origine Indo-Malese
utilizzato in Regione Emilia-Romagna.
Nella figura è indicato il valore del risparmio di gas serra relativo ad alcuni scenari qui di
seguito descritti e le 3 soglie previste dalla direttiva 2009/28 (RED): soglia 2013 in cui tutti gli
impianti dovranno rispettare un valore di risparmio di gas serra pari al 35%, soglia 2017 pari al
50% e la soglia del 60% relativa a tutti gli impianti aperti dopo il 2017. Gli scenari da 1 a 8
compresi, sono stati ottenuti variando un parametro alla volta nell’algoritmo di calcolo attraverso il protocollo Biograce e sono qui di seguito descritti. Gli scenari 9 e 10 riportano il valore
indicato nell’allegato V della RED.
(1) valore standard calcolato secondo l’allegato V RED (2) presenza di un dispositivo di cattura del metano nella fase di spremitura (3) perdita di resa del raccolto del 20% (4) cambio uso
del suolo da foresta pluviale primaria con copertura della volta oltre il 30% a palma da olio (5)
cambio uso del suolo da foresta con copertura della volta compresa tra il 10-30% a piantagione
di palma da olio (6) cambio uso del suolo da riforestazione pluviale con copertura della volta di
non meno del 10% a palma da olio (7) cambio uso del suolo da riforestazione di foresta umida
con copertura della volta di non meno del 10% a palma da olio (8) cambio uso del suolo da
foresta umida con copertura della volta di non meno del 10% a palma da olio (9) biodiesel da
olio di palma (10) biodiesel da olio di palma – processo con cattura di metano all’oleificio.
I risultati mostrano che non è utilizzabile bioliquido derivante da piantagioni che hanno sostituito foresta vergine con una densità, misurata in estensione spaziale della copertura delle
volte, superiore al 30%. Questa evenienza non si verifica utilizzando partite di merce certificata secondo lo standard RSPO. L’uso della tecnologia con processo di cattura di metano relativo
alle acque di lavorazione nell’oleificio, particolarmente inquinanti, permette di aumentare notevolmente l’efficienza del processo. Relativamente ai punti 1-8 della figura, si noti che la Direttiva ha assegnato un valore di riferimento EF circa i bioliquidi utilizzati per la produzione di
elettricità pari 91 gCO2eq/MJ. Il sistema di calcolo considera anche una gestione agricola migliorata e un bonus di 29 gCO2eq/MJ da sottrarre al valore EB nel caso di coltivazione di biomasse su terreni abbandonati o terre pesantemente contaminate.
470
3. Conclusioni
La sostenibilità d’impianti basati su filiere a biomassa per fini energetici e di bioraffinerie è
stata indagata ai fini di applicazioni di politiche territoriali. Considerando i diversi aspetti legati ai piani industriali, all’ambiente e all’inclusione sociale è stato ricavato uno schema di lavoro
basato su soglie e bonus. In particolare l’applicazione dell’indicatore risparmio di gas serra ha
permesso di evidenziare che uno strumento di calcolo, basato sul concetto del life-cycle thinking
e adattato per un uso specifico può aiutare gli operatori di mercato a orientarsi su partite di
merce proveniente da suoli adeguati e con tecnologie di produzione a impatto ambientale più
basso delle tecnologie convenzionali.
L’applicazione dei requisiti individuati e il calcolo individuato sono in fase di studio relativamente alla produzione di energia da biomassa, al biogas e al biometano.
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[3] RAPPORTO della COMMISSIONE “on indirect land-use change related to biofuels and bioliquids”:la
COMMISSIONE prende atto delle possibili ricadute negative in termini di emissioni di gas serra associate ai biocombustibili; e delle criticità/incertezze nella stima di tali emissioni, e della possibilità di
dover emendare le due Direttive (2009/28/CE e 98/70/CE) legate ai biocarburanti;
[4] http://www.globalreporting.org/;
[5] COM(2010)2020 COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE: EUROPA 2020 Una strategia
per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva;
[6] http://ec.europa.eu/energy/renewables/biofuels/sustainability_criteria_en.htm;
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[10] Decisione 2010/335/EU 2010 on guidelines for the calculation of land carbon stocks for the purpose of Annex V to Directive 2009/28/EC.
471
Decontaminazione di fanghi da soil
washing contaminati da idrocarburi
mediante Elettro-Fenton
Giombattista Traina [email protected], Giuseppe Persano Adorno, Armando Ciccione,
Oscar Filippini, Sara Neri – Istituto Giordano S.p.A, Bellaria, Rimini
Luciano Morselli, Ivano Vassura, Silvia Boneschi – Università di Bologna, Facoltà di Chimica
Polo di Rimini
Riassunto
Il presente lavoro ha come scopo lo sviluppo di una tecnologia elettrochimica di bonifica per
matrici contaminate da idrocarburi chiamata Elettro Fenton, che consiste nell’impiego di una
corrente elettrica, di perossido di idrogeno e di un anodo in ferro al fine di generare radicali OH
in grado di ossidare le catene idrocarburiche. Per le prove di decontaminazione, è stato utilizzato
fango non filtro pressato risultante dal processo di soil washing, contaminato con circa 1000 mg/
kg di gasolio. Per lo sviluppo della tecnologia sono state svolte delle prove di laboratorio presso
l’istituto Giordano di Bellaria (RN), con reattori in grado di trattare prima 1 kg/h di campione in
continuo, per comprendere le migliori condizioni operative, e successivamente 5- 6 kg/h con lo
scale up del reattore elettrochimico. Mantenendo le migliori condizioni operative individuate,
sono state svolte diverse prove, più di 50, che hanno permesso di raggiungere abbattimenti della
concentrazione totale di idrocarburi sempre intorno al 60% circa.
Summary
The paper describes the development of a new electrochemical treatment, called Electro-Fenton,
for the decontamination of industrial sewage polluted by hydrocarbons. This technique of treatment generates Hydroxyl Radicals from H2O2, electric current and sacrificial snodes made from
iron, in order to oxidize hydrocarbons in sewage. These wastes are produced by a soil washing
plant, that treats contaminated soil. Two different reactors were designed at Istituto Giordano,
operating in continuous mode; the first being projected to treat 1 kg/h, whilst the second up to 56 Kg/h. In order to reach the best removal of 60 %, more than 50 tests were carried out, modifying the electrode configuration, H2O2 concentrations, current and voltage, distance between
electrodes and duration of treatment.
1. Introduzione
L’esigenza di superare i limiti applicativi delle tecnologie convenzionali di bonifica in situ dei
terreni, legati alla mobilizzazione/rimozione dei contaminanti, alla bassa permeabilità e all’eterogeneità delle matrici contaminate, ha portato, negli ultimi anni, ad un sempre maggiore interesse verso il campo delle applicazioni elettrochimiche. Una delle tecnologie che sono state
recentemente sviluppate per la decontaminazione da inquinanti organici di acque di scarico
reflui industriali, percolato di discarica, fanghi e terreni [1-6] è l’Elettro Fenton, processo che
472
prevede la loro degradazione per mezzo del radicale ossidrile prodotto dalla reazione (1), che
avviene quando perossido di idrogeno e ione ferroso entrano in contatto nel mezzo inquinato.
Fe2++ H2O2 → Fe3++ OH-+ OH •.
(1)
Il radicale OH? possiede un’attività ossidante di tipo non selettivo, dunque è in grado di reagire con la maggior parte degli inquinanti organici, dando luogo ad una reazione a catena che
porta alla loro progressiva degradazione. Uno dei modi per innescare il processo di Elettro
Fenton, è quello di aggiungere il perossido di idrogeno dall’esterno, mentre un anodo sacrificale in ferro è impiegato per la produzione di Fe2+, promossa dal passaggio di una certa intensità di corrente tra l’anodo stesso ed un catodo. Affinché la reazione (1) si verifichi, è necessario
che il mezzo da trattare presenti un pH acido compreso tra 3 e 5, che si ottiene grazie alla reazione
di elettrolisi dell’acqua nelle zone prossime all’anodo.
La reazione (1), inoltre, non è l’unica che comporta la produzione di radicali. Anche le seguenti
reazioni [7], quando si verificano nella matrice contaminata, sono utili per generare ossidanti:
Fe3+ + H2O2 ⇒ Fe2+ + HO2• + H+
(2)
HO2• + Fe3+ ⇒ O2 + H+ + Fe2+
(3)
HO2• ⇔ O2-• + H+
(4)
Il processo di Fenton, però, può essere ostacolato dalle reazioni secondarie indesiderate [8]
che comportano un consumo improduttivo dei reagenti utili alla degradazione:
OH•+ Fe2+ ⇒ Fe3+ + OH-
(5)
OH•+H2O2 ⇒ HO2• + H2O
(6)
H2O2 ⇔ H2O + ½ O2
(7)
Per la buona riuscita del trattamento, oltre a minimizzare la precipitazione dello ione ferroso
come idrossido (Fe(OH)3) o come ossido di ferro idrato (Fe2O3*nH2O) è fondamentale controllare la temperatura che il sistema raggiunge durante la reazione esotermica. È necessario
fare in modo che essa non superi i 50-60°C perché, se si sviluppa troppo calore, il perossido
tende a decomporsi in acqua ed ossigeno secondo la reazione secondaria indesiderata 7. Inoltre, evidenze sperimentali hanno dimostrato che la rigenerazione di Fe2+ è favorita passando da
10°C a 46°C, con una percentuale che può crescere da un 48% ad un 80% [9].
2. Relazione
2.1 Ottimizzazione delle condizioni operative: prove svolte su 1 kg/h di campione
Le prove di decontaminazione, sono state effettuate su campioni di fango non filtro-pressato,
in forma di sospensione, risultante dal processo di soil washing attuato presso Petroltecnica
Spa di Cerasolo (RN) e contaminato in laboratorio con 1000 mg/kg di gasolio. Nonostante la
criticità del processo di soil washing, sia proprio il recupero e la decontaminazione di tali
fanghi, durante il periodo delle prove, le terre che venivano trattate presentavano scarse concentrazioni di inquinanti e di conseguenza il fango di risulta rispettava spesso i requisiti ambientali per il riutilizzo. Per valutare però la possibilità di decontaminare questi rifiuti, si è
sempre aggiunto in laboratorio una quantità nota di gasolio, per arrivare a concentrazioni nel
473
fango di circa 1000 ppm. Ciascuna prova è stata condotta in un reattore messo a punto nel
laboratorio chimico dell’Istituto Giordano spa di Bellaria (RN), costituito da una vasca in
grado di trattare circa 1 kg/h di fango (Fig.1). Gli elettrodi, erano in ferro, l’anodo una piastra
posizionata sul fondo del reattore, mentre il catodo un filo ripiegato su se stesso. I test sono
stati svolti in continuo, ossia è stato aggiunto nel reattore del fango tal quale non trattato prelevato da un serbatoio mentre, in contemporanea, il campione sottoposto alla reazione veniva
asportato da esso ed accumulato in un serbatoio di raccolta. La portata di fango in ingresso ed
in uscita, pari a circa 1 kg/h in tutte le prove, era garantita da due pompe peristaltiche.
Fig. 1 – Reattore per le prove effettuate per ottimizzare le condizioni operative.
Ciascuna prova sperimentale era caratterizzata da due fasi:
– Fase Statica in cui il campione, sotto agitazione, è sottoposto a passaggio di corrente elettrica
tra gli elettrodi orientati orizzontalmente l’uno rispetto all’altro per la formazione di ioni Fe2+
e per il raggiungimento di condizioni di pH acido favorevoli alla reazione. La distanza tra gli
elettrodi è di 4 cm.
– Fase Dinamica, in cui si verificano, in contemporanea, l’immissione ed estrazione del fango, il passaggio di corrente tra i due elettrodi e l’immissione di perossido di idrogeno. Si
innescano così le reazioni di produzione del radicale ossidrile e di ossidazione degli inquinanti organici.
La durata di ciascuna fase è pari a 60 minuti e la corrente applicata tra gli elettrodi è 1A.
Per quanto riguarda invece il perossido di idrogeno, la sua quantità è stata variata nel corso
delle prove in vista di un’ottimizzazione del bilancio costi-abbattimento. Inoltre, è stato studiato come varia l’abbattimento a seconda del tipo di alimentazione, ovvero in continuo o in
discontinuo, e introducendo il reagente per un secondo e interrompendo il suo ingresso del
reattore per 2 secondi (1sON/2sOFF). Successivamente, è stata valutata la modalità ottimale
di immissione di H2O2 con l’impiego di un diffusore a forma di croce posizionato sulla superficie dell’anodo sacrificale e fori di uscita del reagente orientati verso l’anodo stesso o lateralmente. L’utilizzo del diffusore è stato poi confrontato con l’alimentazione diretta sull’anodo
per mezzo di un tubo in silicone. Infine, per stabilire se l’aumento del tempo di residenza del
fango nel reattore portava ad un aumento della degradazione, sono state svolte delle prove
alimentando campione in continuo o in modalità 1sON/2sOFF.
474
2.2 Risultati ottenuti con 1kg/h di campione
Considerando l’alimentazione del perossido di idrogeno, è stato possibile affermare che la sua
introduzione nel reattore in maniera 1sON/2sOFF è l’ipotesi migliore, in quanto, da due test
identici, è emerso che si ottiene una decontaminazione del 54% contro il 39,4% con alimentazione in continuo, in quanto, a parità di condizioni, l’eccesso di tale reagente dovuto all’assenza di interruzioni nella sua immissione, viene sottratto da parte di reazioni parassite al processo
di formazione di radicali ossidrilici. Variando la quantità di perossido introdotta dal 2% al 6%
in peso rispetto al fango trattato si nota che è sufficiente immettere in modalità 1sON/2s OFF
un 2% di reagente per ottenere un abbattimento superiore al 50% (Fig.2)
Fig. 2 – Abbattimento di idrocarburi in funzione della percentuale di H2O2.
L’introduzione nel reattore di una concentrazione superiore al 2% di perossido d’idrogeno
comporta un peggioramento della decontaminazione del campione probabilmente, a causa
all’innescarsi di reazioni parassite, che lo consumano rendendolo meno disponibile per reagire
con lo ione Fe2+. Invece, considerando il tipo di immissione nel reattore, è emerso che la croce
di distribuzione con fori laterali non alimenta in maniera efficace il perossido nel reattore,
portando ad abbattimenti inferiori al 10%. La croce di distribuzione con fori rivolti verso
l’anodo sacrificale risulta invece essere la configurazione ottimale per l’immissione del perossido di idrogeno. La percentuale di degradazione è maggiore rispetto a quella che si ottiene con
l’immissione diretta sull’elettrodo tramite tubo in silicone (Fig.3).
Il raggiungimento di una maggior decontaminazione si osserva anche introducendo fango tal
quale ed aspirando campione trattato dal fondo del reattore secondo la modalità 1sON/1sOFF
(Fig.4). Un maggior tempo di residenza del fango all’interno del reattore ha dunque favorito il
protrarsi dell’azione dell’H2O2 e di tutte le reazioni favorevoli alla decontaminazione del processo di Fenton.
475
Fig. 3 – Abbattimento di idrocarburi in funzione della modalità di alimentazione di H2O2.
Fig. 4 – Abbattimento di idrocarburi in funzione della modalità di aspirazione del fango.
2.3 Prove in continuo con 5 kg/h di fango: sviluppo di un nuovo impianto di trattamento
Dopo aver condotto la prima serie di prove Elettro-Fenton, la sperimentazione è continuata
eseguendo uno scale-up del reattore in modo da poter trattare 5 kg/h ed infine 6,2 kg/h di
fango. La nuova configurazione impiantistica tiene conto delle migliori condizioni operative
evidenziate dai test svolti durante la prima fase del lavoro e lo schema dell’impianto progettato è riportato in Fig.5. Il rettore è costituito da una vasca in materiale plastico grande a
sufficienza per contenere fino a 10 kg di fango; in esso sono state installate due coppie di
elettrodi in ferro posizionati orizzontalmente l’uno rispetto all’altro. La prima coppia è costituita da una piastra che funge da anodo posizionata sul fondo del reattore stesso che si
estende per tutta la sua lunghezza e da un catodo formato da un filo di acciaio ripiegato, che
possiede la stessa lunghezza dell’anodo. La seconda, invece, comprende un altro anodo
montato con una leggera inclinazione rispetto alla direzione orizzontale, avente una lun-
476
ghezza pari alla metà rispetto a quello collocato alla base della vasca ed un catodo con la
stessa configurazione del precedente. In entrambe le coppie, la distanza tra gli elettrodi è di
4 cm. Per quanto riguarda la distribuzione del perossido di idrogeno, esso è alimentato da
tubi rigidi Rilsan collocati sulla superficie dei due anodi. In particolare, sono presenti tre
tubi sull’anodo più grande ed uno sopra il più piccolo, i quali si estendono da un capo
all’altro delle piastre; ogni tubo, inoltre, presenta tre fori orientati verso la superficie dell’elettrodo da cui fuoriesce H2O2. L’acqua ossigenta giunge a ciascun Rilsan per mezzo di
tubi in silicone collegati a quattro pompe peristaltiche che funzionano in modalità 1sON/
1sOFF. Il fango, durante la reazione, viene mantenuto in leggera agitazione mediante l’impiego di un agitatore a paletta leggermente inclinato; anche il reattore è inclinato di qualche
grado. La portata di fango in ingresso ed in uscita deve essere identica ed è garantita da due
pompe peristaltiche funzionanti in modalità 1s ON/1s OFF. Il tubo che porta il fango da un
serbatoio di accumulo al reattore, viene posizionato in modo tale da consentirne l’ingresso
nella zona al di sopra dell’anodo più piccolo; invece, la sospensione è aspirata verso un
secondo serbatoio di accumulo da un tubo che viene fissato in modo tale che la sua estremità
di prelievo risulti collocata in corrispondenza del lato corto dell’anodo sul fondo del reattore. Il movimento dell’agitatore in senso antiorario spinge il fango alimentato verso l’anodo
inferiore creando così un percorso preferenziale.
Con 5 kg/h di fango sono state svolte anche delle prove con un nuovo impianto che ha
conservato la medesima configurazione riportata nello schema in Fig. 5, ma caratterizzato da
un reattore in cui sono state apportate alcune modifiche negli anodi e nella posizione del
tubo di aspirazione del fango in uscita. In particolare, i due blocchi di ferro sono stati sostituiti con una rete sempre in ferro, avente maglie di circa 4 mm di ampiezza. Entrambi gli
anodi hanno una lunghezza pari a quella del reattore ed uno è collocato sul suo fondo, mentre l’altro è fissato ad una distanza di circa 10 cm dal precedente. L’elettrodo superiore non
presenta alcuna inclinazione. Il canale adibito al pescaggio del fango in uscita è posizionato
al di sotto dell’anodo situato sul fondo della vasca e si trova in contatto con esso, in modo da
riuscire a campionare il fango che si è depositato subito al di sotto; l’estremità del tubo si
estende fino alla parte centrale del reattore. La scelta di usare elettrodi forati è dipesa dal
fatto che con il sistema precedente, non si erano ottenuti risultati confortanti, verificando
inoltre che il pH del fango in uscita era basico, contrariamente a quanto ci si aspettava.
Difatti, come precedentemente discusso, l’idea è quella di creare una zona circoscritta in cui
far avvenire le reazioni di Fenton, nei pressi dell’anodo, dove il pH sarebbe dovuto essere
acido o neutro. L’aumento di pH del fango in uscita ha fatto presupporre che il pescaggio
avveniva in zone sbagliate, se non vicine al catodo, senza dunque reagire come ipotizzato.
Modificando dunque la configurazione dell’anodo, con una maglia forata, e il sistema di
pescaggio direttamente al di sotto di questa, si campionava per forza del fango che era stato
in contatto con i reagenti di Fenton. Inoltre, la presenza di maglie nell’elettrodo consentiva
un aumento della superficie di contatto con la sospensione stessa. Le prove sono state svolte
immettendo una concentrazione variabile di perossido, tra 5% e 2% rispetto al peso del
campione trattato durante tutto il processo, applicando tra la coppia di elettrodi superiori
una corrente costante e pari ad 1 A e una tensione di circa 14-18 V, mentre tra la coppia di
elettrodi inferiori una tensione di 18 V e una corrente di circa 2-3 A. Prima dell’inizio della
fase dinamica, corrispondente all’introduzione ed il prelievo in continuo di fango, in ogni
test è stato alimentato perossido di idrogeno per 15 minuti.
477
Fig. 5 – Schema dell’impianto per condurre prove con 5 kg/h di fango.
Le prove svolte in questa fase di sperimentazione consistono in test in cui, più fasi statiche si
alternano a più fasi dinamiche, al fine di accumulare, durante le fasi statiche, nel reattore del
nuovo Fe2+ che sarà quindi disponibile per reagire con il perossido nella successiva fase dinamica.
2.4 Risultati ottenuti con 5kg/h di fango
Tra tutte le prove svolte, quelle più significative, portate avanti con il reattore avente gli anodi a
forma di piastra in ferro, sono riassunte, insieme ai relativi abbattimenti, nella tabella che segue.
ABBATTIMENTO %
Prov
a
1
2
CONDIZIONI
FINE 1° FASE
DINAMICA
FINE 2°
FASE
DINAMICA
FINE 3° FASE
DINAMICA
56,7
35,0
10,9
42,5
43,2
(43,4 dopo 30
min)
/
H2O2 5,39 %, 1°FS 60 min 1° FD 90
min 2°FS 30 min 2° FD 90 min 3°FS
30 min 2° FD 60 min
Campionamento per aspirazione del
fango dal fondo del reattore
H2O2 5,46 %, 1°FS 60 min 1° FD 90
min 2°FS 60 min 2° FD 60 min
Campionamento per aspirazione del
fango dal fondo del reattore
(segue)
478
ABBATTIMENTO %
Prov
a
CONDIZIONI
3
H2O2 5,75 %, 1°FS 60 min 1° FD 90
min 2°FS 60 min 2° FD 60 min
Campionamento per aspirazione del
fango dal fondo del reattore
4
H2O2 4,74 %, batch, 6401 g fango,
FS 120 min FD 90 min
Campionamento per aspirazione del
fango dal fondo del reattore
5
H2O2 4,80 %, batch, 6434 g fango,
FS 120 min FD 90 min
Campionamento per aspirazione del
fango dal fondo del reattore
6
H2O2 2,72 %, batch, 6085 g fango,
FS 120 min FD 90 min
Prelievo del campione dopo aver
tenuto in agitazione tutto il fango
accumulato in uscita a fine prova
FINE 1° FASE
DINAMICA
31,3
52,0
(41,0 dopo 30
min,
71,3 dopo 60
min)
75,9
(26,5dopo 30
min,
63,2 dopo 60
min)
32,3
FINE 2°
FASE
DINAMICA
FINE 3° FASE
DINAMICA
16,9
(27,9 dopo 30
min)
/
/
/
/
/
/
/
Tab. 1 – Risultati ottenuti con il reattore avente come anodi delle piastre di ferro.
Per quanto riguarda le prove in continuo 1, 2, 3, solo la 2 ha una percentuale di degradazione
costante nel tempo, che è l’obiettivo da raggiungere. Nelle prove 1 e 3, invece, dopo un’ora di
fase dinamica in cui l’abbattimento è migliore, si verifica un decremento che equivale, al termine della seconda fase dinamica, a quasi la metà del valore che si registra dopo un’ora di trattamento. Nel caso della prova 1, la quale comprende anche una terza fase dinamica, il grado di
abbattimento diminuisce di circa 5 volte al termine del processo. Questo calo di efficienza era
probabilmente dovuto alla configurazione stessa del reattore di prova, che come detto in precedenza non consentiva l’instaurarsi delle reazioni di fenton nei punti di progetto, analizzando
il pH del fango in uscita, si era notato un incremento del pH non previsto, invece di una
diminuzione.
Considerando ora il reattore con anodi in forma di maglia di ferro, le prove in continuo su 5
kg/h di fango più significative con i relativi risultati sono elencate in Tabella 2.
ABBATTIMENTO %
Prova
1
CONDIZIONI
FINE FASE DINAMICA
H2O2 5,99 %, 5 kg/h di fango, FS 120 min FD
90 min
Campionamento per aspirazione del fango dal
fondo del reattore
k hd f
479
51,8
(51,0 dopo 30 min,
51,6 dopo 60 min)
(segue)
ABBATTIMENTO %
Prova
2
CONDIZIONI
H2O2 3,10 %, 5 kg/h di fango, FS 120 min FD
90 min
Prelievo del campione dopo aver tenuto in
agitazione tutto il fango accumulato in uscita a
fine prova
FINE FASE DINAMICA
61,40
Tab. 2 – Risultati ottenuti con il reattore avente come anodi delle maglie di ferro.
La prova 1, svolta campionando il fango per aspirazione dal fondo del reattore a tempi prestabiliti (dopo 30, 60 e 90 minuti di Fenton), mostra un buon risultato, in quanto la concentrazione di idrocarburi iniziale (circa 1000 mg/kg), è dimezzata e la percentuale di abbattimento si è
mantenuta costante durante tutta la durata del processo. Nelle altre prove, si riporta per esempio solo la 2, il prelievo della sospensione per l’estrazione e l’analisi è stato effettuato dopo aver
mantenuto in agitazione tutto il fango in uscita dal reattore durante il trattamento. Il risultato
migliore si ha comunque nei test con quantità inferiore di perossido, pari a circa 3 %. Anche
aumentando la scala, sembra confermato che l’eccesso di H2O2 dia luogo a reazioni secondarie
indesiderate che contribuiscono negativamente allo sviluppo delle reazioni di Fenton.
3. Conclusioni
Le prove di laboratorio preliminari su 1 kg/h di fango proveniente dall’impianto di soil washing
della ditta Petroltecnica spa (RN), hanno permesso di comprendere che le migliori condizioni
operative per la tecnologia Elettro-Fenton sono le seguenti: alimentazione del fango e di perossido di idrogeno in modalità 1sON/2sOFF, concentrazione di H2O2 ottimale del 2% in peso
rispetto al peso di fango trattato e sua introduzione nel reattore per mezzo di una croce di
distribuzione con fori di alimentazione orientati verso l’anodo. La seconda fase della sperimentazione, avviata dopo aver assemblato un nuovo reattore in grado di contenere fino a 10 kg
di fango e di trattarne 5 kg/h in continuo, è partita, nel caso di anodi costituiti da piastre in
ferro, da una serie di prove lunghe con più fasi statiche e dinamiche alternate. Il migliore
risultato ottenuto e costante nel tempo è una degradazione del 43% circa. Sostituendo le piastre in ferro con maglie in ferro, l’aumento di superficie di contatto tra i due anodi ed il fango
consente di migliorare ulteriormente gli abbattimenti, che, dopo 90 minuti di reazione raggiungono un buon 62%. Infine, considerazioni sull’aspetto economico del processo, hanno
permesso di poter affermare che la maggiore influenza sul costo totale del trattamento per
tonnellata di fango è esercitata dal costo del perossido di idrogeno, pari a circa 12 - per tonnellata. Il costo della corrente elettrica incide meno, attestandosi su valori prossimi a 3 -/t.
Ulteriori ottimizzazioni del sistema di trattamento, specie nel sistema di diffusione del perossido sull’anodo, potrebbero migliorare le prestazioni di bonifica, mentre sistemi di produzioni
elettrochimiche del perossido, per diffusione di ossigeno su catodi specifici, potrebbero limitare i costi complessivi del trattamento.
Ringraziamenti
Le attività di ricerca sono state co-finanziate nell’ambito del (POR FESR) Programma Operativo Regionale del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale 2007-2013 – Costruiamo insieme il futuro.
480
Bibliografia
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Agric Food Chem 42 1 (1994), pp. 209–215;
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treatment”. Environ Sci Technol 35 (2001), pp. 4509–4514;
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acqueous solution: mechanism and kinetic modeling”, Environmental Science Technology, 1999, 33 (16),
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[9] Z. Qiang, J.H. Chang, C.P. Huang, “Electrochemical regeneration of Fe2+ in Fenton oxidation processes”, Water Research, 37, 1308 (2003).
481
Analisi LCA di un processo di cromatura
tradizionale
Anna Maria Ferrari [email protected], Luisa Barbieri, Rita Gamberoni, Bianca
Rimini – Università di Modena e Reggio Emilia
Paolo Neri – LCA-Lab s.r.l., Bologna
Martina Pini – En&Tech, Laboratorio di Ricerca Industriale, Reggio Emilia
Riassunto
Il Life Cycle Assessment, (LCA) è uno strumento che permette di valutare i carichi ambientali
associati ad un prodotto, processo o servizio, identificando e quantificando i consumi di materia,
energia e le emissioni nell’ambiente. Attraverso uno studio LCA è possibile individuare le fasi in
cui si concentrano maggiormente le criticità ambientali di un processo produttivo e le informazioni necessarie per realizzare gli interventi di miglioramento. L’obiettivo del presente studio è la
valutazione del danno ambientale creato da un processo di cromatura dura a spessore allo scopo di
individuarne i punti critici e proporre le soluzioni attuabili sul processo per ridurne l’impatto
ambientale.
Summary
Life-Cycle Assessment (LCA) has been recognized as a valuable tool to investigate the environmental load of products as well as processes and services by evaluating energy, water and materials usage and environmental releases. On the basis of an LCA analysis it is possible to point out
the critical stages of the life cycle and to improve the environmental performance of the investigated system. This research aims to evaluate the life cycle impact of a hard chrome plating process in
order to identify the criticalities and to provide alternative solutions for reducing the environmental loads.
1. Introduzione
I processi di produzione industriale influenzano in modo rilevante l’impatto ambientale realizzato dai differenti prodotti durante il loro ciclo di vita. necessità della riduzione del peso ambientale di tali processi ha occupato in questi ultimi anni un ruolo preminente nelle politiche di
ricerca industriale. Si è assistito allo sviluppo di una cultura più ampia ed alternativa rispetto a
quella che ha supportato il tradizionale modello di sviluppo industriale, vale a dire una cultura
che pensa alla produzione industriale nell’ottica del concetto di sviluppo sostenibile, i cui obiettivi
fondamentali sono la conservazione delle risorse naturali e la minimizzazione degli effetti delle
attività antropiche sull’ambiente. L’analisi del ciclo di vita (Life Cycle Assessment – LCA)
gioca un ruolo strategico nella selezione dei processi di trasformazione sostenibile.[1] L’LCA è
infatti un’analisi sistematica che valuta gli impatti ambientali associati alle varie fasi del ciclo di
vita di un prodotto o di un processo, nella prospettiva di un loro miglioramento ambientale.
482
Lo studio ha avuto come oggetto l’analisi LCA di un processo di cromatura dura a spessore
allo scopo di individuarne i punti critici e di proporre le soluzioni attuabili per ridurne l’impatto ambientale.L’elettrodeposizione è una tecnologia che realizza il ricoprimento di una superficie metallica, senza modificarne la forma, con uno strato aderente e compatto di un metallo
nobile, allo scopo di proteggere e incrementare la funzionalità di oggetti o parti di componenti
utilizzati in diversi campi industriali quali il settore automobilistico, aerospaziale, elettronico e
idraulico per applicazioni decorative e ingegneristiche.[2, 3] La cromatura dura a spessore
viene effettuata allo scopo di aumentare determinate proprietà chimiche e fisiche dei componenti sottoposti al trattamento. Le caratteristiche peculiari per le applicazioni industriali sono
la resistenza all’usura abrasiva ed erosiva, all’ossidazione a caldo e il basso valore di coefficiente di attrito. I depositi di cromo duro hanno la funzione di ripristinare le dimensioni di pezzi
che hanno subito usura e di incrementare le proprietà meccaniche del substrato piuttosto che
favorirne l’aspetto estetico.
2. Relazione
2.1 Definizione dell’obiettivo e del campo di applicazione
Obiettivo dello studio è la valutazione del danno ambientale relativo a un processo tradizionale di elettrodeposizione di cromo effettuato presso un’azienda leader nel settore dei processi di
cromatura. L’analisi è stata condotta utilizzando come strumento operativo il codice di calcolo
SimaPro 7.0 sviluppato dalla Prè (Product Ecology Consultants, NL) e facendo la valutazione
dell’impatto ambientale con il metodo Impact 2002+.[4,5] L’unità funzionale è 1 cm2di superficie lavorata. Sono stati stabiliti i confini del sistema da studiare secondo un approccio “dalla
culla alla tomba”. All’interno di tali confini sono state considerate le strutture e i macchinari
utilizzati per l’estrazione delle materie prime, i trasporti e il processo produttivo. L’utilizzo di
macchinari e infrastrutture, e quindi il consumo di materie prime ed energia e le emissioni di
inquinanti associate alla loro produzione, mantenimento e fine vita sono state incluse nel presente studio.
2.2 Analisi di inventario
Il diagramma di flusso del processo di cromatura è riportato in Figura 1.
Dato l’alto consumo di energia elettrica, l’azienda ha ritenuto opportuno proprio impatto
sull’ambiente provvedendo all’acquisto di energia elettrica con certificazione R.E.C.S. (energia prodotta esclusivamente da fonti rinnovabili), a dal consorzio Multiutility.La gestione
delle acque reflue è un aspetto critico del processo di cromatura poiché rappresenta una
fonte di composti di cromo altamente dannosi per l’uomo e l’ambiente. L’impianto in
esame non scarica acque reflue industriali: le acque dai lavaggi vengono riutilizzate, previa
depurazione, per il 100% nei lavaggi all’interno dell’impianto.Il trattamento di depurazione è realizzato tramite un impianto di ricircolo delle acque di lavaggio su letti a resine
selettive.
483
Fig. 1 – Flow chart del processo di cromatura.
2.3 Valutazione di impatto ambientale
La valutazione del danno ambientale è stata effettuata utilizzando il metodo IMPACT 2002+
opportunamente modificato per garantire una maggiore rappresentatività del sistema studiato.
In particolare è stata aggiunta l’acqua nella categoria Minerali, si è introdotto il Particolato
(>10µm), l’argento nella categoria Risorse e nell’utilizzo del territorio è stata aggiunta la fase di
trasformazione.
In Tabella 1 sono riportati i risultati ottenuti dalla fase di LCIA. Il danno nella categoria Human Health è dovuto agli effetti delle emissioni inorganiche (77.7%) causate per il 33.6% da
SO2, per il 16.4% da NOx, per il 12.8% dal Particolato ( > 2.5µm e < 10µm) e dovute alla
produzione di energia elettrica. Il processo che genera il danno massimo è il consumo di energia elettrica rinnovabile (1.71E-8 DALY per il 31.4%).
484
Ciclo di vita del processo di cromatura
Human Health (DALY)
5.44.10-8
Ecosystem Quality (PDF.m2.yr)
2.08.10-2
Climate change (kg CO2 (eq))
0.045
Resources (MJprimary)
0.757
1.87.10-5
Weighting (Pt)
Tab. 1 – Caratterizzazione e valutazione del ciclo di vita.
La categoria di impatto che provoca il danno maggiore in Ecosystem Quality è l’ecotossicità terrestre (0.0136 PDF*m2*yr). Il danno è dovuto per il 25.3% all’emissione di zinco
aria e per il 21.3% alle emissioni di alluminio in acqua (131mg) causate dalla produzione
degli impianti e delle infrastrutture utilizzate nel processo di cromatura. Il processo che
provoca il maggiore impatto è il consumo di energia elettrica rinnovabile (0.00812
PDF*m2*yr per il 39%).
Il danno in Climate Change è dovuto all’emissione di 0.045 kg CO2(eq)dovuto per il 55.9%
all’emissione di CO2 aria (per il 46% causato dall’utilizzo di anidride cromica) e per il 40.2%
alla emissione di CO2fossile e biogenica (18.1g) (per il 48.9% dovuto al consumo di energia
rinnovabile e, in particolare a Electricity solar power plant PHALK 500). Tale valore tiene conto
del contributo dovuto ai certificati che l’azienda ha acquistato per il recupero della CO2 per il
consumo di energia termica.
In Resources, il danno è dovuto principalmente alla categoria di impatto Energia non rinnovabile (0.749 MJ primary) a causa del consumo di gas naturale (31.5%), di carbone (16.6%), di
petrolio (13.2%) e di uranio (10.2%) nei processi di fornitura dell’energia. Il danno totale vale
1.87E-5 Pt dovuto per il 41% a Human Health, per l’8.11% a Ecosystem Quality, per il 24.3%
a Climate Change e per il 26.6% a Resources.
Il consumo di energia elettrica rinnovabile unitamente a quello di anidride cromica sono i
principali responsabili dell’impatto ambientale del processo di cromatura dura contribuendo
al danno totale rispettivamente per il 27.6% e il 20.1%.
Dato l’elevato contributo dell’utilizzo di energia elettrica impiegata durante il processo
galvanico, è stata condotta un’analisi di sensibilità per quantificare la riduzione del danno
ambientale di un processo di cromatura effettuato con energia rinnovabile rispetto all’utilizzo di energia elettrica non rinnovabile. In Figura 2 è riportato il diagramma della valutazione del confronto di un processo di cromatura condotto con energia rinnovabile e non
rinnovabile.
485
Fig. 2 – Confronto tra un processo di cromatura effettuato con energia rinnovabile e non rinnovabile.
Dall’analisi dei risultati si nota che il danno totale aumenta da 1.18.-5a 5.45.-5Pt (361.86%). Il
processo Electricity, low voltage, at grid è il principale responsabile dell’aumento del danno
ambientale in tutte le categorie di danno.
3. Conclusioni
L’analisi LCA ha mostrato che il consumo di energia elettrica rinnovabile e l’utilizzo di anidride cromica costituiscono complessivamente il 47.7% del danno ambientale prodotto dall’intero ciclo di vita. Sulla base dei risultati dello studio è possibile osservare come l’adozione da
parte dell’azienda di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili garantisca una notevole
riduzione dell’impatto ambientale. Un’ulteriore miglioramento del processo galvanico dal punto
di vista ambientale potrebbe essere perseguito mediante il riutilizzo dei fanghi di cromatura
per la formulazione di pigmenti ceramici e il riciclo dei fanghi di rettifica. Studi precedenti
hanno infatti dimostrato come sia possibile valorizzare i reflui provenienti da industrie galvaniche impiegandoli come precursori di cromo nella sintesi di pigmenti ceramici quali
CaCr0.04Sn0.97SiO5 e Ca32(SiO4)3. [6]
Ringraziamenti
Gli autori ringraziano la Dott.ssa Eleonora Tedeschini che ha contribuito alla elaborazione dei dati di
progetto.
Bibliografia
[1] European Commission – Joint Research Centre – Institute for Environment and Sustainability: “International Reference Life Cycle Data System (ILCD) Handbook – General guide
for Life Cycle Assessment – Detailed guidance”. First edition March 2010. EUR 24708 EN.
Luxembourg. Publications Office of the European Union; 2010;
[2] G. C. Cushnie Jr. (2009) “Pollution Prevention and control technology for plating operation” CAI Engineering edited by the National Center for Manufacturing Sciences (NCMS),
Michigan;
486
[3] P. Neri, F. Falconi, G. Olivieri, A.M. Ferrari, L. Barbieri, I. Lancellotti, P. Pozzi, M.
Cervino, R. Gallimbeni.(2009) “Analisi Ambientale della gestione dei Rifiuti con il Metodo
LCA (www.lcarifiuti.net)”, (accesso Settembre 2011;
[4] O. Jolliet, M. Margni, R. Charles (2003) IMPACT 2002+: “A new life cycle impact assessment methodology”. International Journal of Life Cycle Assessment 8, 324-330;
[5] Life Cycle Inventories (2009) Ecoinvent Database. 2.0. December 2010. http://
www.ecoinvent.ch/ (accesso Settembre 2011);
[6]F. Andreola, L. Barbieri, F. Bondioli, M. Cannio, A.M. Ferrari, I. Lancellotti.(2008). “Synthesis of chromium containing pigments from chromium galvanic sludges”. Journal of Hazardous Materials 156, 466-471.
487
Rese di co-digestione anaerobica di
sottoprodotti di origine animale in
reattori pilota a ciclo continuo
Mariangela Soldano, [email protected], Claudio Fabbri, Nicola Labartino, Sergio Piccinini,
Lorella Rossi – C.R.P.A. S.p.A. – (Centro Ricerche Produzioni Animali), Reggio Emilia
Riassunto
I SOA (sottoprodotti di origine animale) sono matrici che per il loro alto carico organico hanno
produzioni specifiche elevate di biogas, ma ancora da definire con precisione. Stante la situazione
attuale, che vede diversi progetti di impianti di digestione anaerobica in corso di definizione,
l’ipotesi di ritiro di quote di SOA ad alta e nota resa energetica potrebbe essere la scelta che sposta
l’equilibrio economico a favore della realizzazione dell’impianto [1]. In questo paper vengono
riportati i risultati di test di digestione anaerobica effettuati dal CRPA Lab, sezione Ambiente ed
Energia del Tecnopolo di Reggio Emilia, di due miscele costituite da sangue bovino pastorizzato e
contenuto ruminale provenienti da un macello, in miscela a liquame bovino. Sono state calcolate
le rese in biogas e metano per kg di solidi volatili alimentati.
Summary
The ABPs (animal by-products) are biomasses that due to their high organic matter have high
specific biogas production, but yet to be determined with precision. Given the current situation
which sees several anaerobic digestion plants projects under development, the hypothesis of
withdrawal of shares of ABPs with high and known energetic yield could be the choice that shifts
the economic balance in favour of the realization of a biogas plant [1]. This paper reports the
results of anaerobic digestion tests of two mix consisting of cow blood pasteurized and rumen
content from a slaughterhouse mixed with cattle slurry carried out by CRPA Lab, Environment
and Energy Section of Tecnopolo of Reggio Emilia. Biogas and methane yields were been calculated per kg of volatile solids feed.
1. Introduzione
Il potenziale produttivo di metano delle biomasse è un elemento fondamentale per definire le
quantità di prodotto necessario al corretto funzionamento dell’impianto, i costi di approvvigionamento, il dimensionamento dei digestori e delle vasche di stoccaggio. Oltre alle rese di
produzione, i test sul potenziale metanigeno possono fornire informazioni importanti come la
velocità di degradazione. Con l’introduzione degli incentivi sulla produzione di energia rinnovabile da biomasse dedicate e di scarto, la tematica è divenuta attuale e di grande valenza
economica ed ambientale. Risulta quindi interessante analizzare l’efficienza energetica delle
diverse colture energetiche e dei diversi scarti organici disponibili, provenienti dall’industria
di trasformazione delle produzioni vegetali e animali, in co-digestione anaerobica come soluzione gestionale di recupero [2]. La produzione di carne per l’alimentazione umana comporta
la parallela produzione di una grande quantità di rifiuti e sottoprodotti che possono rappre-
488
sentare sino al 40-50% del peso vivo dell’animale di partenza, considerando la resa al macello
e la quota di grassi, di ossa e altre parti del corpo che vengono separate dal corpo durante le fasi
del processo produttivo [3].
In questo paper si riportano i risultati di una prova sperimentale per la verifica della produzione di biogas da due matrici di scarto del macello bovino: sangue bovino pastorizzato e contenuto del rumine. La prova è stata condotta presso i laboratori del CRPA Lab con digestori
anaerobici CSTR (completamente miscelati, termostatati e riscaldati in mesofilia), alimentati in
continuo.
2. Relazione
2.1 Materiali e metodi
2.1.1 Potenziale metanigeno con metodo dinamico
Il test dinamico consente di valutare le rese effettivamente ottenibili in impianti in scala reale.
La metodologia applicata presso il laboratorio del CRPA Lab utilizza minidigestori alimentati
in continuo, del volume di 24 dm3, miscelati e riscaldati, con misura in continuo della quantità
di biogas prodotto (sistema manometrico) e misura discontinua della qualità del gas prodotto.
La metodologia prevede il carico e lo scarico giornaliero, (o anche con maggior frequenza) [4],
[5]. La conduzione del test dinamico mette a punto e/o verifica:
· i principali dati di base del progetto di un impianto di biogas: tempo di ritenzione idraulico,
carico organico volumetrico, temperature di processo;
· le caratteristiche e la qualità del biogas prodotto e del digestato;
· l’ottimizzazione delle modalità di carico del substrato, le strategie di gestione e controllo,
l’avviamento, i fattori di stress/inibizione, la scelta del tipo di reattori;
· l’effetto di pre-trattamenti fisici, chimici, microbiologici sui substrati;
· le sinergie e gli antagonisti dei consorzi batterici al variare delle miscele;
· l’effetto che le modifiche improvvise delle condizioni di esercizio (temperatura, carico, miscelazione, ecc.) possono avere sulla microbiologia.
La possibilità di scaricare ogni giorno parte del digestato permette di controllare numerose
condizioni di processo, come l’equilibrio fra acidità e alcalinità, la composizione acidica e i
relativi rapporti fra i diversi acidi volatili, la composizione chimica e la presenza di eventuali
fattori inibenti (ammoniaca, idrogeno solforato, micronutrienti, metalli pesanti, ecc.). La possibilità di caricare giornalmente consente di modificare le miscele e verificarne l’effetto.
2.1.2 Descrizione prova
Sono state testate 2 matrici di scarto proveniente da un macello bovino:
· contenuto ruminale
· sangue bovino pastorizzato
Dato l’elevato grado di fermentescibilità di queste matrici, si è ritenuto opportuno trattarle in
co-digestione con altro substrato; in questa prova sono state miscelate a liquame bovino proveniente da un allevamento di bovini da latte dotato di sistema di stabulazione a cuccette con
paglia. Si è scelto di miscelare il liquame bovino, essendo questa tipologia di effluente zootecnico più comunemente impiegata in co-digestione con biomasse vegetali negli impianti aziendali, in quanto essendo ricco di micronutrienti favorisce il giusto equilibrio del processo di
digestione anaerobica. È stata allestita anche una tesi di confronto con solo liquame bovino.
In definitiva le tesi sono state le seguenti:
1) Liquame bovino
2) Contenuto ruminale + liquame bovino
3) Sangue bovino + liquame bovino
489
Ciascun ciclo di prova è stato impostato con tempi di ritenzione idraulica e carico organico
volumetrico che tengono in considerazione le caratteristiche delle matrici e la relativa composizione chimica.
Di seguito si riportano le analisi delle matrici utilizzate (Tab.1):
Azoto
Ammoniacale
(N-NH4 +)
Solidi Totali
(ST)
[-]
[g/kg tq]
[g/kg
tq]
[% ST]
Contenuto
ruminale bovino
6,78
198,36
186,32
93,93
4878
2,46
412
8,5
Sangue bovino
pastorizzato
7,8
121,40
114,80
94,56
23694
19,52
9290
39,2
Liquame bovino
7,33
79,99
59,56
74,5
3526
4,41
1841
52,2
Matrice
Solidi Volatili
(SV)
Azoto Totale
Kjeldahl
(NTK)
pH
[mg/kg
[mg/kg
[% ST]
tq]
tq]
[%
NTK]
Tab. 1 – Caratteristiche analitiche delle matrici utilizzate nei test di digestione anaerobica.
Fosforo P otassio
(P )
(K )
M atrice
[% ST ] [% ST ]
C arbonio
organico
tot
(T O C )
C /N
N D F (1) A D F (2) A D L (3)
A m ido
Lipidi
[% ST ]
[-]
[% ST ] [% ST ] [% ST ]
[% ST ]
[% ST ]
C ontenuto
rum inale bovino
0,32
0,18
44,47
18,08
55,01
32,4
7,2
2,7
1,9
Sangue bovino
pastorizzato
0,15
0,32
67,2
3,44
NR
NR
NR
0,24 (4)
1,8
Liquam e bovino
1,2
5,93
38,92
8,83
47,27
33,93
11,94
NR
1,9
NR= non rilevato, (1) NDF= Fibra neutro detersa, (2) NDF= Fibra acido detersa, (3) NDF= Lignina acido
detersa, (4) questo dato è relativo agli zuccheri totali
Tab. 1 – Caratteristiche analitiche delle matrici utilizzate nei test di digestione anaerobica (continua).
Le matrici analizzate si caratterizzano per un’elevata dotazione di sostanza organica, oltre il
93% della sostanza secca è rappresentata da solidi volatili, e un elevato contenuto di azoto
totale, nel sangue bovino rappresenta ben il 19,5% della sostanza secca, di cui il 39% è azoto
ammoniacale. Dato l’elevato grado di fermentescibilità, nel corso della prova si è provveduto a
campionare le matrici dal macello più volte in modo da avere una situazione più rappresentativa possibile di quello che avviene in scala reale in cui il prodotto trattato arriva all’impianto
“fresco”. Ai fini del calcolo delle rese in biogas, i diversi campioni sono stati sempre caratterizzati per i solidi totali e solidi volatili. Di seguito si riportano i valori medi e le deviazioni standard ottenute dalle analisi.
490
Campioni
Solidi Totali
(ST)
[n.]
[g/kg tq]
[g/kg tq]
[% ST]
Contenuto ruminale bovino
3
195,2 ± 6,8
184,6 ± 5,4
94,6 ± 0,71
Sangue bovino pastorizzato
3
116,0 ± 5,0
109,9 ± 4,8
94,8 ± 0,47
Liquame bovino
4
80,20 ± 9,2
63,3 ± 8,3
78,9 ± 2,4
Matrice
Solidi Volatili
(SV)
Tab. 2 – Medie e deviazioni standard.
I sottoprodotti di origine animale sono matrici generalmente delicate da caratterizzare per
motivi di stabilità chimica, di consistenza fisica, che rendono difficoltoso il prelievo di aliquote
omogenee e ripetibili, ma durante il corso della prova si è riusciti ad avere delle matrici molto
simili come si osserva nei valori di deviazioni standard riportati in tab.2. La prova è stata
avviata introducendo in ciascun reattore 16 kg di inoculo consistente per il 50% in un digestato prelevato presso un impianto di biogas che tratta scarti della macellazione e per il 50%
proveniente da un impianto che tratta il liquame bovino utilizzato nella prova. È di notevole
importanza disporre di una flora microbica ben acclimatata quando si trattano scarti così ricchi di protidi e lipidi, rispetto ad esempio ad un insilato di mais o sorgo, molto più dotato di
carboidrati. I tempi di ritenzione idraulica (HRT) e il carico organico volumetrico (COV) sono
stati scelti tenendo in considerazione le caratteristiche delle matrici e la relativa composizione
chimica. La temperatura media di conduzione del processo, misurata con appositi sensori, è
risultata essere in media di 39 °C.
Tesi
Matrice
1
Matrice
2
Matrice Matrice Matrice Matrice ST
1
2
1
2
totali
[% miscela]
1
Liquame
bovino
2
Liquame Contenuto
bovino
ruminale
-
Sangue
Liquame
bovino
bovino
pastorizzato
Sangue
Liquame
bovino
3b(2)
bovino
pastorizzato
3a(1)
(1)
[%SV]
SV
HRT
totali
[%]
COV
[d]
[kg
SV/m3
/d]
100
0
100
0
7,8
6,2
30
2,1
75
25
50
50
10,8
9,3
30
3,1
85
15
76
24
8,5
7,0
30
2,3
56
44
41
59
9,7
8,5
30
2,5
Primo periodo, (2) Secondo periodo
Tab. 3 – Parametri di carico nelle relative tesi.
491
Per quanto riguarda la tesi 3 alimentata con sangue bovino, il ciclo di prova è stato suddiviso in
due periodi caratterizzati da differenti parametri di carico in quanto si è voluto valutare il
comportamento di processo e i rendimenti in metano all’aumentare della quota del sangue al
carico.
2.2 Risultati
Dall’elaborazione dei parametri monitorati durante il test sono state ricavate le rese in biogas e
in metano delle miscele sottoposte a digestione anaerobica. In tab.4 sono riportate le medie
ottenute durante tutto il periodo di prova. Inoltre è stato calcolato l’effetto del liquame nella
miscela, in questo modo è stato ottenuto il valore di resa in biogas delle singole matrici oggetto
della prova. Per la tesi 3 si è calcolata la resa in biogas e metano del sangue anche nel secondo
periodo di prova, quando è stata raddoppiata la quota al carico di questa matrice.
Tesi
1. Liquame bovino
-
2. Liquame bovino + Miscela
contenuto ruminale
Contenuto ruminale
Miscela
3. Liquame bovino + Sangue bovino
sangue bovino
Sangue bovino
(2° periodo)
Resa in
CH4
BIOGAS
nel biogas
[m3/m3
[%]
digestore * g]
Resa in
BIOGAS
[m3/t SV]
Resa in
METANO
[m3/t SV]
306,8
175,2
1,07
57,1
383,7
220,7
1,83
57,5
460,5
266,1
-
57,8
352,6
232,4
1,38
65,9
430,6
329,8
-
76,6
441,3
311,4
-
70,6
Tab. 4 – Rese medie in biogas e metano delle miscele in co-digestione e delle singole matrici, espresse per
tonnellata di sostanza organica caricata e produzione volumetrica di biogas.
Nella tesi 2 alimentata con contenuto ruminale i valori di resa in biogas e metano sono in
linea con quelli che si trovano in bibliografia. Non sono rese elevate in quanto è presente
nella matrice una quota di fibra difficilmente degradabile. Nella tesi 3 nella quale è stato
trattato del sangue bovino pastorizzato in co-digetsione con il liquame, le rese ottenute nell’intero periodo sono state piuttosto basse rispetto a quelle che normalmente si verificano
nell’analisi del potenziale massimo di metanizzazione (BMP); ciò si spiega considerando
l’influenza nel processo delle condizioni di un sistema in continuo che simula quello che
avviene in un impianto reale rispetto all’analisi con misura statica in cui l’ambiente di digestione si trova in condizioni ottimali. Di seguito (Fig. 1 e Fig. 2) vengono riportati i trend di
produzione di biogas espresse per unità di volume del digestore per giorno in rapporto al
carico organico giornaliero. L’irregolarità della produzione che si osserva nei grafici è dovuta
alla modalità di carico, eseguito in una unica somministrazione una volta al giorno e non
dilazionata in più ore al giorno come accade in impianti a scala reale. Nella tesi 2 la produzione di biogas nel tempo è abbastanza regolare con una media sull’intero ciclo pari a 1,83
m3/m3 di digestore al giorno. Durante la conduzione del processo non si sono evidenziati
problemi particolari; i valori di pH e di acidità volatili e alcalinità sono rimasti entro range
accettabili per la prosecuzione del processo biologico.
492
Fig.1 – Trend di produzione di biogas per unità di volume utile di digestore per giorno rapportata al carico
organico giornaliero (COV) nella tesi 2.
Nella tesi 3 si osserva invece un calo nella produzione; all’incrementare, nel secondo periodo, del carico organico del sangue nella miscela dal 24% del COV totale al 59 %, si
osserva un leggero aumento della produzione volumetrica, ma la resa in biogas risulta
superiore a quella calcolata per l’intero periodo solo del 2,4%, mentre la resa in metano è
leggermente più bassa. Come si vede nella tab. 5 dove è riportata la caratterizzazione chimica dei digestati campionati a fine prova, all’apertura dei digestori, la tesi 3 mostra una
concentrazione molto elevata di ammoniaca, pari a 5527 mg/kg di digestato, il 77,4%
dell’azoto totale. L’ammoniaca ad elevate concentrazioni ha un effetto inibente sul processo di fermentazione e ha contribuito in questo caso all’ottenimento di una resa in biogas
inferiore alle aspettative.
Fig.2 – Trend di produzione di biogas per unità di volume utile di digestore per giorno rapportata al carico
organico giornaliero (COV) nella tesi 3.
493
pH
Solidi
Totali
Solidi
Volatili
Solidi
Volatili
Azoto Totale
Kjeldahl
Azoto Ammoniacale N-NH4
[-]
[g/kg tq]
[g/kg
tq]
[% ST]
[mg/k
g tq]
[% ST]
[mg/kg
tq]
[% NTK]
Tesi 1
7,71
56,41
40,26
71,4
3174
5,63
19,03
60,0
Tesi 2
7,55
58,64
45,53
77,6
3291
5,61
1611
49,0
Tesi 3
7,94
45,91
34,13
74,3
6752
14,71
5227
77,4
Tab. 5 – Analisi chimica del digestato campionato a fine prova.
3. Conclusioni
Il test di digestione anaerobica in continuo di due miscele composte da sottoprodotti della
macellazione, contenuto ruminale e sangue bovino pastorizzato, addizionate a liquame bovino
non ha mostrato evidenti problemi di processo, e ha prodotto dei buoni valori di rese di biogas, seppur non elevate come i relativi BMP. La loro potenzialità in termini di produzione di
biogas è elevata per il buon contenuto di grassi e proteine, ma nella pratica in scala reale l’utilizzo di quantità significative in digestione anaerobica si presenta delicata a causa della loro
elevata dotazione di sostanza organica di tipo complesso (grassi e proteine) e di azoto, che
richiede una flora microbica specifica e un attento controllo di processo. La esatta conoscenza
delle singole matrici animali e la definizione di rapporti corretti di miscelazione con altre biomasse è essenziale per l’avvio in scala reale. Dal punto di vista normativo, il trattamento dei
sottoprodotti di origine animale non destinati al consumo umano deve essere conforme a quanto
richiesto da Regolamento CE n. 1069/2009, il quale fissa specifici requisiti igienico sanitari da
garantire con trattamenti appropriati (pastorizzazione) a 70° per 1 ora. L’applicazione della
digestione anaerobica dei SOA è pertanto da ritenersi fattibile soprattutto in impianti di taglia
medio-grande, preferibilmente concepiti sin dalla fase di progettazione per trattare sottoprodotti animali; è, però, da gestire con grande attenzione in codigestione con altre matrici, anche
in relazione al forte potere odorigeno e all’elevato apporto di azoto [3].
Nella realtà emiliano-romagnola, caratterizzata da un settore macellazione concentrato in poche unità di grosse dimensioni, la digestione anaerobica dei sottoprodotti animali più idonei in
miscela ad altre matrici è sicuramente una applicazione che può trovare applicazione. In termini quantitativi, la produzione di SOA a rischio sanitario minimo (categoria 3) stimata in Emilia-Romagna ammonta a poco più di 230.000 t, costituite per circa il 15% da sangue e per un
altro 30% da SOA di natura liquida e semisolida. Indicativamente, almeno circa 100.000 t
potrebbero quindi essere destinate a recupero energetico mediante digestione anaerobica.
Bibliografia
[1] Rossi L., Piccinini S., Soldano M. (2010), “I sottoprodotti di origine animale: come recuperarli”,
Agricoltura, 37: 72-74;
[2] Rossi L., Piccinini S. (2010), “Forsu e fanghi di depurazione in codigestione anaerobica: risultati di
un test in continuo in impianto sperimentale”, Atti di ECOMONDO 2010, Maggioli Editore, 473-478;
[3] Vismara R., Canziani R., Malpei F., Piccinini S. (2011), “Biogas da agrozootecnia e agroindustria”.
Dario Flaccovio Editore;
[4] Opuscolo CRPA 6.23 – n.5/2011, “Biogas: i metodi di valutazione del potenziale metanigeno”;
[5] Norma UNI EN ISO 11734:2004, “Qualità dell’acqua – Valutazione della biodegradabilità anaerobica ultima di composti organici in fanghi digeriti – Metodo per la misurazione della produzione di
biogas”, 2004.
494
Dispositivi fotovoltaici plastici a ridotto
impatto ambientale
Leonardo Setti [email protected], Daniele Caretti, Massimiliano Lanzi, Francesco Errani
– Università di Bologna
Riassunto
Il fotovoltaico polimerico offre interessanti prospettive legate a caratteristiche quali leggerezza,
flessibilità e facilità di processo. Grazie a tali peculiarità, ed a un costo ben al di sotto di 1-/Wp,
i dispositivi fotovoltaici plastici risultano adatti ad assumere un ruolo predominante in tutte quelle applicazioni, come tessuti, vernici e dispositivi usa e getta, in cui efficienza (2-6%) e stabilità
nel tempo (∼10000 ore) risultano meno importanti rispetto alle caratteristiche fisiche ed economiche. Nel presente elaborato vengono, inizialmente descritti i principi base di funzionamento, in
seguito vengono prese in considerazione le strategie adottate all’interno dei nostri laboratori per
migliorare performance e stabilita dei dispositivi al fine renderli maggiormente appetibili per un
futuro scale-up industriale.
Summary
Plastic photovoltaic devices offer interesting perspectives such as lightness, flexibility and process
sustainability as well as cheap cost under 1 -/Wp. On the basis plastic photovoltaic devices are
suitable to play a predominant role in all those applications, such as tissues, paints and disposable,
where low efficiency (2 -6%) and scarce stability (∼ 10000 hours) are almost sustainable.
The present study describes the basic principles for the fabrication of a plastic photovoltaic device
as well as the strategies adopted in our laboratories to improve performance and stability to make
it more attractive for future industrial scale-up.
1. Introduzione
Attualmente il mercato del fotovoltaico è dominato da tecnologie basate su materiali inorganici, in particolare il silicio. I dispositivi maggiormente diffusi, che coprono più del 90% del
mercato globale, sono costituiti da moduli di silicio monocristallino e policristallino [1]. Nonostante la maturità di questa tecnologia, caratterizzata da discrete efficienze, da una buona
stabilità nel tempo e da costi che si stanno avviando verso la grid-parity avendo sfondato il
tetto dei 1000 euro/kWp, esistono svariati limiti di applicabilità che ne rallentano la diffusione
in alcune nicchie di mercato. In particolare le problematiche maggiori sono legate all’elevato
peso dei dispositivi e alla possibilità di applicarli solo su superfici piane. Per questo motivo una
parte della ricerca industriale si sta focalizzando su tecnologie a film sottile. Tra queste la ricerca sui dispositivi fotovoltaici polimerici risulta particolarmente affascinante, come evidenziato
dai cospicui investimenti internazionali, in quanto presenta caratteristiche di facile processabilità, con conseguenti bassi costi di fabbricazione e l’ampio range di utilizzo legato a leggerezza,
495
flessibilità e facilità di applicazione dei dispositivi. Inoltre, il basso consumo energetico di
produzione e la potenziale riciclabilità dei materiali rende questa tecnologia interessante anche
dal punto di vista del basso impatto ambientale.
2. Relazione
2.1 Parametri e principi di funzionamento
I parametri fondamentali per giudicare l’efficienza di una cella fotovoltaica sono:
– Tensione di circuito aperto (Voc): che corrisponde al potenziale sviluppato quando i morsetti
del generatore fotovoltaico sono isolati;
– Corrente di corto circuito (Isc): è la corrente che percorre il circuito quando i morsetti sono
collegati al circuito stesso;
– Fill Factor (FF): indica il rapporto tra la massima potenza effettivamente estraibile e la massima potenza idealmente ottenibile dal dispositivo
FF=(Im x Vm) / (VOC x ISC)
– Efficienza: La formula per calcolare l’efficienza di una cella fotovoltaica è:
µ = ( VOC * ISC * FF ) / Pin
dove Pin è la Potenza della luce incidente.
Nei semiconduttori organici la schermatura delle cariche opposte è più debole e la costante
dielettrica è più bassa rispetto alle celle fotovoltaiche in Silicio. Ciò porta ad avere un’interazione tra le cariche positive e quelle negative fotogenerate molto più forte. I semiconduttori organici sono amorfi e dunque il trasporto di carica è più difficile che nei cristalli; perciò bisogna
fare in modo che ogni componente fornisca un percorso continuo fino al rispettivo contatto. I
fotoni dopo aver attraversato il supporto trasparente incidono sulla superficie del materiale
donatore di elettroni (P3HT), se la loro energia è sufficiente sono in grado di promuovere un
elettrone dallo stato HOMO a quello LUMO formando una coppia elettrone-buca, fortemente legati, detta eccitone.
Gli eccitoni fotogenerati si diffondono all’interno del materiale donatore e, attraversando l’interfaccia, arrivano al materiale accettore (PCBM), in grado di catturare gli elettroni. In assenza
di un accettore nelle immediate vicinanze, questi decadono nella banda di valenza emettendo
luce o calore. Questo trasferimento di carica, chiamato hopping, è estremamente veloce (meno
di 10 femtosecondi) ed è molto efficiente perché i meccanismi alternativi di perdita della separazione di carica sono molto più lenti.
Più precisamente, affinché il trasferimento di carica dal donatore all’accettore sia energeticamente favorevole, è necessario che le bande di conduzione (LUMO) e quelle di valenza (HOMO)
del donatore e dell’accettore cadano in successione (Fig. 1).
La separazione di carica finale è data da un campo elettrico interno generato dalla differenza di
funzione lavorotra le funzioni lavoro degli elettrodi appositamente scelti. Gli elettroni liberi
generati raggiungono il catodo attraverso il materiale accettore, mentre le lacune raggiungono
l’anodo percorrendo la catena principale del polimero [2].
496
Fig. 1 – Funzionamento eterogiunzione.
2.2 Sruttura dispositivi standard
Il dispositivo standard (Fig. 2) è caratterizzato da un substrato in PET ricoperto da ossidi misti di
Indio e Stagno (ITO) che gli conferiscono conducibilità elettrica e che fungono da fotoanodo.
Fig. 2 – Struttura cella standard.
Su di esso sono presenti due film: il primo di PEDOT:PSS (Fig. 3) in grado di attrarre preferibilmente le cariche positive; il secondo (Fig. 4), caratterizzato da una miscela di molecole in
grado, rispettivamente, di donare e accettare elettroni, rappresenta la miscela fotoattiva vera e
propria. L’ultimo strato, composto da Alluminio deposto per evaporazione sottovuoto, rappresenta il fotocatodo.
Fig. 3 – Composizione chimica del film in PEDOT:PSS.
497
Fig. 4 – Composizione chimica della BLEND.
La caratterizzazione delle proprietà fotovoltaiche avviene attraverso la registrazione della curva caratteristica I/V del dispositivo esposto alla luce di un “solar simulator” che, appunto,
simula la radiazione solare media incidente alle nostre latitudini (AM 1,5G; 100 mW/cm2).
In Fig. 5 sono riportate le caratteristiche tipiche di un dispositivo standard.
Fig. 5 – Curva corrente/potenziale (a), curva potenza/potenziale(b), parametri caratteristici (c) di dispositivi
preparati nei laboratori CIRI EA.
2.3 Nuovi design di celle standard
Per migliorare la bassa efficienza tipica dei dispositivi, è necessario comprendere i meccanismi
che regolano il trasporto di carica e che sono alla base dei limiti riscontrati nei bassi valori di fill
factor. Il trasporto di carica è fortemente limitato dall’ordine e quindi dal grado di cristallinità
modulabile realizzando, per esempio, sistemi nano-strutturati basati su nuovi cristalli organici
conduttori [3,4]. Tuttavia, non è da sottovalutare la capacità di drenare la carica attraverso la
giunzione di massa che costituisce i dispositivi fotovoltaici polimerici. Infatti, la quantità di
498
carica trasportabile dagli strati fotoelettrici dipende dalla direzione dei cammini preferenziali
per raggiungere il fotocatodo ed il fotoanodo ed è prevalentemente limitata dagli spostamenti
orizzontali sia delle lacune, nello strato tipicamente realizzato in PEDOT:PSS, che degli elettroni nella blend, generalmente realizzata con una miscela di P3HT/PCBM. Lo sviluppo di
nuovi design di celle standard è di cruciale importanza dal momento che la posizione e la
forma degli elettrodi rappresenta certamente un fattore determinante per le performance del
dispositivo stesso che possono anche variare di diversi ordini di grandezza. Su questa base è
stata sviluppata e brevettata una tecnica di etching elettrochimico dello strato di ITO su vetro
e su PET al fine di disegnare nuovi dispositivi fotovoltaici aventi specifici pattern per il drenaggio delle cariche [5].
2.4 Modulazione delle proprietà chimico-fisiche degli strati polimerici
L’ottimizzazione dei dispositivi è anche legata alle proprietà chimico-fisiche degli strati adiacenti che costituiscono la giunzione di massa. Tali proprietà possono essere discretamente controllate attraverso diversi trattamenti di annealing termico in cui temperatura e atmosfera modificata giocano ruoli significativi nella formazione di zone nano-strutturate cristalline.
Plasticizzanti, come i polioli, aggiunti nella blend [6] ed operazioni termo-meccaniche come il
rubbing termico della blend sono ulteriormente importanti per ottimizzare la nano-strutturazione [7].
2.5 Nuove molecole come accettori e donatori di elettroni
La necessità di nano-strutturare la fase organica ha portato allo sviluppo di nuovi polimeri
tiofenici alcossi-funzionalizzati ad elevata proprietà filmogena [8], così come di nuovi accettori
fullerenici in addotti supramolecolari, ad alta capacità auto assemblante. Interessanti indicazioni sono state ottenute sulla stabilità nel tempo delle performance dei dispositivi che sembra
strettamente legata alla scarsa capacità di mantenere la nano-struttura e quindi l’ordine molecolare negli strati.
2.6 Il problema dell’ITO
L’utilizzo dell’ITO come fotoando in dispositivi fotovoltaici polimerici, pone problemi sia di
natura economica, visto l’elevato costo, che di natura operativa, dato che la sua fragilità limita
fortemente la flessibilità dei dispositivi. Per ovviare a questa problematica, vari gruppi di ricerca stanno recentemente, mettendo in atto diversi approcci atti a sostituire lo strato di ITO con
metalli in grado di mantenere comunque un’adeguata differenza di forza lavoro tra gli elettrodi
[9]. La problematica principale di questo approccio risiede nel non avere più un fotoanodo
trasparente alla luce.
Sulla base dei risultati ottenuti in precedenti studi sul trasferimento di carica [4], all’interno
dei laboratori CIRI EA, sono in corso indagini sull’ottimizzazione della geometria degli elettrodi metallici che, opportunamente modellati, permettano di raccogliere la carica fotogenerata senza pregiudicare l’irradiamento dello strato fotoattivo.
3 Conclusioni
Esistono già sul mercato dispositivi basati sul fotovoltaico polimerico (Konarka – Power Plastic®). Tuttavia permangono diverse problematiche soprattutto legate alla scarsa efficienza e
alla bassa stabilità alla luce e nel tempo.
All’interno dei laboratori CIRI EA stiamo cercando di ottimizzare tale tecnologia, con l’obbiettivo di renderla maggiormente accattivante dal punto di vista dello sviluppo industriale: in
particolare, sarebbe opportuno raggiungere efficienze del 2-3% stabili per almeno le 10.000
ore tipiche dei led organici. Inizialmente si sono studiati i trasferimenti di carica, sia all’interno
dei diversi film polimerici che attraverso la giunzione di massa. Si sono evidenziati risultati
499
apprezzabili attraverso la modulazione delle caratteristiche chimico-fisiche, ottenuta con l’ausilio di diversi trattamenti di annealing termico e diverse metodologie di preparazione termomeccaniche, che ci hanno permesso di ottenere film fotoattivi caratterizzati da una nano-strutturazione mirata. Successivamente sono state sintetizzate e provate diverse molecole, sia come
accettori che come donatori di elettroni, caratterizzate, oltre che dalla possibilità di gestire la
nano-struttura (anche attraverso self-assembling), dalla solubilità in acqua ed in solventi polari, in modo da poter sostituire i solventi organici tossici in nuove applicazioni a basso impatto
ambientale. Sono stati inoltre eseguiti studi per rendere maggiormente economica la produzione industriale dei dispositivi finali, sia attraverso lo sviluppo di una facile metodologia di etching
dello strato di ITO, che attraverso lo sviluppo di celle, aventi opportuna geometria, in cui
potesse essere sostituito con diversi metalli. Attualmente, contestualmente alla sinesi e alla
caratterizzazione di nuove molecole, stiamo testando tecnologie costruttive innovative che ci
permettano di ottenere prodotti ad alto appeal industriale ed economico come VERNICI,
applicabili su diversi substrati, o FILI FOTOVOLTAICI [10], in grado di essere tessuti da soli
o assieme a filati tradizionali.
Bibliografia
[1] European Photovoltaic Industry Association, “Global market outlook for photovoltaics until 2015”,
2011;
[2] T. M. Clarke, J. R. Durrant, “Charge Photogeneration in Organic Solar Cells”, American Chemical
Society, August 5, 2009;
[3] B. Fraboni*, R. DiPietro, A.Castaldini, A. Cavallini, A. Fraleoni Morgera, L. Setti, I. Mencarelli, C.
Femoni, “Anisotropic charge transport in organic single crystals based on dipolar molecules”, Organic
Electronics, 9, 974-978, 2008;
[4] B. Fraboni, C. Femoni, I. Mencarelli, L. Setti, et al.,“Solution-grown, macroscopic organic single
crystals exhibiting three-dimensional anisotropic charge transport properties”, Advanced Materials, 21
(18), 1779 – 1882, 2009;
[5] L. Setti, A. Fraleoni Morgera, I. Mencarelli, “Method of preparing a die and use of the so obtained
die for etching a substrate”, WO/2009/016493;
[6] G. Cesari, L. Setti, M. Lanzi, L. Paganin, “New thiophenic polymer for organic photovoltaic device”, atti del convegno E-MRS Spring Meeting, Strasburgo – Francia, 8-12 Giugno 2009, (vol. Symposium A);
[7] Abbas, M. D’Amico, F. Ali, M. Mencarelli, I. Setti, L. Bontempi, E. Gunnella, “Rubbing effects on
the structural and optical properties of the Poly(3-Hexylthiophene) films”, Journal of Physics D: Applied Physics, 43(3) 35103-35109, 2010;
[8] M. Lanzi, L. Paganin, D. Caretti, L. Setti, F. Errani, “Synthesis of new methoxy-functionalized
polythiophenes for charge transport in organic solar cells”, Reactive & Functional Polymers, 71, 745–
755, 2011;
[9] J. Meiss, M. K. Riede, K. Leo, “Towards efficient tin-doped indium oxide (ITO)-free inverted
organic solar cells using metal cathodes”, Applied Physics Letters 94, 013303, 2009;
[10] M. R. Lee, R. D. Eckert, K. Forberich, G. Dennler, C. J. Brabec and R. A. Gaudiana, “Solar Power
Wires Based on Organic Photovoltaic Materials”, Science 10 April 2009: Vol. 324 no. 5924 pp. 232-235.
500
Lo stato dell’arte nel riciclaggio
dei pannelli fotovoltaici
Alessandra Bonoli [email protected] – Università di Bologna, Bologna
Andrea Pompei – Ingegnere Gestionale, Bologna
Riassunto
La crescita esponenziale di impianti fotovoltaici sta obbligando i produttori di moduli a confrontarsi con i rischi che potrebbero provenire dallo gestione errata del loro fine vita. I pannelli
fotovoltaici sono beni che possono essere molto utili anche nel momento in cui diventano rifiuti: il
loro eventuale smaltimento in discarica rappresenterebbe una grave perdita di materiali ed energia.
Al fine di valorizzare al massimo tali rifiuti vi è la necessità di realizzare idonei processi di riciclaggio, ad alto valore, per recuperare al meglio i diversi tipi di materie seconde presenti. Queste
soluzioni si contrappongono ad altre possibili scelte sul fine vita sicuramente più semplici ed economiche, come ad esempio il trattamento dei moduli in un impianto di riciclaggio per vetro
stratificato o il semplice recupero del telaio in alluminio. Questi ultimi approcci hanno in comune la
perdita di materiali e di componenti di alto valore presenti nei moduli quali wafer / silicio,
indio, tellurio, ecc
Al contrario, oggi si stanno sviluppando tecnologie di separazione e processi di trattamento che
permettono il recupero di metalli preziosi e materiali prime seconde da reimpiegare anche nello
stesso settore fortemente in crescita.
Summary
The exponential growth of photovoltaic installations is obliging the module producers to confront
themselves with the risks which could come from a wrong disposal of end of life PV modules. PV
modules are goods that can be very useful also during the end of life: their disposal in landfills
would represent a loss of materials and energy.
In order to valorize at most wastes coming from end of life PV modules and resources which are
present in them, there is a need of high value recycling processes. These solutions differ from
other end of life management alternatives, surely more simple and economic, like for example the
treatment of the modules in a recycling plant for laminated glass or their disposal at a landfill after
the recovery of the aluminum frame and a pre-treatment in a municipal incineration plant. All
these low value approaches have in common the loss of valuable resources, in other words the loss
of the materials and of the components of high value present in the modules (wafer/silicon, indium, tellurium, etc.), which inevitably would end their life cycle in a landfill, without being
adequately valorized. Otherwise there are some separation and treatment processes which permit
precious metals and materials recovery and recycling.
1. Introduzione
La produzione di energia fotovoltaica comporta indiscutibili vantaggi ambientali rispetto ai
comuni sistemi di generazione basati su combustibili fossili. Tuttavia la crescita esponenziale
delle installazioni fotovoltaiche [1] sta costringendo i produttori a confrontarsi con i rischi che
501
possono derivare da uno smaltimento non corretto dei moduli giunti a fine vita. Negli ultimi
anni l’avvio significativo del fotovoltaico rende evidente l’urgenza di attrezzarsi fin da ora per
trovare dei metodi per lo smaltimento sostenibile dei moduli, una volta raggiunta la fine della
loro vita utile.
Un eventuale smaltimento dei moduli in discarica costituisce uno spreco di materiali e di energia, trattandosi di prodotti che, anche a fine vita, possono rivelarsi ancora utili. Un tradizionale
modulo fotovoltaico in silicio cristallino, ad esempio, è costituito da vetro, utilizzato per le
superfici espositive e di protezione, per circa il 70% del suo peso, da metalli, come l’alluminio,
utilizzato per le cornici, da silicio, il materiale semiconduttore, e da altri metalli, come argento
e rame, impiegati per la realizzazione dei contatti elettrici.
Si tratta di materiali ad alto valore economico, o addirittura preziosi, il cui ciclo di vita non
coincide con quello dei dispositivi fotovoltaici nei quali sono incorporati e che pertanto potrebbero essere recuperati o riciclati in vista di un loro ulteriore utilizzo nella produzione di
nuovi moduli o di altri prodotti. È di fondamentale importanza inoltre capire se i moduli
fotovoltaici rientrano nella categoria dei rifiuti pericolosi oppure no in base al contenuto di
metalli tossici (Cd, Pb, ecc.), poiché da ciò dipende l’obbligo di rispettare precisi requisiti di
movimentazione, trattamento, smaltimento e reportistica, al fine di garantire così un elevato
livello di tutela dell’ambiente e della salute umana.
A tale proposito, the U.S. Environmental Protection Agency (EPA) ha definito delle specifiche
procedure e dei test di laboratorio allo scopo di classificare i vari rifiuti e quindi anche quelli
derivanti dai moduli fotovoltaici dismessi [2]. Se quest’ultimi dovessero rientrare nella categoria dei “rifiuti pericolosi”, a maggior ragione il riciclaggio costituisce una valida alternativa non
soltanto da un punto di vista etico ed ecologico ma anche economico.
2. Relazione
I principali materiali utilizzati nella fabbricazione dei moduli fotovoltaici, e che quindi a fine
vita possono essere separati e riciclati, sono: vetro (circa 70-75%), alluminio (circa 10%), vinilacetato di etilene (EVA, circa 7%), silicio (3%), rame (0,5%), argento 0,004 -0,006%, stagno
(0,12), piombo (0,07%). (Le diverse percentuali dipendono naturalmente dal tipo di celle
realizzate: i dati qui riportati sono relativi a percentuali in massa per celle standard in Si-C).
I telai d’alluminio possono essere riutilizzati o riciclati come materia seconda. Gli altri metalli,
quali l’argento e l’alluminio dei contatti e il rame dei cablaggi possono entrare nel circuito delle
materie seconde. Anche le celle in silicio, se recuperate intatte, possono essere riusate per
produrre nuovi moduli riciclati, con un notevole risparmio in termini di consumo energetico e
di materia prima. Nel caso dei moduli al tellururo di cadmio, invece, il recupero e il riciclaggio
del cadmio, materiale altamente tossico, riutilizzabile nella produzione di nuovi moduli, porrebbe fine alle preoccupazioni ambientali legate alla presenza di questa sostanza.
2.1 Soluzioni di riciclaggio di alto valore
Al fine di valorizzare al massimo i rifiuti derivanti dai moduli giunti a fine vita utile e le risorse
in essi contenute, sono necessari dei processi di riciclaggio di elevato valore (high value recycling). Tali soluzioni si distinguono dalle altre alternative di gestione end-of-life, sicuramente
più semplici ed economiche come ad esempio il trattamento dei moduli in un impianto di
riciclaggio per vetro laminato o lo smaltimento in discarica dopo aver separato la cornice di
alluminio e aver effettuato un trattamento in un inceneritore di rifiuti urbani. Gli approcci di
basso valore (low value recycling) hanno tutti in comune la perdita di preziose risorse, che
finirebbero inevitabilmente in discarica senza essere adeguatamente valorizzate.
Rientrano invece nella categoria di riciclaggio di alto valore processi di separazione e trattamento recentemente sviluppati da aziende produttrici di pannelli solari: il processo di tratta-
502
mento di First Solar, usato per i moduli al CdTe e il processo di trattamento di Deusche Solar
(controllata di SolarWorld), sfruttato principalmente per i moduli al silicio cristallino, cui si
aggiungono i processi per le altre tecnologie a film sottile, ancora in fase di sviluppo, il processo RESOLVED (Recovery of Solar Valuable Materials, Enrichment and Decontamination), in
cui la fase di separazione fisico meccanica riveste un ruolo di particolare importanza.
Qui di seguito una breve descrizione dei tre processi.
1. First Solar, produttore leader di moduli al CdTe, ha sviluppato una soluzione di riciclaggio
di elevato valore per la gestione «end-of-life» dei propri pannelli, basata principalmente sull’impiego di metodi di separazione [3].
In figura 1 si riporta lo schema di funzionamento dell’impianto di riciclaggio. Il processo prevede due o più stadi di frantumazione, la rimozione del film semiconduttore, mediante un
processo di leaching, la separazione delle parti in vetro da quelle liquide e la successiva separazione del materiale vetroso, mediante un vibrovaglio, dall’incapsulante (EVA) utilizzato per
unire le due lastre di vetro che formano il modulo. Si ha infine un lavaggio del vetro per rimuovere gli eventuali residui di film semiconduttore, un successivo imballaggio e l’invio al riciclaggio. I liquidi ad elevato contenuto di metalli, provenienti dalla fase della separazione solidoliquida e del risciacquo del vetro, sono pompati nel dispositivo di precipitazione. I composti
metallici vengono così sottoposti ad un processo di precipitazione e di concentrazione. Infine
l’agglomerato, filtrato e pressato, ad elevato contenuto metallico (cadmio e tellurio), viene
raffinato ed utilizzato per la produzione del materiale semiconduttore da impiegare nella costruzione di nuovi moduli.
Fig. 1 – Schema del processo di riciclo di First Solar (Fonte First Solar).
I rendimenti di separazione sono piuttosto alti: è possibile recuperare il 90% in peso del vetro
per la produzione di nuovi componenti e il 95% del materiale semiconduttore per la fabbricazione di nuovi moduli. Ciò risulta particolarmente interessante in quanto il tellurio, utilizzato
per realizzare lo strato fotoattivo, è un metallo relativamente raro il cui prezzo negli anni è
cresciuto notevolmente. Poiché si prevede che la quota di mercato dei film sottili sia destinata
ad aumentare rapidamente, il consumo di tellurio aumenterà di conseguenza. Il processo sopra
503
descritto, in grado di recuperare i materiali semiconduttori, contribuisce a rendere la tecnologia a film sottile basata sul tellururo di cadmio realmente sostenibile e nel porre fine alle preoccupazioni ambientali legate all’impiego del cadmio. Inoltre, senza il riciclaggio, lo sviluppo e la
diffusione di tale tecnologia potrebbe essere limitato in futuro proprio da un eventuale esaurimento delle riserve di tellurio.
2. Deutsche Solar ha sviluppato un processo di riciclaggio chimico e termico, ancora allo stadio di impianto pilota, recentemente implementato da un efficace sistema di automazione per
la fase di separazione. Vengono preliminarmente recuperati i wafer intatti non danneggiati,
riutilizzati dai produttori di celle solari, mentre i wafer e le celle rotte vengono trattati per
ottenere silicio come materia prima secondaria [4]. Come è possibile osservare in figura 2, la
soluzione di riciclaggio di Deutsche Solar prevede due fasi principali: un trattamento termico
funzionale al disassemblaggio e alla separazione dei vari componenti dei moduli, e un trattamento chimico per il recupero del silicio. I moduli fotovoltaici vengono introdotti nel sistema
di trattamento termico mediante un sistema automatico di alimentazione. Durante questo stadio ha luogo la decomposizione dei materiali organici che servono principalmente a mantenere
uniti i diversi strati del pannello. La fase termica è seguita da una separazione meccanica delle
bandelle di rame e dei segmenti che formano la cornice di alluminio dal resto dei materiali,
mediante separatori elettromagnetici, con rendimenti di separazione del 100%. Successivamente, una serie di trattamenti meccanici quali frantumazione, vagliatura e separazione gravimetrica consente di rimuovere i materiali indesiderati e di separare il vetro dai frammenti delle
celle solari rotte, le quali saranno infine sottoposte ad un ultimo trattamento chimico che serve
a recuperare il silicio [5]. Il sistema di separazione automatizzato dei metalli, recentemente
sviluppato, consente di ottenere rendimenti di separazione molto elevati.
Fig. 1 Schema del processo di riciclaggio Deutsche Solar (SolarWorld source)
3) Il progetto RESOLVED rappresenta una strategia di riciclaggio per i moduli a film sottile e
al CdTe, basata prevalentemente su processi meccanici di tipo “ad umido” [6]. Ad oggi il
riciclaggio dei moduli a film sottile, se effettuato, avviene principalmente mediante l’uso di
504
processi chimici. Il trattamento meccanico ad umido dei moduli giunti alla fine della loro vita
utile, sviluppato dal progetto RESOLVED, può pertanto rappresentare un nuovo ed alternativo approccio al riciclaggio caratterizzato da un uso minimo di composti chimici.
Il design for recycling e il fotovoltaico
Il “design for recycling” è una filosofia generale di progettazione che mira a pensare e realizzare i prodotti in modo che alla fine della loro vita utile sia relativamente semplice disassemblarli
in componenti separati che possano essere riusati o riciclati.
Tuttavia nel caso dei pannelli solari il concetto del “design for recycling” deve anche coesistere
con esigenze di elevata prestazione di resistenza e durabilità: i moduli infatti devono resistere
agli agenti atmosferici (pioggia, neve, grandine, umidità etc.), a cui sono costantemente esposti, per almeno 25-30 anni di vita utile.
È evidente che tenendo conto, durante la fase di progettazione di un modulo fotovoltaico,
anche delle future esigenze di smontaggio a fine vita utile, la gestione dell’«end of life» e in
particolare del riciclaggio ne trarrebbe beneficio dal punto di vista economico e ambientale.
3. Conclusioni
Allo stato attuale cominciano ad affacciarsi soluzione di gestione e trattamento dei pannelli
solari giunti a fine vita estremamente interessanti e caratterizzati da elevatissimi rendimenti di
separazione e di recupero. Le soluzioni “high value recycling” descritte permettono di valorizzare i materiali e i componenti di maggior pregio presenti all’interno dei moduli fotovoltaici
nel momento in cui essi diventano rifiuti. È pertanto doveroso distinguere tali “nobili” ed
efficaci soluzioni da altre eventuali alternative di gestione “end of life”, che, pur presentando
una maggiore semplicità di attuazione e minori costi, risultano meno interessanti da un punto
di vista ambientale poiché si limitano al recupero e al riciclaggio di alcune frazioni, come ad
esempio quella vetrosa e l’alluminio della cornice, trascurando i materiali più preziosi quali il
silicio, l’indio e il tellurio, più difficili da recuperare.
Un’interessante sfida nella progettazione dei pannelli solari è inoltre rappresentata dall’applicazione dei principi del “design for recycling”, in un ambito in cui risultano particolarmente
evidenti due esigenze contrastanti: da un lato la richiesta di un elemento molto affidabile, in
grado di resistere per diversi anni agli agenti atmosferici, e dall’altro di un prodotto che sia
relativamente facile da disassemblare una volta giunto a fine vita.
Bibliografia
[1] Gabrielli F., 2010. La sfida del riciclaggio nel settore fotovoltaico. Nextville Energie Rinnovabili ed
Efficienza Energetica. Available at: http://www.nextville.it/scenari/14;
[2] Fthenakis V.M. e Eberspacher C., 1997. Disposal and recycling of end-of-life pv modules. Final
Proc. 26th PVSC, Anaheim, CA, pp. 1067-1072;
[3] First Solar, 2010. First Solar module collection and recycling program. Downloadable at: http://
www.firstsolar.com/Downloads/pdf/Brochure_CollectionRecyclingProgram_NA.pdf;
[4] Bombach E., Müller A., Wambach K. e Röver I., 2005. Recycling of solar cells and modules-recent
improvements. Final Proc. 20th EU PVSEC, Barcelona, Spain;
[5] Wambach K., Schlenker S., Konrad B., Müller A., von Ramin-Marro D., Clyncke J., Gomez V.,
Hartleitner B. e Rommel W., 2009. PV Cycle – The voluntary take back system and industrial recycling
of PV modules. Final Proc. 24th EU PVSEC, Hamburg, Germany, pp. 4417-4421;
[6] Resolved, 2008. Recovery of solar valuable materials, enrichment and decontamination. Downloadable at: http://www.resolved.bam.de/eng_publications.htm.
505
Sull’utilizzo di fonti rinnovabili per la
produzione di energia e integrazione con
impianti industriali
Cesare Saccani [email protected], Augusto Bianchini, Marco Pellegrini – Università
di Bologna
Riassunto
Il presente articolo intende presentare alcune delle attività di ricerca condotte dal DIEM nel
campo dell’utilizzo di fonti rinnovabili per la produzione di energia e integrazione con impianti
industriali. Tali attività sono condotte sia presso i laboratori del DIEM che in collaborazione con
aziende.
In particolare, si vogliono descrivere le attività di ricerca finalizzate alla realizzazione di una caldaia alimentata a biomassa “stand-alone” e ad impatto ambientale ridotto e lo studio di fattibilità,
tutt’ora in corso, per l’integrazione tra impianti di steam reforming del metano alimentati da
energia termica fornita dal Sole e impianti per la produzione di energia elettrica alimentati a
combustibile fossile.
Summary
This paper aims to present some of the research conducted by DIEM Department about renewable energy use and integration with industrial systems. These activities are conducted both in
DIEM laboratories and in co-operation with companies.
In particular, the paper describes design and realization of a “stand alone” and reduced environmental impact biomass boiler and the feasibility study, still ongoing, about the integration of
methane steam reforming process powered by sun thermal energy and electrical power plants fed
by fossil fuels.
1. Introduzione
La valorizzazione energetica delle fonti rinnovabili passa attraverso la ricerca di soluzioni impiantistiche in grado di incrementare l’efficienza complessiva dei processi di produzione, stoccaggio e trasporto dell’energia, oltre che alla necessità di limitarne al minimo l’impatto ambientale.
A tale scopo, presso il Laboratorio del DIEM ed il Laboratorio Fossil Fuel Free “Hera Lab”
sono in corso attività di sperimentazione su dispositivi innovativi per la cogenerazione e la
filtrazione di effluenti gassosi. In particolare, è allo studio una soluzione in grado di integrare
processi di combustione con celle termovoltaiche, dette ad effetto Seebeck, in grado di convertire direttamente energia termica in energia elettrica, senza l’ausilio di organi meccanici in
movimento. Inoltre, è in fase di valutazione sperimentale un filtro ad alta efficienza che coniuga i benefici della filtrazione a tessuto e della filtrazione a umido. Tale filtro è stato progettato
per l’abbattimento del particolato e, attraverso l’abbinamento con fluidi adeguati, di diverse
tipologie di inquinanti.
506
Infine, si sta conducendo un’analisi impiantistica sulla possibilità di produzione di idrometano
da fonte rinnovabile, in particolare dall’energia solare. Gli impianti per produzione di energia
da fonte solare rappresentano un settore in forte sviluppo, ma che presenta ancora alcune
criticità, tra le quali il problema dello stoccaggio e del trasporto dell’energia prodotta.
2. Relazione
2.1 Dispositivi sperimentali per la cogenerazione statica ed il trattamento dei fumi
Il laboratorio Fossil Fuel Free “HERA Lab” è stato pensato come laboratorio di ricerca e
sviluppo sulle energie rinnovabili [1]. Il laboratorio consentirà uno studio dettagliato del comportamento dei sistemi energetici da fonte rinnovabile con particolare riferimento al sistema di
gestione, alle esigenze di manutenzione e alla reale efficienza al variare delle soluzioni impiantistiche e progettuali, oltre che dell’impatto ambientale in esercizio e durante l’intero ciclo di
vita dell’oggetto.
Fig. 1 – Rendering di Hera Lab.
Uno dei filoni impiantistici di ricerca individuato è quello relativo alle biomasse. Avendo a
disposizione una caldaia a biomassa da 300 kW termici, si studierà il processo di combustione
di biomassa in prevalenza di tipo ligneo – cellulosico al fine di caratterizzarne rendimenti ed
emissioni. Inoltre, si approfondirà la gestione dell’approvvigionamento e stoccaggio della biomassa nell’ottica di sviluppo di una filiera corta. Infine, si valuterà l’impatto dei costi di manutenzione ordinaria e straordinaria e si stilerà un protocollo di azioni finalizzate all’ottimizzazione delle operazioni di verifica della caldaia.
Accanto alle attività sopra descritte, si intendono sviluppare, in collaborazione con aziende del
settore, una serie di attività di sviluppo prototipale finalizzate alla realizzazione di una caldaia
“stand-alone” e ad impatto ambientale ridotto. Alcuni prototipi sperimentali sono già stati
sviluppati e testati presso i laboratori del DIEM e sono ora in fase di progettazione i modelli
implementati.
Con la dizione caldaia “stand-alone” si intende definire una caldaia in grado di autoalimentare
dal punto di vista elettrico tutti quei dispositivi fondamentali per il suo funzionamento in
507
condizioni di sicurezza. Se ciò fosse possibile, la caldaia potrebbe operare sia in condizioni
critiche (quali black-out della rete) sia in condizione di mancanza di allacciamento alla rete
elettrica, qualora i consumi della caldaia lo consentissero (ovvero, nel caso in cui il livello di
automazione dell’impianto sia limitato). L’attuale attività di progettazione è orientata verso la
progettazione di diverse modalità di integrazione tra dispositivi innovativi quali le celle ad
effetto Seebeck (o celle termovoltaiche) e una tipica caldaia a biomassa. Ad esempio, modalità
di integrazione possibili sono in prossimità della camera di combustione (come in figura 3) o al
camino [2]. I risultati dei test condotti presso le strutture di ricerca del DIEM sulle sole celle
ad effetto Seebeck hanno consentito l’acquisizione di know-how specifico nella gestione delle
stesse e nella ottimizzazione delle loro prestazioni.
Fig. 2 – Cella ad effetto Seebeck integrata in caldaia.
Fig. 3 – Potenza e tensione in funzione del differenza di temperatura presente alle opposte superfici di una
cella ad effetto Seebeck.
La seconda peculiarità di cui si vuole dotare la caldaia implementata è quella di avere un ridotto impatto ambientale, con particolare riferimento alle emissioni di particolato. Un primo prototipo sperimentale di filtro coalescente a cartuccia in bagno d’olio è stato sviluppato presso le
strutture del DIEM e sarà oggetto di attività di riprogettazione ai fini di un utilizzo industriale.
508
Fig. 4 – Schema dell’impianto di filtraggio realizzato presso il Laboratorio DIEM.
Il filtro coalescente a cartuccia a bagno d’olio rappresenta una soluzione innovativa per il filtraggio del particolato presente nei fumi a valle dei processi di combustione o gassificazione.
Grazie all’integrazione di due diverse modalità di filtraggio, quali il filtro a cartuccia (a tessuto)
e il filtro coalescente, è possibile incrementare l’efficienza complessiva e, contemporaneamente, ridurre i costi di esercizio, grazie alla semplicità del sistema proposto, rispetto agli usuali
filtri impiegati al medesimo scopo. L’obiettivo finale è quello di raggiungere un ottimo grado di
separazione perseguendo l’obiettivo di “particolato zero” presente nei fumi di scarico, cioè
una quantità di particolato inferiore o, al più, uguale e a quella presente nel gas aspirante. Se
l’obiettivo fosse raggiunto, si potrebbe allora pensare al filtro come ad un filtro attivo per
l’intero ambiente, in quanto il fumo di scarico presenterebbe una percentuale di particolato
inferiore a quella presente nell’aria in ingresso.
La fase di prova del nuovo prototipo industriale verranno condotte in parte presso il laboratorio DIEM ed in parte presso il laboratorio “Hera Lab”. Successivamente alla validazione delle
“prove in bianco”, che prevedranno come già anticipato la filtrazione di aria ambiente, il filtro
verrà collocato a valle della caldaia a biomassa e, pertanto, si procederà con la valutazione degli
indici caratteristici e dell’efficienza a seguito di filtrazione di fumi di scarico. Il congiunto
utilizzo di caldaie che usano fonti rinnovabili e filtri per i fumi di scarico, come quello progettato, possono rappresentare una possibile strada per raggiungere un impatto ambientale praticamente nullo ovvero impatto negativo (particolato emesso inferiore a quello immesso).
2.2 Integrazione di impianti convenzionali di produzione di energia con tecnologie da fonti rinnovabili
Dall’analisi dello stato dell’arte è emersa la possibilità di progettare un impianto in cui vi sia la
presenza di un processo di steam reforming catalitico e di shift (parziale o completo) in cui il
calore necessario al reforming catalitico venga fornito da un impianto solare termico a concentrazione. Ai fini dell’applicazione proposta e visti i contenuti innovativi della stessa, si ritiene
opportuno valutare una soluzione tecnica che non rappresenti semplicemente la somma di due
impianti (steam reforming e CSP), ma, piuttosto, che cerchi di integrarne i processi.
509
Fig. 5 – Lay-out d’impianto con steam reforming catalitico del metano senza membrana integrato con un
impianto solare termodinamico abbinato ad un gruppo turbogas con caldaia a recupero e condensatore.
A tale scopo si propone di impiegare come fluido termovettore non più i sali fusi, o altri
fluidi impiegati usualmente, ma la corrente di metano, integrando nella struttura ricettiva
che realizza lo scambio tra potenza termica ceduta dal Sole e fluido termovettore il reattore
di steam reforming. Si ritiene pertanto ottimale una integrazione con la tipologia parabolic
trough o solar tower in cui l’elemento irradiato venga sostituito con il reformer. Ora, se si
considera un impianto turbogas esistente, esso e caratterizzato da una certa geometria della
camera di combustione. Sostituire l’alimentazione a gas naturale con una ad idrometano
pone il problema di valutare la possibilità di gestire un gas combustibile con una energia per
unità di volume (a parità di condizioni di pressione e temperatura) superiore a quella di
design. Possibili soluzioni a questo inconveniente possono essere sia di tipo strutturale (modificare la geometria della camera di combustione) che di gestione dell’impianto (variazione
dell’eccesso d’aria). Vanno poi attentamente valutate le condizioni di accensione della fiamma e l’influenza degli inerti presenti nella miscela di idrometano. Entrambi gli impianti proposti presentano però due vantaggi rispetto all’impianto turbogas tradizionale, cioè l’iniezione di vapore in camera di combustione e l’innalzamento del potere calorifico del combustibile impiegato. Gli effetti positivi dati dall’adduzione di vapore all’interno della camera di
combustione della centrale termoelettrica sono un incremento dell’efficienza del ciclo ed un
incremento della potenza resa (circa il 50-70%), oltre ad un rilevante abbattimento nella
produzione di NOX, mentre l’innalzamento del potere calorifico della miscela di idrometano dato dalla conversione dell’energia solare in energia chimica consente un risparmio di
combustibile (ovvero minori emissioni di CO2) fino al 20%.
510
3. Conclusioni
Si sono illustrate alcune delle attività di ricerca in cui è impegnato il Dipartimento DIEM,
sezione impianti, della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Bologna, con particolare riferimento alle fonti di energia rinnovabili.
Nel laboratorio Fossil Fuel Free “Hera Lab” di prossima realizzazione sono previste una serie
di attività sperimentali volte a migliorare le prestazioni energetiche ed a ridurre l’impatto ambientale delle caldaie a biomassa. Lo sviluppo di un filtro in grado di limitare la concentrazione
di particolato emesso dagli impianti di combustione fino ad un livello pari a quello dell’aria
ambiente si propone come una possibile soluzione innovativa ad un problema, quello delle
emissioni da impianti di conversione energetica da, su cui si sta orientando il dibattito dei
tecnici e degli amministratori. Inoltre, l’opportunità di cogenerazione anche alle basse potenze
incrementa il rendimento della caldaia e garantisce una produzione di energia elettrica minima
in grado di alimentare i dispositivi di sicurezza della caldaia (caldaia “stand-alone”).
Infine, è stato presentato un filone di ricerca riguardante l’integrazione di un processo di steam
methane reforming con impianti termodinamici a concentrazione per la produzione di idrometano e l’utilizzo come combustibile in centrali turbogas, che è promettente sia dal punto di
vista del miglioramento di efficienza dell’impianto turbogas che di diminuzione delle emissioni
di CO2.
Bibliografia
[1] Anzalone C., Bianchini A., Giunchi D., Pellegrini M., Saccani C., “Laboratorio di ricerca e sviluppo
sulle energie rinnovabili”, Impiantistica italiana, Anno XXIII, n°1, pag. 45-52, 2010;
[2] D. Champier, J.P. Bedecarrats, M. Rivaletto, F. Strub “Thermoelectric power generation from biomass cook stoves” Energy, Volume 35, Issue 2, 2010, Pag. 935-942;
[3] Pablo Bermejo, Francisco Javier Pino, Felipe Rosa,” Solar absorption cooling plant in Seville” Solar
Energy, Volume 84, Issue 8, 2010, Pag. 1503-1512;
[4] Anja Royne, Christopher J. Dey, David R. Mills, “Cooling of photovoltaic cells under concentrated
illumination: a critical review, Solar Energy Materials and Solar Cells”, Volume 86, Issue 4, 2005, Pag.
451-483;
[5] Amin Ghobeity, Alexander Mitsos, “Optimal Operation of a Concentrated Solar Thermal Cogeneration Plant,” Computer Aided Chemical Engineering, Volume 29, 2011, Pag. 1974-1978.
511
Analisi di sistemi energetici basati
sull’impiego di Fuel Cell per applicazioni
stazionarie cogenerative
Michele Bianchi [email protected], Alberto Borghetti, Andrea De Pascale, Ugo
Mencherini, Davide Messori, Fabio Napolitano, Carlo Alberto Nucci, Antonio Peretto, Roberta
Vecci – Università di Bologna, D.I.E.M., D.I.E.
Riassunto
Le celle a combustibile (Fuel Cells – FCs) a bassa temperatura sono potenzialmente utilizzabili
per applicazioni cogenerative, sia nel settore residenziale sia nel terziario. L’energia elettrica prodotta può essere utilizzata o accumulata ed è possibile recuperare la potenza termica fornita durante il funzionamento di tali sistemi. Dal 2003 è condotto un programma di ricerca in collaborazione fra i dipartimenti DIEM e DIE dell’Università di Bologna sulle FCs e sulle applicazioni cogenerative delle stesse. Sulla base dei risultati ottenuti anche mediante la realizzazione di un sistema
prototipale della taglia di alcuni kW si vuole ora proseguire tale studio mediante lo sviluppo del
progetto di ricerca “stazione di prova per sistemi a cella a combustibile” presso il Tecnopolo di
Ravenna, nell’ambito del CIRI Energia e Ambiente. La finalità del progetto è la caratterizzazione
completa di un sistema energetico complesso basato su FCs e accumuli. Nel presente articolo si
illustrano le caratteristiche del banco prova che si intende sviluppare per il progetto.
Summary
Low temperature FCs are potentially suitable for cogenerative applications for residential and
tertiary users. Depending on the load request, the produced electricity can be used, stored or
delivered to the external net. Contextually, the available heat can be used, accumulated inside the
fuel cell or dissipated. A test facility equipped with a 5-kW FC has been developed at the University of Bologna in the framework of a research collaboration between the Departments DIEM and
DIE. On the basis of the obtained results, a new research project named “test bench for FC-based
energy systems” has been started. This project, carried out at the Ravenna Technopole by CIRI
Energia e Ambiente, has the aim to obtain a complete characterization of FC electric and energetic performances at different operating conditions also in conjuction with storage systems. The
paper describes the key features of the test bench under this development.
1. Introduzione
La ricerca nel campo di sistemi di produzione di energia elettrica e termica ad “emissioni zero”
rappresenta una missione chiave per le attività di ricerca sia accademica che industriale [1, 2].
Nell’ultimo decennio, oltre che nei confronti della tecnologia di cattura della CO2 applicata ai
tradizionali impianti di produzione di energia elettrica, è stato possibile riscontrare un crescente interesse rivolto alla cosiddetta “economia dell’idrogeno”[3, 4]. Il fondamento concettuale
è rappresentato dall’idea di una piattaforma energetica basata su una catena di processi di
conversione, in cui:
512
– il punto di partenza è rappresentato da fonti energetiche primarie ad emissioni nulle di CO2
(principalmente fonti energetiche rinnovabili la cui produzione è variabile e spesso difficilmente prevedibile con largo anticipo);
– l’elemento finale è costituito dalle utenze di energia elettrica e/o termica, la cui richiesta
energetica è anch’essa variabile e poco prevedibile per piccole utenze.
– Una tale condizione variabile e aleatoria di richiesta energetica necessita quindi di adeguati
sistemi di accumulo oltre che di trasporto dell’energia (dagli impianti di produzione alle utenze finali).Tale processo intermedio, di accumulo energetico e di trasporto può quindi essere
realizzato attraverso il vettore energetico idrogeno, che può essere ottenuto dall’elettricità generata negli impianti di produzione, per essere successivamente riconvertito in elettricità o
calore attraverso l’uso di sistemi di conversione localizzati presso le utenze finali ed alimentati
ad idrogeno.
Per realizzare tale scenario, un obiettivo chiave è quindi rappresentato dallo sviluppo di
sistemi energetici alimentati ad idrogeno, efficienti e replicabili. Le Fuel Cells (FCs) sono in
grado di convertire l’energia chimica immagazzinata nell’idrogeno in elettricità con efficienze promettenti e limitate emissioni inquinanti. La frazione di energia inutilizzata è fornita
sotto forma di calore. FC operanti a bassa temperatura (come le FCs a membrana polimerica, PEM-FCs, che lavorano nel range di temperature compreso tra 50°C e 90°C [5]) potrebbero rappresentare la soluzione applicativa per la produzione domestica combinata di potenza elettrica e termica.
2. Relazione
2.1 Analisi di un sistema energetico con Fuel Cell
A fronte del crescente interesse riscontrato nei confronti della tecnologia delle FCs, una collaborazione di ricerca fra i dipartimenti DIEM e DIE dell’Università di Bologna porta avanti da
diversi anni attività di ricerca su tale tecnologia, mediante studi numerici e sperimentali finalizzati ad investigare il comportamento e le prestazioni di sistemi energetici basati sull’utilizzo di
FC. Recentemente sono state condotte campagne sperimentali per analizzare le prestazioni
cogenerative delle FCs [6, 7], avvalendosi anche di un sistema prototipale realizzato presso i
laboratori della Facoltà di Ingegneria. Il sistema è attualmente in fase di ulteriore sviluppo.
2.1.1 Descrizione del sistema
Il sistema in oggetto (Fig. 1) è costituito da una PEM-FC commerciale di taglia 5-kW, da una
batteria di accumulatori, da un emulatore di produzione fotovoltaica, da carichi elettrici controllabili e da un sistema di monitoraggio e gestione automatica.
Il componente principale della FC è lo Stack, alimentato dal lato anodo da idrogeno, proveniente da un sistema di accumulo esterno. Prima di entrare nello stack, la pressione dell’idrogeno è ridotta attraverso una valvola di riduzione della pressione (PRV) fino a circa 1.2 bar;
successivamente, il flusso di idrogeno passa attraverso una valvola di sicurezza (SCV). La regolazione all’uscita dell’anodo è realizzata dalla valvola di controllo (OCV), necessaria per spurgare le frazioni di acqua e gas inerte accumulate nell’anodo, oltre alla frazione di idrogeno puro
non reagito. Al lato opposto, l’aria necessaria al funzionamento della cella è introdotta al catodo della cella attraverso l’uso di un ventilatore (B), che introduce aria alla pressione di 1.3 bar.
Il flusso di aria in ingresso è umidificato prima di entrare, sfruttando il flusso di aria umida
all’uscita del catodo, attraverso uno scambiatore umidificatore (GGH). La potenza elettrica in
DC in uscita dallo Stack passa all’interno dell’inverter della FC (FC Inv.), dove viene convertita
in potenza elettrica in AC. La potenza termica prodotta dallo stack nel corso del suo funzionamento è prelevata da un circuito di raffreddamento ad acqua, composto da una pompa (P), un
serbatoio e uno scambiatore di calore acqua-acqua (HX), che trasferisce la potenza termica
513
precedentemente assorbita ad un flusso esterno di acqua destinato alle utenze termiche. Una
valvola direzionale (DV) devia, in determinate condizioni operative, l’acqua di raffreddamento
proveniente dallo Stack verso il serbatoio piuttosto che verso l’HX. La regolazione della valvola direzionale è realizzata così da garantire:
– un rapido riscaldamento della FC nel corso dell’avvio del sistema;
– un valore stabile di temperatura interna durante la fase di funzionamento della FC.
Fig. 1 – Il layout della FC.
Per valutare le prestazioni della FC in condizioni reali, all’interno di un sistema integrato con
carico, accumulo e produzione da altre sorgenti, è stato realizzato un banco prova (Fig. 2). In
tale banco prova sono presenti carichi elettrici (che simulano le utenze collegate alla cella),
connessi mediante un comune AC-bus. Il sistema è anche dotato di un emulatore di un pannello fotovoltaico da 500 W non mostrato in figura.
514
Fig. 2 – La struttura del sistema sperimentale.
Il sistema è equipaggiato con sensori di tensione elettrica (S1) e corrente (S4, S5, S6), fondamentali per caratterizzare i flussi di potenza elettrica generati o assorbiti dai singoli componenti del sistema; su ogni linea, sono inoltre installati interruttori (sia manuali che automatici).
Sono stati inoltre indicati anche trasduttori di tensione (S2, S3), trasduttori di corrente (S7,
S8), misuratori di portata (S9, S12, S13) e termocoppie (S10, S11), fondamentali per valutare
le prestazioni cogenerative della FC. Il banco prova è equipaggiato anche con un sistema di
acquisizione dei segnali acquisiti mediante i sensori citati in precedenza (Fig. 3) basato sul
microcontrollore CompactRIOTM [7]. Il banco prova è dotato anche di una scheda elettronica
che permette di simulare differenti scenari di carico.
Fig. 3 – Layout del sistema di acquisizione dati.
515
Nella Tabella 1 sono riportate le caratteristiche principali dei sensori e le corrispondenti variabili acquisibili.
Tab. 1 – Sensori di misura.
La tensione elettrica è misurata con trasduttori in corrispondenza dell’AC bus (vAC), degli
ausiliari FC (vAUX) e dell’uscita in DC della FC (vDC). La corrente è misurata mediante trasduttori di corrente in corrispondenza dell’uscita in corrente alternata della FC (iAC), del carico
(iLOAD), degli ausiliari (iAUX), delle batterie (iBATT) e dell’uscita in corrente continua della FC
(iDC). Il consumo di idrogeno (mH2) è misurato mediante un misuratore di portata in massa di
tipo termico; la variazione della temperatura dell’acqua cogenerativa è misurata con due termocoppie serie K; la variazione di temperatura dell’acqua di refrigerazione presente nel serbatoio è misurata con due termocoppie serie J. Il microcontrollore elabora e immagazzina le
quantità misurate in modo da calcolare le variabili che definiscono le prestazioni del sistema.
2.1.2 Attività di ricerca sulle FCs presso il Tecnopolo di Ravenna
Sulla base delle esperienze e delle analisi condotte utilizzando la tecnologia precedentemente
descritta, sono state sviluppate competenze su sistemi energetici complessi alimentati a fonti
rinnovabili e con FCs. Tali indagini sono state portate avanti anche avvalendosi di codici numerici commerciali, oltre che di specifici codici sviluppati per la ricerca.
È stato inoltre possibile implementare competenze nell’ambito della caratterizzazione delle
prestazioni termiche ed elettriche di questi sistemi innovativi.
Sulla base dei risultati ottenuti, è stato avviato – presso i laboratori del CIRI al Tecnopolo di
Ravenna – un “programma pilota per lo sviluppo sperimentale di tecnologie ad idrogeno per i
primi mercati e la decarbonizzazione”, strutturato in più filoni di ricerca.
Il filone di ricerca afferente al CIRI Energia e Ambiente è quello connesso all’implementazione
di una “stazione di prova per sistemi a cella a combustibile”. Gli obiettivi di tale indagine
consistono nella progettazione e realizzazione di una stazione di prova per la caratterizzazione
di sistemi energetici basati su FC a membrana polimerica, con potenza compresa tra 1 e 5 kW,
per applicazioni stazionarie.
Tale studio consentirà di caratterizzare le prestazioni energetiche e le capacità operative della
FC al variare del carico, delle condizioni ambientali e delle ore di funzionamento.
516
Sarà inoltre possibile simulare interruzioni di corrente, osservando i transitori del sistema all’interno dei range temporali critici, permettendo il testing della FC sia quando il sistema funziona in isola di carico, sia quando è connesso ad una rete elettrica esterna.
La stazione di prova consentirà infine di testare e simulare il comportamento di una mini-rete
che comprenda, oltre alla FC, anche altri sistemi energetici di generazione.
L’attività che dovrà essere portata avanti presso i laboratori del CIRI Energia e Ambiente –
Tecnopolo di Ravenna, sarà suddivisa in step progressivi:
– identificazione del layout e della componentistica presente sul mercato, in funzione delle
caratteristiche individuate, così da poter procede alla progettazione del banco prova;
– realizzazione del banco prova per il testing di un sistema a FC di taglia 1-5 kW, sia in isola di
carico che integrato con altri sistemi di generazione elettrica;
– testing di un sistema a cella a combustibile al fine di valutare le eventuali barriere all’installazione di tale sistema in contesti reali e al fine di ottimizzarne la gestione energetica e l’interfacciamento con la rete e/o con altri sistemi di generazione.
In tal maniera sarà quindi possibile disporre di un sistema che consentirà di implementare
significativamente le analisi portate avanti fino ad ora, studiando la FC come componente di
un sistema energetico integrato, cercando di individuare e superare le barriere connesse all’eventuale applicazione reale del dispositivo studiato.
3. Conclusioni
La problematica energetica ha determinato un crescente interesse nei confronti delle tecnologie alternative ad emissioni zero; tra queste, particolare attenzione è stata riscontrata nell’ultimo decennio nei confronti delle FCs, elementi chiave per l’implementazione di una filiera
basata sull’idrogeno (inteso come vettore energetico) che si sviluppi dai centri di produzione
dell’energia alle utenze finali.
L’interesse nei confronti di tale tecnologia ha portato vari enti di ricerca ad condurre progetti
sul tema: nell’ambito di una collaborazione fra i dipartimenti DIEM e DIE dell’Università di
Bologna è stata condotta un’attività di sperimentazione dal 2003. Il rilevante background di
esperienze e di analisi sperimentali accumulato in questo periodo ha consentito di avviare un
“programma pilota per lo sviluppo sperimentale di tecnologie ad idrogeno per i primi mercati
e per la decarbonizzazione”, nell’ambito delle attività del CIRI Energia e Ambiente presso il
Tecnopolo di Ravenna. Tale progetto, attualmente nelle fasi preliminari di attività, si prefigura
come obiettivo principale la caratterizzazione completa di un dispositivo energetico basato su
cella a combustibile: tale analisi permetterà di valutare il comportamento della FC all’interno
di un sistema integrato di produzione multisorgente, accumulo ed utilizzazione, studiandone
le potenzialità e le problematiche in vista di un’applicazione reale in diversi settori.
Bibliografia
[1] Kyoto Protocol To The United Nations Framework Convention On Climate Change, United Nations, 1998, http://unfccc.int/resource/;
[2] Directive 2009/28/EC of the European Parliament and of the Council, 23 April 2009. http://
eurlex.europa.eu/;
[3] European Commission, EUR 20719 EN – Hydrogen Energy and Fuel Cells – A vision of our future,
2003. http://ec.europa.eu/research/energy/;
[4] National Academy of Engineering, 2004, “The Hydrogen Economy: Opportunities, Costs, Barriers,
and R&D Needs”, Washington, D.C.: The National Academies Press;
[5] US DOE, 2004, “Fuel Cell Handbook (Seventh Edition)”, by EG&G Technical Services, Inc.,
[6] Belvedere B., Bianchi M., De Pascale A., “Experimental analysis of the cogenerative performance of
a PEM fuel cell based energy system”;
[7] Belvedere B., Bianchi M., Borghetti A., De Pascale A., Di Silvestro M., Paolone M., “DSP-Controlled Test Set-up for the Performance Assessment of an Autonomous Power Unit Equipped with a PEM
517
Fuel Cell”, Proc. of the International Conference on CLEAN ELECTRICAL POWER, Capri – Italy,
May 21st-23rd, 2007;
[8] Belvedere B., Bianchi M., Borghetti A., Paolone M., “Design, implementation and testing of an
automatic power management system for residential stand-alone microgrid with power supply”, preprints of the 18th IFAC World Congress, Milano (Italy), August 28- September 2, 2011;
[9] Belvedere B., Bianchi M., Borghetti A., De Pascale A., Paolone M., Vecci R., “Experimental analysis of a PEM fuel cell performance at variable load with anodic exhaust management optimization”, in
corso di rewiev a European Fuel Cell – Piro lunghi conference & Exhibition, EFC2011, Roma (Italia)
14-16 Dicembre, 2011.
518
Sistema di Accreditamento e
Certificazione Energetica (RER). Prime
valutazioni in ambiente GIS estese al
caso studio di Ferrara
Marco Zuppiroli [email protected] – Università degli Studi di Ferrara
Kristian Fabbri – Alma Mater Studiorum, Bologna.
Riassunto
Le nuove politiche energetiche, l’imposizione dei requisiti minimi in materia di efficienza energetica così come l’EPC (Energy Performance Certificate) vengono oggi applicati sia agli edifici di
nuova costruzione, sia agli edifici esistenti sottoposti ad interventi di energy retrofit. L’introduzione degli EPC e del relativo database in Emilia-Romagna consente oggi lo sviluppo in ambiente
GIS delle prime analisi e delle prime simulazioni.
Nel presente contributo si affronta il caso specifico del centro urbano della città di Ferrara valutando, da una parte, l’incidenza statistica degli edifici storici rispetto al fabbisogno energetico
dell’intero centro urbano e, dall’altra, gli aspetti energetici legati ai fattori tipologico/costruttivi
che caratterizzano l’edilizia storica.
Summary
The new policies about energy performance of building, including minimum energy requirements
and EPC (Energy Performance Certificate), are apply to new and existing building, especially in
case of energy retrofit. The introduction of EPC database in Emilia-Romagna is an opportunity to
start new GIS studies and simulations.
This paper, about Ferrara historical centre, aims to debate on the one hand, the number of heritage buildings and their incidence from the energy point of view and, on the other hand, the typology factor for energy saving.
1. Introduzione
La prestazione, il fabbisogno ed il consumo di energia che caratterizzano un edificio sono da
tempo entrati nel pieno del dibattito interno al settore delle costruzioni e, più in generale, al
settore immobiliare. La Direttiva 2002/91/CE (EPBD), nelle tante declinazioni locali, ha di
fatto posto l’accento sull’incidenza che l’edificato ha sui consumi energetici. In seguito, la
certificazione energetica, ha contribuito a diffondere l’idea di una possibile valutazione in termini prestazionali con un efficace risvolto a livello comunicativo anche sul piano immobiliare.
I temi legati all’efficienza energetica e, più in generale, alla sostenibilità intesa come sfida per il
settore delle costruzioni nel recente passato – come nel prossimo futuro – hanno portato dall’edificio all’edificio passivo, fino alla casa attiva ed ai marchi di qualità ambientale (quali, a
titolo d’esempio, il protocollo ITACA, LEED©, BREEAM©...). L’ampia letteratura in merito
519
ha da tempo spostato l’interesse sulla valutazione della prestazione energetica di singoli edifici
esistenti [1] [2] [3], di ampi parchi edilizi [4] [5] finanche di edifici di interesse storico –
artistico [6].
La relazione tra aspetti energetici e disciplinari non può limitarsi alla promozione di soluzioni
tecnologiche innovative e sempre più performanti ma è necessario che interessi anche altri
ambiti disciplinari. Sicuramente la pianificazione urbana e territoriale, per valutare l’incidenza
che le infrastrutture energetiche ed il fabbisogno degli edifici hanno rispettivamente sull’uso
del suolo e sul bilancio energetico territoriale (con evidenti ricadute in termini di programmazione), ed il restauro architettonico per valutare in termini prestazionali l’edilizia pre-industriale – in particolare l’edilizia non monumentale – e, conseguentemente, individuare le migliori
strategie operative, determinando con chiarezza i limiti dei possibili interventi.
La riflessione in atto, a carattere interdisciplinare, è oggetto di interesse per molti attori:
– da una parte la testimonianza avente valore di civiltà costituita, in questo caso, dall’edilizia
pre-industriale, di cui gli edifici monumentali sottoposti a tutela costituiscono solo una piccola
parte, e le possibili ricadute (trasformazioni ed alterazioni) che il rispetto dei requisiti minimi
di prestazione energetica indicati in normativa potrebbe avere;
– dall’altra l’incidenza che gli edifici storici hanno rispetto al patrimonio edilizio esistente e di
nuova costruzione sia in termini qualitativi che in termini quantitativi (numero, fabbisogno
energetico...)
Le informazioni che si riferiscono al SACE (Sistema di Accreditamento e Certificazione Energetica), rese disponibili dalla regione Emilia-Romagna (RER), costituiscono un valido aiuto
per una valutazione più precisa di quest’ultimo aspetto.
2. Relazione
2.1 L’edificato storico
L’Italia è un paese fortemente antropizzato fin dall’antichità. Città e territorio sono caratterizzati da una significativa presenza di costruzioni pre-industriali. Possiamo definire edilizia preindustriale “il prodotto di un processo edilizio che si caratterizza per l’interazione di fasi, operazioni ed operatori frutto di una prassi non formalizzata” [7] e possiamo qualificare come tecnologie e materiali pre-industriali tutti i componenti ed i prodotti che entrano all’interno di questo tipo di processo che, proprio perché non codificato, costituisce importante testimonianza
avente valore di civiltà. Si tralasciano, nel presente lavoro, considerazioni di carattere storico –
conservativo nel tentativo di porre l’accento sull’incidenza degli edifici pre-industriali rispetto
al totale del patrimonio edilizio.
Le Tabb. 1 e 2 riportano il numero e la distribuzione percentuale, suddivisa per decenni, del
patrimonio edilizio italiano esistente, ricavate sulla base dell’ultimo Censimento ISTAT (Italia,
regione Emilia-Romagna – dove sono presenti il 6.55% delle unità immobiliari – e comune di
Ferrara – dove sono presenti il 2,68% delle unità immobiliari della regione e lo 0,18% del
totale nazionale).
La Tab. 3 riporta gli stessi valori suddivisi nei tre periodi storici ritenuti più significativi:
– edificato pre-industriale, antecedente al 1945, (circa il 30% del patrimonio edilizio, quasi il
36% nel comune di Ferrara, a conferma dell’importanza che il fenomeno urbano ha rivestito
nel passato);
– edificato costruito tra il 1946 e il 1991, antecedente all’introduzione, con la Legge 10/1991,
delle prime norme per il contenimento del consumo di energia negli edifici (60% del patrimonio edilizio);
– edificato recente, costituito da edifici realizzati dopo l’entrata in vigore della Legge 10/1991
e quindi dotati di isolamento ed impianti mediamente più efficienti.
520
Il Censimento Istat si ferma al 2001 ma andrebbe considerato anche il periodo a partire dal
2005, anno di entrata in vigore del Dlgs 192/2005 e dei provvedimenti nazionali e regionali in
materia di prestazione energetica degli edifici.
1946 >
1962 >
1972 >
1982 >
TOTAL
1991 >
1961
1971
1981
1991
E
1.659.829,0 1.967.957,0 1.983.206,0 1.290.502,0
11.226.595,
2.150.259,00 1.383.815,00
0
0
0
0 791.027,00
00
129.045,00 94.115,00 135.151,00 140.989,00 121.597,00 61.251,00 52.918,00 735.066,00
4.314
2.774
4.887
3.175
1.809
1.320
1.439
19.718
>1919
Italia
RER
Ferrara
1919 >
1945
Tab. 1 – Numero edifici suddivisi per anno di costruzione (Dati ISTAT – Cens. 2001).
1919 >
1946 >
1962 >
1972 >
1982 >
1991 >
1945
1961
1971
1981
1991
19,15% 12,33% 14,78% 17,53% 17,67% 11,50%
7,05%
17,56% 12,80% 18,39% 19,18% 16,54%
8,33%
7,20%
21,88% 14,07% 24,78% 16,10%
9,17%
6,69%
7,30%
>1919
Italia
RER
Ferrara
TOTAL
E
100,00%
100,00%
100,00%
Tab. 2 – Percentuale edifici suddivisi per anno di costruzione (Dati ISTAT – Cens. 2001).
Italia
Emilia
Romagna
Comune di
Ferrara
Prima del 1945
3.534.074
31,48%
1945 > 1991
6.901.494
61,47%
Dopo il 1991
791.027
94.115,00
30,36%
458.988
62,44%
52.918
7,20%
7.088
35,95%
11.191
56,76%
1.439
7,30%
7,05%
Tab. 3 – Numero e % edifici suddivisi per periodo di costruzione (Dati ISTAT – Cens. 2001).
Le tabelle evidenziano che la maggior parte degli edifici sono stati realizzati tra il dopoguerra
ed il 1991, periodo durante il quale la sempre più massiccia introduzione di tecniche costruttive leggere (prevalentemente costituite da strutture portanti in CA e tamponamenti in laterizio,
telai con vetri singoli ed impianti di riscaldamento non efficienti), ha contribuito alla completa
trasformazione del processo edilizio. Il periodo dal 1951 al 1991 coincide con i primi 5 cicli
edilizi così come vengono definiti dai rapporti CRESME [8], e il primo ciclo, dal 1951 al 1964,
caratterizzato dalla ricostruzione e dal miracolo economico è contraddistinto da una fase espansiva con edilizia di bassa qualità e costi energetici molto ridotti, senza regole per quanto riguarda gli impianti di riscaldamento, che sono stati normati solo a partire dal 1976.
Allo stato attuale, dal 2007, ci troviamo nel 7° ciclo edilizio, il primo di crisi dopo una lunga
serie di cicli con andamento costante e crescente.
2.2 Certificazione energetica in Emilia-Romagna e SACE
La regione Emilia-Romagna si è dotata di una propria disciplina in materia di prestazione
energetica degli edifici con la DAL 156/2008 modificata dal DGR 1362/2010 e, dal gennaio
2009, ha attivato il SACE, per la compilazione e l’emissione degli Attestati di Certificazione
Energetica relativi a singole unità immobiliari (UI).
Il SACE prevede l’inserimento dei dati catastali, geometrici ed energetici dell’UI, oltre a quelli
della proprietà. Inoltre richiede la compilazione del fabbisogno di energia termica utile e degli
521
indici di prestazione energetica EP per l’attribuzione della classe energetica. Il 5 Ottobre 2010
è stata messa online la release 2.0 del SACE, che fornisce una serie di dati tabellati in aggiunta
ai dati già presenti e prevede la richiesta di maggiori informazioni sulle caratteristiche energetiche e termofisiche dell’edificio.
L’obbligatorietà dell’inserimento dei dati nel SACE per emettere l’Attestato di Certificazione
Energetica, contribuisce alla costituzione di un importante database sulle caratteristiche energetiche del patrimonio edilizio della regione Emilia-Romagna.
Secondo i dati del Censimento ISTAT 2001, nel comune di Ferrara sono presenti 63.191 UI.
Di queste, a tutto giugno 2011, risultano certificate 8654 UI (13,70%), delle quali 2824 (4,47%)
site nel centro urbano all’interno della cinta muraria. Le analisi dei dati che seguono sono
pertanto riferite alle 2824 UI ricadenti all’interno di particelle catastali appartenenti ai 17 fogli
(374>390) relativi al centro urbano del capoluogo estense, certificate durante i primi 30 mesi
di registrazione.
Le considerazioni a seguire non tengono conto della validità di tale campione rispetto al totale
per cui si rimanda a successivi e più ampi approfondimenti. La distribuzione casuale dei dati e
la quantità di certificati sufficientemente rappresentativa consentono tuttavia, pur nel limite di
incertezza statistica, di poter esprimere alcune prime considerazioni di carattere generale (metodo bottom up) anche sulla base di elementi valutati in sito dai soggetti certificatori.
Per ogni attestato sono stati evidenziati la classe energetica, l’indice di prestazione energetica
EP totale (EPtot), espresso in kWh/m2*anno o in kWh/m3*anno in relazione alla destinazione
d’uso, il volume lordo in m3 ed i dati catastali.
In merito all’accuratezza del dato occorre ricordare che l’indice EPtot costituisce il fabbisogno
di energia primaria per il riscaldamento e la produzione di ACS e che si riferisce a dati inseriti
da soggetti certificatori. Contiene quindi un’incertezza relativa alla metodologia di calcolo che
fa riferimento alle norme UNITS 11300.
CLASSI
Centro urbano
A
B
C
D
1
0,04
61
2,16
100
3,54
278
9,84
E
448
15,86
F
508
17,99
G
1.316
46,60
TOTA
LE
112 2.824
3,97 100,00
ND
Tab. 4 – Distribuzione delle classi energetiche nel centro urbano del Comune di Ferrara.
La distribuzione delle classi energetiche (Tab. 4) relativa al centro urbano di Ferrara evidenzia
che il 46 % delle unità ricade in classe G, il 44% nelle classi dalla D alla F, il 6 % nelle classi
dalla A alla C, ed al 4% non è attribuita nessuna classe energetica in quanto non è presente
l’impianto di climatizzazione invernale.
In sostanza i dati confermano che gli edifici esistenti hanno un indice di prestazione energetica
EP maggiore, ma che l’incidenza del fabbisogno energetico totale delle unità immobiliari del
centro urbano (44.946,00 MWh) rispetto al totale del comune di Ferrara (342.479,49 MWh) è
pari al solo 13%, con un indice energia/unità immobiliare, in MWh/U.I. (dato dal rapporto
MWh centro urbano/UI nel centro urbano) pari a 15,92 (44.946,00/2824) a fronte di un indice
per l’intero comune pari a 39,57 (342.479,49/8654). Espresso in tonnellate equivalenti di petrolio una UI nel centro urbano ha un incidenza di 1,37 tep/UI, mentre il valore per l’intero
territorio comunale è di 3,96 tep/UI.
Il territorio comunale al di fuori del centro urbano è costituito, per la maggior parte, da edifici
costruiti dopo il 1945. I valori di cui sopra inducono una prima riflessione su quale sia l’incidenza della prestazione energetica di tali edifici rispetto al totale e, viceversa, su quanto le
esigenze conservative dell’edilizia storica possano ritenersi prevalenti a fronte della riduzione
del consumo energetico della singola UI., L’analisi può arrivare inoltre a dimostrare la maggiore efficacia di un intervento di riqualificazione energetica sviluppato su un edificio recente
522
rispetto allo stesso sviluppato su un edificio pre-industriale.
2.3 La rappresentazione cartografica degli edifici certificati
La seconda parte dell’elaborazione dei dati riguarda la rappresentazione cartografica del centro storico di Ferrara, con riportati gli edifici certificati e colorati in base alla loro classe energetica. La restituzione, sviluppata in ambiente GIS e capace di consentire successive elaborazioni
anche a carattere statistico, tiene conto di una forte semplificazione. Essendo impossibile una
rappresentazione planimetrica di tutte le unità immobiliari, ed essendo impossibile con l’attuale SACE ripartire i certificati emessi tra interi edifici (quelli dotati di impianto termico centralizzato senza contabilizzazione), e singole unità immobiliari, è stato necessario attribuire all’intero fabbricato la classe dell’unità immobiliare certificata presente all’interno del fabbricato
stesso. Inoltre, nei fabbricati in cui sono diverse le unità certificate, la classe energetica è stata
assegnata in base alla media delle classi energetiche delle singole unità.
La semplificazione adottata, porta ad alcuni discostamenti. Troviamo infatti interi edifici in
classe B, presumibilmente legati ad Attestati di Certificazione Energetica relativi ad una singola UI, con riscaldamento autonomo, situata ad un livello intermedio dell’edificio con i solai
inferiore e superiore a contatto con altre UI anch’esse riscaldate.
Le caratteristiche dell’edificato pre-industriale, soprattutto a carattere residenziale, maggiormente diffuso proprio all’interno del centro urbano (tessuto compatto, estremamente omogeneo sia
nelle forme che nei caratteri tipologico – costruttivi, ecc.), portano a validare questo modello che
consente appunto una serie di valutazioni sul dato aggregato altrimenti impossibili.
Fig. 1 – Distribuzione delle classi energetiche nel centro urbano di Ferrara (GIS).
523
La rappresentazione cartografica elaborata in ambiente GIS (Fig. 1), evidenzia innanzi tutto
quanto sia frammentata la distribuzione degli edifici certificati nel tessuto storico, così come lo
è l’andamento delle compravendite e/o degli interventi edilizi. La ripartizione delle classi energetiche evidenza una equa distribuzione degli edifici in classe G (in rosso) e in classe D od E (in
giallo o in arancione).
Ricordando che all’interno delle mura sono molto numerosi gli edifici realizzati lungo il corso
del secolo scorso, possiamo fin da subito riscontrare come, da una parte, nelle aree ove la
presenza di edifici novecenteschi costituisce la quasi totalità del costruito (Arianuova – NW,
Rione Giardino – SW), si concentra una percentuale molto forte delle U.I. in classe G, così
come, d’altra parte, nelle aree ove la presenza di edilizia pre-industriale è sicuramente prevalente rispetto alle costruzioni più recenti (tessuto medioevale a nord di via Carlo Mayr – SE), si
concentra la maggior parte delle unità in classe D. Se sovrapponiamo poi la cartografia con
evidenziato l’edificato novecentesco e la rappresentazione della distribuzione delle classi energetiche, possiamo osservare come questa corrispondenza torni frequentemente anche in aree
del centro urbano maggiormente eterogenee. Questa evidenza deve essere messa in relazione
con i caratteri tipologico – costruttivi, molto diversi fra loro, ma anche con le differenti tipologie di tessuto, decisamente rarefatto nelle aree di nuova edificazione ed estremamente compatto nelle aree medioevali.
3. Conclusioni
Le considerazioni sopraesposte conducono ad una preliminare riflessione circa la necessità di
considerare ai fini di una più attenta conoscenza del comportamento energetico del costruito
pre-industriale, non già la singola UI, ma porzioni più o meno grandi di tessuto, in grado di
esprimere anche aspetti legati alle modalità aggregative, ovvero al modo in cui le unità risultano raggruppate e connesse tra loro.
Inoltre, appare chiaro come l’enorme mole di informazioni a carattere estremamente eterogeneo necessiti fin da subito di un sistema di integrazione dei dati che consenta successive analisi
statistiche, valutazioni sulla rappresentatività del dato e stime sulla propagazione dell’errore,
anche nella rappresentazione geometrica e cartografica. L’ambiente GIS consente in questo
senso la più ampia prospettiva di integrazione e di elaborazione delle informazioni. Un valido
modello dati costituirà pertanto il passo preliminare senza il quale si correrebbe il rischio di
accumulare informazioni incapaci di dialogare tra loro. Le considerazioni di cui sopra, pur
nella loro incertezza statistica, costituiscono un utile strumento per i decisori, politici ed economici. Se non si conosce un territorio, il consumo energetico di una città, di un centro urbano, almeno come dato aggregato, non è possibile adottare soluzioni efficienti che siano anche
efficaci.
Il fatto che l’edificato storico incida sì sui consumi energetici, ma non tanto quanto il resto
dell’edificato (1,37 tep/UI, contro 3,96 tep/UI), consente di far dialogare le necessità conservative con le forti spinte al miglioramento della prestazione energetica.
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524
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energetico e delle potenzialità d’intervento nel centro urbano di Ferrara”, Tesi di Dottorato (UNIFE –
IUAV – UNIBO) XXIII ciclo;
[8] Report by CRESME “Le costruzioni al 2010” a cura di Bellicini L.
525
Procedura per la valutazione dei costi
unitari complessivi delle tubazioni
Enrico Creaco [email protected], Marco Franchini – Università degli studi di Ferrara
Riassunto
In questa memoria viene illustrata una procedura di valutazione dei costi complessivi delle tubazioni. Tale procedura permette di tenere conto in modo semplice, per ogni diametro di tubazione
considerato in fase di progetto, oltreché del costo unitario iniziale di acquisto e di installazione
anche degli oneri di manutenzione, comprensivi dei costi di riparazione e sostituzione nel corso di
un prefissato lasso di tempo. Successivamente viene mostrata l’applicazione della procedura nell’ambito del progetto di una rete reale e viene mostrato come l’adozione dei costi unitari complessivi in luogo degli iniziali influenzi la distribuzione di diametri che si ottiene a seguito del progetto a minimo costo dei tronchi della rete.
Summary
This paper describes a simple procedure for assessing the whole unit costs of pipes, taking into
account not only the initial (purchase and installation) costs, but also projected costs for maintenance (comprising repair and replacement), over a pre-established time period. Application of the
procedure during the design of a real network is then reported, showing how the adoption of
whole unit costs, rather than initial unit costs alone, affects the pipe diameter distribution obtained from least-cost network design.
1. Introduzione
La progettazione a minimo costo (di investimento) è stata considerata per decenni il paradigma di riferimento per la progettazione ottimale delle reti di distribuzione idrica. Questa impostazione si basa sul criterio di minimizzare i costi di acquisto e installazione delle tubazioni
assicurando, al contempo, un valore del carico di pressione in ciascun nodo superiore ad un
minimo ritenuto necessario per soddisfare la domanda di punta in condizioni di tubazioni
ormai vecchie. Moltissimi sono gli autori che hanno lavorato su questa tematica a partire da
Alperovits e Shamir [1]: fra questi si possono ricordare [3, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15,
16, 17, 18, 20].
Una limitazione legata all’applicazione di tali metodologie sta nel fatto che, nella valutazione
dei costi, esse non tengono conto degli oneri di gestione e manutenzione della rete.
Per far fronte a tale limitazione, è stata messa a punto nel presente studio una procedura da
agganciare alle metodologie di progettazione; tale procedura consente di tenere conto, oltreché dei costi di installazione, anche degli oneri di manutenzione e sostituzione della rete. In
particolare, questi ultimi costi, una volta attualizzati e sommati agli analoghi costi unitari di
acquisto e installazione, possono essere utilizzati a formare un costo unitario complessivo delle
tubazioni, consentendo così una progettazione che minimizza non solo i costi di investimento
ma anche quelli futuri di manutenzione e sostituzione.
526
Le applicazioni hanno riguardato il caso studio reale della rete di distribuzione a servizio della
parte della città di Ferrara situata all’interno delle mura medioevali.
2. Relazione
2.1 Valutazione dei costi unitari complessivi
Le società che gestiscono il servizio idrico sono generalmente in grado di fornire, per un generico diametro, il costo unitario (per metro lineare) ci di acquisto e installazione della tubazione
e il costo cr di riparazione della singola rottura. Il costo unitario complessivo di una tubazione di
prefissato diametro, che tiene conto dell’acquisto e dell’installazione iniziali e della manutenzione successiva (che comprende riparazioni e sostituzioni), è dato dalla seguente relazione:
cm = ci + cm, (1)
dove il costo di manutenzione cm è da intendersi riferito a un lasso di tempo T. Nel caso si
consideri la pianificazione di riparazioni e sostituzioni proposta da Shamir e Howard [19], si
ha, dove tc è il tempo di ciclo dopo cui risulta economicamente conveniente sostituire la tubazione piuttosto che continuare a ripararla nel caso di successive rotture; n è il numero di cicli
che compongono il lasso di tempo T. Il costo di manutenzione complessivo (inclusivo delle
future sostituzioni) per il lasso di tempo T, attualizzato al tempo t0 di realizzazione dell’opera,
può essere calcolato come:
n t pk + tc 
c λ (t )
ci

c m = ∑  ∑  r t − t0 +
k =1  t = t pk 
(1 + R)t −t0
 (1 + R)

 

  ,
(2)
dove R è il tasso di sconto utilizzato per l’attualizzazione e tpk è il tempo iniziale del k-esimo
ciclo (). l è infine il numero atteso di rotture annue per metro lineare di tubazione; sulla base
del modello proposto da Shamir e Howard [19], tale parametro è legato al numero di rotture
l0 atteso all’anno tpk di inizio del ciclo per mezzo della seguente relazione esponenziale:
λ (t) = λ0 ei A(t–tpk),
(3)
dove il tasso A [anno-1] di crescita delle rotture assume valori nel range 0.05-0.15 [19]. Il
parametro l0 può essere valutato in funzione del diametro D [mm] della tubazione mediante la
seguente relazione derivata da Su et al. [21]:
λ0 =
1  16,192.194 118.015 183, 558.095

+ 1.3131 +
+ 0.0261

3.26
3.5792

1000
D
D
D
(4)
2.2 Applicazione numerica
2.2.1 Caso studio
Il caso studio considerato nel presente articolo è costituito da una rete con numero di nodi
eroganti nn = 536 e tronchi np = 825. La rete (Fig. 1) è alimentata da ns = 2 serbatoi (nodi 1 e 2)
ed è caratterizzata da uno sviluppo di quasi 90 Km; essa rappresenta il sistema di distribuzione
a servizio della parte della città di Ferrara (I) all’interno delle mura medioevali [2]. In questo
schema di rete tutti i nodi si trovano a quota 0 m s.m.m. e i due serbatoi hanno un carico di 30
527
m s.m.m.. I coefficienti di scabrezza da considerare per il progetto della rete sono quelli relativi
a tubazioni di ghisa invecchiate (coefficiente di Manning pari a 0.015 s/m1/3). I dati relativi ai
costi di acquisto e installazione dei diversi diametri, forniti da Hera S.p.A. (agenzia che gestisce
la rete idrica), sono riportati in Tab. 1. La stessa tabella riporta, per i vari diametri, anche i
valori dei parametri l0 e A. In particolare, l0 è stato valutato mediante la formula (4) e A è stato
posto pari a 0.1 anno-1, valore medio del range di valori proposto da Shamir e Howard [19].
Il lasso di tempo T in cui considerare le operazioni di manutenzione successivamente all’installazione iniziale è posto pari a 50 anni. L’attualizzazione delle spese di manutenzione è stata
effettuata considerando un tasso di sconto R=0.05.
Con riferimento alla scelta del lasso di tempo T, vale la pena evidenziare che, da un punto di
vista teorico, sarebbe possibile considerare, per la valutazione delle spese di manutenzione,
lassi di tempo ancora più estesi di 50 anni; l’operazione di attualizzazione delle spese fa comunque in modo che quelle più lontane nel tempo rispetto all’anno di installazione dell’opera
abbiano un peso poco rilevante nella stima del costo complessivo.
Fig. 1 – Schema della rete idrica a servizio della parte della città di Ferrara all’interno delle mura medioevali.
528
Tab. 1 – Per ogni diametro D, costo di acquisto e installazione ci, costo di riparazione cr delle rotture, numero
atteso l0 di rotture annue per metro lineare di tubazione nuova e tasso di crescita A del numero di rotture.
2.2.2 Risultati
L’applicazione della procedura descritta nella sezione 3.1 per la stima del costo complessivo unitario cim ha prodotto i risultati riportati nel grafico a) di Figura 2. In tale grafico, il
costo complessivo unitario cim è messo a confronto con quello unitario di acquisto e installazione ci. Tale confronto mostra che mentre ci è una funzione monotona crescente del
diametro D, il costo cim presenta un minimo in corrispondenza di D = 100 mm: la penalizzazione dei diametri inferiori è dovuta al fatto che essi richiedono più frequenti operazioni
di manutenzione (riparazione e sostituzione) essendo maggiormente soggetti a condizioni
di rottura.
529
Fig. 2 – a) Costi unitari di investimento ci e complessivi cim (ovvero investimento + manutenzione) dei vari
diametri; b) distribuzione dei diametri nelle configurazioni ottimali di rete ottenute applicando la metodologia
di Creaco e Franchini [4] senza vincolo di resilienza.
Successivamente, si è voluto analizzare come la scelta del tipo di costo unitario (solo investimento ci o complessivo cim) influenzi i risultati della progettazione. A tal fine, è stata applicata
la procedura di progettazione a minimo costo di [4] senza adottare alcun vincolo di resilienza
ma imponendo un vicolo di carico di pressione di riferimento nel generico nodo pari a 25 m.
L’applicazione della metodologia porta a due diverse distribuzioni di diametri in rete a seconda che vengano considerati i costi ci e cim delle tubazioni (Figura 2b). Le due configurazioni
vengono di seguito indicate per brevità come “configurazione ci” e “configurazione cim”. Come
atteso, le differenze tra le distribuzioni riguardano essenzialmente i diametri più piccoli: il
diametro inferiore in rete risulta rispettivamente pari a 60 e 100 mm nelle due configurazioni.
L’analisi dei costi globali di rete indica valori del solo costo di investimento Cmin,i rispettivamente pari a 22,012,757 - e 22,858,347 - nelle configurazioni ci e cim. Per contro, i valori del costo
di investimento più manutenzione (attualizzato) Cmin,im risultano, per le due configurazioni,
pari a 31,374,244 - e 29,674,928 -. Il confronto mostra che l’applicazione della metodologia
di progetto con i costi complessivi cim porta, come atteso, a un risparmio in termini di costo
530
complessivo (investimento più manutenzione) dell’opera. È stato quindi effettuato un ulteriore
confronto tra le due configurazioni ottimali in termini di numero di rotture e sostituzioni in
rete. Tale fattore risulta essere importante visto che l’espletamento delle operazioni di manutenzioni implica la presenza di mezzi meccanici nelle strade dei centri abitati, determinando
problemi in termini di circolazione del traffico. Sfruttando i risultati della metodologia di Shamir e Howard [19], che consente di valutare il numero complessivo di rotture e sostituzioni al
metro lineare per ogni classe di diametri relativamente ad un lasso di tempo di 50 anni e considerando le distribuzioni di diametri di Figura 2b, è possibile quindi valutare il numero di
rotture complessivo e la lunghezza della parte di rete sostituita per le configurazioni ci e cim. Per
quanto riguarda il numero di rotture complessivo in rete, si ottengono valori rispettivamente
pari a 10532 e 8331; per quanto attiene alla lunghezza della parte di rete sostituita, si ottengono
invece valori pari a 140,1 e 85,6 Km. Il confronto dei risultati indica, in modo netto, la configurazione cim come la più vantaggiosa (minor numero di rotture e minore lunghezza di tubazioni
soggette a sostituzione).
3. Conclusioni
In questo articolo si è mostrato come sia possibile tenere conto, nell’ambito del progetto di una
rete, dei costi di investimento e manutenzione. I costi di manutenzione e sostituzione possono
essere inglobati nella funzione obiettivo avvalendosi di un’opportuna modellistica in grado di
simulare le rotture future a cui è assegnato un valore economico. L’applicazione della procedura di valutazione dei costi complessivi ad un set di diametri commerciali mostra che i diametri
commerciali più piccoli, cui sono associati i costi iniziali inferiori, potrebbero in alcuni casi
essere penalizzati in termini di costi complessivi essendo caratterizzati da un numero annuo di
rotture attese più elevato. Ciò si ripercuote in fase di progetto visto che l’adozione dei costi
complessivi in luogo degli iniziali nel contesto della progettazione a minimo costo potrebbe
portare a configurazioni di rete caratterizzate da diametri delle tubazioni maggiori.
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532
Riqualificazione dell’Area dell’ex
Manifattura Tabacchi: linee guida di
efficienza energetica e sismica per il
Tecnopolo
Edi Valpreda [email protected] Paola Clerici Maestosi – ENEA, Bologna
Riassunto
Nell’ambito del progetto di recupero funzionale dell’area ex Manifattura Tabacchi (BAT) destinata all’insediamento del Tecnopolo di Bologna, Enea ha contribuito ad individuare le tematiche
prioritarie per una “progettazione responsabile” ed una gestione “energicamente sostenibile”, sviluppando un repertorio di soluzioni innovative in forma di Allegato Tecnico al Bando del Concorso di Progettazione.
Terminata questa prima fase di attività Enea ha dato avvio ad una ricerca finalizzata alla redazione di “linee guida” ed all’individuazione di strumenti che consentiranno di effettuare, concretamente, delle scelte progettuali “ambientalmente ed economicamente sostenibili” non solo sotto il
profilo ideativo e realizzativo ma, soprattutto, sotto il profilo gestionale dell’intera area in un’ottica sinergica integrata alla città. Obiettivo finale definire un modello Tecnopolo, inteso come hub
per la “Smart city” esportabile agli altri tecnopoli regionali e ad altri edifici complessi in ambito
urbano.
Summary
Whithin the project of functional recovery of the area of ex Manifattura Tabacchi (BAT), destined to the settlement of Bologna Technopole, Enea, has contributed to identify the thematic
priorities for a “responsible planning” and an “anergetically sustainable” management, developing different innovative solutions the form of technical annex to a notice of competition for
planning.
When this first phase of activity has finished, Enea started a research for the redaction of “guidelines” and for the identification of tools that allow to make, concretely, some design choices that
ate “environmentally and economically sustainable”, both under the idea profile and the management one for the whole area integrated to the city. The final target is to define a Technopole
model, understood as hub for the “Smart City” exportable to other regional Technopoesi and
other complex buildings in urban areas.
1. Introduzione
Il progetto di recupero funzionale dell’area ex Manifattura Tabacchi (BAT) destinata all’insediamento del Tecnopolo di Bologna rappresenta un’occasione unica per la città di Bologna e
per il sistema dei tecnopoli della regione Emilia Romagna.
ENEA, che partecipa al progetto POR FESR 2007-2013 con quattro Laboratori di Ricerca
533
Industriale che saranno collocati presso il Tecnopolo di Bologna, sarà anche uno degli Enti che
ha concordato con la Regione Emilia-Romagna di trasferire il proprio centro di ricerca di
Bologna all’interno del citato Tecnopolo.
Per questi motivi, ENEA ha voluto di partecipare concretamente – già dalle prime fasi ideative
– allo sviluppo del documento preliminare alla progettazione al fine di promuovere l’attuazione
di una “progettazione responsabile” ed una gestione sostenibile” dell’intera area individuando
soluzioni tecnologiche innovative che scaturiscono dal confronto costante con i programmi di
ricerca internazionale in ambito “Smart cities” e “Urban Europe” a cui ENEA partecipa.
L’intervento di ENEA ha visto il coinvolgimento di competenze presenti nell’Agenzia in ambito sia locale, sia nazionale sulle tematiche di efficienza energetica, gestione energeticamente
sostenibile, sicurezza sismica e uso delle acque.
Pur attuando un approccio complesso che ha consentito di considerare ed analizzare le problematiche derivanti dall’integrazione tra le esigenze operative e le potenzialità tecnologiche disponibili, per ogni tematica è stato elaborato un repertorio di soluzioni innovative che è stato
recepito, nella forma di Allegato Tecnico al Bando del Concorso di Progettazione la riqualificazione ed il recupero funzionale dell’Ex Manifattura Tabacchi per la realizzazione del Tecnopolo di Bologna predisposto dalla società FBM (Finanziaria Bologna Metropolitana)
Terminata questa prima fase della ricerca ENEA ha dato avvio ad una seconda fase finalizzata
alla redazione di “linee guida” ed all’individuazione di metodologie e strumenti che, consentiranno di effettuare concretamente delle scelte progettuali “ambientalmente ed economicamente sostenibili” sotto il profilo ideativo, realizzativo e gestionale dell’intera area in un’ottica
sinergica integrata alla città.
Una terza fase della ricerca sarà volta ad individuare l’esportabilità agli altri Tecnopoli Regionali del modello Tecnopolo, come hub la “smart city”.
2. Relazione
Il supporto tecnico fornito da ENEA si è basato sulla considerazione preliminare che gli edifici
esistenti della ex Manifattura Tabacchi, così come quelli che verranno costruiti ex-novo, destinati ad ospitare il Tecnopolo, dovranno riflettere, nella loro concezione progettuale complessiva, quanto di rilevante ed innovativo si svolgerà al loro interno; quindi essi stessi dovranno
divenire esempio d’avanguardia in tema di sicurezza, risparmio energetico ed innovazione tecnologica.
Tali presupposti pongono come desiderata che il progetto di recupero funzionale dell’area
integri compiutamente materiali, tecniche costruttive, prodotti, strumenti di simulazione e di
calcolo per tutti i settori del mondo delle costruzioni onde definire compiutamente un repertorio reale delle migliori tecnologie disponibili (BAT – Best Available Technologies).
La riconversione di questo complesso può diventare così un esempio concreto di uso integrato
delle tecnologie innovative disponibili in termini di sicurezza ed efficienza energetica degli
edifici piuttosto che un semplice contenitore di innovazione.
Il limite tra innovazione disponibile sul mercato e prototipo industriale è un limite destinato a
modificarsi nel tempo che intercorrerà tra l’oggi (progettuale) e il domani (gestionale) del
Tecnopolo.
Occorre infatti mantenere un approccio economicamente sostenibile nel progetto e prevedere
la possibilità di utilizzare un sistema di controllo/gestione dell’area che comporti applicazioni
avanzate per la gestione sostenibile.
2.1 L’Allegato Tecnico al Bando del Concorso di Progettazione per la riqualificazione ed il recupero funzionale dell’Ex Manifattura Tabacchi per la realizzazione del Tecnopolo di Bologna
Il documento è articolato in due sezioni: la prima contiene un repertorio di soluzioni tecniche
che costituiscono “opportunità” di innovazione per i progettisti, la seconda indica una “strate-
534
gia complessiva” da mettere in atto attraverso l’individuazione di azioni che vengono indicate
come prioritarie (minimali o di valore aggiunto).
Il punto di partenza [1] è stato quello di ipotizzare un approccio globale alla progettazione di
riqualificazione e recupero funzionale che integri sia gli aspetti relativi all’involucro edilizio sia
gli aspetti più propriamente impiantistici, in un’ottica volta alla “gestione sostenibile” dell’area, correlata al contesto urbano che la ospita.
In un’ottica integrata fattori determinanti quali la coibentazione, i serramenti vetrati ed i ponti
termici che attengono alla progettazione/recupero dell’involucro esterno trovano un sistema
in grado di aumentare la portata dei benefici specifici là dove questi vengono messi in relazione
con una progettazione impiantistica che privilegi gli impianti attivi, sfrutti al massimo l’insolazione naturale e le fonti gratuite interne di calore, recuperi nella massima misura possibile il
calore dell’aria esausta in uscita con scambiatori ad elevato livello di rendimento, privilegi la
ventilazione forzata, impieghi reti intelligenti per il controllo e la gestione energetica dell’edificio (intelligenza computazionale), integri opportunamente i benefici derivanti dall’uso dell’illuminazione naturale con quelli derivanti dall’impiego di apparati e terminali ad alta efficienza
opportunamente integrati da una rete di sensori smart metering, privilegi l’uso del green computing per le tecnologie ICT, sfrutti i principi delle onde convogliate su rete elettrica per ottimizzare i costi di installazione/gestione dell’illuminazione esterna ai fabbricati consentendo di
creare una piattaforma di veicolazione dati in linea con le nuove tecnologie proponibili in
ambito smart city, integri il sistema di produzione delle fonti energetiche locali in una smart
grid, individui un sistema di approvvigionamento/smaltimento idrico in grado di riutilizzare
massimamente le acque di pioggia e ridurre i consumi idrici anche recuperando il calore dagli
stessi, individui un sistema di distribuzione dell’acqua sanitaria in grado di riutilizzare l’acqua
calda al fine di ridurre le dispersioni termiche.
L’attività di ricerca di Enea si è concentrata nell’individuare soluzioni tecniche innovative [2]
per ciascun ambito (adeguamento e monitoraggio sismico, efficienza energetica, sistemi di controllo/supervisione e sonde, uso efficiente e sostenibile delle risorse d’acqua) e nel metterle a
“sistema” al fine di delineare una strategia complessiva di “progettazione responsabile” e “gestione sostenibile”.
Il sistema stesso ha indicato due livelli di definizione: il primo “minimale”, il secondo “di
valore aggiunto”.
2.2 Linee guida e modello Tecnopolo
Sono state avviate, nell’ambito “efficienza energetica” e “uso efficiente e sostenibile delle risorse d’acqua” ricerche finalizzate a trasferire la metodologia della metaprogettazione ad ambiti
innovativi. L’obiettivo principale della ricerca è stato quello di definire, all’interno di una corretta impostazione metodologica del processo di riqualificazione degli edifici esistenti e di
progettazione degli edifici ex novo, le linee guida attraverso cui definire un modello Tecnopolo
ambientalmente ed economicamente sostenibile anche in fase di esercizio [3].
I sub-obiettivi delineati dalla ricerca individuano quali priorità la
– definizione di unità tecnologiche e di elementi tecnici [4] che, all’interno del sistema tecnologico esistente, costituiscono i sistemi edilizi da mantenere;
– definizione dei parametri qualitativi volti alla guida del progetto di recupero degli edifici;
– formulazione di un metodo di verifica e valutazione della qualità dell’esistente e di quella
finale attesa nel progetto di recupero;
– valutazione di un quadro esigenziale iniziale attraverso cui definire le priorità e gli obiettivi
dell’intero progetto (riqualificazione e nuova costruzione);
– definizione, sistematizzazione e valutazione dei requisiti correlati all’involucro esterno (riqualificazione e nuova costruzione);
535
– individuazione e sistemizzazione delle tecnologie e dei sistemi impiantistici, innovativi o presenti sul mercato, e formulazione di un metodo di valutazione che individui soluzioni integrate
impianto/involucro per una “gestione sostenibile” dell’intera area della ex Manifattura Tabacchi – BAT.
Le fasi previste della ricerca, sono tre e comprendono
– inquadramento e analisi dello stato dell’arte;
– formulazione dei prodotti della ricerca;
– verifica dei prodotti.
Inquadramento e analisi dello stato dell’arte
La chiara definizione dello scenario di riferimento, di fatto contenuta nel documento predisposto da FBM e posto a base di gara, costituisce la base scientifica per approfondire il grado
e le condizioni di obsolescenza tecnologica e fisica dei manufatti edilizi esistenti da riqualificare.
Allo stato attuale sono stati messi a sistema i dati disponibili ed è stata avviata una campagna di
raccolta di dati necessari al completamento del quadro di riferimento.
Formulazione dei prodotti della ricerca
Data la rilevanza e la complessità del concetto di qualità – presupposto indispensabile
del progetto- si ritiene opportuno investigare sugli attributi che la contraddistinguono nell’intera vita utile dell’edificio.
Si applicherà l’analisi esigenziale/prestazionale, peraltro tipica nell’impostazione metodologica che comportano la realizzazione degli edifici ex novo, e congiuntamente si effettuera’ l’analisi sull’esistente da riqualificare al fine di definire le prestazioni residue del sistema stesso. Sarà
cos’ possibile individuare i parametri qualitativi validi per l’intero quadro esigenziale riferibili
sia al costruito che alle edificazioni ex novo.
L’osservazione dell’andamento prestazionale all’interno del ciclo di vita utile dei componenti
consentirà di definire compiutamente una corrispondenza tra il livello prestazionale di ogni
parametro e la relativa soglia di accettabilità.
Punto nodale della ricerca sarà la definizione del maggior numero possibile di parametri attraverso cui comprendere tutti gli aspetti qualitativi (quantificabili e non) che caratterizzano l’involucro degli edifici e la classificazione – in base ad una scala di valori opportunamente costruita – dei parametri stessi.
Allo stato attuale è in corso di elaborazione il repertorio delle soluzioni tecniche relative agli
ambiti “efficienza energetica” e “uso efficiente e sostenibile delle risorse d’acqua” e la relativa
classificazione.
Verifica dei prodotti
Le attività di ricerca volte alla verifica dei prodotti che verranno ottenuti riguarderà:
– la verifica e messa a punto dei prodotti attraverso l’applicazione ad un solo caso studio
(singolo edificio dell’area dell’ex manifattura Tabacchi);
– l’elaborazione, l’applicazione e la validazione di un modello Tecnopolo e la messa a punto di
ulteriori di strumenti di supporto necessari alla verifica.
La necessità di individuare compiutamente i principali elementi tecnici che costituiscono l’involucro degli edifici e le relative strategie d’intervento adottabili, comporterà una riconsiderazione della classificazione precedentemente effettuata.
L’obiettivo verrà perseguito attraverso la costruzione di una scheda che racchiuderà gli elementi da considerare e i relativi legami che vengono ad instaurarsi con i parametri qualitativi
individuati nonché la corrispondenza con le tipologie di intervento.
La costruzione di questo sintetico quadro sinottico sarà anche perfezionato con alcuni valori di
carattere economico che contraddistinguono le diverse soluzioni onde definire il modello
Tecnopolo compiutamente (profilo tecnico ed economico).
536
2.3 Esportabilita delle linee guida e strumenti: il modello Tecnopolo come hub per la “Smart
city”
Una terza fase della ricerca sarà volta ad individuare l’esportabilità del “modello Tecnopolo”
agli altri Tecnopoli Regionali, e più in generale alla fattibilità di transizione dei singoli Tecnopoli in hubsecondo il modello di “smart city”.
“Secondo una recente indagine della Commissione Europea circa quattro quinti della energia
viene consumata nelle città dove si concentra l’attività insediativa, produttiva e di massimo impatto sull’ambiente.
Molto più che nel passato, la città si presenta oggi come un addensamento geografico di reti di
relazioni strutturali (frazioni, quartieri, strade), materiali (scambi di merci, mobilità, rete idrica
ed energetica) ed immateriali (comunicazione, servizi) spostando il modello verso una struttura a
“reti urbane interconnesse”.
In questo contesto l’equazione sostenibilità-connettività rappresenterà il terreno di sfida hightech per le aziende nei prossimi anni.
Questo cluster di tecnologie e le sue applicazioni sono oggi identificate con il paradigma della
Smart City ossia un insieme di tecnologie per aumentare la interconnessione tra reti attraverso lo
sviluppo di servizi innovativi multifunzionali che vanno dalla gestione ottimale dei consumi energetici e della rete locale, al controllo degli impatti ambientali, dagli aspetti legati alla mobilità,
all’accesso ai beni culturali ed al turismo culturale, dalla crescita educativa alla partecipazione
sociale in termini di inclusione, integrazione, sviluppo della creatività, partecipazione alla governance efficiente.”
Il modello Tecnopolo che è soggetto ed oggetto di innovazione, puo’ rappresentare un hubper
la città di Bologna così come i singoli tecnopoli regionali potrebbero caratterizzarsi come hubper i territori circostanti.
3. Conclusioni
L’occasione per il territorio e le realtà imprenditorial,i locali e non, che ne saranno partecipi, rappresentata dal progetto di riqualificazione delle strutture poste nell’area ex Manifattura Tabacchi BAT (che ospiterà il Tecnopolo di ricerca industriale di Bologna) è rilevante, nuova ed unica; si presenta infatti l’opportunità di sperimentare concretamente
l’integrazione di sostenibilità, sicurezza ed efficienza energetica nella gestione e riqualificazione del patrimonio edilizio urbano. Questo in una realtà locale e nazionale in cui i
temi di efficienza energetica, sostenibilità e sicurezza sono molto affidati alla nuova edilizia piuttosto che non a quella preesistente o sottoposta a vincoli artistici che ha invece una
presenza assai più rilevante.
Anche per ENEA questa attività, che si sta sviluppando soprattutto nell’ambito dei nuovi
laboratori di ricerca industriale costituiti nel progetto Tecnopolo ENEA (citare i 4 laboratori),
rappresenta un’opportunità di integrazione operativa tra settori di ricerca diversi ed autonomi
nell’Agenzia ENEA che hanno voluto sperimentare, integrandosi e non solo affiancandosi, la
possibilità di confrontarsi rispetto a esigenze e limiti nel realizzare strumenti, metodi e sperimentazioni che possano trovare applicazione oltre al caso Tecnopolo di Bologna. Obiettivo è
supportare la progettazione ma soprattutto la realizzazione e la manutenzione/gestione efficace di strutture complesse destinate ad essere sempre più, ci auguriamo, elementi interattivi con
la città che oggi conosciamo.
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538
IrO2 electrocatalysts for the O2 evolution
reaction in SPE water electrolysers
R. Bonelli [email protected], R. Ornelas – Tozzi Renewable Energy SpA,
Mezzano, Ravenna
J. C. Cruz, L. Ortiz-Frade, L.G. Arriaga – Centro de Investigación y Desarrollo Tecnológico en
Electroquímica, S.C.Parque Tecnológico Querétaro, México.
V. Baglio, S. Siracusano, V. Antonucci, A. S. Aricò – CNR-ITAE, S. Lucia sopra Contesse,
Messina
Summary
IrO2 electrocatalysts were synthesized and characterized for the oxygen evolution reaction in a
Solid Polymer Electrolyte (SPE) electrolyzer. The catalysts were prepared by a colloidal preparation procedure and a subsequent thermal treatement. The physico-chemical characterization was
carried out by X-ray diffraction (XRD) and transmission electron microscopy (TEM) analyses.
The various IrO2 catalysts were sprayed onto a Nafion 115 membrane at a loading of 3 mg cm-2. A
Pt catalyst was used at the cathode compartment at a loading of 0.6 mg cm-2. The electrochemical
activity of these membrane-electrode assemblies (MEAs) for water electrolysis was investigated
in a single cell SPE electrolyzer by linear voltammetry and impedance spectroscopy. A maximum
current density of 1.3 A cm-2 was obtained at 1.8 V with the powder calcined at 400°C for 1 hr.
Riassunto
Catalizzatori a base di IrO2 sono stati sintetizzati e caratterizzati per l’utilizzo nella reazione di
evoluzione dell’ossigeno in elettrolizzatori a polimero solido (SPE). I catalizzatori sono stati
preparati mediante procedure di sintesi di tipo colloidale e successivo trattamento termico. La
caratterizzazione chimico-fisica è stata condotta mediante analisi di diffrazione ai raggi X (XRD)
e microscopia a trasmissione elettronica (TEM). I diversi catalizzatori a base di IrO2 sono stati
applicati mediante una tecnica spray su una membrana del tipo Nafion 115 con un carico di 3
mg cm-2, mentre per il compartimento catodico è stato utilizzato un catalizzatore a base di platino, con un carico di 0.6 mg cm-2. L’attività elettrochimica di questi sistemi nella reazione di
elettrolisi dell’acqua è stata studiata mediante voltammetria lineare e spettroscopia d’impedenza in un elettrolizzatore SPE a cella singola. Risultati promettenti sono stati ottenuti per il
sistema calcinato a 400°C per 1 h, con il quale è stata ottenuta una densità di corrente massima
di 1.3 A cm-2 a 1.8 V.
1 . Introduction
Hydrogen is a promising energy carrier that can be produced by different technologies
such as reforming of hydrocarbons, gasification of coal and biomass, electrolysis of water
using nuclear, fossil or renewable energy sources, photo electrochemical/photo catalytic
splitting of water, thermolysis and thermo-chemical cycles [1-4]. Among these, electrolysis
539
of water using renewable energy sources appears quite promising due to the relatively high
efficiency (70-80%) and the production of high purity hydrogen [5,6], in particular when
a PEM technology is used. This approach is also useful to obtain compressed gases directly from the electrolyser at an increased level of safety [7-9]. This system utilizes the
well know technology of fuel cells based on proton conducting solid electrolytes. Unfortunately, electrochemical water splitting is associated with substantial energy loss, mainly
due to the high over-potentials at the oxygen-evolving anode. It is therefore important to
find the optimal oxygen-evolving electro-catalyst in order to minimize the energy loss.
Typically, iridium or rutenium oxides are used at anodes for the oxygen evolution reaction
(OER). These metal oxides are required because, compared to the metallic platinum, offer
a high activity, a better long-term stability and less efficiency losses due to corrosion or
poisoning.
For this reason we focussed our investigation on the oxygen evolution catalyst. IrO2 catalysts
were prepared using a simple, fast and low cost method compared to the literature.
2. Relation
2.1 Experimental
IrO2 catalysts were prepared from H2IrCl6·nH2O using a colloidal process at 100°C; the resulting hydroxides were then calcined at different temperatures, 200, 300, 400 and 500°C for 1 hr.
The resulting powders were characterized by X-ray diffraction (XRD) to determine the crystallographic structure and particle size. Catalyst morphology was investigated by Transmission Electron Microscopy (TEM).
A Nafion 115 (Ion Power) membrane was used as the solid polymer electrolyte. The oxygen
evolution catalysts were directly deposited onto one side of the Nafion 115 by a spray technique. The anode catalyst loading was 3 mg/cm2. A Teflon treated Ti mesh was used as backing
layer. A commercial 30% Pt/Vulcan XC-72 was used as the catalyst for the H2 evolution. The
cathode electrode was prepared by directly mixing suspension of Nafion ionomer in water
with the catalyst powder. The obtained paste was spread on carbon cloth backings with a Pt
loading of 0.6 mg cm-2.
MEAs (5 cm2 geometrical area) were directly prepared in the cell housing by tightening at 9
N·m using a dynamometric wrench.
Electrochemical characterizations were carried out by polarization curves and impedance
spectroscopy.
2.2 Results and discussion
The attention was focussed on the effect of thermal treatments on the crystallographic structures of IrO2 catalysts and how this structure could influence the performance of oxygen evolution electrode. Figure 1 shows XRD patterns of the precursor powder before and after calcination at 200°, 300°, 400° and 500°C.
540
Fig. 1 – X-Ray diffraction patterns of IrO2 powders, as-synthesized and calcined at various temperatures.
The precursor and samples calcined at 200° and 300°C were characterized by an amorphous
phase whereas those calcined at 400° and 500°C showed a crystalline phase with a tetragonal
structure. The mean crystallite size for the powder calcined at 400° and 500°C was estimated
from the broadening of main peaks by the Debye-Scherrer equation; it was 7 and 9 nm, respectively. No presence of metallic Ir was found in all samples.
All calcined samples were investigated electrochemically for the oxygen evolution reaction in
an SPE electrolyzer. A commercial IrO2 (SPECTRUM) catalyst was also studied for comparison. This catalyst is mainly characterized by an amorphous structure with the presence of a
small amount of metallic Ir, as reported elsewhere [10,11]. Being the hydrogen evolution at the
Pt/C electrode quite faster than the oxygen evolution at the IrO2 catalyst [12], the latter represents the rate determining step of the overall electrochemical process. Furthermore, the same
Pt/C cathode was used in all experiments. Figure 2-a shows I-V curves for the in-house prepared and commercial anode catalysts.
Fig. 2 – (a) Linear Voltammetry at 80°C of the SPE electrolyzer based on IrO2 powders, commercial and calcined
at different temperatures; (b) Influence of current densities as a function of calcination temperature, at three
selected voltages (1.45, 1.6 and 1.8 V) for electrolysers based on the different in-house prepared IrO2 powders.
541
The best performance at high current densities for the oxygen evolution reaction at 80°C was
obtained for IrO2 powder calcined at 400°C. However, a performance similar to the best catalyst was recorded up to 1.6 V for the cell based on commercial IrO2. The maximum current
density reached at 1.8 V with the sample calcined at 400°C was 1.32 A cm-2. The high performance obtained with this catalyst calcined at 400°C was probably due to the simultaneous
presence of an amorphous and crystalline structure (see Figure 1). A volcano-shaped curve
with a maximum centred at 400°C was obtained by plotting the current density at different
voltages (1.45, 1.6 and 1.8 V) as a function of the calcination temperature used to prepare the
catalysts (Figure 2-b). The samples calcined at 200 and 300°C (those showing the amorphous
structure) were characterized by higher overpotentials in the activation zone; in fact, the onset
potential for the oxygen evolution was shifted to higher voltages. This aspect is possibly related
to the poor intrinsic activity of the amorphous structure that is not compensated by the high
surface area typical of the amorphous morphology. Poor electrochemical characteristics were
also observed for the sample calcined at 500°C (showing only the presence of a tetragonal
structure). In this case, the sintering of crystalline IrO2 particles upon thermal treatment at
high temperature significantly reduced the number of catalytic sites. These conjectures mainly
arise from the broadening of X-ray peaks which are related to the dimensions of primary particles since it is not easy to determine precisely electrochemical active surface area. A different
behaviour in terms of the slope of the I-V curves was also observed for the various samples. To
investigate more in depth the electrochemical properties of these materials, impedance spectroscopy measurements were carried out on the different cells at 1.5 V (Figure 3).
Fig. 3 – Impedance Spectroscopy at 80°C and 1.5 V of the SPE electrolyser based on IrO2 electrocatalysts,
commercial and calcined at different temperatures.
From this analysis, it appears that the sample calcined at 400°C showed both low series (Rs)
and charge transfer (Rct) resistance compared to the other samples; this justifies the best performance of the cell based on this catalyst.
The cells based on the other in-house prepared catalysts showed a high Rct, indicating a low
electro-catalytic activity for the oxygen evolution process. As discussed above, this was interpreted in terms of poor intrinsic activity or low active surface area as related to the structure
542
and particle size. The cell based on the commercial catalyst showed lower charge transfer
resistance compared to the sample calcined at 400°C, but larger series resistance possibly due
to the amorphous structure similarity to the samples treated at 200° and 300°C. Notably, an
increase of series resistance is observed for the samples with crystalline structure treated at
500°C. The thermal analysis indicated for this sample an additional loss of oxygen and the
onset of an exothermic peak above 450°C indicating the occurrence of structural changes at
high temperatures.
As observed from the I-V curves, the onset potential in terms of oxygen evolution for the
commercial catalyst is slightly lower than that obtained for the best in-house catalyst. Yet, the
latter showed lower series resistance than commercial catalyst. This explains the best performance of the in-house catalyst, in particular at high current densities. In fact, the slope of the IV curves at high currents for the two catalysts reflects the differences in ohmic drop (Rs).
Moreover, from the polarization curves of Figure 2-a, higher diffusion constraints were observed for the commercial catalyst. This could be due to the different morphology of the two
catalysts. For this reason, a TEM analysis was carried out on these samples (Figure 4). The
commercial catalyst (Figure 4-a) showed the presence of agglomerates composed of fine particles attributed to the amorphous IrO2 and some big particles probably due to the presence of
metallic Ir. This catalyst appears characterized by the occurrence of micropores. On the contrary of the commercial catalyst, the in-house prepared catalyst calcined at 400°C (Figure 4-b)
showed larger particles and the prevailing occurrence of mesopores.
Fig. 4 – TEM images of IrO2 catalysts: a) calcined at 400°C; b) commercial.
This may explain the lower mass transfer polarization of the cell based on this catalyst. The
occurrence of very fine particles in the commercial amorphous catalyst is indicative of the large
number of catalytic sites in this sample.
543
3. Conclusions
A simple, fast and low temperature colloidal method for the obtainment of IrO2 nano-particles
was developed. Catalysts were prepared by a colloidal deposition at ~ 100°C and calcination at
different temperatures from 200 to 500ºC. The physico-chemical characterization was carried
out by XRD and TEM analyses. The electrochemical activity of these catalysts as anodes in an
SPE electrolyzer was investigated. The maximum current density at practical voltages (above
1.6 V) was obtained using IrO2 calcined at 400°C for 1 hr. Further studies are currently in
progress in order to assess the long-term stability of these materials in a PEM electrolyzer and
to optimize the physico-chemical properties as well as device components to furtherly increase
the performances.
References
[1] Conte M, Iacobazzi A, Ronchetti M, Vellone R. J. Power Sources 2001; 100:171–187.
[2] Duigou AL, Borgard JM, Larousse B, Doizi D, Allen R, Ewan BC, Priestman GH, Elder R, Devonshire R, Ramos V, Cerri G, Salvini C, Giovannelli A, De Maria G, Corgnale C, Brutti S, Roeb M,
Noglik A, Rietbrock PM, Mohr S, de Oliveira L, Monnerie L, Schmitz M, Sattler C, Orden Martinez A,
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[9] Grigoriev SA, Millet P, Korobtsev SV, Porembskiy VI, Pepic M, Etievant C, Puyenchet C, Fateev
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A.S. Arico’Electrochim. Acta, 2008; 53: 7350-7356.
544
REACH: aspetti chimici ed
eco-tossicologici
C. Samorì [email protected], E. Fabbri, P. Galletti, A. Pasteris,, G. Sartor, E. Tagliavini
– CIRI Energia Ambiente, U.O. REACH, Ravenna
Riassunto
L’Unità Operativa REACH del CIRI Energia Ambiente si occupa di attività di studio, ricerca
metodologica, esecuzione di test e prove di validazione, individuazione di metodologie produttive
alternative e studi ambientali, connessi all’implementazione della normativa REACH. Saranno
messi a punto e/o perfezionati e validati test (eco)tossicologici basati su invertebrati acquatici e
terrestri o cellule isolate; verranno eseguite analisi chimiche ed (eco)tossicologiche su sostanze e
materiali di interesse per le imprese coinvolte, valutando gli effetti sull’ambiente dei prodotti
chimici durante la preparazione, utilizzazione e smaltimento. Infine verranno messe a punto sintesi “eco-compatibili” e ricercate sostanze alternative a quelle non suscettibili di registrazione.
Summary
REACH Unit of CIRI Energy Environment deals with analytical, methodological research, testing
and validation tests, identification of alternative production methods and environmental
studies, related to the implementation of the REACH legislation. We will develop and/or
improve and validate (eco) toxicology tests based on aquatic and terrestrial invertebrates, or
on isolated cells; chemical and (eco) toxicological analysis will be performed on substances
and materials of interest for the companies, evaluating their effects on the environment during
their preparation, use and disposal. Finally “environmentally friendly” procedures will be developed for substituting REACH problematic compounds and chemicals.
1. Introduzione
REACH è il Regolamento dell’Unione Europea per la Registrazione, la Valutazione, l’Autorizzazione e la Restrizione delle sostanze Chimiche, entrato in vigore il 1° giugno 2007 per rendere più efficace il quadro legislativo europeo sulla sicurezza delle sostanze chimiche [1]. REACH si applica a tutte le sostanze chimiche, fabbricate o importate nella UE in quantitativi pari
o superiori a 1 tonnellata/anno indipendentemente dalla loro pericolosità, con l’obiettivo integrato di:
– migliorare la protezione della salute umana e dell’ambiente contro i possibili rischi rappresentati dalle sostanze chimiche
– promuovere metodi alternativi per la valutazione dei pericoli delle sostanze che non coinvolgano l’uso di test con animali
– aumentare la competitività dell’industria chimica dell’UE, settore chiave per la sua economia
– garantire la libera circolazione di sostanze nel mercato interno dell’Unione europea
I produttori, gli importatori e i trasformatori di sostanze chimiche sono tenuti agli obblighi
REACH e hanno la responsabilità della sicurezza del prodotto per tutto il ciclo di vita. Oltre
che alla registrazione dei prodotti e alla compilazione dei dossier di registrazione e dei chemical safety report, tutti gli “attori” coinvolti nel processo REACH sono tenuti a sostituire i
545
prodotti “REACH-problematici” (e.g. persistenti, bioaccumulabili, tossici, PBT) con prodotti
più sicuri per l’uomo e l’ambiente, nonché a raccogliere le informazioni chimiche, eco-tossicologiche e tossicologiche relative ai propri prodotti.
In questo quadro si inserisce l’Unità Operativa “REACH” del CIRI Energia e Ambiente, con
tre obiettivi principali:
– sviluppare, perfezionare ed eseguire test chimici, chimico-fisici ed (eco)-tossicologici basati
su invertebrati acquatici e terrestri, alghe, batteri e linee cellulari al fine di caratterizzare il
rischio associato a sostanze e materiali di interesse per le imprese coinvolte;
– individuare metodologie produttive alternative in grado di ridurre le potenzialità inquinanti
di processi e di sostanze chimiche
– fornire un servizio di consulenza e collaborazione ad aziende ed enti a vario coinvolti titolo
nella problematica REACH.
2. Relazione
2.1 Risultati
Le ricerche attivate nell’ambito dell’attività del CIRI Energia e Ambiente e i primi risultati
ottenuti riguardano sia aspetti (eco)-tossicologici che chimici:
– Allineamento delle procedure utilizzate per la valutazione della tossicità acuta sul crostaceo
d’acqua dolce Daphnia magna con i protocolli standard ISO 6341 e OECD 202 [2]. Controlli
di qualità mediante test ripetuti su tossico di riferimento (K2Cr2O7)
– Messa a punto di test di tossicità a lungo termine con il crostaceo d’acqua dolce Daphnia
magna secondo ISO 10706 e OECD 211 [3]
– Allestimento di allevamenti di invertebrati del suolo Eisenia andrei e standardizzazione delle
condizioni di mantenimento ed esposizione
– Messa a punto di test di tossicità sui vermi terricoli Eisenia andrei: vitalità, accrescimento,
inibizione di biomarkers specifici (e.g. inibizione dell’attività dell’enzima acetilcolinesterasi),
bioaccumulo, riproduzione
– Messa a punto di test di inibizione della crescita e della capacità fotosintetica di microalghe
[4]
– Messa a punto di test di biodegradazione di sostanze chimiche in acqua e in suolo [5]
– Progettazione e sintesi di prodotti alternativi a quelli “REACH problematici” seguendo i
principi della chimica sostenibile [6]. Sintesi di nuovi chelanti biodegradabili per uso agroindustriale
– Messa a punto di metodiche per la valutazione delle concentrazioni ambientali, della tossicità, dell’impatto ambientale e della sicurezza di tensioattivi
Le metodiche e i protocolli messi a punto saranno poi, ove necessario, sottoposti ad accreditamento e certificazione secondo standard nazionali ed internazionali.
3. Conclusioni
Le prime fasi dell’attività dell’Unità Operativa “REACH” sono nel complesso soddisfacenti: i
primi risultati scientifici sono stati perseguiti ed ottenuti sia nel campo della sostituzione dei
prodotti chimici problematici che nello sviluppo di test eco-tossicologici standard ed alternativi.
È stata avviata, in collaborazione con ASTER, un’opera di diffusione e presa di contatto verso
il mondo produttivo ed i potenziali utenti (aziende e loro associazioni).
In tal modo contiamo di contribuire all’obiettivo di fare del CIRI Energia e Ambiente dell’Università di Bologna un punto di riferimento regionale e nazionale per la ricerca industriale connessa all’introduzione del REACH.
546
Bibliografia
[1] Regolamento (CE) n. 1907/2006 del parlamento europeo e del consiglio;
[2] ISO 6341: 1996, “Water quality-Determination of the inhibition of the mobility of Daphnia magna
Straus (Cladocera, Crustacea), Acute toxicity test; OECD Guidelines for the Testing of Chemicals: Test
No. 202, Daphnia sp. Acute Immobilisation Test”;
[3] ISO 10706: 2000, “Water quality-Determination of long term toxicity of substances to Daphnia
magna Straus (Cladocera, Crustacea); OECD Guidelines for the Testing of Chemicals: Test No. 211,
Daphnia magna Reproduction Test”;;
[4] C. Samorì, G. Sciutto, L. Pezzolesi, F. Guerrini, P. Galletti, R. Mazzeo, R. Pistocchi, E. Tagliavini,
“Effects of Imidazolium Ionic Liquids on Growth, Photosynthetic Efficiency, and Cellular Components
of the Diatoms Skeletonema marinoi and Phaeodactylum tricornutum”. Chem. Res. Toxicol., 2011, 24,
392-401;
[5] A. Modelli, A. Sali, P. Galletti, C. Samorì, “Biodegradation of oxygenated and non-oxygenated
imidazolium based ionic liquids in soil”, Chemosphere, 2008, 73 (8), 1322- 1327;
[6] Anastas, P., Warner, J., 1998. “Green Chemistry: Theory and Practice”, Oxford University Press:
New York.
547
Eisenia
Utilizzo dei vermi terricoli (Eisenia
andr
ei
andrei
ei) come strumento di valutazione
della tossicità di sostanze chimiche ai fini
del Regolamento REACH
Sara Buratti [email protected], Andrea Pasteris, Elena Fabbri – CIRI Energy and
Environment (REACH Unit), University of Bologna, campus of Ravenna
Riassunto
Nell’allegato IX della normativa REACH vengono indicate le disposizioni da seguire per quanto
riguarda tutte le sostanze fabbricate o importate in quantitativi = 100 tonnellate. Fra gli altri,
sono richiesti test ecotossicologici, fra cui test di tipo acuto su vermi terricoli (sulle specie Eisenia
fetida o E. andrei), secondo le linee guida OECD (n. 207). L’allegato X prende in considerazione
le sostanze fabbricate o importate in quantitativi = 1000 tonnellate. I test ecotossicologici valutano in questo caso effetti sulla crescita e la riproduzione (OECD n. 222). Nel nostro laboratorio
vengono utilizzati i lombrichi E. andrei come organismi sentinella applicando sia le linee guida
OECD sopra descritte, sia una batteria di biomarkers, risposte misurabili che riflettono un’interazione tra un sistema biologico e un fattore di stress. I biomarker, associati a test di tossicità previsti
dal regolamento, permettono una valutazione veloce e sensibile della vulnerabilità animale nei
confronti degli agenti tossici.
Summary
REACH requires manufacturers and importers of chemical substances to obtain information on
the physicochemical, health and environmental properties of their substances and use it to determine how these substances can be used safely. At =100 tonne/year (all.IX) are requested ecotoxicological tests, including acute tests on earthworms (Eisenia fetida or E. andrei), according to
OECD guidelines (n.207). At =1000 tonne/year (all. X) are requested chronic ecotoxicological
tests, including long term tests on growth and reproduction (OECD n. 222). In our laboratory are
used E. andrei are used as sentinel organisms, both applying the above cited OECD guidelines as
well as a battery of biomarkers, i.e. measurable responses reflecting the interaction between a
biological system and a stress factor. Biomarkers, associated to toxicity tests requested by the
regulation, allow a fast and sensitive evaluation of animal vulnerability towards toxic agents.
1. Introduzione
Il Regolamento CE n. 1907/2006, noto comunemente come REACH (acronimo di Registration, Evaluation and Authorization of Chemicals), è il sistema europeo integrato di registrazione, valutazione, autorizzazione e restrizione delle sostanze chimiche. È entrato in vigore il 1°
giugno 2007 per snellire e migliorare la struttura legislativa relativa alle sostanze chimiche
utilizzata all’interno dell’Unione Europea (UE).
548
Il REACH nasce dall’esigenza di rafforzare la protezione della salute umana e dell’ambiente
dagli effetti nocivi delle sostanze chimiche e al tempo stesso mira a migliorare la competitività
e la capacità di innovazione dell’industria chimica europea [1].
In linea di principio il REACH riguarda tutti i tipi di sostanze chimiche, quindi non solo quelle
impiegate nei processi industriali, ma anche quelli utilizzati nella vita quotidiana, come prodotti detergenti, vernici, coloranti per abbigliamento, arredamento e strumenti elettrici.
Gli scopi del Regolamento REACH sono:
– migliorare la protezione della salute umana e l’ambiente dai rischi che possono essere causati
da sostanze chimiche,
– migliorare la competitività delle industrie chimiche della UE, un settore chiave per il suo
sviluppo economico,
– promuovere metodologie alternative per la valutazione della pericolosità delle sostanze
– garantire la libera circolazione delle sostanze all’interno del mercato della UE.
Il Regolamento REACH richiede ai produttori o agli importatori di sostanze chimiche (= 1
tonnellata/anno) di ottenere informazioni sulle proprietà fisico-chimiche e sugli effetti sia sulla
salute umana che ambientale di queste sostanze, e l’uso di queste informazioni ai fini di un loro
utilizzo più sicuro.
Ogni produttore e importatore deve inviare un dossier di registrazione, in cui documenta i dati
e le valutazioni delle sostanze utilizzate, all’Agenzia Europea per le sostanze chimiche (ECHA),
che svolge un ruolo di coordinamento centrale e di implementazione nel processo generale e
gestisce la registrazione, la valutazione, le autorizzazioni e i processi restrittivi per le sostanze
chimiche per garantire una coerenza tra i Paesi in cui è applicato il Regolamento REACH.
Viene richiesta da parte dei dichiaranti una valutazione della sicurezza delle sostanze chimiche
(CSA) lavorate o importate in quantità pari o superiori a 10 tonnellate/anno, e anche da parte
degli utenti a valle se il loro utilizzo non è indicato dai loro fornitori.
Il report sulla sicurezza chimica (CSR) inviato all’Agenzia come parte del dossier di registrazione deve documentare i risultati della CSA.
Una CSA comprende i seguenti passaggi:
– valutazione del rischio per la salute umana: determinazione della classificazione e etichettatura della sostanza, derivazione dei livelli privi di effetto (DNEL)
– valutazione del rischio fisico-chimico: determinazione della classificazione e etichettatura
della sostanza
– valutazione del rischio ambientale: determinazione della classificazione e etichettatura della
sostanza, derivazione delle concentrazioni prevedibili senza effetto (PNEC)
– valutazione della persistenza, bioaccumulo, tossicità (PBT) e di un’alta persistenza e alto
bioaccumulo (vPvB): confronto con dati relativi a degradazione, bioaccumulo e tossicità secondo i criteri disponibili nell’allegato XIII del Regolamento REACH.
Se la sostanza seguendo questi criteri di valutazione risulta classificabile come pericolosa o
viene classificata come PBT/vPvB, la CSA allora prevede:
– una valutazione dell’esposizione per tutti gli utilizzi identificati e rilevanti di questa sostanza
e i relativi step del ciclo di vita, compresa la generazione degli scenari di esposizione.
– una caratterizzazione del rischio, che è lo step finale nella CSA, e consiste essenzialmente in
un confronto tra i DNEL e i PNEC con le concentrazioni di esposizione effettivamente calcolate sia per l’uomo che per l’ambiente.
Nell’allegato IX della normativa [2] vengono indicate le disposizioni da seguire per quanto riguarda
tutte le sostanze fabbricate o importate in quantitativi pari o superiori a 100 tonnellate. I dati richiesti sono le proprietà fisico-chimiche della sostanza, dati tossicologici e studi di tipo ecotossicologico,
tra i quali figurano anche test di tipo acuto su organismi terrestri. Tra i test approvati e standardizzati a livello internazionale su invertebrati terrestri sono suggeriti test di tipo acuto su vermi terricoli
(sulle specie Eisenia fetida o E. andrei), secondo le linee guida OECD (n. 207).
549
L’allegato X della normativa REACH [2] prende in considerazione le sostanze fabbricate o
importate in quantitativi pari o superiori a 1000 tonnellate. In questo caso vengono richiesti
ulteriori test ecotossicologici che prevedono l’esposizione a lungo termine degli organismi,
effetti sulla crescita e test di tossicità atti a valutare effetti sulla riproduzione (secondo le linee
guida OECD n. 222).
2. Relazione
2.1 Le analisi di laboratorio
All’interno dei laboratori di Fisiologia e Biochimica ambientale e di Ecotossicologia del CIRSA Ravenna vengono utilizzati i lombrichi Eisenia andrei come organismi sentinella per la
valutazione della qualità dei suoli e della tossicità di sostanze che possono essere ritrovate
come contaminanti nei suoli stessi, anche ai fini del REACH. Inizialmente acquistati presso
una lombricoltura, ora vengono allevati presso la struttura, al fine di assicurare che i vermi
utilizzati nelle varie campagne di analisi abbiano le medesime caratteristiche, siano in buona
salute, e inoltre non siano stressati per il trasporto o il passaggio da un terreno ad un altro. I
lombrichi vengono mantenuti in vasche di plastica contenenti suolo in quantità adeguata, in
armadio termostatato alla temperatura di 18°C, con un fotoperiodo di 16 ore di luce/8 ore di
buio; gli esperimenti vengono effettuati nelle medesime condizioni anche se le repliche sperimentali prevedono 10 vermi in 500 g di suolo. L’allevamento viene ispezionato tre volte alla
settimana e, se necessario, il terriccio viene bagnato con acqua distillata per reintegrare le perdite dovute ad evaporazione.
2.1.1 I Test per la valutazione dell’accrescimento e della riproduzione
Gli endpoint utilizzati sono la sopravvivenza e l’accrescimento degli adulti durante i primi 28
giorni del test, e la riproduzione, valutata come numero e peso dei giovani vivi alla fine del test
e come numero di bozzoli deposti. Un’utile informazione può essere fornita anche dal rapporto tra numero di bozzoli vuoti e numero di bozzoli totali deposti, che è un indice di vitalità
delle uova (hatchability). Gli animali vengono esposti ai suoli addizionati con i potenziali
contaminanti per ventotto giorni; il suolo di ogni contenitore è rovesciato in una vaschetta e i
vermi adulti sopravvissuti sono prelevati dal suolo, contati, sciacquati e pesati. Quando previsto dall’esperimento, gli adulti sopravvissuti sono utilizzati per le misure di bioaccumulo. Una
volta eliminati gli adulti, il suolo è posto nuovamente nei contenitori, con i bozzoli deposti
durante i primi 28 giorni dell’esperimento e i giovani eventualmente già sgusciati dalle uova. I
contenitori sono messi a incubare per altri 28 i giorni, durante i quali non viene aggiunto
ulteriore alimento. Allo scadere del cinquantaseiesimo giorno il test è concluso ispezionando il
suolo per raccogliere e contare tutti i giovani presenti. Il suolo è poi setacciato a umido su
maglia da 2 mm per la raccolta dei bozzoli, che vengono contati mantenendo distinti quelli
vuoti, che non contengono più né uova né embrioni, da quelli ancora pieni.
2.2 Integrazione delle linee guida OECD con una batteria di biomarker
Oltre ai test di cui sopra, applicati secondo le linee guida OECD, lo stato di salute dei vermi
viene valutato anche mediante una batteria di biomarker. I biomarker sono indicatori misurabili della interazione tra organismi e contaminanti, ovvero risposte a livello molecolare, biochimico, fisiologico o alterazioni citologiche che documentano sia l’esposizione a sostanze tossiche. La loro validità a questo fine è ben dimostrata anche da recenti lavori, ad es. sull’analisi di
rischio da diossine [3].
I biomarker che fanno parte della batteria utilizzata nel nostro laboratorio permettono di determinare gli effetti di sostanze molto diverse tra loro (metalli, composti organici, farmaci,
ecc.) tramite test che valutano lo stato di salute generale dell’organismo (la stabilità delle mem-
550
brane lisosomiali), l’attività di enzimi antiossidanti quali la catalasi, la glutatione S-transferasi,
la malondialdeide, danni causati da perossidazione lipidica (quali l’accumulo di lipofuscine o
di lipidi neutri insaturi all’interno dei lisosomi), effetti nocivi dovuti a contaminazione da metalli (attività Ca2+ATP-asica (Fig. 1), accumulo di metallotioneine (Fig. 2)) o effetti direttamente riconducibili ad esposizione a pesticidi o organoclorurati (l’attività dell’acetilcolinesterasi
(Fig. 3) [4]) o il bioaccumulo di queste sostanze all’interno dei tessuti dell’organismo.
I biomarker di cui si compone la batteria sono quelli riconosciuti dalle organizzazioni internazionali di protezione dell’ambiente; in particolare sono distinti in biomarker generali: stabilità
delle membrane lisosomiali, accumulo lisosomiale di lipofuscine e di lipidi neutri insaturi e
attività Ca2+ATP-asica, e biomarker specifici: accumulo di metallotioneine e attività dell’enzima acetilcolinesterasi (AChE).
Quest’ultimo biomarker è sensibile ai pesticidi, anche in quantità anche lievemente tossiche
per gli organismi. Carbammati e derivati organofosforici, presenti nei comuni pesticidi di sintesi, promuovono l’inibizione dell’attività dell’AChE ed il conseguente prolungamento della
sua azione a livello della trasmissione neuromuscolare, compromettendo le funzioni del sistema nervoso e muscolare. È ben documentato come i vermi esposti a pesticidi perdano la capacità di penetrare nei suoli a causa di un’alterata funzione neuro-motoria.
2.3 Metodi e risultati
La metodica di valutazione dell’attività dell’AChE si basa sul saggio enzimatico di Ellman. Si è
utilizzato acetiltiocolina come substrato e la velocità di reazione è stata quantificata spettrofotometricamente a 405 nm utilizzando uno spettrofotometro Multi Sample DU800 Beckman.
La reazione è stata seguita per 6 minuti e l’attività dell’acetilcolinesterasi è espressa come
nmol×min-1×mg di proteina-1.
I dati forniti sono la media di almeno tre esperimenti separati, ciascuno condotto su un pool di
15 animali.
Fig. 1 – Attività Ca2+ATP-asica stimata sull’accumulo di fosfato di Pb all’interno del tessuto intestinale nei
vermi osservata in seguito ad esposizione di E. andrei a concentrazioni crescenti di piombo. I valori riportati
rappresentano la media delle intensità di pixel2 misurate ± la deviazione standard.
551
Fig. 2 – Percentuale di accumulo di metallotioneine nei tessuti di verme rispetto al controllo in seguito ad
esposizione di E. andrei a concentrazioni crescenti di rame. I valori sono espressi come medie di 4 letture ± la
deviazione standard.
Fig. 3 – Effetti sull’attività dell’acetilcolinesterasi di E. andrei del carbaryl somministrato come Zoril 5 espressi
come nmol/min/mg di proteina. Il carbaryl, nel frattempo bandito, ha un significativo effetto inibitorio sull’enzima,
testato in parallelo anche con esposizione dei vermi su carta da filtro [4].
3. Conclusioni
I risultati ottenuti esponendo i vermi terricoli a fattori di stress di diversa tipologia (metalli
pesanti o composti organici) a concentrazione nota, affiancata anche da valutazioni di bioaccumulo, confermano la attendibilità delle risposte ottenute dai vermi sentinella in termini di
552
accrescimento, riproduzione e alterazioni fisiologiche. I vermi E. andrei e le procedure sperimentali applicate nel laboratorio sono dunque efficaci per la valutazione della tossicità delle
sostanze prese in considerazione dal Regolamento REACH. Inoltre, i risultati ottenuti hanno
mostrato una forte relazione dose/risposta tra i biomarker applicati e la concentrazione delle
sostanze potenzialmente tossiche a cui sono stati sottoposti gli organismi. La batteria di biomarker permette la valutazione di risposte molto sensibili e rapide ad un range di sostanze
molto ampio, e può essere applicata per un ulteriore approfondimento affiancata ai test OECD.
Bibliografia
[1] http://echa.europa.eu/;
[2] Regolamento CE n. 1907/2006;
[3] Sforzini S., Dagnino A., Oliveri L., Canesi L., Viarengo A., “Effects of dioxin exposure in Eisenia
andrei: integration of biomarker data by an Expert System to rank the development of pollutant-induced
stress syndrome in earthworms.” Chemosphere. 2011, in press;
[4] Gambi N., Pasteris A., Fabbri E., – “Acetylcholinesterase activity in the earthworm Eisenia andrei
at different conditions of carbaryl exposure.” Comp Biochem Physiol C Toxicol Pharmacol. 2007.
145(4):678-85.
553
Caratterizzazione di fanghi di cartiera
mediante tecniche a Risonanza
Magnetica (NMR) per operazioni
di bonifica
Marianna Vannini [email protected], Alessandra Bonoli, Villiam Bortolotti –
Università di Bologna
Alice Dall’Ara – ENEA UTTMATF, Faenza
Riassunto
Le metodologie a Risonanza Magnetica Nucleare (NMR) hanno trovato negli ultimi anni notevoli applicazioni nell’ambito delle scienze ambientali come strumenti di caratterizzazione non invasiva. L’obiettivo della ricerca concerne la caratterizzazione, attraverso la Rilassometria NMR (MRR)
di campioni di fanghi di cartiera provenienti da un’area di ripristino ambientale. Come ampiamente mostrato in altri ambiti dove viene da tempo utilizzata, questa tecnica fornisce informazioni dettagliate sulla struttura dei campioni e sulle interazioni delle sue fasi. A queste si assoceranno
i dati provenienti dai metodi tradizionali di valutazione degli interventi di bonifica. La duplice
analisi ha lo scopo di individuare la scelta migliore per un intervento di remediation, al fine di
ottenere una riduzione dell’impatto ambientale.
Summary
In recent years, due to their features to be non-invasive and non-destructive, techniques based on
Nuclear Magnetic Resonance (NMR) have become an useful tool for soil and environmental
sciences. Our goal is to use Magnetic Resonance Relaxometry (MRR) in order to characterize
samples of paper mill sludge coming from an environmental clean-up land. The next step is to
obtain data also from some traditional evaluation techniques of remediation. With both information, the NMR characterization and the environmental evaluation, it will be possible to choose
the better method to use on the contaminated site, in order to obtain a milder environmental
impact.
1. Introduzione
Negli ultimi anni la caratterizzazione dei mezzi porosi e dei fluidi in essi contenuti mediante le
tecniche a Risonanza Magnetica Nucleare (Nuclear Magnetic Resonance – NMR) hanno trovato notevoli applicazioni nello studio del suolo e delle scienze ambientali, grazie al fatto di
essere non invasive e non distruttive[1]. Esistono diverse tecniche NMR: in particolare la Spettroscopia NMR è un metodo ormai diffuso per la caratterizzazione chimica dei materiali che
permette di ottenere informazioni dettagliate sulla struttura molecolare dei composti in esame.
La Rilassometria 1H NMR (Magnetic Resonance Relaxometry – MRR) invece è un consolidato
strumento di indagine della struttura dei mezzi porosi, della loro interazione con l’acqua o con
554
altri liquidi idrogenati e dell’interazione delle molecole organiche in soluzione. Infine la tecnica Imaging a Risonanza Magnetica (Magnetic Resonance Imaging – MRI) può fornire informazioni spazialmente risolte che risultano complementari alla pura Rilassometria, la quale fornisce invece informazioni temporalmente risolte.
L’applicazione della MRR alla caratterizzazione in generale di suoli e materiali di varia natura,
spesso estremamente eterogenei (rifiuti inerti, fanghi e terre utilizzati per recuperi ambientali),
con particolare attenzione ai fanghi di cartiera, rappresenta la sfida di questa ricerca. Attraverso le informazioni NMR sulla struttura della matrice del suolo, sui processi di interazione tra la
matrice e liquidi presenti in essa e tra la materia organica ed eventuali contaminanti[1], ci si
propone come obiettivo la validazione degli interventi di bonifica su suoli interessati da ripristino ambientale con fanghi di cartiera.
2. Relazione
2.1 Il problema dei fanghi di cartiera nei ripristini ambientali
Gli interventi di recupero ambientale, ad esempio di ex aree di cava o ex discariche, è definito
ai sensi del Decreto Ministeriale 5 Febbraio 1998, e successivo DM 152/2006 Testo Unico
Ambientale n°152, “Norme in materia ambientale”, come attività che consistono nella restituzione di aree degradate ad usi produttivi o sociali. Infatti, all’articolo 240 del titolo V, parte IV
del DM 152/2006, Testo Unico Ambientale, vengono definiti come ripristino e ripristino ambientale “gli interventi di riqualificazione ambientale e paesaggistica, anche costituenti complemento degli interventi di bonifica o messa in sicurezza permanente, che consentono di recuperare il sito alla effettiva e definitiva fruibilità per la destinazione d’uso conforme agli strumenti urbanistici”.
Tali ripristini possono essere realizzati anche utilizzando rifiuti, per riempimenti e modellazione, purché questi ricadano nella categoria dei “rifiuti speciali non pericolosi”.
Ai sensi del DM 5 febbraio 1998 il recupero R10 (Spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura e dell’ecologia) riguarda molte tipologie di rifiuti non pericolosi, fra cui: fanghi dell’industria cartaria (Codice CER: [030305] [030309] [030310]), scorie di acciaierie, scorie provenienti dalla fusione in forni elettrici, a combustibile o in convertitori a ossigeno di leghe di
metalli ferrosi e dai successivi trattamenti di affinazione delle stesse (Codice CER: [100202]
[100903] [100201]); scorie provenienti da fonderie di seconda fusione di ghisa e di acciaio, o
dalla produzione di ferroleghe e dall’industria siderurgica; rifiuti costituiti da laterizi, intonaci
e conglomerati di cemento armato e non, comprese le traverse e traversoni ferroviari e i pali in
calcestruzzo armato provenienti da linee ferroviarie, telematiche ed elettriche e frammenti di
rivestimenti stradali, purché privi di amianto (Codice CER: [101311] [170101] [170102]
[170103] [170802] [170107] [170904] [200301]). Rifiuti provenienti da attività di demolizione, frantumazione e costruzione selezione o rifiuti di rocce da cave e da estrazione di minerali
non metalliferi (Codice CER: [010102] [010410] [010413] [010399] [010408] [010410]
[010413])e provenienti da attività di lavorazione dei materiali lapidei.
Fra tutti questi, i fanghi di cartiera risultano particolarmente interessanti, e sono stati ampiamente utilizzati negli ultimi anni, proprio per realizzare riempimenti di ex aree di cava e per
ripristini ambientali più in generale, grazie alla loro stabilità in condizioni aerobiche; tuttavia
essi costituiscono una biomassa ad elevato contenuto organico, essendo formati soprattutto da
materiali cellulosici e fibre di legno. Di recente [2] è stato rilevato che non c’è corrispondenza
tra la loro stabilità in condizioni aerobiche ed anaerobiche. Tali fanghi sono infatti notoriamente molto stabili rispetto ad una degradazione aerobica, ovvero la degradazione aerobica è molto lenta, ma, al tempo stesso, sono facilmente degradabili per via anaerobica portando, nel
tempo, alla produzione di metano e anidride carbonica, prodotti finali delle reazioni di respirazione anaerobica [3].
555
I ripristini ambientali, seppur effettuati ai sensi del D.M. 5.2.98, come attività di recupero R10
“spandimento sul suolo a beneficio dell’agricoltura”, possono dunque prevedere l’utilizzo di
fanghi provenienti da industria cartaria, purché adeguatamente miscelati con terreno inerte in
opportune percentuali. Tuttavia spesso tali fanghi, soprattutto nel caso in cui tale miscelazione
non venga realizzata correttamente, nel tempo possono essere interessati da fenomeni di degradazione anaerobica con conseguente pericolo di formazione di sacche nel sottosuolo o di
fenomeni di migrazione di biogas verso zone esterne.
La produzione di biogas, ascrivibile alla presenza di materiale organico, ad es. frazione “umida” dei rifiuti urbani o fanghi di depurazione di reflui, stoccato in assenza di aria e ossigeno,
ovvero in condizioni anaerobiche, è nota, attesa e ben quantificabile nelle discariche controllate e nelle discariche esaurite. Per questi impianti quindi è prevista l’esecuzione di sistemi di
drenaggio e di captazione idonei, da mantenersi efficienti per almeno 30 anni dopo la chiusura
nel caso di discariche esaurite.
Nel caso di aree destinate a ripristini ambientali non sono previste prescrizioni di alcun genere
in merito alla produzione e ai relativi impianti di captazione di biogas. Evidente dunque la
potenziale pericolosità di formazione incontrollata di gas in profondità.
Diventa quindi indispensabile un controllo sui materiali stoccati, non solo in termini di quantità ma soprattutto di modalità di stoccaggio, verificando se il vero e proprio pre-trattamento
di miscelazione dei fanghi con terreno naturale è stato realizzato correttamente così da prevenire e escludere la produzione di biogas.
La caratterizzazione dei fanghi di cartiera, e la qualità della miscelazione, vengono effettuate
normalmente attraverso la determinazione dei seguenti parametri: Carbonio Organico Totale
(TOC), o C come riportato nelle banche dati, Azoto totale (N), il rapporto TOC/N, umidità e
ceneri.
Dal punto di vista del processo di degradazione, valori iniziali di C/N attorno a 15-35 sono
ottimali per la biostabilizzazione aerobica e per il compostaggio; valori di C/N superiori a 40
rallentano la degradazione aerobica per mancanza di azoto, fino a fermare l’attività microbica
[4]. In condizioni anaerobiche la bassa concentrazione di N inibisce la formazione di ammoniaca in modo tale da inibire il processo anaerobico[5].
Per quanto riguarda i dati del terreno, si può far riferimento alle caratterizzazioni presenti in
letteratura e nelle banche dati. Da esse si evincono i tenori medi di TOC dei diversi terreni
naturali, organizzati per provincie da cui si può desumere il rapporto TOC/N.
Dalla valutazione di tutti i parametri si può dunque avere un’informazione sul grado di miscelazione fango/terreno.
Valori C/N > 25 rappresentano soglie di allarme rispetto ad una corretta miscelazione. La
soglia di allarme per il parametro Carbonio (TOC o C), tiene conto della presenza di altri
materiali nel sito di ripristino e della possibile miscelazione con questi.
2.2 La caratterizzazione NMR dei fanghi di cartiera
Il laboratorio di Risonanza Magnetica del Dipartimento di Ingegneria Civile, Ambientale e dei
Materiali è dotato di un Rilassometro Full Size (dimensionato secondo le misure standard delle
carote dell’industria petrolifera ˜ 12cm di diametro), di un tomografo MRI Artoscan (ESAOTE S.p.A.) avente un magnete permanente con campo magnetico pari a 0.2T, di un Fast Field
Cycling a campo magnetico variabile che permette di effettuare delle analisi in dispersione in
frequenze dei parametri NMR e infine di un NMR Sigle Sided Mouse, strumento portatile per
misure superficiali in situ.
Il caso in studio riguarda terreni interessati da ripristino ambientale attraverso lo spandimento
di fanghi di cartiera.
I residui della produzione della carta mostrano le complessità strutturali tipiche di un materiale eterogeneo. Spesso i fanghi presentano fibre di legno nelle quali sono avvenuti mutamenti
556
chimici generalmente associati ad un certo numero di contaminanti utilizzati sia per la manifattura, che per il tipo di processo di trattamento dei rifiuti adottato. Gli studi di Spettroscopia
NMR hanno evidenziato come questo tipo di materiale esiga indagini di tipo non-distruttivo,
in quanto l’estrazione delle varie componenti danneggerebbe i processi chimici che avvengono
nel campione alterandone il significato [6]. In più hanno rivelato che la pratica comune di
compostaggio per renderli idonei al ripristino di terreni degradati, o il semplice spandimento
su terreni conducono anch’essi ad inevitabili trasformazioni dell’ambiente molecolare [6][7].
Serve perciò poter studiare il campione nella sua eterogeneità.
Per affrontare questo tipo di ricerca, occorre in primo luogo stabilire quali siano le condizioni
strumentali più adeguate. A questo scopo è stata messa a punto una bobina ricetrasmittente
dedicata in grado di ospitare provette di diametro pari a circa 3 cm, dimensioni significative
per il tipo di grani presenti nei campioni, ma che al contempo ne facilitano il posizionamento
in una zona di campo magnetico omogeneo. Inoltre, particolare cura è stata rivolta al set up
delle misure per ottimizzare il rapporto S/N e all’individuazione di un opportuno protocollo
di preparazione dei campioni per rendere comparabili i risultati di una stessa tipologia di misura effettuate su campioni diversi.
Le analisi MRR danno le distribuzioni dei tempi rilassamento, parametri tipici NMR che mediante opportuni modelli interpretativi possono essere estremamente indicativi della struttura
porosa del materiale e delle interazioni tra la superficie del mezzo poroso e i fluidi endogeni.
Questa fase preliminare di ricerca vuole evidenziare le potenzialità del metodo e i primi risultati, riportati di seguito, ne rivelano innanzitutto l’applicabilità.
Un primo campione (denominato PMS C7) è stato preparato ponendo in soluzione ugual
quantitativo di fango (originariamente secco) e acqua. Il campione, mescolato con l’acqua fino
ad ottenere una miscela omogenea, si presentava visivamente come fango grigio-marrone, con
grani eterogenei.
Le misure NMR per ottenere le distribuzioni dei tempi di rilassamento sono state eseguite con
il Rilassometro NMR sopra citato. La sequenza denominata CPMG per ricavare il tempo di
rilassamento trasversale (T2) è stata eseguita con 4 accumuli, tempo di eco pari a 1000 µs, 2500
echi e tempo di ripetizione pari a 4s. La sequenza IR (Inversion Recovery) per i tempi di
rilassamento longitudinali (T1) é stata realizzata con 8 accumuli, 512 punti, 128 blocchi con
tempo di ripetizione pari a 4s (misure non riportate).
L’inversione dei set di dati sperimentali per ottenere le distribuzioni nei tempi di rilassamento
è stata conseguita mediante all’algoritmo UPEN (Uniform Penality) implementato nel software UpenWin (sviluppato e distribuito dall’Università di Bologna)[8].
Il campione PMS C7 è stato misurato sia nelle ore immediatamente successive alla sua preparazione, sia a due giorni di distanza, lasciando così riposare in provetta la miscela per circa 48h.
La Fig. 1 riporta la distribuzione dei T2. Si può notare come la distribuzione al giorno 1 (day 1)
sia costituita da due picchi uno a tempi corti (≈ 10 ms) e uno a tempi lunghi (≈ 200 ms), mentre
al giorno 3 (day 3) da un picco predominante a tempi corti (≈ 3 ms) con una lunga coda verso
i tempi più lunghi. Il campione da bimodale, perciò probabilmente caratterizzato da due popolazioni di spin ben distinte e non in rapido scambio fra loro, passa ad una situazione monomodale con una coda a tempi lunghi. La curva bimodale potrebbe indicare che il picco a tempi
lunghi rappresenti l’acqua tra gli aggregati venutisi a formare nella miscela, quello a tempi corti
invece, l’acqua nei pori all’interno degli aggregati [9]. Inoltre le particelle organiche presenti
nella superficie del suolo, a causa del prolungato contatto con l’acqua da idrofobe tendono a
diventare idrofile, favorendo cambi di bagnabilità nei campioni. Questo facilita processi di
rigonfiamento della matrice porosa, che si traducono in uno spostamento dei tempi di rilassamento verso i tempi più bassi col passare del tempo (Fig 1 “Day 3”)[1].
557
Fig. 1 – Distribuzione in tempi di rilassamento trasversali (T2) del campione PMS C7 al primo e al terzo giorno
di misure (day 1, day 3) e dell’ acqua di raccolta (water) dello stesso campione.
In un’indagine NMR si deve tenere conto anche, dell’eventuale presenza nei campioni di sostanze paramagnetiche che portano ad un abbassamento a volte inaccettabile dei tempi di
rilassamento. Dopo aver raccolto l’acqua che risultava in eccesso al termine della preparazione
dei campioni, ne sono stati misurati i tempi di rilassamento. Essendo noto il tempo di rilassamento dell’acqua che a temperatura ambiente, in condizioni bulk, è generalmente caratterizzato da un picco pari a circa 3 secondi, è stato possibile verificare se i fanghi avessero rilasciato in
soluzione qualche sostanza in grado di abbatterne i tempi.
Il picco in questo caso si colloca a tempi più bassi, pari 2 s circa (Fig. 1 “Water”); è perciò
evidente come i fanghi liberano sostanze che abbattono i tempi di rilassamento.
3. Conclusioni
Molti interventi di ripristino ambientale sono oggigiorno realizzati utilizzando rifiuti, per riempimenti e modellazione, purché questi ricadano nella categoria dei “rifiuti speciali non pericolosi”. In particolare i fanghi dell’industria cartaria, miscelati opportunamente con terreno inerte in adeguate percentuali, possono essere spansi sul suolo a beneficio dell’agricoltura. In questi casi è indispensabile un controllo sui materiali stoccati per verificare che il pretrattamento
di miscelazione dei fanghi con terreno naturale sia stato realizzato adeguatamente, così da
prevenire ed escludere la produzione di biogas. In questa ricerca la caratterizzazione dei fanghi
normalmente fatta in termini di parametri come il TOC/N, umidità e ceneri, viene effettuata
anche attraverso metodi NMR.
Le osservazioni preliminari confermano come sia possibile effettuare indagini rilassometriche
NMR, le quali forniscono un valore aggiunto alle tradizionali analisi chimiche e spettroscopiche correntemente utilizzate. Allo stato attuale sono a disposizione diversi campionamenti di
558
fanghi di cartiera utilizzati per un intervento di ripristino ambientale. Di questi si valuteranno
caratteristiche come la distribuzione della classe di pori, gli effetti di una probabile presenza di
ioni paramagnetici e le eventuali interazioni tra la matrice dei fanghi e le componenti organiche
presenti, nell’ottica di una più attenta caratterizzazione del materiale, al fine di ridurre poi
l’impatto ambientale, grazie ad una scelta più consapevole dell’intervento di bonifica da effettuare.
Bibliografia
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Workshop sui Siti Contaminati. Roma, 11-12 Febbraio 2010;
[3] Y. Lin, D. Wang, Q. Li and M. Xiao (2011). “Mesophilic batch anaerobic co-digestion of
pulp & paper sludge and monosodium glutamate waste liquor for methane production in a
bench-scale digester” Bioresource Technology 102 (4) 3673-3678;
[4] Adani F. (2004) “I processi aerobici per il trattamento di rifiuti urbani ” Quaderni di
Ingegneria Ambientale. Cipa Srl, Milano (Italy);
[5]Dall’Ara A., Ferri F., Marroni V., Billi L. and Bonoli A. (2009). “Low impact bioremediation technology: application in a restoration site” 12th Int. waste Management and Landfill
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[6] Mark J. Jackson, Martin A. Line, “Organic composition of pulp and paper mill sludge
determined by FTIR, 13C CP MAS NMR, and chemical extraction techniques” Journal of
Agricultural and Food Chemistry, (1997), 45:2354-2358;
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“Chemical changes during composting of paper mill sludge-hardwood sawdust mixture” Geoderma, (2003), 116:345-356;
[8] Borgia G.C., Brown R.J.S., Fantazzini P., “Uniform Penality inversion of multiexponential decay data” Journal of Magnetic Resonance, (1998), 132: 65-77;
[9] N.R.A. Bird, A.R. Preston, E.W. Randall, W.R. Whalley, A.P. Whitmore “Measurement
of the size distribution of water-filled pores at different matric potentials by stray field Nuclear
Magnetic Resonance” European Journal of Soil Science, (2005), 56: 135-143.
559
Soluble ions and metals deposition flux
close to a municipal solid waste
incinerator: new approaches to asses the
contribution of the plant
Elisa Venturini [email protected], Ivano Vassura, Fabrizio Passarini, Laura Ferroni,
Luciano Morselli – CIRI Energia e Ambiente Polo di Rimini, Università di Bologna, Dipartimento
di Chimica Industriale e dei Materiali
Summary
The aim of this study is to estimate the relative contribution of a MSWI to the pollutants
burden in the surrounding area. To do that metals and soluble ions have been determined in
samples of atmospheric depositions collected monthly from 2006 to 2010. Monitoring network
was drawn on the basis of a dispersion map calculated by the atmospheric dispersion model
Calpuff, applied to incinerator emissions. Sampling sites (5) were located in zones affected by
different plant emissions fallouts. Basic statistical analysis and advanced multivariate analysis
(PMF) have been applied to the obtained dataset. Thanks to this study it was possible to verify
that the relative contribution of incinerator to the total pollution load seems to be negligible
compared to the high background concentration, which could be likely ascribed to the nearby
urban area.
Riassunto
Lo scopo di questo studio è stimare il contributo relativo di un inceneritore per RSU al carico di
inquinanti dell’area circostante. Per ottenere questo, i metalli e gli ioni solubili sono stati determinati nelle deposizioni atmosferiche raccolte mensilmente dal 2006 al 2010. La rete di monitoraggio è stata disegnata sulla base di una mappa di dispersione calcolata col modello di dispersione
atmosferica Calpuff, applicato alle emissioni dell’inceneritore. I siti di campionamento (5) sono
stati localizzati in zone influenzate da una diversa ricaduta delle emissioni dell’impianto. I flussi
determinati sono stati elaborati con analisi statistiche di base ed avanzate analisi multivariate
(PMF). Grazie a questo studio è stato possibile verificare che il contributo relativo dell’inceneritore al carico totale di inquinanti sembra essere trascurabile comparato all’alta concentrazione del
background, che potrebbe probabilmente essere dovuta alla vicina area urbana.
1. Introduction
In Europe – 27, about 20% in weight of Municipal Solid Waste (MSW) is incinerated [1]. Up
until the 1990s, many incinerators had considerable impact on the environment and health,
because of their inefficient flue gas treatment, which entailed a high exposure of people to
pollution agents [2]. New generation plants, built after European Directive 2000/76/EC and
the implementation of Best Available Techniques (according to IPPC Directive 96/61/EC),
560
reduced the emissions of pollutants. However the locally contribution of heavy metals (HM) in
the deposition fluxes could be not negligible.
After the incineration, heavy metals contained in waste divide up among combustion products: smoke, slag, flying ash and particulate matter. The amount of heavy metals in the different products depends not only on chemical composition of waste. Other factors are important, such as the characteristics of each metal[3] and the combustion temperature, which aids
the volatilisation [4].
Acid gas (SOx, NOx, HCl, HF) are the pollutants most emitted by incinerators. They are
produced during the combustion of compounds containing sulphur, nitrogen, chloride and
fluoride. NOx are products even by the reaction between N2 and O2, during incineration at
high temperature. NOx and SOx react with other compounds present in the air and the products are acids which, as HCl and HF, fall down as rain, fog, snow or particulate matter[5].
The main goal of this study is to assess the temporal trend of atmospheric depositions of HM
and soluble ions, collected with bulk sampler, in the vicinity of a medium-sized incineration
plant (according to Italian standards), located near Rimini, in the Emilia-Romagna Region
Both heavy metals and acid gas are emitted in the atmosphere even by other sources, such as
vehicular traffic, industrial plants or domestic heating. For this reason it is important to asses
not only the total pollutants load, but also the contribution of the incinerator. Therefore, sites
located in zones affected by different incinerator emissions fallouts have been selected. In
addition to this, data analysis has been performed with advanced statistical approaches such as
positive matrix factorisation (PMF), which are particularly suitable when several environmental data are available.
2. Report
2.1 Materials and methods
The incineration plant has been in operation since 1976 and is situated in a suburban area, not
far from a tourist town (Riccione), an important Italian highway (A14), and the Adriatic coast.
This plant is authorized to burn 127,600 t per year of urban, hospital, and cemetery solid
waste. From February 2008, the plant was revamped, with the construction of a new incineration line and the dismantling of the 2 oldest ones; for this reason in this year, the incinerator
shut down its activity for about 6 months, while for another 6 months it operated at reduced
capacity.
Atmospheric depositions were collected by means of a bulk sampler consisting of a funnel
directly connected to a collection bottle. The device is made of PET and is placed in a polymer
structure support hanging from a pole 2 m from the ground.
Sampling net was drawn on the basis of the dispersion map calculated by the atmospheric
dispersion model Calpuff, applied to incinerator emissions. This model has been officially
suggested by US-EPA as a recommended model for long-range transportation in non-steadystate conditions.
The studied area, the dispersion model results and the monitoring sites are reported in Figure 1.
561
Fig. 1 – Dispersion model results and monitoring sites.
Sampling sites (5 sites) were located in zones affected by various deposition amounts, due to
their different positions with respect to the incineration plant.
In the area mostly influenced by the incineration plant (green area in Fig. 1), three sites were
selected. The first site (site 1) was located in a rural area 1.2 km far from the plant. The second
site (site 2) was located about 7 km far from the shoreline, in a rural area 1.5 km far from the
plant. Site 1 and 2 are in the area pointed out by the dispersion model as the main incineration
stack emission fallout zone. The third site (site 3) was located on a 60 m asl hill ridge, following
the main wind axis between the incineration plant and the site itself. Moreover, it is placed in
a suburban area approximately 2.5 km far from the plant and at about 100 m far from the A14
motorway, which runs roughly 30 m below; it receives pollutants coming from coastal urban
area, incinerator and road traffic. The fourth site (site 4) was located in an area of minimum
plant emissions deposition. This rural site is affected mainly by pollution coming from costal
urban area. From 2009 a fifth site, located in the city centre, has been added (site 5)
2.2 Results
2.2.1 Inorganic ions
Mean daily deposition fluxes of inorganic ions (Table 1) at the different sites, monitored during the same period, are quite similar. Generally, no considerable differences are seen among
the values found in the most affected sites (according to the dispersion model, i.e. sites 1, 2 and
3), and the reference one (site 4), except ammonium and nitrate, which show a lower flux in
site 4, but this is true even when the plant switched off. On the contrary temporal variability is
quite high. Deposition fluxes of nitrite and ammonium are generally lower while the plant was
closed and depositions fluxes of nitrate decrease after that the plant was revamped.
The site located in the city centre (site 5) generally shows fluxes similar to the other sites, but
the deposition fluxes of nitrite are higher.
562
Na+
NH4+
K+
Ca++
Mg++
SO4--
NO3-
Cl-
F-
NO2-
mg/m2 d
5.45
8.75
29.11
0.04
0.41
5.15
2.60
0.78
4.67
0.25
5.84
7.37
18.84
0.04
1.21
S3
10.84
1.89
0.88
5.76
0.35
7.47
9.34
28.92
0.05
0.29
S4
5.12
1.52
0.72
5.28
0.28
5.23
6.52
15.83
0.04
0.14
S1
2.62
2.66
0.91
13.70
2.20
5.34
7.59
15.65
0.05
0.11
S2
2.30
3.39
0.98
7.66
1.84
5.00
7.06
15.33
0.04
0.17
S3
2.49
3.68
1.71
10.50
2.28
5.14
8.66
15.08
0.05
0.21
S4
2.05
2.44
0.95
11.53
2.59
5.22
5.76
16.69
0.05
0.12
S1
2.83
0.72
0.64
6.14
1.12
5.95
5.32
17.04
0.05
0.09
S2
2.75
1.18
0.50
7.66
1.17
5.85
4.93
16.83
0.04
0.09
S3
3.07
0.79
0.56
8.60
1.26
6.63
6.05
18.50
0.05
0.09
S4
3.04
0.25
0.76
11.03
1.35
7.09
4.65
17.81
0.18
0.09
S1
6.34
3.59
4.66
5.97
1.12
5.26
4.24
9.82
0.04
0.24
S2
7.02
2.93
3.34
4.67
1.46
5.18
4.20
10.35
0.03
0.36
S3
8.50
2.38
2.07
5.11
1.49
5.32
5.60
12.54
0.04
0.20
S4
7.52
1.22
1.56
5.41
1.02
5.17
3.80
11.46
0.03
0.04
S1
6.90
1.35
0.46
5.53
0.80
4.68
5.64
10.01
0.02
0.18
S2
6.01
1.90
0.95
4.42
0.74
4.21
5.28
8.95
0.02
0.34
S3
7.63
1.42
0.63
4.42
0.93
5.34
5.69
11.86
0.02
0.28
S4
7.69
0.78
0.51
7.02
0.85
4.95
5.46
10.02
0.04
0.32
S5
6.78
0.48
2.21
8.78
0.90
4.46
4.90
9.75
0.02
0.39
S1
5.51
2.67
0.55
5.39
0.77
5.76
5.34
9.86
0.03
0.18
S2
5.51
2.27
0.60
4.94
0.72
5.80
5.76
10.09
0.04
0.18
S3
6.13
1.83
0.57
4.87
0.81
5.76
5.84
11.86
0.03
0.19
S4
7.58
0.98
0.48
8.50
1.04
8.02
5.45
13.52
0.04
0.09
S5
7.97
1.30
0.75
9.31
1.10
7.65
6.84
16.26
0.03
0.29
2010
0.34
2009
5.69
2008 (open)
0.92
2008 (close)
2.30
2007
5.69
S2
2006
S1
Tab. 1 – Mean daily deposition fluxes of inorganic ions.
To go deeper in inter-site differences, significance test was applied. The most chemical species
are log-normally distributed, so the t-test was applied, using the logarithm of the fluxes. Nitrate, nitrite and ammonium do not follow this kind of distribution, for this reason non parametric test of Mann-Whitney has been used. Significant differences have been obtained especially
563
for nitrite and ammonium. Deposition flows at site 4 are significantly lower than at site 1, 2, 3
and 5 for nitrite, while deposition flows of ammonium at sites 4 and 5 are significantly lower
than at site 1, 2 and 3. This last difference is significant only after the reopening of the plant,
due to a decrease in the deposition flux at site 4.
2.2.2 Metals and arsenic
Mean daily deposition fluxes of heavy metals and arsenic are reported in Figure 2a, 2b and 2c.
While Fe, Mn, Al and As show a variable temporal trend, this is quite constant for Cd, Cr, Ni
and Pb, except for some values (Cd in 2007, Pb in 2006). In particular, the greatest deposition
flux of arsenic is registered when the plant reopened (second part of 2008). The deposition
flow of lead in 2006 and 2007 is greater, while deposition fluxes of chromium are greater after
the reopening of the plant. Considering the total sampling period (2006-2010), there are not
important differences among the sites most affected by incinerator emissions fallouts and the
referring site. The differences with site 5 are greater; this site shows generally a greater deposition flow of heavy metals. To go deeper in inter-site differences, significance test was applied.
All the chemical species are log-normally distributed, so the t-test was applied, using the logarithm of the fluxes. Significant differences has been obtained especially comparing site 5 with
the other sites for Cr, Zn and Cu. This is due to a greater deposition flux at site 5. For Cu, the
deposition flux at site 4 is also significantly greater than at sites 1, 2 and 3.
Fig. 2a – Total daily deposition fluxes (µg/m2d) of Al and Fe.
564
565
Fig. 2b – Total daily deposition fluxes (µg/m2d) of Mn, As, Pb and Cr.
566
Fig. 2c – Total daily deposition fluxes (µg/m2d) of Ni, Cd, Cu and Zn.
Atmospheric depositions are influenced by resuspended soil dust. Thanks to enrichment factors
(EF), you can estimate if, in the deposition fluxes, there is a different contribution from that
coming from the soil. Enrichments factors are calculated on the basis of the load of aluminium,
because this element is generally exclusively due to soil contribution. By convention, if EF>10,
then the anthropogenic contribution is significant [6].
To estimate the ratio metal/aluminium in atmospheric deposition, mean daily deposition fluxes of each year were used. The concentrations of metals in soil have been quantified in superficial soils samples (0-15 cm). EF for Ni, Mn and Cr are always lower then 10 (Tab 2); so for
these metals soil contribution in atmospheric deposition is considerable.
site1
site2
site3
site4
200 200 200 200 201 200 200 200 200 201 200 200 200 200 201 200 200 200 200 201
7
8
9
0
6 7
8
9
0
6
7
8
9
0
6
7
8
9
0 6
Cr
1,8
1,2 1,3
2,8
1,6
2,6
1,2
1,7 2,9
1,7 2,3
1,0
1,4
3,0
1,8
1,7
0,5
1,4
3,4
0,9
Cu
27
21
10
7
7
27
15
16
6
23
30
13
17
6
24
21
19
18
5
Mn 1,3
0,8 1,0
1,3
0,7
1,4
0,6
1,4 1,3
0,7 1,2
1,2
1,2
1,3
0,8
1,1
0,4
1,2
1,4
0,6
Ni
4,3
3,1 1,6
2,0
1,1
3,9
1,7
1,8 1,9
1,3 2,4
2,6
1,9
2,2
1,2
2,5
2,1
2,2
2,5
1,0
Pb
50
28
7,6
7,3
7,8
79
12
11
9,5
9,6 50
17
15
11
7,3
73
25
12
13
3,9
Zn
50
64
17
14
25
30
31
20
10
18 32
67
21
23
20
49
37
36
26
51
11
Tab. 2 – Enrichment factors for 2006-2009 in sites 1-4.
2.2.3 PMF analysis
In order to understand how the different sources present in the area influence the sampling
sites, PMF analysis was performed. This is a new factor analysis technique which takes into
consideration the errors in the data and produces non-negative factor loadings and scores.
With careful selection of modelling parameters, PMF has been found to be more powerful in
source identification than the other factor analysis techniques [7,8].
According to PMF results, the studied area is influenced by six sources. The source profiles are
reported in figure 3a and 3b.
567
Fig. 3a – Source profile in mass concentration.
Fig. 3b – Source profile in mass concentration for heavy metals.
Factor 1 represents marine spray contribution. The mass profile obtained with PMF analysis
was compared with sea water composition (Table 3). They are quite similar
Chemical species
Composition of sea water. Mass
Marine spray profile by PMF.
percentage (%)[9]
Mass percentage (%)
Na+
30.37
29.96
K+
1.10
0.00
1.16
3.68
Ca
2+
(segue)
568
Chemical species
Composition of sea water. Mass
Marine spray profile by PMF.
percentage (%)[9]
Mass percentage (%)
2+
3.91
3.22
2-
7.81
11.17
Mg
SO4
-
NO3
5.29
l
Tab. 3 – Comparison between sea water composition and marine spray profile obtained with PMF.
Factor 2 represents resuspended soil dust. The mass profile was compared with the composition of the soil in the study area. In this case, we have compared the Ca/Al ratio, the Fe/Al ratio
and the ratio (Ó Cr, Zn, Ni, Cu, Pb, Mn)/Al in soil and in the PMF profile (Table 4). The
obtained values are quite similar.
Ratio
Soil
Factor 2
Ca/Al
2.03
2.57
Fe/Al
0.68
0.71
(? Cr, Zn, Ni, Cu, Pb, Mn)/ Al
0.026
0.044
Tab. 4 – Comparison between Ca/Al and Fe/Al ratio in soil and in resuspended soil dust factor.
K+ is represented especially by factor 3, while H+ by factor 4 and it is almost the only compound to be represented by this factor. We can conclude that factor 3 could represent a combustion source, while factor 4 the pH, which has a behaviour independent from the other
variables.
Factor 5 represents a source characterized by NH4+, NO3-, SO42-, Cl-, so it is likely an anthropogenic factor. It could be secondary particulate matter.
Factor 6 represents a source characterized by heavy metals, NO3-, SO42-, and Ca+. Even this
factor seems representing an anthropogenic source, probably the incinerator.
3. Conclusions
Results show that the studied area is subject to low contamination, as far as these compounds
are concerned [10].
Deposition flows do not show generally higher pollutants burden at sites most affected by
emission plant fallouts, nor differences in deposition flux related to the plant switching off.
However some significant differences can be appreciated for nitrite and ammonium; the deposition flows at site 4 are significantly lower than at the most affected sites. The city centre site is
characterized by the greatest deposition flows of nitrite, while the deposition flow of ammonium is lower than at the most affected sites. It is characterized also by the greatest deposition
flows of heavy metals, therefore the most important source of these compounds is the vehicular traffic, and not the incinerator. The enrichment factors and the PMF results show that that
the resuspended soil dust gives an important contribution in the deposition fluxes of heavy
metals. This supports the conclusion that the contribution of the incinerator is low, as far as
these compounds are concerned.
569
In conclusion, the incineration plant is not the main source of pollutants in the studied area,
which is characterized by a homogeneous and widespread contamination situation.
This is hardly explainable considering only the air dispersion of plant emissions and suggests
that more sources are present in the whole area. This is confirmed by the PMF analysis, which
reports that six sources influence the area and some of them represent natural contribution.
Acknowledgement
HERA s.p.a. is sincerely thanked for its technical and funding support to the research project.
References
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[2] Italian Association of Epidemiology, 2008
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during fluidized bed combustion of sludge (FBSC)”, Journal of Hazardous Materials, Volume 158, 2008,
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municipal solid waste treatment and characteristics of their pollutants in Taiwan”, Applied Thermal
Engineering 28 (2008) 2305–2314
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[10] Rossini P. et al. 2005. “Atmospheric bulk deposition to the lagoon of Venice: Part I. Fluxes of
metals, nutrients and organic contaminants”. Environment International 31: 959-974.
570
Relazione tra condizioni di sintesi e
proprietà del biochar ottenuto da pirolisi
Panicum virgatum)
di Panico (Panicum
C. Torri [email protected], D. Fabbri – Centro Interdipartimentale di Ricerca Industriale
Energia e Ambiente, UO Biomasse, Università di Bologna
R.Conti, A. Rombolà – Centro Interdipartimentale di Ricerca per le Scienze Ambientali,
Università di Bologna
Riassunto
La pirolisi permette da produzione di energia o di carrier energetici a partire da biomassa lignocellulosica. Sottoprodotto del processo è il biochar, un materiale che potrebbe avere un interessante applicazione in agricoltura. Le condizioni di pirolisi hanno una larga influenza sulla resa del
processo e sulle caratteristiche chimico-fisiche del biochar. Per questo è stato condotto uno studio
dettagliato della pirolisi del panico (temperature da 400 a 700°C e tempi da 1 a 20 minuti), una
pianta ad alta produttività caratterizzata da basso impatto ambientale.
Lo studio dell’output energetico della pirolisi ha mostrato come anche l’uso di temperature relativamente moderate permette l’ottenimento, in forma di pyro-olio e pyro-gas, di buona parte dell’energia chimica della biomassa di partenza, nonché la produzione di pyro-oli e pyro-gas con una
densità energetica lievemente superiore.
Dal punto di vista strutturale, ad alta temperature e con lunghi tempi di pirolisi il biochar si
presenta come un materiale costituito essenzialmente di strutture poliareniche e con un contenuto
di inquinanti organici lievemente superiore. A bassa temperatura parte delle strutture della biomassa originaria vengono mantenute nel materiale solido (in particolare parte dell’azoto rimane
nel biochar) e si osserva un contenuto lievemente più basso di inquinanti organici.
Abstract
Pyrolysis allows for production of energy or energy carrier from ligno-cellulose. By-product of the
process is the biochar, a material that could have an interesting application in agriculture. The
pyrolysis conditions have a large influence on the yield of the process and the chemical and physical properties of biochar. For this reason, we conducted a study on switchgrass.
This study showed the use of relatively moderate temperatures allows obtaining most of the
chemical energy of the biomass of departure, and the production of bio-oil and syngas with a
slightly higher energy density.
From a structural standpoint, biochar obtained at high temperatures and long reaction times is
basically a material which consist of polyaromatic structures and with a slightly higher content of
organic pollutants. Biochar obtained at low-temperature retain a portion of the original structures
(in particular some of the biomass nitrogen remains in the material) and showed a slightly lower
content of organic pollutants.
571
1. Introduzione
Al fine di un utilizzo più efficiente della biomassa, un’opzione interessante, alternativa alla
combustione diretta, è rappresentata dalla pirolisi combinata alla pratica del biocharring(figura
1). La pirolisi consiste nel riscaldamento, in atmosfera inerte, di un materiale organico e l’ottenimento di un prodotto liquido, uno solido e uno gassoso (successivamente raccolti o combusti). Questo processo permette di ottenere una importante porzione dell’energia di una materiale organico ma, al contempo, di ottenere un sotto-prodotto di natura carboniosa (il biochar),
contente una frazione importante del carbonio e dell’azoto della biomassa trattata e la quasi
totalità delle ceneri. In alcuni casi questo materiale può essere utilizzato in applicazioni agronomiche al fine di migliorare le caratteristiche chimico-fisiche del terreno. I vantaggi associati
all’utilizzo del biochar, che possono motivarne la produzione e l’applicazione per la gestione
ambientale, sono costituiti dal miglioramento delle caratteristiche del suolo, l’aumento della
produttività di alcune culture, la riduzione dell’inquinamento delle acque, lamigliore gestione
dei rifiuti, la mitigazione dei cambiamenti climatici e la produzione di energia (Figura 1), che
singolarmente o combinati possono comportare un vantaggio sociale e/o finanziario.
Fig. 1 – Schema concettuale di un sistema di stoccaggio di carbonio/produzione energia.
Le condizioni di produzione e il tipo di biomassa utilizzata hanno una notevole influenza sulle
caratteristiche chimiche del materiale risultante, e possono quindi influire sulla qualità e sulle
proprietà agronomiche del biochar. Scopo di questo studio è stato quindi quello di valutare la
relazione tra le condizioni di sintesi e le proprietà chimiche del materiale ottenuto.
2. Relazione
2.1 Materiali e metodi
2.1.1 Sintesi dei biochar
I campioni di biochar sono stati prodotti in un reattore pirolitico a letto fisso costituito da una
camera di pirolisi cilindrica posta coassialmente ad una fornace, descritto in dettaglio in precedenti lavori [1]. All’estremità del reattore sono state poste delle trappole per raccogliere la
frazione liquida (Bio-olio). Le pirolisi sono state condotte a differenti temperature (da 400 a
700 °C) e con differenti tempi di reazione (1, 2,5,10 e 20 min) per un totale di 35 campioni,
successivamente analizzati in dettaglio
2.1.2 Caratterizzazione del biochar: analisi elementare e bilanci di massa e energia
L’analisi elementare dei biochar è stata effettuata utilizzando il metodo della flash combustion,
tramite analizzatore elementare Flash 2000 series CHNS/O (Thermo Scientific). Il contenuto
572
di ceneri è stato calcolato dopo calcinazione a 600 °C per 2 h. I dati di bilancio di massa sono
stati quindi ottenuti tramite l’analisi del residuo solido e per differenza.
Il potere calorifico (HHV) delle frazioni di pirolisi è stato ottenuto a partire della composizione elementare tramite la seguente equazione [2]:
HHV= 0.3491C + 1.1783H + 0.1005S – 0.1034O – 0.0151 N – 0.0211 A (MJ Kg-1)
Dove C, H, S, O, N, A, rappresentano rispettivamente il contenuto di carbonio, idrogeno,
zolfo, ossigeno, azoto, ceneri espressi in massa percentuale.
2.1.3 Caratterizzazione del biochar: Py-GC-MS
Le analisi Py-GC-MS sono state condotte con un pirolizzatore CDS pyroprobe 1000 interfacciato ad un gas cromatografo Varian star 3400 accoppiato ad un spettrometro di massa Varian
saturn 2000.
I campioni di pirolisi (5 mg di biochar) sono stati pirolizzati per 5 sec a 900°C sotto un flusso
di elio (100 ml min-1). Gli analiti sono stati separati con una colonna capillare HP-5MS con
fase stazionaria di polimetilsilossano (30 m, diametro 0.25 mm, spessore del film 0.25 ?m).
È stata usata la seguente programmata termica: temperatura iniziale 35 °C, quindi 5°C/min
fino ad una temperatura finale di 310 °C
2.1.4 Caratterizzazione del biochar: analisi del contenuto in idrocarburi policiclici aromatici (IPA)
prioritari
Per la determinazione degli IPA nel biochar è stata applicata una procedura ad-hoc, sviluppata
sulla matrice in questione, basata sull’estrazione mediante Soxlhet con acetone/cicloesano (1:1,
v:v) per 36 h seguita da clean up tramite SPE.
2.2 Analisi elementare e stima dell’output energetico
Sono state testate 7 temperature (da 400 a 700°C) è la reazione è stata seguita nel tempo(
1,2,5,10 e 20 minuti), al fine di determinare l’effetto delle condizioni di pirolisi sulla composizione del residuo carbonioso e sulla composizione dei vapori di pirolisi. I risultati sono stati
razionalizzati in termini di distribuzione elementare all’interno delle varie frazioni di pirolisi.
Le rese in massa di biochar sono risultate oscillanti da un minimo di 15% (con temperature più
alte e tempi più lunghi) fino ad massimo di 92% (1 minuto a 400°C).
La figura 2° e 2b mostra la quantità percentuale di carbonio e di azoto presenti inizialmente
nella biomassa che rimangono nel residuo carbonioso in seguito alla pirolisi. La figura 2c mostra la stima della frazione di energia originaria che viene trasferita ai prodotti di pirolisi.
Dai risultati ottenuti è possibile rilevare che il carbonio abbandona il residuo rapidamente
prima di 1 minuto a temperature superiori a 650°C, a 1 minuto a temperature intermedie (da
500°C a 600°C), mentre sono necessari più di 5 minuti per completare la reazione alle temperature più basse (400°C) utilizzate in questo studio.
573
Fig. 2 – Bilancio di massa del carbonio e dell’azoto, e output energetico del processo di pirolisi i dati sono
riportati in termini di % g(C)biochar/g(C)biomassa e % g(N)biochar/g(N)biomassa, % MJ(gas+pyro-olio)/MJbiomassa.
L’azoto (figura 2b) è risultato molto più sensibile alla temperatura di pirolisi con un sequestro
del 20% (resa g(N)biochar/g(N)biomassa) all’interno del biochar che raddoppia abbassando la temperature da 700°C a 450°C. Il rilascio dell’azoto (similarmente all’ossigeno, non mostrato in
figure) mostra un andamento simile a quello del carbonio con una differenza più rilevante ai
tempi lunghi. La bassa temperatura di pirolisi, applicata per tempi lunghi (e.g. pirolisi lenta),
sembra infatti favorire la produzione di un biochar più arricchito in azoto rispetto alla pirolisi
in tempi brevi con temperature di reazione superiori (e.g. pirolisi veloce). Da questi dati è
possibile notare come tramite una gestione fine delle condizioni del processo pirolitico sia
possibile gestire l’azoto della biomassa e ottenere una parziale “segregazione” di questo all’interno del bio-char, con vantaggi (rispetto alla combustione diretta) in termini di emissioni di
NOx. È inoltre interessante notare come un tempo di pirolisi più lungo e una temperatura più
elevata, non comporta infatti un grosso incremento di energia “estratta” dalla biomassa (figura
2c). Può essere quindi interessante, nel caso dei pirolizzatori a letto fisso, operare a temperature relativamente basse (<450°C) che pur permettendo di ottenere un output energetico paragonabile a sistemi più complessi e potenti, lasciano buona parte dell’azoto (e dell’ossigeno) nel
residuo.
2.3 Studio dell’evoluzione strutturale tramite Py-GC-MS ad alta temperatura
La struttura, a livello molecolare, del biochar è stata studiata tramite Py-GC-MS, che ha permesso di ottenere un indicazione della presenza di determinate strutture chimiche all’interno
della struttura del materiale [3].
Moltiplicando la concentrazione di una determinata struttura all’interno del biochar (e.g. il
frammento di tipo fenolico ottenuto per Py-GC-MS a 900°C) per la resa in massa di materiale
574
carbonioso possiamo studiare l’evolversi della struttura del materiale. Da punto di vista dell’evoluzione termica del materiale, si possono rilevare tre tipi di strutture che variano la loro
abbondanza relativa durante la reazione, con modalità caratteristiche della temperature di reazione. Inizialmente è presente un bio-char ancora largamente formato da frammenti che conservano le strutture della biomassa originale (e.g. vinilfenolo derivato dalla lignina delle piante
erbacee) . Queste strutture “decadono” fino ad un valore nullo all’avanzare della reazione di
pirolisi. Il valore finale è nullo anche con temperature di pirolisi molto basse, mentre la velocità
di decomposizione è dipendente dalla temperatura di pirolisi (figura 3). Un comportamento
diverso è stato invece osservato per i frammenti aromatici alchilati (e.g. tolueni e xileni), idrossilati (e.g. fenolo ) o alchilati-idrossilati (e.g. cresolo). Queste strutture mostrano infatti un
decadimento che, solo nel caso delle temperature più moderate, si arresta ad un valore limite.
Questo tipo di effetto è caratteristico di quei frammenti che sono al contempo prodotti di
pirolisi (Ad alta temperature) della lignina e strutture caratteristiche del biochar (in questo
caso strutture dei biochar a bassa temperature). Una terza categoria è rappresentata dagli idrocarburi policiclici aromatici che al contrario, non sono presenti nella biomassa di partenza. Nel
caso della pirolisi ad alta temperatura, queste strutture si formano nelle fasi iniziali della pirolisi per poi diminuire con il tempo (a causa del desorbimento o della aggregazione in poliareni
di dimensione maggiore). Al contrario a temperature più moderate la quantità assoluta aumenta con il tempo per poi, in alcuni casi, ridiminuire (nel caso delle temperature intermedie).
575
Fig. 3 – Bilancio di massa del carbonio e dell’azoto, e output energetico del processo di pirolisi i dati sono
riportati in termini di Cbiochar/Cbiomassa e Nbiochar/Nbiomassa, J(gas+pyro-olio)/Jbiomassa.
2.4 Contenuto di idrocarburi policiclici aromatici (IPA) prioritari nel biochar: estrazione e analisi
GC-MS
Al fine di un uso agricolo, il contenuto di inquinanti del biochar rappresenta un parametro
estremamente importante. Gli IPA sono prodotti dalla pirolisi del materiale organico e presentano una notevole affinità con il biochar, per questo sono normalmente presenti in questo
materiale.
È stato quindi valutato l’effetto della temperatura e del tempo di residenza sulla concentrazione degli IPA, selezionando alcuni campioni rappresentativi (figura 4). Le concentrazioni totali
di IPA relative ai vari char analizzati, ottenute dalla somma delle concentrazioni dei singoli
IPA, variano da 0,92 a 2,93 µg/g, corrispondenti ad un range tra 0.03 e 0.07 µg/g di
benzo[a]pirene equivalente (BAPeqcalcolato tramite i fattori di cancerogenicità equivalente).
Dai risultati ottenuti non si notano particolari differenze fra le concentrazioni di IPA determinate nei char prodotti a diverse temperature. È possibile rilevare, nel caso della pirolisi con un
tempo di residenza di 20 minuti, un leggero aumento delle concentrazioni degli IPA ad alto
peso molecolare con l”della temperatura da 450 a 650°C, che si traduce (visto il maggiore
potere cancerogeno degli IPA a maggior numero di anelli) in un aumento del contenuto totale
di BAPeq. In particolare, si nota un incremento nella concentrazione degli IPA ad alto peso
molecolare passando da 450°C a 550°C. Si passa, infatti, da una concentrazione media di circa
0,05 µg/g a una concentrazione media di 0,20 µg/g con picchi di 0,40 µg/g. Tali risultati non
consentono comunque di sostenere che effettuare delle pirolisi a bassa temperatura (< 450°C)
576
permette la produzione di char a minor concentrazione di IPA. È altresì importante tuttavia
evidenziare che le concentrazioni dei vari IPA, come visto anche nei biochar considerati, dipendono, oltre che dalla temperatura, anche dalla biomassa di partenza e dal tipo di sistema di
produzione (pirolisi, gassificazione), per produrre un char a bassa concentrazione di IPA è
necessario tenere in considerazione tutte e tre queste variabili.
Fig. 4 – evoluzione del contenuto cancerogeno di IPA (mg kg.1) di benzo[a]pirene equivalente (BAPeq) a
seconda della temperatura e del tempo di residenza utilizzato. Il dato a tempo 0 è il contenuto di IPA della
biomassa originale.
3. Conclusioni
Le condizioni di pirolisi hanno un effetto importante sulle caratteristiche del biochar, sul destino dell’azoto e sul contenuto di inquinanti organici (IPA) nel materiale risultante. Per questo è
possibile modulare le variabili di reazione al fine di ottenere un materiale con le proprietà
desiderate. In modo preliminare, utilizzando un reattore a letto fisso e alcune tecniche analitiche (analisi elementare e pirolisi analitica) è possibile ottenere un “protocollo di analisi” completo, ma relativamente semplice, che permette un designdel processo su misura rispetto al
materiale di partenza.
Bibliografia
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potential agronomic application (biochar). Relationships with impacts on microbial carbon dioxide production”. Journal of Analytical and Applied Pyrolysis, Accepted;
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Tesi di Laurea in Scienze Ambientali, Relatore D. Fabbri.
577
Cemento armato ecosostenibile
la resistenza a corrosione in ambienti
fortemente aggressivi
Federica Zanotto [email protected], Alessandro Frignani, Cecilia Monticelli, Andrea Balbo – LT
Terra&AcquaTech – Centro Studi Corrosione e Metallurgia “A. Daccò”, Università di Ferrara,
Ferrara
Maria Criado Sanz – CSIC, Cantoblanco, Madrid, (ES)
Riassunto
Questo studio riguarda il comportamento a corrosione di un acciaio inossidabile austenitico a
basso contenuto di Nichel in malte di cemento al 100% costituite da ceneri volanti. Le malte sono
state carbonatate e inquinate da ioni cloruro. Per confronto sono stati anche preparati provini in
malta di cemento Portland e in tutte le malte è stata anche valutata la resistenza a corrosione di un
acciaio AISI 304. Le misure di potenziale di corrosione (Ecor), di resistenza di polarizzazione (Rp)
e la registrazione di curve di polarizzazione evidenziano che l’acciaio a basso tenore di Ni presenta
nel complesso un ottimo comportamento a corrosione, tuttavia la sua probabilità di corrosione
puntiforme è superiore a quella dell’AISI 304. Fra le malte studiate, quelle innovative offrono
una maggiore protezione dalla corrosione di quella tradizionale.
Summary
This study concerns the corrosion behaviour of a low Nickel austenitic stainless steel embedded in
100% fly ash mortars. The mortars were carbonated and exposed to chloride ions in order to
simulate a highly corrosive environment. The corrosion resistance of AISI 304 in fly ash mortars
and that of both steels in ordinary Portland cement mortars were also evaluated for comparative
purposes. The corrosion potential (Ecor) and the polarization resistance (Rp) measurements, as
well as the polarization curves recorded in mortars clearly showed the excellent performances of
the low Nickel stainless steel even if it exhibited a slightly higher susceptibility to pitting corrosion than AISI 304. Moreover, the fly ash mortars offered a higher corrosion protection than the
traditional one.
1. Introduzione
La produzione di cemento Portland ordinario (OPC), oltre a richiedere altissime temperature
(1400-1500 ºC) e consumi energetici rilevanti (?4000 kJ per kg di cemento), è fonte di emissione di un contributo significativo di gas serra (0,85-1 t CO2 per t di cemento) [1-3]. Perciò,
elaborare strategie che diminuiscano l’impatto ambientale dell’industria cementifera appare
come una necessità improrogabile. A questo proposito, l’introduzione sul mercato di malte e
calcestruzzi innovativi a base di ceneri volanti (prodotto di scarto di impianti termoelettrici a
carbone), attivate con soluzioni fortemente alcaline (alkali-activated fly ash, AAFA), oltre ad
incidere sul risparmio energetico e sul contenimento dei gas serra, porterebbe ad una diminuzione della quantità di ceneri allocate in discariche [4,5]
578
La corrosione delle barre di rinforzo è la principale causa di cedimento delle strutture in calcestruzzo armato [6] e in ambienti fortemente aggressivi quali quelli inquinati da cloruri e in
presenza di carbonatazione, può essere conveniente utilizzare armature di rinforzo ad elevata
resistenza alla corrosione, come quelle in acciaio inossidabile [7]. Acciai inossidabili austenitici, come l’AISI 304, presentano tuttavia costi elevati, che risentono fortemente delle fluttuazioni del prezzo del nichel sul mercato. Perciò è stato intrapreso uno studio che riguarda la valutazione della resistenza a corrosione di un nuovo tipo di acciaio inossidabile austenitico a basso
tenore di Nichel, in malte di AAFA, carbonatate e contaminate da cloruri. Questa ricerca
mostra per confronto anche il comportamento di questo acciaio in malte di OPC e quello dell’
AISI 304 in malte di tipo AAFA e malta tradizionale.
2. Relazione
2.1 Parte sperimentale
2.1.1 Materiali metallici
Nelle prove sono stati usati due tipi di acciai inossidabili austenitici, forniti da ACERINOX
S.A. (Cádiz, Spagna), le cui composizioni sono riportate in Tab. 1.
Materiale
Basso Ni
AISI 304
C
0.082
0.049
Si
0.48
0.32
Mn
7.26
1.75
P
0.027
0.028
S
0.001
0.001
Cr
16.56
18.20
Ni
4.32
8.13
Mo
0.07
0.22
Cu
0.13
0.21
N
0.075
0.059
Tab. 1 – Composizione chimica percentuale (in peso) degli acciai inossidabili austenitici studiati (resto Fe).
2.2 Prove in malta di cemento OPC e AAFA
Per la realizzazione delle malte è stata usata una cenere volante di classe F (Tab. 2) proveniente
dalla centrale termica di produzione di energia di Aboño nelle Asturie, in Spagna. Con questa
sono state prodotte due tipi di malte, che si differenziano per la soluzione di attivazione:
– soluzione 1: NaOH 8N (malta AAFA1)
– soluzione 2: 85% di NaOH 10N + 15 % di “waterglass” (Na2SiO3, densità 1.38 g cm-3,
composizione: 8.2% Na2O, 27% SiO2, 64.8% H2O) (malta AAFA2).
Per confronto sono state preparati anche campioni di malta a base di cemento Portland ordinario di tipo CEM I 52.5 N (OPC) la cui composizione è pure riportata in Tab. 2.
In entrambe le malte è stato adottato un rapporto “liquido/legante” pari a 0.6, per favorire il
processo di carbonatazione, invece i rapporti sabbia/AAFA e sabbia/OPC sono stati pari a 2 e
3 rispettivamente.
Con i tre tipi di malta, sono stati preparati campioni prismatici di dimensione 8 cm x 5.5 cm x
2 cm, in ciascuno dei quali sono state annegate due barrette di acciaio inossidabile. In particolare, sono stati preparati 3 campioni armati per sistema malta/acciaio inossidabile, in modo da
avere 6 barrette di acciaio da sottoporre a prova per sistema analizzato.
Le malte AAFA sono state sottoposte a indurimento (stadi I e II) e carbonatazione (stadio III),
secondo lo schema riportato in Tab. 3. Il completamento della reazione di carbonatazione è
stato controllato con il metodo della fenolftaleina su campioni cubici (lato 10 cm) preparati
appositamente e sezionati ad intervalli di tempo. In seguito, i campioni sono stati sottoposti ad
immersione parziale in acqua contenente quantità di cloruri crescenti nel tempo (Tab. 3).
579
Materiale L.o.I IRb
a
FA
OPC
3.59 2.2
3
3.42 1.2
3
SiO2
Al2O
51.7
8
20.3
3
27.8
0
3.40
3
Fe2O
3
CaO
6.18
4.59
4.68
57.8
4
Mg
O
1.52
1.51
SO3
0.7
1
7.2
6
K2
O
2.5
1
0.7
2
Na2
O
0.59
Mn
O
0.06
TiO
1.35
0.51
0.10
0.09
2
Tab. 2 – Composizione chimica percentuale (in peso) della cenere volante (fly ash, FA) e del cemento Portland
(OPC) utilizzati (a = Perdita al fuoco, b = Residuo insolubile).
Stadi
I
II
III
IV
Malte AAFA
Malta OPC
85 °C, UR = 100% per 20h
TA, UR = 100% per 20h
Atmosfera di laboratorio per 28 giorni
TA, UR = 65%, PCO2 = 1 atm per 60 giorni
650 giorni di immersione parziale in acqua contenente quantità di cloruri crescenti nel
tempo, a partire da 2% fino a 12% in peso, rispetto al legante.
Tab. 3 – Stadi di esposizione cui sono stati sottoposti i diversi campioni armati di malta (TA = temperatura
ambiente).
2.3 Tecniche adottate
Il comportamento a corrosione degli elettrodi annegati nelle malte di cemento ed esposti a soluzione di cloruri (stadio IV) è stato seguito monitorando il loro potenziale di corrosione (Ecor) e
misurando la resistenza di polarizzazione (Rp). Quest’ultimo parametro, in base alla relazione di
Stern e Geary, è inversamente proporzionale alla corrente di corrosione (icor) ed è stato ottenuto
tramite tecnica di Spettroscopia di Impedenza Elettrochimica (EIS), adottando i seguenti parametri sperimentali: +/- 10 mV rms, frequenze: 1 MHz – 1mHz, 5 frequenze per decade.
Dopo 650 giorni, su campioni selezionati sono state registrate curve di polarizzazione anodiche (velocità di scansione del potenziale 0.1667 mV/s).
2.4 Relazione
Nelle malte studiate contenenti tenori crescenti di ioni cloruro, gli acciai inossidabili utilizzati
possono soffrire del fenomeno della corrosione puntiforme, che ha natura statistica ed è dunque indagabile solo analizzando un elevato numero di campioni metallici. Da qui la necessità
di individuare una tecnica di monitoraggio semplice e veloce. L’andamento nel tempo del potenziale di corrosione (Ecor) può essere utile a questo scopo poiché fornisce informazioni sulla
stabilità e continuità del film passivo: in particolare, valori molto positivi di potenziale indicano condizioni di passività, mentre diminuzioni di tale grandezza indicano in genere l’insorgenza di attacco corrosivo.
La Fig. 1 mostra l’andamento di Ecor durante lo stadio IV per i due acciai studiati, annegati in
malta AAFA1 (Fig. 1a), AAFA2 (Fig. 1b) e OPC (Fig.1c).
Si nota che gli acciai sono soggetti a continue oscillazioni di potenziale che indicano l’innesco
e la ripassivazione continua dei punti di corrosione. Queste oscillazioni sono più accentuate in
malta di OPC (Ecor fra -0.35 e -0.05 VSCE), che in malte di ceneri volanti (soprattutto in AAFA2,
dove i valori sono compresi fra -0.025 e -0.05 VSCE).
La Fig. 2 mostra gli andamenti di Rp nelle diverse condizioni. È evidente la variazione anche di
questo parametro nel tempo e da provino a provino. Tuttavia, in generale, si nota che i valori di
Rp rimangono molto elevati, di norma compresi fra circa 106 e 108 ohm cm2 nelle malte di
cemento OPC, mentre cadono fra 107 e 109 ohm cm2 nelle malte di ceneri volanti attivate,
nonostante l’aumento continuo della quantità dei cloruri nella soluzione a contatto. Questi
ultimi dati sono in accordo con i valori mediamente più nobili di Ecor riscontrati in queste malte
innovative e suggeriscono una maggiore protezione dalla corrosione offerta dalle malte AAFA,
in un ambiente così aggressivo.
580
Tuttavia i risultati ottenuti dopo 650 giorni, raccolti in Fig. 3, evidenziano che qualche barretta
in acciaio inossidabile a basso tenore di Ni presenta valori di Rp particolarmente bassi (circa
105 ohm cm2), mentre una sola barretta in AISI 304 (esposta ad OPC) presenta valori di Rp
attorno a 106 ohm cm2.
Per capire quale comportamento a corrosione corrisponde ai diversi valori di Rp, al termine
dello stadio IV sono state registrate curve di polarizzazione sulle barrette di entrambi i tipi di
acciai che, in ogni malta, hanno presentato i valori più bassi e quelli più elevati di Rp. I campioni in acciaio a basso tenore di Ni con Rp elevato (Fig. 4a) hanno evidenziato valori di icor attorno
a 2-3·10-9 A cm-2 che indicano condizioni di passività. Al crescere del potenziale si raggiungono
valori di Epit attorno a +0.10 / +0.16 VSCE. Invece, i campioni dello stesso acciaio ad Rp basso
(105 – 106 ohm cm2, Fig. 4b) presentano curve di polarizzazione spostate verso correnti più
elevate, con icor comprese fra 3·10-8 e 3·10-7 A cm-2. Si tratta di valori di corrente piuttosto bassi,
ma superiori di 1-2 ordini di grandezza rispetto a quelli misurati in Fig. 4a. Essi sono inoltre il
risultato di corrosione localizzata su aree piccole, dove la effettiva velocità di penetrazione può
essere piuttosto elevata. È interessante notare che i valori di Epit crescono leggermente nell’ordine OPC < AAFA1 < AAFA2 e, a parità di tipologia di malta, sono praticamente uguali a
quelli riscontrati sui campioni ad Rp elevato. Ciò suggerisce che il potenziale a cui si formano
nuovi punti di corrosione sull’acciaio è più alto in malte AAFA che in malta OPC, ma è indipendente dalla preesistenza di corrosione localizzata sul materiale.
Per confronto le Fig. 5a e 5b mostrano rispettivamente le curve di polarizzazione ottenute su
campioni di AISI 304 ad Rp elevato (>1·108 ohm cm2) ed Rp basso (OPC: 1.2·106 ohm cm2;
AAFA1: 6·106 ohm cm2; AAFA2: 4·107 ohm cm2). I valori di icor sono attorno a 4·10-9 A cm-2 per
campioni ad alta Rp. Valori del tutto simili si riscontrano anche su campioni con Rp che scende
fino a 6·106 ohm cm2 (Fig.5b). Un tale valore di Rp sembra dunque corrispondere alla persistenza di condizioni di completa passività. Invece il campione con Rp = 1·106 ohm cm2 manifesta
velocità di corrosione
a.
b.
Fig. 1 – Andamento di Ecor per le barrette di acciaio
inossidabile annegate nelle malte di AAFA1 (a.), AAFA2
(b.) e OPC (c.) durante lo stadio IV di immersione parziale in soluzione di cloruri a tenore crescente da 2 a
12 %.
c.
581
Fig. 2 – Andamento di Rp per le barrette di acciaio inossidabile annegate nelle malte di AAFA1 (a.), AAFA2 (b.)
e OPC (c.) durante lo stadio IV di immersione parziale in soluzione di cloruri a tenore crescente da 2 a 12 %.
a.
b.
Fig. 3 – Valori di Rp dopo 650 g di immersione in condizioni di immersione parziale in soluzione di cloruri: a)
Acciaio inossidabile a basso tenore di Ni; b) AISI 304 .
di 1 ordine di grandezza superiore. Perciò valori di Rp = 1·106 ohm cm2 appaiono indicativi
della presenza di corrosione puntiforme attiva sulla barretta. Anche su AISI 304, i valori di Epit
sono apparentemente indipendenti da icor e crescono nettamente passando da malta OPC (+0.11
VSCE), ad AAFA1 (+0.31 VSCE), ad AAFA2 (+0.46 VSCE).
3. Conclusioni
Le prove mostrano che, in ambienti fortemente aggressivi, malte innovative ottenute con scarti
industriali, non contenenti cemento OPC, offrono ad acciai inossidabili una protezione dalla
corrosione localizzata superiore a quella offerta da malte tradizionali.
582
Sia in malte innovative che tradizionali, l’acciaio inossidabile austenitico a basso tenore di Ni
studiato presenta nel complesso un ottimo comportamento a corrosione, tuttavia la sua probabilità di corrosione puntiforme è superiore a quella dell’AISI 304.
a.
b.
Fig. 4 – Curve di polarizzazione anodiche registrate su barrette di acciaio inossidabile a basso tenore di Ni
annegate nelle tre diverse malte, dopo 650 g di immersione parziale in soluzione di cloruri: a) barrette ad Rp
alta (>1·108 ohm cm2); b) curve registrate sulle barrette a Rp bassa (= 1·106 ohm cm2).
Fig. 5 – Curve di polarizzazione anodiche registrate su barrette di acciaio inossidabile AISI 304 annegate
nelle tre diverse malte, dopo 650 g di immersione parziale in soluzione di cloruri: a) barrette ad Rp alta (>1·108
ohm cm2); b) curve registrate sulle barrette a Rp bassa (OPC: 1.2·106 ohm cm2; AAFA1: 6·106 ohm cm2;
AAFA2: 4·107 ohm cm2).
Bibliografia
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[7] Castro-Borges P., de Rincón O.T., Moreno E.I., Torres-Acosta A.A., Martínez-Madrid M., Knudsen
A., Mater. Perf. 41 (2002) 50-55.
583
Valutazione delle potenzialità di un
pretrattamento elettrochimico di
delignificazione su matrice
lignocellulosica (paglia) per la
produzione di bioetanolo di
seconda generazione
Elena Tamburini [email protected], Giuseppe Castaldelli, Tatiana Bernardi, Sergio Ferro –
Laboratorio del Tecnopolo Terra&AcquaTech, Università di Ferrara
Riassunto
Il bioetanolo è considerato una promettente risorsa come biocarburante, specialmente se come
materia prima vengono impiegate biomasse di scarto o, in particolare, biomasse lignocellulosiche.
Tuttavia solo negli ultimi anni, alcune barriere tecnologiche al processo di delignificazione stanno
avviandosi al superamento, e trattamenti di delignificazione che siano a basso impatto ambientale
ed efficienti, sono ancora una sfida importante per il mondo della ricerca applicata. Questo lavoro
descrive un trattamento di delignificazione su matrice paglia di grano, eseguito a temperatura
ambiente in tempi brevi (10 minuti), utilizzando una soluzione acquosa elettrochimicamente attivata di HOCl. La riduzione di lignina è stata del 64%. La successiva idrolisi e fermentazione
(68% in peso sul valore teorico) hanno confermato l’interesse per il processo.
Summary
Ethanol is considered as one of the most promising biofuels, as it can be produced from lignocellulosic materials. However, some technological barriers, such as delignification pretreatment, need
to be addressed for an efficient conversion of wood to bioethanol. This paper describes a mild and
harmless delignification of wheat straw, carried out at room temperature and requiring only 10
minutes, using an environmentally-friendly HOCl-containing electrochemically activated water
solution, synthesized from diluted brines. Cellulose and hemicellulose rich materials can be obtained with approximately 64% reduction of the initial lignin content. Both the absence of lignin
degradation products, which could act as inhibitors during fermentation, and a promising ethanol
yield (68% w/w on theoretical value) confirm the potential of this alternative approach t
towards resolving the challenges to develop a sustainable and low-cost process.
1. Introduzione
Negli ultimi anni, come è noto, la capacità di produrre biocarburanti di seconda generazione
attraverso tecnologie utilizzabili su larga scala e a basso costo per ottenere matrici delignificate
ha rivestito un’importanza sempre crescente [1]. Nelle piante, infatti, cellulosa ed emicellulo-
584
sa, sono fortemente legate alla lignina, che forma una barriera impermeabile che ha lo scopo di
prevenirne la degradazione. Diverse tecniche di delignificazione sono attualmente disponibili,
a partire dai processi messi a punto nell’industria cartaria (es. processo Kraft, a base di soda
caustica), per arrivare ai più innovativi trattamenti con liquidi ionici, come i sali di metilimidazionio [2]. Essi tuttavia non sono compatibili con l’impiego in processi che prevedono una
componente bio significativa (fase successiva di idrolisi e fermentazione), a causa dei residui
potenzialmente tossici che rilasciano nella soluzione. La nostra ricerca ha lo scopo di valutare
la capacità delignificante di una soluzione di HOCl elettrochimicamente attivata a partire da
NaCl, su una matrice reale come la paglia di grano. La sintesi elettrochimica di cloro attivo per
sfruttarne le proprietà ossidanti per delignificare una matrice vegetale è un concetto piuttosto
nuovo [3]. La paglia delignificata, viene poi sottoposta ad idrolisi enzimatica per ottenere i
monomeri fermentescibili, e sottoposta a fermentazione alcolica con C.tropicalis DSM 7524.
Vengono di seguito riportati i risultati preliminari della sperimentazione, realizzati in scala di
laboratorio.
2. Relazione
2.1 Materiali e metodi
La matrice con la quale sono stati svolti i vari test è paglia di frumento delle campagne ferraresi.
La paglia è stata sminuzzata, macinata e setacciata fino ad ottenere 3 diverse granulometrie di
campione omogeneo (sotto 0,5 mm; da 0,5 a 2 mm; da 2 a 4 mm).
Il contenuto di lignina nella paglia è stato determinato attraverso il metodo gravimetrico Klason e il calcolo del numero Kappa [3].
La Soluzione Elettrochimicamente Attivata (SEA) di HOCl è stata preparata a partire da una
soluzione acquosa contenente 5 g/L di NaCl con cella elettrochimica ad immersione per 12
minuti a 12 V DC. La cella ad immersione è una cella elettrolitica per la produzione di una
soluzione di ossidanti comprendente un anodo e un catodo ad esso coassiale, da immergere in
una soluzione diluita predefinita, posta in un contenitore esterno. Il catodo è un cilindro di
titanio, mentre l’anodo è una barra di titanio ricoperta da una miscela di ossidi a base di Iridio,
Rutenio e Stagno. La circolazione continua attraverso la cella, indotta dalle bolle di gas generate nel volume interelettrodico (gas lift), è incrementata dalla particolare configurazione dell’estremità superiore della cella.
La SEA prodotta ha un potenziale redox di +950 mVSCE e un contenuto di sostanze ossidanti di
circa 1500 g/L [4]. La soluzione può essere stoccata in contenitori di vetro scuro, e mantiene le
sue proprietà per alcuni giorni.
Test di confronto sono stati eseguiti con soda caustica (metodo Kraft) e utilizzando altri tipi di
ossidanti prodotti in cella elettrochimica, in particolare Ce(IV) e perossicarbonato.
I campioni di paglia trattata e non trattata sono stati esaminati al microscopio SEM (Zeiss
EVO 40, Svizzera).
La eventuale presenza di composti clorurati organici di degradazione della lignina è stata investigata con ESI-MS.
Una quantità nota (250 ml) di soluzione delignificata è stata sottoposta ad un trattamento di
idrolisi enzimatica con b-glucosidasi, b-glucanasi, e cellobioidrolasi (Biocatalyst, UK) a caldo
(55°C) per 60 minuti. La soluzione è stata poi raffreddata e filtrata e la composizione in zuccheri determinata atttraverso cromatografia HPLC.
La fermentazione della soluzione idrolizzata è stata eseguita in beuta (100 ml), dopo aver aggiunto una soluzione nutriente opportunamente dosata per le esigenze del micoroganismo (3
g/L di estratto di lievito, 5 g/L di peptone (Oxoid, UK) e vitamine del gruppo B). Per le prove
di fermentazione è stato utilizzato C.tropicalis DSM 7524 (DSMZ, Germany). 50 ml di soluzione idrolizzata ed integrata sono stati inoculati con 2 ml di sospensione di lievito (0,1 AU @ 600
585
nm) e fermentati a 30 °C, pH =5,8 e DOT < 1% sat.. In parallelo sono stati eseguiti test di
bianco, con terreno di fermentazione artificiale contenente soluzioni standard di glucosio e
xilosio (Carlo Erba, ITALIA; 3, 5 e 10 g/L, rispettivamente).
Per le metodiche analitiche utilizzate e le procedure dettagliate si rimanda a Tamburini et al
(2011) [3].
2.2 Risultati e discussione
Il contenuto di lignina della paglia, determinato attraverso il metodo Klason, è risultato essere
27,7% in peso sulla sostanza secca (umidità media, 7,5% in peso). Il numero Kappa corrispondente era di 59±1, per il campione di paglia più finemente frazionato (< 0,5 mm). Il numero
Kappa è un indice che assume valori tra 0 e 100, proporzionalmente al contenuto di lignina [5],
ed è normalmente utilizzato nell’industria cartaria per valutare l’efficienza dei processi di delignificazione. Per le successive prove, è sempre stato utilizzato il campione più fine, poiché si è
riscontrata (dati qui non presentati) una maggiore efficienza di trattamenti.
L’attività delignificante della SEA è stata valutata attraverso una serie di prove, effettuate aggiungendo 5 gr di paglia macinata finemente in 250 ml di SEA. Per monitorare la reazione,
sono state registrate le variazioni di potenziale redox. Il valore iniziale (+950 mVSCE) via via
decresce, raggiungendo un valore stazionario di circa +600 mVSCE, ad indicare che il 90% della
capacità ossidante è stata espletata. Il contenuto di lignina della paglia trattata era l’11.2% in
peso, ad indicare una riduzione significativa rispetto al contenuto iniziale.
Per confronto, un campione di paglia è stato trattato con il metodo Kraft (trattamento per 4
ore a 100°C con NaOH e Na2S), notoriamente il trattamento chimico più aggressivo per la
delignificazione di matrici legnose. Il contenuto di lignina al termine del processo era 8,5% in
peso (Kappa=18±1).
Per valutare le potenzialità di altri ossidanti ottenuti per attivazione elettrochimica, campioni
di paglia sono stati trattati rispettivamente con Ce(IV) a 25°C e a 60°C e perossicarbonati,
ottenendo rispettivamente un contenuto di lignina residua di 26,3%, 25,8% e 21,1%. Come si
può notare, tutti i trattamenti sono risultati poco efficienti.
Il confronto tra i diversi trattamenti testati è mostrato in Figura:
Fig. 1 – Contenuto di lignina residua nella paglia dopo i trattamenti di delignificazione.
586
I dati sono espressi come percentuale di lignina residua, e confrontati con il dato del campione
non trattato. Anche se l’efficienza di delignificazione del trattamento con SEA è leggermente
inferiore a quella del processo Kraft (61,5% di delignificazione vs. 69,3%, rispettivamente), le
condizioni di reazione che sottendono all’impiego di SEA sono blande, non pericolose per l’operatore, e lasciano come residuo una soluzione salina diluita. L’ossidazione generata dal cloro
attivo sulla lignina, infatti, ha l’effetto di ridurre nuovamente il cloro a cloruro, e quindi porta
nuovamente alla formazione di cloruro di sodio. Il trattamento con cloro attivo, oltre che ecofriendly, è anche low-cost, dal momento che per produrre un litro di SEA sono necessari 0,3 kWh,
corrispondenti a circa 0,6 -cent (assumento un costo dell’energia elettrica di 0,2 -/kWh)
L’analisi in spettrometria di massa (ESI-MS) sul residuo acquoso ha evidenziato l’assenza di
composti clorurati organici (la sensibilità dello strumento è a livello di picomoli), altamente
inquinanti e comunque tossici per le successive fasi di idrolisi e fermentazione.
L’effetto del trattamento con SEA ha mostrato effetti non distruttivi anche sullo stato della
matrice paglia. Pur ottenendo un grado di delignificazione del tutto paragonabile a quello
ottenuto dal processo Kraft, il livello di degradazione della matrice è sostanzialmente inferiore,
e molto più simile alla paglia non trattata (Figura 2).
1-Paglia non trattata
2-Paglia trattata con NAOH e Na2S
3-Paglia trattata con ECA
1 - Paglia non trattata
2 - Paglia trattata con NAOH e
Na2S
3 - Paglia trattata con ECA
Fig. 2 – Immagini al microscopio SEM di campioni di paglia.
La sospensione acquosa contenente la paglia trattata è stata sottoposta a trattamento enzimatico per idrolizzare la cellulosa e la emicellulosa [6]. È noto che l’efficienza di un trattamento
enzimatico dipende anche dall’accessibilità dell’enzima al substrato, cosa che, in questo caso, è
rappresentata dalla rottura della lignina e quindi dalla disponibilità delle fibre interne all’azione degli enzimi. Risulta chiaro che, in un processo come il Kraft, il grado di distruzione della
matrice è tale, che, ragionevolmente il trattamento ha intaccato, degradandole a loro volta,
anche le fibre di cellulosa ed emicellulosa.
A scopo di confronto, il trattamento enzimatico è stato eseguito su tutti i campioni trattati, e la
composizione in monomeri fermentescibili è riportata in tabella:
glucose
xylose
arabinose
Untreated
(%)
12.3 ± 0.3
Kraft
(%)
35.7 ± 0.8
11.9 ± 0.3
HOCl
(%)
51.1 ± 1.3
2.0 ± 0.1
13.1 ± 0.3
Tab. 1 – Composizione delle soluzioni dopo trattamento enzimatico.
587
Ce(IV)
(%)
12.9 ± 0.3
peroxycarbonate
(%)
17.4 ± 0.4
Nel caso del trattamento con SEA, il trattamento enzimatico ha permesso il recupero del 66%
di zuccheri fermentescibili.
A differenza del più utilizzato Saccharomyces cerevisiae, il genere Candida è in grado di fermentare sia esosi sia pentosi per produrre etanolo. Nelle prove di fermentazione è perciò stato
utilizzato questo lievito, in particolare il ceppo C.tropicalis DSM 7524, particolarmente resistente a bassi valori di pH. Dopo 48 ore di fermentazione, la resa in etanolo era del 34% in
peso, corrispondente al 68% del valore teorico. La crescita del microrganismo comparabile a
quella ottenuta nella prova in bianco, ha dimostrato l’assenza di residui tossici o sostanze inibitrici, derivanti dalla degradazione della lignina.
3. Conclusioni
I risultati presentati in questa relazione sono preliminari ed eseguiti soltanto su scala di laboratorio. Sembrano, tuttavia, altamente promettenti come trattamento alternativo, ed innovativo,
per la delignificazione di substrati legnosi per la produzione di bioetanolo.
Ulteriori investigazioni sono in corso su altre matrici e per la produzione di biogas.
Bibliografia
[1] “Handbook of plant-based biofuels”. Ashok Pandey Ed., CRC Press, Boca Raton, 2009;
[2] Neumann R. and Levin M., J. Am. Chem. Soc., 1992, 114, 7278-7286;
[3] Tamburini E., Bernardi T., Castaldelli G., Tumiatti G. and Ferro S., En. Environ. Sci. 2011, 4, 551557;
[4] Bakhir V.M., in Summaries of papers and brief reports, Second International Symposium on
Electrochemical Activation in Medicine, Agriculture and Industry, Moscow, 1999;
[5] U.S. Environmental Protection Agency, “Review of new source performance standards for Kraft
pulp mills”, EPA-450/3-83-017,, Research Triangle Park, NC, September 1983;
[6] Liao W., Wen Z., Hurley S., Liu Y., Liu C. and Chen S., Appl. Biochem. Biotechnol, 2005, 121, 10171030.
588
Rigenerazione dei solventi industriali
usati: valutazione energetica di un
processo di distillazione innovativo
Federico Viganò [email protected] – LEAP: Laboratorio Energia Ambiente Piacenza,
Piacenza e Dip. di Energia, Politecnico di Milano
Giulio Bortoluzzi – LEAP: Laboratorio Energia Ambiente Piacenza
Riassunto
La rigenerazione dei solventi industriali usati tramite distillazione è di fondamentale importanza
per consentirne il riutilizzo e ridurre così i consumi energetici e gli impatti ambientali legati al
loro ciclo di vita. Nel presente studio si considera una semplice miscela binaria acetone-acqua e si
confrontano due alternative impiantistiche per il recupero del solvente: (i) un convenzionale processo discontinuo basato su una doppia colonna di distillazione; (ii) un processo continuo basato
su un innovativo evaporatore a film sottile accoppiato a una colonna di distillazione. Per entrambe le opzioni si presentano i bilanci di massa e di energia, mostrando la netta vantaggiosità energetica dell’innovativo metodo di rigenerazione rispetto a quello convenzionale. A fronte di un
consumo del processo convenzionale di 3,73 GJ di gas naturale per chilogrammo di solvente rigenerato, il processo innovativo ne richiede solo 1,94 GJ/kg.
Lo studio è il frutto della collaborazione tra il LEAP e la società Solveko SpA, nell’ambito del
programma PRRIITT 2008 della Regione Emilia-Romagna.
Summary
Industrial solvent regeneration through distillation is an essential practice to allow their reuse
and to reduce energy consumption and environmental impacts associated with their life cycle.
This study considers the simple binary mixture acetone-water and two different recovery solutions are compared: (i) a conventional discontinuous process based on a series of two distillation
columns; (ii) a continuous process based on an innovative thin film evaporator followed by a
distillation column. For both these options mass and energy balances are presented, showing the
energy superiority of the innovative process with respect to the conventional one. Besides an
energy consumption of 3.73 GJ of natural gas per kilogram of regenerated solvent for the conventional process, the innovative process requires only 1.94 GJ/kg.
This study has been carried out as a partnership between LEAP and Solveko SpA, in the framework of PRRIITT 2008 program by Regione Emilia-Romagna.
1. Introduzione
La rigenerazione dei solventi tramite distillazione è un processo che può essere realizzato ogni
qualvolta il solvente dopo il suo impiego si presenti contaminato da altre sostanze, a volte
anche in misura consistente, pur mantenendo largamente inalterata la propria struttura chimica. Non deve cioè presentare apprezzabili degradazioni causate da stress termici o da interazioni chimiche con altre sostanze.
589
Molti solventi impiegati nell’industria farmaceutica, meccanica, tipografica, etc., dopo l’utilizzo si presentano contaminati da altre sostanze, proprio come descritto pocanzi. A seconda dei
contaminanti presenti e del solvente considerato, è possibile predisporre dei processi di raffinazione in grado di recuperare economicamente una certa quota di solvente che, dopo opportune correzioni di pH, colore, odore, etc., viene detto rigenerato e può tornare sul mercato dei
solventi.
Quasi tutti i processi di rigenerazione dei solventi usati prevedono uno o più passaggi di distillazione, uno dei processi fisici più semplici per la separazione di liquidi dalle differenti proprietà fisico-chimiche.
Questo studio riporta alcuni risultati conseguiti durante la collaborazione con la società Solveko SpA, che opera nel mercato del recupero dei solventi usati, ed è stato svolto nell’ambito
del programma PRRIITT 2008 della Regione Emilia-Romagna. Tale programma prevedeva il
finanziamento di progetti di innovazione industriale che coinvolgessero dei laboratori della
Rete Alta Tecnologia dell’Emilia Romagna, di cui LEAP fa parte. Solveko è risultata assegnataria di un finanziamento per la realizzazione di un processo innovativo per il recupero di solventi usati e ha scelto quale partner scientifico il Laboratorio LEAP.
Dal punto di vista dei consumi energetici dell’azienda, i principali processi di recupero consistono proprio in distillazioni, originariamente realizzate in tre diverse unità batch.
Il progetto d’innovazione industriale condotto da Solveko si colloca nell’ambito di un programma di ampliamento della capacità di trattamento dell’azienda (da 10.000 a 30.000 t/a) e
ha comportato la sostituzione di una delle tre unità di distillazione batch originariamente presenti nell’impianto, con un’unità continua basata su un innovativo evaporatore a film sottile,
seguito da una nuova colonna di distillazione.
Pertanto, nonostante la modifica dell’assetto impiantistico dell’azienda non sia stato dettato
solo da motivazioni meramente energetiche, è altresì vero che la nuova e configurazione adottata comporta considerevoli potenzialità di risparmio energetico, così come è evidenziato nel
seguito di questa memoria.
L’impianto di trattamento è da sempre caratterizzato da un’elevata flessibilità: è in grado cioè
di trattare diverse tipologie di rifiuti (così sono classificati i solventi usati dalla normativa europea e italiana) con livelli di contaminazione ampiamente variabili. L’azienda tratta almeno una
decina di diverse tipologie di solventi, che normalmente presentano composizioni e contenuti
di contaminanti variabili da partita a partita.
Dal punto di vista quantitativo, tuttavia, la miscela acetone – acqua (con eventuale presenza di
etanolo e altri solventi in quantitativi minori) è quella trattata in maggior misura. Alla luce di
questa situazione, si è scelto proprio l’acetone quale solvente più rappresentativo per valutare
quali potenziali risparmi energetici siano associati alla nuova configurazione impiantistica.
Per semplicità l’unico contaminante dell’acetone considerato è stato l’acqua, assumendo che la
miscela di partenza, denominata “acetone grezzo” sia composta dal 68% in massa di acetone e
per il rimanente 32% da acqua. L’obiettivo del processo è ottenere acetone con grado di purezza pari o superiore al 99% in massa.
2. Relazione
2.1 Assetto dell’azienda
Attualmente, a seguito degli interventi di installazione del nuovo evaporatore a film sottile,
nell’impianto permangono ancora le tre colonne di distillazione originarie.
In particolare si distinguono le colonne C1 e C2 caratterizzate da differenti tipologie di riempimento, ma entrambe di tipo batch, con bollitori di fondo di grande capienza, riscaldati con un
circuito di olio diatermico e condensatori di testa raffreddati con acqua di torre.
590
La terza colonna, C3, presenta una capacità di distillazione ridotta rispetto alle altre due (è
caratterizzata un limitato numero di piatti equivalenti), tuttavia è della medesima tipologia
batch con bollitore di fondo e condensatore di testa. In prospettiva l’istallazione del nuovo
sistema di distillazione, oltre a rientrate nel progetto d’ampliamento della capacità di trattamento dell’impianto, è volta alla sostituzione della colonna C3, che sarà a breve dismessa.
Il nuovo sistema è composto da un evaporatore a film sottile, chiamato EKOMABO, che può
fungere sia da pre-distillatore sia da evaporatore per alimentare una nuova colonna, denominata C4. Questa colonna è dotata di un ribollitore Kettle di fondo, riscaldato con olio diatermico,
e condensatore di testa raffreddato con acqua di torre. Può essere alimentata a un’altezza intermedia dai vapori prodotti dall’EKOMABO, che in questo caso opera da pre-distillatore, oppure l’alimentazione può avvenire dal fondo della colonna sempre con i vapori provenienti
dall’EKOMABO. Nel primo caso è possibile adottare un elevato rapporto di riflusso, giacché
il Kettle è in funzione; nel secondo caso l’EKOMABO funge da evaporatore, il Kettle è spento,
la colonna opera solo la rettifica dei vapori alimentati e il rapporto di riflusso deve essere
gestito con cautela per evitare l’allagamento o il dry-out della colonna.
L’intero sistema EKOMABO + C4 è in grado di operare sotto vuoto grazie ad una pompa
vuoto e un sistema di condensazione dei vapori basso-bollenti. Tale sistema è raffreddato con
acqua glicolata refrigerata mediante un piccolo chiller industriale. Data la limitata capacità di
condensazione di questo sistema non è possibile operare con vuoti troppo spinti, in particolare
con miscele basso bollenti.
Tutte le utenze termiche “calde” (bollitori, evaporatore a film sottile, ribollitore Kettle) sono
alimentate mediante due circuiti di olio diatermico (si veda la Figura 1). Il primario, riscaldato
mediante una caldaia a gas naturale da 2.000.000 kcal/h, presenta temperature di mandata /
ritorno di circa 270 / 230°C. Questo riscalda direttamente tutti i bollitori (B1, B2 e B3). Sempre con il circuito primario, ma mediante una valvola a tre vie che consente la regolazione della
temperatura di mandata, è riscaldato anche il Kettle della colonna C4 (K4). Invece l’EKOMABO è riscaldato mediante un circuito secondario a temperature regolabili, che riceve calore dal
circuito primario attraverso uno scambiatore.
Fig. 1 – Schema di distribuzione del calore nell’impianto.
591
2.2 Descrizione degli scenari analizzati
Nonostante l’introduzione del nuovo sistema di distillazione debba in prospettiva sostituire il
precedente sistema basato sulla colonna C3, considerando la lavorazione dell’acetone grezzo,
le due possibilità di trattamento prese in esame non considerano la colonna C3. Infatti, sono
stati definiti i seguenti due scenari di studio:
– Effettuare una prima sgrossatura del solvente mediante una prima colonna (C2) operata in
modalità semi-batch (a un primo carico segue un successivo reintegro) e una rifinitura mediante una seconda colonna (C1). Sino all’istallazione del nuovo sistema, l’impianto ha sempre
operato per un elevato numero di ore/anno secondo questo assetto.
– Effettuare una singola passata nel sistema EKOMABO+C4, ottenendo un prodotto dalle
caratteristiche migliori. Questa è una modalità d’esercizio in corso di sperimentazione al momento della stesura della presente memoria.
Ovviamente le due alternative presentano rese, consumi energetici e altri parametri prestazionali (come il colore e l’odore del prodotto finale) differenti.
La prima modalità operativa, per quanto tuttora adottata nella gestione dell’impianto, è stata
ritenuta rappresentativa del processo sostituito dall’introduzione dell’EKOMABO+C4. Pertanto le analisi riportate nel seguito sono espresse in termini comparativi tra queste due soluzioni.
2.3 Metodologia di valutazione
La valutazione dei bilanci di massa e di energia per i due scenari di studio considerati è stata
realizzata identificando i flussi materiali in ingresso / uscita da ogni dispositivo di distillazione
e attribuendo la relativa consistenza massica, nonché la corrispondente entalpia.
Confrontando uno scenario batch con uno scenario continuo, l’orizzonte temporale lungo il
quale sono stati definiti i bilanci è differente nei due casi: corrisponde a un intero ciclo di
lavorazione nel caso batch e all’unità di tempo nel caso continuo.
Tutti i dati quantitativi raccolti da Solveko sono espressi in termini volumetrici, per questo
motivo è stato necessario assumere un modello volumetrico della miscela acetone-acqua. A
questo fine sono stati interpolati i dati sperimentali rilevati da Kurtz et al. [1] mediante una
legge polinomiale.
In modo analogo si è operato per la valutazione dell’entalpia delle miscele acetone-acqua: sono
state impiegate le correlazioni ricavate dall’interpolazione dei dati sperimentali da Eduljee et
al. [2].
Per entrambi gli scenari sono stati forniti i dati disponibili riguardanti la consistenza e la natura
dei flussi considerati, in particolare:
– la natura del materiale grezzo alimentato, ovvero, come anticipato, la miscela acetone-acqua
in rapporto massico 68/32;
– i volumi di liquido grezzo alimentati ai due processi;
– i volumi di code estratte al termine delle lavorazioni dai bollitori del sistema batch e la portata di code scaricate dall’evaporatore a film sottile e dal Kettle della colonna C4;
– le portate di riflusso adottate nell’esercizio delle colonne e le corrispondenti portate di prodotto finito o semilavorato estratte dai condensatori di testa;
– il titolo del prodotto finito, pari in entrambi i casi al 99% in massa.
Tali dati non sono sufficienti a definire compiutamente i bilanci di massa dei due processi.
Considerando, infatti, a titolo d’esempio il processo tradizionale, per ogni unità di grezzo alimentata al primo passo di distillazione è nota la quantità di coda prodotta e di conseguenza il quantitativo di semilavorato prodotto. Tuttavia, mentre per il grezzo alimentato è nota la composizione,
per la coda e il semilavorato non lo è. Non è quindi possibile determinare la ripartizione dell’acetone (e di conseguenza quella dell’acqua) tra i due flussi in uscita dal processo. Il medesimo
problema si ripropone per il secondo passo di distillazione, dove si conosce la composizione
dell’output (il prodotto finito), ma non dell’input (cioè del semilavorato) e della seconda coda.
592
La chiusura del bilancio sarebbe possibile solo conoscendo un’ulteriore grandezza, ad esempio la
composizione del semilavorato. Del resto tale parametro non è desumibile dai dati registrati sull’impianto (sono registrano le temperature di ebollizione e di condensazione, afflitte da errori di misura,
da incertezze e da forte dispersione statistica) e soprattutto, nel caso batch, non è costante. Servirebbe quindi una composizione del semilavorato opportunamente mediata nel tempo.
La problematica è presente anche considerando il nuovo processo, anche se di complessità
inferiore trattandosi di un processo continuo. Si è pertanto scelto di procedere valutando quali
sono i campi di variabilità ammissibili per la composizione del semilavorato. Tale analisi ha
evidenziato campi piuttosto ristretti a causa dei vincoli di non annullamento del contenuto di
acetone o di acqua nelle due code. Tali campi di variabilità si restringono ancora maggiormente
imponendo che le composizioni delle due code risultino ragionevoli, ovvero il tenore di acetone nella prima coda, proveniente dal processo di sgrossatura, sia inferiore al tenore di acetone
nella seconda coda, originata dal processo di finitura.
Un buon compromesso per lo scenario a doppia passata è stato ottenuto ipotizzando un tenore
di acetone circa doppio nella seconda coda rispetto alla prima. Nel caso invece dello scenario
a singola passata è stato assunto un tenore di acetone nella seconda coda circa triplo rispetto a
quello della prima coda, per tener conto dell’elevata capacità di rettifica della nuova colonna
C4 a fronte della limitata capacità dell’evaporatore a film sottile.
In seguito all’adozione di queste ipotesi, è stata valutata la loro influenza sui risultati finali
mediante un’analisi di sensitività. Si è evidenziata una scarsa variabilità delle prestazioni energetiche nei confronti di diverse, ma comunque ragionevoli, composizioni del semilavorato.
2.4 Risultati e discussione
Le Figure 2 e 3 riportano schematicamente i bilanci di massa e d’energia riferiti a 1 kg di
solvente grezzo trattato.
Anche tralasciando i valori numerici, è immediato costatare la superiorità energetica del nuovo
processo rispetto a quello tradizionale.
Infatti, nel processo tradizionale il grezzo alimentato alla colonna C2 è evaporato dal rispettivo
bollitore e rettificato lungo la risalita della colonna grazie al riflusso. Tutto il semilavorato è
estratto dal condensatore di testa come liquido e in tale stato è alimentato al secondo passaggio
di distillazione. Qui subisce un processo analogo. Sono quindi presenti due evaporazioni complete del solvente da rigenerare, ulteriormente appesantite dall’evaporazione dei riflussi che
raggiungono i bollitori.
Nel processo a singola passata, invece, l’innovativo evaporatore a film sottile produce dei vapori della miscela trattata in parte già rettificati e li alimenta a metà altezza della colonna C4.
Per via del riflusso parte di tali vapori condensano e sono raccolti dal ribollitore Kettle, mentre
la maggior parte raggiunge il condensatore di testa, dove sono condensati e producono sia il
riflusso, sia il prodotto finito. In questo processo il solvente trattato è evaporato completamente una sola volta, con un consumo energetico consistentemente inferiore rispetto al processo
tradizionale. Infatti, il Kettle evapora solo la piccola porzione di riflusso che lo raggiunge e non
è spurgata come coda.
593
Fig. 2 – Bilanci di massa e di energia per il sistema di raffinazione a doppia passata C1 + C2.
Fig. 3 – Bilanci di massa e di energia per il sistema di raffinazione a singola passata EKOMABO + C4.
594
I consumi di energia termica per lo svolgimento del processo sono stati determinati tenendo
conto delle perdite termiche delle apparecchiature e del funzionamento discontinuo dell’impianto. Sono state altresì considerate le perdite termiche associate alla distribuzione del calore
mediante i circuiti di olio diatermico e l’efficienza della caldaia a gas naturale, per giungere al
consumo di gas naturale necessario per unità di prodotto.
Secondo le valutazioni realizzate, la produzione di un chilogrammo di solvente rigenerato
mediante il processo tradizionale, a doppia passata, comporta un consumo di gas naturale di
3,73 GJ, a fronte di un consumo di soli 1,94 GJ del nuovo processo a singola passata. Si tratta
di un risparmio energetico di circa il 50%.
2.5 Validazione dei risultati
Solveko ha fornito le serie storiche dei consumi di gas naturale in periodi d’attività in cui il
prodotto principale era appunto acetone, ottenuto secondo il processo a doppia passata. Non
si riscontra una corrispondenza diretta tra risultati dello studio e i dati registrati, poiché in
azienda era sempre operativa anche la colonna C3. Tuttavia i consumi di gas naturale registrati
sembrano compatibili e ben proporzionati alle stime realizzate in questo studio.
Per la configurazione a singola passata non è stato possibile un riscontro analogo, ma è stata
valutata la corrispondenza osservando le variazioni di consumo dell’impianto associate alle
variazioni di carico del nuovo sistema EKOMABO+C4. Anche in questo caso i risultati dello
studio sono risultati compatibili con le variazioni effettive di consumo osservate.
3. Conclusioni
Questo studio ha perseguito lo scopo di valutare dal punto di vista energetico l’intervento
d’innovazione industriale realizzato da Solveko. Tale intervento, associato al potenziamento
della capacità produttiva dell’azienda, è stato realizzato mediante l’installazione di una nuova
unità di distillazione basata su un innovativo evaporatore a film sottile, poi denominato
EKOMABO+C4.
Sono stati tracciati dei verosimili bilanci di massa e di energia per due processi semplificati di
recupero di acetone da una miscela binaria acetone-acqua, uno basato sulla convenzionale
distillazione a due passate, uno basato sull’impiego del nuovo sistema EKOMABO+C4.
I risultati ottenuti, seppur esemplificativi, sono comunque rappresentativi del miglioramento energetico realizzato mediante l’intervento, infatti, le due opzioni processistiche analizzate presentano consumi termici estremamente diversi. È incontestabile il consistente vantaggio energetico della lavorazione basata sul nuovo sistema EKOMABO+C4: i risultati ottenuti indicano un consumo di gas naturale per unità di prodotto finito di 1,94 GJ/kg contro i
precedenti 3,73 GJ/kg.
Tali risultati trovano riscontro nei dati di consumo registrati in diverso modo sull’impianto.
Accanto al vantaggio meramente energetico, è presumibile che la nuova configurazione impiantistica riesca a ottenere prodotti finiti dalle caratteristiche migliori, poiché limita apprezzabilmente lo stress termico al quale è sottoposto il solvente per almeno due ragioni:
– ne realizza una sola evaporazione completa, in luogo delle due richieste dal processo convenzionale a doppia passata;
– operando sotto vuoto, consente l’adozione di temperature di processo più basse.
Inoltre, il dispositivo EKOMABO, essendo un evaporatore a film sottile dotato di rotore con
lame raschianti, è in grado di trattare anche solventi con apprezzabile contenuto di residui
solidi. Questo aspetto risulta alquanto rilevante per un’azienda come Solveko che tratta solventi usati, spesso contenenti residui solidi.
595
Ringraziamenti
Gli autori desiderano ringraziare Solveko SpA per il sostegno finanziario e la fattiva collaborazione
forniti, che hanno consentito la realizzazione del presente studio.
Bibliografia
[1] Kurtz S. S. Jr., Wikingsson A. E., Camin D. L., Ralph Thompson A., 1965, “Refractive Index and
Density of Acetone-Water Solutions”, Journal of Chemical and Engineering Data 10(4), pp. 330-334;
[2] Eduljee H. E., Kumarkrishnarao V. N., Narasinga Rao M., 1958, “Correlation of Vapor-Liquid
Equilibrium Data for Acetone-Water System”, Industrial and Engineering Chemistry 3(1), pp. 44-50.
596
Caratterizzazione di fanghi da dragaggio
tramite test di cessione: mobilità degli
inquinanti inorganici
Claudio Corticelli [email protected], Ivano Vassura, Luca Gelosi, Fabrizio Passarini,
Luciano Morselli - CIRI Energia e Ambiente. Università di Bologna, Polo di Rimini
Francesco Kaswalder, Fabio Paris, Davide Collini - Diemme Filtration Srl, Lugo, Ravenna
Riassunto
In questo lavoro ci si è occupati, nell’ambito della caratterizzazione di fanghi da dragaggio portuali,
di valutare la mobilità degli inquinanti inorganici presenti. Si è lavorato su 3 sedimenti reali a
diverso grado di contaminazione. Si sono è operato tramite test di cessione, a pH controllato ed a
percolazione, per valutare la lisciviabilità delle componenti inorganiche in processi analoghi a quelli
che possono subire i sedimenti una volta stoccati nell’ambiente. Questo permette di valutare la
pericolosità dei materiali, passando dall’inquadramento nelle normative per gli inquinanti nei suoli
a quelle per gli eluati per l’ammissibilità in discarica dei rifiuti inerti o non pericolosi. La matrice
influenza i risultati di questi test, ed è quindi importante effettuarli su campioni reali.
Summary
The aim of this work is in the field of characterization of portual dredged sludge focusing on the
mobility of pollutants. The 3 sediment analyzed are at different degrees of contamination. Leaching
tests were carried out, the first with controlled pH, and the latter in percolation, to evaluate the
leaching of inorganic components in processes similar to those that the sediments are subject to
once stored in the environment. This makes it possible to assess the hazards of the materials, in
moving from laws for pollutants in soil to those for eluates for eligibility for the landfilling of
inert or non-hazardous waste. The matrix has an important influence on the results of this type
of tests, so it is essential to study real samples.
1. Introduzione
Il problema della ricollocazione dei sedimenti da dragaggio dei porti è sempre più pressante,
poiché i materiali di risulta sono volumetricamente consistenti, e le normative riguardanti il
loro smaltimento sempre più restrittive, a causa delle maggiori attenzioni riguardanti l’ambiente
e la sua conservazione [ 1].
I sedimenti dragati, infatti, sono spesso contaminati da inquinanti di diverso tipo, distinguibili
in due grandi macroaree: metalli pesanti e idrocarburi, derivanti da attività industriali nelle
aree portuali e dal transito di navi e imbarcazioni.
In questo lavoro ci si è occupati della caratterizzazione di campioni di fanghi da dragaggio
soffermandosi in particolare sulla mobilità (lisciviabilità) degli inquinanti inorganici presenti.
È importante, infatti, comprendere oltre al carico di contaminanti la loro natura e la loro
biodisponibilità che varia a seconda dello scenario di ricollocazione. A tal fine sono stati effettuati
test di cessione, seguendo le specifiche tecniche UNI CEN/TS 14997 [2] e UNI CEN/TS 14405 [3].
597
2. Relazione
2.1 Descrizione dei test di lisciviazione
Il primo test, UNI CEN TS 14997, si prefigge di valutare l’influenza del pH sul rilascio degli
analiti esaminati. Per ogni campione vengono realizzate 6 prove a pH differente compreso tra
2 e 12, con intervalli di 2 unità di pH. Come lisciviante è stata utilizzata acqua ultra pura in
rapporto compreso tra 9 e 10 rispetto al peso della massa secca di campione.
Tale miscela solido liquido è messa in sospensione mediante agitazione magnetica per 48 ore,
le aggiunte di acido o base sono effettuate periodicamente in funzione del pH, allo scopo di
stabilizzarne il valore intorno a quello di set-point.
Per ogni eluato, dopo filtrazione con membrana 0,45 µm, vengono realizzate misure di
conducibilità e l’analisi dei metalli presenti mediante A.A.S..
Il secondo test si pone l’obiettivo di valutare l’eluviazione dei contaminanti a pH naturale,
quando una colonna di materiale è attraversata dall’acqua, per simulare quello che avviene in
caso, ad esempio, di percolamento di pioggia attraverso il sedimento depositato sul territorio,
in discarica o in cassa di colmata.
Si raccolgono diverse frazioni di eluato secondo un preciso rapporto liquido/solido; in totali
le frazioni sono 7 e comprendono da una prima frazione caratterizzata da L/S pari a 0,1 fino
alla frazione 7 dove tale rapporto arriva a 5. In totale avremo un’eluazione cumulativa pari a
L/S di 10, nel corso di un tempo medio di prova di 28 giorni.
Per ogni frazione vengono monitorati diversi parametri quali pH, conducibilità, residuo fisso
a 180°C, e valutate le concentrazioni in metalli di interesse mediante A.A.S. e concentrazioni
degli ioni presenti mediante cromatografia ionica.
In assenza di apparecchiature in commercio, la colonna di eluizione è stata realizzata
appositamente da Diemme Filtration Srl secondo le specifiche richieste dalla metodica in uso.
L’apparecchiatura utilizzata per il test è mostrata nella seguente figura 1.
Fig. 1 – Apparecchiatura per test di cessione: 1 direzione del flusso, 2 trappola per CO2, 3 Raccolta eluato, 4
Colonna riempita di campione, 5 Pompa, 6 Agente lisciviante. Schema realizzato secondo le specifiche UNI
CEN/TS 14405.
598
2.2 Campioni e scelte operative
I sedimenti oggetto di analisi sono 3 e sono stati raccolti e inquadrati in tre diverse categorie
differentemente contaminate, e denominate Rossa (R), Gialla (G) e Verde (V).
La discriminazione viene realizzata sulla base della concentrazione degli inquinanti nel
campione. Il campione V risulta conforme ai limiti di legge senza sforamenti rispetto ai limiti
designati dal D.Lgs. 152/06 tabella 1 colonna A, i sedimenti gialli hanno concentrazioni
comprese tra i limiti di colonna A (siti ad uso verde pubblico, privato e residenziale) e colonna
B (siti ad uso commerciale e industriale) [4]. Per quanto riguarda i sedimenti R, presentano
sforamenti nelle concentrazioni di inquinanti rispetto alla colonna B.
La scelta degli analiti su cui focalizzare l’attenzione si è basata sui dati dei materiali tal-quale,
ed ha permesso di restringere il campo d’indagine ai seguenti metalli: As, Cr, Cd, Pb, Ni, Fe,
Hg, Cu, Zn; ed ai seguenti ioni: fluoruri, cloruri, nitriti, nitrati, bromuri, solfati, sodio, calcio,
potassio, magnesio e ammonio, questi ultimi determinati negli eluati ottenuti a pH naturale.
2.3 Report dei risultati ottenuti
I dati ottenuti hanno permesso la realizzazione di curve di rilascio, è mostrata a tal proposito
quella in funzione del pH in figura 2. E’ Possibile da tali grafici avere informazioni in merito
alla mobilità del metallo nella matrice reale in funzione di quelle che sono le condizioni a
contorno.
Da un raffronto con le curve di rilascio ideali o teoriche abbiamo potuto notare differenze
significative, ad esempio un ritardo nel rilascio di alcuni componenti nel test a percolazione,
e lo spostamento verso pH più estremi dei picchi di rilascio, a causa di un effetto
“immobilizzante” dovuto alla matrice, attraverso uno studio sui sedimenti si possono ottenere
curve reali, che presentano differenze legate alla diversa matrice ed allo stato chimico in cui
gli analiti sono presenti tra campioni ideali e reali. Inoltre, tramite il test a percolazione, è
possibile individuare quale sia il meccanismo che controlla il rilascio, se sia prevalente il
dilavamento, oppure la solubilità. In figura 2 sono riportate le curve di rilascio ottenute per il
campione R.
Fig. 2 – Curve di rilascio multielemento per il campione R.
599
Con questo studio è stato possibile analizzare anche altre informazioni, quali le percentuali di
lisciviazioni per condizioni più blande (test a pH naturale a percolazione) e più estreme (pH
acidi e basici).
2.4 Stato avanzamento del progetto
Lo studio non si è soffermato sui soli campioni tal quali, ma sta procedendo verso l’analisi dei
sedimenti una volta dragati e processati.
La destinazione dei sedimenti vorrebbe direzionare il sedimento tramite una gestione integrata,
per far questo tali “rifiuti” devono essere trattati così da abbattere parte del carico inquinante
permettendo il rientro in categorie ad inquinamento inferiore, in base ai limiti di legge, in
modo da potere effettuare il riuso.
La tecnica in studio è quella del Soil Washing, schematizzata in figura 3, essa si basa sul
trasferimento degli inquinanti tra le varie frazioni del sedimento; il processo si basa sul fatto
che gli inquinanti tendono ad essere concentrati nella frazione più fine, per motivi sia fisici
che chimici, separando le argille ed i limi, quindi, si riesce ad abbattere il contenuto di inquinanti
nel sedimento rimanente.
Fig. 3 - Schema trattamento di Soil Washing.
L’attenzione a questo punto si sta focalizzando sull’analisi dei prodotti in uscita dal soil washing,
sono infatti in fase di realizzazione le analisi sui fini, sulle sabbie (meno contaminate rispetto
ai talquali) e sulle acque di processo utilizzate dall’impianto.
Questo permetterà da un lato di chiudere il bilancio di materia del processo identificando
quella che è l’effettiva efficienza del processo, e dall’altro consente di analizzare come sono le
curve di rilascio post trattamento, e se vi sono sostanziali differenze con quelle ottenute sui
fanghi tal quali.
3. Conclusioni
Questo approccio è stato motivato dalla ricerca delle possibili destinazioni finali dei materiali,
in cui l’importanza dei test di lisciviazione è fondamentale, in quanto non si limitano ad indagare
la quantità di inquinante presente nel campione ma si soffermano sulla mobilità della stessa,
parametro più interessante e ambientalmente significativo.
In questo lavoro si è valutata la lisciviabilità degli inquinanti inorganici, considerando
l’importanza del pH, che comporta diversi ordini di grandezza di differenza nelle quantità
disciolte. Si ritiene quindi che nella caratterizzazione dei rifiuti l’adozione di questo tipo di
test permette di avere informazioni più esaustive sui rilasci che potrà avere un determinato
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materiale, quindi sul suo impatto ambientale, e quindi sulla possibilità, o meno, di scegliere
determinate destinazioni di stoccaggio, e, in particolare, valutare attentamente le opzioni più
adeguate per il riutilizzo. Questo nell’ottica di poter decidere, disponendo di quante più
informazioni possibili, su quali trattamenti e quali costi è conveniente affrontare per trattare
ciascun materiale, in modo da poterlo processare nel modo più efficace, ed ambientalmente
sostenibile, possibile.
Bibliografia
[1] Apat Icram, Manuale per la movimentazione di sedimenti marini, 2006;
[2] UNI CEN TS 14997, “Caratterizzazione dei rifiuti Prove di comportamento alla
lisciviazione Influenza del pH sulla lisciviazione con controllo continuo del pH”, 2007;
[3] UNI CEN TS 14405, “Caratterizzazione dei rifiuti Prove di comportamento alla
lisciviazione Prova di percolazione a flusso ascendente (nelle condizioni specificate)”, 2004;
[4] Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale” Gazzetta
Ufficiale, no. 88, Aprile 2006;
[5] Decreto Legislativo 3 agosto 2005, “Definizione dei criteri di ammissibilità dei rifiuti in
discarica”, Gazzetta Ufficiale, no. 201, Agosto 2005;
[6] Decreto legislativo 5 aprile 2006, “Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle
procedure semplificate di recupero”, Gazzetta Ufficiale, no. 115, Aprile 2006.
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