Altzheimer
Dott.ssa Maria Riello
Cos’è
Il morbo di Alzheimer è una demenza
degenerativa invalidante ad esordio
prevalentemente senile (oltre i 60 anni, ma può
manifestarsi anche in epoca presenile - prima
dei 60 anni) e prognosi infausta. Prende il
nome dal suo scopritore, Alois Alzheimer.
La malattia (o morbo) di Alzheimer è oggi
definita come quel «processo degenerativo che
distrugge progressivamente le cellule cerebrali,
rendendo a poco a poco l'individuo che ne è
affetto incapace di una vita normale».
Definita anche "demenza di Alzheimer", viene
appunto catalogata tra le demenze essendo un
deterioramento cognitivo cronico progressivo.
Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la
più comune
La malattia si manifesta inizialmente come
demenza caratterizzata da amnesia progressiva
e altri deficit cognitivi. Il deficit di memoria è
prima circoscritto a sporadici episodi nella vita
quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene
chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si
è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il
giorno) e della memoria prospettica (che
riguarda l'organizzazione del futuro prossimo,
come ricordarsi di andare a un appuntamento)
man mano il deficit aumenta e la perdita della memoria
arriva a colpire anche la memoria episodica
retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi
pubblici del passato) e la memoria semantica (le
conoscenze acquisite), mentre la memoria
procedurale (che riguarda l'esecuzione automatica di
azioni) viene relativamente risparmiata.
Ai deficit cognitivi si aggiungono infine complicanze
internistiche che portano a una compromissione
insanabile della salute. Una persona colpita dal morbo
può vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi
conclamata di malattia. Tuttavia una diagnosi certa di
morbo di Alzheimer si ha solo con l'esame autoptico.
Col progredire della malattia le persone non
solo presentano deficit di memoria, ma
risultano deficitarie nelle funzioni strumentali
mediate dalla corteccia associativa e possono
pertanto presentare afasia e aprassia, fino a
presentare disturbi neurologici e poi
internistici. Pertanto i pazienti necessitano di
continua assistenza personale.
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la malattia è caratterizzata da una diminuzione
nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad
atrofia corticale, visibile anche in un
allargamento dei solchi e corrispondente
appiattimento delle circonvoluzioni. A livello
microscopico e cellulare sono riscontrabili
depauperamento neuronale, placche senili,
degenerazione neurofibrillare, angiopatia
congofila.
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La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di
neuroni, causata principalmente dalla betamiloide,
una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce
come una sorta di collante, inglobando placche e
grovigli "neurofibrillari". La malattia è accompagnata
da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello (si
tratta di un neurotrasmettitore: una molecola
fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e
dunque per la memoria e ogni altra facoltà
intellettiva). La conseguenza di queste modificazioni
cerebrali è l'impossibilità per il neurone di trasmettere
gli impulsi nervosi e quindi la morte.
Diagnosi
L’unico modo di fare una diagnosi certa di
demenza di Alzheimer è attraverso
l’identificazione delle placche amiloidi nel
tessuto cerebrale, possibile solo con l’autopsia
dopo la morte del paziente. Questo significa
che durante il decorso della malattia si può fare
solo una diagnosi di Alzheimer ‘possibile’ o
‘probabile’.
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Per questo i medici si avvalgono di diversi test:
esami clinici, come quello del sangue, delle urine o
del liquido spinale;
test neuropsicologici per misurare la memoria, la
capacità di risolvere problemi, il grado di attenzione,
la capacità di contare e di dialogare;
Tac cerebrali per identificare ogni possibile segno di
anormalità;
Questi esami permettono al medico di escludere altre
possibili cause che portano a sintomi analoghi, come
problemi di tiroide, reazioni avverse a farmaci,
depressione, tumori cerebrali, ma anche malattie dei
vasi sanguigni cerebrali.
Terapie
Non esiste una cura efficace, sono state proposte
diverse strategie terapeutiche per provare a gestire
clinicamente il morbo di Alzheimer; tali strategie
puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei
meccanismi patologici che ne stanno alla base.
In primo luogo, basandosi sul fatto che nell'Alzheimer si
ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, l'idea è
stata quella di provare a ripristinarne i livelli
fisiologici. L'acetilcolina pura non può però essere
usata, in quanto troppo instabile e con un effetto
limitato.
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Un approccio alternativo alla patologia potrebbe
essere l'uso di FANS (anti-infiammatori non
steroidei). Come detto, nell'Alzheimer è presente una
componente infiammatoria che distrugge i neuroni.
L'uso di antiinfiammatori potrebbe quindi migliorare
la condizione dei pazienti. Si è anche notato che le
donne in cura post-menopausale con farmaci
estrogeni presentano una minor incidenza della
patologia, facendo così presupporre un'azione
protettiva degli estrogeni.
I ricercatori hanno messo in evidenza anche l'azione
protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che
sembra prevenire la perossidazione lipidica delle
membrane neuronali causata dal processo
infiammatorio.
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Un'altra, più recente, linea d'azione prevede il ricorso a
farmaci che agiscano direttamente sul sistema
glutamatergico, come la Memantina. La Memantina ha
dimostrato un'attività terapeutica, moderata ma positiva,
nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in
pazienti con Alzheimer da moderato a grave [1].
Ultimo approccio ipotizzato è l'uso di Pentossifillina e
Diidroergotossina (sembra che tali farmaci migliorino il
flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore
ossigenazione cerebrale ed un conseguente miglioramento
delle performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo
è stato proposto l'uso del Gingko biloba.
Negli Stati Uniti è in sperimentazione anche una terapia
genica, che prova ad utilizzare l'ormone della crescita per
la cura dell'Alzheimer.
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Le forme di trattamento non-farmacologico
consistono prevalentemente in misure
comportamentali, di supporto psicosociale e di
training cognitivo. Tali misure sono solitamente
integrate in maniera complementare con il
trattamento farmacologico. I training cognitivi sono
utilizzati sia per stimolare e rinforzare le capacità
neurocognitive residuali, sia per migliorare
l'esecuzione dei compiti di vita quotidiana.
Fondamentale è inoltre la preparazione ed il
supporto, informativo e psicologico, rivolto anche ai
"caregivers" (personale addetto) del paziente.
Si sta sperimentando da poco negli USA un sistema che
consente alla persona sofferente di Alzheimer di essere
quotidianamente aiutata e stimolata nei propri ricordi. La
cosa si ottiene creando un filmato di 30-60 minuti con
immagini tratte dall'iconografia nota alla persona in
questione (foto tratte dagli album di famiglia, filmini
girati negli anni precedenti, ecc.) nel quale viene
raccontata la sua storia dall'infanzia fino a poco prima
della malattia. Nel filmato si mostrano anche i luoghi noti
(la casa in cui abita o abitava, il vecchio posto di lavoro,
ecc.), i familiari, i parenti, gli amici, i figli e i nipoti. In
pratica, tutte quelle persone che hanno avuto una
importanza nella vita prima che il paziente soffrisse di
Alzheimer. Il filmato utilizza anche una colonna sonora
ottenuta da musiche che notoriamente hanno scandito i
vari periodi importanti della sua vita.
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Terapie non farmacologiche
Fra le varie terapie non farmacologiche proposte per
il trattamento della demenza di Alzheimer, la terapia
di orientamento alla realtà (ROT) è quella per la quale
esistono maggiori evidenze di efficacia (seppure
modesta). Questa terapia è finalizzata ad orientare il
paziente rispetto alla propria vita personale,
all’ambiente e allo spazio che lo circonda tramite
stimoli continui di tipo verbale, visivo, scritto e
musicale.
Parkinson
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La malattia di Parkinson fu descritta per la prima volta
da James Parkinson in un libretto intitolato “Trattato
sulla paralisiagitante” pubblicato nel 1817. Paralisi
agitante è il nome che identificò la malattia per quasi un
secolo fino a quando ci si rese conto che il termine
risultava inappropriato perché i malati di Parkinson non
sono paralizzati.
il termine più corretto in italiano è semplicemente
malattia di Parkinson, che rende anche omaggio al
medico che per primo l’ha descritta e sostituisce la
vecchia traduzione ottocentesca di “Morbo” di
Parkinson.
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Si tratta di un disturbo del sistema nervoso
centrale caratterizzato principalmente da
degenerazione di alcune cellule nervose
(neuroni) situate in una zona profonda del
cervello denominata sostanza nera. Queste
cellule producono un neurotrasmettitore, cioè
una sostanza chimica che trasmette messaggi a
neuroni in altre zone del cervello.
Il neurotrasmettitore in questione, chiamato
dopamina, é responsabile dell’attivazione di un
circuito che controlla il movimento.
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Con la riduzione di almeno il 50% dei neuroni
dopaminergici viene a mancare un’adeguata
stimolazione dei recettori, cioè delle stazioni di
arrivo. Questi recettori sono situati in una zona del
cervello chiamata striato. I neuroni dopaminergici
della sostanza nera, sofferenti, osservati al
microscopio, mostrano al loro interno corpuscoli
sferici denominati corpi di Lewy composti
prevalentemente da alfasinucleina, che sono
considerati una caratteristica specifica della malattia
di Parkinson e che fa rientrare questa malattia nel più
ampio gruppo delle sinucleinopatie.
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Queste si differenziano a seconda delle zone
interessate dai corpi di Lewy e possono variare
da un esteso interessamento della corteccia
(demenza), un interessamento specifico di
sostanza nera e locus ceruleus (malattia di
Parkinson) o di sistemi nervosi che innervano i
visceri (atrofia multisistemica con
compromissione del sistema nervoso
autonomo).
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I sintomi possono comparire a qualsiasi età
anche se un esordio prima dei 40 anni é
insolito e prima dei 20 é estremamente raro.
Nella maggioranza dei casi i primi sintomi si
notano intorno ai 60 anni. Il motivo per cui
questi neuroni rimpiccioliscono e poi muoiono
non é ancora conosciuto, ed è tuttora
argomento di ricerca.
Fattori di rischio
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Questa patologia colpisce generalmente soggetti oltre
i cinquant'anni, con una leggera prevalenza per il
sesso maschile
Le cause del blocco nella produzione della dopamina
sono ancora sconosciute; il Parkinson può comparire
dopo traumi alla testa, esposizione a sostanze tossiche
nell'ambiente, arteriosclerosi cerebrale. In ogni caso è
un disturbo caratterizzato dalla degenerazione e dalla
morte dei neuroni produttori di dopamina; quando
questi neuroni scendono sotto il 30% compaiono i
primi sintomi tipici della malattia.
sintomi di ansia e depressione collegati alla malattia,
sono anche degli effetti collaterali derivati
dall'assunzione di dopamina
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Quanto all'ipotesi ereditaria, essa non pare
confermata da studi su gemelli identici: la diagnosi di
Parkinson in uno dei due non aumenta la probabilità
che l'altro fratello possa contrarre la malattia,
quantomeno in forma conclamata. Studi più recenti,
effettuati per mezzo della tomografia ad emissione di
positroni, sembrano attribuire all'ipotesi genetica
un'importanza maggiore. Certamente esiste una
componente ereditaria nella predisposizione a
sviluppare la malattia, ma solo il 10% circa dei malati
ha un familiare affetto. La componente genetica
sembra essere più importante nei casi ad esordio
precoce.
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I pugili professionisti, a seguito dei violenti colpi al
capo cui sono soggetti, possono sviluppare una
sindrome di Parkinson di carattere progressivo (il
caso di Cassius Clay ne è triste dimostrazione). Da
non trascurare, infine, l'ipotesi legata all'età.
Altra ipotesi attribuisce un ruolo patogenetico a
prodotti del catabolismo endogeno, che producendo
radicali liberi, danneggerebbe le cellule della
sostanza nera.
Un'ulteriore ipotesi imputa alla microglia (sistema
immunitario cerebrale) un ruolo importante, dato che
la substantia nigra dei pazienti, contiene microglia
molto attiva (forse a causa di un aumento di
citochine) e questo fatto aumenta la produzione di
radicali liberi e i danni ossidativi nei neuroni.
Come si manifesta? Quando
sospettarla e recarsi dal medico?
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La malattia di Parkinson é caratterizzata da tre
sintomi classici: tremore, rigidità e lentezza dei
movimenti (bradicinesia) ai quali si associano
disturbi di equilibrio, atteggiamento curvo,
impaccio all’andatura, e molti altri sintomi
definiti secondari perché sono meno specifici e
non sono determinanti per porre una diagnosi.
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All’inizio i pazienti riferiscono una sensazione
di debolezza, di impaccio nell’esecuzione di
movimenti consueti, che riescono a compiere
stancandosi però più facilmente, in genere non
si associa una sensazione di perdita di forza
muscolare. Ci si accorge poi di una maggior
difficoltà a cominciare e a portare a termine i
movimenti alla stessa velocità di prima come
se il braccio interessato, o la gamba, fossero
“legati”, rigidi.
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La sensazione di essere più lenti e impacciati nei
movimenti è forse la caratteristica per cui più
frequentemente viene richiesto il consulto medico
insieme all’altro sintomo principale, tipicamente
associato a questa malattia e anche il più evidente: il
tremore. Esso è spesso fra i primi sintomi riferiti della
malattia; di solito è visibile alle mani, per lo più
esordisce da un solo lato e può interessare l’una o
l’altra mano. Il tremore tipico si definisce di riposo, si
manifesta, ad esempio, quando la mano é
abbandonata in grembo oppure é lasciata pendere
lungo il corpo.
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Altri disturbi per i quali frequentemente un malato di
Parkinson si rivolge inizialmente al medico possono
essere alterazioni della grafia che diventa diversa da
quella consueta e mano a mano che si procede nello
scrivere diventa sempre più piccola, oppure
alterazioni della voce che a un ascoltatore abituale,
quale è un parente, appare cambiata e viene descritta
come flebile e monotona inoltre lo stesso parente si
può accorgere di una variazione dell’espressione del
volto: la cosiddetta “facies figee” cioè un viso più
fisso e meno espressivo. Tutti questi sintomi, ma in
particolare il tremore, possono essere resi evidenti o
temporaneamente aggravati da eventi stressanti.
Per ricapitolare…
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Oltre alla triade di base molti altri sintomi si possono associare a
completare un quadro molto variabile da paziente a paziente.
alterazioni posturali (correlate alla rigidità ma comprendenti anche
perdita del controllo posturale con frequenti cadute)
disturbi soggettivi delle sensibilità
ridotta velocità dei movimenti oculari
scialorrea
disfunzioni vegetative
disturbi del sonno
turbe dell'affettività sono molto frequenti nei pazienti con malattia
di Parkinson.
Una alterazione delle capacità cognitive è presente invece in circa
un quinto dei pazienti, con caratteristiche che differenziano la
demenza dei parkinsoniani che sembra legata ad un maggiore
interessamento dei lobi frontali (compromissione visiva spaziale,
alterazioni della fluenza verbale, etc).
I sintomi principali
Tremore
Oscillazione lenta (cinque-sei volte al secondo) con un
atteggiamento, delle mani, come di chi conta cartamoneta.
Generalmente inizia in una mano e dopo un tempo variabile
coinvolge anche l’altro lato; possono tremare anche i piedi,
quasi sempre in modo più evidente dal lato in cui é iniziata
la malattia e anche labbra e mandibola, assai più raramente
il collo e la testa. È presente a riposo e si riduce o scompare
appena si esegue un movimento finalizzato, ad esempio
sollevare un bicchiere per bere. Risente molto dello stato
emotivo del soggetto per cui aumenta in condizioni di
emozione, mentre si riduce in condizioni di tranquillità. Un
altro tipo di tremore spesso riferito dai malati di Parkinson é
il “tremore interno”; questa sensazione é avvertita dal
paziente ma non è visibile all’esterno; fa parte di una serie
di sintomi fastidiosi, non pericolosi.
Disturbo del cammino
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Dapprima si nota una riduzione del movimento di
accompagnamento delle braccia, più accentuato da un lato,
successivamente i passi possono farsi più brevi, talvolta si
presenta quella che viene chiamata “festinazione”, cioè il
paziente piega il busto in avanti e tende ad accelerare il
passo come se inseguisse il proprio baricentro. Negli stadi
avanzati della malattia possono verificarsi episodi di blocco
motorio improvviso (“freezing”, come un congelamento
delle gambe) in cui i piedi del soggetto sembrano incollati al
pavimento. Il fenomeno di solito si verifica nelle strettoie
oppure all’inizio della marcia o nei cambi di direzione.
Questa difficoltà può essere superata adottando alcuni
accorgimenti quali alzare le ginocchia come per marciare,
oppure considerando le linee del pavimento come ostacoli
da superare o anche con un ritmo verbale come quello che si
utilizza durante la marcia militare.
Lentezza dei movimenti
(bradicinesia)
Impaccio nei movimenti che determina un rallentamento
nell’esecuzione dei gesti. Si evidenzia facendo compiere
al soggetto dei movimenti di fine manualità che risultano
più impacciati, meno ampi e più rapidamente esauribili
per cui, con la ripetizione, diventano quasi impercettibili.
Segno di bradicinesia sono anche le difficoltà nei
passaggi da una posizione a un’altra, quali ad esempio
scendere dall’automobile o girarsi nel letto o anche nel
vestirsi come indossare la giacca o il cappotto.
Conseguenza di bradicinesia é anche la ridotta
espressività del volto dovuta a una riduzione della
mimica spontanea che normalmente accompagna le
variazioni di stato d’animo e anche una modificazione
della grafia che diventa piccola (micrografia).
Rigidità
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È un termine che sta ad indicare un aumento
del tono muscolare a riposo o durante il
movimento. Può essere presente agli arti, al
collo e al tronco. La riduzione dell’oscillazione
pendolare degli arti superiori durante il
cammino é un segno di rigidità associata a
lentezza dei movimenti
Postura
L’alterazione della postura determina un
atteggiamento curvo: il malato si pone come
“ripiegato” su se stesso per cui il tronco é flesso
in avanti, le braccia mantenute vicino al tronco
e piegate, le ginocchia pure mantenute piegate.
Questo atteggiamento, dovuto al sommarsi di
bradicinesia e rigidità, é ben correggibile coi
farmaci. Con l’avanzare della malattia si
instaura una curvatura del collo e della schiena,
che può diventare definitiva.
Disturbi di equilibrio
Si presentano più tardivamente nel corso della malattia;
sono indubbiamente i sintomi meno favorevoli. Il
disturbo di equilibrio é essenzialmente dovuto ad una
riduzione dei riflessi di raddrizzamento per cui il
soggetto non é più in grado di correggere
spontaneamente eventuali squilibri, si ricerca
verificando la capacità di correggere una spinta
all’indietro. L’incapacità a mantenere una postura
eretta e a correggere le variazioni di equilibrio può
provocare cadute che possono avvenire in tutte le
direzioni anche se, più frequentemente, il paziente
tende a cadere in avanti. Il sintomo risponde solo
limitatamente alla terapia.
Diagnosi
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La diagnosi della malattia di Parkinson si basa
essenzialmente sull'esame clinico, e a questo scopo è
stata proposta una classificazione che divide la
diagnosi in Possibile, Probabile e Certa, in modo
simile a quello che accade in altre patologie
neurologiche, come la paralisi sopranucleare
progressiva. Questa classificazione mette in evidenza
il fatto che la diagnosi della malattia di Parkinson in
vivo sia solo presuntiva, e che la certezza la si riserva
all'esame neuropatologico. La somiglianza clinica
della malattia con altre forme di Parkinsonismo rende
anche ragione del fatto che vi sia una percentuale di
errore diagnostico del 20-25%. D'altra parte diverse
caratteristiche della malattia di Parkinson all'esordio
sono presenti anche in altre condizioni
Decorso
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È variabile ma nella maggior parte dei casi si ha una
lenta ed inarrestabile progressione. In base alla
prevalenza di alcuni sintomi e segni piuttosto che
altri si possono distinguere due forme di evoluzione:
forma ipercinetica dominata dal tremore, con età di
esordio più precoce, evoluzione meno invalidante e
più lenta
forma acinetico-ipertonica dominata da rigidità ed
acinesia, più rapidamente invalidante.
Terapia
Strategie terapeutiche
La terapia della malattia di Parkinson è
principalmente di tipo medico. La terapia
tradizionale mira a risolvere la sintomatologia di tipo
motorio (tremori, rigidità, acinesia), e permette una
remissione dei sintomi specialmente a breve termine,
laddove nel tempo essa non permette un controllo
soddisfacente a causa di effetti collaterali importanti
e di “wearing off” come nel caso della L-DOPA. Alla
luce delle ultime scoperte scientifiche, però, i
ricercatori e i clinici si sono accorti che questa
malattia può essere corretta tanto meglio quanto più
precocemente si riesce a ottenere la diagnosi, ma
soprattutto a iniziare la terapia
Terapia sintomatologica
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Nonostante tutte le critiche e tutti i farmaci
sperimentati per questa malattia, la levodopa
resta il farmaco principale e più utilizzato.
Essa va somministrata in associazione con un
farmaco inibitore della decarbossilasi in modo
da evitare gli effetti collaterali a livello
sistemico.
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Oggi la terapia con levodopa ha reso la durata della vita
dei pazienti solo poco inferiore a quella della popolazione
sana. Ma la terapia ha molti limiti e uno dei problemi è
costituito dalla cosiddetta "sindrome da trattamento con
levodopa", cioè l'insieme di complicazioni e fenomeni
clinici che insorgono nel paziente dopo alcuni anni di
terapia:
fenomeno del wearing-off (effetto di fine dose): (molto
comune) con il passare del tempo la durata dell'effetto
terapeutico della dose si riduce.
fluttuazioni on/off: alternanza a breve distanza di periodi
di conservata motilità con momenti di marcata acinesia,
tremore scarsamente responsivo alla levodopa, senza una
vera correlazione con la somministrazione del farmaco;
nella fase "on" si hanno movimenti involontari.
turbe neuropsichiatriche: disturbi del sonno, allucinazioni
notturne, soprattutto nei soggetti di età avanzata; si può
arrivare a franchi stati psicotici o di confusione mentale.
Terapia neuroprotettiva
 La neuroprotezione è un tipo di trattamento che sempre
di più sta prendendo piede nella concezione delle
patologie del SNC e il suo razionale nella IPD risiede
nella evidenza che questa malattia è successiva alla
perdita di almeno il 70% dei neuroni della SN, e che le
ultime scoperte a livello molecolare stanno aiutando
nella comprensione dei meccanismi patogenetici, e
nell’elaborazione di presidi terapeutici capaci di agire
alla base del problema.
 Altre categorie di farmaci sulle quali la ricerca sta
andando avanti sono: farmaci favorenti la funzione
mitocondriale, antagonisti degli aminoacidi eccitatori,
antibiotici, antinfiammatori, fattori neurotrofici.
Terapia chirurgica
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Anche in campo neurochirurgico la terapia si sta evolvendo
verso forme sempre più efficaci: attualmente la tecnica più
utilizzata è la chirurgia stereotassica: la chirurgia
stereotassica permette di trattare punti in profondità nel
parenchima cerebrale con precisione millimetrica, con
l’aiuto di dispositivi radiologici. La scoperta che alcuni
nuclei responsabili come il globo pallido e il nucleo
subtalamico potevano essere un bersaglio aggredibile nella
IPD, ha permesso di elaborare una tecnica, detta Deep
Brain Stimulation (DBS), che permette una buona
remissione clinica e una significativa riduzione della
dipendenza da levodopa [5].
Le persone candidate a questo tipo di intervento sono
persone anziane in stadio già avanzato di malattia, che
presentano effetti collaterali da uso di levodopa già
abbastanza importanti.
Terapia con cellule staminali

La scoperta che cellule staminali embrionali
stimolate in vitro con il prodotto del gene Nurr1 si
differenziavano in cellule dopaminergiche, e che
queste, se introdotte per via stereotassica nel cervello
di ratti affetti da malattia di Parkinson ne
rallentavano la progressione fino all’arresto, ha
aperto orizzonti rivoluzionari nel trattamento di
questa malattia. Questa tecnica, peraltro, al momento
è soltanto sperimentale e problemi di tipo etico e
pratico ne limitano l’utilizzo.
Terapia genica
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Nel caso della malattia di Parkinson la terapia genica arriva
dagli Stati Uniti. A metterla a punto è stato un team di ricercatori
guidati da Michael Kaplitt del New York Presbyterian
Hospital/Weill Cornell Medical Center. il virus con il gene viene
iniettato in una zona precisa del cervello, il nucleo subtalamico,
che regola il circuito motorio. Il neurotrasmettitore GABA
"calma" i neuroni iperattivi ed è deficitario nei pazienti affetti da
Parkinson che, di conseguenza, presentano disturbi motori e
tremori. Iniettando il gene per il GABA all'interno del cervello, i
ricercatori hanno tentato di stimolare la produzione del
neurotrasmettitore per normalizzare la funzione del circuito
motorio. La tecnica, ancora in fase di sperimentazione 1 (di 3) ha
dato risultati promettenti senza effetti collaterali (se non i rischi di
una "iniezione" nel cervello), dimostrandosi ragionevolmente
sicura, ma è necessario avere cautela e continuare la
sperimentazione con studi più ampi.
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