Prefazione
Il sottotitolo di questo numero dei “QVADERNI” (“Le armi di distruzione di massa”) intende porre
l’accento su una questione ricorrente nei giornali e telegiornali di questi ultimi anni: la costruzione e
l’uso d’armi non convenzionali, capaci di causare danni catastrofici alle popolazioni e alle
strutture di un ipotetico nemico.
Oggi, la parte buona del mondo, costituita dagli Stati Uniti d’America, dai loro alleati e dalla
stragrande maggioranza dei mezzi di comunicazione, c’informano su chi costruisce, possiede e
intende usare le Armi di distruzione di massa. L’ultimo clamoroso caso è stato quello dell’Iraq,
che è stato attaccato dalle forze del bene per recuperare queste armi, distruggerle e impedire a
Saddam Hussein di usarle contro le popolazioni occidentali.
Purtroppo tali armi in Iraq non sono state trovate.
La cosa più sconcertante, almeno per noi che abbiamo buona memoria, è che gli americani, i
condottieri delle forze del bene, sono stati gli unici al mondo ad usare armi di distruzione di
massa.
Le due Atomiche di Hiroshima e Nagasaki causarono, infatti, con due sole esplosioni un totale di
circa mezzo milione di morti, causando inoltre alterazioni genetiche, che ancora oggi si
ripercuotono sulle popolazioni colpite.
Nessuno salì sul banco degli imputati per quel crimine contro l’Umanità, ma cosa sarebbe
successo, dopo la fine della guerra, se quelle due bombe fossero state sganciate dai tedeschi?
Domanda forse oziosa, direte voi, solo chi perde è soggetto ad essere giudicato e punito. Noi ce
ne poniamo un’altra, forse ingenua ma legittima: È giusto ciò?
L’idea della Storia è fondamentale per la futura crescita dell’Uomo. Ognuno di noi tra costante
esempio e monito dalle vicende accadute nella sua vita passata, così come le Nazioni e i Popoli
debbono guardare alle vicende successe nel corso dei secoli, e la Storia si comincia ad
apprendere a scuola, da bambini, dove alcuni concetti si fissano indelebilmente nella mente.
Allora, dovremmo insistere perché gli insegnanti dei nostri figli si sforzino di raccontare loro, tutto
ciò che successe, lasciando a loro la facoltà di trarre opinioni e non di seguire passivamente il
“programma” dei libri di Storia scritti dai vincitori.
Il 3 maggio 1946, gli americani processarono, a Tokyo, 28 ufficiali dell’esercito imperiale
giapponese per “crimini di guerra”. Sette di loro furono condannati a morte per impiccagione e
diciannove all’ergastolo.
Nei libri di storia occidentali e nelle enciclopedie, alla voce “ Hiroshima” non si trova traccia di
aggettivi quali orribile strage, crimine efferato, ma così fu in realtà.
Alla voce Harry Truman, non si legge “responsabile dell’eccidio di Hiroshima e Nagasaki”, ma
così fu.
Questo crimine efferato fu commesso contro un Popolo prostrato, che aveva sostenuto una
guerra durissima e che, al di sopra ed al di fuori delle cause che l’avevano originata, si era
comportato con gran valore; ma i “liberatori” americani si macchiarono di un’azione infame. Tale,
infatti, va considerata quella dell’Atomica che, sulla vita di un Popolo combattente, volle essere, al
tempo stesso, freddamente sperimentale e spietatamente punitivo.
Lo scrittore inglese, Bertrand Russel, Premio Nobel per la Letteratura, fece questo commento:
“Un’azione irresponsabile di sterminio.”
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Dve parole… sv Hiroshima e… Le “Armi di
distruzione di massa” di Ezio Sangalli
7 maggio 1945, dopo quasi sei anni di guerra, il generale Alfred Jodl, firma la capitolazione delle forze armate
tedesche nel quartiere generale di Eisenhower, a Reims, in Francia.
Pochi giorni prima, il 28 aprile, a Giulino di Mezzegra, un paesino in provincia di Como, alcuni partigiani uccidono
Benito Mussolini, l’artefice della Rivoluzione Fascista.
Delle tre principali potenze unite nel “Patto d’Acciaio”, la storica alleanza conclusa, il 22 Maggio 1939, a Berlino, tra
l’Italia e la Germania, cui aderì nel settembre del 1940 anche l’Impero Giapponese (Asse Roma-Berlino-Tokyo), solo
Tokyo è belligerante, ma non in grado di rovesciare le sorti del conflitto.
Il Giappone è alla mercé del nemico che minaccia i suoi focolari, mentre bombardamenti aerei spietati si susseguono su
tutti i centri senza che possa essere opposta difesa alla violenza dei nemici.
Un passo indietro:
Alla fine del 1944, la flotta giapponese era allo stremo; la flotta di genere mercantile, da sette milioni di tonnellate era
ridotta a meno di un milione e mezzo. Chiaro che una così imponente riduzione di mezzi navali rappresentava una
perdita irreparabile ed un colpo mortale per una nazione che respirava principalmente sul mare.
Se sul mare, il Giappone era, oramai, in condizioni di non potersi più efficacemente difendere, ancor più difficile stava
diventando la difesa del territorio contro la sempre crescente potenza aerea degli alleati. Da una relazione dell’aviazione
americana risulta che, dal 24 novembre 1944 al 14 agosto 1945, furono eseguite ben 325 missioni aeree, con 32.612
voli individuali, e furono sganciate 160.421 tonnellate di bombe su 581 fabbriche, 6 arsenali, 102 aeroporti e 27 città. E
queste bombe oltre a tutto, andavano rendendosi sempre più micidiali, come le bombe incendiarie alla gelatina, che
rendevano inutile qualsiasi tipo di spegnimento
Il 19 febbraio del 1945 una nuova offensiva americana scatena la battaglia di Ilo Jima.
Iwo Jima rappresentava il trampolino di lancio ideale per colpire il Giappone al cuore. Prima dell’invasione l’isola
viene bombardata incessantemente ogni giorno per 3 mesi. I soldati del Tenno (l’Imperatore), resistono con incredibile
tenacia e nella mischia si gettano anche i Kamikaze (vento Divino), dal nome del tifone che, nel 1281, distrusse la
flotta mongola che tentava l’invasione del Giappone. Questi ufficiali dell’aviazione nipponica con i loro aerei carichi di
esplosivo, si lanciano contro le navi statunitensi al grido di “Tenno banzai! Nippon banzai!” (Viva l’Imperatore! Viva
il Giappone), prima di schiantarsi su di esse o di essere fatti a pezzi dalla contraerea. Le azioni portate a termine dai
Kamikaze furono oltre 2.000 con circa 250 navi affondate o danneggiate.
Comunque alla fine, lo strapotere in mezzi ed armamenti degli Stati Uniti ebbe la meglio ed essi presero l’isola. 6.000
soldati statunitensi persero la vita contro 20.000 giapponesi. Era il 16 marzo.
15 giorni dopo, la Xª Armata americana sbarcò a Okinawa, 500 Km da Kyushu, l’isola più meridionale del Giappone.
Kyushu era il principale obiettivo del comando alleato e l’attacco fu fissato per il novembre.
Ma lo sbarco non avvenne mai! Il presidente degli Stati Uniti, Harry S.Truman, decise di usare contro il Giappone
un’arma di nuova concezione: la bomba atomica!
Nonostante il Giappone fosse, oramai, sconfitto, ridotto alla sola difesa del suolo patrio, con nessuna possibilità
di contrattacco e con l’imminente ingresso dell’Unione Sovietica nel conflitto contro di lui, Truman decise di
sperimentare “dal vivo la devastante potenza della bomba atomica”!
Sebbene i suoi capi di Stato Maggiore fossero convinti che il Giappone fosse ormai spacciato, egli volle
mostrare ai russi e al mondo, cosa erano in grado di fare gli americani.
Tutti i consiglieri militari di Truman erano arrivati alla conclusione che, l’invasione dell’arcipelago
giapponese, non sarebbe stata necessaria, poiché i bombardamenti dal cielo e il blocco navale stavano già
chiaramente ponendo il Giappone in una situazione insostenibile. Persino il più cauto dei capi di Stato
Maggiore, il generale Marshall, riteneva che sarebbe bastata la dichiarazione di guerra da parte dell’Unione
Sovietica per indurre i giapponesi ad arrendersi, e gli altri generali erano ancora più ottimisti. Secondo
l’ammiraglio Leahy “i giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi”.
Il generale Eisenhower, comandante delle forze statunitensi in Europa, che diresse le operazioni dello sbarco in
Normandia (Francia, 6 giugno 1944), futuro presidente degli Stati Uniti (1952), in occasione della “ Conferenza
di Potsdam” ( 17 luglio-2 agosto 1945 ), tra Truman, Stalin e Churchill, per decidere l’assetto del mondo dopo la
guerra,
ebbe un colloquio con Henry L. Stimson, ministro della guerra: “Gli espressi le mie profonde
preoccupazioni, innanzitutto sulla base della mia convinzione che il Giappone era ormai sconfitto e che quindi
l’impiego della bomba non era assolutamente necessario, e in secondo luogo in quanto pensavo che il nostro
paese non avrebbe dovuto inorridire l’opinione pubblica mondiale con un’arma il cui impiego, a mio avviso, non
era più giustificabile come misura avente lo scopo di salvare vite americane. Era mia profonda convinzione che
proprio in quel momento il Giappone stesse cercando un modo per arrendersi senza perdere completamente la
“faccia”.
Malgrado ciò, il presidente degli USA, Harry Spencer Truman, decise di usare la bomba!
Gli studi per questo nuovo tipo di bomba, ottenuta mediante la disintegrazione a catena dell’atomo ed il
conseguente sviluppo di un’energia quasi illimitata e sino allora impossibile da immaginare, erano iniziati nel
1940 nel riserbo più assoluto. Tre piccole città segrete furono fatte sorgere per ospitare oltre un centinaio di
migliaia d’addetti ai lavori, dagli scienziati al personale delle pulizie..
La prima ad Oak Ridge, nel Tennessee, col nome di “Manhattan Engineer District” (distretto d’ingegneria di
Manhattan); la seconda “Los Alamos” nel deserto del Nuovo Messico nei pressi di Santa Fè, dove si compirono
i primi esperimenti e si fece esplodere, il 16 luglio del ’45 la prima “bomba atomica”; la terza a Richland Villane
presso Pasco, nello Stato di Washington.
Agli studi per il nuovo tipo d’offesa aerea avevano partecipato diversi fisici tra cui Einstein, Lisa Meitner e
Oppenheimer (direttore di Los Alamos), che vent’anni dopo dirà, quando gli chiederanno di Hiroshima:
“Tecnicamente è stato un successo”. Alla realizzazione della Bomba A partecipò anche lo scienziato italiano
Enrico Fermi, emigrato in america, nel 1938, per ragioni razziali e politiche.
Diversamente, dagli esplosivi convenzionali che derivano la loro potenza dal rapido processo di combustione di
determinati composti chimici (ad esempio il TNT), la bomba A sviluppa la sua spaventosa potenza per la
rottura o fissione dei nuclei contenuti in alcuni chilogrammi di plutonio. Una sfera d’uranio o di plutonio dalle
dimensioni simili a quelle di una palla da tennis determina un’esplosione paragonabile a quella prodotta da
20.000 tonnellate d’esplosivo ad alto potenziale, come ad esempio il TNT (Trinitrotoulene). Dopo la guerra, si
costruirà ordigni atomici sempre più potenti e l’unità di misura della potenza si stabilirà in Megaton (1
Megaton = 1 milione di tonnellate di TNT). Saranno ideate bombe nucleari di molti Megaton impiegando altri
materiali, quali l’Idrogeno e sfruttando il processo di Fusione nucleare.
Il primo marzo 1954, gli USA sperimentarono una bomba a fusione da 15 Megaton (15 milioni di tonnellate di
TNT), che produsse una sfera di fuoco del diametro di quasi cinque chilometri e un’immensa nube a fungo che
rapidamente raggiunse i 20 chilometri di altezza entrando nella stratosfera.
Dunque, il 15 giugno 1945, il 509° Gruppo misto dell’aeronautica statunitense, composto di milleottocento uomini,
arriva a Tinian, nelle isole Marianne. Si trattava di un’unità autosufficiente, con personale proprio per i servizi,
la polizia, i trasporti, le comunicazioni e gli equipaggi a terra. In questo gruppo, tredici equipaggi di B-29
(Superfortezza), sessantacinque ufficiali e cinquantadue sottufficiali erano preparati ad assolvere questi
eseguimenti: decollare con un B-29 con il carico di una bomba da quattromilacinquecento chilogrammi e
combustibile sufficiente (circa ventottomila litri) e percorrere tremila miglia in circa tredici ore. Trasportare
la bomba per millecinquecento miglia, alzarla in volo fino ad un’altezza di diecimila metri, sganciare la bomba
mirando a vista in modo visibile e non mancare il punto di mira di più di centocinquanta metri, percorrere,
infine, le millecinquecento miglia per tornare al punto di decollo. Erano dieci mesi che questi uomini si
addestravano intensamente.
Il 24 luglio 1945, il Generale Carl A. Spaatz, che a Guam aveva assunto il comando delle forze strategiche degli
Stati Uniti, riceve una direttiva dal segretario alla guerra e del Generale Marshall, riguardante il
bombardamento atomico del Giappone:
“La 509 Divisione mista della 20 Armata aerea lancerà la sua prima bomba speciale non appena il tempo
consentirà l’individuazione a vista, immediatamente dopo il 3 agosto 1945, su uno dei seguenti obiettivi:
Hiroshima, Kokura, Niigata e Nagasaki. Al fine di trasportare il personale scientifico, militare e civile del
Dipartimento della Guerra incaricato d’osservare e di notare gli effetti dell’esplosione, aerei supplementari
accompagneranno quello che porterà la bomba; questi apparecchi osservatori rimarranno a molte miglia dal
punto d’impatto dell’ordigno.”
A sette equipaggi furono assegnati dei compiti nella missione speciale di bombardamento n.13 (Hiroshima). La
parte principale toccava a Enola Gay, il B-29 Superfortress del colonnello Paul W.Tibbets jr., di 29 anni, già pilota
personale del Generale Mark Clark e di Eisenhower. Due B-29 ebbero l’incarico di volare a fianco dell’Enola
Gay: il Great Artist pilotato e comandato dal maggiore Charles W.Sweeney, e il n.91 del maggiore Gorge
Marquardt. Il Great Artist avrebbe portato apparecchi di misurazione dell’esplosione; il n.91 avrebbe portato
apparecchi fotografici. Tre B-29 dovevano compiere un servizio di esplorazione metereologica per ognuna
delle tre città che costituivano i possibili obiettivi Hiroshima, Kokura e Nagasaki.
Il settimo B-29, il Top Secret, pilotato dal capitano Charles F.McKnight aveva l’incarico di volare ad Iwo Jima e
di fermarsi fuori della pista vicino ad un fossato costruito apposta. Supponendo se l’Enola Gay avesse avuto
qualche guasto, avrebbe atterrato ad Iwo Jima e la bomba sarebbe stata trasferita sul Top Secret.
Il 6 agosto 1945, alle ore 01,37 ( ora di Tinian ) dalla base decollano i tre aerei metereologici.
Alle ore 01,51, decolla il Top Secret per il suo compito d’appoggio ad Iwo Jima.
Alle ore 02,45, il Gen. Farrel, dalla torre di controllo di Tinian, da il via all’Enola Gay, l’aereo della bomba A.
Alle 07,25 il maggiore Eatherly, comandante dell’aereo di ricognizione metereologica su Hiroshima, manda un
messaggio radio al colonnello Tibbets che trasporta la bomba:
“Nuvole coprono meno di tre decimi a tutte le altitudini. Consiglio: bombardare primario.”
Primario significava la città più importante, come obiettivo: Hiroshima.
Sull’Enola Gay. a 1.200 metri di quota, il capitano di marina William S.Parsons si cala nel vano bombe e
comincia a montare il dispositivo d’accensione del grosso ordigno da 45 quintali che giace sul fondo. Stretto
nell’angusto spazio dietro alla bomba, egli deve collegare i fili elettrici che la attiveranno.
Alle 07,40, l’Enola Gay inizia a salire di quota sino all’altezza prestabilita di 9.150 metri. In quel momento gli
orologi giapponesi, che si trovano su un fuso diverso, segnano un’ora di meno: sul Giappone sono le 06,40.
Il 6 agosto 1945, era un giorno come tanti altri per una città del Giappone. I bambini si recano a scuola, dopo
la vacanza domenicale, gli uomini cominciano ad affluire dalla periferia per andare al lavoro, le donne cercano
di affrontare il problema di un magro pasto quotidiano.
Nove minuti dopo le ore sette, suona l’allarme aereo. Un unico B-29 vola altissimo nel cielo, sorvola la città due
volte, poi, alle 7,25 si allontana e scompare.
Alle 07,31, a Hiroshima, suona il cessato allarme. La vita riprende in sordina, come in sordina si era interrotta.
Dai rifugi contraerei, i volti magri, ma sereni dei cittadini giapponesi, escono nuovamente alla luce del
mattino.
Alle 07,50, l’Enola Gay sorvola la costa dell’isola di Scikoku.
Alle 08,09, da uno squarcio nelle nuvole, appare Hiroshima. “Abbassare gli occhiali”, ordina Tibbets.
Alle ore 08,11, con una virata di circa 90 gradi da nord verso ovest, l’Enola Gay si porta sulla rotta di lancio ad
un’altezza di 9.500 metri, uscendo improvvisamente dalle nuvole. Ora sarebbe stata visibile da terra.
Alle 08,14, il maggiore Tom Ferebee inquadra nel proprio obiettivo un ponte sul fiume Ohta.
Alle 08,15, un radio-segnale preannuncia di 15 secondi lo sganciamento della bomba.
Alle 08,15 e 17 secondi “Little boy” (così fu chiamata la bomba) si stacca dal vano riservato alle bombe e
scivola nell’aria. L’esplosione avverrà tra 43 secondi. Tibbets compie un’energica virata di 158 gradi per
allontanarsi in fretta.
La bomba esplode a 550 metri d’altezza, sull’ospedale Shima di Saiku-machi. Il mitragliere di coda dell’aereo che
vede l’esplosione, esclama: “ Dio mio! Che cosa abbiamo fatto!”.
Il primo segnale fu la luce, un lampo accecante che abbagliò trecentomila persone e cancellò dalla città ogni
ombra, ogni ombra dai recessi più nascosti.
Alla luce seguì l’esplosione: solo a 40 o 50 chilometri da Hiroshima fu possibile udirne il boato, per quelli più
vicini si trasformò in silenzio.
Poi l’aumento impressionante della pressione dell’aria sino a 10 tonnellate per metro quadrato.
Poi il calore, 7.000 gradi centigradi. Liquefece i tetti delle case, annientò le persone fissando la loro ombra
sull’asfalto. A quattro chilometri da Hiroshima la gente lo sentì sul viso e n’ebbe la pelle ustionata.
Ecco il vento, che si sprigionò ruggendo dalla sfera di fuoco, alla velocità di 1.300 chilometri orari. In un raggio
di molti chilometri quadrati le case furono sradicate dalle fondamenta.
Un enorme, raccapricciante fungo di fumo si alzò per 17 chilometri nel cielo.
Poi la pioggia: enormi gocce d’acqua color pece, prodotte dalla vaporizzazione dell’umidità nella sfera di
fuoco e rese nere dalla cenere e dalla polvere radioattiva che esse riportarono in terra.
In quegli attimi Hiroshima moriva! In alcuni attimi le radiazioni termiche provenienti dalla sfera di fuoco nel
centro della città, fecero letteralmente scomparire migliaia di persone. Altre che si trovavano ad una certa
distanza dall’epicentro furono spaventosamente ustionate, e immediatamente dopo, raffiche di vento della
violenza di un tifone strapparono indumenti e pelle dai corpi di quanti urlavano e si contorcevano negli
spasimi dell’agonia. L’onda d’urto rase al suolo stabilimenti uffici e case. Nella stazione di Hiroshima, distante
circa due chilometri, i treni furono capovolti, mentre intere vetture tranviarie erano scagliate verso il cielo con
il loro macabro carico di cadaveri già carbonizzati. La città, se si fa eccezione per uno o due edifici in cemento
armato che rimasero in piedi, fu letteralmente rasa al suolo. Alberi ed erba presero fuoco come paglia e gli
incendi si propagarono con estrema rapidità, attizzati da un vento violentissimo che spazzava la città da
un’estremità all’altra.
Innumerevoli furono i modi in cui morirono gli abitanti di Hiroshima. Coloro che si trovavano in prossimità
dell’epicentro furono volatilizzati e completamente consumati dal calore, in meno di un istante. Tutto quanto
rimase di loro, se al momento dell’esplosione si erano trovati in piedi accanto ad un muro di cemento, fu
l’impronta della loro ombra sul muro. L’intero centro di Hiroshima, per un raggio di circa tre km, divenne
per qualche istante un forno mortale. Poi si disintegrò. A più di tre km dall’epicentro la pelle nuda fu bruciata
e si staccava a brani dal corpo. I pali del telegrafo carbonizzati. A circa 400 metri la mica delle pietre tombali
in granito si sciolse. Tegole d’argilla si liquefecero ad una distanza di 600 m.
71.000 persone morirono subito e altre 160.000 nel giro di cinque mesi, per un totale di circa 230.000 morti.
La scena che si presentava ai superstiti era apocalittica. Le strade erano piene di cadaveri, le case distrutte o in
fiamme. Hiroshima non era un tranquillo cimitero, come poi apparve nelle immagini delle rovine. Era una
città in cui i sopravvissuti si muovevano a decine di migliaia, una città che di mattina, di giorno, di sera
risuonava di lamenti, di grida, di gemiti, piena di un silenzioso brulicare. Tutti coloro che potevano correre,
camminare, zoppicare o soltanto strisciare, si muovevano in cerca di qualcosa: qualche goccia d’acqua, un po’
di cibo, medicine, un medico, le povere rovine della propria casa, un asilo. Quell’agitazione lamentosa e
incessante non aveva tregua. Centinaia di cadaveri erano trasportati dal fiume Ohta, dove avevano cercato
scampo dal calore e dalle orrende ustioni. Le mamme chiamavano con voce disperata i loro bambini e quattro
di loro ora erano là, nudi e bruciati, con la pelle che pendeva dalle dita come un guanto rovesciato. Il terreno,
poco più in là, era ricoperto d’altri bambini che ancora si torcevano negli spasimi dell’agonia. Il Pikadon
(lampo-tuono) li aveva colti a scuola mentre giocavano in cortile.
Ecco il racconto di uno studente, impiegato alle fabbriche Mitsubishi. Tali fabbriche erano lontane parecchi
chilometri dal luogo dell’esplosione. Lo studente si recò, subito dopo in città, alla ricerca dei suoi cari:
“Il ponte era già mezzo distrutto e precipitava fiammeggiando nel fiume di sotto. Così corsi al ponte ferroviario di
ferro, cento metri più all’inizio. Anche qui le traversine di legno ardevano, ma mi avventurai lo stesso, procedendo
a balzi lungo i sostegni metallici ardenti come fuoco. Dall’altra parte arrivavano di corsa degli esseri sfigurati,
come un branco di topi stanati, nel tentativo di attraversare il fiume. Urlavano con una sola voce possente. In
mezzo al ponte giacevano quattro o cinque corpi irriconoscibili, che pure si muovevano ancora. Intorno ai corpi
la pelle pendeva come un’alga bruna! Al posto dei nasi, buchi! Le labbra, le orecchie, le mani mostruosamente
gonfiate. Oh, uno è precipitato giù. Un altro! E rotolavano uno dopo l’altro giù dal ponte, spossati e inermi.
Affogavano senza neppure tentare di salvarsi. Ma ce n’erano ancora cinquanta o sessanta che si aggrappavano
alle traversine ardenti. Calpestandosi a vicenda, in preda ad un terrore mortale, con gli occhi che uscivano dalle
orbite, spingendosi giù nell’abisso.Non so come riuscii ad oltrepassare il ponte di ferro, ma sull’altra riva
m’imbattei in una montagna di cadaveri che mi sbarravano la strada. Questi devono essere stati raggiunti e
afferrati da una lingua di fuoco. Bruciano ancora. Pure, mentre li credevo morti gemono ancora. Una donna urla
chiamando il marito, una madre avvisa il figlio. Le fiamme rinvigorite li avvolgono spietatamente. Le mie
sopracciglia sono arse, e le mani e il volto mi bruciano. Via, via da questa trappola! Devo aprirmi una strada
attraverso i cadaveri. Li spingo da parte, afferro una testa per togliere via un ostacolo. “zuru, zuru”…Orribile
questa sensazione sul palmo delle mani. È la pelle del viso che mi è rimasta attaccata! In mezzo, qualcosa di
giallastro. Tremo per tutto il corpo, lascio ricadere la testa del morto, lo tiro per una mano, per poter passare
oltre…e vedo le ossa sotto la carne bruciata, e ancora è attaccata alle mie mani quella pelle estranea.”
Ancora, il Signor Katsutani che si reca a Hiroscima da un sobborgo:
“Alla stazione, la pensilina era letteralmente coperta di feriti, alcuni dei quali in piedi, altri sdraiati, e tutti
pregavano per un sorso d’acqua, e di tanto in tanto si udiva la voce di un bambino che invocava la mamma.
Un vero inferno, ve lo posso assicurare. Un vero inferno!”; sempre lui, continua: “Ho visto cisterne per gli
incendi, piene fino all’orlo di morti, come se li avessero bolliti dentro. Accanto ad una di queste cisterne c’era
un uomo, orribilmente ustionato, accoccolato vicino ad un cadavere, e l’uomo beveva l’acqua piena di sangue.
Piena di cadaveri è anche la piscina della scuola media Numero Uno. Forse si erano gettati nell’acqua per
sfuggire all’incendio e devono essere morti soffocati, perché sui loro corpi non c’era traccia d’ustioni.”
Dal giorno dopo iniziarono a uccidere le mortali radiazioni della reazione nucleare, che ancora oggi miete
vittime. Da un comunicato ufficiale:
“Londra, 5 settembre 1945 – Il corrispondente speciale della Reuter, Peter Burchett, telegrafa che quanti sono ancora
vivi, senza nessuna ragione apparente, la loro salute comincia a declinare. Perdono l’appetito, i loro capelli cadono, il
loro corpo si cosparge di macchie azzurrognole. Le orecchie, il naso e la bocca cominciano a sanguinare, e poi
muoiono.” (Comunicato ANSA, 5 settembre, ore 21,15)
Negli anni successivi si evidenziarono, tra gli abitanti superstiti, molti malanni causati dalle radiazioni
nucleari: tumori, leucemie, anemia perniciosa, escrescenze e tumori della pelle, malattie del fegato, cataratta,
nevrosi. Sopravvennero, inoltre, alterazioni genetiche che provocavano la nascita di bambini deformi. Ichiro
Kawamoto e Tokie Uematsu si sposarono la mattina di Pasqua del 1957, dodici anni dopo la bomba. Fu, come
raccontano, un bel matrimonio, cui assisté i molti amici dello sposo, che si presentò con indosso le sue vecchie
scarpe bianche da ginnastica. Racconta Kawamoto: “Quando fummo soli presi la mano di Tokie, e insieme
rinnovammo la nostra promessa reciproca che non avremmo avuto figli. Fu duro, ma non si poteva fare
diversamente.”
Ancora oggi, nell’anno 2004 continuano a morire persone a causa delle radiazioni!
Tre giorni dopo, il 9 agosto 1945, gli americani sganciarono su Nagasaki un secondo ordigno nucleare un po’ più
potente del primo. 75.000 persone morirono all’istante e 134.592 negli anni successivi, un elenco che si aggiorna
ogni anno e cui è stato aggiunto, quest’anno, altri 2.707 nomi.
Kenshi Hirata un ragioniere di Nagasaki che si era sposato da poche settimane, aveva portato con se la moglie a
Hiroshima dove era stato inviato a lavorare. Per tutta la notte, dal 5 al 6 agosto, aveva lavorato in ufficio e
dopo l’esplosione si era precipitato a cercare la moglie, solo per trovarla morta sotto le macerie della casa
distrutta. Riportando mestamente le ceneri della moglie alla sua città natale, era arrivato a Nagasaki proprio
in tempo per morire anche lui a causa della seconda bomba atomica !
Un abitante di Hiroshima carbonizzato dall’ondata termica
Per chi desiderasse approfondire l’argomento trattato, offriamo una breve
bibliografia:
Rizzoli, Storia della Seconda Guerra Mondiale, Rizzoli Editore, Milano 1967
Mauro Pasquini, Il libro nero degli Stati Uniti d’America, Massari Editore, 2003
V. Caduto, Da Sarajevo a Pearl Harbor, gli angloamericani alla conquista del mondo, Edizioni all’Insegna del
Veltro
“Un giusto, quando è solo,
è sempre in pericolo”
Vecchio proverbio giapponese
COMUNICAZIONI
Vi riportiamo il testo di una bellissima lettera, scritta per i lettori dei “QVADERNI”,
da un nostro prezioso e fedele collaboratore, camerata ed amico, che ci sembra adatta
all’argomento esposto in questo numero.
L’ESEMPIO GIAPPONESE
La religione ufficiale giapponese, lo Shintoismo, ha avuto per caposaldo il cu-ghi, ossia la fedeltà assoluta al sovrano.
Peraltro, anche ogni virtù o azione della vita individuale o collettiva finiva col giustificarsi nei termini della detta
fedeltà, in un certo modo, trascendente. Fedeltà e lealismo in Giappone sono valsi non soltanto sul piano guerriero e
cavalleresco, ma hanno ripreso il rispetto per i genitori, la solidarietà fra parenti e fra amici, la pratica delle virtù, il
rispetto delle leggi, l’armonia fra i coniugi col giusto rapporto gerarchico tra i due sessi, la produttività nel campo
dell’industria e dell’economia, il lavoro e lo studio, il compito di formare il proprio carattere, la difesa del sangue e
della razza. Tutto ciò è “fedeltà”e, in ultima domanda, fedeltà di fronte al sovrano. Ogni atto antisociale, immorale,
criminoso, su tale base non significa la trasgressione di una norma astratta, di una legge sociale più o meno anodina o
convenzionale, bensì tradimento, slealtà, ignominia, paragonabile a ciò di cui si macchia il combattente che diserta il
suo posto o che tradisce l’impegno da lui virilmente contratto col suo capo. Non vi sono dunque dei “colpevoli”ma
piuttosto dei “traditori”, degli esseri incapaci d’onore.
A suo tempo uscì in Italia un libro, direttamente tradotto dal giapponese dal titolo “La via della pace.” Ne fu autore un
sacerdote e professore buddista che assistette i cosiddetti “criminali di guerra” giapponesi compresi i maggiori, come il
generale Tojo e il presidente dei ministri Hirota, stando quasi come un recluso volontario a lato di essi nella prigione di
Sugamo, fino agli ultimi momenti delle esecuzioni. Colpisce nelle testimonianze riportate dall’autore la calma, la
nobiltà, la fierezza con cui tutti costoro,senza eccezione,hanno affrontato il loro destino. Fino all’ultimo confermarono il
loro lealismo all’Imperatore, alle formule religiose sempre si unì il canto del Kimigajo, l’inno nazionale giapponese.
Negli ultimi momenti tutti innalzarono un triplice: “Evviva il grande Impero giapponese”, “Evviva l’Imperatore” e
spesso, anche, il “banzai Nippon”, quale grido di battaglia. In pari tempo, in tutti costoro, in prevalenza gli ufficiali, vi
sono, al di là d’ogni elemento umano, espressioni di un distacco di un genere difficilmente concepibile per un
Occidentale.
In Giappone è diffuso il comporre brevissime liriche dette tanka o haiku, molte liriche furono composte dai “criminali
di guerra” durante l’attesa perfino qualche ora prima dell’esecuzione. Sono testimonianze di un’alta e purificata mistica,
il senso di un’esistenza superiore, trascendente la vita e la morte che non solo sono servite ad allontanare ogni dolore e
ogni agitazione, ma hanno fatto attendere con impazienza la fine. Così uno dei condannati scrive: “Sarebbe perfino
meglio che morissi la sera, se il mattino sono potuto penetrare l’eterna verità”. Un’altra tanka” La mia anima può ora
partire e ascendere in cielo. Che io possa per migliaia d’epoche proteggere il mio Imperatore”. Altro: “Sto per partire,
per seguire le orme degli dei che vegliano eternamente sulla nostra patria! “. Vale di nuovo rilevare che secondo gli
Alleati questi combattenti si sarebbero resi responsabili d’orrori, stragi e “militarismo”. Vi è la calma di chi si stacca
dall’esistenza terrena avendo dinnanzi agli occhi una via di luce, mentre fino all’ultimo il loro pensiero va al Sovrano e
alla patria. Ben si può affermare che hanno trovato ascolto le parole di un tanka dello stesso Imperatore Hirohito: “ E’
prode il pino che non cambia il suo colore sotto il peso della neve. Anche tu, o mio popolo, devi essere simile a lui!
Cordialmente
Speranza Giampaolo (Pordenone)
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