A
Nicola Schingaro
Ma. . . perché non sono un
delinquente?
Un’autoetnografia come metodo della ricerca sociale
Introduzione di
Daniele Petrosino
Copyright © MMXV
Aracne editrice int.le S.r.l.
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via Quarto Negroni, 
 Ariccia (RM)
() 
 ----
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di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
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senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: giugno 
…ad Alice e a Domenico,
con la speranza
di un futuro migliore.
Questa non è una nozione mitica di
marginalità. Essa deriva dall’esperienza
vissuta (…). Non vivo più in quel mondo
segregato (…). [Ma] centrale alla vita in
quel mondo era la continua consapevolezza
della necessità di un’opposizione.
hooks bell, Yearning: Race, Gender
and Cultural Politics
Indice
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Introduzione di Daniele Petrosino
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Capitolo I
Ma … perché non sono un delinquente?
Prologo, 15 – Scena I: La produzione del mio spazio periferico, 27
– Scena II: I miei “occhi quadrati”, 57 – Scena III: Etichette,
stigmi e cerimoniali di deterioramento di status, 70 – Scena IV:
“Look in their eyes Mom you’ll see me”, 104 – Epilogo, 111
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Capitolo II
L’autoetnografia come metodo della ricerca sociale
2.1. Dietro le quinte: le origini del mio lavoro, 141– 2.2. Che cos’è
l’autoetnografia?, 153 – 2.3. “Auto” (il Sé) come “io-cheesperisce”, 155 – 2.4. “Etno” (la cultura) nel continuum “culturaspazio/luogo-identità”, 158– 2.5. “Grafia” (la scrittura) come
“processo”, 201 – 2.6. Il metodo di ricerca del Sé autoetnografico,
214 – 2.7. L’euristica e il suo utilizzo, 222 – 2.8. Questioni di
legittimità o fondatezza, 223 – 2.9. Ma … perché condividere la
mia storia con voi?, 226
235
Bibliograa
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Ringraziamenti
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Introduzione
di Daniele Petrosino 1
Non è facile introdurre una ricerca di cui si è, seppure
marginalmente, in qualche modo responsabili e coinvolti.
Probabilmente non ho fatto un buon servizio all’autore
stimolandolo ad un’autoriflessione e ad una forma di ricerca un
po’ eterodossa.
Nonostante decenni di riflessione intorno ai “metodi” nelle
scienze sociali ed una crescente attenzione verso la dimensione
qualitativa dei fenomeni, la cittadinanza di ricerche come quella
condotta da Schingaro continua ad essere contestata in nome di
alcuni principi che si ritiene debbano guidare le ricerche sociali:
rappresentatività, distanza, “oggettività”.
Già sostenere che si possano fare buone ricerche con
interviste in profondità e osservazione etnografica incontra
resistenze, certo non tra gli scienziati sociali, ma nei colleghi di
altre discipline più dure, pensiamo una ricerca che assuma
come oggetto e soggetto lo stesso autore e la sua esperienza.
Personalmente lavoro con metodi più tradizionali (survey,
interviste, ecc.), ma l’insoddisfazione verso molti dei risultati
1
Daniele Petrosino è Professore Associato di Sociologia generale, Sociologia delle migrazioni e delle relazioni interculturali e di Metodi e tecniche della ricerca sociale presso il Dipartimento di Scienze Politiche
dell’Università degli Studi di Bari ‘A. Moro’.
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Ma … perché non sono un delinquente?
Introduzione
che ricaviamo seguendo i sentieri già battuti, mi porta a
guardare con attenzione a strade che a prima vista possono
sembrare contraddire tutto ciò che ci hanno insegnato (o che mi
hanno insegnato) in tanti corsi di metodologia.
Bisogna anche dire che, per quanto in nicchie un po’
marginali, ormai le autoetnografie hanno una storia di più
decenni (e trovano la loro origine in testi classici della
tradizione sociologica, come Hobo di Anderson) e articoli e
volumi, soprattutto nel mondo anglosassone sono ampiamente
diffusi, per cui parliamo di qualcosa che affonda le proprie basi
in una letteratura ed in una riflessione che ha un significativo
spessore (come viene ampiamente analizzato nella seconda
parte di questo volume), ciò nonostante le resistenze sono
molte, quasi che tale metodo metta in discussione la legittimità
stessa della ricerca sociale.
Vediamo perché. L’autoetnografia porta a compimento un
cortocircuito che è fin dalle origini presente tanto nella ricerca
sociale che in quella etnografica.
Uno dei nodi più dibattuti nella riflessione metodologica del
‘900 è il rapporto che si istituisce tra l’osservatore e l’oggetto
osservato, ovvero se essi siano separati oppure siano entrambi
compresi nello stesso sistema di osservazione e quanto
dell’osservazione dipenda dalla relazione che si istituisce tra
osservatore ed oggetto osservato.
È una riflessione che non appartiene solo alle scienze
sociali, ma che con Heisemberg ha fatto irruzione nelle scienze
più dure.
Paradossalmente nella storia della metodologia delle scienze
sociali il rapporto tra il ricercatore e il mondo sociale osservato
ha costituito non solo un oggetto di grandi discussioni, ma lo
stimolo per ricerche di grande fascino ed interesse.
È solo con l’affermazione del paradigma neo-positivista e
della quantofrenia che questa relazione viene considerata il
vulnus da combattere.
La ricerca dell’oggettività e il tentativo di neutralizzare la
presenza e l’influenza dell’osservatore hanno occupato decenni
di ricerca metodologica.
Introduzione
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Solo con il progressivo affermarsi del paradigma
costruttivista è apparso chiaro come ogni operazione di ricerca
“costruisca” il proprio oggetto ed i propri dati, che non sono
esterni ad esso, ma il prodotto di processi di delimitazione e
significazione interni al sistema osservante.
Da un altro versante, quello propriamente etnografico, vi è
una progressiva consapevolezza della presenza dell’altro come
soggetto a cui la ricerca deve dare la parola e non
semplicemente usare come un mero dato osservativo.
Il rapporto con l’altro si pone non come mera restituzione
della ricerca, ma come riconoscimento della soggettività e della
sua irriducibilità nella relazione che si costruisce attraverso
l’osservazione etnografica.
L’osservato che diventa protagonista della narrazione rompe
lo schema classico del racconto etnografico, perché introduce la
sua propria riflessione.
Il passaggio all’autoetnografia si consuma in questo
cortocircuito, l’osservato diventa l’io narrante e precipita il
processo di ricerca in una complessa relazione ermeneutica.
Quale soggetto migliore dello stesso ricercatore, che così
fonde in sé osservatore ed osservato. Certo l’attenzione
autoriflessiva non è nuova nelle scienze sociali, e l’uso della
biografia e dell’autobiografia ha trovato ampio spazio, ma con
l’autoetnografia si sviluppa un tentativo complesso di usare
l’individuale come strumento di comprensione di una realtà più
generale.
Nel caso di questo lavoro il tema stesso evoca un quesito
classico delle scienze sociali.
Perché coloro che vivono in certe condizioni, con certe
esperienze, non agiscono nello stesso modo?
È solo l’indeterminatezza dell’agire individuale o vi è
qualcosa che si intreccia nelle esperienze vissute,
nell’elaborazione soggettiva, nella connessione con un tessuto
sociale, che rende diverse le risposte, comprensibili seppure
non determinabili.
Il saggio di Schingaro ci pone chiaramente di fronte a questi
quesiti, sviluppando una trama narrativa, in cui memoria,
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Ma … perché non sono un delinquente?
Introduzione
osservazione, analisi sociale si fondono in un racconto
suggestivo, che non perde, però, mai di vista la sua natura
etnografica.
Le emozioni evocate sono la scintilla per produrre una
penetrazione empatica nel mondo di un ragazzino, simile a tanti
altri, cresciuto in una periferia urbana, simile a tante altre, e che
le statistiche, le interviste non riescono a farci comprendere
perché non ne possono esprimere il senso profondo, come può
il racconto autoetnografico.
Ciò che chiediamo ad un’autoetnografia è di aprirci un
mondo che pur nella sua individualità ci restituisca la sua
dimensione sociale e possa farci entrare in una condizione
umana e sociale che non è solo individuale.
Come il lettore vedrà, scrivere un’autoetnografia non è
facile, così come non lo è svolgere una ricerca etnografica, non
lo è non solo per le evidenti difficoltà epistemiche, ma per la
profonda invasività che tale metodo ha.
Esso più di altri comporta un processo di cambiamento nel
ricercatore ed una profonda disponibilità a mettersi in
discussione.
Sarebbe imprudente pensare che un’autoetnografia possa da
sola farci compiere tutti i passaggi della conoscenza sociale,
essa, piuttosto, va considerata come un’altra prospettiva che si
affianca a quelle più tradizionali e che ci permette di rileggere i
fenomeni attraverso una diversa rifrazione.
Ciò che chiediamo ad una ricerca è di farci comprendere
qualcosa in più del mondo che ci circonda, di farlo con onestà
intellettuale e di essere attendibile, certo ci sono i protocolli e le
metodologie consolidate, ma più di tutto dovrebbe esserci il
desiderio e la curiosità di conoscere.
Ed è questa sincera curiosità, lo sforzo di accompagnarci in
una conoscenza profonda ed emozionante, il pregio ed il valore
aggiunto di questa ricerca, che continua il viaggio di Schingaro
nelle periferie e che, credo, costituisca un punto fermo nelle sue
ricerche e nelle ricerche sulle periferie urbane.
Capitolo I
Ma … perché
non sono un delinquente?
Prologo
Molte volte provo ancora a guardarmi allo specchio.
E tutte le volte sono in grado di scorgere tratti che ancora
potrebbero difendere certe ipotesi provenienti dalle teorie biopsico-sociali contenute nel framework dei meccanismi interni.
Ho sempre avuto naso ritorto, zigomi larghi e pronunciati,
orecchie considerevoli, braccia lunghe, capelli folti ed
abbondanti e poi anche barba sparsa e rada.
Così, rispetto alla mia fisionomia, potremmo discutere sin
d’ora di queste mie peculiarità. E se anche voi aveste la
possibilità di scrutarmi, forse, ne rintraccereste pure di altre.
Tuttavia, non so se davvero posso essere considerato come
una persona atavica o geneticamente inferiore a causa di queste
mie caratteristiche fisiche. E analogamente non so neppure se in
realtà sono fisicamente e geneticamente superiore alle persone
criminali (Hooton 1939).
Per di più, sono sempre stato un individuo mesomorfo; e
forse questo mio somatotipo potrebbe ancora essere un buon
predittore di un mio possibile comportamento deviante
(Sheldon 1949).
Ho sempre avuto una dimensione del corpo più grande e
sono sempre stato fisicamente più mascolino rispetto agli altri;
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Ma … perché non sono un delinquente?
Ma... perché non sono un delinquente?
e senza dubbio anche questo potrebbe essere un importante
fattore per supporre certi atti di delinquenza minorile (Gluecks
e Sheldon 1950) che potrei aver commesso.
Nondimeno, venti o venticinque anni fa, possedevo
certamente tantissima energia fisica, impulso psicologico e
bisogno di stimolazione.
Praticavo pure molto sport e la mia carriera, come atleta,
richiedeva senz’altro tantissima forza e stamina. E quindi,
anche da questo punto di vista, possedevo di certo tutti i
requisiti necessari per intraprendere una carriera deviante (Gove
1985; 1995).
Così, tutte le volte che mi guardo allo specchio, ancora non
so se sono un “delinquente nato” (Lombroso 1911).
E come conseguenza, non so neppure se alla fine devo solo
ringraziare la mia buona stella2.
D’altra parte, sono nato e cresciuto in un C.E.P.
Era il quartiere “San Paolo”, a Nord-Ovest di Bari.
Esso non era solo la periferia estrema di una città media
dell’Italia meridionale, ma era anche e soprattutto un quartiere
povero, un ghetto, uno slum. Di conseguenza, nell’immaginario
comune, evocava quasi esclusivamente un’immagine negativa:
era solo un covo per lo più ricolmo di individui poveri e
criminali.
Se non proprio per tutti tra coloro che abitavano ‘in’ città;
per la stragrande maggioranza di loro, era senz’altro questa la
principale caratteristica identificativa del mio quartiere. E si
fosse trattato propriamente di un individuo anziché di un
quartiere, esattamente in questa immagine, lo stesso Becker
(1991) avrebbe di certo individuato il suo “master status”.
D’altra parte, come tanti altri nel mio quartiere,
naturalmente anch’io provenivo dalle classi inferiori. Ero lì, nel
2
Per quanto riguarda le altre teorie bio-psico-sociali contenute nel framework dei meccanismi interni, vedi anche: Jacobs et al. (1965), Hirschi
e Hindelang (1977), Wilson e Herrnstein (1985), Rowe (1986), Fishbein
(1990), Gove e Wilmoth (1990), Booth e Osgood (1993), Wood et. al.
(1997), ed Ellis (1987; 1991; 1996).
I. Ma... perché non sono un delinquente?
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mezzo, tra il proletariato e il sottoproletariato urbano della mia
città. E una combinazione di tutti questi fattori ancora implica
un mucchio di cose, sia dal punto di vista delle differenti teorie
della devianza e del crimine, sia da quello della società in
generale.
Intanto, per le teorie della tensione3, sarei un criminale per
una generale dislocazione tra le mete della società e i mezzi per
raggiungerle. Come membro delle classi urbane più basse,
potrei cioè non riuscire a raggiungere le mete desiderate
attraverso i mezzi prescritti. Pertanto, da un lato, potrei
accettare le mete della società, ma potrei non avere accesso ai
mezzi legittimi per raggiungerle; oppure, dall’altro lato, potrei
rifiutare i mezzi legittimi per raggiungere quelle mete legittime
che la società pone. E di conseguenza, potrei infrangere le
norme anche con una certa facilità.
Allo stesso modo, se provassimo a cercare tra le ipotesi
provenienti dalle teorie del conflitto culturale4, quasi
certamente, sarei un deviante o un criminale.
Vi erano diverse gang di delinquenti nel mio quartiere. E
molti giovani erano inseriti, integrati, dentro subculture
devianti.
Queste subculture mantenevano valori che favorivano
esplicitamente la devianza. A loro volta, questi valori erano
facilmente appresi attraverso la socializzazione.
E quindi era abbastanza facile che ciò potesse accadere
anche a me.
3
In particolare, riguardo alle teorie della tensione strutturale e della frustrazione di status, vedi: Durkheim (1951), Merton 1938; 1949), Hirschi
(1969), Jensen (1995), Tittle e Mier (1990), ed Agnew (1992).
4
Per quanto riguarda le teorie contenute nel framework del conflitto culturale, vedi: Sutherland (1939), Cressey (1953), Sykes e Matza (1957) per
ciò che concerne le teorie del conflitto normativo e dell’associazione differenziale; Burgess e Akers (1966), ed Akers et al. (1979) per quanto
riguarda la teoria dell’apprendimento; e infine, Cohen (1955), Miller
(1958), Wolfgang e Ferracutti (1982), Anderson (1990), e Felson et. al.
(1994) per quanto attiene alle teorie subculturali.
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Ma … perché non sono un delinquente?
Ma... perché non sono un delinquente?
Inoltre, il mio quartiere era figlio di un modo di produzione
capitalista dello spazio.
Era un luogo dove la devianza riusciva ad emergere come
una normale risposta alla competizione e al conflitto su risorse
scarse.
Da questo punto di vista, quindi, anche per le teorie del
conflitto5 potrei essere un individuo deviante o criminale.
Come membro delle classi inferiori, cioè, io potrei essere
condotto alla devianza e/o alla criminalità per soddisfare
bisogni di base ed esprimere così frustrazione.
Nondimeno, ho vissuto da sempre - ed ancora vivo - in
condizioni di vita complessivamente precarie.
E così, anche secondo la prospettiva utilitaristica6, sarei un
potenziale delinquente.
Come un decision maker razionale, ancora adesso, io potrei
calcolare tra costi e benefici prima di impegnarmi in un
comportamento illecito.
Pertanto, potrei scegliere un comportamento deviante o
criminale come quello realmente in grado di fornirmi i massimi
benefici con i minimi costi.
E alla fine, potrei dunque intravedere il profitto maggiore
nel prendere parte ad un’attività criminale.
D’altro canto, anche per le teorie del controllo7, potrei essere
altresì un deviante o un criminale per una probabile carenza o
per una totale assenza di controllo sociale intorno a me.
5
Per quanto riguarda le teorie del conflitto, vedi: Bonger (1916), Quinney
(1970), Chambliss (1964), Gusfield (1963), Liazos (1972), Spitzer (1975),
Hagan et al. 1985; 1987), e Tittle (1995).
6
All’interno della prospettiva utilitarista, sulla teoria della deterrenza,
vedi: Schneider e Ervin (1990), Wright (1984), Paternoster et. al. (1983),
Geerken e Gove (1975), ed Akers (2000); inoltre, per quanto riguarda la
teoria della scelta razionale, vedi: Cornish e Clarke (1986); e infine, per
ciò che concerne la teoria dell’opportunità e delle attività routinarie, vedi:
Cohen e Felson (1979), Cohen, Kluegel e Land (1981), Miethe et. al.
(1987), e Jensen e Brownfield (1986).
7
Nel framework delle teorie del controllo, vedi: Thomas e Zananiecki
(1918), Park, Burgess e McKenzie (1925), e Faris e Dunham (1939) per
I. Ma... perché non sono un delinquente?
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Nel corso della mia vita, cioè, potrei non aver avuto la
possibilità di fare affidamento su di un set di forze e di processi
in grado di incoraggiare la conformità - includendo l’autocontrollo, il controllo informale e il controllo formale.
Pertanto, da un lato, potrei essere carente o privo delle forme
del controllo sociale informale - come nel caso dell’autocontrollo esercitato per paura di ciò che gli altri potrebbero
pensare di me. Oppure, dall’altro lato, potrei non dare
importanza ai controlli sociali formali, in altre parole, alle
sanzioni amministrative, quali ad esempio le multe o l’arresto.
In particolar modo, però, tre sono le cose che hanno fatto
soffrire più profondamente il mio Sé, la mia identità e la mia
vita: un’etichetta, uno stigma ed un cerimoniale di
deterioramento di status. E certamente, esse mi hanno
tormentato a causa del mio quartiere.
Noi - io e il mio quartiere - abbiamo condiviso molte cose.
In particolar modo, tutte le volte che la nostra reciproca
appartenenza era svelata in pubblico: esso era identificato
semplicemente come un “ghetto” e/o uno “slum”, ed evocava
l’immagine di un luogo come coacervo di miseria e di
criminalità; mentre io ero etichettato semplicemente come un
individuo “povero” e/o “criminale”.
Era un’etichetta costruita socialmente all’esterno del mio
quartiere.
Etichettandomi come un deviante, anche su base quotidiana,
la società al di fuori del quartiere sembrava quasi impegnarsi
affinché io finissi per interiorizzare quell’etichetta, cadendo
così in una “devianza secondaria” (Lemert 1951).
A causa della mia provenienza, ero un individuo deviante
semplicemente perché ero uno al quale quell’etichetta era stata
applicata.
Quasi come dei “moral entrepreneurs” (Becker 1991:147163), le persone al di fuori del mio quartiere tendevano ad
quanto riguarda la teoria della disorganizzazione sociale; Nye (1958),
Hirschi (1969), Gottfredson e Hirschi (1990), e Sampson e Laub (1993)
per ciò che concerne la teoria del legame sociale.
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20
Ma … perché non sono un delinquente?
Ma... perché non sono un delinquente?
isolarmi come una persona diversa, come un “outsider”, o
persino come un soggetto da sottoporre quasi o del tutto ad un
controllo sociale. Pertanto, mentre il mio quartiere viveva la sua
“stigmatizzazione territoriale” (Wacquant 2007), io vivevo la
mia vita come individuo stigmatizzato.
E quindi noi - sempre io e il mio quartiere - soffrivamo tutte
le volte, e quasi inevitabilmente, i nostri molteplici cerimoniali
di deterioramento.
Quasi come un individuo al di sotto dei normali standard
societari, ero quindi escluso da una piena accettazione sociale.
Semplicemente, ero una persona con uno stigma, vale a dire,
una non del tutto umana; e quindi, dovevo costantemente
adattarmi ad un’identità sociale precaria (Goffman 1986).
Come individuo stigmatizzato, ero sottoposto a varie forme
di discriminazione, esclusione, rifiuto e disapprovazione.
Mentre ero etichettato come deviante, e soffrivo a causa di
questa stigmatizzazione, simultaneamente, andavo acquisendo
un’identità alterata, danneggiata; e così, ero tagliato fuori da
una piena inclusione sociale.
In particolar modo, questa riduzione, questa degradazione
nello status sociale - da un Sé precedente ad un nuovo Sé
alterato e deturpato - era avviata attraverso una procedura
formale, vale a dire, un “cerimoniale di deterioramento di
status” (Garfinkel 1956).
Tutte le volte che un accusatore riconosciuto come “una
figura pubblica, che fa affidamento su un’esperienza
comunitariamente accettata e verificata ... s’investiva del diritto
di parlare nel nome di questi ultimi valori”, e dava così inizio al
rituale denunciandomi o condannandomi in pubblico; allora, la
mia identità originaria era distrutta, demolita e rimpiazzata da
un’altra di minor valore; ed io ero posto fuori, messo da parte,
come uno strano, uno diverso (ibidem: 421-423).
Simultaneamente, però, ero tormentato - ed anche in questo
caso su base quotidiana - da una differente etichetta: una che a
sua volta era pure prodotta socialmente ma all’interno del mio
quartiere.
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