L'insegnamento della matematica: una didattica metacognitiva di Marina Cazzola da “Metacognizione ed educazione”, a cura di Ottavia Albanese, Pierre-André Doudin, Daniel Martin, nuova edizione riveduta e ampliata, Franco Angeli (1995-2003) Introduzione Anche fra i ricercatori di matematica che si occupano delle questioni legate all'insegnamento della loro disciplina si fa sempre più larga la consapevolezza di quanto sia utile studiare i rapporti che sussistono fra le differenze che gli studenti manifestano nel loro apprendimento della disciplina e le differenze che è possibile cogliere nelle loro abilità metacognitive, ove per abilità metacognitiva si intenda, come bene suggeriscono Cornoldi e Lucangeli1, la capacità "di far corrispondere nella maniera più efficace possibile la propria attività cognitiva al contesto dell'apprendimento". L'origine di tale attenzione sembra legata soprattutto al desiderio di trovare modi per ridurre la diffusa inefficacia di cui, secondo molti, l'insegnamento della matematica pare soffrire e al generico riconoscimento che uno dei passaggi obbligati da compiere è quello di accedere, in maniera sempre meno naïve, alle acquisizioni che sulla questione sono state compiute non tanto nell'ambito strettamente disciplinare quanto in quello psicologico o pedagogico. Stiamo in particolare pensando ai casi molto frequenti di studenti non riconosciuti "con difficoltà", generalmente nella norma per quel che riguarda le altre discipline, ma per i quali l'apprendimento della matematica costituisce un problema. Un'analisi degli ostacoli che si sono frapposti a un sereno apprendimento della disciplina da parte di questi studenti può comunque fornire indicazioni utili alla comprensione e al superamento delle difficoltà "gravi" nell'apprendimento della matematica in studenti generalmente fragili. Finora l'interesse si è espresso soprattutto (anche se non esclusivamente) in studi2 che analizzano le défaillances degli allievi nell'attività di risoluzione dei cosiddetti "problemi" matematici. Gli esiti di tali studi, che pure ci inducono ad auspicare la costruzione di ulteriori nuove occasioni di sinergia forte fra psicopedagogisti e ricercatori di matematica, ci fanno tuttavia desiderare che si vada ad una più approfondita lettura sia dello status disciplinare della matematica che dell'immagine che essa ha presso i ricercatori (di qualunque provenienza essi siano) in didattica della matematica. E in particolare che si rifletta - in questo quadro - su quanto è diverso il ruolo che il "risolvere problemi" ricopre nell'attività matematica da quello che gli si suole riconoscere nel lavoro scolastico. In questo modo, i ricercatori di formazione matematica potrebbero offrire agli studiosi delle dinamiche dell'apprendimento una descrizione di che cosa sia possibile intendere per "attività matematica" (e di quali abilità sia opportuno che gli allievi si impadroniscano) che risulti abbastanza ricca C. Cornoldi, D. Lucangeli, "Metacognizione e matematica", in O. Albanese, P. Doudin, D. Martin (a cura di) Metacognizione ed educazione, Franco Angeli (2000). 2 Si veda l'abbondante bibliografia riportata in Cornoldi, Lucangeli, cit. 1 1 e articolata da permettere loro di intervenire con adeguata sicurezza nella costruzione di proposte di una sufficiente utilità per i docenti che lavorano in classe. In effetti, fin da piccini, i ragazzi sono stati abituati a vivere due fasi nel loro apprendimento della matematica: prima hanno imparato a fare i "conticini" e poi si sono cimentati nei "problemi", provando così fin dall'inizio come il "saper eseguire un'operazione aritmetica, ad esempio un'addizione" sia "tutt'altra cosa da saper risolvere una situazione problema dove è richiesta l'operazione di somma"3. Ma questo approccio è davvero inevitabile? E, soprattutto, corrisponde a un sano insegnamento della disciplina? Oppure è figlio di alcune ipotesi - sulla natura della matematica e sui compiti che il suo insegnamento può svolgere nella formazione del cittadino - che vale la pena di esplicitare e discutere? La nostra esperienza di formatori di docenti soprattutto della scuola di base (sia all'inizio della loro carriera come gli studenti di Scienze della Formazione Primaria o delle Scuole di Specializzazione, sia in servizio) ci porta a sostenere che una riflessione su questi temi è molto utile non solo per promuovere la ricerca sull'insegnamento della matematica, ma anche per indurre un certo buon cambiamento nella pratica didattica immediata. In questo intervento ci proponiamo di illustrare alcuni degli elementi che stanno alla base della nostra analisi e delle nostre proposte e di suggerire alcune linee di un possibile intervento congiunto di esperti di metacognizione e di matematica nella formazione dei docenti della scuola dell'obbligo. 1. Matematica come educazione o matematica come scienza? Quando si analizzano i risultati di molte indagini sperimentali che sono state anche recentemente condotte (non solo in ambito italiano) sui risultati dell'insegnamento della matematica in un certo segmento scolastico, ci si rende conto che spesso anche al livello di chi ha preparato l'indagine sono presenti alcune concezioni ben radicate relative all'argomento che qui ci interessa: ● la matematica è intesa soprattutto - almeno a livello scolastico - come una educazione al corretto ragionamento, come un avvicinamento alle leggi e alle forme di organizzazione del pensiero che la cultura occidentale storicamente si è data via via; ● l'attinenza della matematica con i problemi della vita reale è una verità fortemente proclamata, ma in generale vissuta come troppo difficile da far toccare con mano agli studenti, se si escludono alcuni problemi piuttosto poveri di fascino e di mistero del tipo fare i conti della spesa o controllare il cedolino-paga o ... calcolare i bioritmi; ● la matematica è un'attività "privata", praticando la quale ognuno è messo di fronte a se stesso in un modo "assoluto", che non risente né delle determinazioni di tempo o di spazio né del contesto sociale in cui è immerso. Questi elementi sembrano tutti esaltare uno degli aspetti della matematica a discapito di molti altri. E in effetti portano con sé alcune conseguenze sulla pratica didattica che possiamo incominciare a descrivere in questo modo: ● grande attenzione viene posta nell'insegnare una terminologia e un linguaggio che abbiano caratteri di precisione (o di "rigore", come si suol dire con Ibidem, p. 238. 3 2 un'espressione già abbastanza carica di tensione) abbastanza forti da poter competere con quelli di cui ha necessità chi prosegue negli studi scientifici; ● l'attività di rispondere a domande motivate è accidentale nel lavoro a scuola: ad essa è spesso affidato il compito di controllare il livello di confidenza con gli strumenti tecnici piuttosto che il compito di insegnare a risolvere problemi effettivi e come tali riconoscibili anche dagli studenti; ● l'attività di verifica delle competenze individuali acquisite occupa molta parte del tempo-scuola, contribuendo a un'immagine della scuola pensata come luogo della valutazione piuttosto che dell'apprendimento e alla riduzione del ruolo dell'insegnante a controllore piuttosto che compagno/guida nell'avventura della conoscenza. E già così semplicemente ci troviamo di fronte a un quadro che assomiglia molto a quello che il cittadino medio disegna quando gli si chiede di ricordare la sua "esperienza matematica" a scuola: astrazione fino alla disincarnazione, linguaggio e tecniche autonome e senza giustificazioni comprensibili, strumento per misurare le intelligenze, in generale sensazione di estraneità. Quali possibilità ha un docente di compiere un'opera efficace nella scuola di base con queste limitazioni? È davvero possibile, in questo contesto, raggiungere gli obiettivi che caratterizzano un insegnamento efficace, cioè un insegnamento che secondo la definizione datane da Albanese, Doudin e Martin4 cerchi sia "di integrare i saperi e i saper fare evitando la loro frammentazione" sia "di stimolare la generalizzazione e il transfer delle acquisizioni precedenti"?. Noi crediamo che questo sia possibile solo ricordando che la matematica è soprattutto una scienza che risponde a domande, che ottiene risultati e che questi ultimi non sono una parte secondaria dell'interesse di cui la matematica può essere oggetto presso gli studenti. Senza dimenticare peraltro che essa è strumento fondamentale e necessario nella costruzione dello sviluppo umano, e che la sua storia - anche quella di molti tentativi sbagliati - accompagna tutta la civiltà. Ora, è chiaro che due sono i fronti sui quali un problema di questo tipo può essere affrontato nella formazione degli insegnanti: quello dei contenuti da assegnare ad un insegnamento di base e quello della pedagogia da adottare nel lavorare con i ragazzi a scuola. Pur rimandando a luoghi più opportuni la discussione sul primo punto5, ci sembra importante - anche per dare sostanza alle scelte che proporremo per il secondo - fare qualche esempio di quella che riteniamo sia la matematica da presentare nella scuola di base. 2. Quale bagaglio di conoscenze? In questo paragrafo, sfidando il rischio di risultare noiosi, ci soffermeremo su esempi concreti nel merito dei contenuti matematici richiesti per la scuola di base. Un buon punto di partenza è il volume "Matematica 2001" prodotto dal gruppo di lavoro costituito dall'UMI (Unione Matematica Italiana) e dalla CIIM (Commissione Italiana per l'insegnamento della Matematica) in occasione dell'ultimo6 convegno UMI-CIIM. Citiamo letteralmente le premesse: "la costru"Verso una psicopedagogia metacognitiva", in Metacognizione ed educazione, cit. Seguendo ad esempio quanto proposto in M. Dedò, "Più matematica per chi insegna matematica", Bollettino UMI "La matematica nella società e nella cultura", Serie VIII, Vol. IV-A, Agosto 2001, p. 247-275. 6 Nel momento in cui scriviamo. 4 5 3 zione di competenze matematiche va perseguita in contesti culturalmente ricchi e motivanti", "il percorso per il raggiungimento dei contenuti matematici e della loro formalizzazione non è lineare, ma passa necessariamente per momenti cruciali", "è comunque fondamentale l'attivazione di esplorazioni cognitivamente ricche in campi di esperienza significativi per l'allievo", è "necessario che l'insegnante progetti e realizzi ambienti di apprendimento adeguati nei vari campi di esperienza". Ma nella pratica come può l'insegnante applicare queste linee guida? Contrariamente a quanto siamo abituati a pensare, fin dal suo primo ingresso nella scuola di base, il bambino deve affrontare un'esperienza di matematica e in particolare di geometria: l'apprendimento dell'alfabeto altro non è infatti che un primo approccio all'obiettivo formativo "disegnare e riconoscere forme geometriche". Ben presto il bambino impara a cogliere le analogie e le diversità delle forme geometriche che sta imparando a tracciare, inconsapevole della profondità dei concetti matematici che di fatto sta applicando. Se è giusto che il bambino agisca inconsapevolmente, è invece importante che l'insegnante sappia riconoscere e ricostruire il proprio argomentare. Pensiamo al problema di distinguere una "n" da una "m": si tratta solo di contare il numero di gambe, ma una riflessione "metacognitiva" ci porta ad osservare che il procedimento logico è l'utilizzo di un invariante numerico associato alla lettera. Allo stesso modo la differenza tra una "u" e una "n" consiste nello stabilire da che parte è rivolta la "convessità" della figura. Quanto alle analogie, i bambini stessi imparano che una "b" si ottiene attaccando ad una "l" qualcosa che assomiglia ad una "r". Fino a qui ci stiamo ovviamente limitando a pensare alle lettere scritte in corsivo dai bambini: non appena essi incontrano testi stampati imparano a riconoscere le simmetrie: un esempio sono le lettere "u" e "n" che abbiamo appena scritto (una "u" non è altro che una "n" capovolta), un altro esempio è costituito dai numeri "6" e "9". E se anche i bambini non hanno ancora "toccato" con mano come sono il "6" e il "9" (dal tram ai numeri civici), basta farli giocare un po' con la tombola perché si rendano conto delle somiglianze. Chi fosse interessato ad un approfondimento sulle proprietà matematiche delle simmetrie delle lettere dell'alfabeto può consultare il materiale prodotto dalla mostra “Simmetria giochi di specchi”7. Del resto, in questo contesto, perfino una calcolatrice a cristalli liquidi permette qualche giochino: alcune cifre sul quadrante della calcolatrice sembrano lettere (un "5" assomiglia molto ad una "S"), altre diventano lettere una volta capovolte (un "3" capovolto diventa una "E"). Così scrivendo particolari numeri (ad esempio "1370705") e capovolgendo la calcolatrice si possono ottenere parole, e questo tende a creare già un primo effetto di stupore. Ma possiamo inoltrarci più avanti nell'esperienza e nella sua analisi: la calcolatrice a cristalli liquidi semplifica la rappresentazione delle cifre numeriche il più possibile; così essa riduce il disegno in modo da riportare solo le caratteristiche geometriche essenziali per distinguere una cifra da un'altra, trascurando quelle che occorrerebbero per distinguere un numero da una lettera. È infine utile osservare che problematiche di questo tipo hanno implicazioni pratiche nella vita di tutti i giorni: le targhe automobilistiche non utilizzano la lettera "I"8 perché la lettera "I" può essere confusa con il numero "1". In particolare la scheda “Alfabeto allo specchio” a cura di P. Testi. Eccezion fatta per la sigla della provincia, dove il rischio di confusione è limitato. 7 8 4 Nell'esercizio di disegnare le lettere dell'alfabeto, il bambino si avvicina anche allo strumento della carta a quadretti: impara infatti a disegnare le "figure corrette" lasciandosi guidare dalla quadrettatura. È utile che mantenga questa abilità quando arriva a problemi di geometria che definiremmo "più avanzata". La carta a quadretti è il supporto ideale per disegnare figure con angoli retti (quadrati, rettangoli, triangoli rettangoli,...). Soffermiamoci su un semplice esercizio relativo ai triangoli rettangoli. Osserviamo la seguente figura che dà alcuni esempi di triangoli rettangoli (l'insegnante potrebbe disegnarli sulla lavagna a quadretti e invitare i bambini a riprodurli sul proprio quaderno) È utile che i bambini imparino a riconoscere forme uguali, enunciando congetture e procedendo a verifiche (ad esempio ritagliando e sovrapponendo i triangoli "2" e "4"). Potranno poi essere guidati a riconoscere "analogie" tra le figure. I bambini potrebbero riconoscere che il triangolo "3" è una riproduzione più grande del triangolo "2", ma come guidare questa loro intuizione utilizzando esclusivamente termini elementari? L'insegnante, familiare con il concetto matematico di "figure simili", riconoscerà nell'esempio che i triangoli "2" e "3" sono simili, ma non potrà utilizzare questo linguaggio con i bambini. Sa però che figure simili hanno angoli uguali, e quindi guiderà i bambini alla verifica dell'eguaglianza o meno degli angoli (e ciò, di nuovo, può essere realizzato in maniera elementare ritagliando e sovrapponendo le figure). Ancora sarà possibile stupire i bambini proponendo (sempre utilizzando la lavagna a quadretti) l'esempio del triangolo seguente: e porre il problema di trovare analogie tra quest'ultimo triangolo e i triangoli precedenti. È utile osservare (utilizzando il linguaggio "dei grandi") che si tratta di un triangolo rettangolo simile ai triangoli "2" e "3". All'insegnante questo semplice esempio pone una serie di questioni. ● L'affermazione "si tratta di un triangolo rettangolo simile ai precedenti" è corretta? Per convincere se stesso dell'esattezza dell'affermazione (per "dimostrare" l'affermazione) l'insegnante deve utilizzare il suo personale baga5 glio di conoscenze di geometria euclidea, prima di presentare l'esempio ai bambini. È possibile utilizzare la griglia fornita dal foglio di carta a quadretti per disegnare triangoli rettangoli in posizioni "inusuali".9 ● Come convincere i bambini che la figura è un triangolo rettangolo? L'insegnante si sarà reso conto che per verificare l'esattezza dell'affermazione ha utilizzato nozioni matematiche non in possesso dei bambini e che quindi non può riproporre in classe il suo argomentare. Può però invitare i bambini a procedere a una misurazione dell'angolo per verificare che si tratta di un angolo retto. Come mostrare, poi, ai bambini che questo triangolo "ha analogie" con i precedenti? Ancora una volta si tratta di procedere ad un confronto degli angoli (di nuovo, in maniera elementare, tagliando e sovrapponendo le figure). Ma gli offre anche il destro per proporre (gradualmente) ai bambini una serie di osservazioni: ● utilizzando la carta a quadretti risulta estremamente facile dare esempi di triangoli rettangoli in posizioni "standard"; ● per verificare che figure, o parti di figure, sono uguali è sufficiente costruirne modelli mobili e confrontarli sovrapponendoli; ● i triangoli rettangoli possono anche essere "girati", ovvero disegnati in posizioni che diremmo "non standard"; in questo caso però la carta a quadretti non sembra essere d'aiuto per riconoscere la presenza di un angolo retto e occorre una verifica diretta (l'insegnante è comunque conscio del fatto che con le opportune nozioni di geometria euclidea la quadrettatura è uno strumento valido per stabilire se un angolo è retto o meno); ● è facile verificare se un angolo è retto: basta piegare in maniera opportuna un foglio di carta in modo da costruire un modello di angolo retto e procedere ai confronti come descritto in precedenza. Un esercizio di questo tipo può portare i bambini a familiarizzare non solo con il concetto di triangolo rettangolo, ma anche con i concetti di congruenza di figure geometriche e di trasformazioni (isometrie, ma anche "ingrandimenti"). L'insegnante deve padroneggiare l'argomento che propone per valutare i tempi e i modi di intervento, ma anche e soprattutto per rendersi conto di quali siano le difficoltà che i bambini possono incontrare. Dovrebbe ad esempio cimentarsi in prima persona nella produzione di esempi di triangoli in posizioni "non standard", anche per essere pronto a fornire esempi in classe per stimolare discussioni tra i bambini. Potrebbe quindi proporre ai bambini di provare a creare loro stessi nuovi esempi, ma con la consapevolezza che si tratta di un esercizio "difficile". Il fatto che qualche bambino possa arrivare a abbozzare un ragionamento del tipo "se traccio il primo segmento spostandomi di uno poi andando su di due, quindi traccio il secondo segmento tornando giù di uno e poi spostandomi ancora di due allora ottengo un angolo retto" non significa che ci si debba aspettare che tutti i bambini siano in grado di argomentare in questi termini a livello di scuola elementare. Notiamo, per concludere, che nella nostra proposta abbiamo fatto uso esclusivamente di strumenti "poveri": abbiamo suggerito di limitarci a ritagliare le figure o di produrre un modello di angolo retto piegando la carta. Potrebbe però accadere che qualche bambino sia in possesso di strumenti più sofisticati (squadrette e goM. Cazzola, Per non perdere la bussola, introduzione ai sistemi di riferimento, Decibel-Zanichelli (2001), p. 73 e seguenti. 9 6 niometro vengono a volte offerti come gadget di astucci). Pur prediligendo la soluzione "semplice" ad una più complicata, se il caso si verificasse l'insegnante potrebbe proporre l'uso del goniometro per la misurazione degli angoli, mostrando così ai bambini che può esserci più di un approccio al problema. Potrebbe anche proporre un confronto tra i triangoli disegnati sulla carta a quadretti e quelli forniti dalle squadre (verificando che di una delle squadre è possibile disegnare una riproduzione in piccolo sfruttando la carta a quadretti, ma l'altra in generale non rispetta la quadrettatura...). 3. Una pedagogia metacognitiva per la matematica? Crediamo che dagli esempi presentati nel paragrafo precedente sia evidente quanta carica di verità abbia lo slogan: "non si impara matematica se non si fa matematica". Questa intuizione deve invece a nostro avviso guidare la costruzione del percorso che una classe compie in matematica con il suo docente e l'individuazione di una pedagogia che permetta un sereno apprendimento e sia nello stesso tempo rispettosa degli allievi e del docente. "Fare" matematica non significa cimentarsi con pagine di esercizi tutti uguali fra loro, ma significa fare "esperienza di matematica", cioè risolvere problemi. L'insegnamento della matematica deve nascere dai problemi. Insegnare per problemi non vuol dire soltanto catturare l'interesse degli allievi con motivazioni legate alla loro esperienza, ma vuol dire condurre gli studenti ad apprezzare "l'importanza e la necessità" di un risultato come strumento effettivo e potente e insegnar loro ad usarlo per rispondere a nuove domande10. Se il problema è un "buon" problema, il cammino per arrivare alla soluzione prevede alcune tappe che possiamo così descrivere: ● all'inizio, si tratta di comprendere al meglio la situazione proposta, cercando sia di portare alla luce quanto è lasciato nell'ombra dalla formulazione originaria del problema sia di descrivere, peraltro con piena libertà nella scelta dei parametri di riferimento, le analogie e le differenze o semplicemente le assonanze e le dissonanze con situazioni già "vissute". In questa fase, fermarsi a considerare situazioni più semplici o molto particolari, addirittura situazioni limite, avviarsi lungo strade senza avere la certezza che siano quelle giuste, avvitarsi in ragionamenti senza alcuna garanzia che siano produttivi, fare tentativi più o meno brillanti sono esattamente le operazioni previste. ● Poi, dalla massa delle informazioni raccolte, occorre cominciare a scegliere quelle che sembrano più promettenti, sottoponendole a un'indagine più approfondita. Può essere un'operazione più o meno lunga, più o meno faticosa, ma, facendo piazza pulita delle indicazioni "inutili", si arriva ad intravedere alcune delle possibili strade che portano alla soluzione. ● Infine, occorre inoltrarsi in una di queste, costruendo (o controllando comunque di avere già) gli strumenti tecnici e le informazioni sufficienti che via via servono a compiere i passi intermedi. Pazienza ma anche fortuna, precisione ma anche intuizione e fantasia, voglia di provare a capire sono le qualità necessarie in questo passaggio, e sono qualità che l'esperienza affina (anche la fortuna, certo, che spesso si lascia volentieri guidare). Si vedano ad esempio G. Ferrarese "MATEMECUM: Vademecum per l'insegnante di Matematica della Scuola Superiore" pubblicazioni IRRE-IRRSAE e G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica, Feltrinelli, 1967. 10 7 Vediamo un esempio. Pensiamo ad una attività da proporre in una quarta elementare. L'insegnante porta in classe una grande quantità di scatole, piccole e grandi, di materiali diversi, da quelle delle scarpe a quelle per i biscotti a quelle dei confetti di una festa. Divide i ragazzi in tre, quattro gruppi e affida ad ogni gruppo una certa quantità di scatole, dando la consegna: "Mettetevi nei panni del matematico e cercate un po' di belle proprietà di questi oggetti". L'insegnante accorto avrà predisposto un ricco campionario di oggetti, evitando di dare solo paralellepipedi o addirittura poliedri regolari, ma inserendo anche piramidi e prismi di vario tipo. Così non sarà affatto facile scoprire qualche affermazione che valga per la totalità delle scatole. I bambini cominceranno ad elencare proprietà ben evidenti, come il numero delle facce, o il tipo di poligoni che esse individuano, ma subito qualcuno troverà una scatola per cui la proprietà non vale (un "controesempio" nel linguaggio dei grandi) e l'impresa degenererà facilmente in un gioco al massacro di qualunque proposta scatenando in genere anche gli istinti meno nobili. Ma senza particolari inviti alla calma dell'insegnante piano piano i bambini realizzeranno da soli che se si continua ad andare a ruota libera non si riuscirà ad eseguire la consegna! All'interno di qualche gruppo qualcuno proporrà di ricominciare e di mettere in ordine quello che è stato fatto, l'aria si rasserenerà e i bambini torneranno al lavoro con molta nuova concentrazione. Superata questa fase di smarrimento sta all'insegnante proporre soluzioni che vadano nella direzione di cercare proprietà legate ai numeri di vertici o di facce o di spigoli, i bambini lo "guarderanno" pensare e provare e tenteranno di migliorare le sue proposte. Basterà che cominci a tabulare per sé alla lavagna i numeri delle facce, degli spigoli e dei vertici di qualche scatola, e non ci vorrà molto prima che i bambini lo imitino. Se è una classe "fortunata", qualcuno scoprirà che "v+f" è uguale "s+2", ma se non succede, sarà compito dell'insegnante di lasciare il tempo necessario: è utile che abbandoni per un po' l'impresa preoccupandosi semplicemente di raccogliere le idee utili di tutti e di scriverle alla lavagna, o meglio su un grande foglio in modo da lasciarlo in bella evidenza, dopo aver fatto raccontare da ogni gruppo i tentativi che ha fatto. Non bisogna però lasciar cadere la cosa nel dimenticatoio, sarà solo questione di tempo: nelle classi che abbiamo seguito non è mai successo che prima o poi qualcuno non avesse l'idea giusta e trovasse la formula di EuleroPoincaré! Ma non è finita. Dopo qualche tempo, l'insegnante porterà a scuola un nuovo esempio: l'interno di una scatola di cioccolatini, quello che sembra una ciambella rettangolare con un buco. Per questo solido la formula, che è costata tanta fatica alla classe, non vale! E allora si aprirà una discussione per decidere bene che cosa la classe intende quando parla di solido e per quali solidi il risultato è giusto. Esattamente come i matematici veri! Ma come è possibile che una classe compia "normalmente" questo cammino, l'unico che garantisce agli studenti di imparare matematica? Noi crediamo che non ci sia altra soluzione che costruire una pedagogia idonea che preveda: ● che la classe sia un buon laboratorio (o, se preferiamo, una buona bottega artigiana), dove, insieme, allievi e docente possono lavorare concretamente con gli "oggetti matematici" costruendo un sapere comune e condiviso. Una descrizione iniziale ricca e una comprensione profonda dei collegamenti con 8 altre situazioni come quelle che abbiamo richiesto poco sopra si ottengono più facilmente se il lavoro è condotto da più persone che si confrontano e si sostengono, che ... si parlano. Ognuno mette in campo le proprie competenze e le proprie abilità; l'analisi diventa più semplice e il procedere si fa più spedito; anche i momenti di impasse diventano più facili da superare. ● che ci sia tempo sufficiente per... perdere tempo in un ragionamento inconcludente o addirittura sbagliato, per fare tentativi e capire gli abbagli presi. La correzione, se può essere elaborata dallo stesso gruppo che ha compiuto l'errore, diviene essa stessa occasione di riflessione e di nuove acquisizioni piuttosto che riconoscimento di inadeguatezza. ● che ci sia tempo sufficiente per ripensare quanto è stato compiuto, individuando la mossa che ha portato al successo e cercando di cogliere l'essenza più generale della strategia adottata. Ora, questa descrizione richiama fortemente quella che Albanese, Doudin e Martin hanno individuato come pedagogia metacognitiva11. Non è probabilmente un caso: questa pedagogia sembra essere quella che "naturalmente" si applica alla trasmissione della matematica, in quanto ne rispetta e ne esalta le caratteristiche disciplinari. Ne siamo così convinti che abbiamo costruito - per la formazione dei docenti della scuola di base - alcune proposte che si inseriscono in questo quadro di riferimento. 4. "Fare esperienza di matematica" con i docenti della scuola di base. Fra tutte le esperienze che vanno in questa direzione riferiamo di quella che ci sembra aver dato i migliori risultati. Si tratta di alcuni stage durante i quali, sotto la guida di ricercatori matematici di sicura competenza, alcuni insegnanti di matematica (in formazione o già in servizio) sono invitati a confrontarsi con un problema matematico, a prima vista "difficile", a lavorare in gruppo per cercarne una soluzione da comunicare agli altri12. I partecipanti vengono invitati a suddividersi secondo le loro preferenze in gruppi di 6-8 persone; ogni gruppo è posto sotto la guida di un ricercatore matematico esperto che pone all'attenzione del suo gruppo un problema di non immediata soluzione (o per difficoltà intrinseca o per il livello delle conoscenze degli allievi). Il tipo di problema varia a seconda della provenienza disciplinare del docente: così si va da problemi di geometria ("Quanti modi diversi ci sono per colorare le facce di un cubo con due colori?"), a problemi di statistica ("Come raccogliere e analizzare dati empirici?"), o questioni legate all'utilizzo dei mezzi informatici ("Come utilizzare il calcolatore per riprodurre il disegno di un rosone di una chiesa sfruttando le proprietà geometriche che lo caratterizzano?"). A seconda del tipo di problema viene lasciato al gruppo un tempo congruo, che può variare da tre ore per le sessioni brevi, ai due giorni per le sessioni più articolate. A conclusione dello stage il gruppo deve descrivere il problema agli altri gruppi e riferire sulla soluzione trovata (o sui tentativi di soluzione). Ogni gruppo si organizza secondo quanto reputa più opportuno rispetto alla richiesta e alla propria composizione (ad esempio decide quali strumenti utilizzare, quanto del tempo a disposizione dedicare a ciascuna attività, alla discussione di gruppo, al lavoro individuale, alla ricerca effettiva della soluzione del problema, piuttosto che alla preparazione della relazione finale) e lavora con il sostegno co"Verso una psicopedagogia metacognitiva", cit. S. Di Sieno, “Doing mathematics: a crucial step in mathematical teacher's training”, ICM-2002 Satellite Conference on mathematics education, 12-17 agosto 2002, Lhasa, China 11 12 9 stante del docente (che però interviene solo per dare risposte a domande precise e circoscritte). Per quanto abbiamo potuto osservare fin qui, con ormai una decina di esperimenti che hanno coinvolto più di un centinaio di corsisti, il cammino compiuto da ogni gruppo segue paradigmi che ci sembra di poter individuare in questo modo: ● una iniziale perplessità sulla possibilità di rispondere a questioni ritenute troppo complesse e non riconducibili a formule o a situazioni note; ● la nascita di proposte per affrontare il problema o in casi semplici, facilmente controllabili, oppure facendo ricorso a strumenti ben noti; ● una discussione sui primi risultati ottenuti, sulle conclusioni immaginate o proposte, sulla possibilità e l'utilità di continuare lungo la strada intrapresa; ● il tentativo di generalizzazione o comunque di avviare procedure meno ingenue di quelle iniziali (a questo livello viene sempre spontaneamente richiesto il parere del docente prima di avventurarsi in ambiti più astratti dei precedenti), ● la soluzione del problema o l'ammissione di incapacità o la valutazione dell'impossibilità di risolvere il problema (e nel caso di ipotesi di impossibilità viene sempre spontaneamente richiesto il parere del docente); ● una lettura a ritroso del cammino fatto. La comunicazione agli altri gruppi risulta però in generale priva di riferimenti ai tentativi a vuoto e al percorso compiuto; solo i più giovani provano a trasmettere il gusto della sorpresa e del piacere provato nel compiere l'impresa. Un'analisi dettagliata di queste esperienze sarà condotta altrove. Ci limitiamo a sottolineare alcune osservazioni: ● questo tipo di esperienza è particolarmente utile per rompere quel muro di diffidenza verso la materia, così frequente negli insegnanti di matematica che hanno avuto una formazione in altre discipline. Ma anche chi ha una formazione matematica si ritrova a dover riutilizzare le sue conoscenze in maniera inusuale e a sperimentare nuovi contesti; ● questo tipo di esperienza porta i partecipanti a seguire strategie che, di norma, sono utilizzate per risolvere problemi di matematica, ma anche strategie che di solito non immaginano adatte a risolvere problemi di matematica; il lavoro di gruppo li porta a provare approcci diversi e questa esperienza li coinvolge e li arricchisce; ● questo modo di procedere è piacevole e questo costituisce una forte spinta ad una revisione dei propri (consolidati) modelli di insegnamento, verso un modello che dia più spazio al "provare" e al "cercare di trovare". Ben chiude questo intervento l'esclamazione di una nostra studentessa dopo una giornata di questo tipo di attività: "vorrei che i miei allievi si sentissero come mi sento io ora". Bibliografia AAVV, Matematica 2001: Materiali per un nuovo curricolo di matematica con suggerimenti per attività e prove di verifica, pubblicazioni UMI-CIIM, preprint ad uso dei lavori del XXII Convegno UMI-CIIM, Ischia 15-17 novembre 2001. 10 O. Albanese, P. Doudin, D. Martin (a cura di) “Metacognizione ed educazione”, Franco Angeli (2000). In particolare i capitoli Verso una psicopedagogia metacognitiva e Metacognizione e matematica. M. Cazzola, Per non perdere la bussola, introduzione ai sistemi di riferimento, Decibel-Zanichelli (2001). M. Dedò, "Più matematica per chi insegna matematica", Bollettino UMI "La matematica nella società e nella cultura", Serie VIII, Vol. IV-A, Agosto 2001, p. 247-275. S. Di Sieno, “Doing mathematics: a crucial step in mathematical teacher's training”, ICM-2002 Satellite Conference on mathematics education, 12-17 agosto 2002, Lhasa, China G. Ferrarese, “MATEMECUM: Vademecum per l'insegnante di Matematica della Scuola Superiore”, pubblicazioni IRRE-IRRSAE Piemonte, preprint. G. Polya, Come risolvere i problemi di matematica, Feltrinelli, 1967. P. Testi (a cura di) "Alfabeto allo specchio", scheda della mostra Simmetria giochi di specchi, Dipartimento di Matematica F. Enriques, Università degli Studi di Milano. Marina Cazzola Dipartimento di Matematica e Applicazioni Università di Milano Bicocca 30 settembre 2002 11