Le origini della mafia
in Sicilia
PERCORSI
DI STORIA LOCALE
IPERTESTO
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F.M. Feltri, Chiaroscuro © SEI, 2010
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Le origini della mafia in Sicilia
Nel 1984, Tommaso Buscetta si dichiarò disponibile a descrivere al giudice Giovanni Falcone (1939-1992) le principali caratteristiche di Cosa nostra: la mafia palermitana. Fino
a quella data, il fenomeno mafia era stato conosciuto soltanto in modo molto impreciso, per sommi capi, ed era risultato molto difficile tracciare un profilo nitido di una delle più potenti organizzazioni criminali del mondo.
La testimonianza di Buscetta, insieme al paziente lavoro di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ha permesso di sollevare almeno in parte la cortina che copriva
l’attività di Cosa nostra nel dopoguerra. È un’impresa ancora più complicata e difficile,
invece, descrivere le origini della mafia, dal momento che le fonti a disposizione dello storico sono scarse e contraddittorie. Soprattutto, nessuna di queste testimonianze possiede l’affidabilità di quella di Buscetta, il primo soggetto disposto a parlare della mafia dall’interno, per esperienza diretta e con il fine di fermarne l’azione (Buscetta aveva perso
due figli, un fratello, un nipote, un cognato e un genero, uccisi da un gruppo rivale).
Può essere utile iniziare ricordando che nel dialetto palermitano il termine mafioso significa bello, ardito, sicuro di sé. Pare che il termine sia stato associato per la prima volta
a un gruppo di delinquenti nel 1863, allorché fu rappresentata con grande successo un’opera teatrale intitolata I mafiusi di la Vicaria. La vicenda era ambientata in un carcere di
Palermo (la Vicaria, appunto) e aveva come protagonisti alcuni criminali, che dopo essersi macchiati di vari delitti si redimono e chiedono perdono. Il sostantivo astratto mafia, invece, non compare: sicuramente è posteriore all’abitudine invalsa di chiamare alcuni criminali con l’appellativo di mafiosi.
Il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1865, dal marchese Filippo Antonio Gualterio, prefetto di Palermo, in un rapporto sulla situazione politica del capoluogo siciliano, inviato al ministero degli Interni. La grafia usata era Maffia, diversa da quella che poi si impose nell’uso, e designava chiunque si opponesse al nuovo Stato nazionale; il prefetto temeva dei disordini, che in effetti si verificarono nel 1866, come conseguenza della politica fiscale adottata dai governi della Destra e della normativa sulla coscrizione obbligatoria.
I termini mafia e mafiosi, dunque, nacquero fuori dall’ambiente e dal mondo criminale;
a lungo ebbero significato vago, confuso e impreciso: solo con il passar del tempo finirono per acquistare consistenza, cioè designarono una realtà dai contorni più definiti e
nitidi, che si stava affermando nell’isola. La maggioranza degli studiosi concorda sul fatto che la mafia ha origini relativamente recenti; al momento dell’unificazione italiana
(1861) era un fenomeno in via di definizione, che aveva ormai raggiunto una precisa fisionomia, ma non aveva una lunga storia alle spalle. Inoltre, si pensa che gli inizi di Cosa
nostra non debbano essere cercati nell’interno della Sicilia, più arretrato e legato a un’economia basata sul latifondo e sulla coltivazione estensiva dei cereali. Al contrario, il bacino di coltura della mafia fu la dinamica realtà della campagna circostante Palermo,
in cui il grano aveva lasciato il posto alla ben più redditizia produzione di limoni e di altri agrumi, esportati in grandissime quantità in Inghilterra e negli Stati Uniti.
In quest’area ricca e ben sviluppata, integrata a pieno titolo nel sistema capitalistico globale,
un gruppo di criminali riuscì gradualmente a infiltrarsi nel cuore del meccanismo di produzione, approfittando della vulnerabilità degli agrumeti. Spesso, si trattava di guardiani disonesti,
che iniziarono a ricattare i padroni e a estorcere denaro: se le somme richieste non fossero state corrisposte, i frutti sarebbero stati rubati e gli alberi danneggiati. A volte, grazie ai loro ricatti e alle estorsioni sistematiche, riuscivano addirittura a impossessarsi del terreno stesso.
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L’industria della violenza
➔Un fenomeno
moderno
➔Commercio
di agrumi
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Le prime descrizioni del fenomeno mafioso
UNITÀ X
Nel 1864, il barone Niccolò Turrisi Colonna scrisse un volume dedicato alla Pubblica sicurezza in Sicilia. Nel suo resoconto, Turrisi Colonna denunciava l’esistenza di una «setta di ladri che ha rapporti in tutta l’isola», sostenendo che essa si era strutturata una ventina d’anni prima. La sua forza, secondo il barone, stava nell’umiltà (umirtà, in siciliano,
da cui l’italiano moderno omertà) dei suoi membri, che erano completamenti devoti alla
causa della setta e non la tradivano per alcuna ragione. Il dato più singolare è che, alcuni anni più tardi, lo stesso Turrisi Colonna appare coinvolto in affari loschi, di stampo
decisamente mafioso: forse, la denuncia lanciata dal nobile nel 1864 spinse la nascente
organizzazione a prendere contatti con lui e a trovare un accordo di convivenza vantaggioso per entrambi.
L’affare in cui il barone si trovò di fatto schierato dalla parte della mafia si verificò negli
anni Settanta ed ebbe come protagonista uno stimato chirurgo, Gaspare Galati, proprietario
di un’azienda agricola modello coltivata a limoni, nei pressi di Palermo. Galati fu vittima di una serie di azioni intimidatorie, compiute da un gruppo di delinquenti che faceva capo ad Antonino Giammona: il primo boss di cui conosciamo l’identità e le pratiche di azione. L’obiettivo dei criminali era di costringere il dottore a cedere il redditizio podere, che si sarebbe aggiunto ad altri già controllati dal capo mafioso. Sebbene si
trattasse di una persona di umili origini e semianalfabeta, Giammona era una figura tutt’altro che arcaica: aveva capito che il commercio degli agrumi era, a quell’epoca, l’attività
di gran lunga più redditizia ed era riuscito a corrompere alcuni importanti funzionari di
polizia, che infatti non reagirono e non diedero alcun peso alle denunce di Galati.
Nel 1875, il chirurgo fuggì dalla Sicilia e si trasferì a Napoli. Qui scrisse un rapporto che
inviò al ministero dell’Interno, a Roma, denunciando l’esistenza di una potente associazione
segreta che stava impadronendosi con la violenza del settore più moderno dell’economia siciliana. Il rapporto di Galati mise in moto un’inchiesta condotta dal questore
L’ITALIA DALL’UNITÀ ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
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di Palermo, che ottenne un’importante informazione: tutti coloro che entravano a far parLavoratori siciliani
in una miniera di zolfo,
fotografia dell’epoca.
L’estrazione e
l’esportazione dello zolfo
costituirono il principale
settore di interesse per la
mafia verso la fine
dell’Ottocento.
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te della misteriosa organizzazione segreta, al momento del loro ingresso ufficiale nel gruppo, si sottoponevano a un preciso rito di iniziazione. Dopo che una goccia del loro sangue era stata spalmata su un santino, l’immagine sacra veniva bruciata e ridotta in cenere, a simboleggiare la sorte che avrebbe atteso chiunque avesse violato il giuramento appena pronunciato.
Si trattava di una vera e propria nuova nascita, di una specie di nuovo battesimo, e proprio per tale motivo alcuni capi mafiosi ricevettero ben presto l’appellativo di padrini. Del
resto, sulla base della sua esperienza di magistrato inquirente e dei colloqui con Buscetta, Falcone spesso paragonò l’ingresso in Cosa nostra a una conversione religiosa, che per
sua natura comporta anche l’adozione di un codice morale del tutto speciale e particolare. A base di tale codice sta l’obbedienza assoluta alle esigenze dell’organizzazione,
mentre l’uso della violenza per accrescerne la forza e la potenza è ritenuto del tutto giustificato. Forse, l’origine remota del rito va cercata nella massoneria e nella carboneria; ancora più importante, tuttavia, è ricordare che riti simili furono testimoniati a fine Novecento da vari mafiosi che, dopo il loro arresto, seguendo l’esempio di Buscetta e per beneficiare di sconti sulla pena decisero di collaborare con la giustizia.
Rituali molto simili a quelli palermitani furono scoperti dalla polizia nel 1883, nelle province di Agrigento e Caltanissetta, ove operava un’organizzazione criminale conosciuta con
il nome di Fratellanza. Dopo alcuni episodi di violenza verificatisi a Favara, furono arrestate e processate più di 200 persone, 107 delle quali furono condannate. Il principale settore su cui la società mafiosa di quell’area aveva concentrato il proprio interesse era l’estrazione
e l’esportazione dello zolfo. Insieme alla coltura degli agrumi, era l’attività economica
più moderna e vantaggiosa dell’isola, inserita in un grande circuito di scambi internazionali. Anche la mafia di Agrigento e Caltanissetta (di cui ignoriamo con precisione i legami con quella palermitana) non era un fenomeno primitivo, generato dell’arretratezza della Sicilia: piuttosto, come nel caso del racket della produzione e dello smercio dei limoni,
anche le miniere di zolfo e il mercato del prezioso minerale avevano attirato l’attenzione
della criminalità perché permetteva di ottenere enormi profitti economici. Di qui l’intimidazione nei confronti dei proprietari delle zolfare, perché le cedessero a uomini legati
alla mafia, oppure l’obbligo – imposto con la violenza – di servirsi solo di imprese compromesse con la criminalità per l’estrazione e il trasporto del minerale fino ai porti.
Negli anni Ottanta, intanto, la mafia si era notevolmente rafforzata a livello politico. La
mole crescente dei suoi traffici illeciti trovava protezioni e coperture sempre più potenti, grazie ad accordi con uomini politici che occupavano posti e ruoli importanti a
livello locale e, infine, riuscivano persino a essere eletti in Parlamento.
Mafia, politica e affari
Nell’agosto 1898, il generale Pelloux – in qualità di presidente del Consiglio – nominò
Ermanno Sangiorgi questore di Palermo. Nei due anni seguenti, questo zelante funzionario di polizia stese una serie di dettagliati rapporti (in totale, quasi 500 pagine) da cui
emerge un quadro abbastanza preciso di numerose vicende che insanguinarono il capoluogo siciliano e i suoi dintorni negli ultimi anni del XIX secolo. Al termine di una lunga indagine, furono arrestate diverse centinaia di mafiosi, tra cui Antonino Giammona,
che ormai era quasi ottantenne, ma secondo il questore era ancora la «mente direttiva»
dell’organizzazione criminale.
L’attività di Sangiorgi fu tuttavia ostacolata in varie maniere dal procuratore generale di
Palermo, che probabilmente era prezzolato dai mafiosi e che comunque scrisse esplicitamente al ministro dell’Interno: «Della mafia non mi sono mai accorto nell’atto di esercitare il mio ministero». Il risultato fu il proscioglimento di Giammona e di tutti gli altri imputati maggiori, mentre il questore – caduto il governo Pelloux – perse qualsiasi sostegno da parte dell’autorità centrale, in quanto i governi erano preoccupati, prima di ogni
altra cosa, di non perdere il sostegno dei deputati siciliani, inclusi quelli collegati alla mafia, come Raffaele Palizzolo, che fu eletto per tre volte in un collegio palermitano.
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➔Deputati legati
alla mafia
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Riferimento
storiografico
pag. 5
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Bernardino Verro,
prima leader contadino,
poi sindaco di Corleone
dal 1914.
La stampa nazionale non diede molto risalto alla tenace lotta di Sangiorgi; ben più rilievo, invece, ebbe l’assassinio di Emanuele Notarbartolo di San Giovanni, una delle più
eminenti e stimate personalità della società siciliana, che fu per alcuni anni sindaco di Palermo e direttore generale del Banco di Sicilia. La sua uccisione ebbe luogo in uno scompartimento ferroviario il 1o febbraio 1893; tuttavia, il processo contro i presunti assassini fu celebrato solo nel 1900, a Milano. Innanzi tutto emerse il movente dell’omicidio:
dopo le dimissioni di Notarbartolo, al Banco di Sicilia erano state compiute numerose e
gravi infrazioni finanziarie, finalizzate a sostenere l’azienda cantieristica della potente e nobile famiglia Florio, legata agli ambienti mafiosi. L’uccisione fu progettata quando corse
voce che l’integerrimo Notarbartolo sarebbe tornato a capo della banca: nel qual caso, avrebbe immediatamente scoperto i loschi traffici compiuti all’ombra dell’istituto di credito
palermitano. Durante un’udienza del processo, tuttavia, il figlio del banchiere ucciso accusò esplicitamente del fatto Raffaele Palizzolo, che già da tempo era entrato in conflitto con Notarbartolo, dopo che il sindaco aveva dimostrato la sottrazione di una grossa
somma di denaro pubblico da parte del deputato mafioso.
Nel 1902, Palizzolo fu condannato in primo grado come mandante dell’uccisione di Notarbartolo, insieme a un altro mafioso riconosciuto come esecutore materiale del delitto.
La Corte di Cassazione, tuttavia, annullò la sentenza per un vizio di forma. Come il grande processo palermitano costruito da Sangiorgi, anche il secondo importante procedimento
penale dell’epoca liberale si concluse con un nulla di fatto.
Intanto, negli anni Novanta, la Sicilia aveva visto crescere di importanza la singolare esperienza dei Fasci, organizzazione finalizzata a difendere gli interessi dei contadini più poveri,
nei loro quotidiani contrasti con i grandi proprietari terrieri e con i gabellotti, i fattori cui
i latifondisti assenteisti delegavano di fatto la conduzione delle loro terre. A Corleone, il
leader contadino di maggiore prestigio fu Bernardino Verro, che in un primo tempo cercò
di rafforzare la propria posizione legandosi alla mafia locale (un’associazione segreta i cui
membri chiamavano se stessi Fratuzzi). Ben presto, Verro si pentì della sua scelta e percorse
altre strade, ad esempio creò cooperative agricole e si avvicinò al Partito socialista. Nel 1914,
fu eletto a schiacciante maggioranza sindaco di Corleone; i Fratuzzi, però, non gli perdonarono il suo tradimento: il 3 novembre 1915, mentre l’opinione pubblica era da tempo
concentrata solo sull’andamento della guerra, Verro fu ucciso per strada, con un’esecuzione pubblica e brutale, che doveva servire come ammonimento a tutto il paese.
Infine, tra gli omicidi clamorosi, che fecero grande scalpore ma rimasero impuniti, può essere ricordato quello di Joe Petrosino, un tenente della polizia di New
York che all’inizio del secolo scorso combatté duramente contro la mafia negli Stati Uniti. I legami tra la Sicilia e l’America erano stati facilitati dall’elevatissimo numero di emigranti (800 000 siciliani si spostarono dall’isola agli USA, tra il 1901 e il 1913) e dai lucrosi traffici di agrumi, vino e olio, interamente controllati dalla mafia, che a New
York instaurò ben presto un efficiente sistema di racket e di estorsioni a danno
degli italiani. Petrosino si rese conto dei
collegamenti esistenti tra le organizzazioni siciliane e quella newyorkese, e quindi si recò a Palermo per
studiare da vicino il fenomeno italiano. Il 12 marzo 1909, due uomini lo uccisero. La stampa americana denunciò con molta energia la vicenda; ciò nonostante, non
vi fu mai alcun processo.
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Emanuele Notarbartolo fu la figura più prestigiosa che la mafia uccise in Sicilia nel periodo compreso tra l’Unità d’Italia e il 1971. Il lavoro di indagine fu condotto in maniera superficiale e scadente,
fino a quando il figlio del banchiere assassinato, Leopoldo, in aula, durante il processo di Milano, non
chiamò direttamente in causa Raffaele Palizzolo, protettore di alcuni importanti capi mafiosi.
Il 1o febbraio 1893, su una carrozza ferroviaria in corsa sulla
linea Termini-Palermo, viene assassinato Emanuele Notarbartolo
di San Giovanni, rampollo di una delle più eminenti famiglie aristocratiche siciliane, esponente della Destra storica ma personaggio super partes [al di sopra delle parti, n.d.r.], apprezzato
unanimemente per la dirittura morale e per le capacità amministrative dimostrate quale sindaco di Palermo (1873-76) e direttore generale del Banco di Sicilia (1876-90). Non si tratta di un
atto di terrorismo politico come quelli del periodo postunitario.
L’aggressione brigantesca sembra da scartare se non altro per
lo scenario così moderno e rassicurante da indurre la vittima ad
abbandonare le precauzioni che mantiene dal 1882, quando ha
subito un sequestro, scaricare il fucile che porta con sé e addormentarsi («Tra il brigante e la ferrovia c’è un’incompatibilità
completa, c’è un anacronismo»). L’omicidio viene compiuto con
un’arma, il coltello, più usata nei delitti passionali che in quelli per
mandato («L’arma di cui il sicario si serve… è sempre quella da
fuoco») [Questa e l’affermazione riportata sopra furono pronunciate durante il processo e in sede di istruttoria giudiziaria, n.d.r.].
Non siamo all’interno della lotta tra pari per le gabelle o la guardianìa: sappiamo che i mafiosi del Palermitano non usano uccidere proprietari, tanto meno uomini così eminenti. Eppure la
voce pubblica ipotizza un delitto di mafia, anzi, afferma il procuratore generale Sighele, di alta mafia, indicando come esecutori due esponenti della cosca di Sillabate, Matteo Filippello e
Giuseppe Fontana, come mandante Raffaele Palizzolo. «Nei
pubblici ritrovi, nelle vie, ovunque si diceva: la mano dev’essere stata di Palizzolo».
Una fase del processo
Questo delitto segna un salto di qualità, ma per certi versi rimane un picco isolato, un per l’assassinio di
segnale di sviluppi futuri. Per avere la giusta scala di riferimento, si pensi che per più di un Emanuele Notarbartolo
secolo la mafia ha ardito colpire così in alto solo in questo caso. Quello di Notarbartolo è il in un’illustrazione
primo dei cadaveri eccellenti, nonché l’ultimo sino alla morte del procuratore generale Pie- tratta da un giornale
tro Scaglione, e quindi dall’Unità al 1971. A grande delitto, grande reazione. L’emergenza dell’epoca.
mafia si impone non solo alla Sicilia, ma all’intera nazione grazie anche al fatto che i tre processi Notarbartolo vengono celebrati, per legittima suspicione, a Milano (1899-1900), Bologna (1901-1902), Firenze (1903-1904); e perché la stampa, dando chiaro risalto ai dibattimenti, nazionalizza l’oscuro oggetto mafia, peculiarità dell’estrema provincia meridionale del
paese, ben più di quando sia avvenuto con la discussione parlamentare del 1875. A cominciare da quello che il marchese di Rudinì chiama «il palcoscenico di Milano», tutti gli italiani assistono a un sensazionale spettacolo nel quale fungono da comparse le centinaia di Spiega l’espressione
testimoni provenienti dalla Sicilia, vestiti in strane fogge, che si esprimono in un idioma reso secondo cui il delitto
comprensibile solo da interpreti nominati dai magistrati.
Notarbartolo
Nel primo processo compaiono solo due imputati, i ferrovieri Garufi e Crollo che la lo- rappresenta «un picco
gica dei fatti vuole complici dell’assassinio; nessun addebito viene mosso a Palizzolo e Fon- isolato» nella vicenda
tana (i sospetti contro Filippello erano caduti). La soluzione non sta bene alla famiglia No- mafiosa.
tarbartolo, e soprattutto al figlio del morto, Leopoldo, che ha dovuto mordere il freno di fronte Spiega l’affermazione
alle esitazioni, alle contraddizioni dell’inchiesta, e che ora, «all’aria libera di Milano» [l’e- «cadaveri eccellenti».
spressione è usata dallo stesso Leopoldo Notarbartolo, nelle sue memorie, n.d.r.], mette in Spiega l’espressione
atto il classico colpo di scena accusando Palizzolo. «Io non vi so dire il fremito d’ansia, la «legittima suspicione.
sospensione d’animo dei magistrati, dei giurati, del pubblico a queste parole – narra il cro- Per qual motivo, in
nista dell’Avanti! –; invincibilmente un’attenzione acuta, dolorosa quasi legò il pretorio alla base a quell’istanza,
parola rapida, incisiva, sicura di quel giovane ventottenne che veniva a reclamare vendetta fu possibile celebrare
contro il presunto potente assassino del padre»
i processi fuori dalla
Avanti!, 18 ottobre 1899 Sicilia».
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