GIOVANNI VERGA L’opera deve sembrare essersi fatta da sé… Tra Catania e Firenze • Nacque a Catania nel 1840 da famiglia agiata. Tra 1857 e 1863 scrisse i suoi primi romanzi, Amore e patria, I carbonari della montagna, Sulle lagune ricalcando i modi del romanzo storico e della letteratura romantico-risorgimentale. • Fra il '65 e il '71 soggiornò in prevalenza a Firenze, allora capitale del Regno d'Italia, dove conobbe i più importanti esponenti del Romanticismo al tramonto (Prati e Aleardi). Storia di una capinera Nel ‘66 pubblicò Una peccatrice, la storia di un universitario catanese invaghitosi di una bella mantenuta, ma da lei respinto. Il giovane, raggiunto poi il successo e affascinata la donna, una volta svanito l'incanto della conquista, si stacca da lei. Del 1869 è Storia di una capinera: lo scrittore vede una capinera morire prigioniera in gabbia e associa la vicenda a quella di Maria, che, educata in convento, torna a casa e conosce un ragazzo destinato alla sorellastra: tra i due nasce l'amore, esitante in Maria, silenzioso in Nino. Ma la matrigna ha convinto il padre di Maria a farla monaca: la fanciulla è costretta a prendere il velo, mentre Nino si unisce alla ragazza che gli era stata promessa. I due novelli sposi, per fatalità, dimorano in una casa prospiciente il convento, così che la povera novizia deve assistere alla felicità altrui. Sopraffatta dal dolore, impazzisce e muore. Milano e i romanzi passionali • Tornato a Catania nel 1871, Verga ripartì per Milano dove frequentò gli uomini della Scapigliatura (Arrigo Boito, Praga, Camerana) e altri intellettuali come il De Roberto (a Firenze aveva conosciuto il Capuana). A Milano rimase fino al 1893, meditando sugli autori del Naturalismo francese e maturando la sua adesione al Verismo. Proseguiva la sua produzione tardo romantica con Eva, Tigre reale, Eros: L’attenzione al mondo degli umili • La novella Nedda (1874) è stata per molto tempo considerata dalla critica il primo approccio del Verga al Verismo perché è ambientata in Sicilia e la protagonista appartiene al sottoproletariato agricolo. Nedda raccoglie le olive e lavora duramente, fra gli stenti per mantenere la madre ammalata: dopo la sua morte cede all'amore di un giovane carrettiere, Janu, ma questi muore di malaria prima di poterla sposare e di stenti muore la bambina nata dalla loro unione. La svolta verista…dal 1878 La grande stagione narrativa del Verga si apre veramente con la raccolta di novelle Vita dei campi che oltre ad alcuni capolavori assoluti (Rosso Malpelo del 1878, Jeli il pastore, La lupa, cavalleria rusticana) contiene due scritti, la premessa all'Amante di Gramigna e Fantasticheria, che costituiscono l'affermazione della nuova poetica del Verga. I due romanzi maggiori, I Malavoglia (1881) e Mastro-don Gesualdo (1889) dovevano far parte di un più articolato ciclo dei Vinti. Il ciclo dei Vinti L’autore si proponeva di analizzare come in tutte le classi sociali l’individuo fosse proteso al raggiungimento del meglio "dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni"; questo desiderio di cambiamento che chiameremo “progresso” e che per il Positivismo avrebbe condotto l’uomo alla felicità o alla costruzione di un mondo più vivibile, per Verga genera invece sconfitte individuali. Per il catanese l' "accorgersi che non si sta bene e che si potrebbe star meglio“ e la conseguente "vaga bramosia dell'ignoto" si traducono nella ricerca della ricchezza come potere o in forme di ambizione più elevata, tutte strade che, percorse, si trasformano in uno scacco. Da qui il titolo del ciclo: I Vinti. I romanzi • Dunque ai Malavoglia, in cui la "ricerca del meglio" è ancora lotta per i bisogni materiali e per la sopravvivenza, e a Mastro-don Gesualdo che invece "incarna il tipo borghese" in cui "la ricerca diviene avidità di ricchezze", sarebbero dovuti seguire la Duchessa di Leyra ("vanità aristocratica"), l'Onorevole Scipioni (l'ambizione politica) e L'uomo di lusso (una sorta di esteta dannunziano "che riunisce tutte coteste bramosie"). Dalle Novelle rusticane alla morte Tra i Malaoglia e Mastro-don Gesualdo, il Verga scrisse una seconda raccolta di racconti di ambiente siciliano, Novelle rusticane (tra cui si ricordano La roba, Malaria, Libertà). Il dramma Cavalleria rusticana, tratto dalla omonima novella, interpretato da Eleonora Duse, ebbe un gran successo nel 1884 e ancor più nel 1890 in versione di opera lirica musicata da Mascagni; Verga ridusse per le scene anche La lupa e compose La caccia al lupo, La caccia alla volpe (1901) Dal tuo al mio (1903). Ritiratosi in vita appartata, visse a Catania ove morì nel 1922. TECNICA NARRATIVA • La tecnica narrativa utilizzata da Giovanni Verga nelle opere veriste composte dal '78 in poi, possiede caratteri di originalità innovativi che si distaccano dalla tradizione e anche dalle esperienze contemporanee sia italiane che straniere. • Tra le tecniche narrative utilizzate dal Verga si ricordano: • La tecnica dello straniamento • L'utilizzo del discorso indiretto libero • La tecnica dell'impersonalità LO STRANIAMENTO • La tecnica dello straniamento "... consiste nell'adottare, per narrare un fatto e descrivere una persona, un punto di vista completamente estraneo all'oggetto“[ • La definizione di straniamento venne data dai formalisti russi degli anni venti che adottano, per narrare un fatto e descrivere una persona, un punto di vista completamente diverso. • Come risultato si ottiene quello di far apparire insolite e incomprensibili cose normali, o viceversa, solo perché presentate attraverso un punto di vista estraneo. STRANIAMENTO NEI MALAVOGLIA • • • • Molti esempi di straniamento si trovano nel romanzo I Malavoglia dove tutto quello che provano i protagonisti di vero e disinteressato viene visto dal punto di vista della gente del paese che, non avendo gli stessi valori, è portata a dare giudizi solamente in base all'interesse economico e al diritto di chi è più forte facendo così apparire "strano" ciò che, secondo la scala dei valori universalmente accettata, è "normale". Così, ad esempio, l'onestà di padron 'Ntoni, che pur di non mancare di parola riguardo al debito dei lupini, lascia che la sua casa venga pignorata, vera truffa a suo danno: O come quando per lo stesso motivo padron 'Ntoni viene giudicato "minchione" dall'avvocato Scipioni ("... ma questi gli rideva sul naso, e gli diceva che "chi è minchione se ne sta a casa") e dalla collettività perché non era stato capace di fare i suoi affari, così la purezza dei sentimenti tra Alfio e Mena viene vista dalla mentalità di zio Crocifisso in "rabbia" di maritarsi. Verga vuole pertanto dimostrare, con questo effetto di "straniamento", come sia impossibile praticare valori puri e disinteressati in un mondo regolato dalla legge della lotta per la vita e mettere in evidenza il prevalere dei principi dell'interesse e della forza, a cui non è possibile contrapporre nessuna alternativa. Questo tipo di straniamento compare quando sono in scena personaggi puri e onesti come i Malavoglia, ma quando si presentano i personaggi del villaggio gretti e meschini, si assiste ad una forma di straniamento che si può definire "rovesciata", dove ciò che è "strano" appare "normale" dal momento che il punto di vista di chi racconta è perfettamente in armonia con quello dei personaggi. STRANIAMENTO E PESSIMISMO IN ROSSO MALPELO • • • • • • Il pessimismo e lo straniamento si possono ampiamente osservare nella novella Rosso Malpelo che può considerarsi "il primo testo della nuova maniera verghiana ad essere pubblicato": "Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre, col sentirgli dir sempre a quel modo, aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo." Da subito, l'inizio evidenzia la rivoluzionaria novità dell'impostazione narrativa verghiana: affermare che Malpelo ha i capelli rossi perché è un ragazzo malizioso e cattivo è una chiara deformazione logica, che palesa un pregiudizio popolare: la voce narrante non è identificabile con l'autore reale, non è portavoce della sua visione del mondo; il narratore riflette, invece, la mentalità dei personaggi che si muovono all'interno della storia, il loro mondo di valori e necessità, (come accade nella "Lupa”) anche se non coincide con un ben identificato personaggio. L'autore si è "eclissato", si è messo nella pelle dei suoi personaggi, vede le cose con i loro occhi e le esprime con le loro parole. Nell'apertura del racconto si procede subito con la "regressione" con la quale si attua il basilare principio dell'impersonalità. Il narratore, non essendo onnisciente, ma portavoce di un ambiente popolare primitivo e rozzo, non è depositario della verità, com'era proprio dei narratori tradizionali dell'Ottocento come Manzoni Balzac ed altri. Ciò che si dice di Malpelo non è attendibile: il narratore non capisce l'agire del protagonista e quindi interpreta le azioni deformandole con il suo punto di vista, ad esempio è narrata in modo distorto la reazione che ha Rosso quando il padre muore nell'incidente della cava di rena rossa: "Malpelo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà, nella rena, dentro la buca, sicché nessuno s'era accorto di lui; e quando si accostarono col lume, gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati, e la schiuma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato, e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza."[9] È facile intuire che il comportamento del ragazzo è dovuto alla speranza di poter salvare il padre, ma il narratore non comprende i suoi sentimenti, e attribuisce il suo agire al pregiudizio che Malpelo è strano e cattivo, tanto da pensare che un "diavolo gli sussurrasse qualcosa negli orecchi“. ROSSO MALPELO • • • • • • • Il carattere di Rosso Malpelo viene sempre visto in modo distorto, quando viene rinvenuto il cadavere del padre si scopre che il pover'uomo aveva scavato nel senso opposto a quello dove scavava il figlio, ma nessuno disse niente al ragazzo non certo per pietà ma perché temevano che Rosso potesse pensare a chissà quale vendetta generalizzata. Ed ancora quando Malpelo si attacca alle reliquie del padre e dimostra così l'attaccamento filiale che egli nutriva, il suo comportamento è considerato incomprensibile dal coro che gli sta intorno: "Malpelo se li lisciava sulle gambe, quei calzoni di fustagno quasi nuovi, gli pareva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo, che solevano accarezzargli i capelli, quantunque fossero così ruvide e callose. Le scarpe poi, le teneva appese a un chiodo, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pigliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l'una accanto all'altra, e stava a guardarle, coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme, per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. ...".Quando Rosso comincia a volere bene a Ranocchio, lo protegge, gli vuole insegnare le leggi crudeli che regolano la vita, sgridandolo e picchiandolo ma sa togliersi il pane di bocca per darlo all'amico. Eppure il narratore interpreta questo atteggiamento come un ulteriore esempio della malvagità di Malpelo che può in tal modo prendersi il diritto di tiranneggiare il povero storpio. La figura del protagonista è così sistematicamente stravolta a causa del pessimismo del Verga. Egli sceglie il punto di vista dei lavoranti della cava per descrivere un mondo brutale in cui non c'è alcuno spazio per i sentimenti più disinteressati. In questo mondo i pregiudizi hanno la meglio, quindi uno con i capelli rossi deve essere cattivo per forza e quando fa qualcosa che dovrebbe apparire sano e buono le sue azioni vengono stravolte ed incomprese. Anche la famiglia di Malpelo si disinteressa di lui; quando la sorella si sposa la madre va via con lei e lascia il ragazzo da solo senza alcun rammarico dando per scontato che un Malpelo non possa avere sentimenti di nessun genere. Nella seconda parte del racconto emerge la visione del protagonista, il punto di vista impercettibilmente cambia ed ecco che affiora la visione cupa e pessimistica di Rosso. Il ragazzo ha compreso la legge che regola la vita, la lotta per l'esistenza quella sociale e quella naturale, comprende che sopravvive il più forte e che il debole rimane schiacciato. Questa consapevolezza lo ha indurito, egli non tenta rivolte di nessun genere perché sa che quella realtà è immodificabile e vi si rassegna in modo disperato. Egli ha saputo dunque interpretare la realtà ed è orgoglioso di aver capito ed agisce in modo consapevole, non come gli altri che vivono inconsapevolmente la realtà in cui sono costretti dal fato. In Rosso Malpelo si proietta dunque tutto il pessimismo dell'autore e la sua visione lucida ma disperatamente rassegnata di tutta la realtà negativa sociale e naturale. Verga così dà voce ad un mondo popolare aspro ed a tratti disumano o meglio: il mondo popolare di Verga è fuori dal mito della povera ma buona gente custode di valori genuini, antichi e sovrani. Non c'è alcuna visione nostalgica del mondo popolare, nel mondo contadino vigono le stesse leggi crudeli che regolano la vita degli strati più ricchi ed evoluti. Nessuna illusione pertanto di trovare lontano dalle luci e dal caos cittadino un genuino e bucolico mondo contadino dove rifugiarsi e dove trovare brava e buona gente. CONCETTO DELL’OSTRICA • • • • Il concetto dell'ostrica si basa sulla convinzione che per coloro che appartengono alla fascia dei deboli è necessario rimanere abbarbicati ai valori della famiglia, al lavoro, alle tradizioni ataviche, per evitare che il mondo, cioè il "pesce vorace", li divori. In questa novella Verga parla dell’ideale dell’ostrica che sostiene la povera gente. Nel concetto dell'autore, finché i contadini, i braccianti, i pescatori vivono protetti dall'ambiente che li ha visti nascere e crescere, finché credono e rispettano i valori in cui hanno creduto e che hanno rispettato i loro padri, allora, anche se poveri, sono al sicuro. Il problema nasce quando cominciano a provare il desiderio del cambiamento, il desiderio di migliorare, di progredire. Come l’ostrica che vive sicura finché resta avvinghiata allo scoglio dov’è nata, così l’uomo di Verga vive sicuro finché non comincia ad avere smanie di miglioramento. Ed ancora nella prefazione ai Malavoglia, Verga afferma chiaramente questo concetto chiarendo, inoltre, che ritornerà a parlare della gente del bel mondo e dei salotti perché la sua ideologia non privilegia una classe sociale piuttosto che un’altra. DISCORSO INDIRETTO LIBERO • l discorso indiretto libero (o erlebte Rede, dal tedesco) è una variante del discorso indiretto che fonde le modalità del discorso diretto e di quello indiretto in una forma ibrida. Esso è discorso indiretto in quanto passa attraverso la mediazione del soggetto riferente che però mantiene stilemi, cioè quegli elementi caratteristici che sono il tratto distintivo dello stile di uno scrittore o di un testo, e strutture grammaticali del discorso diretto. • Esso era ben noto sin dagli scrittori classici e viene chiamato libero perché non viene in esso utilizzato quel legame tra discorso del narratore e discorso del personaggio che è il verbo di "dire" o "pensare". • Nel caso del discorso indiretto libero, nessun preciso "segnale" grammaticale indica il momento del passaggio tra i due discorsi. Infatti in apparenza sembra essere il narratore che continua a "vedere" e a "pensare", ma in realtà è il personaggio. DISCORSO INDIRETTO LIBERO NEI MALAVOGLIA • • • • • • Ne I Malavoglia il discorso indiretto libero riferisce non solo i discorsi di singoli personaggi ma anche parole di un imprecisato parlante, che coincide con la collettività del paese, con gli occhi del quale sono visti i fatti. Nel III capitolo si legge: "Dopo la mezzanotte il vento s'era messo a fare il diavolo, come se sul tetto ci fossero tutti i gatti del paese (... ). Il mare si udiva muggire attorno ai faraglioni, che pareva ci fossero riuniti i buoi della fiera di sant'Alfio... ", dove è evidente che il discorso non fa altro che riprodurre il tipico modo di esprimersi dei pescatori di Aci Trezza e che non è un solo personaggio che parla. Le parole riportate sono infatti quelle della collettività e non di un preciso personaggio, per cui la "voce" che racconta non è quella dell'autore esterno ai fatti con la sua cultura e il suo linguaggio, ma una voce popolare interna al mondo rappresentato, in cui l'autore scompare. Mentre nei Malavoglia è difficile certe volte stabilire se il discorso appartiene al narratore o ad un personaggio, questo non avviene nel discorso indiretto libero "ortodosso" dove risulta evidente che viene riportato un discorso preciso, pronunciato o pensato da un particolare personaggio, riuscendo così a distinguere dove questo ha inizio e dove termina il discorso del narratore. Nei Malavoglia pertanto la confusione tra narratore e personaggi serve a far risaltare che il narratore è all'interno del mondo rappresentato rendendo così maggiormente evidente che quella realtà "si racconti da sé". Il discorso indiretto libero è uno strumento narrativo diffusissimo nell'area del romanzo ottonovecentesco e viene pertanto a costituire una struttura alternativa rispetto al discorso diretto o indiretto, che ha lo scopo di rendere più vivace lo stile. Sicilia rurale La Sicilia rurale di un fotografo d'eccezione, Giovanni Verga. L'immagine è del 1897 e ritrae i coniugi Pisasale al servizio della famiglia Verga nella campagna di Tèbidi, territorio di Vizzini. Data 1897 TECNICA DELL’IMPERSONALITA’ • • • • • • Nell'ambito delle poetiche del vero la posizione di Verga è quella della necessità di usare la tecnica dell'impersonalità, lasciare cioè che sia "il fatto nudo e schietto" e non le valutazioni dell'autore, il centro della narrazione, come egli stesso scrive nella premessa alla novella L'amante di Gramigna. Sarà proprio su questa impostazione che lo scrittore siciliano imposterà la parte più alta della sua produzione novellistica. Lo scrittore, per dare energia e spessore alla sua ideologia, ritiene confacente la tecnica verista dell'impersonalità dell'autore. Se l'autore, dall'alto della sua visione onnisciente, fosse lì: a sentenziare, a giudicare, a portare il lettore alla riflessione ora su un argomento, ora su un personaggio; a guidare il lettore nel valutare positivo o negativo qualcuno o qualcosa, egli sarebbe un giudice, applicherebbe le sue regole morali, politiche o religiose. Giovanni Verga non vuole giudicare; considera lo scrittore uno strumento tecnico che documenta e non interviene nel documento che trasmette; non crede che la letteratura possa contribuire a modificare la realtà, quindi deve trarsi fuori dal campo e studiare senza passione i personaggi e gli eventi. Il lettore, dal canto suo, deve sentire, percepire con evidenza il parlare dei soggetti che sono rappresentati e deve vedere i comportamenti. « Il lettore deve vedere il personaggio, per servirmi del gergo, l'uomo secondo me, qual'è, dov'è, come pensa, come sente, da dieci parole e dal modo di soffiarsi il naso... [12] » Come la pensasse il Verga riguardo il metodo dell'impersonalità è chiaro nella lettera che lo scrittore inserisce come dedicatoria a Salvatore Farina, quasi una prefazione alla novella "l'amante di Gramigna", dove vengono messi a fuoco i principi fondamentali della poetica verghiana e nelle lettere a Luigi Capuana e a Felice Cameroni. Questi ultimi due documenti furono scritti successivamente all'uscita del romanzo I Malavoglia. Nella lettera a Salvatore Farina (il quale era contrario alle idee veriste) Verga è estremamente preciso quando afferma che: "... il racconto è un documento umano... Io te lo ripeterò così come l'ho raccolto pei viottoli dei campi, press'a poco con le medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare... senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore... La mano dell'artista rimarrà assolutamente invisibile e l'opera d'arte sembrerà essersi fatta da sé."[13] TECNICA DELL’IMPERSONALITA’ • • • • Verga parla della lente dello scrittore ed è palese il riferimento al metodo che vuole adottare lo scrittore come "narratore onnisciente"; ma Verga rifiuta l'onniscienza; anzi adotterà nella sua opera verista più compiuta, qual'è la novella Rosso Malpelo, la tecnica più pura dello straniamento. Nella lettera a Felice Cameroni,che aveva recensito il romanzo, del 27 febbraio 1881 l'autore siciliano si premura di ringraziarlo per il giudizio scritto su il "Sole" riguardo ai Malavoglia perché gli aveva fatto un gran piacere. Aggiunge poi che anche lui sapeva bene che il suo lavoro non avrebbe avuto "successo di lettura" ma che comunque doveva provare a rappresentare la realtà anche se era d'accordo con l'amico che in Italia, a questo proposito, c'era ancora molto da fare. L'amico Capuana lo rassicura pubblicamente con la sua recensione e tra le altre cose dice: "... I Malavoglia si rannodano agli ultimissimi anelli di questa catena dell'arte. L'evoluzione del Verga è completa. Egli è uscito dalla vaporosità della sua prima maniera e si è afferrato alla realtà, solidamente. Questi Malavoglia e la sua Vita dei campi saranno un terribile e salutare corrosivo della nostra bislacca letteratura ... Finora nemmeno Zola ha toccato una cima così alta in quell'impersonalità che è l'ideale dell'opera d'arte moderna".[16] Ancora, in una lettera del 12 maggio1881 inviata a Francesco Torraca per ringraziarlo dell'articolo scritto sui "Malavoglia", il Verga scrive: ... "Sì, il mio ideale artistico è che l'autore s'immedesimi talmente nell'opera d'arte da scomparire in essa". LA NARRAZIONE CORALE • • • • Nel romanzo I Malavoglia Verga non privilegia un punto di vista, non assume la prospettiva di questo o quel personaggio, imposta una narrazione corale. Tutti i punti di vista hanno pari dignità, avviene una narrazione che a volte può apparire quasi simultanea, come se lo scrittore anticipasse i tempi di dieci o venti anni. Vi sono scene in cui i pensieri e le parole dei personaggi sono colte come da un caleidoscopio. Ad esempio, nel secondo capitolo de I Malavoglia, significativa è la chiacchierata serotina sul ballatoio tra le donne: "... La Longa, com'era tornata a casa, aveva acceso il lume, e s'era messa coll'arcolaio sul ballatoio, a riempire certi cannelli che le servivano per l'ordito della settimana. Comare Mena non si vede, ma si sente, e sta al telaio notte e giorno, come Sant'Agata, dicevano le vicine. - Le ragazze devono avvezzarsi a quel modo, rispondeva Maruzza, invece di stare alla finestra: «A donna alla finestra non far festa». - Certune però collo stare alla finestra un marito se lo pescano, fra tanti che passano; osservò la cugina Anna dall'uscio dirimpetto. La cugina Anna aveva ragione da vendere; perché quel bietolone di suo figlio Rocco si era lasciato irretire dentro le gonnelle della Mangiacarrubbe, una di quelle che stanno alla finestra colla faccia tosta. Comare Grazia Piedipapera, sentendo che nella strada c'era conversazione, si affacciò anch'essa sull'uscio, col grembiule gonfio delle fave che stava sgusciando, e se la pigliava coi topi che le avevano bucherellato il sacco come un colabrodo, e pareva che l'avessero fatto apposta, come se ci avessero il giudizio dei cristiani; così il discorso si fece generale, perché alla Maruzza gliene avevano fatto tanto del danno, quelle bestie scomunicate! La cugina Anna ne aveva la casa piena, da che gli era morto il gatto, una bestia che valeva tant'oro, ed era morto di una pedata di compare Tino. - I gatti grigi sono i migliori, per acchiappare i topi, e andrebbero a scovarli in una cruna di ago ... ". L'impersonalità dello scrittore si attua - in buona sostanza - in modo ancora più preciso con l'uso attento ed adeguato del linguaggio. IL LINGUAGGIO • I personaggi si esprimono senza il filtro del narratore colto, onnisciente. Nella narrazione delle opere di Verga è presente un linguaggio povero, semplice, spoglio, intervallato da modi di dire, di imprecazioni popolari, spesso ripetute; è presente una sintassi elementare racchiusa in una struttura dialettale. • Verga non usa il dialetto in modo diretto, i tempi non lo consentivano ancora, ogni tanto usa il corsivo ed il virgolettato per inserire un termine o un proverbio in dialetto, come nella novella La lupa: "In quell'ora fra vespero e nona, in cui non ne va in volta femmina buona la gnà Pina era la sola anima viva che si vedesse errare per la campagna, sui sassi infuocati delle viottole, fra le stoppie riarse dei campi immensi."[20]. Più diretto è il linguaggio in Cavalleria rusticana, quando si parla di gnà Lola: "- La volpe quando all'uva non ci poté arrivare... - Disse: come sei bella racinedda mia![21] e ancora quando Turiddu dice a Lola che sta per sposare il carettiere "Ora addio, gnà Lola, facemmo cuntu ca chioppi e scampau, e la nostra amicizia finiu".[22] Il metodo naturalista L'autore verista, di conseguenza, cerca di scoprire le leggi che regolano la società umana, muovendo dalle forme sociali più basse verso quelle più alte, come fa lo scienziato in laboratorio quando cerca di scoprire le leggi fisiche che stanno dietro ad un fenomeno. In questo Verga fa pienamente proprio il metodo naturalistico: pone cioè attenzione alla realtà nella dimensione del quotidiano prediligendo una narrazione realistica e scientifica degli ambienti e dei soggetti della narrazione. Sotto questo aspetto, in altre parole, non racconta le emozioni, ma fa percepire i sentimenti che i personaggi - con il loro fare e il loro dire - provano. Rappresenta, con l'uso geniale di un narratore intradiegetico, il modo di pensare di una categoria sociale, di un vicinato, insomma di un gruppo che ha valori comuni, convinzioni radicate e indiscutibili. In tal modo il lettore sente letteralmente la gente, vede e percepisce un determinato personaggio o un particolare evento. Lo spazio nelle novelle La descrizione dello spazio dal punto di vista geografico rende la narrazione verghiana autenticamente verista e assume, nelle novelle e nei romanzi, dignità di protagonista. Rosso Malpelo . In Rosso Malpelo non potremmo immaginare questo ragazzino e il suo dramma se non lavorasse in una cava di rena rossa, quasi a mimetizzarsi con le sue lentiggini e i suoi capelli di colore rosso. Malpelo muore, in modo epico, quasi mitico dentro la cava, dopo essersi avviato all’interno di quei cunicoli da dove mai nessuno è tornato: Quando lo mandarono per quella esplorazione si risovvenne del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al buio gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo: ma non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane e il fiasco del vino, e se ne andò: né più si seppe nulla di lui. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo comparire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi[2] Malpelo si incammina all'interno del ventre della terra, e ritorna nei pensieri e nelle paure dei ragazzi come una divinità ctonia. Lo spazio nei romanzi Nei romanzi veristi lo spazio verghiano diventa ancor più protagonista. I Malavoglia sarebbero inconcepibili senza la carica emotiva e psicologica che dà ai protagonisti lo spazio protettivo e minacciato dagli eventi che è "la casa del nespolo". La casa In casa tutto è buono e protettivo, la casa del nespolo è il bene di tutti. Padron 'Ntoni morirà per il dolore di averla persa. Alessi con il riscatto della casa affrancherà la famiglia dalla vergogna. Il lume che splende nella casa di Alfio Mosca fa battere il cuore di Mena, il cortile dove avvengono le chiacchierate fra vicini è un palcoscenico ora gioioso ora triste. Il lavatoio è lo spazio dove ognuno dice la sua, dove si danno le "rispostacce" tra comari. Alla bottega dello speziale si chiacchiera di politica, per non parlare dell'osteria della Santuzza. Il mare Fin qui lo spazio circoscritto, conosciuto, poi c’è lo spazio del mare in cui si intersecano buono e cattivo. Il mare è cattivo quando ingoia Bastianazzo e la Provvidenza con il suo carico. Diventa buono quando dà la possibilità ai Malavoglia di poter pagare il debito: …Il nonno colla lanterna andava e veniva pel cortile; fuori si udiva passare la gente che andava al mare, e passava a picchiare di porta in porta, per chiamare i compagni. Però, come giunsero sul lido, davanti al mare nero, dove si specchiavano le stelle, e che russava lento sul greto, e si vedevano qua e là le lanterne delle barche, anche 'Ntoni si sentì allargare il cuore. - Ah! esclamò stirandosi le braccia. È una bella cosa tornare a casa sua. Questa marina qui mi conosce. - Già padron 'Ntoni diceva sempre che un pesce fuori dell'acqua non sa starci, e chi è nato pesce il mare l'aspetta, … Lo spazio marino è usato dallo scrittore anche quando vuol enfatizzare un certo stato d’animo, in questo caso positivo e di speranza: LO SPAZIO NEI ROMANZI La città Uno spazio che invece assume quasi sempre connotati negativi è quello della città. Nella città 'Ntoni va “a fare il soldato” e rimane abbagliato da tutto ciò che appare nuovo, ricco, facile: …Una volta 'Ntoni Malavoglia, andando girelloni pel paese, aveva visto due giovanotti che s'erano imbarcati qualche anno prima a Riposto, a cercar fortuna, e tornavano da Trieste, o da Alessandria d'Egitto, insomma da lontano, e spendevano e spandevano all'osteria meglio di compare Naso, o di padron Cipolla; si mettevano a cavalcioni sul desco; dicevano delle barzellette alle ragazze, e avevano dei fazzoletti di seta in ogni tasca del giubbone; sicché il paese era in rivoluzione per loro. 'Ntoni, quando la sera tornava a casa, non trovava altro che le donne, le quale mutavano la salamoia nei barilotti, e cianciavano in crocchio colle vicine, sedute sui sassi; e intanto ingannavano il tempo a contare storie e indovinelli, buoni pei ragazzi, i quali stavano a sentire con tanto d'occhi intontiti dal sonno. Padron 'Ntoni ascoltava anche lui, tenendo d'occhio lo scolare della salamoia, e approvava col capo quelli che contavano le storie più belle, e i ragazzi che mostravano di aver giudizio come i grandi nello spiegare gli indovinelli. - La storia buona, disse allora 'Ntoni, è quella dei forestieri che sono arrivati oggi, con dei fazzoletti di seta che non par vero; e i denari non li guardano cogli occhi, quando li tirano fuori dal taschino. Hanno visto mezzo mondo, dice, che Trezza ed Aci Castello messe insieme, sono nulla in paragone. Questo l'ho visto anch'io; e laggiù la gente passa il tempo a scialarsi tutto il giorno, invece di stare a salare le acciughe, e le donne, vestite di seta e cariche di anelli meglio della Madonna dell'Ognina, vanno in giro per le vie a rubarsi i bei marinai… Il giovanotto infatti, per cercar fortuna va ad impelagarsi nel contrabbando e finisce in carcere. Anche Lia, la sorellina minore sente il richiamo dell’ignoto, di una vita più facile e con meno stenti; come già detto si perderà e non tornerà più ad Acitrezza. I connotati negativi dello spazio-città La città in tutte le sue sfaccettature è sempre vista in modo negativo, nella novella “Libertà” la città è il luogo del carcere, dove portano i prigionieri per essere processati: …Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate;… VERGA E LA LOTTA PER L’ESISTENZA • • • In una lettera inviata il 21 aprile del 1878 a Salvatore Paola Verdura, il Verga scrive: "Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all'artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione all'avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del grottesco umano".[1] Questo concetto di "lotta per la vita", che Verga aveva già utilizzato nella prefazione ai Vinti e che era già presente nel primo progetto del ciclo dei romanzi, deriva dall'opera di Charles Darwin che con la sua teoria che si definisce darwinismo sociale espressa nel 1859 nel suo libro Sull'origine delle specie per mezzo della selezione naturale o la preservazione delle razze favorite nella lotta per la vita, rivoluzionò la tradizionale concezione dell'origine della specie degli esseri viventi. Darwin sosteneva infatti che tra i vari individui esiste una lotta continua per la sopravvivenza perché il numero degli organismi viventi è superiore a quello che può vivere con le risorse di cui si dispone . A sopravvivere a questa lotta sono i più adatti alle condizioni di vita in cui si trovano che possono così trasmettere i loro caratteri ai discendenti con una naturale selezione. LA VISIONE DELLA VITA • Nella visione della vita secondo Verga la società a tutti i suoi livelli è dominata da un antagonismo spietato tra gli individui, i gruppi e le classi e le leggi che la regolano sono quelle della sopraffazione del più forte sul più debole e l'interesse individuale. • Questa condizione non potrà mai mutare perché è insita nella natura stessa in ogni tempo e in ogni luogo . Verga non riesce a trovare una giustificazione allo sfruttamento e alla sopraffazione e anche se non sa trovare alternative alla situazione sociale vuole porsi nei suoi confronti con un atteggiamento fortemente critico e, con disperata amarezza e forte lucidità, ne rappresenta tutti gli aspetti negativi. La visione del mondo • Verga scrisse opere di grande valore umano e poetico e il suo Verismo non fu una fredda e distaccata riproduzione del reale ma la sua opera rispecchia, nonostante il rispetto del canone dell'impersonalità, una personale visione del mondo, ed il suo forte sentimento di dolore e di tristezza di fronte alla vita. • Il mondo del Verga è un mondo senza Dio, un mondo governato dalle leggi della società moderna, in continuo cammino per la conquista del progresso, che non è grandioso per i vinti che alzano le braccia disperate e piegano il capo sotto il piede brutale dei vincitori. I personaggi verghiani • I personaggi verghiani, infatti, non si ribellano: la loro vita è dominata dal fato, un fato che non concede all'uomo alcuna libertà di realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni. • Essi sono preda di un cieco fatalismo e quando cercano di uscire dal solco inesorabilmente segnato, la loro condizione si aggrava. • Verga ama profondamente i suoi personaggi perché li comprende profondamente, perché sa che essi non hanno fede nella Provvidenza che sola può far aspirare in un mondo di pace e di giustizia. Il progresso non reca felicità • Verga, in netto contrasto con l'entusiasmo positivistico, nega che il progresso significhi serenità e felicità ed è convinto che in questo mondo, teso verso la ricerca di beni materiali e di ambizioni sempre più elevate, l'uomo è chiuso in sé affidato alle sue forze che si logorano giorno dopo giorno. • Verga paragona il progresso a una fiumana, tipico fiume siciliano a regime torrentizio che per la maggior parte dell'anno è in secca ma nella stagione delle piogge straripa e reca danno alle cose più deboli, come il progresso che è inattivo per la maggior parte del tempo ma quando vi è i più deboli e i più poveri ne sono soggiogati. Impossibilità ad uscire dal proprio stato sociale • Uscire dallo stato sociale in cui il destino pone l'uomo non è possibile, ed è questo ciò che avviene al giovane 'Ntoni ed a Lia, che vedono fallire il tentativo di trovare fuori dal proprio ambiente una vita migliore; è questo ciò che avviene anche a Mastro-don Gesualdo, il mastro, che invano cerca di diventare don e che in questo vano tentativo verrà respinto sia dai suoi simili, sia da coloro che appartengono alla classe sociale a cui egli voleva accedere. • La "roba" diventa quindi in Verga una sorta di dannazione poiché spinge l'uomo a ricercare sempre di più fino a provocarsi l'autodistruzione. In questo mondo si muovono i personaggi del Verga, uomini condannati al dolore e alla sconfitta ma, nonostante tutto, pieni di dignità, una dignità umile ed eroica che nasce soprattutto dalla loro forza interiore, dal modo con cui sopportano le avversità quotidiane, senza vane ribellioni e senza viltà. La concezione tragica della vita • La concezione che Verga ha della vita è dolorosa e tragica perché egli vede tutti gli uomini sottoposti a un destino impietoso e crudele, che li condanna, non solo alla infelicità e al dolore, ma anche all'immobilismo nell'ambiente familiare, sociale ed economico in cui sono venuti a trovarsi nascendo. • Chi cerca di uscire dalla condizione in cui il destino lo ha posto non trova la felicità sognata, anzi va immancabilmente incontro a sofferenze maggiori, come succede a 'Ntoni Malavoglia ed a Mastro-don Gesualdo. Per il Verga, all'uomo non rimane che la rassegnazione eroica al suo destino. La concezione fatalistica della vita • È questa la concezione fatalistica ed immobile dell'uomo che sembra contraddire la fede nel progresso, propria del Positivismo e al quale non rimane che la rassegnazione eroica al suo destino. Infatti per Verga il progresso è solo esteriore e da esso derivano solamente pene infinite. • L'umanità progredisce per le conquiste scientifiche e tecnologiche ma l'uomo singolo è sempre dolorosamente infelice e costantemente posto nelle mani del fato.