BENVENTI A CAMICO BENVENUTI A CAMICO Alphonse Doria I FATTI DI CAMICO 78 - Dedalo si trattenne molto tempo presso Cocalo e i Sicani, ammirato per la sua grandezza nell‟arte. In quest‟isola costruì alcune opere che rimangono ancora oggi. Vicino a Megaride costruì ingegnosamente la cosiddetta kolymbetra, dalla quale sbocca nel mare, che è vicino, un grande fiume chiamato Alabone. Presso l‟attuale Agrigento, nel luogo chiamato Camico, costruì una città che si trova su di una rupe, la più salda di tutte, assolutamente inespugnabile con la violenza: con un artificio ne fece la salita angusta e tortuosa, da potersi difendere con tre o quattro uomini. Perciò Cocalo in questa città fece costruire la reggia, vi depositò le sue ricchezze e la conservò inespugnata grazie alla inventiva dell‟architetto. Come terza costruzione nel territorio di Selinunte apprestò un antro nel quale estrasse con tale misura il vapore umido del fuoco che bruciava in esso, che per la dolcezza del calore coloro che vi si trattenevano trasudavano insensibilmente e a poco a poco, e curavano i corpi con godimento, senza essere danneggiati dal calore. Ad Erice c‟era una rupe scoscesa di altezza straordinaria, e poiché l‟angustia dello spazio presso il tempio di Afrodite costringeva a realizzare la costruzione sospesa sulla roccia, fece un muro proprio sulla sponda, ampliando in modo inaspettato la parte superiore della sponda. Per Afrodite Ericina realizzò con arte un ariete d‟oro, mirabilmente lavorato, e somigliante in modo perfetto ad un ariete vero. Dicono che in Sicilia abbia realizzato con arte molte altre opere, che sono andate distrutte per il molto tempo trascorso. 79 - Minosse, re dei Cretesi, in quell‟epoca padrone del mare, quando fu informato della fuga di Dedalo in Sicilia, decise di fare una spedizione contro l‟isola. Preparata una considerevole forza navale salpò da Creta e approdò in territorio di Agrigento nel luogo chiamato da lui Minoa. Quando l‟armata fu sbarcata vennero inviati messaggeri al re Cocalo: Minosse reclamava Dedalo per punirlo. Cocalo lo invitò ad un incontro, e dopo aver promesso che avrebbe eseguito ogni cosa, ricevette ospitalmente Minosse. Mentre Minosse era al bagno, Cocalo trattenendolo di più nell‟acqua calda lo uccise e restituì il corpo ai Cretesi, adducendo come causa della morte il fatto che era scivolato nel bagno e caduto nell‟acqua calda era morto. Poi coloro che lo avevano accompagnato nella spedizione seppellirono splendidamente il corpo del re, costruirono un duplice sepolcro, e posero le ossa nella parte nascosta, mentre in quella scoperta costruirono un tempio di Afrodite. (DIODORO SICULO di Agira, 90-27 a.C. Biblioteca storica, I, 61; IV, 78-79) Quando Teseo giunse a Creta, Arianna, figlia di Minosse, si innamorò di lui, e gli promise che lo avrebbe aiutato, dietro promessa di essere portata ad Atene come sua sposa. Teseo lo giurò, e Arianna costrinse Dedalo a rivelarle l'uscita del labirinto. Ancora per suggerimento di Dedalo, diede a Teseo un filo grazie al quale sarebbe potuto uscire: Teseo lo legò alla porta e, tirandoselo dietro, entrò. (…) Teseo uccise anche tutti gli altri suoi oppositori, ed ebbe il potere assoluto. Minosse, quando si accorse della fuga di Teseo e dei suoi compagni, ne ritenne responsabile 1 BENVENTI A CAMICO Dedalo, e lo rinchiuse nel labirinto insieme al figlio Icaro, che Dedalo aveva avuto da Naucrate, una schiava di Minosse. Allora Dedalo costruì delle ali e le legò alla schiena sua e del figliolo, raccomandandogli di non volare troppo in alto, perché i raggi di Elio non sciogliessero la colla che teneva insieme le penne, e neanche troppo vicino al mare, perché l'umidità non appesantisse le ali. Ma Icaro, trascinato dall'entusiasmo, dimenticò le raccomandazioni paterne, e volò sempre più in alto: e allora la colla si sciolse e il ragazzo precipitò nel tratto di mare che dal suo nome poi si chiamò Icario, e morì. Dedalo invece si salvò, e riuscì ad arrivare a Camico in Sicilia. Minosse andò all'inseguimento di Dedalo, e in ogni regione che attraversava faceva vedere agli abitanti una grossa conchiglia tritonide, e i suoi araldi promettevano una enorme ricompensa a chi fosse riuscito a far passare un filo di lino nella spirale della conchiglia: solo Dedalo, pensava Minosse, ne sarebbe stato capace, e in questo modo certo avrebbe scoperto dove si trovava. E un giorno Minosse arrivò anche a Camico, in Sicilia, alla corte di Cocalo, proprio dove Dedalo si nascondeva: e anche qui fece vedere la conchiglia. Cocalo la prese, dichiarò che era in grado di far passare il filo, e portò la conchiglia a Dedalo. Dedalo allora fece un buchino nella conchiglia, poi legò il filo di lino a una formica, la fece entrare da lì e quella poi uscì dalla parte opposta, dopo aver tirato il filo lungo tutta la spirale della conchiglia. Quando Minosse vide che il problema era stato risolto, capì che Dedalo si trovava alla corte di Cocalo, e chiese che gli venisse consegnato. Cocalo glielo promise, e intanto invitò Minosse a fermarsi come suo ospite: ma mentre faceva il bagno le figlie di Cocalo lo uccisero - e qualcuno dice che gli fu versata addosso dell'acqua bollente. (APOLLODORO di Atene, 180-115 a.C. Epitome, I, 12-15) 169 - Ecco come si comportarono i Cretesi, quando i Greci in tal senso incaricati li invitarono nell'alleanza: mandarono a Delfi a nome di tutti una delegazione per chiedere al dio se fosse vantaggioso per loro soccorrere la Grecia. E la Pizia rispose: "Sciocchi, e poi vi lamentate di tutte le lacrime che vi fece versare Minosse, incollerito per l'aiuto portato a Menelao? I Greci non avevano collaborato a vendicare la sua morte a Camico, e voi invece li aiutaste a rivalersi per la donna rapita a Sparta da un barbaro". I Cretesi, come udirono queste parole riportate dai messi, si astennero dall'inviare aiuti. 170 - Si racconta infatti che Minosse, giunto in Sicania (oggi detta Sicilia) alla ricerca di Dedalo, vi perì di morte violenta. Tempo dopo i Cretesi, indotti da un dio, tutti tranne quelli di Policne e di Preso, arrivarono in Sicania con una grande flotta e strinsero d'assedio per cinque anni la città di Camico (ai tempi miei abitata dagli Agrigentini). Infine, non potendo né conquistarla né rimanere lì, oppressi com'erano dalla carestia, abbandonarono l'impresa e se ne andarono. (…) ( ERODOTO, Alicamasso/Thurii, 484 -420 a.C. Le Storie, 7, 169-170) Nota I fatti e i personaggi narrati non son attinenti alla realtà, pertanto le probabili coincidenze sono semplicemente devianti. 2 BENVENTI A CAMICO BENVENUTI A CAMICO Avevamo passato assieme una giornata spassosa tra le stratuzze di Camico, dopo un pranzo abbondante di melanzane sott‟olio, olive nere, bianche e farcite, carciofini sott‟aceto, salsiccia essiccata, formaggio fresco pecorino con le spezie nere e vino bianco novello, dalla botte al boccale della tavola. Pietro è così, come tutta la sua famiglia. E‟ bastato poco per conoscerli tutti, danno il loro meglio tutto e subito. La loro casa è semplice: un dammusu a piano terra con dietro la stalla che dà al giardino e sopra le stanze da letto e il salotto. La stanza grande a piano terra era dominata da un quadro largo sessanta centimetri per un metro e venti, sicuramente antico con il fondo verde bottiglia. Nell‟angolo vi era un bel mazzo di spighe ingiallite e legati da un nastro rosso, nella parete di destra un tinello bianco e una cucina a legna accesa da dove calore e aromi uscivano all‟unisono. Nel centro un gran tavolo lungo, una antica eredità di famiglia vanto dell‟anziano padre. Raccontava il papà che per tradizione le loro famiglie erano numerose e lui, si può dire, ha interrotto la catena avendo solo tre figli, due femmine e un maschio. La moglie dispiaciuta e riservata ci teneva a precisare che, altri due si erano persi, uno prima di Maria Eusebia e l‟altro prima di Pietro. Maria Eusebia si era sposata con un geometra di Canicattì Decu Volo, ora si sono trasferiti a Torino dove hanno trovato tutte e due l‟impiego. Io ero rimasto abbagliato della radio bar che tenevano, lì in bella mostra, nel salotto, un mobile bellissimo in radica di noce con degli sportelli che si aprivano e dentro era rivestito con degli specchietti che riflettevano bicchieri e liquori, funzionava ancora! L‟ho acceso e la voce calda, l‟occhio magico, mi aveva riportato indietro nel tempo; quando la zza Pippina fidanzò la figlia ed io a cinque anni, a centro di stanza, ballavo il twist tra le risa dei presenti. Preso da i ricordi e dalla meraviglia di quella radio bar che carezzavo continuamente non mi ero accorto della presenza di Enza. Rimasta all‟ingresso, mi fissava, ed io l‟ho percepita dopo un bel po‟, mi voltai di scatto e 3 BENVENTI A CAMICO ho visto due occhi scuri e impertinenti, due gote in una carnagione bianchissima, in una testolina inclinata con dei bei capelli lucidi e neri che pendevano sopra un corpo slanciato e ben fatto. Vestita con un cappotto attillato nero e una sciarpa bianca. I nostri sguardi s‟incrociarono sapevano di curiosità. Lei con passo leggiadro mi venne incontro a mano tesa e si presentò; io balbettai e forse pronunziai il mio nome. Non so perché mi fece quell‟effetto così strano. Ma io quella giovane donna già l‟avevo vista, le avevo parlato, l‟avevo conosciuta, dove? Uscì Pietro dal bagno: -Questa è la piccolina della famiglia, pensa, non ha compiuto ventidue anni ed è già alla tesi in medicina! Vuole fare il medico. Enza con il suo viso espressivo strinse le labbra come dire: e basta! Fu allora che fummo chiamati per il pranzo improvvisato ma stupendo, anche perché la mia presenza non era prevista. Fu tutta una coincidenza d‟incontri fortuiti tra me e Pietro, il quale mi invitò a casa sua ed io accettai. Pensavo che fosse di Cattolica Eraclea solo quando passammo il paese e imboccammo una strada intercomunale venne a conoscenza di Camico. Appena all‟ingresso vi era la scritta BENVENUTI A CAMICO con tre quattro luparate stampate e alcuni colpi di pallettoni. Pensai: alla faccia del “Benvenuti”! Pietro, mentre guidava la sua BMW nera, si mise a ridere, capì la mia riflessione e mi spiegò che quelle erano state indirizzate all‟assessore al turismo, il quale si era messo in testa di spendere i soldi pubblici a minchiate come questo cartello. Dissentii, pensavo che non c‟era niente di male. Pietro mi spiegò che nella stessa delibera vi era pure la spesa per la realizzazione di una brochure, Benvenuti a Camico, con delle belle fotografie del paese, ma una più di tutte causò le luparate, la Grotta del Diavolo1. E quella non si tocca, perché ha molti segreti. E lui lo sapeva, come tutti i Camichesi… Insomma per farla breve, tutte le brochure si trovano ora dentro il Circolo della Cultura, in un armadio chiuso a chiave. 1 Vedi I SIGNORI DEL VENTO 4 BENVENTI A CAMICO Attraversare Camico, in quella mattina fredda di gennaio, ma piena di sole, mi dava ansietà, eppure la vita sembrava così normale… Il fruttivendolo con l‟ape che abbanniava, le donne nelle loro faccende, il vigile urbano che girava il fischietto nella sua catenella attorno all‟indice della sua mano destra, una volta in un senso e poi nell‟altro. La piazza e la stratuzza verso il centro storico, fino all‟altra parte del paese, vicino il palazzo del barone Morello. La casetta di Pietro sembrava ancora più piccola addossata ai piedi del palazzo. Si doveva parcheggiare l‟auto in piazza infilarsi in due strade strette girando il palazzo e finire davanti il grande portone del dammusu. Enza si era tolto il cappotto ed era ancor più attraente con il suo pullover rosso e il grembiule turchese sopra con quel suo corpo di ballerina di danza classica. Affaccendata e un po‟ seccata, forse per la mia presenza, o per i fatti suoi, era mutanghera che sistemava portate di antipasti. -Hai fattu u bigliettu per Palermu? Il padre si rivolse a lei come per incitarla a dire qualcosa. -Si! Me lo avevi già chiesto poco fa! Quel tono un po‟ riverente e un po‟ seccato, di colpo mi richiamò alla memoria dove c‟eravamo incontrati. Certo è lei! Mia figlia! Si mia figlia. Non allarmatevi, ha recitato insieme in una di quelle farse siciliane dove si sturpìa la lingua italiana per fare ridere. Io facevo il padre panciuto che non sopportava il progresso e l‟intrusione della televisione, tanto che alla fine scaraventavo l‟apparecchio fuori dal palco. Lei, la figliola moderna, impertinente e innamorata. Una di quelle recite parrocchiali, in un ritiro spirituale ad Acitrezza? Acicastello? Insomma da quelle parti. Improvvisata alla meno peggio. E mi ricordo che rimasi rapito da quella leggerezza e forza di vita e simpatia di lei che si sprigionava dalle sue gote. Poi mi rimase la voglia di rincontrarla qualche altra volta. Ma mai e poi mai potevo pensare che Pietro era suo fratello. 5 BENVENTI A CAMICO Mentre ero preso da questi ricordi non mi ero accorto che avevo attratto l‟attenzione di tutti con le mie smorfie da pazzo. E guardai con più attenzione quel visino di donna come era cambiato, non nelle fattezze ma nell‟interiore. Vi era nella sua espressione una profondità di significati. Nelle sue occhiate vi erano più pensieri. Ma soprattutto Enza lasciava intravedere uno specchio d‟acqua ancora limpido, fatto di un sentimento religioso autentico che armonizzava con la forza di vita prorompente del suo corpo. Così era lei, come questa nostra Sicilia. Dove il cielo ha più di un significato dove ogni cosa è una esaltazione alla vita, persino le pietre, le montagne sono vive. E in ogni metro quadrato di terra c‟è la molteplicità della natura in un profondo autentico senso religioso. Queste meditazioni fioriscono come quei giochi di fuoco che illuminano la mente in un secondo per poi lasciarla al buio. Il suo profumo, forse di viole, mi svegliò da quel labirinto di pensieri. Si era avvicinata con una portata da dietro la mia sedia e allungò il suo corpo quasi su di me per posare una bella ciotola di carciofini sott‟olio. La vicinanza di quel corpo mi scosse come una scarica elettrostatica. Ma vi giuro che tutto ciò non era amore né attrazione sessuale. Era e non so cosa. -Gli ho fatto visitare il paese!- Disse Pietro a suo padre. -Comu dissi che si chiama?- La madre graziosa e minuta mi fece cenno con la testa. Li pregai a tutti quanti di trattarmi come un loro familiare e di non badare a nessuna formalità. Ma non ci fu niente da fare, il loro senso di rispetto per l‟ospite era più forte di ogni indugio, però servì a farli aprire e a raccontare dei posti, delle strade e delle case fatti e personaggi. Quando eravamo tutti seduti mi stavo accingendo armato di forchetta a infilzare un succulento carciofino, quando il papà seduto si fece il segno della croce e disse: -Grazii Signuruzzu, pi stu pani e sta saluti. -Amen! 6 BENVENTI A CAMICO Abbiamo risposto in coro, poi ci siamo segnati e incominciammo a mangiare. PARTE PRIMA -Qui a Camico ogni pietra ha la sua storia! Ogni casa la sua picchiusa accesa e le sue ombre, come in ogni parte del mondo. Però le storie qui prendono colore, diventano di tutti. Cosa hai visto oggi? -Così tante case e cose… Le piazze, le strade, i cortili… -Infondo è un paese come ce ne sono tanti. -Si, è vero! Ma qui c‟è qualcosa di antico che rimane vivo nelle strade, nei muri. Vi sono cose accaduti che impregnano il posto, forse non riesco a spiegarmi … Il padre come smosso da un ricordo che gli si svegliava all‟improvviso, quasi mi ha interrotto, così disse al figlio: -L‟hai portato al cortile di Donna Antonietta? Da allora quel cortile prese il nome della sua abitante. -Si, ci siamo passati, dove abbiamo lasciato la macchina e abbiamo salito le scale per vedere quel tabernacolo alla Madonna Assunta.- Rispose Pietro. Io annuivo con la testa anche se non ricordavo bene, però volevo sapere di Donna Antonietta. Visto il mio interesse per i fatti l‟anziano incominciò a narrare. 7 BENVENTI A CAMICO DONNA ANTONIETTA Veduto avreste i cavallier turbarsi a quel annunzio, e mesti e sbigottiti, senza occhi e senza mente nominarsi, che gli avesse il rival così scherniti; ma il buon Rinaldo al suo cavallo trarsi con sospir che parean del fuoco usciti, e giurar per isdegno e per furore, se giungea Orlando, di cavargli il core. (L‟Orlando furioso di Ludovico Ariosto Canto II, XVII) 8 BENVENTI A CAMICO L‟arrivo di Vincenzo Donna Antonietta stava davanti la porta di casa con la cruna in mano a sgranare il rosario nell‟ora del vespro, di un‟estate afosa della Sicilia. Il vespro aveva un po‟ addolcito quella calura. Le mosche canniavanu una carta per terra con delle reschi e teste di sarde. In quel cortile si percepivano rumori e voci lontani, mescolati in un silenzio che sembrava non reale, armonizzavano con quella sua figura, nera, quasi immobile, come una madonna del Venerdì Santo. Le sue rughe erano scolpite dal tempo. Le labbra si muovevano meccanicamente e incessanti nella recita quotidiana del rosario. L‟anziana donna però sentiva dentro uno stato ansioso inspiegabile, aveva la sensazione che quel momento così immobile era il preludio naturale a qualche evento straordinario. Quella sensazione premonitrice era vera! Arrivava una voce dalla scalinata sembrava quella di Carmelina che gridava. “Ah, beata gioventù, ma cosa aveva mai?” Pensava fra se Donna Antonietta mentre con la bocca frantumava il rosario e quella sensazione era divenuta turbamento. -Donna Antonietta! Donna Antonietta! So figliu Vicè arrivà di la Svizzera cu la machina! (Poi cambiando tono di voce) Avi „nzemmula na picciotta. Donna Antonietta era vedova già da più di venti anni, suo marito era caduto nella grande guerra di mafia che c‟è stata in quasi tutta la Sicilia. Quando a Camico moriva un omu di rispettu al giorno. Ogni mattina le persone si sussurravano tra loro il nome del caduto in un passa parola continuo. Di tanto in tanto nascevano così le leggende di chi si era sognato la notte prima il morto, non negandosi qualche giocata nel putiniaru, facevano i conti di cordata considerando se la partita fosse in vantaggio di una fazione o dell‟altra. La mafia agricola aveva smesso d‟esistere. La Repubblica Italiana dava grandi possibilità d‟arricchirsi con gli appalti e le 9 BENVENTI A CAMICO cooperative nate per fallire. Con la scacciata della monarchia i nobili non erano più garantiti perciò i latifondi incominciavano a frastagliarsi con l‟ESA. Tra l‟altro ora la giornata lavorativa costava molto ma molto di più. Prima con un chilo di pane, li burgisi e i signori, un bracciante lo pagavano, da quando sorgeva il sole a quando tramontava, ora ci volevano soldi. Perciò per i signori sbarazzarsi di tanta terra, tra l‟altro pagata dalla Regione, dove gli amici non mancavano mai, conveniva. I migliori terreni ubicati vicino i paesi sono rimasti a loro, con l‟occasione hanno fatto regalizie ai loro uomini. I campera, al servizio dei nobili, andavano perdendo il loro potere, perciò cercarono di inserirsi nei nuovi giochi repubblicani. L‟Onorata Società, già con l‟arrivo dei Piemontesi aveva subito la prima metamorfosi, ancor prima ricevendo qualche incarico speciale come l‟attentato a quello sbirro borbonico di Maniscalco, così ben pagato dalla massoneria. Ora dopo lo sbarco degli Alleati quella consorteria soccombeva alla mafia guidata da Cosa Nostra. Per precisare, mentre l‟Onorata Società è nata e sviluppata in terra di Sicilia con delle regole diciamo impropriamente, “onore” ben precise per tutti gli uomini di rispetto, Cosa Nostra è nata in America con l‟emigrazione dei Siciliani associandosi con altri emigrati dal sud Italia, quando andarono a sostituire gli schiavi neri nelle piantagioni di cotone dopo la loro liberazione con la guerra d‟indipendenza americana e la vittoria dei nordisti. Appena prima, Garibaldi aveva fatto della Sicilia una colonia piemontese, così vi fu questa fuga di braccia e intelligenze in un esodo gigantesco che toccò anche il Sud della penisola. Cosa Nostra non aveva le regole rigide dell‟Onorata Società, anzi per i suoi associati era più importante il bissinisi che l‟onore. La mafia ereditò sia la logica del bissinisi sia la cruenta determinazione della lotta. In particolare l‟interesse politico americano sulla Sicilia considerò la mafia come una forza già armata contro una presumibile avanzata politica dei comunisti, e con consenso corresponsabile della nuova classe politica di 10 BENVENTI A CAMICO sciacalli della Repubblica Italiana, sostenne questa consorteria determinata e terrificante. La mafia fu vincente per i loro scopi fino all‟implosione dell‟Unione Sovietica e devastante per la Sicilia e per i Siciliani tutti. Servizi segreti italiani e americani si servirono della Nostra Terra per cambiare il destino di noi Siciliani e dell‟intero Mediterraneo … Donna Antonietta aveva vissuto fino la maggior parte della sua vita osservando tutte quelle regole tacite, mai espletate dell‟ “onore” che la moglie di un omu di rispettu ha obbligo ma con orgoglio. Le altre donne andavano da lei, per un consiglio, un parere, di comportamento in armonia a questo codice d‟onore. E‟ come una legge atavica, che donna Antonietta sentiva nel proprio DNA, come memoria archetipo, come un dovere al quale trasgredendo le provocava un forte un senso di colpa. La parola onore per noi Siciliani racchiude un‟etica millenaria, ormai sembra, che si sia smarrito insieme all‟identità del Popolo Siciliano stesso. E‟ per questo codice che un omu di rispettu poteva morire e poteva uccidere. La Bonarma, don Angelo, era un detentore dei principi dell‟Onorata Società, perché quando lui era stato pungiutu in età giovanissima, sussisteva in quella consorteria l‟illusione di un‟etica, ma era solo una illusione, perché c‟era stato già da tempo chi se l‟era venduta per un arricchimento personale. Don Angelo si metteva all‟in piedi con le gambe leggermente divaricate ed elencava i comandamenti come Mosè nell‟Esodo, come riferimenti di vita, non per un mafioso, ma per qualsiasi uomo che abbia la dignità di appellarsi in questo modo, così guardando „nsiccu negli occhi dell‟interlocutore e stringendosi il pollice destro con la mano sinistra e via di seguito tutti gli altri: -Primu, rispittari e farisi rispittari! Secunnu, „un si fari duminari d‟u viziu! L‟omu suttamisu d‟u viziu „un vali nenti. 11 BENVENTI A CAMICO Terzu, nun „nfamari ma‟ a nuddu! Lu „nfami mori ammazzatu! Quartu, prima a Famiglia po‟ a stessa vita! Quintu, a Parola data vali chiù d‟a carta scritta! Finiva così rimanendo in silenzio a fissando l‟interlocutore. Anche la fimmina di un omu di rispettu, aveva il suo comandamento categorico, non doveva mai chiedere spiegazioni al marito, anche se nel cuor proprio tremava aspettando un suo ritardo, non doveva lasciarlo capire a nessuno, neanche al marito stesso. In ogni modo, alla fine sopraffaceva il fatalismo siciliano: la morti ni la duna lu Signori. Quando sentì che suo figlio era tornato con una picciotta, si alzò di botta ed esclamò agitata: -Me figliu Vicè? Cu na picciotta? E cu è? So muglieri … Mentre erano arrivati Vincenzo e Helen, sudati e stanchi per avere fatto la scalinata caricati con una valigia ciascuno. Lui, dopo che ha posato a terra, senza tanta cura, la valigia, è andato di fretta e felice ad abbracciare l‟anziana madre. Donna Antonietta, invece non lasciò trasferire nessuna emozione e con austerità prima baciò la cruna del rosario e con lentezza la posò in tasca, solo dopo avvolse il figlio con le sue braccia. Vincenzo vide sua madre così minuta vestita di nero, quel nero che teneva addosso ormai da così tanto tempo ormai faceva parte della sua immagine. Lui stesso, da quando aveva dodici anni, aveva visto la madre sempre come una santuzza, sarà stato per quell‟espressione severa che aveva assunto non appena venne a sapere della morte del marito. Helen guardava quella scena con meraviglia, ben conscia di essere entrata in un mondo molto lontano dal suo, poi s‟intenerì osservando quell‟abbraccio identico in ogni parte del mondo tra una madre e il proprio figlio. Helen pensava a tutti quei chilometri che aveva percorso sull‟autostrada del Sole e ora si trovava in questo mondo arcaico, rimasto intatto, per lei era come assistere ad un quadro di una civiltà scomparsa che all‟improvviso prente vita quella madre in nero, quel cortile sommerso da una luce 12 BENVENTI A CAMICO prepotentemente dorata e gli occhi curiosi che la stavano letteralmente divorando. In effetti Carmelina la guardava tra fascino e stupore, le sembrava una aliena. Helen pensava a quel tragitto in autostrada come un viaggio nel tempo, più andava avanti e più andava indietro negli anni. Helen era una di quelle bionde alte e abbastanza robuste, tipiche donnoni di Bavara. Vincenzo, contrastava abbastanza come suo partner, perché anche se era ben proporzionato, era d‟altezza media bassa, una capigliatura ben curata con un paio di baffi lunghi spioventi e vistosi in quel volto minuto. Prima di andare in Svizzera, aveva iniziato a lavorare alla tenera età di quattordici anni alla muratura come manovale. A diciotto anni si era già stancato di stare dietro la volontà atmosferica e della monotonia di un paese che non offriva niente di niente specialmente la domenica, così come tanti altri giovani negli anni sessanta, prese il treno e partì. Mise fine a quelle lunghe domeniche passate a guardare gli altri a discutere e a fumare. L‟unica aspirazione di un giovane camichese era quella di accasarsi per avere finalmente una donna accanto. Vincenzo, già nutriva un sentimento puro, bello e forte anche se era fatto solo di sguardi per Teresina, una ragazzina che abitava nello stesso cortile. Il loro amore etereo era una relazione costruita con una serie di sguardi scambiati giorno per giorno. Vincenzo alla stessa ora rientrava da lavorare e guardava la finestra di sopra, come dire: “Ti piaciu?”. La finestra si schiudeva e Teresina guardandolo negli occhi era come se gli rispondesse: “Si! Cu tuttu lu cori!”. Questa stessa forma, così riservata, già era relazione ed era già conosciuta in tutto il paese in un tamtam di sussurri e risolini. Vincenzo, aveva visto dismettere di giocare per strada Teresina e notato quella metamorfosi, insomma non era più una bambina e fu allora che provò una gelosia forte, da non sopportare neanche un minimo apprezzamento fatto da un amico per lei. Era diventata, indubbiamente, una bella ragazza. Già a quattordici anni 13 BENVENTI A CAMICO la farfalla era uscita completamente dal bozzolo. Due occhi di un azzurro profondo in una capigliatura nerissima e liscia, le labbra sensuali e il naso perfetto, la pelle leggermente scura sul marrone. Vincenzo, bastava solo pensarla per sentire le palpitazioni. La sua finestra era proprio sull‟ingresso della casa di donna Antonietta, lei stava sempre lì affacciata durante l‟attesa del ritorno di Vincenzo dalla fatica quotidiana. Un giorno mentre scaricava un camion di sabbia con la pala pensava a lei, aveva deciso di sorriderle e solo l‟idea lo faceva fremere e arrossire dall‟emozione, immaginava i suoi occhi dolci, non le aveva mai sorriso, solo sguardi. Così con le spalle rotte per la fatica e sporco dall‟impasto acchianà la grande scalinata del cortile che sembrava un palco di un teatro, alzò gli occhi ma Teresina questa volta aveva mancato all‟appuntamento, come mai? Non era mai successo. Questo mancanza, lo ha assillato tutta la serata e pure la notte. Pensava tra se: “Atru ca arridici… Si dumani c‟è, ci ha fari na funcia…” All‟indomani mattina mentre prendeva il caffè conversando con la madre scopre che Peppe Russo e tutta la famiglia erano andati in campagna per la raccolta di li mennuli. Quell‟alba il sole non mancò all‟appuntamento vestito d‟oro, e nel tramonto neanche lei, era lì alla finestra. Vincenzo determinato più che mai, con un fremito al cuore, è riuscito ad accennare un sorriso turbato e forzato. Teresina ha percepito il messaggio e corrispose con un altro sorriso, potrà sembrare strano, ma significavano: ”Mi vuoi per fidanzato?”, “Si!”. Quella stessa sera donna Antonietta aveva notato che suo figlio era così felice come non lo era stato mai. Di contro, la madre di Teresina si era accorta che la figlia si era affrettata per avere quei cinque minuti liberi per affacciarsi alla finestra poi vide il suo sorriso ancora più turbato, quando rientrò era rossa come un‟aragosta. Le madri scoprono di solito tutto. La cosa le piaceva, perché Vincenzo era un bravo ragazzo e lavorava, non perdeva mai un 14 BENVENTI A CAMICO giorno, possedeva la casa e anche la terra, proprio un buon partito. Non parlando della madre, una santa donna alla quale tutti portavo rispetto. Vincenzo, quando era partito, davanti la porta con la valigia in mano, aveva alzato gli occhi e voltandosi aveva visto Teresina che piangeva alla finestra, l‟aveva fissata come per dirle: “Ritornerò, aspettami”. Ora, di tornare era tornato, ma non era più il manovale di sette anni fa. Era, ancora, abbracciato alla madre, istintivamente gli venne di alzare gli occhi verso quella finestra. Là, all‟estero, l‟aveva desiderato tante volte di guardare, la sognava di tanto in tanto con Teresina sempre più bella. La sorpresa: un volto, quello di Teresina, ora di donna, era lì, come nei suoi sogni. Si era dimenticato quanto fosse bella. Lei non appena si era accorta di essere vista chiuse bruscamente le imposte. Il cuore di Vincenzo riprese a battere come una volta ed è rimasto scosso da quella visione. E‟ possibile che dopo tanti anni lei lo abbia aspettato ancora lì, dietro quella finestra? I primi anni Teresina era il pensiero costante che ricercava in ogni lettera che arrivava dal paese, poi lentamente si allontanò sia lei, sia quel mondo arcaico e romantico. Intanto le vicine uscirono da casa e si avvicinarono partecipando così a quell‟evento così importante per donna Antonietta. La prima ad avvicinarsi è stata la zza Rusina, sempre cerimoniosa: -Ben tornatu Cecè, chi ti facissi longu… In effetti era solo un po‟ più magro, ma non era assolutamente cresciuto in altezza, ma la zza Rusina era fatta così un complemento lo trovava sempre. Lo saluta porgendogli la mano, per il suo pudore di donna, anche se lo aveva visto crescere, perché lui ora era omu. 15 BENVENTI A CAMICO Esce dalla casa la zza Ginuerfa, mentre si stropiccia le mani nel grembiule a fiori blu, la sua voce alterata per la felicità, finta o vera, sembrava un canto come quelli che va a fare in chiesa nelle messe: -Lu beddu Cecè, l‟avemu ccà! Donna Antuniè, ora vossia „un si lamenta chiù. Ti maritassi Cecè? Guardando Helen, rimasta lì immobile a bocca aperta tra sorriso di convenienza e stupore per quel mondo così per lei lontano. Vincendo ad un tratto si rende conto che Camico in quei sette anni non era cambiato per niente e questo quasi lo agghiacciò, perché non ne aveva tenuto conto affatto. Il modo di pensare della gente era rimasto fermo come in una fotografia! Ora doveva trovare una risposta immediata e plausibile per la zza Ginuerfa, era importante perché poi il paese attingeva da lei, e lei rappresentava l‟opinione pubblica, da lei si divulgavano le notizie da comare a comare. Vincenzo tra tutte le soluzioni scelse la verità così rispose con tono dimesso: -Nonsi, zza Ginuè, è n‟amica è voluta venire a visitare la Sicilia. Le due comari, come delle gemelle in un balletto televisivo, all‟unisono guardarono donna Antonietta come per dirle: “e voi, permettete queste cose?” Lei di ricambio, sconvolta in viso, mentre Helen rideva intuendo che l‟oggetto della discussione era lei, allarga le mani come Cristo in croce e dice: -E‟ la modernitai… -Cu sta mornitai „un si sta capennu kiù nenti!- La zza Rusina intercala quasi con un tono di rimprovero. -NENTI!- La zza Ginuerfa fa eco. La zza Rusina cambiando maschera e falsificando un sorriso si rivolge a Vincenzo: -Quantu a stari Cecè? Vincenzo, seccato, ma con tono supplichevole come dire: quando uscirete la notizia trattatemi un po‟ meglio: -Na misata, po‟ n‟aspetta u travagliu. 16 BENVENTI A CAMICO -Uh! A voglia di vidini … - Sempre melodica la zza Ginuerfa. -Vaju d‟urgenza a u‟ sirbizzu, ti salutu Cecè- Così la zza Rusina gli porse la mano, mentre lanciò uno sguardo più che a Helen alla sua scollatura e a quei pantaloni bianchi aderentissimi e trasparenti tali da lasciare intravedere gli slip celesti. Poi si rivolgendosi a donna Antonietta: -„Assabenedica. Gli stessi sguardi, gli stessi movimenti e le stesse parole la zza Ginuerfa. Donna Antonietta messa in pensiero rispose evasivamente: Bona sira, bona sira. Le due comari messe a braccetto parlottando tra loro così vanno via impersonando una tipica farsa. Donna Antonietta si accorse che Carmelina, tutta occhi e orecchie, era rimasta lì ad assistere così si rivolse: -Vatinni ca è tardu e to matri sicuru ca ti cerca! Carmelina, con tono inpertinente: -La strata è di lu re ci po stari cu de ghiè! Donna Antonietta, cavando dalla tasca cento lire: -Te, v‟accattati u‟ gelatu. La bambina prende i soldi e così scappò saltellando. -Chista è la figlia di Pippina la fiscinusa, na spia! Tali matri tali figlia, pari ca nascì all‟arti! -Das ist fantastisch, wunderschon! Vincenzo du hast mir noch nicht deine Mutter vorgesmellt.-2 -Ich bitte um Entschuldigung, Helen. Mamà chista è Helen n‟amica mia.3 Donna Antonietta, con tutta la determinazione che l‟ha sempre distinta: -Vicè, la genti supra sta casa „unn‟avi aviri nenti di diri, pirchissu sta bagascia ca ti purtassi, intra la nostra casa „un ci trasi. Pi lu rispettu di ddu Bonarma! (Guardando in cielo facendosi il segno 2 3 “E‟ fantastico, meraviglioso! Vincenzo, amcora non mi hai presentato tua madre.” “Scusami Helen …” 17 BENVENTI A CAMICO della croce e lanciando con un dito un bacio in alto.) Ti scurdassi cu è to matri, allura! Prima ti la mariti e po‟ trasi ka intra. -Ma chi maritari… E‟ n‟amica e basta! -E magari a pagamentu! -Ma chi a pagamentu. Vuliva vidiri lu paisi, unni nascivu e si vozi fari sta vacanza … -Chi munnu persu! E na fimmina fa u‟ viaggiu di chistu sula cu n‟amicu? Helen si rese conto che qualcosa non andava, anche perché quando donna Antonietta ha detto “bagascia” le ha sparato una di quelle taliaturi, così rivolse a Vincenzo, rimasto come una statua, chiedendogli se c‟era qualche problema. Teresina lentamente riaprì la finestra appena tanto quanto bastava, per lei osservare di traverso e non essere vista. -E unni si va curka?- Vincenzo con tono dimesso. Donna Antonietta, con le braccia conserte e con tono irreprensibile, mentre involontariamente forse richiamata telepaticamente volse lo sguardo alla finestra di Teresina: -A l‟albergu Stilla! L‟albergu Stilla, era un funnacu, dove sia le bestie sia gli uomini si rifocillavano durante il viaggio, dopo lo sbarco degli Americani divenne un bordello in tutti gli effetti. I soldati si sollazzavano con il vino locale e trovano una camera e una donna. -Vossia nn‟ava fari trasiri sulu pi sta notti, ca dumani trovu na soluzioni. Donna Antonietta, alzando tutte e due le mani girandole come se ballasse la tarantella: -E chi ti pari ca t‟a fari la ruffiana? Affrunta tuttu stu viaggiu sula, cu n‟omu? E tu mi vo fari cridiri, macari, ca la talii comu na santa… -Pirchì nno? Donna Antonietta, guardando il figlio: -E allura va cercati l‟artaru unni illa a mettiri a sta santa! 18 BENVENTI A CAMICO Vincenzo, riprendendo la valigia in mano, arrendendosi a tanta determinazione: -Significa ca ni emu a circari l‟albergu. L‟anziana madre, rimase con ha un attimo di smarrimento ma subito si riprese dall‟errore che stava commettendo nei confronti dell‟opinione pubblica e della chiesa, così afferrò con una mano il braccio di Helen dicendo: -A no! Idda dormi ccà e tu a l‟arbergu. Cca „un semu a la Sguizzera. E tu, comportati d‟omu d‟anuri comu ddu Bonarma di tò pa!- E rivolse lo sguardo al cielo facendosi il segno della croce e con il dito lanciando un bacio in alto. Vincenzo è esausto per il viaggio per avere trovato Camico immutato per tutta quella discussione con la madre e per quella finestra chiusa in faccia, era veramente stanco: -Mancu mi faà trasiri pi lavarimi la facci? -Chistu si! (Rafforzando quel sì con la testa) C‟u‟ pattu, ca pi mia chista è la to‟ zita e basta! Helen, si era incuriosita e un po‟ preoccupata, così avvinghiandosi al collo di Vincenzo, gli chiede: -Was ist denn los, schate? Dass verste me ich nicht, vas ist los?4 -Burdillariati „un nni vogliu vidiri! Spittaculu „un si nni fa!- Si arrabbiò così nel vedere quel gesto d‟affetto la madre. Vincenzo, liberandosi dall‟abbraccio: -Va beni… Purtamu sti valigi d‟intra. Dopo patti e condizioni donna Antonietta entra in casa seguita dai due. 4 “Ma che sta succedendo caro? Non capisco niente! Cosa c‟è che non va? 19 BENVENTI A CAMICO In casa di donna Antonietta Quella di donna Antonietta era una casa molto semplice, di contadini, arredata con un mobilio indispensabile. Al centro vi era un‟arcata che divideva in maniera architettonica, l‟ambiente giorno da quello notte, tramite una scalina in legno si saliva in un soppalco sopra l‟ambiente notte, era u sularu, dove vi erano delle cose ritirate e vi dormiva, fino a grande, Vincenzo, sotto quella scala vi era un piccolissimo ingresso, la porticina era mimetizzata alla parete, si spingeva e si accedeva alla stalla, abbastanza grande a livello di una stradina secondaria. Quasi nessuno dei Camichesi sapevano di questa comunicazione tra le due case, nemmeno i conoscenti stretti della famiglia. Non appena l‟ingresso vi era una grande cassa, poi il comò con lo specchio, nell‟altra parete vi era in bella mostra la foto grande di don Angelo. Il Bonarma in quella immagine aveva lo sguardo austero, sembrava che anche da morto volesse comandare ancora in quella casa. L‟angolo destro in alto del ritratto era attraversato da un nastro nero con un elegante fiocco a papillon. Era appeso al muro sopra una mensola dove vi erano posate una picchiusa elettrica sempre accesa, poi un vasetto di vetro con dei fiori di plastica e la statuetta di gesso colorato della Madonna. Accanto a quel ritratto vi erano appesi ad un grosso chiodo ad elle per la cinta la doppietta e la cartucciera ancora piena. Poi tutto attorno alle pareti vi erano sistemate una accanto all‟altra delle sedie e al centro un tavolo grande con una coloratissima tovaglia di ciniglia rossa. A sinistra vi erano due porte una accanto all‟altra: per il cucinino e per il gabinetto. In un angolo in alto appesi ad una canna del pomodoro per il sugo e lì vicino una treccia d‟agli. Nell‟altro ambiente diviso da una tenda si trovava il letto matrimoniale, la mugarra con un grande specchio sulla porta e un capezzale ovale 20 BENVENTI A CAMICO che rappresentava l‟Angelo Custode che proteggeva un bambino in pericolo ai margini di un fiume. Quella sera ormai era passata piena di tante emozioni e sentimenti, il sole era tornato a risplendere con tutta la sua tracotanza baciando la mitica Terra di Sicilia. Per donna Antonietta passarono così alcuni giorni di una felicità offuscata, quel ritorno di Vincenzo la rese felice, ma quella pensata del figlio di portare la sguizzera ha turbato quella sua gioia. Lei quando voleva rilassarsi aveva una cura antistress: pulire la doppietta della Bonarma, così prendeva l‟olio e gli stracci, la smontava e iniziava l‟operazione. Ricordava, in questo modo, il suo uomo mentre era intendo a pulirla e poi pensava che fin quando la sua doppietta era funzionante, qualcosa di lui era come presente. Pensava le parole del suo uomo: “N‟omu ca nesci senza scupetta e comu si niscissi nudu!” Donna Antonietta parlava tra se: -Ah, caru maritu miu, tu sta „ncelu e tutti sti vrigogni nun li st‟assistennu. Ni facivamu specia pi li figli d‟autru e to‟ figliu Vicè mi purtà na fimmina senza sapiri mancu cu è. Mi dissi ca è n‟amica, na canuscenti. Ma vulissi sapiri: ma chista „unn‟avi matri? Possibili ca na matri affida na figlia accussì a l‟acqua e a lu ventu a u straniu? Nni stu munnu „un si capisci kiù nenti… Tannu, si ca li cosi si facivanu cu li cosi. Prima ca trasissi d‟intra me pà ti fici aspittari du anni. E pi du anni passiavatu davanti casa me cu dda ciumenta, ddi stivala luciti, ddu vistitu di villutu, e sta scupetta 'ncoddu ca parivatu un cavaleri. Ju ti taliava di narrè la tentina, ma cu si lu „mmaginava ca t‟ajva a viniri muglieri? Me patri m‟ajva fattu zita cu tia e ju lu sappi dopu tri anni. Quannu fici quinnicianni, ti fici trasiri e ju mi scandava sulu a taliariti, mi mittivatu suggizioni cu sta taliata seria c‟avutu di sempri. Dda Bonarmuzza di me matri sempri presenti e assettati unu di na punta di stanza e l‟atru ni l‟atra punta. Ora, chista, pari ca si lu voli 21 BENVENTI A CAMICO manciari… sempri di „ncoddu a iddu, e chista la chiamanu amicizia… Ju la chiamassi abbrusciareddu. Entra Lagruenza, la madre di Teresina, indossa una veste scura e un grembiule bianco, i capelli attaccati dietro tenuti dal pittinicchio, i suoi trentasei anni li porta bene fisicamente, ma dall‟aspetto ne mostra di più. Lagruenza non chiede permesso perché è la vicina più intima di donna Antonietta. -„Assabenedica, chi fa? Stava travagliannu? Aveva appena terminato l‟operazione di pulizia, così va ad appendere la doppietta al suo posto, s‟avvicina a Lagruenza porgendole una sedia: -Assettati Lagruè, bongiornu! Lagruenza, girando lo sguardo per la casa: -Nuddu c‟è? Unni su li svizziri? -Nisceru, sta matina tutti du pi jri a mari, ma ne ca ju pozzu jri a mari „nzemmula cu iddi. Unni haju pututu l‟haiu accumapagnatu, ma chi bbo‟, chi sugnu picciotta … -Certu, lassassili liberi li picciotti. Chi è kiù comu na vota. Dda a la Svizzera è natru munnu. Po, vinniru di dda suli, si vulivanu … Lassassili addivertiri a li picciotti.- Il tono di Lagruenza è manieroso, quasi caricaturale. -Idda è na fabbrica di picciuttuna, avi li grazza comu li me jammi. Ma po‟, chi è pulita … Quannu idda va a fari bisognu, a la facci so‟, nesci, certi voti capita ca trasu ju, ma chi c‟è tecchia di puzza? anzi ciauru di parfumu. E „ntantu „u maciamu tutti la stessa robba? -Donna Antuniè, su fatti diversi, comu parlanu diversi. Quannu si maritanu? -Lorè, ddocu „un ti pozzu arrispunniri, su cosi chi s‟avi a bidiri iddu! -Perciò, vinni pi darici la bella notizia ca ficimu a Teresina zita cu lu figliu di Ciciu, „ntisu Viulinu, lu pitturi … Donna Antonietta, anche se in cuor suo aveva desiderato che Vincenzo e Teresina si sarebbero fidanzati e a volte si era insospettita per alcune domande curiose sulla sua famiglia, non si 22 BENVENTI A CAMICO è mai immaginata quell‟intesa di sguardi tra i due e che sua madre n‟era a conoscenza. Dall‟altro canto, Lagruenza dava per scontato che il figlio le avrebbe fatta qualche confidenza. Vincenzo con l‟educazione avuta, non ci passava nemmeno nell‟anticamera del cervello dare una confidenza di carattere sentimentale (discursi di fimmini) alla madre. Così la povera Donna Antonietta rispondeva a modo: -Aguri, aguri! Ah! Giuvanninu bravu è… Ciciu ha statu sempri u‟ gran lavuaturi. E po na famiglia onesta. Tresina avi aviri pi sogira natra matri. La canuscemu tutti cu è Rusinedda. Mi pari ca a iddu lu ficiru studiari? -Sissi, avi li scoli jati di Giurgenti, però ci cummeni travagliari cu so pà e fari lu pitturi, pirchì li posti li dunanu sempri a cu vannu iddi. Teresina -si sofferma guadandola in volto- ha aspittatu … Ma ora … comu ci dissimu ca vinni lu zzu Ciciu, subitu dissi di si. Nunn‟è ca la putivamu tiniri a diciottu anni ancora senza „mpegnata? -Ora cu sti liggi novi ca misuru, ca prima di diciotto anni nun si ponnu maritari … Prima di sta liggi a quattordicianni aivamu l‟addevu „mbrazza. -Atri tempi, però è meglio accussì, no ca eramu addevi ca jucavamu ancora a la marredda e ajvamu a pinsari a sti cosi, lassavamu iri di jucari e jvamu a cucinari a l‟omu ca s‟arricampava di „ncampagna.- Si sofferma un‟altra volta riguardandola in volto -Ma lu sapi vossia, quanti matrimoni avutu? Ma Teresina, nenti! Ci diceva: ma chi vò arristari pi semenza? Na matri sapi sempri li cosi di li figli … Mentre Lagruenza termina la frase entrano Helen e Vincenzo abbigliati da spiaggia. Helen aveva grandi occhiali da sole e un cappello di paglia a larghe falde con calzoncini e una maglietta bianca attillata, la pelle era gia dolorosamente tutta arrossata. Vincenzo pure lui, con occhiali da sole e maglietta, caricato con borsa e ombrellone. 23 BENVENTI A CAMICO Entrarono ridendo e parlottando, Vincenzo togliendosi gli occhiali si riferisce alla madre: -Nenti ciù vidiva. Lu suli è forti fora … A vossia ca è? „Assabenedica zza Lorè. Lagruenza, ferita, ingelosita per quella donna per quell‟entrata felice, per lui così incurante del dramma che stava passando Teresina, sentì il bisogno di sparare la notizia con la speranza di colpirlo in quel poco di cuore che gli è rimasto: -Ciau Cecè … Vinni a purtare la bella notizia a to‟ matri ca Teresina si fici zita! Ha fatto centro! Vincenzo, è colpito in pieno petto e ferito rimane un po‟ senza fiato, è bastato così poco che si è risvegliato quell‟antico senso di possesso su Teresina: -Oh … Beni … Aguri, zza Lorè … Lagruenza, pensava come ha potuto dimenticare quell‟amore che era nato tra loro, mentre Teresina giorno per giorno aspettava il suo ritorno? Ora era soddisfatta, dalla reazione ha intuito di avere fatto centro, così ritorna alla carica: -Si sta sira ni dati l‟anuri, e vuliti avvicinari c‟è lu scambiu d‟aneddu e facemu tecchia di festa, cosi di puvureddi: u‟ bicchirinu di rasoliu, du ciciri du favi, cosi duci … Vincenzo serioso alzando il mento, sembra la Bonarma nella posa della foto: -Certu! L‟anuri è tutto nostru! Avvicinamu! Grazii! La metamorfosi in Vincenzo era già iniziata allo Stretto di Messina e già aveva avuto dei cambiamenti considerevoli pure nel volto. Sembra strano ma i Siciliani aldilà del Faro, mettono tutta la loro genialità, operosità, spesso riescono a integrarsi, vedono le cose con un‟altra luce. La Sicilia la ricordano con una nostalgia tale da sentire una fitta al cuore. Nei loro pensieri è lontana come un sogno, una metafora della realtà, a volte mettendo in dubbio la stessa esistenza nel mondo reale, sia dell‟Isola che di tutti quanti i 24 BENVENTI A CAMICO suoi abitanti. Poi non appena si trovano sul ferrabotto tra Reggio e Messina, sembra che la Circe cambia gli animi di quei Siciliani allo stesso modo di quando Scilla toccò l‟acqua. Per i Siciliani basta vedere, sentire nel cuore la vicinanza della terra Trinacria e incominciano a pensare, a parlare, a guardare, a muoversi diversamente, senza accorgersene neanche. In quell‟occasione Vincenzo accelerò la sua trasformazione tanto da essere notata anche da Helen che guardava quel volto ormai diverso da quello che aveva sempre conosciuto, però era molto difficile per lei penetrare in questo mistero tutto siciliano. Donna Antonietta, aveva visto le espressioni del padre prendere vita nel volto del figlio. Si! Ormai la metamorfosi di Vincenzo era quasi completa. Lagruenza, alzandosi contenta di quell‟effetto sia sulla madre sia sul figlio, con tono soddisfatto: -„Assabenedica donna Antoniè! -Arresta natru tecchia … Sta primura … -Nonsi ancora haiu di girari li parenti, la prima porta chi fici fu chista. E po‟ l‟ha priparari quattru cosi pi stasera? - Poi si rivolse ai due -Bongiornu! Lasciò tutti quanti in un nuovo silenzio fatto di dubbi e confusione, durato un bel po‟. Si udivano tanto da lontano, li fimmini muntalligrisi con le mule caricate d‟uva, abbanniari: -‟Nzolia! Che bella sta „nzolia! Donna Antonietta, accostandosi al figlio gli parla sottovoce, come se non volesse fare ascoltare a Helen. Vincenzo, ormai era turbato così risponde con un tono seccato come mai si era permesso: -Mà, vossia „un nu sapi ca idda „un capisci nenti di chiddu chi dicemu? Po parlari chiù forti! Per donna Antonietta, era quasi impensabile che lei non capisse, perché poteva sempre intuire così guardinga osservava l‟espressione di Helen: 25 BENVENTI A CAMICO -Pirchì ti facissi di milli culura quannu Lagruenza dissi ca fici zita so figlia Teresina? Infatti Helen, insospettita chiese a Vincenzo: -Vas ist los?5 -Burdillaria si! -Wie so kuckt deine Mutter mich so komisch an?6 -Sa nni quali burdellu ti truvà? -Du bist nicht mehr der gleiche. Was ist passiert?7 -Si… Strafalaria! Vincenzo, questa volta si s‟accanì con la madre: -Ma si pò sapiri pirchì ci sta dicennu tutti sti mali paroli? -E ju chi sacciu zoccu dici? Pir sì e pir nò ju ci arrispunnu … Rassicurò la madre che gli stava chiedendo perché la guardava in quel modo e cosa stava succedendo. Helen, ancor più con tono insofferente: -Was hat deine Mutter? Sage es mir, Vincenzo!8 -Nichts, sie macht sich sorgen weil sie dich nicht versteht fersteit!9 Donna Antonietta, mal tollerava il non comprendere: -Vah, fina iddu si ci misi… E‟ possibili ca intra la me casa ma sucari sti corna? Kiù, fiù, stic, stac e chi dicinu?” Helen, imperiosa: -Vincenzo! Uberrsetz mal!10 -Vicè, vidica ti fici iu, e m‟addari spiegazioni di tanti cosi … Lui, orami è fuori di se per questa paradossale situazione, per ciò che sentiva nel suo cuore con un forte turbamento: -Vossia voli spiegazioni, idda voli spiegazioni… Iu mi nni tornu a la Svizzera e la finemu! -E chista cu stu patrimoniu, „un ti la porti? Chi mi la lassi pi rigalu? E cu ci duna a mangiari? Cosa c‟è che non va? Perché tua madre mi guarda in questo modo? 7 Tu mi sembri un altro, cosa è successo? 8 Che cosa ha tua madre? Vincenzo devi dirmelo! 9 Niente, si preoccupa perché non ti capisce quando parli! 10 Vincenzo traduci! 5 6 26 BENVENTI A CAMICO Helen vedendolo quasi fuggire lo chiama supplicandolo: -Vincenzo! Vincenzo! 27 BENVENTI A CAMICO I quattro del sistema Vincenzo, scese la scalinata e andrò dritto in Piazza Vittorio Emanuele II. La Repubblica si era dimenticata di sostituire quel nome monarchico. Mentre scendeva ricordava quando era in paese, era la strada di sempre per andare a passarsi il tempo, sicuramente avrebbe trovato qualcuno per disputarsi una partita a carte, o ascoltare qualche diceria, parlare di palluni, di travagliu, o meglio ancora di fimmini. La Piazza era di forma rettangolare, con degli alberi tutti attorno, dove in un lato vi era la caserma dei carabinieri e il municipio, nell‟altro la chiesa grande del Santissimo Sacramento con tre scalini davanti il portone e un campanile tra le mura delle case, con varie putii, poi a continuare il Bar Trinacria. Fu chiamato così dal proprietario Giovanni Bonanno nel l945, in piena ventata indipendentista. Ultimo residuo, insieme a qualche altra azienda, di quel periodo di fervore sicilianista, che i repubblichini italiani cercarono di cancellare dai libri di storia, con altre sozzerie a loro più consone. In paese così com‟era rimasta la denominazione della Piazza, rimase pure il nome di quel bar. L‟accesso alla Piazza era tramite due viuzze larghe: in una quanto appena passava un Motoguz, quella accanto al municipio e nell‟altra un camion a misura precisa, tra la putia di Santa Fù e la sartoria di Pasquali Trifirtichii. Nel bar vi erano dei tavolini rotondi con delle sedie e gli ombrelloni della birra Messina, blu con le scritte gialle. Anziani e giovani erano lì seduti ad osservare la quotidiana scena monotona del tempo, che percorreva così lentamente. Tra quei tavoli vi erano anche “I quattro del sistema”: Alberto, con una fronte stretta e due ciglia nere foltissime, guardia municipale; Gianni, con due orecchie carnose e rotonde piccoli, parevano due tortellini, studente a tempo perso di lettere, ormai fuori corso da vecchia data; Carmini di Rosa, due occhi celesti chiari da pazzo, pensionato invalido non si è mai capito di che 28 BENVENTI A CAMICO cosa; il quarto era Calogero, gli occhi rotondi e le labbra chiuse a becco di uccello, calzolaio con in casa una suocera titolare di una pensione favolosa. “I quattro del sistema” discutevano, con chi capitasse, di calcio dalla mattina alla sera, come se fosse l‟unico scopo della loro vita e vi mettevano impeto, passione, cultura, conoscenza minuziosa per ogni evento e nome. A volte bisticciavano con una violenza verbale inaudita. Giovanni Bonanno tra se pensava: “si fannu sucari lu sangu di na setta di politicanti caini e nun ci pensanu, pi lu palluni fussiru capaci di tuttu … Vidi chi testi di minchia!” Ma loro se ne davano un alibi: la schedina, il tredici, diventare milionari! Speranza vana, perché, “I quattro del sistema”, conosciuti così da tutti in paese, hanno fatto più di una volta il tredici in schedina, ma solo quando il premio bastava appena a coprire i soldi del sistema stesso. Avevano letto libri e tutti i giornali, le trasmissioni radiofoniche e televisive di sport. La domenica, ormai per loro era un rito, la passavano ad ascoltare la radio con le schedine e le penne in mano, al bar. Quante volte, a pochi minuti della fine erano pronti, con tutti muscoli in tensione, con il tredici bello e buono e poi … tra un goal inaspettato e un calcio di rigore, quel tredici svaniva come una chimera. Anche se il campionato era ormai alle spalle, “I quattro del sistema” erano sempre in pieno interesse discutendo degli acquisti delle società calcistiche, poi profetizzavo sul campionato avvenire, insomma filosofavano di calcio. Mentre erano presi a discutere così sotto l‟ombrellone, vedevano arrivare Vincenzo in tenuta da spiaggia con gli occhiali da sole come un vero turista. Salvatore, fratello più piccolo di Gianni, da quando studia al classico di Giurgenti non si chiama più Salvatore, o Totò o Turiddu, come prima, ma Salvo, così lo battezzò una sua amichetta di città, dandogli pure una nuova religione: il marxismo. Il nuovo Totò si fece crescere la barba lunga, non cresceva bene 29 BENVENTI A CAMICO combatta come quella di Marx ma sfaldata, forse per la giovane età, era un capellone, insomma sembrava lu Cori di Gesù. Salvo accaldato se la prendeva con loro: -Questo inutile fanatismo per il pallone ve lo danno a bere i padroni per voi proletari scaricare la vostra rabbia sociale nel niente! -Gianni, to frati unni e d'eghiè vidi faci e marteddi e ammisca cavuli e trunza- Alberto un po‟ risentito dal modo di esprimersi di Salvo. Gianni, rispondeva difendendo il fratellino, anche perché anche lui il Partito l‟aveva nel cuore: -E tu ca eratu socialista ca p‟aviri lu postu di guardia tinni jssi cu li democratici cristiani? A tia „un ti cumenni chiù vidiri faci e marteddi ca ti scippanu l‟occhi! Alberto è intervenuto non aspettandosi pure da Gianni questa accusa: -A ora sta sbagliannu a parlari!” -Tu caru Gianni ti scordi zoccu fannu l‟amici pi tia… Chi fa tu scurdassi ca Abbertu misi a rischiu lu postu pi tia? Quannu ti cucissi pi la figlia di lu marasciallu. Cu è ca faciva a gara a farisi contraminzioni cu ddu fascistuni? Abbertu! E ora tu offendi, accussì… comu ti veni!- Interviene pure Calogero. Gianni, capisce di avere fatto un intervento a gamba tesa: -E chi è un processu? Tra amici „un si po parlari comu veni?” Carmini: -La minchiata è ca cu trasi nni la sezioni pari ca avi fatta la „ngnazioni! … Calogero a Gianni gli hanno fatto ricordare un fatto successo l‟inverno scorso che ha messo in subbuglio tutta Camico. Era una bellissima giornata di Gennaio, anche se il freddo si faceva sentire, i cuori erano rallegrati da quella bellissima e 30 BENVENTI A CAMICO splendida giornata di sole. In paese sembrava domenica, la gente era allegra e tutto biancheggiava di luce. “I quattro del sistema” erano al suo solito a discutere di calcio al bar, quando videro arrivare un camion pieno di mobilia scatole varie, seguito da una 1100 Fiat, anch‟essa caricata di persone e di cose, che vanno a fermarsi proprio di fronte la caserma. Ci volle poco a capire che era il nuovo maresciallo trasferitosi con tutta la famiglia e le sue cose. Dopo un bel quarto d‟ora da lontano vedevano il maresciallo che guidava le operazioni di scarico gridando come un forsennato a degli operai forzatamente volontari: -Stai attento, si rompe lo specchio, stai attento! Ma che cazzo fai? Gianni dopo averlo mirato per bene fece una riflessione: -Pari unu di chiddi ca „un pirduna, taliati chi baffuna … Bonanno con un tono più sarcastico: -Talia chi panza … Chistu mangia comu l‟atri… Per togliersi dalla vista quello spettacolo increscioso di fatiche che solo a guardarlo già si stancavano, i quattro decisero di farsi una bella passeggiata. Gianni doveva andare a studiare, ma con una giornata come quella come poteva mai tuffarsi dentro quelle scritture che sapevano di morto. Era meglio rimanere lì a godersi quel sole con gli amici e discutere dell‟1 X 2 tra Inter e Juventus. L‟Inter che era in testa alla classifica e la Juventus a solo due punti. Altro che la scuola della scapigliatura e le riviste milanesi … Altrettanto Calogero, se ne strafuttiva degli stivaletti della signora Cutulia e delle altre scarpe che l‟aspettavano con le bocche aperte per essere incollate e inchiodate. Lungo la strada incontrarono una signorina con dei bei capelli lunghi castano chiari, vestita in maniera diversa dalle ragazze del luogo, vi era classe, tanto era bella che i quattro rimasero a bocca aperta. La ragazza era insieme ad una signora pure forestiera e con 31 BENVENTI A CAMICO la moglie dell‟appuntato Guglia. Intuirono facilmente che quelle erano le donne del nuovo maresciallo. Gianni restò colpito, fulminato, il classico colpo di fulmine, non ragionava più, talmente che si era messo a balbettare. Dopo giorni d‟appostamenti e di corteggiamento discreto riuscì a capire che anche alla ragazza non dispiaceva quel corteggiamento. Il maresciallo Lazzaro Camporelli, così si chiamava con tutta la sua pancia e i suoi baffi, non acconsentiva assolutamente di fidanzare la figlia con uno spiantato, figlio di contadini e universitario fuori corso, per lei aveva già progettato un figlio di papà qualsiasi, anche perché a suo modo continuava la sua scalata nella società. Insomma la figlia di un comandante di stazione con un figlio di viddani, studente a vita … Così, dopo diversi divieti alla figlia e abboccamenti, anche duri, con Gianni, lo chiamò in caserma accusandolo di continue molestie. Gianni riuscì a difendersi bene, tra l‟altro essendo dalla parte della ragione perché la ragazza dichiarava apertamente il suo amore per lui. Il maresciallo continuava a dire: -Ti ficco dentro! Stai lontano da mia figlia! -Lei sta abusando del suo potere! L‟epoca di Giulietta e Romeo è finita da un tempo! Il maresciallo pensando che allontanando la figlia sarebbe finita l‟infatuazione, decise di mandarla a casa della nonna. Per scoraggiare quel saputello impertinente e fargli capire chi aveva il coltello dalla parte del manico, sguinzagliò tutt‟e quattro gli appuntati della caserma contro tutta la famiglia di Gianni. E giù contravvenzioni! S‟iniziò con la gagia delle galline, tenuta fuori, poi con lu sceccu del padre che non si vedeva bene la pudda e così via. Alberto cercò di mettere la pace, essendo anche lui uomo di legge, così prima parlò con l‟appuntato Di Nicola che gli allargò subito le braccia facendogli capire che gli ordini venivano 32 BENVENTI A CAMICO dall‟alto, poi parlò direttamente con il maresciallo. Il comandante alle sue buone parole gli rispose: -In questo paese l‟illegalità è diventata una regola, mettetevi bene in testa TUTTI! che io sono per fare rispettare la legge! Non passarono le ventiquattrore che la mamma d‟Alberto fu multata, perché aveva scaricato per la strada la pila piena d‟acqua e sapone. Lo faceva tutte le donne dopo che lavavano la biancheria. Questo fu l‟inizio della guerra delle contravvenzioni tra carabinieri e vigili urbani. Furono multati tutti gli appuntati, i carabinieri, il brigadiere e il maresciallo stesso. Dall‟altra parte: tutti i vigili urbani, il capo guardia, le loro famiglie, gli impiegati comunali, compreso gli spazzini, gli assessori, i consiglieri comunali, il vice sindaco e il sindaco. L‟arciprete ormai dedicava prediche a mai finire faceva un vai e viene tra caserma e municipio. L‟armonia del paese era completamente compromessa. I tre uomini di poteri: sindaco, maresciallo e arciprete non trovavano una via di sbocco. La questione vinne risolta dal prefetto di Girgenti, il quale li convocò tutti e tre in Prefettura e ha risolto il tutto con una bella stretta di mano. Così cessò la guerra delle contravvenzioni. La figlia del maresciallo tornò in paese e dopo una relazione di alcuni mesi con Gianni, liberamente concessa dal padre, lo tradì! Si accorse di Tonino, il figlio del farmacista, più moderno e così dopo un‟infatuazione iniziò una relazione che riusciva a tenere segreta al povero Gianni, ma in paese era palese con tutti. Gianni, dopo una crisi durata pochi giorni, capì che non ne valeva la pena continuare a soffrire per una come lei e ci abbannunà il pensiero. … Vincenzo serioso e su pensiero non nemmeno saluta gli amici, si ferma al loro tavolo, guardava ma senza focalizzare nessuno. 33 BENVENTI A CAMICO Calogero: -A chi è Vicè? „Un si usa salutare a la Svizzera? -Scusati era su pinzeru, bongiornu … Gianni: -Assettati, Vincè, chi si dici a la Svizzera? Stanno beni li miliuna di li nostri onorevoli? -E chi nni sacciu di miliuna, ju travagliu nni na fabbrica, e scozzu kiù di milli polli a lu jornu, quannu vaju pi pigliari sonnu vidu testi di polli chi satanu! Alberto: -Beddu misteri chi ti trovassi… Calogero: -Però vidi comu s‟arricampà: la machina comu chidda di lu Signurineddu e na fimminuna ca pi spardalla ci havi a mettiri di lu so! Carmini di Rosa, dopo una scialata di tutto cuore: -La fimmina ci la dettiru in offerta speciali cu la machina … Ah! Ah! Ah!… Vincenzo, ridendo anche lui insieme gli altri: -Carmini, sempri lu stessu si! Calogero: -Vicè, sempri di picca paroli si … a parla … comu si sta a la Svizzera? -Calì, la nivi … lu friddu … Suli „un ci nn‟è … Staiu sempri „ncazzatu di la matina a la sira. Salvo: -Però ti paganu tutti cosi: contributi assicurativi, ferie, straordinario, contributi per la pensione! Vincenzo si volta per guardarlo: -E cu minchia è chistu? Gianni: -Vicè „un ti lu ricordi? Me frati è! Così porgendogli la mano: -A cu si Totoneddu! Ti lassavu tecchia di gramusciu, talia ca! Alberto: -Ora „un n‟è kiù Totò, ora si chiama Salvo! Carmine di Rosa, dopo un‟altra scialata: -Salvo complicazioni! Ah! Ah! Ah!… Salvo: -Va fa „nculo! La compagnia a quella battuta rise di cuore. 34 BENVENTI A CAMICO Vincenzo: -Chi vi pigliati? Offru ju. (Alzando la voce, chiama il barista) Zzu Giuvà! M‟arrinfrescari cu na bella granita comu a li vecchi tempi … Giovanni Bonanno arrivò subito e allargando le mani e tistiannu disse: -Picciò „un vi nichiati, ma Vicenzu ha statu sempri lu meglio. Chi vi portu? Albertu: -Certu, ora ca avi li franchi svizzeri … Gli amici si associarono con la granita tranne Carmine che ordinò una birra e Salvo una Strega. Intanto che il barista si allontanava con l‟ordinazione, passò davanti a loro Giuvanninu, il promesso sposo di Teresina. Giuvanninu era molto miope così aveva degli occhiali molto spessi, mingherlino e più alto della media, non era una cima d‟intelligenza però era molto sospettoso, quando parlava il volume e la tonalità variava dal basso verso l‟alto. Per “I quattro del sistema” spesso era un toccasana contro l‟inedia, loro riuscivano a raggirarlo senza farglielo notare. Come lo hanno visto passare tutte e quattro lo chiamarono: -Giuvannì a „unni sta jennu? -Veni kà! -Lu Beddu Giuvanninu… a cu ni lu mannà lu celu? Alberto si alzò e lo afferrò per il braccio: -Assettati ca ti pigli na cosa. Offri Vicenzu, apprufittamuninni, veni ca! -No! Lassatimi jri ca haju tanti cosi di sbrigari pi sta sira. Calogero: -E chi c‟è? C'ha fari sta sira? -Comu „un nnu lu sapiti? Lu sapi tuttu lu paisi… Sta sira scambiu l‟aneddu. Gianni: -Giuvanninu si fa zitu e „un dissi nenti a li so amici … Albertu: -L‟haiu dittu sempri ca è lupu. Ah lupu lupu! Giuvanninu con tono dispiaciuto: -Mi cridiva ca lu sapivavu, lu sapi tuttu lu paisi … Alberto, lo forza a sedersi: 35 BENVENTI A CAMICO -Ma tu ajvatu appizzari li manifesti. -Chi fa mi sfutti? Gianni: -Vicè, lu canusci a chistu … -„U mi ricordu propriu … Calogero: -Comu jucavamu a la guerra … Iddu era cu la banda di l‟abbivatura granni … -Iu mi ricordu! Na vota m‟acchiapassi a la coscia cu na filaccia e mi trasì lu busu di lu paraccu … Quannu jucavamu a la guerra! -Sì ca mi ricordu… Vij c‟addivintassi bruttu! Beddu „un c‟eratu ma ora … -Chiddu ca cunta ca piaciu a la me zita! Carmini: .Giuvannì, si pò sapiri cu è sta zita? -Mancu lu sapiti? Lu sapi tuttu lu paisi… Si chiama Teresina la figlia di Peppi Russo, sta nna lu curtigliu di donna Antonietta. Alberto: -E cu è donna Antonietta? Giuvanninu, indicando con la mano a Vincenzo: -A chistu cca! Alberto: -E pirchì „un dicissi: vicinu d‟iddu? -Pirchì ddocu è „ntisu lu curtigliu di donna Antunietta, „u nu lu chiama accussì tuttu lu paisi? Allora tutti acconsentirono con diversi: -Veru è! -Ragioni avi! -E cu ci po‟ dari tortu? Nello stesso tempo arriva il barista con il tabarin in mano, servendo nel tavolo: -E cu c‟è „mbari Giuvanninu … a ora si ca si ficiru li ficu! Vincenzo, incominciava a rodere dentro e minuto dopo minuto si accentuava ravvivandosi quel fuoco che sembrava cenere messa lì rannicchiata, in un angolo remoto del suo cuore. E‟ possibile che Teresina abbia detto di sì ad uno scimunito come Giovannino? Calogero: -Zzu Giuvà, purtassi u‟ bicchirinu pi Giuvanninu ca ci facemu tecchia d‟auguriu … -No! No! No! Quannu haju chi fari, „un bivu! 36 BENVENTI A CAMICO Alberto: -Mancu ju quannu sugnu 'nserviziu … Gianni: -Pi l‟aguriu a biviri cu natri, se nno chi amicu si? Zzu Giuvà purtamu la marsala pi tutti ca ni servi pi aperitivu! Carmine: -Giuvanninu „ntillingenti è … Avi lu diploma d‟elettricista! Vincenzo: -A u‟ bellu misteri è! Giuvanninu: -Si sulu ca fazzu lu pitturi, pirchì ju vogliu lu postu, ma li posti sunnu ttti accupati … Il barista arriva con una bottiglia di marsala e i bicchieri con il vassoio e l‟appoggia sul tavolo: -Giuvanninu, comu trovassi la zita trovi vidè lu postu, aguri! Alberto: -E facemu aguriu a me compari Giuvanninu… La prima passata la offru ju! -Comu fazzu a diri no a li me amici? Così uno di loro riembe i bicchieri fanno tutti quanti il tocco schiamazzando e ridendo. Calogero: -Picciò, comu l‟omini, tuttu di un ciatu! Giuvanninu esegue alla lettera tirando la testa all‟indietro si tracanna la marsala, così incomincia a tossire con gli occhi di fuori. Carmine ridendo a crepa pelle si alza e incomincia a battere alla spalla con certe manate da far paura. Giuvannino, riprendendosi: -Carmini! Carmini! Bonu, basta! Ka mi ripigliavu!- Carmine continua a dare manate e a ridere -Basta! Se no stanotti pisciu lu lettu! Carmine, smette ma continua la sua risata particolare: -Ah! Ah! Ah! Giuvannì, si veru simpaticu… A chista si ca è battuta spiritosa! Giuvannino, con tono serio: -Ma ju veru lu pisciu lu lettu! Calogero, mentre stava bevendo a questa battuta spruzza il marsala per il forte ridere. -A chi è? Calogerì, chi fa? Ti „mbriacassi?” Gianni: -Sta passata la offru iu! 37 BENVENTI A CAMICO -No! No! Haiu tanti cosi a fari. -E allura nun accetti la me amicizia? Rifiuti u‟ biccheri a lu to migliori amicu? -M‟arrennu…” Vincenzo, gli mette in bocca una sigaretta e gli l‟accende: -Fumati una di chisti ca è di chiddi bboni, di la Svizzera! Toccano per il cin con gli amici e Giovannino si tracanna il secondo bicchiere, gli viene una leggera tosse e Carmine si va per alzare, così mettendo le mani avanti per fermarlo gli dice: -Fermu Carmini! Ca mi ripigliavu! Amici! Vi „nvitu tutti quanti a lu me scambiu d‟aneddi! La compagnia con vari Evviva! e Bravo! Applaudano tutti. Continuarono fin quando Giovannino non è stato più in grado di ragionare quel poco che le sue capacità gli permettevano, così Gianni e Salvo lo accompagnarono a casa. Vincenzo si era dimenticato di questa sottile cattiveria che vi era in paese. Si cercava una vittima qualsiasi, in questo caso Giovannino che non brillava mentalmente, ma altre volte anche con persone più pronte e più astute, bastava scegliere la vittima e prenderla di mira con uno sfottò prima sottile tanto che no si accorgeva e poi con un tormentone. La vittima si sceglieva in base ad una diversità dall‟omologazione della gente del paese o una battuta poco felice o un piccolo errore. Bastava così poco per fare scattare il meccanismo. Anche se in paese a causa quest‟orribile gioco, suggerito dall‟inedia, sono successe delle autentiche tragedie, si continuava a farlo. Vincenzo, che ormai si era dimenticato, provava un senso di rimorso per quell‟inaudita cattiveria. 38 BENVENTI A CAMICO Patreternu Tutto il paese ricorda il fatto di Paolo Gallo. Forse a causa di una crisi mistica decise di allungarsi i capelli e la barba, non disturbava nessuno, salutava, passeggiava e basta. Ma un gruppetto di pensionati incominciarono a ridergli sopra, prima di nascosto, poi quando passava, infine palesemente. Paolo Gallo sembrava resistere, imperturbato continuava la sua passeggiata, ma il gruppo incominciò ad affibbiargli l‟ingiuria“Patreternu”. Il suo vero nome fu sostituito da quell‟epiteto. Paolo quando rimaneva in casa da solo risentiva quelle frasi e quelle risate come una congiura su di lui. “E‟ possibili ca un‟omu ca si fa li fatti so avi a essiri „ncuitatu di tutti?”. Aveva pensato di radersi barba e capelli, ma così si sarebbe vilmente arreso a quella gentaglia. Dentro incominciò a fermentare la vendetta fin quando Paolo guardandosi allo specchio si disse: -Sugnu Patreternu e dicidu c‟hann‟a moriri tutti! Dopo questa affermazione al suo riflesso nello specchio, Paolo si sentì più tranquillo e incominciò a studiare il come mettere in pratica e mentre stava mangiando, solo, perché ormai vedevo da quattro anni, immerso in quel silenzio di solitudine liquefatta, disse una sola parola: -FOCU! Paolo non si turbò più passeggiando in paese dello sfottò continuo, anzi quando i tre lo videro e uno di loro gli chiese: -Patreternu, chi fa dumani chiovi o fa bonu? Poi scoppiarono a ridere tutti quanti. Lui rispose con un inchino della testa e accennò un sorriso. Ah! Se quei avessero letto quel sorriso? Quanto male marcito dentro aveva contratto quei muscoli facciali! “FOCU!” Fu così che i tre i quali iniziarono a prenderlo in giro morirono. Tanu Messina, dopo la putia quando prima di rientrare si beveva qualche bicchiere di vino insieme con gli amici, fu 39 BENVENTI A CAMICO aspettato da Paolo proprio nell‟angolo della strada davanti casa sua. Era scomparso in un angolino buio di quella strada, immobile, forse nemmeno fiatava. La moglie aveva sentito un urlo, ma non ci fece caso. Patreternu con un marrugiu di firramentu si parò davanti con gli occhi di fuoco la barba e i capelli sciolti. Tanu quella maschera che lo aveva fatto tanto ridere lo fece così spaventare che si orinò addosso. -Dicidivu ca tu ora mori! Tanu urlò: -Aah! La manganellata arrivò come il destino divino tramortendolo. Padreternu poi prese il petrolio che si era portato e glielo cosparse sul corpo dandogli così, fuoco. Il figlio dopo un po‟, mentre rientrava a casa scoprì che quel fuoco era il povero padre senza alcuna possibilità di salvarlo. Paolo andò ai funerali e dispiaciuto porse le condoglianze sia alla moglie sia al figlio. Non passò una settimana e toccò a Ciccio Tarallo, mentre stava abbivirannu nell‟orto a la rifriscata. Si era calato per aprire con la zappa un canale d‟acqua, alzandosi, come un diavolo si trovò piazzato davanti Patreternu. Ciccio dopo essersi ripreso: -Paolì, tu sì? Mi facissi pigliari u‟ spaventu … Dunni spuntassi? -Dicidivu ca tu oj mori! Ciccio, stava reagendo con la zappa che aveva in mano ma Patreternu è stato più veloce e lo tramortì con diversi colpi di marruggiu, poi nello stesso modo gli appiccò il fuoco. Anche questa volta andò ad esprimere le formali condoglianze alla famiglia, andò dietro la bara per tutto il corteo con la propria barba e i suoi capelli lunghi e bianchi da Patreternu. Ora toccava al capo branco: Saru Spiritu, chiamato così per il suo modo di fare sempre intraprendente e per la battuta pronta. Il paese era in allarme. I carabinieri avevano aumentato i controlli. I Camichesi sembravano essere ritornati al periodo della guerra con il coprifuoco, rientravano presto in casa. C‟era paura! 40 BENVENTI A CAMICO Percepivano che l‟assassino ancora non aveva completato la sua opera, dentro di loro si chiedevano: “ora a cu tocca?”. Il problema degli investigatori era il movente, perché le vittime avevano una pedina penale pulitissima: né mafiosi, né politici, né fimminari, niente! Passarono due settimane, in paese vi era la festa di Mezz'agustu: c‟erano le barracche e la banna che suonava in piazza. Saru Spiritu vestito a festa che andava ridendo e consumando a coccio a coccio un pacco di simenza chiazza chiazza, quando da dietro le spalle si sentì chiamare all‟orecchio: -Saru … Cortesemente ti pozzu disturbari? -Paolì, cu tuttu lu carrettu … Te, pigliati tecchia di semenza! -Veni ca narrè sta barracca ca putemu parlari. Appena arrivati dietro, Patreternu aveva il suo marrugiu nascosto e lo tramortì a primo colpo. Aveva nascosto anche lì la bottiglia con il petrolio. Lo cosparse tutto con il liquido versato dalla bottiglia, poi delicatamente con degli schiaffi lo rianimò, così gli disse: -Saru Spiritu, dicidivu ca oj tu a moriri! E lasciò cadere il fiammifero sul suo corpo trasformandolo in una torcia umana. La gente in festa lo ha visto spuntare che urlava e correva senza potergli dare un minimo aiuto, finì per accasciarsi sopra gli scalini della chiesa. Uno spettacolo orripilante. Paolo uscì da dietro la barracca del tiro a segno e si mischiò tra la folla. Dopo qualche giorno ci fu il funerale e Paolo puntuale si presentò esprimendo le sue condoglianze addolorate, strinse la mano alla moglie e le disse: -Ddu beddu Saru! Sempri c‟arridiva … La moglie con il cuore rotto per il dolore e la voce scasciata: -Beddu miu … Mi l‟ammazzaru! -Lu Patreternu vozi accussì! 41 BENVENTI A CAMICO Seguì tutto il corteo, alla fine andò in caserma chiese del maresciallo e confessò tutto. In paese rimasero stupefatti, ma poi presto dimenticarono come ogni cosa. I figli delle vittime quel giorno dell‟arresto, lo volevano aggredire. Il maresciallo aveva paura di una loro incursione nella traduzione a Girgenti, così rafforzò le guardie. Ci furono grida di vendetta, minacce e poi basta. Il tribunale gli diede l‟infermità mentale e dopo cinque anni di manicomio criminale per buona condotta fu scarcerato. Paolo Gallo, andò a vivere tra le montagne, in una grotta chiamata di San Caloriu. Scendeva nel paese lontano solo poco chilometri da dove successero i fatti, per ritirare la pensione e acquistare qualche provvista. Un giorno “amici” invitarono il figlio di Saru Spiritu, Totò, per una battuta di caccia. Lo portarono alla grotta di San Caloriu. -Trasì ca c‟è sarbaggina pi tia! Gli “amici” così vollero ricambiare un favore fatto a loro da Saru. Totò con il colpo in canna entrò e scorse Patreternu con una manta vecchia addosso, che lo guardò negli occhi chiedendogli: -Cu sì? Totò si mise a tremare, in quegli attimi doveva decidere se diventare un assassino. Pensava di trovare un porcospino e invece c‟era colui che ha dato quell‟orribile morte alla persona più cara della sua vita. Totò continuò a tremare e a sudare freddo, stava per svenire. Patreternu capì che quell‟uomo era figlio di Saru Spiritu dai lineamenti del volto, ma non provò paura rimase indifferente a fissarlo negli occhi. Gli occhi di Patreternu sembravano accesi, per il riflesso della luce esterna, ma teneva un‟espressione serena, che importava morire ora o poi? Il figlio di Saru Spiritu uscì dalla grotta e si vomitò, lasciando cadere la sua scupetta a terra senza alcuna cura. 42 BENVENTI A CAMICO Uno degli “amici” gli affermò che non aveva puzu e che loro il debito con suo padre l‟avevano così saldato offrendogli Patreternu in un piatto d‟argento. -Ammazzari un‟omu „unn‟è comu ammazzari u‟ porcuspinu!- gli rispose lui. In appresso fu molto contento di quella sua decisione, presa con la testa ma soprattutto con lo stomaco. Gli “amici” questo lo sapevano. Nelle “famiglie” quest‟arte inizia in tenera età progressivamente. “Uno” degli “amici”, mentre s‟incamminavano per fare ritorno ricordava quando il padre gli ha fatto allevare con tutte le cure il coniglietto e dopo averlo cresciuto lo ha convinto ad ucciderlo con le buone o con le cattive, quando da bambino è diventato ragazzo è passato all‟agnellino per la Santa Pasqua, quando da ragazzo è diventato picciottu è toccato al maiale scozzandolo e sporcandosi tutto di sangue, per il Santo Natale e infine da picciottu è diventato omu per il suo battesimo nella “famiglia” si è fatto il primo coriu! La mente deve essere preparata a premere il dito nel grilletto, senza questa preparazione si rischia anche la pazzia. Non basta solo sapere usare le armi, perciò come i soldati che si addestrano per la guerra, loro addestrano la mente. 43 BENVENTI A CAMICO Il piano Calogero abituato a riflettere da buon scarparu osservava Vincenzo che fumava continuamente e rideva solo con una brutta smorfia della bocca dopo un po‟ gli disse a brucia pelo: -Ti capivu Vicè, tu vò beniri ancora a Tirisina! -E tu comu lu sani ca ju vuliva a Tirisina? Intervenne Alberto con ironia: -T‟arrispunnu comu a Giuvanninu: tuttu lu paisi lu sapiva! E a so mà ci piaceva u discursu tantu ca la lassava affacciata quannu tu vinivatu di travagliari e vi scangiavavu signala. Calogero: -Ora siccomu tu turnassi cu dda fimmina svizzera, so mà, pi tutta risposta, cu lu primu ca tuppià la fici zita! Vincenzo: -Ma no c‟u‟ trunzu … Carmini: -Chistu ci mannà u Signori e chistu si piglia! Alberto: -Ma tu chi ci si maritatu cu sta svizzera? Vincenzo: -Ma chi maritatu … Vozi viniri „nzemmula e la purtavu! Chi malu munnu l‟avissi fattu! Alberto: -Ora è troppu tardu! Carmini, ridendo sempre a suo modo: -Non è mai troppo tardi! U dici a televisioni … Vincenzo, tra rassegnazione e disperazione: -‟U‟ c‟è nenti chiù di fari! Calogero: -Sta sira natri attiramu l‟attenzioni, quantu tu la spunti a capiri si Tirisina ti voli beniri ancora. Ci parli, ci scrivi u biglittinu, vidi tu. Carmini, riempiendo i bicchieri della marsala: -Allura, sta sira tutti „ncasa di Peppi Russu, saluti! Così quel gruppo in maniera repentina decisero quel piano di azione e toccarono con i bicchieri. Prima di ogni cosa, di ogni decisione, Vincenzo doveva concretizzare quegli sguardi. 44 BENVENTI A CAMICO Lu scambiu d‟aneddu Nel cortile di donna Antonietta era un continuo arrivare di gente che entrava diretta dai Russo. Da quella porta si espandeva una musica di tarantelle mescolata con chiacchierio, risate e vocio di bambini, insomma tanta allegria. Quella finestra, era spalancata, accesa, ma vuota. La casa dei Russo era modesta conteneva l‟arredo essenziale con qualche bruttura di suppellettile industriale come, ad esempio, i fiori di plastica. Mi sono chiesto mille volte: il perché comprano per una casa, abitata da una intera famiglia che lavora nei campi tutti i giorni tra piante bellissime e alberi, i fiori di plastica? Tutto era stato nettato alla perfezione, messo in ordine. Vi era quell‟odore di cose buone da mangiare, arrivava dalle brunij d‟avulivi „nsalamoria, dalla giarra cu l‟ogliu, dalle forme di tumazzu, dai pumadora appinnuti, dalla vutti di vinu, dal crivu chinu di pircopa e persichi, di zorbi „nmezzu la paglia a curari, dalla cucuzzata. Vincenzo mentre saliva la scala aiutando la madre, ormai tarda, sentiva questa sinfonia d‟odori e aveva l‟animo stretto tra i ricordi della sua infanzia e il preludio di quell‟imminente futuro. Come si sono affacciati davanti la porta dello stanzone, Lorenza con suo marito si alzò per andarci incontro. Proprio di fronte vi erano i fidanzati seduti uno accanto all‟altro, immobili, Giovannino che rideva guardando tutti di continuo, Teresina con lo sguardo abbassato e un sorriso di circostanza, accanto a lei vi erano i futuri suoceri e viceversa. Dopo i saluti convenevoli entrarono. Una radio a mobile con il giradischi suonava a tutto volume manzurki e tarantelli, dei giovanotti ballavano tra loro, si! maschi e maschi, e così le ragazze, femmine e femmine, i bambini saltellavano e attorno alle pareti gli altri stavano seduti a guardare a rosicchiare favi e ciciri caljati, o sorseggiare bicchirina di rasoliu fatto in casa per l‟occasione, insomma la festa era armata. Tutta l‟attenzione era rivolta alla fidanzatina ogni invitato faceva la 45 BENVENTI A CAMICO battuta spiritosa. Donna Antonietta si andò a sedere insieme a Helen vicino Lorenza. Vincenzo trovò lì I quattro del sistema e si appartarono. Alberto sempre con la sua divisa che ormai luccichiava: -Perciò, Vicè, comu affari? Carmini: -Cecè a sta svizzera avi u‟ patrimoniu! Calogero: -Carminù, „u‟ fari lu pazzu stasira! Gianni: -Vicè u vidi comu Teresina ti talia „nsutta „nsutta? Vincenzo: -Cca sugnu! C‟ha fari? Però, mi scantu ca succedi u‟ macellu! Calogero: -E allura falla maritari cu Giuvanninu, e ni gudemu stu scambiu d‟aneddu! Gianni: -Antura, quannu trasissivu la facci di Teresina addivintà na vampa di focu! Alberto: -Talia Giuvanninu, chi facci di baccalà, comu arridi … Tutti e cinque guardano a Giuvanninu. Vincenzo risoluto: -No, chistu no! Teresina ha statu mia e avi a essiri mia! Calogero: -E allura facemu comu dicu iu! Ju e Abbertu, unu stravia lu patri di Tirisina e unu lu patri di Giuvanninu. Carmini stravia a Giuvanninu e Gianni va tira la tabbacchera di lu cuntaturi di la luci. Tu t‟avvicini a idda e ci dici chiddu chi vò. Comu semu senza luci ni mittemu a jttari vuci. -Guarda a tutti negli occhi- C‟è quarche dubbiu? Fecero cenno di no con la testa. Senza farsi notare si allargarono ed ad uno a uno e presero la propria postazione. Non vi era dubbio che il piano era buono e ne erano pure convinti. Calogero si avvicina a Peppi Russo: -Pè ma livari na curiosità ma sta cani ca ti porti „ncampagna ti nn'ha purtatu cuniglia? -Sih… E‟ speciali, l‟atra vota scuffà u lepru ajazzatu „nmezzu la vigna, menu mali ca la scupetta l‟hai sempri cu mia … Alberto, avvicinatosi a Ciciu Viulinu: -Don Cì, avvissi di rinfriscari li mura di la casa c‟haiu „ncampagna, però „u vulissi li soliti culura … 46 BENVENTI A CAMICO -Abbertu, ta fari abbidiri u cangianti di virdi ca è na favula! Gianni scende per le scale dove vi è il contatore. Carmine si mette davanti la porta. Vincenzo s‟avvicinava a Teresina. “I quattro del sistema” erano in piena azione. Ma la corrente elettrica stentava ad andarsene. Helen chiamava Vincenzo con gesti con “Uhù”. Donna Antonietta, ha percepito qualcosa di strano, notava che suo figlio Vincenzo faceva finta di non sentire Helen, era nervoso impaziente, quando … TAC! Via La luce. La musica si ferma lentamente la voce del cantante era sempre più baritonale fin quando il giradischi si fermò completamente. Ci furono delle urla di donne, di bambini, fischi e risa tra queste la voce di Calogero: -Giuvannì, sta fermu cu li mani! -A Giuvanninu ca ti vitti! -Sti disgraziati! Ora, vidè di stati si tiranu la correnti?! -Sti grana ca si piglianu ci avissiru a fari a tutti u cacaruni. Giuvanninu: -Mà, unni si? Unni si? Mà! Ed ecco la luce! Vincenzo si trova vicino a Donna Antonietta. Il giradischi, lentamente riprese la giusta velocità. Ci fu un evviva generale. Tutto sembrava apposto. Carmela, la figlia della zza Ginuerfa con Nenè furono trovati abbracciati, lui con le mani sotto la sua gonna, tutte e due con gli occhi chiusi in un bacio focoso e appassionato, tanto da non accorgersi di niente. Tutti ridevano e schiamazzavano a più non posso, ma i due niente, continuavano la loro impresa. La zza Ginuerfa e suo marito Gasparu si avvicinarono e tutti erano in cerchio a loro. Lu zzu Gasparu, scoppiando dall‟ira, acciuffò Carmelina per i capelli e la staccò da quell‟abbraccio. Fu allora che i due focosi innamorati si accorsero della realtà che li circondava. Gasparu, tirandosela per i capelli: -Amuninni intra! Gran pezza di buttana! I tre vanno via e Nenè rimase per un bel po‟ stordito, incapace di parlare e di muoversi. 47 BENVENTI A CAMICO Donna Antonietta accompagnado le parole calcando la testa pensò ad alta voce: -Cu sputa „ncelo „nfacci s‟acchiappa… Ora videmu Ginuerfa quali gazzittinu havi a nesciri fora. Pippina la fiscinusa, si liberò subito del bambino in braccio, dandolo alla figlia Carmelina, che subito lo dondolò e lo baciò avvezza a tale servigio. Pippina è in trionfo! Ha visto quello spettacolo e per lei è stato meglio di trovare una carta di diecimila lire. Sembrava che Pippina “la fiscinusa” vivesse per questi eventi, sempre arragatata a forza di sparlare di tutti e di tutto a tutti. Per “i quattro del sistema” lei era l‟unico grande pericolo del piano, tanto che la guardava peggio di uno sbirro. Pippina intanto s‟avvicinò a donna Antonietta: -Donna Antonietta è meglio ca cu havi lu cravuni vagnatu „u parlassi assà! Donna Antonietta sentenziò con il capo ma non le disse niente e lei s‟allontanò. Giuvanninu avvicinatosi a Teresina: -Ti scandassi, bella me? Teresina sembrava una lampadina accesa e balbettando gli disse si. -Viviti u biccheri d‟acqua, bella me. Aspè ca ti lu vaju a pigliu, bella me.(Così prese il boccale con l‟acqua riempì un bicchiere e glielo portò). Vivi! Bella me. Ca ti ripigli, bella me. Vincenzo e i quattro amici si ritrovarono accanto al tavolo dove vi era la bottiglia di rasolio. Carmine riempì i bicchieri piccoli di cristallo e disse: -Ama a fari u brindisi a li ziti, limghemu li bicchera! Cu lu scuru e cu la luci è l‟amuri ca tutti coci. Cu arristaru cu si nni eru brindisi facemu a st‟amuri singeru! Così ripresero le danze e le risa. La serata continuò. Teresina ormai scambiava sguardi e sorrisi con Vincenzo, si era ricollegata l‟intesa fra i due. Si arrivò allo scambio dell‟anello, agli applausi, ai brindisi, agli auguri e ai saluti. 48 BENVENTI A CAMICO Qualcosa che ha insospettito don Ciciu Viulinu c‟è stata. Teresina non ha voluto recitare la tiritera per l‟occasione: “Con il consenso dei miei genitori metto l‟anello al mio primo amuri”. Gli invitati a coro la giustificarono che s‟affruntava. Donna Antonietta incominciava ad intuire che in quei minuti senza corrente era successo qualcosa tra Vincenzo e Teresina, perché il cambiamento dei due era troppo evidente, questa sua impressione ha trovato consenso osservandoli per tutta la sera, infine in quel rifiuto assoluto di Teresina c‟era la prova. Helen si era divertita come non mai a seguire quel rituale di fidanzamento, era rimasta, un po‟, dispiaciuta, perchè nessuno l‟aveva invitata a ballare. Poi vedeva quei bei giovanotti ballare fra di loro, che spreco ma ormai quel mondo non la meravigliava più di tanto. Vincenzo non le aveva rivolto la parola per tutta la serata, ma ormai era così cambiato che sembrava assolutamente un altro, neanche fisicamente somigliava a quel giovane della Svizzera, sembrava più alto, il colore della pelle più scura, si muoveva diversamente, guardava diversamente e la voce aveva un tono più basso, un altro Vincenzo che conosceva a mal appena. In cambio si era sentita addosso tutti gli sguardi dei maschi, anche dei ragazzini, quand‟era seduta le guadavano le gambe, all‟in piedi l‟osservavano attentamente e tutta, anche alle spalle si sentiva appiccicati quegli sguardi languidi e liquidi. Nessuno, però, si era permesso d‟avvicinarla o di rivolgerle una sola parola, per rispetto di donna Antonietta e di Vincenzo oppure perché in casa di Peppi Russo. Il rispetto era rispetto! 49 BENVENTI A CAMICO Quella notte In casa di Peppi Russo dopo che se ne erano andati tutti, Lorenza e Teresina sistemarono e pulirono per tutta la notte. Soprattutto la stanza dei festeggiamenti, rimisero i mobili a suo posto, che avevano spostato per l‟occasione e lavarono i pavimenti. Per tutto il tempo Lorenza guardava sua figlia, sembrava che camminasse sopra l‟aria, ogni tanto nelle sue labbra spuntava spontaneo un sorriso e poi sfioriva cupo. Teresina aveva una strana luce negli occhi, brillavano come due faville. Lorenza intuiva che l‟autore di quella luce di sicuro non era stato Giovannino. E chi, se non Vincenzo? Teresina nemmeno si accorgeva della madre che la scrutava intanto che lavoravano, così mentre stava stendendo il centro ricamato sul tavolo, la madre all‟improvviso le ha afferrato la mano e stringendogliela l‟ha guardata negli occhi e le disse, con un tono di rimprovero, a bassa voce e decisa: -Ti li fici l‟auguri Vicenzu? Teresina raggelò! E con un filo di voce tremante le rispose di si. Quella notte sembrava non passasse più: scena dopo scena, parole su parole, paure su paure e gli occhi che non si volevano chiudere, ma oltre tutto ciò vi era, che brillava come un sole, la voce di Vincenzo, decisa sicura e tutto il resto non contava più: -Teresina pir mia ci si sulu tu! Si mi vo beniri dimmillu! Teresina, con il cuore in gola gli rispose: -Ma tu ha la fimmina svizzera? -Chidda nenti pi mia è. E nenti sugnu iu pi idda! Po ti spiegu, dimmi si tu mi vò? Avvolta da quel buio languisce: -Sempri taju vulutu … E jornu pi jornu taju aspittatu ! Vincenzo la strinse a se e la baciò sulle labbra. Lei si sentì stordire, le gambe le incominciarono a tremare, non riuscendo a stare all‟in piedi e cadde così sopra la sedia. Tac! E tutto s‟illuminò! Era arrivata la corrente. 50 BENVENTI A CAMICO Peppi Russo di norma, dopo che ascoltava lu gazzettinu e un radiodramma a puntate, si andava a coricare. In quelle sere trasmettevano “Resurrezione” di Leone Tolstoj, che seguiva già da una settimana, insieme alla famiglia con una radio a mobile bar. Quella radio era l‟unico vero regalo, per lui e per tutta famiglia, fattosi appena sposato con i soldi inviati da due zii paterni di Lorenza che ormai vivevano in America come regalo di nozze. La famiglia tutte le sere attorno a quella bella radio, in silenzio, sprofondati sulle sedie a fissare l‟occhio magico che l‟ipnotizzava. Una lampada di trenta watt illuminava la stanza, mentre Lorenza rappezzava un pantalone di lavoro del marito. Tutti, grandi e piccini, riuscivano ad immaginare luoghi e personaggi. “-Mentre si udiva disserrare il chiavistello e aprire la porta della cella ventunesima dove vi stava Men‟sov”- la voce narrante profonda continuava descrivendo quel giovane dal collo lungo e muscoloso con due occhi rotondi e buoni. Il vicedirettore: -Il signore, qua, vuol chiederti informazione sulla tua storia. Men‟sov: -Lo ringrazio della sua premura. Nechljudov, intervenne: -Già ho sentito parlare della vostra storia.” Era finito così il radiodramma la sera prima. “… chissà come avrà continuato?” Si chiedeva prima d‟addormentarsi quella notte mentre le sue donne ancora si davano da fare. Lorenza guardò il marito che si era ormai addormentato e non lo volle svegliare per rivelargli i propri dubbi su Teresina, così spense l‟abatjour su la colonnetta e restò a fissare il buio ad occhi aperti abbastanza fin quando il sonno non la travolse. Helen arrivata a casa incominciò a mangiare pane con i pomodorini rossi appesi con il fil di ferro. Donna Antonietta, tenendola, perché si era arrampicata sopra una sedia: -‟U‟ su bboni chisti pi mangiarisi cu lu pani! Chisti su pumadora pi fari sucu! Mi capissi Elina? 51 BENVENTI A CAMICO -Ich habe Hunger!11 Vincenzo era seduto al tavolo che seguiva quella scena comica, pensava come quelle donne così distanti dopo pochi giorni riuscivano a comprendersi. Il senso dell‟ospitalità di donna Antonietta aveva fatto sentire a suo completo agio Helen. Helen, mangiò con gusto, ma si sentiva nonostante quel boccone intorpidita dal sonno così decise di andarsi a coricare, baciò Vincenzo: -Gute nacht!12 Poi abbraccia quel corpo minuto di donna Antonietta, avvolgendola completamente con le sue braccia, la bacia: -Bona notti mamà! Chiuse la tentina e si ritirò. Donna Antonietta, giungendo le dita e facendo segno in direzione della bocca: -Ammu! Ammu! Quantu mangia? Sempri fami havi! Vincenzo rideva. La madre si è seduta accanto e gli disse contono molto serio, sorprendendolo: -Chi „ntenzioni ha cu Teresina? -Serij mamà! E vossia m‟havi ad ajutari. -Vidica ca ccà nun si a la Sguizzira … Cerca di nun fari opira di pupi! -Dumani comu agghiorna hava jri nni la zza Lagruenza e ci hava a parlari! -Ma comu addivintassi? Chi ci ha diri? Ca tu vo‟ a so‟ figlia? e sta fimmina ca è curcata nna lu me lettu? Ca ti scinnissi cca sutta cu tia? -Mamà, v‟haiu spiegatu ca pir mia è sulu n‟amica! -Ma chi amica stu zorbu! Chidda mi chiama mamà! -Tu ci l‟ha jri a diri ca vogliu a so figlia pi maritarimilla cu tutti li sacramenti. Si tu nun ci vo‟ jri allura, mi l‟ha vidiri ju… E ponnu succediri piddaveru pupazzati. 11 12 Ho fame! Buona notte! 52 BENVENTI A CAMICO -Cecè, va curcati pi sta notti ca dumani nni parlami chiù arrisiduti… In casa della zza Ginuerfa appena rientrati, lu zzu Giurlannu mise il lucchetto e la stanga dietro la porta e con il cinturino dei pantaloni picchiò Carmelina a più non posso. La zza Ginuerfa, ogni tanto, pietosamente, gli diceva: -Bonu Giurlà! La sta ammazzannu! -Zittuti! Se nno ci nn‟è pir tia! Carmelina piangeva, non perché quelle cinturinate le facevano male, anzi la sollevavano un po‟ dal senso di colpa, ma per avere deluso la famiglia, per la vergogna che provava, ed era tanta. La zza Ginuerfa e lu zzu Giurlanno, erano seduti al tavolo, non si guardavano neanche, mentre ancora i loro cuori erano in tumulto e l‟adrenalina lentamente incominciava a calare. Carmelina sopra il letto, con il viso immerso nel cuscino, con gli abiti della festa ancora addosso, che guttuliava. Ormai era notte inoltrata quando bussarono alla porta. Lu zzu Giurlannu, dopo la sorpresa dell‟insistente bussare, rispose: -Cu è? -Giurlà, rapi! Ninu Ferru sugnu! Lu zzu Giurlannu, si mise in allarme, la moglie meravigliata guarda il marito. -Don Ninu, scusassi, staju rapennu! -Così apre la porta e Don Ninu entra -Assittassisi! -Grazi. Scusati si vi vegnu a „mportunu a st‟orariu, ma l‟esigenzi su chisti. Chiddu ca successi sta sira „ncasa di Peppi Russo, s‟hava a sistimari! Lu zzu Giurlannu e la moglie guardavano in attesa della novella, immobili come delle statue. -D‟intra mi vinniru a truvari Carmelu Spaglia cu so muglieri e so figliu Nenè, scantati pi chiddu ca po succediri. Giustamente n‟omu ca si vidi allurdari l‟anuri nni sta manera, po reagiri comu la penza… 53 BENVENTI A CAMICO Lu zzu Giurlannu sempre una statua guardava don Ninu. -Ora iu ci dissi ca l‟unica cosa ca si po‟ fari pi sistimari stu fattu è spubblicari lu matrimoniu di li picciotti e a la lesta maritalli. Vu chi diciti? Iddi su ddocu c‟aspettinu u‟ miu signali pi trasiri cu lu vostru pirmissu „ncasa vostra e fari li scusi. Lu zzu Giurlannu lentamente si gira il collo per guardare in faccia la moglie, poi sempre lentamente guarda don Ninu e abbassando gli occhi cala due volte la testa. -Beni! Così apre la porta e con la mano fa cenno di venire. I Tre entrano, per primo Carmelo Spaglia, poi Nenè e la madre. Don Nino, con rigore si rivolge a Nenè: -A tia! Addumannacci perdonu! Nenè gli prese la mano e gliela baciò chiedendogli perdono. Poi si rivolse ai due genitori e gli ordinò di abbracciarsi. -Ora chiamati a la picciotta, ca fineru tutti cosi! La zza Ginuerfa dopo un po‟ arrivò con Carmelina, la poverella aveva gli occhi arrossati e ancora sulsuttava. La madre di Nenè: -Bedda Mia! Figlia mia! Don Nino, ridendo: -Aguri! Aguri!- E così andò via. Giovannino, non riusciva a prendere sonno e ai piedi del letto dei genitori ripeteva già da mezzora: -Mamà „unn‟è bedda Teresina? -Bedda è! Va curcati Giuvannì! -Papà „unn‟è bedda Teresina? -Giuvannì, va curcati, ca dumani a travagliari hama essiri!” -E tu dimmillu, „unn‟è bedda Teresina? -Bedda è, ora va curcati! -Mamà … Il padre a questo punto lo interruppe: -Giuvannì mi staiu susennu e ti sbennu seriamenti, VA CURCATI! 54 BENVENTI A CAMICO E solo dopo questa minaccia, vedendo che il padre si stava per alzare, Giovanninò scappò via. Quella notte d‟estate calda di luna piena finiva così, tra l‟abbaiare dei cani lasciando all‟immaginazione dei bambini qualche licantropo che s‟aggirava per le vie del paese, peloso con le unghie di fuori come artigli, la bava tra i denti appuntiti, stracangiatu e minaccioso pronto a sbranare qualsiasi essere vivente che incontrasse. 55 BENVENTI A CAMICO Una questione di rispetto Donna Antonietta alle cinque di mattina già era alzata e aveva rivolto una preghiera a la Bonarma, sempre con lo sguardo apprensivo, come se sapesse quello che stava per succedere e non approvava. Helen aveva preso dominio del letto, con i materassi ripieni di lana di pecora, riposava a pancia in giù a gambe e braccia divaricate. Non appena mezzora ode le ciancianeddi delle capre e il pecoraio ha bussato alla porta per il latte mungiutu davanti l‟uscio di casa, due cicaruna pieni: un poco per lei “e lu restu pi dda picciotta ca è na liufanti!” Bastiano, il pecoraio, si era innervosito, perché la capra non voleva stare ferma, così dopo un ceffone sulla schiena la morde pure in un‟orecchia. Donna Antonietta così lo richiama: -Bih, no! Bastià l‟ammazzi accussì, povera bestia! -Donna Antoniè, lassassimi fari ca chista è ciù torbita di me sogira! .A pirchì muntui a tò sogira, mischina, ca ci cadunu cosi di li mani? -Lu sacciu iu chi ci avvissi a cadiri, la lingua! ca l‟avi chiù taglienti di la durlindana di Ferraù! -Bastià, chi bò, to sogira è anziana e ci ha purtari rispettu. Nello stesso tempo arriva Vincenzo: -„Assabenedica mamà, bongiornu Bastià! -Vicè, turnassi pi sempri? A unni l‟ha dda fabbrica di fimmina? Chista pi cogliri vasulina e pumadoru „ncampagna è veru bona! -Bastià, ma tu „un si maritatu? -Si, pirchì? -‟Unn‟ha taliari atri fimmini! -Ma lu me apprezzamentu è comu chiddu chi si fa a na vestia, un mulu, na scecca … Donna Antonietta si avvicina all‟orecchio di Helen: 56 BENVENTI A CAMICO -Elinù, Elinù, t‟arrisbigli ca ti surchi tecchia di latti caudu caudu mungiutu ora di la crapa? Helen, impastando le parole e girandosi la testa: -Ich bin mude! Ich will schlafen!13 Donna Antonietta, uscendo dal velo che separa il letto e rivolgendosi a Vincenzo, a bassa voce: -Elina havi ancora sonnu, quannu si voli susiri si susi! -Mamà, prima ca Peppi Russu si nni va „ncampagna ci a jri a spiegari tutti cosi e ju aspettu ccà. -La matri ju „unn‟haju nenti di spiegari… Talia la facci di ddu Bonarma di to patruzzu e dimmi si ci su paroli ca ponnu spiegari tuttu stu bisillisi? Vincenzo, girando per la casa si dispone di fronte la foto: -Allura „un m‟arresta atru chi jricci di pirsuna! -Propriu ora sta turnannu di la missa, havi la vestia pronti nni la stadda la „nvardedda e si nni va. Vicenzu, st‟attentu ca Peppi Russu ci teni a lu rispettu! -E ju, rispettu ci vogliu purtari! Così Vincenzo guarda di davanti l‟uscio. Passano appena pochi minuti e arriva Peppi Russo: -Lagruenza, mi nni staju jennu! Vincenzo, affacciandosi: -Zzu Pè, bongiornu! Ci avissi a parlari! -Bongiornu Vicè, trasi. Successi quarche cosa? -Stu discursu ci l‟hajva a fari sett‟anni narrè, quannu partivu, ma nun happi curaggiu. Ora prima ca è troppu tardu ma spiegari e addumannu a vossia lu cunsensu! Peppi, lasciando andare la cesta che stava legando con la corda alla sella e facendosi serio in faccia: -Parla Vicè, ti staju ascutannu. Si è di li me facortà, sugnu a to‟ disposizioni. -Iu vogliu a so figlia Teresina! 13 Ho sonno! Voglio dormire! 57 BENVENTI A CAMICO -Vicè, assira tu „un eratu intra di mia? Lu vidissi ca me figlia Teresina scangià l‟aneddu cu Giuvanninu, lu figliu di mastru Ciciu? Assira „ncasa me „un ci fu opira di pupi … Picchì casa mia „un è teatrinu e mancu ci su pupi! -Zzu Pe‟, vossia mi canusci di quannu ju era nicareddu. E quannu ddu Bonarma di me patri murì, vossia abbadà a la robba nostra e mi purtava „ncampagna, pir mia ha statu meglio di un parenti. Pi chistu ci ha diri la verità. Iu e so figlia havi ca ni vulemu di quannu eramu picciutteddi, e nun ci po‟ nuddu ca ni po fari cangiari pinioni! Lu canuscivu quantu è cretinu stu Giuvanninu … E vossia ci voli dari a so figlia u‟ maritu di stu geniri? -Vicè, tu mi dici ca di nicareddu ti vulivatu cu me figlia, e ti purtassi sta picciotta di la Svizzera, senza maritatu, comu u‟ miscredenti … Vincenzo, lo interromppe: -Ma è n‟amica, sulu n‟amica chi vozi canusciri lu paisi, nun semu nenti! Pi dda è normali ca na fimmina e n‟omu si fannu u‟ viaggiu „nzemmula senza ca su nenti, ju mi l‟ajva scurdatu comu s‟arragiuna cca, fici sta spirtizza e mi nni pintivu amaramente! -E aspettassi ca spiegamu lu matrimoniu? -Assira l‟happi la conferma ca Teresina mi voli! -E chi conferma avissi di Teresina?- Vincenzo, non parla capisce di avere commesso un errore. Peppi tistulia. -Caru Vincenzu, ti scurdassi puru lu rispettu pi li cristiani. Iu detti la me parola a Ciciu Viulinu. St‟attentu a nun mettiri lu pedi nna lu postu sbagliatu. Vattinni ni dda fimmina svizzera e lassa „npaci la me famiglia, ca Teresina lu zitu l‟havi! Ora vatinni di cca jntra, ca mancu nni la stadda di la me casa c‟è postu pi tia! -Ricurdassisi ca vogliu beniri a vossia e a tutta la so famiglia! Peppi, stridendo i denti: -Vattinni! Vincenzo torna a casa della madre con il sangue che gli bolle. Il Russo invece immediatamente sale a casa a chiedere spiegazioni 58 BENVENTI A CAMICO sia alla madre che alla figlia. Dopo diversi sonori schiaffoni, Teresina confessa ogni cosa. Lui ha ormai il cervello che gli bolle, pensa solo che Vincenzo non ha avuto rispetto né della propria casa, né della sua famiglia e nemmeno di lui. Non si è preoccupato per niente della sua persona e di come la poteva pensare. “La Svizzera gli ha dato alla testa? O poiché figlio di suo padre non ha avuto paura di Peppi Russo?”. L‟arciprete nella predica della mattina aveva detto bene che l‟odio dentro l‟anima per un nemico è più dannoso del nemico stesso, ricordando Sant‟Agostino, ma ormai quelle parole e l‟ostia stessa fermentavano nel cervello insieme a tutto il bene che aveva fatto alla famiglia di Vincenzo e di ciò che n‟aveva ricavato: “tossico!” -Si fa comu dicu ju! Tu,- puntando il dito alla figlia -si la zita di Giuvanninu e ti scordi chiddu ca sucessi assira! Tu,- puntando il dito alla moglie -si responsabili di chiddu ca succedi cca jntra! Ju,abbassa la mano come le canne di un fucile- mi nni vaju „ncampagna comu si nenti fussi successu! Appena andato via, Teresina incomincia a piangere di un pianto acuto e silenzioso la madre la guarda, dopo un poco incomincia a tirarle i capelli e dargli ceffoni con tutte e due le mani, un‟ira bestiale ha preso possesso di Lorenza. Non una parola, ansimante la guarda con gli occhi infuocati. Teresina urla, presa dal terrore riesce a svincolarsi e fuggire scende la scala in un volo e uscendo entra dentro la casa di donna Antonietta dove trova Vincenzo, si abbracciano, sembra che proprio nessuno potrà svincolarli mai più. Donna Antonietta: -Chi succidì, Teresina? Teresina riesce solo a balbettare in mezzo al pianto. Nel frattempo entra Lorenza: -Unn‟è ca l‟ammazzu? 59 BENVENTI A CAMICO Quando la vede in quell‟abbraccio si mazzìa. Donna Antonietta, cercandola di mantenerla: -Chi c‟è? Bonu! Ca li vicini sentinu tutti cosi… Carmati, Lorè, „un fari accussì! Lorenza cade in ginocchio e in un pianto liberatorio. Nello stesso tempo Helen spunta e vede quella scena, osserva lentamente quelle persone che le sembrano sempre più personaggi di un dramma antico. -Assettati, veni cca!- fa sedere a Lagruenza, poi prende il boccale e un bicchiere -Viviti tecchia d‟acqua, carmati, lu modu lu truvamu! Teresina ora provava pietà della madre, sentiva pure vergogna, in un turbine di sentimenti, che cosa era diventata ora? Così si avvicinava alla madre supplichevole: -Mamà, matruzza mia … Lorenza, si è lasciata avvicinare dalla figlia che l‟abbraccia teneramente baciandola ovunque: -Quali riparu trovu? -Lagruènza li fidanzamenti su pi pruvarisi … Scunchiuditi cu lu figliu di mastru Ciciu e dopu jorna si fannu ziti iddi du e si cumina lu matrimoniu! -So pà, ammazza a mia e a idda vidè! -Peppi Russo „un ci po dari u‟ babbu pi la parola … Iu a Teresina nun la perdu, a qualsiasi costu! Durante questo parapiglia è arrivata la zza Ginuerfa, prima è entrata e poi ha chiesto permesso. Subito dà una guardata panoramica a tutti i presenti e come se nulla fosse, non riuscendo a rendersi conto di ciò che stava succedendo. Poi continuò: -Bongiornu a tutta la compagnia! Donna Antonietta, pinzava di truvalla sula … Vinni pi daricci la bona notizia ca fici zita a Carmelina cu Nenè, lu figliu… Donna Antonietta, interrompendola: -U sapemu cu è! -Lorenza, vali anchi pi tia, vistu ca si cca … 60 BENVENTI A CAMICO -Aguri. -A chi è Teresì? Ha na facci …- Continua a guardare tutti, si sofferma su Vincenzo, su Teresina e poi su Helen. -Sta matina sintivu na vociata … E vossia, nenti sentì? -Ginuerfa tarresti? Sedi. -No! mi nni ha jri haju tanti sirbizza … Sabatu facemu tecchia d‟aguriu. Vidi Lorè, festa chiama festa, li picciotti si „ncontranu e s‟annamuranu … M‟affirriari parenti amici prima ca lu sannu pi mucca d‟autri. Bongiornu a tutti!- Mentre va per uscire si è voltata- Chiddu ca cunta è truvari la manera di „un perdiri dda tecchia di dignità! Queste parole significavano che la zza Ginuerfa aveva intuito tutto, era troppo addentro la storia per non capire. Donna Antonietta: -Chista, pi mettiri „nsecunnu pianu la storia di so figlia di lu fattu nostru nn‟avi a fari u giurnali … La zza Lorenza: -La me casa è persa!- Si rimise di nuovo a piangere. Teresina: .Comu ama a fari?- Sbottando pure lei. Vincenzo: -Finemula di chiangiri, ca morti „nmezzu la casa „un ci n‟è! Di cu vi scantati? So maritu havi a ragiunari! Mamà ci ha parlari tu! Emucci „ncampagna, ora! .Amuninni! Helen: -Wo gemt ihr hin! Was istt denn los? Ich wilil auch mit Kommen.14 Vincenzo: -Bleibe doch hier! Gleich sind wir zuruck!15. Mastru Ciciu Viulinu mentre stava abbiancannu un dammuso riceve la notizia da una cognata, tra l‟altro, amplificata: “La casa di Peppi Russo è un bordello, appena lui va in campagna, la madre e la figlia, Teresina la zita di Giuvannino, se la godono con Vincenzo, lu figliu di donna Antonietta. La fimmina svizzera è d‟accordo, anzi, a idda ci piaci taliari”. 14 15 Dove andate? Che succede? Voglio venire pure io. Rimani, subito torniamo! 61 BENVENTI A CAMICO Mastru Ciciu, smette di lavorare e rincasa, ordina alla moglie di prendere l‟anello, che Giovannino mostrava a tutti e andarlo a riportare ai Russo per sciogliere il fidanzamento. Giovannino aveva un rispetto e timore, per il padre, assoluto, così quando volle l‟anello per sciogliere il fidanzamento disse solo: -Truppu bellu era pi essiri veru. -‟Un ti preoccupari nni truvamu natra meglio. -Veru papà? Teresina è bedda, ma corna „un ni vogliu! Supra un pedi mastru Ciciu Violinu e signora si presentano in casa Russo, trovano Lorenza stracangiata di facci, che li ospita come se niente fosse stato. -Assettativi … Prese la parola Mastru Ciciu, rimasto all‟impiedi: -Cca c‟è l‟aneddu di fidanzamentu! Vulissimu chiddu nostru … Lorenza senza battere ciglio va e ritorna con l‟anello, e lo porge alla madre. Mastru Ciciu con fare risoluto ma formale: -‟Un ci fu vuluntà di Ddiu! Arrivederci!- Così marito e moglie votarunu tunnu e se ne andarono. Intanto la povera vecchia di donna Antonietta si trovava a cospetto di Peppi Russo che vedendoli arrivare lasciò perdere di lavorare e s‟apprestò a la robba. Seduti dentro la casa, attorno al tavolo, Peppi, salutò donna Antonietta: -„Assabenedica- E diede una taljata che non significava niente di buono a Vincenzo. Donna Antonietta, prese la mano del figlio e stringendola gli disse: -Senti, aspetta tecchia fora. Il figlio ubbidì senza battere ciglio. Donna Antonietta per nessuna ragione avrebbe pronunciato una menzogna, perciò a Peppi Russo gli disse come stavano realmente le cose e quello che era accaduto, rivelandogli anche, il pericolo che Ginuerfa avrebbe diffuso la notizia in un batter d‟occhio. 62 BENVENTI A CAMICO Vincenzo si mise a giocherellare con un cane cirineco, ottimo per la caccia, quando udì con voce rotta a Peppi: -E‟ na questioni di rispettu! La stessa frase che, mastru Ciciu scendendo dal cortile si voltò a guardare la casa di donna Antonietta, disse alla moglie: -E‟ una questione di rispettu! Peppi Russo, dopo qualche ora scese a condizioni: -La fimmina svizzira havi a scumpariri! E ddopu cu karma, si fannu l‟atri passi. Donna Antonietta chiamò il figlio dicendogli: -A st‟omu cca ci ha purtari sempri rispettu, sti paroli me marchiatilli cu lu focu „ntesta! Abbrazzativi, ca è giustu accussì! Madre e figlio tornarono subito, ancora era mattino, perciò si era in tempo per fare partire a Helen. La sera quando Peppi Russo, trovò la moglie ad aspettarlo con la testa bassa e il colore della morte in volto, come chiese dei Violino, dalla risposta avuta, capì che lu tettu di la paglialora hajva pigliatu focu. Vincenzo, spiegò tutto a Helen. Lei non riusciva a capire, tranne che l‟illusione maturata di un suo possibile rapporto di coppia con Vincenzo era per sempre sfumato. E che lui non si era accorto di quel suo innamoramento. Lei aveva intrapreso il viaggio solo per quell‟amore. Così Helen pianse … Donna Antonietta tistuljava. Helen intuiva l‟anomalia della sua presenza, così si convinse che era giusto andare via, senza aspettare ulteriormente, quel giorno stesso. Vincenzo andò alla stazione di Agrigento a prenotare il biglietto. Helen rimasta con donna Antonietta le diceva ogni tanto: -Mamà …- e l‟abbracciava. Lei s‟inteneriva e le rispondeva: -U Signori „un vozi … Helen così preparò le valigie, tornato Vincenzo non ha avuto tempo di pranzare ripartirono per Agrigento. Donna Antonietta la volle accompagnare in stazione. Nel quartiere la gente assisteva 63 BENVENTI A CAMICO curiosa Helen che partiva accompagnata da donna Antonietta, la quale si sentiva gli occhi addosso e provava un forte imbarazzo, ma sentiva di farlo quel gesto di rispetto verso quella figlia arrivata da così lontano. L‟ultimo vagone del treno scomparve dalla curva e donna Antonietta pensò che un problema almeno, era stato risolto, però al figlio disse ed era vero: -Na bedda fimmina è, mi ci ajva affiziunatu. Vincenzo, così si stabilì a casa sua. Donna Antonietta andò da Lorenza ad informarla che Helen era andata via, anche se non vi era di bisogno perché avevano visto dalla finestra a vanidduzza. D‟altro canto Lorenza la informò della visita di Ciciu Viulinu e moglie e della spartenza. Quel giorno sembrò finire nel migliore dei modi, le cose prendevano il verso giusto. Che i Viulinu ci pigliaru di prima è stato, sicuramente un bene. Vincenzo, quella sera non uscì si sentiva scosso, seduto al tavolo di fronte al ritratto della Bonarma aveva il cuore inquieto sembrava che d‟aldilà l‟arriprinniva, quasi quasi sentiva la sua voce: -Vicenzu, l‟anuri si perdi na vota sula e pi sempri, tenitillu caru! Erano reminescenze dall‟infanzia, quando il padre aveva già incominciato ad “educarlo”. Vincenzo ascoltava, ma quelle parole sembravano scivolare via senza significare gran che, ora risorgevano vive e piene di significato. Nel suo letto dove era cresciuto, sembrava di navigare in un mare pieno di ricordi, riviveva quelle ansie, gioie, speranze e stanchezze, dopo un bel po‟ prese sonno, profondamente. Erano quasi le tre di notte e sognava la festa di paese, la banda musicale che suonava, la gente tutta con il vestito da festa che giubilava, stava uscendo la Madonna dell‟Assunta e la batteria sparava. Quegli spari della batteria del sonno nella vita reale era qualcuno che bussava alla porta con insistenza e forte. 64 BENVENTI A CAMICO Donna Antonietta, svegliatasi dal suo sonno leggero, s‟inquietò: -Cu è? -Carabinieri!, Ha avuto un sussulto, si sconvolse ancor più scese subito dal letto e svegliò il figlio, poi andò ad aprire. Vincenzo di soprassalto fu prima di lei alla porta. -Scenda! La sua auto ha preso fuoco! Si abbigliò con quello che trovò in fretta inciampando nei sandali più di una volta fu giù. Era stato fatto un bel lavoretto … La 1100 aveva preso fuoco para para … Capì subito che l‟incendio era di natura dolosa. Il tappo della tanga era stato tolto non vi era paura che scoppiasse. Il maresciallo: -Deve venire in caserma, ritengo che l‟incendio è di natura dolosa. La strada dove si trovava l‟auto era reggia, portava in piazza. Nonostante quella calura, le finestre erano tutte chiuse. Dopo un po‟ arrivarono i pompieri ed estinsero il fuoco, era rimasto solo il telaio. 65 BENVENTI A CAMICO La luce del Sole Maresciallo: -Avete avuto qualche discussione in paese? Vincenzo, rispondeva con un “sntc”, quel no siciliano che non si può scrivere, uno scoccare di lingua con la volta palatina, accompagnato da un‟alzata di testa. L‟appuntato: -Marescià, come scrivo? -No! Come devi scrivere? -Allora non scrivo? -Appuntà, ci dobbiamo sbrigà! Devi scrivere: l‟interrogato a domanda risponde no!- Poi il comandante si rivolge di nuovo a Vincenzo -Qualcuno vi ha chiesto un favore?” -Sntc! -Qui c‟è un carteggio abbastanza pesante su vostro padre, ricorda qualcosa del suo passato? -Sntc! -Va bene ho capito, se la vuole sbrigare da se, attento però! Noi faremo le nostre indagini. Se succede qualcosa in paese a chiunque la prima porta che busseremo sarà la sua. Va buoh? Può andare! Vincenzo esce dalla caserma già con la luce del sole. La gente si era svegliata e riunita a piccoli rutulacchi, parlottava e al suo avvicinare, si zittiva. Non appena salita la gradinata del cortile vedeva persone che assisteva la scena di Lorenza e Teresina che piangeva e Peppi Russo con un paio di corna di bue, con una scocca rossa, in mano che urlava: -Si chistu è omu mi l‟hava a viniri a diri „nfacci ca sugnu curnutu! Donna Antonietta, cercava di calmarlo così lo spingeva verso casa: -Bonu Peppi! Trasi intra! „Un fari inchiri li fasdi a li cristiani! Nello stesso tempo Vincenzo arriva: -Zzu Pe, trasissi intra ca parlamu! Così entrarono in casa di donna Antonietta, che chiude la porta. Peppi racconta a Vincenzo, che era andato alla stalla e la moglie l'aveva seguito, quando Lorenza stava rientrando in casa, 66 BENVENTI A CAMICO sentì che urlò, all‟uscire fuori vide appesi sullo stipite della porta e con voce rotta mostrandole ripeteva: -C‟eranu chisti! Vincenzo, glieli tolse di mano, le prese e con calma gli disse: -Chisti mi li pigliu ju, ca hann‟a turnari a lu ligittimu propetariu! Lorenza piangeva e ripeteva in un filo di voce: -Chi vrigogna! Donna Antonietta con quella forza che la distingueva, che si percepiva nella sua voce rassicurante: -Lagruè, „un fari accussì! La verità natri la sapemu, a la fini è chidda c‟acchiana a galla! Quando poi rimase sola con il figlio parlò con fermezza: -Chiesta è opira di mastru Ciciu Viulinu! Dda lurdazza di Ginuerfa sa chi misi „ngiru supra di tia e Tirisina? Dda Bonarma sti così li risurbiva, quattro e quattr‟ottu!- S‟avvicinò al ritratto e con una mano accarezzò la doppietta- Sti cosi „npaisi „un si ponnu fari senza pirmissu. Cu ci detti u pirmissu senza vidiri i fatti comu jeru veru e propriu o è nostru nnimicu o sbaglià. Si Ciciu Viulinu fici di testa so, allura sbaglià iddu! -Ju ora ci vaju e sti corna ci li fazzu agliuttiri! -Unni và? „Un ti scurdari ca si figliu di to‟ pà! E t‟ha cumpurtari comu è giustu! Facemu li cosi giusti comu s'hann'a fari! -Pinzava ca jennuminni d‟u paisi putiva scappari di lu me distinu, m‟abbastà mettiri un pedi supra sta terra pi faricci parti arrè! Mi purtavu a Helen pi fari a capiri a tutti ca ju eru natra cosa. -Ora ti trovi nni u‟ biviu: o pigli lu trenu e ti nni torni a la Sguizzira e ti scordi a Tirisina, a sta terra e a mia; o t‟arresti e risorbi cu onuri tutti cosi! -M‟arrestu, m‟arrestu! -U Signori t‟aiuta! A jri a parlari a Ninuzzu Ferru, iddu si la fa a lu Circulu Civili, parlacci a cori apertu e vidi chi ti dici. Li risposti ponnu essiri tri: “sacciu tutti cosi però tu affinnissi mastru Ciciu ca ci „mportunassi la zita di so figliu nna la festa di finanzamentu”; allura Ciciu Viulinu happi lu so pirmissu; oppuru: 67 BENVENTI A CAMICO “comu si pirmisi? Facilla pagari”; allura happi lu so pirmissu è u‟ nostru nimicu e t‟agguardari d‟iddu; s‟arrispunni, ammeci “videmuni sta sira”; allura lu pirmissu „un fu datu d‟iddu e ci voli vidiri chiaru pi dariti na risposta! Bussarono alla porta: -Donna Antuniè, Albertu cu Carmini di Rosa sugnu, c‟è Vicenzu? Vincenzo li fa entrare invitandoli ad entrare, richiude di nuovo la porta Alberto: -Sappimu a notizia e vinnimu si c‟è quarche cosa chi putemu fari -Grazij! Priparassici un cafè a st‟amici. Carmini: -Grazij, ni lu hajvamu pigliatu prima di viniri! Albertu: -‟Ngiru si dici cca tu eratu in relazioni cu Teresina e la matri videmma. Don Ciciu Viulinu sappi la cosa e spartì lu figliu! Peppi Russu truvà un paru di corna cu na scocca russa „ncapu lu sarduni di la porta e si la scuttà cu tia, abrusciannuti la machina. Donna Antonietta: -Ah Ginuerfa! chi mali pò fari la lingua! Carmini: -La svizzira „un c‟è? Vincenzo: -Ajeri partì e menu mali … Amuninni ca niscemu. Vogliu ca mi vidinu tutti caminari tranquillu a la luci d‟u suli! 68 BENVENTI A CAMICO Circolo Civile della Cultura e della Caccia Grand‟Italia A qualcuno potrà sembrare strano, ma in questo circolo si decidevano le sorti del paese e d‟ogni suo singolo abitante: bestia o cristiano che sia. Il Circolo Civile della Cultura e della Caccia prima era solo “della Cultura”, dopo l‟instaurazione della Repubblica si aggiunse: “e della Caccia”. Ubicato in piazza Vittorio Emanuele II nel lato di fronte la Caserma dei Carabinieri, in un vecchio palazzotto ad un piano, con due stanze grandi e una più piccola, sia nel pianterreno che al primo piano. Arredato con un mobilio di noce laccato, fatto apposta da un artigiano di valore, donato dal barone alla fondazione del circolo, avvenuta nel 1835. Veniva frequentato dai notabili del paese, sia cattolici che mancia preti, e da qualche cappiddazzu. Nello stanzone all‟ingresso vi era un grande ritratto di Garibaldi, accanto il quadro della Madonna dell‟Assunta e all‟angolo il busto marmoreo del barone padre, un salotto ormai con le fodere consumate e una libreria con vecchi libri mangiati dalla polvere, proprio „nfacci vi era la stanza del presidente del Circolo. Il presidente era il farmacista Aosta, ma l‟ufficio della presidenza veniva utilizzato da don Nino Ferro, il quale riceveva di continuo visite riservate. I Circolo aveva visto salire e cadere diversi regimi, ma i suoi soci, anche se hanno assecondato ogni regime, non hanno mai cambiato il loro modo di pensare gattopardiano: un pupu vali l‟atru. Sia con i Borboni che contro e viceversa, sia con i Savoia, sia con il fascismo che contro. La povera gente per un favore, o per un documento firmato, doveva andare sempre al Circolo Civile Grand‟Italia, perché il nobile, il podestà e poi il sindaco si trovava lì dentro. I più vecchi narravano che quando Garibaldi passò dal paese si era fermato a bere un bicchiere d‟acqua dentro il Circolo. Di sicuro una leggenda, sarà passato qualche suo luogotenente magari 69 BENVENTI A CAMICO che gli somigliava, come capitò a Girgenti dove lo scambiarono con il capitano Agnetta. E anche Mussolini quando passò si fermò e chiese dell‟acqua e disse: -Metteremo le fontanelle in ogni quartiere! E così fece … Quando ultimamente era venuto a tenere un comizio uno dei tanti presidenti di governo democristiano, invece si portò tutti i soci a ristorante. Vincenzo, appena entrato, chiese al cameriere se c‟era don Nino Ferro, c‟era, ma era occupato. -Assettiti e aspetta ca comu si libira ci dicu ca ci si tu. Degli anziani erano seduti che giocavano a carte davanti al Circolo sotto l‟albero, dentro il provessuri Sasà si stava leggendo il giornale. Quando alzò gli occhi e lo guardò da sopra gli occhiali: -A tu cu si Cecè? -Sissi provessù, si ricorda di mia?! -Unni ha statu? Assà avi ca „un si a lu paisi! -A la Svizzira. -Beni Cecè … Piccatu ca „un studiassi, eratu bravu a la scola! Dalla stanza escono due forestieri vestiti di lutto stretto: un anziano e uno giovane, ancora che ossequiavano e salutavano indietreggiando don Nino. Dopo Vincenzo senza attendere il cameriere entra: -C‟è pirmissu? „Assabenedica don Ninu! Don Nino, un po‟ seccato: -E tu cu sì? -Vicenzu sugnu, „un si ricorda? Cu me patri, jvavu sempri a caccia „nzemmula? Il don si alzò e gli andò incontro: -Vicinzuzzu, lu figliu di dda Bonarma, granni amicu miu, m‟ha scusari ca „un ti canuscivu, veni cca assettati. Cuntami c‟ha fattu tuttu stu tempu? Unni ha statu? -A la Svizzira. 70 BENVENTI A CAMICO -L‟America è l‟America! Me ziu Ambrogiu quannu partì ajva na gjacchetta e un paru di pantaluna scirati … Ora li me cuscini sunnu ricchi e potenti. L‟America è l‟America! Terra di libertà! Vincenzo dopo avergli fatto un breve riassunto della sua vita gli sintetizza tutti i fatti ultimi con precisione e chiarezza, anche della tabacchera del contatore. -Sicuramenti vossia sappi ca sta notti m‟abrusciaru la machina …Don Nino fece cenno di si con la testa. -E stetti finu ca fici jornu a la caserma. Lu marasciallu vuliva sapiri di mia s‟hajva avutu quarche discussioni „npaisi. Don Nino, avvicinantosi a breve distanza: -Chi ci arrispunnisi tu? -E chi ci arrispunnivu: no! -Figlio di to‟ pà! -Quannu vaju p‟acchianari li scaluna di lu curtigliu unni staju, s‟intiva jttari vuci a Peppi Russu cu un paru di corna mmani.- Don Nino fece cenno con la testa per affermare che sapeva anche questo fatto. -Ora dicissimi c‟ha fari? Don Ninu, sorridente ironico: -E chi ti pozzu diri ju? Certu ca dopu tantu tempo ca turnassi a lu paisi, ca succedunu sti fatti a lu figliu di lu meglio amicu c‟haju avutu nni la me vita, mi dispiacinu! T‟jssi a purtari sta fimmina appressu e guastassi tutti cosi.- Vincenzo acconsente con la testa. –To‟ patri era n‟omu di cori granni! E si trovava sempri pi l‟amici e pi la povera genti. Mi ricordu ca na vota, quannu la fami era fami! Mi chiamà: “„npari Nì sta notti jtivi a pigliari du sacca di frummentu nna li magasè di lu baruni a la Cuba ca natri semu a Funtana Sicca!” E mangiamu tutta la famiglia! Cu si li po‟ scurdari st‟azioni? Omini accussì „un ni nascinu cciù!- Vincenzo scrutava quel viso d‟anziano che si emozionava e a nominare il padre si vedeva in maniera proprio palese che gli veniva da piangere. -Ora cca „navanzi di mia ci si tu, sangu sò. Addumannami chiddu chi vo‟! -Dicissimi c‟affari! 71 BENVENTI A CAMICO Don Nino, con espressione austera: -L‟haiu vistu ca Ciciu Viulinu urtimamenti ha jsatu assà la testa! Ci pensu ju a fariccilla calari. -M‟hava a scusari vossia, ma l‟offisa fu fatta a mia … -Dda Bonarma, a la to‟ età era tuttu a tia! Comu ci tirassi li pila?! Permetti ca ti dugnu na mani d‟aiutu?- Vincenzo acconsentì con la testa. Ciciu Viulinu si fici u‟ villinu „ncampagna e iddu ci teni cchiossà di la muglieri, ci havi: gaddini, purcidduzzu, cani. E cu ci ha tuccatu mai nuddu na cosa? Si fici la jarda cu li ciuri e l‟urticeddu, quannu havj u‟ minutu di tempu u v‟ha passa ddocu. E‟ a du passi d‟u paisi. Videmu si di na notti sta reggia ci scomparisci, iddu nun cala li corna „nterra! Sta sira ti mannu du picciotti ca t‟aiutanu e t‟organizzi, vattinni ora! Salutami a dda santa di to matri. -„Assabbenedica don Ninu! 72 BENVENTI A CAMICO Il gran botto Erano già le ventitré e Vincenzo è stato chiamato da Giovanni, un picciotto ancora sbarbatello: -Vicè me frati t‟aspetta nni la strata „ncapu la machina! -Amuninni! Donna Antonietta rimase immobile non lasciò trapelare nessuna emozione. Gasparu, il fratello di Giovanni, era sopra una seicento Fiat con il motore acceso: -Bona sira Vicè, tutti cosi pronti avemu, amuninni! Trentenne, un corpo asciutto ma forte e carnagione scura olivastra, capelli all‟indietro, soldato lui e suo fratello di don Nino. -Natri ni canuscemu? Tu „un si Gasparu? -‟Un ti ricordi ca travagliavamo „nzemmula a la muratura, cu mastru Giurlannu? -E nni spalamu rina… Sempri a la muratura travagli? -No! Don Ninu mi fici trasiri a la minera di sali e fazzu lu signori, m‟accattavu sta machina; senti chi muturi? Albhart! Certu ddu machinuni chi purtassi tu … Piccatu … A ora si nni penti l‟amicu nostru.- Giovanni se ne stava dietro in silenzio. -Chi ci ha „ntrusciatu nni sta pezza? -Chisti a travagliu finutu ci l‟ama lassari ddà! Arrivati nelle vicinanze della campagna di mastru Ciciu Viulino scendono, Giovanni con la doppietta e una scatola di legno e Gasparu teneva una calibro 38 a tamburo. Gasparu prese dalla Seicento un bidone giallo di cinque litri e un piede di porco si accostò alla porta e la forzò aprendola: -Trasi Vicè, ca ti fazzu abbidiri comu si travaglia!- Così prese una bacinella dove versò la benzina. -Vicè addumamuni na sigaretta! Vincenzo gliene offrì una e una la imboccò lui. Gasparu prese un pacco di cerini accese prima a Vincenzo e poi lui, lo lasciò aperto e lo mise a mo‟ di barchetta dentro la bacinella. 73 BENVENTI A CAMICO -Vicè dammi la to sigaretta.- La poggiò sopra il pacco di cerini. Poi si avvicinò alla cucina aprì la bombola del gas e tutte e tre i fornelli della cucina -Amuninni! Avemu tempu d‟arrivari „ncapu la machina.- Uscirono e richiuse per bene la porta. -Semu pronti! Tu completassi? Giovanni: -Appostu! Vincenzo strusciò le corna con il nastro rosso e le piazzò proprio all‟ingresso della stradella che portava alla casa. Il gas saliva in soffitta e incominciava a saturare l‟ambiente così scendeva verso il basso. Intanto il mozzicone di sigaretta era arrivato alla composta accendendola, di conseguenza anche la benzina provocando una fiammata alta un metro. Erano arrivati presso la seicento, Gasparu tese l‟orecchio, non tardò un attimo un gran botto che intonò per tutta l‟aria. Salirono e andarono via. In paese sentirono questo boato, la gente si chiedeva cosa fosse stato, affacciatasi tutta. Il maresciallo si era coricato sentendo il botto disse alla moglie che dormiva accanto: -Cosa succidì!- Girandosi di fianco. -Domani vediamo che cosa!E si addormentò. Ciciu Viulinu, non poteva prendere sonno, si girava dentro il letto rimanendo intrappolato con il lenzuolo, hajva lu scuetu. Quando si alzò di scatto: -A jri „ncampagna! Lu bottu mi parsi ca viniva di ddà! La moglie: -No! ma chi dici? Dumani a jornu si vidi! -E cu stà finu a dumani? Appena arrivato con il cuore in gola vede nel chiarore della luna qualche fiammella accesa ma quel scenario familiare era diverso, non credeva, o non voleva credere, che mancava la casa, ormai un cumulo di macerie, quando tremante s‟incamminò per la strada inciampò sulle corna, -e figliu di buttana!- vide tutti l‟armaluzzi scannati e sbottò a piangere cadendo in ginocchio. 74 BENVENTI A CAMICO La gente in paese già alle prime ore, non appena alba, sapeva chi come e quando. Il maresciallo la notte stessa era stato catapultato fuori del letto, e seccamente si convinse che si stava esagerando per un fidanzamento mancato o per una questione di corna, come già aveva saputo da informazioni assunte. Prendeva il caffè e pensava: “Qui, o l‟informatore si è sbagliato o sotto sotto c‟è di più”, così gridando come un ossesso: -Andatemi a chiamare Vanni Buffa, ditegli che ho le palle girate e deve presentarsi ora, subito „npressa a „npressa! Vanni Buffa traffichiava in paese tra sbirri e gente di malaffare, facendo l‟usuraio e „ncravattando la povera gente. Non faceva niente tutto il giorno, se ne stava al bar ad offrire caffè e a giocare a carte. Un tipo losco sempre ben vestito, per lui era sempre festa. In paese si diceva che aveva un debole per le ragazzine e anche ragazzini. Si diceva pure che qualche madre, che aveva contratto debito all'insaputa del marito e messa alle strette dal Buffa, ha ceduto alla sua richiesta sacrificando la figlia ancora ragazzina. Passava informazioni alla caserma e anche a don Nino, portando da una parte e l‟altra anche messaggi. Quando a don Nino interessava che il malfattore doveva essere scoperto e arrestato, era lui stesso che passava l‟informazione minuziosa a Vanni Buffa. E il maresciallo sapeva come ringraziare, magari guardando da un‟altra parte quando c‟era di bisogno. Insomma Vanni Buffa era indispensabile alle parti, per questo un fangu come lui non l‟ammazzava nessuno. Vanni si presentò come un lampo: -Marescià, chi bottu?! -Senti Buffa, mi stai prendendo per i fondelli? Peppi Russu o Vincenzo non sono persone di potere fare quest‟opera da professionisti e poi questa è impresa di quattro cinque persone, tutte capaci. -Ciciu Viulinu, di sti nnimici, comu dici lei, „un n‟havi, anzi ci ha statu in boni rapporti … 75 BENVENTI A CAMICO -Ho l‟impressione che mi nascondi qualcosa, Buffa … S‟è così, quant‟è vero Dio, ti metto ai ferri, Buffa! -Marescià senza ca minaccia, cu sti ferri, chi sugnu bistecca? -Ci stai scassando u cazzu! Parla con chi sai tu e questo pomeriggio stesso voglio sapere … va bò? Sono stati chiamati in caserma sia Peppi Russo che Vincenzo. Peppi Russo di fronte al maresciallo era diventato incapace di muovere la lingua, non riusciva articolare la bocca, era pronto all‟infarto. Vincenzo ormai era la seconda volta, ma il maresciallo era stato più incalzante, lui se ne usciva con quel “sntc!” che lo faceva innervosire ogni colpo di più, tanto che formulò minacce d‟arresto subito, poi li lasciò andare. Peppi Russu quando si alzò dalla sedia scoprì che non si reggeva in piedi e si dovette sedere di nuovo, poi la voglia di fuggire via da quel posto gli diede la forza di alzarsi e camminare. Vincenzo nemmeno salutò, prese per le spalle teneramente a Peppi e gli disse: -Amuninni. Don Nino s‟aspettava la visita di mastru Ciciu Viulino che non tardò ad arrivare. Dopo essersi ripreso dallo sgomento e prima di parlare con chi che sia, anche con il maresciallo stesso, Ciciu doveva conferire con don Nino. Il don si trovava a casa, aveva sentito il gran botto affacciato al balcone tra i garofani rossi e gialli che pendevano, così rientrò e si accomodò nella poltrona del suo soggiorno. Il tempo fuggì tra pensieri e ricordi, quando sentì gracchiare il cicalino della porta, rimuginò: “pensu sempri di faricci canciari sta sunaria quannu sona e po‟ mi lu scordu”. Donna Faustina già coricata da un pezzo, si era svegliata, aveva una voce sgradevolmente rauta e maschile. Fratello e sorella abitavano in una grande casa, acquistata, per modo di dire, dal barone, da soli, tutti e due schetti vecchi: 76 BENVENTI A CAMICO -Ninu, Ninu! -Faustina, dormi! Cca sugnu … -Cu è a chi stura? -Amici, dormi! C‟era un laccio che apriva la porta, bastava tirarlo da sopra, così dischiuse, spuntò mastru Ciciu Viulino con in mano, qualcosa di voluminoso incartato. A vederlo così concitato a don Nino gli scappava da ridere, in ogni modo si trattenne. -„Assabenedica don Nino, m‟hava a scusari ca lu staju disturbannu … Ci avissi a parlari … possu? Don Ninu, dall‟alto guardava giù ai piedi della scala quel mischinu e gli disse: -Acchiana … acchiana … Mastru Cicio, salì come il vento: -M‟hava a scusari si staju disturbannu, ma l‟importanza di lu fattu chi mi succidì prima ca parlu … Don Nino, lo interruppe: -Assettati, pigliati tecchia d‟archemisi ca ti rianimi. In quel soggiorno vi era solo una lampada accesa con il piede all‟angolo, il lampadario lo teneva sempre spento. La comodità del divano, la penombra e quel liquore, diede un po‟ di calma a mastro Cicio: -Lu sintì lu bottu?- Don Nino rimase impassibile come per dire: è inutile che ti rispondo. -Arrivavu „ncampagna e la casa u‟ c‟era cchiù …- lacrimevole -L‟armaluzzi? tutti scannati! Taliassi chi truvavu!- e strusciando dalla carta gli mostrò le corna. Don Nino, provò fastidio a vedere quelle corna in casa sua: -‟Ntruscia sti cosi! -Ora ju prima ca m‟haju arriminatu haju addumannatu cunsigliu a vuscenza! Don Nino, non faceva pagare il pizzo a nessuno, ma chi gli decorava la casa gratuitamente, chi gli regalava un agnello, gli mostrava il rispetto, o timore. Don Cicio è stato sempre ai suoi 77 BENVENTI A CAMICO doveri. Quando concluse il fidanzamento del figlio, andò al Circolo a trovarlo e don Nino gli disse: -Vò ca l‟arragiunamu? Mastro Ciciu, fu risoluto: -NO!- Così gli disse dell‟idea delle corna a Peppi Russu che si dava quell‟aria di omu seriu … Don Nino, non ebbe niente in contrario. Ma l‟auto di Vincenzo bruciata è stata senza permesso. -Don Cì, ma la machina a ddu piciottu … pirchì? -Ju? Iu „un nni sacciu di machina abrusciata! Ci lu giuru su l‟armuzza di me patri! E quando un siciliano giura sui propri morti allora dichiara assolutamente la verità. Il popolo Siciliano è l‟unico in Italia che non bestemmia i morti, anzi li festeggia e educa i bambini a rispettarli facendo trovare giocattoli e dolcetti a loro proprio il giorno della commemorazione dei morti. Ricordando ai bambini di non aprire gli occhi la notte, perché i morti non vogliono essere visti e se si accorgono vi li scippanu! La sera dell‟uno novembre, i bambini prima di addormentarsi strizzano gli occhi, mentre non appena addormentati i genitori sistemano la wantera di cosi duci, taralli, moscardini, frutti di marturana, ossi di morti, con i pupi di zucchero coloratissimi e tanti giocattoli in memoria dei propri cari defunti. Cibandosi di quei dolci donati dei morti inconsciamente è come nutrirsi dei morti stessi per rifarli rivivere nei bambini con tutte le loro virtù e le personalità. Per questo alcuni dolci si chiamano ossi di morti e altri hanno la forma umana come i pupi di zuccaru. Altro che halloween che significa ben poco per noi Siciliani ma anche per loro anglosassoni. Don Nino rimane impassibile e in silenzio; aveva la lampada di spalle, così l‟interlocutore, non vedeva bene la sua mimica facciale, mentre lui aveva bene illuminato il volto di mastru Cicio, che trasudava impaziente di un responso. 78 BENVENTI A CAMICO Mastro Cicio era ben assestato con un viso rotondo e due occhi con le palpebre pesanti e scure, poi teneva un baffettino curato proprio sopra il labbro, una forma di civetteria che piacque alla moglie quando era sposina. Il silenzio già perdurava da un po‟, così don Cicio sbottò: -Don Ninu! Don Ninu! Il don Ninu, con voce pacata: -Pensi ca Peppi Russu fu capaci, mentri tu ci appizzavatu li corna narrè la porta, ij‟ a abrusciari la machina a Vicenzu e stanotte ij‟ a fari satari all‟aria la tò casa? -Vossia chi dici? -Atri storij, mali paroli, cu atri „un ha avutu? Ca macari n‟appruffittaru ora? Mastro Cicio, se ne stette un po‟ a pensare poi: -Nna pocu di misi narrè happi na storia me muglieri cu la muglieri di Petru Cacaossa, chiddu ca va vinnennu frutta cu la lambretta, la richiamà, ca me figliu Giuvanninu da finestra ogni sira la taliava e chi sacciu chi cuminava … E si nun la smittiva u diceva a so maritu, e comu vuliva finiri finiva. -Petru … si ca è u' beddu tipu! -E la machina di Vicenzu? -Nni stu paisi di quattru gatti „u‟ si sta capennu cchiù nenti … -Happi a essiri Peppi Russu, comu ci quadiaru li corna. -Bravu! -Chi ci dicu a lu marasciallu? -A verità è ddà „ncampagna, lu restu su paroli! -Chi fazzu? -Chi vo fari? Pirchì sa cu potti essiri veramenti? -Iu sparu a Peppi Russu a Petru Cacaossa e a Vicenzu! -La vo‟ la scupetta? O na mitra amiricana? Però penza ca forsi si ti ricordi beni quarche atra storia scurdata cu autri c‟è sicuru! -Vossia sapi quarche cosa e „un voli parlari! -Mastru Cì, vatinni intra e riposati l‟armu „npaci! -M‟hava a scusari si sbagliavu a parlari. 79 BENVENTI A CAMICO -Ti scusu! Cu lu misteri chi fani capita sempri quarcunu di mali „ntenzioni e quarche diverbiu … -Certu! Chi fazzu? -Va‟ „ncaserma e va‟ fa la denunzia ca po vidiri guai si ritardi, ju vidu unni pozzu arrivari. „U fari minchiati! Così si alzò conseguentemente anche Mastro Cicio e a spalle basse stava andando via. Don Nino, prese quelle corna incartate e glieli diede: -‟Un ti scurdari sti cosi cca intra, te! Portatilli! A mastro Cicio gli sembrava di camminare sopra le nuvole, forse dovuta all‟alterazione della pressione, così scese la scala, un gradino alla volta e lentamente, tenendosi saldamente al passante. 80 BENVENTI A CAMICO Orlando e Rinaldo Era già mattino. Vincenzo se ne stava in casa, seduto al tavolo di fronte la foto della Bonarma, dentro aveva un miscuglio d‟emozioni che litigavano tra loro, la Svizzera gli sembrava il ricordo, evanescente e sempre più debole, di un sogno fatto molte notti fa. Donna Antonina scrutava dentro il figlio e intuiva il suo travaglio interiore: -Vicenzu, figliu miu, t‟ha guardari d‟iddu, è tragidiaturi! -E comu si spiega ca mi detti st‟aiutu? -Si scanta di tia! E ti voli amicu, prima ca pigli natra strata e t‟havi „navanzi comu nnimicu. -Ma quali nnimicu?! Ju mi nni vuliva turnari a la Svizzira! -Pirchì armassi allura stu focu cu Tirisina? Abbastava ca lassavitu iri li cosi nna lu so versu giustuv… Fu sta to‟ pinsata ca priuccupà a Ninuzzu Ferru! -Eranu accussì amici cu me patri? -To‟ patri si fidava, ju no! „U mi piaceva comu mi taliava quannu to‟ patri era vutatu, ddi pocu voti chi ni 'ncuntramu. A lu funerali comu lu vitti, „un sacciu pirchì, m‟arrivuddivu! -Hama a spubblicari stu fidanzamentu a cchiù prestu! -Parlavu cu Peppi Russu e Lagruenza, vonnu tecchia di tempu ca s‟arrisedinu li cosi. -Accussì vidu chiddu c‟affari, si m‟arristari? Si mi nn‟a jri? Il paese sembrava avere una calma irreale, immerso in una luce prepotente, e di un‟ombra nerissima, le mura di gesso riflettevano quella luce, solo le rondini affollavano le strade con i loro voli a raso terra e le impennate verso l‟alto. Vincenzo camminava sprofondato nei pensieri, sembrava integrato nel contesto completamente, ora faceva parte della vita, della storia, di quella terra, non era più alienato come spesso gli capitava di sentirsi in Svizzera e nei primi giorni del ritorno. Passò di fronte il Circolo e gli anziani che giocavano lì davanti, che altre 81 BENVENTI A CAMICO volte non si erano nemmeno accorti del suo passaggio, questa volta lo salutarono tutti con rispetto. Quasi come un‟attrazione inspiegabile entrò e vide don Nino. Se ne stava all‟in piedi che parlava e teneva banco con alcuni acculturati notabili del paese. Come lo vide: -Vincenzu, chi gradita sorpresa, mi vinissi a truvari? Lu viditi? Cca intra c‟è puzza di vecchiumi, avemu bisognu di giovani! Murennu natri quattru vecchi potemu chiudiri li porti. Bravu Vicenzu! -„Assabenedica don Ninu! Bongiornu. I notabili, non solo risposero al saluto, ma lo fecero chinando la testa. Vincenzo era diventato visibile a tutti, anche a loro, non più oggetto di curiosità. -Trasi, ca parlamu tecchia „nzemmula. Scusati! Entrarono nella stanza presidenziale. Don Nino chiuse la porta. Vincenzo, dopo che si furono sistemati: -Lu marasciallu mi chiamà „nzemmula cu Peppi Russu. -Giustamente chiddu havi a fari lu so‟ misteri. Quannu ognunu fa lu so misteri pari ca lu munnu firria giustu. Lu sbirru havi a fari lu sbirru, lu viddanu havi a fari lu viddanu. La cosa si guasta quannu lu viddanu voli fari lu sbirru e lu sbirru voli fari lu viddanu. Ognunu di nautri havi na parti assignata, di lu Signori, di lu Distinu, „un si sapi, ora, unu comu la po‟ fari sta parti, comu po‟ fari finta di nenti. Però, si unu veni chiamatu pi metiri, si piglia la faci e ci và, si cala e ancumencia a metiri, ci cummeni ca ne si vota, ne s‟arristassi narrè, pirchì po pigliari quarche corpu di faci nni la facci.- Vincenzo notava che don Nino era abbastanza loquace e di buon umore, ogni tanto chinava la testa, acconsentendo al pericolo del ripensamento. -Ti nni vo‟ turnari arrè a la Svizzira? -Prima ha sistimari li cosi cu Peppi Russu e po‟ vidu, „un nu lu sacciu c‟ha fari. 82 BENVENTI A CAMICO -Lu to‟ postu è ccà! Lu paisi havi bisognu di pirsuni comu a tia! Quarche amicu lu putemu prigari. Si mi dici sì, dumani stessu v‟a travagli nna lu canteri di la strata chi stanno facennu pi Rivela. Propriu „njurnata m‟hava a veniri a truvari u capu canteri. -Don Ninu, vossia si sta cumpurtannu cchiù di un parenti! -Bravu! Ju sugnu pi tia u‟ ziu, pirchì to‟ patri pi mia era comu u‟ frati! Ricordu quannu vinivanu li pupara di Palermu, cunzavanu lu tiatru nna lu saluni narrè la chiesa, giustamente lu parrinu ci guadagnava vidè, e nni jvamu a bidiri li pupi: Orlandu e Rinaldu! Iu e to patri, mentri li cuscini palatini si duellavano, ni gattuliavamu vidè. To‟ patri addifinniva Orlandu, niputi di l‟imperaturi e conti d‟Aglanti, dicennu ca era giustu siguiri li reguli di l‟onuri; iu a Rinaldu, principi di Montalbanu, dicennu ca era giustu jri appressu a li tempi. Quannu m‟accattavu la casa unni staju, to patri mi dissi: “Stu palazzu cu ti lu ficiru li diavuli a ordini di to‟ cuscinu Magagigi?” Fu l‟urtima vota ca ni vittimu. Cadde il silenzio tra i due come un sipario. La Bonarma, come Orlando, era rispettoso alle regole dell‟Onorata Società, la politica non interessava, mentre Nino Ferro, come Rolando, incominciava a disubbidire alle regole e aveva intuito che la politica era il grande affare, gridava nei comizi: -Viva la libertà! Viva la Repubblica Italiana! Viva la democrazia cristiana!- E s‟arricchiva … Mentre la Bonarma rimaneva sempre con quella casetta e quell‟apprezzamento di terreno. Il palazzo, Rinaldo lo aveva avuto quasi regalato dai figli del barone, per timore, altro che Magagigi … Anche nella finzione Rinaldo, il Castello di Montalbano lo ha avuto sottraendo trenta muli con le bisacce piene d‟oro agli esattori magazesi dell‟imperatore. E il Bonarma con quella battuta si era messo volutamente tra i nemici di Nino Ferro. Si erano ormai contrapposti: la forza, la tradizione, le regole d‟Orlando contro l‟intraprendenza, l‟astuzia individualistica „machiavellica‟ di Rinaldo. Così, il duello tra Orlando e Rinaldo, che nella 83 BENVENTI A CAMICO finzione finiva in parità, rimanendo storditi tutte e due, per poi essere pronti a lottare a fianco a fianco contro i nemici comuni miscredenti saraceni compagni di Almonte, nella realtà Fusberta, la spada di Rinaldo, trafisse Orlando, senza dargli tempo di difendersi con la sua Durlindana. In tutta questa storia il ruolo di madonna Angelica è toccato a donna Antonietta inconsapevole dell‟amore di Ninuzzu Ferro, suo coetaneo e perdutamente innamorato. Don Nino, anche oggi custodiva nel più profondo del suo intimo quell‟amore. Fino a pochi anni della vedovanza di donna Antonietta era speranzoso di un cenno di consenso verso la sua persona, ma ogni qual volta i loro sguardi s‟incrociavano, percepiva solo astio, così perse le speranze, ma lo stesso non volle ripiegare sposandosi con altre donne. Ora aveva davanti Vincenzo come una sintesi della sua vita: passata, presente, futura e anche ipotetica. Nel suo viso si riscontravano le linee armoniose del naso e delle orecchie della madre, lo sguardo orgoglioso e il mento volitivo del padre e l‟intraprendenza individualista e voglia di libertà di Rinaldo, in altre parole: lui stesso! ormai divenuto Orlando. 84 BENVENTI A CAMICO Il matrimonio Era passato più di un anno e il paese era tornato nella più assoluta tranquillità. Solo un vigneto tagliato, due pagliara messi a fuoco e una ruspa fatta saltare in aria nella nuova cava di sabbia in contrada Pircopu. Giovanninu si era dato al bere e aveva pure il vino cattivo, perciò o litigava prendendole di santa ragione, o urlava in mezzo alla strada insultando chi gli passava nella mente. Mastru Cicio, lavorava ma senza entusiasmo, si rinchiudeva dentro casa e usciva solo in estremo bisogno. Quelle corna incartate com‟erano, le aveva messe sopra la muarra e ogni qualvolta la moglie accennava a toglierli per buttarli succedeva un pantemonio. “I quattro del sistema” erano scossi solo da qualche evento calcistico, tutto il resto era noia, o così lasciavano pensare di loro Totò (Salvo), divenuto ormai attivista comunista della sezione locale, erudito più degli altri, parlava dell‟Unione Sovietica come il paradiso in terra e sbraitava sbraitava non toccando né la chiesa né la „santa chiesa‟. Don Nino spiegava ai notabili del Circolo che i comunisti erano necessari, non troppi, ma occorrevano, senza di loro ci fosse stato un Vespro Siciliano al mese, invece loro prendono il malcontento e lo trasformano a voti e a speranza per un futuro comunista, -ora vinni Peppi …-, come dire: campa cavallo che l‟erba cresce! Vincenzo da quella discussione allora lavorava in quel cantiere. Con Teresina l‟amore trionfò. Lei aveva impostato la sua vita attorno a quella di Vincenzo. Pendeva dalle sue labbra e dai suoi gesti. Passava più tempo dentro casa di donna Antonietta che dentro l‟abitazione sua. Peppi Russu era felice e andava fiero di quel genero così rispettato. Vincenzo e Teresina quando passeggiavano in piazza. La gente li salutava chinandosi e gli uomini si toglievano pure la 85 BENVENTI A CAMICO coppola. Teresina era imbarazzata di tanto ossequio. Avevano fissato le nozze a settembre. Mancava meno di un mese, tutto era pronto: casa, chiesa, festeggiamenti. Don Nino si era proposto come compare a San Giovanni, perciò doveva battezzargli il primo figlio. Donna Antonietta, era sempre più preoccupata di quell‟amicizia così stretta con Nino Ferro, un uomo che non le è mai piaciuto sin dall‟amicizia con il marito. Questo sentimento fu ravvivato un giorno che don Nino si presentò davanti casa parlò con Vincenzo, ma non volle entrare. La guardò con la stessa taliata d‟allora e questo la fece rabbrividire. Aveva timore che un giorno fosse toccato al figlio la stessa sorte del padre. Aveva il sospetto che dietro la morte del marito ci fosse la mano di Ninuzzu Ferro, come lo chiamava la Bonarma. Era più di un sospetto. Don Nino spesso e volentieri riceveva le persone dentro la stanza lasciando che Vincenzo restasse, ormai faceva parte della sua famiglia. Vincenzo ascoltava, ma non era sorpreso più di tanto. Quanti delitti evitati, quanti casi passionali o accordi non rispettati, liti poderali, trovavano una soluzione con una parola detta da don Nino. La gente riconosceva la sua giustizia, che diversamente da quella dello stato costava di meno, era più credibile, più veloce e determinata. Guai a chi si appellava! Don Nino, diceva: -C‟è la giustizia di la politica ca tecchia e beni na cosa e tecchia è mali e c‟è la giustizia giusta! Vincenzo aveva ricambiato il favore della casa di mastro Cicio, spalleggiando a Gasparo e suo fratello, per esempio, per la ruspa della cava, lui c‟era, e per altri fatti su cose e animali nei paesi vicini. Una volta, fu turbato dal padre di Peppi Russu, nannu Stefanu che raccontò del giorno che vide l‟ultima volta la Bonarma. Era „nzemmula cu don Ninu Ferru tutti e due cavallo che stavano passando: 86 BENVENTI A CAMICO -Hajva la scupetta nna li jammi. Quannu po‟ a la sira, arrivatu a lu paisi e happi la tristi nutizia! „Un happi occasioni di salutallu ca mi trovava narrè na troffa di disi. Peppi Russu, lo interruppe: -Ma chi va cuntannu, vossia, sti storij vecchi … Sicuru ddu jornu fu o prima? -Sicuru comu ddiu! Vincenzo, ricordava che il padre fu sparato brucia pelo e questo significava che a sparare è stato un conoscente, una persona di cui si fidava … E gli venne il sospetto che nannu Stefanu è stato il testimone non visto dell‟amico carnefice del padre, forse. Doveva togliere di mezzo quel forse, perché era così pesante come un macigno nel cuore. Trovandosi in conversazione con don Nino gli chiese: -Vossia ca fu granni amicu di me patri, si lu fici u‟ cuncettu cu potti essiri? -Ddu jornu iu mi trovava a Palermu, quannu all‟indomani vinni a sapiri lu fattu stetti „nchiusu intra a chiangiri comu n‟addevu. Fu dopu la morti di to‟ patri ca dissi basta! Ni misimu a tavulinu „nzemmula tutti: amici e nnimici, ni cuntammu li morti e ficimu la paci. Allura, pi lu beni di tutti, la paci è paci e ogni rancori e odiu si „nbussuna pi sempri. -Giustu! Quella parola fu sparata come un sasso nello stagno, ma il suo sguardo cambiò luce, aveva rimosso quel macigno dal cuore. Quel cuore scalpitava dentro come se volesse uscire dalla bocca e trasudò freddo. Don Nino era sempre stato un ottimo osservatore, a maggior ragione era attento su Vincenzo e in particolare in un argomento come quello: -Vicè ti cuntaru quarche cosa di to‟ patri? -Nonzi, ormai su cosi luntanu, la guerra è guerra! Don Nino ricordava Vincenzo dietro la bara del padre non versò una lacrima, zirriava solo i denti. 87 BENVENTI A CAMICO Vincenzo dopo quell‟incontro non si confidò con nessuno, nemmeno con la madre. Non riusciva però, ad avere lo stesso rapporto con don Nino, vedeva la scoppiettata a distanza ravvicinata data al padre dal suo amico fidato. Aveva mescolate insieme le parole di nonno Stefano con quelle di don Nino. Questo suo cambiamento non sfuggì all‟attenzione del don. Passarono più di due settimane e tra le distrazioni dell‟imminente matrimonio e altro metteva sottotono la sua rabbia interiore. Per distrarsi una sera si trovava al bar Trinacria. Carmine di Rosa raccontava, che una notte sotto natale Giuvannino fu messo dai carabinieri nella stanza di sicurezza ubriaco fradicio, aspettando di liberarlo all‟indomani mattina, passata la sbornia. Ma all‟indomani Giovannino era più ubriaco della sera precedente. Così aspettarono la sera e poi la mattina seguente, Giovannino era sempre più ubriaco di prima. Quando aprirono la cella l‟appuntato si era ricordato che avevano portato in omaggio per natale due damigiane di vino e l‟avevano momentaneamente messe lì dentro. Chiudendo insieme Giuvannino e il vino, più sicuri di così … -Ah! Ah! Ah!- Echeggiava la risata di Carmine seguita dalla compagnia. Poi lo stesso Carmine invitò Vincenzo a farsi una passeggiata e accettò molto volentieri, arrivarono in periferia. -Vicè haiu vistu c'ha statu njuru … Chi ti succedi? „Un cridu ca ora penzi a dda svizzira e ci ha quarche ripensamentu? -Nenti di tuttu chistu! -Si ti vo‟ cunfidari ca ci ha n‟amicu! -N‟amicu?! -Pirchì ha dubbi di la me amicizia? Così si fermò prese dalla tasca le sigarette e gliel‟offrì, accese e fece uno strano movimento con il fiammifero, talché due fari si illuminarono, era la Seicento di Gasparu che accese il motore, Carmine pronto, gli puntò una pistola. 88 BENVENTI A CAMICO -Acchiana Vicè! E „un fari scherzi! Nel posto di dietro c‟era Giovanni, il fratello di Gasparu, a sua volta non appena Vincenzo salì, gli puntò la sua pistola. La seicento ripartì allontanandosi dal paese. Carmine se ne tornò al bar, passando dal Circolo salutò con un cenno della testa a don Nino che rispose, era il segnale della consegna avvenuta. Da quella sera scomparve Vincenzo, qualcuno asserì che ripensando al matrimonio se ne tornò in Svizzera perché lì aveva fimmina e figli. Teresina non poté mai accettare questa versione dei fatti e insieme a donna Antonietta volle esporre denunzia. I carabinieri dopo qualche settimana d‟inutili indagini e ricerche, perlustrando tutte le campagne, archiviarono il caso dandolo per scomparso. Teresina non si diede più pace, anche se già erano passati mesi. Una notte si sognò Vincenzo, messo solo in un luogo buio con il vestito per il matrimonio e le diceva: -Bedda mè! Chi ti scurdassi di mia? Pirchì „u mi veni a trovi? Lei, nel sogno piangeva e gridava: -Unni sì? Dimmillu! Unni sì? -Adumannalu a nostru compari, ca lu sapi! L‟indomani a prima, raccontò il sogno a donna Antonietta. La povera madre si mise a piangere e a pregare davanti l‟altarino dei santi e della Bonarma. Quando poi, Donna Antonietta rimase sola prese lo scialle nero, sistemò sotto la doppietta del marito e uscì chiudendo con il chiavino la porta, scese la scalinata del cortile e s‟incamminò per il Circolo. Erano le dieci di mattina dell‟otto dicembre 1970, si presentò a don Nino, che si cambiò in viso, ma fu gentile e pieno d‟attenzioni. -V‟avissi a parlari „nprivatu! -S‟accumudassi ccà intra. Per delicatezza lasciò la porta della presidenza aperta. 89 BENVENTI A CAMICO -Chiudissila, sta porta tantu a la nostra età „un po‟ parlari nuddu!Così don Nino, accennò un sorriso, chiuse lentamente la porta e si andò a sedere al suo posto.- Vogliu chiddu c'arresta di me figliu Vicenzu, ca havi l‟anima „npena! -E ju chi sacciu? Chi nni pozzu sapiri ju, poviru vecchiu? Comu lu vuliva beniri ju … Donna Antonietta a questo punto esce dallo scialle la doppietta e gliela puntò: -Tu lu sani! Comu sani cu ammazzà a me maritu! Don Nino, prima raggelò, poi espresse una smorfia di sorriso e abbassò gli occhi e poi la fissò di nuovo e le disse: -La finemu ccà sta storia ca mi stancavu di ricitari?- E confessò ogni cosa, iniziò svelando il suo amore e finì che Vincenzo si trovava in un pilastro di cemento armato nella strada per Rivela. La guardò ancora innamorato. -Ora falla lesta e spara, spara! Donna Antonietta non se lo fece ripetere una terza vola e lo colpì in pieno petto: -Chistu pi me maritu!- Un secondo colpo in pieno volto. -Chistu pi me figliu! Uscì da li dentro con la doppietta ancora fumante e i soci che si dileguavano, arrivò a casa, appese la doppietta al suo posto, poi prese la cruna e cominciò a scandire il rosario aspettando i carabinieri. 90 BENVENTI A CAMICO PARTE SECONDA Il mio amico Pietro ci teneva così tanto che mi lasciai trasportare dentro questo eccellente barbiere di città sposato con una camichese. Anche la storia di questo barbiere è veramente singolare … Si chiama Sasà. Questo capitato per caso a Camico incontra, sempre per caso, Sara. Lei è una ragazza di carnagione bianca, biondissima, giovanissima, appena tredici anni, ma abbastanza formosa. Sasà perde completamente la testa, non gli interessa, niente e nessuno, la vuole per sé. E‟ bastato incrociare lo sguardo con lei, per perdersi nel cielo dell‟azzurro smeraldo dei suoi occhi, come un palloncino sfuggito dalla morsa della manina di un bimbo. Sasà con i suoi quasi trenta anni, era in bilico tra il molestatore pedofilo forestiere e l‟innamorato perduto. L‟aspetto di quest‟uomo ben curato e ben vestito con i suoi piccoli occhietti vivaci e i baffetti sottili all‟insù, che gironzolava con la sua Fiat 850 sport di colore gialla, incominciava ad infastidire la comunità. Niente poteva farlo inserire. Ma con lei filava tutto liscio, riuscì ad incontrarsi e parlare, a scambiarsi i numeri di telefono, e rincontrarsi ancora. Tanto che il fratello, una di quelle sere, lo fermò e prendendolo per il bavero della giacca, lo minacciò senza mezzi termini. Ciò servì a caricare la loro storia di ancor più romanticismo, fin quando i due innamorati decisero la loro mitica fujtina. Poi tutto fu una conseguenza: il perdono, il matrimonio riparatore, i figli e lo stabilirsi per sempre a Camico. Ora Sasà è rispettato per la sua bravura professionale e amato per il suo carattere gioviale, come ogni forestiere che si stabilisce a Camico. Dopo le presentazioni ci sedemmo ad aspettare il turno nel piccolo salone, diciamo molto piccolo, insieme ad altri clienti. La radio suonava musica dei Collage a tutto volume, tanto che per potere comunicare bisognava gridare, allora era un gridare un ridere, un agitarsi tutti. Sopra gli specchi, vi erano una serie di coppe e premii vinti da Sasà, Vi era pure il Mercurio d‟Oro, L‟Ercole d‟Oro e altri premi a pagamento, che alcune agenzie da diversi anni, andavo propinando a titolari di ditte di vario genere. 91 BENVENTI A CAMICO Poi vi erano le foto di Sasà con Toto Cotugno, Sasà e Viola Valentino, Sasà e Nico dei Gabbiani il quale si spostava dal trapanese per venirsi a tagliare i capelli da Sasà. Quando toccò il mio turno eravamo in pochi. Pietro chiese di abbassare la radio e Sasà l‟astutò completamente. Ah! Che pace! Sedutomi, inclinò la poltrona e incominciò a versare acqua calda in testa, poi shampoo e a massaggiare, mi ero così rilassato ad occhi chiusi che subito sentii un benessere per tutto il corpo. Il buon umore di Sasà era contagioso e rassicurante. Quando sciacquò la schiuma e aprii gli occhi vidi un soffitto tutto pitturato di rosso sangue e ombre nere. Che strana impressione… Mi sono così turbato da sobbalzare dalla sedia. Sasà si accorse e mi chiese cosa era successo. Non parlai continuai a fissare quel tetto. -Ah, si! il tetto? E‟ opera di Luciddu! U‟ picciottu mezzu strammu che sta sempre in campagna. Un giorno sua madre lo portò qui da me per tagliargli i capelli e la barba lunghi fuori la decenza. E fece proprio come lei. Quando guardò il tetto sobbalzò. Ma allora non vi era proprio niente, solo gesso bianco. Poi mi disse che lo voleva pitturare. Ma io risposi che non mi interessava. Lui ha insistito, offrendo quel lavoro gratis, dovevo acquistargli solo i colori ad olio, i pennelli e l‟acquaragia. E così ha voluto che lo chiudessi a chiave la notte e all‟indomani mattino, quando aprii, trovai lui coricato per terra tutto sporco di colore e quella soffitta così disegnata. Subito si svegliò si alzò di scatto ed andò via. Ora da più di un anno che non lo vedo più. Ma un giorno di questo cancello tutto! -No! Perché è molto interessante! E‟ un peccato cancellarlo. Suscita emozioni, brutte, ma comunica qualche cosa. -Il fatto è che qui qualcuno, non so se ci ricama sopra, ma dicono delle cose… Affiorano dei ricordi che non mi piacciono assolutamente. Prima, quando finivo e rimanevo solo a fare le pulizie, non facevo mai caso ai rumori del piano di sopra, da quando mi hanno affollato la testa con tutti i discorsi terribili, ogni rumore mi desta curiosità e assurdi interrogativi. 92 BENVENTI A CAMICO Pietro se la rideva sotto i baffi, ora io ero più incuriosito che mai, dovevo sapere, così mi venne narrata questa strana storia. 93 BENVENTI A CAMICO I CARPOCRAZIANI “A costoro ci si deve opporre in ogni modo e interamente. Perché, anche se dicessero qualcosa di vero, chi ama la verità non deve, neppure in tal caso, essere d‟accordo con loro. Perché non tutte le cose vere sono la verità, e la verità che sembra vera secondo le opinioni umane non dev‟essere preferita alla verità vera, quella in armonia con la fede. (…) non si deve ammettere che il vangelo segreto è di Marco, bensì lo si deve negare per giuramento. Perché non tutto il vero dev‟essere detto a tutti gli uomini” Lettera Tito Flavio Clemente Alessandrino a Teodoro - II Secolo D.C. -Morton Smith, Segret Gospel pp.14- “La verità in ogni sua manifestazione filosofica non può essere soggetta a quotidiani mutamenti specialmente trattandosi dei principî per sé noti della ragione umana o di quelle asserzioni che poggiano tanto sulla sapienza dei secoli che sul consenso e sul fondamento anche della Rivelazione divina. Qualsiasi verità la mente umana con sincera ricerca ha potuto scoprire, non può essere in contrasto con la verità già acquisita; perché Dio, Somma Verità, ha creato e regge l'intelletto umano non affinché alle verità rettamente acquisite ogni giorno esso ne contrapponga altre nuove; ma affinché, rimossi gli errori che eventualmente vi si fossero insinuati, aggiunga verità a verità nel medesimo ordine e con la medesima organicità con cui vediamo costituita la natura stessa delle cose da cui la verità si attinge.”"HUMANI GENERIS" Dato a Roma, presso San Pietro, il giorno 22 del mese di Agosto dell'anno 1950, XII del Nostro Pontificato. PIO PP. XII 94 BENVENTI A CAMICO I Tra il chiaro e scuro della mattina di quel 6 marzo del 1954 il picciotto del panificio, con la sua cesta di vinile sulle spalle, entrato dentro il cortile San Leonardo, abbanniava con una voce tra il grido soffocato e il farsetto: -Mu-ffùle-tta! Mu-ffùle-ttà! Così si andavano aprendo i gusci delle case nella freddura di quel mattino. La zza Carmela affacciatasi guardò il cielo appiombato di nubi. Già da qualche giorno si chiedeva come mai non avesse visto o sentito don Albertu? Guardò attentamente la porta della sua abitazione, fissò con cura e cambiò gli occhiali, mettendosi quelli nuovi, mentre si era esposta pure donna Nunziata, le chiese se sapesse qualche cosa, quella rispose nisba. Allora focalizzò su quella porta e notò che non era completamente chiusa, uscì ed andò a costatare. Si, la porta era aperta avanidduzza e non solo, era stata investita da una zaffata insopportabile. Chiamò la vicina, la quale appressandosi distorse il muso: -Carmela, meglio che chiamiamo i carabinieri, qui c‟è qualcosa di brutto! Subito dopo gli altri vicini si appressarono, incuriositi pure dalle esclamazioni di la zza Carmela che aveva fatto l‟appello al completo di tutti i santi del paradiso. Quando arrivarono i carabinieri, già si era radunata una piccola folla. Il brigadiere Gatto subito incominciò ad allontanare i curiosi, poi con uno spintone aprì la porta e non appena entrato fece marcia indietro per il forte fetore, così prese una boccata d‟aria e con il fazzoletto su naso e bocca salì la scala, immediatamente aprì la finestra di scatto e ridiscese, paonazzo in viso e con il fiatone: -Vai a chiamare il maresciallo Scarpella! C‟è un cadavere! La gente vicina, sentite quelle parole, incominciò a parlare animatamente ed ad agitarsi. Il brigadiere, con modi abbastanza decisi, allontanò fuori il cortile da dove si entrava tramite una 95 BENVENTI A CAMICO piccola viuzza dalla via centrale che portava alla via intercomunale e ordinò al carabiniere Frisella di non fare passare nessuno. Subito arrivò il maresciallo, con i piedi che segnavano le dieci e dieci. Dopo essersi consultato con il brigadiere ordinò di chiamare il comando di Agrigento, poi, salì sopra, e vide il cadavere in inizio di decomposizione, gonfio, di don Alberto Greco, nudo, sopra il letto, con i suoi attributi tagliati e messi sul comodino sopra la Bibbia. La stanza era allagata di sangue. Non vi erano segni di colluttazione, né sembrava nulla mancare. Il prete aveva ancora al suo polso l‟orologio e il bracciale, nonché la bellissima collana con il pesante crocifisso, tutto in oro. A prima impressione sembrava proprio un delitto passionale, ma eseguito da incalliti carnefici. Il linguaggio era tipicamente dell‟Onorata Società. Il maresciallo rifletteva che vi era del paradossale in quell‟omicidio. Don Alberto Greco era portato in grande considerazione… E poi cosa mai avrebbe combinato di così pesante per meritarsi quella morte? Il maresciallo Scarpella, aveva del comico quando camminava. Non si sa come mai l‟Arma l‟abbia preso. Forse è stato un difetto che gli capitò dopo l‟arruolamento? Intanto lo sfottò c‟era, magari alle spalle, ma c‟era e come. In particolare quando faceva la sua passeggiata pomeridiana con il segretario comunale, il quale pure lui buttava il piede sinistro un po‟ per i fatti suoi. Tutt‟e due in un sincronismo perfetto, passeggiavano per la piazza Vittorio Emanuele con il divertimento dei giovani del bar Trinacria da dietro la tentina. Ma insomma l‟amicizia è come l‟amore non si decide con chi esserlo e i due lo erano aldilà di tutto. Scarpella era un ottimo sbirro e questo difetto nel camminare andava a suo vantaggio perché i paesani ne ridevano e si prendevano confidenza, tralasciando le difese. Così qualche battuta di più, qualche sguardo o espressione, lui costruiva le conclusioni e i sospetti, facendone un bravo sbirro. 96 BENVENTI A CAMICO Non andava proprio giù, che proprio di sabato dovevano succedere questi intoppi ad ostacolare i suoi programmi. Aveva già organizzato una visita alla suocera, dove si andava a rifornire di quell‟ottimo vino. Proprio questo pensiero lo fece riflettere ancor più su quello strano omicidio. Il modo di come fu commesso fa pensare ad una esecuzione dell‟Onorata Società, ma che sia successo di venerdì è proprio strano. A Camico non era mai successo prima. Il venerdì era sacro, forse una tradizione araba, musulmana, chissà. Il fatto sta che la mafia non aveva mai agito di venerdì. Bisognava non dare niente per scontato. Quel cortile era diventato meta di pellegrinaggio da parte di tanti curiosi: ragazzini, bambini, muratori, anziani, un affollarsi continuo, mentre arrivarono le autorità di Girgenti, e quelli della Medicina Legale. Quel sabato è stato un vero inferno. Un muro insormontabile di silenzio attorno a quel delitto. Il Circolo della Cultura e della Caccia era affollato più del solito, ma insolitamente silenzioso, si udiva ogni tanto lo schiaffo sul tavolo della carta di caduta del carricu fuori briscola, ma senza accompagnamento di battuta. I frequentatori aspettavano una parola, un battito di ciglia, un gesto della mano o della testa dal cavaliere Giacomo Galante. Lui sapeva di essere osservato e come ogni mattina, salutava tutti con il suo cappotto sulle spalle e di filato entrava nell‟ufficio. Allora attendevano una visita risolutiva di qualcuno, ma niente, solo normale amministrazione. Dal delitto erano passati già due giorni e il silenzio era sempre più pesante. Ora ogni tanto al Circolo faceva una visita fugace Tanu Ossu, poeta contadino. E fu proprio quel pomeriggio che si presentò al suo solitu: -A sti eccellenzi addumannu pirmissu Prima ca trasu e fazzu un passu Poviru di grana e riccu di spassu Tutti mi chiamanu Tanu Ossu! 97 BENVENTI A CAMICO I soci, capirono che Tanu Ossu aveva sicuramente creato qualche verso per l‟occasione, e visto che la curiosità di quel delitto li stava mangiando vivi, trovarono un appiglio per potersi appiccicari, insomma uno spiraglio per capirci qualche cosa. Sia lì dentro, sia in tutto il paese, era calata un‟autocensura rigida tale che si stentava a parlarne anche tra marito e moglie. Così u professuri Ennio Sanna s‟improvvisò poeta: -Siti u benvenutu e aviti pirmissu! Vuj ca vi chiamamu Tantu Ossu E siti u‟ veru maestru di versu V‟addumannu chi si dici arrassu Di stu tristu gran scunquassu? Allora Tanu Ossu, entrò e si posizionò al centro del salone, alzò la mano e impostandosi la voce così decantò: -L‟anticu dici: monaci e parrini Viditi la messa e stoccaci li rini. Ma quarcunu senza rispettu Pi la chiesa e i sacramenti Scannà comu u‟ porcu Don Arbertu Tagliannuci i ciontuli pintenti Omu di littra granni espertu E c‟è cu dici puru di lettu … Tanu Ossu, con la coda dell‟occhio, vide aprire la porta della presidenza, e la sua mano rimase sospesa in aria, la sua bocca aperta e senza saliva, non perché vide il cavaliere Galante, in quanto lo sapeva che c‟era, ma per l‟espressione che teneva il cavaliere. -Continua, Tanu! Lo sai che mi piacciono i tuoi versi! -Così finisce, per ora, poi vediamo come va la storia e così continuerò. Tanu Ossu, uscì facendo un semplice cenno della mano senza proferire parola alcuna. La poesia di fronte alcuni muore per paura di perdere la dignità. 98 BENVENTI A CAMICO Il cavaliere alzò la mano a mezz‟aria e la lasciò cadere. Gli altri fecero una risata colma di significato. Come dire: “Talè! Si scantà del cavaliere … ” oppure “la poesia continuava ma lui non ha avuto coraggio!”. Poi guardò i presenti lentamente nel viso mentre prolungavano quella gelida e artificiosa risatina, poi sentenziò: -Significa che aspetteremo la continua della poesia di Tanu Ossu, pazienza! I soci, ridendo ancora un po‟ ripresero i loro posti e a giocare. Il cavaliere chiamò al professore Sanna e mettendoselo a braccetto gli chiese cosa mai intendesse Tanu con quell‟ultimo verso? -Quale verso? -Quello che citava il letto… -Ma no, cavalè, Tanu Ossu alcune volte per fare rima si vende pure la madre… -Possibile… -Per fare rima con Alberto parlò di letto. -Ricordo bene, mi ha colpito che diceva grande esperto. -Sempre per fare rima con don Alberto! E poi Vossia non lo sa che Tanu è un mancia preti comunista… Sempre dentro la camera del lavoro è. E‟ uno di quelli che dice pane e lavoro! E poi si mancia il pane e lavoro non ne vuole mancu a brodu! -Però… Provessù, tu lo hai conosciuto penso bene a don Alberto. Mi ricordo che hai fatto le recite insieme, poi vi siete allontanati, lo so. Come era? Il cavaliere Galante, con u provessuri sempre sottobraccio, quasi con forza si trascinò sul divano in fondo alla sala. Sanna capì che non si poteva svincolare facilmente da quella presa e allora evitò di fare resistenza. Si sedettero, ma il cavaliere non lasciò il braccio, tanto da farli sembrare due fidanzati come erano seduti stretti l‟uno a l‟altro. Il cavaliere quando parlava con qualcuno, anche se gli fosse stato accanto, come in questo caso, gli dava modo di fargli intendere che non lo guardasse, ma quando meno se lo aspettava 99 BENVENTI A CAMICO lo fissava intensamente, perciò muoveva lentamente la testa quanto bastava, che con quegli occhi senza luce, sotto quelle sopraciglia a cespugli, infilzava lo sguardo dentro la testa dell‟interlocutore. Sanna si sentì a disagio e cominciò a provare caldo, ma era un pensatore e allora dopo avere farfugliato qualche consonante a casaccio riprese il controllo. Il professore sapeva che, con quella gente, anche una taljata diversa, o una parola detta a casaccio e che andava a coincidere, guarda caso, con qualche fatto loro, metteva in pericolo anche la propria vita. Allora bisognava stare attenti, riflettere e poi parlare. -Cavalè, ma vossia sta parlando di cose antiche. -Si, provessù, ma tanto che ci facciamo sta chiacchierata, per passare un po‟ di tempo. -Don Alberto, aveva una cultura da fare spavento. Non leggeva solo cose di chiesa, ma tutto e di più, pertanto poteva parlare di filosofia, di psicologia, di scienza. Quello aveva due lauree: una in teologia e l‟altra in lettere moderne. Parlava e scriveva in inglese come l‟italiano. -Mi ricordo quando sbarcarono gli americani, arrivarono qui, a Camico, con un carro armato volevano cannoneggiare prima di entrare in paese con l‟autocolonna, per paura di fascisti, o peggio ancora nazisti. Lui, coraggiosamente, prese un fazzoletto bianco lo legò in testa alla croce del Crocifisso e gli andò in contro, parlò con loro rassicurandoli, così si convinsero, entrarono e si fece gran festa. Con gli americani vi era un figlio di siciliani e questo quando parlava in siciliano si capiva meno di quando parlava americano. Diceva solo paisà paisà! Rise di cuore il cavaliere forse perché ricordava quella manciata di anni addietro. Fece eco a quella risata il Sanna. Il Circolo della Cultura da pochissimo aveva aggiunto pure la parola Caccia. L‟evento della caduta della monarchia aveva stravolto pure Camico. 100 BENVENTI A CAMICO Il cavaliere Giacomo Galante era un omone alto un metro e ottanta, uno di quei uomini di fiducia del barone Morello che sapeva suonare il pianoforte abbastanza bene. Per pianoforte si intende la figura allegorica. Lui diceva che nel pianoforte vi erano i tasti neri e quelli bianchi e lui sapeva suonare sia gli uni che gli altri. E quando qualcuno non ascoltava la musica con i tasti bianchi allora suonava quelli neri e di sicuro la “„ntisa ci viniva”. Con la riforma agraria e l‟ERAS, il cavaliere Galante ha costruito la sua fortuna nel giro di qualche anno! Tra alcuni apprezzamenti di terreno che il barone gli ha voluto donare, quando spezzettò il suo feudo a parenti e amici per evitare gli espropri e quei terreni che riuscì a prenderne possesso assegnate riuscì ad mettere su‟ un bel patrimonio. Il cavaliere Galante era l‟uomo nuovo, con il suo bello scudo crociato all‟occhiello, in mezzo ai signori e capo indiscutibile della ormai “invisibile, inesistente” Onorata Società divenuta mafia, nonché presidente del comitato dei festeggiamenti dell‟Assunta. Questo delitto di don Alberto, non solo era un mistero, ma un grosso macigno caduto al centro del suo microcosmo creando danni e disordine. Si chiedeva chi mai aveva potuto compiere quel delitto a sua insaputa? Qualcuno che non solo non ha tenuto conto del suo potere, ma che lo ha voluto mettere nei guai più seri, proprio in questa fase di pulizia, di invisibilità. Era la prima volta che si trovava veramente a disagio. E poi ad un membro della Chiesa… Quasi a volere smentire le parole dell‟Arcivescovo di Palermo. Andava proprio a favore come se fosse una manovra politica dei comunisti! Questi ragionamenti frullavano nella testa del cavaliere Galante, si aspettava la visita, o la telefonata di qualche onorevole, per chiarimenti. Il problema più grosso del cavaliere era quella della sua completa ignoranza. Buio completo! 101 BENVENTI A CAMICO Con la coda dell‟occhio Nardu Sirraculu guardava il suo amico Sanna, in quella stretta che non gli lasciava scampo, con lo sguardo perso e il viso paonazzo in una smorfia che doveva essere un sorriso, poi si voltò e continuò a giocare. -Provessù, ma chi successi che vi siete allontanato dalla chiesa, tanto da non andarci neanche per la santa pasqua? -Cavalè, certe cose finiscono come cominciano… -Sarà… Il cavaliere non si convinceva, anzi, il tono della voce del professore Sanna lo tradiva. Lo stato d‟ansia e lo sguardo perso, nascondevano qualcosa di profondo. Sapeva e non parlava. Cosa sapeva? Cosa non diceva? Lo lasciò lì sprofondato su quel divano con la pressione a tre mila, si alzò e guadando tutta la compagnia senza voltarsi gli disse: -Provessù, scusassi per averlo importunato, questa morte è un grande dispiacere per tutta Camico! Sanna farfuglio alcune parole incomprensibili ed emise un profondo sospiro. Il cavaliere così uscì dal Circolo: -Signori! Salutamu! Gli „assabenedica e i buongiorno scoccarono da tutte le parti. Andò dritto a casa, abitava proprio all‟inizio della Via Crispi. Era solito attraversare la piazza rispondendo a tutti chinando la testa, altre volte facendo finta di non vedere, con quegli occhiali scuri e larghi, un pedi scippa e l‟atru chianta appena voltava la stratuzza arrivava a casa. Trovò la criata che sbraitava sul pianerottolo con una vicina che aveva portato un fascio di verdura e aveva sporcato la scala appena lavata. Come entrato il cavaliere tutte e due si ammutolirono, e non curante salì per lo studio, si affacciò alla finestra e guardò lungo la strada piena di fossi, pensò fra se che in breve quella doveva essere sistemata con le basuli di Catania. “Un‟opera che dovrà durare per sempre!” Si affacciò dalla porta e ancora udiva la criata borbottare: -Assuntì! 102 BENVENTI A CAMICO Echeggiò nella tromba delle scale la sua voce gutturale e in farsetto, lei si alzò le vesti e a gambe levate in un fulmine fu davanti la porta: -Cavalè c‟avi bisognu? -Vaa ni donna Antunietta e dille che voglio parlare a suo marito, subito! Assuntina si tolse il grembiule lo poggiò sopra la cassa panca dell‟atrio e uscì di corsa, prese le viuzze laterali a piazza Vittorio Emanuele, come le aveva insegnato il cavaliere, per non farsi vedere da occhi che non dovevano vedere e fu nel cortile di donna Antonietta, salì le larghe scale e trovò donna Antonietta che stava spicchiannu dei piselli seduta davanti la porta, beandosi di quel tepore del sole. Donna Antonietta, intese bene lo scopo della visita e nemmeno la fece spiegare, con il suo fare benevole, la fece accomodare e le chiese di lei e dei suoi parenti sulla salute e le varie vicissitudine di quei giorni. Quel cortile era così animato che bastò un niente per crearsi un piccolo rutulacchiu attorno ad Assuntina. Prima di pranzo arrivò il marito di donna Antonietta dal cavaliere Galante. Accomodatosi in ufficio il cavaliere subito chiese se fosse trapelato qualcosa di quel delitto. -Cavaliere, nessuno ne sa niente! -Il professore Sanna … che uomo è? -Uomo di lettera, tranquillo. -Lo so, ma voglio sapere di più. Ha una fimmina? -Sta con sua madre, e quanto sembra a lei non va a genio nessuna. Nessuna è a livello del figlio c‟arriniscì maestro. Perché vossia pensa ca u provessuri Sanna … -Questo delitto è più grave di quanto si possa pensare. Ci vorrà poco e avrò addosso la liggi, l‟onorevuli e u viscuvu! Cosa rispondo? Nenti sacciu! Vui sapiti di sicuru stu parrinu chi faciva, parlati anche cose che possano sembrare stupide, inutili. -A dire la verità, il suo atteggiamento quando arrivò sembrò a tutti strano, perché s‟interessava di tutto e di tutti, anche di quelli che di 103 BENVENTI A CAMICO chiesa non ne mangiavano. L‟arciprete incominciò a tirare calci come u‟ mulu malu. Ma la sua popolarità era sempre crescente. Incominciò a fare teatro con tutta quella fame che c‟era e poi quando arrivarono gli americani … Lo interruppe bruscamente: -Lo so, lo so! Ma io voglio sapere, cu li fimmini! Gli hanno tagliato tutto! E‟ stato un delitto d‟onore. Di corna!- Furono interrotti dal bussare insistente alla porta. -Chi c‟è! Entrò Assuntina con un avviso di una telefonata al telegrafo. -Neanche la raccomandazione di un ministro ci può per avere il telefono a casa! Il cavaliere andava ben volentieri al telegrafo perché era gestito da Rosangela. Una rossa trentenne con una troffa di capiddi rizzi, na facciuzza di purcillana che a volte era costellata di lentiggini, a secondo della giornata, na taljata impertinente che lo faceva intorpidire, tanto da renderlo irriconoscibile a se stesso. Quando usciva da lì dentro pensava: “possibile che io abbia potuto dire quelle cose? Possibile che proprio io mi sia comportato in questo modo?” Altro che, il cavaliere diventava ragazzino davanti a Rosangela. Mentre lei era indenta a leggere il suo fotoromanzo di “Cine Illustrato”, e il cavaliere aspettava che arrivasse la telefonata si è sentito prendere da un fuoco e un turbamento che gli fece dimenticare chi era e tutto ad un botto la chiamò con una voce irriconoscibile: -Rosangela! Lei alzò gli occhi e lo guardò come se avesse capito già cosa le doveva dire. Lui, ormai in balia della sua voglia incontenibile continuò: -Hai mai pensato di tradire tuo marito? Lei accennò una lieve smorfia di sorriso, e continuò a leggere “Senso” con Alida Valli. Il cavaliere ebbe modo di riflettere su tutto quello scompiglio che provava dentro, rimase immobile, si 104 BENVENTI A CAMICO sentì leggero, quasi come se non sentisse più il peso del suo corpo e un istante dopo atterrò. Diventò rosso come un ragazzino, si voltò verso la porta e il trillo del telefono alle spalle lo fece sussultare di spaventò. -Cavaliere la sua chiamata da Roma! Rosangela con tono professionale da telefonista gli passo la linea alla cabina. Il cavaliere si rotolò dentro chiudendosi per bene la porta, ma lei non ha potuto fare a meno di ascoltarlo, in quel silenzioso e strano giorno. -Mi sto interessando anima e corpo… Capisco! Così Rosangela prese la cuffia, ficcò dentro lo spinotto e udì l‟interlocutore con voce possente e dominante. -Cavaliere, lei mi sta dicendo che non è venuto a capo, in poche parole, lei non sa! Non sa niente! -Eccellenza … E‟ un caso strano, stranissimo … ma … Fu interrotto bruscamente: -Tutto è strano in Sicilia! Ma il vostro ruolo è occuparsi di questa stranezza! Significa che c‟è qualcuno che sa occuparsene meglio di voi! Lo sa che significa? che abbiamo addosso tutti, comunisti in capo! Oltre le telefonate dell‟arcivescovo! Lei s‟immagini, caro cavaliere, che è venuto a trovarmi per questo delitto uno strano individuo dell‟ambasciata americana. -Pure l‟America! -Cavaliere, si muova! Per il bene del partito, si muova! Chiuse di colpo il telefono. Rosangela, velocemente appoggiò la cuffia e tolse lo spinotto, riprese il giornale facendo finta di leggere. Ma il cavaliere perse tempo ad uscire, più di un minuto, tanto che lei si preoccupò; poi paonazzo, con il fazzoletto che si asciugava il volto, timidamente si affacciò dalla cabina e frettolosamente uscì fuori salutando con un misero buongiorno. Vagava nella testa del cavaliere: “in poche parole, lei non sa! Non sa niente!”. Gli rimbombava la parola “niiente” con quella “i” strascinata come se fosse un pesce stricatu in faccia, sapeva di sdegno, dentro percepiva la delusione amara dell‟interlocutore. 105 BENVENTI A CAMICO Altro che Rosangela, se l‟era dimenticata di botto. Ritornò a casa, si mise la giacca da camera, le pantofole e piombò nella poltrona del suo studio, da lì non uscì nemmeno per pranzare, fece bollire per bene tutto: idee, ricordi, parole, cenni che riguardavano don Alberto. Rimase lì, così, per ore e ore. … Il maresciallo era salito su, nella chiesa Madre a piedi a trovare l‟arciprete. La chiesa era aperta ma tutta al buio e completamente vuota. Così, si tolse il cappello e con quella sua camminata si avviò. Sentiva un bisbiglio lontano, sicuro proveniva dalla sacrestia. Guardava i santi e sembravano proprio loro bisbigliare qualche segreto riguardante don Alberto, lui proseguì e davanti la sacrestia prima di entrare origliò un po‟. Sembrava la voce del sacrestano con l‟arciprete. Il sacrestano che chiedeva arrabbiato: -Ma io c‟ha diri? -Nenti! Nenti! Era la voce risoluta e seccata dell‟arciprete. A questo punto il maresciallo capì che, vuoi la coincidenza, vuoi qualche santo arrabbiato nero, forse San Calò, era arrivato al momento giusto. A pensarci anche le coincidenze qualcuno dice che sono dei piccoli miracoli. Allora mosse un altro passo per togliersi dalla visibilità della porta e quel piede che volgeva ad allargarsi investì una campanella proprio sotto il banco facendola finire con gran fracasso proprio dentro la sacrestia. L‟arciprete e il sacrestano si terrorizzarono, tanto che all‟unisono urlarono a più non posso. -Cu c‟è ddocu? Con voce stridula gridò l‟arciprete e guadando verso l‟uscio, ma non si mosse nemmeno un passo. S‟affacciò il maresciallo, con una espressione da imbecille: Buon giorno, disturbo? -Mi avete fatto prendere un colpo! Entrate, che cercate? 106 BENVENTI A CAMICO Sbuffò fuori tutta l‟aria e si rilassò, nonostante il tono seccato delle parole. -Patri Arciprè, non ho potuto fare a meno di ascoltare le vostre parole e sinceramente li ho collegati all‟omicidio di don Alberto … Sa, ci stiamo impazzendo un po‟ tutti ed un piccolo aiuto, na lantirnedda … -Marascià, Sono a sua completa disposizione, ma cosa vuole, don Alberto è stato uno di quei preti giovani, saputelli, che a noi anziani ci rispettano, si, ma tenendoci alla larga. -Un po‟ come i nostri giovani carabinieri, sono più acculturati di noi e rispettandoci, tengono quel sorrisino stampato in faccia come per ricordarci la nostra inferiorità d‟istruzione. -Così così!- Approvò l‟arciprete, poi si rivolse al sacrestano: -E tu che fai? Vai, vai! -Mi deve perdonare se insisto, ma quel suo “nenti nenti” era riferito a don Alberto? Il sacrestano dava un occhiata al prete e l‟altra al carabiniere, con la testa chinata e le mani nelle mani, ricurvo come un riccio chiuso per difesa. Il maresciallo lo guardava con la coda dell‟occhio, mentre l‟arciprete lo prese per una spalla e con tono seccato gli disse: -Ancora qua sei? Devi andare a sistemare l‟altare, corri! Così andò via di corsa. Il maresciallo pensò: “vai, tanto è meglio così, che non ascolti cosa mi dice questo qua!” -Ma vede caro maresciallo, la chiesa ha i suoi segreti, mentre noi preti, abbiamo giurato di tenerli tali e svelarli solo a Dio, quelli che la frequentano come il sacrestano che per un incidente vengono a sapere, viene più difficile mantenere il riserbo. Comunque quello che lei, per una fatale coincidenza (sottolineò con una cantilena), ha ascoltato non c‟entra niente con don Alberto. Parola di uomo di Dio! Il maresciallo capì che non si ricavava un ragno dal buco, così mentre pensava di andare a fare due discorsetti con il sacrestano, che non aveva nessun obbligo con Dio, cercò di avere magari 107 BENVENTI A CAMICO qualche altro dato in più, perciò mentre guardava un vescovo appeso lì ben incorniciato con quella faccia volpina e con gli occhi, come quelli del cavaliere Galante, a volere penetrare nell‟anima di chiunque, chiese: -Don Alberto, aveva avuto delle questioni cu vossia? -Ma chi questioni … modi diversi di vedere le cose! (Con palese imbarazzo. Il maresciallo, attento ai particolari, notava come incominciò a strofinarsi l‟occhio sinistro, e voltando il viso da una altra parte, mostrando il fastidio di quella domanda.) Lui aveva l‟abitudine di dare confidenza a tutti, boni e tinti, ricchi e poveri. Andava a mangiare da chiunque e ovunque. Questo io gliel‟ho contestato e lui spiritosamente mi rispondeva con il vangelo, di Gesù e i pubblicani, di Gesù e le meretrici. L‟ho fatto presente pure al nostro vescovo, e quanto ne so è stato pure richiamato dalla curia. Ma non ha cambiato minimamente atteggiamento, anzi, chiunque, pizzenti, farabutti, fimmini, addevi, cude‟ghiè, si prendevano delle confidenze senza riguardo. -Mi scusassi, ma un parrinu, non deve essere così come don Alberto? -Un sacerdote si deve distaccare dalla massa, è un ministro di Dio! Non può volgarizzare la sua missione dando confidenza alla plebaglia, perché ad un tratto la sua persona non varrà più niente. Ad esempio, lei, comandante della caserma di Camico, alla tutela della Legge di questo paese se lo invitasse a mangiare Carcaciumi16 accetterebbe! -Beh!- Si mise in evidente disagio. -Lui si! Anzi le dico che mi hanno riferito, donne timorate di Dio, che lo hanno visto uscire di notte inoltrata dalla sua casa, pazzesco! Inaudito!- allargava le braccia l‟arciprete facendosi rosso in volto. -Poi succedono le cose … Succedono quando non si sta a suo posto, a fare la propria parte. Lui era un sacerdote doveva fare il sacerdote! Punto e basta! -Grazie, le faremo sapere, „assabenedica! 16 Facchino di Camico, di umili condizioni economiche, figlio di prostituta conosciuta. 108 BENVENTI A CAMICO -Santo! Si congedò il maresciallo e fece finta di andare via, quando l‟arciprete rientrò nella sacrestia a piede leggio ritornò indietro verso l‟altare maggiore dove il sacrestano armeggiava con vasi e candelabri. -Prima di andare lo volevo salutare. Il sacrestano fu preso di sorpresa, aveva notato il maresciallo che stava andando via e non si aspettava di sentire parlare alle spalle. -Marascià! Mi stava facennu veniri un corpu! -Mi deve scusare, beh, vado… Buon giorno! -Bon giornu, bon giornu! Seccato si rimise a posizionare il vaso, poi si voltò e vide che ancora era dietro che guardava, allora diede una sbirciata e continuò a lavorare, però capì che gli doveva chiedere qualcosa. -Lei con don Alberto aveva buoni rapporti? -Certu, portavo messaggi dall‟uno all‟altro. Io ero il loro telegrafo, perché non si parlavano, anche quando erano di presenza. L‟arciprete doveva dirgli qualche cosa e lo diceva a me e così faceva l‟altro, un gran rompimento di minchia! A questo punto si fece la croce, si mise in ginocchio e si rifece un‟altra volta la croce -Mi deve scusare, marascià, ma quando scappa scappa. -Non vi preoccupate u Signuri, vidi tutto e sapi tutto. Come vi è finita con quella storia con il vostro vicino? -Quel fetente che mi ha denunciato, insistendo che gli ho rubato il cane? E che me ne facevo del cane? A caccia non ci vado, campagna non ne ho, e neanche me ne portò mia moglie … Il maresciallo incominciò a guardarsi il berretto come a volergli sottolineare quello che era e rappresentava, così incominciò a serpeggiare: -Si … però … Lui asserisce che lo avete rubato e poi venduto ad uno di Ribera … 109 BENVENTI A CAMICO Il sacrestano incominciò a sudare e a muovere gli occhi velocemente da destra a sinistra, era stato turbato dal particolare di “Ribera”, allora incominciò a giurare su Dio! -Ma io ho tutto in mano, e una brava persona come lei di sicuro, nun avi aviri scantu … Perciò, torniamo alle cose importanti. Questo don Alberto, che tipo era? -Parrinu era, e chistu era veramente speciali! -Vicè! Vicè! L‟arciprete arrivato vide il maresciallo, così con tono molto seccato gli si rivolse: -Ma lei ancora qua è? -Stavo scambiando due parole con il signor Vincenzo … Non si preoccupi, sto andando via. -No, per me può restare, anzi, sto uscendo … Vicè, mi raccomando!! L‟altare! -In che senso speciale? Si spieghi meglio. -Gli volevano bene tutti: granni, nichi, fimmini, masculi, vecchi e picciotti, scarsi e ricchi. Tutti! -E questo lo sapevo pure io, così deve essere un prete, però … tutti tranne uno: il suo capo! -Ma niente era, il loro rapporto era come Rinaldo e Orlando! -Che significa? -Il nuovo e il vecchio! -Ma ancora non ho capito questa specialità di don Alberto? -L‟anno scorso verso maggio, ha organizzato con un gruppo di picciotti e picciotte una sviticchiata, a mari, a Minua, per andare a visitare gli scavi della vecchia città. Come mi sono divertito quel giorno! lo ricorderò per tutta la vita. Kuddiruna, pizzi, „mbuglilati, cosi duci e vinu. Ognunu purtà qualche cosa. L‟odore del mare, dei fiori … Che giornata! Lì c‟erano i professori che scavavano e ricordo pure che tra loro si litigavano. Prima di mangiare, in mezzo a quelle pietre, don Alberto ha celebrato pure la messa, 110 BENVENTI A CAMICO cosa che a me sembrò pazzigna, però fu pure bello. Poi abbiamo mangiato, io mi sbracai … e dopo a gruppetti ce ne stavamo a chiacchierare. Io mi sono andato a coricare sotto una gruca. Avvinazzato come ero mi stavo addormentando, quando incominciai a sentire un ciciuliu. Siccome c‟era il ridosso e loro erano dall‟altra parte, non ero visto, ma quando incominciai ad ascoltare parole infuocate allora ho alzato gli occhi e vidi. Senta se vuole che dobbiamo continuare a parlare, da qui ci dobbiamo togliere, per rispetto al Sancta Sactorum. -Giusto! Così si sistemarono, seduti comodi, dietro l‟organo della chiesa. -Lui le diceva: “Sei bella, bellissima!” E lei rispondeva che non riusciva più a dormire pensandolo ogni notte. Insomma frik e frak, la cosa divenne casda! Ma io ascoltavo e non vedevo perché se avessi alzato solo un po‟ la testa lui mi avrebbe sicuramente visto. Allora, cotu cotu, ho girato allargo fin quando mi sono appostato in un grande masso proprio davanti. Uhm!! Marescià, quello che ho visto c‟è l‟ho stampato in testa e mi basta vedere questa donna che m‟acchiana na vampata di focu da l‟jta di li pedi a la testa! Lui si era tolto la tonaca e l‟aveva distesa a terra lei si era adagiata sopra con la gonna alzata le calze erano con le giarrettiere e lasciavano intravedere la sua carne bianca delle cosce che brillava sotto quel sole schietto di maggio. A quanto pare lei non si è voluta togliere le mutande, erano di colore rosa e di cotone. Lui li spostò lasciando intravedere quel folto cespuglio nero, la camicetta bianca rigonfia e sussultante ai suoi profondi respiri e quel viso beddu, „ncurunatu di dda troffa di capiddi rizzi e russi … -Non mi dire? -Si, la telegrafante!- e tistiava. In sincronismo pure il maresciallo tistiava. Significando il rammarico. -Caro maresciallo, bisognava vederlo all‟opera a don Alberto, si mise con delicatezza, ad accarezzarla, a baciarla, con tenerezza, sembrava che la sfiorasse 111 BENVENTI A CAMICO appena e via in un crescendo. Lei, si tratteneva fin quando si mise a guaire e poi ad emettere gridi soffocati. -Così senza scantu? -E no, caro maresciallo, avevano la guardia, u‟ ruffianeddu misu di sentinella, ma ju ero già lì. Quando si sono soddisfatti; lei con una vocina che non diceva quello che pensava gli disse: “Fici piccatu mortali contru Diu e contru me maritu …”. Lui, le disse rassicurandola, che soddisfare un piacere era un fioretto al nostro Signore, rimanere nell‟arsura del desiderio significava ritardare d‟incontrare Gesù. Ora m‟arrispunnissi è u‟ parrinu speciali si o no? -Io chiesa non ne mangio tanto, ma questo discorso non ricordo proprio di averlo mai sentito … Sicuramente è stato un modo di mettere l‟anima in pace alla telegrafante. -Ho l‟impressione che non si è trattato proprio di questo, anche perché Rosangela sembrava raggiante di felicità, altro che sensi di colpa, marascià! -Che ne sa quel povero marito? Lavora si spacca la schiena in campagna per ricevere poi questi tradimenti.- il tono era riflessivo e rammaricato. -Maresciallo mio, quando uno si sposa una donna così bella come Rosangela deve sapere che non può tenersela solo per lui, sarebbe un torto troppo grosso a gli altri uomini. Poi, io qui dentro ne ho sentite di cotte e di crude, e mi sono fatto un‟idea ben chiara. Vi sono due tipi di cornuti: quelli che non lo sanno e gli altri che sanno di esserlo, che sono un numero esiguo, mentre gli altri sono la grande maggioranza. -Vicè, la facevo, più ignorante, noi dobbiamo parlare più spesso! -Quando dice vossia marascià! 112 BENVENTI A CAMICO II Il notajo Battista17, commissario prefettizio di Camico, ex potestà, galantuomo, persona giusta al posto giusto per tutti quanti, potenti e umili, dopo la morte di don Alberto, persona abbastanza in confidenza, era caduto in uno sconforto indicibile, che cercava di nascondere senza riuscirci. Fece pressione al cavaliere Galante: -Cavaliere, noi siamo stati sempre in buoni rapporti, al di fuori di dove soffia il vento, ma … questo omicidio deve avere dei responsabili. Non mi interessa, se, o non se, lo venga a sapere la caserma. Questo è un fatto politico, di equilibri. Lei non può starsene in silenzio davanti la mia persona, me lo deve! giusto? Il cavaliere si allontanò dalla scrivania e si sistemò per bene sulla sedia, guardando per bene in faccia il notajo, si leggeva per bene il suo pensiero: “Ma di dunni mi spunta chistu?18”, allora con voce impostata incominciò: -Enrico, sai benissimo, il bene che ho voluto da sempre alla tua famiglia e alla tua persona, ma questo non significa che io mi debba mettere su gli attenti davanti a te. Ognuno di noi faccia la propria parte … -E quale è la mia parte, Giacomo? -Quella che hai fatto sempre, la persona per bene. -Solo che qui qualcuno ha voluto recitare a soggetto. Perché se quello che è successo era nel copione, allora ti dico che non ci sto! Il cavaliere già era turbato dalla telefonata di Roma, quest‟altra uscita del notajo gli causò una vampata di calore alle guance da fargli perdere il controllo dei suoi nervi tanto che piegandosi tutto in avanti scaraventò una manata sulla scrivania che fece sobbalzare la tenue persona del notajo. Il Battista, con tono deciso e con la voce delicata che lo distingueva, gli disse: 17 18 Vedi I SIGNORI DEL VENTO Che novità è questa? 113 BENVENTI A CAMICO -Vada! Si alzi, ed esca immediatamente e si ricordi che lei può fare paura a tutta Camico tranne me! Se lo ricordi bene! Il cavaliere uscì senza remore, appena fuori la porta percepì la frescura che arrivava dal corridoio e si calmò quasi all‟istante tanto da rispondere con un sorriso ai vari saluti ossequiosi della gente. Il notajo aspettava l‟arrivo di un suo amico di Roma. Gli era arrivato un telegramma dove l‟amico chiedeva ospitalità pure per un suo compagno di viaggio. Aveva già predisposto il tutto a casa, anche se donna Lucrezia se ne stava chiusa nel suo dissenso totale ad avere gente per la casa. Il cavaliere Galante guardava i paesani e già gli sembrava che qualcuno se la ridesse alle sue spalle, ma aveva un ottimo controllo di nervi ed anche mentale. Si era diretto come di solito al bar Trinacria: -Giuvà na gazzusa e ci metti un po‟ di latte di mandorla! -Cavaliere, dove l‟ha messa quella trinacria d‟oro che portava all‟occhiello? -Tu sei rimasto, un fissato! -Lei ha ragione, ma non sono il solo … -Tu e qualche altro pazzo come te! -Ha visto cavaliè, Pisciotta come lo hanno fatto fuori all‟Ucciardone? Hanno paura della verità di quella strage confezionata da quelli che hanno preso il potere in Sicilia. Hanno paura di Giuliano anche da morto. Il processo di Viterbo è una farsa e per questo che si sono sbarazzati di Pisciotta e Scelba ne sa qualcosa … Il barista aveva gli occhi che fiammeggiavano, ed anche se parlava a quell‟uomo con rispetto e pure timore di avere superato i limiti era determinato; i muscoli della bocca erano tirati, facendo del suo viso una maschera decisa. -Giuvanni, tira i brascia p‟u to‟ cuddiruni..19 19 Pensa per i tuoi interessi. 114 BENVENTI A CAMICO Quello era il segnale che non era giornata di tirare fuori tutti quei discorsi sul M.I.S., ricordando che qualche para20 d‟anni fa ne facevano parte tutte e due. Giovanni sapeva che non gli conveniva tanto inveire con i clienti con la politica, come invece faceva, meglio parlare di calcio e basta. Ormai tutti stavano diventando milanisti e juventini. Poi, la notizia della morte di Pisciotta aveva dominato le discussioni sia al Circolo che al bar e in piazza, facendo battute sul caffè e sui traditori, ma dopo l‟assassinio di don Alberto, ogni argomento era passato in trascrizione. -Giovanni, senti! (Si protese verso di lui appoggiandosi con il braccio al bancone) Ci veniva qui dentro don Alberto? -Eccome no? Era na manna di „ncelu, portava gruppi di ragazzini e offriva a loro, cioccolati, caramelle. D‟estate gelati per tutti! E comu si l‟atturniavanu! Facevano a gara per starci vicino. -E a fimmini come era? -Cavaliere, le posso dire una mia impressione? ma niente di speciale: ci piacivanu e iddu piaciva a i fimmini. Poi di preciso non le so dire. -Certo che è stato un atto ignobile ammazzare un uomo consacrato a Dio e in quel modo così cruento, da veri figli del diavolo. Il barista guardava il cavaliere, sapendo chi era, con un occhio incuriosito e perplesso, si chiedeva mentalmente: “Dove vuole arrivare questo?” -Ma la gente che dice?- Riprese il cavaliere. -E che deve dire? Chi dice che gli hanno tagliato tutto e messi in bocca, chi invece appesi al lampadario, chi in mano e chi sopra la bibbia, ora vai a sapere la verità? -E tu? Che dici? 20 Paru corrisponde a paio e cioè due, para è plurale e perciò si trasla con più di due, quattro, sei, otto, la quantità non è determinata con precisione matematica. 115 BENVENTI A CAMICO -Io penso che questa storia incomincia a stancarmi, già il maresciallo con quella faccia che tiene, l‟altro ieri incominciò a prenderla alla larga e poi a stringere a stringere, voleva sapere qualche voce, qualche parola, qualche mia sensazione. Io gli ho detto che chiunque sia stato, sicuramente non sarebbe venuto qui dentro a farne cenno. -Giusto, giusto! -Lo stesso giorno dell‟omicidio un forestiere con tanto di quaderno e penna, pure a fare domande … -E tu? -Ed io? Che devo rispondere se non so niente, mancu parrinaru sugnu! Il discorso venne interrotto dall‟ingresso del professore Sanna insieme ad un collega. Sanna come vide il Galante, si raggelò, bloccò il passo ma solo per una frazione di secondo e poi riprese, però bastò affinché lasciasse avvertire il disappunto nel vederlo. -Buongiorno, prego s‟accomodi. Cavaliere i miei ossequi. -Buongiorno, posso avere il piacere di offrire, professore?- Fece cenno a Giovanni che irrevocabilmente offriva lui. -Sempre gentile vossia, le presento Gaetano Stabile, un collega venuto a supplire il povero don Alberto. Dopo i convenevoli e la consumazione lo Stabile raccontò, che nel suo paese: -qualche anno addietro era stato ucciso un prete, ma subito si scoprì il colpevole. Don Carlo Fratta era un usuraio terribile, anche se vecchio, aveva incravattato un commerciante di carrube, tanto che non gli bastava succhiargli il sangue voleva toglierci tutto. E quel povero cristo scese dalla croce e l‟uccise con la stessa croce pesante d‟ottone che il prete teneva nella sacrestia. Lui prese le cambiali ed andò via. In paese nessuno fece caso della sua mancanza perché era consueto che girasse nei paesi limitrofi per le partite da comprare, ma a condannarlo è stato il breviario di don 116 BENVENTI A CAMICO Carlo, dove appuntava il nome il giorno e l‟orario di chi incontrava e i soldi dati o avuti. -Del nostro Don Alberto, a quanto pare, non hanno trovato nessun indizio…- Sospirando disse il cavaliere. Si notava che il professore Sanna era in imbarazzo, persino cercò di deviare la discussione, senza riuscirci. Il cavaliere pagò salutò e andò via, con la netta convinsione che Sanna sapeva più di quanto lasciasse intendere. … Il maresciallo con la scusa di telefonare alla suocera si presentò al telegrafo, trovò Rosangela che faceva un continuo va e vieni, tra la stanza della cabina e quella accanto. A quanto pare era tornato Michele Garra dai campi e gli stava servendo il desinare. Brutto orario per potere conversare con lei, ma buono per osservare la relazione tra i due. Il maresciallo ascoltava il grugnire del Garra e degli ordini detti con fare scorbutico per via di monosillabi. -Marascià, m‟havi a scusari! Ritornava dentro mentre non poteva fare a meno di osservare quella gonna pieghettata che nell‟ondeggiare lasciava spazio alla fantasia di quel corpo così prorompente e ben fatto, muoveva l‟aria attorno a se. Tanto da lasciargli ritornare alla mente il racconto del sacrestano e sentire una specie di brivido in tutto il corpo. “Mah? (Pensava il maresciallo) Come faceva a stare insieme a quello zoticone e fargli pure un figlio? E lui come poteva mai concepire che tanta grazia di Dio poteva tenersela solo per lui?” Allora allungò verso la porta e vide a Michele in maglia di lana che si stava tracannando un bicchiere di vino, di quelli né rossi né bianchi, marrone, vinu di casa, ancora con u mussu fattu di sucu, scattià n‟arruttuni ca si sintì „un sulu dda jntra ma macari fora. -Piano! C‟è gente! 117 BENVENTI A CAMICO Gli disse con voce leggera la Rosangela. -Che si dice di don Alberto? Ce ne sono novità? Chiese lui con voce divertita. Il maresciallo intuì in quei attimi di silenzio che Rosangela gli avrà fatto cenno di fare silenzio perché c‟era, appunto, lui. Tanto che Michele rispose ai segnali con: -E ju chi staju dicennu? Lei subito uscì, chiuse la porta e con quello sguardo profondo e disarmante si andò a sedere al suo posto. -Certo che questa morte di don Alberto ha scosso tutti.- Dal suo sguardo lasciava trasferire un luce d‟intelligenza fuori dal comune, mentre lo fissò un solo attimo ma attentamente. -Gli volevamo tutti bene! -Qualcuno gli ha voluto bene più degli altri e qualche altro invece lo ha odiato così tanto d‟ammazzarlo in quel modo! -Vero! Guardandolo intensamente negli occhi come volergli scoprire il pensiero. Ora, in Sicilia, le donne che guardano in questo modo gli uomini sono rare e, non solo, li mettono in vera crisi. Così fu per il maresciallo che si girò la testa dalla soffitta a tutte le quattro mura per finire ad occhi bassi a fissare il pavimento. Ma non gli sembrò tanto turbata di quell‟omicidio … fosse tutta una fantasia del sacrestano? -Organizzava teatrini, scampagnate…- Buttò il sasso il maresciallo. -Chi ci ha il tempo di godersele certe cose… -Vero! Mi hanno raccontato che un anno fa ha portato tutti a vedere gli scavi giù al mare… A questo punto Rosangela, capì cosa era venuto a fare veramente il maresciallo e mentre si era persa in questi ragionamenti si lasciò andare vagando lo sguardo e in maniera incontrollata lo rivolse verso quella porta chiusa. Poi si scosse un po‟ muovendo quella bella criniera e infilzò ancora una volta negli occhi il maresciallo: 118 BENVENTI A CAMICO -Si! Ci sono stata pure io! Mi ci ha portato mia cognata Agata, la sorella maggiore di mio marito, per farmi sbariari… Il medico aveva consigliato che avevo bisogno aria, e quella fu l‟occasione. -Certo che l‟aria di mare fa bene eeh? C‟era sarcasmo, tanto quanto bastasse a intuire che il maresciallo sapeva sicuramente qualcosa. Rosangela cadde nel vuoto, cosa fare? Intanto abbassò lo sguardo e si mise l‟indice tra i denti, poi guardò di nuovo verso la porta e riguardò negli occhi il maresciallo, ma senza impertinenza questa volta. -Lo sa cosa pensavo?- Disse tutta a una botta il maresciallo. Lei pensò che stavolta il maresciallo affondava il colpo. -Pensavo, che mentre se ne stava qui a badare al telegrafo poteva benissimo vendere qualcosa, che so, spagnolette, merceria varia… Rosangela sospirò così profondamente che il seno si sollevò e rigonfiò la camicetta bianca. -Anche io l‟ho pensato, ma ci vogliono i soldi per iniziare. Queste reazioni servirono al maresciallo a capire che era realmente accaduto qualcosa quel giorno a Minoa, così passò al contrattacco: -Signora Rosangela, quest‟assassinio del povero don Alberto, mette molto scompiglio a Camico, è come quando le acque di uno stagno vengono mosse, salgono a galla tante porcherie, allora e consigliabile, stare attenti. Per questo ci vuole la collaborazione di tutti affinché le acque si calmano e le porcherie ritornano di nuovo nel fondo. Le vorrei chiedere se ha sentito qualcosa in riferimento a don Alberto… Lei ormai era disponibilissima a tutto e così riferì la telefonata del cavaliere con Roma. Bastò al maresciallo per confermare la sua tesi che l‟Onorata Società ufficialmente non centrava. Rosangela si alzò andò a vedere dentro se il marito avesse bisogno di qualcosa. Lo trovò già pronto ad uscire, come al solito andava alla Camera del Lavoro a farsi la solita partitina a carte ed ad incontrare gli amici. Il maresciallo in tutto quel discorso non lo 119 BENVENTI A CAMICO convinceva il comportamento di lei perché nonostante fosse stata in un certo qual senso amante non provava sofferenza ed era così distaccata. Lei come entrò chiuse la porta, dentro vi era l‟anziana suocera con il figliolo, si andò a sedere, perché così chiunque entrasse la poteva vedere distaccata da lui. -Parliamoci chiaramente, signora Rosangela, ma io a lei non la vedo turbata più di tanto per la morte di don Alberto. Lei ritornò con impertinenza a guardare il maresciallo e con voce bassa gli disse: -Marascià è stata una bufera! Quello che è successo fu conseguenza naturale di tanti eventi. Io tengo alla mia famiglia. Già ero incinta della mia creatura. In quei giorni mi sentivo dentro il sangue come la lava di un vulcano. Quando giorni prima mi confessò, sempre spinta da quella ruffiana di mia cognata, lui incominciò a guardarmi con una fiamma negli occhi che mi turbò parecchio, poi mi portò in ragionamenti uno dopo l‟altro, che non le dico, sul rapporto con mio marito e se mi sentissi alla fine appagata. A me piace leggere, so cosa voleva dirmi, e per lui fu facile trovare le chiavi per aprire ogni mia riserba, mi toccò le mani e notò un mio brivido di eccitazione a quel punto mi disse: “Rosangela, nostro Signore è il Dio della gioia e non della sofferenza. Per liberarci dalla sofferenza di questo mondo, delle nostre carni, dobbiamo aprirci al piacere ed io ti aiuterò.” Così mi diede appuntamento lì al mare. Lo ha organizzato appositamente per me. Quando ritornai a casa provai l‟amarezza di avere costatato quanto sia stata debole e quanto piacere ho provato tanto da sentirmi una donnaccia. L‟avrei fatto altre mille volte, ma ho avuto paura di lui e soprattutto di me, da quel giorno non entrai più in chiesa e nemmeno lui mi cercò o chiese di me. La sua morte è stata una specie di liberazione, perché avevo una paura tremenda d‟incontrarlo. Il maresciallo aveva ascoltato quella dichiarazione intuendo che quel prete era speciale in tutti i sensi: -Suo marito? 120 BENVENTI A CAMICO -Mio marito, non sa niente. E‟ uomo di campagna, una brava persona che non merita di essere tradito. Il suo mondo è fatto di regole semplici ed eterne. Io ho bisogno della sua semplicità! -Ma lei ha studiato a quanto vedo. -Donna Costanza mi passa i fotoromanzi ed alcuni libri, abbigliamenti, mi vuole bene, dice che somiglio molto ad una sua ava del 1460- con un sorriso di compiacimento, -Non la disturberò più, solo che mi deve promettere che se viene a sapere qualcosa in merito mi manda un avviso telefonico, saprò come contattarla telefonicamente senza che nessuno la possa sospettare. Grazie! Andò via confessando a se stesso di essersi innamorato di quella donna, delle sue gote arrossate, di quello sguardo profondo, della sua voce quando raggiungeva le intimità, della sua complicità, della sua nobiltà, dell‟aria attorno a lei, ma di un amore simile ad una brezza di vento in una sera d‟estate mentre la luna albeggia rossa e di carne vicina più che mai sulla collina dove dietro c‟è il mare. Così tra i vicoli, con quella sua buffa camminata, disse tra se, ma con voce: -Porcu Cainu, addivintavu poeta! -N‟a facissi ascutari quarche pujsia, marascià! Seguì una risata di sfottò, non vide nessuno e continuò a passo sostenuto verso la caserma. … Quella sera il cavaliere nelle sue campagne, alla vecchia casina, chiamò i suoi. Tutti erano dentro il cortile con il bavero alzato delle bunache e le cuspette „ncoddu. Attendevano il suo arrivo con impazienza, anche perché molti non sapevano il vero argomento, e non solo, alcuni di loro si aspettavano un rimprovero, un richiamo e anche peggio. Attendevano il rumore dell‟auto che nel silenzio della campagna era udibile da lunga distanza. Loro non sapevano che il cavaliere era nella casina già 121 BENVENTI A CAMICO da tempo ed aveva osservato attentamente ogni loro mossa dalla buia finestra in alto. Quel delitto gli metteva insicurezza ed inquietudine, e questa pensata gli serviva a potere indagare su quegli uomini che in varie occasioni avevano dato prova della loro fedeltà. Nessuno sapeva che era lì, perché incominciava a dubitare di tutti, pure il suo autista era arrivato a casa sua ma gli fu detto che già era andato e doveva raggiungerlo in campagna. Così fece. Quando gli uomini udirono il rompo lontano dell‟auto si posizionarono ognuno a suo modo. Mentre il cavaliere Galante aveva studiato tutti i loro legami e chi di loro incominciava ad avere più rispetto degli altri. Aveva notato che il giovane Ninu Ferru, incominciava ad avere più rispetto tra di loro, qualcuno gli offrì la sigaretta e qualcun altro gliel‟accese, altri ancora si ci avvicinavano. Quando si udì il rombo dell‟auto il gruppetto si sciolse lentamente senza farsi notare da gli altri, ma qualcuno guardava dall‟alto. Arrivata l‟auto gli uomini s‟accostarono sorpresi s‟accorsero dell‟assenza. L‟autista scese e riferì che il cavaliere non era in casa. Così si guardarono attorno. Solo Ninu Ferro guardò verso la finestra e spense la sigaretta con il piede. -Amuninni! Disse con voce ferma don Angelo, il marito di donna Antonietta. Così entrarono dentro il magazzino a piano terra. Due archi dividevano lo spazio, un trattore ed alcuni attrezzi stavano sparsi. Quando furono tutti dentro, dopo un quarto d‟ora spunto da una porticina il cavaliere. -Buonasera a tutti, amici miei, questa sera vi ho disturbato per una faccenda molto importante. Qualcuno ha varcato il confine! Io spero che questo qualcuno non sia tra di voi, però… In caso contrario, è meglio che si faccia avanti immediatamente! Perché chiunque è coinvolto nell‟assassinio di don Alberto e non parla, ora! Ripeto: ORA! Non avrà più altre possibilità. Mentre parlava in piedi guardava negli occhi tutti, scrutava le reazioni alle sue parole, ma non notò nessun segnale, anzi qualcuno provò pure sollievo nell‟udire l‟argomento. Così si 122 BENVENTI A CAMICO sedette ed incominciò a giocherellare con una grossa giaca era lì forse per schiacciare qualche mandorla di tanto in tanto. -Ma sono sicuro che nessuno dei presenti poteva tradire la propria famiglia, il proprio sangue. Chiamò don Angelo e gli disse di offrire a tutti un bicchiere di vino. Così mentre si rilassavano e s‟accostavano nell‟altro angolo, Ninu Ferro s‟avvicinò al cavaliere e con fare abbastanza baldanzoso gli disse: -Cavalè, sti figli di buttana hann‟a nesciri fora! -Ninu, noi dobbiamo parlare più a lungo, vedo che ti sai muovere bene! Quando il cavaliere apprezzava così apertamente l‟interlocutore, lo faceva soltanto per disarmarlo, per poi assestargli un bel colpo figurato ma avvolte letterale. Così continuò: -Perché sai già qualcosa? -Nonzi!- Disse pensieroso. -Mi è sembrato di averti sentito parlare di più persone… -Ah! Si! Mi sono fatto un idea personale… U parrino, a quantu pari, stava futtennu, perciò, mentre futtiva ci fu cu l‟happ‟a tramortire, perché non si spiega altrimenti tutto il sangue perso. Poi di conseguenza ha avuto fatto u sirbizzu. Cavalè chistu nun è travagliu di unu sulu. E mancu di genti comu edeghiè. -Mi piaci come ragioni… Il cavaliere si era appoggiato comodamente nella sedia guardandolo con soddisfazione. Cervello fino e spietato. Lui lo sapeva già quanto era spietato. -Onorato, a servirla! -Ci dobbiamo dare da fare! Non posso permettermi che a Camico succedano certe cose alle mie spalle. Il Galante aveva parlato più di quanto doveva, fu un atto di fiducia a Ninuzzu Ferru! Il quale apprezzò moltissimo. 123 BENVENTI A CAMICO Quella serata si concluse con le parlate individuali a ogni surdatu ricevendo informazioni, sensazioni, dando ordini precisi sul da farsi a breve. … Il sole impertinente di quella mattina voleva entrare in ogni angolo di Camico. Il cavaliere si affacciò al suo solito alla finestra ed ascoltò ciurmuniari alcune donne proprio lì vicino, avvertì che quel loro modo faceva pensare che fosse successo qualcosa, così gli venne uno stato d‟ansia, non fece in tempo a sporgersi da una parte a l‟altra del balcone, che vide don Angelo arrivare con la sua ciumenta janca dalla stratuzza parallela e come se avvertisse la sua presenza diede un‟occhiata al balcone, legò la bestia all‟anello che vi era al muro, entrò e si diresse direttamente allo studio. -Cavalè… u provessurì Sanna s‟impiccà questa notte! Cogitato disse che non gli piaceva la sua reazione su quanto fosse successo a don Alberto. -Dobbiamo sapere perché! -Si, già mia moglie è andata a confortare la madre e sicuramente qualcosa si saprà. -Bene! Donna Antonietta, trovò il parapiglia, la madre trafitta da un dolore che l‟aveva resa balbuziente senza lacrime e senza pianto, un automa che vagava per la casa ripetendo le stesse cose: -Enniù! Enniù la matri, u… u… latti e ca… cafè pro… pron…tu è! Questa scena lasciava immaginare che la povera mamma era andata a comunicare al figlio che il latte e caffè era pronto ed ha avuto l‟amara sorpresa. Dentro vi era tanta gente. Dalla porta a vanidduzza della sua stanza si vedeva il morto che penzolava ancora dal tetto, tutto 124 BENVENTI A CAMICO orinato nel suo pigiama a strisce. Nessuno ancora era entrato, nemmeno i carabinieri che tardavano a arrivare. Così donna Antonietta, fimmina di grande coraggio, entrò e proprio sul tavolo vide un quaderno grosso aperto con la penna sopra, si guardò attorno lo chiuse e se lo mise sotto lo scialle. Non appena uscì dalla stanza furtivamente arrivarono i carabinieri. Il maresciallo: -Qualcuno è entrato nella stanza?- Tutte le donne si sono ammutolite facendo spazio. -Voglio sapere chi è entrato? Niente di niente. Donna Antonietta non si rendeva conto come mai il maresciallo fosse così sicuro ed era agitata come non mai, ma conveniva rimanere fermi. Inavvertitamente mentre stava uscendo donna Antonietta avrà sfiorato l‟impiccato, perché si vedeva oscillare lievemente. -Enniù! Enniù la matri, u… u… latti e ca… cafè pro… pron…tu è! La madre incominciò ad agitarsi e muoversi per la stanza. -Tutti fuori! Fuori! Così le donne andarono via. Donna Antonietta direttamente passò dal cavaliere e consegnò il quaderno. Il cavaliere si chiuse a chiave e si mise a leggere, a volte più di una volta, perché non capiva, perché non credeva, ripetendo e intercalando a voce: -minchia! “ Mercoledì, 3 gennaio 1951 ore 23,15 Sono deciso a non andare più in chiesa, quello, altro che prete… è un diavolo! Domenica, 7 gennaio 1951 ore 21,00 Impossibile liberarmi di lui. Dovrò fuggire da Camico, ma penso che non sarà sufficiente perché prima dovrò scacciarlo dai miei pensieri, ormai non vi è più un istante che non lo pensi. E questi pensieri sono così strani che li nego a me stesso. Io che ho cercato l‟amore in ogni sguardo di donna è impossibile che faccia questo tipo di pensieri. Ieri mi sono spento una sigaretta sul petto, ma nemmeno il dolore mi ha fatto smettere di pensarlo. Sto 125 BENVENTI A CAMICO peccando contro Dio e contro me stesso. Prego ancora tutta la notte affinché il Signore mi aiuti. Mercoledì, 17 gennaio 1951 ore 21,50 Lui ha capito! Mi ha sorriso, un sorriso dolce e consapevole! Lui sa! Giovedi, 18 gennaio 1951 ore 00,25 Con uno stratagemma me lo sono trovato addosso e ho sentito la sua virilità su di me, non ho fatto niente, sono rimasto fermo, è stata una strana sensazione, sono stato consenziente. Ora mi faccio schifo e mi sento felice, ho voglia di farla finita, ma sono felice. Venerdì, 19 gennaio 1951 ore 00,40 Mi ha letto il vangelo come non avevo mai sentito, parole mai ascoltate, nuove e così vere che segnavano il momento che stavamo vivendo. Il Maestro iniziò Giovanni a rinascere e giacere con Lui. “Questo mondo è voluto dal male, ogni cosa è apparenza, ogni cosa che non è spirito e sembra materia è male! La creazione è un atto del dio del male! L‟attesa della vita vera va oltre tutti i desideri che ci legano a questo mondo. Ora tu vivi il tuo desiderio, senza turbamento e liberati da questa catena, con serenità, per la vera vita. Come il Maestro fece con Giovanni che tutti chiamano Lazzaro, ma Lazzaro non significa altro che: -Dio l‟aiuta!- Ennio lasciati aiutare e vivi la tua sessualità con gioia, io sono qui per te!” Il turbamento di queste parole, la confusione mentale che mi hanno creato simile ad una sbornia, mi lasciarono in balia dei suoi gesti, dei suoi occhi e tutto fu così naturale come un fiume che supera gli argini e sommerge tutto con furia. Ora rimango solo, falsamente pentito, ma pieno di rimorsi, come se avessi tradito qualcosa di profondo il quale avevo nutrito da tempo, cresciuto con me e ora sporcato, rovinato in maniera irreparabile: l‟amore per Ninetta! Ero innamorato pazzo dei suoi occhi e dei suoi capelli lisci neri come la notte, della sua pelle scura, della sua voce e del suo 126 BENVENTI A CAMICO silenzio. Ora sembro di non essere più degno di un suo sguardo. Ninetta perdonami se puoi… Domenica, 21 gennaio 1951 ore 22,05 Non andrò più in chiesa, non sopporto il suo sguardo, anche se per lui sembra che non sia successo niente! Come fa? Mercoledì, 14 marzo 1951 ore 19,00 Ho visto Ninetta passare davanti il circolo e mi ha lanciato uno sguardo che sembrava una lama infuocata, tanto che Nardo se ne accorse. Io ho sofferto così tanto combattuto dalla vergogna. Il suo amore è combattuto dall‟atroce confessione a me stesso che quello che ho fatto ho desiderio di rifarlo e mi sento ferito dall‟indifferenza di don Alberto. L‟altro giorno mi ha salutato come se niente fosse successo. Non è stato come lui asseriva. Io non mi sono liberato, sono rimasto imprigionato, in trappola, soffocato dalle sabbie mobili, tanto da non essere più libero di vivere il mio destino, il mio amore con Ninetta, perché non riuscirei a mentire a me stesso. Venerdi, 16 marzo 1951 ore 19,30 L‟audacia di Ninetta mi ha scombussolato, mi ha completamente preso alla sprovvista. Lei, mi brucia dentro più di ogni altra cosa, con i suoi occhi a mandorla castano scuri, i suoi capelli lisci e neri più della notte, il suo muovere armonioso ed energico, sembra cambiare ogni cosa attorno a lei, io ne sono innamorato ma non posso, sono in trappola! Ieri notte l‟ho sognata davanti di me pronto a toccarla con una mano, ma per quanto mi protraevo non riuscivo. Aveva uno sguardo supplichevole, come quello dell‟Addolorata. Dentro provavo una forte pena. Quando, infine riuscii a toccarla era diventata la statua della Madonna, la scossi con la mano e la sua testa di terracotta cadde a terra frantumandosi in mille e mille pezzi. Allora mi chinai per raccoglierli ad uno ad uno e una mano si posò sulla mia, quando alzai il viso mi trovai il suo viso, il viso di lui vicinissimo al mio e le sue labbra sulle mie… Nemmeno le 127 BENVENTI A CAMICO attenzioni di Ninetta sono servite a distaccarmi da lui. Nemmeno le sue parole che ancora mi echeggiano dentro il cuore: “Buonasera professore!” Io le avevo risposto, sorpreso dalla sua iniziativa, perché mi aveva guardato, ma mai parlato, sorpreso dalla sua voce, dalla sua flessione, accompagnata dallo sguardo pieno di sentimento e le guance divenute rosse, mentre le labbra avevano perso colore ed erano di un rosa pallido. “Buonasera signorina!” “Ennio, mi talii e nun mi vidi?” Mi sono sentito mancare la terra sotto i piedi. E in quel preciso istante vide lei che si allontanava con il suo passo deciso, ma fortemente di donna. Perché mai, perché mai? La vita mia si sia complicata così tanto? Il mio stato confusionale mi ha reso insicuro su tutto, proprio su tutto: sentimenti, rapporti, pure con Dio. In intimità mi diceva che la materia è una prigionia dell‟anima e questa vita fatta di materia è come un illusione un sogno che va vissuto, senza legami, senza lacci, pronti a lasciare tutto ed andare via verso la vera vita, il risveglio, la libertà del Regno dei Cieli. Mi diceva che era per questo che i preti non si sposavano, perché non volevano lacci con questa vita. –Pronti a partire! Pronti a soddisfare ogni desiderio e lasciare giù come zavorra! Il Dio del Regno dei Cieli, non è il Creatore e il Maestro è venuto ad indicarci la via. Nato come noi, ma con la gnosi, morto per noi per indicarci la via verso la Verità, verso la libertà di questa vita fatta d‟illusioni e menzogne, di questo corpo, prigionia della nostra anima. Ma la vera Verità è stata occultata, cancellata e riscritta, dai seguaci del Dio di questo Mondo fatto di niente e d‟illusioni! Eresie! Confusione! Inganno! Come il suo amore per me, le sue attenzioni… Lui demone tentatore, mi ha sedotto, mi ha usato per le sue voglie, per poi fare finta di niente. Anch‟io farò finta di niente, non voglio più pensarlo. In quanto alla chiesa, ogni posto è giusto per incontrare Dio e in ogni posto non vi è riparo da Satana. Giovedì 14 agosto 1952 ore 2,00 Questa festa dell‟Assunta sembra diventare la più importante. Non potevo immaginare che io avrei trovato questo coraggio di 128 BENVENTI A CAMICO fronte a Ninetta. In piazza davanti la casa del notajo Battista avevano acceso i fuochi e c‟erano i picciotti che saltavano sul fuoco, mentre la banda suonava i tradizionali ballabili. Si attendevano i giochi d‟artificio. Quando mi accorsi che proprio accanto mi sono trovato lei. Guardava divertita quei giovanotti che a piedi scalzi saltavano da una parte all‟altra il fuoco. Nei suoi occhi si riflettevano la fiamme ed era assorta, ma nel suo continuo rigonfiamento del petto sentivo che quelle fiamme erano pure un riflesso del suo interiore. Allora le presi la mano. Lei sembrò cedere, aprì la bocca e spostò la testa all‟indietro, poi si riprese e anche lei mi strinse la mano. La sua pelle era morbida come non mai. Siamo stati non so quando con le mani strette. Si sentì sibilare in aria il petardo che scoppiò appena dopo richiamando tutti all‟attenzione che fra breve iniziavano i giochi d‟artificio, così la folla in un attimo si dileguò. Noi ci lasciammo le mani all‟unisono del botto, come un incantesimo, lei però mi volle donare il suo sorriso prima di andare insieme alla sua criata. Quel sorriso e quello sguardo sono sicuro che saranno le poche cose che porterò con me nell‟aldilà, inferno o paradiso che mi toccherà. Penso che potranno farmi luce nel lungo viaggio. Perché? In un giorno così felice invece di pensare alla vita, all‟amore della più bella donna di Camico, penso alla morte? Questo è quello che mi distrugge. Sono felice ma ancora non ho rimosso la mia esperienza passata, come la cenere dei fuochi dell‟Assunta che sembrano spenti ma che ahimè a passarci sopra. Ora chi ci mando da suo padre? Sono sicuro che ha altri ambizioni che un professorino figlio di contadini come me. Mia madre poveretta… Ci andrò con lei! Mercoledì, 7 ottobre 1952 ore 19,00 Come è possibile che devo insegnare e negare la storia, che ancora è viva negli occhi dei miei scolari, ancora vi sono le scritte nelle case: “L‟Impero si coltiva con l‟arato e si difende con la spada!”, i lutti dei propri cari, i soldati ancora non tornati, ed io mi presento con il sussidiario SOLDIMAGGIO? Dove sembra ritornare al risorgimento e nemmeno una pagina, dico, una riga sul fascismo! Che ci siano scritti gli errori, gli abbagli, gli orrori, 129 BENVENTI A CAMICO che sia pure mistificata. Tanto si sa, la storia la scrive chi vince, ma occultarla mi sembra un crimine politico, dove viene difficile potere costruire un nuovo sistema che abbia come base la libertà! Sabato, 10 ottobre 1952 ore 21,15 Oggi ho dato uno schiaffo forte, anzi fortissimo al figlio di Saru Cuscenza, Carmiluzzu. L‟ho interrogato di storia e dopo avere fatto scena muta abbassandosi la testa, lo mortificai per stimolarlo a studiare dicendogli che così facendo avrebbe seguito suo padre a pasciri pecuri! Lui, alzò gli occhi e mi rispose che non ero degno di parlare di suo padre. Mi venne dalle viscere quello schiaffo, tanto che si spostò di mezzo metro. Lui non pianse, anzi mi guardò più impertinente e nel suo sguardo non vi era odio ma vendetta. La classe è rimasta ammutolita. Quando gli disse di andare a posto, lui lentamente ubbidì non levandomi i suoi occhi di dosso! Anche se ha nove anni, mi ha fatto provare paura. Ora a sangue freddo sono pentito del gesto. Ho paura di una vendetta del padre, o di un richiamo. Me lo merito! Me lo merito tutto perché quella mia reazione pensandoci a sangue freddo non è scaturita lì in classe, ma altrove. Questa estate ho incontrato Carmiluzzu e altri compagni insieme a don Alberto al bar Trinacria. Non ho potuto fare a meno di notare le attenzioni di don Alberto verso di lui, ed ho provato una inconfessabile gelosia, tanto di odiare talmente quel bambino che non appena lo vedevo suscitava dentro me un‟indomabile ira, scaturita oggi, con quello schiaffo. Per dimenticare don Alberto dovrei scappare da Camico. Come è possibile avere il cuore spaccato a metà: per Ninetta e don Alberto? Tanto che mi fece desistere di mandare mia madre a casa sua per spiegare il fidanzamento. A questo punto rimango scapolo non voglio rovinare nessuno. Rimango nella mia malinconia e confesso a me stesso la mia ambiguità sessuale. Venerdi, 7 novembre 1952 ore 01,45 Mi sono lasciato trascinare dal mio amico Leonardo, „ntisu Sirraculu, a Rivela, era tutta una trappola. Lo scopo era di 130 BENVENTI A CAMICO andare a mangiare “i pisci cantanti” (rane), ma dopo la mangiata ha voluto portarmi da una certa signora, dove insieme alla sua figliola, giovanissima, faceva il più antico mestiere, lui me ne parlava spesso. Entrammo in un portoncino e salimmo le scale vi era un camerone con dei divani. Sirraculu, salutò altri due, sicuramente viddani, dall‟aspetto giovane, rasati di fresco con gli occhi che ci brillavano. Uno su i venticinque anni e l‟altro molto probabilmente non più di sedici anni. Il più giovane sicuramente era alla sua prima volta, per il continuo muovere gli occhi a destra e a manca, ogni tanto mi fissava e percepivo la sua paura e voluttà, tanto da sentirmi turbare. Io avevo detto a Nardu che non sarei entrato, ero lì solo per fargli compagnia. Non ero stato mai in quel posto e mi sentivo tutto sottosopra. Provavo disagio a sentire i falsi ululati e le imprecazioni di quelli che si davano da fare nelle altre stanze e guardavo il soffitto pieno di paesaggi e decorazioni di scarsa fattura ma coloratissimi. Sarà stato quel vino che ho bevuto, ma incominciavo anch‟io a turbarmi. Subito uscirono dalla porta prima uno e poi un altro. Avevano stampato in viso un sorriso beffardo come se avessero fatto chissà quale atto eroico, ci guardarono come per dire: prendete quello che resta di loro! Dopo un po‟ uscì la signora con un copri vesta aperto che lasciava vedere di tanto in tanto il pellicciotto, aveva i capelli lunghi e biondi sembrava una straniera ma subito la parlata la smentì: “E cu è stu beddu picciottu?” Si ci piantò davanti, tanto che lui indietreggiò sul divano. Il suo compagno ridendo gli prese il braccio e lo spintonò: “Comu? M‟ha fattu a capa tanta… -Quannu mi ci porti? Quannu mi ci porti?- E ora ti scanti? „Un ti scantari ca denti „un havi e „un ti muzzica.” Lui fece un risolino pieno d‟insicurezza e si alzò. La Signora lo prese per la mano: “Veni cu mia beddu miu ca ti „nsignu di chi erba si fa la scupa!” Lui con una risata cretina rispose: “Di giummarra” “Ancumencia a nesciri u vastuni allura, beddu miu!” Nardu Sirraculu se l‟era goduta tutta e rideva beato: “A signura Alessandra ci sapi fari. Puru a mia svirginà!” Non bastò il tempo di distrarmi a guardare quel fatiscente soffitto dove un mare verde dentro una cornice di una tortuosa vite di grappoli 131 BENVENTI A CAMICO rossi mostrava una barca bianca con una donna con il suo ombrellino e il rematore con una paglietta, che vidi uscire il giovane paonazzo in viso che si teneva i calzoni con le mani e che protestava. La signora con voce sonora: “Beddu miu „un sugnu a to zita!” Nardu e l‟amico del giovane risero di cuore, se l‟aspettavano. L‟amico si rivolse al giovane: “Facissi comu ddi mulunedda di cani, comu ti tuccà scattassi! Ah! Ah! Ah!” La signora: “Avanti!” Ed entrò subito l‟altro. Quando uscì un signore distinto con due occhialini rotondi longilineo nel suo paltò abbottonato, salutò educatamente, si mise in testa il cappello ed andò via. Non appena dopo si affacciò alla porta una ragazzina, con una folta capigliatura nera che scendeva a ciocchi ribelli e mentre se li raccoglieva dietro con un fermaglio, lasciava intravedere alzando le braccia il suo seno rotondo e ben fatto, da sembrare una Venere del Canova. Io rimasi alluccutu. Nardu Sirraculu aveva gli occhi che gli sfavillavano e con un sorriso assolutamente satanico mi disse se avessi mai pensato di potere essere così vicino ad una stella caduta dal cielo? Io dissi no spostando la testa lentamente da un lato all‟altro. Lei con gli occhi stanchi, il sorriso sulle labbra morto appena nato e con un tono di voce sensualissimo, però da ragazza, disse: “Amunì, allistitivi!” Nardu dandomi una grande ciampata mi disse: “Alzati! Vai! Ca ti fa passari tutta sta malincunia chi ha!” Così ho capito che quella serata era stata studiata dal mio amico perché era in apprensione per il mio stato. Grande Nardu! E‟ stata la medicina giusta. La Venere di Rivela mi ha fatto dimenticare tutto e mi ha fatto sentire uomo come non mai. Forse avrà pure recitato, ma a me poco interessa. Martedì, 23 dicembre 1952 ore 3,10 Mi sono guarito! Sono stato insieme a don Alberto, sono rimasto indifferente, non provo più nessuna emozione alla sua vista. Gli ho pure parlato. Lui mi ha rimproverato di non avermi più visto in chiesa. Ora ho un‟altra attrazione, si è accesa una grande passione: Ninetta! Siamo stati insieme a giocare a carte dall‟avvocato Grafani, dove vi era tutta la Camico bene. Io 132 BENVENTI A CAMICO preso da un insolito ardire riuscii a trovarmi con lei da solo e la trascinai dentro uno sgabuzzino dello studio. La quale, non per niente spaventata, pendeva dalle mie labbra. E‟ stata tutta una conseguenza inevitabile ed insostenibile. Tanto che siamo stati sul punto di andare oltre, ma qualcuno entrò nello studio. Era l‟avvocato con suo padre, parlarono mentre lei molle ceduta, pronta a svenirmi tra le braccia ed io con le mani tra le sue dolce grazie. Come i due finirono di parlare ed uscirono lei si svincolò e sistemandosi tutta scappò dalla tentazione. Ma compresi che era mia! Ora rifletto che tutta questa sua predisposizione, tutta questa sua passionalità carnale non la fa sicuramente una buona madre di famiglia pertanto il mio interesse ha mutato aspetto. La voglio incontrare ancora, anche se il gioco incomincia a diventare pesante, anche se so di rischiare pure la vita. Il rischio per me è stato sempre un piccolo particolare, a volte anche insignificante. (…) Sabato, 14 febbraio 1953 ore 23,50 Questa sera al cine teatro Ambassador hanno proiettato QUO VADIS? Un grande film! Non vi erano nemmeno posti all‟in piedi; tutta Camico voleva entrare. Io e Nardu eravamo lì dalle cinque e già vi erano posti presi, così ci siamo seduti tra le prime file. Fu uno spettacolo magnifico rivedere la Roma Antica. Marco Vinicio e Licia: un amore che ha sfidato il potere, che ha contrastato contro tutto e tutti per un mondo nuovo, una nuova epoca, quella cristiana, fatta di carità, di uguaglianza fra gli uomini e di libertà. Ora, sorpreso io stesso, questi sentimenti non li proiettavo tra me e Ninetta… Mi sentivo come un turbamento verso Robert Taylor, lo facevo somigliante a don Alberto e questo mi inquietava. Rifletto: se un giorno, chi sa? Un uomo potesse amare un altro uomo senza alcuna recriminazione? Forse sarebbe questo il vero mondo nuovo? Oppure quel mondo che fu antico? (…) Possibile che quel cornuto di Salvo Gagà doveva importunare la cognata di Giurlannu u muntalligrisi? Quella ragazza, che è un bel pezzo di ragazza, si 133 BENVENTI A CAMICO sentiva appoggiato Gagà, poveretta non poteva muoversi ed era costretta subire, quando poi lui non soddisfatto incominciò pure a toccare lo disse alla sorella, all‟orecchio. La quale riferì al marito. Gagà imbestialito com‟era non stava attento né alle luci accese, in quando era finito il primo tempo, né il pericolo che stava correndo. Così Giurlannu, in mezzo alla folla si avventò contro Gagà dandogli pugni in testa, schiaffoni e morsi. Subito si creò uno spazio, la gente finì davanti allo schermo. All‟istante arrivarono i carabinieri e a fatica li divisero conducendoli in caserma. Gagà aveva la giacca strappata, la camicia di fuori e il viso che sembrava l‟Ecce Homo. Giurlannu sembrava un toro con il fumo che gli usciva dal naso e gli occhi rossi fuori le orbite. Dopo il mormorio tutto si acquetò e riprese la proiezione. Domenica, 28 giugno 1953 ore 22,00 Questa mattina in piazza non mi aspettavo questo incontro con il notajo Battista. Io e Nardu siamo rimasti di stucco! La prese alla larga per poi centrare in pieno. Incominciò a dire che questo giorno era una ricorrenza importantissima per la storia d‟Italia e dell‟intero mondo. Noi ci chiedevamo quale fosse? Lui alzando la testa e guardando il cielo ci disse: “Tobruk! Vi ricorda niente?” Nardu con espressione dolente affermava che quel posto gli ricordava tante sofferenze, la campagna di Libia… E poi la cattura degli inglesi e la prigionia. Ma lui abbassò la testa, dicendo di no e guardando per terra: “No, No! Camerata Ennio, tu sei stato che hai dato l‟ordine perentorio di sparare e lui era al cannone antiaereo sparò! E la storia ebbe un altro corso, quello del disastro per tutti! In quell‟aereo vi era la speranza del Popolo Italiano!” Allora a questo punto mi sono incavolato e sbottai: “Si, di un traditore del Popolo Italiano!” Lui riprese questa volta guardando negli occhi: “Sergente Maggiore Sanna, mi tolga una curiosità: l‟ordine è arrivato direttamente dal Duce?” Io già gesticolavo incavolato: “Ma quale Duce e Duce, Italo Balbo già da diversi giorni, circa una settimana, andava e veniva dalle file nemiche incolume, ci stava vendendo tutti! Io e Nardu osservavamo quell‟andare avanti e indietro, dicevamo: quello è l‟aereo di Italo Balbo! E ci siamo incazzati 134 BENVENTI A CAMICO così tanto decidendo di farlo fuori!” Riprese Nardu: “Appena abbiamo avvistato l‟S.M.79 abbiamo caricato l‟artiglieria e al momento giusto è stato buttato giù!” Io ridendo sarcasticamente: “Ci siamo sbagliati, ci sembrava un aereo nemico!” Non l‟avevo mai visto così esagitato, incominciò a dirci in faccia a tutte e due: “Bestie! Bestie! Solo lui poteva fermare Mussolini e lo sfascio dell‟Italia!” Nardu ripeteva che il Balbo era un traditore tanto che suo compare della Royal Air Force mandò le condoglianze via aerea. Il Battista insisteva che quella di Balbo era la strada giusta e che se di congiura si doveva parlare non era contro l‟Italia e nemmeno contro la rivoluzione fascista, ma contro l‟alleanza nazista di Mussolini… Contro il funesto destino dell‟Italia. I rivoluzionari fascisti come Grandi, Bottai e tantissimi altri di grande e di meno spessore: “La cosiddetta congiura delle barbette!” Lui continuò ad insistere che io ubbidii ad un ordine di Roma e che non poteva mai pensare ad una decisione esclusiva di due miseri camichesi che cambia il corso della storia mondiale. Sembra incredibile, ma quando leggevamo poi le accuse della moglie Emanuela Florio che incolpava il Duce di quell‟uccisione, capivamo di avere fatto un grande favore a Mussolini. Forse per questo non avevamo avuto nessuna ritorsione. Il fatto fu quasi ignorato dal comando… Ma andò proprio così in quel 28 giugno 1940! Mai avevo visto così incollerito il notajo Battista, mi aveva detto qualcuno che era di temperamento, dietro quel suo modo gentile. Per fortuna che ci fu l‟arrivo provvidenziale di mastro Carmelo con la sua solita allegria: “Che minchia andate parlando cose di guerra? Ormai è finita!”, poi ci narrò quando “in paese un gruppo di soldati americani si fermarono a mangiare e poi volendo soddisfare le loro voglie chiesero e ci indicarono a Maria, che allora era in pienissima attività. Uno di questi soldati, un nero, alla faccia sua, aveva un attrezzo fuori misura. La Maria anche se pratica di mestiere incominciò a dolersi: -Ai ai ai ai!- L‟americano invece capiva: -Ià ià ià ià!- che significa si, mente sua pensava: vedi come sta godendo la puttanona! E dava di brutto… poveretta la stava scassando!” Così finì con le risa di tutti, 135 BENVENTI A CAMICO sperando che il notajo Battista non ce l‟abbia ancora con noi, uno come lui può farcela pagare in tanti modi. (…) Sabato 6 marzo 1954 ore 16,00 Hanno ammazzato a don Alberto! Domenica 7 marzo 1954 ore 19,00 Mi sento turbato dall‟accaduto, sento dentro me come se avessi trovato soddisfazione nella sua morte, come un senso di liberazione. La sicurezza di non doverlo incontrare mi fa sentire meglio. Ma questo sentimento è misto ad un senso di colpa! La colpa di provare piacere della sua morte. Poi, il tutto si mischia con quell‟incancellabile attrazione per i suoi occhi, i suoi modi di fare, il nostro rapporto, tanto da farmi provare una gelosia su tutti coloro che ricevevano le sue attenzioni, ed erano tanti, ed io capivo, quando lui avvicinava una donna, matura o giovane che sia, oppure un giovanotto o un ragazzino... Si, lui non aveva freni inibitori di sorta, maschi femmine, senza limite di età. Me lo aveva confidato: “Non bisogna reprimere il piacere, Dio non vuole!” Una vera follia! Non posso capire ancora come la mia persona si possa conciliare con quanto mi sia successo… Eppure questa nostra stessa vita non è una follia? La stessa guerra non è stata una follia? Intanto la gente di Camico è rimasta basita, sgomenta. Nessuno si aspettava questo evento e poi in quel modo… Lunedì 8 marzo 1954 ore 23,50 Come mai, come mai? Galante sa tutto! Non mi è piaciuto il suo riferimento al verso di Tanu Ossu, quelle allusioni… Come mai mi ero allontanato dalla chiesa e da don Alberto… Poi, perché? Sicuramente lui sa chi è stato, sicuramente è stato lui a decidere chi e come dovevano ammazzarlo! Allora perché mi ha messo così alle strette? Forse per sviare le indagini? Forse perché vuole mettere a soqquadro la mia vita per vendicarsi di me, sa più di quanto io mi possa immaginare? Questo tipo di persone sanno 136 BENVENTI A CAMICO tutto! Sono rovinato, mi sento perduto, non riuscirei a sopportare una tale vergogna, non riuscirei a guardare in faccia mia madre. Potrei fuggire da Camico per andare dove? Calma, forse non sa niente del mio rapporto ed è stato solo un modo di tastare un po‟ il terreno su ciò che era accaduto, forse, forse… Martedì 10 marzo 1954 ore 2,05 Non riesco più a dormire, non riesco più a pensare ad altro, non riesco più a fare lezione, ho paura di Galante, dei suoi uomini, ho paura ad incontrarlo e lo cerco per verificare quelle sue attenzioni, quella pressione e quelle illusioni su di me. Lunedi 15 marzo 1954 ore 23,30 Ho la netta impressione che Galante sa, il suo modo di scrutarmi, la sua intonazione di voce… è più di una impressione. L‟ho incontrato al bar e anche se a stento sono riuscito a mascherare il mio imbarazzo, lui continuava di soppiatto a scrutarmi dentro con quegli occhi. Tanto che per non lasciarmi troppo insospettire andò via di fretta. Forse è tutto un mio sospetto. Forse non vi è niente di tutto questo. Chissà se don Alberto, come quel prete usuraio, non abbia lasciato qualche traccia del nostro rapporto? Mercoledì 17 marzo 1954 ore 23,50 E‟ la fine! Loro sanno! In una discussione questa mattina ho avuto la conferma. Mia madre mi ha raccontato che alla bottega le donne ragionavano ancora di don Alberto e che dopo un po‟ qualcuno incominciò a dire che se la spassava e come… Ormai la figura perversa di don Alberto va uscendo fuori allo scoperto. E come se non bastasse Ninu Ferru con quell‟aria prepotente ridacchiando mi chiese una sigaretta e mentre la stava accendendo mi disse: “Certu ca na brutta notizia fu sta perdita di don Albertu… Mi ricordu comu eravu stritti, parivavu dui ziti…” E‟ la fine! Non riesco a sopportare questa vergogna… 137 BENVENTI A CAMICO Domenica 21 marzo 1954 ore 23,00 Ho riflettuto pienamente e chiedo perdono ai miei parenti, ma io vado via nell‟unico posto dove nessuno mi potrà guardare per deridermi. Voglio abbandonare il mio corpo, voglio scrivere la parola fine. Il male che ho avuto seminato mi ha turbato ogni giorno, mi ha corrotto, mi ha divorato lentamente e inesorabilmente persino alla fine. Non avrei mai immaginato che dopo la guerra, quando la vita mi sembrava così piena di luce e di certezza, avrei potuto scrivere questa pagina. Che dopo essere riuscito a salvare la pelle dai proiettili, dalla fame, dalla sete, dalla prigionia, che dopo avere visto il corpo morto di mio padre ed assistito alla morte di un mio commilitone, avere visto tanti corpi abbandonati nella polvere, ragazze in africa sventrate, quasi uccise per capriccio e avere riflettuto sulla meschinità del corpo morto. L‟uomo che diventa immondizia senza vita senza alcuna dignità. Così voglio che io sia. Voglio silenzio attorno a me, buio! Voglio che la storia finisca ora. Sono sceso nella stalla ma mentre stavo sistemando la corda ho visto alcuni topi sulla trave e mi hanno fatto ribrezzo. Ho avuto nausea a pensare di lasciare in balia di quelle bestie il mio corpo. Così ho deciso di morire qui, tra le mie cose. Addio mondo, addio alla tua ipocrisia. Addio vita, addio luce riflessa nell‟acqua. Addio Ninetta, addio al tuo calore al tuo profumo. Addio madre, perdonami se puoi. Il cavaliere chiuse il diario guardò la soffitta come se cercasse il povero professore penzolare, lo ripose nel cassetto chiudendolo a chiave e urlò a tutto spianto: “Ninetta!” 138 BENVENTI A CAMICO III -Ci mancava pure questo… Il maresciallo non stava quieto, senza recriminare su nessuno voleva semplicemente trovare uno spunto, un appiglio sul perché di quel suicidio di una persona così equilibrata come Ennio Sanna. In poche parole capiva che fin a quel punto non aveva capito granché di quel paese e di tutti i suoi abitanti. Un prete viene massacrato, una persona che tutti amavano, un maestro di scuola si suicida senza un apparente motivo, non lasciando nemmeno una riga di lettera alla madre, la traccia di un motivo. Per questo forse non usciva dalla caserma, e quando il brigadiere Gatto fece cenno ad una tesi che fu la prima cosa che aveva pensato pure lui, fuori dal suo modo di essere, se lo mangiò letteralmente gridandogli in viso: -Ma chi minchia c‟entra don Alberto? Poi si acquetò e onestamente anche lui pensò ad un certo senso di rimorso del Sanna, ma il professore era al di sopra di ogni sospetto, perché non era né sposato, né fidanzato, né sorelle aveva e la madre era abbastanza anziana. E poi lui con i mafiosi non aveva niente a che spartire, tranne una sua mala sopportazione. Il maresciallo avendo interrogato il suo amico Leonardo Farlatta, „ntisu Sirraculu, riferì che non aveva notato niente di niente, tranne qualche inquietudine, ma che non gli aveva fatto sospettare che l‟amico covasse in se questa estrema decisione del suicidio. Per la festa di San Giuseppe il maresciallo aveva notato il Sanna, il quale si era goduto la festa: la tuppuliata di li santi, la mangiata e la prucissioni, in vestito con i suoi soliti amici. Il maresciallo ricordava bene il viso, l‟espressione del Sanna, non vi era niente da segnalare. Guardando di soqquadro il brigadiere Gatto, vide che c‟era rimasto male, allora gli raccontò quando nel 1938 in un paesino, non molto lontano da Camico, era successo un caso stranissimo, che mandò in confusione la caserma. Lui allora era vice 139 BENVENTI A CAMICO brigadiere. Chiamarono in caserma perchè avevano ucciso l‟arciprete alla Matrice, così corsero di fretta. Mentre si avviarono per la chiesa, li avvertirono che avevano sparato all‟orologiaio, non fecero in tempo ad arrivare in chiesa che sentirono un colpo di pistola, corsero e trovarono don Paolino, macellaio, con un colpo in testa e la pistola in mano ancora fumante. A questo punto viene spontaneo pensare di tutto e di più… Il brigadiere testava come un somaro preso per le retini. Il maresciallo continuò a chiarire il rebus: -Allora Gatto, cosa avresti pensato? Il brigadiere non voleva rispondere e continuava ad annuire con la testa. -Che minchia fai così con la testa? Rispondi! -Avrei pensato che qualche folle s‟aggirava per il paese ad ammazzare persone… -Bravo! E invece no! Noi non ci possiamo permettere di pensare, dobbiamo solo costatare i fatti e attestare l‟accaduto, senza pensieri, nemmeno uno minuscolo, perché possono intralciare le indagini. Basta un piccolo pregiudizio per deviare il corso investigativo. Ipotesi, solo quando si hanno fatti costatati. Allora Gatto, ritornando ai tempi nostri abbiamo un fatto costato che è il cadavere di don Alberto, ucciso, forse, da più persone con un rituale che noi sappiamo capaci solo taluni. Un altro fatto è il suicidio del professore Sanna, a pochi giorni del primo. Cosa lega il primo con il secondo? E perché ci deve essere un legame? Sono due fatti a se, intanto. Quale elemento abbiamo a disposizione? Dica lei brigadiere! -Maresciallo, forse il fatto che i due fino a qualche anno fa erano amici? -Don Alberto è stato amico con chiunque… -Va bene, indagheremo. Ma mi dica: cosa è successo in quel paesino? Mi lascia così con un arciprete, un orologiaio e un macellaio morti ammazzati? 140 BENVENTI A CAMICO Il maresciallo sapeva che quello sbirro di Gatto moriva se non gli raccontava come erano successi i fatti, allora si alzò e dandogli subito le spalle per non fargli vedere il sorrisetto sotto i baffi andò via: -Roba vecchia Gatto! Roba vecchia! Pensa a questa gatta da pelare che ci è capitata… Il brigadiere c‟era rimasto veramente male e alzando la mano destra a mezz‟aria disse tra i denti: -Chi pezzu di merda! -Gatto attento che ciò la „ntisa fina di sbirru!- E andò via. … In quel 1938 e in quel piccolo paesino era successo che l‟arciprete preso di coscienza, o perché non si sapeva fare i fatti propri, aveva convinto ad una parrocchiana di non sposare il fidanzato, tenente medico dell‟esercito, in quanto pazzo. Allora la fidanzatina convintasi gli scrisse che non voleva più sposarlo. A volte basta concentrasi con convinzione su una cosa per perdere l‟obbiettività oggettiva. Basta pensare che una persona è pazza per evidenziare di quella solo le sue stramberie, così si finisce con il convincersi seriamente che quella è veramente pazza. Il tenente medico, non era pazzo, ma abbastanza originale ed anche estroverso, forse il suo essere un po‟ anticlericale, pertanto lontano dalla chiesa e da tutte le tradizioni annesse, ha potuto creare questa convinzione all‟arciprete. Il fidanzato, ricevuta la brutta notizia, si fece dare un permesso e piombò subito a casa di lei. La quale non voleva spiegare il vero motivo, additando dei diversivi come: non l‟amava più, „un c‟è vultuntà di Diu. Lui più istruito della ragazza e di sua madre, promise che sapendo il vero motivo le avrebbe lasciate in pace definitivamente, così incominciò a scavare dentro quell‟espressione: „un c‟è vultuntà di Diu, scoprendo che dietro 141 BENVENTI A CAMICO quella volontà e dietro quel Dio c„era un sicario: l‟arciprete! Essendo venuto a conoscenza della verità, fece come promise, le salutò non lasciando intravedere nemmeno un filo di rabbia e andò via. Cercò l‟arciprete in chiesa, niente di niente, non riuscì a trovarlo, così arresosi prese la littorina per Girgenti e andò via. Ma il caso volle che, mentre era affacciato al finestrino a smaltire i bollori dell‟ira, vide l‟arciprete in groppa al suo somaro, il quale tornava tranquillo dalla campagna, con quel bel largo cappello di paglia e il fazzoletto bianco a tracollo. Il tenente non appena la littorina trovò la prima salita in una curva si lanciò fuori e alla svelta arrivò in sacrestia, dove pazientemente attese l‟arrivo dell‟arciprete. -Oh! Caro tenente… Vengo or ora dalla campagna, che vuole, come dice il detto: vo‟ „nparari a „npuviriri adduga l‟omini e „un ci jri!21 A che devo l‟onore? -Vossia ha asserito che io sono pazzo dissuadendo la mia promessa sposa a maritarsi con me, mi può spiegare il motivo cosa l‟ha spinto a fare questo torto alla mia persona? Non curandosi di rovinare la mia esistenza! Andò subito al dunque senza mezzi termini e risoluto. A questo punto l‟arciprete si vide come un topo in gabbia era pronto a gridare e si girò più volte a dritta e a manca per fuggire, ma il tenente ha estratto la pistola dal fodero alla cinta e gliela puntò, così costringendolo all‟angolo. -Non fare pazzie, figliolo… Non ti macchiare di questo peccato così orribile! Sono un uomo di Dio… Tutto si risolverà! Chiarirò io stesso con la tua fidanzata! Lui sapeva di essere senza speranze lo leggeva benissimo in quello sguardo furente e deciso. -Perché? Dimmi perché… Il tenente guardava quel faccione sudaticcio e quello sguardo colmo di terrore, ma nonostante ciò pieno d‟ipocrisia, almeno lui 21 Voi vedere come s‟impoverisce, lascia da soli i tuoi dipendenti. 142 BENVENTI A CAMICO lo vide così, e senza più attendere altro sparò due colpi al cuore facendolo stramazzare a terra lungo lungo. I colpi rimbombarono e subito accorsero il sacrestano e alcune parrocchiane. -Madonna santa! -Fermo! Vai a chiamare i carabinieri li aspetto qui! Vai! corri! Così si sedette nella scrivania e attese l‟arrivo. Intanto quella ragazza non si fidanzò più con nessun altro e nonostante la fede in Dio, andò in chiesa solo portata in spalla in una bara. Ha vissuto una vita dando alle persone bisognose aiuti di ogni genere e come ha potuto. Quando la sua bara uscì dalla chiesa e un mare di persone erano lì ad onorare la sua memoria, due colombe bianche, di quelle con le code artistiche, si posarono su quella cassa, senza timore degli uomini, tanto che messa dentro il carro funebre si posarono sul tetto rimanendo lì fin quando il mezzo non si mosse lentamente. Ma per tutto il tempo delle condoglianze ai familiari rimasero lì quieti. Uno, magari, mette in moto la fantasia e si crea pure una favola. Nello stesso paesino e nella stessa sacrestia, nel 1972 è successo un caso simile. L‟arciprete aveva dissuaso una promessa sposa convincendola che lei era più giovane di tredici anni e lui non così di buon fisico, oltre a non stare bene economicamente, insomma non le conveniva sposarlo. Il promesso sposo fece la stessa fattetta del tenente, ricordando l‟accaduto, almeno pensava di andarlo a spaventare, ma questo arciprete canicattinisi, dalla personalità molto controversa, tirò per primo fuori dal cassetto la sua pistola assicurandogli che se non se ne fosse andato l‟avrebbe usata di sicuro. Così mogio mogio batté in ritirata, cercando altre soluzioni per aggiustare il matrimonio. Torniamo in quella sacrestia del 1938. Arrivò il vice brigadiere, Scarpella, con un carabiniere semplice, dopo avere fatto il saluto al tenente, e ascoltato la deposizione voleva mettere 143 BENVENTI A CAMICO le manette, ma il tenente, con auto controllo e senza minimamente sconvolto, si rifiutò perché erano tutte e due più in basso in grado, perciò li seguiva in caserma di sua spontanea volontà. Contemporaneamente aveva avuto epilogo un‟altra tragedia. Da più di un mese era arrivato in quel paesino un orologiaio da Girgenti. Un tipo fine, ben vestito, si vedeva che era cittadino, aprì bottega proprio sottocasa del macellaio. L‟orologiaio veniva con la pintajota la mattina e ripartiva con l‟ultima, pertanto si arrangiava alla meno peggio per pranzare. La moglie di don Paolino le veniva pena, così si adoperava a passargli qualche piatto di pasta. Tutto qui! Vero o no questo non lo sappiamo… Ma il macellaio da quando era arrivato questo Gegè aveva perso la serenità. Insomma c‟era qualcosa che lo disturbava, non lo faceva lavorare tranquillo e neanche più dormire. Il tarlo della gelosia aveva fatto le sue gallerie nel suo cervello e non lo lasciava più in pace. Lui era un brav‟uomo, non faceva mancare niente né alla moglie né alle due figliole, che amava tanto. Lei talaltro aveva una gamba leggermente più corta e questo la faceva zoppicare, ma per don Paolino questo difetto non era nemmeno messo in considerazione. Effettivamente anche questo difetto aveva spinto l‟attenzione di don Paolino perché era una specie di garanzia alla fedeltà e gratitudine della moglie verso di lui. Era stato serenissimo, ma da quando era arrivato questo orologiaio dai modi gentili e che gli aveva sistemato un pendolo, cimelio di famiglia della moglie, aveva perso la serenità. Anzi il battito di quel pendolo, nelle notti insonni, gli sembravano martellate in testa. Così guardingo stava attento all‟espressioni della moglie quando lo nominava di proposito, quando lui si affacciava per chiedere cortesemente di riempirgli la bottiglia d‟acqua. A volte quando rincasava se ne spuntava con delle trovate veramente uniche. Un giorno rincasando si presentò di fronte la moglie e togliendosi il pirulì pregò la moglie: 144 BENVENTI A CAMICO -Tocca cca!- Guidandole la mano sopra la fronte. -Che c‟è? Forsi sbattissi? Ma nenti sentu? -Sicura? Talè tocca ccabbanna! Chi c‟è? -Ju nenti sentu e neti vidu. -Sicura si? -Certu! Ma chi fa sbattissi? -Arrè! Ma tu dimmillu, sicura si ca „un c‟è nenti? -Si!- Rispondeva la poveretta ignara della trappola. -Sicura si ca „un c‟è un paru di corna? -Ma chi dici?- Ritirando velocemente la mano. -No pirchì ju mi sentu propriu ca stannu spuntannu! Lei era un tipo molto calma e quell‟atteggiamento che assumeva ultimamente il marito la inquietava, però, pensava, che gli doveva passare, come dice l‟anticu: “ariu nettu „un ti scantari di li trona”. Don Paolino, al macello quando sparava alla bestia per abbatterla tra occhio e occhio provò una deviazione mai sentita prima, una forma di soddisfazione mista a piacere. Mentre prima evitava di guardare negli occhi buoni e paurosi del bue, diceva lui, per no lasciargli il ricordo dopo la morte del suo assassino, ora lo guardava fisso, ma non vedeva la bestia, bensì l‟orologiaio. Un giorno finì di pranzare e andò via di corsa alla macelleria, visto davanti la porta appeso il pajo di corna s‟inquietò tanto, sistemò un quarto di vitello appendendolo al gancio che chiuse bottega e tornò a casa. Pensava strada facendo a quelle corna che gli faceva l‟orologiaio e se la rideva passeggiando con il suo nuovo amico. Arrivato all‟angolo lo vide davanti la sua porta mentre la moglie porgeva qualcosa, si fermò di scatto e tornò indietro. Si rinchiuse dentro la macelleria seduto in un angolo a disperarsi perdutamente, quando prese la decisione erano passate diverse ore, era rimasto in quello stato al di fuori del tempo e del luogo, si alzò prese la rivoltella dal cassetto e a grandi passi andò verso casa, incontrò l‟orologiaio che passeggiava a braccetto con il sarto che sghignazzavano. Lui sicuramente pensò di essere 145 BENVENTI A CAMICO l‟oggetto ti tanta ilarità, e peggio ancora tutta la sua famiglia, così in un attimo gli puntò la pistola in fronte come ad un vitello, lo fissò negli occhi e gli sparò. Il sarto rimase in piedi e l‟orologiaio gli cascò accanto. Raccolse un po‟ di coscienza e scappò via. Salendo per le scalinate verso il macello, pensava una volta quando gli era scappato un vitello ferito per il paese e lui lo seguiva con la pistola in mano per abbatterlo perché pericoloso per la gente. Così mentre correva era diventato sia l‟inseguito che l‟inseguitore. Sia la preda che il predatore. In questa confusione mentale arrivò davanti il portone del palazzo del barone, alzando gli occhi vide la chiesa e una folla davanti, si puntò la pistola alla tempia e si sparò. La moglie continuò ad insistere che quello era un semplice gesto di pietà verso quell‟uomo gentile tanto per ricambiare il grande favore fatto nell‟aggiustare quell‟orologio così importante per lei. In paese la gente non ha mai dubitato quella versione, ma qualche maligno ha pensato diversamente. … Padre Hoff scendendo dall‟aereo a Punta Raisi non ha potuto fare a meno di paragonare Palermo ad una città del nord Africa. Lo hanno colpito i colori della vegetazione, del cielo e delle pietre ferrose. Si, la luce era sicuramente diversa, aveva letto qualcosa della Sicilia ma non vi era mai stato. Mentre, invece, era stato molte volte in Italia per lungo e per largo, Firenze, Roma, Milano, Torino, Napoli. Sicuramente quella terra non era italiana. Così ricordava cosa aveva letto a riguardo questa terra, lo sbarco degli Alleati, sui separatisti, concludendo che non avevano tutti i torti. Rifletteva che in un posto bisogna respirare l‟aria per sapere obbiettivamente la sua storia. -Questa è la Sicilia!- Disse il professore Randisi. -Non c‟ero mai stato! -Terra di misteri e segreti… A ecco c‟è il mio amico Enrico! 146 BENVENTI A CAMICO Dopo i convenevoli si misero in viaggio, lungo e faticoso tra salite e discese. Padre Hoff beveva con gli occhi quel paesaggio che mutava continuamente tra mare, montagne, vegetazione, steppa mediterranea e fiori, arbusti di ginestre, prati d‟erba di un verde acceso e di strane orchidee violacee, mandorle in fiori e un cielo di un azzurro profondo che ubriacava, mentre le nuvole sembravano rispecchiare delle pecore a pascolo; insomma mille colori tutti accesi. Il sole picchiava nei vetri dell‟auto creando un effetto serra facendo sentire veramente caldo ai passeggeri. Ad un certo punto il rombo monotono dell‟auto, quel tepore e la stanchezza, padre Hoff si era intorpidito per un po‟. Gli sembrava il gioco delle scatole cinesi, dentro un paese ce n‟era un altro e poi un altro ancora, fino ad arrivare in fondo, dove il mondo sembrava finire e così ascoltare dalla voce cortese e signorile dell‟amico di Randisi: -Siamo arrivati: Camico! Vedeva la chiesa sovrastare ogni cosa e questo in un certo senso lo rassicurava, da quando era sceso dall‟aereo si sentiva l‟adrenalina in corpo, come un tremore leggero. Quando poi finalmente l‟auto si fermò e scese in quella larga piazza davanti il grande portone del palazzo si sgranchì un po‟ le gambe e provò ristoro dopo quel torpore in auto, ma la scossa aumentò. Erano forse i muri di quelle abitazioni che dicevano qualcosa, la sua stessa missione in quel posto così nuovo e imprevedibile, poi gli sguardi di quei Siciliani: fuggitivi, ironici, a volte passavano così velocemente dal timore alla minaccia e viceversa da perdere il senso logico e smarrirsi così nel paradosso. Tutti questi pensieri accompagnavano padre Hoff, pertanto in una continua distrazione rispondeva in ritardo alle premure di Randisi e al suo amico, come se un riflusso del tempo si interponeva su ciò che stava succedendo. Avrebbe voluto ricordare a lungo ogni momento di quel viaggio, un ricordo oggettivo, che non gli appartenesse, da potere rivivere distaccatamente ogni volta che lui avrebbe voluto. 147 BENVENTI A CAMICO Entrò dentro il portone, poi per il cortile, la scala e per quelle stanze grandi. Quella casa sapeva di storie, di fatti, di risa e di pianti, come la sua padrona, donna Lucrezia, che portava segnato nelle rughe del suo viso ogni momento, eppure se ne stava austera con lo sguardo arcigno ad osservare gli intrusi, mentre in una apparente gentilezza dava il benvenuto. Dopo essersi lavati e rifocillati non si perse tempo e si passò subito al dunque, non erano venuti a Camico per un viaggio di piacere, bensì spinti da interessi molto importanti per coloro che rappresentavano. Pertanto entrarono nella antica biblioteca di famiglia e tra crateri rappresentanti gesta e divinità di epoca antica, forse autentici, si sono seduti attorno ad un tavolo dal ripiano in vetro, dove dentro erano in bella mostra antiche monete, fermagli, amuleti e statuette votive di vario materiale. Il professore Randisi chiese subito a che punto erano le indagini. La risposta del notajo Battista non arrivò, anzi chiese di padre Hoff e chi rappresentava. Il prete, subito intervenne, si sistemò all‟indietro aggiustandosi gli occhiali dorati e con voce calma incominciò a parlare: -Caro professore, il suo amico fa bene a chiedere, perché non ci ha ancora presentati. Vengo per conto del Vaticano ed il mio compito è di accertare se è autentica o no la notizia dell‟esistenza di una antica setta dentro la chiesa. Ora la figura di Alberto Greco ha tutte le caratteristiche di un apostolo della setta. Già da tempo seguivamo la sua condotta, il modo di come è stato ucciso ha dato maggiore credito ai nostri sospetti. Accertarne l‟esistenza significa una cosa soltanto: la Chiesa corre un grave pericolo. E questo pericolo è maggiore perché proviene dall‟interno e da personalità di varia importanza. Ora, caro dottore Battista, lei che è uomo di fiducia garantita dal professore Randisi, deve aiutare me a trovare qualche certezza. E‟ disposto? Basta un suo no, per cambiare immediatamente discorso e domani andarcene immediatamente via. 148 BENVENTI A CAMICO Il professore Randisi prese la parola non attendendo nessun cenno di risposta del Battista: -Vede padre Hoff, noi siamo ubbidienti al nostro Ordine e le disposizioni dei nostri fratelli superiori sono state categoriche! -So! Voglio una risposta chiara dal suo amico e le spiego perché, se accettasse non dovrebbe nascondermi niente, nemmeno ciò che tiene in serbo dentro la sua anima. Sarò un suo confessore, ma non dovrà avere segreti con me! Io cercherò di scavargli dentro e lui mi dovrà lasciare fare. -Io non credo nella confessione! Come non credo che un sacerdote è ministro di Dio ed uomo a suo piacimento. Per me uomo è ed uomo rimane, sempre! E nessun uomo è superiore a me, come io a nessun altro, perché credo che tutti gli uomini siamo di pari dignità in quanto animali e non in quanto uomini, per meglio dire persone. Ma non stiamo parlando di fede, quinti la mia risposta è si, come già stabilito dal mio Ordine. -Allora, esco, le confessioni non devono avere testimoni.- Disse alzandosi Randisi. Attese un attimo e visto che chi tace acconsente continuò -Andrò a fare due passi per il paese. Non appena chiusa la porta padre Hoff accostandosi con il busto e pregandolo con gli occhi con tono gentile gli disse: -Cominci! -Non so da dove cominciare…- Il notajo evitava di guardare il prete negli occhi, chiari verdicci e con voce malferma continuò -Io non sono stato un frequentatore di chiesa e nemmeno di sacrestia, ma l‟arrivo di don Alberto è stata una specie di rivoluzione, perché riusciva a coinvolgere tutti quanti alla vita sociale e non solo parrocchiale. Una personalità come quella la sua nel momento delicato che stava attraversando la comunità fu, come si vuol dire, una benedizione di Dio. Io ero smarrito con la grande responsabilità degli eventi che si susseguivano; con i soldati tedeschi che pretendevano chissà che cosa. Lui portava invece allegria, risa, voglia di fare. Aveva un sorriso ed una buona parola per tutti e non solo, anche qualche pezzo di pane, un indumento, 149 BENVENTI A CAMICO qualche soldo, un paio di scarpe. Le sue messe erano affollate, alle cinque di mattina, prima di andare in campagna, i contadini erano già in chiesa. Anche per me ha trovato le parole giuste, dandomi certezze ai miei dubbi. -In politica? -In tutto, deve sapere che sembra si sia abbattuta sulla mia famiglia una maledizione, dopo l‟ascesa del Duce al potere, quasi a segnare l‟inizio della tragedia. Mio padre morì d‟infarto, a quanto sembra, mio fratello Giulio morì nel 1938, a Valencia, il 24 luglio mentre sferravano l‟attacco. L‟altro fratello, Ferdinando, tornato dal nord Italia rattristito, s‟impiccò proprio lì da quella finestra chiusa, che mai più aprimmo, penzolando nel cortile. Quando mia madre scoprì il suo corpo che gocciolava ancora urina e liquido seminale, non urlò, rimase lì sotto in ginocchio a piangere inzuppandosi i capelli con quel liquido. D‟allora il suo cuore si chiuse a riccio, indurendosi. Lei doveva conoscerla prima.- Si girò e prese dallo scaffale di dietro un ritratto della madre e delicatamente lo porse al suo interlocutore. -Vede le sue labbra come sono aperte e inclini al sorriso, ed i suoi occhi sembrano complici di quel sorriso. Tutti a Camico erano innamorati di lei: uomini, donne, bambini. -Molto bella! -In questa profonda tristezza don Alberto, riuscì un giorno a farmi piangere. Io non avevo pianto per tutti gli eventi nefasti della mia vita. Mi lasciavo distrarre dalle cose da fare, dagli eventi che si susseguivano. Un giorno salì al municipio, per chiedermi non so che cosa, ad un certo punto mi guardò negli occhi e mi disse che dovevo uscire dal buio che mi avvolgeva, dovevo uscire dalla solitudine. Io rimasi in completo imbarazzo per quel tono così confidenziale e per quello sguardo pieno di sentimento, affetto, non so cosa, verso di me. Allora mi prese la mano e mi disse: “Siamo dei bambini che abbiamo perso il sentiero del ritorno!” Mi strinse la mano forte. A primo acchito volevo svincolarmi, poi non ho potuto fare a meno dei suoi occhi e di quel contatto e piansi 150 BENVENTI A CAMICO come un bambino, non riuscendo a calmarmi per un po‟. Da quel giorno siamo diventati amici per la pelle. -Ha confidato il suo credo? -Quando eravamo assieme difficilmente parlava di fede. Anzi argomentava d‟altro. Un giorno mi raccontò che si era invaghito di una giovane donna. Ne era innamorato, io provai un po‟ di gelosia, che la sua acutezza intellettiva subito percepì. Padre Hoff sempre immobile con lo sguardo puntato sul notajo: -Eravate amanti? -No!- Rimase in pensiero chiuso in un tormentoso silenzio, poi sospirò e riprese. -Questa donna, sposata con un bambino, andava poco in chiesa, allora riuscì ad avvicinare la sorella del marito, a corteggiarla fin quando era disposta a fare qualsiasi cosa lui comandasse. Così un giorno riuscì a possederla fisicamente, dopo quel giorno la dimenticò completamente, poi non ne parlò mai più. -Come mai? -Il suo scopo era soddisfare ogni voglia, ogni desiderio. Mi diceva di non volere lacci con questa terra. L‟amore per lui era solo l‟innamoramento, il resto era solo convenzione sociale. Il matrimonio era un sistema ipocrita, perché nessuna relazione doveva avere vincoli, lui diceva che la comunanza era il sistema migliore. Gli feci notare che erano i bolscevichi a pensarla proprio così, lui rispose serenamente che già i platonici e prima ancora di loro l‟avevano messo in pratica. Proprio a queste parole annuiva padre Hoff, allora prese un taccuino nero tascabile ed una penna. -Permette che prendo qualche appunto? -Certo! -Continuate, ve ne prego. -Io non riuscivo a credere come da quella passione non sia rimasta neanche l‟ombra… Parlava di lei come di Afrodite. E a dirla tutta, veramente questa donna ha una passionalità unica. Ma non è stata 151 BENVENTI A CAMICO la sola, deflorò pure una fanciulla di dodici anni. Ed ha avuto rapporti sessuali con persone dello stesso sesso di diversa età. -Lei, che parte aveva in questa storia? -Io, non ero d‟accordo a questa sua condotta immorale sessualmente, e non riuscivo proprio a capire come mai mi confidava queste sue manie. Tanto che, più io non volessi ascoltare, più lui insisteva, arricchendo le sue narrazioni con particolari plastico pittoriche. Poi capii, per me quelle sue narrazioni erano una terapia. Lui era riuscito a scoprire il mio blocco, la mia inattività sessuale, la mia impotenza, che non avrei confessato proprio a nessuno. Quando lui notò la mia metamorfosi, continuò la sua storia addentrando ancora di più nei particolari: colori, odori, gemiti sensazioni… Ed io che riuscivo a sentire cose nuove, come un cieco che vede la luce, un sordo che ascolta una melodia. Il mio corpo si trasformava. Il mio sangue sembrava ribollire e affluire come un fiume in piena che travolgeva ogni cosa. Il bicchiere con il rasolio mi cadde di mano, ma non me ne curai. Lui continuava ancora, fin quando quel fiume in piena sfociò in una eiaculazione. La mia prima volta. Subito dopo mi chiese: “Come ti senti?” Risposi che ero solo felice. -Qual‟era il racconto? -Aveva sodomizzato un bambino di otto anni- Enrico Battista guardò negli occhi padre Hoff che non si scompose affatto. Rimasero per un po‟ in silenzio, quando poi riprese: -Il giorno dopo andai a Palermo ed un mio amico mi portò in un posto molto particolare, sarà stata una sua garçonnière, pieno di specchi e comodi cuscini e lì mi fece incontrare una vera maestra del sesso. Quella donna non la dimenticherò per tutta la vita. Ella intuì il mio stato. Tornai a Camico dopo una settimana, più sicuro che mai. Ma don Alberto, venutomi a trovare la stessa sera, mi disse che quello era solo il primo passo perché dovevo affrontare il mostro dentro me e abbatterlo, sconfiggerlo per essere veramente libero. Mi spiegò che quell‟impotenza era stata causata sicuramente da un trauma infantile che io avevo rimosso. Così incominciò a scavare 152 BENVENTI A CAMICO dentro me parlando della mia infanzia rimovendo ricordi, abbattendomi barriere fin quando arrivò a farmi parlare dei miei cinque anni, quando subii una violenza carnale da un parente da parte di madre mezzo matto, scemo, che tal‟altro avevo pure dimenticato la sua esistenza. Anche perché d‟allora mio padre lo fece scomparire per sempre non so come, non so dove. Ora amo tutte le donne, proprio tutte, non riesco ad amarne una in particolare, ma tutte quante, giovane, vecchie, belle e brutte. Non riuscirei a vivere soltanto con una, pertanto preferisco le prostitute, dove il contratto è ben chiaro: io ti do tanto e tu mi dai tanto. A pensare quante volte ho tremato in tutte quelle occasioni che i camerati quasi per sfizio, per tradizione, passavano le serate nei bordelli a mostrare la loro “virilità italica” ed io che dovevo essere il primo, trovavo mille scuse per non andare. Loro adducevano questa mia condotta al mio fare aristocratico. Ma un giorno che arrivarono ad Agrigento gerarchi di Roma, di quelli dal passato nelle squadracce che consideravano in mal modo gli aristocratici, pertanto non ho potuto fare a meno di esimermi. Entrato in camera, trovai una femminuccia che si dispose nel letto, io mi sono adagiato in una sedia proprio accanto la porta. Lei chiamava: “Eccellenza! Eccellenza!”. Allora io presi parecchi soldi e glieli diedi, chiedendole di gridare recitando la parte, per fare intendere a gli altri che l‟atto si stava compiendo. Lei intelligentissima incominciò con gli urli e dimenarsi nel letto come una tarantolata. Durò forse venti minuti, per me furono interminabili, mi mortificai così tanto che mi spuntarono le lacrime. Lei ogni tanto sbirciava il mio malessere e alla fine si accostò e accarezzandomi il viso, mi baciò in fronte. Io, oggi mi pento amaramente, gli mollai uno schiaffone che stramazzò, poverina, a terra. Mi scomposi gli abiti e uscii. Proprio davanti la porta mi attendeva sua Eccellenza di Roma che vedendo a terra nuda la fanciulla esclamò: “Camerata Battista, ho sentito lo schiaffo! Non ho potuto fare a meno di ascoltare tutto. Un uomo di valore come voi lo è in tutto e voi lo siete! Quale tenerezza… 153 BENVENTI A CAMICO bastano i soldi e niente confidenze!” Provai vergogna della mia esistenza! Mi sono dato tutte le colpe possibili e sentii dentro me la convinzione del suicidio. Per questo motivo l‟aiuto di don Alberto fu grande, quell‟uomo conosceva gli animi e riusciva leggerli fino in fondo. Ma il bene che faceva alla gente, tenendo conto quello che lui si riprendeva, era niente! -Mi dia un chiarimento, cosa prendeva? -Quando si avvicinava ad una famiglia povera e donava soldi, l‟aiutava con abbigliamento o altro, aveva trovato una vittima da sacrificare ai suoi giochi di piacere. Quel bambino, che lui ha abusato, ora è in seminario, sarà anche lui un prete, oppure un insegnante chi lo sa? Lui in quella sua estrema forma di altruismo nascondeva un profondo senso di egoismo. Penso che il suicidio del Sanna in un certo modo sia collegato alla sua morte. Sospetto seriamente che la sua morte sia stata causata da qualche sua vittima. -Da lei cosa ha voluto in cambio per il favore prestato? -Apparentemente niente… mi ha chiesto alcune concessioni di alcuni locali per la chiesa, poi chiedeva aiuti in America, mandando foto di case diroccate e bambini con abiti laceri. Arrivavano pacchi enormi di abbigliamento d‟ogni genere e che ai più bisognosi regalava, ma che la maggior parte vendeva tramite una sua ruffiana. Dei soldi non so cosa ne faceva, a quanto sembra spediva a Roma, ma non so proprio a chi. E soldi ne riceveva, dollari e donazioni da persone anziane benestanti. Lui mi ha chiesto cocaina, sapeva che tramite la mia autorità poteva ottenerla. Ed io mi sono adoperato. -Le ha mai parlato del Vangelo Segreto? -No, ma un giorno mi chiese cosa fosse venuto a fare Gesù tra noi? Io rispose le solite cose che si imparano dai preti, come è venuto a salvarci dal peccato originale eccetera. Lui si mise a ridere e mi chiese: “e dov‟è questa salvezza? Nell‟orribile codardia della politica che sa solo uccidere? Pensi che l‟umanità sia salvata da qualche cosa? Ogni anno ripetiamo la stessa recita in 154 BENVENTI A CAMICO chiesa e ogni anno siamo al posto di partenza.” Ad un certo punto mi sono anche irato, perché il manico di quel coltello lo dovevo prendere io e lui la lama, così gli dissi se si fossero invertiti i ruoli. Lui mi rispose serenamente che la Chiesa aveva i suoi giochi di potere e per questo aveva traviato il Vero Vangelo di Gesù, nascondendo la verità. La verità era che questo mondo era stato creato da gli angeli ribelli e che i nostri corpi erano prigionie delle nostre anime. Tanto che mi diede un pizzicotto e mi disse: “Senti che dolore? A primo acchito vorresti fuggire dal tuo corpo, come chi soffre tanto e vuole subito morire per liberarsi dall‟involucro e così dal dolore! Il Maestro è venuto ad insegnarci: la Verità di questo mondo d‟illusione e di sofferenza, la Via del Regno dei Cieli e la Vita ch‟è oltre questa prigionia. Leggi attentamente Giobbe e scoprirai come Dio confabula con Satana e come questo mondo sia solo apparenza e inganno a loro capriccio di vendetta e gioco.” Le sue parole ancora oggi m‟incutono irrequietezza, hanno qualcosa di terribile. -Si sono ancora tra noi! -Chi sono? -I sacerdoti di Harpocrates. Una setta antichissima che pensavamo completamente annientata nel IV Secolo, ma avevamo torto, sono più forti che mai!- Incominciò a sudare prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò, si pulì gli occhiali -Domani, dopo una breve visita sia nel luogo del delitto che nella sua chiesa posso ripartire. -Arpocrate? Mi sembra una divinità egizia? -Si, il bambino che invita al silenzio… il bambino che viene allattato da Iside, Arpocrate, ovvero sia, Horus. Loro hanno contentato i sacerdoti di Mitra e loro stessi, perché il 24 dicembre nasce Horus e Mitra. Il segreto è la loro forza. Cosa sa degli gnostici? -So poco e niente, prego continui, anche per un non credente come me è abbastanza interessante. -La teosofia, cioè la sapienza divina, raggiungere l‟unità tra micro e macro tramite la via dell‟anima. Sant‟Ambrogio fu chiaro: 155 BENVENTI A CAMICO “quando l‟anima si converte si chiama Maria (…) e diviene un anima che genera Cristo22. Plotino insegna la liberazione dell‟anima dal materiale inteso come male verso il vero mondo, il Regno dei Cieli. Loro dicono che un Demiurgo geloso dal Padre ha creato un mondo materiale a copia del mondo divino. Ed è proprio in una colatura, rivelatasi smeraldo, di questo demone che nasce la tavola di Ermete Trismegisto, la sapienza dalla notte dei tempi. Alcuni dicono che con lo stesso smeraldo hanno scolpito il Santo Graal dove adepti di una setta hanno raccolto il sangue di Cristo mantenuto eternamente vivo come elisir di eternità e conoscenza divina. Tutte stravaganze che trovano ristoro nelle menti già pronti al peccato, le quali rifiutano la gioia dell‟esistenza, la magnificenza di Dio nel Creato per potersi ubriacare del niente. Per trovare alibi alle loro nefandezze. La Chiesa nei secoli ha sempre combattuto queste sette anche in maniera violenta, bisognava agire in questo modo, solo così poteva rimanere salva, almeno si pensava… -Mi scusi se lo interrompo- il notajo sembrava alquanto inquieto -Mi spieghi allora come mai, vi siete rivolti alla nostro Ordine? Perché a quanto sembra anche noi proveniamo da quelle storie. -La ricerca dell‟Assoluto è giusta, la via che ognuno intraprende è giusta, fin quanto non è morte! Violenza! Distruzione! Perché tanto tutto ciò che si vive è come un sogno, una finta, è niente e allora si è autorizzati a fare quello che si vuole. L‟idea di liberarsi di Dio per potere essere loro stessi dei, ha reso i nazisti e i comunisti delle belve feroci senza alcun rispetto della vita altrui. Come uno scienziato che scopre qualcosa che può causare la fine dell‟umanità così Nietzsche ha cercato di fare nascere un uomo nuovo, libero anche dall‟idea di Dio, ed ha scatenato la bestia. I Sacerdoti di Arpocrate hanno il dovere religioso di eliminare i desideri dell‟anima per liberarla dalla materia. Un po‟ come Siddharta, ma i buddisti predicano la non violenza. Per i carpocraziani tutto è lecito! Anche l‟uccisione di un altro uomo! O 22 De Virginitate, 4,20 PL 16, 271 156 BENVENTI A CAMICO il farsi uccidere… Loro hanno avuto dei vangeli apocrifi: quello di Marco e di Giuda. In quello di Marco, che loro ritengono di essere in possesso dell‟originale e non quello contraffatto dalla Chiesa, nell‟episodio della resurrezione di Lazzaro, la sera dopo descrive che Cristo e il risorto descritto nudo con un panno di lino hanno passato la notte insieme. Quella che era l‟iniziazione di Lazzaro all‟ordine esseno, loro l‟hanno interpretata come un rapporto omosessuale, noi come una resurrezione. Mentre nel vangelo di Giuda, sorprendentemente, scritto dal traditore, vi è, secondo i carpocraziani, la vera rivelazione, che il Maestro è venuto in terra ad avvertire che stavano adulando, non il Padre ma Satana e che ogni cosa di questo Mondo è una illusione e bisogna rivolgersi al Regno dei Cieli. Che lo stesso Gesù era un uomo normale ed il suo cammino verso lo spirito lo ha reso figlio di Dio. La morte in croce, lo stesso tradimento di Giuda è avvenuto sotto la regia del Maestro, studiata nei minimi particolari. Così il Maestro si è liberato dalla materia ed è ritornato al Padre Anima di Luce. A questo punto Padre Hoff sembra cadere in una profonda depressione. -Cosa le prende? Vedo che è caduto nello sconforto. -Niente, ogni tanto mi accorgo, mentre sciorino queste teorie, mi creda, raccolte minuziosamente da scritti conservati segretamente in Vaticano, che loro sono presenti e lo sono stati da sempre. Documenti raccolti negli angoli più sperduti del mondo. L‟altra volta sono stato al Kunsthistorisches Musem, Gemäldegalerie di Vienna e in quadro del XVI secolo il Giove, Mercurio e la Virtù di Dosso Dossi misura all‟incirca un metro per un metro e mezzo, noto che Mercurio impone silenzio alla Virtù, mentre Giove disegna farfalle che prendono vita. Da quella traccia siamo arrivati a congiungere gli ermetici con i carpocraziani. Anche se tra di loro vi è molta distanza. Noi diamo un corpo pronto a spirare in un terrificante strumento di morte che è la croce, nell‟umiliazione più profonda, diamo la libertà a chiunque di fare morire quell‟Uomo e alla loro pietà di farlo risuscitare potente! Vivo! Vero! Come 157 BENVENTI A CAMICO ognuno umiliato, tradito dalla vita ha la sua speranza di rinascere il giorno seguente con il sorgere del sole, vivo, vero, potente! E se così non fosse rinascerebbe come il seme a primavera al primo tiepido sole dopo l‟inverno, vivo! Vero! Potente! Dio! Questa croce è la porta, è la via, il tao, il sentiero. Ma senza pietà per quell‟Uomo su quella croce, senza un briciolo d‟amore, un attimo di condivisione della sua sofferenza, quella porta rimarrà inesorabilmente chiusa! -Lei sicuramente sa… io non credo! -Si voi fascisti, venite da quel socialismo mangia preti! -La Chiesa ha creato una propria dottrina credendosi la unica a possedere la verità, scusi: LA VERITA‟! Chiunque si è contrapposto è stato distrutto, non escludendo metodi che, direi… semplicemente, non hanno niente a che fare con quell‟Uomo lasciato appeso sulle vostre croci! Intanto asserite che voi: Chiesa, siete i detentori del fuoco primordiale, voi tenete lo Spirito Santo, a vostro uso e consumo, mentre voi: uomini vi insozzate in maniera deplorevole. Lo so, sto generalizzando! Ma cosa fate quando scoprite la lordura dei vostri uomini? Non dimentichi che don Alberto si è potuto avvicinare ad ignari bambini, donne e uomini fedeli, grazie alla sua funzione di sacerdote. Ma siete nel giusto, avete una ragione per nascondere tutto: è più importante la difesa, l‟integrità della Chiesa. Voi interponete il vostro interesse alla giustizia! Come facevamo noi, per proteggere la rivoluzione fascista calpestavamo la legge, la giustizia, anche noi teoricamente ci sentivamo eticamente giusti. Ma sapevamo tutti, escluso nessuno, dal più piccolo al più grande, che in fondo difendevamo la nostra porzione di potere su gli altri. -Non vuole paragonare il vostro messia con il nostro? Il vostro Duce, morto, si trascina nella tomba e per sempre tutta la sua dottrina. Il nostro è pronto a risorgere in ogni momento. Poi lei parla di metodi ormai superati. Oggi la Chiesa è pronta ad inserire al momento giusto una verità pronta ad essere smentita. Basta produrre un falso documento e metterlo sotto il naso del primo 158 BENVENTI A CAMICO babbeo che crede di distruggere la Chiesa per poi farlo smentire dai suoi colleghi stessi -Diabolico… Entra Randisi: -A, a, attento Enrico stai peccando di eresia! Signori spero di non disturbare, ma sono passati più di due ore… Ora basta! No? Sono stato a gironzolare tra le viuzze e la piazza; la mia Calabria, diciamo è indietro, ma qui siete refrattari al futuro. Poi, dove sono le donne? Sembra abitato solo da uomini. -Ci sono le donne e sono pure belle! -Al mio passare ogni uscio si chiudeva e ogni parola moriva. So che non è ostilità, non vengo dall‟America come padre Hoff, però mi ha fatto impressione subire quest‟atteggiamento. Ad un certo punto mentre guardavo alcuni segni nella chiesa giù in piazza, mi si è avvicinato un giovane con un aria spavalda e mi disse in siciliano guardandomi negli occhi se avessi bisogno di qualcosa, risposi che stavo semplicemente curiosando. -Questo è qualche picciotto del cavaliere Galante, anche lui è un muratore ma non è del nostro Ordine. -E‟ un mafioso? -Il don di Camico! -La mafia!- Disse padre Hoff affermando nella stessa parola il mistero. -Loro non sanno niente sulla morte di don Alberto e questo è insolito, perché ogni omicidio, ogni semplice furto o minaccia è conosciuta dal cavaliere, ma questo orrendo omicidio non è stato sotto il suo controllo, mettendolo fortemente a disagio con i politici e la chiesa siciliana. Sta indagando, come stanno indagando i carabinieri. -Io mi sono già fatto un idea, perché già casi simili sono successi in America dove il fenomeno è stato più rilevante, tanto da pensare che la sede sia proprio lì. I Sacerdoti di Arpocrate, grandi studiosi di psicanalisi e utilizzando anche droghe di vario tipo, in alcuni casi, hanno indotto le loro vittime all‟omicidio, così uccisi 159 BENVENTI A CAMICO riescono a fuggire da questo mondo per il viaggio mistico verso il Regno dei Cieli. Meccanismi autenticamente demoniaci. Penso che don Alberto tramite la cocaina abbia teso una trappola a qualche vittima ignara. Possibile che poi il senso di colpa abbia indotto questo suo designato al suicidio. -E‟ un po‟ questo quello che ho pensato alla notizia del professore Sanna… Un tipo determinato! …. Padre Hoff si svegliò mentre ancora era buio e rimase disteso sopra il letto con le mani giunte in una profonda preghiera molto personale, mentre con gli occhi aperti vedeva rischiarire le immagini del soffitto. Uno strano affresco lasciava intravedere la ninfa Dafne in fuga e in piena metamorfosi, la gamba destra già affondava nel terreno e i bellissimi capelli si allungavano nell‟aria come rami. Appena dietro vi era l‟aureo Apollo che l‟inseguiva invano. Madre Terra aveva così accontentato la figlia per evitare il mitologico stupro. La finestra di quella stanza dava nel giardino interno al caseggiato. Mentre il sole incendiava quel cielo azzurro elettrico vedeva un albero di limoni e uno di mandarini che avevano incrociato i rami colmi di frutti e un gelsomino aveva legato ancor più il loro abbraccio con i propri filari fioriti. Un‟armonia di colori tra fiori di ogni tipo e alberi in quel chiostro con i suoi percorsi di sassi. L‟odore era un tripudio d‟essenze. Alzò lo sguardo oltre il tetto dello stabile di fronte e vide quel cielo magico. Rifletteva come fosse stato possibile pensare, anche per un solo istante, che tutto questo mondo sarebbe una semplice illusione? Illusione sentirsi partecipe di questo mondo, di questi colori, di questi odori, di questa brezza, di questo spettacolo? L‟illusione più grande per lui era quella di non vedere Dio in ogni cosa, anche in quelle vivide ortiche accanto a quel muro. Mentre era così immerso tra il continuo schiarire del giorno udì un coro all‟inizio confuso ma quelle parole lui conosceva benissimo: 160 BENVENTI A CAMICO -Confiteor Deo omnipotenti, beatæ Mariæ semper Virgini, (beato Michæli (…) Paulo, omnibus Sanctis, et vobis, (…) verbo, et opere: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Ideo precor beatam Mariam semper Virginem, beatum Michælem Archangelum, beatum Joannem Baptistam, sanctos Apostolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, orare pro me ad Dominum Deum nostrum. Allora si allungo per vedere la provenienza e notò il dietro della chiesa, così si vestì immediatamente ed uscì, a pochi passi trovò l‟ingresso della Chiesa Madre, entrò e vide stupito che a quell‟ora, così presto, dentro era colma di persone. Si accostò all‟acquasantiera e subito fu notato da alcuni rimasti senza posto all‟in piedi. Fu letteralmente penetrato da quegli occhi rimasti stupiti per la sua estranea presenza. Padre Hoff notò che erano vestiti in maniera umile, con le coppole in mano. Si scostarono come un comando per contagio, facendogli un isola di spazio, tanto che l‟arciprete che era già sul pulpito ed aveva iniziato la predica ha notato la sua presenza, così fece un attimo di silenzio il giusto tempo per chiedersi mentalmente chi fosse quel prete e come mai era lì, senza che lui sapesse niente? Anche perché Camico non era di passaggio. -Il Santo Padre ha voluto illuminare tutta la comunità chiarendo definitivamente questioni che uomini abbagliati da false ideologie contro Dio confondono ciò che è semplice naturale. Anche a Gesù alcuni farisei tentarono di metterlo alla prova sul divorzio. Gesù fu esplicito più che mai: “Chi ripudia la propria moglie, se non per impudicizia, e sposa un‟altra, commette adulterio.” Vangelo di Matteo 19,9. Talché i discepoli dissero che a quel punto era scomodo perseguire i doveri, fastidi del matrimonio. Il Santo Papa ha approfondito con le stesse parole di nostro Signore: Gesù Cristo rispose che non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è concesso; alcuni infatti sono impossibilitati al matrimonio per difetto di natura, altri per la violenza e la malizia 161 BENVENTI A CAMICO degli uomini, altri invece si astengono da esso spontaneamente e di propria volontà «per il regno dei cieli»; e concluse: «Chi può comprendere, comprenda» (Mt 19,11-12). Chi può comprendere, comprenda!- Così fece un attimo di silenzio fissando i fedeli ad uno ad uno -Se vi è l‟impossibilità fisica al matrimonio, non è giusto che si vada ad inquietare un‟altra persona. A quale fine? Si deve accettare il proprio stato con serenità donando la propria castità per il Regno dei Cieli. Ma la vera castità si giunge quando si ha la potenzialità naturale, e spontaneamente si rinuncia, come noi sacerdoti. Il santo Papa Pio XII nella sua enciclica SACRA VIRGINITAS riporta un passo dell‟Apostolo Paolo: “Io vorrei che voi foste senza inquietudini... Chi invece è sposato, si preoccupa delle cose del mondo, del modo di piacere alla moglie ed è diviso” (1Cor 7,32-33). Il nostro è il matrimonio perfetto tra l‟anima e il Cristo! Anche le vergini consacrate all‟amore di Cristo devono sottostare ad un giuramento nel loro giorno di consacrazione: “Ho disprezzato il regno del mondo e tutto il fasto del secolo per amore di nostro Signore Gesù Cristo, che ho conosciuto, che ho amato, e nel quale ho amorosamente creduto”.- A questo punto un mormorio generale invadeva tutta la chiesa, tanto che l‟arciprete tonò: -Siamo in chiesa! Non siamo al cinema! Sembra che si sia abbattuto un ciclone nel nostro paese che ha spazzato in un solo colpo la buona creanza, la chiarezza delle idee, sembra che si confonda il giorno dalla notte. E‟ finalmente giorno! Ora dovete solo aprire gli occhi! Ora con la luce del giorno si vede con chiarezza se un albero è di pere o di mandorle. E l‟albero di pere non porterà mandorle. Questa è la natura! Le regole del creato. E chi vuole cambiarle non segue nostro Signore ma il diavolo! E allora, succedono cose strane. Gli uomini diventano pazzi. Sono trascinati da Satana e incatenati per l‟eterno ad ardere nell‟inferno perché quello è il loro posto. La strada è segnata: quella della rettitudine! Dell‟onestà! Lavoro, famiglia, chiesa! 162 BENVENTI A CAMICO Il silenzio fu assoluto mentre l‟arciprete stava scendendo dal pulpito. Padre Hoff si trovò il professore Randisi dietro con un sorriso sarcastico stampato che diceva tutto, non occorrevano parole. Solo quando finì la messa e uscirono, il professore gli disse: -La castità, SACRA VIRGINITAS! è la più estrema delle perversioni! -Non è la prima volta che ho sentito questo concetto, però non ricordo dove l‟abbia letto o da chi l‟abbia ascoltato. -Mi creda, da parte mia, è venuta spontanea dopo quella pedante predica, non adatta a quest‟ora. Ma poi, che ne so io? -Non mi aspettavo neanche io a quell‟orario una chiesa così colma, e un tale argomento. Ma l‟arciprete, in quanto guida spirituale sente la necessità di chiarire, la scomoda posizione della chiesa dopo il tragico evento. Mentre già erano nel centro della piazza, ed ammiravano il palazzo Morello. Le donne chiuse nello scialle nero, tanto da lasciare intravedere solo due occhi in uno sguardo sfuggente, si dileguavano nelle stradine. Gli uomini muti, anche loro s‟accendevano l‟un l‟altro le sigarette e s‟incamminavano. Padre Hoff soffermandosi e riprendendo la meditazione con il professore Randisi, avvezzo alle sue divagazioni filosofiche e teologiche, quasi ponendosi d‟ostacolo davanti: -Ma come è possibile potere pensare per un solo attimo che questo mondo, questa realtà, non è altro che un illusione? Illusione è la meta che si prefigge l‟uomo! Spesso dietro a specchietti per le allodole. -E‟ molto presto per intavolare questi discorsi. Gli rispose Randisi cercando di proseguire verso una viuzza accanto al palazzo. -Proprio svegliandomi e guardando questa natura prorompente che sa di vita, che sentivo come prova provante che il tutto magnificamente esiste. 163 BENVENTI A CAMICO -Lei dice: questa natura prorompente di vita, qualcuno dice questa natura che sa di cose morte, di continua decomposizione, una strada senza uscite! -Decomposizione brulicante di vita! -Questo è un discorso che non porta a niente, a mio avviso è più importante l‟argomento del cammino e delle mete che si prefiggono gli uomini. Per potere discutere serenamente dobbiamo chiarire in maniera concettuale chi detiene la verità, se l‟umanità ha già raggiunto la verità! Capisco che lei ha avuto prova di questa verità nel suo cammino di fede. Però sono sicuro, e la sua onestà culturale mi risponderà schiettamente, sono sicuro, che spesso nel suo angoletto, nel profondo delle sue preghiere, questa verità raggiunta le scappa di mano, in poche parole le squaglia come neve al sole e così rimane solo, senza la sua verità, senza Dio, solo! Allora si chiede: ma la mia meta, il mio cammino è giusto? Oppure sono annegato nella futilità? -Sapevo, dove voleva arrivare, le dico solo che quei pochi istante di certezza valgono tutta una vita per non dire l’eternità! -Caro Hoff, quella è una sua esperienza, e per quanto concerne l‟autenticità, la do per scontata, bene! Ma è personale, come tutti i rapporti tra Dio e l‟uomo. Io che non ho avuto questa benedizione, non so che farmene di alcuni attimi, voglio vivere più possibile, nella mia dimensione. E provo dolore, piacere, fame, sonno e stimoli d‟ogni genere. Queste sono le mie regole da uomo! Ora se sono state imposte da un dio, io cercando di soddisfare un mio desiderio mi muovo secondo le regole stesse di questo dio. -Sa, siamo pienamente in tema. Lei ha semplicemente espresso il pensiero di Epifane, il cosiddetto figlio di Carpocrate. -Penso che Marx deve molto ad Epifane! Lei Hoff non può trascurare che il suo Dio per essere perfetto deve per forza essere in ogni luogo, il suo limite è imperfezione. Ciò significa che l‟essenza di ogni cosa, anzi ogni cosa è Dio, la verità è Dio, tutto il resto è apparenza. E allora questo mondo così meschino, perverso e cattivo potrà mai essere un aspetto del suo Dio? Oppure di un 164 BENVENTI A CAMICO sottodio, un demiurgo che per una ragione qualunque crea questo Mondo ed è il cerchio concentrico di un cerchio ancora più grande dove troviamo il vero Dio Padre, così tutti sono contenuti e contenti: il bene e il male, nei limiti della nostra ragione! Che ne pensa? -Potrei rispondergli con Sant‟Agostino, ma lo risparmio per questa volta. Veda, per noi credenti vi è un Creatore e un Creato e basta! -Anche voi dite sempre Dio è uno e poi vi siete messi a giungere divinità inferiori tanto di avere un intero Olimpo. Comunque in questo creato, vi sono io che provo il desiderio di una donna, non so s‟è la donna di un altro e faccio peccato, ma quel desiderio sessuale mi è stato dato io semplicemente eseguo le regole del suo Dio Creatore. Quando invece gli animali, non solo desiderano la femmina ma la stessa femmina è disponibile, per modo di dire. La comunanza come in Unione Sovietica! Tutto in comune, beni e femmine! -Carpocraziano pure lei? -No, caro Hoff, io mi diverto a fare l‟oppositore, il contrappositore: lei sostiene una teoria io faccio di tutto a contrapporla. Non sono socialista o comunista, come è meglio dire. Ma mi dica questi carpocraziani, questi eretici ormai sono acqua passata, li avete tutti cotti per bene, insomma arrostiti alla griglia, o no? Mentre i due si dibattevano furono avvicinati da un tipo che a padre Hoff diede una brutta sensazione, era Vincenzo, il sacrestano della chiesa Madre, che gentilmente pregava il prete di accomodarsi in sacrestia perché l‟arciprete avrebbe avuto il piacere di conoscerlo. Vincenzo credeva di parlare italiano ma era un siciliano italianizzato. Padre Hoff e Randisi si guardarono e intesi decisero di andare. Appena entrati in sacrestia l‟arciprete licenziò frettolosamente le parrocchiane e andò incontro loro: -Mi stavo appressando io per incontrarvi, ma il corpo non ha lo stesso entusiasmo che ha il mio spirito e allora ho dovuto desistere 165 BENVENTI A CAMICO e pregare Vincenzo a correre- strinse le mani prima a Randisi poi a l‟altro -don Angelo Burano! Sono qui da prima della marcia su Roma! Attendeva guardando negli occhi il suo collega una risposta, ma padre Hoff guardava i ritratti a grandezza naturale di vari personaggi, tra preti, vescovi e signori imparruccati uno accanto a l‟altro sopra il mobilio attaccati alle pareti. Così prese parola il professore: -Randisi, sono docente. Siamo tutte e due ospiti del notajo Battista per pochi giorni e allora facevamo due chiacchiere… era affollata! -Lei è ebreo? -Si, ebreo americano d‟origine polacca, io con grande disappunto della mia famiglia ho seguito Cristo… Ora anche loro mi hanno accettato; mia madre non piange più e mio padre non cambia stanza quando lo vado a trovare. -Qui a Camico abbiamo avuto la morte prematura del parroco del Santo Spirito e allora tutte e due le parrocchie, in attesa del nuovo sacerdote… Pensavo fosse lei. -No! Andrò via molto presto forse oggi stesso. -Mi tenga a disposizione! -Grazie. -Mi scusi se sono indiscreto, forse la sua visita ha qualcosa a che fare con l‟omicidio di don Greco? -Come mai sta pensando ciò? -E che vuole, noi Siciliani crediamo poco alle coincidenze… siamo più propensi a pensare ad un arcano superiore, al fato e non alle coincidenze. Pertanto, come è vero, di raro viene gente a Camico. Noi diciamo che chi viene qui è di proposito. Lei è un prete, due più due fa quattro. -Sono da poche ore qui in Sicilia e rimango stupito come questa Terra e voi che l‟abitate siete un tutt‟uno. Gli sguardi, i discorsi a labirinto, questo sole, i colori, le pietre, le case… poco fa guardavo, nel giardino del notajo un albero di limoni ed uno di mandarino che si abbracciano caricati di frutti e una pianta di 166 BENVENTI A CAMICO gelsomini in fiore, tutte e tre intrecciati. Questa immagine mi ritorna in mente vi è qualcosa di complicato, di poco chiaro. -Cosa?- Disse il professore Randisi con la curiosità scritta nelle rughe del volto. -Vero!- Aggiunse l‟arciprete -che c‟è di strano?- Facendo con la mano a coppo verso l‟alto, come per dire: chi minchia ci vidi di stranu nni st‟arbuli? -Primo: ma questi alberi danno i frutti tutto l‟anno? -E no caro padre, quest‟anno è stato freddo, e i frutti sono lì perché donna Lucrezia non vuole che entri nessuno nel giardino a raccogliere niente. E allora i frutti stanno lì. Come vede niente è così strano, tranne se uno non vuole vedere stranezze ovunque. -Ma non, il punto è proprio questo, in ogni cosa vi è una spiegazione, ma qui ogni spiegazione è estremamente complicata. -Caro Hoff, speravo che proprio lei, fine viaggiatore, non dovesse cadere nella trappola del razionale, un luogo si percepisce così com‟è senza battersi la testa sulle cose… si lasci trasportare dalle immagini, dai sapori, dagli odori, dagli umori. Lasci che le cadono giù nel suo profondo, sapranno come e quando riemergere in superficie. Nutri la sua anima di questo posto. -Ha ragione, Randisi! L‟arciprete guardava l‟uno e poi l‟altro senza comprendere con precisione dove stava il problema e di che cosa si stesse ragionando. Lui rifletteva che quei frutti di quel giardino, potevano benissimo essere mangiati, venduti, te! dati alla gente. Invece capriccio di ricchi dovevano perdersi così, per capriccio. -Lei che ne pensa?- Chiese all‟arciprete padre Hoff Sorpreso dopo un istante fece mente locale e si strinse le spalle allargò le braccia: -Che volete che ne sappia? -Non ha fatto mai qualche viaggio? -Ah, si, sono stato a Palermo, a Roma! Sediamo un po‟… I tre presero posto attorno una scrivania. Padre Hoff aveva intenzione di sapere cosa pensasse l‟arciprete di don Greco, così 167 BENVENTI A CAMICO chiese con garbo all‟orecchio al professore Randisi di allontanarsi per un po‟. -Scusate se vi lascio per un po‟, vorrei guardare con attenzione la chiesa. -Di sicuro, guardi la Madonna dell‟Itria è una scultura del Gagini, e poi vi sono dipinti del Novelli, vada vada. -Che idea aveva lei del Greco? Sparò diretto Hoff fissandolo negli occhi, ma non lo trovò per niente sorpreso anzi, era pronto. -Era un problema, un grosso problema che io ho chiarito più volte a sua eminenza il vescovo di Agrigento, ma pensava che fosse semplicemente geloso del suo successo. Io gli raccontavo quello che lui faceva giorno dopo giorno, e sua eminenza l‟arcivescovo Peruzzo, ormai anziano, mi rispondeva: “Umiltà! Umiltà don Angelo, Umiltà!”. Ora in curia mi hanno detto che è arrivato un giovane, che si farà molta strada, un certo Fasola, che coadiuva il nostro vescovo. E la cosa strana che è stato assegnato proprio due giorni dopo l‟accaduto. Non so s‟è una coincidenza… ma… -Lei non crede alle coincidenze?! Io lo sto a sentire, vorrei sapere. Allora l‟arciprete andò a chiudere la porta e si è seduto accostando la sedia di fronte a lui, e accostandosi incominciò in un sussurro a sciorinare tutto di tutto. -…alcuni mesi prima dell‟accaduto è stato picchiato da alcuni giovani forestieri in sacrestia del Santo Spirito. Siamo stati avvisati da un ragazzetto. Io e Vincenzo l‟abbiamo trovato esanime. Ci ha obbligati a non dire niente a nessuno e che era disposto a perdonare i suoi picchiatori perché non sapevano quel che facevano. Quanti viaggi Camico Agrigento, Agrigento Camico, che mi sono stancato. Ora sono stato chiamato da sua eminenza Fasola e mi ha pregato, di tenere per la Chiesa i vizi di don Alberto Greco. Mi disse: “La Chiesa va difesa e non dobbiamo permettere nessuno che ne scalfisse l‟integrità!” Lui l‟aveva con i comunisti! Io gli chiesi se dovevamo collaborare con la legge, lui mi disse che non tutta la verità è per tutti. Quando ci 168 BENVENTI A CAMICO siamo lasciati ricordo che dopo esserci salutati mi ricordò il silenzio mettendosi il dito indice sulle labbra: “Sssss!”- Rifece il gesto l‟arciprete sbarrando gli occhi. Padre Hoff ricordò l‟Hermes Arpocrate del museo di Vienna. -Ha detto qualcosa agli investigatori? -Mi hanno interrogato tutti: poliziotti, carabinieri, magistrati, giornalisti, e ho riferito solo quello che già emergeva fuori e che loro già sapevano. E poi mi creda, cose che ho sentito dire ad alcuni seminaristi che c‟è da rimanere di stucco. Si è sempre saputo che tra ragazzi qualche fesseria si faceva, ora invece ci sono insegnanti che fanno una specie d‟iniziazione ai ragazzi e non solo, vi sono relazioni durature tra ragazzi e sacerdoti, con gelosie e tradimenti. Non riesco a credere che la curia non sappia di queste cose, se io qui di Camico so. E don Alberto era ben portato al seminario, spesso si spostava ed andava sia ad Agrigento sia a Noto, per una ragione o per l‟altra, pernottando pure. Io non ho detto niente, così ho imposto a Vincenzo, il sacrestano. Ma qui a Camico sono in molti a conoscere le perversioni di don Alberto. No? -Certo, immagino. Arciprete io vado, penso che il mio amico è stato molto paziente nei miei riguardi. Si alzò e gli strinse la mano sorridendogli ed andò via. -Mi tenga a disposizione. Mah? Don Angelo aveva la delusione in viso per quella freddezza del prete, si aspettava la baciata alla siciliana. 169 BENVENTI A CAMICO IV Il maresciallo Scarpella a un mese quasi dell‟omicidio si è trovato la soluzione del caso senza aspettarsela. E‟ stato chiamato dal direttore della scuola elementare per un ritrovamento eccezionale: il diario del maestro Sanna! Si è chiuso dentro il suo ufficio, buttando fuori tutti e ordinando di non essere disturbato per nessunissima ragione, neanche se fosse arrivato Luigi Einaudi in persona! Era sera tardi quando lesse l‟ultima pagina la più importante: Sabato 6 marzo 1954 ore 16,00 Ho ammazzato a don Alberto! Domenica 7 marzo 1954 ore 19,00 Mi sento turbato dall‟accaduto, (…)Nessuno si aspettava questo evento e poi in quel modo… (…) Domenica 21 marzo 1954 ore 23,00 Ho riflettuto pienamente e chiedo perdono ai miei parenti, ma io vado via nell‟unico posto dove nessuno mi potrà guardare per deridermi. (…) Così ho deciso di morire qui tra le mie cose. Il senso di colpa di avere ucciso un sacerdote, è una maledizione che mi rende la vita un inferno. Chiedo perdono a nostro Signore. Addio mondo, addio alla tua ipocrisia. Addio vita, addio luce riflessa nell‟acqua. Addio madre, perdonami se puoi. Il maresciallo era pienamente turbato di quel diario, anche perché lui conosceva bene il professore Sanna. Doveva intanto verificare quegli scritti, pur se il direttore della scuola aveva garantito che la calligrafia era quella, doveva interrogare alcune persone, tra i quali: Nardu Sirraculu, il notajo Battista e Ninu Ferru. 170 BENVENTI A CAMICO -Però, però, però. Andava dicendo tra se alzandosi, faceva un giro per la stanza e ritornava a risedersi. C‟era qualcosa che non quadrava, ad esempio questa esperienza sessuale con don Alberto; poi che una persona così quieta, di cultura e incline all‟umorismo, abbia potuto commettere, in maniera così orrenda, quell‟omicidio; lo stato del quaderno era troppo in buone condizioni per essere preso e ripreso quasi giorno per giorno; poi uno che ha intenzione di non confessare l‟accaduto non scrive nel diario il reato; e come mai questo quaderno si è trovato nel cassetto della scrivania della scuola e non a casa sua? Non gli piaceva proprio questa soluzione del caso, sapeva troppo di brigadiere Gatto e lui non lo era, o per lo meno aveva un altro metro di ragionamento. -Però, però, però. Ed andava da una parte della stanza all‟altra con quella buffa camminatura. Quando ad un tratto sentì aprire la porta: -Ma che fai? Ti decidi o no? Con tono alto ed imperativo disse la moglie affacciandosi. Tanto che gli prese uno spavento tale che saltò: -Ma vai a farti na lavanna di cachì spatti! L‟indomani mattino, dopo una notte di dormiveglia, ancora con il buio, si alzò, si fece il suo buon caffè e infreddolito riprese in mano quel quaderno come se in quelle foglie ci fosse il senso della vita, la verità! Così riprese a leggere, ma dopo le prime righe lo rimise nella busta rossa come gli era stato consegnato dal direttore e dopo alcune imprecazioni contro tutto e tutti per il disordine della moglie in ogni angolo della casa, persino nel gabinetto dove vi era una catasta di biancheria sporca che puzzava, si fece la barba e letteralmente si schiaffeggiò con del dopobarba, indossò la divisa, quella buona e si imbrillantinò. La moglie non si destò dai rumori, ma dagli odori; aveva già sentito il caffè, non facendo caso, poi il dopobarba per lei fu un campanellino d‟allarme, la brillantina le creava inquietudine, perché era convinta che quelle civetterie erano segnali 171 BENVENTI A CAMICO d‟inquietudine del marito. E d‟inquietudine si trattava, ma di tutt‟altro genere, non erano rivolte verso una donna, come lei ad ogni sospiro del marito, pensava. La sua però era una gelosia sotterranea, forse la più pericolosa, usciva fuori con delle battutacce che venivano ricambiate in malo modo. Come ad esempio quando il marito s‟affacciò per vedere se fosse sveglia e salutarla, lei con gli occhi sbarrati disse: -T‟alliffiassi di prima matina? Pari Rodolfu Valentinu… -To‟ matri quannu fici a tia hajva sicuru sempri agitu! Devo andare a Girgenti, se tardo, tu pranza. Lei per tutta risposta si voltò dall‟altra parte. Tornò di Agrigento senza diario, incavolato, con alcuni appunti che gli hanno permesso di prendere e l‟ordine d‟indagare con discrezione. Per il giudice il caso era chiuso. C‟era il morto, il colpevole, il movente, la prova. Una confessione! “Cosa cercava quel maresciallo ignorante!” Pensava il giudice. Gli sorrise come dire: “fai, fai! Gioca a fare l‟investigatore Sherlock Holmes…” Così gli permise di prendere gli appunti, ma il quaderno, per il contenuto politico doveva essere ritirato, e messo a gli atti come prova. Il brigadiere Gatto guardava il maresciallo di tanto in tanto con lo sguardo di sghimbescio. Il maresciallo storceva il baffo da sinistra a destra e dopo un po‟ scoppiò: -Gatto, che minchia talii? -Marescià a volte la verità è sotto gli occhi, semplice come la cicoria, basta raccoglierla… -Ma quali cicoria e scalora! Voglio subito a Nardu Sirraculu! Alzati e vai! Dai! Nardu Sirraculu ha confermato tutto e non solo, anche gli altri. Quella era la vita di Sanna, inconfutabile. Pure Tanu Ossu che lo inchiodò con le sue rime: -Mi presentu Tanu Ossu a vussja ju mi cunfessu, 172 BENVENTI A CAMICO chiddu c‟amaddumannati currispunni tuttu a viritati ddu jornu a u circulu civili na puisja „un potti finiri pirchì mi sintivu taljari. Ma cu vuj a vogli finiri: (…) Dicinu ca u so dilettu Macari di retru era fattu Senza canusciri rispettu -Basta, basta! Tanu ho capito. Ma non potete parlare senza sta minica di pujsia cortesemente… Ninu Ferru non voleva presentarsi in caserma, anzi era completamente scomparso dalla circolazione, nessuno sapeva dove fosse, nessuno l‟aveva visto. All‟indomani mattino alle otto in punto se lo vide arrivare accavallo della sua ciumenta in caserma. Il cavaliere l‟aveva obbligato ad andarci perché sapeva dell‟indagine del maresciallo. A domanda risponde: -Veru è! Che mi fece accendere, ed è vero che gli dissi che sembravano due ziti, perché ci fu questo periodo che erano sempre insieme, ma la mia è stata una battuta innocente, che potevo immaginare che erano veramente ziti? Il maresciallo non guardava di bon occhio questo giovane Ferru, vicino a certi uomini d‟onore, incominciava ad annacarisi troppo. Non rimaneva che andare a trovare il notajo Battista. Così animato di buona volontà, ma arreso ormai all‟evidenza dei fatti, per scrupolo di sbirro, s‟avviò per il municipio. Non lo trovò, era andato già via, così si presentò a casa. Trovò il portone aperto e lui s‟infilò, guardò le vetrate dirimpetto, non vi era nessuno, allora con voce fievole disse: -C‟è permesso? 173 BENVENTI A CAMICO Trovò un portone socchiuso e s‟avviò per le scale, quando ad un tratto percepì la presenza di qualcuno, si voltò e proprio alle sue spalle vi era donna Lucrezia. -Lei usa in questo modo? -Ho chiesto permesso eh… -E doveva attendere che questo permesso le veniva concesso. Ora è pregato di accomodarsi fuori!- Facendogli strada mettendosi di lato. Il maresciallo, che la gente a Camico gli permetteva questa sua insolenza d‟intrufolarsi ovunque, si prese questa batosta da quella donna così ferrea e mogio mogio s‟incamminò. -Maresciallo!- Si sentì chiamare dal notajo -Stava cercando me? -Mi deve perdonare…- Con tono imbarazzato. -Salga! Prego. Il maresciallo Scarpulla non si era reso conto dell‟ora e che il notajo si stava accingendo per pranzare con degli ospiti. Fu fatto accomodare nello studio, dove lui lo informò di tutto, minuziosamente di ogni cosa, non lasciando trasparire i sospetti che aveva sul quel quaderno. Il notajo confermò quelle battute in piazza con il Sanna e il Sirraculu, anche perché ricordava minuziosamente lo svolgersi, per il motivo che non credeva ai due sulla loro libera iniziativa di abbattere l‟aereo del Balbo. Poi gli presentò i suoi ospiti. Il professore Randisi come lo vide gli dissi subito che aveva due occhi intelligentissimi e sicuramente era un carabiniere abilissimo. Padre Hoff gli domandò se potesse leggere il diario del Sanna. Poi ad un tratto gli chiese: -Lei pensa che questo diario, sia un depistaggio? Il maresciallo pensò: “questo mi legge la mente! Ma chi è u‟ diavulu?”. -Io devo fare semplicemente il mio dovere, devo costatare i fatti. E i fatti dicono che è autentico! -Ma a lei non li soddisfano lo stesso… Lei dubita maresciallo! -Vuole pranzare con noi?- Gli chiese il notajo. 174 BENVENTI A CAMICO -No, devo andare, mia moglie mi aspetta, non credevo fosse così tardi, devo andare, grazie. -Su via, maresciallo è tra galantuomini!- Gli disse scherzosamente Randisi. -Accetti, possiamo conoscerci meglio!- Lo pregò padre Hoff. Restò lì a mangiare e bere, si sentì veramente soddisfatto di quel pranzo prelibato, di quel vino così gustoso e di quella magnifica compagnia. Finì con una confessione dei suoi dubbi su quel quaderno, perché provava fiducia nel notajo e nei suoi amici, intimamente pensava, pure, di trovare qualche risposta a quelle imperfezioni che aveva notato: -…e poi quella calligrafia sempre la stessa dalla prima a l‟ultima pagina. Possibile che descriva un incontro con una certa Erminia, tra l‟altro non identificata, forse ha cambiato il nome di proposito, perché una Erminia a Camico non esiste, insomma, questo incontro con la stessa intensità emozionale di quando scrive: “ho ammazzato a don Alberto!”? La stessa pressione della mano, senza nessuna alterazione nelle lettere. Come se niente fosse successo, come se scrivesse un morto! Enrico Battista intuì, chiuso nel suo silenzio, chi ha potuto produrre quell‟opera, un solo uomo: il cavaliere Galante. E capiva anche il perché. Magari la confessione del Sanna era autentica, ma il quaderno no, perché sicuramente conteneva altre narrazioni che dovevano rimanere all‟oscuro. Randisi convenne che quei dubbi erano sicuramente fondati: -Però- Mentre Randisi parlava, il maresciallo pensava che quella parola era diventata una sua ossessione quante volte l‟aveva pensata e spesso ad alta voce da quando aveva in mano quel quaderno. -I fatti, la persona, i tempi, tutto è autentico. -Si, sicuramente, ho pure rovistato nell‟archivio, perché ricordavo una sua denunzia per un fatto di poco conto, la calligrafia è indubbiamente la sua, ma in quella denunzia formale le parole erano vive, non so se mi spiego… mutavano dando vita al significato. Capita che in caserma ci arrivi qualche lettera 175 BENVENTI A CAMICO anonima, allora mi metto a guardare le t, le g, le vocali l‟età dello scrivente, se è femmina o maschio, s‟è allittratu o senza scuole, insomma un po‟ tutto, poi leggo quello che c‟è scritto. -Non mi sbagliavo che lei è un carabiniere di quelli fini!- Disse soddisfatto Randisi. -Allora, chi ha potuto avere interesse a contraffare questo documento e perché?- Alzandosi e giungendo le mani disse padre Hoff. -Io ho qualche sospetto- Il notajo disse tra se e se. -Ma i sospetti non servono caro commissario, anch‟io ce l‟ho, ed è come sbatterci la testa fino a rompersela. Veda l‟omicidio di don Alberto è anomalo, perché a primo acchito viene spontaneo pensare che lì c‟è la firma inequivocabile di chi sappiamo noi!Guardò negli occhi il notajo e lui condivise. -Ma c‟è qualcosa che non va, che non funziona. -Di chi state parlando? S‟è lecito sapere- Chiese Hoff Il maresciallo guardava il notajo attendendo che parlasse lui. -L‟Onorata Società.- Disse il notajo a mezza voce -Cos‟è? -La mafia!- Rispose a chiare lettere Randisi. -Ora- riprese il maresciallo -questi non hanno mai ammazzato nessuno e mai un atto intimidatorio di venerdì. E poi a loro interessa fare meno rumore possibile, in poche parole non conveniva ammazzare un parrino e loro non l‟avrebbero fatto, almeno in quel modo. Forse al massimo l‟avrebbero fatto scomparire. Dico bene commissario? -Quest‟altro mistero… - Diceva padre Hoff tra se. -L‟arcivescovo Peruzzo a quanto sembra è molto disponibile con i comunisti. E per fortuna che non sia stato lui ad occupare il posto vacante di capo della Chiesa Siciliana a Palermo… Il cardinale Ruffini cerca di capire la nostra storia. Non condanna il Popolo Siciliano a priori. Pertanto in questa fase di ricostruzione e di pace con la Chiesa non conveniva sicuramente creare delle spaccature 176 BENVENTI A CAMICO tra poteri. Noi lo sappiamo maresciallo che non è stata l‟Onorata Società! -Commissario, lei ha visto la mia sincerità, mi deve promettere che se per caso venisse a conoscenza di fatti attinenti mi farebbe partecipe, come io ho fatto con lei. -Non si preoccupi, ad un patto che io non parlerò al maresciallo ma all‟uomo, se ci riesce a liberarsi totalmente del suo mestiere le do la mia parola. Il maresciallo per tutta risposta gli porse la mano e gliela strinse con quanto forza aveva. Tanto pensava tra se che questa storia andava a finire scaricata a quel povero suicida, in fondo un morto non si fa galera, perché a tutti interessava trovare il colpevole, anche se poi rimaneva rattoppato alla meno peggio. … Camico era ripiombata nel suo ritmo monotono di tutti i giorni. Tutto sembrava acquetarsi, come se niente fosse successo. In realtà l‟omicidio di don Alberto aveva lasciato delle profonde ferite e a tanti camichesi. La salma fu posta in una tomba senza nome, anonima, come se la comunità avesse paura a leggere il suo nome. Nessuno più ne parlava, erano passati ormai due mesi, al Santo Spirito era arrivato un nuovo sacerdote, don Paolo De Paolis uno di quelli tarchiati e paciocconi con le orecchie carnose sempre rosse e gli occhiali come fondi di bottiglie. Insomma, una figura così lontana dall‟aspetto che a solo vederlo rassicurava mariti e fidanzati. Questo andava molto d‟accordo con l‟arciprete, tanto da vederli insieme spesso e volentieri. Era arrivato con la madre, vedova, che gli faceva da perpetua. La signora Veronica aveva socializzato con le parrocchiane istaurando un rapporto benevole. Lei era orgogliosa di quel figlio studioso e così pieno di fede, tanto che lasciò le altre due figlie con i nipotini in un paese provincia di Messina e seguì il figlio. 177 BENVENTI A CAMICO Padre Hoff e il professore Randisi andarono via subito, il giorno dopo il pranzo con il maresciallo. I due così diversi nel pensiero e nella formazione, avevano avuto questa missione d‟indagare su quel prete con tali rapporti personali così importanti inimmaginabile. Rimasero convinti, senza che l‟uno confessò a l‟altro, che i carpocraziani non solo esistevano ancora ma erano così potenti da influenzare, stravolgere la storia. Padre Hoff ha avuto il grande timore che ritornando a Roma doveva diffidare da chiunque e che non sapeva realmente il da farsi. Il professore Randisi capì che erano annidati dentro il loro Ordine, in una loggia superiore a quella sua e del notajo Battista. Una loggia internazionale sicuramente più antica della loro e più prestigiosa. Si aspettavano eventi storici sconvolgenti sia nell‟ambito religioso che politico. Prima che l‟aereo partì da Punta Raisi, padre Hoff guardò la pista tra quella montagna ferrosa e il mare verde e gli faceva pensare alla Sicilia come un confine tra realtà diverse, mondi diversi. Rifletteva ancora che per questo motivo ogni cosa gli si presentava come un contrasto, un paradosso. Si era promesso di tornare per conoscere meglio questa terra di mezzo e la sua gente nella loro unicità. Il Randisi, quasi a leggergli il pensiero, gli disse che la Calabria, pur bella, pur con migliaia di anni di storia eguali, non era la Sicilia. Sono due terre diverse, due popoli diversi. La Sicilia ha questa unicità che la rendeva magica. -Vede, Hoff, se dobbiamo paragonare queste due terre a degli animali mi vengono in mente: il cane per la Calabria e il gatto per la Sicilia. Sono animali domestici tutte e due, e similmente s‟affezionano al loro padrone. Però, mentre il cane è fedele, il gatto mantiene la sua indipendenza ed è pronto, quando meno te l‟aspetti, a graffiare, o andare via per mai più tornare. Lo tieni sulle ginocchia serenamente, sembra totalmente soggiogato, ma non è così, è pronto a graffiare il suo padrone. Mentre il cane 178 BENVENTI A CAMICO anche se gli tiri un calcio nel di dietro ti torna con la coda tra le gambe. Padre Hoff in quelle parole trovava un appiglio, una spiegazione dello strano ed enigmatico sguardo dei Siciliani. Pensava a quel bandito, Giuliano, che non riuscivano a catturare, ed era libero in quelle montagne come un gatto selvatico. Il maresciallo, confermò ad Agrigento, l‟autenticità del diario, con lo sfottò in tutte le salse del brigadiere Gatto. La sua rabbia era che quella per lui non era la verità e che per propria soddisfazione doveva scoprire, ma con molta discrezione, per non essere accusato di accanimento sul caso e per il semplice motivo che non doveva insospettire a chi ha curato la regia di quel lavoretto. Il notajo Battista non appena andati via i suoi amici, ha programmato un viaggio per Roma. Camico ritornata calma, era più una apparenza che altro. L‟incontro tra il notajo e il cavaliere Galante è stato ancora turbato, ma ha prevalso la loro provata correità. Al cavaliere non sono piaciute le insinuazioni del notajo come: -Certo che il povero Sanna non può più parlare, ma gli avrei chiesto volentieri come è riuscito a fare tutto da solo… -Chissà quale giochetto stavano facendo?! -Galante! Tu e i tuoi “finalmente” avete terreno libero… Povera Sicilia… -Enrico, non capisco che vuoi dire, ma se stai parlando di politica, credo che Vostra Eccellenza non è più la persona adatta, hai avuto modo e tempo di dire e fare come avete voluto, ora basta! Rassegnatevi… -Hai ragione, avete ragione! Ricordati… Il notajo lasciò il discorso in aria chiudendosi nel silenzio più profondo, incominciò a scartabellare sul tavolo, mentre il cavaliere stava lì in attesa della sua ultima parola, guardandolo fermo al viso 179 BENVENTI A CAMICO chinato. Dopo un po‟, alzò in aria il tagliacarte, uno strano aggeggio d‟avorio intagliato, e disse: -Ricordati, che quando saprai, anch‟io voglio sapere, perché questa storiella messa in opera potrà servire ai tuoi nuovi padroni di Roma, ma non a me. Sono sicuro che verrai a sapere, io, ora non più, ma tu si! e questo me lo devi. -Te lo devo come amico… ma… -Senza ma, cavaliere, la verità ti capiterà tra i piedi come una cosa scordata! Il notajo rimase a fissarlo negli occhi, il cavaliere non si decideva ad andare, quando ad un tratto incominciò a parlare non nascondendo il fastidio che provava. -Enrico, questa sera a casa mia facciamo un po‟ di festa… Se mi dai l‟onore di essere presente… -Come mai? -Ho fidanzato mia figlia Antonietta… -Ah! bene, auguri! E chi sarebbe il fortunato? -Forse conosci suo padre, è di Cianciana, Annibale Menta, commerciante di frumento, farina, carrubbi e via dicennu. Si chiama Gaetanu, studja pi provessuri. -A bene, un ottimo matrimonio. Ninetta è chiaramente una bella figliola. -Spero che sarai presente, ne sarei veramente onorato, se venisse anche donna Lucrezia… -Sarò presente per conoscere questo professore Menta e fare gli auguri. Il cavaliere Galante sembrò sollevato da un peso, così si alzò gli porse la mano e scappò via. Annibale Menta aveva informato al Galante che nelle campagne dell‟agrigentino un camichese chiedeva soldi ai contadini per conto della famiglia di Camico. Quando glielo descrisse il cavaliere capì subito che si trattava di quello svinturatu di Sarbaturi Manetta. 180 BENVENTI A CAMICO … Sarbaturi Manetta aveva un curriculum veramente pesante per l‟Onorata Società. Aveva fatto il bandito rubando scarponi e bunachi nei dintorni di Cattolica, Montallegro e Siculiana, a poveracci con una fame da lupi. La gente si lamentava per questo tizio „nbaccialatu che senza pietà puntava la scupetta ai poveracci e li faceva andare nudi. Il giorno che fu preso, i carabinieri gli hanno fatto assaggiare la cassetta, un loro metodo di tortura in voga in quegli anni per i Siciliani, e citò tanti di quei nomi, che detto da lui stesso, firmò cento e una pagina. E seppure fu grave, la mafia passò sopra alla mala fatta, anche perché era periodo di guerra e quando è guerra è guerra per tutti. Poi una seconda volta, lui insieme con la sorella e la moglie incominciò a ricattare con minacce di ogni genere il povero compare Vartuliddu. Gli hanno spellato tanto di quei quattrini, ma ingordi più che mai non riuscirono a fermarsi a tempo giusto. Vartuliddu chiedeva consiglio a suo compare Sarbaturi Manetta, il quale raccomandava di pagare. Vartuliddu anche se si fidava del compare, in quanto uomo di puzu, il problema non tentava a finire e ed era più terrorizzato che mai, allora di nascosto del compare per paura di un rimprovero, portò la lettera di minacce alla caserma. I carabinieri s‟appostarono e scoprirono la moglie di Manetta che prendeva i soldi del ricatto. Finirono tutti in galera, Manetta, moglie e sorella. Nel 1950, ebbe una altra felice idea, di andare a chiedere aiuti economici alla gente per la banda Giuliano, così arrivava nelle campagne si sedeva nella robba beveva, mangiava, si faceva dare i soldi e andava via. Il Manetta non aveva avuto l‟accortezza di tenersi informato, così mentre la notizia di Salvatore Giuliano ucciso dai carabinieri aveva già girato il mondo, lui ancora non lo sapeva e continuava a chiedere i soldi per le campagne. 181 BENVENTI A CAMICO Nei pressi di Agrigento, due fratelli contadini, che erano stati continuamente tartassati dal Manetta, lo bastonarono di santa ragione quando si presentò per l‟ennesima volta con quella faccia che si trovava, gli occhi piccoli, i dentoni davanti e i capelli pisciati tirati dietro. Uno dei fratelli gli chiese quando aveva visto Giuliano e lui rispose che ieri avevano pranzato assieme e che ringraziava i giurgintani per l‟aiuto che davano. Sentito questo il fratello minore prese il bastone e incomincio a picchiarlo, lui si arrotolò su se stesso e le prese tanto quanto bastava che restasse vivo. Adesso rincominciarono queste inopportune lamentele su di lui, mettendo in cattiva luce gli uomini d‟onore del paese. Il cavaliere sapeva che né un richiamo, né una buona bastonata poteva servire a rimetterlo in riga. Pertanto affidò l‟incarico a Ninuzzu Ferru per la prima volta all‟insaputa di don‟Angelo. Già aveva fatto una scalata non indifferente, acquistando fiducia dalla famiglia del barone Morello, tanto che per ringraziarselo di un altro favore fatto gli venderanno un palazzotto a un prezzo simbolico. Ninuzzu Ferru fece scomparire il Manetta e mai più se ne sentì parlare. Una notte dopo poco la moglie dello scomparso sentì bussare alla porta di casa, aprì e trovò la mano del marito inchiodata. … Ninuzzu Ferru era in completa ascesa, era sempre a gli ordini di don‟Angelo, e questo compito in esclusiva significava un salto di considerazione non indifferente nei confronti della consorteria e del capo famiglia cavaliere Galante. Nonostante il Ferro trattava ora alla pari quell‟uomo d‟onore prima di essere punciutu questo non pregiudicava il loro rapporto, anzi, diventava sempre più stretto e confidenziale, tanto da trovarsi sempre insieme sia per le 182 BENVENTI A CAMICO cose di mafia che per svago. Ninuzzu quando le rare volte lo andava a chiamare a casa non poteva fare a meno di guardare quella bella donna di sua moglie più giovane del marito, firrigna e duci. Erano attimi, ma gli bastavano per memorizzare quell‟immagine per diversi giorni e diverse notti. Era una passione che non confessava nemmeno a se stesso Don‟Angelo non apprezzava le novità che andavano spuntando continuamente, come tutto questo odio verso i comunisti. Lui pensava tra se: cosa mai poteva interessarci a loro chi vi era che comandava? Tanto o l‟uno o l‟altro non faceva differenza. E poi loro che c‟entravano con le faccende degli altri paesi? Andare a sistemare cose delle altre famiglie come a Palermo? Incominciava a non seguire il filo, dietro le parole come America, droga, Roma… A Ninuzzu, invece, sembrava che gli occhi gli si accendevano. E in mezzo a questa confusione a don Angelo era capitato un evento inaspettato che gli mosse la coscienza di uomo d‟onore in malo modo. 183 BENVENTI A CAMICO V Il maresciallo Scarpulla in mezzo a tanti pensieri, aveva il chiodo fisso di quel delitto, eppure ne erano successe delle cose a Camico, furti, intimidazioni, la mano di Manetta. Non riusciva a digerire quel quaderno del Sanna scritto a scuola tra gli alunni. Anzi di quel quaderno così autentico da sembrare vero non digeriva niente. Eppure quegli assassini, così efferati e determinati, erano riusciti a farla sia alla legge che alla mafia, ma oramai si era convinto che erano lì, a Camico e magari li incontrava tutti i giorni. Nella sua indagine, tutta personale, aveva trovato forse una traccia e se traccia era, era veramente importante: un dollaro d‟argento canadese che sicuramente proveniva dalla casa di don Alberto. Era sicuro di quella provenienza perché il don Alberto aveva ospitato mesi prima dei canadesi che erano stati soldati nelle truppe alleate e per sfizio erano ritornati in Sicilia, arrivati a Camico, il prete li volle ospitare a casa sua, attratto forse fisicamente, Scarpulla così pensava a ruota libera. Questi per ringraziarlo dell‟ospitalità gli lasciarono una mangiata di dollari, talaltro il don Alberto, glieli aveva mostrati, ricordava che quel giorno era insieme al segretario comunale. Si rammentava benissimo il totem indiano del dollaro. Uno di questi dollari era stato commerciato da un certo Vanni Buffa, subito gli chiese la provenienza. Il Buffa per ringraziarselo, con la speranza che chiudesse un occhio per i suoi molteplici intrallazzi, non solo fu disponibile, ma indagò per lui. Un picciutteddu andò ad acquistare delle sigarette e caramelle con questo dollaro e quello della privativa lo commerciò con il Buffa che era sempre pronto a qualsiasi affare si presentasse, oro, lucari, robba arrubbata e altro. Il ragazzino aveva appena dodici anni ed era Amaddì il figlio di Saru Cuscenza. Il maresciallo gli andò in cerca, ma senza far trapelare il minimo sospetto. Una sera, lo vide insieme ad un gruppetto di 184 BENVENTI A CAMICO coetanei nel sottoscala del cinema che portava alla macchina di proiezione, e si ci pose davanti per vedere la reazione: -Tu si Amedeo Cuscenza? -A sirbilla! U picciutteddu lo guardò dritto negli occhi e gettò il fumo verso di lui. Gli altri amici rimasero come statue. Avevano timore, avevano rigetto, come un odio arcano che non dipendeva da loro. Il maresciallo sentiva quella negatività, ma non era la prima volta, ormai gli aveva fatto l‟abitudine, però quel fumo diretto verso di lui gli fece saltare la pazienza, così gli tirò la sigaretta di bocca e gliela getto a terra. Si girò e andò via, non appena due passi sentì grugnire: -Stu figliu di bagascia… Tornò subito su i suoi passi e lo guardò di nuovo negli occhi. Carmiluzzu s‟accostò al fratello, con gli occhi grandi che mostravano paura. Amedeo, invece lo guardò dritto negli occhi, che in quel semibuio sembravano senza bianco, come due fessure nere e profonde. Il maresciallo, ormai spazientito, lo prese per un braccio e se lo tirò: -Veni „n caserma! Camina! -Carma, carma, ca staju vinennu! Il gruppo di picciutteddi lo seguì. Carmiluzzu, lo chiamava piano e piangendo: -Dinu! Dinu! -Chi minchia fa, chiangi? „Un chiangiri ca è vrigogna! Carmiluzzu si asciugò gli occhi ubbidiente e corse a casa a chiamare qualcuno dei suoi. Arrivato in caserma, lo fece sedere davanti. Dopo un po‟ arrivò il carabiniere Frisella: -Che ha combinato Dinuzzu? -Mettiti a scriviri, Frisella! Amedeo, stava fermo con gli occhi appizzati „n‟i maduna, ad un tratto sentì il rumore del battere dell‟argento sul pavimento e vide quel dollaro rimbalzare e roteare su se stesso, lui sobbalzò 185 BENVENTI A CAMICO sulla sedia, così come due saette sposto gli occhi su quelli del maresciallo. Scarpulla si chiedeva, da dove veniva tutta questa rabbia, questa sfrontatezza, spavalderia? In questo ragazzino era più evidente, ma la percepiva in tutti quanti, solo che in base all‟età, il grado culturale o la posizione sociale, la mitigavano, con un sorriso da maschera, un silenzio, una battuta di spirito, però, sotto vi era, sempre. Eppure lui era in Sicilia da tanto e tanto tempo, si sentiva pure lui siciliano d‟adozione, aveva preso moglie, ormai la sua famiglia era quella della suocera, ma quando trovava questo muro insormontabile, quest‟ombra negli occhi, allora si convinceva che ancora non conosceva affatto questo Popolo. Bisognava studiarlo con più attenzione, la sua storia, la sua cultura. Eppure a volte i Siciliani erano così cordiali, così aperti nelle loro manifestazioni d‟affetto… Scarpulla dopo tutte queste riflessioni, focalizzò su Dinuzzu la sua attenzione e diede una manata sulla scrivania che fece sobbalzare tutto quanto: -Unni u pigliassi stu dollaru? Amedeo non si è intimorito per niente per quella manata, non chiuse nemmeno gli occhi e con tono di sfida rispose: -L‟acchiavu… „nterra… -Unni? -A chiazza! -Quali chiazza? -Chista. -Unni? -„Navanzi a caserma. -Quannu l‟acchiassi? Jornu e ura! -E cu si ricorda? -Tu dicu ju comu stannu i cosi: tu l‟arrubbassi! 186 BENVENTI A CAMICO Dinuzzu si ammutolì, questa volta si sentì veramente perso, la luce della lampadina all‟improvviso gli sembrava accecante e la stanza grande e fredda, non capì nemmeno cosa gli continuava a dire il maresciallo. Poi anche Frisella si era alzato dal suo posto e si era diretto alla porta. Vedeva tutto lentamente e ogni suono ovattato. Gli girò tutto a tornò e gli sembrò come se qualcuno gli avesse tolto la sedia di sotto. Cadde a terra svenuto. Il maresciallo, si preoccupò ed andandolo ad alzare gli diede dei schiaffetti per farlo riprendere. -Marescià, davanti la caserma c‟è la madre con alcuni parenti e chiedono per Dinuzzu! -U staju fecennu jri! Comu ti senti? -Chi succidì? -Nenti nenti… Appostu! Appostu? Amedeo non parlava, guardava attonito a tutte e due. Il maresciallo voleva rassicurazioni e gli chiese di nuovo come si sentisse. -Bonu, pirchì? -Vattinni! Non gli sembrava vero, riprese forze e coraggio, si alzò all‟inizio barcollando, poi dopo due passi, corse via. Frisella lo seguì. Appena arrivato fuori, la madre lo avrebbe voluto abbracciare mentre urlava, ma lui gli impose il silenzio e con la mano l‟allontanò. -Ch‟è successo? -Niente Frisella, u picciutteddu hajva svinutu. -E comu? -E comu, e comu… Chisti fannu finta ca „un si scantanu. Omini forti e duri, poi o si mettono a piangere o se la fanno sotto. Fimmineddi su! -Maresciallo, Dinuzzu è quasi un bambino… -Frisella, tu non hai capito niente! Quello aveva tutti gli atteggiamenti di un uomo, n‟omu d‟onuri! 187 BENVENTI A CAMICO … Saru Cuscenza appena rientrato dalla mannira e saputo l‟accaduto, prese u nerbu e picchiò il figlio. La madre non intervenne, se ne stava a mordersi la mano in un angolo e sentiva tutto il dolore di quelle nerbate date al figlio. Lei sapeva che non poteva intervenire. Amaddì, non scappava, non si parava, si scuoteva leggermente ad ogni colpo. Né una lacrima, né un grugnito, solo una leggera smorfia di dolore tra le labbra, anche se quei colpi facevano veramente male anche ad un adulto. Carmiluzzu non vedeva la scena, ma nell‟altra stanza sentiva i colpi e sussultava all‟unisono. Saru, aveva gli occhi incattiviti, non sembrava agitato, non aveva detto nessuna parola solo quando finì gli disse: -Chi cuminassi? Amaddì, sapeva che doveva rispondere e con rispetto, non gli era permesso tentennare minimamente, perché erano subito altre nerbate: -Vuliva sapiri d‟un dollaru c‟acchiavu „nterra, mi parsi sordu e m‟accattavu li caramela n‟a privativa, ju e Carmiluzzu. A u marasciallu ci parsi ca l‟arrubbavu. -Sta sira dormi cu i gaddini! Così non opponendosi minimamente, uscì fuori e s‟infilò nel casotto tra le galline. Dopo qualche ora, arrivò Carmiluzzu con un pezzo di pane. Amedeo lo prese e lo divorò immediatamente perché aveva una fame fortissima. -Carmilù, hama a scappari, amunì! Di corsa arrivarono davanti la porta di donna Antonietta. Don Angelo e la moglie avevano battezzato e cresimato i figli di mezza Camico, uno di questi figliocci era proprio Dinuzzu. Si udì la voce lontana di donna Antonietta: -Cu è? -Parrì, rapissi, ju sugnu Dinu, so figliozzu! 188 BENVENTI A CAMICO Dallo sportellino della porta lei guardò i due, poi tutte e due i lati, così aprì la porta chiusa per notte, già con le stanghette dietro: -Chi successi? Trasiti! Beddi mii c‟aviti ca siti accussì agitati? Dino se ne stava con i pugni chiusi e lo sguardo rivolto verso la sua madrina a bocca stretta. -Vossa benedica, cercu me parrinu! -Ancora „un ha vinutu, aspittatilu cu mia. Gli diede da mangiare. Ancora vi era u cufularu pronto a ravvivarsi. Si ristorarono, ma erano così agitati che tremavano, la loro spavalderia era finita. Il piccolo non si scostava dal fratello, gli dipendeva completamente, aveva gli occhioni pieni di paura e smarriti, mentre fissava i tizzoni rossi incandescenti. Il grande guardava continuamente la porta e si toccava il ginocchio, forse si era pentito della decisione presa e pensava di andare via. -Stà carmu! Ti sciarriassi cu to‟ patri? „Un ti scantari ca ci va parla to parrinu… -Vicenzu „un è? Carmiluzzu con una voce tutta tremolante chiese del figlio quasi suo coetaneo e compagno di classe. -Curcatu è, dormi! Invece, Vincenzo guardava da sopra il solaio dove era sistemato il suo lettino, ma non scese e non volle intervenire, sapeva che se non veniva chiamato, se ne doveva stare sopra e in silenzio. Capì che era successo qualcosa di grave, anche perché aveva visto pure lui il maresciallo che portava in caserma a Dino. -Quannu veni me parrinu? -Ora, ora veni. U vuliti ascutari u‟ cuntu? Carmiluzzu calò più volte la testa, mentre Amedeo se ne stava con la testa chinata e il cuore palpitante, molte cose gli erano successe quella sera e ora aveva bisogno di aiuto, ma sopra ogni cosa aveva bisogno di liberarsi di immagini che lo scuotevano e che il solo pensiero di parlarne con qualcuno lo rabbrividivano. Aveva sperato non giungesse mai questo momento, però, quella sera tra una nerbata e l‟altra, aveva riflettuto su suo parrinu come 189 BENVENTI A CAMICO l‟unico che poteva salvarlo, perché era l‟uomo che stimava più di tutti, più del padre, l‟uomo a cui lui voleva somigliare da grande. L‟arbulu di li meravigli23 23 TRADUZIONE - L‟ALBERO DELLE MERAVIGLIE –C‟era una volta un regno ricco, dove negli alberi vi crescevano frutti d‟ogni tipo e in ogni stagione dell‟anno: arance, fichi, nespole, albicocchi, fragole, angurie, ciliegie, gelsi, azzeruoli, pere, mele, mandarini, melagranate, cotogne, uva nera e bianca, pesche e tutti quelli che ci ha fatto dono il Signore. Erano alberi grandi quanto un palazzo. Solo le donne e gli uomini vergini potevano raccogliere i frutti che in seguito spartivano a tutto il popolo. I giovani mentre raccoglievano sotto ogni albero delle meraviglie s‟innamoravano. Tutti gli altri intorno a gli alberi cantavano inni d‟amore e di felicità. Se tra loro ci fosse stata una fanciulla o un giovane già smaliziati sessualmente e avessero raccolto un frutto quell‟albero si sarebbe seccato dopo un po‟. Il popolo di quel regno fame di sicuro non ne provava, ma aveva paura di un invasione degli altri popoli. Dunque per non fare scoprire il loro segreto degli alberi, una legge antica del Parlamento del Re fu affissa in ogni taverna e bottega, con sopra disegnati tanto di corona sopra l‟albero delle meraviglie e sigilli reali: “Per il segreto del Regno Giorno sedici di novembre 1490 indicazioni Costatato che possono scoprire il segreto del Regno, nessuno deve entrare e nessuno deve uscire, pena la morte.” Nel Regno l‟unica via per entrare ed uscire era solo un ponte lunghissimo s‟un dirupo altissimo. Il Re allora dispose un esercito di valorosi, tutti pronti a dare la propria vita per la difesa del ponte. (Donna Antonietta guardò i due con gli occhi spalancati e lucidi e chiese a Carmiluzzu: “Ti ci saresti messo a difendere il ponte con il rischio di perdere la vita?” Carmiluzzu fece di sì tre volte con la testa. Così chiese a Dinuzzu, il quale prima rimase immobile e poi anche lui abbassò la testa dicendo si.) Tanti volevano attraversare il ponte ma i soldati lottavano con tutto il cuore ed erano vittoriosi. Dopo moltissimi anni nessuno pensò al Regno dopo il ponte. Fin quando diventò solo una leggenda. Anche se qualcuno fosse arrivato davanti quel ponte avrebbe trovato una macchia di spine e siepi di rovo, si sarebbe scoraggiato e sarebbe tornato indietro. Al popolo del Regno i primi cento anni passarono felici, con canti, balli e pace. Dopo sono incominciati a scarseggiare i racconti e le canzoni nuove. I figli nascevano senza amore, tutti erano parenti tra loro, sembravano senza salute e nessuno più arrivava alla vecchiaia. I soldati erano valorosi per coraggio, ma non più per la forza, erano ormai debolissimi. La loro fortuna è stata che non vi erano più popoli oltre il ponte a conoscenza del Regno. Allora il Re con il Parlamento si sono ritirati per discutere come mai il loro popolo stava morendo? Nessuno più cantava e nessuno più ballava, o rideva! Quei figli che nascevano erano senza salute. Gli alberi delle meraviglie davano frutti in gran quantità di tutti tipi e ogni tempo. I vergini andavano a raccogliere ma sempre meno s‟innamoravano. E senza sospiri d‟amore gli alberi non fiorivano. E senza fiori non spuntavano più frutti, solo foglie grandi quanto le lenzuola. Anche gli animali morivano senza frutti, non avendo che nutrirsi. E nessuno di loro sapeva coltivare un po‟ di terra. In tutto il Regno non vi era un attrezzo, neanche una zappa o un arato, solo chitarre, mandolini e zufoli. Il Re chiedeva una soluzione a tutti i sapienti dentro il Parlamento. Finalmente si trovò una soluzione: il Regno ha di bisogno di gente nuova. E come fare? I parlamentari venivano scelti tramite un sorteggio pubblico, tra uomini e donne d‟ogni classe sociale e mestiere, senza elezioni e politica. E tra questi capitava sempre qualcuno che ragionasse bene. Si alzò uno di questi, che nella vita di tutti i giorni era calzolaio, e con voce chiara e forte disse: “Maestà, compagni tutti, ascoltate la mia proposta. Una delegazione di valenti, segreta, andrà tra le persone oltre il ponte e ruberà i bambini più belli scambiandoli con quelli nostri, sia maschi che femmine, così rinnoveremo il sangue del nostro popolo. I genitori crederanno che saranno stati i donni che hanno cambiato i figli così non li cercheranno di sicuro.” Il Re acconsentì con la testa e il Parlamento tutto applaudì con EVVIVA! EVVIVA! Esultarono così forte che la gente fuori il palazzo li sentì. Detto fatto. Hanno scelto i cavalieri più valorosi e meno deboli, sia maschi che femmine e partirono, si sono fatti la strada tra il rovo uscendo, richiusero il passaggio con cura. Si erano travestiti da commedianti girovaghi e andavano cantando e ballando, recitando tutti i loro racconti che loro conoscevano ormai a memoria, ma quella gente non conosceva affatto. Mentre facevano lo spettacolo s‟adocchiavano i bambini più belli e più energici. La notte entravano di soppiatto nelle abitazioni e scambiavano i bambini con quelli loro. Tornavano nel Regno e così il loro popolo ritrovava la forza e la vitalità. La mattina quando le madri scoprivano quei bambini scuri senza salute nelle nache (culle), con i vestitini dei propri figlioli, piangevano disperate che i donni le avevano cambiato i figli belli e forti. I vicini che erano invidiosi dei loro bambini, rispondevano: “Ma cosa avete? Che credete a queste cose? Quali donni e donni! Questo è vostro figlio!” Le madri impazzivano dal dolore. Una volta di queste, una madre aveva già ascoltato questa leggenda dei bambini scambiati da i donni. Considerato che il suo bambino era bello come il sole, biondo con gli occhi celesti e forte come un leoncino, era terrorizzata. Quando gli zingari sono arrivati nel suo paese, si prese il bambino in braccio e andò da loro a chiedere qualche rimedio. La zingara, le disse, di non fare opposizione, perché i donni per vendetta avrebbero ammazzato il bambino e che i figli cambiati diventavano principi di un regno ricco e crescevano felici e potenti. Si è andata a raccomandare nella persona sbagliata, quella proprio meno indicata. (Si è andata a riparare dove piove, proprio sotto 190 BENVENTI A CAMICO -C‟era na vota u‟ regnu riccu unni ni l‟arbuli c‟eranu frutti d‟ogni tipu e tuttu l‟annu: aranci, ficu, nespuli, pircopa, fraguli, muluma d‟acqua, cirasa, cezi, azzalora, pira, puma, mandarini, granata, cutugna, racina njura e janca, persichi e tutti chiddi ca ni detti u Signuri. Arbuli granni quantu u‟ palazzu. Sulu i fimmini e l‟omini virgini putianu cogliri i frutti ca po‟ spinnuliavanu a tuttu u populu. E i picciotti sutta l‟arbulu di li meravigli mentri cuglivanu s‟annamuravanu. „Ntunnu a l‟arbuli tuttu u populu cantava inni d‟amuri e di felicitati. Ora si capitava na fimmina tinta o u‟ picciottu smaliziatu, comu cuglivanu u primu fruttu l‟arbulu siccava dopu tecchia. U populu di ddu Regnu fami „un ni pruvava, ma hajva scantu di l‟invasioni di l‟atri populi. Ora pi „un fari scopriri u segretu di dd‟arbuli na vecchia liggi d‟u Parlamentu d‟u Re fu „npiccicata „n‟ogni taverna e putja, cu supra stampatu tantu di curuna misa „ncapu a l‟arbulu di li meraviglie e suggillu reali: “Pro segretu d‟u Regnu Die XVI novembris XX indictionis 1490 Imperocchi ca ponnu scopriri u segretu d‟u Regnu, nuddu havj a trasiri e nuddu havj a nesciri, pena a morti.” U Regnu hajva sulu u‟ ponti longu longu longu e supra u‟ vazu iatu iatu iatu unni si putja trasiri e nesciri. U Re allura dispusi n‟esercitu di valurusi tutti pronti a dari a propria vita pi difenniri u una grondaia) Quella zingara quando vide quel bambino subito se ne innamorò. Dopo i balli con chitarre, zufoli e tamburelli, le persone si ritirarono nelle proprie case e il sonno prese il sopravvento in tutto il paese. Gli zingari così scambiarono i bambini. Sono entrati pure nella casa di quella donna e scambiarono quel leoncino. La madre e il padre facendo finta di dormire hanno visto tutto e seguirono gli zingari fino al rovo e scoprirono il ponte. La madre si era insospettita per come quella zingara guardava il suo bambino. Ritornarono nel loro paese e suonarono le campane, tutti corsero a vedere cosa fosse successo. Loro spiegarono cosa avevano scoperto. I genitori che avevano avuto i figli scambiati si armarono e partirono con tutto l‟ardire nel cuore. Attraversarono il ponte e uccisero tutti i valorosi che non potevano contrastare contro l‟amore di un padre e una madre per i loro figlioli e poi erano senza più forze. Si sono presi i loro figli e hanno fatto vendetta. Quando videro quegli alberi delle meraviglie si precipitarono non ascoltando quello che gli indigeni gridavano a più non posso di non toccarli. Così gli alberi seccarono tutti. Tanti del popolo del Regno furono scannati e altri riuscirono a fuggire e d‟allora non hanno trovato una propria terra, così vanno girando di paese in paese cantando, ballando e presagendo il futuro ai creduloni. Qualcuno dice che non hanno perso l‟abitudine di rubare i bambini più belli e che cercano ancora la terra dove cresce l‟albero delle meraviglie, ed per questo che vagabondano, perché non l‟hanno trovato ancora. Il racconto insegna che c‟è la forza del valoroso ma l‟amore di una madre è di gran lunga più forte. Tutt‟ora la gente di questi paesi ogni anniversario di quella vittoria ottenuta adornano l‟albero più grande del loro villaggio con tutti tipi di frutti e dolcini che poi distribuiscono a tutti i bambini. 191 BENVENTI A CAMICO ponti.- Donna Antonietta, guardò i due con gli occhi spalancati e lucidi e chiese a Carmiluzzu- Ti ci avissitu misu a difenniri u ponti a costo di perdiri a vita?- Carmiluzzu fece di sì tre volte con la testa. Così chiese a Dinuzzu, il quale prima rimase immobile e poi anche lui abbassò la testa dicendo si. -U sapiva ca siti du valurusi! Tanti vulivanu passari u ponti ma i surdati luttavanu cu u cori e vincivanu. Dopu anni, anni e anni nuddu chiù pinzà a u Regnu dopu u ponti. Finu a quannu hajva addivintatu sulu u‟ cuntu. Quannu quarcunu arrivava „nvanzi a u ponti truvava tanta fratta, ruvettu e spini ca si scuraggiva e turnava narrè. A u populu d‟u Regnu i primi centu anni passaru filici, cu canti, balli e paci. Dopu ancuminciaru a scarsiari i cuntura e i canzuna. I figli nascivanu senza amuri, tutti eranu cuscini e niputi, parivanu senza saluti e nuddu chiù arrivava a la vicchiaglia. Surdata valurusi di curaggiu ma no di forzi, tutti lenti comu li cani. Pi furtuna ca nuddu chiù d‟i populi oltri u ponti sapiva d‟u Regnu. Allura u Re c‟u Parlamentu, si „nchiusiru a discutiri comu è ca u populu stava murennu? Nuddu chiù cantava e nuddu chiù abballava o arridiva! Ddi figli chi nascivanu eranu senza saluti. L‟arbuli di li meravigli davanu frutti a vuluntati di tutti maneri e ogni tempu. I virgini jvanu a cogliri ma sempri chiù picca s‟annamurava. E senza suspira d‟amuri l‟arbuli „u mittivanu chiù ciuri. E senza ciuri „un facivanu chiù frutti, sulu pampini granni quantu u‟ linzolu. Puru l‟armala murivanu senza frutti a mangiari e nuddu sapia curtivari u‟ parmu di terra. Ni tuttu u Regnu „un c‟era u‟ firramentu, mancu na zappudda o n‟aratu, sulu chitarri, mandulina e friscaletta. U Re addumannava na suluzioni a tutti i sapienti „nchiusi d‟u Parlamentu. A la fini si truvà a risposta: u Regnu hajva bisognu sangu novu. E comu fari? Ora i cumpunenti d‟u Parlamentu vinivanu scigliuti tramiti u‟ surteggiu pubblicu, tra omini e fimmini d‟ogni cetu e misteri, quali elezioni e pulitica, e „nmezzu sempri capitava quarcunu c‟arragiunava. Si susì unu di chisti, ca n‟a vita faciva u scarparu, e cu vuci chiara e forti dissi:“Maestati, cumpagni tutti, ascutati u me pariri. Na commissioni di valenti, 192 BENVENTI A CAMICO secreta, va tra li genti oltri u ponti e arrobba l‟addevi chiù beddi cangiannuli cu chiddi nostri, sia masculi ca fimmini e rinnuvamu u sangu d‟u nostru populu. I matri e i patri cridennu ca su i donni ca ci cangiaru i figli nun li cercanu di sicuru.” U Re calà a testa e u Parlamentu tuttu applaudì ca lu VIVA! VIVA! si sintiva puru fora. E accussì ficiru, sciglieru i cavalera chiù valurusi e chiù forti, tra i masculi e li fimmini e parteru, si ficiru largu tra lu ruvettu e nisceru richiudennu u passaggiu facennu attenzioni. Si travisteru di zanni e jvanu cantannu, ballannu e ricitannu tutti di storii ca oramà sapivanu sfatti „ntesta ma ca pi ddi genti eranu novi. Mentri facivanu li zannarii s‟ucchiavanu l‟addevi cchiù beddi e chiù forti. A notti trasivanu jntra i casi e li cangiavano cu chiddi d‟iddi. Turnavanu a u Regnu e u populu truvava arrè a forza e a vita. Quannu a matri, a matina, truvava d‟addevu scuru, senza saluti n‟a naca cu i robbi d‟u figliu so, chianciva dispirata ca i donni ci cangiaru u figliu, beddu e forti. I vicini „nmidiusi ci arrispunnivanu: “Ma c‟aviti? Chi criditi a sti cosi? Quali donni e donni! Chistu è vostru figliu!” I matri „npazzivanu d‟u duluri. Ni na fattetta di chista, na matri hajva sintutu diri di li figli cangiati d‟i donni. E siccomu so figliu era beddu comu u suli, biunnu cu l‟occhi celesti e forti comu u‟ liuneddu. Stava cu u tirruri. Quannu i zanni arrivaru a u so paisi, si misi l‟addevu „nprazza e c‟jì a dumannari quarche rimediu. A zanna ci dissi, di nun uppunirisi, pirchì i donni pi minnitta avissiru ammazzatu l‟addevu, e ca i figli cangiati addivintavanu principi d‟u Regnu riccu e criscivanu cuntenti e putenti. Si jì a riparari unni chioviva, anzi, sutta na cannalata. Dda zanna quannu vitti dd‟addevu subitu si nni „nfirticchià. Dopu li balli cu chitarri, friscaletta e tammurina, la genti si ritirà ni so casi e u sonnu piglià u sopravventu. I zanni scangiaru l‟addevi. Traseru nni a casa e cangiaru puru u liuneddu. A matri e u patri ficiru finta ca durmivanu, ma nun era u veru, vittiru tutti cosi e sigueru i zanni finu a u ruvettu e u ponti. A matri s‟hajva „nsuspittutu cu quali occhi dda zanna taljava u figliu so. Arriturnaru a u paisi e sonaru i campani, e tutti i paisani 193 BENVENTI A CAMICO accurreru. Accussì spiegaru a cosa e i patri e i matri c‟happiru i figli cangiati s‟armaru e si parteru cu tuttu l‟aridiri di lu cori. Passaru u ponti e ammazzaru tutti i valurusi ca „un putjanu luttari contru l‟amuri di „un patri e na matri, ca eranu puru senza forzi. Si pigliaru i figli e ficiru minnitta. Quannu vittiru dd‟arbuli di li meravigli si ci abbiddaru nun sintennu i paroli d‟iddi ca ci dicivanu di no. L‟arbuli siccaru tutti! Tanti d‟u populu d‟u Regnu foru scannati e autri arrinisceru a scappari e d‟allura „un hannu truvatu na terra tutta so e vannu girannu cantannu, abballannu liggennu a vintura di paisi e paisi. Quarcunu dici ca ancora hannu u viziu d‟arrubari l‟addevi chiù beddi e ca cercanu a terra unni crisci l‟arbulu di li meravigli ma ancora „un ni l‟hannu truvatu. U cuntu „nsigna ca c‟è a forza di lu valurusu e l‟amuri di la matri ca è chiù forti macari. Ancora la genti di sti paisi ogni cumpimentu d‟annu d‟a vittoria chi happiru, conzanu l‟arbulu chiù granni d‟u propriu paisi attaccannucci frutti e cosi doci ca po‟ spinnulianu a tutti l‟addevi. Dinuzzu e Carmiluzzu erano rimasti ammaliati dal racconto di donna Antonietta, trasognanti ancora con le immagini di quei zingari che ballavano a ritmo dei tamburelli e dell‟albero grande grande quanto un palazzo pieno di ogni tipo di frutta. Spuntò don Angelo, non si sa da dove, come uno spirdu. I due balzarono sulla sedia. Donna Antonietta non fece nemmeno caso, lentamente si alzò e gli andò incontro. Dinuzzu guardava quell‟omone che incuteva rispetto, alto e di gran mole, con quei baffoni e quello sguardo burbero, con quella scupetta in mano e il caricatore alla cinta, quei stivali e il giaccone di pelle di bufalo che gli aveva mandato dall‟America uno dei figliocci che era emigrato, i pantaloni di fustagno colore marrone e il gilè della stessa tela ma, colore diverso, oro. La sua presenza aveva riempito quell‟ambiente, la sua voce rimbombò alle orecchie dei due: -Chi ci fannu st‟addevi? 194 BENVENTI A CAMICO Scattarono tutte e due all‟in piede e Dinuzzu guardandolo con la testa chinata: -Vuscenza benedica parrì! Haju necessità di parlaricci c‟urgenza. -Parla! Dinuzzu abbassò ancor più il capo e di sbieco guardò donna Antonietta. -Veni cu mia, ca m‟aiuti a pigliari na cosa nn‟a stadda. Così lo seguì insieme a Carmiluzzu e proprio sotto la scala che portava al solaio vi era una porta stretta che sembrava inimmaginabile come quell‟omone riuscisse ad attraversarla, tramite una scaletta si saliva nella stalla che dava alla strada di sopra, dove vi era la sua bella jumenta, i cani cirinechi e u furettu. Don Angelo si predispose all‟ascolto e vedendo che Dinu incominciò a tremare come una foglia mentre Carmiluzzu si teneva nella giacchetta del fratello, intuì che vi era qualcosa di molto importante da comunicare, forse testimoni di qualche evento. Più in là vi erano dei tronchi d‟albero a mo di sgabello si sedette e si mise la scupetta tra le gambe, abbassò gli occhi come un confessore e Amaddì incominciò a raccontare. A don Angelo quello che stava ascoltando non gli sembrava vero, ma sia il tono, la circostanza e il patos di quella voce non gli lasciavano dubbi. Di tanto in tanto guardava negli occhi quei due per accertarsi con chi stava interloquendo, pure la jumenta sembrava inquietarsi e di tanto in tanto nitriva e scalciava. Dinuzzu cominciò con il raccontare cosa gli era successo quella sera e del dollaro, le nerbate prese dal padre e la fuga da casa per venire a raccontargli tutto. La decisione era stata presa perché quel dollaro l‟aveva preso a patri Albertu, solo quei cinque pezzi da un dollaro aveva presi, perché gli piacevano e poi perché glieli aveva promessi. Don Alberto da un po‟ di mesi aveva avvicinato Amedeo, gli diceva che era un ometto di quelli forti, che un giorno sarebbe diventato un uomo di rispetto, gli offriva da mangiare, gli dava caramelle, lo faceva fumare, se lo portava con sé. Poi se lo portò a 195 BENVENTI A CAMICO casa, con la scusa che si sentiva solo, prima con altri compagni, una sera da solo. Lui si sentiva al disopra degli altri perché lo preferiva, quella sera mangiando gli fece bere del vino in più, poi incominciò a toccarlo fin quando lo masturbò. Da quella volta gli appuntamenti erano solo per fare delle porcherie sempre diverse. Dinuzzu arrivò pure a provare gelosia quando si avvicinava ad altri ragazzi e una sera, mesi prima dell‟accaduto, provò pure piacere quando un gruppo di tre picciotti cataluchisi lo picchiarono di santa ragione. Dino aveva visto tutto e fu lui che andò a chiamare l‟arciprete. Quella sera sembrava che se le andasse cercando, incominciò ad insultarli, volendo obbligare uno di loro a sottostare ai suoi desideri. Fu quando prese il bastone e sferzò una bastonata che il gruppo di picciotti reagì. Un giorno lo convinse di portargli anche Carmiluzzu, promettendogli quei pezzi d‟argento che spesso teneva sopra la bibbia sul comodino. Fu quella volta che gli fece provare pure del tabacco di naso bianco e si sentiva un altro, grande e forte. Mentre stava abusando di Carmiluzzu incominciò ad insultare Amaddì, dicendogli che era un vigliacco, una persona inutile, un verme, che aveva venduto il suo fratellino per pochi dollari, per la sua cupidigia. Ora proprio accanto a Dino vi era un candelabro di rame o bronzo, insomma dorato, quando vide il suo fratellino che sotto quel porco aveva le lacrime a gli occhi mentre davanti a lui aveva la testa chinata del prete. Quella testa sembrava pronta, invitante ad essere spaccata, così prese quel candelabro e l‟ha picchiata più forte che ha potuto. Ormai aveva perso il senso della ragione e tolto di sotto Carmiluzzu rigirato il prete, alla vista di quel pene, tirò il rasoio di tasca e lo recise con tutti i testicoli, prese i dollari e posò quegli organi sulla bibbia. Perché lo abbia fatto non se lo sa spiegare, solo che in quel momento ha ritenuto giusta quell‟azione. Fuggirono via. Dopo essersi lavati alla bivatura si andarono a nascondere nella mannira del padre, dove vi era qualche camicia e giacca di ricambio. Il padre arrivando li trovò che dormivano e 196 BENVENTI A CAMICO senza nemmeno chiedere il chi e il come, arrabbiato perché non erano rincasati e l‟aveva cercati vanamente, incominciò a dargli delle nerbate a tutte e due. Servirono solo a consacrare il loro silenzio su quel delitto. Dinuzzu alla fine prese il rasoio dalla tasca e lo porse al suo padrino. -Tenitillu! „Un è a mia ca la cunsignari. Cosa fare? Sapeva che prima o poi il suo codice doveva trovare un punto di debolezza, perché non gli andava di andare a portare quei due ragazzini dal cavaliere, visto la commedia che si era messa in atto. Il cavaliere per paura di quest‟altra verità dei fatti avrebbe potuto decidere di sopprimerli e così seppellire con la loro morte il rischio di perdere la faccia davanti a tutti. Il suo codice diceva che non doveva avere nessun segreto di nessun genere con il suo capo famiglia. Don Angelo si lisciò più volte i baffi abbassò gli occhi alla sua scupetta mirando come se fosse la prima volta l‟intaglio nel legno del calcio. Poi ad un tratto decise: -Mangiassivu? -Sissi! -Curcativi supra dda paglia, ora vi scinnu quarche cummogliu. Silenziu, mi raccumannu. Dinuzzu incominciò a sentire freddo e a tremare, aveva la febbre. Carmiluzzu aveva paura per quello che stava per succedere. Don Angelo, sapeva che avrebbe tradito un giuramento e che forse gli avrebbe costato la vita, peggio ancora, il disonore. Ma si trovava di fronte ad un bivio pericoloso come anche altre volte, come il camminare sopra il taglio di un coltello. Aveva bisogno tempo, ma era quello che mancava, perché ogni minuto di più pregiudicava la sua posizione. Scese con delle coperte insieme alla moglie per sistemarli momentaneamente. Donna Antonietta bastò guardare Dinuzzu e si accorse toccandolo che aveva la febbre. Lo fece in un modo tenerissimo, le adagiò la propria guancia alla 197 BENVENTI A CAMICO fronte. Il ragazzino si sentì rinfrancare di quel gesto e tirò tre profondi respiri uno dopo l‟altro. Aveva proprio bisogno di un gesto d‟affetto, proprio quello che gli era mancato da quando era bambino. Il padre era convinto che una tenerezza poteva effeminarlo, ma è stato proprio questo atteggiamento che lo portò nelle grinfie del prete pedofilo. La stalla, la paglia, gli animali, i suoi padrini e Carmiluzzu gli avevano innescato una fantasia: si sentiva un Bambineddu appena rinato a una nuova vita, un nuovo modo di pensare, una nuova lingua che non conosceva. Dentro se, quell‟Amaddì scorbutico, violento, attacca brighe, pronto a vendersi chiunque per i suoi scopi, era morto! Rinato, nello stesso corpo, una nuova persona che aveva bisogno d‟amore, la voce con il tono arrendevole, il timore di ogni cosa. Quella per lui era la notte di natale dove Carmiluzzu era il suo angelo, donna Antonietta la Madonna, don Angelo San Giuseppe. Questa fantasia, forse suggerita dalla febbre alta, lo faceva sproloquiare continuamente. Donna Antonietta passò una nottata in bianco, si ci coricò accanto riscaldandolo con il proprio corpo. Don Angelo gli fece bere del vino. Carmiluzzu dopo un po‟ si addormentò profondamente. Appena l‟alba don Angelo uscì con la sua jumenta come al solito. Alla bivatura, cosa strana, incontrò Ninuzzu Ferro, gli aveva una certa stima per il suo comportamento rispettoso, anche se non era della stessa mentalità, però “non tutti la possiamo pensare allo stesso modo”. Ferro aspettava proprio lui per un affare che dovevano svolgere quel giorno. Don Angelo s‟impensieriva per come il cavaliere Galante non ne avesse parlato con lui. Quando capì che si trattava della solita minchiata di politica, allora si diede una spiegazione. Il cavaliere sapeva che lui mal digeriva questo argomento. Intanto proprio quel giorno dovevano andare a dare una lezione ad un certo comunista della camera del lavoro di Cattolica. -Parla assà! Assuglia u populu! 198 BENVENTI A CAMICO Disse Ninuzzu con tono grave, ma realmente il problema era un altro, una questione che questo contadino attivista aveva avuto con il nuovo consuocero del cavaliere per una partita di mennuli. Il Ferro, durante il cammino, incominciò a parlare di solite cose vuote, storielle e sparlatine di paese. Ninuzzu era fissato che come trovava la picciotta giusta si sposava e don Angelo gli doveva fare da compare d‟anello. Donna Antonietta mal‟appativa questa cumpariata, anzi, questo Ninuzzu non le piaceva affatto. Don Angelo invece lo aveva a simpatia da quando era ancora ragazzo per il suo spirito e fierezza, insomma un picciotto con tutti i sacramenti, di quelli che nascono con la mafia dentro i vini, come si suol dire, aviva u pilu nn‟u stomacu. Pertanto si sono trovati spesso insieme, a la putja del vino, oppure a vedere qualche pellicola al cinema, o a u saluni di narrè a chiesa a vedere qualche rappresentazione dell‟opera dei pupi, di questi pupara che andavano girando per i paesi. Lui si fidava di Ninuzzu, tanto che partì con la sua jumenta senza preoccupazioni, lo aveva provato tante volte e aveva risposto bene. Nonostante la fiducia si tenne in serbo la storia dei fratelli Cuscenza, troppo importante. Ancora non aveva le idee chiare sul da farsi, era dilaniato da due opposti: consegnare i picciotti alla mafia o alla legge? Non avrebbe mai creduto che un giorno fosse arrivato a questo bivio. In sua coscienza sapeva che per la salvezza dei due li doveva consigliare di andare dal maresciallo. L‟altra strada li avrebbe condotte ad una grossissima probabilità di morte e forse il carnefice sarebbe stato proprio lui stesso. Cosa che lo infastidiva parecchio, anche perché il suo Vincenzo era un loro coetaneo. Non è che don Angelo si era fatto tanti scrupoli nell‟eliminare qualcuno, ma i bambini erano tutta un‟altra cosa. -C‟aviti don Angilu? Vi vidu supra pinzeri… Si nun vi sintiti vaju sulu! -No, jemu avanti! 199 BENVENTI A CAMICO Pochi istanti dopo si vide la robba del cataluchisi. Come vide in lontananza i due a cavallo si chiuse dentro la casa. -U viditi ca si guarda? Iddu u sapi c‟ha fattu mali! Arrivati davanti la porta, Ninuzzu scese da cavallo e con il calcio della scupetta picchiò fortemente la porta: -Nesci ca t‟ham‟a parlari! -No! Chi vuliti? -Allura avvicinati a porta ca chiddu ca t‟ham‟a diri tu dicemu…e ninni jemu. Pi u to‟ beni! -Parlati! La voce era ora più forte, era proprio dietro la porta. Nunuzzu imbraccio il fucile e scaricò tutte e due i colpi alla porta. Si udì un “AH!” forte e nulla più. Il Ferro cercò con un calcio di aprire la porta, ma nulla, probabilmente il cataluchisi aveva serrato la porta con qualche stanga dietro. Salì a cavallo: -Amuninni! Ci abbastà pi ora! -Ed era una lezione!!- Disse fra se don Angelo. Tornarono indietro galoppando, sicuri del silenzio di chi l‟avesse visti. Quei colpi furono fatali. Proprio sotto un carrubo poco distante vi era il figlio che stava facendo il proprio bisogno, sentì parlare, poi i colpi di scupetta e tra le fronde vide allontanare i due. Riconobbe il Ferro perché era stato diverse volte a Cattolica, in piazza ed era „ntisu e temuto. Come i due tracuddaru, corse per dare aiuto al padre. Riuscì ad entrare da una finestra di dietro e lo trovò ansimante. Non sapeva proprio cosa fare, mentre piangeva, poi lo caricò sul mulo e corse in paese, ma quando arrivò dal medico il padre era già morto. Il ragazzo, dopo qualche giorno, nonostante il disappunto della famiglia, trovò il coraggio di accusare il camichese Ferro. Arrestato, fu rilasciato dopo qualche settimana per mancanza di prove e per il suo forte alibi. Il difensore immediatamente fece notare come il riconoscimento era quasi nullo in quanto dal punto dove si trovava 200 BENVENTI A CAMICO il ragazzo vi era una distanza non indifferente e poi l‟accusato era di spalle. Il Ferro al suo ritorno fu ancora preso più in considerazione e ancor più temuto. Appena liberato andò in piazza a Cattolica a farsi una passeggiata a braccetto con il don del luogo, incontrato il ragazzo gli sorrise in faccia. A Camico mentre lui era in stato di fermo erano successe cose grosse. Dopo quelle fucilate Nino Ferro e don Angelo andarono per la loro via. Nino Ferro tornò in paese e andò subito al bar dove trovò compagnia, salutò il cavaliere, il quale capì. Don Angelo doveva curare alcuni interessi del barone in una campagna a due passi del paese, dove alcuni muratori stavano sistemando la struttura di una casina. Raccolse alcuni ortaggi e tornò pure lui a Camico. Trovò Dinuzzu migliorato. Donna Antonietta era andata dal giovane medico Balla e si fece dare un rimedio, risultato efficace, per quella febbre per il figlio Vincenzo. Il dottor Balla non faceva quasi mai domande oltre l‟interesse professionale, perché così facendo poteva dare un aiuto medico, in caso contrario, se avesse incominciato a chiedere più del necessario non sarebbero più andati quindi privando il malato dall‟assistenza necessaria. Anche se giovane, il dottor Balla, riusciva ad entrare nei codici di quella gente e per questo motivo veniva rispettato da tutti. Saru Cuscenza, questa volta non ne ha voluto sapere della scomparsa dei figli e andò via con le pecore. La madre cercò ovunque senza risultato. Chiese aiuto ad altri parenti ormai esasperata. In cuor suo sperava che quella fuga era una ribellione contro il padre e che prima o poi sarebbero tornati. Don Angelo ormai aveva deciso, così aspettava solo il momento opportuno: quella sera stessa; visto che il cavaliere festeggiava il fidanzamento della figlia e l‟attenzione del paese era concentrata a questo evento importante. 201 BENVENTI A CAMICO … Quella sera in casa Galante vi era ogni tipo di dolci, calja, scacciu, vino e rasoliu. Fiori e luci ovunque. La strada era tutta in festa. Tutta la Camico bene era presente. Nessuno fu deluso dall‟attesa, nemmeno la fidanzata, anche se dopo la strigliata mal volentieri ubbidiva a degli ordini categorici del padre. Ninetta quando si vide davanti Gaetano Menta, con la sua figura signorile, vestito così elegante, quel sorriso affabile e con lo sguardo ammaliatore, ne rimase presa e ogni volta che lo guardava lo era sempre più. Gli altri Menta non erano così signorili come lui. Le due sorelle, con i mariti, erano di campagna. Si vedeva a distanza dalle camminature sgraziate e dai vestiti che sembravano non volere aderire al loro corpo. I nipoti sicuramente avevano avuto un lisciabussi non indifferente, pertanto se ne stavano con la testa bassa e incavolati, di certo avevano preso qualche anticipo di gargiati dai genitori, promettendo l‟elargizione se non si fossero comportati come di dovere. La madre sembrava un cammello, sia per la mole sia per come era aggobbita, con un mento prominente e dei lineamenti del viso marcati, due occhioni rotondi che ogni tanto muoveva lentamente da destra a sinistra. Il padre aveva quell‟aspetto volpino, la voce rauca, gestiva ogni cosa senza far notare la sua intraprendenza. Gaetano era spariggiu, si sapeva muovere, sapeva parlare, insomma non aveva a che fare niente con quella famiglia, aveva preso qualche somiglianza dal padre, invece le sorelle erano somiglianti alla madre. Il fidanzamento andò tutto come protocollo. La fidanzata seduta a destra della madre e a sinistra la cognata maggiore, rispettando la spaddata. Non mancarono i versi propinati dalla sorella minore: -Semu vinuti prigannu u Signuri 202 BENVENTI A CAMICO di Cianciana ficimu tanta strata pi riciviri nuatri stu granni anuri di chista bedda nostra cugnata e vi lu dicu cu tuttu lu cori pi natri sariti principessa adurata pi me frati Gaitanu u veru amuri. Non mancarono gli applausi e gli evviva, poi si passarono alle presentazioni. Gaetano rimase affascinato da Ninetta, ma colpito da quel futuro suocero, così portentoso nel muoversi, nell‟intelligenza, aveva ben capito con chi aveva a che fare, la sua fama era arrivata pure a Cianciana. Quando Annibale Menta ha saputo del cataluchisi capì che con il Galante vi era veramente poco da spiculari, così si predispose mentalmente in tal senso lasciando al cavaliere ogni decisione. Il cavaliere espresse il desiderio che il matrimonio doveva celebrarsi a breve scadenza non più tardi di un anno dal fidanzamento. Anche se il Menta padre avesse desiderato prima arrinesciri il figlio provessuri, abbassò la testa. Vi fu poi lo scambio dell‟anello e anche lì altri versi, questa volta da parte del fidanzato e pure della fidanzata. Il cavaliere poi si portò il futuro genero in un'altra stanza dove lo presentò a don Angelo, a Nino Ferro e altri due della stessa carata. Gaetano rimase affascinato di tanto potere del futuro suocero e capì che da quell‟uomo doveva imparare più che poteva, altro che professori del ginnasio la vera scuola era quella. Quella stessa sera il cavaliere Galante aveva ricevuto, a sua insaputa, il tradimento più grande dall‟uomo più fidato. Don Angelo aveva parlato a lungo con i fratellini Cuscenza e li preparò nei loro passi. Dino ostentava e non riusciva a capire il consiglio del suo padrino di andarsi a costituirsi al maresciallo. Quella era l‟unica strada per evitare una brutta fine, ma non capiva il perché, quando poi don Angelo alzò la voce, con quello sguardo 203 BENVENTI A CAMICO severo le folte e nere sopraciglia, e gli mollò uno schiaffo da tramortirlo incominciò a percepire il pericolo. Gli fece giurare a tutte e due di non dire che sono stati in casa sua e di non fare i loro nomi, per nessunissima ragione, perché era lo stesso di firmare una condanna a morte al loro padrino. Don Angelo tornato dal fidanzamento fece uscire i due, già era buio, e a tutta corsa raggiunsero la caserma. Suonarono la campana e bussarono con le mani e i piedi. Dino confessò per filo e per segno i fatti. Il maresciallo incominciò a provare pace dentro sé perché finalmente il quadro gli era completo, giusto, aveva un senso, anche se a primo acchito sembrava assurdo. Quella era una verità giusta. Il cavaliere la stessa notte fu informato dal Buffa del movimento di carabinieri in casa Cuscenza e che i due figli erano andati in caserma la stessa sera, rimanendo trattenuti, ma poco poteva immaginare quello che stava succedendo. Il maresciallo sembrava che aveva preso la scorsa, dava ordini urlando a tutti, gli occhi di fuori, la faccia paonazza, avvertiva di stare attenti: -Occhi aperti! Allerta! Allerta! Il brigadiere Gatto, non capiva l‟importanza di quel fermo, si sentì chiamare in caserma d‟urgenza, trovò tutta quella luminaria e quei due ragazzi. Seduti uno accanto all‟altro, Dinuzzu con gli occhi appizzati „nterra e Carmiluzzu che guardava ogni movimento, ogni cosa, senza stancarsi minimamente, in cuor suo aveva voglia di andarsi ad abbracciare alla madre e addormentarsi tra le sue braccia. -Non fate entrare nessuno e quando dico nessuno è nessuno, senza la mia esplicita autorizzazione! Chiaro Gatto? Chiaro Frisella? I due abbassavano la testa mentre si muovevano. -Fermi! Dovete rispondermi: Si! Abbiamo capito! No! Non abbiamo capito! I due risposero d‟avere capito. Gatto era inquieto, anche se già sapeva tutto non riusciva a capire: 204 BENVENTI A CAMICO -Maresciallo, non vorrei che questo, farabutto, perché farabutto è! e lo sappiamo, si sia inventato tutto di sana pianta? -Gatto, ma come te li hanno dato questi gradi? Guardali, l‟hai mai visto ad Amaddì Cuscenza di sta manera? E poi te lo immagini che vengono in caserma, che per loro è come entrare all‟inferno, tutte e due così esagitati a fare uno scherzo del cazzo al maresciallo… Gatto, avevi torto, ed io ragione, rassegnati! -E il diario di u provessuri Enniu Sanna? -Frutto di qualcuno… che aveva interesse a chiudere la questione subito, prima di noi, perché, caro Gatto, il cadavere di don Alberto puzzava troppo per alcuni e bisognava seppellirlo al più presto. -E come no? Me lo ricordo ancora come puzzava! Frisella intervenne, facendo girare le palle degli occhi per aria e quelle di sotto ad elica al maresciallo. -Ora basta! Finalmente stiamo concludendo questa brutta vicenda. Il maresciallo aveva le idee chiare sulla dinamica di quello stranissimo omicidio. Ci pensava sopra e sopra ed intuì, giustamente, che quel prete era arrivato ad un punto tale di perversione da indurre ad Amedeo a colpirlo. Il prete aveva predisposto tutto con precisione: l‟assassino, il candelabro e il movente. Poi bastò ferire nell‟orgoglio quel ragazzino, e di orgoglio ne aveva, anche se si era prestato alle sue attenzioni, dovuto al comportamento animalesco di Saru Cuscenza. E quella pestata dei giovani è stata sicuramente una sperimentazione, un tentativo, perché don Alberto aveva sicuramente deciso di morire in quella maniera. Il Maresciallo ci pensava sopra e rispondeva a se stesso, sempre con quel suo vizio di pensare a voce alta, così disse: -E poi, diciamocelo chiaro, questo prete era il diavolo in persona! -Maresciallo, parla con me? -No, Gatto con Frisella. -Comandi!?! -Vai a fare un bel caffè con il caffè! 205 BENVENTI A CAMICO 13 ottobre 1958 In quel pomeriggio d‟ottobre Roma era insolitamente calda. La gente affollava il percorso del carro funebre, del comune che aveva voluto disporre, da Castelgandolfo a Piazza San Pietro, che avrebbe trasportato la salma di Pio XII. Enrico Battista, mal subiva quell‟afa che gli ricordava la sua terra, se ne stava nel lato opposto della strada davanti l‟Altare della Patria con la sua splendida Narumi in attesa che passasse proprio innanzi a loro il feretro. I due non erano lì per fede, ma solo per voglia di essere testimoni della storia del loro tempo. Non erano i soli, anche la gente comune non era commossa, nessuna lacrima, solo volti seri ed occhi curiosi, assetati di sapere. Vi era proprio davanti una di quelle tarchiate donnone romane, con una maglietta blu notte a maniche corte e i capelli castani con la permanente fatta per l‟occasione, che ogni tanto sbraitava qualche espressione all‟uomo accanto, probabilmente il marito, su i passanti ecclesiali che le capitavano davanti: -A‟ vedi quella come se ne sbatte ch‟er morto er Papa… Lui fumava e guardava non rispondendole neanche, saggiamente non conveniva. Ma lei continuava i suoi apprezzamenti poco signorili su quei religiosi. Enrico, di tanto in tanto, lanciava uno sguardo intenso a quella fatidica finestra di Palazzo Venezia, e gli venivano dei flashback come cose lontane vissute in un‟altra vita, dove lui era un altro molto diverso di ciò che era ora, ma che gli apparteneva lo stesso. Narumi era una splendida donna nipponica, orgogliosa delle sue origini, si notava dai capelli corvini raccolti, come vuole la tradizione nihongami, ornati da diversi kanzashi d‟oro, il suo vestito di seta rossa con tanti fiori di loto rosa rimarcava la sua figura esile e armoniosa, poi, il suo sorriso e la sua grazia nei movimenti, illuminata da quell‟ultimo sole che l‟accaldava, la rendevano, a gli occhi del suo amato Enrico, un incantesimo. Lui aveva trovato in lei la concentrazione, il congiungimento, l‟essenza stessa di tutte le donne di ogni epoca e di ogni luogo, 206 BENVENTI A CAMICO infatti di questo ne era estremamente felice. Bastava quel suo sguardo sempre discreto, che gli donava ogni tanto, per scavargli, nel suo profondo, un amore grandissimo e poi ancora, spesso, una voglia erotica arcana. Lei, più di tutte le altre donne, lo rendeva uomo nella sua pienezza del termine. E‟ difficile potere esplicitare con le parole ciò che solo due corpi nella loro essenza riescono a comunicarsi in un rapporto d‟intesa. Incominciarono i primi prelati in due file della grande processione: ve ne erano di ogni genere, alcuni con i loro mantelli bianchi, francescani, sacerdoti parati, poi carabinieri in grande uniforme, aristocratici romani, infine il carro funebre con i paramenti papali e le guardie svizzere, con passo uniforme. Tutti attori di quell‟evento memorabile. Una interminabile processione all‟ultimo dei principi di Dio. Proprio con Pio XII era terminata la prigionia dei papi ed era iniziato lo stato pontificio Vaticano. Mentre la Città Eterna volgeva verso la sera vi era la più grande celebrazione della morte, che segnava la fine di un‟epoca. La Chiesa ora doveva fare i conti con nuovi strumenti di informazione, con la cultura delle masse, si doveva rapportare con il relativismo positivo filosofico delle verità, non potendo più opporre la propria verità come dogma. Un nuovo occhio politico attendava il concetto di nazione, disponendo di nuovi strumenti. Questi nuovi poteri fingeranno di liberare l‟umanità solo per renderla schiava di nuovi bisogni e di falsi idoli, alquanto vuoti . Ad Enrico Battista, non gli sembrò vero, ma era proprio così, era lui: padre Hoff! Tra quei tanti sacerdoti vi era lui, distinguibile come sempre per il suo portamento fiero. Come poteva riuscire a richiamare la sua attenzione? Avrebbe gradito scambiare due chiacchiere con lui, sulle ultime vicende della sua indagine su i carpocraziani, ma non era possibile fare alcunché, così si rassegnò e lo vidi passare a pochi metri da lui, disposto in seconda fila di quella lunga processione. 207 BENVENTI A CAMICO Proprio dopo alcuni metri il suo passaggio insolitamente Hoff si voltò, come se fosse stato richiamato da qualcosa, da una voce, e fissò lo sguardo prima su Narumi poi su Enrico ed aprì il suo sorriso. Uscì dalla fila e si appressò verso lui. Enrico capì, sarebbe stato impossibile poter dialogare in quella occasione tra i limiti della gente e del servizio d‟ordine, così prese alcuni biglietti da visita e li porse con la mano allungandosi più che ha potuto. Anche Hoff s‟allungò, mentre la gente gli faceva spazio. Si salutarono riuscendo a sfiorarsi le mani. Lui prese quei biglietti, chinò lievemente la testa e sorridendo con la mano fece cenno di “a dopo”. Battista fu contentissimo, ritornò accanto a Narumi stringendola delicatamente a se. … L‟indomani, qualche ora dopo la cena, la domestica annunciava la presenza di padre Hoff alla porta. Enrico si premurò ad accoglierlo. Quella figura gli era amica, ed è bastato quel tempo limitato di quell‟incontro a Camico, per restargli un ricordo lieto. Dopo i convenevoli Battista presentò Narumi. Padre Hoff condiscese quella presenza così avvincente. Lo scambio di opinioni e informazioni fu veramente tale che presi non si accorsero dell‟ora. Narumi si era ritirata dopo un po‟ per lasciare libero il loro incontro. Padre Hoff con mestizia incominciò a narrare al suo amico delle vicende di papa Pacelli: -…per dirla meglio, del corpo del Santo Padre! Abbiamo iniziato una indagine interna e il principale sospettato è il Galeazzi Lisi. Poi vorrei proprio sapere come un oculista possa fare l‟archiatra pontificio? Cose strane, assurde. Questa figura alquanto viscida e intrigante, asserisce che il papa ha fatto sapere il suo volere di avere applicata sul suo corpo questa nuova tecnica di imbalsamazione, brevettata dal Galeazzi stesso. Il papa diceva spesso che da morto non voleva toccato il corpo, in modo 208 BENVENTI A CAMICO assoluto. E questo l‟ho ascoltato personalmente, posso testimoniare che più volte aveva espresso il desiderio di essere seppellito nella nuda terra. Alcuni, invece, sono stati testimoni della sua meraviglia nel vedere una mano perfettamente imbalsamata da un professore napoletano, un certo Nuzzi. Il Galeazzi Lisi afferma che in quella occasione espresse la sua volontà. Non vi fu niente di più sacrilego! Il giorno la salma veniva esposta ai visitatori la notte veniva denudata e avvolta con delle erbe in un cellophan, poi iniettava chissà che cosa, la mattina seguente si puliva il cadavere, si rivestiva e si esponeva, tutto questo dal 9 al 13! Il corpo incominciò a lasciare intravedere una cromatura rossa, poi verdastra, in fine grigia, mentre tutte le arterie divenute marrone trasferivano dalla cute. Abbiamo assistito ad un evento orripilante, ma ancora il peggio doveva arrivare. Il medico legale protestava che “il Galeazzi così operando non faceva altro che accelerare la decomposizione e non arrestarla”. Fin da gli antichi egizi il corpo si metteva al fresco per fare evaporare i liquidi, lui invece all‟incontrario suggellava il corpo nel cellophan… Vedere quel corpo del Santo Padre così impacchettato tra le erbe era uno spettacolo veramente mostruoso. Ma quel truffatore insisteva che il suo metodo era rivoluzionario e gli effetti finali erano straordinari. Una suora mi ha riferito che l‟imbalsamatore, quel Galeazzi, ha scattato diverse fotografie al povero corpo. Quando qualcuno obbiettava, lui rispondeva: “la scienza!”. Il cadavere si era gonfiato, aveva una pancia esorbitante. Finalmente si mise nella cassa per trasportarlo a Roma. Durante lo spostamento si udì un botto nella cassa, e un immane fetore travolse tutti. Una povera donna proprio li davanti cadde svenuta all‟indietro. Poi all‟apertura della cassa si vide uno spettacolo macabro. I gas avevano squarciato il ventre! Le viscere erano fuori. Il Galeazzi era scomparso, irrintracciabile. L‟odore mi è rimasto nella mente in maniera indelebile! Prima il fetore violento, poi quando divenne più lieve, era come dolciastro, sapeva di fiori marci. Proprio di questo non riesco a liberarmene, 209 BENVENTI A CAMICO sembra che ne sia rimasto unto, e mi travia qualsiasi altro profumo. Quella lunghissima processione, quei suoni, il rompo del motore del carro, il rumore del silenzio della gente, le preghiere, il sole che volgeva verso il tramonto, sentivo caldo, a questo punto ho avuto la netta impressione, come un lampo a ciel sereno che quello errore d‟imbalsamazione era stato voluto, studiato nei minimi particolari e scientificamente, per celebrare la morte, il nulla! E solo un gruppo potente come loro potevano studiare questo triste spettacolo. Ma ormai e da tempo, non mi fidavo più di nessuno. A maggior ragione di colui che aveva avuto la massima fiducia da Pacelli e che dovrà essere il suo successore. Sembrava ormai tutto finito? No, caro amico, lo spettacolo della morte continuava ancora! Dopo che la salma fu tolta dalla cassa, venne portata nella Confessione per essere esposta, in quello strano palcoscenico sistemato, intanto il fetore divenne irresistibile e invadeva ogni spazio nella Basilica, tramortiva i più vicini. Il cardinale Roncalli aveva chiamato quel catafalco “patibolo”. Spettatore di tanto orrore l‟onorevole Andreotti, non per nulla turbato sotto quell‟espressione da Sfinge. Il corpo ormai presentava una cromatura marrone. Il peggio doveva ancora arrivare! La pelle incominciò a contrarsi mostrando nel volto del Santo Padre un sorriso beffardo e nefasto. La morte sembrava sorriderci ricordandoci quanto siamo niente e nulla ai suoi confronti. La notte, le guardie svizzere diedero l‟allarme per l‟evoluzione della decomposizione del povero papa. Si chiamarono i migliori medici legali, e sfogliato nudo e messo nel pavimento, si tentò di arrestare quello scempio. Immagina per un solo attimo Pio XII vivo, con quella sua statuaria presenza, così aristocratico, lontano da tutti, immagina ora quel corpo denudato, per terra, senza alcuna dignità, tra le ombre della Basilica, i marmi che proiettavano le loro ombre, e quel manipolo di persone che si affannavano come in un rito raccapricciante e assurdo. Lì con noi vi era sicuramente la Morte! Ma non facevamo neanche caso, né noi preti, né i medici, così avvezzi ogni giorno della nostra vita ad 210 BENVENTI A CAMICO averla intorno. Forse le guardie papali e quelle svizzere, guardavano altrove, e dove? Nella Basilica ogni cosa sembra celebrarla con l‟arte! I professori ripulirono di nuovo internamente il corpo e si cercò di ricomporlo con dell‟ovatta, poi gli fu iniettata della formalina. Ormai era diventato nero, e dopo che quei professori avevano terminato quella opera disperata, e lo rimisero nel cataletto, videro il naso che gli cadde dal volto. Così rispose a loro la Morte! Qualcuno dei presenti, un arciprete cerimoniere, ricordò di conoscere un altro caso simile. Quello di Leone XII nel 1829, allora si mise una maschera di cera, ma allora non si ebbe successo, così si sostituì con un manichino con i paramenti papali. I medici presi dalla esasperazione composero una maschera di cera con componenti alcalini. La morte continuò a devastare quei miseri resti e quella maschera riuscì a dare un effetto ancora più macabro. Padre Hoff dopo quella lunga descrizione si lasciò cadere sulla spalliera del divano e chiuse gli occhi. Mentre il Battista era rimasto allibito da quell‟orrore, vagavano nella sua mente quelle immagini dentro la Basilica e quasi sentiva gli echi delle voci dei medici che chiedevano dell‟ovatta a gli assistenti, vedeva con la mente i preti attorniati con le mani giunte con i volti preoccupati per l‟esposizione del papa per la visita dei capi di stato di tutto il mondo, magari qualcuno fingendo di pregare, poi si perdeva tra gli spazi e l‟altura del luogo, immaginava quelle povere guardie impotenti e schifati nel loro compito di proteggere quel corpo. Il notajo così vagava nei ricordi di quel papa che sembrava negli ultimi tempi cercare la santità. Parlava con gli animali, guardava spesso in alto e poi andava ricordando l‟apparizione di Gesù e il miracolo del sole roteante come a Fatima, si! cercava la santità. Si dice che i santi quando muoiono non vanno in decomposizione ed emanano odore di fiori. Gli viene in mente un nome Zosima, si, il frate santo de I FRATELLI KARAMAZOV di Dostoevskij… “il lezzo della putrefazione”24. 24 I FRATELLI KARAMAZOV di Fedor Dostoevskij Edizione Mondolibri S.p.A. 1998 pagina 439 211 BENVENTI A CAMICO Zosima ritenuto santo da tutti, invidiato per la fama che aveva, con il suo corpo magro, che da morto incominciò la sua decomposizione, caduta, così veloce che “aveva precorso la natura”25. Sembrava che Dio non la pensasse come i suoi ammiratori fedeli “…qui si trattava proprio del famoso dito di Dio. Dio aveva voluto dare un segno.”26 Invece a Roma sembra che il dito non sia stato messo da Dio ma da qualche altro che ha voluto smentire la santità del papa, non in quanto Pio XII, ma in quanto papa per volontà dello Spirito Santo e chi? Allora, Enrico guardò l‟amico e gli disse: -Pensi che è stato proprio voluto? L‟archiatra, forse per soldi, o perché è uno di loro, ha agito in quel modo… che siano stati i carpocraziani? -Sono più potenti di quanto tu possa immaginare, loro mistificheranno, inganneranno, costruiranno verità per un nuovo ordine mondiale basato sul degrado morale, sulla distruzione della vita tutta in nome del piacere, sono apostoli della morte. Operano nelle finanze, nella scienza, nella chiesa, nella politica, nella cultura, nello spettacolo, ovunque. Hanno concretato sempre così, nei secoli, hanno ucciso! Distrutto! Schiavizzato! Tutto, in nome di Cristo! -Ora? -Ora, non so se tutto ciò sia vero! Questa è la loro forza! Forse mi sono ubriacato da solo con tutte le costruzioni mentali, letture, indagini… anni e anni di lavoro per giungere a niente! Il mio dossier come richiesto dal Santo Padre glielo avevo già consegnato, adesso sarà sicuramente negli archivi segreti. La famosa lettera di Tito Flavio Clemente Alessandrino a Teodoro trovata da Morton Smith sull‟esistenza del Vangelo di Marco sembra ormai accertata un falso, dei più banali. Sembra che quel Smith l‟abbia scritta di propria mano… mah? Inoltre, quel vangelo non ha niente di scandaloso, che chiarire la celebrazione di un rito 25 26 idem pagina 446 idem pagina 446 212 BENVENTI A CAMICO esseno. Ma quel modo di adoperare non è altro che un loro metodo, creare una verità per poi essere facilmente smentita, come questa vita, una semplice illusione creata da Satana! Per ingannarci, ingabbiarci e tenerci lontani dalla vera vita, quella del Regno dei Cieli! -Per fortuna che non sono credente, o almeno, non in una religione. Credo nella vita, nell‟amore. Il mio Dio per il momento si manifesta in Narumi e mi ama, anzi sa come amarmi! -Mi vengono in mente le parole di Randisi, faccio una parentesi, vi siete visti d‟allora? -Si, certo. E‟ qui a Roma! -Proprio giù in Sicilia, a Camico, abbiamo avuto una discussione ed avevo espresso che svegliandomi quella mattina e costatando quella natura, invadente, “prorompente di vita”, lì nel giardino della sua magnifica casa, non potevo fare a meno di sentirla come una prova che tutto esiste. Lui lo sa come mi ha risposto? Ricordo la frase perfettamente: “…qualcuno dice questa natura che sa di cose morte, di continua decomposizione, una strada senza uscite!” Pensandoci bene vorrei chiedergli chi è mai questo qualcuno? Credo che il legame del vostro Ordine con i carpocraziani esiste anche se in posizioni alte. Lei sa chi è Montini? -No! -E‟ il probabile successore di Pio XII! Qualche anno addietro, nel 54, lui è stato sul Monte degli Ulivi e lì ha abbracciato, ha concordato, con il Patriarca ortodosso Athenagoras I! Penso che lei saprà che è massone del 33° grado. Un altro abbraccio tra quegli ulivi… Chi sarà il traditore e il tradito? Le mie sono solo fantasie, impressioni, niente di consistente! Ci fu tra i due qualche minuto di silenzio. Padre Hoff prese il fazzoletto e si asciugò, bevve ancora il suo bicchiere d‟acqua. Enrico leggeva nel suo volto la disfatta, una lotta persa irrimediabilmente ed avrebbe voluto fare qualcosa per metterlo un po‟ su, così incominciò a narrare le vicende di Camico: 213 BENVENTI A CAMICO -Non mi chiede i risvolti di quell‟orribile omicidio… Sa? Quel maresciallo Scarpulla aveva proprio ragione! Il diario era stato contraffatto ad arte, perché non fu il professore Sanna a commettere quell‟omicidio, ma due insospettabili ragazzini. -Due ragazzini? -Uno di dodici e l‟altro di nove, figli di un pastore. Don Alberto ne abusava sessualmente, e a quanto mi ha raccontato il maresciallo, sembra che sia stato proprio lui a indurli all‟omicidio. Aveva preparato quell‟omicidio-suicidio minuziosamente, studiando il ragazzino nella sua potenzialità e creando la causa scatenante. Il maresciallo mi diceva che aveva sistemato degli oggetti che il potenziale assassino avrebbe usato come armi. Il ragazzo prese appunto un candelabro e lo tramortì. Ma don Alberto sicuramente non aveva previsto che il suo giovanissimo assassino era affascinato dalla mafia, è stato per emulazione che ha tagliato gli organi genitali alla sua vittima. Anche perché stava abusando del fratello minore causandogli appositamente molto dolore ed ha voluto distruggere proprio lo strumento di quella sofferenza. Lo aveva incitato ferendolo nell‟orgoglio, insultandolo richiamando la sua personalità emulativa della mafia. -Il diario? Chi aveva interessi a creare questa prova? -La mafia! Il cavaliere Galante! Aveva ricevuto troppe pressioni, anche da Roma, da parte di politici emergenti. E allora ha scaricato tutto al povero Sanna, tanto ormai era morto. Mi diceva il maresciallo che gli avevano intimato di non fare nessuna pressione o indagine alcuna su quel diario. Lui avrebbe insistito a cercare il vero diario. Ma gli eventi storici lo hanno fatto desistere. -Cosa è successo? -Proprio nello stesso periodo hanno ucciso un contadino politico, sindacalista, nel paese vicino e fu accusato un camichese, un mafioso. Dopo qualche mese è scoppiata una vera faida tra mafiosi. Il Galante rappresentante della mafia americana ha scatenato la guerra con i catalochisi e rivilisi dando incarichi ai più spregiudicati, entrando in contrapposizione con chi pensava 214 BENVENTI A CAMICO ancora all‟onore e non al bissinisi e alla politica. Per la mafia è la politica il più grande bissinisi. Il genero, che io ho conosciuto la sera del suo fidanzamento in casa Galante, ancor più pericoloso del cavaliere, questo ha ben capito il gioco! -Gli americani hanno paura dei comunisti in Sicilia e la mafia gli darà una mano a controllarli. -E‟ questo che mi paventa! Come forze internazionali riescono a traviare il corso della storia in maniera capillare, quasi raggiungendo l‟individuo. -Questo è il più grande pericolo della nuova epoca. Le manca la Sicilia? -No! Affatto! -Forse andrò ad Israele per rimanerci. Roma non fa più per me. In fondo sono un ebreo. -Vi sono parecchie accuse su Pio XII per il suo silenzio sulle politiche adottate del Terzo Reich. -Io gli rimprovero, pace a l‟anima sua, che dopo gli eventi successi, dopo avere firmato i Patti lateranensi, e la persecuzione del mio popolo, con lui la Chiesa avrebbe voltato pagina, togliendo dalla liturgia del venerdì santo le dure espressioni di deicidio nei confronti del mio popolo. Un giorno glielo chiesto personalmente, lui mi ha guardato come se non mi vedesse senza rispondermi. Come mi posso sentire quando ascolto, mi sono sempre rifiutato a pronunziare, ma ho ascoltato: “Oremus et pro perfidis Judaeis”27 e poi dopo una genuflessione: “Omnipotens sempiterne Deus, qui etiam judaicam perfidiam a tua misericordiam non repellis…”?28Speriamo in tempi migliori con l‟aiuto del buon Dio. 27 Preghiamo anche per i perfidi Giudei Dio onnipotente ed eterno che non ricusi la tua misericordia alla perfidia dei Giudei, degnati di esaudire la nostra preghiera. 28 215 BENVENTI A CAMICO PARTE TERZA Uscito dal barbiere mi sentivo la cute della testa che piacevolmente bruciava per la soluzione che mi aveva messo, la faccia mi rinfrescava per la pomata che mi aveva spalmato come dopo barba. Si, Sasà era veramente “un barbiere di qualità” come dice Rossini nella sua opera. Diventai morbosamente curioso di vedere la casa del notaio Battista, forse sistemata nel luogo più antico di Camico. Mentre risalivamo con l‟auto facendo tutta la strada di basalto, notavo quelle botteghe aperte di mercerie, alimentari e chi più ne ha più ne metta dei veri empori. -Tu ci credi a li donni? Mi sparò all‟improvviso questa domanda, cogliendomi di sorpresa tanto che lo fissai senza risposta. Lui continuò: “O si o no. Non rispondermi forse! Li donni, non sono fantasmi, né streghe, sono presenze, entità magiche. Io ci credo! “No, Pietro, io non credo alla loro esistenza. Ma non preoccuparti, mi viene difficile credere alla mia di esistenza, è un momento della mia vita, così, strano. E‟ un ateismo allo rovescio, credo solo in Dio e poi basta! Mentre siamo arrivati in questa bella grande piazza. Il palazzo aveva qualcosa di suggestivo. Scendendo dalla macchina il silenzio ci avvolse. Pietro incominciò a raccontare, quando una persona sorta da quel silenzio lo salutò, a me rivolse una taljata curiosa come quella che si dà ai forestieri. -Bonasira! -Bonasira zzu Paulu! -Vuliti accattarivi sta casa? -Nonzi, chistu è un mio amico, stiamo solo guardando. -E‟ veramenti un affare! Con tutte le storie che sono state inventate, il prezzo è „nterra. Pietro mi spiegò che quell‟anziano era u zzu Paolo Cento, il sensale di Camico. Chi cercava terreno o case, doveva andare da lui sicuramente trovava l‟accordo. Ora è veramente su con gli anni 216 BENVENTI A CAMICO e non è più capace e muoversi tra le colline per i sopralluoghi. C‟è qualche altro, ma non ha la serietà della parola come u zzu Paolo. Con lui tutti gli accordi si facevano con la parola, poi dal notaio si scrivevano le scartoffie, ma servivano alla liggi. -Ora parola „un havi chiù nuddu!- Si lamentava u zzu Paolo –E quannu „un c‟è a parola puru a carta addiventa munnizza. Firmano cambiali, assegni, contratti e non li rispettano. Chistu pirchì n‟omu l‟anuri quannu l‟havi lu rispetta, si lu perdi, perdi puru la parola. -Come mai all‟amministrazione comunale non viene in mente di acquistare tutto lo stabile? -Perché il politico cerca il cemento e non il recupero di vecchi edifici … U zzu Paolo acconsentiva. Così, poi, si misero sia Pietro che u zzu Paolo Cento a raccontare questa strana storia di spiriti e chiacchiere. 217 BENVENTI A CAMICO I SIGNORI DEL VENTO L’uomo saputo (…): E chi sono? Dite “Donne”... Le DOOONNE ... Le DOOONNE ... E voi che siete? Coro a tante voci: - Madri! - creature di Dio - per quanto indegne per i peccati nostri - e quelle “le Donne” - che fanno a noi madri i malefizii - e sono figlie dell'inferno - streghe del vento - streghe della notte - bestemmiando - ululando - sghignazzando - o gemendo, gemendo con voci lunghe a lamento - le notti d'inverno, le notti senza luna - si chiamano dai tetti - il vento le tira, s'aggrappano ai camini rovesciano i camini scoperchiano i tetti - e tirano le tegole!29 La favola del figlio cambiato di Luigi Pirandello, da: LUIGI PIRANDELLO TEATRO – MASCHERE NUDE- Fratelli Melita Editori – La Spezia – 1993 Pagine 183, 184. 29 218 BENVENTI A CAMICO Quel mese di febbraio Antonio arrancava per quella scalinata che portava a casa del suo amico Pasquale per dirgli la novità straordinaria che gli era capitata e che avrebbe cambiato la vita ad entrambi. Quel mese di febbraio del 1976 era iniziato con tutti i buoni auspici di rinnovamento e di buone speranze. Si sentiva dentro se che il suo futuro avrebbe avuto degli sviluppi positivi, gli si leggeva pure negli occhi. Erano le 18 passate e già faceva buio, ma nonostante ciò, la scarsa luce della lampada a braccio all‟incrocio bastò per fargli notare, come mai prima, una ragazza che il destino volle fargli incontrare insieme alla madre. Sarà stato che lei gli lanciò un‟occhiata fugace ma così intensa che gli rimase stampata nella mente come un‟impronta indelebile. Questo mese di febbraio gli stava portando un mondo veramente nuovo. Eppure già era passato quasi un anno da quando tornò dalla Germania senza che nulla d‟importante fosse successo fino ad allora. La Germania lo stancò subito, non era vita per lui, lavorare per risparmiare, si sentiva al di sotto di tutti quei tedeschi che lo “guardavano con superiorità e poi quella lingua sdegnosa che li faceva sembrare sempre arrabbiati…” Quale futuro aveva davanti, quello di suo padre? Lavorare e mandare marchi a casa, per poi sposarsi, mettere famiglia e mandare marchi e lettere, per tornare una volta all‟anno per le feste di natale e così ritornare a rimandare marchi in attesa di ritirarsi con la pensione. Un giorno mentre lavorava con una impresa a scavare un fossato per la linea elettrica in strada, sotto la pioggia incominciò a pensare al paese, alla sua casa, a domani e dopodomani. Quando ad Antonio il cervello partiva a frantumare pensari, non si sapeva mai dove andasse a parare. Così lanciò l‟arnese che aveva in mano, salì il fossato e tornò in paese. Stefano che lavorava insieme gli gridava: 219 BENVENTI A CAMICO -„Ntoni, „Ntoni! Chi succidì? Unni và? Chi minchia sini pazzu? Antonio quando guardava la vita che conduceva Stefano nelle baracche, con l‟ansia della lettera che non arrivava, che a quaranta anni si masturbava per non andare a puttane per risparmiare e mandare marchi al paese, si sentiva soffocare. Quell‟acqua fredda pungente che il vento gli sputava in faccia ripetutamente senza tregua, gli fece saltare la molla. In paese riprese a lavorare alla muratura come manuale, ma si sentiva sfruttato, lavorava a nero sopra i ponteggi senza nessuna assicurazione, malo pagato e senza orario. Voleva un lavoro dignitoso, retribuito giusto, in piena regola con tutti i diritti. Mentre gli appartanti s‟arricchivano a vista d‟occhio a costruire case e palazzi, lui doveva leccare la sarda, gli faceva una rabbia, si sentiva rimuovere tutte le budella! Cercava una idea di quelle buone per mettersi in proprio magari, per non farsi sfruttare, ma cosa? Proprio quel pomeriggio al Bar Sole aveva ascoltato due forestieri seduti accanto al tavolo che parlavano di un artigiano a Porto Empedocle che fabbricava pavimentazioni, stava svendendo tutto per andare all‟estero. Rischiava di perderci il figlio che controbatteva quelli del pizzo, allora decise di andare via in poco tempo prima che era troppo tardi. Antonio, con il suo fare galante e il suo aspetto longilineo, chiaro di capigliatura e di pelle, gli occhi grigioverdi, vestito sempre bene, come se fosse festa, domandò scusa e chiese se potesse avere l‟indirizzo di quel signore. Si misero a parlare, gli offrì da bere e ottenne tutti i dati necessari. Doveva fare partecipe a Pasquale, il compagno di tante giornate, di lunghe passeggiate, di tanti pensieri, di tanti progetti andati tutti in fumo. Questa volta però, lui ci credeva veramente. Pasquale era di animo buono, si muoveva lentamente, per lui erano tutti gli altri ad andare troppo di fretta, ascoltava Antonio pendendo dalle sue labbra, soppesando ogni sua parola e non 220 BENVENTI A CAMICO nascondeva che ammirava così tanto l‟amico da imitarlo pure nel vestiario, così anche lui la sera usciva vestito a festa e impomatato, sbarbato sempre di fresco. L‟effetto non era lo stesso sia per il portamento meno elegante ma soprattutto per i suoi lineamenti meno piacenti. La mamma di Pasquale piaceva l‟amicizia del figlio con Antonio, però avvertiva qualcosa di pericoloso in quella persona così determinata e lei in materia di uomini sapeva il fatto suo. 221 BENVENTI A CAMICO La famiglia di Pasquale La famiglia di Pasquale si era fermata a Camico da più o meno venti anni, prima girava con i giostranti per le feste di paese, con un autobus modificato a roulotte. Loro arrivavano, montavano il “tira e segni”, nei primi tempi, affittando un magazzino vicino dove si svolgeva la festa, in seguito in una loro baracca. La signora Mimì i soldi non li faceva con i fucili, ma con il materasso che aveva sotto la scaletta dei frufrù e le bottigliette di succhi di frutta come bersagli. Non era molto alta, ma formata così bene da sembrare una star del cinema americano. Bionda con una capigliatura montata a ciocche, le sopraciglia scure, due labbra rosso vivo carnose in un sorriso aperto, lo sguardo languido e malinconico in quegli occhi castano scuri a mandorla, si muoveva come se fosse stanca e stufa e forse lo era davvero. Gia a vederla gli uomini si turbavano e ricevevano gli strattoni delle mogli a braccetto. In ogni paese era un grande successo: giovani, sposati e di ogni età, facevano la coda con discrezione e ordine, a volte pagavano solo per vederla seminuda o per toccarle una parte del corpo a scelta, la tariffa ovviamente cambiava. I profitti andavano in gran parte al protettore, fin quando non conobbe Vito a Lercara Friddi, dolce, acconsenziente e gentile. Mimì se ne innamorò sul momento, fece sesso come mai aveva fatto, non sentendo l‟impiccio di un corpo addosso, ma mossa da un calore travolgente, e così non volle i suoi soldi. Con gli altri, ogni volta, moriva una parte di se stessa, ma con lui invece resuscitava. Vito alla sua prima esperienza ne rimase a sua volta travolto, così come intontito rimase nei pressi di quella baracca aspettando chissà che cosa, vedendo entrare e uscire uomini che si sbottonavano e abbottonavano dietro la baracca davanti la piccola porta e ogni volta si sentiva ferire dentro. 222 BENVENTI A CAMICO Quando la notte il mantenuto le prese i soldi e la riempì di botte, lui si ci piazzò davanti chiedendo spiegazioni, ma Alfredo per nulla turbato sorridendo gli chiese: -e tu cu sì? Per tutta risposta Vito lo guardò negli occhi in senso di sfida, fulmineamente si sentì due cazzotti in faccia e stramazzato a terra, due calci ben piazzati negli stinchi. Alfredo era medio alto con un sorriso dileggiatore sulle labbra, una capigliatura all‟indietro piena di brillantina Linet, si muoveva, guardava, parlava con l‟atteggiamento del gradasso. Vito aveva due occhi buoni buoni, tanto da far credere al suo interlocutore di potersi prendere con lui tutte le confidenze e le licenze a suo piacimento. Alfredo lo guardò raggomitolato a terra e non volle più infierire per non prendersi l‟astio dei paesani, gli disse minacciandolo puntandogli l‟indice: -‟Un ti fari abbidiri chiù vicinu sta barracca! Vito lentamente s‟alzò con quegli occhi buoni e la testa bassa, con le braccia a ciondoloni, in un guizzo prese il coltello a scatto dallo scarpone e la lama specchiò le luci colorati della festa, glielo conficcò nello stomaco aprendoglielo da sinistra a destra, sbudellandolo. Tutto fu così veloce e imprevedibile che Alfredo rimase con gli occhi sbarrati nell‟incredulità che quel picciotto di campagna abbia avuto quella audacia. I carabinieri non ebbero problemi a toglierci di mano il coltello stillante di sangue. Alfredo se ne uscì con quarantasei punti di sutura e un paio di settimane in ospedale, un‟altra cicatrice per la sua collezione da mostrare a gli altri spavaldi magnaccioni come lui per quelle serate speciali tra chiacchiere e sambuca. Vito prima dell‟anno fu fuori il carcere Ucciardone, davanti il cancello trovò Mimì che l‟aspettava. Lui e lei ricominciarono di 223 BENVENTI A CAMICO nuovo affittando un magazzino poi soldo dopo soldo grazie all‟antico mestiere di Mimì si fecero baracca, roulotte nuova e camioncino di seconda mano, poi anche le barche. Le barche erano fatte di legno attaccati a un asse, dove i giovanotti del paese si mettevano sopra e con la forza delle loro braccia si dondolavano e gareggiavano con quelli accanto, scendevano felici sudati e con qualche strappo al vestito nuovo. L‟unico compito del giostrante era di frenare, tramite una barra, il dorso ricoperto da un copertone d‟auto perché nella foga potevano anche capovolgersi. Un bel giorno capitò che Mimì si accorse di essere gravida. Per Vito fu un turbine di afflizioni, un travaglio della mente, una sensazione a volte esasperata per quello evento che non aveva calcolato e ora l‟aveva travolto schiacciato in ogni cellula del suo corpo. In verità non aveva né previsto né minimamente pensato che, dalla quiete della terra e dai ritmi secolari del suo paese, sarebbe passato ad una vita di girovago, che aveva accoltellato un uomo ed aveva vissuto la galera. Tutto questo perché? Perché aveva conosciuto la donna nella compiacenza sessuale. E‟ proprio in questo preciso istante che in ogni uomo avviene la rivoluzione copernicana. Prima c‟è la Terra al centro dell‟universo, poi il sole, infine, come per magia il punto di riferimento del cosmo diventa la donna. Un pianeta che attira, nell‟universo adolescente, ogni cosa, fa fare ogni cosa e fa vedere ogni cosa in maniera come mai si era vista prima. Vito sapeva benissimo chi era Mimì, qual‟era la sua vita, perciò ingoiando il tossico che gli saliva dal profondo del suo stomaco, aveva deciso definitivamente di essere padre di quel bastardello che doveva venire alla luce. Si sentì come il San Giuseppe che lasciava intravedere il prete del suo paese nelle prediche, o perlomeno lui così capiva. Lui che per un ipotetico 224 BENVENTI A CAMICO paio di corna avrebbe fatto una strage si trovava in quella posizione assolutamente lontana dalla sua più recondita fantasia. Mimì si accorgeva del turbamento che aveva il suo uomo e lo rassicurava, battendosi la pancia con tutte e due le mani: -Nun ti tracassiari ca chisto è tò! Era alla sua seconda maternità, sette anni prima aveva avuto una bambina, con il signor Ciocca, proprietario di autoscontri. La moglie non poteva avere figli, così fu lei stessa a pregarla di concepirne uno con suo marito, aveva capito che quella era l‟unica strada per salvare il matrimonio. Come fece Sara, moglie di Abramo che lo fece accostare con la sua schiava egiziana Agar da dove nacque Ismaele. Così, d‟amore e d‟accordo, nacque Silvana, naturalizzata Ciocca. Alfredo per tutto ciò volle un compenso in soldi. Ma la signora ha voluto fare un regalo a Mimì, una collana a maglie grosse, un bracciale e orecchini d‟oro, indossati sempre perché le ricordavano la figlia. A volte lo sguardo sognante con la mano accarezzava quella pesante collana, o il bracciale, o con due dita uno degli orecchini e per lei era come accarezzare Silvana che vedeva crescere e stare bene, ma i patti erano di non rivelarle in assoluto la sua maternità. Nonostante tutte le barriere che mettevano i signori Ciocca Silvana provava un‟attrazione per Mimì incontenibile. Il nome lo ha voluto scegliere lei e la chiamò così per l‟ammirazione che aveva per l‟attrice Silvana Mangano. Quando nacque il bambino, Vito si accorse che era spiccicato lui, una somiglianza stravolgente, oggi avrebbe detto un clone, così lo volle chiamare come suo padre: Pasquale. Anche lui era una figura spiccicata a suo padre. Risollevato dal suo pesante dubbio abbracciò la sua compagna e le riempì la stanza di fiori. Quel bambino fu il loro vero sigillo matrimoniale. Dopo cinque anni di quella vita decisero di smettere, così hanno venduto 225 BENVENTI A CAMICO tutto e si piazzarono in questo paese che sembrò per loro abbastanza ospitale. Vito provò diversi lavori ma non riuscì ad ingranare, ormai era entrato in quella logica di giostrante, così finì con stare di più al circolo civile che altrove, fin quando non divenne il cameriere e campicchiava con le gazzose che vendeva e il magro salario che gli passavano i soci. Gli uomini giravano attorno a Mimì tanto che quella scalinata sembrava la via reggia. Fin quando il più audace si fece avanti, “i soldi erano pochi e Pasquale aveva bisogno”, così lo fece entrare. Il gagliardo rimase deluso quando Mimì chiese il dovuto, perché pensava di avere fatto una conquista. Tutto si sistema prima o poi, ogni cosa prende forma e la gente, prima o poi, s‟abitua a tutto. Per la festa di Mezz‟agustu in paese arrivarono le giostre come ogni anno e così anche l‟autoscontri di Ciocca, ma quel 1966 Silvana andò a trovare Mimì a casa. Mentre era indenta alle pulizie di casa sentì bussare poi: -C‟è permesso! E tra la luce di quel mattino vide la sagoma della figlia tanto amata, all‟ingresso. Si sentì stravolgere, quella piccina carina era diventata una bella donna, che le andò incontro e l‟abbracciò lungamente baciandola ripetutamente. Il padre rimasto vedovo le aveva svelato tutto, così il suo più grande desiderio era stato questo abbraccio che infine aveva dato un senso alla sua vita, a quella di sua madre e alle sue reminiscenze. Alla fine tutto prende la giusta forma. Pasquale, dopo le scuole medie con qualche anno ripetuto, si adattò a lavorare prima in un forno a consegnare il pane con la bicicletta, poi a imbiancare case con la pompa, infine a bighellonare per le strade e a giocare a biliardo e a carte nei bar e 226 BENVENTI A CAMICO nei circoli. Tale padre tale figlio, tanto “a mammarella pensava a tutto”. Solo quando spuntò la barba a Pasquale la signora Mimì chiuse definitivamente le sue pubbliche relazioni. Incominciò a frequentare la chiesa, prima quella del Santissimo Sacramento quando si vide emarginare e l‟arciprete con le parrocchiane la guardavano schiaffeggiandole la sua vita, ha dovuto desistere e cambiare con la Chiesa Madre, dove un angolino isolato in quel grande tempio quasi abbandonato lo trovava sempre ogni domenica sera. 227 BENVENTI A CAMICO Russanticu e progetti Antonio era di casa, lì dentro trovava sempre una birra o un caffè, frequentava quella famiglia da quando era compagno di classe di Pasquale all‟elementari. -Pasquà, dumani matina hama a pigliari l‟autobus e jri a la Marina! Lui parlava così con l‟amico, prima decretava categorico e poi si spiegava. Bisognavano i soldi, un magazzino e un‟apa. Il magazzino non era un problema, si sistemava la stalla del padre con qualche lavoretto, ora che il padre si era venduto la vestia e la terra. Occorreva trovare i soldi per le attrezzature e l‟apa. Antonio continuava ad espletare minuziosamente il suo progetto con gli occhi accesi, aveva dominato l‟attenzione non solo di Pasquale ma anche della „zza Mimì, come l‟ha sempre chiamata. Il paese era in continuo sviluppo edilizio perciò la fabbricazione di mattoni non poteva che andare bene. Così nessuno mangiava sopra il loro lavoro. -Chi ti pigliu? U facemu u‟ cafè? -Nonsi, „zza Mimì ca già mi nni pigliavu unu a lu bar e mi sentu scotiri. Pasquale, con il suo tono pacato: -Pigliamuni tecchia di Russanticu ca facemu u‟ brindisi a sta società „ntustriali!- Tutte e tre si misero a ridere e brindarono. Antonio, appoggiò la coppa sul tavolo e cambiando tono chiese della ragazza che aveva incontrato salendo la scalinata poco prima. Mimì s‟asciugò le mani nel grembiule e sedendoglisi di fronte, ammise il suo apprezzamento per quel fiore di ragazza che era sbocciata da un giorno a l‟altro, il giorno prima era magra senza né petto né fianchi, un bastone di scopa, e dopo la metamorfosi, dal bozzolo è uscita la splendida farfalla, con tanto di curve che era diventata. Accentuò su quello sguardo così profondo: 228 BENVENTI A CAMICO -…sembra il pozzo dei desideri! A zza Mimì a volte si esprimeva in questo modo e sorprendeva tutti, frutto della cultura fatta sui giornali di fotoromanzi come Grand Hotel. Antonio sapeva chi era, in un paese come Camico si conoscevano tutti. Sapeva che era Rina, la figlia di Cocò Lanna firraru e di „Nzula Pizzuta. Qualche giorno fa l‟aveva vista giocare con le altre bambine alla marredda. Lui voleva sapere se fosse a conoscenza se già sarebbe stata appalurata. Rispose che non vi era niente di tutto questo, ma se fosse stato veramente interessato avrebbe dovuto sbrigarsi a mandare qualcuno, perché “una farfalla come lei subito prende il volo”. Antonio acconsentiva con la testa: -Issici a parlari vossia! Mimì, si rannuvolò in volto, e sistemandosi sulla sedia così parlò: -Chisti su cosi dilicati e „Nzula è tecchia comu voli Diu, ju „u‟ sugnu la pirsuna „ndicata, è meglio ca ci manni a quarcunu di li to‟… Antonio capì, quello che voleva intendere e che per il suo bene un‟ambasciata tale era sconveniente portata da Mimì con il suo mestiere che ancora esercitava di tanto in tanto. -Allura, facemu natru brindisi pi stu „ncontru di sta sira! Così dicendo Pasquale prese la bottiglia e riempì di nuovo le coppe. -Pasqualì, pari ca „un ci babbii cu lu viviri!- Gli disse la madre tra lo scherzo e il rimprovero. Brindarono ridendo. Ad Antonio ormai la testa aveva preso a rimuginare e non si ci fermava se non a cose fatte. La stanza era piena di nebbia, tutte e tre erano accaniti fumatori. Quando Pasquale e Antonio andarono via una nuvola densa uscì insieme a loro. 229 BENVENTI A CAMICO Antonio & Pasquale La mattina dopo, arrivati alla Marina, appena scesi dall‟autobus tutte e due furono investiti da quel buon odore di cornetti appena sfornati provenire da un bar lì vicino. Fu una tentazione irresistibile non andarci a fare colazione. Antonio ne approfittò per chiedere al barista indicazioni. Era facilissimo andare a trovare quella fabbrica artigianale di maduna, bastava prendere la strada per la stazione ferroviaria e per la via s‟incontrava, dinanzi vi erano posati mucchi di frantumi di marmo. Pasquale si sentiva spossato e arrancava dietro, Antonio di tanto in tanto si voltava per richiamarlo. Da lontano già si vedevano quelle montagnole di frantumi di vari tipi di marmo. -Pasquà, camina c‟arrivamu! Prima d‟entrare guardarono di fuori, nel pavimento vi era acqua sparsa, rumori di macchinari accesi, non vi era molta luce, un signore con un grembiule impermeabile intento a levigare, un altro più giovane stava uscendo spingendo una carriola. Alla vista dei due si fermò e con espressione interrogativa fissò per bene negli occhi ad Antonio come se volesse leggere le intenzioni. Antonio subito salutò e chiarì che erano venuti perché avevano avuto notizia della vendita dell‟attività. Si udì il motore della levigatrice che spento si stava scemando. S‟avvicinò l‟anziano mentre s‟asciugava le mani: -Bongiornu! Trasiti! Discussero lungamente ed era un vero affare! Il signor Carmine Aglio consigliava di rimanere lì, per non perdere la clientela acquisita, i locali glieli affittava, e con quei soldi gli lasciava pure il camioncino, che ancora poteva tirare per diversi anni. -Ma stu travagliu l‟hatu fattu? 230 BENVENTI A CAMICO Pasquale guardò Antonio e fissando il signor Carmine alzando leggermente la testa emisero all‟unisono quel inequivocabile suono dentale: -‟Ntzo! Ma anche questo problema era risolvibile perché il signor Carmine era disposto restare un mese con loro per insegnarci il mestiere. Quinti tutto nella mente di Antonio era pianificato, troppo semplice… Quando a noi Siciliani le cose si presentano così facili incominciamo a presagire chissà quali complicazioni, per non chiamarle sventure, tanto che nel nostro riso, anche il più sguaiato vi è sempre una traccia di amarezza come un retrogusto della vita. Quel giorno per i due camichesi fu proprio così. Davanti la porta si presentò un signore con un impermeabile scuro, minuto di corporatura con il pirulì e due occhiali a fondi di bottiglia, aveva un borsello di pelle che tratteneva con tutte due le manuzzi a se all‟altezza del petto. Bastò la sua presenza che il signor Carmine e figlio si annuvolarono in volto agitandosi, forse rabbia, ma sembrava terrore. Possibile che quella persona così „nnutili li abbia ridotti in quello stato? L‟omino con un filo di voce salutò: -Don Carmine buongiorno, sono venuto per quei arretrati… Chi vuliti, mi fannu pressioni… Il signor Carmine, con sottomissione: -Diciticci ca tutto è apposto fra jorna sistimamu ogni cosa! Il figlio, interrompendo: -Li sistemassi ju li cosi… -Fa silenziu, quannu parla to patri! -Don Carmine, pi rispettu so mi tegnu ancora la pratica ju, ma sulu finu a venniri sira. Pi so figliu „un si preoccupassi arresta tuttu cca!- Battendosi con la mano due volte l‟addome, poi calando leggermente la testa e guardando uno per uno i presenti salutò. -Buongiorno! 231 BENVENTI A CAMICO Antonio aveva intuito che quell‟omino era la persona del pizzo ma si accontentò della menzogna del signor Carmine che era un funzionario della banca, l‟entusiasmo di mettersi subito in opera l‟accecava, così prese l‟appuntamento per il giorno dopo, per l‟anticipo e scrivere una carta notarile, quinti iniziare a fare subito pratica. Avevano racimolati quei soldi tra i risparmi del papà di Antonio, che aveva preso gli arretrati della pensione di pazzo, e mezzo lo era per d‟avvero, e i risparmi della signora Mimì. Antonio & Pasquale lavoravano per conto loro! Pasquale lavorava, era puntuale, preciso, però voleva il suo tempo. Andavano e venivano con quel camioncino dal paese a Porto Empedocle. Mattina presto, sera tardi. A conti fatti si lavorava di più ora che alle dipendenze, però si era più sereni. Antonio aveva messo una regola: sabato e domenica non si lavorava, il venerdì si finiva tardi, ma quel fine settimana li faceva sentire signori. Il sabato era veramente un giorno di grande soddisfazione dal primo momento della mattina all‟ultimo della sera. Bastava quel sabato per rinfrancarsi di tutte le difficoltà e le fatiche della settimana. La domenica era ozio completo, tra le passeggiate lungo il corso o in Piazza Vittorio Emanuele, tra il Bar Sole e il Bar Trinacria passava così la loro domenica. 232 BENVENTI A CAMICO Il vento caldo di maggio Maggio era quasi alla fine quando una domenica mattina mentre Antonio parlottava con un gruppetto d‟amici in piazza vide Rina e sua madre. Lei indossava un abito bianco con fiori azzurri, che delineava bene tutte le sue forme. Stavano tornando dalla messa. Da lontano Rina diede un occhiata e si accorse che in quel gruppetto c‟era anche Antonio, ma appena giunta nei pressi del gruppetto abbassò la testa e con gli occhi per terra passò. Il gruppo si ammutolì apprezzando la bella figliola, non appena di spalle diedero vita a quegli apprezzamenti, chi gesticolando con la mano, chi con un intercalare “miinchia…”. Passata quella ventata di primavera ripresero l‟argomento sospeso. Ma ad Antonio il cervello decollò, doveva pianificare tutto e in giornata, così senza nemmeno salutare, andò subito via. Sapeva che don Cocò Lanna lavorava anche la domenica mattina e a volte addirittura la sera, perciò s‟avviò verso la sua bottega. Lo trovò intento a ferrare un mulo. Antonio salutò e assistette a tutta l‟operazione mentre quel mulo s‟appagnava continuamente e veniva trattenuto dal padrone. Don Cocò incominciò a innervosirsi più della bestia, perciò iniziò a sbattere gli arnesi, evitando di guardare in faccia Antonio. Aveva l‟abitudine di parlare su tutto e di tutti e a volte con una verve che soprastava gli altri prendendosi la ragione con prepotenza. Questa volta Antonio lo trovò muto come un pesce, ogni tanto borbottava qualche bestemmia ma niente di più. Antonio, appena rimasto solo, mentre don Cocò aveva afferrato il piccolo tavolo con i chiodi e gli arnesi per portarlo nell‟officina, si ci piazzò davanti: -Don Cocò v‟a‟ parlari! -C‟amora fammi travagliari!- ed entrò, posò il tavolino. -Prima ca fazzu un primu passu vogliu sapiri si l‟havi a piaceri vossia o no! -Ju? E di chi? 233 BENVENTI A CAMICO -Si l‟havi a piaciri ca mi fazzu zitu cu so figlia Rina… -Iu? E chi semu all‟ottucentu… ha a piaciri a idda, no a mmia! -Ma vossia havi quarcosa „ncuntrariu? Don Cocò era completamente imbarazzato, innervosito, la sua bambina era già da marito? E poi questo Antonio che non aveva mai ravvisato di buon occhio, senza un valido motivo, forse dato che lo vedeva sempre vestito di tutto punto, da un bar a un altro, o poiché frequentava quella vicina di casa… ma di sicuro, perché era completamente diverso di lui, sempre sporco di lavoro, sempre casa e officina. E poi, questo parlava così poco che gli dava un fastidio indescrivibile… Ma trattenne tutte le sue avversità e se ne uscì con un miserabile “No…”. Prima di mezzogiorno la sorella maggiore Agata e la madre, la zz‟Assunta, furono a casa di don Cocò. Rina anche se fu allontanata dalla madre al piano superiore origliava dalla scala e sentiva un brivido di felicità che le attraversava il corpo. Quando la madre rispose che lo doveva chiedere a lei e parlarne con il marito e la sorella la informò che Antonio già c‟era stato a chiedergli il permesso, Rina scese di corsa i quattro gradini e irruppe con un forte e gioviale: -SI! Agata e a zz‟Assunta l‟abbracciarono baciandola e facendole un mare di complimenti. Così si diedero appuntamento per il pomeriggio stesso. Non starò qui a tediarvi con i festeggiamenti vari sia di quel pomeriggio che dello scambio d‟anello, ne di quando Rina aspettava la sera che passava per un saluto tornando da Porto Empedocle, ne di quello che succedeva di tragicomico con don Cocò e lu zzu Nirja, il papà mezzo pazzo d‟Antonio. Loro due avevano rotto il fidanzamento diverse volte, ma le donne tiravano avanti lasciando predicare l‟uno e sentenziare l‟altro. Si arrivò a stabilire la data del matrimonio per il 10 luglio del 1977. Bisognava parlare con l‟arciprete, prenotare la sala per il 234 BENVENTI A CAMICO banchetto, affittare la casa, comprare l‟arredamento e mille altre cose da fare. 235 BENVENTI A CAMICO Lu zzu Nirja Il padre di Antonio aveva sessantacinque anni, spesso indossava un vestito quadrettato giallognolo, inconsueto per le nostre parti, era propenso alla battuta scherzosa, sembrava però che lasciasse tutto in aria, sospeso accennando un risolino, per questo motivo lo credevano un po‟ squilibrato. Aveva fatto il milite nel secondo conflitto mondiale, finì in Russia a lottare contro un clima e un Popolo senza nemmeno una logica plausibile. Per lui che non aveva nemmeno senso né fare il soldato, né Mussolini, né il fascismo, né il re e nemmeno l‟Italia stessa. Che significavano? Quando ogni mattina si alzava prima del sole e tornava quando tramontava per un pezzo di pane e poi ha dovuto lasciare moglie e figli per una guerra senza alcun senso per il suo sole per la sua terra per la sua famiglia. Tornato dalla Russia dopo un po‟ si ritrovò in Germania a ricostruire quello che gli Alleati avevano distrutto. Aveva un senso? Aveva un senso sentirsi dire ancora da qualche anziano tedesco: -Italiener traditore! Scheibe Italiener! Così lu zzu Nirja accennava un risolino che faceva imbestialire l‟interlocutore, tanto da iniziare a urlare come un forsennato. Un giorno si trovarono dentro il magazzino degli attrezzi tutte e due soli, quando questo continuava a urlare di qua e di là. L‟errore del tedesco è stato che lo strattonò per la giacca mentre era voltato intento a sistemare alcuni attrezzi. Anche se il tedesco era almeno trenta centimetri più di lui, in un istante si trovò un trincetto alla gola e due occhi freddi su i suoi: -‟Un ti permettiri a tuccarimi natra vota! Tolse il trincetto e gli accennò quel particolare risolino. Il tedesco capì che rischiò la vita, rimase immobile, senza forza. Lu zzu Nirja si voltò e continuò il suo lavoro. Da quel giorno il tedesco lo rispettava, anzi s‟imparò a chiamarlo “zzu Nirja”. Tornato in paese riprese a lavorare la terra alzandosi prima del sole. Periodo d‟elezioni regionali gli dissero di fare la domanda di pensione, però quella militare non gli toccava perché, percome, 236 BENVENTI A CAMICO insomma Mussolini aveva perso la guerra. Che senso aveva? Allora gli hanno fatto fare la domanda di pazzo, tanto il primario del manicomio era amico. Così ottenuta la pensione acquistò quel vestito quadrettato con relativa coppola quadrettata e visse sereno. Quando si stabilì la data del matrimonio, la sera tornati a casa, chiamò Antonio, che lo assecondava con il massimo rispetto dandogli ancora il “vossia”. -‟Ntoni assettati tecchia cu mia c‟ham‟a parlari. Ti sciglissi na picciotta ca è un ciuri, ma t‟ha cuntari chiddu ca succidì a Pitrinu Catanese, tu fanni l‟usu chi bo. Antonio prese la sedia e sedendosi al tavolo con lui si predispose all‟ascolto, sapendo di fare cosa grata all‟anziano padre. La moglie mettendosi tutte e due le mani intesta: -Bii! Pitrinu Catanisi! L‟ha cuntatu cinquanta voti! Mu ca mi nni vaju… E andò via continuando a gesticolare con le mani all‟altezza della testa. Lu zzu Njria alzando la voce: -E cu chista cinquantunu voti! Iu haiu la pinzioni ma la vera pazza si tu! 237 BENVENTI A CAMICO Na rucchicedda nni na scarpa -Pitrinu Catanese quattro coccia l‟haiva, sempri prontu, spertu, na musca „ncapu a lu so nasu „un ci pusava. La zita si scantava ca maritata haiva vidiri guai, e stu timuri lu diceva a la matri. Pitrinu vuliva ogni cosa a u so postu, “chistu „unn‟è giustu! Chistu „un mi va!”. La matri ci diceva di nun darisi pinzeri ca s‟aggiustava a la maritata. A la maritata Pitrinu era chiù pirniciusu di zitu. “La minestra è accussì! Li stivala li vogliu chiù luciti! La casa chiù pulita!” Facennu la vuci grossa ca la muglieri addivintava tecchia di cosa. Dda povera fimmina era a la disperazioni accussì jva a chiangiri nni so ma: “Tu mi u dassi e tu ti u ripigli.” La matri sperta! comu chista ca t‟hava a veniri sogira, ci detti a midicina: “Metticci na rucchicedda nni „un stivali e vidi quannu torna chi dici” Accussì fici la figlia. Pitrinu a la sira si leva li stivala e nesci fora dda rucchicedda: “Havi tuttu oj ca mi tortura! Porcu di cca e porcu di dda!”. La figlia va riporta a la matri ca accussì ci dissi: “Comu suppurtà sta rucchicedda pi na jurnata, Pitrineddu supputirà tutti l‟atri cosi”. Pi chistu ti dicu st‟attentu a li rucchiceddi nna li scarpi…” Antonio annuiva calando la testa e accennando un sorriso. -Ma la storia „un finì accussì. La muglieri pigliannu curaggiu s‟ancumincià ad amuriggiari cu lu cuscinu, st‟amuri addivintà accussì forti ca „un suppurtava chiù lu maritu. Accussì jva a chiangiri a la matri ca nun lu vuliva chiù, ca lu so amuri ha statu ed era tuttu pi lu cuscinu. Pi falla brevi, la matri, sapintuna ci dissi comu sbarazzarisi di lu marito. E vidi chi ficiru. Pitrinu, mentri mitiva lu frummentu e lu suli jva acchianannu, mezzu ddu mari d‟oru ancumincià a vidiri sardi frischi mezzu lu lavuri, ogni sarda tanta. „Un cridiva a li so occhi, ma li sardi eranu dda. Cuglì chiossà di tri chila di sardi, stracanciatu li misi a lu friscu, a fini jurnata li purtà intra. Chiddi eranu li sardi ca lu cuscinu complici ci hajva misu prima c‟arrivassi iddu. Cuntà l‟accadutu a la muglieri e misa la tannura fora arrusteru ddi sardi. Facennu ciauru, comu di duviri, si purtà qualche sarda a li vicini. Pitrinu cuntava 238 BENVENTI A CAMICO l‟accadutu e la muglieri di narrè ci firriava li ita comu diri: “‟nfuddì!”. Ogni cosa ca Pitrinu diceva o faciva la sogira, la muglieri e lu cuscinu dicivanu ca era foddi. Finu a quannu l‟amanti azzardaru nna ddi „ncontri amurusi ca si ficiru scopriri di lu maritu ca li vuliva ammazzari, faciva comu „un pazzu, accussì chiamaru li carrabbinera e lu „nchiuveru a lu manicomiu. Ju lu vitti dda intra e ti dicu ca dda lu cumminceru ca è veramenti foddi! Ora caru figliu ricordati sempri di Pitrineddu Catanese, cristianu spertu e giudiziusu, „nchiusu pi sempri a lu manicomiu di Giurgenti. E a so casa, a so robba si a godunu a maglieri e u cuscinu.30 30 TRADUZIONE: UN SASSOLINO IN UNA SCARPA Pitrinu Catanise aveva delle qualità, sempre pronto, intelligente, una mosca sul suo naso non ci posava. La fidanzata aveva paura che da sposata doveva avere dei guai, e questa paura la confessava a sua madre. Pitrinu voleva ogni cosa a suo posto, “Questo non è giusto! Questo non mi va!” La madre le diceva di non darsi pensiero che da sposato si aggiustava. Dopo sposati Pitrinu era più fastidioso che da fidanzato. “La minestra è insipida! Gli stivali li voglio più lucidi! La casa più pulita!” Facendo la voce grossa che la moglie diventava piccina piccina. Quella povera donna era alla disperazione così andava a piangere da sua madre: “Tu me lo hai dato e tu te lo riprendi.” La madre furba! Le ha dato il rimedio: “ Mettigli un sassolino in uno stivale e vedi quando torna cosa dice”. Così fece la figlia. Pitrinu a sera si tolse gli stivali ed uscì fuori quel sassolino: “Da tutto oggi che mi tortura! –sacramentando- Porco di qua e porco di là!” La figlia è andata a riportare alla madre che così le disse: “Come sopportò questo sassolino per una giornata, Pitrineddu subisce tutte le altre cose”. Ma la storia non finì così. La moglie prendendo coraggio incominciò ad amoreggiassi con un cugino. Questo amore diventò così forte che non sopportava più il marito. Così andava a piangere dalla madre che non lo voleva più, che il suo amore è stato ed era tutto per il cugino. Per farla breve la madre, saccente le disse come sbarazzarsi del marito. E vedi cosa hanno fatto. Pitrinu, mentre mieteva il grano e il sole andava salendo, in mezzo a quel mare d‟oro incominciò a vedere sarde fresche in mezzo a quel grano, ogni sarda così. Non credeva ai suoi occhi, ma le sarde erano lì. Raccolse più di tre chili di sarde, sconvolto le ha sistemate in una zona fresca e a fine giornata le portò a casa. Quelle erano le sarde che il cugino complice le aveva sistemate prima del suo arrivo. Raccontò l‟accaduto alla moglie e mise il braciere fuori; così arrostirono quelle sarde. Spargendo odore, come è usanza, portarono qualche sarda ai vicini. Pitrinu raccontava l‟accaduto e la moglie di dietro le girava le dita come dire: “folle!”. Ogni cosa che Pitrinu diceva o faceva la suocera, la moglie e il cugino dicevano che era pazzo. Fino a quando gli amanti azzardarono nei suoi incontri amorosi talmente che si fecero scoprire del marito che li voleva uccidere, faceva come un pazzo, così chiamarono i carabinieri e lo rinchiusero in un manicomio. Chi lo ha visto lì dentro racconta che lì lo hanno convinto che era veramente pazzo! Ora ricordati sempre di Pitrineddu Catanisi, persona intelligente e giudizioso, rinchiuso per sempre nel manicomio di Agrigento. E la sua casa, la sua proprietà se la godono la moglie e il cugino pure con la relativa pensione. 239 BENVENTI A CAMICO Antonio assorbiva quel messaggio con quella parabola facendo ammenda che non serve a niente essere arrogante, ma è importante stare attenti ai tentativi di sopraffazione. La lezione più rilevante è stata quella delle sarde fresche nel campo di grano. Ogni cosa ha una spiegazione anche se apparentemente sembra non ve ne sia alcuna, anzi più assurda sembra più deve destare sospetto. 240 BENVENTI A CAMICO La casa del notajo Battista Antonio era indeciso di restare a Camico o sistemare casa a Porto Empedocle, così si evitava quel vai e vieni di ogni giorno. Don Cocò fece di tutto per convincerlo di restare in paese, forse perché non voleva distaccarsi ancora di più dalla figliola, così mise in atto tante di quelle pressioni, anche tramite Rina, che Antonio capitolò per mettere casa in paese. L‟azienda andava bene, permetteva di vivere a tutte due i soci con soddisfazione. Quando un giorno si presentò l‟omino del pizzo chiarendo che era stato mandato da “amici” che avevano parenti in galera, dovevano mantenere le famiglie e pagare gli avvocati, così erano pregati di mettere il loro contributo ogni due settimane di cento mila lire. Antonio si raggelò, anche se in cuor suo già l‟aspettava e anzi aveva tardato a venire, però cento mila lire ogni quindici giorni erano veramente assai. Pasquale era così intento a levigare che non si era accorto proprio di niente. Quando la sera ne proferì a casa, suo padre consigliò di parlarne con il presidente del Circolo Civile, sicuro che qualche soluzione quello la trovava. Dopo la morte di don Ninu Ferro prese il posto degnamente u Provessuri Tanu Menta, proprietario di vari terreni e un ovile, coltivatore diretto, chiamato così, perché aveva ripetuto due volte il primo anno di magistrale ma poi abbandonò gli studi, ormai il padre aveva diffuso la notizia che il figlio l‟hajva arrinesceri provessuri, così gli rimase il titolo che lui si prendeva benevolmente, tanto che gli mancava per esserlo? i soldi no, il portamento e l‟eleganza neanche, perciò gli stava. Il Provessuri, ricevuti i tre nella presidenza, dopo tante smancerie come „mma… e bboh… sentenziò che si doveva pagare, non vi era possibilità di sottrazione, però lui poteva chiedere di farli lavorare negli appalti di costruzione delle palazzine popolari. Ad Antonio & Pasquale il lavoro con gli appalti aumentò a dismisura, ma avevano bisogno di ampliare, perciò occorreva qualche prestito. Il direttore, già parlato dagli amici, allargò le 241 BENVENTI A CAMICO braccia, perché la ditta non aveva nessuna garanzia, ci voleva qualche immobile messo come tutela del prestito o del fido, “per mettere le carte a posto”. Di conseguenza Antonio accomunò le due esigenze: la casa per sposarsi e le garanzie bancarie, quinti doveva acquistarla. Una casa nuova neanche a parlarne troppi soldi… Vi era in vendita alle spalle del centro storico proprio davanti al grande spiazzale dove montavano le giostre più grandi e a volte quando arrivava in paese anche il circo, la grande casa con cortile interno del notajo Enrico Battista, dall‟altra parte dello spiazzo vi erano case di pastori che confinavano con gli ovili che scendevano a valle. Una grande famiglia estinta totalmente, l‟ultimo erede questo notaio, che dopo la morte della madre donna Lucrezia, chiuse la porta e andò a Roma, così diede incarico al suo collega di Cattolica di vendere tutto e inviarci i soldi. Appena Antonio riferì la sua idea di acquistare quella proprietà, in casa della promessa sposa, don Cocò incominciò a imprecare, usciva fuori borbottando, tante erano le sue ragioni contro, ma non erano chiare, anzi senza ne testa ne coda. Lo zzu Nirja anzi la vedeva come un salto di qualità del figlio che accanzava una proprietà così importante. Ricordava quando il padre gli portava la migliore frutta, cesti di fichi curuna che sembravano di marturana, la meglio racina, pircopa, pira, insomma tutto quello che di meglio la loro terra offriva, perché ne era obbligato chissà per quale cortesia. Nell‟inizio secolo la famiglia dell‟avvocato Giacomo Battista era al pieno dello splendore, quella casa piena di servi, di gente che andava e veniva, carrozze e feste. Poi sembrò che la sventura si sia abbattuta su di loro, un figlio morì in guerra e l‟altro tornato dal fronte sembrò completamente matto, preso di malinconia, fin quando un giorno lo trovarono impiccato nell‟inferriata del cortile, 242 BENVENTI A CAMICO aveva negli occhi gli orrori di quella prima guerra mondiale così cruenta, terribile, e non riuscì a liberarsene. La famiglia contava di un vescovo, monsignore Vincenzo Battista nel Quarantotto fu sostenitore della rivoluzione che diede l‟indipendenza alla Sicilia, insieme al vecchio barone, poi un grande luminare della scienza medica: Giulio Battista, che nel 1790 aveva scoperto uno strumento terribile solo a vedersi, per la cura della sifilide. Fu appunto questo scienziato che acquistò l‟abbazia e la trasformò in sfarzosa abitazione. Rimase il più piccolo, studiò per notajo, divenne podestà sotto il fascismo e sindaco (commissario prefettizio) sotto la repubblica, amato dal paese prima e dopo, ma non volle prendere moglie. La splendente casa sfiorì insieme a donna Lucrezia che rimasta vedova si lasciò andare, quando un giorno mentre scendeva le scale cadde e si ruppe tre costole e il femore. Rimase per anni sopra il letto assistita da serve giovani e strafottenti che spesso la lasciavano sola a lamentarsi di continuo, il figlio le licenziava ne assumeva altre, ma non trovava di meglio. Quando poi lui andava a Roma per diverse settimane la poveretta veniva ancor più trascurata. A volte il suo lamento continuo echeggiava per la piazza e i ragazzi che giocavano a pallone nelle lunghe sere d‟estate provavano finanche paura e filavano via. La casa confinava alle spalle con la chiesa madre, la parte più alta del paese, finita di costruire nella seconda metà del settecento, con una splendida facciata tardo barocco. A cinquanta metri vi era il palazzo del barone Morello, rigido e solido nell‟ultima sua trasformazione del 1875, molto bello prima, quando aveva le inferriate e i cornicioni in barocco che ricordava tanto la Spagna, era stato fatto costruire dal governatore Digoz sotto sua indicazione da certi mastri muratori Sutera fatti arrivare apposta da Palermo. A Camico ogni casa ha la sua storia, ma quella della famiglia Battista è così tanta che non basterebbero mille pagine. Prima nel 243 BENVENTI A CAMICO 1660 era stata una abbazia dei benedettini connessa. con chiesa madre Il medico Balla, studioso di antichità, asseriva che l‟antica Camico, reggia di Kokalos era proprio nella casa dei Battista e che la chiesa era un antico tempio siculo poi trasformato in tempio pagano e ora in cristiano, asseriva che proprio nello spiazzo di fronte quella casa vi era interrato un grande anfiteatro greco. Ma chi andava a scavare? I politici, ignoranti e arroganti, snobbavano il dottor Balla e spesso lo denigravano, a loro interessava il cemento, dove inzupparci per bene il biscotto, no tutte queste “minchiate senza senso”. Il dottor Balla amatissimo dalla gente comune ma altrettanto antipatico alla gente così detta bene, compresi i preti, sia l‟arciprete della chiesa del Santissimo Sacramento, sia il prete anziano della chiesa madre, meno frequentata perché più decentrata visto che il paese nel corso degli anni si andava spostando verso il fondo valle. Il suo profondo sapere, anche se non lo mostrava, dava fastidio, poi quelle idee sul quadro dell‟Assunta che presentava il braccio divino mentre l‟afferrava cingendola, in uno sfondo di un azzurro elettrico, lui asseriva che rappresentava il ratto della bionda Xantia e il braccio nero era del dio Vulcano. Smentiva la leggenda del ritrovamento fortuito, dentro la grotta d‟u lupu, di un pastore, che addormentandosi nei pressi gli apparse in sonno indicandogli il luogo e portata in paese salvò tutti dalla peste con una pioggia santa. Al dire dal medico Balla, leggenda messa in piede dai monaci, per cristianizzare un mito panteista siculo. Il quadro è messo dentro una nicchia di legno nella chiesa del Santissimo Sacramento prima ogni anno per mezz‟agosto si apriva lasciando vedere la bellezza di quell‟opera straordinaria, con grandi festeggiamenti, ora la nicchia si tiene chiusa solo nella settimana santa. La bionda Madonna, con uno sguardo di rassegnata dolcezza, scambiata per un espressione di perdono per l‟umanità, 244 BENVENTI A CAMICO ancora oggi è venerata dai camichesi anche sparsi in tutto il mondo, per le grazie e i miracoli che concede. Antonio informato del prezzo dal sensale, lu zzu Paolo Centu, capisce che l‟acquisto si presentava difficile, così domandò se invece di tutto il caseggiato potesse acquistare solo una parte. Idea che piacque al notaio di Cattolica, vista come unica possibilità per la vendita, anche perché i paesani non la volevano manco gratis, inoltre nella parte invenduta si raccoglieva tutto il mobilio rimasto risolvendo anche questo altro problema di difficile soluzione per il notaio incaricato. Acquistò le tre camere in ottimo stato soprastanti il portone del cortile compresi i magazzini sottostanti con un prezzo di vero affare. Quando portò i familiari a visitare la casa mostrava le bellezze delle soffitte a cupola tutti decorati con paesaggi e scene mitologiche, i grandi balconi lasciavano vedere uno stupendo orizzonte di campi, vigneti e giardini. Rina si stringeva al braccio del fidanzato contenta, ma nello stesso tempo suggestionata da quello ambiente e poi osservava il padre che di tanto in tanto parlottava con la madre che gli strattonava il braccio per farlo zittire. Antonio spiegava che un domani poteva trasferire la fabbrica di maduna giù in quei magazzini. Per poterci abitare bastavano pochi accorgimenti e una rinfrescata alle pareti, ma le soffitte non si toccavano, contrariamente a quando diceva don Cocò di abbiancare tutto e cancellare così ogni cosa. Il titolo di proprietà fu presentato alla banca di Porto Empedocle, dove il direttore aprì subito un fido di venticinque milioni, una cifra veramente esorbitante, così consegnò il primo blocchetto d‟assegni. Antonio e Pasquale festeggiarono quel salto di qualità della loro vita, facendo altri progetti e appianando il loro futuro con la forza delle parole. 245 BENVENTI A CAMICO Acquistarono una impastatrice nuova e un mezzo più piccolo per le piccole consegne, presero un operaio locale indicato dagli amici e il lavoro sembrò fluire ancora meglio. 246 BENVENTI A CAMICO E il vento incominciò a soffiare Vi sembrerà strano ma il tempo intercorso tra l‟acquisto di quella casa e la serata prematrimoniale passò per tutti così lesto tanto che ognuno diceva la sua. La madre di Antonio: -Pari ajeri ca si ficiru ziti… „Nzula: -Veru, comu curri lu tempu! Don Cocò, sembrava un vulcano pronto ad esplodere con il fuoco negli occhi, e implodeva seduto in un angolo della sua casa invasa da quegli estranei, acclusi la signora Mimì e famiglia, tra rasoliu di tutti colori e cosiduci d‟ogni genere, pensava che la sua bambina a sedici anni doveva coricarsi con quello là e provava una stizza che conteneva appena, e poi così in fretta era passato il tempo da quando lui, con tutta quell‟insolenza che ha, si era presentato alla bottega? Gli sembrava come se il vento la stessi portando via da lui. Continuava a rimuginare, che pensata poteva mai essere quella di andare ad abitare cu dd‟addeva in una casa „mpistata di li donni? Neanche chi c‟è nato e cresciuto è voluto rimanere… fuggì via appena morta la madre. Anche lo spirito della morta era ancora lì… -Tra donni, morti e spirdi, dda intra è u‟ veru „nfernu! E iddu cu me figlia ci havi a jri a stari! Un anno e due mesi di fidanzamento e infine il giorno arrivò, tutto come predisposto. Quella mattina di luglio il sole invadeva ogni cosa. Rina sembrava una nuvola bianca splendente di luce propria, a braccetto con il padre. Don Cocò tutto sudato in quel pesante vestito nero e cravatta, pallido aveva lo sguardo offuscato chissà da quali pensieri. Scendevano verso la chiesa del Santissimo Sacramento per la via Crispi, con tutto il corteo degli invitati dietro. La nipote d‟Antonio, la figlia d‟Agata teneva dietro lo strascico dell‟abito inciampando e strattonando di tanto in tanto la sposa. 247 BENVENTI A CAMICO Antonio davanti la chiesa rimase come incantato, stregato da quei capelli così neri e quegli occhi così profondi e neri che tenevano il contrasto con quel biancore di luce del sole. Don Cocò arrivato davanti la chiesa sembrò imbalsamato, si muoveva come se avesse addosso un vestito di piombo, non appena entrato la frescura della chiesa lo rianimò risollevandosi, la vista dell‟Assunta lo confortava. All‟uscita i picciutteddi erano tutti in attesa con impazienza. Uno di loro s‟affacciava di tanto in tanto dentro la chiesa per segnalare l‟arrivo, quando fu il momento uscì gridando: -Cca su! Cca su! Appena affacciati gli invitati strepitarono: -Viva gli sposi! E giù riso, petali di rose, confetti e monete da cinque e dieci lire. I piciutteddi si lanciarono alla raccolta delle monetine, buttati a terra, fin quando s‟azzuffarono tra di loro. Il corteo con a capo gli sposi s‟avviò per il salone con un gruppetto di musicanti che suonava dietro. Che bella festa! Tutta la gente affacciata a fare auguri a quella bella coppia. Rina, passò il più bel giorno della sua vita, anche se di tanto in tanto aveva delle apprensioni per quella serata che si apprestava ad arrivare con un grumo di emotività, perché sapeva poco e niente di come doveva comportarsi con suo marito. Per la prima volta a Camico, si fece un pranzo nuziale completo: cannelloni, coscia di pollo con patate, il gelato a pezzo e la torta nuziale. Un menu veramente d‟eccezione portato dal Mago di Porto Empedocle, arrivato con l‟occorrente e i camerieri. Gli invitati esclamavano: -Troppu! Cosi di ricchi! Poi la serata con danze e cosiduci e lo spumante per il brindisi. Proprio in questa occasione germogliavano i nuovi amori. Dopo di che il corteo degli invitati con i musicanti accompagnarono gli sposi nella loro casa con canzonette allusive per quella loro prima notte. 248 BENVENTI A CAMICO Gli sposi erano già entrati, ma rimaneva ancora un gruppetto a scanzonettare. Antonio s‟affacciò dal balcone allargando le braccia come per dire: ancora? Dopo un applauso e vari incoraggiamenti andarono finalmente via. L‟emozione della prima volta che lei si trovava fuori casa sua, perché suo padre per nessuna ragione aveva permesso che dormisse fuori, nemmeno nei nonni in caso di bisogno, la prima volta che si trovava da sola con un uomo, e chissà quanti sensi di colpa e pregiudizi e paure le frullavano per la mente. Per fortuna Antonio ha saputo avere tutte quelle attenzioni necessarie per l‟occasione. Il rito della verginità così si consumò in quella casa, sacrificio offerto al dio Onore che aveva vita nelle nostri menti di Siciliani. All‟indomani mattino i parenti di Antonio e di Rina andarono a fare la bellevata, portando dolci e caffè e soprattutto a stendere il lenzuolo sporco di sangue verginale fuori il balcone, per fare partecipi la comunità che tutto andò come di dovere. Il giorno dopo partirono per il giro di nozze a Taormina per un intera settimana. Il pennacchio di fumo del grande Etna all‟orizzonte, quella pianura di agrumeti e quel incantevole mare scintillante di Taormina furono lo scenario di una favola vissuta felice momento per momento. 249 BENVENTI A CAMICO Quando il vento cambia direzione Quel lunedì vi era nell‟aria una luce diversa, sarà stata l‟umidità dell‟afa. Antonio tornato a lavoro si sentiva tutto appiccicato, il viaggio stesso per la Marina l‟aveva stancato, poi i discorsi di Pasquale lo avevano impensierito e non poco. L‟omino voleva raddoppiato il pizzo, diceva che le cose andavo bene, la ditta cresceva e gli amici avevano più bisogno di prima. Il padre di Pasquale parlò con u Provessuri, ma gli allargò le mani, con l‟espressione di chi non può fare niente. L‟operaio si era assentato quasi tutta la settimana dicendo che stava male, ma Pasquale l‟aveva visto in calzoncini, occhiali da sole e zoccoli che passeggiava al corso come un turista. E in ultimo, il direttore della banca lo richiamò di non emettere assegni così facilmente, perché quasi tutto il fido era stato già utilizzato in così poco tempo, occorreva qualche versamento per fare muovere il conto. Antonio aveva fatto uso degli assegni anche per aggiustare la casa, per l‟arredamento e per il trattenimento. Gli venne una fitta sottile alla testa che lo infastidiva doveva prendersi una pillola al più presto. Insomma quel giorno passò tra l‟ufficio del direttore della banca e il licenziamento in tronco dell‟operaio che lo trovarono davanti la porta. Quando Antonio gli disse che lavoro per lui non ce n‟era più, voleva sapere perché e che era stato male, mille scuse: l‟intossicazione, l‟ospedale… ma non valsero a nulla, allora minacciò di fare la vertenza sindacale, questa intimidazione non fece cambiare opinione, allora in chiaro tono minaccioso disse di riferire a gli amici che era stato trattato a male modo. Antonio lo afferrò sotto il bavero e gli disse fissandolo negli occhi: -T‟ha dicidiri si ssi sbirru o di la mala minchiata! Lo strattonò un po‟, quello s‟allontanò guardandolo bieco. S‟aspettava la visita dell‟ometto ma non si presentò. Andò a chiedere qualche soldo all‟appartante delle case popolari per rimpinguare il conto in banca, anche lì mille difficoltà, doveva 250 BENVENTI A CAMICO avere pazienza che arrivasse il ragioniere andato alla Regione a Palermo a chiedere pure lui il pagamento dei bonifici. Tornò a sera con quel filo di mal di testa, estenuato, appena salite le scale trovò Rina in compagnia dei suoi genitori. L‟unico pensiero della giornata che lo rinfrancava era appunto questo momento d‟intimità con la moglie, la sua casa, una cena serena, ma se si cominciava così… Poi vi era un aria poco rassicurante, tanto che salutò e chiese spiegazioni. Rina mentre stava preparando la cena incominciò a sentire un lamento continuo, tanto che terrorizzata andò dai suoi, aveva paura a rientrare a casa da sola e la vennero accompagnare. Don Cocò, esagitato, prese la vecchia discussione che lui non voleva acquistare questa casa, perché lo sapeva, lo sapeva! che c‟erano i donni: -Lo sannu tutti a u paisi ca sta casa è „mpistata di spirdi! Antonio, per niente turbato, abbracciò la moglie e la rassicurò dicendo che probabilmente è stato qualche gatto in amore, poi rivolto al suocero gli disse: -A st‟età ancora a i donni cridi? Don Cocò, tipo di loquace verve incominciò a raccontare tutte le leggende su quella casa, che quel lamento era di donna Lucrezia disperata sopra il letto che chiamava ancora il figlio. Una volta mentre la casa era disabitata lu zzu Girolamu, affacciato alla finestra vide tutta la casa illuminata a festa mentre ballavano si divertivano come ai vecchi tempi, poi in un batter d‟occhi, nel momento in cui chiamò la moglie ad attestare l‟accaduto tutto era tornato come prima, pieno di ombre e scuro. E poi del figlio del sacrestano della Chiesa Madre, che guardando da una piccola finestra della chiesa che dà al cortile, vide penzolare il figlio pazzo suicida. Mentre lui raccontava, Rina era terrorizzata e s‟abbracciava forte al marito. Antonio deciso lo ha interrotto: -Ma la voli finiri cu tutti sti minchiati, ca a so figlia la sta facennu scantari veru? 251 BENVENTI A CAMICO A questo punto „Nzula si alza e dice con diplomazia di andare via, così trascina fuori il marito. Il vento, decisamente, aveva cambiato direzione per Antonio, tutto sembrava crollare attorno a lui, poi questa d‟i donni era veramente la goccia, come si suol dire, che fa traboccare il vaso. Il peggio era, il suocero, omu granni, che aveva terrorizzato così la figlia. Rina per quella notte non chiuse occhio e non furono sufficienti, né i ragionamenti né le tenerezze a calmarla. Il buio sembra ingigantire i problemi e quelle figure in soffitta sembravano prendere vita, lei ancor più tremava. Il soffitto, dove hanno posto la stanza da letto, era lo studio del notajo, raffiguravano le tre ninfe che versavano dai lembi delle loro vesti i frutti, i fiori mischiati con sassolini e terra, scelti tra i più belli di tutto il pianeta, danzando con i loro veli fluttuanti, sotto il più azzurro dei cieli e sopra il più ridente dei mari, da dove è sorta la Terra di Trinacria. Quando il sole con la sua luce invase ogni cosa, Antonio si svegliò con una tale stizza, pensava ai problemi che l‟aspettavano fuori, poi vedeva la sua bella moglie con i gironi neri degli occhi, verde in viso, le labbra bianche, come se avesse chissà quale malessere, così per evitare qualche parola di troppo, si lavò e si vestì in un lampo senza proferire parola e fu fuori. La moglie sentì solo battere la porta e capì che era andato via, affondò il viso sul cuscino e pianse, rimase sola in quella casa, la stessa che aveva sognato di abitare felice con il suo uomo, e già, neanche era trascorso un mese ed era andato via senza nemmeno un saluto, provava per fino paura ad alzarsi dal letto, ad aprire gli occhi, così non le rimaneva che piangere. Gli echeggiavano nella mente le parole del suo Antonio: “tutte minchiate”, e si ripeteva pensando ad alta voce: 252 BENVENTI A CAMICO -si, sunnu minchiati! è stato sicuramente qualche gatto…- eppure sembrava che quel lamento pronunziasse il nome Enrico, Riiicuuu, Riiicuuu, le sembrava proprio così. Si alzò, mise la bella vestaglia nuova e passando per il soggiorno andò in cucina, la prima cosa che fece accese la radio e aumentò il volume sentì così le canzoni della radio di Sciacca, con un buon latte e caffè si mise di buon umore e incominciò a fare le faccende di casa. Antonio andò direttamente a casa dei suoceri, la porta era già aperta, domandò permesso e spostando la tendina entrò. Don Cocò provò un sussulto di paura a vedersi il genero davanti. „Nzula, riusciva ad avere un buon autocontrollo e non accennando ad un minimo senso di sorpresa lo invito ad entrare, anzi gli offrì pure il caffè. Abbastanza teso in viso, si sedette al tavolo e con molta calma incominciò a parlare: -Assittassisi don Cocò, qualsiasi cosa sintì so figlia, una cosa sula è chiara ca li morti su morti! Ora so figlia ancora è addeva, s‟ancumencia cu li cuntura di donni e di spirdi arriva a lu puntu ca dda intra sula „un ci voli stari cchiù, e ju „ntinzioni di cangiari casa, o di stari cu vatri, „un haju, perciò sapissisi a rigulari cu la vucca!- Mimando con le dita della mano l‟aprire e il chiudere la bocca. Finito questo discorso si alzò, salutò buongiorno e andò via. Il suocero rimase con la sua grande bocca aperta e amminchialiddutu, dopo gli vennero mille risposte da dirgli e le riversò tutte alla moglie ormai abituata a questi sfoghi. Rina s‟affacciò al bellissimo balcone e guardava infondo al panorama, giù i ragazzi giocavano al pallone, ed erano così divertenti, pensava che al più presto anche lei doveva farne uno tutto suo di quei discoli, ripensò che per farsi perdonare dal marito doveva preparare qualcosa di eccezionale per cena, così decise di uscire a fare un po‟ di spesa. 253 BENVENTI A CAMICO Antonio riprese con tenacia il lavoro. A metà giornata, vide spuntare quel viscido ometto, con quel borsello in mano e con accanto l‟operaio, subito spense i motori e così fece Pasquale. Ben tornato! Ora che c‟è lei, s‟aggiusta tuttu! Mi dissiru c‟a st‟operaiu l‟hata a fari travagliari, si sbaglià… pirdunatilu, è patri di figli… Antonio incominciò a muovere la mandibola nervosamente: -Sintissimi lei a chistu si lu porta, ca ccà „un ci travaglia chiù! L‟ometto con tono deciso: -Signor „Ntoni „un ci dissi vidissi si ssi lu po‟ pigliari arrè, mi dissiru c‟hava a turnari arrè cca a travagliari! Pi oj minni vaju nni sta simana, tornu pi i sordi! Tu, travaglia e fa lu bravu, arrivederci! Così dicendo stava andando via stringendo con una mano il borsello e con l‟altra accennando un saluto che aveva qualcosa d‟infantile. Antonio gli afferrò il braccio stringendolo e fissandolo intensamente dentro gli occhiali spessi, gli uscì fuori un grugnito: -Dicci a l‟amici c‟ham‟a parlari! L‟ometto con tono fermo e risoluto rispose: -Lassa stu grazzu! Allentò subito la morsa, mentre Pasquale, appena dietro, gli mise una mano nella spalla per richiamarlo all‟attenzione a non spingersi oltre. Rina, aveva passato una giornata serena e anche piacevole. Nel pomeriggio le amiche, compagne di sarta, le avevano fatto visita allietandola raccontandole gli ultimi aneddoti e screzi in sartoria. Finito di preparare la gustosissima cena, con sugo di pesce spada, apparecchiata la tavola di tutto punto, si distese sul divano della cucina. Principiò ad imbrunire e tra quelle ombre incominciò a sentire bisbigli con se qualcuno parlasse in sotto voce, poi dei colpi ripetuti, sembrava che bussassero, provenivano dallo sgabuzzino. Proprio lì avevano murato una porta che dava accesso a gli altri 254 BENVENTI A CAMICO locali della casa. Voleva alzarsi e andare via ma si sentiva come paralizzata su quel divano. I colpi si ripetevano cupi e continui mentre faceva sempre più scuro, quando risentì di nuovo quel lamento lungo e lugubre: -Riiicuuu! Riiicuuu! Riiicuuu! A quel punto fu presa dallo sgomento, il cuore sembrava impazzito e raggelò. Nella mente tornavano le parole del marito che erano tutte minchiate, fantasie. Con gli occhi fissi alla soffitta che raffigurava immagini di satiri, con corna e gambe caprine, che suonavano chi liuti, chi flauti, in una ridente natura, mentre Venere era distesa in un letto di fiori, con numerosi amorini, con tanto di ali che sembravo angioletti, che le volavano attorno. La soffitta era in tema all‟uso, perché quella in origine era la stanza della musica. Quegli amorini e quei satiri con risa possenti che echeggiavano nell‟aria ombrosa, si staccarono dall‟alta soffitta e cominciarono a suonare e a volare attorno a lei guardandola con occhi maliziosi. Le veniva d‟urlare, ma l‟urlo rimaneva dentro. Poi incominciava a ripetersi che erano solo fantasie, così all‟improvviso quelle immagini scomparvero. All‟improvviso la porta dello sgabuzzino si spalancò! Le venne la pelle d‟oca, il terrore l‟aveva ormai dominata. Vide affacciarsi dall‟uscio una vecchia in vestaglia bianca con i capelli canuti sciolti con due occhi gelidi che la fissavano. Aveva uno sguardo che mostrava una sofferenza e pena immane, mentre si lamentava: -Riiicuuu! Riiicuuu! Riiicuuu! Camminava strisciando i piedi, avvicinandosi sempre più a lei. Voleva scappare, ma non era capace, era come impedita, voleva urlare ma non poteva, era come muta. Intanto la vecchia si ci piazzò davanti e alzò la mano toccandola in viso e ripetendo quel pietoso lamento, al culmine dell‟angoscia aprì gli occhi e si trovò la mano sul viso del marito mentre cercava di destarla, accarezzandola. Lo abbracciò forte spaventata, tutta sudata, per la 255 BENVENTI A CAMICO stanchezza della notte insonne si era assopita. Antonio le ripeteva che si era sognata e tutto era a posto. Rina aveva dimenticato quasi tutto del sogno e quello che ricordava se lo teneva per lei, voleva che quella sera doveva essere indimenticabile per loro due e nessuna cosa doveva interferire. Dallo stato d‟angoscia di quel sogno è passata ad una voglia erotica che tratteneva per pregiudizi, ma quello abbraccio portò i due a consumare un rapporto intenso. Antonio mangiò tutto con appetito e apprezzò di gusto ogni portata. Rina era felice, ed aveva la intuizione che quella sera aveva avuto inizio il concepimento del loro figlio. Lui aveva scaricato tutte le tensioni accumulate e si godeva l‟ultimo bicchiere di vino mentre la moglie si affaccendava a pulire stoviglie e cucina. Nella stanza da letto vi erano due finestre, una dava alla piazza e l‟altra s‟affacciava all‟interno, Antonio le aprì tutte e due e si creò una lieve corrente d‟aria che allietava quella sera. S‟assopirono subito tutte e due sul loro giaciglio. Quando Antonio in piena notte udì qualcosa che lo destò, spalancò gli occhi e nel chiarore della luna, vide come se qualcuno li osservassi dalla finestra dirimpetto, così s‟alzò e guardò meglio, veramente c‟era una sagoma di persona proprio dietro il vetro di una di quelle, appena s‟affacciò, quella sagoma si dileguò. Ad Antonio salì una stizza indicibile, pensò che la moglie era stata vittima di questo tale, artefice di qualche terribile burla, così s‟armò di spranga di ferro e lume a gas e andò alla sua ricerca. Scese le scale ed entrò dentro il cortile, poi da una piccola porta che dava accesso all‟altra parte dell‟edificio, salì la piccola scala tortuosa di servizio, nella seconda svolta si trovò davanti come un grande occhio di vetro, sarà stato un punto luce, si trovò dentro quelle stanze e con il lume incominciò a cercare tra i mobili coperti di teli bianchi per la polvere e le cianfrusaglie. 256 BENVENTI A CAMICO Anche Rina si destò mentre con la mano cercava accanto il marito e non lo trovò, quando aprì gli occhi istintivamente guardò la luce che attraversava le finestre, la paura prese il sopravvento e urlò esasperata. Antonio sentì l‟urlo e fece segno con il lume per farsi notare, ma la ragazza vide quella immagine deformata tra luci, ombre e terrore, così strepitò ancor più. Allora lui desistette le ricerche e s‟avviò velocemente verso il ritorno per andare a vedere cosa stesse succedendo. L‟angoscia aveva dominato Rina, ormai presa dalle allucinazioni. Un uomo in divisa di soldato, il cappio al collo con gli occhi fuori orbita e il volto ancor più bianco reso dal chiarore lunare, gli spuntò da quella finestra aperta, immobile che la fissava, ormai la poveretta non più patrona di se stessa strepitava di continuo, fin quando si orinò e svenne. Il marito la trovò in quelle condizioni e dopo averla fatta rinvenire vide che era in uno stato confusionale. Come fare? Doveva lasciarla di nuovo, così corse subito in casa dal medico Balla, che gentilissimo s‟apprestò. Poi andò a chiamare i suoceri e anche sua sorella Agata. In breve quella casa fu affollata di parenti. Si riprese e piangendo a dirotto disse alla madre che lì dentro non voleva starci mai più. 257 BENVENTI A CAMICO Le due fazioni Nel soggiorno ognuno diceva la sua, ma già vi erano due fazioni quelli di Rina che sostenevano con vigore e aneddoti l‟esistenza di quelle presenze e i parenti d‟Antonio che con altrettanto di nomi e cognomi sorreggevano il contrario. I due gruppi erano capeggiati uno da don Cocò Lanna e l‟altro da lu zzu Njria. Certo che in quella casa, in quella stanza con quel tetto così dipinto e a quella ora di notte ogni racconto diveniva così suggestivo che alcuni di loro già provavano paura a sentire solo bussare la porta o ad ascoltare qualsiasi parola o espressione anche dalla persona accanto. Il tetto rappresentava la rivolta siciliana del Vespro, come una cruenta battaglia apocalittica, decine di personaggi con armature, nobili e popolani che si fronteggiavano con spade, asce, lance e ogni tipo di armamento, aiutati da demoni gli usurpatori Angioini con mantelli e pennacchi neri e da angeli i Siciliani con mantelli e pennacchi bianchi, al centro della soffitta madonna Lucrezia, che aveva subito l‟affronto dell‟oppressore, ricoperta dal vessillo giallo rosso guardava verso l‟alto simboleggiando l‟idea della libertà. Teste mozzate e sangue dominavano il primo piano, nello sfondo la cattedrale di Palermo. Chi dei presenti alzava la testa rabbrividiva ancor di più. Certo che abitare in una casa con tali soffitti, per chi era suscettibile come Rina, doveva essere veramente un dramma, ma chi invece nutriva un senso dell‟arte doveva saggiare un piacere sublimale, tra quelle immagine mitiche che suscitavano la piena conoscenza dell‟eterno inconscio collettivo. Giustamente, i presenti non avevano quel grado culturale tale da fare parte di quel collettivo. Antonio li sentiva belli, pensava che era uno scempio inaudito distruggerli, e poi lì sotto lo facevano sentire un gran 258 BENVENTI A CAMICO signore sapere che gli appartenevano, intanto era uomo che non provava nessuna forma di paura fino a quei giorni… Don Cocò stranamente era muto come un pesce, però sembrava un vulcano pronto ad esplodere, sentiva bisbigliare sua cognata Maria, più anziana della moglie di dodici anni con Agata e la zza Assunta. Maria raccontava come divenne cieca la figlia di Ceciu Marascià. Abitavano in una casa, che ora fa parte del convento delle monache del Sacro Cuore. Questa casa era posseduta da li donni, tanto che quando rientrava u zzu Ceciu nell‟oscurità di lu dammusu si sentiva salutare: -Bonasira… Ceciu mezzo carricateddu di vino rispondeva: -E bonasira!- e si andava a coricare. La moglie diceva di sentire urla, voci e bisbigli, ma lu zzu Ceciu non credeva a niente, anzi ne rideva. Quando nacque Maria Assunta, più di una volta in mezzo alla notte la trovarono sotto il tavolo che dormiva soavemente. La madre la prendeva e l‟andava a coricare nel suo lettuccio. Reclamava con il marito che non ne voleva assolutamente sapere di cambiare casa, anzi pensava che era una scusa per allontanarsi da sua madre che abitava nei pressi. Più la moglie raccontava gli eventi strani di quella casa più era incredulo Marascià. Gli raccontò quando sentì un soave profumo di viole su gli abiti della bambina e lo fece annusare, ma lui testardo come un mulo asseriva di non sentire niente. Gli diede in mano un medaglione di argento o forse oro bianco con una pietra nera incastonata e Marascià gli chiese quanto le hanno appioppata per quella patacca, portandosela via e non sapendo più la fine di quell‟oggetto. Fin quando la povera madre non parlò più, neanche quando a Maria Assunta si andava formando un treccia, anzi cercava di nasconderla al marito. La bambina cresceva spigliata e in ottima salute, gia incominciava a conoscere e a dire mamma. Un giorno Marascià ritornò a casa come al solito dalla putia del 259 BENVENTI A CAMICO vino e prendendosi in braccio inconsuetamente Maria Assunta si accorse della treccia, chiese subito spiegazioni e la moglie spiegò che gliel‟avevano fatta li donni e doveva cadere da sola. Il marito risoluto: -Chisti su fitinzji, piglia na forbicia! La moglie lo pregò e lo supplicò di non farlo perché la figlia poteva restare qualche menomazione. Con uno strattone e gli occhi assangati allontanò la moglie, prese le forbici e tagliò di netto la treccia. La figliola incominciò piangere e non smise per tutta la notte. Appena giorno la portarono dal medico, che se ne uscì con una paricchia di paruluna, ma senza soluzioni, il fatto sta che divenne cieca e per sempre! Dopo la tragedia, Marascià svendette la casa alle monache che allargarono il convento ancor più. Don Cocò con tono fermo, voltando lo sguardo verso loro, disse: -Me figlia stanotti havi a essiri fora di ccà, o cu li boni o cu li tinti! Agata, tagliando il discorso a don Cocò: -E chi nni sapenu natri si dda povera addeva „un ci vinni veru qualche cosa. Pi mia è chiù facili cridiri a u‟ medicu c‟a li donni. Maà! cuntacci di li pircopa di lu chianu Ruccheddu… La zza Assunta incominciò: -Chi scantu sta vota ca si pigliaru ddi bonarmuzza di me matri e di me patri… a li me figli ci lu cuntu sempri. Stagione fatta i suoi genitori si svegliarono di buon mattino e andarono in contrada Chianu Ruccheddu dove avevano alcuni alberi di frutta, oltre al mandorleto, la vigna e parecchi alberi d‟ulivo. Raccolsero un bel cesto di albicocche, di pere e un po‟ d‟uva, che al ritorno spartirono con le due figlie: la zz‟Assunta e sua sorella Maria. La madre sistemò quelle albicocche rimaste in una vaciletta di porcellana sul tavolo e l‟altra frutta dentro il tinello. 260 BENVENTI A CAMICO Lo stesso pomeriggio una strana visita turbò l‟anziana. Una zanna prima le chiese la carità poi allungando il collo curiosò dentro, forse per vedere se era sola, fatto sta che voleva entrare a tutti costi, e vedendo quelle albicocche le a chieste con insistenza: -S‟u „u mi duna sti pircopa „u mi nni vaju! La madre ancora in piene forze e capacità mentali capì che forse quella con la scusa di li pircopa la voleva derubare, allora risoluta la cacciò e le chiuse la porta in faccia. La zanna, con la loro lingua incomprensibile, disse qualcosa da dietro la porta e andò via. La notte, mentre tutte e duegli anziani genitori dormivano, furono svegliati da un rumore che arrivava dalla stanza accanto dove appunto vi era la porta d‟ingresso. La madre: -Sintissi? Il padre s‟alzò, prese la scupetta appesa vicino al letto, infilò due cartoccia in canna e quatto quatto andò a vedere, la moglie lo seguì, entrando videro la vaciletta di li pircopa vacillare, ma niente più, del resto tutto fermo, purteddu e porta chiusi, solo la vaciletta che dopo un po‟ si fermava. Tornarono a letto spensero la luce e riprese il rumore, stessa azione, ma niente di niente, a questo punto la moglie raccontò della zanna. I due rimasero terrorizzati che lo spirito di quella zanna malefica stava prendendosi li pircopa e per tutta la notte rimasero con gli occhi spalancati nel buio a subire quell‟intrusione. La mattina videro con i propri occhi che li pircopa erano tutti scomparsi. Lo stesso giorno fecero benedire con l‟acqua santa la casa dal prete e appesero immagini dell‟Assunta e crocifissi in ogni angolo. -La bonarmuzza di me matri quannu sentiva parlari di donni e di spirdi ripitiva sempri: criditicci! Il padre dopo alcuni anni morì e spostarono il tinello per sistemare la salma, con grande stupore trovarono le albicocche avvizzite dietro con alcuni escrementi di topo, sicuramente, viste 261 BENVENTI A CAMICO le dimensioni sarà stato un ratto. Così si scoprì il mistero di li pircopa di Chianu Ruccheddu. Quel ratto ad una ad una si era portato le albicocche dietro il tinello per mangiarsele al sicuro. La zz‟Assunta e la figlia Agata conclusero in coro: -E accussì è ogni cosa! Questo racconto non fece cambiare posizione a don Cocò che con quella sua espressione impenitente disse alla cognata Maria: -Va talia si me figlia si ripiglià ca di cca intra hav‟a nesciri prima c‟ajorna! Lu zzu Njria, si cci piazzò davanti e con tono greve gli disse fissandolo ne gli occhi: -To figlia havi un marito ca è l‟unico a diri l‟urtima parola! Don Cocò, tremandogli le labbra scaricò: -To‟ figliu è cchiù pazzu di tia!- e lo allontanò con la mano. Lu zzu Njria così gli allungò un ceffone tra orecchio e guancia che lo stordì. Don Cocò ripreso dallo stupore lo afferrò. Così successe una baraonda e un trambusto che gli altri lasciarono Rina e si riversarono tutti dentro la stanza. Il rispetto per la persona del dottore Balla, per la sua presenza e alle sue parole: -Signori mè! Un po‟ di rispettu pi dda picciotta ca sta mali!- fece calmare le acque. Antonio era avvilito e fu sopraffatto dalla raffica di parole del suocero, che insisteva di portare via da quella casa la figlia. Il dottore appoggiò dicendo che effettivamente per un po‟ di tempo sarebbe stato utile ritornare nella sua casa. La casa di don Cocò non permetteva però di potere ospitare tutte e due. Nessuna soluzione di compromesso faceva calmare quel vulcano spumoso di parole del suocero, il quale ebbe partita vinta. Antonio si ritrovò a casa sua solo, perché non volle andare a dormire dai suoi e lasciare la sua casa chiusa, dopo avere 262 BENVENTI A CAMICO accompagnato la moglie a casa del padre e rassicurarla mentre piangeva a dirotto per il distacco con il marito. Non riuscì a chiudere occhio e incominciò a provare un odio violento per il suocero che nella semicoscienza del dormiveglia vedeva il suo volto deformato, come qualcosa di malevole che lo insidiava, tanto da non riuscire ad abbandonarsi completamente nel sonno. “Lui era il solo responsabile di tutto ciò che era successo”, questa convinzione gli martellava nella mente in continuazione, non riuscendo a pensare altro. Pasquale ignaro di tutto vide l‟amico come non mai, senza barba fatta, stralunato, teso e uno sguardo che guizzava da una parte a l‟altra. Al bar Sole aveva notato che i presenti, non appena erano entrati, cessarono immediatamente la discussione animata. Questo significava solo una cosa: tutta Camico era venuta a conoscenza di ogni particolare della notte precedente in casa di Antonio. Nei giorni a seguire si accorse che molti gli avevano tolto pure il saluto, facendo finta di essere distratti o intenti a fare o guardare altro, spesso e volentieri si trovava con la mano in aria senza alcuna risposta. Meditò su questo, riflettendo che lui aveva riluttanza a salutare ai cornuti e alla gente vile che non reagiva alle angherie altrui, perciò saltò a delle conclusioni che lo colmarono d‟odio e collera. La gente l‟aveva giudicato in maniera negativa per il fatto che in così poco tempo si era separato dalla moglie, accettando che il padre la portasse via, doveva trovare ben altre soluzioni e mai quella di staccarsi dalla sposina. Il padre lo aveva informato che la sera il suocero, mentre tornava dalla putia alla casa, strada facendo si fermava in diversi artaredda, dove vi erano persone seduti fuori che si godevano la frescura della sera, lui con la scusa di riposarsi un po‟ incominciava a parlare. Quelli, per curiosità e passare il tempo, pungevano chiedendo come stava la figlia e lui svuotava il sacco 263 BENVENTI A CAMICO sulla casa posseduta di li donni, del genero cocciuto che non l‟aveva voluto ascoltare e che lui, dandosi aria di omu forti, ha costretto a tutti a fare tornare la figlia a casa sua, “se nno?!!” Antonio immaginava quella bocca larga di don Cocò che ormai doveva, necessariamente doveva, fare chiudere! Orai era diventato lo zimbello di tutti. 264 BENVENTI A CAMICO Un lupo in trappola Finalmente alla banca arrivò uno dei bonifici della cooperativa appartante delle case popolari, ma non fu sufficiente a coprire gli interessi passivi, spese e accessori vari trimestrali. Il direttore visto la buona volontà e qualche raccomandazione arrivata, disse che li faceva sbordare fuori il fido, per un po‟ di tempo, fin quando non sarebbero arrivati gli altri accrediti. Quella fu la strada che portò la loro piccola azienda ad infossarsi in interessi quasi da usura per quel fuori fido. Le pressioni continue e le minacce di chiudere il conto del direttore misero tra le grinfie di un cravattaru, bene informato, la ditta Antonio & Pasquale. In questa maniera il signor direttore si mise i conti a posto e arrotondò lo stipendio... Pasquale voleva rivolgersi a Vanni Buffa, ma Antonio consigliò di non diffondere notizie in paese sulle loro disavventure economiche. Così lo stesso omino s‟interessò a racimolare i soldi. Tutto ciò avvenne nel giro di poche settimane. I due si dicevano se non fosse stato meglio prima d‟impantanarsi con gli usurai farsi chiudere il conto con tutte le conseguenze, però lecite, senza mala carni di „ncoddu. Antonio però vedeva la sua vita alla deriva e le sue vicende coniugali condizionarono quelle economiche. Una mattina, in uno dei tanti diverbi con l‟operaio Antonio perse l‟autocontrollo e scaricò la sua ira scazzottandosi. Pasquale all‟inizio stette a guardare, ma quando Antonio stava esagerando continuando a mollare calci nell‟addome del malcapitato finito a terra ormai inerme, bloccò l‟amico che strideva i denti ed emetteva strani versi come una bestia inferocita, ci volle un bel po‟ per calmarlo, spaventandosi perché non l‟aveva mai visto in quello stato. Poi portò al pronto soccorso l‟infermo, lungo il viaggio lo convinse di dichiarare che aveva avuto un incidente mentre lavorava e così fece, forse sarebbe stato meglio se avesse dichiarato la verità. 265 BENVENTI A CAMICO La risposta non tardò ad arrivare. Ignoti di notte gli fecero saltare in aria il camioncino nuovo con il tritolo. Il boato svegliò tutti. A quanto sembra fu manodopera locale. Era stato un gruppo di cinque persone che controllava e faceva deviare qualche inopportuno passante. Pasquale parcheggiava il camioncino in via Crispi, in uno spiazzo creato dalla demolizione di una vecchia casa, vicino la scalinata che portava a casa sua. Via Crispi è una strada carrabile tortuosa e stretta di collegamento tra l‟ingresso est del paese e la chiesa Madre, perciò anche con lo spiazzo di fronte la casa del notajo Battista. Il botto cupo fece tremare tutti i vetri di Camico e si trovarono rottami sparsi ovunque: su i tetti, sulle auto, causando danni anche non indifferenti. Rina dormiva nella casa paterna, un isolato sopra, fu svegliata di soprassalto, quando seppe dell‟accaduto si sconvolse ancor più, perciò preoccupata voleva subito incontrarsi con il marito e pregò il padre di andarlo a chiamare. Pasquale capì che quello era un ammonimento e di quelli definitivi, pensò solo: “cu a speranza ca la cosa si ferma cca!…” Antonio non tardò ad arrivare, perché svegliato dal boato ebbe una sensazione tetra, si vestì e con immediatezza scese, davanti la chiesa Madre incontrò il suocero che arrancava e gli comunicò ogni cosa. Tra i due amici bastò uno scambio di sguardi per assentirsi tutti i loro sospetti. I carabinieri arrivarono dopo pochi minuti e incominciarono le domande di rito, chiedendo ai due di accomodarsi in caserma. Passò tutta la notte e solo quando incominciò la luce grigia del mattino Antonio riuscì ad incontrare la moglie, prese il caffè, si ristorò un po‟ e capì che non poteva stare lontano da lei nemmeno un attimo ancora, quella non era vita. Il suocero se ne stava all‟in piedi in un angolo muto. Quando Antonio chiese a Rina se si fosse ripresa, don Cocò rispose: 266 BENVENTI A CAMICO -Me figlia dda intra „un ci torna! -Vossia s‟ava a fari l‟affaruzzi so! E ci lu dicu pi la secunna vota la vuccazza l‟avi a teniri chiusa! Facendosi avanti: -Me figlia è affari miu! E cerca di essiri chiù educatu cu li chiù granni di tia, e nun m‟amminazzari… La zza „Nzula lo interrompì: -A dà, chi ssu sti cosi… Finemula pi dd‟accamora. Rina a testa bassa piangeva era lacerata da due forze contrarie, da una parte voleva ritornare subito con il marito, dall‟altra aveva terrore ad entrare in quella casa. Antonio pose fine alla discussione con determinazione: -Prima di la festa di Mezz‟agustu me muglieri ava a turnari cu mia. E nun vogliu sentiri chiù ca vossia va parlannu cu chistu e cu chiddu supra di mia!- Alzandosi e puntando l‟indice tra gli occhi del suocero. Don Cocò questa volta perse le staffe, forse incoraggiato o inorgoglito dalla presenza delle sue donne, diede una manata a quell‟indice e con il sangue a gli occhi gli disse: -Vattinni di cca intra prima ca fazzu quarche minchiata! Antonio lo fissò lungamente negli occhi e andò via. Salì la scalinata ed entrò in casa di Pasquale. Trovò tutta la famiglia attorno al tavolo silenziosa. Lui era bianco in volto, teso e lo sguardo esasperato, sembrava un lupo in trappola, non salutò nemmeno prese la sedia e si sedette pure al tavolo. Nessuno ruppe il silenzio per un po‟. Dopo la signora Mimì mettendogli una mano sulla spalla gli disse se volesse una camomilla locale di quella raccolta nei prati della montagna Parmentu, Pasquale già se l‟era bevuta, Antonio annuì facendo segno con la testa. Bevuta la tisana incominciò a prendere colore, e allora riferì i problemi personali con il suocero. Il padre di Pasquale l‟osservava non pronunciandosi, ma la signora Mimì gli raccontò un episodio successo alla madre. 267 BENVENTI A CAMICO Matri Lisa La signora Mimì proveniva dalla provincia di Messina. Quando la mamma si fidanzò con il padre, in paese nacquero invidie e gelosie, perché il padre non solo era un buon partito ma era anche di vista. I fidanzatini dopo avere partecipato ad un invito in campagna da amici e avere mangiato lì, la povera fidanzatina, mamma di Mimì, incominciò a sentirsi male, un male che i dottori non individualizzavano, così, come era consueto a quei tempi, e forse ancora oggi, dopo la scienza non rimase che il trascendente e fra preghiere a Dio, alla Madonna e a tutti i santi, i parenti si sono rivolti alla magara. Questa si chiamava Matri Lisa. Si diceva che era stata suora, poi abbandonò gli ordini, o la cacciarono via, ma lei non si sposò e rimase con il suo abito talare, oramai ridotto ad uno straccio. Viveva lontano dal paese, in una catapecchia in campagna, dove molta gente l‟andava a trovare. Mischiava la fede cristiana con la magia. Sicuramente la Santa Inquisizione l‟avrebbe messa, né kitibi e né kitabi, al rogo. La sua casa era piena di santi, una croce grande quando quella dove mettono il Cristo ogni Venerdì Santo, distesa a terra, contornata di candele. Alcuni dicevano che quando doveva dormire si ci coricava sopra. Una corona di spine spesso cingeva la sua testa. Aveva una parlata strana, alcuni dicevano che proveniva dalla Calabria, altri asserivano che era straniera. Magrissima, con l‟occhio penetrante da sotto il cappuccio, chiedeva a chi arrivasse con voce rude e stridula: -Chi buliti? Cu vi mannà? Bastava sbagliare una delle due risposte che prendeva un bastone e mandava via i malcapitati e se non fossero stati lesti ad andare avrebbero potuto prendere sul serio qualche mazzata. Era sufficiente rispondere: “Vulemu lu Signori. Ni manna la Madonna”. Allora con voce più quieta rispondeva: “Trasiti!” Disperati i nonni di Mimì portarono la ragazza lì, bene informati come rispondere. Appena entrati uno strano odore nauseabondo li colpì, in quell‟unica camera, con quella croce a 268 BENVENTI A CAMICO terra, tutte quelle candele accese, quelle statue di madonne e santi, strani oggetti che non capirono mai cosa fossero, teschi qua e là come soprammobili, veli rossi e neri alle finestre diffondevano una luce irreale, tutto era così terrificante e strano che la ragazza incominciò a tremare. Matri Lisa, le prese la mano: -Scanti tu? Nessuno le avevano detto che la parte in causa era lei, ma il suo interesse fu diretto, le accarezzò la testa e gli scostò i capelli che penzolavano davanti a gli occhi: -Talia me!- E le sollevò la testa per il mento. -Tu pura, vergine. Vatri, stati luntani e aviti fedi, fedi granni! Il suo volto sembrava di una donna senza tempo invecchiata e curvata da una sofferenza, un dolore intenso e ininterrotto. Prese una tela rossa e la distese a terra, poi fece coricare la ragazza e le divaricò le gambe, le braccia chiuse, accese tre candele, una alla testa e le altre due ai piedi, formando un triangolo, si inginocchiò davanti dalla parte delle gambe e con gesti invitò i presenti ad imitarla, incominciò a sciorinare una preghiera insolita, sicuramente in latino, a volte in un filo di voce e poi in un crescendo fino ad urli che straziavano il cuore. I presenti notarono che i suoi occhi grondavano lacrime di sangue e piangeva. La loro figlia si contorceva ma sembrava inchiodata in quella posizione, quando poi vomitò un getto di liquido nero, con dei chicchi d‟uva bianca che aveva mangiato quel fatidico giorno in campagna. Ad un tratto notarono che da sotto la veste della ragazza qualcosa si muoveva, uscì una immonda bestia umanoide nera e pelosa, più piccola di un gatto, con la coda di un ratto, le zampe di un rapace e con dei denti aguzzi, uno sguardo di fuoco. Quella bestia scappò via verso l‟angolo della stanza. Matri Lisa, si alzò, prese il bastone e la inseguì, seguitando sempre quella forma di preghiera, incominciò a menare colpi di qua e di là, ma la bestia era più veloce e tentava a volte di avventarsi contro, fin quando lei aprì la porta e le ordinò 269 BENVENTI A CAMICO di andare via. La bestia davanti la porta orinò emettendo uno strano odore e del fumo. Matri Lisa aprì una boccettina d‟argento e gettò il contenuto liquido sopra quello strano mostro. La bestia, così, emettendo squittii e gemiti, che sembravano umani e a volte da maiale e da topo, fuggì via per la campagna. Matri Lisa cadde in ginocchio con le braccia a penzoloni per più di dieci minuti ma ai presenti sembrarono ore, quando rivenne spense le candele e fece rialzare la ragazza, allo estenuo delle forze: -Tu bedda… Attenta tu! U diavulu ti voli. Pensa beni no mali. Si torna ti piglia pi sempri! Prega Signori! La signora Mimì raccontò che sua madre dopo essersi sposata e avuta lei, ha avuto una crisi di nervi post parto e si lanciò dal balcone ad una altezza di quindici metri, lasciandola orfana, così aprendo un cassetto mostrò una fotografia di una coppia di sposi e con l‟indice indicò la madre. -Perciò, „Ntoni, qualcosa c‟è, pi dda povera picciotta di to‟ muglieri scantarisi di sta manera! -Si! so patri, ancumincià a linghicci la testa ca sta casa è china di spirdi ca sintennu un gattu chi chianciva sa chi ci pariva… Pasquale: -Ma puru tu vidissi a quarcunu! -Si, ma ddu quarcuno è di carni e ossa e si lu pigliu ci li spezzu a unu a unu! 270 BENVENTI A CAMICO Pesci freschi Nel mentre sentirono bussare e una voce autorevole chiese permesso, era il maresciallo che s‟intrufolò senza attendere risposta: -A bene siete tutte e due qua, purtroppo hanno telefonato i colleghi da Porto Empedocle e ci hanno comunicato che è successa la stessa cosa con l‟altro vostro mezzo, perciò dovete recarvi, in giornata da loro. La notizia appesantì ancora di più la situazione. Quando il maresciallo andò via si guardarono in volto senza proferire parola. Vito: -La cosa è chiù gravi di quantu pari… Custatannu li fatti lu camiu fu misu a focu cu lu pirmissu d‟u Provessuri, perciò vi commeni ca chiariti direttamenti cu chiddi d‟a Marina. Antonio fortemente costernato: -E‟ tutta curpa me… Pasquale cercò di rassicurarlo: -Tu facissi chiddu ca ju pinzava! -Na cosa è pinzalla e na cosa è falla! Sulu ca quannu pensu di fari na cosa mi veni na smania cca intra, ca si nu‟ la fazzu mi veni lu scuetu fin‟a quannu è fatta! Vito: -Sta carmu, ca u‟ sbagliu u paghi caru e amaru. Rifletti prima di fari e puru di parlari. Cu sta genti è pericolosu puru parlari. Stati attenti tutti du! Antonio andò a casa dei suoi. Pasquale, dopo aver chiamato un‟auto noleggio, andò a prendere l‟amico e partirono per Porto Empedocle. Durante il viaggio non aprirono bocca anche se Petru Cippu cercava di sparare qualche parola per entrare in argomento, ma trovò un muro di gomma. Ai due non li impensieriva l‟incontro con i carabinieri, ma quello con gli “amici”. Dovevano trovare l‟ometto, che a solo immaginarlo a Pasquale venivano i brividi e Antonio l‟assaliva la stizza, e poi tramite lui dovevano incontrare i mandatari. 271 BENVENTI A CAMICO Mentre arrivarono, prima di scendere dall‟auto, videro uscire l‟ometto dalla caserma, i due si guardarono sorpresi. Tutto si svolse come di rito, le solite domande se avessero ricevuto minacce, o discussioni, se sospettassero, i soliti “no” e “ntsc” con alzatine di testa dei due all‟unisono. Andarono al laboratorio, guardarono quel camioncino incenerito e non vollero nemmeno aprire, si mossero filati al corso in cerca dell‟ometto. Quando da dentro il bar Pasquale s‟accorse che stava uscendo dalla banca. Antonio si precipitò fuori seguito dall‟amico, si ci accostò e l‟ometto per nulla sorpreso, anzi salutò e invitò i due a seguirlo. Da una piccola traversa entrarono in una pescheria. Entrai si udiva una radio a cassette che suonava una canzone struggente napoletana di Pino Mauro. L‟ometto rivolse il saluto cordialmente ai due presenti e s‟infilò dietro la banconata, invitando i due di seguirlo, e da lì nel retrobottega, chiuse subito la porta e accese la luce, vi era un ufficio con tanto di scrivania, scaffali, sedie e salotto, si tolse l‟impermeabile, posò il borsello su un mucchio di quaderni e carpette, e si è seduto. I due amici rimasero in piedi a fissarlo. -Assittativi!- disse loro, incrociando le braccia e fissando un po‟ uno e un po‟ l‟altro, aspettando che qualcuno dei due aprisse bocca. I due si sono seduti, ma rimasero muti anche loro. Una gara di nervi che fece scoppiare Antonio, che con un‟espressione di stizza disse: -Eh, c‟ham‟a fari? L‟ometto, da dietro quegli occhiali spessi come due fondi di bicchiere, accennò un sorriso sarcastico e con la mano gli fece cenno di stare calmo. Questa situazione durò per quasi un lungo lunghissimo quarto d‟ora. Mentre Pasquale era quieto con quello sguardo sereno, Antonio stava seduto in maniera scomposta e muoveva di continuo la testa e le mani. La scena veniva osservata da don Calogiru di dietro un falso specchio, perché voleva studiarli per 272 BENVENTI A CAMICO bene prima di interloquire con loro. Lui era convinto che le persone si conoscono meglio non nelle loro parole ma nel loro silenzio. Così, dopo essersi fatto una sua opinione, entrò. L‟ometto s‟alzò curvato, i due lo seguirono per induzione. Don Calogiru, con due baffi ben curati a fior di labbro in una bocca spiovente, le palpebre pesanti e scure, un naso piatto e grosso, di statura media e corporatura robusta, sessantenne, abbigliato come era, sembrava uscito da uno di quei film napoletani di camorra, vestito gessato e cappello in testa, con un fazzoletto grigio perla che gli usciva dal taschino, faceva pandan con la cravatta in una camicia scura, con voce gutturale disse: -Comodi comodi!- Prese il posto dell‟ometto che si andò a sedere nel divano. -Cca, facissivu „ncazzari a tutti. Insomma chi succedi? E guardava di continuo ad Antonio, tanto che si sentì interpellato e con voce rotta svuotò il sacco, sul dipendente, sul pizzo molto alto, su la situazione economica dei pagamenti che non arrivavano, insomma non funzionava niente. -Tutti cosi risolvibili, senza drammi, ma caru picciottu, è comu si piglianu sti cosi ca ponnu sciddicari di mmanu e poi si fa dannu! Mentre parlava aveva afferrato il posacenere di cristallo dal tavolo e allargando la presa lo fece cadere atterra finendo in frantumi. Antonio non si lasciò intimorire, anzi guardò freddamente negli occhi l‟interlocutore. Mentre Pasquale sembrava non esserci. Quindi don Calogiru si alzò, e si rivolse a Pasquale guardandolo negli occhi che rispettosamente si era alzato, invece Antonio rimase seduto: -A tutto c‟è una soluzione ad una sola condizione!- Pasquale accennò con lo sguardo e con la testa a un si. -Lu to sociu „un avi a mettiri cchiù pedi a la Marina. Cavadda pazzi n‟a bastanu chiddi c‟avemu. Si dici: “camichisi unu ogni paisi e si „un ci nni fussiru meglio fussi”. Un camichisi n‟abbasta! Così don Calogiru con passo elegante uscì dalla porta dov‟era entrato. L‟ometto frettoloso e sorridente: 273 BENVENTI A CAMICO -Appostu, meglio di comu vi putja irj…” Antonio si stava mettendo ad obbiettare, ma fu fermato: -Arragiunativilla a u vostru paisi, ora jtivinni c‟avemu atri cosi cchiù „nportanti! I due uscirono e il pescivendolo gli mise in mano ad ognuno una cartata di pesce, chiedendo il dovuto, pagarono e uscirono via, direttamente andarono a prendere la corriera e ritornarono in paese. I pesci facevano buon odore. Pasquale li guardò e disse all‟amico che erano sauri e che arrosto con un po‟ di limone erano una squisitezza. Antonio acconsentì e non solo per come cucinare i pesci… Pasquale allora disse che si poteva trasferire il laboratorio a Camico, l‟amico rispose con rammarico, magari in appresso, ma non subito. -Mi dispiaci ma vonnu a tia e ti l‟ha vidiri tu! Pasquale allora volle chiarire il suo parere, aveva paura a forzare tale soluzione presa da loro per la vita dell‟amico stesso e che per i soldi tra loro due, non era sicuramente un problema. I giorni che seguirono Pasquale andò a lavorare e sembrò che nel giro di una settimana i problemi si erano risolti, sciolti tutti come neve al sole. Arrivarono i bonifici bancari della cooperativa, acquistò un‟Ape di seconda mano in ottime condizioni, e subito diede una parte dell‟incasso della settimana ad Antonio. 274 BENVENTI A CAMICO La gente Ciò che era successo tra lui e il suocero quella mattina, la gente di Camico già lo sapeva, gesto per gesto, parola per parola. Antonio provava un fastidio enorme per ogni risolino ironico, per ogni accenno alla sua vita privata, era come una pugnalata che la gente di Camico gli infilzava con sadico e gratuito piacere. Mentre passeggiava per le vie di Sciacca, pensò che questa storia era durata abbastanza e doveva finire, a costo di lasciare il paese, la casa, la famiglia e andarsi a fare una nuova vita a nord, ma solo ad una condizione: insieme con la sua Rina! Così prese la decisione d‟incontrare il suocero per togliere qualsiasi disguido. Era disposto mentalmente all‟occorrenza, anche di chiedergli scusa davanti la suocera, davanti i suoi parenti, davanti a tutta la gente, affinché si sistemasse tutta questa farsa che lo metteva in ridicolo e che lo faceva stare così male lontano da sua moglie che sentiva dentro se un amore sempre più forte giorno dopo giorno. Arrivato a casa di sua madre spiegò ogni cosa ai suoi e suo padre fu contento di quella decisione sensata da uomo maturo. La sorella Agata era andata più di una volta a casa di don Cocò Lanna a vedere la cognata, ma senza il suo consenso e perciò di nascosto a lui che vociava ovunque di non volere avere a che fare più con questa famiglia di pazzi, pertanto s‟adoperava lei a combinare l‟incontro parlandone con la zza „Nzula. Antonio, al di là di come la pensasse il suocero, non sopportava che doveva raccontare a questo e a quello ogni cosa. La sua bocca gli sembrava un vulcano sempre in eruzione, poi dentro la sua putja ogni giorno, ad ogni ora vi era un dibattimento. Don Cocò si rincuorava e si sfogava, iniziava con una fase piangente, chiedendo conforto ai presenti, per passare alle minacce e che “non aveva paura di difendere la figlia”. Quella gentaglia non solo provava un grande diletto a riportare per filo e per segno quelle nuove alle proprie mogli, rompendo così la monotonia di un 275 BENVENTI A CAMICO grigio rapporto, ma si adoperava per fare trapelare tutto alla controparte, magari con aggiunta di qualche loro peso. Camico si stava preparando per la festa di Mezz‟Agustu, ogni giorno arrivavano emigranti con le loro macchine fiammanti, o con i taxi caricati a stipo di ogni forma di bagaglio. Dopo estenuanti trattative, in una botta di buon senso don Cocò acconsentì. L‟incontro fu organizzato a casa di sua sorella, per l‟indomani alle diciotto, tutti dovevano essere presenti e a condizioni che Antonio non doveva sbagliare a parlare, perché alla minima maleducazione finiva a schifiu. Antonio già incominciava a vedere un filo di speranza dove aggrapparsi con tutte due le mani, perciò preso da questo ottimismo prima di rincasare, passò dalla piazza. Erano quasi le ventidue e ordinò un Averna al bar Trinacria, quando si accostò Peppi Fedi, un suo vecchio amico, nonostante abitavano tutte e due nello stesso paesino erano passati mesi che non s‟incontravano. Peppi lavorava alla muratura, poi si era sposato con la figlia di Saveriu Guela, commerciante di materiale edile, ed entrò nell‟azienda del suocero a trasportare materiale. Dopo i preliminari la discussione entrò nel vivo. Peppi, sempre con la sua maniera di spaccone, parlò della casa che non gli mancava niente, della bella moglie già incinta, dell‟auto che si era comprata, dei soldi che non gli mancavano e dell‟ultimo acquisto: un terreno a Borgo Bonsignore per fargli una villa. Antonio pensava che ha avuto una bella abilità con i soldi del suocero, “Ma quantu parla?”, però gli piaceva sentirlo sguazzare mentre la sirintina rinfrescava, sorseggiando quello amaro e osservando la gente in piazza. Ad un tratto Peppi Fedi, gli afferrò la mano e se ne uscì con una espressione per niente congenita: -E tu? Gli volse lo sguardo come per dire “Ed ju, cosa?”. 276 BENVENTI A CAMICO -E tu? N‟aspetti figli? Parla! Pari ca divintassi „ndustriali di maduna… Antonio aveva l‟abitudine di scrutare dentro lo sguardo dell‟interlocutore, tanto che a volte l‟imbarazzava mettendolo a disagio: -Sugnu „nsocietà cu Pasquali a la Marina, li cosi vannu boni, meglio di comu avissiru a jri! -Meglio accussì!- Girandosi lo sguardo verso la piazza. -La casa di lu nutaru Battista l‟accattassi tutta? Me sogiru „un ni vozi sentiri mancu arrigalata, eppuru è n‟affari. -Na mità- Mantenendo lo sguardo fisso all‟amico. -E a figli? Comu si cuminatu? -Ancora è prestu!- Ma a questa domanda si rannuvolò lo sguardo, sentiva il peso di quella sua strana situazione, senza né testa né coda. Allora Peppi Fedi ebbe il sopravvento, prese coraggio e in ricordo alle loro fuoriuscite a Sciacca e a Giurgenti gli chiese con tono serio: -‟Ntò, ma sti storij di donni, veru su? -Tutti fissazioni, di don Cocò Lanna, ca misi „ntesta a so figlia… -Ma stu cristianu… Va dicennu ca nun ti la duna cchiù a costu di tinilla „nchiusa d‟intra e cu tia comu voli finiri finisci. Antonio in un solo sorso ingoiò l‟amaro, s‟alzò e con un freddo sorriso strinse la mano inerte dell‟amico e andò via. Salì lentamente la scalinata avviandosi con il cuore rotto verso la sua casa. La casa gli infondeva una tristezza indicibile, soffriva ma non dava a nessuno la soddisfazione di abbandonarla. Ancora si sentiva l‟odore festoso delle vernici, così aprì la finestra e s‟affacciò al balcone, fumò l‟ultima sigaretta guardando le finestre illuminate delle case dei pastori e i giostranti che stavano montando l‟autoscontri, tutto serviva solo a provare sempre di più la tenaglia della malinconia, così lanciò la cicca fuori e si andò a coricare. 277 BENVENTI A CAMICO Quella notte fu un incubo, non riuscì a dormire, ma in uno stato di semi incoscienza veniva turbato da quel grande occhio che aveva visto quando ebbe la felice idea di andare a inseguire quell‟uomo. Un grande occhio sempre presente che non riusciva a liberarsi, poi quasi penetrato dentro il nero della pupilla si volse all‟inseguimento dell‟uomo misterioso, che riuscì a catturare e scoprì che era suo suocero con una bocca esageratamente larga. Questo non era un vero sogno ma una costruzione della sua fantasia, della sua mente stanca. Quel grande occhio era la fusione di tutti gli occhi della gente di Camico e il buio che lo divorava era tutto il piacere del male che si avverte. Per l‟intera notte gli martellò il pensiero che domani in qualsiasi modo doveva finire la diatriba con il suocero, che domani la gente di Camico doveva smettere di ridere sulla sua vita e a qualsiasi modo. 278 BENVENTI A CAMICO 11 agosto 1977 Quella notte durò un‟eternità, appena schiarì s‟alzò di scatto, nello specchio del bagno vide il suo volto e provò pena per quella immagine contratta nella tristezza, allora gli lampeggiò una idea che gli fece allargare lo sguardo e cambiare espressione, provò finalmente pace perché quella era l‟ultima alba che lo scorgeva in tale stato. Prese un buon caffè al Bar Sole e salito sul primo autobus per Giurgenti, andò via. Tornò con il taxi alle 17 e 30 direttamente a casa del padre, il suo volto era sereno, portò una croce d‟oro in regalo alla madre ed una spilla alla sorella. Agata ammirandola: -Bella! Ma li spilli su spartenza, mu ca ti dugnu centu liri! La madre preoccupata chiese se fosse a digiuno, rispose che aveva incontrato un amico e avevano pranzato al ristorante. Tutti erano pronti per andare a quell‟appuntamento. La madre e la sorella lo pregarono di non stare attento a quello che sarà detto dal suocero, passarci sopra, quello che contava era di riavere la moglie. Lu zzu Nirja era inquieto vedeva che suo figlio era diverso, chiedeva ogni tanto: -Chi c‟è? Appostu? Comu ti senti? Lui rispondeva al padre di non preoccuparsi, senza guardarlo in faccia. Arrivò il cognato con la macchina per accompagnarli tutti. Furono tutti riuniti nel salotto della sorella di don Cocò, Grazia, sposata con Marcu Spitu, proprietario di ottimi vigneti. La loro casa era di nuova fabbricazione ancora non completata, in via Palermo, strada che collegava con l‟intercomunale per Cattolica Eraclea. Don Cocò, con moglie e figlia erano seduti assieme da un lato del tavolo e Antonio, padre, madre, sorella e cognato dall‟altro. Rina aveva la testa chinata e gli occhi abbassati. Marcu Spitu per aprire la discussione: -Speru ca chista casa addiventa locu di paci e d‟amuri. Chiaritivi, ca cu lu bon sensu, di na parti e l‟atra, si trova l‟accordu. Canusciu 279 BENVENTI A CAMICO a „Ntoni comu picciottu „ntilligenti e canusciu a me cognatu comu cristianu di cori. Pi chistu sugnu sicuru ca sti discussioni si levanu di „nmezzu e facemu finiri di parlari a la genti. Haiu na bottiglia di vinu sarbata pi li granni occasioni, e oj nni l‟hama a biviri! -Ringraziu a lu zzu Marcu pi avirimi datu lu cunfortu di li so paroli e l‟ospitalità di la so casa. Vegnu subitu a lu dunque. A qualsiasi costu ju e me muglieri sta sira hama a turnari „nzemmula. Don Cocò alzandosi di scatto interrompe Antonio e rivolgendosi alle sue donne: -Amuninni! Marcu, fermandolo: -Unni va? Aspetta! Lassilu finiri di parlari… -La so prepotenza la sacciu e „un ce bisognu di cuntinuari. Antonio, sempre sereno in volto come chi già avesse immaginato quella scena: -Si sbagliavu a parlari mi vogliu scusari… -Tu ha sbagliatu a parlari sempri! -E ju mi scusu pi tutti li voti ca aju sbagliatu. Ora sugnu prontu a ubbidiri a qualsiasi cuntizioni mi voli dari vossia. -Li me cuntizioni sunnu sulu una: tu a me figlia ti l‟ha scurdari pi sempri, ca mi la stavatu facennu moriri. Iu sbagliavu quannu ti dissi di si, ma ora vogliu riparari cu lu no! Antonio amorevolmente rivolgendosi a Rina: -E tu chi nni pensi? Taliami! Vogliu ascutari la to risposta. Lei lo guardò appena senza alzare la testa, in quello sguardo vi era una fanciulla ingabbiata dal contesto senza nessun coraggio per liberarsi. Almeno questo aveva visto Antonio, credendola come prigioniera nel giogo del padre. Antonio sempre rivolgendosi a lei: -Ninni emu di stu paisi, a lu nord, ni emu a fari na vita nova, tutti du „nzemmula, basta ca tu dici si, „un ci pinzari a to patri… Rina, alzò la testa e lo fissò con quello sguardo innamorato che solo lui sapeva. 280 BENVENTI A CAMICO -Unni ti la porti a me figlia? Luntanu.... accussì ci fa fari la buttana, comu la signora Mimì, ca „un t‟ha parutu virgogna a jricci puru di maritatu. La genti tutti cosi vidi e mi lu vennu a cuntinu. A me figlia ti la scurdari! „Un ci nne soluzioni! E mi presentavu a st‟assemblea pi diriti ca na lassari „npaci a tutta la famiglia. Antonio si alzò di scatto e la sedia cadde all‟indietro. Ma don Cocò ormai non lo fermava più nessuno, né suo cognato Marcu, né la sorella, né la moglie, tutti alzati a dirgli che si doveva calmare, era come gettare benzina sul fuoco. -Dilinquenti, fanullunni ca travagliu „un nn‟ha vulutu mai, sulu passiari, da u‟ barri ha nisciutu e di natru a trasutu. Tantu si dilinquenti ca t‟abrusciaru lu camiu, pi li tinturii chi cuminassi a la Marina. Ma ju di tia „un mi scantu e a me figlia „un ti la dugnu né cu li bboni e né cu la maffia! Rina immobile piangeva a dirotto. Lu zzu Njria e la sorella trattenevano Antonio, ma don Cocò era irrefrenabile quella bocca s‟apriva e chiudeva, il nero di quella voragine sembrava il buio della pupilla dell‟occhio di quella scala e sembrava avvolgere Antonio, divorarlo e in quel buio soffocarlo, dopo le parole: “Famiglia di pazzi” e “Ju di tia „un mi scantu!”, senti pulsare fortemente le arterie della testa, non distingueva più nessuna parola, solo un suono indistinto e un buio che lo divorava sempre più. La sua mano cercò nella cintola, afferrò il ferro e vide dei lampi che bloccarono l‟avanzare di quella invadente oscurità. Come intontito avvertì l‟odore della polvere da sparo e quello acre del sangue, il peso della pistola e le urla delle donne, guardò quella scena senza tempo, come se lui non vi appartenesse, e lasciando cascare l‟arma sul pavimento fuggì via. Corse per la strada, sembrava che i piedi non posassero a terra, quando si fermò, aveva il cuore in gola, non si rese conto dove si trovava. L‟adrenalina lo faceva vibrare. Immediatamente fu preso da un senso di esasperazione, urlò con un suono della voce che non riconobbe, sembrò che una parte di se sia uscita con quell‟urlo, alzò gli occhi e vide un cielo ricolmo di stelle, non si 281 BENVENTI A CAMICO era accorto fin a quel momento che meraviglia fosse, e come ogni cosa fosse relativa al suo confronto. Possibile che non aveva volto mai lo sguardo al cielo prima di quella sera? Forse se l‟avesse fatto non avrebbe minimamente pensato di uccidere un altro uomo. Mentre era così assorto un grosso cane nero gli abbaiò contro facendolo saltare dalla paura. Rimase fermo e il cane gli ringhiava e abbaiava contro con la bava alla bocca, piazzato, deciso a saltagli addosso. Proprio in quei momenti riprese coscienza a ritroso di ciò che era successo, facendo la similitudine dell‟abbaiare impetuoso del cane con l‟aggressione verbale del suocero e pianse preso subito dal pentimento. Cadde inginocchio in un pianto liberatore. Il cane smise d‟abbaiare, si voltò e s‟incamminò scomparendo nel buio tra le campagne. Antonio rimase lì in quella posizione chissà quanto, quando s‟alzò provò freddo, le gambe intorpidite e un brivido convulso di febbre, in tale condizioni continuò a camminare barcollando fin quando vide le prime luci di Cattolica. S‟avviò per la caserma e si andò a costituire. 282 BENVENTI A CAMICO L‟ultimo giorno L‟odore del sugo alla camichisa di pomodori scacciati, con le cipolle a fette, qualche spicchio d‟aglio, chiappira, passuluna e il basilicò, invadeva lietamente la cella, mentre l‟esile Sasà seduto sopra la branda come un punto interrogativo, stava consumando avidamente l‟ultimo capitolo de “I Beati Paoli”, Stefano seduto al tavolo, si lisciava i grandi baffi fatti crescere da poco davanti la sua radio stereo, ascoltava assorto per l‟ennesima volta l‟ultima cassetta di Gigi Finizio, mandata dalla sua Francesca. Il dolce sole di maggio entrava disegnando la grata della finestra sul pavimento. Antonio prese gli spaghetti e li tuffò nella acqua intanto che bolliva. Erano passati diciassette anni e tre mesi e quello era l‟ultimo giorno, quella era l‟ultima notte che dormiva in quella cella. A volte provava pure paura di quella libertà che arrivava con mille dubbi e una vita da rifare. I ventuno anni di pena e la riduzione di quattro anni per buona condotta, sembravano tempi immensi, fatti di mesi, di giorni e di notti, di albe e di tramonti, di ore, di minuti e a volte anche di secondi, ma in questa vita tutto passa, tranne le ferite inflitte al cuore. Aveva preparato i bagagli, tolto dalla parete il suo diploma per corrispondenza di ragioniere, ottenuto sei anni fa con l‟orgoglio dei compagni di cella. Il direttore di San Vito gli aveva concesso di potere fare sia il tirocinio per un anno e poi di continuare a lavorare in uno studio di consulenza commerciale ad Agrigento. La sua mappa delle stelle, appesa sopra la sua branda, l‟aveva lasciata lì, con la speranza che anche loro trovassero nel firmamento la luce di una buona stella che li guidasse fuori dal baratro dell‟ombra. Ricorda, che dopo il pianto liberatorio, anche se aveva dichiarato in caserma d‟avere ammazzato il suocero, in cuor suo credeva che ancora fosse vivo, fino a quando poi prese coscienza 283 BENVENTI A CAMICO d‟avere eliminato un uomo, infondo innocente, allora gli prese una febbre altissima. La febbre dopo giorni passò, ma il freddo era rimasto, un brivido gelido infondo all‟anima, che riviveva ogni volta che un particolare gli portava alla mente quella sera. Il suo sguardo aveva perso la luce e ritornava solo smarrendolo tra le stelle,di quella mappa senza luminosità. Aveva conservato e riletto le pagine di un famoso settimanale di cronaca nera, dove spesso vi è protagonista la povera gente, dove vi era una foto a tutta pagina di Rina seduta con la gonna scomposta, vestita di nero, sconvolta dal pianto nel giorno del funerale, scattata da basso per mettere in primo piano le gambe. Provava una rabbia sorda, ormai senza diritto alcuno su di lei e senza speranza, per quella sconcezza che quel giornale le aveva messo in atto. Il volto era alterato dal pianto, ma lo stesso lasciava trasferire tutta la sua stravolgente sensualità di quella giovane donna che era stata sua completamente sua. Aveva osservato tutti i particolari, aveva letto e riletto ogni parola, virgola e punto, di quell‟articolo, con quel freddo in fondo all‟anima. Il cronista aveva dato peso a quella casa posseduta dagli spiriti, dando un tono freudiano a tutta la storia, forse da poco aveva letto “Totem e tabù”. Dopo un mese seppe che Rina aveva subito un aborto, forse per il dispiacere della tragedia, ma questa tesi non trovava appoggio nello sguardo della sorella Agata e nemmeno in quello della madre, anche se la confermavano a parole che essendo primarola era difficile che lo mantenesse. Per non incontrare il suo sguardo Antonio non voleva andare a Camico anche se la voglia di rivederla era più grande di qualsiasi desiderio, ma aveva paura di quello sguardo intenso dove poteva leggere sia l‟odio senza perdono per l‟assassino di suo padre, ma ancora peggio, la sua colpa di avere ucciso il loro figlio come 284 BENVENTI A CAMICO vendetta, sicuramente concepito quella straordinaria sera, prima della notte di li donni. Era già venuto a conoscenza che si era risposata sette anni fa, con un americano venti anni più anziano di lei, tornato a Camico con i dollari, e che già aveva avuto da lui due figli maschi. Pasquale non l‟aveva abbandonato affatto, aveva pagato gli avvocati e non gli fece mancare mai niente. Aveva venduto l‟attività, ma era rimasto alla Marina, ogni qualvolta gli chiedeva che lavoro facesse lui rispondeva “m‟arrangiu…”. Antonio gli diceva di non mettersi nei guai, ma non andava oltre, non voleva sapere. Pasquale parecchie notti si era nascosto dentro la casa del Notajo Battista per indagare chi fosse stata quella figura vista dalle finestre dall‟amico. La parsimonia fu premiata, una di quelle notti sentì un cigolio di porta che si apriva e dei passi, quando entrò nello stanzone lo afferrò e veramente era di carne ed ossa, era il sacrestano della chiesa Madre, che per lo spavento, quando si sentì afferrare gli stava venendo un infarto. Pasquale volle sapere tutto, così dopo essersi un po‟ calmato il sacrestano si confessò. Andava lì a curiosare e a sottrarre suppellettili, libri, quadri e mobiletti che vendeva all‟antiquario di Palermo che veniva periodicamente per il parrino. Il parroco stava svendendo ogni cosa della chiesa, statuine, libri, quadri e candelabri, opere meravigliose che i fedeli nemmeno immaginavano. Il sacrestano ammise a suon di sberle che quella notte era lui, ma non li aveva visti fare all‟amore, qualche altra volta si, per questo era intento a guardare, quando poi sentì qualcuno salire le scale subito andò via ritornando in chiesa. A cosa poteva mai servire dopo tutto quello che era successo questa verità? Anche le verità hanno una scadenza. Perciò tutto rimase nell‟oblio. 285 BENVENTI A CAMICO Tolse l‟immagine del volto dell‟Uomo della Sindone che aveva incollato in un foglio di cartone e la mise nei bagagli. Il cappellano gli era stato di tanto aiuto anche per trovare un lavoro come ragioniere in una azienda di Torino. Tutto era stato impaccato, tutto era pronto per quell‟alba di libertà. Ma quanto di lui era rimasto in quel carcere? E quanta bontà avevano avuto i compagni di cella nel consolarlo mentre piangeva in quei primi giorni? Scoprire di essere un assassino e non esserci nessuna possibilità di tornare indietro per riparare il fatto. Solo se fosse stato avverabile ridare la vita alla sua vittima sarebbe stato pensabile perdonare quel se stesso così pieno di sé da vedere in ogni cosa un suo riflesso. Ma l‟immenso di quella notte piena di stelle gli insegnò che lui era poco e niente, cieco e sordo. Antonio non filosofava e nemmeno aveva una vera fede, andava avanti tra le immagini, come chi attraversa un fiume tra i sassi con la paura di cadere ed essere travolto dalla corrente e trascinato via. Sasà, chiudendo il libro e alzandosi: -E cu ni l‟ava a fari un sucu accussì? Stefano incominciò ad apparecchiare: -Ragioniere Antonio, lo sai che ti dico, riprendi a studiare e fatti avvocato, accussì n‟addifenni! Risero tutti e tre, mentre brindarono con il vino di casa. Accanto nel pavimento la luce della finestra si allungava impallidendo confondendosi con l‟ombra della grata. Quel giorno suggellò un tempo passato per Antonio, che all‟indomani stesso, dopo un breve soggiorno a Camico con i suoi, ripartì diretto a nord, dove si rifece una famiglia e una casa, ma ogni tanto un brivido gli infilzava l‟anima e provava paura, paura di quel se stesso che teneva dentro, e alcune notti in un tormentato incubo lo fissava con quel grande occhio come Ciclope agli argonauti intrappola nella sua grotta prima di divorarli. 286 BENVENTI A CAMICO PARTE QUARTA Finalmente la magnifica Piazza Vittorio Emanuele, sapeva ancora di antico, anche se qualche casa aveva gli infissi in alluminio anodizzato e l‟affacciata rifatta. -Domani ti porto a vedere l‟Assunta, sta sera ormai la chiesa è chiusa. Entrammo nel bar Trinacria, da almeno venti anni e più non aveva avuto più ammodernamenti. Una grande trinacria faceva bella mostra di se con le tre gambe colore carne e la medusa azzurra con le serpi verdi e gli occhi rossi, le tre spighe oro. L‟unica cosa lucidata a nuovo, tutto il resto a dire il vero, sapeva di polvere e di vecchio. -Ti presento Giovanni! Corpulento alto con un faccione che ispirava fiducia se ne stava con le due mani sul bancone appoggiandosi tutto. -Buona sera! Piacere. -Ho sentito già di lei … Sono un amico di Pietro. Mi creda non sapeva nemmeno l‟esistenza di questo paese. -Qui si ci deve venire apposta! -Prendiamo un caffè? -Va bene, grazie. Tra il più e il meno Giovanni ci parlò del bar che vogliono acquistare e che non si sono messi d‟accordo per una piccola ma “importante” postilla. -L‟offerta è buona! Mi potrei ritirare tranquillamente, ma l‟acquirente vuole cambiare il nome al locale. -Come lo vuole chiamare? -Roxy Bar! -Mi scusi signor Giovanni, ma a lei cosa importa? -Ma come? Una vita che lotto … cancellata per quattro soldi. Muoio qui dentro si, cento volte! Realmente io capivo benissimo che intendeva, volevo solo che esplicitasse le sue emozioni. 287 BENVENTI A CAMICO -Lo sa, quante aziende si chiamavano “trinacria” e che hanno chiuso, o cambiato nome, ci sono state in Sicilia? Ed ad ogni trinacria scomparsa corrisponde ad una pugnalata al cuore della nostra Patria. -Partì u trenu! Disse Pietro sconsolato, come per dire: chi lo ferma più? Io gli ho stretto il braccio per fargli intendere di farlo continuare a parlare. -Mentre tutti hanno cambiato bandiera dopo il ‟46, sono rimasto solo, con la mia trinacria, cugliuniatu da chistu e da chiddu. Sono sicuro, che un giorno, i giovani siciliani imbracceranno di nuovo la bandiera e grideranno un‟altra volta ANTUDO! -Giovà, calmati, che ormai il tuo cuore non è quello di una volta! -Magari non ha la stessa forza, ma dentro c‟è sempre lo stesso amore per questo Popolo e questa Terra! -Miii! E che mi fai la romanza, proprio a me, che sono cresciuto qui dentro tra il flipper e il jukebox? Mentre loro se la ridevano con i vecchi ricordi di tutte le marachelle di Pietro, sono stato attratto da tutte quelle fotografie in bianco e nero appese in bella mostra di gruppi composti di uomini, donne e pure bambini, con bandiere in mano. Ve ne erano a piedi o su mezzi d‟epoca con le tre dita in bella mostra, trinacrie ovunque. Altre foto con Salvatore Giuliano a cavallo o con la coppola e il mitra in mano. Una sola, tra le tante fotografie in bianco e nero, era a colori, con una cornice più di valore, raffigurava Giovanni, in posa, con il tipico saluto sicilianista delle tre dita, accanto ad un anziano seduto con il suo bastone in mano. Ho subito dedotto che l‟anziano non era un suo parente, ma qualche residuato politico del MIS. -Mi scusi signor Giovanni, mi tolga una curiosità, chi è questo signore? -Mio padre … -Anche suo padre è un sicilianista? -Perché? 288 BENVENTI A CAMICO -Siccome la foto è tra le tante di tema politico e poi lei mostra il saluto del MIS …. -Ma chi mi hai portato? Pitrì „un cridu ca è di la digos? -No, stai tranquillo, puoi parlare. Caro amico mio, in questa foto vi è svelato uno dei più grandi misteri dell‟Italia. -Ora voglio sapere! Chi è questo signore? -Vedi questo giovane? Questo, sono io! Posso dire: io c‟ero! Da Camico siamo andati in nove. A quello che sentivamo dentro il petto … Che gioia! Era un sentimento comune a tutti i presenti. Poi, quando parlò l‟onorevole Andrea Finocchiaro Aprile, fu come se finalmente sapevamo chi fossimo, eravamo Popolo, eravamo Siciliani con tutta l‟anima e per davvero. Guardai quel giovane in quella foto in bianco e nero, poco somigliante a lui, ma in quel sorriso stampato leggevo quel sentimento di Giovanni. Mi sono accorto che mi stava deviando per non parlarmi di quella persona seduta. -Signor Giovanni, se non me ne vuole parlare, faccia pure, ma sono così curioso che verrò altre mille volte fin quando non lo farà! -Dai Giovanni, puoi parlare.-Lo esortò Pietro. Mi prese per il braccio e mi portò a sedere al tavolo, si mise proprio di fronte a me e con una espressione seria incominciò a narrare: -Questa fotografia è stata scattata a Toronto, in Canada, proprio otto anni fa, in un bar italiano, non mi ricordo se si chiamava Bar Venezia. E‟ stato l‟unico mio viaggio fuori dell‟Italia. Ho fatto il militare a Napoli e sono andato al giro di nozze a Taormina e poi basta, sempre a Camico, nato, cresciuto e pasciuto. 289 BENVENTI A CAMICO VIAGGIO A TORONTO “Eccellenza Non desidero essere coinvolto nelle curiosità che mi potrebbero circondare (almeno per il momento). Però per quanto riguarda la posizione religiosa di Salvatore Giuliano, devo affermare in qualità di sacerdote che il giovane è morto con il perdono di Dio. Sono del continente e qui lo conobbi due anni a dietro circa, perché mi cercò. Confessò i suoi errori dei quali era relativamente responsabile. Preoccupato solo di salvare sua madre. Deciso a non fare del male a nessuno, ma non a costituirsi: due mesi mi cercò in Isola ed io per salvare un‟anima lo esaudii. Si confessò pentito, quanti pochi così ne vidi, mi promise che non avrebbe più sparato salvo legittima difesa, promise come un bambino per paura del castigo di Dio, promise di vivere ramingo e di accettare la morte alla prima occasione in espiazione dei suoi mali. Lo consolai povero figliolo e lo assolsi, assicurandogli il Paradiso. Desiderava la comunione ma non mi fu possibile accontentarlo, dato che io non volevo essere troppo notato in Palermo. E‟ però probabile che l‟abbia fatta in una chiesetta che io gli indicai di buonora. Sicuro di non rivedermi più, lasciandomi mi baciò dicendomi: che sarà cosi come me l‟ha promesso, ci rivedremo lassù. Dio voglia che sia una pecorella del suo ovile ritornata in seno a Dio. Non sempre il giudizio degli uomini è simile a quello di Dio. Sta ora a V.E. se è il caso o meno di dare consolante notizia alla sua vecchia madre con autorizzare suffragi. Umilmente in. G.C. Padre Agostino Reni Via Pescara Milano – Luglio idì 1950” (Lettera scritta nel luglio del 1950 da padre Agostino Reni, un prete milanese, al vescovo di Monreale Ernesto Filippi)31 31 Il documento - identificato come «Fondo Governo Ordinario», Sezione 9, Busta 1, Serie 36 S dell'archivio storico dell'Arcidiocesi di Monreale. Confermato dalla Curia di Monreale, diretta dal vicario generale don Vincenzo Noto. (Fonte: Giuliano, bandito in paradiso di Francesco La Licata su La Stampa, 5 aprile 2001) 290 BENVENTI A CAMICO Dopo venti anni, era arrivato dal Canada Vicenzu Pumadoru. Lui dice di essermi cugino, ma non ho mai riscontrato questa parentela, poco importa. Lo chiamavamo così perché vendeva pomidori per le strade e abbanniava: “Pumadoru! Pomadoru!”. Mi ricordo che canticchiava con la musichetta dei bersaglieri questa canzoncina: 32“Garibardi sutta u‟ ponti chi vinniva pumadora, la valanza „un ci pisava Garibardi si la minava.” Dieci anni fa, non lo potrò mai più dimenticare, quella mattina del 7 aprile del 1984, ci fu un trambusto tanto, uscimmo tutti dal bar, era scappato dal macello di don Pasquale Marchetta un vuteddu. Don Pasquale stava sparando in testa al povero animale, segnato dal suo destino, quando la bestia all‟improvviso si mosse e lui la colpì di striscio. Il vitello fuggì via a testa bassa caricando chi gli stava davanti. Non era la prima volta che succedeva. Così quella bestia ferita correva per le strade di Camico. Chi chiudeva le porte e s‟affacciava dai balconi, chi invece correva incontro all‟animale per catturarlo. In realtà, ogni volta, s‟innescava un‟aria di festa tra tutti noi, si risvegliava nei nostri animi qualcosa di antico, tanto da interrompere qualsiasi attività in corso e così improvvisare questa specie di corrida. Chi correva di qua, chi di là, le grida: “Cca è!”. I picciotti si paravano davanti la bestia che caricava, spaventata e inferocita. E‟ capitato che qualcuno andò a finire scornato in ospedale. Poi si riusciva in qualche cortile a bloccarlo e così infine, stanco per il sangue versato dalla ferita e per le corse, veniva immobilizzato e ucciso. Ognuno a tal punto tornava alle sue cose. Quella mattina Vicenzu Pumadoro, preso dall‟euforia di quella corrida paesana, prima si tracannò un bel bicchiere di marsala a l‟uovo, e poi guardando le fotografie, mise la mano su quella di Giuliano, disteso a terra in quel cortile di Castelvetrano e mi disse tistiannu: 32 “Garibaldi sotto un ponte, vendeva pomidori, la bilancia non gli pesava Garibaldi se la menava (si masturbava). Canzoncina popolare con la celeberrima musica FLIK FLOK della fanfara dei Bersaglieri musica di Pietro Luigi Hertel del 1861. 291 BENVENTI A CAMICO -Cuscì, chistu „un è Giulianu!- Pensai, senti che minchiata sta sparando questo … -Giuliano è ancora vivo!-Cuscì, ma ti rendi conto di quello che dici? -Io mi sono preso il caffè con lui, mille volte, e abbiamo parlato del più e del meno. E‟ a Toronto, sta bene, si gode la vecchiaia, si fa la sua partita di populu a carte, non parla molto, ma quello che dice ha la sua importanza. Questa notizia è stata come una rivoluzione mentale. Credergli o non credergli? Non riuscivo più a dormirci sopra e più cercavo di non pensarci più mi si presentava davanti con tutta la forza sconvolgente del mistero che avvolge la storia di questa terra nostra di Sicilia. Vicenzu Pumadoru, insisteva, raccontandomi che una volta era riuscito a fargli mostrare le due ferite di moschetto all‟addome, quelle di Quarto Mulino. E le ferite c‟erano, tutte e due! Le mie due figlie: Costanza e Lucrezia, sono più pazze di me, così insieme ai mariti, mi organizzarono il viaggio per Toronto. Il 19 marzo 1986, al mio 55 compleanno mi hanno fatto la sorpresa, il biglietto aereo! -Ma ju non so nemmeno dove andare? Non abbiamo parenti! In realtà, loro avevano pensato ad ogni minimo particolare. Non vi racconto il volo in aereo, perché la storia è troppo lunga. Sono stato con le orecchie attupate per tutto il viaggio, sentivo come se fossi dentro ad una bolla di sapone. Palermo, Roma, Amsterdam, Toronto. Da lassù ho visto i ghiacciai e sembrava non finissero mai. Arrivai alle quattro di pomeriggio, all‟aeroporto trovai i cugini di Gianluca, mio genero, il marito di Lucrezia. Tutto era grande! Loro, i cugini, erano gentilissimi, parlavano siciliano, però a modo loro ed erano contenti di conoscermi. Salii su quella macchina che era per tre volte una di quelle nostre. Quando ho detto a loro che con quell‟auto sicuramente in 292 BENVENTI A CAMICO piazza non potevano venirci. Si misero a ridere come pazzi e dissero quella famosa barzelletta ritrita: -In America le strate le chiamiamo stritti e ammeci sono larghe, in Sicilia le chiamate strate e ammeci sunnu stritti! Fece finta di averla ascoltata per la prima volta e per essere cortese risi come un imbecille. Passai due settimane con questa famiglia pazza sempre in movimento, senza un attimo di tregua. Mi fecero conoscere amici, familiari, mi sono sentito veramente importante. Nel loro scantinato avevano una vera armeria. Più di dieci fucili con relativi mirini di precisione. Poi attrezzature per costruirsi loro stessi le munizioni. Non solo, avevano una specie di poligono con tanto di sagoma, movibile. Insomma mi fecero sparare con diversi fucili e pistole. E visto i risultati mi ci trovavo. Rimasero delusi, quando ho dovuto dichiarare la mia avversità alla passione delle armi, anzi, ne ero proprio contrario. Non per questo motivo hanno desistito, una mattina prestissimo, di trascinarmi a caccia. Mi portarono su una montagna, mi fecero fare tanta di quella strada che non mi sentivo più le gambe. Poi finalmente uccisero il loro cervo e così siamo tornati. Non ho capito quale fosse il loro lavoro, la loro attività economica, perché parlavano solo di caccia, pesca e di un camper, con il quale si giravano il Canada e gli Stati Uniti. Ma me ne sono rimasto con la curiosità dentro lo stomaco e non chiesi a loro mai spiegazioni, da buon siciliano. Così mi portarono pure a pescare su la loro imbarcazione che quanto era grande sembrava un piscariggiu. Il padre e la madre se ne stavano in giardino ad arrustiri carni nni la tannura. In quella famiglia avevano tutti la passione di mangiare carne a più non posso. Carnivori dai bambini agli anziani! Questa è l‟America che ho visto io. I due cugini mi hanno dato una grandissima soddisfazione. In quei giorni il discorso verteva continuamente sulla Sicilia, la sua 293 BENVENTI A CAMICO storia, la politica e tutto ciò che un sicilianista come me, incomincia a vomitare fuori con gli occhi spirdati di pazzo. Si, perché mi sono visto una volta per caso allo specchio del bar, mentre parlavo di questi argomenti, e vi giuro che mi sono conosciuto appena. Che hanno fatto i due cugini? Un giorno siamo entrati in un locale dove vi era un baffuto biondo e capelluto, uno di quei vichinghi uscito fuori dalla pellicola di un film, e si fecero tatuare tutt‟e due una grande e bella trinacria! Joe, sul cuore e Lillo sull‟avambraccio. Volevano che anch‟io ne approfittasse di quel maestro, anche se fui molto tentato, ho riflettuto che non era per me più l‟età di queste pensate. Tutto questo succedeva tra una visita e l‟altra al bar Venezia. Loro non lo frequentavano perché era molto distante da dove abitavano, anche se le distanze per loro erano relative. Riflettevo che per spostarmi da Camico e andare a Palermo, che so, o a Catania, per me, quello era un viaggio da organizzare per benino. Loro si spostavano per lunghissimi tratti, da uno stato all‟altro, senza ragionarci minimamente. Comunque ogni giorno eravamo lì, facevamo qualche partita a carte con i frequentatori, con la speranza di quel fatidico incontro. Niente di niente. Ormai ero entrato in confidenza. Vi erano Siciliani, Calabresi, Pugliesi, insomma ci capivamo tutti. C‟era chi si metteva da parte a discutere, a me non riguardava, così mi allontanavo per non ascoltare. Con il mestiere mio queste cose o te le impari o hai chiuso bottega da tempo. Questo mio modo di comportarmi fu osservato da chi di dovere e questo bastò per avere dato una buona impressione. Tanto che, nei giorni successivi, uno anziano lì presente osservando la mia trinacria d‟oro all‟occhiello della giacca, mi chiese se ero del partito di Finocchiaro Aprile. Io gli risposi: -Di Finocchiaro Aprile, Castrogiovanni, Canepa e Giuliano! Ormai era l‟ultimo giorno, ero preso dalla delusione, di non avere ricevuto nemmeno una conferma della presenza di Giuliano in quel bar, anzi, mi giuravano che non avevano visto nessuno con 294 BENVENTI A CAMICO quelle caratteristiche. I cugini mi avevano lasciato lì, avevano impegni loro, mi venivano a prendere fra un pajo d‟ore. Ero passato ai saluti con alcuni di loro e mi ero confidato, della mia speranza, sicuramente l‟amaro che avevo dentro usciva fuori. Ad un certo punto il ragazzo biondiccio al bancone, mi chiamò: -Mister Giovanni! Venga, c‟è qualcuno che le vuole parlare. Il calabrese seduto accanto, sorridendomi mi chinò la testa per dirmi: vai! Seguii quel giovane che mi indicò, una porticina, che tramite una scala stretta e un corridoio, portava in un appartamento privato, un signore in giacca e cravatta mi disse di accomodarmi, facendomi strada. Pensai, ci siamo! Quando entrai vi era un elegante salone e proprio sopra il salotto vi era uno stemma dorato, che io conoscevo abbastanza bene: l‟aquila e il leone rampante che sostengono il medaglione con tanto di trinacria circoscritta. Io gli disse a quel signore: -L‟astuzia dell‟aquila, la forza e il coraggio del leone, per liberare la terra di Trinacria! -„Ass‟a benedica! Dalla porta accanto era entrato, un elegante signore anziano aiutato dal suo bastone, con atteggiamento austero, nonostante dritto con la fronte larga e un bel sorriso giovane. Il sangue mi salì subito tutto in testa, fu un colpo e dentro me pensai: E‟ lui! -Mister Giovanni! Paisà! Mi sono sentito scuotere la giacca era il barista, che mi svegliava. Lo stress, la stanchezza mi ha giocato un brutto scherzo, e mi sono appisolato sul divano in fondo al bar. Non so per quanto, dieci minuti? Un ora? Ed ho sognato, è stato solo un sogno. Mi alzai, scuotendo la testa, come un asino che non ha voglia di muoversi, stesi un po‟ le gambe e mi avvicinai al bancone: -Me lo fai un bel caffè? Espresso però! 295 BENVENTI A CAMICO Mentre sorseggiavo il mio caffè, dando una taljata panoramica a tutto il locale, proprio nel tavolo di fronte vi era un gruppetto di tre anziani. Uno di questi con una elegante coppola nera in testa, il bastone di legno in mano e due occhiali larghi con i vetri giallo scuri, faceva finta di non guardarmi. Sorseggiai ancora un po‟ quel caffè, che non aveva il sapore di quello nostro, e mi avvicinai a quel tavolo. -Scusate, posso sedermi con voi? L‟anziano con gli occhiali mi fece cenno con la testa acconsentendo la mia richiesta. Erano tutt‟e tre in attesa di una mia spiegazione. -„Ass‟a benedica. Sono venuto dalla Sicilia, per incontrare una persona speciale. Scrutavo quel signore anziano, che rimaneva nel suo riserbo totale e da dietro i vetri degli occhiali si scorgeva il suo sguardo enigmatico, il quale con la mano mi fece cenno di proseguire. -Un mio parente, mi disse che questa persona speciale l‟avrei trovata proprio in questo bar. Già da quindici giorni che sono qui, si è fatto il tempo di tornare a casa, con mio rammarico, senza successo.- Mentre frugavo con lo sguardo nel viso dell‟anziano per trovare una somiglianza con Giuliano, anche minima, che non trovavo, però sentivo dentro di me, che quella persona era lui. Una semplice sensazione. –Sono sicuro, non mi chieda perché, che vossia mi può dare una mano d‟aiuto. L‟anziano stette quasi un minuto, che mi sembrò una eternità, a fissarmi dentro gli occhi, dopo si scompose un po‟ e mi disse in perfetto italiano e con voce ferma: -Questa persona per lei deve essere veramente speciale, visto che ha fatto tutto questo viaggio per incontrarlo. Mi tolga una curiosità, come si chiama questo suo parente? -Vincenzo Taormina, di Camico. -Vincent Pumadoru?- E sorrise. Quel sorriso, come nel sogno di poco fa, mi diede la certezza che era lui. 296 BENVENTI A CAMICO –Vicenzu Pumadoru … quello che quando arrivava si metteva a banniari davanti la porta “ah! chi bellu pumadoru chi haju! Accattativi u pumadoru!” Dentro al bar si misero tutti a ridere, ricordandolo, pure il barista, mentre stava pulendo alcuni bicchieri da vino con il tovagliolo. La mia perseveranza e la mia intuizione si erano convogliate in quella persona ed ero certo che quell‟anziano, ora che aveva tolto la maschera enigmatica in quel sorriso aperto, era Salvatore Giuliano! Mi sentii come un brivido per tutta la schiena, una eccitazione come quando si percepisce che un momento va vissuto con interezza, perché, quel preciso momento, fa parte della grande storia e non della meschina quotidianità. Guardai attorno e attentamente i due anziani, così, con un soffio di voce e per giunta incerta, fissandolo negli occhi, gli sparai: -E‟ vossia?- Ci fu silenzio, il barista rimase come in un fermo immagine. –E‟ vossia, Salvatore Giuliano? L‟anziano abbassò gli occhi e con la testa fece segno come dire: non è possibile. -Ma lei crede a Vincent Pumadoro? Quello è un pazzo completo, uno che gli piace scherzare, sparare minchiate all‟impazzata. Ad un tratto si fece serio e con tono secco sparò: –NO! Quel NO mi piegò in due come se fosse stato un cazzotto dato allo stomaco. -La vede questa trinacria? Io … è da bambino che credo nell‟idea di una Sicilia libera. E non ho mai pensato, un solo istante, che Giuliano abbia sparato al suo Popolo. Ed ho pianto lacrime amare quando hanno parlato della sua morte. Ora se lei fosse il colonnello Giuliano e mandasse via uno come me, senza farsi riconoscere, vossia rinnegherebbe il suo Popolo, la sua Terra, ancora una volta. 297 BENVENTI A CAMICO Mi uscirono quelle parole come un raffica di mitra, fissandolo dritto a gli occhi. Lui si tolse gli occhiali e mi appizzò lo sguardo addosso. Il suo volto sembrò subire una metamorfosi assomigliando ora ad un‟aquila. Incuteva timore! -Ho detto no, ed è vero. Ma la verità ha tante facce come un diamante. Ora tu vieni, qui insieme a quegli altri giovani, parenti di tuo genero, perché Vincent Pumadoru ti raccontò di avere visto Salvatore Giuliano, e ti vuoi levare lo sfizio di scoprire la verità! Come se la verità fosse una prostituta con le cosce aperte pronta a farsi fottere di tia! -Vossia sa, cosa potrà mai significare sapere che Giuliano l‟ha fatta in barba a tutti, ancora una volta? -Cosa potrà significare? Che Giuliano ha venduto la sua Terra, il suo Popolo, per avere salva la vita. Un meschino, un traditore! -La lotta per l‟indipendenza ormai era finita! -La lotta per l‟indipendenza non finisce mai, perché anche dopo averla conquistata la si devi difendere! -La sua figura storica, il suo ruolo ormai era finito. Era finito il tempo della guerriglia … Vossia è Giuliano! -No! -Vicenzu Pumadoru, mi disse che le ha visto pure le ferite! -Quel fituso, pazzo di Pumadoru, mentre ero a cesso con le brache calate, entrò e mise le dita sopra le mie cicatrici, come San Tommaso a Gesù risorto! Ma quelle non sono ferite d‟arma da fuoco, quelle sono frutto dell‟operazione chirurgica che mi sono fatto fare alla cistifellea, negli Stati Uniti, dieci anni fa. Mi hanno operato con l‟ultima tecnologia dell‟epoca. Gli altri due si misero ghignare conoscitori dell‟accaduto. Mentre guardavo attentamente avevo ormai la certezza che quel volto con le rughe, quello sguardo così penetrante e quel sorriso aperto, erano di Giuliano. Oppure ero io che volevo credere di non avere attraversato il mondo inutilmente? Era più di un intuito, o una impressione, era qualcosa di oggettivo. Per questo motivo mi 298 BENVENTI A CAMICO ero rattristito così tanto che mi si leggeva nell‟espressione del mio viso, così piegai il capo sconfitto. Ad un certo punto, si alzò in piedi poggiandosi al bastone, mi fece segno di seguirlo e ci siamo messi in un tavolo in fondo. Il barista mise della musica di flauto e chitarra, una voce maschile cantava: “Palumedda janca janca chi ci porti „nta sta lamba?” Rispondeva una voce femminile: “Ju ci portu pani e vinu fazzu la zuppa a lu Bambinu!” Le mura del bar, fino a due metri d‟altezza, erano coperte di pannelli di legno scuro, pertanto, in fondo, dove ci eravamo seduti, non vi era molta luce, così u zzu Turiddu si tolse gli occhiali e a schiena dritta mi fissò in un silenzio misterioso, che valeva più di mille parole, quel silenzio impietriva. Si! era proprio Salvatore Giuliano e nemmeno mille dei suoi no avrebbero potuto cancellare quella mia convinzione. -Io ho conosciuto Giuliano, molto da vicino, ma l‟ho conosciuto nella maniera giusta attimi prima la sua morte. Porto rispetto alla sua memoria più di chiunque altro. -Lo sa quanti libri articoli di giornali ho letto? Quante fotografie ho visto e rivisto tante volte, tanto che qualcuna la ho esposta nel mio bar e qualche omu di liggi ha fatto opposizione, ma io, non ne ho voluto sapere. Mi sono fatto un chiodo fisso, di tutta la questione, perché la lotta indipendentista siciliana è finita con vuscenza. Chi ha architettato Portella delle Ginestre, ha lasciato la firma, ma l‟ha ben congeniata per uccidere moralmente l‟eroe della liberazione del Popolo Siciliano. La sua morte fisica poi è servita per la rassegnazione totale. L‟eroe, l‟inafferrabile, è stato eliminato, stramazzato a terra, tradito e ucciso, punto! -Leggo nel tuo cuore attraverso i tuoi occhi e capisco il tuo dramma, per questo oggi voglio farti dono della mia verità. Quando ho udito quelle parole, il cuore mi si gonfiò e senza volerlo mi sgorgarono due lunghe lacrime che sentii solcarmi il viso. Così presi il fazzoletto dalla tasca e mi asciugai. Ero pronto a credere ad ogni cosa di quella figura austera di anziano, dal volto 299 BENVENTI A CAMICO imperturbabile, mentre il suo corpo lievemente segnava le sue parole. Riprese a parlare, dopo un altro dei suoi silenzi profondi. -Certi uomini, il destino lo hanno scritto nei loro cuori. Quando poi nella loro vita ci si presenta il bivio, quel destino, come una forza, prende il sopravvento! E volenti o nolenti, deciderà il percorso da intraprendere di quegli uomini. Noi Siciliani lo chiamiamo destino, forse è il volere di Dio, il daimon platonico, oppure la Terra che si ribella nei cuori dei propri figli. Così, la Sicilia, al suo figlio Turiddu Giulianu, ha dato quella forza, quel coraggio e il profondo sentimento dell‟onore, da divenire concretamente la ribellione alle angherie subite, come quelle degli uomini soggiogati dai padroni, la ribellione contro un colonizzatore politico che stava riprendendo le forze dell‟oppressione. Turiddu Giulianu è la ribellione al torpore della rassegnazione del Popolo Siciliano. Per questo ancora oggi hanno paura al solo ascoltare il nome di Turiddu Giulianu, perché ancora oggi, nonostante tutto, è vivo nel cuore di ogni Siciliano che subisce ogni ingiustizia sociale e politica. In ogni Siciliano costretto a subire le mortificazioni per i diritti sociali negati, costretto a subire ogni genere di sopruso e illegalità, vi è un intimo segreto, un muto desiderio di riscatto e il loro pensiero va dritto all‟icona del riscatto siciliano: Turiddu Giulianu! -I giovani Siciliani, però, spesso li vedo con le magliette di Che Guevara … -Se Giuliano fosse stato comunista allora il suo mito sarebbe diventato uno strumento di propaganda dei comunisti di tutto il mondo. Ma non lo fu, come non era, anticomunista. Lottava i ricchi, togliendo i loro soldi, era protetto dal proletariato, non per paura, ma per amore! Basti pensare che il suo luogotenente era un comunista accanito: „Aspanu! Poi, quando ci fu la scissione nel MIS, Giuliano si mise con il MIS-DR di Nino Varvaro, comunista, alle elezioni del 1947, fece un patto elettorale con il maggiore esponente del PCI, Girolamo Li Causi. Furono l‟evoluzione di 300 BENVENTI A CAMICO quei fatti, come il patto non mantenuto da Li Causi, l‟inganno politico e il progetto anti indipendentista del PCI per ordini avuti dall‟Unione Sovietica, che lo trasformarono in un agguerrito nemico dei dirigenti comunisti. -Portella delle Ginestre? -Quando Giuliano si è reso conto della tragedia di Portella, ha capito con amarezza come quelle vittime sono state sacrificate al potere della nuova Italia. Quello è stato l‟inizio della “guerra fredda”, quello è stato l‟atto di podestà per la Sicilia alla mafia nella funzione gladio. Anche il PCI ha utilizzato quelle vittime. I dirigenti siciliani sapevano, ma hanno taciuto, non hanno avuto il coraggio della presenza, hanno utilizzato anche loro quei contadini, proletari come vittime sacrificali per iniziare una campagna di vittimismo eroico, per avere concesso quella fascia di spazio di legittimità, omologazione e potere, rassegnati ormai, ad uscire dal potere di Stato. E nella commissione antimafia i compagni del PCI, il primo Li Causi, sapevano, ma omertosi hanno fatto silenzio, sulle dimensioni internazionali e il coinvolgimento della DC d‟allora accordata con la mafia, scaricando tutto su Turiddu Giulianu. -Vossia ancora ha questo risentimento su Li Causi. -Rimani convinto che io sono Giuliano … Ecco cosa è successo in quel strano momento storico della Sicilia. Era la primavera del 1950 e da parecchi giorni mi sentivo osservato in paese, la sera in piazza, persino in campagna mentre lavoravo, avevo la sensazione che qualcuno mi stesse spiando. Era vero! Mentre ero alla robba, mi sentii salutare, erano tre persone, armati di mitra, due li conoscevo così bene anche se non li avevo mai incontrati: „Aspanu e Giuliano. Mi sono sentito il sangue tutto in testa. Il sorriso di Turiddu mi rasserenò, mi chiese dell‟acqua, io presi la lancedda e gliela porsi. Lui ringraziò e fece bere prima ad „Aspanu, poi bevve lui. „Aspanu, con espressione di meraviglia, si rivolse a Turiddu: “Guardato da vicino, fa impressione! Questo è perfetto, non è come gli altri due …” 301 BENVENTI A CAMICO Io non capivo, ma ero così agitato, speravo solo che se ne fossero andati al più presto. Invece Turiddu fece cenno di sederci in qualche parte. Mi guardò a lungo, poi mi chiese il nome. “Ti chiami Turiddu come ammia!” “Pure il nome ha lo stesso!” Intercalò „Aspanu. Giulianu mi spiego che dovevano fare un film su di lui e avevano bisogno un attore che gli somigliasse, ed io corrispondevo a quelle caratteristiche. Mi opposi cercando varie scuse, la terra, la famiglia. Mi avrebbe pagato una cifra che rimasi a bocca aperta e che per la famiglia sarei rimasto in contatto. Insomma accettai. Passai quei mesi con loro. Giuliano aveva una camera da presa e le scene le girava personalmente. Mi precisò che il film vero e proprio doveva girarlo un famoso regista di Roma. Ricordo che un giorno mi fecero fare la parte di Turiddu che caduto in una imboscata dai carabinieri rimane colpito dai loro proiettili e ucciso. Dovevo fingere di morire, urlare, Aah! E stramazzare a terra. Quella era l‟ultima scena. Rimasi sconfortato per la fine del film. In fondo una fine inaspettata e che sicuramente avrebbe gettato nello sconforto il Popolo Siciliano. Infondo era finzione, lui era vivo con tutta la sua energia e questo mi rassicurava. Quasi tutto si svolgeva, in un terreno e un caseggiato, forse di Alcamo, sicuramente in provincia di Trapani. Turiddu e Pisciotta si allontanavano interi giorni, rimanevo con alcuni dei loro picciotti. Ad un certo punto capii di essere quasi un loro prigioniero, perché ero guardato a vista. Intanto i mesi passarono ed ho notato un cambiamento sostanziale, su tutti quanti, non regnava più quell‟ordine di prima. Giuliano se ne stava a scrivere a volte intere giornate, Pisciotta si vedeva più raramente. Un giorno mentre Giuliano era via, ho tentato la fuga, mi trovai uno dei guardiani addosso con la sua pistola puntata sulla mia testa. Da quel giorno incominciarono a legarmi le mani e i piedi. Ho avuto certezza della cruda realtà. Ho fatto mille costruzioni con la mia mente, ma non concepivo quale fosse il loro programma. Quando poi mi trasferirono a 302 BENVENTI A CAMICO Castelvetrano mi dissero che bastava una mia mossa falsa e finivo la mia vita crivellato come un colabrodo. Ero rinchiuso in una stanza al piano di sopra, uno di quei giorni interminabili e senza data mi venne a trovare Giuliano, mi liberò e poi guardandomi, come lui sapeva fare, mi disse: “Io sono uomo d‟onore e mantengo sempre la mia parola. Devi avere fiducia e fare, senza cercare spiegazioni, quello che ti ordino!”. Abbassai la testa acconsentendo, ma tremavo dalla paura. Da quel giorno stavo sempre accanto a lui, ho ascoltato il memoriale mentre lo scriveva e mi mise a conoscenza pienamente di ogni cosa, sia a me che al Di Maria. Quest‟ultimo l‟ho conosciuto completamente diverso da come è stato descritto in seguito, dalla stampa e dai libri: taciturno e solitario. Invece era molto eloquente con Turiddu e con me, e di tanto in tanto non mancava di intercalare umoristicamente con qualche battuta. Forse avrà messo a disposizione la sua dimora per qualche favore che doveva a Marotta, lo avrà fatto anche per una sostanziosa ricompensa, ma una cosa è fuor di dubbio: aveva una ammirazione e stima per Salvatore Giuliano grandissima. Gregorio Di Maria con il suo carattere comunicativo era un uomo di cultura, piaceva leggere e conversava con Turiddu di politica, di storia tra i due vi era complicità e rispetto. Sono rimasto colpito dalla profonda fede in Dio di Giuliano, è capitato più di una volta di accorgermi che era assorto in preghiera. E‟ questo il terribile assassino che parlano i giornali di tutto il mondo? Mi chiedevo, come è possibile? L‟inizio di luglio fu un continuo succedersi di eventi, di incontri, di comunicazioni. Confesso che avevo una paura fortissima che s‟insinuava dentro la pelle fino alle ossa. Ero terrorizzato di come mi guardava „Aspanu, tanto che ero deciso a fuggire alla minima occasione. Così avevo fatto finta di andare al gabinetto e invece mi ero partito per l‟uscita secondaria. I due avevano intuito e mi bloccarono all‟istante. Fui legato di nuovo 303 BENVENTI A CAMICO mani e piedi con del filo di ferro sopra il letto nella stanza di sopra. La sera del quattro luglio sentivo parlare giù „Aspanu e Giuliano, in maniera concitata, senza minimamente preoccuparsi che qualcuno di fuori potesse ascoltarli. Poi Giuliano salì e mi disse con tono deciso: “Ascoltami attentamente perché non posso ripetere quello che ti sto per dire. Ora io ti libero, prendi i vestiti che sono nell‟armadio e indossali, compreso il cappello, qui c‟è questa busta con questi documenti e questi soldi, prendi pure questo orologio. Sali per le scale e dalla finestra ti sistemi sul tetto e aspetta, come senti degli spari, corri per i tetti e scendi dall‟altro versante e scappa! Non ti fidare di nessuno solo di te stesso e stai lontano da strade e centri abitati.” Mi slegò, mentre lui si mise in mutande e canottiera, volle essere legato a posto mio, capii cosa stava succedendo e mi commossi profondamente. Gli chiesi perché lo stava facendo. “Non mi sarei macchiato mai del sangue di un innocente, nemmeno per salvare la pelle. E‟ l‟ora di uscire di scena, ma non sarei mai andato via dalla mia Terra. Esco di scena a modo mio.” -Mi chiese di promettergli che quando sua madre, sarebbe passata a miglior vita dovevo portarle un suo saluto. Così feci nel 1971, arrivai a Palermo e con un taxi andai a Montelepre, ho onorato il mio impegno omaggiando la salma, ritornai immediatamente, senza dare opportunità ad alcuno di chiedermi qualcosa. Ho avuto tempo per porgere una preghiera nella tomba di Salvatore Giuliano. Quando ero in volo, pensavo a Mattia Pascal di Pirandello, solo che io, al contrario del personaggio, sapevo chi c‟era lì dentro veramente! Bastò quella mia presenza per accendersi la fantasia di qualcuno e credere nel mito di Giuliano ancora vivo. -Quella notte del 4 luglio 1950, gli baciai la mano e andai, con il cuore rotto, salii sopra il tetto. Il cielo era ricolmo di stelle, il cuore mi batteva all‟impazzata, ero teso all‟ascolto di quello sparo 304 BENVENTI A CAMICO che non tardò ad arrivare, tre colpi di pistola, forse quattro. Corsi sulle tegole e scesi dall‟altra parte dove in lontananza vidi una 1100 nera. Scappai furtivamente dalla parte opposta. Mi nascosi nelle campagne circostanti, seguivo le sue parole e non mi fidavo di nessuno. Così, poi, riuscii a farmi una vita, diciamo normale. Ben sapendo che un incontro con Giuliano la vita te la cambia. In questi anni mi spostai moltissimo ed è ormai da tempo che sono a Toronto. La fede in Dio mi ha molto aiutato. Mi sono chiesto spesso e volentieri: chi sono? -A volte ho creduto di essere io il vero Giuliano. Di sicuro qualcosa di lui mi è rimasto dentro la mente. Tanto che, quando vido le foto di quel cortile, che tante volte avevo guardato dalla finestra, mi riconoscevo in quel corpo a terra. Era una parte di me che era rimasta lì, tra la polvere di quei sogni uccisi, da quei falsi gesti e sorrisi degli uomini di uno Stato presente solo nelle tragedie di un Popolo che ha perso il padre, il figlio o il fratello. -In tutti questi anni ho tentato di continuare la sua opera, ma mi resi conto che chissà quanto tempo dovrà passare ancora per rinascere un altro Giuliano. Ho potuto solo incentivare economicamente associazioni siciliane di cultura e qualche giovane promettente negli studi, poca cosa, niente! -Non so chi ha sparato materialmente a Giuliano, se fu Nunzio Badalamenti entrato dall‟altra parte di casa Di Maria, oppure Pisciotta, o chiunque altro sia stato, però ho capito che il ruolo di „Aspanu era stato ben congeniato con Giuliano, a millimetro. Il ruolo di „Aspanu era quello di Giuda, il traditore, solo così potevano riuscire ad ingannare tutti e sostituire un corpo per un altro, quello del sosia con quello di Giuliano. Forse nei loro progetti la morte del personaggio Giuliano del film doveva corrispondere alla mia morte fisicamente autentica e documentata per la polizia, per il commissario Verdani, chi sa? Avariato questo progetto si attuò: il gioco delle verità in scatola. 305 BENVENTI A CAMICO -Nella scatola della verità del C.F.R.B.33, cioè, del conflitto a fuoco nel cortile di Castelvetrano, del Giuliano ucciso dai carabinieri del colonnello Luca e del capitano Perenze, rimasta ancora oggi riconosciuta e unica dallo Stato Italiano; vi è un‟altra verità, quella del tradimento di Pisciotta. Anche questa ne contiene un‟altra, quella dell‟accordo tra Giuliano e Verdiani per la sostituzione con il sosia e il suo espatrio. La verità nascosta dentro a quest‟ultima è quella di „Aspanu che ha recitato l‟ingrato ruolo del traditore del suo fratello di sangue Giuliano, per potere così consegnare al C.F.R.B. un corpo morto e non un uomo vivo. Ma anche questa ne contiene un‟altra ancora più forte, quella di Giuliano che si sostituì al sosia liberando quest‟ultimo al posto suo. Giuliano così morì spiritualmente sereno ben coscio del carnefice che si stava avvicinando e accennò un sorriso come dire: l‟ultima parola è la mia! A questo punto si fermò in uno dei suoi pesanti silenzi e guardandomi dentro, in fondo ai miei pensieri, per un bel po‟, poi riprese a raccontare: -Quando quel pazzo di Pumadoru incominciò a rompermi le scatole, mi ha inquietato veramente tanto da essere tentato di cambiare destinazione ancora una volta. Rimasi e sbagliai, pertanto dovrò, alla mia età, spostarmi ancora, da qualche altra parte del mondo. … U zzu Turiddu finì così il suo racconto, ora non mi rimaneva altro che crederci oppure no. Intanto incominciava a farsi strada nella mia mente un dubbio: e se in questa verità, che mi ha testé riferito, fosse un‟altra scatola dove si nasconderebbe un‟altra verità ancora? Mentre parlava il suo volto era impassibile, non cambiava minimamente espressione, non muoveva nessuno dei suoi muscoli 33 Corpo Forze Repressione Banditismo 306 BENVENTI A CAMICO facciali, però il suo corpo parlava, la sua mano prendeva le parole dall‟aria attorno, la sua testa rafforzava con ogni movimento i suoi pensieri. Quell‟anziano, che molto mi ricordava il poeta Ignazio Buttitta, aveva nelle sue rughe, la storia del Popolo Siciliano, con tutti i paradossi e i tanti misteri. Arrivarono Joe e Lillo, ci trovarono ancora seduti in fondo, si avvicinarono e chiesero il permesso di sedersi. Lui calò la testa acconsentendo. Gli chiesi se fosse stato possibile avere una fotografia insieme a lui. Mi regalò uno dei suoi sorrisi e Joe corse in auto a prendere la macchina fotografica. Lui si tolse la coppola rimase seduto ed io accanto feci il saluto indipendentista, ecco fatto! Ma non ne permise altre. Quando fui sull‟aereo, soddisfatto di quell‟incontro, riflettei su ogni minimo particolare. Ad un tratto mi si bloccò nella mente la sua fronte e quella cicatrice vicino la tempia sinistra, la stessa che permise la giornalista svedese Tecla di riconoscerlo. E allora? Chi era quell‟anziano? Sicuramente avrà avuto una spiegazione come per le cicatrici sulla pancia. Una probabile, quella che le erano state causate appositamente da un medico per somigliare ancor di più al vero Giuliano. Mi vennero dei dubbi: forse sarà stato solo un effetto di ombre? Arrivato a Camico mi feci sviluppare un ingrandimento della fotografia e altre ancora di diverse grandezze. La cicatrice, in quella fronte così particolare, è cicatrice ed è lì presente, tutto il resto è Sicilia. 307 BENVENTI A CAMICO NOTA DELL‟AUTORE Questo racconto è pura fantasia, non ha la pretesa di essere una ipotesi possibile. Comunque sia, in quel corpo tra la polvere del 5 luglio 1950, dove anche la legge di gravità non era certezza scientifica, di sicuro ha cessato di esistere il Colonnello Giuliano, dell‟eroica “Brigata Palermo” comandante dell‟EVIS per la Sicilia Occidentale. Al Popolo Siciliano, compreso me, piace credere, che quel giovane di ventotto anni, sia riuscito a scamparla ancora una volta, e rifarsi una vita nuova, normale, di buon padre di famiglia. Spuntando così, a farsi beffa del suo crudele destino iniziato in quel 2 settembre 1943 a Quarto Molino. La storia di Salvatore Giuliano è quella di ogni Siciliano che esce fuori dalla riserva mentale, che chiamano sicilianità, simile alla riserva riconosciuta agli indiani d‟America, per rivendicare la propria territorialità, scontrandosi inevitabilmente con chi ne ha il possesso, nel suo caso, prima contro l‟Italia badogliana post fascista, poi l‟Italia repubblicana. Questa è la lotta indipendentista, una lotta di territorio da riconquistare palmo dopo palmo. Per iniziare è necessario che i Siciliani abbiano il coraggio almeno di uscire dalla loro riserva mentale, da dove vivacchiano ormai da millenni e solo alcuni hanno avuto il coraggio di farlo, uno tra questi Ducezio nel 450 A.C., altri ancora fino a Giuliano dal 1944-50 A.D. … Giuseppe Sciortino Giuliano, ha realizzato la sua ultima fatica: VITA D‟INFERNO – Cause ed effetti. La lettura di quest‟opera fu tempestiva ed esplicativa, perché mi colmò alcuni vuoti importanti per completare questo racconto. Ho trovato questo testo scritto con il cuore, in una prosa luminosa, senza ombre, da facilissima lettura partecipativa. L‟Autore si è posto nella giusta distanza dello storico non escludendo la sua presenza critica ad alcuni fatti incresciosi. Il libro fa parte di quella letteratura alternativa a quella ufficiale e omologata dal potere istituzionale. Quell‟altra cultura che si contrappone alle forme di propaganda massiccia del potere che detiene la sovranità territoriale e che bombarda continuamente l‟opinione pubblica siciliana. Nonostante ciò, non riesce, però, a scalfire minimamente l‟icona di Turiddu Giuliano nell‟intimo di ogni Siciliano che non giace nella rassegnazione ed ha acceso il fuoco della ribellione alle varie ingiustizie sociali e politiche. 308 BENVENTI A CAMICO Nell‟opera di Giuseppe Sciortino Giuliano viene fuori un elemento di grandissima importanza: la repressione cieca e coloniale di uno Stato d‟occupazione, che ha usato le proprie forze belliche e di polizia contro i Monteleprini, non risparmiando loro né la tortura, come mezzo per estorcere confessioni, né lo stupro e il saccheggio. I Monteleprini devono essere fieri del loro passato, come lo siamo noi Siciliani della loro eroica storia. Certa letteratura non si pone nemmeno scrupoli su ciò che hanno dovuto subire cittadini inermi nelle mani di quella forza di occupazione militare a Montelepre. Cito uno per tutti: Il bandito Giuliano di Salvatore Nicolosi Edizione Brancato Editore – Catania 2005 a pagina 149 scrive: “Costui34fu messo alle strette; e per “mettere alle strette” i carabinieri non si facevano scrupolo di picchiare qualche volta i sospettati (metodo assolutamente condannabile, il quale però alla fine fruttava confessioni che, altrimenti, i più incalliti delinquenti mai si sarebbero abbandonati a fare).” Sicuramente penso che viene il volta stomaco quel “però” che, in un certo qual modo, giustifica la tortura come metodo e subita dai Monteleprini, dimenticando che sotto tortura anche lo stesso Nicolosi avrebbe confessato di avere sparato quel 1° maggio, insieme a Giuliano. Perché quel “mettere alle strette” era la “cassetta” di don Pasquale35 e fare ingoiare acqua sporca e salata tramite una maschera antigas per poi sferrare pugni alla dome fin quanto l‟ “interrogato” non accettava tutto quello che gli propinavano come confessione. Ora accettare questo significa dimenticarsi dei minimi significati dell‟umanizzazione raggiunti della bestia umana. Chi è Giuseppe Sciortino Giuliano? E‟ un indipendentista dal primo battito del suo cuore. Figlio di Mariannina Giuliano e Pasquale Sciortino, nonché nipote di Salvatore Giuliano. Finito nelle italiche galere a otto mesi insieme alla madre. Poi nel 1980 fu processato e condannato per avere costruito uno cippo in memoria dei Partigiani dell‟EVIS caduti. Il 30 marzo del 2009 il presidente della Camera Gianfranco Fini inaugurando a Montelepre la targa in memoria dei carabinieri caduti nella lotta al banditismo nel periodo in cui visse Salvatore Giuliano, posta al centro del paese all‟esterno del centro Polifunzionale in via Castrenze di Bella 14 disse: “Ricordare gli uomini in divisa che si sacrificarono 34 35 Trattasi di Francesco Gaglio detto Riversino, teste principale della strage di Portella delle Ginestre. Ben descritti da Giuseppe Sciortino Giuliano nelle sue opere, compreso quella citata testé. 309 BENVENTI A CAMICO contro il banditismo non e‟ retorica, ma e‟ un dovere delle istituzioni perche‟ sono stati i primi a combattere nel nome della legalita‟”36. Riflettendo su questa visita e queste parole non posso fare di confrontare Montelepre a Bronte. Anche a Bronte vi è una via dedicata a Nino Bixio. Due città, due Popoli che si ribellarono e che hanno subito quell‟ingiustizia storica con le esecuzioni sommarie a Bronte e con i soprusi a Montelepre. Due epoche storiche ed una sola Italia colonizzatrice che chiama la sua oppressione “legalità”. Ricordo nella prima visita che feci a Montelepre, nel 1995, la sensazione che ho provato, mista tra commozione e riconoscimento, mi ritornavano alla mente le fotografie in bianco e nero dell‟epoca dei fatti e i volti di quei Monteleprini. Non ho potuto fare a meno di legarmi al collo il fazzoletto giallo/rosso dei Volontari dell‟EVIS. Poi, visitai i posti, le strade, le piazze, andai ad abbracciare Frank Mannino, nella stazione di rifornimento di benzina. Quando lui mi vide e notò il fazzoletto, gli venne un sussulto di commozione. Ho visto le sue lacrime sgorgare ed ho capito la forza di quella passione politica, autentica, che aveva infiammato quegli animi e che sicuramente non si è assolutamente assopita in quegli uomini forti e valorosi di allora. Frank, alias Cicciu Lampu, in un filo di voce mi disse: “E‟ difficili …”. Sì, sarà pure difficile, ma noi Siciliani abbiamo il dovere di crederci ancora, e ci crediamo, compreso Frank, il quale non disse “è impossibile” come qualcuno vuole convincere senza nemmeno prima muovere almeno il sedere dalla sedia. Ho saputo allora che lui era divenuto un fratello evangelico. Questo sta a significare l‟autenticità di uomini come nel loro cammino interiore. Uomini che hanno impugnato le armi e le hanno pure usate, ma nello stesso tempo ne hanno sentito la pesantezza. Quel giorno visitai la “Casa Museo Giuliano” in corso di realizzazione dall‟infaticabile Giuseppe, collezionando oggetti, utensili agricoli, perché Giuliano non è divisibile dalla Terra e dai suoi contadini. Mille immagini affioravano nella mente. Vedere la camicetta di Marianna, o il leone disegnato nella cameretta, la bicicletta di Turiddu. Una cosa mi ha colpito in particolare la sua tessera del MIS, la stessa della mia. Una visita al cimitero di Montelepre era d‟obbligo. Così mi accompagnò un incaricato, il quale ad un certo punto, visto la mia riluttanza a fermarmi nella tomba di Gaspare Pisciotta, perché i Siciliani ai 36 http://www.montelepre.info/2009/03/30/fini-le-leggi-vanno-sempre-rispettate-ricordare-e-dovere_588 (presa visione il 22 luglio 2010 alle 20,31). 310 BENVENTI A CAMICO traditori li chiamiamo per l‟appunto Pisciotta, mi disse: “Falla una visita ad „Aspanu, pirchì la storia ‘unn è comu si cunta!” 311 BENVENTI A CAMICO APPENDICE Siculiana, 14 luglio 2010 Carissimo Fratello Pino, tornando da lavoro, ho avuto la graditissima sorpresa di trovare la tua posta. Spero intanto che tu e la tua famiglia stiate bene. Ho seguito attentamente ogni cosa su questa pubblicazione e ti confesso che desideravo essere partecipe alla presentazione, ma il mio lavoro non mi consente di spostarmi facilmente, pertanto ardivo di possedere questa tua nuova fatica, che leggerò immediatamente, anche perché per il sessantesimo, sto preparando un raccontino di fantasia: VIAGGIO A TORONTO, tratto da una raccolta, niente di importante semplicemente un lavoro di fantastoria che ha uno solo scopo: quello di continuare ad alimentare l‟icona della NON RASSEGNAZIONE SICILIANA, della RIBELLIONE DEL POPOLO SICILIANO. Solo questo. Mi serve per diffonderlo tramite internet come faccio con il resto di ciò che scrivo. Come sarà finito te lo invierò, tramite e-mail, sarà circa una ventina di pagine(?). Spesso mi vengono alla testa tante fantasie e tra queste quella dell‟ipotesi che il nostro Eroe Colonnello Giuliano, in un modo o nell‟altro sia veramente riuscito a continuare la sua esistenza dopo quel fatidico 5 luglio 1950. A quella sua giovane età essere riuscito a vivere una vita sua, come era nei suoi sogni, prima di iniziare tutto a Quarto Mulino, facendosi una famiglia, sarebbe stata un impresa altrettanto eroica. Insomma l‟ipotesi che il Popolo Siciliano ha fermamente desiderato e che tu hai inserito nelle ultime pagine del libro (…) Mi è venuto in mente: chissà in questa ipotesi, se Giuliano avesse avuto la possibilità di ascoltare la mia canzone: Colonnello Giuliano? E che cosa ne avrebbe pensato? Chissà? Ma sono contento di averla scritta e presentata in diverse occasioni, perché tutto quello che ho letto dopo non smentisce una virgola da quella mia convinzione. Oggi, per una vera lotta politica indipendentista, accettata dal Popolo Siciliano, quello come me, proletario, di lavoratori, deve ripartire da Giuliano! Quello che non vuole capire quella massa inerme di parolai che si identifica sicilianista. Tutto deve ripartire da Montelepre, è da anni che insisto! Grazie ancora, e mi raccomando se passi da Siculiana ricordati che vi abita un fratello. Un abbraccio Alphonse Doria, un caro saluto anche dalla mia consorte Anna. Giuliano37 Le stagioni sono passate, ma il tempo è lì rimasto; tra le piazze e le sue strade vi è il ricordo del suo gesto. L‟eroe del Popolo Siciliano 37 Autore della parte letteraria Alphonse Doria, melodista Alessandro Doria, arrangiamenti Bruno Doria. Canzone incisa nel 1998 in un Compact Disc dal titolo: Studio S.u.D. PRODUTIONS, collezione di artisti vari. 312 BENVENTI A CAMICO dal cuore buono e dal mitra in mano è il Colonnello Giuliano. L‟EVIS gridò vittoria, per la Sicilia fu gloria! La sua legge l‟onore, per la sua Patria l‟amore, una bandiera nel cuore. “il giallo osare Il rosso amare”. “Risorgi Patria mia Sarai indipendente”. Nel cielo di Sicilia Cantava per la sua gente. Tra mafie e forze comuniste calpestarono tutte le verità a Portella delle Ginestre negando alla Sicilia Libertà! Caffè all‟Ucciardone E segreto di stato, antimafia e commissione su l‟eroe bandito. Anche se l‟odio rancora Giuliano vive ancora in ogni Siciliano che porta nel cuore la Patria, Dio e l‟onore. 313 BENVENTI A CAMICO PARTE QUINTA Siamo usciti dal bar già era tardi, la piazza era completamente deserta. Guardavo il Circolo Civile e ancora era aperto. Pietro mi diceva che ormai non era frequentato più come prima, non vi erano più giovani. Così siamo entrati. Ci è voluto poco ed ho immaginato le scene nel divano, i soci che giocavano a carte, chi leggeva il giornale, chi fumava e si godeva l‟ozio, tra quei mobili neri antichi, un po‟ malridotti, nonostante lo stato avevano la propria bellezza di quel buon artigianato locale. Dentro la libreria vi erano una ventina di libri impolverati e malridotti con dei vecchi giornali, stavano lì, ormai senza vita da così tanto. Mi veniva voglia di curiosare tra quelle pagine, di toccarle magari, non si poteva, stavano lì, chiusi a chiave, dietro le due ante con i vetri rotti. Pietro, si divertiva ad osservarmi, sapeva la mia mania, perché di vero mania si tratta. Quando vedo libri vengo subito attratto, poi, se sono usati meglio ancora, più sono vecchi e più accresce il mio interesse. Mi piace leggere se contengono una dedica, o un nome, un timbro, una data scritta a penna, se a sfera o stilografica, il colore dell‟inchiostro, analizzare le sottolineature, qualche nota, per poi ipotizzare il lettore precedente, il sesso, l‟età, la personalità. Insomma un libro nel libro. -Zzu Nà, buonasera, mi deve scusare, ha le chiavi della libreria? 314 BENVENTI A CAMICO IL TURBINE ANARCHICO DELL‟EROS Il primo amore non si scorda mai un antico stornello me lo ha detto se tu dimenticarmi mai potrai la prima volta ch'io ti strinsi al petto Torna al tuo primo amore torna a cantare quella canzone da te preferita dammi i tuoi baci, io ti darò la vita cantiamo assieme iI primo amore non si scorda mai Per te che ti amo tanto e te sospiro il canto della notte è una passione la luna splende e un venticello spira e porta questo canto al tuo verone Torna al tuo primo amore a ricantare quella canzone da te preferita dammi i tuoi baci, io ti darò la vita cantiamo assieme il primo amore non si scorda mai Torna a me! (Canzone del primo amore – di Carlo Buti – 1932) 315 BENVENTI A CAMICO La cattura Nanà Sapuni, cameriere del circolo, per meglio dire, addetto ad aprire e chiudere, vendeva qualche gazzosa, qualche birra, poi gli pagavano la casa quando giocavano a carte, soprattutto era di fiducia, parlava molto ma non diceva niente. Ora anziano, era stato in carcere quasi ventisette anni, dal 1933, prima a l‟Ucciardone di Palermo, poi in diversi carceri del continente. Era stato accusato dell‟omicidio di un giovanissimo pastore, un ragazzino di undici anni, ammazzato presso la vaccheria a colpi di bastone. Lui si è sempre confessato innocente, anche ora che sono passati così tanti anni ed ha pagato il suo conto con la Giustizia. Un fatto veramente strano, senza un movente apparente. I familiari iniziarono subito le ricerche, non appena il piccolo pastorello non rientrò all‟orario consueto, perché non li avrebbe mai impensieriti rimanendo a perdere tempo, puntiglioso com‟era. Il primo a chi rivolgersi fu appunto Nanà, in quanto compagno di lavoro, anche perché facevano sempre la strada del ritorno assieme. Con grande disperazione acquisirono che neanche lui era stato visto, lo cercarono ma non si trovava né a casa né altrove. La madre decisa andò a tirare la campana della caserma. Un appuntato consigliò di attendere ancora un altro po‟. Lei piangendo supplicò il maresciallo ma fu inutile. Ritornati a casa sconsolati stettero sotto una coltre di silenzio, nel turbamento ansioso dell‟attesa e di una speranza colma di una preghiera muta, fatta col cuore. Passò meno di mezzora, quando la madre si rivolse al marito imperativa che dovevano andare e subito! poteva essere tardi, l‟addevu poteva avere bisogno, come si stava ad aspettare? Così sono andati, marito e moglie a cercarlo sul posto di lavoro, alla vaccheria. Nella fioca luce di una lanterna si dissipò per loro ogni buona aspettativa, trovarono quel povero corpicino accanto al cancello, come un mucchietto di stracci. Fu così che per i carabinieri scattò la caccia all‟uomo per Nanà ed infine lo trovarono, lungo la strada di Cattolica. Il fatto che era ben vestito e 316 BENVENTI A CAMICO non co. Lui come vide la camionetta tentò di occultarsi, paura atavica dei Siciliani, questo peggiorò la sua posizione. Il fatto che era ben vestito e non comunemente fece pensare al maresciallo ad un suo tentativo di fuga dal paese. I carabinieri lo portarono in caserma e con i metodi che allora andavano di moda, come la cassetta e l‟acqua salata con l‟imputo, riuscirono a strappargli una confessione, subito dopo ritratta dall‟accusato. 317 BENVENTI A CAMICO Il Professore A l‟Ucciardone ha avuto un compagno di cella illustre, che lui chiamava Il Professore. Quando parlava di lui diventava un altro, il tono della voce gli si trasformava impostandosela come un tenore e le parole assumevano importanza: -Il Professore diceva: “nessuno ti fa dono della libertà! Un uomo senza almeno il desio di libertà è solo una bestia da soma!” Mi insegnò a leggere e a scrivere in meno di un mese, perché dovevo comprendere questa parola: “LIBERTA‟!”. Mi diceva che è come una chiave che apre le porte della propria umanità! Ho letto dei libri e ne vado orgoglioso, non sono molti, ma ho soppesato i pensieri di quelle parole scritte e mi sento ricco dentro, come quando qualcuno accumula un tesoro e lo fa sentire sicuro con gli altri. Sinceramente ascoltare questo concetto da quell‟anziano era veramente un fatto curioso. Guardavo quel corpo, nonostante i suoi anni era teso, siccagnu. Gli occhi neri incavati e a mandorla, due fessure che portavano lontano, ad orizzonti perduti come sterminate pianure, o catene di montagne irte e alte, tali da raggiungere il cielo. La fronte ampia e i capelli ancora tutti neri, nonostante l‟età, pettinati all‟indietro, il mento prominente, il viso solcato da alcune grosse rughe. Si muoveva con sicurezza, gesticolava appena, solo qualche cenno ogni tanto, dava forza alle sue parole con il viso, quasi a dire: se non mi credi rinfacciamelo! -La libertà non si cede a NESSUNO! I governanti amministrano un mandato, non hanno sovranità, diceva Rousseau, la sovranità appartiene al Popolo. E in quanto Popolo, Noi Siciliani, non riconosciamo nessuna delega agli altri Popoli del continente! Questo me lo diceva il Professore. -Minchia! Mi scappò, guardando Pietro, che si fece una sghignazzata colmo di soddisfazione nel presentarmi questi strani soggetti di Camico. 318 BENVENTI A CAMICO -Quando ho letto Dostoevskij la prima volta, mi ricordo il librone de I fratelli Karamazov, pagina dopo pagina, incominciai a sentirmi libero e più leggevo: Tolstoj, Pirandello, Kafka, più mi sentivo libero dentro e nessun cancello, o muro, o porta chiusa a chiave, poteva limitare questa mia libertà! Anzi guardavo i secondini, i magistrati, l‟avvocato, il prete e notavo come erano prigionieri dei loro ruoli, delle loro meschinità. Capii così, quel suo sguardo senza frontiere. Era bello ascoltarlo, sembrava sopra un palco teatrale e la sua voce sembrava uscisse da un megafono. 319 BENVENTI A CAMICO Grazia la cataluchisa Nanà Sapuni, uscito dal carcere si mise a lavorare la terra con tenacia. Ad attenderlo tutti quegli anni vi era stata quella donna che era andato ad incontrare a Cattolica quella sera e che per nessuna cosa al mondo, nemmeno per la sua stessa libertà, l‟ha voluta citare come testimone, non ne fece cenno nemmeno sotto tortura e nemmeno al suo avvocato, rimase un segreto d‟onore, un segreto d‟amore. Lei lo attese giorno dopo giorno, anno dopo anno, lettera dopo lettera, saldando così un amore tra i due serio, forte, che niente e nessuno poteva mai scalfire. Hanno avuto due figlie, una dopo l‟altra, tanto da sembrare gemelle passato qualche anno. Chiamarono: Libera la più grande e l‟altra Antea. La compagna di Nanà, Grazia la cataluchisa, era veramente un personaggio insolito, da scriverci un romanzo. Appena sposata, dopo avere scoperto la suo erotismo con il marito, le se accese una bramosia che ha cercato di nascondere, di contenere in tutti i modi possibili. Poi per caso, Nanà era andato a Cattolica alla festa di San Giuseppe e sempre per caso capitò l‟uno di fronte all‟altra. Lui avvertì lo sguardo addosso della giovane signora, ma fu quando lo incrociò che sprofondò in quel calore represso di lei, le fiamme lo presero, tanto da fare cose per lui prima inaudite per l‟arditezza. Incominciò a muoversi tra la folla, passo dopo passo, fin quando si andò a posizionare proprio dietro lei, la quale si stringeva al braccio del marito e si abbandonava di peso a lui. Nanà impazzì, avvertiva una energia nel suo corpo pronta ad esplodere da tutti i pori della sua pelle. Quando la folla si stava diradando i due corpi si staccarono, con una forte promessa di rincontrarsi, che confermarono tutte e due con gli occhi, con tutto loro stessi. Da quel giorno i due trovarono il rimedio per incontrarsi facendola in barba al marito e a tutti i Cataluchisi. 320 BENVENTI A CAMICO Al ritorno di uno di questi appuntamenti, con precisione il terzo, ahimè, Nanà fu catturato! Grazia tremò dalla paura che lui parlasse. Passarono giorni e mesi con questa paura addosso, ci ha convissuto, fin quando si ci abituò, ma non riuscì più a recitare la parte della brava moglie, capì che quella sua esistenza era un tradimento, non a suo marito, ma a se stessa. Fin quando, mentre il marito la stava possedendo e lei pensava a Nanà, decise di spingerlo e catapultarlo con le gambe nella dome del povero ignaro da sopra il suo corpo, cacciando fuori un urlo liberatorio: -BASTA! Si vestì alla meno peggio e scappò di casa, lasciando il marito con tre palmi di naso e non solo … Da quella sera il marito si chiede ancora cosa sia successo? Cosa abbia fatto di male per farla arrabbiare in quel modo? Cercò qualsiasi ambasceria, ma nessuno e nessuna cosa la convinse a ritornare a casa. Il povero marito aveva scambiato l‟arrendevolezza della moglie, la sua attenzione ai suoi umori, alle sue parole, ai suoi sguardi, per un amore genuino. Nelle persone semplici una volta bastava anche volersi bene e rispettarsi. La parola amore, in una coppia, era rilegata all‟innamoramento quando si era picciotti, il matrimonio non aveva tante pretese. Lui, per questo motivo era felice, perché pensava di essere veramente amato da lei, pertanto diverso dagli altri sposati, più fortunato. Ma quel comportamento di Grazia, dal marito equivocato, era dovuto alla paura continua che si fosse venuto a scoprire l‟adulterio, che Nanà avesse confessato e lei sarebbe divenuta una pubblica bagascia. Si, è vero, che bisogna dire sempre la verità per stare bene con se stessi, ma soprattutto per non causare danni a gli altri, danni nell‟intimo delle persone, oppure al corso della storia micro o macro che sia. Ma la menzogna è l‟arma di difesa dei più deboli. 321 BENVENTI A CAMICO Come si fa a condannare con la morale degli ipocriti chi non ha altra difesa che la menzogna? -Ai preti non interessa che dite le menzogne, tanto loro hanno lo strumento per togliervi i sensi di colpa, però, attenti! a condizione che, a loro dite solo la verità! Nanà sottolineava la sua opinione, chiarendo di non essere né ateo né mangiapreti. Ci arricchì così con una delle sue riflessioni: -L‟esproprio proletario non è altro che la giustificazione di un reato, pertanto una menzogna. Marx non aveva espresso niente di nuovo, era stato già pensato dai Gesuiti in tempi così lontani che nemmeno si era posto il problema del giusto salario. Nel XVII secolo loro asserivano che il servitore costretto ad accettare il suo lavoro per le sue condizioni disagiate e il padrone lo retribuiva in maniera inferiore confronto agli altri servitori dello stesso tipo altrove gli veniva giustificato il furto equiparato alla differenza. Questo l‟ho letto in una opera di Pascal, il quale volendo argomentare contro “la morale rilassata” e le contraddizioni della Compagnia di Gesù, si segnò un autogol, mostrando invece la sensibilità sociale dei Gesuiti. Pietro con tono molto serio, sorprendendomi, disse quasi come una profonda riflessione fatta chissà quando: -La verità nei rapporti intimi è un‟altra cosa, perché la menzogna corrode! E‟ una corruzione inavvertibile. Chi subisce la menzogna percepisce una disarmonia in quel rapporto, nella sua vita, che lo induce a riflettere su se stesso in una leggera sofferenza, vivendo male il suo presente, menomato di quella giusta attenzione e vivacità. Difficile, a chi è sensibile, portare con successo i traguardi prefissi. Il tutto può sfociare in fine, in una gelosia irrazionale e pericolosa … Grazia, tornata ad abitare dai suoi, si mise in contatto epistolare con Nanà Sapuni. Lei, che non riuscì a tenere a freno il suo eros, quasi come una contropartita afflitta dal suo Dio, ha 322 BENVENTI A CAMICO dovuto reprimere nella solitudine ogni pulsazione della sua carne che intimamente avvertiva all‟unisono con il cosmo. Tutto passa, tutto scorre. Mancavano pochi giorni al 1960, quando il 29 dicembre Nanà fu scarcerato dal San Vittore di Milano. Ad attenderlo alla stazione di Giurgenti vi erano infreddoliti Grazia e l‟anziana madre chiusa nel suo scialle nero, quando poi finalmente arrivò con il tanto atteso treno dopo più di tre ore di ritardo. Il loro fu un forte abbraccio e un pianto tale da commuovere i presenti che assistettero a quella scena. Da quel giorno non si lasciarono più nemmeno un solo giorno. I Camichesi, guardavano quella coppia di fatto dapprima con distacco, a tal punto che le donne evitavano proprio il contatto, la semplice conversazione con Grazia. Ancora peggio era il rapporto con i parrocchiani … Grazia la cataluchisa, se ne strafuttiva, la sua era stata una felicità tanto attesa, ed era arrivata senza delusioni, perché Nanà era l‟uomo che amava e con lui si sentiva femmina in tutti i sensi. Quando videro il comportamento corretto, dignitoso, poco alla volta, i paesani integrarono quella famiglia. 323 BENVENTI A CAMICO L‟eros muove il mondo! -L‟eros muove il mondo! Ogni storia animale ha il suo inizio narrativo nell‟eros. Cosa sarebbe stato il libro della Bibbia se Adamo non fosse stato mosso dall‟eros? Ed è proprio tramite la strumentalizzazione di questo eros da parte dei capitalisti che viene incatenata l‟umanità, come insegna il grande Marcuse. Nanà espletava così un‟altro dei suoi pensieri questa volta vissuto direttamente, infatti la sua vita cambiò tutta perché mosso dall‟eros, ma non indietreggerebbe di un millimetro se dovesse rivivere quei giorni. Quei giorni, quando riusciva a percorrere chilometri di campagna a piedi, dalla vaccaria a Cattolica, avendo solo un pensiero in testa: la purticedda di lu firriatu la trovu aperta o chiusa? Per poi, col cuore palpitante, spingere leggermente quella piccola porta che piacevolmente si concedeva. Ascoltava i rumori nascosto nell‟attesa e infine vedeva la luce dell‟uscio di casa illuminare Grazia, così la seguiva con gli occhi mentre andava verso la stalla e come un ladro la raggiungeva. Un amplesso veloce, con la paura addosso, con poche parole e tanti baci da divorarsi l‟uno con l‟altro, vibranti di adrenalina. La calda carne dell‟uno tra le mani dell‟altro. Infine non avere nemmeno il tempo di guardarsi, non volersi guardare, perché era troppo pericoloso, perché quello sguardo avrebbe richiesto ancora baci e abbracci. Quella spartenza era dolorosa, corporale, come quella volta in piazza, come ogni volta. Mentre Nanà tornava nel buio della campagna, raccontava ad ognuna di quelle stelle, che gli tenevano compagnia cosa era il mondo di Grazia. Quando fu poi in carcere ha tentato di mettere in versi queste sensazioni non riuscendogli, strappando geloso di se stesso in mille pezzi il foglio con quelle poche parole tormentate, cancellate. Ma il ricordo non l‟aveva abbandonato mai, nemmeno sotto tortura, quando aveva dentro l‟addome tutta quell‟acqua salata, nemmeno quando riceveva le bastonate, o i pugni, da quell‟appuntato, il quale in quella sua vigliaccheria, trovava pure 324 BENVENTI A CAMICO la sua intima e infima felicità. Lui, Saponaro Leonardo, „ntisu Nanà Sapuni, invece odorava nell‟aria il profumo della pelle di Grazia, sentiva tra le sue mani il tenue calore della pelle di Grazia e se riusciva a chiudere un attimo gli occhi, vedeva anche il volto di lei illuminato dall‟intenso piacere del loro rapporto. Cosa poteva mai significare tutto quello che gli stava accadendo in compenso a quanto aveva già ottenuto dalla vita?! 325 BENVENTI A CAMICO Ninuzzu L‟unico dolore forte, della sua detenzione, era sapere della morte del povero Ninuzzu, così intelligente, capace in tutto. Lui scolpiva, con il suo inseparabile coltellino, pezzi di rami di albero. -Quando scendeva di giorno in paese imparava le canzoni dall‟uomo dell‟organetto, se le teneva tutte in testa, precise, poi le cantava, con quella bella voce intonata che rallegrava tutta la campagna, mentre intagliava con parsimonia e da quelle sue manine uscivano fuori: cavalli, cani, pecore, crocifissi, pipe e tutto quello che gli passava per la mente. Ninuzzu era un ragazzino di famiglia povera, senza ambizioni, senza colpe. Cercavano, tutti quanti, la madre, le sorelle e il padre, di vivere onestamente accontentandosi di ciò che riuscivano a racimolare. Un grande mistero insoluto, soprattutto per Nanà Sapuni, perché per la Liggi e per i Camichesi il caso era chiuso. Tra quelli che si ricordavano ancora questo accaduto, vedevano in lui l‟assassino, il mostro. La cosa peggiore che „gnuri Raffaele, che dimorava nella vaccaria, non aveva visto nessuno oltre a Nanà e Ninuzzu che si stavano accingendo ad andare in paese e non aveva sentito niente, né un urlo, né un minimo rumore. Però quello fu il luogo del delitto. E „gnuri Raffaele era conosciuto come persona corretta e saggia. Le bastonate erano state sferrate con una tale forza e precisione da lasciare pensare ad una persona abile all‟uso, insomma che con il bastone ci lavora, ad esempio un pastore … Nanà era un abile vaccaio e un uomo giovane e forte. La vittima quando è stata uccisa aveva di fronte il suo carnefice, perciò lo conosceva e si fidava tanto da non avere urlato, senza paura alcuna fu colto di sorpresa. Troppi indizi accusavano Nanà, talaltro aveva confessato e non aveva un alibi, pertanto non vi furono dubbi. 326 BENVENTI A CAMICO Il padre di Nanà Il padre di Nanà, un tipo di poche parole, concentrò tutte le sue forze per acquistare un apprezzamento terriero ché doveva assicurare al figlio quella indipendenza economica. Diceva alla moglie: -Accussì „un havi bisogno di tuppiare porti! Morì sei anni prima che il figlio uscisse, un giorno di luglio tra le zolle di quella terra mentre faticava, fu trovato a bocconi tra i cocci della lancedda. A quanto sembra stava bevendo, nel pieno dell‟afa siciliana e gli è venuto un malore. La moglie, visto che tardava, chiamò il compare che corse. Il compare non nega di avere avuto, in un primo momento, la sensazione di un omicidio. Ritornò in paese a dare la triste notizia alla cummari e consigliò di chiamare i carabinieri. Così la Liggi accertò appunto, che fu una morte non provocata. 327 BENVENTI A CAMICO Sapore di libertà -La libertà ha un sapore forte, ho respirato l‟aria fuori il portone e mi provai un bruciore dentro, come se avessi bevuto il Fuoco di Russia, tanto da sentirmi traballare la strada di sotto. Il freddo mi entrava da tutte le parti e il cielo sembrava murato col cemento, nonostante ciò, tutto era meraviglioso tanto da provare il morso al cuore della paura. A San Giovanni, alla vista delle luci di Messina, mi incominciò una palpitazione che non si assopì per niente per il resto del viaggio. Ogni tanto percepivo lo scorrere sul viso di qualche lacrima, non piangevo, lacrimavo e non provavo vergogna. I miei compagni di viaggio, anzi, mi guardavano amorevolmente, offrendomi tutto ciò che avevano, sigarette, una arancia che loro stessi mi sbucciavano e con insistenza offrivano. Mi rincoravo… Il profumo dell‟arancia, vivo, il calore di quelle persone accanto, i loro occhi benevoli, il mare e il cielo blu, il verde esuberante, tutto era più di quanto abbia potuto sognare ad occhi aperti sulla branda in quella cella. Finalmente insieme con la mia Sicilia! Tanta luce, troppa! 328 BENVENTI A CAMICO Arriva il medico Balla Quando entrò, con un sorriso che prendeva tutta la sua faccia larga e rotonda, un uomo con qualche chilo in più, anche lui come Nanà, su con gli anni. Indossava un vestito nero, un po‟ stropicciato, una coppola di fustagno verde calcata in testa e una sciarpa di lana, di un rosso vastasu, avvolgeva il suo collo. -Nanà stai facendo lo straordinario? La tua voce rimbomba per tutta la piazza. Buonasera. -Questo è il dottor Balla! Uomo di grande statura morale, di grande cultura. Pronto ad aiutare chiunque senza nessun pregiudizio. Dico sempre: il missionario laico di Camico. -Compare, ora stai mettendo troppo sapone … Pietro allora volle intervenire aggiungendo che u zzu Nanà non stava per niente esagerando. -Sono andato a visitare l‟arciprete De Paolis, quello muore muore e non muore mai! Finì a risata generale. Il medico Balla, sempre libero da pregiudizi e convenzioni sociali, ha avvicinato quella coppia di fatto, quella piccola rivoluzione sociale in quel microcosmo dalle regole rigide, per lo meno quelle esteriori, quelli dell‟apparenza. Quando è nata Libera, il desiderio della nonna era di battezzare la bambina, così Nanà dopo avere temporeggiato per qualche mese e viste le insistenze anche della compagna per accontentare l‟anziana madre si è deciso ad andare dall‟arciprete De Paolis. -Io non ho nessun problema a battezzare la tua bambina, ma voi vi dovete confessare, perché in caso contrario quale sarà il vostro ruolo nella funzione? Nacque una disputa che non narrerò, ma che trovò la soluzione solo con la mediazione della madrina Serafina, la consorte del medico Balla. La quale entrò in un compromesso storico: portare la domenica a messa il marito. Il dottore non ha 329 BENVENTI A CAMICO avuto nessun problema con la sua elasticità di pensiero. Nacque così tra le famiglie Balla e Saponaro un rapporto di stima reciproca e sincera amicizia. Per Antea i Saponaro non cercarono nuovi padrini, così rinsaldarono la cumpariata. Tra Nanà e il dottore nascevano dispute a non finire, semplici ma profondissimi, di politica e cultura. 330 BENVENTI A CAMICO Libera e Antea Libera e Antea hanno avuto una educazione di liberi pensatrici ed una intraprendenza culturale non indifferente. Il confrontarsi con i coetanei, ma anche con gli insegnanti, era a volte complicato, perché la loro cultura non era omologata, così spesso in classe si infervorava un dibattito e buonanotte ai sonatori, non si faceva più lezione. La più ribelle era Antea, bastava che qualche compagno impreparato, la incitava ad iniziare la disputa per evitare l‟interrogazione. Non parlando delle questioni che vi furono per l‟ora di religione durante la scuola media inferiore … Iniziate da Libera, la quale frequentava la chiesa, e il catechismo, ma criticava questa imposizione nella scuola. Lei asseriva che la scuola doveva essere laica ed equidistante, formatrice di pensiero. Libera, con i suoi lunghi capelli neri e lisci, non si sottraeva di manifestare il suo disappunto direttamente con l‟arciprete De Paolis a scuola, disputa che si protraeva anche in chiesa a tu per tu. Anche i capelli di Antea erano neri come quelli della sorella, ma ricci e tanti. Lei aveva la caratteristica di sobillatrice, così più di una volta organizzò veri scioperi durante l‟ora di religione, come rimanere in piedi tutta la classe ed emettere un suono a bocche chiuse, un fastidiosissimo mormorio. A nulla valsero le note sul registro, anzi peggioravano l‟azione. Una volta organizzò uno sciopero coinvolgendo tutte le altre classi a non entrare, con tanto di dazibao affisso sul muro dell‟ingresso della scuola. L‟arciprete accusava ingiustamente, il medico Balla e il padre per questo atteggiamento di Antea, dedicando a loro qualche predica, cu lu trasi e nesci, di quelle calorose e colorite: - … le persone vengono segnate dal loro nome dato alla nascita, lei questo carattere se lo portava nel nome, come si fa a chiamare una figlia Libera e l‟altra Antea? Quando fini pure Antea la scuola media inferiore, per l‟arciprete fu una liberazione, ringraziò il Signore di non averla 331 BENVENTI A CAMICO più tra i piedi e che non frequentasse la chiesa e il catechismo non gli doleva per niente. 332 BENVENTI A CAMICO I Fieramosca Libera non appena iniziò a frequentare il glorioso ginnasio Empedocle, nel distaccamento di Porto Empedocle, conobbe sull‟autobus un ragazzo di Muntarriali, un certo Gianni Fieramosca. Il quale una mattina trovò il posto libero accanto a lei e fecero scichenza, una parola tira l‟altra, insomma il corso naturale delle cose. Poi le altre volte si cercarono, fin quando lui si dichiarò e allora, incominciò ad andarla a prendere a scuola, in qualche giornata di sciopero salirono a Giurgenti. Gianni era all‟ultimo anno di ragioneria, così l‟anno successivo, si scrisse all‟università di Palermo, divenne quasi impossibile frequentare la ragazza, così decise di ufficializzare il fidanzamento, in questo modo poteva andarci a casa quando gli era possibile. Si presentò con il mazzo di rose rosse a casa di Nanà Sapuni insieme alla famiglia: genitori, la sorella sposata e suo marito e quella schetta, per spiegare il matrimonio all‟antica. Le due famiglie così si sono conosciute e come l‟occasione vuole vi era tanta cordialità. Ettore Fieramosca, papà di Gianni, ad un certo punto, invitò la moglie: -Parla! Minica Stritta diede una taljatura „nsiccu al marito, poi guardò tutti in faccia e disse: -Comu è in uso qua a Camico? Grazia, fu presa dal disagio e guardò il marito con un po‟ di timore, perché sapeva che Nanà non andava tanto d‟accordo con le convenzioni sociali. Lui, invece, inflessibile, sempre con quel suo sguardo che fuggiva lontano chissà dove, rispose calando dolcemente la testa. Così discussero delle usanze di Muntarriali e Camico, le misero a confronto, si divagò su quelle di Cattolica e su paesi limitrofi. Non c‟erano problemi, tanto a Nanà tutte quelle discussioni davano fastidio e importavano poco. 333 BENVENTI A CAMICO Il signor Ettore, forse condizionato da quel suo nome e cognome così altisonante che si portava addosso, parlava con un certo piglio, sembrava che gli dava voce il puparo dall‟alto: -Certo che a mio figlio già stiamo dando ora! (con le mani sembrò che seminasse denari per terra) facendolo studiare. Invece di risparmiare per darglieli magari dopo, ( alzò e agitò la mano destra girandola al contrario accanto all‟orecchia destra) li diamo ora! che ne ha di bisogno. Mantenerlo all’università ha i suoi costi! (Mise tutte e due le mani sulle ginocchia e alzò la testa all‟indietro) Affitto, libri, viaggiare, insomma! (e allargò le braccia guardando tutti in faccia) Nanà, sentendolo parlare in quella maniera ancor più cercava di guardare lontano, quando quello esaurì la parlata, lui calò ancora la testa, però questa volta con più determinazione. -Va fa figli masculi! Gianni mi sta custannu chiossà di li soru!Disse la signora Stritta con una voce bella calda, uscita appena dal forno. Anche se una donna conduce la vita più onesta di questo mondo e rispetta il proprio compagno più di ogni altra cosa, ha sempre uno scrigno segreto di esistenza che difficilmente aprirà a chiunque e in special modo al proprio uomo. Grazia, conoscendo la riluttanza di Nanà a pensare le proprie figlie come femmine da marito, incominciò dalla loro tenerissima età a preparare il loro corredo, di nascosto, una cosa alla volta, vendendo a parte di casa le cose buone della campagna. Lui non si accorse di niente. Ora lei tremava, perché non sapeva come rivelare quel tesoretto nascosto, quel capitale di lenzuola, cuscini, tovaglie, biancheria intima, coperte, insomma tutto di tutto e a dodici, nascosto sotto il suo naso, in grandi bauli. Come doveva giustificare l‟acquisto di tutta quella roba, il rapporto commerciale con i rappresentanti porta a porta di corredo? Nanà guardava la sua compagna e notava l‟agitazione, il cadere nello sconforto che le prendeva di tanto in tanto, così le strinse il braccio teneramente, come dire: „un ti preoccupari! 334 BENVENTI A CAMICO Gli anni passarono e in fretta, il fidanzamento andava a meraviglia i Muntarrialisi venivano di frequente a Camico insieme al figlio, e Nanà, ci faciva facci, metteva sulla tavola per tutte le persone che arrivavano, primo, secondo, bibite gassate, rasolio, dolci, caffè, tutto all‟occorrenza. Antea e Nanà non si spiegavano la relazione di Libera con Gianni, troppo diversi, proprio su tutto. Quando Gianni parlava, ad Antea sembrava che bestemmiasse. Non mancò, una di quelle sere, di non riuscire a tenere a bada la sua incazzatura e a cazzuliaricci in faccia ribattendo tutte le minchiate che sparava. Poi quando i Fieramosca andavano via, incominciavano le liti tra le sorelle, fino a tarda ora, fin quando Nanà, imperativo, li mandava tutte e due a dormire. I Fieramosca erano democristiani, questo non disturbava ad Antea e a Nanà, ma loro erano della peggior specie, del genere: raccomandazione, speculazione e furba speranza. Gianni era entrato a fare parte della segreteria di Palermo dell‟onorevole M. Mentre Libera aveva una proprietà di linguaggio abbastanza alto e si esprimeva con disinvoltura, sia in siciliano che in italiano, il suo fidanzato non riusciva ad esprimere con chiarezza un concetto anche semplice. “Come fa a capirlo?” Si chiedeva Antea. La madre difendeva quella relazione, abbastanza importante per la figlia, aveva capito che quello per Libera era l‟uomo della sua vita, lo aveva scelto così com‟era, i perché e percome vai comprenderli. Durante una campagna elettorale il loro rapporto fu messo a dura prova, perché Gianni voleva i voti di tutta la famiglia, ritenendo la promessa del suo impiego di importanza per tutti. Libera, prima cercò con le buone maniere, chiarendogli che la politica non doveva entrare nel loro rapporto e che nemmeno a lei doveva permettersi di dire a chi o cosa votare. Quando lui capì che neanche la fidanzata le avrebbe dato il voto, s‟inalberò, diventò paonazzo in viso, incominciò a sparare discorsi senza né testa né coda. Sembrava un cane che si voleva mordere la coda e girava 335 BENVENTI A CAMICO attorno se stesso. A questo punto Libera, gli mostrò il suo vero carattere e lo fece diventare una stizza, lo mise alla porta e non gli volle parlare per parecchi e parecchi giorni. Antea seriosa osservò tutta la lite, ma dentro di se si stava scompisciando dalle risa e capì quel sentimento della sorella che non aveva niente di razionale, di pensato, rifletteva che questo è l‟elemento di differenza tra gli altri animali e noi uomini. Gianni finalmente comprese, che lui poteva fare finta di sentirsi chissà che, ma la sua libertà finiva dove iniziava quella della fidanzata. E così fu e per sempre. In una vigilia di capodanno a casa Saponaro vi erano invitati i Fieramosca e i Balla. Gianni raccontò la sua esperienza di insegnate di dopo scuola a ragazzi che dovevano recuperare alcune deficienze scolastiche al dottor Balla e a Nanà, mentre il padre e il cognato gongolavano per quel loro parente così istruito. -Ai ragazzi ho spiegato che “la rocca di lu zitu e di la zita” sono stati i sassi che il ciclope Polifemo scagliò contro Ulisse! “La rocca di lu zitu e di la zita”, detta Rocca Gucciarda, in realtà tratta di una legenda locale sicuramente nata dalla morfologia dello scoglio, sito a Muntarriali, lido Rossello, in quanto è diviso in superficie ma unito nel fondo. La leggenda narra la solita storia di un amore contrastato dalle famiglie di due giovani, che presi dalla disperazione, decisero di suicidarsi gettandosi in mare. Così tenendosi per mano andarono verso la morte suggellando il loro amore per l‟eternità del gesto estremo del loro martirio. Lo scoglio fu mosso dalla pietà per quell‟amore forte e puro, pertanto si spaccò sopra il livello del mare e rimase unito nelle profondità, come i due innamorati che si tenevano per mano, divenendo monumento di quell‟amore e dell‟insensibilità degli uomini che molte volte hanno i cuori più duri di una roccia. -Quinti, Polifemo era Muntarrialisi? 336 BENVENTI A CAMICO Disse il Balla guardando Nanà. Il quale guardando sopra la testa del futuro generò pensò: “ … ma a cu minchia si sta maritannu me figlia?” -Sicuro! E questi scogli ne sono la prova. -Certo che non è che sia un grosso vanto, visto che si fece prendere in giro in quel modo … Il dottore Balla se la rideva e guardava suo compare che era rimasto immobile come una statua di sale. Poi chiese alla figlia se era sicura di conoscere bene il suo fidanzato. Libera gli rispose che sapeva quello che faceva, rassicurandolo con uno di quei sorrisi che le donne sanno fare quando hanno bene in pugno la situazione. Intanto Gianni, con la sua provata mediocrità, riuscì a laurearsi e a impiegarsi nell‟archivio di stato a Milano. Poi cambiò partito e divenne craxiano, ottenendo il trasferimento a Giurgenti ed infine con la Quercia, PDS, la promozione a direttore. Mentre Libera, in maniera inimmaginabile, divenne insegnate di religione. Torniamo indietro e passiamo alla resa dei conti prima del matrimonio. Fu in quella occasione che Nanà si presentò con una lunga nota, con una scrittura fitta e in bella grafia in un quaderno a righe di terza elementare. -Allora come promesso per il completamento dell‟arredo occorrono altri quindici milioni, otto milioni ve li siete mangiati, come è qui annotato giorno per giorno minuziosamente, eccovi gli altri sette milioni e siamo pace. Nanà aveva appuntato in quel quaderno la data, l‟ora, i Fieramosca e connessi, che si presentavano a casa sua, la consumazione del pranzo voce per voce, con l‟importo accanto e totalizzando ogni mangiata, il totale per ogni pagina con relativo riporto e infine il resoconto finale. Grazia, non sapeva di quel quaderno e rimase di stucco. Mentre il signor Ettore si sollevò la coppola con l‟indice e il 337 BENVENTI A CAMICO pollice, si mise di fianco come la guardia di uno spadaccino, insomma un pupo siciliano, e allungando il braccio e ritirandolo toccandosi la spalla destra con la mano ad ogni parola, gli disse: -Mi vuoi dire, che ci vuoi fare pagare tutte le volte che siamo stati tuoi ospiti? -Se guardi bene, non vi sono totalizzati tutte le volte che vi abbiamo invitato noi, quinti miei ospiti, ma solo quando vi presentavate come se fosse la mensa dei “Fate bene fratelli”. Ma caro Ettore, la bocca è un anello e si fotte un regno e un castello! -E allora lo sai che ti dico: non se ne fa niente! E, a braccio steso, con la mano fece una sciabolata nell‟aria. -Andiamuninni tutti! La situazione era diventata veramente critica. I Fieramosca stavano uscendo di casa, mentre Gianni aveva la mano della fidanzata nella sua, la madre lo strattonò e si staccò. Il signor Ettore abbassò la pambera della coppola come la visiera di un elmo e senza salutare andò via. Tutto poi si aggiustò con i soldi che Nanà aveva dato alla compagna per acquistare il corredo alla figlia, servirono così per pagare il conto del quaderno. Gianni portò i soldi al futuro suocero pregandolo di non dire niente al padre facendo credere che ci aveva passato di sopra. Così il signor Ettore fece la parte di Ulisse e Nanà quella di Polifemo. Quello che contava per Grazia che la figlia era sposata e felice, tutto il resto apparteneva a quel mondo dei maschi fatto di ripicchi inutili e che in fondo non dimostrano nulla di veramente importante. 338 BENVENTI A CAMICO Fu un agguato Mentre era rinchiuso aveva spesso pensato a Ninuzzu, e si era fatto alcune idee su come fosse successo. In prima analisi: sicuramente l‟assassino era nascosto sul posto e attendeva semplicemente il suo allontanamento per uscire dal suo nascondiglio, in poche parole, un vero e proprio agguato senza testimoni. Per subire un agguato, sicuramente la vittima aveva commesso qualcosa di veramente grave, cosa? Cosa aveva mai commesso un ragazzino come Ninuzzu? Ora che non lavorava più la terra, perché era su con gli anni e non voleva finire come il padre, aveva preso quell‟incarico del circolo, però sempre in maniera momentanea, per questo non sistemava e non toccava niente in quel posto, non si sentiva parte, ogni giorno pensava come se quello fosse l‟ultimo, o settimana, mese e intanto erano passati già due anni. Camico è così, sembra una trappola temporale, per tutti forestieri e abitanti del luogo. 339 BENVENTI A CAMICO Carmelo Bonifacio Il medico Balla era una persona molto acuta e profondamente conoscitore delle storie di Camico, sia in prima persona in quanto testimone diretto di fatti, sia con le sue ricerche storiche. Conversava con tutti però legava con pochi, oltre a Nanà, un suo grande amico era Carmelo Bonifacio, guarda caso, il fidanzato di Antea. Il termine fidanzato è molto improprio, perché la loro relazione era completamente indipendente dalle loro famiglie. Antea e Carmelo si sono trovati insieme per esclusione degli altri. Gli altri ragazzi si trovavano in imbarazzo a relazionarsi con una femmina come Antea. Lei emergeva, con la sua forte personalità, sapeva quello che diceva, annullava pregiudizi, convenzioni e consuetudini. La sensualità del suo corpo ben proporzionato, anche se non era molto alta, l‟armonia del suo viso, non erano sufficienti a vincere quell‟imbarazzo di chi la conosceva bene. Tal‟altro lei, mal sopportava gli arrivisti, quelli che pianificavano la loro vita come se fosse qualcosa che non aveva niente a che fare con il loro se stessi. Mentre Carmelo Bonifacio era fottuto dal suo eroico senso sociale, un altruismo che lo penalizzava nelle scelte d‟interesse economico per il lavoro. Si vendeva male, insomma non si vendeva, si offriva gratuitamente e nessuno così gli dava il prezzo che meritava la sua persona. Dottore in lettere moderne, ancora non aveva trovato una collocazione lavorativa. In contrasto con tutte le forze politiche dell‟arco costituzionale e oltre. Per le ragazze che guardano sempre il concreto, sicuramente Carmelo non era un buon partito. Così questi, esclusi dalla scelta dell‟accoppiamento sociale dell‟animale uomo, si trovarono l‟uno di fronte a l‟altro a condividere lo stesso spazio, a respirare la stessa aria di solidarietà, che con qualche coincidenza e spinta emozionale, fu facile fraintendere il loro rapporto in qualcosa di più. 340 BENVENTI A CAMICO Grazia, non assecondava questa relazione con Carmelo, anche se con molta discrezione, vista la forte personalità della figlia, però tutto quell‟entusiasmo e quella partecipazione e complicità che mise per l‟altra sorella non ci fu. Mentre Nanà, gradiva tantissimo Carmelo, tanto che se ne stavano a conversare con molto diletto. Lui si accorse del comportamento di Grazia a tal punto che le chiese delle spiegazioni, lei fu concisa e chiara: -Non c‟è amore! In effetti, Antea e Carmelo erano degli ottimi amici ma nel loro rapporto mancava l‟eros, pertanto era facile e prevedibile che se continuassero avrebbero distrutto pure la loro amicizia. Antea, dalla scuola elementare all‟università, era stata la compagna inseparabile di Enza, la sorella di Pietro. Tutte e due avevano deciso che dopo il dottorato in medicina sarebbero partite come volontarie per dove capitava, per dove vi era bisogno della loro opera. Ancora Enza non aveva comunicato questa decisione ai suoi anziani genitori, mentre Antea già l‟aveva spiattellato a tutti con fierezza, sia alla sua famiglia che a Carmelo. Carmelo aveva rispettato questa sua scelta, si sentiva uno zatterone alla deriva di un fiume. Un fiume che a volte lo trascinava precipitoso, altre volte lo faceva cozzare in qualche masso. Un fiume dove spesse volte rimaneva impantanato nelle sue acque basse. Ci fu un periodo che era incontenibile, faceva mille cose e tutte le riuscivano, tutti lo cercavano, mentre lui aveva un solo sogno: andare via da Camico, visitare la Danimarca. Fu proprio quando comunicò questo strano desiderio ad Antea che lei ne rimase affascinata. Vai a capire i meccanismi delle relazioni umane, o cosa piace alle donne. Lei lo guardò con lo sguardo ereditato dalla madre e Carmelo si senti allentare le ginocchia e vide quella ragazza, che aveva sempre frequentato, con occhi nuovi, si accorse delle sue labbra e di quella taliata magnetica, ma lo fece completamente impazzire il biancore tra la testa e il collo lasciato libero dai capelli ricci posti dietro l‟orecchia destra. Il loro 341 BENVENTI A CAMICO amore sembrò giusto, autentico, ma fu una infatuazione che non resistette al logorio del tempo. 342 BENVENTI A CAMICO L‟IMPEGNO Carmelo, studente alle superiori, con alcuni amici, aveva scritto un giornalino “L‟IMPEGNO”, che la Federazione Giovani Comunisti di Agrigento che gli stampava in ciclostile, poi lui diffondeva per tutta Camico. Il giornalino conteneva argomenti d‟interesse politico e storia locale, poi contestazioni di vario genere suggerite dalla gente. Inoltre scriveva una pagina di satira politica pungente, che piaceva a tanti. L‟ultimo numero finì veramente male. Carmelo era venuto a conoscenza che l‟arciprete voleva modificare la scalinata della chiesa Madre, lui lo andò a trovare invitandolo a desistere perché avrebbe modificato un qualcosa di storico del paese. L‟arciprete lo prese a male parole, dicendo che quello era un restauro. Carmelo gli annunciò battaglia. Scrisse un pezzo di satira svuotando il sacco delle varie manovre e abusi dell‟arciprete, in più segnalando le intenzioni della deturpazione del prospetto della chiesa con varie vignette graffianti. In una, nel prospetto della chiesa, dove sarebbe nato un muro dalla modifica della scalinata, disegnò una saracinesca con la scritta “GARAGE AFFITTASI”, alludendo al vizio affaristico del prete. Prima di mandarlo alla stampa, non si sa come, l‟arciprete è venuto a sapere di tutto e di più, non si sa chi era stato il traditore in mezzo a loro, erano nove amici fidatissimi eppure qualcuno tradì peggio di Giuda. Così il prete mandò alcune persone di rispetto a casa del vignettista. Il padre del ragazzo si sentì bussare passate le due di notte e si trovò davanti, quelle figure che tutto il paese sapeva chi erano. -Ci devi dire a tuo figlio che queste cose all‟arciprete non si fanno. Le stesse persone andarono il giorno dopo dal padre di Carmelo, facendo lo stesso discorso. Mentre il ragazzo vignettista ritirò subito i suoi disegni e si allontanò dal gruppo, Carmelo bisticciò con il padre tanto che andò a dormire dalla nonna per un po‟ di giorni. Per i disegni, aveva le fotocopie, quelle ancora con la carta chimica, e andò nell‟Istituto Fidia di Sciacca, dove 343 BENVENTI A CAMICO conosceva qualche studente, a farseli riprodurre con qualche piccolissimo cambiamento. Tutti i fogli in ciclostile arrivati d‟Agrigento, invece di essere consegnati a Carmelo, non si sa come finirono chiusi a chiave in un armadio della Sezione di Camico del Partito Comunista. In quel periodo Carmelo era veramente irrefrenabile tanto che si nascose in un camerino della sezione del partito e attese che tutti gli anziani andassero via e chiudessero, aprì il lucchetto della porta del retro, si era fatta notte, così insieme ad alcuni fidati, prese il giornale. Il giorno dopo era la festa dell‟Assunta e il gruppo de L‟Impegno diffuse il giornale a tutti quanti Camichesi mentre erano in piazza a festeggiare. Carmelo di quella notte gli rimase indelebile il quadro con la fotografia in bianconero sopra la porta del direttivo che raffigurava Togliatti e Gramsci coniugati in fotomontaggio. Questa foto gli ricordava quella che aveva sua nonna dei suoi genitori. La quale gli raccontava che non avendo una foto che li raffigurava assieme lei si era fatto realizzare quel fotomontaggio. “Eppure appiccicati insieme Togliatti e Gramsci era una forzatura tremenda, visto le differenti posizioni sullo stalinismo. Carmelo pensava a quella lettera contro Stalin che Gramsci diede a Togliatti e che mai consegnò al destinatario. Per Togliatti, che guardava alla giustezza dei metodi stalinisti, non vi era posto per un oppositore come Antonio Gramsci. Eppure erano lì in quella fotografia, per tranquillizzare gli animi dei loro figli. Come quei genitori di mia nonna che avevano litigato una vita e nonostante tutti i torti subiti dalla povera moglie ora era attaccata, tra sfumature di grigio, a quel marito contro il suo volere, ad ogni costo e senza rispetto, oltre la vita, come un inferno.” Fu questo stalinismo nel dna del Partito Comunista ad ammalare tutta l‟azione della sinistra italiana. L‟impegno culturale, professionale di molti, artisti e funzionari di ogni settore in una rivoluzione andata a male, in una giustizia al disopra della 344 BENVENTI A CAMICO giustezza, nel credere in una patria lontana e mai vista, in una muta intesa di consensi, fu tale che devastò per sempre la rappresentatività del socialismo, cedendo di fatto il proprio elettorato e la sovranità dello Stato, ad una classe politica degenerata. La totale diffusione del – L‟Impegno, salvò la scalinata della chiesa Madre, ma anche la pelle a Carmelo perché ormai se avesse subito qualche malefatta si sarebbe saputo il mittente. Appena laureato gli hanno proposto la carica di Assessore alla Cultura e al Turismo. Pietro mi disse, sotto voce, che quelle luparate, sull‟insegna “BENVENUTI A CAMICO” erano dedicate a lui. Questa volta però, Carmelo capì che quel linguaggio senza volto era preciso, e non fece pazzie lasciò le brochure chiuse nell‟armadio del Circolo Civile e si dimise d‟assessore. Da allora s‟impantanò a Camico costruendosi alibi inconsistenti come gli impegni presi con gli studenti ai quali impartiva lezioni private, o l‟arrivo di Antea da Palermo, insomma na minchiata qualsiasi per rimandare a un poi senza senso. L‟unica pensata l‟aveva avuto, qualche anno fa. Non vedeva l‟ora di comunicarla subito a suo padre, così andò a trovarlo sul posto di lavoro e contento gli disse: -Voglio ritornare a studiare all‟università! Il padre nonostante tutto pensò che in quella decisione vi era qualche progettualità lavorativa, conosceva il figlio era questione di tempo e si sarebbe riattivato. -Mi voglio prendere un‟altra laurea: filosofia! -Filosofia …? Disse il padre con un tono di delusione profonda, poi riprese: -Ma scusa, con la tua laurea in lettere, perché non vedi se ti prendono alla posta? puoi fare il postino, chi ha titoli meglio di te!? 345 BENVENTI A CAMICO Carmelo, lo lasciò senza rispondergli e andò via con il suo sconforto più totale. Il medico Balla prima non aveva un attimo da dedicare a se stesso, ora era quasi in pensione, esercitava solo per pochissimi, vi erano altri due giovani colleghi, che si contendevano gli assistiti, sembra che abbiano avuto più intraprendenza, più voglia di fare. Lui, ormai stanco, ci dava corda, anzi incoraggiava, eppure una volta era il preferito, in particolare dalla gente comune, mentre i signori si rivolgevano al dottor Luigi Sartriano. Gli occhialini d‟oro e la barbetta ben curata, il cappello Borsalino grigio fumo, incutevano rispetto. Poi anche lui morì con tutto il suo rispetto. Ora le cose si sono capovolte, i cosiddetti “signori” vogliono tutti il medico Balla, tutti gli altri assistiti sono divisi da questi altri due colleghi. Così, oggi ha il tempo di argomentare su i suoi studi di storia locale con gli amici. Diciamolo che Carmelo ha ricevuto una influenza non indifferente dal medico Balla, anche politicamente. Le case farmaceutiche, forse come promozione commerciale, una volta lo invitarono in un convegno medico a Mosca, quando tornò raccontò la sua esperienza e quello che avevano vantato i compagni come il paradiso era solo inferno. Tutte menzogne a sua volta assimilate dalla propaganda di partito. 346 BENVENTI A CAMICO Il movente Nanà, non appena arrivato a Camico, subito sistemò, le cose con Grazia, in poche parole, la portò a casa sua e lì rimase per sempre e che “gli altri dicano quel che vogliono”. La madre di Nanà non dissentiva nessuna cosa, poveretta però, dopo qualche anno si ammalò gravemente, così morì, passati pochi mesi, straziata dal dolore per un tumore osseo. Grazia l‟ha assistita con tutto l‟amore che meritava quella donna, così contrariata dal destino, eppure amabile, con delle parole sempre giuste e piene di bene per tutti. Tempo giusto e con molta delicatezza, Nanà cerco di capire, magari solo per quale motivo fu ucciso Ninuzzu, anche se scoprendo il movente fosse stato facile capire l‟assassino, o il mandante, pertanto occorreva molta prudenza. Una sera in campagna, mentre tutti si stavano riposando, dopo avere faticato una intera giornata per la conserva dello strattu di pomidori, prese coraggio nella penombra del cufularu acceso del pentolone che conteneva le bottiglie e chiese informazioni alla madre su la famiglia di Ninuzzu. I suoi occhi, questa volta non fissavano lontano, ma dentro gli occhi della madre. Lei, con tutta la sua saggezza, si alzò con la pesantezza dell‟età e si andò a sedere accanto al figlio, gli prese la mano e se la strinse tra le sue, guardandolo con amore. -Figliu miu, quanto abbiamo sofferto io e quella buonanima di tuo padre, perché eravamo sicuri della tua innocenza. Ma ti assicuro che pure la famiglia di Ninuzzu credeva nella tua innocenza. La sera dopo la sentenza della tua condanna, la madre, nonostante le ardiva dentro il suo cuore la perdita del suo bambino, mi venne a trovare, di nascosto. Quando tuo padre, aprì la porta e vi si parò vestita tutta di nero, come la Madonna Addulurata, si prese uno scanto, mischinu, non se l‟aspettava. Lei s‟infilò come il vento. Era venuta per rassicurarci. Tutti loro non credevano che eri tu l‟assassino del loro Ninuzzu. Si mise a piangere, ma non 347 BENVENTI A CAMICO scorrevano più lacrime in quel viso, che sembrava di cera. Io e lei siamo stati abbracciati per parecchio con i nostri dolori di madri. Mentre io ti sapevo innocente a soffrire la galera, lei con l‟immagine indelebile del figlioletto quando andò a riconoscere al cimitero sopra u marmuru. Ripeteva: “era uscito di casa allegro come sempre, sembrava un cardellino, bastava guardarlo e dava allegria a tutti e poi l‟ho rivisto ammazzato „nmezzu li rocchi e li spini, chi duluri, sopra quel tavolo di marmuru, nudu, e senza vita. Sono andata via e lo lasciato suliddu, nudu supra lu marmaru friddu. Una morte peggio di quella che ha dato al mio figlioletto! i cani se lo devono mangiare! Speraddiu che non si trovano manco i pezzi d‟iddu!” Messa in ginocchio che guardava la lampadina e si picchiava il volto con tutte e due le mani. La calmai e l‟alzai, l‟ho fatta sedere. Così tuo padre ha chiesto se avesse avuto qualche sospetto. Lei dondolò la testa e disse soffocando la voce: “‟Un pozzu parlari! Un pozzu parlari!” E andò via come era arrivata, sembrava un colpo di vento, una bufera. Quando poi ci incontravamo per il paese, tutti quanti i familiari non ci salutavano, nemmeno ci guardavano e se era possibile cambiavano pure strada. Mah? Evidentemente avevano paura di qualcuno, rifletteva Nanà, paura di essere scoperti che loro sapevano. La madre raccontò che da quella sera passò appena un anno e la famiglia di Ninuzzu si trasferì al completo per chi sa dove. Non poteva fare a meno in ogni sua relazione con la gente di Camico non pensare che tra loro si aggirasse l‟assassino di Ninuzzu. Vi era qualcuno che sapeva della sua innocenza, eppure faceva finta di niente, magari lo salutava ci conversava, poteva essere chiunque, un amico, un parente, a questo punto pensò che la cosa giusta da fare era di incominciare ad escludere, iniziando con l‟età dell‟assassino. Nanà così ha riflettuto che già a sedici anni, anno più anno meno, potevano commettere un omicidio. Incominciò a fare ipotesi, ad osservare, a ricordare, ma non ci 348 BENVENTI A CAMICO ricavò un ragno dal buco. Era passato troppo tempo e troppe cose a Camico, da sembrare completamente abitato da altre persone, non riusciva a capire ruoli e attitudini, ed aveva troppa paura per chiedere a gli altri sulla questione. Così dopo un po‟ cadde nella rassegnazione più assoluta. Comunque quel corpo di Ninuzzu era sempre presente tra lui e i Camichesi. Bastava una taliata diversa per costruirsi chissà che cosa, ma era solo un castello tra le nuvole che subito crollava. 349 BENVENTI A CAMICO Che c‟entra?! Tante barriere separavano Nanà con tutto il paese. La sua casa non veniva visitata nemmeno nel periodo elettorale. Nessuno si rischiava ad andargli a chiedere il voto, né a titolo personale né per il partito, perché quando qualche volta interloquiva in piazza con gli altri, allavangava lu scifu! Con quel suo italiano particolare sparava secco, a democratici e comunisti, le sue convinzioni politiche a tal punto che faceva desistere dal rispondere. I più furbi se ne uscivano con “che c‟entra?!” e ridendo con i loro amici o compagni si allontanavano presi a braccetto e ridacchiando. Come rispondere a delle precise domande come queste: -Tu vuoi il mio voto, ammettendo che io abbia fiducia alla tua persona, e tu fossi eletto, sia io e gli altri tuoi elettori, ogni quanto giorni ci riuniremo per fare il punto della situazione? -chi c‟entra?! -A chi hai chiesto la tua candidatura? Hai fatto delle assemblee cittadine? Hai presentato un programma, un progetto, un idea? -L‟ho chiesta al mio partito! -E allora fatti votare dal tuo partito! -Chi c‟entra!? Insomma, ci rinunziarono tutti quanti, da destra a sinistra. Una volta la segreteria della Quercia lo voleva candidare, gli mancavano candidati per completare la lista. Visto che quella volta a Camico vi erano quattro liste e ormai i candidati erano doppioni della stessa famiglia e in liste diverse. Di sera tardi, verso le dieci, sentì bussare alla porta. -C‟è permesso? -Prego! -Camico ha bisogno di te! Gli disse uno dei “sette di Shangai”. -Vi ringrazio per l‟onore, ma non sono disponibile! 350 BENVENTI A CAMICO -Tu sei una persona intelligente, con le idee chiare, la tua partecipazione è necessaria per il paese, per dare voce alle persone come te. Ammiccava tistiannu, cercando appoggio e consenso dagli altri, che non mancavano di tistiari pure loro. Mentre Grazia si sentiva lusingata per quelle parole indirizzate al suo uomo, Nanà guardava sopra le loro teste, arguiva quel discorso, dalla muscolatura del viso era sempre più intensione, si capiva benissimo che tutti quei complimenti non se li accattava per niente. Visto che lui rimase in silenzio e loro attendevano una risposta, un si con un ottimismo da farabutti, pronti a stringergli la mano con annesse relative abbracciatine, magari poi sigillare il tutto con un bel bicchiere di vino. Ma il silenzio si prolungò in maniera imbarazzante, tanto che l‟interlocutore disse che se avesse voluto del tempo, entro domani mattina avrebbe dovuto dare la sua risposta. -Allora? -No! Quelli, risoluti com‟erano, non si sono arresi e hanno insistito ancora elargendo complimenti alla sua serietà, alla sua saggezza, le sue idee libere e progressiste necessarie allo sviluppo del paese e ancora caricavano, vi è il dovere di ognuno a mettere a disposizione della comunità le proprie virtù. -Se io accettassi dimostrerei di essere poco intelligente, in quanto siete venuti a cercarmi proprio all‟ultimo visto che già mezzo paese si è candidato, pertanto Camico non ha bisogno di un imbecille. E siccome ho tanto di quel buon senso da pensare che non sono un imbecille a vostra disposizione, vi dico serenamente e categoricamente: no! Buonasera e andatevi a cercare un altro d‟offendere con i vostri complimenti. -Chi c‟entra!? Ha avuto il coraggio di ribattere uno di loro, mentre già gli altri si avviavano premurosamente verso l‟uscita. 351 BENVENTI A CAMICO Grazia rimase sospesa nell‟aria, pensò ad una malacreanza del suo compagno verso quelle persone che avevano un certo peso in paese e che potevano tornare utili per le loro figlie, ma non fiatò, neanche dopo che se ne furono andati, rimase assorta nel suo silenzio rivolgendo la sua attenzione alla pila di biancheria appena stirata da sistemare. Quello era il prezzo di avere come uomo uno come Nanà, un libero pensatore, anarchico e contadino, dai modi cortesi e dal carattere intransigente. 352 BENVENTI A CAMICO Una vecchia canzone Lui la domenica non andava mai in campagna perché lo dedicava al riposo, non faceva come gli altri contadini che tutti i santi giorni vi si ci recavano anche sotto la minaccia del tempo, pertanto si prendeva una giornata di svago, una passeggiatina per il paese, quattro chiacchiere in piazza fin quando si faceva ora di pranzo e ritornava a casa. Una domenica mattina di novembre, stava tornando a casa, lentamente saliva per le viuzze di Camico, quando la sua attenzione fu presa da una vecchia canzone che stava cantando qualcuno: “ … Per te che ti amo tanto e te sospiro il canto della notte è una passione la luna splende e un venticello spira e porta questo canto al tuo verone Torna al tuo primo amore …” Gli ritornò alla mente Ninuzzu, quel suo sorriso simpatico con quei grandi occhi neri e vispi. Questa era una canzone che cantava negli ultimi giorni, aveva una fissa con questa canzone, di sicuro quella era l‟ultima canzone che Nanà gli aveva sentito cantare. Ricordava la sua splendida voce chiara, forte, che riempiva l‟area della aperta campagna, allietando tutti coloro che l‟ascoltavano. Nanà si fermò come se qualcosa stesse emergendo dal suo profondo, dal passato turbandolo fortemente. Perché si sentiva travolto di tanti emozioni da quella canzone? Eppure anche se uscita qualche anno prima del 1933, lui l‟ascoltò poi per quasi un decennio, dai compagni di carcere, ma ora gli suscitava qualcosa di diverso. A quell‟epoca l‟autore fiorentino Carlo Buti era famosissimo, finita la guerra, finito il fascismo, anche lui fu messo da parte insieme alle sue canzoni, forse perché compose pure quell‟altra famosissima, che divenne un inno del regime fascista; chi non cantò, “Faccetta nera”? 353 BENVENTI A CAMICO La suonavano alla radio, ma Ninuzzu, sicuramente la imparò dall‟uomo dell‟organetto. Sapeva tutte le parole perfettamente e con quale espressione la cantava! Tanto che gli aveva confidato, qualche giorno prima, che qualcuno l‟aveva pagato e bene, per andarla a cantare sotto il balcone di una spasimante, in poche parole gli aveva commissionato una serenata. In fondo questa canzone è una serenata. Nanà, travolto da questi pensieri, voltò l‟angolo e vide che a cantare era mastru Peppi Pinna, il quale stava passando una mano di vernice trasparente ad un armadio, all‟ingresso della sua falegnameria. Si sentì avvampare lo stomaco e poi la testa, perché qualcosa che era rimasto dentro di sé come un ricordo senza valore incominciava a diventare importante, anche se non si spiegava il perché, però intuiva che erano le ultime cose di un certo significato che aveva trascorso Ninuzzu nella sua vita così vuota di eventi straordinari. Dopo un po‟ ricordò con chiarezza che il povero ragazzo qualche giorno prima aveva fatto proprio quel nome: Peppi Pinna! Così Nanà visto che passava proprio davanti, si fermò, mentre mastru Peppi, continuava a cantare preso dal lavoro: - … dammi i tuoi baci, io ti darò la vita cantiamo assieme il primo amore non si scorda mai … Mentre pennellava appassionatamente, vide l‟ombra davanti la porta e si voltò solo con la testa mentre era chinato. -Buongiorno … Salutò Nanà con un tono alquanto strano, quasi come un rimprovero, tanto che matru Peppi si drizzò con il suo pennello che colava e lo guardò infastidito dalla luce del sole, rispondendo un altro buongiorno come dire: “chi minchia vo‟?” -Questa canzone mi ha fatto tornare alla mente, una persona … Peppi si calò, prese il barattolo e gli ammogliò il pennello, lo posò sullo stesso mobile e si pulì le mani con uno strofinaccio: -Havi bisogno qualcosa? Deve fare qualche lavoro, vossia? 354 BENVENTI A CAMICO -No, stavo tornando a casa e sono stato attratto dalla sua canzone. -E‟ una vecchia canzone, ora non se ne fanno più così, come tutte le cose, cambia il mondo e cambiano i gusti. Nanà, aveva timore a pronunciare il nome di Ninuzzu, perché tutti glielo avevano affibbiato come vittima, pertanto aveva un tabù anche con se stesso, una cosa era ricordarlo nel segreto del suo intimo, un‟altra era esternare quel nome, pronunziarlo, farlo diventare parola, suono. Forse dopo tanti anni, era la prima volta che doveva farlo. Anche se con sua madre aveva affrontato l‟argomento, evitò in tutti i modi di pronunziare il nome del povero Ninuzzu. Però Nanà in tutti questi anni aveva imparato a volergli bene, come un piccolo fratello, che non ha avuto, ora invece lo sentiva come un figlioletto. Prese forza e coraggio, così guardando dritto negli occhi a mastru Peppi, gli disse: -Si ricorda del piccolo Ninuzzu? Il falegname trasalì, pensò: “lui? Il carnefice!”. Si ricordava perfettamente di Ninuzzu, e come! gli piaceva, per l‟argento vivo che lo distingueva. Ricordava la pena che ha provato, quando venne a sapere della notizia, e la rabbia non gli era mai cessata per quel mostro, ora era libero di passeggiare per Camico. Ricordava la sua cattura, più di una volta aveva gridato dal barbiere che occorreva la pena di morte per quell‟assassino di bambini, protestava come mai non gliela hanno data, qualche hanno prima uno, un certo Diego Mignemi di Canicattì, era stato giustiziato. Aveva pensato pure di andare dai genitori di Ninuzzu per fare scrivere una richiesta di giustizia indirizzata direttamente a Mussolini, ma era stata solo un idea che mai realizzò, anche se altri erano pronti a firmare. Il fatto sta, che non sono stati riscontrati atti di violenza sessuale e forse fu proprio questo a convincere il giudice a non infingergli la pena capitale. 355 BENVENTI A CAMICO Peppi pensava: “ora, quest‟assassino mi viene a dire se mi ricordo di Nunuzzu!” -E tu? Ti ricordi? Nanà ha capito, che cosa intendeva, lo guardò ancora più affondo, rimase in silenzio dritto, immobile, così anche Peppi, che continuava a pulirsi le mani con quel strofinaccio. Ad un certo punto gli veniva la voglia di andarsene via, ma avrebbe significato ammettere una colpa che per troppo tempo pesava sulla sua persona e ingiustamente, così sbottò secco e chiaro: -Non lo ho ammazzato io a Ninuzzu! Questa volta si sentì proprio bene nel pronunciare quel nome, provò benessere nel dire quella frase. Peppi percepì lo stato di Nanà e lo guardava, infastidito dal sole di mezzogiorno che invadeva di luce prepotente attorno a quella testa. Capì che lui non era nessuno per giudicare, capì che quello poteva essere veramente un innocente. Capì che quando un legno si sega con la misura sbagliata non vi è più rimedio per aggiustarlo e allora bisogna guardare, riguardare, prendere le misure, stare a pensare per poi decidersi a tagliare, solo nella piena certezza. Ora arrivato a questa età, di qualche paio d‟anni superiore a Nanà, comprende pienamente che la pena di morte non è giusta, è solo un altro crimine, anche perché non si ha mai la certezza della colpevolezza, in nessun caso. Pensò che era giusto mettere in discussione ciò che lui considerava come cosa certa e cercare di avere la possibilità di sapere di più, così lo invitò ad entrare. Nanà spiegò cosa aveva provato mentre ascoltava quella sua canzone e che lui non si è dato mai pace per la morte di quel povero amico, perché non si era mai spiegato il motivo, non aveva trovato magari un appiglio ad una spiegazione, una qualsiasi ragione, di quell‟assassinio. Mentre, ora, nella sua mente, quella canzone gli ha fatto ricordare quei soldi guadagnati dal ragazzino per avere fatto una serenata commissionata da Peppi Pinna. 356 BENVENTI A CAMICO Il Pinna ascoltò con profondità il ragionamento di quel personaggio che incominciava a vedere con occhi diversi e a comprendere la sofferenza di quella vita vissuta all‟ombra di una accusa, di un‟ingiustizia, così riflettendoci su, ammirò la forza e il valore di questa persona. Prese la decisione che gli doveva la sua attenzione, la sua verità e si aprì a raccontare la sua storia. All‟epoca era poco più di un ventenne, era stato fortemente innamorato della cugina Rosalia, la quale corrispondeva il suo amore già da poco più che degli adolescenti. Una storia che continuava da bambini, quando giocavano, presi dall‟eros, a marito e moglie, mentre le madri, sorelle, erano indaffarate con i loro intrighi di famiglia. I loro giochi crescendo divennero qualcosa di più serio, ma gli altri vedevano, o volevano vedere, solo un affetto parentale, quasi un fratello e una sorella, tanto che, quando Rosalia era da marito, fu promessa e di conseguenza fidanzata, a via di cinturinate, ad un certo Pasquale Marchetta, u carnizzeri, più grande di lei di tredici anni, una persona mite e benestante, casa di proprietà e di buona famiglia. Si sposarono, ma Peppi e Rosalia facevano di tutto per stare insieme, talché un giorno Pasquale sospettò la cresca, mosso dalle allusioni che i vicini già incominciavano a fare, quando fuori la sua carnazzeria esponeva, appesi al gancio, qualche paio di corna dell‟ultima bestia macellata, con espressioni come “che bel paio di corna c‟aviti …”. Incominciò a vietare le visite del cugino e i possibili contatti, proibendole di andare dalla nonna o dalla zia. A nulla valsero, i pianti e le sue lamentele di isolamento, di prigioniera. Peppi un sabato nel barbiere ascoltò cantare Ninuzzu questa bella canzone: Canzone del primo amore, così bene con quella voce cristallina e melodica, accompagnato da mandolino e chitarra, tanto da emozionarsi per quelle belle parole che corrispondevano totalmente alla sua storia con Rosalia. Lo aspettò fuori e gli commissionò questa serenata per la cugina. 357 BENVENTI A CAMICO La domenica mattina, alle quattro e mezzo, Ninuzzu fece la sua interpretazione, Peppi osservava dalla cantunera, sicuro che la cugina avrebbe intuito il committente. Il martedì sera si diffuse la notizia della tragica morte di Ninuzzu. Ora collegare la sua morte con questa serenata, porta ad una conclusione assurda, che don Pasquale per vendetta, per rabbia, per gelosia, se la sia scuttata con Ninuzzu, il più debole. -Ricordo che Rosalia, mi fece chiamare dalla madre e mi disse che non dovevamo più né incontrarci né vedere, di lasciarla perdere, ora voleva stare sola con suo marito, e vivere una vita tranquilla. Non mi rimane altro che andarla a trovare! Nanà tremava come un fremito, perché ormai sentiva che era troppo vicino alla verità. -Signor Saponaro „un si preoccupi, massimo domani, parlerò con mia cugina e le saprò dire, non so cosa ancora, però qualche altra tessera la metteremo di sicuro a questo mosaico. Non appena Nanà si allontanò, si chiuse nel suo sgabuzzino adibito ad ufficio e telefonò a casa di don Pasquale, rispose Rosalia: -Pronto! -Pronto … Quelle due voci si riconobbero, vi fu un momento di silenzio ricolmo di turbamenti. Sia Peppi che Rosalia erano già nonni, si erano incontrati nelle grandi occasioni, matrimoni e funerali di famiglia, solo qualche sguardo fuggente. In quel silenzio tra quei due, vi fu una scocca elettrica forte, un serpente di luce rossa, che riattivava emozioni messe a tacere. Il loro eros era una forza piena di ricordi nitidi e di voglia disperata, mai dissipata né con i propri compagni, nonostante il bene che entrambi avevano imparato a volere, né con l‟amore per i loro figli, perché era fatto d‟un'altra sostanza, solo il tempo era riuscito ad ammansire. 358 BENVENTI A CAMICO Già da bambini, nei loro giochi erotici provavano un senso di colpa, perché si sentivano veramente come fratello e sorella, quando poi erano un po‟ cresciuti, quel loro peccato segreto, con grande malizia riuscivano nutrirlo di incontri intensi appassionati, sempre con nuovi confini da varcare, nuovi modi da sperimentare insieme, sotto il naso delle loro famiglie che abitavano l‟una accanto all‟altra convivendo come un unico nucleo. Peppe e Rosalia vivevano quel loro rapporto come un incesto e per questo turbamento era carico di un erotismo ancora più forte. Il linguaggio di quell‟amore era solo eros, nelle parole non dette, negli sguardi, nello sfiorarsi involontariamente per poi concludersi in quei rapporti intensi, nel sottoscala, nello sgabuzzino, ovunque era possibile. -Scusami, se ti disturbo … -Pasquale non c‟è … è andato in campagna … deve tornare fra qualche ora per pranzare. Alle due lo trovi di sicuro. La voce di Rosalia era tremolante, lo informava che poteva parlare liberamente, era felice, provava emozioni già assopite dal tempo. -Voglio parlare con te, tu lo sai che nonostante tutto non ti ho mai dimenticata, ma ormai la vita ha fatto il suo corso, adesso ti sto disturbando per avere un aiuto da parte tua, perciò devi fare uno sforzo di memoria, è importante che tu mi aiuti. -Pepè … ormai siamo nonni, ed hai ragione, ma sarei pronta a qualsiasi pazzia per te. Rosalia, raccontò che quella mattina presto era presa dal sonno profondo, si svegliò quando si accorse del marito alzatosi dal letto, così ascoltò quella bella serenata e capì subito il committente, che era stato il cugino ad ordire il tutto. Soffocò le lacrime nel silenzio e fingendo di dormire. Il marito invece era davanti la persiana che fremeva, tanto che udì il rumore dello zirriari dei denti, faceva due passi e tornava indietro, come se 359 BENVENTI A CAMICO volesse andare verso l‟armadio, dove teneva la scupetta. Quando quella bella voce finì di cantare, Pasquale tornò a letto. La moglie accanto lo sentiva tremare e respirare in maniera pesante, provò pena per quell‟uomo nel percepire il suo stato. Dopo quasi mezzora Pasquale si alzò, lei lo seguì, tutte e due finsero come se non fosse successo niente, solo prima di andare lui le disse: -Sta mattina ci fu na serenata … -E cu su sti spasimanti? Oh, bella, e non mi hai svegliato? Questa di sicuro è una fortunata. Vidi se me ne hai fatto tu serenata … Quasi con tono scherzoso di rimprovero. Mentre lui la guardava dentro gli occhi come se le volesse leggere dentro l‟animo, poi con una voce che lei non aveva mai sentito le disse: -La prossima volta ci sparo! Andò via, udì solo lo sbattere forte del portone. Per questo decise di interrompere qualsiasi contatto con il cugino. -Qualche giorno dopo, ha avuto un comportamento strano? Ti ricordi di Ninuzzu? Quel ragazzino ucciso in campagna? -Si, certo! Ho avuto una pena fortissima, come era beddu! Rosalia, raccontò che la sera stessa del ritrovamento del povero cadaverino, lui era tornato con gli occhi di pazzo, diceva di essere dispiaciuto, ma a letto ha fatto sesso come non mai. Lei ricordava quel particolare molto bene perché fu quella volta che restò incinta di Giurlannu, e poi la prese più volte, “sembrava assatanato”! Pasquale Marchetta nella macelleria acconsentiva sulla pena di morte per l‟assassino, anche lui era pronto a firmare, diceva parole rabbiose contro Nanà Sapuni: -Ammazzari quell‟innocente come un capretto, come si fa? Ci vuole la pena di morte! Le donne chinavano la testa parlavano tutte assieme acconsentendo per quella fine di quel ragazzino così carino e bravo. 360 BENVENTI A CAMICO Peppi Pinna chiuse quella telefonata con la convinzione che don Pasquale Marchetta si portava nell‟animo quell‟assassinio e che fece condannare un innocente distruggendo l‟esistenza di quel poveretto. Che fare? Bisognava dirlo al signor Saponaro? A che pro? Oramai don Pasquale ottantenne, aveva un piede alla fossa. Se si fosse venuto a sapere, ad accertare la colpa di don Pasquale, il solo risultato sarebbe stato un grande dispiacere per Rosalia e per i suoi figli. Insomma la testa gli si affollò di ragionamenti, così passò la notte piena di sensazioni che oscillavano tra la rabbia e la paura. Uno su tutti fu dominante: scoprire che la sua accanita sete di giustizia era dovuta ad un tentativo di esorcizzazione di quel suo senso di colpa per avere strumentalizzato Ninuzzu, mosso dalla voglia di trasmettere un messaggio d‟amore a Rosalia, ma fu un affronto a don Pasquale, una offesa che scaturì nell‟animo di quell‟uomo un odio cieco. L‟odio non porta mai niente di buono a nessuno, solo sciagure. 361 BENVENTI A CAMICO Accussì! La mattina seguente Nanà era davanti alla falegnameria che aspettava, con le mani in tasca, la coppola calcata sulla fronte e il suo sguardo lontano. Vide arrivare Peppe Pinna che manovrò per parcheggiare il suo vecchio camioncino Volkswagen. -Buongiorno, abbiamo delle novità? -Si, ho parlato con mia cugina, si ricordava bene quel giorno del ritrovamento di Ninuzzu e mi ha raccontato che proprio quel giorno era signaliatu perché suo marito ha passato una giornataccia per un attacco di colite, stava morendo! Nanà stette qualche minuto in silenzio mentre guardava infondo alla strada, tanto che Peppe Pinna, non avendo più parole da spendere, guardò anche lui nella stessa direzione, ma non vi era niente di particolare, lo salutò e andò ad aprire la bottega. Dopo un altro po‟, Nanà, sempre con le mani in tasca, si affacciò alla bottega “buongiorno” e andò via. Arrivò di filato a casa prese il piccolo trattore attaccò il carrello e se ne andò in campagna. Prima delle 15,00 tornò a casa si lavò e uscì, passeggiò assorto dai pensieri come se fosse domenica, in realtà aspettò l‟apertura della macelleria Marchetta, ora gestita dal figlio Giurlannu, dove aveva visto spesso e volentieri don Pasquale seduto dentro, con il suo bastone, appesantito dagli anni, nonostante l‟ottima forma. Non sapeva cosa andare a fare, la scusa era di andare ad acquistare la salsiccia, in realtà voleva vedere in faccia quell‟uomo, guardarlo negli occhi, perché non lo aveva convinto affatto quel falegname era troppo fuggente, tagliò corto, un discorso che doveva anche a lui incuriosire e pertanto continuare. Per Nanà quell‟atteggiamento è stato un indizio fortissimo della colpevolezza di don Pasquale. Sull‟istante non aveva fatto tutte quelle riflessioni, però fu abbastanza per fargli comprendere che l‟atteggiamento di mastru Peppe non era in armonia tra parole e espressioni, poi lavorando in campagna la sua testa sembrava un mulino a pietra e macìna ca macìna arrivò a quella conclusione. 362 BENVENTI A CAMICO Dopo una manciata di minuti, alle 15,30 Giurlannu aprì la macelleria, seguito dal padre. Nanà aspettò ancora un dieci minuti, ed entrò. -Buonasera! Giurlannu, già con il grembiule e un quarto di vitello sul tavolo, stava incominciando a disossare, rispose al saluto gentilmente, mentre don Pasquale, era ancora in piedi che osservava il figlio, diede una guardata furtiva a Nanà e non rispose al saluto, anzi si allontanò e si andò a sedere come di solito, davanti la vetrata dell‟entrata. -Si può avere un chilo e mezzo di salsiccia di maiale? -Certo, tempo che la preparo. Così si infilò dentro la cella a prendere un pezzo di carne di maiale. Nanà dava le spalle al vecchio e incominciò a canticchiare la canzone della serenata: - Il primo amore non si scorda mai un antico stornello me lo ha detto se tu dimenticarmi mai potrai la prima volta ch'io ti strinsi al petto … Si voltò di scatto e guardò il vecchio che giocherellava con il bastone. -Don Pasquale, se la ricorda questa canzone? -Chi mi cunti a mia di canzuna? -Eppure questa se la deve ricordare per forza! -Perché me la devo ricordare per forza? -A l‟epoca, prima di essere ammazzato a bastonate la cantava Ninuzzu, e come la cantava bene! con quella voce, sembrava un piccolo tenore. -Ninuzzu, ah si! „Un è ddu carusu c‟ammazzassi tu? Mentre il figlio, che già tagliava i pezzi di maiale da triturare, ascoltava quella discussione, con quella affermazione del padre incominciava ad assumere un aspetto da destare qualche preoccupazione. 363 BENVENTI A CAMICO -Si! Vero è! sono stato incolpato, mi sono fatto ventisette anni di carcere a posto del vero assassino, che visse la sua vita con la sua famiglia serenamente, e ora si gode pure la vecchiaia, i figli e i nipoti … -Mi scusi, ma che ci cunta a mio padre? Lo lasci in pace per cortesia! Il tono era deciso e accaldato, quasi di rimprovero, tanto che con il coltello diede due colpi decisi, come dire “ora basta!”. -Scusate, avete ragione! Nanà si avvicinò al bancone, mentre Giurlannu stava tritando la carne, poi impastò con del sale e del pepe nero il tritato e riempì il tubo dell‟insaccatrice, mise il budello nel beccuccio e incominciò a girare la manovella, in quel silenzio si udiva lo scricchiolio della salsiccia che usciva lucida nel budello umido. Nanà guardava come si adagiava a spirale nella bacinella guidata dalla mano del macellaio, ad un certo punto quasi tra se, con un filo di voce si rimise a cantare: -Il primo amore non si scorda mai un antico stornello me lo ha … A questo punto, il vecchio ha avuto una reazione violenta, si alzò e bestemmiando come mai aveva fatto in vita sua, si avventò brandendo il bastone contro Nanà. I movimenti di don Pasquale erano quelli di un uomo di tarda età, pertanto anche se furente, Nanà ha avuto tutto il tempo di voltarsi e fermare il bastone sopra la sua testa, lo guardò negli occhi con fermezza, con una concentrazione che gli trafisse l‟animo, o quello che gli rimaneva, dicendogli, ripetutamente: -Accussì! Accussì! Accussì! Don Pasquale rimase accasciato sul suo corpo a testa bassa, mentre il figlio guardava instupidito. -Me la dà questa salsiccia che devo andare? Giurlannu la pesò, la incartò gli fece lo scontrino e incassò i soldi. 364 BENVENTI A CAMICO Ora Nanà sentiva che nella sua vita qualcosa andò a suo posto, che ogni cosa incominciava ad avere le dimensioni e i colori giusti, incominciò a guardare la gente in faccia. Quando arrivò a casa porse la beca con la salsiccia alla compagna con soddisfazione, come se fosse stata cacciagione: -Questa sera, salsiccia! -Avevo preparato panammoddu di cucuzza? Come mai ti è venuta questa voglia? Ch‟è successo? -Niente di particolare, è solo cambiato il mondo per me e per il vero assassino di Ninuzzu. Dopo una settimana don Pasquale morì, tormentato dalla voce di Ninuzzu che cantava quella serenata. 365 BENVENTI A CAMICO Al Circolo Civile Al Circolo Civile, si era fatto veramente tardi, tanto che il vecchio telefono nero con tanto di cornetta e di disco analogico per i numeri, come altre volte, incominciò a suonare forte e chiaro “Drim! Drim! Drim!” -Questa è Grazia! Si, era lei preoccupata. Così il medico Balla ne approfittò per chiamare sua moglie. -Il turbine anarchico dell‟eros, travolge tutti quanti, nessuno può resistere alla sua forza! Si può solo prevenire, uscirne prima che ti travolge, mettersi al riparo, nascondersi, abbassare lo sguardo, far finta di niente. Si può … ma a quale prezzo? Siamo uomini fin quando accettiamo la nostra natura di animali, rinnegarla significa solo vivere metà della propria esistenza con la paura di se stessi e l‟altra metà con l‟equivoco di confondere Dio con la propria persona. Il medico Balla versò questo discorso come un secchio d‟acqua dopo che aveva appena finito di lavarsi l‟anima, con gli occhi trasognati, come se pensasse alle cose sue, caduto in momenti suoi trascorsi. Questo incuriosì Pietro talmente che ha voluto intervenire, con la speranza di incitarlo a parlare ancora: -Ognuno di noi, è stato travolto dall‟eros, non è l‟innamoramento, c‟è chi lo confonde e ne paga lo scotto amaramente. A questo punto si è ben capito che il discorso si era aperto in uno spazio concettuale così ampio da fare sicuramente alba. 366 BENVENTI A CAMICO PARTE SESTA La discussione andava avanti, ed ognuno della compagnia dava il suo contributo. Ad un certo punto Nanà era andato nella stanza della presidenza e tornò con una bottiglia di sambuca, prese quattro bicchieri di plastica e li riempì. -Il freddo si fa sentire, questa bottiglia l‟ho trovata dentro l‟armadio. Ci fu un gesto di gradimento da tutti noi attorniandoci in quel tavolo proprio davanti la libreria. -Questa bottiglia, l‟ho trovata qui dentro e penso che c‟è da un po‟ di tempo. -Ed io lo so chi aveva l‟abitudine di offrirlo ai suoi amici che lo venivano a trovare qui dentro … il presidente! (poi abbassò il tono della voce) U provessuri Menta. Il medico Balla aveva qualche remora a pronunziare quel nome. Abbiamo fatto cenno nell‟aria ad un cin tutte e quattro con quei bicchieri e ci siamo seduti. La mia curiosità su quella figura importante per la storia di Camico, dove io ormai avevo sprofondato così tanto da avere bramosia di sapere di tutte quelle persone che interagivano in quel microcosmo ed ognuna era una vicenda, un fatto, una storia, insomma una vena di un giacimento narrativo immenso. Non essendo scrittore, l‟unica cosa da fare era di ascoltare, così prima che si cambiasse discorso, perché era facile imboccare un‟altra storia e lasciare in aria quella del sambuca chiesi al dottor Balla: -Ma allora il Menta aveva l‟abitudine di bere? -No, assolutamente, lui riempiva il bicchiere ai suoi ospiti ma diceva sempre che già aveva bevuto e se ne metteva proprio una stizza. Era un modo per sciogliere la lingua a gli altri, mettendoli a proprio agio e disinibirli. Insomma una mente fina ma adoperata per il male. Alle tante vicende del Menta aggiunse pure la storia della morte di un giovane, molto in gamba, è stato un lutto che ancora oggi Camico non ha cancellato del tutto. 367 BENVENTI A CAMICO LA MASCHERA DELLA MORTE PASTA CU I SARDI Pigliati un chilu di finocchi di campagna li scuadati ni na pignata china d‟acqua e sali, li sculati e li tagliuzzati . A parti suffriiti du cipuddi fidduzzati fini fini cu tri acciuchi salati puliziati e tagliuzzati. Pigliati mezzu chilu di sardi frischi di lu Scaru li puliziati, li scapuzzati, ci tagliati la cuda e ci livati a resca; tagliati a pezzi e i faciti rusulari nna u‟ suffrittu di cipudda e acciuchi. Po jttatici puru i finocchi di campagna, mittitici u sali e lassati cociri a focu vasciu pi na dicina di minuti. Ammiscati cinquanta grammi di passula cu cinquanta grammi di pinola, na bustina di zafarana. Nni l‟acqua c‟arristà di li finocchi di campagna scuadaticci mezzu chilu di bucatini, sculatili „ntiniri e ammiscatili cu forza cu chiddu c‟atu priparatu, lassati arripusari pi na dicina di minuti e po liccativi i baffi. (Primo piatto tipico dei pescatori siciliani.) 368 BENVENTI A CAMICO I Già di prima mattina si notava, che questo carnevale del 1972 Camico era pronto a festeggiarlo alla grande. Bambini gironzolavano vestiti di fatine con tanto di bacchetta magica sormontata di una bella luccicante stellina, principessine e dame, i maschietti vestiti da Zorro con tanto di baffi mascariati, pirati con l‟occhio bendato e principi orientali armati di scimitarre. Era un bel vedere, uno scontro tra Zorro e Capitano Uncino... Poi vi erano quelli più poveri, che con un po‟ di carta nei pantaloni, un cappello di cartone da Bufalo Bill, un fazzoletto attaccato al collo e le pistole, quelle trovate per la festa dei morti, si divertivano tutto il giorno organizzandosi in bande di quartiere e sparandosi per le strade fino a sera vivendo così il loro far west. Gli uni e gli altri bambini si guardavano con invidia: i pistoleri per quei vestiti così belli degli altri, mentre di contro quelli com‟erano agghindati non avevano la libertà di giocare come volevano, solo qualche scialbo lancio di coriandoli ogni tanto. Infine i ragazzi più grandi si adattavano il vestito militare del fratello o del padre, oppure si abbigliavano da punk. Consisteva in uno jean‟s vecchio strappato con dei disegni a penna o colorati e una fascia in testa. Questi armati di bombolette spray di schiuma da barba andavano imbrattando dovunque e chiunque. Poi gli altri, di carattere più docile, si vestivano così: i maschietti da femminuccia e le femminucce da maschietti si mettevano a braccetto e andavano tampisiannu per il paese. Quel 15 febbraio vi era una così bella giornata di sole tale da fare dimenticare l‟inverno, si sentiva la primavera nell‟aria e ognuno voleva festeggiare il suo arrivo a suo modo. Tutti i Camichesi erano per le strade. I contadini, tempo che andarono alla robba per una controllata e tornarono. I pastori nel primo pomeriggio rientrarono con il gregge. Era festa, festa per tutti. Verso mezzogiorno dalle case arrivavano gli odori della salsiccia e delle polpette di carne e di broccoli, con un po‟ 369 BENVENTI A CAMICO d‟attenzione si udiva il friggere delle padelle e quello nell‟olio degli sfingi e delle chiacchiere . Mimmu Giaca, Cecè Cikciak e Peppi Gattareddu avevano organizzato scenette e canzoncine nel camioncino del servizio della nettezza urbana. I tre erano spazzini, questi ogni mattina s‟improvvisavano comici per le vie del paese mentre ramazzavano e ritiravano la spazzatura. Il loro aspetto, già era abbastanza caratteristico. Mimmu Giaca sotto il metro e cinquanta d‟altezza, grassoccio con una testa grossa e pelata appunto come un sasso, per l‟occasione con il vestito scuro e un vistoso fiore bianco all‟occhiello. Cecè Cikciak lungo più di un metro e settanta, quella magrezza dava l‟impressione di essere più alto, con due baffetti a fior di labbro, di carnagione olivastra sempre ben pettinato e pieno di brillantina, chiamato così per il modo di muoversi, era vestito da fimmina. Peppi Gattareddu, spertu quanto mai, minuto, biondo con gli occhi verdi da gatto, vestito con il grembiule nero e il fiocco da scolaro. Nel camioncino sistemarono un tavolo con sedie, mangiavano spaghetti e purpetta da tre rinala di porcellana e bevevano vino dal tubicino di una bottiglia per le lavande gastriche appesa in un piedistallo. Mentre il camioncino camminava lentamente, la gente era dietro in processione che si schiattava dalle risate a vedere quei tre che s‟abbuffavano e facevano smorfie d‟ogni genere. Quando arrivarono in piazza montarono le trombe della sezione locale del Partito Comunista e improvvisarono lo spettacolo con canti e barzellette. L‟arciprete De Paolis davanti la chiesa conversava con il sindaco, ma con l‟occhio era attento ad osservare i tre seduti che mangiavano, mentre la gente era tutta lì che sghignazzava. Questa scena lo turbava pur non comprendendo il perché, quando però, Peppi Gattareddu si mise in piedi sopra la sedia e accennò, con l‟indice e il medio giunti della mano destra, il segno della croce, saltò come un diavolo e agitando il pugno nell‟aria cominciò a gridare come un forsennato: 370 BENVENTI A CAMICO -Blasfemi! Questa è una vergogna, prendere in giro così la Sacra Famiglia! A quel gesto tutti i presenti scoppiarono in una risata oceanica. Il sindaco lo calmò, trattenendolo: -Patriarciprè, lassassi jri, oj è carnevali, e allura a mia quantu mi n‟hannu dittu? La gente non si era accorta di niente, qualcuno che aveva notato l‟agitarsi dell‟arciprete pensò che si fosse scaldato perché parlava di politica. Peppi Gattareddu, ha avuto quella trovata lì per lì, forse ricordando che dall‟età di cinque anni fino a tredici impersonò Gesù Bambino nella festa di San Giuseppe. Giuseppe, Maria e Gesù Bambino, con tanto d‟Arciprete davanti e di banda musicale e processione dietro, attraversavano tutta Camico chiedendo un alloggio. Poi, finiva nella mangiata dei santi in piazza e nella benedizione di Peppi Gattareddu, con tanto di parrucca bionda in testa, a tutti i presenti. Era questo che turbava l‟arciprete in quella scenata, la parodia alla festa di San Giuseppe. Ogni anno a carnevale tre giovanotti si vestivano di donna sotto e sopra, con calze a rete, minigonne vertiginose, scarpe a tacco alto, tanto di scollature e indumenti intimi femminili seducenti, trucco accuratissimo, andavano ancheggiando, più che divertiti, realizzati tra tutti gli apprezzamenti volgari e le manate dei picciotti. Per quei tre quel giorno significava libertà di manifestare palesemente la loro tendenza omosessuale a tutta la loro comunità, senza incorrere ai pregiudizi, o peggio, l‟ira dei familiari. Così, mentre tutti gli altri a carnevale mettevano la maschera, loro se la toglievano, per metterla in tutti i restanti giorni dell‟anno. 371 BENVENTI A CAMICO All‟imbrunire una strana e antica maschera terrorizzava e affascinava i ragazzi, quella dell‟ursu, patrocinata dai pastori. Un uomo era vestito piedi, braccia, corpo e perfino il copricapo di pelli di pecora, tenuti con lacci, il volto tinto di nero e tanti campanacci attaccati al busto. Veniva messo al guinzaglio con delle catene e uno, o due compagni lo trattenevano, andavano correndo per le vie e viuzze del paese, chi si lasciava avvicinare o non riusciva a fuggire, prendeva botte da orbi che facevano male per davvero, se per caso si scontrava con un altro ursu allora avveniva la lotta tra loro. Da diversi anni era il travestimento dei gemelli della „za Tana, due giovani di diciotto anni, purtroppo menomati mentali. La „za Tana si era sposata con Decu, un fruttivendolo ambulante che veniva con un‟Ape caricata ogni mattina a Camico da Rivela, dopo scomparì misteriosamente, così si trovò quei due gemelli a svezzare e per giunta la brutta sorpresa che non erano normali. I due bambini crebbero con le bestie degli zii materni tra gli ovili e i pascoli. Avevano un aspetto particolare, erano forti e alti di corporatura, con delle teste grosse, capelli e sopraciglia nere e folte, parlavano a stento, ma avevano una mira eccezionale nel tirare i sassi. In ogni carnevale la loro gioia era di uscire la sera travestiti d‟ursi, assieme ai loro cugini che li trattenevano con le catene. Nonostante tutte le raccomandazioni dei più grandi di non provocare guai, andava a finire ogni anno che i due ursi sbinchiavano a qualcuno in malo modo. I due disadattati alla vita paesana perché ci stavano poco e niente, quel giorno all‟anno del carnevale ne prendevano il dominio per lungo e largo. Tra le viuzze semi buie di Camico s‟aggiravano correndo i due ursi seguiti a distanza da parecchi ragazzi, dando calci e pugni alle porte chiuse. I Camichesi non appena udivano lo scampanio, si sprangavano dentro per paura di qualche reazione violenta degli ursi che a volte scappavano dal controllo dei cugini. 372 BENVENTI A CAMICO Verso le 19 e 30 uno strano gruppo di mascherati scendeva dai pressi del Palazzo Morello, inoltrandosi per le viuzze dell‟antico quartiere Marsalisi, fatto di vie strette e case che si comunicavano da una strada e l‟altra con degli archi. Si accedeva a questo quartiere da una via larga non più di due metri tra il Palazzo Morello e una casa a due piani. Questa casa era stata sicuramente una torre islamica per la sua struttura e per le mura spessi alla base che indicavano in origine un‟altezza superiore a quell‟attuale. Era un quartiere arabo, ma le tracce furono tutte cancellate a suo tempo, perché l‟Islamismo era, ed è tutto oggi, una religione viva. Lo strano corteo era composto di quattro incappucciati con la tonica nera, come quella della confraternita della Settimana Santa, portavano in spalla una bara tinta di nero, cantando in coro uno dei tanti lamenti tradizionali, seguiti da una donna vestita e velata pure di nero, che urlava disperata. I portatori incappucciati andavano lentamente, facendo un passo a destra, poi a sinistra e infine due avanti. Il corteo incontrò l‟ursu che si mise davanti a danzare, altri mascherati si misero a seguire, fin quando si organizzò con alcuni musicanti una piccola banda che incominciò ad eseguire marce funebri. La gente si affacciava e rideva a quella sceneggiata. Attraversarono tutto il quartiere Marsalisi e scesero fino alla popolata Via Mulino, da dove si accedeva a Piazza Vittorio Emanale. I quattro portatori si fermarono davanti un‟abitazione, chiesero permesso ed entrarono con tutta la bara, la poggiarono a terra in mezzo alla stanza. Uno degli incappucciati si rivolse al padrone di casa: -Mori lu „nvernu e la malincunia e v‟aguramu na primavera d‟alligria, si dati a biviri a sta compagnia! L‟uomo prese la bottiglia del vino, la moglie i bicchieri, e offrirono da bere a tutto il corteo, mentre i quattro si ricaricavano la bara e uscivano. S‟incamminarono, ed entrarono nella porta davanti, stessa richiesta, stesso accoglimento, così in una terza, solo che questa volta mentre tutti bevvero i quattro e la donna, ad uno, ad uno, si dileguarono lasciando la bara lì dentro, anche 373 BENVENTI A CAMICO quelli del corteo lentamente andarono via. Mentre andavano Mattè Ammucciarè, padrone di casa, chiedeva di levarci quella bara. Così, dopo un po‟, si trovò con la moglie Carmela, la figlia Franca, soli e quel tabbuto mezzu la casa. Fu allora che le donne provarono un brivido di terrore dentro. -Mattè, chi mi piaci sta cosa? Gli disse la moglie accostandosi. Lui si affacciò fuori ancora con la bottiglia di vino in mano, ma la strada era completamente deserta: -Scherzu di carnevali! Nenti, „un vi scantati, ora si lu vennu a piglianu… -Mi scantu … metticcillu fora stu tabbutu niguru! Franca quasi piangendo pregò a tal punto il padre che lo convinse a toglierlo. Mattè, provò a sollevarlo da una parte e notò che era pesante: -Mii! Pisulia, mancu è vacanti, chi ci misuru? Videmu chi c‟è! La moglie Carmela, ancor più spaventata, per quella sensibilità intuitiva che hanno le donne: -Nun lu rapiri! -E, ‟un ti scantari! Così dicendo, forzò il coperchio che si aprì facilmente, alla vista dall‟orrida sorpresa gli uscì un urlo soffocato. Le due donne s‟accostarono per guardare e il loro urlo fu così forte e straziante che lo sentirono fino in piazza: -Giuvà! Giuvà! Era il cadavere del loro amatissimo giovane figliolo Giovanni. 374 BENVENTI A CAMICO II Giovanni non aveva mai dato apprensioni alla famiglia, equilibrato, educato, aveva studiato da geometra e incominciava a fare qualche lavoretto, al catasto, o stimare qualche apprezzamento di terra e perfino aveva realizzato qualche progetto per case rurali, insomma si dava da fare, mentre partecipava a tutti i concorsi perché sognava, come tanti giovani a Camico, il “posto”. Mattè era orgoglioso di quel figlio arrinisciutu „ngigneri, di bello aspetto, con quei capelli lisci castano chiaro, gli sembrava nei modi e nell‟aspetto un nobile. A volte alla moglie gli chiedeva: -D‟unni ni vinni chistu? Veru, signori si ci nasci! La madre e la sorella erano innamorati, pendevano dalle sue labbra e si divertivano a ogni spiritosaggine che raccontava, per loro nessuna donna era alla sua altezza, solo una principessa uscita da qualche cuntu, come la Bella di li setti velura. Ora si trovava lì, in quella cassa nera inchiodata rozzamente con gli occhi spalancati, vitrei, la bocca aperta e la corda con il nodo cursore ancora al collo. La via Mulino si era affollata di gente, accorsa lì per la curiosità. Erano arrivati alcuni parenti e infine i carabinieri. I quali allontanarono tutti, strapparono materialmente la madre e la sorella buttate a terra afferrati a quella orrida cassa. Quella era la cucina, dove la famiglia viveva la maggior parte del giorno, accanto vi era un‟altra stanza, fungeva da soggiorno, vi dormiva pure Giovanni, dove vi era il suo largo tavolo da geometra, accanto i suoi attrezzi e i libri, sopra stavano altre due stanze in una dormiva la figlia dove si accedeva alla camera da letto nuziale. Questa casa e una campagna vicino il paese erano il frutto di ventidue anni di Germania di Mattè. I carabinieri sfollarono i curiosi da dentro la casa e pure lungo la strada. Il maresciallo Lazzaro Camporello era insieme con un giovane tenente dell‟Arma Luigi Bertoni, e un brigadiere venuti 375 BENVENTI A CAMICO d‟Agrigento. Il tenente diede ordine di chiudere la porta perché voleva conferire con la famiglia in maniera più riservata. Mattè provava soggezione per quell‟ufficiale così giovane, ma così serioso, con la mandibola prominente e lo sguardo fisso sulle persone con cui interloquiva. Il maresciallo invece, con il suo baffo folto, al limite dell‟ordinanza e la sua bella pancia rassicurante, dava un po‟ di sostegno psicologico al povero padre. Quando il tenente entrò nella stanza attigua, la prima cosa che notò fu un manifesto attaccato al muro del Partito Comunista Italiano che raffigurava la tessera del 1970 con l‟effigia di Lenin in rosso e lo sfondo nero, si volse di scatto verso il maresciallo e chiese: -Era un attivista? Il quale acconsentì con un accenno della testa. -Allora setacciamo tutto, prima che ci mettono mano loro! Faceva riferendo alla DIGOS, così cominciò a rovistare trascurando momentaneamente i familiari, che osservavano turbati da quell‟estraneo che toccava, prendeva, con padronanza le carte del proprio figlio; sentivano violata la loro intimità, tanto che la madre ebbe un altro attacco e si diede delle manate in piena faccia, saltava con tutto il corpo dal divano letto dove era seduta con una forza sovraumana, mentre il marito e un appuntato cercavano di trattenerla, urlava con una voce straziata e potente il nome del figlio. Il tenente si voltò appena e continuò, fu attratto da un plico di fogli che riguardavano il nuovo piano regolatore di Camico, in seguito dal giornale “La Sicilia” del 11 gennaio, dove vi era sottolineato con una matita rossa un articolo sulla Raf che aveva trasferito a Sigonella gli aerei con armi atomiche e altre carte in ciclostile. Poi un‟appunto manoscritto, con la stessa matita, in stampatello: “10 FEBBRAIO 1947 TRATTATO DI PACE DI PARIGI ARTICOLO 50: 376 BENVENTI A CAMICO L’ITALIA SI IMPEGNA A MANTENERE SMILITARIZZATA LA SICILIA REGIONE AUTONOMA DA NOVE MESI COMISO! BIRGI! SIGUNELLA! COMUNISMO E LIBERTA’ LOTTA DURA CONTRO LA DC MAFIOSA SERVA DEL CAPITALISMO AMERICANO!” IMPERIALISTA -Maresciallo! -Comandi, signor tenente! -Questi documenti li affido a lei personalmente, li porti in stazione! -Si signore! Si rivolse verso mamma Carmela e con voce calma prendendole le mano: -Signora, ci perdoni, ma questi primi momenti sono importanti per trovare qualche traccia. Capisco la sciagura che si è abbattuta sopra la vostra casa, ma ci dovete aiutare a trovare i responsabili. Lei dondolò la testa, con lo sguardo nel vuoto, sembrò capire, e non urlò più. L‟ufficiale così si fece spiegare quella macabra scenata dal padre che fu ricco di particolari, poi andò dal cadavere e frugò nelle tasche, dove trovò le chiavi di casa qualche spicciolo e il portafogli, l‟aprì e oltre alcune tessere di partito, vi era la patente di guida, la carta d‟identità, alcune foto: una della sorella e una raffiguranti la madre e il padre, poi vi erano un insieme di bigliettini con indirizzi e numeri di telefono tra questi uno ha attratto l‟attenzione per delle scritte particolari, rimise tutto 377 BENVENTI A CAMICO apposto e consegnò al maresciallo. Notò che il cadavere non aveva le scarpe e non era stato legato agli arti. Non tardarono ad arrivare il magistrato e quelli della scientifica che fecero portare via il morto con tutta la cassa, a mano perché la strada non era carrozzabile, quinti un altro corteo funebre questa volta con tanta amara tristezza dei vicini di casa che osservavano dalle loro case. Il magistrato, tardo negli anni, sembrava non provare più emozioni per niente e per nessuno, si consultò con il tenente e alla fine si complimentò, gli diede carta libera e con sguardo fermo ordinò di informarlo di tutto. –Caro Bertoni, faccia tutto quello che è giusto per arrivare alla verità, sono a sua disposizione, ma stia attento che Camico è come tutta la Sicilia, dorme! Perciò si muova in punta di piedi, non è compito nostro svegliarla. Il tenente guardava dalla finestra dell‟ufficio della caserma la piazza come assorto, pensava alle parole del giudice che non capiva ma qualcosa dentro lo ha bloccato a chiedere di più su quel “punta di piedi”, di scatto si voltò con il maresciallo ed esclamò: -Ma che razza di posto è questo? Cosa c‟è di fronte? Il maresciallo s‟accostò: -Dite dove vi sono quelli davanti la porta? Quello è il circolo civile! Quelli sono galantuomini che stanno per andare via! Il tenente si scostò e con insofferenza si gli rivolgeva senza guardarlo: -Non è possibile che tutta quella folla sia stata complice di quel omicidio, dobbiamo sentire tutti, per primo voglio ascoltare il vicino di casa che offrì da bere e parlò con uno degli incappucciati. Il maresciallo Camporelli, con quel corpo pesante, era stanco e si era acquattato sulla sedia, aveva il volto corrucciato, sia perché conosceva bene il giovane, sia perché pensava a quella orrenda 378 BENVENTI A CAMICO carnevalata ad una famiglia, che a suo avviso, era onestissima e non aveva avuto mai discussioni proprio con nessuno. Si rivolse all‟ufficiale: -Due li possiamo chiamare subito, l‟ursu e il suo padrone, quello che faceva l‟ursu è di sicuro uno dei figli di la „za Tana e chi lo tirava con le catene qualcuno dei loro cugini, poi vi erano i musicanti e altri anche senza maschera. Quelli che portavano la bara incappucciati con le tonache nere del Venerdì Santo, sono strani … -Perché al Venerdì Santo vi è qualche confraternita che veste in quel modo? -Si, differenziano solo per una grande croce bianca davanti! -Allora chiamiamoli tutti e che portino le loro tuniche! -Ma sono più di quaranta! -Anche cento! -Signorsì!- Si compose e strillò -Appuntato Bongiovanni! -Voglio sentire il segretario della sezione del Partito Comunista! Il maresciallo si compose sulla sedia e con tono pacato ma fermo si rivolse al suo superiore: -Signor tenente, capisco che l‟indagine dovrà essere fatta a trecentosessanta gradi, ma qui per la politica non si ammazzano, qui le tangenti se le dividono maggioranza e minoranza, alle elezioni fanno le scenate con quattro comizi per fare contenti le persone, ma poi, quando devono parlare della torta si uniscono quelli che comandano e decidono il da farsi. Il piano regolatore, ad esempio, lo stesso Giovanni era stato delegato da I Sette di Shangai a concordare con gli altri incaricati della DC e del PSI delle sezioni locali. E magari qualcuno del paese si incuriosiva a vederlo passeggiare a braccetto in piazza con „u Provessuri Menta! -E allora quel foglio? Quelle parole? Lei che spiegazioni dà! Facendo cenno con la mano come se pesasse la leggerezza: -Parole, forse gli servivano per qualche scenata per la base del partito o per i giovani, per altri contesti. Non dico che non ci credeva, ci credeva e come! Come uno che crede alle parole del 379 BENVENTI A CAMICO prete la domenica in chiesa. Giovanni era un buon giovane e aspirava ad una sistemazione, questa era la sua condotta. Non era come gli altri giovani del partito che si masturbavano il cervello, lui andava nelle altre riunioni, quelle de I Sette di Shangai e poi andava a fare la scenata nel direttivo della sezione. -Che cosa sono questi Sette di Shangai? -Sono sette esponenti che da generazioni le loro famiglie hanno militato nel partito e decidono su tutto. Poi vi è la segreteria con il direttivo che giostrano a loro piacimento con grande maestria. Mettono un giovane come segretario, l‟appoggiano nelle campagne elettorali e lo fanno giocare alla politica… La Sicilia terra di teatro è stata ed è! Se si scavasse nel raggio di dieci chilometri ne verrebbe alla luce uno. -Aveva legami sentimentali? -Possibile, ma non so, bisogna chiedere! -E il padre? -Una onestissima persona che non calpestava nessuna regola, e quando dico nessuna non escludo nessuna! -Maresciallo, a questo punto io dovrei capire, vero? Il maresciallo fece una mimica facciale di approvazione. -Il problema è che non capisco! -Allora sarò più chiaro. Un buon padre di famiglia rispetta la Legge, non fa niente che possa essere fuori legge, ma se vedesse un altro paesano che non la rispetta il suo dovere sarebbe di andare a riferire alla caserma, però infrangerebbe la regola dell‟omertà, con le possibile relative conseguenze per lui e la sua famiglia, mettendo così a repentaglio la sicurezza propria e quella dei suoi. Allora, un buon padre di famiglia, è orbu, surdu e taci e campa cent‟anni „npaci… -Quando ero all‟Accademia, speravo di non andare a finire in una terra come la Sicilia dove la storia è confusa con la leggenda e dove ogni cosa sembra essere il contrario della stessa, ma a nulla valsero le mie preghiere, anzi, un destino avverso mi mandò direttamente in quest‟isola e già sono passati quattro anni, ma non 380 BENVENTI A CAMICO sono stati sufficienti a farmi abituare a queste frasi che dicono e non dicono e a questi rituali macabri… L‟appuntato Bongiovanni da un po‟ assisteva impalato davanti la porta, quando il maresciallo si accorse della sua presenza lo invitò ad annotare l‟elenco delle persone da chiamare, poi si rivolse manieroso al suo superiore, dando poca considerazione a quel discorso come dire: “le solite minchiate da polentone!”, chiedendogli quando si dovevano presentare quelle persone. L‟ufficiale rimase un po‟ male per questo atteggiamento, ma capì che quelle esternazioni non erano il caso di farle, si è lasciato prendere dall‟aria quasi paterna del maresciallo, poi si riprese: -Domani dalle ore 9 a gruppi di cinque quelli della Confraternita, poi di seguito gli altri, poi quello lì, il Menta e i Sette di Shangai. Maresciallo mi raccomando, assisti quella famiglia, accompagnandoli all‟obitorio e veda di sapere di più su le ultime settimane della vittima, con discrezione, il tono deve essere confidenziale e amichevole! 381 BENVENTI A CAMICO III La Casazza del Venerdì Santo aveva origine antichissime, probabilmente importata dai Catalani o da i Marsalasi, che si trasferirono lì nella seconda metà del XVII° secolo. In ogni famiglia, da generazione a generazione, vi era qualcuno che ne faceva parte, ereditando la tonica e pure il posto preciso in processione. Tirando le somme, in ogni famiglia di Camico vi era una di quelle casazze. Comunque, per scrupolo, furono invitati a presentarsi in caserma quelli ancora attivi alle celebrazioni e regolarmente iscritti. Ci fu una processione di gente che andava e veniva con le tuniche in mano. Come spiegò il presidente della Casazza, il cavaliere Renzo Antò, famoso sensale di mandorle e frumento, le croci bianche sono due stoffe cucite, perciò a scucirle e ricucirle ci vuole ben poco. Molta gente si presentò spontaneamente in caserma per chiarire che si erano aggregati chi prima, chi dopo, a quel corteo. Quando i carabinieri andarono in casa di la „za Tana, successe un pandemonio, perché lei prese il bastone e incominciò a battere i figli, poi quando fu chiamato il cugino si capì che furono i primi ad aggregarsi proprio sotto uno degli archi del quartiere marsalisi. Venne fuori la figura della donna velata in nero. Il tenente su questo particolare voleva approfondire la pista passionale, anche se poteva essere un semplice elemento della sceneggiata, come la poesia detta dall‟incappucciato, per assicurare gli altri che era un funerale all‟inverno, insomma un‟allegoria carnevalesca. “Ma la donna velata? L‟inverno non ha né madri né amanti.” Si scervellava così il tenente che appuntava ogni nome, impressione o dato che via via riusciva ad ottenere. Vanni Buffa, il confidente, non si faceva ancora vivo come tante altre volte aveva fatto, tanto che il maresciallo lo fece chiamare, quando si presentò riferì che tutta questa storia lo inquietava. Il Buffa non si faceva vedere in giro tanto che si faceva negare a telefono, solo quando il maresciallo impose un 382 BENVENTI A CAMICO suo ultimatum alla suocera, che se non si fosse presentato subito l‟avrebbe fatto arrestare, allora si presentò turbato e guardingo, proprio lui che da decenni camminava su un filo di lama tra mafiosi e sbirri. -Che succede Buffa? T‟ammucci di mia? Gli gridò il comandante come lo vide spuntare dalla porta. Quello che riuscì a cavare dal Buffa fu che quell‟omicidio non aveva nessuna logica, sia per la vittima, sia per l‟esecuzione e poi per la crudeltà, lui aveva paura perché non ci capiva niente. La mafia, sembrava fuori da questo delitto, anzi lo avevano cercato perché anche loro volevano sapere qualcosa. Chi ha eseguito questo delitto avranno avuto dei motivi ritenuti pesanti, ma quali? Politici? Vendetta? Passionali? Il tenente sotto la parola politici scrive „u Provessuri Menta e i Sette di Shangai. Il Menta è anche noto capo mafia locale ed esponente di spicco della DC. „U Provessuri diceva sempre che i mafiosi a paragone dei politici sono santi! faceva l‟esempio pratico degli appalti, mentre i politici non si accontentavano con la sola cospicua tangente, perché la ditta doveva assumere pure i loro raccomandati per clientelismo e nonostante ciò, non contenti, quelli in carica chiedevano qualche rattedda da fare nei loro villini di campagna o al mare. Laddove ai mafiosi non restava altro che qualche assunzione di qualche loro uomo di comando. Ma „u Provessuri, proprio lui non doveva lamentarsi perché faceva come il leone in società nella favola di Esopo: questo mi tocca in quanto politico, questo in quanto mafioso e quest‟altro perché così non mi incazzo. Tramite Vanni Buffa gli fece capire al maresciallo che non era né delitto mafioso, né di politica, ma secondo lui, che aveva avuto a che fare con Giovanni in quei giorni e oltre averlo stimato come un ottimo giovane che il paese aveva di bisogno, l‟aveva conosciuto più approfonditamente e tra un discorso e l‟altro, nella 383 BENVENTI A CAMICO discrezione del giovane, aveva capito che gli piacevano le donne. Vanni gli riportò al maresciallo le testuali parole: -Gli devi riferire al tuo amico che a u picciottu u pilu ci piaceva anche se non lo lassava abbidiri! Ora questa frase uscita dalla bocca del Menta non aveva lo stesso peso se fosse uscita da quella di chiunque, così la mise subito all‟attenzione del tenente. Tre de i Sette di Shanghai si presentarono in caserma, però ad Agrigento il noto avvocato del partito chiese di essere ricevuto dal giudice per avere chiarimenti. Mentre gli esponenti del paese si accontentarono con le poche parole, anzi risposero che la vittima non aveva avuto mai minacce da nessuno, tranne durante un consiglio comunale una volta dall‟iroso Peppi Cassano, manuale edile che militava nel MSI, forse unico esponente palese, perché alla fine nelle urne i suoi 80 voti li prendeva sempre. Giovanni gli diede del fascista e lui rispose che comunista era ancora peggio, ma quando il Cassano non riuscì a controbattere con le parole gli saltò addosso. In quella occasione volarono parole pesanti. Il maresciallo si ricordò di quell‟evento ma aveva veramente pochissima rilevanza considerando l‟onestà del Cassano e poi in quei voti vi erano appunto quelli della sua famiglia e della caserma tutta, insomma il maresciallo e Cassano di nascosto si davano il tu. L‟avvocato incominciò a pompare il discorso che questa volta il Partito non ammetteva insabbiature perché per loro quella era l‟ennesima vittima comunista e avrebbe mosso le masse, sarebbero scesi quelli di Roma se questa volta non si fosse fatta chiarezza. Il giudice lo liquidò prontamente: -Avvocato, a parte la retorica, avete dei sospetti fondati? L‟avvocato rimase impreparato con lo sguardo ebete dietro le spesse lenti, così il giudice continuò: 384 BENVENTI A CAMICO -Allora, stia attento con le parole e lo dica anche a quelli di Roma, stiamo lavorando e abbiamo bisogno di calma, perciò non fate baccano per la vostra solita propaganda con il rischio di insabbiare la verità! L‟avvocato quando arrivò al suo studio grugnì ai suoi avvocaticchi che per il caso di Camico “è capitato un giudice fascista!”. Si cercò di costruire tutti gli attimi dei giorni prima dell‟omicidio, ma in famiglia nessuna cosa sembrava turbarlo, anzi sembrava che proprio quei giorni erano carichi di vitalità e ottimismo, tanto che la sorella più di una volta gli aveva chiesto se si fosse fatto zitu, ma lui rispondeva che non aveva tempo, intanto la donna velata in quella raccapricciante scenata aveva di sicuro un significato. 385 BENVENTI A CAMICO IV Il giudice aveva nella carpetta resoconti investigativi sia della polizia che dei carabinieri, ma le indagini erano impantanati a un niente di fatto, così spronò il tenente Bertoni: -Ancora non si sa nemmeno quale direzione prendere, eppure era un giovane con una vita semplice, in un paesino dove si conoscono tutti e tutti sanno di tutti. Cosa succede? -Signor giudice, sembra un autentico mistero. In questa terra di Sicilia la razionalità cessa di esistere per dare luce al paradosso, all‟irrazionale! -Caro mio giovane, lei ha troppi pregiudizi su questa Terra e sul suo Popolo, spero che sono solo di natura culturale e non le scaturiscono da altro. -Ma … -Deve liberarsi la mente e guardare i Siciliani oltre la maschera, dentro gli occhi, non si soffermi allo sguardo e lì non sanno mentire. Scoprirà uomini come tutti gli uomini di questo pianeta, con le loro storie, le stesse di tutto il mondo. Non si lasci ingannare dalla nostra teatralità e ritroverà la sua tanto amata razionalità. La parola teatralità echeggiava nelle mente del tenente e la collegò alle parole del maresciallo, pensava che doveva rivedere tutti gli appunti. Così guardò gli occhi del giudice e vide un uomo che la vita, attimo per attimo era andata pensando di non avere fatto abbastanza, gli occhi del suo interlocutore s‟illuminavano con il fuoco della rabbia e dell‟invidia per la sua giovinezza. -Vada ora e dentro la settimana voglio almeno il movente! Il giudice interruppe così i suoi pensieri. Mentre stava uscendo dalla porta si sentì chiamare: -Bertoni! le scarpe le avete trovate? La scientifica trovò che aveva bevuto super alcolici, della sambuca, prima di morire, aveva questa abitudine? -No, signor giudice, qualche bicchiere di vino a tavola, sarà stato occasionale per quel giorno di carnevale… 386 BENVENTI A CAMICO -Allora cerchi di scoprire con chi e dove ha bevuto questa sambuca, liberi la mente dagli incappucciati o dalla donna velata, è solo teatralità … -Grazie! Chiese permesso, l‟anziano giudice gli fece cenno con la mano di andare, salutò battendo i tacchi e uscì. Nel corridoio incominciò ad esercitarsi ad osservare con occhi nuovi, due avvocati: uno ben panciuto con una cartella di cuoio afferrata nel manico, sembrava che affrontasse il mondo a colpi di pancia; l‟altro longilineo con portamento elegante e un avvocaticchio dietro; che s‟incontravano e si salutavano con dei vocativi tenorili e inchini e tra se sussurrò: “teatralità!”. 387 BENVENTI A CAMICO V In casa Ammucciarè regnava il silenzio, il semibuio e il freddo, ogni stanza sembrava immensa, si sentiva la quotidianità esterna dei rumori del paese in contrasto con quella dimensione senza tempo. Ogni visita era inopportuna, anche dei più intimi, solo quando veniva il maresciallo o qualche altro della Legge si accendeva il loro interesse. Più passavano i giorni più vedevano nei Camichesi tutti dei nemici, cresceva il loro rigetto e odio per tutti, anche per i parenti più intimi. Quando si presentava qualcuno se lo immaginavano incappucciato e pensavano di riconoscerlo da gli occhi e l‟odiavano a tal punto che quel sentimento traspariva facilmente dalle loro espressioni. Matteo intimamente pensava come una forma di punizione per il troppo orgoglio che aveva per il figlio, un malocchio della gente per averlo sentito vantare di quel figlio spertu e beddu. Franca aveva ormai accantonato tutte le sue aspettative per un probabile fidanzamento, era un po‟ tozza e bassa. Sentiva dentro se un senso di colpa, un pensiero peccaminoso che le era nato alla vista del tenente Bertoni, se avesse avuto un pugnale adatto a penetrare la sua anima l‟avrebbe usato per straziarsela. Rifletteva nel tormentando, come era possibile, mentre il suo caro fratello era lì dentro quella brutta cassa, provare quel turbamento sessuale, verso quell‟uomo? Bastava pensarlo, ascoltare il suo nome dai genitori o dal maresciallo, per riprovare di nuovo la stessa sensazione, non sapeva come liberarsene. Così prigioniera dei suoi pensieri aveva rovistato tra le cose di Giovanni in cerca di una traccia un qualcosa, anche se già, sia i carabinieri che la polizia avevano messo sotto sopra ogni pezzo di carta e tanti fogli se li erano portati via, rovistando in mezzo ad una grossa antologia trovò un foglio completamente scritto con dei “ti amo” da una calligrafia femminile, l‟inchiostro era blu di stilografica, poi verso il basso vi era un cuore disegnato con dentro la scritta “per sempre 388 BENVENTI A CAMICO Angela”. La sorella capì che quel foglio era lì da qualche anno e incominciò a rimuginare con la mente chi poteva essere quell‟Angela, apparentemente nessuna con quel nome della stessa generazione di Giovanni, allora quell‟Angela poteva essere qualche ragazza di un altro paese incontrata ad Agrigento? Sicuramente non valeva la pena d‟indagare, sarà stata una di quelle storielle tra studenti. Franca rimase con quella antologia aperta e quel foglio in mano, impigliata tra quelle pagine, mentre leggeva a vuoto una pagina di De Amicis, Partono gli emigranti, pensava come avrebbe voluto continuare gli studi, ma suo padre non ha voluto, così gli rimase quel rimpianto, tale che non aveva toccato più libri. Pensava come era brava d‟italiano, la prima della classe, tanto che l‟insegnante volle parlare direttamente con la madre per farla continuare, ma suo padre fu irremovibile per il pregiudizio di non mandare la figlia fimmina a studiare fuori paese e fuori il controllo diretto della famiglia. I suoi pensieri furono interrotti dalla madre incuriosita di quel foglio scritto così fittamente, quando Franca le chiarì cos‟era, lei rimase a pensare su quel nome, ad un tratto le salì come una vertigine e si lasciò cadere sulla sedia, si tolse il fazzoletto nero attaccato alla testa e mormorò: -Nun po‟ essiri! No! Quel biglietto era un tassello mancante che diede l‟idea al puzzle, perché aveva sentito alcune insinuazioni, cu lu trasi e nesci, di qualche comare, che le aveva chiesto del figlio Giovanni se forse stava stimando qualche pezzo di terra a Peppi Canzìa. Il quale era imbarcato in una petroliera, sposato da qualche anno, appunto, con Angilina, abitavano quasi fuori paese. Giovanni era più piccolo di lei di quattro anni, quando lui era al primo anno lei era all‟ultimo di magistrale e quello fu l‟incontro che forse continuò fino ad ora. Come si dice in paese, era misa „mmucca, si diceva che metteva le corna a quel povero meschino che stava ammoddu e le mandava dollari in continuazione facendole fare la signorona. Carmela diceva tra se che se non avesse visto con i 389 BENVENTI A CAMICO propri occhi non avrebbe creduto, perché a volte una voce di popolo può nascere anche per invidia. Angela, aveva una carnagione di colore scuro, tanto che la chiamavano la tunisina, vestita sempre alla moda e imbellettata, faceva sfocio di scarpe e borse sempre nuove e alla moda, la sua femminilità, il suo portamento, attirava tutti gli uomini del paese con degli sguardi che sembravano sfogliarla, lei per nulla infastidita anzi, sarebbe sembrato alle altre donne che di questo se ne beasse. In questa trappola sicuramente era caduto il povero Giovanni. Quando Mattè venne a conoscenza del biglietto e del sospetto, si rese conto che se fosse fondato, quella era stata una relazione pericolosa, perché ne aveva sentito sul suo conto di cotte e di crude. Bisognava informare subito il maresciallo, così s‟avviò non guardando nemmeno l‟ora di pranzo. 390 BENVENTI A CAMICO VI Il tenente Bertoni teneva la caserma in un tormento continuo. Il maresciallo incominciava a non sopportarlo più, aveva tempi biologici completamente più accelerati incompatibili con quelli suoi. Quando Mattè riferì il loro sospetto mostrando quel foglio di carta, fu lo stesso di porgere una mano ad uomo in mare che era stato ormai travolto dalle onde. Il tenente intuì che lì c‟era il movente passionale dell‟omicidio e significava avere una strada per l‟indagine, la sua espressione chiusa e cupa sembrò illuminarsi. Per lui Camico era diventato un carcere e doveva uscirne fuori al più presto, sembrava di vivere un incubo avuto all‟Accademia, ma davanti aveva un padre che chiedeva giustizia, almeno quella per potere vivere nella sua comunità e nel suo profondo ne sentiva il “dovere”, questa parola, per un carabiniere come lui, dava significato alla sua vita. Il maresciallo strinse affettuosamente con la sua mano la spalla a Mattè seduto davanti a Bertoni rassicurandolo che quella traccia era importante. -Camporelli, cosa si sa di questa Angela? -Dopo pochi mesi dal matrimonio vi sono stati litigi con i suoceri, e il cognato, chiamati dalla stessa, siamo intervenuti più di una volta, poi il marito bisticciò con i suoi e si acquietarono tutti. Qualche diceria sul suo conto è arrivata, ma abbiamo dato poco peso. Comunque, nelle vicinanze vi abita Raimondo Smalto, impiegato al Banco di Sicilia di Cianciana, persona vicina a noi, domani glielo farò incontrare, sicuramente saprà qualcosa delle visite della signora Canzìa! -Che domani! Diamine! Oggi, ora! -Di sicuro è ancora a Cianciana… -E allora? Lo Stato ci dà i mezzi, no?! Andiamo a Cianciana! Il tenente così dicendo si alzò prendendo il cappello e girando la scrivania, strinse la mano a Mattè, che si sentì rinfrancato di quella sollecita iniziativa dell‟ufficiale, così si sollevò dalla sedia rimanendo chinato in senso di gratitudine. 391 BENVENTI A CAMICO -Vada a casa, stia con la sua famiglia, noi faremo di tutto, come sapremo qualcosa verrò io stesso a casa sua a riferirla. -Tantu onori! Mattè rimase in quella scomoda posizione con la coppola nera in mano. Il maresciallo nella mente e con la pancia pensava che non aveva toccato cibo e che già erano l‟una e mezza. Dovevano arrivare a Cianciana, rintracciare il signor Smalto, parlargli e ritornare, anche per oggi saltava la pasta. Pensava i tempi del tenente che non corrispondevano a i suoi, a quelli di tutti. Quando aveva fame diventava nervoso e muoveva il baffone da destra a sinistra. -Che c‟è? Gli chiese il tenente che stava imparando a conoscerlo. -Niente … Rispose quasi sottovoce. -Ha fame? Le fa bene un po‟ di dieta Camporelli! Il maresciallo girò gli occhi all‟insù pensando un “va fa „nculo” per quel giovinastro superiore e polentone. Trovarono, facilmente il signor Smalto in una specie di trattoria o bottega di vino, stava mangiando un piatto di pasta con un quartino di vino casereccio davanti, quando il maresciallo lo andò a chiamare informandolo che il suo superiore voleva conferire con lui per qualche informazione e lo attendeva lì fuori, vide quella nuvoletta di fumo che s‟innalzava da quegli spaghetti, dove emergevano due grosse patate e un cazzoddu di salsiccia, come degli scogli un mare di bontà, si sentì mordere dalla fame e un brontolio dallo stomaco lo tradì. -Marascià, io al mio piatto di pasta non rinuncio, che aspetti pure il suo ufficiale … Il banchiere rispose così un po‟ stizzito mentre arrotolava tra la forchetta e il cucchiaio gli spaghetti impigliati e la nuvoletta s‟innalzava fluttuante gli appannava gli occhiali. E come poteva 392 BENVENTI A CAMICO dargli torto? Il maresciallo fece su e giù con il pomo d‟Adamo e pensò come era giusto Ramunnu. -Senta, comandà, vuole favorire? Il maresciallo non trovò la forza di dire no. -Carmè! Porta natru piattu di pasta! Allè c‟avemu primura! Ci volle così poco ad arrivare quel piatto e meno ancora a togliersi il copricapo sedersi e trafugarsi scottandosi con le patate, però si sentì rinascere, tracannò un bicchiere di quel vino colore marrone chiaro e ringraziò il Creatore. Fece in tempo ad alzarsi e rimettersi in testa il capello che entrò l‟autista del tenente, s‟avvicinò per sollecitare, quando quello vide il piatto vuoto e la sedia spostata, da buon sbirro capì, fissò negli occhi il maresciallo come dire “ti sei dato da fare!”. Lui girò lo sguardo, con le mani diede un colpetto alla cintura e con disinvoltura disse: -Beh, andiamo! Si avviarono dentro l‟ufficio del direttore della banca. Il signor Smalto fu più che disponibile e quello che rivelò fu veramente importante. La signora, come la chiamava il signor Smalto, sicuramente aveva iniziato una relazione da sei mesi almeno con la vittima, che andava come minimo due volte la settimana a casa sua, prima con un carpetta, poi dei fogli arrotolati, sembrava che le visite fossero di lavoro, entrava verso le 19 e 30 e ne usciva alle 22 e qualche volta anche dopo le 23. Il giovane si guardava davanti e dietro prima di entrare, anche se il posto era isolato. La signora Smalto, che non poteva soffrire la “tunnisina”, perché si dava tutte quelle arie ma era “figlia di viddana”, la controllava morbosamente, lei diceva, per vedere quanto era “buttana”! -Vede, signor tenente, quando le donne come mia moglie si mettono a fare le cose, le fanno con puntiglio, perciò se ne stava con parsimonia dietro la finestra del soggiorno con la luce spenta e faceva pure tardi a coricarsi per controllare, poi mi svegliava e mi faceva il resoconto, tutta agitata. Quando Giovanni Ammucciarè 393 BENVENTI A CAMICO non andava, dopo le undici di sera, passava una macchina scura, forse blù, una Giulietta, da dove scendeva un uomo sempre ben vestito, la macchina ripartiva, lui entrava e pi li matinati usciva, chi fosse non lo so, e neanche mia moglie è riuscita e prendere la targa, me lo ha descritto con una corporatura media. -E il giorno di carnevale sua moglie ha notato qualcosa di particolare? -Signor tenente, proprio quel giorno mia moglie andò da sua madre per godersi la festa, ma fino alle undici del mattino non era successo niente. Lo so perché la sera precedente l‟uomo in vestito era entrato, ma non lo aveva visto uscire, poi si venne a coricare, di prima mattina era andata ad osservare e tutto era stanghiatu come la notte, nemmeno una finestra avvanidduzza, perciò controllò fin quando uscì. Quando io arrivai e andai a trovarla da mia suocera, come mi vide mi disse: “niente! Fino alle undici, niente!” -E‟ potuto andare via nella notte, magari mentre la sua signora dormiva? -Possibile, ma è difficile che non si fosse destata come avrebbe sentito il rumore della Giulietta che lo veniva a prendere. Ed io ne so qualcosa, purtroppo, perché, mi avrebbe dato due gumitati, svegliandomi nel pieno sonno dei giusti per dirmi: “Ramù, si nni j‟ ddu farabuttu!” Il maresciallo ridacchiando: -La signora Smalto è una carabiniera! -Una di queste notti che mi svegliò in questa maniera persi la pazienza: gumitati, “Ramù! Ramù, si nni j‟ ddu farabuttu!”, “E chi minchia m‟interessa? Vogliu dormiri! VOGLIU DORMIRI! Sta storia ava a finiri!” Il maresciallo rideva di cuore e il tenente sogghignava. -Quel colpo di minchia non sapete quanto mi costò. Scusi se mi permetto signor tenente. -Allora, non sappiamo se la vittima nel primo pomeriggio sia andata da lei e non sappiamo quando è andato via l‟uomo 394 BENVENTI A CAMICO misterioso! Signor Smalto, lei ci è stato di grande aiuto, ci ringrazi la sua signora, sicuramente lo disturberemo ancora! 395 BENVENTI A CAMICO VII Il giudice fu contento di quella svolta delle indagini e fu contento di firmare un mandato di perquisizione nella casa di Angela. Non fu trovato niente. Il tenente notò che in quella casa vi era uno strano odore misto tra fumo di sigarette e rinchiuso, anche se vi era un certo ordine, poi un bar in legno smaltato nero fornito di liquori di ogni genere, in un salone grande con un sofà in pelle bianca ad elle in mezzo, tutto sembrava, forse una hall d‟albergo, di sicuro non una casa per una famiglia. Lei, se l‟aspettava quella visita, era agitata, ma si manteneva, prima di iniziare la perquisizione volle telefonare al suo avvocato, che non tardò ad arrivare giacché si trovava a Cattolica. Quando le fu chiesto sulla relazione della vittima, rispose che s‟incontravano per motivi di lavoro visto che aveva acquistato un appezzamento a Eraclea Minoa e doveva costruirci un villino. Erano stati fidanzati, quando erano studenti, tra di loro, le famiglie non sapevano niente, poi era finito tutto. Sull‟uomo misterioso si è valsa della facoltà di non rispondere. Il tenente precisò che non era un interrogatorio. Lei aveva preso una luce nel volto che la rendeva più attraente e in un incontro di sguardi con il tenente avvertì un turbamento erotico, almeno così sembrò a lui, quando la vide che spalancò quegli occhi dolci e grandi in un fremito. Era ben fatta, con un fondo schiena e un seno formosi, che la vestaglia non riusciva a nascondere. Aveva una grazia particolare nei lenti movimenti e una voce melodiosa, gesticolava quando parlava come una danzatrice indiana. Il giovane tenente si afferrava orgoglioso alla sua parola d‟ordine: “dovere!”, se la è ripetuta molte volte nella mente, come difesa alle arti magiche di quella femmina. Mentre continuava l‟interrogatorio il maresciallo interruppe, parlò all‟orecchio del tenente che si alzò di scatto, lei rimase sorpresa e preoccupata, l‟avvocato alzò tutte e due le mani, il 396 BENVENTI A CAMICO tenente diede ordine ad un carabiniere di rimanere lì e chiese alla signora di scusarlo per un attimo e di non muoversi. Proprio dietro la casa vi era una specie di giardino dove le sterpaglie avevano preso il dominio e in un grande albero di gelso il maresciallo aveva trovato una corda attaccata ad un ramo, rimaneva solo costatare se era la stessa del nodo cursore trovata della vittima. -Che facciamo? Chiese il maresciallo. -L‟arrestiamo! -Proceda. Acconsentì tranquillamente il giovane ufficiale. Fuori casa si erano raccolti parecchi curiosi ad attendere, come l‟avevano saputo il maresciallo aveva già un idea e guardò la finestra del signor Smalto, dove c‟era la moglie affacciata splendente e trionfante. Angela uscì incappottata con gli occhiali scuri tra due carabinieri, senza manette, guardò insistentemente verso i curiosi, quasi con un‟aria di sfida ed entrò nell‟auto dell‟Arma che partì immediatamente. La scientifica appurò che la corda era la stessa, aveva lo stesso taglio. Allora era lei la donna velata? Ma cosa era successo e perché? Mentre il tenente smaniava per quel traguardo raggiunto, il maresciallo aveva delle perplessità che non tardò a comunicare al suo superiore: -Poiché lei si aspettava la nostra visita, perché lasciare lì quella prova sotto il naso? E le scarpe dove sono? Infastidito gli rispose: -Si sarà fidato da i suoi complici! Una cosa alla volta, piano! Angela non tardò a confessare che quel giorno non era in casa, aveva pranzato fuori e poi era andata al carnevale di Sciacca con un amico, dopo insistenze dichiarò pure il nome, un certo Agostino Ferruggia. Un uomo sulla quarantina, conosciuto dalla 397 BENVENTI A CAMICO Legge perché arrestato, processato e scarcerato, o per decorrenza dei termini, o per mancanza di prove, con diverse accuse, come estorsioni, omicidi e associazione mafiosa. Ultimamente, ritornato dal soggiorno obbligato, era stato notato a Ribera, Alessandria della Rocca, Cattolica e altri paesi compreso Agrigento, ma a Camico non si era segnalata la sua presenza, ciò significava che andava e veniva senza alcuna autorizzazione della mafia locale. Ferruggia era un personaggio singolare al quanto appariscente nel suo vestimento e comportamento, occhiali scuri, brillantina, vestito elegante, sempre con due tre al seguito, si muoveva con questa Giulietta con l‟autista, insomma non nascondeva che era mafioso, anzi lo lasciava ben vedere a tutti. Quando i carabinieri della stazione locale del suo paese andarono per arrestarlo, erano già le due pomeridiane e lui stava pranzando a casa sua. Il Ferruggia avvertì il loro arrivo, mentre isolavano il quartiere, così la moglie prese tempo ad aprire e fuggì dai tetti in maniera rocambolesca. Ci furono dei colpi sparati da una parte a l‟altra, riuscì lo stesso a dileguarsi non lasciando traccia di sé. 398 BENVENTI A CAMICO VIII Il caso era chiuso, era stato il Ferruggia con i complici, avevano impiccato il povero giovane e portato con quella macabra danza alla famiglia, complice pure l‟Angela sempre presente. Intanto la signora negava, imprecava e diceva che Giovanni era il suo vero amore, però si avvilì quando il giudice gli rispose che lei aveva un idea molto vaga dell‟amore, visto che si era sposata con un altro e conduceva un‟altra relazione con quel delinquente. Lei cercò di essere più sincera possibile con quell‟anziano magistrato, la quale non si sentiva a disagio come con il tenente giovane e attraente oppure con il maresciallo che gli ricordava troppo la gente di Camico. Parlò, si confessò così tanto come mai e con nessuno. Il suo primo, unico, vero, grande amore era Giovanni, un amore impossibile perché non era corrisposto in maniera autentica da lui. Lui cercava unicamente il suo corpo, nella sua mente c‟era posto solo per uno scopo quello di arrampicarsi da quando era ancora uno studentello di primo anno ad Agrigento. Fu una relazione insolita, travolgente e passionale. Trovarono le occasioni, i luoghi per i loro convegni amorosi ad Agrigento, ma a Camico tutto veniva sottaciuto. Angela si convinceva sempre più che quel suo modo discreto di non cercarla, di mollare un solo freddo ciao quando s‟incontravano in paese, asserendo, come giustificazione, di non volerla compromettere, in realtà era non amore. Così, lei infossò nel suo intimo quel suo sentimento e non lo cercò più, tutto era finito lì, come cominciato e lui non cercò nemmeno spiegazioni. Angela si sposò, un buon marito che si contentava di quel poco che gli dava in cambio di tutti quei petrodollari che arrivavano in banca ogni mese. Il Ferruggia era stato imbarcato per pochi mesi, con il marito e un giorno le portò i saluti e un pacchetto, da quel giorno, vuoi per la noia di Camico, vuoi per la mancanza, è nata una relazione fatta solo di risate e sesso. Quando il marito acquistò il terreno ad Eraclea Minua, fu lui stesso a portagli a casa Giovanni e da quel 399 BENVENTI A CAMICO giorno si riaccese quel fuoco che lei teneva spento dentro, tanto che, come il marito si fu imbarcato lo cercò e con la scusa del lavoro lo fece venire a casa dove la passione si riaccese e dicendosi come le patatine Pai: “ancora una e poi basta”, la storia durò fino ad ora. Quando lei seppe la triste notizia si sentì morire, e ha pianto così tanto, giurando di stroncare anche la relazione con il Ferruggia ed ha chiesto perdono a Dio, perché aveva capito la punizione della sua cattiva condotta. Figli non aveva voluti, prendendo precauzioni all‟insaputa del marito, ora ne voleva uno al più presto per chiamarlo Giovanni come lui. -Signora, tutto questo umanamente lo comprendo, ma qui c‟è un uomo ucciso a casa sua e lei non ha un alibi per quel pomeriggio, il Ferruggia è scappato appena ha visto i carabinieri, tutto è contro di lei. Ci sarà stato uno scontro tra i due pretendenti e il Giovanni ha avuto la peggio, non capisco perché impiccarlo? Magari consegnare il cadavere in quel modo alla famiglia potrà essere stata un idea bizzarra, se è giusto il termine, di quel criminale. -Signor giudice mi deve credere come una figlia, Giovanni quel pomeriggio non doveva venire, non c‟era nessun appuntamento. Io e il Ferruggia siamo stati accompagnati da due suoi amici a Sciacca, dove abbiamo pranzato in un ristorante giù al porto, poi siamo stati a gironzolare tra i carri, lì il tempo è passato, volato via, fin quando abbiamo visto bruciare il carro di Peppi „Nappa. -Verificheremo per il pranzo, ma vi è un lasso di tempo considerevole tra il pranzo e la fine del carnevale di Sciacca! Lei ruppe in un pianto accorato per la disperazione di non trovare una via d‟uscita. Il giudice si impietosì, perché una donna, tra l‟altro con quei bei occhioni, quando piange intenerisce qualsiasi uomo: -Vuole che informiamo i suoi? -E chi? Non ho famiglia! Né di parte mia né quella di mio marito, mi odiano tutti, tranne lui, che non c‟è e dovrà sbarcare il mese prossimo. 400 BENVENTI A CAMICO -Informeremo lui! Lei continuò a piangere, sola e pentita, consolata dal suo avvocato che aveva assistito a quel interrogatorio, senza bisogno di alcuno suo intervento per come era stato condotto dal giudice. 401 BENVENTI A CAMICO IX Il maresciallo non era assolutamente convinto di quella ricostruzione dei fatti, per lui vi erano parecchie cose fuori posto, quello era un omicidio pensato, le scarpe, dove erano andate a finire le scarpe? Si sentiva preso in giro da qualcuno e questo non lo faceva dormire. Il tenente Bertoni era soddisfatto. La famiglia Ammucciarè aveva colpevolizzato quella buttana, mangia uomini e poteva tornare a vivere nel paese perché gli esecutori non erano Camichesi. Il giudice anche lui s‟assopì sul movente passionale, divagava mentalmente sull‟albero di gelso dove la vittima fu impiccata e che per i Greci simboleggiava l‟amore tragico, perché Piramo e Tisbe, antichi Romeo e Giulietta, trovarono la morte, “chissà se quel mafiosello assassino di Ferruggia e i suoi scagnozzi sapevano di questo mito?”. Solo il maresciallo non riusciva a pensare a quella mascherata come un modo improvvisato lì per lì di sbarazzarsi del cadavere, come in ogni teatralità vi era un significato nascosto. Poi, quella cassa sarà stata preparata prima, quelle tonache, almeno le croci erano state scucite, sicuramente ci sarà stata una regia, quella era una vendetta, sia sul giovane, ma principalmente sulla famiglia. Erano tutte queste deduzioni che non lo lasciavano dormire tranquillo. Quella mattina che Vanni Buffa ritornò alla vecchia abitudine di andarsi a prendere il caffè a braccetto con il maresciallo, ora che il caso era chiuso, incominciò a prenderla larga per fargli dire cosa ne pensava „u Provessuri di come si era chiusa l‟indagine. Vanni guardò lo sbirro negli occhi come dire: “ma chi va circannu ancora?”. -Vedi Buffa, questa storia può andare bene per il maresciallo, mi metto la divisa, il cappello in testa, e archivio la pratica, ma a l‟uomo dentro la divisa, non va niente di tutto questo e voi 402 BENVENTI A CAMICO Camichesi non riuscirete a prendermi per il culo! Perciò devi dirgli all‟amico tuo che i pezzi non mi combaciano! -Comandà, ma quella è una buttana, è stata lei a fare succediri sta disgrazia! Il maresciallo rilesse tutte le deposizioni e incominciò a farsi uno specchietto con gli orari: alle ore 14 circa aveva rimesso dentro la sezione del partito le trombe che erano servite per lo spettacolino di quei tre spazzini in piazza; subito dopo rientrò a casa, mangiò con la famiglia, stette nel suo studio fino alle 16 e 30, andò diretto al bar Trinacria dove stette in compagnia di vari amici, dalle 17 e 30 circa non si hanno più tracce. Salvo, un suo amico e compagno, ha depositato che gli aveva detto di non avere nessun impegno per quella sera. La madre, anche lei, sapeva che era libero da impegni. Anche Angela ha asserito più di una volta che non aveva appuntamento con lui. Il sambuca non è stato servito dal barista, anzi assicurò che raramente beveva solo qualche amaro, ma mai e poi mai sambuca. Perciò è stato bevuto insieme con i probabili assassini e probabilmente non in un luogo pubblico, è deducibile che accettò da bere quello che c‟era disponibile, l‟eccezione è spiegata forse perché voleva essere acconsenziente, gentile, con chi glielo offrì. Al maresciallo gli ritornava nella mente l‟odore forte di quel liquore e oramai l‟associava alla morte, e fu quel pomeriggio che lo risentì in bocca al Buffa, divenne come un diavolo, incominciò a fiutarlo in bocca: -Buffa, da dove vieni? Cosa hai bevuto? Il Buffa, subito sulle difensive e preoccupato: -Marescià, lei lo sa che non sono un „mbriacuni, vengo dal Circolo e quella “persona” m‟offrì un sambuca, chi c‟è di male? Si chiuse in uno strano silenzio, capì che non doveva fare insospettire quello infame, perciò si calmò. Il Buffa riferì che „u Provessuri non ha avuto più dubbi, che solo quella gentaglia abbia avuto qualche strana pensata come quella. 403 BENVENTI A CAMICO Il maresciallo sapeva che quella del sambuca era una traccia sottile come un filo di ruccheddu, bastava che tirasse più del necessario e si sarebbe spezzato. Così con molta calma, quasi una cosa pensata lì per lì, gli disse che voleva incontrare ufficiosamente „u Provessuri. Era insolito quell‟incontro, lui sapeva delle conseguenze che poteva subire, se si fosse venuto a sapere, magari un trasferimento punitivo ed immediato in una di quelle destinazioni. Sapeva pure come era pericolosa quella persona, intanto il suo istinto, la sua persona gli ordinava di seguire quella traccia. L‟incontro fu fissato alla Cassa di Risparmio alle 9 e 30. Il maresciallo entrò nell‟ufficio del direttore dove trovò seduto il Menta che si alzò andandogli incontro ossequioso e disponibile. Lo sbirro saltò i preliminari e parlò: -Non vengo da sbirro, ma da uomo, in caso contrario l‟avrei invitato in caserma! Mentre parlava guardava quella persona sempre ben vestita rispettabilissima tra la gente che sembrava brava e onesta e pensava che quella era una tragica maschera, chissà quante volte è bastato un suo abbassamento di palpebre per eliminare un uomo? La mafia e come la chiesa si evolve cambiando gli uomini, un papa per ogni contesto storico e quando la conclave sbaglia corregge l‟errore, per questo sia l‟una e l‟altra sono così potenti nei secoli. Il suo predecessore era più diretto, più palese, anticomunista, ora vi è questo che sa parlare in italiano, sempre ben vestito e con i comunisti ci mangia pure assieme. -Sono a sua completa disposizione! Gli rispose il mafioso allargando le braccia. -Lei si è incontrato con Giovanni Ammucciarè il giorno di carnevale dopo le 17 e 30? -No! Risoluto e con franchezza. Ci fu tra i due un silenzio profondo, mentre si fissavano. 404 BENVENTI A CAMICO Lo sbirro pensò due possibilità: la prima se sta negando l‟incontro allora potrebbe veramente essere il colpevole; la seconda possibilità che sta dicendo la verità, allora lui sta rischiando inutilmente. Il mafioso a sua volta pensò: “la mia mossa l‟ho fatta, a precisa domanda di sbirro precisa risposta d‟uomo d‟onore”. -Lei ha fatto qualcosa di particolare dopo quell‟ora? -Chiacchiere e chiacchiere al circolo, marescià come ogni giorno, fino alle 20, poi sono andato a cenare, aspettavo a casa mia figlia che veniva da Giurgenti con il marito e i nipotini e per quei tre diavoletti mi nesci lu sensu, alle dieci menu un quartu ritornai al circolo e seppi della sventura che era successa, così rimasi lì fino a tardi! Il maresciallo non voleva sapere come avesse passato la serata di carnevale „u Provessuri, ma cosa aveva percepito, ravvisato dal suo punto di vista, insomma un aiuto, comprese che non ci cavava niente, si alzò e stava per salutare, quando l‟altro continuò: -Maresciallo, si segga, capisco che è abituato ad interrogare le persone, ma visto che lei si è presentato da uomo è meglio che ci facciamo una chiacchierata più aperta. Camico ha bisogno di dimenticare questo triste caso al più presto, nell‟arco di una generazione nessuno ne deve parlare e questo è possibile quando la gente sa. Spesso quando uno viene ucciso si sa già da tempo che quello doveva cadere. Questa volta la gente ha avuto i suoi colpevoli, ma lei no! Vede la gente a volte praticherebbe pure la lapidazione per le donne adultere come quel bel pezzo di figliola della signora Canzìa, anzi più sono belle più prenderebbero i sassi belli grossi, perché magari non la possono avere loro e a nulla varrebbe un Gesù Cristo di mezzo ad ammonirli che chi non ha peccati scagli la prima pietra, perché sempre più di raro vedono i propri peccati, sicuramente oggi li buscherebbe pure lui! Con rispetto parlando. Dall‟altra parte c‟è la parte lesa, il marito, la famiglia tutta del cornuto, ora le soluzioni sono due: o fare finta di niente, o reagire. Fare finta di niente significa essere lapidato 405 BENVENTI A CAMICO insieme con l‟adultera. La gente dopo duemila anni non tira pietre, perché la legge occidentale non glielo permette, ma tira certe occhiate e certe parole che feriscono ancora più delle pietre stesse. Certo è che un padre, che aveva fatto tanti sacrifici per un figlio come Giovanni, ne andava orgoglioso e se ne vantava pure dove ci capitava. Ora dico io, un parente che ascolta e sa la “cosa”, il sangue gli diventa veleno! -Lei mi sta dicendo che il padre, un fratello un cognato, un cugino del Canzìa abbiano potuto commettere un tale omicidio? -Io non le sto dicendo proprio niente! Mi stia bene a sentire! Stiamo facendo due chiacchiere tra uomo e uomo, di impressioni, idee che nascono e finiscono così, minchiate campate in aria! Il maresciallo allargò il baffo in un sorriso lasciando lo sguardo meditativo, si alzò e andò via senza stringergli la mano e neppure salutare. „U Provessuri, non appena aveva aperto la porta, lo chiamò: -Marescià! Si volse per vedere cosa volesse e il Menta chinando la testa lo salutò: -Buongiorno! 406 BENVENTI A CAMICO X Il maresciallo, lo stesso giorno, andò in casa della famiglia Ammucciarè, e indagò chiedendo se avessero avuto degli abboccamenti con i Canzìa. Mattè dopo un po‟, si ricordò di un avvenimento secondario alla posta con l‟anziano Canzìa. Quel giorno vi era Barracanazzu che straparlava come sempre di fimmini e corna, Mattè ne rideva, mentre il Canzìa sembrava cu li muschi cavaddini. Si era passato da un discorso a un altro. L‟Ammucciarè aveva parlato del figlio che ne era orgoglioso e di matrimonio non se ne parlava, tanto oggi giorno li fimmini scippanu l‟occhi. Fu dopo che Barracanazzu parlò di corna, non ricorda come quel ciarlatano passò dal figlio Giovanni ai tradimenti. -E chi nni sapi lu poviru maritu? Macari luntanu a guadagnari grana pi falla stari comu na signuruna… Lu paisi si sta pirdennu! Barracanazzu sbraitava nna lu rutulacchiu. -C‟è cu li corna si li portanu „ngiru ca ci pari anuri! Ricordò di avere buttato quella frase, tanto per dire qualcosa. L‟anziano a questo punto trasudò e cambiò colore e faccia, così gli disse e tra i denti: -Fermati ddocu ca ti sta allargannu assà, Ammucciarè! E siccome per Mattè non era suo costume inveire sulle disgrazie altrui, sentì giusto quel rimprovero di una persona più anziana, si ammutolì. Ora che ci ripensava, si raggelava per come lo fissava il Canzìa, dentro quegli occhi c‟era l‟inferno tutto con fiamme e diavoli. Il maresciallo raccomandò il silenzio assoluto, non lasciare trapelare il minimo sospetto a chiunque di queste conclusioni fin quando non avesse trovato qualche prova tangibile, gli indizi non bastavano per accusarli. Quando il comandante in compagnia di un carabiniere si presentò in casa Canzìa, trovò pure Peppi, informato dai suoi, era sbarcato, raccontò che fu prelevato da un elicottero a largo degli Stati Uniti e prese l‟aereo a New York, era arrivato ieri notte. 407 BENVENTI A CAMICO Già Vanni Buffa l‟aveva informato che la notte, il Peppi Canzìa con il padre, il fratello e il cognato erano andati al Bar Sole dove presero qualcosa dicendo che venivano da Punta Raisi. Il Camporelli osservò il Canzìa, intanto per niente affranto, e nemmeno infiacchito da tanto viaggio, anzi era soddisfatto e riposato. Lì dentro la stanza all‟ingresso vi erano familiari di ogni genere, donne, bambini, l‟arrivo dei carabinieri creò un po‟ di subbuglio e molti andarono via. Gli chiese che per alcuni formalità si doveva presentare domani in caserma, così allargò l‟invito sia al fratello, al padre e al cognato. L‟anziano Canzìa s‟inquetò a quella richiesta, poteva ben capire il figlio, ma loro che c‟entravano? Il maresciallo rispose che erano tutte formalità, una cosa sbrigativa, carte da riempire. L‟indomani mattino, non appena Carmela aprì la porta trovò un pacco davanti la porta, prima d‟aprirlo chiamò all‟attenzione il marito che stava prendendo il caffè e la figlia. Mattè l‟aprì lentamente e tremante, ormai era assoggettato a quelle sorprese, vi erano le scarpe di Giovanni e una lettera scritta dal loro caro. Carmela si morse la mano emettendo un cupo lamento, Franca si strinse a lei tremante. Mattè prese quel foglio e lo diede alla figlia per leggerlo. Lei prima non aveva voce e tremava, fin quando bevve un bicchiere d‟acqua e incominciò a leggere: -“Chiedo perdono alla mia famiglia e a te Angela, sono un traditore di Giuseppe che mi portò nella sua casa come un amico. Non riesco più a sopportare di doverti dividere con l‟altro, così ho deciso di farla finita. Addio. Giovanni”. Per la famiglia Ammucciarè le tribolazioni non erano finite, quella scatola rinnovò lo spavento del giorno di carnevale. Carmela aveva il colore del viso come la creta, Franca tremava 408 BENVENTI A CAMICO come una foglia e Mattè sbottò a piangere come non era riuscito tutti quei giorni, nemmeno al funerale. Quel ritrovamento bastò al maresciallo per riattivare di nuovo le indagini, avvisò la famiglia di non proferire parola con nessuno di quel ritrovamento, doveva rimanere tutto in assoluto segreto. Il giudice capì che il maresciallo aveva toccato qualche nervo scoperto a qualcuno e che si doveva proseguire. Il tenente Bertoni, quando ritornò a Camico ed entrò nel cortile della caserma si fermò a guardare il cielo come un rimprovero, o peggio, una bestemmia, che tutti capirono, mentre pensava che il suo incubo continuava. Dopo essere stato informato dei passi del comandante di stazione, volle una sua relazione scritta e dettagliata e per prima cosa richiamò in caserma „u Provessuri. Il maresciallo sapeva che il Menta mal sopportava entrare lì dentro e di più quello sbirro polentone con quell‟aria di missionario in mezzo ai selvaggi. Andò lui stesso ad invitarlo a presentarsi, attraversò la piazza con passo deciso tracciando una linea diretta lungo la piazza e con una strana vibrazione nel corpo entrò in quell‟antico posto di potere che era il Circolo Civile, questa era la seconda volta. Il cameriere aveva notato la direzione presa dal maresciallo con l‟appuntato usciti dal portone della caserma e di tutta fretta avvisò „u Provessuri che con tono rassicurante gli rispose: -E fallu viniri! Rimase nella presidenza a leggere il giornale. Appena entrato fu ossequiato dai presenti, subito chiese del Menta e senza fargli fare anticamera fu fatto entrare nell‟ufficio di presidenza. „U Provessuri, alzò lo sguardo dal giornale ed esclamò: -Che onore! Il maresciallo lasciò la porta aperta e dirigendosi dietro lui con il dito sfiorò alcune parti scheggiate dell‟antico armadio di legno. 409 BENVENTI A CAMICO -E‟ rimasto così da quel fausto giorno che la povera donna Antonietta in un momento di follia uccise il suo compare don Ninu Ferru, grande uomo di altri tempi! -Che grande uomo!! E una minuta vecchietta lo buttò a terra e per sempre! Come dice lei “in un momento di follia”. Qui da noi la maschera della follia spesso si mette ai portatori di verità. Ha presente Golia? Il gigante Golia della Bibbia! Che sbraitava possente, e un ragazzetto con una fionda, giù! Lo scaraventa a terra! Grandi uomini, con il potere di vita e di morte! Ma un chiunque ragazzetto con la sua miserabile fionda può abbatterlo … Il Menta rimase seduto e guardava l‟appuntato davanti con un espressione interrogativa. -Il tenente Bertoni lo vuole rivedere. -Ancora? Non ho niente da aggiungere! -Si presenti pomeriggio alle quindici in caserma! Si avviò verso l‟uscio stava chiudendo la porta quando riaprì e con espressione greve gli disse: -Buongiorno! Il Menta rispose chinando lievemente la testa. Furono chiamati anche i Canzìa, che si alzarono tutti appena videro entrare „u Provessuri. La perizia calligrafica aveva attestato che il biglietto era stato scritto dalla vittima. Da un indagine della procura si era scoperto che Peppi Canzìa era sbarcato il 13 febbraio. Il tenente Bertoni, chiamò per primo il Menta e gli fu richiesto se avesse incontrato Giovanni Ammucciarè dopo le 17 e 30, chiarì che aveva avuto una dichiarazione firmata, mostrando un foglio di carta, di un testimone che aveva visto i due insieme e di pensarci bene che una sua deposizione falsa bastava per chiuderlo dentro per un po‟ di mesi. Il Menta rispose che credeva di poca importanza questo incontro, stette con Giovanni meno di dieci minuti, il tempo di bere un sambuca insieme, disse che aveva 410 BENVENTI A CAMICO fretta per un appuntamento galante con una signora, ma non disse chi era. „U Provessuri fu fatto accomodare in un‟altra stanza, mentre passava davanti ai Canzìa, guardò di bieco l‟anziano. Quando fu chiamato Peppi Canzìa e gli fu chiesto cosa avesse fatto il giorno di carnevale, cadde dalle nuvole chiarendo che era a bordo, il tenente con tono persuasivo cercava di spiegargli le ragioni di dire la verità e che mentire il suo sbarco del 13 febbraio era puerile perché è bastato chiedere alla compagnia di navigazione. Peppì Canzìa chinò la testa ammutolendosi. Intervenne il maresciallo esortandolo a parlare perché vi erano forti indizi che era stato lui ad ucciderlo e che avrebbe preso l‟ergastolo. A questo punto gridò: -No! Ju mortu, lu truvavu! Così confessò che era sbarcato prima, per trovare sul fatto compiuto la moglie, la cosiddetta sorpresa, perché ogni volta che telefonava alla sua famiglia gli arrivavano notizie del cattivo comportamento di lei e che ormai la sua casa era un bordello con uomini che entravano e uscivano a qualsiasi ora. Gli fu pure raccontato che il disonore era arrivato pure a tutti gli uomini della famiglia tanto da venire offesi apertamente. Quando arrivò con il taxi a casa era già sera, cercò la moglie, la chiamò ma non c‟era, così si mise a curiosare e nel giardinetto dietro la casa, trovò Giovanni impiccato al gelso. Dopo lo sbigottimento chiamò i suoi che accorsero. Arrivò suo padre e suo cognato, si pensò cosa fare e che chiamare i carabinieri sarebbe stata una seccatura e una vergogna bisognava liberarsi del cadavere e così si pensò di fare quella carnevalata e vendicarsi in questo modo del padre che aveva parlato troppo. -Le scarpe! Disse il maresciallo con tono secco. -Quale scarpe? Rispose il Canzìa: -Non si trovano le scarpe del morto! 411 BENVENTI A CAMICO Peppi non ne sapeva, così fu fatto accomodare in un‟altra stanza attigua e furono chiamati gli altri tre. Quando l‟anziano ascoltò il tenente che gli disse che sapevano tutto occorreva verificare quando detto dal figlio si rivolse al genero e gli fece cenno di parlare, confermando tutto. -Le scarpe di Giovanni!- Gli sparò il maresciallo. -Saranno rimaste sotto l‟albero, già c‟era buio.- Rispose il cognato. -Lu tabbutu?- Incalzò il maresciallo -Quando lo avete preparato? La vernice non si asciuga in mezzora! Parlò il figlio: -Lei non ci crederà, quello era uno scherzo che avevamo preparato per dopo le elezioni per il sindaco, ma come si sa vinse, e così rimase nni la pajalora e si quella fu l‟occasione per usarlo! La vuole sapere una curiosità? L‟idea di quel tabbuto era venuta proprio a Giovanni. Furono arrestati tutte e quattro, non vollero confessare chi fosse quella o quello travestito di donna velata in nero, sarà stata sicuramente una loro familiare. „U Provessuri protestava e andava a chiedere se fosse arrestato o libero d‟andarsene. Il tenente gli chiese scusa, ma quella attesa era necessaria per l‟indagine. Il maresciallo mentre usciva gli disse trattenendolo per il braccio: -Un passo alla volta, stiamo arrivando! „U Provessuri gli guardò la mano e poi intensamente negli occhi. Il maresciallo capì che era una minaccia, allentò la mossa. Poi non cedendo lo sguardo lo salutò: -Bonasira marascià! E andò via. Le indagini si fermarono lì, Angela fu scarcerata. Dopo qualche settimana arrivò la notizia che il Ferruggia fu fatto saltare in aria in una casa di campagna. La famiglia Ammucciarè, non 412 BENVENTI A CAMICO c‟è la fece a convivere a Camico così emigrò di nuovo in Germania. 413 BENVENTI A CAMICO XI Il maresciallo dentro se aveva capito che la maschera della morte era quella del Menta, così piena di sorrisi e di disponibilità per tutti i paesani, l‟avrà fatto suicidare dai suoi scagnozzi, l‟avrà fatto attrarre con un falso appuntamento e lì sicuramente avrà trovato gli aguzzini che tramite minaccia gli avranno fatto scrivere quel biglietto e poi portato dietro la casa dei Canzìa lo avranno impiccato, mancava il movente, così incominciò ad indagare tra i politicanti e a scartabellare delibere al municipio. Scoprì che Giovanni forse pretendeva più di quanto gli spettasse ed era l‟unico a non volere calare la testa per accordarsi per il piano regolatore. Fu proprio uno dei Sette di Shangai che rivelò al Menta il doppio gioco di Giovanni con un altro proprietario terriero. Un giorno un uomo a gli ordini del Menta andò in caserma, per rinnovarsi il porto d‟armi, il maresciallo aprì l‟armadio e prese la scatola, l‟aprì e tirò fuori le scarpe: -Li canusci? Quello rimase di sasso. Al maresciallo bastò quella espressione, quello era un messaggio diretto al Menta. 414 BENVENTI A CAMICO XII In piena estate la famiglia Camporelli era andata in vacanza e lui rimasto solo in paese era preso dalla noia, spesso gli capitava la sera mangiare fuori. Fu una di queste sere che Vanni Buffa lo invitò a mangiare la pasta cu i sardi a Siculiana Marina dove amici la sapevano fare così bene da rimanere indimenticabile. Il maresciallo tentato dalla gola e dalla noia accettò. Lì trovò un‟ottima compagnia e dell‟ottimo vino che bevve, anche se con moderazione. Fu come un sogno, si ricordò solo degli infermieri, lui che non poteva muoversi e l‟autoambulanza a tutto spiano, poi chiuso in una cella per diversi giorni. Capì di essere al manicomio di Agrigento e più urlava chiedendo di essere liberato più i medici e gli infermieri gli somministravano dei sedativi. Un giorno vide entrare nella sua cella il Menta, lui seduto sulla branda con la camicia di forza, fu quasi lieto di vedere un volto conosciuto. -Marascià, mi trovavo a passare da queste parti e sono venuto a trovarlo, cosa è successo? -Nun sacciu chi capità… Rispose con un filo di voce con lo sguardo pietoso, ormai ridotto senza volontà. -Eh! Eh! Eh!, lei si metti a fari lu pazzu! Ridendo e andandoci di fronte, poi lo scrollò con tutte e due le braccia: -Su, su! Non lo riconosco più! Ora lo tolgo io da questo impiccio, qui dentro ho amici importanti! Lei oggi stesso ritornerà a Camico e tutto sarà come prima, come se non fosse successo niente. In fin dei conti cosa è successo? Niente! Si è solo messo a fare il pazzo! Però mi deve promettere che non lo deve fare più il pazzo! Me lo promette? Il maresciallo si mise a piangere e chinò la testa acconsentendo. 415 BENVENTI A CAMICO -Questa soddisfazione gliela devo da uomo a uomo! Quel giovane aveva preso la brutta abitudine di non mantenere la parola data. Era un Giuda e come Giuda è morto. Nella bilancia della Giustizia giusta chiunque può mettere un sasso, anche se piccolino aggrava la condanna. Basta! Tutto è finito! Ora le voglio sentire dire un bel si! -Si, Si! Si! Gridò il maresciallo. Tornato a Camico, prese quella scatola la incartò, la sigillò con della ceralacca e la pose nell‟archivio. Si volle togliere una soddisfazione, andò a scartabellare in quell‟archivio e vi trovò una denunzia di qualche annetto prima fatta e ritratta da Giovanni per un muro che era stato lesionato da un intervento edilizio nella casa dell‟avvocato Ragusa. Chiese all‟appuntato Guglia se si ricordasse di come andarono quei fatti. L‟appuntato si ricordava e come! Prima di iniziare i lavori l‟anziano geometra Re chiamò Giovanni e suo padre e fece vedere che il muro della loro stalla già era lesionato, ma non appena i muratori iniziarono i lavori di ristrutturazione Giovanni andò a denunziare l‟avvocato. Non valse a niente essersi premuniti prima con quella costatazione amichevole, allora gli parlarono pure persone amiche, pregandolo di andare a ritirare la denuncia. L‟avvocato Ragusa in paese era molto rispettato e in special modo da certa gente che ha avuto fatti favori particolari grazie alle sue conoscenze altolocate. Quando il Ragusa tornò a Camico volle togliere tutti quegli impicci e fece ristrutturare non solo il muro ma anche tutta la stalla degli Ammucciarè. Il maresciallo capì che il sasso dell‟avvocato forse era stato il più grosso, oltre quello altrettanto pesante del Menta tradito nel negoziato per il piano regolatore, poi vi furono anche quei sassolini dei Canzìa. 416 BENVENTI A CAMICO Tutto ora collimava, ogni pezzo era al suo posto, tutto era spiegato, pure la teatralità inscenata. Come sempre, una esecuzione capitale, ha il suo linguaggio. -Solo davanti ai pazzi la Morte toglie la sua maschera! Pensò così ad alta voce, mentre l‟appuntato gli chiese: -Chi dissi? -Niente … Rispose sotto tono. Quando uscì sembrava che tutti lo salutassero con più rispetto di prima: -Buongiorno! -Assabenedica! Passo davanti il Circolo Civile e „u Provessuri lì davanti lo salutò cordialmente: -Buongiorno! Lui lo guardò e rispose con riverenza: -Buongiorno! Rientrando in caserma fece richiesta di trasferimento da Camico senza precisare preferenze per la destinazione. 417 BENVENTI A CAMICO PARTE SETTIMA In un momento di silenzio si udì u scrusciu di una saracinesca che si abbassò con veemenza. -Questo è Giovanni che ha chiuso il bar! -Questa sera l‟arciprete mi ha fatto un regalo che sicuramente al Bonanno avrebbe fatto un piacere immenso se lo avesse avuto lui! Il dottore Balla era compiaciuto, aveva lo sguardo sorridente e le labbra dilatate lasciavano vedere al completo i denti, si muoveva sulla sedia prendendo sistemazione dritta, si mise la mano nella tasca destra della giacca, quasi come volersi assicurare che quell‟oggetto, quel dono dell‟arciprete fosse lì, come accertarsi che accadde veramente. -Di che si tratta, compare si può sapere? Nanà gli chiese quasi per dovere, perché era sicuro che non stava nella pelle a mostrare quell‟oggetto, tanto che i suoi piedi sotto la sedia pedalavano allegramente mentre con la sua mano nella tasca della giacca toccava sicuramente il regalo. Si udì il cigolio della porta vetrata, era Giovanni Bonanno: -Signor Saponaro, ma insomma, come è finita? Mi fa concorrenza con le gazzose, ora che orario continuato? -Giovanni, vieni che ti faccio vedere una cosa. Così uscì il fazzoletto bianco e lo sbrogliò da dove l‟oro di una moneta scintillò meravigliosamente, rivelando il suo splendore. Tutti avevamo accostato le teste, mentre il Balla se ne stava sorridente e trionfante. Ognuno di noi esclamavamo la nostra sorpresa. L‟oro sembra mobilizzare qualsiasi momento e qualsiasi luogo, è l‟uomo che poi riesce sempre a sporcarlo con il suo egoismo e ingordigia. -Guarda che faccia da nespolo ha questo! Disse Giovanni, prontamente il Balla girò la moneta mostrando la trinacria. -Mi! Duttù, mi faccia vedere! 418 BENVENTI A CAMICO Così guardò con maggiore attenzione e desiderio quel simbolo che ormai faceva parte di se, lo rappresentava, racchiudeva la sua stessa esistenza. -Questo è Ferdinado III, con la sua cretineria tirannica cancellò sette anni di storia del Regno di Sicilia, è stato lui ad inventare il Regno delle Due Sicilie, mise assieme il Regno di Napoli e quello di Sicilia, così come se niente fosse cancellò la Bandiera, l‟Esercito e la Costituzione Siciliana! Ormai si era infervorato Giovanni Bonanno che in quanto storia patria ne sapeva e come. -Io la conosco questa moneta, l‟ho già vista! Questa fa parte del tesoro di Gesallà! -Bravo Pietro! E come fai a saperlo? -Sono stato da quell‟uomo così mite, quando ero ancora studente andavo a trovare gli anziani per dare un po‟ di conforto, di calore umano. Da quegli incontri ricevevo più io di quanto riuscisse a dare. Ognuno era uno scrigno che aprendosi offriva una ricchezza inestimabile di vita. 419 BENVENTI A CAMICO SOTTO E SOPRA Sporco lunedì, pioggia o poco più Lo sapevo già, lo sapevi pure tu Che l‟immensità non esiste più Una camera mille intimità Non si può dire no Tornerò unico Senza trama il film che vedrò con te Fin che finirà non farà notte Ti addormenterai e ti stupirò Perché martedì io non ci sarò Lascerò un foglio Scriverò “s‟agapò” Perché tutto ciò potesse essere vero la mia immaginazione non avrebbe mai dovuto conoscere la realtà; fin che un giorno, preso dallo sconforto di non poter rapire i suoi ricordi e chiuderli in una scatola di cartone senza buchi per l‟aria, mi decisi che era arrivato il momento di arrendermi all‟idea di dover capire. Così penetrai le pareti tra me e il trascendente e bruciai il mio moleskine senza fiatare, non un minimo rumore. Calò il Silenzio. Si presentò, era elegante come sempre, si sedette di fronte a me, mi fissò, poi si mise a raccontare la storia di un popolo estinto, la storia degli Uomini d‟aria, la storia delle anime fluttuanti tra l‟essenza e la conoscenza, tra l‟idea e il piacere, tra la morte e l‟amore. Figli legittimi della Povertà, essere mutevoli secondo la volontà del loro padre: il Silenzio. Quel Silenzio che parlò dei suoi figli senza rancore, e che per ultima cosa mi disse: “solo un dio invidioso avrebbe potuto odiarli, solo un dio cieco avrebbe potuto amarli”. (CANZONE PER VECCHI ANIMALI Federico Doria – ROMA 2002) 420 BENVENTI A CAMICO La mattina di Pasqua Era la mattina di Pasqua e Gesallà in mezzo alla vigna zappava senza sosta. Nei dintorni non vi era nessuno, solo lui e le sue bestie, solo lui e quegli arbusti contorti di viti assediati dalla gramigna e dai tralci selvatici. Era un vigneto con più di settecento piante da dove usciva ogni anno un ottimo vino rosso rubino. Il padre ogni anno a San Martino sollevava il primo bicchiere della botte e lo metteva controluce, mentre la famiglia tutta era attorno in attesa del suo verdetto, lo sorseggiava un po‟, scoccava la lingua, rialzava di nuovo il bicchiere ed esultava con la rituale frase: “Sangu di Ddiu!”, i visi dei familiari allora si distendevano in un sorriso. Quel giorno con il disappunto della madre partì di prima mattina per la campagna, più immaginava le campane in paese che annunciavano in festa la resurrezione del Cristo: “Din don! Din! don!”, più rabbiosamente zappava. Gesallà con i suoi venti otto anni era taciturno, aveva sulle spalle la Seconda Guerra Mondiale, tante sofferenze e dietro il suo fare scorbutico nascondeva un animo poetico. Non sapeva né leggere né scrivere, ma i versi sgorgavano soli come fiori di campo, mentre zappava, mentre mangiava un po‟ di pane e companatico a la robba. Dava l‟impressione di un uomo rude che pensava solo al lavoro incapace di un sorriso, o di una parola gentile, si sbagliavano tutti a giudicarlo in quel modo. La campagna era distante circa un‟ora da Camico sopra il mulo, una proprietà del padre, alla sua morte l‟avrebbe divisa con l‟altro fratello maggiore Cristenziu. Ce n‟era terra per tutti e due, tutta bonificata, con vigna, alberi secolari d‟olivi, frutteto di peschi, peri, albicocchi, fichi, poi alberi di carrubi quanto una casa. Vi era una sorgente d‟acqua dolce, rigogliosa anche nella lunga e torrida estate, ai piedi di un canneto di arando donax con quei pennacchi che ondeggiavano ad un lieve vento. Quell‟acqua era una vera ricchezza perché permetteva di irrigare l‟orto. Il resto 421 BENVENTI A CAMICO della terra era divisa in un campo di frumento e una piccola altura dove ai piedi vi era una grotta grandissima con l‟ingresso stretto e basso, che per entrarci si doveva strisciare a pancia in terra per un paio di metri. Questa entrata era nascosta da una pianta di spina santa. Gesallà era davanti la casa, seduto nella juttena stava mangiando un po‟ di pane con delle sarde sotto sale e delle olive in salamoia, erano sicuramente le dieci passate, aveva riempito un bel bicchiere di quel vino e rimuginava dei versi nella mente. La casa aveva due stanze e una piccola stalla, accanto un forno a legna costruito a cupola con le giammarite e il gesso. La famiglia di Gesallà si ritirava in quella roba ai primi di maggio stava tutta l‟estate e tornava in paese la prima settimana d‟ottobre. Era terra benedetta da Dio, in paese lo dicevano tutti, nera come la notte. Loro ne erano così orgogliosi che camminavo fieri come signori. Erano proprietari di quella terra da diverse generazioni, il nonno aveva raccontato alcune leggende su quella grotta, di persone che erano entrati e non più usciti, perché vi era un fantasma alla guardia di un tesoro di monete d‟oro, o perché vi era una discesa ripida e si sprofondava, insomma non era chiaro anche perché a lui a sua volta l‟avevano raccontato altri anziani quando era piccolo, però tanto bastava ai bambini per toglierci la voglia e la curiosità di sgattaiolarci dentro. Qualche mese fa il padre, proprio dove era seduto aveva fatto un discorso chiaro e per un certo senso insolito, ma la gente di campagna ha la semplicità nel cuore e nella bocca. Il fratello Cristenziu con la testa che si trovava, anche se più grande di lui più di cinque anni, non si decideva a prendere moglie, perciò era ora che almeno lui si decidesse. Il padre desiderava un discendente che assicurasse di governare quel regno. 422 BENVENTI A CAMICO Gesallà acconsentì, chinando la testa e fuggendo lo sguardo tra quelle piante che conosceva ad una ad una, pensando che non si potevano abbandonare a estranei, era come un patto d‟amore. 423 BENVENTI A CAMICO Giulia Lo stesso legame che sentì quando dovette abbandonare Giulia, lì ai confini dell‟Italia, quando da soldato una mattina si svegliò senza comandanti e senza patria, come un cane sciolto senza padrone. Gli amici nemici e gli nemici amici. Così si trovarono i fucili contro dei Tedeschi. Gli Americani erano già a Roma e gli Italiani avevano dimenticato subito i grandi raduni, le grandi parole come: “IMPERO!”, “VINCERE!”, avevano tolto le camicie nere ed erano diventati nemici di Mussolini. I Savoia avevano arruffato quello che poterono e lasciarono la capitale. Gesallà si trovò tra quelle campagne fredde e quei piccoli borghi dell‟estremo nord. Fame, freddo e paura si alternavano nella sua mente lontano dalla sua gente. Come era partito dalla sua campagna, dalla sua famiglia, per fare il soldato costretto dalle parole scritte in un pezzo di carta e delle parole di quei quattro scemi di paese, che prima nessuno stava a sentire e dopo quando indossarono le camice nere incominciarono ad alzare la voce e ad entrare e uscire dalla caserma come fosse casa loro. Quelle stesse parole si svuotarono e come una malia il fascismo era così svanito, nonché per Gesallà abbiano avuto mai un vero significato. L‟Italia non vi era più. Gesallà con un gruppo di commilitoni si trovarono tra le campagne del Piemonte, affamati, infreddoliti, disorientati, impauriti d‟incontrare chiunque: partigiani, fascisti, nazisti, delinquenti comuni e probabili Alleati. Pensava tra se che nelle guerre e nella vita non conta la divisa che porta l‟uomo che incontri ma chi vi è sotto. Lui divideva l‟umanità tutta in due sole fazioni: onesti e disonesti, perciò scrutava lo sguardo di chi incontrava nel tentativo d‟indagare chi fosse all‟interno del suo abbigliamento. Nei pressi di Rivoli, con altri tre soldati, trovò riparo in una tenuta di campagna. Lavorò solo per l‟alloggio e per un po‟ di vitto, ma era così poco che s‟indebolì tanto da non avere più la forza necessaria per continuare. Come era diversa quella terra dura 424 BENVENTI A CAMICO e fredda. Pensava alla sua campagna piena di colore, di sole e gli veniva il magone. I proprietari erano due donne gentilissime, madre e figlia, ma la fame era fame e la gentilezza di sicuro non riempiva la pancia, così Gesallà si spostò a Giaveno dove trovò gente che oltre la comprensione gli davano anche qualche pezzo di pane in più e una buona porzione di polenta. Fu in quel paesino che incontrò la bella Giulia, alta, forte, chiara, generosa, sincera come l‟acqua di sorgente, due occhi dolci e castani, i capelli che dal fazzoletto uscivano come un fiume d‟oro. Una mattina se la trovò davanti in campagna illuminata dal sole come un‟apparizione, aveva portato il desinare appena cucinato. Sembra che gli occhi siciliani di Gesallà, in quella magrezza, abbiano così colpito Giulia che per tutto il tempo non smesse di guardarlo e porgergli continue attenzioni, tanto che lui si sentì così in imbarazzo da sconvolgersi e non sostenere più lo sguardo, abbassò gli occhi arrossendo chiudendosi nel silenzio. Quando Giulia si avvicinò a lui fu attratta irresistibilmente anche da un lieve odore della sua pelle che sapeva di vento, di terra e di sudore. Giorno dopo giorno i due entrarono in confidenza, un sorriso di più, qualche parola. Lui, sempre con riguardo, si manteneva sulle sue per la timidezza e per quella educazione avuta, questo comportamento conduceva Giulia ad un corteggiamento sempre più aperto. Un giorno Giulia gli riferì che il padre doveva parlargli. Gesallà aveva avuto un comportamento impeccabile, perciò non si aspettava nessun rimprovero, pensava: “Mali nun fari e paura „un aviri!”, così fu, anzi fu chiamato per andare fare alcuni lavoretti in una campagna vicina insieme alla figlia e poi al ritorno era invitato a pranzare con la famiglia, lui accettò volentieri. L‟indomani passò dalla casa di Giulia e tutte e due s‟avviarono. Il sole lentamente schiariva il mattino. Gesallà era stato silenzioso, si voltò verso lei, forse per assistere il riflesso di quella luce nel suo viso, lei gli sorrise e lo guardò come nessuna donna aveva mai 425 BENVENTI A CAMICO fatto, si sentì il cuore squagliare dentro, lei inaspettatamente gli prese la mano, sentì quella tenera sensazione che solo il contatto con il corpo di una donna sa dare. Rallentarono il passo fin quando si fermarono e Gesallà e Giulia poggiarono le labbra l‟uno su l‟altro in un abbraccio tenero come quel primo sole. Con la forza di cento uomini, finì in mezza giornata tutto il lavoro, al ritorno trovò imbandita una tavola come da anni ormai non ricordava, sembrava natale, non mancava niente, pure il dolce e il caffè e poi vino come da tanto tempo non aveva bevuto. Infine il papà di Giulia, gli parlò da uomo a uomo, chiedendo le sue intenzioni, gli chiarì le proprietà i modi e le condizioni, apprezzava il suo comportamento da uomo d‟onore, ormai razza in via d‟estinzione in quelle parti, la dote di gran lavoratore e conoscitore del mestiere. Gesallà non negò l‟attrazione per quella bella donna piena di salute come una madonna, ma sentiva il richiamo della sua terra perciò non poteva impegnarsi in modo definitivo. Il padre di Giulia apprezzò quell‟uomo sincero, chiuse la discussione con “lasciamo fare al tempo” gli riempì il bicchiere di vino e bevvero. Arrivavano buone nuove. I trasporti si andavo ristabilendo. Alcuni commilitoni calabresi già erano partiti per il ritorno, così prese la decisione che era ora di partire anche lui. Quando lo comunicò a Giulia lo fece tenendole tutte e due le mani fissandola negli occhi profondi e castani, osservandole quel volto sereno, che di tanto in tanto si costellava di piccole macchie chiare, lo fece con questi versi: -Giulia di lu suli fani battaglia Tu sula ti pigliassi l‟arma mia Mi „ncatinasti cu na grossa maglia Dispisari nun mi pozzu kiù di tia Scoglimi sta catina ca mi taglia Mi taglia pi lu tantu amari a tia Donni ca nn‟haiu amatu in tutta Italia Tu sula mi facissi simpatia 426 BENVENTI A CAMICO Tutta l‟haiu giratu l‟Altitalia Ma bedda comu a tia nun ci nn‟è „n Sicilia.38 Gli occhi di lei s‟inondarono di lacrime ma sorrise, non capì tutto di quei versi, ma intuì con la sua viva intelligenza, sapeva benissimo che bastava un suo qualsiasi gesto per fermarlo. Lui pensava che il nostro corpo ha una propria mente che non solo ricorda come difendersi dai virus e altri insidie ma a volte agisce in piena autonomia dall‟io pensante che contiene, come quando si adatta ad uno stress lavorativo maggiore, o si ha un bisogno impellente e che si deve soddisfare. I due corpi agirono in piena autonomia dai loro pensieri. Il volto di Giulia e di Gesallà si sentirono attratti come una calamita incontrandosi in un bacio lungo e passionale. Poi lei si staccò, si voltò, chinò la testa e scappò via. Lui rimase con le braccia protese verso lei, sembrava dire: “dimmi una sola parola ed io resterò”. Lei sapeva che bastava fermarsi e voltarsi per cambiare tutto, ma l‟amava così tanto che lo lasciò andare via, anche se ricorda ancora oggi quel giorno pentendosi amaramente, ma con orgoglio di quella se stessa così forte e buona. Partì subito e dopo mille peripezie arrivò a Camico, andò in campagna e felice bagnò con le sue lacrime quella sacra terra. 38 Versi di Pasquale Callea nato a Siculiana il 16.01.1915. 427 BENVENTI A CAMICO Gli Uomini d‟Aria Gesallà, mentre ricordava, prese un pugno di terra in mano e lasciandola cadere il leggero vento trascinava il pulviscolo, un sassolino bianco gli rimase impigliato tra le dita e lo strinse nel pugno, guardando verso il cielo, quasi come cercare una risposta ai tanti dubbi della vita. Riaprì la mano e fissando quel piccolo sasso, liscio dal logorio del tempo, costruì pensiero su pensiero una sua fantasticheria, come soleva fare. Il contatto o la vista di alcuni oggetti, animali, piante e persone lo ispiravano, gli suggerivano storie, a volte talmente assurde che se ne vergognava. Era un diletto che temprava dalla infanzia nel suo silenzio e che non confessava mai a nessuno. Quel sassolino bianco gli faceva ricordare quello che aveva ascoltato da gnuri Raffaeli, un anziano vaccaio, asseriva che tanti e tanti anni fa, migliaia e migliaia, in quel punto vi era il mare. Gesallà pensava invece che quel sasso così lontano dal mare era caduto dal cielo. Nel cielo vi era un mondo fatto d‟aria dove vivevano piante, animali, strade, palazzi e persone d‟aria. Tutti erano felici perché il pane non si sudava, quando volevano qualcosa bastava pensarla, sì, vivevano di pensieri e quando guardavano qua giù avevano pena per noi, che vivevamo come dannati all‟inferno. Nessuno moriva e ognuno amava l‟altro come, dove, quanto e quando voleva. Non si annoiavano di certo. Un Uomo d‟Aria più pensieri aveva e più era ricco. A volte l‟uno li scambiava con l‟altro. Vi erano pensieri che valevano mille di tanti altri, ma ve ne erano malvagi e li facevano appesantire, gli creavano un calcolo nell‟anima quanto un chicco di frumento, se continuavano a pensarli, non vi era rimedio, quel calcolo incominciava ad ingrossarsi fin quando li trascinava quaggiù cadendo dal cielo. A volte questi pensieri malvagi , provenivano dal mondo di sotto, dai nostri desideri. Quando qualcuno di loro cadeva di notte si vedeva una scia luminosa, per noi sono stelle cadenti, ma in realtà quelli sono Uomini d‟Aria. Da qui è nata la credenza che basta pensare 428 BENVENTI A CAMICO ad un desiderio quando si vede una stella cadente che questo s‟avvera. Gesallà così pensava, bastava crederci veramente, che quell‟Uomo d‟Aria concedeva quel potere a quanti avevano assistito al suo declino. Toccando terra il suo potere finiva, non era altro che un sasso come tanti altri, solo quando il tempo lo logorava lentamente, fin quando diveniva polvere e il vento lo sollevava, ascendeva al suo mondo libero dalla sua pena. Per Gesallà vi è sempre un sotto e sopra così vi è ancora un altro sotto: il centro della terra, fatto di fuoco. Da quel mondo se un Uomo di Fuoco spegnerà l‟odio che lo brucia salirà in alto fin quando sarà eruttato da qualche vulcano e anch‟esso sarà consumato dall‟acqua e dal vento lentamente e liberatosi potrà salire nel mondo d‟Aria, diventando così un Uomo d‟Aria. Gli Uomini di Fuoco possono essere evocati e chiamati da noi, basta un pensiero di vendetta o di odio, così Gesallà si spiegava che quando un uomo è irato si scalda, per la loro presenza. Anche noi potevamo sprofondarci in questo mondo di sotto chiamato inferno, con le nostre cattiverie. Gli Uomini d‟Aria hanno sopratutto pensieri bellissimi, pensieri d‟Amore e ogni volta s‟illuminano, prima opacamente e così possono scendere ad aiutare noi del mondo di mezzo, avvertirci dei pericoli, farci dono di un pensiero d‟amore o di perdono. In questo modo quella luce diventa sempre più viva fin quanto si possono scorgere da qui, a noi sembrano tante stelle. Gesallà pensava che la Santa Notte di Natale quella che guidò i Re Magi non fu una stella cometa ma un intero sciame di Uomini d‟Aria. Quando gli Uomini d‟Aria raggiungono il massimo splendore salgono sopra il cielo, e si uniscono alla Grande Luce di Dio, da dove erano scheggiati nell‟incontenibile attimo d‟Amore quando contemplò Se Stesso prima della creazione. Capisco che per un contadino analfabeta possono sembrare concetti astrusi, ma alla radice vi era il concetto di sotto e sopra, di atto e di pensiero, di tempo e materia. Per fare un esempio dal 429 BENVENTI A CAMICO concetto che bruciando ogni cosa diveniva cenere ha concluso che qualsiasi oggetto pianta o animale, compreso l‟uomo, ha la stessa struttura materiale, noi diremmo atomica, perciò in ogni cosa vi era la volontà di essere tale. Sotto il legno vi era l‟idea, il pensiero ad essere legno, così per il ferro. Come il nostro corpo o quello di un qualsiasi animale senza tale volontà, che lui chiamava spirdu, noi diremo anima, i filosofi sostanza, o idea, resta senza vita si disfà, ritornando ad essere cenere come era prima. L‟oro prima di essere oro era l‟ idea stessa d‟oro per essere tale. Nella sua filosofia, o fantasticheria, come lui la chiamava, tutto collimava in perfetta armonia: la fede che predicava il prete, le credenze degli anziani e le parole degli acculturati che conoscevano la scienza. Gesallà si meravigliava lui stesso, possibile che quel sassolino gli abbia suggerito tutte quelle stranezze? E a chi mai poteva confessarle? Così si teneva tutto sotto la pelle. Quando qualcuno gli raccontava qualche stranezza, e gli chiedevano un suo parere, lui scorbuticamente rispondeva: -Chi mi cuntati? Nenti capisciu! E volgeva lo sguardo altrove. 430 BENVENTI A CAMICO Né sì né no, ma ni! Dopo che il padre lo aveva invitato a trovarsi moglie, lui incominciò a osservare con tale intento le ragazze da marito, con scrupolo cercò l‟aspetto, ma non solo, anche il partito, almeno doveva essere alla pari, era giusto così, “disa cu disa si „nfascia la disa”, perciò incominciò ad analizzare le varie campagne i proprietari e tra questi chi aveva figlie da marito. Un metodo che gli permise di stringere il campo d‟azione tra quattro. Lu zzu Giacuminu, aveva una bella proprietà in contrada Gebbia Granni, ma la figlia Nunziata aveva avuto larga mano nel primo fidanzamento. Carmela, figlia di Tanu Taccu, era una bella ragazza anche se alla lontana gli ricordava Giulia forse per la sua corporatura, ma la dote era un misero dammusu, non portava né terra né grana. Serafina, era figlia di don Vanni, camperi e con questo genere di persone non voleva proprio stringere parentele. Il carattere di Gesallà, anche se scorbutico, era di uomo buono. Rimaneva lu zzu Vicenzu Manuzza, proprietario di una bella campagna e anche ben sistemato con i soldi, aveva tre figlie tutte da marito, ma a Gesallà piaceva la mezzana, Assuntina, anche se era la più minuta, era vispa, di carnagione scura come il pallore lunare, e una capigliatura riccia e abbondante che si ostinava a pettinare all‟indietro. Lu zzu Vicenzu Manuzza da qualche giorno alla bivatura si vedeva osservato di tanto in tanto da Gesallà e aveva intuito l‟intenzione, da gli sguardi, dai discorsi, l‟idea gli piacque, anche perché le tre figlie, scarta qua scarta là, erano avanti con l‟età, la stessa Assuntina aveva già venti tre anni. Per un po‟ di giorni s‟avvicinò acconsenziente al padre di Gesallà, facendo strada insieme, parlando, dandosi ragione l‟uno e l‟altro nei discorsi alla bivatura o in piazza. Il padre aveva capito tutto ma aspettava che il figlio comunicasse la sua scelta e così avvenne. A sua volta il padre 431 BENVENTI A CAMICO comunicò a lu zzu Vicenzu che fu contentissimo ma giustamente doveva parlarne in famiglia. In famiglia furono felicissimi, ma Assuntina era titubante, non aveva il coraggio di dire no a suo padre, ma non era per il si, così uscì fuori quel nì. Intanto diede risposta positiva, poi se la vedeva lui con la figlia, però per ufficializzare il fidanzamento gli occorreva un po‟ di tempo. Gesallà non si dava ragione di questo prendere tempo, sperava di spubblicari prima della Settimana Santa, così poteva passare le festività con la fidanzata. Per lui non era amore, quella parola l‟abbinava al ricordo di Giulia con stizza, con la voglia di lasciare tutto e correre da lei, ancora oggi gli spuntano le lacrime a gli occhi e lancia nel vuoto baci portandosi la mano nella bocca e lasciandosi sfuggire un pietoso “bedda mia!”, con la speranza che qualche Uomo d‟Aria lo raccolga e con le ali del vento lo recapiti alle sue dolce labbra. Non si chiedeva che ne fosse stata, come era oggi, non gli interessava, gli piaceva ricordarla come l‟aveva lasciata e sicuramente quella di oggi non era quella del suo ricordo, ne era lucidamente certo. A volte la trasfigurava davanti il quadro dell‟Assunta, e se ne doleva, pensava di peccare, così si distoglieva sofferente. L‟arciprete osservandolo di nascosto, pensava ad un forte senso religioso, di devozione e se ne compiaceva, confondendo anche lui il sacro e il profano. Quel nì aveva così indispettito Gesallà che aveva trascurato il ricordo di Giulia e anzi voleva andare a fondo, perciò frequentò quel quartiere dove abitava una sorella della madre, la zia Pippina, andando a farci visita. A casa della zia era consuetudine, dopo la cena, recitare il rosario tutti insieme e con qualche altra famiglia vicina di casa, poi si passava a raccontare la vita di un santo, in maniera favolistica. I più piccoli erano bramosi di sapere, spalancavano gli occhi quando si nominava il diavolo e si stringevano alle loro madri. Il nonno materno, Sasà Grecu, se ne stava in un cantuccio e fumava la sua lunga pipa di terracotta, con 432 BENVENTI A CAMICO i suoi occhietti trasognanti sotto la coppola, nera per il lutto della nonna. La zia sapeva del nipote e Assuntina così era intenta ad osservare, ma nulla di anomalo traspariva da quella casa o da quella ragazza. Lui usciva dalla casa della zia e quasi di fronte vi era la casa di lei, alzava lo sguardo ma niente, le ante della finestra rimanevano socchiuse. Da quella strada ogni mattina e ogni sera al ritorno ci passava per la bivatura, ma mai una volta che lei fosse affacciata. Solo una volta, quando il padre portò la notizia a casa, le tre sorelle erano tutte e tre a osservare il suo passaggio e poi mai più, o almeno si nascondeva così bene da non lasciarsi vedere. Né in chiesa, né in processione si lasciava sfuggire un minimo sguardo per lui. Ma cosa voleva mai quella fimmina? Lui era di bello aspetto, aveva la vestia, la robba e sulla famiglia nessuno poteva dire niente, e allora? Si scervellava, anche perché la zia Peppina, diceva che nessuno le ronzava attorno. Così con quel nì che gli bruciava dentro Gesallà era nel suo regno a faticare più possibile. Ora si era messo a curare gli alberi di ulivo così grandi e maestosi come vecchi saggi. Lui pensava che quel nì provenisse da qualche segreta passione per qualche altro e così non sopportava l‟idea di essere per Assuntina un uomo di seconda categoria, perché sarebbe stato trattato sempre come le cose di seconda scelta. Rifletteva che lei in fondo era di seconda, pensando a Giulia, appunto questo l‟amareggiava, poi pensava che il buon senso avrebbe prevalso. Lui non l‟avrebbe mai fatto soffrire e sarebbe stato un buon marito nonostante tutto. Un uomo è cattivo quando ha il pensiero cattivo, così è pure per una donna. 433 BENVENTI A CAMICO Il tesoro di Gesallà La vita è come un sogno e nel sogno tu sei protagonista passivo di ogni scena, anche se infondo sei stato tu a crearlo. Zappava attorno a gli alberi, toglieva frutici selvatici, e portava pietre vicino al viottolo. Quegli ulivi erano veramente belli e incutevano rispetto, per i tanti anni, per la generosità e per la grandezza. Il nonno gli diceva che quegli alberi avevano più di duecento anni ed erano stati testimoni di tanti eventi, magari di lotte tra cavalieri con le loro armature e lo scintillare dell‟incontro delle loro spade. Quando Gesallà era in quel posto, tra quei grandi alberi, sentiva dentro se qualcosa di straordinario. Quando era poco più che bambino se ne stava lì, all‟ombra, nelle lunghe giornate d‟estate, e certe volte si addormentava soavemente tra il gracchiare di qualche ciaula e il ziii! ziii! di qualche insetto, sognava di cavalieri con i pennacchi negli elmi, che passavano dal viottolo accavallo dei suoi destrieri ornati e colorati. Il sogno era così reale che sentiva i rumori metallici delle loro armature e quello degli zoccoli dei cavalli. Solo una volta li sognò che correvano come il vento e provò panico, si svegliò di soprasalto, mentre il padre lo chiamava dalla casa: -Gesallà! Vi era una grossa pietra ai piedi dell‟ulivo vicino al viottolo, gli ha dato sempre fastidio ed era arrivata l‟ora di toglierla, magari rotolandola per quei pochi metri ai margini del sentiero, così con la zappa incominciò a scavare tutto attorno, fin quando la liberò, provò a spostarla con le mani, ma niente da fare non si muoveva di un millimetro, così andò a prendere una grossa trave e con un altro masso per fulcro, riuscì a sollevarla fin quando la spostò facendola roteare, da sotto partirono mille animaletti di ogni genere, poi s‟accorse che vi era qualcos‟altro, era un piccolo pugnale dalla grossa lama e il manico in legno, però di buona fattura. Preso in mano quel pugnale gli ritornarono alla mente i sogni dell‟infanzia 434 BENVENTI A CAMICO e spinto dalle sue fantasticherie, incominciò a scavare ancora, non appena trenta centimetri di profondità scoprì che vi era pure qualcosa di rotondo, era un teschio, provò orrore, gli cadde a terra, ma ormai era così preso dalla curiosità che ricominciò a scavare, ancora e ancora fin quando toccò un legno, era un forziere che con grande fatica riuscì ad estrarre. Il cane gli abbaiava in gran lena attorno come se avesse capito l‟evento straordinario. Gesallà guardando gli animali spesso si chiedeva: “E chi nni sapemu natri omini zoccu penzanu l‟armala?”, pertanto li trattava con umanità, rivolgendo la parola, fatto sta, sembrava capirlo, tanto che l‟ubbidivano. -Karmati, Monaca, ca videmu chi c‟è, karma! Quel cane, sembrò acquietarsi e scodinzolando andò ad annusare quel forziere. Si guardò in giro, non vi era proprio nessuno, era solo, tra il silenzio attonito della campagna. Un catenaccio ferroso e arrugginito chiudeva il forziere, le tempie gli incominciarono a martellare, con un colpo di zappa lo fece saltare, il cuore era in tumulto. Quando aprì, notò un velo di terriccio, bastò un breve cenno della mano per scoprire che era pieno di monete d‟oro! Sembrò che in quello istante il tutto si sia fermato. Dopo poco, ripreso, si caricò il pesante forziere e lo portò nell‟interno della casa, poi andò a riprendere il teschio e il pugnale e la zappa. Si chiuse dentro e svuotò il forziere, contò milleottocentosettanta monete, belle alcune luccicavano, rimase vibrante a quello spettacolo. Incominciò a calmarsi e a riflettere che era diventato, ricchissimo, quelle monete erano vere e d‟oro. Pensò che quel giorno, quel momento, quel posto era il crocevia della sua vita futura. Poteva caricare il forziere sulla vestia, tornare a casa trionfante e ricco, acquistare terre, case, fare il signore. Sicuramente Assuntina, avrebbe avuto modo d‟affacciarsi alla finestra, ma a quel punto sarebbe stato lui a non avere più quell‟interesse. Poteva lasciare tutto e correre da Giulia, l‟avrebbe 435 BENVENTI A CAMICO sposata e poi tornare in paese e magari ogni tanto ritornare in Piemonte, tanto se lo sarebbe potuto permettere. Ogni ipotesi lo feriva, l‟amareggiava, infine, invece di essere felice d‟avere trovato un autentico tesoro, ne fu triste. Allora covò l‟idea di andare a nascondere il forziere con tutto l‟oro per poterci riflettere ancora un po‟ su, e dove? Nella grotta! Per prima cosa, bisognava togliere tutte le tracce della scoperta, così ritornò nel fosso, lo riempì di pietre e di terra, riportò sopra il grande masso e andò alla grotta. Strisciò sotto la pianta di spina santa e s‟intrufolò dentro, accese la candela che si era portato e vide che era veramente grande! Strisciò per quasi un metro e mezzo, poi come un imbuto si allargava, si scendeva giù per quasi mezzo metro poi dopo un due metri per un altro mezzo metro, dentro vi era un grande spazio, delle nicchie aperte tutte a girare, sembravano mangiatoie, ne aveva viste in tutto il territorio di Camico, dicevano che erano tombe antichissime, poi vi era un altro cunicolo scavato nella roccia dove si accedeva ad un‟altra stanza delle stesse dimensioni, sorpresa, trovò un antico archibugio e delle stoffe ormai lacere, sicuramente coperte, della paglia per terra, recipienti di terracotta, un tavolo con sopra due lampade ad olio in terracotta e due sedie di antica manifattura. Quello era un rifugio da tanto tempo non più utilizzato. Gesallà, immaginò qualche antenato brigante che si nascondeva in quel posto. Poi pensò al racconto del nonno che il bisavolo l‟aveva fatta in barba ai Piemontesi e non si era fatto il servizio militare, lo ricercarono, ma invano, in quel tempo vi era la fucilazione e quelli non erano come i Borboni, quelli facevano sul serio, fucilavano sul posto, non ci stavano niente ad ammazzare un padre di famiglia. Quel posto faceva al caso suo, così prese il forziere e lo trascinò dentro, prese una sola moneta e la intascò come prova a se stesso del fatto successo, scavò e lo seppellì, il teschio lo pose in una di quelle nicchie e lo coprì con il terriccio, poi con il pugnale incise una croce nella parete, si fece il segno della croce e mormorò le parole: 436 BENVENTI A CAMICO -riposa „npaci. Appena fuori si sentì abbagliare dal sole e rinfrescare dall‟aria, dentro aveva sudato, l‟aria ristagnava. Chiuse la casa „nvardà la vestia e prese la via del ritorno. Gli ritornò alla mente Assuntina con la sua boccuccia stretta, nel cuore covava una vendetta che via andando diveniva sempre più voglia di conquista e di qualcos‟altro che si andava intrufolando nel cuore. Doveva risolvere questa situazione, pensava che si erano fidanzati, ma loro ancora non avevano scambiato nemmeno una parola, uno sguardo. Certamente lei magari poteva avere qualche remora ad accettare, perciò doveva prendere l‟iniziativa, cosa? Al ritmo dei passi della vestia gli sgorgarono dei versi, erano lampanti nella sua mente, ma non li mormorò, per paura che nell‟aria qualche spirdu li ascoltasse e li avrebbe svuotati della loro forza. Questo di credere in un aria piena di presenze benevole e maligne, ad dire la verità, non era solo di Gesallà, ma di tutti i Siciliani, tanto è che ancora oggi quando un neonato sbadiglia le madri fanno sulla loro bocca con l‟indice e il pollice il segno della croce, sussurrando una preghiera protettiva, questo perché credono che vi può entrare dentro qualche spirdu malignu e impossessarsi della creatura, a volte facendolo ammalare. Questa credenza è presente anche nel Popolo dell‟India. Si accorse di avere trovato una fiducia in se stesso come mai, stringeva tra le mani quella moneta come un talismano che gli garantiva il sicuro successo nella vita e nel futuro. L‟osservava al sole, da un lato vi era una testa coronata con la scritta FERD. III. P. F. A. SICIL. ET. HIER. REX.39 e dall‟altra rilevava la Trinacria con tre spighe che escono dal centro in mezzo ad una ghirlanda di alloro, la cifra 0.240 e sopra le due iniziali V. B.41 Gesallà di quella moneta capì solo due cose che quella testa era di re, che allo rovescio vi era il simbolo del partito di 39 Ferdinandus III Piu Felix Augustus Siciliarum et Hierusalem Rex. indica il valore di due once. 41 Il nome dello zecchiere Vincenzo Barile. 40 437 BENVENTI A CAMICO Finocchiaro Aprile e che era d‟oro e si vedeva al sole che era oro di quello buono, tanto da essere così ricco da sentirsi male. Era arrivato nel dorso della collina, quasi alle quindici, il paese sembrava deserto dalla parte che scorgeva con il palazzo del barone e il lato sinistro della chiesa madre, poi continuava la casa del notaio Battista e lo spiazzo che spioveva nelle case dei pastori e delle mannare. Intuiva che la gente era in piazza a festeggiare il Redentore. Quando arrivò, la madre era preoccupata, lui si teneva dentro il suo segreto come una delle sue tante fantasticherie, il padre sembrava scrutare in lui qualcosa di diverso, ma non indagò, così si lavò, mangiò, si vestì in festa e uscì a godersi la Pasqua anche lui. Il mattino seguente, ancora il sole non aveva spaccato il buio che imboccò la via per la bivatura, preceduto dal padre e quasi accanto il fratello, imboccò il marranzano e cominciò a suonare “ting tong! Tinghititong!”. Il padre si voltò interrogandosi come mai? Cristenzio approvò con un sorriso. Dopo un po‟ Gesallà comnciò a cantare ad alta voce: -Affaccia bedda ca staju vinennu Vidi ka lu to zitu va cantannu Ka ju sugnu u‟ garofanu virmigliu Ka tu si na rosa si nun mi sbagliu Dopu la mezzanotti mi risvigliu Pensu li to biddizzi moru e squagliu Siddu pi sorti sta battaglia vinciu Li to biddizzi cu nuddu li canciu Ca vaju a lettu e rizzettu nun haju Pregu ka l‟arba và quantu ti viju U suli affaccia „ncapu sta montagna Su li to biddizzi mi pari k‟ajorna. Il sole incominciava a spuntare da sopra la collina illuminando quella strada nel mentre, l‟anta della finestra di Assuntina si schiudeva, Gesallà riprese a suonare il marranzano e dopo un po‟ continuò così: 438 BENVENTI A CAMICO -Ka la me bedda nun sta tantu luntanu Sta nni sti contorni ka vicinu Bedda ju ti cantu ka davanti Lu zitu sugnu ju e tu nun ni sa nenti Ti la mentiri ju l‟aneddu a lu jtu Ti spusu ti nni veni a lu me latu Nni mmitamu a tuttu lu cummitu A li to genti e a lu me apparintatu Si nun mi pigliu a tia nun mi maritu „Navanzi a Ddiu lu giuramentu è datu Siddu pi sorti a la chiesa „un ti vidu La lassu „ncuminciata e mi nni vaju.42 Assuntina s‟affacciò e guardandolo gli accennò un sorriso e rientrò subito, Gesallà strinse tra le mani il suo talismano e si sentì pervaso da una gioia sorda, ma sospirò inondato da quel bagliore dorato, tra il rumore degli zoccoli e il cinguettare di mille uccelli nell‟aria frizzante di quella primavera. Il padre non si sarebbe mai aspettato un tale atto d‟audacia da quel figlio così serioso e silenzioso, poi era anche poeta, chi l‟avrebbe mai detto. Il fratello si congratulava: -Bravu! Accussì si fa! A la bivatura, ognuno diceva la sua, tanto che Gesallà s‟emozionò e cacciò la vestia verso la collina. 42 Versi di Pasquale Callea. 439 BENVENTI A CAMICO Gli occhi inondati di lacrime Cinquanta anni, come passano cinquanta anni? Mi chiedeva Gesallà, con gli occhi inondati di lacrime, ormai inchiodato in quella sedia con la gamba sinistra amputata, poi, afferrandomi per il polso e stringendomelo fortemente insisteva che si deve stare attenti al minimo segnale di dissenso di una donna, perché un uomo può essere condannato per tutta la vita ad essere di seconda scelta e perciò ad essere trattato senza il giusto rispetto. Una donna non sente il bisogno di dire tutta la verità ad un uomo di serie B o C e dietro la bugia spesso vi è il tradimento. Con questo non voleva alludere che la moglie Assunta lo avrebbe tradito, troppo timorata di Dio per farlo e il suo Dio non se ne sta nell‟alto dei cieli, quello agisce subito, qua in vita, e pesantemente. Lo interruppi mentre parlava chiedendoci: -Ma il tesoro lo ha veramente trovato? E che ne ha fatto? Lui allentò la mossa lasciandomi il polso e sorridendo s‟abbandonò alla spalliera: -U tesoru … Ricominciò a raccontare come se avesse la necessità di fare uscire fuori quella storia che si era tenuto dentro e avesse paura di morire e di portarsela con se, ma capii che non era nemmeno questo, perché mi disse per inciso che le piante, le pietre, l‟aria s‟impregnano della nostra vita, come noi della loro e rimane lì pronta ad essere rimossa per essere raccontata e a volte rivissuta. Come quel sassolino gli raccontò del Mondo d‟Aria, un giorno, un albero d‟ulivo narrerà quella sua storia a qualcuno a suo piacimento. E di ciò che diceva ne era più convinto che mai. La moglie l‟aveva lasciato lì, su quella sedia, l‟aveva pregata di porgerle una coperta per mettersela sulle gambe, ma ora stramba com‟era, se ne andò dimenticandolo, o diciamola tutta, rifiutandosi di prendergliela. Lui sentiva freddo nelle gambe, si in tutte e due, quella di carne e quella che più non c‟era, fatta di pensiero, “d‟Aria”, anzi proprio in quella lo sentiva maggiormente. Quella gamba da quando la tagliarono se la sentiva 440 BENVENTI A CAMICO li, viva come non mai, anche se quella di carne e ossa già da tempo era stata deposta nella tomba di famiglia. I medici sono rimasti di stucco quando l‟ha voluta indietro, “che ne dovete fare?”. La carne moriva e rimaneva la volontà di essere tale, l‟Aria. Chi poteva immaginarselo che Assunta, prima di fidanzarsi con Gesallà si era amoreggiata con Saru Guerra, un suo coetaneo. Per amoreggiato si indente uno sguardo di più, un mezzo sorriso. Però c‟era stata un intesa. Tanto che quando si ufficializzò il fidanzamento, la madre di Saru andò a domandare conferma a casa sua, perché loro erano pronti a chiedere la mano di Assuntina, ma ormai era troppo tardi, anche se lei insisteva per un ripensamento, non era più possibile nessun passo indietro. La madre lo riferì ad Assuntina molto dopo, quando Saru già da tempo era partito per l‟America, dove fece fortuna. Lei ogni tanto aveva degli smarrimenti e si metteva a parlare non controllandosi di ciò che diceva, così Gesallà venne a sapere tutta la verità su quel nì di cinquanta anni fa. Un giorno mentre raccontava tutta quella storia alla nipote, non curandosi della presenza del marito, che rimaneva amminchialiddutu con la bocca aperta e sprofondando in quella poltrona, anticamera della sua bara. In paese si diceva che Saru era uomo di rispetto e non solo si era acquistato tanta proprietà, era ricco, aveva pure impiantato una piccola industria di conserve alimentari, si era sposato e aveva quattro figli sistemati come si deve. Assunta quasi rimproverava Gesallà, perché se non fosse stato per lui sarebbe stata lei la ricca signora Guerra, riverita da tutti. -Fici bonu! Continuava a dire tistiannu. Troppo comodo, se avesse utilizzato il tesoro e l‟avrebbe coperta d‟oro! Pensava che la comprensione, l‟affetto di un uomo giusto, per lei poteva bastare, ma mai poteva immaginare che Assuntina aveva già scelto, un altro uomo, se lo avesse saputo non avrebbe mai e poi mai chiesto 441 BENVENTI A CAMICO la sua mano. Quello che tanto temeva era accaduto. Lui era un uomo di seconda scelta e come tale ha meritato la verità dalla sua donna solo perché di tanto in tanto vaneggiava. L‟onestà, l‟umiltà, la bontà, la volontà di gran lavoratore, l‟affetto, non sono serviti per tutti questi cinquanta anni a cancellare il ricordo di quello scambio di sguardi o di quel mezzo sorriso. E poi aveva tanto oro quanto una madonna. I soldi li aveva guadagnati Gesallà ed erano lì nel libretto della posta, tutti a disposizione di lei. Ora si trovava solo senza figli, perché: -… lu Signuri non ce ne ha voluti dare, quando una donna si incattivisce è difficile che diventi madre. In quella casa piena di ricordi ammuffiti che emanavo di tanto in tanto il tanfo del marciume. Di tanto in tanto, tra freddo e malinconia cavava dal suo cuore quel dolce ricordo, rimasto come la semenza del fiore più bello e più profumato del mondo pronto ad essere piantato e germogliare, e baciando nell‟aria pronunziava quel nome, come una magia che per un attimo lo faceva ritornare giovane e affamato di vita: -Giulia! Bedda mia… Precisava che sua moglie si era comportata come una buona donna, non facendogli mancare mai né adenzia né affetto. Ora è così perché non sta bene con quello zuccaro che acchiana e scinni a proprio piacimento. Si dimentica le cose, si „ntuletta esce rientra poi esce di nuovo, così tutto il giorno fin quando si stanca. -Allora il tesoro è ancora lì nella grotta? Gesallà rise amaramente e disse: -Firdinandu terzu, re di Sicilia e di Gerusalemmi! Quando il medico Balla ha visto quella moneta sgricchiò gli occhi e disse che aveva un valore enorme, era del 1814, Gesallà se la rideva pensando che ne aveva ancora altre milleottocentosessantanove, che l‟aspettavano sepolte ancora in attesa di un giusto pensiero per andarle a prendere. Tante volte aveva avuto la tentazione, spinto dall‟orgoglio dalla voglia di 442 BENVENTI A CAMICO vendetta di qualche malefatta o discussione, ma Gesallà non era un uomo che cedeva alle tentazioni, lui aveva le idee chiare. Quando un uomo desidera di trovare un portafogli pieno di banconote, già pecca, perché indirettamente spera il male degli altri, cioè che un altro uomo lo perda e cada nella disperazione. Lui ha trovato quel tesoro non smarrito, ma nascosto, per caso, gli ha cambiato il carattere, gli ha dato sicurezza, gli ha fatto capire che poi l‟oro se ne può avere quanto se ne vuole ma non basterà mai a togliere il freddo della solitudine. Un vero sorriso, una vera parola, una vera carezza, un vero bacio, basterà anche il solo ricordo per avere un attimo di ristoro. 443 BENVENTI A CAMICO Lo spirito guardiano -La campagna è lì, abbandonata, da quando successe quella disgrazia, poveri alberelli… Cinque anni fa, Cristenzio non era tornato dalla campagna, già era buio, e nel piccolo trattore non vi era luce, perciò era insolito che si attardasse così. Gesallà da poco era inchiodato in quella sedia e con trepidazione aspettava notizie, il cognato e il genero lo trovarono sparato in petto con la testa schiacciata da un grosso sasso sotto l‟albero di ulivo vicino al viottolo. Quando dopo giorni andò a vedere il posto dove morì il fratello scoprì che quella grossa pietra del tesoro era stata rimossa. Si, proprio quel masso che era stato mosso per nasconderci il forziere e la testa di quel mal capitato, fu rimosso da Gesallà quel giorno e spostato ancora dalla furia assassina che diede morte al fratello, ora era lì ai bordi della strada, macchiato di sangue… Coincidenze, chiamiamole così… Non può stare lì a istupidirsi per le cose strane che succedono nella vita. Quella mattina era stato portato con l‟auto dal nipote Salvatore Limua, il genero di Cristenzio, costatare con i suoi occhi lo stato della campagna, il posto dove il fratello fu ucciso senza alcuna pietà, con un‟ira bestiale tale da sollevare quella grossa pietra e tirargliela sulla testa. Fu sorpreso, sconfortato per quella strana coincidenza, però fu preso da uno smanioso desiderio di rimettere quella pietra a suo posto, pensando che quella pietra ancora sporca di sangue ritorni nel suo posto di sempre sotto l‟ulivo, così lo spirito guardiano rimaneva soddisfatto della sua ricompensa. -Totò, lu niputi, ca lu Signuri ti fici accussì forti, m‟affari u‟ beni, piglia stu cacinaru e mettilu nni dda conca sutta l‟arbulu, ti pregu! Il nipote sembrava allibito, provò sgomento, si leggeva benissimo negli occhi, smarrimento orrore. Allora capì che doveva essere troppo doloroso per il genero, che aveva tanto amato il suocero, toccare quell‟orribile pietra impregnata dal suo sangue e così rinunziò ad insistere. 444 BENVENTI A CAMICO I vecchi narravano nelle lunghe serate al chiaro di luna nei cortili di streghe, cavalieri, maghi furfanti poveri e re, di castelli e tesori nascosti, di un tempo senza tempo, e arricchivano la fantasia dei bambini che stavano lì a sentire. Gesallà ricordava quella leggenda che i ladri quando nascondevano la refurtiva uccidevano un uomo imponendo in questo modo al fantasma di quell‟uomo a fare la guardia a quel tesoro. Ora lui pensava che quel teschio era dello spirito guardiano che si è ripreso una vita in cambio del tesoro. Lui, pensava con rammarico che doveva lasciare tutto lì, o almeno non prendere nemmeno quell‟unica moneta. Il colpevole la legge non l‟aveva trovato, ma Gesallà si! Il maresciallo aveva chiuso le indagini avanzando l‟ipotesi della solita lite tra contadini e pastori, che da Caino e Abele ci sono sempre state. Aveva avuto informazioni che il povero Cristrenzio già era arrivato a li mani con Tanu Cani perché pascolava abusivamente nella terra di famiglia. Quante nirbate prese Tanu lo sa solo lui e il maresciallo, ma lo hanno dovuto prosciogliere perché non vi era nessuna prova, anche se il suo alibi non reggeva così tanto. La prima cosa che fece appena liberato, in tarda serata andò a bussare alla porta di Gesallà. Assunta quando vide chi c‟era dietro la porta le prese la balbuzie tale da non riuscire a spiegare chi fosse, così fu il marito a gridare: -Cu è? -Rapissi, ca ci ha parlari. Iu sugnu, Tanu Cani! -Assuntina, rapi! -Ma? -Ti dissi apri sta porta e fallu acchianari! Tanu, s‟inginocchiò davanti Gesallà e gli volle baciare la mano, gli disse che era stato vero, erano mali pigliati, ma non si era sognato minimamente di ucciderlo, giurando sul suo sangue e su Dominiddiu. Lui non era un assassino e infondo confessava di avere torto perché le sue pecore, una volta erano entrate nell‟orto e fecero danno veramente. 445 BENVENTI A CAMICO Gesallà lo guardò negli occhi e vide che diceva la verità. Fu proprio negli occhi di Tanu Cani che ricordò, con diversa luce, gli occhi del nipote, cche evitavano di incontrasi con i suoi durante il funerale e poi come si erano smarriti nell‟abisso quando gli aveva fatto quella insolita richiesta di rimettere al posto quella pietra. Lui si che era abile ad alzarla, un omone di un metro e ottanta con due spalle quanto un armadio. Perché? Cristenzio, dopo che il fratello si era sposato, non passarono poche settimane che si fidanzò con Serafina la figlia di don Vanni, si sposò nel giro di un anno ed ebbe quattro figli, tre femmine e dopo il tanto sospirato mascolu. Le tre figlie si sposarono felicemente, il figlio maschio, Francesco come il nonno, non ha voluto sapere di campagna e studiò, poi entrò guardia di finanza e presta ancora servizio a Trieste. La campagna è sua, sia quella del padre che dello zio, la responsabilità è tutta sua, è lui l‟erede. Una notte di natale furono tutti riuniti, generi, figlie, nipoti, era arrivato pure Francesco con la moglie del continente e le sue due bambine, nella casa di Cristenzio. Anche Gesallà con Assuntina erano lì invitati. Salvatore gli stava lontano, solo quando s‟avvicinò per scambiare gli auguri, Gesallà gli strinse forte la mano e se lo tirò quasi sopra sussurrandogli all‟orecchio: --Pirchì? Lui raggelò, si liberò la mano: -Chi dissi? Gesallà non gli rispose, dissentì solo con la testa. Il viso di salvatore divenne di creta, dopo un po‟ finse di sentirsi male e andò via. Passarono un paio d‟anni e si diede risposta a quel perché, il genero aveva strafatto con la costruzione di una casa e aveva avuto un crollo finanziario, il banco voleva l‟avallo per concedere un prestito che avrebbe momentaneamente risolto il problema, l‟aveva chiesto al suocero che non volle concederglielo, arrivarono così al diverbio e dopo averlo minacciato alzò la scupetta che portava con se e per rabbia sparò, lo colpì in pieno petto, ma non era morto così prese quel masso e glielo scaraventò 446 BENVENTI A CAMICO in testa. Cristenzio glielo diceva sempre che era un fallito, glielo avrà detto anche quella volta. Gesallà lo suppose dai problemi che nonostante ha avuto con il banco. Salvatore non incrociò più lo sguardo con lo zio, non gli parlò più ed evitò d‟incontrarlo. Gesallà ricordava che quella mattina fu proprio per un istante che non gli rilevò al nipote il tesoro, era deciso a dirglielo quella mattina, lo vedeva così buono, lavoratore, padre di famiglia, e forse lo era veramente, chissà cosa gli sarà successo? Si chiedeva scrutando un punto indefinito davanti a se, forse un Uomo di Fuoco gli avrà suggerito tale gesto? E forse un Uomo d‟Aria lo avrà dissuaso a rilevargli il tesoro? O forse, questo uomo fatto di polvere e di pensiero, di Fuoco e di Aria, è un semplice animale e come tale si comporta. 447 BENVENTI A CAMICO Le riflessioni di Gesallà Mi poneva queste riflessioni, con tono amaro, con parole pesate, quando poi mi spiegò la sua teoria del sotto e sopra rimasi sconcertato, come un analfabeta abbia potuto dedurre tanto, giusto o sbagliato. Nella polvere, diceva, vi è la consistenza di questo Mondo, e sotto ogni granello di polvere vi è infiniti Mondi fatti anch‟essi di polvere dove sotto ogni granello ha altri infiniti mondi di polvere, fin quando sotto vi è il pensiero di essere tali, sotto ogni pensiero vi è il tempo come unica legge. Così per sopra, il nostro Mondo è un semplice granello di polvere del Mondo di sopra e così all‟infinito. Sotto questo pensiero vi è il Grande Pensiero che contiene tutti i mondi in un unico Grande Mondo. Siamo stati interrotti dal rumore della porta, stava entrando la zza Assuntina, mentre saliva la scala, lui sottovoce, timorosamente mi disse che era lei. Lei entrò fece due semi giri su se stessa prima a destra poi a sinistra, mi focalizzò e s‟avvicinò salutandomi, così mi chiesi chi fossi. Gesallà scorbuticamente le rispose che ero un amico. Quando s‟avvicinò notai che addosso aveva una collana a maglie grosse d‟oro, diversi anelli e un bracciale come la collana, ma aveva una medaglia per ciondolo, anzi era una moneta, quando vide la trinacria di un lato e poi la testa coronato dall‟altro, ho dedotto con stupore che era quella del tesoro. Assuntina notò il mio interesse e ritirò subito la mano che mi aveva teso. -„Un ti scantari! Gli disse il marito, lanciandomi un occhiata d‟intesa. -Allora è ancora là? -E ddà arresta fin quannu quarcunu nun avi la furtuna, o la svintura, di truvallu! Rimasi perplesso. 448 BENVENTI A CAMICO La zza Assuntina girò attorno al tavolo, farfugliò tra se non so cosa, poi mi ridiede la mano, mi salutò e disse al marito che si era dimenticata di acquistare il pane e andò via. -Fa accussì tri quattru voti lu jornu, finu a quannu „u‟ si stanca. Gesallà, con tono pacato, meditativo mi spiegò che il tesoro lui l‟aveva speso tutto così e allargando le braccia nel vuoto mi disse che questo era quello che gli era rimasto. Come? Si! Attimo per attimo della sua vita, del suo tempo, quello è il vero tesoro, il tempo! Ora fermo lì, su quella sedia, con quel corpo che ha deciso di arrendersi, perché il suo tempo era finito, e lui dentro aveva voglia di alzarsi, andare a vedere quello che non era riuscito in tutti quegli anni: un alba boreale, una grande cascata d‟acqua, calpestare il deserto e udirne il suo silenzio, i grandi monumenti e opere d‟arti, le strade, le città, i piccoli borghi, i tanti volti di uomini, le bestie, le piante e amare tutto. Questo era il tesoro, questo Mondo, questo tempo. Quello dentro la grotta era niente confronto a quello di essere nati in questo Mondo. Rifletteva come è stato impossibile avere un figlio, come era facile fare un figlio e come era impossibile che ciò avvenisse senza la volontà di Dio. - Quando un Uomo nasce sembra che Dio gli dica: “Ecco, tutto ciò che vedi è tuo, ammira e amalo!”. Invece di guardarci attorno chiniamo la testa e guardiamo per terra e solo pochi l‟alzano per ringraziare: “Grazie Padre!”, così consumando tutto il tempo inseguendo il falso, la ricchezza materiale. Quanti vecchi muoiono lasciando proprietà e soldi in quantità, pur facendo una vita misera, non umile ma misera! Questo per dire che anche lui lasciava quella ricchezza materiale in quella grotta e non c‟è da farsi meraviglia perché tanti altri lo fanno, tanti altri hanno il loro tesoro materiale e non spendono niente, muoiono attaccati al loro denaro, ciechi e miseri dentro. Mi raccontò quando nel funerale di un suo zio, durante la veglia, ad un certo punto non si ha più niente da dire, così si passa 449 BENVENTI A CAMICO alle frasi fatte, uno dei presenti esclamò, facendo riferimento alle tante proprietà dello zio: -Alla fine ci portiamo solo quattro tavole! Gesallà pensò: “Pirchì chi purtamu quannu nascemu?” Lo abbracciai e baciandoci ci salutammo, lui aveva gli occhi annegati nel rimpianto, comunque andai via lasciandolo nel suo silenzio. 450 BENVENTI A CAMICO … Mi ero incuriosito per quel tesoro, possibile che non siano andati a cercarlo dentro quella grotta? -Confesso, ci sono stato! Affermò onestamente Pietro con sorpresa del Balla che si alzò in piedi facendo cadere la sedia all‟indietro e fissandolo con aria stupita. Pietro raccontò che dopo la morte di Gesallà in un giorno d‟estate era capitato un incendio in quella campagna, così armato di faro a pile e qualche attrezzo andò. Girò sotto l‟altura, trovò pure il punto con l‟arbusto di spine sante bruciato, ma l‟ingresso della grotta era appena di un metro poi tutto era roccia e basta, provai a scavare almeno due palmi, ma niente, un muro di roccia. -Ora le ipotesi sono due: un crollo della grotta, oppure Gesallà mi ha mentito sul vero punto dove ha nascosto il tesoro. Comunque sia l‟una o l‟altra ipotesi ho capito che è inutile cercare tesori … -Minchia ora te ne esci che il vero tesoro è quello che abbiamo dentro ed è lì che lo dobbiamo cercare … Disse con una buona dose di sarcasmo Giovanni Bonanno continuando: -Va paga le tasse con quello che hai trovato dentro di te e vedi che ti pugnurianu tutti cosi. -No, Giovanni, ti dico solo che tutta questa affannosa ricerca di arricchirsi, attaccandosi ad ogni cosa, chi per una strada come il gioco, chi quell‟altra della speculazione, o peggio ancora con la mala strata, fa solo vivere la propria esistenza in malo modo, senza etica, senza felicità. Quando guardo la gente, anche di un piccolo paese come il nostro, che si affanna disperatamente e poi fa la coda nei tabacchini per giocare, mi viene da pensare che per nulla è valso il messaggio di Cristo, ma lasciamo perdere la fede, penso però che lo stesso tutti quanti hanno perso il giusto senso della loro esistenza. 451 BENVENTI A CAMICO -A questo punto, caro Pietro, mi hai fatto scatenare la fame con questi discorsi. Giovanni era procinto per andare, mentre il suo busto era rivolto verso la porta le sue gambe rimanevano direzionate verso di noi. Intanto pensavo a quella piccola industria di conserve alimentari del Guerra e chiesi notizie: -Allora a Camico avete un industria? -Ma quale industria, che il Guerra insieme all‟avvocato Ragusa si sono fottuti i soldi degli aiuti regionali. Hanno acquistato tutta la fabbrica in Romagna superata tecnicamente. Al massimo della produzione non era concorrenziale con il mercato, pertanto da lì non uscì nemmeno una sola scatola di sarsina! Ruffiani quei mille alibabbà dei funzionari regionali pagati amaramente solo per fare favori agli amici e agli amici degli amici! Come può mai svilupparsi la Sicilia, quando quello che passa è fallimentare in partenza? 452 BENVENTI A CAMICO PARTE OTTAVA -Ma insomma si può aprire o no questo stipettu? Pietro si rivolse a Nanà in questo modo allentò la tensione del Bonannno che già aveva le vene del collo ingrossate e gli occhi assangati. -Non ho mai avuto la curiosità di vedere questi libri o aprire l‟armadio lì dentro. La vita di qui dentro sembra una storia che non mi appartiene. Così u zzu Nanà andò a prendere un cacciavite econ grande maestria aprì l‟anta di quella libreria. Subito come un rapace mi accostai e prese in mano a caso uno di quei libri impolverati, la copertina era di cartone, mal ridotta e la rilegatura mal ridotta, DOCUMENTI DELLA GUERRA SANTA D‟ITALIA, altre pagine bianche CAPOLAGO TIPOGRAFIA ELVETICA Gennaio 1851, qualche altra pagina bianca e ancora Istoria documentata della RIVOLUZIONE SICILIANA e delle sue relazioni co‟ Governi Italiani e Stranieri (1848 – 1849) di GIUSEPPE LA FARINA. Ero visibilmente emozionato nelle avere in mano un testo di così tanto interesse, me lo abbracciai e guardai il resto, vi era una mal ridotta Odissea tradotta da Pindemonte del 1957 dove nella copertina vi era raffigurato Ulisse sopra la sua nave con gli argonauti una mano alla spada e l‟altra poggiata sulla estremità della prua, guarda altrove verso destra dov‟è diretta l‟imbarcazione. Poi ancora antologie scolastiche panflet di politici, uno su De Gasperi e l‟altro addirittura su Mazzini, un vecchissimo dizionario italiano, una Bibbia anche se datata in latino ma in ottimo stato. -Qui c‟è una ricchezza! Passai ai giornali, vi erano fogli di Giornale di Sicilia, ingialliti e di riviste, ma non sono riuscito a capire perché erano state conservate, scelte, preferite ad altri fogli, non vi erano notizie in riferimento a Camico e nemmeno a persone in riferimento, un mistero che andava approfondito con una analisi di quei fogli. Mi 453 BENVENTI A CAMICO convinsi che era tutto un caso fortuito la loro selezione, fatta dal tempo e non dall‟uomo. Mentre io ero preso con quel materiale cartaceo, la compagnia andava avanti con i discorsi. Giovanni aveva fatto una proposta per acquistare la moneta al medico Balla, che non accettò. -Questa moneta, caro Giovanni è mia momentaneamente, sarà di tutta Camico! Ho un progetto che con l‟aiuto dei miei amici e dei Camichesi di buona volontà, riuscirò a compiere almeno in parte prima che finisco i miei giorni. Voglio realizzare un museo, una casa della cultura, dove sia questa moneta, ma anche altri reperti, momentaneamente in mio possesso, andranno in esposizione e saranno di tutti. Il possesso di questa moneta e di tutto il resto è effimero, una soddisfazione momentanea, diventa vera quando è condiviso con tutta la comunità. Così la storia, la vita vissuta di un Popolo, diventa dialogo, discussione, diventa in una sola parola, cultura. Tramite la cultura si arriva a quella verità che come dice Santa Caterina, ci libera. Quel discorso del Balla sorprese tutti quanti e ci ammutolì, non riuscendo nessuno ad aprire bocca nemmeno per cugliuniarici su. Fu lui stesso che per togliere l‟imbarazzo invitò tutti quanti ad andarci a mangiare pani cauda, appena sfurnatu, con olio, spezie e sale. Erano quasi le cinque fuori vi era un freddo tagliente da farci piegare su noi stessi, con espressioni colorite. Così ci siamo incamminati, verso la parte nuova del paese, vie e viuzze in quel cielo stellato a passo leggero, fin quando arrivati nel rifornimento di benzina. Già vi era chi si muoveva per le loro attività quotidiane. Il bar Sole era già aperto e vi era chi prendeva il caffè. Fu proprio in quello spazio che abbiamo incontrato a Carmelo Bonifacio, si fermò con la macchina per andare a fare rifornimento, uscì e ci venne incontro: -Pazzi furiusi! Dove andate di prima mattina? -Tu, dove stai andando? 454 BENVENTI A CAMICO Gli disse Nanà. Quando venne a sapere che eravamo stati una notte intera a parlare al circolo, si mise a ridere. Fu allora che lo ho conosciuto. Mi è sembrato uno di quegli uomini che non si rassegnano a fare il passo, rimanendo in un limbo tra la giovinezza mentale e il corpo invece che inesorabilmente vive la sua vita segnato dalle tracce del tempo. Pietro visibilmente guardava qualcosa di inesistente, in alto, quando disse: -Gesallà, a questo punto avrebbe detto che ancora persisteva l‟albero grande d‟Aria. Vi ricordate del grande eucalipto? -E come no! Sia Carmelo che Pietro, anche un po‟ tutti quanti gli altri mi narrarono i fatti e la storia di quell‟albero e i suoi frequentatori. 455 BENVENTI A CAMICO ALL‟OMBRA DEL GRANDE EUCALIPTO Io mi nutro, mi alimento, mi consolido nelle sue radici, mi riposo sotto le sue fronde, e al suo soffio mi abbandono con piacere. Se temo Dio, quest‟albero è il mio rifugio, nei pericoli mi rafforza, nelle battaglie mi protegge come uno scudo, e per la mia vittoria è un trofeo. Ecco la scala di Giacobbe, su cui gli angeli salgono e scendono, e in cima alla quale sta l‟Altissimo. Questo albero, che mi porta fino al cielo, è una pianta immortale. Solido sostegno dell‟universo, supporto di tutta la terra abitata, intreccio cosmico, che comprende in se tutta la varietà della umana natura. Fissato dai chiodi solidi dello spirito, perché non vacilli; tocca il cielo con la sua chioma, consolida la terra con i piedi e, tra la terra e il cielo, abbraccia il mondo con le sue mani immense. (All‟albero – Preghiera gnostica – tratta da IL LIBRO DELLE PREGHIERE – BIESSE Gruppo Editoriale Brancato –Catania anno 2007 – pagina 188) 456 BENVENTI A CAMICO IL MEDIUM C‟era una volta, qualche decennio fa, all‟ingresso di Camico, proprio davanti la stazione di benzina, un grande eucalipto, alto almeno venti metri, con una chioma larga quanto una casa, il suo fusto era tale che due ragazzi riuscivamo a mal appena ad abbracciarlo tutto. Era un piacere in quei primi pomeriggi d‟estate starci all‟ombra. Nelle piccole comunità come Camico gli alberi sono importanti e vengono considerate come delle persone. Quando si è bambini si ci passa sotto, si ha voglia magari di salire tra i rami. Gli alberi sono dei punti di confine che si raggiungono con l‟età. Ancora più lontano dal centro abitato, sempre lungo la strada per Cattolica, vi è un altro guardiano, un albero di ulivo saraceno, un altro limite da raggiungere da piccoli. Anche l‟ulivo ha tante e tante storie da raccontare. Ad esempio, quando nel 1943 arrivò la prima jeep degli Alleati e si fermò proprio lì davanti. Oppure, quando nel 1966 due pretendenti si diedero appuntamento per un duello con il coltello e uno di loro con una coltellata perse una orecchia. Tante e tante storie, con quel suo fusto centenario, bello come una scultura incompiuta di epoca rinascimentale. E‟di forma concava, sembra scolpito dentro, basta un pizzico di fantasia per immaginare che al suo interno vi fosse stata una ninfa intrappolata e dopo che avrebbe rotto l‟incantesimo, liberatasi sia andata in giro per il mondo in cerca del suo amato pastore. Un giorno quel giovane pastore si era fermato sotto quell‟ulivo arresosi all‟arsura di un pomeriggio di luglio siciliano accettando la frescura della sua ombra, sconvolto dai sensi sfogò la sua focosa passionalità. La meravigliosa Ninfa osservò quello sfogo come una preghiera d‟amore e chiese a Zeus la libertà. Le fu concessa in cambio della sua immortalità. L‟ulivo non mi ha più continuato il suo racconto anche se passando ogni giorno da lì lo 457 BENVENTI A CAMICO interrogo ogni volta. Chissà se la meravigliosa Ninfa abbia incontrato il giovane pastore e vedendola, poi anche lui si sarebbe innamorato? L‟ulivo è ancora lì e speriamo che a nessuno venga voglia di tagliarlo, come hanno fatto con l‟eucalipto, magari per lasciare più posto alle auto. Nel libro di Camilleri Il casellante43 vi è protagonista un altro albero di ulivo concavo dove Minica si andò a rifugiare divenendo tutt‟una con l‟albero. Chissà se il Maestro si sia ispirato al nostro albero d‟ulivo? Oppure Minica è la Ninfa da me tanto cercata? Il grande eucalipto negli anni novanta ha avuto inflitta la pena di morte con ordinanza comunale, l‟accusa? Troppo invadente! Pericoloso! In realtà il nuovo gestore del rifornimento di carburante era della stessa cordata dell‟amministrazione e a loro rubava spazio per la viabilità. Contemporaneamente era sorta una palazzina abusiva e le fronte dell‟eucalipto non lasciavano, a loro dire degli abitatori abusivi, molta visibilità. L‟eucalipto, come significa in greco44, faceva bene a nascondere in parte quell‟orrendo edificio, nato solo per lucro. Tanto che il palazzinaro costruì un piano in più, così la costruzione era senza agibilità, mentre l‟eucalipto l‟agibilità l‟aveva da Madre Natura. Ancora una volta ha vinto il potere dell‟inciucio politico e dello scarso e volgare interesse economico. Sono stati tagliati prima i rami più alti, poi dopo giorni, quelli più bassi. Poco alla volta … come sa fare il “potere”. Poi segarono il tronco e con la pala di un trattore estirparono il rimanete come un molare infilzato nella carne dell‟arcata inferiore dei poveri bambini che guardavano a bocca spalancata. Rimase il fosso e con immediatezza lo riempirono con del cemento. Il cemento e la politica è un binomio micidiale. 43 44 Il Casellante di Andrea Camilleri –Sellerio editore Palermo 2008 Il termine Eucalyptus nasce dalla combinazione di due vocaboli greci: éu = bene e kalypto =nascondo. 458 BENVENTI A CAMICO I bambini volevamo bene a quel grande amico. Per le festività natalizie veniva adornato con dei fili filanti, palle e tante luci colorate. Bastava da solo per annunziare il natale a tutta Camico. Il grande eucalipto aveva visto spuntare le case attorno a se come funghi, ad una ad una, e sicuramente l‟ultima fu fatale, tanto da decretare la sua fine. Quando si ergeva dritto a sfidare le intemperie o a parare il cocente sole, sotto vi erano dei personaggi, come degli gnomi, piccoli e a volte meschini, che si nutrivano di chiacchiere e sparlatine, che digerivano con delle grasse e sarcastiche risate. Erano iniziate le vacanze dell‟estate da poco e si aveva quella sensazione di libertà, quella voglia di godere il vacante che il termine stesso invita a fare. Così nell‟afoso primo pomeriggio estivo, mentre la calura di giugno si faceva sentire, sotto questa grande ombra dell‟eucalipto vi albergavano gli addetti al rifornimento di benzina: u zzu Petru e zzu Totò, uno studente, Calò che abitava nei dintorni e un altro nulla facente, Saro. Lui viveva di piccoli espedienti come la pesca, andava a raccogliere gli asparagi selvatici, lumache a tempo giusto, e li vendeva. Stavano lì a ghignare tra di loro. Ora andarsi a intrufolare in mezzo ad un gruppo del genere vi è il rischio serio di essere presi in giro. Aspettavano una vittima designata da un momento all‟altro, un certo Ciciu Trunchisina, uno di quelli tutto fare dall‟idraulico all‟elettricista, falegname e muratore nonché pittore. Questo ogni giorno andava lì e raccontava delle sue qualità di medium, asseriva di riuscire a parlare con i morti. Ora, quei bastardi gli facevano la scenetta dei creduloni, pertanto ogni giorno finito il pranzo, magari dopo qualche bella birra fresca, se lo vedevano arrivare. Anche lui pensava, altrettanto, sicuro di andarli a cugliuniari. Puntualmente anche quel giorno si accostò con la sua 128 Fiat Sport, scese, con un sorriso stampato in quella sua larga bocca 459 BENVENTI A CAMICO piena di denti messi a casaccio, dove nascondeva a malo modo la sua intenzione e salutò. I quattro salutarono con disinteresse, improvvisando un argomento qualsiasi, mostrando indifferenza al suo arrivo, poi risposero al suo saluto. Lui si mise le mani in tasca e guardava a tutti come dire: ei, sono qua! Poi incominciò a muovere nervosamente la gamba destra e a guardare per terra, ecco che u zzu Petru, intervenne percependo che ormai Ciciu Trunchisina era cotto a puntino: -Che si dice Cì, come va il lavoro? -Il lavoro va bene, ma ho perso la tranquillità. Ecco che tempestivo intervenne u zzu Totò: -Non mi dire che ancora t‟affaccianu i morti? Lui tistiava acconsentendo, allora Calò: -Ma c‟è veramente di preoccuparsi. Ti possono fare male! -No, a me no, perché ci servo, per portare messaggi ai vivi. C‟era da rimanere instupiditi a guardare tutta quella scenetta messa in atto. -Ma è una cosa straordinaria! Io avrei paura, però, essere in contatto con l‟aldilà è impressionante!- Insisteva Calò. -Tutti minchiati!- sparò Saro. Era chiaro, era il contrappeso per rassicurare al pollo che non vi era trama o inganno di sorta. -Lui può dire che lu sceccu vola! -Qualche volta ti faccio assistere ad una seduta, però non sarò responsabile di quello che ti potrà succedere, perché se sei antipatico a qualche spirito maligno … ! -Qualche spirito di patate! -Ma che dici Saro, questi sono doni di natura … -Io ci credo! Calò affermava con forza, seguito da tutti gli altri. -Mentre ero seduto e mi vedevo tranquillo la televisione insieme a mia moglie e a miei suoceri, mi sento toccare le spalle, quella mano era fredda come la neve, mi fa all‟orecchio: “Francesco, alzati e vieni nell‟altra stanza!” -Minchia, parlanu italiano, sti spiriti, forsi su pulintuna? 460 BENVENTI A CAMICO U zzu Petru con il risolino tra le labbra, lo richiamò condiviso da gli altri: -Saru, sei sempre lo stesso, fai silenzio per carità! -Allora guardai i miei familiari che non avevano visto e capito niente e mi alzai per andare … Arrivò uno con una Prinz Nsu verde pisello, che cominciò a strombazzare per fare rifornimento. -Proprio ora doveva venire? Ma dove va a stura, cu sta calura?Disse seccato u zzu Petru- Totò vacci tu! -Fermu Ciciu, nun continuari senza di mia! Vado a vedere stu rumpicugliuna chi voli! U zzu Totò, fu più rapido del pensiero, ma quello contestò che non gli aveva pulito il parabrezze. Tutti seccanti questi delle Prinz … Mentre puliva, lui scese, si asciugava il collo con un fazzoletto e si avvicinò al gruppo: -Buongiorno, scusate, mi potete indicare un bar? -Vada avanti un duecento metri c‟è il bar Sole. -Se è aperto … - Calò rise. -Come “se è aperto”? A questa domanda tutti mostrarono impazienza, nervosismo, più di tutti Ciciu che ormai aveva ingranato il racconto tanto da fissarlo in mala maniera. Saro prende la palla in balzo e lo chiama in disparte, gli dice qualcosa all‟orecchio. Il tizio guarda Ciciu Trunchisina con spavento, s‟infilò in quella sua scatola con le ruote e andò via di tutta fretta senza nemmeno salutare. U zzu Petru gli chiese all‟orecchio che minchia gli avesse detto per averlo fatto andare in quella maniera? -Niente di speciale, ca Ciciu era un rapinatore armato ed eravamo sotto minaccia! Insomma dopo qualche risata, incoraggiato da tutti Ciciu continuò il suo racconto. -Ora immaginatevi quando entro nel soggiorno e trovo attorno al tavolo un‟assemblea di morti che mi aspettava, con le facce 461 BENVENTI A CAMICO bianche dove lembi di carne marcia pendevano e con gli occhi rossi come il fuoco dell‟inferno. -Io sarei scappato a più non posso!- Disse Calò, fingendo il terrore. Ciciu dissentiva con la testa e il sorriso da sapientone: -Inutile, sfuggire, ti raggiungono dovunque e s‟incazzano pure. Inutile e peggio! -Allora la morte non è la fine di tutto?- Disse sorpreso u zzu Totò. -La morte è l‟inizio! La vita è solo una preparazione per la morte! -Pirchì „un t‟ammazzi, allura?- Sarcasticamente gli disse Saro. -Perché sarei un infelice come questi disperati morti che mi chiedono aiuto! Ma tu non puoi capire, sei troppo ignorante! -Zittuti Saro! Veru è! Continua Ciciu, noi vogliamo conoscere sapere, e abbiamo la fortuna di avere te- Disse u zzu Pitrinu -Si cosa di televisione!- Rafforzò Calò. -Il morto a capotavola con il cilindro nero in testa, mi puntò con l‟indice della mano destra e mi disse: “Francesco! Francesco! Devi andare a trovare a Peppi Munnizza, mio nipote e devi dirgli di andare al camposanto vecchio e cercare di recuperare per dare degna sepoltura le mie ossa, che i cani stanno facendo scempio!”. Lo sapete che la casa di mio suocero è proprio sul cimitero vecchio! E proprio ogni giorno vedo cani con le ossa in bocca dei poveri morti. E‟ una vera vergogna! -Hai informato a Peppi Munnizza dell‟accaduto? -Ancora no, ma devo andare subito perché in caso contrario suo nonno mi apparirà ovunque. L‟altra volta mentre stavo a gabinetto mi spuntò una bambina vestita di bianco con una scocca bianca tra i capelli, con due occhi neri come una notte senza cielo, fortunatamente che ero lì seduto per espletare i miei bisogni … ma per lo spavento ho urlato a tutta forza e mia moglie, mia suocera, mio suocero, corsero dietro la porta e chiedevano cosa fosse stato. Io a rassicurarli che non era successo niente. Comunque quella bambina mi dice: “Francesco, Francesco, sono la sorellina di Cocò Bummolo devi andare a dirgli di prendere la ciocca dei capelli del 462 BENVENTI A CAMICO mio ritratto e bruciarla, perché mi tengono legata a questa vita ed io voglio volare lontana.” Ciciu Trunchisina essendo uno che girava le case dei Camichesi, vedeva questi ritratti e poi ne faceva frutto della sua fantasia. Per farla breve, la compagnia delle minchiate di Ciciu si andava allargando sempre più. Tanto più quando Calò e Saro sono corsi ad informare sia Peppe Munnizza che Cocò Bummolo del racconto. Ciciu se ne guardava bene ad andare a trovare i due, perché per lui il fatto finiva lì, sotto il grande eucalipto. Così un giorno Peppe Munnizza incontrando per caso a Ciciu in banca gli dice una cosa che lo stranisce: -Signor Francesco, lo sa che da più di due notti sogno lei vestito da postino, con una busta nera e una croce bianca stampata sopra mentre bussa alla mia porta, il campanello non suona il solito suo dindon, ma a morto, una lugubre e lunga ammunia. Corro ad aprire e lei non c‟è più! Ciciu si turba! Ma come è possibile se mi sono inventato tutto? Cosa succede? Ora, signori, invece di pensare che quello era tutto un inganno architettato da quei disonesti, lui si fa una delle sue masturbazioni celebrali spiegandosi il fenomeno così: quel racconto gli era stato suggerito veramente dai morti del camposanto vecchio. Diceva a se stesso: “Nulla succede per caso!”. Fatto sta che si era autosuggestionato e quella sera a casa di suo suocero stentava ad andare in bagno, quando il bisogno divenne impellente accese le luci del corridoio e di ogni stanza quasi volesse sconfiggere le ombre, mentre orinava, strano a dirsi, si sentiva osservato da quella bimba sorella di Cocò Bummolo a tal punto che si affrettò ad intascare nella granatera lampo il suo ciondolo e si pisciò addosso. Quando arrivò in cucina la suocera diede subito un occhiata sul malfatto. Ma sempre lì ce le ha gli occhi questa donna!? Non fece tempo a riflettere che la moglie come in una comunicazione mentale viene richiamata all‟attenzione dalla madre, così ha interrotto di lavare i piatti, si è 463 BENVENTI A CAMICO voltata e ha focalizzato il suo sguardo proprio sul cavallo dei pantaloni che mostrava vergognosamente quella macchia allungata per metà dei pantaloni umida dal piscio. Da gli occhi delle due donne capì che era abbastanza vergognosa e visibile, decise di rincasare, la moglie sull‟istante mollò tutto e andò via. I morti si lasciano in pace, si ripeteva continuamente, ma dopo pranzo passò davanti all‟eucalipto e quella fetente di 128 Sport è andata a parcheggiarsi proprio lì, da loro. Era ormai un vizio e le novità erano così eclatanti che anche se razionalmente lui non volesse intrufolarsi più in quella storia, emotivamente ne era coinvolto. Tutti gli fecero una festa, tranne Saro che fingeva di essere seccato della sua presenza. Lui era quello che si divertiva di più, perché il gioco gli permetteva di dirgli a Ciciu Trunchisina la verità tutta e in quella faccia brutta con quella funcia e gli occhi da scimpanzé intelligente. I soliti convenevoli poi incominciò a raccontare dell‟incontro con Peppi Munnizza e dell‟altra sera: -Non mi vergogno a dirlo mi sono pisciato i pantaloni, sentivo gli occhi addosso della bambina! -Certo non è giusto una bambina, anche se morta, guardare uno con il coso in mano … - U zzu Totò giudiziosamente lamentava Ma di quale bambina stai parlando? Quella che si presentò l‟altra volta mentre stavi sempre a cesso? -Si! La sorellina di Cocò Bummolo, ma … la sentivo dietro le spalle non era davanti … Quando all‟improvviso, da dietro il fusto dell‟eucalipto, spuntò come una presenza eterea, misteriosa, che lo ha fatto letteralmente saltare indietro paonazzo in volto, chi? Cocò Bummolo! Ora definire Cocò Bummolo “presenza eterea” è una esagerazione letteraria, realmente si tratta di un mezzo busto d‟uomo con due gambette, messe lì prese in prestito da non so chi, con una faccia rotonda con due orecchie di gommapiuma appiccicate appena dove finivano li gargi, un pirulì blu in testa sia in inverno che in estate. Insomma si ci piazzò davanti a gambe 464 BENVENTI A CAMICO larghe e con quelle lunghe braccia spalancate, con una risata mefistofelica, risata poco credibile con quella maschera comica che si trovava. -Non mi dire che ti sei preso lo scanto?- Gli disse u zzu Pietro. Subito Ciciu prese possesso delle sue facoltà mentali: -Minchia, ma chi è modo questo di presentarsi? -Signor Francesco, da tempo che lo cerco e dopo informazioni ho saputo che bazzichiava qui. Così da tre giorni che aspetto, quando ho riconosciuto la sua voce non credevo alle mie orecchie (come si fa a credere a due orecchie come quelle che ha appiccicate?) e per la felicità sono saltato fuori. Eccomi! -Minchia di bellu vidiri!- Intercalò Calò con la sua risata tipica. -Se ha qualche cosa guasta, oggi non posso venire se ne parla domani! -No! No no no no! Si tratta della bambina. Ora se mi permette, visto che qua siamo tra amici e lei non fa mistero delle sue vicende, le devo dire quello che mi capita. Si strinsero a cerchio attorno a loro due. La tensione era tale che poteva prendere a fuoco la stazione tutta. Ciciu si mise le mani in tasca e incominciò a giocherellare con le sue cose come se fosse al circo Orfei, con lo sguardo serioso ma non troppo, da trionfatore. -Parla! -La sera prima di salire sul piano di sopra per andarmi a coricare, devo spegnere la luce dalla porta d‟ingresso e attraversare tutta la cucina al buio, perché manca l‟interruttore nell‟altra parte, che da tempo deve venire a sistemare dopo quella modifica che ha fatto. -In questi giorni verrò! -Comunque, lasciamo perdere per adesso, ché ci sono cose più importanti. Ooo! Se si ricorda, in quella stanza c‟è quella grande foto della cara buonanima sorellina. Ooo! Io ci sono cresciuto assieme con quella fotografia, ma da un po‟ di tempo mi sono sentito osservato, guardato! Ooo! Come ha detto lei poco fa mentre pisciava! Ooo!! Mentre cammino nella stanza a buio mi 465 BENVENTI A CAMICO sento seguito da gli occhi della bambina, tanto che l‟altra sera facendo di fretta e preso dallo spavento sono inciampato su una sedia che a momenti mi scassavo lo stomaco. Ooo!!! La luce ora non la spengo più, ed è peggio! perché contro la mia volontà la guardo e lei con gli occhi mi fa segnali. Ci rifletto su tutta la notte e il giorno seguente seguendo quella taliatura che mi faceva, scopro che mi segnalava il calendario dove sopra appiccicato si trova il suo numero di telefono che mi ha scritto l‟altra volta bello grande per leggerlo bene. Ooo! La sera stessa passando davanti il suo ritratto ho avuto la netta impressione che con la testa e con gli occhi mi faceva “si, si!” Ciuciu Trunchisina sentiva milioni di micro orgasmi che si succedevano a ripetizione nella sua pelle tanto da provare un brivido per tutto il corpo. Anche se la luce di quel giorno d‟estate s‟intrufolava ovunque, in ogni dove, non permettendo il sorgere di un minimo mistero, l‟ombra del grande eucalipto aveva creato una isola alla razionalità, dove nessuna cosa aveva confine tra la finzione e la realtà. I volti di quei delinquenti confabulatori erano veramente sorpresi, stupefatti. Mi domando e dico: come minchia ha fatto Cocò Bummolo, un manovale edile con manco la quinta elementare, avere architettato una storia tale? Sicuramente qualche impressione del genere quel ritratto gliela avrà data, magari con qualche biccherotto di vino in pancia, gli sarà capitato pure l‟allavancatina. Insomma una storia così bene intessuta con quelle mezze verità … Ah, dimenticavo. Il nostro affabulatore aveva un altro difetto fisico; aveva gli occhi che convergevano verso il centro, si. Quelli, di sicuro, erano rimasti ammaliati e confusi, fissandolo mentre raccontava. Il Trunchisina gli raccontò il suo con tanto di messaggio della morta. -Ma io non me la sento di bruciare i capelli della mia sorellina. Non voglio fare questo torto alla sua memoria! 466 BENVENTI A CAMICO -Ma se è lei che te lo manda a dire?- U zzu Petru logicamente gli disse. -Senta signor Francesco, anche a pagare il disturbo, non può venire lei a fare questa operazione? Ciciu, con tutte e due le mani messe avanti: -No! No! Io lo sapevo che dovevano cominciare a coinvolgermi nelle loro storie! -Allora mi faccia la cortesia, la prossima volta che la vede, le chieda se per lei fosse lo stesso dare a questi capelli una degna sepoltura nel camposanto. -“La prossima volta che la vede”… E chissà quando capiterà? I morti non sono come noi che fanno sfanno quello che vogliono! Per mettersi in contatto con il nostro mondo non ci viene facile. E meno male! -Ascutami Ciciu, ho letto l‟altra volta in un giornale che si possono chiamare con una seduta spiritica, che c‟è di vero? Ciciu Trunchisina assentiva con la testa mentre rifletteva come realizzare una impostura a quei cretini di paesani. Si, perché lui era giurgintanu, di città, si sentiva pertanto più evoluto dei suoi nuovi compaesani provinciali. Tutti pendevano dalle sue labbra quando lui disse guardandosi le scarpe: -Si può fare! Ci fu un coro di “bene! Apposto!” -Però … -Videmu chi minica avi ora … -Senza tanti scrupoli disse Saro. -Però … prima devo trovare lo spirito guida! -Non manca a te!- Disse u zzu Petru. Cocò gli disse con gli occhi priganneddi e afferandolo per le braccia con le sue due manacce: -Mi deve togliere questo grande problema! -Oh! Mi raccomando: non parlatene con nessuno! La notizia girò tutta Camico alla velocità della luce e passo pure i confini. Tanto che il suocero venne a conoscenza di tutta la storia. 467 BENVENTI A CAMICO Se fosse stata una storia di corna sicuramente non arrivava alla famiglia del cornuto. La vittima della corna si sentiva guardata, magari derisa, qualche battuta di troppo e poi non veniva neppure salutata, diventava invisibile e lasciata a se stessa. Ma quando il fatto era di diverso genere qualche amico si faceva avanti e metteva a conoscenza la famiglia. Il suocero se lo piazzò davanti e gli fece il vestito addosso, prendendolo per cretino patentato, davanti alle sue donne. La moglie stessa non lo lasciava più un momento, tranne per il lavoro, non potendo andare a casa della gente insieme al marito. Lui senza alcuna rassegnazione intanto elaborava nella sua mente come escogitare quella seduta spiritica. Lavorava e pensava come fare l‟ectoplasma, oppure qualche effetto scenico, qualche rumore per fargli prendere uno spavento. Prese il suo registratore a casette e incominciò a registrare lamenti: -Oooo! OOOO! Uh! UUUUUUu! Preso com‟era non si era accorto del suocero che l‟osservava da dietro le spalle. Quando gli diede un ceffone dietro il collo: -Chi sta facennu, TRUNZU! Ciciu saltò in aria con tutto il registratore che cadde a scatafascio sul tavolo, preso dallo spavento di essere stato scoperto, ebbe un attacco d‟ira e urlò prendendo posizione: -Stavo provando il registratore dopo che lo ho riparato! Non ho più pace! Insomma litigò con i suoceri e non andò più da loro, così spesso rimaneva da solo a casa, perché la moglie il pomeriggio invece andava dai suoi. Via libera al suo piano, Ciciu Trunchisina era inarrestabile! Così fissò un appuntamento a casa sua di pomeriggio si sarebbe presentato lui al grande eucalipto il giorno stabilito. Era il 10 agosto quando, arrivò sotto l‟eucalipto con la sua auto vide le solite facce con l‟aggiunta di Peppe Munnizza, il commentatore Giovanni Chiesa, Rino il palermitano, il quale si trovava in vacanza a Camico dai suoi nonni e il farmacista. Tutta gente che 468 BENVENTI A CAMICO non poteva dire di no. Spiegò che dovevano entrare con circospezione per non fare insospettire il vicinato. Ciciu Trunchisina andò a sistemare le sue cose, era pronto. La compagnia in un non niente si trovò nel soggiorno attorno al tavolo grande, sgombero di ogni cosa. La sua abitazione era sistemata tutta a pianterreno e il soggiorno si trovava non appena si apriva la porta. Un vero spettacolo messo in scena, diciamolo onestamente, ad arte. -Se c‟è qualche incredulo, miscredente, è giusto che lo dica e si allontani, perché ostacolerà l‟incontro con gli spiriti. Ciciu Trunchisina guardava Saro, così anche gli altri si volsero verso di lui. -Oh, l‟avete con me? Si è vero, confesso che mi sono sembrate tutte minchiate, ma in questi giorni non ho fatto altro che pensarci e ho cambiato idea. -Vero? -Si, Ciciu, l‟altra volta lo ha detto pure a me, di questo suo convincimento!- Ha asserito con convinzione il commentatore. Allora Ciciu dopo quella attestazione subito mise tutte e due le mani sul tavolo: -Dobbiamo fare una catena con le nostre mani. Tutti si adagiarono posizionando le mani. –Mi raccomando il contatto, dopo che entro in trans, per nessunissima ragione dovete spezzare la catena. -Se per caso succedesse che qualcuno inavvertitamente spezzasse la catena cosa avverrebbe?- Disse con una serietà incredibile il farmacista. -Due cose molto gravi: posso entrare in coma profondo, uno! Due, qualche spirito entrato in contatto può impossessarsi di questa casa. -Tanto tu sei in affitto, cambi casa e lo spirito resta al proprietario … -Disse u zzu Totò. 469 BENVENTI A CAMICO -Non è onesto! -Insomma, ci stiamo perdendo in chiacchiere! Il commendatore troncò tutta quella strana e divertente discussione latente alla degenerazione. -Spirito guida! Incominciò Ciciu con voce profonda e seria. Mentre a qualcuno scappò una risatina, fu subito richiamato da gli altri. -Spirito guida! Se ci sei fatti vivo! -Senti Ciciu– sbottò Saro –Io ce la metto tutta a credere, ma non ti sembra il colmo dirgli ad un morto fatti vivo? -Zitto miscredente! Buon spirito guida, donna Lisa, se c‟è mandi un segnale! A questo punto si spensero le luci del lampadario e si udirono dei gemiti lontani, piano: - Oooo! OOOO! Uh! UUUUUUu! -Lo stiamo disturbando, a quanto sembra sta facendo i suoi bisogni!- Disse serioso Calò. Mentre Ciciu incominciò a roteare la testa prima da destra a sinistra poi all‟incontrario ed ad emettere profondi suoni gutturali, fin quando si arrestò e guardò fisso al centro del tavolo con gli occhi sbarrati, poi con una vocina fine di donna disse: -Chi mi ha chiamato?- Ciciu cambiò di nuovo voce –Io, Francesco, sei tu donna Lisa? -Intisu Ciciu Trunchisina!- Precisò Saro, seguito da mille “Sssssu!” Riprese la voce femminile –Si, cosa vuoi da me Francesco!ricambio di voce –Chiamami la sorellina di Cocò! -Cocò Bummolo! Senza offesa, meglio precisare può portarti un'altra morta e qui facciamo notte. Sempre Saro, seguito dal solito ammonimento di silenzio all‟unisono della compagnia: -Sssssu! -Chi mi ha chiamato?- Ciciu ora faceva una voce di bambina! -Sorellina! Sorellina!- Esclamò Cocò. 470 BENVENTI A CAMICO -Ti abbiamo disturbata per sapere se fa lo stesso dare una degna sepoltura ai tuoi capelli, invece di bruciarli!- Cambio voce –Si ma in terra consacrata! -Certo! Certo! Sorellina mia, come te la passi? Tu non mi conosci perché sei morta prima che io nascessi! Cocò, il cornuto, recitava a meraviglia. -Fratellino, bello, io ti sto accanto nei tuoi momenti di solitudine. Sono ferma in una grande area, come una caverna senza pareti, è tutto scuro, freddo e senza colori. Cocò mio, fammi questa grazia, così potrò liberarmi da tutte le sofferenze di questo Mondo e potrò volare verso la luce. A questo punto si riaccesero le luci e Ciciu Trunchisina aveva tutta una schiuma densa bianca che gli usciva dalla bocca, dopo un po‟ si ridestò e guardò tutti in volto attonito. -Ch‟è successo?- Chiese stordito. La compagnia sciolse la catena e spontaneamente esultò applaudendo per cinque minuti consecutivi. -Ciciu è stato grandioso! Non avevo mai assistito a una cosa così interessante! Quando la rifacciamo?- Disse risoluto il farmacista. -No dottore, non è più possibile! Mia moglie se sa che ho fatto questa cosa mi lascia in tronco!- Mentre si puliva la funciazza da quella cosa bianca. -Ma cosa è questa cosa bianca?-Ectoplasma! E‟ una sostanza che forse produce il nostro corpo quando è in contatto con gli spiriti. Ora dovete andare, perché può tornare mia moglie. Mi raccomando con discrezione e non raccontate a nessuno di questa esperienza! La stanza si svuotò in silenzio e in un batter baleno. Quell‟associazione di debosciati si ritrovò sotto il grande eucalipto. Ognuno di loro aveva un commento. La decisione definitiva ed unanime era quella di ripetere la seduta, ma soprattutto doveva mantenersi lo stretto riserbo, con nessuno e 471 BENVENTI A CAMICO quando si dice nessuno s‟intendono pure le mogli, soprattutto le mogli. -Come si fa a riagganciarlo di nuovo?- Il farmacista si chiedeva preoccupato. -Lei non lo conosce bene, domani pomeriggio è qui! Ciciu Trunchisina, l‟indomani pomeriggio, invece non si presentò e nemmeno l‟indomani e l‟indomani ancora. Aspettarono invano per una intera settimana. Ciciu aveva paura, una fifa tremenda, perché se la notizia fosse arrivata al suocero, o alla moglie, sarebbe stata la fine. Quando Ciciu si fidanzò, al suocero gli era sembrato di avere preso Trentoetrieste! Il suocero si era convinto che Ciciu era un mezzo scienziato, talaltro di famiglia buona. Il fratello di Ciciu era “ingegnere” dell‟Eras. Allora un impiegato con la scuola d‟avviamento pariva un ingegnere … Dopo il matrimonio il suocero incominciò a scummigliari quanto il genero fosse chiacchierone. Più erano le chiacchiere che i fatti. E che doveva fare il povero suocero? Cercava di coprire più possibile le disgrazie del genero per amore della figlia. Ma l‟atteggiamento, prima reverenziale, dopo è divenuto autorevole e dopo ancora senza peli sulla lingua. Se gli veniva di dirgli trunzu, glielo diceva né kitibi e né kitabi: trunzu! La suocera necessitava di una visita medica a Giurgenti, pertanto gli fu chiesto dalla moglie di accompagnarli con la sua auto. Messi a bordo della 128 Sport di prima mattina si partirono. Il suocero non appena era arrivato nei pressi del rifornimento di benzina, gli disse di accostare: -Trasi! -Perché? -Ti ho detto trasi! Come è che di prima mattina sotto il grande eucalipto stavano di già gran parte della combriccola. Ciciu era preoccupato che 472 BENVENTI A CAMICO qualcuno di quelli poteva accennare alla seduta spiritica. Così accese lo stereotto: “Alle porte del sole …” si mise a cantare Cigliola Cinquetti, per creare un diversivo, un elemento di disturbo. -Buongiorno!-Pitrì, fai il pieno, buongiorno!- Categorico disse il suocero. -Ma perché? La benzina c‟è. -Dagli le chiavi! E spegni sta camurria! Quelli sotto l‟albero parlavano tra di loro, sembrava che nulla avessero a che vedere con lui. Quando passò con l‟auto salutarono indifferenti. Ciciu si rassicurò, quelli erano veramente fermi di pancia. Oppure non interessava più niente? Gli sorgeva questo dubbio, tanto che all‟indomani, primo pomeriggio si presenta da loro. Calò subito lo incalzò come mai non si fosse più visto. Lu zzu Petru gli ha chiesto lo stesso. Lui se ne uscì con “ho avuto da fare”. Erano presenti pure il farmacista e il commentatore, dicendo che d‟allora non avevano fatto che pensare all‟accaduto. -Capiamo, il riserbo, perché tale virtù venute messe a conoscenza stravolgono la vita di un uomo e della sua famiglia, però non possiamo fare finta di niente!- Disse il farmacista con tono serioso. -Si ma io non voglio più ripetere questa esperienza, mi costa troppa energia, mi fa sentire male, debole. -Possiamo rimediare con delle vitamine! -Comunque se non te la senti, basta!- Concluse il commentatore. Ciciu rassicurato continuò ad andare sotto il grande eucalipto, riprese a raccontare le varie minchiate, fin quando si arrivò alla sviluppo completo e alla naturale conclusione che si doveva ripetere la seduta. Massima discrezione! Ciciu organizzò tutto a puntino, con nuova registrazione di lamenti e altri effetti speciali. Il giorno prima si mise occhiali ray ban scuri, parcheggiò come se dovesse fare benzina, u zzu Totò si avvicinò, così gli disse, guardando dritto davanti a se e con fare circospetto: 473 BENVENTI A CAMICO -Domani vi avviso io, verso le quattro! Accelerò, sgommò e andò via. Quelli sotto l‟eucalipto vista la scena si contorsero dalle risa. Quando incominciarono ad entrare a gruppi di due e tre e il soggiorno si riempì a tinkitè. Stavano in silenzio e con facce serie. Ciciu non si aspettava tutta quella ciurma e si preoccupò seriamente. -Non si fa niente! -Perché? -Siamo in troppi. -Ma vedi Francesco siamo tutti intimi- Il farmacista gli disse con tono amichevole –Mio figlio Gerlando, doveva vivere questa esperienza, poi Sasà fratello del commentatore, Lorenzo cognato di Peppe Munnizza e suo cugino Pepè … Insomma Ciciu non poteva più tirarsi indietro, avevano portato pure il putiniaro per qualche giocata al lotto. Vi era anche Gaetano Criscenti sopra la sedia a rotelle, aiutato ad entrare, da altri due studenti universitari. E non gli si poteva dire di no, mischinu, non solo la disgrazia macari il rifiuto? Il Criscenti, ex impiegato del dazio comunale, ha avuto un male misterioso, un giorno gli spuntò un puntino rosso sull‟alice e poi lentamente incominciò a diventare una linea rossa, quando passò il piede si convinse ad andare a passarsi una visita medica, così scoprì che non c‟era più rimedio ed ha dovuto farsi amputare il piede, ma il male era passato oltre, così subì un altro intervento, per sicurezza i medici tagliarono tutta la gamba. Era fidanzato e innamoratissimo con una giovane bellissima, e per questo grande amore la lasciò. Non voleva pietà e non voleva sacrificarla alla sua strana malattia, che a quanto pare, forse è solo una leggenda, era ereditaria e originariamente causata da un veleno creato da Lucrezia Borgia. 474 BENVENTI A CAMICO -Chi si può sedere, sia pronto per fare la catena, gli altri guardino alzati, in silenzio e con la dovuta serietà. -Li abbiamo informati, sanno tutto, e non c‟è nessuno ch‟è non credente!- Rassicurò il commentatore Chiesa. Ci furono quattro minuti di un profondissimo silenzio mentre Ciciu incomincio a torcersi il collo da destra a sinistra e viceversa. L‟imprevedibile: un piritu sanizzu che scosse tutti, tanto da farli scoppiare con delle risate isteriche. Visto che Ciciu si era siddiatu, il farmacista chiamò all‟ordine. Dopo che si fu ristabilito il silenzio, si alzò u zzu Totò e mortificato disse: -Vi chiedo perdono a tutti, a Ciciu in particolare, forse l‟emozione mi guastò lo stomaco. Di nuovo silenzio profondo, di nuovo Ciciu che girava la testa: -Donna Lisa, mio spirito guida! Ci sei? Se ci sei batti un colpo! S I L E N Z I O Ciciu incominciò ad avere scutimenti, come se gli fosse venuto un attacco epilettico. Incominciò ad uscire quella sostanza bianca dalla bocca a quantità! Dopo una manciata di secondi si spense la luce, vi era buio pesto. Cominciò il lamento lontano: - Oooo! OOOO! Uh! UUUUUUu! E Ciciu che si scuoteva, girava la testa; ancora lamenti ora più forti: -Aaaa! AAAA! UAh! OOOOOa! -Mio spirito guida, donna Lisa, se ci sei batti un colpo! Non appena finì di dirlo si udì un frastuono enorme nell‟altra stanza, come pentole che cadevano. Quel rumore ha accolto tutti di sorpresa. Anche perché si percepiva il vento e il rumore leggero come un ventilatore acceso. Quel vento aveva portato il profumo del borotalco, che poi tutti si trovarono addosso ai vestiti. Ciciu con una vocina femminile: -Francesco, Francesco, ma che cosa è tutta questa gente? Cambiando voce ogni volta secondo l‟esigenza che richiedeva all‟uopo il personaggio: 475 BENVENTI A CAMICO -Amici! -Che cosa vuoi? Perché mi hai chiamato? -Questi amici volevano vedere la seduta. -E che facciamo spettacolo? Qui c‟è gente che soffre le proprie pene! I morti siamo gente seria, non siamo pullicinella come voi vivi. -A livella di Totò- Disse uno degli studenti universitari. -Zitto tu! Che invece di studiare fai il turista a Palermo! Ciciu all‟improvviso attisò, ora con una voce profonda e robusta: -Niputi Pè! O Peppi Munnizza! Parlo con te, Pepè! Con tutti e due i miei nipoti. Io che vi ho lasciato terre e case, che ho combattuto a fianco del Generale Garibaldi nelle barricate di Palermo. Avete permesso che le mie povera ossa fossero pasto per i cani! E ancora ve la coglionate a perdere tempo! Peppi Munnizza e suo cugino Pepè colti di sorpresa, gli è sembrata così reale, che si emozionarono veramente. Così balbuziente rispose Peppe Munnizza: -Nonnò, voscenza mi deve perdonare, ma ci sono stato e ho visto che dalla terra spuntavano ossa e pezzi di bara a quantità! Ciciu con la voce di donna Lisa: -Adoperatevi a fare quest‟opera di bene! -Vorrei parlare con mia sorella- Con voce tremola disse Cocò -Tua sorella già è volata via è andata verso la luce e ti ringrazia. -Chiediamo una cinchina, ce la giochiamo tutti assieme!- Disse a sorpresa da dietro il puntiniaro. -trentanove! -Mortu, femmina, che parla- Precisò il putiniaro -sei! -Spiziali -diciotto! -Cornuti, tanti! -settantadue! -Scuppari di rivolu. 476 BENVENTI A CAMICO -ottantaquattro! -Moglie! Non appena finì la replica del putiniaro, si sentì la serratura della porta di fuori che qualcuno stava aprendo. Ecco che spuntò la moglie di Ciciu che non appena si tolse gli occhiali scuri vide illuminata dalla luce del giorno tutta quella assemblea nella propria casa, non riuscendo a darsi una spiegazione razionale: che cosa stava succedendo? Quando poi verso sinistra si accorse di suo marito con tutta quella fucciazza nera sporca di dentifricio, rimase imbalsamata. Ad uno ad uno tutti quegli uomini che incominciarono ad uscire ordinati e silenziosi, con gli occhi offesi da quella luce del sole d‟agosto, vastasu più che mai. Loro stessi si videro tutti lì dentro impolverati di bianco, diversi, strani e soprattutto stronzi. Uscì per ultimo Gaetano Criscenti, e in quel silenzio siderale si udiva solitario il cigolio della sua sedia a rotelle. Proprio quel rumorino segnava la fine dello spasso con Ciciu Trunchisina e la sua carriera di medium. 477 BENVENTI A CAMICO IL MAGO Nell‟inverno precedente, mentre le fronte del grande eucalipto si agitavano e il vento freddo di gennaio sputava in faccia a chiunque si trovava per le strade, un gruppo di giovani, alle sei di sera, se ne stava dentro un aula della scuola elementare. Erano stati invitati da Carmelo Bonifacio, uno studente di liceo, per frequentare la piccola biblioteca che aveva aperto u provessuri Lullu Pedi. Lullu, non era il suo nome vero. I compagni di studio gli avevano appiccicato quella „ngiuria, rifacendosi a Raimondo Lullo, il filosofo catalano, famoso per le sue teorie sulla mnemotecnica. Perché lo studio del giovane Pedi era basato nello imparare a memoria, in una maniera sorprendente, interi capitoli di storia, geografia, scienze, di tutto, però lui non ne capiva una mataminchia. Già da ottobre scorso, ogni sera alle 17, puntualmente apriva la scuola, si leggeva il giornale, se ne stava in solitudine sino alle 20, poi chiudeva tutto e se ne tornava a casa. Aveva avuto questo incarico e lo portava avanti tranquillamente. Fin quando la cosa non fu scoperta da Carmelo, il quale aveva criticato il sindaco che a Camico non vi era uno straccio di biblioteca. Il sindaco, amico del maestro Lullu, lo ha categoricamente smentito, anzi muovendo l‟accusa ai giovani di disinteresse verso la cultura, perché non si era mai presentato nessuno di loro. Da quel momento tutta la pace goduta dal provessuri Lullu cessò, perché Carmelo Bonifacio, invitò compagni di corriera e amici a quella piccola biblioteca. Si leggeva, si discuteva, si ci trovava. Qualcuno ne approfittò a non restituire più il libro preso in prestito. Insomma un gruppetto, in media di dieci giovani in quelle serate d‟inverno e di completa monotonia del dopo studio, frequentava assiduamente. Ninu Pace, studente radiotelegrafista, era tra questi, una sera, un discorso tira l‟altro, parlando della sua esperienza estiva di lavapiatti in un ristorante a Londra, per fare pratica con la lingua inglese, raccontò delle stranezze del suo compagno di scuola e di 478 BENVENTI A CAMICO viaggio Ninu „Ntorcia. Il Pace raccontava che „Ntorcia da quando leggeva tutti quei libri di spiritismo, stregoneria, magia bianca e nera aveva avuto un cambiamento radicale, sia come atteggiamenti, abitudini, modo di parlare, di muoversi, di ragionare. -Cose da pazzi, si faceva la doccia tre, quattro volte al giorno, una vera mania. Poi parlava lentamente, sempre con quel sorrisetto stampato tra le labbra di chi sa più degli altri, che scuoteva la nervatura a chi interloquiva con lui. Passava davanti una bella fimmina, per lui era come se niente fosse successo. Anzi, attaccava uno dei suoi ragionamenti senza né testa e né coda. Si è convinto che lui prima di questa vita era un monaco tibetano! Mi disse pure il nome, ma non lo ricordo. E prima ancora era un orango della foresta pluviale dell‟isola di Sumatra dell‟Indonesia. -Lo devi portare! Non ci sono rimedi, con uno come questo l‟inverno è salvo! Disse Carmelo, con l‟approvazione di tutti gli altri. E così fu la sera dopo! Ninu „Ntorcia aveva una pelle olivastra e due occhi a mandorla da sembrare veramente un orientale. Non c‟è da meravigliasi in una terra multirazziale come la Sicilia. In secondo luogo, i punti di contatto tra la cultura siciliana e quella indiana sono tantissimi. Dal simbolo della trinacria, simile alle loro svastiche a forma di triskeles, alle mastazzoli, dolci natalizi di forma romboidale, di buono auspicio per richiamare le divinità buone. Non parlando poi della lingua siciliana che ha centinaia di parole provenienti dal sancrito. Persino il marranzano, lo schiaccia pensieri, è uno strumento musicale proveniente dall‟India. Non vi fu serata più appropriata dell‟arrivo di „Ntorcia alla biblioteca. Si preparava una tempesta, era già nell‟aria. Quando lui entrò nel corridoio, buio, nel silenzio della lettura si udivano rintuonare i passi che si avvicinavano, e come in tutti i film di cassetta, horror, non appena entrò un fulmine illuminò di viola 479 BENVENTI A CAMICO tutte le vetrate, seguito da un tuono inverosimile che fece tremare i vetri. Ci affrettammo a chiudere le ante. Si mise a guardare i libri negli scaffali uno per uno. -Che cerchi? Se vuoi ti posso aiutare.- Carmelo gli disse per aprire la discussione. -Niente in particolare … Guardato da vicino la pelle presentava una porosità evidente ed era umidiccia, oleosa. Aveva in mano un libro di astronomia con la copertina molto colorata. -Ti interessi di astronomia? -Anche … Non so come, con quei discorsi tronchi si andò a finire al paranormale. Carmelo ricorda a tratti che gli parlò di come la scienza deve tanto alla magia. Un passo che lo colpì particolarmente fu, ad esempio, come Copernico arrivò all‟eliocentrismo, grazie alla concezione di un Creatore geometrico e neoplatonico, che sicuramente concepì un creato simmetrico e armonico. Così Copernico ragionò che se il Sole era metafora del Creatore doveva stare al centro. I tolemaici e gli aristotelici avevano congegnato le loro dimostrazioni perfettamente matematiche, ma inesatte, solo l‟intuizione dei maghi portò la verità cosmica. Newton più che uno scienziato è stato un mago e grazie ai suoi studi alchemici che scoprì la proprietà universale della materia, cioè l‟attrazione dei corpi, in altre parole la legge della gravità, rifiutata a priori da coloro, che si definivano scienziati, come un residuo della magia, loro non potevano credere ad una forza non visibile. Il mago, Giordano Bruno, intuì un universo con innumerevoli mondi simili alla terra, con i suoi abitanti e pertanto fu arso vivo dalla Chiesa. Parlava lentamente e sottovoce, con quel sorrisetto e gli occhi dolci, ogni tanto alzava il braccio destro ad arco e con l‟indice si grattava la parte sinistra della testa. Carmelo era in balia della sua malia! Intanto, ormai aveva attratto l‟attenzione di tutti. Lui era al centro del gruppo, ed era ascoltato come un novello Socrate. Lo 480 BENVENTI A CAMICO incalzarono di domande diverse e a sproposito, come le magarie, i filtri d‟amore, il malocchio, lo spiritismo e via discorrendo. Per ogni domanda aveva una risposta, al dire il vero, affascinante, ma non li cataminava minimamente dalle loro congetture empiriche. Al dunque si arrivò quando si parlò di reincarnazione. Lui parlò delle sue vite precedenti, con una forza di verità tale che scuoteva i più intransigenti, ma che divertiva chi invece era entrato nel gioco, pertanto fingevano credulità e meraviglia. Nino „Ntorcia spiegò il suo interesse per “l‟invisibile” per delle reminiscenze culturali di monaco tibetano del secolo passato, si chiamava Thuppeten Tilopà. Non appena finì di pronunziare quel nome i ragazzi hanno avuto un sussulto d‟allegria. -Si, è un nome che produce gaiezza … Poi quando raccontò della sua vita di orango, Carmelo Bonifacio capì perché si grattava la testa in quello strano modo. Raccontò che fu colpito da una freccia di un cacciatore indigeno, catturato e divorato. Il suo teschio stette come decorazione nella capanna del capo villaggio “per diverse lune”. -Ma tutta questa tua certezza da dove ti è venuta? -Sono stato ad una seduta ipnotica regressiva. -Si, ma tutto può essere suggerito dall‟ipnotizzatore, o dalle proprie fantasie, ricordi e conoscenze. -L‟ipnosi è avvalorata dalla scienza ufficiale! Si può sperimentare! Carmelo ha pensato: ci siamo! -Io sono disponibile a farti da cavia, se vuoi. Facendosi avanti. Lui smise il sorrisetto e chinò la testa. Ecco Carmelo sottoposto all‟esperimento. Lo fece sedere proprio sotto la lampadina e incominciò a dirgli di rilassarsi, di non pensare e di guardare la lampada. Lui con le mani gli creava delle ombre davanti a gli occhi. Carmelo stava per scoppiare a ridere proprio a crepa pelle vedendosi tutti a torno, compreso il professore Lullu e lui che lo fissava con tutti quei magagigi che faceva con le mani. Ad un certo punto, quando gli disse: -Ora dormi! 481 BENVENTI A CAMICO Ha finto di essersi addormentato, abbandonandosi sulla sedia e penzolando le braccia. S T U P O R E Ninu Pace e qualche altro avevano capito la bastardaggine di Carmelo. -Al mio tre, ti sveglierai e non ricorderai niente, ti sentirai rilassato e con un senso di benessere. Uno … Due … Tre! Sta minchia che si svegliò! Allora lui si preoccupò un po‟, gli diede tre schiaffetti e così aprì gli occhi. -Ch‟è successo? Guardandosi tutto attorno e stralunato. Nino „Ntorcia era felice per l‟esito positivo di quell‟esperimento. Gli esperimenti si susseguirono durante le altre sere, si faceva a gara per sottoporsi. Quando qualcuno non riusciva a fingere bene, perché magari gli scappava la risata, allora lui se ne usciva che “il soggetto non era sensibile alla suggestione”. La condizione principale era la fiducia totale all‟ipnotizzatore, e quella … c‟era! Durante le sedute successive si passò alla regressione. Si sottopose Paolo Mulumalu, senza tanti preamboli cadde in stato d‟ipnosi. -Prima di passare nella regressione, ti sveglierai solo quando ti toccherò il lobo dell‟orecchio sinistro, ricordalo! „Notrcia oltre ai magagigi con le mani davanti a gli occhi di Paolo incominciò ad emettere suoni gutturali, come dei lamenti, delle note basse. -Ora hai cinque anni, dove sei? Paolo con una vocina da bambino gli disse: -A casa di mia nonna. C‟è la pendola sopra il cufularu, che bolle. -Ora sei appena nato. -UaA! UaaaAAA! UaaAAAA! -Ancora indietro. Paolo in silenzio apriva e chiudeva la bocca con gli occhi chiusi. -Ancora indietro, ancora indietro. 482 BENVENTI A CAMICO Paolo incominciò a ragliare come un asino vero. Chi lo conosceva bene, si voltò e sbracò letteralmente dalle risate, perché era l‟imitazione sua più riuscita e che faceva sempre quando cantava Sciccareddu di lu me cori. U provessuri Lullu, che incuriosito si era avvicinato, quando vide quella scena si andò a sedere di nuovo in cattedra, scaturendo una ilarità di tutti, compreso il Mago: -Sceccu c‟è stato sempre! La sua asineria non l‟ha mai abbandonato! Quando Paolo incominciò ad esagerare e a muoversi tutto, gli toccò il lobo dell‟orecchio sinistro e si svegliò. -Cosa ricordi Paolo? -L‟unica cosa che ricordo con piacere che avevo una sorti di minchia tanta!- mostrando per lungo il braccio. Una sera Gerlando, il figlio del farmacista, portò con se altri tre amici: Calò e due più adulti rispetto al gruppo, Franco Cannicedda, studente universitario fuori corso da diversi anni e Natale Mannino, impiegato a lisciare basuli. Natale Mannino era figlio di Eleonora, faceva l‟infermiera a domicilio, arrivata da Palermo durante la guerra. Poverina aveva avuto la casa distrutta dalle bombe. Suo marito, Gaetano, lavorava come tutto fare nello studio dell‟avvocato Grafani, poi morì lasciandola con due figli a crescere, la femminuccia Susanna e il maschietto Natale. Giovane e bella fu subito misa „nmucca dalla gente di Camico. Si mormorava che Natale fosse figlio di don Nino Ferro. A dire la verità gli somigliava tantissimo e non solo fisicamente. Franco Cannicedda raccontò un episodio del Natale che metteva bene in chiaro il suo carattere irruente. Franco stava andando di mattina prestissimo a dare Diritto Costituzionale a Palermo, con la sua 500, portandosi per compagnia il sempre libero e disponibile Natale. Prese la via d‟Agrigento, e non la 483 BENVENTI A CAMICO Fondovalle, perché doveva dare un passaggio ad un altro collega. Arrivato in contrada San Michele, quando iniziava ad albeggiare, incontrava un contadino su un bel cavallo bianco, con tanto di coppola e doppietta che teneva con le mani davanti. Insomma pronto a sparare, forse per qualche coniglio che avrà visto nelle mattinate precedenti? Non appena fu superato con l‟auto, il Natale gli intimò di accostare e fermarsi. Il contadino aveva due baffoni da brigante e un atteggiamento austero con quel vestito di fustagno verde. Natale scese e si avviò verso quello. Quello, sicuramente si sarà immaginato vedendo il forestiere che gli avrebbe chiesto qualche informazione. Niente di tutto questo. Natale non appena giunto gli disse: -Scusassi … Prese con tutte due le mani la scupetta trattenendogliela, saltò come un grillo e gli sputò in piena faccia. Il contadino fu colto dalla sorpresa di quel gesto inaspettato. Immediatamente Natale corse a più non posso e s‟infilò nella 500: -Accendi, corri! Corri! Guardarono il contadino, che riavutosi, cercò in fretta e furia di impugnare l‟arma. -Sangu di Giuda! Loro erano ancora un facile bersaglio, ma la fortuna li aiutò parecchio. Al povero contadino, per la stizza e la fretta di sparare, gli cadde la scuppetta a terra, e cosi riuscirono ad allontanarsi. Perché Natale si sia comportato in quella maniera è ancora un mistero. Si può fare solo una ipotesi, che quella povera vittima, ignara, gli abbia ricordato in qualche modo il padre naturale? Quella sera si doveva sottoporre all‟ipnosi regressiva di nuovo Carmelo. Il quale, a suo dire, era curioso di sapere sulle sue vite precedenti. In realtà aveva in mente uno spettacolino tutto da ridere. Invece Gerlando, ha insistito proponendo Natale all‟esperimento. -Carmelo, non ti preoccupare ch‟è avvisato. 484 BENVENTI A CAMICO Lo rassicurò Gerlando sottovoce. Ma la luce negli occhi dello „Ntorcia non presagiva niente di buono. Natale ubbidiente si era seduto, sempre ubbidiente, si addormentò. -Come ti chiami? -Natale Mannino! -Dove sei? -E‟ buio! -Vai ancora indietro! Quando Nino „Ntorcia dalla giacca sfilò uno spillo con la testina bianca. Sorpresi da quella variante tutti quanti hanno visto quel metallo scintillare nell‟aria. -Tu non sentirai nessun dolore! Gli prese la mano sinistra che penzolava e gli infilzò, non una, ma più volte quell‟ago. Natale mosso da un automatismo fulmineo gli mollò una gargiata con la destra che spostò il mago almeno di mezzo metro. Gli esperimenti finirono così. Nino non si presentò più in biblioteca. Quel cornuto di Gerlando, invece, lo aveva rintracciato e se lo era lavorato, diciamo, aveva stretto amicizia. Se lo godeva tutto solo tirandogli fuori e a ruota libera teorie magiche ed esperienze vissute nelle sue reincarnazioni. Carmelo era andato a casa di Nino Pace, lo trovò che smanettava nel suo nuovo ricetrasmettitore di radioamatore, parlando in inglese con gli altri suoi colleghi dell‟etere, vi era pure Calò per un aiutino nello studio di questa lingua visto che l‟amico se la cavava così bene. Ormai al quarto trimestre le interrogazioni erano sentenze e Calò carente era preoccupato parecchio. Solo che Nino era molto distratto e faceva un colpo a la vutti e uno a lu timpagnu. Carmelo si annoiò, non era aria, così salutò e andò via. Stava andando in Piazza Vittorio Emanuele quando incontrò Giovanni Ammucciarè, che lo invitò per un giro in auto. Giovanni, attivista del PCI, da tempo faceva la corte a Carmelo per tirarselo 485 BENVENTI A CAMICO nel partito. Carmelo, frequentava l‟ambiente ma da indipendente. Insomma c‟era questa attenzione particolare per uno come lui che avrebbe sicuramente trascinato altri giovani tra le file del partito, se si fosse convinto. Girarono con la seicento per lungo e per largo Camico, quando erano nei pressi del distributore, vide che sotto il grande eucalipto vi era Ninu „Ntorcia con Gerlando. Come preso dalla gelosia gli scattò in un baleno il desiderio di vendetta, perché riteneva ingiusto questa sottrazione del mago al suo gruppo. Così dopo alcune decine di metri chiese a Giovanni di fermarsi. -Mi sono ricordato che ho un impegno, ci vediamo. Così Giovanni andò verso il suo destino, mentre Carmelo si presentò a quei due. Strette di mano e sorrisi convenevoli. -Nino, da tempo che non ci vediamo, dove sei stato? -Sempre a Camico. -Volevo venirti a cercare a casa, ma per non disturbare non mi sono permesso. Hai continuato con i tuoi studi? -Si, mi sono visto con Gerlando e ne abbiamo parlato. -Carmè, è veramente un mago! E la sua conoscenza non ha fine! -Sapienza!- precisò Nino. -Sapienza!- concordò Gerlando. -Da quelle esperienze non sono riuscito a dimenticare, l‟ipnosi regressiva. E mi è rimasto il desiderio di conoscere cosa sono stato prima di questa vita. Capisco che non ti va magari farlo, ma io sarei disposto anche ora a sottopormi ad una seduta. -Proprio qui vicino c‟è il magazzino della farmacia, ho le chiavi e possiamo andarci, se Nino vuole. Gerlando non gli pareva vero, perché sapeva che il mago portava con se sempre quello spillo. Carmelo guardava nel lembo della giacca quella testina bianca e sapeva che per lui sarebbero stati dolori. Nino chinò un po‟ la testa, poi sorrise più apertamente e si grattò nel suo modo orangotesco. -Non ho nulla in contrario, visto che siamo solo noi tre e la cosa rimane tra noi. 486 BENVENTI A CAMICO Fu come se avesse chiamato telepaticamente a Franco Cannicedda che arrivò con la sua cinquecento e accostò sotto l‟albero. -Che si fa? Entrarono nel magazzino, vi erano scatoli di medicinali ammucchiati, mobili vecchi e una scrivania con tanta confusione di cartelle e vecchi libri, si notava un microscopio, alto, nero e impolverato. Mentre Nino fu attratto da un alambicco in vetro. -Ecco uno strumento alchemico!- Lo toccò con leggerezza e poi soggiunse: -Il laboratorio alchemico siamo noi, è il nostro corpo! Carmelo pensava che tutti quei medicinali, sapevano di truffa, anche perché i fustelli erano tolti. “Chissà quante ricette di comodo, così il farmacista si stava fabbricando una palazzina a Minoa!” Gerlando, chiuse la porta, i quattro percepivano una strana sensazione, come d‟intrigo. Per farla breve iniziò l‟esperimento. -Rilassati … tranquillo … Ora ti addormenterai e quando ti toccherò l‟orecchio sinistro ti sveglierai e ti sentirai bene e rilassato, ricordando ogni cosa. Incominciò con i soliti magagigi, quando Carmelo si accasciò su se stesso e le sue mani caddero a penzolone. Gerlando fece occhiate a Franco, come dire: ci siamo! Ora sono dolori! Carmelo cercava di rilassarsi più possibile ma si aspettava da un momento all‟altro la punciuta. -Tu non sentirai nessun dolore, nessun dolore! Carmelo si sentì leggermente puntò. Rimase impassibile. Ma il mago, voleva la certezza che quel cornuto non lo prendesse in giro, così punse ancora e sempre più in profondità. Ormai era una gara con se stesso Carmelo fingeva lo stato di impassibilità con eroico stoicismo. Franco e Gerlando si guardarono negli occhi come dire: “ma è vero?” -Dove sei? Cosa vedi? Carmelo incominciò a muovere gli occhi sotto le palpebre. -Vedo, una bandiera inglese. Sento qualcuno che parla in inglese! 487 BENVENTI A CAMICO -Dove sei? -Non lo so! -La bandiera è stampata in un libro. -Conosci qualcuno? -Si! Calò è quello che legge il libro. -Chi parla in inglese? -La radio, no, Nino. -Nino chi? -Nino Pace. -Dove si trovano? -Sono a casa di Nino! Il mago a questo punto svegliò Carmelo. -Che è successo? -Andiamo! Franco, prendiamo la macchina, andiamo! Verifichiamo se Carmelo ha avuto questa giusta visione. La cinquecento corse per le vie e viuzze e strombettando a più non posso, tanto da allarmare la gente. Arrivati davanti Nino Pace, Franco fa una spettacolare testacoda. Scendono tutte e quattro lasciando gli sportelli aperti. La signora Pace vide entrare quei quattro in fretta e furia, rimase esterrefatta. Salirono di corsa entrarono nella stanza e trovarono Calò sopra il libro di inglese e Nino Pace che smanettava e parlava in inglese con la radio. Allora il mago guardò la copertina e vide che vi era una bandiera inglese disegnata. A questo punto esultò, ridendo di gioia, abbracciò Carmelo, lo baciò. -E‟ riuscito! E‟ riuscito! Hai visto tutto con gli occhi dell‟anima! Gerlando e Franco, si interrogarono sull‟accaduto a quando sembrava tutto era successo davanti a loro e non vi era inganno alcuno. Carmelo fece cenno al Pace e a Calò con la testa di starsi in un complice silenzio. Quando Gerlando lo prese per il braccio e glielo strinse dicendogli: -Com‟è il fatto? Carmelo allargò le braccia con una espressione istupidita: -„Maà? 488 BENVENTI A CAMICO L‟UFO C‟è da chiedersi il perchè di tutto questo interessamento all‟esoterismo della gente di Camico? La risposta la troviamo qualche anno addietro, quando nel quartiere della benzina, all‟albeggiare di una giornata primaverile, tra cantieri di case in costruzioni e pezzi di campagna, furono avvistati quattro dischi volanti scintillanti. Quel gruppo di case che sorgeva attorno al grande eucalipto veniva chiamato così, perché, appunto, prima di ogni costruzione vi era la sola stazione di carburanti tra strada e campagna. Il primo ad avvistare gli ufo fu un bambino di nove anni, il quale, causa un malessere, se ne stava davanti alla finestra a vedere le prime venature di colori e di luce di quel mattino. I bambini di quella età sicuramente fanno un cocktail di fantasia e realtà tale da ubriacarsi da soli. Comunque, quella mattina Ernestino, visti quei strani dischi, svegliò tutti. Il padre, Peppe Pinna, alzatosi andò a vedere alla finestra, ed effettivamente quattro luci, quanto delle lune piene, andavano verso nordovest. Erenestino raccontò che erano come dei piatti lucenti, come plafoniere di cucina, che giravano su se stessi, tre rimasero in aria ed uno atterrò proprio nell‟area antistante al cantiere davanti la loro abitazione. A questo punto Peppe Pinna prese il suo camioncino e corse insieme al figlio per vedere se vi erano tracce, dovevano passare, davanti la stazione carburanti, per raggiungere il posto, con l‟occasione, si fermò per fare rifornimento. -Mastru Pe‟ che c‟è? Ti vedo agitato. Gli chiese u zzu Petru mentre lo riforniva. Peppe raccontò tutto, così si avvicinarono: u zzu Totò e all‟appuntato Pantaleo per caso si trovava lì. Il quale con prontezza disse sarcasticamente: -Sa che cosa ha visto il bambino? Fantasie! Ma quando Ernestino gli fece cenno con il dito alle quattro stelle ancora visibili in lontananza nel cielo, sopra la collina, la 489 BENVENTI A CAMICO cosa divenne più curiosa. Così salirono tutti a bordo del camioncino e si partirono per vedere se vi fossero delle tracce. Non trovarono niente di evidente o particolare. Sicuramente quelle macchie d‟olio bruciato, non potevano essere delle tracce degli ufo. -Non credo proprio che si spostano da un pianeta all‟altro con un trabiccolo a nafta. Rise l‟appuntato, che rimaneva scettico. Ma cosa da pazzi, quelle quattro luci erano ancora visibili, come fermi nello stesso posto. -Forse sono andati via perché questa impastatrice gli è sembrata un‟arma, un CANNONE!- Rideva sempre l‟appuntato. Da quel giorno nella falegnameria e bottega di materiale edile del Pinna alcuni si riunivano a fine giornata lavorativa per parlare dell‟argomento. Quel giorno i quattro ufo, furono visti sia a Sciacca che a Siculiana, raccontò Giugiù “u lordu” che prendeva ogni giorno l‟autobus e andava da paese in paese per esercitare la sua professione d‟arrotino, dove aveva ascoltato quella discussione dalle persone di diversi paesi in viaggio. Allora lui, che era un tipo veramente spiritoso, disse che erano atterrati a Camico e chiesero quanti abitanti fossero, il sindaco rispose che “tra porci e gaddini tutti non arrivavano a cinquemila abitanti”. Giugiù così narrava questa battuta guadagnandosi al risata dei clienti. Il medico Balla, un giorno, portò un vecchio libro con la copertina tutta lacera lo aprì, si mise sotto il neon, cambiò gli occhiali, e lì lesse a tutti mostrando la pagina: 45“ … a „dieci settembre del 1652 circa le ore venti nella Terra di Palma in Sicilia apparve nell‟aria un gran fuoco in forma di trave; e fu così immenso, che molti mentre piegati verso la terra erano applicati alla vendemmia, accortisi d‟un‟insolito splendore, alzaron gli 45 LA SICILIA ricercata nelle cose più memorabili di Antonino Mongitore – Brancato Editore -2000 pagina 145 490 BENVENTI A CAMICO occhi al cielo, e videro il trave sfavillante.” Il dottore con la meraviglia di tutti continuò a raccontare che la trave fu vista solcare le campagne di Ragusa e al suo passare udirono un mugito di tuono cioè lo stesso rumore di quando un veicolo supera la barriera del suono. Concluse che questi oggetti volanti ci sono sempre stati e che sono un grande enigma. Tutto prese un'altra piega quando Rino portò da Palermo una rivista che parlava apertamente di questi dischi volanti e di marziani, con tanto di foto, era IL GIORNALE DEI MISTERI. Peppe Pinna divenne subito un abbonato e chiese pure i numeri arretrati. Quel giornale, come appunto prometteva nel suo nome, argomentava su tutti i misteri: esoterismo, spiritismo, parapsicologia, demonologia e chi più ne ha più ne metta. La bottega di Peppe Pinna divenne così un ricettacolo di confidenze misteriose. La più divertente tra questi fu quella di Lagruenzu Guadà, contadino, uomo adulto, biondiccio, di carnagione chiara e rossigna, con due guance sempre arrossate. Una di quelle sere, aveva finito di cenare e si presentò nella falegnameria, così raccontò, anzi confidò al Pinna, quello che gli era successo in campagna qualche giorno prima. Volle entrare nell‟ufficio, in realtà era uno sgabuzzino realizzato con dei fogli di faisite in un sottoscala. Il signor Guadà, non si volle sedere, si alzò la coppola, allargò le gambe e si appoggiò nella spalliera della sedia con tutte e due le mani, lasciando penzolare il pancione pieno di chissà che, ma soprattutto ben annaffiato di quel vino che lui stesso s‟inchiudiva. Di cosa aveva bevuto Guadà, mastro Peppe ne era sicuro, perché gli arrivavano certe alitate da ubriacarsi seduta stante. -Avevo finito di togliere i tralci selvatici alle viti, si era fatta l‟ora di prendere un boccone, così ho preso i vertuli, tirai fuori la cubanagera, mangiai un quartino di pane, una froscia di carciofi, quattro olive e tecchia di cascavaddu ragusano. Mentre mi stavo 491 BENVENTI A CAMICO per un attimo rilassando, appoggiandomi con le spalle al tronco di un mandorlo, sorseggiando un bicchiere di vino, sentii come un sibilo leggero diventare sempre più forte, ho visto una specie di palla quanto una damigiana di venti litri, scendere dal cielo che si posò proprio davanti alle mie gambe. Aveva tante luci colorate, rosse, verdi, blu ed era tutta d‟oro rosso. Volevo muovermi ma non riuscivo, ero completamente paralizzato. Ad un certo punto si aprì uno sportellino e da una scaletta scesero cinque o sei omini alti quanto dei gramusci, vestiti con delle tonache argentate che brillavano e con dei copricapo protettivi di vetro, come delle palline. Uno di questi mi si avvicinò e mi parlò dentro la testa. Aveva l‟aspetto di un gattareddu, con tanto di baffi e occhietti di gatto. “Non avere paura, MERDAIOLO!” Io mi sentii offeso per quell‟appellativo, e siccome non occorreva che parlassi, perché mi leggeva nella mente, mi rispose: “Noi marziani vi chiamiamo così, perché lo scopo della vostra vita sembra solo quello di produrre merda. Fate tutto e per tutto per produrre solo merda, fin quando non lo diventiate completamente anche voi con il vostro decesso.” “Lei mi deve scusare la domanda, ma, perché voi non cacate?” “Tutto quello che ingeriamo, viene utilizzato completamente dal nostro corpo, senza bisogno di espellere residui. Con quello che mangia uno di voi in un pasto, uno di noi si può nutrire per tutta la vita e ce ne resta pure!” “Allora sul vostro pianeta non vi sono cessi, fognature e nemmeno carta igienica?” “Tutto tempo perso, stare seduti, nel fastidio della puzza. Voi invece sembra che ci godete pure!” “Compà! Non credo che avete fatto tutto questo popò di strada per parlare di merda?” “Compare sta minchia! Mi manca pure essere compare di un MERDAIOLO!” 492 BENVENTI A CAMICO Disse così il marziano gattareddu, risentito, che avrà avuto pure le sue, mentre gli altri gattareddi se la ridevano sotto i baffetti. A quanto pare se la prese ad offesa e non solo, capiva pure il siciliano. Poi calmatosi mi spiegò: “Ogni tanto presi dalla curiosità, quando troviamo uno come te l‟osserviamo da vicino. Catturiamo i pensieri e li studiamo. Ora ti dico che sarete visitati da altri più MERDAIOLI di voi che stanno nei fondi marini del vostro pianeta, stanno completando la mutazione genetica, e per voi sarà la fine, vi mangeranno tutti.” Lagruenzu sentendo questa notizia lo stomaco si ci mise sotto sopra: “Ma chi mi crede? Anche se vado a raccontare questa storia mi prendono per ubriaco!” “Anche il vostro Jahvé ha preferito Noè, un ubriacone, per annunciare il diluvio universale!” Ad un certo punto incominciò a suonare un allarme e lampeggiarono delle luci rosse. I gattareddi marziani si affrettarono a rientrare nella palla. “Che è successo?” “Come? Ce lo chiedi pure? Hai sganciato una bomba che ci ucciderà tutti se non ci sbrighiamo e ce lo chiedi? MERDAIOLO!! Di un MERDAIOLO!” Si chiuse lo sportellino e la damigiana, così in un batter d‟occhio, volò via zigzagando nel cielo fin quando non si vide più. Mi sono detto: -Prendono a me per ubriaco! Basta vedere come guidano per capire che i veri ubriachi sono loro!!Poi, finalmente, riuscii a muovermi. E allora ho deciso di venirti a raccontare tutto. Peppi Pinna si tolse il pirulì dalla testa e con la mano si tirò i capelli all‟indietro, lo guardò negli occhi seriamente e rimase muto. Lagruenzo s‟inquietò per quel silenzio. -Che c‟è mastro Pè? -Hai parlato con qualcuno di questo fatto? 493 BENVENTI A CAMICO -Ieri sera a mia moglie a letto. -E che ti disse tua moglie? -Lagruè, dormi! Dormi! -Io ti dico, vacci piano con il vino! -Loro già sapevano di questo risultato! -Chi? Li gattareddi marziani? -Si! -Non ne parliamo più con nessuno. Io sarò una tomba! -Come? Io sono venuto a raccontarti tutto così mandi una lettera al giornale che ti arriva e avvisiamo a tutti e ci teniamo in guardia! -A tutti chi? -A tutta la popolazione … - … di MERDAIOLI! Completò Peppe Pinna, il quale capì di dare un taglio a quelle riunioni la sera a fine lavoro nella sua falegnameria. Lagruenzo Guadà aveva esagerato, a suo parere, era ora di smettere. Lui continuò a leggere quella rivista e ad informarsi del fenomeno ufo, ma non permise più a nessuno di fermarsi a parlarne nella sua bottega. Quando al cinema facevano qualche film di fantascienza tutto il gruppo non mancava tra gli spettatori. Questo genere di film venivano appellati da i Camichesi con il termine “pallunati” e solo pochissimi andavano a vedere, dopo l‟avvistamento invece almeno due file si riempivano. Intanto il virus si era sparso per il paese. E chi per una strada chi per un‟altra si interessavano nelle varie materie esoteriche e misteriche. Questa è la genesi dei fenomeni come Ninu „Ntorcia e Ciciu Trunchisina, ce ne furono altri ancora ma d‟interesse minore. 494 BENVENTI A CAMICO IL PRESIDENTE Prima d‟iniziare questo racconto è giusto precisare che questi fatti di Camico, possono sembrare strani e inverosimili. Vi potrà sembrare impossibile che così tante persone, forse ciniche o semplicemente crudeli, abbiano potuto recitare la loro parte, a soggetto e senza alcun canovaccio, in un gioco assurdo, alle spese di uno di loro, solo per il gusto di prenderlo in giro. Ma non lo è, né per Camico né per qualsiasi altro paese dell‟arcipelago Sicilia. Non è sufficiente pensare che questa è la terra di Pirandello e di Martoglio, ma anche che dei nove46 grandi teatri della antica Grecia e Magna Grecia ben sei sono stati trovati in Sicilia. Comunque è sufficiente conoscere bene chiunque dei Siciliani per accorgersi che, involontariamente, nella conversazione esce fuori il teatrante, con la sua maschera caricaturale che difficilmente toglie. In questo episodio, quinti vedremo come è stata inscenata questa grande commedia che stava trasformandosi in tragedia. Dietro la benzina, proprio nell‟area dove in seguito è sorta la palazzina, vi era un bel pezzo di terra bonificato con alberi di frutta e spesso veniva coltivato con ortaggi e altro d‟ogni genere. Ai proprietari gli venne in mente in quella primavera di fare piazza pulita e lasciare al centro solo un albero di fico, poi lo resero pianeggiante con del terriccio rosso. Costruirono delle tettoie con delle canne, una pista rotonda, accanto a quell‟albero rimasto, dove piazzarono un jukebox. Proprio alle spalle della benzina, innalzarono una costruzione con delle tistetti di tufo dove costruirono un forno a legna di quelli a cupola, un girarrosto per polli allo spiedo, una friggitrice per le patatine, e una cucina con l‟attrezzatura essenziale. Tre cognati con consorti e figli fecero quell‟attività, in un niente, regolarmente abusiva in tutto e per tutto. Ma quella estate del 1971 è stata per tutti indimenticabile, sia per la gente di Camico sia per gli emigranti tornati per le ferie 46 Teatro di Dionisio nell‟Acropoli d‟Atene; Odéon a sud-ovest della cittadella sacra; Epidauro nella penisola dell‟Agolide. In Sicilia: Siracusa; Segesta; Taormina; Tindari; Palazzo Acreide e Eraclea Minoa. 495 BENVENTI A CAMICO estive. Tutti andavano ad allietarsi le serate estive mangiando le pizze e i polli con le patatine e ballando nella frescura di quel locale all‟aperto che chiamarono “La Ficu”. Gli “gnomi” del grande eucalipto, non solo hanno assistito a tutti i lavori, ma nei pomeriggi emigrarono direttamente a “La Ficu”. I gestori, ormai votati a fare soldi comunque, acquistarono delle bocce e organizzarono un torneo. I giocatori scommettevano nelle partite una consumazione, un pollo allo spiedo o una pizza, che portavano a casa come trofeo tangibile e mangiabile e, sembra giusto, pagavano pure il noleggio delle bocce. Quel gruppo, in pochi giorni, si fece più consistente sia di giocatori ma anche spettatori. Battute, tormentoni, superstizioni, maestria, errori, vociate e contenziosi che non finivano mai, insomma un autentico spasso per tutti. Filavano quei giorni sereni a “La Ficu” fin quando non si presentò il signor Pio. Come si dice nel mondo del cinema: l‟elemento variante della storia. Il signor Pio era un impiegato comunale, ufficio collocamento, aveva superato da qualche anno la quarantina, alto, stempiato, mascella molto pronunciata, che ruminava sempre qualcosa. Faceva di cognome Bove, si, Pio Bove! Ora va bene, è normale, fare di cognome Bove, quanti si chiamano Vacca, Vitello, Troia e così discorrendo. Ma il signor Bove, papà, dico io, non doveva riflettere, almeno un minuto, prima di chiamare il proprio figlio Pio? Significava segnargli un destino di sfottò come minimo negli anni più importanti della sua vita, quelli della scuola elementare. Quante volte, il tapino Pio, dopo avere rivelato il suo nome, si è sentito recitare i famosi versi del Carducci. Oppure al primo appello: “Bove Pio?!” “Presente!” “Pio Bove … T'amo, o pio bove; e mite un sentimento …” 496 BENVENTI A CAMICO Questo successe per tutta la durata delle elementari, della scuola d‟avviamento e anche quando fu militare a Roma. Poi nelle varie occasioni capitate nell‟ambiente lavoro e nella sua vita quotidiana. Ogni santo uomo si sarebbe rotto i coglioni, senza né togliere né mettere, invece, il nostro Pio di nome, in questo, fu pio nei fatti. Rispondeva con un sorrisetto di compiacimento, oppure continuando fino alla fine la poesia del grande Carducci: -Di vigore e di pace al cor m'infondi, O che solenne come un monumento Tu guardi i campi liberi e fecondi, (…) Tanto che gli altri pensavano di essere stati degli stupidi con quella battuta, pensavano: “chissà quanti altri e quante volte gliel‟avranno fatta”, così scambiavano quella del Bove come una reazione di compatimento, mentre si sbagliavano, era davvero di compiacimento! Quando fece il servizio di leva a Roma, tentò in ogni modo di raffermare. Il padre Arturo, che in un certo qual modo era infilato nella politica, cercò di raccomandarlo. Tutto fu inutile, perché Pio non aveva attitudini militari, era completamente negato, i superiori non gli diedero nemmeno il baffetto, il grado di caporale. Però è stato un periodo importante per Pio, perché incontrò la donna della sua vita. In libera uscita se ne stava a ciondolare nei giardini e nelle vie di Roma a guardare le ragazze. Vi sono tanti modi di guardare, lui lo faceva insistentemente, tanto che quelle, a volte provavano l‟imbarazzo della molestia. Mentre gli altri commilitoni riuscivano a trovare le fidanzate e raccontavano avventure e storie, lui sembrava invisibile a l‟altro sesso. Con molta invidia, vedeva i compagni che si preparavano, sbarbandosi, profumandosi, inondando i capelli di brillantina, canticchiando canzoni romantiche. Lui faceva lo stesso, così cantava la canzone di Achille Togliani: “47… Va serenata mia stasera ad ascoltare non 47 Serenata a nessuno –Sanremo 1951 497 BENVENTI A CAMICO c'è nessuno ...” si sentiva solo, ma pieno di speranza che, purtroppo, puntualmente veniva delusa, portando in branda solo qualche insulto o peggio ancora qualche sonoro ceffone. Una sera di questi, mentre se ne stava a Piazza del Popolo, seduto su gli scalini di una delle due chiese, avvertì qualcosa di strano, si guardò attorno, quando scorse, ad una decina di metri, una ragazza che lo stava mirando. Fu subito un meccanismo di consensi tra i due. Pio incominciò ad avvertire la scossa e non ci penso nemmeno una volta ad innamorarsi seduta stante. Quella volta si sentì un uomo vincente. Tornò in caserma pensando le parole una per una, la sua mano, il suo nome: MAFALDA. Sembrerà una sciocchezza, una stranezza, ma la vita di tutti i giorni è fatta di queste stranezze, la signorina Mafalda faceva di cognome PANE! Pio, allora, capì che quella era la donna della sua vita. La famiglia Pane abitava a Trastevere, accolse Pio benevolmente, insomma, non so come si dice in romanesco, ma in siciliano si dice che si lu traseru! Finito il militare si restò a Roma, con l‟aiuto del suocero, trovò un lavoro qualsiasi e mise casa e famiglia. Fu la mattina dopo le nozze, che Pio si accorse del vero aspetto della moglie. La signora Mafalda aveva più barba di lui, risaltava evidente quella differenza d‟età, perché lei era più anziana di otto anni. Ma quello che gli dava più fastidio a Pio era che con lui usava sempre l‟imperativo. Comunque gli anni passavano non si sa come, senza accorgersene. Dopo due figli, Arturino e Cecilia, la signora Mafalda perse la sua linea, così ahimè! divenne una pagnotta. In una estate dei primi anni sessanta, prese il treno e scese in Sicilia con la famiglia, per farla conoscere ai genitori. Arrivato a Camico, visto il panorama caratterizzato dall‟affacciata barocca della chiesa, il palazzone del barone Morello, quella linea difforme di case dell‟istituto delle suore, provò una forte palpitazione, non aveva provato nessuna nostalgia tutti quegli anni a Roma, gli venne ora tutta di un colpo. 498 BENVENTI A CAMICO Aveva lasciato il paese nella fame nera e nella tristezza del dopoguerra, si accorse ora, che la vita economica aveva avuto la sua ripresa. Quella gente, che ricordava dimessa, notava quella voglia di fare di tutti, di rialzarsi dal dissesto. Costatò amaramente che la vita a Camico era continuata anche senza di lui. Percepiva deluso la sensazione che tanti paesani non avevano fatto nemmeno caso che era partito e ancor più che era tornato, per questo gli s‟infuse un malinconico rammarico. Un giorno portò la famiglia al bar Trinacria, in piazza. Seduto mentre si sorseggiava l‟ottima granulosa, osservò attentamente che quei suoi coetanei, sistemati al municipio, sembravano i nuovi baroni del paese. Gli scattò la molla, venne posseduto dall‟idea che anche lui voleva l‟impiego! Così, tornato a casa, incominciò a premere sul padre per un posto al municipio anche per lui. Il padre preso dalla contentezza di avere conosciuto Arturino, la sua discendenza e la piccolina Cecilia, si sentiva molto disposto ad impegnarsi per quel figlio un po‟estroverso, così gli concesse una mezza speranza per l‟inverno prossimo. Pio aveva notato che Mafalda, da quando erano arrivati a Camico, era più docile con lui, quasi come quando erano fidanzati. Il suocero a Roma, aveva un piccolo allevamento di conigli e lui, vizioso, si divertiva a guardare quei animali accoppiarsi. Così fece esperienza che la coniglia per l‟accoppiamento veniva spostata dalla propria gabbia e messa in quella del maschio per essere più arrendevole. Viceversa, nel proprio territorio, al minimo tentativo di accostamento del coniglio maschio, la coniglia l‟aggrediva, recandogli, a volte, gravi danni fisici. Mise a raffronto questo ricordo al suo rapporto con Mafalda, e si convinse, ancor di più, dell‟importanza di trasferirsi a Camico. Arturo Bove, sottoufficiale in pensione della Guardia di Finanza, con meriti di guerra, aveva aperto, proprio nel piano terra della sua abitazione, la sezione di Camico del Partito Liberale, aiutando la gente per qualche pratica o semplicemente per leggere 499 BENVENTI A CAMICO e spiegare qualche documento, in questo modo si era fatto una clientela elettorale di poco più di cento voti. Lui era il segretario, l‟esecutivo, il direttivo, insomma era la sezione, tanto che le tessere, nemmeno le consegnava ai suoi iscritti. Cento voti nelle elezioni amministrative, facevano la differenza spostati in una coalizione o l‟altra. Quell‟autunno stesso, incominciarono i balli. Il signor Bove andò a casa del cavaliere Galante, provando un senso di fastidio, come se stesse tradendo se stesso, ma per amore del figlio, varcò quella porta, salì le scale fino all‟ultimo gradino dello studio e gli mise sul tavolo quei suoi cento voti. Il Galante sapeva quanto valevano quei voti, perché il Bove, sempre sbirro era, e non lì avrebbe fatto convergere mai in una sua lista. Il cavaliere Galante, era quello che a Camico muoveva i fili (tutti!), e in quella competizione aveva deciso di scendere in campo direttamente. Già circolavano voci in paese della sua candidatura a sindaco. Il signor Bove, uomo intelligente, bruciò tutte le tappe e fece quella alleanza elettorale, in stretto riserbo. Quella alleanza era l‟asso della manica del Galante e fu veramente così. Arturo Bove aveva tenuto a se i facsimili e raccomandato ai suoi cento voti, di serrare le file e di non impegnarsi con nessun‟altro, che avrebbe dato le direttive negli ultimi giorni. Proprio il giorno prima dell‟elezioni si girò tutti, fece il suo porta a porta, consegnò i facsimili e i normografi per gli analfabeti, già pronti con il nome del Galante. Pio, fu di nuovo a Camico, aiutò il padre per le elezioni e rimase fin quando il nuovo sindaco non s‟insediò. Pio non volle sentire raccomandazioni di prudenza del padre, lasciò il lavoro a Roma, prese baracca e burattini, e traslocò a Camico. Ogni santo dì andava e veniva dal municipio, ma ancora non vi era nessuno spiraglio. Intanto le risorse economiche erano già finite ed è stato costretto a caricarsi economicamente sulle 500 BENVENTI A CAMICO spalle del padre. Passò momenti tristissimi, chiunque avrebbe mollato, ma lui era caparbio. Ormai era diventato l‟obbiettivo da colpire nelle sedute consiliari dell‟opposizione. I consiglieri del PCI dichiaravano ufficialmente di impugnare ricorso per invalidare il concorso in caso di superamento del Bove. Il padre gli raccomandava di non parlare con nessuno e non rispondere alle provocazioni, ma era tutto inutile, il figlio parlava con questo con quello, insomma era cosa pubblica che doveva vincere il concorso per quel posto di archivista al municipio. Tanto che il cavaliere Galante, mandò a chiamare il signore Arturo e gli parlò chiaramente. -Per questo concorso non si può fare niente! Succederebbe uno scandalo, quei comunisti non aspettano altro. Lo facciamo partecipare per un altro posto, vediamo per la provincia. Quando Pio fu informato dal padre, sembrò sprofondare in una voragine abissale. Passò la notte insonne e la mattina seguente, come preso da una forza aliena, trafugò la pistola, che il padre teneva nel cassetto della scrivania nell‟ufficio della sezione, andò in municipio, aspettò il sindaco, con una faccia scura. Come il cavaliere arrivò andò per direttissimo nel suo gabinetto. Lui di seguito, dopo un po‟, entrò e senza preamboli, non salutò nemmeno e si è seduto. -Ho parlato con tuo padre! Ormà la situazione è pregiudicata! Quei comunisti non aspettano altro per fare succedere un casino! Pio, con gli occhi sgranati, quei quattro capelli spettinati, l‟abbigliamento scomposto, tirò fuori quella pistola d‟ordinanza del padre. Il Galante, che aveva dimestichezza con quegli arnesi, s‟arrivuddì, pensò che era arrivato il giorno della sua fine. Pio, con sorpresa del sindaco, prese la pistola, tolse la sicura e la rivolse alla propria tempia. Così gli disse, scandendo ad una ad una le parole: -Se lei non mi assicura, con la sua parola d’onore, che io avrò quel posto, m’ammazzo! 501 BENVENTI A CAMICO Il Galante lesse in quello sguardo la determinatezza del Pio, così cercò con garbo di convincerlo a ragionare. -Ci saranno altre occasione, fra qualche mese, alla provincia! -Voglio la sua parola d’onore che io avrò questo posto! oppure m‟ammazzo! Il segretario comunale, come ogni mattina, con un mazzo di cartelle in mano, aprì senza bussare e stava entrando, come vide quella scena, uscì immediatamente preso dallo spavento. In meno che non si dica dietro la porta del sindaco vi furono tutti i dipendenti del comune, fu un allarme generale. Udivano urlare Pio, non distinguendo bene cosa dicesse, così formarono due fazioni. Alcuni dicevano di udire “MAMMAZZO!”, altri, invece insistevano, che Pio dicesse: “T‟AMMAZZO!” Il segretario tirandosi la gamba dietro, perché zoppicava leggermente, andò ad avvertire, il suo vecchio amico Arturo. Il povero padre arrivò in apprensione, quasi esausto e con il cuore in tumulto, quando la porta dell‟ufficio era già aperta. Il cavaliere Galante si è visto costretto a dargli la sua parola d‟onore. La sera stessa, al Circolo Civile della Cultura e della Caccia Grand‟Italia, il Galante chiamò nell‟ufficio della presidenza l‟anziano provessuri Sasà. U professuri Sasà era socialista e vicino ai comunisti, da sempre, anche sotto il fascismo, una simpatia che teneva celata a tutti, tranne al Galante. -Asservirla cavaliere! -Ho la necessità prima che succede qualche minchiata di fare un negoziato con i compagni. -Ma io … -Vossia professù, è la persona giusta! Mi creda! -Se lo dice voscenza … -Sa cosa è successo sta mattina al municipio? -Si, me lo hanno raccontato. -Allora, chiedo al PCI di fare un accordo per quanto riguarda solo questo caso di Piuzzu. Loro facciano passare ed io sono 502 BENVENTI A CAMICO disponibile a concedere in cambio … Dando la mia parola d‟onore in garanzia. Il negoziato fu subito fatto con esito positivo. I compagni non avrebbero voluto a Pio sulla coscienza, pertanto avevano già deciso di non fare nessuna azione contro il concorso. Quella trattativa così pioveva come manna dal cielo. Chiesero di fare parte di alcune commissioni, come quell‟edilizia, di collocamento e altre ancora. Questo gesto del Galante risultò al paese come una grande apertura verso la giovane democrazia. Lui, anticomunista per eccellenza, che diede spazio nelle commissioni ai comunisti fu un mezzo compromesso storico, talaltro malvisto dall‟arciprete. Pio s‟insediò nel nuovo lavoro, trovò l‟archivio, se così si poteva chiamare, un mezzo interrato del municipio, pieno di scarafaggi, tanti registri, libri e libroni, carte, sparsi e dispersi ovunque e a muzzeddu. I primi giorni faceva salti inverosimili quando tra quelle scartoffie saltava qualche surciazzu, poi, piano piano riuscì a dominare le sue emozioni. Dopo quasi sei mesi, arrivò all‟orecchio del sindaco il lavoro del Bove, impensierito per quello che aveva avuto notizia, decise che occorreva accertarsi di persona. La sera, con suo genero, volle andare a vedere. Quando entrò, accese la luce e vide tutto quell‟ordine, avvertì l‟odore di pulito, gli scaffali con le date scritte e la descrizione del contenuto nelle carpette, il sangue al Cavaliere gli salì tutto alla testa. -Ma questo è un autentico minchione! -Ha fatto un gran lavoro. Cos‟è che non va? -Tu sai cosa succederà domani? Fra un anno? -No! -Appunto! Il futuro senza passato lo puoi legalizzare a tuo piacimento. Il professore Menta, genero del Galante, non è che ci abbia capito molto, ma se ne stette in silenzio. Dopo tanti anni, quando si appropriò un pezzo di suolo pubblico e gli venne comodo non 503 BENVENTI A CAMICO avere alcuna documentazione di quel terreno, ricordò le parole del suocero e pensò ad alta voce: -Ddu bonarma, quanta saggezza! Gli altri presenti nella giunta comunale non capirono e lui non spiegò. L‟indomani, il cavaliere, seduta stante, mandò a chiamare lo zelante Pio, nel suo gabinetto e lo informò che veniva trasferito all‟ufficio di collocamento. -Grazie per tutto quello che hai fatto! Questo trasferimento lo devi prendere come una promozione. Ora rilassati, stai tranquillo, tu devi solo protocollare le domande che ti arrivano, solo questo e basta! Non fare niente oltre a questo, è un ordine! Fu così che il Pio si appassionò della Settimana Enigmistica che aggiunse a quella di lettore di libri gialli. L‟archivio ritorno peggio di prima, furono sottratti parecchi documenti dando la colpa alla sua cattiva conduzione e con questa motivazione, il sindaco fu costretto a cambiargli l‟incarico. Pio, fu zelante anche in questo, incominciò a fare meno possibile, si creò un angolo tutto suo, in fondo all‟ufficio. La visibilità della gente era tramite una fessura di quindici per quaranta centimetri, in un vetro pieno di circolari appiccicati, tanto che, chi volesse guardare l‟impiegato avrebbe dovuto calarsi e guardare per quella stretta apertura. Ora Pio era diventato visibile alla gente, veniva salutato, qualcuno gli chiedeva qualche favore, come scrivere qualche domanda di disoccupazione, ricambiando con ortaggi e frutta. Incominciò a provare un senso di malinconia nata dall‟insoddisfazione per ciò che aveva e ciò che lui era. Gli era cresciuta una autostima della sua persona. Quando guardava la sua consorte ormai era come vedere la personificazione dell‟ingiustizia della sua esistenza. Lui meritava di più, ad esempio Mariuzza, bella come il sole. Se l‟avesse chiesta in sposa, avrebbe sicuramente detto di si. Ma lui era intrappolato con quella 504 BENVENTI A CAMICO barbuta bisbetica senza qualcosa che la figurasse ad una femmina come si deve. Nelle sue giornate oziose in ufficio, o nel suo studio a casa, gli ritornava alla mente Mariuzza, con quel sorriso compiacente in quelle labbra a bocciolo di rosa e quello sguardo profondo e impertinente. Poi ad un tratto si sentiva richiamato da Mafalda: -PIO! C‟è da cambiare la bombola dello scaldacqua del bagno! Sbrigati! Non sta‟a fa‟ er beccamorto pe casa! Gli si intrufolò in testa qualcosa, che in primo tempo rigettava inorridito, però poi prese il sopravvento. La cultura di quei libri gialli gli aveva suggerito un modo per cambiare la sua vita, stravolgere la sua storia: UXORICIDIO! Questa parola gli folgorò la mente, gli accese ogni angolo remoto dentro il suo cervello. Sentiva come una febbre, un brivido continuo, non gli faceva pensare ad altro. Allora studiò, prima per gioco, nei minimi particolari, come uccidere la moglie ed uscirne immune da condanne e sospetti. Lo scaldacqua a gas, bastava manomettere la valvola, poteva un sospetto fare scoprire la manomissione. Allora pensò che tempo fa avevano avuto questo guasto a Roma ed era stata cambiata, lui aveva conservato la valvola difettosa, non ricordava se nel trasloco era stata buttata via. Cercò nei cassettoni, con la speranza di non trovarla, ma la trovò! Fu come un consenso del suo dio, forse più imbecille di lui. Fu così che la moglie stava morendo in bagno asfissiata dal gas e con fievole voce chiamava: -Pio! Pio. Pio, Pio … I bambini giocavano per strada, Pio li aveva visti uscire e se ne stava seduto alla scrivania con la lampada che gli proiettava ombre spettrali sul suo volto con tutti i muscoli in tensione. Tutto, fortunatamente non andò come aveva stabilito. La piccola Cecilia aveva lasciato la porta accostata, così pressata da un bisogno fisiologico entrò e si diresse a bagno, quando vide la mamma come addormentata che non rispondeva incominciò a urlare 505 BENVENTI A CAMICO spaventata. Lui pensò che ormai era fatta! Cecilia aveva scoperto la sua povera mamma morta. Le vicine sentite le urla e trovata la porta aperta s‟intrufolarono, fu proprio Mariuzza che schiaffeggiò Matilde e la fece rinvenire, mentre le altre aprirono la finestra. Allora lui si decise ad alzarsi e andare verso la scena del delitto. L‟amara sorpresa l‟ha avuta nel vedere quell‟orribile quadro della bella Mariuzza, con quel vestito rosso, scomposto tanto da lasciarle intravedere parte di quel turgido bianco seno, che sosteneva quel brutto, floscio e difforme corpo nudo della moglie, che stava aprendo gli occhi a pampinedda e scorgendolo con un filo di voce gli disse: -P I O. Si sentì in colpa tanto che passò i suoi pomeriggi a giocare a carte, vedere la tv con Mafalda. Giocavano con soldi, Mafalda prendeva tutto lo stipendio e gli dava la paghetta, che spesso gliela vinceva a carte. Poi acquistarono una 600 e così di tanto in tanto andavano a farsi una passeggiata nella Valle dei Templi, poi l‟estate a mare e anche in qualche fiera nei paesi limitrofi. Infine Pio si rassegnò alla sua storia. Lo zuccherino di quella rassegnazione fu il gioco del Lotto. Poteva con lo stipendio fare qualche investimento, farsi una casa. Quel gioco in realtà era divenuto pensante, complici marito e moglie. Così rimasero sempre in casa d‟affitto. Guarda caso era ubicata sopra l‟agenzia d‟assicurazioni Toro e accanto alla casa di proprietà della signora Vitello. Quando lo spiegò dove aveva traslocato al suo collega di ufficio, quello impazzì dalle risate e rispiegò alla collega che non aveva capito: -Bove ha traslocato. -Dove? -Accanto la signorina Vitello. -Dove? -Sopra la Toro Assicurazioni! -Si, ho capito, in Via Vaccaro! 506 BENVENTI A CAMICO La moglie era sempre più cortese nei suoi confronti, lei aveva un sospetto come un barlume di luce che ogni tanto intravedeva nei ricordi e ricostruiva quei momenti della disgrazia dello scaldacqua, così rifletteva e gli incuteva timore quella enigmatica arrendevolezza del marito. Gli diceva di tanto in tanto d‟uscire, andare al bar, farsi una passeggiata. Pio non riusciva a farsi amici, ad inserirsi, così tornava nelle mura domestiche, tra i cruciverba, i gialli, la tv e il resto. Un giorno ascoltò i colleghi d‟ufficio che parlavano tra loro di quella pizzeria dietro la benzina, e del divertimento del gioco delle bocce nei pomeriggi, così decise di andare. Quando si presentò, incominciò ad intrufolarsi nelle discussioni in un primo tempo timidamente, dopo qualche giorno, anche lui aveva le bocce in mano. Dopo qualche altro giorno, sapeva regole e terminologia da vero esperto, aveva studiato tutto e per tutto, come era sua consuetudine. -Tu sei un puntista, un accostatore! Diceva a chi faceva rotolare la boccia verso il pallino. -Tu sei un bocciatore! A chi tirava a parabola in mezzo alle altre bocce. -Minchia abbiamo il Presidente delle bocce!- Disse Saro. E fu così che iniziò la farsa! Ogni volta il suo tiro di boccia era seguito da un applauso, che si ripeteva ad ogni sua frase. Non era per niente un bravo giocatore, bisognava porre rimedio. Fu così che Calò, o altri, con un piccolo calcetto alla boccia gliel‟accostavano al pallino, di conseguenza congratulazioni, strette di mano, evviva! Esaltazioni fuori misura. Lui si accorgeva a volte di quel calcetto o di qualche avversario che tirava la sua boccia di proposito a li ciauli, ma era così bello vincere, essere lì, a centro dell‟attenzione, sentirsi il più bravo (e com‟edeghiè), IL PRESIDENTE! Che riteneva di non considerare meriti d‟attenzione e forse era solo simpatia che si era conquistata. 507 BENVENTI A CAMICO La gente accorreva in massa, non vi era posto dentro “La Ficu”. Chi in paese chiedeva che cosa fosse accaduto, bastava rispondere che c‟era Il Presidente! -Presidente di che? -IL PRESIDENTE DELLE BOCCE! Bisognava ufficializzare questa carica. Allora, quelli del-“La Ficu”, s‟inventarono l‟Associazione Sportiva Bocciofila. Bisognava creare la competizione, occorreva un rivale alla candidatura di presidente. Si propose quel “giuda” del suo collega d‟ufficio, Ettore Sura. Si fecero le regole per il confronto dei due. I candidati si dovevano confrontare in due sfide: una di abilità sportiva e l‟altra culturale, cioè una partita e proferire un discorso elettorale. La sera della competizione, tutta Camico era alla benzina. Pio si era preparato un discorso pieno di retorica e riferimenti storici. Iniziò la partita, Ettore e complici fecero in modo che arrivassero a fine punteggio in parità. Pio aveva l‟ultimo tiro per risolvere la partita, tirò ma la boccia se ne andò per i cazzi suoi, un piede anonimo in mezzo alla folla calciò e un altro piede la drizzò, come per miracolo la boccia andò a cozzare leggermente il pallino. Il pubblico liberò un urlo da stadio. Pio ebbe un emozione così forte da sentire l‟ebbrezza della vittoria in ogni poro della sua pelle. Tutti, nessuno escluso, vollero stringere la mano al Presidente. Chi lo abbracciava, chi gli mollava una pacca alla spalla, chi un ceffone simpatico. Grande gioia per tutti. Si passò alla prova di abilità culturale. Ettore fece un discorso striminzito: -Votate per me e non vi deluderò. Farò le tessere a pagamento e aprirò un circolo. Nessuno applaudì chi si girava, chi parlava. Si ritirò mortificato in un angolo. 508 BENVENTI A CAMICO Pio, prese il microfono in mano, qualcuno aumentò a manetta l‟amplificatore e le trombe, con gli adesivi del PSI fischiarono. Ci fu un silenzio rispettoso e attento. -Cari bocciofili di Camico, Giù un applauso da sfasciarsi le mani. -Il nobile gioco delle bocce è antichissimo, sono state trovate bocce in Turchia di settemila anni fa. Giocare alle bocce è simbolo di civiltà. Ancora applausi, fin quando lui concluse. -Io vi prometto che porterò questo sport alle Olimpiadi! A questo punto la gente se lo caricò in spalla e gli fece girare il locale, poi uscirono e girarono attorno al grande eucalipto e infine lo riportarono da dove l‟avevano preso. Il Sura disse che non occorrevano le votazioni, perché anche lui lo avrebbe votato. Vi fu pure la poesia che Ernestino, già piccolo e precoce bastardello, compose in suo onore. -AL PRESIDENTE Oh Presidente, Eroe così clemente, la tua audacia, la tua sveltezza, colpisce la nostra giovinezza. Ogni tua parola ci commuove, grande Pio Bove. Che sport quello delle bocce! Dall‟ozio tutti distorce. Qui nessuno si mette a scherzare … E seriamente solo te vogliamo ammirare. Questa nuova società Tutta Camico porterà Nella sportività. Tutta questa gente Prima era miscredente viste le tue tirate tremende è rimasta ad ammirarti 509 BENVENTI A CAMICO tutta quanta a glorificarti. Per qualche giorno ci furono quei momenti di giubileo per il Presidente. Per il gruppo di “La Ficu”, non si era arrivati ancora all‟apice bisognava inventare qualcos‟altro, cosa? Fu opportuno e tempestivo l‟arrivo di Vittorio Costa, il papà di Rino, da Palermo. Un tipo, abbastanza corpulento, con due baffetti a fior di labbro, gli occhi a sportello e la flessione della parlata palermitana. Bene, fu subito trovato il ruolo del nuovo personaggio: il rivale etico sportivo. Lui era il Presidente della box! La sera, Vittorio Costa, in presenza del Presidente Pio, incominciò la sua politica denigratoria: -E bocce! E che gioco è? Di pensionati! Qui i giovani hanno bisogno di uno sport autentico come il pugilato! In meno di qualche giorno attorno a Pio non vi erano più giovani. -Dove sono finiti i giovani? -Il palermitano, Vittorio, ha aperto un circolo di pugilato e insegna a tutti loro quella disciplina sportiva. Forse anch‟io andrò!- Disse rammaricato Saro. Quando più tardi arrivò Vittorio contornato da tanti giovani, Pio fu preso da un astio inverosimile, così incominciò con le invettive contro quello sport “violento”. Seduta stante, i fedelissimi, lo fecero salire su una sedia e lo fecero sfogare. Lui parlò del pugilato come lo sport del sangue, che incitava alla violenza, come portatore della cattiva educazione per la gioventù di Camico. Vittorio rispose che il pugilato era alle Olimpiadi come disciplina e quella delle bocce non era considerata all‟altezza. E che poi: -se c‟è una sciarra è meglio darle o prenderle? Se tuo figlio ti viene mazziulato non credo che ce l‟hai a piacere? 510 BENVENTI A CAMICO Pio era in serie difficoltà, perché Vittorio era un osso duro. L‟indomani sera come arrivò di nuovo il suo rivale contornato da tutti quei giovani, riprese la discussione, dello sport come atto d‟amore e non di odio. -Le Olimpiadi per gli antichi Greci era un periodo non belligerante! un momento di pace! pertanto chi fa lo sport deve pensare alla pace e non a praticare la violenza! I giovani applaudirono quelle parole, persino Rino. Il giorno seguente Ettore Sura gli portò la notizia in ufficio che Vittorio voleva chiedere perdono pubblicamente pentito di avere deviato i giovani dalla sua opera di educazione alla civiltà e che aveva già chiuso il circolo della box. Si capisce che il circolo era stato aperto e chiuso solo a chiacchiere. Ecco l‟evento: IL PERDONO! Ora tutti i Camichesi si prepararono per la cerimonia. Noleggiarono pure un taxi a Ribera decappottato per la parata che doveva farsi di seguito la cerimonia. Il padre venne a sapere dei grandi preparativi, si convinse della necessità di andare a casa del figlio per convincerlo a desistere, per aprirgli gli occhi. Era da tanto tempo che non si parlavano, perché avevano litigato per il volta faccia di Pio, cambiando partito politico, andando con i socialisti, avendogli intaccato sensibilmente quei cento voti, in fine per nulla e per niente. Dopo l‟elezioni amministrative comunali tenute nel 1970 Pio stancatosi di stare solo, a farsi il solitario con le carte dentro la sezione che aveva aperto, ritornò a passarsi il tempo con sua moglie. -Pio, mi devi ascoltare con attenzione, ti stanno prendendo in giro! -Tu sei geloso del mio successo! -Ma quale successo? Quello di presidente delle BOCCE? Diglielo tu Mafalda, di non andare questa sera e mai più, da quei farabutti! -Non parlare così dei miei amici! 511 BENVENTI A CAMICO -Ma quale amici?! hanno organizzato tutto perfino l‟auto decappottata per fare la sfilata!! Vedeva che il figlio non rispondeva a quei richiami e lo prese per la giacca scuotendolo e avvicinandoselo a pochi centimetri dal suo viso. Faccia a faccia gli disse, paonazzo in volto e fuori di se: -Se passi davanti casa mia, quanto è vero Dio, ti sparo! Pio invitò, con voce decisa e indicandogli la porta, il padre ad uscire di casa sua. Caparbio più che mai, la sera si presentò a “La Ficu”. La gente era tanta, proprio tanta, applausi a non finire. Vi fu la richiesta di perdono, pure la poesia di Ernestino, si stapparono bottiglie di spumante e poi fu letteralmente preso e portato sull‟auto decappottata. Lui in piedi che salutava e un corteo di macchine dietro che strombettava a tutta forza, davanti un gruppo di giovani con i motori come se fossero agenti della sicurezza. Il Presidente era messo dietro, nessuno volle sedersi insieme, perché già sapevano del padre preso dalla rabbia per la trunzia del figlio e che se passava davanti casa sua gli sparava. Arturo, non ce l‟aveva con la gente, perché, secondo lui, senza il consenso del figlio sicuramente non s‟arrivava a quel punto. Arturo Bove era al buio, dentro il suo ufficio, con l‟amaro in bocca e la determinazione che lo aveva distinto sempre. Quando dopo le dieci di sera, incominciò ad udire lo strombettare lontano del corteo, prese la sua fredda e pesante pistola, la caricò e lentamente tolse la sicura. Il frastuono era sempre più forte. Ascoltava fuori il vicinato che si chiedeva cosa fosse successo da un balcone a l‟altro. Pure la moglie si affacciò dal proprio di sopra l‟ufficio e chiese anche lei alla dirimpettaia, quella fece finta di non sapere, con una faccia da mummia egiziana, e si ritirò dentro. Arturo ancor più si convinse che quella vergogna doveva finire in un modo o nell‟altro. Il corteo si avvicinava sempre più. Lui uscì di casa e si appostò all‟angolo, tutto quel fracasso gli martellava le cervella. Come il corteo svoltò per la sua strada si pose davanti, 512 BENVENTI A CAMICO a gambe divaricate, l‟auto si fermò, puntò la pistola contro Pio in piedi sull‟auto . -Ti sparo, cretino! I clacson suonavano a tutta forza, poi lentamente, in un passa parola, si andarono zittendo. Arturo, con la pistola puntata sul figlio, sudava freddo. Pio era sconvolto, immobile. Quando, in un blitz, fu afferrato da dietro, gli tolsero la pistola e lo portarono di peso dentro l‟ufficio. Arturo gridava disperato a tutta forza il suo dolore. Il corteo riprese la sua strada, ripigliando a strombazzare. La parata girò tutta Camico con la gente ai lati della strada che applaudiva entusiasta. Poi la sfilata uscì dal paese ed andò a Cattolica Eraclea. Tutti scesero dalle auto in piazza. Lui entrò in un bar seguito da tutti quanti gli altri, salutò il banconista stringendogli la mano, fece dietrofront e uscì, sempre con tutto il seguito che entravano e uscivano a fila indiana. Poi si misero tutti sulle macchine e andarono via strombazzando. I Cataluchisi, presenti a questo evento, ancora oggi, si chiedono cosa fosse stato tutto quel movimento dei Camichesi. Quelli del blitz rimasero con il padre, lo fecero sfogare e gli promisero che quella farsa finiva lì. Gli riconsegnarono la pistola e lo salutarono rispettosamente. “La Ficu” dopo quella sera di settembre del 1971 chiuse. I gestori bisticciarono per questioni di soldi. Fu fatta piazza pulita e incominciarono i lavori per la costruzione di quella palazzina. Sbandarono e scavarono le fondamenta, profonde dove seppellirono per sempre i successi del Presidente. Pio Bove, ritornò alla sua vita di sempre ritirata con la sua Mafalda. Però si era così tanto divertito che ricordava sempre con piacere quei fatti. In una delle solite oziose domeniche suonarono alla porta, erano gli evangelisti. Lui li fece entrare, si entusiasmò per quei discorsi, si accorse che non aveva mai considerato in che cosa consisteva la sua fede. Dopo due, tre settimane di visite e di 513 BENVENTI A CAMICO materiale cartaceo, indiscutibilmente, decisamente, divenne uno di loro. Incominciò a frequentare la chiesa evangelica di Camico. Un piccolo ambiente messo a disposizione di una donnina meravigliosa, che per amore di Dio, da ignorante come era, imparò autodidatta a leggere e a suonare pure l‟organo. Mamma Agnese, con sapienza manteneva in ordine la casa ed educava la sua famiglia di pastori di pecore. Figli e marito cattolici erano e cattolici rimasero, ma lei non si preoccupava di ciò, portava avanti la sua fede evangelica e faceva prosperare quella comunità a dispetto dei preti di Camico. Quando si vide arrivare in chiesa Pio Bove, a primo acchito ne fu lieta, ma quando poi, la chiesetta si riempì di giovinastri studenti sghignazzanti, si rattristò. Chiamò Pio e gli disse che se il suo amore per Dio era autentico non doveva presentarsi più. Lui capì l‟antifona e non frequentò mai più quella chiesa. Pio esagerava, come sempre, in chiesa si buttava per terra, cantava, voleva sapere, si informava di ogni cosa, voleva carte da leggere, si era messo in testa di fare carriera come pastore dentro la comunità. Un giorno i giovani lo avevano intravisto entrare, così armati di registratore a cassetta mitizzato in una scatola di scarpe dove praticarono dei fori e così lo registrarono mentre cantava, riascoltandolo mille volte, con quella voce convinta ma stonata e sgradevole come il raglio di un asino. Quando lo videro tutto lungo per terra, non sono riusciti a trattenersi così sbracarono dalle risa e se ne andarono via per rispetto del luogo di preghiera. Passarono tanti anni, proprio tanti, quando ormai rimasto vedovo, pronto ad andare in pensione, fece amicizia con un altro personaggio curioso, un piemontese grande, grosso e malfatto, Camillo. Questo Camillo era capitato a Camico a causa di un incontro sul treno con una maestra elementare zitellona paesana, Maria Assunta Baio. Era andata a fare supplenza in continente. Ormai 514 BENVENTI A CAMICO aveva perso le speranze a maritarsi, per lei stavano scadendo pure i tempi supplementari. Quando Camillo gli attaccò discorso in un batter d‟occhio gli mise il collare e infine se lo sposò. Camillo, quando arrivò in paese, pensò di completare l‟opera dei suoi ascendenti, quella di piemontizzare, civilizzare, quella gente ancora “selvaggia”, iniziando dal suocero, che gli calava la testa e mentalmente lo mandava a fare in culo seduta stante, poi quelli che stavano nei circoli o nei bar. Aveva le battute facili, aneddoti famosi che vendeva come suoi. I Camichesi hanno bisogno di questa gente, così lo assecondavano, avevano trovato un tuttologo che parlava pure polentone che cosa si voleva di più? Sembra ovvio che uno come Pio e l‟altro come Camillo diventassero inseparabili. Pio aveva trovato il suo compagno, si vedevano al bar, consumavano uno, a volte due, bicchieri di brandy, attaccavano discorso con tutti, di sport, di cultura, di televisione e di politica. Era l‟inizio del 1994 Camico era al voto per le amministrative comunali. Vi erano due schieramenti, come sempre, chiamiamoli, “centro” e “sinistra”. In realtà erano due equazioni matematiche di voti che portavano sempre lo stesso risultato: l‟interesse dei loro candidati. Capisco il qualunquismo di questo pensiero, ma andando all‟essenza dei fatti di Camico resta questa amara considerazione. Si può dire che, mentre quelli, così detti di “centro”, hanno pensato solo per loro, quelli di “sinistra”, invece, anche un pochino pure a gli altri. Camillo e Pio si misero in testa di creare la terza lista civica, così sul tavolo del bar Trinacria, stilarono il programma, crearono il simbolo, slogan e nome. Camillo si auto elesse segretario politico del movimento e proclamò Pio, indovinate che? PRESIDENTE! Sentita la notizia in paese successe il finimondo. I Camichesi non si erano scordati proprio niente! Questa volta vi era il plus valore del piemontese. Così, l‟entusiasmo, tra i mangiaculo Camichesi, arrivò alle stelle. 515 BENVENTI A CAMICO Il bar ormai era diventato piccolo, per il continuo afflusso dei simpatizzanti così avanzarono la proposta al Presidente di fare un congresso al cinema. Pio e Camillo distorsero il muso perché erano restii ad aprire i propri portafogli. Ma già si era creato attorno a loro un comitato di sostenitori i quali fecero subito una raccolta di fondi per pagare il locale e le altre spese, pure da bere. Si avvicinò a loro due un personaggio che la gente aveva posto nel dimenticatoio, un vero artista, Luciddu, pittore maledetto che si era ritirato in campagna con un branco di cani. Luciddu era un uomo di un metro e ottanta con un vocione cavernoso, aveva gli occhi spirdati, i capelli, la barba incolti e lunghi. Lui credeva a quei due, sembrava divertito e convinto. Altri compagni di bancone, bevoni, che la sera si offrivano a giro il beveraggio, si aggregarono al movimento. Nessuno si poteva aspettare quel successo fuori misura di presenze. Il cinema era ancora chiuso e le persone già attendevano davanti al portone. Camillo e Pio udivano il bisbiglio della sala non avevano il coraggio di aprire le tende, per paura di trovare poche persone, quei dieci venti che avevano coglioneggiato insieme al bar. Appeso a centro vi era il quadro con il simbolo del movimento. L‟opera era stata realizzata da Luciddu. Sotto il tavolo seduti con Pio e Camillo a centro i componenti di tutta la futura giunta. Tutto era pronto, finalmente si aprirono le tende. Il cinema era stracolmo. Partì un applauso scrosciante, spontaneo e duraturo. Si alzò Camillo e guardando tutta quella platea, con l‟aria del Cavour, disse: -Signori, ringraziandovi per la vostra massiccia presenza, buonasera! Camico ha l‟esigenza di un cambiamento, di un ammodernamento, di un vento nuovo che spazzi via il monopolio della cosa pubblica, dai vari comitati d‟affari. Partì un applauso travolgente. 516 BENVENTI A CAMICO –In qualità di segretario politico del Movimento che porterà Camico nel futuro, che già da tempo merita, riservandomi di intervenire in seguito, ho l‟onore di presentarvi una persona che voi tutti conoscete, per la sua amabilità e intelligenza, il Traghettatore, il DUX! con la sua capacità guiderà i Camichesi allo sviluppo culturale, sociale ed economico: PIO BOVE! Ettore Sura da infondo la platea gridò: - T'amo, o pio bove!! Ci furono delle risatine a macchia di leopardo. Molti avevano provato disappunto e giudicata prematura quella battuta. Pio tistiò ed espresse un sorriso di compiacimento. Camillo, riprese: -Pio Bove, e chi meglio di lui, è IL PRESIDENTE del Movimento. Gli cedo la parola. L‟applauso fu veramente esaltante, fuori misura. Camillo rimase perplesso, pensava: “che stava succedendo? Se la maggior parte di loro nemmeno ci salutavano quando ci incontravano per le strade?” Pio si alzò sicuro di se, ruminava qualcosa, forse una mentina, forse niente, con quel faccione mise fuori il petto, e le mascelle, alzò il mento e guardò il popolo tutto, lo sentì suo così incominciò a parlare: -Camichesi! Partì l‟applauso. C‟era verso di finire come il Nerone di Ettore Petrolini. -Camichesi, abbiamo fondato questo Movimento con lo scopo preciso di rendere accessibile a tutti la politica e la partecipazione attiva alla vita amministrativa. Da anni e anni sono sempre le solite persone, da padre in figlio, da suocero a genero, ad amministrare la cosa pubblica come cosa loro! Questa volta l‟applauso del pubblico era veramente convinto. Quelle parole avevano riferimenti a persone, come il professore Menta genero del cavaliere Galante, come il gruppo dei sette che comandava, a dispetto dei vari segretari fantocci, prima nel PCI e ora nella Quercia. 517 BENVENTI A CAMICO -Questo movimento si chiama: CAMICO INSIEME! Applausi! -Ecco il simbolo! Contemporaneamente alle parole fu calato fulmineamente il velo rosso sostenuto da due fili. Il quadro, di un metro e mezzo per due, mostrava una mano che porgeva una pagnotta di pane ad un‟altra mano, immersi in un azzurro, che dalla periferia al centro diveniva, in maniera graduale con tutte le sue varianti, luce bianca. L‟effetto scenico era sorprendente, niente di non visto, e appunto per questo dal significato immediato. -L‟autore è Luciddu, artista camichese, che ci pregia della sua intelligenza e sensibilità. Luciddu si è alzato facendo degli inchini esagerati a destra e a manca tra gli applausi con un sorriso beffardo e due occhi che emanavano la luce tipica della follia geniale. -Con l‟occasione vi presento la squadra che con le sue alte qualità farà risorgere il paese: Geggia Lapanda! Geggia Lapanda era uno stangone di due metri che su ventiquattrore venti se ne stava alticcio, però aveva un‟allegria contagiosa. -Carmelo Digesù! Noto pappone dai mille espedienti tutti illeciti, dalla truffa, al furto e alla prostituzione. -Il dottore Alessandro Mastro! Non si sa come, tra di loro fosse capitato questo geniale giovane neo laureato in scienze politiche con centodieci e lode a l‟Università di Palermo. Insomma presentò tutti quanti gli altri, scalmanati e bevoni. Poi incominciò a chiarire i punti salienti del programma. -Al primo punto, risanare il bilancio del comune, sull‟orlo del fallimento, per gli sprechi. Secondo, incentivare le attività territoriali e le imprese. Camico è così sconosciuta anche nella stessa provincia tantoché qualcuno dubita pure l‟esistenza. Terzo 518 BENVENTI A CAMICO punto, completare la Camico-Ribera, da data immemorabile iniziata. E così via, si parlò della realizzazione di murales, l‟obbligo di completamento delle affacciate delle case dei quartieri nuovi, come la benzina e via di seguito. Vi erano argomenti giusti sostanziosi che effettivamente fecero riflettere il pubblico. Mentre gli altri non facevano che parlare di allargamento del cimitero e di piano regolatore, di qualche trazzera. Si aprì il dibattito, molti si sono prenotati a parlare. La prima domanda fu una richiesta di chiarimento su come avrebbero fatto a rimpinguare le casse del comune. -Realizzeremo una lotteria, da estendere anche in tutta la provincia, così otterremo due risultati, quello di risanare il bilancio e l‟altro di pubblicizzare la nostra città. -Ci può dare più chiarimenti sullo svolgimento di questa lotteria? -Una idea che c‟è venuta è quella di abbinare la lotteria ad una corsa di asini per la festa dell‟Assunta. -Ma sta cursa di scecchi come si fa? Se scecchi non ce n'è più a Camico? Dalla galleria arrivò un grido: -U primu sceccu si tu! -E u secunnu tu! Pio calmò gli animi: -Gli asini si possono fare arrivare dalla Tunisia, e non costano molto. Ci siamo informati. -Sicuramente ci vai tu a caricare questa nave carica di scecchi a traghettarli dalla Tunisia? Insomma quel discorso della lotteria sembrò una idea folle e senza fondamenti. Passarono solo pochi mesi e il Governo Ciampi s‟inventò il Gratta e Vinci per rimpinguare le casse dello Stato, previsti 200 miliardi di lire. Vedere gli stessi Camichesi, che quella sera sghignazzarono all‟idea di Pio, poi impegnati a grattare quei biglietti in un angolo della ricevitoria, pagando così la loro tassa di veri imbecilli all‟Italia, faceva riflettere molto. 519 BENVENTI A CAMICO Qualcuno criticò il simbolo: -Quella mano che porge all‟altra il pane sembra dire: “mangia tu che mangio anch‟io”, insomma una mano lava l‟altra, questa è la filosofia della vecchia politica della spartizione, del sodalizio omertoso. -Si è voluto mettere al centro il pane volendo significare la comunione, l‟altruismo e la tolleranza della nostra cultura cristiana. -Appunto, la vecchia DC! Si alzò un altro: -Secondo me, manca una bottiglia di vino. -Glielo avevo proposto io! Ma non mi hanno voluto ascoltare.Disse Gegia Lapanda. Tutto faceva pensare ad un grandissimo successo di quella lista civica, ma il giorno delle firme al comune davanti al segretario comunale, oltre a quelli seduti in quel tavolo non si presentò nessun altro neanche i parenti più stretti. La delusione fu forte per tutti, tranne per Pio. Lui sembrava soddisfatto di quel punto d‟arrivo. Nel faccione mostrava meraviglia, ma anche piacere di vivere lo stesso quei momenti. -Oh, noi abbiamo fatto il nostro dovere! Se a i Camichesi piace farsi fottere da i soliti filibustieri, non è nostra la colpa. Andiamo al bar a farci una vecchietta, alla faccia di tutti loro. Così, quella sera, come le sere precedenti, brindarono più e più volte. Il sindaco che vinse quelle elezioni, la prima iniziativa presa fu quella di abbattere il grande eucalipto. Poi il macello, che era stato costruito nel cimitero vecchio, rimasto consacrato e con le ossa che si vedevano uscire dal terreno, lo affittò ad un prezzo irrisorio ad un artigiano del suo partito. Quel macello, se reso operativo, avrebbe incentivato la micro economia dell‟allevamento domestico di animali. Chiuse tutte le fontanelle d‟acqua per combattere il furto d‟acqua, invece di perseguire i 520 BENVENTI A CAMICO ladri. Fece smontare l‟abbeveratoio e se lo fece rimondare dentro la sua villa a mare. Tutto veniva giustificato, oltretutto, da un pregiudizio ideologico: il grande eucalipto, le fontanelle e l‟abbeveratoio erano opere del fascismo. Pio e Camillo rimasti ad oziare furono tentati dal vizio. Il demone tentatore fu Carmelo Digesù, il quale diede loro appuntamento al Bar Sole, per fare conoscere a loro delle sue amiche. Erano due baldracche di Villaseta, che tra una vecchietta e l‟altra, si mostrarono disponibili e abbastanza … Camillo e Pio presero due strade diverse. Mentre Camillo si lasciò fregare lo stipendio almeno due volte consecutive e la moglie quando se ne accorse lo fece ritirare a via di sberle, aiutata dalle pedate del padre. Pio, invece si trasferì a Sciacca, a quanto sembra, si è accasato con quella donna che era molto più giovane di lui, una differenza di quasi quaranta anni. Qualche settimana prima di finire i suoi giorni, arrivò a Camico, dopo tanto tempo che non si vedeva, con una Volkswagen Golf nuovo modello, colore silver, caricata di donnine allegre e imbellettate. Si fermarono al rifornimento per fare benzina. Una di loro era alla guida. Lo stereo dell‟auto suonava a tutta forza: 48Dimmi tre parole: sole, cuore, amore … Lui scese e salutò quelli che sostavano dove una volta vi era il grande eucalipto. Vi si trovavano: Carmelo Bonifacio, Ernestino e Calò. Dopo i convenevoli i tre chiesero come se la passasse. -Cari amici, a volte si gira attorno in cerca della felicità quando poi si accorge, che costa così poco ed è così a portata di mano. E‟ come quando si va ad acquistare un qualcosa e te lo imballano, te lo incartano, te lo infiocchettano pagando il costo del tutto. Io ho trovato l‟amore, faccio sesso felicemente, senza l‟imballo della gelosia, l‟incartamento dell‟ipocrisia e l‟infiocchettata dei pregiudizi sociali e morali, così ho la felicità a prezzo giusto, in offerta speciale tutto l‟anno. 48 Tre parole cantata di Valeria Rossi –Estate 2001 521 BENVENTI A CAMICO Quando andò via i tre lo salutarono festosamente. Ernestino gli disse: -Presidente ci vada piano con la felicità perché ora c‟è l‟età! -Per fortuna ci sono i rimedi! Andò via su quella auto piena di musica e d‟allegria. Dopo qualche mese, ritornò a Camico, ma con il carro funebre. Come al suo solito aveva esagerato anche questa volta. 522 BENVENTI A CAMICO PARTENZA -Mi avete fatto perdere la sparata! Sbottò Carmelo, il quale ci aveva seguito al forno, poco distante, in un dammusu di nuova costruzione, ancora con le tistette che si vedevano e dentro un grande forno a cupola che funzionava a legna. Il Balla ordinò tre filoni di pane che fece cunzari con olio, sale e pepe. Sgranocchiavamo con i musi „nsunsati e arricriati di quel sapore e odore del pane appena sfornato, ogni tanto si udivano “Uuuuh!” ad esclamare quella bontà. Mentre la padrona che impanava rideva rabbiosamente: -Piaciri di ricchi! Ormai era tempo che io andassi e ne approfittai per non scomodare Pietro, di farmi dare un passaggio da Carmelo. Quando ci avviammo con quella Renault 4 blu mi voltai più di una volta, guardavo quelli che ancora parlavano tra loro in quel sole mattutino che colorava di luce nuova tutta Camico. Quando mi rigirai notai il cartello con la scritta: ARRIVEDERCI A CAMICO, anche quello preso a scupittati, con i fori arrugginiti del piombo. Mi venne d‟istinto guardare Carmelo, il quale a sua volta mi guardò. In quel breve viaggio Carmelo mi raccontò altre cose interessantissimi su Camico, che non mi va di raccontare. Mi lasciò al bivio della stradale con una promessa che uno di questi giorni mi avrebbe fatto visita. Appena sceso, mi stirai tutto come un gatto e mi incamminai verso casa. Fine 523 BENVENTI A CAMICO INDICE BENVENUTI A CAMICO - PARTE PRIMA - PARTE SECONDA - PARTE TERZA - PARTE QUARTA - PARTE QUINTA - PARTE SESTA - PARTE SETTIMA - PARTE OTTAVA - PARTENZA Pagina DONNA ANTONIETTA - L‟arrivo di Vincenzo - In casa di donna Antonietta - I quattro del sistema - Patreternu - Il piano - Lu scambiu d‟aneddu - Quella notte - Una questione di rispetto - La luce del Sole - Circolo Civile della Cultura e della Caccia Grand‟Italia - Il gran botto - Orlando e Rinaldo - Il matrimonio I CARPOCRAZIANI -I - II - III - IV -V 3 7 91 216 287 314 367 418 453 523 8 9 20 28 39 44 45 50 56 66 69 73 81 85 94 95 113 139 170 184 524 BENVENTI A CAMICO - L‟arbulu di li meravigli - 13 ottobre 1958 190 206 I SIGNORI DEL VENTO - Quel mese di febbraio - La famiglia di Pasquale - Russanticu e progetti - Antonio & Pasquale - Il vento caldo di maggio - Lu zzu Nirja - Na rucchicedda nni na scarpa - La casa del notajo Battista - E il vento incominciò a soffiare - Quando il vento cambia direzione - Le due fazioni - Un lupo in trappola - Matri Lisa - Pesci freschi - La gente - 11 agosto 1977 - L‟ultimo giorno 218 219 222 228 230 233 236 238 241 247 250 258 265 268 271 275 279 283 VIAGGIO A TORONTO - NOTA DELL‟AUTORE - APPENDICE 289 308 312 IL TURBINE ANARCHICO DELL‟EROS - La cattura - Il Professore - Grazia la cataluchisa - L‟eros muove il mondo! - Ninuzzu - Il padre di Nanà - Sapore di libertà 315 316 318 320 324 326 327 328 525 BENVENTI A CAMICO - Arriva il medico Balla - Libera e Antea - I Fieramosca - Fu un agguato - Carmelo Bonifacio - L‟IMPEGNO - Il movente - Che c‟entra?! - Una vecchia canzone - Accussì! - Al Circolo Civile 329 331 333 339 340 343 347 350 353 362 366 LA MASCHERA DELLA MORTE -I - II - III - IV -V - VI - VII - VIII - IX -X - XI - XII 368 369 375 382 386 388 391 396 399 401 407 414 415 SOTTO E SOPRA - La mattina di Pasqua - Giulia - Gli Uomini d‟Aria - Né sì né no, ma ni! - Il tesoro di Gesallà - Gli occhi inondati di lacrime - Lo spirito guardiano 420 421 424 428 431 434 440 444 526 BENVENTI A CAMICO - Le riflessioni di Gesallà 448 ALL‟OMBRA DEL GRANDE EUCALIPTO - IL MEDIUM - IL MAGO - L‟UFO - IL PRESIDENTE 456 457 478 488 495 527 BENVENTI A CAMICO 528