Il linfocele dopo
trapianto di rene
1/ 2005
RIASSUNTO
Tra le complicanze del trapianto di rene vi è il linfocele, una raccolta di linfa
che circonda il rene trapiantato. Le manovre chirurgiche che possono portare
alla formazione del linfocele sono la dissezione dei vasi iliaci e la preparazione
su banco del rene. In entrambi i casi, la mancata legatura dei vasi linfatici sezionati è la condizione che predispone alla formazione del linfocele. Un’aumentata incidenza di linfocele è stata significativamente correlata alla presenza della
necrosi tubulare acuta post-trapianto, agli episodi di rigetto acuto, al ritrapianto, all’effettuazione delle biopsie nel rene trapiantato, all’uso delle rapamicine
come farmaco immunosoppressore. L’incidenza del linfocele dopo trapianto di
rene è riportata in letteratura con percentuali che variano dallo 0,6% al 22%.
La maggior parte dei linfoceli si evidenzia nel corso del primo anno post-trapianto, è asintomatico, di piccole dimensioni (inferiori ai 3 cm di diametro) e
richiede come trattamento la sola osservazione. Quando invece il linfocele è di
grandi dimensioni, o diviene sintomatico, si rende necessario il trattamento
chirurgico di drenaggio: percutaneo, laparoscopico o a cielo aperto. È possibile
prevenire o ridurre considerevolmente l’incidenza di questa complicazione con
un’accurata tecnica chirurgica. Già Hume, in uno dei primi testi di tecnica chirurgica del trapianto di rene, raccomandava la legatura di tutti i vasi linfatici
dell’ilo renale e peri iliaci.
Parole chiave
Trapianto di rene, linfocele, complicazioni chirurgiche, rapamicina.
Lymphocele post-renal transplantation
SUMMARY
Lymphocele is a surgical complication of renal transplantation, due to lymphatic
collection around the transplanted kidney. Dissection and transection of the lymphatic
vessels during bench surgery in the preparation of the kidney for transplantation, and
during preparation of the anastomotic site on the iliac vessels, account for the lymphatic
fluid collection formation. Increased incidence of lymphocele has been reported during
acute tubular necrosis, acute rejection, retransplantation, renal biopsy and use of
rapamycin as immunosuppressive agent. The reported incidence of this complication is
highly variable in the scientific literature, ranging from 0.6% to 22%, mostly reflecting
variability in criteria and tools for the diagnosis. Most lymphoceles are diagnosed in the
first post-transplant year, are of small dimension (less than 3 cm diameter) and do not
require any treatment, but observation. Larger fluid collections require surgical drainage
percutaneously, with laparoscopy or with open surgery. As suggested by Hume at the
beginning of transplantation surgery, careful surgical technique, with ligation of the
renal hylar and peri-iliac lymphatic vessels may help to reduce the incidence of this
complication, whatever immunosuppressive agent is used.
Key words
Renal transplantation, lymphocele, surgical complication, rapamycin.
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Franco Citterio
Vincenzo Tondolo
Evaldo Favi
Maria Paola Salerno
Antonio Massa
Marco Castagneto
Istituto di Clinica Chirurgica
Generale,
Divisione di Chirurgia Generale
e dei Trapianti d’Organo
Università Cattolica S. Cuore,
Roma
Il linfocele dopo
trapianto di rene
l
L’intervento chirurgico di trapianto di rene
Nel corso degli ultimi cinquanta anni, la tecnica chirurgica del trapianto di rene non è sostanzialmente cambiata, rispetto a quella descritta
nella prima parte del secolo scorso da Hume. L’incisione tradizionale a bastone da hockey, la via extraperitoneale per l’isolamento dei
vasi iliaci, l’anastomosi arteriosa e venosa sui vasi iliaci esterni e l’anastomosi ureterale con la vescica hanno nel tempo avuto poche varianti tecniche. Le variazioni intervenute dalla tecnica originale di
Hume riflettono spesso opinioni personali e consuetudini, che non
si basano però su dati di sicura superiorità di una procedura rispetto
a un’altra.
La via d’accesso nel trapianto di rene è tradizionalmente extraperitoneale, ma anche la via intraperitoneale viene utilizzata in particolari
situazioni: qualora si debba effettuare una contemporanea nefrectomia, ad esempio, di rene policistico; nei ritrapianti, con ancora in
sede il rene che ha smesso di funzionare; laddove si incontrino particolari difficoltà tecniche durante l’isolamento dei vasi iliaci. I vantaggi dell’approccio extraperitoneale sono essenzialmente la precoce
canalizzazione del paziente e la precoce ripresa dell’alimentazione,
che rendono possibile l’ottimale assunzione dei farmaci immunosoppressivi. Lo svantaggio principale dell’accesso extraperitoneale è
la possibile formazione di raccolte ematiche o linfatiche, che più
lentamente sono riassorbite rispetto alla via intraperitoneale. Nel peritoneo infatti le raccolte linfatiche vengono rapidamente riassorbite
dalla membrana peritoneale.
L’anastomosi arteriosa è generalmente confezionata tra l’arteria renale
e l’arteria iliaca esterna con modalità latero-terminale, nel caso del
trapianto di rene da donatore cadavere. L’anastomosi tra arteria renale e arteria iliaca interna, con modalità termino-terminale, è invece generalmente utilizzata nel trapianto di rene da donatore vivente.
Questo tipo di anastomosi può essere utilizzata in particolari condizioni anche nel trapianto da cadavere, ad esempio qualora vi siano
placche arteriosclerotiche che determinino una stenosi all’origine
dell’arteria renale, in questi casi il patch aortico non viene utilizzato
e l’arteria renale è anastomizzata distalmente all’ostio.
La ricostruzione della via urinaria, in origine, era effettuata con tecnica
intravescicale, tunnelizzando l’uretere nella parete vescicale ed anastomizzando l’uretere alla mucosa della vescica (tecnica descritta da
Politano e modificata da Leadbetter). Successivamente fu introdotta
la tecnica di ricostruzione extra-vescicale, descritta da Lich-Gregoire.
Questa tecnica prevede una piccola incisione della parete muscolare
e l’esposizione di un bottone di mucosa vescicale. La mucosa vescicale è incisa e anastomizzata alla mucosa dell’uretere del rene trapiantato, opportunamente spatolata. Nella ricostruzione secondo LichGregoire sono più frequenti le fistole vescicali, rispetto alla tecnica
descritta da Politano. Una variante della tecnica di Lich-Gregoire è
stata proposta da Starzl: l’uretere viene introdotto in vescica attraver-
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so una piccola incisione della parete vescicale, e ancorato alla parete
della vescica con un punto singolo, a U. I principali vantaggi di questa tecnica sono la semplicità e la rapidità, tuttavia poco si adatta nelle vesciche piccole e con parete ipertrofica.
Complicanze possono verificarsi durante le tre fasi chirurgiche: l’apertura e la chiusura della parete addominale, la fase vascolare che comprende l’isolamento e la preparazione dei vasi e la confezione delle
anastomosi, la fase urologica che si completa con la ricostruzione della via urinaria. Avremo quindi complicanze della ferita, con raccolte
liquide sopra e sotto-fasciali, complicanze vascolari, con emorragie,
trombosi e stenosi, complicanze urologiche, con fistole e stenosi.
l
Il linfocele
Tra le complicanze della ferita e della preparazione dei vasi iliaci vi è il
linfocele. Per linfocele s’intende una raccolta di linfa non racchiusa
da una membrana epiteliale. Dopo il trapianto di rene, la raccolta
linfatica può presentarsi nella sede dell’intervento chirurgico. Il
linfocele fu descritto per la prima volta da Kobayashi nella chirurgia
pelvica ginecologica. La descrizione della “cisti linfatica”, comparsa
dopo un intervento di isterectomia radicale per cancro, apparve su
una rivista ginecologica giapponese nel 1950. Vent’anni dopo, nel
1970, il linfocele fu descritto anche come complicazione del trapianto renale da Madura. Alla formazione della raccolta linfatica contribuiscono sia i linfatici che circondano i vasi iliaci, sia i vasi linfatici
dell’ilo renale. Le manovre chirurgiche che possono creare la premessa per la formazione del linfocele sono la dissezione dei vasi iliaci
e la preparazione su banco del rene. In entrambi i casi, la mancata legatura dei vasi linfatici sezionati è la condizione che predispone alla
formazione del linfocele. La dimostrazione dell’importanza di queste
due fonti di linfa viene da studi clinici, che hanno utilizzato la linfografia per documentare l’origine della linfa che alimenta il linfocele.
Le due fonti di linfa non contribuiscono però in modo simile alla formazione del linfocele. È prevalente la quota di linfa che fuoriesce dai
linfatici dell’ilo del rene trapiantato. Il trapianto inoltre si comporta
in modo diverso dal rene autologo autotrapiantato. Uno studio ha infatti mostrato che, nella pecora, la linfa fuoriesce a 60 mL/hr se i linfatici sezionati all’ilo sono di un rene trapiantato, mentre fuoriesce a
3,2 mL/hr se i linfatici sezionati appartengono a un autotrapianto1.
Esistono quindi nel trapianto condizioni che, aumentando il flusso
linfatico o riducendo la capacità di chiusura spontanea dei dotti linfatici sezionati, favoriscono la formazione del linfocele. Un’aumentata incidenza di linfocele è stata significativamente correlata alla presenza della necrosi tubulare acuta post-trapianto, agli episodi di rigetto acuto, al ritrapianto, all’effettuazione delle biopsie nel rene trapiantato2. In particolare, nei trapianti, il rischio di formazione di un
linfocele aumenta di 4,5 volte in caso di necrosi tubulare acuta e di
ben 25,1 volte in caso di rigetto. Studi nell’animale hanno conferma-
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to questi dati clinici. Durante una reazione di rigetto il flusso della
linfa nel rene può aumentare da 20 a 50 volte. La presenza di edema
nel tessuto renale è il comune denominatore nel danno ischemico e
nella reazione di rigetto. Anche l’effettuazione di una biopsia del
rene trapiantato è stata proposta come concausa nella genesi del
linfocele, ma in questa associazione non è però chiaro quanto sia responsabile la causa che ha portato all’effettuazione della biopsia e
quanto l’interruzione della capsula renale prodottasi con la biopsia.
L’incidenza del linfocele dopo trapianto di rene è riportata in letteratura
con percentuali molto variabili, che variano dallo 0,6% al 22%. La
grande variabilità è indice della diversità dei criteri e degli strumenti
diagnostici utilizzati. L’uso sistematico dell’ecografia ha sicuramente
contribuito a una maggiore precocità e uniformità di diagnosi. È verosimile che le casistiche che riportano bassissime incidenze effettuino
le indagini strumentali diagnostiche solo in presenza di sintomi, mentre le casistiche con incidenze più alte applichino criteri di screening
anche in assenza di sintomi. Vi è ad esempio uno studio che riporta
una incidenza del 49% di linfocele in pazienti seguiti da 2 a 11 anni
dopo il trapianto, ma in oltre la metà dei casi si trattava di raccolte
con un contenuto stimato di meno di 50 cc di linfa, quindi assolutamente non significanti dal punto di vista clinico3. La maggior parte di
linfoceli si evidenzia nel corso del primo anno dopo trapianto, è asintomatico, di piccole dimensioni (inferiori ai 3 cm di diametro) e viene
diagnosticata nel corso di una tomografia a ultrasuoni o assiale computerizzata eseguita per altri motivi. Nella maggior parte dei casi, 5080%, il trattamento richiesto è la sola osservazione. Quando invece il
linfocele è di grandi dimensioni o diviene sintomatico, si rende necessario il trattamento d’elezione o di urgenza. È indicato il trattamento
quando vi siano segni di compressione sulla via urinaria, con idronefrosi, o compressione sull’asse venoso iliaco, con stasi o trombosi venosa, o quando vi siano segni di infezione della raccolta.
l
Trattamento del linfocele
Circa l’80% dei linfocele post-trapianto non richiede alcun trattamento
chirurgico, ma solo l’osservazione con controlli ecografici periodici,
per diagnosticare precocemente eventuali compressioni sulle strutture vascolari o sulla via ureterale. Quando invece il linfocele è di
notevoli dimensioni o è sintomatico si rende necessario l’intervento
chirurgico. Varie modalità di trattamento sono state proposte: l’aspirazione, l’iniezione di sostanze sclerosanti, la marsupializzazione intraperitoneale, a cielo aperto o per via laparoscopica. La semplice
aspirazione espone alla recidiva nell’80% dei casi, mentre il drenaggio continuo in aspirazione per periodi prolungati ha una maggiore
possibilità di successo. Se l’aspirazione è tenuta per settimane, l’assenza di recidive è assicurata nel 60% dei casi che sale al 100% se l’aspirazione si protrae per mesi. Per aumentare la percentuale di successo dell’aspirazione in tempi più rapidi si è provato a iniettare nel-
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la cavità residua, dopo il drenaggio percutaneo, sostanze sclerosanti
come la colla di fibrina, l’etanolo al 95%, l’argento colloideale, le tetracicline o soluzioni iodate. In genere l’aspirazione continua o ripetuta comporta un rischio d’infezione del 10%. Quando l’aspirazione
non è possibile, o la raccolta recidiva, è suggerita la marsupializzazione intraperitoneale. Sino a pochi anni fa l’intervento veniva effettuato a cielo aperto, con una incisione addominale mediana. Identificato il linfocele si fenestrava il peritoneo, con una incisione curvilinea in corrispondenza della zona più facilmente accessibile. In questo modo la sacca drenava direttamente in peritoneo e la linfa secreta veniva riassorbita dalla membrana peritoneale. Per evitare la chiusura della breccia, e la recidiva del linfocele, la sacca veniva zaffata
con omento peduncolato, per favorire il mantenimento del drenaggio. Oggi questa procedura è attuata con le stesse modalità per via
laparoscopica, con ottimi risultati4.
l
Linfocele e terapia immunosoppressiva
Negli ultimi trent’anni, dunque, il linfocele è stato una complicanza
chirurgica ben nota, con una chiara sintomatologia e con chiare indicazioni sulla strategia terapeutica da intraprendere. Negli ultimi
cinque anni, in coincidenza dell’introduzione delle rapamicine e
del micofenolato mofetil come farmaci immunosoppressori nei protocolli terapeutici del trapianto di rene, si sono accumulate segnalazioni sull’aumentata incidenza di linfocele nei pazienti trattati con
rapamicine. Le prime segnalazioni vennero dai trial clinici di registrazione del sirolimus, la molecola originaria della rapamicina, che
riportavano l’aumentata incidenza di linfocele e l’aumentata morbilità delle ferite chirurgiche5. Successivamente sono comparse ripetute segnalazioni che confermavano l’aumento dell’incidenza delle
complicanze delle ferite chirurgiche e del linfocele nei pazienti trattati con sirolimus. Flechner in 513 pazienti trapiantati segnalava il
45,5% di linfocele nei pazienti trattati con sirolimus e MMF rispetto
al 33,9% e 24,7% nei pazienti trattati con CsA e MMF o CsA e azatioprina. Inoltre i pazienti trattati con sirolimus più frequentemente
avevano necessità di interventi chirurgici per trattare le complicazioni del linfocele (13,8% vs 4,7% e 4,8%, rispettivamente, p = 0,019).
In questo studio il rigetto acuto (p < 0,001) e il sovrappeso (BMI >
32, p > 0,02) venivano segnalati come significativi fattori di rischio
per lo sviluppo del linfocele6. Langer in uno studio retrospettivo su
354 pazienti trattati con la combinazione di SRL+CsA e MMF, confrontati con 136 pazienti trattati senza sirolimus, trovava linfocele
nel 38,1% dei pazienti in trattamento con sirolimus rispetto al
17,6% dei pazienti trattati con la sola ciclosporina. Anche in questo
caso i pazienti in sirolimus richiedevano un trattamento più aggressivo del linfocele (interventi di drenaggio nel 15,8 % vs 4,4%). Una
reazione di rigetto, in questo studio, era il fattore di rischio più importante per la formazione del linfocele7. Valente, in pazienti tra-
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piantati in terapia con tacrolimus e prednisone, segnalava una maggiore incidenza di complicazioni della ferita, di linfocele e di fistole
urinarie in 74 pazienti trattati con SRL il 43,2% rispetto a 84 pazienti trattati con MMF (2,4% p < 0,0001)8. Dean ha confrontato l’incidenza di complicazioni della ferita e di linfocele in 59 pazienti trattati con tacrolimus rispetto a quelle riscontrate in 64 pazienti trattati
con SRL. Nei pazienti trattati con sirolimus l’incidenza delle complicazioni della ferita e di linfocele era significativamente più elevata
(47%) rispetto a quella osservata nei pazienti in trattamento con tacrolimus (8%). Tale alta percentuale di complicazioni scendeva al
35% se si escludevano i pazienti obesi9. Considerando globalmente
gli articoli che hanno valutato, come primo obiettivo dello studio,
l’incidenza di linfocele dopo trapianto di rene risulta che su 1520
pazienti trapiantati, l’incidenza di linfocele nei pazienti che assumevano sirolimus è del 41,4% rispetto al 21,2% osservati nei trapiantati
che non assumevano sirolimus (tabella I). Non vi è dunque dubbio
che l’incidenza di complicazioni della ferita sia aumentata rispetto
all’era pre-rapamicina. Il dato dell’aumentata incidenza di linfocele
nei trapianti che ricevono rapamicina e in quelli che assumono micofenolato trova giustificazione nelle particolari proprietà di questi
due farmaci. Pur con meccanismi diversi, entrambi hanno mostrato
in vitro e nell’animale da esperimento un’attività antiproliferativa.
Questa proprietà può essere estremamente utile nella prevenzione
della nefropatia da trapianto, ma nell’immediato post-trapianto rappresenta un fattore di rischio. Infatti, l’attività inibitoria di linfochine, quali la platelet derived growth factor (PDGF), la basic fibroblast
growth factor (bFGF), l’endothelial cell growth factor (ECGF), il Transforming Growth Factor Beta (TGF-b), può prolungare e rendere meno efficiente il processo di guarigione delle ferite. Questo meccanismo
può spiegare le basi fisiopatologiche dell’aumentato numero di
complicazione della ferita chirurgica segnalate con l’uso delle rapamicine. Vengono infatti inibiti alcuni mediatori che hanno un ruolo
fondamentale nella risposta infiammatoria e riparativa che porta al
consolidamento e alla guarigione della ferita chirurgica. L’azione
inibitoria sui growth factors blocca l’attività delle cellule endoteliali,
dei fibroblasti e delle cellule muscolari lisce, componenti importanti
del processo di granulazione, che porta alla guarigione delle ferite e
alla chiusura dei linfatici sezionati. L’associazione degli steroidi alla
Autore
Anno
Flechner SM
2004
Valente JF
Langer RM
Dean PG
Rapamicina
N. pazienti
% linfocele
F. Citterio et al.
Trapianti 2005; IX: 14-20
Tabella I. Incidenza di linfocele
in pazienti trattati con rapamicina e con inibitori della calcineurina.
Inibitori Calcineurina
N. pazienti
% linfocele
152
45,5
361
29,1
2003
74
43,2
84
2,4
2002
354
38,1
136
17,6
2004
64
47,0
59
8,0
N. Pazienti
644
640
% Linfocele
41,4
19
21,2
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rapamicina e del micofenolato non può che potenziare l’effetto inibitorio sui processi di riparazione della ferita.
l
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Strategie per ridurre l’incidenza di linfocele
Vi sono state varie proposte per ridurre l’incidenza del linfocele dopo
trapianto. È stata proposta una prolungata immobilizzazione del paziente a letto, per limitare il flusso linfatico dall’arto inferiore durante la deambulazione. È stata proposta la via di accesso intraperitoneale e l’anastomosi arteriosa sull’arteria iliaca interna o sui vasi iliaci comuni, per limitare la dissezione dei vasi iliaci esterni. È stata proposta
l’apposizione di un drenaggio in aspirazione preventivo, da tenersi
per settimane, nei pazienti trattati con sirolimus. Gli svantaggi e i rischi di un prolungato allettamento del paziente e di una ritardata canalizzazione, nel caso dell’accesso intraperitoneale, o della prolungata presenza di un tubo di drenaggio sono ovvi. La necessità di un’accurata tecnica chirurgica per la prevenzione del linfocele era già stata puntualizzata da Hume, in uno dei primi testi di tecnica chirurgica
del trapianto di rene10. Hume raccomandava al momento della scheletrizzazione dei vasi iliaci, in preparazione alla confezione dell’anastomosi vascolare, la legatura di tutti i vasi linfatici. Poiché si è dimostrato che la sacca del linfocele è prevalentemente alimentata dai linfatici dell’ilo renale, è ovvio che il consiglio di Hume vada esteso anche alla fase di preparazione su banco del rene trapiantato. In questo
modo può essere possibile ridurre l’incidenza del linfocele e godere
dei vantaggi di una nuova classe di farmaci immunosoppressori.
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