storiae ‐ 22 ‐ Due vite... una meta Frammenti di un romanzo di Thea Schreiber Gamelin La scoperta Dita ascoltava alla radio le informazioni sulle novità librarie: anche questa era una nuova conquista. Alla radio leggevano dei passi dal diario del viaggio intorno al mondo di Alma Maximiliana Karlin. Una donna, sola, in viaggio attorno al mondo per otto anni! Einsame Weltreise (Viaggio solitario intorno al mondo) si intitolava il diario. Il fazzoletto che Dita stava stirando, si torse bruciato sotto il ferro. Herzing irritata la guardò e urlò: «Dita!!!». Dita lasciò a Herzing l’anima di quello che una volta era un fazzoletto e corse dal pastore. «Papà, ti Thea Schreiber Gamelin. prego, procurami questo libro! Dev’essere una donna straordinaria!». «Dove vive, Dita?». «Mi pare in Jugoslavia. A Celje». Tirarono fuori le cartine geografiche, trovarono il luogo e il pastore acquistò il diario di Alma Karlin dal libraio. Il pastore leggeva ad alta voce. L’intera famiglia era affascinata. Una volta il religioso, preso dalla lettura, dimenticò addirittura di dover celebrare un matrimonio. Il sagrestano dovette venire a prenderlo. Non era mai successo prima. Dita scrisse a quella sconosciuta ed eroica donna, che aveva dovuto sopportare di tutto e che aveva esplorato tanti luoghi lontani e che padroneggiava tante lingue. Dopo alcuni giorni arrivò la risposta di Alma Karlin e un invito nella sua casa costruita addirittura su antiche fondamenta di epoca romana a Celje, sulla dolce sponda della Savinja. Dita andò a Rostock e tornò con i documenti necessari. «Domani parto per la Jugoslavia!», annunciò alla famiglia attonita. Il pastore sorrise. L’amore per i viaggi l’aveva sicuramente ereditato da lui. Ma tutti gli altri conoscenti espressero con veemenza la loro paura: «Non tornerà viva! È ancora un paese selvaggio quello! Ci sono ancora i lupi e gli orsi! E la gente! La deruberanno e la uccideranno!» «Ma siete tutti ammattiti?», disse Dita. «Un tempo qui da noi abitavano i Sorabi [cfr. Scheda 1] e la maggiore parte di voi discende da quel popolo; in Jugoslavia ci sono gli Sloveni, che sono un popolo slavo. Perchè mai devono essere peggiori di voi?». Si percepì un silenzio imbarazzato. ‐ 23 ‐ storiae «Si, ma là ci sono montagne selvagge e certamente ci saranno anche dei banditi». «Sembra che Lei confonda quel luogo con l’Italia»., rispose Dita. Qualcuno disse: «Per favore fotografi i cammelli!» Dita rise fino alle lacrime: «Quelli li posso trovare più vicino», mormorò, e fece vedere la carta geografica: mostrò che non si trattava né della Turchia, in riferimento ad eventuali banditi, né dell’Africa, dove si potevano trovare i cammelli. Dita aveva a disposizione due settimane per il suo soggiorno in Jugoslavia e il padre promise di andare a prenderla al confine tedesco e di recarsi poi con lei sul Königsee, dove avrebbero visitato i castelli di Ludwig II. SCHEDA 1: I Sorabi Il sorabo o serbolusaziano è una lingua slava occidentale strettamente imparentata al ceco, parlata oggi da poco più di 70.000 persone nella regione di Lausitz e Spreewald nella parte orientale della Germania. Le lingue lusaziane (serbšćina), chiamate anche serbo-lusaziane, sorabe o venede, appartengono alla famiglia indoeuropea e sono parlate nella regione della Lusazia, in particolare dagli appartenenti al gruppo etnico dei Sorabi. La lingua dei Sorabi si distingue in sorabo inferiore e sorabo superiore; la differenza risiede essenzialmente nella diversa forma di scrittura adottata, che utilizza alcuni segni diacritici del ceco e altri del polacco. Entrambe le lingue erano inizialmente un dialetto ceco che, in seguito alla separazione politica dalla Boemia, a partire dal 1500 ha dato origine a varianti significative tipicamente sorabe. Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla riforma protestante che prevedeva il servizio liturgico in lingua nazionale. In questa occasione, infatti, hanno avuto origine i primi testi scritti in sorabo. I Sorabi sono una popolazione essenzialmente agricola e hanno potuto tramandare insieme alla lingua anche le tradizioni slave senza grandi problemi fino al 1800, quando l’industrializzazione spinse molti giovani dalle campagne nelle vicine città tedesche come Dresda e Lipsia, rompendo così i loro contatti con la cultura tradizionale. Proprio nell’Ottocento, però, la riscoperta delle radici nazionali portata dal romanticismo diede anche impulso alla creazione di una stampa soraba. Da quel momento la lingua soraba iniziò a diventare sempre più una lingua di cultura e nella popolazione si diffuse sempre più il bilinguismo. Un momento particolarmente critico per la popolazione soraba fu rappresentato dal periodo nazista, durante il quale si cercò di eliminare la lingua soraba proibendone l’uso e chiudendo associazioni e giornali. Oggi il lusaziano superiore è parlato da circa 55.000 persone, principalmente nella zona di Bautzen, nei dintorni di Dresda, dove esiste una segnaletica bilingue, a partire dallo stesso nome della cittadina Bautzen / Budyšín. Il lusaziano inferiore è parlato da circa 15.000 persone, soprattutto nella zona di Cottbus / Chóśebuz. Entrambe le forme godono dello status di lingue minoritarie ufficialmente riconosciute dallo stato tedesco. (mc) storiae ‐ 24 ‐ Dita salì sul treno portando con sé una piccola valigia. Era l’estate del 1930. Le ruote sferragliavano veloci verso l’ignoto. Dita non poteva neppure immaginare quanto sarebbe stato decisivo per la sua vita questo nuovo incontro. […] Dita giunge in Slovenia dopo un lungo viaggio in treno, nel percorso si avvicina ad una dimensione diversa e scopre un mondo nuovo, accogliente, “solare”, autenticamente popolare. L’incontro con la scrittrice Alma Maximiliana Karlin segna una svolta decisiva nella sua vita, perchè sperimenta un’amicizia profonda caratterizzata da comuni interessi Thea Schreiber Gamelin. culturali, sensibilità artistiche e valori umani. Lo sguardo femminile sul mondo, la contemplazione delle meraviglie della natura, la ricerca di autentiche relazioni di solidarietà, la curiosità per la varietà delle esperienze, delle lingue, dell’umanità accomuna le due intellettuali, sebbene provengano da mondi e da storie personali profondamente diverse. A tu per tu con Alma Karlin Alma e Dita spesso salivano in alto, sulle montagne, e raggiungevano delle poverissime capanne dove abitavano esseri umani in condizioni estremamente difficili. Alma li conosceva tutti: e loro offrivano a chi arrivava fin lassù quel poco che avevano, in genere l’ospitalità non conosceva limiti in Jugoslavia. Alma portava con sé sempre dei piccoli regali: nel suo zainetto c’erano un cartoccio di buon caffè, dei cornetti freschi comperati in città o dello zucchero ed anche quaderni e matite per i bambini.. Spesso con discrezione lasciava del denaro. E diceva: «Ora con i miei libri io guadagno e chi guadagna - penso - ha il dovere di ricordarsi degli altri che vivono in condizioni peggiori delle sue». Però i momenti più belli erano le serate ‐ 25 ‐ storiae Alma Maximiliana Karlin. trascorse ad ascoltare dalla sua stessa voce i suoi racconti di viaggio. Le sue descrizioni erano spiritose, brillanti e dentro ogni narrazione c’era sempre qualcosa che faceva riflettere. La sera, poi, portavano in tavola una bottiglia di vino della Dalmazia e Dita lo gradiva molto. Talvolta Alma recitava delle poesie in diverse lingue, affinché Dita potesse comprendere la differenza dell’animo popolare attraverso l’espressione della lingua. Dita sarebbe stata tutta la notte ad ascoltarla. Ma alle dieci: a letto! Al mattino Alma si alzava presto e poi scompariva per un po’. […] Tornava a casa portando con sé una povera donna del mercato che veniva ben rifocillata. La gente portava al mercato la merce passando attraverso le montagne, camminando per lunghe ore. Dita non aveva mai visto una persona così disponibile ad aiutare gli altri come Alma Karlin. Certo anche in Germania la gente della Chiesa Luterana faceva del bene, […] ma in Slovenia c’era una grande capacità di immedesimarsi in ogni destino, di sacrificarsi in un modo così naturale, che Dita cominciò a vergognarsi profondamente. Cosa aveva fatto di buono fino ad allora? Aveva curato gratuitamente dei poveri ammalati? Nella sua vita aveva sempre e solo collezionato diplomi. Con tutto ciò il mondo era diventato più ricco? Certamente anche Alma aveva studiato: conosceva perfettamente 10 lingue, ma in quali condizioni le aveva imparate? Mentre imparava le lingue si era sempre prodigata ad aiutare il prossimo e aveva anche dato lezioni gratuitamente, in silenzio, senza esibire nulla. Sarebbe stato terribile per lei se qualcuno ne avesse parlato. Dita pensava al lusso con cui si viveva in Svezia, al cibo abbondante, alle ricche abitazioni, mentre qui i lavoratori storiae ‐ 26 ‐ attraversavano le montagne, camminando per più di tre ore per raggiungere il loro posto di lavoro, la miniera o la fabbrica. Un pezzo di pane asciutto, una caraffa di sidro, e già bastava. Altrimenti c’erano crauti, fagioli e patate. Il pane era considerato sacro. La gente delle montagne era molto povera. Tutto è relativo. Ciò che sul mar Baltico era considerato segno di povertà, qui era un ricco patrimonio. Per Dita erano inconcepibili le condizioni nelle quali i bambini dovevano studiare: spesso ci volevano ore per percorrere la strada che portava a scuola. E poi quando ritornavano a casa trovavano un pranzo molto povero e poi il faticoso lavoro dei campi, tanto più faticoso perchè dovevano spostarsi su e giù per il pendio della montagna. Tuttavia alcuni bambini di talento, riuscivano, in condizioni così difficili, ad ottenere una laurea o a diventare professori. Ma gli altri erano anche precocemente sfruttati e gliene derivavano problemi di salute. Dita si sentiva sempre più angosciata. In segreto era stata orgogliosa dei suoi studi. Alla luce dell’esperienza di queste persone, di questi “eroi”, il suo orgoglio andava miseramente in frantumi. Che impresa era studiare quando tutte le strade erano state spianate? Dita cominciò a non sentirsi molto bene “nella sua pelle”; e poi sentì dire che, in epoca asburgica, una persona che parlava solo sloveno non aveva alcuna prospettiva. I Windischen [cfr. Scheda 2] erano considerati “sotto-uomini”. Un anno prima del suo giro del mondo Alma aveva aperto a Celje, una scuola di lingue, con l’intento di avvicinare gli austriaci e gli sloveni. Il progetto fallì a causa dell’atteggiamento di superiorità, per l’altezzosità degli austriaci. Quando era bambina Alma aveva visto spesso come gli austriaci lanciavano uova marce addosso ai Windischen. Quando c’erano le feste popolari, dai Karlin chiudevano le persiane, perchè “i tedeschi” (così si autodefinivano gli austriaci), buttavano contro le finestre tutto ciò che era possibile trovare in giro. Dita non conosceva nulla di tutto questo; per lei era tutto nuovo […] Alma Karlin accompagnò Thea Schreiber Gamelin alla scoperta delle meraviglie della Jugoslavia: il diario non si sofferma solo sulle bellezze del paesaggio, ma coglie soprattutto la ricchezza e l’autenticità delle relazioni umane. E poi un’altra capitale croata, Zagabria, che stava già sulla soglia d’Oriente. C’erano bellissimi tappeti orientali e prodotti artigianali, anche i prodotti nazionali croati. Dita acquistò numerosi regali, per mostrare queste ricchezze a chi, sul mar Baltico, si immaginava che ci fossero solo lupi e banditi. Molto più ricca di sapere e di conoscenze, Dita prese congedo dalla grande artista, una persona davvero meravigliosa. ‐ 27 ‐ storiae SCHEDA 2: I Windischen La parola tedesca windisch è un aggettivo con il quale fino al XIX secolo venivano chiamati gli sloveni dalle persone di “madrelingua” tedesca. Nel corso dell’Ottocento i linguisti sloveni (in particolar modo Jernej Kopitar e Franc von Miklošič) proposero l’uso dell’aggettivo slovenisch (sostantivo Slowenen) fino ad allora sconosciuto nella lingua tedesca. Infatti, fino a metà Ottocento, windisch era l’unico nome tedesco per gli sloveni: tutti gli sloveni, non solo quelli carinziani. Si possono citare ad esempio i toponimi quali Windische March, in sloveno Slovenska krajina ovvero “Marca slovena”, antica regione nell’attuale Bassa Carniola tra il fiume Sava e la frontiera con la Croazia, o Windisch Feistritz, in sloveno Slovenska Bistrica, nella Stiria meridionale. Quando però l’uso dell’aggettivo windisch (e del sostantivo, molto meno frequente, Winde o Wende) venne sostituto da slowenisch e Slowene, l’aggettivo windisch cominciò ad assumere sempre più una connotazione dispregiativa. Analogamente avviene da parte slovena con la parola Lah (a lungo l’unico nome usato per gli italiani): quando nella seconda metà dell’Ottocento essa viene gradualmente sostituita con la parola Italijan, fino ad allora sconosciuta, l’antica parola Lah cominciò ad assumere un carattere chiaramente dispregiativo. Tra il 1919 e il 1920 però, in concomitanza con la campagna plebiscitaria in Carinzia, il termine windisch assunse un significato completamente nuovo. Lo storico carinziano Martin Wutte inventa una teoria secondo la quale gli sloveni della Carinzia sarebbero culturalmente e linguisticamente completamente diversi dagli sloveni d’oltre le Caravanche. Wutte sostiene che non si tratta di veri e propri sloveni, bensì di un’etnia a parte, che egli chiama Windischen. Però dopo il plebiscito del 1920 questa singolare teoria cade nell’oblio e durante tutto il periodo della Prima Repubblica Austriaca i censimenti rivelano in Carinzia (come già ai tempi dell’Impero) solo due categorie linguistiche: coloro che parlano sloveno, in costante e rapida diminuzione, e coloro che parlano tedesco, in costante e rapido aumento. È solo con l’occupazione nazista che questa categoria inventata da Wutte (che diventerà membro del Partito nazista) ritorna sulla scena. Ma se Wutte affermava nel 1920 che tutti gli slavi della Carinzia erano Windischen e non sloveni (e che l’identità slovena era stata loro “infiltrata” da agenti panslavisti dalla Carniola e sopprattutto dalla Stiria), i nazisti ne danno ora una definizione ben distinta: windisch significa, secondo la spiegazione ufficiale data dal regime nazista alla popolazione locale, “gli sloveni che simpatizzano con i tedeschi” (deutsch-freundliche Slowenen). Così nel censimento nazista del 1939 i Carinziani dovettero scegliere per la prima volta non tra due, ma tra tre categorie: alle categorie lingustiche “tedesca” e “slovena” venne affiancata una terza di chiaro stampo “culturale” e “ideologico”: windisch ovvero deutsch-freundlich. Non è certo sorprendente che dei 50.000 sloveni rilevati dal censimento nazista in Carinzia (quello austriaco del 1936 ne rilevò appena 24.000) una netta maggioranza si dichiara windische (ovvero deutsch-freundlich) e non slowenisch. Secondo l’interpretazione dello storico storiae ‐ 28 ‐ carinziano Andreas Moritsch furono gli stessi esponenti del basso clero locale, da sempre fortemente sloveno nei sentimenti, a consigliare alla gente di non dichiararsi esplicitamente sloveni, per evitare possibili ripercussioni. Quando nel 1941 i nazisti occupano la Slovenia settentrionale (la Bassa Stiria e l’Alta Carniola), vi applicano lo stesso metodo, cercando di tracciare una linea di separazione tra i Windischen (deutsch-freundliche Slowenen) e gli Slowenen veri e propri. Ma già nel 1942 essi abbandonano questa categoria, che risulta poco utile e difficilmente applicabile, sia nella Slovenia occupata che nella stessa Carinzia, dove viene invece preparato un piano per l’espulsione (Aussiedlung) di tutta la comunità slovena, non facendo alcuna differenza tra quelli che nel 1939 si dichiararono Windischen e quei pochi che ebbero il coraggio di dirsi apertamente Slowenen. Il piano non venne però applicato. La categoria windisch ritorna nel censimento austriaco del 1951 (intanto la Jugoslavia di Tito rivendica la Carinzia meridionale) provocando un’aspra reazione delle associazioni slovene. Nonostante ciò sono quasi 14.000 coloro che si dichiarano windisch nelle innumerevoli combinazioni linguistiche con le quali le autorità austriache sgretolano l’immagine della comunità slovena (slowenisch, windisch, slowenisch-deutsch, deutsch-slowenisch, windisch-slowenisch, deutschwindisch, windisch-deutsch, slowenisch-windisch). Nel censimento del 1961 il numero dei parlanti windisch si riduce fortemente, fino a scomparire quasi del tutto nel 1971. L’ultimo censimento del 2001 ha rilevato meno di 550 parlanti windisch di fronte a circa 13.100 sloveni. Una ricerca dell’Università di Klagenfurt rivela che sono 54.000 i Carinziani che parlano o capiscono, almeno in parte, lo sloveno. È comunque molto discussa la definizione di windisch in quanto alcuni la considerano una caratterizzazione negativa della comunità slovena in Carinzia, altri un tentativo di “frantumare” l’unità degli sloveni in Carinzia, altri ancora l’identificazione di un dialetto sloveno degli abitanti della Carinzia. (mc) Entrambe sentivano che quello non sarebbe stato l’ultimo loro incontro. A Brunshaupten non si riavevano dallo stupore quando, aperta la valigia, Dita tolse dalla valigia il broccato dorato e i tappeti, le coperte slovene e croate ricamate a mano, i pizzi annodati, i lavori in cuoio colorato, le scatole, le cinture e le stoffe. C’erano anche un macinino da caffè turco, di fattura artistica, delle lunghe pipe tutte lavorate a mano e scarpe a punta intrecciate a mano. Anche due gigantesche pannocchie di mais suscitarono una grande meraviglia, come pure i ciuffi di luppolo. Deluse, le persone intorno chiedevano: «E non c’erano ladroni?». «Neanche uno», rispondeva Dita. «Laggiù appendono la chiave di casa accanto alla porta, quando la gente esce o va a lavorare nei campi». ‐ 29 ‐ storiae «Incredibile, fantastico!» «E’ proprio così: laggiù tutto è fantastico. Quello è un paese dove andrei a vivere subito. La natura è libera, non c’è neppure un cartello di divieto, mentre qui ne incontri ad ogni passo; e le persone sono davvero tanto gentili, amichevoli e l’ospitalità... miei cari, se voi aveste solo un’ottava parte del loro senso di ospitalità!!» «Oh, inimmaginabile qui!» «Sì, da noi nessuno è così». Il padre, come promesso, era andato a prendere Dita al confine tedesco; avevano attraversato il Königsee ma per i castelli non c’era più tempo e Dita per il momento di castelli ne aveva abba- Selma Lagerlöf. stanza. Improvvisamente aveva capito perchè nel mondo si fosse arrivati al comunismo. […] Non si trattenne a lungo. Doveva tornare in Svezia per concludere i suoi studi. L’invito di Selma Lagerlöf a Marbacka Quando Dita ebbe raccontato a Ellen dei suoi viaggi e di Alma Karlin, entrambe si misero a riflettere su come avrebbero potuto aiutare la scrittrice a far conoscere i suoi libri. Ellen si ricordò di Selma Lagerlöf, premio Nobel per la letteratura nel 1909, autrice che conosceva personalmente e le spedì i libri di Alma. In risposta giunse a Dita l’invito a recarsi Marbacka, la tenuta dove abitava Selma Lagerlöf. Poco tempo dopo Dita si recò con il treno a far visita alla celebre scrittrice svedese. Il viaggio fu bellissimo: si passava attraverso gli infiniti boschi di betulle della Svezia in direzione del confine norvegese. Il treno superava piccoli paesi le cui casette di legno sembravano come uscite da una colorata scatola di giocattoli. Tutto era così lindo e grazioso. E poi ancora boschi radi e infiniti. Finalmente la stazione d’arrivo. Una macchina di Selma l’aspettava [...]. Attraversarono nuovamente dei boschi, poi finalmente apparve la grande dimora signorile di Marbacka. Dapprima Dita ebbe occhi solo per la proprietaria. Selma Lagerlöf apparteneva al quel raro tipo di persone che emanano luce, forza e bontà, accanto alle quali ci si trova subito a proprio agio. La scrittrice aveva letto i libri di Alma, ne parlò molto bene e pensava che avrebbe meritato il premio Nobel, «perchè ciò che scrive è bello e profondo», aveva storiae ‐ 30 ‐ detto Selma. Parlarono a lungo di Alma e Dita fu molto contenta di tanta simpatia per la scrittrice jugoslava. Poi Selma, sebbene camminasse con difficoltà, mostrò a Dita tutta la casa, Ogni stanza era arredata con tappeti, coperte e mobili nordici. I colori erano accostati in modo originale. Tutto appariva luminoso e solare. In una stanza c’era una fila di quadri che si susseguivano da una parete all’altra. Erano le fotografie delle riprese del film Gösta Berling tratto dal libro che aveva reso celebre la scrittrice svedese. Selma le fece vedere anche come sbrigava la corrispondenza che le giungeva da tutto il mondo. Un grande armadio con scansie ordinate alfabeticamente conteneva i nomi dei lettori che le avevano scritto. Ogni paese aveva la sua particolare rubrica e la sua scansia. Una simpatica collaboratrice di casa fungeva da segretaria e l’aiutava a espletare quell’enorme lavoro. Selma Lagerlöf scriveva personalmente molte lettere, come Dita più tardi apprese con gioia. La conversazione con un’artista così sensibile fu un piacere. La sua bontà si irradiava ovunque. Si comportava in modo così naturale, così schietto, come solo i grandi spiriti sanno fare. La giornata trascorsa a Marbacka fu per Dita una delle “stazioni solari” nella sua vita, quelle che poi saranno in grado di illuminare i giorni bui. Felice per aver conosciuto una persona di così grande valore, Dita ritornò a Stoccolma. Ellen l’aiutò a far sì che i libri di Alma si diffondessero velocemente sul mercato e per l’esploratrice, la cui vita era stata così difficile, in Jugoslavia cominciarono giorni migliori. […] Dita invitò Alma a Rostock, dove le organizzò delle conferenze: ebbe un grande successo di pubblico anche in altre città oltre che a Rostock. La scrittrice Jugoslava invitò Dita a recarsi nuovamente, e per un periodo più lungo, a Celje. Dita tornò in Jugoslavia prima del previsto, anche per sfuggire ad un “pretendente” che voleva assolutamente sposarla in modo da “preservare e perpetrare l’integrità della razza ariana”. Era un personaggio inquietante, infarcito di ideologia nazista. Hitler era al governo da poco, ma le idee razziste stavano diffondendosi molto velocemente. […] Il ritorno a Celje e la collaborazione con Alma Karlin Un giorno Alma disse: «Hunki, non pensi che dovremmo invitare i tuoi genitori a Celje? Sarebbero certamente felici di venir fuori dalla Hitleria e godere della natura incontaminata.» «Oh che bello!» disse Dita rallegrata. «Scriverò loro subito, visto che è ancora possibile espatriare». Herzing ed il pastore giunsero in Jugoslavia. Entrambi con visi preoccupati. Lentamente avevano compreso che cosa era il nazismo e a che cosa ‐ 31 ‐ storiae mirava. Il pastore, solitamente sempre così attivo, era stranamente stanco. Voleva andare in pensione. Stava vedendo come la “peste bruna” voleva distruggere l’opera di tutta la sua vita; i nazisti si accanivano contro Cristo e lo facevano passare come una sorta Celje (Cilli), la casa natale di Alma Maximiliana Karlin. di profeta. E pensavano, ad esempio, che Maria fosse stata violentata da un legionario romano, che questo in realtà aveva origini germaniche [...] e ora tutti dovevano far verificare la loro origine ariana; era addirittura comico sentirsi chiedere: «Signor pastore, mi occorre la mia origine araba!» E ci volle un certo tempo prima che la gente si rendesse conto di che cosa veramente si trattava. Giorno dopo giorno i visi degli ospiti si rasserenavano sempre più e il pastore era così estasiato dalla bellezza della natura e dalla gentilezza della gente che cominciò subito a studiare lo sloveno. Da tanto tempo stava risparmiando per comperarsi una casetta, per quando sarebbe andato in pensione. Ora era arrivato il momento. Voleva costruire o comperare una casetta in Slovenia. «Non può esserci niente di più bello!», continuava ad affermare. Herzing non era così entusiasta dell’idea di vivere all’estero, ma pensando a quei brutali figuri dalla camicia bruna, acconsentì. Il pastore voleva farsi liquidare tutto il denaro risparmiato, aveva anche un contatto con l’impresa di costruzioni Wüstenroth. Dita voleva aggiungere i suoi risparmi e avrebbero costruito o comperato una casa meravigliosa. Una casa al sole e al caldo, lontano dagli iceberg che galleggiavano nel mare e dal vento tagliente, lontano dalle giornate grigie e cupe, dalla coltre di nebbia umida. […] Appena rientrato a Rostock il pastore morì, dopo aver subito un’aggressione non solo verbale da parte di un gruppo di camicie brune. Dita si trattenne a casa del padre alcune settimane dopo il funerale e aiutò Herzing a mettere in ordine ciò che restava. Portò a Celje con sé l’arredamento Biedermaier, le porcellane Meissen e acquistò la casa in Slovenia, tanto desiderata da suo padre. storiae La casa a Pečovnik ‐ 32 ‐ Dita ne era entusiasta: la casa sorgeva su una altura come un piccolo castello. Un fosso e un corso d’acqua simulavano il fossato del castello; prati sulla collina, trentacinque alberi da frutto, un giardino e un po’ di bosco, molto sottobosco ed un superbo abete. Da una parte il bosco che saliva verso sud e la strada per Celjiska Koce, il rifugio Cillier posto a 750 metri di altitudine, a ovest le Alpi Sanntaler; verso est prati e boschi e una bella casa contadina, a nord la vista su Celje, sul castello, sulle montagne di Bachern. La casetta aveva una camera, una cucina, un corridoio, la cantina, il sottotetto e una dependance. Una porcilaia cadente e una precaria stalla per le mucche, nella quale al massimo ci stava un vitellino e un deposito di legna completavano la casa dei sogni. Questa o nient’altro disse Dita. Fu amore a prima vista. Poiché Dita poteva pagare in contanti, i proprietari vendettero a un prezzo vantaggioso. Dovette intestare tutto a nome di Alma, perchè Dita dopo così poco tempo, non aveva ancora ottenuto il passaporto jugoslavo. Con suo disappunto aveva ancora il passaporto tedesco ed i tedeschi la guardavano con sospetto. Ma che fosse a nome di Alma o di Dita non aveva nessuna importanza per le due amiche. Avevano piena fiducia l’una nell’altra. Il piccolo possedimento aveva addirittura un piccolo vigneto che dava un vino terribilmente aspro, che Alma battezzò “la spada di Rascid” perchè bruciava lo stomaco, ma divenne l’hobby e la passione di Dita. Quando nessuno la vedeva raccoglieva di nascosto per la strada escrementi di cavallo e quando trovava dello sterco di vacca il suo entusiasmo non aveva confini. I primi fiori piantati da loro furono oggetto di infinita ammirazione e ogni filo d’erba era come una rivelazione. Purtroppo non avevano molto tempo da dedicare al giardinaggio a causa del gran lavoro e degli ospiti che continuavano ad arrivare dall’estero. Ma Dita si ricordava del proverbio inglese: “All comes to him, who waites” (“Tutto arriva a chi sa aspettare”). Ma dovette passare ancora molto tempo prima che Dita potesse godere interamente del suo La casa di Pečovnik. ‐ 33 ‐ storiae piccolo paradiso. E quante cose dovevano ancora accadere! Notizie sempre più terribili venivano da oltre confine. [...] Vita quotidiana tra natura e cultura Alma, la figlia del maggiore, era abituata a una severa organizzazione del tempo, disciplina e puntualità. Dita si alzava alle sei. Alle sei e trenta lasciava entrare la grassa “signorina” che sapeva preparare un eccellente caffè all’italiana. Alle sette compariva Alma in perfetto ordine, avendo già riordinato la sua stanza. Beveva una tazza di caffè senza zucchero e mangiava un cornetto. Dita prendeva caffelatte e due cornetti. In confronto alla colazione svedese quella le sembrava una colazione da carcerata [...] Dopo la Messa Alma andava al mercato e Dita a casa, per riordinare il resto dell’abitazione prima del ritorno di Alma, poiché quando Alma scriveva doveva regnare la calma più assoluta. Dopo tutto quello che aveva vissuto non c’era da meravigliarsi che avesse i nervi a fior di pelle. Scriveva fino alle undici, mentre Dita doveva sbrigare la corrispondenza che arrivava da tutto il mondo, trascrivere le conferenze o illustrare i libri di Alma o progettare le copertine. C’era anche da cucire. Dalle undici alle dodici Alma cucinava con o senza l’assistenza di Dita. Alle dodici arrivavano puntualmente gli “ospiti”. Si stava a tavola fino a mezzogiorno e mezzo, poi Alma ricominciava a lavorare e Dita riordinava la cucina e le stoviglie, poi proseguiva anche lei con il suo lavoro. Fra le tre e le quattro del pomeriggio Alma andava “alla passeggiata” che però sembrava più una gara di corsa perchè Alma era così leggera che volava. Dita le ansimava dietro e trascinava con sé anche il cane Blacky. Mentre camminava, Alma progettava già un nuovo libro e più le venivano delle buone idee, più correva! Alle sette erano di nuovo a casa e cominciava così la parte più piacevole della giornata, le conversazioni con Alma davanti ad una bottiglia di vino della Dalmazia. Ma alle dieci si chiudeva inesorabilmente, perchè ogni nuova giornata richiedeva tutte le forze possibili. Così scorrevano abitualmente le giornate. D’inverno si lavorava ancora più intensamente, d’estate si correva di più. Ma c’era anche un mese di ferie durante il quale si camminava in montagna. Turismo in quota. A Dita venivano le vertigini. Però taceva. Si esercitava nel solaio di Alma, a denti stretti sulle alte travi maestre del tetto. Sarebbe anche andata sul Triglav alto più di 2800 metri. Ci aveva preso gusto. Quando le nuvole circondavano tutto e giù in fondo nel paese degli uomini suonavano le campane, quando intorno a te sentivi soffiare l’aria pura dei monti... poteva esserci qualcosa di più bello? Una volta Alma sorprese Dita che si esercitava nel solaio. Sottovoce le disse: «Vieni subito giù!», nel frattempo avevano cominciato a darsi del tu e Dita aveva ricevuto storiae ‐ 34 ‐ l’onorevole nomignolo di Hunki perchè doveva fare il Cerberus, il cane infernale, che stava alla porta per allontanare gli ospiti sgraditi. Dita scese giù. Ma poi fu rimproverata severamente. Comunque Alma aveva letto in Dita un serio desiderio di diventare una Paesaggio della Carniola (Slovenia). “lepre di montagna” e perciò la portò alla palestra di roccia, il “Fosso del diavolo”, vicino a Celje, dove ci si poteva esercitare ad arrampicare. Dita imparò e le vertigini scomparvero. Erano vinte! Da quel momento non ci fu più alcuna montagna sulla quale le due non potessero arrampicarsi. Dita portava lo zainetto il cui contenuto era “ascetico”, il cibo era razionato con cura, per non portare il peso di cose inutili. Inoltre doveva sempre restare posto per la borsa per il cane, perchè spesso bisognava portare Blacky. Ma pesava appena quattro chili. Quando si facevano escursioni lunghe Alma mangiava al mattino solo un cornetto e beveva una tazza di caffè, poi niente per tutto il giorno. Camminava e camminava come se fosse senza peso. Suo padre, quando era una bimba di sette anni, le aveva insegnato a non sedersi durante lunghe marce, perchè poi è molto difficile riprendere il passo. Alma aveva otto anni quando morì suo padre, ma ricordava tutti i suoi consigli. Dita non ce la faceva. Ogni tanto doveva mangiare. Alma sostava lungamente e osservava il paesaggio. Poi camminava di nuovo fino a sera e solo allora mangiava qualche cosa. Alma poteva così percorrere 40 o 45 chilometri di seguito senza la minima stanchezza. Dopo una settimana di camminate nella Carniola si potevano gettare via le scarpe, perchè nessun calzolaio poteva o voleva più aggiustarle. Per non parlare delle calze e dei calzetti! Dopo questi giri in montagna entrambe le amiche erano per lo più terribilmente dimagrite, ma Alma era entusiasta: «Ci siamo così rilassate!». Il recupero fisico veramente avveniva dopo perchè si scatenava un grande appetito. Il ristoro dell’anima era però indiscutibile e alla fine era questo che importava. D’inverno si andava solo sullo Schlossberg. Ma bisognava salire. Di certo era una cosa sana. Alma aveva regalato a Dita l’equipaggiamento da montagna, e così i suoi piedi che ‐ 35 ‐ storiae prima erano ricoperti di vesciche, si abituarono anche ai sentieri difficili. In fondo, fino allora, era andata quasi solo in auto o aveva camminato su tappeti persiani. [...] La casa di Alma diventa un rifugio per i perseguitati dal nazismo Era l’epoca della seconda guerra mondiale. L’Austria e la Jugoslavia non erano ancora state travolte dai Panzer tedeschi. Come ogni mattina Alma Karlin si recava alla Santa Messa, già da lungo tempo in compagnia di Dita. Era il momento della giornata in cui facevano riserva di energia e le due amiche avevano bisogno urgente di questa fonte per affrontare anche spiritualmente tutta quella disperazione che si stava diffondendo in Europa. Attraverso la Jugoslavia transitavano già molti fuorusciti dalla Germania ma il problema era che nessuno accettava coloro che non avevano i documenti di viaggio in ordine. Ma chi tra questi disperati aveva i suoi documenti? La prima cosa che facevano le camicie brune era derubare le persone della loro identità e abbandonarle al loro destino. Era ancora il meno brutale dei metodi di annientamento ma non meno crudele di Dachau e dell’annientamento col gas, perchè questa gente veniva sballottata di paese in paese fino a quando veniva rispedita in Germania, o spinta al suicidio o moriva di inedia. Era una macchia scandalosa nella storia dell’umanità. Ci furono paesi più lontani che diedero asilo ai fuorusciti ma i popoli europei non si immischiarono o perchè temevano Hitler, o perchè volevano salvare la loro burocrazia che divorava tutti i documenti. La tragedia era indicibile. Alma e Dita erano indignate. Alma scrisse a tutti i paesi, a tutte le autorità alla Croce Rossa, invano. La burocrazia non usciva dai suoi binari. Non ci fu nessuna eccezione [...] perchè la marcia vittoriosa dei Tedeschi procedeva. I cortei dei senza nome passarono anche attraverso la Jugoslavia. Alma e Dita misero insieme le loro ultime riserve per offrire almeno un momento di benessere a persone dal destino perduto. Dita andava sempre ai treni e distribuiva viveri, medicinali, sigarette, piccoli fornelletti a spi- Berlino, anni Trenta, dimostrazione antiebraica dei nazisti. storiae ‐ 36 ‐ rito, abiti, biancheria, fazzoletti. Una goccia sopra una pietra bollente. E tuttavia si poteva essere al corrente di questa miseria e non dare aiuto? Le due amiche fecero ogni sorta di sacrificio, ma quanto a lungo avrebbero potuto continuare? «Finchè qui c’è ancora qualcosa, Hunki, cosa sono mai dei beni materiali, quando si tratta della vita degli esseri umani?» Anche gli invii di denaro dall’Inghilterra non giungevano più con la stessa puntualità. Dita aveva già venduto il suo pianoforte e Alma altre cose di valore. La voce della solidarietà che usciva dalla antica casa di origine romana si sparse ed improvvisamente attirò anche lì una quantità di fuggiaschi. Si faceva quello che era possibile. Anche il conte von der Golt visse per un certo tempo nascosto nella casa di Alma, ormai simile a una fortezza. Quando il conte riuscì a trovare dei documenti potè riparare lontano all’estero. Tutt’altra situazione era quella di Frank von Halen. Egli aveva scritto alla poetessa meravigliose lettere e commentato i suoi libri. Era uno dei tanti sconosciuti del mondo lontano che scrivevano alla viaggiatrice e trovavano comprensione. Improvvisamente le lettere cessarono e dopo molto tempo arrivò un disperato grido d’aiuto. Frank sarebbe forse arrivato, era in fuga. Poi di nuovo un lungo silenzio. Alla fine la lettera di un cappellano dei prigionieri proveniente dalla Francia raccontava tutta la sciagura. Chi era Frank von Halen [cfr. Scheda 3] o Hans Joachim von Bausack? Proveniva da una antica famiglia, suo padre aveva accompagnato il Kaiser di Germania oltre il confine olandese dopo la fine della prima guerra mondiale, Frank era sempre stato al servizio dello Stato ed era il referente personale di Schleicher. Da un nascondiglio fu testimone di come di notte il “Führer” entrò nella casa di Schleicher e con una pistola uccise personalmente sua moglie nel letto. Evidentemente l’assassino pensava che in casa non ci fosse nessun altro. Frank non fu scoperto per miracolo. Rimasto solo con i morti, prese con sé tutti i documenti di Stato e fra questi anche il primo testamento di Hindenburg e abbandonò la casa, favorito dall’oscurità. Egli preparò la sua fuga, visse nascosto presso vari amici, dove nascose anche gli importanti documenti. Purtroppo lo trovò la Gestapo [cfr. Scheda 4]. Volevano sapere chi era, gli ruppero i denti e lo torturarono. Come per miracolo riuscì nuovamente a fuggire. Scappò oltre il Reno, ma nella zona francese lo presero per una spia e lo cacciarono in prigione. In preda alla disperazione saltò da una finestra del piano più alto e si ruppe entrambe le gambe. All’ospedale il cappellano dei prigionieri si prese cura di lui e gli procurò un documento di viaggio per la Jugoslavia. Cos’altro poteva fare Alma dopo la lettera del sacerdote che sottolineava che in quel momento Frank non sapeva dove altro andare se non in Jugoslavia, se non telegrafargli di venire? Una notte arrivò dunque sotto le finestre della antica casa ‐ 37 ‐ storiae SCHEDA 3: Frank von Halen ovvero Hans Joachim Bonsack La figura di Frank von Halen si inserisce nelle complesse vicende che caratterizzarono la storia della Repubblica di Weimar, la sua origine e la sua fine, e l’ascesa del nazismo in Germania. Gli studi storici negli ultimi anni, anche grazie all’apertura degli archivi dell’Europa orientale, hanno prodotto molta letteratura ed hanno proposto nuove ipotesi di lettura delle vicende storiche che hanno segnato gli anni Venti e gli anni Trenta in Germania. Per approfondire le questioni ed in particolare le figure di Hindenburg, Schleicher, del nazionalsocialismo e di Hitler, dei suoi seguaci e degli oppositori, si rimanda alla bibliografia complessiva proposta da questo volume e ad alcuni siti internet, tra i quali segnaliamo http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Nazismo; www. dhm.de/lemo/; www.olokaustos.org/ (mc) SCHEDA 4: La Gestapo Gestapo: Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di Stato), comunemente abbreviata in Gestapo, era un settore della polizia amministrativa (Verwaltungspolizei) che comprendeva le seguenti sezioni: Grenzpolizei (polizia di frontiera), Abwehrpolizei (controspionaggio), Ausland-Abwehr (spionaggio all’estero), Strefendienst (polizia di pattuglia), Kaserniertepolizei (polizia motorizzata), Geheime Feldpolizei (polizia segreta mobile). Era dunque la polizia politica del Terzo Reich. I suoi membri erano reclutati tra gli ufficiali di carriera della polizia e il suo ruolo e la sua organizzazione furono stabiliti da Hermann Göring dopo che Adolf Hitler salì al potere nel marzo 1933. Rudolf Diels fu il primo capo dell’organizzazione, inizialmente chiamata Dipartimento 1A della polizia di Stato prussiana. Il compito della Gestapo era quello di investigare e combattere «tutte le tendenze pericolose per lo Stato». Aveva autorità di investigare sui casi di tradimento, spionaggio e sabotaggio, oltre ai casi di attacchi criminali al Partito Nazista e allo Stato. Le azioni della Gestapo non erano limitate dalla legge o soggette a revisione giudiziaria. Il giurista nazista Werner Best al riguardo dichiarò: «Finché la Gestapo... esegue la volontà della leadership, sta agendo legalmente». La Gestapo era specificatamente esente dalla responsabilità verso le corti amministrative, dove i cittadini potevano rivolgersi per obbligare lo Stato a conformarsi alle leggi. Il potere della Gestapo più spesso abusato era lo Schutzhaft o custodia protettiva, di fatto il potere di imprigionare chiunque senza procedimento giudiziario, tipicamente nei campi di concentramento. Le persone imprigionate dovevano addirittura firmare il loro Schutzhaftbefehl (il documento che dichiarava che la persona veniva imprigionata). Quasi sempre la firma veniva estorta con la tortura. Nel 1934, Göring, sotto la pressione di Heinrich Himmler, acconsentì a garantire il controllo della Gestapo alle S. S. (Schutz Staffeln, guardie di sicurezza. Gruppo scelto di individui incaricati a garantire la sicurezza dei gerarchi del Partito Nazionalsocialista. In seguito divenne un corpo militarizzato con compiti di controllo su tutte le attività economiche, politiche e sociali del Reich tramite uffici appositamente creati. storiae ‐ 38 ‐ Quindi fu trasformato in un corpo militare combattente. L’organizzazione delle S.S. fu imponente). Nel 1936 Reinhard Heydrich ne fu nominato capo e Heinrich Müller responsabile delle operazioni. Durante la seconda guerra mondiale, la Gestapo si espanse fino ad un organico di 45.000 unità. Essa aiutò nel controllo delle aree occupate dell’Europa e si occupava di identificare ebrei, socialisti, omosessuali e altri, per il trasporto nei campi di concentramento. Al Processo di Norimberga l’intera organizzazione fu inquisita e condannata per crimini contro l’umanità. (mc) SCHEDA 5: Gli ultimi studi su Thea Schreiber Gamelin o Gammelin Thea Schreiber narra in un’altra parte del diario/romanzo che, poco prima di partire da Rostock per la Jugoslavia, aveva scoperto di non essere la figlia del pastore protestante che le aveva fatto da padre, ma di essere stata “scambiata” ancora in fasce, con il figlio maschio del pastore. Lo scambio era avvenuto tra una duchessa della casa reale inglese e il pastore per motivi ereditari e di successione. Il vero figlio del pastore era morto quando aveva vent’anni in un incidente stradale e da quell’avvenimento era riemersa la verità. Quella scoperta aveva colpito profondamente Thea e ne aveva sconvolto la vita. Al suo cognome aggiunse quindi quello “originale” di Gamelin (o Gammelin). In questo caso, la madre a cui Thea si riferisce è la duchessa inglese con la quale aveva da poco ritrovato un contatto. Va ricordato che nel 2010 a Rostock, in Germania è stato pubblicato il libro di Matthias Burkhardt, Malerin Partisanin, Mystikerin. Thea Schreiber Gammelin 1906-1988, la prima biografia intellettuale di Thea Gamelin. Il saggio, oltre a contenere molti acquarelli, quadri, fotografie di Thea, narra la storia della vita della figlia del pastore protestante di Brunshaupten (dopo il 1938 chiamata Kühlungsborn): la sua infanzia, la vocazione artistica, gli studi compiuti presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, i viaggi in Norvegia, in Italia, l’incontro con Alma Karlin e la scelta di trasferirsi a Celje, gli anni del nazismo e della guerra, il difficile dopoguerra e le sue ultime scelte di vita, la conversione al cattolicesimo, gli studi teologici ed infine l’ingresso nell’ordine delle suore terziarie francescane. Il libro cita ampi stralci del diario-romanzo Due vite… una meta, che Burkhardt data tra il 1969 e il 1970. Riferisce inoltre dei suoi viaggi a Celje, i suoi contatti con amici e conoscenti di Thea Gamelin e il suo lavoro di ricerca nell’archivio della comunità protestante di Brunshaupten/Kühlungsborn e tra i volumi della cronaca scritta dal pastore protestante Schreiber, padre di Thea, nell’archivio del museo di Celje e della biblioteca nazionale. Inoltre attinge al lascito di Thea presso Helena Ojšterček a Zadobrova. È un lavoro fondamentale soprattutto per la ricostruzione degli anni del dopoguerra. (mc) ‐ 39 ‐ storiae di origine romana e quando Dita guardò giù disse: «È qui«» Lo fecero entrare velocemente e la pesante anta della porta si richiuse di nuovo. Il fuggiasco era completamente sfinito. Appena sopra i trent’anni la sua alta figura era curva e faticosamente arrancava sulla gambe fratturate, guarite da poco, era ridotto ad uno scheletro, il corpo dimagrito era infagottato in un abito di fortuna. Frank era come un mucchietto di miseria che ispirava compassione, con una gravissima depressione psichica. Naturalmente Alma e Dita fecero tutto il possibile per ridare all’infelice voglia di vivere, ma se sapevano quando era arrivato, non sapevano come se ne sarebbe potuto andare, perchè se ne doveva proprio andare, i nazisti erano troppo vicini. Frank non aveva altro che il documento di viaggio francese. I suoi documenti che non erano così ben assicurati e impermeabilizzati come i documenti di Stato tedeschi, giacevano in fondo al Reno, che aveva dovuto attraversare a nuoto. Così cominciò la disperata lotta per i documenti personali. Talvolta si accendeva una speranza, poi si spegneva e così si andava avanti di mese in mese. Il fuggiasco perse il controllo dei nervi e fece un mezzo tentativo di suicidio con la stricnina. «Così diranno anche che l’abbiamo soppresso noi» disse Dita spaventata e utilizzò le sue cognizioni mediche per conservare in vita l’infelice. Si doveva pur trovare una via. E la lotta per i documenti andò avanti. Tutti i paesi, tutte le autorità vennero interpellate, anche l’ufficio passaporti. Tutto invano. Frank desiderava ardentemente rivedere la sua anziana madre. Alma rese possibile anche questo e finanziò il tutto. La vecchia signora restò per settimane nella loro antica casa che poggiava su fondamenta romane. E madre e figlio si videro là per l’ultima volta. La situazione finanziaria in casa era catastrofica, ma non si voleva farlo capire all’ospite. Aveva già abbastanza preoccupazioni. Per la prima volta Dita scrisse una lettera di preghiera a sua madre [cfr. Scheda 5]. Ma anche alla posta c’erano i componenti della “quinta colonna” [cfr. Scheda 6] e la duchessa non ricevette mai la lettera ed allo stesso modo scomparvero anche gli invii di denaro. Le due amiche vendettero di Berlino, Opernplatz, 10 maggio 1933. Rogo dei libri nascosto le ultime cose “contrari allo spirito tedesco”. storiae ‐ 40 ‐ SCHEDA 6: La quinta colonna Viene definita “quinta colonna” un’organizzazione di carattere militare (più o meno informale) che opera clandestinamente all’interno di una nazione o città per favorire l’invasore o il nemico. L’espressione quinta colonna è la traduzione italiana del castigliano quinta columna, che qualcuno attribuisce al dittatore Francisco Franco o al generale Emilio Mola, il quale durante la Guerra di Spagna comandava l’ Armata del Nord. Secondo lo storico inglese Hugh Thomas, durante una conferenza stampa con giornalisti stranieri fu chiesto al generale quale delle “quattro colonne” che componevano la sua armata avrebbe conquistato Madrid. Mola rispose che l’iniziativa sarebbe spettata alla “quinta colonna” (quinta columna), con implicito riferimento ai gruppi filomonarchici e franchisti che agivano clandestinamente a Madrid. Queste “parole imprudenti” fornirono il pretesto per una lunga serie di eccidi nella capitale. Secondo altre fonti Mola avrebbe affermato, durante una trasmissione radio-fonica nel 1936: «Abbiamo quattro colonne che avanzano su Madrid. La quinta colonna si solleverà al momento giusto» (probabilmente si tratta dello stesso episodio tramandato in due versioni differenti). L’espressione ebbe subito fortuna nel lessico giornalistico ed è stata riprodotta in tutte le lingue europee (ad esempio fifth column in inglese, fünfte Kolonne in tedesco). L’espressione quinta colonna viene usata di solito in senso dispregiativo, per indicare gruppi di traditori che aiutano il nemico; spesso, durante una guerra, gli aderenti a una fazione politica che si oppone alla maggioranza vengono accusati di costituire una quinta colonna: di collaborare cioè (consapevolmente o no) con il nemico che minaccia il loro Paese. Durante la Seconda guerra mondiale in Polonia e in Cecoslovacchia furono attive formazioni paramilitari chiamate Volksdeutsche Selbstschutz (“Autoprotezione tedesca”), formate da polacchi e cecoslovacchi di lingua tedesca che aiutarono il Terzo Reich, rendendosi colpevoli di stragi o altre azioni dirette a provocare azioni repressive da parte dei governi locali, che sarebbero state poi usate come pretesto da parte del governo tedesco per intervenire negli stati da conquistare. Così avviene anche in Slovenia tra il 1940 e il 1945. (mc) La deportazione in Serbia degli sloveni, fotografati sulla strada verso la stazione di Maribor (Marburg), luglio 1941. ‐ 41 ‐ storiae di valore, oggetti d’oro e d’argento, porcellane e tappeti. […] Frank aveva vissuto fin ad allora in casa nascosto come un prigioniero, non aveva osato mostrarsi in pubblico. Poi non riuscì più a trattenersi e volle andare al caffè, tra la gente, per parlare con qualcuno. Alma comprendeva il suo desiderio, ma non trovava certo la cosa saggia. Ma il giovane diplomatico non si lasciava più trattenere. Le sue gambe erano migliorate e il suo corpo rinforzato pretendeva il movimento. Così cominciò ad uscire e questo fu un errore. Il pastore luterano May, presso il quale avevano sempre luogo le riunioni della “quinta colonna” della minoranza tedesca, aveva già messo nella lista dei condannati a morte le due artiste. Così il cosiddetto “Kulturbund” [“Circolo Culturale”, ndr.], insomma i nazisti anche se camuffati, cominciò a curiosare e a spiare in giro. Una “benevola” lettera di ammonimento arrivò ad Alma dal console tedesco di Zagabria: lei non doveva immischiarsi nella politica . Era noto che la scrittrice proteggeva i fuggiaschi e, nel caso avesse avuto interesse per il mercato editoriale tedesco, doveva cortesemente lasciare perdere. Al tempo stesso arrivò un invito dal console tedesco per un abboccamento. «Non andare» disse Dita spaventata. «Ci vado invece» disse Alma. «Io voglio dirgli cosa penso di tutto questo. Sono dei vessatori». Quando Alma voleva qualcosa, lo faceva. Tuttavia prese alcune precauzioni. Indossò un vistoso mantello rosso-vino, ornato con una pelliccia bianca Un gruppo di sloveni deportati in Serbia dai nazisti nel luglio 1941. storiae ‐ 42 ‐ e prese con sé una conoscente, che doveva attendere davanti al consolato. Se lei non fosse tornata nel tempo previsto, avrebbe dovuto avvisare la polizia. Alma era pur sempre una cittadina jugoslava. Dita nel frattempo doveva stare attenta ai rifugiati. Il console fu straordinariamente cortese e disse ad Alma di scrivere dei Mari del Sud e di non preoccuparsi delle questioni politiche nel mondo. Lei fece capire al console che come jugoslava e cristiana aveva la libertà di aiutare ogni persona in difficoltà, fino a che era nelle sue possibilità; a questo non si sarebbe sottratta, era semplicemente un dovere. «Così purtroppo sarà nostro dovere escludere i Suoi libri dal mercato tedesco e proibire anche le mostre di pittura della Sua amica e confiscare tutti i Loro beni che si trovano nel territorio del Reich tedesco. Il Führer ha messo una taglia per la cattura di Frank von Halen. Se vuole essere leale … potrebbe darci una mano …». Alma gli lanciò uno sguardo furente e disse fredda: «Faccia ciò che deve. Io e la mia amica rinunciamo. Noi abbiamo ancora valori morali e tutto il mondo giudica i vostri metodi come li giudico io!». «Ma Frank von Halen ha sottratto documenti tedeschi». «A me cosa importa, è un suo problema». «Peccato, peccato» mormorò il Console e aprì la porta con un rispettoso inchino. Rasserenata la conoscente accolse Alma ed entrambe notarono che da una certa distanza qualcuno le seguiva. Dita abbracciò Alma con lacrime di gioia. «Allora l’orso berlinese non ti ha ancora sbranata!» Da allora le due amiche furono sempre sotto sorveglianza; subirono anche dei tentativi di rapimento. Due uomini in motocicletta avevano atteso le due amiche in una strada solitaria sotto il castello e avevano chiesto loro in tono da Gestapo: «Chi è di voi la signora Karlin? Lei o Lei? Noi portiamo dei saluti da … da … Iserlohn. Qui c’è una lettera». Dita aveva riconosciuto il simbolo della Gestapo e notò come entrambi si preparavano a catturare Alma. Rapida come il lampo Dita estrasse il pugnale finlandese che portava sempre con sé e tagliò le gomme della motocicletta. «Noi siamo in Jugoslavia signor Gestapo!» I due impallidirono e visto che da lontano stavano arrivando dei passanti, solo il vento poté portare le loro maledizioni sulla Slovenia e Alma e Dita proseguirono per la loro strada, come se niente fosse accaduto. Per proteggere la sua vita Frank von Halen dovette di nuovo vivere nascosto. […] Nella casa di Celje, a causa dello scoppio di una lampada a petrolio, la camera di Dita cominciò a bruciare e Dita stessa divenne una fiaccola: fu costretta a gettarsi nella fontana e poi venne trasportata in ospedale. La gravità delle ‐ 43 ‐ storiae bruciature impegnò Dita in lunghe e dolorose cure per più di sei mesi. I nazisti contro Alma Karlin Intanto la vendita dei libri di Alma e dei quadri di Dita venne proibita sul mercato tedesco e tutto divenne ancora più difficile. Il capo della polizia chiamò Alma e le disse che avrebbe dovuto allontanare i fuorusciti, non voleva aver dissapori con il governo del Terzo Reich, che continuava a far pressione affinché consegnassero loro queste persone. Alma allora tentò attraverso le sue conoscenze di mandare Frank in Austria o in Svizzera. Frank Vignetta satirica sul rogo dei libri ad opera partì. «Dio sia lodato» disse Dita, ma dei nazisti nella primavera del 1933. restò in lei un’apprensione continua e Alma disse cupa: «Hunki… e non siamo ancora alla fine di questo dramma!». La sera il fuggiasco era di nuovo lì! Lo avevano voluto mandare subito al confine tedesco e con grande fatica era riuscito a farsi rispedire da dove era venuto. Appena arrivato, di notte, fu preso dalla disperazione si tagliò con una lametta e prese la stricnina. L’aveva sempre con sé nel caso dovesse cadere nelle mani dei nazisti. Sanguinava abbondantemente e si piegava su se stesso come fosse un ponte. Dovettero portarlo in ospedale. In quello stato almeno non avrebbero potuto consegnarlo. Anche Alma e Dita erano ormai sfinite e avevano un solo desiderio: un po’ di pace. L’infelice fu di nuovo rimesso in piedi ed il dottor Kalan, un avvocato amico, lo prese in consegna. Alma lo mise in guardia per la fragilità di carattere del rifugiato, perché Kalan aveva in casa con sé la sua figlia più giovane. Ma la sfortuna continuò il suo corso. Majda si innamorò, ricambiata, del senzapatria. Ed anche la famiglia fu inserita nella lista nera dei tedeschi. Alla fine la famiglia del dottor Kalan attraverso diversi contatti riuscì ad espatriare in America. Più tardi, in Norvegia, Majda sposò il fuoruscito che per tutto il periodo in cui il regime di Hitler fu al potere, si spostò di paese in paese, da un ufficio passaporti all’altro. Majda tornò indietro e diede alla luce una bambina. Naturalmente il “Kulturbund”, il “fascio”, come Alma soprannominava i nazisti, aveva riferito tutto al console a Zagabria. Il “fascio” non aspettava che l’invasione di Hitler e rapidamente tutto fu pervaso da queste idee “avvelenate”. storiae ‐ 44 ‐ Il trasloco e la villa fuori città Alma e Dita non riuscivano a credere di poter finalmente godere di un po’ di tranquillità, anche se nella povertà, ed ecco che arrivò un nuovo colpo. Il Comune decise di allargare la strada proprio là dove sorgeva la loro casa, costruita su antiche fondamenta romane. Costrinsero la scrittrice a traslocare e ad abbandonare la città. Si minacciò l’esproprio. Il vicino di Alma, il fornaio Kirlis subentrò. Comprò la casa di città di Alma e le diede in cambio una bella ma scomoda villa sotto lo Schlossberg. Il farmacista Zippel si era costruito quella villa per il week-end, ma l’approvvigionamento era difficile e le condizioni delle condotte dell’acqua molto danneggiate. Era palese che si voleva cacciare Alma dalla città. Specialmente il consigliere Subic insisteva per l’espulsione di Alma. Sua moglie era un’austriaca: «Heil Hitler!». Il distacco dalla casa paterna e dalle comodità della città fu amaro per Alma. In tre giorni il trasloco doveva essere completato. Una fatica mostruosa che demoralizzò ancora di più le due amiche, già sfinite sul piano fisico. […] L’allargamento della strada che era sembrato così impellente, ora aveva invece molto tempo davanti a sé. Furono le bombe della guerra che espletarono quell’incombenza. Thea Schreiber Gamelin, Villa a Zagrad, olio su tela, 1939. ‐ 45 ‐ storiae Ancora una volta le due amiche affrontarono il rischio di andare in Austria. Si recarono a Vienna presso un’amica d’infanzia, Lorle Pichler-Mandorf, e poi a Goisern da Armagard von Bötticher. Ma lo stato d’animo nel paese delle montagne era già altamente esplosivo. Gli adepti di Hitler ora si mostravano apertamente e si notava dappertutto un eccitato nervosismo. Quando si seppe della terribile uccisione di Dollfuss [cfr. Scheda 7], Alma salì sul primo treno con Dita. La Jugoslavia offriva ancora rifugio contro la follia di Hitler. Ma per quanto ancora? In Austria già sul treno i fedelissimi di Hitler correvano su e giù per il corridoio soltanto per salutarsi in continuazione con «Heil Hitler!». Si comportavano come pazzi o come bambini che giocavano. Purtroppo era una tremenda realtà. La valanga sarebbe andata avanti. I nazisti già ora erano violenti con Alma. La spia Tra molti altri le aveva scritto anche una grande attrice della Germania del Sud: erano lettere belle e ricche di spirito. Improvvisamente l’artista annunciò il suo arrivo. La calligrafia era apparentemente la stessa, ma il modo di esprimersi era diverso. Dita studiò la calligrafia e la scrittura e diagnosticò la falsificazione. Alma era del parere che probabilmente la vera attrice era stata uccisa e ora la Gestapo ne mandava una per eliminare Alma Karlin, una donna scomoda per il Terzo Reich. Insieme a Herzing che stava ancora nella villa, presero in esame la situazione e per ogni evenienza vennero preparati dei “piani di guerra”. Alma e Dita andarono alla stazione il giorno indicato per accogliere l’artista. Quella che scese era tutt’altro che una figura da palcoscenico. Piccola, grassa, muscolosa, con un linguaggio trascurato, la signora stava davanti alle sue ospiti, che si scambiarono uno sguardo d’intesa. Emma, così voleva essere chiamata, evitava spaventata di parlare di teatro. Però ricordava con gusto che lei con facilità poteva sollevare in aria un uomo su una sedia. Quando l’ospite si addormentò, le tre abitanti della casa misero in atto un “piano di guerra”. Una di loro doveva sempre vegliare e quando uscivano dovevano fare la cosiddetta “marcia delle oche”: una davanti, l’ospite in mezzo e una dietro. Già nella prima settimana osservarono che l’ospite di notte cercava di frugare nella corrispondenza di Alma. Di giorno Emma dalla terrazza faceva strani cenni con un fazzoletto a qualcuno di invisibile che doveva essere nascosto nel bosco. Emma fumava come un camino. «Non danneggia la sua voce?» chiese Dita in modo innocente. «Chi se ne frega, non mi danneggia niente!». Herzing, che era abituata alla lingua di corte, ebbe quasi un collasso. Dopo due settimane, dopo che ebbero trascinato la palla di Speck e di muscoli in giro sulle monta- storiae ‐ 46 ‐ SCHEDA 7: Engelbert Dollfuß Engelbert Dollfuß (Texing1892 – Vienna 1934), di formazione cattolica, fu uno dei maggiori esponenti del Partito cristiano-sociale austriaco, in decisa opposizione al movimento socialdemocratico. Piccolo proprietario terriero, entrò nella vita politica dopo la sconfitta austriaca nella prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. È stato cancelliere d’Austria durante l’austrofascismo, dal 1932 al 1934. In quell’anno fondò anche, con l’aiuto del principe Ernst Rüdiger Starhemberg, il Vaterlandfront, un partito che aveva riunito sotto un’unica bandiera i numerosi partiti politici austriaci della destra e che si ispirava al partito fascista italiano. Dopo aver stroncato, con una dura e sanguinosa repressione, la rivolta dei quartieri operai di Vienna, la sua politica si ispirò a quella dell’Italia di Mussolini in contrapposizione alla influenza nazista crescente anche in Austria. Mussolini manovrò il cancelliere per contrastare la pressione del partito socialista e quella del nazionalsocialismo, favorevole all’annessione (l’Anschluss) dell’Austria alla Germania nazista. Il controllo avvenne attraverso le Heimwehren, formazioni squadristiche legate alla polizia italiana e capeggiate dal principe Ernst Rüdiger Starhemberg. A questo nobile indebitato, che verrà nominato vice-cancelliere, Mussolini non risparmiò né aiuti in denaro né armi. I contatti fra i due governanti furono costanti, tesi a consolidare un argine al nazionalsocialismo, anche grazie alla fondazione del Fronte Patriottico, una falange fascista al di sopra dei partiti e i cosiddetti “Protocolli di Roma”, un’intesa a tre fra Austria, Italia e Ungheria, che prevedevano sia facilitazioni doganali fra i paesi contraenti sia una collaborazione militare in caso di necessità. Ma non poté evitare il putsch nazista che il 26 luglio 1934 giunse ad un soffio dalla conquista del potere. Dollfuß stava presiedendo il consiglio dei Ministri quando un corteo di automobili entrò nella sede della cancelleria. A bordo vi erano uomini che indossavano la divisa dell’esercito austriaco. Dollfuss pensò che i nuovi arrivati fossero i rinforzi della guardia. Si trattava invece dei congiurati nazisti: 154 uomini che occuparono facilmente il palazzo. Colpito al collo, Dollfuß chiese un prete ed un medico e pregò di avvertire Mussolini perché potesse prendersi cura della moglie e dei figli. I nazisti s’impadronirono anche della stazione radio e annunciarono le dimissioni di Dollfuß, che stava morendo senza che nessun medico lo soccorresse. Nonostante la morte di Dollfuß, tuttavia, il moto fallì. Forze fedeli alla Repubblica austriaca, guidate dal Ministro della Giustizia Kurt Alois von Schuschnigg, ebbero presto ragione dei rivoltosi che furono arrestati. A Dollfuß successe Kurt Alois von Schuschnigg: nel 1936 un patto con la Germania riconobbe l’indipendenza dell’Austria, ma l’Austria si sarebbe dovuta comportare come uno stato tedesco in politica estera. Il 13 marzo del 1938 l’annessione venne realizzata con il beneplacito dell’Italia, che a causa dell’isolamento da Francia e Inghilterra aveva notevolmente migliorato i rapporti con la Germania e non mostrò ostilità all’Anschluss. (mc) ‐ 47 ‐ storiae gne, Alma una sera disse alle sue fedeli collaboratrici: «Così non si può andare avanti, diventa un gioco del gatto con il topo senza fine! E’ chiaro che Emma sceglie lo strangolamento come sistema per uccidere. Lei deve confessare. In vino veritas!. Domani sarà ubriaca.» Il giorno seguente le due amiche andarono in un’ osteria il cui proprietario era un convinto antinazista e fu messo al corrente dell’impresa. Venne portato in tavola un vino particolarmente forte che per le due amiche era mescolato all’acqua. La buona Emma bevve un bicchiere dietro l’altro, come per disperazione. Improvvisamente cominciò a singhiozzare in modo penoso. «Io non posso farlo, non posso farlo!» Alma chiese sottovoce: «Che cosa non può fare?» Silenzio. Alma versò di nuovo. Emma bevve. Improvvisamente le venne sulle labbra: «Ammazzarla. Io devo strozzarla e non posso farlo. Ora devo tornare indietro senza averlo fatto e mi uccideranno. Io mi sono innamorata di Lei. Alma, Alma! Una persona così non l’avevo mai vista! No, non posso, non posso farlo». Sottovoce, in tono tranquillizzante, Dita le chiese: «Che numero ha della Gestapo?» Emma glielo disse. «Lei deve avere avuto già dei casi interessanti?» Alma versava il vino ed Emma confessava cose che alle amiche facevano rizzare i capelli. Anche dalla Svizzera aveva già trascinato fuori qualcuno, che non era gradito ai nazisti e che questi volevano avere vivo tra le mani … «Mi uccideranno, mi uccideranno!», singhiozzava Emma «ma non posso farlo». La “peste bruna” Un’altra volta cercarono di trascinare Dita, che Alma proteggeva come un Cerbero, in un’ auto tedesca. Dita aveva sempre il suo pugnale finlandese in tasca e la mano sull’impugnatura. Lei colpì immediatamente. Con un urlo di spavento lasciarono la presa. La portiera dell’auto si chiuse e il veicolo sfrecciò via. Da allora le due amiche camminarono sempre vicino al muro delle case. Accadde d’inverno, prima dell’occupazione tedesca della Jugoslavia: le strade erano particolarmente ghiacciate. Alma scivolò e cadde. Si ruppe la L’esercito tedesco occupa la Slovenia, 1941. storiae ‐ 48 ‐ mano destra. Ma il medico purtroppo non riconobbe subito la frattura e poi fu tardi. Si dovette rompere di nuovo l’osso. Bisognava farlo con un colpo di baionetta. I nervi di Alma si ruppero. Così la mano rimase piegata e senza forza. Alma imparò a scrivere con la mano sinistra. Ma quanta sofferenza dovette sopportare Alma fino a quando la mano poté riprendere una certa funzionalità! La “peste bruna” era entrata in Austria. La Jugoslavia si preparava alla guerra. Sorgeva l’alba del terribile Venerdì Santo del 1941. Giorni prima si era udito il rombo dei cannoni al confine. Ma il nemico era già nel paese. La “quinta colonna” aveva preparato tutto per ricevere degnamente gli inviati del Führer.[…] Venerdì Santo 1941 [cfr. Scheda 8]. Solo pochi giorni prima i cannoni avevano tuonato al confine vicino a Maribor ed ora era tutto finito. I carri armati tedeschi avevano travolto tutto ed erano entrati nella città sulla Savinja che al tempo dei romani si chiamava orgogliosamente Claudia Celeja. La “quinta colonna” (il cosiddetto Istituto Culturale “Kulturbund”) era allineata per accogliere le truppe naziste con giubilo e fiori. Degli sloveni non si vedeva nessuno. Le finestre erano chiuse. L’inevitabile pesava cupo sul popolo, che secondo le teorie tedesche sarebbe stato annientato, i “cani sloveni” si potevano scannare. Il pastore evangelico May aveva già preparato la lista dei condannati a morte: si trattava dei più forti oppositori al regime nazista e dei nazionalisti sloveni. Anche Alma e Dita erano nella lista. Da lontano le due amiche osservavano tutto e Dita sapeva dolorosamente che era troppo tardi per fare qualunque cosa: Alma non aveva voluto ascoltare quando dei buoni amici le avevano consigliato la fuga. Il signor Parin proprietario di castelli e altri beni in Svizzera aveva offerto loro asilo, finché c’era ancora la possibilità di allontanarsi dalla Jugoslavia. Ma Alma aveva declinato l’invito e anche Dita riconobbe che fuggire via sarebbe stato privo di senso. Da anni era SCHEDA 8: Il terribile Venerdì Santo (6 aprile 1941) “La mattina del 6 aprile 1941, gli eserciti della Germania e dell’Italia attaccarono di sorpresa la Jugoslavia dall’Austria, dall’Istria, dalla Bulgaria e dall’Albania. In poche ore i principali aeroporti e la capitale furono massicciamente bombardati dall’aviazione nazista. L’azione fu fulminea e il Paese, in cui nulla era stato fatto per organizzarne le difese, precipitò nel caos. […] In un clima di disgregazione generale fra l’11 e il 15 aprile entrarono in azione anche le truppe bulgare e ungheresi. Il giorno 17, nel quartier generale della II Armata tedesca a Belgrado, fu firmato l’atto di resa senza condizioni che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo a mezzogiorno”. BIANCHINI S., La questione jugoslava, Firenze 1999, p. 57. (ef ) ‐ 49 ‐ storiae emigrata per andare incontro a tutto quello che inevitabilmente ora stava incombendo su di lei. I soldati tedeschi apparivano esauriti e sfiniti. Non mangiavano, divoravano tutto quello che trovavano. Solo così poteva stare in piedi il Terzo Reich, saccheggiando un paese dopo l’altro. La Pasqua in Jugoslavia ora era avvolta da un clima di tragedia. Dopo le truppe arrivò subito la Gestapo. Mimerl Ludwig, una compagna di scuola di Alma, aveva messo in guardia tutti quando erano arrivati i carnefici. Ma che si poteva fare? Si era prigionieri nella tela del ragno. Solo Dio poteva ancora aiutare il popolo anglo-americano di propaganda sloveno, nessun altro. Le due amiche Manifesto antinazista. stavano in casa il meno possibile. I boschi, la natura divennero il loro tetto. Senza danaro, con il minimo di mezzi per poter vivere, vagavano per ore per dominare l’intensa inquietudine. Pensavano ai pellegrinaggi, alle cerimonie religiose illuminate dalle candele. In città non andavano più, perchè mai offrirsi volontariamente al nemico? Questo sarebbe già accaduto abbastanza presto. Dita e Alma sopravvivevano al grigiore del presente discutendo e riflettendo. Alma citava i salmi in latino e parlava anche della saggezza del lontano Oriente, dei suoi studi in Tibet ... Attorno a loro il bosco protettivo, le montagne i ruscelli. Gli uccelli cantavano come sempre e giù nella valle infuriavano i vincitori. Intere famiglie furono annientate solo perchè erano slave e non germaniche! Ogni giorno in città venivano appesi dappertutto i manifesti rossi, le liste di morte degli assassinati. Fra loro c’era gente vecchissima e anche bambini. Ma erano slavi, [cfr. Scheda 9] appunto. Bisognava liberarsene. La disperazione cresceva di giorno in giorno. Quelli del “Kulturbund” se ne andavano in giro a testa alta, contenti. Il pastore luterano May si accompagnava per lo più ai peggiori agenti della Gestapo, ai quali dava consigli su chi si poteva ancora eliminare. Le prigioni erano piene. I prigionieri venivano torturati e tormentati fino alla morte nei modi più orribili. I bambini venivano strappati alle madri, i neonati al seno materno. Il dolore morale delle anime era indescrivibile, ma gli sloveni sopportavano tutto valorosamente e storiae ‐ 50 ‐ SCHEDA 9: La persecuzione degli sloveni “Il 6 aprile 1941, di primo mattino, l’aviazione militare tedesca sferrò i primi attacchi aerei contro la capitale jugoslava, senza nessuna dichiarazione di guerra.[…] Tre giorni dopo le truppe tedesche occuparono la città di confine di Maribor/Marburg. La Slovenia venne conquistata in tre giorni, senza incontrare resistenza degna di nota. Quelle che erano state la Stiria inferiore e la Carniola superiore, senza la capitale Lubiana, entrarono a far parte del Reich tedesco; Lubiana e la Carniola inferiore vennero assegnate all’Italia, mentre la parte orientale del paese, l’alto bacino della Mura, venne data all’alleata Ungheria. Il 12 aprile Sigfried Uiberreither, Gauleiter (carica creata da Hitler per indicare il capo di un Gau, cioè un distretto territoriale) della Stiria, si recò a Maribor, ora di nuovo chiamata Marburg, e annubnciò un progetto di «germanizzazione del paese», collegato all’espulsione degli indesiderati sloveni: Vogliamo mettere la cavezza a questo paese, in modo tale che al suo interno trovino posto soltanto i tedeschi, quegli abitanti della Stiria che per anni, decenni e secoli fedelmente e cameratescamente hanno combattuto spalla a spalla con i nostri connazionali.[…] E tutti gli altri, miei cari connazionali, di questo pubblicamente non faccio alcun mistero, devono andarsene via! […] Con estrema freddezza prenderemo tutte le misure necessarie. La Stiria inferiore entrò amministrativamente a far parte della Stiria e circa duecentossessantamila sloveni, ovvero un terzo della popolazione, dovettero essere trasferiti; in questa azione ebbero un ruolo di rilievo Gestapo e SD, che si erano insediati a Marburg. La Gestapo e l’SD di Marburg erano uffici distaccati di Graz, dove già prima dell’invasione erano state accuratamente raccolte informazioni sulla Stiria inferiore e sui locali «elementi ostili ai tedeschi». Subito dopo l’occupazione si ebbe un’ondata di arresti, basati su liste che erano state preparate in precedenza, in cima alle quali c’erano gli intellettuali e i sacerdoti sloveni”. (ef ) POLLAK M., Il morto nel bunker, Torino 2007, pp. 108-109. non si lamentavano davanti alla spietatezza del nemico. Una volta Dita e Alma andarono nella contrada dietro lo Schlossberg. Là viveva una cara conoscente, una signora cieca e anziana, che era così abile che non aveva bisogno di alcun aiuto. Lavorava dalla mattina alla sera. Le artiste trovarono la casa vuota e deserta. Con sguardi terrorizzati i vicini le informarono che la Gestapo aveva preso la cieca e l’aveva mandata alle camere a gas, come “vita inutile” [cfr. Scheda 10]. In questo modo scomparvero molte persone fragili e i bambini che avevano difetti fisici. «Il Signore sulla vita e sulla morte è Dio soltanto», disse Alma severa «e chi contravviene a questa legge sarà severamente punito». Ma pareva che il vincitore potesse permettersi tutto quello che voleva. Le liste dei morti aumentavano. Molte case ‐ 51 ‐ storiae erano deserte. Tutto veniva saccheggiato, rubato dagli sfrenati vincitori e portato nel magazzino di raccolta del bottino. Poi si cominciò a evacuare, quando si decideva di non uccidere. Bisognava fare posto per il processo di germanizzazione. Anche i bambini che erano sani furono mandati in Germania per allevarli come buoni tedeschi e prepararli a diventare più tardi carne da cannone per combattere per la Germania. La cattura di Alma Era la notte del 18 giugno 1941. Le due amiche erano nella villa, perchè Alma aveva detto: «Hunki, non serve a niente, dobbiamo essere preparate. Questa notte verranno». La Gestapo arrestava sempre di notte. Vestite, SCHEDA 10: L’attuazione della Säuberung des Volkeserbgutes (purificazione del patrimonio ereditario nazionale) Fin dal 1933 nei territori del Reich fu avviata la pratica della sterilizzazione dei cosiddetti Erbkranke, definiti come “individui affetti da malattie di tipo ereditario” e dunque pericolosi per la sopravvivenza della “pura razza ariana”. A questa fase seguì la realizzazione del cosiddetto “programma eutanasia”, messo in atto dai nazisti fin dal 1939, che prevedeva l’eliminazione fisica dei malati psichici e dei disabili. Più di 70.000 persone furono assassinate così nelle camere a gas in nome della Säuberung des Volkeserbgutes (purificazione del patrimonio ereditario nazionale). Le famiglie venivano convinte a “consegnare alle autorità” i propri cari “disabili” affinché il Reich se ne occupasse direttamente, trovando per loro cure e sistemazioni migliori, liberando le famiglie da un peso sia economico che sociale. Dopo pochi mesi nelle case giungevano telegrammi lapidari, che comunicavano l’avvenuto decesso della persona in cura per cause naturali. A nulla servirono proteste o richieste di chiarimento dei parenti. A cadere nella trappola furono prevalentemente le famiglie contadine o quelle in condizioni economiche disagiate, per le quali due braccia che non potevano lavorare erano un vero e proprio peso. Nel 1941, preso atto della crescente opposizione interna, la cui voce era rappresentata soprattutto dalle Chiese, Hitler stesso ordinò la sospensione di quel programma. Si trattò però solo di un mutamento di strategia: infatti disabili e malati psichici continuarono a essere vittime della cosiddetta Wilde Euthanasie (eutanasia selvaggia) esercitata negli ospedali o nei luoghi di ricovero, caratterizzata dalla privazione di cibo e dalla somministrazione di farmaci letali. Cfr. a questo proposito: HINTERHUBER H., Uccisi e dimenticati, Trento 2003; STEURER L., La deportazione dall’Italia (1939-1945): Bolzano, “Materiali di lavoro”, n. 4, 1985; FELTRI M. F., Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei: Lezioni, documenti, bibliografia, Firenze 1995; COSSETTO M., Uccisi e dimenticati: il nazismo e lo sterminio dei diversi, in “STORIA E”, n. 2, aprile 1994; “STORIA E”, n. 1-2-3, 2009, numero speciale dedicato al nazismo. (mc) storiae ‐ 52 ‐ Alma vegliava con in mano la sciabola di suo padre e Dita con una grossa accetta. Era il loro Getsemani. All’una e mezza di notte picchiarono alla porta, Alma aprì la finestra del primo piano. «Chi è là?». «Aprite, Gestapo!». «Questo lo possono dire tutti, venite di giorno come persone per bene. Solo i banditi vengono di notte». La risposta fu uno sparo che sfiorò Alma. Dita gridò: «Non potete sparare sulle donne, noi ci appelleremo a Berlino». Rispose una voce alla porta: «Sono un uomo paziente e aspetterò». L’attesa durò un quarto d’ora. Poi riprese l’assalto. «Aprite!». «Neanche per idea!», disse Alma fredda chiudendo con forza la finestra. A questo punto si avventarono contro la porta - erano in due gli uomini della Gestapo - finché la spaccarono, ma davanti a loro c’erano ancora molte porte e tutte chiuse. «Hunki, adesso gridiamo “Aiuto!” così forte che ci sentano fin dietro la montagna! Per propaganda! Tutti devono sapere che razza di belve sono questi». Le urla delle due donne erano così impressionanti che una colonna sanitaria si precipitò fin lì da oltre la Savinja e tutti i vicini vennero fuori dai loro nascondigli. La Gestapo bestemmiava perchè quel suo sporco lavoro mal gradiva la pubblicità. Combatterono di porta in porta fin quando arrivarono nello studio di Alma. Trovarono la scrittrice impietrita come una statua, con lo sguardo gelido e con la sciabola di suo padre nelle mani. La pittrice teneva davanti a sé l’accetta e i suoi occhi fiammeggiavano. Una incarnava il ghiaccio che tutto congela a morte, l’altra il Vesuvio che da un momento all’altro avrebbe potuto eruttare e bruciare tutto. A rispettosa distanza, indecisi, inconcludenti, stavano i due uomini. Uno di loro mormorò: «Donne come queste non le ho mai viste. I draghi di montagna. In quel momento entrò la colonna sanitaria. «Che succede qui?». «Un’aggressione notturna di delinquenti», disse fredda Alma. «In un paese civile, una cosa così viene punita.» Si sentivano delle voci che provenivano da fuori. Anche i vicini erano accorsi. Tutta la contrada pareva animata. «I minatori», sussurrò spaventato uno dei due della Gestapo. Poi ritrovarono la loro energia e congedarono i medici e gli infermieri che si allontanarono con sguardi tristi e compassionevoli. «Faccia vedere i suoi scritti politici» intimò uno di loro ad Alma, mentre il secondo afferrava Dita per il braccio. Con l’altra mano lei fece una mossa di judo al gomito dell’aggressore notturno che la lasciò con un grido.«Ma che donne!», borbottò anche lui. Alma disse: «Io non ho scritti politici, se vogliono leggere le mie opere, ‐ 53 ‐ storiae prego», spinse una sedia davanti a un poderoso armadio e lo aprì. «Prego si accomodi, non so se riuscirà a cavarsela in due mesi.» L’ufficiale della Gestapo si insaccò sulla sedia. «Lei ha scritto tutta questa roba?». «Sì» rispose brevemente Alma. L’ufficiale rovistò un po’ fra le carte, vide per lo più solo titoli che parlavano dei Mari del Sud, del Giappone, dell’Australia. Poi adocchiò una piccola boccetta di cristallo: «E’ profumo?». Alma sorrise come una sfinge «A seconda di come lo si prende. E’ curaro, veleno del Sud America, bastano due gocce sulla pelle e Lei muore in due minuti». Inorridito quello della Gestapo tirò indietro la mano. Poi si guardò intorno, in quell’ambiente dall’aria esotica. Tutti restavano affascinati dalla ricca raccolta di oggetti provenienti dai viaggi di Alma intorno al mondo. Particolare forza di attrazione parevano avere le lance dei mangiatori di uomini. Alma disse sottovoce: «Sono avvelenate». L’indesiderato ospite si rivolse a lei in modo molto più cortese. Egli pensava certamente con raccapriccio quanto facilmente “i draghi della montagna” avrebbero potuto ucciderlo. Come mai non l’avevano fatto? Alma, che sapeva “leggere i pensieri altrui”, rispose calma: «Perchè esiste un comandamento: non uccidere! Le è noto?». «Hm ...» l’uomo si muoveva inquieto, poi disse: «Maledizione, come fa Lei a sapere che cosa si pensa?». «Lo si impara nel lontano Oriente. In ogni caso è un’occupazione migliore che non arrestare persone innocenti». «Io ho degli ordini» balbettò l’uomo. «Vuol vedere la cantina?» chiese Alma. «Sì». Quando la porta della cantina fu aperta il secondo uomo della Gestapo disse: «Dopo di Voi, Signore!» e si inchinò cortesemente. Ma anche il primo gettò solo uno sguardo nella profonda oscurità ed espresse il desiderio di vedere la soffitta. «Non avete nessuna bandiera!» osservò una volta in soffitta. E Dita replicò duramente: «Crede che in questa situazione possiamo essere entusiaste?». «Signora Karlin, io ho l’ordine di portarla con me». Alma disse fredda: «Niente di nuovo per me. Faccia quello che deve fare». Thea Schreiber Gamelin. storiae ‐ 54 ‐ L’ufficiale della Gestapo esitava. «Lei scriverà, non scriva troppo male di me». Alma tacque. Dita mise insieme della biancheria ed un cappotto per Alma e si apprestò ad accompagnarla. «No, Lei no, Lei no!» si opposero entrambi, quasi spaventati. «Uno deve restare a casa. Le raccolte sono preziose». Rubare è riservato solo a voi - pensò lei arrabbiata. Accompagnarono Alma fino alla macchina, non l’ammanettarono, la trattarono con rispetto. Le due amiche si intesero con uno sguardo. Un codice che avevano convenuto da lungo tempo. Il giorno albeggiava quando Alma fu portata via. Dita corse in casa, poi crollò. La sua anima sorella! Un fiume di lacrime le portò un po’ di sollievo. Avrebbe mai rivisto Alma viva? Ma poi si mise al lavoro. Bruciò tutto il materiale sospetto e gli indirizzi. […] La Gestapo sarebbe sicuramente tornata. Poi mandò telegrammi a molti amici. Poiché i telegrammi avevano un contenuto innocente passarono inosservati. Con gli amici che vivevano nel Terzo Reich era già stato tutto concordato da tempo. L’azione fu fantastica. C’erano molte associazioni “Karlin” in Germania, grandinarono lettere ai sindaci, alla Gestapo: che cosa stava succedendo per arrestare una persona così celebre? Si sarebbero informate tutte le autorità … e così via. Il sindaco gemeva e aprì un archivio “Karlin”. La Gestapo temeva che sarebbero piovute dall’alto delle lavate di testa. SCHEDA 11: Le Valchirie Le Valchirie sono figure della mitologia norrena (la mitologia nordica, vichinga o scandinava), dove sono raccolte le credenze religiose pre-cristiane e le leggende di popoli scandinavi, inclusi quelli che colonizzarono l’Islanda e le Isole FærØer. Gli studiosi separano tale mitologia da quella più tarda germanica (che include anche quella anglo-sassone) che ha con essa pochi punti in comune e viene ricondotta invece all’interno dell’ipotetica mitologia indoeuropea. Le nostre conoscenze si basano su testi medievali (in particolare le due versioni dell’Edda), compilati successivamente all’introduzione del cristianesimo. Nel folklore scandinavo queste credenze nelle aree rurali si sono conservate fino ai nostri giorni, venendo di recente rivivificate o reinventate, come l’Ásatrú o Odinismo. La mitologia norrena si è conservata anche come fonte d’ispirazione letteraria, produzioni teatrale, cinematografica e videoludica. Nella mitologia norrena una Valchiria (norreno: valkyrja) è una divinità femminile minore al servizio di Odino. Nell’arte moderna le Valchirie sono dipinte come graziose ragazze armate con elmo e lancia, sopra cavalli alati, tuttavia nell’inglese antico “valkyrie horse” era sinonimo di lupo. Spesso le loro cavalcature erano i branchi di lupi che si aggiravano tra i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia. La Valchiria stessa appare simile ad un corvo, quando vola sopra i campi di battaglia per scegliere i corpi degli eroi da consegnare a Odino. (ef ) ‐ 55 ‐ storiae Un funzionario annunciò la sua visita di ispezione ed anche un paio di battagliere Walchirie [cfr. Scheda 11] autenticamente germaniche. La Gestapo era già tornata da Dita per una perquisizione ed aveva protestato che le porte non erano ancora state riparate. «Come lo posso fare?», rimbeccò Dita «per prima cosa non ho danaro e poi erano un capolavoro dell’arte tedesca. In più ho già spedito le foto in Germania.» «Quali foto?». «Quelle delle porte! Nel Reich devono pur sapere come vengono trattati artisti di fama internazionale». «Maledizione! Il “Kulturbund”non ci dà pace. Devo anche confiscare il Suo passaporto». «Prego ma sentirete quello che avrà da dire il Reich!» Incerti guardarono Dita e lo divennero ancora di più, quando ebbero ispezionato anche la corrispondenza delle due donne. Nomi così importanti, conosciuti in tutto il mondo e così ammirati! «Al diavolo anche tutta questa faccenda», imprecò il capo. Poi se ne andarono e Dita rimase di nuovo sola. La sera tardi il fornaio, mandò pane di zucca, farina, semolino e rosette. Era ebreo e lui stesso in grandissimo pericolo. Dita mangiò nonostante l’infelicità. Sapeva che le occorreva ancora molta forza per liberare Alma. […] La liberazione di Alma Karlin Il mattino presto Dita si era già attivata per la liberazione di Alma. Dita era venuta a sapere che Alma e le più importanti famiglie di Celje erano state rinchiuse nel Convento dei Cappuccini e che dopo le avevano trasferite nel Lager di Maribor. I tedeschi avevano delle carrozze nere coperte con dei teloni neri. Queste carrozze, nelle quali non si poteva guardare né dentro nè fuori, erano destinate al rapimento di persone. Gli Sloveni le chiamavano “Die schwarze Marica”. Queste carrozze permettevano a tutti di scoprire il crimine della deportazione: gli sloveni cantavano meglio che potevano i loro bellissimi canti popolari dalla loro “nera sepoltura”, perfino i nazisti li ascoltavano volentieri e non li proibivano. In questo modo, però, tutti seppero che il trasporto di un carico umano destinato alla morte o nel migliore dei casi alla deportazione era nuovamente in viaggio. Le proprietà venivano confiscate e tutto veniva portato in un magazzino dove avveniva la “raccolta del bottino”. […] Dita partì per Maribor. Pensava al Lager. Rabbiosamente pensò a tutto quello che poteva accaderle senza i documenti che la Gestapo le aveva portato via e ancora di più si arrabbiava perchè dei ladri la mattina avevano preso anche i suoi diplomi, pagelle e onorificenze. «Questi non le storiae ‐ 56 ‐ servono più» le avevano detto cinici ed erano scomparsi con tutto quanto. A Dita era rimasta solo l’attestazione che era membro della Camera della Cultura del Reich di Berlino, fino a quando aveva dovuto fuggire anche da quella casa a causa degli sfollati. Questo documento l’aveva nascosto. Che le rimanesse almeno un’ultima cosa. A Maribor il primo giorno Dita trascorse otto ore sotto il sole cocente per riuscire a vedere Alma per la durata di un minuto. Insieme a lei aspettavano molti infelici. Di tanto in tanto arrivavano i custodi tedeschi e picchiavano con il calcio dei fucili quelli che aspettavano. Spinsero a terra anche un’ anziana donna che era quasi svenuta e che si reggeva al filo spinato. Dita andò in suo aiuto e gridò al custode: «Ho già incaricato una commissione che verrà da Berlino a controllare. Non avrete niente da ridere!». Il guardiano la osservò, interdetto. La donna sembrava germanica e parlava correntemente il tedesco. Allora, attenzione! Non si poteva mai sapere. «Chi cerca qui?», domandò prudente il guardiano. «La scrittrice Alma Karlin che è stata rinchiusa qui per errore». «La farò chiamare». «Glielo consiglio!», rispose Dita. Dopo pochi istanti Alma era lì, con la paglia nei vestiti, pallida, ma decisa come sempre. Davanti al custode le amiche si parlarono nel loro codice e nessuno poteva sospettare quali cose importanti si comunicavano. Quando Alma fu portata via, Dita pretese di parlare col comandante del campo che le consigliò di andare al quartier generale della Gestapo. Ma poteva trovare qualcuno solo il giorno seguente. Così dovette trascorrere lì la notte. Ma aveva poco denaro. Dove andare? Non conoscevano nessuno a Maribor. Andò in giro fino a sera. Dove poteva andare senza documenti e senza soldi? Stava già male per la debolezza. Aveva con sé solo un po’ di pane secco. Nella luce del sole che tramontava Dita si appoggiò ad un albero. Non ce la faceva ad andare avanti. Sentiva il profumo delle rose là vicino, rose che le ricordavano la primavera di un tempo ormai lontano, forse cent’anni? Come le facevano male al cuore questi fiori della gioia. «Non sta bene?», chiese una voce amichevole. Dita aprì faticosamente gli occhi. La divisa di ufficiale tedesco. Spaventata e cupa guardò l’uomo. «Lei non può rimanere qui. L’arresteranno. Mi comprende?» «Sì, La comprendo, sono cresciuta a Mecklenburg e la Gestapo ha arrestato la mia amica, la celebre scrittrice Alma Karlin. Devo liberarla. Mio Dio cosa hanno già combinato qui i Tedeschi!» «Sì purtroppo!», disse l’uomo a denti stretti. Dita lo guardò stupita. Vide un viso nobile e un’aura chiara, l’ “aureola” che illumina ogni uomo o lo oscura, a seconda di come si sviluppa. In questo caso andava tutto bene e quando l’ufficiale la invitò ad andare con lui, per difenderla dalla Gestapo, lei acconsentì. L’uomo aveva una pic- ‐ 57 ‐ storiae cola stanza con un divano appoggiato ad una parete ed uno più lontano appoggiato all’altra parete. […] Egli diede a Dita da mangiare e da bere, e poi parlarono insieme a viso aperto, come se fossero vecchi conoscenti. I militari erano ormai stanchi del Führer: non ne potevano più di portare sempre solo guerra, sempre disperazione, di essere seguiti solo sguardi disperati o pieni d’odio. Aveva ancora la speranza che i militari avrebbero rovesciato il regime [cfr. Scheda 12]. «Avreste dovuto farlo da principio, ora è troppo tardi», disse Dita triste. Parlarono a lungo, poi ciascuno si coricò vestito sul suo giaciglio. Dita non aveva timore. Quell’uomo era un gentleman ed era contenta di aver trovato ancora un uomo buono fra i conquistatori. L’ufficiale le aveva anche detto che i militari prendevano parte malvolentieri a queste azioni di guerra. Tutti volevano la pace, tutti volevano tornare a casa! Nella notte attraverso la finestra aperta si sentì un pianto amaro. Una voce disperata di bambino singhiozzava: «Buon Dio aiutaci, sono arrivati i tedeschi, i miei sono tutti morti, buon Dio, salvaci dai tedeschi! ». L’ufficiale chiese cosa stava dicendo il bambino. Dita tradusse. L’uomo mormorò: «Anch’io ho dei bambini. C’è da disperarsi». Il pianto cessò e ormai si sentiva solo il vento che soffiava intorno alla casa. La mattina dopo l’ufficiale divise di nuovo la sua colazione con Dita e le promise di portarla alla Gestapo. «Signorina, Lei è coraggiosa e otterrà sicuramente quello che desidera». Con l’aiuto di Dio, pensò Dita. Solo allora vide quello che prima non aveva notato. I simboli dell’alto grado sull’uniforme. «Signor maggiore, Dio ricompensi la sua bontà, spero che Lei possa tornare sano e salvo alla Sua famiglia». Si strinsero la mano. Egli l’accompagnò dal capo della Gestapo e le mostrò la porta attraverso la quale doveva entrare. Poi scomparve e Dita non seppe più nulla di storiae ‐ 58 ‐ SCHEDA 12: Gli attentati a Hitler L’ascesa al potere di Hitler fu strenuamente appoggiata dai vertici militari tedeschi. L’appoggio incondizionato cominciò a incrinarsi già tra il 1936 e il 1938, in seguito all’occupazione della Renania, all’anessione dell’Austria e all’occupazione dei Sudeti, quando ad alcuni esponenti degli alti comandi cominciò ad apparire chiaramente la pericolosità delle ambizioni hitleriane. Dal 1938 furono attivi gruppi di oppositori appartenenti alla Wehrmacht (esecito tedesco), all’ Abwehr (servizi segreti militari) e a circoli diplomatici. E’ però a partire dalla guerra, soprattutto dagli eccidi commessi in Polonia e via via negli altri paesi occupati, che nell’opposizione militare si rafforza l’idea di un colpo di stato e, comunque, dell’eliminazione fisica di Hitler. Tra il 1943 e il 1944 sono circa una decina i tentativi di attentato, più o meno fortunosamente falliti, come quello operato dal generale von Tresckow che colloca un ordigno esplosivo (nascosto in un pacco-dono per un alto comandante militare) sull’areo del Führer. A causa del freddo nella stiva la bomba non esplode e von Tresckow riesce a far recuperare il pacco. Il generale von Tresckow sarà tra gli organizzatori del tentativo di colpo di stato del 20 luglio 1944, organizzato sfruttando le possibilità che offriva, debitamente modificato dai cospiratori, il piano Valchiria (il piano ufficiale di mobilitazione territoriale) dopo aver eliminato il Führer facendo esplodere due ordigni nel suo quartier generale Rastenburg. L’attentato fu materialmente realizzato dal colonnello Shenk von Stauffenberg, ma l’anticipo della riunione comportò la possibilità di innescare un solo ordigno; l’eplosione fu così di minor intensità del previsto. Morirono quattro ufficiali, ma Hitler rimase quasi illeso: il fallimento del piano comportò l’arresto di 5.000 persone. Molti degli ufficiali che avevano preso parte al piano furono giustiziati, von Tresckow si uccise il giorno seguente prima di essere catturato. Non era la prima volta che Hitler scampava a un attentato per una ragione di tempo. L’8 novembre 1939 Johann Georg Elser, oppositore del nazismo, idealista, collocò una bomba a orologeria nella birreria Bürgerbraükeller di Monaco, in occasione del ritrovo annuale di Hitler con i “fedelissimi del Putch” che proprio in quella birreria aveva preso l’avvio. L’ordigno doveva scoppiare alle 21.20, all’apice del discorso del Führer. Ma per il maltempo tutto fu anticipato e quando la bomba esplose (causando 8 morti e 63 feriti) Hitler era già uscito dal locale. Elser fu fermato al confine svizzero, subì gli interrogatori della Gestapo e fu internato prima nel campo di concentramento di Sachsenhausen, poi di Dachau dove fu fucilato il 9 aprile 1945. (ef ) lui. Sapeva però che le sue buone azioni e i suoi buoni sentimenti davanti a Dio avrebbero pesato sul piatto della bilancia. Nella sala d’aspetto gli uomini sedevano pallidi, bianchi come il gesso dalla paura e dall’orrore, tentando ancora una preghiera disperata per i loro cari. In Dita ribolliva la rabbia. Le era tutto indifferente. Era lontana dalla paura. Quando la porta si aprì, entrò dentro semplicemente, ma decisa, e mormorò tra sé: ‐ 59 ‐ storiae «In combattimento, torero!» e si piantò davanti alla faccia ostile dell’uomo che stava alla scrivania e che subito afferrò la pistola vedendo gli occhi fiammeggianti di Dita. «Metta via quell’arma! Prima che mi spari devo parlare con Lei», disse Dita con tono di comando. Il prepotente la guardò senza parole. Poi la minacciò: «Io posso farla fucilare, cosa crede?». «A quanto pare Lei non sa fare altro che sparare, ma prima pretendo che si rispetti il mio diritto». Con ciò Dita picchiò il pugno sul tavolo così violentemente che tutto vacillò e il comandante saltò in piedi spaventato. «Lei ha erroneamente arrestato la scrittrice Alma Karlin, io pretendo subito la sua liberazione. Verrà della gente dal Reich per questo. Sono già stati tutti avvisati». «Maledizione, Lei va subito al sodo e mi piace. Si sieda. Di dov’è Lei?». «Sono una testa dura di Mecklenburg», disse Dita. «Vuole mostrarmi il certificato di rilascio di Alma Karlin? Poi posso subito prenderla con me». «Alt! Io prima devo prendere visione degli atti». E così fece: «Ecco, sempre le denunce del “Kulturbund”». «Niente di nuovo» disse Dita sprezzante. «Lei ha già conosciuto da vicino questo “Kulturbund”»? «Non sono né slavi, né tedeschi; è gente odiosa, gente miserabile!». «Se devo essere sincero devo darLe ragione, non si trovano da queste parti schietti tipi nordici come Lei. In più è già arrivata un lettera infuriata dal Reich. Telegrafica. La cosa può diventare interessante! Lei ha già messo in allarme ogni angolo della Germania?» «Chiaro!» «Le prometto che in tre giorni Alma sarà di nuovo a casa. Le basta?» «Purtroppo no, forse Lei mi vuole solo consolare». «No, le do la mia parola d’onore». «Un uomo, una parola?», domandò Dita. L’uomo della Gestapo le tese la mano e strinse la sua. Lei serrò i denti. «Parola d’onore», disse lui e accompagnò Dita alla porta, la aprì e si inchinò pieno di rispetto. Le pallide vittime la inseguirono con lo sguardo vuoto. Lei si diresse di nuovo al filo spinato e questa volta dovette attendere fino a sera nel sole cocente, per vedere il cambio della guardia perchè gli austriaci erano molto più gentili e umani dei tedeschi. Finalmente arrivò il turno dei guardiani austriaci. Quando il custode lasciò Thea Schreiber Gamelin. storiae ‐ 60 ‐ entrare qualcuno, Dita riuscì ad insinuarsi dietro la schiena del guardiano e a entrare nel cortile, all’interno del filo spinato. Lei si attaccò subito a un uomo come se fossero insieme e gli sussurrò: «Mi porti da Alma Karlin!». Dopo un po’ di giri giunsero all’ingresso della caserma dove c’era il Lager dei prigionieri. Dita ringraziò e scivolò dentro. Trovò subito Alma e si dissero tutto. Alma sedeva sul pavimento di cemento come tutti, un sottile strato di paglia copriva la fredda superficie. C’erano le migliori famiglie slovene che erano destinate al trasferimento in Serbia [cfr. Scheda 13]. Alma doveva originariamente essere mandata a Dachau. Questo almeno era quello che volevano il pastore luterano May e il “Kulturbund”», la “quinta colonna”. Ma l’uomo propone e Dio dispone. Dopo che le due amiche ebbero parlato di tutto, Dita se ne andò, si appiccicò di nuovo ad un prigioniero e si diresse lentamente verso il filo spinato. Quando dei dipendenti vennero fatti entrare dalla porta, Dita balzò alle spalle del guardiano e se ne andò calma per la via come se attendesse qualcuno. Lei SCHEDA 13: I “trasferimenti” degli Sloveni In seguito alla conquista nazista della Slovenia e alla politica di «germanizzazione della Stiria» (cfr. Scheda 9) migliaia di sloveni, arrestati dalla Gestapo e dalla SD furono “trasferiti” nei campi di concentramento in Serbia, dove dall’aprile del 1941 si era insediato il governo collaborazionista del generale Milan Nedic, che di fatto dipendeva direttamente dal comando Bambino sloveno nel Lager di Brestanica. tedesco; altri furono deportati nei campi del Reich; altri ancora consegnati agli italiani perché li internassero nella vasta rete di “campi per civili sloveni e croati”; i campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica, Brac, Hvar, ecc.), disseminati dall’Albania all’Italia meridionale, centrale e settentrionale, dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Solo nei lager italiani morirono 11.606 sloveni e croati. Nel lager di Arbe (Yugoslavia) ne morirono 1.500 circa. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche “zingari” ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini. Cfr: BIANCHINI S., La questione jugoslava, Firenze 1999. COSSETTO M., La resistenza al confine orientale, “STORIA E”, Anno III, n. 2, maggio 2005. (ef ) ‐ 61 ‐ storiae vide che il guardiano ridacchiava. Austriaco. Quelli non picchiavano con i calci dei fucili sulle donne indifese. Questo era una prerogativa dei Prussiani. Dita trascorse i giorni seguenti in una febbrile irrequietezza. La parola d’onore di uno della Gestapo! Anche il diavolo avrebbe potuto darle la sua parola d’onore! Ma nel frattempo avrebbe ricevuto ulteriori lettere infuriate dal Reich. Dita aveva spedito un mucchio di dispacci. In Germa- Novembre 1941: baracche del Lager di nia c’erano tantissime associazioni Brestanica (Reichenburg). “Karlin”. Le loro risposte avrebbero aiutato a mantenere la parola d’onore. Altrimenti… La mattina del terzo giorno, quando Dita era intenta a strappare erbacce nel giardino ed a raccogliere le fragole che voleva serbare per Alma, la melodica, morbida voce della scrittrice improvvisamente chiamò: «Hunki!». Dita alzò lo sguardo. Era davvero là, con la sua esile figura. Ancora più delicata del solito, il volto ancora più pallido, ma gli occhi brillavano di gioia per la libertà. «Hunki, appena mi sarò lavata, andiamo insieme sulla montagna per il Tedeum!» […] In fuga Alma e Dita di giorno si rifugiavano sempre nei boschi. Avevano già un contatto con gli sloveni fuggiaschi, che ora disponevano di una forte organizzazione e si facevano chiamare “partigiani”. Molti fra di loro erano vicini di casa e conoscenti delle artiste. Alma e Dita cercavano di aiutare questi giovani perseguitati e strappati alle loro famiglie e alle loro case. Il dottor Herzmann, che aveva molta sensibilità per i sofferenti, procurava le medicine e così faceva anche il farmacista Tonśič che aveva un figlio colpito da poliomielite che correva il pericolo di venire gassato. Le due amiche ricevevano anche materiale per le medicazioni [...] e pane dal fornaio Kirlis. Ma questa fonte si esaurì perchè l’infelice seppe cosa lo aspettava come ebreo e si impiccò nel parco della città. Dovunque si incontrava infelicità, miseria, disperazione. Tutto questo l’avevano procurato i tedeschi e non se ne vedeva la fine. L’unica speranza veniva dal fatto che Hitler nella sua mania di grandezza, aveva commesso la stupidità di iniziare la guerra con la Russia. Contro la Russia anche il Führer si sarebbe schiantato. storiae ‐ 62 ‐ La notte le due amiche stavano per lo più nella grande villa simile a una fortezza e vi si barricavano dentro. La signora Weinberger, ebrea, aveva regalato ad Alma il suo cane, prima della fuga, ed ora il piccolo Assy faceva la guardia alla casa. Purtroppo era obeso e russava nel sonno in modo micidiale. Così misero la sua cuccia nella cucina al piano di sotto. Ogni notte la Gestapo strisciava attorno alla casa e dalle finestre aperte Alma e Dita sentivano con piacere come i carnefici fuori sussurravano «Senti come russa, quelle hanno assunto un custode. Con queste donne avremo ancora delle difficoltà. Il pastore luterano May dice della scrittrice che è una donna intelligente, un veleno corrosivo. Con difficoltà si potrà avere ragione di quelle due». Poi un giorno, quando Alma e Dita tornavano a casa dal bosco, trovarono sulla porta il sigillo “confiscato”. Dita a sangue freddo prese un pezzo di legno e grattò via il sigillo. Il cane era dentro e doveva mangiare. Il giorno seguente venne la Gestapo fremente di rabbia. E ancora con il vecchio ritornello: «Noi possiamo farvi fucilare». «Se ancora non avete capito che non ci impressionate, mi fate pena», disse Alma gelida. Dita aggiunse «Credete che per il vostro “cartame” lasciamo morire di fame il nostro cane? E dove dovremmo stare poi, eh? Forse andare all’Hotel?». Il cane ringhiava e misurava agli uomini della Gestapo le loro gambe infilate in quegli orrendi stivali. Alla fine i due boia dissero che non sapevano che Alma era stata liberata. «Loro certamente non sapevano che io abito qui e qui ho le mie cose, vero?», continuò Dita. A quel punto entrò un signore dalla porta, si inchinò profondamente davanti ad Alma e Dita e disse: «Funzionario Körber di Norimberga, ho saputo che qui avvengono fatti inammissibili e che si perseguitano la nostra famosa scrittrice Alma Karlin e la pittrice Thea Schreiber Gamelin. Verrà inviata una Commissione e voi starete freschi!» Quelli della Gestapo si strinsero nelle spalle e dissero: «Il caso è chiuso» e spaMarzo 1942: donne e bambini della Carniola (Slovenia), rirono frettolosamente. dopo l’incendio dei loro paesi ad opera dei nazisti, vengono Dita saltò al collo di condotti nei Lager. ‐ 63 ‐ storiae Dolf Körber. «Dolf, ti ha mandato il buon Dio! Io credo che volessero rapirci un’altra volta». Nel frattempo era arrivato ad Alma un invito da parte del borgomastro che non sapeva ancora niente del funzionario Körber. Così il giorno seguente Dolf andò nella “tana del lupo” con Alma e Dita, si presentò pomposamente, mostrò alcuni distintivi, e disse al sindaco cosa pensava di lui e di tutta la combriccola. Il governatore di Celje divenne visibilmente più piccolo. Poi sospirando mostrò un mucchio di telegrammi e di lettere. «Li abbiamo ricevuti in pochi giorni. A causa di Alma Karlin. Possiamo farne un archivio. Signora Karlin, La prego di fare la pace con me. Io da parte mia prometto di non intraprendere più nulla contro di Lei». «Questo può andar bene», approvò Körber. «Alma sei d’accordo?». «Sì, ma il sindaco qui non è l’unico che vuole liberarsi di me. I maggiori colpevoli sono sempre quelli del cosiddetto “Kulturbund”». «Allora Alma, anche quelli verranno sistemati, ma intanto qui facciamo la pace». «D’accordo», disse Alma. Il sindaco si rivolse a Dita: «E Lei, mia signora, La prego di smettere di scrivere. Lei deve avere inviato una montagna di telegrammi in tutte le direzioni. E mostrò ancora una volta la montagna di posta che si ammucchiava sul tavolo davanti a lui». «Se ci lascerete veramente in pace, io smetterò di scrivere». «Verranno ancora eseguiti dei controlli per sapere se veramente lasciate in pace le artiste», ricordò il funzionario. Il borgomastro balbettò: «Ma io ho sentito dire che il Führer si sia interessato personalmente affinché la scrittrice venisse messa nelle condizioni di non nuocere!». Il funzionario gli batté sulla fronte e disse: «Sia certo che il Führer adesso ha ben altre preoccupazioni che far ammazzare una scrittrice semi-affamata! Io mi aspetto che Lei mantenga la sua parola!» «Io lo farò di certo ma per il “Kulturbund” e la Gestapo non posso garantire». «Non si preoccupi! Di quelli mi occupo io!». Così si lasciarono con un “armistizio reciproco”. Poi andarono alla farmacia di Wrentschur, un nazista particolarmente ostinato. Alma andò a casa e solo il funzionario Körber e Dita avanzarono nell’arena. Dolf Körber chiese a Wrentschur dove e quando aveva conosciuto Alma». «Io non la conosco» borbottò il farmacista, avvampando. «Lei non la conosce? Le è nemico e vuole cacciarla dalla sua patria e magari farla rinchiudere a Dachau? Mi dica come è arrivato a tutto questo. A me sembra che qui si debbano prendere misure speciali contro la gente. Ha letto i libri di Alma Karlin?». «No e non ho alcun desiderio di leggerli». «Dunque c’è anche una mancanza di cultura! Bel concittadino! Sentirà ancora parlare di me!». storiae ‐ 64 ‐ «E anche di me” aggiunse Dita fulminando con lo sguardo l’uomo visibilmente accasciato. «Chi è Lei?» domandò Wrentschur. «Anch’io sono una che Lei perseguita senza nemmeno conoscermi , uomo privo di cervello!». Il farmacista restò con la bocca aperta. Era furente ma nello stesso tempo aveva paura e malediceva il giorno che era caduto sotto l’influenza del pastore luterano May, come molti altri del “Kulturbund”. Dita andò a casa, perchè era sicura di non sapersi dominare. Una persona che perde il controllo è fin da principio un perdente. Dolf lasciò cadere i necessari tuoni e fulmini sui colpevoli e da allora per un certo periodo le due artiste furono davvero lasciate in pace. Ma era solo la pausa per un respiro. All’inizio della guerra Dolf aveva partecipato alla Campagna Polacca e raccontò di sofferenze tremende che i Tedeschi avevano inferto al paese slavo, come venivano uccisi con le mitragliatrici una fila dopo l’altra di uomini, donne e bambini, come se nulla fosse. Come si uccidevano gli ebrei e come venivano deportati perchè da loro si poteva ricavarne ancora qualcosa facendone conserve, materiale per mantelli, cibo per i cani, sapone eccetera. Troppo tardi Dolf aveva scoperto l’orribile verità. Una ferita lo salvò e ritornò così in patria. Doveva gestire un’impresa nella quale lavoravano soprattutto prigionieri di guerra. Ma egli si sforzava di essere buono e giusto e di alleggerire la vita ai suoi protetti. Questo gli salvò la vita dopo la guerra, e poté quindi morire di morte naturale. Sua moglie soffrì per uno shock Il carcere “Stari Pisker” (Alter Topf ) a Celje (Cilli). ‐ 65 ‐ storiae nervoso dopo il grande bombardamento di Norimberga e il suo unico figlio, che aveva appena superato l’esame per diventare maestro, morì per un errato intervento chirurgico in ospedale. Ma ancora non si sollevava da questa famiglia il crepuscolo della tragedia. […] «Io sarei scappato dalla Polonia molto volentieri» disse Dolf ad Alma: «Ma chi lo può fare quando è già prigioniero nella “tenaglia bruna”. Avrei firmato io stesso la mia condanna a morte. Ma ho famiglia, così tiro avanti meglio che posso, tento di salvare qualcuno e cerco di aiutare la gente, dove è possibile. La maggior parte dei Tedeschi si era immaginata qualcosa di completamente diverso. Ma poi non ci fu più ritorno. E il Führer pare immune ad ogni attentato. Sapeste a quanti è sopravvissuto. Solo gli attentatori sono morti. Lui però vive. Una terribile minaccia per il mondo». Alma sospirò: «Perchè voi tutti speravate in nuove conquiste, in una maggiore potenza. “Deutschland über alles, Al di sopra di tutti nel mondo.” Non è così?» «Sì», ammise sinteticamente Dolf. Alma continuò: «E non vedi arrivare la tremenda fine? La Germania dovrà pagare in maniera terribile». «Sì, Alma, io sento quello che accadrà. Ma cosa si può sapere o non sapere? Ormai non si può fermare più nulla. Io credo che Dio abbia già espresso il suo giudizio. Se dovessero ancora molestarvi, venite a Norimberga, almeno finché là si starà ancora al sicuro. Inoltre, Alma, come hai potuto prevedere tutto in modo così chiaro e senza cadere in errore?» La scrittrice sorrise: «Non prendertela, io nella vita ho sempre conservato il mio intelletto, niente potrebbe influenzarmi. Ho sempre cercato di guardare il mondo in modo obiettivo, anche per quanto riguarda le persone a me più vicine. Soprattutto in politica è importante. Bisogna sempre sentire tutte le campane, dopo si può arrivare alla verità. E’ importante, misurare tutto con il metro della Legge di Dio. Le idee hitleriane hanno cozzato fin da principio contro la Legge di Dio. […] Là dove i sacrosanti diritti dell’uomo vengono calpestati, la libertà delle creature viene misconosciuta e la vita non ha più valore, le potenze oscure possono ottenere ricchi raccolti. Voi con i vostri desideri di potenza, inciampate ciechi nella distruzione. All’inferno ci si arriva presto, ma uscirne … ». Dolf sospirò profondamente. Improvvisamente ebbe paura del futuro. I nazisti mantenevano i loro seguaci ininterrottamente in attività così che non potessero riflettere e in questo modo era possibile ottenere una massa priva di cervello. La coscienza umana veniva addormentata, il pensiero paralizzato e sommerso da una continua propaganda e così ciascuno smetteva di pensare autonomamente. Ecco il branco di pecore; e con questi individui era possibile commettere ogni crimine, perchè la responsabilità storiae ‐ 66 ‐ era del Führer. Per questo dopo la guerra in Germania ci furono tanti agnellini innocenti che non una volta vollero essere coscienti della loro colpa, della loro enorme colpa. Il funzionario Körber, che conosceva Alma già da tempo grazie ai suoi libri, tornò nel Reich e le due settimane di pace che seguirono furono salutari per le due amiche dopo tutte queste vicissitudini. Anche Herzing tornò nella sua patria perchè voleva morire là. Come un cinese andava sempre in giro col suo abito da sepoltura. Lo portava con sé in ogni viaggio e se avesse potuto si sarebbe portata dietro anche la bara, nella quale si sarebbe potuta stendere per l’eterno riposo al momento giusto. Alma, che era abituata a questa particolarità dagli asiatici, aveva venduto alcuni oggetti di valore e aveva comperato una bara meravigliosa, adatta anche per il trasporto all’estero. Non avrebbe potuto procurare a Herzing una gioia più grande. Andava sempre a guardare quell’oggetto magnifico, perchè i luterani non conoscevano un simile scrigno funebre sul quale volavano gli angeli e i santi invitavano alla comunione. Fu il più grande dispiacere di Herzing non aver potuto portare con sé quella bara, perchè gli Inglesi e gli Americani avevano cominciato a bombardare e bisognava solo essere contenti se si arrivava salvi a casa in mezzo a tutti quegli attacchi aerei. Morire prima del tempo per una bara non sarebbe stato saggio. Per il momento Alma e Dita dovevano temere solo la guardia notturna. Assy come custode ringhiava sempre. Poi però, dopo qualche tempo, gli addetti della Gestapo ripresero il loro servizio e il “Bündel” [un membro del Kulturbund] ricominciò di nuovo a tormentarle perchè le due artiste dovevano essere liquidate. Dapprima Dita ricevette una citazione. Andò là. Un lungo tavolo al quale sedevano membri della Gestapo e alcuni “Bündel”. Orgogliosa osservò il gruppo. «Cosa volete da me?». «Lei non è quella che sembra, Lei è una lady inglese o una duchessa. Lei ha un passaporto falso» Per Dita fu un colpo: tre famiglie per causa sua potevano avere gravi difficoltà. Si riprese e, abituata a dominarsi, le riuscì anche questa volta. «Io ho sentito dire che nel Terzo Reich le fiabe sono proibite, pare che non sia vero. Da dove esce questa bella favola?». «La vecchia levatrice a Macklenburg, dove lei abitava, è in prigione per aver procurato aborti e l’hanno interrogata anche per altri casi». Dita rise. «Allora una vera fiaba da balie! E’ veramente interessante che concittadini tanto saggi possano penosamente cadere così in basso. Non avete idea del fatto che mamma Griepsch, come la si chiamava a Macklenburg, soffre da lungo di tempo di delirium tremens e non solo vede topi bianchi ed elefanti verdi, ma ha anche ogni altro tipo di allucinazioni?». «Così quello che dice non è vero?». «Per favore mi dimostrino che è vero. ‐ 67 ‐ storiae Io vi sarei molto grata se poteste offrirmi un castello, perchè io mi allargo volentieri!». Dita rise di gusto e vide solo volti imbarazzati davanti a sé. «Vada», ordinò rabbioso il presidente. «Halt!», gridò un associato del “Kulturbund” «Lei ha la carta rossa?». Dita lo guardò piena di disprezzo. «Cosa ho a che fare io con la carta rossa, io ho il passaporto tedesco. Il presidente gettò uno sguardo furioso al “Bündel” che aveva parlato. «Vada» ordinò a Dita ancora una volta e in silenzio lei si voltò, mentre un «Heil Hitler!» a più voci risuonava alle sue spalle. Dita mormorò: «Tre volte stupidi rimbambiti». A casa domandò ad Alma: «Hai ancora un po’ di Slivovic? Lo spavento mi ha preso alle ginocchia». Alma tirò fuori da un nascondiglio segreto la bottiglia conservata per le occasioni tremende. Dita bevve e le raccontò quanto successo. «Hunki, hai risposto bene. Che cosa succederà ancora?» Non si dovette aspettare molto. Arrivò un invito della Gestapo per Alma. Lei non andò. Arrivarono altri tre inviti, uno dietro l’altro, e lei li ignorò, ma sapeva che era il momento di scomparire. Intanto Herzing era ritornata, festeggiò il suo nuovo incontro con la bara e rimase a proteggere la villa, mentre Dita portava Alma a Norimberga. Non era così facile sparire senza essere viste. Le due amiche durante la notte, vestite da contadine, avevano attraversato le montagne ed erano salite sul treno in una stazione lontana. Non ci furono altre difficoltà al confine, perchè Preparazione della fucilazione di un gruppo di condannati a morte il 22 luglio 1942 all’interno del carcere “Stari Pisker” (Alter Topf ) a Celje (Cilli). storiae ‐ 68 ‐ già tutto apparteneva al Reich. Un uomo che sembrava maledettamente uno della Gestapo entrò nello scompartimento. Fu un’attesa da far venire il crepacuore, fino a quando finalmente scese. Arrivarono a Norimberga indenni e vennero accolte con calore, anche se gli amici rischiavano molto e forse tutto. Dita rimase due giorni, poi per desiderio di Alma, ritornò a Celje per proteggere i manoscritti, in quanto Herzing era diventata molto fragile a causa delle eccessive emozioni. Alma comprese ben presto che a Norimberga la sua presenza era pericolosa per gli amici e decise perciò di recarsi in Alsazia da conoscenti e da lì tentare di espatriare. Andò dalla famiglia che conosceva solo come estimatrice dei suoi libri, ma scoprì con terrore di essere capitata in mezzo a nazisti rabbiosi. La donna era stata addirittura segretaria nella cancelleria del Reich, presso il Führer e conosceva personalmente il mostro. Forse Alma era arrivata nel posto più sicuro, ma pur con tutta l’amicizia che le veniva manifestata, non poteva sentirsi a suo agio. Oltre a ciò si rese conto che era impossibile passare il confine. Occorreva molto denaro e lei non lo aveva. Ma siccome aveva solo Dachau davanti a sé, si sarebbe nascosta volentieri all’estero. Ma era troppo tardi. Allora volle tentare da una altra parte. Attraversò il territorio nazista fino al Tirolo dove aveva una parente di Celje tra le montagne. Forse potevano darle un consiglio per arrivare da qualche parte attraverso l’Italia. Gli scarsi mezzi che aveva si erano quasi dissolti. Di nuovo, come nel giro per il mondo, mangiò solo pane asciutto e bevve acqua o tè. Vicino a Lienz [località del Tirolo del Nord lungo il corso della Drava] trovò una locanda economica. Da qui Alma fece sapere a Herzing che Dita doveva raggiungerla e portarle abiti caldi e un cappotto. L’inverno era alle porte. Alma aspettava. Era un’attesa che dava un’angoscia insopportabile. Perchè Dita non arrivava? Era sempre stata puntuale... Cosa era accaduto? La cattura di Thea Di ritorno da Norimberga Dita si era insinuata di notte nella villa e non si era ancora ripresa dagli strapazzi del viaggio, quando la Gestapo si presentò di nuovo alla porta. Volevano portare via Alma, perchè non aveva risposto agli inviti. Dita disse a sangue freddo: «La mia amica è andata a Berlino a lamentarsi di voi!». «Noi passeremo al pettine tutta Berlino per lei», gridarono quelli della Gestapo. «Lo facciano», disse Dita indifferente. I due funzionari esplosero: «Lei però la portiamo via subito come complice della fuga». «Non mi risulta che Alma sia fuggita, io vi ho detto che è andata nel Reich a lamentarsi di voi!» «È uguale, Lei ora viene con noi. Potrà dire tutto quello che vorrà nell’ interrogatorio». Herzing era fuori di sé ‐ 69 ‐ storiae e lasciò uscire una cannonata di parole che avrebbe buttato giù un uomo. Ma quelli della Gestapo erano abbruttiti e in più furiosi perchè il pesce era sfuggito loro quando già pensavano di averlo nella rete. Ora toccò a Herzing combattere per Dita: mandò la notizia nel Reich e mise tutti in allarme. Ma poi crollò per un’emorragia di stomaco. L’agitazione era stata troppo forte per lei. Dita fu portata nella prigione di Celje, all’ingresso c’era una grande chiazza di sangue. La spinsero in una cella con altre 17 persone e sette guardiani. I nuovi arrivati dovevano pernottare sul pavimento. Oltre a ciò le sussurrarono all’orecThea Schreiber Gamelin, Ritratto di Alma Karlin, chio che quella era la cella olio su tela. della morte per l’Intelligentia. Ma Dita non conosceva la paura, aveva solo rabbia perchè la tenevano lì prigioniera, mentre Alma l’aspettava. Nei giorni seguenti conobbe tutta la miseria dei suoi compagni di prigionia e ammirava incondizionatamente la signora Confidenti che a casa aveva due figli ciechi, che correvano il grave pericolo di essere gassati. Ma quella donna faceva coraggio a tutti, aiutava dove poteva e non si mostrava mai disperata o senza coraggio. «Dobbiamo resistere», diceva sempre. «Ma con l’aiuto di Dio anche questo terrore avrà fine. Loro vedono come nella storia del mondo tutti i periodi dell’oppressione hanno avuto una fine. Bisogna solo resistere. Cerchino di stare tranquilli perchè abbiamo bisogno di tutte le nostre energie e della nostra salute». Ma il termometro del morale scendeva verso lo zero, quando le vittime venivano prese per l’interrogatorio. Tutti pregavano intensamente per loro. Ma per lo più riportavano in cella, dopo ore, delle masse di carne sanguinanti e con le membra completamente disarticolate. Quando le infelici vittime tornavano in sé, quasi impazzivano per i dolori. Medicine non ce n’erano. Ogni tanto veniva un medico che impotente storiae ‐ 70 ‐ si stringeva nelle spalle. Tutt’al più poteva ricomporre le articolazioni. Di notte veniva accesa la luce ogni mezz’ora così non si poteva dormire. Di giorno però tutti dovevano incollare sacchetti. Venivano spinti fuori, nel corridoio che stava di fronte alla camera delle torture dove si potevano sentire le grida di morte dei martirizzati che erano trattati come nel più profondo e buio medioevo e ai quali da vivi veniva strappata lentamente la pelle dal corpo. Dita vide il giovane Jellenz con gli strumenti di tortura attraversare la corte e sentì poi gli orribili lamenti che uscivano dai corpi fracassati. C’era davvero da impazzire. La prigione era stata prima un convento di Francescani, fondato dal conte von Cilli e annesso alla Chiesa di Maria. La domenica arrivavano attraverso le finestre inferriate della Chiesa alcuni consolanti suoni di organo. Come da un altro mondo, diventato così lontano e irraggiungibile. Dita non aveva mai pensato che il mondo dietro le inferriate potesse essere così logorato, così cupo, così senza speranza. La sua consolazione era l’altro mondo, l’aldilà. Questa terra era completamente malata se cose così orrende, tali ingiustizie, potevano accadere. Ci si poteva rallegrare solo della redenzione. Dita era anche debole, perchè da mangiare davano solo verdure cotte nell’acqua. Lì dentro mettevano un condimento di sapore abominevole, che doveva annientare il cuore bloccando la circolazione. Anche questo era un modo per eliminare una persona indesiderabile... «Non devi uccidere!» Qui invece si diceva: «Chi uccide è un benemerito». Anche l’acqua aveva un sapore abominevole. Dita prendeva il meno possibile di tutto, malgrado ciò dopo una settimana anche lei soffriva di attacchi cardiaci. Herzing era riuscita a far introdurre un po’ di vino. Dita ne bevve alcuni sorsi quando venne chiamata per l’interrogatorio. Sapeva che tutti i suoi compagni di prigionia avrebbero pregato per lei. Ma sapeva anche che non l’avrebbero ridotta come gli altri perchè sarebbe morta prima, lottando. Con suo grande stupore non accadde nulla di ciò. Quello della Gestapo le offrì una sedia, si presentò come «Sums», le offrì una Sacerdoti cattolici sloveni catturati dai nazisti, Maribor mela e una sigaretta, autunno 1941. ‐ 71 ‐ storiae che lei rifiutò, e cominciò a interrogarla cortesemente. Dita sentì dalla pronuncia che era un austriaco. Nelle sette ore seguenti Dita rifletté su ogni parola e, poiché era ben allenata spiritualmente, non incorse in alcun errore. Il signor Sums sospirò. Non erano emersi reali indizi di accusa e aveva anche il passaporto tedesco. «Scriva un breve riassunto della sua vita con Alma Karlin. Che ospiti venivano eccetera». «Purtroppo non ricordo bene i nomi», disse Dita rammaricata e fece la faccia più stupida possibile. «Oltre a tutto il cibo è studiato per produrre una debolezza cerebrale». «Di questo non ho notato finora nulla», sospirò Sums, «ma scriva, così arriviamo alla fine». Dita scrisse le storie comiche dell’uomo dei polli e altri avvenimenti umoristici, tutto pienamente innocente e apolitico. Poi venne riportata in cella e si accorse con preoccupazione che gli altri prigionieri cominciavano a dubitare di lei, perchè non era stata picchiata a sangue. Sopportare il sospetto dei suoi compagni di sventura, ai quali si era sentita così intimamente legata fin da principio, era per lei la cosa più difficile. Ma lentamente parvero notare che Dita era “sincera”. Anche la signora Confidenti contribuì molto alla buona comprensione, perchè conosceva Alma e Dita da prima della guerra. Di notte c’erano sempre fucilazioni nel cortile della prigione, poi l’eliminazione dei cadaveri e l’ingresso di nuove vittime. Ogni sera “recitavano il Rosario” e nella preghiera i prigionieri si sentivano uniti ai loro cari nei boschi o in fuga. Lo spirito che univa la comunità era intenso e in tutta questa desolazione il popolo sloveno si mostrava grande e degno della massima ammirazione. Dita pensò : «Se sopravvivo a tutto questo chiederò il passaporto jugoslavo. Io appartengo alla loro comunità». Venne chiamata ancora due volte per l’interrogatorio, sempre con lo stesso risultato. Ma alla fine del terzo interrogatorio apprese il vero motivo del suo arresto. Il signor Sums aveva lasciato davanti a sé uno scritto e Dita poté leggere la firma del pastore luterano May. «Ah così quell’individuo mi ha incastrata» disse spontaneamente. «Quale individuo?» chiese Sums sorpreso. «Di nuovo il pastore May ». «Questa volta è stata però Lei che non lo ha lasciato in pace» E prese una lettera che Dita aveva scritto al pastore luterano May, quando era membro della commissione per l’eliminazione dei bambini handicappati [cfr. Scheda 14], ed avendo egli stesso due figli handicappati Dita gli chiedeva se per caso non avesse voluto inviare per primi i suoi bambini alla camera a gas, dato che egli si augurava sempre di essere il primo a dare il buon esempio. I dieci comandamenti e soprattutto il “non uccidere” appreso durante i storiae ‐ 72 ‐ SCHEDA 14: Attuazione del “Programma Eutanasia” La commissione per l’attuazione del “Programma Eutanasia” stabiliva criteri, modalità e procedure per l’eliminazione delle “vite inutili”, dei malati, handicappati, ciechi, malati psichici, disabili in genere e dunque non solo “non produttivi”, “di peso per il bilancio del Reich”, ma soprattutto, secondo la teoria della razza del nazismo, “dannosi per la salvaguardia della pura razza ariana”. [Cfr. Scheda 10, p. 51]. (mc) suoi studi teologici a quanto pare li aveva completamente dimenticati, così come i suoi doveri di pastore luterano. Egli era una vergogna per tutti i pastori protestanti, ma anche lui sarebbe comparso davanti al giudizio di Dio. Furente il pastore May aveva portato questa lettera alla Gestapo per far arrestare Dita. Intanto il pastore aveva anche ottenuto che l’abate di Celje, il dott. Peter Kovašic fosse condotto in catene attraverso la città. May stava tra due uomini della Gestapo, si godeva lo spettacolo e rideva in faccia all’abate incatenato. Dita, vedendo la petizione di May a Sums, alla fine dell’interrogatorio chiese: «Signor Sums, Lei ritiene degno di ammirazione questo pastore luterano?». «Non vorrei esprimermi in proposito», disse prudentemente Sums, «ma è un buon collaboratore della Gestapo!». Dopo alcuni giorni venne chiamato il numero di Dita: «Lei può andare a casa». Dita pensò ad un errore e continuò nella sua stupida attività di incollatura di sacchetti. «Preferisce restare qui?» domandò di nuovo la custode. Dita si alzò «Parla davvero con me?» «Sì, si affretti fuori, l’aspetta un signore». I compagni di prigionia si rallegrarono con Dita. Ah, se avesse potuto portarli tutti con sé! Anche in sogno avrebbe rivisto quei volti smunti, ma così valorosi. Nella fretta le diedero ancora incarichi, missive. Poi le diedero il permesso di uscita e la pesante porta si aprì. Dolf Körber, contento, fece cenno a Dita e a lei apparve davvero come un angelo del cielo. Dolf aveva ottenuto molto. Aveva ottenuto per iscritto dalla Gestapo che Alma e Dita in futuro sarebbero state lasciate in pace. «Non sarà una trappola per far tornare Alma?». «No certamente. Alma può ritornare!» «Sulla tua responsabilità Dolf. Io vado a cercarla in Tirolo». Dolf conosceva all’incirca la zona dove si trovava in Tirolo. Doveva tornare subito al suo lavoro e Dita lo accompagnò alla stazione e poi andò a casa. Herzing la strinse tra le braccia con lacrime di gioia. Herzing stava migliorando, anche se era ancora molto debole per le emozioni e anche Dita per la debolezza stava in piedi a fatica. Ma doveva liberare Alma dall’incertezza ‐ 73 ‐ storiae e dal freddo, perchè in Tirolo doveva essere già notevolmente freddo. Prima dovette vendere ancora qualcosa, perchè non poteva arrivare da Alma senza danaro, di sicuro era mezza affamata. Così mise insieme un sacco da portare in spalla pieno di viveri e si mise in viaggio. Dei buoni conoscenti si sarebbero presi cura di Herzing. Alla ricerca di Alma Dita cercava Alma come Riccardo Cuor di Leone. Percorse molte vie e spesso per la debolezza le si oscurava la vista, ma alla fine ebbe successo. All’inizio l’ostessa era diffidente, le disse che Alma non era lì e poi la sottopose ad un vero e proprio interrogatorio. Solo quando Dita scoppiò improvvisamente in lacrime, la prese per mano e la portò dalla sua misteriosa ospite. La donna bussò alla porta e disse «È arrivata sua sorella!» e fece entrare Dita. Le due amiche, che detestavano i sentimentalismi, fecero come al ritrovamento di Stanley [cfr. Scheda 15] in Africa. Si chiesero «How do you do?» Ma poi caddero l’una nelle braccia dell’altra, Dita aprì il sacco che potava sulle spalle e tutte e due, che erano magre come scheletri, mangiarono di nuovo di gusto e cominciarono a raccontare. Alma era sempre andata al treno per prendere Dita, affinché non dovesse cercarla, fino a quando un giorno un uomo della Gestapo le chiese i documenti. Lei aveva solo il certificato della cancelleria del Reich «Ah, si chiama Klatzer? Ed è qui per riposo?» «Sì». Le restituì il documento, ma da allora Alma non ebbe più il coraggio di andare al treno. Ora però Dita SCHEDA 15: Henry Morton Stanley Henry Morton Stanley (Denbigh, 1841 – Londra 1904) è stato un giornalista ed esploratore statunitense, ma gallese di nascita, famoso per le sue esplorazioni in Africa e per la sua ricerca di David Livingstone. Dopo aver combattutto la guarra di secessione americana divenne giornalista per il New York Herald nel 1867. Due anni più tardi andò in Africa, dove si occupò delle guerre tra britannici e abissini lungo i confini dell’Etiopia. Sempre nel 1869 fu incaricato dal suo giornale di trovare e intervistare l’esploratore scozzese David Livingstone, che era noto che si trovasse in Africa orientale, ma di cui si erano perse le tracce da diversi mesi. Egli localizzò Livingstone il 10 novembre 1871, a Ujiji vicino il lago Tanganica, in quella che oggi è la Tanzania. Celebre è la frase che gli viene attribuita al momento dell’incontro, «Dr. Livingstone, I presume?»(«Dottor Livingstone, suppongo»), nel più classico understatement e formalismo britannico dell’epoca. Stanley si unì a lui nell’esplorazione della zona. Le ricerche stabilirono con certezza che non vi era nessun collegamento tra il lago Tanganica e il Nilo. Questa spedizione divenne famosa grazie al libro che Stanley scrisse per raccontarla. (mc) storiae ‐ 74 ‐ aveva portato con sé il documento della Gestapo e Alma poteva tornare a casa almeno fino a quando il “Bündel” non trovava qualcosa di nuovo per importunarle. Alma e Dita sarebbero andate molto più volentieri oltre le montagne, prima in Italia e poi più avanti, forse in Portogallo. Ma tutte le strade erano chiuse e si avvicinavano i mesi invernali. Così decisero di partire il giorno seguente per Celje. Durante la notte Alma disse: «Hunki, ci aspetta qualcosa di orribile, ma dobbiamo affrontarlo, non c’è niente da fare, dobbiamo farne esperienza!». «Vorrei mandare in fumo in un colpo solo tutte le nostre esperienze», brontolò Dita «In fondo sono solo un essere umano». «Ma non hai notato, che Dio dà a ciascuno la forza necessaria per tollerare i pesi che gli vengono caricati sulle spalle?» «Già, già» ammise Dita, con un forte sospiro. Le esperienze che aveva avuto le bastavano. Aveva cominciato a piovere, nei giorni precedenti aveva piovuto spesso e poi per breve tempo le nuvole si erano aperte, ma ora cominciava piovere a dirotto. Nel letto era bello caldo e Dita voleva restare ancora un po’ lì. Ma Alma la spinse ad alzarsi. Avevano sempre meno disponibilità di denaro e alle due donne mancavano abiti pesanti. Dita non aveva osato portare l’unico cappotto che Alma possedeva a causa dell’impertinente colore rosso. Così, malgrado l’intima riluttanza di Dita, le due amiche andarono alla stazione nel buio della notte sotto una pioggia scrosciante. Il capostazione era stato avvertito da alcuni viaggiatori che c’era da aspettarsi un’esondazione. Malgrado ciò fece partire il treno. Subito dopo Lienz si verificò la disgrazia. Era ancora scuro e nuvole nere correvano sopra la luna. Improvvisamente il treno scricchiolò, la luce si spense, le carrozze si strinsero insieme come il mantice di una fisarmonica e dopo si allontanarono una dall’altra. Dita si gettò su Alma per proteggerla col suo corpo. Un finestrino si era rotto e l’uomo che gli sedeva accanto era volato fuori. Dall’esterno si udivano delle grida. Inondazione! Quando il treno smise di oscillare, Alma disse: «Hunki, vieni! Qui non possiamo rimanere». La porta dello scompartimento si aprì. Il treno stava sui binari ancora appena visibili: da ambo le parti acqua mugghiante e scrosciante. Nel debole albeggiare si vedeva la schiuma bianca delle onde che salivano. «Vieni Hunki» disse Alma e saltò giù. Non la si vide più. Si udì solo uno “splash” ed un rotolio di sassi. Per un momento Dita rabbrividì, poi saltò anche lei fino a metà nell’acqua gelida. Poi si adoperò faticosamente a salire sulle rotaie e vide la sagoma di Alma davanti a sé. Si aggrappava con tutte le sue forze ai binari. Dita la seguì sui binari sempre più immersi nell’acqua. Intorno l’acqua spumeggiante. Ad un certo punto alle loro spalle udirono un terribile grido di allarme. Alma e Dita si erano lasciate alle spalle l’ultimo vagone ‐ 75 ‐ storiae del treno. Prudentemente guardarono all’indietro nel primo albeggiare del giorno. Un gelido spavento si impossessò di loro: non si vedeva più il treno all’infuori dell’ultima parte, i vagoni erano tutti di traverso e sembravano una nave che affondava. Dal profondo, sotto l’acqua gorgogliante, salivano le terribili grida di morte di quelli che erano rimasti incastrati, che erano consegnati senza speranza alla tomba bagnata. Il macchinista era sprofondato per primo con la locomotiva e aveva trascinato con sé tutto il treno. Alma Maximiliana Karlin. Il treno era carico di gente lieta che andava in vacanza con le famiglie. Gli uomini erano scampati alla guerra e ora trovavano la morte in patria. Inorridite Alma e Dita udivano le grida scomparire lentamente sotto l’acqua, i finestrini dei vagoni venivano rotti dalla pressione. Così a pochi riuscì di salvarsi. Ben presto nell’acqua nuotavano valigie, scarpe, vestiti, cadaveri era uno spettacolo orrendo. «Avanti Hunki!» più velocemente che potevano strisciavano lungo i binari e dietro a loro i superstiti. Un giovane uomo si era arrampicato sotto l’acqua sui tetti dei vagoni, alcune donne furono spinte sull’argine e subito si misero a strisciare dietro Alma e Dita con ostinata energia, lottando per la loro vita. Alla fine raggiunsero la terra ferma. Un’isola nell’elemento mugghiante. I superstiti giacevano sulla terra solida, sfiniti da morire e quando Dita battendo i denti guardò in su, Alma sedeva calma con un’espressione lontana, distaccata, come un monaco tibetano su una pietra. Guardava verso il sole che sorgeva. Calma, immobile come una statua. Dita la osservava con meraviglia. Alma non pareva essere di questa terra. Improvvisamente si voltò verso Dita e ora nei suoi occhi brillavano delle lacrime: «Ho accompagnato con la preghiera le anime dei morti, adesso forse sono già storiae ‐ 76 ‐ lieti di avere lasciato questa terra». Poi però la scrittrice si preoccupò della sua amica che tremava ancora come una foglia di pioppo. Per il freddo o per il terrore? Alma aveva ancora un Kimono e le borse a mano che aveva afferrato prima di scendere; il Kimono l’aveva premuto sotto il mento ed era abbastanza asciutto. Alma vi avvolse la riluttante Dita. Alma pareva insensibile al bagnato e al freddo, sorrideva con un sorriso lontano dal mondo e diceva: «Hunki, tutto passa!» A Dita tutto il mondo parve diverso. Nessun albero le era mai apparso così bello come quello sparuto sotto il quale erano accovacciate. […] Le persone che si erano salvate avevano molte ferite da schegge di vetro; Dita si riprese e aiutò a fasciare. Strapparono camice e bluse. L’acqua saliva ancora. Anche l’isola diventava sempre più piccola. Un giovane uomo danzava cantando sopra il fragile argine della ferrovia. Agitava le sue scarpe sopra la testa. La sua sposa era annegata. Era impazzito. Tutti i superstiti stavano seduti con i loro vestiti bagnati. Naturalmente non c’erano abiti asciutti, né medicamenti. Dita si dava da fare senza sosta. Alma calmava e consolava. Alla fine, dopo due lunghe ore di incubo, una locomotiva con due vagoni giunse arrancando verso di loro. Impiegati delle ferrovie, medici e infermiere aiutarono i feriti nelle carrozze. Alma e Dita erano come spezzate nel corpo per i colpi del treno subiti durante l’incidente, ma non avevano ferite serie. Quando il piccolo treno di soccorso entrò nuovamente nella stazione, il capostazione era verde e pallido in volto, con le occhiaie attorno agli occhi. Era sua la responsabilità. Aveva fatto partire il treno malgrado l’acqua alta. Era stato avvertito. «Pover’uomo» disse piano Alma «E’ distrutto. Anche se venissero considerate le circostanze attenuanti, quei duecento morti lo opprimeranno per sempre». Nella stazione regnava il Ljubelj (Slovenia), Lager dipendente dal campo di Mautumulto. I parenti chiathausen, 1943-1945. I prigionieri venivano utilizzati mavano i loro cari che non per la costruzione del nuovo tunnel del Loiblpass. ‐ 77 ‐ storiae sarebbero più tornati. I feriti venivano fasciati. Autoambulanze correvano per portare negli ospedali i feriti più gravi. «Vieni Hunki» disse Alma di nuovo «muovendoci ci asciugheremo più in fretta e anche le ammaccature e i gonfiori si saneranno più velocemente». Attraverso le montagne andarono dai parenti di Celje dove si asciugarono entrambe, mangiarono e la famiglia con i capelli dritti ascoltò la notizia. Poi le due amiche rimesse a nuovo tornarono nel loro vecchio alloggio nella locanda, perchè non era il caso di pensare a proseguire immediatamente il viaggio. L’ostessa poteva a malapena credere che le sue ospiti si fossero salvate e così le dovettero raccontare l’avventura nei minimi particolari. Senza sollecitazioni la donna portò della zuppa calda, pane e grappa, gratis per il racconto. Poi finalmente Alma e Dita caddero sfinite nei letti e forse fu per tutte le emozioni che non presero neanche un raffreddore. Un telegramma aveva tranquillizzato Herzing e annunciato il ritardato arrivo. Dopo il disastro ferroviario Alma e Dita si misero sulla via di casa. Prima del confine ci fu di nuovo un incidente. Alcuni vagoni deragliarono perchè due treni si erano urtati. Ma questa volta andò liscia. Le due amiche arrivarono alla villa molto provate e Herzing aveva già fatto incetta di provviste per le viaggiatrici affamate, quel tanto che si poteva ancora trovare. Dolf, per amore dell’ordine, aveva promesso a Sums che Alma al suo ritorno si sarebbe presentata da lui; l’uomo della Gestapo aveva promesso che ad Alma non sarebbe accaduto nulla e che in seguito non sarebbe più stata disturbata. Alma andò accompagnata da Dita, perchè tutte due non si fidavano molto dell’accordo. Ma andò tutto bene, l’uomo della Gestapo era solo molto curioso e interrogò Alma per cinque ore, il che fu per Dita una prova pesante per i suoi nervi. Poi Sums, sospirando, chiuse il suo libro. «Potremmo stare qui seduti una vita e non andare avanti. Chiudiamo. Lei, signora Karlin è come un ghiacciaio, del tutto indifferente alla vita e alla morte. La sua amica incarna il Vesuvio, mi dica, come possono vivere insieme?» Alma sorrise «In modo straordinariamente armonico, perchè freddo e caldo procurano un clima piacevolmente temperato». «Mi può prestare i suoi libri? Io li leggerei volentieri». «Se me li restituirà, volentieri». «Naturalmente Le verranno restituiti». L’ufficiale della Gestapo si inchinò all’addio e c’era rispetto nel suo contegno. C’erano poche persone che come Alma riuscivano ad affrontare con una tale calma ogni situazione avversa e talmente rischiosa da mettere in pericolo la propria stessa vita. Il giorno seguente Dita portò i libri di Alma all’uomo della Gestapo. Poi per le due amiche seguì un periodo di tempo più tranquillo ma, anche se storiae ‐ 78 ‐ vivevano un momento di pace, sperimentarono comunque la miseria e intorno a loro continuavano ad essere affissi i manifesti rossi con le liste dei morti, ancora molte persone venivano fatte prigioniere e torturate e quando i nazisti riuscivano a catturare degli Sloveni, questi venivano arruolati fra i militari tedeschi. Da poco tempo venivano anche affissi manifesti che comunicavano che i tedeschi avevano messo una grossa taglia su un partigiano di nome Tito [cfr. Scheda 17]. Ma tutti gli sforzi furono vani. Questo Tito non riuscivano ad averlo tra le mani. Pareva proprio che fosse lui il capo del fronte di liberazione contro gli occupanti tedeschi. Una volta, mentre Dita passava davanti alla prigione, risuonò uno sparo e parti di cervello umano volarono sopra il muro e caddero davanti ai piedi di Dita. Tra i partigiani Le due amiche ricominciarono ad andare tra le montagne per portare ai partigiani quello che potevano e quello che qualcuno dava loro a questo scopo. Una volta nella Sanntal, mentre stavano comperando della carne per una povera vecchia donna ed il macellaio stava tagliando la carne sul tavolo per Alma, tutta la gente corse fuori dal negozio. Un uomo entrò e comperò un po’ di salsiccia. Poi si rivolse ad Alma e chiese: «Cosa fa Lei qui?» Alma, che non era una buona fisionomista, non sapeva chi aveva davanti «Sono andata a fare visita ad un’ammalata e Lei cosa fa qui?» sperava di capire chi era quell’uomo che non riusciva a inquadrare. SCHEDA 16: Tito (1892-1980) Josip Broz (questo il vero nome di Tito) naque il 25 maggio 1892 a Kumrovec, un villaggio dello Zagorije croato, da padre croato e madre slovena. Allo scoppio della prima guerra mondiale fu subito inviato sul fronte di Galizia dove fu fatto prigioniero dai Russi. Nel 1917 partecipò alle dimostrazioni di luglio a Pietrogrado e quindi riparò in Siberia; nel 1920 fece ritorno in patria dove, quello stesso anno, fondò il Partito comunista, passando alla clandestinità nel 1921 quando il partito venne dichiarato fuori legge dal re Alessandro I di Jugoslavia. Dal 1941 divenne capo incontrastato della resistenza jugoslava. Dalla fine della guerra al 1980 il Maresciallo Tito fu a capo della Repubblica Popolare Federale Jugoslava. (ef ) Il Maresciallo Tito. ‐ 79 ‐ storiae Il Maresciallo Tito, comandante delle Forze nazionali di liberazione della Jugoslavia, passa in rassegna le truppe partigiane. «Quello che ciascuno di noi ha da fare». Questo non era un chiarimento soddisfacente. Alma prudentemente si addentrò nel dialogo e l’uomo la seguì uscendo. Improvvisamente vide gli occhi ammiccanti di Dita e l’uomo in borghese disse ancora: «I suoi libri sono straordinari, io li ho letti con grande piacere signora Karlin e forse la sua amica sarà così gentile da ritirare le Sue opere dal negoziante dove le ho lasciate. Ora Lei scriverà ancora, La prego di non scrivere troppo male di me». Era Sums e Dita rise da piegarsi in due perchè Alma non l’aveva riconosciuto. «Senza la sua odiosa uniforme sembrava tutto diverso!» si difese la scrittrice. Ma ora Alma sapeva perchè il macellaio le aveva tagliato così rabbiosamente la carne e tutta la gente era scappata via. La pace per Alma e Dita non durò a lungo. Il “Kulturbund” inviò sotto falso nome del vino avvelenato alle due artiste e per poco le due amiche non morirono. Poi ricevettero una minaccia anonima che diceva che Alma, anche senza Gestapo, sarebbe stata portata a Dachau. Non era più il caso di restare. Herzing venne mandata a casa e Alma tentò di collegarsi con i partigiani che andavano a sud. Sperava di andare all’estero attraverso Bari. Una donna l’aiutò a trovare il collegamento, una donna che qui vogliamo chiamare “Ulrike” come nel romanzo di Wassermann che porta lo stesso nome [cfr. Scheda 17]. Dita accompagnò la sua anima sorella oltre Doberna col nuovo cane, un bassotto, perchè Assy era morto per l’adiposità. Le amiche dovettero viaggiare di notte, oltre le montagne, come turiste. Alma poté portare poche cose con sé. All’ora stabilita raggiunsero il luogo indicato e dovettero dividersi. Si sarebbero riviste su questa terra? Preve- storiae ‐ 80 ‐ dere il proprio destino non è dato nemmeno ai chiaroveggenti. E forse è meglio così... Dita al momento del distacco recitò ad Alma le parole di Ibsen dal Peer Gynt “Gud styrke dig, var i världen du gar...” (“Dio ti dia forza dovunque tu vada nel mondo...”). Con una forte stretta di mano si lasciarono e Dita si mise in cammino per Celje, sola, per la strada più breve. A metà strada il bassotto si gettò nell’erba. Non ne poteva più. Quindici ore di cammino erano troppe anche per lui. Dita nutrì il piccolo cane, gli diede da bere e unse di pomata le sue zampette. Poi lo prese in braccio e arrivò alla villa mentre scendeva la notte. Lei e il suo cane si buttarono sfiniti sul letto. Ma Dita non poteva dormire. Lacrime su lacrime le scorrevano sulle guance. Aveva dovuto ritornare per le opere di Alma. Doveva difendere i valori spirituali e le preziose raccolte di oggetti e reperti provenienti da tutto il mondo, che Alma aveva portato con sé dal suo lungo viaggio. Ora era tutta sola nella grande casa. Che conforto era il piccolo cane! I vicini venivano più spesso e portavano a Dita piccolezze e generi di conforto. Il Professor Solokov, originario della Ucraina, veniva di frequente per la conversazione in inglese. Spesso dovevano correre giù in cucina per gli attacchi aerei. La signora Solokov era laureata e aiutava i partigiani anche con delle medicine. Di notte per lo più arrivavano i partigiani e Dita dava loro quello che poteva e preparava il tè. Era tutto così tremendamente scarso in quel periodo. Ma un giorno Dita, tornando da una missione di staffetta a Svetina, trovò la villa occupata dall’antiaerea tedesca. Le avevano lasciato libera solo una piccola stanza. Davanti alla sua porta dormivano 20 soldati della FlaK [cfr. Scheda 18]. Una situazione impossibile. Tutti in verità si comportavano cortesemente ed erano anche pronti a portare i mobili e le raccolte in cantina, ma Dita propose di SCHEDA 17: Ulrike Ulrike è il personaggio principale del romanzo di Jakob Wassermann Ulrike Woytich, edito a Berlino nel 1923, e rappresenta la figura della donna intrigante e arrogante; evoca al tempo stesso il destino della nazione tedesca che tra il 1870 e il 1920, giunse all’apice della sua grandezza, precipitò nell’abisso, e determinò la definitiva scomparsa di un mondo. (mc) SCHEDA 18: FlaK In generale con l’acronimo tedesco “FlaK”, FlugabwehrKanone (cannone contraerei), erano indicati i cannoni destinati alla difesa contraerea; per estensione spesso viene usato per indicare l’artiglieria contraerea della seconda guerra mondiale in Germania. (mc) ‐ 81 ‐ storiae trasferire la sua abitazione a Pečovnik. Secondo la valutazione di tutti la villa sarebbe stata ridotta in breve ad un cumulo di macerie. Parlando coi soldati Dita notò ben presto quanto fossero stanchi della guerra e come avrebbero mandato volentieri il “Führer” in una isola di cannibali nei Mari del Sud. Tutti avevano un solo desiderio: la pace! I soldati erano amareggiati e non speravano più che questa guerra terminasse vittoriosamente. Naturalmente non potevano esprimere ad alta voce queste opinioni. Salvare le opere di Alma Karlin Ogni notte dunque Dita portava segre- Alma Maximiliana Karlin. tamente le opere e le raccolte di Alma nella vigna di Pečovnik, spesso rischiando la vita perchè gli attacchi aerei si erano estesi anche alla notte. La sua parola di riconoscimento era Schnuppi il nome del piccolo bassotto e la sentinella la lasciava passare. «Viene la nostra Signora, annunciava». Ma di giorno Dita faceva le sue strade da corriere verso Svetina. A stare tranquilla non ci pensava. Il “Kulturbund” era contento che la villa di Alma fosse occupata dalla FlaK, ma scontento perchè la scrittrice era di nuovo sfuggita dalle loro grinfie e - come Dita aveva detto sotto interrogatorio - ed era andata nel Reich per lamentarsi di loro. Ma a Pečovnik dove c’era la casetta della vigna di Dita, nessuno del “Kulturbund” osava avventurarsi. Così almeno se ne era liberata. Di notte venivano i partigiani a scaldarsi e a prendere il tè e nel sentiero sotto la casa passava spesso la sentinella tedesca. Era sempre un esistere fra la vita e la morte. Gli aviatori partigiani o gli aeroplani inglesi lanciavano dei disegni precisi del fronte, come esso era veramente e, dopo la vittoria dei Russi a Stalingrado, il fronte arretrava di continuo. Alla popolazione era arrivato l’ordine di consegnare tutti i volantini che venivano lanciati, senza naturalmente leggerli!! Dopo essersi goduta ben bene i volantini con i vicini, Dita li Mostrine della FlaK. storiae ‐ 82 ‐ consegnava con faccia innocente ai soldati della FlaK alla villa e la FlaK era riconoscente di esserne messa al corrente. Non avevano più illusioni. La lotta eroica dei partigiani andava avanti. La vita che facevano nei boschi, esposti ad ogni capriccio del tempo, quanto meno rovinava la loro salute se non addirittura la vita. Gli uomini dovevano essere in fuga nel loro stesso paese. Che cosa era ancora in ordine a questo mondo? Non era tutto rovesciato, tutto stravolto? La cosa più terribile erano gli inverni di guerra … Gli infelici difensori della loro patria dovevano andare sotto terra se non volevano congelarsi. Nei boschi si facevano dei bunker. Una volta seppe di un rastrellamento della Gestapo e seppe che a Svetina c’erano di nuovo circa 300 partigiani. Dita corse così tanto che cerchi rossi e fiamme le danzavano davanti agli occhi. In mezz’ora fece una strada per la quale occorreva un’ora e tre quarti. Poteva a malapena parlare. Finalmente uscirono le parole «Arrivano! Salvatevi!» Era giunta in tempo. All’ultimo momento. Tutti poterono salvarsi. Sulla via del ritorno Dita incontrò i tedeschi: «Cosa fa Lei qui?» le brontolarono alla maniera tedesca. «Cerco di trovare un po’ di patate!» disse e mostrò il suo magro sacco che portava sulle spalle nel quale alcune patate conducevano La contraerea in azione. un’esistenza solitaria. «Guardi di sparire!» brontolarono i Nazi. «Va beneee!», rispose Dita e si mise al trotto divertita con Schnuppi. Trecento persone si erano salvate. Questi avvenimenti erano comunque sempre una minaccia per il suo cuore. Dita da tempo non aveva più delle scarpe solide. Solo delle scarpe bianche di lino, con le quali camminava faticosamente nella neve, spesso alta fino al petto nel bianco gelato, nel bosco profondo. I suoi piedi erano pieni di geloni e il piccolo bassotto le leccava amorevolmente le dita di colore bluastro e questo le alleviava un po’ il dolore. L’umidità costante e il freddo portarono naturalmente con sé altri danni, che in parte si sarebbero manifestati più tardi. Tuttavia Dita non poteva lamentarsi, aveva ancora un tetto sulla testa, anche se mancava spesso il combustibile per scaldarsi. Un grande conforto erano i buoni vicini Slapšak. Col loro atteggiamento coraggioso infondevano a Dita nuova energia e forse anche lei dava loro forza spirituale in quel tempo di così profonda miseria. Il vicino era andato coi partigiani, altrimenti lo ‐ 83 ‐ storiae avrebbero arruolato nell’esercito tedesco. La figlia maggiore era anch’essa rifugiata nel bosco e così la donna restava sola con i bambini, perchè la vecchia nonna e la mucca le avevano mandate in montagna. Era difficile dire di cosa si viveva, ma in qualche modo si viveva. Tutti erano ridotti come scheletri. D’inverno i partigiani si mimetizzavano con lenzuola bianche e si avvicinavano alle case abitate per scaldarsi e mandare giù un tè caldo nel corpo irrigidito. Una volta Dita, che aveva addosso l’ultimo pezzo di pregio, un pesante scialle di lana, trovò un partigiano così congelato che lo avvolse nel suo scialle. Per questa strada se ne andarono anche i calzini di lana e le calde sottogiacca. Non c’era problema, purché il nemico se ne andasse dal paese! A Dita avevano dato il soprannome di “Boza” ed era molto orgogliosa di questo. Era un segno che la popolazione aveva fiducia in lei e questo la rendeva felice. Si sentiva legata con tutta l’anima a questo popolo maltrattato. Ma quando sarebbe venuta la pace? Quasi ogni giorno faceva la staffetta per i partigiani. Di notte trasportava in montagna un po’ dei manoscritti di Alma e le sue raccolte di oggetti preziosi provenienti da tutto il mondo. Nella notte riproduceva anche i canti dei partigiani. Ulrike la vedeva spesso. Abitava al margine della città. Questa donna sembrava un angelo, un essere innocente, come se nessuna goccia d’acqua potesse turbarlo. Dietro l’apparenza però nascondeva una grande avidità: aveva una vera e propria mania per le belle porcellane, per i mobili antichi, i tappeti persiani, i quadri, l’oro e l’argento. In principio tentò di avvolgere Dita come una mosca in una ragnatela. Poi le propose di scambiare la sua piccola casa con la grande villa di Alma. Stupita e indignata Dita rifiutò. «Come posso disporre della proprietà di un’altra persona?». «Ma voi siete così buone amiche e forse Alma non ritornerà … e quando … forse vorrebbe vivere più vicino alla città». «No» disse Dita «Una cosa simile non si pone neppure in discussione» «E se Alma non ritorna?» «Se veramente non ritorna c’è il suo testamento. Ora non può essere disposto altrimenti». Per fortuna nella villa arrivò la Flak e a Ulrike passò l’appetito. Prima della guerra era stata una spia per una potenza straniera, non tedesca, e ora faceva il doppio gioco con i tedeschi e con i partigiani. Dita era scossa dalla ripugnanza, tuttavia andava ancora lì, nella speranza di sapere qualcosa di Alma, ma era una cosa del tutto impossibile. Così tra le due amiche restava un grande silenzio e anche alle anime stanche e spezzate riusciva raramente di rendersi percepibili l’una all’altra, “Gud styrke dig, war i wärlden du gar...” (Dio ti dia la forza, dunque tu vada nel mondo). Dita faceva sempre i suoi viaggi da e per la villa malgrado gli attacchi ae- storiae ‐ 84 ‐ rei. Ora le opere complete e le preziose raccolte di Alma erano in salvo in montagna. In uno degli ultimi viaggi, Dita vide in terra sulla strada una sottile mano d’uomo con la fede nuziale. Intorno i rottami di un aereo. Quando, ma quando sarebbe finita tutta questa miseria, tutto questo orrore? Anche se le cose di Alma erano in salvo, Dita aveva ancora motivo di tornare alla villa per la cura del giardino o se le occorreva qualcosa dalla sua stanza. Lei poteva chiuderla e portare con sé la chiave. Dita aveva un piccolo compagno: Veno Wagner. Un giovane carino e sveglio che per amor di patria era fuggito da scuola come un “Windschen Hund” (cane sloveno). Veno mise tutte le sue forze a disposizione dei partigiani, portava a Dita le ultime notizie e spesso l’accompagnava a Svetina. Per la strada parlavano in inglese perché Veno imparasse qualche cosa. Raccontava a Dita del professore tedesco di disegno al Ginnasio, il pittore Klinger, di come maltrattava, umiliava e tormentava i ragazzi sloveni. Veno si era ribellato ed era fuggito. Felice di essere libero come un uccello accompagnava Dita anche alla villa ed escogitava sempre di portare qualcosa per lei per avere una giustificazione per accompagnarla. La FlaK non nutriva alcun sospetto... Un ragazzino! Veno però in cucina contava i piatti, i bicchieri e le sedie così poteva stabilire il numero degli occupanti. Talvolta portava via per i partigiani un binocolo o qualche altro oggetto, il che naturalmente era molto pericoloso. Ma Veno riusciva ad apparire così innocente che nessuno sospettava qualcosa. Era del tutto incredibile che cosa riusciva a fare quel ragazzo, tra l’altro con una alimentazione proprio misera. Ma lo spingeva l’entusiasmo e la speranza di contribuire alla vittoria finale. Dita e Veno, questi due compagni così diversi tra loro camminavano continuamente tra le montagne per portare notizie urgenti o medicinali. Una volta però Dita corse nuovamente sola come un razzo a Svetina. Lei sapeva che i tedeschi avevano riempito di munizioni la Chiesa di S.Giuseppe - i partigiani l’avevano saputo e la chiesa doveva essere bombardata. Per qualche motivo poi i tedeschi avevano nuovamente portato via le munizioni dalla chiesa e le avevano trascinate lontano. Aver visto i tedeschi in azione e correre a Svetina, fu tutt’uno per Dita. Arrivò dai partigiani rischiando un crollo e subito un’altra staffetta si precipitò al Kozje e più tardi Dita apprese che la notizia era arrivata due minuti prima dell’arrivo del bombardiere che avrebbe dovuto distruggere la chiesa... Se Dita non avesse corso in quel modo... Pensò al cielo blu pieno di stelle dipinto sulla volta della cupola e a quanto spesso lei ed Alma, dimentiche del mondo, e con la più profonda pace dell’anima avevano guardato le candele ardenti [...]. La chiesa rimase intatta. Ma il cuore di Dita si indeboliva sempre di più con quelle marce di corsa sulle montagne. Erano strapazzi indicibili. Ma cosa non ‐ 85 ‐ storiae si faceva per la patria? Dita trasalì. Sì, l’aveva pensato davvero. «Patria». Questo paese, questo popolo, era divenuto la sua patria e lei voleva diventare degna di questa patria, pronta a dare la sua salute ed anche la sua vita se necessario. Mimelr Ludwig, compagna di scuola di Alma, che durante la guerra era stata costretta dai tedeschi a lavorare nel Comune, aveva procurato da qualche parte per Dita del cuoio per delle solide calzature, così finalmente Dita poté di nuovo infilare in buone scarpe i suoi piedi feriti. Davvero una buona azione! Mimerl era lo spirito buono per molti. Ancora più piccola ed esile di Alma, era mol- La chiesa di San Giuseppe a Svetina. to agile e sempre pronta ad aiutare dove poteva. Di fronte al suo senso di giustizia, i Nazi erano motivo di orrore. Quando poteva, avvertiva la gente che era in pericolo evitando così grosse disgrazie. Lei stessa era abituata ad una vita ascetica e poteva perciò risparmiare ancora sul poco che aveva, per darlo ad altri. La benedizione per le sue buone azioni la seguì fino alla tarda vecchiaia. Spiritualmente rimase sempre uguale, intelligente e fisicamente molto agile come una diciottenne. Verso la fine della guerra, il “Kulturbund” lasciò in pace Dita ed anche così la Gestapo che ora aveva ben altri problemi! I volantini degli aeroplani diventavano sempre più confortanti e il Terzo Reich vacillava sempre più. Gli attacchi aerei aumentarono di continuo anche su Celje e fuoco e macerie erano all’ordine del giorno. Il bassotto di Dita aveva una straordinaria capacità di presentimento dei bombardamenti. Il cane si nascondeva sotto gli armadi una buona mezz’ora prima, così gli inquilini della casa, vedendo che si nascondeva, capivano che stava succedendo storiae ‐ 86 ‐ di nuovo. Nel frattempo Dita aveva riempito di fuggitivi la sua piccola casa. Nel week-end Veno vi abitava con i suoi genitori ed il soggiorno era pieno, anche la famiglia dei vignaioli della villa di Alma era lì e la stalla era piena di polli, conigli e capre. Dita aveva traslocato nel sottotetto, che non era molto dissimile da una bara. Poiché tutti i letti erano stati dati via, dormiva sul pavimento e il bassotto si acciambellava sul suo braccio. Così almeno non c’era pericolo di sbattere la testa contro il tetto. Dita dormiva sempre vestita per gli attacchi aerei. Qualcuno aveva detto: «Quando fiorirà il grano saraceno, saremo liberati». Tutti speravano in qualcosa di nuovo quando soffiava il vento sui campi di grano saraceno ed i fiori sembravano un velo magico. Ma i fiori sfiorivano, il grano maturava e la liberazione era lontana... Su Benedicta era caduto uno sfinimento fisico e morale, che la rendeva indifferente alla vita e alla morte. Forse questo era il motivo che l’aveva condotta senza paura attraverso tutti i pericoli e sembrava che i compiti più difficili le fossero i più graditi. Ma la visione delle crudeltà che i tedeschi procuravano andava oltre la capacità di sopportazione umana. Pareva che più i tedeschi si avvicinavano alla disfatta totale, più diventavano spietati. Avevano fatto prigionieri molti partigiani e dopo averli torturati a morte gettavano i cadaveri sul marciapiede davanti al duomo di Narodni e li lasciavano lì fino alla completa decomposizione. In questa parte della città non si poteva resistere per il cattivo odore. Doveva servire da esempio. Ma si ottenne l’opposto. Agli Sloveni divenne ancora più chiaro che dovevano buttare fuori questi torturatori stranieri, che profanavano la terra patria. In un sobborgo di Celje i tedeschi avevano preso diciotto uomini innocenti e li avevano appesi per il collo ai ganci che ai macellai servono per la carne. Naturalmente le vittime erano legate. L’agonia durò tra le otto e le venti ore. La città intera era circondata di esplosivi «Tutto salterà in aria quando dovremo ritirarci» ridevano cinici i nazisti. E pensare che questo popolo bestiale lo avevano chiamato una volta il popolo dei poeti e dei pensatori. Ora li si chiamava giustizieri e boia. Un’eterna vergogna storica. L’orrore della rivoluzione francese era un gioco da bambini al confronto di queste sadiche crudeltà. I tedeschi volevano lasciarsi alle spalle solo “terra bruciata”. Ma così come volevano distruggere quello che con tanta faticosa diligenza era stato costruito nei secoli, così anche a casa trovarono solo macerie. La terra bruciata ricadeva su di loro. Essi avevano dimenticato la legge che vale sempre: tutto il male che l’uomo fa ricade su di lui prima o poi, come un boomerang... Che lo credessero o meno, la Legge si realizza sempre. Il comandamento lo esprime nel modo migliore: “Ciò che non vuoi che venga fatto a te, non ‐ 87 ‐ storiae farlo a nessun altro!” Alla fine i tedeschi dovettero fuggire così in fretta che non poterono far saltare in aria la città. Ulrike e la sua famiglia dovettero fuggire per un certo tempo nella Sanntal. I tedeschi avevano occupato anche la loro villa. Poi per le lotte partigiane con i tedeschi anche la Sanntal divenne troppo insicura e tutta la famiglia venne da Dita... Alla fine della guerra, un treno abbandonato stava ai piedi della montagna. Tutte le persone che vivevano nelle vicinanze si precipitarono su questo treno. Dita andò con loro per curiosità. Osservava come nelle diverse persone l’avidità si manifestava nei visi, quasi si picchiavano per impossessarsi delle cose più diverse. Come bottino Dita prese uno spelacchiato pennello da barba. Quello voleva conservarlo a ricordo dei nazisti! Per nessuna ragione avrebbe potuto saccheggiare! Meglio patire la fame. Questo aveva imparato nella casa del pastore protestante. Alcune persone erano venute con le mucche e i carri. C’erano cucine economiche, boccali, mantelli, macchine da scrivere, letti, stanghe, coperte eccetera, eccetera. Naturalmente Ulrike si era insinuata rapidamente nel treno e ne uscì con due magnifiche pellicce. Sparì molto presto, per ritornare subito dopo. Vide uno con una macchina da scrivere e parlò con lui a lungo fino a quando non ebbe tra le mani la macchina da scrivere. Aveva promesso in cambio una macchina da cucire. Ma quando più tardi le si ricordò di questa promessa, disse che doveva esserci un errore. Non si ricordava di nulla e non aveva mai avuto una macchina da scrivere. Che il raggirato pensasse male di Ulrike, era palese. Dopo che Dita ebbe visto tutto, trovò solo una parola: «Pfui!» Anche la casa di Ulrike fu liberata dai tedeschi e la famiglia vi fece ritorno. Ulrike era ora una grande partigiana. Sempre nella speranza di avere un più rapido ricongiungimento con Alma, Dita visse per un periodo presso Ulrike. Molte persone erano ritornate, ma Alma non ancora. Ma Dita visse un’esperienza che non avrebbe mai ritenuto possibile. Ulrike convinse la moglie del nazista e pittore Klinger ad affidarle i suoi preziosi mobili e altre cose pregevoli, perchè da lei sarebbero state più sicure. Poi denunciò il pittore, del quale ci si era un po’ dimenticati. Certamente egli si era meritato quello che gli era capitato ma il modo con cui Ulrike lo fece fu tutt’altro che corretto. Nella prigione gli fece visita, gli portò una coperta e lo consolò, lo avrebbe aiutato a ritornare libero. Dopo pochi giorni sua moglie divenne vedova e fu cacciata oltre confine. Però Ulrike si godeva i beni arraffati… Aveva anche una collega di lavoro che nel corso del tempo aveva ammassato bellissimi mobili e oggetti d’uso per la casa. Ulrike le disse che in tempi così insicuri, le sue cose sarebbero state custodite meglio storiae ‐ 88 ‐ presso di lei. Le poteva sempre avere di ritorno quando voleva.. Quando tutto fu portato da Ulrike, lei denunciò la sua collega. E non la si rivide più... Molti del “Kulturbund” erano rimasti, specialmente i più anziani, perchè il pastore luterano May aveva tenuto un commovente discorso, ricordando che tutti dovevano restare nella terra natia. Commossi e tranquillizzati andarono a dormire. Quella notte stessa il pastore luterano May fuggì con tutta la famiglia oltre confine. Era l’ultima possibilità. Arrivò fino a Vienna, dove entrò come un povero perseguitato dai nazisti. Poiché tutti quelli che avrebbero potuto dire la verità sul suo operato erano rimasti nella terra natia, il povero perseguitato dai nazisti divenne vescovo evangelico di Vienna. Però nella fretta della partenza aveva lasciato nella Chiesa luterana di Celje tutte le liste al completo di chi faceva parte del “Kulturbund” e di chi aveva il cartellino rosso, cosa che naturalmente fu di grande utilità per i partigiani e per i tribunali. Il pastore luterano May poteva forse sfuggire alla giustizia terrena, ma non certo a quella celeste. Anche per lui Dita ebbe solo un «Pfui». Quando Ulrike propose a Dita di portare da lei l’argento e l’oro che ancora erano rimasti ed anche le porcellane di Meissen, Dita sapeva già cosa sarebbe successo. Allora regalò a Ulrike tutto un arredamento Biedermaier, con i cucchiai d’oro che aveva portato per ricordo dall’Inghilterra e una tovaglia ebraica di sua nonna che serviva per il culto e che proveniva dall’Italia. Così comprò la sua libertà da Ulrike, perchè era meglio vivere con poche cose terrene, che morire a causa di quelle. E Dita doveva vivere per Alma. Lei sperava sempre che sarebbe ritornata. Poi Dita ritornò nella sua piccola casa di montagna. La grande villa vuota le riusciva inospitale, tutto era ancora in cantina e le camere erano piene di letti affastellati l’uno sopra l’altro. Tra le montagne pensava di essere più sicura. Che errore!... La ritirata era in pieno corso. Sulle strade si muovevano le truppe tedesche, questa volta in direzione Nord. Dita non poté fare altro che correre nella villa, cucì con grossi punti una bandiera jugoslava con stoffa di lenzuola e di grembiuli, nonostante ciò risultò una grande e bella bandiera che dalla terrazza era visibile in lontananza. Dita l’assicurò a una lunga asta. Hurrah! Sventolava nell’aria. Da Stegu, di fronte, apparve una seconda bandiera e così avanti. I tedeschi ebbero la sfacciataggine di sparare sulla bandiera di Stegu. La bandiera di Dita non potevano più raggiungerla. Per giorni e giorni il corteo dei nemici vinti andava per le strade. Speravano di incontrare gli Inglesi già al confine austriaco. Ma Dita sapeva che là li aspettavano i Russi… Lentamente vennero fuori più bandiere ed i visi incupiti si rischiararono. Ma i pericoli non erano ancora finiti. ‐ 89 ‐ storiae Tedeschi, Ustascia, Croati, Belogradisti Dopo i tedeschi vennero gli Ustascia, quei croati che erano alleati [cfr. Scheda 19] coi tedeschi e per i quali non c’era più posto in patria. Questa gente che affermava di essere cristiana e che aveva commesso le loro crudeltà nel nome di Cristo, calpestava i campi di grano e pestava le seminagioni - era il mese di maggio. I fuggitivi accendevano fuochi da campo lungo la Savinja e salivano anche sulle montagne vicine per saccheggiare le case e violentare le donne. Nella fuga fra la vita e la morte, pensavano ancora ad azioni di questo tipo! Dita era di nuovo nella vigna. Il vicino, che era già ritornato, era molto preoccupato per sua moglie che non era ancora ritornata a casa. A lui come uomo avrebbero certamente sparato. Chi poteva andare? «Io naturalmente!» disse Dita. Mandarono con lei una bambina del vicino che portava la lanterna. Non appena cominciarono la prima salita venne loro incontro un ustascia. Strappò di mano la lanterna alla bambina che piangendo scappò verso casa ed il delinquente si gettò su Dita. Dita implorò in cuor suo la Madonna ed ebbe la forza. Per fortuna aveva anche gli scarponi che sostennero la mossa di judo, così l’animale presto finì a terra, ma con l’ultima energia sparò a Dita, per vendetta. L’articolazione della sua mano sinistra venne perforata e il sangue usciva a fiotti. Dita sentì i passi di altri ustascia. Allora corse dai vicini, cadde, si ferì il ginocchio, continuò a correre continuando a perdere sangue. Ormai vacillando raggiunse la meta e vide rasserenata che la vicina era già a casa. Era tornata per un’altra strada. Adesso aiutava Dita. Però dovettero accertarsi che nell’oscurità nessuno fosse fuori, perchè tutte le bende e le medicine erano a casa di Dita. Dovevano fare tutto al buio per non destare l’attenzione degli Ustascia. Finalmente Dita aveva bendato tutto e poté concedersi un leggero svenimento. TutSCHEDA 19: Gli ustaša Esponenti delle forze dell’estrema destra, scioviniste e antiserbe legate al partito croato del diritto, rifugiati a Vienna, nel 1930 fondarono sotto la guida di Ante Pavelič il movimento degli ustascia (ustaša in croato significa ribelle), che fu fin dall’inizio finanziato da Mussolini ed addestrato all’uso delle armi e degli esplosivi attraverso una rete di campi in Italia. Nell’ottobre del 1934 gli ustascia parteciparono all’assassinio del re jugoslavo Alexander, che avvenne a Marsiglia durante una sua visita ufficiale in Francia. In quest’azione ebbero aiuti dalle autorità italiane e ungheresi. Avvicinatisi sempre più al nazismo, gli ustascia sostennero le truppe tedesche quando invasero la Jugoslavia e negli anni di guerra si resero protagonisti di violenze, efferate rappresaglie e eccidi atroci. (ef ) Cfr. BIANCHINI S., La questione jugoslava, Firenze 1999. storiae ‐ 90 ‐ Ante Pavelič mentre pronuncia un discorso scortato dai suoi ustaša. tavia una Slivovitz la riportò nel mondo della realtà. La mattina presto i vicini gettarono terra sulle tracce di sangue e un altro vicino condusse Dita all’ospedale. Poteva a malapena camminare, era stata una notte difficile con molti dolori. In pieno giorno sulla strada, gli Ustascia non osavano attaccare, si erano ritirati anche dalle montagne. Temevano i partigiani. Sulla strada c’era la carogna rigonfia di un cavallo. I campi desolati erano pieni di stracci puzzolenti, di bambini abbandonati e di donne urlanti. Era orribile. All’ospedale dovettero ricucire Dita meglio che potevano, ma in fretta, perchè c’erano lunghe file di fratelli nemici: Ustascia, partigiani, Belogardisti [cfr. Scheda 20]. Ma erano tutti così malmessi che solo ogni tanto guardavano male i loro vicini. Erano tutti troppo deboli per aggredire ed andava bene così. Dita arrivò a casa a fatica. A casa si mise a letto mentre imbruniva. Doveva recuperare le forze dopo la perdita di tanto sangue. Le era ben chiaro che con la musica aveva chiuso. Con la mano sinistra non avrebbe più potuto suonare né violino, né organo, né armonium. Ma al momento nemmeno questo era importante. Una sola cosa era importante. Sarebbe ritornata Alma, e quando? Dita aspettava come Solweig [cfr. Scheda 21]. Aspettava giorno e notte. Dopo il grande bombardamento su Celje c’erano solo macerie in giro. Dita poteva ricordarlo solo rabbrividendo. Un giorno gli “uccelli stranieri” erano venuti da tutte le parti, formando un vasto cerchio che si chiudeva ‐ 91 ‐ storiae SCHEDA 20: I belogardisti I belogardisti e i domobranci erano “sloveni bianchi”, appartenenti per lo più al partito cattolico e, in parte, a quello liberal-monarchico. Essendo fortemente anticomunisti, avevano deciso di collaborare con le truppe naziste al fine di ottenere il distacco della Venezia Giulia dall’Italia e una sua annessione alla Jugoslavia di Pietro II. Successivamente, verso la fine del 1944 arrivarono a Gorizia anche le truppe cetniche. Il loro nome derivava dal termine serbocroato Četa, che significa “banda” o “franchi tiratori”. Alla metà dell’Ottocento i cetnici erano gruppi di autodifesa serbi, bulgari e greci che operavano nelle aree balcaniche sotto il controllo dell’Impero Ottomano. Durante la Grande guerra gruppi di cetnici serbi combatterono contro gli austroungarici e i tedeschi che avevano occupato la Serbia. Con la nascita del Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, i cetnici si configurarono come movimento politicomilitare di carattere panserbo, fortemente nazionalista e spesso utilizzato dalle autorità statali per reprimere i moti separatisti. Con l’occupazione nazista della Jugoslavia il movimento si spezzò in due tronconi, entrambi caratterizzati da un forte nazionalismo e da un convinto anticomunismo. La parte dei cetnici guidata da Milan Nedič decise di collaborare con gli occupanti tedeschi mentre le forze guidate da Dragoljub Mihajlovič scelsero di schierarsi contro i nazisti e di organizzare forme di Resistenza, sempre in vista di un’unificazione nazionale in ottica serbo-centrica. Dopo un iniziale accordo con la Gran Bretagna che riconobbe ufficialmente Mihajlovič capo della Resistenza, questi gruppi entrarono in contrasto con le forze partigiane comandate da Tito. I tedeschi non ci misero molto ad approfittare di queste divisioni per arruolare tra le loro fila numerosi gruppi che facevano riferimento a Mihajlovič in nome della condivisione dell’anticomunismo. Ciò accadde soprattutto nel momento in cui gli Alleati decisero di collaborare con i partigiani di Tito rompendo l’accordo con i cetnici. I nazionalisti serbi iniziarono così ad affiancare i nazisti nelle operazioni di repressione antipartigiana in cambio di cibo, armamenti e protezione. (mc) Cfr. MILZA P., BERNSTEIN S., TRANFAGLIA N., MANTELLI B., Dizionario dei fascismi, Milano 2002. SCHEDA 21: Il canto di Solveig Henrik Ibsen (1828-1906), Peer Gynt, Il canto di Solveig, musicato da Edvard Grieg (1843-1907): Passerà forse l’inverno e la primavera, passeranno l’uno e l`altra,/e la prossima estate e l’anno venturo e quello successivo finché tu verrai, /ché una volta verrai, me lo dice il cuore,/ e come t’ ho promesso io qui ti aspetto, come t’ ho promesso./ Ti dia forza Iddio dovunque vai, dovunque vai,/ ti dia gioia Iddio dovunque stai, dovunque stai./ Io quassù ti aspetto fino a che ritorni, fino a che ritorni,/ e ti vengo incontro amico mio amico mio. (mc) storiae ‐ 92 ‐ via via più stretto attorno alla città. Terrorizzati gli uomini fuggivano via. Anche Dita e gli abitanti della sua casa erano fuggiti nei boschi. Dita col bassotto sotto il braccio. E poi tuonò, l’eco era cento volte più cupo. Alla fine Dita era fuggita nella casa di un’anziana donna. I muri tremavano ancora dopo l’accaduto e l’eco dei bombardamenti risuonava nel silenzio del bosco. Non finiva mai e terrorizzati e silenziosi gli uomini fuggivano. Finalmente silenzio di tomba. Come in una muta marcia funebre tutti ritornavano ai luoghi dove una volta c’erano le loro abitazioni o si trovavano ancora. Alla fine del bosco la vista su Celje era libera. Non c’era nulla da vedere. Una fitta nebbia gravava come pesanti nuvole di temporale sulla città e uno sgradevole odore di incendio veniva portato dal vento. Anche la villa di Alma era avvolta in una nuvola di polvere e Dita temette che sarebbe venuto alla luce solo un mucchio di rovine. Il vento disperse la polvere ed apparvero delle mura, come sciupate, cosa che da lontano non si poteva vedere. Per più di una settimana sulla città rimase stagnante l’odore dei cadaveri sepolti. Le strade erano piene di macerie, il fuoco aveva distrutto quasi tutto. No, queste immagini erano insopportabili. Tutto quello che dagli ultimi anni riemergeva nel ricordo era una serie di immagini, una più orrenda dell’altra. [...] Il ritorno di Alma Ancora una volta Dita era andata vicino alla casa di Ulrike, la figlia era nel giardino e Dita le gridò che andava in città. Ma la ragazza le era corsa dietro senza fiato. «Alma è qui! È tornata!» Dita si appoggiò alla siepe, aveva le vertigini. Poteva essere possibile? Poi raccolse le sue forze e rapidamente tornò indietro. Alma stava nel giardino di Ulrike. Lo spirito di Alma. Poteva stare ancora insieme quel mucchietto di ossa? Le due amiche si guardarono con gli occhi dell’anima. Poi Alma disse: «Hunki, se hai qualcosa qui, prendila, perchè noi non torneremo mai più in questo posto». Ulrike stava lì col viso mortalmente pallido e tentava un dolce sorriso. Le riuscì in modo poco convincente. Molto freddamente Alma si congedò e le due amiche andarono nella casetta di montagna di Dita. La villa era stata bombardata e colpita e i muri avevano grosse crepe. Secondo le informazioni di Alma, Dita apprese che Ulrike aveva tentato di tutto per far fucilare Alma. Aveva sperato di esserci riuscita, di qui il suo terrore mortale quando Alma era apparsa improvvisamente. Non c’era più nulla da saccheggiare ora, ma non sapeva quanto Alma sapesse di lei... Dita guardò Alma, ma vide anche la sua aura e si spaventò. Il segno della ‐ 93 ‐ storiae malattia era in lei. Le strisce grigie che mostrano il cancro. Nel calice della gioia di Dita caddero gocce amare di assenzio. Alma e Dita si erano ritirate nella vigna e vivevano completamente isolate. Entrambe erano troppo deboli per andare in giro. C’erano ancora alcuni oggetti di valore che si potevano vendere. Ma le preziose raccolte di oggetti provenienti dal suo viaggio intorno al mondo, Alma non voleva intaccarle. Tutto questo doveva essere conservato per l’umanità, nell’esatto ordine cronologico con cui i reperti erano stati raccolti. I vicini Slapsak notarono che le due artiste a soldi erano messe molto male e la signora Slapsak si offrì di vendere o scambiare degli oggetti con dei generi alimentari. Dita e Alma dovevano ringraziare proprio questa buona donna se avevano potuto sopravvivere per i cinque anni successivi. Con molta fatica Pavla Slapsak scambiava lenzuola di lino, coperte di damasco, asciugamani e così via su per le montagne e portava di ritorno generi alimentari. Spesso si indignava storiae ‐ 94 ‐ per l’avarizia dei contadini che tiravano sul prezzo e mercanteggiavano approfittando del bisogno altrui, mentre davano così poco per cose che altrimenti non avrebbero mai potuto comperare. Ma i contadini sono uguali in tutto il mondo. Come unica giustificazione poteva valere che il loro guadagno sulla terra era questione di fortuna ogni anno. Dipendono dal sole e dalla pioggia. Dita cominciò di nuovo a coltivare la terra nel suo piccolo possedimento, per poter avere un po’ di vettovaglie in casa. Così vissero assai poveramente e le forze fisiche bastavano appena per svolgere le attività quotidiane. Alma era di nuovo sprofondata nella scrittura e lasciava a Dita il compito di gestire la vita quotidiana. Dita abbatteva da sola anche gli alberi per procurarsi la legna da ardere. Una volta Alma la trovò svenuta accanto al grosso albero segato a terra. Una Slivovitz aiutò Dita a mettersi di nuovo in piedi. Nella vita tutto passa.... Alcune donne del “Kulturbund” erano ancora a Celje e si nascondevano tremanti di paura. Improvvisamente erano venute a conoscenza che l’amato “Fuhrer” non aveva fatto proprio tutto bene. Una notte queste spaventapasseri, sfinite, apparvero da Alma e Dita e pregarono di poter avere asilo nella loro villa vuota. Erano quelle seguaci del “Kulturbund” che però non avevano fatto nulla di male. «E perchè vengono proprio da me, che sono stata la più perseguitata dal “Kulturbund”?» domandò Alma. La risposta avvilita fu: «Perchè lei aiuta sempre i perseguitati!». «Sì se qualcuno è perseguitato ingiustamente, ma…». Alma osservò i pallidi visi disperati e si ricordò di quando lei stessa era in fuga. «Ora vadano nella villa, ma non accendano luci, cuociano solo con l’elettricità, che non salga fumo. Si chiudano dentro, non si mostrino alle finestre e forse riusciranno a farcela fino a quando la prima collera sarà passata. Io non desidero sapere nulla della loro presenza alla villa. Di che cosa intendono vivere?» Silenzio disperato. «Un po’ di verdura la mia amica ve la può portare. Vadano ora, prego». Se ne andarono, ma Alma fu colpita dal fatto che fra le imploranti si trovasse anche Nora Herzmann. Il dott. Herzmann aveva sostenuto i partigiani con medicine e li aveva anche curati e aiutati come poteva. Nora però non era portata per la politica. Lei viveva per e con il suo allevamento di cani. I cani l’accompagnavano dappertutto e la notte dormivano sulla coperta del letto. Sempre, quando veniva alla luce una nuova cucciolata, Nora invitava Alma e Dita e mostrava con vero orgoglio un esemplare dopo l’altro: «Non ha delle orecchie deliziose? Non ha un musetto fantastico? E guardate questa coda!» Le due amiche, che erano anch’esse pazze per i cani, trascorrevano ore molto piacevoli tra i pechinesi di Nora. A tutto questo pensava Alma ‐ 95 ‐ storiae e si preoccupava per la moglie del medico. Comprensibilmente, dopo la guerra, le ondate d’ira erano diventate molto forti, e anche il dott. Herzmann dovette dimostrare che aveva aiutato davvero i partigiani. Le testimonianze di Dita da sole non bastarono. Prima bisognava ritrovare i partigiani dispersi e in- Vista sulla chiesa di San Giuseppe a Svetina. tanto questa famiglia, la cui unica colpa era quella di aver partecipato con il “Kulturbund” alle liete feste con abbondanti libagioni, restava nel Lager fino a quando la faccenda non sarebbe stata chiarita. Così Nora trascorse nascosta il periodo peggiore della sua vita nella villa e il dottor Herzmann in campagna, presso i suoi contadini. Egli morì peraltro poco dopo. Alma però esortò Dita: «Hunki porta a quelle creature fagioli e verdura, affinché non ci siano anche cadaveri di affamati nella villa». E Dita? Brontolava come un cane cattivo «Nora naturalmente, Nora era sempre stata buona, ma le altre?» «Amate i vostri nemici» diceva Alma e rideva del viso rabbioso di Dita. «Fate del bene a coloro che vi odiano e quando è possibile porgete l’alta guancia quando uno vi schiaffeggia». «Che terribili precetti!» «Gesù li ha vissuti, Hunki!» «Lo so, lo so!». Con ciò Dita mise in spalla il grande zaino che le montagne di Triglav avevano già illuminato e se lo trascinò da quei fuscelli di paglia, che un tempo, nella loro follia hitleriana, l’avevano guardata con tanto orgoglio dall’alto in basso. Ma la profonda riconoscenza e i visi segnati dalla paura la commuovevano e lei seminava ancora di più nell’orto. «Ci rimetteremo noi» diceva Dita rabbiosa. «Hunki, io ho sempre agito secondo la mia coscienza, indifferente a quello che dice la gente. Non cambierò fino alla fine della mia vita!» Molti che erano stati con i partigiani si erano fatti avanti per un impiego o una pensione. Altri li avevano chiamati. Nessuno chiamò Alma e Dita e loro erano troppo orgogliose per chiedere qualcosa. Così sprofondarono sempre più nella miseria.[…] storiae ‐ 96 ‐ Un giorno trovarono i fuggiaschi nella villa e li snidarono. La grande ira però era passata, li cacciarono oltre i confini, in Austria, e Nora poté tornare a casa sua. Più tardi vendette la casa e andò all’estero da suo figlio. Poté portare con sé quello che voleva. Alma però ricevette la quietanza per la sua umana solidarietà. Occuparono la villa con famiglie di nove, sette e cinque bambini. Così la villa smise di appartenere ad Alma. Lei offrì a Dita di intestare tutto a suo nome, perchè in futuro gli estranei se ne sarebbero andati, ma Dita rifiutò indignata. La bellissima proprietà era stata divisa in particelle, sarebbe sorta una colonia di case e per un artista che aveva bisogno di pace, era divenuta inutile. Alma la vendette per poco, regalò agli amici gli arredi delle stanze e così perse tutto. Rimase solo ciò che bastava a pagare i debiti e poi continuarono entrambe nella loro miseria. Alma aveva un nodulo al seno che cominciò a crescere. Aveva sempre cercato un modo per andare all’estero, perchè qui non vedeva alcuna possibilità di guadagnare danaro per vivere. Ma le sue istanze vennero sempre respinte. Alla fine non giunse nemmeno una risposta e la vita proseguì così. La malattia, la miseria, la morte di una scrittrice Nel frattempo l’invisibile e leggendario maresciallo Tito, sulla cui testa i tedeschi avevano messo delle taglie così alte, era apparso al mondo. Egli si dimostrò un diplomatico incredibilmente abile, riuscì a proteggere la Jugoslavia sia dalla violenza orientale che occidentale. La Jugoslavia restò indipendente. E Tito divenne il cuore del paese. Il primo selvaggio zelo di rovesciare tutto ciò che ricordava i tempi precedenti si spense dopo un po’, così in Jugoslavia sorse qualcosa di completamente originale, personale, il comunismo jugoslavo appunto, che era molto lontano da quello terribile che si era esteso su alcuni altri paesi. Le persone cominciavano a vivere di nuovo la loro vita individuale. C’era più libertà, non c’erano mendicanti e non c’era gente che andava in giro come fagotti di stracci. Lavoro ce n’era abbastanza e le macerie della guerra scomparvero. Di anno in anno la situazione migliorava. I bambini potevano andare a scuola, le borse di studio venivano garantite. Dappertutto si poteva notare questa crescita. Solo nella piccola casa in montagna si sentivano i passi della morte che si avvicinava.... Tra duri sacrifici e continuo lavoro gli anni erano passati. A Zagabria le persone cominciavano a interessarsi di Alma e sui giornali comparvero articoli su di lei. Di conseguenza arrivavano spesso visite e tra i legami più forti ci fu quello con Milica Gradisnik e Elza Boltezar di Zagabria, così come con la famiglia Dobravc di Celje che fu particolarmente d’aiuto. ‐ 97 ‐ storiae Tutti si interessavano del grande e vasto sapere di Alma e delle sue grandi esperienze in ambito metafisico. [...] C’erano care persone che venivano a trovare Alma, ma con turbamento vedevano come la scrittrice diveniva sempre più spirituale e come era sempre più vicina alla morte. Elza Boltezar aveva lavorato quasi trent’anni ai raggi e soffriva di danni professionali. Con il consenso dei suoi professori aveva organizzato tutto per Alma, perchè essa potesse essere ricoverata a Zagabria senza spese. Alma rifiutò. Dita la pregò tra le lacrime di utilizzare questa meravigliosa occasione. «Hunki, lo vedi, non mi lasciano andare all’estero. Qui non posso guadagnare niente, né pubblicare le mie opere. Io qui sono sepolta viva. Preferisco la morte. Non voglio né medico, né cure». Non ci fu nulla da fare. Ancora una volta Dita la pregò: «Abbi dunque un po’ di pazienza, noi riusciremo ancora andare all’estero. Questi sono gli anni del dopoguerra». Alma disse amaramente: «Non vogliono lasciarmi uscire. E io sono stata quella che ha pregato Churchill di aiutare la Jugoslavia, cosa che l’Inghilterra non voleva fare a causa del comunismo di Stalin. Su mia preghiera Churchill mandò suo figlio Randolf dai partigiani e da allora l’Inghilterra li aiutò». Dita lo sapeva. Lei stessa aveva bruciato le lettere di Churchill quando venne la Gestapo e sapeva dei successivi contatti di Alma per aiutare la Jugoslavia. E ora la vita di questa grande anima doveva finire… Ma una persona muore lentamente, specialmente se essa stessa si augura la morte. Nel frattempo a Dita giunsero doni da parte della madre inglese e dei parenti americani della Herzing tramite la Croce Rossa. Così la vita divenne un po’ più facile. Il 18 novembre 1946 Dita ricevette anche una affettuosa lettera della madre dall’Inghilterra. «Io vorrei per una volta inginocchiarmi con te allo stesso altare, mia amata figlia» Scriveva la duchessa. Fu la sua ultima lettera. Tramite la Croce Rossa Dita ricevette poco dopo la notizia della morte della duchessa. Da quel momento per Dita l’isola dei suoi sogni fu avvolta in una fitta nebbia e non ci fu più alcun raggio di sole che la diradasse. Tramite la Croce Rossa giunse anche la notizia della morte di Herzing. Sulla terra per Dita rimanevano ancora solo porte chiuse. L’unica porta aperta nella quale poteva ancora sperare era quella dell’aldilà. Anche se tutto appariva ormai senza speranza, Alma non poteva smettere di scrivere e con questa attività intellettuale trascorreva il tempo. Ma nel 1947, infine, la sua pazienza si esaurì. Piangeva ininterrottamente per ore o correva disperata lungo la Savinja, dove non c’erano più case, fino a quando Dita la raggiungeva per riportarla indietro. Una notte Dita si svegliò spaventata, una corrente d’aria gelida l’aveva colpita. Lei dormiva in cucina e guardò su verso Alma, alla quale aveva dato la stanza grande. Sentì dei respiri rauchi e poi più niente. Accese una candela. Il corpo di storiae ‐ 98 ‐ Alma era diventato interamente blu, coperto di macchie blu. Non respirava più. Dita vide e capì che si trattava di una morte violenta. Veleno. Inorridì. No, questo no! Solo Dio è padrone della vita e della morte. Dita apprese la potenza della preghiera. Non aveva mai pregato in vita sua come accanto alla sua amica apparentemente morta. […] Quando il primo raggio di sole si posò sul viso cadaverico di Alma, le sue palpebre si mossero lievemente. Molto lentamente anche il colore cambiò e Dita corse a chiedere aiuto da Pavla Slapšak, perchè Dita stava a malapena in piedi. [...] Trascorsero ore finché la coscienza riuscisse a tornare completamente vigile. Intanto Dita aveva dato ad Alma il giusto antidoto contro il veleno. La vicina sparì silenziosamente. Questa donna piena di tatto capiva sempre come adeguarsi a ogni situazione. Quando Alma poté di nuovo parlare, le sue prime parole furono: «Hunki, ti ringrazio! Tu mi hai richiamato alla vita con la preghiera. La mia anima ti vedeva. Da parte mia è stato un colpo di testa. Me ne rammarico molto. Qualunque cosa accada voglio sopportarla fino alla fine». Il veleno aveva indebolito ancor di più il corpo già logorato della scrittrice. Alma riusciva a malapena a mangiare; riusciva a bere un po’ di vino, ma era terribilmente difficile da trovare. Se ne poteva avere solo mezzo litro alla volta. Così ogni giorno Dita andava di corsa alla baita posta a 750 metri di altezza o scendeva a valle alla Gostilna [osteria, mescita di vino]. Tornava indietro di corsa, in pensiero per Alma. Il nodo al seno cresceva. Nell’ottobre 1949 si ruppe una vena e il sangue sprizzò per tutta la camera. Dita agì in fretta e prudentemente. Riuscì a fermare l’emorragia. Solo dopo le vennero le ginocchia molli. Questo zampillo di sangue sarebbe sempre ritornato fino alla fine. Era accaduto il 12 ottobre, il giorno del suo sessantesimo compleanno. Da allora Alma non poté più alzarsi. Ma sdraiata dettava ancora i suoi racconti e le sue poesie. Il suo spirito appariva indistruttibile. Lei era ricca dello spirito delle antiche culture e parlava volentieri soprattutto degli Incas che l’avevano affascinata. Ma nella lotta con la sottoalimentazione e con tutta la disperazione della loro situazione anche Dita sentiva sfuggire le forze. Lei sperava con Alma di tornare a casa nel mondo della luce. Gli amici erano stati sempre tutti buoni e di nascosto lasciavano un sacchetto di farina qui, un po’ di semolino là, ma anch’essi avevano molto poco. La famiglia Dobravc, che aveva cinque bambini, le aiutava di più di tutti. Alma però non doveva sapere nulla dell’aiuto altrui. A poco a poco la vita di Alma si spegneva. Elza Boltezar veniva spesso da Zagabria. Portava delle medicine contro il dolore. Nessuno più poteva aiutare Alma. Un cancro al seno non curato è orribile. Dita bolliva giorno e notte delle bende. All’inizio di gennaio venne da Zagabria la contessa ‐ 99 ‐ storiae Borelli con la quale Dita aveva fatto amicizia. Dita era allo stremo delle forze ed era profondamente grata per la presenza della contessa e di Elza. Alma voleva sempre Elza accanto a sè. Elza aveva preso un periodo di permesso. Era instancabile, giorno e notte in servizio presso Alma. Alma era sempre pienamente cosciente e la notte prima della morte le parlò in continuazione della cultura Inca. Il giorno precedente il dottor Peter Kovadič, l’abate di Celje, era venuto da Alma. L’avevano chiamato i vicini [...] Verso sera Alma sorrise e disse: «Hunki, sta arrivando la nuova vita!» Durante il periodo della malattia Alma non si era mai lamentata, non aveva mai lasciato capire agli altri quanto stava soffrendo. Eroicamente aveva sopportato tutto e così coraggiosamente come aveva vissuto, morì. Quando arrivò la fine il sole era al tramonto. Alma si distese ed era come se una mano avesse spianato i suoi tratti sofferenti. La contessa Borelli accese la candela funeraria che mescolò la luce del sole cadente con il viso ascetico della poetessa. Pace, pace! Liberazione da questo mondo! Dita invidiava la sua anima sorella. Alma aveva espresso il desiderio di essere sepolta a Svetina, un piccolo posto meraviglioso a 850 metri d’altezza. Branko Dobravc aveva preparato tutto per la sepoltura del 17 gennaio. Egli aveva fatto tutto ciò che era necessario e aveva portato su il carro con la mucca che doveva condurre Alma a Svetina il 16 gennaio. Fu l’ultima bella giornata. Il giorno della sepoltura cadde sulla città una pioggia gelata, ma sulle montagne infuriava una tempesta di neve con lampi e tuoni. Solo alcuni coraggiosi alpinisti poterono prendere parte al funerale. A fatica Dita con Elza combatterono con la tempesta. Finalmente la luce nella piccola cappella di montagna. C’era già il cappellano di San Daniele in Celje. Sotto una tempesta con raffiche di neve, lampi e tuoni, la bara venne messa nella terra. Addio terra, valle dei pianti [...]. Luglio 1987: la tomba di Alma Karlin a Svetina.