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Due vite... una meta
Frammenti di un romanzo
di Thea Schreiber Gamelin
La scoperta
Dita ascoltava alla radio le informazioni sulle
novità librarie: anche questa era una nuova
conquista. Alla radio leggevano dei passi dal
diario del viaggio intorno al mondo di Alma
Maximiliana Karlin. Una donna, sola, in viaggio attorno al mondo per otto anni! Einsame
Weltreise (Viaggio solitario intorno al mondo)
si intitolava il diario. Il fazzoletto che Dita
stava stirando, si torse bruciato sotto il ferro.
Herzing irritata la guardò e urlò: «Dita!!!». Dita
lasciò a Herzing l’anima di quello che una volta
era un fazzoletto e corse dal pastore. «Papà, ti
Thea Schreiber Gamelin.
prego, procurami questo libro! Dev’essere una
donna straordinaria!».
«Dove vive, Dita?». «Mi pare in Jugoslavia. A Celje». Tirarono fuori le
cartine geografiche, trovarono il luogo e il pastore acquistò il diario di
Alma Karlin dal libraio. Il pastore leggeva ad alta voce. L’intera famiglia era
affascinata. Una volta il religioso, preso dalla lettura, dimenticò addirittura
di dover celebrare un matrimonio. Il sagrestano dovette venire a prenderlo.
Non era mai successo prima. Dita scrisse a quella sconosciuta ed eroica
donna, che aveva dovuto sopportare di tutto e che aveva esplorato tanti
luoghi lontani e che padroneggiava tante lingue. Dopo alcuni giorni arrivò
la risposta di Alma Karlin e un invito nella sua casa costruita addirittura
su antiche fondamenta di epoca romana a Celje, sulla dolce sponda della
Savinja. Dita andò a Rostock e tornò con i documenti necessari.
«Domani parto per la Jugoslavia!», annunciò alla famiglia attonita. Il
pastore sorrise. L’amore per i viaggi l’aveva sicuramente ereditato da lui.
Ma tutti gli altri conoscenti espressero con veemenza la loro paura: «Non
tornerà viva! È ancora un paese selvaggio quello! Ci sono ancora i lupi e
gli orsi! E la gente! La deruberanno e la uccideranno!»
«Ma siete tutti ammattiti?», disse Dita. «Un tempo qui da noi abitavano i
Sorabi [cfr. Scheda 1] e la maggiore parte di voi discende da quel popolo;
in Jugoslavia ci sono gli Sloveni, che sono un popolo slavo. Perchè mai
devono essere peggiori di voi?». Si percepì un silenzio imbarazzato.
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«Si, ma là ci sono montagne selvagge e certamente ci saranno anche dei
banditi». «Sembra che Lei confonda quel luogo con l’Italia»., rispose Dita.
Qualcuno disse: «Per favore fotografi i cammelli!»
Dita rise fino alle lacrime: «Quelli li posso trovare più vicino», mormorò, e
fece vedere la carta geografica: mostrò che non si trattava né della Turchia,
in riferimento ad eventuali banditi, né dell’Africa, dove si potevano trovare
i cammelli. Dita aveva a disposizione due settimane per il suo soggiorno
in Jugoslavia e il padre promise di andare a prenderla al confine tedesco
e di recarsi poi con lei sul Königsee, dove avrebbero visitato i castelli di
Ludwig II.
SCHEDA 1: I Sorabi
Il sorabo o serbolusaziano è una lingua slava occidentale strettamente imparentata al ceco, parlata oggi da poco più di 70.000 persone nella regione di Lausitz e
Spreewald nella parte orientale della Germania. Le lingue lusaziane (serbšćina),
chiamate anche serbo-lusaziane, sorabe o venede, appartengono alla famiglia
indoeuropea e sono parlate nella regione della Lusazia, in particolare dagli
appartenenti al gruppo etnico dei Sorabi. La lingua dei Sorabi si distingue in
sorabo inferiore e sorabo superiore; la differenza risiede essenzialmente nella
diversa forma di scrittura adottata, che utilizza alcuni segni diacritici del ceco
e altri del polacco. Entrambe le lingue erano inizialmente un dialetto ceco che,
in seguito alla separazione politica dalla Boemia, a partire dal 1500 ha dato
origine a varianti significative tipicamente sorabe. Un ruolo fondamentale è
stato svolto dalla riforma protestante che prevedeva il servizio liturgico in lingua
nazionale. In questa occasione, infatti, hanno avuto origine i primi testi scritti in
sorabo. I Sorabi sono una popolazione essenzialmente agricola e hanno potuto
tramandare insieme alla lingua anche le tradizioni slave senza grandi problemi
fino al 1800, quando l’industrializzazione spinse molti giovani dalle campagne
nelle vicine città tedesche come Dresda e Lipsia, rompendo così i loro contatti
con la cultura tradizionale. Proprio nell’Ottocento, però, la riscoperta delle
radici nazionali portata dal romanticismo diede anche impulso alla creazione
di una stampa soraba. Da quel momento la lingua soraba iniziò a diventare
sempre più una lingua di cultura e nella popolazione si diffuse sempre più il
bilinguismo. Un momento particolarmente critico per la popolazione soraba
fu rappresentato dal periodo nazista, durante il quale si cercò di eliminare la
lingua soraba proibendone l’uso e chiudendo associazioni e giornali. Oggi il
lusaziano superiore è parlato da circa 55.000 persone, principalmente nella
zona di Bautzen, nei dintorni di Dresda, dove esiste una segnaletica bilingue,
a partire dallo stesso nome della cittadina Bautzen / Budyšín. Il lusaziano inferiore è parlato da circa 15.000 persone, soprattutto nella zona di Cottbus /
Chóśebuz. Entrambe le forme godono dello status di lingue minoritarie ufficialmente riconosciute dallo stato tedesco. (mc)
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Dita salì sul treno portando
con sé una piccola valigia. Era
l’estate del 1930. Le ruote
sferragliavano veloci verso
l’ignoto. Dita non poteva
neppure immaginare quanto
sarebbe stato decisivo per la
sua vita questo nuovo incontro. […]
Dita giunge in Slovenia dopo
un lungo viaggio in treno, nel
percorso si avvicina ad una
dimensione diversa e scopre
un mondo nuovo, accogliente,
“solare”, autenticamente popolare. L’incontro con la scrittrice
Alma Maximiliana Karlin
segna una svolta decisiva nella
sua vita, perchè sperimenta
un’amicizia profonda caratterizzata da comuni interessi
Thea Schreiber Gamelin.
culturali, sensibilità artistiche
e valori umani. Lo sguardo
femminile sul mondo, la contemplazione delle meraviglie della natura, la
ricerca di autentiche relazioni di solidarietà, la curiosità per la varietà delle
esperienze, delle lingue, dell’umanità accomuna le due intellettuali, sebbene
provengano da mondi e da storie personali profondamente diverse.
A tu per tu con Alma Karlin
Alma e Dita spesso salivano in alto, sulle montagne, e raggiungevano delle
poverissime capanne dove abitavano esseri umani in condizioni estremamente difficili. Alma li conosceva tutti: e loro offrivano a chi arrivava fin
lassù quel poco che avevano, in genere l’ospitalità non conosceva limiti in
Jugoslavia. Alma portava con sé sempre dei piccoli regali: nel suo zainetto
c’erano un cartoccio di buon caffè, dei cornetti freschi comperati in città
o dello zucchero ed anche quaderni e matite per i bambini.. Spesso con
discrezione lasciava del denaro. E diceva: «Ora con i miei libri io guadagno
e chi guadagna - penso - ha il dovere di ricordarsi degli altri che vivono
in condizioni peggiori delle sue». Però i momenti più belli erano le serate
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Alma Maximiliana Karlin.
trascorse ad ascoltare dalla sua stessa voce i suoi racconti di viaggio. Le
sue descrizioni erano spiritose, brillanti e dentro ogni narrazione c’era
sempre qualcosa che faceva riflettere. La sera, poi, portavano in tavola una
bottiglia di vino della Dalmazia e Dita lo gradiva molto. Talvolta Alma
recitava delle poesie in diverse lingue, affinché Dita potesse comprendere
la differenza dell’animo popolare attraverso l’espressione della lingua. Dita
sarebbe stata tutta la notte ad ascoltarla. Ma alle dieci: a letto!
Al mattino Alma si alzava presto e poi scompariva per un po’. […] Tornava a casa portando con sé una povera donna del mercato che veniva
ben rifocillata. La gente portava al mercato la merce passando attraverso
le montagne, camminando per lunghe ore. Dita non aveva mai visto una
persona così disponibile ad aiutare gli altri come Alma Karlin. Certo anche in Germania la gente della Chiesa Luterana faceva del bene, […] ma
in Slovenia c’era una grande capacità di immedesimarsi in ogni destino,
di sacrificarsi in un modo così naturale, che Dita cominciò a vergognarsi
profondamente. Cosa aveva fatto di buono fino ad allora? Aveva curato
gratuitamente dei poveri ammalati? Nella sua vita aveva sempre e solo
collezionato diplomi. Con tutto ciò il mondo era diventato più ricco?
Certamente anche Alma aveva studiato: conosceva perfettamente 10 lingue, ma in quali condizioni le aveva imparate? Mentre imparava le lingue
si era sempre prodigata ad aiutare il prossimo e aveva anche dato lezioni
gratuitamente, in silenzio, senza esibire nulla. Sarebbe stato terribile per
lei se qualcuno ne avesse parlato. Dita pensava al lusso con cui si viveva in
Svezia, al cibo abbondante, alle ricche abitazioni, mentre qui i lavoratori
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attraversavano le montagne, camminando per più di tre ore per raggiungere
il loro posto di lavoro, la miniera o la fabbrica. Un pezzo di pane asciutto, una caraffa di sidro, e già bastava. Altrimenti c’erano crauti, fagioli e
patate. Il pane era considerato sacro. La gente delle montagne era molto
povera. Tutto è relativo. Ciò che sul mar Baltico era considerato segno
di povertà, qui era un ricco patrimonio. Per Dita erano inconcepibili le
condizioni nelle quali i bambini dovevano studiare: spesso ci volevano ore
per percorrere la strada che portava a scuola. E poi quando ritornavano a
casa trovavano un pranzo molto povero e poi il faticoso lavoro dei campi,
tanto più faticoso perchè dovevano spostarsi su e giù per il pendio della
montagna. Tuttavia alcuni bambini di talento, riuscivano, in condizioni
così difficili, ad ottenere una laurea o a diventare professori. Ma gli altri
erano anche precocemente sfruttati e gliene derivavano problemi di salute.
Dita si sentiva sempre più angosciata. In segreto era stata orgogliosa dei
suoi studi. Alla luce dell’esperienza di queste persone, di questi “eroi”, il
suo orgoglio andava miseramente in frantumi. Che impresa era studiare
quando tutte le strade erano state spianate? Dita cominciò a non sentirsi
molto bene “nella sua pelle”; e poi sentì dire che, in epoca asburgica,
una persona che parlava solo sloveno non aveva alcuna prospettiva. I
Windischen [cfr. Scheda 2] erano considerati “sotto-uomini”. Un anno
prima del suo giro del mondo Alma aveva aperto a Celje, una scuola di
lingue, con l’intento di avvicinare gli austriaci e gli sloveni. Il progetto
fallì a causa dell’atteggiamento di superiorità, per l’altezzosità degli austriaci. Quando era bambina Alma aveva visto spesso come gli austriaci
lanciavano uova marce addosso ai Windischen. Quando c’erano le feste
popolari, dai Karlin chiudevano le persiane, perchè “i tedeschi” (così si
autodefinivano gli austriaci), buttavano contro le finestre tutto ciò che
era possibile trovare in giro. Dita non conosceva nulla di tutto questo;
per lei era tutto nuovo […]
Alma Karlin accompagnò Thea Schreiber Gamelin alla scoperta delle meraviglie della Jugoslavia: il diario non si sofferma solo sulle bellezze del paesaggio,
ma coglie soprattutto la ricchezza e l’autenticità delle relazioni umane.
E poi un’altra capitale croata, Zagabria, che stava già sulla soglia d’Oriente.
C’erano bellissimi tappeti orientali e prodotti artigianali, anche i prodotti nazionali croati. Dita acquistò numerosi regali, per mostrare queste
ricchezze a chi, sul mar Baltico, si immaginava che ci fossero solo lupi e
banditi. Molto più ricca di sapere e di conoscenze, Dita prese congedo
dalla grande artista, una persona davvero meravigliosa.
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SCHEDA 2: I Windischen
La parola tedesca windisch è un aggettivo con il quale fino al XIX secolo venivano chiamati gli sloveni dalle persone di “madrelingua” tedesca. Nel corso
dell’Ottocento i linguisti sloveni (in particolar modo Jernej Kopitar e Franc
von Miklošič) proposero l’uso dell’aggettivo slovenisch (sostantivo Slowenen)
fino ad allora sconosciuto nella lingua tedesca. Infatti, fino a metà Ottocento,
windisch era l’unico nome tedesco per gli sloveni: tutti gli sloveni, non solo
quelli carinziani. Si possono citare ad esempio i toponimi quali Windische
March, in sloveno Slovenska krajina ovvero “Marca slovena”, antica regione nell’attuale Bassa Carniola tra il fiume Sava e la frontiera con la Croazia, o Windisch
Feistritz, in sloveno Slovenska Bistrica, nella Stiria meridionale. Quando però
l’uso dell’aggettivo windisch (e del sostantivo, molto meno frequente, Winde
o Wende) venne sostituto da slowenisch e Slowene, l’aggettivo windisch cominciò ad assumere sempre più una connotazione dispregiativa. Analogamente
avviene da parte slovena con la parola Lah (a lungo l’unico nome usato per gli
italiani): quando nella seconda metà dell’Ottocento essa viene gradualmente
sostituita con la parola Italijan, fino ad allora sconosciuta, l’antica parola Lah
cominciò ad assumere un carattere chiaramente dispregiativo. Tra il 1919 e
il 1920 però, in concomitanza con la campagna plebiscitaria in Carinzia, il
termine windisch assunse un significato completamente nuovo. Lo storico
carinziano Martin Wutte inventa una teoria secondo la quale gli sloveni della
Carinzia sarebbero culturalmente e linguisticamente completamente diversi
dagli sloveni d’oltre le Caravanche. Wutte sostiene che non si tratta di veri
e propri sloveni, bensì di un’etnia a parte, che egli chiama Windischen. Però
dopo il plebiscito del 1920 questa singolare teoria cade nell’oblio e durante
tutto il periodo della Prima Repubblica Austriaca i censimenti rivelano in Carinzia (come già ai tempi dell’Impero) solo due categorie linguistiche: coloro
che parlano sloveno, in costante e rapida diminuzione, e coloro che parlano
tedesco, in costante e rapido aumento. È solo con l’occupazione nazista che
questa categoria inventata da Wutte (che diventerà membro del Partito nazista)
ritorna sulla scena. Ma se Wutte affermava nel 1920 che tutti gli slavi della
Carinzia erano Windischen e non sloveni (e che l’identità slovena era stata loro
“infiltrata” da agenti panslavisti dalla Carniola e sopprattutto dalla Stiria), i
nazisti ne danno ora una definizione ben distinta: windisch significa, secondo
la spiegazione ufficiale data dal regime nazista alla popolazione locale, “gli
sloveni che simpatizzano con i tedeschi” (deutsch-freundliche Slowenen). Così
nel censimento nazista del 1939 i Carinziani dovettero scegliere per la prima
volta non tra due, ma tra tre categorie: alle categorie lingustiche “tedesca” e
“slovena” venne affiancata una terza di chiaro stampo “culturale” e “ideologico”:
windisch ovvero deutsch-freundlich. Non è certo sorprendente che dei 50.000
sloveni rilevati dal censimento nazista in Carinzia (quello austriaco del 1936
ne rilevò appena 24.000) una netta maggioranza si dichiara windische (ovvero
deutsch-freundlich) e non slowenisch. Secondo l’interpretazione dello storico
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carinziano Andreas Moritsch furono gli stessi esponenti del basso clero locale,
da sempre fortemente sloveno nei sentimenti, a consigliare alla gente di non
dichiararsi esplicitamente sloveni, per evitare possibili ripercussioni. Quando
nel 1941 i nazisti occupano la Slovenia settentrionale (la Bassa Stiria e l’Alta
Carniola), vi applicano lo stesso metodo, cercando di tracciare una linea di
separazione tra i Windischen (deutsch-freundliche Slowenen) e gli Slowenen veri
e propri. Ma già nel 1942 essi abbandonano questa categoria, che risulta poco
utile e difficilmente applicabile, sia nella Slovenia occupata che nella stessa
Carinzia, dove viene invece preparato un piano per l’espulsione (Aussiedlung)
di tutta la comunità slovena, non facendo alcuna differenza tra quelli che
nel 1939 si dichiararono Windischen e quei pochi che ebbero il coraggio di
dirsi apertamente Slowenen. Il piano non venne però applicato. La categoria
windisch ritorna nel censimento austriaco del 1951 (intanto la Jugoslavia di
Tito rivendica la Carinzia meridionale) provocando un’aspra reazione delle
associazioni slovene. Nonostante ciò sono quasi 14.000 coloro che si dichiarano windisch nelle innumerevoli combinazioni linguistiche con le quali le
autorità austriache sgretolano l’immagine della comunità slovena (slowenisch,
windisch, slowenisch-deutsch, deutsch-slowenisch, windisch-slowenisch, deutschwindisch, windisch-deutsch, slowenisch-windisch). Nel censimento del 1961 il
numero dei parlanti windisch si riduce fortemente, fino a scomparire quasi
del tutto nel 1971. L’ultimo censimento del 2001 ha rilevato meno di 550
parlanti windisch di fronte a circa 13.100 sloveni. Una ricerca dell’Università
di Klagenfurt rivela che sono 54.000 i Carinziani che parlano o capiscono,
almeno in parte, lo sloveno. È comunque molto discussa la definizione di
windisch in quanto alcuni la considerano una caratterizzazione negativa della
comunità slovena in Carinzia, altri un tentativo di “frantumare” l’unità degli
sloveni in Carinzia, altri ancora l’identificazione di un dialetto sloveno degli
abitanti della Carinzia. (mc)
Entrambe sentivano che quello non sarebbe stato l’ultimo loro incontro.
A Brunshaupten non si riavevano dallo stupore quando, aperta la valigia,
Dita tolse dalla valigia il broccato dorato e i tappeti, le coperte slovene
e croate ricamate a mano, i pizzi annodati, i lavori in cuoio colorato, le
scatole, le cinture e le stoffe.
C’erano anche un macinino da caffè turco, di fattura artistica, delle lunghe
pipe tutte lavorate a mano e scarpe a punta intrecciate a mano. Anche
due gigantesche pannocchie di mais suscitarono una grande meraviglia,
come pure i ciuffi di luppolo.
Deluse, le persone intorno chiedevano: «E non c’erano ladroni?».
«Neanche uno», rispondeva Dita. «Laggiù appendono la chiave di casa
accanto alla porta, quando la gente esce o va a lavorare nei campi».
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«Incredibile, fantastico!»
«E’ proprio così: laggiù tutto è fantastico. Quello è un paese dove andrei
a vivere subito. La natura è libera,
non c’è neppure un cartello di divieto,
mentre qui ne incontri ad ogni passo; e
le persone sono davvero tanto gentili,
amichevoli e l’ospitalità... miei cari, se
voi aveste solo un’ottava parte del loro
senso di ospitalità!!»
«Oh, inimmaginabile qui!» «Sì, da noi
nessuno è così».
Il padre, come promesso, era andato a
prendere Dita al confine tedesco; avevano attraversato il Königsee ma per i
castelli non c’era più tempo e Dita per
il momento di castelli ne aveva abba- Selma Lagerlöf.
stanza. Improvvisamente aveva capito
perchè nel mondo si fosse arrivati al comunismo. […] Non si trattenne a
lungo. Doveva tornare in Svezia per concludere i suoi studi.
L’invito di Selma Lagerlöf a Marbacka
Quando Dita ebbe raccontato a Ellen dei suoi viaggi e di Alma Karlin,
entrambe si misero a riflettere su come avrebbero potuto aiutare la scrittrice a far conoscere i suoi libri. Ellen si ricordò di Selma Lagerlöf, premio
Nobel per la letteratura nel 1909, autrice che conosceva personalmente e le
spedì i libri di Alma. In risposta giunse a Dita l’invito a recarsi Marbacka,
la tenuta dove abitava Selma Lagerlöf. Poco tempo dopo Dita si recò con
il treno a far visita alla celebre scrittrice svedese. Il viaggio fu bellissimo:
si passava attraverso gli infiniti boschi di betulle della Svezia in direzione
del confine norvegese. Il treno superava piccoli paesi le cui casette di legno
sembravano come uscite da una colorata scatola di giocattoli. Tutto era
così lindo e grazioso. E poi ancora boschi radi e infiniti. Finalmente la
stazione d’arrivo. Una macchina di Selma l’aspettava [...]. Attraversarono
nuovamente dei boschi, poi finalmente apparve la grande dimora signorile
di Marbacka. Dapprima Dita ebbe occhi solo per la proprietaria. Selma
Lagerlöf apparteneva al quel raro tipo di persone che emanano luce, forza
e bontà, accanto alle quali ci si trova subito a proprio agio. La scrittrice
aveva letto i libri di Alma, ne parlò molto bene e pensava che avrebbe
meritato il premio Nobel, «perchè ciò che scrive è bello e profondo», aveva
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detto Selma. Parlarono a lungo di Alma e Dita fu molto contenta di tanta
simpatia per la scrittrice jugoslava. Poi Selma, sebbene camminasse con
difficoltà, mostrò a Dita tutta la casa, Ogni stanza era arredata con tappeti,
coperte e mobili nordici. I colori erano accostati in modo originale. Tutto
appariva luminoso e solare. In una stanza c’era una fila di quadri che si
susseguivano da una parete all’altra. Erano le fotografie delle riprese del
film Gösta Berling tratto dal libro che aveva reso celebre la scrittrice svedese.
Selma le fece vedere anche come sbrigava la corrispondenza che le giungeva
da tutto il mondo. Un grande armadio con scansie ordinate alfabeticamente conteneva i nomi dei lettori che le avevano scritto. Ogni paese aveva
la sua particolare rubrica e la sua scansia. Una simpatica collaboratrice
di casa fungeva da segretaria e l’aiutava a espletare quell’enorme lavoro.
Selma Lagerlöf scriveva personalmente molte lettere, come Dita più tardi
apprese con gioia. La conversazione con un’artista così sensibile fu un
piacere. La sua bontà si irradiava ovunque. Si comportava in modo così
naturale, così schietto, come solo i grandi spiriti sanno fare. La giornata
trascorsa a Marbacka fu per Dita una delle “stazioni solari” nella sua vita,
quelle che poi saranno in grado di illuminare i giorni bui. Felice per aver
conosciuto una persona di così grande valore, Dita ritornò a Stoccolma.
Ellen l’aiutò a far sì che i libri di Alma si diffondessero velocemente sul
mercato e per l’esploratrice, la cui vita era stata così difficile, in Jugoslavia
cominciarono giorni migliori. […]
Dita invitò Alma a Rostock, dove le organizzò delle conferenze: ebbe un
grande successo di pubblico anche in altre città oltre che a Rostock. La scrittrice Jugoslava invitò Dita a recarsi nuovamente, e per un periodo più lungo,
a Celje. Dita tornò in Jugoslavia prima del previsto, anche per sfuggire ad
un “pretendente” che voleva assolutamente sposarla in modo da “preservare
e perpetrare l’integrità della razza ariana”. Era un personaggio inquietante,
infarcito di ideologia nazista. Hitler era al governo da poco, ma le idee razziste
stavano diffondendosi molto velocemente. […]
Il ritorno a Celje e la collaborazione con Alma Karlin
Un giorno Alma disse: «Hunki, non pensi che dovremmo invitare i tuoi
genitori a Celje? Sarebbero certamente felici di venir fuori dalla Hitleria
e godere della natura incontaminata.»
«Oh che bello!» disse Dita rallegrata. «Scriverò loro subito, visto che è
ancora possibile espatriare».
Herzing ed il pastore giunsero in Jugoslavia. Entrambi con visi preoccupati. Lentamente avevano compreso che cosa era il nazismo e a che cosa
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mirava. Il pastore, solitamente sempre così
attivo, era stranamente
stanco. Voleva andare
in pensione. Stava vedendo come la “peste
bruna” voleva distruggere l’opera di tutta
la sua vita; i nazisti
si accanivano contro
Cristo e lo facevano
passare come una sorta Celje (Cilli), la casa natale di Alma Maximiliana Karlin.
di profeta. E pensavano, ad esempio, che
Maria fosse stata violentata da un legionario romano, che questo in realtà
aveva origini germaniche [...] e ora tutti dovevano far verificare la loro
origine ariana; era addirittura comico sentirsi chiedere: «Signor pastore,
mi occorre la mia origine araba!» E ci volle un certo tempo prima che la
gente si rendesse conto di che cosa veramente si trattava.
Giorno dopo giorno i visi degli ospiti si rasserenavano sempre più e il
pastore era così estasiato dalla bellezza della natura e dalla gentilezza della
gente che cominciò subito a studiare lo sloveno.
Da tanto tempo stava risparmiando per comperarsi una casetta, per
quando sarebbe andato in pensione. Ora era arrivato il momento. Voleva
costruire o comperare una casetta in Slovenia. «Non può esserci niente
di più bello!», continuava ad affermare. Herzing non era così entusiasta
dell’idea di vivere all’estero, ma pensando a quei brutali figuri dalla camicia
bruna, acconsentì.
Il pastore voleva farsi liquidare tutto il denaro risparmiato, aveva anche un
contatto con l’impresa di costruzioni Wüstenroth. Dita voleva aggiungere
i suoi risparmi e avrebbero costruito o comperato una casa meravigliosa.
Una casa al sole e al caldo, lontano dagli iceberg che galleggiavano nel mare
e dal vento tagliente, lontano dalle giornate grigie e cupe, dalla coltre di
nebbia umida. […]
Appena rientrato a Rostock il pastore morì, dopo aver subito un’aggressione non
solo verbale da parte di un gruppo di camicie brune. Dita si trattenne a casa
del padre alcune settimane dopo il funerale e aiutò Herzing a mettere in ordine
ciò che restava. Portò a Celje con sé l’arredamento Biedermaier, le porcellane
Meissen e acquistò la casa in Slovenia, tanto desiderata da suo padre.
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La casa a Pečovnik
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Dita ne era entusiasta: la casa sorgeva su una altura come un piccolo castello. Un fosso e un corso d’acqua simulavano il fossato del castello; prati
sulla collina, trentacinque alberi da frutto, un giardino e un po’ di bosco,
molto sottobosco ed un superbo abete. Da una parte il bosco che saliva
verso sud e la strada per Celjiska Koce, il rifugio Cillier posto a 750 metri
di altitudine, a ovest le Alpi Sanntaler; verso est prati e boschi e una bella
casa contadina, a nord la vista su Celje, sul castello, sulle montagne di
Bachern. La casetta aveva una camera, una cucina, un corridoio, la cantina,
il sottotetto e una dependance. Una porcilaia cadente e una precaria stalla
per le mucche, nella quale al massimo ci stava un vitellino e un deposito
di legna completavano la casa dei sogni. Questa o nient’altro disse Dita.
Fu amore a prima vista. Poiché Dita poteva pagare in contanti, i proprietari vendettero a un prezzo vantaggioso. Dovette intestare tutto a nome
di Alma, perchè Dita dopo così poco tempo, non aveva ancora ottenuto
il passaporto jugoslavo. Con suo disappunto aveva ancora il passaporto
tedesco ed i tedeschi la guardavano con sospetto. Ma che fosse a nome di
Alma o di Dita non aveva nessuna importanza per le due amiche. Avevano
piena fiducia l’una nell’altra. Il piccolo possedimento aveva addirittura un
piccolo vigneto che dava un vino terribilmente aspro, che Alma battezzò
“la spada di Rascid” perchè bruciava
lo stomaco, ma divenne l’hobby e la
passione di Dita. Quando nessuno
la vedeva raccoglieva di nascosto
per la strada escrementi di cavallo e
quando trovava dello sterco di vacca
il suo entusiasmo non aveva confini.
I primi fiori piantati da loro furono
oggetto di infinita ammirazione e
ogni filo d’erba era come una rivelazione. Purtroppo non avevano molto
tempo da dedicare al giardinaggio a
causa del gran lavoro e degli ospiti
che continuavano ad arrivare dall’estero. Ma Dita si ricordava del
proverbio inglese: “All comes to him,
who waites” (“Tutto arriva a chi sa
aspettare”). Ma dovette passare ancora molto tempo prima che Dita
potesse godere interamente del suo
La casa di Pečovnik.
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piccolo paradiso. E quante cose dovevano ancora accadere! Notizie sempre
più terribili venivano da oltre confine. [...]
Vita quotidiana tra natura e cultura
Alma, la figlia del maggiore, era abituata a una severa organizzazione del
tempo, disciplina e puntualità. Dita si alzava alle sei. Alle sei e trenta
lasciava entrare la grassa “signorina” che sapeva preparare un eccellente
caffè all’italiana. Alle sette compariva Alma in perfetto ordine, avendo già
riordinato la sua stanza. Beveva una tazza di caffè senza zucchero e mangiava un cornetto. Dita prendeva caffelatte e due cornetti. In confronto
alla colazione svedese quella le sembrava una colazione da carcerata [...]
Dopo la Messa Alma andava al mercato e Dita a casa, per riordinare il resto
dell’abitazione prima del ritorno di Alma, poiché quando Alma scriveva
doveva regnare la calma più assoluta. Dopo tutto quello che aveva vissuto
non c’era da meravigliarsi che avesse i nervi a fior di pelle. Scriveva fino
alle undici, mentre Dita doveva sbrigare la corrispondenza che arrivava
da tutto il mondo, trascrivere le conferenze o illustrare i libri di Alma o
progettare le copertine. C’era anche da cucire. Dalle undici alle dodici
Alma cucinava con o senza l’assistenza di Dita. Alle dodici arrivavano
puntualmente gli “ospiti”. Si stava a tavola fino a mezzogiorno e mezzo, poi
Alma ricominciava a lavorare e Dita riordinava la cucina e le stoviglie, poi
proseguiva anche lei con il suo lavoro. Fra le tre e le quattro del pomeriggio
Alma andava “alla passeggiata” che però sembrava più una gara di corsa
perchè Alma era così leggera che volava. Dita le ansimava dietro e trascinava con sé anche il cane Blacky. Mentre camminava, Alma progettava
già un nuovo libro e più le venivano delle buone idee, più correva! Alle
sette erano di nuovo a casa e cominciava così la parte più piacevole della
giornata, le conversazioni con Alma davanti ad una bottiglia di vino della
Dalmazia. Ma alle dieci si chiudeva inesorabilmente, perchè ogni nuova
giornata richiedeva tutte le forze possibili. Così scorrevano abitualmente le
giornate. D’inverno si lavorava ancora più intensamente, d’estate si correva
di più. Ma c’era anche un mese di ferie durante il quale si camminava in
montagna. Turismo in quota. A Dita venivano le vertigini. Però taceva.
Si esercitava nel solaio di Alma, a denti stretti sulle alte travi maestre del
tetto. Sarebbe anche andata sul Triglav alto più di 2800 metri. Ci aveva
preso gusto. Quando le nuvole circondavano tutto e giù in fondo nel paese
degli uomini suonavano le campane, quando intorno a te sentivi soffiare
l’aria pura dei monti... poteva esserci qualcosa di più bello? Una volta Alma
sorprese Dita che si esercitava nel solaio. Sottovoce le disse: «Vieni subito
giù!», nel frattempo avevano cominciato a darsi del tu e Dita aveva ricevuto
storiae
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l’onorevole nomignolo di Hunki perchè
doveva fare il Cerberus, il cane infernale,
che stava alla porta
per allontanare gli
ospiti sgraditi. Dita
scese giù. Ma poi fu
rimproverata severamente. Comunque
Alma aveva letto in
Dita un serio desiderio di diventare una Paesaggio della Carniola (Slovenia).
“lepre di montagna”
e perciò la portò alla palestra di roccia, il “Fosso del diavolo”, vicino a
Celje, dove ci si poteva esercitare ad arrampicare. Dita imparò e le vertigini scomparvero. Erano vinte! Da quel momento non ci fu più alcuna
montagna sulla quale le due non potessero arrampicarsi. Dita portava lo
zainetto il cui contenuto era “ascetico”, il cibo era razionato con cura, per
non portare il peso di cose inutili. Inoltre doveva sempre restare posto per
la borsa per il cane, perchè spesso bisognava portare Blacky. Ma pesava
appena quattro chili. Quando si facevano escursioni lunghe Alma mangiava al mattino solo un cornetto e beveva una tazza di caffè, poi niente
per tutto il giorno. Camminava e camminava come se fosse senza peso.
Suo padre, quando era una bimba di sette anni, le aveva insegnato a non
sedersi durante lunghe marce, perchè poi è molto difficile riprendere il
passo. Alma aveva otto anni quando morì suo padre, ma ricordava tutti
i suoi consigli. Dita non ce la faceva. Ogni tanto doveva mangiare. Alma
sostava lungamente e osservava il paesaggio. Poi camminava di nuovo fino
a sera e solo allora mangiava qualche cosa. Alma poteva così percorrere
40 o 45 chilometri di seguito senza la minima stanchezza. Dopo una
settimana di camminate nella Carniola si potevano gettare via le scarpe,
perchè nessun calzolaio poteva o voleva più aggiustarle. Per non parlare
delle calze e dei calzetti! Dopo questi giri in montagna entrambe le amiche erano per lo più terribilmente dimagrite, ma Alma era entusiasta: «Ci
siamo così rilassate!». Il recupero fisico veramente avveniva dopo perchè
si scatenava un grande appetito. Il ristoro dell’anima era però indiscutibile e alla fine era questo che importava. D’inverno si andava solo sullo
Schlossberg. Ma bisognava salire. Di certo era una cosa sana. Alma aveva
regalato a Dita l’equipaggiamento da montagna, e così i suoi piedi che
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storiae
prima erano ricoperti di vesciche, si abituarono anche ai sentieri difficili.
In fondo, fino allora, era andata quasi solo in auto o aveva camminato su
tappeti persiani. [...]
La casa di Alma diventa un rifugio per i perseguitati dal nazismo
Era l’epoca della seconda guerra mondiale. L’Austria e la Jugoslavia non
erano ancora state travolte dai Panzer tedeschi. Come ogni mattina Alma
Karlin si recava alla Santa Messa, già da lungo tempo in compagnia di
Dita. Era il momento della giornata in cui facevano riserva di energia e
le due amiche avevano bisogno urgente di questa fonte per affrontare
anche spiritualmente tutta quella disperazione che si stava diffondendo
in Europa. Attraverso la Jugoslavia transitavano già molti fuorusciti dalla
Germania ma il problema era che nessuno accettava coloro che non avevano i documenti di viaggio in ordine. Ma chi tra questi disperati aveva i
suoi documenti? La prima cosa che facevano le camicie brune era derubare
le persone della loro identità e abbandonarle al loro destino. Era ancora il
meno brutale dei metodi di annientamento ma non meno crudele di Dachau e dell’annientamento col gas, perchè questa gente veniva sballottata
di paese in paese fino a quando veniva rispedita in Germania, o spinta al
suicidio o moriva di inedia. Era una macchia scandalosa nella storia dell’umanità. Ci furono paesi più lontani che diedero asilo ai fuorusciti ma i
popoli europei non si immischiarono o perchè temevano Hitler, o perchè
volevano salvare la loro burocrazia che divorava tutti i documenti. La tragedia era indicibile. Alma e Dita erano indignate. Alma scrisse a tutti i paesi,
a tutte le autorità alla Croce Rossa, invano. La burocrazia non usciva dai
suoi binari. Non ci fu nessuna eccezione [...] perchè la marcia vittoriosa dei
Tedeschi procedeva. I
cortei dei senza nome
passarono anche attraverso la Jugoslavia.
Alma e Dita misero
insieme le loro ultime
riserve per offrire almeno un momento di
benessere a persone dal
destino perduto. Dita
andava sempre ai treni
e distribuiva viveri,
medicinali, sigarette,
piccoli fornelletti a spi- Berlino, anni Trenta, dimostrazione antiebraica dei nazisti.
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rito, abiti, biancheria, fazzoletti. Una goccia sopra una pietra bollente. E
tuttavia si poteva essere al corrente di questa miseria e non dare aiuto? Le
due amiche fecero ogni sorta di sacrificio, ma quanto a lungo avrebbero
potuto continuare? «Finchè qui c’è ancora qualcosa, Hunki, cosa sono mai
dei beni materiali, quando si tratta della vita degli esseri umani?» Anche gli
invii di denaro dall’Inghilterra non giungevano più con la stessa puntualità.
Dita aveva già venduto il suo pianoforte e Alma altre cose di valore. La
voce della solidarietà che usciva dalla antica casa di origine romana si sparse
ed improvvisamente attirò anche lì una quantità di fuggiaschi. Si faceva
quello che era possibile. Anche il conte von der Golt visse per un certo
tempo nascosto nella casa di Alma, ormai simile a una fortezza. Quando
il conte riuscì a trovare dei documenti potè riparare lontano all’estero.
Tutt’altra situazione era quella di Frank von Halen. Egli aveva scritto alla
poetessa meravigliose lettere e commentato i suoi libri. Era uno dei tanti
sconosciuti del mondo lontano che scrivevano alla viaggiatrice e trovavano
comprensione. Improvvisamente le lettere cessarono e dopo molto tempo
arrivò un disperato grido d’aiuto. Frank sarebbe forse arrivato, era in fuga.
Poi di nuovo un lungo silenzio. Alla fine la lettera di un cappellano dei
prigionieri proveniente dalla Francia raccontava tutta la sciagura. Chi era
Frank von Halen [cfr. Scheda 3] o Hans Joachim von Bausack? Proveniva
da una antica famiglia, suo padre aveva accompagnato il Kaiser di Germania oltre il confine olandese dopo la fine della prima guerra mondiale,
Frank era sempre stato al servizio dello Stato ed era il referente personale di
Schleicher. Da un nascondiglio fu testimone di come di notte il “Führer”
entrò nella casa di Schleicher e con una pistola uccise personalmente sua
moglie nel letto. Evidentemente l’assassino pensava che in casa non ci
fosse nessun altro. Frank non fu scoperto per miracolo. Rimasto solo con
i morti, prese con sé tutti i documenti di Stato e fra questi anche il primo
testamento di Hindenburg e abbandonò la casa, favorito dall’oscurità. Egli
preparò la sua fuga, visse nascosto presso vari amici, dove nascose anche
gli importanti documenti. Purtroppo lo trovò la Gestapo [cfr. Scheda 4].
Volevano sapere chi era, gli ruppero i denti e lo torturarono. Come per
miracolo riuscì nuovamente a fuggire. Scappò oltre il Reno, ma nella zona
francese lo presero per una spia e lo cacciarono in prigione. In preda alla
disperazione saltò da una finestra del piano più alto e si ruppe entrambe
le gambe. All’ospedale il cappellano dei prigionieri si prese cura di lui e gli
procurò un documento di viaggio per la Jugoslavia. Cos’altro poteva fare
Alma dopo la lettera del sacerdote che sottolineava che in quel momento
Frank non sapeva dove altro andare se non in Jugoslavia, se non telegrafargli di venire? Una notte arrivò dunque sotto le finestre della antica casa
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SCHEDA 3: Frank von Halen ovvero Hans Joachim Bonsack
La figura di Frank von Halen si inserisce nelle complesse vicende che caratterizzarono la storia della Repubblica di Weimar, la sua origine e la sua fine,
e l’ascesa del nazismo in Germania. Gli studi storici negli ultimi anni, anche
grazie all’apertura degli archivi dell’Europa orientale, hanno prodotto molta
letteratura ed hanno proposto nuove ipotesi di lettura delle vicende storiche
che hanno segnato gli anni Venti e gli anni Trenta in Germania. Per approfondire le questioni ed in particolare le figure di Hindenburg, Schleicher, del
nazionalsocialismo e di Hitler, dei suoi seguaci e degli oppositori, si rimanda
alla bibliografia complessiva proposta da questo volume e ad alcuni siti internet, tra i quali segnaliamo http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Nazismo; www.
dhm.de/lemo/; www.olokaustos.org/ (mc)
SCHEDA 4: La Gestapo
Gestapo: Geheime Staatspolizei (Polizia segreta di Stato), comunemente abbreviata in Gestapo, era un settore della polizia amministrativa (Verwaltungspolizei) che comprendeva le seguenti sezioni: Grenzpolizei (polizia di frontiera),
Abwehrpolizei (controspionaggio), Ausland-Abwehr (spionaggio all’estero), Strefendienst (polizia di pattuglia), Kaserniertepolizei (polizia motorizzata), Geheime
Feldpolizei (polizia segreta mobile). Era dunque la polizia politica del Terzo
Reich. I suoi membri erano reclutati tra gli ufficiali di carriera della polizia e
il suo ruolo e la sua organizzazione furono stabiliti da Hermann Göring dopo
che Adolf Hitler salì al potere nel marzo 1933. Rudolf Diels fu il primo capo
dell’organizzazione, inizialmente chiamata Dipartimento 1A della polizia di
Stato prussiana. Il compito della Gestapo era quello di investigare e combattere
«tutte le tendenze pericolose per lo Stato». Aveva autorità di investigare sui
casi di tradimento, spionaggio e sabotaggio, oltre ai casi di attacchi criminali
al Partito Nazista e allo Stato. Le azioni della Gestapo non erano limitate
dalla legge o soggette a revisione giudiziaria. Il giurista nazista Werner Best al
riguardo dichiarò: «Finché la Gestapo... esegue la volontà della leadership, sta
agendo legalmente». La Gestapo era specificatamente esente dalla responsabilità
verso le corti amministrative, dove i cittadini potevano rivolgersi per obbligare
lo Stato a conformarsi alle leggi. Il potere della Gestapo più spesso abusato era
lo Schutzhaft o custodia protettiva, di fatto il potere di imprigionare chiunque
senza procedimento giudiziario, tipicamente nei campi di concentramento. Le
persone imprigionate dovevano addirittura firmare il loro Schutzhaftbefehl (il
documento che dichiarava che la persona veniva imprigionata). Quasi sempre
la firma veniva estorta con la tortura. Nel 1934, Göring, sotto la pressione
di Heinrich Himmler, acconsentì a garantire il controllo della Gestapo alle S.
S. (Schutz Staffeln, guardie di sicurezza. Gruppo scelto di individui incaricati
a garantire la sicurezza dei gerarchi del Partito Nazionalsocialista. In seguito
divenne un corpo militarizzato con compiti di controllo su tutte le attività
economiche, politiche e sociali del Reich tramite uffici appositamente creati.
storiae
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Quindi fu trasformato in un corpo militare combattente. L’organizzazione
delle S.S. fu imponente). Nel 1936 Reinhard Heydrich ne fu nominato capo
e Heinrich Müller responsabile delle operazioni. Durante la seconda guerra
mondiale, la Gestapo si espanse fino ad un organico di 45.000 unità. Essa aiutò
nel controllo delle aree occupate dell’Europa e si occupava di identificare ebrei,
socialisti, omosessuali e altri, per il trasporto nei campi di concentramento.
Al Processo di Norimberga l’intera organizzazione fu inquisita e condannata
per crimini contro l’umanità. (mc)
SCHEDA 5: Gli ultimi studi su Thea Schreiber Gamelin
o Gammelin
Thea Schreiber narra in un’altra parte del diario/romanzo che, poco prima di partire da Rostock per la
Jugoslavia, aveva scoperto di non essere la figlia del
pastore protestante che le aveva fatto da padre, ma di
essere stata “scambiata” ancora in fasce, con il figlio
maschio del pastore. Lo scambio era avvenuto tra una
duchessa della casa reale inglese e il pastore per motivi
ereditari e di successione. Il vero figlio del pastore era
morto quando aveva vent’anni in un incidente stradale
e da quell’avvenimento era riemersa la verità. Quella scoperta aveva colpito
profondamente Thea e ne aveva sconvolto la vita. Al suo cognome aggiunse
quindi quello “originale” di Gamelin (o Gammelin). In questo caso, la madre a
cui Thea si riferisce è la duchessa inglese con la quale aveva da poco ritrovato un
contatto. Va ricordato che nel 2010 a Rostock, in Germania è stato pubblicato
il libro di Matthias Burkhardt, Malerin Partisanin, Mystikerin. Thea Schreiber
Gammelin 1906-1988, la prima biografia intellettuale di Thea Gamelin.
Il saggio, oltre a contenere molti acquarelli, quadri, fotografie di Thea, narra
la storia della vita della figlia del pastore protestante di Brunshaupten (dopo il
1938 chiamata Kühlungsborn): la sua infanzia, la vocazione artistica, gli studi
compiuti presso l’Accademia di Belle Arti di Stoccolma, i viaggi in Norvegia,
in Italia, l’incontro con Alma Karlin e la scelta di trasferirsi a Celje, gli anni del
nazismo e della guerra, il difficile dopoguerra e le sue ultime scelte di vita, la
conversione al cattolicesimo, gli studi teologici ed infine l’ingresso nell’ordine
delle suore terziarie francescane. Il libro cita ampi stralci del diario-romanzo Due vite… una meta, che Burkhardt data tra il 1969 e il 1970. Riferisce
inoltre dei suoi viaggi a Celje, i suoi contatti con amici e conoscenti di Thea
Gamelin e il suo lavoro di ricerca nell’archivio della comunità protestante di
Brunshaupten/Kühlungsborn e tra i volumi della cronaca scritta dal pastore
protestante Schreiber, padre di Thea, nell’archivio del museo di Celje e della
biblioteca nazionale. Inoltre attinge al lascito di Thea presso Helena Ojšterček
a Zadobrova. È un lavoro fondamentale soprattutto per la ricostruzione degli
anni del dopoguerra. (mc)
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storiae
di origine romana e quando Dita guardò giù disse: «È qui«» Lo fecero
entrare velocemente e la pesante anta della porta si richiuse di nuovo. Il
fuggiasco era completamente sfinito. Appena sopra i trent’anni la sua alta
figura era curva e faticosamente arrancava sulla gambe fratturate, guarite
da poco, era ridotto ad uno scheletro, il corpo dimagrito era infagottato
in un abito di fortuna. Frank era come un mucchietto di miseria che ispirava compassione, con una gravissima depressione psichica. Naturalmente
Alma e Dita fecero tutto il possibile per ridare all’infelice voglia di vivere,
ma se sapevano quando era arrivato, non sapevano come se ne sarebbe
potuto andare, perchè se ne doveva proprio andare, i nazisti erano troppo
vicini. Frank non aveva altro che il documento di viaggio francese. I suoi
documenti che non erano così ben assicurati e impermeabilizzati come i
documenti di Stato tedeschi, giacevano in fondo al Reno, che aveva dovuto attraversare a nuoto. Così cominciò la disperata lotta per i documenti
personali. Talvolta si accendeva una speranza, poi si spegneva e così si andava avanti di mese in mese. Il fuggiasco perse il controllo dei nervi e fece
un mezzo tentativo di suicidio con la stricnina. «Così diranno anche che
l’abbiamo soppresso noi» disse Dita spaventata e utilizzò le sue cognizioni
mediche per conservare in vita l’infelice. Si doveva pur trovare una via. E
la lotta per i documenti andò avanti. Tutti i paesi, tutte le autorità vennero
interpellate, anche l’ufficio passaporti. Tutto invano. Frank desiderava
ardentemente rivedere la sua anziana madre. Alma rese possibile anche
questo e finanziò il tutto. La vecchia signora restò per settimane nella loro
antica casa che poggiava su fondamenta romane. E madre e figlio si videro
là per l’ultima volta. La situazione finanziaria in casa era catastrofica, ma
non si voleva farlo capire all’ospite. Aveva già abbastanza preoccupazioni.
Per la prima volta Dita
scrisse una lettera di
preghiera a sua madre
[cfr. Scheda 5]. Ma
anche alla posta c’erano i componenti della
“quinta colonna” [cfr.
Scheda 6] e la duchessa
non ricevette mai la lettera ed allo stesso modo
scomparvero anche gli
invii di denaro. Le due
amiche vendettero di Berlino, Opernplatz, 10 maggio 1933. Rogo dei libri
nascosto le ultime cose “contrari allo spirito tedesco”.
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SCHEDA 6: La quinta colonna
Viene definita “quinta colonna” un’organizzazione di carattere militare (più
o meno informale) che opera clandestinamente all’interno di una nazione o
città per favorire l’invasore o il nemico. L’espressione quinta colonna è la traduzione italiana del castigliano quinta columna, che qualcuno attribuisce al
dittatore Francisco Franco o al generale Emilio Mola, il quale durante la Guerra
di Spagna comandava l’ Armata del Nord. Secondo lo storico inglese Hugh
Thomas, durante una conferenza stampa con giornalisti stranieri fu chiesto al
generale quale delle “quattro colonne” che componevano la sua armata avrebbe
conquistato Madrid. Mola rispose che l’iniziativa sarebbe spettata alla “quinta
colonna” (quinta columna), con implicito riferimento ai gruppi filomonarchici e
franchisti che agivano clandestinamente a Madrid. Queste “parole imprudenti”
fornirono il pretesto per una lunga serie di eccidi nella capitale. Secondo altre
fonti Mola avrebbe affermato, durante una trasmissione radio-fonica nel 1936:
«Abbiamo quattro colonne che avanzano su Madrid. La quinta colonna si
solleverà al momento giusto» (probabilmente si tratta dello stesso episodio
tramandato in due versioni differenti). L’espressione ebbe subito fortuna
nel lessico giornalistico ed è stata riprodotta in tutte le lingue europee (ad
esempio fifth column in inglese, fünfte Kolonne in tedesco). L’espressione quinta colonna viene usata di solito in senso dispregiativo, per indicare gruppi di
traditori che aiutano il nemico; spesso, durante una guerra, gli aderenti a una
fazione politica che si oppone alla maggioranza vengono accusati di costituire
una quinta colonna: di collaborare cioè (consapevolmente o no) con il nemico
che minaccia il loro Paese. Durante la Seconda guerra mondiale in Polonia e
in Cecoslovacchia furono attive formazioni paramilitari chiamate Volksdeutsche
Selbstschutz (“Autoprotezione tedesca”), formate da polacchi e cecoslovacchi
di lingua tedesca che aiutarono il Terzo Reich, rendendosi colpevoli di stragi
o altre azioni dirette a provocare azioni repressive da parte dei governi locali,
che sarebbero state poi usate come pretesto da parte del governo tedesco per
intervenire negli stati
da conquistare. Così
avviene anche in Slovenia tra il 1940 e il
1945. (mc)
La deportazione in Serbia
degli sloveni, fotografati
sulla strada verso la stazione di Maribor (Marburg),
luglio 1941.
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di valore, oggetti d’oro e d’argento, porcellane e tappeti. […]
Frank aveva vissuto fin ad allora in casa nascosto come un prigioniero,
non aveva osato mostrarsi in pubblico. Poi non riuscì più a trattenersi e
volle andare al caffè, tra la gente, per parlare con qualcuno. Alma comprendeva il suo desiderio, ma non trovava certo la cosa saggia. Ma il giovane
diplomatico non si lasciava più trattenere. Le sue gambe erano migliorate e il suo corpo rinforzato pretendeva il movimento. Così cominciò
ad uscire e questo fu un errore. Il pastore luterano May, presso il quale
avevano sempre luogo le riunioni della “quinta colonna” della minoranza
tedesca, aveva già messo nella lista dei condannati a morte le due artiste.
Così il cosiddetto “Kulturbund” [“Circolo Culturale”, ndr.], insomma i
nazisti anche se camuffati, cominciò a curiosare e a spiare in giro. Una
“benevola” lettera di ammonimento arrivò ad Alma dal console tedesco
di Zagabria: lei non doveva immischiarsi nella politica . Era noto che la
scrittrice proteggeva i fuggiaschi e, nel caso avesse avuto interesse per il
mercato editoriale tedesco, doveva cortesemente lasciare perdere. Al tempo
stesso arrivò un invito dal console tedesco per un abboccamento. «Non
andare» disse Dita spaventata. «Ci vado invece» disse Alma. «Io voglio
dirgli cosa penso di tutto questo. Sono dei vessatori».
Quando Alma voleva qualcosa, lo faceva. Tuttavia prese alcune precauzioni.
Indossò un vistoso mantello rosso-vino, ornato con una pelliccia bianca
Un gruppo di sloveni deportati in Serbia dai nazisti nel luglio 1941.
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e prese con sé una conoscente, che doveva attendere davanti al consolato.
Se lei non fosse tornata nel tempo previsto, avrebbe dovuto avvisare la
polizia. Alma era pur sempre una cittadina jugoslava. Dita nel frattempo
doveva stare attenta ai rifugiati.
Il console fu straordinariamente cortese e disse ad Alma di scrivere dei
Mari del Sud e di non preoccuparsi delle questioni politiche nel mondo.
Lei fece capire al console che come jugoslava e cristiana aveva la libertà
di aiutare ogni persona in difficoltà, fino a che era nelle sue possibilità;
a questo non si sarebbe sottratta, era semplicemente un dovere. «Così
purtroppo sarà nostro dovere escludere i Suoi libri dal mercato tedesco
e proibire anche le mostre di pittura della Sua amica e confiscare tutti
i Loro beni che si trovano nel territorio del Reich tedesco. Il Führer ha
messo una taglia per la cattura di Frank von Halen. Se vuole essere leale
… potrebbe darci una mano …».
Alma gli lanciò uno sguardo furente e disse fredda: «Faccia ciò che deve.
Io e la mia amica rinunciamo. Noi abbiamo ancora valori morali e tutto
il mondo giudica i vostri metodi come li giudico io!».
«Ma Frank von Halen ha sottratto documenti tedeschi». «A me cosa
importa, è un suo problema». «Peccato, peccato» mormorò il Console e
aprì la porta con un rispettoso inchino. Rasserenata la conoscente accolse
Alma ed entrambe notarono che da una certa distanza qualcuno le seguiva. Dita abbracciò Alma con lacrime di gioia. «Allora l’orso berlinese
non ti ha ancora sbranata!» Da allora le due amiche furono sempre sotto
sorveglianza; subirono anche dei tentativi di rapimento. Due uomini in
motocicletta avevano atteso le due amiche in una strada solitaria sotto il
castello e avevano chiesto loro in tono da Gestapo: «Chi è di voi la signora Karlin? Lei o Lei? Noi portiamo dei saluti da … da … Iserlohn. Qui
c’è una lettera». Dita aveva riconosciuto il simbolo della Gestapo e notò
come entrambi si preparavano a catturare Alma. Rapida come il lampo
Dita estrasse il pugnale finlandese che portava sempre con sé e tagliò le
gomme della motocicletta. «Noi siamo in Jugoslavia signor Gestapo!» I
due impallidirono e visto che da lontano stavano arrivando dei passanti,
solo il vento poté portare le loro maledizioni sulla Slovenia e Alma e Dita
proseguirono per la loro strada, come se niente fosse accaduto.
Per proteggere la sua vita Frank von Halen dovette di nuovo vivere nascosto. […]
Nella casa di Celje, a causa dello scoppio di una lampada a petrolio, la camera
di Dita cominciò a bruciare e Dita stessa divenne una fiaccola: fu costretta
a gettarsi nella fontana e poi venne trasportata in ospedale. La gravità delle
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bruciature impegnò Dita in lunghe e
dolorose cure per più di sei mesi.
I nazisti contro Alma Karlin
Intanto la vendita dei libri di Alma e
dei quadri di Dita venne proibita sul
mercato tedesco e tutto divenne ancora più difficile. Il capo della polizia
chiamò Alma e le disse che avrebbe
dovuto allontanare i fuorusciti, non
voleva aver dissapori con il governo
del Terzo Reich, che continuava a far
pressione affinché consegnassero loro
queste persone. Alma allora tentò attraverso le sue conoscenze di mandare
Frank in Austria o in Svizzera. Frank
Vignetta satirica sul rogo dei libri ad opera
partì. «Dio sia lodato» disse Dita, ma
dei nazisti nella primavera del 1933.
restò in lei un’apprensione continua
e Alma disse cupa: «Hunki… e non siamo ancora alla fine di questo
dramma!». La sera il fuggiasco era di nuovo lì! Lo avevano voluto mandare
subito al confine tedesco e con grande fatica era riuscito a farsi rispedire da
dove era venuto. Appena arrivato, di notte, fu preso dalla disperazione si
tagliò con una lametta e prese la stricnina. L’aveva sempre con sé nel caso
dovesse cadere nelle mani dei nazisti. Sanguinava abbondantemente e si
piegava su se stesso come fosse un ponte. Dovettero portarlo in ospedale.
In quello stato almeno non avrebbero potuto consegnarlo. Anche Alma e
Dita erano ormai sfinite e avevano un solo desiderio: un po’ di pace. L’infelice fu di nuovo rimesso in piedi ed il dottor Kalan, un avvocato amico,
lo prese in consegna. Alma lo mise in guardia per la fragilità di carattere
del rifugiato, perché Kalan aveva in casa con sé la sua figlia più giovane.
Ma la sfortuna continuò il suo corso. Majda si innamorò, ricambiata, del
senzapatria. Ed anche la famiglia fu inserita nella lista nera dei tedeschi.
Alla fine la famiglia del dottor Kalan attraverso diversi contatti riuscì ad
espatriare in America. Più tardi, in Norvegia, Majda sposò il fuoruscito
che per tutto il periodo in cui il regime di Hitler fu al potere, si spostò di
paese in paese, da un ufficio passaporti all’altro. Majda tornò indietro e
diede alla luce una bambina. Naturalmente il “Kulturbund”, il “fascio”,
come Alma soprannominava i nazisti, aveva riferito tutto al console a
Zagabria. Il “fascio” non aspettava che l’invasione di Hitler e rapidamente
tutto fu pervaso da queste idee “avvelenate”.
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Il trasloco e la villa fuori città
Alma e Dita non riuscivano a credere di poter finalmente godere di un po’
di tranquillità, anche se nella povertà, ed ecco che arrivò un nuovo colpo.
Il Comune decise di allargare la strada proprio là dove sorgeva la loro casa,
costruita su antiche fondamenta romane. Costrinsero la scrittrice a traslocare e ad abbandonare la città. Si minacciò l’esproprio. Il vicino di Alma, il
fornaio Kirlis subentrò. Comprò la casa di città di Alma e le diede in cambio una bella ma scomoda villa sotto lo Schlossberg. Il farmacista Zippel
si era costruito quella villa per il week-end, ma l’approvvigionamento era
difficile e le condizioni delle condotte dell’acqua molto danneggiate. Era
palese che si voleva cacciare Alma dalla città. Specialmente il consigliere
Subic insisteva per l’espulsione di Alma. Sua moglie era un’austriaca:
«Heil Hitler!». Il distacco dalla casa paterna e dalle comodità della città fu
amaro per Alma. In tre giorni il trasloco doveva essere completato. Una
fatica mostruosa che demoralizzò ancora di più le due amiche, già sfinite
sul piano fisico. […]
L’allargamento della strada che era sembrato così impellente, ora aveva
invece molto tempo davanti a sé. Furono le bombe della guerra che espletarono quell’incombenza.
Thea Schreiber Gamelin, Villa a Zagrad, olio su tela, 1939.
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Ancora una volta le due amiche affrontarono il rischio di andare in Austria.
Si recarono a Vienna presso un’amica d’infanzia, Lorle Pichler-Mandorf, e
poi a Goisern da Armagard von Bötticher. Ma lo stato d’animo nel paese
delle montagne era già altamente esplosivo. Gli adepti di Hitler ora si
mostravano apertamente e si notava dappertutto un eccitato nervosismo.
Quando si seppe della terribile uccisione di Dollfuss [cfr. Scheda 7], Alma
salì sul primo treno con Dita. La Jugoslavia offriva ancora rifugio contro
la follia di Hitler. Ma per quanto ancora? In Austria già sul treno i fedelissimi di Hitler correvano su e giù per il corridoio soltanto per salutarsi in
continuazione con «Heil Hitler!». Si comportavano come pazzi o come
bambini che giocavano. Purtroppo era una tremenda realtà. La valanga
sarebbe andata avanti. I nazisti già ora erano violenti con Alma.
La spia
Tra molti altri le aveva scritto anche una grande attrice della Germania
del Sud: erano lettere belle e ricche di spirito. Improvvisamente l’artista
annunciò il suo arrivo. La calligrafia era apparentemente la stessa, ma il
modo di esprimersi era diverso. Dita studiò la calligrafia e la scrittura e
diagnosticò la falsificazione. Alma era del parere che probabilmente la vera
attrice era stata uccisa e ora la Gestapo ne mandava una per eliminare
Alma Karlin, una donna scomoda per il Terzo Reich.
Insieme a Herzing che stava ancora nella villa, presero in esame la situazione e per ogni evenienza vennero preparati dei “piani di guerra”. Alma
e Dita andarono alla stazione il giorno indicato per accogliere l’artista.
Quella che scese era tutt’altro che una figura da palcoscenico. Piccola,
grassa, muscolosa, con un linguaggio trascurato, la signora stava davanti
alle sue ospiti, che si scambiarono uno sguardo d’intesa. Emma, così voleva
essere chiamata, evitava spaventata di parlare di teatro. Però ricordava con
gusto che lei con facilità poteva sollevare in aria un uomo su una sedia.
Quando l’ospite si addormentò, le tre abitanti della casa misero in atto un
“piano di guerra”. Una di loro doveva sempre vegliare e quando uscivano
dovevano fare la cosiddetta “marcia delle oche”: una davanti, l’ospite in
mezzo e una dietro. Già nella prima settimana osservarono che l’ospite
di notte cercava di frugare nella corrispondenza di Alma. Di giorno
Emma dalla terrazza faceva strani cenni con un fazzoletto a qualcuno di
invisibile che doveva essere nascosto nel bosco. Emma fumava come un
camino. «Non danneggia la sua voce?» chiese Dita in modo innocente.
«Chi se ne frega, non mi danneggia niente!». Herzing, che era abituata
alla lingua di corte, ebbe quasi un collasso. Dopo due settimane, dopo
che ebbero trascinato la palla di Speck e di muscoli in giro sulle monta-
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SCHEDA 7: Engelbert Dollfuß
Engelbert Dollfuß (Texing1892 – Vienna 1934), di formazione cattolica, fu
uno dei maggiori esponenti del Partito cristiano-sociale austriaco, in decisa opposizione al movimento socialdemocratico. Piccolo proprietario terriero, entrò
nella vita politica dopo la sconfitta austriaca nella prima guerra mondiale e la
dissoluzione dell’Impero austro-ungarico. È stato cancelliere d’Austria durante
l’austrofascismo, dal 1932 al 1934. In quell’anno fondò anche, con l’aiuto
del principe Ernst Rüdiger Starhemberg, il Vaterlandfront, un partito che
aveva riunito sotto un’unica bandiera i numerosi partiti politici austriaci della
destra e che si ispirava al partito fascista italiano. Dopo aver stroncato, con
una dura e sanguinosa repressione, la rivolta dei quartieri operai di Vienna, la
sua politica si ispirò a quella dell’Italia di Mussolini in contrapposizione alla
influenza nazista crescente anche in Austria. Mussolini manovrò il cancelliere
per contrastare la pressione del partito socialista e quella del nazionalsocialismo,
favorevole all’annessione (l’Anschluss) dell’Austria alla Germania nazista. Il
controllo avvenne attraverso le Heimwehren, formazioni squadristiche legate
alla polizia italiana e capeggiate dal principe Ernst Rüdiger Starhemberg. A
questo nobile indebitato, che verrà nominato vice-cancelliere, Mussolini non
risparmiò né aiuti in denaro né armi. I contatti fra i due governanti furono
costanti, tesi a consolidare un argine al nazionalsocialismo, anche grazie alla
fondazione del Fronte Patriottico, una falange fascista al di sopra dei partiti e
i cosiddetti “Protocolli di Roma”, un’intesa a tre fra Austria, Italia e Ungheria,
che prevedevano sia facilitazioni doganali fra i paesi contraenti sia una collaborazione militare in caso di necessità. Ma non poté evitare il putsch nazista
che il 26 luglio 1934 giunse ad un soffio dalla conquista del potere. Dollfuß
stava presiedendo il consiglio dei Ministri quando un corteo di automobili
entrò nella sede della cancelleria. A bordo vi erano uomini che indossavano
la divisa dell’esercito austriaco. Dollfuss pensò che i nuovi arrivati fossero i
rinforzi della guardia. Si trattava invece dei congiurati nazisti: 154 uomini
che occuparono facilmente il palazzo. Colpito al collo, Dollfuß chiese un
prete ed un medico e pregò di avvertire Mussolini perché potesse prendersi
cura della moglie e dei figli. I nazisti s’impadronirono anche della stazione
radio e annunciarono le dimissioni di Dollfuß, che stava morendo senza che
nessun medico lo soccorresse. Nonostante la morte di Dollfuß, tuttavia, il
moto fallì. Forze fedeli alla Repubblica austriaca, guidate dal Ministro della
Giustizia Kurt Alois von Schuschnigg, ebbero presto ragione dei rivoltosi che
furono arrestati. A Dollfuß successe Kurt Alois von Schuschnigg: nel 1936
un patto con la Germania riconobbe l’indipendenza dell’Austria, ma l’Austria
si sarebbe dovuta comportare come uno stato tedesco in politica estera. Il 13
marzo del 1938 l’annessione venne realizzata con il beneplacito dell’Italia, che
a causa dell’isolamento da Francia e Inghilterra aveva notevolmente migliorato
i rapporti con la Germania e non mostrò ostilità all’Anschluss. (mc)
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gne, Alma una sera disse alle sue fedeli collaboratrici: «Così non si può
andare avanti, diventa un gioco del gatto con il topo senza fine! E’ chiaro
che Emma sceglie lo strangolamento come sistema per uccidere. Lei deve
confessare. In vino veritas!. Domani sarà ubriaca.» Il giorno seguente le
due amiche andarono in un’ osteria il cui proprietario era un convinto
antinazista e fu messo al corrente dell’impresa. Venne portato in tavola un
vino particolarmente forte che per le due amiche era mescolato all’acqua.
La buona Emma bevve un bicchiere dietro l’altro, come per disperazione.
Improvvisamente cominciò a singhiozzare in modo penoso. «Io non posso
farlo, non posso farlo!» Alma chiese sottovoce: «Che cosa non può fare?»
Silenzio. Alma versò di nuovo. Emma bevve. Improvvisamente le venne
sulle labbra: «Ammazzarla. Io devo strozzarla e non posso farlo. Ora devo
tornare indietro senza averlo fatto e mi uccideranno. Io mi sono innamorata di Lei. Alma, Alma! Una persona così non l’avevo mai vista! No,
non posso, non posso farlo». Sottovoce, in tono tranquillizzante, Dita le
chiese: «Che numero ha della Gestapo?» Emma glielo disse. «Lei deve avere
avuto già dei casi interessanti?» Alma versava il vino ed Emma confessava
cose che alle amiche facevano rizzare i capelli. Anche dalla Svizzera aveva
già trascinato fuori qualcuno, che non era gradito ai nazisti e che questi
volevano avere vivo tra le mani … «Mi uccideranno, mi uccideranno!»,
singhiozzava Emma «ma non posso farlo».
La “peste bruna”
Un’altra volta cercarono di trascinare Dita, che Alma proteggeva come un
Cerbero, in un’ auto tedesca. Dita aveva sempre il suo pugnale finlandese in
tasca e la mano sull’impugnatura. Lei colpì immediatamente. Con un urlo
di spavento lasciarono
la presa. La portiera
dell’auto si chiuse e il
veicolo sfrecciò via. Da
allora le due amiche
camminarono sempre
vicino al muro delle
case. Accadde d’inverno, prima dell’occupazione tedesca della
Jugoslavia: le strade
erano particolarmente
ghiacciate. Alma scivolò e cadde. Si ruppe la
L’esercito tedesco occupa la Slovenia, 1941.
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mano destra. Ma il medico purtroppo non riconobbe subito la frattura
e poi fu tardi. Si dovette rompere di nuovo l’osso. Bisognava farlo con
un colpo di baionetta. I nervi di Alma si ruppero. Così la mano rimase
piegata e senza forza. Alma imparò a scrivere con la mano sinistra. Ma
quanta sofferenza dovette sopportare Alma fino a quando la mano poté
riprendere una certa funzionalità!
La “peste bruna” era entrata in Austria. La Jugoslavia si preparava alla
guerra. Sorgeva l’alba del terribile Venerdì Santo del 1941. Giorni prima
si era udito il rombo dei cannoni al confine. Ma il nemico era già nel
paese. La “quinta colonna” aveva preparato tutto per ricevere degnamente
gli inviati del Führer.[…] Venerdì Santo 1941 [cfr. Scheda 8]. Solo pochi giorni prima i cannoni avevano tuonato al confine vicino a Maribor
ed ora era tutto finito. I carri armati tedeschi avevano travolto tutto ed
erano entrati nella città sulla Savinja che al tempo dei romani si chiamava orgogliosamente Claudia Celeja. La “quinta colonna” (il cosiddetto
Istituto Culturale “Kulturbund”) era allineata per accogliere le truppe
naziste con giubilo e fiori. Degli sloveni non si vedeva nessuno. Le finestre
erano chiuse. L’inevitabile pesava cupo sul popolo, che secondo le teorie
tedesche sarebbe stato annientato, i “cani sloveni” si potevano scannare.
Il pastore evangelico May aveva già preparato la lista dei condannati a
morte: si trattava dei più forti oppositori al regime nazista e dei nazionalisti
sloveni. Anche Alma e Dita erano nella lista. Da lontano le due amiche
osservavano tutto e Dita sapeva dolorosamente che era troppo tardi per fare
qualunque cosa: Alma non aveva voluto ascoltare quando dei buoni amici
le avevano consigliato la fuga. Il signor Parin proprietario di castelli e altri
beni in Svizzera aveva offerto loro asilo, finché c’era ancora la possibilità
di allontanarsi dalla Jugoslavia. Ma Alma aveva declinato l’invito e anche
Dita riconobbe che fuggire via sarebbe stato privo di senso. Da anni era
SCHEDA 8: Il terribile Venerdì Santo (6 aprile 1941)
“La mattina del 6 aprile 1941, gli eserciti della Germania e dell’Italia attaccarono di sorpresa la Jugoslavia dall’Austria, dall’Istria, dalla Bulgaria e dall’Albania. In poche ore i principali aeroporti e la capitale furono massicciamente
bombardati dall’aviazione nazista. L’azione fu fulminea e il Paese, in cui nulla
era stato fatto per organizzarne le difese, precipitò nel caos. […] In un clima
di disgregazione generale fra l’11 e il 15 aprile entrarono in azione anche le
truppe bulgare e ungheresi. Il giorno 17, nel quartier generale della II Armata
tedesca a Belgrado, fu firmato l’atto di resa senza condizioni che sarebbe entrato
in vigore il giorno successivo a mezzogiorno”.
BIANCHINI S., La questione jugoslava, Firenze 1999, p. 57. (ef )
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emigrata per andare incontro a tutto
quello che inevitabilmente ora stava
incombendo su di lei.
I soldati tedeschi apparivano esauriti
e sfiniti. Non mangiavano, divoravano tutto quello che trovavano.
Solo così poteva stare in piedi il Terzo
Reich, saccheggiando un paese dopo
l’altro. La Pasqua in Jugoslavia ora era
avvolta da un clima di tragedia. Dopo
le truppe arrivò subito la Gestapo.
Mimerl Ludwig, una compagna
di scuola di Alma, aveva messo in
guardia tutti quando erano arrivati i
carnefici. Ma che si poteva fare? Si era
prigionieri nella tela del ragno. Solo
Dio poteva ancora aiutare il popolo
anglo-americano di propaganda
sloveno, nessun altro. Le due amiche Manifesto
antinazista.
stavano in casa il meno possibile. I
boschi, la natura divennero il loro
tetto. Senza danaro, con il minimo di mezzi per poter vivere, vagavano
per ore per dominare l’intensa inquietudine. Pensavano ai pellegrinaggi,
alle cerimonie religiose illuminate dalle candele. In città non andavano
più, perchè mai offrirsi volontariamente al nemico? Questo sarebbe già
accaduto abbastanza presto. Dita e Alma sopravvivevano al grigiore del
presente discutendo e riflettendo. Alma citava i salmi in latino e parlava
anche della saggezza del lontano Oriente, dei suoi studi in Tibet ... Attorno
a loro il bosco protettivo, le montagne i ruscelli. Gli uccelli cantavano
come sempre e giù nella valle infuriavano i vincitori. Intere famiglie furono annientate solo perchè erano slave e non germaniche! Ogni giorno in
città venivano appesi dappertutto i manifesti rossi, le liste di morte degli
assassinati. Fra loro c’era gente vecchissima e anche bambini. Ma erano
slavi, [cfr. Scheda 9] appunto. Bisognava liberarsene. La disperazione
cresceva di giorno in giorno. Quelli del “Kulturbund” se ne andavano in
giro a testa alta, contenti. Il pastore luterano May si accompagnava per lo
più ai peggiori agenti della Gestapo, ai quali dava consigli su chi si poteva
ancora eliminare. Le prigioni erano piene. I prigionieri venivano torturati
e tormentati fino alla morte nei modi più orribili. I bambini venivano
strappati alle madri, i neonati al seno materno. Il dolore morale delle anime era indescrivibile, ma gli sloveni sopportavano tutto valorosamente e
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SCHEDA 9: La persecuzione degli sloveni
“Il 6 aprile 1941, di primo mattino, l’aviazione militare tedesca sferrò i primi
attacchi aerei contro la capitale jugoslava, senza nessuna dichiarazione di guerra.[…] Tre giorni dopo le truppe tedesche occuparono la città di confine di
Maribor/Marburg. La Slovenia venne conquistata in tre giorni, senza incontrare
resistenza degna di nota. Quelle che erano state la Stiria inferiore e la Carniola
superiore, senza la capitale Lubiana, entrarono a far parte del Reich tedesco;
Lubiana e la Carniola inferiore vennero assegnate all’Italia, mentre la parte
orientale del paese, l’alto bacino della Mura, venne data all’alleata Ungheria.
Il 12 aprile Sigfried Uiberreither, Gauleiter (carica creata da Hitler per indicare
il capo di un Gau, cioè un distretto territoriale) della Stiria, si recò a Maribor,
ora di nuovo chiamata Marburg, e annubnciò un progetto di «germanizzazione
del paese», collegato all’espulsione degli indesiderati sloveni: Vogliamo mettere
la cavezza a questo paese, in modo tale che al suo interno trovino posto soltanto
i tedeschi, quegli abitanti della Stiria che per anni, decenni e secoli fedelmente e
cameratescamente hanno combattuto spalla a spalla con i nostri connazionali.[…]
E tutti gli altri, miei cari connazionali, di questo pubblicamente non faccio alcun
mistero, devono andarsene via! […] Con estrema freddezza prenderemo tutte le
misure necessarie.
La Stiria inferiore entrò amministrativamente a far parte della Stiria e circa
duecentossessantamila sloveni, ovvero un terzo della popolazione, dovettero
essere trasferiti; in questa azione ebbero un ruolo di rilievo Gestapo e SD,
che si erano insediati a Marburg. La Gestapo e l’SD di Marburg erano uffici
distaccati di Graz, dove già prima dell’invasione erano state accuratamente
raccolte informazioni sulla Stiria inferiore e sui locali «elementi ostili ai tedeschi». Subito dopo l’occupazione si ebbe un’ondata di arresti, basati su liste che
erano state preparate in precedenza, in cima alle quali c’erano gli intellettuali
e i sacerdoti sloveni”. (ef )
POLLAK M., Il morto nel bunker, Torino 2007, pp. 108-109.
non si lamentavano davanti alla spietatezza del nemico. Una volta Dita e
Alma andarono nella contrada dietro lo Schlossberg. Là viveva una cara
conoscente, una signora cieca e anziana, che era così abile che non aveva
bisogno di alcun aiuto. Lavorava dalla mattina alla sera. Le artiste trovarono
la casa vuota e deserta. Con sguardi terrorizzati i vicini le informarono
che la Gestapo aveva preso la cieca e l’aveva mandata alle camere a gas,
come “vita inutile” [cfr. Scheda 10]. In questo modo scomparvero molte
persone fragili e i bambini che avevano difetti fisici. «Il Signore sulla vita e
sulla morte è Dio soltanto», disse Alma severa «e chi contravviene a questa
legge sarà severamente punito». Ma pareva che il vincitore potesse permettersi tutto quello che voleva. Le liste dei morti aumentavano. Molte case
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erano deserte. Tutto veniva saccheggiato, rubato dagli sfrenati vincitori e
portato nel magazzino di raccolta del bottino. Poi si cominciò a evacuare,
quando si decideva di non uccidere. Bisognava fare posto per il processo
di germanizzazione. Anche i bambini che erano sani furono mandati in
Germania per allevarli come buoni tedeschi e prepararli a diventare più
tardi carne da cannone per combattere per la Germania.
La cattura di Alma
Era la notte del 18 giugno 1941. Le due amiche erano nella villa, perchè
Alma aveva detto: «Hunki, non serve a niente, dobbiamo essere preparate.
Questa notte verranno». La Gestapo arrestava sempre di notte. Vestite,
SCHEDA 10: L’attuazione della Säuberung des Volkeserbgutes (purificazione
del patrimonio ereditario nazionale)
Fin dal 1933 nei territori del Reich fu avviata la pratica della sterilizzazione
dei cosiddetti Erbkranke, definiti come “individui affetti da malattie di tipo
ereditario” e dunque pericolosi per la sopravvivenza della “pura razza ariana”. A
questa fase seguì la realizzazione del cosiddetto “programma eutanasia”, messo
in atto dai nazisti fin dal 1939, che prevedeva l’eliminazione fisica dei malati
psichici e dei disabili. Più di 70.000 persone furono assassinate così nelle camere
a gas in nome della Säuberung des Volkeserbgutes (purificazione del patrimonio
ereditario nazionale). Le famiglie venivano convinte a “consegnare alle autorità”
i propri cari “disabili” affinché il Reich se ne occupasse direttamente, trovando per loro cure e sistemazioni migliori, liberando le famiglie da un peso sia
economico che sociale. Dopo pochi mesi nelle case giungevano telegrammi
lapidari, che comunicavano l’avvenuto decesso della persona in cura per cause
naturali. A nulla servirono proteste o richieste di chiarimento dei parenti. A
cadere nella trappola furono prevalentemente le famiglie contadine o quelle in
condizioni economiche disagiate, per le quali due braccia che non potevano
lavorare erano un vero e proprio peso. Nel 1941, preso atto della crescente
opposizione interna, la cui voce era rappresentata soprattutto dalle Chiese,
Hitler stesso ordinò la sospensione di quel programma. Si trattò però solo di
un mutamento di strategia: infatti disabili e malati psichici continuarono a
essere vittime della cosiddetta Wilde Euthanasie (eutanasia selvaggia) esercitata
negli ospedali o nei luoghi di ricovero, caratterizzata dalla privazione di cibo
e dalla somministrazione di farmaci letali. Cfr. a questo proposito: HINTERHUBER H., Uccisi e dimenticati, Trento 2003; STEURER L., La deportazione
dall’Italia (1939-1945): Bolzano, “Materiali di lavoro”, n. 4, 1985; FELTRI M.
F., Il nazionalsocialismo e lo sterminio degli ebrei: Lezioni, documenti, bibliografia, Firenze 1995; COSSETTO M., Uccisi e dimenticati: il nazismo e lo sterminio
dei diversi, in “STORIA E”, n. 2, aprile 1994; “STORIA E”, n. 1-2-3, 2009,
numero speciale dedicato al nazismo. (mc)
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Alma vegliava con in mano la sciabola di suo padre e Dita con una grossa accetta. Era il loro Getsemani. All’una e mezza di notte picchiarono
alla porta, Alma aprì la finestra del primo piano. «Chi è là?». «Aprite,
Gestapo!». «Questo lo possono dire tutti, venite di giorno come persone
per bene. Solo i banditi vengono di notte». La risposta fu uno sparo che
sfiorò Alma.
Dita gridò: «Non potete sparare sulle donne, noi ci appelleremo a Berlino».
Rispose una voce alla porta: «Sono un uomo paziente e aspetterò».
L’attesa durò un quarto d’ora. Poi riprese l’assalto. «Aprite!». «Neanche
per idea!», disse Alma fredda chiudendo con forza la finestra.
A questo punto si avventarono contro la porta - erano in due gli uomini
della Gestapo - finché la spaccarono, ma davanti a loro c’erano ancora
molte porte e tutte chiuse.
«Hunki, adesso gridiamo “Aiuto!” così forte che ci sentano fin dietro la
montagna! Per propaganda! Tutti devono sapere che razza di belve sono
questi».
Le urla delle due donne erano così impressionanti che una colonna sanitaria si precipitò fin lì da oltre la Savinja e tutti i vicini vennero fuori dai
loro nascondigli. La Gestapo bestemmiava perchè quel suo sporco lavoro
mal gradiva la pubblicità. Combatterono di porta in porta fin quando
arrivarono nello studio di Alma. Trovarono la scrittrice impietrita come
una statua, con lo sguardo gelido e con la sciabola di suo padre nelle mani.
La pittrice teneva davanti a sé l’accetta e i suoi occhi fiammeggiavano. Una
incarnava il ghiaccio che tutto congela a morte, l’altra il Vesuvio che da
un momento all’altro avrebbe potuto eruttare e bruciare tutto.
A rispettosa distanza, indecisi, inconcludenti, stavano i due uomini. Uno
di loro mormorò: «Donne come queste non le ho mai viste. I draghi di
montagna.
In quel momento entrò la colonna sanitaria. «Che succede qui?».
«Un’aggressione notturna di delinquenti», disse fredda Alma. «In un paese
civile, una cosa così viene punita.» Si sentivano delle voci che provenivano
da fuori. Anche i vicini erano accorsi. Tutta la contrada pareva animata. «I
minatori», sussurrò spaventato uno dei due della Gestapo. Poi ritrovarono
la loro energia e congedarono i medici e gli infermieri che si allontanarono
con sguardi tristi e compassionevoli. «Faccia vedere i suoi scritti politici»
intimò uno di loro ad Alma, mentre il secondo afferrava Dita per il braccio. Con l’altra mano lei fece una mossa di judo al gomito dell’aggressore
notturno che la lasciò con un grido.«Ma che donne!», borbottò anche lui.
Alma disse: «Io non ho scritti politici, se vogliono leggere le mie opere,
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prego», spinse una sedia davanti a un poderoso armadio e lo aprì. «Prego
si accomodi, non so se riuscirà a cavarsela in due mesi.»
L’ufficiale della Gestapo si insaccò sulla sedia. «Lei ha scritto tutta questa roba?». «Sì» rispose brevemente Alma. L’ufficiale rovistò un po’ fra
le carte, vide per lo più solo titoli che parlavano dei Mari del Sud, del
Giappone, dell’Australia. Poi adocchiò una piccola boccetta di cristallo:
«E’ profumo?». Alma sorrise come una sfinge «A seconda di come lo si
prende. E’ curaro, veleno del Sud America, bastano due gocce sulla pelle
e Lei muore in due minuti». Inorridito quello della Gestapo tirò indietro
la mano. Poi si guardò intorno, in quell’ambiente dall’aria esotica. Tutti
restavano affascinati dalla ricca raccolta di oggetti provenienti dai viaggi
di Alma intorno al mondo. Particolare forza di attrazione parevano avere
le lance dei mangiatori di uomini. Alma disse sottovoce: «Sono avvelenate». L’indesiderato ospite si rivolse a lei in modo molto più cortese. Egli
pensava certamente con raccapriccio quanto facilmente “i draghi della
montagna” avrebbero potuto ucciderlo. Come mai non l’avevano fatto?
Alma, che sapeva “leggere i pensieri altrui”, rispose calma: «Perchè esiste
un comandamento: non uccidere! Le è noto?».
«Hm ...» l’uomo si muoveva inquieto, poi disse: «Maledizione, come fa
Lei a sapere che cosa si pensa?». «Lo si impara nel lontano Oriente. In
ogni caso è un’occupazione migliore
che non arrestare persone innocenti».
«Io ho degli ordini» balbettò l’uomo.
«Vuol vedere la cantina?» chiese Alma.
«Sì».
Quando la porta della cantina fu
aperta il secondo uomo della Gestapo disse: «Dopo di Voi, Signore!» e
si inchinò cortesemente. Ma anche
il primo gettò solo uno sguardo nella
profonda oscurità ed espresse il desiderio di vedere la soffitta. «Non avete
nessuna bandiera!» osservò una volta
in soffitta. E Dita replicò duramente:
«Crede che in questa situazione possiamo essere entusiaste?».
«Signora Karlin, io ho l’ordine di
portarla con me».
Alma disse fredda: «Niente di nuovo
per me. Faccia quello che deve fare». Thea Schreiber Gamelin.
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L’ufficiale della Gestapo esitava. «Lei scriverà, non scriva troppo male di
me». Alma tacque. Dita mise insieme della biancheria ed un cappotto per
Alma e si apprestò ad accompagnarla. «No, Lei no, Lei no!» si opposero
entrambi, quasi spaventati. «Uno deve restare a casa. Le raccolte sono
preziose». Rubare è riservato solo a voi - pensò lei arrabbiata. Accompagnarono Alma fino alla macchina, non l’ammanettarono, la trattarono
con rispetto. Le due amiche si intesero con uno sguardo. Un codice che
avevano convenuto da lungo tempo. Il giorno albeggiava quando Alma fu
portata via. Dita corse in casa, poi crollò. La sua anima sorella! Un fiume di
lacrime le portò un po’ di sollievo. Avrebbe mai rivisto Alma viva? Ma poi
si mise al lavoro. Bruciò tutto il materiale sospetto e gli indirizzi. […]
La Gestapo sarebbe sicuramente tornata. Poi mandò telegrammi a molti
amici. Poiché i telegrammi avevano un contenuto innocente passarono
inosservati. Con gli amici che vivevano nel Terzo Reich era già stato tutto
concordato da tempo. L’azione fu fantastica. C’erano molte associazioni
“Karlin” in Germania, grandinarono lettere ai sindaci, alla Gestapo: che
cosa stava succedendo per arrestare una persona così celebre? Si sarebbero
informate tutte le autorità … e così via. Il sindaco gemeva e aprì un archivio “Karlin”. La Gestapo temeva che sarebbero piovute dall’alto delle
lavate di testa.
SCHEDA 11: Le Valchirie
Le Valchirie sono figure della mitologia norrena (la mitologia nordica, vichinga
o scandinava), dove sono raccolte le credenze religiose pre-cristiane e le leggende di popoli scandinavi, inclusi quelli che colonizzarono l’Islanda e le Isole
FærØer. Gli studiosi separano tale mitologia da quella più tarda germanica (che
include anche quella anglo-sassone) che ha con essa pochi punti in comune
e viene ricondotta invece all’interno dell’ipotetica mitologia indoeuropea. Le
nostre conoscenze si basano su testi medievali (in particolare le due versioni
dell’Edda), compilati successivamente all’introduzione del cristianesimo. Nel
folklore scandinavo queste credenze nelle aree rurali si sono conservate fino
ai nostri giorni, venendo di recente rivivificate o reinventate, come l’Ásatrú o
Odinismo. La mitologia norrena si è conservata anche come fonte d’ispirazione
letteraria, produzioni teatrale, cinematografica e videoludica. Nella mitologia
norrena una Valchiria (norreno: valkyrja) è una divinità femminile minore al
servizio di Odino. Nell’arte moderna le Valchirie sono dipinte come graziose ragazze armate con elmo e lancia, sopra cavalli alati, tuttavia nell’inglese
antico “valkyrie horse” era sinonimo di lupo. Spesso le loro cavalcature erano i
branchi di lupi che si aggiravano tra i cadaveri dei guerrieri morti in battaglia.
La Valchiria stessa appare simile ad un corvo, quando vola sopra i campi di
battaglia per scegliere i corpi degli eroi da consegnare a Odino. (ef )
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Un funzionario annunciò la sua visita di ispezione ed anche un paio di
battagliere Walchirie [cfr. Scheda 11] autenticamente germaniche. La Gestapo era già tornata da Dita per una perquisizione ed aveva protestato che
le porte non erano ancora state riparate. «Come lo posso fare?», rimbeccò
Dita «per prima cosa non ho danaro e poi erano un capolavoro dell’arte
tedesca. In più ho già spedito le foto in Germania.»
«Quali foto?».
«Quelle delle porte! Nel Reich devono pur sapere come vengono trattati
artisti di fama internazionale».
«Maledizione! Il “Kulturbund”non ci dà pace. Devo anche confiscare il
Suo passaporto».
«Prego ma sentirete quello che avrà da dire il Reich!» Incerti guardarono
Dita e lo divennero ancora di più, quando ebbero ispezionato anche la
corrispondenza delle due donne. Nomi così importanti, conosciuti in
tutto il mondo e così ammirati!
«Al diavolo anche tutta questa faccenda», imprecò il capo. Poi se ne andarono e Dita rimase di nuovo sola. La sera tardi il fornaio, mandò pane
di zucca, farina, semolino e rosette. Era ebreo e lui stesso in grandissimo
pericolo. Dita mangiò nonostante l’infelicità. Sapeva che le occorreva
ancora molta forza per liberare Alma. […]
La liberazione di Alma Karlin
Il mattino presto Dita si era già attivata per la liberazione di Alma. Dita
era venuta a sapere che Alma e le più importanti famiglie di Celje erano
state rinchiuse nel Convento dei Cappuccini e che dopo le avevano trasferite nel Lager di Maribor. I tedeschi avevano delle carrozze nere coperte
con dei teloni neri. Queste carrozze, nelle quali non si poteva guardare
né dentro nè fuori, erano destinate al rapimento di persone. Gli Sloveni
le chiamavano “Die schwarze Marica”. Queste carrozze permettevano a
tutti di scoprire il crimine della deportazione: gli sloveni cantavano meglio
che potevano i loro bellissimi canti popolari dalla loro “nera sepoltura”,
perfino i nazisti li ascoltavano volentieri e non li proibivano. In questo
modo, però, tutti seppero che il trasporto di un carico umano destinato
alla morte o nel migliore dei casi alla deportazione era nuovamente in
viaggio. Le proprietà venivano confiscate e tutto veniva portato in un
magazzino dove avveniva la “raccolta del bottino”. […]
Dita partì per Maribor. Pensava al Lager. Rabbiosamente pensò a tutto
quello che poteva accaderle senza i documenti che la Gestapo le aveva
portato via e ancora di più si arrabbiava perchè dei ladri la mattina avevano preso anche i suoi diplomi, pagelle e onorificenze. «Questi non le
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servono più» le avevano detto cinici ed erano scomparsi con tutto quanto.
A Dita era rimasta solo l’attestazione che era membro della Camera della
Cultura del Reich di Berlino, fino a quando aveva dovuto fuggire anche
da quella casa a causa degli sfollati. Questo documento l’aveva nascosto.
Che le rimanesse almeno un’ultima cosa.
A Maribor il primo giorno Dita trascorse otto ore sotto il sole cocente
per riuscire a vedere Alma per la durata di un minuto. Insieme a lei
aspettavano molti infelici. Di tanto in tanto arrivavano i custodi tedeschi
e picchiavano con il calcio dei fucili quelli che aspettavano. Spinsero a
terra anche un’ anziana donna che era quasi svenuta e che si reggeva al
filo spinato. Dita andò in suo aiuto e gridò al custode: «Ho già incaricato
una commissione che verrà da Berlino a controllare. Non avrete niente da
ridere!». Il guardiano la osservò, interdetto. La donna sembrava germanica
e parlava correntemente il tedesco. Allora, attenzione! Non si poteva mai
sapere. «Chi cerca qui?», domandò prudente il guardiano. «La scrittrice
Alma Karlin che è stata rinchiusa qui per errore». «La farò chiamare».
«Glielo consiglio!», rispose Dita. Dopo pochi istanti Alma era lì, con la
paglia nei vestiti, pallida, ma decisa come sempre. Davanti al custode le
amiche si parlarono nel loro codice e nessuno poteva sospettare quali cose
importanti si comunicavano.
Quando Alma fu portata via, Dita pretese di parlare col comandante del
campo che le consigliò di andare al quartier generale della Gestapo. Ma
poteva trovare qualcuno solo il giorno seguente. Così dovette trascorrere lì
la notte. Ma aveva poco denaro. Dove andare? Non conoscevano nessuno
a Maribor. Andò in giro fino a sera. Dove poteva andare senza documenti
e senza soldi? Stava già male per la debolezza. Aveva con sé solo un po’
di pane secco. Nella luce del sole che tramontava Dita si appoggiò ad un
albero. Non ce la faceva ad andare avanti. Sentiva il profumo delle rose là
vicino, rose che le ricordavano la primavera di un tempo ormai lontano,
forse cent’anni? Come le facevano male al cuore questi fiori della gioia.
«Non sta bene?», chiese una voce amichevole. Dita aprì faticosamente gli
occhi. La divisa di ufficiale tedesco. Spaventata e cupa guardò l’uomo. «Lei
non può rimanere qui. L’arresteranno. Mi comprende?» «Sì, La comprendo, sono cresciuta a Mecklenburg e la Gestapo ha arrestato la mia amica,
la celebre scrittrice Alma Karlin. Devo liberarla. Mio Dio cosa hanno già
combinato qui i Tedeschi!» «Sì purtroppo!», disse l’uomo a denti stretti.
Dita lo guardò stupita. Vide un viso nobile e un’aura chiara, l’ “aureola”
che illumina ogni uomo o lo oscura, a seconda di come si sviluppa. In
questo caso andava tutto bene e quando l’ufficiale la invitò ad andare con
lui, per difenderla dalla Gestapo, lei acconsentì. L’uomo aveva una pic-
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storiae
cola stanza con un divano appoggiato ad una parete ed uno più lontano
appoggiato all’altra parete. […]
Egli diede a Dita da mangiare e da bere, e poi parlarono insieme a viso
aperto, come se fossero vecchi conoscenti. I militari erano ormai stanchi
del Führer: non ne potevano più di portare sempre solo guerra, sempre
disperazione, di essere seguiti solo sguardi disperati o pieni d’odio. Aveva
ancora la speranza che i militari avrebbero rovesciato il regime [cfr. Scheda 12].
«Avreste dovuto farlo da principio, ora è troppo tardi», disse Dita triste.
Parlarono a lungo, poi ciascuno si coricò vestito sul suo giaciglio. Dita
non aveva timore. Quell’uomo era un gentleman ed era contenta di aver
trovato ancora un uomo buono fra i conquistatori. L’ufficiale le aveva
anche detto che i militari prendevano parte malvolentieri a queste azioni
di guerra. Tutti volevano la pace, tutti volevano tornare a casa! Nella notte
attraverso la finestra aperta si sentì un pianto amaro. Una voce disperata
di bambino singhiozzava: «Buon Dio aiutaci, sono arrivati i tedeschi, i
miei sono tutti morti, buon Dio, salvaci dai tedeschi! ». L’ufficiale chiese
cosa stava dicendo il bambino. Dita tradusse. L’uomo mormorò: «Anch’io
ho dei bambini. C’è da disperarsi».
Il pianto cessò e ormai si sentiva solo il vento che soffiava intorno alla casa.
La mattina dopo l’ufficiale divise di nuovo la sua colazione con Dita e le
promise di portarla alla Gestapo. «Signorina, Lei è coraggiosa e otterrà
sicuramente quello che desidera». Con l’aiuto di Dio, pensò Dita. Solo
allora vide quello che
prima non aveva notato. I simboli dell’alto
grado sull’uniforme.
«Signor maggiore,
Dio ricompensi la sua
bontà, spero che Lei
possa tornare sano e
salvo alla Sua famiglia». Si strinsero la
mano. Egli l’accompagnò dal capo della
Gestapo e le mostrò
la porta attraverso la
quale doveva entrare.
Poi scomparve e Dita
non seppe più nulla di
storiae
‐ 58 ‐
SCHEDA 12: Gli attentati a Hitler
L’ascesa al potere di Hitler fu strenuamente appoggiata dai vertici militari
tedeschi. L’appoggio incondizionato cominciò a incrinarsi già tra il 1936 e
il 1938, in seguito all’occupazione della Renania, all’anessione dell’Austria
e all’occupazione dei Sudeti, quando ad alcuni esponenti degli alti comandi
cominciò ad apparire chiaramente la pericolosità delle ambizioni hitleriane.
Dal 1938 furono attivi gruppi di oppositori appartenenti alla Wehrmacht
(esecito tedesco), all’ Abwehr (servizi segreti militari) e a circoli diplomatici. E’
però a partire dalla guerra, soprattutto dagli eccidi commessi in Polonia e via
via negli altri paesi occupati, che nell’opposizione militare si rafforza l’idea di
un colpo di stato e, comunque, dell’eliminazione fisica di Hitler. Tra il 1943
e il 1944 sono circa una decina i tentativi di attentato, più o meno fortunosamente falliti, come quello operato dal generale von Tresckow che colloca un
ordigno esplosivo (nascosto in un pacco-dono per un alto comandante militare)
sull’areo del Führer. A causa del freddo nella stiva la bomba non esplode e von
Tresckow riesce a far recuperare il pacco. Il generale von Tresckow sarà tra gli
organizzatori del tentativo di colpo di stato del 20 luglio 1944, organizzato
sfruttando le possibilità che offriva, debitamente modificato dai cospiratori,
il piano Valchiria (il piano ufficiale di mobilitazione territoriale) dopo aver
eliminato il Führer facendo esplodere due ordigni nel suo quartier generale
Rastenburg. L’attentato fu materialmente realizzato dal colonnello Shenk von
Stauffenberg, ma l’anticipo della riunione comportò la possibilità di innescare
un solo ordigno; l’eplosione fu così di minor intensità del previsto. Morirono
quattro ufficiali, ma Hitler rimase quasi illeso: il fallimento del piano comportò
l’arresto di 5.000 persone. Molti degli ufficiali che avevano preso parte al piano
furono giustiziati, von Tresckow si uccise il giorno seguente prima di essere
catturato. Non era la prima volta che Hitler scampava a un attentato per una
ragione di tempo. L’8 novembre 1939 Johann Georg Elser, oppositore del nazismo, idealista, collocò una bomba a orologeria nella birreria Bürgerbraükeller
di Monaco, in occasione del ritrovo annuale di Hitler con i “fedelissimi del
Putch” che proprio in quella birreria aveva preso l’avvio. L’ordigno doveva
scoppiare alle 21.20, all’apice del discorso del Führer. Ma per il maltempo
tutto fu anticipato e quando la bomba esplose (causando 8 morti e 63 feriti)
Hitler era già uscito dal locale. Elser fu fermato al confine svizzero, subì gli
interrogatori della Gestapo e fu internato prima nel campo di concentramento
di Sachsenhausen, poi di Dachau dove fu fucilato il 9 aprile 1945. (ef )
lui. Sapeva però che le sue buone azioni e i suoi buoni sentimenti davanti
a Dio avrebbero pesato sul piatto della bilancia. Nella sala d’aspetto gli
uomini sedevano pallidi, bianchi come il gesso dalla paura e dall’orrore,
tentando ancora una preghiera disperata per i loro cari. In Dita ribolliva
la rabbia. Le era tutto indifferente. Era lontana dalla paura. Quando la
porta si aprì, entrò dentro semplicemente, ma decisa, e mormorò tra sé:
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«In combattimento, torero!» e si piantò davanti alla faccia ostile dell’uomo
che stava alla scrivania e che subito afferrò la pistola vedendo gli occhi
fiammeggianti di Dita. «Metta via quell’arma! Prima che mi spari devo
parlare con Lei», disse Dita con tono di comando. Il prepotente la guardò
senza parole.
Poi la minacciò: «Io posso farla fucilare, cosa crede?». «A quanto pare Lei
non sa fare altro che sparare, ma prima pretendo che si rispetti il mio
diritto». Con ciò Dita picchiò il pugno sul tavolo così violentemente che
tutto vacillò e il comandante saltò in piedi spaventato.
«Lei ha erroneamente arrestato la scrittrice Alma Karlin, io pretendo subito la sua liberazione. Verrà della gente dal Reich per questo. Sono già
stati tutti avvisati».
«Maledizione, Lei va subito al sodo e mi piace. Si sieda. Di dov’è Lei?».
«Sono una testa dura di Mecklenburg», disse Dita. «Vuole mostrarmi il
certificato di rilascio di Alma Karlin? Poi posso subito prenderla con me».
«Alt! Io prima devo prendere visione degli atti». E così fece: «Ecco, sempre
le denunce del “Kulturbund”». «Niente di nuovo» disse Dita sprezzante.
«Lei ha già conosciuto da vicino questo “Kulturbund”»? «Non sono né
slavi, né tedeschi; è gente odiosa, gente miserabile!». «Se devo essere sincero
devo darLe ragione, non si trovano da queste parti schietti tipi nordici
come Lei. In più è già arrivata un lettera infuriata dal Reich. Telegrafica. La cosa può diventare interessante! Lei ha già messo in allarme ogni
angolo della Germania?» «Chiaro!» «Le prometto che in tre giorni Alma
sarà di nuovo a casa. Le basta?» «Purtroppo no, forse Lei mi vuole solo
consolare». «No, le do la mia parola
d’onore». «Un uomo, una parola?»,
domandò Dita. L’uomo della Gestapo le tese la mano e strinse la sua. Lei
serrò i denti. «Parola d’onore», disse
lui e accompagnò Dita alla porta, la
aprì e si inchinò pieno di rispetto. Le
pallide vittime la inseguirono con lo
sguardo vuoto. Lei si diresse di nuovo
al filo spinato e questa volta dovette
attendere fino a sera nel sole cocente,
per vedere il cambio della guardia
perchè gli austriaci erano molto più
gentili e umani dei tedeschi. Finalmente arrivò il turno dei guardiani
austriaci. Quando il custode lasciò Thea Schreiber Gamelin.
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entrare qualcuno, Dita riuscì ad insinuarsi dietro la schiena del guardiano
e a entrare nel cortile, all’interno del filo spinato. Lei si attaccò subito a un
uomo come se fossero insieme e gli sussurrò: «Mi porti da Alma Karlin!».
Dopo un po’ di giri giunsero all’ingresso della caserma dove c’era il Lager
dei prigionieri. Dita ringraziò e scivolò dentro. Trovò subito Alma e si
dissero tutto. Alma sedeva sul pavimento di cemento come tutti, un sottile
strato di paglia copriva la fredda superficie. C’erano le migliori famiglie
slovene che erano destinate al trasferimento in Serbia [cfr. Scheda 13].
Alma doveva originariamente essere mandata a Dachau. Questo almeno
era quello che volevano il pastore luterano May e il “Kulturbund”», la
“quinta colonna”. Ma l’uomo propone e Dio dispone. Dopo che le due
amiche ebbero parlato di tutto, Dita se ne andò, si appiccicò di nuovo
ad un prigioniero e si diresse lentamente verso il filo spinato. Quando
dei dipendenti vennero fatti entrare dalla porta, Dita balzò alle spalle del
guardiano e se ne andò calma per la via come se attendesse qualcuno. Lei
SCHEDA 13: I “trasferimenti” degli
Sloveni
In seguito alla conquista nazista della
Slovenia e alla politica di «germanizzazione della Stiria» (cfr. Scheda
9) migliaia di sloveni, arrestati dalla
Gestapo e dalla SD furono “trasferiti” nei campi di concentramento in
Serbia, dove dall’aprile del 1941 si era
insediato il governo collaborazionista
del generale Milan Nedic, che di fatto
dipendeva direttamente dal comando Bambino sloveno nel Lager di Brestanica.
tedesco; altri furono deportati nei
campi del Reich; altri ancora consegnati agli italiani perché li internassero nella
vasta rete di “campi per civili sloveni e croati”; i campi di concentramento e
deportazione italiani furono almeno 31 (a Kraljevica, Lopud, Kupari, Korica,
Brac, Hvar, ecc.), disseminati dall’Albania all’Italia meridionale, centrale e
settentrionale, dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel
Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto. Solo nei lager italiani morirono
11.606 sloveni e croati. Nel lager di Arbe (Yugoslavia) ne morirono 1.500
circa. Vi furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche “zingari” ed
ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini.
Cfr: BIANCHINI S., La questione jugoslava, Firenze 1999.
COSSETTO M., La resistenza al confine orientale, “STORIA E”, Anno III,
n. 2, maggio 2005. (ef )
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vide che il guardiano ridacchiava.
Austriaco. Quelli non picchiavano
con i calci dei fucili sulle donne
indifese. Questo era una prerogativa
dei Prussiani.
Dita trascorse i giorni seguenti in
una febbrile irrequietezza. La parola
d’onore di uno della Gestapo! Anche
il diavolo avrebbe potuto darle la sua
parola d’onore! Ma nel frattempo
avrebbe ricevuto ulteriori lettere infuriate dal Reich. Dita aveva spedito
un mucchio di dispacci. In Germa- Novembre 1941: baracche del Lager di
nia c’erano tantissime associazioni Brestanica (Reichenburg).
“Karlin”. Le loro risposte avrebbero
aiutato a mantenere la parola d’onore. Altrimenti… La mattina del terzo
giorno, quando Dita era intenta a strappare erbacce nel giardino ed a
raccogliere le fragole che voleva serbare per Alma, la melodica, morbida
voce della scrittrice improvvisamente chiamò: «Hunki!». Dita alzò lo
sguardo. Era davvero là, con la sua esile figura. Ancora più delicata del
solito, il volto ancora più pallido, ma gli occhi brillavano di gioia per la
libertà. «Hunki, appena mi sarò lavata, andiamo insieme sulla montagna
per il Tedeum!» […]
In fuga
Alma e Dita di giorno si rifugiavano sempre nei boschi. Avevano già un
contatto con gli sloveni fuggiaschi, che ora disponevano di una forte organizzazione e si facevano chiamare “partigiani”. Molti fra di loro erano
vicini di casa e conoscenti delle artiste. Alma e Dita cercavano di aiutare
questi giovani perseguitati e strappati alle loro famiglie e alle loro case. Il
dottor Herzmann, che aveva molta sensibilità per i sofferenti, procurava le
medicine e così faceva anche il farmacista Tonśič che aveva un figlio colpito
da poliomielite che correva il pericolo di venire gassato. Le due amiche
ricevevano anche materiale per le medicazioni [...] e pane dal fornaio Kirlis.
Ma questa fonte si esaurì perchè l’infelice seppe cosa lo aspettava come
ebreo e si impiccò nel parco della città. Dovunque si incontrava infelicità,
miseria, disperazione. Tutto questo l’avevano procurato i tedeschi e non
se ne vedeva la fine. L’unica speranza veniva dal fatto che Hitler nella sua
mania di grandezza, aveva commesso la stupidità di iniziare la guerra con
la Russia. Contro la Russia anche il Führer si sarebbe schiantato.
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La notte le due amiche stavano per lo più nella grande villa simile a una
fortezza e vi si barricavano dentro. La signora Weinberger, ebrea, aveva
regalato ad Alma il suo cane, prima della fuga, ed ora il piccolo Assy faceva la guardia alla casa. Purtroppo era obeso e russava nel sonno in modo
micidiale. Così misero la sua cuccia nella cucina al piano di sotto. Ogni
notte la Gestapo strisciava attorno alla casa e dalle finestre aperte Alma
e Dita sentivano con piacere come i carnefici fuori sussurravano «Senti
come russa, quelle hanno assunto un custode. Con queste donne avremo
ancora delle difficoltà. Il pastore luterano May dice della scrittrice che è
una donna intelligente, un veleno corrosivo. Con difficoltà si potrà avere
ragione di quelle due». Poi un giorno, quando Alma e Dita tornavano a
casa dal bosco, trovarono sulla porta il sigillo “confiscato”. Dita a sangue
freddo prese un pezzo di legno e grattò via il sigillo. Il cane era dentro e
doveva mangiare. Il giorno seguente venne la Gestapo fremente di rabbia. E ancora con il vecchio ritornello: «Noi possiamo farvi fucilare». «Se
ancora non avete capito che non ci impressionate, mi fate pena», disse
Alma gelida. Dita aggiunse «Credete che per il vostro “cartame” lasciamo
morire di fame il nostro cane? E dove dovremmo stare poi, eh? Forse
andare all’Hotel?».
Il cane ringhiava e misurava agli uomini della Gestapo le loro gambe infilate
in quegli orrendi stivali. Alla fine i due boia dissero che non sapevano che
Alma era stata liberata. «Loro certamente non sapevano che io abito qui e
qui ho le mie cose, vero?», continuò Dita. A quel punto entrò un signore
dalla porta, si inchinò profondamente davanti ad Alma e Dita e disse:
«Funzionario Körber di
Norimberga, ho saputo che qui avvengono
fatti inammissibili e
che si perseguitano la
nostra famosa scrittrice
Alma Karlin e la pittrice Thea Schreiber
Gamelin. Verrà inviata
una Commissione e voi
starete freschi!» Quelli
della Gestapo si strinsero nelle spalle e dissero:
«Il caso è chiuso» e spaMarzo 1942: donne e bambini della Carniola (Slovenia), rirono frettolosamente.
dopo l’incendio dei loro paesi ad opera dei nazisti, vengono
Dita saltò al collo di
condotti nei Lager.
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Dolf Körber. «Dolf, ti ha mandato il buon Dio! Io credo che volessero
rapirci un’altra volta».
Nel frattempo era arrivato ad Alma un invito da parte del borgomastro che
non sapeva ancora niente del funzionario Körber. Così il giorno seguente
Dolf andò nella “tana del lupo” con Alma e Dita, si presentò pomposamente, mostrò alcuni distintivi, e disse al sindaco cosa pensava di lui e
di tutta la combriccola. Il governatore di Celje divenne visibilmente più
piccolo. Poi sospirando mostrò un mucchio di telegrammi e di lettere.
«Li abbiamo ricevuti in pochi giorni. A causa di Alma Karlin. Possiamo
farne un archivio. Signora Karlin, La prego di fare la pace con me. Io da
parte mia prometto di non intraprendere più nulla contro di Lei». «Questo può andar bene», approvò Körber. «Alma sei d’accordo?». «Sì, ma il
sindaco qui non è l’unico che vuole liberarsi di me. I maggiori colpevoli
sono sempre quelli del cosiddetto “Kulturbund”». «Allora Alma, anche
quelli verranno sistemati, ma intanto qui facciamo la pace». «D’accordo»,
disse Alma. Il sindaco si rivolse a Dita: «E Lei, mia signora, La prego di
smettere di scrivere. Lei deve avere inviato una montagna di telegrammi
in tutte le direzioni. E mostrò ancora una volta la montagna di posta che
si ammucchiava sul tavolo davanti a lui».
«Se ci lascerete veramente in pace, io smetterò di scrivere».
«Verranno ancora eseguiti dei controlli per sapere se veramente lasciate
in pace le artiste», ricordò il funzionario. Il borgomastro balbettò: «Ma
io ho sentito dire che il Führer si sia interessato personalmente affinché
la scrittrice venisse messa nelle condizioni di non nuocere!».
Il funzionario gli batté sulla fronte e disse: «Sia certo che il Führer adesso
ha ben altre preoccupazioni che far ammazzare una scrittrice semi-affamata!
Io mi aspetto che Lei mantenga la sua parola!»
«Io lo farò di certo ma per il “Kulturbund” e la Gestapo non posso garantire».
«Non si preoccupi! Di quelli mi occupo io!». Così si lasciarono con un
“armistizio reciproco”. Poi andarono alla farmacia di Wrentschur, un
nazista particolarmente ostinato. Alma andò a casa e solo il funzionario
Körber e Dita avanzarono nell’arena. Dolf Körber chiese a Wrentschur
dove e quando aveva conosciuto Alma». «Io non la conosco» borbottò il
farmacista, avvampando. «Lei non la conosce? Le è nemico e vuole cacciarla dalla sua patria e magari farla rinchiudere a Dachau? Mi dica come
è arrivato a tutto questo. A me sembra che qui si debbano prendere misure
speciali contro la gente. Ha letto i libri di Alma Karlin?». «No e non ho
alcun desiderio di leggerli». «Dunque c’è anche una mancanza di cultura!
Bel concittadino! Sentirà ancora parlare di me!».
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«E anche di me” aggiunse Dita fulminando con lo sguardo l’uomo visibilmente accasciato.
«Chi è Lei?» domandò Wrentschur. «Anch’io sono una che Lei perseguita
senza nemmeno conoscermi , uomo privo di cervello!». Il farmacista restò con la bocca aperta. Era furente ma nello stesso tempo aveva paura e
malediceva il giorno che era caduto sotto l’influenza del pastore luterano
May, come molti altri del “Kulturbund”. Dita andò a casa, perchè era
sicura di non sapersi dominare. Una persona che perde il controllo è fin
da principio un perdente. Dolf lasciò cadere i necessari tuoni e fulmini
sui colpevoli e da allora per un certo periodo le due artiste furono davvero
lasciate in pace. Ma era solo la pausa per un respiro. All’inizio della guerra
Dolf aveva partecipato alla Campagna Polacca e raccontò di sofferenze
tremende che i Tedeschi avevano inferto al paese slavo, come venivano
uccisi con le mitragliatrici una fila dopo l’altra di uomini, donne e bambini, come se nulla fosse. Come si uccidevano gli ebrei e come venivano
deportati perchè da loro si poteva ricavarne ancora qualcosa facendone
conserve, materiale per mantelli, cibo per i cani, sapone eccetera. Troppo
tardi Dolf aveva scoperto l’orribile verità. Una ferita lo salvò e ritornò così
in patria. Doveva gestire un’impresa nella quale lavoravano soprattutto
prigionieri di guerra. Ma egli si sforzava di essere buono e giusto e di
alleggerire la vita ai suoi protetti. Questo gli salvò la vita dopo la guerra,
e poté quindi morire di morte naturale. Sua moglie soffrì per uno shock
Il carcere “Stari Pisker” (Alter Topf ) a Celje (Cilli).
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nervoso dopo il grande bombardamento di Norimberga e il suo unico
figlio, che aveva appena superato l’esame per diventare maestro, morì per
un errato intervento chirurgico in ospedale. Ma ancora non si sollevava
da questa famiglia il crepuscolo della tragedia. […] «Io sarei scappato
dalla Polonia molto volentieri» disse Dolf ad Alma: «Ma chi lo può fare
quando è già prigioniero nella “tenaglia bruna”. Avrei firmato io stesso la
mia condanna a morte. Ma ho famiglia, così tiro avanti meglio che posso,
tento di salvare qualcuno e cerco di aiutare la gente, dove è possibile. La
maggior parte dei Tedeschi si era immaginata qualcosa di completamente
diverso. Ma poi non ci fu più ritorno. E il Führer pare immune ad ogni
attentato. Sapeste a quanti è sopravvissuto. Solo gli attentatori sono morti.
Lui però vive. Una terribile minaccia per il mondo».
Alma sospirò: «Perchè voi tutti speravate in nuove conquiste, in una maggiore potenza. “Deutschland über alles, Al di sopra di tutti nel mondo.”
Non è così?» «Sì», ammise sinteticamente Dolf. Alma continuò: «E non
vedi arrivare la tremenda fine? La Germania dovrà pagare in maniera
terribile».
«Sì, Alma, io sento quello che accadrà. Ma cosa si può sapere o non sapere?
Ormai non si può fermare più nulla. Io credo che Dio abbia già espresso
il suo giudizio. Se dovessero ancora molestarvi, venite a Norimberga,
almeno finché là si starà ancora al sicuro. Inoltre, Alma, come hai potuto
prevedere tutto in modo così chiaro e senza cadere in errore?»
La scrittrice sorrise: «Non prendertela, io nella vita ho sempre conservato
il mio intelletto, niente potrebbe influenzarmi. Ho sempre cercato di guardare il mondo in modo obiettivo, anche per quanto riguarda le persone
a me più vicine. Soprattutto in politica è importante. Bisogna sempre
sentire tutte le campane, dopo si può arrivare alla verità. E’ importante,
misurare tutto con il metro della Legge di Dio. Le idee hitleriane hanno
cozzato fin da principio contro la Legge di Dio. […] Là dove i sacrosanti
diritti dell’uomo vengono calpestati, la libertà delle creature viene misconosciuta e la vita non ha più valore, le potenze oscure possono ottenere
ricchi raccolti. Voi con i vostri desideri di potenza, inciampate ciechi nella
distruzione. All’inferno ci si arriva presto, ma uscirne … ».
Dolf sospirò profondamente. Improvvisamente ebbe paura del futuro. I
nazisti mantenevano i loro seguaci ininterrottamente in attività così che
non potessero riflettere e in questo modo era possibile ottenere una massa
priva di cervello. La coscienza umana veniva addormentata, il pensiero
paralizzato e sommerso da una continua propaganda e così ciascuno smetteva di pensare autonomamente. Ecco il branco di pecore; e con questi
individui era possibile commettere ogni crimine, perchè la responsabilità
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era del Führer. Per questo dopo la guerra in Germania ci furono tanti
agnellini innocenti che non una volta vollero essere coscienti della loro
colpa, della loro enorme colpa.
Il funzionario Körber, che conosceva Alma già da tempo grazie ai suoi libri,
tornò nel Reich e le due settimane di pace che seguirono furono salutari
per le due amiche dopo tutte queste vicissitudini. Anche Herzing tornò
nella sua patria perchè voleva morire là. Come un cinese andava sempre
in giro col suo abito da sepoltura. Lo portava con sé in ogni viaggio e se
avesse potuto si sarebbe portata dietro anche la bara, nella quale si sarebbe
potuta stendere per l’eterno riposo al momento giusto.
Alma, che era abituata a questa particolarità dagli asiatici, aveva venduto
alcuni oggetti di valore e aveva comperato una bara meravigliosa, adatta
anche per il trasporto all’estero. Non avrebbe potuto procurare a Herzing
una gioia più grande. Andava sempre a guardare quell’oggetto magnifico,
perchè i luterani non conoscevano un simile scrigno funebre sul quale
volavano gli angeli e i santi invitavano alla comunione. Fu il più grande
dispiacere di Herzing non aver potuto portare con sé quella bara, perchè
gli Inglesi e gli Americani avevano cominciato a bombardare e bisognava
solo essere contenti se si arrivava salvi a casa in mezzo a tutti quegli attacchi
aerei. Morire prima del tempo per una bara non sarebbe stato saggio.
Per il momento Alma e Dita dovevano temere solo la guardia notturna.
Assy come custode ringhiava sempre. Poi però, dopo qualche tempo, gli
addetti della Gestapo ripresero il loro servizio e il “Bündel” [un membro
del Kulturbund] ricominciò di nuovo a tormentarle perchè le due artiste
dovevano essere liquidate. Dapprima Dita ricevette una citazione. Andò
là. Un lungo tavolo al quale sedevano membri della Gestapo e alcuni
“Bündel”. Orgogliosa osservò il gruppo. «Cosa volete da me?». «Lei non è
quella che sembra, Lei è una lady inglese o una duchessa. Lei ha un passaporto falso» Per Dita fu un colpo: tre famiglie per causa sua potevano avere
gravi difficoltà. Si riprese e, abituata a dominarsi, le riuscì anche questa
volta. «Io ho sentito dire che nel Terzo Reich le fiabe sono proibite, pare
che non sia vero. Da dove esce questa bella favola?». «La vecchia levatrice
a Macklenburg, dove lei abitava, è in prigione per aver procurato aborti e
l’hanno interrogata anche per altri casi». Dita rise. «Allora una vera fiaba
da balie! E’ veramente interessante che concittadini tanto saggi possano
penosamente cadere così in basso. Non avete idea del fatto che mamma
Griepsch, come la si chiamava a Macklenburg, soffre da lungo di tempo
di delirium tremens e non solo vede topi bianchi ed elefanti verdi, ma ha
anche ogni altro tipo di allucinazioni?».
«Così quello che dice non è vero?». «Per favore mi dimostrino che è vero.
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Io vi sarei molto grata se poteste offrirmi un castello, perchè io mi allargo
volentieri!». Dita rise di gusto e vide solo volti imbarazzati davanti a sé.
«Vada», ordinò rabbioso il presidente. «Halt!», gridò un associato del
“Kulturbund” «Lei ha la carta rossa?». Dita lo guardò piena di disprezzo.
«Cosa ho a che fare io con la carta rossa, io ho il passaporto tedesco. Il
presidente gettò uno sguardo furioso al “Bündel” che aveva parlato.
«Vada» ordinò a Dita ancora una volta e in silenzio lei si voltò, mentre
un «Heil Hitler!» a più voci risuonava alle sue spalle. Dita mormorò: «Tre
volte stupidi rimbambiti».
A casa domandò ad Alma: «Hai ancora un po’ di Slivovic? Lo spavento
mi ha preso alle ginocchia». Alma tirò fuori da un nascondiglio segreto la
bottiglia conservata per le occasioni tremende. Dita bevve e le raccontò
quanto successo. «Hunki, hai risposto bene. Che cosa succederà ancora?» Non si dovette aspettare molto. Arrivò un invito della Gestapo per
Alma. Lei non andò. Arrivarono altri tre inviti, uno dietro l’altro, e lei li
ignorò, ma sapeva che era il momento di scomparire. Intanto Herzing
era ritornata, festeggiò il suo nuovo incontro con la bara e rimase a proteggere la villa, mentre Dita portava Alma a Norimberga. Non era così
facile sparire senza essere viste. Le due amiche durante la notte, vestite
da contadine, avevano attraversato le montagne ed erano salite sul treno
in una stazione lontana. Non ci furono altre difficoltà al confine, perchè
Preparazione della fucilazione di un gruppo di condannati a morte il 22 luglio 1942
all’interno del carcere “Stari Pisker” (Alter Topf ) a Celje (Cilli).
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già tutto apparteneva al Reich. Un uomo che sembrava maledettamente
uno della Gestapo entrò nello scompartimento. Fu un’attesa da far venire
il crepacuore, fino a quando finalmente scese. Arrivarono a Norimberga
indenni e vennero accolte con calore, anche se gli amici rischiavano molto
e forse tutto. Dita rimase due giorni, poi per desiderio di Alma, ritornò a
Celje per proteggere i manoscritti, in quanto Herzing era diventata molto
fragile a causa delle eccessive emozioni.
Alma comprese ben presto che a Norimberga la sua presenza era pericolosa per gli amici e decise perciò di recarsi in Alsazia da conoscenti e da
lì tentare di espatriare. Andò dalla famiglia che conosceva solo come estimatrice dei suoi libri, ma scoprì con terrore di essere capitata in mezzo a
nazisti rabbiosi. La donna era stata addirittura segretaria nella cancelleria
del Reich, presso il Führer e conosceva personalmente il mostro. Forse
Alma era arrivata nel posto più sicuro, ma pur con tutta l’amicizia che
le veniva manifestata, non poteva sentirsi a suo agio. Oltre a ciò si rese
conto che era impossibile passare il confine. Occorreva molto denaro e
lei non lo aveva. Ma siccome aveva solo Dachau davanti a sé, si sarebbe
nascosta volentieri all’estero. Ma era troppo tardi. Allora volle tentare da
una altra parte. Attraversò il territorio nazista fino al Tirolo dove aveva
una parente di Celje tra le montagne. Forse potevano darle un consiglio
per arrivare da qualche parte attraverso l’Italia. Gli scarsi mezzi che aveva
si erano quasi dissolti. Di nuovo, come nel giro per il mondo, mangiò
solo pane asciutto e bevve acqua o tè. Vicino a Lienz [località del Tirolo
del Nord lungo il corso della Drava] trovò una locanda economica. Da
qui Alma fece sapere a Herzing che Dita doveva raggiungerla e portarle
abiti caldi e un cappotto. L’inverno era alle porte. Alma aspettava. Era
un’attesa che dava un’angoscia insopportabile. Perchè Dita non arrivava?
Era sempre stata puntuale... Cosa era accaduto?
La cattura di Thea
Di ritorno da Norimberga Dita si era insinuata di notte nella villa e non
si era ancora ripresa dagli strapazzi del viaggio, quando la Gestapo si presentò di nuovo alla porta. Volevano portare via Alma, perchè non aveva
risposto agli inviti. Dita disse a sangue freddo: «La mia amica è andata a
Berlino a lamentarsi di voi!». «Noi passeremo al pettine tutta Berlino per
lei», gridarono quelli della Gestapo. «Lo facciano», disse Dita indifferente.
I due funzionari esplosero: «Lei però la portiamo via subito come complice
della fuga». «Non mi risulta che Alma sia fuggita, io vi ho detto che è andata nel Reich a lamentarsi di voi!» «È uguale, Lei ora viene con noi. Potrà
dire tutto quello che vorrà nell’ interrogatorio». Herzing era fuori di sé
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storiae
e lasciò uscire una cannonata
di parole che avrebbe buttato
giù un uomo. Ma quelli della
Gestapo erano abbruttiti e in
più furiosi perchè il pesce era
sfuggito loro quando già pensavano di averlo nella rete.
Ora toccò a Herzing combattere per Dita: mandò la
notizia nel Reich e mise tutti
in allarme. Ma poi crollò per
un’emorragia di stomaco.
L’agitazione era stata troppo
forte per lei.
Dita fu portata nella prigione
di Celje, all’ingresso c’era una
grande chiazza di sangue. La
spinsero in una cella con altre
17 persone e sette guardiani.
I nuovi arrivati dovevano pernottare sul pavimento. Oltre
a ciò le sussurrarono all’orecThea Schreiber Gamelin, Ritratto di Alma Karlin,
chio che quella era la cella olio su tela.
della morte per l’Intelligentia.
Ma Dita non conosceva la paura, aveva solo rabbia perchè la tenevano lì
prigioniera, mentre Alma l’aspettava. Nei giorni seguenti conobbe tutta la
miseria dei suoi compagni di prigionia e ammirava incondizionatamente
la signora Confidenti che a casa aveva due figli ciechi, che correvano il
grave pericolo di essere gassati. Ma quella donna faceva coraggio a tutti,
aiutava dove poteva e non si mostrava mai disperata o senza coraggio.
«Dobbiamo resistere», diceva sempre. «Ma con l’aiuto di Dio anche questo
terrore avrà fine. Loro vedono come nella storia del mondo tutti i periodi
dell’oppressione hanno avuto una fine. Bisogna solo resistere. Cerchino
di stare tranquilli perchè abbiamo bisogno di tutte le nostre energie e
della nostra salute». Ma il termometro del morale scendeva verso lo zero,
quando le vittime venivano prese per l’interrogatorio. Tutti pregavano
intensamente per loro. Ma per lo più riportavano in cella, dopo ore, delle
masse di carne sanguinanti e con le membra completamente disarticolate.
Quando le infelici vittime tornavano in sé, quasi impazzivano per i dolori.
Medicine non ce n’erano. Ogni tanto veniva un medico che impotente
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si stringeva nelle spalle. Tutt’al più poteva ricomporre le articolazioni. Di
notte veniva accesa la luce ogni mezz’ora così non si poteva dormire. Di
giorno però tutti dovevano incollare sacchetti. Venivano spinti fuori, nel
corridoio che stava di fronte alla camera delle torture dove si potevano
sentire le grida di morte dei martirizzati che erano trattati come nel più
profondo e buio medioevo e ai quali da vivi veniva strappata lentamente
la pelle dal corpo. Dita vide il giovane Jellenz con gli strumenti di tortura
attraversare la corte e sentì poi gli orribili lamenti che uscivano dai corpi
fracassati. C’era davvero da impazzire.
La prigione era stata prima un convento di Francescani, fondato dal conte
von Cilli e annesso alla Chiesa di Maria. La domenica arrivavano attraverso
le finestre inferriate della Chiesa alcuni consolanti suoni di organo. Come
da un altro mondo, diventato così lontano e irraggiungibile. Dita non aveva
mai pensato che il mondo dietro le inferriate potesse essere così logorato,
così cupo, così senza speranza. La sua consolazione era l’altro mondo,
l’aldilà. Questa terra era completamente malata se cose così orrende, tali
ingiustizie, potevano accadere. Ci si poteva rallegrare solo della redenzione. Dita era anche debole, perchè da mangiare davano solo verdure cotte
nell’acqua. Lì dentro mettevano un condimento di sapore abominevole,
che doveva annientare il cuore bloccando la circolazione. Anche questo
era un modo per eliminare una persona indesiderabile... «Non devi uccidere!» Qui invece si diceva: «Chi uccide è un benemerito». Anche l’acqua
aveva un sapore abominevole. Dita prendeva il meno possibile di tutto,
malgrado ciò dopo una settimana anche lei soffriva di attacchi cardiaci.
Herzing era riuscita a far introdurre un po’ di vino. Dita ne bevve alcuni
sorsi quando venne chiamata per l’interrogatorio. Sapeva che tutti i suoi
compagni di prigionia
avrebbero pregato per
lei. Ma sapeva anche
che non l’avrebbero
ridotta come gli altri
perchè sarebbe morta
prima, lottando. Con
suo grande stupore
non accadde nulla di
ciò. Quello della Gestapo le offrì una sedia, si presentò come
«Sums», le offrì una
Sacerdoti cattolici sloveni catturati dai nazisti, Maribor
mela e una sigaretta,
autunno 1941.
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che lei rifiutò, e cominciò a interrogarla cortesemente. Dita sentì dalla
pronuncia che era un austriaco. Nelle sette ore seguenti Dita rifletté su
ogni parola e, poiché era ben allenata spiritualmente, non incorse in alcun
errore. Il signor Sums sospirò. Non erano emersi reali indizi di accusa e
aveva anche il passaporto tedesco. «Scriva un breve riassunto della sua vita
con Alma Karlin. Che ospiti venivano eccetera». «Purtroppo non ricordo
bene i nomi», disse Dita rammaricata e fece la faccia più stupida possibile.
«Oltre a tutto il cibo è studiato per produrre una debolezza cerebrale».
«Di questo non ho notato finora nulla», sospirò Sums, «ma scriva, così
arriviamo alla fine».
Dita scrisse le storie comiche dell’uomo dei polli e altri avvenimenti
umoristici, tutto pienamente innocente e apolitico. Poi venne riportata
in cella e si accorse con preoccupazione che gli altri prigionieri cominciavano a dubitare di lei, perchè non era stata picchiata a sangue. Sopportare il sospetto dei suoi compagni di sventura, ai quali si era sentita
così intimamente legata fin da principio, era per lei la cosa più difficile.
Ma lentamente parvero notare che Dita era “sincera”. Anche la signora
Confidenti contribuì molto alla buona comprensione, perchè conosceva
Alma e Dita da prima della guerra.
Di notte c’erano sempre fucilazioni nel cortile della prigione, poi l’eliminazione dei cadaveri e l’ingresso di nuove vittime. Ogni sera “recitavano
il Rosario” e nella preghiera i prigionieri si sentivano uniti ai loro cari nei
boschi o in fuga. Lo spirito che univa la comunità era intenso e in tutta
questa desolazione il popolo sloveno si mostrava grande e degno della massima ammirazione. Dita pensò : «Se sopravvivo a tutto questo chiederò il
passaporto jugoslavo. Io appartengo alla loro comunità». Venne chiamata
ancora due volte per l’interrogatorio, sempre con lo stesso risultato. Ma
alla fine del terzo interrogatorio apprese il vero motivo del suo arresto. Il
signor Sums aveva lasciato davanti a sé uno scritto e Dita poté leggere la
firma del pastore luterano May.
«Ah così quell’individuo mi ha incastrata» disse spontaneamente.
«Quale individuo?» chiese Sums sorpreso.
«Di nuovo il pastore May ».
«Questa volta è stata però Lei che non lo ha lasciato in pace» E prese una
lettera che Dita aveva scritto al pastore luterano May, quando era membro
della commissione per l’eliminazione dei bambini handicappati [cfr. Scheda 14], ed avendo egli stesso due figli handicappati Dita gli chiedeva se per
caso non avesse voluto inviare per primi i suoi bambini alla camera a gas,
dato che egli si augurava sempre di essere il primo a dare il buon esempio.
I dieci comandamenti e soprattutto il “non uccidere” appreso durante i
storiae
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SCHEDA 14: Attuazione del “Programma Eutanasia”
La commissione per l’attuazione del “Programma Eutanasia” stabiliva criteri,
modalità e procedure per l’eliminazione delle “vite inutili”, dei malati, handicappati, ciechi, malati psichici, disabili in genere e dunque non solo “non
produttivi”, “di peso per il bilancio del Reich”, ma soprattutto, secondo la
teoria della razza del nazismo, “dannosi per la salvaguardia della pura razza
ariana”. [Cfr. Scheda 10, p. 51]. (mc)
suoi studi teologici a quanto pare li aveva completamente dimenticati,
così come i suoi doveri di pastore luterano. Egli era una vergogna per tutti
i pastori protestanti, ma anche lui sarebbe comparso davanti al giudizio
di Dio. Furente il pastore May aveva portato questa lettera alla Gestapo
per far arrestare Dita. Intanto il pastore aveva anche ottenuto che l’abate
di Celje, il dott. Peter Kovašic fosse condotto in catene attraverso la città.
May stava tra due uomini della Gestapo, si godeva lo spettacolo e rideva
in faccia all’abate incatenato.
Dita, vedendo la petizione di May a Sums, alla fine dell’interrogatorio
chiese: «Signor Sums, Lei ritiene degno di ammirazione questo pastore
luterano?».
«Non vorrei esprimermi in proposito», disse prudentemente Sums, «ma
è un buon collaboratore della Gestapo!».
Dopo alcuni giorni venne chiamato il numero di Dita: «Lei può andare
a casa». Dita pensò ad un errore e continuò nella sua stupida attività di
incollatura di sacchetti. «Preferisce restare qui?» domandò di nuovo la
custode. Dita si alzò «Parla davvero con me?» «Sì, si affretti fuori, l’aspetta
un signore». I compagni di prigionia si rallegrarono con Dita. Ah, se avesse potuto portarli tutti con sé! Anche in sogno avrebbe rivisto quei volti
smunti, ma così valorosi. Nella fretta le diedero ancora incarichi, missive.
Poi le diedero il permesso di uscita e la pesante porta si aprì. Dolf Körber,
contento, fece cenno a Dita e a lei apparve davvero come un angelo del
cielo. Dolf aveva ottenuto molto. Aveva ottenuto per iscritto dalla Gestapo
che Alma e Dita in futuro sarebbero state lasciate in pace. «Non sarà una
trappola per far tornare Alma?». «No certamente. Alma può ritornare!»
«Sulla tua responsabilità Dolf. Io vado a cercarla in Tirolo». Dolf conosceva all’incirca la zona dove si trovava in Tirolo. Doveva tornare subito al
suo lavoro e Dita lo accompagnò alla stazione e poi andò a casa. Herzing
la strinse tra le braccia con lacrime di gioia. Herzing stava migliorando,
anche se era ancora molto debole per le emozioni e anche Dita per la
debolezza stava in piedi a fatica. Ma doveva liberare Alma dall’incertezza
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storiae
e dal freddo, perchè in Tirolo doveva essere già notevolmente freddo.
Prima dovette vendere ancora qualcosa, perchè non poteva arrivare da
Alma senza danaro, di sicuro era mezza affamata. Così mise insieme un
sacco da portare in spalla pieno di viveri e si mise in viaggio. Dei buoni
conoscenti si sarebbero presi cura di Herzing.
Alla ricerca di Alma
Dita cercava Alma come Riccardo Cuor di Leone. Percorse molte vie e
spesso per la debolezza le si oscurava la vista, ma alla fine ebbe successo.
All’inizio l’ostessa era diffidente, le disse che Alma non era lì e poi la
sottopose ad un vero e proprio interrogatorio. Solo quando Dita scoppiò
improvvisamente in lacrime, la prese per mano e la portò dalla sua misteriosa ospite. La donna bussò alla porta e disse «È arrivata sua sorella!»
e fece entrare Dita. Le due amiche, che detestavano i sentimentalismi,
fecero come al ritrovamento di Stanley [cfr. Scheda 15] in Africa. Si chiesero «How do you do?» Ma poi caddero l’una nelle braccia dell’altra, Dita
aprì il sacco che potava sulle spalle e tutte e due, che erano magre come
scheletri, mangiarono di nuovo di gusto e cominciarono a raccontare.
Alma era sempre andata al treno per prendere Dita, affinché non dovesse cercarla, fino a quando un giorno un uomo della Gestapo le chiese i
documenti. Lei aveva solo il certificato della cancelleria del Reich «Ah, si
chiama Klatzer? Ed è qui per riposo?» «Sì». Le restituì il documento, ma
da allora Alma non ebbe più il coraggio di andare al treno. Ora però Dita
SCHEDA 15: Henry Morton Stanley
Henry Morton Stanley (Denbigh, 1841 – Londra 1904) è stato un giornalista
ed esploratore statunitense, ma gallese di nascita, famoso per le sue esplorazioni in Africa e per la sua ricerca di David Livingstone. Dopo aver combattutto
la guarra di secessione americana divenne giornalista per il New York Herald
nel 1867. Due anni più tardi andò in Africa, dove si occupò delle guerre tra
britannici e abissini lungo i confini dell’Etiopia. Sempre nel 1869 fu incaricato dal suo giornale di trovare e intervistare l’esploratore scozzese David
Livingstone, che era noto che si trovasse in Africa orientale, ma di cui si erano
perse le tracce da diversi mesi. Egli localizzò Livingstone il 10 novembre 1871,
a Ujiji vicino il lago Tanganica, in quella che oggi è la Tanzania. Celebre è la
frase che gli viene attribuita al momento dell’incontro, «Dr. Livingstone, I
presume?»(«Dottor Livingstone, suppongo»), nel più classico understatement e
formalismo britannico dell’epoca. Stanley si unì a lui nell’esplorazione della
zona. Le ricerche stabilirono con certezza che non vi era nessun collegamento
tra il lago Tanganica e il Nilo. Questa spedizione divenne famosa grazie al libro
che Stanley scrisse per raccontarla. (mc)
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aveva portato con sé il documento della Gestapo e Alma poteva tornare a
casa almeno fino a quando il “Bündel” non trovava qualcosa di nuovo per
importunarle. Alma e Dita sarebbero andate molto più volentieri oltre le
montagne, prima in Italia e poi più avanti, forse in Portogallo. Ma tutte
le strade erano chiuse e si avvicinavano i mesi invernali. Così decisero di
partire il giorno seguente per Celje. Durante la notte Alma disse: «Hunki,
ci aspetta qualcosa di orribile, ma dobbiamo affrontarlo, non c’è niente
da fare, dobbiamo farne esperienza!». «Vorrei mandare in fumo in un
colpo solo tutte le nostre esperienze», brontolò Dita «In fondo sono solo
un essere umano». «Ma non hai notato, che Dio dà a ciascuno la forza
necessaria per tollerare i pesi che gli vengono caricati sulle spalle?» «Già,
già» ammise Dita, con un forte sospiro. Le esperienze che aveva avuto le
bastavano.
Aveva cominciato a piovere, nei giorni precedenti aveva piovuto spesso e
poi per breve tempo le nuvole si erano aperte, ma ora cominciava piovere a
dirotto. Nel letto era bello caldo e Dita voleva restare ancora un po’ lì. Ma
Alma la spinse ad alzarsi. Avevano sempre meno disponibilità di denaro
e alle due donne mancavano abiti pesanti. Dita non aveva osato portare
l’unico cappotto che Alma possedeva a causa dell’impertinente colore rosso.
Così, malgrado l’intima riluttanza di Dita, le due amiche andarono alla
stazione nel buio della notte sotto una pioggia scrosciante. Il capostazione
era stato avvertito da alcuni viaggiatori che c’era da aspettarsi un’esondazione. Malgrado ciò fece partire il treno. Subito dopo Lienz si verificò
la disgrazia. Era ancora scuro e nuvole nere correvano sopra la luna. Improvvisamente il treno scricchiolò, la luce si spense, le carrozze si strinsero
insieme come il mantice di una fisarmonica e dopo si allontanarono una
dall’altra. Dita si gettò su Alma per proteggerla col suo corpo. Un finestrino
si era rotto e l’uomo che gli sedeva accanto era volato fuori. Dall’esterno
si udivano delle grida. Inondazione! Quando il treno smise di oscillare,
Alma disse: «Hunki, vieni! Qui non possiamo rimanere». La porta dello
scompartimento si aprì. Il treno stava sui binari ancora appena visibili:
da ambo le parti acqua mugghiante e scrosciante. Nel debole albeggiare
si vedeva la schiuma bianca delle onde che salivano. «Vieni Hunki» disse
Alma e saltò giù. Non la si vide più. Si udì solo uno “splash” ed un rotolio
di sassi. Per un momento Dita rabbrividì, poi saltò anche lei fino a metà
nell’acqua gelida. Poi si adoperò faticosamente a salire sulle rotaie e vide la
sagoma di Alma davanti a sé. Si aggrappava con tutte le sue forze ai binari.
Dita la seguì sui binari sempre più immersi nell’acqua. Intorno l’acqua
spumeggiante. Ad un certo punto alle loro spalle udirono un terribile
grido di allarme. Alma e Dita si erano lasciate alle spalle l’ultimo vagone
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storiae
del treno. Prudentemente
guardarono all’indietro
nel primo albeggiare del
giorno. Un gelido spavento si impossessò di loro:
non si vedeva più il treno
all’infuori dell’ultima parte, i vagoni erano tutti di
traverso e sembravano una
nave che affondava. Dal
profondo, sotto l’acqua
gorgogliante, salivano le
terribili grida di morte di
quelli che erano rimasti
incastrati, che erano consegnati senza speranza alla
tomba bagnata.
Il macchinista era sprofondato per primo con la
locomotiva e aveva trascinato con sé tutto il treno. Alma Maximiliana Karlin.
Il treno era carico di gente
lieta che andava in vacanza
con le famiglie. Gli uomini erano scampati alla guerra e ora trovavano la
morte in patria. Inorridite Alma e Dita udivano le grida scomparire lentamente sotto l’acqua, i finestrini dei vagoni venivano rotti dalla pressione.
Così a pochi riuscì di salvarsi. Ben presto nell’acqua nuotavano valigie,
scarpe, vestiti, cadaveri era uno spettacolo orrendo. «Avanti Hunki!» più
velocemente che potevano strisciavano lungo i binari e dietro a loro i
superstiti. Un giovane uomo si era arrampicato sotto l’acqua sui tetti dei
vagoni, alcune donne furono spinte sull’argine e subito si misero a strisciare dietro Alma e Dita con ostinata energia, lottando per la loro vita.
Alla fine raggiunsero la terra ferma. Un’isola nell’elemento mugghiante.
I superstiti giacevano sulla terra solida, sfiniti da morire e quando Dita
battendo i denti guardò in su, Alma sedeva calma con un’espressione lontana, distaccata, come un monaco tibetano su una pietra. Guardava verso
il sole che sorgeva. Calma, immobile come una statua. Dita la osservava
con meraviglia. Alma non pareva essere di questa terra. Improvvisamente si voltò verso Dita e ora nei suoi occhi brillavano delle lacrime: «Ho
accompagnato con la preghiera le anime dei morti, adesso forse sono già
storiae
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lieti di avere lasciato questa terra». Poi però la scrittrice si preoccupò della
sua amica che tremava ancora come una foglia di pioppo. Per il freddo o
per il terrore? Alma aveva ancora un Kimono e le borse a mano che aveva
afferrato prima di scendere; il Kimono l’aveva premuto sotto il mento ed
era abbastanza asciutto. Alma vi avvolse la riluttante Dita. Alma pareva
insensibile al bagnato e al freddo, sorrideva con un sorriso lontano dal
mondo e diceva: «Hunki, tutto passa!» A Dita tutto il mondo parve diverso.
Nessun albero le era mai apparso così bello come quello sparuto sotto il
quale erano accovacciate. […]
Le persone che si erano salvate avevano molte ferite da schegge di vetro;
Dita si riprese e aiutò a fasciare. Strapparono camice e bluse. L’acqua saliva
ancora. Anche l’isola diventava sempre più piccola. Un giovane uomo
danzava cantando sopra il fragile argine della ferrovia. Agitava le sue scarpe
sopra la testa. La sua sposa era annegata. Era impazzito. Tutti i superstiti
stavano seduti con i loro vestiti bagnati. Naturalmente non c’erano abiti
asciutti, né medicamenti. Dita si dava da fare senza sosta. Alma calmava
e consolava. Alla fine, dopo due lunghe ore di incubo, una locomotiva
con due vagoni giunse arrancando verso di loro. Impiegati delle ferrovie,
medici e infermiere aiutarono i feriti nelle carrozze. Alma e Dita erano
come spezzate nel corpo per i colpi del treno subiti durante l’incidente, ma
non avevano ferite serie.
Quando il piccolo treno di
soccorso entrò nuovamente nella stazione, il capostazione era verde e pallido
in volto, con le occhiaie
attorno agli occhi. Era sua
la responsabilità. Aveva
fatto partire il treno malgrado l’acqua alta. Era stato
avvertito. «Pover’uomo»
disse piano Alma «E’ distrutto. Anche se venissero
considerate le circostanze
attenuanti, quei duecento
morti lo opprimeranno per
sempre».
Nella stazione regnava il
Ljubelj (Slovenia), Lager dipendente dal campo di Mautumulto. I parenti chiathausen, 1943-1945. I prigionieri venivano utilizzati
mavano i loro cari che non
per la costruzione del nuovo tunnel del Loiblpass.
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storiae
sarebbero più tornati. I feriti venivano fasciati. Autoambulanze correvano
per portare negli ospedali i feriti più gravi. «Vieni Hunki» disse Alma di
nuovo «muovendoci ci asciugheremo più in fretta e anche le ammaccature
e i gonfiori si saneranno più velocemente». Attraverso le montagne andarono dai parenti di Celje dove si asciugarono entrambe, mangiarono e la
famiglia con i capelli dritti ascoltò la notizia. Poi le due amiche rimesse
a nuovo tornarono nel loro vecchio alloggio nella locanda, perchè non
era il caso di pensare a proseguire immediatamente il viaggio. L’ostessa
poteva a malapena credere che le sue ospiti si fossero salvate e così le dovettero raccontare l’avventura nei minimi particolari. Senza sollecitazioni
la donna portò della zuppa calda, pane e grappa, gratis per il racconto.
Poi finalmente Alma e Dita caddero sfinite nei letti e forse fu per tutte le
emozioni che non presero neanche un raffreddore. Un telegramma aveva
tranquillizzato Herzing e annunciato il ritardato arrivo.
Dopo il disastro ferroviario Alma e Dita si misero sulla via di casa. Prima
del confine ci fu di nuovo un incidente. Alcuni vagoni deragliarono perchè
due treni si erano urtati. Ma questa volta andò liscia. Le due amiche arrivarono alla villa molto provate e Herzing aveva già fatto incetta di provviste
per le viaggiatrici affamate, quel tanto che si poteva ancora trovare.
Dolf, per amore dell’ordine, aveva promesso a Sums che Alma al suo ritorno si sarebbe presentata da lui; l’uomo della Gestapo aveva promesso
che ad Alma non sarebbe accaduto nulla e che in seguito non sarebbe più
stata disturbata. Alma andò accompagnata da Dita, perchè tutte due non
si fidavano molto dell’accordo. Ma andò tutto bene, l’uomo della Gestapo
era solo molto curioso e interrogò Alma per cinque ore, il che fu per Dita
una prova pesante per i suoi nervi.
Poi Sums, sospirando, chiuse il suo libro. «Potremmo stare qui seduti
una vita e non andare avanti. Chiudiamo. Lei, signora Karlin è come un
ghiacciaio, del tutto indifferente alla vita e alla morte. La sua amica incarna
il Vesuvio, mi dica, come possono vivere insieme?»
Alma sorrise «In modo straordinariamente armonico, perchè freddo e
caldo procurano un clima piacevolmente temperato».
«Mi può prestare i suoi libri? Io li leggerei volentieri».
«Se me li restituirà, volentieri».
«Naturalmente Le verranno restituiti». L’ufficiale della Gestapo si inchinò
all’addio e c’era rispetto nel suo contegno. C’erano poche persone che come
Alma riuscivano ad affrontare con una tale calma ogni situazione avversa
e talmente rischiosa da mettere in pericolo la propria stessa vita.
Il giorno seguente Dita portò i libri di Alma all’uomo della Gestapo. Poi
per le due amiche seguì un periodo di tempo più tranquillo ma, anche se
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vivevano un momento di pace, sperimentarono comunque la miseria e
intorno a loro continuavano ad essere affissi i manifesti rossi con le liste
dei morti, ancora molte persone venivano fatte prigioniere e torturate e
quando i nazisti riuscivano a catturare degli Sloveni, questi venivano arruolati fra i militari tedeschi. Da poco tempo venivano anche affissi manifesti
che comunicavano che i tedeschi avevano messo una grossa taglia su un
partigiano di nome Tito [cfr. Scheda 17]. Ma tutti gli sforzi furono vani.
Questo Tito non riuscivano ad averlo tra le mani. Pareva proprio che fosse
lui il capo del fronte di liberazione contro gli occupanti tedeschi.
Una volta, mentre Dita passava davanti alla prigione, risuonò uno sparo
e parti di cervello umano volarono sopra il muro e caddero davanti ai
piedi di Dita.
Tra i partigiani
Le due amiche ricominciarono ad andare tra le montagne per portare ai
partigiani quello che potevano e quello che qualcuno dava loro a questo
scopo. Una volta nella Sanntal, mentre stavano comperando della carne
per una povera vecchia donna ed il macellaio stava tagliando la carne sul
tavolo per Alma, tutta la gente corse fuori dal negozio. Un uomo entrò e
comperò un po’ di salsiccia. Poi si rivolse ad Alma e chiese: «Cosa fa Lei
qui?» Alma, che non era una buona fisionomista, non sapeva chi aveva
davanti «Sono andata a fare visita ad un’ammalata e Lei cosa fa qui?» sperava di capire chi era quell’uomo che non riusciva a inquadrare.
SCHEDA 16: Tito (1892-1980)
Josip Broz (questo il vero nome di Tito) naque il
25 maggio 1892 a Kumrovec, un villaggio dello
Zagorije croato, da padre croato e madre slovena. Allo scoppio della prima guerra mondiale
fu subito inviato sul fronte di Galizia dove fu
fatto prigioniero dai Russi. Nel 1917 partecipò alle dimostrazioni di luglio a Pietrogrado e
quindi riparò in Siberia; nel 1920 fece ritorno
in patria dove, quello stesso anno, fondò il
Partito comunista, passando alla clandestinità
nel 1921 quando il partito venne dichiarato
fuori legge dal re Alessandro I di Jugoslavia.
Dal 1941 divenne capo incontrastato della resistenza jugoslava. Dalla fine della guerra al 1980
il Maresciallo Tito fu a capo della Repubblica
Popolare Federale Jugoslava. (ef )
Il Maresciallo Tito.
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Il Maresciallo Tito, comandante delle Forze nazionali di liberazione della Jugoslavia, passa
in rassegna le truppe partigiane.
«Quello che ciascuno di noi ha da fare». Questo non era un chiarimento
soddisfacente. Alma prudentemente si addentrò nel dialogo e l’uomo
la seguì uscendo. Improvvisamente vide gli occhi ammiccanti di Dita
e l’uomo in borghese disse ancora: «I suoi libri sono straordinari, io li
ho letti con grande piacere signora Karlin e forse la sua amica sarà così
gentile da ritirare le Sue opere dal negoziante dove le ho lasciate. Ora Lei
scriverà ancora, La prego di non scrivere troppo male di me». Era Sums e
Dita rise da piegarsi in due perchè Alma non l’aveva riconosciuto. «Senza
la sua odiosa uniforme sembrava tutto diverso!» si difese la scrittrice. Ma
ora Alma sapeva perchè il macellaio le aveva tagliato così rabbiosamente
la carne e tutta la gente era scappata via.
La pace per Alma e Dita non durò a lungo. Il “Kulturbund” inviò sotto
falso nome del vino avvelenato alle due artiste e per poco le due amiche
non morirono. Poi ricevettero una minaccia anonima che diceva che Alma,
anche senza Gestapo, sarebbe stata portata a Dachau. Non era più il caso
di restare. Herzing venne mandata a casa e Alma tentò di collegarsi con i
partigiani che andavano a sud. Sperava di andare all’estero attraverso Bari.
Una donna l’aiutò a trovare il collegamento, una donna che qui vogliamo
chiamare “Ulrike” come nel romanzo di Wassermann che porta lo stesso
nome [cfr. Scheda 17]. Dita accompagnò la sua anima sorella oltre Doberna col nuovo cane, un bassotto, perchè Assy era morto per l’adiposità.
Le amiche dovettero viaggiare di notte, oltre le montagne, come turiste.
Alma poté portare poche cose con sé. All’ora stabilita raggiunsero il luogo
indicato e dovettero dividersi. Si sarebbero riviste su questa terra? Preve-
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dere il proprio destino non è dato nemmeno ai chiaroveggenti. E forse è
meglio così... Dita al momento del distacco recitò ad Alma le parole di
Ibsen dal Peer Gynt “Gud styrke dig, var i världen du gar...” (“Dio ti dia
forza dovunque tu vada nel mondo...”). Con una forte stretta di mano
si lasciarono e Dita si mise in cammino per Celje, sola, per la strada più
breve. A metà strada il bassotto si gettò nell’erba. Non ne poteva più.
Quindici ore di cammino erano troppe anche per lui. Dita nutrì il piccolo cane, gli diede da bere e unse di pomata le sue zampette. Poi lo prese
in braccio e arrivò alla villa mentre scendeva la notte. Lei e il suo cane
si buttarono sfiniti sul letto. Ma Dita non poteva dormire. Lacrime su
lacrime le scorrevano sulle guance. Aveva dovuto ritornare per le opere di
Alma. Doveva difendere i valori spirituali e le preziose raccolte di oggetti
e reperti provenienti da tutto il mondo, che Alma aveva portato con sé dal
suo lungo viaggio. Ora era tutta sola nella grande casa. Che conforto era
il piccolo cane! I vicini venivano più spesso e portavano a Dita piccolezze
e generi di conforto. Il Professor Solokov, originario della Ucraina, veniva
di frequente per la conversazione in inglese. Spesso dovevano correre giù
in cucina per gli attacchi aerei. La signora Solokov era laureata e aiutava
i partigiani anche con delle medicine. Di notte per lo più arrivavano i
partigiani e Dita dava loro quello che poteva e preparava il tè. Era tutto
così tremendamente scarso in quel periodo. Ma un giorno Dita, tornando
da una missione di staffetta a Svetina, trovò la villa occupata dall’antiaerea
tedesca. Le avevano lasciato libera solo una piccola stanza. Davanti alla sua
porta dormivano 20 soldati della FlaK [cfr. Scheda 18]. Una situazione
impossibile. Tutti in verità si comportavano cortesemente ed erano anche pronti a portare i mobili e le raccolte in cantina, ma Dita propose di
SCHEDA 17: Ulrike
Ulrike è il personaggio principale del romanzo di Jakob Wassermann Ulrike
Woytich, edito a Berlino nel 1923, e rappresenta la figura della donna intrigante
e arrogante; evoca al tempo stesso il destino della nazione tedesca che tra il
1870 e il 1920, giunse all’apice della sua grandezza, precipitò nell’abisso, e
determinò la definitiva scomparsa di un mondo. (mc)
SCHEDA 18: FlaK
In generale con l’acronimo tedesco “FlaK”, FlugabwehrKanone (cannone contraerei), erano indicati i cannoni destinati alla difesa contraerea; per estensione
spesso viene usato per indicare l’artiglieria contraerea della seconda guerra
mondiale in Germania. (mc)
‐ 81 ‐
storiae
trasferire la sua abitazione a Pečovnik.
Secondo la valutazione di tutti la villa
sarebbe stata ridotta in breve ad un
cumulo di macerie. Parlando coi soldati
Dita notò ben presto quanto fossero
stanchi della guerra e come avrebbero
mandato volentieri il “Führer” in una
isola di cannibali nei Mari del Sud.
Tutti avevano un solo desiderio: la
pace! I soldati erano amareggiati e non
speravano più che questa guerra terminasse vittoriosamente. Naturalmente
non potevano esprimere ad alta voce
queste opinioni.
Salvare le opere di Alma Karlin
Ogni notte dunque Dita portava segre- Alma Maximiliana Karlin.
tamente le opere e le raccolte di Alma
nella vigna di Pečovnik, spesso rischiando la vita perchè gli attacchi aerei si
erano estesi anche alla notte. La sua parola di riconoscimento era Schnuppi
il nome del piccolo bassotto e la sentinella la lasciava passare. «Viene la
nostra Signora, annunciava». Ma di giorno Dita faceva le sue strade da
corriere verso Svetina. A stare tranquilla non ci pensava.
Il “Kulturbund” era contento che la villa di Alma fosse occupata dalla FlaK,
ma scontento perchè la scrittrice era di nuovo sfuggita dalle loro grinfie
e - come Dita aveva detto sotto interrogatorio - ed era andata nel Reich
per lamentarsi di loro. Ma a Pečovnik dove c’era la casetta della vigna di
Dita, nessuno del “Kulturbund” osava avventurarsi. Così almeno se ne
era liberata. Di notte venivano i partigiani a scaldarsi e a prendere il tè e
nel sentiero sotto la casa passava spesso la sentinella tedesca. Era sempre
un esistere fra la vita e la morte. Gli aviatori partigiani o gli aeroplani
inglesi lanciavano dei disegni precisi
del fronte, come esso era veramente
e, dopo la vittoria dei Russi a Stalingrado, il fronte arretrava di continuo.
Alla popolazione era arrivato l’ordine
di consegnare tutti i volantini che
venivano lanciati, senza naturalmente leggerli!! Dopo essersi goduta ben
bene i volantini con i vicini, Dita li Mostrine della FlaK.
storiae
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consegnava con faccia innocente ai soldati della FlaK alla villa e la FlaK era
riconoscente di esserne messa al corrente. Non avevano più illusioni.
La lotta eroica dei partigiani andava avanti. La vita che facevano nei boschi, esposti ad ogni capriccio del tempo, quanto meno rovinava la loro
salute se non addirittura la vita. Gli uomini dovevano essere in fuga nel
loro stesso paese. Che cosa era ancora in ordine a questo mondo? Non
era tutto rovesciato, tutto stravolto? La cosa più terribile erano gli inverni
di guerra … Gli infelici difensori della loro patria dovevano andare sotto
terra se non volevano congelarsi. Nei boschi si facevano dei bunker. Una
volta seppe di un rastrellamento della Gestapo e seppe che a Svetina c’erano di nuovo circa 300 partigiani. Dita corse così tanto che cerchi rossi e
fiamme le danzavano davanti agli occhi. In mezz’ora fece una strada per la
quale occorreva un’ora e tre quarti. Poteva a malapena parlare. Finalmente
uscirono le parole «Arrivano!
Salvatevi!» Era giunta in tempo. All’ultimo momento. Tutti
poterono salvarsi. Sulla via del
ritorno Dita incontrò i tedeschi:
«Cosa fa Lei qui?» le brontolarono alla maniera tedesca. «Cerco
di trovare un po’ di patate!» disse
e mostrò il suo magro sacco che
portava sulle spalle nel quale
alcune patate conducevano
La contraerea in azione.
un’esistenza solitaria. «Guardi
di sparire!» brontolarono i Nazi.
«Va beneee!», rispose Dita e si mise al trotto divertita con Schnuppi.
Trecento persone si erano salvate. Questi avvenimenti erano comunque
sempre una minaccia per il suo cuore. Dita da tempo non aveva più delle
scarpe solide. Solo delle scarpe bianche di lino, con le quali camminava
faticosamente nella neve, spesso alta fino al petto nel bianco gelato, nel
bosco profondo. I suoi piedi erano pieni di geloni e il piccolo bassotto le
leccava amorevolmente le dita di colore bluastro e questo le alleviava un
po’ il dolore. L’umidità costante e il freddo portarono naturalmente con
sé altri danni, che in parte si sarebbero manifestati più tardi. Tuttavia Dita
non poteva lamentarsi, aveva ancora un tetto sulla testa, anche se mancava
spesso il combustibile per scaldarsi. Un grande conforto erano i buoni
vicini Slapšak. Col loro atteggiamento coraggioso infondevano a Dita
nuova energia e forse anche lei dava loro forza spirituale in quel tempo
di così profonda miseria. Il vicino era andato coi partigiani, altrimenti lo
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storiae
avrebbero arruolato nell’esercito tedesco. La figlia maggiore era anch’essa
rifugiata nel bosco e così la donna restava sola con i bambini, perchè la vecchia nonna e la mucca le avevano mandate in montagna. Era difficile dire
di cosa si viveva, ma in qualche modo si viveva. Tutti erano ridotti come
scheletri. D’inverno i partigiani si mimetizzavano con lenzuola bianche
e si avvicinavano alle case abitate per scaldarsi e mandare giù un tè caldo
nel corpo irrigidito. Una volta Dita, che aveva addosso l’ultimo pezzo di
pregio, un pesante scialle di lana, trovò un partigiano così congelato che
lo avvolse nel suo scialle. Per questa strada se ne andarono anche i calzini
di lana e le calde sottogiacca. Non c’era problema, purché il nemico se ne
andasse dal paese! A Dita avevano dato il soprannome di “Boza” ed era
molto orgogliosa di questo. Era un segno che la popolazione aveva fiducia
in lei e questo la rendeva felice. Si sentiva legata con tutta l’anima a questo
popolo maltrattato. Ma quando sarebbe venuta la pace? Quasi ogni giorno
faceva la staffetta per i partigiani. Di notte trasportava in montagna un po’
dei manoscritti di Alma e le sue raccolte di oggetti preziosi provenienti da
tutto il mondo. Nella notte riproduceva anche i canti dei partigiani. Ulrike
la vedeva spesso. Abitava al margine della città. Questa donna sembrava
un angelo, un essere innocente, come se nessuna goccia d’acqua potesse
turbarlo. Dietro l’apparenza però nascondeva una grande avidità: aveva
una vera e propria mania per le belle porcellane, per i mobili antichi, i
tappeti persiani, i quadri, l’oro e l’argento. In principio tentò di avvolgere
Dita come una mosca in una ragnatela. Poi le propose di scambiare la sua
piccola casa con la grande villa di Alma. Stupita e indignata Dita rifiutò.
«Come posso disporre della proprietà di un’altra persona?».
«Ma voi siete così buone amiche e forse Alma non ritornerà … e quando
… forse vorrebbe vivere più vicino alla città». «No» disse Dita «Una cosa
simile non si pone neppure in discussione»
«E se Alma non ritorna?»
«Se veramente non ritorna c’è il suo testamento. Ora non può essere
disposto altrimenti».
Per fortuna nella villa arrivò la Flak e a Ulrike passò l’appetito. Prima della
guerra era stata una spia per una potenza straniera, non tedesca, e ora faceva il doppio gioco con i tedeschi e con i partigiani. Dita era scossa dalla
ripugnanza, tuttavia andava ancora lì, nella speranza di sapere qualcosa
di Alma, ma era una cosa del tutto impossibile. Così tra le due amiche
restava un grande silenzio e anche alle anime stanche e spezzate riusciva
raramente di rendersi percepibili l’una all’altra, “Gud styrke dig, war i
wärlden du gar...” (Dio ti dia la forza, dunque tu vada nel mondo).
Dita faceva sempre i suoi viaggi da e per la villa malgrado gli attacchi ae-
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rei. Ora le opere complete e le preziose raccolte di Alma erano in salvo in
montagna. In uno degli ultimi viaggi, Dita vide in terra sulla strada una
sottile mano d’uomo con la fede nuziale. Intorno i rottami di un aereo.
Quando, ma quando sarebbe finita tutta questa miseria, tutto questo orrore? Anche se le cose di Alma erano in salvo, Dita aveva ancora motivo
di tornare alla villa per la cura del giardino o se le occorreva qualcosa dalla
sua stanza. Lei poteva chiuderla e portare con sé la chiave. Dita aveva un
piccolo compagno: Veno Wagner. Un giovane carino e sveglio che per
amor di patria era fuggito da scuola come un “Windschen Hund” (cane
sloveno). Veno mise tutte le sue forze a disposizione dei partigiani, portava
a Dita le ultime notizie e spesso l’accompagnava a Svetina. Per la strada
parlavano in inglese perché Veno imparasse qualche cosa. Raccontava a
Dita del professore tedesco di disegno al Ginnasio, il pittore Klinger, di
come maltrattava, umiliava e tormentava i ragazzi sloveni. Veno si era ribellato ed era fuggito. Felice di essere libero come un uccello accompagnava
Dita anche alla villa ed escogitava sempre di portare qualcosa per lei per
avere una giustificazione per accompagnarla. La FlaK non nutriva alcun
sospetto... Un ragazzino! Veno però in cucina contava i piatti, i bicchieri e
le sedie così poteva stabilire il numero degli occupanti. Talvolta portava via
per i partigiani un binocolo o qualche altro oggetto, il che naturalmente era
molto pericoloso. Ma Veno riusciva ad apparire così innocente che nessuno
sospettava qualcosa. Era del tutto incredibile che cosa riusciva a fare quel
ragazzo, tra l’altro con una alimentazione proprio misera. Ma lo spingeva
l’entusiasmo e la speranza di contribuire alla vittoria finale. Dita e Veno,
questi due compagni così diversi tra loro camminavano continuamente tra
le montagne per portare notizie urgenti o medicinali. Una volta però Dita
corse nuovamente sola come un razzo a Svetina. Lei sapeva che i tedeschi
avevano riempito di munizioni la Chiesa di S.Giuseppe - i partigiani
l’avevano saputo e la chiesa doveva essere bombardata. Per qualche motivo
poi i tedeschi avevano nuovamente portato via le munizioni dalla chiesa
e le avevano trascinate lontano. Aver visto i tedeschi in azione e correre a
Svetina, fu tutt’uno per Dita. Arrivò dai partigiani rischiando un crollo e
subito un’altra staffetta si precipitò al Kozje e più tardi Dita apprese che
la notizia era arrivata due minuti prima dell’arrivo del bombardiere che
avrebbe dovuto distruggere la chiesa... Se Dita non avesse corso in quel
modo... Pensò al cielo blu pieno di stelle dipinto sulla volta della cupola
e a quanto spesso lei ed Alma, dimentiche del mondo, e con la più profonda pace dell’anima avevano guardato le candele ardenti [...]. La chiesa
rimase intatta. Ma il cuore di Dita si indeboliva sempre di più con quelle
marce di corsa sulle montagne. Erano strapazzi indicibili. Ma cosa non
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storiae
si faceva per la patria? Dita
trasalì. Sì, l’aveva pensato
davvero. «Patria». Questo
paese, questo popolo, era
divenuto la sua patria e lei
voleva diventare degna di
questa patria, pronta a dare
la sua salute ed anche la sua
vita se necessario.
Mimelr Ludwig, compagna di scuola di Alma, che
durante la guerra era stata
costretta dai tedeschi a lavorare nel Comune, aveva
procurato da qualche parte
per Dita del cuoio per delle
solide calzature, così finalmente Dita poté di nuovo
infilare in buone scarpe i
suoi piedi feriti. Davvero
una buona azione! Mimerl
era lo spirito buono per
molti. Ancora più piccola
ed esile di Alma, era mol- La chiesa di San Giuseppe a Svetina.
to agile e sempre pronta
ad aiutare dove poteva. Di fronte al suo senso di giustizia, i Nazi erano
motivo di orrore. Quando poteva, avvertiva la gente che era in pericolo
evitando così grosse disgrazie. Lei stessa era abituata ad una vita ascetica
e poteva perciò risparmiare ancora sul poco che aveva, per darlo ad altri.
La benedizione per le sue buone azioni la seguì fino alla tarda vecchiaia.
Spiritualmente rimase sempre uguale, intelligente e fisicamente molto
agile come una diciottenne.
Verso la fine della guerra, il “Kulturbund” lasciò in pace Dita ed anche così la Gestapo che ora aveva ben altri problemi! I volantini degli
aeroplani diventavano sempre più confortanti e il Terzo Reich vacillava
sempre più. Gli attacchi aerei aumentarono di continuo anche su Celje e
fuoco e macerie erano all’ordine del giorno. Il bassotto di Dita aveva una
straordinaria capacità di presentimento dei bombardamenti. Il cane si
nascondeva sotto gli armadi una buona mezz’ora prima, così gli inquilini
della casa, vedendo che si nascondeva, capivano che stava succedendo
storiae
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di nuovo. Nel frattempo Dita aveva riempito di fuggitivi la sua piccola
casa. Nel week-end Veno vi abitava con i suoi genitori ed il soggiorno era
pieno, anche la famiglia dei vignaioli della villa di Alma era lì e la stalla
era piena di polli, conigli e capre. Dita aveva traslocato nel sottotetto, che
non era molto dissimile da una bara. Poiché tutti i letti erano stati dati
via, dormiva sul pavimento e il bassotto si acciambellava sul suo braccio.
Così almeno non c’era pericolo di sbattere la testa contro il tetto. Dita
dormiva sempre vestita per gli attacchi aerei.
Qualcuno aveva detto: «Quando fiorirà il grano saraceno, saremo liberati».
Tutti speravano in qualcosa di nuovo quando soffiava il vento sui campi di
grano saraceno ed i fiori sembravano un velo magico. Ma i fiori sfiorivano,
il grano maturava e la liberazione era lontana...
Su Benedicta era caduto uno sfinimento fisico e morale, che la rendeva
indifferente alla vita e alla morte. Forse questo era il motivo che l’aveva
condotta senza paura attraverso tutti i pericoli e sembrava che i compiti più
difficili le fossero i più graditi. Ma la visione delle crudeltà che i tedeschi
procuravano andava oltre la capacità di sopportazione umana. Pareva che
più i tedeschi si avvicinavano alla disfatta totale, più diventavano spietati.
Avevano fatto prigionieri molti partigiani e dopo averli torturati a morte
gettavano i cadaveri sul marciapiede davanti al duomo di Narodni e li
lasciavano lì fino alla completa decomposizione. In questa parte della città
non si poteva resistere per il cattivo odore. Doveva servire da esempio. Ma
si ottenne l’opposto. Agli Sloveni divenne ancora più chiaro che dovevano
buttare fuori questi torturatori stranieri, che profanavano la terra patria.
In un sobborgo di Celje i tedeschi avevano preso diciotto uomini innocenti e li avevano appesi per il collo ai ganci che ai macellai servono per
la carne. Naturalmente le vittime erano legate. L’agonia durò tra le otto
e le venti ore. La città intera era circondata di esplosivi «Tutto salterà in
aria quando dovremo ritirarci» ridevano cinici i nazisti.
E pensare che questo popolo bestiale lo avevano chiamato una volta il
popolo dei poeti e dei pensatori. Ora li si chiamava giustizieri e boia.
Un’eterna vergogna storica. L’orrore della rivoluzione francese era un gioco
da bambini al confronto di queste sadiche crudeltà. I tedeschi volevano
lasciarsi alle spalle solo “terra bruciata”. Ma così come volevano distruggere quello che con tanta faticosa diligenza era stato costruito nei secoli,
così anche a casa trovarono solo macerie. La terra bruciata ricadeva su
di loro. Essi avevano dimenticato la legge che vale sempre: tutto il male
che l’uomo fa ricade su di lui prima o poi, come un boomerang... Che
lo credessero o meno, la Legge si realizza sempre. Il comandamento lo
esprime nel modo migliore: “Ciò che non vuoi che venga fatto a te, non
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storiae
farlo a nessun altro!” Alla fine i tedeschi dovettero fuggire così in fretta
che non poterono far saltare in aria la città.
Ulrike e la sua famiglia dovettero fuggire per un certo tempo nella Sanntal.
I tedeschi avevano occupato anche la loro villa. Poi per le lotte partigiane
con i tedeschi anche la Sanntal divenne troppo insicura e tutta la famiglia
venne da Dita...
Alla fine della guerra, un treno abbandonato stava ai piedi della montagna. Tutte le persone che vivevano nelle vicinanze si precipitarono su
questo treno. Dita andò con loro per curiosità. Osservava come nelle
diverse persone l’avidità si manifestava nei visi, quasi si picchiavano per
impossessarsi delle cose più diverse. Come bottino Dita prese uno spelacchiato pennello da barba. Quello voleva conservarlo a ricordo dei nazisti!
Per nessuna ragione avrebbe potuto saccheggiare! Meglio patire la fame.
Questo aveva imparato nella casa del pastore protestante. Alcune persone
erano venute con le mucche e i carri. C’erano cucine economiche, boccali,
mantelli, macchine da scrivere, letti, stanghe, coperte eccetera, eccetera.
Naturalmente Ulrike si era insinuata rapidamente nel treno e ne uscì con
due magnifiche pellicce. Sparì molto presto, per ritornare subito dopo.
Vide uno con una macchina da scrivere e parlò con lui a lungo fino a
quando non ebbe tra le mani la macchina da scrivere. Aveva promesso
in cambio una macchina da cucire. Ma quando più tardi le si ricordò di
questa promessa, disse che doveva esserci un errore. Non si ricordava di
nulla e non aveva mai avuto una macchina da scrivere. Che il raggirato
pensasse male di Ulrike, era palese. Dopo che Dita ebbe visto tutto, trovò
solo una parola: «Pfui!»
Anche la casa di Ulrike fu liberata dai tedeschi e la famiglia vi fece ritorno.
Ulrike era ora una grande partigiana. Sempre nella speranza di avere un
più rapido ricongiungimento con Alma, Dita visse per un periodo presso
Ulrike. Molte persone erano ritornate, ma Alma non ancora. Ma Dita visse
un’esperienza che non avrebbe mai ritenuto possibile. Ulrike convinse la
moglie del nazista e pittore Klinger ad affidarle i suoi preziosi mobili e
altre cose pregevoli, perchè da lei sarebbero state più sicure. Poi denunciò
il pittore, del quale ci si era un po’ dimenticati. Certamente egli si era
meritato quello che gli era capitato ma il modo con cui Ulrike lo fece fu
tutt’altro che corretto. Nella prigione gli fece visita, gli portò una coperta
e lo consolò, lo avrebbe aiutato a ritornare libero. Dopo pochi giorni sua
moglie divenne vedova e fu cacciata oltre confine. Però Ulrike si godeva i
beni arraffati… Aveva anche una collega di lavoro che nel corso del tempo
aveva ammassato bellissimi mobili e oggetti d’uso per la casa. Ulrike le
disse che in tempi così insicuri, le sue cose sarebbero state custodite meglio
storiae
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presso di lei. Le poteva sempre avere di ritorno quando voleva.. Quando
tutto fu portato da Ulrike, lei denunciò la sua collega. E non la si rivide
più... Molti del “Kulturbund” erano rimasti, specialmente i più anziani,
perchè il pastore luterano May aveva tenuto un commovente discorso,
ricordando che tutti dovevano restare nella terra natia. Commossi e tranquillizzati andarono a dormire. Quella notte stessa il pastore luterano May
fuggì con tutta la famiglia oltre confine. Era l’ultima possibilità. Arrivò
fino a Vienna, dove entrò come un povero perseguitato dai nazisti. Poiché tutti quelli che avrebbero potuto dire la verità sul suo operato erano
rimasti nella terra natia, il povero perseguitato dai nazisti divenne vescovo
evangelico di Vienna. Però nella fretta della partenza aveva lasciato nella
Chiesa luterana di Celje tutte le liste al completo di chi faceva parte del
“Kulturbund” e di chi aveva il cartellino rosso, cosa che naturalmente fu
di grande utilità per i partigiani e per i tribunali. Il pastore luterano May
poteva forse sfuggire alla giustizia terrena, ma non certo a quella celeste.
Anche per lui Dita ebbe solo un «Pfui». Quando Ulrike propose a Dita
di portare da lei l’argento e l’oro che ancora erano rimasti ed anche le
porcellane di Meissen, Dita sapeva già cosa sarebbe successo. Allora regalò a Ulrike tutto un arredamento Biedermaier, con i cucchiai d’oro che
aveva portato per ricordo dall’Inghilterra e una tovaglia ebraica di sua
nonna che serviva per il culto e che proveniva dall’Italia. Così comprò la
sua libertà da Ulrike, perchè era meglio vivere con poche cose terrene,
che morire a causa di quelle. E Dita doveva vivere per Alma. Lei sperava
sempre che sarebbe ritornata. Poi Dita ritornò nella sua piccola casa di
montagna. La grande villa vuota le riusciva inospitale, tutto era ancora
in cantina e le camere erano piene di letti affastellati l’uno sopra l’altro.
Tra le montagne pensava di essere più sicura. Che errore!...
La ritirata era in pieno corso. Sulle strade si muovevano le truppe tedesche,
questa volta in direzione Nord. Dita non poté fare altro che correre nella
villa, cucì con grossi punti una bandiera jugoslava con stoffa di lenzuola
e di grembiuli, nonostante ciò risultò una grande e bella bandiera che
dalla terrazza era visibile in lontananza. Dita l’assicurò a una lunga asta.
Hurrah! Sventolava nell’aria. Da Stegu, di fronte, apparve una seconda
bandiera e così avanti. I tedeschi ebbero la sfacciataggine di sparare sulla
bandiera di Stegu. La bandiera di Dita non potevano più raggiungerla. Per
giorni e giorni il corteo dei nemici vinti andava per le strade. Speravano
di incontrare gli Inglesi già al confine austriaco.
Ma Dita sapeva che là li aspettavano i Russi… Lentamente vennero fuori
più bandiere ed i visi incupiti si rischiararono. Ma i pericoli non erano
ancora finiti.
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storiae
Tedeschi, Ustascia, Croati, Belogradisti
Dopo i tedeschi vennero gli Ustascia, quei croati che erano alleati [cfr.
Scheda 19] coi tedeschi e per i quali non c’era più posto in patria. Questa
gente che affermava di essere cristiana e che aveva commesso le loro crudeltà nel nome di Cristo, calpestava i campi di grano e pestava le seminagioni
- era il mese di maggio. I fuggitivi accendevano fuochi da campo lungo
la Savinja e salivano anche sulle montagne vicine per saccheggiare le case
e violentare le donne. Nella fuga fra la vita e la morte, pensavano ancora
ad azioni di questo tipo!
Dita era di nuovo nella vigna. Il vicino, che era già ritornato, era molto
preoccupato per sua moglie che non era ancora ritornata a casa. A lui come
uomo avrebbero certamente sparato. Chi poteva andare? «Io naturalmente!» disse Dita. Mandarono con lei una bambina del vicino che portava la
lanterna. Non appena cominciarono la prima salita venne loro incontro un
ustascia. Strappò di mano la lanterna alla bambina che piangendo scappò
verso casa ed il delinquente si gettò su Dita. Dita implorò in cuor suo la
Madonna ed ebbe la forza. Per fortuna aveva anche gli scarponi che sostennero la mossa di judo, così l’animale presto finì a terra, ma con l’ultima
energia sparò a Dita, per vendetta. L’articolazione della sua mano sinistra
venne perforata e il sangue usciva a fiotti. Dita sentì i passi di altri ustascia. Allora corse dai vicini, cadde, si ferì il ginocchio, continuò a correre
continuando a perdere sangue. Ormai vacillando raggiunse la meta e vide
rasserenata che la vicina era già a casa. Era tornata per un’altra strada. Adesso aiutava Dita. Però dovettero accertarsi che nell’oscurità nessuno fosse
fuori, perchè tutte le bende e le medicine erano a casa di Dita. Dovevano
fare tutto al buio per non destare l’attenzione degli Ustascia. Finalmente
Dita aveva bendato tutto e poté concedersi un leggero svenimento. TutSCHEDA 19: Gli ustaša
Esponenti delle forze dell’estrema destra, scioviniste e antiserbe legate al partito
croato del diritto, rifugiati a Vienna, nel 1930 fondarono sotto la guida di Ante
Pavelič il movimento degli ustascia (ustaša in croato significa ribelle), che fu
fin dall’inizio finanziato da Mussolini ed addestrato all’uso delle armi e degli
esplosivi attraverso una rete di campi in Italia. Nell’ottobre del 1934 gli ustascia
parteciparono all’assassinio del re jugoslavo Alexander, che avvenne a Marsiglia
durante una sua visita ufficiale in Francia. In quest’azione ebbero aiuti dalle
autorità italiane e ungheresi. Avvicinatisi sempre più al nazismo, gli ustascia
sostennero le truppe tedesche quando invasero la Jugoslavia e negli anni di guerra
si resero protagonisti di violenze, efferate rappresaglie e eccidi atroci. (ef )
Cfr. BIANCHINI S., La questione jugoslava, Firenze 1999.
storiae
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Ante Pavelič mentre pronuncia un discorso scortato dai suoi ustaša.
tavia una Slivovitz la riportò nel mondo della realtà. La mattina presto i
vicini gettarono terra sulle tracce di sangue e un altro vicino condusse Dita
all’ospedale. Poteva a malapena camminare, era stata una notte difficile
con molti dolori. In pieno giorno sulla strada, gli Ustascia non osavano
attaccare, si erano ritirati anche dalle montagne. Temevano i partigiani.
Sulla strada c’era la carogna rigonfia di un cavallo. I campi desolati erano
pieni di stracci puzzolenti, di bambini abbandonati e di donne urlanti.
Era orribile. All’ospedale dovettero ricucire Dita meglio che potevano,
ma in fretta, perchè c’erano lunghe file di fratelli nemici: Ustascia, partigiani, Belogardisti [cfr. Scheda 20]. Ma erano tutti così malmessi che solo
ogni tanto guardavano male i loro vicini. Erano tutti troppo deboli per
aggredire ed andava bene così. Dita arrivò a casa a fatica. A casa si mise
a letto mentre imbruniva. Doveva recuperare le forze dopo la perdita di
tanto sangue. Le era ben chiaro che con la musica aveva chiuso. Con la
mano sinistra non avrebbe più potuto suonare né violino, né organo, né
armonium. Ma al momento nemmeno questo era importante. Una sola
cosa era importante. Sarebbe ritornata Alma, e quando? Dita aspettava
come Solweig [cfr. Scheda 21]. Aspettava giorno e notte.
Dopo il grande bombardamento su Celje c’erano solo macerie in giro.
Dita poteva ricordarlo solo rabbrividendo. Un giorno gli “uccelli stranieri”
erano venuti da tutte le parti, formando un vasto cerchio che si chiudeva
‐ 91 ‐
storiae
SCHEDA 20: I belogardisti
I belogardisti e i domobranci erano “sloveni bianchi”, appartenenti per lo più
al partito cattolico e, in parte, a quello liberal-monarchico. Essendo fortemente
anticomunisti, avevano deciso di collaborare con le truppe naziste al fine di
ottenere il distacco della Venezia Giulia dall’Italia e una sua annessione alla
Jugoslavia di Pietro II. Successivamente, verso la fine del 1944 arrivarono a
Gorizia anche le truppe cetniche. Il loro nome derivava dal termine serbocroato Četa, che significa “banda” o “franchi tiratori”. Alla metà dell’Ottocento i
cetnici erano gruppi di autodifesa serbi, bulgari e greci che operavano nelle
aree balcaniche sotto il controllo dell’Impero Ottomano. Durante la Grande guerra gruppi di cetnici serbi combatterono contro gli austroungarici e i
tedeschi che avevano occupato la Serbia. Con la nascita del Regno dei serbi,
dei croati e degli sloveni, i cetnici si configurarono come movimento politicomilitare di carattere panserbo, fortemente nazionalista e spesso utilizzato dalle
autorità statali per reprimere i moti separatisti. Con l’occupazione nazista della
Jugoslavia il movimento si spezzò in due tronconi, entrambi caratterizzati da
un forte nazionalismo e da un convinto anticomunismo. La parte dei cetnici
guidata da Milan Nedič decise di collaborare con gli occupanti tedeschi mentre
le forze guidate da Dragoljub Mihajlovič scelsero di schierarsi contro i nazisti
e di organizzare forme di Resistenza, sempre in vista di un’unificazione nazionale in ottica serbo-centrica. Dopo un iniziale accordo con la Gran Bretagna
che riconobbe ufficialmente Mihajlovič capo della Resistenza, questi gruppi
entrarono in contrasto con le forze partigiane comandate da Tito. I tedeschi
non ci misero molto ad approfittare di queste divisioni per arruolare tra le
loro fila numerosi gruppi che facevano riferimento a Mihajlovič in nome della
condivisione dell’anticomunismo. Ciò accadde soprattutto nel momento in
cui gli Alleati decisero di collaborare con i partigiani di Tito rompendo l’accordo con i cetnici. I nazionalisti serbi iniziarono così ad affiancare i nazisti
nelle operazioni di repressione antipartigiana in cambio di cibo, armamenti
e protezione. (mc)
Cfr. MILZA P., BERNSTEIN S., TRANFAGLIA N., MANTELLI B., Dizionario dei
fascismi, Milano 2002.
SCHEDA 21: Il canto di Solveig
Henrik Ibsen (1828-1906), Peer Gynt, Il canto di Solveig, musicato da Edvard
Grieg (1843-1907): Passerà forse l’inverno e la primavera, passeranno l’uno e
l`altra,/e la prossima estate e l’anno venturo e quello successivo finché tu verrai,
/ché una volta verrai, me lo dice il cuore,/ e come t’ ho promesso io qui ti aspetto,
come t’ ho promesso./ Ti dia forza Iddio dovunque vai, dovunque vai,/ ti dia gioia
Iddio dovunque stai, dovunque stai./ Io quassù ti aspetto fino a che ritorni, fino a
che ritorni,/ e ti vengo incontro amico mio amico mio. (mc)
storiae
‐ 92 ‐
via via più stretto attorno alla città. Terrorizzati gli uomini fuggivano via.
Anche Dita e gli abitanti della sua casa erano fuggiti nei boschi. Dita col
bassotto sotto il braccio. E poi tuonò, l’eco era cento volte più cupo. Alla
fine Dita era fuggita nella casa di un’anziana donna.
I muri tremavano ancora dopo l’accaduto e l’eco dei bombardamenti
risuonava nel silenzio del bosco. Non finiva mai e terrorizzati e silenziosi
gli uomini fuggivano. Finalmente silenzio di tomba. Come in una muta
marcia funebre tutti ritornavano ai luoghi dove una volta c’erano le loro
abitazioni o si trovavano ancora. Alla fine del bosco la vista su Celje era
libera. Non c’era nulla da vedere. Una fitta nebbia gravava come pesanti
nuvole di temporale sulla città e uno sgradevole odore di incendio veniva
portato dal vento. Anche la villa di Alma era avvolta in una nuvola di
polvere e Dita temette che sarebbe venuto alla luce solo un mucchio di
rovine. Il vento disperse la polvere ed apparvero delle mura, come sciupate,
cosa che da lontano non si poteva vedere. Per più di una settimana sulla
città rimase stagnante l’odore dei cadaveri sepolti. Le strade erano piene
di macerie, il fuoco aveva distrutto quasi tutto.
No, queste immagini erano insopportabili. Tutto quello che dagli ultimi
anni riemergeva nel ricordo era una serie di immagini, una più orrenda
dell’altra. [...]
Il ritorno di Alma
Ancora una volta Dita era andata vicino alla casa di Ulrike, la figlia era
nel giardino e Dita le gridò che andava in città. Ma la ragazza le era corsa
dietro senza fiato. «Alma è qui! È tornata!» Dita si appoggiò alla siepe,
aveva le vertigini. Poteva essere possibile? Poi raccolse le sue forze e rapidamente tornò indietro. Alma stava nel giardino di Ulrike. Lo spirito
di Alma. Poteva stare ancora insieme quel mucchietto di ossa? Le due
amiche si guardarono con gli occhi dell’anima. Poi Alma disse: «Hunki,
se hai qualcosa qui, prendila, perchè noi non torneremo mai più in questo
posto». Ulrike stava lì col viso mortalmente pallido e tentava un dolce
sorriso. Le riuscì in modo poco convincente. Molto freddamente Alma si
congedò e le due amiche andarono nella casetta di montagna di Dita. La
villa era stata bombardata e colpita e i muri avevano grosse crepe. Secondo
le informazioni di Alma, Dita apprese che Ulrike aveva tentato di tutto
per far fucilare Alma. Aveva sperato di esserci riuscita, di qui il suo terrore
mortale quando Alma era apparsa improvvisamente.
Non c’era più nulla da saccheggiare ora, ma non sapeva quanto Alma
sapesse di lei...
Dita guardò Alma, ma vide anche la sua aura e si spaventò. Il segno della
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malattia era in lei. Le strisce grigie che mostrano il cancro. Nel calice della
gioia di Dita caddero gocce amare di assenzio.
Alma e Dita si erano ritirate nella vigna e vivevano completamente isolate.
Entrambe erano troppo deboli per andare in giro. C’erano ancora alcuni
oggetti di valore che si potevano vendere. Ma le preziose raccolte di oggetti
provenienti dal suo viaggio intorno al mondo, Alma non voleva intaccarle.
Tutto questo doveva essere conservato per l’umanità, nell’esatto ordine
cronologico con cui i reperti erano stati raccolti. I vicini Slapsak notarono
che le due artiste a soldi erano messe molto male e la signora Slapsak si
offrì di vendere o scambiare degli oggetti con dei generi alimentari. Dita e
Alma dovevano ringraziare proprio questa buona donna se avevano potuto
sopravvivere per i cinque anni successivi. Con molta fatica Pavla Slapsak
scambiava lenzuola di lino, coperte di damasco, asciugamani e così via su
per le montagne e portava di ritorno generi alimentari. Spesso si indignava
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per l’avarizia dei contadini che tiravano sul prezzo e mercanteggiavano
approfittando del bisogno altrui, mentre davano così poco per cose che
altrimenti non avrebbero mai potuto comperare. Ma i contadini sono
uguali in tutto il mondo. Come unica giustificazione poteva valere che il
loro guadagno sulla terra era questione di fortuna ogni anno. Dipendono
dal sole e dalla pioggia. Dita cominciò di nuovo a coltivare la terra nel suo
piccolo possedimento, per poter avere un po’ di vettovaglie in casa. Così
vissero assai poveramente e le forze fisiche bastavano appena per svolgere
le attività quotidiane. Alma era di nuovo sprofondata nella scrittura e
lasciava a Dita il compito di gestire la vita quotidiana. Dita abbatteva da
sola anche gli alberi per procurarsi la legna da ardere. Una volta Alma la
trovò svenuta accanto al grosso albero segato a terra. Una Slivovitz aiutò
Dita a mettersi di nuovo in piedi. Nella vita tutto passa....
Alcune donne del “Kulturbund” erano ancora a Celje e si nascondevano tremanti di paura. Improvvisamente erano venute a conoscenza che
l’amato “Fuhrer” non aveva fatto proprio tutto bene. Una notte queste
spaventapasseri, sfinite, apparvero da Alma e Dita e pregarono di poter
avere asilo nella loro villa vuota. Erano quelle seguaci del “Kulturbund”
che però non avevano fatto nulla di male.
«E perchè vengono proprio da me, che sono stata la più perseguitata dal
“Kulturbund”?» domandò Alma. La risposta avvilita fu: «Perchè lei aiuta
sempre i perseguitati!».
«Sì se qualcuno è perseguitato ingiustamente, ma…». Alma osservò i pallidi visi disperati e si ricordò di quando lei stessa era in fuga. «Ora vadano
nella villa, ma non accendano luci, cuociano solo con l’elettricità, che
non salga fumo. Si chiudano dentro, non si mostrino alle finestre e forse
riusciranno a farcela fino a quando la prima collera sarà passata. Io non
desidero sapere nulla della loro presenza alla villa. Di che cosa intendono
vivere?» Silenzio disperato. «Un po’ di verdura la mia amica ve la può
portare. Vadano ora, prego».
Se ne andarono, ma Alma fu colpita dal fatto che fra le imploranti si trovasse anche Nora Herzmann. Il dott. Herzmann aveva sostenuto i partigiani
con medicine e li aveva anche curati e aiutati come poteva. Nora però non
era portata per la politica. Lei viveva per e con il suo allevamento di cani. I
cani l’accompagnavano dappertutto e la notte dormivano sulla coperta del
letto. Sempre, quando veniva alla luce una nuova cucciolata, Nora invitava
Alma e Dita e mostrava con vero orgoglio un esemplare dopo l’altro: «Non
ha delle orecchie deliziose? Non ha un musetto fantastico? E guardate questa coda!» Le due amiche, che erano anch’esse pazze per i cani, trascorrevano
ore molto piacevoli tra i pechinesi di Nora. A tutto questo pensava Alma
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e si preoccupava per
la moglie del medico.
Comprensibilmente,
dopo la guerra, le ondate d’ira erano diventate molto forti, e anche il dott. Herzmann
dovette dimostrare che
aveva aiutato davvero i
partigiani. Le testimonianze di Dita da sole
non bastarono. Prima
bisognava ritrovare i
partigiani dispersi e in- Vista sulla chiesa di San Giuseppe a Svetina.
tanto questa famiglia,
la cui unica colpa era
quella di aver partecipato con il “Kulturbund” alle liete feste con abbondanti libagioni, restava nel Lager fino a quando la faccenda non sarebbe
stata chiarita. Così Nora trascorse nascosta il periodo peggiore della sua
vita nella villa e il dottor Herzmann in campagna, presso i suoi contadini. Egli morì peraltro poco dopo. Alma però esortò Dita: «Hunki porta
a quelle creature fagioli e verdura, affinché non ci siano anche cadaveri
di affamati nella villa». E Dita? Brontolava come un cane cattivo «Nora
naturalmente, Nora era sempre stata buona, ma le altre?»
«Amate i vostri nemici» diceva Alma e rideva del viso rabbioso di Dita.
«Fate del bene a coloro che vi odiano e quando è possibile porgete l’alta
guancia quando uno vi schiaffeggia». «Che terribili precetti!» «Gesù li ha
vissuti, Hunki!»
«Lo so, lo so!». Con ciò Dita mise in spalla il grande zaino che le montagne
di Triglav avevano già illuminato e se lo trascinò da quei fuscelli di paglia,
che un tempo, nella loro follia hitleriana, l’avevano guardata con tanto
orgoglio dall’alto in basso. Ma la profonda riconoscenza e i visi segnati
dalla paura la commuovevano e lei seminava ancora di più nell’orto.
«Ci rimetteremo noi» diceva Dita rabbiosa. «Hunki, io ho sempre agito
secondo la mia coscienza, indifferente a quello che dice la gente. Non
cambierò fino alla fine della mia vita!»
Molti che erano stati con i partigiani si erano fatti avanti per un impiego
o una pensione. Altri li avevano chiamati. Nessuno chiamò Alma e Dita
e loro erano troppo orgogliose per chiedere qualcosa. Così sprofondarono
sempre più nella miseria.[…]
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Un giorno trovarono i fuggiaschi nella villa e li snidarono. La grande ira
però era passata, li cacciarono oltre i confini, in Austria, e Nora poté tornare a casa sua. Più tardi vendette la casa e andò all’estero da suo figlio.
Poté portare con sé quello che voleva.
Alma però ricevette la quietanza per la sua umana solidarietà. Occuparono
la villa con famiglie di nove, sette e cinque bambini. Così la villa smise di
appartenere ad Alma. Lei offrì a Dita di intestare tutto a suo nome, perchè
in futuro gli estranei se ne sarebbero andati, ma Dita rifiutò indignata. La
bellissima proprietà era stata divisa in particelle, sarebbe sorta una colonia
di case e per un artista che aveva bisogno di pace, era divenuta inutile. Alma
la vendette per poco, regalò agli amici gli arredi delle stanze e così perse
tutto. Rimase solo ciò che bastava a pagare i debiti e poi continuarono
entrambe nella loro miseria. Alma aveva un nodulo al seno che cominciò
a crescere. Aveva sempre cercato un modo per andare all’estero, perchè
qui non vedeva alcuna possibilità di guadagnare danaro per vivere. Ma le
sue istanze vennero sempre respinte. Alla fine non giunse nemmeno una
risposta e la vita proseguì così.
La malattia, la miseria, la morte di una scrittrice
Nel frattempo l’invisibile e leggendario maresciallo Tito, sulla cui testa i
tedeschi avevano messo delle taglie così alte, era apparso al mondo. Egli
si dimostrò un diplomatico incredibilmente abile, riuscì a proteggere la
Jugoslavia sia dalla violenza orientale che occidentale. La Jugoslavia restò
indipendente. E Tito divenne il cuore del paese. Il primo selvaggio zelo di
rovesciare tutto ciò che ricordava i tempi precedenti si spense dopo un po’,
così in Jugoslavia sorse qualcosa di completamente originale, personale, il
comunismo jugoslavo appunto, che era molto lontano da quello terribile
che si era esteso su alcuni altri paesi. Le persone cominciavano a vivere di
nuovo la loro vita individuale. C’era più libertà, non c’erano mendicanti
e non c’era gente che andava in giro come fagotti di stracci. Lavoro ce
n’era abbastanza e le macerie della guerra scomparvero. Di anno in anno
la situazione migliorava. I bambini potevano andare a scuola, le borse di
studio venivano garantite. Dappertutto si poteva notare questa crescita.
Solo nella piccola casa in montagna si sentivano i passi della morte che
si avvicinava....
Tra duri sacrifici e continuo lavoro gli anni erano passati. A Zagabria le
persone cominciavano a interessarsi di Alma e sui giornali comparvero
articoli su di lei. Di conseguenza arrivavano spesso visite e tra i legami più
forti ci fu quello con Milica Gradisnik e Elza Boltezar di Zagabria, così
come con la famiglia Dobravc di Celje che fu particolarmente d’aiuto.
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Tutti si interessavano del grande e vasto sapere di Alma e delle sue grandi
esperienze in ambito metafisico. [...] C’erano care persone che venivano
a trovare Alma, ma con turbamento vedevano come la scrittrice diveniva
sempre più spirituale e come era sempre più vicina alla morte. Elza Boltezar
aveva lavorato quasi trent’anni ai raggi e soffriva di danni professionali. Con
il consenso dei suoi professori aveva organizzato tutto per Alma, perchè
essa potesse essere ricoverata a Zagabria senza spese. Alma rifiutò. Dita la
pregò tra le lacrime di utilizzare questa meravigliosa occasione. «Hunki,
lo vedi, non mi lasciano andare all’estero. Qui non posso guadagnare
niente, né pubblicare le mie opere. Io qui sono sepolta viva. Preferisco la
morte. Non voglio né medico, né cure». Non ci fu nulla da fare. Ancora
una volta Dita la pregò: «Abbi dunque un po’ di pazienza, noi riusciremo
ancora andare all’estero. Questi sono gli anni del dopoguerra». Alma disse
amaramente: «Non vogliono lasciarmi uscire. E io sono stata quella che ha
pregato Churchill di aiutare la Jugoslavia, cosa che l’Inghilterra non voleva
fare a causa del comunismo di Stalin. Su mia preghiera Churchill mandò
suo figlio Randolf dai partigiani e da allora l’Inghilterra li aiutò». Dita lo
sapeva. Lei stessa aveva bruciato le lettere di Churchill quando venne la
Gestapo e sapeva dei successivi contatti di Alma per aiutare la Jugoslavia. E
ora la vita di questa grande anima doveva finire… Ma una persona muore
lentamente, specialmente se essa stessa si augura la morte. Nel frattempo
a Dita giunsero doni da parte della madre inglese e dei parenti americani
della Herzing tramite la Croce Rossa. Così la vita divenne un po’ più
facile. Il 18 novembre 1946 Dita ricevette anche una affettuosa lettera
della madre dall’Inghilterra. «Io vorrei per una volta inginocchiarmi con te
allo stesso altare, mia amata figlia» Scriveva la duchessa. Fu la sua ultima
lettera. Tramite la Croce Rossa Dita ricevette poco dopo la notizia della
morte della duchessa. Da quel momento per Dita l’isola dei suoi sogni
fu avvolta in una fitta nebbia e non ci fu più alcun raggio di sole che la
diradasse. Tramite la Croce Rossa giunse anche la notizia della morte di
Herzing. Sulla terra per Dita rimanevano ancora solo porte chiuse. L’unica
porta aperta nella quale poteva ancora sperare era quella dell’aldilà.
Anche se tutto appariva ormai senza speranza, Alma non poteva smettere
di scrivere e con questa attività intellettuale trascorreva il tempo. Ma nel
1947, infine, la sua pazienza si esaurì. Piangeva ininterrottamente per
ore o correva disperata lungo la Savinja, dove non c’erano più case, fino
a quando Dita la raggiungeva per riportarla indietro. Una notte Dita si
svegliò spaventata, una corrente d’aria gelida l’aveva colpita. Lei dormiva
in cucina e guardò su verso Alma, alla quale aveva dato la stanza grande.
Sentì dei respiri rauchi e poi più niente. Accese una candela. Il corpo di
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Alma era diventato interamente blu, coperto di macchie blu. Non respirava
più. Dita vide e capì che si trattava di una morte violenta. Veleno. Inorridì.
No, questo no! Solo Dio è padrone della vita e della morte.
Dita apprese la potenza della preghiera. Non aveva mai pregato in vita
sua come accanto alla sua amica apparentemente morta. […] Quando il
primo raggio di sole si posò sul viso cadaverico di Alma, le sue palpebre
si mossero lievemente. Molto lentamente anche il colore cambiò e Dita
corse a chiedere aiuto da Pavla Slapšak, perchè Dita stava a malapena in
piedi. [...] Trascorsero ore finché la coscienza riuscisse a tornare completamente vigile. Intanto Dita aveva dato ad Alma il giusto antidoto contro
il veleno. La vicina sparì silenziosamente. Questa donna piena di tatto
capiva sempre come adeguarsi a ogni situazione. Quando Alma poté di
nuovo parlare, le sue prime parole furono: «Hunki, ti ringrazio! Tu mi hai
richiamato alla vita con la preghiera. La mia anima ti vedeva. Da parte
mia è stato un colpo di testa. Me ne rammarico molto. Qualunque cosa
accada voglio sopportarla fino alla fine». Il veleno aveva indebolito ancor
di più il corpo già logorato della scrittrice. Alma riusciva a malapena a
mangiare; riusciva a bere un po’ di vino, ma era terribilmente difficile da
trovare. Se ne poteva avere solo mezzo litro alla volta. Così ogni giorno
Dita andava di corsa alla baita posta a 750 metri di altezza o scendeva a
valle alla Gostilna [osteria, mescita di vino]. Tornava indietro di corsa, in
pensiero per Alma. Il nodo al seno cresceva. Nell’ottobre 1949 si ruppe
una vena e il sangue sprizzò per tutta la camera. Dita agì in fretta e prudentemente. Riuscì a fermare l’emorragia. Solo dopo le vennero le ginocchia
molli. Questo zampillo di sangue sarebbe sempre ritornato fino alla fine.
Era accaduto il 12 ottobre, il giorno del suo sessantesimo compleanno.
Da allora Alma non poté più alzarsi. Ma sdraiata dettava ancora i suoi
racconti e le sue poesie. Il suo spirito appariva indistruttibile. Lei era ricca
dello spirito delle antiche culture e parlava volentieri soprattutto degli
Incas che l’avevano affascinata. Ma nella lotta con la sottoalimentazione e
con tutta la disperazione della loro situazione anche Dita sentiva sfuggire
le forze. Lei sperava con Alma di tornare a casa nel mondo della luce. Gli
amici erano stati sempre tutti buoni e di nascosto lasciavano un sacchetto
di farina qui, un po’ di semolino là, ma anch’essi avevano molto poco. La
famiglia Dobravc, che aveva cinque bambini, le aiutava di più di tutti.
Alma però non doveva sapere nulla dell’aiuto altrui.
A poco a poco la vita di Alma si spegneva. Elza Boltezar veniva spesso da
Zagabria. Portava delle medicine contro il dolore. Nessuno più poteva
aiutare Alma. Un cancro al seno non curato è orribile. Dita bolliva giorno
e notte delle bende. All’inizio di gennaio venne da Zagabria la contessa
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Borelli con la quale Dita aveva fatto amicizia. Dita era allo stremo delle
forze ed era profondamente grata per la presenza della contessa e di Elza.
Alma voleva sempre Elza accanto a sè. Elza aveva preso un periodo di
permesso. Era instancabile, giorno e notte in servizio presso Alma. Alma
era sempre pienamente cosciente e la notte prima della morte le parlò
in continuazione della cultura Inca. Il giorno precedente il dottor Peter
Kovadič, l’abate di Celje, era venuto da Alma. L’avevano chiamato i vicini
[...] Verso sera Alma sorrise e disse: «Hunki, sta arrivando la nuova vita!»
Durante il periodo della malattia Alma non si era mai lamentata, non
aveva mai lasciato capire agli altri quanto stava soffrendo. Eroicamente
aveva sopportato tutto e così coraggiosamente come aveva vissuto, morì.
Quando arrivò la fine il sole era al tramonto. Alma si distese ed era come
se una mano avesse spianato i suoi tratti sofferenti. La contessa Borelli
accese la candela funeraria che mescolò la luce del sole cadente con il viso
ascetico della poetessa. Pace, pace! Liberazione da questo mondo! Dita
invidiava la sua anima sorella.
Alma aveva espresso il desiderio di essere sepolta a Svetina, un piccolo posto
meraviglioso a 850 metri d’altezza. Branko Dobravc aveva preparato tutto
per la sepoltura del 17 gennaio. Egli aveva fatto tutto ciò che era necessario
e aveva portato su il carro con
la mucca che doveva condurre
Alma a Svetina il 16 gennaio.
Fu l’ultima bella giornata. Il
giorno della sepoltura cadde
sulla città una pioggia gelata,
ma sulle montagne infuriava
una tempesta di neve con lampi
e tuoni. Solo alcuni coraggiosi
alpinisti poterono prendere
parte al funerale. A fatica Dita
con Elza combatterono con la
tempesta. Finalmente la luce
nella piccola cappella di montagna. C’era già il cappellano di
San Daniele in Celje. Sotto una
tempesta con raffiche di neve,
lampi e tuoni, la bara venne
messa nella terra. Addio terra,
valle dei pianti [...].
Luglio 1987: la tomba di Alma Karlin a Svetina.
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