DEFIBRILLAZIONE CARDIACA
INTRODUZIONE
In questo capitolo analizzeremo l’uso della stimolazione cardiaca finalizzata all’arresto
delle aritmie che possono insorgere nel funzionamento del cuore. In particolare
focalizzeremo la nostra attenzione sulla defibrillazione che essenzialmente consiste
sull’applicazione di shock elettrici ad alta energia con l’obiettivo di porre fine alla
fibrillazione, che è altrimenti letale.
L’applicazione di principi biofisici e l’uso di modelli per la simulazione, in questo ambito è
molto limitato poiché i meccanismi della fibrillazione e della defibrillazione sono tuttora
ancora non completamente compresi.
MECCANISMI DI FIBRILLAZIONE: REENTRY
La causa che principalmente è alla base di molte aritmie cardiache è l’affezione delle
arterie coronarie che può portare alla formazione di placche arteriosclerotiche con
conseguente occlusione dei vasi e insorgenza di ischemia e infarto del tessuto cardiaco.
Le proprietà elettrofisiologiche dell’ischemia e del tessuto infartuato costituiscono le
condizioni per il verificarsi del fenomeno del reentry (‘rientro’) cardiaco che rappresenta
il meccanismo di base mediante cui si verifica la fibrillazione.
Il reentry in un anello di tessuto cardiaco è stato studiato per la prima volta da Mines nel
1913, le cui osservazioni sono tuttora ancora valide. In fig.1A uno stimolo in un singolo
punto all’interno dell’anello cardiaco dà luogo alla propagazione di due onde in direzioni
opposte lungo l’anello. Queste due onde di attivazione, essendo il tessuto cardiaco
omogeneo, viaggiano alla stessa velocità; pertanto dopo un tempo opportuno si
incontrano dalla parte diametralmente opposta al punto di stimolazione nell’anello di
tessuto cardiaco collidendo.
Poiché al momento della collisione le regioni di tessuto confinanti si trovano nel periodo
refrattario assoluto, entrambi i fronti d’onda sono bloccati nella loro propagazione e
l’eccitazione ha fine (salvo poi ricominciare a seguito di un nuovo impulso di
stimolazione). In questo caso non vi è rientro e ciò riflette il comportamento cardiaco
normale.
In fig.1B l’area dell’anello tratteggiata rappresenta un blocco per la propagazione
dell’onda in senso orario (ad esempio il blocco potrebbe insorgere poiché le cellule di
questa regione sono ancora nel periodo refrattario). Pertanto la propagazione ha luogo
solo in senso antiorario; quando questa giunge nella regione del blocco, se il periodo
refrattario ha avuto termine, può proseguire nel suo percorso riportandosi al punto di
partenza e dando inizio ad un secondo ciclo di propagazione. La propagazione circolare
in senso antiorario di quest’onda può ora continuare per periodi successivi: questo è
quanto si intende per reentry.
Le condizioni affinché si abbia il reentry, suggerite dall’osservazione di fig.1, sono le
seguenti:
1. la presenza di una regione che funge da blocco unidirezionale;
1
2. un percorso per la propagazione alternativo a quello bloccato (quello antiorario in
fig.1B);
3. il tempo di propagazione lungo il percorso alternativo deve essere più lungo del
periodo refrattario delle cellule della regione del blocco unidirezionale (altrimenti
anche l’onda che si propaga lungo il percorso alternativo muore a livello della
regione di blocco).
fig.1: Rappresentazione di una condizione che porta al reentry; (A) Nel tessuto normale la collisione e
l’annichilimento prevengono l’insorgere del reentry; (B) L’area tratteggiata rappresenta un blocco
unidirezionale che facilita la propagazione in senso antiorario.
Nella normale attivazione del cuore la propagazione cessa quando la conduzione arriva
alla periferia del miocardio; a questo punto non c’è nessuna parte di tessuto cardiaco
che non ritrovi in uno stato refrattario; quando il successivo impulso parte dal nodo SA,
allora l’intero cuore è in una condizione di riposo e il processo che si instaura non è altro
che una ripetizione del precedente.
Il significato dell’insorgere di un fenomeno di reentry, invece, implica che il normale
pacing cardiaco, che ha inizio nel nodo SA, viene bypassato. Se, come usualmente
succede, il ciclo di attivazione è molto rapido, il cuore viene guidato ad una frequenza
maggiore e si ha l’inizio della tachicardia
Nell’esempio di fig.1 il blocco unidirezionale è descritto come dovuto ad una
disomogeneità del periodo refrattario. Tuttavia ci possono essere altre cause che
possono portare ad una regione di blocco, quali l’anisotropia del tessuto cardiaco (ad
esempio la resistenza assiale è minore di quella trasversale rispetto alla direzione delle
fibre e ciò porta ad una anisotropia della velocità).
Il fenomeno del reentry può però verificarsi anche in assenza di un ostacolo, come si
può capire dall’esame della fig.2.
2
fig.2: Mappa della distribuzione dell’attivazione durante l’inizio della tachicardia indotta da uno stimolo
prematuro nel atrio di un cuore isolato di coniglio; (A) Battito base; (B) Battito prematuro suscitato
seguendo un ritardo di 56 ms; (C) Primo ciclo di tachicardia (le doppie barre indicano il sito del
blocco della conduzione); (D) Durata del periodo refrattario ad ogni sito.
Uno stimolo prematuro è applicato in posizione centrale (indicata in figura con il punto
nero) dopo un tempo di ritardo di 56 ms. Come si può notare dalla fig.2B lo stimolo si
propaga a sinistra, dove il tessuto ha recuperato la condizione di riposo, mentre è
bloccato a destra dove il periodo refrattario non è ancora terminato; la propagazione,
però, ritorna in questa regione con un certo ritardo e il blocco è ora pronto per
l’eccitazione. In questo caso si ha nuovamente un circuito di rientro, ma questa volta
non dovuto ad un ostacolo non conduttivo, ma semplicemente basato sui tempi di
recupero non omogenei nel tessuto sotto esame.
3
Il reentry random, che porta alla fibrillazione, è caratterizzato da percorsi delle onde di
propagazione che cambiano in continuazione per dimensione e posizionamento; in
aggiunta diverse forme d’onda indipendenti potrebbero essere presenti
simultaneamente ed interagire le une con le altre, portando ad un ritmo cardiaco
irregolare e caotico.
LA DEFIBRILLAZIONE
L’obiettivo base della defibrillazione è quello di interferire elettricamente con i circuiti di
rientro e portare questa attività elettrica alla sua terminazione. Poiché i circuiti di rientro
hanno luogo attraverso le pareti cardiache, il raggiungimento dell’obiettivo richiede un
adeguato campo di stimolazione in tutti i punti all’interno del cuore, a differenza di ciò
che si ha nel pacemaker, in cui uno stimolo adeguato è richiesto in direzione di uno
specifico sito. Inoltre, un'altra differenza tra pacemaker e defibrillazione, è che la prima
richiede l’applicazione di campi elettrici attraverso il cuore dell’ordine di 1 V/cm (come
visto in precedenza) mentre la seconda richiede campi elettrici dell’ordine di 10 V/cm.
Esistono teorie differenti, basate su ipotesi diverse, che cercano di spiegare i
meccanismi che sovrintendono alla defibrillazione; tuttavia esistono dei punti di contatto
tra queste teorie: il primo è che shock opportuni generano campi elettrici che sono
abbastanza variabili; il secondo invece riguarda l’applicazione di un sistema di elettrodi
per la generazione di un campo elettrico uniforme all’interno del cuore allo scopo di
raggiungere la defibrillazione.
In ogni caso l’unico modo che uno shock ha per influenzare il comportamento delle
cellule in defibrillazione è quello di indurre un potenziale transmembrana che ha come
risultato la depolarizzazione delle cellule a riposo o in condizioni di refrattarietà relativa;
sebbene si potrebbe obiettare che le cellule in defibrillazione non si comportano come le
cellule in condizioni normali, occorre prestare attenzione al fatto che piuttosto che la
risposta che si ottiene allo stimolo da parte delle cellule prese in modo individuale, ad
essere importante è come l’interazione tra queste cellule viene modificata
dall’applicazione dell’impulso.
MODELLO UNIDIMENSIONALE DELL’ATTIVAZIONE/DEFIBRILLAZIONE
Sarebbe interessante capire quali siano gli effetti elettrofisiologici che derivano
dall’applicazione di uno stimolo di corrente ad un gruppo di cellule cardiache in
fibrillazione. Questo tipo di problema è però difficile da modellare poiché non si possiede
un modello strutturale adeguato che rifletta l’interazione tra le cellule cardiache stesse e
tra le cellule cardiache e lo spazio interstiziale.
Un modello molto semplificato (e come vedremo in seguito proprio per questo
inadeguato) può essere quello che affronta il problema riducendolo ad un problema
unidimensionale in cui la membrana cellulare è considerata essere passiva ed in
condizioni stazionarie ed il cuore costituito da fibre uguali in parallelo, sottoposte ad una
corrente di defibrillazione uniforme applicata che si ripartisce in modo uguale tra le fibre
stesse. Sotto queste ipotesi possiamo analizzare in modo equivalente il comportamento
di una sola fibra.
4
Si consideri dunque la situazione sperimentale schematizzata in fig.3 (già applicata in
precedenza per una porzione di assone stimolata alle estremità). Si consideri in questo
caso che la situazione raffigurata rappresenti la stimolazione di una fibra muscolare
mediante due elettrodi esterni. Tale situazione può essere considerata come una
estrema semplificazione del caso di una stimolazione defibrillatoria di una fibra
muscolare.
fig.3: dispositivo sperimentale per la descrizione del modello unidimensionale per la defibrillazione
Come già descritto in precedenza, la soluzione della cable equation per tale
configurazione porta alla formulazione delle due seguenti equazioni rispettivamente per
I i e I o:
Ii = Ia[
ro
r
cosh( x / λ )
− o
]
ri + ro ri + ro cosh(l / 2λ )
(1)
ri
r
cosh( x / λ )
+ o
]
ri + ro ri + ro cosh(l / 2λ )
(2)
Io = Ia[
Facendo il rapporto tra l’equazione (1) e l’equazione (2) si ottiene:
Ii
(cosh(l / 2λ ) − cosh( x / λ ))
= ro
(ri ⋅ cosh(l / 2λ ) + ro ⋅ cosh( x / λ ))
Io
(3)
e dividendo numeratore e denominatore a destra dell’equazione per cosh(l/2λ) si ha:
5
cosh( x / λ )
)
Ii
cosh(l / 2λ )
= ro
cosh( x / λ )
Io
(ri + ro
)
cosh(l / 2λ )
(1 −
(3)
Considerando che:
la lunghezza equivalente di una singola fibra cardiaca è pari a circa l = 14 cm,
per il tessuto cardiaco la costante di tempo vale circa λ = 650 µm,
si ha che la lunghezza equivalente di una fibra cardiaca è pari a circa l = 215 λ.
cosh( x / λ )
≅ 0 per (-l/2 + 5λ) < x < (l/2 - 5λ), da cui:
cosh(l / 2λ )
In tali condizioni, si ha che
I i ro
=
I o ri
per (-l/2 + 5λ) < x < (l/2 - 5λ)
(4)
Ricordando ora che:
∂Φ i
= −ri I i
∂x
(5)
∂Φ o
= −ro I o
∂x
(6)
dalla (4) si ottiene:
∂Φ i ∂Φ o
=
∂x
∂x
per (-l/2 + 5λ) < x < (l/2 - 5λ)
(7)
e dalla definizione di Vm = Φi – Φo si ha:
∂Vm
= 0 → Vm ( x ) = cos t
∂x
per (-l/2 + 5λ) < x < (l/2 - 5λ)
(8)
ossia:
V' = 0
e
Vm ( x ) = Vrest
per (-l/2 + 5λ) < x < (l/2 - 5λ)
9)
6
Osservazione: il fatto che V’ sia approssimativamente nullo nell’intero intervallo (-l/2 +
5λ) < x < (l/2 - 5λ) concorda con l’espressione ricavata in precedenza per V’(x) nella
situazione descritta in Fig. 3, ossia:
V ' = I a ro λ
sinh( x / λ )
cosh( l / 2λ )
(10)
Infatti, ad esempio per x = 0 mm si ottiene la relazione esatta V’(0) = 0 µV. Per x non
nullo, la relazione è valida con approssimazione. L’andamento qualitativo di V’
nell’intervallo –l/2 < x < l/2 è riportato in fig.4.
fig.4: Andamento qualitativo di V’ per –l/2 < x < l/2
Il risultato contenuto nella Eq. (9) ha come effetto una conseguenza fondamentale, in
grado di compromettere la validità del modello sin qui considerato. Infatti, da tale
modello risulterebbe che la membrana cellulare rimane al suo potenziale di riposo per
tutti i valori di x considerati (ossia per (-l/2 + 5λ) < x < (l/2 - 5λ)); ciò significa che, in
considerazione della lunghezza della fibra (l = 215 λ.), si avrebbe che quasi il 95% delle
cellule che costituiscono il tessuto cardiaco sarebbe indifferente allo stimolo di
defibrillazione applicato! Tale risultato non è ovviamente accettabile e pertanto il modello
considerato qui fallisce.
L’inadeguatezza del modello dipende non tanto dall’aver ipotizzato le fibre cardiache
come equivalenti tra di loro, quanto dall’avere trascurato le giunzioni intercellulari.
Introducendo tali giunzioni all’interno del modello (descritte dalle resistenze Rj), le cellule
si comportano seguendo il circuito elettrico equivalente di fig.5.
7
fig.5: Connessione delle cellule adiacenti attraverso le giunzioni intercellulari schematizzate dalle
resistenze Rj.
In fig.5, poiché le cellule mostrate sono replicate in una catena di 1200 cellule totali a
formare la fibra totale, la corrente e la tensione devono essere periodiche di periodicità
pari ad una cellula; ad esempio la corrente Ii entrante a sinistra deve essere uguale alla
corrente Ii uscente da destra poiché esse sono tra loro alla distanza esattamente di una
cellula. L’effetto di una Rj di valore finito è quello di guidare una parte di corrente dentro
e fuori la cellula (esattamente la stessa quantità di corrente intracellulare Ii deve entrare
ed uscire dalla cellula), e ciò causa delle fluttuazioni di corrente associate con una Vm
diversa da zero. Infatti si può vedere come Rj causa una discontinuità in Φi , proprio
uguale alla caduta di potenziale Ii·Rj .
Pertanto gli effetti delle resistenze giunzionali intracellulari introducono delle
discontinuità nell’uniformità del tessuto che fanno si che in realtà si abbia una Vm
variabile a fronte dell’applicazione di un campo elettrico di stimolazione uniforme.
Come ulteriore osservazione, si consideri che anche altre disuniformità istologiche
(come ad esempio la rotazione delle fibre) possono essere importanti al fine di
convertire un campo elettrico uniforme in un potenziale transmembrana indotto.
STRUMENTAZIONE PER DEFIBRILLATORI
La grande quantità di energia richiesta per la defibrillazione viene ottenuta nei
defibrillatori convenzionali attraverso la carica di una grossa capacità, che viene
scaricata su di un circuito RLC. Solitamente le forme d’onda utilizzate sono sinusoidali
smorzate e quelle trapezoidali.
I defibrillatori sono tarati per scaricarsi in un carico resistivo di circa 50 Ω. Gli elettrodi
per la defibrillazione utilizzati hanno un diametro che varia nel range di 8 – 13 cm, o nel
caso degli elettrodi per l’applicazione diretta sul cuore (attraverso interventi chirurgici) di
4 – 8 cm. Elettrodi con diametri più grandi sono invece utilizzati per ridurre i valori della
densità di corrente e quindi evitare bruciature, pur generando campi elettrici uniformi
appropriati all’interno del cuore.
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L’impedenza transtoracica a secco, che dipende dall’impedenza all’interfaccia
elettrodo/pelle e può essere portata tramite l’applicazione di un opportuno gel conduttivo
ad un valore tipico di 50 Ω, varia tra 25 – 150 Ω, mentre quella transcardiaca tra 20 – 40
Ω.
L’energia richiesta per la defibrillazione varia invece in un range compreso tra 200 – 360
J. Assumendo un’impedenza transtoracica di 50 Ω ed una corrente applicata di 2 – 3 A,
si ottiene una tensione in uscita di 100 – 150 V. Una stima non corretta dell’impedenza
transtoracica (che potrebbe derivare da una inadeguata preparazione della pelle
attraverso il gel) può portare all’applicazione di correnti non appropriate; pertanto molti
dispositivi misurano prima il valore esatto di tale impedenza per poi sceglier un livello di
energia che assicuri l’applicazione di una corrente appropriata.
Defibrillatori impiantati permettono di ottenere correnti di soglia di 1-2 A con tensioni ed
energie inferiori. In particolare, assumendo una impedenza transcardiaca di 20 Ω, si
ricava una tensione necessaria di 30 V con un energia di circa 30 J.
Come osservazione finale, si cita che lavori sperimentali hanno portato alla
progettazione e allo sviluppo di defibrillatori cardiaci che usano un campo magnetico per
stimolare il muscolo cardiaco.
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