Ruzante (ca. 1496-1542) Ruzante in Piazza Capitaniato (Padova) Il nome • Angelo Beolco fu oltre che autore anche interprete delle sue opere teatrali: e la bravura di attore gli procurò il nome d’arte di Ruzante, cui i critici dell’epoca aggiunsero l’attributo di «famosissimo». È lo stesso Beolco a darne un’interpretazione in un passo dell’Anconitana, rifacendosi al verbo «ruzare», dire spiritosaggini, facèzie: –Ruzante – El me derto lome è Persuòcimo. Mo quando iera putato, che andasea con le biestie, sempre mé a’ ruzava o con cavale, o con vache, o con scroe, o con piegore. E po aéa un can […]. A’ ruzava sempre mé con elo, a ghespuava in lo volto, pur che a’ me poesse des-sciapar e andar drio qualche macion a ruzar con elo. E perzòntena i me messe lome Ruzante, perché a’ ruzava. (Anconitana, atto II, scena IV) –A un certo punto della sua carriera, Angelo Beolco fece proprio il nome di uno del suo personaggio favorito, assumendolo da un cognome alquanto diffuso tra gli abitanti di Pernumia, nei pressi di Padova. Un laorador del luogo, contadino e massaro, aveva il suo stesso nome di battesimo, Angelo Ruzzante - Angelo Beolco potrebbe avere tipizzato il suo rustico personaggio proprio su questo lavorante (Emilio Lovarini, Studi sul Ruzzante, 1965) –A mettere in risalto le brillanti qualità attoriali del Beolco contribuì in parte anche la bravura dei membri di quella compagnia che, nel 1520 circa, lo nominò suo direttore. Con essa fu a Venezia più volte e, insieme all’Ariosto, prese parte ai festeggiamenti del 1529 a Ferrara per le nozze di Ercole d’Este con Renata di Francia. Opere • La Pastoral 1517-18 • La Betía 1524 c. • Primo Dialogo - Parlamento de Ruzante che iera vegnú de campo (Il Reduce) 1528 c. 1529-30 • Secondo Dialogo - Bilora 1528 c. 1529-30 • La Moscheta 1528 • Dialogo facetissimo et ridiculosissimo (o Menego) 1528 • La Fiorina 1529-1530 • L’Anconitana 1534-35 • La Piovana 1532-33 • La Vaccària 1533 • Prima Oratione 1521 • Seconda Orazione 1528 • Lettera all’Alvarotto • Lettera giocosa • Lettera al Duca d’Este • Le Canzoni • Sonetti Alvise Cornaro • Angelo Beolco: un borghese abbastanza agiato, amico e factotum del patrizio Alvise Cornaro, metà umanista e metà uomo d’affari, vissuto in una sorta di esilio volontario a Padova, in un rapporto di tensione rispetto alla classe dirigente veneziana. Nella sua piccola «corte» padovana (che riproduceva un po’ più in piccolo quelle dei principi rinascimentali di Ferrara o di Mantova o di Urbino) si ritrovavano gli intellettuali operanti a Padova e vi circolava la cultura della sede universitaria, egemonizzata dalla riflessione filosofica di Pomponazzi e del platonismo petrarcheggiante di Pietro Bembo. Alvise Cornaro (Venezia, 1464 – Padova, 8 maggio 1566) Tintoretto, Uffizi, Firenze • Angelo Beolco costituisce una delle prime compagnie teatrali di cui si abbia notizia (fin dai primi anni '20, Beolco mise in piedi una compagnia con gli amici Marco Aurelio Alvarotto detto Menato, il Castagnola detto Bilòra e Girolamo Zanetti detto Vezzo); scrive e recita egli stesso i suoi testi. Ma ancora, sostanzialmente, nella prospettiva del teatro amatoriale. Beolco recita nelle sale e nei cortili della dimora patrizia del Cornaro o nei luoghi teatrali consueti della Venezia del tempo (come ci risulta da attestazioni diaristiche di Marin Sanudo [1466-1536]). Tra il 1520 e il 1526 il Sanudo registra dieci presenze di Beolco a Venezia, ma questo non significa che ci siano stati dieci testi del nostro autore. In qualche caso i testi erano replicati, ed è ipotizzabile che Beolco recitasse talvolta anche testi scritti da altri. In ogni caso non è escluso che si siano potuti perdere dei testi beolchiani. Sono le compagnie della Calza a veicolare molto probabilmente Beolco nei circuiti teatrali veneziani. • Il 13 febbraio 1520 Sanudo attesta per la prima volta la presenza di Ruzante a Venezia, a Ca’ Foscari, per la compagnia degli Immortali. Fu una festa eccezionale, con cacce di tori, fuochi d’artificio, balli, corteo allegorico e banchetto per trecentocinquanta persone: dopo di che ci fu «una altra comedia a la vilanesca, la qual fece uno nominato Ruzante, padoan, qual da vilan parla excelentissimamente». L’espressione usata da Sanudo («uno nominato Ruzante») ci fa capire che il quel momento Beolco è ancora uno sconosciuto, ma ciò che colpisce subito è la capacità di parola dell’attore, la sua abilità nell’imitare la parlata contadina, in funzione chiaramente caricaturale. Siamo pienamente dentro la satira antivillanesca, la quale esprime le tensioni tra città e campagna che dal Medioevo si prolungano sino al Cinquecento. Secondo Dialogo [Bilòra] [1526-28] • Nel Bilòra (nome d'arte di uno dei compagni di Beolco, Castegnola; la bilòra è in dialetto apvano, la dònnola, simile alla faina) un contadino abbandonato dalla moglie, Dina, viene a Venezia e dopo aver cercato invano di convincerla a tornare con lui, uccide il ricco mercante veneziano Andronico con cui la donna convive. • Nel contrasto fra il dialetto dei contadini e il veneziano del vecchio e facoltoso cittadino, torna il plurilinguismo della Pastoral, ma ora non si tratta più di satira antiletteraria, bensì di un'opposizione insanabile fra due condizioni: da una parte la fame e l'ignoranza della campagna, dall'altra il denaro e il prestigio sociale della città, che rimane un mondo incomprensibile e ostile ai contadini. Primo Dialogo Parlamento de Ruzante che iera vegnù de campo [152223] • Ruzante torna, frastornato e sconfitto, forse fuggitivo, dal campo di battaglia. Si reca nel paese dove si sono rifugiati sua moglie, Gnua, ed il compare Menato, a sua volta amante della donna. Incontratolo, Ruzante gli racconta le vicende del campo. Segue l'incontro con Gnua, che nel frattempo si è data alla prostituzione ed ora è sotto la protezione di un bravaccio. Ruzante tenta di convincerla a tornare con lui, ma Gnua rifiuta. Quando Ruzante fa per trascinarla via con la forza, entra il protettore, che lo picchia selvaggiamente, lasciandolo a terra mezzo morto. • Rientra Menato, che ha assistito all'intera scena. Ruzante, per difendere la propria ignavia, dapprima finge di essere stato battuto da una folla, poi di essere stato vittima di un incantesimo, per cui, sebbene aggredito da uno solo, ne vedeva centinaia. Infine scoppia a ridere, ed i due escono insieme. La risata finale è stata variamente interpretata, sia come un inizio di dolorosa e problematica follia, sia come la derisione del dolore di una classe politica, il contado, che è stata troppo a lungo la vittima delle vicissitudini storiche.