IL SISTEMA DI SOSTENTAMENTO DEL CLERO IN ITALIA Due giorni Amministratori degli I.D.S.C. LUIGI TRIVERO Un saluto cordiale a tutti. A chi, come me, ha vissuto gli anni difficili della prima fase attuativa delle riforme del 1985 e accompagnato, poi, il loro felice sviluppo e a chi si affaccia per la prima volta al nostro mondo. Vedo davanti a me con piacere non pochi giovani e un certo numero di laici. L’ecclesiologia emergente è un’ecclesiologia di partecipazione e di corresponsabilità.1 Siamo parte, sacerdoti e laici, di un unico popolo, abbiamo una matrice spirituale comune, finalità e interessi, strutture e strumenti comuni. E’ sempre bello riannodare amicizie antiche e incontrare nuovi amici, disposti a camminare “insieme” con noi, a servizio del clero italiano. Proprio questo è il primo significato dell’incontro di questi giorni: un incontro tra amici e uno scambio di reciproca collaborazione per riflettere e tentare di risolvere, con trasparenza e correttezza amministrativa, i problemi che ci attendono. L’indubbia complessità dell’universo ecclesiastico, le perplessità e incertezze qua e là affioranti circa le linee interpretative consolidatesi nel tempo in merito al vigente corpo normativo, il rischio che ombre ed equivoci non tempestivamente chiariti possano allungare a piacimento le maglie della disciplina ci hanno convinti a promuovere questa due giorni di studio. Sono ormai trascorsi circa 23 anni dal 3 giugno 1985, quando negli Acta Apostolicae Sedis e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana veniva contestualmente pubblicata la legge 20 maggio 1985, n. 222 dettante disposizioni sugli enti e i beni ecclesiastici in Italia e per il sostentamento del clero cattolico al servizio delle diocesi. 1 “Sacerdoti e fedeli siano coscienti di appartenersi gli uni agli altri e di essere tutti, ciascuno in conformità al proprio stato,e secondo le proprie capacità, responsabili della vita e dell’azione della Chiesa” (GIOVANNI PAOLO II, Lettera al Card. Poletti del 5 agosto 1985, in C.E.I., Lettera informativa in L’AMICO DEL CLERO, 1987, pp. 126 ss.). 1 E’ perciò naturale che si senta il bisogno di rinverdire i motivi di fondo e gli essenziali principi ispiratori della riforma, richiamare alcuni presupposti generali, affrontare i problemi che presentano più evidenti segni di criticità. Capire la filosofia del nuovo sistema significa garantirne lo sviluppo nella verità e l’efficacia nell’attuazione. In questa prima relazione ci limiteremo a trattare soltanto aspetti generali, lasciando alle relazioni che seguiranno il compito di approfondire le questioni gestionali, tenuto calcolo delle proposte pervenute dagli Istituti. Per molti saranno cose note. Ma purtroppo abbiamo dovuto prendere atto che per tutti non è così. Per questo motivo mi è stato chiesto di ribadirle in una panoramica complessiva di tutto il nuovo sistema di sostentamento del clero. 1 – LE RADICI STORICHE ED ECCLESIOLOGICHE DELLA RIFORMA La remunerazione di coloro che si dedicano al servizio del Vangelo è problema antico quanto la storia bimillenaria della Chiesa. La Chiesa vive nello spazio e nel tempo, ha bisogno necessariamente di risorse adeguate per finanziare le proprie attività e il proprio personale. Per questi fini la Chiesa ha sempre fatto ricorso fin dai primi secoli alla generosità dei fedeli. In tutti i primi tre secoli la Chiesa non ricevette nulla da uno Stato che finanziava i culti pagani e il culto imperiale, ma comprimeva e talora perseguitava la nuova religione cristiana. L’apporto dello Stato, inseritosi più tardi, ha certo permesso un accrescimento dei mezzi necessari, ma ha talvolta introdotto ambiguità, che hanno condizionato la piena libertà del ministero pastorale o generato forme paradossali di tutela, sfociate in misure di pesante interferenza amministrativa, quando non addirittura nell’eversione del patrimonio ecclesiastico. La partecipazione delle comunità cristiane e dei fedeli a sostegno della Chiesa ha una radice teologica, è questione di coerenza con l’appartenenza ecclesiale, è animata e sostenuta dalla fede e dalla carità. 2 A sua volta l’impegno finanziario dello Stato è giustificato da due grandi motivazioni: • il doveroso apprezzamento della rilevanza etica, culturale e sociale della presenza e dell’azione educativa e caritativa della Chiesa; • in Italia l’impegno costituzionale dello Stato a rimuovere gli ostacoli e a promuovere le condizioni per il pieno esercizio delle libertà fondamentali dei cittadini, tra le quali è indubbiamente la libertà religiosa.2 Il nuovo sistema di sostentamento del clero nasce sulle ceneri del cosiddetto sistema beneficiale-congruale. Un sistema con inconfondibili caratteri feudali di cui troviamo le prime avvisaglie nel sec. VIII e giunto fino a noi con tutte le sue imperfezioni originarie, aggravate, a partire dalla seconda metà del 1700, da interventi eversivi degli Stati sul patrimonio ecclesiastico. Il sistema beneficiale si fondava sul frazionamento del patrimonio ecclesiastico in tante masse di varia consistenza attribuite ai singoli enti ecclesiastici (benefici) e godute dai titolari in cambio del loro servizio pastorale o liturgico (Vescovi, Parroci, Capitolari, Cappellani, ecc.), ma con la totale esclusione di chi non aveva cura d’anime e senza alcuna preoccupazione perequativa tra un beneficio e l’altro. In Italia fu introdotto nella seconda metà del 1800 un elemento correttivo, la congrua, un assegno pagato dallo Stato ai Parroci, che non avessero dal Beneficio redditi sufficienti a raggiungere una determinata misura, “per garantire – si disse – sicurezza economica al basso clero in cura d’anime”. La congrua ebbe la sua origine dal Regno Sardo-Piemontese 3, dal quale si diffuse in tutto il territorio italiano man mano che gli altri Stati venivano annessi al Regno sabaudo, ma si rivelò subito come un ignobile palliativo - ” - nel 1984 il limite di congrua era di 735.000 lire annue (sic!) - per mascherare le gravissime ferite inferte alla comunità ecclesiale, in particolare al clero regolare, al quale si negava ogni utilità sociale. 2 3 Cf. COST., artt. 3, 7, 8, 19, 20. Legge 7 luglio 1866, n. 3096. 3 E’ bene riesumare insieme queste pagine non “illuminate” della storia risorgimentale così esposte oggi a equivoci e polemiche nel travagliato contesto socio-culturale italiano. La leggi eversive si succedettero a ondate: la Compagnia di Gesù era stata soppressa senza tanti riguardi, soppressi furono gli ordini, le congregazioni religiose, le corporazioni e aggregazioni varie e i loro beni incamerati. La stessa sorte subirono le chiese ricettizie del Sud d’Italia, configurate come corporazioni religiose, anche se in gran parte erano chiese parrocchiali affidate al clero secolare. I beni immobili degli enti ecclesiastici non soppressi furono incamerati e convertiti forzosamente in titoli del Debito Pubblico di capitale nominale pari al valore fiscale dei beni, dedotta la tassa di manomorta del 30%. Valori talvolta cospicui, polverizzati in breve spazio di tempo.4 Si è calcolato che circa il 90% degli edifici pubblici siano beni incamerati (caserme, municipi, palazzi del Governo, sedi universitarie, scuole, ospedali). Agli enti morali fu vietato assurdamente di acquistare beni immobili o accettare donazioni o eredità senza previa autorizzazione governativa5. L’iter amministrativo di una pratica di autorizzazione durava spesso più di tre anni, che in una congiuntura di inflazione significava perdita di valore economico e a volte persino risoluzione del contratto per l’abbattimento dell’interesse. La concessione degli assegni supplementari di congrua aggiunse ulteriori motivazioni al penetrante controllo statale in materia di gestione dei benefici congruati o congruabili. 4 Cento anni dopo, fondi rustici ed urbani incamerati e smobilizzati al valore nominale di 100 lire producevano lo stesso reddito di cento anni prima, pari a lire 3,50. 5 Legge 5 giugno 1850, n. 1037, abrogata con legge 15 maggio 1997, n. 127. La limitazione della legge 1037/1850 trovava fondamento in ragioni di ordine pubblico (sic!) e di controllo sul patrimonio degli enti allo scopo di impedire la formazione di una grande “manomorta”, cioè di una proprietà praticamente sempre ferma nelle mani di uno stesso soggetto. Nella discussione parlamentare il Ministro dell’Interno Pinelli non esitava a dichiarare: “Non si deve dare troppa forza ai corpi morali che dipendono da un’autorità che non deriva dallo Stato.” A nulla valse che l’opposizione e l’Arcivescovo di Vercelli, Mons. D’Angennes, Senatore del Regno, si battessero vivacemente sostenendo che l’autorizzazione agli acquisti costituiva uno dei più classici istituti dell’assolutismo tanto avversato dai liberali subalpini; un attentato al principio dell’intangibilità della proprietà privata tanto cara alla nuova borghesia; un prevedibile ostacolo al flusso della carità. Più tardi la stampa laica aggiunse altre motivazioni più eleganti – si fa per dire - quali la funzione tutoria dello Stato nei confronti degli stessi enti e la tutela dei successibili ex lege. 4 Il sistema rimase sostanzialmente immutato anche dopo la firma del Concordato lateranense. Vani furono i tentativi di riordinamento della proprietà ecclesiastica esperiti nella fase successiva fra difficoltà ideologiche e politiche insuperabili. Le esigenze di un cambiamento del sistema beneficiale ebbero la più autorevole difesa nel Concilio Ecumenico Vaticano II e nel Codice di Diritto Canonico, entrato in vigore nel 1983. Il Concilio si è ispirato ai grandi valori della comunione presbiterale fondata sacramentalmente, della solidarietà, della perequazione, della libertà di amministrazione dei beni come condizione per la credibilità della missione evangelizzatrice della Chiesa in una società pluralistica e secolarizzata come la nostra. E’ opportuno forse ricordarci che il nuovo sistema di sostentamento del clero fu voluto liberamente dalla Chiesa, non imposto dallo Stato, ma non avrebbe potuto attuarsi senza il coinvolgimento dello Stato. Il Concilio affermò senza mezzi termini che il sistema beneficiale doveva essere abbandonato o almeno riformato a fondo, che tutti i presbiteri a servizio del popolo di Dio, non soltanto quelli in cura d’anime propriamente detti, avrebbero dovuto essere equamente retribuiti, con una remunerazione essenzialmente uguale per tutti a parità di condizioni. Perciò la nozione di ufficio ecclesiastico dotato del diritto al reddito venne estesa a qualsiasi incarico conferito in modo stabile per un fine spirituale e ai Vescovi venne proposta, come opzione fra tutte preferibile, quella di riunirsi in gruppi interessati a uno stesso territorio e di emanare le norme necessarie per garantire a tutti i presbiteri che svolgono un servizio a favore del Vangelo una vita onesta e dignitosa, non escluse adeguate forme di previdenza e assistenza per il clero anziano, malato e inabile. Al di sopra di tutto, l’auspicio che le diocesi più dotate contribuiscano, per quanto possibile, a bilanciare con la propria abbondanza il bisogno delle diocesi più povere6. 6 Decreto PRESBYTERORUM ORDINIS, 20-21. ”Se non si provvede in un altro modo a retribuire equamente i presbiteri, sono i fedeli stessi che vi devono pensare, dato che è per il loro bene che essi lavorano; i fedeli, cioè, sono da vero obbligo tenuti a procurare che non manchino ai presbiteri i mezzi per condurre una vita onesta e dignitosa. 5 Il nuovo Codice di Diritto Canonico diede precisa attuazione a queste rivoluzionarie innovazioni con i cc. 281, § 17, 12728 e 1274,§ 19. Esso ribadì, in particolare, il diritto di tutti i presbiteri, in quanto si dedicano al ministero ecclesiastico, ad una remunerazione adeguata alla loro condizione, e la necessità della riforma del sistema beneficiale mediante la creazione di speciali istituti regolati dalla Conferenza Episcopale nei quali conferire e concentrare a poco a poco tutti i patrimoni beneficiali. 2. – IL PROCESSO NORMATIVO. LE FONTI GIURIDICHE E FINANZIARIE, LA STRUTTURA ORGANIZZATIVA DEL NUOVO SISTEMA I fermenti e le istanze presenti nella comunità ecclesiale e nella società civile in merito ai rapporti Stato-Chiesa, i principi costituzionali e l’evoluzione stessa della legge italiana e della giurisprudenza hanno senza dubbio agevolato l’incontro consensuale delle due Alte Parti per la revisione del Concordato Lateranense. E il 18 febbraio 1984 tra la Repubblica Italiana e la Santa Spetta ai vescovi provvedere - ognuno per la propria diocesi, o meglio ancora riunendosi in gruppi interessati a uno stesso territorio – all’istituzione di norme che garantiscano un mantenimento dignitoso per quanti svolgono o hanno svolto una funzione al servizio del popolo di Dio. Tale retribuzione sia essenzialmente la stessa per tutti coloro che si trovano nelle stesse condizioni, e che soddisfi veramente i loro bisogni ed esigenze: il che significa che deve anche consentire ai presbiteri di retribuire debitamente il personale che presta servizio presso di loro e di soccorrere personalmente in qualche modo i bisognosi. Nello stabilire la quantità della retribuzione per i presbiteri, occorre pensare che essa deve consentire anche un tempo sufficiente di ferie ogni anno. Comunque, il rilievo maggiore va dato all’ufficio che svolgono i sacri ministri, Per questo, il sistema noto sotto il nome di sistema beneficiale deve essere abbandonato, o almeno riformato a fondo, in modo che la parte beneficiale – ossia, il diritto al reddito di cui è dotato l’ufficio ecclesiastico – sia trattata come cosa secondaria, e venga messo in primo piano, invece, l’ufficio ecclesiastico stesso. D’ora in avanti, inoltre, per ufficio ecclesiastico si deve intendere qualsiasi incarico conferito in modo stabile per un fine spirituale. Le diocesi più dotate potranno venire incontro a quelle più povere, in modo da bilanciare con la propria abbondanza la loro scarsezza.” 7 “Ai chierici, in quanto si dedicano al ministero ecclesiastico, spetta una remunerazione adeguata alla loro condizione, tenendo presente sia la natura dell’ufficio, sia le circostanze di luogo e di tempo, perché con essa possano provvedere alle necessità della propria vita e alla giusta retribuzione di chi è al loro servizio”. (can. 281, § 1) 8 “Nelle regioni dove ancora esistono benefici propriamente detti, spetta alla Conferenza Episcopale regolarne il governo con norme opportune concordate con la Sede Apostolica e dalla medesima approvate, così che i redditi e anzi per quanto è possibile la stessa dote dei benefici siano poco a poco trasferiti all’Istituto di cui al canone 1274, § 1”. (can. 1271) 9 “Nelle singole diocesi ci sia un istituto speciale che raccolga i bene o le offerte, al preciso scopo che si provveda al sostentamento dei chierici che prestano servizio a favore della diocesi, a norma del canone 281, a meno che non si sia provveduto ai medesimi diversamente”.(1274, § 1) 6 Sede veniva sottoscritto il nuovo Accordo concordatario da cui deriva la definitiva soppressione del sistema beneficiale-congruale e l’attuale sistema di sostentamento del clero. La traduzione in norma legislativa dei principi concordatari fu rapidissima. Con l’Accordo di revisione del Concordato lateranense, venne istituita, ai sensi dell’art. 7, n. 6, una Commissione paritetica italo-vaticana con il compito di predisporre le norme “per la disciplina di tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano e degli interventi del medesimo nella gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici”. Le norme predisposte dalla Commissione paritetica, approvate dalla Repubblica Italiana e dalla Santa Sede con protocollo firmato il 15 novembre 1984, ratificato nell’ordinamento italiano con la legge 20 maggio 1985, n. 206, sono confluite nella legge 20 maggio 1985, n. 222 promulgata contemporaneamente il 3 giugno 1985 nell’ordinamento civile italiano e nell’ordinamento canonico. Sulla base delle disposizioni della legge di derivazione concordataria spetta alla Conferenza Episcopale Italiana integrare e regolamentare tutta la materia. In estrema sintesi, possiamo dire che le fonti giuridiche di riferimento del nuovo sistema si riducono a due soltanto: • la legge n. 222/1985; • le disposizioni attuative e integrative della Conferenza Episcopale Italiana, ferme restando le norme del Codice di Diritto Canonico e del diritto particolare: La struttura organizzativa del nuovo sistema è così articolata: • Istituti per il Sostentamento del Clero a livello diocesano e interdiocesano; • Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero a livello nazionale; • Conferenza Episcopale Italiana, che ha il potere di emanare, nell’ordinamento canonico, le disposizioni necessarie per l’attuazione delle norme, compresi gli statuti degli IDSC e dell’I.C.S.C. 7 Sotto il profilo finanziario, la remunerazione del clero è alimentata da tre fonti: • i redditi prodotti dai patrimoni degli Istituti diocesani; • le liberalità dei fedeli agevolate a fini fiscali dallo Stato; • la quota dell’8 per mille dell’IRPEF destinata dalla C.E.I. al clero, da prelevarsi dalla somma destinata alla Chiesa cattolica dai contribuenti. Le due prime fonti di finanziamento (redditi prodotti dai patrimoni degli Istituti ed erogazioni liberali) sono interamente destinate al Clero; la quota dell’8 per mille dell’IRPEF è ripartita in misura determinata dalla C.E.I. fra le “esigenze di culto della popolazione, il sostentamento del clero e gli interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo”10. In esecuzione di quanto disposto dalla legge n. 222, attraverso una serie di provvedimenti dei Vescovi diocesani, riconosciuti civilmente, furono eretti, presso ciascuna diocesi, i nuovi Istituti per il Sostentamento del Clero e, contestualmente, estinti tutti gli enti beneficiali esistenti (mensa vescovile, beneficio parrocchiale, beneficio capitolare, prebenda parrocchiale, ecc.). I patrimoni di questi ultimi costituitisi nel tempo, furono trasferiti, di diritto ai nuovi Istituti qualificati enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. 3. – LE FINALITA’ DEGLI ISTITUTI PER IL SOSTENTAMENTO DEL CLERO Illustrate così le linee essenziali del quadro normativo, ritengo di dedicare qualche considerazione su alcuni punti-chiave della vita degli Istituti che in passato hanno assunto risvolti di criticità non sempre sereni. Considerazioni che dovrebbero già essere note, perché furono trattate in un paio di mie relazioni all’Assemblea generale della C.E.I. diffuse a tutti gli Istituti periferici per il sostentamento del clero. Il primo punto riguarda le finalità dell’Istituto diocesano. 10 Cfr. Legge 20 maggio 1985, n. 222, art. 48. 8 Si è più volte ripetuto che l’Istituto ha lo scopo esclusivo di produrre un reddito per il sostentamento del clero. In modo talmente impegnativo che lo stesso Consiglio di Stato non esitò ad affermare l’invalidità canonica, e conseguentemente la nullità agli effetti civili, degli atti di trasferimento di proprietà a titolo gratuito di beni confluiti ex art. 29 legge 222/1985 nel patrimonio degli Istituti per il sostentamento del clero.11 Nella prossima relazione il Dr. Testa illustrerà la portata di questa pronuncia del Consiglio di Stato. Nei patrimoni beneficiali erano notoriamente confluiti nel tempo beni destinati ad una vastissima pluralità di fini, che abbracciavano tutto l’arco dei fini della Chiesa (manutenzione dell’edificio chiesa, opere pastorali e caritative, ecc.), non soltanto il sostentamento del sacerdote titolare dell’ufficio ecclesiastico. Il legislatore concordatario volle fare chiarezza e creò due soli centri di imputazione dei beni ecclesiastici: da una parte quelli destinati al sostentamento del clero concentrati negli Istituti a tale scopo eretti, dall’altra i beni destinati a tutte le altre finalità ecclesiali. Ai Vescovi fu attribuita la potestà – fatte accurate ricerche, se necessario, per individuare le volontà originarie - di stralciare dai patrimoni trasferiti agli Istituti e di assegnare agli aventi diritto, con un semplice provvedimento amministrativo, le rispettive quote patrimoniali destinate a fini diversi dal sostentamento del clero12, con riferimento alla situazione risultante alla data del 3 giugno 1985, sulla base di criteri tassativamente determinati dalla C.E.I.13 . La selezione così effettuata, purtroppo, non si fermò dopo la prima fase di applicazione della norma: mutando le situazioni locali, non pochi Vescovi si ritennero legittimati a nuovi provvedimenti di stralcio, variamente motivati, anche non sussistendo cause legittime giustificative. Per fermare lo stillicidio continuo di questo ingiusto depauperamento dei patrimoni ex beneficiali, fu necessario ricorrere ad un’Intesa tra la Santa Sede e la Repubblica Italiana, raggiunta 11 Cons. St., 17 ottobre 1990, n. 1274/90. Legge 20 maggio 1985, n. 222, art. 29, quarto comma. 13 Cf. allegato alla delibera C.E.I. n. 50. 12 9 con uno scambio di Note diplomatiche in data 13 novembre – 14 dicembre 2000: a seguito e per gli effetti di tale Intesa, dal 14 dicembre 2000 i Vescovi non hanno più titolo per esercitare la potestà di cui al citato art. 29, quarto comma. Ancor più rigida fu l’Agenzia del Territorio, che si affrettò a comunicare alle Agenzie locali che, a decorrere dal 14 dicembre 2000, non potevano più essere accolte eventuali domande di trascrizione dei decreti vescovili di ritrasferimento, anche se adottati in data anteriore al 14 dicembre 2000. I beni residuali rimasti agli Istituti devono, pertanto, considerarsi definitivamente congelati nel patrimonio degli Istituti e dovranno essere utilizzati esclusivamente per la produzione di reddito da destinare al dignitoso sostentamento del clero, nelle forme e con le modalità stabilite dalla C.E.I.. “I patrimoni degli IDSC......in linea di principio - afferma il Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici14 - non possono essere alienati a titolo gratuito o agevolato, o comunque rimessi nella disponibilità di altri enti ecclesiastici per conseguire un asserito “vantaggio pastorale”, che di fatto ne riduce o di fatto ne annulla la redditività......E’ altresì da escludersi l’acquisizione, anche mediante l’accettazione di donazioni disposte da altri enti ecclesiastici, di fabbricati non redditizi o gravati da oneri modali che li rendono di fatto improduttivi.” Il motivo di questa rigida scelta pattizia va ricercato nell’interesse, prevalente sugli altri fini dei beni ecclesiastici, che lo Stato attribuisce al sostentamento del clero, di cui lo Stato si faceva carico nel previgente regime congruale da cui deriva, pur avendolo innovato e sviluppato; interesse che non è per nulla diminuito nell’attuale sistema. Già sottoposti alla tutela dello Stato, i beni ex beneficiali ne sono stati affrancati e affidati alla libera gestione della Chiesa nel presupposto che essa avrebbe rispettato i fini perseguiti dallo Stato, in particolare il fine del sostentamento del Clero. Con la loro redditività annuale i beni ex 14 Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici, Circolare n. 35 del 27 giugno 2007. 10 beneficiali concorrono ad alimentare i flussi di un sistema bilanciato tra fonti ecclesiali e interventi agevolativi dello Stato, in qualche modo sottoposto a periodica verifica paritetica.15 L’amministrazione dei patrimoni affidati agli Istituti deve, dunque, rispondere a criteri di grande chiarezza e sicurezza: essi non sono paragonabili a quelli degli altri enti ecclesiastici, ma rappresentano un patrimonio complessivo “sui generis”, che va trattato con grande cautela e con la dovuta attenzione alle esigenze della lealtà concordataria. 4. AUTONOMIA DEGLI ISTITUTI DIOCESANI E POTERI DELL’ISTITUTO CENTRALE Un secondo punto riguarda l’autonomia degli IDSC e i poteri dell’ICSC. Per garantire al sistema uno sviluppo in perfetta coerenza con i principi che lo hanno ispirato e nel pieno rispetto della disciplina, canonica e civile, che lo regola, la citata legge n. 222/1985 fa obbligo “a ogni Istituto…, prima dell’inizio di ciascun esercizio, di comunicare all’Istituto Centrale il proprio stato di previsione 16 …e alla chiusura di ciascun esercizio di inviare all’Istituto Centrale una relazione consuntiva nella quale devono essere indicati i criteri e le modalità di corresponsione ai singoli sacerdoti delle somme ricevute”17 In linea con il dettato legislativo, l’art 12 della delibera C.E.I. n. 5818 attribuisce alla Presidenza della C.E.I. la competenza a decidere gli interventi necessari, qualora risultasse che in una diocesi le disposizioni vigenti in materia di sostentamento del clero non fossero state applicate correttamente. Alla Presidenza della C.E.I. parve naturale affidare all’Istituto Centrale il compito di “verificare la correttezza delle linee gestionali degli Istituti diocesani”.19 15 Cf. legge 22 maggio 1985, n. 222, art. 49. l. c., artt 42; Cf. Statuto dell’Istituto Centrale, art. 3, lett. c); Statuto degli Istituti diocesani, art. 16. 17 l. c., art 43. 18 T.U. delle disposizioni di attuazione delle Norme relative al sostentamento del clero che svolge servizio in favore delle diocesi. 19 Cf. Decreto del Card. Presidente della C.E.I. del 1 dicembre 1994, prot. N. 825/94. 16 11 Si potrà obiettare che il dispositivo di cui al citato art. 12 della delibera n. 58 della C.E.I. è estensivo in rapporto agli artt. 14 e 15 della legge n. 222/1985. Ma ciò non fa problema. La C.E.I. ne ha tutta la competenza come garante della volontà del legislatore concordatario. La necessità del controllo di un organo superiore in materia patrimoniale deriva dalla natura pubblica dei beni ecclesiastici, appartenendo il patrimonio ecclesiastico, in ultima analisi, alla comunità ecclesiale. Ma soprattutto non possiamo ignorare i profili teologici della questione. La potestà dei Vescovi, pur avendo natura giuridica come potestas omnia moderandi, non deriva dal popolo, ma da Cristo, si fonda sulla sacramentalità dell’episcopato, ha natura pastorale, in quanto servizio per il bene del popolo di Dio. La vigilanza esercitata dall’autorità ecclesiastica è intervento su beni di cui essa è responsabile, non può essere concepita come violazione dell’autonomia degli enti, favorisce la solidarietà, la razionalizzazione, la documentazione, la trasparenza nell’amministrazione. La ratio del provvedimento della Presidenza è espressa in termini non equivoci in una delle premesse della Delibera C.E.I. n. 55, che afferma esplicitamente la “necessità, in un sistema unitario come quello (del sostentamento del clero)…, di un controllo… sull’operato degli istituti periferici per evitare l’applicazione di criteri amministrativi che si sottraggano alla logica di solidarietà perequativa tra Istituti e alle esigenze di un corretto ed equo funzionamento”. Alla luce di queste disposizioni il Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici – e di riflesso l’Istituto Centrale – non ha mai ritenuto giuridicamente sostenibile un’interpretazione che attribuisca al medesimo Istituto Centrale – come affermato da taluni Istituti – soltanto il compito di verificare il corretto funzionamento del sistema mediante un monitoraggio puramente formale, diretto semplicemente ad accertare che le voci attive e passive dei bilanci siano corrispondenti agli schemi predisposti dalla C.E.I. e contabilmente esatte. A ulteriore conferma di questa chiara volontà del legislatore, la Presidenza della C.E.I., nella seduta del 19 giugno 2007, preso atto con rammarico del ripetersi, da parte di taluni Istituti, di atti non coerenti con le loro finalità istituzionali, ritenne necessarie ulteriori indicazioni in merito 12 all’autonomia degli Istituti periferici. Scegliendo una posizione piuttosto soffice, la Presidenza della C.E.I. si limitò a prendere in considerazione soltanto l’area che presentava aspetti più critici e diede mandato al Comitato per gli enti e i beni ecclesiastici di impartire all’Istituto Centrale e agli Istituti diocesani idonee direttive per regolare i rapporti contrattuali tra gli IDSC e gli altri enti ecclesiastici, l’area, appunto, dove si manifestava la maggiore fragilità dell’attività gestionale degli Istituti. Il Comitato ha quindi formulato disposizioni che attribuiscono agli IDSC l’obbligo di sottoporre al parere previo dell’Istituto Centrale taluni atti patrimoniali di straordinaria amministrazione, tassativamente elencati nella circolare n. 35 del 27 giugno 2007. Faccio notare che nel concetto di “parere previo” è presente più il senso di serena collaborazione, di accompagnamento, di offerta della propria professionalità per il bene comune che non quello di controllo. Ciò non significa che gli atti non tenuti a tale procedura possano essere legittimamente compiuti per fini diversi dal sostentamento del clero. La libertà degli atti di minore rilevanza è un atto di fiducia della Presidenza della C.E.I. verso i Consigli di Amministrazione degli Istituti; fiducia che si spera sia meritata. La decisione della Presidenza della C.E.I., che ha condotto all’emanazione della predetta circolare, nacque dal verificarsi di alcuni dolorosi episodi che avevano oscurato l’immagine della comunità ecclesiale, coinvolgendo la responsabilità dell’autorità ecclesiastica, oltre a provocare un ingiustificato depauperamento patrimoniale e/o reddituale degli Istituti. E fu ulteriormente avvalorata dalla corrispondenza seguita con Vescovi e con Istituti e da alcuni articoli della stampa laicista e dei media di matrice cattolica particolarmente graffianti. Parlando all’Abbazia di Praglia agli Amministratori degli Istituti del Triveneto, lessi ciò che scriveva su SETTIMANA, quindici giorni prima, Mons. Nervo, riferendosi a materia diversa, in un trafiletto perfettamente applicabile per analogia al caso di cui stiamo trattando: “Questi episodi – per fortuna non frequenti – obbligano a porci una domanda: la Chiesa vigila sufficientemente? Chi, come Chiesa, aveva il compito di vigilare?In senso generale – rispondeva l’articolista – il compito 13 di vigilare e controllare su quello che avviene nella Chiesa locale e a nome della Chiesa è certamente il Vescovo. Ma quali strumenti ha per farlo?” Si convincano i miei Confratelli: lo dico con molta umiltà. Il compito dell’Istituto Centrale si colloca nel quadro istituzionale, senza interferenze né sopraordinazioni gerarchiche nei confronti degli Istituti diocesani e si coniuga in piena conformità con i grandi principi dell’ecclesiologia della Lumen gentium, che costituiscono il vero fondamento teologico di tutto il diritto amministrativo canonico. Questo indubbiamente il quadro di fondo che domina sopra tutte le nostre riflessioni. Dire questo non è rivendicare un potere, caso mai è rivendicare spazio perché sia possibile un servizio coerente con il disegno del legislatore, con i fini e con lo stile della Chiesa. Ma subito dopo va posta la considerazione che le finalità e i compiti degli Istituti diocesani, i limiti della loro autonomia e i poteri dell’Istituto Centrale sono stabiliti consensualmente dalla Chiesa e dallo Stato. Anche da questa consensualità deriva l’alto vigore obbligante della legge. Interpretazioni non corrispondenti al dettato della legislazione di riferimento rischiano di apparire scorrette o devianti, anche quando i fini sono apprezzabili dal punto di vista ecclesiale. Il controllo dell’autorità esige talvolta spirito di fede e di subordinazione e, in questo clima, è sempre spiritualmente fecondo e genera equilibrio e serenità interiore anche davanti agli ostacoli più ardui; è un dono, non un giogo; è collaborazione fraterna; è ricerca collettiva di un bene maggiore e comune, nella consapevolezza che la varietà degli apporti è sempre ricchezza. 14