L’origine delle gemme, un valore aggiunto
(di Paolo Minieri e Alberto Scarani)
Indicare la provenienza per gli antichi era una forma di marchio DOC ante litteram. Quando
Plinio ci fornì la prima trattazione sistematica delle pietre preziose, queste erano sottoposte ad
indagini con metodi poco sofisticati ed empirici. Ecco che gli attributi riferibili alle gemme erano
proprio le regioni di provenienza che attestavano insieme la genuinità ed il valore del materiale. E
così’ in epoca a noi più vicina il grande scienziato islamico Ahmad Ibn Iusuf At-Tifasci sette secoli
fa celebrava gli impervi corsi d’acqua del Sarandib, nome arabo dell’attuale Sri-Lanka, perché
contenevano i più rari diamanti e zaffiri di bellezza, per l’appunto, garantita dall’origine. Da allora
fino ai nostri giorni il nome delle singole miniere d’estrazione s’è mostrato una sorta di marchio di
qualità, una precoce forma, elementare ma efficace, di brand.
Al contrario la provenienza geografica non è stata considerata nella moderna gemmologia un
elemento decisivo per la diagnosi, dovendosi render conto essenzialmente della determinazione
della natura della pietra, se questa sia un genuino prodotto del sottosuolo, se abbia subito trattamenti
o se sia invece un manufatto confezionato interamente in laboratorio. Tuttavia in tempi più recenti
gli studiosi hanno orientato il timone della ricerca verso l’individuazione delle aree minerarie di
origine. Ciò è avvenuto soprattutto per l’impulso decisivo di uno dei padri dello studio delle
inclusioni, E. Gubelin.
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Figura 1. Gubelin, pioniere a Mogok
La sua è stata una straordinaria indagine di quelle tracce che nelle pietre di colore potessero
aiutarne l’identificazione. Il suo metodo, iniziato a metà del secolo scorso, si è basato sulla
meticolosa raccolta di migliaia di campioni, prelevati con più riscontri ed accertamenti, dai luoghi
d’estrazione. Questo repertorio ha consentito di tracciare in modo documentato quelle inclusioni e
quei fenomeni che caratterizzano le gemme provenienti da una determinata area geografica. Le
ricerche di Gubelin hanno rafforzato il prestigio dei certificati emessi dal proprio laboratorio e non è
un caso se ancora oggi siano tra i preferiti dalle più prestigiose case d’asta internazionali assieme a
quelli rilasciati dal GIA o SSEF, solo per nominarne alcuni.
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Figura 2. E. Gubelin, eterno viaggiatore, ha continuamente
fatto ritorno nelle località d’estrazione.
Più di recente si stanno evidenziando sviluppi interessanti che riaffermano l’importanza della
determinazione della provenienza ai fini della valutazione delle pietre preziose. I nostri lontani
predecessori non erano dunque fuori strada quando associavano qualità ad origine, anche se i loro
resoconti non potevano che essere permeati di leggende e superstizioni.
Dal lavoro di E. Gubelin in poi l’origine geografica è ricollegata dunque al valore delle
pietre di colore. E’ parere comune, per l’inevitabile consolidarsi dell’opinione dei più, che, ad
esempio in generale gli smeraldi colombiani di Chivor e Muzo siano più attraenti di quelli brasiliani
o che gli zaffiri provenienti dal Kashmir siano sempre i più pregiati. Queste antiche e stratificate
graduatorie stilate per origine geografica sono comunque da considerarsi approssimative perché è
opportuno tener conto che le gemme veramente notevoli sono una piccola percentuale della copiosa
quantità estratta e tagliata: la qualità non è pertanto sempre mera conseguenza dell’origine. Sul
mercato di Bangkok, ad esempio, da anni le quotazioni dello zaffiro del Madagascar gareggiano con
quelle del celebre Ceylon. Ma quest’ultimo continua ad essere percepito come un simbolo
d’eccellenza.
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Figura 3. La Gonwana o Paleopangea , un supercontinente scomparso nel Mesozoico presentava
l’attuale Sri-Lanka confinante col Madagascar. Evidente dunque la parentela genetica dei rispettivi corindoni.
Esempi analoghi possono riguardare i rubini africani di Winza rapportati ai birmani di Mogok. In
un caso la provenienza geografica ha finito per indicare l’intera varietà, un esempio su tutti: le
tormaline elbaiti africane, nella varietà verde-azzurra contenenti un alto tasso di rame sono
lecitamente designate come Paraiba, col nome cioè dello stato brasiliano che le ha rese famose. Si
devono dunque prima verificare le doti intrinseche della gemma. Se a queste poi il gemmologo
riesce ad associare l’esatta provenienza si avrà forse del valore aggiunto.
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Figura 4. La località di origine per il tutto. La Paraiba per convenzione designa una tormalina elbaite dal caratteristico colore
azzurro-verde. E’ ininfluente sulla denominazione il fatto che provenga da località diverse dallo stato specifico del Brasile che le ha
conferito il nome.
Ma come si procede, in pratica, nell’identificazione dell’area geografica di origine?
La base imprescindibile del protocollo consiste nel disporre di un campionario di gemme di
provenienza certa il più rappresentativo e completo possibile. Può sembrare banale ma,
probabilmente questo è uno degli aspetti più critici per una serie di motivi. Il primo è senz’altro la
difficoltà oggettiva nel raggiungere i depositi di estrazione, tradizionalmente situati in zone poco
accessibili e in regioni che presentano spesso problematiche anche di tipo politico. Giunti in
prossimità della miniera si corre poi il rischio concreto di vedersi rifilare materiale sintetico, molto
spesso preformato ad arte per simulare grezzi naturali. A tal proposito vale la pena di ricordare
quella che tra gli addetti ai lavori è nota come legge di Hughes (da Richard W. Hughes, celebre
gemmologo esperto di ricerche sul campo): più si è vicini alla miniera, più è facile che vi vengano
offerte pietre sintetiche. La collezione dei campioni di riferimento deve a questo punto essere
sottoposta a tutti i test possibili per la costruzione di un database di caratteristiche peculiari. I
cristalli vengono fotografati, misurati, analizzati seguendo i protocolli gemmologici standard. Di
importanza fondamentale l’analisi microscopica delle caratteristiche interne e l’identificazione delle
inclusioni cristalline mediante spettrometria RAMAN.
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Figura 5. Spettro di campione rivelatosi granato Malaya. Lo spettrometro Gemmoraman individua i picchi estremamante significativi
degli elementi in traccia, dando un validissimo contributo all’individuazione dell’origine geografica.
Da ultimo lo studio degli spettri caratteristici in tutte le condizioni possibili, dall’ultravioletto
all’infrarosso passando ovviamente per il visibile e i test più avanzati (spettrometria di massa
accoppiata induttivamente al plasma, ad ablazione laser, LA-ICP-MS) per la rilevazione degli
elementi in traccia. I dati così raccolti costituiscono una serie di profili con cui confrontare le
gemme che verranno poi di volta in volta sottoposte a verifica. Effettivamente al giorno d’oggi la
battaglia si combatte con l’utilizzo di strumentazioni avanzatissime che sino a pochi anni fa erano
quasi del tutto assenti in un laboratorio gemmologico e il cui utilizzo non è quasi mai alla portata
del gemmologo medio. Sembrano definitivamente tramontati i tempi in cui ci si poteva azzardare a
dividere in un lotto rubini tailandesi e birmani in base a come questi si accendevano sotto una
lampada UV. Anche lo studio delle inclusioni caratteristiche al microscopio sembra veder franare
molte storiche certezze, basti pensare alla prova principe che tutti i gemmologi cercavano con ansia
in uno smeraldo per poterne attribuire senz’alcun ombra di dubbio la provenienza colombiana: la
presenza di inclusioni trifasi (foto 1). Oggi sappiamo che tale caratteristica è anche appannaggio
degli smeraldi di provenienza cinese (miniera di Davdar, foto 2) e Afgana (Pajnshir, foto 3) Alla
luce di quanto detto si può capire quanto difficile sia il compito che i laboratori devono affrontare.
Tutto qui? No, non si tratta di dare solo del valore materiale. Bisogna fare i conti anche con il
valore della responsabilità sociale. L’identificazione dell’origine geografica può essere uno
strumento straordinario per isolare quei paesi che foraggiano conflitti locali, abusi dei diritti umani,
atti di terrorismo, sfruttamento indiscriminato delle risorse delle comunità locali per mezzo del
commercio di alcune risorse naturali. L’opinione pubblica mondiale, sopratutto nell’ultimo
decennio, ha fatto una crescente pressione affinché i temi etici trovino l’attenzione degli addetti ai
lavori. Nel 2002 prende il via il processo di Kimberley, un accordo non vincolante tra molti paesi
intenzionati a frenare gli illeciti collegati al commercio di diamanti grezzi. Questo dispositivo si
regge su elaborate procedure giuridiche ma i presupposti tecnici che ne assicurano l’efficacia si
riferiscono al metodo di classificazione dei diamanti grezzi messo a punto nel 1975 per De Beers
dal dottor Jeff Harris. Il protocollo si basa sostanzialmente sulla classificazione dei caratteri
morfologici dei cristalli, dando luogo di una carta d’identità (footprint) che consente di ricondurre il
materiale ad un preciso giacimento diamantifero. Una limitazione non da poco: il sistema trova
applicazione solo per lotti di diamanti grezzi. Del tutto diverso è il problema se si volesse tentare
l’identificazione dell’origine di un diamante singolo e per di più già tagliato. In questo caso la
scienza stessa naviga ancora in alto mare nonostante da anni si stiano facendo sforzi enormi per
poter venire a capo della questione.
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