Protesi d’anca
Scopo di una articolazione
artificiale è realizzare un sistema
che, in accordo con la cinematica
fisiologica, consenta di
sopportare i carichi e di
minimizzare l’usura e l’attrito,
garantendo la necessaria stabilità
ed evitando l’insorgere di reazioni
dannose nell’organismo.
L’articolazione dell’anca è costituita
dalla testa femorale che si articola
nell’acetabolo.
Permette all’arto inferiore movimenti
ampi nello spazio essendo uno snodo
praticamente sferico con tre gradi di
libertà
I movimenti elementari possibili sono:
• flesso-estensione sul piano sagittale;
• abduzione e adduzione sul piano frontale;
• rotazione interna e rotazione esterna intorno
all’asse meccanico dell’arto inferiore.
Cinematica articolare
Il bacino e le articolazioni sono
collocate al centro della catena
cinematica del corpo. Una alterazione
nell’anca si risente biomeccanicamente
sia nella parte superiore che in quella
inferiore dello scheletro.
Movimenti nel piano sagittale:
flessione 0° - 140°
estensione 0° - 15°
Movimenti nel piano frontale e
trasversale:
abduzione 0° - 30°
adduzione 0° - 25°
rotazione esterna 0° - 90°
rotazione interna 0°70°
Sollecitazioni sull’articolazione
I carichi agenti sull’anca variano al
variare del peso corporeo, della
posizione del corpo e delle forze
esterne applicate
Quando l’individuo è in
posizione eretta, il
peso corporeo viene
trasmesso dalla
vertebra lombare L5
alla base sacrale, alle
articolazioni
sacroiliache, all’ileo e
all’ischio, ai femori,
poi alle tibie e ai piedi
CG = centro di gravità
a = angolo tra la retta d’azione dei muscoli
abduttori e la verticale
P’ = peso corporeo escluso un arto inferiore
M’ = forza muscolare
R’ = risultante articolare
R’v e R’o = componenti verticale e orizzontale
della risultante articolare
AO = braccio del momento esercitato da M’
intorno al centro dell’articolazione
OC = braccio del momento esercitato da P’
intorno al centro dell'articolazione
per l’equilibrio delle
forze si ha:
OC
M ' = P'
AO
 OC


R 'v = − P '− M ' cos α = − P ' 1 +
cos α 
AO


OC
R 'o = −M ' sinα = − P '
sinα
AO
R ' = R 'v2 + R '2o
R' = P' 1 +
OC
AO
2
2
+2
OC
cos α
AO
Il braccio AO è più piccolo
di quello del peso corporeo
OC. La forza combinata
dei muscoli abduttori sarà
quindi un multiplo del peso
corporeo. La risultante
delle forze articolari R’ è
orientata di circa 16° sul
piano frontale rispetto
all’asse verticale.
Charnley lo verificò anche
su cotili in teflon espiantati
L’effetto combinato del peso corporeo
e forze muscolari fa sì che la testa
femorale sia soggetta a una forza pari
a circa 4 volte il peso corporeo nella
fase di appoggio unipodale nella
deambulazione lenta
Nella locomozione normale l’anca è
soggetta ad ampie oscillazioni del
carico in compressione a seconda che
l’appoggio sia uni- o bipodale.
I fattori che influenzano l’entità e la
direzione delle forze di compressione
agenti sulla testa femorale sono la
posizione del centro di gravità e il
braccio di leva dei muscoli abduttori
(che è funzione degli angoli di inclinazione tra
asse del collo e quelli diafisari).
Una riduzione del braccio di leva dei
muscoli abduttori (coxa valga) fa sì che
vi sia un aumento dell’attività muscolare
e quindi della forza risultante
articolare.
La forma del femore e l’orientamento
delle trabecole nella metafisi ed epifisi
indicano che il carico più importante
sulla testa femorale agisce sul piano
frontale.
Quando si salgono le scale o ci si alza
dalla posizione seduta, le forze relative
al peso corporeo agiscono sulla
superficie anteriore della testa
femorale.
Il femore è
impossibilitato a
ruotare a causa
dell’azione dei
condili femorali che
si articolano con il
piatto tibiale.
Queste forze
producono una
deformazione di
torsione sul femore
prossimale
Requisiti di una protesi
Requisiti meccanici:
• resistenza meccanica adeguata alle
sollecitazioni applicate
• evitare concentrazione di tensioni
• ancoraggio stabile dei componenti protesici
• minimizzazione delle forze di attrito che
provocano sollecitazioni tangenziali
all’interfaccia
• minimizzazione dell’usura dei componenti
Requisiti biologici:
•
•
•
•
massima biotollerabilità dei materiali
biotollerabilità dei detriti di usura
restituzione della motilità
mantenimento della stabilità
Requisiti chirurgici:
• facilità di inserzione e di posizionamento dei
componenti
• minimizzazione del trauma operatorio
• possibilità di eseguire un reintervento
Cenni storici
• Primi tentativi all’inizio del 1900
• Smith-Petersen (1936) realizza la
prima cupola in materiale non
biologico (vetro, celluloide, bakelite,
metallo) Inizio delle ricerche sull’ancoraggio
• I fratelli Judet (1950) realizzarono
la prima protesi ad ancoraggio
cervicale in PMMA, e poi in Vitallium
(Co-Cr-Mo)
• Thompson (1954) e Moore (1957)
realizzano le prime protesi ad
ancoraggio diafisario in Vitallium
• Charnley (1960) introduce il cemento
acrilico
• Charnley (1970) introduce il concetto
di low friction arthroplasty (PMMA,
polietilene)
• Lord (1978) introduce il rivestimento
madreporico
Descrizione della
protesi
Considerazioni progettuali
Nel caso di sostituzione protesica, i carichi
vengono trasmessi dalla protesi all’osso e
generano in quest’ultimo una distribuzione di
tensioni nettamente diversa da quella
fisiologica e che dipende anche dalla
configurazione geometrica della protesi, dalle
caratteristiche meccaniche dei materiali e dal
sistema dei vincoli.
La vita di una protesi d’anca dipende
dall’andamento del processo di interazione fra
due entità profondamente diverse: l’anca, che
costituisce un ambiente biomeccanicamente
complesso, in costante evoluzione, e la protesi,
la cui struttura meccanica è notevolmente
sollecitata dall’ambiente, chimicamente
aggressivo, e dall’entità dei carichi.
La distribuzione delle sollecitazioni che una
particolare protesi realizza nell’osso nel
periodo iniziale di vita dell’impianto e che
usualmente è assunta come indice del grado di
stabilità di quest’ultimo (stabilità primaria),
viene profondamente modificata a causa del
rimaneggiamento osseo e delle variazioni
dell’assetto biomeccanico generale (stabilità
secondaria)
L’integrazione totale è al momento una
meta irraggiungibile non solo per la
diversa caratterizzazione meccanica
degli elementi costituenti l’impianto, ma
per l’evidente impossibilità della protesi
di modificarsi in sintonia con quanto
accade all’ambiente.
In generale, dando per acquisita la
biotollerabilità del materiale,
ottimizzare l’impianto vuol dire
individuare una soluzione che generi una
distribuzione delle tensioni tale da
assicurare un ancoraggio stabile per il
maggior tempo possibile
La reazione dell’osso
all’impianto
Mentre nei femori intatti la massima
sollecitazione si ha a livello prossimomediale, nei femori protesizzati la
distribuzione dei carichi è diversa, con
una marcata riduzione delle
sollecitazioni nella zona prossimo
mediale più accentuata quando la
protesi è sprovvista di colletto.
Questo effetto di schermatura del
carico (stress shielding) dipende dalla
distribuzione delle rigidezze sia del
femore che dello stelo
La capacità dell’osso di reagire agli stimoli
dell’ambiente e le alterazioni nella distribuzione
delle sollecitazioni dovute all’intervento di
artoprotesi, visibili già a quatto settimane
dall’intervento, possono causare diversi
fenomeni:
a) necrosi o spongiosizzazione della corticale
interna a causa del danno della
vascolarizzazione intramidollare e apposizione
di osso subperiostale;
b) osteoporosi da disuso;
c) riassorbimmento del calcare
La mobilizzazione asettica costituisce la
più frequente causa di fallimento delle protesi
d’anca, soprattutto per i pazienti più giovani e
attivi.
La mobilizzazione dello stelo può essere
definita come la separazione primaria fra
impianto e osso; non sempre è facilmente
distinguibile da un’infezione tardiva.
Quando la mobilizzazione interessa un’area
significativamente estesa dell’impianto, si ha la
formazione e l’interposizione di tessuto
fibroso.
Dolore e limitazione funzionale spesso
rappresentano la fase finale di questo processo
che, ormai clinicamente diagnosticabile, porta
al reintervento.
Può avere origini biologiche e meccaniche.
Concentrazioni locali di tensioni possono
innescare il processo di distacco dell’impianto e
l’insorgere di micromovimenti relativi.
Giocano un ruolo determinante il
rimodellamento osseo e la reazione da corpo
estraneo, provocata da particelle di cemento e
dei detriti di usura.
I detriti di polietilene
sono in grado di
provocare il
riassorbimento osseo e la
formazione di una
membrana di tessuto
fibroso all’interfaccia
osso-cemento: i
macrofagi e le cellule
giganti, dopo aver
inglobato le particelle di
usura, rilascerebbero
sostanze solubili in grado
di attivare gli
osteoclasti.
Ancoraggio: il maggior problema delle
protesi d’anca è rappresentato dall’ancoraggio
dei componenti protesici.
Si possono seguire tre strade:
• uso del cemento acrilico
• contatto diretto tra protesi e osso per la
crescita di tessuto osseo nelle irregolarità
presenti sulla superficie protesica
• ancoraggio meccanico ottenuto con la
filettatura dello stelo.
Comunque si ha la necessità di limitare la
distribuzione dei sistemi traiettoriali dell’osso
ospite e dalla necessità di ottenere una
distribuzione ottimale delle tensioni al fine di
evitare ipo- o ipersollecitazioni nell’osso.
Protesi cementate:
L’uso del cemento consente uno stabile
ancoraggio della protesi riempiendo lo spazio
tra lo stelo e il canale femorale.
Il cemento è formato da materiali a base di
polimetilmetacrilato (PMMA) caricato con
solfato di bario (BaSO 4) per renderlo opaco ai
RX
Il cemento svolge la funzione di riempire gli
spazi compresi tra osso e protesi allo scopo di
migliorarela distribuzione degli sforzi
trasmessi dalla protesi all’osso durante il
carico.
Di fatto, il cemento non è un materiale adesivo.
Il cemento non
aderisce al metallo.
Si ottiene la
massimizzazione
della superficie di
contatto e si ha
stabilizzazione
primaria
Alcuni cementi per ossa contengono antibiotici
in fase solida (5-10% in peso) e vengono
impiegati quando si mettono protesi
successivamente ad un fallimento settico di
una precedente protesi.
I cementi commerciali hanno ritiri volumetrici
dello 0,5-1% durante l’indurimento e nei
successivi 30 giorni subiscono una espansione
volumetrica del 1-2% a causa dell’assorbimento
di acqua e di lipidi
Il processo di indurimento del cemento ha tre
tempi caratteristici: tempo di mescolamento
(t1); tempo di indurimento (t2); intervallo di
applicazione (t 3).
temperatura
t3
t1
t2
tempo
Durante l’indurimento si ha uno sviluppo di
calore (12-14 kcal ogni 100 g di cemento). Si
possono raggiungere temperature di 70-80°C.
Un problema è la presenza di due interfacce:
metallo-cemento e osso-cemento. Entrambe
possono cedere.
La rimozione di una protesi cementata è
complicata dalla necessità di rimuovere
completamente il cemento ed i suoi
frammenti dall’osso.
Inoltre il nuovo impianto avviene in un osso
fortemente traumatizzato e di spessore
ridotto.
Il principale obiettivo delle protesi non
cementate è l’osteointegrazione, ovvero il
contatto diretto fra la protesi e l’osso senza
tessuto connettivo interposto, meccanicamente
stabile.
L’osteointegrazione dipende dalla forma e dalle
dimensioni della protesi, dalle modalità e dai
materiali con cui è fabbricata, dalle
caratteristiche della sua superficie e dalle
modalità chirurgiche di impianto.
Forma e dimensioni
Il principale problema di biocompatibilità del
materiale delle protesi è la resistenza alla
corrosione
Le protesi sono generalmente metalliche e
sono realizzate per pressofusione o/o per
lavorazione alle macchine utensili.
I materiali usati sono:
leghe di titanio (Ti6Al4V)
acciaio inox (AISI 316L)
leghe di cobalto (Co-Cr-Mo)
Hanno la tendenza a rilasciare modeste
quantità di ioni metallici che possono essere
dannosi alle cellule viventi.
Gli effetti della corrosione localizzata, se
associati a sollecitazioni cicliche possono
portare a cedimenti dello stelo per fatica
(stress corrosion cracking)
I tipi di finitura superficiale si basano su due
diversi meccanismi:
a) stabilità meccanica iniziale (press-fit) per
ottenere una salda fissazione iniziale che si
stabilizza successivamente per l’interposizione
di tessuto fibroso.
b) apposizione di osso neoformato (bone
ingrowth) sulla superficie porosa di uno stelo
metallico
Superfici madreporiche: sono formate
durante la costruzione con delle biglie del
diametro di 1mm.
Presentano una superficie granulosa e scavata
su cui verrà a depositarsi l’osso endostale
neoformato.
Superfici porose: sono parametri
caratterizzanti:
la dimensione dei pori,
Secondo alcuni, il
movimento relativo
tra osso e protesi è di
circa 50µm per cui il
valore medio della
porosità non dovrebbe
essere inferiore a 150
µm
lo spessore del
rivestimento,
sempre molto contenuto, è
una conseguenza delle
scelte relative al diametro
dei pori, al numero degli
strati o al procedimento di
ottenimento della
superficie
il tipo di materiale,
i rivestimenti possono
essere passivi o attivi.
Alcuni possono essere
ampiamente biocompatibili
come il rivestimento in
titanio puro altri come
quelli con idrossiapatite e
biovetri possono stimolare
la ricrescita dell’osso
la resistenza
all’interfaccia,
l’interfaccia ha una elevata
resistenza a taglio
i micromovimenti
all’interfaccia,
per ottenere la ricrescita
ossea, i micromovimenti
tangenziali non dovrebbero
superare i 30 µm
il rilascio ionico,
negli impianti porosi, è stata evidenziata una
velocità di corrosione 5-10 volte superiore a
quella degli impianti lisci
L’aumento di ioni metallici rilasciati può causare
una sensibilizzazione allergica e un effetto
cancerogenetico.
l’estensione del rivestimento poroso,
dovrebbe essere più ampia possibile per
ottenere la massima fissazine
Questo comporta però una osteolisi massiccia
nella parte prossimale del femore e può essere
causa di notevoli problemi in caso di revisione
Riassumendo:
Cemento osseo: reazione dell’osso in presenza
della resina, caratteristiche meccaniche del
PMMA e loro variazione nel tempo, adesione
osso-cemento-impianto
Accoppiamento diretto: necessaria
pianificazione preoperatoria per accurata
scelta della protesi, precisione chirurgica,
contatto nella zona prossimale, fondamentale
nei soggetti giovani (fino a 50-60 anni)
Steli filettati: dovrebbero conferire una
maggiore tenuta per la grande area di contatto
osso protesi e per la possibilità del
rimodellamento osseo. In realtà trasmetto i
carichi all’osso in modo molto diverso da quello
fisiologico.
Carichi di progetto
Aspetti morfologici della
protesi
Diametro della testa:
secondo Charnley una testa di 22 mm permette
di contenere la coppia di attritoe quindi le
sollecitazioni all’interfaccia. Offrono la
possibilità di usare acetaboli di spessore
maggiore.
Diametri di 32 mm assicurano un movimento più
ampio ma maggiori coppie di attrito.
Diametri di 26 e 28 mm rappresentano una
soluzione di compromesso
Collo:
un collo snello consente una maggiore
escursione del movimento.
Adottando sezioni non circolari si può
privilegiare movimento in un piano senza
compromettere la resistenza strutturale.
Colletto:
Nel femore integro, la zona
del calcar è soggetta a
rilevanti carichi. In femori
protesizzati tali
sollecitazioni sono ridotte
del 90% con steli senza
colletto e del 50-70% con
steli con colletto
E’ difficile però realizzare
un valido contatto tra
calcar e colletto.
Lunghezza dello stelo:
Le lunghezze variano in
genere tra 110 e 145
il concetto che uno
stelo lungo permetta
una maggiore
distribuzione dei
carichi. In realtà i
carichi cambiano poco e
si ha un maggiore
stress shielding e
maggiore rischio di
distacco dello stelo.
Per i reimpianti si
usano steli lunghi
Cotile:
mentre la mobilizzazione
asettica del componente
femorale si ha nei primi
anni dall’impianto, quella
del componente cotiloideo
si manifesta più tardi.
Le cause della
mobilizzazione sono simili
a quelle dello stelo.
Gran parte dei cotili vengono realizzati in
UHMWP che per la sua flessibilità può
trasmettere i carichi alle strutture ossee in
modo non uniforme.
Si può ovviare rivestaendo il cotile con un guscio
di metallo.
L’ancoraggio può essere con cemento o con
accoppiamento diretto
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