Il sesto canto dell’Inferno all’interno di un volgarizzamento inedito trecentesco del Comentum di Pietro Alighieri Il sesto canto dell’Inferno all’interno di un volgarizzamento inedito trecentesco del Comentum di Pietro Alighieri MASSIMO SERIACOPI MASSIMO SERIACOPI Firenze Firenze RESUMEN: RESUMEN: Se propone una discusión sobre las temáticas políticas, morales y cívicas contenidas en el canto VI del Inferno, tomando en consideración también las informaciones que ofrece una transposición o traducción en volgare inédita del Comentum de Pietro Alighieri al poema paterno. Este esfuerzo exegético está caracterizado por un componente fuertemente alegórico, como es típico de la exégesis del siglo XIV, intentándose aquí establecer un paralelismo entre el trabajo crítico contemporáneo y el antiguo. Se propone una discusión sobre las temáticas políticas, morales y cívicas contenidas en el canto VI del Inferno, tomando en consideración también las informaciones que ofrece una transposición o traducción en volgare inédita del Comentum de Pietro Alighieri al poema paterno. Este esfuerzo exegético está caracterizado por un componente fuertemente alegórico, como es típico de la exégesis del siglo XIV, intentándose aquí establecer un paralelismo entre el trabajo crítico contemporáneo y el antiguo. Palabras clave: Inferno, Canto VI, comentarios inéditos, Pietro Alighieri, volgarizzamento, exégesis siglo XIV. Palabras clave: Inferno, Canto VI, comentarios inéditos, Pietro Alighieri, volgarizzamento, exégesis siglo XIV. ABSTRACT: ABSTRACT: This essay offers a disquisition about the political and moral and civic themes of Canto VI of Hell thanks also the informations given by a vulgar unedited transposition or translation of Pietro Alighieri’s Comentum to his father’s Divine Comedy. This exegetical effort is caractericed by a strong allegorical essence, as it’s typical of XIV century’s exegesis, and here we try to put a parallelism between contemporary critical work and the ancient one. This essay offers a disquisition about the political and moral and civic themes of Canto VI of Hell thanks also the informations given by a vulgar unedited transposition or translation of Pietro Alighieri’s Comentum to his father’s Divine Comedy. This exegetical effort is caractericed by a strong allegorical essence, as it’s typical of XIV century’s exegesis, and here we try to put a parallelism between contemporary critical work and the ancient one. Key words: Inferno, Canto VI, unedited commentaries, Pietro Alighieri, volgarizzamento, XIV century’s exegesis. Key words: Inferno, Canto VI, unedited commentaries, Pietro Alighieri, volgarizzamento, XIV century’s exegesis. Gli avvenimenti narrati nel corso del sesto canto dell'Inferno e le tematiche trattate al suo interno rappresentano una tappa importante del tragitto di acquisizione sapienziale dantesco, perché il poeta- Gli avvenimenti narrati nel corso del sesto canto dell'Inferno e le tematiche trattate al suo interno rappresentano una tappa importante del tragitto di acquisizione sapienziale dantesco, perché il poeta- 147 147 Il sesto canto dell’Inferno all’interno di un volgarizzamento inedito trecentesco del Comentum di Pietro Alighieri Il sesto canto dell’Inferno all’interno di un volgarizzamento inedito trecentesco del Comentum di Pietro Alighieri MASSIMO SERIACOPI MASSIMO SERIACOPI Firenze Firenze RESUMEN: RESUMEN: Se propone una discusión sobre las temáticas políticas, morales y cívicas contenidas en el canto VI del Inferno, tomando en consideración también las informaciones que ofrece una transposición o traducción en volgare inédita del Comentum de Pietro Alighieri al poema paterno. Este esfuerzo exegético está caracterizado por un componente fuertemente alegórico, como es típico de la exégesis del siglo XIV, intentándose aquí establecer un paralelismo entre el trabajo crítico contemporáneo y el antiguo. Se propone una discusión sobre las temáticas políticas, morales y cívicas contenidas en el canto VI del Inferno, tomando en consideración también las informaciones que ofrece una transposición o traducción en volgare inédita del Comentum de Pietro Alighieri al poema paterno. Este esfuerzo exegético está caracterizado por un componente fuertemente alegórico, como es típico de la exégesis del siglo XIV, intentándose aquí establecer un paralelismo entre el trabajo crítico contemporáneo y el antiguo. Palabras clave: Inferno, Canto VI, comentarios inéditos, Pietro Alighieri, volgarizzamento, exégesis siglo XIV. Palabras clave: Inferno, Canto VI, comentarios inéditos, Pietro Alighieri, volgarizzamento, exégesis siglo XIV. ABSTRACT: ABSTRACT: This essay offers a disquisition about the political and moral and civic themes of Canto VI of Hell thanks also the informations given by a vulgar unedited transposition or translation of Pietro Alighieri’s Comentum to his father’s Divine Comedy. This exegetical effort is caractericed by a strong allegorical essence, as it’s typical of XIV century’s exegesis, and here we try to put a parallelism between contemporary critical work and the ancient one. This essay offers a disquisition about the political and moral and civic themes of Canto VI of Hell thanks also the informations given by a vulgar unedited transposition or translation of Pietro Alighieri’s Comentum to his father’s Divine Comedy. This exegetical effort is caractericed by a strong allegorical essence, as it’s typical of XIV century’s exegesis, and here we try to put a parallelism between contemporary critical work and the ancient one. Key words: Inferno, Canto VI, unedited commentaries, Pietro Alighieri, volgarizzamento, XIV century’s exegesis. Key words: Inferno, Canto VI, unedited commentaries, Pietro Alighieri, volgarizzamento, XIV century’s exegesis. Gli avvenimenti narrati nel corso del sesto canto dell'Inferno e le tematiche trattate al suo interno rappresentano una tappa importante del tragitto di acquisizione sapienziale dantesco, perché il poeta- Gli avvenimenti narrati nel corso del sesto canto dell'Inferno e le tematiche trattate al suo interno rappresentano una tappa importante del tragitto di acquisizione sapienziale dantesco, perché il poeta- 147 147 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 pellegrino si confronta qui per la prima volta in modo disteso con una serie di questioni squisitamente socio-politiche (a livello della "infernale" civitas fiorentina, secondo un fitto e sistematicamente preordinato reticolato ordito già a partire dal primo canto, per cui Firenze è già in realtà rispecchiata nella selva oscura e la sua situazione di guerra civile nella "screziatura", e quindi divisione antiunitaria e invida, della lonza). Ancora, questo tratto dell'itinerario è importante perché per la prima volta nel terzo cerchio, quello dei Golosi, noi lettori possiamo sperimentare, insieme all'autore-attore, secondo un criterio valutativo ultraterreno, e quindi assoluto, quanta differenza c'è tra giudizio umano e giudizio divino nella considerazione dell'operato e dell'essenza ultima (a livello dunque anagogico, a confronto con il divino fine ultimo) delle persone. Viene quindi qui offerta una valutazione del canto in esame proponendo prima una moderna "rilettura", poi la lettura che ne viene fatta secondo un volgarizzamento inedito (l'unico conosciuto a tutt'oggi) del Comentum di Pietro Alighieri al poema paterno, nel suo sforzo apologetico, esegetico e di ritrasmissione. La natura umana, corrotta dal peccato originale, e quindi esposta alla fragilità, può provocare pietà, compassione: ma ciò che vediamo trasposto nella realtà infernale altro non è, non si dimentichi, che la realizzazione ultima (perfezionata definitivamente dopo il Giudizio Universale) di quanto è già prefigurato nel nostro terreno esilio dalla vera patria: in questi tormenti ora descritti si invera dunque la parte più essenziale della nostra natura, secondo la concezione dantesca. Dopo la sua seconda esperienza di morte mistica (la prima, ricordiamo, era avvenuta in occasione del traghettamento oltre il fiume Acheronte, oscuro e inquietante "limite dimensionale"), per cui, vinto dalla pietas compassionevole provata per il racconto di Paolo e Francesca, Dante aveva perso le facoltà sensitive, senza sapere come tale illustre pellegrino si ritrova tutt'intorno una nuova qualità di pena, e quindi di peccatori puniti. Registra quindi di essere arrivato al punto dell'imbuto infernale caratterizzato dall'essere battuto da una costante e inesauribile pioggia scura (quindi fangosa, e mista a grandine e pellegrino si confronta qui per la prima volta in modo disteso con una serie di questioni squisitamente socio-politiche (a livello della "infernale" civitas fiorentina, secondo un fitto e sistematicamente preordinato reticolato ordito già a partire dal primo canto, per cui Firenze è già in realtà rispecchiata nella selva oscura e la sua situazione di guerra civile nella "screziatura", e quindi divisione antiunitaria e invida, della lonza). Ancora, questo tratto dell'itinerario è importante perché per la prima volta nel terzo cerchio, quello dei Golosi, noi lettori possiamo sperimentare, insieme all'autore-attore, secondo un criterio valutativo ultraterreno, e quindi assoluto, quanta differenza c'è tra giudizio umano e giudizio divino nella considerazione dell'operato e dell'essenza ultima (a livello dunque anagogico, a confronto con il divino fine ultimo) delle persone. Viene quindi qui offerta una valutazione del canto in esame proponendo prima una moderna "rilettura", poi la lettura che ne viene fatta secondo un volgarizzamento inedito (l'unico conosciuto a tutt'oggi) del Comentum di Pietro Alighieri al poema paterno, nel suo sforzo apologetico, esegetico e di ritrasmissione. La natura umana, corrotta dal peccato originale, e quindi esposta alla fragilità, può provocare pietà, compassione: ma ciò che vediamo trasposto nella realtà infernale altro non è, non si dimentichi, che la realizzazione ultima (perfezionata definitivamente dopo il Giudizio Universale) di quanto è già prefigurato nel nostro terreno esilio dalla vera patria: in questi tormenti ora descritti si invera dunque la parte più essenziale della nostra natura, secondo la concezione dantesca. Dopo la sua seconda esperienza di morte mistica (la prima, ricordiamo, era avvenuta in occasione del traghettamento oltre il fiume Acheronte, oscuro e inquietante "limite dimensionale"), per cui, vinto dalla pietas compassionevole provata per il racconto di Paolo e Francesca, Dante aveva perso le facoltà sensitive, senza sapere come tale illustre pellegrino si ritrova tutt'intorno una nuova qualità di pena, e quindi di peccatori puniti. Registra quindi di essere arrivato al punto dell'imbuto infernale caratterizzato dall'essere battuto da una costante e inesauribile pioggia scura (quindi fangosa, e mista a grandine e 148 148 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 pellegrino si confronta qui per la prima volta in modo disteso con una serie di questioni squisitamente socio-politiche (a livello della "infernale" civitas fiorentina, secondo un fitto e sistematicamente preordinato reticolato ordito già a partire dal primo canto, per cui Firenze è già in realtà rispecchiata nella selva oscura e la sua situazione di guerra civile nella "screziatura", e quindi divisione antiunitaria e invida, della lonza). Ancora, questo tratto dell'itinerario è importante perché per la prima volta nel terzo cerchio, quello dei Golosi, noi lettori possiamo sperimentare, insieme all'autore-attore, secondo un criterio valutativo ultraterreno, e quindi assoluto, quanta differenza c'è tra giudizio umano e giudizio divino nella considerazione dell'operato e dell'essenza ultima (a livello dunque anagogico, a confronto con il divino fine ultimo) delle persone. Viene quindi qui offerta una valutazione del canto in esame proponendo prima una moderna "rilettura", poi la lettura che ne viene fatta secondo un volgarizzamento inedito (l'unico conosciuto a tutt'oggi) del Comentum di Pietro Alighieri al poema paterno, nel suo sforzo apologetico, esegetico e di ritrasmissione. La natura umana, corrotta dal peccato originale, e quindi esposta alla fragilità, può provocare pietà, compassione: ma ciò che vediamo trasposto nella realtà infernale altro non è, non si dimentichi, che la realizzazione ultima (perfezionata definitivamente dopo il Giudizio Universale) di quanto è già prefigurato nel nostro terreno esilio dalla vera patria: in questi tormenti ora descritti si invera dunque la parte più essenziale della nostra natura, secondo la concezione dantesca. Dopo la sua seconda esperienza di morte mistica (la prima, ricordiamo, era avvenuta in occasione del traghettamento oltre il fiume Acheronte, oscuro e inquietante "limite dimensionale"), per cui, vinto dalla pietas compassionevole provata per il racconto di Paolo e Francesca, Dante aveva perso le facoltà sensitive, senza sapere come tale illustre pellegrino si ritrova tutt'intorno una nuova qualità di pena, e quindi di peccatori puniti. Registra quindi di essere arrivato al punto dell'imbuto infernale caratterizzato dall'essere battuto da una costante e inesauribile pioggia scura (quindi fangosa, e mista a grandine e pellegrino si confronta qui per la prima volta in modo disteso con una serie di questioni squisitamente socio-politiche (a livello della "infernale" civitas fiorentina, secondo un fitto e sistematicamente preordinato reticolato ordito già a partire dal primo canto, per cui Firenze è già in realtà rispecchiata nella selva oscura e la sua situazione di guerra civile nella "screziatura", e quindi divisione antiunitaria e invida, della lonza). Ancora, questo tratto dell'itinerario è importante perché per la prima volta nel terzo cerchio, quello dei Golosi, noi lettori possiamo sperimentare, insieme all'autore-attore, secondo un criterio valutativo ultraterreno, e quindi assoluto, quanta differenza c'è tra giudizio umano e giudizio divino nella considerazione dell'operato e dell'essenza ultima (a livello dunque anagogico, a confronto con il divino fine ultimo) delle persone. Viene quindi qui offerta una valutazione del canto in esame proponendo prima una moderna "rilettura", poi la lettura che ne viene fatta secondo un volgarizzamento inedito (l'unico conosciuto a tutt'oggi) del Comentum di Pietro Alighieri al poema paterno, nel suo sforzo apologetico, esegetico e di ritrasmissione. La natura umana, corrotta dal peccato originale, e quindi esposta alla fragilità, può provocare pietà, compassione: ma ciò che vediamo trasposto nella realtà infernale altro non è, non si dimentichi, che la realizzazione ultima (perfezionata definitivamente dopo il Giudizio Universale) di quanto è già prefigurato nel nostro terreno esilio dalla vera patria: in questi tormenti ora descritti si invera dunque la parte più essenziale della nostra natura, secondo la concezione dantesca. Dopo la sua seconda esperienza di morte mistica (la prima, ricordiamo, era avvenuta in occasione del traghettamento oltre il fiume Acheronte, oscuro e inquietante "limite dimensionale"), per cui, vinto dalla pietas compassionevole provata per il racconto di Paolo e Francesca, Dante aveva perso le facoltà sensitive, senza sapere come tale illustre pellegrino si ritrova tutt'intorno una nuova qualità di pena, e quindi di peccatori puniti. Registra quindi di essere arrivato al punto dell'imbuto infernale caratterizzato dall'essere battuto da una costante e inesauribile pioggia scura (quindi fangosa, e mista a grandine e 148 148 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… neve), nociva e tale da rendere imputridito e puzzolente il suolo. Non basta questo a punire le anime presenti, che vengono, oltre che intronate (al punto da desiderare la sordità) dal canino latrare di Cerbero, graffiate, scuoiate e squartate da tale belva crudele e mostruosa ripresa dalla mitologia classica e connotata secondo una chiave crudamente realistica, con, come sempre in Dante, riutilizzazione in chiave cristiana, asservita quindi all'esigenza di porre un guardiano punitore nella compagine infernale. I dettagli costitutivi del mostro, se anche non avessero le valenze allegoriche che molti commentatori antichi hanno delineato, ben si attengono alle caratteristiche riconoscibili nei peccatori di Gola: la barba unta e sudicia, nera, in particolare, dà proprio l'idea del lordarsi dell'ingordo, che perde di vista la ricerca spirituale (patrimonio per l'eternità) in quanto troppo intento ad ingozzarsi di cibo materiale, e quindi "transitorio". Proprio come cani, tanto per rimanere in tema, i miseri profani urlano per la pioggia tormentosa che li costringe a voltarsi spesso alla ricerca di un impossibile riparo o difesa. Questo simbolo demoniaco, definito vermo proprio come lo sarà Lucifero al verso 108 del XXXIV canto, alla vista di due personaggi "incoerenti" con quell'ambiente e con il suo ruolo, mostra i denti perché sente invaso indebitamente il proprio territorio, fremendo e dimenandosi (con una chiara citazione del verso di Arnaut Daniel "non ài membre non fremisca" nel dantesco "non avea membro che tenesse fermo"). Ma è un misero servitore del volere divino: la guida Virgilio lo acquieta facilmente e lo irride trasformando in modo grottesco l'offerta della focaccia attuata dalla Sibilla nel sesto libro dell'Eneide; dentro alle tre bramose gole del demonio Cerbero finisce ora della terra, e ciò basta a distogliere l'attenzione di quelle facce lorde (come i Golosi che tormenta, è teso solo ad ingurgitare seguendo l'istinto senza riflettere). I due viandanti possono quindi proseguire il loro "attraversamento" delle ombre dei peccatori lì presenti prostrati e macerati dalla pioggia (è proprio il caso di definirlo in tal modo, "attraversamento", poiché Dante e Virgilio pongono le piante dei propri piedi, viene specificato, sulla inconsistente apparenza di veri neve), nociva e tale da rendere imputridito e puzzolente il suolo. Non basta questo a punire le anime presenti, che vengono, oltre che intronate (al punto da desiderare la sordità) dal canino latrare di Cerbero, graffiate, scuoiate e squartate da tale belva crudele e mostruosa ripresa dalla mitologia classica e connotata secondo una chiave crudamente realistica, con, come sempre in Dante, riutilizzazione in chiave cristiana, asservita quindi all'esigenza di porre un guardiano punitore nella compagine infernale. I dettagli costitutivi del mostro, se anche non avessero le valenze allegoriche che molti commentatori antichi hanno delineato, ben si attengono alle caratteristiche riconoscibili nei peccatori di Gola: la barba unta e sudicia, nera, in particolare, dà proprio l'idea del lordarsi dell'ingordo, che perde di vista la ricerca spirituale (patrimonio per l'eternità) in quanto troppo intento ad ingozzarsi di cibo materiale, e quindi "transitorio". Proprio come cani, tanto per rimanere in tema, i miseri profani urlano per la pioggia tormentosa che li costringe a voltarsi spesso alla ricerca di un impossibile riparo o difesa. Questo simbolo demoniaco, definito vermo proprio come lo sarà Lucifero al verso 108 del XXXIV canto, alla vista di due personaggi "incoerenti" con quell'ambiente e con il suo ruolo, mostra i denti perché sente invaso indebitamente il proprio territorio, fremendo e dimenandosi (con una chiara citazione del verso di Arnaut Daniel "non ài membre non fremisca" nel dantesco "non avea membro che tenesse fermo"). Ma è un misero servitore del volere divino: la guida Virgilio lo acquieta facilmente e lo irride trasformando in modo grottesco l'offerta della focaccia attuata dalla Sibilla nel sesto libro dell'Eneide; dentro alle tre bramose gole del demonio Cerbero finisce ora della terra, e ciò basta a distogliere l'attenzione di quelle facce lorde (come i Golosi che tormenta, è teso solo ad ingurgitare seguendo l'istinto senza riflettere). I due viandanti possono quindi proseguire il loro "attraversamento" delle ombre dei peccatori lì presenti prostrati e macerati dalla pioggia (è proprio il caso di definirlo in tal modo, "attraversamento", poiché Dante e Virgilio pongono le piante dei propri piedi, viene specificato, sulla inconsistente apparenza di veri 149 149 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… neve), nociva e tale da rendere imputridito e puzzolente il suolo. Non basta questo a punire le anime presenti, che vengono, oltre che intronate (al punto da desiderare la sordità) dal canino latrare di Cerbero, graffiate, scuoiate e squartate da tale belva crudele e mostruosa ripresa dalla mitologia classica e connotata secondo una chiave crudamente realistica, con, come sempre in Dante, riutilizzazione in chiave cristiana, asservita quindi all'esigenza di porre un guardiano punitore nella compagine infernale. I dettagli costitutivi del mostro, se anche non avessero le valenze allegoriche che molti commentatori antichi hanno delineato, ben si attengono alle caratteristiche riconoscibili nei peccatori di Gola: la barba unta e sudicia, nera, in particolare, dà proprio l'idea del lordarsi dell'ingordo, che perde di vista la ricerca spirituale (patrimonio per l'eternità) in quanto troppo intento ad ingozzarsi di cibo materiale, e quindi "transitorio". Proprio come cani, tanto per rimanere in tema, i miseri profani urlano per la pioggia tormentosa che li costringe a voltarsi spesso alla ricerca di un impossibile riparo o difesa. Questo simbolo demoniaco, definito vermo proprio come lo sarà Lucifero al verso 108 del XXXIV canto, alla vista di due personaggi "incoerenti" con quell'ambiente e con il suo ruolo, mostra i denti perché sente invaso indebitamente il proprio territorio, fremendo e dimenandosi (con una chiara citazione del verso di Arnaut Daniel "non ài membre non fremisca" nel dantesco "non avea membro che tenesse fermo"). Ma è un misero servitore del volere divino: la guida Virgilio lo acquieta facilmente e lo irride trasformando in modo grottesco l'offerta della focaccia attuata dalla Sibilla nel sesto libro dell'Eneide; dentro alle tre bramose gole del demonio Cerbero finisce ora della terra, e ciò basta a distogliere l'attenzione di quelle facce lorde (come i Golosi che tormenta, è teso solo ad ingurgitare seguendo l'istinto senza riflettere). I due viandanti possono quindi proseguire il loro "attraversamento" delle ombre dei peccatori lì presenti prostrati e macerati dalla pioggia (è proprio il caso di definirlo in tal modo, "attraversamento", poiché Dante e Virgilio pongono le piante dei propri piedi, viene specificato, sulla inconsistente apparenza di veri neve), nociva e tale da rendere imputridito e puzzolente il suolo. Non basta questo a punire le anime presenti, che vengono, oltre che intronate (al punto da desiderare la sordità) dal canino latrare di Cerbero, graffiate, scuoiate e squartate da tale belva crudele e mostruosa ripresa dalla mitologia classica e connotata secondo una chiave crudamente realistica, con, come sempre in Dante, riutilizzazione in chiave cristiana, asservita quindi all'esigenza di porre un guardiano punitore nella compagine infernale. I dettagli costitutivi del mostro, se anche non avessero le valenze allegoriche che molti commentatori antichi hanno delineato, ben si attengono alle caratteristiche riconoscibili nei peccatori di Gola: la barba unta e sudicia, nera, in particolare, dà proprio l'idea del lordarsi dell'ingordo, che perde di vista la ricerca spirituale (patrimonio per l'eternità) in quanto troppo intento ad ingozzarsi di cibo materiale, e quindi "transitorio". Proprio come cani, tanto per rimanere in tema, i miseri profani urlano per la pioggia tormentosa che li costringe a voltarsi spesso alla ricerca di un impossibile riparo o difesa. Questo simbolo demoniaco, definito vermo proprio come lo sarà Lucifero al verso 108 del XXXIV canto, alla vista di due personaggi "incoerenti" con quell'ambiente e con il suo ruolo, mostra i denti perché sente invaso indebitamente il proprio territorio, fremendo e dimenandosi (con una chiara citazione del verso di Arnaut Daniel "non ài membre non fremisca" nel dantesco "non avea membro che tenesse fermo"). Ma è un misero servitore del volere divino: la guida Virgilio lo acquieta facilmente e lo irride trasformando in modo grottesco l'offerta della focaccia attuata dalla Sibilla nel sesto libro dell'Eneide; dentro alle tre bramose gole del demonio Cerbero finisce ora della terra, e ciò basta a distogliere l'attenzione di quelle facce lorde (come i Golosi che tormenta, è teso solo ad ingurgitare seguendo l'istinto senza riflettere). I due viandanti possono quindi proseguire il loro "attraversamento" delle ombre dei peccatori lì presenti prostrati e macerati dalla pioggia (è proprio il caso di definirlo in tal modo, "attraversamento", poiché Dante e Virgilio pongono le piante dei propri piedi, viene specificato, sulla inconsistente apparenza di veri 149 149 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 corpi, che sono invece solo "corpi aerei", come verrà spiegato nel Purgatorio). Tutte schiacciate per terra, queste anime: ma d'improvviso una, una sola (evidentemente designata a fungere da exemplum per disegno divino), vedendosi passare i due davanti, si leva a sedere, si rivolge a Dante e sostiene che dovrebbe poterlo riconoscere, poiché era nato prima della sua morte; ma il vivente non ha memoria di lui in quanto la sofferenza fisica ne ha distorto (disumanizzato?) i lineamenti. Gli chiede però chi sia stato in vita, e quali azioni gli hanno fatto meritare una pena così schifosa. Ed ecco ben chiara la volontà di delineare la realtà altrettanto schifosa della Firenze corrotta del tempo: il dolore e il giusto risentimento dell'esule, attraverso il suo rispecchiarsi nel personaggio da lui creato (e che pure deve aver avuto una sua consistenza storica, che sia stato Ciacco dell'Anguillaia, o un banchiere che eccedeva nel mangiare e nel bere al punto da guastarsi la vista e da venire evitato da tutti, o un uomo di corte e parassita, a seconda che si voglia dar credito all'uno o all'altro dei commenti antichi al poema che conosciamo: Dante non rinnega nessun aspetto, nei suoi ricchi ritratti, della componente umana, concreta e simbolica, fisica e spirituale, immanente e proiettata verso l'infinito e l'eterno) emerge prepotentemente, e con questo un giudizio morale che non è distruttivo, ma vuole essere rieducativo "per opposizione". Non era forse questo personaggio fiorentino? Non erano forse i suoi concittadini che lo denominavano "Ciacco" (che sarebbe, secondo Francesco da Buti, "Nome di porco, onde costui era chiamato per la golosità sua")? Fu proprio Firenze, ci informa lui stesso, che lo ospitò durante la vita terrena: eppure dice a Dante la tua città, quasi con un "fuori mi chiamo", con un prendere le distanze sdegnato da questo nido di malizia così pieno (traboccante, addirittura) di invidia da essere anche per questo disgregato nel proprio seno, sconvolto da queste guerre intestine tra concittadini (eppure, ancora: voi cittadini, come se rifiutasse la propria origine). Del resto, se sua è la paternità, in un'epistola Dante si definisce fiorentino natione, non moribus, per nascita, non per costumi caratterizzanti, in perfetta coerenza con il tono (e i precisi termini) corpi, che sono invece solo "corpi aerei", come verrà spiegato nel Purgatorio). Tutte schiacciate per terra, queste anime: ma d'improvviso una, una sola (evidentemente designata a fungere da exemplum per disegno divino), vedendosi passare i due davanti, si leva a sedere, si rivolge a Dante e sostiene che dovrebbe poterlo riconoscere, poiché era nato prima della sua morte; ma il vivente non ha memoria di lui in quanto la sofferenza fisica ne ha distorto (disumanizzato?) i lineamenti. Gli chiede però chi sia stato in vita, e quali azioni gli hanno fatto meritare una pena così schifosa. Ed ecco ben chiara la volontà di delineare la realtà altrettanto schifosa della Firenze corrotta del tempo: il dolore e il giusto risentimento dell'esule, attraverso il suo rispecchiarsi nel personaggio da lui creato (e che pure deve aver avuto una sua consistenza storica, che sia stato Ciacco dell'Anguillaia, o un banchiere che eccedeva nel mangiare e nel bere al punto da guastarsi la vista e da venire evitato da tutti, o un uomo di corte e parassita, a seconda che si voglia dar credito all'uno o all'altro dei commenti antichi al poema che conosciamo: Dante non rinnega nessun aspetto, nei suoi ricchi ritratti, della componente umana, concreta e simbolica, fisica e spirituale, immanente e proiettata verso l'infinito e l'eterno) emerge prepotentemente, e con questo un giudizio morale che non è distruttivo, ma vuole essere rieducativo "per opposizione". Non era forse questo personaggio fiorentino? Non erano forse i suoi concittadini che lo denominavano "Ciacco" (che sarebbe, secondo Francesco da Buti, "Nome di porco, onde costui era chiamato per la golosità sua")? Fu proprio Firenze, ci informa lui stesso, che lo ospitò durante la vita terrena: eppure dice a Dante la tua città, quasi con un "fuori mi chiamo", con un prendere le distanze sdegnato da questo nido di malizia così pieno (traboccante, addirittura) di invidia da essere anche per questo disgregato nel proprio seno, sconvolto da queste guerre intestine tra concittadini (eppure, ancora: voi cittadini, come se rifiutasse la propria origine). Del resto, se sua è la paternità, in un'epistola Dante si definisce fiorentino natione, non moribus, per nascita, non per costumi caratterizzanti, in perfetta coerenza con il tono (e i precisi termini) 150 150 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 corpi, che sono invece solo "corpi aerei", come verrà spiegato nel Purgatorio). Tutte schiacciate per terra, queste anime: ma d'improvviso una, una sola (evidentemente designata a fungere da exemplum per disegno divino), vedendosi passare i due davanti, si leva a sedere, si rivolge a Dante e sostiene che dovrebbe poterlo riconoscere, poiché era nato prima della sua morte; ma il vivente non ha memoria di lui in quanto la sofferenza fisica ne ha distorto (disumanizzato?) i lineamenti. Gli chiede però chi sia stato in vita, e quali azioni gli hanno fatto meritare una pena così schifosa. Ed ecco ben chiara la volontà di delineare la realtà altrettanto schifosa della Firenze corrotta del tempo: il dolore e il giusto risentimento dell'esule, attraverso il suo rispecchiarsi nel personaggio da lui creato (e che pure deve aver avuto una sua consistenza storica, che sia stato Ciacco dell'Anguillaia, o un banchiere che eccedeva nel mangiare e nel bere al punto da guastarsi la vista e da venire evitato da tutti, o un uomo di corte e parassita, a seconda che si voglia dar credito all'uno o all'altro dei commenti antichi al poema che conosciamo: Dante non rinnega nessun aspetto, nei suoi ricchi ritratti, della componente umana, concreta e simbolica, fisica e spirituale, immanente e proiettata verso l'infinito e l'eterno) emerge prepotentemente, e con questo un giudizio morale che non è distruttivo, ma vuole essere rieducativo "per opposizione". Non era forse questo personaggio fiorentino? Non erano forse i suoi concittadini che lo denominavano "Ciacco" (che sarebbe, secondo Francesco da Buti, "Nome di porco, onde costui era chiamato per la golosità sua")? Fu proprio Firenze, ci informa lui stesso, che lo ospitò durante la vita terrena: eppure dice a Dante la tua città, quasi con un "fuori mi chiamo", con un prendere le distanze sdegnato da questo nido di malizia così pieno (traboccante, addirittura) di invidia da essere anche per questo disgregato nel proprio seno, sconvolto da queste guerre intestine tra concittadini (eppure, ancora: voi cittadini, come se rifiutasse la propria origine). Del resto, se sua è la paternità, in un'epistola Dante si definisce fiorentino natione, non moribus, per nascita, non per costumi caratterizzanti, in perfetta coerenza con il tono (e i precisi termini) corpi, che sono invece solo "corpi aerei", come verrà spiegato nel Purgatorio). Tutte schiacciate per terra, queste anime: ma d'improvviso una, una sola (evidentemente designata a fungere da exemplum per disegno divino), vedendosi passare i due davanti, si leva a sedere, si rivolge a Dante e sostiene che dovrebbe poterlo riconoscere, poiché era nato prima della sua morte; ma il vivente non ha memoria di lui in quanto la sofferenza fisica ne ha distorto (disumanizzato?) i lineamenti. Gli chiede però chi sia stato in vita, e quali azioni gli hanno fatto meritare una pena così schifosa. Ed ecco ben chiara la volontà di delineare la realtà altrettanto schifosa della Firenze corrotta del tempo: il dolore e il giusto risentimento dell'esule, attraverso il suo rispecchiarsi nel personaggio da lui creato (e che pure deve aver avuto una sua consistenza storica, che sia stato Ciacco dell'Anguillaia, o un banchiere che eccedeva nel mangiare e nel bere al punto da guastarsi la vista e da venire evitato da tutti, o un uomo di corte e parassita, a seconda che si voglia dar credito all'uno o all'altro dei commenti antichi al poema che conosciamo: Dante non rinnega nessun aspetto, nei suoi ricchi ritratti, della componente umana, concreta e simbolica, fisica e spirituale, immanente e proiettata verso l'infinito e l'eterno) emerge prepotentemente, e con questo un giudizio morale che non è distruttivo, ma vuole essere rieducativo "per opposizione". Non era forse questo personaggio fiorentino? Non erano forse i suoi concittadini che lo denominavano "Ciacco" (che sarebbe, secondo Francesco da Buti, "Nome di porco, onde costui era chiamato per la golosità sua")? Fu proprio Firenze, ci informa lui stesso, che lo ospitò durante la vita terrena: eppure dice a Dante la tua città, quasi con un "fuori mi chiamo", con un prendere le distanze sdegnato da questo nido di malizia così pieno (traboccante, addirittura) di invidia da essere anche per questo disgregato nel proprio seno, sconvolto da queste guerre intestine tra concittadini (eppure, ancora: voi cittadini, come se rifiutasse la propria origine). Del resto, se sua è la paternità, in un'epistola Dante si definisce fiorentino natione, non moribus, per nascita, non per costumi caratterizzanti, in perfetta coerenza con il tono (e i precisi termini) 150 150 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… che mette in bocca al personaggio infernale, ora fiaccato dalla pioggia per il rovinoso effetto del "trapassar del segno" costituito in lui dalla gola smodata, come è anche per i suoi attuali compagni, evidentemente. Confessato ciò, e dopo aver quindi cantato chiaro già da adesso cosa pensa della situazione morale, civica e politica alla quale è giunta la sua città natale, Ciacco tace. Ma Dante, mostrando con cortese calore il dispiacere per la situazione di un personaggio che fa comprendere di avere anche aspetti pregevoli (si intuisce infatti che si tratta di personalità moralmente ragguardevole, a parte il dannoso vizio della Gola) con termini e sentimenti assai simili a quelli espressi di fronte a Paolo e Francesca nel canto precedente, si rivela nel contempo desideroso di conoscere da un personaggio immerso nella capacità di giudizio "assoluta", cioè "sciolta" dalla limitatezza di vedute di chi è invece immerso nel secolo, a cosa giungeranno i cittadini (non definiti "concittadini", si noti: anche il poeta sembra prendere le distanze, come a presagire che sarà giusto allinearsi e conformarsi all'atteggiamento di Ciacco in questo) di quella realtà fratricida che è diventata caratteristica della Firenze anti-solidale, anti-unitaria (e non si dimentichi che per un uomo del Medioevo ciò che non è unità, ciò che è duplice, è tendenzialmente anti-divino). Si concentra poi, il relatore di questo percorso di conoscenza, su un quesito lapidario: se in quella città ormai degenerata "alcun v'è giusto"; dopo di che si chiederà delle aitiai, delle cause originarie che hanno permesso alla nefasta "divinità" della discordia, tanto grande e terribile in questo caso, di aggredire così la civilitas che aveva in passato caratterizzato positivamente la Firenze dell'antichità (e qui è evidente la rievocazione di una mitica e pura "età dell'oro"). È uno dei punti basilari dell'intero canto, il pensiero insito nella seconda e lapidaria domanda, difficile da interpretare già a livello dei primi commentatori del poema. Se infatti, com'è, il poeta rispecchia aspetti del proprio animo nell'exemplum offerto dal personaggio esaminato e proposto all'attenzione del lettore, qui sta proponendo di riflettere su quali siano le tipologie di giustizia disattese all'interno delle fazioni che che mette in bocca al personaggio infernale, ora fiaccato dalla pioggia per il rovinoso effetto del "trapassar del segno" costituito in lui dalla gola smodata, come è anche per i suoi attuali compagni, evidentemente. Confessato ciò, e dopo aver quindi cantato chiaro già da adesso cosa pensa della situazione morale, civica e politica alla quale è giunta la sua città natale, Ciacco tace. Ma Dante, mostrando con cortese calore il dispiacere per la situazione di un personaggio che fa comprendere di avere anche aspetti pregevoli (si intuisce infatti che si tratta di personalità moralmente ragguardevole, a parte il dannoso vizio della Gola) con termini e sentimenti assai simili a quelli espressi di fronte a Paolo e Francesca nel canto precedente, si rivela nel contempo desideroso di conoscere da un personaggio immerso nella capacità di giudizio "assoluta", cioè "sciolta" dalla limitatezza di vedute di chi è invece immerso nel secolo, a cosa giungeranno i cittadini (non definiti "concittadini", si noti: anche il poeta sembra prendere le distanze, come a presagire che sarà giusto allinearsi e conformarsi all'atteggiamento di Ciacco in questo) di quella realtà fratricida che è diventata caratteristica della Firenze anti-solidale, anti-unitaria (e non si dimentichi che per un uomo del Medioevo ciò che non è unità, ciò che è duplice, è tendenzialmente anti-divino). Si concentra poi, il relatore di questo percorso di conoscenza, su un quesito lapidario: se in quella città ormai degenerata "alcun v'è giusto"; dopo di che si chiederà delle aitiai, delle cause originarie che hanno permesso alla nefasta "divinità" della discordia, tanto grande e terribile in questo caso, di aggredire così la civilitas che aveva in passato caratterizzato positivamente la Firenze dell'antichità (e qui è evidente la rievocazione di una mitica e pura "età dell'oro"). È uno dei punti basilari dell'intero canto, il pensiero insito nella seconda e lapidaria domanda, difficile da interpretare già a livello dei primi commentatori del poema. Se infatti, com'è, il poeta rispecchia aspetti del proprio animo nell'exemplum offerto dal personaggio esaminato e proposto all'attenzione del lettore, qui sta proponendo di riflettere su quali siano le tipologie di giustizia disattese all'interno delle fazioni che 151 151 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… che mette in bocca al personaggio infernale, ora fiaccato dalla pioggia per il rovinoso effetto del "trapassar del segno" costituito in lui dalla gola smodata, come è anche per i suoi attuali compagni, evidentemente. Confessato ciò, e dopo aver quindi cantato chiaro già da adesso cosa pensa della situazione morale, civica e politica alla quale è giunta la sua città natale, Ciacco tace. Ma Dante, mostrando con cortese calore il dispiacere per la situazione di un personaggio che fa comprendere di avere anche aspetti pregevoli (si intuisce infatti che si tratta di personalità moralmente ragguardevole, a parte il dannoso vizio della Gola) con termini e sentimenti assai simili a quelli espressi di fronte a Paolo e Francesca nel canto precedente, si rivela nel contempo desideroso di conoscere da un personaggio immerso nella capacità di giudizio "assoluta", cioè "sciolta" dalla limitatezza di vedute di chi è invece immerso nel secolo, a cosa giungeranno i cittadini (non definiti "concittadini", si noti: anche il poeta sembra prendere le distanze, come a presagire che sarà giusto allinearsi e conformarsi all'atteggiamento di Ciacco in questo) di quella realtà fratricida che è diventata caratteristica della Firenze anti-solidale, anti-unitaria (e non si dimentichi che per un uomo del Medioevo ciò che non è unità, ciò che è duplice, è tendenzialmente anti-divino). Si concentra poi, il relatore di questo percorso di conoscenza, su un quesito lapidario: se in quella città ormai degenerata "alcun v'è giusto"; dopo di che si chiederà delle aitiai, delle cause originarie che hanno permesso alla nefasta "divinità" della discordia, tanto grande e terribile in questo caso, di aggredire così la civilitas che aveva in passato caratterizzato positivamente la Firenze dell'antichità (e qui è evidente la rievocazione di una mitica e pura "età dell'oro"). È uno dei punti basilari dell'intero canto, il pensiero insito nella seconda e lapidaria domanda, difficile da interpretare già a livello dei primi commentatori del poema. Se infatti, com'è, il poeta rispecchia aspetti del proprio animo nell'exemplum offerto dal personaggio esaminato e proposto all'attenzione del lettore, qui sta proponendo di riflettere su quali siano le tipologie di giustizia disattese all'interno delle fazioni che che mette in bocca al personaggio infernale, ora fiaccato dalla pioggia per il rovinoso effetto del "trapassar del segno" costituito in lui dalla gola smodata, come è anche per i suoi attuali compagni, evidentemente. Confessato ciò, e dopo aver quindi cantato chiaro già da adesso cosa pensa della situazione morale, civica e politica alla quale è giunta la sua città natale, Ciacco tace. Ma Dante, mostrando con cortese calore il dispiacere per la situazione di un personaggio che fa comprendere di avere anche aspetti pregevoli (si intuisce infatti che si tratta di personalità moralmente ragguardevole, a parte il dannoso vizio della Gola) con termini e sentimenti assai simili a quelli espressi di fronte a Paolo e Francesca nel canto precedente, si rivela nel contempo desideroso di conoscere da un personaggio immerso nella capacità di giudizio "assoluta", cioè "sciolta" dalla limitatezza di vedute di chi è invece immerso nel secolo, a cosa giungeranno i cittadini (non definiti "concittadini", si noti: anche il poeta sembra prendere le distanze, come a presagire che sarà giusto allinearsi e conformarsi all'atteggiamento di Ciacco in questo) di quella realtà fratricida che è diventata caratteristica della Firenze anti-solidale, anti-unitaria (e non si dimentichi che per un uomo del Medioevo ciò che non è unità, ciò che è duplice, è tendenzialmente anti-divino). Si concentra poi, il relatore di questo percorso di conoscenza, su un quesito lapidario: se in quella città ormai degenerata "alcun v'è giusto"; dopo di che si chiederà delle aitiai, delle cause originarie che hanno permesso alla nefasta "divinità" della discordia, tanto grande e terribile in questo caso, di aggredire così la civilitas che aveva in passato caratterizzato positivamente la Firenze dell'antichità (e qui è evidente la rievocazione di una mitica e pura "età dell'oro"). È uno dei punti basilari dell'intero canto, il pensiero insito nella seconda e lapidaria domanda, difficile da interpretare già a livello dei primi commentatori del poema. Se infatti, com'è, il poeta rispecchia aspetti del proprio animo nell'exemplum offerto dal personaggio esaminato e proposto all'attenzione del lettore, qui sta proponendo di riflettere su quali siano le tipologie di giustizia disattese all'interno delle fazioni che 151 151 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 sconvolgono la città natale, ora che giudica gli avvenimenti attinenti a quel momento storico dopo diversi anni di esperienza d'esilio. L'invidia, che richiama qui quell'Invidia Prima luciferina del verso 111 del canto primo del poema (e che verrà richiamata anche qui al verso 74 insieme a superbia e, appunto, avarizia, nonché al verso 68 del canto XV della stessa cantica per voce di Brunetto Latini, che definirà appunto "invidiosi" i Fiorentini), ha acceso quella cupidigia, quella bramosia di potere e beni materiali causa prima d'ogni male. Come aspettarsi allora più l'attuazione di quella Giustizia che permette l'armonioso vivere civile, come già ricordava Aristotele e come anche Brunetto Latini riecheggiava? Quale futuro aspettava dunque Firenze, sta chiedendo Dante? Giusti son due (e non sono più perseguìti): "Giustizia e Ragione", sosteneva nelle sue chiose al poema Jacopo della Lana bolognese, e Pietro Alighieri rincalzava con Ius naturale et ius gentium, mentre altri pensarono, nell'antichità e ai nostri tempi, a un valore indeterminato (ma comunque ristrettissimo), o a Guido Cavalcanti o a Dino Compagni e a Dante stesso, ecc. Ma nell'ottavo libro dell'Etica di Aristotele, tradotta e commentata da Tommaso d'Aquino, Dante leggeva che due sono i Diritti, non scritto o naturale, e scritto in legge codificata: Iustum est duplex, naturale e legale, ed entrambi non sono più osservati, perché le tre faville che hanno acceso i cuori dei Fiorentini li portano ad un irragionevole voler contrastare o disattendere le regole di un pacifico ordinamento civile. Si discute quindi degli avvenimenti che in realtà vengono profetizzati dopo essere già avvenuti, per cui dopo lungo contrasto il primo maggio del 1300 uno scontro tra giovani delle consorterie dei Donati (Neri) e dei Cerchi (Bianchi) porterà a un ferimento che scatenerà continue rappresaglie, finché i campagnoli ("selvaggi") Bianchi cacceranno in esilio con grande danno i capi Neri, nel giugno del 1301. Ma la supremazia verrà presto persa: i Neri torneranno e domineranno, per lungo tempo e con grave scorno e pesanti rappresaglie (incuranti dello sdegno altrui) per gli avversari con l'appoggio di chi per ora si sta destreggiando (piaggia) tra le due fazioni, senz'altro alludendo qui a papa Bonifacio VIII. Ferma poi sconvolgono la città natale, ora che giudica gli avvenimenti attinenti a quel momento storico dopo diversi anni di esperienza d'esilio. L'invidia, che richiama qui quell'Invidia Prima luciferina del verso 111 del canto primo del poema (e che verrà richiamata anche qui al verso 74 insieme a superbia e, appunto, avarizia, nonché al verso 68 del canto XV della stessa cantica per voce di Brunetto Latini, che definirà appunto "invidiosi" i Fiorentini), ha acceso quella cupidigia, quella bramosia di potere e beni materiali causa prima d'ogni male. Come aspettarsi allora più l'attuazione di quella Giustizia che permette l'armonioso vivere civile, come già ricordava Aristotele e come anche Brunetto Latini riecheggiava? Quale futuro aspettava dunque Firenze, sta chiedendo Dante? Giusti son due (e non sono più perseguìti): "Giustizia e Ragione", sosteneva nelle sue chiose al poema Jacopo della Lana bolognese, e Pietro Alighieri rincalzava con Ius naturale et ius gentium, mentre altri pensarono, nell'antichità e ai nostri tempi, a un valore indeterminato (ma comunque ristrettissimo), o a Guido Cavalcanti o a Dino Compagni e a Dante stesso, ecc. Ma nell'ottavo libro dell'Etica di Aristotele, tradotta e commentata da Tommaso d'Aquino, Dante leggeva che due sono i Diritti, non scritto o naturale, e scritto in legge codificata: Iustum est duplex, naturale e legale, ed entrambi non sono più osservati, perché le tre faville che hanno acceso i cuori dei Fiorentini li portano ad un irragionevole voler contrastare o disattendere le regole di un pacifico ordinamento civile. Si discute quindi degli avvenimenti che in realtà vengono profetizzati dopo essere già avvenuti, per cui dopo lungo contrasto il primo maggio del 1300 uno scontro tra giovani delle consorterie dei Donati (Neri) e dei Cerchi (Bianchi) porterà a un ferimento che scatenerà continue rappresaglie, finché i campagnoli ("selvaggi") Bianchi cacceranno in esilio con grande danno i capi Neri, nel giugno del 1301. Ma la supremazia verrà presto persa: i Neri torneranno e domineranno, per lungo tempo e con grave scorno e pesanti rappresaglie (incuranti dello sdegno altrui) per gli avversari con l'appoggio di chi per ora si sta destreggiando (piaggia) tra le due fazioni, senz'altro alludendo qui a papa Bonifacio VIII. Ferma poi 152 152 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 sconvolgono la città natale, ora che giudica gli avvenimenti attinenti a quel momento storico dopo diversi anni di esperienza d'esilio. L'invidia, che richiama qui quell'Invidia Prima luciferina del verso 111 del canto primo del poema (e che verrà richiamata anche qui al verso 74 insieme a superbia e, appunto, avarizia, nonché al verso 68 del canto XV della stessa cantica per voce di Brunetto Latini, che definirà appunto "invidiosi" i Fiorentini), ha acceso quella cupidigia, quella bramosia di potere e beni materiali causa prima d'ogni male. Come aspettarsi allora più l'attuazione di quella Giustizia che permette l'armonioso vivere civile, come già ricordava Aristotele e come anche Brunetto Latini riecheggiava? Quale futuro aspettava dunque Firenze, sta chiedendo Dante? Giusti son due (e non sono più perseguìti): "Giustizia e Ragione", sosteneva nelle sue chiose al poema Jacopo della Lana bolognese, e Pietro Alighieri rincalzava con Ius naturale et ius gentium, mentre altri pensarono, nell'antichità e ai nostri tempi, a un valore indeterminato (ma comunque ristrettissimo), o a Guido Cavalcanti o a Dino Compagni e a Dante stesso, ecc. Ma nell'ottavo libro dell'Etica di Aristotele, tradotta e commentata da Tommaso d'Aquino, Dante leggeva che due sono i Diritti, non scritto o naturale, e scritto in legge codificata: Iustum est duplex, naturale e legale, ed entrambi non sono più osservati, perché le tre faville che hanno acceso i cuori dei Fiorentini li portano ad un irragionevole voler contrastare o disattendere le regole di un pacifico ordinamento civile. Si discute quindi degli avvenimenti che in realtà vengono profetizzati dopo essere già avvenuti, per cui dopo lungo contrasto il primo maggio del 1300 uno scontro tra giovani delle consorterie dei Donati (Neri) e dei Cerchi (Bianchi) porterà a un ferimento che scatenerà continue rappresaglie, finché i campagnoli ("selvaggi") Bianchi cacceranno in esilio con grande danno i capi Neri, nel giugno del 1301. Ma la supremazia verrà presto persa: i Neri torneranno e domineranno, per lungo tempo e con grave scorno e pesanti rappresaglie (incuranti dello sdegno altrui) per gli avversari con l'appoggio di chi per ora si sta destreggiando (piaggia) tra le due fazioni, senz'altro alludendo qui a papa Bonifacio VIII. Ferma poi sconvolgono la città natale, ora che giudica gli avvenimenti attinenti a quel momento storico dopo diversi anni di esperienza d'esilio. L'invidia, che richiama qui quell'Invidia Prima luciferina del verso 111 del canto primo del poema (e che verrà richiamata anche qui al verso 74 insieme a superbia e, appunto, avarizia, nonché al verso 68 del canto XV della stessa cantica per voce di Brunetto Latini, che definirà appunto "invidiosi" i Fiorentini), ha acceso quella cupidigia, quella bramosia di potere e beni materiali causa prima d'ogni male. Come aspettarsi allora più l'attuazione di quella Giustizia che permette l'armonioso vivere civile, come già ricordava Aristotele e come anche Brunetto Latini riecheggiava? Quale futuro aspettava dunque Firenze, sta chiedendo Dante? Giusti son due (e non sono più perseguìti): "Giustizia e Ragione", sosteneva nelle sue chiose al poema Jacopo della Lana bolognese, e Pietro Alighieri rincalzava con Ius naturale et ius gentium, mentre altri pensarono, nell'antichità e ai nostri tempi, a un valore indeterminato (ma comunque ristrettissimo), o a Guido Cavalcanti o a Dino Compagni e a Dante stesso, ecc. Ma nell'ottavo libro dell'Etica di Aristotele, tradotta e commentata da Tommaso d'Aquino, Dante leggeva che due sono i Diritti, non scritto o naturale, e scritto in legge codificata: Iustum est duplex, naturale e legale, ed entrambi non sono più osservati, perché le tre faville che hanno acceso i cuori dei Fiorentini li portano ad un irragionevole voler contrastare o disattendere le regole di un pacifico ordinamento civile. Si discute quindi degli avvenimenti che in realtà vengono profetizzati dopo essere già avvenuti, per cui dopo lungo contrasto il primo maggio del 1300 uno scontro tra giovani delle consorterie dei Donati (Neri) e dei Cerchi (Bianchi) porterà a un ferimento che scatenerà continue rappresaglie, finché i campagnoli ("selvaggi") Bianchi cacceranno in esilio con grande danno i capi Neri, nel giugno del 1301. Ma la supremazia verrà presto persa: i Neri torneranno e domineranno, per lungo tempo e con grave scorno e pesanti rappresaglie (incuranti dello sdegno altrui) per gli avversari con l'appoggio di chi per ora si sta destreggiando (piaggia) tra le due fazioni, senz'altro alludendo qui a papa Bonifacio VIII. Ferma poi 152 152 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… queste sue parole tristi il dannato, ma il vivente assetato di conoscenza insiste perché gli venga donato prezioso ulteriore insegnamento: la virtù civile messa in atto dagli onorevoli Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Iacopo Rusticucci, Arrigo (forse dei Fifanti), Mosca dei Lamberti, ha fruttato loro le dolcezze del Paradiso o i veleni infernali? Boccaccio osservava, chiosando questo passo, che il ben far di tali pur insigni personaggi non prevedeva di mettere le loro qualità a servizio della legge divina: e le sole virtù civili, la magnanimità stessa, pur ammirevoli, non bastano a ben indirizzare ogni propria inclinazione se non c'è il perfezionamento apportato dalla Grazia divina, quando ci si confronta con la dimensione dell'eterno, pur essendo stati capaci di superare faziosità ed egoismi e di giovare alla comunità. Così, coerentemente e nel ricco mosaico che viene tessuto a tratteggiare la complessità dell'essere uomo e cittadino terreno, anche in conseguenza della situazione nella quale era precipitata Firenze, tutti i suddetti grandi personaggi risultano posizionati tra l'anime più nere, perché sono appesantiti, e quindi spinti verso i recessi più bassi dell'Inferno, da svariate colpe. Prima di terminare definitivamente il proprio discorso, Ciacco prega poi di essere ricordato ai viventi, ritornando infine alla stessa condizione fisica e spirituale degli altri dannati del terzo cerchio. Interviene nuovamente la guida intellettiva, Virgilio, osservando che il personaggio che ha permesso al suo discepolo le recenti acquisizioni sapienziali non si potrà più risollevare finché non arriverà il suono delle trombe angeliche che annunceranno il Giudizio Universale con la valutazione operata dall'autorità divina nemica a tutti i peccatori: la funzione provvidenziale di Ciacco viene quindi sancita come definitivamente conclusa, e si attende il momento in cui verrà perfezionata per l'eternità la sua spiacevole condizione, inverando completamente la sua essenza già ombreggiata in vita. In occasione del Giudizio, avverte Virgilio, ogni anima dannata ritroverà la propria tomba e si impossesserà nuovamente del corpo che le pertiene, ascoltando la definitiva sentenza della propria sorte eterna. Attraversando quella queste sue parole tristi il dannato, ma il vivente assetato di conoscenza insiste perché gli venga donato prezioso ulteriore insegnamento: la virtù civile messa in atto dagli onorevoli Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Iacopo Rusticucci, Arrigo (forse dei Fifanti), Mosca dei Lamberti, ha fruttato loro le dolcezze del Paradiso o i veleni infernali? Boccaccio osservava, chiosando questo passo, che il ben far di tali pur insigni personaggi non prevedeva di mettere le loro qualità a servizio della legge divina: e le sole virtù civili, la magnanimità stessa, pur ammirevoli, non bastano a ben indirizzare ogni propria inclinazione se non c'è il perfezionamento apportato dalla Grazia divina, quando ci si confronta con la dimensione dell'eterno, pur essendo stati capaci di superare faziosità ed egoismi e di giovare alla comunità. Così, coerentemente e nel ricco mosaico che viene tessuto a tratteggiare la complessità dell'essere uomo e cittadino terreno, anche in conseguenza della situazione nella quale era precipitata Firenze, tutti i suddetti grandi personaggi risultano posizionati tra l'anime più nere, perché sono appesantiti, e quindi spinti verso i recessi più bassi dell'Inferno, da svariate colpe. Prima di terminare definitivamente il proprio discorso, Ciacco prega poi di essere ricordato ai viventi, ritornando infine alla stessa condizione fisica e spirituale degli altri dannati del terzo cerchio. Interviene nuovamente la guida intellettiva, Virgilio, osservando che il personaggio che ha permesso al suo discepolo le recenti acquisizioni sapienziali non si potrà più risollevare finché non arriverà il suono delle trombe angeliche che annunceranno il Giudizio Universale con la valutazione operata dall'autorità divina nemica a tutti i peccatori: la funzione provvidenziale di Ciacco viene quindi sancita come definitivamente conclusa, e si attende il momento in cui verrà perfezionata per l'eternità la sua spiacevole condizione, inverando completamente la sua essenza già ombreggiata in vita. In occasione del Giudizio, avverte Virgilio, ogni anima dannata ritroverà la propria tomba e si impossesserà nuovamente del corpo che le pertiene, ascoltando la definitiva sentenza della propria sorte eterna. Attraversando quella 153 153 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… queste sue parole tristi il dannato, ma il vivente assetato di conoscenza insiste perché gli venga donato prezioso ulteriore insegnamento: la virtù civile messa in atto dagli onorevoli Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Iacopo Rusticucci, Arrigo (forse dei Fifanti), Mosca dei Lamberti, ha fruttato loro le dolcezze del Paradiso o i veleni infernali? Boccaccio osservava, chiosando questo passo, che il ben far di tali pur insigni personaggi non prevedeva di mettere le loro qualità a servizio della legge divina: e le sole virtù civili, la magnanimità stessa, pur ammirevoli, non bastano a ben indirizzare ogni propria inclinazione se non c'è il perfezionamento apportato dalla Grazia divina, quando ci si confronta con la dimensione dell'eterno, pur essendo stati capaci di superare faziosità ed egoismi e di giovare alla comunità. Così, coerentemente e nel ricco mosaico che viene tessuto a tratteggiare la complessità dell'essere uomo e cittadino terreno, anche in conseguenza della situazione nella quale era precipitata Firenze, tutti i suddetti grandi personaggi risultano posizionati tra l'anime più nere, perché sono appesantiti, e quindi spinti verso i recessi più bassi dell'Inferno, da svariate colpe. Prima di terminare definitivamente il proprio discorso, Ciacco prega poi di essere ricordato ai viventi, ritornando infine alla stessa condizione fisica e spirituale degli altri dannati del terzo cerchio. Interviene nuovamente la guida intellettiva, Virgilio, osservando che il personaggio che ha permesso al suo discepolo le recenti acquisizioni sapienziali non si potrà più risollevare finché non arriverà il suono delle trombe angeliche che annunceranno il Giudizio Universale con la valutazione operata dall'autorità divina nemica a tutti i peccatori: la funzione provvidenziale di Ciacco viene quindi sancita come definitivamente conclusa, e si attende il momento in cui verrà perfezionata per l'eternità la sua spiacevole condizione, inverando completamente la sua essenza già ombreggiata in vita. In occasione del Giudizio, avverte Virgilio, ogni anima dannata ritroverà la propria tomba e si impossesserà nuovamente del corpo che le pertiene, ascoltando la definitiva sentenza della propria sorte eterna. Attraversando quella queste sue parole tristi il dannato, ma il vivente assetato di conoscenza insiste perché gli venga donato prezioso ulteriore insegnamento: la virtù civile messa in atto dagli onorevoli Farinata degli Uberti, Tegghiaio Aldobrandi degli Adimari, Iacopo Rusticucci, Arrigo (forse dei Fifanti), Mosca dei Lamberti, ha fruttato loro le dolcezze del Paradiso o i veleni infernali? Boccaccio osservava, chiosando questo passo, che il ben far di tali pur insigni personaggi non prevedeva di mettere le loro qualità a servizio della legge divina: e le sole virtù civili, la magnanimità stessa, pur ammirevoli, non bastano a ben indirizzare ogni propria inclinazione se non c'è il perfezionamento apportato dalla Grazia divina, quando ci si confronta con la dimensione dell'eterno, pur essendo stati capaci di superare faziosità ed egoismi e di giovare alla comunità. Così, coerentemente e nel ricco mosaico che viene tessuto a tratteggiare la complessità dell'essere uomo e cittadino terreno, anche in conseguenza della situazione nella quale era precipitata Firenze, tutti i suddetti grandi personaggi risultano posizionati tra l'anime più nere, perché sono appesantiti, e quindi spinti verso i recessi più bassi dell'Inferno, da svariate colpe. Prima di terminare definitivamente il proprio discorso, Ciacco prega poi di essere ricordato ai viventi, ritornando infine alla stessa condizione fisica e spirituale degli altri dannati del terzo cerchio. Interviene nuovamente la guida intellettiva, Virgilio, osservando che il personaggio che ha permesso al suo discepolo le recenti acquisizioni sapienziali non si potrà più risollevare finché non arriverà il suono delle trombe angeliche che annunceranno il Giudizio Universale con la valutazione operata dall'autorità divina nemica a tutti i peccatori: la funzione provvidenziale di Ciacco viene quindi sancita come definitivamente conclusa, e si attende il momento in cui verrà perfezionata per l'eternità la sua spiacevole condizione, inverando completamente la sua essenza già ombreggiata in vita. In occasione del Giudizio, avverte Virgilio, ogni anima dannata ritroverà la propria tomba e si impossesserà nuovamente del corpo che le pertiene, ascoltando la definitiva sentenza della propria sorte eterna. Attraversando quella 153 153 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 sporca poltiglia già descritta precedentemente, costituita da anime e pioggia punitiva, i due poeti trattano di questioni relative all'esistenza ultraterrena: Dante vuol sapere se le pene infernali resteranno invariate o varieranno in meglio o in peggio dopo il Giudizio, e Virgilio lo invita a riflettere sulle proprie conoscenze filosoficoteologiche per comprendere come quanto più una creatura si avvicina alla perfezione, al completamento del proprio stato, tanto più sente tormento e beatitudine; e benché i maledetti da Dio non possano mai arrivare a una vera perfezione, le si avvicineranno dopo il Giudizio soffrendo ancora più atrocemente di adesso. Proseguendo sul tragitto della circonferenza ancora per un tratto, e discutendo più a lungo di quanto non viene registrato da Dante-autore, i due viandanti arrivarono al punto in cui era permessa la discesa al cerchio successivo, trovando nella "cerniera di passaggio" il grande diavolo (nemico; forse con un riferimento a quanto l'avidità di beni materiali nuoce al genere umano) Pluto, altro personaggio mitologico trasformato in demone e sicuramente ricollegabile al concetto di ricchezza materiale. sporca poltiglia già descritta precedentemente, costituita da anime e pioggia punitiva, i due poeti trattano di questioni relative all'esistenza ultraterrena: Dante vuol sapere se le pene infernali resteranno invariate o varieranno in meglio o in peggio dopo il Giudizio, e Virgilio lo invita a riflettere sulle proprie conoscenze filosoficoteologiche per comprendere come quanto più una creatura si avvicina alla perfezione, al completamento del proprio stato, tanto più sente tormento e beatitudine; e benché i maledetti da Dio non possano mai arrivare a una vera perfezione, le si avvicineranno dopo il Giudizio soffrendo ancora più atrocemente di adesso. Proseguendo sul tragitto della circonferenza ancora per un tratto, e discutendo più a lungo di quanto non viene registrato da Dante-autore, i due viandanti arrivarono al punto in cui era permessa la discesa al cerchio successivo, trovando nella "cerniera di passaggio" il grande diavolo (nemico; forse con un riferimento a quanto l'avidità di beni materiali nuoce al genere umano) Pluto, altro personaggio mitologico trasformato in demone e sicuramente ricollegabile al concetto di ricchezza materiale. Questo quanto ai contenuti del canto: ma passiamo a come esso è stato recepito e "illustrato" da uno dei figli di Dante, Pietro Alighieri, per come risulta da un volgarizzamento inedito al suo Comentum ancora trecentesco conservato all'interno della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze e consegnato alle carte che compongono il codice segnato Ashburnamiani Appendice dantesca 2. Si tratta di un manoscritto omogeneo membranaceo ormai vicino alla fine del XIV secolo (lo dimostrano anche elementi come le d e le b con occhielli molto larghi, nel commento), caratterizzato dall'inserimento di apostrofi, virgole, punti esclamativi, due punti, punti interrogativi sia nel testo che nel commento, a volte anche accenti, con inchiostro più scuro rispetto a quello usato dal copista. C'è un più tardo revisore, che corregge o aggiunge parole mancanti (XV secolo?), forse è lo stesso che inserisce la punteggiatura; a c. 64 bis viene inserita una piccola carta cartacea con traduzione in spagnolo di Inferno I 1-9, di Questo quanto ai contenuti del canto: ma passiamo a come esso è stato recepito e "illustrato" da uno dei figli di Dante, Pietro Alighieri, per come risulta da un volgarizzamento inedito al suo Comentum ancora trecentesco conservato all'interno della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze e consegnato alle carte che compongono il codice segnato Ashburnamiani Appendice dantesca 2. Si tratta di un manoscritto omogeneo membranaceo ormai vicino alla fine del XIV secolo (lo dimostrano anche elementi come le d e le b con occhielli molto larghi, nel commento), caratterizzato dall'inserimento di apostrofi, virgole, punti esclamativi, due punti, punti interrogativi sia nel testo che nel commento, a volte anche accenti, con inchiostro più scuro rispetto a quello usato dal copista. C'è un più tardo revisore, che corregge o aggiunge parole mancanti (XV secolo?), forse è lo stesso che inserisce la punteggiatura; a c. 64 bis viene inserita una piccola carta cartacea con traduzione in spagnolo di Inferno I 1-9, di 154 154 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 sporca poltiglia già descritta precedentemente, costituita da anime e pioggia punitiva, i due poeti trattano di questioni relative all'esistenza ultraterrena: Dante vuol sapere se le pene infernali resteranno invariate o varieranno in meglio o in peggio dopo il Giudizio, e Virgilio lo invita a riflettere sulle proprie conoscenze filosoficoteologiche per comprendere come quanto più una creatura si avvicina alla perfezione, al completamento del proprio stato, tanto più sente tormento e beatitudine; e benché i maledetti da Dio non possano mai arrivare a una vera perfezione, le si avvicineranno dopo il Giudizio soffrendo ancora più atrocemente di adesso. Proseguendo sul tragitto della circonferenza ancora per un tratto, e discutendo più a lungo di quanto non viene registrato da Dante-autore, i due viandanti arrivarono al punto in cui era permessa la discesa al cerchio successivo, trovando nella "cerniera di passaggio" il grande diavolo (nemico; forse con un riferimento a quanto l'avidità di beni materiali nuoce al genere umano) Pluto, altro personaggio mitologico trasformato in demone e sicuramente ricollegabile al concetto di ricchezza materiale. sporca poltiglia già descritta precedentemente, costituita da anime e pioggia punitiva, i due poeti trattano di questioni relative all'esistenza ultraterrena: Dante vuol sapere se le pene infernali resteranno invariate o varieranno in meglio o in peggio dopo il Giudizio, e Virgilio lo invita a riflettere sulle proprie conoscenze filosoficoteologiche per comprendere come quanto più una creatura si avvicina alla perfezione, al completamento del proprio stato, tanto più sente tormento e beatitudine; e benché i maledetti da Dio non possano mai arrivare a una vera perfezione, le si avvicineranno dopo il Giudizio soffrendo ancora più atrocemente di adesso. Proseguendo sul tragitto della circonferenza ancora per un tratto, e discutendo più a lungo di quanto non viene registrato da Dante-autore, i due viandanti arrivarono al punto in cui era permessa la discesa al cerchio successivo, trovando nella "cerniera di passaggio" il grande diavolo (nemico; forse con un riferimento a quanto l'avidità di beni materiali nuoce al genere umano) Pluto, altro personaggio mitologico trasformato in demone e sicuramente ricollegabile al concetto di ricchezza materiale. Questo quanto ai contenuti del canto: ma passiamo a come esso è stato recepito e "illustrato" da uno dei figli di Dante, Pietro Alighieri, per come risulta da un volgarizzamento inedito al suo Comentum ancora trecentesco conservato all'interno della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze e consegnato alle carte che compongono il codice segnato Ashburnamiani Appendice dantesca 2. Si tratta di un manoscritto omogeneo membranaceo ormai vicino alla fine del XIV secolo (lo dimostrano anche elementi come le d e le b con occhielli molto larghi, nel commento), caratterizzato dall'inserimento di apostrofi, virgole, punti esclamativi, due punti, punti interrogativi sia nel testo che nel commento, a volte anche accenti, con inchiostro più scuro rispetto a quello usato dal copista. C'è un più tardo revisore, che corregge o aggiunge parole mancanti (XV secolo?), forse è lo stesso che inserisce la punteggiatura; a c. 64 bis viene inserita una piccola carta cartacea con traduzione in spagnolo di Inferno I 1-9, di Questo quanto ai contenuti del canto: ma passiamo a come esso è stato recepito e "illustrato" da uno dei figli di Dante, Pietro Alighieri, per come risulta da un volgarizzamento inedito al suo Comentum ancora trecentesco conservato all'interno della Biblioteca Mediceo Laurenziana di Firenze e consegnato alle carte che compongono il codice segnato Ashburnamiani Appendice dantesca 2. Si tratta di un manoscritto omogeneo membranaceo ormai vicino alla fine del XIV secolo (lo dimostrano anche elementi come le d e le b con occhielli molto larghi, nel commento), caratterizzato dall'inserimento di apostrofi, virgole, punti esclamativi, due punti, punti interrogativi sia nel testo che nel commento, a volte anche accenti, con inchiostro più scuro rispetto a quello usato dal copista. C'è un più tardo revisore, che corregge o aggiunge parole mancanti (XV secolo?), forse è lo stesso che inserisce la punteggiatura; a c. 64 bis viene inserita una piccola carta cartacea con traduzione in spagnolo di Inferno I 1-9, di 154 154 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… epoca moderna, a giudicare dalla scrittura. L'area di localizzazione è quella toscana (si noti ad esempio l'uso dei dittonghi: a c. 2r ritruova, ecc.); cc. III+133+III' (cartacee le carte di guardia), cm 31,3x25. I fascicoli in cui è organizzato il codice sono 14, con una carta finale, e le colonne di scrittura sono due: testo con iniziali sporgenti su quella interna, commento su quella esterna. La mano è la stessa in littera textualis semplificata per il testo e le rubriche, in lettera bastarda cancelleresca per il commento. Le iniziali di canto sono filigranate, quelle di terzina toccate di giallo; nel solo commento segni di paragrafo a piè di mosca rossi. Il codice contiene alla c. 1v il Proemio di Iacopo della Lana, alla c. 2r quello di Pietro Alighieri e da c. 2v comincia il Comentum volgarizzato di Pietro Alighieri alla Commedìa fino a Paradiso XXXII 138 compreso (Inferno cc. 2v47r; Purgatorio cc. 47r-93r; Paradiso cc. 93r-132v; alla c. 133r breve componimento poetico che si conclude con le parole "valente e presto. Deo gratias" su foglio eraso dal fondo del quale emerge un precedente testo su due colonne). Si segnalano a Inferno I 85 autore corretto in tutore, sembra di stessa mano del copista; 28 poi ch'i' ebbi posato il corpo lasso, nel margine destro, con scripta più tarda e inchiostro più chiaro: "alia poi posato ebbi un po<co> il chorpo lasso"; VIII 79 lunga giornata espunto e corretto nel margine destro in grande agirata (come in Rb, Riccardiano 1005, "fratello" di Urb e di Mad), ecc. Bibliografia relativa al codice: Roddewig pp. 77-78 n. 182; Rocca 348; Petrocchi 516; Mostra di codici ed edizioni dantesche, Firenze, Sandron, 1965, p. 87 n. 119; Marisa Boschi Rotiroti, Codicologia trecentesca della "Commedia". Entro e oltre l'antica vulgata, Roma, Viella, 2004, p. 121, n. 98. Per la trascrizione si seguono le norme di cauto ammodernamento grafico fissate da Antonio Lanza nelle Norme per i redattori della rivista Letteratura Italiana Antica da lui diretta. epoca moderna, a giudicare dalla scrittura. L'area di localizzazione è quella toscana (si noti ad esempio l'uso dei dittonghi: a c. 2r ritruova, ecc.); cc. III+133+III' (cartacee le carte di guardia), cm 31,3x25. I fascicoli in cui è organizzato il codice sono 14, con una carta finale, e le colonne di scrittura sono due: testo con iniziali sporgenti su quella interna, commento su quella esterna. La mano è la stessa in littera textualis semplificata per il testo e le rubriche, in lettera bastarda cancelleresca per il commento. Le iniziali di canto sono filigranate, quelle di terzina toccate di giallo; nel solo commento segni di paragrafo a piè di mosca rossi. Il codice contiene alla c. 1v il Proemio di Iacopo della Lana, alla c. 2r quello di Pietro Alighieri e da c. 2v comincia il Comentum volgarizzato di Pietro Alighieri alla Commedìa fino a Paradiso XXXII 138 compreso (Inferno cc. 2v47r; Purgatorio cc. 47r-93r; Paradiso cc. 93r-132v; alla c. 133r breve componimento poetico che si conclude con le parole "valente e presto. Deo gratias" su foglio eraso dal fondo del quale emerge un precedente testo su due colonne). Si segnalano a Inferno I 85 autore corretto in tutore, sembra di stessa mano del copista; 28 poi ch'i' ebbi posato il corpo lasso, nel margine destro, con scripta più tarda e inchiostro più chiaro: "alia poi posato ebbi un po<co> il chorpo lasso"; VIII 79 lunga giornata espunto e corretto nel margine destro in grande agirata (come in Rb, Riccardiano 1005, "fratello" di Urb e di Mad), ecc. Bibliografia relativa al codice: Roddewig pp. 77-78 n. 182; Rocca 348; Petrocchi 516; Mostra di codici ed edizioni dantesche, Firenze, Sandron, 1965, p. 87 n. 119; Marisa Boschi Rotiroti, Codicologia trecentesca della "Commedia". Entro e oltre l'antica vulgata, Roma, Viella, 2004, p. 121, n. 98. Per la trascrizione si seguono le norme di cauto ammodernamento grafico fissate da Antonio Lanza nelle Norme per i redattori della rivista Letteratura Italiana Antica da lui diretta. Rubrica: "Capitolo 6° dello Inferno, nel quale Dante <conta> come sono puniti e ghiotti e golosi". Al tornar della mente: questo capitolo si divide in tre parti. Nella prima tratta del terzo cerchio e della sua pena, infino quivi: Elle giacean. Ivi domanda Dante Virgilio una questione: perch'io Rubrica: "Capitolo 6° dello Inferno, nel quale Dante <conta> come sono puniti e ghiotti e golosi". Al tornar della mente: questo capitolo si divide in tre parti. Nella prima tratta del terzo cerchio e della sua pena, infino quivi: Elle giacean. Ivi domanda Dante Virgilio una questione: perch'io 155 155 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… epoca moderna, a giudicare dalla scrittura. L'area di localizzazione è quella toscana (si noti ad esempio l'uso dei dittonghi: a c. 2r ritruova, ecc.); cc. III+133+III' (cartacee le carte di guardia), cm 31,3x25. I fascicoli in cui è organizzato il codice sono 14, con una carta finale, e le colonne di scrittura sono due: testo con iniziali sporgenti su quella interna, commento su quella esterna. La mano è la stessa in littera textualis semplificata per il testo e le rubriche, in lettera bastarda cancelleresca per il commento. Le iniziali di canto sono filigranate, quelle di terzina toccate di giallo; nel solo commento segni di paragrafo a piè di mosca rossi. Il codice contiene alla c. 1v il Proemio di Iacopo della Lana, alla c. 2r quello di Pietro Alighieri e da c. 2v comincia il Comentum volgarizzato di Pietro Alighieri alla Commedìa fino a Paradiso XXXII 138 compreso (Inferno cc. 2v47r; Purgatorio cc. 47r-93r; Paradiso cc. 93r-132v; alla c. 133r breve componimento poetico che si conclude con le parole "valente e presto. Deo gratias" su foglio eraso dal fondo del quale emerge un precedente testo su due colonne). Si segnalano a Inferno I 85 autore corretto in tutore, sembra di stessa mano del copista; 28 poi ch'i' ebbi posato il corpo lasso, nel margine destro, con scripta più tarda e inchiostro più chiaro: "alia poi posato ebbi un po<co> il chorpo lasso"; VIII 79 lunga giornata espunto e corretto nel margine destro in grande agirata (come in Rb, Riccardiano 1005, "fratello" di Urb e di Mad), ecc. Bibliografia relativa al codice: Roddewig pp. 77-78 n. 182; Rocca 348; Petrocchi 516; Mostra di codici ed edizioni dantesche, Firenze, Sandron, 1965, p. 87 n. 119; Marisa Boschi Rotiroti, Codicologia trecentesca della "Commedia". Entro e oltre l'antica vulgata, Roma, Viella, 2004, p. 121, n. 98. Per la trascrizione si seguono le norme di cauto ammodernamento grafico fissate da Antonio Lanza nelle Norme per i redattori della rivista Letteratura Italiana Antica da lui diretta. epoca moderna, a giudicare dalla scrittura. L'area di localizzazione è quella toscana (si noti ad esempio l'uso dei dittonghi: a c. 2r ritruova, ecc.); cc. III+133+III' (cartacee le carte di guardia), cm 31,3x25. I fascicoli in cui è organizzato il codice sono 14, con una carta finale, e le colonne di scrittura sono due: testo con iniziali sporgenti su quella interna, commento su quella esterna. La mano è la stessa in littera textualis semplificata per il testo e le rubriche, in lettera bastarda cancelleresca per il commento. Le iniziali di canto sono filigranate, quelle di terzina toccate di giallo; nel solo commento segni di paragrafo a piè di mosca rossi. Il codice contiene alla c. 1v il Proemio di Iacopo della Lana, alla c. 2r quello di Pietro Alighieri e da c. 2v comincia il Comentum volgarizzato di Pietro Alighieri alla Commedìa fino a Paradiso XXXII 138 compreso (Inferno cc. 2v47r; Purgatorio cc. 47r-93r; Paradiso cc. 93r-132v; alla c. 133r breve componimento poetico che si conclude con le parole "valente e presto. Deo gratias" su foglio eraso dal fondo del quale emerge un precedente testo su due colonne). Si segnalano a Inferno I 85 autore corretto in tutore, sembra di stessa mano del copista; 28 poi ch'i' ebbi posato il corpo lasso, nel margine destro, con scripta più tarda e inchiostro più chiaro: "alia poi posato ebbi un po<co> il chorpo lasso"; VIII 79 lunga giornata espunto e corretto nel margine destro in grande agirata (come in Rb, Riccardiano 1005, "fratello" di Urb e di Mad), ecc. Bibliografia relativa al codice: Roddewig pp. 77-78 n. 182; Rocca 348; Petrocchi 516; Mostra di codici ed edizioni dantesche, Firenze, Sandron, 1965, p. 87 n. 119; Marisa Boschi Rotiroti, Codicologia trecentesca della "Commedia". Entro e oltre l'antica vulgata, Roma, Viella, 2004, p. 121, n. 98. Per la trascrizione si seguono le norme di cauto ammodernamento grafico fissate da Antonio Lanza nelle Norme per i redattori della rivista Letteratura Italiana Antica da lui diretta. Rubrica: "Capitolo 6° dello Inferno, nel quale Dante <conta> come sono puniti e ghiotti e golosi". Al tornar della mente: questo capitolo si divide in tre parti. Nella prima tratta del terzo cerchio e della sua pena, infino quivi: Elle giacean. Ivi domanda Dante Virgilio una questione: perch'io Rubrica: "Capitolo 6° dello Inferno, nel quale Dante <conta> come sono puniti e ghiotti e golosi". Al tornar della mente: questo capitolo si divide in tre parti. Nella prima tratta del terzo cerchio e della sua pena, infino quivi: Elle giacean. Ivi domanda Dante Virgilio una questione: perch'io 155 155 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 dissi: "Maestro. Ivi forma una questione al detto spirito infino alla fine. Nella prima parte Dante, abbiendo considerato del vizio della lussuria e della sua pena, ora procede a considerare del vizio della gola fingendo tra li golosi iacere e sopra loro piovere quella acqua puzzolente. E questo significa la gravezza de' cibi che per diversi infirmitadi ci fa giacere e infermare con catarro, rema, ritruopico, et cetera. E però dice santo Ioanni Crisostimo: "Quelli che con delicatezze di cibi conducono la vita portano e corpi più liquidi che lla cera, a' quali vengono gotti, tremolenza, vecchiezza inanzi al tempo e sentimenti gravi e grossi e quasi sepolti. Più n'ha uccisi el disordinato mangiare e bere che 'l coltello". E Osee profeta: "La ricolta, ciò è del pane e vino, sepellisce l'uomo". E santo Girolomo dice: "Colui che lussuria, vivendo è morto, ma colui che inebria è morto e sepolto". E dice che pute la terra dove cade quella piova, significando el corpo umano gravato della ebrietà che pute, del quale dice il Salmista: "Sepulcro patente è la gola loro"; dice la chiosa: "L'uomo il quale empie la sera la gola pute la sequente mattina ad modo che uno sepolcro". Quando ci scorse: finge trovare quivi Cerbero, dicendo come Virgilio lo quetò empiendoli la bocca di polvere. Alcuni spongono e dicono che questo Cerbero significa la Terra universale che si divide in tre capi, ciò è Asia, Affrica, Europa; e questi sono e tre capi di cerbaro, ciò <è> della terra che divora la polvere nostra, ciò è la carne nostra sepolta. In altro modo questo Cerbero significa il movimento e vizio della gola, e chiamasi Cerbero quasi "divorante la carne". E fingono ch'e' fu figliuolo di Titano giogante e della Terra. Tre suoi capi sono spezie del vizio della gola, imperò che sono alquanto golosi nella qualità del cibo, contra ' quali è quello esemplo che dice Solino: "Cesare, perché fusse tanto grande uomo, nondimeno manicava pesci picoli, pane grosso e cacio bufolino". E Ioel profeta dice: "Ululate, voi che beete il vino con la dolcezza, imperò ch'elli perisce dalla bocca vostra". E santo Bernardo dice: "E cibi si debbono condire per modo che basti a mangiarli, e non perché sieno desiderabili". E Lucano poeta dice che basta a' popoli el fiume e la biada. La seconda spezie del vizio della gola si commette nella quantità, contra ' quali dice Boezio: "La natura nostra di poche e piccole cose è contenta". E Lucano dice: "Apparate con quanto piccola cosa si puote producere la vita e quanto poco la natura [c. 10v] nostra adomanda. La terza spezie de' golosi sono coloro i quali frequentano questo vizio come 156 dissi: "Maestro. Ivi forma una questione al detto spirito infino alla fine. Nella prima parte Dante, abbiendo considerato del vizio della lussuria e della sua pena, ora procede a considerare del vizio della gola fingendo tra li golosi iacere e sopra loro piovere quella acqua puzzolente. E questo significa la gravezza de' cibi che per diversi infirmitadi ci fa giacere e infermare con catarro, rema, ritruopico, et cetera. E però dice santo Ioanni Crisostimo: "Quelli che con delicatezze di cibi conducono la vita portano e corpi più liquidi che lla cera, a' quali vengono gotti, tremolenza, vecchiezza inanzi al tempo e sentimenti gravi e grossi e quasi sepolti. Più n'ha uccisi el disordinato mangiare e bere che 'l coltello". E Osee profeta: "La ricolta, ciò è del pane e vino, sepellisce l'uomo". E santo Girolomo dice: "Colui che lussuria, vivendo è morto, ma colui che inebria è morto e sepolto". E dice che pute la terra dove cade quella piova, significando el corpo umano gravato della ebrietà che pute, del quale dice il Salmista: "Sepulcro patente è la gola loro"; dice la chiosa: "L'uomo il quale empie la sera la gola pute la sequente mattina ad modo che uno sepolcro". Quando ci scorse: finge trovare quivi Cerbero, dicendo come Virgilio lo quetò empiendoli la bocca di polvere. Alcuni spongono e dicono che questo Cerbero significa la Terra universale che si divide in tre capi, ciò è Asia, Affrica, Europa; e questi sono e tre capi di cerbaro, ciò <è> della terra che divora la polvere nostra, ciò è la carne nostra sepolta. In altro modo questo Cerbero significa il movimento e vizio della gola, e chiamasi Cerbero quasi "divorante la carne". E fingono ch'e' fu figliuolo di Titano giogante e della Terra. Tre suoi capi sono spezie del vizio della gola, imperò che sono alquanto golosi nella qualità del cibo, contra ' quali è quello esemplo che dice Solino: "Cesare, perché fusse tanto grande uomo, nondimeno manicava pesci picoli, pane grosso e cacio bufolino". E Ioel profeta dice: "Ululate, voi che beete il vino con la dolcezza, imperò ch'elli perisce dalla bocca vostra". E santo Bernardo dice: "E cibi si debbono condire per modo che basti a mangiarli, e non perché sieno desiderabili". E Lucano poeta dice che basta a' popoli el fiume e la biada. La seconda spezie del vizio della gola si commette nella quantità, contra ' quali dice Boezio: "La natura nostra di poche e piccole cose è contenta". E Lucano dice: "Apparate con quanto piccola cosa si puote producere la vita e quanto poco la natura [c. 10v] nostra adomanda. La terza spezie de' golosi sono coloro i quali frequentano questo vizio come 156 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 dissi: "Maestro. Ivi forma una questione al detto spirito infino alla fine. Nella prima parte Dante, abbiendo considerato del vizio della lussuria e della sua pena, ora procede a considerare del vizio della gola fingendo tra li golosi iacere e sopra loro piovere quella acqua puzzolente. E questo significa la gravezza de' cibi che per diversi infirmitadi ci fa giacere e infermare con catarro, rema, ritruopico, et cetera. E però dice santo Ioanni Crisostimo: "Quelli che con delicatezze di cibi conducono la vita portano e corpi più liquidi che lla cera, a' quali vengono gotti, tremolenza, vecchiezza inanzi al tempo e sentimenti gravi e grossi e quasi sepolti. Più n'ha uccisi el disordinato mangiare e bere che 'l coltello". E Osee profeta: "La ricolta, ciò è del pane e vino, sepellisce l'uomo". E santo Girolomo dice: "Colui che lussuria, vivendo è morto, ma colui che inebria è morto e sepolto". E dice che pute la terra dove cade quella piova, significando el corpo umano gravato della ebrietà che pute, del quale dice il Salmista: "Sepulcro patente è la gola loro"; dice la chiosa: "L'uomo il quale empie la sera la gola pute la sequente mattina ad modo che uno sepolcro". Quando ci scorse: finge trovare quivi Cerbero, dicendo come Virgilio lo quetò empiendoli la bocca di polvere. Alcuni spongono e dicono che questo Cerbero significa la Terra universale che si divide in tre capi, ciò è Asia, Affrica, Europa; e questi sono e tre capi di cerbaro, ciò <è> della terra che divora la polvere nostra, ciò è la carne nostra sepolta. In altro modo questo Cerbero significa il movimento e vizio della gola, e chiamasi Cerbero quasi "divorante la carne". E fingono ch'e' fu figliuolo di Titano giogante e della Terra. Tre suoi capi sono spezie del vizio della gola, imperò che sono alquanto golosi nella qualità del cibo, contra ' quali è quello esemplo che dice Solino: "Cesare, perché fusse tanto grande uomo, nondimeno manicava pesci picoli, pane grosso e cacio bufolino". E Ioel profeta dice: "Ululate, voi che beete il vino con la dolcezza, imperò ch'elli perisce dalla bocca vostra". E santo Bernardo dice: "E cibi si debbono condire per modo che basti a mangiarli, e non perché sieno desiderabili". E Lucano poeta dice che basta a' popoli el fiume e la biada. La seconda spezie del vizio della gola si commette nella quantità, contra ' quali dice Boezio: "La natura nostra di poche e piccole cose è contenta". E Lucano dice: "Apparate con quanto piccola cosa si puote producere la vita e quanto poco la natura [c. 10v] nostra adomanda. La terza spezie de' golosi sono coloro i quali frequentano questo vizio come 156 2007 2007 dissi: "Maestro. Ivi forma una questione al detto spirito infino alla fine. Nella prima parte Dante, abbiendo considerato del vizio della lussuria e della sua pena, ora procede a considerare del vizio della gola fingendo tra li golosi iacere e sopra loro piovere quella acqua puzzolente. E questo significa la gravezza de' cibi che per diversi infirmitadi ci fa giacere e infermare con catarro, rema, ritruopico, et cetera. E però dice santo Ioanni Crisostimo: "Quelli che con delicatezze di cibi conducono la vita portano e corpi più liquidi che lla cera, a' quali vengono gotti, tremolenza, vecchiezza inanzi al tempo e sentimenti gravi e grossi e quasi sepolti. Più n'ha uccisi el disordinato mangiare e bere che 'l coltello". E Osee profeta: "La ricolta, ciò è del pane e vino, sepellisce l'uomo". E santo Girolomo dice: "Colui che lussuria, vivendo è morto, ma colui che inebria è morto e sepolto". E dice che pute la terra dove cade quella piova, significando el corpo umano gravato della ebrietà che pute, del quale dice il Salmista: "Sepulcro patente è la gola loro"; dice la chiosa: "L'uomo il quale empie la sera la gola pute la sequente mattina ad modo che uno sepolcro". Quando ci scorse: finge trovare quivi Cerbero, dicendo come Virgilio lo quetò empiendoli la bocca di polvere. Alcuni spongono e dicono che questo Cerbero significa la Terra universale che si divide in tre capi, ciò è Asia, Affrica, Europa; e questi sono e tre capi di cerbaro, ciò <è> della terra che divora la polvere nostra, ciò è la carne nostra sepolta. In altro modo questo Cerbero significa il movimento e vizio della gola, e chiamasi Cerbero quasi "divorante la carne". E fingono ch'e' fu figliuolo di Titano giogante e della Terra. Tre suoi capi sono spezie del vizio della gola, imperò che sono alquanto golosi nella qualità del cibo, contra ' quali è quello esemplo che dice Solino: "Cesare, perché fusse tanto grande uomo, nondimeno manicava pesci picoli, pane grosso e cacio bufolino". E Ioel profeta dice: "Ululate, voi che beete il vino con la dolcezza, imperò ch'elli perisce dalla bocca vostra". E santo Bernardo dice: "E cibi si debbono condire per modo che basti a mangiarli, e non perché sieno desiderabili". E Lucano poeta dice che basta a' popoli el fiume e la biada. La seconda spezie del vizio della gola si commette nella quantità, contra ' quali dice Boezio: "La natura nostra di poche e piccole cose è contenta". E Lucano dice: "Apparate con quanto piccola cosa si puote producere la vita e quanto poco la natura [c. 10v] nostra adomanda. La terza spezie de' golosi sono coloro i quali frequentano questo vizio come 156 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… facevano e figliuoli di Heli sacerdote nel primo Libro de' Re e i figliuoli di Giob, che ogni dì facevano convito, e de' figliuoli di Heli, i quali peccavano in queste tre spezie della gola in figura e scritto, ch'e' furavano e traevano la carne della pentola con la fuscinola, che aveva tre uncini. E perché il padre non li correggevan cadde della sedia adietro e ruppesi il capo e morì. E in quello che dice Dante, che Virgilio empiette la bocca di Cerbero con la terra e così lo quietò significa che la ragione quieta el vizio della gola con grossi cibi e aspri, come fece Daniel profeta fanciullo, il quale spregiò e cibi del re e mangiava solamente legumi. E questa figura medesima di Cerbero pone Virgilio nel sesto dicendo che Enea, entrando in Inferno con la Sibilla, trovò Cerbero che gridava con tre gole e al collo suo erano avolte serpi, e la Sibilla li gettò in bocca uno cibo grosso e vile e quietollo. Elle giacean per terra: in questa seconda parte finge trovare in questo cerchio de' Golosi uno fiorentino che si chiamò Ciacco, che di poco tempo era morto, al quale Dante propose tre questioni. La prima se elli sa a quello che verranno i cittadini della città partita, ciò <è> Firenze, che fu mescolata di più genti, però che, essendo presa Fiesole da' Romani, fu ordinato che la terra fosse disfatta e della sua gente per metade è di Romani e altri forestieri, per altra metade si facesse la città di Firenze. E però dice ch'è partita, ciò è di queste due genti. A la quale risponde Ciacco che dopo molta contesa la parte selvaggia, ciò è guelfa, e la parte ghibellina verranno a battaglia insieme. E chiama parte guelfa "selvaggia" però che come l'animale salvatico rifiutò obedire all'uomo suo signore, così parte guelfa rifiuta obedire allo imperadore suo signore. E dice che questa parte guelfa vincerà parte ghibellina con grande offesa. Ma dopo tre soli, ciò è tre anni, questa parte guelfa cadrà e parte ghibellina salirà su per virtù d'uno pianeta del cielo che ancora è a piaggia, ciò è non è ancora mossa a suo corso di questo effetto, a similitudine che sta a piaggia aspettando fare il suo cammino. Poi adomanda se in quella città di Firenze è alcuna cosa iusta, al quale risponde che nel mondo sono due cose iuste per le quali è governata l'umana generazione, ciò è ragione naturale e costumi, come dice Graziano nel principio de' Decreti, le quali due cose in quella città non sono udite in effetto. Altri spongono che sono due leggi principali, che niuna si serva in quella città. L'una è legge naturale, nella quale si dice non fare altrui quello che non vuogli sia fatto a te, e fa' altrui quello che vuogli sia fatto a te, secondo che facevano e figliuoli di Heli sacerdote nel primo Libro de' Re e i figliuoli di Giob, che ogni dì facevano convito, e de' figliuoli di Heli, i quali peccavano in queste tre spezie della gola in figura e scritto, ch'e' furavano e traevano la carne della pentola con la fuscinola, che aveva tre uncini. E perché il padre non li correggevan cadde della sedia adietro e ruppesi il capo e morì. E in quello che dice Dante, che Virgilio empiette la bocca di Cerbero con la terra e così lo quietò significa che la ragione quieta el vizio della gola con grossi cibi e aspri, come fece Daniel profeta fanciullo, il quale spregiò e cibi del re e mangiava solamente legumi. E questa figura medesima di Cerbero pone Virgilio nel sesto dicendo che Enea, entrando in Inferno con la Sibilla, trovò Cerbero che gridava con tre gole e al collo suo erano avolte serpi, e la Sibilla li gettò in bocca uno cibo grosso e vile e quietollo. Elle giacean per terra: in questa seconda parte finge trovare in questo cerchio de' Golosi uno fiorentino che si chiamò Ciacco, che di poco tempo era morto, al quale Dante propose tre questioni. La prima se elli sa a quello che verranno i cittadini della città partita, ciò <è> Firenze, che fu mescolata di più genti, però che, essendo presa Fiesole da' Romani, fu ordinato che la terra fosse disfatta e della sua gente per metade è di Romani e altri forestieri, per altra metade si facesse la città di Firenze. E però dice ch'è partita, ciò è di queste due genti. A la quale risponde Ciacco che dopo molta contesa la parte selvaggia, ciò è guelfa, e la parte ghibellina verranno a battaglia insieme. E chiama parte guelfa "selvaggia" però che come l'animale salvatico rifiutò obedire all'uomo suo signore, così parte guelfa rifiuta obedire allo imperadore suo signore. E dice che questa parte guelfa vincerà parte ghibellina con grande offesa. Ma dopo tre soli, ciò è tre anni, questa parte guelfa cadrà e parte ghibellina salirà su per virtù d'uno pianeta del cielo che ancora è a piaggia, ciò è non è ancora mossa a suo corso di questo effetto, a similitudine che sta a piaggia aspettando fare il suo cammino. Poi adomanda se in quella città di Firenze è alcuna cosa iusta, al quale risponde che nel mondo sono due cose iuste per le quali è governata l'umana generazione, ciò è ragione naturale e costumi, come dice Graziano nel principio de' Decreti, le quali due cose in quella città non sono udite in effetto. Altri spongono che sono due leggi principali, che niuna si serva in quella città. L'una è legge naturale, nella quale si dice non fare altrui quello che non vuogli sia fatto a te, e fa' altrui quello che vuogli sia fatto a te, secondo che 157 157 Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… Massimo SERIACOPI Il sesto canto del Inferno al interno di un volgarizzamento… facevano e figliuoli di Heli sacerdote nel primo Libro de' Re e i figliuoli di Giob, che ogni dì facevano convito, e de' figliuoli di Heli, i quali peccavano in queste tre spezie della gola in figura e scritto, ch'e' furavano e traevano la carne della pentola con la fuscinola, che aveva tre uncini. E perché il padre non li correggevan cadde della sedia adietro e ruppesi il capo e morì. E in quello che dice Dante, che Virgilio empiette la bocca di Cerbero con la terra e così lo quietò significa che la ragione quieta el vizio della gola con grossi cibi e aspri, come fece Daniel profeta fanciullo, il quale spregiò e cibi del re e mangiava solamente legumi. E questa figura medesima di Cerbero pone Virgilio nel sesto dicendo che Enea, entrando in Inferno con la Sibilla, trovò Cerbero che gridava con tre gole e al collo suo erano avolte serpi, e la Sibilla li gettò in bocca uno cibo grosso e vile e quietollo. Elle giacean per terra: in questa seconda parte finge trovare in questo cerchio de' Golosi uno fiorentino che si chiamò Ciacco, che di poco tempo era morto, al quale Dante propose tre questioni. La prima se elli sa a quello che verranno i cittadini della città partita, ciò <è> Firenze, che fu mescolata di più genti, però che, essendo presa Fiesole da' Romani, fu ordinato che la terra fosse disfatta e della sua gente per metade è di Romani e altri forestieri, per altra metade si facesse la città di Firenze. E però dice ch'è partita, ciò è di queste due genti. A la quale risponde Ciacco che dopo molta contesa la parte selvaggia, ciò è guelfa, e la parte ghibellina verranno a battaglia insieme. E chiama parte guelfa "selvaggia" però che come l'animale salvatico rifiutò obedire all'uomo suo signore, così parte guelfa rifiuta obedire allo imperadore suo signore. E dice che questa parte guelfa vincerà parte ghibellina con grande offesa. Ma dopo tre soli, ciò è tre anni, questa parte guelfa cadrà e parte ghibellina salirà su per virtù d'uno pianeta del cielo che ancora è a piaggia, ciò è non è ancora mossa a suo corso di questo effetto, a similitudine che sta a piaggia aspettando fare il suo cammino. Poi adomanda se in quella città di Firenze è alcuna cosa iusta, al quale risponde che nel mondo sono due cose iuste per le quali è governata l'umana generazione, ciò è ragione naturale e costumi, come dice Graziano nel principio de' Decreti, le quali due cose in quella città non sono udite in effetto. Altri spongono che sono due leggi principali, che niuna si serva in quella città. L'una è legge naturale, nella quale si dice non fare altrui quello che non vuogli sia fatto a te, e fa' altrui quello che vuogli sia fatto a te, secondo che facevano e figliuoli di Heli sacerdote nel primo Libro de' Re e i figliuoli di Giob, che ogni dì facevano convito, e de' figliuoli di Heli, i quali peccavano in queste tre spezie della gola in figura e scritto, ch'e' furavano e traevano la carne della pentola con la fuscinola, che aveva tre uncini. E perché il padre non li correggevan cadde della sedia adietro e ruppesi il capo e morì. E in quello che dice Dante, che Virgilio empiette la bocca di Cerbero con la terra e così lo quietò significa che la ragione quieta el vizio della gola con grossi cibi e aspri, come fece Daniel profeta fanciullo, il quale spregiò e cibi del re e mangiava solamente legumi. E questa figura medesima di Cerbero pone Virgilio nel sesto dicendo che Enea, entrando in Inferno con la Sibilla, trovò Cerbero che gridava con tre gole e al collo suo erano avolte serpi, e la Sibilla li gettò in bocca uno cibo grosso e vile e quietollo. Elle giacean per terra: in questa seconda parte finge trovare in questo cerchio de' Golosi uno fiorentino che si chiamò Ciacco, che di poco tempo era morto, al quale Dante propose tre questioni. La prima se elli sa a quello che verranno i cittadini della città partita, ciò <è> Firenze, che fu mescolata di più genti, però che, essendo presa Fiesole da' Romani, fu ordinato che la terra fosse disfatta e della sua gente per metade è di Romani e altri forestieri, per altra metade si facesse la città di Firenze. E però dice ch'è partita, ciò è di queste due genti. A la quale risponde Ciacco che dopo molta contesa la parte selvaggia, ciò è guelfa, e la parte ghibellina verranno a battaglia insieme. E chiama parte guelfa "selvaggia" però che come l'animale salvatico rifiutò obedire all'uomo suo signore, così parte guelfa rifiuta obedire allo imperadore suo signore. E dice che questa parte guelfa vincerà parte ghibellina con grande offesa. Ma dopo tre soli, ciò è tre anni, questa parte guelfa cadrà e parte ghibellina salirà su per virtù d'uno pianeta del cielo che ancora è a piaggia, ciò è non è ancora mossa a suo corso di questo effetto, a similitudine che sta a piaggia aspettando fare il suo cammino. Poi adomanda se in quella città di Firenze è alcuna cosa iusta, al quale risponde che nel mondo sono due cose iuste per le quali è governata l'umana generazione, ciò è ragione naturale e costumi, come dice Graziano nel principio de' Decreti, le quali due cose in quella città non sono udite in effetto. Altri spongono che sono due leggi principali, che niuna si serva in quella città. L'una è legge naturale, nella quale si dice non fare altrui quello che non vuogli sia fatto a te, e fa' altrui quello che vuogli sia fatto a te, secondo che 157 157 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 Cristo dice nel Vangelio. L'altra è legge delle genti, ciò è legge umana, la quale comanda che a ogni persona sia dato quello ch'è suo, e niuno arichisca con danno altrui. e questa legeg è figliuola della detta legge naturale. E queste due leggi non hanno effetto in quella città di Firenze perché l'uno ruba e [c. 11r] usurpa e beni dell'artro, e l'uno caccia l'altro, e que' interviene per tre vizii che regnano ivi. Onde alla terza questione ch'ello domanda, della cagione di tanta malizia, risponde Ciacco che questo interviene per tre vizii principali che regnano in quella città di Firenze, ciò è superbia, invidia e avarizia. E io a llui: "Ancor vo' che m'insegni": poi ch'è adomandato de' cittadini in come, qui adomanda d'alquanti fiorentini in particulare, i quali riputava fussino stati virtuosi, e Ciacco risponde ch'e' sono danati disotto a lui. Perch'io dissi: "Maestro". In questa terza parte Dante domanda Virgilio se quelle anime, poi che saranno ricongiunte al corpo dopo il Iudicio Generale, aranno maggiore pena. E Virgilio risponde che sì, però che ogni cosa tanto sente maggior pena e maggiore allegreza quanto ella è più perfetta. E però che l'anima ha più della perfezione sua quando è unita col corpo che spartita, però dopo la resurrezione del corpo e dannati aranno maggiore pena, e ' beati maggiore allegrezza. Poi dice come giunsono al quarto cerchio dello Inferno, dov'e' trovorono Plutone, del quale dirà nel sequente capitolo. Cristo dice nel Vangelio. L'altra è legge delle genti, ciò è legge umana, la quale comanda che a ogni persona sia dato quello ch'è suo, e niuno arichisca con danno altrui. e questa legeg è figliuola della detta legge naturale. E queste due leggi non hanno effetto in quella città di Firenze perché l'uno ruba e [c. 11r] usurpa e beni dell'artro, e l'uno caccia l'altro, e que' interviene per tre vizii che regnano ivi. Onde alla terza questione ch'ello domanda, della cagione di tanta malizia, risponde Ciacco che questo interviene per tre vizii principali che regnano in quella città di Firenze, ciò è superbia, invidia e avarizia. E io a llui: "Ancor vo' che m'insegni": poi ch'è adomandato de' cittadini in come, qui adomanda d'alquanti fiorentini in particulare, i quali riputava fussino stati virtuosi, e Ciacco risponde ch'e' sono danati disotto a lui. Perch'io dissi: "Maestro". In questa terza parte Dante domanda Virgilio se quelle anime, poi che saranno ricongiunte al corpo dopo il Iudicio Generale, aranno maggiore pena. E Virgilio risponde che sì, però che ogni cosa tanto sente maggior pena e maggiore allegreza quanto ella è più perfetta. E però che l'anima ha più della perfezione sua quando è unita col corpo che spartita, però dopo la resurrezione del corpo e dannati aranno maggiore pena, e ' beati maggiore allegrezza. Poi dice come giunsono al quarto cerchio dello Inferno, dov'e' trovorono Plutone, del quale dirà nel sequente capitolo. Non sfuggiranno gli eccessi di allegorizzazione operati dal figlio di Dante, ma nemmeno gli elementi di forte peso per ciò che riguarda dati storici, linguistici, morali e culturali in generale offerti. Spetta a noi oggi decidere cosa è "economico" considerare come apporto esplicativo rispetto al testo e al contesto dantesco, ma senz'altro vale la pena di soffermarsi con attenzione su quanto ancora giace semisconosciuto nei codici antichi delle biblioteche per meglio comprendere il dettato complesso della Commedìa. Non sfuggiranno gli eccessi di allegorizzazione operati dal figlio di Dante, ma nemmeno gli elementi di forte peso per ciò che riguarda dati storici, linguistici, morali e culturali in generale offerti. Spetta a noi oggi decidere cosa è "economico" considerare come apporto esplicativo rispetto al testo e al contesto dantesco, ma senz'altro vale la pena di soffermarsi con attenzione su quanto ancora giace semisconosciuto nei codici antichi delle biblioteche per meglio comprendere il dettato complesso della Commedìa. 158 158 Tenzone nº 8 2007 Tenzone nº 8 2007 Cristo dice nel Vangelio. L'altra è legge delle genti, ciò è legge umana, la quale comanda che a ogni persona sia dato quello ch'è suo, e niuno arichisca con danno altrui. e questa legeg è figliuola della detta legge naturale. E queste due leggi non hanno effetto in quella città di Firenze perché l'uno ruba e [c. 11r] usurpa e beni dell'artro, e l'uno caccia l'altro, e que' interviene per tre vizii che regnano ivi. Onde alla terza questione ch'ello domanda, della cagione di tanta malizia, risponde Ciacco che questo interviene per tre vizii principali che regnano in quella città di Firenze, ciò è superbia, invidia e avarizia. E io a llui: "Ancor vo' che m'insegni": poi ch'è adomandato de' cittadini in come, qui adomanda d'alquanti fiorentini in particulare, i quali riputava fussino stati virtuosi, e Ciacco risponde ch'e' sono danati disotto a lui. Perch'io dissi: "Maestro". In questa terza parte Dante domanda Virgilio se quelle anime, poi che saranno ricongiunte al corpo dopo il Iudicio Generale, aranno maggiore pena. E Virgilio risponde che sì, però che ogni cosa tanto sente maggior pena e maggiore allegreza quanto ella è più perfetta. E però che l'anima ha più della perfezione sua quando è unita col corpo che spartita, però dopo la resurrezione del corpo e dannati aranno maggiore pena, e ' beati maggiore allegrezza. Poi dice come giunsono al quarto cerchio dello Inferno, dov'e' trovorono Plutone, del quale dirà nel sequente capitolo. Cristo dice nel Vangelio. L'altra è legge delle genti, ciò è legge umana, la quale comanda che a ogni persona sia dato quello ch'è suo, e niuno arichisca con danno altrui. e questa legeg è figliuola della detta legge naturale. E queste due leggi non hanno effetto in quella città di Firenze perché l'uno ruba e [c. 11r] usurpa e beni dell'artro, e l'uno caccia l'altro, e que' interviene per tre vizii che regnano ivi. Onde alla terza questione ch'ello domanda, della cagione di tanta malizia, risponde Ciacco che questo interviene per tre vizii principali che regnano in quella città di Firenze, ciò è superbia, invidia e avarizia. E io a llui: "Ancor vo' che m'insegni": poi ch'è adomandato de' cittadini in come, qui adomanda d'alquanti fiorentini in particulare, i quali riputava fussino stati virtuosi, e Ciacco risponde ch'e' sono danati disotto a lui. Perch'io dissi: "Maestro". In questa terza parte Dante domanda Virgilio se quelle anime, poi che saranno ricongiunte al corpo dopo il Iudicio Generale, aranno maggiore pena. E Virgilio risponde che sì, però che ogni cosa tanto sente maggior pena e maggiore allegreza quanto ella è più perfetta. E però che l'anima ha più della perfezione sua quando è unita col corpo che spartita, però dopo la resurrezione del corpo e dannati aranno maggiore pena, e ' beati maggiore allegrezza. Poi dice come giunsono al quarto cerchio dello Inferno, dov'e' trovorono Plutone, del quale dirà nel sequente capitolo. Non sfuggiranno gli eccessi di allegorizzazione operati dal figlio di Dante, ma nemmeno gli elementi di forte peso per ciò che riguarda dati storici, linguistici, morali e culturali in generale offerti. Spetta a noi oggi decidere cosa è "economico" considerare come apporto esplicativo rispetto al testo e al contesto dantesco, ma senz'altro vale la pena di soffermarsi con attenzione su quanto ancora giace semisconosciuto nei codici antichi delle biblioteche per meglio comprendere il dettato complesso della Commedìa. Non sfuggiranno gli eccessi di allegorizzazione operati dal figlio di Dante, ma nemmeno gli elementi di forte peso per ciò che riguarda dati storici, linguistici, morali e culturali in generale offerti. Spetta a noi oggi decidere cosa è "economico" considerare come apporto esplicativo rispetto al testo e al contesto dantesco, ma senz'altro vale la pena di soffermarsi con attenzione su quanto ancora giace semisconosciuto nei codici antichi delle biblioteche per meglio comprendere il dettato complesso della Commedìa. 158 158