ferruccio de bortoli
Il «cortile dei Gentili» è il luogo del dialogo, della tolleranza, ma soprattutto dell’ascolto. Nell’antica Gerusalemme era uno
spazio concesso dagli ebrei ai pagani, da
loro considerati non credenti. Gli uni potevano vedere gli altri, ma un muro divisorio
li separava. Questo muro ha resistito a lungo e anche oggi è fatto di pregiudizi e di incomprensioni. Benedetto xvi ha affidato la
missione del moderno «Cortile dei Gentili» al Pontificio Consiglio della Cultura, le
cui iniziative in questi anni sono state come
sapete molteplici e apprezzate. L’ultima
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nella più secolarizzata delle democrazie, la
Svezia. La circostanza del tutto eccezionale
nell’anno della Fede, che un incontro del
Cortile si svolga ad Assisi – il luogo dello
spirito e del messaggio francescano, la cattedra del dialogo interreligioso, il cenacolo
della pace tra i popoli –, aggiunge un significato particolare: il segno di un evento
che resterà nella memoria di molti. Il tema
dell’incontro è Dio, questo sconosciuto. Un
dialogo fra credenti e non credenti.
Lo spirito del Cortile e lo spirito di Assisi si fondono nell’esaltazione della virtù e
dell’umiltà del dialogo aperto a tutti, senza
distinzioni, senza gradi e senza gradini, e
nella città umbra è come essere spogliati
dei rispettivi ruoli, tutti. Quest’anno ricorre poi il cinquantesimo anniversario
del Concilio Vaticano ii, che aprì la Chiesa alla modernità e al dialogo tra le fedi
e soprattutto tra credenti e non credenti.
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Giovanni xxiii indicò nel dialogo ecumenico una prassi attraverso la quale ricomporre le asperità e le fratture di un mondo
in rapido cambiamento. Quel metodo, che
consisteva e consiste nel ricercare ciò che
ci unisce, mettendo da parte senza ovviamente rinnegare quello che divide credenti
e non credenti, conserva una grande attualità. Possiamo dire che è un metro che
misura la saggezza e che non sente l’usura
del tempo e agevola il costante incontro tra
due tradizioni culturali che si rispettano
e si ascoltano nel solco della comune radice giudaico-cristiana e non si rifugiano
nell’affermazione gridata e talvolta assurda
delle diverse identità.
Il cortile non è un’arena, non è uno studio televisivo e nemmeno una variopinta
blogosfera. Il filosofo francese Luc Ferry,
che è stato anche un poco fortunato ministro dell’Istruzione del governo francese,
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ha scritto, naturalmente sul versante laico,
che «dopo la morte delle grandi utopie che
inserivano le nostre azioni nell’orizzonte
di un vasto disegno», spesso sbagliato e
sanguinoso, aggiungiamo noi, «la questione del senso non trova più un luogo dove
esprimersi e resta confinata nell’intimità
più stretta della vita privata, spesso sfociando nell’individualismo più sfrenato e
nell’egoismo più cieco».
Un controverso scrittore italiano del
Novecento, Giovanni Papini, inizialmente
ateo così convinto e tenace da indirizzare
parte dei suoi studi filosofici alla negazione
di Dio e alla irrilevanza della Fede, a un
certo punto riconobbe di non avere la pietra di una certezza su cui posare il capo.
Bene: queste espressioni laiche, molto diverse per parole e per tempi, esemplificano a mio avviso la condizione dell’uomo
moderno nel suo rapporto, in qualunque
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modo esso avvenga, con il trascendente e
con Dio.
Senza apparire irriverenti vorrei richiamare, in conclusione, anche un piccolo
libretto di Paolo De Benedetti dal titolo
La memoria di Dio, in cui si ricorda la presenza nell’antico tempio degli «svegliatori», figure in seguito abolite, che avevano
il compito di svegliare Dio perché, dice sul
versante ebraico De Benedetti, anche Dio
può dormire e qualche volta, davanti alle
tragedie del Novecento, persino i credenti possono averlo sospettato. La metafora
o la provocazione di De Benedetti serve a
ricordare che il rapporto è bilaterale, che
chi crede sa di essere ascoltato e sa di non
essere solo, e ciò lo impegna a cercare costantemente questo rapporto, ogni giorno;
ma ci richiama anche all’esigenza di avere,
in una dimensione più modesta e terrena,
altri «svegliatori» delle nostre coscienze,
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senza l’arrogante pretesa di rivolgersi a
Dio, ma con la missione terrena di parlare
al cuore dei propri simili.
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È da lungo tempo che Assisi è divenuta
anche per me luogo-simbolo del dialogo e
della pace, offrendomi occasioni d’incontro che ho sempre accolto e accolgo quasi per rispondere a un intimo bisogno di
raccoglimento, sfuggendo alla pressione
incessante di doveri e di assilli da cui si rischia di non riuscire a sollevare lo sguardo
e la mente. Pace tra i popoli, pace come
coesione solidale in seno alla società, dialogo interreligioso, dialogo tra credenti e non
credenti. In questo spirito, nell’Assisi di
Francesco, nel moderno «Cortile dei Gentili», mi sento di poter dare il contributo di
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riflessione che sono stato invitato a offrire
all’attenzione del cardinale Ravasi – in un
rapporto di empatia come quello già stabilitosi tra noi – e all’attenzione di voi tutti.
Nel dialogo tra credenti e non credenti
– sempre prezioso in vista del bene comune da perseguire in questa così travagliata
nostra Italia – io rappresento, nella funzione che attualmente esercito al vertice delle
istituzioni, e solo in questo senso non mi
spoglio del mio ruolo, gli uni e gli altri, credenti e non credenti, come cittadini, come
italiani, e tendo a unirli. A ciò corrisponde
il mio mandato, così come lo interpreto e
lo vivo.
È d’altronde dalla schiettezza del dialogo, e da un suo esito fruttuoso, che possono venire stimoli e sostegni nuovi per una
ripresa di slancio ideale e di senso morale,
della quale ha avuto bisogno la nostra comunità nazionale oggi come in pochi altri
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momenti, da quando ha ritrovato, con la
democrazia, la sua libertà. Ed è giusto che
il dialogo affronti anche temi complessi e
ardui attorno ai quali i punti di vista dei
credenti e dei non credenti possono presentare più difficoltà a incontrarsi.
A me naturalmente sarà consentito di
esprimermi qui a titolo più strettamente
personale, richiamando espressioni di cultura e di pensiero che ho trovato, in diversi
periodi della mia vita, più congeniali alla
mia ricerca di risposte.
Voi conoscete il mio percorso e il suo
punto di partenza, da giovane che si guardava attorno e si apriva al futuro negli anni
Quaranta dello scorso secolo, e non vi stupirete quindi dell’approccio storico-politico di questo mio intervento.
Ricomincio da un dato fondamentale,
che è questo: l’Italia risorse, sulle rovine
del fascismo, a libertà e democrazia in uno
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straordinario moto di avvicinamento tra
ispirazioni ideali e politiche diverse e apparentemente inconciliabili, ma in effetti
già incontratesi nel crogiuolo dell’antifascismo. E così, nel porre le basi – princìpi
e regole condivisibili – di una nuova convivenza e crescita civile e sociale, nessun
muro tra posizioni dei credenti e dei non
credenti sbarrò la strada alle forze politiche
rappresentative delle une e delle altre posizioni, come testimonia la storia dell’Assemblea Costituente. Ciò fu possibile perché si
attinse – mi approprio di un’espressione
del cardinale Ravasi in un nostro recente
scambio di opinioni – a «un’antropologia
di base», a valori da essa ricavabili, e nello stesso tempo si attinse a un’evoluzione
convergente di molteplici scuole di pensiero e dottrine politiche.
Comune divenne – nel serissimo impegno di elaborazione e di confronto che an39
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cora ci rende ammirati e riconoscenti verso
l’opera dei nostri padri costituenti – il valore e l’obiettivo del «pieno sviluppo della
persona umana». A esso, e ai «diritti inviolabili» – è l’articolo 3, prima era l’articolo 2
della Costituzione – e ai «diritti inviolabili
dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità», si ancorò l’edificio della Costituzione
repubblicana.
Eloquente sintesi di quell’evoluzione
convergente di cui ho detto, resta questa
pagina di Leopoldo Elia, non dimenticato
grande costituzionalista e Presidente della Corte Costituzionale. Scrisse Elia: «Si
ritiene» – il riferimento è alla posizione
che emerge nell’Assemblea Costituente –
«di poter sostituire all’homo oeconomicus
dell’economia liberale una figura di uomo,
la persona umana appunto, qualificata dalla sua disponibilità a solidarizzare con le
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altre persone per il bene della comunità e,
soprattutto, della comunità nazionale. A
questo fine» – proseguiva Elia – «è abbastanza indifferente che all’atteggiamento
personalista si pervenga partendo da basi
dottrinali cattoliche, dal liberal-socialismo
o da una cultura liberal-democratica più
matura, o dal ripensamento delle esperienze del New Deal e del movimento laburista Nordeuropeo. Ciò che conta è l’affermarsi di un’ideologia costituente in nuce,
che trova maggiori consensi nella cultura
cattolica e in alcuni ambienti della cultura
laica, ma che si presenta con formulazioni
tali da valorizzare punti di convergenza, e
non di antitesi, con la cultura della sinistra
marxista».
Così Elia, e ho voluto citare questo suo
bellissimo brano per mettere in luce convergenze ideali, di principio, emerse e affermatesi nel dibattito del 1946-47. Perché
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invece, tra le convergenze di grande significato di cui è ricca la storia dell’Assemblea
Costituente, si ricorda soprattutto quella,
essenzialmente politica, dell’articolo 7.3
Ma in materia di valori fondamentali si parlò, per esempio, di incontro tra due solidarismi, quello cristiano e quello socialista.
Peraltro, a mio avviso, va anche ricordato,
e invece raramente lo si fa, un momento di
improvvisa tensione che insorse a conclusione del lungo processo di elaborazione
della Carta Costituzionale. Quando si era
ormai concluso l’esame di tutti gli articoli e
non restava che procedere all’approvazione finale della Carta, l’onorevole La Pira
chiese di parlare – era il 22 dicembre del
1947 –4 per proporre all’Assemblea che il
testo fosse preceduto da «una brevissima
formula» – egli disse – «di natura spirituale»: «In nome di Dio il popolo italiano si
dà la presente Costituzione».
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Apparve subito chiaro che la proposta
non avrebbe ottenuto il consenso, immaginato o sperato da La Pira, della grande maggioranza, se non dell’unanimità,
dell’Assemblea. Lo fecero intendere gli
interventi dell’onorevole Togliatti e dell’onorevole Calamandrei, se pur diversamente motivati. A sua volta, Francesco Saverio
Nitti, uomo dell’Italia liberale prefascista,
rilevò con accenti accorati il delinearsi
di una divisione profonda: «Perché» – si
chiese – «ci dovremmo dividere sul nome
di Dio? Il nome di Dio è troppo grande e le
nostre contese sono troppo piccole». L’onorevole La Pira, confermando la nobiltà
della sua iniziativa, d’altronde tutt’affatto
personale, comprese che potevano prodursi «motivi di screzio profondo, di disunione tra gli animi», aggiunse che ciò sarebbe
andato «contro il punto di vista dal quale
era partito» e finì per desistere.
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Colpisce, nel rileggerlo ancora oggi, l’intervento che pronunciò, nel corso di quel
breve dibattito, Concetto Marchesi, illustre uomo di cultura e in quella legislatura
deputato del Partito Comunista. Togliatti
aveva parlato, intervenendo prima di lui,
in termini che possiamo definire del tutto inappropriati, di un «solco ideologico»
che, con il voto sulla formula, La Pira si
sarebbe scavato, in quanto essa «si richiamava a determinate ideologie». Furono
queste, invece, le parole di Marchesi: «Ho
sempre respinto nella mia coscienza la ipotesi atea, che Dio sia un’ideologia di classe.
Dio è nel mistero del mondo e delle anime
umane. È nella luce della rivelazione per
chi crede; nell’inconoscibile e nell’ignoto
per chi non è stato toccato da questo lume
di grazia. Ho detto testé al collega La Pira
che questo mistero, questo supremo mistero dell’universo, non può essere risolto in
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un articolo della Costituzione, in un articolo della Costituzione che riguarda tutti
i cittadini, quelli che credono, quelli che
non credono, quelli che crederanno».
Quando, dieci anni dopo, Marchesi morì
e fu commemorato alla Camera – nel 1957,
io ero allora già deputato –, mi colpì il fatto
che proprio Togliatti riconoscesse e sottolineasse nel suo discorso commemorativo
che Marchesi «non negava il mistero», tanto da affermare che «oltre la realtà tangibile e sperimentabile, c’è l’ignoto e l’inconoscibile».
In realtà, la professione di marxismo che
pure veniva da Marchesi era mediata dal
suo umanesimo di sommo interprete della
classicità latina e di finissimo studioso, tra
l’altro e in modo particolare, del pensiero di Seneca, della sua dottrina morale e
del suo rapporto con il cristianesimo. Ma
è anche alla luce di altre testimonianze di
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pensiero laico che il riferimento alla dimensione del mistero mi è parso, sempre
di più, collocarsi su una linea di confine
nella distinzione e nel dialogo tra credenti
e non credenti. Le testimonianze si trovano talvolta in scritti di particolare intimità,
piuttosto che in trattazioni sistematiche di
certi autori.
Penso per esempio alle parole delle ultime volontà di Norberto Bobbio, scritte nel
1999 e rese pubbliche nel gennaio del 2004
all’indomani della sua morte. Cito: «Vorrei
funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai
da troppo tempo per tornarvi di soppiatto
all’ultima ora. Come uomo di ragione e non
di Fede, so di essere immerso nel mistero,
che la ragione non riesce a penetrare sino
in fondo, e le varie religioni interpretano in
vari modi».
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Riconoscimento, dunque, della dimensione del mistero, e dell’inadeguatezza della ragione a penetrarlo sino in fondo: vedo
qui un senso del limite che aiuta nell’intento
– dichiarato da Benedetto xvi nel complesso e profondo discorso di Regensburg – di
«superare la limitazione autodecretata
della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento», di «dischiudere a essa nuovamente tutta la sua ampiezza», così che
possano «ragione e Fede ritrovarsi unite in
modo nuovo».
Tornando a quelle scarne, così essenziali
«ultime volontà» di Bobbio, possiamo cogliere anche un altro spunto che ci interessa: il modo in cui personalità portatrici di
una visione laica si sono venute autodefinendo nel rapporto con Dio e con la Fede.
«Né ateo né agnostico», dice di sé il Bobbio che ho citato. E mi torna alla mente,
per la particolare consuetudine che ho da
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lungo tempo con l’opera di un grande, di
questo grande della cultura e letteratura
europee del Novecento, il modo in cui si
definisce Thomas Mann nello scrivere del
suo incontro a Roma, nel 1953, con Pio
xii: «Il non credente ed erede della cultura protestante piegò senza alcuna difficoltà interiore il ginocchio davanti a Pio xii
e baciò l’anello del Pescatore, poiché non
era a un uomo e a un uomo politico che io
mi genuflettevo, bensì a un idolo candido,
il quale, circondato dal più austero cerimoniale sacro e aulico, impersonava con
mitezza un poco sofferente due millenni
di storia occidentale». «Il non credente
ed erede della cultura protestante», già
insuperato narratore della saga biblica di
Giuseppe e dei suoi fratelli, seppe rendere
omaggio, con alto senso storico, alla figura
del pontefice romano.
Singolare appare invece, per semplicità
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colloquiale, anche se letterariamente impreziosita, l’invocazione di Dio da parte
del più eminente pensatore laico italiano
dello scorso secolo, Benedetto Croce, che
in una lettera personale del 1949 scrisse ad
Alcide De Gasperi: «Che Dio ti aiuti (perché anch’io credo, a modo mio, “a quel
che a tutti è Giove”, come diceva Torquato
Tasso): che Dio ti aiuti nella buona volontà
di servire l’Italia e di proteggere la sorte pericolante della civiltà, laica o non laica che
sia». Non deve scandalizzare quel «credo,
a modo mio» del Croce: ne coglierei il senso di misura e di rispetto che ha caratterizzato l’atteggiamento di personalità tra le
maggiori del mondo laico italiano verso la
sfera della Fede e verso il fatto religioso.
E come non cogliere poi la religiosità
del Soliloquio che Croce pubblicò un anno
prima di lasciarci? Cito: «La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci dal49
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le mani il compito a cui attendevamo; ma
essa non può fare altro che così interromperci, come noi non possiamo fare altro
che lasciarci interrompere, perché in ozio
stupido essa non ci può trovare. Vero è»
– prosegue Croce – «che la preparazione
alla morte è intesa da taluni come un necessario raccoglimento della nostra anima
in Dio; ma anche qui occorre osservare che
con Dio siamo e dobbiamo essere a contatto in tutta la vita, e niente di straordinario ora accade che c’imponga una pratica
inconsueta. Le anime pie di solito non la
pensano così, e si affannano a propiziarsi
Dio con una serie di atti che dovrebbero
correggere l’ordinario egoismo della loro
vita precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo.»
Come si vede, è in special modo in riflessioni sul tema del rapporto tra vita e morte,
o sul tema dell’oltrevita, che riaffiorano tra
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i laici atteggiamenti problematici. Così ancora Bobbio, nel suo De senectute, scrive:
«Quando dico che non credo alla seconda
vita, non intendo affermare nulla di perentorio. Voglio dire soltanto che mi sono
sempre parse più convincenti le ragioni del
dubbio che non quelle della certezza».
Quale considerazione traggo in definitiva da questa mia rapida perlustrazione?
La considerazione di un senso del limite
e di un’apertura della nostra tradizione
laica, che hanno favorito in Italia un clima di dialogo e di comprensione tra credenti e non credenti più che in altri Paesi
dell’Europa occidentale. Si tratta, naturalmente, anche di un fattore concorrente all’evoluzione dei rapporti tra Stato e
Chiesa nel quadro di riferimento offerto
dalla Costituzione repubblicana. L’impegno – sancito nel 1984 nell’Accordo di revisione del Concordato – «alla reciproca
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collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese», ha conosciuto
sviluppi concreti, in un’atmosfera fiduciosa, ed è destinato ad assumere oggi contenuti nuovi, a rispondere a nuove sfide.
La società italiana sta attraversando una
fase di profonda incertezza e inquietudine, nella quale forse sarebbe da rivisitare e più fortemente affermare la nozione
di «bene comune» o quella di «interesse
generale». E ciò non solo per proseguire,
rafforzandola, la collaborazione tra Stato e Chiesa nell’ottica dell’Accordo del
1984, ma per suscitare tra gli italiani una
più diffusa presa di coscienza e mobilitazione morale e civile. La profonda incertezza e inquietudine di cui dicevo nasce
certamente dall’asprezza delle prove cui
l’Italia, al pari di altri Paesi, è sottoposta
per effetto della crisi finanziaria ed economica nel contesto di un’Europa non
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abbastanza unita, solidale e lungimirante.
E quel che in Italia acuisce l’incertezza, e
produce grave disorientamento, è l’inadeguatezza del quadro politico a offrire
punti di riferimento e prospettive, percorso com’è da spinte centrifughe e tendenze
alla frammentazione. Per non parlare dei
fenomeni di degrado del costume e di scivolamento nell’illegalità che, insieme con
annose inefficienze istituzionali e amministrative, provocano un fuorviante rifiuto
della politica. Quel che rischia di perdersi è proprio il senso del «bene comune»,
dell’«interesse generale», che dovrebbe
spingere a una larghissima assunzione di
responsabilità, a ogni livello della società,
in funzione dei cambiamenti divenuti indispensabili non solo nel modo di essere
delle istituzioni, ma nei comportamenti
individuali e collettivi, nei modi di concepire benessere e progresso e di cooperare
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all’avvio di un nuovo sviluppo del Paese
nel quadro dell’Europa unita, uno sviluppo sostenibile da tutti i punti di vista.
Tutto ciò richiede una straordinaria concentrazione e convergenza di sforzi, a opera di credenti e non credenti, come accadde nel clima dell’Assemblea Costituente.
Sforzi tesi soprattutto a rianimare senso
dell’etica e del dovere, a diffondere una
nuova consapevolezza dei valori spirituali, dei doni della cultura, dei benefici della solidarietà, che soli possono elevare la
condizione umana. Concentrazione e convergenza di sforzi che rischierebbero di
diventare più ardue, se non compromesse,
dall’insorgere di contrapposizioni tra forze che si ponessero come rappresentanti
sul terreno politico dei credenti o degli
osservanti da un lato, dei non credenti o
non osservanti dall’altro, in particolare su
questioni controverse e delicate inerenti a
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scelte soggettive delle persone e dei rispettivi nuclei familiari. Mi auguro perciò sia
possibile affrontare tali questioni fuori di
antitetiche rigidità pregiudiziali e forse anche di forzose strettoie normative. Abbiamo bisogno in tutti i campi di apertura, di
reciproco ascolto e comprensione, di dialogo, di avvicinamento e unità nella diversità. Abbiamo bisogno, cioè, dello spirito
di Assisi.
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Il muro del Tempio
Abbiamo ascoltato dal Presidente Giorgio
Napolitano un discorso coerente e carico
di passione, straordinario per intensità di
cuore e di mente, nonché per singolare
finezza umana e intellettuale. Perciò, ho
pensato di scegliere due simboli: uno pre55
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sente nello stesso discorso di Napolitano
in maniera esplicita, l’altro, invece, solo
evocato dal direttore Ferruccio de Bortoli. Due immagini che stanno al centro
dell’esperienza del «Cortile dei Gentili»,
che ormai sta crescendo sempre di più e
ottiene risultati sorprendentemente positivi, nonostante i timori che ci assalgono
a ogni nuova tappa. Penso, per esempio,
all’evento di Stoccolma dell’ottobre 2012,
in un Paese, la Svezia, profondamente e
radicalmente secolarizzato, di matrice luterana e, nello stesso tempo, di tradizione
assolutamente interetnica. Una «logistica»
culturale molto delicata, quindi, soprattutto quando penso al momento in cui sono
dovuto intervenire nell’austera e solenne
Accademia Reale delle Scienze, sede della cerimonia del premio Nobel, in cui si
respira una laicità lontana anni luce da
quella che attraversa, fungendo quasi da
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habitat privilegiato, il discorso del nostro
Presidente.
Ora, il «Cortile dei Gentili» ha un simbolo di base da identificare: è paradossalmente un muro. Il «cortile», in realtà,
farebbe pensare a uno spazio dove si incrociano volti e sguardi, si intrecciano in
libertà persone, relazioni e scambi. Infatti,
come ricordava il direttore de Bortoli, nel
tempio di Gerusalemme gli ebrei guardavano negli occhi tanti altri volti, diversi tra
loro e differenti da quelli ebraici, eppure
accomunati dal tratto umano. In quel luogo così aperto, però, era stato eretto un
muro di separazione, scoperto nel 1871
da un archeologo francese, Charles Simon
Clermont-Ganneau, che lo ha identificato
grazie a due targhe di marmo rinvenute su
quel muro divisorio. Una, conservata nel
Museo archeologico di Istanbul, riporta
una scritta in greco che comminava la pena
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di morte a tutti i pagani che avessero osato
varcare quel confine ed entrare nello spazio sacro. In questo modo, la separatezza
tra il palazzo e il tempio era totale e assoluta. Ci si guardava e si ascoltavano le parole
gli uni degli altri ma, alla fine, le mani non
potevano assolutamente stringersi, come
avviene, invece, nel nostro «Cortile».
Questo incontro è, invece, un frutto maturo colto dall’albero del cristianesimo.
Infatti Cristo è rappresentato, direi quasi
«sceneggiato», da Paolo (cfr Ef 2,11-18)5
nell’atto di abbattere il muro di separazione esistente tra i due popoli, «facendo dei
due un solo popolo». Credo sia il compito
principale affidatoci: ricordare che esiste
una base comune infinitamente superiore
alle distinzioni, pur necessarie. Siamo tenuti ad affermare l’identità delle culture e
delle prospettive, senza negare la comune
radice umana. Einstein, alle soglie della
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morte, diceva agli scienziati: dimenticate
pure tutte le formule matematiche, non
temete se scordate i moduli più complessi della scienza, quello che non dovete mai
trascurare è l’umanità, componente indispensabile affinché tutte le voci possano
interloquire in modo armonioso nel dialogo universale del genere umano.
La parola «dialogo», un termine quasi
«magico», ha, sia in greco sia in italiano, almeno due accezioni. Da un lato, il dialogo
è soprattutto l’incrocio (dià-) tra due lógoi
diversi, tra due discorsi con articolazioni e
sfumature proprie. Dall’altro lato, vuol dire
scendere in profondità (dià-) nel discorso (lógos), attraverso un confronto serio e
rigoroso che, purtroppo, ai nostri giorni è
sempre più latitante. In proposito, richiamo
una battuta molto ironica, della tradizione
giudaica, che troviamo spesso declinata
all’interno dell’esperienza della comunica59
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zione quotidiana: «Lo stolto dice quel che
sa, il sapiente sa quel che dice». Per questo
motivo, quando un discorso è articolato e
proposto con sapienza e autorevolezza, e
non con l’unico scopo di emettere dei suoni,
lo stare insieme acquista un sapore diverso.
Perciò, il consenso tributato al Presidente
Napolitano non dipende soltanto dal fatto
che egli rappresenta un simbolo dei valori
attorno ai quali ci ritroviamo in tanti (la Costituzione italiana, per esempio, in particolare nella sua matrice profonda, intessuta su
identità diverse), ma soprattutto perché si
vuole manifestare l’apprezzamento di trovarsi finalmente di fronte a un discorso che
ha in sé una carica profonda, un messaggio,
un lógos riconoscibile e riconosciuto.
Gli «svegliatori» della coscienza
Il secondo simbolo è collegato all’introduzione del direttore de Bortoli, e mi consen60
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il dio ignoto
te di richiamare alla memoria l’immagine
degli «svegliatori», shomrîm in ebraico,
figura tipica del mondo biblico, in particolare della preghiera dei Salmi. Essa è
riconducibile al ruolo di chi, nella notte,
aveva il compito di vegliare e svegliare, un
impegno proprio sia della sentinella sia
dei sacerdoti oranti nel Tempio. Lo stesso
termine lo ritroviamo nelle parole di Cristo e nei testi di Paolo. Cristo, infatti, invita a vegliare e a essere svegli, «perché non
sapete quando è il momento» (Mc 13,33).
Dovremmo, quindi, essere abitati da una
sorta di tensione, che ai nostri giorni, purtroppo, si è di molto allentata, così da non
smarrire la categoria di futuro e il principio della speranza, riducendoci a guardare
esclusivamente all’immediato. Gesù, poi,
conclude il suo monito, dopo averlo spiegato con una parabola, in modo perentorio: «Quello che dico a voi, lo dico a tut61
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giorgio napolitano
· gianfranco ravasi
ti: vegliate! («state svegli», letteralmente)»
(Mc 13,37). Anche san Paolo, nella Lettera
ai Romani (13,11-13),6 evoca la medesima
immagine, parlando di un’alba che sta per
sorgere e che non consente più di dormire.
Il richiamo forte e coraggioso del Presidente alla moralità e al bene comune ci
spinge a riscoprire le grandi domande, a
ravvivare una sana inquietudine interiore.
A questo proposito cito spesso una frase di
Oscar Wilde, scrittore inglese nato a Dublino, dal profilo morale un po’ discutibile,
ma dotato di una incisività quasi chirurgica,
soprattutto con i suoi motti: «A dar risposte
sono capaci tutti, ma a porre le vere domande ci vuole un genio». Effettivamente, le
domande sul senso dell’esistenza, sulla vita
e sulla morte, sulla verità, sull’amore, sul
male, sul dolore, sono radicali e reclamano
il loro legittimo spazio e il loro irrinunciabile ruolo di «risvegliatrici» delle coscienze.
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Settant’anni fa, per esempio, eravamo
sotto un cielo plumbeo, da cui si vedevano cadere più bombe che stelle, l’Europa
presentava il suo volto striato di sangue,
mentre due personaggi folli, inquietanti e
immorali, Hitler e Stalin, dominavano il
mondo. La guerra dilagava, trascinando
con sé, in una corrente di miseria e di dolore, milioni di persone. Oggi non siamo
più a quel livello, però abbiamo contratto
una malattia peggiore, l’amoralità, la totale indifferenza verso tutti e verso tutto,
condita da dosi industriali di superficialità
e banalità, che tinge ogni cosa di grigio,
avvolgendoci in una fitta nebbia e ottundendo la capacità di distinguere il bianco
e il nero, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il vero e il falso. L’approdo verso
cui conduce l’assenza totale di moralità è
la deriva estrema dell’orgoglio, dell’arroganza sprezzante nel mostrarsi immorali,
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