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ARGOMENTO
STRUMENTI DI CONTROLLO DELL’AUTONOMIA NEGOZIALE:
IL SINDACATO GIUDIZIALE SULL’EQUILIBRIO DEL CONTRATTO
1. Traccia
Premesse brevi considerazioni sugli strumenti di controllo dell’autonomia negoziale, si soffermi in particolare il candidato sul sindacato giudiziale sull’equilibrio
del contratto.
2. Inquadramento della tematica
Il contratto e l’autonomia negoziale.
— Teoria del negozio giuridico.
— Il dogma della volontà e la sua crisi.
— L’autonomia negoziale come capacità di autovincolarsi al rispetto di una disciplina di diritto privato volontariamente assunta mediante la conclusione del negozio.
— Le libertà espressamente riconosciute dall’ordinamento con riferimento all’assunzione di un vincolo obbligatorio.
Il regolamento contrattuale e la sua integrazione.
— In base al modo in cui l’ordinamento procede, strumenti di controllo legali e
giudiziali.
— In base ai fini che l’ordinamento persegue, integrazione suppletiva e integrazione cogente.
La congruità dello scambio contrattuale.
— Definizione di contratto a prestazioni corrispettive.
— La causa del contratto: dalla causa in astratto alla causa in concreto.
Il sindacato giudiziale sull’equilibrio del contratto nella disciplina generale
del codice civile.
— Tendenziale incompetenza dell’interprete a sindacare l’adeguatezza del corrispettivo pattuito.
— Controllo circoscritto ai casi di “patologia sociale” (vizi della volontà, stato di
bisogno e di pericolo) e misurato.
Deroghe al principio della irrilevanza dell’adeguatezza del corrispettivo
contrattuale: propensione ad un sindacato sostanziale sul contenuto del contratto.
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DIRITTO CIVILE
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Contratto di lavoro: retribuzione proporzionata e sufficiente (art. 36, Cost.).
Il sindacato giudiziale sull’equilibrio del contratto nella legislazione speciale:
Contratti tra professionista e consumatore.
Disciplina dei rapporti tra istituti bancari e creditizi e clienti.
Disciplina dell’usura.
Disciplina della subfornitura.
3. Normativa
Art. 1372 c.c. (Efficacia del contratto)
Art. 1322 c.c. (Autonomia contrattuale)
Art. 1325 c.c. (Requisiti del contratto)
Artt. 1418-1421 c.c. (Nullità del contratto)
Art. 1424 c.c. (Conversione del contratto nullo)
Art. 1339 c.c. (Inserzione automatica di clausole)
Art. 2932 c.c. (Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto)
Artt. 1679-1706, comma 2, 2597 c.c.
Art. 1467 c.c. (Contratto con prestazioni corrispettive)
Art. 1384 c.c. (Riduzione della penale)
Art. 36, Cost.
Artt. 33 e 37 del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del consumo)
Art. 1815, comma 2, c.c. (Interessi)
Art. 120 del d.lgs. 1o settembre 1999, n. 385 (Testo Unico Bancario)
Legge 18 giugno 1998, n. 192 (Subfornitura)
4. Giurisprudenza
Cass. civ., Sez. I, 20 novembre 1992, n. 12401. Nei contratti a prestazioni corrispettive, il difetto di equivalenza, almeno tendenziale, delle prestazioni e, a maggior ragione, in difetto tout court della pattuizione di un corrispettivo o, comunque,
della ragione giustificativa della prestazione prevista, comporta l’assoluta mancanza
di causa del contratto e, per l’effetto, la nullità dello stesso.
Cass. civ., Sez. II, 28 agosto 1993, n. 9144. Il prezzo della compravendita deve
ritenersi inesistente, con conseguente nullità del contratto per mancanza di un elemento essenziale (artt. 1418, 1470 c.c.), non nell’ipotesi di pattuizione di prezzo tenue, vile ed irrisorio, ma quando risulti concordato un prezzo obbiettivamente non
serio, o perché privo di valore reale e perciò meramente apparente e simbolico, o
perché programmaticamente destinato nella comune intenzione delle parti a non
essere pagato. La pattuizione di un prezzo notevolmente inferiore al valore di mercato della cosa compravenduta, ma non privo del tutto di valore intrinseco, può rilevare sotto il profilo dell’individuazione del reale intento negoziale delle parti e della
effettiva configurazione ed operatività della causa del contratto, ma non può determinare la nullità del medesimo per la mancanza di un requisito essenziale. Del pari,
non può incidere sulla validità del contratto la circostanza che il prezzo, pur in origine seriamente pattuito, non sia stato poi in concreto pagato.
Cass. civ., Sez. III, 25 maggio 2007, n. 12235. L’eccessiva onerosità sopravve-
TRACCIA N. 1
nuta della prestazione nei contratti a titolo gratuito consiste nella sopravvenuta
sproporzione tra il valore originario della prestazione ed il valore successivo, mentre nei contratti onerosi (nel caso, permuta) consiste nella sopravvenuta sproporzione tra i valori delle prestazioni, sicché l’eccessiva onerosità sopravvenuta della
prestazione, in presenza di squilibrio tra le prestazioni dovuto ad eventi straordinari
ed imprevedibili, non rientranti nell’ambito della normale alea contrattuale, ai sensi
dell’art. 1467 c.c. determina la risoluzione del contratto. (Nell’affermare il suindicato
principio la S.C. ha escluso la configurabilità dell’eccessiva onerosità sopravvenuta
della prestazione, quale conseguenza del venir meno della presupposizione, ritenendo non ricorrere nel caso nemmeno un’ipotesi di eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione legittimante la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467
c.c., atteso il difetto dei necessari requisiti della straordinarietà e dell’imprevedibilità
dell’evento).
Cass. civ., Sez. II, 8 agosto 2003, n. 11947. La questione dell’applicabilità ad un
determinato contratto dell’intera disciplina dell’art. 1467 c.c. sulla onerosità sopravvenuta deve essere risolta dal giudice con specifico riferimento al caso concreto ed
all’azione effettivamente proposta, dovendosi, a tal fine, considerare non solo la natura e la struttura (dal punto di vista meramente classificatorio) del contratto sulla
cui risoluzione si controverta, ma anche le modalità ed i tempi di adempimento delle
reciproche prestazioni connesse al contratto stesso. La decisione circa la sopravvenienza e la sussistenza dell’eccessiva onerosità esige, peraltro, la risoluzione della
questione — avente una propria autonomia ed individualità, per la diversità dei presupposti che formano oggetto di accertamento — della proponibilità della domanda
cui è legittimato quello dei contraenti la cui prestazione sia ancora dovuta, quando
questa sia divenuta eccessivamente onerosa o quando la prestazione dallo stesso
contraente attesa si sia eccessivamente svilita in modo da alterare l’equilibrio economico raggiunto dalle parti al momento della conclusione del contratto. In particolare, in un contratto di compravendita con effetti immediatamente traslativi per cui
debba ancora essere pagata parte del prezzo, occorre stabilire preliminarmente se la
risoluzione del contratto possa essere invocata anche da quello dei contraenti che
abbia già eseguito la sua prestazione essendo già avvenuti sia il trasferimento di
proprietà sia la consegna della cosa, avendosi presente, in particolare, che anche nel
caso di eccessiva onerosità sopravvenuta per svilimento della prestazione attesa, la
prestazione di chi agisce deve, al tempo della sopravvenienza, risultare ancora in
itinere. (Nell’affermare il principio di diritto che precede la S.C. ha ulteriormente
precisato, con riferimento al caso di specie, che il giudicato implicito su tale questione può dirsi intervenuto quando essa sia stata posta e sua stata oggetto di dibattito tra le parti sia come presupposto legittimante l’azione, sia come elemento del
fatto costitutivo della domanda di risoluzione, ovvero sia stata espressamente ed
inequivocabilmente dedotta e decisa come eccezione in senso proprio, cioè allegata
come fatto impeditivo, modificativo o estintivo della pretesa azionata, o, quantomeno, come difesa con la quale il convenuto si sia proposto di ottenere il rigetto della
domanda).
Cass. civ., Sez. II, 23 settembre 2004, n. 19136. L’azione generale di rescissione per lesione prevista dall’art. 1448 c.c. richiede la simultanea ricorrenza di tre
requisiti e cioè l’eccedenza di oltre la metà della prestazione rispetto alla controprestazione, l’esistenza di uno stato di bisogno, che costituisca il motivo dell’accetta-
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DIRITTO CIVILE
zione della sproporzione fra le prestazioni da parte del contraente danneggiato ed,
infine, l’avere il contraente avvantaggiato tratto profitto dall’altrui stato di bisogno
del quale era consapevole. Fra i tre elementi predetti non intercede alcun rapporto
di subordinazione od alcun ordine di priorità o precedenza, per cui riscontrata —
con valutazione di merito non sindacabile in Cassazione ove adeguatamente motivata — la mancata o la mancata dimostrazione dell’esistenza di uno dei tre elementi,
diviene superflua l’indagine circa la sussistenza degli altri due e l’azione di rescissione deve essere senz’altro respinta.
Cass. civ., Sez. I, 13 febbraio 2009, n. 3646. L’azione generale di rescissione
per lesione, prevista dall’art. 1448 c.c., richiede la simultanea ricorrenza di tre requisiti e, cioè, la eccedenza di oltre la metà della prestazione rispetto alla controprestazione, l’esistenza di uno stato di bisogno, inteso come una situazione di difficoltà
economica che incide sulla libera determinazione a contrattare e funzioni, cioè,
come motivo dell’accettazione della sproporzione tra le prestazioni da parte del contraente danneggiato e, infine, l’avere il contraente avvantaggiato tratto profitto dall’altrui stato di bisogno del quale era consapevole.
Cass. civ., Sez. III, 5 novembre 2002, n. 15497. Il criterio cui il giudice deve
fare riferimento per esercitare il potere di riduzione della penale non è la valutazione della prestazione in sé astrattamente considerata, ma l’interesse che la parte
secondo le circostanze ha all’adempimento della prestazione cui ha diritto, tenendosi conto delle ripercussioni dell’inadempimento sull’equilibrio delle prestazioni e
della sua effettiva incidenza sulla situazione contrattuale concreta. (Nella fattispecie la S.C. ha confermato la decisione del giudice di merito che aveva ridotto la penale, stabilita per il ritardo del rilascio di un immobile alla fine della locazione, ad un
importo che superava di circa il 20% l’ammontare del canone).
Cass. civ., S.U., 13 settembre 2005, n. 18128. In tema di clausola penale, il potere di riduzione ad equità, attribuito al giudice dall’art. 1384 c.c. a tutela dell’interesse generale dell’ordinamento, può essere esercitato d’ufficio per ricondurre l’autonomia contrattuale nei limiti in cui essa appare meritevole di tutela, e ciò sia con
riferimento alla penale manifestamente eccessiva, sia con riferimento all’ipotesi in
cui la riduzione avvenga perché l’obbligazione principale è stata in parte eseguita,
giacché in quest’ultimo caso la mancata previsione da parte dei contraenti di una riduzione della penale in caso di adempimento di parte dell’obbligazione si traduce
comunque in una eccessività della penale se rapportata alla sola parte rimasta inadempiuta.
Cass. civ., Sez. I, 21 aprile 2011, n. 9263. L’alea normale di un contratto, che,
a norma del comma 2 dell’art. 1467 c.c., non legittima la risoluzione per eccessiva
onerosità sopravvenuta, comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni
originate dalle regolari e normali fluttuazioni del mercato, qualora il contratto sia
espresso in valuta estera: in tale ipotesi, infatti, le parti, nell’esercizio della loro autonomia negoziale, hanno assunto un rischio futuro, estraneo al tipo contrattuale
prescelto, cosı̀ rendendo il contratto di mutuo aleatorio in senso giuridico e non solo
economico, quanto al profilo della convenienza del medesimo.
Cass. civ., Sez. Lav., 15 ottobre 2010, n. 21274. La giusta retribuzione spettante al lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost., deve essere individuata nei minimi retributivi stabiliti per ciascuna qualifica dalla contrattazione collettiva, i quali devono
TRACCIA N. 1
applicarsi necessariamente, indipendentemente dall’iscrizione o meno del datore di
lavoro ad un’associazione sindacale stipulante, ed anche nel caso si tratti di imprese
di non rilevanti dimensioni, ove non sussista una separata contrattazione collettiva.
Cass. civ., Sez. III, 3 novembre 2010, n. 22357. La clausola che attribuisca al
mediatore il diritto alla provvigione anche nel caso di mancata effettuazione dell’affare per fatto imputabile al venditore può presumersi vessatoria, e quindi inefficace
a norma dell’art. 1469-bis c.c., in quanto di importo manifestamente eccessivo, e comunque il compenso per l’attività esplicata dal mediatore e l’adeguatezza del corrispettivo per l’ipotesi di mancata conclusione dell’affare dovranno essere apprezzati
dal giudice, anche nel senso del significativo squilibrio delle prestazioni e dunque
per l’inefficacia della clausola ex art. 1469-quinquies, comma 1, c.c.
5. Dottrina
Sull’autonomia negoziale (Betti, Schlesinger, Sacco, di Majo, Barcellona, Rescigno).
Sull’equilibrio contrattuale e i poteri del giudice (Oppo, Galgano, Costanza,
Roppo).
Sullo squilibrio nelle clausole vessatorie contenute nei contratti dei consumatori
(Alpa, di Majo, Roppo, De Nova).
6. Svolgimento
Si definisce autonomia negoziale il potere dei privati, individui e gruppi, di regolare i propri interessi col costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici.
La nozione di autonomia è quindi inscindibilmente connessa con quella di negozio giuridico, strumento attraverso il quale essa si esplica.
Nell’esaminare gli strumenti di controllo dell’autonomia negoziale predisposti
dall’ordinamento, appare opportuno ripercorrere brevemente la storia del negozio
giuridico, sin dalle sue origini, per capirne l’intima natura ed i vincoli cui progressivamente è stato chiamato a soggiacere.
Il negozio giuridico è istituto di elaborazione dottrinale mai nominato nel codice
civile. Esso nasce all’indomani della rivoluzione francese, quando si afferma una
concezione tutta soggettiva del contratto, secondo cui la volontà umana è la forza
creatrice degli effetti giuridici, tanto che si parla di “dogma della volontà”.
L’adozione delle politiche liberiste del laissez faire, che promuovono la libertà di
iniziativa economica e la concorrenza, concede ampi spazi all’autonomia privata e
all’autoregolazione da parte delle forze del mercato.
In un simile contesto, ogni qualvolta manchi una perfetta coincidenza tra la dichiarazione e l’effettivo atteggiamento psichico del contraente, il contratto deve essere cancellato. Si assiste quindi alla massima valorizzazione della volontà del soggetto, che è volontà degli effetti che il negozio giuridico può e deve produrre.
Intorno alla fine dell’Ottocento, il “dogma della volontà” entra in crisi.
In un sistema economico caratterizzato da un capitalismo più evoluto si manifesta
l’esigenza di certezza dei traffici e delle relazioni giuridiche.
La dichiarazione acquista maggiore rilevanza, in quanto idonea ad ingenerare
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DIRITTO CIVILE
nella controparte un legittimo affidamento sulla conclusione dell’affare e sull’esecuzione del contratto. Si passa quindi ad una concezione oggettiva del contratto e si
assiste ad un più incisivo intervento da parte dell’ordinamento nel mercato in termini di controllo e di crescenti restrizioni pubbliche della libertà contrattuale.
Nonostante tale evoluzione, il negozio giuridico conserva ancora oggi una propria
autonomia concettuale, soprattutto per quanto riguarda la disciplina dell’annullabilità per vizi del volere, per incapacità di agire o per incapacità naturale.
L’autonomia negoziale e, di conseguenza, i controlli su di essa ammessi devono
essere esaminati prendendo le mosse dai due significati del termine autonomia individuati dalla migliore dottrina (Rescigno).
Il primo significato si desume dall’etimologia stessa del termine, autos nomos, e
consiste nella capacità dei soggetti di diritto di imporre una norma a se stessi, di autovincolarsi al rispetto di una disciplina di diritto privato volontariamente assunta
mediante la conclusione del negozio.
Questo primo significato ha un preciso riscontro normativo nell’art. 1372 c.c., a
mente del quale il contratto ha forza di legge tra le parti. Con ciò dovendo intendersi
che il contratto vincola le parti che lo hanno concluso con la stessa forza giuridica di
una legge, pur essendo la fonte del vincolo autogena.
Il secondo significato del termine autonomia è quello di libertà. Non libertà assoluta del volere, ma libertà al plurale. Infatti, con riferimento alla materia del negozio
giuridico, nell’ordinamento sono riconosciute ai privati libertà ben determinate e dal
contenuto definito. Precisamente: la libertà di concludere o meno il contratto; la libertà di determinare il contenuto del contratto; quella di concludere contratti non
appartenenti a tipi legali, ai sensi dell’art. 1322, comma 2, c.c.; quella di scegliere il
contraente; di scegliere la forma; di inserire nel regolamento negoziale elementi accidentali; e, infine, la libertà di farsi sostituire nel compimento dell’attività negoziale.
Ogni qualvolta le parti, nell’esercizio di una delle menzionate libertà, eccedono i
limiti propri di quello, l’ordinamento interviene per ricondurre l’autonomia privata
entro gli spazi in cui essa può essere esercitata.
E
v proprio con riferimento a tale secondo significato del termine autonomia che
può quindi essere esaminato il complesso e variegato fenomeno dell’integrazione
del contratto, ovvero la costruzione del regolamento contrattuale ad opera di fonti
eteronome (diverse dalla volontà delle parti), e devono essere individuati gli strumenti di controllo predisposti dall’ordinamento giuridico.
In ragione del modo in cui quest’ultimo procede, si suole distinguere gli strumenti di controllo legali, laddove la regola che entra nel regolamento contrattuale
è già definita con precisione ed ex ante dal legislatore, e strumenti di controllo giudiziali, laddove essa sia affidata all’apprezzamento ex post del giudice, su preciso
mandato del legislatore, solitamente con l’indicazione di criteri generali su cui basare la determinazione.
In ragione dei fini che l’ordinamento persegue, si distingue tra integrazione
suppletiva, definita amica dell’autonomia privata, e integrazione cogente, sua antagonista (Roppo).
L’integrazione suppletiva sostiene la determinazione volontaria lacunosa e claudicante, consentendole di realizzare comunque i suoi obiettivi, ma non si sostituisce
ad essa, anzi la rispetta, introducendo solamente regole coerenti con la logica, gli
equilibri e le scelte risultanti dall’accordo delle parti.
L’integrazione cogente, invece, si sovrappone ad un accordo esistente e completo,
TRACCIA N. 1
ma disapprovato dall’ordinamento perché contrastante con interessi o valori preminenti, espungendo dal regolamento contrattuale i contenuti disapprovati.
Fonti di tale specie di integrazione sono le norme imperative e le clausole generali
dell’ordinamento, quali l’ordine pubblico ed il buon costume.
In caso di contrasto dell’accordo negoziale con esse, come in caso di mancanza di
almeno uno degli elementi essenziali indicati dall’art. 1325 c.c., il rimedio predisposto dall’ordinamento è quello radicale della nullità del contratto, da cui deriva la sua
inefficacia ab origine, di tal che quod nullum est, nullum effectum producit. Salva, in
talune specifiche ipotesi, la possibilità di conservare l’atto mediante gli strumenti
giudiziali della conversione sostanziale, ai sensi dell’art. 1424 c.c., e della nullità parziale di cui all’art. 1419, comma 1, c.c.
Precisamente, la conversione è un mezzo di recupero del contratto nullo che salva
i suoi effetti convertendoli in effetti diversi, ove risulti che le parti lo avrebbero voluto se avessero conosciuto la nullità e sempre che il contratto nullo contenga i requisiti di sostanza e di forma del contratto frutto della conversione.
La nullità parziale è istituto ispirato al principio della causa e della buona fede
contrattuale che opera quando il negozio non sia inficiato nella sua totalità, ma ne
risulti invalido solo parte del contenuto. La nullità che colpisce solo una parte del
contratto lascia sopravvivere un contratto diverso, il cui equilibrio e la cui ragione
giustificatrice risultano alterati per effetto della cancellazione della parte viziata.
Perciò, il giudice è chiamato a raffrontare l’assetto di interessi sotteso all’originario
regolamento contrattuale con quello risultante dalla caducazione della clausola
nulla ed a verificarne la compatibilità. In caso di risposta affermativa, la nullità del
contratto è solo parziale, in quanto sarebbe contrario a buona fede sottrarsi ad un
vincolo contrattuale sostanzialmente omogeneo a quello originariamente concordato; ove tale compatibilità manchi, invece, la nullità è totale.
Nonostante l’analoga ratio, consistente nel sistemare i rapporti tra le parti incisi
dalla nullità del contratto in coerenza con il principio della buona fede, ed il medesimo criterio di giudizio, rappresentato dalla verifica di compatibilità tra il nuovo assetto di interessi e quello originariamente pattuito, la nullità parziale presenta sostanziali differenze rispetto alla conversione.
Infatti, l’art. 1419, comma 1, c.c. ha come obiettivo di mettere in discussione il contratto ed eventualmente distruggerlo. Inoltre, mentre la conversione è eccezionale
rispetto alla regola della inefficacia del contratto nullo, la nullità parziale è la regola,
rispetto all’eccezionale operare della nullità totale (Roppo).
Un controllo sempre cogente, ma questa volta legale, si ha invece nell’inserzione
automatica di clausole in sostituzione di cui agli artt. 1339 e 1419, comma 2, c.c.
L’automatismo del controllo svolto dall’ordinamento sull’autonomia negoziale in
questo caso fa si che il giudice legga il contratto come già emendato dalle disposizioni imperative sostitutive.
Ancora, nel caso ad essere superati siano i limiti posti alla libertà di concludere o
meno il contratto, recte sia oltrepassato uno dei limiti positivi alla libertà di non contrarre, per cui la parte rifiuti di concludere un contratto che pure avrebbe l’obbligo
di stipulare, l’ordinamento giunge sino al punto di sostituirsi alle parti nella manifestazione della volontà negoziale. La sentenza del giudice ex art. 2932 c.c., infatti, sostituisce il contratto non concluso e ne produce gli effetti.
Ciò è quanto avviene sia che il limite superato sia di origine legale, come nel caso
del monopolista ai sensi dell’art. 2597 c.c. o dell’esercente un pubblico servizio di
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trasporto di linea ex art. 1679 c.c., sia che il limite sia di origine volontaria, come nel
caso di contratto preliminare o nella fattispecie di cui all’art. 1706, comma 2, c.c.
(obbligo del mandatario di ritrasferire al mandante i beni immobili o mobili registrati acquistati per suo conto).
Il tema del controllo giudiziale sull’equilibrio del contratto riguarda specificamente l’elemento della causa, intesa quale ragione economica del negozio. In particolare, è un tema riguardante i contratti c.d. sinallagmatici, o a prestazioni corrispettive. Cioè, quei contratti caratterizzati dalla reciprocità di attribuzioni e di sacrifici
patrimoniali.
In contratti di tal genere, può talvolta accadere che il corrispettivo dovuto da una
delle parti sia obiettivamente inadeguato al valore del bene con cui viene scambiato.
Sul punto occorre preliminarmente chiarire che nei contratti conclusi tra parti
eguali, il principio di libertà contrattuale, come descritto, comporta la tendenziale
incompetenza dell’autorità pubblica (legge, amministrazione e giurisdizione) a
sindacare le scelte dei privati e, in particolare, i termini economici dei loro accordi,
salvo in particolari settori nei quali è necessario un controllo pubblico dei prezzi.
Ad un primo orientamento accennato in dottrina ed in giurisprudenza secondo cui
il contratto connotato da un forte squilibrio economico doveva essere giudicato nullo
per difetto di causa, si è contrapposto un secondo indirizzo per cui in casi come
quello descritto occorrerebbe distinguere l’ipotesi del contratto di scambio in cui sia
stato pattuito un prezzo vile o irrisorio, cioè obiettivamente sproporzionato rispetto
al valore del bene scambiato, dall’ipotesi in cui sia stato pattuito un prezzo meramente simbolico, il c.d. nummo uno.
Secondo la Cassazione, anche nel caso di squilibrio enorme tra le prestazioni dedotte in contratto (persino in casi di scarto di valore pari ad un rapporto di uno a trecento), il contratto ha pur sempre una valida causa di scambio, in quanto il prezzo
irrisorio è pur sempre un prezzo e la sua irrisorietà non intacca la causa, rientrando
nella sfera dei motivi delle parti. Diverso è il caso del prezzo simbolico, che per l’indirizzo menzionato si traduce in un non prezzo. Cosı̀, difettando la causa, il contratto
dovrebbe essere giudicato nullo, ai sensi dell’art. 1418, comma 2, c.c.
Nel passaggio dal concetto di causa in astratto al concetto di causa in concreto,
la tradizionale distinzione tra prezzo vile o irrisorio e prezzo simbolico cambia, in
quanto la causa del contratto non coincide più con il tipo, ma è la ragione economica
che vale a giustificare l’operazione e che potrebbe consistere anche nel perseguimento di un interesse economico ulteriore rispetto a quello risultante dallo schema
tipico, soddisfatto in via mediata ed indiretta dal contratto (c.d. causa gratuita).
Ragionando in termini di causa in concreto, quindi, anche la vendita a prezzo simbolico, che in un’ottica di causa astratta sarebbe stata giudicata nulla per difetto di
causa, potrebbe essere assistita da una valida ed idonea ragione giustificatrice.
Lo squilibrio tra prestazioni non è comunque di per sé sindacabile, ma è sintomatico di una funzione economico-individuale del contratto diversa da quella che
astrattamente il negozio potrebbe perseguire in base al suo nomen iuris.
In linea generale, quindi, nei rapporti tra soggetti eguali, in ossequio al principio
della libertà contrattuale, l’ordinamento non consente di sindacare le scelte dei privati e di invalidare l’accordo negoziale in caso di squilibrio economico, se non in
presenza di ulteriori e ben definite condizioni.
L’ordinamento, infatti, contempla quella speciale forma di invalidità del contratto
rappresentata dalla rescissione, che può essere azionata in caso di vizio genetico
TRACCIA N. 1
della causa nei negozi sinallagmatici. Tanto nel caso di contratto concluso in stato di
pericolo, quanto nel caso di rescissione per lesione, però, il legislatore richiede la
sussistenza di determinati requisiti. Precisamente, per la rescissione per lesione
enorme, devono sussistere: lo stato di bisogno del privato contraente; la lesione ultra dimidium (cioè occorre che il valore della prestazione dovuta dal contraente bisognoso superi di più del doppio quella dovuta da controparte); e infine l’approfittamento dello stato di bisogno da parte dell’altro contraente.
Per la rescissione del contratto concluso in stato di pericolo, invece, all’iniquità del
contratto, deve appunto affiancarsi la condizione di pericolo in cui il contratto è stato
stipulato.
Nel caso, invece, il vizio della causa, ovvero lo squilibrio economico, si manifesti
nel corso dell’esecuzione del contratto e sia quindi funzionale anziché genetico,
come avviene quando una delle prestazioni si riveli eccessivamente onerosa per il
verificarsi di accadimenti straordinari ed imprevedibili, la parte obbligata a sopportarla può domandare la risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 1467 c.c. Ferma, sia
nel caso di domandata rescissione, sia di risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, la possibilità per la controparte di offrire la riduzione ad equità.
Da quanto finora esposto, appare quindi evidente che nel nostro ordinamento non
vige alcun principio per cui i contratti devono essere equi. L’equilibrio e la giustizia
del contratto sono decisi dalle parti nell’esercizio della loro autonomia negoziale.
Il controllo giudiziale sull’equità del singolo scambio è ammesso solo in presenza
di una condizione: che l’accettazione del regolamento iniquo sia derivata da circostanze oppressive che abbiano impedito alla parte che subisce l’iniquità di autodeterminarsi in modo libero.
Il principio appena esposto conosce una eccezione: il potere riconosciuto al giudice di ridurre equamente la penale manifestamente eccessiva, ai sensi dell’art.
1384 c.c.
Si tratta di un controllo integrativo cogente del giudice, che può intervenire a modificare l’assetto di interessi concordato dalle parti, cosı̀ inevitabilmente limitando
l’autonomia privata. E ciò, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, anche in assenza di una specifica domanda di parte.
In controtendenza rispetto al principio tradizionale secondo cui i contraenti che
concordino sul contratto, al di fuori dei descritti casi di vizi della volontà e degli stati
di pericolo e bisogno, sono gli unici arbitri della sua giustizia e del suo equilibrio, si
manifesta nella più recente legislazione speciale una propensione ad introdurre
controlli sostanziali sul contenuto del contratto, per reagire ad elementi di ingiustizia e di squilibrio.
La ratio che accomuna tutti questi recenti interventi legislativi deve essere ricercata nella tutela della parte debole del rapporto contrattuale, in settori nei quali l’ordinamento è chiamato a compiere un più significativo controllo.
Una prima importante deroga al principio della irrilevanza dell’adeguatezza del
corrispettivo contrattuale, per la verità, può essere individuata già nelle norme generali in materia di retribuzione del lavoratore. Infatti, con riferimento al contratto
di lavoro, è addirittura la Costituzione, all’art. 36, a prescrivere la necessità di una
retribuzione adeguata alla quantità e qualità del lavoro svolto e sufficiente a consentire al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
Ma è sul fronte della legislazione speciale che il principio subisce maggiori erosioni.
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DIRITTO CIVILE
Nei contratti conclusi tra professionista e consumatore, sono considerate vessatorie le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio tra i diritti e gli obblighi derivanti dal contratto. Dopo aver dettato la definizione generale di vessatorietà, l’art. 33 del d.lgs. n. 206/2005 (di seguito, c. cons.) fornisce un elenco di clausole che si presumono vessatorie fino a prova contraria. Si
tratta, in questo caso, di uno squilibrio giuridico o normativo, non necessariamente
economico o, se tale, solo in conseguenza di uno squilibrio giuridico tra gli obblighi
assunti dalle parti.
Il controllo del giudice sull’autonomia negoziale è, con riferimento ai contratti tra
consumatore e professionista, un controllo successivo alla conclusione del contratto
ed individuale, al quale si affianca anche un diverso controllo, preventivo e generale, azionabile dalle associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti, volto ad inibire la produzione di effetti da parte delle clausole di cui sia accertata l’abusività, quando ricorrono giusti motivi di urgenza (art. 37 c. cons.).
Inoltre, la nullità prevista dal codice del consumo è relativa, poiché opera asimmetricamente, rimanendo la clausola viziata vincolante per il professionista mentre diviene inefficace nei confronti del consumatore e non può quindi essere azionata né
opposta a quest’ultimo.
Ancora, si tratta di una nullità parziale, che interessa la sola clausola abusiva
senza coinvolgere l’intero contratto, il quale rimane valido ed efficace in virtù del
principio di conservazione. Ciò, proprio al fine di salvaguardare l’interesse al contratto del contraente debole, che altrimenti sarebbe costretto a subire la nullità dell’intero accordo.
Un’ulteriore erosione del principio di irrilevanza dell’eventuale squilibrio tra prestazioni contrattuali è riscontrabile nella disciplina dei rapporti tra istituti bancari
e creditizi e clienti, dove l’art. 120 del Testo Unico Bancario prescrive che deve applicarsi identica periodicità alla capitalizzazione degli interessi attivi, quelli dovuti
alla banca dalla clientela, e degli interessi passivi, quelli che la banca deve ai propri
clienti sulle giacenze di conto corrente.
Anche la disciplina dell’usura conferma la tendenza.
Com’è noto, l’art. 1815, comma 2, c.c. dispone che se sono convenuti interessi usurari, la clausola è nulla e non sono dovuti interessi.
Prima dell’intervento riformatore della legge n. 108/1996, invece, la norma prevedeva, secondo il descritto meccanismo dell’inserzione automatica di clausole in sostituzione, che ferma restando la nullità della clausola, gli interessi fossero dovuti
nella misura legale.
Oggi si assiste quindi ad un caso di nullità parziale e di conservazione del contratto.
Con riferimento al contratto di mutuo, il controllo sull’autonomia negoziale è
molto pervasivo, in quanto è il legislatore stesso ad individuare la soglia oltre la
quale gli interessi sono usurari.
Se poi si considera che attualmente l’usura è configurabile tanto in forma pecuniaria quanto reale, con le difficoltà che l’individuazione della soglia limite per
l’usura reale comporta, e che persino un tasso di interessi che non superi il tasso soglia può essere reputato usurario se il debitore si trovava in stato di bisogno nel momento in cui lo ha convenuto, il sindacato giudiziale si dimostra decisamente penetrante.
Infine, un forte controllo giudiziale sull’equilibrio del contratto, in deroga al prin-
TRACCIA N. 1
cipio della irrilevanza dell’adeguatezza tra prestazioni, si rinviene pure nella disciplina del contratto di subfornitura.
Il fenomeno della subfornitura riguarda i rapporti tra un’impresa forte (committente) e un’impresa debole (subfornitrice), per cui quest’ultima si impegna a fornire
prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o utilizzati nell’ambito dell’attività
economica del committente o nella produzione di un bene complesso, eseguendo
lavorazioni o forniture in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o prototipi forniti dall’impresa committente. Dal difetto di autonomia e valore commerciale della prestazione del subfornitore deriva la dipendenza
tecnologico-organizzativa, e di conseguenza economica, nei confronti del committente.
In ragione di tale condizione, nei confronti dell’impresa “debole” l’ordinamento predispone un complesso di tutele, contenute nella legge n. 192/1998.
Innanzitutto, sancisce la nullità di alcune clausole considerate particolarmente vessatorie, quali ad esempio quelle attributive al committente di ius variandi
o del diritto di recedere senza congruo preavviso, o ancora quelle con cui il fornitore
dispone, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale. Quest’ultima ipotesi rappresenta forse il primo caso,
al di fuori dei prezzi imposti, in cui la legge detta un imperativo cosı̀ esplicito di adeguatezza e congruità del corrispettivo contrattuale, in contrasto con il principio che
rimette questo elemento alla libera contrattazione delle parti.
Inoltre, vieta l’abuso della dipendenza economica, cioè « la situazione in cui
una impresa sia in grado di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi », da valutarsi tenendo conto anche della reale possibilità per la parte che abbia subı̀to l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti.
Il comportamento abusivo non è definito, ma è esemplificato dal legislatore e può
consistere nel rifiuto di vendere o di comprare, nell’ingiustificata imposizione di
condizioni contrattuali gravose o discriminatorie, nell’interruzione arbitraria delle
relazioni commerciali in atto ecc. Ove l’abuso si realizzi con comportamenti materiali, i rimedi concessi al subfornitore si collocano sul piano della responsabilità extracontrattuale ed eventualmente delle azioni inibitorie, ove invece si traduca in un
accordo negoziale, il rimedio coincide con lo strumento della nullità contrattuale.
E
v quindi evidente come, con riferimento al fenomeno della subfornitura, il sindacato giudiziale, essendo fondato sulla valutazione in termini di « eccessivo squilibrio », « condizioni ingiustificatamente gravose o discriminatorie » ecc. di dati empirici, sia caratterizzato da poteri più estesi ed intensi di quelli circoscritti e, ove ammessi, persino ancorati a precisi valori numerici, previsti dalla disciplina generale
del codice civile.
Insomma, i più recenti interventi del legislatore manifestano la propensione verso
un sindacato sostanziale sul contenuto del contratto, per reagire ad elementi di ingiustizia e di squilibrio in esso presenti, consentendo all’interprete di sindacare
l’adeguatezza del corrispettivo economico o comunque l’equilibrio normativo del
contratto ben al di là dei casi di contrattazione in condizioni di “patologia sociale”
(quali i vizi della volontà o gli stati di pericolo o bisogno), persino nei casi di “fisiologia sociale”.
Sempre più frequentemente, nell’ottica di tutelare il contraente debole del rapporto, si assiste: al riconoscimento di un diritto di recesso unilaterale dal contratto,
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DIRITTO CIVILE
in deroga al principio del vincolo contrattuale di cui all’art. 1372, comma 1, c.c.; all’attribuzione di vantaggi qualificati irrinunciabili nei rapporti con la controparte,
contro la generale disponibilità dei diritti patrimoniali; all’estensione degli obblighi
informativi incombenti sul contraente forte ben oltre i confini delineati dall’art. 1337
c.c.; al proliferare di nullità relative, derogatorie del principio della legittimazione
allargata a far valere la nullità sancito dall’art. 1421 c.c.; ed infine alla imposizione di
vincoli di forma scritta ad substantiam, espressione di un nuovo formalismo, in deroga al generale principio di libertà delle forme cui si ispira il nostro ordinamento.
(di Camilla Cognetti)
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ARGOMENTO
PRELAZIONE, PRELIMINARE UNILATERALE E OPZIONE
1. Traccia
Prelazione, preliminare unilaterale e opzione. Si soffermi il candidato sulle differenze e sugli strumenti di tutela in caso di violazione.
2. Inquadramento della tematica
— Prelazione, preliminare unilaterale ed opzione come contratti preparatori,
funzionalmente collegati ad un contratto finale.
La prelazione convenzionale o patto di preferenza.
— Contratto mediante il quale una parte si obbliga verso un’altra a preferirla, a
parità di condizioni, come partner di un dato contratto, se deciderà di concluderlo.
— Differenze rispetto alla prelazione legale.
— Efficacia meramente obbligatoria del patto di preferenza.
— Le posizioni delle parti:
a) il prelazionario ha diritto alla preferenza, ma non al contratto;
b) il concedente è libero di contrarre, ma deve dare la preferenza.
— Tutela ex art. 1218 c.c.
Il preliminare unilaterale.
— Contratto mediante il quale le parti convengono che una sola di esse resti vincolata alla stipulazione di un successivo negozio.
— Le posizioni delle parti:
a) il soggetto attivo ha un diritto di credito al contratto;
b) il soggetto passivo è obbligato a concludere il contratto definitivo.
— Tutela ex art. 2932 c.c.
— Trascrivibilità ed opponibilità a terzi ai sensi dell’art. 2645-bis c.c.
Il patto di opzione.
— Accordo mediante il quale una parte si vincola nei confronti dell’altra a mantenere ferma per un certo periodo la propria proposta, enunciativa del contenuto di
un futuro contratto, senza possibilità di modificarla o revocarla, e l’altra si riserva la
scelta se accettarla o meno.
— Il contenuto del patto di opzione: obblighi di contenuto negativo e positivo, al
fine di salvaguardare l’oggetto del contratto finale (art. 1375 c.c.).
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DIRITTO CIVILE
— Le posizioni delle parti:
a) l’opzionario ha un diritto potestativo al contratto;
b) la posizione del concedente è di soggezione.
— Tutela ex art. 1337 c.c. o ex art. 1218 c.c.
3. Normativa
Art. 1331 c.c. (Opzione)
Art. 1376 c.c. (Principio del consenso traslativo)
Art. 1351 c.c. (Forma del contratto preliminare)
Art. 2932 c.c. (Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto)
Art. 2645-bis c.c. (Trascrizione dei contratti preliminari)
Art. 1566 c.c. (Patto di preferenza)
4. Giurisprudenza
Cass. civ., Sez. II, 12 aprile 1999, n. 3571. A differenza del contratto preliminare unilaterale, che comporta l’immediata e definitiva assunzione dell’obbligazione di prestare il consenso per il contratto definitivo, il patto di prelazione relativo
alla vendita di un bene genera, a carico del promittente, un’immediata obbligazione
negativa di non venderlo ad altri prima che il prelazionario dichiari di non voler
esercitare il suo diritto di prelazione o lasci decorrere il termine all’uopo concessogli, ed un’obbligazione positiva avente ad oggetto la denuntiatio al medesimo della
sua proposta a venderlo, nel caso si decida in tal senso. Questa obbligazione, nel
caso di vendita ad un terzo del bene predetto, sorge e si esteriorizza in uno al suo
inadempimento, sı̀ che il promissario non può chiederne l’adempimento in forma
specifica, per incoercibilità di essa a seguito della vendita al terzo, ma soltanto il risarcimento del danno, mentre, nel caso di promessa di vendita ad un terzo del medesimo bene, è ugualmente incoercibile, ai sensi dell’art. 2932 c.c., non configurando un preliminare.
Cass. civ., Sez. III, 16 aprile 2008, n. 9972. In tema di dismissione del patrimonio immobiliare da parte degli enti pubblici, la denuntiatio praelationis che il locatore
effettua, ai sensi dell’art. 3, comma 109, della legge n. 662/1996, non integra una
proposta contrattuale ma un atto dovuto di interpello e la dichiarazione del conduttore di esercizio del diritto di prelazione non costituisce accettazione della proposta
e non comporta l’immediato acquisto dell’immobile ma determina solo l’insorgenza
dell’obbligo, a carico di entrambe le parti, di pervenire alla conclusione del contratto, con possibilità di tutela ex art. 2932 c.c. (Nella specie, la S.C. — alla luce degli
accertamenti compiuti dai giudici di merito e della documentazione prodotta da cui
risultava che da data anteriore al gennaio 1997 l’Ina aveva compiuto atti concreti dai
quali poteva desumersi una manifestazione della volontà di dismettere, anche frazionatamente, l’immobile, di cui faceva parte l’appartamento condotto in locazione
dal ricorrente — ha cassato la sentenza impugnata con cui era stata esclusa l’operatività della legge citata sul presupposto della mancanza di manifestazione di volontà
dismissiva da parte dell’ente proprietario-locatore).
Cass. civ., Sez. III, 18 luglio 2002, n. 10435. La prelazione convenzionale non
TRACCIA N. 2
ha natura reale, ma obbligatoria e, non essendo riconducibile alla promessa di stipulare, non è suscettibile di esecuzione coattiva anche nei confronti del promittente.
Pertanto, essendo efficace e vincolante per i soli contraenti e non anche per i terzi
estranei, l’acquisto di questi ultimi dal promittente, inadempiente al relativo patto,
non è soggetto a caducazione a seguito della pretesa di riscatto esercitata dal promissario della prelazione, che è titolare solo dell’azione personale risarcitoria nei
confronti dell’inadempiente.
Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2010, n. 13244. La prelazione convenzionale,
stipulata anteriormente alla vigenza della legge 27 luglio 1978, n. 392, ove il proprietario dell’immobile decida di venderlo dopo l’entrata in vigore di detta legge, non
prevale sulla prelazione legale spettante, ai sensi dell’art. 38 della medesima legge n.
392, al conduttore dello stesso immobile destinato ad uso diverso da quello abitativo,
giacché — a differenza della stipula di un contratto preliminare di vendita, da cui
nasce l’immediata e definitiva assunzione dell’obbligo di prestare il consenso al trasferimento — nel caso della prelazione, sino a che l’iter contrattuale che essa configura non si esaurisca, l’impegno assunto dall’alienante rimane sul piano di mera
progettualità, sicché trova immediata applicazione al rapporto di locazione pendente la anzidetta modifica legislativa incidente sul regime giuridico del bene.
Trib. Bari, Sez. IV, 21 ottobre 2008, n. 2397. L’inserimento da parte dei soci
stipulanti del patto di prelazione nell’atto costitutivo o nello statuto di una società di
capitali, attribuisce a detta clausola — al pari di qualsiasi altra pattuizione riguardante posizioni soggettive individuali dei soci che venga iscritta nello statuto dell’ente — anche un valore generale, rilevante per la società la cui organizzazione ed
il cui funzionamento l’atto costitutivo o lo statuto sono destinati a regolare. In quest’ottica, la clausola statutaria di prelazione ha efficacia reale, ed i suoi effetti sono
opponibili anche al terzo acquirente, perché si tratta di una regola del gruppo organizzato alla quale non potrebbe non sottostare chiunque volesse entrare a far parte
di quel gruppo. Dal mancato rispetto della clausola dello statuto che contempli il diritto di prelazione deriva l’inefficacia delle alienazioni disposte senza consentire
l’esercizio di detto diritto, trattandosi di atto privo di effetto nei confronti della società.
Cass. civ., Sez. I, 5 marzo 2008, n. 5963. I patti di sindacato sono accordi atipici
volti a disciplinare, tra i soci contraenti ed in via meramente obbligatoria, con conseguenze meramente risarcitorie, i rapporti interni fra di essi; il vincolo che ne discende opera, pertanto, su di un terreno esterno a quello dell’organizzazione sociale, sicché non è legittimamente predicabile, al riguardo, né la circostanza che al
socio stipulante sia impedito di determinarsi autonomamente all’esercizio del voto
in assemblea, né quella che il patto stesso ponga in discussione il corretto funzionamento dell’organo assembleare o la formazione del capitale (operando il vincolo obbligatorio cosı̀ assunto non dissimilmente da qualsiasi altro possibile motivo soggettivo che spinga un socio a determinarsi al voto assembleare o alla gestione della
partecipazione in un certo modo), poiché al socio non è impedito di scegliere il non
rispetto del patto di sindacato ogni qualvolta l’interesse ad un certo esito della votazione assembleare o proprio atto negoziale prevalga sul rischio di dover rispondere
dell’inadempimento del patto. (Principio affermato dalla S.C. in materia di cessione
di azioni, in violazione del diritto di prelazione convenuto nel patto tra i soci).
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Cass. civ., Sez. II, 10 settembre 2004, n. 18201. Sia la proposta irrevocabile
(art. 1329 c.c.) che la dichiarazione resa vincolante per una delle parti da un patto di
opzione (art. 1331 c.c.) debbono contenere tutti gli elementi essenziali del contratto
da concludere in modo da consentire la conclusione di tale contratto nel momento e
per effetto della adesione dell’altra parte, senza necessità di ulteriori pattuizioni.
Trib. Milano, 24 aprile 2006. L’opzione di vendita di un pacchetto azionario
(c.d. putt), da esercitarsi per un tempo determinato e un prezzo minimo prefissato,
non è gratuita, nonostante la mancata pattuizione di un premio, in quanto collegata
ad altra opzione d’acquisto di quel pacchetto (c.d. call), intercorsa tra gli stessi contraenti, da esercitarsi al medesimo prezzo, nel periodo di tempo immediatamente
precedente.
Cass. civ., Sez. II, 25 febbraio 1998, n. 2017. L’istituto dell’opzione di cui all’art. 1331 si inserisce nell’ambito di una più complessa fattispecie a formazione progressiva, costituita inizialmente da un accordo avente ad oggetto la irrevocabilità
della proposta del promittente, e, successivamente, dalla (eventuale) accettazione
del promissario che, saldandosi con la precedente proposta, perfeziona il nuovo negozio giuridico, cosı̀ che soltanto successivamente alla conclusione del contratto di
opzione il promissario, con riferimento al contratto definitivo, può incorrere in responsabilità precontrattuale, se abbia ingenerato il ragionevole affidamento nella
conclusione di tale contratto rifiutandone, poi, la stipulazione.
Cass. civ., Sez. II, 13 dicembre 1994, n. 10649. E
v configurabile la responsabilità (c.d. precontrattuale) prevista dall’art. 1337 c.c., avente natura extracontrattuale,
in relazione ad un patto di opzione, quando il promissario, contrastando le legittime
aspettative del promittente, ingiustificatamente non dia seguito all’iter formativo del
vincolo (nella specie era stato accertato dal giudice di merito il comportamento non
di buona fede del promissario nel periodo posteriore alla stipula del patto di opzione).
5. Dottrina
In generale, sul procedimento di formazione del contratto e i rapporti giuridici
preparatori (Roppo, Sacco, Realmonte).
Sulla prelazione convenzionale (Roppo, Costanza, Catricalà, Santoro Passarelli, Gabrielli).
Sul contratto preliminare unilaterale (Gabrielli, Roppo).
Sul patto di opzione (Cesaro, Roppo, Gabrielli).
6. Svolgimento
Prelazione, preliminare unilaterale ed opzione sono generalmente definiti negozi
prodromici o preparatori. La loro conclusione, infatti, si inserisce nel percorso —
talvolta più lungo e complesso di quello che si sostanzia nel semplice scambio di
proposta ed accettazione tra soggetti presenti o assenti, ossia lontani tra loro — che
porta alla conclusione del contratto.
Sono contratti, cioè negozi bilaterali, dotati di propria autonoma giustificazione
TRACCIA N. 2
causale e funzionali alla stipulazione di un successivo accordo con cui le parti si ripropongono di regolare i loro interessi.
A dispetto della comune collocazione sistematica, prelazione, contratto preliminare unilaterale ed opzione sono negozi tra loro profondamente differenti dal punto
di vista della funzione svolta, della natura delle situazioni giuridiche cui danno origine e dei rimedi che l’ordinamento predispone per il caso della loro violazione.
La prelazione, o patto di preferenza, è il contratto mediante il quale una parte
(concedente) si obbliga verso un’altra (prelazionario) a preferirla, a parità di condizioni, come partner di un dato contratto, se deciderà di concluderlo.
Interesse del prelazionario è quindi quello di impedire che altri concluda il contratto con il concedente e di avere per sé quel contratto nel caso il concedente decida
di stipularlo.
Di contro, il concedente ha l’obbligo di preferire il prelazionario a qualsiasi altro,
se deciderà di concludere il contratto.
In assenza di una previsione legislativa generale, i principi applicabili al patto di
preferenza si ricavano dal regime del contratto di somministrazione e, in particolare, dall’art. 1566 c.c.
La norma da ultimo richiamata dispone che per effetto della conclusione del patto,
il concedente è tenuto a comunicare al beneficiario l’intenzione di contrarre e le
condizioni proposte dal terzo (c.d. denuntiatio), e il beneficiario, ove intenda avvalersi della prelazione, deve dichiararlo nel termine stabilito (c.d. spatium deliberandi).
Discussa è la natura giuridica della denuntiatio. Una parte della dottrina ritiene
che essa integri una vera e propria proposta contrattuale, con la conseguenza che la
dichiarazione di esercizio del diritto di prelazione costituirebbe accettazione della
proposta, comportando l’immediato acquisto del diritto. Secondo l’opinione prevalente, invece, la denuntiatio costituisce una mera comunicazione e determina solo
l’insorgenza dell’obbligo, a carico di entrambe le parti, di pervenire alla conclusione
del contratto finale.
L’efficacia della prelazione è puramente obbligatoria: essa origina un diritto soggettivo di credito e la sua violazione è sanzionata con l’obbligo di risarcire i danni
subiti dal prelazionario.
Infatti, se in spregio alla prelazione, il concedente conclude il contratto con altri, al
prelazionario preterito non è consentito inseguire il bene e riscattarlo, né dal terzo
che ha contratto con il concedente, né dai successivi aventi causa. La posizione contrattuale del terzo resta infatti in linea di principio intangibile.
Tale principio conosce però un’eccezione nella vendita di azioni o di quote a terzi,
in violazione della prelazione spettante agli altri soci in base allo statuto.
In questo caso, la giurisprudenza ritiene che la vendita sia inefficace o addirittura
nulla e che i soci abbiano il diritto di riscattare le azioni e le quote presso i terzi. La
ratio della tutela reale in questo caso sembra potersi imputare al regime di pubblicità che assiste le clausole societarie, per cui i terzi, consultando il registro delle imprese, sono nella condizione di conoscere la prelazione lesa dal loro acquisto.
Tutela reale è riconosciuta solamente alle ipotesi di prelazione legale, in cui è lo
stesso legislatore ad attribuire il diritto di prelazione a determinati soggetti cui le
norme riservano un accesso privilegiato ad alcuni beni, in ragione di specifici interessi meritevoli di tutela.
Hanno, tra gli altri, prelazione legale di acquisto: i coeredi sulle quote degli altri
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DIRITTO CIVILE
coeredi, ai sensi dell’art. 732 c.c., la cui ratio è quella di tutelare l’equilibrio tra coeredi che potrebbe risultare alterato per effetto dell’ingresso di estranei nel patrimonio ereditario; i collaboratori dell’impresa familiare sulla relativa azienda, ai sensi
dell’art. 230-bis c.c.; lo Stato sui beni di interesse storico o artistico, in base agli artt.
59 ss. del d.lgs. n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio); l’affittuario
coltivatore diretto sul fondo, ai sensi dell’art. 8 legge n. 590/1965; il conduttore dell’immobile urbano ad uso non abitativo, ex artt. 38 ss. legge n. 392/1978.
Nei casi menzionati, il prelazionario pretermesso gode della tutela reale consistente nel diritto di riscatto o retratto, che gli consente di recuperare il bene contro il
terzo acquirente.
La prelazione convenzionale, quindi, obbligando il concedente che decida di concludere il contratto a farlo con il prelazionario, a parità di condizioni con altri, costituisce un limite di origine volontaria alla libertà di scegliere il contraente.
E non invece un limite alla libertà di concludere il contratto, visto che la scelta se
contrarre è rimessa alla volontà del concedente, che ben potrà decidere di non concludere alcun contratto, rendendo la prelazione inoperante, e financo distruggere il
bene o trasformarlo e poi cedere a terzi i beni derivati dalla trasformazione.
Se, come si è sottolineato, la conclusione del successivo e definitivo contratto è incerta nella prelazione, essa è invece certa nel preliminare unilaterale.
Cioè, nel contratto mediante il quale le parti convengono che una sola di esse resti vincolata alla stipulazione di un successivo negozio, del quale peraltro nel preliminare vengono già individuati gli elementi essenziali.
La parte che si obbliga ad una nuova e definitiva manifestazione di volontà limita
cosı̀ volontariamente la propria libertà di non contrarre, mentre l’altra parte acquista un diritto al contratto senza assumere alcun obbligo con riferimento ad un successivo e definitivo negozio.
Come la prelazione, quindi, il preliminare unilaterale ha natura obbligatoria, in
quanto fa nascere in capo ad uno solo dei contraenti un diritto soggettivo di credito.
Qui l’an del negozio definitivo con cui le parti regoleranno i loro interessi è certo
perché, ove anche il soggetto vincolato si rendesse inadempiente all’obbligazione
assunta rifiutando di stipulare il definitivo, la controparte potrebbe ottenere dal giudice una sentenza sostitutiva del contratto non concluso e costitutiva dei suoi effetti,
ai sensi dell’art. 2932 c.c.
Oltre, naturalmente, alla declaratoria della responsabilità contrattuale della parte
inadempiente, ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Il codice civile si occupa del contratto preliminare senza prevederne una disciplina organica, dedicando alla figura norme sparse, per disciplinarne alcuni profili:
la forma, determinata per relationem con il negozio definitivo cui il primo è funzionalmente collegato e che, pena la nullità del preliminare, deve essere quella minima
richiesta dalla legge per la validità del definitivo, ai sensi dell’art. 1351 c.c.; lo specifico rimedio contro l’inadempimento dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo
di contrarre, ai sensi dell’art. 2932 c.c.; e infine la trascrizione, ai sensi dell’art. 2645bis c.c.
La funzione prevalente del preliminare unilaterale è quella di dare al beneficiario
il potere esclusivo di decidere sulla conclusione del definitivo, consentendogli di
controllare le sopravvenienze.
Differendo la realizzazione del definitivo assetto di interessi ad un momento successivo alla sua stipulazione, il preliminare consente infatti alle parti (al solo bene-
TRACCIA N. 2
ficiario nel caso di preliminare unilaterale) di usufruire di un intervallo di tempo nel
quale verificare la conformità del bene o della prestazione al programma negoziale.
Campo di applicazione privilegiato di tale figura contrattuale è infatti quello dei
contratti traslativi o con altri effetti reali, rispetto ai quali si esalta la funzione di
scindere i due momenti della costituzione del vincolo obbligatorio e della produzione dell’effetto traslativo.
Cosı̀ operando, il preliminare riproduce, in un certo senso, quella scissione tra titulus e modus tipica del sistema germanico, disconosciuta invece dai sistemi romanistici che accolgono l’opposto principio del consenso traslativo.
Il nostro ordinamento, pur rientrando tra questi ultimi, si dimostra rispettoso dell’autonomia privata, laddove recepisce il principio del consenso traslativo all’art.
1376 c.c., ma ammette che le parti possano organizzare i propri interessi anche in
modo difforme da esso, offrendo loro l’apposito strumento del contratto preliminare.
La causa del preliminare unilaterale può essere una causa di scambio giuridico, se
è previsto un corrispettivo in favore della parte che si obbliga a contrarre, oppure
una causa di scambio empirico, se chi si obbliga lo fa in vista di qualche vantaggio o
interesse extracontrattuale, secondo lo schema dell’art. 1333 c.c., o infine una causa
puramente liberale.
La funzione indicata come tipica del preliminare unilaterale sostanzialmente
coincide con quella dell’opzione, tanto che le due figure sono spesso state ritenute
coincidenti.
Tuttavia, da un attento confronto tra le due figure emergono sostanziali differenze
strutturali e sostanziali.
L’opzione, disciplinata dall’art. 1331 c.c., è l’accordo con cui le parti stabiliscono
che una di esse (concedente) rimanga vincolata per un certo tempo alla propria proposta, enunciativa del contenuto di un futuro contratto, senza possibilità di modificarla o revocarla, attribuendo all’altra parte (opzionario) la potestà di accettarla o
meno.
Il contratto cui l’opzione è strumentalmente preordinata si conclude nel momento
stesso in cui l’opzionario indirizza al concedente la dichiarazione di accettare l’opzione, senza che sia necessario ricorrere ad una nuova manifestazione di volontà.
Perciò, si ritiene che la forma dell’opzione debba essere la stessa di quella stabilità
per la validità del negozio al quale si riferisce, secondo il fenomeno della determinazione della forma per relationem.
La figura trova la sua collocazione sistematica nel fenomeno della formazione
progressiva del contratto inserendosi nell’iter formativo di un altro contratto, il cui
perfezionamento non si verifica secondo lo schema base dello scambio tra proposta
ed accettazione ex art. 1326 c.c., ma in ragione del succedersi di più fasi negoziali: il
contratto preparatorio di opzione e la dichiarazione unilaterale recettizia entro il
termine fissato nel contratto di opzione o, in mancanza, dal giudice ai sensi dell’art.
1331, comma 2, c.c.
Mediante l’opzione, il concedente soddisfa il proprio interesse ad ottenere dall’opzionario maggiore considerazione per la proposta formulata, aumentando cosı̀ le
possibilità che l’affare si concluda, oltre naturalmente all’interesse ad ottenere un
corrispettivo, se previsto.
L’opzionario, da canto suo, soddisfa l’interesse ad avere a disposizione un periodo
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DIRITTO CIVILE
di tempo per valutare e decidere sull’affare, senza il timore di una revoca incombente.
L’opzione si distingue dalla proposta irrevocabile per la natura bilaterale o contrattuale dell’atto mediante il quale le parti convengono la rinuncia di una di esse al
potere di revoca della proposta del contratto finale in via di formazione.
Sul piano pratico, la distinzione rileva sotto il profilo della cedibilità del negozio,
ritenendosi incedibile la proposta irrevocabile, laddove l’opzione invece lo sarebbe,
ai sensi dell’art. 1406 c.c., e sotto il diverso profilo della natura della accettazione
difforme dalla proposta, la quale dovrebbe intendersi quale contro proposta nel caso
della proposta irrevocabile, e come dichiarazione compatibile con il contenuto del
patto nel caso dell’opzione, se diretta ad esempio ad ottenere condizioni più vantaggiose.
La schematica distinzione tra proposta irrevocabile ed opzione crea inoltre qualche problema interpretativo per l’ipotesi di opzione gratuita. Infatti, secondo l’orientamento dottrinario prevalente, l’opzione o è onerosa o non è, risultando piuttosto
una proposta irrevocabile ai sensi dell’art. 1329 c.c.
In realtà, è opzione anche l’accordo nel quale l’impegno a mantenere ferma la
proposta contrattuale non è remunerato da uno specifico e diretto corrispettivo, ma
trova la propria giustificazione all’interno di un più complesso contesto negoziale,
del quale l’opzione costituisce un semplice momento. Si pensi al patto di riscatto nel
contratto di leasing, o al call and put nella compravendita di azioni.
In linea di principio, l’opzione gratuita si formerebbe mediante il meccanismo del
contratto con obbligazioni del solo proponente ai sensi dell’art. 1333 c.c. La norma
da ultimo richiamata dovrebbe infatti ritenersi applicabile, anche se l’opzione fa nascere in capo all’opzionario un diritto potestativo e non è invece fonte di un rapporto
propriamente obbligatorio, considerato che il suo campo di elezione coinvolge anche i contratti e gli atti con effetti lato sensu favorevoli. In ogni caso, l’applicabilità
dell’art. 1333 c.c. dovrebbe desumersi anche dalla natura contrattuale dell’opzione,
che obbliga le parti a comportarsi secondo buona fede ai sensi dell’art. 1375 c.c., determinando cosı̀ l’insorgenza tra le parti di un’ampia regolamentazione di interessi,
comprensiva di obblighi negativi e positivi.
In ordine al contenuto degli obblighi delle parti, sono emersi alcuni contrasti in
dottrina ed in giurisprudenza, tra l’orientamento secondo cui sul soggetto passivo
del rapporto grava solamente l’obbligo di astenersi dal compimento di qualsiasi atto
idoneo ad alterare l’oggetto del contratto definitivo rispetto alla situazione ed al momento della concessione dell’opzione, ed il diverso orientamento secondo cui sullo
stesso soggetto devono ritenersi gravanti anche obblighi dal contenuto positivo,
come ad esempio l’obbligo di custodire il bene oggetto del contratto finale, che secondo taluno si estendono ben oltre il generico dovere di comportarsi secondo
buona fede, giungendo sino a comprendere l’obbligo di far maturare i presupposti di
esistenza, di validità e di efficacia del futuro contratto.
Il contenuto degli obblighi delle parti consente di affrontare la questione della responsabilità derivante dalla violazione di tali obblighi.
Sul punto, un primo indirizzo, sul presupposto della natura meramente preparatoria dell’opzione rispetto al futuro negozio, che non è stato ancora concluso e la cui
conclusione è solo eventuale, attribuisce alla responsabilità del concedente inadempiente natura precontrattuale.
Secondo tale prima impostazione, sarebbe risarcibile il solo interesse negativo,
TRACCIA N. 2
cioè l’interesse che la parte aveva a non essere coinvolta in trattative inutili, comprensivo delle spese sostenute dall’opzionario deluso per tali trattative e delle chances contrattuali alternative perdute, di cui comunque occorre fornire la prova.
Un secondo indirizzo, ritenendo che il contenuto tipico del contratto di opzione,
inerente la conclusione del contratto finale, sia integrato dal contenuto ulteriore e
complesso delle obbligazioni finalizzate alla salvaguardia dell’interesse dell’opzionario in ordine al contratto finale in ragione del richiamo all’art. 1375 c.c., qualifica
la responsabilità del concedente come contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c.
Con la conseguenza che il danno risarcibile non deve ritenersi limitato al solo interesse negativo, trattandosi, anche nel caso dell’inadempimento degli obblighi assunti con l’opzione, cosı̀ come avviene nel preliminare, di una lesione di un interesse positivo, ossia l’interesse che la parte aveva alla conclusione del contratto. Secondo questa ricostruzione, il risarcimento comprende l’utilità che sarebbe derivata
dal contratto precluso a causa dell’inadempimento di controparte.
Allo stesso risultato cui conduce la qualificazione della responsabilità del concedente per violazione dell’opzione in termini contrattuali si potrebbe giungere respingendo l’opinione ancora prevalente che riconduce la responsabilità precontrattuale nell’ambito di quella extracontrattuale ex art. 2043 c.c., e aderendo invece alla
diversa opinione che qualifica la responsabilità di cui all’art. 1337 c.c. come responsabilità per inadempimento di obblighi, dunque sottoposta al regime dell’art. 1218
c.c., specialmente in considerazione del fatto che nel caso dell’opzione le parti non
sono tra loro del tutto estranee, avendo concluso un contratto preparatorio.
Tale inquadramento consentirebbe infatti di superare i limiti derivanti dal collegamento con l’art. 2043 c.c., con evidenti conseguenze non solo sul piano dell’ammontare del risarcimento del danno, ma anche su quelli della prescrizione e dell’onere della prova.
Da quanto finora esposto, numerose appaiono quindi le differenze esistenti tra le
figure della prelazione convenzionale, del preliminare unilaterale e dell’opzione.
Innanzitutto, la principale differenza riguarda il modo nel quale le parti giungono
alla conclusione del contratto finale.
Infatti, se il contratto risultante dal patto di opzione è già un negozio definitivo,
destinato a perfezionarsi con l’accettazione del beneficiario, sia il preliminare unilaterale, sia il patto di preferenza, se si accoglie la prevalente opinione secondo cui la
denuntiatio ha natura di semplice comunicazione e non di proposta contrattuale, obbligano rispettivamente il promittente ed il prelazionario a concludere un futuro ed
ulteriore contratto.
Con l’ulteriore differenza che, nel caso del preliminare il contratto finale è suscettibile anche di costituirsi per via giudiziale se, inadempiuto quell’obbligo, il promissario aziona il rimedio in forma specifica dell’art. 2932 c.c.
Ancora, le figure in esame si dimostrano profondamente diverse anche sotto il
profilo della posizione degli stipulanti.
Infatti, mentre il prelazionario ha un diritto di credito alla preferenza a parità di
condizioni con altri, senza avere diritto al contratto, ed il promissario nel preliminare unilaterale ha un vero e proprio diritto al contratto, la posizione dell’opzionario
è di diritto potestativo.
Ciò, in quanto il suo intento di concludere il contratto può realizzarsi a prescindere dalla volontà del concedente, potendo autonomamente determinarsi rispetto al
negozio.
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DIRITTO CIVILE
Per quanto riguarda la posizione del soggetto passivo, nella prelazione questi è libero di contrarre ma deve dare la preferenza al prelazionario palesando l’intenzione
di contrarre e le condizioni offerte dal terzo, nel preliminare unilaterale è obbligato
a concludere il contratto e nell’opzione è soggetto alle determinazioni di controparte, perché ha già esercitato la propria libertà di contrarre, quella di determinare
il contenuto del negozio definitivo e quella di scelta del contraente concedendo l’opzione.
Anche la tutela spettante in caso di violazione dell’accordo è differente: per la
prelazione convenzionale, consiste nella responsabilità contrattuale ai sensi dell’art.
1218 c.c.; per il preliminare unilaterale, nella sentenza sostitutiva del contratto non
concluso e costitutiva dei suoi effetti in base all’art. 2932 c.c.; e per l’opzione, si sostanzia nella responsabilità precontrattuale di cui all’art. 1337 c.c., ricondotta secondo l’opinione tuttora prevalente nell’ambito della responsabilità aquiliana, con
limitazione del danno risarcibile al solo interesse negativo, oppure nella responsabilità da inadempimento di un’obbligazione ex art. 1218 c.c. con conseguente risarcibilità anche dell’interesse positivo, secondo le due tesi prospettate in dottrina ed in
giurisprudenza.
Quanto al regime di opponibilità ai terzi, infine, il preliminare unilaterale è trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-bis c.c., mentre né la prelazione convenzionale né il
patto di opzione lo sono, essendo vincolanti solo tra le parti.
(di Camilla Cognetti)
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