ISTITUTO ITALIANO DI STUDI COOPERATIVI
“LUIGI LUZZATTI”
TESI DI LAUREA VINCITRICE DEL PREMIO
“CARMELO AZZARÀ” EDIZIONE 2003_04
MUSEO VIRTUALE DELLA COOPERAZIONE
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Gavino Mura
“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Università degli studi di Sassari
Facoltà di Economia
UN CONFRONTO TRA FORME ISTITUZIONALI
D’IMPRESA: IL CASO DEL SETTORE CASEARIO IN
SARDEGNA
Relatore
PROF. DANIELE PORCHEDDU
Correlatore:
PROF. LUCA FERRUCCI
Tesi di laurea di:
MURA GAVINO
Anno Accademico 2003-2004
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
INDICE
Introduzione ________________________________________________ 5
I.
La filiera lattiero-casearia_________________________________ 8
1.
Premessa ____________________________________________ 8
2.
L’agroalimentare in Sardegna __________________________ 10
3.
Il comparto lattiero-caseario sardo _______________________ 13
3.1
Il Pecorino romano ___________________________________ 16
3.1.1 Il prodotto __________________________________________ 16
3.1.2 L’iter di riconoscimento _______________________________ 20
3.1.3 Il ruolo del Consorzio_________________________________ 22
3.1.4 Il disciplinare di produzione____________________________ 24
3.1.5 La commercializzazione del prodotto ____________________ 27
4.
L’evoluzione storica __________________________________ 30
4.1
Le origini del formaggio_______________________________ 30
4.2
La storia della pastorizia sarda __________________________ 36
4.3
Evoluzione storica del sistema di trasformazione del latte ____ 44
4.3.1 L’industrializzazione _________________________________ 44
4.3.2 La nascita delle cooperative e l’esperienza fascista __________ 59
4.3.3 Il dopoguerra e la diffusione delle cooperative _____________ 64
5.
II.
Considerazioni conclusive _____________________________ 84
Le ipotesi formulate _____________________________________ 86
1.
Premessa ___________________________________________ 86
2.
La dimensione delle imprese casearie sarde _______________ 95
3.
La struttura finanziaria delle imprese di trasformazione ______ 98
4.
Intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro____________ 110
5.
La redditività ______________________________________ 111
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6.
La produttività dei fattori capitale e lavoro nelle imprese di
trasformazione sarde _____________________________________ 117
III.
Metodologia del lavoro ________________________________ 128
1.
La costruzione del campione __________________________ 128
2.
La banca dati ______________________________________ 130
3.
Gli indicatori utilizzati _______________________________ 139
3.1. Gli indicatori di scala ________________________________ 142
3.2
Gli indicatori finanziari ______________________________ 146
3.3
Gli indicatori di produttività e intensità di impiego dei fattori 152
3.4
Gli indicatori di redditività ____________________________ 155
4.
Descrizione del test di Mann-Withney impiegato nel lavoro__ 159
Appendice: Descrizione estesa degli indicatori impiegati nel lavoro. 162
IV.
Risultati dell’indagine empirica_________________________ 163
1.
Premessa __________________________________________ 163
2.
Indicatori di scala ___________________________________ 164
3.
La struttura finanziaria delle cooperative_________________ 169
4.
Indicatori di intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro _ 180
5.
Gli indicatori di Redditività ___________________________ 181
6.
Indicatori di Produttività _____________________________ 188
7.
Conclusioni________________________________________ 191
Appendice 1. ___________________________________________ 194
Appendice 2. ___________________________________________ 195
Bibliografia ____________________________________________ 196
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Introduzione
Nelle economie di mercato il tipo di impresa più comune è
quello capitalistico, in cui il proprietario del capitale ha una
posizione centrale nell’impresa stessa: egli è titolare della
stessa, o quanto meno esercita su di essa una qualche forma di
controllo, e ha diritto ai profitti. Meno comuni sono invece le
imprese cooperative in cui i lavoratori, o i possessori di altri
inputs, hanno il controllo dell’impresa (Grillo e Silva, p. 359).
Nel contesto settoriale che si esaminerà in questo lavoro, cioè
quello del comparto di trasformazione lattiero-caseario sardo, si
vedrà come le cooperative occupino un ruolo rilevante.
Si cercherà, quindi, di confrontare le forme istituzionali
d’impresa all’interno di tale ambito settoriale.
Per effettuare un confronto tra forme istituzionali d’impresa occorre
inquadrare il campo dove tale comparazione si svolge, è opportuno, quindi,
tracciare una cornice che non deve solo guardare al contesto attuale, che
vede il comparto caseario essere un punto di forza dell’economia sarda (ma
non solo, in quanto le produzioni sarde costituiscono ormai circa il 70%
delle produzioni ovine nazionali e quasi il 15% del totale dell’Unione
europea), ma, deve partire dal passato, deve cioè analizzare come si è
arrivati in tale “stato di cose”.
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Per fare ciò è stato predisposto un primo capitolo di carattere storicoevolutivo dove si partirà da una breve analisi del comparto agroalimentare,
del quale il settore lattiero-caseario fa parte, per poi dare una fotografia del
contesto attuale di tale settore, andando anche a vedere quelli che sono i
prodotti principali e soffermandoci soprattutto sul Pecorino Romano. Infine
attraverso un’analisi diacronica si delineeranno i momenti storici
dell’industria casearia sarda con un breve cenno anche alle origini del
formaggio e al mondo delle imprese pastorali sarde.
Nel secondo capitolo verranno tracciate, invece, quelle che sono le
principali ipotesi sulle forme istituzionali d’impresa.
Nel terzo capitolo si presenterà la metodologia che è stata utilizzata in tale
lavoro, per la raccolta dei dati, per la riclassificazione dei bilanci delle
singole imprese, per la costruzione dei due campioni di imprese e per
l’effettuazione dell’analisi statistica per la quale, come si vedrà in seguito, è
stato utilizzato il test di Mann-Withney.
Infine nel quarto capitolo si testeranno sul campo attraverso un analisi
empirica le ipotesi formulate e si trarranno le dovute conclusioni.
Si cercherà di dare un quadro delle possibili differenze che possono
sussistere tra le due forme istituzionali d’impresa, senza
però,
indipendentemente dai risultati che si otterranno, voler attribuire ad una
forma una supremazia assoluta rispetto all’altra, in quanto il successo di un
organizzazione non dipende solo dalla forma istituzionale scelta ma anche
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da una serie di variabili esterne ed interne che la circondano e dal percorso
storico che il particolare settore ha effettuato.
Inoltre il vantaggio comparato1 ha necessariamente una validità storica
determinata, e quindi non definitivo ma contingente a quelle particolari
condizioni storiche e sociali all’interno delle quali l’analisi ha preso le
mosse. Se quindi la nostra analisi ci rileverà che in questo momento storico,
l’impresa cooperativa gode di un vantaggio comparato sulle forme
organizzative alternative, può tuttavia darsi il caso che in un contesto
storico diverso l’impresa cooperativa venga a perdere il suo primato a
favore di una forma organizzativa differente.
1
Una forma organizzativa gode di un vantaggio comparato relativamente a un certo bene o
servizio qualora per i soggetti appartenenti a forme organizzative diverse risulti conveniente
acquistare tale bene o servizio dai soggetti che godono del vantaggio comparato piuttosto che
produrlo autonomamente (Zamagni, 1993).
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Capitolo 1
I. La filiera lattiero-casearia
1. Premessa
Nel confronto tra forme istituzionali di impresa nel settore lattiero-caseario
occorre, innanzitutto, dare un inquadramento dell’intera filiera2 sia nel
contesto attuale che, seguendo l’approccio evoluzionistico, nel suo contesto
storico. Il filone evoluzionistico affonda le sue radici nella tradizione
americana basata su un approccio di studio storicizzato e fondato sulla
ricostruzione di casi di settore o di imprese. Tale approccio fa si che
l’impresa esiste come risultato di un processo storico, indipendentemente da
spiegazioni logiche e efficientistiche. In altre parole, le imprese e le
istituzioni possono esistere ed avere certe caratteristiche semplicemente
perché storicamente si sono accumulate situazioni e condizioni che hanno
caratterizzato l’organizzazione (Ferrucci, 2000). In questa prospettiva
evoluzionistica di chiara matrice lamarkiana l’impresa si caratterizza nel
suo comportamento per un lungo percorso caratterizzato da prove ed errori,
nel quale assumono un ruolo di centrale importanza le concrete esperienze e
2
La filiera è un percorso che un prodotto, o gruppo di prodotti, segue all’interno del sistema agro-alimentare,
interessando tutti i soggetti e le operazioni che portano dalla produzione al consumo finale; in tale struttura
organizzativa, l’operatore che mantiene il contatto con il mercato finale si trova nella condizione di poter
gestire l’intera filiera.
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sperimentazioni vissute nel corso del tempo (Di Bernardo, Rullani, 1995).
Lo stock sedimentato di conoscenze, competenze e capacità dell’impresa
risultano perciò il risultato irripetibile della sua storia e ne condizionano
quindi le capacità progettuali e strategiche (Nelson, 1995 cit. in Ferrucci,
2000). In questo paradigma evoluzionistico pertanto la specificità
dell’impresa (sia in termini di struttura che di comportamento) non deriva
soltanto dall’influenza di variabili puramente oggettive (ad es. il modello
istituzionale) e magari esogene, ma soprattutto dalle specifiche competenze
e capacità sedimentate nel corso della sua storia, da cui discendono
specifiche routine comportamentali (Nelson, Winter, 1982). Quindi le
particolari competenze tecnico-organizzative che
allo stato attuale
caratterizzano l’apparato industriale caseario regionale sono indubbio frutto
di una lenta sedimentazione nel tessuto sociale di quelle conoscenze e
capacità esogene il cui meccanismo di formazione e diffusione, in continua
evoluzione, deve considerarsi fondamentalmente endogeno allo stesso
territorio e particolarmente proprio di determinate aree. Non a caso
l’imprenditoria privata è andata concentrandosi nei luoghi che gia in epoca
antica erano stati il principale centro di questa attività creando le condizioni
ideali per il consolidarsi di veri e propri sistemi locali di produzione che
allo stato attuale è possibile rinvenire in certe zone dell’isola. Non si può,
infatti, trascurare che il particolare meccanismo di propagazione con il
quale si è andata evolvendo la filiera lattiero-casearia è similare a quello
che ha portato alla formazione dei Distretti Industriali (Brusco, 1989, cit. in
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Idda, 1995). Ed è il permanere di questo tipo di meccanismo di trasmissione
delle conoscenze che ha permesso di lasciare inalterata negli anni la natura
di questi sistemi locali nonostante il mutare degli eventi esterni e il relativo
adattarsi dei comportamenti. Il nucleo caratteristico di valori, conoscenze ed
istituzioni, ed il sistema dei rapporti fondamentali non è cambiato riuscendo
in tal modo a garantire la conservazione dell’identità di tale sistema
(Beccattini e Rullani 1993, cit. in Idda, 1995).
2. L’agroalimentare in Sardegna
Tutti i paesi che hanno raggiunto un certo grado di prosperità e di progresso
civile, debbono la loro fortuna al prolungato, libero e spesso incoraggiato
sfruttamento delle loro particolari risorse (Alivia, 1921).
Il comparto agroalimentare nel suo complesso è la più importante realtà
produttiva della Sardegna: assorbe il 14% della forza lavoro, contro una
percentuale dell’11,5% nazionale, il processo d’espulsione di occupati dal
settore appare molto meno accentuato nell’isola (-1,6%) di quanto non lo
sia nel mezzogiorno (-3,1%) o per l’intera Italia (-2,5%). Il sistema
agroalimentare in Sardegna non contiene aspetti tali da farne un modello
originale e di natura a se stante, piuttosto le sue connotazioni geografico
territoriali, la composizione tipologica delle filiere, le dotazioni strutturali e
tutte quelle variabili che lo distinguono aggiungono elementi qualiquantitativi al modello senza con ciò influenzare ne il verso funzionale ne la
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sua forma. D’altra parte, lo stesso segmento agricolo dimostra di soffrire di
problemi che sono condizioni ben note e tipiche dell’intero sistema
agroalimentare italiano. Ad esempio, i vincoli che derivano dall’assetto
fondiario si concretizzano in ridotte dimensioni aziendali, in un elevato
grado di frazionamento delle superfici e, per le aziende cerealicole e
viticole, in un eccessiva approssimazione dell’ubicazione delle stesse
culture. Ritroviamo la medesima mancanza di specificità nelle questioni
riguardanti la gestione dell’azienda agraria. Tecniche e forme di
allevamento tradizionali sono di condizionamento sia per le culture viticole
che per quelle olivicole. Nello specifico, l’utilizzo di tecniche produttive
meno che efficienti e irrazionali accomuna il settore dell’allevamento ovicaprino e quello cerealicolo. Nel primo vengono in evidenza un
alimentazione irrazionale e tecniche di riproduzione insoddisfacenti, nel
secondo, sono le inefficienze agronomiche, di sistemazione dei terreni e di
rotazione che limitano la capacità operative dell’azienda (Idda, 1995). A
questi problemi si aggiungono l’eccessivo indebitamento delle aziende, la
scarsa propensione delle stesse agli investimenti legata essenzialmente
all’incertezza dei finanziamenti, la scarsa competitività sul mercato, le
questioni inerenti all’energia, alla continuità territoriale, alle risorse idriche
ed una serie di emergenze che fanno apparire sempre più incerto il futuro
del settore primario (mucca pazza, peste suina, lingua blu). Sulla nostra
agricoltura influiscono anche i condizionamenti imposti dall’Unione
Europea (norme igienico sanitarie, organizzazioni comuni di mercato, aiuti
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di stato, rispetto delle norme ambientali) che rischiano di farle perdere
ulteriore competitività, sia a livello comunitario che nazionale, se non sarà
in grado di utilizzare entro il 2006, data di ingresso nell’Unione Europea dei
paesi dell’Europa centro-orientale, le consistenti risorse finanziarie messe a
disposizione nell’ambito del quadro unitario di sostegno.
Tabella 1 L'agricoltura sarde in cifre:Tutti i dati si riferiscono
al 2001, tranne quelli relativi agli scambi agroalimentari che
sono aggiornati al 31-12-2002.
L' AGRICOLTURA SARDA IN CIFRE
superficie agricola totale (ettari)
superficie agricola utilizzata (Sau)
di cui:
erbacee
legnose
Pascoli e prato pascoli
superficie irrigua
aziende agrarie (numero)
dimensione media (ettari)
occupati in agricoltura (numero)
trattrici (numero)
reddito medio annuo (euro)
produzione lorda vendibile
produzione lorda vendibile per settori di attività
Allevamenti
colture erbacee
colture arboree
scambi agroalimentari (migliaia di euro)
Importazioni
Esportazioni
Di cui: formaggi di pasta dura e semidura
1.713.170
1.022.901
30,4%
11,8%
46%
62.315
112.692
15,27
46.000
23.921
426,2
1.543.323
100
33,9%
30,4%
11,8%
227.122
169.063
105.648
Fonte: "Sardegna Industriale" su dati Istat e Inea.
Anche il segmento trasformativo presenta una serie di omogeneità che non
lo discostano dalla linea di tendenza generale. Il numero eccessivo e la
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dimensione aziendale insufficiente caratterizzano, in genere, tutti quegli
impianti gestiti tramite una forma cooperativa. Si tratta in particolare dei
comparti caseario e vitinicolo, i quali affrontano i problemi di un offerta
della materia prima scarsamente differenziata e difficilmente orientabile e,
contemporaneamente vivono una organizzazione delle proprie vendite
connotata da fragilità dei legami commerciali e da una tipologia di prodotti
poco orientata al mercato (Idda, 1995, p.10).
3. Il comparto lattiero-caseario sardo
Nel sistema agroalimentare della Sardegna il comparto lattiero-caseario
occupa una posizione di risalto. Nell’isola, infatti, il sistema di allevamento
della pecora da latte ha registrato, negli ultimi trent’anni, un eccezionale
intensificazione. Questo fatto ha determinato un aumento della produzione
di latte ovino tale da rendere unica la situazione di mercato della Sardegna
rispetto a quella degli altri bacini di produzione: 4.700.000 quintali, di cui si
stima che 900.000 siano destinati all’alimentazione degli agnelli e
3.800.000 alla trasformazione. Nel 2000, con un valore medio annuo pari a
196 milioni di euro, la produzione di latte ovino ha rappresentato il 13,4%
della Plv regionale, mentre l’offerta di formaggio, stimata intorno ai 300
milioni di euro, è riuscita a coprire il 25% del fatturato industriale.
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Tabella 2 Patrimonio zootecnico sardo.
PATRIMONIO ZOOTECNICO SARDO
Numero capi Numero capi/azienda Numero aziende
BOVINI
249.350
28,7
8.595
BUFALINI
984
123
8
SUINI
193.947
15
12.930
OVINI
2.808.713
194
14.477
CAPRINI
209.487
64
3.273
EQUINI
16.487
3,7
4.455
AVICOLI CUNICOLI 1.139.323
232
4.910
Fonte: Istat, Inea -Ufficio contabilità agraria per la Sardegna anno 2001.
L’allevamento ovino, che si attua su 17000 aziende, occupa 14-15 mila
unità mentre sono 2000 quelle occupate nel settore industriale. Il sistema di
trasformazione regionale ha perduto quasi integralmente il carattere
artigianale di produzione presso l’azienda pastorale; modalità che si
conserva, attualmente, quasi soltanto per il formaggio Fiore Sardo. Solo una
piccola parte, circa il 5%, viene destinato alla trasformazione nell’ambito
famigliare, al di fuori della rete commerciale. La trasformazione industriale
coinvolge 130 imprese, di cui 90 circa caseifici di proprietà privata
(Porcheddu, 2004)3, che trasformano circa il 59,7% della produzione di
latte, e 43 stabilimenti ad organizzazione cooperativistica che raccolgono il
41,3% del latte presente nel mercato.
La produzione totale di formaggi oscilla, attualmente, intorno ai 600 mila
quintali, il 50% dei quali è rappresentato dal Pecorino Romano. Il panorama
dei prodotti caseari ovini risulta composto da formaggi a pasta dura,
3
Si ha motivo di credere, comunque, che le imprese capitalistiche di una certa rilevanza per
fatturato non superino le 50 unità (Porcheddu, 2004).
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semidura, molli, ricotte e altri prodotti tipici. Nel loro insieme costituiscono
un fatturato stimato in 300-310 milioni di euro, pari al 25% dell’intero
fatturato agro-industriale della Sardegna. Nel 2002 l’export dei prodotti
lattiero-caseari, in prevalenza formaggi ovini
a pasta dura (per lo più
Pecorino romano), ha raggiunto il valore di 106 milioni di euro, che colloca
l’isola al terzo posto tra le regioni italiane.
Gli altri formaggi ovi-caprini rappresentano circa il 48% e comprendono
Pecorino sardo dop per 60 mila quintali; fiore sardo dop per circa 3000
quintali; diversi tipi di Canestrati: Calcagno, Crotonese, Pepato, Foggiano,
Feta (circa 20-25 mila quintali prodotti per due terzi nelle cooperative);
formaggi a pasta molle (stagionatura medio-breve 25-40 giorni) tipo
Caciotta o Caciottone, oppure a rapida maturazione tipo Bonassai, per una
produzione stimata intorno ai 100 mila quintali di cui l’80% prodotto da
industrie private; prodotti freschi come la ricotta gentile prodotta in quantità
pari a circa 100-120 mila quintali, consumata in parte in Sardegna e in parte
esportata nella penisola; le stagionate ricotte Testa di Morto, Toscanella,
Moliterna e Mustia, a conservazione medio-lunga. Altri formaggi non
classificati nei dop ma del tipo Pecorino Sardo, per 100 mila quintali circa.
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Tabella 3 Produzione di formaggi ovini in
Sardegna.
PRODUZIONE DI FORMAGGI OVINI IN
SARDEGNA
QUINTALI %
PECORINO ROMANO DOP
333.210 44,83
PECORINO SARDO DOP
62.000 8,34
PECORINO FIORE SARDO DOP
3.000 0,40
CANESTRAI
25.000 3,36
A PASTA MOLLE
100.000 13,46
TIPO PECORINO SARDO
100.000 13,46
RICOTTA GENTILE
120.000 16,15
TOTALE
743.210 100
Fonte: elaborazione "Sardegna Industriale" su dati
Aras e Consorzi di tutela.
3.1 Il Pecorino romano
3.1.1 Il prodotto
Formaggio di antichissima tradizione, il Pecorino Romano ha nell’Agro
romano la sua area di origine. Dal periodo romano, la tradizione produttiva
si è tramandata nel corso del tempo fino al secolo scorso, momento in cui il
baricentro produttivo si è spostato dal Lazio alla Sardegna, regione che
attualmente rappresenta il principale produttore di Pecorino romano con
oltre il 90% della produzione realizzata. Attualmente il Pecorino romano
rappresenta uno dei principali formaggi Dop prodotti in Italia (7% in
volume), preceduto solo da Grana Padano (32%), Parmigiano Reggiano
(26%) e Gorgonzola (11%).
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La sua importanza può essere meglio compresa se valutata in rapporto a
quella degli altri formaggi pecorini (Fiore sardo, Pecorino sardo, Pecorino
siciliano, Pecorino toscano). Complessivamente tale comparto rappresenta
l’8% del mercato di formaggi Dop italiani, ma il solo Pecorino romano
raggiunge in tale ambito una quota del 92%.
Inoltre, nel contesto italiano spetta a questa Dop un ruolo leader in relazione
al significativo peso che essa riveste nella bilancia commerciale,
alimentando, infatti, un forte flusso verso l’estero. Spetta, infatti, al
Pecorino Romano il 30% della quota di esportazione di formaggi Dop,
contro il 28% del Grana Padano, il 18% del Gorgonzola e il 12% del
Parmigiano Reggiano.
L’analisi della fase a valle della filiera evidenzia infatti alcune
caratteristiche peculiari: solo una quota pari a circa il 30% dell’offerta è
destinata al consumo interno, mentre una fetta rilevante (il 70%) è
indirizzata all’esportazione, con destinazione prevalente verso gli Stati
Uniti.
Il consumo differisce in maniera sostanziale nelle due aree di riferimento:
mentre in Italia è prevalente il consumo diretto del Pecorino Romano, negli
Usa una quota rilevante entra come ingrediente nelle preparazioni
industriali e la parte destinata al consumo diretto viene commercializzata
prevalentemente come formaggio da grattugia.
Il ruolo che la produzione di Pecorino Romano riveste nel comparto
ovicaprino italiano è, infatti, di estremo rilievo (cfr. tabella 4).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Tabella 4 Produzione Pecorino Romano (quintali).
PRODUZIONE DI PECORINO ROMANO
ANNI
SARDEGNA
LAZIO
TOTALE
1970-1971
135.740
26.150 161.890
1980-1981
154.000
29.000 183.000
1990-1991
243.493
66.967 310.460
1997-1998
317.299
28.570 345.869
1998-1999
282.635
20.367 303.002
1999-2000
318.094
18.407 336.501
2000-2001
332.221
20.861 353.082
2001-2002
299.542
20.491 320.033
Fonte: Sardegna Industriale.
Figura 1 Produzione Pecorino Romano
400000
350000
QUINTALI
300000
250000
LAZIO
200000
SARDEGNA
150000
100000
50000
19
70
-1
19 971
80
-1
19 981
90
-1
19 991
97
-1
19 998
98
-1
19 999
99
-2
20 000
00
-2
20 001
01
-2
00
2
0
ANNI
Fonte: nostre elaborazioni su dati Sardegna Industriale.
DATI DI PRODUZIONE PECORINO ROMANO ULTIMO TRIENNIO
2000-2001 2001-2002 2002-2003
COOPERATIVE SARDEGNA
Kg. 18.084.293 16.106.708 17.489.485
INDUSTRIALI SARDEGNA
Kg. 15.137.838 13.847.536 12.258.331
PRODUZIONE SARDEGNA
Kg. 33.222.131 29.954.244 29.747.816
PRODUZIONE LAZIO
Kg. 2.086.141 2.049.091 1.250.716
TOTALE PRODUZIONE
Kg. 35.308.272 3.200.335 30.998.532
alle 24ore alle 24ore alle 24ore
TOTALE PRODUZIONE A VENDERE
CON CALO PESO MEDIO 8%
Kg.
32.483.610 29.443.068 28.518.649
Fonte: Nomisma.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Figura2 Ripartizione della produzione di pecorino romano per tipologia di caseificio.
100%
90%
80%
42%
56%
55%
2%
1%
42%
44%
70%
60%
50%
40%
30%
58%
20%
10%
0%
1988/89
1993/94
1998/99
Imprese private associate
Imprese private non associate
Cooperative e Associaz. Produttori
Fonte: Elaborazioni Nomisma su dati del Consorzio di Tutela del
Formaggio Pecorino romano.
Se da un lato la quota della produzione riferita a caseifici non associati al
Consorzio di Tutela si riduce, dall’altro si assiste ad un capovolgimento del
ruolo rivestito da imprese private e cooperative. A queste ultime, infatti, nel
1988/89 afferiva una quota pari al 42% dell’offerta totale di Pecorino
romano, mentre nel 1998/99 tale quota era salita al 58%. Speculari sono
invece i pesi riferibili alle imprese private.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
3.1.2 L’iter di riconoscimento
Il Pecorino romano è uno dei primi prodotti tipici italiani ad aver ottenuto
riconoscimenti nazionali ed internazionali. Già nel 1951, in occasione della
Convenzione di Stresa, il Pecorino romano è stato riconosciuto
internazionalmente come Denominazione di Origine Tutelata (inserimento
del prodotto nell’allegato A - Denominazioni con vincolo geografico).
A livello nazionale, la Denominazione d’Origine ed il relativo standard di
produzione vengono definiti, secondo i principi sanciti dalla legge
125/1954, dal D.p.r. n° 1269 del 30 ottobre 1955.
Nel 1995 al disciplinare di produzione viene apportata un’importante
modifica, sottoposta al vaglio dell’allora Ministero dell’Agricoltura e
Foreste. Accanto ai tradizionali 8 mesi di stagionatura, che rendono il
Pecorino romano un formaggio prevalentemente da grattugia, viene
introdotto un tempo di stagionatura di 5 mesi, più adatto ai nuovi gusti del
consumatore per il consumo del Pecorino romano come formaggio da
tavola. Ma è l’anno seguente che, in conformità alla normativa comunitaria
(Reg. Ue 2081/92), con il Reg. attuativo Ce 1107/96, il Pecorino romano
entra a pieno titolo fra i prodotti agroalimentari a Denominazione di Origine
Protetta (Dop).
Infine, nel giugno del 1997, al Pecorino Romano viene riconosciuto
dall’United States Patent and Trademark Office il marchio “Roman cheese
made from sheep’s milk”, che consente al formaggio italiano di porsi
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
parzialmente al riparo da eventuali speculazioni commerciali in territorio
statunitense.
Tabella 5 Iter di riconoscimento del Pecorino
Romano.
1951
1951 -- Convenzione
Convenzione internaz.
internaz. di
di Stresa
Stresa
Riconoscimento ed inserimento del Pecorino Romano
nell’Allegato A - Denominazione di origine
DPR
DPR n.
n. 1269/55
1269/55
Riconoscimento della Denominazione di origine tutelata ai
sensi della legge 125/54 “Tutela delle denominazioni di origine
e tipiche dei formaggi” e definizione del relativo standard di
produzione
Decreto
Decreto del
del MiRAAF
MiRAAF -- 6
6 giugno
giugno 1995
1995
Modifiche al disciplinare di produzione della denominazione di
origine del formaggio "Pecorino Romano
Reg.
Reg. (CE)
(CE) 1107/96
1107/96
Riconoscimento della Denominazione di origine protetta ai
sensi del Reg. (CE) 2081/92
United
United States
States Patent
Patent and
and Trademark
Trademark Office
Office -giugno
giugno 1997
1997
Riconoscimento negli Stati Uniti del marchio “Roman cheese
made from sheep’s milk”
Fonte: elaborazioni Nomisma su fonti varie.
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3.1.3 Il ruolo del Consorzio
Il Consorzio per la Tutela del Formaggio Pecorino Romano viene costituito
nel novembre del 1979 per volontà di un gruppo di operatori del Lazio e
della Sardegna, ed ottiene il 14 gennaio 1981, dall’allora Ministero
dell’Agricoltura e Foreste di concerto con il Ministero dell’Industria,
l’affidamento dell’incarico di vigilanza sulla produzione e sul commercio
del Pecorino Romano.
Nel maggio del 1989, tutti i caseifici produttori di Pecorino Romano del
Lazio e della Sardegna confluiscono nel Consorzio che diventa il principale
organismo di rappresentanza del comparto.
È proprio il Consorzio a fornire supporto alle Regioni ed al Miraaf (oggi
Mipaf) in occasione del riconoscimento comunitario, che avviene con
procedura semplificata - Art. 17 del Reg. (CE) 2081/92 - poiché il Pecorino
romano risulta tra i prodotti già riconosciuti con Denominazione di Origine.
Gli scopi del Consorzio definiti nello statuto comprendono:
• la tutela della produzione e del commercio del Pecorino romano,
• la tutela della denominazione in Italia ed all’estero,
• l’incremento del consumo,
• il miglioramento qualitativo,
• la collaborazione con organi ed Istituzioni (comunitari, nazionali e
regionali).
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Tali scopi vengono perseguiti attraverso un’attività di assistenza tecnica,
vigilanza e tutela del marchio e promozione.
In particolare, l’attività di assistenza tecnica viene esercitata nella fase di
produzione (analisi chimico-fisiche e microbiologiche sulla materia prima,
il caglio ed i fermenti lattici utilizzati durante la caseificazione) e sul
prodotto finito (monitoraggio delle quantità prodotte e verifiche degli
standard chimico-fisici, microbiologici, organolettici) e si completa con la
marchiatura a fuoco delle forme.
L’attività di vigilanza è invece volta a contrastare il commercio dei
formaggi di imitazione, sia in Italia che all’estero.
La promozione si sostanzia in differenti iniziative: campagne promozionali,
partecipazione
a
fiere
agroalimentari
nazionali
ed
internazionali,
degustazione di prodotti presso centri commerciali nazionali, convegnistica,
ecc..
La certificazione del Pecorino romano è affidata invece all’Ocpa (di cui il
Consorzio è socio fondatore), organismo riconosciuto dal Mipaf quale
unico soggetto autorizzato a rilasciare l’attestato di autenticità per
l’immissione del Pecorino romano al consumo.
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3.1.4 Il disciplinare di produzione
Il disciplinare prevede che la produzione del Pecorino Romano sia limitata
alle regioni Lazio e Sardegna ed alla provincia di Grosseto in Toscana.
Caratteristica peculiare di tale produzione è la stagionalità: il ciclo
produttivo si sviluppa, infatti, tra ottobre e luglio, con picchi produttivi nei
mesi primaverili (marzo, aprile e maggio).
Figura 3 Stagionalità annuale della produzione (kg di Pecorino romano
durante le campagne casearie del 1996/97,1997/98e1998/99).
8.000.000
7.000.000
6.000.000
5.000.000
4.000.000
3.000.000
2.000.000
1.000.000
e
e
e
o
e
io
io
to
zo
ile
no glio
ai
br
br
br
br
os
na
ar Apr
gg iug
u
br
m
m
m
to
a
g
n
L
M
t
b
e
e
e
A
G
M
c
v
O
tt
Ge
Fe
Di
No
Se
1998/99
1997/98
1996/97
Fonte: elaborazioni Nomisma su dati del Consorzio di Tutela del Pecorino Romano.
Tale fenomeno da un lato è riconducibile alla fisiologia degli ovini ed alle
caratteristiche del loro latte4, e dall’altro è legato al loro regime di
alimentazione. Le greggi vengono allevate al pascolo naturale (come
4
Nei mesi estivi la composizione del latte risulta sbilanciata per la produzione di formaggi a pasta dura
sottoposti a processi di maturazione medio-lunga.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
previsto dal disciplinare) che, a causa degli andamenti climatici tipici
dell’areale di produzione, risulta improduttivo durante i mesi siccitosi
estivi.
Nonostante il forte contenuto innovativo che ha caratterizzato negli ultimi
decenni l’evoluzione della tecnologia casearia, il processo di produzione è
stato mantenuto intatto nel corso del tempo, sviluppandosi nelle seguenti
fasi:
• Raccolta del latte: il latte fresco di pecora, proveniente da greggi
allevate allo stato brado alimentate su pascoli naturali, viene
trasferito nei centri di lavorazione con moderne cisterne refrigerate.
• Coagulazione: al suo arrivo nel caseificio il latte viene misurato,
filtrato e lavorato direttamente crudo o termizzato ad una
temperatura massima di 68° per non più di 15". Vengono così
riempite le vasche di coagulazione dove viene aggiunto un fermento
detto “scotta innesto”, preparato giornalmente dal casaro secondo
una metodologia che si è tramandata nei secoli. L’innesto è uno degli
elementi caratterizzanti il Pecorino Romano ed è costituito da
un’associazione di batteri lattici termofili autoctoni. Aggiunto
l’innesto il latte viene coagulato ad una temperatura compresa tra i
38° e i 40° utilizzando caglio di agnello in pasta; accertato l’ottimale
indurimento del coagulo, il casaro procede alla rottura dello stesso
fino a quando i coaguli di cagliata non raggiungono le dimensioni di
un chicco di grano. La cagliata viene quindi cotta ad una temperatura
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massima di 45/48° ed al termine della cottura viene pressata per
agevolare lo spurgo del siero.
• Maturazione e marchiatura: la pasta così ottenuta viene suddivisa in
blocchi che, immessi in appositi stampi di resina per alimenti,
subiscono un trattamento di maturazione in appositi locali
caldo/umidi al fine di favorire l’acidificazione della pasta. Dopo il
raffreddamento le forme sono sottoposte alla marchiatura; il marchio
Dop è apposto con una apposita matrice che imprime la
denominazione di origine del formaggio e il logo (la testa stilizzata
di una pecora), oltre che la sigla del caseificio produttore e data di
produzione.
• Salagione: le forme di Pecorino Romano così marchiate vengono
avviate alla salagione, che si compie ancora oggi secondo una
complessa tecnica artigianale. Almeno 70 giorni in locali umidi ad
una temperatura di 12 gradi centigradi e successivo completamento
della maturazione in locali meno umidi e temperatura di 10°
centigradi.
Ultimata la maturazione le forme di Pecorino Romano vengono sottoposte a
selezione. Raggiunti i 5 mesi il Pecorino Romano può essere immesso al
consumo come formaggio da tavola, mentre dopo 8 mesi può essere
commercializzato come formaggio da grattugia.
Le forme di Pecorino Romano sono cilindriche a facce piane con peso
variabile fra i 18 ed i 32 chilogrammi e tenore minimo in grasso del 36%.
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La pasta è leggermente occhiata di colore oscillante fra il bianco ed il giallo
paglierino tenue. L’aroma è caratteristico ed il gusto è piuttosto piccante.
3.1.5 La commercializzazione del prodotto
Il mercato Italiano
Il consumo di Pecorino romano presenta alcune caratteristiche peculiari
rispetto ad altre produzioni Dop. Si tratta, infatti, di uno dei pochi formaggi
tipici che non trova nel proprio bacino locale di produzione un riferimento
importante in termini di vendite finali. Tradizionalmente, infatti, in
Sardegna si consuma poco Pecorino romano. Un ulteriore indicatore di
peculiarità è il prezzo di vendita, che risulta del 15-20% più alto nei mercati
di vendita meno prossimali rispetto a quello locale.
In Italia il canale di vendita per eccellenza è quello del dettaglio
tradizionale al quale si imputa non solo la veicolazione diretta al mercato
del 45% dell’offerta, ma anche la quota che viene commercializzata tramite
intermediari e grossisti (30%) per un complessivo 75%. Il 20% viene invece
commercializzato tramite la Grande distribuzione e solo il 5% per mezzo
della vendita diretta.
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Figura 4 Canali di vendita del Pecorino romano in Italia (% in volume).
Vendita diretta
5%
Grossista
30%
Distribuzione
moderna
20%
Dettaglio
tradizionale
45%
Fonte: elaborazioni Nomisma su dati del Consorzio di Tutela del
Formaggio Pecorino Romano.
Il mercato estero
Il Pecorino Romano è il formaggio italiano più venduto nel mondo. Nel
1999, infatti, 21 mila tonnellate, pari a circa il 70% della produzione
complessiva, sono state destinate all’esportazione. Il principale mercato di
sbocco è rappresentato dagli Stati Uniti (nel 1998 oltre il 91% del totale),
mentre la restante quota si concentra prevalentemente in Francia (2,5%),
Germania (2%) e Svizzera (1,5%).
L’ingresso del Pecorino Romano nel mercato statunitense risale nei primi
del novecento ed è, da ricondurre al soddisfacimento delle richieste di
consumo legate ai flussi migratori dei nostri connazionali negli Usa. Il
canale di distribuzione prevalente è rimasto perciò per lungo tempo quello
del dettaglio tradizionale gestito da operatori di origine italiana.
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Nel tempo il Pecorino romano ha consolidato la propria presenza nel
mercato statunitense, andando a collocarsi nell’eterogeneo gruppo dei
formaggi da grattugia, per i quali la produzione americana è deficitaria.
Attualmente circa il 60% del Pecorino romano esportato negli USA viene
acquistato direttamente dall’industria locale che, attraverso circuiti
distributivi che fanno riferimento a grandi gruppi commerciali, rifornisce il
settore della ristorazione collettiva ed il dettaglio tradizionale.
La rimanente quota (40%) per il tramite di importatori viene invece
commercializzata dalla distribuzione organizzata prevalentemente sotto
forma di grattugiati ed in minor misura di porzionato.
Figura 5 Ripartizione percentuale delle esportazioni di Pecorino Romano
per Paese di destinazione (1998,% in volume).
Francia
2,6%
Germania
1,9%
Svizzera
1,4%
Stati Uniti
91,6%
Altri Paesi
2,5%
Fonte: elaborazioni Nomisma su dati Eurostat.
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4. L’evoluzione storica
4.1Le origini del formaggio
Non si può certo dire che l’industria abbia inventato il formaggio sardo,
essendo tradizionale, da parte dei pastori sardi, l’attività di caseificazione.
Si tratta però di lavorazioni di tipo artigianale, diverse da quella industriale.
L’industria infatti presuppone l’acquisto della materia prima da una
pluralità di aziende, la elaborazione di un prodotto uniforme, la vendita sul
mercato; essa richiede anche l’esistenza di un imprenditore che corra il
rischio economico d’impresa (Bussa, 1978).
L'origine del formaggio si intreccia con le origini dell'uomo e delle società
primitive. È strettamente legata alla capacità dell'uomo di praticare le
diverse tecniche agricole, fra queste in modo particolare la domesticazione
degli animali prima e l'allevamento subito dopo5.
Dai 10.000 ai 18.000 anni fa i pastori hanno inventato il formaggio in
Mesopatamia, nella valle compresa fra il Tigri e l'Eufrate, e nell'Indus6.
5
Nel 7.000 a.C. in Asia le popolazioni cominciarono ad addomesticare gli animali, e le tribù che
migrarono in Europa portarono i loro usi e il loro bestiame. Con la pastorizia appare logico
pensare che le risorse principali dell'uomo fossero quelle derivanti dalla produzione di carne e
latte. Il latte eccedente al fabbisogno familiare veniva destinato alla produzione di bevande
lattiche acidificate, il cui scopo era quello di poter conservare il più possibile un prodotto
facilmente deteriorabile, questa tecnica delle bevande ha probabilmente preceduto l'arte di
fabbricare i formaggi. Quindi, con la produzione di bevande a base di latte acidificato inizia la
storia della caseificazione e la produzione dei formaggi a pasta fresca e molle (Sedda, 2000). I
primi derivati del latte, che ebbero diffusione in tutto l'Oriente, furono le bevande acide come il
Komos e il Kumis citate da Erodoto e Senofonte.
6
Il formaggio era molto importante nell’Asia Centrale, nelle steppe, nella Mesopotamia,
nell’Anatolia, e nel Medio oriente, paesi in cui la società era basata sull’agricoltura e
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Nel 5.000 a.C. anche in Italia, nel sud della Francia, e nel nord Africa
iniziarono l’allevamento di pecore e capre 7.
I Romani perfezionarono le tecniche casearie dei greci quando introdussero
l'uso del latte vaccino fino ad allora poco utilizzato; la razione giornaliera di
"pecorino" dei legionari romani, secondo Virgilio, fonte più che attendibile,
era di 27 grammi. Il latte caprino ed ovino lasciato in canestri coagulava
spontaneamente oppure la coagulazione veniva accelerata mescolando
continuamente con rametti di fico o aggiungendovi direttamente succo di
fico o semi di cardo selvatico. Separando così la parte più densa, che si
rapprendeva e acquistava una certa consistenza, dando così origine ai primi
formaggi denominati anche “Giuncate” perché prodotti in contenitori di
giunco o canestri. I romani sperimentarono oltre al cardo e al fico lo
zafferano
e l’aceto per cagliare il formaggio e questa mistura veniva
sull’allevamento. Il documento più antico che testimonia con particolare precisione le fasi di
lavorazione del latte si può ammirare nel bassorilievo della civiltà Sumera denominato “Fregio
della latteria”, che risale al III millennio a.C., dove sono rappresentati i sacerdoti (esperti caseari
dell'epoca) nei diversi momenti applicativi della tecnica casearia (Sedda, 2000).
7
Gli abitanti dei balcani della valle di Tuna per primi portarono in Europa le mucche nel 4.000
a.C.. Scavi archeologici fatti in Italia e Francia hanno permesso di dire che già nel 2.800 a.C. in
questi paesi veniva fatto un formaggio molle primitivo. Il formaggio è tenuto in grande
considerazione anche nei testi sacri e nella letteratura. Nella Bibbia nel secondo libro di Samuele
17,29 è riportato: “Latte acido, formaggi di pecora e di vacca per Davide e per la sua gente
perché si sfamassero”. Gli ebrei quando si spostavano mettevano il latte in otri fatti con lo
stomaco delle pecore, e durante il viaggio il latte sbattendo si separava, a questo punto lo
scolavano, per farlo asciugare al sole e poi lo mettevano con il sale in vasi di terracotta pronto
per il consumo o la conservazione. I Greci chiamarono in causa Amaltèa, la mitica nutrice di
Giove, padrona di una capra prodigiosa con il cui latte e derivati avrebbe nutrito il dio. Il corno
di questa capra sarebbe poi diventato la cosiddetta cornucopia ossia il corno dell'abbondanza,
inesausto fornitore di cibarie. Anche Omero si riconduce alla capra "cretese", rammentando i
deliziosi formaggi isolani prodotti seguendo una formula segreta dettata dagli dei. Nella Grecia
classica si riconduceva la scoperta del caglio alle ninfe, dalle quali l'avrebbe appresa il mitico
Aristeo, che l'avrebbe poi diffusa tra gli uomini. Lo stesso Omero nell'Odissea descrive
Polifemo nella sua grotta mentre prepara il formaggio. Lo stesso nome del prodotto richiama la
parola greca “fornos” (con questa parola gli antichi greci solevano indicare il paniere di vimini
nel quale era d'uso riporre il latte cagliato, per dargli evidentemente forma), anche se a Roma
veniva adoperata la radice “caseus”, da cui proviene quello della caseina, proteina principale del
latte e del formaggio.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
chiamata coagulum. Nel I° sec. d.C. i Romani per accelerare la stagionatura
dei formaggi li misero sotto pressione con dei pesi forati (pressatura). Nel
III sec. d.C. l’imperatore Diocleziano ordinò che il formaggio fresco fosse
venduto avvolto in foglie e che quello stagionato fosse salato sulla
superficie.
Nell'età imperiale il formaggio era presente nei banchetti con raffinate
preparazioni culinarie.
È indiscutibile, poi, l’indissolubile connessione tra Sardegna e mondo
pastorale: fin dai tempi della civiltà nuragica, anteriore al primo millennio
a.C., si evince l’attestazione di presenza di una società prettamente
pastorale (Cherchi Paba, 1974). Abbiamo testimonianze del formaggio in
Sardegna anche dagli autori latini Diodoro Siculo8 e Palladio Rutilio
Tauro9.
Nella Barbagia di Ollolai10, nel V-VI secolo d.C., la produzione di quelle
popolazioni constava soprattutto di materiale caseario, particolarmente di
quello ovino, ottenuto in secchi di sughero o ceppi di quercia incavati in
modo da contenere “il liquido di mungitura” facendo bollire con ciottoli
8
Diodoro Siculo nel 59 a.C. riguardo alla Sardegna, afferma che “Gli Iolei allontanaronsi dai
conquistatori, ed intanati nelle montagne e scavati sotterranei abituri, la vita sostentarono col
frutto delle greggia, larga ebbero quindi copia di vitto e il latte e il cacio e le carni diedero loro
bastevole nutrimento.”
9
Palladio Rutilio Tauro, autore latino del sec. IV, ci ha lungamente descritto la preparazione del
formaggio in Sardegna: i fermenti usati per la cagliatura erano sia d’agnello sia di capretto, o
afflorescenza di carciofo rustico o lattice di fico (come ancora oggi si fanno particolari formaggi
freschi in paesi del mediterraneo).
10
La Barbagia di Ollolai gravita in quel periodo attorno alla vallata del fiume Taloro, le greggi
avevano come pascoli invernali le contrade in seguito denominate Parte Barigadu e Ocier Reale
(la zona di Ghilarza) e nonostante i controlli dei presidi costruiti attorno alle montagne, che
avevano lo scopo di contenere le incursioni dei pastori, il campo d’azione di questi era
vastissimo: Salto di Quirra, Monti di Alà, Bruncuspina, Monte Santa Vittoria (Imberciadori,
1965).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
arroventati al fuoco e aggiungendo il fermento. Una volta coagulato, era
travasato in vasi di legno duro o forme, forati, era poi travasato in una tina
contenente salamoia, successivamente posto su graticci di legno o canna (sa
cannizza).
Dopo l’anno mille la produzione casearia in Sardegna è intensa, inoltre le
forme di formaggio costituivano mezzo di pagamento. Oristano era nel
medioevo centro di commercio caseario: qui scendevano, anche allora, i
greggi del Mandrolisai e della Barbagia (Imberciadori, 1965).
Altri porti utilizzati erano Cagliari, Alghero, Bosa. Fin dai primi anni del
1100, la Sardegna si offre agli occhi di commercianti genovesi11 e pisani
come terra in cui si possono acquistare a buon prezzo certi generi
alimentari, come cereali e formaggi, che i mercati continentali richiedono
con rigida regolarità (Boscolo, 1978).
Tra la fine del 1100 e il 1400 il porto di Cagliari diviene centro di raccolta,
di smistamento e invio di ogni prodotto commerciale: dal sale alla lana, dal
formaggio al cereale12.
11
Nel Giudicato di Arborea, il più fertile e ricco per certi prodotti, si era insediato il mercante
genovese ed imposto come uomo di buon affare e i Giudici, quasi a simbolo di generosa e
festosa ospitalità, erano soliti offrire ai genovesi “forme de casu et aione de benedicere”. Una
forma di cacio, tanto grande da essere trasportata in carro da bovi, e un agnello da benedire
(Boscolo, 1978).
12
Nel 1299, nei documenti pisani, troviamo che “la Sant’Antonio” una “trita”, ad una coperta,
lascia il porto di Cagliari, noleggiata per Pisa da un “patrono” di Barcellona ad un tal cittadino
di Sarzana, in Liguria. Il peso della merce è costituito da “cacio sardesco”, pari al peso di 22
pondi e 1/5 che corrispondono a circa 235 quintali di merce.”Il 17 dicembre del 1330, da
Cagliari, partono su una nave genovese per conto di mercanti pisani, residenti in Cagliari, 650
forme di cacio “sardesco” salato. Dopo il 1341, dagli archivi aragonesi, risultano frequenti
scambi commerciali tra la Sardegna e le Baleari (troviamo “1361, abril, 21, Mallorca. El
Gobernador concede licencia a Sancho Sanchiz, de Valencia, para sacar de la isla seis quintales
de quesos de Cerdena Y transportarlos a Valencia”) (Pablo Cateura Bennasser).Il formaggio
sardo, veniva quotato all’equivalente di 42,3 g. d’argento il quintale nel 1332; 41,0 g. Nel 1356,
ma 26,5 g. soltanto nel 1463.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Nel 1789, da una relazione del console francese Guys, si considera rilevante
quantitativamente
l’esportazione
del
formaggio.
“Il
prodotto
era
confezionato in tre distinte qualità: quello in salamoia era largamente
esportato a Livorno, Napoli e Marsiglia; grandi città come Genova e Nizza
preferivano il tipo dolce e più delicato. Anche in questo ramo
dell’esportazione notevolissime difficoltà si opponevano alla libertà di
commercio. Il malcapitato produttore di formaggio che intendeva ricorrere
all’estrazione doveva passare attraverso una così penosa e complessa trafila
burocratica che spesso era indotto a rinunciare alla vendita o a cercare le vie
del contrabbando” (Sole, 1978).
Il Bogino, alla fine del ‘700, nel tentativo di condurre ad un livello più alto
il gettito delle finanze isolane, studiò il modo di sviluppare e perfezionare
l’industria casearia sarda. Egli credete di poter persuadere i sardi ad
abbandonare la fattura del loro tradizionalissimo formaggio salato e a
intraprendere, su vasta scala, quella del formaggio dolce, fino, come
l’olandese e il lombardo (Di Tucci, 1930). Ma i pastori, in generale
trovavano, nel fare il loro formaggio fortemente salato, minor fatica,
commercio sicuro, prezzi vantaggiosi e minor rischio nel conservarlo,
rispetto al deterioramento cui, particolarmente in Sardegna erano esposti i
formaggi dolci e fini. Il formaggio salato resisteva al caldo, conservava
peso, era sicuramente esportabile perché molto accetto nel mercato del
consumo popolare, infatti anche i formaggi di mediocre fattura trovavano
collocazione nel mercato esterno grazie all’alto contenuto di sale, elemento
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
che altrove era di difficile reperimento e, dunque, assai costoso. Quindi “la
Sardegna non temeva la concorrenza dei formaggi olandesi e d’alta Italia
nel mercato popolare sui porti di Barcellona, Marsiglia, Nizza, Alassio,
Genova, Livorno, Civitavecchia, Napoli” (Di Tucci, 1930, p.741).
Il formaggio salato continuò ad affluire specialmente nel porto di Cagliari,
benché finisse col costare un terzo di più che a Bosa o a Porto Torres: solo a
Cagliari esistevano grandi pozzi di salamoia nei quali il formaggio si
conservava senza rischi sino al momento dell’imbarco per l’esportazione.
Appare datato, dunque, anche il ruolo trainante dello sviluppo che le
esportazioni hanno avuto per l’economia lattiero casearia ovina isolana: un
ruolo questo che si è mantenuto inalterato fino ai giorni nostri essendo la
maggiore quota dell’apparato produttivo inserita in un processo agrotrasformativo il cui prodotto finito ha per destinazione principale i mercati
extraeuropei.
La qualità del prodotto della fase pre-industriale è scadente, talvolta
pessima a causa dell’uso di attrezzature e metodi primitivi. Non sempre,
come comunemente si crede la lavorazione avviene nelle capanne circolari
(pinnettos): soprattutto nelle zone soggette alla rotazione biennale pascoloseminario essa avviene all’aperto a ridosso di poche fascine disposte a
semicerchio (ala-pinna), attorno al fuoco. Il latte è pieno di impurità e di
sporcizie. I recipienti per la raccolta, il riscaldamento e la lavorazione sono
quasi sempre di legno o di sughero; le caldaie in rame battuto sono un lusso.
Nei recipienti di legno o sughero il latte viene riscaldato con sassi
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
arroventati. Il calcolo della temperatura e il dosaggio del caglio vengono
effettuati secondo le personalissime valutazioni del pastore (Bussa, 1978).
4.2 La storia della pastorizia sarda
L’allevamento della pecora finalizzato alla produzione di latte costituisce,
in Sardegna, una attività molto antica e diffusa; ne è testimonianza
l’ampiezza dei capi presenti (cfr. tabella 6) e il fatto che esso costituisca, da
sempre, parte preponderante dell’intera ovinicoltura nazionale (Cherchi
Paba 1974).
Tabella 6 Evoluzione patrimonio ovino Sardo.
Anni
1771
1864
1875
1876-1881
1908
1918
1930
1936
1941
1949
1952
1979
Numero ovini
911.752
922.636
559.902
844.851
1.876.741
2.018.612
2.054.138
1.777.240
2.015.323
2.487.928
2.389.500
2.700.000
Fonte: nostre elaborazioni.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
EVOLUZIONE PATRIMONIO OVIN0 SARDO
17
71
18
64
1
18 875
76
-1
88
1
19
08
19
18
19
30
19
36
19
41
19
49
19
52
19
79
3000000
2500000
2000000
1500000
1000000
500000
0
ANNI
Nella Sardegna tradizionale l’allevamento errante degli ovini poteva essere
attività di sorprendente redditività. Un gregge di pecore, in un anno, poteva
facilmente restituire il capitale, e cioè riprodurre il proprio valore. Era
questa una conseguenza naturale del bassissimo livello tecnico della
pastorizia. Bestiame a parte, il pastore investiva soltanto il proprio lavoro, o
se si vuole il proprio sacrificio. La variabile che più influiva sulla buona
riuscita dell’azienda pastorale era dunque il pascolo. Se questo era ricco e il
suo prezzo contenuto, come avviene in tutta l’epoca feudale, “il futuro
sorride al pastore”. Per quanto questo futuro sia poi sempre molto incerto,
in condizioni in cui l’accidentalità naturale resta tuttavia determinante. La
pratica della transumanza e la necessità di reperire nuovi pascoli provocano
duri conflitti con gli agricoltori. La lotta tra contadini e pastori è la prima, la
più drammatica contrapposizione sociale che la Sardegna abbia conosciuto.
Il contrasto derivava da molteplici fattori: innanzitutto la scarsa
disponibilità specie nelle zone collinari o montane, di suolo coltivabile o
sfruttabile a pascolo; poi la furia distruttiva delle greggi che, soprattutto
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
durante le transumanze, si abbatteva sulle “vidazzoni”13, infine le profonde
differenze nelle attitudini, nella mentalità, nei costumi tra una società
nomade e aggressiva ed una sedentaria e pacifica. Una lotta, dunque antica
quanto l’isola stessa. Il mondo pastorale errante e guerriero, era stato chiuso
all’interno di quel “limes” con cui i dominatori romani avevano voluto
segnare l’argine per difendere le messi e i campi ricchi di grano. Anche il
diritto agrario medioevale ha dovuto difendere i coltivi, le vigne, gli orti, i
frutteti dalla minaccia incombente della pastorizia.
La congenita violenza della pastorizia nomade ha sempre suscitato
l’apprensione dei governi che non riuscivano a controllare questa umanità
errante e dispersa. La normativa sabauda del Settecento insegui l’ambiziosa
e irrealizzabile idea di trasformare il pastore nomade in allevatore
stanziale14 (Mattone, 1998, p.82). Alla fine del settecento incominciò un
processo di trasformazione della realtà agraria della Sardegna che si
concluderà soltanto verso la fine dell’ottocento, all’interno del quale la
pastorizia fu progressivamente traghettata dal sistema comunitario
tradizionale15, ad un nuovo assetto fondiario affrancato dagli usi civici e
basato sulla proprietà privata della terra.
13
Le “vidazzoni” erano i terreni destinati alle colture che il sistema comunitario imponeva
dovessero restare aperti, privi di muri o recinti (Ortu, 1981).
14
Nel 1738 il viceré, marchese di Rivarolo, inviava al sovrano una dettagliata relazione sulla sua
azione di governo in Sardegna, nella quale guardava con sospetto i pastori che vivevano con le
loro greggi nelle montagne dell’isola, individuando nelle loro barbariche forme di vita e nella
pastorizia nomade le radici sociali della criminalità rurale (Mattone,1998).
15
Il sistema comunitario tradizionale era imperniato su libero godimento dei diritti di ademprivio
per il pascolo nel quale l’allevamento si svolgeva al di fuori di qualsiasi organizzazione
aziendale e di qualsiasi struttura produttiva, talvolta senza neppure i rudimentali pinnettos,
all’insegna della sopravvivenza (Bussa, 1978).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Con schematica approssimazione si può dividere la storia della pastorizia
sarda in età contemporanea in tre grandi momenti.
Il primo momento è compreso tra il pregone del 2 aprile 1771, che
consentiva a chi possedeva terre aperte di recintarle per tutelare le colture
foraggiere, e l’editto delle chiudende del 6 ottobre 1820. Seppur
caratterizzata dalla persistenza delle abitudini comunitarie, questa fase
evidenzia anche l’incubazione dell’individualismo agrario con le chiusure
dei prati e il primo riconoscimento del dominio esclusivo sui pascoli.
Il secondo momento, contraddistinto da grandi mutamenti e da profonde
lacerazioni sociali, coincide col crepuscolo dell’antico sistema comunitario.
Questa fase si apre con l’editto a favore delle chiudende del 1820, con il
quale i piemontesi decisi ad una trasformazione in senso capitalistico
dell’economia rurale sarda infliggeranno il primo duro colpo al regime
tradizionale (Ortu,1988), e si conclude nel 1865 con la legge di abolizione
del diritto di ademprivio. È segnata inoltre da alcuni provvedimenti
normativi che demolirono il vetusto edificio comunitario e le servitù
collettive sui pascoli.
Infine, il terzo momento, che va dall’abolizione degli ademprivi sino
all’ultimo scorcio del XIX secolo, quando la penetrazione dell’industria
casearia determinò l’estensione dei pascoli in affitto e il rafforzamento della
rendita fondiaria. Pur senza idealizzare la dura vita pastorale, bisogna però
ammettere che, prima della fine del sistema comunitario, il pastore aveva
libero accesso alle lande, alle foreste, alle brughiere, ai beni comunali ai
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
terreni di pascolo, ed era in qualche modo in grado di dominare il ciclo
produttivo nella sua interezza. Dopo l’abolizione degli ademprivi il pastore
si trasformò in affittuario di un proprietario spesso assenteista (Mattone,
1998). Questa condizione durerà sino al processo di eversione della rendita
fondiaria avviato dagli anni sessanta del novecento, che modificherà
profondamente la figura sociale del pastore. Infatti il forte malessere delle
zone interne portò il governo ad istituire una commissione parlamentare
d’inchiesta, la commissione Medici16, che, tra il 1969 e il 1972, tenne
numerose audizioni e al termine della propria attività produsse un
documento in cui sintetizzo le proprie conclusioni: in sostanza essa
riconosceva nell’arretratezza della produzione pastorale e, soprattutto, nella
pratica della transumanza, le radici della criminalità sarda.
Le conclusioni della commissione medici si tradussero, in parte, nella l.r. 39
del 1973 ma, soprattutto nella l.r. n. 44 del 1976, la riforma dell’Assetto
Agro-pastorale, avente come obiettivo “(…) la costituzione di aziende
singole o preferibilmente associate, di dimensioni economiche tali da
assicurare agli addetti condizioni di maggiore redditività e gli stessi livelli
di reddito delle categorie degli altri settori produttivi (…)”. Tale obiettivo
venne perseguito cercando di rendere stanziale l’allevamento ovino; per far
questo era necessario sradicare la transumanza mediante diversi strumenti,
primo fra tutti il monte dei pascoli, da costituirsi, ai sensi dell’art 21 e ss.
della l.r. 44/76, mediante l’esproprio o l’acquisto dei terreni a pascolo
16
Il parlamento italiano nomina con la legge 27/10/1969 n.755 una commissione d’inchiesta sui
fenomeni di criminalità in Sardegna (Boscolo e al., 1974).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
permanente, dati in affitto da proprietari non coltivatori diretti, nonché
tramite l’acquisto dai proprietari che avessero voluti cederli, di tutti i terreni
indicati dai piani zonali di valorizzazione come idonei.
La transumanza aveva, sin dai tempi remoti, rappresentato il modo in cui il
pastore sardo aveva cercato di aggirare due limiti fondamentali per
l’aumento della produttività del gregge, ovvero il clima e le caratteristiche
podologiche del suolo, specie nelle zone interne a più intensa vocazione
pastorale, in quanto determinano la ridotta disponibilità di pascolo, in
quantità e nel corso dell’anno. Fernand Braudel ha osservato che la
transumanza dei pastori sardi è una transumanza “inversa”: essi non
salgono ma scendono muovendo dalla montagna alla pianura, spinti dai
primi freddi e comunque alla ricerca di migliori condizioni ambientali. Ed è
anche vero che si tratta di una discesa “tumultuosa”. L’immagine che può
meglio rendere, fisicamente, il fenomeno è quella di una proiezione, per
linee molteplici ma costanti, delle regioni centro-orientali dell’isola su tutta
l’area meridionale. Ogni linea ha fissi il suo punto di partenza e il suo punto
terminale (Ortu, 1988).
L’errore fondamentale commesso dalla commissione Medici e tradottosi
poi nella riforma agro-pastorale, è stato l’aver considerato il pascolo al
centro dell’intervento pubblico, quando invece si sarebbe dovuto operare
per modificare la combinazione dei fattori produttivi che caratterizzava
l’impresa armentizia sarda, sostituendo il pascolo con la produzione
foraggiera (Sabatini cit. in Savona, 1983) e per sostenere investimenti, sia
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
dello stato sia degli allevatori, che avessero consentito l’elettrificazione
delle zone rurali, la dotazione di mungitrici meccaniche, il miglioramento
dell’alimentazione del bestiame ecc. La riforma agro-pastorale, quindi, non
ha reso possibile la modernizzazione delle imprese armentizie che ancora
oggi costituiscono l’anello debole della filiera lattiero-casearia sarda, infatti
nonostante quest’ultima sia stata protagonista di una crescita significativa
negli ultimi quindici anni, tale crescita è stata solo quantitativa mentre
permangono problemi di produttività, addebitabili proprio alle attività a
monte della filiera. Sono infatti le imprese zootecniche a non offrire un
prodotto di qualità a prezzi competitivi, condizionando le imprese di
trasformazione.
Allo stato attuale la zootecnia ovina sarda
si articola su un tessuto
aziendale poco evoluto e, per molti versi, inadeguato a promuovere un
processo endogeno di razionalizzazione e di ammodernamento. Infatti,
nonostante in alcuni casi si notino taluni proficui miglioramenti, lo scenario
di fondo permane profondamente condizionato da un complesso di
negatività strutturali ed organizzative. E mentre alcune di queste, ed i
susseguenti effetti, risultano di evidenziazione relativamente recente, per
altre si può parlare di vere e proprie anomalie “storiche”, le cui ragioni
riposano nelle vicende antiche dell’agricoltura isolana. Tutt’oggi persistono
difficoltà ad inquadrare in precise eccezioni economiche ciò che
ordinariamente dovrebbe intendersi per azienda di allevamento ovino. È
noto infatti che il riferimento ad una compiuta concettualizzazione
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
aziendale, intesa come il complesso di connessioni tecniche ed economiche
sul quale si innestano e si coordinano i fattori della produzione e si
sostanzia il processo produttivo stesso, appare, per la gran parte delle unità
regionali di produzione ovina di gran lunga fuori luogo (Idda, 1995).
L’assetto fondiario, i rapporti contrattuali che intercorrono tra proprietà
terriera, attività di impresa e forza lavoro, la quantità e la qualità dei capitali
ordinariamente impiegati, le modalità di formazione del gregge e la
tecnologia
di
allevamento
adottate,
risultano
improntati
ad
una
approssimazione troppo elevata e ad una eccessiva precarietà perché sia
possibile cogliere quei nessi tecnici e quelle relazioni economiche che
consentono di qualificare la massima parte delle imprese armentizie sarde
come altrettante aziende agro-zootecniche. La vera unità di riferimento
dell’ordinamento pastorale sardo resta ancora il gregge, inteso come entità
di bestiame da modulare e gestire in funzione delle disponibilità alimentari
che di volta in volta si offrono all’impresa. Non dunque, veri e propri
allevamenti, unità nelle quali i fattori della produzione vengono attivamente
organizzati e proficuamente manipolati per concorrere sinergicamente al
migliore risultato produttivo, ma bensi entità che rispetto alla mutevolezza
del contesto circostante (che è soprattutto mutevolezza delle disponibilità
alimentari e della base terriera) non sanno intraprendere nessun altra
iniziativa di adeguamento che non sia quella rappresentata dall’elastica
modificazione del numero di capi allevati. Le ragioni di ciò vengono
individuate, principalmente, nell’instabilità del rapporto che lega l’impresa
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
pastorale al fattore terra, la quale trova, a sua volta le proprie determinanti
essenziali nelle vicende fondiarie dell’isola, che non hanno certo
incentivato l’affermazione di una proprietà terriera ad indirizzo pastorale;
negli elementi di un ambiente naturale climaticamente e territorialmente
ostile, che obbligano all’adozione di tecniche di allevamento ampiamente
estensive, nel tradizionale rifiuto del pastore a produrre foraggi; nella
cronica deficienza di capitali da destinare all’acquisizione definitiva della
risorsa fondiaria ed al suo miglioramento.
La mobilità territoriale e la precarietà della base terriera dell’impresa
armentizia restano, pertanto, peculiarità tipiche e diffuse dell’ordinamento
pastorale sardo. Una mobilita che in alcune situazioni assume i caratteri di
vera e propria transumanza, mentre in altre si qualifica come espressione di
uno status seminomade delle imprese.
1970
1982
1990
2000
AZIENDE
19.703
20.034
20.021
15.172
CAPI
1.889.606 2.093.230 2.619.462 2.882.240
96
104
131
190
CAPI/ AZIENDE
4.3Evoluzione storica del sistema di trasformazione del latte
4.3.1 L’industrializzazione
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Analizzando il settore caseario avendo sempre come unità di indagine la
filiera prodotto (cosi come è intesa nella letteratura francese) possiamo
notare come nell’800 si abbia una forma embrionale di filiera. Questa è
identificabile nella figura del pastore che accorpa su di se tutti i momenti
del processo zoo-trasformativo. Nella singola azienda si concentravano,
perciò, competenze di natura tecnica (legate all’allevamento del bestiame e
alla caseificazione del latte) e di tipo commerciale, dato che il formaggio
prodotto
non
era
integralmente
auto
consumato
ma
veniva
abbondantemente destinato alla vendita sui mercati locali o esportato verso
la penisola e verso alcuni paesi europei (Nuvoli, 1999). Ad essere prodotto
era un formaggio assimilabile all’attuale “Fiore Sardo”(prevalentemente
consumato in loco) ed un formaggio misto (chiamato banalmente cacio)
ottenuto talora con l’uso aggiuntivo di latte vaccino e, in parte, caprino, di
predominante destinazione estera. Il nucleo dell’industria casearia coinvolta
in tale produzione è rappresentato dalla capanna del pastore, una
costruzione con tetto conico di frasche posato su delle fondamenta di pietre
a secco. Al centro si trova il focolare, alimentato a legna, sul quale è posto
un recipiente unico, costituito da un semplice buco scavato in un tronco di
quercia, all’interno del quale il latte appena munto viene versato insieme al
caglio. Comuni sassi, preventivamente scaldati sul fuoco fino a raggiungere
un elevatissima temperatura, sono utilizzati per favorire la formazione dei
grumi del latte. Questi vengono successivamente versati in una forma
circolare, fatta di legno di pero, con dei fori attraverso i quali cola il
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
latticello. Per accelerare la conclusione di questa fase del ciclo produttivo il
pastore preme i grumi con un grosso pezzo di legno circolare dopo aver
opportunamente sistemato la forma su due traverse che vengono sostenute
al di sopra di un recipiente. Raggiunta la compattezza voluta il formaggio
viene fatto riposare per dieci/dodici ore, successivamente estratto ed
inserito nel mastello di salamoia, dove rimane fino a che non ha raggiunto
la giusta salagione. Per la fase di stagionatura il formaggio viene posto su
graticci di legno o di paglia solitamente sospesi al di sopra del focolare,
nella parte superiore della capanna. Accumulata una determinata quantità di
prodotto il pastore provvede alla vendita conservando solo la quota per il
proprio autoconsumo (Le Lannou, 1941).
Nel 1840 diversi tentativi furono fatti per il miglioramento della tecnica di
produzione casearia: ad esempio ad opera del teologo Satta Musio vennero
chiamati due casari svizzeri affinché insegnassero ai pastori orunesi la
tecnica di fabbricazione del burro e di altre tipologie di formaggi, quale il
groviera, (Cherchi Paba, 1974). Vennero in questo modo ad essere trasferite
competenze specifiche nella comunità locale che acquisì ben presto
notorietà su tutto il territorio regionale.
Il processo di caseificazione ha continuato a restare circoscritto alle sole
aziende pastorali sino alla fine del secolo scorso, allorquando nell’isola
trovarono insediamento i primi stabilimenti industriali. Da questo momento
in poi, la fabbricazione del formaggio ha cessato di essere condotta secondo
criteri che si definirebbero artigianali ed ha acquisito i toni di un autentico
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
processo industriale. I vantaggi che ne sono derivati hanno riguardato,
prima di tutto, l’atto trasformativo vero e proprio, che si è potuto evolvere
positivamente sul piano dell’efficienza tecnica ed economica nonché sul
piano della gamma delle produzioni realizzate. Ma l’industrializzazione
dell’attività casearia è stata altresì occasione di grande progresso civile e
sociale per il ceto pastorale che trasferendo all’esterno la caseificazione ha
potuto migliorare notevolmente le proprie condizioni di vita e di lavoro
(Nuvoli, 1999).
La condizione principale che determina la nascita dell’industria casearia
sarda è data dalla creazione di un mercato di consumo esterno e ricco, le cui
richieste non possono essere soddisfatte dalla produzione delle altre regioni
italiane. Il mercato è costituito dai lavoratori meridionali emigrati, sul finire
del 800, nell’America del Nord, i quali, in patria, erano forti consumatori di
formaggio pecorino. L’esportazione in America inizia nel 1894, da parte di
ditte lucchesi che commerciano prevalentemente olio e che iniziano a
vendere pecorino Maremmano. Essendo scarsa la produzione in Toscana,
gli esportatori si riforniscono di pecorino romano, che incontra subito il
favore dei consumatori. Il Lazio può infatti disporre di una produzione
quantitativamente e qualitativamente superiore a quella maremmana.
Fino al 1884 i pastori dell’agro romano portavano il loro formaggio
pecorino a Roma, dove alcuni salumieri, nelle cantine dei loro negozi, lo
salavano e lo stagionavano. In quell’anno il comune di Roma vietò la
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
salagione nel centro abitato e i salumieri furono costretti a impiantare gli
stabilimenti fuori dalla città.
Successivamente dalle aziende pastorali non venne ritirato il formaggio ma
la materia prima, il latte. Il salumiere-salatore, che era un negoziante, si
trasforma cosi in un industriale e in un industriale commerciante. Da questo
ceto sociale scaturirono gli industriali che impianteranno i primi caseifici
sardi (Bussa, 1978).
In Sardegna, d’altra parte, si erano create condizioni oltre modo favorevoli
per una espansione dell’allevamento ovino, a causa dello stato di crisi nel
quale versavano i settori agricoli e l’allevamento bovino. Nel 1887 la
rottura delle trattative per la rinnovazione del trattato di commercio con la
Francia arrecava un colpo gravissimo al principale cespite di allora della
ricchezza sarda: l’esportazione del bestiame17.
L’allevamento declinò per un certo tempo (cfr. tabella 7), riprendendo poi
lentamente la sua ascensione grazie ai costanti sforzi degli allevatori, i quali
si dedicarono al miglioramento delle razze, cercando nel continente italiano
un compenso al perduto mercato di Marsiglia (Alivia, 1921).
Tabella 7 Esportazione dei bovini tra il 1876 e il 1885
esportazione dei bovini tra il 1876
e il 1885
17
La Sardegna figurava per un quarto nella esportazione dei bovini dall’Italia. La chiusura
ermetica del mercato francese, facendo ribassare di colpo di quasi la metà il prezzo dei nostri
bovini, poneva senz’altro in deficit gran parte degli allevamenti, il cui reddito si basava per due
terzi sulla produzione delle carni e per un terzo su quella del latte. Una memorabile difesa del
nostro commercio fu fatta alla camera dall’On. Pais nel 1885, che dimostrò chiaramente come
l’aumento del dazio colpisse essenzialmente la Sardegna, che esportava allora bestiame di peso
inferiore alla media (Alivia, 1921, p.4)
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
1880
1883
1885
1878
PERIODO
85.452 39.712 68.382 28.416
dall' Italia
dalla provincia di Sassari 20.015 10.547 26.168
Ma da allora le energie degli allevatori si rivolsero per un'altra via. Col
diminuire del valore delle carni, cresceva l’interesse verso il latte e i sui
derivati: i sardi si dedicarono a sviluppare il caseificio e rivolsero speciali
cure al bestiame ovino.
Nel 1888 non esisteva una vera industria del caseificio. Il sistema di
lavorazione era ancora primitivo: la mancanza di locali adatti per la
conservazione, le difficoltà dei trasporti, tutto concorreva a rendere il
prodotto poco commerciabile e di scarso valore. L’industria casearia andò
gradualmente perfezionandosi, fino al sorgere dei caseifici per opera di
industriali romani. Negli anni 1890-1900 l’unico riuscito tentativo di
cooperazione produttiva nel settore lattiero caseario fu quello attuato dalla
“Cooperativa
Agricola
Italiana
di coltivazione”,
che
impiantò
a
Surigheddu18, un caseificio per la fabbricazione di formaggi e burro
(Sotgiu, 1991). Si sperimentò un nuovo tipo di formaggio, Gruyere, che
incontrò i favori dei consumatori e venne richiesto in grandi quantità a
Milano e dall’unione cooperativa. Nel triennio 1891-1893 si limitò a
produrre formaggi molli e semicotti per il mercato locale. Nel 1894 entrò
18
Nel 1897 in questa azienda, cominciarono a tenersi alcuni corsi di caseificazione con l’obiettivo
di insegnare la pratica casearia per la produzione di formaggi di tipo svizzero ed olandese;
successivamente se ne fecero altri a Pozzomaggiore, Padria, Thiesi, Bonorva e Villanova
Monteleone (Cherchi-Paba, 1974), attualmente tutti luoghi di eccellenza per la produzione
casearia.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
però in funzione il nuovo caseificio dotato di ambienti e attrezzature
razionali19.
Ma questi esperimenti isolati non erano sufficienti per un radicale
miglioramento dell’industria casearia. Per raggiungere tale scopo era
necessario convincere i pastori che la lavorazione del latte praticata nelle
capanne e confusa con l’economia domestica non era ne igienica ne
produttiva. Era invece necessaria l’associazione degli allevatori, per la
creazione di caseifici razionali. I pastori sardi, infatti, dovendo tre o quattro
volte l’anno cambiare dimora, per cercare la pastura e l’acqua per il
bestiame, difficilmente potevano gestire industrie per la lavorazione del
latte20 (Coda, 1977, pp. 208-212).
I progressi dell’industria casearia cominciarono dopo il 1896
allorché
giunse nell’isola, in qualità di vice direttore della scuola agraria di Sassari,
il professore Bochicchio con l’incarico di migliorare le condizioni della
pastorizia locale. Il professore dovette lottare contro l’indifferenza dei
produttori per l’introduzione di nuovi metodi di lavorazione del latte
razionali21 che consentivano di ottenere dei grossi guadagni rispetto a quelli
“primitivi”. Il Bochicchio nella relazione al ministero dell’agricoltura sulla
condizione della pastorizia e dei caseifici in Sardegna scriveva che i
19
Con l’acquisto di tali strumenti la cooperativa poté utilizzare tutti i sottoprodotti del latte
incrementando notevolmente gli utili. Mentre infatti con la lavorazione tradizionale si
ottenevano dalla lavorazione del formaggio un ricavo complessivo di L. 2000 nel 1894, con
l’entrata in funzione di nuovi metodi di lavorazione il reddito lordo sali a L. 5000 e nel 1896 a
L.8000 (Coda, 1977).
20
Un caseificio inoltre per quanto modesto richiedeva una spesa di 60-70.000 lire , somma che
poteva reperirsi solo con l’associazione degli allevatori (Coda, 1977, p.211).
21
Si studiarono per la prima volta le caratteristiche organolettiche del latte ovino e bovino, i tempi
di fermentazione,il grado di temperatura richiesto ecc. (Campus, 1929).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
caseifici rimanevano aperti dalla seconda metà di dicembre al 31 maggio e
dopo questo periodo i pastori portavano il latte in città per la vendita diretta
di questo prodotto. Molti pastori dalla montagna, invece, lontani dai centri
abitati, durante la chiusura dei caseifici continuano ad esercitare “l’industria
casearia errante” in capanne, pinnete, qualche volta improvvisate, piene di
fumo, perché quasi sempre prive di camino. Gli attrezzi usati erano più che
preadamitici ed erano quasi completamente ignorati i principi di igiene e
pulizia22(Campus, 1929).
Nel 1897 i produttori romani non potendo far fronte alla crescente richiesta
del pecorino romano dall’America, cominciarono a lavorare tale formaggio
in Sardegna. Un salatore romano, probabilmente Castelli, impianta a
Villanova Monteleone, il primo rudimentale caseificio. Il suo esempio viene
ben presto seguito da altri romani e poi da ponzesi, lucchesi, genovesi e
infine sardi (Bussa, 1978). Con il parziale decentramento della produzione
del Pecorino in Sardegna si ebbe un cospicuo trasferimento di capitali (non
solo umani) necessari per il decollo dell’industria casearia, data la
sostanziale incapacità della comunità locale di saper sfruttare le opportunità
di profitto offerte da tale settore, dovute, quest’ultime ad una domanda
crescente. Sulla base di tale processo di industrializzazione, la filiera
casearia sarda si articolò, in questo periodo, in due stadi, nettamente distinti,
22
I pastori invece del comune termometro usavano un “grossolano termoscopio”, il braccio del
pastore, ed adoperavano il caglio di capretto o di agnello poco coagulante e che spesso nuoceva
alla buona riuscita del formaggio (Campus, 1929).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
rappresentati rispettivamente dalle imprese ovine che producevano il latte e
dagli impianti industriali esogeni che ne effettuavano la trasformazione.
È interessante descrivere quale era la qualità dell’organizzazione interna dei
caseifici per comprendere
al meglio il motivo dell’efficacia di questo
processo di trasmissione delle conoscenze (che sta alla base del paradigma
evoluzionistico) necessarie per svolgere la produzione casearia industriale,
e che resero possibile, successivamente, lo sviluppo d’imprese casearie
locali. Oltre 160 caseifici di campagna erano presenti in Sardegna,
localizzati in prossimità dei luoghi di produzione della materia prima, cui si
aggiungevano circa 50 caseifici di maggiori dimensioni, ubicati nei centri
più importanti. I caseifici di campagna erano situati in locali modesti, attivi
nei primi sei mesi dell’anno e abbandonati nei successivi sei, il cui prodotto
finito era rappresentato dal formaggio fresco, poiché raramente erano dotati
delle strutture necessarie per la salagione e la stagionatura. Il lavoro era
svolto da quattro cinque operai stagionali locali, la cui attività era
organizzata da un casaro laziale o abruzzese; essi effettuavano la
caseificazione del latte conferito dai pastori della zona che lo consegnavano
in caseificio, dove veniva pesato e pagato al momento, tra le sette e le nove
del mattino (Le Lannou, 1941).
Per quanto riguarda i caseifici più importanti, che erano generalmente di
proprietà degli industriali continentali; al loro interno si potevano
distinguere due diversi reparti, rispettivamente di I e di II grado.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Nel primo si svolgevano le prime fasi di produzione simili a quelle che
caratterizzavano i caseifici di campagna, ma a differenza di quest’ultimi, i
caseifici di maggiori dimensioni non si limitavano ad operare nei primi sei
mesi dell’anno; la caseificazione, infatti, proseguiva anche nei mesi estivi,
per la produzione di Fiore Sardo.
Nel reparto di II grado invece si svolgevano le fasi successive, ovvero
salagione e stagionatura, non solo del formaggio fresco realizzato dal
reparto di I grado, ma anche di quello acquistato dai caseifici di campagna.
Il personale impiegato era composto di 15-20 lavoranti; gli operai erano
sardi, mentre i capi erano continentali (Idda, 1995). La divisione dei
compiti era ideata in modo tale da attribuire le mansioni più specializzate e
più critiche della produzione casearia agli specialisti romani (Le Lannou,
1941).
L’industria muove i primi passi in mezzo a notevoli difficoltà: difettavano
le vie di comunicazione, mancava la manodopera qualificata, che doveva
essere portata dal continente, mancavano i locali per la salagione, vi era la
diffidenza dei pastori, vi era la concorrenza dei commercianti del Fiore
Sardo (Bussa, 1978).
Il pastore tuttavia perde presto la diffidenza nel vedere che la consegna del
latte gli procura subito denaro liquido. D’altra parte l’industriale, allo scopo
di reperire il latte necessario alla gestione efficiente del caseificio,
utilizzava diversi strumenti con i quali si garantiva di anno in anno una
determinata zona di influenza. Tra questi: il rappresentante, il vincolo di
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
debito, i patti segreti con uno o due degli allevatori maggiorenti e il “gioco
dei prezzi”. In particolare il vincolo del debito nasce con la caparra
(anticipo relativo alla produzione futura). La necessità finanziaria
costringeva l’allevatore ad abbondare nelle richieste in anticipi e le ditte,
per conservare la fonte di produzione, avevano interesse ad assecondarlo.
Se l’allevatore non scomputava il debito con le consegne del latte, essendo
normalmente in condizioni di non potere restituire la differenza, rimaneva
automaticamente vincolato per l’anno successivo, privandosi cosi di una
certa liberta di trattazione futura (Gentili, 1954 in Porcheddu 2002).
Occorre ricordare che nei primi anni l’acquisto del latte avviene in regime
di libera concorrenza e quindi è il pastore che, come dice G. Dettori, “detta i
prezzi”. Questi infatti da 6 centesimi del 1897 salgono a 10, 15, 16, 18, 20
fino a toccare i 25 centesimi nel 1906. Gli industriali però si accorgono che
la libera concorrenza danneggia i loro interessi e nel 1907 si accordano fra
loro per fissare in comune il prezzo del latte. La conseguenza è subito
evidente: nella successiva campagna del 1907-1908 il prezzo scende a 20
centesimi. In quello stesso anno la maggior parte degli industriali si riunisce
nella Società romana del formaggio pecorino. La situazione di monopolio
creata dall’accordo ha costituito un elemento permanente del settore
caseario (Bussa, 1978).
L’esportazione dei formaggi che nel 1897 era di 25 mila quintali dalla
provincia di Sassari, raggiungeva i 50 mila nel 1912. L’incremento più
rapido, che indica il sorgere della grande industria casearia in Sardegna, si è
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
verificato tra il 1909 e il 1912 (cfr. tabella 8) periodo in rapporto al quale
possediamo dati sull’esportazione da tutta l’Isola:
Tabella 8 Esportazione di formaggio 1909-1912.
ANNI
1909
1910
1911
1912
PROVINCIA DI
SASSARI
Q.li 47.911
Q.li 46.163
Q.li 37.185
Q.li 49.996
PROVINCIA DI
CAGLIARI
Q.li 25.998
Q.li 33.165
Q.li 20.849
Q.li 39.320
TOTALI
73.909
79.328
58.034
89.316
Al termine del 1912 il valore della produzione casearia è superiore a quello
di tutte le altre produzioni isolane.
Per rendersi conto dell’importanza della produzione e della esportazione dei
formaggi occorre collocarla nel quadro del commercio nazionale. Da un
paese essenzialmente importatore di formaggi (cfr. tabella 9), quale era fino
al 1890, era diventata poco prima della guerra la principale esportatrice di
questo prodotto tra le nazioni europee dopo l’Olanda.
Tabella 9 Importazioni e esportazioni di formaggio: 1881-1913.
Anni importazione
1881 Q.li
89.967
1885 Q.li
105.604
1890 Q.li
77.380
1895 Q.li
67.362
1900 Q.li
42.121
1905 Q.li
45.005
1910 Q.li
66.955
55.985
1913 Q.li
Esportazione
27.681
35.040
56.969
78.089
118.167
170.989
260.332
327.742
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L’importaza poi dei nostri formaggi deve rilevarsi in relazione a quella
degli altri paesi:
Tabella 10 ql. esportati dalle principali nazioni nel 1913.
Nazioni
OLANDA
ITALIA
SVIZZERA
FRANCIA
Esportazioni nel 1913
659.243
327.742
301.349
125.599
Per quanto riguarda i rapporti con gli Stati Uniti dalle statistiche americane
risulta che mentre nel 1900-1901 i formaggi provenienti dalla Svizzera
tenevano ancora il primo posto con 6 milioni di libre importate di fronte ai
5 milioni e mezzo di formaggi italiani, nel 1905-1906 l’Italia importava
negli Stati Uniti 11 milioni di libre mentre la Svizzera 9 milioni. Questa
singolare penetrazione del formaggio italiano ed in particolare del “roman
cheese” negli stati Uniti si deve all’emigrazione di meridionali e di isolani
ed al favore che questo formaggio incontrava verso gli ebrei.
Il mercato mondiale offriva pertanto le più propizie condizioni per un
grande espansione della industria casearia nazionale e soprattutto di quella
sarda che aveva fatto dell’industria casearia la sua attività principale grazie
ad una serie di circostanze:
• La consistenza del bestiame sardo,
• L’autoconsumo,
• La progressiva industrializzazione, con le conseguenti economie di
fabbricazione, conservazione, trasporto ecc., che determinavano una
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
maggiore disponibilità ed un maggiore valore del prodotto sul
mercato.
Alla vigilia della prima guerra mondiale l’industria casearia era al colmo
del suo sviluppo. La guerra del 1914-1918 provocò una grave crisi per
l’industria del pecorino romano. Nell’estate del 1914 in seguito allo scoppio
della
guerra,
manifestandosi
una
forte
tendenza
all’aumento
dell’esportazione il governo la sospese. Naturalmente ne derivò una
depressione dei prezzi23 tanto allarmante che costrinse il Governo nella
primavera del 1915 ad autorizzare l’esportazione di determinati
contingentamenti mensili, ma con il D.L. del 9 giugno successivo
l’esportazione dei generi alimentari compresi i formaggi restava ancora
sospesa nell’agosto il ministero delle finanze accordava l’esportazione del
solo formaggio pecorino in quantità limitate, da stabilirsi periodicamente ed
in proporzione ai quantitativi esportati negli anni precedenti. Frattanto gia
nell’autunno era iniziata la distribuzione del formaggio alle truppe le quali
da 2 mila quintali giunsero a consumare perfino 50 mila quintali mensili. La
conseguente rarefazione del prodotto provocò l’aumento del prezzo,
determinando i primi calmieramenti. I provvedimenti successivamente
23
Ciò ebbe ripercussioni anche sul mercato isolano dove molti negozianti rifiutarono i prodotti a
qualsiasi prezzo, avendo i magazzini pieni. Di conseguenza gli industriali produssero minori
quantità di pecorino, e ciò ebbe ripercussioni anche sul prezzo del latte pagato dagli industriali
agli allevatori (L.52 ad ettolitro). Gli allevatori (non contenti del prezzo pagato dagli industriali
per il conferimento del latte) “non volendo sacrificare gli interessi generali (…) agli interessi
della speculazione (da parte degli industriali)” preferivano produrre direttamente il fiore rosso e
bacellone (che senza contare la scotta fruttava l. 90 ad ettolitro),preferito dai sardi. Allora il
commissario, “pressato” dagli industriali impose il controllo ai due tipi su indicati nell’intento
di costringere i produttori a vendere il latte ai caseifici per la fabbricazione del pecorino che
serviva per l’esercito (Lei-Spano, 1919, pp. 217-235).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
adottati furono tutti ispirati dal proposito di impedire l’ascesa dei prezzi
(Alivia, 1921).
La guerra libica prima, la prima guerra mondiale dopo, quindi, segnano una
pausa in questo periodo di ascensione dell’industria casearia sarda. Ma nel
1918-1919, terminata la guerra, si notò subito una felice ripresa delle
produzioni sarde. Dall’aprile al dicembre del 1920 vengono infatti esportati
formaggi delle varie qualità per ql. 53.761 mentre ne vengono requisiti
10.265. Tenendo conto del formaggio marcio esportato in Corsica, del
fiorente contrabbando e delle quantità vendute all’inizio dell’anno, si può
supporre che la Sardegna abbia esportato poco meno dei 90000 Ql. del
1912.
Intorno al 1922 comincia la storia del Feta. Questo è il nome di un tipo di
formaggio che viene prodotto con latte pecorino dai pastori greci e albanesi.
I greci pionieri di questa industria, comparvero a Olbia verso il 1922. La
venuta in Sardegna era stata incoraggiata dall’esistenza di numerose pecore:
quindi molto latte, più redditizio e a miglior prezzo che in Grecia e in
Albania (Gentili, 1954).
Al contrario i tentativi fatti da industrie francesi, tra il 1920 e il 1922, per
procedere all’ammasso di formaggi di pasta molle da raffinare in seguito
nelle cantine di Roquefort, fallirono completamente a causa delle difficoltà
dei trasporti e dei loro alti costi.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
4.3.2 La nascita delle cooperative e l’esperienza fascista
Il decennio successivo alla prima guerra mondiale vede come fatto saliente
la nascita delle cooperative casearie sarde, che soprattutto per quanto
riguarda le prime iniziative sono limitate ad un ambito locale. Questo tipo
di società incontrò nell’isola non poche difficoltà a svilupparsi nel settore
primario, in quanto per il suo successo era condizione necessaria la
formazione fra i soci di una coesione basata su fondamenti strettamente
economici e legata inoltre ai principi di mutualità, preliminari e
insopprimibili, in virtù delle norme esistenti.
La società cooperativa rappresenta infatti uno strumento operativo
attraverso il quale i cooperatori tendono a realizzare direttamente operazioni
economiche tanto più cospicue quanto più elevato è il numero di essi, il
volume degli affari, il senso di solidarietà, il grado culturale, la capacità
imprenditoriale (Di Felice, 1990). Il pastore sardo, invece, cosi
profondamente legato alle usanze e alla legge della comunità, è altrettanto
profondamente individualista e geloso della sua autonomia24 (Pinna, 2003,
p.126).
La prima25 cooperativa nacque a Bortigali, col nome di Latteria Sociale
Cooperativa, ad opera del medico condotto Pietro Solinas
26
, nel 1907,
24
Basti dire che sui “saltus”, grandi estensioni territoriali destinate quasi esclusivamente alla
pastorizia, dove gli abitanti del villaggio esercitavano il diritto collettivo di uso del pascolo e
della legna, non si può parlare di sfruttamento e tanto meno di gestione in forma associativa
perché ogni pastore del villaggio pagava all’organo amministrativo di esso una quota pro capite
del bestiame immesso nel pascolo (un tanto per le pecore, un tanto per le capre ecc.) per conto
proprio e in piena autonomia (Pinna, 2003).
25
In realtà pare che la prima fu la “latteria sociale” di Ozieri costituita nel 1885 da un gruppo di
allevatori e che nonostante fosse dotate di attrezzature efficienti ebbe vita breve (Sanna, 1997).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
l’anno in cui iniziò la grande espansione dei caseifici e gli industriali si
riunirono in cartello27. La cooperativa di Bortigali non sorge però per
combattere direttamente gli industriali, ma piuttosto per permettere la
lavorazione del latte vaccino, trascurata da questi ultimi (Bussa, 1978,
p.31).
È un luogo comune quello di riferirsi al fascismo come a un periodo di
letargo per la cooperazione nel quale non sarebbe successo nulla di
rilevante e le cooperative avrebbero vissuto in una sorta di ibernazione
forzata in attesa di tempi migliori. In realtà proprio attraverso la
cooperazione il fascismo cercò di conseguire quel consenso di massa che
gli era indispensabile. Il 25 ottobre 1924 nasce a Ozieri la Federazione delle
latterie Sociali e cooperative della Sardegna (FEDLAC), all’assemblea
costitutiva presenziano le più alte autorità fasciste delle due provincie e
partecipano i presidenti di 20 latterie sociali, tra i membri del consiglio di
amministrazione è presente Paolo Pili ex sardista. La FEDLAC si propone
26
In effetti, in differenti casi, tali esperienze pionieristiche rappresentano il frutto dell’intervento di
un qualche personaggio “illuminato”, espressione della classe borghese locale (il medico
condotto, il maestro del paese, il veterinario ecc.) (Porcheddu, 2004). Basti osservare che la
seconda cooperativa casearia sarda viene fondata nel 1910 a Aidomaggiore dal medico del paese
(Campus, 1936; Bussa, 1978) e la Latteria sociale di Bonorva è fondata nel 1916, ad opera del
veterinario del paese.
27
Già il professore Pellegrini al congresso degli agricoltori italiani tenutosi a Sassari nel maggio
del 1905, affermava: “visto che la produzione di latte in Sardegna ha raggiunto un’importanza
notevolissima e che è in continuo aumento. Visto che conviene avviare il caseificio sardo
sempre più nella via del progresso tecnico, discretamente avviato; e che bisogna darli un
organizzazione industriale e commerciale che faccia più largamente compartecipi i produttori di
latte nei profitti di questa industria, meglio di quello che avviene ora con la vendita del latte a
speciali speculatori, per lo più forestieri; io propongo al congresso (…) di fare voti ardentissimi,
acciocché anche in Sardegna si organizzino presto numerose latterie sociali e relativi magazzini,
il tutto ben diretto e amministrato, sulla base della mutualità e della cooperazione (…) che si
facciano voti al governo, perché nell’intento predetto bandisca speciali concorsi a premi tra le
società cooperative, che prime sorgeranno in Sardegna, per la lavorazione razionale dei latticini”
(Cusmano, 1906, p.119 cit. in Porcheddu, 2004).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
come uno dei possibili strumenti per riformare l’economia regionale
promuovendone la rinascita. Il bilancio dei primi mesi di attività e
decisamente positivo. Il prestigio personale e l’influenza politica di Pili
(dietro la quale si intravede l’avallo del fascismo) agevolano l’apertura di
credito alla FEDLAC, risolvendo cosi all’origine un problema che aveva
tradizionalmente
avuto
un
peso
determinante
nelle
strozzature
dell’economia sarda. La FEDLAC rappresenta in primo luogo l’opportunità
di superare la frammentazione e l’improvvisazione
del settore, di
uniformare le tecniche di produzione di curare la selezione del prodotto, di
accertare la spedizione, di sviluppare anche la produzione dei sottoprodotti
(un esempio è la costituzione nel 1926 della cremeria sociale a Macomer),
di avviare rapporti diretti col mercato (Sotgiu, 1991, p.201). Saranno i
proclamati intenti antimonopolisti a mettere seriamente alla prova il
fascismo di fronte all’organizzazione cooperativa animata dalla nostalgia
sardista dell’ex sardista Paolo Pili e a dimostrare che gli orientamenti
nazionali andavano in ben altre direzioni che in quella della rinascita
economica regionale. Dai contratti di Pili con il mercato americano e con
l’emigrazione italiana negli Stati Uniti venne infatti la conferma di una
prospettiva di vendita interessante e vantaggiosa, ancor più del mercato
nazionale. Frattanto la federazione si era notevolmente rafforzata, divenne
una realtà superiore a tutte le precedenti esperienze cooperative. Dal punto
di vista giuridico si configurava come una società cooperativa a capitale
illimitato, costituita sull’adesione delle latterie sociali, che acquistavano un
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
numero illimitato di azioni. Le latterie erano anche esse società cooperative
a capitale illimitato, costituite con l’adesione di pastori rispondenti a
determinati requisiti di moralità e di onestà (Sotgiu, 1991, p.203).
Nonostante l’aumento di produzione ottenuto, il consenso dei pastori e dei
contadini, si scatenò sulla stampa una violenta campagna contro questo
organismo e i suoi dirigenti28.
Nel 1926 la cremeria di Macomer, che rappresentava uno dei vantati
successi della FEDLAC, creò le prime preoccupazioni e vennero alla luce
frodi e danni della cooperativa e falsificazioni della contabilità, tanto che
l’attività dello stabilimento venne infine sospesa. Difficoltà nuove nel
mercato internazionale completarono questo quadro di crisi. Nel 1929 a
Roma si costituì la “Società anonima del Pecorino romano” è la società
degli industriali caseari che si erano sempre opposti alla cooperativa di Pili.
Saranno cosi in grado di controllare il mercato senza difficoltà. Stretta dalla
concorrenza e minacciata dalle nuove tariffe doganali americane, la
FEDLAC svendette il suo prodotto e nel 1929 il suo consiglio di
amministrazione chiese l’intervento delle autorità fasciste. Pili si dimise da
presidente onorario mentre da Roma venne nominato un commissario
ministeriale e venne sciolto il cda. L’esperienza della federazione si chiuse
definitivamente nei mesi successivi con il dichiarato fallimento. Con la
28
Tale campagna fu promossa dal Sindacato industriali caseari di Sassari e subito condivisa dal
principale quotidiano di quella città, “l’Isola”, ma anche dalla “Tribuna” e dal “Giornale
d’Italia”. Sull’indebolimento della cooperativa, provocato da questa violenta campagna di
stampa, confluì poi il progressivo distacco di alcune latterie e venne meno anche l’appoggio
politico del PNF a Pili (Sotgiu, 1991, p.204).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
definitiva scomparsa della federazione avvenuta nel 1932, scomparvero
anche numerose cooperative casearie che vi avevano aderito (Bussa, 1978).
Il riformismo “sardofascista” usci dal confronto con la concorrenza
industriale sostanzialmente distrutto. L’impatto con la nuova congiuntura
internazionale del 1929 ne determinò la crisi finale (Sotgiu, 1991). Infatti la
crisi economica che dal 1929 travolse, a partire dagli Stati Uniti, l’economia
mondiale, non potè che ripercuotersi sull’industria casearia sarda, che aveva
proprio nel mercato nordamericano il principale sbocco. Cosi dai 100.000
ql. esportati negli Usa nel 1928, si scese negli anni successivi ai livelli
esposti in tabella 11.
Tabella 11 Quintali di formaggio esportati dal 1932 al
1936.
ANNI
1932
1933
1934
1935
1936
Ql. ESPORTATI 83.969 61.043 69.689 88.382 66.043
Nel 1933, a causa dell Grande Depressione, il governo degli Stati Uniti
svalutò il dollaro, con cui venivano pagate le merci importate,
determinando il calo del prezzo del Pecorino Romano da 1000 a 850 lire al
quintale; ciò ebbe ripercussioni, inevitabilmente, anche sull’economia delle
circa 40000 imprese armentizie sarde.
Gli industriali caseari riuscirono, in un primo momento, a contenere la crisi,
associandosi e vendendo il prodotto in Italia, non essendo più assorbito nel
mercato americano.
Altri problemi furono determinati dalla politica del regime fascista, le cui
mire espansionistiche in Africa furono la causa delle sanzioni economiche
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
(embargo
delle
forniture
di
armi
e
munizioni,
nonché
divieto
d’importazione di una serie di merci necessarie alla guerra escluso il
petrolio), decretate dalla società delle nazioni29, che isolarono l’Italia nel
quadro degli scambi internazionali, e che accentuarono la politica
autarchica del governo.
Le conseguenze gravose delle sanzioni per le esportazioni di formaggi sardi
si sommarono ai gravi effetti sugli allevamenti ovini che già aveva avuto la
“battaglia del grano”, con cui il regime fascista intendeva perseguire
l’obiettivo dell’autosufficienza nella produzione cerealicola (Sanna, 1997).
Tale politica fu inaugurata nel 1929, e comportò la sottrazione
all’allevamento ovino di buona parte dei pascoli, destinandoli alla
coltivazione del grano, non adatta ai suoli aridi di buona parte della
Sardegna; ciò determinò il ridimensionamento del numero di capi ovini
allevati. Nel 1936, inoltre, si toccò il limite più basso di produzione
complessiva (industriale e privata) dei formaggi, tuttavia,
nel 193730 si
notò gia una ripresa.
La guerra determinò il blocco delle esportazioni e quindi uno stato di crisi.
4.3.3 Il dopoguerra e la diffusione delle cooperative
La storia dell’industria casearia nel dopoguerra e caratterizzata,
innanzitutto, dall’ampia diffusione delle cooperative che, dopo essersi
29
Dalle sanzioni si dissociano solo l’Austria, l’Ungheria, e l’Albania, mentre aderirono tutti gli
altri 52 paesi membri (Montanelli-Cervi, 1998).
30
Dai 132.523 quintali nel 1936 ai 175.725 quintali nel 1937 (Bussa, 1978).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
limitate in un primo momento alla sola trasformazione, riescono poi a
commercializzare da se il prodotto, svincolandosi dalla “tutela” degli
industriali e rompendo cosi il loro monopolio.
In effetti quasi il 70% delle cooperative casearie sarde è stato fondato tra gli
anni Cinquanta e Sessanta, anni immediatamente successivi alla istituzione
della Regione Autonoma della Sardegna31 e, quindi, al conseguimento di un
certo potere decisionale e di spesa da parte dei politici regionali
(Porcheddu, 2004, p.23). Infatti mentre le prime cooperative sorgono, come
si è detto nel paragrafo precedente, grazie a menti “illuminate”, da questo
momento questo ruolo promotore del movimento cooperativo viene assunto
dai politici regionali attraverso una serie di provvedimenti assai benevoli
verso la costituzione di cooperative tra pastori e verso la realizzazione di
moderni impianti di trasformazione della materia prima che alimenta
l’intera filiera.
Ovviamente, il positivo atteggiamento dei politici regionali nei confronti
delle cooperative casearie, non toglie importanza a motivazioni di ordine
economico che, in non pochi casi, hanno spinto, spontaneamente, talune
comunità di allevatori e pastori ad integrarsi verticalmente a valle verso la
fase di trasformazione del latte ovino in formaggio (peraltro, ripercorrendo
per certi versi una tradizione che vedeva, fino alla fine dell’ottocento,
l’impresa pastorale massimamente integrata lungo l’intera filiera-prodotto).
In particolare, la forte pressione concorrenziale esercitata dagli industriali
31
la Sardegna è stata costituita in regione a statuto speciale con legge costituzionale del 26
febbraio 1948.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
del comparto di trasformazione, in contesti di mercato spesso confinanti con
il monopsonio, tendeva a comprimere la materia prima a livelli talvolta di
mera sussistenza per l’attività pastorale (Porcheddu, 2004, pp. 31-32).
Dopo il 1950 il settore, inoltre, subisce una contrazione, in conseguenza
della crisi pastorale che si concretizza in una fuga di uomini e di bestiame
dalle campagne (Bussa, 1978)32.
In questi anni nell’industria casearia era in atto un intenso processo di
rinnovamento, che investiva tutte le fasi del ciclo economico: la resa del
latte, la sua trasformazione, la distribuzione dei formaggi e dei derivati.
La ripresa del settore avviene lentamente in quanto il mercato del
dopoguerra presenta notevoli difficoltà, sia nella vendita del latte al
consumo, che nella trasformazione. Ciò era dovuta ai problemi nei trasporti,
nella determinazione delle qualità e del rendimento33, nella pastorizzazione,
32
La consistenza del patrimonio ovino e caprino lattifero, risultava in Sardegna nel 1951 la
seguente:
•
Pecore: 2.181.730, pari al 25,10% di tutto il patrimonio nazionale;
•
Caprini: 512.000 pari al 22,72% di tutto il patrimonio nazionale
Con una produzione di latte di :
•
pecora di q.li 1.379.240 di cui q.li 1.197.210 trasformati rappresentanti il 30,89% di tutto
il latte pecorino trasformato in Italia,
•
capra di q.li 413.950 di cui q.li 319.540 trasformati pari al 34,60% di tutta la nazione
(Gentili, 1954, p.17).
33
Per quanto riguarda la determinazione della qualità del latte e del suo rendimento era un
problema igienico ed economico. Igienico perché il latte può essere il veicolo di infezioni o
intossicazioni collettive. Economico in quanto Gli Stati Uniti, fin dal 1949, ostacolarono
l’importazione di Pecorino romano con pretesti igienici più o meno fondati di impurità scoperte
al microscopio. Bastò l’esame di 77 casse di formaggio per respingere ben 13 partite di
formaggio, 12 per sudiciume, 1 per difetto di grasso. I rilevi americani erano senza dubbio
fondati. In realtà tuttavia gli USA volevano ridurre l’importazione di formaggi esteri per
assicurare uno sbocco ai propri. Economici, inoltre, perché la resa del latte è un elemento
fondamentale nella determinazione dei costi di produzione del formaggio. Questa resa andava
per il Pecorino sardo tipo romano da 16-17 kg ogni 100 litri a 21-22 con ripercussioni sul costo
in più o in meno intorno al 30% (Gentili, 1954). In definitiva l’esportazione di romano finisce
per arrestarsi sui 50000 ql., inferiore alle posizioni consolidate nell’anteguerra (sui 70000 ql.).
Rispetto al 1928 il quantitativo esportato si riduce cosi del 50%. Difficoltà nascono anche per la
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
nella attrezzatura dei caseifici e degli stabilimenti di stagionatura, nella
determinazione dei tipi di formaggio da produrre (Gentili, 1954 ).
Nel 1950 nel settore caseario operavano tre diversi soggetti: oltre a un
nucleo di industriali privati, era ormai diffusa la figura dell’allevatore
produttore, ed inoltre grazie al ruolo di promotore esercitato dalla Regione
attraverso alcune leggi approvate nel 1950, cominciavano a svilupparsi i
caseifici sociali cooperativi. In particolare la legge regionale n. 57 (del 9
novembre 1950 ) prevedeva la concessione di contributi nella misura del 50
per
cento
per
“l’acquisto,
la
costruzione,
l’ampliamento
e
l’ammodernamento di stabilimenti caseari” e la legge n. 74 (del 29
dicembre 1950) istituiva un fondo a tasso agevolato per la concessione di
mutui alle cooperative (Gentili, 1954). In pratica le cooperative casearie
potevano contare su un cospicuo contributo (pari al 50% delle spese),
mentre per la restante parte dell’investimento potevano godere di
anticipazioni a tassi agevolati da parte della Regione Sardegna34.
Da una relazione presentata al convegno regionale della cooperazione
tenutosi a Nuoro nel 1960 si rileva che la situazione delle cooperative
pastori nel 1957 era in Sardegna la seguente: 20 caseifici di cui 7 in
provincia di Cagliari 2 in provincia di Nuoro, 11 in provincia di Sassari. La
concorrenza, sul piano internazionale, dei formaggi di imitazione o simili al romano: si tratta di
prodotti argentini, australiani,balcanici e francesi (Bussa, 1978).
34
A quelle appena ricordate seguiranno ben presto altre leggi regionali, come la l.r. 16 luglio 1952,
n.36 e la l.r. 22 novembre 1962, n.19 (modificata dalla l.r. 29 aprile 1975, n.25) (quest’ultima, in
particolare costituiva un comitato tecnico regionale per la cooperazione). Di particolare interesse
è poi la legge che prevedeva “trattamenti privilegiati e preferenziali” (Murtas, 1978, p.24) per
gli allevatori associati in cooperative. Inoltre a queste si aggiunge il piano di Rinascita (citato
nel paragrafo sulla storia della pastorizia ) che favoriva, tra le altre cose, l’istituzione di una rete
di cooperative.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
capacita lavorativa, grazie ai conferimenti di 1210 soci, era di Hl 93.550 di
latte ovino e di Hl 25.560 di latte vaccino. A questa data, pertanto è
ragionevole dedurre che i caseifici cooperativi avessero la possibilità di
trasformare intorno alla decima parte del latte ovino e vaccino prodotto in
Sardegna: come si vede, quindi, l’incidenza della organizzazione
cooperativistica sulla situazione della pastorizia sarda era pressoché
insignificante (Pinna, 2003).
Nel 1968 il prodotto netto dell’allevamento delle pecore (di cui il formaggio
rappresentava circa il 50%) era pari a 45 miliardi di lire: il 6-7% del
prodotto netto totale sardo. Nello stesso anno nell’allevamento delle pecore
erano impegnati circa 45000 lavoratori, pari a circa il 10% della
popolazione attiva sarda, e la superficie agraria destinata all’allevamento
delle pecore era uguale a circa il 60% del totale della superficie agraria
della Sardegna. Attraverso degli studi effettuati verso la fine degli anni
sessanta, dall’analisi dei dati raccolti, emerge che il settore lattiero-caseario
sardo, sia a livello della produzione propriamente detta, sia per quanto
riguarda la distribuzione dei prodotti, era controllato da un numero
relativamente basso di imprese, tutte di proprietà di privati35. Le
cooperative di pastori; che pure, dopo la seconda guerra mondiale, erano
state costituite in gran numero, non riuscirono ad alterare in alcuna maniera
le strutture precedenti. Gli impianti cooperativi, che erano stati costituiti,
35
Nel 1968 le dieci imprese più grandi, del gruppo degli industriali-commercianti,avevano
prodotto circa 58.600 quintali di formaggio, che rappresentavano il 65,78% del formaggio
prodotto da tutti i grossi industriali e più del 40% di tutto il formaggio prodotto con sistemi
industriali in Sardegna (Brusco, 1971).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
non avevano sottratto agli operatori privati che una minima parte della
materia prima da lavorare, ed essi lavoravano largamente al di sotto della
loro capacità produttiva36. In base al tipo di attività che le imprese private
(che erano 147), che operavano nel settore caseario sardo, avevano svolto
nel 1966-1968 sono state suddivise in quattro gruppi (Brusco, 1971):
• Gli “industriali-commercianti”
• I “piccoli industriali”
• I “salatori privati”
• I commercianti
Il primo gruppo era costituito da imprenditori che si occupavano sia della
produzione che della commercializzazione del formaggio (autoprodotto o
acquistato da altri). Dal punto di vista giuridico le imprese degli industrialicommercianti (che nel 1966 erano 27 e nel 1968 erano 26) erano
organizzate in forme assai arretrate. Le ditte individuali e le società di fatto
erano più di un terzo del totale, tra le rimanenti imprese vi erano una società
in accomandita semplice e soltanto quattro società per azioni; tutte le altre
erano società in nome collettivo. Di queste ditte, circa un terzo furono
fondate dai commercianti del Lazio, della Liguria e della Campania che,
all’inizio del secolo, introdussero la lavorazione industriale del latte e la
produzione del Pecorino Romano. Un secondo gruppo era di origine
isolana. Erano anche queste circa un terzo del totale; ad esse avevano dato
origine, in genere nel periodo del primo dopoguerra, alcuni grossi
36
Si pensi che nel 1968 questi impianti erano utilizzati soltanto per il 23,10% della loro capacità.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
proprietari
terrieri,
padroni
di
greggi
numerose,
che
dapprima
trasformavano direttamente il latte delle loro pecore e poi, poco a poco,
avevano fatto dell’attività industriale la loro occupazione principale o unica.
Un terzo, più piccolo, gruppo di imprese era quello collegato alla venuta in
Sardegna, spesso negli anni del secondo dopoguerra, di commercianti greci,
che compravano il pecorino tipo romano per rivenderlo nel loro paese.
Alcuni di costoro, stabilitisi in Sardegna, impiantarono stabilimenti di
trasformazione del latte. Queste imprese, con quelle del secondo gruppo,
erano in genere le più piccole. Le imprese rimanenti, infine, che erano
soltanto solo un sesto del totale delle imprese, appartenevano a importanti
ditte che operavano sull’intero territorio nazionale e assumevano la forma
giuridica di società per azioni. Queste imprese e quelle di vecchia
fondazione erano le più importanti del settore e tra queste non vi erano
sostanziali differenze. La struttura aziendale delle imprese degli industrialicommercianti era, in genere, più complessa di quella delle imprese
controllate da altri operatori. A differenza dei piccoli industriali e delle
cooperative che avevano quasi sempre soltanto un caseificio molte di queste
imprese controllavano due, tre o quattro caseifici ciascuna. L’area in cui
erano distribuiti i pastori che consegnavano il latte a ciascun impianto
(quella cioè che potrebbe essere chiamata la “zona di influenza”
dell’impianto stesso) era spesso assai ampia37. Normalmente i grossi
industriali avevano una sola grossa cantina di salagione, che era sufficiente
37
I camion che effettuavano la raccolta del latte si allontanavano dal caseificio anche 70-100
chilometri (Brusco, 1971).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
sia per il formaggio prodotto dall’impresa, sia
per quello che veniva
acquistato “esternamente”. Di regola la cantina di salagione sorgeva vicino
al caseificio principale: in quasi tutti i casi era situata vicino alla sede
amministrativa. Dai caseifici, lontani talvolta quasi 150 chilometri, la pasta
del formaggio veniva portata con automezzi alla cantina ogni giorno o ogni
due giorni.
La distribuzione territoriale dei caseifici seguiva, anche se con
approssimazione, la distribuzione territoriale del patrimonio ovino sardo. La
distribuzione territoriale delle cantine di salagione e delle sedi
amministrative delle imprese, invece, seguiva una logica differente: più
della metà di esse era concentrata nei tre paesi di Thiesi, Macomer, ed
Ozieri. Alla base di questa localizzazione non pare possibile trovare ne
ragioni di efficienza e di buona organizzazione aziendale, ne l’esigenza di
dar vita ad un mercato di vendita. La spiegazione va appunto cercata nel
fatto che a Thiesi ed a Macomer risiedevano quegli industriali caseari che
furono i primi a trasformare il latte su base industriale ed i loro discendenti
avevano conservato la vecchia localizzazione, compiendo una scelta che si
giustifica solo all’interno delle vicende familiari e delle preferenze
personali.
Il secondo gruppo, quello dei piccoli industriali, svolgeva soltanto attività di
produzione mentre l’unica attività commerciale di questi operatori era
l’esportazione dall’isola del formaggio da loro prodotto. Quindi la
differenza con i grandi industriali era data dal fatto che questi esportano
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
dall’isola formaggio prodotto da altri. Nel 1966 le imprese dei piccoli
industriali erano 60 con 67 caseifici. Le imprese con più di un caseificio
erano soltanto quattro, ne particolarmente grandi, ne particolarmente
avanzate da un punto di vista tecnico. Quasi tutti gli stabilimenti erano
dotati di cantine di salagione sufficienti a salare e stagionare il formaggio
prodotto. Quasi tutti questi caseifici ricevevano il latte dai pastori che
risiedevano nel raggio di meno di 30 chilometri: questi impianti cioè
operavano in genere a livello comunale o, al massimo, di piccoli
comprensori di comuni (Brusco, 1971).
I salatori privati, il terzo gruppo, sono coloro che non trasformavano il latte
ma soltanto salano e conservano il formaggio prodotto da terzi. Avevano
quindi un ruolo di fiancheggiamento delle strutture produttive più antiquate.
Questi rappresentavano un fattore di arretratezza anche per quanto riguarda
il modo in cui svolgevano il proprio compito: a detta di tutti i tecnici del
settore l’alta percentuale di scarti del formaggio prodotto direttamente dai
pastori era dovuta anche alla scarsa cura con cui si effettuava la salagione.
Per tutte queste ragioni man mano che gli impianti moderni sostituivano sia
gli impianti antichi, sia la trasformazione diretta del latte da parte dei
pastori, le cantine di salagione perdono rilievo38.
38
L’unica eccezione in quel periodo era una grossissima cantina di salagione situata vicino a
Cagliari. I salatori privati, nel 1968, avevano lavorato circa 36.000 quintali di formaggio, i due
terzi del quale provenivano da pastori che trasformavano direttamente il latte; della parte
rimanente 4.500 quintali costituivano il prodotto di piccoli industriali e 8.500 quintali il prodotto
di cooperative (Brusco,1971).
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I commercianti, il quarto gruppo, che acquistavano ed esportano il
formaggio dall’isola si potevano suddividere, in linea di massima, in due
gruppi: i primi avevano depositi sul Continente (generalmente nel
Meridione, in Toscana ed in Liguria) ed esportavano negli Stati Uniti
almeno una certa quota del pecorino acquistato; gli altri vendevano
anch’essi il formaggio sardo a dettaglianti sul continente, ma non ne
esportavano dall’Italia. Tutti avevano la sede amministrativa della loro
impresa sul Continente; nessuno di essi disponeva di capitale sardo. Nel
1968 i commercianti attivi nel settore lattiero-caseario in Sardegna erano
29, complessivamente essi avevano esportato dall’isola circa 27000 quintali
di formaggio pari al 20% circa del totale. Per quanto riguarda la
provenienza del formaggio acquistato dai commercianti la loro attività era
equamente divisa tra i piccoli industriali (dai quali acquistavano il
Toscanello e i formaggi molli) e cooperative (dalle quali acquistavano il
Pecorino romano).
Le cooperative di pastori erano suddivise in due gruppi: quelle che non
possedevano impianti per la trasformazione del latte e quelle dotate di
impianti di trasformazione. Il primo gruppo durante l’annata agraria 65-66
era composto da 65 cooperative, numero che passò a 90 nel 67-68. La loro
funzione era quella di contrattare collettivamente il latte prodotto dai singoli
soci, compito che nel 1966 non veniva svolto da 36 cooperative, che non
funzionavano in alcun modo e i pastori che ne erano soci contrattavano
ciascuno per proprio conto la vendita del latte prodotto. La presenza di un
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alto numero di cooperative non funzionanti in alcun modo non è difficile da
spiegare: esse erano il residuo di un tentativo di associazione compiuto
negli anni precedenti spesso sotto la sola spinta dei dirigenti provinciali
delle associazioni cooperative.
I contratti, sulla base dei quali queste cooperative vendevano, tutt’insieme,
agli operatori privati il latte prodotto dai singoli soci, avevano la
caratteristica di contratti di “vendita di cosa futura”. Essi venivano stipulati
in autunno e fissavano il prezzo (o le modalità di determinazione del
prezzo) per il latte che le greggi avrebbero prodotto dal primo giorno di
gennaio sino all’ultimo giorno di maggio dell’anno successivo. Il contratto
prevedeva che, durante i 150 giorni di apertura dei caseifici, i pastori
consegnassero all’industriale tutto il latte prodotto dalle loro pecore. Gli
elementi di incertezza, quindi, erano principalmente due: da un lato era
difficilmente prevedibile, perché soggetto a forti oscillazioni, il prezzo al
quale si sarebbe venduto il formaggio, dall’altro era altrettanto difficilmente
anticipabile l’andamento dell’annata agraria, e quindi la quantità di latte che
sarebbe stata prodotta. Le modalità di pagamento erano, in linea di
massima, costanti per tutti i tipi di contratti, e rispecchiavano questa
incertezza: i compratori versavano delle caparre a novembre, poi degli
anticipi durante la stagione di apertura dei caseifici, e il conguaglio sino al
prezzo definitivo a settembre, quando gia si iniziava la contrattazione per il
nuovo anno. I contatti di vendita più usati erano i seguenti:
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
• il contatto a “prezzo di piazza”: il prezzo del latte era determinato
alla fine della campagna casearia in base, appunto, al prezzo di
piazza, questo contratto era il più diffuso.
• il “contratto aperto”: si fissava al momento del contratto il prezzo
minimo del latte. Il prezzo che veniva effettivamente pagato poteva
variare in aumento se il prezzo di piazza risultava, alla fine
dell’annata, superiore al minimo convenuto.
• il contatto “chiuso”: il prezzo del latte era fissato all’inizio
dell’annata agraria ed esso, come recitava la clausola tipica del
contratto, non era “ne aumentabile ne diminuibile”
• il contatto a “resa”: per ogni ettolitro di latte versato l’industriale
garantiva l’equivalente in valore di un certo numero di chilogrammi
di formaggio, in genere 14 chilogrammi. Il valore del formaggio era
calcolato, alla fine della campagna, come la media dei prezzi alla
quale avevano venduto il formaggio sei cooperative, scelte per metà
dall’industriale e per metà dalla controparte.
Le ragioni per le quali i pastori si associavano non erano quelle di ottenere
dalla controparte un contatto di tipo diverso, (i contratti praticati con le
cooperative non erano diversi, infatti, dai contratti usuali per i singoli
pastori) ma soltanto un prezzo più alto. Tuttavia se si rilevano i prezzi di
vendita del latte da parte dei pastori singoli e di quelli associati, emerge
assai chiaramente che il prezzo praticato alle cooperative non era più alto
dell’altro, se non nei casi in cui il pastore singolo era proprietario di un
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
gregge di piccolissime dimensioni. Va notato invece che le cooperative che
vendevano tutt’insieme il latte dei soci da un lato eliminavano agli
industriali il fastidio e le spese di molteplici contratti che sarebbero stati
necessari con i singoli pastori, dall’altro diminuivano le spese che gli
industriali dovevano sopportare per la raccolta giornaliera del latte, che
nelle cooperative, in genere, veniva portato dai soci in un unico centro di
raccolta.
Per quanto riguarda il secondo gruppo, quello delle cooperative con
impianti, nel 1966 vi erano in Sardegna 60 cooperative dotate ciascuna di
uno stabilimento per la trasformazione del latte. Gli impianti erano dotati di
cantine di salagione proporzionate alla loro capacità produttiva, ed erano
quindi in grado di portare il processo di lavorazione del latte sino al punto
immediatamente precedente la commercializzazione del prodotto. Non tutte
le cooperative dotate di cantine di salagione, tuttavia, avevano salato la
pasta di formaggio nelle loro cantine. Alcune lo avevano affidato ai salatori
privati. La zona di influenza delle cooperative era, senza eccezioni, molto
limitata. Quasi tutti coloro che versavano il latte ad una data cooperativa
risiedevano nello stesso comune, o al massimo in comuni assai vicini. La
distribuzione delle imprese cooperative sul territorio dell’isola era
relativamente uniforme. Il formaggio prodotto dalle 60 cooperative
ammontava a circa 36000 quintali nel 1966 e poco più di 31000 quintali nel
1968; sul totale del formaggio lavorato in tutti gli stabilimenti industriali
dell’isola il prodotto delle cooperative rappresentava il 20% nel 1966 ed il
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21,50% nel 1968. La capacità produttiva annua degli impianti di proprietà
delle cooperative passò dai 65.000 quintali per anno nel 1966 a 99.000 ql.
nel 1968. Le ragioni di questo rapido aumento della capacità produttiva
degli stabilimenti cooperativi fu dovuta soprattutto alla politica di
incentivazione alla cooperazione perseguita da tutte le forze politiche in
Sardegna. Infatti in quegli anni una cooperativa che avesse costruito un
caseificio riceveva, parte dalla regione e parte dalla cassa per il
mezzogiorno, un contributo a fondo perduto pari all’80% della spesa
necessaria, un mutuo a basso tasso di interesse per il rimanente 20%, ed
infine un mutuo a basso tasso di interesse per costituire parte del capitale di
esercizio. Alla altissima capacità produttiva degli impianti cooperativi fa
riscontro un grado di utilizzazione molto basso. La forma più
impressionante che questa sottoutilizzazione assumeva era il fatto che molte
cooperative dotate di stabilimenti lasciavano i loro impianti completamente
inattivi. Se si prendono in considerazione gli impianti delle cooperative che
avevano svolto attività di trasformazione, infatti la capacità produttiva non
utilizzata era altissima pari al 65% nel 1966 ed al 74% nel 1968. Le ragioni
di questo fenomeno erano molteplici: innanzitutto la carenza di capacità
imprenditoriale, tipica d’altra parte, non solo della Sardegna ma di tutte le
regioni a basso livello di reddito39.
39
Se si riflette sul fatto che per dirigere una cooperativa sono necessarie non solo le gia notevoli
capacità tecniche e organizzative richieste per portare avanti qualunque attività imprenditoriale,
ma anche le doti umane necessarie per sanare i frequenti dissidi interni tra i soci, si potrà
comprendere perché cosi spesso i dirigenti delle cooperative non erano riusciti da un lato a
raggruppare un numero di pastori sufficiente a garantire una quantità di latte proporzionale agli
impianti, dall’altra ad organizzare il processo produttivo in modo da sfruttare gli impianti
almeno nella misura consueta alla media degli imprenditori.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Inoltre, il fatto che gli industriali operanti nella zona, quando sorgeva una
cooperativa, offrivano talvolta di pagare il latte a prezzi particolarmente alti
poteva spiegare perché in alcuni casi gli stessi pastori che avevano dato vita
a una cooperativa se ne staccavano subito dopo la costituzione e preferivano
vendere
il
latte
agli
operatori
privati.
Infine
la
drammatica
sottoutilizzazione degli impianti poteva essere vista come un generale
fallimento della politica di sostegno delle cooperative.
Figura 6 La quantita del formaggio prodotto nel 1966-68
70,00%
60,00%
50,00%
40,00%
1966
1968
30,00%
20,00%
10,00%
0,00%
INDUSTRIALI
COMMERCIANTI
COOPERATIVE
Tabella 12 Portafoglio prodotti imprese casearie sarde nel 1968.
I TIPI DI
FORMAGGI
PRODOTTI NEL
1968
TIPO ROMANO
TOSCANELLO
VARI
TOTALE
DA INDUSTRIALI
COMMERCIANTI
QUINTALI
%
DA PICCOLI
INDUSTRIALI
QUINTALI %
DA
COOPERATIVE
QUINTALI %
TOTALE
QUINTALI %
65.360
8.338
15.386
89.084
9.723
11.037
3.996
24.756
26.535
1.782
2.887
31.204
101.618
21.157
22.269
145.044
73,37
9,36
17,27
100
39,28
44,58
16,14
100
85,04
5,71
9,25
100
70,06
14,59
15,35
100
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Negli anni sessanta si cerca anche di consorziare le cooperative. Venne
costituita la Sarda Federazione Latterie Sociali per opera dei dirigenti
dell’Unione Provinciale Agricoltori di Sassari, associazione che tuttavia
non svolse attività di rilevo. Nacque poi in provincia di Cagliari, il
consorzio Caseario Sardo allo scopo di lavorare in comune il latte di diverse
cooperative e di commercializzare i prodotti.
Nel 1968 fu costituito il Consorzio Regionale Latterie Sociali “Sardegna”,
con sede a Macomer. I consorzi non furono in grado di realizzare i propri
scopi sociali fino a quando il piano per le zone interne a prevalente
economia pastorale approvato alla fine del 1973, non creò uno strumento
finanziario (fondo di commercializzazione), in grado di ribaltare i rapporti
di forza con gli industriali: in pratica le cooperative ebbero il mezzo per
resistere sul mercato fino alla vendita del prodotto. Dopo quasi mezzo
secolo, cosi le cooperative riuscirono a penetrare nuovamente nel mercato
statunitense e canadese con il Pecorino romano, oltre ad affermarsi negli
altri mercati tradizionali.
Il mercato del Pecorino romano comincia a manifestare tra la fine degli anni
settanta e i primi anni ottanta squilibri legati ad un eccesso di offerta
rispetto alla domanda; il problema che ne deriva è quello di collocare a
prezzi remunerativi il formaggio. La carenza quasi assoluta di indagini di
mercato nel settore (gli elevati costi non permettevano, infatti, alle aziende
di commissionarle) fa si che non si conoscessero le tendenze dei consumi
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
italiani ed europei dei prodotti lattiero caseari ovini. In altre parole si
continuava a fare affidamento per la vendita del romano al solo mercato
statunitense e canadese. Tali mercati, in quella fase poco dinamici, erano
caratterizzati da un accentuata competitività basata sul prezzo. I pericoli per
la vendita del pecorino romano sono dati soprattutto dai fomaggi argentini
(peraltro prodotti a partire dal latte vaccino, come il cosiddetto “Sardo
Romano”, per esempio), resi più competitivi dalla continua svalutazione
della moneta americana (Savona 1982, cit. in Porcheddu 2002). Grazie agli
investimenti realizzati alla fine degli anni settanta e a quelli in fase di
realizzo, si comincia nei primissimi anni ottanta la produzione di formaggi
semicotti pecorini, caprini, misti e canestrati, oltre ad alcuni formaggi
freschi come le caciotte (Porcheddu 2002).
Il ricorso a pratiche agronomiche che consentono lo sfruttamento di risorse
foraggiere coltivate e la valorizzazione di quelle naturali, unita al
miglioramento delle tecniche alimentari e alla selezione genetica consente
di aumentare sempre più la produzione del latte. Il pericolo che l’offerta
superi la domanda nel mercato del latte ovino è notevole; si parla addirittura
nei primi anni 90 di contingentare la produzione di latte al fine di
corrispondere allo stesso un prezzo remunerativo e stabile (Nuvoli et al.,
1997). In questa fase evolutiva fanno la loro comparsa alcune incisive
restrizioni comunitarie in materia igienico sanitaria; le direttive CEE 46/92
e 47/92, dettano regole sanitarie in materia di produzione, trasformazione e
commercializzazione del latte e dei suoi derivati che impongono notevoli
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
investimenti finanziari di adeguamento aziendale. Il processo di evoluzione
strutturale delle imprese di produzione ha usufruito del Programma
Operativo Plurifondo (POP) attivato dalla regione Sardegna in attuazione
del regolamento CEE 2081/93; questo stabilisce finanziamenti a fondo
perduto per la ristrutturazione delle aziende che si dovranno dotare di acqua
potabile ed energia elettrica, di locali appositi per la mungitura e la
refrigerazione del latte, di opere per lo smaltimento dei reflui (Porcheddu,
2002)40.
Nel 1992 gli stabilimenti cooperativi prevalentemente impegnati nella
lavorazione del latte ovino erano 36.
Tabella 13 Distribuzione delle cooperative nel 1992
40
In questo contesto è opportuno sottolineare anche il D.Lgs. n.155 del 1997, che ha recepito la
direttiva CEE 93/43, relativa all’ adozione obbligatoria di sistemi di autocontrollo da parte delle
aziende che operano nelle fasi della preparazione, trasformazione, confezionamento, deposito,
trasporto, distribuzione, vendita o fornitura di prodotti alimentari. Viene particolarmente
raccomandata l’adozione, obbligatoria dal 1998, della metodologia HACCP (Hazard Analysis
Critical Control Point). Attraverso tale metodologia, viene assicurata ai consumatori l’adozione di
procedure volte a garantire il pieno rispetto, in tutte le fasi del processo produttivo, delle norme
igienico sanitarie, attraverso l’individuazione dei rischi, insiti nel processo produttivo, che
potrebbero compromettere l’igiene del prodotto, la localizzazione dei momenti della produzione in
cui essi potrebbero verificarsi, le procedure da attuare per minimizzare la probabilità che essi si
verifichino, nonché quelle da adottare nel malaugurato caso in cui non si riesca a prevenirli. Inoltre
nella stessa direttiva, viene riconosciuta ai singoli stati la possibilità di raccomandare
l’applicazione delle norme UNI EN ISO 9000, relative alla qualificazione di sistemi qualità
aziendali (Reginato 2000). Tale sistema di controllo della qualità consente anche la rintracciabilità
del prodotto lungo l’intera filiera produttiva.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
La
DISTRIBUZIONE PROVINCIALE DELLE COOPERATIVE
LATTIERO-CASEARIE
Latte lavorato Dimensioni
N. di
(.000 di litri)
medie (.000 di
impianti
litri)
Cagliari
6
19.503
3.251
Sassari
14
55.195
3.942
Nuoro
12
30.024
2.502
Oristano
4
8.266
2.066
TOTALE
36
112.988
3.139
distribuzione territoriale rivela una presenza diffusa su tutta la superficie
regionale, anche se con livelli di concentrazione di impianti e di quantità di
latte lavorato differenziati da zona a zona, con una predominanza dell’area
settentrionale. La quantità di prodotto lavorata dal sistema cooperativo
regionale, in quegli anni, è superiore a 1,1milioni di quintali; il che equivale
a dire che attraverso la cooperazione transita il 40-42% di tutto il latte
trasformato in Sardegna. Nel corso degli ultimi tempi dunque l’afflusso di
prodotto alle cooperative risulta sensibilmente accresciuto, visto che negli
anni ottanta esso rappresentava non più del 33-35% del totale e alla fine
degli anni sessanta come si è visto era pressoché insignificante. Alla base di
questa espansione si trovano tanto motivazioni di ordine strutturale quanto
ragioni più immanentemente legate alla specifica congiuntura del settore.
Sul primo versante vanno annotati i progressi tecnologici ed organizzativi
ed i conseguenti riflessi sulla remunerazione dei conferimenti compiuti da
talune strutture cooperative, che ne hanno consentito una più efficace
azione nel reclutamento dei nuovi soci. A ciò si è aggiunto il fatto che
alcuni dei vincoli che in passato agivano nel rendere sostanzialmente
imprescindibile il legame tra impresa pastorale ed industriale privato si
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
sono nel frattempo allentati, trasformando la scelta imprenditoriale
dell’imprenditore zootecnico in un atto di maggiore libertà.
Sul secondo versante, i caseifici sociali, a fronte della staticità del prezzo
del latte ovino corrisposto dai privati (stoltamente irrigiditisi sulle
quotazioni
minime
individuate
di
volta
in
volta
dagli
accordi
interprofessionali previsti dalla legge n. 306/75) sono stati capaci di
assicurare maggiori livelli di remunerazione, esercitando cosi una potente
azione di richiamo sugli allevatori (Idda, 1995).
In definitiva se al sistema privato si deve il merito di avere originato lo
sviluppo del settore e di esserne sempre stato la componente più dinamica;
infatti fin dall’avvio del processo di industrializzazione della filiera le
imprese capitalistiche hanno costituito i principali centri propulsori del
settore nelle quali le più importanti innovazioni tecnologiche, commerciali
e relazionali si sono per la prima volta originate e dai quali si sono
propagati
i più rilevanti impulsi di progresso per il sistema lattiero-
caseario; al sistema cooperativo si deve l’indubbio pregio di aver apportato
un elemento di maggiore equilibrio nello sviluppo e nel funzionamento del
comparto lattiero-caseario e di aver contribuito ad elevare il ruolo
economico e sociale del mondo pastorale attraverso un suo coinvolgimento
nel processo di lavorazione industriale e negli annessi meccanismi
generatori di reddito.
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5. Considerazioni conclusive
In conclusione seguendo il procedimento di Nuvoli (1999) possiamo
suddividere l’evoluzione del sistema di produzione incentrato sulla
industria lattiero-casearia ovina in quattro fasi principali, alle quali
corrisponde una diversa articolazione e disaggregazione del processo
produttivo che porta alla realizzazione del prodotto finito formaggio. La
prima fase che si identifica con tutto l’800, è caratterizzata dalla figura del
pastore che accorpa in se tutti i momenti del processo agrotrasformativo
(Nuvoli, 1999, p.11). La seconda fase periodale si colloca tra il tardo ‘800
ed i primi del ‘900, durante la quale è possibile distinguere, come si è
notato nei paragrafi precedenti, l’avvio del processo di industrializzazione
del sistema agropastorale. Di particolare rilevo fu il ruolo delle competenze
importate che rappresentarono l’elemento cardine attorno al quale ruota il
progresso tecnico verificatosi in quegli anni.
La terza fase evolutiva del sistema di produzione regionale, si colloca
temporalmente tra il 1920 e il 1950. In questa fase si assiste allo sviluppo
della cooperazione e grazie all’acquisizione delle competenze esterne si
formarono le professionalità necessarie allo sviluppo dell’imprenditoria
autonoma.
La quarta fase inizia con la seconda metà del novecento e prosegue fino ai
giorni nostri e vede la base organizzativa del sistema di produzione ovino
caratterizzata da un lato, dalla presenza di imprese pastorali, che svolgono
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
la sola attività di produzione della materia prima; dall’altro da imprese
industriali sarde suddivise in caseifici cooperativi e caseifici di proprietà di
imprese private che sono andati concentrandosi nei luoghi in cui negli anni
passati tale attività era piuttosto fiorente, laddove si erano create le basi,
come si è detto in apertura di capitolo, per il consolidarsi di veri e propri
sistemi locali di produzione che possiamo individuare in alcune aree
dell’isola. Infatti sebbene l’allevamento ovino sia diffuso più o meno
uniformemente su tutto il territorio regionale (cfr. Nuvoli, 1999, p.27),
esistono provincie e, ancor più, aree nelle quali è possibile individuare una
maggiore concentrazione degli allevamenti e delle aziende agro-pastorali
cui si associa un aggregato più o meno numeroso di imprese di
trasformazione del latte ovino sia in forma singola che associata41.
41
I caseifici sociali (Idda,1984) trovano prevalente localizzazione nella parte settentrionale della
regione (province di Sassari e Nuoro) laddove è più elevata la densità degli allevamenti
zootecnici. In termini di sola capacità di lavorazione degli impianti privati si può altrettanto
notare che la maggiore quota percentuale di essi si localizza nella provincia di Sassari ed,
all’interno di questa una forte presenza si registra nel solo comune di Thiesi, che assieme ai
comuni di Banari, Bonnannaro, Bessude, Borutta, Cheremule, Siligo e Torralba va a costituire
quello che dalla letteratura industriale viene definito Sistema locale del lavoro (Nuvoli, 1999).
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Capitolo 2
II. Le ipotesi formulate
1. Premessa
Lo scopo di tale capitolo è quello di esplicitare una serie di ipotesi di
lavoro, in alcuni casi desunte dalla letteratura sulle forme istituzionali di
impresa (principalmente formulata nell’ambito dei paradigmi della property
right theory, agency theory e transaction cost theory), in altri formulate in
modo originale (Porcheddu, 2004). La validità di tali formulazioni in
seguito verrà testata sul campo, attraverso la metodologia che verrà
introdotta nel terzo capitolo, con riferimento al caso delle imprese casearie
sarde. L’approccio adottato è stato di tipo comparativo, mettendo a
confronto i due modelli di impresa rilevabili nel comparto, da una parte cioè
le imprese cooperative e, dall’altra, le imprese capitalistiche di
trasformazione (che conservano una conduzione sostanzialmente familiare,
anche quando raggiungono dimensioni ragguardevoli per la realtà settoriale
analizzata).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Gli studi comparativi, pur fra i tanti limiti di natura metodologica, hanno
comunque il merito di mettere in discussione ciò che rischia di diventare un
attributo “primitivo” dell’impresa capitalistica: la “pretesa” superiorità
competitiva (Porcheddu, 2004, pag. 40). Infatti si è diffusa una concezione
del funzionamento dei mercati e dell’efficienza produttiva, all’interno della
quale l’impresa privata for profit emerge come l’istituzione capace di
realizzare un più efficiente coordinamento delle risorse produttive. In
questa ottica forme alternative di organizzazione della produzione, quali
l’impresa cooperativa, tendono ad essere considerate quali alternative
inferiori42 e quindi indesiderabili in quanto sottraggono risorse all’impresa
con finalità lucrative, più efficiente e quindi, non solo economicamente, ma
anche socialmente più produttiva (Fiorentini e Scarpa, 1998, p.12).
Nell’analizzare tali modelli istituzionali di impresa può rilevarsi assai
pericoloso, sotto il profilo dell’analisi positiva e normativa, trascurare le
particolari caratteristiche e la storia di un settore (questo spiega la presenza
del primo capitolo di carattere storico-evolutivo all’interno del lavoro) e
formulare giudizi sui principali temi del dibattito sui modelli istituzionali
d’impresa a partire, meramente, da statistiche sulla diffusione relativa (in
quel particolare contesto settoriale) dei vari tipi d’impresa43 (Porcheddu,
42
In questo contesto si possono inserire una serie di negatività strutturali che abitualmente
vengono ascritte alle cooperative operanti nel settore della trasformazione del latte ovino in
Sardegna (cfr. Nuvoli, 1999).
43
Come dire che potrebbe rilevarsi assai fuorviante il ricorso a test di sopravvivenza delle imprese
à la Stigler, senza conoscere, di volta in volta, il settore di cui si sta trattando. Un esempio di tale
modo di procedere è stato quello di Cornforth (1983 cit. in Chillemi, 1989, pag. 24), autore che
ha condotto una rassegna di studi empirici sulle cooperative di produzione e lavoro nel Regno
Unito, il quale “ (…) in mancanza di informazioni dettagliate, adotta come indicatore di
successo (dell’impresa) autogestita la semplice sopravvivenza” (Chillemi, 1989, p.24). Per le
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
2004, pag.36). Il rischio è quello di “ipotizzare”, in un certo contesto
settoriale vantaggi comparati a favore di una forma istituzionale d’impresa
in assenza di alcuna evidenza empirica44.
Per quanto riguarda le questioni metodologiche, delle quali si è fatto
riferimento ad inizio del capitolo, innanzitutto, bisogna chiedersi cosa
legittima un confronto sul piano economico tra le due diverse forme
istituzionali d’impresa.
In fondo la ragione deve ricercarsi nell’ingresso della forma cooperativa
d’impresa nelle economie di mercato (Porcheddu, 2004), ciò significa
assumerne (criticamente) le regole del gioco (Viviani, 1983, p.50)45. Nel
futuro il successo delle diverse forme di impresa dipenderà sempre più dalla
loro capacità di affermarsi in mercati meno disposti ad accettare situazioni
di inefficienza o insufficienza qualitativa (Fiorentini, 1998, p.20). Infatti,
fino a quando il modo di produzione prevalente era quello taylorista, la
solidarietà come valore in se ha rappresentato la giustificazione sufficiente
per l’esistenza dell’impresa cooperativa; e ciò anche quando essa non
riusciva a rispettare il vincolo dell’efficienza. Nella società post industriale,
stesse ragioni sarebbero contestabili quelle ricerche per le quali una delle “dimostrazioni”
dell’inefficienza delle cooperative risiederebbe nell’esiguità del loro numero nell’ambito
dell’economie di mercato o, viceversa, per le quali “ (…) if co-operatives were really inefficient,
they would be forced out of the market” (Nilsson, 2001, p.330).
44
Come spiega Chillemi (1989, p.24) quando si parla di vantaggi comparati di una forma
istituzionale di impresa su un’altra: sul piano empirico dovrebbero essere disponibili molte
approfondite informazioni sulle caratteristiche delle imprese che in genere si è ben lungi dal
rilevare.
45
“(…) Le forme utopistiche di cooperazione (cioè quelle che non contengono il principio
economico) falliscono e scompaiono proprio perché vivono staccate dal mercato. La loro grande
socialità avviene non mediante una trasformazione dell’ambiente ma mediante una censura con
e dall’ambiente. Per questo falliscono. Perché dal mercato non si scappa. O lo si trasforma
oppure a un certo momento lui arriva e rimette le cose a posto” (Viviani, 1983, p.47).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
invece una solidarietà che non tenesse conto di tale vincolo sarebbe
destinata a scomparire e ciò per la semplice ragione che il cittadino, oggi,
non è disposto a sopportare i costi di un modo non efficiente di vivere la
solidarietà. È in questo preciso senso che si può affermare che la solidarietà
o è efficiente o non sarà (Zamagni, 1994, p.27).
Dunque, l’ingresso della cooperativa in un economia di mercato la espone
“de facto” (Porcheddu, 2004, p.40) al confronto e alla competizione con le
imprese di tipo tradizionale, ciò le “obbliga” al conseguimento di livelli di
profitto il cui ordine di grandezza sia paragonabile a quello tipico delle
imprese capitalistiche (Sacco, 1998, p.197). Tale confronto non deve
sorprenderci
visto
la
infondatezza
dell’antinomia
cooperazione-
competizione (Zamagni, 1993).
Nell’effettuare tale confronto comunque si pongono vari problemi per
l’analista. Occorre, infatti, riflettere almeno su due aspetti:
1. Si può configurare una sorta di irriducibilità di fondo dell’impresa
cooperativa ad un confronto, sul mero piano economico, con forme
istituzionali alternative?
2. Tenuto conto della realtà cooperativa, e senza
per il momento
entrare nel merito della metodologia di comparazione (che verrà
introdotta nel capitolo successivo), ha significato un confronto che
assume acriticamente l’ipotesi di autonomia della cooperativa
rispetto alle economie dei soci o di eventuali organizzazioni di grado
superiore?
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Con riferimento al primo aspetto, il pericolo di “riduzionismi” è sempre in
agguato. In particolare, gli economisti sono accusati di non riuscire a
catturare la complessità del fenomeno cooperativo (Sapelli 1998, p.11). Il
timore è che un “appiattimento” lungo la sola dimensione economica, di
una realtà multiforme quale quella cooperativa possa “lasciare fuori dal
confronto” aspetti che non possono essere “valorizzati” in termini
economici (Lerman e Parliament, 1992)46. Per esemplificare il problema del
riduzionismo, alcuni autori fanno riferimento alla teoria delle esternalità47
seppure da differenti punti di vista in tema di impresa cooperativa. Da una
parte vi è chi sostiene l’esistenza di esternalità positive derivanti dalla
presenza di cooperative sui mercati48. Altri studiosi, invece, pongono
l’accento su alcune esternalità di carattere negativo (ad esempio Porter e
46
Quindi qualora dall’analisi scaturiranno, riguardo alle cooperative, per alcuni indicatori, delle
performance inferiori rispetto a comparabili imprese capitalistiche occorrerà analizzarle in un
contesto più generale. Infatti Lerman (1992) sostiene che: “If in this setting cooperative
performance is found to be inferior to IOF performance, it can be argued that the result is biased
downward because of the additional member welfare dimensions in cooperatives that are not
captured by standard business performance measures. Yet if cooperative performance as
evaluated by standard business measures is found to be not "worse" than IOF performance,
there is a reason to suggest that the overall benefits enjoyed by cooperative members may
exceed the benefits of IOF shareholders” (Lerman e Parliament, 1992).
47
“Se l’equilibrio concorrenziale presentato dal modello neoclassico fornisse una spiegazione completa del
modo in cui opera nella realtà un sistema di mercato, non vi sarebbe bisogno di altre organizzazioni
economiche. […] Perciò, per spiegare organizzazioni diverse dal mercato, dobbiamo studiarne i
fallimenti” (Milgrom e Roberts 1994, p. 122.Sottolineatura aggiunta).
48
Mori (2000) ad esempio sostiene che tali tipi di imprese contribuiscono a diffondere una serie di
valori “positivi” in ambito sociale, come quelli della solidarietà per esempio. Altri autori
sottolineano anche come la forma cooperativa riesca a gestire in maniera più efficiente
attraverso i suoi fini sociali le esternalità. Infatti attraverso il perseguimento del suo fine
“sociale”, la cooperativa “internalizza” l’esternalità facendo proprio il punto di vista della
collettività ed attribuendo ad esso un peso preponderante nella definizione dei propri obiettivi e
delle proprie strategie (Sacco, 1998, p.205).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Scully, 198749). Peraltro non mancano nella teoria sulle imprese cooperative
anche i riferimenti alla teoria dei beni pubblici (public goods)50.
Espressione
della
“multiformità”
dell’impresa
cooperativa
è
il
perseguimento di un insieme obiettivo (cfr. il dibattito in Paterni e Viviani,
1983) o di un obiettivo multidimensionale (Chillemi, 1998) all’interno del
quale possono emergere fenomeni di trade-off, in quanto l’impresa
cooperativa, a differenza dell’impresa di tipo capitalistico deve sapere
soddisfare congiuntamente un duplice vincolo: quello della solidarietà,
declinata nella forma specifica del mutualismo, e quello dell’efficienza
gestionale (Zamagni, 2000).
Quindi gli insiemi obiettivo delle due forme istituzionali che intendiamo
porre a confronto, non possono essere coincidenti, pena l’incapacità di dare
conto della varietà istituzionale delle imprese.
Come viene evidenziato da più parti, la varietà/ricchezza istituzionale può
essere
intesa
come
una
“risposta”,
dal
“lato
dell’offerta”,
alla
differenziazione delle preferenze (e bisogni) degli agenti economici
(Faccioli e Scarpa, 1998, p.64). Già Leon (1983, p.56), osservava che
ammettere l’identità di obiettivi tra le due forme d’impresa (identità alla
49
Questi autori si chiedono “(…) whether cooperative marginal cost is equal to social marginal
cost” (Porter e Scully 1987, pp. 490-491).
50
Staatz (1987, p.91 cit. in Parliament et al., 1990, p.11), per esempio, riprende l’originaria
intuizione di Nourse (1922) circa il ruolo delle cooperative in termini di parametro di confronto
competitivo” (competitive yardstick) rispetto alle imprese capitalistiche (IOFs) sostenendo che
“farmers, faced with unsatisfactory performance by IOFs, may form a cooperative firm whose
purpose is to force the IOFs, through competition, to improve their service to farmers. If
successful in enforcing competition, the cooperative generates benefits that it does not capture
itself but witch accrue to the farmer-stockholders, as well as to other farmers in the area”. Anche
Jacobson e Cropp (1995, p.6) tra l’altro con riferimento al settore caseario statunitense, e
Richards (1996, p.3) citano differenti esempi di beni e servizi offerti dalle cooperative ai propri
membri per i quali varrebbe il carattere di “non escludibilità del godimento da parte dei non
membri”.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
quale si arriva portando alle estreme conseguenze il ragionamento di Ward)
avrebbe reso alquanto difficile individuare una “ragione precisa per
l’esistenza della cooperativa”.
È chiaro, quindi, che chi porta avanti un indagine economica (magari per
confronto come in questo lavoro), dovrebbe aver sempre presente che essa
non “esaurisce” certamente una realtà complessa come quella dell’impresa
cooperativa. Tuttavia riteniamo che quella economica sia, in qualche modo,
una dimensione d’indagine “privilegiata” poiché, in fondo, cerca di fare
luce sulla capacità della cooperativa di “alimentare” (attraverso la
permanenza sui mercati) l’originario motus fornito dalle cosiddette valenze
solidaristiche e mutualistiche del fenomeno cooperativo (Porcheddu, 2004,
p.43). La diversità di obiettivi tra forme istituzionali d’impresa rende,
comunque, problematico anche sul piano teorico trovare degli indicatori
monetari o di altro tipo per paragonare le due imprese (Chillemi, 1989,
p.24).
Con riferimento al punto due esso richiama il più ampio (ed assai rilevante
per un lavoro empirico di comparazione) problema della delimitazione dei
“confini” delle unità economiche che si vanno a confrontare (Porcheddu,
2004, p.43). Il problema, a ben vedere, interessa anche l’impresa
capitalistica, ma esso diventa probabilmente più stringente con riferimento
all’impresa cooperativa, tenuto conto dei legami strettissimi che possono
intervenire, rispettivamente, con l’economie dei soci51, con l’economie di
51
“(…) Nel caso della cooperativa agricola di trasformazione infatti, si possono individuare
cooperative che presentano caratteristiche strutturali di alta complessità, in quanto composte dai
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
altre cooperative all’interno di organismi di grado superiore, per arrivare
infine al dibattuto rapporto con le Centrali cooperative. L’ipotesi di
autonomia dell’impresa cooperativa rispetto a terze economie (in specie
quelle dei soci) rappresenta tradizionalmente “terreno di scontro” tra filoni
di studio propri della tradizione italiana52; il dibattito più recente sulla
definizione dei confini dell’impresa cooperativa, propende per l’adozione di
una sorta di “criterio della ragione” (rule of reason), nel senso che l’analista
(e quindi anche chi intende condurre un indagine comparativa all’interno di
un dato contesto settoriale) dovrà farsi carico di stimare, di volta in volta, il
grado più o meno ampio di autonomia della cooperativa lungo il continuum
della tradizionale dicotomia “autonomia-eteronomia” (Zan, 1990, p.70).
I riflessi di queste considerazioni su un confronto tra forme istituzionali di
impresa, basato su elaborazioni ottenute a partire dai dati contabili, sono
rilevanti.
In particolare, qualora non potesse esprimersi, dinanzi al caso concreto, un
giudizio di sostanziale autonomia delle imprese cooperative, rispetto alle
economie dei soci o di organismi di grado superiore (cooperative di grado
superiore, consorzi, movimenti cooperativi), la strada da percorrere sarebbe
quella del consolidamento dei bilanci delle diverse economie coinvolte (con
tutte
le
difficoltà
che
in
letteratura
vengono
sottolineate
circa
soci che già svolgevano attività d’impresa: in questo quadro ci si può trovare di fronte ad
aziende di secondo livello che sottopongono a coordinazione economica (modificando in vario
modo la preesistente situazione) fattori già oggetto di coordinazione economica nelle aziende
socie” (Zan, 1990, p.68).
52
Tessitore (1973) ipotizza l’autonomia della cooperativa, al fine di presentare un modello
interpretativo generale dell’impresa cooperativa, volto a cogliere su un piano generale e astratto
gli elementi caratterizzanti la forma cooperativa d’impresa.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
l’individuazione del “perimetro di consolidamento”). Proprio queste
difficoltà stanno alla base di uno dei principali limiti di questo lavoro,
infatti nel settore della trasformazione del latte ovino in Sardegna, è dato da
riscontrare intensi legami tra le imprese cooperative, le economie dei soci e
quelle degli organismi di grado superiore, legami tali da far vacillare
l’ipotesi di “autonomia” delle prime, mentre l’analisi è stata condotta
considerando
le
unità
cooperative,
per
via
delle
difficoltà
di
consolidamento, come absolutae (quasi “slegate” potremo dire, seguendo
l’etimologia del termine).
Nel caso specifico, i legami tra cooperative ed economie dei soci, sono
dovuti, in primo luogo, ai vincoli che la cooperativa deve sopportare in
termini di rigidità delle caratteristiche quanti-qualitative della materia prima
proveniente dal proprio “bacino del latte”(Porcheddu, 2004). Tale
“codipendeza integrata” tra cooperative ed economie particolari dei soci si
manifesta, in questa realtà, in tutta la sua evidenza, caratterizzata spesso dal
“vincolo biunivoco” per cui i soci devono conferire tutta la produzione alla
cooperativa, e questa si impegna a ritirare tutto il prodotto dei soci, senza
possibilità di integrare l’input con acquisti di materia prima “tipica” di terze
economie (Zan, 1990, p.88). D’altro canto è innegabile che la cooperativa
svolga funzioni di vitale importanza per i soci, quali la trasformazione della
materia prima e la commercializzazione dei prodotti finiti, non più
praticabili in modo economico dalla stragrande maggioranza delle imprese
pastorali (Porcheddu, 2004).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Per quanto riguarda i legami tra cooperative del settore e organismi di grado
superiore, è possibile accennare all’esistenza di alcuni consorzi. Riteniamo
che i vincoli all’economia delle cooperative non siano, almeno per il
momento, da attribuire tanto all’adesione ai consorzi di tutela di alcune
produzioni
tipiche,
quanto
alla
partecipazione
ai
consorzi
di
commercializzazione (orientati generalmente all’export) delle produzioni
casearie sarde. Attraverso consorzi di questo tipo transita una parte
consistente della produzione casearia sarda di matrice cooperativa, inoltre,
anche contabilmente, è spesso possibile parlare di veri e propri conferimenti
a favore della struttura consortile, con una dipendenza accentuata della
cooperativa da economie (o diseconomie) realizzate a livello superiore.
2. La dimensione delle imprese casearie sarde
Le cooperative casearie sarde sono di dimensioni minori rispetto alle
imprese capitalistiche del settore?
Uno dei criteri che possono essere adottati per classificare le imprese che
operano in un qualunque ambiente economico, oltre naturalmente a quelli
basati sul settore produttivo e sulla forma giuridica, è la dimensione. La
dimensione è un carattere globale e complesso della gestione e, come tale,
dipende sia dalle condizioni interne della gestione (esprimibili in termini di
volumi di produzione, di livello degli investimenti e di entità dei
finanziamenti), sia dall’ampiezza e dalle caratteristiche dei mercati (di
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
approvvigionamento, di collocamento, dei capitali) con i quali l’azienda
entra in contatto (Giansante, 2001, p.68). Tale concetto è sinonimo tanto di
grandezza, estensione, misura onde tale parola riveste indubbiamente
carattere quantitativo, quanto di aspetto o situazione di una realtà oggettiva;
quest’ultima accezione, allora richiede per la sua pratica definizione, la
predisposizione di parametri qualitativi (riguardante cioè comportamenti o
situazioni di condotta gestionale).
Quello della dimensione rappresenta (nel nostro caso) un ambito entro il
quale valutare due problemi principali: le crescenti difficoltà relative alla
gestione dei costi di monitoraggio e di transazione (come si vedrà nel
paragrafo sulla produttività del lavoro) (Faccioli e Scarpa, 1998, p.74), e
alla gestione del processo decisionale democratico all’aumentare delle
dimensioni d’impresa53 (Fiorentini, 1998, p.24); e (indirettamente)
l’esistenza di problemi di sottoinvestimento e di razionamento del credito
spesso richiamati, quando si parla di imprese cooperative. Per quanto
riguarda il primo, la crescita dimensionale porterebbe ad una attenuazione
del senso di identificazione dei soci con la cooperativa; questo fenomeno
potrebbe essere ascritto a differenti fattori:
1. nelle esigenze di gerarchizzazione organizzativa manifestatesi a
livello gestionale, che “allontanano” il socio dalla partecipazione alla
vita della cooperativa (Kaplan De Drimer, 1997);
53
Sulle difficoltà nella gestione dei processi decisionali al crescere delle dimensioni delle imprese
cooperative e all’aumentare dell’eterogeneità della base sociale cfr. Hansmann (1990).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
2. alla crescita dimensionale della cooperativa stessa, che da una parte
conduce spesso ad un aumento del tasso di eterogeneità all’interno
della base sociale, dall’altro, può portare ad una progressiva
managerializzazione della cooperativa (con perseguimento di
obiettivi “lontani” da quelli della base sociale) (Hind, 1999).
Un contesto di attenuato senso di identificazione nei confronti della
cooperativa può avere ampie ripercussioni sui meccanismi generativi della
fiducia della base sociale nell’operato degli amministratori (Borgen, 2001),
rendendo i soci molto “sensibili” alle variazioni di breve periodo della
remunerazione della materia prima (e acuendo in generale il problema di
agenzia che, come si vedrà più avanti, affligge il rapporto tra base sociale e
amministratori della cooperativa). In contesti caratterizzati da scarsa
identificazione del socio con la cooperativa è quindi probabile attendersi
fenomeni estremi di exit che possono preludere all’instaurazione di rapporti
con altre realtà produttive (magari di tipo capitalistico) dettati meramente
da calcoli economici di breve periodo (Porcheddu, 2004, p.221)54.
Per quanto riguarda il secondo punto, vale a dire l’esistenza di problemi di
sottoinvestimento e di razionamento del credito, in letteratura è noto come
questi problemi si traducano in una minore dimensione d’impresa (cfr.
Faccioli e Scarpa, 1998)55 in quanto i soci titolari dei diritti di proprietà
54
La cooperativa casearia sarda, tuttavia, presenta delle regole interne di ammissione alla base
sociale che tendono a scoraggiare calcoli di tale natura (Porcheddu, 2004).
55
Bisogna tenere presente, tuttavia, che gli studi empirici volti a testare l’ipotesi dell’operare
dell’impresa cooperativa in regime di rendimenti crescenti (e quindi di difficoltà di sfruttamento
delle economie di scala) non hanno dato risultati univoci. (cfr. Bonin, Jones e Putterman, 1993,
p.1310). Altri autori ipotizzano un parziale sfruttamento delle economie di scala nelle imprese
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
nelle imprese cooperative, preferiscono non investire in impresa i redditi
ottenuti dalla gestione e/o le loro dotazioni private sia per la necessità di
diversificare il loro portafoglio sia per l’incompleta appropriabilità dei
vantaggi
economici
prodotti
dagli
investimenti
dovuta
alla
non
negoziabilità delle quote sociali.
Uno studio abbastanza recente (Benedetto et al., 1995) evidenzia che, sotto
il profilo strettamente produttivo, l’impresa capitalistica del settore lattiero
caseario in Sardegna ha una dimensione d’impianto superiore (e con un
grado di insaturazione inferiore della capacità produttiva) rispetto a quanto
riscontrato per l’impresa cooperativa. È chiaro però che a livello di impresa
nel suo complesso, la “situazione dimensionale” potrebbe risultare diversa.
3. La struttura finanziaria delle imprese di trasformazione
La struttura finanziaria delle cooperative casearie sarde è significativamente
differente da quella delle imprese capitalistiche del settore?
Le scelte finanziarie costituiscono un area critica di successo delle imprese
che operano in un contesto competitivo. Dalle opzioni finanziarie
dipendono, in definitiva, la sopravvivenza, la crescita, lo sviluppo ovvero il
rallentamento, l’insuccesso e talvolta persino la caduta di molte imprese.
cooperative come conseguenza di una “vischiosità” alla crescita dimensionale, a causa dei
problemi di controllo che tali tipi di impresa sperimenterebbero crescendo (Porter e Scully, 1987;
Ferrier e Porter, 1991).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Le difficoltà di finanziamento dell’impresa autogestita sono considerate uno
dei principali ostacoli alla diffusione di tale tipo di impresa e alla
costruzione di un sistema di “imprese democratiche” alternativo a quello
capitalistico. Tali difficoltà di finanziamento sono particolarmente presenti
nelle cooperative che operano nei paesi capitalistici per effetto del
particolare regime dei diritti di proprietà a cui sono soggette (Cuomo,
1997). La letteratura in tema di imprese autogestite, infatti, a partire dagli
iniziali contributi di Furubotn e Pejovich (1970) ha più volte richiamato
l’operare di ostacoli alla pratica dell’autofinanziamento56 e, quindi, alla
rinuncia da parte dei soci ad una quota degli utili maturati (Cuomo, 1997):
il primo, come noto, da ricollegarsi all’impossibilità da parte dei soci di
ottenere, al momento dell’uscita dall’impresa, il rimborso del capitale
investito nel corso della loro permanenza nella stessa (in sostanza i
dividendi cui i soci hanno rinunciato e che sono stati destinati
all’autofinanziamento); il secondo ostacolo invece, legato all’impossibilità,
sempre in caso di recesso dallo status di socio, di godere del flusso di
dividendi (futuri) che, presumibilmente, la realizzazione dell’investimento
contribuirà
a
generare.
In
letteratura
i
due
tipi
di
“remore”
all’autofinanziamento prendono rispettivamente il nome di effetto
56
Cosi si esprime Lerman riguardo al problema dell’autofinanziamento: “Because of the non
market ability of cooperative stock, members may be reluctant to increase their illiquid equity
stake in the cooperative. Indeed, Royer (1985) reports that direct infusion of equity by members
accounts for less than 15% of the increase in the equity base of the 100 largest cooperatives
from 1980-1984. Members may also be reluctant to allow the cooperative to increase its equity
base through retained earnings, because retention of earnings translates into lower effective
prices for marketed products or higher effective costs of farm inputs. In contrast, shareholders
in IOFs are indifferent, at least in theory, between cash distributions and retained earnings,
because the latter translate into market appreciation of equity, which can be realized by investors
through selling their shares in the secondary market (Brealey and Myers 1991; Copeland and
Weston 1983)” (Lerman e Parliament, 1992).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Furubotn-Pejovich e di effetto Jensen-Meckling. In realtà l’operare dei due
effetti è il risultato congiunto del particolare regime dei diritti di proprietà
cui è soggetta l’impresa e della estensione dell’orizzonte temporale di
permanenza dei soci nell’impresa stessa 57.
Per quanto riguarda il primo effetto, nei casi in cui i soci non detengano la
piena proprietà del capitale, in caso di recesso non avranno diritto al
rimborso della quota58 e conseguentemente saranno portati a privilegiare la
pratica della distribuzione dei dividendi a quella dell’autofinanziamento.
Per quanto concerne il secondo effetto, invece, assumendo un processo
decisionale di tipo democratico59, è noto come la diversa estensione degli
orizzonti temporali dei soci venga “sintetizzata”, al momento della
decisione sull’effettuazione dell’investimento, dall’orizzonte temporale del
cosiddetto socio mediano; in particolare, un orizzonte temporale limitato
(rispetto alla durata dell’investimento) potrebbe impedire al socio mediano
di recuperare il capitale investito mediante il flusso del reddito prodotto
dall’investimento effettuato (e ciò, in regime di attenuazione dei diritti di
proprietà, “sostanzia” l’operare del primo effetto), ma anche impedire allo
stesso socio di beneficiare del flusso di dividendi (futuri) che l’investimento
57
Si potrebbe più correttamente affermare che la particolare natura dei diritti di proprietà goduti
dai soci (definiti spesso in letteratura con aggettivi quali unclear e vaguely defined) tenda a
ridurre l’orizzonte temporale degli investimenti che essi sono disposti a sostenere.
58
In questo caso si avrà una perdita di capitale conferito sotto forma di autofinanziamento
(Cuomo, 1997, p.193).
59
Con il principio democratico affinché l’investimento venga effettuato occorre che la
maggioranza dei soci pensi di restare nell’impresa per un numero sufficientemente ampio di
anni, in modo da recuperare i profitti non prelevati per motivi di autofinanziamento
(Cuomo,1997).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
stesso potrà contribuire a generare (a meno che non ci sia una situazione di
concorrenza perfetta, Cuomo, 1997, p.212).
Con riferimento ad una sorta di ideal-tipo di cooperativa “occidentale”60, il
socio che recede ha diritto al rimborso delle quote di capitale apportate in
via straordinaria ed ordinaria e quindi possiamo intendere sostanzialmente
non operante il primo tipo di remora all’autofinanziamento d’impresa; il
problema sorge, invece, se si pensa all’impossibilità del socio, in caso di
recesso, di ottenere il valore attuale degli (eventuali) profitti che l’impresa
genererà in futuro (anche grazie al concorso degli investimenti cui il socio
ha partecipato). In sostanza: “un attività o un qualsiasi cespite di capitale
fisico acquistato dall’impresa cooperativa attraverso fondi generati
internamente è considerato dalla letteratura di teoria economica come “non
posseduto” dai soci (…), poiché questi possono ricevere i benefici del
rendimento di tali attività o cespiti solo per il periodo in cui essi persistono
nel loro ruolo di cooperatori” (Mazzoli, 1998, p.149)61.
60
61
La cooperativa di tipo “occidentale” (Cuomo, 1997, p.196) è una cooperativa che si ispira ai
cosiddetti “principi cooperativi universali”, di cui è custode in campo internazionale la
International Cooperative Alliance (ICA), e ha le seguenti caratteristiche fondamentali:
•
I soci hanno la piena proprietà del capitale,
•
È ammesso sia l’autofinanziamento che il ricorso al credito esterno,
•
Le quote di capitale apportate dai soci possono essere di diverso importo ma in assemblea
vige la regola di un voto per ogni socio.
Tale capitale non posseduto viene indicato con differenti espressioni nella letteratura sul tema:
unallocated capital, capital of the dead hand o anche ownerless capital (Nilsson2001). Tali
espressioni sono spesso impiegate con un accezione negativa, visto il problem of common
ownership di cui soffrirebbero le imprese cooperative. La natura “indivisa” di parte del capitale
delle cooperative, infatti stimolerebbe fenomeni di free-riding da parte dei soci, i quali
potrebbero decidere di godere degli asset “accumulati” dalle generazioni passate dei soci, senza
rinunciare a parte degli utili attuali a beneficio delle generazioni future di soci (Cook,1995;
Nilsson,2001;1996). Questa forma di “egoismo” troverebbe inoltre il suo compimento nel fatto
che la cooperativa cercherà di ricorrere, alternativamente, al capitale di terzi (spesso come
vedremo, a condizioni quanti-qualitative non ottimali) (Porcheddu, 2004, p.53).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Al contrario l’azionista di un impresa for profit ha due modi per
appropriarsi del frutto degli investimenti: la distribuzione degli utili e il
conseguimento del prezzo di vendita delle proprie quote di capitale sociale.
La distribuzione degli utili rappresenta la remunerazione degli investimenti
che hanno terminato il loro ciclo. Questi investimenti rappresentano sempre
solo una parte del totale, sino a quando un impresa è attiva vi sarà una certa
quota di essi i quali, pur avendo già assorbito le risorse dei soci, non hanno
ancora prodotto i loro frutti. Il socio che decide di uscire dalla società può
appropriarsi della frazione di questi profitti a lui spettante vendendo le
proprie quote della società ad un prezzo che tenga conto dei guadagni futuri
(Fiorentini, 1998).
A ben vedere però anche nel nostro paese esistono dei mercati delle
partecipazioni in imprese cooperative62, nei quali, “teoricamente”, sarebbe
possibile negoziare quote ad un prezzo che “incorpora” il flusso attualizzato
dei profitti futuri (presunti) attribuibili alla quota, ma essi sono davvero
poco sviluppati e gestiti quasi sempre direttamente dalle stesse imprese, in
quanto un emissione quantitativamente significativa (cioè in grado di
contribuire a risolvere i problemi di sottocapitalizzazione) di titoli di
capitale a rischio è ragionevolmente possibile solo per quelle imprese
cooperative di dimensioni tali e di reputazione altamente consolidata da
62
Per quanto riguarda le quote sociali dei cooperatori tradizionali oltre a non essere facilmente
negoziabili, sono caratterizzate dalla non appropriabilità (da parte dei soci) degli utili non
distribuiti. La partecipazione all’impresa cooperativa implica per il socio un “costo non
recuperabile” (sunk cost nella letteratura teorica). Questo crea maggiori incentivi ad esercitare il
controllo e a partecipare attivamente alla vita dell’impresa. In altre parole, la “soglia di
insoddisfazione” suscettibile di determinare assenteismo e uscita dall’impresa dovrebbe essere
molto più alta che nel caso della detenzione di titoli di una S.p.A. facilmente liquidabili
(Mazzoli, 1998, p.161).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
essere paragonabili alle imprese che emettono titoli in borsa. Qualunque
altro tipo di cooperativa emetterebbe titoli “dominati” (in senso finanziario)
dalle azioni di una S.p.A. quotata in borsa di dimensioni e caratteristiche
simili (Moretto e Rossini, 1996, p.655) 63. Esempi di mercati delle quote
associative sono richiamati anche da Bonin Jones e Putterman (1993,
p.1295) con riferimento alle cooperative che operano nel settore del
compensato negli Stati Uniti64.
Fino a questo momento ci si è occupati degli ostacoli all’autofinanziamento
che la cooperativa sperimenterebbe nel corso della sua vita. Un’altra parte
della letteratura, tuttavia, sottolinea che tale forma istituzionale d’impresa
tende anche a mostrare livelli iniziali di investimento più bassi rispetto ad
una comparabile impresa capitalistica65. Il recente modello di Bacchiega e
De Fraja (1999) evidenzia il legame tra il livello di investimento iniziale e
meccanismi di assunzione delle decisioni all’interno delle differenti forme
63
D’altra parte però se “l’accesso da parte delle imprese cooperative ai mercati borsistici offre da
un lato, nuove preziose opportunità di finanziamento dall’altra crea una potenziale fonte di
instabilità, dal momento che, a differenza del credito bancario, caratterizzato dalla presenza di
contratti di lungo periodo tra banca e cliente (…), il ricorso ai mercati borsistici è caratterizzato
da una grande variabilità del costo e della disponibilità del finanziamento esterno. In altre
parole, l’attività dell’impresa sarebbe soggetta non soltanto a shock di carattere reale, legati alla
congiuntura, ma anche a shock di carattere esclusivamente finanziario” (Mazzoli, 1998, p.168).
64
In queste aziende i soci trasfericono le loro quote in un “market-like” caratterizzato da un
eccesso di domanda. “(…)In the pliwood case, when a departing member wisches to sell his
membership share, he consults with other members and a bank official who is familiar with the
firm and industry to determine the likely flows of future income and to estimate the net present
discounted value of the share. Using this calculation and taking account af the price realized in
previous share sales, an asking price is set by the departing member. The cooperatives then has
the right of first refusal and the sale to an outsider is finalized only if the remaining shareholders
approve it by majority vote” (Bonin Jones e Putterman,1993, p.1295).
65
Questo è tanto più vero nelle cooperative di trasformazione, come quelle analizzate in questo
lavoro. Infatti come sottolinea Tessitore (1991, pp.43-45) i soci conferiscono quote di capitalerisparmio in misura esigua ed accessoria a fronte, invece, di notevoli e continui apporti di
prodotti agricoli da trasformare in beni destinati alla vendita. Il capitale sociale sottoscritto dai
soci in queste forme istituzionali d’impresa “non rappresenta, quindi, un apporto di risorse
finanziarie proporzionato ai fabbisogni di capitale e ai rischi cui l’impresa è esposta e alle sue
prospettive di crescita”.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
istituzionali d’impresa. Essi considerano due ipotetiche imprese ciascuna
composta da tre membri (il minimo affinché possa funzionare il
meccanismo della maggioranza) e dimostrano (tale dimostrazione vale
comunque anche all’aumentare della compagine sociale, Bacchiega e De
Fraja, 1999, p.26) come la differenza nei meccanismi decisionali66 comporti
maggiori problemi per le cooperative. In particolare pur attribuendo alle due
forme istituzionali d’impresa a confronto un livello iniziale di investimento
distante dal first best67, i due autori registrano quasi sempre minori
problemi di sottoinvestimento nelle imprese capitalistiche (investor-owned
firms) poiché gli azionisti sono maggiormente incentivati ad investire per
assumere il controllo dell’impresa (al contrario della cooperative dove vige
il meccanismo “una testa un voto”) o ad impedire che il controllo vada ad
altri68.
I limiti sopra richiamati per le cooperative di tipo “occidentale”, ci paiono
operare anche con riferimento alla tipologia di imprese cooperative della
quale si occupa questo lavoro.
66
This mechanism is given by one-member-one-vote for cooperatives and one-share-one-vote for
investor-owned firms (Bacchiega e De Fraja, 1999).
67
In particolare questo fenomeno è dovuto, nel modello di Bacchiega e De Fraja (1999, p10 e ss.),
alla natura incompleta dei contratti tra i partner d’impresa.
68
“(…)Our main result is that constitutional design affects the amount of financial capital
available to the enterprise. In particular, we show that, in our model, the amount of capital
available is below the first best. This tallies with the frequently reported underinvestment which
affects cooperatives (Bonin et al 1993, pp.1307-12). Our analysis also suggests that the total
investment is never higher in the cooperative, while it can be unambiguously higher in the
investor-ownedfirm. This difference is due exclusively to the voting mechanisms. The
fundamental reason for this result is the strategic role played by a member’s monetary
investment in shaping the majority of votes: in an investor-owned firm an agent may wish to
invest in order to gain control of the enterprise, or in order to prevent another agent from gaining
control. This strategic role of investment is absent in cooperatives, where voting is unaffected by
the relative shares” e dove, quindi, non sarebbe possible “(…) buy the power to make decisions”
(Bacchiega e De Fraja, 1999, p.25).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Da quanto detto sopra è possibile aspettarsi nell’ambito del nostro
confronto, per l’impresa cooperativa un livello di capitale di rischio
tendenzialmente
più
basso
rispetto
ad
una
comparabile
impresa
capitalistica69.
Le difficoltà delle cooperative ad autofinanziarsi dovrebbero tradursi in una
maggiore esposizione di queste sul mercato del capitale di credito rispetto a
comparabili imprese capitalistiche (Lerman e Parliament, 1992). D’altra
parte, tuttavia, bisogna accennare ai fenomeni di razionamento del credito
che le imprese cooperative subirebbero a causa delle proprie peculiari
caratteristiche istituzionali.
La compresenza di imprese capitalistiche e cooperative sul mercato del
capitale di credito implica che tra di esse vi è competizione su tale mercato
e la massiccia prevalenza delle prime comporta (di solito) che il mercato del
credito funzioni secondo le regole tipiche del mercato capitalistico,
disegnate sulla struttura dell’impresa rappresentativa: in conformità anche
con quanto previsto dalla teoria del razionamento del credito, è facilitato
nell’accesso ai finanziamenti chi, indipendentemente dalla bontà del
progetto di investimento che si va a finanziare e prima dell’erogazione del
finanziamento, mostra di possedere un patrimonio netto tale da poter
fronteggiare le obbligazioni che va ad assumere col debito (Stiglitz e Weiss,
1981, 1992; Jaffee e Stiglitz, 1989 in Cuomo 1998). Le imprese
69
Ciò sarebbe dovuto, in sostanza, al fatto che i soci “non godono di diritti di proprietari completi
sul reddito e sul patrimonio dell’impresa, ma godono piuttosto di diritti simili all’usufrutto e
quindi sono interessati all’efficienza soltanto finchè rimangono soci-lavratori
dell’impresa”(Chillemi, 1998, p.95).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
capitalistiche sono, per loro natura, dotate di un capitale netto positivo e
quindi presentano in modo naturale i prerequisiti richiesti: tra di esse, in
prima approssimazione, saranno favorite le imprese che offrono la
maggiore solidità patrimoniale. Solo se è soddisfatta tale condizione,
vengono presi in esame altri requisiti quali la redditività dell’operazione da
finanziare, il settore di appartenenza dell’impresa, la reputazione
dell’impresa e così via. Le imprese autogestite se vogliono avere accesso al
credito devono, di conseguenza, comportarsi allo stesso modo.
Quindi l’impresa cooperativa avrebbe difficoltà ad ottenere finanziamenti
esterni adeguati, sotto il profilo quanti-qualitativo, alle proprie esigenze di
investimento. Questo fenomeno potrebbe spiegarsi, anche, attraverso la
teoria dell’informazione, e più in particolare da quella che esamina il
problema nota come signaling. Imprenditori e finanziatori hanno
informazioni differenti circa la qualità degli investimenti reali: i primi
conoscono esattamente le caratteristiche del loro progetto, mentre i secondi,
in assenza di ulteriori notizie, conoscono solo la qualità media degli
investimenti. L’imprenditore può cercare di persuadere il finanziatore, e
l’argomento, o segnale, più convincente e l’impegno finanziario
dell’imprenditore stesso (Grillo e Silva, 1994, p.380). Per tanto tale
difficoltà sarebbe il risultato di una inadeguata “segnalazione” (signaling)
della qualità dell’investimento, che l’impresa cooperativa intende porre in
essere, causata dall’esiguità (o, al limite, nullità) della quota di investimento
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
coperta da autofinanziamento70. D’altra parte la partecipazione dei soci è
condizione necessaria ma non sufficiente a mobilitare i crediti del mercato
finanziario. Affinché l’intervento finanziario dei soci (sia attraverso
l’autofinanziamento
oppure
attraverso
il
prestito
sociale)
svolga
un’adeguata funzione positiva sullo stato di fiducia dei terzi è necessario
che i finanziamenti di questi ultimi siano espressamente privilegiati nel
rimborso rispetto a quelli dei soci (Cuomo, 1998).
Nell’analizzare la struttura finanziaria delle cooperative occorre, inoltre,
tener conto del fatto che parte degli apporti finanziari “esterni” può trovare
origine nei soci della cooperativa. Il prestito sociale costituisce una forma di
finanziamento della società cooperativa che si concretizza nell'apporto, da
parte dei soci persone fisiche, di capitali rimborsabili, solitamente a medio e
a breve termine, a fronte del quale vengono corrisposti normalmente degli
interessi. Questo istituto si distingue quindi nettamente non solo dal
conferimento di capitale sociale (finanziamento rimborsabile il primo,
finanziamento di rischio il secondo), ma anche dalle obbligazioni, le quali
sono accessibili anche a soggetti non soci e sono rimborsabili a mediolungo termine. Il prestito sociale è un istituto che, pur non sempre presente
nelle singole realtà, trova generalmente ampia diffusione, ancorché con
differenze marcate tra settore e settore. Trattasi di prassi antica, nata come
70
Inoltre se la decisione dell’impresa concernente la distribuzione dei dividendi costituisce uno
strumento di signalling che consente agli osservatori e agli investitori esterni di dedurre
informazioni sulla strategia dell’impresa utili nel formulare le proprie aspettative sulla
redditività dei titoli, i vincoli nelle politica dei dividendi privano le cooperative di uno strumento
di segnalazione verso l’esterno della propria politica gestionale, in presenza di asimmetria
informativa (Mazzoli, 1998, p.150).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
parziale rimedio alla strutturale sottocapitalizzazione delle cooperative, che
non avrebbe avuto di per sé bisogno, in quanto semplice prestito del socio
alla società, di una specifica disciplina positiva, se non, come è poi
avvenuto, per agevolare la diffusione di tale istituto e favorire così un
afflusso di capitali che non poteva essere, allora, altrimenti ottenuto. Prima
della parziale riforma della legislazione cooperativa del 199271, le possibili
forme di autofinanziamento per le società cooperative, oltre appunto al
prestito da soci e alla destinazione a riserva indivisibile degli utili (o di
quota parte di essi), erano condizionate da pesanti restrizioni: da una parte,
impossibilità
di
emettere
obbligazioni;
dall’altra,
condizionamenti
disincentivanti all’aumento di capitale (limiti al valore massimo della
partecipazione, limite alla distribuzione di dividendi, principio “una testa un
voto”). Si può quindi facilmente comprendere come l’istituto del prestito
sociale abbia costituito per le cooperative, negli anni Settanta e, ancor più
decisamente nel decennio successivo, un prezioso strumento per il
reperimento
di
risorse
finanziarie,
che
sarebbe
stato
altrimenti
eccessivamente oneroso72, al quale è corrisposta un’accoglienza sempre
71
Legge 31-01-1992, n. 59: “Nuove norme in materia di società cooperative” (pubblicata nella
Gazzetta Ufficiale n. 31 del 7 febbraio 1992, Suppl. ord.). La capitalizzazione e, in genere, il
finanziamento dell’impresa cooperativa sono stati i motivi ispiratori delle riforme di diritto
cooperativo negli ultimi quindici anni, non solo in ambito italiano, ma anche negli ordinamenti
dell’unione europea ci si riferisce, innanzitutto, proprio alla legge italiana 31 gennaio 1992 n.59,
alla loi francese n.92-643 du 13 juillet 1992 relative à la modernisation des enterprises
cooperatives (in Revue des societes 1992, 563 ss.) quindi alla proposta di regolamento (CEE)
del Consiglio recante lo statuto della Società Cooperativa Europea (Le Società, 2002).
72
La convenienza di questa forma di autofinanziamento è per le cooperative “in re ipsa, potendo
queste pagare il denaro ad un prezzo mediamente dimezzato rispetto al normale costo della
provvista con conseguenze particolarmente vantaggiose sull'incidenza in bilancio degli oneri
finanziari” (Bollino, 1985, p.464).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
positiva da parte dei soci73. Anche perché tale forma di finanziamento si è
dimostrata negli anni uno dei migliori strumenti per affrontare la congenita
sottocapitalizzazione
delle società cooperative, affiancando a tale
caratteristica una possibilità di gestione snella ed efficace anche sotto
l'ottica della fidelizzazione e dei rapporti tra società e singoli soci. Da
decenni, quindi, il prestito da soci nelle cooperative rappresenta uno
strumento importante da molteplici punti di vista: fonte di finanziamento
per la società, salvaguardia del potere di acquisto e del risparmio del socio,
conseguente maggiore attaccamento di quest’ultimo alla cooperativa.
Solo in tempi più recenti sono stati previsti dal legislatore ulteriori
strumenti di finanziamento specifici delle cooperative, nelle diversificate
forme delle quote di sovvenzione (art. 4, l. 59/92) e delle azioni di
partecipazione cooperativa (artt. 5 e 6, l. 59/92), o utilizzabili anche dalle
cooperative, come le cambiali finanziarie o i certificati di investimento, o
ancora l'estensione a tali società della possibilità di emettere prestiti
obbligazionari.
In ogni caso, le possibilità di scelta che oggi si aprono per le società
cooperative in materia di strumenti di finanziamento appaiono di tutt’altro
respiro rispetto a quelle di qualche decennio fa.
È da rilevare, tuttavia, che tra tali strumenti, tutti rimasti ancor oggi di
diffusione limitata in ambito cooperativo, nessuno è riuscito fino ad ora a
73
Per i quali “siffatta forma di investimento risulta particolarmente allettante non soltanto per la
remunerazione del prestito ma anche per le modalità del disinvestimento dal momento che le
somme mutuate sono ritirabili, in tutto o in parte, decorso un breve spazio di tempo”
(Dabormida, 1992, p.1524).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
svolgere quella "importante funzione di rafforzamento del rapporto tra
socio e cooperativa" (Mosconi, 2002), ricoperta invece dal prestito da soci.
In tal senso, anche una delle parti più significativamente innovative, per le
società cooperative, della recente riforma del diritto societario74, quella
relativa agli strumenti finanziari75, se da una parte potrebbe aprire nuovi
orizzonti per il finanziamento delle imprese cooperative, dall’altra,
rivolgendosi principalmente ad un mercato “esterno” a tali società,
difficilmente potrà sottrarre risorse significative al più classico istituto del
prestito, spesso profondamente radicato nella loro base sociale.
4. Intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro
Le più volte richiamate ipotesi di sottocapitalizzazione e razionamento del
credito, formulate in merito alle imprese cooperative, per confronto con
imprese capitalistiche comparabili, si traducono immediatamente in
previsioni di una minore intensità d’uso del fattore capitale nelle imprese
del primo tipo (cfr., per esempio Bartlett et al, 1992; Porter e Scully, 1987;
Ferrier e Porter, 1991).
Ancora una volta, tuttavia, l’evidenza empirica non conforta univocamente
le conclusioni teoriche (per una rassegna dei diversi risultati cfr. Bonin et
al. 1993, pp.1310-1311).
74
75
D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6: "Riforma organica della disciplina delle società di capitali e
società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366" (Suppl. ord. n. 8/L alla
Gazzetta Ufficiale n. 17 del 22 gennaio 2003).
In particolare, cfr. il nuovo art. 2526.
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5. La redditività
L’analisi della redditività tende ad indagare sulle capacità dell’impresa di
remunerare il capitale impiegato nell’attività di produzione economica
(Melis, 1989). Nell’effettuare un confronto sulla redditività tra le due forme
istituzionali d’impresa analizzate occorre, tuttavia, ricordare la diversità
degli obiettivi; in quanto mentre l’obiettivo dell’impresa capitalistica
consiste nella massimizzazione del profitto, la peculiarità dell’impresa
cooperativa sta, soprattutto, nello scopo mutualistico76, cioè, nel fornire
beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente ai membri
dell’organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero
sul mercato. Questo non significa che la cooperativa non possa operare
anche con terzi non soci e che lo scopo mutualistico non possa convivere
con finalità lucrative (come è gia stato fatto notare in apertura di capitolo).
Tuttavia, da un lato, la distribuzione di utili ai soci in proporzione delle
quote non è libera, ma sottoposta a limitazioni, dall’altro, i profitti realizzati
vengono accantonati a riserva non distribuibile e quindi reinvestiti nella
76
Lo si evince anche dall’art. 45 della Carta costituzionale in base al quale “la Repubblica
riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere di mutualità e senza fini di
speculazione privata. La legge ne promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne
assicura, con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità”. Tali scopi mutualistici che ispirano
l’agire cooperativo possono indurre un comportamento economico apparentemente non
finalizzato alla massimizzazione del profitto ma orientato al raggiungimento del più alto valore
unitario di trasformazione del latte. In realtà l’affermazione che la cooperativa non persegua
l’obiettivo della massimizzazione del profitto non è completamente esatta. È più corretto invece
affermare che la sua funzione obiettivo è tesa a massimizzare un residuo (il valore di
trasformazione appunto) che è composto da profitto e remunerazione della materia prima (Idda,
1995, p.46).
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società, oppure devoluti ad altre finalità mutualistiche (l. n. 59/1992 che
impone la devoluzione di una quota degli utili, e del patrimonio in caso di
liquidazione ai fondi mutualistici per lo sviluppo del settore) (Olivieri et.
al., 2003).
Da un punto di vista economico nelle cooperative agro-
industriali, a differenza di quanto avviene nelle altre società, i rapporti che
istituzionalmente vengono a crearsi tra società e soci sono due, e
precisamente:
• conferimento da parte dei soci della loro produzione agricola77
contro un corrispettivo corrisposto dalla società;
• conferimento di capitale che può eventualmente essere remunerato
attraverso la distribuzione di utili.
SOCIETA’ COOPERATIVE
Remunerazione conferimenti
Beni
COOPERATIVA
SOCI
Capitale
Utili
ALTRE SOCIETA’
SOCI
Capitale
SOCIETA’
Utili
77
Il conferimento della produzione agricola, da parte dei soci, può essere totale (è questo il caso
più frequente) o parziale, a seconda di quanto stabilito dallo statuto della cooperativa (Campra e
Cantino, 1990).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Di conseguenza la cooperativa può comportarsi come segue:
• tendere a massimizzare il vantaggio
dell’appartenenza alla
cooperativa a favore dei singoli soci, ripartendo l’intero risultato
lordo di gestione attraverso la remunerazione dei conferimenti,
chiudendo quindi l’esercizio con un bilancio in pareggio;
• tendere a massimizzare la capacità di autofinanziamento della
cooperativa, al fine di conseguire risorse necessarie per sostenere il
consolidamento e lo sviluppo dell’azienda, cioè la sua autonoma
possibilità di sopravvivenza sul mercato, raggiungendo, nel
contempo, un soddisfacente livello di appagamento delle attese
economiche dei soci (Campra e Cantino, 1990, p.9).
Di questi, solo il secondo può essere considerato un comportamento
“razionale” (Pejovic, 1968; Furubotn, 1980; cit. in Cuomo, 1997) da un
punto di vista economico; infatti, affinché l’impresa possa essere
considerata “strumento durevole del sistematico operare in campo
economico” (Ferrero, 1968) deve tendere all’economicità che “trova la sua
generale espressione nella dinamica relazione di equilibrio tra il fabbisogno
di fattori di cui necessita e la capacità di copertura del fabbisogno
medesimo, tenuto conto dei mezzi economici su cui l’azienda può contare e
della remunerazione che a tali fattori variamente compete secondo criteri di
congruità” (Ferrero, 1968, p.195). Inoltre tale comportamento fa si che la
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società mantenga il proprio carattere cooperativo se esprime la reale volontà
dei soci, manifestata attraverso la loro effettiva partecipazione alla
determinazione delle scelte aziendali.
La massimizzazione della capacità di autofinanziamento, infatti, trova la
sua giustificazione nel riconoscimento, da parte dei soci stessi, che
l’esigenza della cooperativa, di perseguire condizioni di autosufficienza
economica,
come
azienda
autonoma
sul
mercato,
favorisce
il
consolidamento nel mercato (Campra e Cantino, 1990,).
D’altra parte però nel nostro caso specifico (cioè, quello del settore di
trasformazione de latte) l’obiettivo del raggiungimento del più alto valore
unitario di trasformazione del latte, dato dal ricavo per unita di prodotto
finito meno i costi di trasformazione calcolati al netto della spesa per
l’acquisto della materia prima, comporta una sostanziale incapacità di
autofinanziamento delle aziende. Il capitale di rischio appare, infatti, per la
ricordata impossibilità di accumulare autonomamente risorse finanziarie e
per la pochezza dei limiti posti alle quote sociali di assoluta inconsistenza
per sostenere il fabbisogno finanziario di gestione e di investimento (Idda,
1995, p.46).
In questo contesto, quindi, si inseriscono i richiamati fenomeni di
sottocapitalizzazione e di razionamento sul mercato del credito che
dovrebbero avere evidenti riflessi anche sotto il profilo della gestione
economica.
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Di seguito, per fare riferimento a questi importanti aspetti, adatteremo alle
esigenze della nostra esposizione uno schema contenuto in Zan (1990,
p.139). In linea teorica tali fenomeni richiamati possono tradursi
nell’incapacità dell’impresa cooperativa di fronteggiare adeguatamente
sotto il profilo quanti-qualitativo il suo fabbisogno finanziario con un
ricorso consistente (rispetto a quanto previsto per un impresa capitalistica
comparabile) a fonti di finanziamento a breve termine, che pongono come
stringente il problema del loro rinnovo o sostituzione e che risultano in
genere, più onerose. Ovviamente questo elemento di reddito (oneri
finanziari) si riflette negativamente sul risultato netto d’esercizio,
deprimendolo e riducendo, a parità di altre condizioni, la capacita di
autofinanziamento dell’impresa cooperativa; ciò va ad aggravare i problemi
finanziari di sottocapitalizzazione e di razionamento sul mercato del credito
(che tra l’altro abbiamo visto essere strettamente collegati) innescando una
vera e propria “spirale” che erode progressivamente (attraverso oneri
finanziari sempre più rilevanti) il risultato netto d’impresa (Porcheddu,
2001). La gestione finanziaria, quindi, condiziona profondamente la
gestione economica caratteristica nella misura in cui condiziona la dinamica
degli investimenti in capitale fisso (rendendo in questo modo all’impresa
possibile/impossibile l’adeguamento quali-quantitativo dei mezzi di
produzione) e in capitale circolante (consentendo o meno determinate
politiche di concessione di dilazioni di pagamento alla clientela, di livello di
servizio nella gestione delle scorte ecc.) tutti aspetti che hanno profondo
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
significato anche in termini competitivi e che incidono quindi sulla stessa
gestione caratteristica. In definitiva la sottocapitalizzazione e le difficoltà di
copertura del fabbisogno finanziario generato dalla gestione caratteristica
d’impresa con fonti di finanziamento adeguate, si traducono in una
depressione della stessa area gestionale (detta “economico caratteristica”);
se si tiene poi presente che quel risultato (detto “operativo”) rappresenta il
primo (e consistente) contributo alla costruzione del risultato netto è facile
chiudere il circolo vizioso che si è innescato tra dinamica finanziaria ed
economica. D’altra parte la gestione economica (caratteristica) condiziona
profondamente la gestione finanziaria proprio attraverso il processo di
autofinanziamento: in via diretta il casch flow prodotto, genera risorse e
quindi fonti di finanziamento tenendo in questo modo a dare compimento al
ciclo economico-finanzario78.
Sempre in linea teorica, rispetto ad una comparabile impresa capitalistica, la
“nostra” impresa cooperativa dovrebbe mostrare, progressivamente, degli
indicatori di redditività operativa e netta tendenzialmente più bassi79.
Astraendo per il momento dalla capacità segnaletica degli “usuali” indici di
bilancio (della quale si tratterà nel prossimo capitolo), per quanto riguarda
gli aspetti reddituali dell’impresa cooperativa, è anche possibile che il
78
La gestione finanziaria apporta in via strumentale i capitali per consentire le operazioni di
gestione, le quali fanno sorgere ricavi e costi e generano entrate e uscite che consentono, in
situazioni di equilibrio dinamico, la ripetizione del ciclo tipico di acquisto-produzione-vendita e
che consentono altresì il pagamento del servizio di credito inizialmente concesso dai finanziatori
(Zan, 1990, p.138).
79
In the traditional model of a cooperative as a firm with zero-profit objective, prices and charges
are adjusted so that no surplus is generated. Zero profit, while highly undesirable for IOFs,
should not be particularly harmful to cooperatives: the members of a zero-profit cooperative
may still be receiving their payoff in the form of higher product prices or lower costs (Lerman e
Parliament, 1992).
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circolo vizioso possa trovare origine, diversamente da quanto illustrato
sopra, proprio nell’ambito della gestione caratteristica d’impresa. Questo
fatto denoterebbe comunque l’incapacità dell’impresa di far fronte alle
sollecitazioni
provenienti
dall’area
della
gestione
caratteristica
(ristabilendone la capacita di generare reddito operativo) mediante il ricorso
a capitale di rischio o comunque attraverso fonti di finanziamento adeguate
sotto il profilo Quanti-qualitativo (Porcheddu, 2001, p.165).
6. La produttività dei fattori capitale e lavoro nelle imprese di
trasformazione sarde
Un tema assai diffuso nella letteratura sui modelli istituzionali d’impresa è
quello relativo agli effetti, sulla produttività del lavoro, derivanti dalla
partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali d’impresa, alla
condivisione dei profitti e alla proprietà (collettiva o individuale) del
capitale d’impresa (Bonin, Jones e Putterman, 1993, p.1302 et passim).
In tale contesto emerge in piena luce il problema dell’efficienza-X delle
cooperative, cioè il problema di estrarre dai fattori produttivi il livello
efficiente di sforzo che condiziona la possibilità stessa delle cooperative di
reggere la concorrenza delle imprese capitalistiche (Cugno e Ferrero, 1991,
p.191).
La natura di tali effetti è peraltro controversa, innanzitutto nel dibattito
teorico e poi, ancora una volta, essa non emerge univocamente dai numerosi
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
lavori empirici sull’argomento (per una rassegna e per una esposizione dei
problemi di tipo metodologico che possono distorcere i confronti di
produttività cfr. Bonin, Jones e Putterman, 1993, p.1305-6).
Di particolare interesse sono i contributi teorici volti ad individuare schemi
di incentivi che consentono di ottenere livelli di sforzo ottimali dal fattore
lavoro, sia nelle condizioni di perfetta osservabilità dello stesso, che nei casi
di più o meno accentuata asimmetria informativa tra agenti. Per quanto
riguarda i primi sono stati anticipati da Sen (1966) e sviluppati da una serie
di autori (Israelsen, 1980, Ireland e Law, 1981; Chinn, 1980; Cremer, 1982;
Browning, 1982; Putterman, 1981, 1987; ecc., cit. in Cugno e Ferrero,
1990). Questi hanno individuato delle soluzioni quando lo sforzo sia
osservabile, tutte potenzialmente adottabili, incluse in uno spettro ai cui
estremi vi sono la distribuzione per testa80, indipendentemente da lavoro
eventualmente fornito, e la distribuzione in base al lavoro fornito81. La
seconda micro-letteratura, relativa al problema del free rider in condizione
di sforzo non osservabile, è stata sviluppata, come continuazione diretta del
lavoro di Alchian e Demsetz (197282) nella forma di una teoria dei contratti
80
Nel caso in cui, si assegni a ciascun membro un n-esimo del prodotto totale tale regola si
rileverà inefficiente per carenza di offerta di lavoro. La ragione di questa inefficienza sta nel
fatto che la regola ugualitaria (o qualsiasi altra regola arbitraria ) implica una forte esternalità: se
un membro del team riduce lo sforzo godrà interamente del beneficio della minore disutilità,
mentre il costo (la riduzione del prodotto) ricadrà su di tutti. (Cugno e Ferrero, 1991, p.196 ).
81
Tale soluzione sarà efficiente solo nel caso in cui la produttività media del lavoro è uguale alla
produttività marginale, cioè nel caso speciale di rendimenti costanti. Nel caso in cui invece la
produttività media sarà maggiore della produttività marginale la soluzione sarà inefficiente per
eccesso di offerta di lavoro; in questo caso la regola di distribuzione naturale si rileva troppo
incentivante per tutti i membri e tende a generare una situazione tipo “corsa dei topi” (Cugno e
Ferrero, 1991, p.195 et passim).
82
A partire dagli anni Settanta, la letteratura economica si è orientata sempre di più a considerare
gli effetti di un aspetto in precedenza trascurato, quale l’esistenza di asimmetrie informative,
ovvero di situazioni nelle quali gli agenti operanti sul mercato sono dotati di informazioni
118
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
efficienti in condizioni di moral hazard, in particolare da Holmstron e
contributi successivi. Alchian e Demsetz (1972) affrontano il problema di
stabilire la quota di produzione attribuibile ad un singolo individuo
nell’ambito di un gruppo di lavoro (la squadra). Nella produzione di
squadra, che caratterizza l’impresa, ciascuno contribuisce al risultato del
team, ma non è possibile sapere fino a che punto ogni singolo ha
effettivamente contribuito, e compensarlo di conseguenza. Se il team fosse
composto da soggetti il cui obiettivo si identificasse con quello del team
inteso come unità, vi sarebbero solo problemi di coordinamento dei singoli
soggetti. Questa identità d’intenti (ipotesi solistica) è tuttavia un caso
particolare e assai raro. È più realistica e generale la situazione per cui i
soggetti, proprietari dell’input e titolare perseguano l’obiettivo di
massimizzazione della propria utilità soggettiva. In questa situazione ogni
lavoratore
può
“fare
il
furbo”
(free
riding),
ossia
comportarsi
opportunisticamente, godendo di una quota del prodotto della “squadra”
superiore al suo contributo marginale alla produzione della squadra stessa
(Grillo e Silva, 1989). Una risposta a questo problema è rappresentata dal
monitoraggio, ricorrere ad un responsabile, cioè un individuo che misuri la
produttività individuale e dia a ciascun lavoratore una quota del prodotto
corrispondente cosi da impedire il comportamento del free rider. Ma sorge a
questo punto un problema ulteriore: chi controlla il controllore? Se il
differenti, e lo scambio diretto di tali informazioni non è possibile o credibile, vuoi per la non
verificabilità delle informazioni stesse, vuoi perché può esistere un incentivo a mentire, ovvero a
manipolare in senso strategico le informazioni trasmesse da agente ad agente (Faccioli e Scarpa,
1998, p.65).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
“monitor” venisse retribuito con uno stipendio fisso, indipendente dalle sue
prestazioni, avrebbe anch’egli un incentivo allo shirking, cioè a non fare il
suo lavoro in modo efficiente (Cugno, Ferrero p.190). Secondo Alchian e
Demsetz, l’unico modo di incentivare il monitor è quello di attribuirli la
piena proprietà del residuo: con ciò egli sarà indotto ad attribuire a ciascun
lavoratore una remunerazione uguale alla sua produttività marginale
(mentre ciascun lavoratore offrirà lavoro fino ad eguagliare la disutilità
marginale alla remunerazione) massimizzando cosi il profitto. Tale
problema rientra tipicamente nella classe dei problemi di Moral Hazard, che
si hanno quando l’esistenza di un certo contratto o regola distributiva
induce il soggetto, le cui attività non sono completamente osservabili, a
modificare il proprio comportamento in senso opportunistico. Holmstrom
(1982) riprende il lavoro di Alchian e Demsetz, analizzando il problema del
free rider in condizioni di sforzo non osservabile, attraverso dei contratti
che prevedono un principale a cui alienare il prodotto in caso di esito
subottimale. Questo implica che il reddito di ciascun membro del team
sarebbe zero se lo sforzo erogato cade al di sotto del livello Paretoefficiente. Attraverso una penalità di gruppo si cerca di disciplinare il
comportamento individuale. L’efficacia del meccanismo consiste nel fatto
che esso vanifica la protezione di cui gode ogni individuo per il fatto di
potersi nascondere nel gruppo: se la penalità colpisce tutti indistintamente,
essa colpirà anche il potenziale free rider, agendo cosi da deterrente. Per
applicare tale regola occorre, appunto, un principale esterno al gruppo che
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decida e amministri l’applicazione della penalità se necessario (cfr. Cugno,
Ferrero, 1990, p.206-218).
Comunque, al di là degli schemi di incentivazione (di tipo monetario) in
grado di assicurare livelli di produttività del lavoro ottimali (e che possono
prevedere l’intervento di supervisori), si tende sempre più spesso a far
riferimento all’operare nelle imprese cooperative, di forme di controllo tra
lavoratori di tipo “orizzontale” (in alternativa almeno parzialmente a
controlli di tipo “gerarchico”, assai onerosi)83 (Russel, 1985). Queste forme
di controllo orizzontale tendenti “naturaliter” a prevenire riprovevoli
comportamenti
opportunistici
da
parte
dei
lavoratori,
troverebbe
giustificazione nell’elevato grado di identificazione dei lavoratori soci con
gli obiettivi e l’esistenza dell’impresa in cui lavorano (Porcheddu, 2004,
p.61). Infatti qualora esistano particolari condizioni storiche e culturali che
hanno consolidato in un certo ambiente un etica della cooperazione e questa
stessa etica è condivisa dai soci, essa sostituisce il soggetto esterno o lo
aiuta a ottenere il rispetto degli impegni. In altri termini la propensione a
cooperare, in qualche modo incorporata nei soggetti economici, genera la
cooperativa in senso proprio, ossia un tipo d’impresa nella quale la presenza
di un soggetto esterno è secondaria o inutile e quindi l’efficienza è
naturalmente garantita (Grillo e Silva, 1989, p.395). Le cooperative, quindi,
83
Il controllo orizontale è ripreso anche in Bonin et al.(1993, p.1303): “(…) participation in
decision making, profit sharing, and an absence af hierarchical relationships are hypothesized to
convert the antagonistic labor relations characteristic of many conventional workplaces into
environments market by cooperative problem solving and informal policing of high-effort
equilibria through social pressures and sanctions. In these situations horizontal monitoring may
actually be technologically advantageous”.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
possono fare proprio di questo un loro punto di forza puntando sullo
sviluppo di una cultura d’impresa84 differente, maggiormente legata ad
incentivi non unicamente di carattere monetario ma connessi anche ad uno
“spirito di gruppo” che affonda le proprie radici nelle stesse ragioni
fondamentali delle cooperative85 (Faccioli e Scarpa, 1998, p.71).
Il controllo
di tipo
orizzontale,
oltre
a
richiedere
un
numero
significativamente inferiore di supervisori, appare assai efficace nella
misura in cui la condivisione della medesima esperienza di lavoro porta
ciascun lavoratore ad apprezzare, sicuramente meglio di quanto non possa
fare un “supervisore” esterno, il contributo degli altri lavoratori all’attività
d’impresa 86.
La letteratura economica mostra, tuttavia, che l’intensità di queste forme di
controllo tende ad affievolirsi al crescere della dimensione della base
associativa, rendendo più efficienti forme di controllo di tipo gerarchico87
(Alchiam e Demsetz, 1972; Wiliamson, 1980), anche se un recente modello
84
Milgron e Roberts (1992, p.597) definiscono la “corporate culture” come un insieme di beliefs e
valori, di precedenti, aspettative, storie, routine operative e procedure condivisi da chi opera in
un impresa, i quali aiutano a definire il modo di operare di quell’impresa e servono come guida
di comportamento per chi lavora nell’impresa. Questi autori riconoscono ripetutamente come la
cultura d’impresa costituisca una componente fondamentale della definizione di un
organizzazione e del suo modo di essere presente sul mercato (Fiorentini, 1998, p.71).
85
Lo “spirito di gruppo” può portare “(…) gli individui ad assicurare, quando le circostanze lo
richiedono, livelli di sforzo superiori a quelli esplicitamente contrattati (o contrattabili) e
generare la cosiddetta X-efficienza di Leinbenstein in quanto i vari soggetti che compongono
l’impresa ne interiorizzano le finalità identificandosi almeno in parte con esse; e se ciò accade
gli effetti sulla produttività possono essere notevoli” (Sacco, 1998).
86
Chillemi (1998, p.98) affianca ai benefici derivanti da forme di controllo orizzontale anche gli
effetti del “(…) migliore passaggio di informazioni, grazie al controllo partecipativo”. Inoltre il
controllo gerarchico comporterebbe per molti lavoratori dei costi psicologici (psychic costs)
(Williamson, 1975) che sono stati trascurati nella originaria riflessione di Alchian e Demszetz
(1972).
87
Infatti maggiore è la dimensione, minore sarà il legame tra l’individuo e l’impresa, e il senso di
responsabilità individuale verso i problemi dell’impresa (elemento essenziale e fondamentale
della cultura d’impresa delle cooperative) rischia di essere diluito all’interno di un
organizzazione troppo anonima (Fiorentini, 1998, p.74).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
(Bai e Xu, 1996) evidenzia come gli incentivi allo sforzo nelle imprese
cooperative, continuino a risultare più intensi, rispetto ad una comparabile
impresa capitalistica, anche per dimensioni d’impresa consistenti88.
Una prima ipotesi da testare potrebbe essere quindi la seguente: le imprese
cooperative (nelle quali i lavoratori sono anche soci ) dovrebbero mostrare
valori tendenzialmente più elevati degli indicatori di produttività del lavoro,
rispetto a comparabili imprese capitalistiche, proprio in virtù della maggiore
capacità di controllare i comportamenti opportunistici dei lavoratori, sempre
che nel particolare contesto settoriale, entro il quale il confronto è istituito,
si rilevino difficoltà ad implementare efficacemente forme di controllo
“gerarchico” per via della imperfetta osservabilità del contributo dei
lavoratori all’attività d’impresa (cfr. Faccioli e Scarpa, 1998, p.73) 89.
In linea di principio, l’osservazione di alcuni indicatori di produttività del
lavoro significativamente maggiori per l’impresa cooperativa, potrebbe
anche andare a sostegno di uno dei teoremi cui perviene Ward (1958) nel
suo pionieristico contributo, per il quale le imprese cooperative
tenderebbero ad impiegare con minore intensità il fattore lavoro, rispetto ad
88
Cosi si esprimono Bay e Xu a conclusione del loro lavoro sugli incentivi allo sforzo “In fact, our
results do not depend on the size of the firm. This is in sharp contrast to some economists have
suggested (e.g. Alchian and Demsetz, 1972). The comparison between the two types of firms
depend rather on parameters such as human capital specificity, productivity uncertainty,
monitoring cost etc.”
89
Con riferimento al contesto italiano Bartlett et al. (1992 pp.114-115) hanno effettuato l’analisi di
un campione d’imprese formato da imprese for profit e cooperative operanti nell’Italia centrosettentrionale i valori relativi all’efficienza (misurata dal rapporto valore aggiunto per
dipendente) hanno registrano effettivamente una produttività del lavoro superiore per le
cooperative rispetto a comparabili imprese capitalistiche.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
una comparabile impresa capitalistica (Porcheddu, 2004, p.62) sotto le
ipotesi di:
• Profitto positivo per l’impresa capitalistica
• Produttività del lavoro decrescente
• Massimizzazione della funzione obiettivo “dividendo”
Passando poi a considerare quanto detto nel paragrafo dedicato alla struttura
finanziaria e ricordando i contributi in tema di sottocapitalizzazione e
razionamento sul mercato del credito, fenomeni di cui soffrirebbero le
imprese cooperative, è possibile formulare un ulteriore ipotesi da testare: le
imprese cooperative (sotto l’ipotesi di produttività marginale, e quindi
media, del fattore capitale decrescente) dovrebbero mostrare dei valori degli
indicatori della produttività del capitale tendenzialmente superiori rispetto
ad una comparabile impresa capitalistica.
I richiami teorici effettuati fino a questo momento, tuttavia, si riferiscono ad
imprese cooperative nelle quali i lavoratori sono anche soci. Nella realtà
settoriale che stiamo considerando, le imprese di tipo capitalistico (a
conduzione familiare) vengono confrontate con imprese cooperative di
trasformazione nelle quali il lavoratore non è quasi mai socio (e quindi
pastore o allevatore)90. Questo dato emerge chiaramente dai questionari
90
C’è da chiedersi comunque, con riferimento al particolare contesto settoriale e sociale che
stiamo considerando (la trasformazione del latte ovino in Sardegna), se la “coincidenza” tra
lavoratore e socio in capo alla stessa persona possa determinare comunque i suoi effetti positivi
in termini di produttività, per via di controlli di tipo orizzontale di cui si diceva. Il contributo
della letteratura antropologica fornisce all’economia diversi argomenti per rispondere
negativamente, almeno nel settore in questione in Sardegna. Vargas-Cetina (1993, pp.356-357),
fa riferimento ad un diffuso clima di omertà tra allevatori-soci che porterebbe a celare
comportamenti non conformi alle regole (della comunità, delle cooperativa ecc.). è probabile,
quindi, che anche comportamenti opportunistici di shirking, sul posto di lavoro in caseificio,
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
compilati dalle imprese casearie sarde, nel lavoro effettuato dal professore
Porcheddu (2001), ma è anche un aspetto ormai consolidato storicamente,
infatti, già Le Lannou (1941, p.298 dell’edizione del 1979) osservava che la
produzione del pecorino romano avveniva sotto la direzione di : “(…) un
capo operaio, sempre continentale, (…) aiutato da quattro o cinque operai
indigeni, che ridiventavano giornalieri agricoli durante i mesi morti”.
Questo aspetto fa pensare che, molto probabilmente, quelle forme di
controllo di tipo orizzontale di cui si trattava sopra, non sono operanti
all’interno delle cooperative casearie sarde e che, similmente alle imprese di
tipo capitalistico, operino esclusivamente controlli di tipo gerarchico da
parte della tecnostruttura, con problemi di moral hazard che affliggono sia i
rapporti tra
tecnostruttura
lavoratori-dipendenti e
e
consiglio
di
tecnostruttura,
amministrazione
che
della
quelli tra
cooperativa,
probabilmente attenuati solamente dalla relativa facilità con la quale è
misurabile l’apporto del singolo lavoratore all’attività di impresa e dalle
dimensioni, generalmente contenute, dei team di lavoratori impiegati nelle
cooperative casearie sarde (Alchian e Demsetz, 1972).
Esisterebbe, a ben vedere, un'ulteriore relazione principale-agente da non
trascurare: quella tra base sociale della cooperativa (composta da allevatori)
e consiglio di amministrazione (quando come nella gran parte delle
esperienze di cooperazione casearia in Sardegna, quest’ultimo assume le
potrebbero ricadere nella “sfera di omertà” di cui si parlava, neutralizzando in tutto o in parte i
possibili effetti positivi in termini di produttività del fattore lavoro all’interno della cooperative
casearie sarde (Porcheddu, 2004, p.63).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
funzioni di management dell’impresa) (Porcheddu, 2004). Nell’ambito di
tale relazione, data l’assenza di un market for corporate control (Nilson,
2001, p.336; Hendrikse e Veerman, 2001; Hansmann,1999,p.397)91, almeno
nel contesto che stiamo considerando, è assai probabile che gli allevatori
(principals) percepiscano la remunerazione della materia prima come
indicatore della performance gestionale del gruppo dirigente (agents) di
volta in volta al potere92. Tale percezione, in realtà, si fonda su un
parametro tanto facilmente osservabile quanto, spesso, fuori dal controllo
della singola cooperativa93. Infatti la remunerazione del latte è funzione sia
dell’efficienza mostrata dalla cooperativa in fase di trasformazione e di
commercializzazione, che dell’andamento sui mercati delle produzioni
casearie ovine (in specie del formaggio Pecorino romano).
Tale dato osservato (la remunerazione conseguita) sarà tuttavia confrontato
con quanto ottenuto dagli allevatori che hanno versato il latte a favore di
imprese capitalistiche, ma anche con i risultati ottenuti dagli allevatori di
bacini latte limitrofi che conferiscono la materia prima presso altre
cooperative casearie; il confronto tra le differenti remunerazioni può essere,
da una parte, influenzato dalle strategie a breve termine delle singole realtà
91
Mazzoli e Rocchi (1996,p.26), tuttavia, partendo dalla scarsa rilevanza in Italia di tali
meccanismi esterni di regolazione dell’efficienza di impresa, sottolineano, da questo punto di
vista, l’assenza per le imprese ccoperative italiane, di “(…) effettivi svantaggi comparati rispetto
alle imprese di tipo “capitalistico”.
92
Secondo la nota tassonomia di Hansmann (1996,1999), i costi di monitoraggio degli
amministratori da parte degli allevatori-soci (apportatori dell’inputs specifico che assicura la
titolarità, seppure imperfetta, dell’impresa) rientrano nella famiglia dei cosiddetti costs of
ownership.
93
Nilsson (1996), citando Boettcher (1980), sottolinea che il controllo degli amministratori e
manager da parte della base sociale è affetto da problemi informativi, motivazionali e
organizzativi.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
produttive (talvolta configuranti vere e proprie strategie di predatory
pricing, dall’altra può risentire di forme di reticenza da parte dei singoli
allevatori, con possibili distorsioni delle decisioni di conferimento
conseguenti (Porcheddu, 2004, p.65).
I richiami teorici che stanno alla base della seconda ipotesi (relativa ad una
maggiore produttività del fattore capitale nelle imprese cooperative),
invece, ci appaiono in linea di principio pertinenti anche con riferimento ad
imprese del tipo appena illustrato94.
94
L’indagine empirica condotta in Italia da Bartlett et al.(1992, p.114-115) evidenzia
effettivamente una produttività del capitale superiore per le imprese cooperative rispetto a
comparabili imprese capitalistiche.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Capitolo 3
III. Metodologia del lavoro
1. La costruzione del campione
L’industria casearia è tradizionalmente un punto di forza dell’economia
sarda95. Numerose sono nel settore (come si è riscontrato nel primo
capitolo), le imprese gestite in forma cooperativa96. Scopo di questo
capitolo è introdurre la metodologia con la quale verranno analizzate,
attraverso un confronto tra i rispettivi bilanci riclassificati, alcune differenze
strutturali tra le due forme istituzionali d’impresa97 operanti nel settore
caseario in Sardegna e cioè imprese cooperative da una parte e imprese
“for profit” dall’altra, alla luce delle ipotesi interpretative (analizzate nel
95
L’intera filiera lattiero-casearia è stata definita anche di recente come la più importante filiera
lattiero-casearia regionale di ruminanti di piccola taglia a livello mondiale (Dubeuf, 1998, cit. in
Porcheddu 2004).
96
Al contrario a livello nazionale le imprese cooperative rappresentano nel settore caseario solo il
6,8% delle imprese e il 7,5% degli addetti (Agrisole, 19-25 luglio 2002).
97
Per forme istituzionali d’impresa si intendono i vari modi in cui da un lato sono regolati i
rapporti tra chi dirige l’impresa, il titolare, e chi offre all’impresa gli inputs necessari per la
produzione, e dall’altro è regolata la distribuzione dei profitti tra i proprietari degli inputs
(Grillo, Silva, 1994).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
precedente
capitolo)
sviluppate
nell’ambito
dell’analisi
teorica
dell’organizzazione .
In particolare, nel contesto settoriale che stiamo considerando, la natura
delle imprese poste a confronto è quella, rispettivamente di cooperative di
trasformazione e imprese capitalistiche di trasformazione a conduzione
familiare.
Il comparto della trasformazione del latte ovino in Sardegna attualmente è
composto da 130 imprese di trasformazione di cui 43 sono cooperative di
trasformazione e circa 90, invece, sono di tipo capitalistico (Porcheddu,
2004). Questi dati non considerano, peraltro, un certo numero di imprese
individuali, abbastanza trascurabili sul piano della quantità di formaggio
annualmente prodotte. Dal computo sono escluse alcune imprese pastorali
di produzione che evidenziano un integrazione a valle lungo la filiera e che
sono impegnate esclusivamente nella produzione di formaggio pecorino del
tipo Fiore sardo secondo un modello tradizionale di produzione artigianale98
(Benedetto e al., 1995, pp.26-27). Quest’ultimo tipo di imprese non
contribuisce, comunque, in misura superiore al 3-4% alla produzione
casearia regionale, espressa in quantità (Nuvoli e al., 1999).
L’indagine è stata condotta su due campioni casuali di 24 imprese
complessivamente; di cui 12 estratte dal totale delle cooperative e 12,
98
In passato, invece, negli ovili si lavoravano ingenti quantitativi di materia prima (come è stato
osservato nel primo capitolo). Recentemente ai fini di rilanciare la produzione casearia
artigianale, si è avanzata da più parti la proposta di incentivare l’acquisizione aziendale di
piccoli impianti di caseificazione. Tra i presupposti da cui tale proposta scaturisce vi è
l’interesse a decentrare una apprezzabile quota della produzione casearia presso le aziende
pastorali nel tentativo di sfuggire ai vincoli imposti dalla vigente normativa in materia igienico
sanitaria (Idda, 1995).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
invece, dall’universo delle imprese di tipo capitalistico; ottenuti attraverso
un operazione di estrazione senza ripetizione.
Per quanto concerne l’ubicazione geografica delle imprese osservate,
occorre precisare che esse sono sparse sul tutto il territorio sardo. Più in
dettaglio, 6 imprese sono ubicate nella provincia di Cagliari (di cui 2
cooperative), 2 nella provincia di Oristano (di cui 1 cooperativa), 5 nella
provincia di Nuoro (di cui 3 cooperative) e 11 nella provincia di Sassari (di
cui 6 cooperative).
2. La banca dati
Una volta individuate, si è provveduto a costruire una banca dati a partire
dai bilanci dei due campioni d’imprese, relativi agli anni 2000, 2001, 2002,
contenente la valutazione di una pluralità di indici di bilancio inseriti in un
sistema99 che è stato utilizzato da un recente studio empirico effettuato da
Porcheddu (2001) inerente agli anni 1994, 1995, 1996 con il quale verranno
comparati i risultati ottenuti.
L’analisi degli indici è stata realizzata attraverso la riclassificazione dello
stato patrimoniale e del conto economico avvalendosi dei bilanci, della nota
integrativa e, ove possibile, della relazione sulla gestione.
99
Il sistema degli indici adottato in questo lavoro è stato desunto, con alcune differenze, da un
recente studio empirico di Fiorentini (1998) riferito ad imprese operanti nell’agro-alimentare.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Il processo di riclassificazione dei dati dello stato patrimoniale è volto a
fornire un adeguata rappresentazione degli impieghi e delle fonti di capitale
in essere alla chiusura dell’esercizio.
Le attività sono infatti riordinate in modo da esprimere il capitale investito
alla data del bilancio, corrispondente ai fondi liquidi a disposizione e agli
investimenti in attesa di realizzo (diretto o indiretto) (Paganelli, 1991).
In rapporto al diverso grado di realizzabilità delle poste dell’attivo, ossia
alla varia attitudine dei componenti il patrimonio netto a trasformarsi in
numerario nell’esercizio successivo od oltre, il capitale investito si suole
distinguere ulteriormente in (Melis, 1989):
• Attivo immobilizzato, comprendente gli investimenti a lungo rigiro,
realizzabili cioè in un periodo superiore all’anno, relativi alle
immobilizzazioni materiali immateriali e finanziarie, al netto delle
poste di rettifica (fondi di ammortamento e di svalutazione) e
comprensive di eventuali anticipazioni ai fornitori per l’acquisizione
dei cespiti.
• Attivo a breve o corrente, comprendente le liquidità immediate, le
liquidità differite e le disponibilità non liquide (riferite agli impieghi
connessi con le rimanenze finali di magazzino in senso lato al netto
degli eventuali fondi di svalutazione)100.
100
Si fa riferimento alle rimanenze di magazzino in senso lato per intendere oltre alle giacenze di
materie, di prodotti finiti, merci e alle produzioni in corso di realizzazione, i crediti per la
anticipazioni sulle forniture ed i risconti attivi. Questi ultimi esprimono nella sostanza “una
scorta di servizi gia acquisiti e disponibili per l’utilizzazione futura” (Caramiello, 1993 pag.53).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Le passività ed il capitale netto sono per contro riordinate in modo da
esprimere il capitale acquisito alla data del bilancio, corrispondente ai
finanziamenti attinti (diretti e indiretti) in attesa di rimborso (Paganelli,
1991).
Le fonti di finanziamento, quindi, vengono ripartite secondo il diverso
grado di esigibilità, ossia facendo riferimento al tempo di presumibile
estinzione in:
• Capitale netto comprendente il capitale sociale, le riserve di capitale,
i contributi a fondo perduto (che nelle cooperative casearie
assumono un valore significativo) e le riserve di utili.
• Passivo consolidato o anche capitale permanente, comprendente i
debiti da rimborsare dopo un periodo di tempo superiore
all’esercizio, e i fondi di accantonamento per oneri la cui
manifestazione si presume in tempo non breve.
• Passivo a breve o corrente, relativo alle passività da estinguere entro
l’esercizio successivo.
Nel riclassificare i bilanci del campione delle imprese cooperative occorre
precisare che l’analisi di bilancio applicata a questa tipologia ha presentato
una serie di peculiarità rispetto all’analisi di una generica impresa
industriale, in quanto nella propria gestione la società cooperativa riflette un
rapporto privilegiato con la compagine sociale. In particolare nello stato
patrimoniale, i conti che riflettono la specificità dell’impresa cooperativa
possono essere individuati da una parte nei conti accesi ai debiti e ai crediti
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
sorti con l’economie dei soci a titolo finanziario e commerciale, dall’altra in
quelli che esprimono i rapporti con altre strutture consortili con cui si
sviluppano strategie di integrazione o collaborazione gestionale (Campra,
1990). È possibile quindi individuare, nelle relazioni con l’ambiente
esterno, due livelli: il primo privilegiato, riguarda l’universo dei rapporti
con la base sociale, con altri enti cooperativi, o con enti cooperativi di grado
superiore (consorzi); il secondo riguarda rapporti che l’ente cooperativo
intrattiene con l’ambiente esterno in generale (fornitori non soci,
dipendenti, ecc.).
In particolare, nell’analizzare i bilanci delle cooperative del campione, sono
stati individuati diversi conti tipici dalla cui analisi derivano importanti
informazioni:
• Fondi contributo in conto capitale: tale conto esprime l’ammontare
dei contributi ottenuti; va riclassificato tra le poste del capitale
proprio.
• Debiti verso soci (dilazione pagamenti): rappresenta il debito
relativo ai conferimenti. Il sistema di pagamento dei conferimenti
interno alle cooperative prevede l’erogazione (solitamente mensile)
di un anticipo sui conferimenti. A fine anno viene poi calcolato il
conguaglio in base all’andamento della gestione. Va riclassificato,
tendenzialmente, tra le passività a breve. Tale rapporto fra il socio
conferente la materia prima e la cooperativa agro-idustriale si
sostanzia, quindi in un sostegno finanziario indiretto legato al
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
differimento del pagamento della materia prima tanto maggiore
quanto più viene dilazionato tale pagamento.
• Debiti v/soci prestito sociale (o soci c/apporti o finanziamento soci):
rappresenta il debito della cooperativa nei confronti dei soci per i
versamenti da questi effettuati in modo diretto cioè attraverso
versamenti di denaro, o in modo indiretto, cioè attraverso trattenute,
effettuate dalla cooperativa in accordo con il socio, sul pagamento
del saldo relativo alle materie prime conferite. Tali prestiti hanno lo
scopo (come si è visto nel secondo capitolo) di finanziare l’attività
della cooperativa, di solito hanno scadenza medio o lunga e possono
essere fruttiferi oppure infruttiferi (Campra, Cantino, 1990).
Sull’attitudine dello stato patrimoniale opportunamente riclassificato allo
scopo di esprimere le quantità ora menzionate sono state formulate alcune
riserve. È chiaro che lo stato patrimoniale riclassificato può offrire una
rappresentazione efficace degli impieghi e delle fonti di capitale nei limiti
in cui il bilancio da cui è tratto risponde ai requisiti di trasparenza,
attendibilità e sia stato composto secondo i corretti principi contabili
(Paganelli 1991).
Per quanto riguarda, invece, la riclassificazione del conto economico, la
letteratura consente l’utilizzo di numerosi schemi, tutti accomunati dal
ricorso alla forma a scalare che consente di evidenziare i risultati intermedi
delle diverse aree di gestione, distinte a loro volta in:
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
• Area della gestione caratteristica, il cui risultato intermedio è il
reddito operativo;
• Area della gestione finanziaria;
• Area della gestione extracaratteristica;
• Area della gestione straordinaria.
Sottraendo i risultati delle diverse aree gestionali dal reddito operativo, si
ottiene il risultato lordo, da cui, sottratti gli oneri tributari si ottiene l’utile
netto.
Il conto economico delle imprese di trasformazione è stato riclassificato
nella versione “a costi e ricavi della produzione ottenuta”. In esso vengono
identificati più risultati intermedi, frutto di successive sottrazioni di valori.
In
proposito si conoscono due procedimenti fondamentali, basati
rispettivamente sulla distinzione:
• Fra costi interni e costi esterni
• Fra costi variabili e costi costanti
Per l’analisi dei campioni si è utilizzato il primo procedimento, con il quale
i costi relativi all’area caratteristica sono riclassificati in base alla posizione
funzionale dei fattori produttivi (fattori interni e fattori esterni). Sono
considerati fattori interni tutti i fattori strutturali nonché i fattori correnti
relativi al lavoro del personale dipendente. Sono considerati fattori esterni
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
tutti i fattori correnti di esercizio, anticipati e posticipati, fatta eccezione,
ovviamente, per quelli relativi al lavoro del personale dipendente101.
Sottraendo dai ricavi il blocco dei costi esterni si ottiene un risultato
intermedio denominato valore aggiunto; quindi si sottrae il blocco dei costi
interni pervenendo, ovviamente, al reddito operativo. Il valore aggiunto
(che nell’analisi dei campioni delle imprese è servito per il calcolo di
diversi indicatori) può essere definito come la parte del prodotto di esercizio
che, coperti i costi relativi ai fattori produttivi esterni, serve per la copertura
dei costi relativi ai fattori produttivi interni e dei successivi oneri delle altre
aree di gestione. Spesso il valore aggiunto è anche visto come l’incremento
di valore che l’azienda, con la propria struttura stabile (formata dal lavoro,
dagli impianti e dal capitale), determina, sui fattori produttivi acquisiti
all’esterno per ottenere la produzione. Quando l’incremento di valore è
percentualmente alto rispetto al prodotto di esercizio si dice che la gestione
è ad alto valore aggiunto. Nel caso contrario si dice che la gestione è a
basso valore aggiunto. La prima gestione è caratterizzata da un alta
presenza di fattori produttivi interni; la seconda gestione, di contro, è
caratterizzata da un alta presenza di fattori produttivi esterni. Fra le due
101
La distinzione è basata su di una finzione, che peraltro non manca di una sufficiente base
logica. Si suppone che nel momento dell’inizio dei cicli di produzione l’azienda abbia
predisposto le strutture tecniche, rappresentate dagli impianti; e le strutture organizzative,
rappresentate dal personale dipendente. Questi due tipi di fattori, pertanto, sono considerati
fattori preesistenti rispetto alla produzione, ovvero fattori interni (in quanto gia esistenti
“all’interno” della combinazione aziendale). I loro costi, di conseguenza, sono considerati costi
interni. Ciò posto, per iniziare i cicli di produzione l’azienda ha necessita di approvvigionarsi di
tutti gli altri fattori complementari: le materie e tutti gli altri servizi operativi. Questi due tipi di
fattori, pertanto, sono considerati fattori contestuali rispetto alla produzione, ovvero fattori
esterni. I loro costi di conseguenza sono considerati costi esterni (Caramiello, 1993, cit.
pag.268).
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gestioni, a parità di altre condizioni, la prima è più rigida (Caramiello,
1993, pag. 274).
La logica di funzionamento delle imprese cooperative si riflette con
maggiore evidenza nel contenuto del conto economico. Infatti ciò che nelle
imprese capitalistiche costituisce l’utile netto, nelle cooperative lattiero
casearie viene rappresentato nel bilancio civilistico come integrazione al
conferimento della materia prima, già sommata ai costi per materie prime,
sussidiarie e di consumo (al punto 6 dei costi di produzione), al contempo
evidenziando un utile nullo. A prescindere dallo scema del conto
economico riclassificato, occorre scindere il valore esposto al punto B6 del
conto economico civilistico in tre componenti:
• valore imputabile alle altre materie prime, sussidiarie e di consumo;
• valore imputabile alle materie prime conferite dai soci (nel nostro
caso il latte) valorizzati ai prezzi di mercato;
• valore residuo, che rappresenta l’utile della cooperativa e che, in
quanto tale, non dovrà comparire tra i costi della gestione
caratteristica, ma come integrazione al conferimento dei soci, voce
che verrà sottratta dall’utile netto.
La letteratura consente, anche, di ricorrere ad una forma di riclassificazione
del conto economico in cui il conferimento di beni per la trasformazione è
valorizzato secondo una logica residuale in cui cioè l’intero valore dei
conferimenti non compare tra i costi operativi (e quindi nell’area della
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gestione caratteristica), ma interamente dopo il risultato lordo (al netto degli
oneri tributari) (Melis, 1989).
Terminata la riclassificazione, alla luce di quanto è stato esposto nel
capitolo precedente, si è proceduto all’interpretazione dei risultati (che
verrà esposta nel successivo capitolo). Questa costituisce il momento più
importante dell’analisi. Per poter esprimere un giudizio è necessario
prendere in esame tutti gli indici che offrono informazioni segnaletiche su
quel particolare aspetto della gestione (e del settore) oggetto di indagine.
Inoltre, poiché la gestione aziendale è unitaria e i vari aspetti che la
caratterizzano sono fra di loro collegati, è sempre opportuno avere il quadro
completo di tutti gli altri quozienti elaborati. I quozienti di bilancio
compongono, infatti, un sistema generale. Questa loro connotazione ha
rilievo sia in sede di elaborazione dei dati, sia in sede di interpretazione dei
risultati.
Nel analizzare i bilanci si è provveduto ad effettuare un confronto nel
tempo (infatti il triennio analizzato per ciascuna forma istituzionale è stato
confrontato con il triennio precedentemente analizzato da Porcheddu) e
nello spazio (infatti si sono poste a confronto due forme istituzionali di
impresa), in quanto gli indici non hanno nessun significato se sono
considerati in se e per se (Caramiello, 1993): per acquisire un significato
economico-aziendale devono servire come mezzi di confronto. Soltanto
cosi,
appunto
è
possibile
giudicare
lo stato
dell’evoluzione
(o
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
dell’involuzione) di un settore, e misurare le differenze a vantaggio od a
svantaggio, tra le due forme istituzionali d’impresa.
Si consideri, inoltre, che gli strumenti a disposizione per questa fase
interpretativa variano a seconda che l’analista sia interno o esterno
all’azienda.
L’analista interno disporrà di maggiori informazioni sullo svolgimento della
gestione e potrà individuare le cause reali che spiegano sia i valori assunti
da quozienti calcolati, sia le variazioni che si verificano.
L’analista esterno potrà costruire solo deduttivamente un quadro delle
possibili variabili che incidono sul risultato dei quozienti. In questo caso
assumono particolare rilevanza le analisi extra-bilancio, che forniscono
informazioni sulle condizioni dell’ambiente esterno e che consentono
all’analista di raggiungere un livello di comprensione maggiore ed uno
stadio di interpretazione più approfondito dei dati aziendali. Infine, nel
momento della valutazione, l’analista, per offrire un giudizio delle
caratteristiche osservate che non sia solo espresso in termini tendenziali di
“miglioramento” o “peggioramento” degli indici elaborati, confronterà
questi ultimi con altri indicatori (Paoloni, 1997).
3. Gli indicatori utilizzati
Per le imprese del campione il confronto è stato effettuato calcolando gli
indicatori per ogni singola impresa, anno per anno, in seguito per ciascuna
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impresa si è provveduto a calcolare la media di ciascun indicatore relativa
agli anni 2000, 2001, 2002. I valori cosi ottenuti sono stati aggregati e per
ciascun indicatore si è provveduto a determinare la media per le imprese
cooperative di trasformazione e per le imprese capitalistiche a controllo
familiare. I valori medi degli indicatori economico-finanziari illustrano una
situazione aziendale mediamente rappresentativa di quelle operanti nel
settore, da una parte il blocco delle cooperative, dall’altra quello delle
imprese capitalistiche. Ad evidenza si tratta di un quadro strutturale e
dinamico ipotetico, in quanto non fa riferimento a nessuna impresa reale,
ma soltanto ad una rappresentazione espressiva delle situazioni mediamente
riferibili ai campioni di imprese osservati.
L’intento era quello di valutare se le differenze riscontrate tra i due
campioni fossero statisticamente significative. È utile far presente che, con
riferimento ai diversi indicatori, ignoravamo la forma funzionale della
distribuzione della variabile casuale che descrive il fenomeno, tuttavia
abbiamo assunto ragionevolmente che la forma funzionale, che descrive la
manifestazione della caratteristica di volta in volta in considerazione, fosse
la stessa per le due forme d’impresa a confronto a meno (eventualmente) di
una traslazione. Successivamente basandoci su di un test non parametrico
del tipo Mann-Withney (descritto nel paragrafo 4), abbiamo di volta in
volta testato l’ipotesi nulla che le due funzioni di distribuzione fossero
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identiche contro l’ipotesi alternativa che esse differissero soltanto riguardo
ad un indice di posizione (mediana)102.
Il sistema103 di indici di bilancio cosi costruito consente di approfondire
aspetti della struttura della situazione finanziaria, nonché degli andamenti e
risultati economici delle imprese del campione, al fine di individuare le
possibili differenze, i punti di forza e di debolezza delle due forme
istituzionali e prefigurare i possibili futuri svolgimenti gestionali. È utile
precisare che quello che interessa veramente nelle singole analisi condotte
(e nel confronto tra i due periodi “fotografati”) non sono tanto i valori medi
dei differenti indicatori (visto che la media potrebbe non essere un buon
indice di posizione delle distribuzioni statistiche-peraltro sconosciute-che
descrivono i fenomeni oggetto di studio nel capitolo) quanto la misura della
significatività statistica delle differenze riscontrate e la sua eventuale
evoluzione nei due trienni considerati.
Gli indicatori di bilancio utilizzati nell’analisi possono essere raggruppati
per aree di interesse economico, al fine di poter testare sul campo la validità
delle formulazioni presentate nel capitolo precedente. Quindi avremo:
1.
indicatori di scala
2.
indicatori finanziari
3.
indicatori di produttività
102
Nello studio di Parliament, Lerman e Fulton (1990) si era ricorsi ad un test non parametrico
equivalente (del tipo di Wilcoxon, precisamente) (Porcheddu, 2004).
103
Si parla di sistema in quanto la capacità segnaletica dei diversi indici di bilancio può essere
meglio apprezzata se gli stessi sono considerati nel loro insieme, ossia tenendo conto dei legami
che nell’unitaria gestione d’impresa si sviluppano fra i flussi monetari e finanziari ed i correlati
valori economici e patrimoniali (Melis, 1983).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
4.
indicatori di redditività
3.1.
Gli indicatori di scala
Per chiarire la rilevanza delle ipotesi di razionamento del capitale
all’interno delle imprese cooperative e quindi di un loro tendenziale
dimensionamento (come è stato congetturato nel precedente capitolo), e
opportuno iniziare l’analisi comparata dagli indicatori di scala.
Idealmente si può misurare la dimensione di un impresa in relazione al
valore attuale del complesso delle sue risorse (incluso il personale)
utilizzate a scopi produttivi. Dobbiamo riconoscere, tuttavia, che
praticamente è quasi impossibile determinare tale valore occorre, quindi,
ricorrere per i nostri fini ad altre grandezze.
In via del tutto generale le grandezze aziendali adottabili ai fini
dimensionali
possono essere suddivise
in statistiche o strutturali e
dinamiche (Paoloni, 1997, p.241).
Le prime trovano la loro collocazione contabile nella situazione
patrimoniale o comunque sono espressione della struttura assegnata
all’impresa; le seconde, invece, sono diretta espressione del grado di
utilizzo della struttura medesima ed il loro valore appare nel conto
economico. Cosi le grandezze definite statiche esprimono la nozione di
stock, quelle dinamiche, d’altra parte, la nozione di flusso104. L’operazione
di “fine tuning” relativa alla scelta della variabile più espressiva va
104
Le prime sono, evidentemente, influenzate dalle seconde e viceversa, come del resto sono a tutti
note le relazioni economico-contabili fra flussi e stocks (Catturi, 1997).
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ponderata in funzione di due ordini di considerazioni: l’affidabilità105
dell’unità di misura e la significatività106 dell’unità di misura (Volpato,
1995).
Passando ora a considerare singolarmente le variabili di uso più frequente vi
è da dire che, per quanto riguarda il fatturato, si deve notare innanzitutto
che si tratta di una grandezza flusso. Come tale essa risente in misura assai
significativa delle variazioni congiunturali dell’economia. Un problema che
può essere superato attraverso l’uso di medie mobili dei valori di fatturato
segnati in un certo numero di esercizi. Altra limitazione all’affidabilità del
fatturato può derivare dal fatto che, con riferimento alle due forme di
impresa a confronto, aziende che esprimono uno stesso ammontare di
fatturato possono trovarsi in condizioni anche molto diverse in funzione di
un diverso grado di integrazione verticale (Volpato, 1995). I fenomeni
appena ricordati, sono stati rilevati, per esempio, a carico delle cooperative
di
trasformazione
in
un
recente
studio
comparativo
riferito
all’agroalimentare italiano nel suo complesso (Fiorentini, 1998, p.102).
Per quanto riguarda il numero di addetti, può dar luogo a distorsioni
strutturali tra settori e talvolta anche nei confronti intertemporali. I settori
che utilizzano tecniche produttive caratterizzate strutturalmente da elevata
105
L’affidabilità dell’unità di misura non riguarda un giudizio sulla validità teorica della variabile,
ma piuttosto la sua concreta utilizzabilità in funzione delle modalità informative con cui si rende
effettivamente disponibile (Volpato, 1995, p.252).
106
La significatività delle unità di misura interessa la scelta della variabile “migliore”. È chiaro che
in termini generali non è possibile dire che una variabile come il fatturato o il valore aggiunto è
migliore degli addetti o del capitale investito. Solo esaminando in concreto un settore è possibile
tentare una valutazione limitata (valevole solo per quel settore e in quel particolare periodo
storico) (Volpato, 1995, p.256).
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intensità
di
capitale,
ossia
da
un
maggiore
rapporto
capitale
investito/addetti, hanno un fattore sistematico di riduzione della
dimensione, rispetto agli altri. Inoltre tendenze diffuse all’introduzione di
tecniche risparmiatrici di lavoro, come quella in atto nei paesi
industrializzati a partire dagli anni settanta, abbassano la dimensione delle
imprese e soprattutto di quelle di maggiori dimensioni. Di questo fattore
bisognerebbe tenere conto nei confronti intertemporali.
Per quanto riguarda l’utile netto si tratta di un dato di sintesi che rispecchia
tutta una serie di valutazioni prospettiche e congetturate su cui giocano
diversità di criteri contabili e differenze di impostazioni nelle politiche di
bilancio
(Volpato,
1995).
Per
tale
motivo
l’impiego
dell’indice
dimensionale “utile netto” è stato evitato in quanto le cooperative adottano
spesso la chiusura “ a pareggio” (nel senso che la remunerazione della
materia prima conferita è tale da incorporare, in aggiunta alla
remunerazione di mercato, parte dell’utile realizzato e tuttavia non
evidenziato in bilancio) (Porcheddu, 2004). Le riserve nell’impiego di
questo indicatore saranno richiamate successivamente, quando si discuterà
della significatività, per le imprese cooperative, dei consueti indicatori di
redditività.
Il valore aggiunto non è stato impiegato come valore dimensionale, infatti,
pur non risentendo del diverso grado di integrazione verticale lungo la
filiera, che sistematicamente dovesse riscontrarsi tra forme istituzionali
diverse, è ovviamente “influenzato” dalle pratiche di valorizzazione dei
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conferimenti, tenendo quindi a sottovalutare la “dimensione delle
cooperative rispetto a quelle delle imprese capitalistiche (Porcheddu, 2004).
Il capitale investito presenta il vantaggio di essere una variabile di stock, e
come tale assicura una valenza strutturale che le variabili di flusso non
offrono. A sua volta però risente di alcuni difetti. Normalmente esso viene
utilizzato nella configurazione degli investimenti fissi lordi, che tuttavia
segnalano una potenzialità produttiva teorica che può discostarsi in misura
anche rilevante da quella effettivamente utilizzata dall’impresa, per un
diverso grado di saturazione degli impianti nel tempo. A ciò si deve
aggiungere che investimenti che nominalmente denunciano pari ammontare
possono risalire a epoche diverse e quindi a livelli di produttività degli
impianti difformi da impresa a impresa107. Non si può neanche dimenticare
la tendenza, sempre più accentuata, di affittare il macchinario ad alto
contenuto tecnologico, cosicché il suo valore non appare fra gli elementi del
patrimonio aziendale.
Gli indicatori che sono stati utilizzati nel confronto tra forme istituzionali
di impresa, quindi, sono il fatturato, che è stato ricavato dalla
riclassificazione del conto economico delle imprese, e il numero medio
degli addetti. Per quanto riguarda questo indicatore è da rilevare che in
realtà si tratta di un valore “teorico”, poiché le imprese capitalistiche (ma
anche e soprattutto le cooperative) fanno ampio impiego di lavoratori a
107
In effetti il valore degli impianti e delle macchine di proprietà dell’impresa considerata, cosi
come appare dai documenti contabili di sintesi , quale, per esempio, il bilancio di esercizio, può
essere un efficace parametro dimensionale solo a parità di tecnologie impiegate. Ciò implica la
conoscenza del periodo di realizzazione di tali investimenti, qualora si voglia fare opportuni ed
efficaci confronti fra imprese pur del medesimo settore produttivo (Catturi, 1997, p.243).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
tempo determinato, data la natura marcatamente stagionale della
trasformazione del latte ovino in Sardegna, e quindi il numero dei
dipendenti, nella nostra analisi è di volta in volta il risultato di una
“conversione” del numero di lavoratori stagionali in “corrispondenti”
lavoratori a tempo indeterminato108.
3.2 Gli indicatori finanziari
La struttura finanziaria di un impresa può essere analizzata sotto diversi
profili: il grado di elasticità (o di anelasticità ) del capitale investito; il
livello di rigidità (o di elasticità ) delle fonti di finanziamento; il livello di
indebitamento dell’impresa medesima.
Gli indicatori finanziari utilizzati per il confronto sono i seguenti:
1. Il quoziente di autocopertura del capitale fisso
2. Il quoziente di copertura del magazzino
108
La conversione è stata effettuata tenendo conto del monte ore di lavoro ascrivibile agli addetti a
tempo indeterminato indicato in nota integrativa di bilancio.
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3. L’indice di struttura dell’attivo
4. L’indice di autonomia finanziaria
5. L’indice di indebitamento a medio/lungo termine
6. L’indice di indebitamento a breve termine
7. Il quoziente di consolidamento del passivo
8. L’incidenza dei contributi in conto capitale
Una prima parte dell’analisi riguarda le correlazioni esistenti fra l’attivo
fisso e le sue fonti di finanziamento. In altre parole si tratta di vedere come
viene finanziato l’attivo fisso: in quali proporzioni fra mezzi propri,
passività consolidate e passività correnti. In una gestione razionale l’attivo
fisso dovrebbe essere finanziato prevalentemente con il passivo
permanente, in caso contrario si verificherebbe un “incaglio” più o meno
accentuato, quindi più o meno pericoloso. Infatti, l’impiego nei fattori
pluriennali “rientra” con i ricavi, in un tempo superiore all’anno; se il suo
finanziamento avesse una scadenza minore l’azienda si troverebbe
nell’impossibilita di far fronte alle proprie obbligazioni109.
Spesso la dinamica economica è influenzata negativamente (come si è
potuto notare nel capitolo precedente adattando il modello di Zan) da errori
effettuati nella scelta del modo di finanziamento dell’attivo fisso: una tale
analisi risulta, pertanto, estremamente necessaria. Il quoziente di
autocopertura del capitale fisso o “net worth to fixed ratio” deriva dal
109
In questo caso si parla di Punta Finanziaria (Caramello, 1993, pag.297).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
rapporto tra il capitale proprio e le attività immobilizzate. Con esso si mira
a comprendere quanta parte dell’attivo fisso è coperta con le fonti interne
di finanziamento.
Le variabili che lo determinano sono i termini del confronto, cioè:
• il capitale proprio, come fonte di finanziamento che dimensiona
l’indipendenza della gestione dall’indebitamento;
• le immobilizzazioni come classi di investimenti che dimensiona
l’area di minore elasticità del capitale investito.
Il quoziente, infatti, varia in funzione diretta sia del grado di elasticità degli
investimenti,
sia
del
grado
di
indipendenza
della
gestione
dall’indebitamento (Ferrero, 1998).
Il quoziente di copertura del magazzino rappresenta un significativo
completamento del quoziente di copertura delle immobilizzazioni. L’indice
è definito dal rapporto:
(N+P-F)
M
In cui il numeratore rappresenta la differenza fra fonti consolidate e attività
immobilizzate (equivalente al capitale circolante netto) e il denominatore al
magazzino in accezione ampia, valori tutti risultanti dallo stato patrimoniale
riclassificato di fine periodo. L’indice cosi ottenuto esprime il grado di
copertura del magazzino mediante finanziamenti con carattere di stabilità.
Il suo campo di variabilità può essere esteso. Un suo valore pari a zero
significa che il magazzino è interamente coperto da passività a breve
termine. Un suo valore pari a uno significa invece che il magazzino è
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
interamente coperto da fonti consolidate, il significato dei valori posti
all’interno e all’esterno di questo intervallo si desume facilmente. Per
comprenderne appieno l’importanza occorre ricordare quanto già precisato
circa le richieste relazioni fra fabbisogni durevoli di capitale e fonti di
finanziamento più idonee alla loro copertura. Il magazzino costituisce
infatti la maggiore posta delle attività correnti che, rinnovandosi per
rotazione, determina di fatto un fabbisogno durevole di capitale da coprire,
il più largamente possibile, con fonti consolidate quali il capitale proprio e
l’indebitamento a medio lungo termine (Paganelli,1991).
Per analizzare la struttura generale delle fonti e degli impieghi di capitale
in essere alla chiusura dell’esercizio occorre considerare una serie di
indicatori specifici quali i rapporti di composizione110. L’analisi della
composizione del patrimonio può essere fatta in due modi:
• determinando il peso di ciascun impiego o di ciascuna fonte sul
totale,
• determinando il rapporto esistente fra un impiego ed un altro oppure
fra una fonte ed un'altra.
Per quanto riguarda gli impieghi, nella comparazione delle imprese del
campione, è stato utilizzato un quoziente strutturale composto: il quoziente
di rigidità degli impieghi dato dal rapporto tra l’attivo fisso e l’attivo
circolante. Tale rapporto può assumere un valore compreso tra zero ed
110
L’analisi che ne deriva viene considerata correttamente un analisi verticale: poiché gli indici
sono basati sul confronto fra valori appartenenti alla medesima sezione (Caramello, 1993, pag.
257).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
infinito. Si avrà valore pari a zero quando non esiste l’impiego posto al
numeratore del rapporto; si avrà valore pari ad infinito quando non esiste
l’impiego posto al denominatore. In pratica, il valore dell’indice si muove
in un campo di variabilità compreso fra zero e infinito, senza toccare quasi
mai gli estremi. Tale indice ci da un idea sul grado di rigidità della gestione
e di conseguenza, sul grado di elasticità della stessa. La tendenza alla
rigidità, ovviamente aumenta, a parità di altre condizioni, con l’aumentare
del valore del quoziente di immobilizzo.
L’elasticità è una delle condizioni che favoriscono l’equilibrio economico.
È la capacita dell’azienda di adattarsi tempestivamente ai mutamenti del
contesto ambientale, vuoi sotto l’aspetto tecnico che sotto quello
economico; tale capacità è riferita tanto agli elementi statici, ossia la
struttura, quanto a quelli dinamici, ossia i processi (Manca, 2000).
La questione, ovviamente, non finisce con la determinazione degli indici:
deve continuare con la loro interpretazione. Si tratta, cioè, di comprendere
se la rigidità (o l’elasticità) messa in evidenza dagli indici è funzionale o, al
contrario, antifunzionale. Fino ad un determinato livello, infatti, la rigidità è
necessaria e quindi rappresenta una posizione funzionale. Scendere al di
sotto di esso potrebbe significare compromettere il regolare svolgimento
della gestione, di contro oltre un determinato livello, la rigidità diventa
antifunzionale. L’abilità dell’analista consiste nel capire qual’è il punto di
passaggio dalla rigidità funzionale alla rigidità antifunzionale, in proposito
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non esistono valori standard, poiché ogni situazione presenta una propria
soluzione variabile da caso a caso e da momento a momento.
Per quanto riguarda le fonti nell’analisi sono stati utilizzati sia quozienti
strutturali semplici che quozienti strutturali composti.
Il primo indice utilizzato è l’indice di non indebitamento o, meglio, indice
di autonomia finanziaria. L’impresa attinge le risorse di cui abbisogna per
finanziare la propria gestione da due fonti principali, il capitale proprio111,
costituito dal capitale d’apporto e dall’autofinanziamento, ed il capitale di
terzi, costituito dall’indebitamento a breve, medio e lungo termine. In varia
misura
queste
due
fonti di provvista
del capitale,
strettamente
complementari, sono sempre presenti nelle gestioni concrete. Il capitale
proprio assicura autonomia finanziaria all’impresa e rappresenta uno dei
presupposti per ottenere credito. Il capitale di terzi consente di allargare le
risorse disponibili e, in date circostanze, di migliorare la redditività del
capitale proprio (Paganelli, 1991). Più l’indice di autonomia finanziaria è
alto, più la gestione è finanziariamente autonoma, cioè svincolata dai pesi
relativi all’indebitamento.
Gli altri quozienti strutturali semplici utilizzati sono l’indice di
indebitamento a medio lungo termine (Pml/Ci) e l’indice di indebitamento a
breve termine (Pb/Ci) che consentono di emettere giudizi maggiormente
111
Il capitale di rischio rappresenta una fonte stabile di finanziamento, cioè una fonte senza una
scadenza prefissata per il rimborso o, come spesso si dice una fonte perpetua. In effetti il
capitale di rischio non è destinato a rimborso, salvo i casi di una riduzione di capitale o, al
limite, della liquidazione dell’azienda (Caramello, 1993, pag.269).
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fondati sulla composizione del capitale di finanziamento e sui movimenti
dei suoi componenti.
Tra i quozienti strutturali composti, per le fonti, è stato considerato il
quoziente di consolidamento del passivo dato dal rapporto tra le passività a
medio lungo termine e le passività correnti. Questo assume valori che
variano tra zero ed infinito. Tale indice consente di capire se il grado di
indebitamento è funzionale o antifunzionale, come specularmene avveniva
nella sezione degli impieghi per ciò che riguarda l’elasticità.
Per evidenziare i consistenti finanziamenti pubblici112 di cui beneficiano le
cooperative del settore nel reperimento delle risorse finanziarie si è
provveduto a calcolare l’incidenza dei contributi in conto capitale sul
capitale netto.
3.3 Gli indicatori di produttività e intensità di impiego
dei fattori
Attraverso gli indicatori di produttività si vuole tastare se la natura
dell’impresa possa in se rappresentare un elemento di miglioramento delle
prestazioni (costi minori, o maggiore affidabilità del prodotto) alla luce
112
Per finanziamenti pubblici si intendono tutte le erogazioni di somme a vario titolo e in varie
forme che una qualsiasi istituzione pubblica nazionale o internazionale, concede sulla base di
leggi o regolamenti, a soggetti economici (nel nostro caso imprese di trasformazione lattiero
casearie) aventi i requisiti esplicitamente previsti, e che non debbono essere restituiti, salvo in
casi previsti espressamente dalle leggi (ad esempio impiego diverso dal quello per il quale era
stato erogato il contributo). I finanziamenti pubblici si possono suddividere in tre grandi gruppi:
contributi sugli interessi, contributi sulla gestione, contributi in conto capitale (che sono quelli
considerati per il calcolo di tale indice) (Pagliani, 1987).
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delle ipotesi fatte nel precedente capitolo sulle differenze che possono
sussistere tra le due forme istituzionali d’impresa considerate.
Per valutare meglio l’apporto che i fattori interni aziendali (lavoro, capitale,
impianti, ecc.) determinano con la loro capacità produttiva, si può assumere
come riferimento per il calcolo delle misure di produttività il valore
aggiunto prodotto.
Il rapporto tra valore aggiunto prodotto da un impresa e il numero dei
dipendenti occupati in media nell’impresa esprime il valore aggiunto
prodotto in media da ciascun dipendente.
Il rapporto tra valore aggiunto prodotto da un impresa e le immobilizzazioni
tecniche esprime, invece, la produttività del fattore capitale.
Inoltre è stato calcolato l’indice di rotazione del capitale investito dato dal
rapporto tra il fatturato e il capitale investito. In senso stretto tale indicatore
segnala solo il ricavo per unità di investimento113. In senso più ampio,
invece, l’indicato quoziente viene utilizzato per esprimere il tasso di
rotazione degli investimenti, ovvero come misura di un indice di ciclo
finanziario degli investimenti medesimi. In questa accezione più ampia,
l’indice segnala un ordine di grandezza che misura la mobilità degli
investimenti aziendali. Le variabili del quoziente in oggetto sono molto
complesse. Il numeratore si ricollega infatti alle variabili dei ricavi di
vendita, sintetizzabili nei prezzi e nei volumi fisici di vendita. I prezzi
113
Il ricavo medio per unità di investimento , esprime, sotto il profilo finanziario, il numero di
volte in cui il capitale mediamente investito gira o ruota nel periodo di tempo considerato, per
mezzo delle vendite, intese come espressione del volume di attività aziendale (Ferrero, 1998,
pag.189).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
possono mutare da impresa a impresa, anche nell’ambito del medesimo
settore, in relazione:
1. alla diversa gamma di prodotti
2. alle diverse politiche di sviluppo
3. alle diversificate modalità di configurazione del credito di
regolamento che possono influire sui prezzi di vendita.
I prezzi di vendita possono mutare anche nel tempo (a parità di politica
qualità della produzione venduta e di altre condizioni) col variare della
politica di vendita, della domanda e della competizione di mercato, della
diversa composizione della clientela, ecc.
I volumi fisici di vendita possono pur essi mutare non soltanto nel tempo,
ma anche da impresa a impresa nell’ambito del medesimo settore. Ciò può
accadere sia nei casi in cui le imprese stesse si differenziano tra di loro, o
nel succedersi degli anni, a motivo della diversa dimensione del capitale
investito.
Il denominatore del rapporto, rappresentato dal capitale investito, dipende
dalle politiche di investimento, che variano nell’oggetto e sono elastiche nel
tempo, poiché tengono conto di fattori stagionali e ciclo-congiunturali.
Per analizzare le differenze d’intensità nell’impiego del fattore capitale tra
le imprese cooperative di trasformazione e le imprese capitalistiche si è
utilizzato il rapporto tra le immobilizzazioni tecniche e il numero dei
dipendenti.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
3.4 Gli indicatori di redditività
Attraverso l’analisi degli indicatori di redditività si vuole analizzare
l’attitudine del capitale a produrre redditi.
Le analisi di bilancio osservano, sotto il profilo economico, la redditività
della gestione, nelle sue relazioni con la capacità remunerativa del flusso di
ricavi. Sotto questo profilo, infatti, il flusso di ricavi di competenza
dell’esercizio rappresenta il mezzo di copertura del flusso dei costi ed oneri
di varia specie ad esso contrapponibili per competenza. Il surplus che
eventualmente ne risulta, cioè il risultato positivo dell’esercizio, costituisce
la fonte di remunerazione (immediata o differita) del capitale di pieno
rischio (o patrimonio netto). Ne segue che l’eventuale quota residua di
reddito accantonabile a riserva assume il ruolo di
“fattore di
stabilizzazione” della capacità remunerativa dei ricavi di esercizio e
rappresenta il manifestarsi della condizione di “durevole permanere”
dell’impresa come fonte di reddito. Attraverso l’analisi degli indicatori di
redditività si vuole analizzare l’attitudine del capitale a produrre redditi
(Ferrero, 1998).
Il punto di partenza è costituito dal quoziente volto ad esprimere la
redditività del capitale proprio (return on equity, ROE) definito dal rapporto
tra il reddito netto d’esercizio e il capitale proprio mediamente impiegato
nel periodo. Il suo campo di variabilità è assai esteso va da zero in poi in
caso di risultato positivo mentre assume segno negativo in caso di esercizio
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
chiuso in perdita. Gli altri indicatori di redditività generale utilizzati sono
stati quelli nei quali il risultato netto veniva rapportato al valore aggiunto e
al fatturato.
Con riferimento all’analisi di bilancio delle imprese cooperative bisogna
dire che la determinazione di indici di redditività non sintetizza
efficacemente il risultato economico conseguito dai soci con la loro
partecipazione alla iniziativa sociale (Melis, 1989, p.73). Infatti l’eventuale
remunerazione dell’apporto di capitale presenta natura complementare,
spesso del tutto secondaria, rispetto alla valorizzazione del conferimento di
beni e di servizi nelle cooperative di produzione (che nel caso delle
cooperative casearie è il latte). L’analisi dell’andamento reddituale della
cooperativa deve puntare ad approfondire gli elementi che caratterizzano
l’operare secondo condizioni di economicità dell’iniziativa stessa. Nelle
cooperative di produzione l’economicità è da intendere come l’attitudine ad
ottenere, attraverso la cessione sul mercato delle produzioni allestite, ricavi
sufficienti per remunerare alle condizioni correnti i fattori di produzione
impiegati, assegnando ai conferimenti dei soci un compenso almeno non
inferiore a quello ottenibile sul mercato per beni o prestazioni similari. Il
giudizio sull’entità della remunerazione assegnata ai conferimenti è anche
influenzato dalle loro attese economiche e dalle motivazioni per l’iniziativa
cooperativa, nonché dalle esigenze di sviluppo e di consolidamento della
società. Contribuiscono, inoltre, a caratterizzare l’operare secondo
economicità i livelli di efficienza nell’utilizzo dei fattori, vale a dire i
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
rendimenti fisico-tecnici dei processi produttivi, il razionale impiego delle
risorse,
ecc..
Congiuntamente
agli
aspetti
meramente
economici,
precedentemente indicati, costituiscono condizioni indispensabili per
operare secondo economicità aspetti finanziari relativi alla capacità di
fronteggiare i fabbisogni di capitale per l’impianto e l’esercizio. La
determinazione di significativi indici sull’andamento reddituale delle
imprese cooperative deve inoltre tener conto delle particolari modalità di
funzionamento che caratterizzano le unità di produzione, nonché dei criteri
con cui sono contabilizzati e valorizzati gli scambi con i soci.
Storicamente l’impresa cooperativa nasce come modello imprenditoriale
alternativo a quello dell’impresa privata capitalistica. La finalità
dell’impresa capitalistica si identifica pressoché esclusivamente con il
conseguimento di un risultato economico misurabile per mezzo di un
qualche indicatore, ad esempio il profitto, la quota di mercato, il valore del
fatturato ecc. Nel caso dell’impresa cooperativa, le finalità propriamente
economiche sono inserite in un quadro motivazionale più complesso che
comprende anche scopi di natura sociale connessi alla promozione di un
comune interesse dei membri, la cui natura contribuisce ad identificare una
specifica tipologia organizzativa. Malgrado questa loro specificità, le
imprese cooperative si trovano spesso ad interagire e competere sul mercato
con imprese capitalistiche di tipo tradizionale. La presenza competitiva e, in
ultima analisi, la stessa sopravvivenza sul mercato richiedono quindi che,
indipendentemente dalle sue finalità sociali, la performance economica
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
dell’impresa cooperativa sia paragonabile a quella delle imprese
tradizionali114. Un indice (ROE*) della capacità dell’impresa cooperativa di
reintegrare il capitale investito è dato dal rapporto:
Rn*
k
dove Rn* comprende il risultato economico esposto in bilancio, rettificato
dalle eventuali integrazioni sui conferimenti e dai ristorni, mentre k il
capitale mediamente investito. Tale indice sintetizza la capacità
complessiva della cooperativa di generare risorse, al netto della quota a
remunerazione dell’indebitamento, in rapporto al totale degli investimenti
in essere.
Qualora si voglia rilevare il grado di integrazione verticale di un impresa in
relazione a processi di crescita per vie interne, secondo alcuni autori
occorre andare a vedere nel bilancio d’esercizio il valore delle
immobilizzazioni tecniche totali115. In altri termini, si sostiene che
l’integrazione verticale comporta sempre e comunque una crescita del
valore delle immobilizzazioni tecniche e viceversa il contrario. Purtroppo
questo indice è errato sul piano logico sia perché non necessariamente
l’integrazione
verticale
comporta
una
crescita
significativa
delle
114
Logica conseguenza di questa impostazione è che, come l’obiettivo dell’impresa capitalistica
consiste nella massimizzazione dell’utile, cosi l’obiettivo economico dell’ impresa cooperativa è
la massimizzazione del valore di trasformazione (cioè del valore del prodotto trasformato al
netto del costo di trasformazione), che misura il valore attribuito a fine esercizio, sulla base
dell’andamento della gestione, al conferimento di materia prima agricola da parte dei soci.
Come è noto questa grandezza è un aggregato economico che contiene, oltre al valore della
materia prima agricola conferita, anche il risultato della gestione cooperativa (Bùchi, 1990,
pag.19).
115
In altri termini, si sostiene che l’integrazione verticale comporta sempre e comunque una
crescita del valore delle immobilizzazioni tecniche e viceversa il contrario (Ferrucci 2000,
pag.197).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
immobilizzazioni tecniche (quando, ad esempio, l’integrazione verticale si
associa all’internalizzazione di fasi soft, quali la progettazione di prodotto ,
la loro commercializzazione, lo svolgimento di attività pubblicitarie, ecc.),
sia perché non necessariamente la crescita delle immobilizzazioni tecniche
è un sintomo di integrazione verticale (come ad esempio nei casi di crescita
orizzontale di capacità produttiva). In questi casi, si preferisce, pertanto,
ricorrere ad un altro indice, ossia quello di Adelman, dato dal rapporto tra
valore aggiunto e valore della produzione. Assumendo che la variazione
delle scorte sia nulla, è possibile semplificare il calcolo mettendo al
denominatore il valore del fatturato totale. L’indice di Adelman assume
valore tendente a zero nel caso di impresa totalmente deverticalizzata e
valore tendente a uno nel caso di impresa totalmente verticalizzata. È
evidente che variazioni di questo indice, nel corso del tempo, rilevabili
mediante analisi dei vari bilanci di esercizio, possono indicare modifiche
sostanziali nel grado di integrazione verticale. In particolare un aumento
dell’indice di Adelman sottolinea una crescita del livello di integrazione
verticale; viceversa il contrario.
4. Descrizione del test di Mann-Withney impiegato nel lavoro
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Il test di Mann-Withney116 è uno dei test non parametrici più usati (e più
potenti) per confrontare due popolazioni, tuttavia esso è meno potente dei
test “t” sulle medie, appunto poiché non richiede assunzioni circa la forma
funzionale della distribuzione della variabile casuale che descrive il
fenomeno oggetto di studio. In particolare, questo test sostituisce
frequentemente il test “t” quando il presupposto di normalità della
distribuzione non è soddisfatto e per campioni casuali di numerosità molto
ridotta. Le assunzioni sottostanti al test sono le seguenti:
1. i campioni che poniamo a confronto (x1, x2, x3,…,xn1) e (y1, y2,
y3,…yn2) di dimensioni n1 e n2 e provenienti rispettivamente dalle
popolazioni P1 e P2, devono essere casuali ed indipendenti;
2. le variabili osservate devono essere assolutamente continue;
3. le distribuzioni delle due variabili casuali X e Y sono le stesse a
meno (eventualmente) di una traslazione (in realtà il test funziona
abbastanza bene anche nel caso in cui ciò sia approssimativamente
vero).
Il sistema di ipotesi da tastare è invece il seguente: l’ipotesi nulla è H0: (m2m1)=0 dove m2 e m1 sono le mediane della distribuzione, mentre l’ipotesi
alternativa può essere, a seconda dei casi, H1: (m2-m1)≠0 (e quindi il test
sarà a due code) oppure (m2-m1)>0; (m2-m1)<0 nel caso sia possibile
116
In letteratura esiste anche la denominazione “test di Wicoxon, Mann e Whitney” per ricordare
la priorità storica, anche se un test analogo fu proposto da Deuchler già nel 1914 (Piccolo,
1998).
160
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
specificare l’ipotesi alternativa in modo da condurre un test ad una sola
coda.
Il test si basa sulla statistica:
u=w-[n2(n2+1)]/2
in cui w esprime la somma dei ranghi attribuiti alle osservazioni del
secondo campione (di estensione n2 appunto), questo spiega perché il test
venga anche chiamato “della somma dei ranghi”; il valore osservato della
statistica U viene poi confrontato con i valori critici tabulati per le
numerosità campionarie n1 e n2, in corrispondenza dei valori dell’errore di
prima specie di più comune riferimento. Qualora il valore osservato
risultasse inferiore a quello teorico tabulato, saremmo portati a rifiutare
l’ipotesi nulla di popolazioni equidistribuite e ciò ad un livello più o meno
elevato di significatività statistica; in caso contrario non avremmo elementi
per rigettare l’ipotesi nulla. Per ampiezze campionarie grandi è possibile,
inoltre, ricorrere ad una approssimazione normale, cioè: U∼N(µu,σ2 u), in
cui: µu=( n1 n2)/2 e σ u=[n1 n2(n1+ n2+1)]/12 rappresentano rispettivamente,
il valore atteso e la varianza della variabile casuale U; al riguardo è stato
dimostrato che l’approssimazione è sufficientemente accurata per valori di
n1e n2> 7 (ecco perché oltre alla significatività esatta dei test, è indicata di
volta in volta anche quella asintotica).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Appendice: Descrizione estesa degli indicatori impiegati nel
lavoro.
INDICATORE DESCRIZIONE
Indice n.1
Esprime il fatturato delle imprese.
Indice n.2
Esprime il numero dei dipendenti.
Indice n.3
Esprime il valore del rapporto tra capitale netto e attività immobilizzate.
Indice n.4
Esprime il valore del seguente rapporto: (capitale netto + passività consolidate immobilizzazioni tecniche) / rimanenze di magazzino.
Indice n.5
Esprime il valore del rapporto tra attività immobilizzate e attivo circolante.
Indice n.6
Esprime il rapporto tra il capitale netto e il capitale investito in impresa.
Indice n.7
Esprime il rapporto tra passività consolidate e capitale investito in impresa.
Indice n.8
Esprime il rapporto tra passività correnti e capitale investito in impresa.
Indice n.9
Esprime il rapporto tra contributi in conto capitale e capitale netto.
Indice n.10
Esprime il rapporto tra valore delle immobilizzazioni tecniche e numero di dipendenti.
Indice n.11
Esprime l' incidenza delle immobilizzazioni tecniche sul totale delle immobilizzazioni.
Indice n.12
Esprime il rapporto tra risultato netto e capitale netto (R.O.E).
Indice n.13
Esprime il rapporto tra il risultato netto e il valore aggiunto.
Indice n.14
Esprime il rapporto tra il risultato netto e il fatturato.
Indice n.15
Esprime il rapporto tra il valore aggiunto e il fatturato.
Indice n.16
Esprime il rapporto tra il valore aggiunto e numero dei dipendenti.
Indice n.17
Esprime il rapporto tra il valore aggiunto e valore delle immobilizzazioni tecniche.
Indice n.18
Esprime il rapporto tra il fatturato e il capitale investito.
Indice n.19
Esprime il R.O.E* rettificato delle cooperative.
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CAPITOLO4
IV. Risultati dell’indagine empirica
1. Premessa
Scopo di questo capitolo è quello di testare le possibili differenze strutturali
tra imprese cooperative e imprese for profit attraverso l’analisi del sistema
degli indici predisposto nel terzo capitolo alla luce delle ipotesi
interpretative sviluppate nel secondo capitolo. Analisi, che, come più volte
ricordato, deve essere svolta tenendo conto della cornice storico-evolutiva
tracciata nel primo capitolo che consentirà di capire meglio i risultati
ottenuti.
In particolare avendo a disposizione dati di bilancio, verranno esaminate le
diversità che emergono (se emergono) nella gestione dei fattori produttivi di
natura tecnica e finanziaria e nelle performance d’impresa per verificare se,
e in quale misura, le differenze sistematiche rilevate possono dipendere
dalla forma istituzionale scelta dalle imprese stesse (Fiorentini, 1998,
pag.87).
Si procederà quindi ad analizzare gli indicatori di scala (paragrafo 2), gli
indicatori finanziari (paragrafo 3), gli indicatori di intensità d’impiego dei
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fattori produttivi (paragrafo 4), gli indicatori di redditività (paragrafo 5) e
gli indicatori di produttività (paragrafo 6). Di tali indicatori si valuteranno i
valori medi ottenuti per le due popolazioni d’impresa nel periodo 20002002 e si confronteranno con quelli ottenuti da Porcheddu nel triennio
1994-1996. Dall’analisi delle medie si passerà a valutare le ipotesi poste
attraverso il test di Mann-Witney apprezzando anche la significatività
statistica dei test. Al termine dell’analisi si trarranno le dovute conclusioni
(paragrafo 7) considerando questi indicatori in un ottica sistemica.
2. Indicatori di scala
Per chiarire la rilevanza dell’ipotesi di razionamento del capitale all’interno
delle
imprese
cooperative
e
quindi
di
un
loro
tendenziale
sottodimensionamento, è opportuno iniziare l’analisi comparata dei dati in
appendice 1 e 2, dagli indicatori di scala. Con riferimento al primo
indicatore (fatturato medio) l’analisi condotta per il periodo 2000-2002 ci
porta a non rigettare l’ipotesi di uguaglianza tra le distribuzioni delle
variabili casuali che interpretano il fenomeno oggetto di studio, per quanto
riguarda le due popolazioni d’impresa.
L’indicatore, comunque, mostra una differenza tra le due popolazioni di
imprese, in quanto per le cooperative tale indice assume un valore medio
pari a 7.659.860,035 (7,66 milioni di euro), per le imprese capitalistiche
assume un valore medio pari a 11.585.268,28 (11,59 milioni di euro);
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mentre l’analisi statistica evidenzia che le differenze riscontrate nelle due
popolazioni di imprese non sono statisticamente significative. È agevole
notare in questo caso che la media è probabilmente un “cattivo” indice di
posizione della distribuzione statistica che descrive l’andamento del
fatturato all’interno della popolazione delle cooperative e di quella delle
imprese capitalistiche, poiché porterebbe ad un calcolo del fatturato a
livello settoriale senz’altro superiore a quello reale.
A conferma di ciò si veda il grafico in figura 7 che esprime il fatturato
medio del triennio 2000-2002 delle dodici imprese del campione per le
cooperative casearie.
12
11
10
9
8
7
6
5
4
3
2
1
€0
€ 5.000.000
€ 10.000.000
€ 15.000.000
€ 20.000.000
Figura 7: Fatturato Medio Imprese Cooperative del
Campione 2000-2002
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Si può notare, inoltre, che confrontando i valori relativi al triennio 20002002 con quelli relativi al lavoro effettuato da Porcheddu per il periodo
1994-1996 si ha un incremento sia per il campione di cooperative, infatti il
fatturato medio passa dai circa 3,28 milioni di euro ai 7,66 milioni di euro,
che per il campione delle imprese capitalistiche, infatti il fatturato medio
passa dai 9,24 milioni di euro agli 11,59 milioni di euro. Inoltre mentre nel
periodo 1994-1996 la differenza tra le medie dei valori delle due
popolazioni
era di 5,96 milioni di euro nel periodo 2000-2002 tale
differenza si è ridotta (è pari circa a 3,93 milioni di euro). Questo perché,
mentre il fatturato medio delle cooperative è aumentato in media del
57,18% quello delle capitalistiche è aumentato solo del 20,28% riducendo
la “forbice” che esisteva tra le due forme istituzionali d’impresa (e ciò è
confermato anche dall’analisi statistica, in quanto si ha un innalzamento
della significatività sia asintotica che esatta).
Infine nell’analizzare i valori medi per il periodo 2000-2002 (cfr. figura 8)
possiamo notare che mentre dal 2000 al 2001 si è avuta una crescita del
fatturato per entrambi i campioni di imprese dal 2001 al 2002 abbiamo
avuto un trend negativo con un fatturato (medio) che, per le imprese
capitalistiche, risulta leggermente inferiore anche a quello del 2000. Questo
trend negativo può essere dovuto a delle difficoltà incontrate nel mercato di
sbocco dovute alle sempre maggiori pressioni concorrenziali (provenienti
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
soprattutto da paesi del est Europa e del Sudamerica)117 ed in parte anche
alle difficoltà di reperimento della materia prima, dovute al morbo della
lingua blu che, da una analisi delle note integrative dei bilanci, è sembrata
pesare maggiormente per le imprese capitalistiche.
Inoltre se si pone a confronto l’andamento del rapporto di cambio118 dollaro
euro con il fatturato, in considerazione della forte propensione all’export del
comparto e della valenza del mercato nord americano, che assorbe più del
90% delle esportazioni delle imprese locali, si può evidenziare una elevata
correlazione tra l’andamento delle quotazioni del dollaro e quelle del
fatturato.
14000000
1,13
1,12
12000000
1,11
10000000
1,1
8000000
1,09
1,08
6000000
1,07
4000000
1,06
FATTURATO
I.CAPITALISTICHE
FATTURATO
COOPERATIVE
dollaro euro
1,05
2000000
1,04
0
1,03
F.2000
F.20O1
F.2002
F. MEDIO
Figura 8: Fatturato Medio 2000-2002
117
Cosi si esprime Serafino Pinna sulla crisi del Pecorino Romano (prodotto principale nei
portafogli delle imprese casearie): “ (…)La perdita di competitività è dovuta al fatto che i
mercati sono invasi da formaggi a prezzi più bassi del nostro, provenienti da molte parti, dal
Sudamerica all’Est europeo. Perché il latte vaccino costa sempre di meno e di conseguenza i
formaggi prodotti con quel latte costano meno e conquistano spazio nelle tavole. Inoltre il
pecorino romano venduto come tale è in una percentuale troppo bassa, fra il 70% e l’80%
finisce in grattugia. Questo lo rende più vulnerabile in quanto può essere più facilmente
sostituito” (La nuova Sardegna 18 novembre 2003).
118
I valori sono quelli forniti dal Banco di Sardegna (2004).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Con riferimento al secondo indicatore dimensionale (numero medio di
dipendenti), le cooperative evidenziano un numero medio di dipendenti pari
a 27, mentre le capitalistiche pari a 40, con un test che non è però risultato
significativo119 (cfr. appendice n.2, indice n.2). Analizzando, invece, il trend
tra i due trienni si può notare un miglioramento di tale indice per le
cooperative infatti si passa dai 14 dipendenti in media del triennio 19941996 ai 27 del triennio 2000-2002, mentre per il campione delle imprese
capitalistiche la situazione è rimasta immutata.
In conclusione, e tenendo ben presenti i limiti che possono ascriversi ai due
indicatori impiegati, non abbiamo rigettato, per il periodo 2000-2002
l’ipotesi nulla di eguaglianza della distribuzione del fenomeno per le due
forme d’impresa. Questo risultato oltretutto conferma il risultato ottenuto da
Porcheddu per il periodo 1994-1996.
Quindi, sintetizzando, non abbiamo motivo di pensare che le cooperative
del settore caseario in Sardegna siano dimensionalmente minori rispetto alle
imprese capitalistiche.
119
I risultati ottenuti per il periodo 1994-1996 (cfr appendice n.1, indicatore n.2) evidenziano un
numero medio di dipendenti pari a 14 per le cooperative e 40 per le capitalistiche. L’analisi
statistica ha inoltre posto in luce che le differenze nelle due forme di impresa non sono state
statisticamente significative (Porcheddu, 2001).
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3. La struttura finanziaria delle cooperative
Dall’analisi teorica effettuata nel secondo capitolo è emerso che le imprese
cooperative dovrebbero presentare in media una struttura finanziaria e
patrimoniale chiaramente distinguibile rispetto ad una comparabile impresa
capitalistica.
Tale
differenza
sarebbe
dovuta
ai
problemi
della
sottocapitalizzazione e del razionamento del credito.
Nel verificare le ipotesi teoriche, che sono state formulate per le due forme
istituzionali d’impresa, si procederà, quindi, con l’analisi di alcuni
indicatori che analizzeranno la struttura finanziaria e patrimoniale. Per
tanto, da un lato, esamineremo la composizione delle fonti e degli impieghi,
con lo scopo di individuare il grado di elasticità-rigidità del capitale
investito ed il grado di dipendenza-autonomia finanziaria dell’impresa dal
capitale di terzi; dall’altra si indagherà sulle correlazioni esistenti tra fonti e
impieghi, sempre nell’ottica delle ipotesi di sottocapitalizzazione e di
razionamento del capitale più volte richiamate.
Un segnale della particolarità degli assetti finanziari delle imprese
cooperative
dovrebbe
provenire
dagli
indici
di
copertura
delle
immobilizzazioni mediante capitale netto (indice n.3 in appendice 1 e 2).
Per quanto riguarda l’analisi del comparto di trasformazione del latte ovino
nel triennio 2000-2002 le due popolazioni di impresa hanno assunto i
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rispettivi valori: 1,178 per le imprese cooperative e 1,194 per le imprese
capitalistiche120 e non abbiamo motivo di rigettare l’ipotesi che le
distribuzioni delle variabili casuali sottostanti al fenomeno siano identiche
per le due popolazioni121. I valori inconsueti dell’indice 3 possono spiegarsi
alla luce della forte incidenza (soprattutto per le cooperative come
vedremo) dei contributi in conto capitale (che contabilmente si annoverano
tra le poste del capitale netto) nei processi di investimento delle imprese
casearie sarde. Confrontando, poi, i dati del triennio 2000-2002 con quelli
del triennio 1994-1996 possiamo notare che tale indicatore pur
mantenendosi sempre al di sopra dell’unità manifesta un trend negativo
questo può ascriversi ad un maggiore peso degli investimenti in attività
immobilizzate rispetto al precedente triennio, cresciuti in misura più che
proporzionale al capitale investito.
Il secondo quoziente che abbiamo impiegato, dati gli elevati valori di
autocopertura delle immobilizzazioni per entrambe le tipologie d’impresa, è
il quoziente di copertura del magazzino (indice n.4 in appendice) che nel
triennio 2000-2002 assume valori pari a 1,022 nelle cooperative e a 1,182
nelle capitalistiche. Anche con riferimento a questo indicatore non abbiamo
120
Per entrambe le popolazioni l’indice ha assunto un valore maggiore di uno ciò significa che le
immobilizzazioni sono interamente finanziate con mezzi propri, che finanziano anche una parte
dell’attivo circolante. Si tratta di una situazione ottimale sotto il profilo della solidità
patrimoniale. Tale situazione, tuttavia potrebbe non essere ottimale sotto il profilo della
redditività. (Caramiello, 1993, p.148).
121
Questa considerazione è confermata anche per il periodo 1994-1996 dove l’indice assume
valori pari a 1,738 e a 1,975 rispettivamente nelle cooperative e nelle imprese capitalistiche
(Porcheddu, 2004, p.55).
170
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tuttavia rigettato l’ipotesi nulla di eguaglianza delle distribuzioni sottostanti
al fenomeno per le due popolazioni122.
Tenendo conto della struttura dell’attivo (indice n.5 in appendice 1 e 2) è
poi facile vedere come, mediamente, e senza differenze significative tra le
due forme istituzionali d’impresa, le imprese casearie abbiano dei valori
delle attività a breve assai elevati per confronto con le immobilizzazioni.
Questi risultati sono da ascrivere alla notevole consistenza del magazzino
prodotti. Inoltre, le imprese cooperative e for profit sono caratterizzate da
immobilizzazioni di natura prevalentemente tecnica. Questa tendenza è
comunque più accentuata nelle imprese cooperative con un rapporto tra
immobilizzazioni tecniche e immobilizzazioni totali (indice n.11) che si
attesta nel periodo 2000-2002 intorno allo 0,92 contro un valore intorno a
0,87 ottenuto per le capitalistiche123. L’analisi statistica comunque non ha
rigettato, anche per questo indicatore, l’ipotesi di eguaglianza sia nel
triennio 1994-1996 che in quello 2000-2002 tra le due popolazioni
d’impresa (cfr. i valori dell’indicatore 11 in appendice 1 e 2).
La considerazione congiunta dei quattro precedenti indicatori, ci porta a
dire che non esistono motivi per pensare a differenze significative tra le due
forme istituzionali d’impresa nella capacità di fronteggiare, con fonti
consolidate, sia i fabbisogni finanziari “generati” dalle immobilizzazioni
122
Per quanto riguarda il triennio 1994-1996 (Porcheddu, 2001) l’indice n.4 assume valori pari a
1,937 nelle cooperative e a 0,691 nelle capitalistiche. Nel triennio 2000-2002 quindi si ha un
inversione di tendenza, confermata anche dai valori medi assunti dall’indicatore n.5.
123
Anche nell’analisi del periodo 1994-1996 i risultati medi di tale indicatore assumevano valori
maggiori per le cooperative rispetto alle capitalistiche (rispettivamente 0,88 e 0,85),
confermando comunque una struttura dell’attivo fisso orientata verso le immobilizzazioni
tecniche.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
che il fabbisogno finanziario di natura durevole “generato” dalle attività a
breve (da ascriversi alla presenza di rimanenze di magazzino -in gran parte
di prodotti caseari finiti o in corso di stagionatura- che nella realtà settoriale
sono mediamente assai consistenti).
1
0,9
0,8
0,7
0,6
ATTIVO
CIRCOLANTE
PASSIVITA A
BREVE
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
ATTIVO
FISSO
PASSIVO
PERMANENT
E
IMPIEGHI
FONTI
0
Figura 9: Struttura Patrimoniale 2000-2002,
Aggregazione del gruppo delle cooperative.
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1
0,9
0,8
0,7
0,6
ATTIVO
CIRCOLANTE
PASSIVITA A
BREVE
0,5
0,4
0,3
0,2
0,1
0
ATTIVO FISSO
IMPIEGHI
PASSIVO
PERMANENTE
FONTI
Figura 10: Struttura Patrimoniale 2000-2002,
Aggregazione del gruppo delle imprese
capitalistiche.
Spostando l’attenzione ad alcuni indici di composizione delle fonti (indici
n.6, n.7, e n.8, e n.9), dalla considerazione dei valori medi ottenuti nel
periodo 2000-2002 emerge che la popolazione delle imprese cooperative ha
un valore delle passività correnti maggiore rispetto alla popolazione delle
imprese capitalistiche (infatti l’indice 8, che esprime il rapporto tra le
passività a breve e il capitale investito, è pari rispettivamente a 0,59 e
0,52)124. Mentre per quanto riguarda l’analisi delle fonti sulla base della
natura dei finanziatori, e quindi, il peso del capitale proprio e del capitale di
credito (dato dalla somma dell’indice 7 e 8 ) non ci sono sostanziali
differenze negli indicatori medi tra i due campioni (cfr. figura n. 11).
124
Tale considerazione non vale, invece, per il periodo 1994-1996 dove il valore delle passività a
breve, e la struttura delle fonti in generale, presenta caratteristiche identiche per le due tipologie
d’impresa.
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In questo ambito, non sembrerebbe trovare una prima conferma l’ipotesi
formulata dagli autori della scuola dei diritti di proprietà, relativa agli effetti
negativi sulle scelte finanziarie dell’impresa cooperativa derivanti dalla
incompleta appropriabilità del valore delle quote al momento dell’uscita dei
soci, nonché delle limitazioni alla remunerazione dei capitali investiti. Tali
vincoli istituzionali indurrebbero infatti i titolari della proprietà a limitare il
ricorso all’autofinanziamento e a mantenere livelli di capitale proprio al di
sotto di quelli prevalenti nelle imprese for profit. Per necessità le imprese
cooperative si orienterebbero in modo più accentuato verso il mercato del
credito per finanziare gli investimenti ove peraltro, come si è spiegato nel
secondo capitolo, subirebbero un altro tipo di razionamento (Fiorentini,
1998, p.99).
CAPITALE PROPRIO
CAPITALE DI CREDITO
1,2
1
0,8
0,66
0,69
0,34
0,31
0,6
0,4
0,2
0
COOPERATIVE
I.CAPITALISTICHE
Figura 11: Grado di Indebitamento 2000-2002
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Differenze che, invece, si potrebbero riscontrare se si analizza con
maggiore dettaglio la struttura del capitale di credito. Infatti la struttura
debitoria delle imprese cooperative dovrebbe essere valutata (come è gia
stato preannunciato nei capitoli precedenti) considerando che parte degli
apporti finanziari può trovare origine nei soci della cooperativa.
Un indagine di tal genere, volta a misurare il peso dei prestiti dei soci sul
totale del capitale di credito e il peso del finanziamento bancario, non è
stato possibile eseguirla per la mancanza dei dati di molte imprese del
campione. Comunque analizzando i dati a disposizione per alcune
cooperative possiamo notare come il prestito sociale abbia un ruolo
rilevante in queste tipologie d’impresa. Un esempio può essere la
cooperativa Unione Pastori di Nurri che nella nota integrativa al bilancio
2001 (ma questo discorso era presente anche in quella del 2002) nel
valutare la situazione finanziaria, ritenendo che dovesse essere migliorata,
in quanto l’ammontare dei debiti aveva assunto dimensioni decisamente
significative in rapporto ai mezzi propri esistenti, proponeva (richiesta che è
stata accettata) l’emissione del prestito sociale a lunga scadenza e
rimborsabile solo in presenza di determinate condizioni. Questo allo scopo
di autofinanziamento, capitalizzare la società e ridurre la dipendenza dalle
banche nelle attività di finanziamento della anticipazioni ai soci, delle spese
di lavorazione, e degli altri servizi offerti ai soci.
Analizzando, poi, singolarmente la situazione dei valori medi per le due
popolazioni si può dire che per le cooperative si ha un valore delle passività
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correnti superiore sia alle passività consolidate (l’indice 7 pari a 0,073 per
le cooperative assume un valore assai modesto) che al passivo permanente
(dato dalla somma dell’indice 6 e 7) il che denota una struttura delle fonti
maggiormente orientata al breve periodo (cfr. figura 12). Confrontando, poi,
le medie della popolazione delle cooperative ottenute per il periodo 20002002 con quelle del triennio 1994-1996
si può affermare che mentre
l’indice 8 è restato sostanzialmente inalterato (nel periodo 1994-1996 era
pari a 0,573) si hanno delle differenze per quanto riguarda il passivo
permanente in quanto le passività consolidate nel triennio 1994-1996
“pesavano” di più (l’indice 7 infatti per tale periodo è pari a 0,144). Anche
per quanto riguarda le imprese capitalistiche le passività correnti hanno
valori superiori sia alle passività consolidate (l’indice 7 è pari a 0,17) che al
passivo permanente ma in misura più attenuata rispetto al campione delle
cooperative. Inoltre nel analizzare il trend con il precedente periodo per le
imprese capitalistiche si può notare una diminuzione delle fonti a breve
scadenza (l’indice 8 nel triennio 1994-1996 era pari a 0,58) a fronte di un
aumento del capitale netto (l’indice 6 passa dallo 0,25 allo 0,31).
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CAPITALE NETTO
PASSIVITA CONSOLIDATE
PASSIVITA CORRENTI
100%
90%
80%
70%
0,59
0,52
60%
50%
40%
0,07
0,17
0,34
0,31
30%
20%
10%
0%
COOPERATIVE
I. CAPITALISTICHE
Figura 12 Struttura delle fonti periodo 2000-2002
I test di significatività condotti per il periodo 2000-2002, comunque, non ci
autorizzano a pensare a differenze nelle distribuzioni delle variabili che
interpretano i fenomeni oggetto di studio per quanto riguarda le due
popolazioni di imprese ad eccezione del indicatore 7 per il quale dobbiamo
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accogliere l’ipotesi alternativa di una mediana inferiore per le imprese
cooperative125.
I risultati ottenuti fino a questo momento non sembrano suffragare per i
periodi 1994-1996 e 2000-2002, le ipotesi di sottocapitalizzazione126 e di
razionamento del credito più volte richiamate nei precedenti capitoli, essi,
tuttavia, devono essere apprezzati anche alla luce delle intense agevolazioni
di cui godono le cooperative del settore nel reperimento delle fonti
finanziarie e del meccanismo del finanziamento interno (attraverso i debiti
di regolamento con i soci e il meccanismo del prestito sociale) che
caratterizzano le cooperative.
L’esame dell’indice n.9 che esprime l’incidenza dei contributi in conto
capitale sul capitale netto, ci consente di dire che, mediamente, il capitale
netto delle cooperative è costituito per quasi ¾ da contributi di tale natura
contro un valore ben più modesto per le imprese capitalistiche (pari a circa
¼ del totale del capitale netto); inoltre, con un test altamente significativo,
abbiamo rifiutato l’ipotesi di equidistribuzione delle due popolazioni
d’impresa per il fenomeno in parola127.
125
Al contrario per quanto riguarda l’analisi condotta da Porcheddu (2001) per gli anni 1994-1996
non si è riscontrata alcuna differenza nelle distribuzioni delle variabili che interpretano i
fenomeni oggetto di studio per tutti e tre gli indicatori (cfr. in appendice 1 gli indici 6,7,8,).
126
D’altronde gran parte della letteratura empirica ha messo in luce risultati parzialmente
contradditori, con una prevalenza di risultati che non ottengono risultati univoci rispetto alle
ipotesi di sottocapitalizzazione (cfr. Fiorentini, 1998, p.87).
127
Anche nel periodo 1994-1996 si sono ottenuti gli stessi risultati, sia per quanto riguarda i valori
medi, che per la significatività delle differenze riscontrate (si vedano i risultati dell’indice n.9 in
appendice 1).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Occorre quindi tenere conto degli effetti dell’erogazione di tali contributi128
in conto capitale in quantità cosi ingente a favore delle cooperative. Tali
agevolazioni sono concesse prevalentemente per sopperire alle difficoltà
delle cooperative ad autofinanziarsi oltre che per compensare i vincoli
derivanti dalle limitazioni alla remunerazione del capitale e del prestito
sociale. In tal senso tali agevolazioni possono avere l’effetto, al di là delle
intenzioni del legislatore, di distorcere le convenienze su cui si modulano le
scelte finanziare di tali imprese e di scoraggiare l’autofinanziamento nelle
sue diverse forme (tali considerazioni sono state fatte anche da Fiorentini
nella sua analisi sul settore agro-alimentare italiano, 1998, p.100).
Purtroppo, una valutazione dell’intensità della pratica di autofinanziamento
per le due forme di impresa, nel contesto settoriale in esame, non può essere
effettuata a causa dell’impossibilità di ricostruire, per l’esercizio 2000, il
valore degli accantonamenti di utili a riserve, elemento fondamentale
assieme al valore degli ammortamenti nel calcolo degli indici di
autofinanziamento129.
128
In un mercato in cui le imprese cooperative sono in contrapposizione alle imprese capitalistiche
occorre anche valutare questi contributi nell’ottica del giuoco concorrenziale alla luce, anche,
delle preoccupazioni emerse in sede di Unione Europea che normative speciali possano alterare
l’efficacia dei meccanismi competitivi (Fiorentini, 1998, p.14). Si potrebbe obiettare, però, che
il settore privato ha potuto garantirsi una maggiore competitività, anche perché non ha dovuto
scontare gli inconvenienti derivanti da alcuni importanti vincoli normativo-istituzionali che
hanno invece pesantemente agito sul sistema cooperativo.
129
Questa carenza informativa si ebbe gia nel triennio precedente.
179
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4. Indicatori di intensità d’impiego dei fattori capitale e lavoro
Sulla scorta delle ipotesi formulate nell’ambito dell’analisi basata sui diritti
di
proprietà,
e
che
sottolineano
la
scarsità
di
incentivi
alla
patrimonializzazione presenti nelle imprese cooperative, ci si attende che
quest’ultime siano caratterizzate da una minore intensità di capitale.
L’esame delle medie dell’indicatore che esprime il rapporto tra
immobilizzazioni tecniche e numero dei dipendenti, per quanto riguarda il
contesto settoriale della trasformazione del latte ovino in Sardegna, nel
periodo 2000-2002 è stato pari a circa 96 mila euro per dipendente per il
campione delle cooperative e a circa 250 mila euro per dipendente per il
campione delle imprese capitalistiche. Quindi tale valore presenta un valore
medio assai più elevato per le imprese capitalistiche coerentemente alle
previsioni formulate nel secondo capitolo. Bisogna dire però che i test
sembrano
evidenziare
l’inesistenza
di
differenze
statisticamente
significative, nel periodo 2000-2002, per le due forme d’impresa.
Questo risultato contrasta con quanto ottenuto da Porcheddu nel periodo
1994-1996 sia nei valori medi, dove si era ottenuto un valore superiore per
le imprese cooperative, cioè si aveva un valore per dipendente più grande
nelle cooperative rispetto alle capitalistiche (107 mila euro per dipendente
nelle cooperative e a poco più di 42 mila euro nelle capitalistiche), sia
nell’analisi statistica dove si era verificato un livello di significatività esatta
180
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del 3 per mille, che aveva portato a rigettare l’ipotesi di eguaglianza tra le
distribuzioni del fenomeno per le due popolazioni di impresa.
Quindi alla luce dei risultati ottenuti nel periodo 2000-2002 e del confronto
di questi con quelli ottenuti nel periodo 1994-1996 le cooperative casearie
sembrano impiegare il fattore capitale con una intensità comunque non
minore delle imprese capitalistiche del settore in Sardegna.
5. Gli indicatori di Redditività
Come si e fatto notare nei precedenti capitoli, in linea teorica, la “nostra”
cooperativa dovrebbe mostrare, progressivamente, degli indicatori di
redditività operativa e netta tendenzialmente più bassi.
Per quanto riguarda il ROE I risultati relativi al periodo 2000-2002
evidenziano per le cooperative un risultato prossimo allo zero (come
d’altronde ci si aspettava visti i metodi di contabilizzazione in bilancio che
utilizzano tali forme d’impresa) mentre le imprese capitalistiche mostrano
un valore per lo stesso indicatore addirittura negativo.
L’analisi di significatività statistica condotta con test non parametrici porta
a pensare che non esistano differenze per quanto concerne la distribuzione
dei valori dell’indice n.12 nelle due popolazioni di impresa operanti nel
settore.
Al contrario nel periodo 1994-1996 (Porcheddu, 2004) si era riscontrato
uno scarto di oltre cinque punti percentuali a favore dell’impresa
capitalistica. La differenza tra le distribuzioni del fenomeno per le due
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popolazioni era inoltre risultata altamente significativa (cfr. indice n.12 in
appendice 1 e 2). Questa differenza tra i due trienni si spiega facilmente con
un trend negativo delle imprese capitalistiche del settore.
10,00%
6,90%
5,00%
1,40%
0,00%
0,22%
ROE COOP
ROE
CAPITALISTICHE
-5,00%
-10,00%
-13,01%
-15,00%
1
2
Figura 13 Andamento del ROE periodi 1994-1996 e 20002002.
Risultati sostanzialmente analoghi abbiamo ottenuto considerando altri
indicatori di redditività generale (cfr. gli indici n.13 e n.14 in appendice 1 e
2) nei quali il risultato netto veniva rapportato rispettivamente al valore
aggiunto e al fatturato (per il primo indicatore i risultati medi del periodo
2000-2002 sono stati pari a 0,4% per le cooperative e 19,4% per le
capitalistiche; per il secondo indicatore, invece, i valori medi sono stati pari
a 0,1% per le cooperative e –0,4% per le capitalistiche)130. L’analisi ci dice
130
Nel periodo 1994-1996 (Porcheddu, 2004), l’indice n.13 (cfr. appendice 1) confermando i
risultati (ma non i valori) del periodo 2000-2002 ha mostrato valori medi più elevati per le
imprese capitalistiche, mentre l’indicatore n.14 in quel periodo, al contrario del triennio 20002002, aveva mostrato dei valori positivi per le imprese capitalistiche (pari a 1,1%) mentre il
valore delle cooperative aveva lo stesso valore.
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
comunque che non esistono differenze statisticamente significative tra le
due forme di impresa.
Per quanto riguarda l’indice di redditività economica (indice n.15 calcolato
come valore aggiunto su fatturato), o meglio indice di Adelman ha mostrato
valori medi più elevati per le cooperative (17,8% contro il 12,7% delle
imprese capitalistiche), l’analisi statistica ha mostrato tuttavia che le
differenze riscontrate non sono significative. Anche nel periodo 1994-1996
l’indice di Adelman aveva mostrato dei valori medi superiori per le imprese
cooperative, anche se il divario tra le due forme istituzionali d’impresa era
minore. Infatti tale valore era pari al 18,9% per le cooperative e al 17,1%
per le imprese capitalistiche. Anche in questa situazione non si ha il motivo
di rifiutare l’ipotesi nulla di eguaglianza tra le distribuzioni sottostanti al
fenomeno per le due popolazioni di imprese.
Le riserve in merito alla capacita “segnaletica” degli usuali indicatori di
redditività ci impediscono di trarre conclusioni affidabili in merito a questo
aspetto del confronto tra forme istituzionali d’impresa.
Per sgombrare il campo da interpretazioni affrettate di questi dati sulla
redditività occorre ricordare, quindi, che bisogna tenere conto di due
diversità di fondo tra imprese cooperative e imprese for profit.
In primo luogo, le imprese cooperative in generale non hanno l’obiettivo di
massimizzare la remunerazione del capitale conferito dai titolari dei diritti
di proprietà. In secondo luogo, le cooperative di trasformazione sono
caratterizzate da soci il cui obiettivo specifico è la massimizzazione della
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remunerazione dei fattori produttivi da loro conferiti, il che si pone in
necessario contrasto con l’obiettivo di massimizzare l’utile della
cooperativa (Fiorentini, 1998, p.103)131. In questa ottica, le cooperative di
trasformazione, e in questo caso le cooperative casearie, sono costituite
tipicamente da produttori alla ricerca di un più efficiente sfruttamento di
economie di scala e di un migliore posizionamento sul mercato del prodotto
e non da apportatori di capitali di rischio che ricercano la migliore
combinazione tra rendimento e rischio. È dunque evidente che il confronto
tra i risultati delle imprese for profit e cooperative in termini di redditività
netta non fornisce informazioni particolarmente significative sui risultati
ottenuti dalle seconde.
D’altronde però una cosa è l’economia del socio un'altra è l’economia
dell’impresa. A tal riguardo si può riprendere un esempio numerico
proposto in Zan (1990, p.66) adattandolo ad una cooperativa casearia.
Immaginiamo che tale cooperativa “teorica” liquidi il latte conferito a 0,80
euro il litro, mentre il prezzo corrente di mercato è 0,70 euro il litro, a
fronte di un costo di produzione del latte per gli associati di 0,88 euro il
litro. In tal caso (essendo la valorizzazione del prodotto conferito alla
cooperativa minore dei costi propri dell’economia del socio) si avrebbe una
perdita per l’economia del socio. Il problema della visione in questione è
131
Sono necessarie delle cautele nel valutare il valore di questo indice. Scrive Melis (1989, p.73):
“ con riferimento all’analisi dei bilanci dell’impresa cooperativa la determinazione di indici di
redditività non sintetizza efficacemente il risultato economico conseguito dai soci (…)
l’eventuale remunerazione dell’apporto di capitale presenta natura complementare spesso del
tutto secondaria, rispetto alla valorizzazione del conferimento di beni e servizi nelle cooperative
di produzione, o al risparmio sugli acquisti nelle cooperative di consumo”.
184
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
però quello di non scindere i contributi all’economicità complessiva sia
della cooperativa sia delle economie del socio: si verrebbe cosi ad
esprimere un giudizio negativo sull’andamento della cooperativa. In realtà,
ove si potesse fare affidamento sui valori in gioco, si dovrebbe evidenziare
una prestazione della cooperativa in linea col mercato, potendosi parlare di
efficienza della gestione: il ricorso alla cooperativa ha comunque consentito
di spuntare un sovrappiù pari a 0,10 centesimi a litro (valore di
trasformazione meno valore di mercato dei prodotti conferiti) rispetto
all’alternativa di una vendita diretta al mercato (e quindi ad una impresa di
trasformazione capitalistica). Altro sarà poi il problema della valutazione
dell’efficacia della cooperativa verso le economie dei soci (nel senso di
coprire i costi, cosa che nell’esempio non succede) o, in altri termini, di
efficienza complessiva del sistema sul mercato. Efficienza complessiva che
nell’esempio certamente continua a mancare: il che però non trova le sue
cause in una mancanza di efficienza della cooperativa, quanto piuttosto
nelle economie particolari dei soci. E in questa ottica che si inserisce il
ROE* rettificato che è stato presentato nel terzo capitolo che ci consente di
valutare le diverse performance delle due forme istituzionali.
È chiaro che l’attendibilità di tale indice è strettamente legata
all’attendibilità dei prezzi di mercato del latte con il quale si è proceduto a
scorporare il valore di trasformazione. Nel calcolare tale indice sono state
effettuate due ipotesi. La prima ipotesi è stata calcolata attraverso i prezzi
messi a disposizione dalla camera di commercio di Sassari, la seconda
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
ipotesi
dai prezzi ottenuti da alcune delle imprese capitalistiche del
campione132.
PREZZO DI
ROE*
MERCATO
2001 2002
2000
2001
2002
IPOTESI 1
0,68 0,75 0,83
0,24
0,46
0,04
IPOTESI 2
0,70 0,82 0,83
0,18
0,25
0,04
2000
I risultati medi cosi ottenuti mostrano per il periodo 2000-2002 un ROE*
medio per le cooperative pari a 0,25 nella prima ipotesi e 0,16 nella
seconda. Indipendentemente dal valore considerato quindi si hanno dei
valori di gran lunga superiori a quello ottenuto dalle imprese capitalistiche
che era addirittura negativo.
In conclusione alla luce dei risultati ottenuti con il ROE* rettificato, e dei
risultati che si erano ottenuti anche senza questa specificazione, possiamo
ritenere che nel triennio 2000-2002 le cooperative abbiano ottenuto sotto il
profilo reddituale migliori performance rispetto alle capitalistiche.
Per quanto riguarda il confronto intertemporale con i dati del triennio 19941996 si può notare inoltre che il peggioramento degli indicatori di
132
L’idea originaria era quella di considerare una media del prezzo del latte di tutte le imprese
capitalistiche del campione, ciò non è stato possibile a causa della mancanza nei documenti in
nostro possesso di tale indicatore.
186
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
redditività può essere dovuto all’impatto dell’epidemia di “Blue Tongue133”
sull’economia delle imprese casearie. Dal 2000 le imprese si trovano a
fronteggiare una vera e propria emergenza relativa al manifestarsi in modo
particolarmente virulento di tale epidemia con effetti sull’economicità del
comparto di trasformazione134. Questa può essere assicurata solo da certi
quantitativi di latte lavorato, i problemi sono connessi alla mancanza di latte
da trasformare derivante dalla esiguità, a causa del morbo stesso, di greggi
produttive (Porcheddu 2004, p.138). I minori quantitativi di materia prima
presenti sul mercato oltre ad avere ripercussioni sulla produttività degli
impianti incidono anche sui costi della materia prima e sul fatturato delle
imprese (in termini di minori quantità di formaggio prodotte) e, quindi, in
definitiva sulla redditività globale delle imprese(Porcheddu 2004, p.138).
Infine con riferimento all’indice di Adelman, in relazione ai due periodi
temporali oggetto di studio, è possibile dire che, diversamente da quanto
133
La “Blue Tongue” o “Lingua Blu” è una malattia infettiva, non contagiosa, caratterizzata da
infiammazione catarrale dell’apparato respiratorio e digerente, da necrosi della muscolatura
scheletrica, aborto e malformazioni fetali. La malattia ha un andamento stagionale e compare
generalmente in estate avanzata. La sua trasmissione avviene attraverso un insetto che,
cibandosi di sangue, può infettarsi e quindi infettare altri capi, assumendo il ruolo di vettore
biologico. Gli ovini hanno un periodo di incubazione della malattia che varia dai 5 ai 20 giorni;
la letalità del virus oscilla tra il 2% e il 30% mentre la morbilità (numero di capi infettati sul
numero dei capi totali) varia sensibilmente a seconda del ceppo del virus, della razza colpita,
dell’età dell’animale e dalle condizioni epidemiologiche dell’area interessata. La malattia nasce
in Africa, da dove si è diffusa in quasi tutto il mondo. Per quanto riguarda i paesi del
mediterraneo, la malattia si è manifestata nel 1998 e 1999 in Grecia e Turchia, nel 2000 in
Tunisia (luogo dal quale probabilmente è partita per la Sardegna), Spagna (Isole Baleari) e
Francia (Corsica).
134
Questi effetti sono una conseguenza dei problemi che nascono a monte della filiera dove
l’economie delle aziende del comparto della produzione del latte ovino subiscono (spesso), a
causa di tale morbo, la totale perdita dell’intero gregge, o comunque in caso di parziale
sopravvivenza, la improduttività dello stesso. La malattia, infatti, se agisce in un periodo in cui
le pecore sono gravide porta spesso al aborto o a malformazioni fetali. In questi casi ci si può
aspettare che non si avrà la possibilità di disporre di capi di rimonta in tempi brevi, ne si potrà
svolgere l’operazione di mungitura. Tra l’altro lo stesso vaccino contro il morbo, probabilmente,
presenta tra le controindicazioni anche una vistosa riduzione della produttività del gregge; di
recente una allevatore ha dichiarato: “ se un gregge di cento capi produce in condizioni normali
circa 50 litri di latte al giorno, adesso (dopo la vaccinazione) ne produce appena sette litri”
(l’Unione Sarda, 31 gennaio 2002).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
riscontrato anche in studi recenti sulle cooperative operanti nell’agroalimentare (cfr. Fiorentini, 1998, p.102), non abbiamo motivo di pensare,
per quest’ultima forma organizzativa, ad un più intenso grado di
integrazione verticale lungo la filiera produttiva esaminata135.
6. Indicatori di Produttività
Come si ricorderà una delle ipotesi formulate nel secondo capitolo
nell’ambito della teoria dei diritti di proprietà applicati alle imprese
cooperative era quella che il capitale tenderà ad essere il fattore produttivo
scarso. Si è visto in precedenza che in effetti, all’interno del campione
considerato per il periodo 2000-2002, l’intensità del capitale è inferiore
nelle imprese cooperative (occorre rammentare che tuttavia l’analisi
statistica non aveva rigettato l’ipotesi di eguaglianza tra le due forme
istituzionali d’impresa). Una conseguenza di questo risultato può essere
verificata osservando la produttività (media) delle immobilizzazioni
tecniche
data
dal
rapporto
tra
valore
aggiunto
e
valore
delle
immobilizzazioni tecniche (indice n.17), che assume valori medi pari a
0,958 per le imprese capitalistiche e 0,538 per le imprese cooperative. Tali
valori contrastano con quanto teoricamente esposto in quanto al contrario
135
Nel lavoro di Fiorentini infatti si era ottenuto un maggiore livello dell’indice di Adelman per le
cooperative che era stato spiegato come una maggiore propensione di quest’ultime ad integrare
verticalmente i propri processi al fine di raggiungere una delle motivazioni principali della
formazione di molte cooperative di trasformazione i cui soci fondatori (produttori agricoli)
trovano conveniente integrarsi a valle allo scopo di sfruttare economie di scala e di consolidare
le proprie posizioni sul mercato (cfr. Fiorentini, 1998, p.102).
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
delle aspettative mostrano un valore superiore per le imprese capitalistiche
rispetto alle cooperative136. Questa tendenza può essere ulteriormente colta
osservando la minore velocità di rotazione del capitale investito. Infatti
l’indice assume dei valori medi superiori per le imprese capitalistiche
(l’indice n.18 è pari a 1,09) rispetto alle imprese cooperative (l’indice n.18 è
pari a 0,78).
Vi è da aggiungere comunque che nel periodo 2000-2002 non si registrano
differenze statisticamente significative tra le due forme di impresa per
quanto riguarda la produttività del capitale.
Anche nel periodo 1994-1996 l’analisi della produttività del capitale aveva
mostrato dei valori medi superiori per le imprese capitalistiche: l’indice
n.17 aveva assunto valori medi pari a 1,306 nelle cooperative e a 1,747
nelle capitalistiche; tutto ciò avvalorato (al contrario del periodo 20002002) da un test che era risultato altamente significativo (cfr. i risultati
sintetizzati in appendice n.1 al capitolo). Questo risultato era poi in linea
con quanto riscontrato, in quel periodo, nella sezione dedicata all’intensità
d’uso dei fattori della produzione e non in contrasto con quanto
commentato nella sezione dedicata agli indicatori finanziari.
Per quanto riguarda la produttività media del lavoro i risultati ottenuti per il
triennio 2000-2002 mostrano valori medi superiori per le cooperative
casearie (46 mila contro 37 mila euro circa); al contrario l’analisi del
periodo 1994-1996 aveva mostrato valori medi superiori per le imprese
136
Infatti la scarsità del fattore capitale avrebbe dovuto rappresentare un forte incentivo per le
cooperative ad utilizzarlo in modo più produttivo (Fiorentini, 1998, p.104).
189
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
capitalistiche (poco meno di 41 mila euro contro poco più di 37 mila euro).
I risultati statistici dei due periodi sembrano confermare che la produttività
(media) del lavoro, almeno nell’ambito delle particolari cooperative
considerate (in cui come già si è detto nei precedenti capitoli è un eccezione
la coincidenza della figura del lavoratore con quella del socio-conferitore),
non è significativamente diversa da quanto riscontrato per le imprese
capitalistiche.
Questi
risultati,
tuttavia,
non
devono
interpretarsi
necessariamente come una “violazione” delle previsioni di Alchian e
Demsetz (1972) per una serie di motivi:
• La dimensione dei team dei lavoratori all’interno dei due
campioni d’imprese è comunque generalmente contenuta;
• Nelle cooperative casearie sarde, come già riscontrato più volte,
non esiste praticamente la figura del socio lavoratore (quindi sotto
questo profilo, le cooperative sono assimilabili alle imprese
capitalistiche del settore);
•
Potrebbe esistere un effetto più che compensativo di economie
di scala rispetto alle inefficienze in qualche modo derivanti dalla
crescita dimensionale dei team di lavoratori.
Ciò sembra mostrare come la performance delle imprese cooperative sia
comparabile, e quindi in particolare non inferiore, a quella delle imprese
capitalistiche tradizionali.
190
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
7. Conclusioni
L’analisi condotta in questo lavoro ha evidenziato una serie di risultati che
verranno illustrati qui di seguito. Nel comparto caseario in Sardegna esiste
una forte incidenza di imprese cooperative.
Questo fatto, tuttavia, deve essere interpretato con attenzione e non può
essere attribuito all’esistenza di particolari vantaggi economici comparati di
tali imprese rispetto ad altre forme di impresa (tipicamente le imprese
capitalistiche operanti nel settore). Il favor del legislatore regionale e
nazionale nei confronti di tale tipo di imprese, può essere spiegato in
Sardegna con esigenze di “modellare” in un certo modo la società
regionale, esigenze indotte da fattori di ordine storico-sociale ricordati nel
capitolo primo. Tutto ciò ha avuto ripercussioni in termini di industrial
organization, vista l’attuale consistente proporzione di imprese cooperative,
e deve portare a riflettere sul ruolo della storia nella comprensione delle
caratteristiche di un settore (Porcheddu, 2004). Dal punto di vista
dell’economia positiva e normativa mostrano tutta la loro debolezza, in
questo modo, test di sopravvivenza non corroborati da un adeguato
patrimonio informativo sulle caratteristiche delle imprese a confronto in un
dato settore.
Con riferimento all’obiettivo esplicitato nel paragrafo introduttivo,
possiamo dire che i risultati del lavoro di comparazione tra le due forme
191
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
istituzionali d’impresa non autorizzano a pensare, nel contesto settoriale
analizzato, ai più volte citati, in tema di cooperative, problemi di
sottoinvestimento per confronto con comparabili imprese capitalistiche.
Questo giudizio trae origine in via diretta da una comparazione sulla
struttura finanziaria delle due tipologie d’impresa e, indirettamente,
dall’analisi dell’intensità d’impiego dei fattori e della loro produttività.
Inoltre i test sulla produttività hanno mostrato dei risultati, sia per la
produttività del capitale (maggiore nelle imprese capitalistiche rispetto alle
imprese cooperative) che per la produttività del lavoro (dove le cooperative
casearie
sarde
evidenziano
una
produttività
del
lavoro
non
significativamente differente da quella registrata all’interno delle imprese
capitalistiche del settore) in contrasto con le ipotesi formulate.
I risultati sulla produttività del lavoro probabilmente sono riconducibili alla
“storica” separazione nelle cooperative del settore, della figura del socioconferitore-pastore da quella del lavoratore137.
Questo ci insegna che per capire il presente di un settore non si può
prescindere dal passato di quel settore e, più ampiamente, della società in
cui quel settore si incardina. Infatti la storia “filtra” i possibili vantaggi
comparati delle differenti forme istituzionali d’impresa condizionandone
ampiamente le probabilità di manifestazione.
137
La separazione tra socio e lavoratore, legata storicamente alle esigenze di conduzione
dell’impresa pastorale, che non consentono al pastore di occuparsi di altre attività, come quelle
all’interno dei caseifici, inficerebbe il positivo effetto in termini di produttività di elevati gradi di
identificazione nell’impresa nella quale si lavora, ma anche di forme di controllo di tipo
orizzontale (versus forme di controllo gerarchico verticale, tipicamente riscontrate all’interno
delle imprese capitalistiche) (Porcheddu, 2004).
192
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
I test sugli indicatori di redditività si sono rilevati altamente significativi dal
punto di vista statistico nel periodo 1994-1996, mostrando apparentemente
una performance superiore da parte delle imprese capitalistiche del settore;
gli stessi test condotti per il periodo 2000-2002 rivelano, tuttavia, una
performance superiore per le imprese cooperative rispetto alle imprese
capitalistiche del settore e ciò è confermato anche dalle ipotesi formulate
per il ROE* rettificato. Risultati che comunque devono essere letti alla luce
delle carenze segnaletiche che tali indici di redditività hanno per le imprese
cooperative.
Tuttavia, gli esiti del confronto condotto nei paragrafi precedenti devono
“osservarsi” attentamente alla luce del consistente sostegno finanziario, sia
nazionale, che regionale, soprattutto nella forma dei contributi in conto
capitale, di cui hanno goduto le cooperative del settore (ricordiamo che
mediamente quasi i ¾ del capitale netto delle cooperative sono costituiti da
contributi di tale natura).
È chiaro che un sostegno di tale portata può ben neutralizzare i postulati
problemi di natura finanziaria di cui soffrirebbe l’impresa cooperativa ed,
anzi, trovare la
ratio proprio nella considerazione degli stessi,
“condizionando” evidentemente i risultati dell’analisi comparativa tra le
due forme d’impresa.
193
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Appendice 1.138
Medie degli indicatori per forma istituzionale d’impresa, valori della
statistica U di Mann-Withney e significatività esatta ed asintotica del test ad
una coda (periodo 1994-1996).
Indice
indice n.1
indice n.2
indice n.3
indice n.4
indice n.5
indice n.6
indice n.7
indice n.8
indice n.9
indice n.10
indice n.11
indice n.12
indice n.13
indice n.14
indice n.15
indice n.16
indice n.17
138
Cooperativ Imprese
Valori Significativit Significativit
e
capitalistich della
à asintotica à esatta
e
statistic
aU
3,28
9,24
61
0,031
0,032
14
40
64,4
0,043
0,043
1,738
1,975
104
0,483
0,491
1,937
0,691
85
0,199
0,208
0,611
0,420
78
0,127
0,134
0,283
0,246
93
0,306
0,316
0,144
0,169
91
0,127
0,134
0,573
0,585
103
0,466
0,475
0,718
0,244
18,5
0,000
0,000
0,107
0,042
40
0,003
0,002
0,882
0,855
88
0,234
0,246
0,014
0,069
26
0,000
0,000
0,021
0,068
27
0,000
0,000
0,001
0,011
34
0,001
0,001
0,189
0,171
89
0,249
0,259
0,037
0,041
82
0,165
0,174
1,306
1,747
27
0,000
0,000
Per la descrizione estesa degli indici si veda l’appendice al capitolo 3.
194
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
Appendice 2.
Medie degli indicatori per forma istituzionale d’impresa, valori della
statistica U di Mann-Withney e significatività esatta ed asintotica del test ad
una coda (periodo 2000-2002).
Indice
indice n.1
indice n.2
indice n.3
indice n.4
indice n.5
indice n.6
indice n.7
indice n.8
indice n.9
indice
n.10
indice
n.11
indice
n.12
indice
n.13
indice
n.14
indice
n.15
indice
n.16
indice
n.17
indice
n.18
Cooperative Imprese
Valori Significativit Significativit
Capitalistch della
à asintotica à esatta
e
statistic
aU
7,66
11,59
61
0,262
0,275
27,583
40,278
53
0,136
0,145
1,178
1,194
53
0,136
0,145
1,022
1,182
54
0,149
0,159
0,478
0,617
70
0,454
0,466
0,342
0,314
68
0,408
0,421
0,073
0,168
36
0,019
0,019
0,585
0,517
50
0,102
0,109
0,744
0,274
2
0,000
0,000
0,096
0,250
59
0,226
0,239
0,923
0,871
68
0,408
0,421
0,002
-0,130
42
0,040
0,044
0,004
0,194
57
0,191
0,205
0,001
-0,004
45
0,058
0,064
0,178
0,127
48
0,083
0,089
0,046
0,037
65
0,343
0,356
0,538
0,958
65
0,343
0,356
0,779
1,090
31
0,000
0,000
195
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“Un confronto tra forme istituzionali d’impresa: Il caso del settore caseario in Sardegna”
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Articoli tratti da:
La nuova Sardegna
Sardegna Economica
Sardegna Industriale
Agrisole
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tesi di laurea vincitrice del premio “carmelo azzarà” edizione