Ken Loach torna con una storia che coinvolge disoccupati, giovani sbandati e in generale persone che vivono ‘ai
margini’, ma torna a farlo attraverso una commedia umoristica. Perché, dice il regista, c’è bisogno di smettere di
pensare in termini vittimistici e trovare la forza e la fantasia per cambiare davvero le cose.
scheda tecnica
titolo originale:
durata:
nazionalità:
anno:
regia:
sceneggiatura:
fotografia:
montaggio:
scenografia:
musica:
distribuzione:
THE ANGELS’ SHARE
106 MINUTI
GRAN BRETAGNA, FRANCIA, BELGIO, ITALIA
2012
KEN LOACH
PAUL LAVERTY
ROBBIE RYAN
JONATHAN MORRIS
FERGUS CLEGG
GEORGE FENTON
BIM
PAUL BRANNIGAN (Robbie), JOHN HENSHAW (Harry), ROGER ALLAM
interpreti:
(Thaddeus), GARY MAITLAND (Albert), ASMINE RIGGINS (Mo), WILLIAM RUANE (Rhino), SIOBHAN REILLY
(Leonie), CHARLIE MACLEAN (Rory McAllister), DAVID GOODALL (Angus Dobie), LORNE MACFADYEN
(Matthew/PC), PAUL DONNELLY (Jamie), JIM SWEENEY (Beanpole), LYNSEY-ANNE MOFFAT (Grace), SCOTT KYLE
(Stephen Clancy), RODERICK COWIE (Anthony), LYNSEY LAWRIE (La ragazza di Anthony).
premi:
Festival di Cannes 2012: Premio della Giuria
Ken Loach
Uno dei più grandi registi europei viventi, Ken Loach ha al suo attivo una lunga filmografia come regista, dedicata
a esplorare con toni diversi i problemi delle classi più disagiate e i conflitti sociali. All'anagrafe Kenneth Loach, è
nato a Nuneaton, in Inghilterra, il 17 giugno 1936.
Dopo un'infanzia caratterizzata da frequenti trasferimenti insieme alla famiglia a causa della guerra, da ragazzo
prestò servizio militare nella Royal Air Force. Concluso il servizio militare, a 25 anni, si stabilì a Oxford per
studiare legge al St Peter's College dell'Università di Oxford. Qui entrò in contatto con il gruppo di teatro
sperimentale dell'università, iniziò a recitare e ne divenne presidente.
Dopo l'università, recitò e diresse spettacoli teatrali prevalentemente presso Birmingham. Nel 1962 si sposò con
Lesley Ashton (sua attuale moglie) dalla quale ha avuto 5 figli. Nello stesso periodo iniziò a lavorare come aiuto
regista per la ABC Television. Passò poi alla BBC come tirocinante quando questa stava per lanciare il proprio
secondo canale. In questi anni ebbe inizio la sua collaborazione con Tony Garnett, produttore con il quale aveva
in comune la cultura politica socialista. Con Garnett, Loach realizzò 10 episodi di The Wednesday Play, che in
quegli anni rivoluzionarono il dramma televisivo britannico creando il genere del docu-drama, che utilizzava
tecniche documentaristiche per raccontare storie di fantasia, con l'obiettivo di creare consapevolezza politica
negli appartenenti alla classe operaia e al ceto medio. Questo spirito ha poi caratterizzato tutta la sua ampia
produzione successiva, con l’introduzione anche nel cinema di uno stile e un modo di raccontare di forte
realismo. Dopo alcune regie televisive, tra le quali va ricordata la serie "Cathy Come Home" che ha causato
direttamente una modifica delle leggi britanniche sui senzatetto, Loach ha girato il suo primo film per il grande
schermo, Poor Cow (1967), interpretato da Carol White e Terence Stamp, seguito da Family Life (1971), con la
straordinaria Sandy Ratcliff.
Nonostante la sua indiscutibile qualità, il cinema di Loach è stato penalizzato per più di vent'anni per ragioni
politiche, e soltanto dal 1990 in poi i film del regista inglese sono stati distribuiti regolarmente, almeno in Europa.
Durante i lunghi anni di governo di Margaret Thatcher, Ken Loach ha realizzato diversi documentari per la
televisione (i più noti sono quelli girati nel 1984 durante gli scioperi dei minatori), molti dei quali non sono mai
andati in onda. Con L'agenda nascosta (1990), vincitore del Premio speciale della giuria al Festival di Cannes del
1990, Riff-Raff ' Meglio perderli che trovarli (1990), Felix 1992 per il miglior film europeo, Piovono pietre (1993),
Premio speciale della giuria a Cannes nel 1993, Ladybird Ladybird (1994) e Terra e libertà (1995), Premio
internazionale della critica nel 1995 e ancora una volta Premio speciale della giuria al Festival di Cannes, Loach è
entrato definitivamente nel Pantheon dei grandi registi europei.
Già protagonista di Riff-Raff, Robert Carlyle ha interpretato il conducente d'autobus George nel film La canzone
di Carla (1996), diventando così l'attore più ricercato dai cineasti britannici, che considerano Loach un maestro
da seguire. Dopo My Name Is Joe (1998), il regista inglese ha diretto Bread and Roses (2000), con Pilar Padilla e
Adrien Brody, il primo film di Loach girato negli Stati Uniti, poi tra i tanti Sweet Sixteen (2002) e Un bacio
appassionato (2004). Nel 2005, sulla soglia dei settant'anni, il premio più atteso: con The Wind That Shake The
Burley (sulla guerra fratricida fra Irlanda e Inghilterra) si è aggiudicato la Palma d'Oro. Nel dicembre 2003
l'Università di Birmingham gli ha conferito una laurea honoris causa in Lettere.
In questo mondo libero(2007) torna sul tema del lavoro, ma questa volta racconta una storia da un punto di vista
diverso, quello di una sfruttata che si fa sfruttatrice nel duro ambiente del lavoro interinale. Con questa
sceneggiatura Paul Laverty (da sempre autore dei film di Loach) ha vinto il premio per la migliore sceneggiatura
alla Mostra del cinema di Venezia.
Nel 2009 esce Il mio amico Eric. La pellicola viene presentata al Festival di Cannes 2009, aggiudicandosi il premio
della Giuria Ecumenica: non è la prima volta che Loach utilizza il registro della commedia, ma questo è di gran
lunga il suo film più umoristico, pur mantenendo il suo potere di spingere a una resistenza sociale in vista di un
mondo migliore. Nel 2010 esce Route Irish (in Italia con il titolo L'altra verità) presentato in concorso al Festival di
Cannes. Il film prende il nome dalla famigerata Route Irish: la strada più pericolosa al mondo che congiunge
l'aeroporto di Baghdad con la green zone della capitale irachena. L'ultimo lavoro di Loach, The angel share (La
parte degli angeli) torna alla vena umoristica già sperimentata con successo soprattutto ne Il mio amico Eric.
La parola ai protagonisti
Intervista a Ken Loach
Il film mette fuoco ancora una volta la disoccupazione giovanile in Gran Bretagna, ma con un approccio più
leggero e ottimista rispetto alla tua abituale filmografia
Quando avevo vent’anni, la stessa età dei ragazzi protagonisti della storia, ero fiducioso perché quelli erano
tempi in cui il vento portava ottimismo. A cavallo tra gli anni 50 e 60 la gente lavorava per la collettività, le
persone avevano affrontato il periodo della guerra insieme ed insieme avevano ricostruito la pace, ci si aiutava gli
uni con gli altri. Oggi l’umore generale è tutt’altro che ottimistico, siamo in competizione tra noi, non c’è
collaborazione, si lavora per la propria sopravvivenza perché le società sono al collasso. Ma il pessimismo finirà
quando ci ricorderemo che tutto ciò che ci ha portato allo stato attuale di depressione economica non è un atto
divino o di Madre Natura. È l’uomo il solo responsabile. Possiamo cambiare la nostra sorte, bisogna trovare
l’energia per farlo. È quello a cui cerco di contribuire con questo film. In fondo, la commedia è tragedia col lieto
fine.
Il tuo film cerca di ribaltare alcuni stereotipi relativi ai disoccupati?
Mi premeva mostrare l’altra faccia dei personaggi marginali ed emraginati dal mercato del lavoro, la loro energia,
la loro speranza e creatività. Non possiamo dire a queste persone: tu non hai niente, non puoi fare niente.
Dipende anche da noi cambiare qualcosa. La domanda è chi siano gli angeli inquesta storia: sono proprio loro, le
persone che stanno ai margini. L’angelo è la persona che ci permette di cambiare.
Il pericolo quando si racconta una storia triste che coinvolge persone infelici o sfortunate, è che si rischia di fane
delle vittime. In questo modo diventano molto prevedibili.
Chi ha avuto l’idea del whisky?
È stato Paul [Laverty], e il motivo è che il whisky è pieno di contraddizioni. È la bevanda nazionale scozzese, ma i
giovani non possono berla perché costa troppo. Introdurre questi personaggi in un mondo che non è il loro
sembrava il modo adatto di creare delle potenziali sorprese ed elementi umoristici. Si evidenzia subito il
contrasto tra la durezza della vita dei lavoratori e degli abitanti di Glasgow e il linguaggio pretenzioso e sofisticato
degli estimatori di whisky, mischiando tragicità e umorismo.
Quanto sono importanti per te gli attori?
È fondamentale scegliere gli attori giusti, che riescano davvero a diventare quei personaggi: a quel punto diventa
una sorta di documentario su di loro. Non devono far altro che mostrare se stessi. Perciò in questo caso è stato
cruciale trovare attori simpatici, dotati di senso dell’umorismo.
Com’è cambiata la società, in questi anni?
Quando eravamo giovani volevamo fare la rivoluzione e uccidere il capitalismo. Non abbiamo fatto la rivoluzione,
ma il capitalismo è morto. La crisi del capitalismo è ora. Stiamo facendo a pezzi tutti gli elementi che rendono
civile una società. Togliamo il sostegno ai disabili, costringiamo i giovani a stare a casa con i genitori senza
speranza di lavoro e di una casa, affolliamo gli ospedali e abbassiamo la qualità dei servizi, non possediamo più
nulla e gli standard della vita civile sono distrutti. Abbiamo bisogno di un nuovo motore, mai come ora.
Come mai hai rifiutato il Premio Gran Torino all'appena concluso TorinoFilmFest?
In nome dei lavoratori sfruttati, sottopagati o licenziati ingiustamente dal Museo Nazionale del Cinema di Torino.
È stato triste quando uno dei direttori del Museo ha detto che ero un megalomane. Mi dispiace non tanto degli
insulti ma che abbiano detto che non volevo incontrare i lavoratori, anche perché oggi sarò da loro a Torino. Io ci
sarei andato al Festival, ma solo per presentare il film. Però non hanno voluto. Il punto non è che io vada o non
vada a un festival, il punto è che c'è gente che perde il lavoro, gente che ha un salario da fame, gente cui non
viene permessa una rappresentanza sindacale. Non è una questione nata oggi, già in agosto ne parlavo con i
responsabili del Museo del Cinema, lo hanno riconosciuto, mi hanno scritto una mail dicendo che erano
consapevoli di questi problemi e che condividevano le mie preoccupazioni. Mi dicevano anche che avrebbero
fatto di tutto per risolvere i problemi con questi lavoratori. Ma nulla si è risolto e il punto è che secondo me il
datore di lavoro ha responsabilità nei confronti dei lavoratori, anche esternalizzati, mentre per il direttore del
Museo del Cinema il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile per il comportamento di terzi e non
può intervenire. Ora, non voglio dire che il Museo sia come una grande azienda ma, se accettiamo questo
principio, qualsiasi grande azienda può scaricare su altri la responsabilità dei lavoratori esternalizzati.
Esiste ancora, oggi, un cinema davvero impegnato?
Anche oggi ci sono molti interessati al cinema sociale, ma tutto è diverso rispetto agli anni Sessanta e Settanta.
Oggi tutti dicono che il cinema dipende dal mercato e da nient'altro, e così i registi stessi trasformano le loro
idee, anche inconsciamente, per renderle più appetibili, ma ciò non significa che non siano impegnati. Si
adeguano. Il problema di solito non riguarda i cineasti, ma chi li finanzia, il fermento c'è anche nella società e non
solo nel cinema, ma chi finanzia non è interessato a far sapere cosa succede nel mondo.
E cosa succede nel mondo?
Succede che più il capitalismo si sviluppa, più la disoccupazione aumenta, perché le grandi multinazionali hanno
bisogno della disoccupazione di massa per tenere basso il costo del lavoro, è una caratteristica del capitalismo e
come sinistra bisogna trovare qualcosa che ci permetta di combattere l'idea che il mercato sia l'unica strada
percorribile.
Che cosa ne pensa del centrosinistra?
Non credo che esista qualcosa del genere... Puoi essere a favore dell'economia di mercato e della deregulation, e
in questo caso sei a destra... l'alternativa è essere a favore di un'economia pianificata, ed è che in quel caso che
sei a sinistra... bisogna ricordare a quelli che stanno al centro che di solito quando siete al centro della strada vi
investono.
Che ne pensi dell'Unione Europea?
Un'organizzazione neoliberista, in Grecia si sta svendendo quello che c'è e il rapporto tra le multinazionali e i
politici che parlano con loro è proprio quello che dobbiamo riuscire a infrangere. Eppure anche in Inghilterra c'è
un centrosinistra che ripete che si deve procedere con le misure di austerità, ma lentamente. Ma, io dico, se
bisogna essere strangolati, cosa aiuta farlo lentamente?.
Il momento più difficile nella tua vita di cineasta?
Il periodo più difficile è stato negli Ottanta, quando è arrivata la Thatcher. Ciò che è accaduto nel nostro paese
era talmente estremo che io non sapevo neppure rispondere dal punto di vista cinematografico, in pochi mesi si
è passati da 500mila a 3milioni di disoccupati, le fabbriche chiudevano, i sindacati facevano battaglie che non
potevano vincere e la situazione era incontrollabile. Eravamo in mezzo a una tempesta, e in quel periodo perciò
ho cercato di fare solo documentari. Ne ho fatti circa sei attraverso società televisive, uno è stato rifiutato,
quattro banditi del tutto, dunque mi son fatto la reputazione cattiva di qualcuno che faceva dei film che nessuno
voleva trasmettere. Qualcuno mi ha detto che non sapevo neppure dirigere il traffico. Allora sono tornato a
teatro con una piéce che criticava il sionismo, ma una settimana prima che andasse scena, il direttore di uno dei
teatri centrali di Londra diede il testo a uno dei rappresentanti sionisti, successe di tutti sui media e anche il
teatro più progressista di Londra non mi fece andare in scena .Questo è stato il periodo più difficile per me, i
tremendi anni Ottanta.
Ti è mai venuta voglia di venire qui in Italia a vedere che cosa succede ai lavoratori?
In realtà ci sono cose incredibili che avvengono ai lavoratori in ogni paese, ma io non so se sarei in grado di
raccontarle. Nel mio paese capisco nelle sottigliezze ciò di cui parlo, ma qui i Italia non le comprenderei. Credo
che in Italia ci siano buoni registi e sceneggiatori che potrebbero farlo.
Resta il dubbio: chi può farlo come il grande Ken?
Recensioni
Roberto Escobar. L'Espresso
La parte degli dèi era quella che, nei sacrifici, i Greci riservavano agli Olimpi. Era cioè la carne trattenuta dai
sacerdoti, detti per questo parassiti (alla lettera, che mangiano presso altri). La parte cui invece rimanda già nel
titolo la fiaba sottoproletaria di Ken Loach e dello sceneggiatore Paul Laverty è quel due per cento che il whisky
perde per ogni anno di stagionatura, e che - come si dice nelle Highlands - si bevono gli angeli. Né creature celesti
né infernali, ma solo poveri diavoli sono i protagonisti di “La parte degli angeli”. In compagnia di altri ladruncoli e
“parassiti” sociali, il giovane Robbie (Paul Brannigan) sta pagando il proprio debito verso la legge con qualche
centinaio di ore di lavoro socialmente utile. Sa però che mai troverà un impiego, e che mai potrà mantenere il
figlio appena avuto da Leonie (Siobhan Reilly). Per lui, nella Glasgow operaia del dopoThatcher e del dopo-Blair
nel futuro non c’è che la galera. Solo Harry (John Henshaw), il responsabile del gruppo di lavoro, è disposto a
dargli un’altra e forse ultima possibilità. Come un padre, lo aiuta nel suo sforzo di diventare egli stesso un buon
padre, e nei ritagli di tempo lo introduce ai piacevoli misteri del whisky. E Robbie ha un tal buon naso e buon
palato da distinguere presto quello gramo da quello ottimo e da quello eccezionale. Se il film di Loach fosse
(solo) realistico, la sua conclusione sarebbe tragica. Troppo povero e troppo segnato da risse e violenze, Robbie
non può entrare nel mondo che la legge considera pulito. Troppo debole e troppo legato a Leonie e al figlio, non
può nemmeno farsi largo nel mondo che prospera ai bordi della legalità, o fuori. Per l'uno e per l'altro non è che
una bestia da sacrificio, e da macello. Perché allora non provare a capovolgere il fato? Allo scopo, basterebbe
saper annusare bene un whisky da collezionisti miliardari, e venderne in giro qualche bottiglia, magari con l’aiuto
di altri come lui, esclusi da ogni futuro. È qui che il realismo si trasfigura in fiaba, in una fiaba con il gusto pieno e
profumato di un malt mill delle Highlands. Per una volta, e alla faccia dei disastri sociali di quel liberismo che da
sempre Loach racconta, i poveri diavoli si riprendono la parte che loro spetta. Difficilmente gli angeli ne saranno
dispiaciuti.
Giancarlo Zappoli. Mymovies
lasgow. Il giovane Robbie, già recidivo, evita il carcere perché il giudice decide di puntare sulla sua capacità di
recupero visto che la sua altrettanto giovane compagna sta aspettando un figlio. Viene così affidato a Rhino che è
il responsabile di un gruppo di persone sfuggite al carcere e condannate a compiere lavori socialmente utili.
Dopo aver assistito a un pestaggio, di cui Robbie diviene vittima nel momento in cui decide di andare in ospedale
per vedere il bambino, Rhino decide di aiutarlo. Scoperta la sua particolare sensibilità gustativa per quanto
riguarda i vari tipi di whisky decide di introdurlo nell'ambiente. È così che a Robbie e ad alcuni suoi compagni di
rieducazione viene l'idea di un 'colpo' del tutto anomalo che però potrebbe offrire loro un futuro sereno.
Ken Loach torna a riflettere sulla commedia umana, arte nella quale è indiscutibilmente maestro. Sceglie lo
scenario della Glasgow che ama e ci offre il ritratto di uomini segnati dalla vita privilegiando tra tutti quello del
giovane Robbie. È a quelli che questo nostro mondo libero etichetta come irrecuperabili che, ancora una volta
rivolge la sua attenzione. Perché Loach è convinto che la possibilità di un riscatto sociale vada più che mai offerta
in questi nostri tempi in cui il Dio Mercato reclama ingenti e quotidiani sacrifici umani.
Con il fido sceneggiatore Paul Laverty utilizza come leva narrativa il momento che, per ogni essere umano degno
di questo nome, è costituito dalla nascita di un figlio. Decidere di averlo nonostante tutto significa, oggi, sperare
apparentemente contro ogni speranza. È quello che fanno Robbie e la sua compagna Leonie contro il padre e i
familiari di lei. In una società che conta più sulla ricaduta del delinquente (per poterlo allontanare a lungo dalla
comunità) che sul suo redimersi la giovane coppia trova però ancora delle significative solidarietà. Perché il
socialismo di Loach è di stampo umanitario e crede che sia ancora possibile quella pietas che i latini sapevano
definire sgombrandola da ogni retorica commiserevole. Ecco allora che il 'dannoso' alcol, nelle specie di
pregiatissimo whisky, finisce con il divenire strumento di riscatto in una storia che unisce con grande equilibrio
dramma e sorriso e che (a differenza del prezioso liquido) va gustata appieno, senza moderazione.
Stefano Solinas. Il Giornale
Come affrontare la crisi economica? Ridendoci sopra, sembrano dirci Ken Loach e il duo Benôit Delépine e
Gustave Kerven, presenti in concorso il primo (Angel s Share), nella sezione Un certain regard il secondo (Le
grand soir). La commedia, coniugata sul versante comico-satirico, non fa generalmente parte del menu cinefilo
del Festival, ma il regista inglese e i suoi colleghi francesi la fanno talmente bene che potrebbero essere apripista
di un nuovo corso.
Angel s Share, la parte dell angelo, rimanda nel titolo alla quantità di whisky che evapora durante la lavorazione.
Loach mette in scena un giovane teppista, Robbie (Paul Brannigan), che vorrebbe mettere la testa a posto, ma
non riesce a uscire dall ambiente in cui si è sempre mosso: molta disoccupazione, poca istruzione, tanto alcol e
rabbia. Scampato alla prigione, l incontro con un degustatore di whisky gli darà la chance per uscire dalla
precarietà. Angel s Share è un susseguirsi di battute e turpiloquio, ritmo serrato, buona interpretazione. Le grand
soir affida invece a Poelvoorde e Dupontel (ambedue in forma smagliante) il compito di esprimere la scelta punk
rispetto al mondo del lavoro borghese. Il primo, che si è ribattezzato Not, è «il più vecchio punkabbestia
d Europa»; suo fratello, tatuatosi sulla fronte il nuovo nome, Dead, morto, ne seguirà la strada. Vogliono la
libertà, ma non la lotta o la rivolta. E infatti amano i centri commerciali perché ci si scalda d inverno, fresco
d estate e nessuno ti deruba». «La nostra idea - dicono i registi - è che le rivoluzioni sono individuali. Spaccare o
invitare alla distruzione serve a nulla».
Alberto Crespi. L'Unità
È un vecchio luogo comune con un grande fondo di verità: le commedie, ai festival, fanno ridere il doppio.
Grande è stata quindi la letizia nel vedere The Angels' Share, nuovo film di Ken Loach. Il vecchio Ken conosce
bene l'arte della risata (qualche anno fa, sempre in concorso a Cannes, ci fece scompisciare con Il mio amico Eric,
il film con Cantona). Ovviamente, sempre di comicità a sfondo sociale si tratta.
Ken Loach, inglese di 76 anni, è alla 46esima regia in quasi mezzo secolo di carriera contando anche i corti, gli
episodi e i lavori per la televisione. È un regista, fortunatamente per noi, molto prolifico. Il suo fido sceneggiatore
Paul Laverty ha scritto 12 film per lui a partire da La canzone di Carla, 1996. Il loro team è ormai consolidato e
lavora a ritmi che per certi versi sono una garanzia (non passa anno senza che ad uno dei festival principali,
Cannes Venezia e Berlino, ci sia un nuovo Ken Loach). Ma per altri versi, va detta una verità che vale per tutti i
registi così iperattivi (tranne, forse, John Ford e Alfred Hitchcock): è impossibile firmare solo capolavori. Loach ha
una media altissima: dei film scritti con Laverty, almeno cinque (My Name Is Joe, Sweet 16, Il vento che accarezza
l'erba, In questo mondo libero e Il mio amico Eric) sono dei gioielli. Gli altri sono film «normali», perché Loach
non ha mai fatto un film brutto in vita sua e questo è un dato semplicemente incredibile. Tutto questo per dirvi di
non gridare al sacrilegio se ci accingiamo a dirvi che La parte degli angeli è un Loach minore. Appartiene alla
categoria dei film «di squadra», e ricorda un po' Paul, Mick e gli altri; è anche uno di quei titoli in cui Loach e
Laverty inseriscono robuste dosi di ironia, arrivando ad un genere che potremmo battezzare - in questo caso «commedia alla scozzese». Lo scozzese della banda è Laverty, scrittore che spesso si diverte a raccontare le follie
della propria terra e a scrivere dialoghi in quella lingua aspra, dalle «erre» rombanti, che solo con molta
generosità si può definire «inglese». Sappiate che La parte degli angeli, ascoltato in originale, è un film
virtualmente incomprensibile per chiunque non sia nato al Nord del vallo di Adriano. Ovviamente, anche una
commedia di Loach parte da una serrata analisi del contesto sociale in cui si muovono i personaggi. [...] Il suo
cinema è percorso da un filo rosso, la concezione anti-capitalista e ben poco convenzionale della legalità. Uno dei
suoi capolavori, Piovono pietre, era tutto costruito su questo tema. Qui non siamo a quei livelli, né si ride di cuore
come nello strepitoso Il mio amico Eric. Ma il film è simpatico, e i fans lo gradiranno.
Fabio Ferzetti. Messaggero
Il riscatto in un bicchiere di whisky. Anzi in una botte. È la parabola del nuovo film di Ken Loach, che appartiene al
lato sorridente del suo cinema, quello che va da Riff-Raff al Mio amico Eric. Fiabe moderne, spesso irresistibili,
più che commedie. Perché la speranza è l’ultima a morire, specie per gli ultimi della lista. E il vecchio Ken, 76 anni
e neanche un compromesso, è uno dei pochi ancora capaci di accendere l’immaginazione degli spettatori senza
umiliarne l’intelligenza.
Il protagonista di La parte degli angeli si chiama Robbie, ha una ventina d’anni e sta per diventare padre. Ma
questa è l’unica porta aperta che gli rimane. Il tribunale lo ha appena condannato a 300 ore di lavori socialmente
utili per violenza e teppismo; i nemici di suo padre lo cercano per fargli la pelle, perché in certi ambienti si
ereditano solo i guai; il padre della sua ragazza, un tipaccio che ha fatto i soldi, lo cerca per cacciarlo da Glasgow;
e Robbie non può nemmeno difendersi se non vuole perdere tutto.
Però ha un dono, anche se non lo sa. Non solo è sveglio, intelligente, attento agli altri malgrado tutto
(ammirevole per intensità e concisione la breve scena che lo vede a confronto con una delle sue vittime e i suoi
familiari). Ma ha un naso infallibile. E abbastanza fantasia per metterlo a frutto, in modo non esattamente legale,
quando il caso gli fa visitare una distilleria di whisky e incontrare una serie di esperti che saranno suoi complici,
più o meno involontari, in un colpaccio che segna il suo riscatto. E darà una nota di speranza anche al pugno di
coetanei che lo accompagnano nell’impresa. Perché Loach è un regista corale, scuola Monicelli; e se uno solo ce
la fa, tutti, per folli o disperati che siano, meritano amore e comprensione. Come Robbie scopra il suo talento,
come lo coltivi studiando il vocabolario del whisky, come Loach stenda su questo mondo di fanatici e bottiglie
vendute a prezzi astronomici un velo di interesse e insieme di ironia, converrà scoprirlo al cinema. Ma è bello che
dietro il colpaccio di Robbie ci sia anche il sogno, qualcosa in cui credere, un mistero che dona piacere solo a chi
ha disciplina, passione, fiuto. Il riscatto, in fondo, inizia lì.
Alessandra Levantesi. Avvenire
Continuano a piovere pietre sulla testa degli inglesi, oggi più che mai. Con la disoccupazione giovanile alle stelle e
un futuro incerto all’orizzonte non c’è molto da stare allegri. Eppure Ken Loach riesce a regalarci sull’argomento
una divertente commedia ricca di speranza, una favola magica e realistica al tempo stesso sull’importanza di una
seconda possibilità nella vita.
Ambientato ancora una volta a Glasgow e sceneggiato dal bravo Paul Laverty, The Angels’ Share (in Italia lo
distribuisce Bim) è la storia di un gruppo di giovani impegnati in lavori socialmente utili per rimediare a piccoli
furti e comportamenti aggressivi. Tra questi c’è Robbie (il non professionista Paul Brannigan) che ogni giorno
deve difendersi dall’assalto di due individui che gli danno il tormento, così come i loro padri avevano perseguitato
il suo.
Ma Robbie ha appena avuto un figlio al quale ha promesso di non reagire più alla violenza con la violenza. Le
buone intenzioni non bastano però a costruire una vita quando non hai un lavoro. Un giorno Robbie si accorge di
avere un fiuto eccezionale per il whiskey e quando scopre l’esistenza di un’annata davvero speciale per il liquore,
venduto a cifre da capogiro, organizza un’ingegnosa rapina in una celebre cantina sulle colline scozzesi. Venderà il
prezioso liquore a un collezionista, ma in cambio chiederà soprattutto un lavoro che possa finalmente regalargli
un futuro insieme alla sua nuova famiglia.
«Quando ti nasce il primo figlio – commenta lo sceneggiatore – la vita cambia per sempre. Questo straordinario
evento ti catapulta improvvisamente nel futuro e cominci a farti domande molto più pratiche e profonde.
Presente, passato e futuro acquistano una dimensione diversa quando hai qualcuno di cui prenderti cura. A
queste considerazioni si è aggiunta quella sulla mancanza di lavoro e prospettive per i giovani che non sono sicuri
di potersi sottrarre a un destino già segnato». «Nell’ultimo anno i giovani disoccupati hanno superato per la
prima volta il milione – aggiunge Loach – e bisogna chiedersi che effetto avrà questo sulle loro esistenze. Ma
nella vita delle persone accadono anche cose molto divertenti e questa volta ho raccontato proprio queste».
Di economia criminale tratta invece il deludente Killing Them Softly di Andrew Dominik, violento gangster movie
interpretato tra gli altri da Brad Pitt e James Gandolfini. Anche i killer al tempo della crisi se la passano male,
costretti a viaggiare in seconda classe e ad accontentarsi di un salario più basso. D’altra parte mentre Pitt dà la
caccia a due balordi che hanno rapinato un tavolo di poker illegale, Bush e Obama, alla radio e in tv, non fanno
che ricordarci quanto sia difficile la situazione attuale.
Parlatissimo, costellato di pestaggi ed esecuzioni che al rallentatore mostrano con una buona dose di
compiacimento teste che esplodono e volti ridotti in poltiglia, il film si conclude con una cinica frase che la dice
lunga sull’oggi. «Dicono che l’America sia una comunità, ma la verità è che ognuno di noi è solo. Questo non è un
paese, ma un business, quindi pagami!». «Molti film americani – dice il regista – non rispecchiano davvero il
paese. L’unico genere che lo rappresenta davvero è quello criminale che mostra i lati più oscuri del capitalismo».
«Non mi identifico con il cinismo del mio personaggio – aggiunge Pitt, acclamatissimo dalle fans – perché
l’America è un paese ricco di ideali e giustizia, ma non possiamo far finta che questi valori siano a rischio. Le
parole che pronuncio alla fine denunciano il rischio di un fallimento».
Mariarosa Mancuso. Il Foglio
“John Wayne è nella tomba da sei mesi, e guarda come si è ridotta l’America”. La linguaccia di Alan Arkin –
produttore del finto film che servirà a tirare fuori sei ostaggi americani da Teheran, in barba ai guardiani della
rivoluzione e all’Ayatollah Khomeini – intreccia il cinema con la politica. Poteva funzionare come slogan per la
campagna elettorale appena conclusa: entra perfettamente in un tweet, manca solo qualcosa di paragonabile a
John Wayne, per entrambi gli schieramenti. Il produttore, che chiamano Lester Siegel, è l’unico personaggio
inventato dallo sceneggiatore Chris Terrio (segnatevi il nome per gli Oscar). Non di sana pianta, naturalmente. In
gran parte si ispira a Jack Warner, il fondatore della Warner Bros. [...]. Non è inventato John Chambers, che nel
finto studio di produzione faceva il truccatore, mentre per davvero aveva fabbricato le maschere del “Pianeta
delle scimmie” e le orecchie a punta del dottor Spock (nel film, l’attore è l’immenso John Goodman). Studio Six
Production era il nome della ditta, installata a tempo di record negli uffici dove Michael Douglas aveva lavorato
per “Sindrome cinese”. Fu trovata una sceneggiatura fantascientifica così confusa che era difficile capirci qualcosa
(“Star Wars” aveva fatto il botto, si cercavano altre miniere d’oro, e deserti come quello dell’Iran). Fu stampato
un manifesto con la scritta “Argo”, il buco di una pallottola, lo slogan “A Cosmic Conflagration”. Tutto a prova di
controlli: la fantasia nella copertura era pari soltanto al rischio dell’azione in territorio nemico. Così a prova di
controlli che lo Studio Six Production ricevette una ventina di vere sceneggiature, una a firma Steven Spielberg.
Intanto a Teheran si era aperta la caccia agli americani spariti: i ragazzini facevano i puzzle con le striscette
recuperate dalla macchina che tagliuzzava i documenti. Ben Affleck – dimenticate l’orribile “Gigli” con Jennifer
Lopez – porterà a casa una pioggia di Oscar. Così anni Settanta che c’è anche il pulmino Volkswagen.
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