1 LAUREA HONORIS CAUSA A MARIO DRAGHI Laudatio di Marcello Messori I. PERCHE’ UNA LAUREA IN ‘RELAZIONI INTERNAZIONALI’ I.1. L’attività accademica Mario Draghi ha iniziato la sua carriera come economista accademico. Pochi anni dopo essersi laureato in Economia con Federico Caffè presso l’Università ‘la Sapienza’ di Roma (1970) e prima ancora di aver completato il suo dottorato negli Stati Uniti (Ph.D. a M.I.T. nel 1977), egli venne nominato professore incaricato presso l’Università italiana. Le sue sedi di insegnamento sono state Trento, Padova, Venezia e Firenze. Nel 1980, egli vinse il concorso nazionale per professore ordinario; e ha mantenuto tale ruolo per un decennio presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Firenze. Durante questo periodo accademico, Draghi ha pubblicato vari contributi. Qui ricordo il volume Produttività del lavoro, salari reali e occupazione (Milano 1980) e l’introduzione e la cura (insieme a R. Dornbusch) del volume Public debt management: Theory and history (Cambridge 1990). Nel primo scritto, riprendendo parte dei risultati raggiunti nella sua tesi di Ph.D. e in altri lavori svolti presso M.I.T., l’autore sottopone a critica teorica ed empirica la posizione allora prevalente, secondo cui -­‐ nel breve periodo -­‐ i rendimenti del lavoro sono crescenti e la relazione fra salari reali e occupazione è positiva; e, su tale base, pone in discussione i capisaldi della teoria marginalista della distribuzione del reddito in presenza di lavoratori eterogenei. Nel secondo scritto, egli esamina invece -­‐ insieme a Dornbusch -­‐ alcuni dei problemi e degli aspetti positivi legati alle dinamiche del debito pubblico e all’emissione di strumenti per il relativo finanziamento. Come risulta evidente già dalle poche considerazioni svolte, i due volumi affrontano temi teorici ed empirici molto diversi. In termini di policy, questi temi sono però accomunati dal fatto di essere ancora oggi cruciali per la crescita economica di molti Paesi europei. Basti considerare che, fra la fine del 2009 e l’inizio del 2010, l’Unione economica e monetaria europea (EMU) ha dovuto fronteggiare una grave crisi dei debiti sovrani; tale crisi ha dapprima colpito la Grecia, poi l’Irlanda e il Portogallo e infine, dalla metà del 2011, si è estesa all’Italia e alla Spagna fino a determinare una grave recessione nell’area dell’euro e a metterne a rischio la stessa sopravvivenza. A ciò si aggiunga che, dalla seconda metà degli anni Novanta, l’economia italiana ha fatto segnare sia il più basso tasso di crescita che la peggiore dinamica della produttività del lavoro nell’ambito dell’Unione europea (EU). I.2. Gli impegni istituzionali Pur essendo “andato in cattedra” in giovane età e pur essendo inserito in una stimolante rete internazionale di ricerca, Mario Draghi ha presto associato all’impegno accademico quello di adviser istituzionale e di policy maker. Anzi, dopo aver svolto alcuni incarichi pubblici nazionali e internazionali nei primi anni Ottanta, fin dalla metà di quel decennio egli ha lasciato prevalere l’impegno istituzionale su quello accademico. Infatti, dopo essersi spostato a Washington come Direttore esecutivo della Inter-­‐American Development Bank, fra il 1984 e il 1990 Draghi ha funto 2 da Direttore esecutivo italiano presso la Banca mondiale1; poi, nel 1990, egli è stato consulente della Banca d’Italia e, dal 1991 al 2001, ha svolto il ruolo di Direttore generale del Tesoro. Nel corso di quest’ultimo impegno, Draghi ha anche ricoperto importanti incarichi internazionali. Nella seconda metà degli anni Novanta, egli ha presieduto il Comitato dei supplenti del G-10, che ha
prodotto diversi rapporti (fra i quali va almeno ricordato quello sulla stabilità finanziaria nei paesi
emergenti); inoltre, egli è stato membro e – poi -­‐ Presidente del Working Party 3 dell’OECD (1999-­‐
2001), composto dai rappresentanti dei Ministeri del Tesoro e delle Banche centrali di tutti i principali Paesi e dedicato alla promozione di un miglior equilibrio nei pagamenti internazionali2; infine, fra il 2000 e il 2001, è stato Presidente del Comitato economico e finanziario dell'EU3.
Soprattutto l’esperienza alla Banca mondiale e le funzioni svolte nei gruppi appena citati hanno consentito a Draghi di costruire solide e importanti relazioni internazionali e di porre, su nuove basi, preesistenti legami accademici. Basti ricordare al riguardo che, fra il 1988 e il 1990, il Capo economista della Banca mondiale è stato Stanley Fisher che aveva conseguito il proprio Ph.D. a M.I.T. alla fine degli anni Sessanta (1969) ed era stato, poi, nominato professore alla Sloan School (sempre di M.I.T.) nell’anno in cui Draghi completava il suo già ricordato dottorato (1977); e che il predecessore di Draghi alla guida del Working Party 3 è stato lo statunitense Larry Summers e il successore il britannico Mervyn King. Anche l’esperienza presso il Ministero del Tesoro, aperta dalla complessa negoziazione del Trattato di Maastricht (1991-­‐92)4 e dalla grave crisi monetaria e fiscale del 1992 e attraversata dalla conseguente stagione delle privatizzazioni delle imprese a partecipazione statale, è stata rilevante per rafforzare il ruolo internazionale di Draghi. La gestione della crisi, i numerosi road show per il sostegno dei processi di dismissione della proprietà pubblica e la faticosa ma riuscita convergenza verso i requisiti imposti dall’euro hanno proiettato Draghi in una posizione di grande visibilità e rilievo sulla scena europea e internazionale e hanno ampliato e rinsaldato i suoi rapporti con le istituzioni e con il mercato. All’inizio del nuovo secolo, tali attività pubbliche si sono interrotte per lasciare spazio a un periodo di studio presso la School of Government dell’Università di Harvard e a un’esperienza nel settore finanziario privato come Vice-­‐presidente e Direttore esecutivo per l’Europa di Goldman Sachs (2002-­‐05). Il ritorno alla ricerca e l’esperienza nel settore privato hanno portato, fra l’altro, Draghi a redigere (in collaborazione con F. Giavazzi e R. Merton) un paper dedicato alla gestione del rischio e alla fragilità finanziaria (cfr. “Transparency, risk management and International financial fragility”, NBER Working Paper 9806, 2003). Si tratta di un contributo rilevante perché, pur riconoscendo che i prodotti derivati “over the counter” possono essere strumenti efficienti per la diversificazione dei rischi finanziari e per il completamento dei relativi mercati, gli autori colgono alcuni dei problemi 1
La funzione di Direttore esecutivo della Inter-­‐ American Development Bank è durata un anno e, per la seconda parte, si è sovrapposta a quella svolta presso la Banca mondiale. 2
Il Working Party 3 (WP3) è emanazione dello Economic Policy Committee, istituito presso l’OECD nel settembre del 1961 al fine di assicurare il coordinamento delle politiche economiche fra gli Stati aderenti. 3
Si tratta del Comitato che ha proseguito l’attività del Comitato monetario, operante prima della costituzione dell’EMU. 4
In quell’occasione Draghi riprese quel rapporto di collaborazione con Guido Carli, allora Ministro del Tesoro, che già si era instaurato verso la fine degli anni Ottanta sul tema istituzionale della riforma dei mercati finanziari. 3 dell’innovazione finanziaria che sarebbero diventati evidenti agli studiosi solo dopo lo scoppio della crisi internazionale del 2007-­‐’09. Nel paper si riconosce, infatti, che l’utilizzo dei prodotti derivati tende a sfuggire al controllo delle autorità di vigilanza e degli stessi operatori professionali e a creare opache connessioni fra intermediari. Ciò aumenta i rischi inattesi e non desiderati e accresce, così, la “vulnerabilità del sistema finanziario”. L’esempio, su cui gli autori si soffermano, riguarda le garanzie offerte dal settore pubblico alle banche e ad altre istituzioni finanziarie in forma esplicita o implicita. Come avrebbe poi fatto emergere il nesso perverso fra crisi di illiquidità o di insolvenza del settore bancario e crisi europea dei debiti sovrani, queste garanzie possono tradursi in una “non preventivata accumulazione di rischi e di conseguenti passività nei bilanci pubblici”. Dopo l’esperienza nel settore privato, alla metà del primo decennio del Duemila Draghi è tornato a tempo pieno agli impegni istituzionali pubblici. Nel dicembre del 2005, egli è stato infatti nominato Governatore della Banca d’Italia (2006-­‐2011); e, sempre fra il 2006 e il 2011, egli ha svolto anche il ruolo di Presidente del Financial Stability Forum (ridenominato, dall’aprile del 2009, Financial Stability Board). Nel novembre del 2011, Draghi è diventato poi Presidente della Banca centrale europea (ECB) e Presidente del nuovo Comitato europeo per il controllo dei rischi sistemici (ESRB). I.3. Le ragioni della Laurea honoris causa La Laurea honoris causa, che la LUISS ha deciso di conferire a Mario Draghi, è in Scienze Politiche (indirizzo di Relazioni internazionali). Tale scelta, oltre a non essere ovviamente casuale, non è neppure così sorprendente come potrebbe – a prima vista -­‐ apparire. Essa mira a premiare la straordinaria capacità, dimostrata in più occasioni da Draghi, di affrontare e risolvere complessi e decisivi nodi di policy mediante la combinazione di prospettive diverse e, spesso, in potenziale tensione. In quelle occasioni, Draghi ha infatti elaborato soluzioni tecniche che non sono state soltanto dettate dalle sue solide e aggiornate competenze di teoria e di politica economica e dalla sua costante ricerca di una robusta corroborazione empirica dei risultati di analisi, ma si sono anche basate sulla comprensione delle opportunità e dei vincoli istituzionali e sul rispetto delle regole della politica e della democrazia. Detto in altri termini: Draghi ha acquisito da tempo la consapevolezza che, specie a livello internazionale ed europeo, ogni scelta e decisione economica va collocata in un coerente quadro politico-­‐istituzionale; e questa consapevolezza gli ha permesso di individuare soluzioni originali sul piano analitico e di forte efficacia sul piano più concreto delle policy. Le soluzioni, elaborate da Draghi, sono state quasi sempre in grado di armonizzare le diverse priorità imposte dai mercati, dalle istituzioni economiche e dalla democrazia o – se si preferisce – dall’economia, dalle istituzioni e dalla politica. In tal senso, Draghi è stato un “innovatore istituzionale”. In ognuna delle sue decisioni più difficili e rilevanti, egli ha saputo rispettare e – talvolta – anche tracciare i confini fra le decisioni di policy, che sono di competenza dei tecnici, e quelle decisioni politiche e di politica economica (intese come combinazione di policy e di politics), che spettano a chi agisce sulla base di un mandato democratico (diretto o indiretto) di rappresentanza. Come avrò modo di illustrare fra breve mediante cinque esempi, il Draghi “innovatore istituzionale” si è espresso al meglio in quei ruoli sovranazionali di regolamentazione e di policy che rendevano frastagliati e complessi i confini 4 con le politics accentrate o nazionali e che richiedevano doti di indipendenza ma -­‐ al contempo -­‐ di pieno rispetto dei vincoli politici e democratici. Anche nei suoi impegni italiani, Draghi ha peraltro affermato la sua carica innovativa mediante ridisegni istituzionali del mercato finanziario e della regolamentazione bancaria. Prima di passare ai cinque esempi detti, lasciatemi tradurre le precedenti considerazioni in una chiave più accademica. Nello svolgere il suo ruolo di “innovatore istituzionale”, Mario Draghi si è mosso nel perimetro della political economy (nell’accezione statunitense del termine) in quanto ha fatto riferimento a uno spazio analitico definito da strumenti di teoria economica, scienza della politica, diritto. Per giunta, date la rilevanza istituzionale dei suoi ruoli e la finalità pratica dei suoi interventi, egli ha inserito in questo spazio un preminente approccio di policy. Il conferimento della Laurea Honoris Causa in Scienze Politiche (indirizzo di Relazioni internazionali) è, quindi, motivato dal fatto che Mario Draghi ha fornito un contributo innovativo e di elevato impatto concreto per l’introduzione della policy nel campo della political economy. Se quanto detto non bastasse a giustificare la scelta di laureare Draghi come political economist, permettetemi un’ultima considerazione semi-­‐seria da rozzo economista quale sono. Assumiamo che sia stato proprio Thomas Carlyle a coniare l’epiteto dell’economia come “scienza triste” in polemica con le tesi di Malthus; e assumiamo che molti dei successivi economisti abbiano cercato di separare la loro disciplina dalla filosofia morale e dalle altre scienze sociali perché condizionati da tale epiteto. Al riguardo, Draghi è però al di sopra di ogni sospetto. Basta aver avuto anche un solo breve colloquio privato con Mario Draghi, per essere rimasti colpiti dal suo spessore culturale e dall’ampio spettro dei suoi interessi certo non riducibili al territorio dell’economia come calcolo o come mera tecnica. II. L’INNOVATORE ISTITUZIONALE II.1. I cinque esempi Ho selezionato cinque esempi per provare che Mario Draghi è stato e continua a essere un “innovatore istituzionale”, attento a rispettare i confini fra politics e policy e i vincoli posti dalle istituzioni democratiche. I primi due esempi, che sono illustrati qui di seguito, si riferiscono a impegni istituzionali nazionali. Gli altri tre esempi, che sono esaminati in specifiche sezioni (cfr. infra, par. II.2-­‐II.4), si riferiscono invece ai due più rilevanti impegni sovranazionali svolti da Draghi. In ordine cronologico, il primo esempio nazionale riguarda il periodo di direzione generale del Tesoro. Lo specifico riferimento è all’elaborazione e approvazione del Testo unico sulla finanza (1998), ridenominato appunto “Legge Draghi”. Dopo la prima fase della già ricordata stagione delle privatizzazioni, questa legge ha perseguito l’obiettivo di innestare alcuni principi anglosassoni di governance nel corpo di quelle vecchie istituzioni continentali che hanno caratterizzato e tuttora caratterizzano il funzionamento dei mercati finanziari italiani. Va riconosciuto che, anche se ha introdotto principi di trasparenza e concorrenza nel “piccolo mondo chiuso” della finanza italiana e ha migliorato la tutela degli azionisti di minoranza, l’iniziativa non ha generato l’auspicata crescita dei segmenti non bancari del nostro mercato finanziario e non ha strutturalmente rafforzato gli investitori istituzionali. La “Legge Draghi” ha, tuttavia, mostrato quanto sia importante combinare path dependence e realtà internazionali eterogenee per rendere possibili innovazioni istituzionali. 5 Anche se -­‐ nel caso esaminato -­‐ tale esperimento non ha avuto pieno successo, esso ha segnato il punto più alto dell’evoluzione normativa italiana rispetto ai mercati finanziari. Il secondo esempio nazionale si riferisce, invece, al ruolo di Governatore della Banca d’Italia. La nomina di Draghi fu dettata dalla necessità di ripristinare il prestigio e la reputazione di una grande istituzione, ferita dallo scorretto comportamento del precedente governatore (Antonio Fazio) che aveva calpestato le regole della vigilanza prudenziale per perseguire un’incongrua difesa della italianità di alcune banche di media o medio-­‐grande dimensione. Senza iniziative traumatiche ma grazie a una netta cesura nello stile di vigilanza e nelle scelte di regolamentazione adottate, Draghi e i membri del Direttorio entrati dopo la sua nomina hanno saputo riportare – in breve tempo -­‐ la Banca d’Italia ai passati livelli di credibilità nazionale e accrescerne il grado di accountability. Come dimostra la sua successiva nomina a Presidente della ECB, Draghi ha inoltre saputo rafforzare l’autorevolezza e il peso della Banca d’Italia nel Sistema europeo delle banche centrali. Gli altri tre esempi riguardano, rispettivamente: la conduzione del Financial Stability Board (FSB) che è diventato un punto di riferimento per la regolamentazione internazionale durante i momenti più drammatici della crisi finanziaria del 2007-­‐‘09; l’iniziativa, assunta dalla ECB e denominata Long term refinancing operation (LTRO), che -­‐ fra la metà di dicembre 2011 e la fine di febbraio 2012 -­‐ ha temporaneamente spezzato il circolo vizioso fra crisi del debito sovrano e crisi bancaria nell’area dell’euro; il programma delle Outright monetary transactions (OMT), varato ancora dalla ECB nell’estate del 2012, che ha bloccato le nuove tensioni nell’area dell’euro e ha invertito le aspettative del mercato rispetto alla gestione europea della crisi del debito sovrano. II.2. Il Financial stability board L’organismo, nato nel 1999 a seguito delle crisi finanziarie asiatiche con la denominazione di Financial Stability Forum (FSF), è parte della sempre più fitta rete di istituzioni sovranazionali volta a costruire una governance finanziaria globale. Fin dall’origine il FSF ha avuto il compito di offrire una stabile occasione di interscambio e di omogeneizzazione per i regolatori dei principali Paesi, impegnati a tenere sotto controllo i rischi e le vulnerabilità sistemiche presenti nei loro mercati finanziari. Dapprima si è trattato dei regolatori, appartenenti ai Paesi del G-­‐7 (con la pressoché immediata associazione di Australia, Hong Kong, Paesi Bassi e Singapore), e di quelli impegnati in varie istituzioni internazionali (quali, l’International Monetary Fund e la ECB) per un totale di 35 membri; poi, allorché il G-­‐20 dell’aprile 2009 ha modificato la denominazione dell’organismo (passando, appunto, da FSF a FSB), la platea dei regolatori coinvolti si è ampliata così da includere i Paesi del G-­‐20 non presenti nella composizione originaria. Fatto è che, almeno sotto il profilo formale, i compiti del FSB hanno ricalcato quelli originari del FSF: omogeneizzare, articolare e codificare gli standard internazionali prodotti da istituzioni sovranazionali di vigilanza nelle varie aree finanziarie; monitorare nei diversi Paesi coinvolti le nuove determinanti dei rischi e delle vulnerabilità sistemiche e diffondere fra i regolatori nazionali le conseguenti informazioni. Questi compiti, che dall’aprile del 2009 si sono tradotti in una più diretta responsabilità nella definizione degli standard e delle regole finanziarie comuni, sono rilevanti specie perché hanno costretto il FSF e il FSB a interagire sia con i regolatori che con varie tipologie di operatori finanziari privati; peraltro, essi sono anche di difficile realizzabilità in quanto né il FSF né il FSB hanno avuto o tuttora hanno il potere di imporre ai singoli Paesi l’adozione di specifiche raccomandazioni. Per 6 svolgere il proprio ruolo, il FSF prima e il FSB poi hanno dunque dovuto acquisire una reputazione così robusta da trasformare le loro raccomandazioni in consigli non eludibili. A tale riguardo Mario Draghi, che nel 2006 sostituì lo statunitense R.W. Ferguson alla guida del FSF, ha pienamente espresso le sue caratteristiche di “innovatore istituzionale”. Fin dalla prima fase della crisi finanziaria internazionale (maggio 2007 – agosto 2008), egli ha messo a frutto la sua dettagliata conoscenza dei mercati e delle innovazioni finanziarie, in gran parte acquisita grazie all’esperienza nel settore privato (Goldman Sachs), cogliendo due problemi cruciali: il ruolo distorsivo, svolto dalle agenzie di rating in conflitto di interesse, nella valutazione di obbligazioni strutturate legate a cartolarizzazioni di mutui subprime e di altre attività bancarie problematiche; l’insufficiente e scadente ricapitalizzazione, effettuata dal settore bancario internazionale per limitare la necessità di una ridefinizione della propria specializzazione e di una riallocazione dei propri assetti proprietari. Nell’aprile del 2008, il FSF (cfr. Report of the Financial Stability Forum on enhancing market and institutional resilience) ha sostenuto che le agenzie di rating avrebbero dovuto essere sottoposte a vigilanza e a forme più rigide di regolamentazione, in modo da limitare i loro conflitti di interesse e da imporre procedure specifiche per le loro valutazioni delle attività strutturate complesse. Inoltre, nell’agosto sempre del 2008, il FSF ha sottolineato che le pur consistenti operazioni di “pulizia” dei bilanci e di ripatrimonializzazione, effettuate dalle banche e dagli altri intermediari finanziari internazionali, non sarebbero bastate a riportare la rischiosità entro soglie tollerabili e a evitare il deleveraging; e, pochi giorni dopo, lo stesso Draghi (cfr. “How to restore financial stability”, Bundensbank Lecture) ha stigmatizzato l’eccessivo ricorso a strumenti ibridi che abbassano la qualità dei nuovi capitali raccolti. Queste nette prese di posizione hanno accresciuto il peso del FSF nella rete internazionale delle istituzioni di regolamentazione e hanno spinto alla sua trasformazione nel FSB. Senza alcun cambiamento formale nella sua missione e senza l’attribuzione di alcun potere coercitivo, il FSB si è affermato come l’organismo con responsabilità internazionali quasi esclusive nel campo della vigilanza macroprudenziale e in quello delle spinose norme relative alle banche “troppo grandi o troppo interconnesse per fallire” e al cosiddetto shadow banking. II.3. LTRO E’ rimasto nei nostri ricordi il terribile periodo, attraversato dall’economia italiana e da quella spagnola fra il luglio e il novembre del 2011. Dopo che il differenziale fra i tassi di rendimento dei titoli pubblici decennali di Spagna e Germania e il differenziale fra quelli corrispondenti di Italia e Germania avevano sfiorato i 600 punti base, il terzo e il quarto più grande Paese dell’area dell’euro toccarono minimi storici in termini di credibilità internazionale. La sola possibilità, che sembrava ancora aperta prima di una crisi irreversibile dell’euro, era il ricorso da parte dell’Italia e della Spagna al programma europeo di aiuti già attivato per Grecia, Irlanda e Portogallo; d’altro canto, vi erano forti dubbi che un tale programma avesse la capacità finanziaria per far fronte agli esborsi richiesti dal ‘salvataggio’ di Italia e Spagna e dalla prosecuzione dell’assistenza agli altri tre Stati membri. L’aspettativa sempre più diffusa era, quindi, che il destino dell’EMU fosse segnato. Queste aspettative negative erano rafforzate da altri gravi problemi che si stavano addensando sull’EMU e sulla EU. In quegli stessi mesi, l’International Monetary Fund aveva riaffermato con forza la sua valutazione negativa in merito al settore bancario europeo. Infatti gli attivi di molte 7 banche dei Paesi centrali dell’EMU erano gravati da titoli privati problematici, eredità della crisi del 2007-­‐’09, e dagli svalutati titoli pubblici dei Paesi periferici; e gli attivi di molte banche dei Paesi periferici dovevano fare i conti con le crescenti insolvenze delle imprese non finanziarie e con la svalutazione dei loro titoli pubblici “di casa”. Per di più, molte banche europee avevano difficoltà a rinnovare le loro passività nel mercato all’ingrosso e registravano una crescente dipendenza dai finanziamenti agevolati di breve termine dell’ECB. Infine, molte di tali banche denunciavano un insufficiente livello di patrimonializzazione rispetto alla dimensione dei loro attivi pesati per i rischi. In questa situazione, già ad alta probabilità di deleveraging e di credit crunch, nell’ottobre 2011 il Consiglio europeo e l’Autorità bancaria europea (EBA) concordarono sulla necessità di imporre alle banche dell’UE: una valutazione ai prezzi di mercato di tutti i titoli pubblici, iscritti nei loro bilanci alla fine del precedente mese di settembre; un aumento temporaneo dei tassi di capitalizzazione pesati per il rischio; la costituzione di un fondo liquido a copertura delle minusvalenze derivanti dalla caduta di valore dei titoli dei Paesi in difficoltà. Qui non importa discutere se la mossa dell’EBA sia stata una scelta avventata o l’inevitabile conseguenza delle critiche internazionali che erano state rivolte al suo stress test, concluso nel precedente mese di luglio e riferito alle maggiori banche europee, perché basato sull’attribuzione di non rischiosità ai titoli pubblici dei Paesi dell’EU iscritti nei bilanci bancari e detenuti in modo stabile. E’ sufficiente ricordare che l’impatto di tale mossa dell’EBA rese esplosivo quel circolo vizioso fra crisi europea del debito sovrano e crisi del settore bancario europeo che covava da tempo sotto le ceneri. In quel frangente, di fronte ai fallimentari risultati delle riunioni di varie istituzioni europee e internazionali (Ecofin, Consiglio europeo, G-­‐20), molti economisti (compreso il sottoscritto) invocarono la concessione di una licenza bancaria ai cosiddetti meccanismi “salva-­‐
Stati” (allora l’EFSF) in modo da consentirne l’accesso diretto ai finanziamenti della ECB. Il nostro ragionamento era che un simile impegno sarebbe stato sufficiente a ridare credibilità all’euro, senza che fosse necessario alcun effettivo finanziamento da parte della ECB a favore dell’EFSF. Devo confessare che, in quei giorni di novembre 2011 segnati da una forte preoccupazione per il futuro dell’euro, facevo fatica ad accettare la pubblica reazione negativa di Draghi a proposte di questo genere. Ho capito solo qualche settimana dopo che, anche in quella circostanza, Draghi si stava comportando da “innovatore istituzionale” rispettoso dei vincoli politici e democratici. In un Convegno al Politecnico di Milano, sostenni la necessità di conferire la licenza bancaria all’EFSF nel corso di una discussione con l’allora Presidente del Comitato scientifico dell’ESRB, che la derubricò a ingegnoso marchingegno per eludere la clausola di non bail out a favore degli Stati membri in difficoltà dell’EMU. Capii allora che né l’istituzione ECB né il suo Presidente avrebbero potuto esporsi a una simile critica senza oltrepassare il confine fra policy e politics. D’altro canto però, in quanto “innovatore” (forse anche appassionato di scacchi), Draghi non poteva negare la necessità di compiere una “mossa del cavallo” per evitare la crisi irreversibile dell’euro. Infatti, in quanto primus inter pares nell’ambito del Governing Council, il Presidente della ECB si è adoperato per creare un seppur faticoso consenso intorno a una mossa incisiva. La “mossa del cavallo”, compiuta dall’ECB nel rispetto dei vincoli politico-­‐istituzionali, è stata il lancio del LTRO. Come è noto, grazie al LTRO, la ECB ha attuato due operazioni di finanziamento di durata triennale a favore delle banche europee (dicembre 2011 e febbraio 2012). L’offerta è stata di ammontare illimitato, ossia infinitamente elastica a un tasso di interesse invariante e molto basso 8 (circa lo 1%) e a fronte dell’accettazione di uno spettro molto ampio di garanzie collaterali (anzi, nella seconda operazione, sono state ammessi anche collaterali normalmente non accettati purché garantiti dalle banche centrali nazionali). In tal modo le banche europee, che hanno domandato e ottenuto più di 1.000 miliardi di euro, sono riuscite a superare la loro crisi di liquidità e a interrompere il circolo vizioso fra questa crisi e la crisi dei debiti sovrani. Inoltre l’ECB, senza travalicare il suo legittimo ruolo di “prestatore di ultima istanza” verso il settore bancario, ha contribuito a raffreddare le tensioni sul debito pubblico di gran parte degli Stati membri ‘periferici’ dell’EMU. II.4. OMT Vari commentatori hanno criticato l’impatto del LTRO perché, essendosi tradotto in un aiuto a banche poco propense ad aumentare i finanziamenti alle imprese, non avrebbe dato soluzione né al problema del credit crunch né a quello della recessione dei Paesi periferici. Tale critica mostra, però, un’incomprensione di fondo delle finalità perseguibili e perseguite dalla ECB nel suo ruolo di responsabilità tecnica in un’area sovranazionale. Mediante il LTRO, la ECB e il suo Presidente non potevano proporsi e non si sono proposti di supplire a carenze dei poteri esecutivi (Commissione europea e Consiglio europeo) o dei poteri legislativi (Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea) dell’EU. La responsabilità della politica monetaria presuppone che la ECB operi per la sopravvivenza e la stabilità dell’euro ma non che persegua obiettivi extra-­‐monetari di politica economica o – tanto meno – obiettivi di governance. Così, in un momento particolarmente critico per la vita dell’euro e nei limiti del suo mandato, mediante il LTRO Draghi ha fatto valere la sua capacità innovativa per “comprare tempo” e per dare un’ulteriore opportunità di soluzione delle crisi europee alle istituzioni sovranazionali e ai responsabili politici degli Stati membri. Il fatto che, fra l’inizio di marzo e la metà di giugno 2012, queste istituzioni e questi responsabili non abbiano utilizzato adeguatamente tale opportunità non è imputabile alla ECB o a Draghi. Come è spesso accaduto durante la lunga crisi europea -­‐ iniziata a fine 2009 e tuttora (aprile 2013) in corso, soltanto alla “venticinquesima ora” il Consiglio europeo e quello ristretto all’area dell’euro (l’Eurogruppo) hanno assunto decisioni rilevanti per avviare a soluzione le difficoltà dell’EMU. Così, negli incontri di fine giugno 2012, si sono avviate tre innovazioni di governance: il processo di unione bancaria, la possibilità di rifinanziamento diretto delle banche in difficoltà da parte del nuovo meccanismo permanente “salva-­‐Stati” (ossia l’ESM) e il programma “leggero” di sostegno (sempre imperniato sull’ESM) a favore degli Stati membri in grado di soddisfare gli impegni europei e di collocare le proprie emissioni di titoli sul mercato ma non di spuntare tassi di interesse in linea con i fondamentali macro-­‐finanziari. Inoltre, negli stessi incontri, si è avviato un seppur timido sostegno alla crescita economica e si è aperto uno spiraglio per un trattamento contabile di favore riguardo agli investimenti pubblici di rilevanza europea (golden rule). Nel mese seguente, i ripensamenti di vari Stati membri ‘centrali’ hanno però spinto l’Eurogruppo a compiere passi indietro; il che ha riacutizzato le tensioni nei mercati finanziari. Così, verso la fine di luglio 2012, si sono creati i presupposti perché nell’area dell’euro divampasse un incendio ancora più devastante di quello che aveva segnato l’estate e l’autunno del 2011. Toccando forse il limite estremo degli ambiti di competenza della ECB, le mosse di Mario Draghi hanno offerto una nuova àncora di salvataggio per riaprire la possibilità di soluzioni strutturali. 9 A fine luglio, Draghi ha modificato le aspettative negative dei mercati affermando che l’euro era una realtà irreversibile e che la ECB era pronta a fare quanto necessario per provare questa irreversibilità (con l’aggiunta: “e credetemi: basterà!”). Poi, a inizio settembre 2012, la ECB ha dato attuazione alle affermazioni del suo Presidente, approvando il programma di Outright Monetary Transactions. In base a tale programma la ECB si è impegnata ad acquistare, nei mercati secondari, un ammontare indefinito di titoli del debito pubblico di quegli Stati membri dell’EMU che devono sopportare tassi dell’interesse molto più elevati rispetto a quelli allineati ai loro fondamentali macro-­‐finanziari. A prima vista l’OMT sembra indicare che, di fronte all’elevato rischio di disfacimento dell’area dell’euro, l’ECB e Draghi abbiano finito per forzare i vincoli politico-­‐istituzionali e si siano assunti la responsabilità di effettuare -­‐ per via diretta -­‐ quanto noi economisti chiedevamo di attuare tramite un EFSF o un ESM con licenza bancaria (cfr. sopra): sostenere la quotazione dei titoli dei Paesi in difficoltà mediante l’impegno a immettere un ammontare illimitato di liquidità nel sistema economico. Questa conclusione, che pure coglie un aspetto problematico dell’OMT, non considera però altri due aspetti cruciali. E’ vero che, nel caso dell’OMT, Draghi non si è potuto limitare a una “mossa del cavallo” ma – per usare le parole di N. Machiavelli (Il Principe, Einaudi, Torino 1961, p. 27) -­‐ ha dovuto cogliere “la occasione, la quale [gli] dette […] materia a potere introdurvi drento quella forma parse [lui]”. Eppure, il Governing Council dell’ECB ha legittimato la “forma” innovativa scelta imponendosi due vincoli che assicurano il rispetto dei limiti istituzionali e democratici propri alla governance dell’EU e dell’EMU. Innanzitutto, si sono limitati gli acquisti di titoli pubblici da parte dell’ECB a quelli di breve-­‐medio termine (fino a una scadenza triennale); e, in tal modo, si è giustificato l’OMT come uno strumento necessario a superare quelle asimmetrie nei canali di trasmissione della politica monetaria che impedivano alla ECB di perseguire i suoi fini istituzionali riguardo al controllo del tasso di inflazione. In secondo luogo, si è condizionata l’attivazione dell’OMT a favore di un determinato Paese in difficoltà al fatto che quest’ultimo fosse già entrato nel programma di aiuto “leggero” previsto dall’Eurogruppo del giugno 2012; e, in tal modo, si è condizionato l’intervento dell’ECB a un preventivo accordo politico e si sono subordinati gli acquisti di titoli pubblici da parte dell’ECB nel mercato secondario a quelli effettuati dall’ESM nel mercato primario. Quest’ultima considerazione mostra che, anche nel caso dell’OMT, almeno ex ante i vincoli politici e istituzionali sono stati rispettati. In tale caso Draghi ha però dovuto dismettere le vesti del giocatore di scacchi, indossate per il LTRO, e calarsi in quelle più scomode del risolutore di un ‘gioco’ viziato da una sorta di “comma 22”. Infatti, se – in una situazione di emergenza -­‐ la condizionalità dell’OMT rispetto al programma di aiuto “leggero” fosse rigidamente subordinata alla capacità di rispettare i vincoli imposti dall’EMU da parte del Paese richiedente, lo strumento diventerebbe un’arma spuntata; d’altro canto, se questa stessa condizionalità fosse percepita come discrezionale, lo strumento finirebbe per travalicare i confini della policy e invadere lo spazio della politics. La soluzione di Draghi sembra, quindi, fondarsi su una difficile anche se ragionevole scommessa: nessun giocatore sarà tanto sconsiderato da saggiare la robustezza della clausola di condizionalità o, se si preferisce usare la terminologia propria alla “teoria dei giochi”, tutti i giocatori convergeranno sul ‘punto focale’ senza preoccuparsi del fatto che il gioco non abbia né equilibri di Nash né “equilibri perfetti di sottogioco”. 10 III. Conclusioni I tre esempi, sopra illustrati, mostrano che Draghi ha avuto una straordinaria capacità di adattamento rispetto al complesso insieme di vincoli e di opportunità, offerti da un sistema finanziario internazionale in grave crisi e da un’area europea incapace di reagire in tempi adeguati anche perché stretta nella tensione fra istituzioni sovranazionali e istituzioni intergovernative. Sul piano internazionale, tale capacità di adattamento ha permesso l’introduzione di nuovi presidi di regolamentazione; sul piano europeo, essa ha spinto l’ECB verso scelte che hanno evitato il collasso dell’EMU e hanno posto le altre istituzioni europee e i governi degli Stati membri di fronte alle loro responsabilità politiche. La Road map “Towards a genuine economic and monetary union”, lanciata dal Presidente del Consiglio europeo (Herman Van Rompuy) in “stretta collaborazione” con il Presidente della Commissione europea (José Manuel Barroso), con l’allora Presidente dell’Eurogruppo (Jean-­‐Claude Juncker) e con lo stesso Mario Draghi, non avrebbe potuto essere disegnata senza gli interventi della ECB. Ne deriva che non a caso, già dopo pochi mesi dalla sua nomina, Draghi ha assunto un ruolo di leadership nelle scelte europee di policy. Pur tenendo conto del fatto che la ECB è un’istituzione indipendente mentre la Commissione europea è un organo di potere esecutivo, si sarebbe tentati di affermare che oggi la ECB di Draghi svolge quel ruolo centrale che, nella prima metà degli anni Novanta, fu proprio alla Commissione europea di Jacques Delors. I sogni di Delors si infransero sull’immaturità della prospettiva di un’unità politica dell’EU. Oggi l’analoga ispirazione, che sembra trasparire da molte prese di posizione di Draghi – dietro lo schermo di considerazioni ‘tecniche’, è invece diventata l’esplicito obiettivo (pur se di lungo termine) della Road map disegnata dai presidenti delle principali istituzioni europee. L’auspicio è che la mancanza di reciproca fiducia, che sta svilendo i fondamentali progressi di governance realizzati nell’ultimo triennio dall’EMU e che sta condizionando le scelte dei singoli Stati membri, non vanifichi questo obiettivo confinandolo in un orizzonte temporale indefinito. 
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Laudatio di Marcello Messori, docente LUISS