Giacomo OBERTO
I DIRITTI DEI CONVIVENTI:
REALTÀ E PROSPETTIVE
TRA ITALIA ED EUROPA
«Sorgono nuovi poveri, che sono non soltanto i disoccupati, ma i
sottoccupati, le innumerevoli figure del cosiddetto “precariato”, che ormai
concerne tanto il lavoro manuale quanto il lavoro intellettuale, e tende a
diventare addirittura una dimensione esistenziale, permanente, che dalla
difficoltà della collocazione professionale, si estende a quella della
situazione abitativa e, di conseguenza, affettiva. Chi non ha un lavoro
stabile e sicuro, chi si confronta con un mercato immobiliare (affitto o
acquisto), che dopo il 2001 è salito a vertici inimmaginabili e soprattutto
irraggiungibili da parte delle giovani generazioni, a meno che non vi siano
alle spalle genitori facoltosi o pronti al sacrificio, chi non è in grado di
sostenere le spese di un asilo per i propri figli piccoli, o del baby sittering,
chi vive in una situazione che ogni giorno oscilla tra disperazione e
rassegnazione... Come può, costui, o costei, dar vita ad aggregazioni
familiari? O, quanto meno, a rapporti affettivi stabili, non condizionati,
fino all’impossibilità di sussistere, dalla turbolenza di una vita senza
appigli? La “liquidità” delle relazioni umane nella società postmoderna, e
globalizzata (…), si connette e consegue a quella dell’economia e della
natura stessa del vivere sociale attuale, nel quale tutte le situazioni
cambiano prima che si abbia la possibilità di stabilizzarvisi sia a livello di
comportamenti, sia di collocazioni esistenziali».
2
A. D’ORSI, 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, Milano,
2009, p. 152.
3
INDICE - SOMMARIO
CAPITOLO I
CONVIVENZA MORE UXORIO E FAMIGLIA DI FATTO:
I TRATTI IDENTIFICATIVI DELLA FATTISPECIE
SOMMARIO: 1. Convivenza more uxorio e nozione di famiglia di fatto. – 2. Una prima panoramica
circa l’evoluzione della famiglia di fatto nella dottrina e nella giurisprudenza italiane. – 3. La
nozione di famiglia di fatto nella giurisprudenza sovranazionale. Il diritto dell’Unione
europea e la Corte di giustizia. – 4. Segue. Sui limiti della Carta di Nizza. – 5. Segue. La
C.E.D.U. e la Corte di Strasburgo. Le prospettive del diritto europeo, anche con riguardo
alle convivenze omosessuali (rinvio). – 6. La regolamentazione legislativa della famiglia di
fatto in Italia. – 7. Famiglia di fatto e filiazione naturale. – 8. I rapporti personali tra i
conviventi: ovvero, dell’impossibile analogia.
CAPITOLO II
OBBLIGAZIONI NATURALI E
ARRICCHIMENTO INGIUSTIFICATO
SOMMARIO: 1. Le obbligazioni naturali tra conviventi: ovvero della riscoperta di un principio
vecchio di secoli. – 2. Segue. La giurisprudenza più recente e il criterio di proporzionalità. Il
discrimen rispetto alle donazioni. – 3. La remunerazione delle prestazioni di facere rese
dal(la) convivente debole. Impostazione del problema, anche con riguardo al lavoro
subordinato e all’impresa familiare. – 4. Il problema dell’arricchimento conseguente ad una
prestazione volontariamente effettuata dall’impoverito. – 5. Segue. La giurisprudenza di
legittimità favorevole all’azione di arricchimento tra conviventi. – 6. Segue. Le persistenti
incertezze della giurisprudenza di merito. Conclusioni sul tema, relativamente alle
prestazioni di facere.
CAPITOLO III
I CONTRIBUTI FORNITI PER L’ACQUISTO DI BENI:
TRA REGIME PATRIMONIALE E
RIPETIZIONE DELL’INDEBITO
SOMMARIO: 1. I contributi forniti per l’acquisto di beni e l’arduo percorso per il recupero degli
stessi. Impostazione del problema. Esclusione della possibilità di applicare le norme sulla
comunione legale. – 2. Le principali proposte di legge sul tappeto circa i regimi patrimoniali
dei conviventi. – 3. La soluzione proposta e l’applicazione delle norme in tema di ripetizione
dell’indebito. – 4. Il ricorso allo schema causale della donazione (e le relative difficoltà). –
5. Il ricorso allo schema causale del mutuo (e le relative difficoltà).
CAPITOLO IV
CONTRATTI DI CONVIVENZA E
CONTRATTI TRA CONVIVENTI:
CONFIGURABILITA’ E LICEITA’
SOMMARIO: 1. La negozialità dei conviventi tra autonomia privata e modelli legislativi. – 2. La
negozialità tra conviventi nella giurisprudenza italiana. – 3. Contratti di convivenza e
obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio. – 4. Contratti di convivenza e buon
4
costume. – 5. Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale. –
6. La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza.
CAPITOLO V
CONTRATTI DI CONVIVENZA E
CONTRATTI TRA CONVIVENTI:
POSSIBILI CONTENUTI
SOMMARIO: 1. Gli accordi relativi alla procreazione e alla prole. – 2. Segue. Sull’estensibilità
dell’art. 158 c.c. alla separazione della famiglia di fatto. – 3. Contribuzione, mantenimento e
diritto di abitazione. – 4. Il regime comunitario (convenzionale) dei beni nei rapporti tra le
parti. – 5. Segue. Il regime comunitario (convenzionale) dei beni nei rapporti con i terzi. – 6.
Il regime separatista dei beni. – 7. Spunti in tema di impresa familiare e di fondo
patrimoniale. Il trust tra conviventi. Impostazione del problema. – 8. Segue. Della
sostanziale inutilità del trust tra conviventi, se posto a raffronto con un accorto contratto di
convivenza.
CAPITOLO VI
VINCOLI DI DESTINAZIONE PER LA FAMIGLIA DI FATTO
SOMMARIO: 1. Il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. al servizio della famiglia di fatto.
Impostazione del problema. – 2. Art. 2645-ter c.c. ed effetti traslativi. Critica dell’opinione
dominante. – 3. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art.
2645-ter c.c. – 4. Conclusioni sull’applicabilità del vincolo di destinazione alla famiglia di
fatto. Le differenze rispetto al fondo patrimoniale. – 5. Il problema dell’individuazione dei
beneficiari del vincolo di destinazione a favore della famiglia di fatto.
CAPITOLO VII
LA RESPONSABILITA’ DEI CONVIVENTI
PER LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE PER IL MÉNAGE
E LA RESPONSABILITA’ DEI GENITORI
PER LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE DAI FIGLI
SOMMARIO: 1. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte
nell’interesse del ménage di fatto. – 2. Accordi programmatici tra conviventi e attività
negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza esterna degli accordi dei conviventi relativi alla
prole. – 3. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.
CAPITOLO VIII
LA CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA
PER ROTTURA DEL RAPPORTO
SOMMARIO: 1. Le pattuizioni del contratto di convivenza in vista di un’eventuale rottura del
rapporto. – 2. Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto. –
3. La rottura in assenza di contratto. Esclusione di pretese risarcitorie per la cessazione della
convivenza. – 4. Le conseguenze della rottura sul diritto all’abitazione nei rapporti con il
locatore (e con il comodante «terzo» rispetto alla coppia). – 5. Le conseguenze della rottura
5
in presenza di figli minorenni. Generalità. Gli accordi tra i conviventi. – 6. Segue. La sorte
della casa familiare in presenza di prole (ed in assenza di accordi). – 7. Cessazione della
convivenza e questioni possessorie nei rapporti tra i conviventi.
CAPITOLO IX
LA CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA
PER MORTE
SOMMARIO: 1. La morte del convivente more uxorio: diritto di abitazione, tutela del convivente e
problemi di carattere successorio. – 2. Contratti di convivenza ed effetti post mortem.
Possibili negozi post mortem. Generalità. – 3. Segue. Il contratto a favore di terzo. Rendita
vitalizia e mantenimento vitalizio (rinvio). – 4. Segue. Acquisto en tontine, acquisto
«incrociato», riconoscimenti di debito. – 5. Conclusioni sui possibili negozi post mortem. –
6. La morte del convivente more uxorio a seguito dell’illecito compiuto da un terzo.
CAPITOLO X
LA TUTELA DELLE CONVIVENZE OMOSESSUALI
SOMMARIO: 1. Le convivenze omosessuali nella dottrina e nella giurisprudenza italiane. I rapporti
civilistici. – 2. Segue. I problemi legati al ricongiungimento familiare. – 3. La questione del
matrimonio tra persone del medesimo sesso nel diritto italiano. Impostazione del problema.
– 4. Segue. La posizione della giurisprudenza italiana. – 5. Le convivenze omosessuali nella
giurisprudenza sovranazionale. Generalità. La posizione del Parlamento europeo e gli effetti
della Carta di Nizza. – 6. Segue. La posizione della Corte di giustizia dell’Unione europea. –
7. Segue. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo. – 8. Convivenze
omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità. Ininfluenza dell’orientamento sessuale
del genitore sull’affidamento della prole. – 9. Crisi della coppia omosessuale e conseguenze
per la prole: impostazione del problema. – 10. Segue. il rilievo degli accordi sui profili
patrimoniali. – 11. Segue. il rilievo degli accordi sui profili personali ed i rimedi in caso di
disaccordo. – 12. Cenni su alcuni problemi di diritto internazionale privato relativi alle
obbligazioni alimentari nelle convivenze omosessuali.
6
CAPITOLO I
CONVIVENZA MORE UXORIO E FAMIGLIA DI FATTO:
I TRATTI IDENTIFICATIVI DELLA FATTISPECIE
SOMMARIO: 1. Convivenza more uxorio e nozione di famiglia di fatto. – 2. Una prima panoramica
circa l’evoluzione della famiglia di fatto nella dottrina e nella giurisprudenza italiane. – 3. La
nozione di famiglia di fatto nella giurisprudenza sovranazionale. Il diritto dell’Unione
europea e la Corte di giustizia. – 4. Segue. Sui limiti della Carta di Nizza. – 5. Segue. La
C.E.D.U. e la Corte di Strasburgo. Le prospettive del diritto europeo, anche con riguardo
alle convivenze omosessuali (rinvio). – 6. La regolamentazione legislativa della famiglia di
fatto in Italia. – 7. Famiglia di fatto e filiazione naturale. – 8. I rapporti personali tra i
conviventi: ovvero, dell’impossibile analogia.
1. Convivenza more uxorio e nozione di famiglia di fatto.
Le espressioni «convivenza more uxorio» e «famiglia di fatto» sono oggi utilizzate
comunemente al fine di individuare quella particolare formazione sociale che ricalca la struttura
essenziale della famiglia fondata sul matrimonio, pur essendo priva di qualsiasi formalizzazione del
rapporto di coppia. A tale mancanza di formalizzazione fa riscontro, nella realtà normativa odierna
del nostro sistema, l’assenza di una disciplina organica, anche se, come si avrà modo di vedere, non
fanno certo difetto disposizioni legislative applicabili a svariati profili relativi alla situazione in
esame.
La definizione in senso negativo della famiglia di fatto, proposta dalla maggioranza degli
Autori ( 1) soprattutto per sopperire all’inesistenza di una definizione legale ( 2), è stata contestata ( 3),
(1) Cfr., ex multis, GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano, 1983, p. 60; D’ANGELI, La famiglia di
fatto, Milano, 1989, p. 1 ss., 153 ss.; ROPPO, voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma,
1989, p. 1 ss.; CALDERALE, La famiglia di fatto tra legge e autonomie private, Bari, 1990, p. 1 ss.; OBERTO, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, Milano, 1991, p. 21 ss.; ID., La famiglia di fatto, Commento all’art. 74 c.c., in AA.
VV., Commentario breve al diritto della famiglia, a cura di Zaccaria, Padova, 2011, p. 122 ss.; BERNARDINI, La
convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, Padova, 1992, p. 1 ss.; ASPREA, La famiglia di
fatto in Italia e in Europa, Milano, 2003, p. 7 ss.; ID., La famiglia di fatto, Milano, 2009, p. 33 ss.; PELLARINI, La
famiglia di fatto, Milano, 2003, p. 1 ss.; BALESTRA, La famiglia di fatto, Padova, 2004, p. 29 ss.; ID., La famiglia di
fatto, in AA. VV., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Rapporti personali e patrimoniali,
Bologna, 2008, p. 1033 ss.; ID., Rapporti di convivenza, in AA. VV., Codice della famiglia, a cura di Sesta, Seconda
edizione, Milano, 2009, p. 3767 ss.; ZAMBRANO, La famiglia di fatto: epifanie giuridiche di un fenomeno sociale,
Milano, 2005, p. 1 ss.; A. MASCIA, Famiglia di fatto: riconoscimento e tutela, Matelica, 2006, p. 21 ss.; MONTEVERDE,
La convivenza more uxorio, in AA. VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, I. Famiglia e
matrimonio, 2, Torino, 2007, p. 927 ss.; PASTORE, La famiglia di fatto: analisi e disciplina di un modello familiare
attuale e diffuso, Torino, 2007, p. 13 ss.; RICCIO, La famiglia di fatto, Padova, 2007, p. 21 ss.; B. DE FILIPPIS, R. DE
FILIPPIS, DI MARCO, LETTIERI, STARITA, ZAMBRANO, La separazione nella famiglia di fatto, Padova, 2008, p. 1 ss.;
ARCANI, I negozi patrimoniali nella convivenza, in AA. VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di Arceri e
Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009, p. 877 ss.; FALLETTI, Famiglia di fatto e convivenze, Padova, 2009, p. 17
ss.; EAD., La famiglia di fatto: la disciplina dei rapporti patrimoniali tra i conviventi, in AA. VV., Gli aspetti
patrimoniali della famiglia. I rapporti patrimoniali tra coniugi e conviventi nella fase fisiologica ed in quella
patologica, a cura di Oberto, Padova, 2011, p. 67 ss.; EAD., La fine della famiglia di fatto: gli aspetti patrimoniali,
ibidem, p. 845 ss.; MURITANO e PISCHETOLA, Accordi patrimoniali tra conviventi e attività notarile, Milano, 2009, p. 1
ss.; AUTORINO STANZIONE e STANZIONE, Unioni di fatto e patti civili di solidarietà. Prospettive de iure condendo, in
AA. VV., Il diritto di famiglia nella dottrina e nella giurisprudenza, trattato teorico-pratico, diretto da Autorino
Stanzione, I, Il matrimonio, le unioni di fatto, i rapporti personali, Torino, 2011, p. 350 ss.; TERRANOVA, Convivenza e
rilevanza delle unioni cc.dd. di fatto, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e
matrimonio, 1, Seconda edizione, Milano, 2011, p. 1083 ss.; M. SGROI, La famiglia di fatto: costituzione, scioglimento,
profili di tutela del soggetto debole, aspetti di responsabilità, in AA. VV., Gli aspetti di separazione e divorzio nella
famiglia, a cura di Oberto, Padova, 2012, p. 1031 ss.
(2) SESTA, Diritto di famiglia, Padova, 2005, p. 402.
7
sul presupposto che occorrerebbe invece riferirsi «al rapporto di coppia, alle relazioni che in essa si
svolgono e che hanno il proprio positivo fondamento in una convivenza sorretta da sentimenti di
affetto, solidarietà, sostegno economico».
La giurisprudenza, dal canto suo, ha recepito la dizione «famiglia di fatto», definendo il
fenomeno alla stregua di una «convivenza caratterizzata da inequivocità, serenità e stabilità, da non
confondere con i meri rapporti sessuali, che possono anche dar luogo alla nascita di figli naturali»
( 4). In quest’ottica si è anche correttamente posta in luce quella «comunione di vita» che permette di
distinguere la mera coabitazione dalla convivenza ( 5), qualificata da un grado seppur minimo di
stabilità e di riconoscimento sociale ( 6) e comprovabile processualmente con ogni mezzo idoneo,
laddove le eventuali certificazioni amministrative non superano il livello di mere presunzioni ( 7).
Le ragioni che possono condurre una coppia a stabilire una relazione avente carattere
familiare, senza la celebrazione delle nozze, possono essere le più svariate: circostanze storiche e
ambientali, motivazioni ideologiche di carattere religioso o di segno «libertario», interessi
patrimoniali ( 8), o, più semplicemente (e drammaticamente), la situazione di crisi economica che sta
ferocemente gettando verso la proletarizzazione quello che fino a non molto tempo fa veniva
qualificato come «ceto medio»: ma tali aspetti non interessano direttamente il giurista, cui spetta
invece l’onere di stabilire se la convivenza e la nascita di figli al di fuori del vincolo sancito dal
matrimonio diano luogo ed effetti rilevanti per il diritto.
D’altro canto è stato sovente sottolineato in dottrina che la contrapposizione tra «rapporti di
diritto» e «rapporti di fatto» si sviluppa pur sempre all’interno del mondo del diritto ( 9): la
constatazione, svolta a livello generale, vale sicuramente anche per l’unione libera, come
confermato da quella dottrina che, in Italia come all’estero, nega ormai quasi unanimemente che i
rapporti tra i conviventi siano, in quanto tali, sottratti alla sfera del giuridicamente rilevante ( 10).
L’espressione «di fatto» connota dunque semplicemente il modo in cui la fattispecie viene in essere
(rebus ipsis et factis, appunto, e non per effetto di un negozio giuridico), non già le sue conseguenze
( 11).
Elementi costitutivi della famiglia di fatto ( 12) sono usualmente ritenuti i due seguenti: il
primo, di carattere soggettivo, consiste nell’affectio, vale a dire nella partecipazione di ognuno dei
partners alla vita dell’altro; il secondo, di carattere oggettivo, è costituito dalla stabile convivenza,
quindi da un impegno serio e duraturo, basato su una tendenziale fedeltà, in assenza di qualsivoglia
formalizzazione. Da questo primo inquadramento del fenomeno, nei suoi termini generali, prendono
poi le mosse posizioni e orientamenti peculiari, nell’ambito dei quali si segnala chi pone l’accento,
attribuendogli maggiore valenza, sull’elemento soggettivo ( 13), inteso come cardine del fenomeno;
(3) FERRANDO, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. dir.,
1998, p. 183.
(4) Cass., 4 aprile 1998, n. 3503, in Foro it., 1998, I, c. 2154; in Giur. it., 1999, p. 1608, con nota di PALERMO; sulla
definizione della famiglia di fatto cfr. inoltre D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 1 ss., 153 ss.
(5) V., anche per gli opportuni riferimenti alla relativa giurisprudenza di merito, M. SGROI, op. cit., p. 1060 s., che si
esprime pure in termini di «coabitazione qualificata».
(6) Cfr. Per tutti M. SGROI, op. cit., p. 1062 ss.
(7) Cfr. ad es. Cass., 29 aprile 2005, n. 8976, in Foro it., 2006, I, c. 2448: «Quanto poi alla prova di tali elementi
strutturali e qualificativi, concreti e riconoscibili all’esterno, presupposti di esistenza della convivenza more uxorio e
parametri caratterizzanti la stessa, può esser fornita con qualsiasi mezzo (art. 2697 cod. civ.), mentre il certificato
anagrafico (D.P.R. 30 maggio 1989 n. 223) può tutt’al più provare la coabitazione, insufficiente a provare altresì la
condivisione di pesi e oneri di assistenza personale e di contribuzione e collaborazione domestica analoga a quella
matrimoniale».
(8) Così ROPPO, op. loc. ultt. citt.
(9) FRANCESCHELLI, I rapporti di fatto. Ricostruzione della fattispecie e teoria generale, Milano, 1984, p. 8 ss.;
SACCO, voce Autonomia nel diritto privato, in Dig. disc. priv., Sez. civ., II, Torino, 1984, p. 521 s.
(10) SAVATIER, Le droit, l’amour et la liberté, Paris, 1963, p. 137; FURGIUELE, Libertà e famiglia, Milano, 1979, p.
277 s.; GRASSETTI, voce Famiglia (diritto privato), in Noviss. Dig. it., Appendice, III, Torino, 1982, p. 639; OBERTO, I
regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 4 ss.
(11) OBERTO, op. loc. ultt. citt.
(12) Su cui v. per tutti BALESTRA, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1037 ss.
(13) GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 69.
8
altri, invece, valorizzano maggiormente l’elemento oggettivo ( 14).
Si sostiene, in via generale, che è famiglia di fatto quella che presenta nella sostanza lo stesso
contenuto della convivenza che ha alla base il matrimonio: «tra i soggetti che vivono come coniugi
more uxorio, secondo il corrente modo di esprimersi, si stabiliscono vincoli di fedeltà, coabitazione,
assistenza, e di reciproca contribuzione agli oneri patrimoniali» ( 15). Rispetto alla famiglia
legittima, in cui s’impone il «dover essere», il tratto differenziale della famiglia di fatto viene
individuato nell’«essere» del rapporto ( 16), con ciò evidenziando come ogni valutazione relativa al
fenomeno debba avvenire sulla base del principio di effettività.
Ci si domanda poi se possa considerarsi meritevole di tutela la convivenza more uxorio che
presenti i contenuti sopra descritti e che tuttavia si caratterizzi per l’essere i partners – o anche uno
solo di essi – privi dello stato libero. In dottrina si sostiene che, nell’ipotesi in cui uno dei
conviventi difetti dello stato libero, la convivenza sarebbe contra legem, divenendo immeritevole di
tutela, a causa della (inammissibile) violazione della previsione di favore per il nucleo familiare
solennemente costituitosi ( 17). Tale posizione non sembra condivisibile, quanto meno per le ipotesi
in cui il convivente non in situazione di stato libero sia legalmente separato, essendosi rilevato che
al giorno d’oggi appare difficile negare che la separazione è, dal punto di vista funzionale,
strettamente legata al divorzio, di modo che il coniuge separato nella maggior parte dei casi
considera terminata definitivamente l’esperienza matrimoniale ( 18).
Chi scrive ha già avuto modo di chiarire in altra sede che l’assenza di stato libero in capo ad
uno o ad entrambi i partners ben difficilmente potrà avere conseguenze sulla validità di eventuali
contratti di convivenza ( 19). La questione andrebbe, invero, affrontata non già sotto il profilo della
causa, visto che il legame more uxorio si pone, in rapporto al contratto di convivenza, alla stregua di
un semplice motivo (20). Anche su questo piano si presenterebbe però il problema della possibilità
di ascrivere alla categoria dei motivi illeciti pure quello consistente nella lesione di un diritto
(relativo) altrui (nella specie, i diritti alla fedeltà, coabitazione, assistenza morale e materiale) ( 21).
(14) DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, in Dig. disc. priv., Sez. civ., VIII, Torino, 1992, p. 194.
(15) RESCIGNO, Manuale del diritto privato italiano, ed. a cura di Cirillo, Milano, 2000, p. 309; v. inoltre, anche per
ulteriori rinvii, BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3769 s.
(16) BUSNELLI e SANTILLI, La famiglia di fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian,
Oppo e Trabucchi, VI, Padova, p. 760.
(17) Cfr., anche per i richiami, E. QUADRI, Rilevanza attuale della famiglia di fatto ed esigenze di regolamentazione,
in Dir. fam. pers., 1994, p. 291 s.; BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3770.
(18) Cfr. BALESTRA, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1039 s.; v. inoltre OBERTO, I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 209 ss., ove si affronta anche il tema dell’eventuale invalidità dei contratti di convivenza per
illiceità del motivo.
(19) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 209 ss.
(20) Contra D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 425 secondo cui nei casi in esame il contratto dovrebbe ritenersi
nullo per illiceità della causa.
(21) In primo luogo appare infatti contestabile che la violazione di doveri di carattere eminentemente personale quali
la fedeltà, la coabitazione, l’assistenza morale, possa invalidare gli impegni patrimoniali assunti dai conviventi. Il
fenomeno del riflesso sul piano patrimoniale della lesione di diritti a contenuto non patrimoniale pare riservato –
almeno di regola – alla sfera dei rapporti assoluti, ove la violazione della norma imperativa, oltre a dar luogo all’illiceità
della causa (e del motivo) determina anche l’obbligo di risarcimento del danno e dunque una conseguenza d’ordine
patrimoniale. Nel campo dei diritti relativi, invece, l’unica violazione cui la legge riconnette l’obbligo risarcitorio è
quella del rapporto obbligatorio, da cui deriva una responsabilità da inadempimento (art. 1218 c.c.) a carico del debitore
e, stando almeno alle teorie meno remote, una responsabilità di tipo aquiliano a carico del terzo (v. per tutti GALGANO,
Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contratto e impresa, 1985, p. 1 ss.). Ma gli obblighi a contenuto personale
non sono in alcun modo riconducibili al concetto di obbligazione (RESCIGNO, voce Obbligazioni (nozioni), in Enc. dir.,
XXIX, Milano, 1979, p. 140 s.; M. GIORGIANNI, L’obbligazione (la parte generale delle obbligazioni), I, Catania, 1945,
p. 29 ss.; sull’argomento cfr. anche BIANCA, Diritto civile, IV, L’obbligazione, Milano, 1990, p. 82): gli effetti di una
loro lesione non possono quindi andare al di là di quelli espressamente previsti dalla legge. Contra Cass., 19 giugno
1975, n. 2468, in Mass. Foro it., 1975, c. 591, secondo cui la violazione da parte di un coniuge dell’obbligo di fedeltà
può anche costituire, in concorso di particolari circostanze, fonte di danno patrimoniale per l’altro coniuge, per effetto
del discredito derivantegli. Per la giurisprudenza di merito v. Trib. Roma, 17 settembre 1988, in Nuova giur. civ. comm.,
1989, I, p. 559 ss., che supera i dubbi sull’applicabilità dell’art. 1218 c.c. affermando che l’illecito civile «abbraccia
tutte le violazioni ai doveri imposti dalle norme civili» e che per la sussistenza di una responsabilità da inadempimento
il requisito della patrimonialità va riferito «non all’obbligo violato, ma al danno». Francamente, risulta assai difficile
comprendere come si possa interpretare in tal modo l’art. 1174 c.c. Una volta che si sia riferito al danno il requisito
della patrimonialità si corre il rischio di doverne concludere che tutti i rapporti immaginabili sono caratterizzati da tale
9
L’argomentazione decisiva riposa peraltro sulla constatazione che ogni contratto diretto a
porre le basi economiche di una convivenza, anche se illecita, ha come proprio motivo primario non
già la violazione del diritto altrui, bensì appunto la concreta predisposizione di quei mezzi idonei a
consentire alla coppia di convivere. È dunque palese l’assenza, nel contratto in esame, di uno dei
requisiti fondamentali di cui all’art. 1345 c.c., vale a dire la circostanza che il (comune) motivo
illecito si ponga come quello esclusivamente determinante del consenso dei contraenti.
In quest’ottica neppure vanno trascurati i riflessi che le nozioni di «famiglia» e di «legami
familiari» proprie di altri ordinamenti ( 22) possono dispiegare sul nostro dato normativo, specie
allorquando i diversi sistemi vengono a collidere. Sintomatiche le questioni legate alle
problematiche dell’immigrazione e dei ricongiungimenti familiari, sia nei casi riguardanti cittadini
extraeuropei soggiornanti in Italia, sia in relazione alle ipotesi che vedono protagonisti cittadini
comunitari o italiani, laddove la vigente disciplina italiana espressamente esclude le coppie non
unite in matrimonio dall’esercizio di tale diritto.
Nel primo caso, infatti, l’art. 29, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 («Testo unico delle disposizioni
concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero»)
espressamente limita al «coniuge» dello straniero residente la possibilità di ottenere il
elemento, posto che non vi è dovere, per quanto «morale», la cui violazione non possa produrre conseguenze d’ordine
patrimoniale: si pensi, per esempio, all’ipotesi codificata dall’art. 81 c.c. (per uno stringente e brillante esame critico
della pronunzia si fa rinvio a CENDON, Non desiderare la donna d’altri, in Contratto e impresa, 1990, p. 607 ss.). Sul
tema si è espressa da ultimo Cass., 15 settembre 2011, n. 18853, secondo cui «I doveri che derivano ai coniugi dal
matrimonio hanno natura giuridica e la loro violazione non trova necessariamente sanzione unicamente nelle misure
tipiche previste dal diritto di famiglia, quale l’addebito della separazione, discendendo dalla natura giuridica degli
obblighi su detti che la relativa violazione, ove cagioni la lesione di diritti costituzionalmente protetti, possa integrare
gli estremi dell’illecito civile e dare luogo al risarcimento dei danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.,
senza che la mancanza di pronuncia di addebito in sede di separazione sia preclusiva dell’azione di risarcimento relativa
a detti danni». Inutile dire che la decisione, spostando il discorso sugli artt. 2043 e 2059 c.c., elude completamente i
dubbi qui sollevati sulla riferibilità del caso di specie, tutto al contrario, alla violazione d’un dovere specifico e non
certo generico, con conseguente inevitabile richiamo all’art. 1218 c.c. A chi scrive non resta che ribadire che la
violazione di un rapporto a contenuto puramente personale può dispiegare conseguenze d’ordine patrimoniale solo
quando una norma lo consente e sempre nell’ambito dei soggetti (attivo e passivo) del rapporto stesso (si pensi agli
effetti economici dell’addebito della separazione personale dei coniugi). Se ciò è vero, l’illiceità del contratto di
convivenza nelle situazioni in oggetto potrebbe essere affermata soltanto qualora lo stesso fosse diretto all’instaurazione
o alla prosecuzione di un rapporto il cui «finanziamento» determinasse la violazione di obbligazioni (cioè di doveri a
contenuto patrimoniale) vincolanti uno dei partners verso un terzo: si pensi all’obbligo di contribuzione gravante sul
coniuge, o a quello di versare un assegno periodico in caso di separazione o di divorzio, o ancora a quello di mantenere
i figli, o, infine, di corrispondere gli alimenti al coniuge separato o a terzi.
Nel senso della nullità per immoralità di quei contratti di convivenza diretti a impedire l’adempimento dei doveri
patrimoniali derivanti dal vincolo matrimoniale di uno dei conviventi cfr. GRAUE, Cohabitation Without Marriage as a
Problem of Law and Legislative Policy in West Germany and other Codified Systems, in EEKELAAR e KATZ, Marriage
and Cohabitation in Contemporary Societies, Toronto, 1980, p. 285; per un accenno alla problematica v. anche BGH,
29 giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645.
(22) Per la trattazione dei profili comparatistici della famiglia di fatto si rimanda a OBERTO, I regimi patrimoniali
della famiglia di fatto, cit., p. 3 ss., 114 ss., 130 ss., 215 ss.; ID., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter
besonderer Berücksichtigung des italienischen Rechts, cit., p. 1 ss.; ID., Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni
d’attualità, Milano, 2002, p. 961 ss.; cfr. inoltre HUET-WEILLER, L’union libre (la cohabitation sans marriage), in Am.
J. Comp. Law, 1981, p. 247 ss.; HASKEY, Patterns of Marriage, Divorce and Cohabitations in the different Countries of
Europe, in Populations Trends, vol. 69, 1992, p. 27 ss.; ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 29;
ID., La famiglia di fatto, cit., p. 39 ss.; DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, cit., p. 199 ss.; BUSNELLI e SANTILLI, op. cit.,
p. 760 ss.; GIAIMO, I contratti di convivenza nell’ordinamento giuridico inglese, in AA. VV., I contratti di convivenza, a
cura di Moscati e Zoppini, Torino, 2002, p. 205 ss.; BOELE-WOELKI, Common Core and Better Law in European
Family Law, Antwerp/Oxford, 2005, p. 243 ss.; BOELE-WOELKI e FUCHS, Legal recognition of Same Sex Couples in
Europe, Antwerp/Oxford, 2005, passim; BONINI BARALDI, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto
interno, Milano, 2005, passim; BRUNETTA D’USSEAUX, Il diritto di famiglia nell’Unione Europea. Formazione, vita e
crisi della coppia, Padova, 2005, passim; EAD., I Partnerscheftsverträge nella giurisprudenza tedesca, Milano, 2000, p.
35 ss.; EAD., L’unione registrata in Germania alla luce delle recenti modifiche legislative, in Familia, 2008, p. 3 ss.;
PESCARA, Le convivenze non matrimoniali nelle legislazioni dei principali paesi europei, in AA. VV., Il nuovo diritto di
famiglia, Trattato diretto da Ferrando, II, Rapporti personali e patrimoniali, Bologna, 2008, p. 967 ss.; DE CICCO, La
tutela delle convivenze: cenni alle esperienze straniere, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I,
Famiglia e matrimonio, 1, seconda edizione, cit., p. 1088 ss.
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ricongiungimento familiare, escludendo dai beneficiari il partner non coniugato.
Analoga impostazione si desume dalla disciplina del ricongiungimento familiare dei cittadini
comunitari di cui alla direttiva recepita con d.lgs. 6 febbraio 2007, n. 30: l’art. 2, comma primo, lett.
b), n. 2), infatti, esclude dalla nozione di «familiare», rilevante ai fini della libera circolazione, il
partner che abbia contratto con il cittadino europeo un’unione registrata sulla base della
legislazione di uno Stato membro, se la legislazione dello Stato membro ospitante non equipara
l’unione registrata al matrimonio.
Sul tema specifico si avrà modo di tornare più avanti, trattando del riconoscimento delle
unioni omosessuali ( 23), non senza anticipare che, come con riguardo al matrimonio, così con
riferimento all’unione libera – ed anzi, più ancora in questo campo che in quello matrimoniale – un
numero sempre più frequente di voci ritiene che la diversità di sesso tra i partners non sia in alcun
modo un elemento imprescindibile ( 24); la stessa Consulta non ha del resto esitato a definire, nella
sua decisione del 2010 la coppia omosessuale come una formazione sociale meritevole di tutela ex
art. 2 Cost. ( 25), laddove, come si vedrà, sul piano sovranazionale la nozione di «famiglia» può oggi
sicuramente dirsi ricomprendere anche il ménage tra persone del medesimo sesso ( 26).
2. Una prima panoramica circa l’evoluzione della famiglia di fatto nella dottrina e nella
giurisprudenza italiane.
È noto che, in passato, la convivenza come marito e moglie tra persone non coniugate veniva
considerata in senso fortemente negativo ed era nel contempo individuata con una diversa
terminologia ( 27). Fino agli anni Sessanta dello scorso secolo, infatti, con riferimento alle situazioni
in discorso, si discuteva di concubinato ( 28). Con il suddetto termine, impiegato con un’accentuata
accezione negativa, si intendeva quel modello familiare non fondato sul matrimonio e dunque
ritenuto non meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, nell’ottica secondo cui ogni
ipotesi di riconoscimento giuridico concesso alle convivenze di fatto avrebbe importato
un’automatica degradazione dello status della famiglia matrimoniale ( 29).
Si noti che, curiosamente, in Francia al termine concubinage non viene attribuita alcuna
valenza negativa, al punto che la legge sui PACS ( 30) ne ha sancito l’ingresso nel Code civil ( 31).
Successivamente, il mutamento, anche nel nostro Paese, del costume sociale ed alcune aperture a
livello legislativo e giurisprudenziale ( 32) hanno consentito di superare i pregiudizi ancorati ad una
(23) V. infra, Cap. X, § 2.
(24) Cfr. ad es., in giurisprudenza, l’avviso espresso da Trib. Varese, 23 luglio 2010, disponibile alla pagina web
seguente: http://www.personaedanno.it/attachments/allegati_articoli/AA_020008_resource1_orig.doc, secondo cui «in
assenza di un intervento legislativo, non surrogabile per via pretorile, non è possibile estendere alle coppie omosessuali
l’istituto del matrimonio, pur essendo, però, possibile estendere alle stesse diritti previsti per le coppie coniugate dove
emerga la necessità di un trattamento omogeneo. E, allora, conseguentemente, il giudice non può intervenire a monte ai
fini dell’introduzione del matrimonio omosessuale, ma può intervenire a valle, al fine di riconoscere alla coppia
omosessuale diritti che le debbono essere tributati in conseguenza di una situazione di omogeneità che rende
irragionevole un trattamento diverso da quello che l’Ordinamento riserva alla coppia eterosessuale».
(25) Cfr. Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. dir., 2010, p. 653, con nota di GATTUSO; in Foro it., 2010, I, c.
1701, con nota di M. COSTANTINO; in Giur. it., 2011, p. 537, con nota di BIANCHI; in Dir. fam. pers., 2011, p. 3, con
nota di TONDI DELLA MURA. Sulla decisione v. per tutti GATTUSO, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, in AA.
VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, seconda edizione, cit., p. 810 ss.
(26) V. infra, §§ 3-5 in questo Cap.; v. inoltre infra, Cap. X, §§ 5-7.
(27) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 21 ss.; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 400.
(28) Per un’analisi della genesi storica del fenomeno cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit.,
p. 21 ss.; BUSNELLI e SANTILLI, op. loc. ultt. citt.
(29) ROPPO, voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, cit., p. 2.
(30) Cfr. la legge n. 99-944 del 15 novembre 1999 (art. 3).
(31) Cfr. art. 515-8, secondo cui «Le concubinage est une union de fait, caractérisée par une vie commune présentant
un caractère de stabilité et de continuité, entre deux personnes, de sexe différent ou de même sexe, qui vivent en
couple».
(32) Ci si riferisce, in particolare, alla parificazione della condizione dei figli naturali ai figli legittimi avutasi con la
Riforma del diritto di famiglia del 1975 (sul punto v. per tutti ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p.
115 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 107 ss., 149 ss.) ed alla precedente Corte cost., 3 dicembre 1969, n. 147, in Foro
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concezione tradizionale della famiglia, ravvisando così nella convivenza more uxorio un’autonoma
formazione sociale non necessariamente caratterizzata da un disvalore rispetto alla famiglia fondata
sul matrimonio ( 33).
Successivo ed ulteriore passaggio dell’affrancamento della famiglia di fatto è stato il nuovo
orientamento giurisprudenziale e, prima ancora, dottrinale, che, soprattutto facendo leva
sull’interpretazione dell’espressione «formazione sociale» di cui all’art. 2 Cost., ha attenuato in
modo considerevole le differenze legislative intercorrenti tra la famiglia di fatto e la famiglia
matrimoniale ( 34). Sempre a livello esegetico è da segnalare il contrasto esistente in dottrina nella
lettura dell’art. 29, comma primo, Cost., tra coloro che – in un’ottica giusnaturalista – ravvisano
nella citata norma un mero riconoscimento a livello legislativo della società naturale basata sulla
famiglia matrimoniale e chi, invece, attribuendo alla disposizione in discorso una funzione
costitutiva, vede nella famiglia «una formazione frutto di aggregazione all’interno della società (...)
operante in quanto riconosciuta dall’ordinamento» ( 35). Il superamento della concezione
tradizionale consente oggi di individuare nell’art. 29 Cost. un favor del Costituente per la famiglia
legittima ( 36), ma non necessariamente la previsione di un trattamento sanzionatorio per la famiglia
non fondata sul matrimonio, la cui tutela trova anzi un fondamento nella stessa Carta Costituzionale
all’art. 2, ove si intendono garantire i diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali ove si
svolge la sua personalità ( 37).
Appare dunque ragionevole affermare che le limitazioni che nel nostro ordinamento derivano
dal riconoscimento costituzionale della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, non
possono essere intese come il segno di un atteggiamento di riprovazione verso i vincoli non
formalizzati ( 38).
Il riconoscimento del fenomeno, sul piano costituzionale, è dunque rinvenuto dalla dottrina e
dalla giurisprudenza nell’art. 2 Cost.
Come osserva autorevole dottrina ( 39) «l’idea secondo la quale anche la famiglia di fatto
rientra tra le “formazioni sociali” previste dalla Costituzione può essere condivisa. Essa tuttavia non
comporta che la famiglia naturale sia giuridicamente equiparata alla famiglia legittima ma,
piuttosto, significa che l’ordinamento deve tutelare l’interesse essenziale della persona a realizzarsi
nella famiglia, quale prima forma di convivenza umana, e cioè quale società naturale» ( 40). La
it., 1970, I, c. 17, che sancì l’illegittimità costituzionale del reato di concubinato previsto dal codice penale all’art. 560
c.p.; cfr. altresì DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, cit., p. 190.
(33) SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 400.
(34) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 43 ss., 53 ss.; ASPREA, La famiglia di fatto in Italia
e in Europa, cit., p. 20; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 27 ss.; BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 1 ss.; M.
SGROI, op. cit., p. 1033 ss.
(35) ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 11 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 11 ss., sulla
genesi dell’art. 29 Cost.
(36) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 53 ss.; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 402; cfr.
poi anche Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, secondo cui «l’art. 29 Cost., pur non negando dignità a forme naturali
del rapporto di coppia diverse dalla struttura giuridica del matrimonio, riconosce alla famiglia legittima una dignità
superiore in ragione dei caratteri di stabilità e certezza e della reciprocità e corrispettività di diritti e doveri che nascono
solo dal matrimonio».
(37) ROPPO, op. loc. ultt. citt.; OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 53 ss.; DOGLIOTTI, voce
Famiglia di fatto, cit., p. 192 s.; in giurisprudenza v. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, su cui cfr. infra, Cap. IV, § 2.
(38) Cfr. ad es. CORASANITI, Famiglia di fatto e formazioni sociali, in AA.VV., La famiglia di fatto. Atti del convegno
nazionale di Pontremoli (27-30 maggio 1976), Montereggio-Parma, 1977, p. 143 s.; PROSPERI, La famiglia non fondata
sul matrimonio, Napoli, 1980, p. 84 ss.; PERLINGIERI, La famiglia senza matrimonio tra l’irrilevanza giuridica e
l’equiparazione alla famiglia legittima, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, p. 136 s;
FALZEA, Problemi attuali della famiglia di fatto, ivi, p. 51 ss.; DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, cit., p. 192 s.;
TOMMASINI, La famiglia di fatto, in AA. VV., Il diritto di famiglia, I, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario
BESSONE, vol. IV, Torino, 1999, p. 503 s.; FRANCESCHELLI, voce Famiglia di fatto, in Enc. dir., Aggiornamento, VI,
Milano, 2002, p. 370.
(39) BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia, le successioni, Milano, 2005, p. 27.
(40) V. anche FURGIUELE, Libertà e famiglia, cit., p. 282 ss.; FERRANDO, Convivere senza matrimonio: rapporti
personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, cit., p. 185; TERRANOVA, Convivenza e rilevanza delle unioni cc.dd. di
fatto, loc. cit.
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norma in questione, infatti, se considerata come norma in bianco, e non semplicemente riassuntiva
di altre, è in grado di assicurare in via immediata tutela giuridica a tutte quelle forme associative che
si sviluppano nella realtà sociale in vista dello svolgimento della personalità dei singoli ( 41).
Ulteriore conferma della possibilità di riconoscere, almeno sotto determinati aspetti, una
rilevanza normativa al fenomeno della famiglia di fatto è costituita dal complesso di interventi
legislativi – che si esporranno nel prosieguo ( 42) – i quali, nei settori ordinamentali più diversi,
ricollegano all’esistenza di una convivenza una qualche conseguenza giuridica ( 43), giacché si può
ritenere che «l’analisi della legislazione speciale, nell’arco delle vicende che l’hanno contrassegnata
storicamente, non si presta né ad essere sopravvalutata nella sua portata (fino a ravvisare in essa una
sorta di riconoscimento di famiglia di fatto come fonte di uno status paraconiugale), né ad essere
relegata sul piano della «eccezionalità» (giudizio che, semmai, era valido in un diverso quadro
storico e costituzionale), né, infine, ad essere ritenuta di scarso rilievo ai fini di una verifica della
linea evolutiva lungo la quale si viene manifestando la rilevanza giuridica del fenomeno in esame»
( 44).
Altri interventi del giudice delle leggi hanno avvicinato maggiormente la famiglia di fatto alla
famiglia matrimoniale, sancendo l’illegittimità costituzionale della norma che non contemplava tra i
successibili nella titolarità del contratto di locazione il convivente more uxorio del conduttore
defunto, nonché dell’affidatario della prole naturale, in caso di rottura della convivenza ( 45) e
dichiarando contraria ai principi della carta costituzionale una legge regionale della Regione
Piemonte nella parte in cui non prevedeva la cessazione della stabile convivenza come causa di
successione nella assegnazione di alloggi di edilizia popolare ed economica ( 46).
In un’ulteriore decisione ( 47), in tema di tutela dei minori delle coppie di fatto, si è peraltro
affermato che «la convivenza more uxorio rappresenta l’espressione di una scelta di libertà dalle
regole che il legislatore ha sancito in dipendenza dal matrimonio, sicché l’estensione automatica di
queste regole alla famiglia di fatto potrebbe costituire una violazione dei principi di libera
determinazione delle parti» ( 48). Da segnalare poi ulteriori arresti che, pur non presentandosi come
di accoglimento, hanno dichiarato infondate le relative questioni di costituzionalità, proponendo ai
rispettivi giudici a quibus una lettura costituzionalmente orientata di alcune norme concernenti in
particolare la tutela della prole ( 49).
Notevole è poi la contiguità tra famiglia matrimoniale e famiglia di fatto nel diritto e nel
processo penale, avuto riguardo a quelle decisioni che estendono l’applicazione del reato di cui
(41) PERLINGIERI, Sulla famiglia come formazione sociale, in AA. VV., Rapporti personali nella famiglia, a cura di
Perlingieri, Napoli, 1982, p. 39; GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 146 ss. Per una posizione
critica nei confronti di un supposto tentativo di «iper-interpretazione» delle norme costituzionali, pervenendo a quello
che sarebbe un (allegato) stravolgimento del contenuto testuale della Carta, cfr. CATTANEO, La Costituzione e il diritto
familiare nella dottrina civilista italiana dell’ultimo quarantennio, Atti del congresso dei civilisti italiani di Venezia,
del 23-26 giugno 1988, in Quadrimestre, 1989, p. 237, il quale giudica addirittura «stupefacente» l’idea «che la
Costituzione esiga il riconoscimento normativo della famiglia di fatto», così negando in nuce ogni possibilità di
interpretazione evolutiva della Costituzione; sul tema v. anche MONTEVERDE, op. cit., p. 932 s.
(42) V. infra, § 6, in questo Capitolo.
(43) Per una ricognizione di tali disposizioni v. anche DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, cit., p. 192 s.; BUSNELLI e
SANTILLI, op. cit., p. 760 ss.
(44) BUSNELLI e SANTILLI, op. cit., p. 778.
(45) Cfr. Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, in Foro it., 1988, I, c. 2515, su cui v. infra, Cap. IX, § 1.
(46) Cfr. Corte cost., 20 dicembre 1989, n. 559.
(47) Cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, su cui v. infra, Cap. V, § 2.
(48) Per altri riferimenti di giurisprudenza costituzionale cfr. ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit.,
p. 80 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 77 ss.
(49) Si pensi ad esempio alla stessa decisione Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166 (su cui v. infra, Cap. V, § 2),
sull’applicabilità dei principi in tema di diritto di abitazione sulla casa familiare ex art. 155 c.c. (nella versione anteriore
alla riforma del 2006 sull’affidamento condiviso) alla famiglia di fatto, nonché a Corte cost. 26 ottobre 2005, n. 394,
sulla trascrizione del provvedimento di assegnazione della casa familiare nel caso di rottura della convivenza more
uxorio in presenza di prole minorenne (si noti che le questioni in oggetto sono ora risolte dall’art. 155-quater c.c.,
applicabile anche ai figli di genitori non coniugati, in base all’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54: v. infra, Cap. VII, § 2).
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all’art. 572 c.p. e dell’aggravante ex art. 61, n. 11, c.p. anche ai rapporti extramatrimoniali ( 50).
L’art. 199, terzo comma, lett. a), c.p.p., prevede fra coloro che possono astenersi a testimoniare
anche «chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso»
( 51).
Altro settore nel quale il rapporto di convivenza more uxorio sembra assumere un certo
rilievo è quello tributario, con particolare riguardo a quanto stabilito dall’art. 37, terzo comma,
d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 («Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui
redditi»), che consente di attribuire al soggetto fiscalmente indagato «quei redditi di cui appaiono
titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni, gravi, precise e
concordanti, che egli ne è l’effettivo possessore per interposizione di persona». Al riguardo potrà
ricordarsi che la Cassazione ha stabilito nel 2011 che «È legittimo l’avviso di accertamento emesso
sulla base delle indagini finanziarie sul conto corrente formalmente intestato alla convivente del
contribuente, delegato a operarvi, quando lo stesso non fornisce prova della non riferibilità delle
movimentazioni bancarie al suo reddito professionale» ( 52).
3. La nozione di famiglia di fatto nella giurisprudenza sovranazionale. Il diritto dell’Unione
europea e la Corte di giustizia.
Il Trattato di Lisbona, che modifica il Trattato sull’Unione europea ed il Trattato che istituisce
la Comunità europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007, ratificato dall’Italia l’8 agosto 2008 ed
entrato in vigore il 1° dicembre 2009, richiama l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, che
riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
europea del 7 dicembre 2000. La Carta, oltre a riconoscere (art. 7) il «diritto al rispetto della propria
vita privata e familiare» e a condannare espressamente ogni forma di discriminazione fondata
sull’orientamento sessuale (art. 21), contempla (art. 9) il «diritto di sposarsi e di costituire una
famiglia», peraltro «secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio».
L’art. 6 della versione consolidata del Trattato sull’Unione Europea oggi recita al primo
comma: «L’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo,
che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Se dunque l’art. 6 attribuisce alla Carta di Nizza lo
stesso valore giuridico e l’efficacia dei Trattati, va riconosciuto che la Carta di Nizza costituisce
oggi diritto primario dell’Unione, come confermato (subito dopo l’entrata in vigore del Trattato di
(50) ROPPO, voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, cit., p. 3. In giurisprudenza v. da ultimo Cass. pen., 9 marzo 2010,
n. 9242. Per una panoramica sul rilievo della famiglia di fatto nel diritto penale, impossibile in questa sede, cfr.
PITTARO, Il (controverso) rilievo giuridico della famiglia di fatto nel diritto penale, in Fam. dir., 2010, p. 933 ss.
(51) Sull’applicabilità al convivente dell’esimente di cui all’art. 384, primo comma, c.p. cfr. Corte cost., 18 gennaio
1996, n. 8, in Fam. dir., 1996, p. 107.
(52) Cfr. Cass., 28 febbraio 2011, n. 4775. La decisione ha evidenziato come nel giudizio di secondo grado il
contribuente avesse ammesso di usufruire di una delega ad operare sul conto corrente bancario della convivente sin dal
momento dell’apertura del conto. Su tale conto aveva eseguito numerosi depositi, prelievi, trasferimenti dal proprio
conto corrente. In assenza di elementi di prova di segno contrario, il conto corrente della convivente era stato ritenuto
riferibile esclusivamente al professionista. Secondo la Corte, la valutazione effettuata dai giudici d’appello non è
censurabile in quanto, anche se il rapporto sentimentale tra il contribuente e la sua convivente si era formalizzato
successivamente agli anni d’imposta accertati, ciò che assume rilevanza è la presenza di una delega a favore del
professionista e l’effettivo utilizzo, in assoluta a autonomia, del conto corrente della convivente. La Cassazione ha così
ribadito come il giudice tributario ben possa trarre il proprio convincimento da presunzioni semplici e da regole di
esperienza, mentre è onere del contribuente dimostrare che la ricostruzione operata in base al tali regole è priva di
fondamento.
In materia di rapporti tributari potrà poi citarsi Cass., 5 novembre 2008, n. 26543, che ha sancito l’equiparazione in
astratto del convivente al coniuge ai fini tributari, in merito alla detrazione dall’imposta lorda prevista dall’art. 1, primo
comma, l. 27 dicembre 1997, n. 449, per chi effettui determinati lavori di ristrutturazione in un immobile di cui non è
proprietario, ma detentore (va notato che, nella specie, la Corte ha negato il beneficio, non risultando provato il rapporto
di convivenza da data anteriore alla ristrutturazione).
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Lisbona) dalla Corte di giustizia ( 53).
Le istituzioni comunitarie si sono occupate sinora del tema delle unioni di fatto con
riferimento alla tutela dei diritti derivanti dal Trattato dell’Unione. Su tale argomento la
Commissione europea ha manifestato una posizione di netta apertura tramite risoluzioni e
raccomandazioni pur non vincolanti, mentre la Corte di giustizia ha affermato che, in tema di unioni
non matrimoniali, non è in sostanza possibile rilevare un comune sentire dei diversi Stati
dell’Unione, ed ha distinto tra coniuge e convivente, rifiutando una loro reale equiparazione. Si
tratta di rilievi con cui è stata censurata la discriminazione realizzata da uno Stato ove abbia
rifiutato ai cittadini, appartenenti ad un altro Stato membro, i diritti riconosciuti ai propri, pur non
obbligando gli Stati a riconoscere le unioni di fatto. L’agevolazione della libera circolazione dei
cittadini dell’Unione non interferisce, cioè, con le legislazioni dei singoli Stati membri,
subordinando alla volontà dello Stato ospitante la decisione sulla eventuale, effettiva equiparazione
del convivente al coniuge.
In particolare, l’argomento della convivenza è stato sinora affrontato dalla Corte in due ambiti
particolari: il diritto di libera circolazione dei lavoratori comunitari e dei loro familiari; il divieto di
discriminazioni fondate sul sesso o sull’orientamento sessuale nell’ambito lavorativo.
Sotto il primo profilo, il caso Reed, del 1986, ha certamente rappresentato un precedente
emblematico, che bene evidenzia l’orientamento seguito dalla Corte di giustizia in merito alla
questione della disciplina unitaria delle unioni civili nel contesto comunitario. Nel caso citato, la
Corte ha permesso ad una coppia di conviventi eterosessuali cittadini britannici di trasferirsi
stabilmente nei Paesi Bassi, facendo applicazione del divieto di discriminazione per ragioni fondate
sulla nazionalità: dal momento che la legge olandese consente ai propri cittadini che si trasferiscono
per motivi di lavoro di farsi seguire dal proprio partner, la Corte ha ritenuto, sulla base dell’art. 12,
Trattato CE, il quale vieta le discriminazioni fondate sulla nazionalità, che anche al cittadino inglese
che si trasferisce in Olanda per motivi di lavoro debba essere riconosciuto lo stesso diritto. In tale
occasione la Corte ha tuttavia precisato che sul tema delle unioni non matrimoniali non è rilevabile
«un comune sentire» dei diversi Stati dell’Unione ed in considerazione di ciò ha ribadito la
distinzione tra coniuge e convivente, rifiutandone la sostanziale equiparazione ( 54).
Nel 2001, nel caso D. v Kingdom of Sweden, la Corte ha testualmente ribadito che non
soltanto non esiste a livello comunitario uniformità di riconoscimento per le unioni diverse dal
matrimonio, ma si riscontra al contrario una sostanziale identità di vedute tra i Paesi che tutelano in
modo specifico tali forme di convivenza, proprio sulla base della loro diversità rispetto al
matrimonio, istituto che secondo la definizione comunemente accolta dagli Stati membri, si riferisce
in modo esclusivo all’unione tra persone di sesso biologicamente diverso ( 55).
(53) Cfr. la sentenza Kücükdeveci della Corte di giustizia dell’Unione europea, emessa il 19 gennaio 2010, in causa
C-555/07, secondo cui (cfr. il punto 22) «Va del pari rilevato che l’art. 6, n. 1, TUE enuncia che la Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione europea ha lo stesso valore giuridico dei trattati».
(54) Corte di giustizia, 17 aprile 1986, Reed, Racc., 1986, p. 1283 ss.
(55) Corte di giustizia, 31 maggio 2001, D. c. Regno di Svezia, in Guida dir., 2001, p. 25, con nota di ACIERNO. Nel
caso in oggetto, la Corte ha sentenziato che la condizione di convivente, anche se all’interno di un’unione stabile
registrata, non è equiparabile a quella di coniugato ai fini della concessione dell’assegno familiare previsto per i
dipendenti del Consiglio UE. A giudizio della Corte, l’equiparazione riconosciuta dalle leggi nazionali non rileva
nell’ordinamento comunitario. Nella specie si discuteva della possibilità di ritenere la convivenza registrata ricompresa
nella nozione di «coniuge » di cui allo statuto dei funzionari delle Comunità Europee; la Corte non ha ritenuto di
spingersi a un esame nel merito della regolazione delle convivenze registrate del Paese di provenienza del funzionario
(la Svezia, in cui da un punto di vista sostanziale le convivenze registrate sono equiparate al matrimonio); ha affermato
invece non poter interpretare il diritto comunitario nel senso richiesto dai ricorrenti poiché, negli stessi Paesi in cui sono
previste, le convivenze registrate rimangono almeno formalmente distinte dal matrimonio.
In tema di circolazione dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari si veda anche la Direttiva del 29 aprile 2004, n.
38, recepita in Italia con il già citato d.lgs. n. 30/2007, che ha introdotto una definizione di «familiare» che equipara al
coniuge il partner che abbia contratto con un cittadino europeo un’unione registrata. È estesa la qualifica di familiare al
convivente, a condizione che i partners abbiano contratto un’unione registrata in base alla normativa di uno Stato che la
preveda e che la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al matrimonio (cfr. art. 2, primo
comma, lett. b), n. 2, d.lgs. n. 30/2007). Su tale disposizione si è però esattamente rilevato in dottrina (CANATA, La
legalizzazione della vita di coppia: panorama europeo e prospettive di riforma in Italia, in Fam. pers. succ., 2010, p.
198 ss.) che la direttiva non si discosta dai suoi precedenti, poiché il Parlamento europeo ha ribadito l’assoluta neutralità
dell’Unione rispetto alle soluzioni normative adottate in autonomia dai singoli Stati. La direttiva estende infatti la
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Condivisibile appare peraltro il rilievo dottrinale ( 56), secondo cui, pur in mancanza di
pronunce espresse sul punto, tenuto conto della successiva evoluzione delle legislazioni nazionali,
in senso favorevole, nella grande maggioranza, alla possibilità per le coppie conviventi di registrare
il proprio legame, la Corte di giustizia ( 57), se chiamata oggi a valutare l’astratta configurabilità
della vita familiare in una convivenza registrata, risponderebbe in termini positivi.
Naturalmente, a quanto sopra rilevato, in tema di convivenze eterosessuali, va aggiunta la
sensibilità dimostrata dalla Corte sedente in Lussemburgo per le unioni omosessuali, con particolare
riguardo ai casi Maruko e Römer. Al tema verrà dedicata attenzione nell’ambito di un apposito
capitolo di questo lavoro, cui non resta che fare rinvio ( 58).
Sarà poi anche utile tenere a mente che la sensibilità a livello U.E. sul tema è mostrata non
solo dalla giurisprudenza della Corte sedente in Lussemburgo, ma anche dagli interventi del
Parlamento europeo ( 59) e, per ciò che attiene alla Commissione, dalla predisposizione di
un’apposita Proposta di regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile,
al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle unioni
registrate – COM (2011) 127 def. ( 60).
4. Segue. Sui limiti della Carta di Nizza.
Tornando al tema della Carta di Nizza, potrà aggiungersi che, ad avviso di chi scrive, i
principi consacrati in questo documento appaiono, per ciò che attiene al settore in esame,
assolutamente universali e pertanto applicabili, come tali, anche alle situazioni meramente
«interne», vale a dire anche a quei rapporti giuridici che non siano caratterizzati dalla presenza di
elementi di estraneità o che non presuppongano l’applicazione del diritto «secondario» di fonte
europea.
La questione appare estremamente complessa e tale da involgere riflessioni che esulano dal
contenuto e dagli scopi della presente indagine. Sembra peraltro opportuno tentare di riassumere in
questa sede i termini essenziali del problema e di trarne conclusioni utili per l’ulteriore sviluppo di
questo studio ( 61).
Dunque, si è posto in luce in dottrina ( 62) che nemmeno la Carta di Nizza appare in grado di
modificare i confini del diritto comunitario, avuto anche riguardo al contenuto dell’art. 5 del
Trattato sull’Unione europea, come modificato per effetto dell’entrata in vigore del Trattato di
Lisbona, par. 2, secondo cui «In virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce esclusivamente
nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli
qualifica di «familiare» anche al convivente, solamente nel caso in cui si realizzino contemporaneamente due
condizioni: in primo luogo, che i due partners abbiano contratto unione registrata in base alla normativa di uno Stato
che la preveda e, in secondo luogo, che la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l’unione registrata al
matrimonio (art. 2, primo comma, lett. b), n. 2, d.lgs. n. 30/2007). Appare dunque evidente che la disposizione si limita
a censurare la discriminazione attuata da uno Stato che rifiuti ai cittadini di uno altro Stato europeo i diritti che
riconosce ai propri, ma non pretende certamente di obbligare tutti gli Stati a riconoscere le unioni di fatto, né tanto
meno ad equipararle al matrimonio. Sul tema cfr. inoltre FANTETTI, Il principio di non discriminazione ed il
riconoscimento giuridico del matrimonio tra persone dello stesso sesso, Nota a Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in
Fam. pers. succ., 2011, p. 179 ss.
(56) LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, Milano, 2006, p. 185.
(57) Quella sedente a Strasburgo già l’ha fatto, come si dirà in prosieguo: v. infra, § 5, in questo Capitolo.
(58) V. infra, Cap. X, § 6.
(59) Su cui v. infra, Cap. X, § 5.
(60) Testo disponibile in lingua inglese alla pagina web seguente:
http://ec.europa.eu/justice/policies/civil/docs/com_2011_127_en.pdf; in lingua italiana alla pagina web seguente:
http://www.senato.it/documenti/repository/dossier/affariinternazionali/2011/Dossier%2065DN.pdf; per un primo
commento cfr. NASCIMBENE, Divorzio, diritto internazionale privato e dell’unione europea, Milano, 2011, p. 54 ss.
(61) L’autore coglie l’occasione per ringraziare Roberta Clerici ed Ilaria Queirolo per una serie di suggerimenti e
spunti offerti allo scrivente sul tema.
(62) Cfr. CONTI, Corte costituzionale e CEDU: qualcosa di nuovo all’orizzonte?, Nota a Corte cost., 26 novembre
2009, n. 311, in Corr. giur., 2010, p. 632. Cfr. inoltre NASCIMBENE, Unioni di fatto e matrimonio fra omosessuali.
orientamenti del giudice nazionale e della corte di giustizia, in Corr. giur., 2010, p. 91.
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obiettivi da questi stabiliti», e ancor di più al contenuto dell’art. 6 dello stesso Trattato, par. 1,
secondo cui «Le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione
definite nei trattati», nonché par. 2, secondo cui «L’Unione aderisce alla Convenzione europea per
la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le
competenze dell’Unione definite nei trattati».
Del resto, è innegabile che la stessa Carta (nella versione riadattata a Strasburgo nel 2007)
precisa nel Preambolo che, invece di statuire diritti nuovi, «La presente Carta riafferma, nel rispetto
delle competenze e dei compiti dell’Unione e del principio di sussidiarietà, i diritti derivanti in
particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri,
dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali,
dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della
Corte di giustizia dell’Unione europea e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo».
Il medesimo documento, inoltre, all’art. 57, stabilisce che «1. Le disposizioni della presente
Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di
sussidiarietà come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione.
Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione
secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’Unione nei
trattati. 2. La presente Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là
delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né
modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati».
Ed ancora l’art. 58, n. 3, della Carta prescrive che «Le disposizioni della presente Carta che
contengono dei principi possono essere attuate da atti legislativi e esecutivi adottati da istituzioni,
organi e organismi dell’Unione e da atti di Stati membri allorché essi danno attuazione al diritto
dell’Unione, nell’esercizio delle loro rispettive competenze. Esse possono essere invocate dinanzi a
un giudice solo ai fini dell’interpretazione e del controllo di legalità di detti atti».
In altri termini, un’attitudine della Carta di Nizza a divenire strumento generale di tutela dei
diritti fondamentali sembrerebbe ostacolato dalle competenze comunque limitate dell’Unione
Europea ( 63).
Anche la Corte di giustizia sembra, per lo meno in alcune decisioni, sottolineare la presenza di
tali limiti ( 64).
Ora, se è innegabile che, da un punto di vista generale, la Carta prescrive diritti e libertà
rilevanti solo nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione, assai più problematica appare la
situazione in cui – proprio come nei rapporti di cui qui si discute – ci si trovi di fronte ad un diritto
(63) Cfr. CONTI, op. loc. ultt. citt.
(64) Cfr., ad es., la sentenza Dereci del 15 novembre 2011, in cui si legge (punti 71 e 72 della motivazione):
«Tuttavia, occorre ricordare che le disposizioni della Carta si applicano, ai sensi dell’art. 51, n. 1, della medesima, agli
Stati membri esclusivamente in sede di attuazione del diritto dell’Unione. In virtù del n. 2 della medesima disposizione,
la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce
competenze nuove o compiti nuovi per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti nei trattati. Pertanto, la
Corte è chiamata a interpretare, alla luce della Carta, il diritto dell’Unione nei limiti delle competenze riconosciute a
quest’ultima. Pertanto, nel caso di specie, qualora il giudice del rinvio ritenga che, alla luce delle circostanze delle cause
principali, le posizioni dei ricorrenti nelle cause principali siano soggette al diritto dell’Unione, esso dovrà valutare se il
diniego del diritto di soggiorno di questi ultimi nelle cause principali leda il diritto al rispetto della vita privata e
familiare, previsto dall’art. 7 della Carta. Viceversa, qualora ritenga che dette posizioni non rientrino nella sfera di
applicazione del diritto dell’Unione, esso dovrà condurre un siffatto esame alla luce dell’art. 8, n. 1, della CEDU». V.
inoltre la sentenza Mariano, Corte di giustizia, 17 marzo 2009, in causa C-217/08 (punti nn. 29 e 30): «29 Neppure il
riferimento alla Carta dei diritti fondamentali può venire a sostegno di una conclusione diretta a far entrare il presente
procedimento nella sfera di applicazione del diritto comunitario. A tal riguardo basta sottolineare che, conformemente
all’art. 51, n. 2, di detta Carta, quest’ultima non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità europea e
per l’Unione, né modifica le competenze nonché i compiti definiti nei Trattati. Inoltre, conformemente all’art. 52, n. 2,
della stessa Carta, i diritti riconosciuti dalla stessa che trovano il loro fondamento nei Trattati comunitari o nel Trattato
sull’Unione europea si esercitano alle condizioni e nei limiti dagli stessi definiti. 30. Alla luce delle considerazioni che
precedono, la questione sollevata deve essere risolta nel senso che il diritto comunitario non contiene un divieto di
qualsiasi discriminazione di cui i giudici degli Stati membri devono garantire l’applicazione allorché il comportamento
eventualmente discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto comunitario».
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fondamentale riconosciuto ( 65) solo in sede di diritto dell’Unione europea. E qui, di fronte a diritti
umani fondamentali, non può non intervenire il principio costituzionale di non discriminazione.
E, del resto, che senso avrebbe statuire un principio come quello della libertà matrimoniale e
della libertà di fondare una famiglia, se tali regole dovessero valere solo nell’ambito del diritto
comunitario? Sin troppo facile sarebbe obiettare che, in materia di rapporti familiari, il diritto
comunitario odierno si limita a disciplinare: (a) alcune (marginali) aree del diritto processuale
(competenza giurisdizionale, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni), nonché (b) profili di
diritto internazionale privato. Del tutto inesistenti sono, allo stato, un «diritto matrimoniale» e un
«diritto di famiglia» dell’Unione europea, per lo meno secondo l’accezione tradizionale di tali
concetti ( 66).
Che significato avrebbe dunque l’art. 9 della Carta di Nizza (secondo cui «Il diritto di sposarsi
e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano
l’esercizio»), se non potesse essere riferito al modo in cui matrimonio e famiglia sono modellati nei
diversi diritti nazionali? Davvero si potrebbe continuare a predicare l’indifferenza della Carta di
Nizza nell’ipotesi in cui, puta caso, un legislatore nazionale si sbizzarrisse a varare una normativa
che restringesse il diritto di sposarsi (es.: non più di tre volte nella vita di ogni soggetto…), o, al
contrario, intervenisse su quell’immagine speculare di quel diritto, vale a dire sul diritto di non
sposarsi (si pensi all’introduzione di sanzioni per i non coniugati…) ( 67)?
Che la Carta di Nizza trovi applicazione anche con riguardo a situazioni non disciplinate dal
diritto di fonte europea è conclusione rinvenibile nella giurisprudenza della nostra Corte di
Cassazione ( 68). In questo stesso senso sembra del resto deporre almeno una parte della
giurisprudenza della stessa Corte di giustizia, la quale, pur avendo talora richiesto l’esistenza di un
nesso con il diritto comunitario in merito al principio di non discriminazione ( 69), ha, in altre
(65) O per lo meno, riconosciuto chiaramente (o in modo meno ambiguo rispetto ad altre carte sovranazionali): si
pensi al divieto di discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale o alla formulazione del diritto a formare una
famiglia, come diritto distinto dal diritto di sposarsi, nonché allo stesso diritto di sposarsi, così come formulato nella
Carta di Nizza rispetto a come enunciato nella C.E.D.U. (sul tema v. infra, § 5, in questo Capitolo, nonché Cap. X, § 7).
(66) Come noto, si suole evidenziare da più parti che la normativa del diritto di famiglia, in senso ampio, è riservata
alla competenza esclusiva dei singoli Stati membri, trattandosi di materia fortemente influenzata dai valori, dalla cultura
e dalla tradizione propri di una nazione. Sul tema, che non può essere certo sviluppato in questa sede, cfr. RUSCELLO,
La famiglia tra diritto interno e normativa comunitaria, in Familia, 2001, p. 697 ss.; FERRANDO, Le relazioni familiari
nella Carta dei diritti dell’Unione europea, in Pol. dir., 2003, p. 347 ss.; HONORATI, Verso una competenza della
Comunità Europea in materia di diritto di famiglia?, in AA. VV., La famiglia nel diritto internazionale privato
comunitario, a cura di Bariatti, Milano, 2007, p. 3 ss.; TOMASI, La nozione di famiglia negli atti dell’Unione e della
Comunità europea, ivi, p. 47 ss.; cfr. inoltre LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali,
cit., passim. Svariati contributi sul tema sono poi raccolti in BOELE-WOELKI (a cura di), Perspectives for the Unification
and Harmonisation of Family Law in Europe, Antwerp-Oxford-New York, 2003; tra questi si segnalano in particolare
PINTENS, Europeanisation of Family Law, p. 3 ss., 16 ss.; DETHLOFF, Arguments for the Unification and Harmonisation
of Family Law in Europe, p. 37 ss.; cfr. inoltre BOELE-WOELKI, The Road towards a European Family Law, loc. cit.;
QUEIROLO, Separazione, annullamento, divorzio e responsabilità genitoriale: il regolamento CE 2201/2003, in AA.
VV., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto da Ferrando, I, Matrimonio, separazione e divorzio, Bologna, 2007, p.
1107 ss. Sul futuro europeo dei regimi patrimoniali cfr. per tutti OBERTO, La comunione coniugale nei suoi profili di
diritto comparato, internazionale ed europeo, in Dir. fam. pers, 2008, p. 367 ss.
(67) SCHLÜTER, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, Berlin-New York, 1981, p. 18, che rileva come una
«(negative) Eheschließungsfreiheit» sia garantita dall’art. 6, comma primo, della Costituzione tedesca, ma anche
dall’art. 23, comma secondo, della convenzione delle Nazioni Unite del 19 dicembre 1966, sui diritti civili e politici.
(68) Per un’applicazione delle norme della Carta di Nizza a una fattispecie che prescindeva da riferimenti al diritto
europeo cfr. Cass., 2 febbraio 2010, n. 2352, in materia di demansionamento di fatto di un professionista operante
nell’ambito di una struttura ospedaliera.
(69) Cfr. Corte di giustizia, 17 marzo 2009, Mariano, in causa n. C-217/08, cit., che, nell’affermare che il diritto
comunitario non contiene un divieto di qualsiasi discriminazione di cui i giudici degli Stati membri devono garantire
l’applicazione allorché il comportamento eventualmente discriminatorio non presenta alcun nesso con il diritto
comunitario, ribadisce che nemmeno la Carta di Nizza può modificare la natura puramente interna della questione:
«Neppure il riferimento alla Carta dei diritti fondamentali può venire a sostegno di una conclusione diretta a far entrare
il presente procedimento nella sfera di applicazione del diritto comunitario. A tal riguardo basta sottolineare che,
conformemente all’art. 51, n. 2, di detta Carta, quest’ultima non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la
Comunità europea e per l’Unione, né modifica le competenze nonché i compiti definiti nei Trattati». In senso conforme
v. inoltre Corte di giustizia, 26 marzo 2009, Pignataro, in causa n. C-535/08; Corte di giustizia, 3 ottobre 2008,
Crocefissa Savia, in causa n. C-287/08; Corte di giustizia, 23 settembre 2008, Birgit Bartsch, in causa n. C-427/06.
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occasioni più volte ammesso che i giudici nazionali, a cui un soggetto che si asserisce discriminato
in base ad una situazione puramente interna si rivolge, propongano rinvio pregiudiziale alla Corte,
al fine di ottenere l’esatta interpretazione della norma di diritto comunitario/europeo che, sulla base
di apposite disposizioni di diritto nazionale, viene indirettamente estesa alle situazioni interne ( 70).
D’altro canto, come si avrà modo di vedere ( 71), la stessa Corte europea dei diritti dell’uomo
non esita oggi ad utilizzare proprio la Carta di Nizza per «rileggere» in maniera ben diversa dal
passato la nozione di «famiglia» di cui alla C.E.D.U.: e ciò, si badi, in situazioni per nulla attinenti a
profili di diritto dell’Unione europea e che non presentavano in alcun modo elementi di
internazionalità.
Con particolare riguardo a tale ulteriore (asserito) limite (situazione di internazionalità,
appunto), ad avviso dello scrivente si può tranquillamente concludere nel senso che siffatto
requisito non appare in alcun modo necessario per poter predicare l’applicabilità della Carta di
Nizza, in alcuno dei suoi aspetti, per lo meno nel senso che laddove il diritto UE non richieda una
situazione di transnazionalità per operare, correlativamente non lo richiede la Carta per applicarsi. Il
limite in esame varrà dunque – in linea di principio – per l’applicazione delle norme comunitarie di
diritto internazionale privato e processuale, ossia per quelle, per intendersi, dei regolamenti «filone
Roma e Bruxelles» approvati sulla base del titolo V TFUE.
5. Segue. La C.E.D.U. e la Corte di Strasburgo. Le prospettive del diritto europeo, anche con
riguardo alle convivenze omosessuali (rinvio).
La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(C.E.D.U.) tutela i diritti derivanti da rapporti di famiglia, garantendo il diritto di ogni persona al
rispetto della vita privata familiare (art. 8), riconoscendo a uomini e donne il diritto al matrimonio
secondo le leggi nazionali che regolano l’esercizio di tale diritto (art. 12) e vietando ogni
discriminazione fondata sul sesso o su ogni altra condizione (art. 14) ( 72).
(70) Sul tema cfr. NASCIMBENE, Le discriminazioni all’inverso: Corte di giustizia e Corte costituzionale a confronto,
in Dir.U.E., 2007, p. 717. In particolare, detto principio che, tradizionalmente, viene fatto risalire alla sentenza Guimont
(sentenza 5 dicembre 2000, Guimont, in causa n. C-448/98, in Raccolta, p. I-10663), con riferimento alla libera
circolazione delle merci, ha trovato espressa applicazione anche in ambito di libera circolazione delle persone. Rileva,
in tal senso, il caso Angonese (sentenza 6 giugno 2000, Roman Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano SpA, in
causa C-281/98, in Raccolta, p. I-4139) che, come evidenziato in dottrina, rappresenta «un passo in più verso un
riconoscimento comunitario» delle «discriminazioni a rovescio», dovuto ad esigenze giuridiche prettamente interne del
giudice a quo (così PALLARO, La sentenza Guimont: un definitivo superamento “processuale” dell’irrilevanza delle
c.d. “discriminazioni a rovescio”?, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2001, p. 97 e ZOPPI, Le discriminazioni a rovescio, in
Dir. com. sc. int., 2006, n. 4, p. 808). Nel caso di specie, un cittadino italiano residente a Bolzano contestava il fatto che
una banca della stessa città, nell’ambito di un concorso di assunzione, esigesse il possesso del c.d. «patentino»,
attestante il bilinguismo, rilasciato solo dall’amministrazione provinciale, senza accettare altre prove dell’adeguata
conoscenza sia dell’italiano che della lingua tedesca; ritenendo il requisito svantaggioso per i non residenti nella
provincia e in particolare per i cittadini di altri Stati membri, e quindi reclamandone l’incompatibilità con il divieto di
discriminazioni tra lavoratori fondate sulla nazionalità di cui all’art. 48 Trattato CE (divenuto art. 39 TCE; attualmente
trasfuso nell’art. 45 TFUE), egli chiedeva al giudice nazionale di dichiararlo nullo sulla base di principi di diritto
interno. Il giudice adisce la Corte di giustizia per sapere se il fatto di pretendere l’attestato sul bilinguismo da parte di
un’impresa privata (quindi, di un singolo datore di lavoro) fosse incompatibile con il Trattato e con la normativa
derivata in tema di libera circolazione dei lavoratori; l’ordinanza adduceva quale unico elemento «transfrontaliero» lo
svolgimento da parte dell’attore nella fattispecie a quo di studi di lingue straniere all’Università di Vienna, studi,
tuttavia, del tutto estranei al tipo di attività lavorativa cui si era candidato; essa aggiungeva inoltre la problematica
dell’eventuale disapplicabilità della clausola concorsuale ai sensi dei principi giuridici nazionali. Per commenti, si veda
GAJA, Può un cittadino italiano utilmente imparare il tedesco in Austria?, in Riv. dir. int., 2000, p. 1051 ss.; PALERMO,
Diritto comunitario e tutela delle minoranze: alla ricerca di un punto di equilibrio, in Dir. pubbl. comp. eur., 2000, p.
969 ss.; SCHEPISI, Cosa si nasconde dietro al caso Angonese? Novità e conferme in materia di libera circolazione dei
lavoratori, in Dir. Un. eur., 2002, p. 327 ss.
(71) V. infra, Cap. X, § 7.
(72) FERRANDO, Il contributo della C.E.D.U. all’evoluzione del diritto di famiglia, in Nuova giur. civ. comm., 2005,
II, p. 263 ss.; v. inoltre DONATI e MILAZZO, La dottrina del margine di apprezzamento nella giurisprudenza della Corte
europea dei Diritti dell’uomo, in AA. VV., La Corte Costituzionale e le Corti d’Europa, a cura Falzea, Spadaro e
Ventura, Torino, 2003, p. 70 ss.
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Specificamente, in tema di diritto al matrimonio, i giudici di Strasburgo ebbero ad affermare,
ormai diversi anni fa, che «the right to marry guaranteed by Article 12 refers to the traditional
marriage between persons of opposite biological sex. This appears also from the wording of the
Article which makes it clear that article 12 is mainly concerned to protect marriage as the basis of
the family». Con queste parole la Corte negò nel 1986 che l’art. citato fosse violato dalle
disposizioni britanniche che vietavano il matrimonio con un transessuale ( 73). L’anno successivo la
stessa Corte stabilì che il rinvio alle leggi nazionali non consente l’equiparazione della situazione
personale di convivente a quella propria del coniuge ( 74).
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha quindi, in un primo momento, privilegiato
un’interpretazione unitaria delle citate disposizioni, nel senso cioè di tutela dell’unica forma di vita
familiare quale sarebbe quella fondata sul matrimonio, in ciò sicuramente guidata dalla lettera
dell’art. 12 cit., la cui rubrica recita (solo): «diritto al matrimonio».
Nel corso degli anni successivi, però, la stessa Corte ha orientato la propria lettura delle
norme convenzionali in senso più ampio, in considerazione della natura della Convenzione quale
diritto vivente, che interpreta in maniera evolutiva le concezioni prevalenti negli Stati partecipanti. I
giudici di Strasburgo hanno, dunque, ritenuto che, alla base della famiglia di cui all’art. 8, primo
comma, della Convenzione, vi sia la cellula uomo-donna costituente un rapporto coniugale, ma
anche un possibile altro rapporto affettivo, che, pur non essendo riconducibile al matrimonio, possa
condividerne alcuni aspetti essenziali. Conseguentemente vi è stata fatta rientrare la relazione
affettiva costituita da persone di diverso sesso conviventi more uxorio per un certo periodo di
tempo, ove connotata da un sufficiente carattere di stabilità, desumibile, ad esempio, dalla
coabitazione durevole e dalla nascita di figli, nonché dalla volontà di costituire una famiglia.
Riguardo l’applicazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della
Convenzione, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha adottato un approccio graduale, ponendo
l’enfasi, in un primo tempo, sul fatto che ciascuno Stato partecipante, al fine di evitare la
discriminazione delle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, è tenuto alla attuazione di
misure ragionevolmente proporzionate allo scopo perseguito in un costante bilanciamento tra
interesse pubblico e privato, trovando, cioè, il giusto equilibrio tra interessi concorrenti
dell’individuo e della società ( 75).
(73) Corte europea dir. uomo, 17 ottobre 1986, Rees c. Regno Unito, in Riv. dir. internaz., 1987, p. 735 ss. V. anche
Corte europea dir. uomo, 27 settembre 1990, Cossey c. Regno Unito, ricorso n. 10843/84, ove si afferma che «l’art. 12
precisa che tale diritto è soggetto alle leggi nazionali degli Stati contraenti. Le conseguenti limitazioni non debbono
restringerlo o ridurlo in modo da pregiudicarne la sostanza stessa, ma non si può attribuire un effetto di tal sorta
all’impedimento posto, nel Regno Unito, al matrimonio di persone che non appartengono a sessi biologici differenti».
(74) Corte europea dir. uomo, 26 maggio 1987, F. c. Svizzera, in Foro it., 1988, IV, c. 402 ss.
(75) Corte europea dir. uomo, 17 luglio 2002, Goodwin c. Regno Unito, con la quale la Corte di Strasburgo ha
dichiarato contrario alla Convenzione il divieto di matrimonio del transessuale, dopo l’operazione di cambiamento di
sesso, con persona del suo stesso sesso originario. La Corte europea ha in tal caso affermato che il diritto di un uomo e
di una donna di fondare una famiglia non è subordinato al diritto di sposarsi e che l’impossibilità di procreare o di
essere genitori non può incidere sul primo diritto. Cfr. anche Corte europea dir. uomo, 11 luglio 2002, I. v. The United
Kingdom, in cui possono leggersi affermazioni del genere: «78. Reviewing the situation in 2002, the Court observes
that Article 12 secures the fundamental right of a man and woman to marry and to found a family. The second aspect is
not however a condition of the first and the inability of any couple to conceive or parent a child cannot be regarded as
per se removing their right to enjoy the first limb of this provision. 79. The exercise of the right to marry gives rise to
social, personal and legal consequences. It is subject to the national laws of the Contracting States but the limitations
thereby introduced must not restrict or reduce the right in such a way or to such an extent that the very essence of the
right is impaired (see the Rees judgment, p. 19, § 50; the F. v. Switzerland judgment of 18 December 1987, Series A no.
128, § 32). 80. It is true that the first sentence refers in express terms to the right of a man and woman to marry. The
Court is not persuaded that at the date of this case it can still be assumed that these terms must refer to a determination
of gender by purely biological criteria (as held by Ormrod J. in the case of Corbett v. Corbett, paragraph 17 above).
There have been major social changes in the institution of marriage since the adoption of the Convention as well as
dramatic changes brought about by developments in medicine and science in the field of transsexuality. The Court has
found above, under Article 8 of the Convention, that a test of congruent biological factors can no longer be decisive in
denying legal recognition to the change of gender of a post-operative transsexual. There are other important factors –
the acceptance of the condition of gender identity disorder by the medical professions and health authorities within
Contracting States, the provision of treatment including surgery to assimilate the individual as closely as possible to the
gender in which they perceive that they properly belong and the assumption by the transsexual of the social role of the
assigned gender. The Court would also note that Article 9 of the recently adopted Charter of Fundamental Rights of the
20
A questi primi passi hanno fatto seguito prese di posizione assai più nette, come si dirà a
tempo debito ( 76).
Per il momento potrà iniziarsi a rilevare, con una parte della dottrina ( 77), che la situazione
attuale della giurisprudenza europea può essere sintetizzata ricorrendo al concetto di presunzione
relativa, con conseguente inversione dell’onere probatorio. In altri termini, mentre la presenza di un
vincolo matrimoniale è idonea a fondare la presunzione dell’esistenza di una vita familiare,
l’assenza di tale rapporto (o di una convivenza registrata) determina la presunzione che non esista
una vita familiare e il conseguente onere per i soggetti che invochino il rispetto della loro vita
familiare di provarne l’esistenza. In particolare, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, possono
essere indizi dell’esistenza in concreto di una vita familiare una coabitazione stabile e non
transitoria, rapporti affettivi significativi e duraturi, o la presenza di figli concepiti a seguito di un
progetto procreativo comune ( 78).
Si può anche rimarcare che, se vi potrebbe essere incertezza relativamente alla inclusione
delle unioni di fatto (sia etero che omosessuali) in un più ampio concetto di «famiglia» da parte
delle norme della Convenzione – avuto riguardo al fatto che l’art. 12 cit. reca nella rubrica il solo
riferimento al matrimonio e nel testo stesso della disposizione il diritto di costituire una famiglia
sembra essere visto come riferibile alla sola famiglia fondata sul matrimonio – il testo della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea si esprime in forma diversa. L’art. 9 della Carta di
Nizza, invero, reca nella rubrica il riferimento ad entrambi i diritti, mentre nel testo della
disposizione si fa chiaramente menzione di due diritti, che l’interprete è autorizzato a ritenere non
necessariamente coincidenti ( 79).
European Union departs, no doubt deliberately, from the wording of Article 12 of the Convention in removing the
reference to men and women (see paragraph 41 above) (…) 84. The Court concludes that there has been a breach of
Article 12 of the Convention in the present case».
(76) V. infra, Cap. X, § 7.
(77) LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, cit., p. 183 s.
(78) Nel caso Johnston and others v Ireland i tre ricorrenti lamentavano la violazione del loro diritto al rispetto della
vita familiare, dovuto all’impossibilità per i due membri adulti della coppia di contrarre matrimonio (e dunque di
migliorare con la legittimazione la situazione giuridica della loro figlia naturale), poiché l’uomo era già coniugato e
l’ordinamento irlandese nel consentiva il divorzio (poi introdotto nel 1996). La Corte, esaminando il caso sottoposto al
suo esame, ha espressamente affermato che «56. In the present case, it is clear that the applicants, the first and second
of whom have lived together for some fifteen years (…), constitute a “family” for the purposes of Article 8 (art. 8).
They are thus entitled to its protection, notwithstanding the fact that their relationship exists outside marriage» (la
decisione reca la data del 18 dicembre 1986). Un altro esempio è dato dalla giurisprudenza della Corte EDU in materia
di espulsione: l’esistenza di una convivenza more uxorio tra il ricorrente espulso e un cittadino dello Stato convenuto
consente astrattamente di qualificare l’espulsione quale ingerenza nella vita familiare del ricorrente, con la necessità
dunque di valutare in concreto se tale ingerenza appaia giustificata ai sensi dell’art. 8 cpv. C.E.D.U. (cfr. Corte EDU,
sentenza 15 luglio 2003, Mokrani c. France, par. n. 34). In due casi di immigrati arrivati in Francia bambini e poi
conviventi more uxorio con cittadine francesi, l’espulsione è stata considerata legittima in considerazione della gravità
dei reati e la convivenza non è stata considerata, poiché cominciata dopo l’inizio della procedura di espulsione:
l’esclusione della rilevanza in concreto della convivenza ha però indirettamente confermato la rilevanza in astratto di
tale legale familiare (Corte EDU, sentenza 21 ottobre 1997, Boujlifa c. France, par. n. 36 e sentenza 26 settembre 1997,
El Boujaidi c. France, par. n. 33). Analogie si riscontrano nel caso di specie anche con la giurisprudenza della Corte di
giustizia dell’Unione europea, la quale, nel caso Eyüp, ha ritenuto che dovesse essere inclusa nella nozione di
«familiare» anche la donna inizialmente coniugata con il lavoratore turco, che aveva poi divorziato da quest’ultimo pur
continuando a convivere con esso more uxorio e si era poi risposata con il medesimo individuo, poiché la ratio della
norma in esame è quella di garantire diritti autonomi al familiare lavoratore qualora vi fosse stata nel Paese di
accoglienza una stabile ed effettiva convivenza (Corte di giustizia, sentenza 22 giugno 2000, Safet Eyüp v
Landesgeschäftsstelle des Arbeitsmarktservice Vorarlberg, in causa C-65/98, parr. nn. 28, 34-36, 48). Sul tema cfr.
anche IZZO, Quando la prudenza è eccessiva, in in Dir. pubbl. comp. eur., 2000, p. 1595; PALLARO, Coppie di fatto e
ricongiungimento familiare nell’ordinamento comunitario: un nuovo indirizzo della Corte di Giustizia?, in Dir. scambi
int., 2001, p. 261).
(79)
Conv. europea dir. uomo
Carta di Nizza
21
In altre parole, l’avere individuato disgiuntamente i due distinti diritti – quello di sposarsi e
quello di creare una famiglia – è stato interpretato nel senso di avere inteso assicurare una disciplina
alle famiglie non unite in matrimonio, riconoscendo loro una tutela giuridica ( 80). E proprio questo
argomento si pone alla base di quel «dialogo tra carte», di cui si nutre l’attuale giurisprudenza di
Strasburgo in questo settore, sulla quale si avrà modo di riferire a tempo debito: l’ulteriore
evoluzione di tale case law segna infatti la presenza di interventi sempre più marcati a tutela della
famiglia di fatto etero e omosessuale, come si avrà modo di vedere trattando di quest’ultimo
specifico argomento ( 81).
6. La regolamentazione legislativa della famiglia di fatto in Italia.
Tornando alla dimensione nazionale del fenomeno, va detto che appare agevole rimarcare che
la decisione di regolamentare, o meno, il fenomeno delle famiglie di fatto è un problema, prima
ancora che giuridico, di politica del diritto e di bilanciamento tra il rispetto della libera autonomia
dei privati e l’intervento delle pubbliche istituzioni ( 82). Dinanzi al nostro Parlamento sono state
presentate, nel corso degli ultimi decenni, svariate proposte volte a fornire una disciplina organica al
fenomeno in esame ( 83), tutte rimaste, ad oggi, senza esito. Occorre comunque prendere atto della
circostanza che, malgrado tale singolare latitanza legislativa (che vede il nostro Paese relegato nel
novero di quelli più arretrati, nel composito panorama del nostro Continente), non poche
disposizioni del vigente ordinamento sono intervenute a disciplinare, nel corso degli ultimi anni,
svariati aspetti dei rapporti giuridici che possono venirsi ad intessere nell’ambito di un faux ménage.
Per citare solo taluni tra i più significativi e meno remoti esempi ( 84), si potrà ricordare in
primo luogo l’equiparazione del convivente al coniuge per effetto del disposto degli artt. 330, 333,
342-bis e 342-ter c.c., così come, rispettivamente, modificati e introdotti dagli artt. 37, l. 28 marzo
2001, n. 149 («Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e
dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile») e 2, l. 5 aprile
2001, n. 154 in materia di violenza nelle relazioni familiari ( 85).
«Articolo 12
Diritto al matrimonio
A partire dall’età minima per
contrarre matrimonio, l’uomo e la donna
hanno il diritto di sposarsi e di fondare
una famiglia secondo le leggi nazionali
che regolano l’esercizio di tale diritto».
«Articolo 9
Diritto di sposarsi e di costituire una
famiglia
Il diritto di sposarsi e il diritto di
costituire una famiglia sono garantiti
secondo le leggi nazionali che ne
disciplinano l’esercizio».
(80) LIPARI, Riflessioni su famiglia e sistema comunitario, in Familia, 2006, p. 7 ss.; FERRANDO, Le relazioni
familiari nella Carta dei diritti dell’Unione europea, cit., p. 353 ss.; MARELLA, L’armonizzazione del diritto di famiglia
in Europa. Metodo ed obiettivi, in AA. VV., I costituzionalisti e la tutela dei diritti nelle Corti europee: il dibattito nelle
riunioni dell’osservatorio costituzionale presso la LUISS ‘Guido Carli’ dal 2003 al 200, a cura Panunzio, Napoli, 2005,
p. 555 ss.
(81) V. infra, Cap. X, § 7.
(82) ROPPO, voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, cit., p. 2.
(83) Su alcuni dei progetti presentati nel corso della XIV legislatura cfr. per tutti OBERTO, I contratti di convivenza
tra autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 87 ss.; per una panoramica più
ampia, sino alla XVI legislatura, con particolare riferimento alle questioni patrimoniali v. anche ID., La comunione
legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da
Schlesinger, I, Milano, 2010, p. 305 ss.; per ulteriori commenti di alcune iniziative legislative v. inoltre BENEDETTI, Le
proposte di legge italiane in materia di convivenza, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza. Università degli studi di
Genova, 2000, fasc. 1 (dicembre), p. 39 ss.; DOGLIOTTI e FIGONE, Famiglia di fatto e DICO: un’analisi del progetto
governativo, in Fam. dir., 2007, p. 416 ss.; GALUPPI, Brevi note sulla proposta di legge relativa ai diritti e doveri delle
persone stabilmente conviventi, in Dir. fam. pers., 2007, p.1931 ss.; LIPARI, Rapporti coniugali di fatto e rapporti di
convivenza (Note a margine di un iter legislativo), in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, p. 1025; ASPREA, La famiglia di
fatto, cit., p. 398 ss.; CANATA, La legalizzazione della vita di coppia: panorama europeo e prospettive di riforma in
Italia, cit., p. 198 ss.
(84) Per una panoramica al riguardo v. anche MONTEVERDE, op. cit., p. 938 ss.; ARCANI, op. cit., p. 885 ss.
(85) Su cui v. anche infra, § 8, in questo Capitolo.
22
Un altro caso che si potrà ricordare attiene all’equiparazione al coniuge della «persona
stabilmente convivente», operata dalla riforma in tema di amministrazione di sostegno (cfr. artt.
408, 410, 411, 417 e 426 c.c., così come modificati dalla l. 9 gennaio 2004, n. 6), per effetto della
quale alla persona stabilmente convivente compete, ad esempio, la legittimazione attiva in ordine
alla proposizione della domanda di interdizione, inabilitazione o di nomina di amministratore di
sostegno, oltre che il diritto di essere preferita nella scelta dell’amministratore di sostegno (si noti
poi che, ai sensi del novellato art. 407 c.c., il nominativo del convivente va comunque indicato nel
ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno).
Anche la disciplina in tema di procreazione medicalmente assistita (l. 19 febbraio 2004, n. 40)
contiene una disposizione (cfr. l’art. 5) secondo cui «Fermo restando quanto stabilito dall’articolo 4,
primo comma, possono accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita coppie di
maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi
viventi». Al riguardo, quanto mai significativo appare il fatto che il legislatore si sia sentito in
obbligo di specificare che le coppie conviventi che vengono qui in rilievo possono essere solo
quelle di persone di sesso diverso, temendo che, in caso di mancato inserimento di siffatto inciso,
l’interprete avrebbe potuto arrivare alla conclusione che le tecniche di procreazione medicalmente
assistita avrebbero potuto ritenersi aperte anche alle coppie omosessuali.
Andranno poi citate le disposizioni introdotte dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54 («Disposizioni in
materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli»), che, pur senza mai
espressamente citare la famiglia di fatto, dettano principi in tema di affidamento condiviso e, più in
generale, per la gestione del rapporto rispetto alla prole dei coniugi in crisi sicuramente estensibili
( 86) alle coppie (già) conviventi more uxorio.
Potrà ancora ricordarsi che l’art. 4, primo comma, d.p.r. 30 maggio 1989, n. 223 definisce la
famiglia ai fini anagrafici come «un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela,
affinità, adozione, tutela o da vincoli affettivi, coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso
comune» ( 87), mentre l’art. 6, quarto comma, 1. 4 maggio 1983, n. 184, così come sostituito dall’art.
6, l. 28 marzo 2001, n. 149, consente l’adozione «anche quando i coniugi abbiano convissuto in
modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il
tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte
le circostanze del caso concreto» ( 88). Potrà poi farsi menzione dell’art. 129, secondo comma, d.lgs.
7 settembre 2005, n. 209, ai sensi del quale non è considerato terzo e non ha diritto ai benefici
derivanti dai contratti di assicurazione obbligatoria, limitatamente ai danni alle cose, il convivente
more uxorio. Merita anche ricordare la disposizione di cui all’art. 317-bis cpv. c.c. ( 89), ove, con
riguardo al figlio naturale riconosciuto sia dal padre che dalla madre, si stabilisce che, se costoro
convivono, la potestà spetta congiuntamente ad entrambi ( 90).
Collocandosi su di un altro piano potrà infine aggiungersi che, in difetto di una normativa
organica di carattere generale, svariati comuni italiani hanno provveduto alla creazione di appositi
registri delle unioni civili riguardanti le coppie di fatto, sia etero- che omosessuali ( 91). La funzione
(86) Cfr. art. 4, l. cit., secondo cui «Le disposizioni della presente legge si applicano anche in caso di scioglimento, di
cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non
coniugati».
(87) Per l’applicazione di questa norma anche alle convivenze omosessuali cfr. D’ANGELI, Il fenomeno delle
convivenze omosessuali: quale tutela giuridica?, in I quaderni della Riv. dir. civ., Padova, 2003, p. 25.
(88) Prima che intervenisse la citata modifica legislativa, la Corte costituzionale aveva dichiarato infondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, primo comma, l. 4 maggio 1983, n. 184, vecchia formulazione: cfr.
Corte cost., 6 luglio 1994, n. 281, in Fam. dir., 1994, p. 485; la decisione è stata definita un’«occasione mancata» da
ASTONE, Ancora sulla famiglia di fatto: evoluzione e prospettive, in Dir. fam. pers., 1999, p. 1466.
(89) Su cui v. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 52; V. inoltre M. SGROI, op. cit.,
p. 1044 ss.
(90) Per l’indicazione di ulteriori riferimenti normativi alla situazione dei conviventi more uxorio, si rinvia a
SPADAFORA, Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, Milano, 2001, p. 8 ss.; ANNUNZIATA e
IANNONE, Verso la tutela giuridica delle famiglie omosessuali?, Nota a Trib. Ferrara, 16 dicembre 2009, in Fam. pers.
succ., 2010, p. 131 ss.; M. SGROI, op. cit., p. 1046 ss.
(91) Tra questi potranno ricordarsi i comuni di Arezzo, Bologna, Campi Bisenzio (Fi), Desio (Mi), Empoli, Fano
(Ps), Ferrara, Fiorenzuola, Firenze, Gallarate, Gubbio (Pg), Ivrea (To), Montebruno, Perugia, Pisa, Roma, Rosignano
(Li), San Giovanni Valdarno (Ar), San Sepolcro (Ar), Scandicci (Fi), Sesto San Giovanni (Mi), Tarcento, Terni,
23
di questi registri è quella di certificare pubblicamente una condizione soggettiva, giuridicamente
rilevante, ma che non determina la creazione di un nuovo stato giuridico. Gli stessi svolgono
essenzialmente due funzioni: quella probatoria della relazione personale di convivenza e quella
della estensione alle convivenze di tutti i procedimenti, benefici ed opportunità di varia natura
riconosciuti alle coppie sposate e assimilate, nei limiti delle competenze comunali ( 92).
7. Famiglia di fatto e filiazione naturale.
Il tema della famiglia di fatto si intreccia, in taluni suoi aspetti, con la disciplina della
filiazione naturale. Pur trattandosi di due situazioni assolutamente distinte, la cui coesistenza è solo
eventuale e non necessaria ( 93), è qui opportuno svolgere alcune considerazioni in ordine al ruolo
che le norme introdotte a tutela dei figli naturali rivestono nel quadro dell’evoluzione della
convivenza more uxorio.
Come si è già accennato in precedenza, tra gli interventi normativi che hanno contribuito al
graduale riconoscimento della famiglia di fatto assume particolare importanza la novella del 1975,
che ha essenzialmente dissolto le discriminazioni tra figli naturali e figli legittimi. In tal modo si è
in buona parte reciso quel collegamento che faceva dipendere i diritti del figlio dal tipo di relazione,
matrimoniale o extramatrimoniale, dei genitori da cui veniva concepito: a seguito delle modifiche
apportate dalla Riforma del diritto di famiglia, la prova della paternità naturale può essere data ora
con ogni mezzo ed il figlio naturale gode di uno status sostanzialmente equiparato a quello del
figlio legittimo per quanto riguarda sia le pretese che può fare valere nei confronti del genitore che
la sua posizione successoria. E, sebbene il codice civile novellato nel 1975 limiti la parificazione tra
figli legittimi e figli naturali esclusivamente ai rapporti tra genitore e figlio (artt. 258, comma primo,
277, comma primo, c.c.) o comunque in senso verticale (artt. 148, comma primo, 433, nn. 2 e 3,
467, c.c.), in attesa di una riforma totalmente equiparatrice, che appare ormai ineludibile ( 94), la
dottrina ( 95) ha perspicacemente rilevato che l’interpretazione giurisprudenziale ha consentito
un’espansione anche in senso collaterale, quando ha statuito che «la posizione del figlio naturale va
assimilata a quella del discendente legittimo, giustificandosi così la successione tra fratelli (o
sorelle) naturali, purché la filiazione sia stata riconosciuta o dichiarata» ( 96).
La giurisprudenza, anche sulla base del rinvio posto dall’art. 261 c.c., ha ritenuto applicabile
l’art. 148 c.c. anche alla famiglia naturale. In particolare, una decisione di legittimità del 1995 ( 97)
ha ritenuto che «lo speciale provvedimento per decreto disciplinato dal 2o co. dell’art. 148 c.c. è
utilizzabile al fine di ottenere la condanna degli ascendenti dei genitori, privi di mezzi economici, a
fornire a questi ultimi i mezzi necessari ad adempiere i loro doveri nei confronti dei figli, sia
legittimi che naturali». Analogamente, la giurisprudenza di merito ha statuito che «il procedimento
di cui all’art. 148, 3o, 4o e 5o co., c.c. è da ritenersi pertinente ed applicabile anche qualora il
contributo richiesto e non versato per il mantenimento, l’educazione e la istruzione della prole sia
Voghera, San Canzian (Go), Montebruno (Ge), Trezzo sull’Adda, Cento (Fe), Bagheria (Pa), Rivoli (To), Bolzano,
Rovereto, Casalgrande, Pizzo Calabro, Piombino, Savona, Torino.
(92) Cfr. R. DI MAIO, I registri delle unioni civili, in Fam. pers. e succ., 2007, p. 59 ss.
(93) Come precisa PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, in Familia, 2002, 609. Sul tema v. anche
FALLETTI, La fine della famiglia di fatto: gli aspetti patrimoniali, cit., p. 850 ss.; M. SGROI, op. cit., p. 1066 ss.
(94) Sulla proposta di legge tendente ad eliminare ogni distinzione, anche sul piano lessicale, tra filiazione legittima e
filiazione naturale, v. per tutti FALLETTI, La lunga strada dell’equiparazione tra filiazione legittima e naturale, in Vita
notar., 2007, II, p. 364 ss.; V. CARBONE, Le nuove proposte su filiazione e rapporti di parentela, in Corr. giur., 2011, p.
1314 ss.
(95) ROPPO, voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, cit., p. 2 s.
(96) Corte cost., 4 luglio 1979, n. 55, in Foro it., 1979, I, c. 1941; contra, solo due anni prima, Corte cost., 12 maggio
1977, n. 76, ivi, 1977, I, c. 1346; cfr. poi Corte cost., 23 novembre 2000, n. 532, che ha dichiarato non fondata la
questione di legittimità costituzionale dell’art. 565 c.c., «nella parte in cui, in mancanza di altri chiamati all’eredità
all’infuori dello Stato, non prevede la successione legittima dei c.d. parenti naturali di grado corrispondente al quarto e
fino al sesto».
(97) Cass., 23 marzo 1995, n. 3402, in Dir. fam. pers., 1995, p. 1409.
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destinato, non sussistendo tra i genitori vincolo matrimoniale, a figli naturali» ( 98).
È poi opportuno sottolineare che, come già posto in luce, l’art. 317-bis cpv. c.c., in tema di
potestà genitoriale, attribuisce la potestà sul figlio ad entrambi i genitori, qualora esso sia stato
riconosciuto da costoro ed a condizione che essi siano conviventi. In tal modo l’ordinamento
riconosce implicitamente rilevanza alla famiglia di fatto non soltanto in relazione alla condizione
del figlio naturale – rispetto a cui, nell’ipotesi in cui i genitori convivano, la soggezione alla potestà
parentale è identica a quella che si configura nel caso di famiglia legittima – ma anche nei rapporti
tra i genitori conviventi: ad essi si applicano infatti la disciplina di cui all’art. 316 c.c. per la
risoluzione dei conflitti circa l’esercizio delle potestà, ma anche le norme in tema di doveri verso i
figli (art. 147 c.c.) e di concorso negli oneri (art. 148 c.c.) previste nel Titolo VI del Libro I del
codice civile, dedicato al matrimonio ( 99).
Per ciò che attiene ai rapporti con la prole a seguito di cessazione della convivenza si fa rinvio
a quanto verrà illustrato infra ( 100).
8. I rapporti personali tra i conviventi: ovvero, dell’impossibile analogia.
Venendo ora a trattare dei rapporti tra conviventi, vi è da chiedersi se i diritti ed i doveri
nascenti con la celebrazione delle nozze possano essere ritenuti applicabili anche alle convivenze
more uxorio. Per ciò che attiene ai rapporti personali, si osserva in dottrina che gli obblighi legali
che il codice civile impone ai coniugi divengono, all’opposto, degli indici in base a cui valutare
l’esistenza, o meno, di una famiglia di fatto ( 101): dal che, naturalmente non sembra certo possibile
dedurre meccanicamente la necessità di un’estensione analogica della disciplina dei rapporti
personali tra i coniugi ( 102).
Si noti che, ad es., l’art. 1 del disegno di legge governativo, approvato nella seduta del
Consiglio dei Ministri dell’8 febbraio 2007, dal titolo «Diritti e doveri delle persone stabilmente
conviventi», successivamente accantonato, prevedeva, quale presupposto per l’operatività delle
disposizioni relative, che le due «persone maggiorenni e capaci, anche dello stesso sesso» che
intendessero dare vita ai rapporti giuridici in questione, dovessero essere «unite da reciproci vincoli
affettivi» e che le stesse, oltre a convivere stabilmente, si prestassero «assistenza e solidarietà
materiale e morale».
Ciò non significa tuttavia che i citati rapporti sociali siano vincolanti, come invece lo sono per
i coniugi, considerato che la mancata osservanza di tali precetti non determina il sorgere di alcuna
sanzione ( 103), sebbene tutte le prestazioni rientranti nell’assistenza materiale e nel soddisfacimento
delle comuni esigenze di vita nell’ambito della convivenza more uxorio di certo non costituiscano
dazioni indebite, come si rileverà a tempo debito. È da evidenziare, inoltre, che, come si è già avuto
modo di dire ( 104), in tema di misure contro la violenza nelle relazioni familiari, nella l. 5 aprile
2001, n. 154, il legislatore ha sostanzialmente parificato la condizione del coniuge sposato a quella
del partner extramatrimoniale. In particolare l’art. 342-bis c.c., introdotto da quella novella, dispone
che «quando la condotta del coniuge o di altro convivente è causa di grave pregiudizio all’integrità
fisica o morale ovvero alla libertà dell’altro coniuge o convivente, il giudice, qualora il fatto non
(98) Trib. Roma, 13 dicembre 1993, in Dir. fam. pers., 1994, p. 1059; nello stesso senso anche Trib. Messina, 10
maggio 1991, in Giust. civ., 1992, I, p. 2899; in dottrina v., ex multis, ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa,
cit., p. 121 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 143 ss.
(99) Sull’argomento ROPPO, voce Famiglia. III) Famiglia di fatto, cit., p. 3; sulla vexata quaestio circa il fatto che
l’art. 317-bis c.c. riconosca o meno la famiglia di fatto, cfr. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 52 s.
(100) V. infra, Cap. VIII, §§ 5 s.
(101) DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, cit., p. 195; BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 57, che ravvisa in
tali comportamenti una doverosità sociale; sul dibattito circa l’applicabilità degli artt. 143 ss. c.c. cfr. ASPREA, La
famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 93 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 133 ss.
(102) Per approfondimenti sul punto cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 47 ss.; v.
inoltre M. SGROI, op. cit., p. 1042 ss.
(103) SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 403.
(104) Cfr. supra, § 6, in questo Capitolo.
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costituisca reato perseguibile d’ufficio, su istanza di parte, può adottare con decreto uno o più dei
provvedimenti di cui all’articolo 342-ter c.c.». Significativo, dunque, appare che l’unica norma la
quale prevede l’erogazione di un assegno, sostanzialmente, di mantenimento a carico dell’ex
convivente, sia stata inserita, addirittura (e, a quanto pare, senza lo strepito che normalmente
accompagna siffatto genere di proposte) nel codice civile.
Da un punto di vista più generale, si è da qualche parte sostenuta, in modo più o meno ampio,
la possibilità di procedere all’applicazione analogica delle disposizioni che governano i rapporti
personali tra i coniugi ( 105), anche se l’opinione prevalente appare schierata in senso opposto (106).
Si esclude, in particolare, tanto in dottrina che in giurisprudenza, che possano concepirsi
controversie concernenti i rapporti personali, rilevandosi come ogni questione ad essi attinente, se
non risolta spontaneamente, determini «una pura e semplice cessazione della convivenza» e
l’insorgenza eventuale di questioni patrimoniali, pur restando chiaro che tra conviventi non sorgono
ex lege doveri di contribuzione o mantenimento analoghi a quelli esistenti tra i coniugi ( 107).
Occorre dunque concludere sul punto nel senso che i comportamenti da cui si inferisce
l’esistenza di una famiglia di fatto sono caratterizzati dall’assenza del crisma della giuridicità e, per
conseguenza, dalla mancanza di coercibilità (elemento, quest’ultimo, peraltro già difficile da
ipotizzare in seno ai rapporti scaturenti nell’ambito della famiglia legittima) ( 108). La doverosità
morale che connota detti comportamenti può però costituire il substrato della fattispecie
dell’obbligazione naturale ogni qualvolta il dovere morale scaturente dalla convivenza sia
suscettibile di essere adempiuto mediante una prestazione di carattere patrimoniale (ad es. dovere di
contribuzione, di assistenza materiale) ( 109). In questi termini, e solo in questi termini, appare
dunque accettabile la conclusione per cui tra conviventi sussisterebbe, se non un dovere di fedeltà,
quanto meno un dovere di lealtà ( 110): dovere che può, alla luce della situazione normativa attuale,
rilevare solo sul piano morale (e su quello giuridico, al massimo, nel contesto di quanto stabilito
dall’art. 2034 c.c.).
Sempre in tema di inestensibilità in via analogica (o per mezzo di altri procedimenti
ermeneutici) alla famiglia di fatto di istituti di carattere generale dettati per il matrimonio, potrà
sottolinearsi già da subito (anche se l’argomento attiene al tema dei rapporti patrimoniali) che tra
conviventi more uxorio, a differenza di quel che accade tra i coniugi, non si fa luogo alla
sospensione della prescrizione. Al riguardo la Consulta ( 111) ha infatti dichiarato infondata la
(105) V. ad es. FURGIUELE, Libertà e famiglia, cit., p. 288, che esclude l’applicabilità soltanto dell’art. 143-bis, 143
ter (articolo, quest’ultimo, peraltro abrogato dall’art. 26, 1. 5 febbraio 1992, n. 91) e 145 c.c.; v. anche ALAGNA,
Famiglia e rapporti tra coniugi nel nuovo diritto, Milano, 1979, p. 414 ss.; PROSPERI, La famiglia non fondata sul
matrimonio, cit., p. 256 ss., pur ammettendo il ricorso all’analogia, esclude l’applicabilità degli artt. 143, 143-bis, 145,
146 ultimo cpv., 156 c.c.; in giurisprudenza v. Trib. Savona, 29 giugno 2002 (su cui v. infra, Cap. IV, § 2), a proposito
dell’applicazione analogica dell’art. 143, terzo comma, c.c.; cfr. inoltre Pret. Genova, 21 maggio1981, in Foro it., 1982,
I, c. 1459, che ha esteso alla famiglia di fatto la norma di cui all’art. 145 c.c., in considerazione dei fini che
caratterizzano la relativa procedura.
(106) Per una critica al ricorso al procedimento analogico in subiecta materia e per ulteriori approfondimenti si fa
rinvio a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 43 ss.; per analoghe conclusioni cfr. anche
MONTEVERDE, op. cit., p. 942 ss., 944; per la doverosità morale e sociale, e non giuridica, di comportamenti tra
conviventi analoghi a quelli previsti dall’art. 143 c.c. si esprimono anche PARADISO, La comunità familiare, Milano,
1984, p. 106; SANTILLI, Note critiche in tema di famiglia di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, p. 842; BERNARDINI,
La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, cit., p. 113; D’ANGELI, La tutela delle
convivenze senza matrimonio, Torino, 1995, p. 68 ss.; FERRANDO, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e
patrimoniali nella famiglia di fatto, cit., p. 192; TOMMASINI, op. cit., p. 508; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 403 ss.;
POLIDORI, I rapporti personali. Impossibilità di imporre ai conviventi i doveri personali previsti per i coniugi, in AA.
VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, seconda edizione, cit., p. 1109 ss.
(107) GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 116 s.; Pret. Milano, 8 febbraio 1990, in Foro it., 1991,
I, c. 329, ove si afferma che la situazione di convivenza more uxorio non implica alcun diritto al mantenimento di
ciascuno dei conviventi nei confronti dell’altro; ugualmente Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 1999, p. 501;
App. Firenze, 4 novembre 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito.
(108) BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3772.
(109) Sulla tematica si rinvia a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; BALESTRA, Le
obbligazioni naturali, in Trattato di diritto civile, già diretto da Cicu-Messineo-Mengoni, continuato da Schlesinger,
Milano, 2004, p. 59 ss., 233 ss.
(110) Così MONTEVERDE, op. cit., p. 940 s.
(111) Cfr. Corte cost., 29 gennaio 1998, n. 2, in Fam. dir., 1998, p. 214.
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questione di legittimità costituzionale dell’art. 2941, n. 1, c.c., in relazione agli artt. 2 e 3 Cost.,
nella parte in cui non prevede che il termine di prescrizione resti sospeso anche con riguardo, per
l’appunto, al convivente more uxorio. Ciò significa che, in assenza di idonei atti interruttivi, i diritti
competenti in base ai rapporti che verranno illustrati nell’ulteriore svolgimento di questo studio
andranno necessariamente esercitati nell’ambito temporale dei rispettivi periodi di prescrizione
( 112).
(112) Per osservazioni critiche al riguardo cfr. ad es. ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 340 s.
e FALLETTI, La fine della famiglia di fatto: gli aspetti patrimoniali, cit., p. 870 s., secondo cui su questo punto risiede
una disparità di trattamento che la Consulta rifiuta di rilevare, poiché i conviventi more uxorio vedono i loro diritti
tutelati dal decorso della prescrizione, mentre ciò non accade per i coniugi separati, proprio quando la sopravvenuta
mancanza di coabitazione ed affectio esclude quella situazione di metus o di naturale soggezione che distoglie i coniugi
dall’esercitare diritti l’uno contro l’altro.
Potrà ulteriormente precisarsi che, in materia di arricchimento senza causa, la giurisprudenza di legittimità ha
affermato che «Il diritto a richiedere l’indennizzo per ingiustificato arricchimento si prescrive in dieci anni dal momento
in cui l’arricchimento si è verificato. Qualora – peraltro – vi siano stati, nel tempo, rilevanti contributi economicopatrimoniali da un convivente more uxorio in favore di altro durante tutto il corso della convivenza, correttamente il
giudice del merito fa decorrere il termine per la prescrizione dalla cessazione del rapporto». Sul punto dovrà
aggiungersi che la Cassazione non sembra aver inteso affermare per l’azione di arricchimento una regola difforme da
quella generale, limitandosi a porre in luce che, nella specie, la «continuità dei rilevanti contributi economicopatrimoniali resi dalla [ex convivente] in tutto il corso del rapporto di convivenza» aveva determinato la «definitività
del corrispondente arricchimento dell’[uomo, ex convivente defunto] solo alla cessazione di siffatto rapporto» (cfr.
Cass., 15 maggio 2009, n. 11330, su cui v. infra, Cap. II, § 5).
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CAPITOLO II
OBBLIGAZIONI NATURALI E
ARRICCHIMENTO INGIUSTIFICATO
SOMMARIO: 1. Le obbligazioni naturali tra conviventi: ovvero della riscoperta di un principio
vecchio di secoli. – 2. Segue. La giurisprudenza più recente e il criterio di proporzionalità. Il
discrimen rispetto alle donazioni. – 3. La remunerazione delle prestazioni di facere rese
dal(la) convivente debole. Impostazione del problema, anche con riguardo al lavoro
subordinato e all’impresa familiare. – 4. Il problema dell’arricchimento conseguente ad una
prestazione volontariamente effettuata dall’impoverito. – 5. Segue. La giurisprudenza di
legittimità favorevole all’azione di arricchimento tra conviventi. – 6. Segue. Le persistenti
incertezze della giurisprudenza di merito. Conclusioni sul tema, relativamente alle
prestazioni di facere.
1. Le obbligazioni naturali tra conviventi: ovvero della riscoperta di un principio vecchio di
secoli.
La comunione di vita che contraddistingue la famiglia di fatto determina inevitabilmente dei
riflessi sul piano dei rapporti patrimoniali tra i conviventi more uxorio, che vengono in rilievo in
particolar modo nel momento della cessazione del ménage, palesando le esigenze di tutela della
parte debole della coppia, che si ritrova spesso in una posizione sfavorevole a seguito
dell’interruzione del rapporto ( 1). È in tale fase terminale della convivenza, infatti, che sorgono i
problemi in ordine alla ripetibilità di quelle dazioni precedentemente intercorse tra i membri della
coppia, volte al soddisfacimento delle necessità materiali della vita comune. Siffatte prestazioni
vengono da tempo ricondotte all’adempimento di obbligazioni naturali ex art. 2034 c.c., sia dalla
dottrina ( 2) che dalla giurisprudenza.
Con particolare riferimento a quest’ultima va posto in luce quel processo evolutivo che, tra gli
anni quaranta e cinquanta dello scorso secolo, portò la giurisprudenza di legittimità a validare le
attribuzioni effettuate a titolo gratuito tra conviventi, anche nel caso di mancato rispetto dei requisiti
formali previsti per la donazione dagli artt. 782 c.c. e 48 l.notar., tramite il ricorso alla figura
dell’obbligazione naturale. Invero, come messo in evidenza in altra sede ( 3), fu proprio da una
concezione «indennitaria» e «retributiva» che i Supremi Giudici fecero derivare l’esigenza di
affermare il diritto alla soluti retentio in relazione a quegli spostamenti patrimoniali attuati in favore
del convivente «debole», vuoi di fatto (si pensi alla traditio brevi manu di mobili), vuoi tramite
negozi comunque nulli per difetto di forma (per lo più si trattava di donazioni dirette, sovente
dissimulate da compravendite, non rispettose della forma solenne) ( 4).
(1) BALESTRA, Le obbligazioni naturali, cit., p. 63.
(2) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; ID., Le prestazioni lavorative del convivente
more uxorio, Padova, 2003, p. 1 ss.; BALESTRA, Le obbligazioni naturali, cit., p. 233; SPADAFORA, L’obbligazione
naturale tra conviventi ed il problema della sua trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento
negoziale, in AA. VV., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 157 ss.; MONTEVERDE, op. cit., p.
945 ss.
(3) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 86 ss.
(4) Nelle prime pronunce che fecero seguito al revirement l’obbligazione naturale fu individuata nell’obbligo, di
carattere indennitario, gravante sull’uomo di riparare al pregiudizio morale, al discredito, derivante alla donna dalla
sussistenza di una relazione definita ancora come di concubinato: v. Cass., 17 gennaio 1958, n. 84, in Foro it., 1959, I,
c. 470; Cass., 25 gennaio 1960, n. 68, ivi, 1961, I, c. 2017 (quest’ultima decisione, pur se fondata sull’idea del
«pregiudizio morale» menziona anche l’eventualità che ad esso si affianchi un pregiudizio di carattere economico, sul
quale esclusivamente si basano le sentenze successive). Per la giurisprudenza di merito cfr. App. Genova, 7 marzo
1952, in Rep. Foro it., 1952, voce Obbligazioni e contratti, n. 186, 187. Pochi anni dopo i giudici spostarono l’accento
sul pregiudizio d’ordine (non più morale, bensì) economico subito dalla convivente qualora questa, nel contrarre la
relazione extraconiugale o nel persistere in essa, avesse «rinunciato ad altre prospettive» o si fosse «preclusa una
diversa sistemazione, indotta a ciò da un atteggiamento dell’uomo tale da suscitare in lei il ragionevole affidamento che
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È pure interessante al riguardo il parallelo con la situazione francese, in cui il richiamo
all’obligation naturelle viene ugualmente effettuato per scopi di «salvataggio» della validità delle
donazioni tra conviventi, peraltro non sotto il profilo formale, bensì sotto quello dei rapporti con il
buon costume, ammettendosi pacificamente in quel sistema (che non conosce la figura della
donazione rimuneratoria) la possibilità di un «concorso», in relazione a un medesimo atto, tra
obbligazione naturale e donazione ( 5). In questo modo si giunge a negare l’immoralità della
liberalità tra conviventi nel caso in cui essa appaia compiuta in esecuzione di un dovere di
riconoscenza per il lavoro e i servizi svolti dal partner, così escludendosi che la donazione sia stata
effettuata al solo (o al preminente) fine di compensare favori sessuali ( 6).
Ma, con l’avvento dei «tempi nuovi», marcati dall’introduzione in Italia della Riforma che,
nel 1975, venne finalmente a dare piena attuazione al precetto scolpito nell’art. 29 Cost., la citata
concezione «indennitaria» e «retributiva» dell’obbligazione naturale tra conviventi dovette cedere il
passo a quella concezione «contributiva» ( 7) che impose all’interprete, da quel momento in poi, un
radicale mutamento di prospettiva.
Infatti, in forza di questo nuovo modo di configurare l’obbligazione naturale tra conviventi,
l’obbligo morale e sociale rilevante ex art. 2034 c.c. nell’ambito della famiglia di fatto è (non più
quello di ricompensare la compagna per i servizi ricevuti o di corrispondere l’indennizzo per un
supposto pregiudizio riconnesso al rapporto more uxorio, ma) un dovere di solidarietà che impegna
entrambi i partners ad una reciproca assistenza morale e materiale, nonché alla effettuazione di
contribuzioni, ora in denaro, ora in natura, proporzionate alle proprie capacità di lavoro, sia
professionale che casalingo ( 8).
La riconduzione delle attribuzioni patrimoniali effettuate tra conviventi alla categoria degli
atti di adempimento di obbligazioni naturali ha dunque portato i giudici ad escludere la ripetizione
di quegli spostamenti patrimoniali attuati in favore del convivente «debole», vuoi di fatto (si pensi
alla traditio brevi manu di mobili), vuoi tramite negozi comunque nulli per difetto di forma (per lo
più si trattava di donazioni dirette, sovente dissimulate da compravendite, non rispettose della forma
solenne).
la relazione stessa avrebbe avuto carattere serio e duraturo e le avrebbe garantito anche una costante tranquillità
economica»: v. Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro it., 1969, I, c. 1512; nello stesso senso v. Cass., 14 aprile 1966, n.
945, in Rep. Foro it., 1966, voce Appello civile, n. 100; Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Giust. civ., 1969, I, p. 605.
(5) Sui rapporti tra i concetti di obbligazione naturale, donazione e donazione remuneratoria, cfr. BALESTRA,
Obbligazioni naturali e donazione, in Familia, 2002, p. 591 ss.; sulle relazioni tra gli istituti in esame nella particolare
ipotesi delle prestazioni tra conviventi more uxorio si fa rinvio a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 90 ss., anche per ulteriori rinvii.
(6) FLOUR, Rapport, in AA. VV., La notion d’obligation naturelle et son rôle en droit civil, in Travaux de
l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, VII, Montréal, 1956, p. 829 ss.; MARTY-SCHMID, La
situation patrimoniale des concubins à la fin de l’union libre. Etude des droits suisse, français et allemand, Genève,
1986, p. 73 s.; DUPEYROUX, Contribution à la théorie générale de l’acte à titre gratuit, Paris, 1955, p. 322 ss.
(sull’argomento cfr. del resto già JOSSERAND, Cours de droit civil positif français, I, Paris, 1930, p. 591 s.; v. inoltre
OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 158 ss.). Nello stesso senso sono orientate dottrina e
giurisprudenza in Belgio (cfr. JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, Bruxelles, 1975, p.
124), Spagna (cfr. FOSAR BENNLOCH, Las uniones libres, in Estudios de derecho de familia, III, Barcelona, 1985, p.
136), Gran Bretagna (cfr. OLIVIER, The Mistress in Law, in Current Legal Problems, 1978, p. 89), Brasile (cfr. DE
MOURA BITTENCOURT, O concubinato no direito, Rio de Janeiro, 1969, p. 79). Anche in Italia, sotto il vigore del codice
abrogato, non mancava chi affermava la liceità di quella donazione alla concubina cui potesse venire attribuita «la
natura di una indennità alla donna degradata nella sua reputazione» e che pertanto assumesse «per causa un dovere
morale di riparazione verso la medesima e la prole innocente» (cfr. GIORGI, Teoria delle obbligazioni, III, Firenze,
1903, p. 515 s.). Forse non erra chi vede in tale richiamo alla figura dell’obbligazione naturale «une forme commode
pour traduire un jugement sur la licéité de la cause de la donation» (cfr. AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès
des notaires de France, La Baule, 29 mai - 1er juin 1988, Malesherbes, 1988, p. 424).
(7) Sul punto si fa rinvio a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 87 ss. In senso conforme v.
anche, successivamente, RICCIO, op. cit., p. 382 s.; ARCANI, op. cit., p. 894.
(8) Cfr. Cass., 3 febbraio 1975, n. 389, in Foro it., 1975, I, c. 2301, con nota di FLORINO. Sottolinea la posizione di
assoluta parità tra i conviventi in relazione alle obbligazioni naturali di reciproca assistenza su di essi gravanti anche
Cass., 26 gennaio 1980, n. 651, in Rep. Foro it., 1980, voce Indebito, n. 6. In dottrina evidenziano il passaggio
dall’aspetto risarcitorio a quello assistenziale-contributivo anche GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit.,
p. 134 s. e MAZZOCCA, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 101.
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Potrà qui aggiungersi ancora che l’abbandono, da parte della Cassazione a partire dagli anni
sessanta dello scorso secolo, della tesi della donazione rimuneratoria era stata da tempo auspicata in
dottrina, come conforme ad una concezione più moderna del rapporto di convivenza ( 9). In realtà,
come sovente capita per tante sbandierate «novità» giuridiche, la soluzione poteva dirsi acquisita da
secoli alla nostra tradizione. In effetti, il ricorso alla categoria delle obbligazioni naturali per salvare
le attribuzioni tra conviventi era già stato proposto, nel XIV secolo, da un celebre consilium di
Pietro d’Ancarano in relazione ad una donazione effettuata da un ecclesiastico (categoria per la
quale le donazioni alle concubine erano ritenute – contrariamente rispetto alla regola generale –
vietate) alla donna con la quale il medesimo aveva per anni convissuto ( 10).
(9) Cfr. DE CUPIS, Il concubinato nel diritto privato, in Foro pad., 1961, III, c. 78, secondo cui «se il concubinato ha
carattere di stabilità, e ancor più se è integrato da un costume di vita coniugale (more uxorio), il dovere morale non si
esaurisce in quello della riparazione a favore della donna: vi è anche un più esteso dovere di reciproca assistenza,
corrispondente, sul piano morale, all’obbligo giuridico dell’assistenza, esistente tra i coniugi (art. 143)». Sull’esistenza
di un dovere morale di «prestare i mezzi di sussistenza alla convivente» cfr. inoltre OPPO, Adempimento e liberalità,
Padova, 1947, p. 264; ID., Sulla definizione di donazione rimuneratoria, in Giur. it., 1955, I, 1, c. 872 ss.; BALBI,
Liberalità e donazione, in Riv. dir. comm., 1948, I, p. 181; GANGI, Le obbligazioni, Milano, 1951, p. 98; BRUSCO, nota
a Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, in Foro it., 1969, I, c. 1512; PROVERA, Degli alimenti, nel Commentario del codice
civile Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1972, p. 35 s. (che accomuna – sulla scia di App. Torino, 20 marzo 1944, in
Giur. tor., 1945, p. 87 – tale obbligazione naturale a quella del patrigno di corrispondere gli alimenti alla figliastra da
quello ricevuta in casa e sempre considerata alla stregua di una figlia); PIRET, Le ménage de fait en droit civil belge, in
AA. VV., Les situations de fait, Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, vol. XI,
Paris, 1960, p. 76 ss., 80. Contra, nel senso dell’inesistenza, a carico dei conviventi, di doveri morali di assistenza e
mantenimento cfr. CARRESI, L’obbligazione naturale nella più recente letteratura giuridica italiana, in Riv. trim. dir.
proc. civ., 1948, p. 555 s.; RODIÈRE, Le ménage de fait devant la loi française, in Les situations de fait, cit., p. 72;
TORRENTE, La donazione, Milano, 1956, p. 199; G. STELLA RICHTER, Aspetti civilistici del concubinato, in Riv. trim.
dir. proc. civ., 1965, p. 1123 s. BARASSI, La famiglia legittima, Milano, 1947, p. 25, ammette l’esistenza di
un’obbligazione naturale soltanto tra conviventi legati da matrimonio canonico non trascritto.
Sulla dottrina più recente circa l’applicazione dell’art. 2034 c.c. alla famiglia di fatto cfr. OBERTO, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 83 ss.; BALESTRA, Obbligazioni naturali e donazione, loc. cit.; SPADAFORA,
L’obbligazione naturale tra conviventi ed il problema della sua trasformazione in obbligazione civile attraverso lo
strumento negoziale, cit., p. 157 ss.; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 404.
Per quanto attiene, poi, alla successiva evoluzione giurisprudenziale va detto che, almeno in un caso, la Corte di
cassazione sembra essere andata addirittura al di là della posizione di cui s’è dato conto sopra, affermando la presenza
di un’obbligazione naturale anche tra due persone legate da una semplice «relazione sentimentale» (cfr. Cass., 20
gennaio 1989, n. 285, in Arch. civ., 1989, p. 498: «Nella dazione di una somma di danaro da parte dell’uomo alla donna
in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale può ravvisarsi l’adempimento di una obbligazione
naturale, con la conseguenza che la suddetta somma non può essere chiesta in restituzione, né dedotta in compensazione
da parte del solvens»). Peraltro, neppure la lettura della motivazione consente di comprendere se a tale relazione
affettiva si fosse accompagnata o meno una convivenza more uxorio (il richiamo della motivazione alla precedente
pronunzia n. 60 del 1969 – concernente un caso di sicura convivenza more uxorio – farebbe propendere per
l’affermativa; resta però il fatto che il principio è enunciato in termini assolutamente generali). Successivamente,
invece, la Corte Suprema sembra essersi puramente e semplicemente… scordata dell’esistenza stessa dell’obbligazione
naturale tra conviventi, risolvendo un caso di attribuzioni patrimoniali di gioielli alla stregua dei soli principi in tema di
donazione (cfr. Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Guida al dir., 1998, n. 48, p. 32, con nota di M. FINOCCHIARO;
Riv. notar., 1999, II, p. 1607; Vita notar., 1999, I, p. 1216, con nota di MEMMO; Giust. civ., 1999, I, p. 686; Corr. giur.,
1999, p. 54, con nota di V. CARBONE). Analoghe conclusioni possono trarsi in relazione ad alcune decisioni della
giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. dir., 2000, p. 284, con nota di FERRANDO; Trib.
Bolzano, 20 gennaio 2000, in Giur. merito, 2000, I, p. 818). È da notare che, in tutti i cennati casi, proprio il richiamo al
concetto di obbligazione naturale, così come elaborato dalla pronunzia del 1975, avrebbe consentito di escludere da tale
nozione quelle attribuzioni patrimoniali «sproporzionate» rispetto alle «capacità di lavoro, sia professionale che
casalingo» del convivente. Per la giurisprudenza ulteriormente successiva e contemporanea v. il § seguente.
(10) D’ANCARANO, Consilia sive iuris responsa Petri Ancharani, apud Nicolaum Bevilaquam, 1568, f. 131: «dico
breviter quod si merita per dictam dominam probarentur credo dictam donationem tenere; licet enim inter personas
prohibitas simplex donatio non sit valida tamen donatio ob causam non reprobatur, quia aliam et diversam naturam
habet a simplici (…). Non enim dici potest proprie donatio ob causam sed cuiusdam debiti naturalis rest[ituti]o: quia ex
collatis servitiis obligatur ille cui conferuntur naturaliter conferenti (…) et dicitur talis obligatio ad antidora». Cfr.
inoltre la additio in margine a C. 5. 16. 2., in BAUDOZA, Codicis D.N. Iustiniani Sacratiss. Principis PP. Aug. Repetitae
Praelectionis Libri XII. Diligenter recogniti (…) opera et studio Petri ab Area Baudoza Cestii I.C., Lugduni, 1593, c.
928; v. poi anche Codicis Iustiniani libri IX priores, cum lectionum varietatibus, Venetiis, 1592, c. 1344 s. Per due
applicazioni giurisprudenziali del principio in oggetto, nel XVI secolo, cfr. rispettivamente la decisione del Senato
Piemontese risalente al 1575, di cui riferisce THESAURUS, Novae decisiones Sacri Senatus Pedemontani, Augustae
Taurinorum, 1626, f. 90, nonchè la precedente sentenza del Concilium Neapolitanum (di cui non si riferisce la data),
30
2. Segue. La giurisprudenza più recente e il criterio di proporzionalità. Il discrimen rispetto
alle donazioni.
Nella medesima ottica illustrata nel § precedente continua a porsi la giurisprudenza
contemporanea, anche di merito, la quale, nel solco dell’evoluzione che si è appena illustrata, è
pervenuta, ad esempio, nel 2011, a superare l’argomento della nullità per vizi di forma
dell’attribuzione effettuata gratuitamente da un partner all’altro di un immobile, nel contesto di
un’operazione che aveva visto quest’ultimo vendere simulatamente tale bene alla compagna ( 11).
Il problema dell’idoneità del ricorso allo schema dell’obbligazione naturale a «sanare»
eventuali difetti formali connessi alla donazione emerge anche con riguardo ad una fattispecie
decisa dalla Corte Suprema nel 2010 ( 12).
Qui lo schema contrattuale approntato dall’uomo prevedeva una proposta di donazione, che la
donna avrebbe potuto accettare solo se avesse trascritto dopo la morte del donante il matrimonio
celebrato in forma canonica senza attribuzione degli effetti civili («la donataria dovrà procedere
prima di accettare la presente donazione alla trascrizione nei registri dello stato civile del
matrimonio canonico celebrato tra la medesima e il donante»). Al riguardo la ex convivente aveva
tentato in causa di far salva l’attribuzione, così superando l’ostacolo rappresentato
dall’intrascrivibilità postuma del matrimonio, mercé il richiamo al concetto di obbligazione
naturale: più esattamente, a suo modo di vedere, l’uomo avrebbe formulato una promessa traslativa
in adempimento di un’obbligazione naturale, da concludersi senza bisogno dell’accettazione della
donna (ai sensi dell’art. 1333 c.c.). Ne sarebbe conseguito che quell’inammissibilità, in quanto
incidente solo sull’accettazione, non avrebbe potuto pregiudicare la validità e l’efficacia
dell’attribuzione (a quel punto unilaterale non solo sostanzialmente, ma anche strutturalmente). La
questione non è stata però affrontata, né dai giudici di merito, né da quelli di legittimità, atteso che
la difesa della donna aveva prospettato solo in sede di comparsa conclusionale in appello la
qualificazione dell’attribuzione ricevuta in termini di obbligazione naturale, così formulando una
domanda ritenuta inammissibile in quanto nuova ( 13).
riferita da DE AFFLICTIS, Decisiones Sacri Concili Neapolitani, Venetiis, 1552, f. 61 (per un rappresentazione «visiva»
dei testi in questione cfr. OBERTO, La motivazione delle sentenze civili in Europa: spunti storici e comparatistici, Cap.
I, § 5, disponibile alla pagina web seguente: http://giacomooberto.com/milano2008/storia.htm#par5.
(11) Cfr. Trib. Bologna, 16 febbraio 2011, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito. Ad avviso di tale
decisione «Non è quindi detto che, una volta esclusa – in forza di una visione semplicistica delle istanze sottese alla
convivenza more uxorio – la causa onerosa del contratto di compravendita per la simulazione della quietanza rilasciata
con riferimento alla corresponsione del prezzo, si debba necessariamente ricondurre il patto ad esso sotteso ad un atto di
liberalità, potendo viceversa riconoscersi nella quietanza rilasciata a regolazione del prezzo, un atto di adempimento dei
predetti doveri di solidarietà, rendendo pertanto insensibile l’atto ai profili di nullità che investono l’atto di liberalità. In
altri termini, deve in generale ammettersi la possibilità per i privati di stipulare contratti gratuiti atipici ovvero dare
corso ad atti unilaterali gratuiti (quali nel caso in esame, la remissione del debito operata in quietanza) volti alla
definizione di situazioni in essere caratterizzate dalla rilevanza di un preesistente dovere morale, in cui l’obbligazione
naturale non interviene come rapporto giuridico preesistente da accertare o novare con il nuovo contratto, ma
semplicemente “come interesse lecito alla produzione dell’effetto contrattuale”, come indicato dalla migliore dottrina
all’indomani dell’introduzione del codice del ’42».
La decisione ne ricalca una precedente dello stesso tribunale (cfr. Trib. Bologna, 18 giugno 1999, riportata da
BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 224, che accolse la domanda proposta ex art. 2932 c.c. dalla ex convivente
contro l’uomo che si era impegnato per iscritto, con atto unilaterale senza corrispettivo, a trasferirle un immobile; il
tribunale accolse la domanda, avendo scorto nell’impegno un atto di adempimento di obbligazione naturale.
(12) Cfr. Cass., 4 maggio 2010, n. 10734, in Giur. it., 2010, p. 2273, con nota di ROCCHIO. La soluzione del caso
offerta dalla Corte Suprema è pertanto stata che «A norma dell’art. 782, secondo comma, cod. civ., la donazione si
perfeziona con l’accettazione da parte del donatario, la quale deve coesistere con la volontà del donante; ne consegue
che – in conformità al principio generale secondo cui ogni proposta contrattuale cade con la morte del proponente –
dopo la morte del donante, il donatario non può accettare la donazione né notificare l’atto di accettazione, a nulla
rilevando che nell’atto di donazione risulti l’espressa previsione che l’accettazione può intervenire anche dopo la morte
del donante».
(13) Per una valutazione in senso critico di questo punto cfr. ROCCHIO, Questioni vecchie e nuove in tema di
attribuzioni alla convivente, Nota a Cass., 4 maggio 2010, n. 10734, in Giur. it., 2010, p. 2273, il quale rileva che la
31
Il richiamo alla categoria delle obbligazioni naturali non è però scevro dal necessario
riferimento a criteri di proporzionalità, analoghi a quelli valevoli per i coniugi ai sensi dell’art. 143
c.c., come stabilito ad es. da una decisione di legittimità del 2003 ( 14). Prima della sentenza da
ultimo citata, un altro arresto di legittimità, fortemente criticato dalla dottrina ( 15), aveva qualificato
come donazioni – nulle per difetto di forma – i regali fatti tra conviventi ( 16). In realtà, le
attribuzioni patrimoniali effettuate tra conviventi saranno «coperte» dall’«ombrello»
dell’obbligazione naturale solo in quanto rispondenti ai criteri di proporzionalità sopra evidenziati
( 17).
In caso contrario, esse saranno giustificate solo se sorrette dall’animus donandi unito al
rispetto della forma solenne, per le attribuzioni di non modico valore. A tali donazioni si
applicheranno tutte le norme riferibili ai trasferimenti disciplinati dagli artt. 769 ss. c.c.: dall’azione
di riduzione per lesione di legittima (art. 555 ss. c.c.), all’obbligo alimentare del donatario verso il
donante (art. 437 c.c.), al coacervo, per quanto riguarda l’imposta di successione, se il donatario
dovesse divenire anche erede del donante. Inoltre, vanno ricordate le diverse condizioni richieste
dalla legge (art. 2901 c.c.) per esercitare l’azione revocatoria quando l’atto di disposizione è a titolo
gratuito, le speciali discipline in tema di capacità (art. 774 ss. c.c.) e di revocazione per
sopravvenienza di figli (art. 803 c.c.) e per ingratitudine (artt. 801 s. c.c.).
Con particolare riferimento a quest’ultima ipotesi potrà evidenziarsi che nel 2011 la
Cassazione ha respinto la domanda di un ex convivente, il quale, nel corso del rapporto, aveva
donato alla propria compagna un immobile e che, dopo la rottura dell’unione, aveva chiesto la
revoca dell’atto. La Corte ha confermato il rigetto di ogni domanda posta dall’uomo, evidenziando
come questi non avesse provveduto a specificare «le ragioni per le quali i comportamenti attribuiti
alla [donna] sarebbero idonei a concretare il presupposto dell’ “ingiuria grave” richiesto dall’art.
801 c.c.», così dando chiaramente ad intendere che la sola rottura dell’unione non può considerarsi
alla stregua di uno di quei comportamenti rilevanti ai fini della revocazione della donazione ( 18).
3. La remunerazione delle prestazioni di facere rese dal(la) convivente debole. Impostazione
del problema, anche con riguardo al lavoro subordinato e all’impresa familiare.
qualificazione di un’attribuzione in termini di donazione, piuttosto che in termini di obbligazione naturale, è una tipica
questione di diritto, che il giudice deve risolvere a prescindere da una domanda di parte.
(14) Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, in Giur. it., 2004, p. 530, secondo cui è necessario che «che la prestazione risulti
adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens». Secondo la
relativa massima ufficiale, «Un’attribuzione patrimoniale a favore del convivente more uxorio configura l’adempimento
di un’obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità
del patrimonio e alle condizioni sociali del solvens (Fattispecie nella quale i giudici di merito, con accertamento di fatto
ritenuto dalla cassazione incensurabile in sede di legittimità, hanno escluso il rapporto di proporzionalità tra l’opera
edificatoria realizzata, a propria cura e spese, con l’arricchimento esclusivo di uno solo dei componenti la famiglia di
fatto, e l’adempimento dei doveri morali e sociali da parte del convivente more uxorio)». Va detto che nella specie
l’uomo aveva realizzato con proprio lavoro una costruzione sul fondo di proprietà della convivente. La Corte ha
confermato la decisione dei giudici di merito di riconoscere all’uomo una somma di denaro ex art. 936 c.c., respingendo
la tesi della donna, secondo cui l’esecuzione di tale opera sarebbe rientrata nell’adempimento dell’obbligazione naturale
sullo stesso gravante, in quanto convivente more uxorio con la donna.
Per la giurisprudenza di merito v. ad es. App. Napoli, 5 novembre 1999, in Giur. nap., 2000, p. 273, secondo cui
«L’attribuzione patrimoniale effettuata in favore del convivente more uxorio, a titolo di ristoro per il sacrificio della sua
aspirazione ad un’esistenza autonoma ed indipendente, nonché al fine di assicurargli un’autosufficienza economica per
il tempo successivo alla cessazione del rapporto, si configura come adempimento di un’obbligazione naturale piuttosto
che come donazione remuneratoria, purché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del
patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens». Per la dottrina v. già OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 90 ss.; cfr. poi anche M. SGROI, op. cit., p. 1080 ss.
(15) Parla di «ritorno al medioevo» V. CARBONE, Terminata la convivenza vanno restituiti i regali: la Cassazione
“ripiomba” nel Medioevo, Nota a Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Corr. giur., 1999, p. 54.
(16) Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, cit.; sul punto v. anche BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 107 ss.
(17) In questo senso v. già OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 98 ss.; successivamente v.
anche G. STELLA RICHTER, La donazione nella famiglia di fatto, in Familia, 2002, II, p. 152; ARCANI, op. cit., p. 895.
(18) Cfr. Cass., 24 novembre 2011, n. 24843.
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Se è vero come è vero che già nel lontano 1965 un giurista certo non «barricadero», quale
Arturo Carlo Jemolo, si sentiva in dovere di spezzare una lancia in favore della ex convivente che
«per tutta la vita ha lavorato con il compagno, nella bottega, nell’azienda agricola o industriale:
senza stipendio, senza assicurazioni sociali», dichiarando «veramente iniqua» la soluzione che le
avesse negato ogni diritto ( 19) e se è vero come è vero che a questa sensibilità fa riscontro
un’evoluzione storica addirittura plurisecolare ( 20), occorre comunque riconoscere che la tesi
dell’obbligazione naturale non riesce a porre rimedio a tutti quei casi in cui il partner «forte» non
abbia ritenuto di adempiere ai doveri morali e sociali sopra descritti.
Andrà subito detto che, laddove l’attività in discorso venga prestata dal(la) convivente nel
contesto di un rapporto riconducibile al genus del lavoro subordinato (si pensi alla collaborazione
fornita all’attività imprenditoriale o professionale del partner), proprio quest’ultima sarà la via
percorribile, con tutte le difficoltà, ovviamente, legate alla possibilità di scorgere il fondamentale
requisito della subordinazione.
Al tema chi scrive ha dedicato un’apposita monografia, cui non rimarrà che fare riferimento
21
( ), non senza aggiungere che anche i più recenti interventi giurisdizionali non sembrano deviare
da un percorso che, come già osservato in passato, risulta caratterizzato dall’obiettiva difficoltà di
fornire una rigorosa prova di elementi idonei a suffragare l’esistenza di una subordinazione,
considerando in particolare che si continua ad escludere tale situazione, in presenza di una
comunione di vita e di affetti, che induce invece a ricondurre la prestazione al novero di quelle
effettuate affectionis vel benevolentiae causa, come tali caratterizzate dalla gratuità ( 22).
Non percorribile appare invece la via della estensibilità dell’istituto dell’impresa familiare,
che pure potrebbe giocare un ruolo decisivo a tutela del convivente «debole» nei confronti del
(19) JEMOLO, «Convivere come coniugi», in Riv. dir. civ., 1965, II, p. 407.
(20) Sul punto cfr. OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 1 ss.
(21) Cfr. OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., passim, spec. p. 19 ss.
(22) Cfr. Cass., 26 gennaio 2009, n. 1833, in Lav. prev. oggi, 2009, p. 1209, con nota di PICCININI, secondo cui
«Ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato si presume effettuata a titolo
oneroso, ma può essere ricondotta ad un rapporto diverso, istituito affectionis vel benevolentiae causa, caratterizzato
dalla gratuità della prestazione, ove risulti dimostrata la sussistenza della finalità di solidarietà in luogo di quella
lucrativa, fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di
legittimità, se immune da errori di diritto e da vizi logici. (Nella specie, relativa ad una relazione sentimentale tra datore
di lavoro ed una dipendente, la S. C. ha confermato la sentenza impugnata che, sulla base delle specifiche circostanze di
fatto emerse dall’istruttoria espletata, aveva ritenuto l’esistenza del vincolo di subordinazione, atteso che la convivenza
era stata sovente interrotta e non vi era alcuna condivisione del tenore di vita in relazione ai cospicui redditi dell’attività
commerciale, avendo beneficiato l’interessata solo di alcune elargizioni, quali l’uso gratuito di un appartamento, il
pagamento di qualche debito e il prelevamento gratuito di merce – abiti – dal negozio)». V. inoltre Cass., 15 marzo
2006, n. 5632, secondo cui «L’attività lavorativa e di assistenza svolta all’interno di un contesto familiare in favore del
convivente more uxorio trova di regola la sua causa nei vincoli di fatto di solidarietà ed affettività esistenti, alternativi
rispetto ai vincoli tipici di un rapporto a prestazioni corrispettive, qual è il rapporto di lavoro subordinato; ciò non
esclude che talvolta le prestazioni svolte possano trovare titolo in un rapporto di lavoro subordinato, del quale il
convivente superstite deve fornire prova rigorosa,e la cui configurabilità costituisce valutazione in fatto, come tale
demandata al giudice di merito e non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha
ritenuto esente da vizi la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda della ricorrente volta ad ottenere dagli eredi
il trattamento economico a titolo di lavoro domestico non corrispostole dal defunto convivente,sulla base delle
risultanze probatorie escludenti il vincolo di subordinazione ed attestanti, tra l’altro, che tra i due esisteva una relazione
sentimentale, sfociata dopo anni di frequentazione a distanza in una prolungata convivenza, e che l’attrice veniva
presentata abitualmente come compagna del convivente e trascorreva abitualmente le vacanze in località di villeggiatura
con il defunto convivente)». Cfr. poi anche Cass., 22 novembre 2010, n. 23624, secondo cui «In tema di rapporto di
lavoro domestico in situazione di convivenza, l’esistenza di un contratto a prestazioni corrispettive deve essere escluso
solo in presenza della dimostrazione di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non
si esaurisca in un rapporto meramente affettivo o sessuale, ma dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, del
convivente alla vita e alle risorse della famiglia di fatto in modo che l’esistenza del vincolo di solidarietà porti ad
escludere la configurabilità di un rapporto a titolo oneroso. (Nella specie, la S.C., in applicazione dell’anzidetto
principio, ha ritenuto che, pur in presenza di un vincolo affettivo – attestato dalla partecipazione alle attività familiari da
piccoli doni, arredo delle stanze, aiuto prestato da altri familiari – non potesse escludersi l’esistenza di un rapporto di
lavoro subordinato, con obbligo di curare e assistere i figli del datore di lavoro e di provvedere alle faccende
domestiche, non assumendo alcun rilievo, ai fini della qualificazione del rapporto, l’originario intento altruistico di
accogliere in casa la lavoratrice perché bisognosa di aiuto)».
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partner imprenditore che rifiuti di condividere quegli incrementi patrimoniali conseguiti anche
grazie alla collaborazione spontaneamente prestata dall’altro. Secondo molti, sarebbe dunque
l’identità di ratio, consistente nella tutela del collaboratore economicamente svantaggiato, a
giustificare l’estensione analogica al convivente dei principi di cui all’art. 230-bis c.c. ( 23).
Ma l’elenco dei soggetti dell’impresa familiare, di cui al terzo comma dell’art. ult. cit.,
appare tassativo, in quanto esclusivamente correlato al dato formale della presenza di un rapporto di
coniugio, ovvero di parentela o di affinità entro gradi ben individuati ( 24). Si badi, in proposito, che
(23) In questo senso cfr. SALARIS, Sulla famiglia c.d. «di fatto» e sui «rapporti di fatto» configurabili nell’impresa
familiare, in Riv. dir. agr., 1976, I, p. 347 s.; favorevoli all’estensione analogica dell’art. 230-bis c.c. sono anche
BIANCA, Regimi patrimoniali della famiglia e attività d’impresa, in Dir. fam. pers., 1976, p. 1246; JANNARELLI, Lavoro
nella famiglia, lavoro nella impresa familiare e famiglia di fatto, in La famiglia di fatto, Atti del convegno di
Pontremoli, 27-30 maggio 1976, Montereggio, s.d., ma 1977, p. 185 s. e in Dir. fam., 1976, p. 1837 ss.; BUSNELLI, Sui
criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in La famiglia di fatto, Atti del convegno di
Pontremoli, cit., p. 139 ss.; D’ERCOLE, voce Famiglia di fatto, in Dizionari del diritto privato, a cura di Natalino Irti, 1,
Milano, 1980, p. 371; PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, cit., p. 284 ss.; MILITERNI, Impresa familiare:
rassegna di giurisprudenza, in Riv. notar., 1982, III, p. 674 s.; GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p.
138; BUSNELLI e SANTILLI, Il problema della famiglia di fatto, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?,
Napoli, 1988, p. 119 s.; DI FRANCIA, Il rapporto di impresa familiare, Padova, 1991, p. 284; COLUSSI, voce Impresa
familiare, in Noviss. dig. it., App., IV, Torino, 1983, p. 70; LIUZZO, Alcuni aspetti civilistici della convivenza «more
uxorio» alla luce dei più recenti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in Dir. fam. pers., 1991, p. 804 ss.;
BALESTRA, Sulla rilevanza della convivenza more uxorio nell’ambito dell’impresa familiare, nota a Cass., 2 maggio
1994, n. 4204, in Giur. it., 1995, I, 1, c. 845 ss.; PANUCCIO, Il lavoro nella famiglia, in Dir. lav., 1999, p. 586 ss.; sul
tema v. anche BILE, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in Riv. dir. civ., 1996, II, p. 645
s.; TOMMASINI, op. cit., p. 510; per un rassegna delle opinioni e delle pronunce sull’argomento cfr. anche SEGRETO, La
famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, in Dir. fam. pers., 1998,
p. 1681 ss.; BERNARDINI DE PACE, Convivenza e famiglia di fatto. Ricognizione del tema nella dottrina e nella
giurisprudenza, in I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 312 ss., nonché la telegrafica sintesi di
ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 235 ss.
In giurisprudenza, per la tesi dell’applicabilità dell’art. 230-bis c.c. al convivente more uxorio, v. Trib. Milano, 24
giugno 1978, riportata da FUSARO, Il regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1990, p. 669 ss.; Trib. Ivrea, 30
settembre 1981, in Riv. dir. agr., 1983, II, p. 464, con nota di SALARIS, Impresa familiare, famiglia di fatto e comunità
rurali e in Giur. agr. it., 1984, II, p. 105, 401, con nota di AMOROSO; Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it.,
1991, I, 2, c. 574, con nota di OBERTO, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento fra conviventi more uxorio, in
Giur. it., 1992, I, c. 427, con nota di CALVO, Un precedente in tema di animus mutuandi e operazioni su conto corrente
bancario cointestato ai conviventi more uxorio (in quest’occasione l’accoglimento, da parte del tribunale, della tesi
dell’applicabilità delle norme in tema di impresa familiare alla famiglia di fatto ha determinato una declaratoria di
incompetenza per materia). Potrà ancora aggiungersi, per completezza, che Cass., 10 dicembre 1994, n. 10927, non
massimata (ma edita in Informaz. prev., 1994, p. 1502), dopo aver negato la sussistenza di un rapporto di lavoro
subordinato tra conviventi, ha espressamente dichiarato che nella fattispecie si sarebbe potuta «ravvisare piuttosto una
ipotesi di comunione tacita familiare, come delineata dall’art. 230-bis c.c., trattandosi di istituto nel quale, in carenza di
prove contrarie, più correttamente è possibile inquadrare un rapporto lavorativo che si svolga nell’ambito di una
convivenza more uxorio»; l’affermazione ha però, nel caso di specie, più il sapore dell’obiter dictum che della ratio
decidendi.
(24) RAGUSA MAGGIORE, Famiglia di fatto e impresa familiare, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1982, p. 38 ss., il quale
rileva tra l’altro che la ratio dell’art. 230-bis c.c. è quella di escludere che la normale collaborazione tra familiari possa
interpretarsi come una società atipica tra parenti, ciò che evidenzierebbe l’eccezionalità dell’istituto dell’impresa
familiare. Cfr. inoltre, sempre in senso negativo sulla proposta estensione analogica dell’art. 203-bis c.c., GHEZZI,
Ordinamento della famiglia, impresa familiare e prestazione di lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1976, II, p. 1390,
nota 66; ANDRINI, Brevi note sulla soggettività giuridica dell’impresa familiare, in Giur. comm., 1977, I, p. 142;
COLUSSI, voce Impresa familiare, cit., p. 70; ID., Impresa e famiglia, Padova, 1985, p. 83; A. e M. FINOCCHIARO,
Diritto di famiglia, I, Milano, 1984, p. 1312; PROTETTÌ, L’impresa familiare tra conviventi more uxorio, in Società,
1985, p. 475; CALÒ, La giurisprudenza come scienza inesatta (in tema di prestazioni lavorative in seno alla famiglia di
fatto), nota a Cass., 17 febbraio 1988, n. 1701, in Foro it., 1988, I, c. 2306 ss.; ID., Profili di interesse notarile della
famiglia di fatto, nel volume Studi e materiali edito a cura del Consiglio Nazionale del Notariato - Commissione Studi,
2 (1986-1988), Milano, 1990, p. 84 ss.; OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 79 ss.; ID., Impresa
familiare e ingiustificato arricchimento fra conviventi more uxorio, cit., c. 575; BERNARDINI, La convivenza fuori del
matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, cit., p. 65; ID., Rapporto di lavoro, o di collaborazione
«parasubordinata», e tutela del convivente more uxorio (c.d. familiare di fatto), nota a Cass., 2 maggio 1994, n. 4204,
in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 283; secondo CORSI, Accordi patrimoniali tra conviventi, in AA. VV., La famiglia
di fatto e i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti del XXXIII Congresso Nazionale del Notariato, tenutosi a Napoli il
29 settembre 1993, Roma, 1993, p. 133, non è possibile l’estensione analogica della norma al convivente, in quanto la
legge non fa riferimento ad una data nozione della famiglia, ma a specifici rapporti familiari.
34
il richiamo a tale dato formale appare particolarmente «forte», essendo addirittura espresso per ben
due volte. Da un lato, infatti, esso è indicato direttamente, mediante la previsione del requisito del
coniugio, mentre dall’altro esso è ripetuto, indirettamente, tramite il requisito dell’affinità ( 25).
Del resto non appare possibile applicare analogicamente la disciplina in esame ai conviventi
sulla scorta della considerazione che l’introduzione dell’art. 230-bis c.c. denoti l’intento di superare
la presunzione di gratuità delle prestazioni fornite dai familiari, intesi quindi come anche quei
soggetti che, seppur non sposati, intendano ricalcare le dinamiche proprie della famiglia legittima,
sia pur solo «di fatto». Difatti, come posto in luce in altra sede ( 26), la presunzione di gratuità
trovava fondamento non già nel carattere dell’affectio, ma nell’esistenza tra i coniugi di ben precisi
rapporti giuridici tali da fondare reciproche pretese e, soprattutto, una garanzia per il futuro, sotto
forma di diritti successori ( 27).
In giurisprudenza una decisione di legittimità del 1994 (28) ha escluso l’applicazione
analogica dell’art. 230-bis c.c. sulla base del carattere eccezionale della norma ( 29). Da notare che
anche successivamente la Suprema Corte ha ribadito il medesimo principio ( 30), stabilendo che
«Presupposto per l’applicabilità della disciplina in materia di impresa familiare è l’esistenza di una
famiglia legittima e, pertanto, l’art. 230 bis cod. civ. non è applicabile nel caso di mera convivenza,
ovvero alla famiglia cosiddetta ‘di fatto’, trattandosi di norma eccezionale, insuscettibile di
interpretazione analogica».
4. Il problema dell’arricchimento conseguente ad una prestazione volontariamente effettuata
dall’impoverito.
La tesi dell’ammissibilità dell’azione di arricchimento ingiustificato a tutela del convivente
che abbia contribuito al ménage della famiglia di fatto, in assenza di un’adeguata contribuzione da
parte del partner, trova la sua prima elaborazione in uno studio di diritto interno e comparato ( 31).
In giurisprudenza si esprimono per la tassatività dell’elencazione di cui all’art. 230-bis, terzo comma, c.c. Cass., 18
ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, c. 1949; Cass., 24 marzo 1977, n. 1161, in Giust. civ., 1977, I, p. 1190; Trib.
Roma, 10 luglio 1980, in Dir. fall., 1980, II, p. 611, con nota di FARENGA, In tema di «rapporto more uxorio»,
«famiglia di fatto» e «impresa familiare»; Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Fam. e dir., 1994, p. 514, con nota di L.
GIORGIANNI, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 278, con nota di BERNARDINI e in Giur. it., 1995, I, 1, c. 844, con
nota di BALESTRA; Trib. Milano, 10 gennaio 1985, in Società, 1985, p. 507.
(25) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 80; ID., Impresa familiare e ingiustificato
arricchimento fra conviventi more uxorio, loc. cit.; ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 14
ss., in senso conforme anche SPAGNOLI, Note in tema di impresa familiare, lavoro gratuito ed azione di arricchimento
senza causa, in Dir. fam. pers., 2002, p. 681 s.; per altri riferimenti cfr. altresì ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in
Europa, cit., 233 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 267 ss.
(26) OBERTO, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento fra conviventi more uxorio, cit., p. 575.
(27) Condivide queste conclusioni MONTEVERDE, op. cit., p. 960.
(28) Cass., 2 maggio 1994, n. 4204, in Fam. dir., 1994, p. 514, con nota di L. GIORGIANNI.
(29) In precedenza, per l’applicazione della presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative del convivente, cfr.
Cass., 31 gennaio 1967, n. 276, in Foro it., 1967, I, c. 491; Cass., 18 ottobre 1976, n. 3585, in Giur. it., 1977, I, 1, c.
1949; Cass., 11 aprile 1979, n. 2124; Cass., 20 marzo 1980, n. 1880; Cass., 12 marzo 1981, n. 1415; Cass., 3 dicembre
1984, n. 6311. Per due aperture, peraltro a livello di meri obiter, verso l’estensione analogica dell’art. 230-bis c.c. alla
famiglia di fatto, cfr. Cass., 19 dicembre 1994, n. 10927; Cass., 15 marzo 2006, n. 5632.
(30) Cfr. Cass., 29 novembre 2004, n. 22405.
(31) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 105 ss.; cfr. inoltre ID., Le prestazioni
lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 49 ss., 92ss. Per un veloce accenno in precedenza v. anche PARADISO, La
comunità familiare, cit., p. 110 ss., ove si osserva che, nel caso di cessazione della convivenza, rileva il principio
generale che «vieta l’arricchimento senza causa, integrato, se del caso, da quello della non gratuità delle prestazioni
lavorative. Dovrà pertanto riconoscersi a favore di ciascuno una pretesa, in base all’art. 2041 c.c., sugli eventuali
acquisti e i risparmi realizzati dal convivente qualora possano ritenersi “frutto” del contributo di entrambi»;
successivamente all’opera dello scrivente v. anche FERRANDO, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e
patrimoniali nella famiglia di fatto, cit., p. 194 ss.; TOMMASINI, op. cit., p. 509 s.; DI GREGORIO, Programmazione dei
rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano, 2003, p. 186 ss.; ARCANI, op. cit., p. 899 ss.; COCUCCIO, Convivenza e
famiglia di fatto: problematiche e prospettive, in Dir. fam. pers., 2009, p. 908 ss.; contra PANICO, Sull’esperibilità
dell’azione di ingiustificato arricchimento nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, in Giur. it., 1997, IV, c.
35
Essa, prendendo le mosse dalla critica alla tradizionale impostazione giurisprudenziale e dottrinale
( 32), secondo cui «la volontaria prestazione esclude l’ingiusto arricchimento», rinviene la fonte di
tale ultimo principio nella preoccupazione, espressa da autorevole dottrina ( 33), di evitare che
un’indiscriminata concessione dell’azione di arricchimento in funzione di recupero di una
prestazione di facere (eseguita in assenza di obblighi legali o contrattuali) si possa tradurre
nell’imposizione di uno scambio non desiderato dal soggetto arricchito. Riprova di ciò sta nel fatto
che non sono certo mancati i casi in cui, a ben vedere, la stessa giurisprudenza di legittimità ha dato
luogo all’azione ex art. 2041 c.c. pur in presenza di un arricchimento determinato dalla libera e
volontaria ingerenza dell’impoverito nella sfera patrimoniale dell’arricchito ( 34).
Come si è cercato di dimostrare, invero, i timori sull’imposizione di uno scambio non
desiderato sono destinati a venir meno allorquando l’attività dell’impoverito si sia venuta a inserire
in un contesto, per così dire, obiettivamente caratterizzato dall’onerosità; quando, cioè, per
l’arricchito fosse chiaro che la prestazione ricevuta non poteva intendersi come compiuta
gratuitamente. Rilievo determinante è svolto quindi dalla presenza di un «affidamento»
dell’impoverito nell’onerosità del rapporto, conosciuto, o quanto meno conoscibile, dalla
controparte proprio per effetto delle peculiari relazioni sussistenti inter partes.
La conclusione riceve conforto dal raffronto con il parallelo regime dell’indebito oggettivo,
nel quale il solo compimento di una prestazione di dare, non giustificato dalla presenza di
un’obbligazione legale o contrattuale, dà sempre luogo alla ripetizione.
Un’ulteriore dimostrazione della fondatezza della tesi qui sostenuta è ricavabile da una serie
di norme che si preoccupano di riconoscere al soggetto che si è ingerito nella sfera patrimoniale
altrui, eseguendovi delle prestazioni di facere, il diritto di «recuperare» l’impoverimento subito per
effetto di tale attività. Si tratta, più precisamente, dei principi in tema di miglioramenti eseguiti su
beni di proprietà altrui (cfr. artt. 975, 985, 1150, 1592, 2152 c.c.), o che successivamente divengano
di proprietà altrui, ma con effetto retroattivo (cfr. artt. 748, primo e secondo comma, 749, 1502
c.c.), cui sono assimilabili anche i miglioramenti eseguiti dal terzo acquirente del bene ipotecato
(art. 2864 cpv., c.c.). Orbene, se vi è un presupposto comune a tutte le ipotesi è proprio l’assenza di
un intento liberale: l’impoverito è infatti sempre vuoi (almeno temporaneamente) proprietario, vuoi
possessore, vuoi detentore qualificato; in queste situazioni si deve dunque presumere che chi esegue
un miglioramento lo faccia esclusivamente nell’interesse proprio, senza il minimo intento di
263 ss., secondo cui «discutere di prestazioni, controprestazioni, affidamenti ed onerosità appare, in costanza di
convivenza more uxorio, abbastanza ozioso»; E. QUADRI, Famiglia e ordinamento civile, Torino, 1998, p. 40; nel senso
dell’ammissibilità del rimedio soltanto in relazione alle prestazioni che eccedono la normale contribuzione BALESTRA,
Rapporti di convivenza, cit., p. 3779; ID., La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1060 ss.
(32) Cfr. Cass., 3 novembre 1956, n. 4110, in Foro it., 1957, I, c. 583; Cass., 26 ottobre 1968, n. 3592; Cass., 27
febbraio 1978, n. 1024; Cass., 6 marzo 1986 n.1456; Cass., 11 febbraio 1989, n. 862; Cass., 21 novembre 1996, n.
10251; Cass., 14 maggio 2003, n. 7373; in dottrina v. per tutti BILE, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della
Corte di cassazione, cit., p. 646. Per la giurisprudenza di merito, nel senso della giurisprudenza di legittimità appena
citata, cfr. App. Roma, 20 aprile 2006, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito (da notare che la
decisione ha fatto applicazione del principio in relazione ad un contributo in denaro versato dal partner direttamente
alla parte venditrice per un acquisto immobiliare operato dalla convivente; il tribunale ha qui espressamente dichiarato
di non affrontare il tema della donazione – eventualmente nulla per difetto di forma – per difetto di domanda sul punto).
Analoghe considerazioni sono rinvenibili in Trib. Bologna, 9 febbraio 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio
Corti di merito, ove si rimarca, tra l’altro, che «non è risultato provato un impoverimento dell’attrice in correlazione con
l’espletamento di tali prestazioni domestiche ed assistenziali, eseguite fuori dell’orario di lavoro, dall’altro deve essere
posto in rilievo il fatto che la [ex convivente] ha sempre prestato il proprio consenso, evincibile anche da
comportamenti concludenti, allo svolgimento di tali mansioni. Sul punto la giurisprudenza ha assunto un’opinione
ferma e consacrata in un orientamento ormai consolidato che individua nella volontà delle parti un fattore idoneo ad
escludere l’assenza o l’ingiustizia della causa. Secondo l’indirizzo costante della giurisprudenza la volontà di colui che
si assume impoverito acquista una valenza particolare, fino ad essere veramente idonea a costituire la giusta causa,
quando la prestazione non solo è spontanea ma viene eseguita in relazione a motivi connessi a rapporti affettivi o
familiari o di cortesia».
(33) P. TRIMARCHI, L’arricchimento senza causa, Milano, 1962, p. 11 ss.; ID., Istituzioni di diritto privato, Milano,
1975, p. 377.
(34) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 117 ss.; cfr. inoltre ID., Le prestazioni
lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 54 ss.
36
locupletare la controparte. Se quindi il legislatore ha ritenuto di dover individuare le fattispecie in
cui l’ingerenza nel patrimonio di un altro soggetto dà luogo a un’azione restitutoria e lo ha fatto
proprio in relazione a quei casi in cui manca ogni intento di arricchire la controparte, sembra logico
desumerne, a contrariis, che la presenza dell’intenzione di impoverirsi sia, almeno di norma,
sufficiente a giustificare l’arricchimento.
Viceversa, l’assenza di un’intenzione di impoverirsi, e quindi l’eventuale «affidamento» su di
una controprestazione, potrà dar luogo all’actio de in rem verso. Peraltro, per evitare all’arricchito
l’imposizione di uno scambio indesiderato, ciò avverrà solo quando tale «affidamento»
dell’impoverito sia conosciuto dalla controparte, o quanto meno conoscibile per via dell’obiettiva
onerosità del contesto in cui l’attività si è venuta a inserire ( 35).
Ora, posto che l’animus con il quale il convivente «debole» pone in essere la propria attività
domestica non è quello di impoverirsi, ma è collegato all’«affidamento» non già in una retribuzione
(intesa nel senso tradizionale del termine), bensì nell’adempimento ex adverso di quei doveri morali
e sociali (assistenza morale e materiale, contribuzione, ecc.) che caratterizzano oggi il rapporto
more uxorio, ne discende che la reciprocità delle obbligazioni naturali tra conviventi, in quanto
scaturente da una situazione certamente nota a entrambi, fonda in colui che ha dato spontanea
esecuzione ai doveri morali e sociali su di lui gravanti proprio quell’«affidamento» nell’onerosità
dell’operazione che è il presupposto del rimedio ex art. 2041 c.c. per le prestazioni di facere.
L’arricchimento provocato nell’accipiens dall’esecuzione dell’obbligazione naturale non
potrà quindi ritenersi giustificato se non a fronte di un adempimento reciproco del corrispettivo
dovere morale e sociale di contribuzione. In definitiva, deve dirsi che la contribuzione prestata da
uno solo dei conviventi a vantaggio dell’altro determina in capo all’accipiens un arricchimento
ingiustificato allorquando quest’ultimo sia (in tutto o in parte) inadempiente all’obbligazione
naturale sullo stesso gravante: in tale ipotesi sarà garantito il diritto della parte adempiente di
ottenere una somma corrispondente all’eccedenza della prestazioni eseguite rispetto a quelle
ricevute, così riportando i partners a una posizione di sostanziale parità, appianando possibili divari
tra le prestazioni eseguite in adempimento delle reciproche obbligazioni naturali sugli stessi
incombenti ( 36).
5. Segue. La giurisprudenza di legittimità favorevole all’azione di arricchimento tra
conviventi.
La soluzione proposta dallo scrivente sembra avere rinvenuto, almeno in parte, accoglienza
favorevole anche dalla più recente giurisprudenza di legittimità. A parte una decisione del 2007, in
cui il S.C., senza aggiungere alcun contributo valutativo, si è sostanzialmente limitato a ritenere
congruamente motivata una decisione della corte d’appello di Firenze, dalla quale peraltro il
rimedio ex art. 2041 c.c. era stato accolto ( 37), in un caso risolto nel 2009 ( 38) la Cassazione ha
stabilito che, poiché «l’azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di
un soggetto a danno dell’altro che sia avvenuta senza giusta causa», non è dato invocare la
mancanza o l’ingiustizia della causa soltanto «qualora l’arricchimento sia conseguenza di un
contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell’adempimento di
un’obbligazione naturale». Ne consegue, pertanto, che è «possibile configurare l’ingiustizia
dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di
prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal
rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei
componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza».
Dovrà considerarsi che, nel caso di specie, risultava, dalla decisione di merito, che la
(35) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 121 ss.; cfr. inoltre ID., Le prestazioni
lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 58 ss.
(36) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 127 ss.; cfr. inoltre ID., Le prestazioni
lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 65 ss.
(37) Cass., 22 marzo 2007, n. 6976, su cui v. infra, § 6, in questo Capitolo.
(38) Cass., 15 maggio 2009, n. 11330, in Corr. giur., 2010, p. 72.
37
provvista per una serie di acquisti immobiliari operati dal partner «forte» durante l’unione
paramatrimoniale era stata fornita «anche e soprattutto» dai proventi del lavoro della convivente, in
assenza di una giusta causa del «rilevante contributo economico e lavorativo» fornito dalla donna
per gli acquisti effettuati dal convivente (nel frattempo deceduto) durante tutto il periodo di
ultratrentennale convivenza. Si è pertanto ritenuto che l’arricchimento di quest’ultimo fosse
conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l’acquisto di proprietà immobiliari
ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della convivente, resi in assenza di un
titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali – per rilevanza,
continuità ed unilateralità degli apporti – da non costituire adempimento dei doveri morali,
conseguenti all’instaurazione del rapporto di convivenza ( 39).
Con riguardo al caso dell’obbligazione naturale, evidentemente rilevante in relazione al caso
della convivenza more uxorio oggetto del giudizio, la Suprema Corte evidenzia che il riferimento ad
esigenze di tipo solidaristico non è di per sé sufficiente a prefigurare una «giusta causa» dello
spostamento patrimoniale, giacché ai fini dell’art. 2034 c.c., comma primo, occorre allegare e
dimostrare non solo l’esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente
nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione
avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Ne
deriva che, con particolare riguardo alla convivenza more uxorio, è possibile configurare
l’ingiustizia dell’arricchimento da parte di un convivente nei confronti dell’altro in presenza di
prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal
rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato in relazione alle condizioni sociali e
patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di
adeguatezza.
Due anni dopo la Cassazione ribadisce che «è possibile configurare l’ingiustizia
dell’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei confronti dell’altro in presenza di
prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal
rapporto di convivenza – il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei
componenti della famiglia di fatto – e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza» ( 40).
La fattispecie presentata questa volta, nel 2011, all’esame della Corte era piuttosto complessa
(a dispetto – e conformemente a quanto più spesso accade nelle nostre sempre più inutilmente
intasate aule di giustizia – del valore relativamente modesto della materia del contendere). La
coppia aveva qui deciso di convivere nell’appartamento appartenente ai genitori del compagno, e la
convivente aveva provveduto all’acquisto del mobilio che, dopo la rottura del rapporto
sentimentale, era rimasto nell’appartamento occupato dall’uomo, il quale ne godeva, quindi, in via
esclusiva e senza titolo. La corte d’appello aveva condannato il convivente al pagamento di una
somma, a titolo di arricchimento ingiustificato, pari al valore di acquisto dei mobili, rifacendosi alla
circostanza secondo la quale la proprietaria non ne aveva mai avuto il godimento e questi beni,
indipendentemente dall’offerta di restituzione effettivamente fatta dall’uomo, non avevano, in un
altro contesto immobiliare, alcun valore.
La Cassazione, invece, ritiene necessario distinguere due momenti, l’uno anteriore e l’altro
posteriore all’offerta di restituzione dei beni, cassando la sentenza d’appello e riconoscendo il
diritto per la ex convivente a richiedere una somma a titolo di arricchimento ingiustificato,
(39) In motivazione è altresì dato leggere che l’art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle
obbligazioni, che costituisce uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno
spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l’altro si arricchisca, «senza una giusta
causa» e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l’ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio
dell’arricchito. Si rileva inoltre esattamente che l’azione ex art. 2041 c.c. ha carattere generale (perché è esperibile in
una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l’altrui pregiudizio
patrimoniale senza una ragione giustificativa) e natura sussidiaria (perché è esercitabile solo quando al depauperato non
spetti nessun’altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell’obbligazione
restitutoria o risarcitoria: cfr. art. 2042 c.c.). L’arricchimento risulterà pertanto senza una giusta causa quando è
correlato ad un impoverimento non remunerato, né conseguente ad un atto liberalità e neppure all’adempimento di
un’obbligazione naturale; e ciò in quanto l’ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un
interesse meritevole di tutela.
(40) Cass., 30 novembre 2011, n. 25554.
38
parametrata però al solo valore del godimento esclusivo dei beni stessi da parte dell’uomo fino al
momento in cui questi ebbe ad effettuare l’offerta di consegna delle suppellettili alla ex compagna
( 41).
In un’altra decisione dello stesso anno 2011 la Cassazione ( 42) conferma la decisione della
corte d’appello che aveva negato la domanda di arricchimento proposta dalla ex convivente nei
confronti degli eredi del partner, «per l’assistenza [prestata] per oltre venti anni», rilevando che
«nel caso in cui venga lamentato l’arricchimento da parte di un convivente more uxorio nei
confronti dell’altro, sono state ritenute indennizzabili le sole prestazioni che esulino dal mero
adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza (v. da ultimo, Cass. 15 maggio
2009 n. 11330)».
6. Segue. Le persistenti incertezze della giurisprudenza di merito. Conclusioni sul tema,
relativamente alle prestazioni di facere.
Appare curioso notare che, nel momento in cui la Corte di legittimità accoglie le domande ex
art. 2041 c.c., trascurando di prendere in considerazione la propria «antica» giurisprudenza in senso
diametralmente opposto e di farsi carico delle obiezioni legate alla tesi dello «scambio imposto»,
non poche decisioni di merito rigettano l’azione, reputando che le prestazioni compiute da una delle
parti non travalicassero, nella specie, i limiti di proporzionalità dell’obbligazione naturale ( 43). Ciò,
talora, anche in relazione a prestazioni il cui contenuto superava notevolmente quello delle
contribuzioni effettuate dal partner, sulla base dell’assunto per cui la parte che aveva dato di più era
quella dotata di maggiori capacità economiche (peraltro sempre, o quasi sempre, trascurando di
verificare che l’altro convivente avesse effettivamente adempiuto alla propria obbligazione naturale,
pur se di contenuto «ridotto» rispetto a quello della parte attrice) ( 44).
(41) Al riguardo la Cassazione formula il seguente principio: «la proponibilità da parte del proprietario di un bene
dell’azione di arricchimento nei confronti di un terzo che ne abbia goduto senza titolo, al fine di essere indennizzato del
pregiudizio subito, pari al corrispettivo per il godimento da parte dell’arricchito del bene, va riconosciuta
indipendentemente dalla possibilità del proprietario medesimo di chiedere la restituzione, dato che tale seconda azione
non previene, né elimina, il danno verificatosi prima del utile esercizio, o anteriormente all’offerta di restituzione, e,
quindi, non configura un rimedio di esso, idoneo ad escludere la prima azione alla stregua del suo carattere sussidiario».
(42) Cass., 20 dicembre 2011, n. 27773.
(43) In questo senso v. Trib. Larino, 21 ottobre 1994, in Nuovo dir., 1995 p. 519, con nota di FRONTINI, che ha
affermato che il convivente non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente all’incremento di valore di
fabbricato in proprietà dell’altro convivente in dipendenza di lavori di ristrutturazione ed ampliamento che egli abbia
eseguiti, non provando che le sue dazioni eccedano dall’esecuzione dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c.
Trib. Genova, 25 settembre 2009, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito, in relazione alla richiesta di
restituzione dell’arricchimento conseguente al pagamento, da parte della ex convivente, di spese condominiali afferenti
all’alloggio di proprietà dell’ex partner, motiva come segue: «nel rapporto di convivenza more uxorio, fonte
unicamente di obbligazioni morali o naturali, non trovano adeguata causa attribuzioni patrimoniali che fuoriescano dalla
logica del supporto alla convivenza per tradursi in una autonoma, consistente e probabilmente duratura attribuzione
patrimoniale ottenuta in forza di una confusione degli interessi non suscettibile di positivo apprezzamento giuridico. Nel
caso tuttavia è risultato pacifico che le spese di amministrazione versate concernevano sì una casa di proprietà del
convenuto, ma anche la casa nella quale era in corso ed ulteriormente progettata la convivenza in comune». Trib. Pavia,
23 gennaio 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito, in relazione alla domanda, fondata
sull’azione di arricchimento, per l’acquisto di mobili d’arredamento della casa in cui si era svolta per circa vent’anni la
convivenza, afferma che «Nell’acquisto di tali arredi ritiene questo Tribunale che debba riconoscersi una prestazione
costituente esecuzione dei doveri morali e sociali legati alla convivenza more uxorio delle parti e, come tale, il relativo
conferimento degli stessi, per l’utilizzo anche da parte della convenuta, rende irripetibile il bene in quanto adempimento
di un’obbligazione naturale». In Trib. Perugia, 2 aprile 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito, si
legge poi che «Le attribuzioni patrimoniali fatte a favore del convivente more uxorio sono state infatti qualificate dalla
giurisprudenza quali obbligazioni naturali: nel caso in esame, la collaborazione alla creazione dell’arredamento nella
casa nella quale si svolgeva la vita in comune risponde proprio all’adempimento di quel dovere morale a cui si è fatto
riferimento, ed è anche del tutto proporzionata, per l’entità della spesa, alle necessità della vita in comune».
(44) Trib. Bologna, 25 gennaio 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito. In motivazione si
legge quanto segue: «che lo stabile rapporto di convivenza more uxorio nel periodo indicato, circostanza pacifica fra le
parti, qualifica gli esborsi di cui si chiede la restituzione, compiuti dall’attrice per sopperire alle necessità del
compagno, quali obbligazioni naturali, sussistendo nella fattispecie un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate
ed i doveri morali e sociali reciprocamente assunti dai conviventi. Sotto quest’ultimo profilo, nell’atto di citazione non
39
Solo raramente, al fine di rigettare l’azione, ci si premura anche di porre in luce come, nella
specie, pur non collocandosi le «prestazioni» al di fuori della proporzionalità, vi fosse stato durante
il ménage un adempimento reciproco dell’obbligazione naturale su entrambi gravante, con
conseguente giustificazione dei reciproci arricchimenti ( 45).
Una decisione del Tribunale di Firenze dell’anno 2000, ha invece ammesso il rimedio in
discussione in relazione ad un caso originato da una convivenza ultraventennale da cui erano nati
due figli e nel corso della quale entrambe le parti avevano svolto attività lavorativa alle dipendenze
di terzi ( 46). È interessante rimarcare nella decisione in esame il fatto che l’effettuazione di un
apporto in denaro è stato presunto sulla base della prova del reddito da lavoro dipendente della
convivente non intestataria. Peraltro nessun’indagine risulta essere stata compiuta sull’effettiva
si prospettano spese sproporzionate, né esse emergono dall’esame degli estratti del conto corrente bancario depositati
quale doc. 1. La circostanza che l’attrice abbia maggiormente contribuito alle spese della famiglia è pacificamente
dovuta alla maggiore retribuzione dalla medesima percepita rispetto a quella del convenuto, la cui attività lavorativa e
capacità reddituale doveva essere ben nota all’attrice prima della convivenza, avendo la stessa indicato nell’atto di
citazione di essersi innamorata di Ca. vent’anni prima e che la convivenza era seguita ad un lungo periodo di
fidanzamento. Da tale premessa, consegue che il convenuto non è tenuto all’obbligo di restituzione delle somme spese
in modo spontaneo dall’attrice a suo favore, poiché tali prestazioni furono eseguite in adempimento della predetta
obbligazione naturale».
(45) App. Firenze, 4 novembre 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito. In motivazione leggesi
quanto segue: «In realtà infatti in base ai risultati dell’istruttoria e alle ammissioni rese dalla stessa attrice si deve
concludere che entrambe le parti insieme hanno lavorato, insieme hanno provveduto ai bisogni della famiglia e della
prole, insieme hanno comprato casa ed insieme hanno allevato ed educato i figli. L’attrice, alla fine del rapporto, si
ritrova comproprietaria di un immobile che, per affermazione non contestata di controparte, ha un valore di circa 400
milioni delle vecchie lire; per sua stessa dichiarazione il (...) contribuiva regolarmente alle necessità del nucleo familiare
e quando ha lasciato il lavoro part-time (secondo il convenuto per essersi dimessa e comunque non è provato che sia
stata licenziata né si conoscono i motivi dell’eventuale licenziamento) ha continuato a ricevere regolarmente dal
convivente Lire 2 milioni al mese per provvedere ai bisogni propri e della famiglia. Se ne trae la ricostruzione di un
quadro familiare nell’ambito del quale entrambi hanno contributo ciascuno con i propri mezzi e le proprie capacità alle
esigenze della famiglia e dei figli in adempimento dei doveri morali di assistenza reciproca, senza che possa ravvisarsi,
in conseguenza dei rispettivi apporti, un arricchimento “ingiustificato” dell’uno a danno dell’altra.
(46) Cfr. Trib. Firenze, 12 febbraio 2000 (inedita, n. 594/2000, in procedimento n. 15/1997 R.G., A. c/ M.). La
sentenza è stata confermata in sede d’appello (cfr. App. Firenze, 18 ottobre 2002, inedita), la quale a sua volta è stata
confermata da Cass., 22 marzo 2007, n. 6976, cit. Nella specie, nel 1980 l’uomo, in costanza di convivenza, aveva
proceduto all’acquisto, a suo esclusivo nome, della casa di abitazione destinata a diventare la residenza della famiglia di
fatto. Due anni dopo la cessazione della convivenza, intervenuta nel 1995, la donna aveva chiesto una somma a titolo di
arricchimento ingiustificato, proprio in relazione all’acquisto della casa, facendo presente che l’acquisto era avvenuto
«con i proventi della attività lavorativa di entrambi» e che l’ex convivente intestatario della stessa «da solo non sarebbe
stato in grado di acquistarla, posto che godeva del solo stipendio di [lavoratore] dipendente». Il Tribunale, dopo aver
constato che nella specie si era trattato «di una stabile relazione affettiva, che non ha rivestito i caratteri della
occasionalità, che viene qualificata come convivenza more uxorio e alla quale l’ordinamento ricollega talune
conseguenze giuridiche, ritenendola per alcuni aspetti meritevole di tutela» e che la donna, per tutta la durata del
rapporto, aveva sempre svolto «continua attività lavorativa», ha rimarcato che essa «lavorava e guadagnava e che
comunque essa ha investito nel ménage familiare tutta la sua attività anche di casalinga (comunque suscettibile di
valutazione patrimoniale: si veda sul punto la giurisprudenza sul danno patrimoniale da r.c.a. della casalinga)». Da tale
premessa se ne è tratta la conseguenza dell’esclusione dell’inquadramento dell’attribuzione tra gli atti di adempimento
di obbligazione naturale, perché tale qualificazione sarebbe «da circoscriversi alle prestazioni che abbiano direttamente
ad oggetto il mantenimento della famiglia, e che pertanto siano immediatamente utilizzate (in questo senso sarebbe da
ritenersi inesistente un diritto di credito per le somme spese per vitto e alloggio inteso come canone di locazione o spese
afferenti alla abitazione comune) e non rapportabile all’adempimento di un obbligo morale laddove le somme siano
spese in un bene duraturo che permanga nella disponibilità di uno solo dei conviventi». In secondo luogo si è pure
escluso – come si avrà modo di dire (v. infra, Cap. III, § 4) – il ricorso alla figura della donazione, «mancando lo spirito
di liberalità, laddove si debba ritenere, in assenza di prova contraria, che colui che investe il proprio danaro in un bene
primario come la casa del proprio nucleo familiare ciò faccia, nella previsione che di quella casa continuerà ad usufruire
e non con l’intento di donarla alla sola altra parte». Ciò premesso il Tribunale ha concluso che «Se le dette ipotesi non si
sono integrate è giuoco forza ritenere che la titolarità esclusiva di un bene immobile acquistato col danaro anche del
convivente, configuri un ingiustificato arricchimento con correlativo depauperamento dell’altro convivente che le
prestazioni in danaro abbia erogato, senza ottenerne adeguata contropartita. D’altra parte la non giustificabilità della
attribuzione emerge dalla assenza della qualificabilità della stessa, come sopra motivato, in termini di liberalità o di
adempimento di obblighi morali e/o sociali». In applicazione di tali principi l’ex convivente intestatario è stato
condannato al pagamento di una somma equivalente alla metà del valore del bene.
40
provenienza del denaro impiegato nell’acquisto, per cui appare difficile inquadrare il caso di specie
nella dicotomia: prestazioni di dare/prestazioni di facere. Questo accertamento sarebbe però stato
determinante ai fini della soluzione della controversia, posto che, come illustrato, nel caso di
contribuzione sub specie di un facere eccedente il dovere morale e sociale tra conviventi si sarebbe
dovuto ancora accertare, per ammettere il rimedio ex art. 2041 c.c., che l’altro convivente non aveva
prestato la propria contribuzione.
Riassumendo e concludendo sul punto, può dunque dirsi che il trend attuale della
giurisprudenza ammette l’azione ex art. 2041 c.c. per le prestazioni di facere del convivente, però
solo laddove tali prestazioni, per la loro quantità ed entità intrinseca, superino il limite
dell’obbligazione naturale contributiva tra conviventi, come sopra descritta.
Questa condizione è condivisa, come detto, da una parte della dottrina ( 47), la quale afferma
che i contributi che – per la specifica natura, o per l’ammontare, oppure, infine, per il tipo di bene
acquistato con essi – siano diretti a soddisfare i bisogni derivanti dallo svolgimento della vita in
comune, ovvero siano riconducibili al reciproco dovere morale di assistenza, sarebbero causalmente
giustificati dal fatto di vivere insieme come coniugi, criticandosi anche il modello qui (ri)proposto,
che finirebbe col prospettare una forma di «corrispettività delle attribuzioni patrimoniali come
giustificazione delle stesse, sic et simpliciter, per governare una relazione di chiara matrice
affettiva» ( 48).
Ma la giustificazione causale opera solo per le attribuzioni (si ripete: di facere) già
spontaneamente effettuate nel contesto di un rapporto che genera, proprio come chiarito dalla
giurisprudenza a partire dal 1975, affidamenti reciproci, lasciando scoperta l’ipotesi (che è
esattamente quella presa in esame) in cui invece una delle due parti siffatto affidamento lasci
deluso.
Del resto, solo la prestazione rientrante nel limite dell’obbligazione naturale si pone
all’interno di quello che sopra si è definito come contesto «obiettivamente caratterizzato
dall’onerosità»: quando, cioè, per l’arricchito fosse chiaro che la prestazione ricevuta non poteva
intendersi come compiuta gratuitamente ( 49). In caso contrario, quando cioè il contributo fornito
eccede i limiti di proporzionalità sopra evidenziati, si ripropone invero inevitabilmente l’obiezione
fondata sulla necessità di evitare lo «scambio imposto». Qui è il convivente «arricchitosi» che, in
tali ipotesi, ben può obiettare di non essersi opposto alla prestazione per aver confidato sulla sua
gratuità.
Per tale ragione, in tutti i casi esaminati dalla giurisprudenza di legittimità e di merito qui
illustrata, il positivo accertamento del fatto che il valore delle prestazioni eseguite non eccedeva i
«doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c.» avrebbe dovuto portare ad ammettere
l’applicabilità del rimedio in questione, se si fosse accertato (ciò che peraltro non è sempre dato
desumere dai casi in esame) che la parte che si era giovata del contributo lavorativo del partner non
aveva adempiuto ai doveri morali e sociali di contribuzione su di essa gravanti.
(47) BALESTRA, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1060 ss.; ID., Rapporti di convivenza, cit., p. 3779.
(48) Così BALESTRA, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1063.
(49) È interessante notare come ad analoghe conclusioni sia pervenuto il sistema di common law, mediante
l’applicazione del rimedio del quasi-contract in tutte quelle ipotesi di claims in respect of services nelle quali, avuto
riguardo alla natura delle prestazioni e alla loro durata, «it was clear that the transaction was not meant to be gratuitous»
(cfr. STOLJAR, The Law of Quasi-Contract, Sydney, Melbourne, Brisbane, 1964, p. 160 ss.).
41
CAPITOLO III
I CONTRIBUTI FORNITI PER L’ACQUISTO DI BENI:
TRA REGIME PATRIMONIALE E
RIPETIZIONE DELL’INDEBITO
SOMMARIO: 1. I contributi forniti per l’acquisto di beni e l’arduo percorso per il recupero degli
stessi. Impostazione del problema. Esclusione della possibilità di applicare le norme sulla
comunione legale. – 2. Le principali proposte di legge sul tappeto circa i regimi patrimoniali
dei conviventi. – 3. La soluzione proposta e l’applicazione delle norme in tema di ripetizione
dell’indebito. – 4. Il ricorso allo schema causale della donazione (e le relative difficoltà). –
5. Il ricorso allo schema causale del mutuo (e le relative difficoltà).
1. I contributi forniti per l’acquisto di beni e l’arduo percorso per il recupero degli stessi.
Impostazione del problema. Esclusione della possibilità di applicare le norme sulla comunione
legale.
Discorso almeno in parte diverso da quello sviluppato nel capitolo precedente va svolto in
relazione alle prestazioni di dare, per le quali va subito anticipato che rimedi restitutori sono
ammissibili anche nell’ipotesi di prestazioni eccedenti il limite quantitativo dell’obbligazione
naturale. Il problema attiene qui alla sorte dei contributi forniti da un partner per acquisti che siano
effettuati esclusivamente a nome dell’altro (ovvero che vengano effettuati a nome di entrambi, ma
in modo non proporzionale rispetto alle contribuzioni versate).
Al riguardo si è evidenziato che, se, da una parte, la comunanza di vita può dar luogo all’idea
che tali acquisti siano stati effettuati con l’apporto di entrambi i membri della coppia, dall’altra in
tale contesto si può riproporre l’esigenza di tutelare il partner debole ( 1). Vi è infatti chi ha
ipotizzato in tale caso un’applicazione analogica degli artt. 177 ss. c.c. ( 2). Malgrado
l’autorevolezza della fonte da cui, già agli inizi del XVI secolo, tale suggerimento proviene, va
condivisa la tesi maggioritaria, la quale esclude che in ordine ai rapporti patrimoniali trovi
applicazione analogica il regime di comunione legale dei beni ( 3).
La storia dei tentativi di estendere ai conviventi il regime comunitario vigente per i coniugi è
quanto mai risalente nel tempo.
Già alcuni celeberrimi dottori dell’antico diritto iberico, trattando delle peculiari disposizioni
vigenti nel regno di Spagna sulla comunione degli acquisti ( 4), dopo aver premesso che l’istituto
avrebbe avuto applicazione «etiam in matrimonio putativo, quando inter coniuges erat contractum
matrimonium quod subsistere non poterat, stante legitimo impedimento» ( 5), e dopo aver affermato
che, quanto meno in determinati casi, la comunione avrebbe potuto aver luogo anche tra fidanzati
(1) BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 142.
(2) PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, cit., p. 287 ss.
(3) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 59 ss.; ID., La comunione legale tra coniugi, I, cit.,
p. 298 ss.; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 405; MONTEVERDE, op. cit., p. 952; COCUCCIO, op. cit., p. 908 ss.;
PORCELLI, La rottura della convivenza di fatto, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e
matrimonio, 2, seconda edizione, Milano, 2011, p. 1971 ss.; v. anche FERRANDO, Il matrimonio, in Trattato di diritto
civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni, continuato da Schlesinger, Milano, 2002, p. 226 ss.;
BUSNELLI e SANTILLI, op. cit., p. 785 ss.; in giurisprudenza Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 2000, p. 502,
esclude la sussistenza di un diritto al mantenimento o agli alimenti nei confronti del convivente more uxorio, a cui non
si collegano diritti e doveri se non di carattere morale; per una pronunzia di merito che esclude l’applicabilità in via
analogica del regime di comunione legale cfr. App. Firenze, 12 febbraio 1991, in Dir. fam. pers., 1992, p. 633; per
ulteriori riferimenti giurisprudenziali sul tema in oggetto cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit.,
p. 71 ss.; BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 142.
(4) Su cui cfr. OBERTO, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 299 ss.
(5) Sul tema specifico dell’operatività del regime di comunione in caso di matrimonio putativo cfr. per tutti OBERTO,
La comunione legale tra coniugi, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu, Messineo e Mengoni,
continuato da Schlesinger, II, Milano, 2010, p. 1632 ss., 1860 ss.
42
( 6), soggiungevano che la medesima conclusione si sarebbe potuta forse anche estendere – secondo
quanto testualmente asserito da Lopez de Palacios Rubios – al caso relativo a «duobus amasiis
simul habitantibus». Tra costoro, infatti, «videtur secundum aliquos tacite contracta societas, et
lucra acquisita inter eos aequaliter dividuntur, eo modo, inter coniuges veros, vel putativos,
praesertim si postea inter eos contractum fuit matrimonium» ( 7).
Non stupisca tanta «modernità» da parte dell’autore (Juan Lopez de Palacios Rubios, per
l’appunto) del famigerato requerimiento: di quel documento, cioè, che i conquistadores leggevano
alle popolazioni amerindie per intimare la sottomissione alla Corona di Spagna, minacciando, in
caso contrario, gravi ritorsioni e che, di fatto, venne utilizzato nel Nuovo Mondo quale
giustificazione per lo sterminio e la riduzione in schiavitù di milioni di persone. Quella presa di
posizione sulla possibile applicazione della comunione legale ai conviventi va, invero, collocata nel
contesto pretridentino, in cui il concubinato (sovente praticato dagli stessi ecclesiastici) era nei fatti
largamente tollerato, anche per l’evidente impossibilità, in assenza di un sistema di registrazione dei
matrimoni, di tracciare una netta linea di demarcazione tra unione legittima e unione di fatto ( 8).
Ora, se occorre correttamente ammettere che il citato dottore iberico traeva lo spunto per le
conclusioni appena illustrate da una lettura a dir poco «azzardata» d’un passo di Bartolo, che, a ben
vedere, aveva tratto ad una fattispecie diversa ( 9), sta comunque di fatto che non troppo lontano
dall’esposto ordine di idee si collocava il pensiero dello stesso Molineo, quando, in relazione al
caso delle nozze clandestine, asseriva che la comunione avrebbe potuto avere ugualmente effetto
(pur tra soggetti il cui matrimonio, si badi, era addirittura inesistente!), qualora espressamente
stipulata dalle parti ( 10).
Certo, il brano di Molineo non si riferiva espressamente ai casi di concubinatus, ma tra tale
situazione ed i matrimonia clandestina (pure caratterizzati, come il concubinato, dalla parvenza di
un’unione matrimoniale, in assenza di una celebrazione in facie Ecclesiae) il passo era assai breve
(6) Cfr. LOPEZ DE PALACIOS RUBIOS, Quaedam recollectae super legibus de Toro, in Repetitio rubricae et cap. per
vestras, de donationib. inter virum et uxorem, Lugduni, 1576, p. 424 ss.; GARCIA DE SAAVEDRA, De coniugali
acquaestu, in D.D. Garsiae, Galleci IC. Tractatus de expensis et meliorationibus, cui de novo accesserunt Ioannis
Garsiae a Saabedra Tractatus quatuor, Lugduni, 1661, p. 73.
(7) Cfr. LOPEZ DE PALACIOS RUBIOS, Repetitio rubricae et cap. per vestras, de donationib. inter virum et uxorem,
cit., p. 120.
(8) Sul tema si fa rinvio per tutti a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 24 ss.
(9) Il passo in questione è infatti quello in cui Bartolo (cfr. BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam Infortiati
Partem, Venetiis, 1575, f. 57), dovendo affrontare il tema della societas tacite contracta, con particolare riguardo al
caso relativo a «duobus fratribus, vel patruo, vel nepote», concludeva che «quando uterque negotiatur, tunc si hincinde
lucra consueverunt communicare, praesumo societatem contractam esse (…) et probo propter l. in concubinatu., supra
de concubinis et supra de ritu nupt. l. in libere. Praeterea talis actus, citra ius, et nomen societatis non potest celebrari,
ergo societas videtur tacite contracta». La conclusione partiva dunque dal presupposto (trascurato da Lopez de Palacios
Rubios) che entrambi i parenti svolgessero attività commerciale, mentre il rinvio di Bartolo era a quella parte dei suoi
commentaria (cfr. BARTOLO DA SASSOFERRATO, In Primam Infortiati Partem, cit., f. 38), in cui, circa la l. in
concubinatu, D de concubinis (D, 26, 7, 1), si sosteneva che «inter duos fratres simul commorantes, et ponentes lucrum
in communi, in dubio praesumitur contracta societas: sicut inter virum et mulierem, in dubio praesumatur contractum
matrimonium». Il richiamo di Bartolo al concubinato era dunque svolto unicamente al fine di argomentare che da un
comportamento «concludente» era possibile inferire la stipula di un certo negozio (sulla prova del matrimonio nel
periodo anteriore al Concilio di Trento cfr. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 24 ss.).
In senso contrario alle conclusioni di Lopez de Palacios Rubios cfr. però GARCIA DE SAAVEDRA, De coniugali
acquaestu, cit., p. 108, che, dopo aver esposto l’opinione surriferita, sull’applicabilità della comunione ai concubinarii,
concludeva affermando che «Mihi haec opinio non placet ex verbis nostrae legis, quae de marito ex uxore loquuntur, et
rursum constante, inquit lex nostra, inter eos matrimonio».
(10) «Non ergo a die contractus clandestini, nisi in vim clausulae expressae contractus, non in vim consuetudinis»:
cfr. la nota all’art. 94 della coutume di Valois in MOLINEO, Coustumes generalles et particulieres du royaume de
France & des Gaulles : Mesmement toutes celles qui ont esté nouvellement redigees par les trois Estats, &
homologuees, corrigees & annotees de plusieurs decisions & arrests, diligemment & fidellement par Messire Charles
du Moulin, Advocat en la Cour de Parlement à Paris, & autres Iurisconsultes, I, Paris, 1581, f. 184. Occorre però
tenere conto del fatto che, all’epoca in cui il grande giurista francese scriveva queste osservazioni, vale a dire prima del
decreto Tametsi del Concilio di Trento (1563) e dell’Ordonnance de Blois (1579), il requisito della celebrazione non era
ancora richiesto come essenziale per l’esistenza del matrimonio (sul tema cfr. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali
della famiglia di fatto, cit., p. 24 ss.).
43
( 11), come dimostrato dall’asprezza delle critiche mosse alla conclusione appena illustrata da parte
della dottrina successiva e, in particolare, dal (Claude) de Ferrière. Quest’ultimo s’affrettò, infatti, a
precisare che, in considerazione della sacralité del matrimonio, «la communauté de biens ne peut
point avoir lieu entre ceux qui vivent dans le concubinage, quoy qu’ils ayent mis tous leurs biens
ensemble, et qu’ils en jouissent confusement et indistinctement», peraltro ammettendo che «un
homme et une femme peuvent contracter quelque societé universelle ou particuliere, quoy qu’ils
vivent ensemble dans le concubinage, et telle societé produiroit les effets ordinaires des societéz,
suivant la disposition du Droit Romain ; mais de dire qu’ils pussent contracter une societé, qui
produisist les effets de la communauté de biens, comme le veut du Moulin, et se regler par les regles
de la communauté entre mary et femme établies par les Coûtumes, c’est une proposition absurde, et
que l’on ne peut pas soutenir» ( 12).
La conclusione del de Ferrière, con un salto di qualche secolo, è valida ancora oggi.
L’opinione assolutamente prevalente, invero, ripudia l’estensibilità in via analogica della
comunione legale ai conviventi, oltre che per le evidenti differenze tra unione matrimoniale e
unione di fatto, per via della fondamentale scelta operata dai partners del faux ménage, per il «non
matrimonio», che impedisce di applicare ad essi le conseguenze di quello che finirebbe invece con
l’essere un vero e proprio «matrimonio forzoso» ( 13). Va del resto rilevata la non contrarietà a
Costituzione della mancata estensione legislativa ( 14).
Quanto, poi, all’opportunità di un’eventuale estensione de iure condito, va dato atto delle
gravissime obiezioni di carattere pratico che potrebbero sollevarsi di fronte ad una ipotetica
applicazione ai conviventi del regime ex artt. 177 ss. c.c., in assenza di una qualche forma di
(11) E ancor più breve divenne con la formalizzazione del requisito della celebrazione delle nozze, su cui v. il
richiamo alla nota precedente.
(12) Cfr. C. DE FERRIÈRE, Corps et compilation de tous les commentateurs anciens et modernes sur la coutume de
Paris : enrichie de nouvelles observations, & de plusieurs Questions decidées par les Arrests des cours Souveraines,
avec les Conferences des autres Coutumes, II, Paris, 1685, p. 467, che aggiungeva: «parce que de mesme que la dot ne
peut estre sans le mariage, § si adversus. Institut. de nupt. et l. 3 ff. de jure dot., quoy qu’au contraire le mariage puisse
estre sans dot, aussi la communauté de biens ne peut estre sans mariage, encore que le mariage puisse estre sans
communauté ; ce qui est sans difficulté». Anche GARCIA DE SAAVEDRA, De coniugali acquaestu, cit., p. 107, con
riguardo ai matrimoni clandestini, riteneva che «non esse lucra communicanda, quae fiant constante matrimonio
reprobato ab Ecclesia sancta». Analoghe considerazioni in BOURJON, Le droit commun de la France, et la coutume de
Paris réduits en principes, I, Paris, 1770, p. 516 («les mariages clandestins ne peuvent produire de communauté»). Si
potrà notare ancora che alcune coutumes francesi espressamente stabilivano che la communauté de biens non potesse
avere luogo se non tra persone coniugate: è il caso, ad esempio, della consuetudine di Tours (cfr. art. 231). Identica
conclusione in Germania: cfr. per tutti NEUß, Theorie der Lehre von der ehelichen Gütergemeinschaft sowohl im
Allgemeinen als nach den besonderen Gewohnheiten im Herzogthume Berg, Düsseldorf, 1808, p. 28 s.
(13) Cfr. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 43 ss., 59 ss.; in giurisprudenza v.
App. Firenze, 12 febbraio 1991, in Dir. fam. pers., 1992, p. 633, che espressamente rigetta la via dell’analogia, essendo
l’applicabilità del regime ex artt. 177 ss. c.c. «dalla legge ricollegata al dato formale del vincolo matrimoniale» e come
tale non estensibile analogicamente ad una situazione non caratterizzata da «un connotato di istituzionale stabilità
(anche se non di indissolubilità)», essendo invece la durata del ménage di fatto «rimessa, giorno per giorno, alla mera
volontà di ciascuno dei conviventi».
Le considerazioni qui sommariamente svolte, unitamente a quelle dei lavori cui qui si fa rinvio, valgono poi a negare
l’estensibilità in via analogica alla famiglia di fatto anche della comunione de residuo, con particolare riguardo a quella
dei proventi dell’attività separata di ciascun coniuge, ex art. 177, lett. c), c.c. (secondo quanto proposto invece da
BUSNELLI, Sui criteri di determinazione della disciplina normativa della famiglia di fatto, in La famiglia di fatto, Atti
del convegno di Pontremoli, 27-30 maggio 1976, Montereggio, sd. ma 1977, p. 141; nello stesso senso v. inoltre
BESSONE e FERRANDO, Regime della filiazione, parentela naturale e famiglia di fatto, in Dir. fam. pers., 1979, p. 1339).
Di tale istituto va infatti subito notata la dubbia estrapolabilità (nell’ambito del nostro ordinamento) dal sistema più
generale del regime legale matrimoniale, e la sua separabilità dalla comunione immediata, della quale costituisce un
corollario. A ciò si aggiunga ancora la constatazione che questa particolare forma di comunione si presenta come
indissolubilmente legata al momento dello scioglimento del regime legale, di cui presuppone pertanto la possibilità di
una esatta individuazione. Individuazione che, diversamente dalla famiglia legittima, per la quale il codice prevede
un’elencazione tassativa di casi (sull’argomento della tassatività dell’elencazione delle cause di scioglimento ex art. 191
c.c. v. per tutti OBERTO, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1664 ss.), dovrebbe qui essere compiuta dal giudice
di volta in volta e a posteriori, mediante un’analisi del comportamento delle parti, che in occasioni del genere, si sa, è
sovente tutt’altro che univoco. Per una veloce rassegna sul tema (anteriore al 1995) v. anche CARAVAGLIOS, La
comunione legale, Milano, 1995, p. 1215 ss.
(14) Cfr. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 53 ss.
44
«consacrazione» e di pubblicità del rapporto.
La principale difficoltà sembra costituita non tanto dalla (ovvia) necessità di individuare caso
per caso la sussistenza del rapporto, quanto piuttosto da quella di appurare l’esatto momento di
inizio e di cessazione del medesimo, posto che con questi termini andrebbero raffrontate le date
d’acquisto dei singoli beni. La caduta in comunione opererebbe automaticamente al momento
dell’effettuazione di ciascun acquisto ai sensi dell’art. 177, lett. a) e d), c.c., e ciò anche nell’ipotesi
in cui quest’ultimo risultasse formalmente compiuto da uno solo dei conviventi, secondo lo schema
che va sotto il nome di coacquisto automatico ( 15). Sennonché, al convivente pretermesso (a
differenza del coniuge) verrebbe a mancare ogni forma di tutela nei confronti di atti pregiudizievoli
dei suoi diritti posti in essere dal partner. Quest’ultimo aspetto è un’evidente (e inevitabile)
conseguenza dell’impossibilità di dare alla comunione legale tra conviventi un rilievo verso
l’esterno, dal momento che essa, a differenza del matrimonio, non si fonda su di un fatto certo e
verificabile dai terzi. Tant’è vero che nessuno dei fautori dell’estensibilità in via analogica della
normativa matrimoniale s’azzarda a suggerire l’applicazione della regola dell’annullabilità degli atti
(di disposizione) in materia di beni immobili o mobili registrati compiuti da un coniuge senza il
necessario consenso dell’altro (art. 184 c.c.). Costoro sono anzi costretti a ripiegare sul principio
risarcitorio previsto dal terzo comma della disposizione ultima citata ( 16), così prospettandone
un’estensione analogica «di secondo grado», posto che il medesimo si riferisce testualmente al solo
caso dei beni mobili non registrati.
D’altronde non va dimenticato che i singoli aspetti del regime giuridico della comunione
legale appaiono inscindibilmente connessi l’uno all’altro: la tutela «esterna» del regime, costituita
dalla sua opponibilità ex lege, anche in difetto di espressa risultanza dello stesso sui pubblici registri
mobiliari e immobiliari, è proprio lo strumento attraverso cui il legislatore ha voluto perseguire il
risultato di attribuire alla comunione la massima capacità espansiva ( 17) e non può essere pertanto
avulsa dal sistema della comunione, senza snaturarne irrimediabilmente l’essenza. L’opponibilità
verso i terzi della contitolarità sostanziale dei diritti acquistati da uno solo dei conviventi durante il
rapporto sarebbe dunque concepibile – in relazione ai beni immobili o mobili registrati – solo a
condizione che l’altro proponesse, una volta cessato il rapporto, una domanda di divisione,
tempestivamente trascritta ai sensi dell’art. 2646, secondo comma, c.c., ovvero dell’art. 2653, n. 4,
c.c., se si volesse ritenere ancora in vigore (oltre che estensibile ai conviventi) la norma in esame
( 18). In costanza di convivenza egli potrebbe invece agire contro il partner per ottenere una
pronunzia di accertamento della comproprietà, sempre avendo cura di trascrivere immediatamente
la relativa domanda. In caso di preventiva trascrizione da parte del terzo non rimarrebbe che la
tutela risarcitoria e la relativa azione ex art. 2043 c.c. potrebbe venire proposta anche contro il terzo,
nel caso di mala fede di quest’ultimo ( 19).
Tra le ragioni che s’oppongono all’estensione analogica del regime di comunione legale ai
conviventi non va poi trascurata l’esigenza di garantire certezza non solo verso i terzi, ma anche tra
le parti. In particolare appare necessario tutelare non solo il «convivente debole», ma anche quello
che, avendo operato un acquisto in un periodo «incerto», vuoi all’inizio, vuoi alla fine della
relazione, deve essere posto nella condizione di sapere con sicurezza se il bene sia personale ovvero
comune e dunque se egli possa o meno liberamente disporne.
Appare poi opportuno evitare che quello dei partners il quale abbia già deciso di por fine al
rapporto, ma che è a conoscenza del fatto che l’altro sta per realizzare a proprio nome un
determinato acquisto, rinvii intenzionalmente la rottura, o addirittura si precostituisca
fraudolentemente le prove di una persistenza del ménage al momento dell’acquisto. Inutile dire che
(15) Su cui OBERTO, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 711 ss.
(16) Cfr. ad es. PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, cit., p. 291.
(17) Cfr. F. CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, in Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da Cicu
e Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1979, p. 72; OBERTO, Comunione legale, regimi convenzionali e
pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ., 1988, II, p. 195; ID., La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2171 ss.
(18) Per la negativa cfr. OBERTO, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, cit., p. 227 s.;
ID., La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 1903 s.
(19) Cfr. Cass., 8 gennaio 1982, n. 76, in Giur. it., 1982, I, 1, c. 1547, con nota di CIRILLO; in Foro it., 1982, I, c.
394, con nota di PARDOLESI; Cass., 15 giugno 1988, n. 4090, in Resp. civ. prev., 1988, p. 984, con nota di BENACCHIO;
in Foro it., 1989, I, c. 1568; in Riv. not., 1989, II, p. 1260.
45
i problemi di cui sopra troverebbero rimedio se si ipotizzasse una forma di registrazione del
rapporto paramatrimoniale, analogamente a quanto suggerito da svariate esperienze straniere e
proposto da alcune iniziative legislative ( 20).
Tutto ciò premesso, va però ribadito che rimane aperta la via della stipula di un contratto di
convivenza, che consenta ai partners dell’unione libera di produrre, nei soli rapporti interni, effetti
lato sensu assimilabili a quelli propri del regime descritto dagli artt. 177 ss. c.c. ( 21). Resta fermo
che la conclusione di un siffatto accordo non potrà desumersi se non dalla chiara estrinsecazione di
una volontà negoziale in tal senso, non potendosi accogliere da noi la tesi, pure prospettata in
dottrina, della ammissibilità di un implied cohabitation agreement ( 22). È poi chiaro che ai
conviventi saranno applicabili gli ordinari rimedi di diritto comune per il caso di esercizio
congiunto di un’attività economica, con il conseguente riconoscimento di una società di fatto,
qualora ne sussistano i presupposti ( 23).
2. Le principali proposte di legge sul tappeto circa i regimi patrimoniali dei conviventi.
Diverso discorso è quello che può svolgersi de iure condendo, circa l’opportunità di estendere
ai conviventi un qualche regime di comunione (legale o ordinaria che sia). La via, già percorsa
(peraltro non senza contraddizioni e ripensamenti) all’estero da talune legislazioni ( 24), è stata
tentata più volte senza esito da numerosi progetti di legge di casa nostra: a partire, ad esempio, da
(20) Sul tema v. per tutti E. QUADRI, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, in Fam. dir., 1999, p. 502 ss.;
CALÒ, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim; CARICATO, La legge tedesca sulle convivenze
registrate, in Familia, 2002, p. 501 ss.; AA. VV., Matrimonio, Matrimonii, a cura di Brunetta d’Usseaux e D’Angelo,
Milano, 2000, passim; IEVA, I contratti di convivenza. Dalla legge francese alle proposte italiane, in Riv. notar., 2001,
p. 37 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, in Familia, 2002, p. 970 ss.; per un’ampia panoramica delle questioni sul
tappeto cfr. inoltre BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago familiare, in Riv. dir. civ., 2002, p. 509 ss.; v. poi anche
VITUCCI, Dal dì che nozze… Contratto e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité, in Familia, 2001, p. 713 ss.;
FERRANDO, Il matrimonio, cit., p. 192 ss.; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 424 s.; BONINI BARALDI, Le nuove
convivenze tra discipline straniere e diritto interno, cit., passim. Per un’esaustiva analisi comparativa cfr. pure BOELEWOELKI e FUCHS (a cura di), Legal Recognition of Same-Sex Couples in Europe, Antwerp – Oxford – New York, 2003;
all’interno di quest’ultimo lavoro collettaneo si potrà segnalare, sul tema specifico della discriminazione nei confronti
delle coppie omosessuali e delle relative dichiarazioni a livello internazionale, il contributo di YTTERBERG, All Human
Beings are Equal, but Some are More Equal than Others–Equality in Dignity without Equality in Rights, ivi, p. 1 ss.
(21) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 262 ss.; ID., I contratti di convivenza tra
autonomia privata e modelli legislativi, in Contratto e impresa/Europa, 2004, p. 54 ss.
(22) Sul tema v. amplius OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 215 ss.
(23) Sul tema si fa rinvio a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 222 ss., 227 ss.; ID., Le
prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 32 ss., anche per una panoramica circa l’utilizzo, nelle
esperienze straniere, dell’istituto della società civile.
(24) È il caso (oltre che, come ovvio, degli ordinamenti che conoscono come legale un regime di tipo comunitario ed
in cui la disciplina matrimoniale viene sic et simpliciter richiamata dalle norme sul partenariato registrato, come
avviene, ad esempio, nei Paesi scandinavi) della Germania, ove il Gesetz über die Eingetragene Lebenspartnerschaft
(Lebenspartnerschaftsgesetz - LPartG) del 16 febbraio 2001, che aveva originariamente previsto per i conviventi
omosessuali che avessero provveduto alla registrazione della loro unione, l’apposito regime della
Ausgleichsgemeinschaft, modellato sulla falsariga della Zugewinngemeinschaft, ha, a seguito della riforma di cui alla l.
6 febbraio 2005, adottato quale Güterstand (cfr. il nuovo § 6), peraltro derogabile, proprio quello previsto quale regime
legale per i coniugi, con espresso rinvio ai §§ 1363, comma secondo, nonché da 1364 a 1390 BGB. In Francia, invece,
l’originaria versione dell’art. 515-5 c.c. fr., introdotto dalla l. nº 99-944 del 15 novembre 1999, che stabiliva, in difetto
di apposita convenzione derogativa, per i concubins pacsés la regola dell’indivision (cioè della comunione ordinaria, e
non di quella legale tra i coniugi) per gli acquisti compiuti, anche separatamente, è stata sostituita, per effetto della l. n°
2006-728 del 23 giugno 2006, in vigore dal 1° gennaio 2007, da una nuova formulazione che prevede come applicabile
par défaut il regime di separazione dei beni (cfr. il primo comma della citata norma, a termini del quale «Sauf
dispositions contraires de la convention visée au deuxième alinéa de l’article 515-3, chacun des partenaires conserve
l’administration, la jouissance et la libre disposition de ses biens personnels»). La medesima soluzione era stata adottata
ancor prima in Spagna dalla legge catalana n. 10/1998, del 15 luglio 1998, de uniones estables de pareja (cfr. l’art. 3,
secondo comma, u.p., per le unioni eterosessuali, così come l’art. 22, ultimo comma, u.p., per le unioni omosessuali,
secondo cui «cada miembro de la pareja conserva el dominio, el disfrute y la administración de sus bienes»;
analogamente dispone l’art. 6 della legge aragonese n. 6/1999, del 25 marzo 1999, relativa a parejas estables no
casadas).
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quello che, presentato già nel corso della X legislatura, prevedeva l’applicazione ai conviventi more
uxorio degli artt. 177, 178, 179 e 194 c.c. ( 25), per venire (sempre, naturalmente, a titolo di mero
esempio, atteso il gran numero di iniziative legislative sul tema di questi ultimi anni, rimaste,
peraltro, tutte lettera morta) alle proposte presentate, in tempi più recenti, nel corso della XIV
legislatura, tra cui spiccava quella dal titolo «Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni
di fatto» ( 26).
Il regime patrimoniale envisagé da questa iniziativa si fondava (cfr. art. 11, commi terzo e
quarto) sulla libertà di scelta tra il regime di «comunione legale regolata dal libro I, titolo VI, capo
VI, sezione III, del codice civile» (regime che – a ben vedere – non si sarebbe più potuto definire,
nel caso di specie, come «legale», nascendo dall’accordo delle parti, anziché «per default» dalla
legge) e quello di «comunione convenzionale regolata dal libro I, titolo VI, capo VI, sezione IV, del
codice civile» (con il problema, non risolto dalla proposta, costituito dal fatto che una semplice
«scelta» avrebbe dovuto dar luogo ad un regime che avrebbe dovuto essere dettagliatamente
regolato da una serie di intese, le quali a loro volta non avrebbero potuto essere contenute se non in
un apposito contratto). In caso di mancata effettuazione della scelta, il regime sarebbe stato quello
separatista. Un’analoga proposta coeva prevedeva invece l’alternativa «secca» tra il regime di
separazione dei beni (che si sarebbe dovuto «presumere» in mancanza di scelta) e un non meglio
precisato «regime di comunione per i beni che verranno acquistati a titolo oneroso posteriormente
alla conclusione del contratto», di cui il progetto non si degnava neppure di specificare la natura
(appartenenza alla species definita dagli artt. 177 ss. c.c., o a quella di cui agli artt. 1100 ss. c.c.?)
( 27).
Nella XV legislatura, poi, il richiamo agli artt. 177, 178, 179 e 194 c.c. tornava a comparire
nell’ambito di un progetto in cui l’accertamento delle eventuali pretese delle parti sarebbe divenuto
tecnicamente impossibile, dal momento che il rinvio alle cennate norme sarebbe stato inserito in
una disposizione la cui prima parte contraddittoriamente avrebbe attribuito al giudice (secondo
modelli propri dei sistemi di common law) il potere di procedere alla divisione del patrimonio
«indipendentemente dalla titolarità o dal possesso dei beni, tenuto conto della consistenza del
patrimonio costituito dalle parti con apporti di lavoro professionale e casalingo». Ciò che appare
evidentemente inconciliabile con l’applicazione delle norme codicistiche citate, così come
conformate dal nostro legislatore ( 28).
Assai più realisticamente, un’altra proposta della medesima XV legislatura prevedeva per
default il regime di separazione, in caso di mancata scelta per il regime di comunione legale ex artt.
(25) Si tratta della proposta presentata il 9 ottobre 1987, d’iniziativa dei Deputati Calvanese e altri, recante il n. 1647
e intitolata «Nuove norme in materia di diritto di famiglia». Essa, agli artt. 13 e 15, prevedeva testualmente quanto
segue:
«Art. 13 (Patrimonio della famiglia di fatto).
I conviventi more uxorio possono rivolgersi al giudice per chiedere la divisione del patrimonio costituito durante la
convivenza.
Il giudice valuta, indipendentemente dalla titolarità o dal possesso dei beni, la consistenza del patrimonio costituito
dai conviventi con apporti di lavoro professionale, o casalingo, ai sensi degli articoli 177, 178 e 179 del codice civile,
come sostituiti rispettivamente dagli articoli 56, 57 e 58 della legge 19 maggio 1975, n. 151.
Il giudice procede alla divisione del patrimonio ai sensi dell’art. 194 del codice civile, come sostituito dall’art. 73
della legge 19 maggio 1975, n. 151».
«Art. 15 (Facoltà per i conviventi di escludere il regime di comunione e la costituzione di impresa familiare)
Le disposizioni di cui agli articoli 13 e 14 della presente legge non si applicano se i conviventi concordano su ciò
con atto pubblico di cui all’articolo 2699 del codice civile».
(26) Cfr. la proposta «Disciplina del patto civile di solidarietà e delle unioni di fatto», n. 3296/XIV/C, presentata il 21
ottobre 2002 di iniziativa dell’On. Grillini.
(27) Cfr. l’art. 230-nonies c.c., secondo la proposta n. 4334/XIV/C («Disciplina del patto civile di solidarietà»),
presentata il 2 ottobre 2003, di iniziativa dell’On. Rivolta e altri.
(28) Cfr. il progetto di legge n. 1563/XV/C, presentato il 2 agosto 2006 dall’On. De Simone e altri, che proponeva
l’introduzione di un art. 455-septies c.c., il cui quarto comma era del seguente tenore: «Nel caso di separazione, le parti
procedono di comune accordo alla divisione patrimonio comune. Nel caso in cui l’accordo non sia possibile il giudice,
indipendentemente dalla titolarità o dal possesso dei beni, tenuto conto della consistenza del patrimonio costituito dalle
parti con apporti di lavoro professionale e casalingo ai sensi degli articoli 177, 178 e 179, decide sulle conseguenze
patrimoniali procedendo alla divisione del patrimonio ai sensi dell’articolo 194, fatta salva la possibilità per le parti
agire per il risarcimento del danno eventualmente subìto».
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177 ss. o di quello di comunione convenzionale ex artt. 210 s. c.c. ( 29). Significativamente il d.d.l.
governativo sui diritti delle persone conviventi (c.d. «di.co.») ( 30), risalente al medesimo torno di
tempo, appariva muto sul punto, mentre la successiva proposta del Presidente della Commissione
giustizia del Senato (sui c.d. «c.u.s.») ( 31) avanzava l’idea della (necessaria) indicazione, nel
vagheggiato «contratto di unione solidale», dell’intenzione delle parti di assoggettare o meno «alle
norme della comunione in generale i beni acquistatati a titolo oneroso successivamente alla
stipulazione del contratto stesso, anche quando l’acquisto sia compiuto da una sola delle parti».
Formulazione, questa, da cui sembra dato arguire che il regime proposto avrebbe dovuto essere
quello di una comunione ordinaria (con possibile determinazione convenzionale delle quote in
misura diversa da quella paritaria, imposta, come noto, dall’art. 210 c.c.), che si sarebbe però
costituita ex lege anche in caso di acquisto da parte di uno solo dei conviventi. La proposta non
chiariva, peraltro, quale avrebbe dovuto essere il regime applicabile nel caso di silenzio del
contratto sul punto ( 32).
Analoga poliedricità di posizioni caratterizza le proposte presentate nel corso della XVI
legislatura. Così, mentre il progetto conosciuto con l’acronimo «Di.do.re.» ( 33) ignora puramente e
semplicemente ogni questione attinente al regime patrimoniale della coppia convivente, la proposta
d’iniziativa dei Deputati Bernardini e altri ( 34) mira all’introduzione, tra l’altro, di un art. 455undecies c.c. così concepito: «(Regime patrimoniale dell’unione civile). – (1) All’atto di
costituzione dell’unione civile le parti possono scegliere mediante convenzione ai sensi dell’articolo
455-sexies il regime patrimoniale della stessa. (2) Nel caso che, per qualsiasi ragione, si ometta di
stipulare la convenzione di cui al primo comma, si presume scelto il regime di separazione legale».
Tra le convenzioni previste dal proposto art. 455-sexies c.c. non compare, almeno espressamente,
quella costitutiva di un regime di comunione, anche se l’ampia formulazione del primo comma
della stessa («Con convenzione stipulata ai sensi delle disposizioni del presente codice e delle leggi
speciali vigenti in materia di contratti, le parti dell’unione civile possono disciplinare gli aspetti
patrimoniali della stessa, nonché i termini per la cessazione unilaterale di cui al terzo comma
dell’articolo 455-octies e le conseguenze patrimoniali di tale cessazione») induce a ritenere
senz’altro possibile un accordo diretto alla creazione di un regime comunitario, sulla falsariga di
quanto proposto dallo scrivente. Il problema sarebbe, semmai, e ancora una volta, quello di
comprendere se tale comunione sarebbe opponibile ai terzi, né sul punto potrebbe essere d’aiuto
quanto disposto dal capoverso del proposto art. 455-octies, che si limita a legare al rispetto delle
regole dell’atto pubblico l’opponibilità della convenzione, senza spendere una parola sul
delicatissimo tema della relativa pubblicità.
Non molto dissimilmente da tale ultima iniziativa, un’altra proposta, d’iniziativa dei Deputati
(29) Cfr. art. 8, terzo, quarto e quinto comma, della proposta n. 33/XV/C, presentata il 28 aprile 2006 d’iniziativa
degli On. Grillini e altri.
(30) Cfr. il d.d.l. di iniziativa governativa n. 1339/XV/S. Per alcune osservazioni su tale progetto cfr. GRASSO,
Tiziano o Duchamp: sul disegno di legge in tema di «Diritti e doveri delle persone stabilmente conviventi», in Fam.
pers. succ., 2007, p. 723 ss.
(31) Cfr. il disegno di legge dal titolo «Contratti di unione solidale», presentato il 12 luglio 2007 dal Sen. Salvi,
Presidente della Commissione Giustizia del Senato, al comitato ristretto ed approvato dalla Commissione predetta il 4
dicembre 2007. Per alcune osservazioni su tale progetto cfr. LAURINI, Le convivenze extra-familiari. Una proposta di
disciplina rispettosa dei principi etici e costituzionali, in Notariato, 2008, p. 362 s.
(32) Cfr. il testo del proposto art. 455-octies c.c.: «Regime patrimoniale. Nel contratto di unione solidale le parti
devono indicare se intendono assoggettare alle norme della comunione in generale i beni acquistatati a titolo oneroso
successivamente alla stipulazione del contratto stesso, anche quando l’acquisto sia compiuto da una sola delle parti».
(33) Cfr. il progetto di legge dal titolo «Disciplina dei diritti e dei doveri di reciprocità dei conviventi», presentato l’8
ottobre 2008 dai Dep. Barani ed altri (n. 1756/XVI/C). Analogo silenzio contraddistingue la proposta n. 1862/XVI/C,
d’iniziativa dei Deputati Mantini ed altri, dal titolo «Norme sulla responsabilità delle persone stabilmente conviventi, in
materia di successione, obblighi alimentari, prestazione di lavoro, permesso di soggiorno, contratti di locazione,
assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica, assistenza in caso di ricovero, internamento o detenzione,
nonché di decisioni in materia di salute e in caso di morte», presentata il 3 novembre 2008.
(34) Cfr. la proposta n. 1065/XVI/C («Modifiche al codice civile e altre disposizioni in materia di unione civile»),
presentata il 15 maggio 2008.
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Lucà ed altri ( 35), suggerisce (cfr. il relativo art. 4) la previsione della «separazione dei beni, in
conformità alla disciplina stabilita dal libro primo, titolo VI, capo VI, sezione V, del codice civile»
quale «regime patrimoniale legale tra le persone componenti l’unione di fatto». Nessuna menzione è
fatta della possibilità che le parti convengano un regime diverso, anche se l’espresso richiamo al
concetto di «regime patrimoniale legale» induce a ritenere che non siano esclusi regimi patrimoniali
di fonte convenzionale, ivi compreso, quindi, un eventuale regime comunistico ( 36).
Più preciso sul punto il disegno di legge d’iniziativa della Sen. Franco ( 37), che, all’art. 8,
comma terzo, prevede che «I contraenti dell’unione civile possono scegliere tra i seguenti regimi
patrimoniali: a) la comunione legale, come regolata dal libro I, titolo VI, capo VI, sezione III, del
codice civile; b) la comunione convenzionale, come regolata dal libro I, titolo VI, capo VI, sezione
IV, del codice civile». Di tale opzione andrebbe fatta menzione nel registro dello stato civile,
mentre, in difetto di scelta, il regime sarebbe quello della separazione dei beni, con conseguente
applicazione delle «norme del libro I, titolo VI, capo VI, sezione V, del codice civile».
3. La soluzione proposta e l’applicazione delle norme in tema di ripetizione dell’indebito.
Lasciando le prospettive de iure condendo, va subito ricordato che la possibilità per il
convivente (così come per il coniuge in regime di separazione dei beni) di rivendicare in tutto o in
parte la titolarità dei beni acquistati dal partner sulla base di contributi forniti (in tutto o in parte)
dall’altro è destinata a naufragare di fronte alla necessità di dimostrare la sussistenza (per idoneo
atto scritto) di una situazione di interposizione di persona, vuoi reale, vuoi fittizia (38).
(35) Cfr. la proposta n. 1858/XVI/C («Riconoscimento giuridico di diritti, responsabilità e facoltà alle persone che
fanno parte di unioni di fatto e delega al Governo per la disciplina della successione tra le medesime»), presentata il 3
novembre 2008.
(36) Il citato proposto art. 4 si preoccupa invece di prevedere, al comma terzo, che «Gli atti di disposizione
patrimoniale effettuati tra le persone componenti l’unione di fatto in proporzione ai rispettivi redditi, alle rispettive
sostanze e alle rispettive capacità lavorative costituiscono adempimento di obbligazione naturale, in conformità alla
disciplina stabilita dall’articolo 2034 del codice civile». Il successivo comma quarto stabilisce, poi, che «Salvo prova
contraria, si presume che gli atti di disposizione patrimoniale eccedenti la misura individuata dal comma 3 costituiscono
donazioni, per la cui validità sono richiesti i requisiti stabiliti dal libro secondo, titolo V, del codice civile». Siffatte
disposizioni raccolgono, ancora una volta, la più risalente proposta «privata», redatta dallo scrivente il 28 febbraio
2000, nell’ambito dei lavori di una riunione di esperti convocata presso il Dipartimento per le Pari Opportunità della
Presidenza del Consiglio dei Ministri, inviata in pari data all’Ufficio Legislativo del suddetto Dipartimento e pubblicata
nel proprio sito web il 10 giugno 2000 (cfr. OBERTO, Proposta di legge sul tema: disposizioni in materia di accordi di
convivenza,
disponibile
alla
seguente
pagina
web:
http://www.geocities.com/CollegePark/Classroom/6218/convivenza/proposta.htm, anche in OBERTO, Famiglia e
rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002, p. 1057 ss.). L’art. 3 della proposta dello scrivente era stato
letteralmente ripreso dalla proposta presentata il 13 giugno 2001 di iniziativa dell’On. Belillo (n. 795/XIV/C) ed è stato
quindi trasposto nel progetto qui menzionato e presentato nella XVI legislatura (sul tema v. anche OBERTO, I contratti
di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 87 ss.).
(37) Cfr. la proposta n. 91/XVI/S («Norme sul riconoscimento giuridico delle unioni civili»), comunicata alla
Presidenza il 29 aprile 2008.
(38) L’argomento è stato sviluppato in OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 133 ss. e, per il
regime di separazione dei beni tra coniugi, in ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, in Il
codice civile. Commentario fondato e già diretto da Schlesinger, continuato da Busnelli, Milano, 2005, p. 339 ss. Per
una decisione di merito che fa applicazione di tali principi alla famiglia di fatto cfr. App. Genova, 17 novembre 2007 in
Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito. La decisione, ribaltando la sentenza di primo grado, che aveva
dichiarato la ex convivente comproprietaria dell’immobile acquistato dal solo compagno durante il ménage, con denaro
anche della donna, ha affermato doversi rilevare «che l’accertamento che il compratore effettivo sia persona diversa da
quella indicata nel contratto (come nella specie era stato appunto addotto) comporta l’applicazione della normativa sulla
simulazione, con la conseguenza che la domanda rivolta ad ottenere la dichiarazione di nullità per simulazione relativa
(interposizione fittizia) di un contratto di vendita immobiliare non può essere accolta ove l’accordo simulatorio non
risulti per atto scritto a norma dell’art. 1350 c.c. (cfr. Cass., 3937/1977; 13459/2006; 21111/2004), e ciò anche tra
coniugi (Cass., 1482/1995); - nel caso in esame, tuttavia, non risulta formulata dalle parti alcuna domanda di tal genere,
né addotta alcuna prova di accordo simulatorio al fine della dimostrazione del negozio dissimulato, né tantomeno risulta
effettuata la produzione in giudizio di alcun atto contenente la controdichiarazione sottoscritta dalle parti o comunque
dalla parte contro la quale è esibita (cfr. Cass., 12487/2007; 21111/2004), sicché, in difetto dei requisiti richiesti dalla
legge per la prova del trasferimento immobiliare in capo alla L., le domande da lei proposte debbono essere respinte».
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Ciò premesso, va ricordato che chi scrive ha prospettato una soluzione che, muovendo dalla
comparazione con i sistemi di common law e con i rimedi adottati negli altri principali sistemi
europei ( 39), ha concluso per l’applicazione (una volta che l’indagine da svolgersi sul singolo caso
concreto dovesse escludere altre cause giustificatrici dello spostamento patrimoniale: dal mandato,
al negozio fiduciario, al mutuo, alla donazione, alla liberalità indiretta) dell’azione di ripetizione
dell’indebito, pure essa, a ben vedere, espressione della regola generale del divieto di arricchimento
senza giusta causa.
Con riguardo, infatti, a tale tipo di prestazioni, va chiarito che, se è vero che pure queste,
come quelle di facere, dovrebbero ritenersi irripetibili per effetto dell’obbligazione naturale in
adempimento della quale sono state compiute, resta sempre il fatto che il mancato reciproco
adempimento, da parte dell’accipiens, alla sua obbligazione naturale determina un arricchimento
ingiustificato in capo a quest’ultimo ( 40). Trova così risposta, senza la necessità di ricorrere a istituti
quali il trust o la presupposizione, anche il grave problema del riequilibrio tra quelle prestazioni che
dovessero risultare «sbilanciate» per effetto di una imprevista rottura del legame: si pensi al
contributo effettuato per l’acquisto della casa o dell’automobile destinate a un uso comune, anche se
«intestate» a uno solo dei conviventi, immediatamente seguito da un’improvvisa «fuga» del
beneficiario dell’esborso.
Ma la conclusione non muta allorquando, pur in presenza di un reciproco adempimento delle
obbligazioni naturali, il vantaggio attribuito da una parte all’altra esorbiti dai limiti di una normale
contribuzione e pertanto esuli dallo schema dell’obbligazione naturale. In tal caso, infatti,
trattandosi di prestazione di dare, e non sussistendo il rischio di pervenire ad uno «scambio
imposto», il peculiare rimedio che dovrà trovare applicazione sarà quello dell’indebito oggettivo
( 41), pure esso, come si è appena chiarito, espressione della regola generale del divieto di
arricchimento senza giusta causa ( 42).
La soluzione proposta, come si ricorderà ( 43), non si può estendere alle prestazioni di facere,
per le quali la volontà del prestatore di impoverirsi può raggiungere immediatamente e senza
ostacoli formali l’effetto desiderato di dar luogo ad un arricchimento (definitivo e irrecuperabile)
nella controparte. Nonostante ciò, come detto, il rimedio dell’arricchimento può essere indicato
come risolutivo in tutta una serie di ipotesi, che si sono a tempo debito illustrate ( 44).
Va pertanto ribadito come, nelle sue multiformi applicazioni, il rimedio dell’arricchimento
ingiustificato possa ergersi a regime patrimoniale della famiglia di fatto, concorrendo con quello,
parallelo, dell’obbligazione naturale, ed eventualmente integrandolo. Invero, mentre quest’ultimo
sarà da solo sufficiente a governare i casi in cui il reciproco dovere morale e sociale di
contribuzione abbia ricevuto concreta e bilaterale attuazione, il primo entrerà in gioco per ristabilire
l’equilibrio alterato di fatto dalla esecuzione soltanto unilaterale dell’obbligazione naturale,
contributiva e reciproca, tra conviventi.
Entra invece, inspiegabilmente, nel merito dell’accertamento della fonte dei versamenti (peraltro per respingere, per
difetto di prova, la rivendica dell’ex convivente che, nel contraddittorio con l’erede della partner defunta, asseriva aver
integralmente pagato il prezzo dell’immobile acquistato dal medesimo in comunione con la compagna e con questa per
parti uguali cointestato) Trib. Salerno, 21 giugno 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito.
(39) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 130 ss.; ID., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 73 ss., nonché, per i coniugi in regime di separazione dei beni, ID., Il regime di
separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, p. 347 ss.
(40) L’attribuzione è infatti stata eseguita sulla base dell’affidamento, noto alla controparte, o comunque da questa
conoscibile, che del bene conseguentemente acquistato entrambi avrebbero usufruito.
(41) Sempre che, naturalmente, il negozio non sia qualificabile alla stregua di una donazione (e di questa siano stati
rispettati i requisiti formali).
(42) In giurisprudenza un’apertura verso tale soluzione sembra rinvenibile in Cass., 5 dicembre 1970, n. 2565: «Nel
caso di mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili nullo per mancanza della forma scritta richiesta ad
substantiam, colui che ha conferito l’incarico non può rivendicare il bene acquistato dal mandatario e neppure può agire
contro di questi per il risarcimento dei danni conseguenti al mancato ritrasferimento, in quanto non è sorto l’obbligo alla
prestazione sostitutiva di quella dedotta in contratto. Compete al mandante, in tal caso, solo il diritto di ripetere dal
mandatario ciò che gli ha prestato per la esecuzione del mandato, in base alle norme sul pagamento dell’indebito».
(43) V. supra, Cap. II, §§ 4 e 6.
(44) V. supra, Cap. II, §§ 3 e 6.
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Potrà ancora aggiungersi che proprio la via della ripetizione dell’indebito è percorsa da una
parte della giurisprudenza di merito. Così, ad esempio, la corte d’appello di Genova, nel 2001, ha
riconosciuto la parziale (nei limiti, ovviamente, della prova raggiunta sui versamenti effettuati)
fondatezza della domanda proposta da un ex convivente che aveva corrisposto somme per
l’acquisto e la ristrutturazione di un alloggio che la ex convivente «si era poi intestato» ( 45).
Come si diceva poc’anzi, occorrerà però che nella specie non si possano ravvisare gli estremi
di un’altra operazione negoziale. Il tema è stato approfondito altrove ( 46). In questa sede potrà solo
richiamarsi il problema dei rapporti con alcuni peculiari istituti come la donazione o il mutuo,
secondo l’impostazione seguita da una serie di casi giurisprudenziali, che si andranno ora ad
esaminare.
4. Il ricorso allo schema causale della donazione (e le relative difficoltà).
È indiscutibile che un inquadramento nell’ambito della donazione permetterebbe, almeno il
più delle volte, la ripetizione dei finanziamenti erogati per acquisti (o miglioramenti) di beni di
proprietà esclusiva dell’altro sotto il profilo della nullità per mancato rispetto della forma solenne
che, nei casi di cui si discute, non viene quasi mai rispettata.
Ma una simile ipotesi ricostruttiva appare viziata alla radice.
Innanzi tutto il richiamo a tale istituto non sarebbe ipotizzabile, per effetto della definizione di
cui all’art. 769 c.c., in relazione alle prestazioni consistenti in meri servizi, ma andrebbe limitato ai
soli diritti trasferiti (nella maggior parte dei casi: la proprietà di somme di denaro), oppure a
obbligazioni eventualmente assunte (si pensi a un’espromissione conclusa con il debitore del
partner). In secondo luogo appare comunque assai problematico, per non dire impossibile, rinvenire
la presenza di un animus donandi in quegli atti diretti, sì, a rendere possibile un acquisto
esclusivamente in capo al ricevente, ma relativamente a beni che, nell’intenzione del «donante»,
sarebbero destinati a servire a entrambi: si pensi al caso classico della casa d’abitazione, o
dell’appartamento di villeggiatura, di un’automobile, del camper per le vacanze, ecc.
Su questa linea sembra essersi posta, ancorché in maniera ancora assai timida, una parte
della giurisprudenza chiamata a pronunziarsi in materia di attribuzioni tra coniugi effettuate durante
il periodo della convivenza. Ad esempio, in un caso risalente al 1980, l’attore agiva per la
restituzione di beni intestati alla moglie, in base alla considerazione che questi, oggetto di
donazione indiretta, dovevano essere destinati a vantaggio della famiglia e alla normale convivenza
dei coniugi. I giudici del merito avevano escluso che incombesse alla donataria l’onere di provare lo
spirito di liberalità del donante, per poter trattenere i beni in questione nonostante la sopravvenuta
separazione giudiziale tra i coniugi, ritenendo che, per contro, spettasse al donante dimostrare che la
donazione fosse preordinata o subordinata alle pretese finalità, divenute irrealizzabili o frustrate
dalla donataria. La Corte Suprema confermò questa decisione, così ammettendo, quanto meno in
astratto, la possibilità di dimostrare l’insussistenza di un animus donandi per effetto della prova che
i beni oggetto dell’attribuzione sarebbero stati «destinati a vantaggio della famiglia e alla normale
convivenza dei coniugi» ( 47).
Andrà ancora aggiunto che, successivamente, una pronunzia di merito ha mostrato di
(45) Cfr. App. Genova, 26 marzo 2001, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito. In motivazione si
legge, tra l’altro, che «Si attaglia alla fattispecie l’ipotesi disciplinata dall’art. 2033 c.c.: il mancato verificarsi dello
scopo vanifica la causa del pagamento, ed è, siccome è noto, assolutamente irrilevante, per l’applicazione della norma
in parola, che la causa del negozio manchi all’origine, o venga meno successivamente (così per tutte Cass. 88/4708) per
essere il negozio annullato, sottoposto a condizione o risolto, giacché il difetto della causa solutionis rileva in sé e per
sé, legittimando il solvens alla ripetizione. Deve conseguentemente concludersi che la teorica impostazione della
domanda principale dell’appellante è corretta mentre infondata è la pretesa riconvenzionale della [ex convivente], di
vedersi riconosciute prestazioni per vitto e alloggio, stante quanto si è premesso sull’applicabilità dell’art. 2034 c.c. alle
prestazioni di siffatta natura tra ex conviventi» (potrà aggiungersi, per la cronaca, che il relativo procedimento di
cassazione è stato dichiarato estinto per riununzia agli atti con ordinanza della Corte Suprema in data 7 ottobre 2005, n.
19520).
(46) OBERTO, opp. locc. ultt. citt.
(47) Cass., 13 maggio 1980, n. 3147, in Giust. civ., 1980, I, p. 2515.
51
accogliere siffatta impostazione, con riguardo ad un caso presentatosi proprio in relazione ad una
famiglia di fatto. In proposito, invero, il Tribunale di Firenze ( 48) ha ritenuto di dover escludere il
ricorso alla figura della donazione, in relazione ai contributi per un acquisto immobiliare effettuato
da uno solo dei partners «mancando lo spirito di liberalità, laddove si debba ritenere, in assenza di
prova contraria, che colui che investe il proprio danaro in un bene primario come la casa del proprio
nucleo familiare ciò faccia, nella previsione che di quella casa continuerà ad usufruire e non con
l’intento di donarla alla sola altra parte».
A riprova di queste conclusioni si pone infine anche la corale esclusione del carattere
donativo e liberale in relazione a tutte quelle attribuzioni effettuate senza corrispettivo in seno ad
una regolamentazione pattizia della crisi coniugale ( 49). Il tutto, poi, in un clima più generale in cui
la giurisprudenza sembra muoversi (anche al di là delle ipotesi di attribuzioni endofamiliari) con i
piedi di piombo nel dedurre la presenza di un animus donandi semplicemente sulla base di
fenomeni di intestazione o cointestazione ( 50).
5. Il ricorso allo schema causale del mutuo (e le relative difficoltà).
Quanto al mutuo sarà il caso di ricordare quella decisione di legittimità del 2010 ( 51), la quale
ha escluso che la semplice consegna al venditore del prezzo di un immobile acquistato dal partner
possa rappresentare la prova della stipula di un mutuo tra i conviventi per l’importo versato, atteso
che – potendo una somma di danaro essere consegnata per varie cause – la contestazione, ad opera
dell’asserito mutuatario (nella specie: l’ex compagno), della sussistenza di un’obbligazione
restitutoria impone all’attore in restituzione (nella specie: la ex convivente) di dimostrare per intero
il fatto costitutivo della sua pretesa, onere questo che si estende alla prova di un titolo giuridico
implicante l’obbligo della restituzione, mentre la deduzione di un diverso titolo, ad opera del
convenuto, non configurandosi come eccezione in senso sostanziale, non vale ad invertire l’onere
della prova.
Per una sentenza in un certo senso «parallela», relativamente ad una coppia coniugata, potrà
citarsi quella decisione di legittimità del 2009 ( 52), che ha confermato la decisione d’appello, la
quale aveva rigettato l’istanza di condanna, presentata da una coppia di coniugi nei confronti dell’ex
genero, alla restituzione della somma corrisposta alla figlia, all’epoca dei fatti ancora coniugata con
il resistente, per l’acquisto della casa coniugale. La Corte ha qui ribadito che, specie in un contesto
caratterizzato dalla solidarietà familiare, era necessaria una prova «specifica e precisa» circa i
(48) Cfr. Trib. Firenze, 12 febbraio 2000 (inedita, n. 594/2000, in procedimento n. 15/1997 R.G., A. c/ M.), su cui v.
in dettaglio già OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 93 s. e ora supra, Cap. II, § 6.
(49) Cfr. al riguardo Cass., 27 ottobre 1972, in Foro it., 1973, I, c. 1878; in Giust. civ., 1973, I, p. 221; ivi, 1974, I, p.
173, con nota di BERGAMINI, Appunti sull’autonomia dei coniugi di disporre l’assetto dei loro rapporti patrimoniali in
concomitanza della separazione consensuale ed in vista di un futuro divorzio; in Giur. it., 1974, I, 1, c. 810; in Dir. fam.
pers., 1973, p. 60; in Riv. notar., 1973, II, p. 495; Cass., 11 maggio 1984 , in Giust. civ. Mass. 1984; Cass., 21 dicembre
1987, in Riv. dir. civ. 1989, II, p. 233; in Riv. notar. 1989, p. 210; in Giust. civ. 1988, I, p. 1237; Cass., 23 dicembre
1988, in Giur. it., 1989, I, 1, c. 1320; Cass., 17 giugno 1992, in Dir. fam. pers., 1993, p. 70; App. Torino, 9 maggio
1980, in Giur. it., 1981, I, 2, c. 19; per una disamina più approfondita delle varie questioni e per l’individuazione della
causa delle attribuzioni qui ricordate si fa rinvio per tutti a OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, Milano, 1999, p.
634 ss.
(50) Significativo è il caso risolto da Cass., 14 gennaio 2010, n. 468, secondo cui «La possibilità che costituisca
donazione indiretta l’atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata
presso un istituto di credito – qualora la predetta somma, all’atto della cointestazione, risulti essere appartenuta a uno
solo dei contestatari può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l’esistenza dell’animus
donandi, consistente nell’accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro
scopo che quello della liberalità. (Nella specie il giudice di appello aveva escluso l’esistenza dell’animus donandi non
ravvisabile in astratto nella delegata da parte del titolare di un conto corrente a terzi per operare sul conto medesimo e
sul deposito titoli, ancorché senza obbligo di rendiconto, essendo la delega stata conferita in occasione del ricovero del
delegante in ospedale a distanza di meno di un mese della morte e ciò – aveva sottolineato il giudice a quo – per
l’evidente ragione che non avrebbe più potuto effettuare operazioni bancarie per le sue gravi condizioni di salute. In
applicazione del principio di cui sopra la Suprema corte ha confermato sul punto la pronuncia di merito)».
(51) Cfr. Cass., 22 aprile 2010, n. 9541.
(52) Cfr. Cass., 7 aprile 2009, n. 8386.
52
termini della restituzione del debito, non essendo all’uopo sufficienti le testimonianze acquisite, che
non avevano «saputo dare alcuna attendibile indicazione circa i tempi della pattuita restituzione e
della regolazione circa gli interessi».
La presenza di un contratto di mutuo nella dazione di una somma per l’acquisto di un bene è
stata talora riconosciuta dalla giurisprudenza di merito, peraltro sulla base di risultanze istruttorie
piuttosto chiare in questo senso.
Così, ad esempio, il tribunale di Vicenza ha stabilito nel 2010 che, sulla base delle prove
raccolte durante la fase istruttoria (deposizioni testimoniali sostanzialmente convergenti, lineari
spiegazioni rese dall’attrice, comportamento processuale del convenuto), poteva dirsi
adeguatamente comprovato l’assunto di una ex convivente, la quale asseriva di avere concesso a
favore del suo compagno la somma complessiva di lire 20 milioni, tra il 1995 ed il 1996, «a titolo di
prestito per finanziarne l’esecuzione di lavori edili di sistemazione all’immobile in proprietà che il
medesimo doveva sostenere».
Aggiunge significativamente la decisione che non «osta, a livello logico, a tale ricostruzione
dei fatti, ed alla loro qualificazione giuridica conforme agli assunti attorei, la circostanza che la [ex
convivente], nonostante l’entità della somma data in prestito, non si fosse fatta rilasciare alcuna
ricevuta o ricognizione di debito sottoscritta dall’accipiens, risultando invero del tutto coerente con
le condizioni soggettive delle parti all’epoca che le elargizioni di danaro avvenissero sulla fiducia,
essendo a quel tempo [i contendenti] legati da un risalente vincolo sentimentale» ( 53).
(53) Trib. Vicenza, 28 settembre 2010, in Leggi d’Italia professionale, archivio Corti di merito.
53
CAPITOLO IV
CONTRATTI DI CONVIVENZA E
CONTRATTI TRA CONVIVENTI:
CONFIGURABILITA’ E LICEITA’
SOMMARIO: 1. La negozialità dei conviventi tra autonomia privata e modelli legislativi. – 2. La
negozialità tra conviventi nella giurisprudenza italiana. – 3. Contratti di convivenza e
obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio. – 4. Contratti di convivenza e buon
costume. – 5. Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale. –
6. La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza.
1. La negozialità dei conviventi tra autonomia privata e modelli legislativi.
Nel corso degli ultimi decenni (ma comunque già da epoca precedente all’esplosione del tema
delle convivenze registrate, dei patti di solidarietà e dell’estensione del matrimonio alle coppie
omosessuali), si sono andate facendo sempre più numerose le pubblicazioni straniere, di taglio sia
teorico che pratico, nelle quali si è suggerito alle coppie conviventi more uxorio di pianificare la
vita in comune mediante la stipulazione di apposite convenzioni (cohabitation contracts,
Partnerschaftsverträge, contrats de ménage) ( 1), proponendo talora anche veri e propri modelli e
«contratti tipo» ( 2). La preventiva soluzione per via negoziale dei numerosi e complessi problemi
(1) È impossibile in questa sede fornire un’esauriente elencazione dei contributi stranieri sull’argomento. L’autore si
permette pertanto, premesso qualche cenno bibliografico essenziale, di fare richiamo a OBERTO, I regimi patrimoniali
della famiglia di fatto, cit., p. 8 ss., 151 ss.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit.,
p. 17 ss. (per alcuni spunti in tema di rilievo delle prestazioni di lavoro nell’ambito dei contratti di convivenza cfr.
anche ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 101 ss.). I rinvii valgono non soltanto per
un’integrazione dei riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, ma anche per l’approfondimento di quelle considerazioni
teoriche che, in seno ad un lavoro prevalentemente rivolto all’esame della contrattualistica, non possono trovare
un’esaustiva trattazione. La maggiore attenzione al fenomeno dei contratti di convivenza è stata dedicata dagli studiosi
di common law. Per quanto concerne la dottrina statunitense v. per tutti WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage:
Tradition and Change, in California Law Review, 62, 1974, p. 1249 ss.; GLENDON, State, Law and Family - Family
Law in transition in the United States and Western Europe, Amsterdam, 1977; WEITZMAN e LENOU, The marriage
contract, spouses, lovers and the law, New York, 1981; WEYRAUCH e KATZ, American Family Law in Transition,
Washington, 1983, p. 171 ss.; BRUCH, Nonmarital Cohabitation in the Common Law Countries: A Study in JudicialLegislative Interaction, in The American Journal of Comparative Law, 1981, p. 221 ss.; SMITH, Property Rights arising
from Relationship of Couple Cohabiting without Marriage, in American Law Review, 3, 4th 13, p. 20 ss.
(2) Cfr. in particolare, BARTON, Cohabitation Contracts. Extra-marital partnership and law reform, Aldershot,
1985, p. 37 ss., 59 ss.; WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1250 ss. In Belgio e nei Paesi Bassi la
tematica ha ricevuto consistenti contributi da parte delle associazioni notarili. Nel primo paese, infatti, è stata addirittura
l’associazione nazionale del notariato a provvedere alla redazione di un formulario-tipo (v. Feitelijke scheiding,
Feitelijk samenleven, Koninklijke Federatie van Belgische notarissen - Notariele dagen, Gent, 1978; il testo in francese
è allegato alla pubblicazione dell’UNION INTERNATIONALE DU NOTARIAT LATIN, Problèmes juridiques du couple non
marié, Amsterdam, 1987, p. 20; successivamente cfr. la relazione belga di CASMAN e DE WYNTER presentata dalla
suddetta associazione al XVIII congresso dell’Unione Internazionale del Notariato latino, tenuto a Montréal dal 21 al 26
settembre 1986 sul tema «Influenza del diritto pubblico sul diritto di famiglia» di cui riferisce MAZZOCCA, La famiglia
di fatto. Realtà attuale e prospettive, Roma, 1989, p. 8 ss.), mentre in Olanda risulta che, ad esempio, già in un periodo
assai remoto, tra il 1981 e il 1983, ben dodicimila contratti di convivenza erano stati rogati dai notai (v. i riferimenti in
VAN DE WIEL, Cohabitation outside Marriage in Dutch Law, in EEKELAAR e KATZ, Marriage and Cohabitation in
Contemporary Societies, Toronto, 1980, p. 226, nota 21). In Germania già dal 1978 KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft,
Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, Stuttgart, 1978, p. 128 ss. ha proposto un
modello di contratto destinato a regolare la vita in comune dei conviventi, da redigersi per iscritto e con l’assistenza di
un legale. In esso l’autore suggerisce di menzionare chiaramente la meritevolezza degli scopi perseguiti, che non
dovrebbero concernere (per fugare sospetti di illegittimità per contrarietà al buon costume) soltanto la creazione e il
mantenimento di una relazione di tipo sessuale. L’accordo potrebbe regolare aspetti quali eventuali apporti reciproci, il
regime dei beni, rimborsi spese, modalità di un’eventuale rottura, ecc. Sempre nello stesso Paese, nel 1986,
LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, in Münchener Vertragshandbuch, 4, Bürgerliches Recht,
München, 1986, p. 927 ss., ha prospettato addirittura due varianti del Partnerschaftsvertrag, di cui una destinata alla
54
patrimoniali della famiglia di fatto non costituisce neppure una novità assoluta, posto che l’analisi
storica evidenzia testimonianze di contrats de concubinat, in Francia, e cartas de mancebía e
compañería, in Spagna, risalenti addirittura ai secoli XIII e XIV ( 3).
Questa via viene del resto espressamente consentita (si direbbe, anzi, quasi caldeggiata) dal
legislatore in taluni sistemi di common law, che da almeno un trentennio hanno avvertito la
necessità di intervenire al riguardo ( 4), mentre estremamente significativo appare il fatto che proprio
nella direzione della negozialità, e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici
conseguenti alla sola sussistenza del rapporto di fatto, si muovano le soluzioni normative che, in
vari paesi dell’Europa, si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi giuridici posti dalle
convivenze omosessuali ( 5).
Proprio con specifico riguardo a tale peculiare aspetto, sia consentito subito aggiungere che,
convivenza prodromica al matrimonio (Ehe auf Probe) e l’altra rivolta invece a regolamentare un’unione avente un
carattere più stabile; ancora più di recente cfr. ampiamente GRZIWOTZ, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche
Lebensgemeinschaft, München, 1994, passim.
(3) Cfr. AUBENAS, Cours d’histoire du droit privé, VI, Aix en Provence, 1958, p. 35, che riferisce di un contrat de
concubinat predisposto in Bonifacio (Corsica) dal notaio genovese De Porta nel 1287. La cosiddetta Carta de Avila del
1361, sotto il titolo «carta de mancebía e compañería», costituisce poi un eloquente esempio di contratto tra un uomo e
la sua barragana, con cui il primo concedeva a quest’ultima determinati diritti sulle sue rendite, oltre che quelli di
spartire con lui «pan e mesa e cuchiello por todos los días que (...) visquiéredes» (FOSAR BENNLOCH, Las uniones
libres, in Estudios de derecho de familia, III, Barcelona, 1985, p. 15).
(4) Cfr. il De Facto Relationships Act (1984) del Nuovo Galles del Sud, in Australia (il testo normativo, variamente
rimaneggiato, si chiama ora Property [Relationships] Act – 1984; cfr. inoltre il già ricordato Family Law Amendment
Act 2000, in vigore in Australia dal 1° gennaio 2001, su cui cfr. PANFORTI, Gli accordi patrimoniali fra autonomia
dispositiva e disuguaglianza sostanziale. Riflessioni sul Family Law Amendment Act 2000 Australiano, in Familia,
2002, p. 149 ss.), nonché il Family Law Reform Act, entrato in vigore il 31 marzo 1978 nello stato dell’Ontario
(Canada), su cui cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 11 s.
(5) Come rilevato da SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 418 ss., la prima legge che si è occupata del fenomeno è stata
quella danese, del 1989; essa ha istituito il modello della registered partnership, per cui la registrazione dell’unione
produce i medesimi effetti giuridici del matrimonio, salvo quanto previsto in materia di adozione e di potestà dei
genitori. Tale modello è stato seguito negli anni successivi dalla maggioranza dei Paesi europei, a cominciare da
Norvegia (1993), Svezia (1994), Islanda (1996), Paesi Bassi (1998), Germania (2001), Gran Bretagna (2004), etc. Tali
ordinamenti hanno quindi optato per una tendenziale equiparazione tra le unioni familiari eterosessuali e quelle
omosessuali. Una siffatta evoluzione delle normative nazionali è stata condivisa dal Parlamento europeo, le cui
risoluzioni (su cui v. infra, Cap. X, § 5), finalizzate alla rimozione di ogni forma di discriminazione verso le persone
omosessuali, richiedono un maggiore impegno della Commissione e degli Stati membri nella tutela delle relazioni
familiari fra persone dello stesso sesso, attraverso l’apertura del matrimonio civile o di uno «strumento giuridico
equivalente». Un certo numero di altri Paesi non ha seguito la via dell’equiparazione, preferendo forme di tutela
autonome e settoriali. Si tratta, ad es., delle normative introdotte verso la fine degli anni Novanta dello scorso secolo in
Belgio (1998), Catalogna (1998) e Francia (1999). Queste si basavano, generalmente, sulla parificazione delle coppie di
conviventi; in tal modo, senza alcuna equiparazione all’istituto del matrimonio, veniva offerta alle coppie di persone
dello stesso sesso la medesima tutela prevista per i conviventi. Questo tipo di soluzione appare però incamminata sul
viale del tramonto, atteso che successivamente, in un numero ormai crescente di Paesi europei ed extraeuropei, anche
quest’ottica è stata superata e si è proceduto ad una radicale riforma della normativa del matrimonio civile, ammettendo
alla celebrazione dell’atto anche due persone dello stesso sesso: v. infra, Cap. X, § 3. Sul tema delle convivenze
omosessuali e delle relative soluzioni legislative all’estero cfr. E. QUADRI, Problemi giuridici attuali della famiglia di
fatto, cit., p. 502 ss.; CALÒ, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim; CARICATO, La legge tedesca
sulle convivenze registrate, cit., p. 501 ss.; AA. VV., Matrimonio, Matrimonii, cit., passim; IEVA, I contratti di
convivenza. Dalla legge francese alle proposte italiane, cit., p. 37 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, in Familia,
2002, p. 970 ss. Per un’ampia panoramica delle questioni sul tappeto cfr. inoltre VITUCCI, Dal dì che nozze… Contratto
e diritto della famiglia nel pacte civil de solidarité, in Familia, 2001, p. 713 ss.; BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago
familiare, in Riv. dir. civ., 2002, I, p. 509 ss.; FERRANDO, Il matrimonio, cit., p. 192 ss.; OBERTO, I contratti di
convivenza tra autonomia privata e modelli legislativi, cit., p. 17 ss. Sul Civil Partnership Act 2004 del Regno Unito v.
per tutti la pagina web seguente: http://www.legislation.gov.uk/ukpga/2004/33/contents. Sulla ley spagnola 13/2005 (de
1 de julio, por la que se modifica el Código Civil en materia de derecho a contraer matrimonio), v. la pagina web
seguente: http://civil.udg.es/normacivil/estatal/familia/L13-05.htm. Sul tema del riconoscimento in Italia dei matrimoni
celebrati all’estero da cittadini italiani del medesimo sesso v. SCHLESINGER, Matrimonio tra individui dello stesso sesso
contratto all’estero; BONINI BARALDI, Il matrimonio fra cittadini italiani dello stesso sesso contratto all’estero non è
trascrivibile: inesistente, invalido o contrario all’ordine pubblico?, note a Trib. Latina, 10 giugno 2005, in Fam. dir.,
2005, p. 411 ss.
55
come dimostrato da tempo in altra sede ( 6), nessun dubbio può sorgere neppure da noi
sull’ammissibilità pure in questo caso di contratti di convivenza, negli stessi limiti valevoli per le
coppie eterosessuali ( 7). Ciò appare tanto più vero alla luce non solo della creazione, nel campo del
diritto di famiglia, di uno «spazio giudiziario comune europeo» ( 8), ma anche della costituzione in
fieri, nel nostro continente, di un vero e proprio «spazio giuridico comune», con l’avvicinamento
delle legislazioni sostanziali envisagé dalle conclusioni del Consiglio Europeo svoltosi a Tampere il
15 e 16 ottobre 1999, nonché dai successivi programmi, denominati «dell’Aja» e «di Stoccolma»
( 9): dati, questi, alla luce dei quali l’Italia non può più ostinarsi a rimanere sorda alle voci che da
ogni parte (del resto) d’Europa si levano a tutela delle convivenze tra persone del medesimo sesso
che desiderino sottoporre i loro rapporti ad effetti giuridici.
Di fronte a questo scenario, la dottrina italiana appariva sino a non molti anni fa assai più
riluttante. Non è certo questa la sede nella quale si possa sviluppare per esteso l’argomento dei
contratti di convivenza e dei contratti tra conviventi more uxorio. Sia consentito in proposito solo
un rinvio agli appositi studi dello scrivente ( 10) su di un tema che oggi come oggi non può più dirsi
«abbastanza inesplorato in Italia» ( 11) e sul quale anche nel nostro Paese cominciano a registrarsi
significative aperture ( 12), al punto che persino la giurisprudenza, dopo anni di silenzio ( 13), ha
(6) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 6 ss., nota 9; ID., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 125 ss.; ID., Contratto e famiglia, in AA. VV., Trattato del contratto, a cura di Roppo,
VI, Interferenze, a cura di Roppo, Milano, 2006, p. 349 ss.
(7) WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1255, 1273 ss.; in generale sui problemi giuridici delle
convivenze tra persone del medesimo sesso negli Stati Uniti v. SHAPIRO e SCHULTZ, Single-sex Families: The Impact of
Birth Innovations upon traditional Family Notions, in Journal of Family Law, 24 (1985-86), 271 ss. Per una panoramica
più recente v. la voce Same-sex marriage in the United States della Wikipedia, disponibile all’indirizzo web seguente:
http://en.wikipedia.org/wiki/Same-sex_marriage_in_the_United_States. Cfr. inoltre DUPUIS, Same-sex marriage, legal
mobilization, & the politics of rights, New York, 2002; GERSTMANN, Same sex marriage and the Constitution,
Cambridge, 2004; TRIANTAFILLOU, Same Sex Marriage–and Divorce!: Cutting-Edge Challenges and Controversies in
Nontraditional Families, Boston, 2004.
(8) Sul tema, per la dottrina italiana, cfr. M. FINOCCHIARO, Dopo l’entrata in vigore prevista il 1° marzo 2001
cadono i precedenti accordi internazionali, in Guida dir., 5 agosto 2000, p. 113 ss.; BONOMI, La nuova disciplina
europea della competenza e del riconoscimento in materia matrimoniale e di potestà dei genitori, in Riv. dir. int., 2001,
p. 298 ss.; GIACALONE, Le conclusioni del Consiglio europeo di Tampere in vista della semplificazione e
dell’accelerazione processuale: il punto sui lavori in tema di cooperazione giudiziaria civile nell’Unione europea,
relazione presentata all’incontro di studio sul tema «I procedimenti semplificati ed accelerati nelle controversie civili ed
amministrative nei paesi dell’U.E.», organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura e svoltosi a Roma dal 15 al
17 aprile 2002; UCCELLA, La prima pietra per la costruzione di un diritto europeo delle relazioni familiari: il
regolamento n. 1347 del 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia
matrimoniale e in materia di potestà dei genitori sui figli di entrambi i coniugi, in Giust. civ., 2001, p. 2005 ss.; FIGONE,
Brevi note sul Regolamento del Consiglio CE n. 1347/2000, in Fam. dir., 2002, p. 101 ss.; OBERTO, Il Regolamento del
Consiglio (Ce) n. 1347/2000 del 29.5.2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni
in materia matrimoniale e di responsabilità parentale nei confronti dei figli comuni, in Contratto impresa/Europa,
2002, p. 361 ss.; ID., Schema ipertestuale di una relazione sul tema: Il Regolamento del Consiglio (Ce) n. 1347/2000
del 29 maggio 2000 relativo alla competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia
matrimoniale e di responsabilità parentale nei confronti dei figli comuni, dal 26 aprile 2002 al seguente sito web:
http://giacomooberto.com/regolamentouetorino/schema.htm; ID., Schema ipertestuale di una relazione sul tema: La
cooperazione giudiziaria in materia civile nell’ambito dei paesi dell’Unione Europea. La rete europea di formazione
giudiziaria, dal 4 luglio 2002 al seguente sito web:
http://giacomooberto.com/csm/uditori/cooperazionecivile.htm (a questi scritti si fa rinvio anche per i richiami alla
dottrina straniera).
(9) Su cui v. per tutti OBERTO, Breve prontuario per le cause che presentano elementi di estraneità (questioni
processuali), § 24.b., disponibile alla pagina web seguente: http://giacomooberto.com/prontuario.htm#par24.
(10) OBERTO, La famiglia di fatto nel diritto comparato, in Giur. it., 1986, p. 110; ID., I regimi patrimoniali della
famiglia di fatto, cit., p. 7 ss., 151 ss.; ID., Contratti di convivenza e contratti tra conviventi «more uxorio», in Contr.
impr., 1991, p. 369 ss.; ID., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer Berücksichtigung des
italienischen Rechts, in FamRZ, 1993, p. 1 ss.
(11) In questi termini v. invece FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. dir. proc. civ., 1994,
p. 737 ss.; ID., Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da
Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 461 ss.
(12) Per la precisione andrà aggiunto che, nella dottrina italiana, i primi spunti in senso favorevole alla soluzione
negoziale dei problemi legati alla famiglia di fatto si trovano già in GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto,
cit., p. 150 ss., 156 ss.; dopo lo sviluppo di questa prospettiva nelle analisi sopra citate dello scrivente, v., per una
56
finito con il recepire tale prospettiva, lasciando definitivamente da parte le remore e i dubbi
derivanti da possibili considerazioni d’ordine pubblico o di buon costume ( 14), apertamente
riconoscendo che, come declamato decenni or sono dallo scrivente, anche questa materia non può
inserirsi se non in quella che potrebbe definirsi come «stagione della negozialità endofamiliare»
( 15).
Stagione della negozialità che non risponde solo allo stimolo proveniente, come si detto, dalla
comparazione, ma che costituisce il frutto di chiare prese di posizione a livello internazionale. Basti
ricordare in questa sede che il riferimento al ricorso agli strumenti dell’autonomia negoziale
compare in alcuni degli interventi e delle relazioni al (e delle conclusioni del) XXXIII Congresso
valutazione in senso positivo di quest’ottica, BERNARDINI, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione
sentimentale, cit., p. 204 ss.; DOGLIOTTI, voce Famiglia di fatto, cit., p. 195 s.; BUSNELLI e SANTILLI, La famiglia di
fatto, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, VI, Padova, p. 779 ss.; V.
CARBONE, Autonomia privata e rapporti patrimoniali tra coniugi (in crisi), Nota a Cass., 22 gennaio 1994, n. 657, in
Fam. dir., 1994, p. 146 ss.; FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», loc. cit.; QUADRI, Rilevanza attuale
della famiglia di fatto ed esigenze di autoregolamentazione, cit., 1994, p. 301 ss.; D’ANGELI, La tutela delle convivenze
senza matrimonio, cit., p. 86; GIGLIOTTI, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figlio naturale:
rilevanza dell’accordo parentale sulle condizioni della «separazione», in Dir. fam. pers., 1995, I, p. 611 ss.; MORELLI,
Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996, p. 65 s.; ANGELONI, Autonomia privata e potere di
disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 509 ss.; FRANCESCHELLI, Rapporto di fatto, in Digesto disc. priv.,
sez. civ., XVI, Torino, 1997, p. 283; FRANZONI, Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, loc. cit.; A.
FUCCILLO, Accordi di convivenza: alcuni aspetti problematici, in Famiglia e circolazione giuridica, a cura di Fuccillo,
Milano, 1997, p. 68 ss., 79 ss.; FERRANDO, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella
famiglia di fatto, cit., p. 183 ss.; E. QUADRI, Problemi giuridici attuali della famiglia di fatto, cit., p. 503 ss.;
TOMMASINI, op. cit., p. 499 ss.; AA. VV., Matrimonio, Matrimonii, cit., passim; BALESTRA, Gli effetti della dissoluzione
della convivenza, in Riv. dir. priv., 2000, p. 468 ss.; CALÒ, Le convivenze registrate in Europa, Milano, 2000, passim;
SOLAINI, La famiglia di fatto, in AA. VV., La famiglia, a cura di Cendon, Torino, 2000, p. 493 ss.; ALAGNA, Famiglia di
fatto e famiglia di diritto a confronto: spunti in tema di rapporti bancari, in Dir. fam. pers., 2001, 281 ss.; DOGLIOTTI,
La forza della famiglia di fatto e la forza del contratto. Convivenza more uxorio e presupposizione, Nota a Trib.
Savona, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2001, p. 529 ss.; IEVA, I contratti di convivenza. Dalla legge francese alle proposte
italiane, cit., p. 37 ss.; PINORI e TRAVERSO, Finisce l’amore, si va dal giudice, Milano, 2001, passim; SPADAFORA,
Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, cit., passim; VITUCCI, Dal dì che nozze… Contratto e diritto
della famiglia nel pacte civil de solidarité, cit., p. 713 ss.; AA. VV., Convivenza e situazioni di fatto, in AA. VV.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, prima edizione, Milano, 2002, p. 803 ss.;
BALESTRA, Un recente convegno francese sulle convivenze fuori dal matrimonio, in Familia, 2002, p. 439 ss.;
BUSNELLI, La famiglia e l’arcipelago familiare, cit., p. 509 ss.; CARICATO, La legge tedesca sulle convivenze registrate,
cit., p. 501 ss.; MARELLA, Il diritto di famiglia fra status e contratto: il caso delle convivenze non fondate sul
matrimonio, in AA. VV., I contratti di convivenza, a cura di MOSCATI e ZOPPINI, cit., p. 71 ss.; ZOPPINI, Tentativo
d’inventario per il «nuovo» diritto di famiglia: il contratto di convivenza, in AA. VV., I contratti di convivenza, a cura di
Moscati e Zoppini, cit., p. 26 ss.; FERRANDO, Il matrimonio, cit., p. 230; ZATTI, Familia, familiae – Declinazione di
un’idea, in Familia, 2002, p. 9 ss., 337 ss.; ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 143 ss., 149; ID.,
La famiglia di fatto, cit., p. 185 ss.; BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 220 ss.; ID., Le obbligazioni naturali,
cit., p. 220; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 414 ss.; ASTIGGIANO, La possibilità di contrattualizzazione dei rapporti
patrimoniali tra i partners che compongono la famiglia di fatto, Nota a Trib. Savona, 24 giugno 2008, in Fam. dir.,
2009, p. 385 ss.; ANNUNZIATA e IANNONE, op. cit., p. 131 ss.
Contra TRABUCCHI, Pas par cette voie s’il vous plaît!, cit., 349 ss.; PROSPERI, A proposito di una recente
monografia in tema di «famiglia di fatto», in Rass. dir. civ., 1984, p. 203 ss.; difficilmente valutabile è, invece, la
posizione di CARAVAGLIOS, La comunione legale, cit., 1246 ss., che, da un lato, sembra voler rigettare la soluzione
contrattuale (peraltro identificandola tout court con la proposta dello scrivente di adozione di un regime di comunione
di fonte convenzionale, proposta che dell’opzione negoziale non costituisce se non una delle molteplici, ed ampiamente
illustrate, alternative) e dall’altro presenta lo schema di un articolato contratto di convivenza.
(13) Anche se, come si è cercato di dimostrare in altra sede (cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 152), non è da escludere che, già diversi anni or sono, alcuni contratti di convivenza siano, in realtà,
effettivamente giunti all’esame dei giudici, celati, però, sotto le apparenze di contratti di mantenimento vitalizio, come
risulta confermato dalla presenza in talune ipotesi di un impegno, assunto dal vitaliziante, di assistere non soltanto
materialmente, ma anche moralmente il vitaliziato per tutta la vita. Sul tema cfr. anche infra, Cap. V, § 3.
(14) V. le sentenze citate ai §§ 4 e 5 di questo Cap.
(15) V. ad es. Anche ARCANI, op. cit., p. 889 ss.
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Nazionale del Notariato ( 16), similmente, del resto, a quanto già avvenuto nel corso della riunione di
Oslo (18 e 19 giugno 1985) della seconda commissione di studi dell’Unione Internazionale
Magistrati ( 17), la quale dichiarava «souhaitable que les concubins puissent régler contractuellement
au moins leurs droits de propriété». Al 1988 risale poi la raccomandazione del Consiglio d’Europa
diretta a impedire che i contratti tra conviventi vengano considerati nulli dalle relative disposizioni
nazionali per il solo fatto di essere stati stipulati tra persone «living together as an unmarried
couple» ( 18).
Solo così, infatti, appare oggi possibile superare, da un lato, quella soglia minimale di tutela
costituita dal richiamo allo schema delle obbligazioni naturali ( 19) e, dall’altro, le persistenti
incertezze in tema di arricchimento ingiustificato ( 20).
Venendo dunque al nucleo centrale dell’argomento, vale a dire all’individuazione delle
clausole che possono caratterizzare un contratto di convivenza, andrà subito detto che l’espressione
«contratto di convivenza» non viene qui assunta a designare l’accordo con cui due persone si
impegnano a convivere more uxorio: ogni vincolo di carattere personale sfugge, come si vedrà, alla
regolamentazione pattizia. La terminologia abbraccia piuttosto tutte quelle intese di contenuto
patrimoniale che i conviventi – indipendentemente dalla presenza o meno di un impegno formale a
condividere la futura esistenza, ma comunque sul presupposto di quest’ultima – possono concludere
al fine di regolare i rispettivi rapporti economici, sottoponendo a regole prefissate la soluzione degli
eventuali problemi che potrebbero insorgere durante il ménage. Poste tali premesse, appare chiaro
che eventuali dubbi in punto meritevolezza di tutela (cfr. art. 1322 c.c.) sembrano superabili sulla
base della considerazione che degna di protezione appare ogni pattuizione la quale si prefigga di
evitare liti future e di fornire un minimo di sicurezza economica al partner «debole» ( 21).
Secondariamente, può aggiungersi che gli aspetti salienti di tali convenzioni dovrebbero
essere costituiti dall’assunzione di un obbligo reciproco di contribuzione nell’interesse della
famiglia (ovvero dell’obbligo di mantenimento a carico di uno dei conviventi verso l’altro), con la
specificazione delle relative modalità qualitative e quantitative, nonché dall’eventuale regime degli
acquisti da operarsi congiuntamente o separatamente. Non vanno del resto neppure trascurate le
intese relative alla gestione della potestà genitoriale, sia nella fase fisiologica (cfr. l’art. 317-bis c.c.,
che richiama l’art. 316 c.c.), che in quella patologica del rapporto. Su quest’ultimo punto, i non
chiarissimi elementi desumibili dall’art. 317-bis c.c., su cui si avrà modo di tornare più in dettaglio,
(16) V. CONSIGLIO NAZIONALE DEL NOTARIATO, La famiglia di fatto ed i rapporti patrimoniali tra conviventi, Atti
del XXXIII Congresso Nazionale del Notariato, Napoli, 29 settembre – 2 ottobre 1993, Casa Editrice Stamperia
Nazionale, 1994, p. 102, 107, 302.
(17) Su cui v. OBERTO, La famiglia di fatto nel diritto comparato, cit., p. 110. Le conclusioni delle commissioni di
studio dell’Unione Internazionale dei Magistrati sono disponibili all’indirizzo web seguente: http://www.iaj-uim.org/.
(18) Cfr. la Recommendation N° R(88)3 of the Committee of Ministers to Member States on the validity of contracts
between persons living together as un unmarried couple and their testamentary dispositions (adottata dal Comitato dei
Ministri il 7 marzo 1988, durante la 415a riunione dei Vice-Ministri), del seguente tenore: «The Committee of
Ministers, under the terms of Article 15.b of the Statute of the Council of Europe,
Considering that the aim of the Council of Europe is to achieve a greater unity between its members, in particular by
promoting the adoption of common rules in legal matters;
Considering that many problems concerning persons living together as an unmarried couple may be resolved by the
conclusion of contracts between such persons or by testamentary dispositions made by one in favour of the other;
Noting that in some countries such contracts and testamentary dispositions might be considered to be contrary to
public policy or morality,
Recommends that the governments of member states take the necessary measures:
i. to ensure that contracts relating to property between persons living together as an unmarried couple, or which
regulate matters concerning their property either during their relationship or when their relationship has ceased, should
not be considered to be invalid solely because they have been concluded under these conditions;
ii. to apply the same principle to testamentary dispositions». Per un richiamo ai possibili problemi d’ordine pubblico
e buon costume cfr. infra, §§ 4 e 5, in questo Cap.
(19) V. supra, Cap. II, §§ 1 s.
(20) V. supra, Cap. II, §§ 3-6 e Cap. III, per totum.
(21) Sul richiamo all’art. 1322 c.c. v., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 151 ss.; per la dottrina successiva, in senso conforme, cfr. ANGELONI, Autonomia privata e potere di
disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 509 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, cit., p. 978 s.; per un cenno in
giurisprudenza cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit. alla nota seguente; Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994,
in Dir. fam. pers., 1995, p. 611, con nota di GIGLIOTTI.
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hanno ricevuto conferma dal rilievo sicuramente attribuito agli accordi sulla prole in sede di crisi
familiare dalla legge sull’affidamento condiviso (l. 8 febbraio 2006, n. 54), le cui disposizioni sono
estensibili anche alle questioni attinenti «ai figli di genitori non coniugati». Ne risulta così
ulteriormente esaltata la negozialità tra conviventi more uxorio.
2. La negozialità tra conviventi nella giurisprudenza italiana.
La giurisprudenza italiana ha avuto modo ormai in diversi casi di soffermarsi sull’argomento,
sempre chiaramente esprimendosi nel senso dell’ammissibilità, con espressa esclusione della
paventata (e sovente messa in campo proprio da una delle parti, successivamente «pentitasi»
dell’impegno assunto) violazione di norme imperative, ordine pubblico o buon costume, ed anzi
sovente espressamente ammettendo che l’accordo era meritevole di tutela da parte dell’ordinamento
giuridico, ex art. 1322 c.c.
Esaminando più da vicino in casi più rilevanti, potrà dirsi che, già nel leading case del 1993,
la Cassazione ( 22) ebbe a stabilire che la convivenza more uxorio tra persone in stato libero non
costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali
(nella specie, comodato) collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non
disciplinata dalla legge, non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura
che la vietino, né con l’ordine pubblico, né con il buon costume (inteso come il complesso dei
principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico), bensì ha rilevanza
nel vigente ordinamento per l’attribuzione di potestà genitoriali nell’ipotesi disciplinata dall’art.
317-bis c.c., come nella normativa della legge 27 luglio 1978, n. 392 in ordine alla successione nel
contratto di locazione (così come risultante a seguito della nota decisione della Consulta del 1988).
Da notare che, nella specie, si trattava di un comodato concesso «vita natural durante» dal
convivente «forte» alla convivente «debole» su di un immobile, che l’uomo cercava (vanamente) di
far venir meno, una volta cessata l’affectio tra le parti.
Nelle decisioni di merito si è affermata la validità della concessione di un usufrutto vitalizio in
favore della convivente ( 23), così come di un diritto reale di abitazione sulla casa familiare ( 24),
nonché di un patto diretto ad impegnare entrambe le parti ad effettuare contribuzioni per il ménage
in misura assolutamente paritaria, pur in presenza di una capacità reddituale differenziata ( 25).
(22) Cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, in Nuova giur. civ. comm., 1994, I, p. 339, con nota di BERNARDINI; in Corr.
giur., 1993, p. 947, con nota di V. CARBONE; in Vita notar., 1994, p. 225.
(23) Trib. Savona, 7 marzo 2001, in Fam. dir., 2001, p. 529, con nota di DOGLIOTTI.
(24) Cfr. Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, in Gius, 2003, p. 1506, in obiter.
(25) Trib. Savona, 29 giugno 2002, in Fam. dir., 2003, p. 596, con nota di FERRANDO. Nella specie, una donna (una
volta tanto – come si vedrà tra breve – sembra essere stato il partner di sesso femminile ad assumere la veste di
«contraente forte…», peraltro come nel già citato caso risolto successivamente da Cass., 13 marzo 2003, n. 3713, a
riprova del fatto che anche la nostra società sta, forse, cambiando) aveva convenuto in giudizio il suo ex compagno,
chiedendone la condanna al pagamento della somma di € 5.164,57 (10.000.000 di lire) sulla base di una causa petendi
ricostruita nei termini seguenti dal giudicante: «poiché, contrariamente agli impegni e alle obbligazioni assunte in sede
di stipula del contratto di convivenza more uxorio, il convenuto, al contrario dell’attrice, non avrebbe partecipato al
soddisfacimento delle esigenze della famiglia di fatto in misura eguale e paritaria». Esperita istruttoria orale (è da
supporsi, in forza del disposto del capoverso dell’art. 2721 c.c.), il tribunale dà atto in sentenza che, secondo quanto
dichiarato da un teste, le parti «in presenza dello stesso teste, avevano verbalmente e concordemente stabilito che
avrebbero partecipato in misura eguale alle spese inerenti la famiglia di fatto». Posto, dunque, di fronte ad un’azione di
adempimento di un contratto di contribuzione tra conviventi more uxorio, il tribunale applica analogicamente l’art. 143
c.c. per «correggere» il contenuto del contratto che, anche alla luce del criterio ex art. 1366 c.c., viene dal giudicante
«inteso in modo generico e di massima», facendo «salve le differenti possibilità economiche e lavorative dei
componenti in un dato momento». Di conseguenza – accertato in fatto lo squilibrio reddituale e patrimoniale in favore
della parte attrice e, in particolare la circostanza che l’uomo «non sembra (…) disponesse di redditi particolari», mentre
la donna «aveva un reddito costante e sicuro» – il giudice respinge la domanda.
La motivazione viene così a trovarsi «in bilico» tra due rationes decidendi inconciliabili: la prima, che fa leva
sull’inderogabilità del canone espresso dall’art. 143 c.c., ciò che dovrebbe comportare il riconoscimento (quanto meno
in via incidentale) della nullità dell’intesa, ex art. 1418 c.c.; la seconda, che si basa sull’interpretazione secondo buona
fede di un negozio che, per poter essere interpretato, dovrebbe essere ritenuto valido… Peraltro nessuna delle due strade
appare percorribile: non la prima, perché – come si è detto – l’art. 143 c.c. (la cui inderogabilità è sancita, tra l’altro, per
59
Ancora, si è ritenuto valido un accordo con cui una commercialista aveva prestato assistenza
professionale all’impresa individuale gestita dal compagno ( 26), per non dire poi di tutte le intese
sull’organizzazione degli aspetti personali e patrimoniali della potestà sulla prole minorenne ( 27).
Una fattispecie piuttosto singolare è quella risolta nel 2009 dalla Cassazione ( 28), la quale ha
statuito che la dichiarazione di rinuncia, contenuta in una scrittura privata, alla comproprietà di un
immobile già acquistato in comunione tra conviventi more uxorio (rinunzia rilasciata al momento
della cessazione del rapporto da parte della donna, la quale aveva riconosciuto che il bene era stato
acquistato interamente con denaro del partner), integra un «negozio di natura abdicativa» ex art.
1104 c.c. in favore del comproprietario che, in virtù del principio di elasticità della proprietà,
importa, ipso iure, «l’accrescimento della quota rinunciata in favore dell’ex compagno che,
pertanto, data la proporzione delle rispettive quote, è divenuto proprietario dell’intero immobile».
Nella specie, in seno ad una coppia di fatto poi separatasi, la convivente aveva sottoscritto una
dichiarazione di rinuncia alla proprietà della casa in favore dell’uomo insieme al quale aveva
formalmente acquistato il bene, ma di fatto comprato soltanto con i soldi di lui. La titolarità
esclusiva in capo all’uomo, poi deceduto, è stata fatta successivamente valere dalla figlia di questi,
che ha invocato la caduta in successione dell’intero immobile per effetto della rinunzia della ex
convivente.
La Corte ha dunque fatto qui applicazione dell’art. 1104 c.c., peraltro in un contesto ben
diverso da quello in cui la norma si colloca (c.d. «abbandono liberatorio», previsto al fine di liberare
il comunista dagli oneri per la conservazione ed il godimento della cosa comune), tra l’altro del
tutto trascurando il fatto che tale rinunzia era stata posta in essere nell’ambito di una più complessa
operazione negoziale, mediante la quale i conviventi avevano inteso disciplinare i reciproci diritti e
doveri al momento della rottura del rapporto di convivenza, posto che l’uomo si era
corrispettivamente impegnato a consegnare alla ex convivente una somma di denaro (a quanto pare,
non restituita) ( 29).
Naturalmente, le intese immaginabili sono svariate, e innumerevoli sono le combinazioni
delle medesime, ma, prima ancora di passare in rassegna i possibili contenuti di un cohabitation
contract all’italiana, occorrerà fare un breve cenno ad alcuni temi d’ordine generale, quali quelli del
riflesso sui contratti di convivenza dell’obbligazione naturale esistente tra le parti, nonché della
validità di questi negozi sotto il profilo del buon costume e dell’ordine pubblico.
3. Contratti di convivenza e obbligazioni naturali tra conviventi more uxorio.
Il primo e più serio ostacolo alla configurabilità di un contratto di convivenza deriva dalla
pacifica riconduzione dei doveri di reciproca assistenza e contribuzione tra conviventi more uxorio
allo schema delle obbligazioni naturali ( 30). È noto infatti che, a differenza del diritto romano, il
quale attribuiva all’obbligazione naturale la natura di un vero e proprio rapporto giuridico
i soli coniugi, dall’art. 160 c.c.) non appare in alcun modo riferibile (sub specie obligationis civilis) alla famiglia di fatto
(in senso critico, sul punto, rispetto alla decisione, cfr. anche la nota di commento di FERRANDO, Le contribuzioni tra
conviventi fra obbligazione naturale e contratto, Nota a Trib. Savona, 29 giugno 2002, in Fam. dir., 2003, p. 600); non
la seconda, perché in claris non fit interpretatio, né si comprende per qual motivo (non giustificato da emergenze
processuali, quanto meno citate in sentenza) sarebbe stato presente, al momento della conclusione del contratto, un
«ragionevole affidamento» sul fatto che l’impegno avrebbe dovuto essere riferito alle «differenti possibilità economiche
e lavorative dei componenti in un dato momento», anziché ai verba chiaramente usati dalle parti e che ben avrebbero,
tra l’altro, potuto ingenerare un altrettanto ragionevole affidamento in capo alla donna, circa la futura divisione a metà
di tutte le spese afferenti al ménage.
(26) Cfr. Trib. Savona, 24 giugno 2008, in Fam. dir., 2009, p. 385, con nota di ASTIGGIANO. La decisione ha escluso
che tali prestazioni rientrassero nel novero delle obbligazioni naturali, così predicandone l’onerosità ed affermando il
diritto della ex convivente a pretenderne il prezzo.
(27) Su cui v. infra, Cap. V, §§ 1 s.
(28) Cfr. Cass., 9 novembre 2009, n. 23691.
(29) Cfr. ANNUNZIATA, La rinuncia alla comproprietà dell’immobile da parte del convivente more uxorio è un modo
di estinzione della proprietà?, Nota a Cass., 9 novembre 2009, n. 23691, in Fam. pers. succ., 2010, p. 414 ss.
(30) Su cui v. supra, Cap. II, §§ 1 s.
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obbligatorio (anche se sui generis), riconnettendovi una serie di effetti ulteriori rispetto al fenomeno
della soluti retentio ( 31), il nostro ordinamento non riconosce ai doveri morali e sociali di cui all’art.
2034 la caratteristica della giuridicità ( 32). In quest’ottica, trasformare in qualche modo
l’obbligazione naturale in civile appare quanto meno problematico. Una simile operazione,
espressamente consentita dalle fonti romane sotto la specie della novazione ( 33), e ancora ritenuta
ammissibile dalla giurisprudenza italiana sotto il codice abrogato ( 34), sembra oggi urtare
irrimediabilmente con il disposto dell’art. 2034 cpv. c.c., il quale (a differenza dell’art. 1237 cpv.
c.c. 1865) esplicitamente esclude che i doveri morali e sociali in oggetto producano qualsiasi altro
effetto giuridico al di là di quello della non ripetibilità di quanto eventualmente prestato.
Alla luce di tale dato positivo, anche la giurisprudenza, dopo l’entrata in vigore del codice
attuale, si è venuta orientando in senso decisamente contrario ( 35), secondo un indirizzo che
annovera in dottrina autorevoli sostenitori, i quali non hanno mancato di rimarcare come un
contratto avente a oggetto l’assunzione come civile di un’obbligazione naturale costituirebbe, in
buona sostanza, un negozio ricognitivo, ovvero novativo, di un debito giuridicamente inesistente e
come tale sarebbe inammissibile, perché tanto la ricognizione che la novazione presuppongono la
validità del titolo costitutivo dell’originaria obbligazione ( 36).
Ora, non c’è dubbio che debba escludersi in limine ogni possibilità di novazione di
un’obbligazione naturale in civile, posto che il fenomeno disciplinato dagli artt. 1230 ss. c.c. (come
del resto qualsiasi istituto concernente la parte generale delle obbligazioni) postula la preesistenza
di un rapporto giuridico obbligatorio che nella specie difetta. Del pari è destinato a rimanere privo
d’effetti ogni atto unilaterale (confessione stragiudiziale, promessa di pagamento, riconoscimento di
debito, promessa contenuta in titolo di credito) meramente «riproduttivo» dell’obbligo naturale ( 37).
Ma la conclusione non può essere la stessa per quanto concerne la promessa contenuta in un
contratto. Quest’ultimo, infatti, ben può avere una sua causa autonoma rispetto all’obbligazione
naturale sussistente tra le parti, anche se tramite esso i contraenti raggiungano ugualmente lo scopo
di dare esecuzione al dovere morale o sociale ( 38). Il risultato può essere ottenuto ponendo la
prestazione oggetto dell’obbligazione naturale in corrispondenza biunivoca con un’altra
prestazione, di natura reale o obbligatoria, la quale a sua volta può costituire oggetto di un’altra
obbligazione naturale (per esempio, Tizio promette a Caio di adempiere nei suoi confronti
un’obbligazione prescritta, in cambio dell’impegno di Caio di saldare a Tizio la residua parte di un
debito facente parte di un concordato fallimentare). Il negozio viene così ad assumere una sua causa
(31) Sulla natura delle obbligazioni naturali in diritto romano v. per tutti POTHIER, Traité des obligations, in Traités
de droit civil et de jurisprudence françoise, I, Paris, 1781, p. 82 ss.; WINDSCHEID, Lehrbuch des Pandektenrechts, II,
Frankfurt a. M., 1882, p. 113; ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, Napoli, 1974, p. 409 ss. La giuridicità delle
obbligazioni naturali in diritto romano era confermata dal fatto che quest’ultimo ne ammetteva la possibilità di garanzia
tramite fideiussione, di compensazione, di novazione (v., rispettivamente, D. 46. 1. 16. 3.; D. 16. 2. 6.; D. 46. 2. 1. 1.).
(32) Cfr. POTHIER, op. loc. citt.; CARNELUTTI, Rapporto giuridico naturale, in Scritti in memoria di E. Massari,
Napoli, 1938, p. 323 ss.; Salv. ROMANO, Note sulle obbligazioni naturali, 2° ed., Firenze, 1953, p. 110 ss.; M.
GIORGIANNI, L’obbligazione (la parte generale delle obbligazioni), cit., p. 111 ss.
(33) D. 46. 2. 1. 1.: «Novatio est prioris debiti in aliam obligationem vel civilem vel naturalem transfusio atque
translatio».
(34) Cass., 4 luglio 1938, in Foro it., 1938, I, c. 1547.
(35) Cass., 15 marzo 1943, n. 606, in Rep. Foro it., 1943-45, voce «Successione», n. 28; Cass., 7 giugno 1943, n.
1391, ivi, voce «Obbligazioni e contratti», n. 397; Cass., 4 febbraio 1959, n. 329, in Foro it., 1959, I, c. 354; Cass., 22
maggio 1963, n. 1351, in Foro it., 1963, I, c, 2356; Cass., 25 ottobre 1974, n. 3120, in Giur. it., 1975, I, 1, c. 2004;
Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, in Foro it., 1987, I, c. 805.
(36) NICOLÒ, Esecuzione indiretta di obbligazioni naturali, in Foro it., 1939, I, c. 39; BETTI, Teoria generale del
negozio giuridico, Torino, 1950, p. 186 s., nota 2; MONTEL, Obbligazione naturale come causa di obbligazione civile,
in Riv. dir. comm., 1941, II, p. 332 s.; BIANCA, Obbligazione naturale e forma, in La forma degli atti nel diritto privato.
Studi in onore di Michele Giorgianni, Napoli, 1988, p. 20.
(37) Invero, in un sistema come il nostro in cui la promessa unilaterale non è, di regola, fonte di obbligazioni,
l’autore della dichiarazione non potrebbe certo ritenersi vincolato per il solo fatto di aver espresso una simile
dichiarazione. Del resto, nemmeno gli effetti che – sul solo piano processuale – gli artt. 2735 c.c. e 1988 c.c.
ricollegano, rispettivamente, alla confessione stragiudiziale e alla promessa di pagamento (o ricognizione di debito),
appaiono qui applicabili, in quanto previsti in relazione a un rapporto giuridico che nella specie manca.
(38) OPPO, Adempimento indiretto di obbligazione naturale, in Riv. dir. comm., 1945, I, p. 186; ID., Adempimento e
liberalità, cit., p. 360 ss.
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autonoma, consistente nello scambio tra due sacrifici reciproci, mentre, rispetto a tale schema, la
volontà di adempiere il preesistente dovere morale o sociale degrada al rango di semplice motivo. Il
risultato è solo apparentemente analogo a quello emergente da due distinte e parallele ricognizioni
dei rispettivi debiti naturali: ciò che qui spinge i soggetti ad adempiere non è più la «voce della
coscienza», ma la certezza nell’assunzione, come civile, dell’impegno reciproco in capo alla
controparte.
Queste premesse consentono di superare anche l’ostacolo costituito dalla lettera dell’art. 2034
cpv. c.c. All’uopo si può suggerire una lettura sistematica dello stesso che ne limiti la portata
negativa a quei soli effetti legali normalmente riconnessi alle obbligazioni civili, senza estenderla a
quelli eventualmente scaturenti da un distinto negozio, dotato di una sua causa autonoma ( 39). Se è
dunque nello scambio tra le vicendevoli promesse di adempiere i doveri morali e sociali scaturenti
dal legame more uxorio che va ricercata la causa dei contratti di convivenza, deve però subito
aggiungersi che, nel caso in cui la promessa di adempimento di un obbligo morale o sociale
scaturisse da una sola parte determinando l’impoverimento del promittente e l’arricchimento del
promissario, il requisito causale dovrebbe essere surrogato dal rispetto della forma solenne
prescritta per la donazione ( 40).
Le considerazioni di cui sopra, già presentate all’attenzione della dottrina diversi anni or sono
( 41), hanno ricevuto accoglienza generalmente favorevole ( 42): significativo appare del resto il fatto
che il dubbio sull’ammissibilità della «trasformazione» dell’obbligazione da naturale in civile non
sia stato neppure affacciato nel già citato leading case della Cassazione in materia di contratti tra
conviventi more uxorio ( 43).
4. Contratti di convivenza e buon costume.
Il problema della validità del contratto di convivenza sotto il profilo del buon costume si
presenta, in prospettiva storica, come inscindibilmente connesso alla vexata quaestio della validità
delle donazioni tra conviventi, posto che queste ultime costituirono per secoli gli strumenti
attraverso cui venivano regolati i rapporti economici delle unioni extramatrimoniali. Lo sfavore con
cui la donazione alla concubina era vista sotto l’Ancien Régime ( 44) non poteva non ripercuotersi
(39) A ciò si aggiunga ancora che nel nostro sistema nulla autorizza a escludere la validità di un contratto avente a
oggetto l’assunzione a livello di obbligazione civile di un rapporto di mera cortesia (si pensi, per esempio, al contratto
con cui, dietro corrispettivo, la mia vicina si impegna a curare le piante di casa mia quando io sono assente): a maggior
ragione, dunque, dovrà ritenersi consentita un’analoga operazione con riguardo alle obbligazioni naturali. Inoltre, la
cennata interpretazione restrittiva dell’espressione «altri effetti» si giustifica anche sulla base del principio generale
della libertà contrattuale, che verrebbe altrimenti compresso ove tra i predetti effetti venissero anche ricompresi quelli di
origine negoziale.
(40) Ciò, almeno, stando alla teoria che attribuisce al rispetto di simili formalità l’effetto di giustificare uno
spostamento patrimoniale non controbilanciato da un reciproco sacrificio (cfr. SACCO, Il contratto, Torino, 1975, p. 574
ss.; secondo BIANCA, Obbligazione naturale e forma, cit., p. 24, il rispetto delle forme della donazione consentirebbe
sempre di «novare» un’obbligazione naturale in civile, in quanto esso produrrebbe l’effetto di rendere consapevole il
dichiarante che ciò che egli promette non è giuridicamente dovuto). A identiche conclusioni dovrà pervenirsi
nell’ipotesi in cui il contratto prevedesse un assetto, per così dire, «sbilanciato» dei rapporti reciproci, tale da indurre a
ritenere presente una causa donandi: si pensi alla corresponsione della contribuzione in misura «aggravata» a carico di
uno solo dei conviventi, o alla creazione di un determinato regime degli acquisti da operarsi durante la convivenza a
tutto vantaggio di uno solo dei partners.
(41) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 156 ss., cui si fa richiamo per ulteriori
approfondimenti e rinvii.
(42) Cfr. BERNARDINI, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale, cit., p. 206;
FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 745; SPADAFORA, L’obbligazione naturale tra conviventi ed
il problema della sua trasformazione in obbligazione civile attraverso lo strumento negoziale, cit., p. 157 ss.; ID.,
Rapporto di convivenza more uxorio e autonomia privata, cit., p. 111 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, cit., 979 s.;
DE SCRILLI, I patti di convivenza. Considerazioni generali, in AA. VV., Convivenza e situazioni di fatto, in AA. VV.,
Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, prima edizione, cit., p. 854 ss.; ARCANI, op.
cit., p. 908 s.; contra ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, cit., p. 528.
(43) Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.
(44) Per un’illustrazione dello sviluppo storico del tema si fa rinvio a OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 169 ss.; cfr. inoltre ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 1 ss.
62
sulla considerazione della liceità di un contratto diretto alla costituzione di un rapporto di
convivenza di fatto. In effetti, proprio quest’ultimo era riportato da molti dei primi commentatori
del Code Napoléon come il classico esempio di negozio contra bonos mores ( 45).
Va peraltro subito aggiunto che in quei tempi la distinzione di questa figura rispetto alla
donazione effettuata allo scopo di convincere una donna a intraprendere una relazione concubinaria
si prospettava come assai ardua. Il più delle volte, infatti, la donna che si «adattava» a convivere
more uxorio altro non aveva da offrire, in cambio del mantenimento promesso dall’uomo, se non il
proprio corpo (eccezion fatta per il lavoro domestico, che peraltro non era allora tenuto in alcuna
considerazione). Dunque, la disponibilità della convivente a instaurare una relazione concubinaria
poteva essere vista tanto come cause (intesa in Francia nel senso di motivo) di una liberalità il cui
oggetto era rappresentato dalla contribuzione dell’uomo, quanto come controprestazione di un
contratto oneroso di convivenza (laddove la prestazione dell’uomo consisteva, appunto,
nell’erogazione del mantenimento).
L’attuale considerazione a livello normativo e sociale del lavoro domestico consente di
affermarne l’idoneità a porsi in corrispondenza biunivoca con un eventuale obbligo di
mantenimento, nell’ambito di un negozio a titolo oneroso, così facendo necessariamente passare in
secondo piano l’aspetto sessuale. L’accordo sull’assetto economico da imprimere al ménage assume
dunque una sua piena autonomia rispetto all’impegno a convivere e pertanto neppure un’eventuale
immoralità di quest’ultimo potrebbe riverberare i suoi effetti sul primo. D’altro canto, si è già
chiarito che la causa del contratto di convivenza risiede non già nel legame more uxorio in sé ( 46),
ma nello scambio delle vicendevoli promesse di adempiere le reciproche obbligazioni naturali:
rispetto a questo schema, come già detto, il rapporto pseudo-matrimoniale si viene piuttosto a porre
come un motivo.
Trattasi peraltro di motivo comune a entrambi i contraenti, oltre che (almeno per i contratti
comunque diretti a favorire l’instaurazione o la prosecuzione del rapporto) esclusivo: pertanto, ai
sensi dell’art. 1345 c.c., il problema di un’eventuale illiceità si ripresenta in termini assai simili a
quelli che per decenni si sono posti in relazione alla donazione. Ben potranno allora richiamarsi i
risultati cui dottrina e giurisprudenza sono pervenute, un po’ ovunque, in quella sede, sottolineando
come i contratti di convivenza diretti alla regolamentazione dei rapporti patrimoniali dei partners
non possano per ciò solo essere ritenuti immorali, se non nel caso in cui «la contre-prestation est
constituée uniquement par le consentement à des relations charnelles». A maggior ragione, dunque,
tali negozi non contrastano con il buon costume quando emerga dagli stessi chiaramente l’intento
primario dei partners di garantire reciprocamente il proprio futuro, ponendo le basi economiche per
la fondazione di una comunità familiare, anche se soltanto di fatto.
In quest’ottica si è posta anche in Italia la giurisprudenza di legittimità, la quale – come già
ricordato – ha affermato che la convivenza more uxorio tra persone in stato libero non costituisce
causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti patrimoniali (nella specie,
comodato) collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla
legge, non contrasta né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né
con l’ordine pubblico, che comprende i principi fondamentali informatori dell’ordinamento
giuridico, né con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni del codice civile (vedi artt.
1343, 1354 c.c.), come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un determinato
momento storico, bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento per l’attribuzione di potestà genitoriali
nell’ipotesi disciplinata dall’art. 317-bis c.c., come nella normativa della legge 27 luglio 1978, n.
392 in ordine alla successione nel contratto di locazione ( 47).
5. Contratti di convivenza e ordine pubblico: i rapporti di carattere personale.
Se è vero che nessun principio d’ordine pubblico sembra opporsi in limine alla stipula di un
(45) Cfr. DURANTON, Corso di diritto civile secondo il codice francese, ed. italiana, VI, Minerva Subalpina, 1843, p.
176.
(46) Come invece affermato da A. TRABUCCHI, Pas par cette voie s’il vous plaît!, cit., p. 349.
(47) Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.
63
contratto di convivenza, assai diverso è il discorso allorché si scende alla disamina dei possibili
contenuti del negozio. I canoni fondamentali del nostro sistema pongono infatti un ostacolo
insuperabile in merito all’inserimento di aspetti di carattere personale.
Anzi, assorbente rispetto a questa considerazione appare quella per cui i doveri di fedeltà,
assistenza morale, collaborazione e coabitazione, proprio perché privi del requisito della
patrimonialità, si mostrano inidonei, innanzitutto, a costituire «prestazione» ai sensi dell’art. 1174
c.c., e, secondariamente, a essere dedotti in contratto, ex art. 1321 c.c. ( 48). Ma il richiamo alle
regole d’ordine pubblico sarebbe inevitabile nel caso si fosse tentati di imporre il rispetto di tali
impegni per via indiretta, mediante la pattuizione di una penale (per es.: ti darò la somma x se ti
sarò infedele, oppure se ti abbandonerò prima o dopo una certa data), che non sfuggirebbe alla
sanzione della nullità per violazione del principio della libertà personale ( 49).
Ciò detto, va però subito precisato che la possibilità di attribuire un qualche rilievo sul piano
negoziale a taluni aspetti di carattere personale non pare totalmente esclusa. Si è infatti già posto in
luce che la deduzione in condizione di un comportamento umano può supplire al divieto di dedurre
tale comportamento in obbligazione. Al riguardo, potrebbero astrattamente configurarsi due schemi:
a) condizione che subordina una prestazione patrimoniale da un convivente all’altro all’esecuzione
di una prestazione non patrimoniale da parte dell’autore della promessa (per esempio: ti prometto
che ti darò cento se non ti sarò fedele, se tra dieci anni non coabiterò più con te, se tra cinque anni
non ti avrò dato un figlio, ecc.); b) condizione che subordina una prestazione patrimoniale
all’effettuazione di una non patrimoniale da parte, questa volta, del destinatario della promessa (ti
prometto che ti darò cento se mi sarai fedele, se tra dieci anni coabiterai ancora con me, se tra
cinque anni mi avrai dato un figlio, ecc.). Ora, la prima delle due clausole, che costituisce
certamente una penale, è nulla poiché in essa la deduzione in condizione finisce con il mascherare
l’assunzione di un vero e proprio obbligo alla prestazione non patrimoniale, sanzionato con la
corresponsione dell’importo di cui alla promessa. D’altro canto, l’impegno sottoscritto dal
promittente appare vincolato alla mera volontà di quest’ultimo e pertanto in contrasto con il
disposto dell’art. 1355 c.c. Al contrario, la clausola sub b), che potrebbe definirsi come «premiale»,
in quanto diretta ad attribuire una sorta di compenso per l’effettuazione di una prestazione (non
patrimoniale) da parte del promissario, non sembra in grado di suscitare obiezioni ( 50).
Riprendendo l’esame dei vari aspetti in ordine ai quali l’assunzione di un impegno deve
ritenersi vietata, occorre soffermarsi in primo luogo sull’impegno a convivere. Già si è illustrata
l’invalidità di qualsiasi penale correlata al venir meno della coabitazione. Un corollario di tale
(48) Questo, dunque, e non l’incoercibilità dei doveri in discorso (secondo quanto invece sostenuto da D’ANGELI, La
famiglia di fatto, cit., p. 426), costituisce il vero motivo dell’impossibilità di rendere giuridicamente rilevante l’impegno
morale di fedeltà reciproca tra conviventi. Ché, altrimenti, dovrebbe ritenersi meramente «platonico» pure il dovere di
fedeltà tra coniugi, coercibile, come noto, solo in via indiretta, per mezzo dell’addebito della separazione. Per la
conclusione di cui al testo v. già OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 193 ss.; v. poi anche
SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 415; FRANZONI, Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, cit., p. 470
ss.; FALLETTI, La famiglia di fatto: la disciplina dei rapporti patrimoniali tra i conviventi, cit., p. 71. Contra M. SGROI,
op. cit., p. 1078, secondo cui «i comportamenti che i conviventi individuano come caratterizzanti l’attuazione del loro
rapporto, volto a realizzare un’informale (cioè, fuori dal vincolo formale dato dal matrimonio) comunione di vita,
possono liberamente essere fissati sulla base di un reciproco accordo, eventualmente oggetto anche di un cd. contratto di
convivenza (con i limiti di validità ed efficacia di questi strumenti atipici)».
(49) La conclusione riceve indiretta conferma dall’art. 79 c.c., che dichiara nulla qualsiasi penale posta a garanzia di
una promessa di matrimonio, nonché dal fatto che uguale sorte si ritiene comunemente ricollegata a un’analoga clausola
che i coniugi dovessero prevedere a suggello di uno o più dei doveri ex art. 143 c.c. Sul tema cfr. OBERTO, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 193 ss.; in senso conforme v. anche FRANZONI, I contratti tra conviventi
«more uxorio», cit., p. 747; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 415.
(50) La tesi, proposta da chi scrive anche all’attenzione della dottrina tedesca (cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali
della famiglia di fatto, cit., p. 197 s.; ID., Partnerverträge in rechtsvergleichender Sicht unter besonderer
Berücksichtigung des italienischen Rechts, cit., p. 7), sembra avere riscosso consenso presso quest’ultima: cfr.
GRZIWOTZ, Partnerschaftsvertrag, für die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 31; per la dottrina italiana v. per
tutti ARCANI, op. cit., p. 906 s.; per una valutazione di tale impostazione in (non meglio precisati) «termini
problematici» in Italia v. FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 749 s.; alcuni richiami anche in
BASINI, Le promesse premiali, Milano, 2000, p. 40, 58 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, cit., p. 976 s. Si noti che,
dal punto di vista storico, una precisa indicazione nel senso indicato sembra provenire anche dal diritto romano: cfr.
OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 605 ss.
64
conclusione è rappresentato dalla illiceità di una condizione apposta a un eventuale mutuo concesso
da un convivente all’altro, che sottoponesse sospensivamente l’esigibilità del credito del mutuante
all’evento della cessazione della convivenza, sempre che l’importo in questione, specie se
rapportato alle condizioni patrimoniali del mutuatario, fosse tale da restringere in maniera
intollerabile la libertà di quest’ultimo di porre fine in ogni tempo al rapporto ( 51).
La contrarietà rispetto all’ordine pubblico risulterebbe poi particolarmente evidente non
soltanto nell’impegno che vincolasse la libertà dei conviventi esplicitamente imponendo un obbligo
di fedeltà, ma anche in un’espressa rinuncia al diritto di porre fine in qualsiasi momento al ménage
( 52). Lo stesso è a dirsi circa la promessa dei partners (o di uno di essi) avente a oggetto la
prosecuzione della coabitazione, vuoi per un periodo illimitato, vuoi per una «durata garantita
minima».
Significativi al riguardo due precedenti giurisprudenziali stranieri, su cui ci si sofferma in
nota, relativi, rispettivamente, alla Germania ( 53) ed alla Francia ( 54).
(51) In questo senso v. AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 409. Si noti però
che la conseguenza di tale premessa è la nullità dell’intero contratto (art. 1354 c.c.): ne deriva che il mutuante è
legittimato in ogni tempo a richiedere la restituzione dell’importo a titolo di indebito.
(52) Cfr. NOIR-MASNATA, Les effets patrimoniaux du concubinage et leur influence sur le devoir d’entretien entre
époux séparés, Genève, 1982, p. 58; JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, cit., p. 215.
(53) Significativo è il caso risolto da OLG Hamm, 24 marzo 1987, in FamRZ, 1988, p. 618. Herr K. e Frau R.,
conviventi more uxorio, concludono una Vereinbarung diretta a regolare la propria vita in comune, nonchè le
conseguenze di un’eventuale rottura del ménage. Una delle clausole di tale accordo, redatto per iscritto, prevede
testualmente che «per il caso di scioglimento del rapporto more uxorio per iniziativa di K. quest’ultimo si impegna a
corrispondere a R., a titolo di indennizzo, la somma di DM 40.000. Nel caso la convivenza di protragga per dieci anni la
somma verrà aumentata a DM 80.000. R. e K. concordano nel ritenere esclusa l’operatività del predetto diritto di
indennizzo nel caso gli stessi contraggano matrimonio oppure se sarà R. a decidere di sciogliere il legame».
La Corte afferma la nullità di tale clausola per due distinti motivi. In primo luogo, perché il contratto è stato
concluso quando Herr K. era ancora sposato: la previsione di una penale per lo scioglimento della relazione
extramatrimoniale va ritenuta come sittenwidrig ai sensi del § 138 BGB, in quanto diretta a scoraggiare la
riconciliazione con la moglie favorendo invece la violazione del dovere di fedeltà coniugale. La seconda ragione (di
carattere assorbente, tanto da far ritenere irrilevante la circostanza del successivo divorzio di K.) è che una clausola del
genere, anche in considerazione dell’entità della somma, tende allo scopo di «rendere più difficoltoso, se non addirittura
impossibile, per il convenuto (K.) lo scioglimento del rapporto di fatto». Secondo i giudici, la conseguente limitazione
della libertà di autodeterminazione dell’obbligato nella sfera dei suoi diritti personalissimi deve dunque essere
considerata intollerabile, oltre che in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento (al punto che, secondo la
Corte, le conclusioni non potrebbero essere diverse neppure in relazione a una coppia coniugata).
Nel senso invece della validità di un impegno avente a oggetto la coabitazione per (almeno) un certo periodo v.
KUNIGK, op. cit., p. 121; LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 937 (il quale ammette addirittura
l’applicazione in via analogica del § 723, comma secondo, BGB, norma che prevede la responsabilità del socio che sia
receduto prima del tempo, «es sei denn, daß ein wichtiger Grund für die unzeitige Kündigung vorliegt»); e,
implicitamente, STRÄTZ, Rechtsfragen des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 434, che riconosce nel caso
di violazione di tale obbligo il diritto del partner abbandonato di richiedere il risarcimento del danno. Quest’ultimo
autore prospetta l’esempio di una clausola che leghi la durata minima del rapporto a quella degli studi, ovvero «bis zum
Abschluß eines bestimmten Examens». Il rigetto della tesi ora esposta esime chi scrive dal prendere posizione sul
problema di un’eventuale applicabilità del § 162, comma primo, BGB (corrispondente al nostro art. 1359 c.c.: finzione
di avveramento della condizione, qualora il mancato avveramento sia imputabile alla parte che aveva interesse
contrario) nel caso lo studente, al fine di impedire la dissoluzione del legame, provocasse ad arte, wider Treu und
Glauben, la propria bocciatura ...
Alle critiche di cui al testo non pare sottrarsi nemmeno la clausola che preveda l’obbligo di corrispondere una certa
somma in caso di rottura ingiustificata del ménage (sulla cui validità v. invece CLARIZIA, Procreazione artificiale e
tutela del minore, Milano, 1988, p. 88 s.; LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 936), posto che
(come, già ribadito più volte), ogni convivente deve poter conservare intatto il diritto di porre fine al rapporto in ogni
momento e anche in assenza di un qualche giustificato motivo.
(54) Cfr. Cass. Civ. 1ère, 20 giugno 2006, in Bull. civ., 2006, I, N° 312, p. 270. Nella specie trattavasi di un uomo e
una donna che avevano «vécu en concubinage de 1984 à 2002»; dall’unione erano nati due figli nel 1990 e nel 1996. Il
1° settembre 1984 i due avevano firmato «une convention de concubinage prévoyant que le concubin qui n’a pas
d’emploi ou qui renonce à son emploi pour élever les enfants pourra exiger de l’autre une indemnité égale au moins à la
moitié des revenus du travail de son concubin à condition que les enfants soient élevés à son foyer». La Cour de
Cassation ha confermato il giudizio della corte d’appello che aveva ritenuto nullo l’accordo, in quanto «contraire aux
dispositions d’ordre public qui régissent l’obligation alimentaire», osservando che l’intesa costituiva «par son caractère
particulièrement contraignant un moyen de dissuader un concubin de toute velleité de rupture contraire au principe de la
liberté individuelle». Per la discussione, alla luce del diritto italiano, di un caso pratico, riconducibile a questo stesso
65
Parimenti, nulla sarebbe l’assunzione di qualsiasi vincolo relativo alla fissazione della
residenza (comune o meno) in un determinato luogo piuttosto che in un altro. Con speciale riguardo
a questi ultimi aspetti va ricordato che la giurisprudenza italiana ha conosciuto fino a oggi
fattispecie del genere in relazione a quei contratti di mantenimento vitalizio con i quali il
vitaliziante si era impegnato, tra l’altro, a convivere con il vitaliziato o comunque a fornire presso
quest’ultimo assistenza materiale e morale in ore sia diurne che notturne, anche se poi lo specifico
aspetto della contrarietà all’ordine pubblico per violazione della libertà personale del vitaliziante
non è stato affrontato ( 55). Ma la soluzione non sembra possa essere diversa da quella che afferma la
nullità delle clausole testamentarie che sottopongono l’istituzione d’erede o il legato alla condizione
che il beneficiario conviva (o non conviva) con un altro soggetto ( 56), e ciò in considerazione del
fatto che la libertà di scelta dei soggetti con cui condividere la propria esistenza, così come quella di
muoversi a proprio talento, e di soggiornare in un luogo anziché in un altro a seconda del proprio
interesse o del proprio diletto, costituisce innegabilmente un aspetto di quel diritto alla libertà
personale che non tollera restrizioni di sorta ( 57).
Di una certa utilità potrebbe invece rivelarsi la dichiarazione, da inserirsi in un eventuale
contratto scritto, circa il fatto che i contraenti attualmente convivono e hanno fissato la propria
residenza in comune in un certo luogo, soprattutto al fine di evitare future contestazioni circa
possibili effetti collegati all’inizio dell’effettiva convivenza o comunque all’individuazione della
residenza dell’uno o dell’altro (si pensi a una dichiarazione recettizia prevista in contratto come
necessaria al fine della produzione di certi effetti giuridici, o alla notifica di atti giudiziari), in
presenza di divergenti risultanze anagrafiche. L’accorgimento appare consigliabile anche alla luce
di quella giurisprudenza che attribuisce a queste risultanze un valore meramente presuntivo,
consentendo all’interessato di superarle semplicemente mediante la produzione di un contratto in
cui la controparte abbia dichiarato di risiedere in un altro luogo ( 58).
6. La manifestazione del consenso. Forma e prova del contratto di convivenza.
Qualsiasi accordo tra i conviventi diretto a regolare gli aspetti della vita in comune deve
risultare da un’esplicita manifestazione di volontà delle parti, non potendosi condividere la tesi
(isolata) di chi vorrebbe ammettere la possibilità di desumere la conclusione di un contratto di
convivenza dal comportamento dei partners, «come espressione di una loro concorde volontà
attuosa» ( 59).
In altri termini, secondo la teoria qui criticata, la semplice instaurazione di una convivenza
ordine di idee, cfr. PIANEZZE, Famiglia senza matrimonio, Milano, 2011, p. 19 ss.
(55) V. i casi risolti da Cass., 27 aprile 1982, n. 2629, in Arch. civ., 1982, p. 715 (relativo a un contratto di
mantenimento il cui sinallagma era costituito dalla alienazione di un immobile contro «servitù, pulizia, cucinare,
accudire gli animali, riscaldamento d’inverno, convivere con la vitaliziata, e provvedere, sia di giorno che di notte, a
tutto quanto la stessa potesse chiedere o comandare, compagnia o cure»), da Cass., 5 gennaio 1980, n. 50, in Foro it.,
1980, I, c. 1813 (concernente un vitalizio avente a oggetto la prestazione di vitto, vestiario, assistenza materiale e
spirituale) e da Trib. Napoli, 14 febbraio 1974, in Dir. giur., 1975, p. 110 (in cui il vitaliziante si era impegnato a fornire
«prestazioni di lavoro domestico ed assistenza diurna e notturna, con le cure e premure necessarie alla (...) tranquillità e
salute» del vitaliziato). Nel senso della nullità di un impegno a convivere dedotto in un contratto di mantenimento, sotto
il profilo della violazione della libertà personale, cfr. CALÒ, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, Nota a
Cass., 11 novembre 1988, n. 6083, in Foro it., 1989, I, c. 1168.
(56) Cass., 21 gennaio 1942, n. 197, in Foro it. Rep. 1942, voce «Successione legittima o testamentaria», n. 171.
(57) Cfr. DE CUPIS, I diritti della personalità, nel Trattato di diritto civile e commerciale, già diretto da Cicu e
Messineo, continuato da Mengoni, Milano, 1982, p. 223. In giurisprudenza cfr. Trib. Trani, 17 marzo 1961, in Rep.
Giur. it., 1962, voce «Alimenti», n. 5.
(58) Cass., 26 marzo 1983, n. 2143, in Rep. Foro it., 1983, voce «Notificazione civile», n. 12.
(59) FALZEA, Problemi attuali della famiglia di fatto, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, cit., p.
52; contra D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 423. Anche in Francia è rimasta isolata l’opinione secondo cui il
giudice, valutando il comportamento delle parti, potrebbe ritenere l’esistenza di un «contrat tacite d’aide et d’assistance
mutuelle», che obbligherebbe i conviventi «tant pendant l’union que après la rupture à subvenir aux besoins éventuels
du partenaire» (GANANCIA, Droits et obligations résultant du concubinage, in Gaz. Pal., 1981, Doctrine, p. 19).
66
more uxorio dovrebbe indurre a ritenere l’esistenza di un accordo implicito diretto, quanto meno,
alla prestazione della contribuzione reciproca, se non alla ripartizione in misura uguale degli
incrementi di ricchezza accumulati durante il rapporto. La proposta riecheggia assai da vicino la tesi
dell’implied cohabitation contract, che tanta fortuna ha avuto oltre Oceano. Nata molti anni or sono
per risolvere i problemi posti dalla collaborazione spontaneamente prestata da alcuni appartenenti a
comunità familiari agricole ( 60), la teoria in oggetto trovò la sua consacrazione nel celebre caso
Marvin v Marvin (1976) ( 61), con riguardo alla domanda svolta dalla ex convivente del noto attore
Lee Marvin, la quale aveva preteso una qualche forma di partecipazione agli incrementi
patrimoniali conseguiti da quest’ultimo durante il ménage. La Corte Suprema della California
decretò in proposito la possibilità per il giudice di «inquire into the conduct of the parties to
determine whether that conduct demonstrates an implied contract or implied agreement of
partnership or joint venture, or some other tacit understanding between the parties», anche se poi,
nel caso di specie, negò che un simile accordo potesse essere desunto sulla base del comportamento
tenuto dalla coppia. Sulla scia di questo precedente l’applicazione dell’implied contract alla
famiglia di fatto ha portato all’accoglimento di numerose domande proposte da ex conviventi
«deboli» a titolo di compenso per la collaborazione prestata.
Le conclusioni dei giudici d’oltre Oceano, favorite da quella labilità di confini tra contract e
quasi-contract caratteristica dei sistemi di common law ( 62), non possono però essere trasposte nei
sistemi di matrice romanistica, nei quali si suole pretendere che la manifestazione dell’intento
negoziale sia chiara ed inequivocabile ( 63). Ora, proprio l’originario rifiuto dei conviventi more
uxorio di sottoporre i reciproci rapporti a effetti giuridici di sorta impedisce di desumere dal loro
comportamento una volontà negoziale. L’assunto è del resto suffragato anche dalla constatazione
che non risulterebbero comunque in alcun modo determinate, né determinabili, la natura e la misura
(60) Più precisamente, le trattazioni sogliono distinguere tra express, implied-in-fact e implied-in-law contracts,
specificando che solo i primi due possono veramente definirsi contratti, mentre il terzo, appartenente alla categoria dei
quasi-contracts, viene ritenuto come una vera e propria finzione, creata dai giudici «to enforce legal duties by actions of
contract where no proper contract exists, either express, or implied»: si tratta dunque di un espediente per impedire
l’ingiustificato arricchimento di una delle parti a danno dell’altra. La linea di demarcazione tra le due ultime categorie è
però assai labile: essa dovrebbe infatti basarsi sulla presenza o sull’assenza di un impegno negoziale manifestato per
fatti concludenti, non differenziandosi il contratto implied-in-fact dall’express contract se non per il fatto che la prova
della sua esistenza viene raggiunta in via presuntiva (cfr. KESSLER, GILMORE e KRONMANN, Contracts, Cases and
Materials, Boston-Toronto, 1986, p. 141, secondo cui «It requires an agreement, a meeting of the minds, an intent to
promise and to be bound; it does not differ from an express contract, except that it is circumstantially proved»). In
realtà, un’analisi della giurisprudenza mostra come entrambi i rimedi siano indifferentemente usati per attribuire in via
equitativa al convivente che abbia prestato per anni la propria attività gratuitamente a beneficio dell’altro una sorta di
controprestazione costituita dal diritto di partecipare agli incrementi patrimoniali conseguiti da quest’ultimo.
(61) Marvin v Marvin, 18 Cal. 3d 660, 134 Cal. Rptr. 815, 557 2d 106 (1976); per approfondimenti e considerazioni
su questo leading case cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 216 ss.
(62) Cfr. WOODWARD, The Law of Quasi Contracts, Boston, 1913, p. 6; JACKSON, The History of Quasi-contract in
English Law, Cambridge, 1936, p. 128; MUNKMAN, Quasi-contracts, London, 1950, p. 3. Per gli ulteriori richiami cfr.
OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 222 ss.
(63) V. per tutti STEINERT, Vermögensrechtliche Fragen während des Zusammenlebens und nach Trennung
Nichtverheirateter, in NJW, 1986, p. 687; SCHLÜTER e BELLING, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft und ihre
vermögensrechtliche Abwicklung, in FamRZ 1986, 409; DIEDERICHSEN, Rechtsprobleme der nichtehelichen
Lebensgemeinschaft, in FamRZ, 1988, p. 894. Dal canto suo anche il BGH esclude che nella convivenza more uxorio
l’intento di dar vita a rapporti di natura giuridica costituisca la regola: ne consegue che (mangels besonderer
Vereinbarung) non appare possibile ricavare dal comportamento dei conviventi la prova della conclusione di un
contratto (nel caso di specie parte attrice sosteneva la conclusione di un mandato avente ad oggetto la conclusione di
una serie di contratti d’appalto con imprese edili al fine di ristrutturare la casa della convivente e trasformarla in
Gastwirtschaft: v. BGH, 3 ottobre 1983, in FamRZ, 1983, p. 1213; allo stesso ordine d’idee può ascriversi BGH, 23
febbraio 1981, in FamRZ, 1981, p. 530). Cfr. inoltre LG Aachen, 30 settembre 1987, ivi, 1987, p. 717, che ha escluso la
configurabilità di un tacito Kooperationsvertrag sulla base della semplice situazione di convivenza tra le parti. Identiche
sono le conclusioni cui pervengono la dottrina e la giurisprudenza francesi che si sono occupate del problema non tanto
sotto il profilo del contratto di convivenza, bensì sotto quello del mutuo e del mandato tra concubins (analogamente,
come si è appena visto, ad alcune delle situazioni sottoposte all’esame dei giudici tedeschi), pretendendo sempre la
presenza di un chiaro accordo negoziale: cfr. PROTHAIS, Dettes ménagères des concubins: solidaires, in solidum,
indivisibles ou conjointes ? (après l’arrêt Civ. 1re , 11 janv. 1984), in D., 1987, Chr. XLII, 242; Cass. Civ., 20 maggio
1981, in D., 1983, p. 289; Cass. Civ., 10 ottobre 1984, in Gaz. Pal., 1985, 1, p. 186; Cass. Civ., 4 dicembre 1984, in
Rev. trim. dr. civ., 1985, p. 733.
67
della controprestazione dovuta in cambio dei servizi prestati dal convivente «debole» e dunque
verrebbe meno uno degli elementi essenziali di quel contratto la cui conclusione si vorrebbe
argomentare dall’instaurazione dell’unione extramatrimoniale.
Come la teoria del contratto implicito, così quella del contratto di fatto si prefigge di superare
l’ostacolo rappresentato dall’assenza di un esplicito accordo tra le parti interessate, in tutte le
situazioni in cui la «coscienza sociale» avverte la necessità di far insorgere tra di esse dei rapporti
giuridici. Con tale espressione si suole infatti indicare quel rapporto negoziale instaurato non già
mercé lo scambio dei consensi, bensì per mezzo dell’esecuzione di una delle due prestazioni (o di
entrambe) non qualificata da una precedente proposta della controparte. Lo schema sembrerebbe
quindi calzare a pennello, specie ponendo mente al caso della prestazione di lavoro domestico da
parte di un convivente, non preceduta da alcuna manifestazione di volontà, ma di cui l’altro si sia
concretamente avvantaggiato: a carico di quest’ultimo si potrebbe dunque affermare l’esistenza di
un’obbligazione ex contractu di corrispondere una «retribuzione», vuoi in denaro, vuoi mediante
qualche altra forma di contribuzione.
Ma nemmeno tale conclusione può accogliersi. A parte infatti il rilievo che la teoria dei
faktischen Vertragsverhältnisse sembra ormai abbandonata anche in Germania, ove pure aveva
visto la luce, va rilevato come la nostra dottrina abbia sempre manifestato la propria propensione a
risolvere le situazioni solitamente ricondotte alla figura del rapporto contrattuale di fatto mediante
un approccio di tipo «tradizionale», vale a dire facendo leva sulla concludenza o meno del
comportamento posto in essere dagli interessati.
Non solo. Come è stato messo in evidenza in altra sede, nel nostro codice non mancano certo
istituti che rispondono allo schema del contratto di fatto, sostanziandosi in rapporti che, pur non
sorgendo dallo scambio di contrapposte dichiarazioni, vengono ciò non di meno disciplinati alla
stregua di contratti, come la mediazione, o i fenomeni di cui agli artt. 2126 e 2332 c.c. in materia,
rispettivamente, di lavoro subordinato e società, o, ancora, come nel caso dell’attuazione unilaterale
di un rapporto locativo dopo la sua scadenza, ai sensi dell’art. 1591 c.c. A ben vedere, si tratta di
fattispecie di natura quasi-contrattuale, cui però il Legislatore ha ritenuto di ricollegare la disciplina
di singoli contratti tipici. Ora, proprio per il già evidenziato carattere eccezionale delle ipotesi quasicontrattuali, non sembra lecito ammettere, al di fuori di tali schemi, che un contratto si formi sulla
base della sola attuazione, vuoi unilaterale, vuoi bilaterale, non preceduta da una proposta. Un
contratto di fatto tra conviventi potrebbe dunque apparire astrattamente configurabile soltanto
laddove si volesse invocare una di quelle ipotesi normative testé enunciate: società o lavoro
subordinato: ma di questo argomento si è già discorso in altra sede ( 64). Per il resto valgano le
lapidarie conclusioni di uno studioso tedesco: «Die Unsicherheiten, die mit einem angeblich
geschlossenen Zusammenlebens- Vertrag verbunden sind, lassen diese Konstruktion zudem auch
nicht im Interesse der beteiligten Personen als ratsam erscheinen» ( 65).
In linea generale non è richiesto, per la manifestazione di volontà in esame, il rispetto di
speciali regole di forma. Così non è necessario l’atto pubblico, proprio perché, almeno di regola,
con tale negozio i conviventi intendono disciplinare i reciproci rapporti a prescindere da ogni spirito
di liberalità ( 66).
Il rispetto della forma solenne appare poi consigliabile, al fine di evitare successive
contestazioni, anche nel caso di un semplice squilibrio tra il valore delle prestazioni poste in
corrispondenza biunivoca nell’ambito del contratto di convivenza (per esempio: la corresponsione
da parte dell’uomo di una somma a titolo di contribuzione per le necessità della donna superiore al
valore del lavoro domestico che la stessa si impegna a prestare), anche se, stricto iure, le formalità
della donazione non andrebbero ritenute necessarie in ossequio alla teoria che configura il negotium
mixtum cum donatione alla stregua di una donazione indiretta ( 67). In ogni caso, la redazione di un
(64) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 222 ss.
(65) Cfr. GRZIWOTZ, Nichteheliche Lebensgemeinschaft, München, 1999, p. 62.
(66) Dello stesso avviso sono GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 162 s.; SCHWAB, Zivilrecht
und nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 66 ss.
(67) Affermano che il negotium mixtum cum donatione configura una donazione indiretta TORRENTE, La donazione,
Milano, 1956, p. 43 ss.; Cass., 23 gennaio 1967, n. 203, in Giust. civ., 1967, I, p. 490. Contra CARNEVALI, Gli atti di
liberalità e la donazione contrattuale, in AA. VV., Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, VI, Torino, 1982, p.
68
documento scritto appare raccomandabile per evidenti ragioni d’ordine probatorio.
Proprio in ordine a quest’ultimo aspetto, va rilevato come la dottrina e la giurisprudenza, tanto
in Italia che in Francia, tendano a ravvisare nella convivenza more uxorio, anche se in concorso con
altri elementi, una situazione di «impossibilità morale (...) di procurarsi una prova scritta» tale da
consentire, ai sensi dell’art. 2724, n. 2 (e dell’art. 1348 del Code), la dimostrazione per testi o
presunzioni di qualsiasi contratto ( 68) concluso tra i conviventi e dunque anche di un negozio diretto
a regolare ex novo i rispettivi rapporti patrimoniali o a modificare i preesistenti, pur se conclusi per
iscritto ( 69). Non sembra pertanto inopportuno suggerire, a chi volesse evitare di doversi trovare un
giorno ad affrontare l’infido terreno della prova testimoniale, di inserire nel documento contenente
il contratto di convivenza una clausola che vincoli le parti al rispetto della forma scritta (ex art. 1352
c.c.) nel caso le stesse decidessero di apportare modifiche di sorta agli accordi raggiunti.
449.
(68) Così come di un pagamento o di una remissione di debito (cfr. artt. 2726 c.c.).
(69) In questo senso cfr. SANTILLI, Note critiche in tema di famiglia di fatto, cit., p. 803; in giurisprudenza cfr. Cass.,
12 luglio 1929, in Foro it., 1930, I, c. 96. Per la Francia v. Cass. Civ., 25 mars 1969, in Bull. civ., 1969, I, n. 124, p. 97;
Cass. Civ., 28 mai 1975, in Bull. civ., 1975, I, n. 181, p. 153; Cass. Civ., 10 octobre 1984, in Gaz. Pal., 1985, p. 186;
App. Paris, 28 février 1966, in Gaz. Pal., in D., 1966, Som., p. 106.
69
CAPITOLO V
CONTRATTI DI CONVIVENZA E
CONTRATTI TRA CONVIVENTI:
POSSIBILI CONTENUTI
SOMMARIO: 1. Gli accordi relativi alla procreazione e alla prole. – 2. Segue. Sull’estensibilità
dell’art. 158 c.c. alla separazione della famiglia di fatto. – 3. Contribuzione, mantenimento e
diritto di abitazione. – 4. Il regime comunitario (convenzionale) dei beni nei rapporti tra le
parti. – 5. Segue. Il regime comunitario (convenzionale) dei beni nei rapporti con i terzi. – 6.
Il regime separatista dei beni. – 7. Spunti in tema di impresa familiare e di fondo
patrimoniale. Il trust tra conviventi. Impostazione del problema. – 8. Segue. Della
sostanziale inutilità del trust tra conviventi, se posto a raffronto con un accorto contratto di
convivenza.
1. Gli accordi relativi alla procreazione e alla prole. Generalità.
Le considerazioni di cui ai paragrafi precedenti introducono alla trattazione di un tema
piuttosto delicato, con il quale si potrà dare inizio all’esposizione della parte attinente al profilo dei
possibili contenuti di un contratto di convivenza, o comunque di intese attinenti al ménage tra
conviventi more uxorio. Ci si intende qui riferire al tema dei rapporti con un profilo strettamente
personale, come quello della procreazione, nonché dei rapporti con la prole. Per quanto attiene al
primo aspetto dovrà senz’altro affermarsi la nullità di ogni impegno che preveda l’esecuzione di
prestazioni di carattere sessuale – in relazione al quale emergerebbe anche l’aspetto della contrarietà
al buon costume ( 1) – o, ancora, l’assunzione di un determinato cognome ( 2), la procreazione
(eventualmente mediante il ricorso a metodi di fecondazione artificiale), o la non procreazione, per
mezzo dell’imposizione dell’obbligo di far uso di sistemi contraccettivi ( 3).
(1) Nello stesso senso v. KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem
Zusammenleben, cit., p. 119 s.
(2) Si immagini l’impegno di uno o di entrambi i conviventi a esperire il ricorso al Ministero dell’interno per
ottenere il cambiamento o la modifica del cognome ex artt. 84 ss. d.p.r. 3 novembre 2000 n. 396 («Regolamento per la
revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15
maggio 1997, n. 127»), al fine assumere un cognome identico. Contraria alla validità di un impegno del genere è anche
la dottrina tedesca (cfr. STRÄTZ, Rechtsfragen des Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 306).
Una possibile (certo, ad avviso di chi scrive non auspicabile) apertura potrebbe forse ravvisarsi in una decisione
amministrativa del 2012, che ha consentito alla ricorrente di aggiungere al proprio cognome quello del soggetto, pur
non legato alla prima da rapporto di coniugio, parentela o adozione, «che si è occupato della sua istruzione nonché della
sua crescita umana e professionale ospitandola in casa» (cfr. T.A.R. Liguria, 13 gennaio 2012, disponibile alla pagina
http://www.giustiziaweb
seguente:
amministrativa.it/DocumentiGA/Genova/Sezione%201/2010/201000411/Provvedimenti/201200057_01.XML).
(3) V. BGH, 17 aprile 1986, in FamRZ, 1986, p. 773. I conviventi avevano di comune accordo deciso di non avere
figli e all’uopo la donna si era impegnata a fare uso della «pillola»; l’accordo non era però stato da quest’ultima
rispettato, tanto che dalla relazione era nato un figlio, al mantenimento del quale il convivente, quale padre naturale, era
stato condannato con sentenza passata in giudicato. L’uomo convenne quindi in giudizio la donna chiedendole il
risarcimento danni per la violazione dell’accordo sull’uso dei mezzi contraccettivi. La Corte Suprema Federale respinse
la domanda affermando la nullità di tale contratto per Sittenwidrigkeit, in quanto «lesivo della più intima sfera di libertà
personale». Potrà essere interessante aggiungere che, svariati anni dopo, il Tribunale di Milano (cfr. Trib. Milano, 19
novembre 2001, in Nuovo dir., 2002, II, p. 621) ha affermato lo stesso principio, in un caso esattamente identico, che si
differenzia dal primo solo per la maggiore fantasia dell’avvocato italiano, che non solo aveva proposto l’azione di
responsabilità ex contractu, ma aveva anche, in subordine, presentato una domanda di responsabilità aquiliana per
violazione del principio del neminem laedere, sotto il profilo del (preteso) diritto soggettivo assoluto ad avere rapporti
sessuali con una donna senza quelle… fastidiose conseguenze rappresentate dalla nascita di figli non desiderati.
Preoccupazioni analoghe a quelle sopra illustrate non paiono invece assolutamente sussistere nell’ambito della
dottrina di common law, ove le considerazioni di public policy non sembrano porre alcun ostacolo alla pattuizione di
clausole regolanti aspetti di carattere strettamente personale, quali:
a) obbligo di fissazione della residenza in comune (o di mutare l’attuale residenza comune); eventuale previsione di
70
Nella monografia sui regimi patrimoniali della famiglia di fatto lo scrivente aveva espresso
l’opinione secondo cui sarebbe stato impossibile regolare sotto qualsiasi forma anche gli aspetti
involgenti i rapporti di filiazione e l’esercizio della potestà dei genitori, che risultano già disciplinati
da norme di carattere imperativo ( 4).
La conclusione va sicuramente ribadita per tutto quanto attiene al momento costitutivo del
rapporto di filiazione (o comunque di un rapporto para-familiare). Pertanto, oltre alla già illustrata
nullità di ogni promessa avente a oggetto la procreazione ovvero l’astensione dalla procreazione, va
affermata l’invalidità dell’obbligo che i conviventi eventualmente assumessero di manifestare la
propria disponibilità all’affidamento familiare, o al compimento di un’eventuale adozione, nei limiti
in cui, ovviamente, essa possa ritenersi consentita ai soggetti non coniugati. Lo stesso è a dirsi per
l’impegno, da parte di uno o di entrambi, a effettuare, o ad astenersi dall’effettuare, il
riconoscimento della prole generata dall’unione, o, ancora, a far precedere uno dei due
riconoscimenti all’altro, strumento che altrimenti potrebbe servire (con le limitazioni, beninteso,
fissate dall’art. 262) a conseguire lo scopo di far assumere ai figli il cognome di uno piuttosto che
dell’altro dei genitori.
Diverse appaiono invece le conclusioni per ciò che attiene agli aspetti attinenti all’esercizio
della potestà sui figli comuni. Invero, come dimostrato in dottrina ( 5), dall’art. 317-bis c.c. sembra
potersi ricavare per implicito il riconoscimento da parte del legislatore della validità di intese dirette
a regolare tale aspetto, sia in relazione alla coppia in situazione «fisiologica» (mercé il rinvio all’art.
316 c.c.), sia a quella in situazione «patologica» (in cui l’intervento del giudice è previsto in
funzione meramente suppletiva). La giurisprudenza sembra del resto secondare questa
interpretazione, ammettendo la validità di accordi aventi ad oggetto l’affidamento della prole
naturale ( 6). Nessun dubbio dovrebbe poi porsi sull’ammissibilità dell’eventuale regolamentazione
pattizia della misura in cui ciascuno dei conviventi contribuirà al mantenimento dei figli
(eventualmente anche non minorenni).
Questi risultati hanno ricevuto conferma dalle disposizioni della normativa in tema di
affidamento condiviso, estensibili, come si è già detto, anche alla famiglia di fatto, per effetto del
citato 4 cpv., l. 8 febbraio 2006, n. 54. In forza di queste norme, invero, il giudice è obbligato a
«Prende(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr.
art. 155 cpv. c.c.). D’altro canto, i conviventi possono liberamente sottoscrivere accordi in merito al
mantenimento dei figli (come stabilito dall’art. 155, quarto comma, c.c.), eventualmente anche in
una «residenza alternata» per determinati periodi di tempo;
b) termini di durata del rapporto, identificati con una data ben precisa, ovvero con un certo avvenimento che funge,
per così dire, da condizione risolutiva (per esempio: conviveremo almeno sin tanto che mi sarò laureato in
giurisprudenza, o finché i figli avranno terminato le scuole);
c) relazioni personali o interpersonali, dal cognome che ciascuno dei partners assumerà, alla fedeltà, all’«apertura»
della coppia a terzi, all’uso di sistemi per il controllo delle nascite, all’impegno ad adottare uno o più figli;
d) fissazione degli scopi della relazione, aspirazioni dei conviventi, priorità di carriera, impegni di carattere sociale e
a beneficio di determinate comunità, scelta della confessione religiosa da seguire e dell’insegnamento da impartire ai
figli (v. WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1250 ss.; l’unico impegno che l’Autore individua come
contrario all’ordine pubblico, sulla base di alcuni precedenti giurisprudenziali, è quello dei conviventi di non sposarsi,
tra di loro così come con terze persone).
(4) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 205 ss.; in senso conforme cfr. ora anche DE
SCRILLI, I patti di convivenza. Considerazioni generali, cit., p. 860.
(5) Cfr. GIGLIOTTI, Rottura della convivenza more uxorio e affidamento del figlio naturale: rilevanza dell’accordo
parentale sulle condizioni della «separazione», Nota a Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit., p. 613 ss., 630;
PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, cit., p. 611 s. Sul tema v. poi anche OBERTO, Contratti di convivenza e
diritti del minore, in Dir. fam. pers., 2006, p. 240 ss.
(6) Cfr. Trib. Palermo, 18 febbraio 1987, in Dir. fam pers.., 1987, p. 760; Trib. Monza, 22 giugno 1990, in Foro
pad., 1991, p. 531 (si noti che il richiamo ai «coniugi», di cui alla massima riportata sulla rivista citata, è frutto di
errore: dalla motivazione si desume, infatti, che trattavasi di convivenza more uxorio). Un accenno in proposito sembra
essere contenuto anche nella motivazione di una pronunzia di legittimità, secondo cui «l’art. 317-bis pone alcuni criteri
attributivi dell’esercizio della potestà e prevede come meramente eventuale e successivo l’intervento del giudice,
costruendolo come preordinato a correggere il cattivo funzionamento dei criteri predetti ed eventualmente a stabilire
regole alternative, secondo un ampio spettro di ipotesi che arriva fino alla possibilità di escludere entrambi i genitori
dall’esercizio della potestà» (cfr. Cass., Sez. Un., 25 maggio 1993, n. 5847).
71
deroga al criterio di proporzionalità scolpito nell’art. 148 c.c. ( 7).
2. Segue. Sull’estensibilità dell’art. 158 c.c. alla separazione della famiglia di fatto.
Il vero problema, in relazione agli accordi sulla prole, è, semmai, quello di trovare un sistema
che possa «inchiodare» le parti alle loro responsabilità, ed ottenere uno strumento che garantisca
contro il rischio che una di esse cambi successivamente idea.
La mancanza di un siffatto meccanismo rende evidente la disparità di trattamento rispetto alla
situazione della rottura della coppia coniugata: in quest’ultimo caso, infatti, si arriva a un atto (il
verbale di separazione consensuale) munito di forza esecutiva; nel caso invece della famiglia di
fatto l’intesa, sottoscritta dalle parti, è racchiusa in un documento che – ancorché vincolante per le
parti – non può essere posto alla base di un’azione esecutiva. Ciò, ovviamente, a meno che il
tribunale non intenda in qualche modo recepire l’accordo in un suo provvedimento o emanare una
decisione che assuma i caratteri di una sorta di decreto di omologa analogo a quelli che il tribunale
ordinario emana ai sensi dell’art. 158 c.c.
La questione pone un problema di legittimità costituzionale. La Consulta, a dire il vero, si è
già occupata della materia, respingendo le questioni che le erano state proposte. Peraltro, come
risulta evidente dalla lettura delle sentenze emesse al riguardo nel 1996 e nel 1997 ( 8), la questione
non era stata presentata sotto questo angolo visuale. Ciò che si era chiesto alla Corte costituzionale
era di decidere se rispondesse a criteri di razionalità il fatto che i figli legittimi sono, per così dire,
«gestiti» dal tribunale ordinario, mentre quelli naturali lo sono (ma solo limitatamente ai profili
personali) dal tribunale per i minorenni. E qui la Consulta ebbe buon gioco a dire che si tratta di un
problema di discrezionalità del legislatore, il quale può sbizzarrirsi ad individuare varie forme di
competenza, attribuendole ora ad un giudice piuttosto che ad un altro. A ciò s’aggiunga che, nel
caso dell’assegno per il minore naturale e dei relativi rapporti patrimoniali, l’azione è vista come
azione tra genitori e non involge direttamente la posizione, come soggetto processuale, del minore:
non deve dunque destare «scandalo» il fatto che ad occuparsene sia il tribunale ordinario, mentre
per i profili personali è competente il tribunale per i minorenni.
A ben vedere, la questione potrebbe invece essere (ri)proposta sotto questo altro angolo
visuale: un medesimo tipo di accordo, caratterizzato dalla vincolatività scaturente dall’art. 1372 c.c.
(e poco importa se la norma sia espressamente dettata solo per i rapporti patrimoniali, atteso che,
come si è visto, il principio è sicuramente estensibile anche ai negozi familiari non patrimoniali),
può essere garantito dalla presenza di un titolo esecutivo (il verbale ex art. 158 c.c.), se concerne la
prole legittima, laddove ciò non accade se quello stesso tipo d’intesa riguarda invece la prole
naturale.
Naturalmente, si potrà obiettare che esistono dei rimedi, miranti a determinare la creazione di
un titolo esecutivo: l’accordo sulla prole naturale può (almeno per ciò che concerne i profili
patrimoniali) essere fatto valere in sede di procedimento contenzioso ordinario, ovvero essere posto
alla base di una richiesta per decreto ingiuntivo. L’intesa potrebbe poi anche essere recepita da un
atto notarile (o, secondo quanto disposto dall’art. 474, primo comma, n. 2, c.p.c., così come
modificato nel 2005, essere racchiusa in una scrittura privata autenticata), così acquistando efficacia
di titolo esecutivo ex art. 474 c.p.c., per le obbligazioni aventi ad oggetto pagamento di somme di
denaro. Peraltro, tutti quelli appena indicati sono strumenti costosi, che presuppongono una parte
ben assistita ed avvisata, e che comunque marcano una ingiustificata disparità di trattamento,
fondata sul solo fatto di appartenere alla categoria dei figli legittimi, piuttosto che a quella dei figli
(7) Sempre che, come si è visto trattando della materia con riguardo alla crisi coniugale (cfr. OBERTO, Contratto e
famiglia, cit., p. 138), tale facoltà di deroga non venga un giorno colpita da declaratoria di incostituzionalità, nel caso si
dovesse ritenere il citato criterio munito di garanzia costituzionale, ex art. 30 Cost. Per alcuni spunti pratici in merito a
possibili intese al riguardo cfr. PIANEZZE, op. cit., p. 183 ss.
(8) Cfr. Corte. cost., 5 febbraio 1996, n. 23, in Giust. civ., 1996, I, p. 917; in Foro it., 1997, I, c. 61, con nota di
CIPRIANI; in Dir. fam. pers., 1996, I, p. 1327, con nota di BORDONARO; Cass., 30 dicembre 1997, n. 451, in Giust. civ.,
1997, I, p. 913; in Dir. fam. pers., 1998, I, p. 484, con nota di MORANI; in Foro it., 1998, I, c. 1377, con nota di
COSENTINO.
72
naturali.
La soluzione pratica potrebbe essere reperita sfruttando addirittura alcune indicazioni date
dalla stessa Corte costituzionale che, per almeno due volte, ha respinto domande dirette ad ottenere
l’estensione – per via di pronunzie di accoglimento – ai figli naturali di rimedi concessi a tutela di
quelli legittimi, affermando poi, in buona sostanza (cioè per via di decisioni interpretative di
rigetto), l’applicabilità ai primi di norme dettate per i secondi ( 9). Una volta tracciata la via
dell’«interpretazione adeguatrice» degli artt. 155 c.c. (ora art. 155-quarter c.c., direttamente
applicabile, tra l’altro, alla famiglia di fatto ex art. 4 cpv., l. 8 febbraio 2006, n. 54, come più volte
ricordato), relativamente al diritto di abitazione nella casa familiare, e 156 c.c., sullo strumento del
sequestro, non si vede perché non si potrebbe ipotizzare una ripetizione del medesimo ragionamento
anche per la procedura di cui all’art. 158 c.c., riconoscendone la riferibilità anche alla «separazione»
della famiglia di fatto ed in tal modo avallando una prassi che nei tribunali ha già preso piede.
A tutto ciò s’aggiunga, infine, che il già mentovato dovere del giudice (anche nel caso di
procedure relative alla famiglia di fatto) di «prendere(re) atto, se non contrari all’interesse dei figli,
degli accordi intervenuti tra i genitori» (cfr. art. 155 cpv. c.c.) viene a munire di ulteriore,
difficilmente discutibile, fondamento una siffatta operazione ermeneutica.
3. Contribuzione, mantenimento e diritto di abitazione.
Una volta esaurito – nell’ambito dei §§ precedenti – l’esame dei possibili contenuti di
carattere non patrimoniale ed il tema dei rapporti con la prole, c’è da chiedersi quali siano in
concreto i singoli rapporti patrimoniali tra i conviventi more uxorio che possano formare oggetto di
regolamentazione negoziale.
In primo piano si pone l’impegno reciproco di contribuire alle necessità del ménage mediante
la corresponsione (periodicamente o una tantum) di somme di denaro, ovvero tramite la messa a
disposizione di propri beni o della propria attività lavorativa, eventualmente anche soltanto
domestica ( 10). La validità di tale impegno, che dovrebbe fissare altresì misura e modalità della
contribuzione di ciascuno, non sembra possa contestarsi ( 11), così come quella di una promessa
avente a oggetto la reciproca assistenza materiale per il caso di necessità ( 12). Al riguardo potrebbe
rivelarsi di una certa utilità la previsione di eventuali situazioni alla stregua di «cause di
giustificazione» per il mancato adempimento dell’obbligo contributivo, come per esempio nel caso
in cui una delle parti dovesse trovarsi senza sua colpa nell’impossibilità di ricevere reddito (si pensi
alla disoccupazione involontaria).
(9) Cfr. Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Giust. civ., 1998, I, p. 1759; in Guida dir., 1998, n. 21, p. 40, con
nota di A. FINOCCHIARO; in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 678, con nota di FERRANDO; in Rass. dir. civ., 1998, p.
880, con nota di VELLUZZI (sull’attribuzione della casa familiare in sede di separazione giudiziale), e Corte cost., 18
aprile 1997, n. 99 del 1997, in Guida dir., 1997, n. 16, p. 24, con nota di M. FINOCCHIARO; in Dir. fam. pers., 1997, I, p.
837; in Giust. civ., 1997, I, p. 2072 (in materia di sequestro ex art. 156 c.c.).
(10) Sul punto, per i necessari approfondimenti, cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241
ss.; ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 114 ss.; per la dottrina successiva cfr. FRANZONI, I
contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 752 ss.; DEL PRATO, Patti di convivenza, cit., p. 982 ss.
(11) Sul punto cfr. VERHEYDEN-JEANMART, Le developpement de la famille de fait - Aspectes socio-juridiques - La
situation en droit belge, in AA. VV., Una legislazione per la famiglia di fatto?, Napoli, 1988, p. 65, secondo cui ben può
formare oggetto dei contratti in esame l’«obligation de secours et de contribution aux charges du ménage de fait
pendant l’union et après sa rupture». Cfr. inoltre il cosiddetto «modello di Leida», redatto ormai diversi anni or sono
sotto la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (in AA. VV., Couple et
modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 520 ss.), che all’art. 3, primo comma, prevede una
contribuzione dei conviventi in parti uguali o in misura proporzionale ai rispettivi redditi, con specificazione, al comma
secondo, di quelle spese cui entrambi sono tenuti a contribuire come effettuate nel cadre du ménage commun, quali
l’acquisto di generi alimentari, vestiti, elettrodomestici, mobilio, telefono, ecc. Si veda infine anche la formula elaborata
dalla Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires du Québec., in AA. VV., Couple et
modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 514 ss., che prevede la fissazione delle modalità della
contribution aux charges du ménage, in proporzione alle proprie rispettive facoltà, ovvero con specificazione delle
rispettive misure.
(12) Cfr. STEINERT, Vermögensrechtliche Fragen während des Zusammenlebens und nach Trennung
Nichtverheirateter, cit., p. 685.
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La dottrina italiana pare orientata a individuare quale contenuto dei contratti di convivenza
l’obbligo di corresponsione di somme di denaro a titolo di mantenimento da parte del partner più
abbiente in favore di quello più bisognoso ( 13). Ma c’è da chiedersi se invece non convenga optare
per forme negoziali più collaudate, quali per esempio il contratto di mantenimento vitalizio ( 14). Si
tratta della convenzione con la quale una parte attribuisce all’altra il diritto di esigere, vita natural
durante, di essere mantenuta, quale corrispettivo dell’alienazione di un bene mobile o immobile o
della cessione di un capitale ( 15). Più precisamente, l’obbligo del vitaliziante consiste non già nel
versamento di somme di denaro, ma nella corresponsione, in natura, di vitto, alloggio vestiario e
assistenza medica, anche se la prassi conosce altre pattuizioni di carattere accessorio ( 16).
Proprio l’appartenenza di tali prestazioni al novero di quelle di fare, anziché di dare, ha da
sempre indotto la dottrina maggioritaria a evidenziare l’atipicità del contratto in esame rispetto alla
rendita vitalizia, secondo una tesi che riscuote ora anche il consenso della Suprema Corte, e che
pare senz’altro preferibile, anche in considerazione del cospicuo numero di altri elementi
differenziatori nei riguardi della figura regolata dall’art. 1872 ss. c.c. ( 17). Nell’ambito dei rapporti
tra conviventi more uxorio il contratto di mantenimento vitalizio potrebbe però assumere un
ulteriore connotato caratterizzante, idoneo ad allontanarlo definitivamente dalla rendita vitalizia.
Nello schema negoziale potrebbe infatti mancare la cessione della proprietà di determinati beni dal
vitaliziato al vitaliziante, specie quando uno dei due difettasse dei mezzi necessari per
un’operazione del genere. In tal caso la controprestazione, a fronte dell’impegno del vitaliziante,
potrebbe essere costituita da un obbligo reciproco di assistenza materiale, oppure potrebbe mancare
del tutto.
Ma a questo punto occorre ammettere che il primo caso non sembra differire di molto dal
contratto di contribuzione che si è cercato di enucleare in precedenza, mentre nel secondo appare
inevitabile riconoscere la presenza di una donazione. Proprio per questo, la previsione dell’obbligo
di mantenimento a carico di una soltanto delle parti, senza alcuna controprestazione, richiede
necessariamente il rispetto della forma solenne, ex art. 782 c.c. ( 18).
(13) Cfr. MAZZOCCA, La famiglia di fatto. Realtà attuale e prospettive, cit., p. 92; cfr. inoltre GAZZONI, Dal
concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165.
(14) È il suggerimento di CALÒ, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., p. 1171.
(15) V. per tutti CALÒ, Contratto di mantenimento e proprietà temporanea, cit., p. 1165; ANDREOLI, La rendita
vitalizia, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1958, p. 47 ss. Per un caso di contratto di mantenimento
tra conviventi in Germania v. BGH, 29 giugno 1973, in NJW, 1973, p. 1645, che ha affermato la validità di un accordo
con cui un uomo aveva trasferito alla propria convivente la proprietà di un immobile, riservandosi il diritto vitalizio
d’abitazione sullo stesso, in cambio dell’impegno della convivente di assisterlo e curarlo per il resto dei suoi giorni
(nella specie la Sittenwidrigkeit è stata esclusa perché il negozio non appariva direttamente rivolto a remunerare le
prestazioni sessuali della convivente, tenuto conto, da un lato, della durata del rapporto e, dall’altro, che l’onere della
prova dell’immoralità gravava sull’attore).
(16) Tali prestazioni accessorie possono avere natura patrimoniale (v. per esempio il caso risolto da Cass., 11
novembre 1988, n. 6083, cit., in cui il vitaliziante si era impegnato verso il vitaliziato ad effettuarne «il trasporto in
macchina in città italiane, della Francia o della Svizzera» e a «ospitare parenti ed amici del vitaliziato in caso di
malattia»), ma anche non patrimoniale (si pensi all’impegno di prestare assistenza morale, o compagnia ovvero, ancora,
di convivere con il vitaliziato), sulle quali ultime si addensano però i dubbi di validità già prospettati, tanto con
riferimento alla possibilità per tali prestazioni di formare oggetto di rapporto obbligatorio e di contratto, ex artt. 1174 e
1321 c.c., quanto, soprattutto, con riguardo agli aspetti d’ordine pubblico per l’eventuale lesione della libertà personale
del vitaliziante. Sul tema v. da ultimo Cass., 19 luglio 2011, n. 15848, secondo cui «È valido un atto, qualificato come
contratto atipico di mantenimento, con il quale una parte aliena la comproprietà del 50% dell’immobile in cui vive, in
cambio dell’obbligo, assunto dagli acquirenti, di vitto, alloggio e assistenza perpetua. (Nella specie, la Corte ha
confermato la validità dell’atto con il quale una parte aveva venduto i diritti di comproprietà pari a 1/2 di un immobile
in cambio dell’obbligo degli acquirenti di fornire “assistenza di ogni genere anche in caso di infermità”, unitamente ad
“alloggio e vitto, e ogni altro genere utile e necessario al sostentamento e abbigliamento”, atteso che, alla luce della
ragionevole incertezza sulle possibilità di sopravvivenza della cedente e sulla gravosità delle prestazioni assunte dai
vitalizianti, ben poteva ravvisarsi l’elemento dell’alea, costituito dall’impossibilità di prevedere in anticipo i vantaggi
e le perdite ai quali le parti andavano incontro con la stipulazione dell’atto)».
(17) Per i richiami cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 242 ss.
(18) Si tratterebbe in particolare di donazione di prestazioni periodiche, ai sensi dell’art. 772 c.c. Nel senso che tra le
prestazioni di cui alla norma citata possono rientrare «quelle che hanno funzione alimentare, di beneficenza o di
soccorso» cfr. CARNEVALI, Gli atti di liberalità e la donazione contrattuale, cit., p. 468. Nel senso che «è nulla, per
difetto di forma, la donazione contenuta in una scrittura privata, denominata “transazione”, con cui la parte si obbliga a
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Non va trascurato poi che un accordo del genere potrebbe dar luogo a sospetti di contrarietà al
buon costume, inducendo a ritenere che la controprestazione per l’impegno a mantenere sia in realtà
costituita dal consenso alle relazioni sessuali; appare quindi consigliabile che nel contratto di
convivenza l’eventuale obbligo di mantenimento assunto da uno dei contraenti a vantaggio
dell’altro venga posto in corrispondenza biunivoca con un reciproco dovere di contribuzione,
ovvero con un’altra prestazione a carico del beneficiario, che potrà essere costituita dalla cessione
di un capitale, ovvero dalla prestazione di lavoro domestico, o ancora dalla messa a disposizione di
certi beni ( 19), usando peraltro l’accortezza, qualora vi sia sproporzione tra le prestazioni, di
osservare la forma solenne prevista per la donazione.
Un problema legato a siffatto tipo di negozi riguarda la possibilità della previsione di
eventuali limiti d’ordine temporale all’obbligo di contribuzione così fissato. In proposito, si può
innanzitutto ritenere valida anche un’espressa subordinazione degli effetti del vincolo obbligatorio
alla durata del rapporto di fatto, in quanto una clausola del genere verrebbe a concretare una
condizione risolutiva ordinariamente (e non meramente) potestativa. Inutile dire che una siffatta
cautela appare consigliabile per il partner che figuri quale unico (o prevalente) obbligato e voglia
porsi al riparo dal rischio di dover continuare ad adempiere anche dopo la rottura del legame.
Come si è invero dimostrato in altra sede ( 20), la presupposizione non sembra poter giocare
alcun ruolo nel contesto dei rapporti tra conviventi. Assai più delicato appare invece l’aspetto della
possibilità di pattuire una durata minima del periodo di corresponsione della contribuzione
(consistente eventualmente anche nella prestazione lavorativa, specie se domestica) o del
mantenimento, indipendentemente dalla durata del ménage. Una simile clausola – una delle poche
in grado di costituire una vera garanzia per il convivente «debole» – potrebbe infatti venirsi a
scontrare con quel principio generale d’ordine pubblico che fa divieto ai soggetti di assumere
vincoli giuridici di durata eccessiva. L’ammissibilità di un impegno del genere apparirebbe dunque
a prima vista collegata al rispetto di convenienti limiti di tempo, la cui concreta estensione dovrebbe
essere di volta in volta accertata, tenute in considerazione le particolarità del caso concreto.
Peraltro, proprio l’indiscussa validità del contratto vitalizio di mantenimento induce ad affermare
che una prestazione di tipo contributivo-assistenziale possa essere efficacemente assunta anche per
un numero considerevole di anni, ovvero per tutta l’esistenza del beneficiario; l’unico limite sarà
dunque costituito dalla durata della vita del creditore della prestazione.
Lo strumento contrattuale è poi sicuramente idoneo a regolamentare il diritto di abitazione del
partner che non sia proprietario dell’appartamento ove si svolge il ménage. Il tema è già stato
affrontato e verrà ripreso in relazione al profilo della rottura ( 21).
In questa sede potrà solo precisarsi che la possibilità di contribuire alle necessità del ménage,
vuoi di fatto così adempiendo all’obbligazione naturale tra conviventi, vuoi di diritto, per effetto
della specifica assunzione di un obbligo in tal senso, riceve conferma dalla sensibilità mostrata dalla
giurisprudenza formatasi sul tema della tutela delle esigenze abitative della coppia. Ed invero, già
diversi anni or sono si è ammessa l’applicabilità alla famiglia di fatto della norma che consente al
locatore di opporsi alla proroga del contratto di locazione, qualora abbia necessità di destinare
versare al beneficiario una determinata somma mensile per tutta la durata della vita di quest’ultimo» cfr. Cass., 29
novembre 1986, n. 7064, cit.
(19) Si pensi alla casa d’abitazione e al relativo arredo, all’automobile, ecc. In relazione alla casa di abitazione è stato
proposto di prevedere, nell’ipotesi l’immobile sia di proprietà di uno solo, l’obbligo per l’altro di corrispondere una
somma per l’uso del bene (v. il «modello di Leida», cit., art. 4, primo comma). L’operazione finirebbe però con
l’assoggettare il rapporto alla disciplina della locazione, a nulla potendo giovare l’esplicita esclusione di tale effetto
(pure suggerita dal «modello» cit.: v. art. 4, terzo comma).
(20) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 139 ss.; ID., Le prestazioni lavorative del
convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.
(21) Come è accaduto nella già citata ipotesi presa in considerazione da Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit., o in
quella di cui a Trib. Savona, 7 marzo 2001, cit., o Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, cit. Sul tema cfr. OBERTO, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 285 ss.; ID., Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e
regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, in Fam. dir. 2006, p. 661 ss.; ASPREA,
L’assegnazione della casa familiare nella separazione, nel divorzio e nella convivenza, Torino, 2003, p. 104 ss.
75
l’immobile ad abitazione del proprio nucleo familiare ( 22).
4. Il regime comunitario (convenzionale) dei beni nei rapporti tra le parti.
Il contenuto più importante di un contratto di convivenza, in grado di predisporre uno
strumento veramente incisivo a vantaggio del partner «debole» potrebbe essere costituito dalla
riproduzione per via negoziale di quello che nella famiglia legittima è il regime legale.
Al riguardo va subito detto che, pur non sussistendo in linea di principio nel nostro
ordinamento ragioni per ritenere vietata tale operazione ( 23), l’effetto non potrebbe comunque mai
essere quello di un’applicazione dell’istituto della comunione coniugale nella sua interezza. Invero,
è evidente che, per il principio della privity of contract (art. 1372 c.c.), non potrebbero comunque
mai essere imitati gli effetti «esterni» tipici della comunione, che pure di tale regime costituiscono
uno dei punti più qualificanti. Si pensi, in particolare, all’opponibilità ex lege della proprietà
comune ex art. 177, lett. a), c.c. anche in difetto di trascrizione dell’acquisto in favore di entrambi
( 24), con il connesso rimedio dell’annullabilità degli atti di disposizione relativi ai beni immobili o
mobili registrati compiuti da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, ai sensi dell’art.
184, primo e secondo comma, c.c.
Quanto sopra era già stato chiaramente espresso, in termini identici, dall’autore di questo
studio diversi anni or sono ( 25): sbalorditive appaiono dunque le asserzioni di chi, probabilmente
senza aver letto il contributo citato, vorrebbe (impropriamente) imputare allo scrivente l’intento
di… perseguire la «possibilità di fruire degli effetti cc.dd. esterni della comunione legale, quale
l’automatica opponibilità del coacquisto, anche se trascritto in favore di un solo coniuge» ( 26).
Gioverà dunque ribadire – a scanso d’equivoci – che ciò che si può prevedere è, invece, un
regime di comunione (ordinaria) in relazione a tutti (o eventualmente ad alcuni) i beni da acquistarsi
durante la convivenza, anche da parte di uno solo dei conviventi. L’effetto potrebbe essere
conseguito mediante la pattuizione di una versione contrattuale dell’«acquisto automatico» di cui
all’art. 177, lett. a), c.c. e, dunque, di un effetto reale di trasferimento di una quota ideale dei diritti
acquisiti (non necessariamente pari al 50%) ( 27) che si dovrebbe verificare automaticamente all’atto
stesso del perfezionamento di ogni negozio acquisitivo da parte di uno dei partners. Un’altra
possibilità sarebbe costituita da un impegno di natura meramente obbligatoria a trasferire la
titolarità di una quota del diritto acquistato, con un meccanismo analogo a quello di cui all’art. 1706
c.c. ( 28).
(22) Pret. Pordenone, 7 dicembre 1950, in Foro it., 1951, I, c. 800; non diversamente, ma dal lato del conduttore,
Pret. Sampierdarena, 20 ottobre 1979, in Foro it., 1980, I, c. 1214; Pret. Bassano del Grappa, 26 giugno 1978, in Giur.
it., 1978, I, 2, c. 446; Trib. Firenze, 13 gennaio 1951, in Foro. it., 1951, I, c. 800.
(23) Con l’ovvia precisazione che «riproduzione» non significa meccanica trasposizione degli istituti del diritto
matrimoniale, bensì creazione, per mezzo di un contratto e per quanto possibile, di effetti analoghi. In quest’ottica v. già
FUNAIOLI, Sui rapporti patrimoniali della convivenza «more uxorio», in Riv. dir. comm., 1941, II, p. 213 s.; contra
TEDESCHI, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1963, p. 442, secondo cui le particolarità proprie dei regimi
matrimoniali non potrebbero essere in alcun modo riprodotte nell’ambito di una convivenza more uxorio.
(24) Su cui v. per tutti OBERTO, La comunione legale tra coniugi, II, cit., p. 2169 ss.; v. anche CORSI, Il regime
patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 72.
(25) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 262 ss., 268 ss.
(26) Cfr. DE SCRILLI, I patti di convivenza. Considerazioni generali, cit., p. 863.
(27) Le gravi incertezze interpretative cui ha dato luogo la norma citata circa l’individuazione dell’oggetto della
comunione legale sconsigliano in ogni caso il riferimento ad un concetto generico come quello di «acquisto». Sarà
invece opportuno indicare quali siano i diritti destinati a cadere in comunione, specificandone la natura (se cioè reale o
obbligatoria) e distinguendo a seconda del modo d’acquisto (se cioè a titolo originario, derivativo, mortis causa, ecc.). È
comunque consigliabile elencare con esattezza anche quelle categorie di rapporti che, in considerazione della loro
natura personale, è opportuno restino esclusi dalla comunione.
(28) «Meccanismo analogo a quello di cui all’art. 1706» (cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 265 ss.) non significa, ovviamente, che il negozio di cui si discute abbia natura di mandato senza rappresentanza,
secondo l’equivoco su cui si basano i rilievi di DEL PRATO, Patti di convivenza, cit., p. 985, ad avviso del quale lo
schema di riferimento sarebbe quello del contratto preliminare. Sul punto sarà appena il caso di rilevare come un
contratto preliminare, per effetto della disposizione di cui all’art. 1351 c.c., non possa concepirsi se non in relazione ad
un definitivo che sia predeterminato per ciò che attiene non solo ai soggetti, ma anche all’oggetto; si tratta, dunque, di
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Nessuna obiezione sembra sollevabile circa la determinabilità dell’oggetto di un simile
contratto. È infatti noto che tale requisito può ritenersi soddisfatto anche quando, una volta
individuati nel titolo gli elementi necessari e sufficienti per compiere la determinazione,
quest’ultima avvenga sulla base di eventi esteriori, quali comportamenti o dichiarazioni delle stesse
parti o di terzi: basti pensare alla nota teoria giurisprudenziale della «determinabilità ex post» ( 29).
L’impostazione sembra del resto ricevere un conforto legislativo dalla disciplina normativa della
cessione dei crediti d’impresa, che ammette, per l’appunto, tale cessione «anche prima che siano
stipulati i contratti dai quali [i crediti stessi] sorgeranno» (cfr. art. 3, l. 21 febbraio 1991, n. 52
«Disciplina della cessione dei crediti di impresa»). A tale proposito, al fine di prevenire liti future,
sarà opportuno identificare con estrema precisione tanto il dies a quo che quello ad quem per
l’operatività dell’effetto acquisitivo (per l’individuazione di quest’ultimo si potrebbe, per esempio,
richiedere l’invio di una lettera raccomandata).
Alla luce delle precisazioni di cui sopra, già fornite da tempo da parte di chi scrive ( 30),
appaiono piuttosto sorprendenti le critiche di chi ( 31), in relazione all’ipotesi del ritrasferimento
automatico, rispolvera l’argomento dell’intrascrivibilità del mandato: rilievo, questo, del tutto
ininfluente nella specie, proprio perché, come chi scrive si è sforzato (inutilmente, verrebbe da dire)
di spiegare, il «regime» tra conviventi è comunque una situazione puramente interna. A prescindere,
poi, dal fatto che non sembra metodologicamente corretto far derivare dalla disciplina pubblicitaria
(che rappresenta, semmai, un posterius) conseguenze sul piano dell’esistenza degli istituti giuridici
«sostanziali».
Quanto all’asserita indeterminatezza dell’oggetto ( 32), si è anche qui (altrettanto inutilmente)
cercato di spiegare, da tempo, che non di (asserita) determinatezza si tratta, bensì di (comprovata)
determinabilità ex post, esattamente come per decenni ha fatto la giurisprudenza di legittimità per la
fideiussione omnibus, secondo una ratio decidendi condivisa poi, come si è dimostrato, dallo stesso
legislatore.
5. Segue. Il regime comunitario (convenzionale) dei beni nei rapporti con i terzi.
Come più volte anticipato, il limite principale dell’istituto che si è tentato di delineare è
costituito dai rapporti con i terzi. Invero, l’opponibilità a questi ultimi della comproprietà sui beni
acquistati nel corso della convivenza non potrebbe essere riprodotto nemmeno mediante il ricorso al
meccanismo della trascrizione del contratto di convivenza. Tale contratto, tanto nella sua versione a
effetti reali differiti, che in quella a effetti meramente obbligatori, non potrebbe certo operare
all’atto della sua conclusione il trasferimento di alcun diritto reale immobiliare, ma si
configurerebbe come una sorta di mero «accordo programmatico».
Conseguentemente, non soltanto si esulerebbe dalle ipotesi per le quali l’istituto della
trascrizione è (tassativamente) previsto, ma verrebbe anche a mancare quella specifica indicazione
dei singoli beni oggetto dell’atto, che, sola, può rendere tecnicamente sottoponibile il negozio a
pubblicità (cfr. artt. 2659, n. 4, c.c., 2665 c.c.) ( 33). L’unico rimedio di natura reale competente al
partner «pretermesso» sarebbe allora quello della proposizione contro l’altro di un’azione di
rivendica (nel caso di effetto reale differito), ovvero di una domanda ex art. 2932 c.c. (nel caso di
semplice obbligo a trasferire) con immediata trascrizione dell’atto di citazione, ai sensi e per gli
una situazione non riscontrabile nel caso di specie.
(29) Elaborata, come noto, dalla giurisprudenza di legittimità in tema di fideiussione omnibus (su cui v. ex multis
Cass., 20 luglio 1989, n. 3386, in Foro it., 1989, I, c. 3100).
(30) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 260 ss.; ID., Contratto e famiglia, cit., p. 377
ss. Aderiscono a siffatta impostazione FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», cit., p. 755; SESTA, Diritto di
famiglia, cit., p. 415; FALLETTI, La famiglia di fatto: la disciplina dei rapporti patrimoniali tra i conviventi, cit., p. 81
s.; RICCIO, op. cit., p. 459; ARCANI, op. cit., p. 912 s.
(31) MONTEVERDE, op. cit., p. 952.
(32) Cfr. sempre MONTEVERDE, op. cit., p. 952.
(33) Per non dire poi del fatto che, in assenza della specificazione dei beni oggetto dei negozi da trascrivere, non
sarebbe neppure individuabile la conservatoria (ora ufficio del territorio) territorialmente competente.
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effetti, rispettivamente, degli artt. 2653, n. 1 c.c. o 2652, n. 2, c.c. ( 34).
Quel fenomeno tipico del regime comunitario tra coniugi rappresentato dall’indisponibilità
della quota, se non con il consenso di entrambi ( 35), potrebbe essere conseguito mediante un vincolo
pattizio di inalienabilità sulle rispettive porzioni dei beni acquistati, vincolo la cui previsione, in
considerazione dei particolari rapporti esistenti tra le parti, potrebbe ritenersi determinata da un
interesse «apprezzabile» ex art. 1379 c.c. Proprio per via di questa norma, però, esso andrebbe
contenuto entro convenienti limiti di tempo, né potrebbe essere opposto ai terzi, nemmeno mediante
il meccanismo della trascrizione ( 36). L’unico rimedio prevedibile in sede di stipula del contratto di
convivenza sembra dunque costituito da una penale a vantaggio del convivente «pretermesso», che
sarebbe così liberato dall’onere di fornire la dimostrazione (per il vero tutt’altro che agevole) di
aver subito un danno per effetto della alienazione della sola quota di comproprietà del partner.
Per quanto concerne l’amministrazione dei beni in comunione l’art. 1100 c.c. lascia alle parti
la massima discrezionalità, espressamente enunciando il carattere dispositivo delle norme di cui al
capo I del titolo VII: potranno quindi fissarsi a piacimento regole sull’amministrazione straordinaria
ovvero ordinaria prevedendo la congiuntività o disgiuntività delle stesse, così come enucleando
singoli atti in relazione ai quali venga imposto l’agire congiunto piuttosto che disgiunto ( 37). Sarà
appena il caso di aggiungere che un eventuale patto di indivisione sarà soggetto alle disposizioni di
cui all’art. 1111 cpv. c.c., mentre i rimedi da applicarsi in caso di «blocco» nell’amministrazione o
di decisioni pregiudizievoli per le cose comuni saranno quelli ex artt. 1105 c.c. e 1109 c.c. e non già
quelli di cui agli artt. 181, 182 e 183 c.c.
Relativamente allo scioglimento della comunione convenzionale tra conviventi occorrerà fare
richiamo innanzitutto alla già illustrata necessità di legare il dies ad quem a un evento ben preciso,
quale, per esempio, l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Per il resto, sarà d’uopo rinviare a un apposito capitolo ( 38), nel quale verranno passati in
rassegna i problemi ricollegati alla cessazione del ménage. In questa sede si potrà ricordare soltanto
che è stata suggerita la redazione di una lista dei beni mobili apportati da ciascuno dei conviventi,
sottoscritta da entrambi, che avrebbe carattere di negozio ricognitivo e servirebbe, in caso di rottura,
a risolvere possibili conflitti relativi alla rivendica di singoli beni ( 39), in tal modo supplendo alla
mancanza tra conviventi di una regola analoga a quella di cui all’art. 219 c.c.
Peraltro l’utilità della redazione di tale checklist appare assai dubbia, essendo controversa,
come noto, l’estensibilità dell’effetto di cui all’art. 1988 c.c. (astrazione processuale) ai rapporti di
carattere reale ( 40). Si potrebbe allora consigliare di specificare accanto a ognuno dei singoli beni il
rispettivo titolo d’acquisto: la sottoscrizione apposta dal partner assumerebbe così valore
confessorio non solo in ordine alla proprietà (ed è noto che sotto questo profilo la dichiarazione
sarebbe irrilevante, risolvendosi in un giudizio), ma anche sulle vicende (e dunque su meri fatti) che
(34) Su questi temi v. già OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 268 s.
(35) Sul problema dell’alienabilità della quota di pertinenza di ciascun coniuge in regime di comunione legale v. per
tutti OBERTO, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 315 ss.; cfr. inoltre BUSNELLI, La «comunione legale» nel
diritto di famiglia riformato, in Riv. notar., 1976, I, p. 42; SCHLESINGER, Della comunione legale, in Commentario alla
riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977, p. 365 s.
(36) Alla trascrivibilità del patto previsto dall’art. 1379 c.c. si oppongono non soltanto il carattere speciale di questa
disposizione, ma anche la tassatività delle ipotesi in cui la pubblicità ex artt. 2643 ss. c.c. è consentita (su quest’ultimo
argomento cfr. Cass., 18 febbraio 1963, n. 392, in Giust. civ., 1963, I, p. 249 e in Riv. notar., 1963, II, p. 340, nonchè
Cass., 13 maggio 1982, n. 3001, in Giust. civ., 1982, I, p. 2697 e in Giur. it., 1982, I, 1, c. 1132, sulla non trascrivibilità
del patto di prelazione).
(37) Per alcuni esempi v. la formula della Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires
du Québec (in AA. VV., Couple et modernité, cit., p. 516 ss.); cfr. inoltre WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage,
cit., p. 1251.
(38) V. infra, Cap. VIII.
(39) Cfr. la formula della Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires du Québec (in
AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 514), nonchè il cosiddetto «modello di
Leida», redatto sotto la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città (ivi, p.
524).
(40) Per la negativa v. Cass., 18 gennaio 1968, n. 128, in Rep. Foro it., 1968, voce «Servitù», n. 64; Cass., 31 marzo
1971, n. 936, in Giust. civ. 1971, I, p. 1063; Cass., 6 aprile 1971, n. 1017, in Giur. it., 1972, I, 1, c. 381. Per la dottrina
cfr. SCOGNAMIGLIO, Riconoscimento di proprietà contenuto in un testamento, in Giur. compl. Cass. civ., 1951, p. 31 ss.
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giustificano l’acquisto singolarmente in capo a ciascuno dei conviventi. In ogni caso potrebbe anche
essere utile convenire una presunzione (iuris tantum) di comproprietà di determinati beni ( 41) (per
esempio, tutti i mobili che si troveranno nell’immobile destinato a residenza comune al momento
della cessazione del rapporto), che non sembra, almeno come tale, porsi in contrasto con l’art. 2698
c.c.
6. Il regime separatista dei beni.
L’ipotesi comunitaria sopra delineata costituisce sicuramente, come si diceva, quella in grado
di predisporre uno strumento a vantaggio del convivente «debole». Ciò non esclude, ovviamente,
che l’interesse delle parti sia invece diretto all’attuazione di una rigida separazione dei patrimoni,
magari seguendo qualcosa di simile a quella tendenza che pare delinearsi con sempre maggior
vigore nell’ambito della stessa famiglia fondata sul matrimonio ( 42).
Chi scrive ha già avuto modo di chiarire che l’espressa previsione, da parte dei conviventi, di
un regime di separazione, lasciando del tutto invariati i rapporti reciproci, esporrebbe il contratto al
rischio di una declaratoria di nullità per assenza di causa ( 43). Peraltro, un’esplicita esclusione del
regime comunitario ( 44) potrebbe rivelarsi utile al solo fine di superare quella praesumptio hominis
di comproprietà dei beni acquisiti durante la convivenza che una parte, seppure minoritaria, della
dottrina vorrebbe ritenere operante (quasi a imitazione della teoria dell’implied cohabitation
contract) tra conviventi in merito agli acquisti effettuati durante il rapporto. Ad una coppia che
avesse l’intenzione di mantenere un regime rigorosamente separatista andrebbe comunque
consigliato di pattuire in maniera espressa il diritto alla restituzione di quegli importi eventualmente
versati da ciascuno dei conviventi a titolo di contributo per gli acquisti di beni effettuati a nome
dell’altro ( 45).
7. Spunti in tema di impresa familiare e di fondo patrimoniale. Il trust tra conviventi.
Impostazione del problema.
Per concludere sul tema della possibile «imitazione» per via negoziale di istituti propri del
diritto patrimoniale della famiglia coniugale, dovranno ancora spendersi alcune parole sull’impresa
familiare e sul fondo patrimoniale.
Per quanto attiene alla prima, dovrà senz’altro negarsi l’ammissibilità della pattuizione di un
«regime» tale da produrre effetti analoghi a quelli dell’impresa familiare.
Invero, l’assunzione per via contrattuale dell’impegno a prestare la propria collaborazione
continuativa in cambio dei diritti previsti dall’art. 230-bis c.c. non sembra sfuggire agli schemi
(variamente applicabili, a seconda della concreta strutturazione dell’accordo) del lavoro
subordinato, dell’associazione in partecipazione o della società. D’altro canto, non può negarsi che,
(41) Secondo quanto suggerito dalla formula della Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des
notaires du Québec (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 519) e dal «modello
di Leida» (cfr. art. 6, primo comma, ivi, p. 523).
(42) Cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 558 ss. (ove si parla di ricorso al regime di separazione
dei beni in contemplation of divorce); ID., Il regime di separazione dei beni tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 7 ss.; ID.,
La comunione legale tra coniugi, I, cit., p. 372 ss.; per analoghe considerazioni cfr. SESTA, Titolarità e prova della
proprietà nel regime di separazione dei beni, in Familia, 2001, p. 871 ss.
(43) La formula predisposta dalla Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires du
Québec (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 514) prevede invece, in
alternativa rispetto ad una convenzione «comunitaria», anche una di tipo «autonomista», nella quale si stabilisce
espressamente che ciascuno dei conviventi conservi la proprietà e la libera disponibilità dei propri beni.
(44) Come suggerito dal «modello di Leida» (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France,
cit., p. 520), nonchè da LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927 s. (non solo, si badi, per il
Partnerschaftsvertrag der Ehe auf Probe, bensì anche per il modello proposto a coloro che intendono la convivenza
come un’alternativa definitiva rispetto al matrimonio).
(45) Sul tema, anche per la confutazione di alcune critiche mosse allo scrivente, cfr. OBERTO, Le prestazioni
lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 117 ss.
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se tra le parti esiste una volontà diretta a formalizzare in qualche modo la partecipazione del
convivente «debole» all’impresa gestita dall’altro, sia più logica la costituzione di una società, nella
quale la posizione del primo potrebbe essere meglio tutelata mediante la fissazione di una quota
certa di partecipazione.
Per quanto riguarda, poi, il fondo patrimoniale, a prescindere dalle corali considerazioni della
dottrina sulla scarsa utilità dell’istituto, che ha trovato concreta e rigogliosa applicazione
praticamente al solo fine di frodare i creditori ( 46), ferma restando l’inestensibilità per via analogica
dell’istituto alla famiglia di fatto (47), va detto che uno degli aspetti più qualificanti dello stesso,
cioè il vincolo di inalienabilità e di inespropriabilità sui beni che ne formano oggetto, non potrebbe
in ogni caso essere riprodotto, neppure per via indiretta, in quanto effetto di norme (cfr. artt. 169 e
170 c.c.) dirette a regolare i rapporti verso i terzi e dunque non riproducibili a mezzo di uno
strumento, quale quello contrattuale, destinato a generare effetti esclusivamente inter partes (cfr.
art. 1372 cpv. c.c.). È chiaro, del resto, che una diretta applicazione degli artt. 167 ss. c.c. sarebbe
comunque esclusa dal fatto che l’istituto in oggetto non può prescindere dalla presenza di una
famiglia legittima.
Proprio tale ultimo ostacolo potrebbe forse essere aggirato mediante il ricorso allo strumento
del trust, istituto che tanta fortuna ha avuto nella regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra
conviventi nei paesi di common law. Si noti peraltro che in quei sistemi il richiamo alla figura in
esame ha avuto luogo proprio al fine di superare – nei casi sottoposti all’esame dei giudici –
l’assenza di esplicite pattuizioni, mediante l’applicazione di procedimenti induttivi, se non
addirittura di vere e proprie finzioni (implied, resulting o constructive trust), che, attingendo a piene
mani dall’equity, hanno finito con il riconoscere ad un partner diritti dominicali su cespiti
patrimoniali acquistati dall’altro in costanza di rapporto ( 48).
La costituzione in Italia per via negoziale di un trust a beneficio di una famiglia di fatto, pur
in assenza di un qualsiasi elemento di estraneità, sarebbe immaginabile solo a condizione che si
fornisse alla convenzione dell’Aja del 1985, ratificata con l. 16 ottobre 1989, n. 364 (entrata in
vigore il 1° gennaio 1992), una lettura tale da consentire di ritenere autorizzata la creazione di trusts
«interni», superando le pur numerose e gravi perplessità sollevate, relative – a tacer d’altro – al
disposto dell’art. 2740 c.c., al principio del numerus clausus dei diritti reali, a quello della
tassatività delle ipotesi in cui è consentito creare enti dotati di autonomia patrimoniale, a quello
della tassatività delle fattispecie soggette a trascrizione, e, prima ancora, alla difficoltà di estrapolare
da norme tipicamente di conflitto, quali quelle di cui alla citata convenzione dell’Aja, una regola di
diritto interno, applicabile ai casi in cui non siano prospettabili collisioni tra diversi ordinamenti.
Il tema ha, come noto, scatenato furibondi dibattiti dottrinali, sui quali non è possibile in
questa sede soffermarsi ( 49). Basti solo dire che, nello specifico settore dei rapporti tra coniugi, un
ipotetico trust «familiare» dovrebbe superare l’ulteriore esame di compatibilità con le norme
(46) Sul tema cfr. per tutti OBERTO, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, Milano, 2002, p. 271 ss.
(47) Sul tema v. per tutti FUSARO, Del fondo patrimoniale, in AA. VV., Commentario del codice civile, diretto da E.
Gabrielli, Della Famiglia, a cura di Balestra, Torino, 2010, p. 1048. Per un’apertura v. invece GALASSO, Del regime
patrimoniale della famiglia, I, Art. 159-230, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca a cura di Galgano,
Bologna-Roma, 2003, p. 128.
(48) Per una dettagliata illustrazione dei precedenti cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p.
130 ss.; ID., Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 73 ss.; ID., Il regime di separazione dei beni
tra coniugi. Artt. 215-219, cit., p. 183 ss.
(49) Sul tema cfr. ex multis LUPOI, Il trust nell’ordinamento giuridico italiano dopo la convenzione dell’ Aja del
10.7.1985, in Vita notar., 1992, p. 966 ss.; ID., Effects of the Hague Convention in a Civil Law Country - Effetti della
Convenzione dell’Aja in un Paese civilista, in Vita notar., 1998, p. 19 ss.; MOJA, Trusts «interni» e società di capitali:
un primo caso, Nota a Trib. Genova, 24 marzo 1997, in Giur. comm., 1998, p. 764 ss.; RAGAZZINI, Trust «interno» e
ordinamento giuridico italiano, in Riv. notar., 1999, p. 279 ss.; PALERMO, Sulla riconducibilità del «trust interno» alle
categorie civilistiche, in Riv. dir. comm., 2000, p. 133 ss.; PASCUCCI, Rifiuto di iscrizione nel registro delle imprese di
atto istitutivo di trust interno, Nota a Trib. Santa Maria Capua Vetere, 1° marzo1999 - Trib. Santa Maria Capua Vetere,
14 luglio 1999, in Riv. dir. impresa, 2000, p. 121 ss.; GAZZONI, Tentativo dell’impossibile (osservazioni di un giurista
«non vivente» su trust e trascrizione), in Riv. notar., 2001, p. 11 ss.; LUPOI, Lettera a un notaio conoscitore dei trust, in
Riv. notar., 2001, p. 1159 ss.; SANTORO, Il trust in Italia, Milano, 2004, passim. Per ulteriori indicazioni cfr. inoltre
OBERTO, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, in Fam. dir., 2004, p. 201 ss., 310 ss.; ID., Il trust familiare, cit.;
BARTOLI, Mandato e trust, in AA. VV., Il mandato, opera diretta da Cuffaro, Bologna, 2011, p. 437 ss.
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imperative dettate dal codice in tema di convenzioni matrimoniali ( 50) e, tra queste, in particolare,
con quella che pone il divieto di costituzione, sotto ogni forma, di beni in dote (art. 166-bis c.c.); è
evidente, peraltro, che questo specifico discorso non varrebbe comunque per la famiglia di fatto
( 51).
8. Segue. Della sostanziale inutilità del trust tra conviventi, se posto a raffronto con un accorto
contratto di convivenza.
Posto quanto sopra, se si riconoscesse cittadinanza all’istituto nel nostro ordinamento, il
costituente (uno dei conviventi, o entrambi, ovvero anche un terzo), potrebbe avvalersene per
separare (o, secondo la terminologia in voga, «segregare») parte del proprio patrimonio, dettando al
trustee norme a beneficio dell’unione di fatto e magari provvedere anche in ordine all’eventuale
scioglimento di quest’ultima.
Non è raro rinvenire nella letteratura favorevole alla ammissibilità di trusts «interni»
specifiche applicazioni di tali fenomeni alla convivenza more uxorio. Così si è ipotizzato il caso
dell’uomo che intenda provvedere alla propria compagna non abbiente, senza tuttavia fare danno
alla propria famiglia legittima e al tempo stesso commisurando le elargizioni alle effettive necessità
della convivente ( 52). Al riguardo non sembra peraltro condivisibile l’affermazione secondo la quale
nessun negozio conosciuto nel nostro ordinamento sarebbe in grado di assicurare tali finalità.
Invero, per ciò che attiene all’intento di evitare di «far danno alla propria famiglia legittima», potrà
rilevarsi che, a ben vedere, ogni attribuzione effettuata (direttamente come indirettamente) alla
convivente andrà a diminuire il patrimonio del disponente, così riducendo le «aspettative» (di fatto)
dei futuri eredi legittimi; d’altro canto, il proposito di «commisurare le elargizioni alle effettive
necessità della compagna», ben può essere realizzato mercé la stipula di un contratto di
mantenimento ( 53).
Si è poi anche prospettato un complesso caso pratico di trust finalizzato ad eseguire
l’obbligazione naturale gravante su un convivente dotato di un patrimonio assai più consistente di
quello della propria compagna, peraltro presentando erroneamente il trust come l’unico strumento
che consentirebbe di superare l’incoercibilità di un’obbligazione naturale ( 54), laddove è chiaro che,
da un lato, la creazione di un trust non è certo coercibile, se il soggetto che dovrebbe assumere la
veste di settlor non intende dar luogo a tale attribuzione, e che, dall’altro, una volta che il
convivente «forte» abbia deciso di adempiere, costui ben potrà obbligarsi mercé la stipula di un
contratto di convivenza nei modi e nelle forme qui descritti.
L’ammonimento vale altresì per la ratio decidendi che si colloca a base di un provvedimento
(50) Su cui cfr. per tutti OBERTO, Famiglia e rapporti patrimoniali. Questioni d’attualità, cit., p. 172 ss.
(51) Per una panoramica delle questioni relative all’impiego del trust nell’ambito delle relazioni giuridiche familiari
cfr. F. PATTI, I trusts: problematiche connesse all’attività notarile, in Vita notarile, 2001, p. 525 ss.; DOGLIOTTI e
PICCALUGA, I trust nella crisi della famiglia, in Fam. dir., 2003, p. 301 ss.; DOGLIOTTI e BRAUN (a cura di), Il trust nel
diritto delle persone e della famiglia: atti del convegno: Genova, 15 febbraio 2003, cit. Per ulteriori approfondimenti su
questi temi e per ulteriori rinvii v. per tutti OBERTO, Trust e autonomia negoziale nella famiglia, cit., p. 201 ss., 310 ss.;
ID., Il trust familiare, cit.; MONTINARO, Il trust nel diritto delle persone e della famiglia, in Fam. pers. succ., 2010, p. 16
ss.
(52) Cfr. LUPOI, Lettera a un notaio conoscitore dei trust, cit., p. 1168. Sul tema v. anche COPPOLA, La successione
del convivente more uxorio, in Familia, 2003, p. 1010 ss.; ANNUNZIATA e IANNONE, op. cit., p. 131ss.
(53) Su cui v. supra, § 3, in questo Capitolo.
(54) Cfr. TARISSI DE JACOBIS, Esecuzione di un’obbligazione morale, in TAF, 2000, p. 458 ss. Favorevole alla
applicazione del trust alla famiglia di fatto è anche CENNI, Trusts e fondo patrimoniale, in TAF, 2001, p. 523 ss.; EAD.,
Il fondo patrimoniale, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, III, Regime patrimoniale della
famiglia, Milano, 2002, p. 648. In termini positivi per l’utilizzo del trust nel caso in esame v. anche NONNE,
Separazione patrimoniale e modelli familiari: il ruolo del trust, in Fam. pers. succ., 2007, p. 436, secondo cui «Il trust
sembra anzi particolarmente adatto allo scopo, perché un effetto separativo nel patrimonio del trustee, il quale in ipotesi
potrebbe essere lo stesso convivente che prende l’iniziativa di regolare i rapporti patrimoniali con il partner,
realizzerebbe la destinazione dei beni oggetto dell’atto di disposizione ai bisogni della famiglia di fatto e, in specie, alla
contribuzione economica, compensando così l’altro soggetto di quanto da esso prestato al medesimo scopo (lavoro
domestico, investimenti specifici mobiliari e immobiliari per dotare la “famiglia” del necessario supporto
patrimoniale)».
81
giurisdizionale di merito del 2007 ( 55). Qui il giudice ha correttamente qualificato meritevole di
tutela lo scopo perseguito per mezzo di un trust interno costituito a vantaggio del convivente more
uxorio del costituente, nonché dei figli nati in costanza di convivenza.
Ma il giudizio è fondato, oltre che sulla natura degli interessi sottesi, sulla considerazione
della asserita e non condivisibile inidoneità di qualsivoglia altro strumento negoziale regolato dal
nostro ordinamento a perseguire un simile scopo. Ora, se la finalità contributiva ben può essere
assicurata tramite un contratto di convivenza, come più volte sottolineato da chi scrive, lo scopo
«protettivo» delle prestazioni di contribuzione e mantenimento legate alla famiglia (in fase tanto
fisiologica che patologica), ben può essere realizzato mercé le garanzie e gli strumenti di induzione
all’adempimento previsti in generale dal codice: dalla fideiussione, all’ipoteca volontaria, alla
clausola penale, alla caparra confirmatoria ( 56).
Ancora, si è proposto di «abbinare» la creazione di un trust a contratti quali l’assicurazione
sulla vita o il deposito bancario: la designazione di un fiduciario quale beneficiario della polizza
sulla vita, infatti, garantirebbe il settlor che l’arricchimento del beneficiario avvenga attraverso la
corresponsione di utili prodotti in forza di un’oculata amministrazione delle somme dovute
dall’assicuratore ( 57). Ad avviso di chi scrive appare però difficile comprendere per quale ragione,
supponendo che il beneficiario sia persona maggiorenne, compos sui e capace di amministrarsi, non
sia più idoneo, per il conseguimento degli scopi perseguiti dal disponente, oltre che meno oneroso,
prevedere l’attribuzione della prestazione direttamente in capo al convivente superstite.
Si è poi rilevato che l’intestazione di un deposito bancario ad un bare trustee, a beneficio
prima del disponente e poi del partner superstite di questi, risolverebbe i problemi relativi al residuo
non prelevato in vita, di cui il titolare dovrebbe disporre per testamento (nel caso di cointestazione
di conto bancario congiunto semplice con il partner, nel quale gli intestatari possono ritirare l’intera
somma congiuntamente e, disgiuntamente, solo una porzione pari alla propria quota), eliminando
altresì i rischi di un prelevamento totale da parte del partner (nel caso di conto congiunto solidale)
( 58). Ma, a ben vedere, sembra quanto mai inopportuno affidare ad un soggetto estraneo
l’amministrazione di un conto corrente che, verosimilmente, dovrebbe servire a fornire la necessaria
base economica e finanziaria del ménage familiare, con tutto quello che siffatta soluzione comporta,
anche dal punto di vista di una gestione quotidiana che appare assai difficile predeterminare
nell’atto istitutivo del trust in tutti i sui molteplici (e sovente inaspettati) risvolti.
In vista di una possibile rottura si dovrebbero poi inserire apposite previsioni volte a
disciplinare la sorte dei cespiti patrimoniali, magari prevedendo una qualche forma di «ultrattività»
del trust a tutela della parte debole e/o della prole. In ogni caso – a scanso di pericolosi equivoci –
sarebbe opportuno (e la regola vale anche per i temi che saranno trattati nei prossimi §§, con
riguardo al vincolo ex art. 2645-ter c.c.) individuare in maniera esplicita e certa le situazioni nelle
quali la convivenza si dovrebbe considerare come venuta meno (invio di una lettera, fissazione di
residenze anagrafiche distinte, etc.).
Una delle ragioni per le quali parte della dottrina raccomanda la creazione di trusts tra
conviventi è rappresentata dalla possibilità di far assumere ad essi una valenza post mortem, il che
peraltro – a parte la questione del possibile contrasto con il divieto dei patti successori, quanto meno
sotto il profilo della frode alla legge – può porre problemi in relazione al profilo della tutela dei
legittimari. Al riguardo si precisa in dottrina che, mentre nel negozio di trasferimento dei beni dal
settlor al trustee, non è rintracciabile alcuna liberalità, per mancanza dell’animus donandi in capo al
primo e dell’elemento oggettivo dell’arricchimento in capo al secondo, costituirebbe, invece,
donazione indiretta l’attribuzione che il settlor attua a favore del beneficiario ( 59).
Tuttavia, la stessa dottrina ammette che assai problematica appare la tutela dei legittimari
(55) Trib. Trieste, 19 settembre 2007, in TAF, 2008, p. 42 ed in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 687, con nota di
CINQUE, in cui l’ammissibilità del trust interno è stata desunta dall’art. 2645-ter c.c.
(56) Cfr. OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, in Contratto e
impresa/Europa, 2007, p. 351 ss.
(57) Così COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, cit., p. 739.
(58) Così, se si è ben compreso, COPPOLA, op. loc. ultt. citt.
(59) Sul punto v., anche per i richiami, COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, cit., p. 742 s.
82
nelle diverse fattispecie che la pratica propone ( 60). Sono, invece, sicuramente soggetti a riduzione
da parte dei legittimari quei trusts che siano stati costituiti per testamento: d’altro canto, le norme
nazionali sulle successioni sono fatte esplicitamente salve dall’art. 15 della Convenzione dell’Aja.
Comunque, si consiglia l’inserimento, nell’atto istitutivo, di una clausola di salvaguardia che faccia
obbligo, al fiduciario o al beneficiario finale del patrimonio, di garantire i diritti dei legittimari del
disponente, ove lesi al momento della sua morte, integrando automaticamente, con beni o denaro,
pur nei limiti del valore del trust, la quota loro riservata dalla legge. Come si è peraltro avuto modo
di vedere – e si vedrà ulteriormente nell’ambito del prossimo capitolo – la tutela del convivente
superstite sembra attuabile anche mercé negozi o istituti maggiormente «collaudati» nel nostro
ordinamento ( 61).
(60) Cfr. MOSCATI, Trust e tutela dei legittimari, in Riv. dir. comm., 2000, I, p. 13 ss.; LUPOI, Trusts, Milano, 2001,
p. 667 s.
(61) V. supra, §§ 1-5 del presente Capitolo, nonchè infra, Cap. VI, per totum, Cap. VIII, §§ 1 s., Cap. IX, §§ 1-5.
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CAPITOLO VI
VINCOLI DI DESTINAZIONE PER LA FAMIGLIA DI FATTO
SOMMARIO: 1. Il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. al servizio della famiglia di fatto.
Impostazione del problema. – 2. Art. 2645-ter c.c. ed effetti traslativi. Critica dell’opinione
dominante. – 3. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art.
2645-ter c.c. – 4. Conclusioni sull’applicabilità del vincolo di destinazione alla famiglia di
fatto. Le differenze rispetto al fondo patrimoniale. – 5. Il problema dell’individuazione dei
beneficiari del vincolo di destinazione a favore della famiglia di fatto.
1. Il vincolo di destinazione ex art. 2645-ter c.c. al servizio della famiglia di fatto. Impostazione
del problema.
È noto che l’art. 2645-ter c.c. – introdotto dall’art. 39-novies della l. 23 febbraio 2006, n. 51,
di conversione con modifiche del d.l. 30 dicembre 2005, n. 273 («Recante definizione e proroga di
termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti. Proroga di termini relativi all’esercizio di deleghe
legislative») – consente l’effettuazione di «atti di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela» ( 1). A prescindere dalle gravi questioni generali di inquadramento dell’istituto
(1) Sull’istituto, in generale, cfr. BARTOLI, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di
destinazione di diritto interno e trust, in Corr. merito, 2006, p. 697 ss.; ID., Riflessioni sul «nuovo» art. 2645 ter c. c. e
sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno e trust, in Giur. it., 2007, p. 5 ss.; ID., Mandato e trust, cit., p.
455 ss.; Mirzia BIANCA, D’ERRICO, DE DONATO, PRIORE, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645-ter del codice
civile, Milano, 2006; Mirzia BIANCA, Il nuovo art. 2645-ter c.c. notazioni a margine di un provvedimento del Giudice
Tutelare di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, p. 187 e ss; EAD., Atto negoziale di destinazione e separazione, in Riv. dir.
civ., 2007, I, p. 197 ss.; EAD., La categoria dell’atto negoziale di destinazione: vecchie e nuove prospettive, in AA. VV.,
Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 177 ss.; EAD., L’atto di
destinazione: problemi applicativi, testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di destinazione dei
beni: Articolo 2645 ter c.c.», organizzato dal Consiglio Notarile di Milano il 19 giugno 2006; EAD., Il negozio di
destinazione e il principio della responsabilità patrimoniale, relazione al Convegno «Le sistemazioni patrimoniali
“dedicate” tra negozi di destinazione e organizzazione dell’impresa» organizzato dall’Università degli Studi di Foggia
Facoltà di Giurisprudenza svoltosi a Lucera (30-31 marzo 2007); EAD., Novità e continuità dell’atto negoziale di
destinazione, AA. VV., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645-ter del codice civile, a cura di M.
Bianca (atti della Tavola Rotonda che ha avuto luogo il 17 marzo 2006 presso la Facoltà di Scienze Statistiche
dell’Università di Roma «La Sapienza»), Milano, 2007, p. 29 ss.; DE NOVA, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., testo
dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», cit.;
D’ERRICO, Trascrizione del vincolo di destinazione, testo dattiloscritto agli atti del Convegno sul tema «Atti notarili di
destinazione dei beni: Articolo 2645 ter c.c.», cit.; FANTICINI, L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti
di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone a persone con disabilità, a
pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone fisiche”, in AA. VV., La tutela dei patrimoni, a cura di
Montefameglio, Santarcangelo di Romagna, 2006, p. 327 ss.; FRANCO, Il nuovo art. 2645-ter cod. civ., in Notariato,
2006, p. 315 ss.; GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, disponibile alla pagina web seguente:
http://judicium.it/news/ins_08_04_06/Gazzoni,%20nuovi%20saggi.html (l’articolo è pubblicato anche in Giust. civ.,
2006, II, p. 165 ss.; le citazioni di questo lavoro nel presente scritto si riferiscono al testo online); LUPOI, Gli “atti di
destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, in TAF, 2006, p. 169 ss.; MANES, La norma
sulla trascrizione degli atti di destinazione è dunque norma sugli effetti, in Contratto e impresa, 2006, p. 626 ss.;
PETRELLI, La trascrizione degli atti destinazione, dattiloscritto agli atti del Convegno organizzato a Firenze dalla
Associazione Italiana Giovani Notai il 24 giugno 2006 sul tema «Gli atti di destinazione e la trascrizione dopo la
novella» (l’articolo è pubblicato anche in Riv. dir. civ., 2006, II, p. 161 ss.; le citazioni di questo lavoro nel presente
scritto si riferiscono al dattiloscritto); PICCIOTTO, Brevi note sull’art. 2645-ter: il trust e l’araba fenice, in Contratto e
impresa, 2006, p. 1314 ss.; R. QUADRI, L’art. 2645-ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contratto e
impresa, 2006, p. 1717 ss.; ROSELLI, Atti di destinazione del patrimonio e tutela del creditore, in Giur. merito, suppl. n.
1/2007, p. 49 ss.; SPADA, Destinazioni patrimoniali e impresa (patrimonio dell’imprenditore e patrimoni aziendali),
ibidem; VECCHIO, Il nuovo articolo 2645-ter cod. civ. Gli atti di destinazione di cui al novellato art. 2645-ter: profili
applicativi, in Quotidiano giuridico, 18 dicembre 2006; ID., Profili applicativi dell’art. 2645-ter c.c. in ambito
familiare, in Dir. fam. pers., 2009, II, p. 795 ss.; BARALIS, Prime riflessioni in tema di art. 2645-ter c.c., in AA. VV.,
Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione
84
e dai suoi collegamenti con il trust, che esulano da questa sede ( 2), va detto che molti commentatori
non esitano a ravvisare nella disposizione la possibilità di creare vincoli in favore della famiglia di
fatto: da disposizioni sulla casa familiare, alla protezione del patrimonio destinato ad alimentare le
risorse del ménage, alla creazione di un vero e proprio fondo patrimoniale tra conviventi ( 3), non
essendo discutibile la meritevolezza di tutela degli scopi perseguiti ( 4).
Nessuna preoccupazione d’ordine costituzionale sembra del resto sorgere dalla diversa ( 5)
disciplina della norma in discorso rispetto a quella delle norme che governano il fondo patrimoniale
Italiana per il Notariato, Milano, 2007, p. 131 e ss.; D’AGOSTINO, Il negozio di destinazione nel nuovo art. 2645-ter c.c.,
in Riv. notar., 2007, p. 1517 ss.; DI SAPIO, Patrimoni segregati ed evoluzione normativa: dal fondo patrimoniale
all’atto di destinazione ex art. 2645-ter, in Dir. fam. pers., 2007, p. 1257 ss.; DORIA, Il patrimonio «finalizzato», in Riv.
dir. civ., 2007, I, p. 485 ss.; FUSARO, La posizione dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645-ter c.c., in AA.
VV., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Milano, 2007, p. 30 ss.; G.
GABRIELLI, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv.
dir. civ., 2007, I, p. 321 ss.; GENTILI, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645-ter c.c., in Riv. dir.
civ., 2007, p. 1 ss.; LA PORTA, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645-ter c.c., in
Riv. notar., 2007, p. 1069 ss.; LENZI, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., in Contratto e impresa, 2007, p. 229
ss.; MAGGIOLO, Il tipo della fondazione non riconosciuta nell’atto di destinazione ex art. 2645-ter c.c., in Riv. notar.,
2007, p. 1047 ss..; MERLO, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione ai sensi dell’art. 2645-ter, in
Riv. notar., 2007, p. 509 ss.; MORACE PINELLI, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Milano, 2007;
OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 351 ss.; ID., Vincoli di
destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, in Fam. dir., 2007, p. 202 ss.; OPPO, Brevi note
sulla trascrizione di atti di destinazione (art. 2645-ter), in Riv. dir. civ., 2007, I, p. 1 ss.; PARTISANI, L’art. 2645 ter c.c.:
le prime applicazioni nel diritto di famiglia, nota a Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Fam. pers. succ., 2007, p.
779 ss.; PINI, Gli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c. e attuali orientamenti, in AIAF, 2007, 2, p. 43 ss.; ASTONE,
L’atto di destinazione: struttura, funzione, tipologia, Milano, 2008; CONDÒ, Rapporto tra istituzione di un trust e
normativa in materia di successione, TAF, 2008, p. 357 ss.; LUMINOSO, Contratto fiduciario, trust e atti di destinazione
ex art. 2645 ter c.c., in Riv. notar., 2008, p. 993 ss.; ID., Atti di destinazione trascrivibili ai sensi dell’art. 2645-ter c.c.,
in ID., Appunti sui negozi traslativi atipici, Milano 2007, p. 70 ss.; STEFINI, Destinazione patrimoniale ed autonomia
negoziale: l’articolo 2645-ter c.c., Padova, 2008; AA. VV., Atti di destinazione e trust (art. 2645 ter cod. civ.), a cura di
Vettori, Padova, 2008; BULLO, Sub art. 2645-ter c.c., in Commentario breve al codice civile, a cura di Cian, Padova,
2009, p. 3329 ss.; CEOLIN, Regolamenti di condominio e vincoli di destinazione, anche alla luce del nuovo art. 2645-ter
c.c., in Riv. notar., 2009, p. 873 ss.; ID., Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, Milano, 2010; ID., Il
punto sull’art. 2645 ter a cinque anni dalla sua introduzione, in Nuova giur. civ. comm., 2011, p. 358 ss.; DI LANDRO,
L’art. 2645-ter c.c. e il trust. Spunti per una comparazione, in Riv. notar., 2009, I, p. 583 ss.; IEVA, La trascrizione di
atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche
amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche (art. 2645-ter c.c.) in funzione parasuccessoria, in Riv. notar., 2009,
III, p. 1289 ss.; JANNARELLI, Brevi note a proposito di «soggetto giuridico» e di «patrimoni separati», in Riv. trim. dir.
proc. civ., 2009, p. 1253 ss.; MARRA, Il vincolo di destinazione a norma dell’art. 2645 ter c.c. nell’accordo di
separazione fra coniugi, Nota a Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Dir. fam. pers., 2009, p. 1199 ss.; MEUCCI, La
destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano, 2009; G.A.M. TRIMARCHI, Negozio di destinazione nell’ambito familiare
e nella famiglia di fatto, in Notariato, 2009, p. 426 ss.; VALORE, Amministrazione di sostegno e vincolo di destinazione,
in Corr. merito, 2009, p. 619 ss.
(2) Sul tema sia consentito rinviare per tutti a OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e
differenze, cit., p. 351 ss.
(3) Cfr. FANTICINI, L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di
interessi meritevoli di tutela riferibili a persone a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o
persone fisiche”, cit., p. 343; OBERTO, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione
dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661 ss.; ID., Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust:
analogie e differenze, cit., p. 351 ss.; ID., Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra
coniugi, cit., p. 202 ss.; MURITANO, Trust e atto di destinazione negli accordi fra conviventi more uxorio, in TAF, 2007,
p. 199 ss.; CINQUE, L’atto di destinazione per i bisogni della famiglia di fatto: ancora sulla meritevolezza degli interessi
ex art. 2645 ter cod. civ., Nota a Trib. Trieste, 19 settembre 2007, in Nuova giur. civ. comm., 2008, p. 692 ss.; G.A.M.
TRIMARCHI, op. cit., p. 426 ss.; FALLETTI, La famiglia di fatto: la disciplina dei rapporti patrimoniali tra i conviventi,
cit., p. 83 ss.
(4) Sul profilo della meritevolezza di tutela cfr. Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze,
cit., p. 351 ss.; in giurisprudenza v. da ultimo Trib. Vicenza, 31 marzo 2011, Corr. merito, 2011, p. 806, con nota di
RISPOLI, secondo cui «Gli interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. sono quelli attinenti alla solidarietà
sociale e non quelli dei creditori di una società insolvente perché altrimenti si consentirebbe ad un atto di autonomia
privata d’incidere sul regime legale inderogabile della responsabilità patrimoniale al di fuori di espresse previsioni
normative».
(5) E sulle relative differenze ci si intratterrà a tempo debito: v. infra, § 4, in questo Cap.
85
( 6): la diversità di trattamento è legata alla diversità degli istituti, ma nulla esclude che anche nella
famiglia fondata sul matrimonio si possa fare ricorso ad un vincolo di destinazione ex art. 2645-ter
c.c., come si è tentato in altra sede di dimostrare ( 7).
Anzi, come appare documentato da alcuni atti costitutivi del vincolo in oggetto tra conviventi
pervenuti allo scrivente, nulla sembra escludere che un’apposita clausola dell’atto stesso colleghi
all’eventuale celebrazione del matrimonio inter partes l’automatica trasformazione del vincolo in
fondo patrimoniale. È noto che le convenzioni matrimoniali ( 8) ben possono essere stipulate in data
precedente alle nozze e, del resto, la condizione legale di celebrazione delle nozze impedisce alle
stesse di produrre effetti in epoca anteriore; il riferimento sarebbe qui comunque ad un matrimonio
ben determinato (quello dei conviventi, per l’appunto), per cui neppure sotto questo profilo
potrebbero sussistere problemi di validità. Il tutto, ovviamente, a condizione che l’atto in questione
soddisfi i requisiti di forma (art. 162 c.c., 48 l. notar.) e sostanza (artt. 167 ss. c.c.) previsti per il
fondo e, più in generale, per la validità delle convenzioni matrimoniali (artt. 160 ss. c.c.).
Il vero problema posto dall’art. 2645-ter c.c. consiste, peraltro, nella identificazione delle
facoltà concesse al «conferente»: vale a dire se, mercé l’istituto in oggetto, sia possibile
esclusivamente prevedere la costituzione di un vincolo su beni di proprietà del costituente
medesimo, ovvero se la norma ammetta anche l’effettuazione di trasferimenti di diritti in capo ad un
distinto «esecutore della destinazione» e, soprattutto, se tale soggetto possa ulteriormente vincolarsi
a trasferire, una volta giunto a scadenza il periodo di durata del vincolo stesso, i beni ad un soggetto
distinto, secondo quanto avviene nelle ipotesi di trust non autodichiarato ( 9). È evidente che la
risposta positiva ad un siffatto interrogativo consentirebbe di dar vita non solo ad un vero e proprio
«fondo patrimoniale tra conviventi» – ciò che sicuramente appare possibile, avuto riguardo alla già
ricordata incontestabile rispondenza a criteri di meritevolezza di un vincolo ex art. 2645-ter c.c. in
favore del ménage di fatto – ma addirittura di prevedere attribuzioni di cespiti patrimoniali in
(6) Il dubbio è sollevato da G. GABRIELLI, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità
nei registri immobiliari, in Riv. dir. civ., 2007, p. 321 ss., secondo cui «Certamente lecita è la destinazione di beni a fare
fronte esclusivamente ai bisogni di una famiglia di fatto, non fondata sul matrimonio dell’autore della destinazione
stessa. La destinazione esclusiva ai bisogni di una famiglia fondata sul matrimonio, che è per certo la sola contemplata
dalle norme degli artt. 167 ss. c.c., si configura come costituzione di un fondo patrimoniale; ma, secondo la disciplina
propria di quest’ultimo, la separazione dei beni vincolati dal residuo patrimonio del proprietario di essi è regolata in
modo ben diverso – e, ben può dirsi, meno perfetto – di quello che risulta dalle norme dell’art. 2645-ter c.c. in relazione
ai vincoli non direttamente individuati dalla legge, come potrebbe essere, se bastasse la liceità del fine, quello
comportato dalla destinazione ai bisogni della famiglia di fatto. Invero, dei beni costituiti in fondo patrimoniale si può
efficacemente disporre, purché con il consenso di entrambi i coniugi e con l’aggiuntiva autorizzazione giudiziale,
necessaria peraltro nel solo caso in cui vi siano figli minori (art. 169 c.c.): può efficacemente disporsene, si noti, anche a
fini diversi da quello cui sono destinati. Dalla norma dell’art. 2645-ter risulta, per contro, che i beni vincolati – per
esempio, se lo si consentisse, anche al fine di fare fronte ai bisogni della famiglia di fatto – “possono essere impiegati
solo per la realizzazione del fine di destinazione”: dal che si desume che anche l’alienazione per un fine diverso sarebbe
in ogni caso impossibile, e quindi inefficace, sol che il vincolo sia stato reso opponibile a terzi in forza della pubblicità.
Ne conseguirebbe che l’interesse del terzo all’acquisto non sarebbe mai tutelato, cedendo sempre di fronte a quello di
rispetto del vincolo di destinazione (atipico, perché non direttamente individuato dalla legge), anche nei casi in cui
l’interesse del terzo viene fatto salvo pur a fronte del vincolo tipico, dato dalla destinazione ai bisogni della famiglia
fondata sul matrimonio: un atto dispositivo per fine estraneo ai bisogni della famiglia di fatto sarebbe invero inefficace,
anche se consentito da colui che è in comunione di vita con il proprietario disponente; né sarebbe concepibile
un’autorizzazione giudiziale, pur in presenza di figli minori, giacché l’eventuale istanza diretta ad ottenerla non
potrebbe avere risposta diversa da una dichiarazione di non luogo a provvedere. Sotto altro profilo, può osservarsi che
al creditore del proprietario di beni costituiti in fondo patrimoniale il soddisfacimento coattivo su quei beni è precluso
soltanto in relazione ad obbligazioni assunte per scopi che egli sapeva estranei al fine di destinazione (art. 170 c.c.),
mentre al creditore del proprietario di beni destinati ai bisogni della famiglia di fatto il soddisfacimento coattivo sarebbe
precluso – a norma dell’art. 2645-ter, se si consentisse di farne applicazione per qualsivoglia finalità non illecita – in
forza del solo elemento oggettivo, dell’estraneità dell’obbligazione al fine di destinazione, indipendentemente dallo
stato soggettivo del creditore stesso. L’illegittimità costituzionale di una così irragionevole disparità di trattamento
sembra, come si diceva, evidente. Il fine di destinazione ai bisogni della famiglia fondata sul matrimonio non può avere
trattamento meno favorevole di quello della destinazione ai bisogni della famiglia di fatto».
(7) Cfr. OBERTO, Vincoli di destinazione ex art. 2645-ter c.c. e rapporti patrimoniali tra coniugi, cit., p. 202 ss.;
(8) Cui l’atto inter vivos costitutivo del fondo va ascritto: cfr. OBERTO, La comunione legale tra coniugi, I, cit., p.
332 ss.
(9) Sul punto si fa rinvio per tutti a LUPOI, I trust nel diritto civile, nel Trattato di diritto civile, diretto da Sacco,
Torino, 2004, p. 237 ss., 277 ss.
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occasione di determinati eventi, quali la cessazione del vincolo o la morte del partner «forte».
Va però subito chiarito che i concetti di «destinazione per un determinato periodo» e di
«vincolo», contenuti nella norma introdotta nel 2006 nel nostro codice civile, sono ben distinti da
quello di «trasferimento di un diritto». Un bene può essere vincolato ad uno scopo senza essere
trasferito ad un soggetto diverso dal suo titolare, come avviene, ad esempio, nel fondo patrimoniale
su beni dei coniugi o nel trust autodichiarato, nel quale è lo stesso costituente a porsi quale trustee.
Il concetto di «vincolo di destinazione» sta a significare che il bene può essere amministrato solo in
vista della realizzazione di quello scopo e che tale bene è aggredibile dai soli creditori i cui diritti si
fondano su atti di gestione compiuti in vista della realizzazione dello scopo medesimo. Ma tutto ciò,
con il trasferimento dal costituente al trustee, che pure caratterizza il trust non autodichiarato, nulla
ha a che vedere ( 10).
La prima e provvisoria conclusione alla quale sembra potersi pervenire sul punto è che l’art.
2645-ter c.c. si limita a prevedere la costituzione di un vincolo in maniera del tutto avulsa dal fatto
che in vista di tale vincolo sia stato effettuato un trasferimento del diritto sul bene da vincolarsi,
ovvero che le parti pattuiscano un ritrasferimento o un trasferimento ulteriore, una volta che il
vincolo sia giunto a scadenza ( 11).
2. Art. 2645-ter c.c. ed effetti traslativi. Critica dell’opinione dominante.
Nonostante quanto si è illustrato nel paragrafo precedente, molti interpreti concordano nel
ritenere che l’art. 2645-ter c.c. possa anche prevedere un momento traslativo. Più esattamente,
mentre alcuni sembrano dare tale effetto quasi per scontato ( 12), altri cercano di fornire
dimostrazioni al riguardo, sovente appoggiandosi alle ambiguità della formulazione normativa.
Così, si è affermato che siffatta conclusione trarrebbe conferma dal fatto che il testo «considera
normale l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente, perché chiama
“conferente” il disponente e, infine, perché consente a terzi interessati di agire per l’attuazione della
finalità dell’ “atto di destinazione” anche dopo la morte del “conferente” e, dunque,
necessariamente, anche dopo la morte del conferente». Non solo. La legge, oltre a parlare di
«conferente» e di «beni conferiti», attribuisce al conferente il potere di agire per l’adempimento
(10) OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 351 ss.
(11) In questo senso sembra anche orientata la circolare n. 5/2006 della Direzione dell’Agenzia del Territorio, del 7
agosto 2006, la quale rimarca, testualmente, quanto segue: «Quanto ai profili di merito, sembra opportuno ribadire
preliminarmente la circostanza che detti atti di destinazione producono soltanto effetti di tipo “vincolativo”. Come già
in parte accennato, infatti, i beni oggetto degli atti di destinazione, pur venendo “segregati” rispetto alla restante parte
del patrimonio del “conferente” – al fine di garantire la realizzazione degli interessi meritevoli di tutela cui è
preordinato il vincolo – restano comunque nella titolarità giuridica del “conferente” medesimo». In dottrina cfr. IEVA,
La trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con
disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche (art. 2645-ter c.c.) in funzione parasuccessoria,
cit., p. 1295, ad avviso del quale «sembra proprio che all’atto di destinazione, quale delineato dall’art. 2645-ter c.c., non
sia coessenziale il trasferimento della proprietà e che le vicende proprietarie possano avvenire indipendentemente dalla
esistenza del vincolo di destinazione; si può immaginare che il proprietario di uno o più beni appartenenti alle categorie
menzionate dall’art. 2645-ter imprima ad essi un vincolo di destinazione e trascriva l’atto così creando l’effetto della
separazione patrimoniale, mantenga la proprietà del bene e, successivamente, se la proprietà viene trasferita, transiterà
gravata dal vincolo di destinazione». Per una decisione di merito che sembra voler sovrapporre i due distinti piani cfr.
Trib. Modena, 11 dicembre 2008, in Dir. fam. pers., 2009, p. 1256.
(12) Ad avviso di DE NOVA, Esegesi dell’art. 2645 ter cod. civ., cit., p. 3 «Non sembra vi sia ragione di escludere che
l’art. 2645 ter possa applicarsi anche ad un atto con cui il disponente trasferisce la proprietà dei beni a persona che li
amministri a favore di terzi beneficiari, e così ad un negozio bilaterale»; nello stesso senso cfr. Mirzia BIANCA, L’atto di
destinazione: problemi applicativi, cit., p. 7 ss., secondo cui il costituente può anche operare un trasferimento della
proprietà ad un terzo «attuatore della destinazione»; D’ERRICO, Trascrizione del vincolo di destinazione, loc. cit.; anche
FANTICINI, L’articolo 2645-ter del codice civile: “Trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi
meritevoli di tutela riferibili a persone a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni, o ad altri enti o persone
fisiche”, cit., p. 330, vede nella nuova figura codicistica il riferimento ai negozi traslativi atipici. Possibilista al riguardo
parrebbe anche BUSANI, I notai ammettono il trust interno, in Il Sole 24-ore del 23 febbraio 2006, per il quale nella
nuova norma codicistica «non c’è (...), anche se non la si può escludere a priori, alcuna attività traslativa». Contra
GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 7, il quale nega che l’art. 2645-ter c.c. possa riferirsi a vicende
traslative.
87
dello scopo, così dando a intendere che, non potendosi immaginare che il conferente convenga in
giudizio se stesso, dovrebbe ritenersi scontato l’intervento di un terzo soggetto, cui il diritto sul
bene vincolato andrebbe trasferito ( 13).
Cominciamo dal termine ( 14) «conferente» e da quello, ad esso riferito, «beni conferiti». Sotto
il profilo strettamente etimologico andrà notato che il verbo conferire, dal latino confero, deriva da
cum-ferre: le espressioni in oggetto denotano dunque un atto traslativo (ferre) compiuto con altri
soggetti. La conferma balza agli occhi sol che si ponga mente a fenomeni quali i conferimenti del
diritto societario (cfr. ad es. artt. 2253, 2343 ss., 2440 c.c.), o il conferimento per la costituzione di
fondi di garanzia (art. 2548 c.c.), ma anche il conferimento negli ammassi (art. 837 c.c.), oppure
qualora si pensi al verbo «conferire», impiegato dalle norme (cfr. artt. 737, 739, 740, 751 c.c.) in
tema di collazione (termine che deriva, a sua volta, proprio dal verbo conferre). La giurisprudenza
impiega dal canto suo questa medesima terminologia per denotare l’inserimento, in comunione
convenzionale tra coniugi, di uno o più beni che, in assenza di convenzione, sarebbero rimasti
personali ex art. 179, lett. a), c.c. ( 15).
Altrettanto sicuramente può però rimarcarsi che, nel linguaggio corrente, il verbo «conferire»
e il sostantivo «conferimento» possono essere riferiti anche ad un semplice atto di sottoposizione a
vincolo, pure in assenza di trasferimento della proprietà sul bene vincolato, come dimostrato da una
florida messe di pronunzie di legittimità, che, senza alcuna difficoltà, parlano di «conferimento»
(e/o di «beni conferiti») in fondo patrimoniale ( 16), come del resto già si diceva per la dote, che
parimenti si sostanziava in un mero vincolo (17) e, a quanto pare, si comincia a dire pure per il trust
( 18). Quanto sopra dimostra che – anche senza necessariamente supporre lapsus freudiani del
legislatore ( 19) – l’impiego dei termini in discorso non tradisce necessariamente l’intento di
richiamare una vicenda traslativa di diritti, ben potendo riferirsi anche alla sola volontà di denotare
la costituzione di un vincolo.
Per quanto attiene poi al fatto che il legislatore mostrerebbe di considerare normale
l’eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente ( 20), va detto che non
sussistono difficoltà nel riconoscere che il vincolo si trasmetta agli eredi del titolare del diritto
vincolato: ma ciò non ha nulla a che vedere con la natura traslativa o meno del fenomeno descritto
dall’art. 2645-ter c.c. Del resto non si riesce a comprendere perché mai un ipotetico «trustee
all’italiana» ex art. 2645-ter c.c. dovrebbe essere dotato di una longevità maggiore di quella del
costituente (pardon: conferente). Proprio l’ipotesi (pure essa «fisiologica») della premorienza di tale
soggetto rispetto al momento di cessazione del vincolo, ben lungi dal risolvere il problema
adombrato, pone, anzi, il quesito della trasmissibilità agli eredi di quest’ultimo.
Venendo alla legittimazione attiva concessa al conferente medesimo, si è asserito ( 21) che
anche tale elemento confermerebbe gli effetti traslativi (o anche traslativi) della vicenda descritta
nell’art. 2645-ter c.c., poiché non avrebbe senso legittimare il costituente ad agire contro se stesso.
Qui si può però obiettare, in primis, che il riferimento all’azione del costituente ben può intendersi
(13) Cfr. LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170. Si
noti che, anche prima della novella del 2006, D’ERRICO, Trust e destinazione, in AA. VV., Destinazione di beni allo
scopo. Strumenti attuali e tecniche innovative, Milano, 2003, p. 221 sottolineava «la struttura trinaria del negozio di
destinazione: disponente è il soggetto che destina beni allo scopo, gestore è il soggetto investito dell’amministrazione di
beni finalizzata a quegli scopi, beneficiario è il soggetto nel cui interesse è disposta la destinazione».
(14) «Freudiano», secondo GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 1, è «il termine conferente, riferito a chi
destina il bene, perché costui, ovviamente, non conferisce un bel niente rimanendo proprietario, onde è esclusa la
nascita di un distinto ente».
(15) Cfr. Cass., 4 febbraio 2005, n. 2354, in Foro it., 2005, I, c. 1735; in Fam. dir., 2005, p. 237, con nota di V.
CARBONE.
(16) Cfr. Cass., 15 gennaio 1990, n. 107; Cass., 18 marzo 1994, n. 2604; Cass., 9 aprile 1996, n. 3251; Cass., 2
settembre 1996, n. 8013; Cass., 2 dicembre 1996, n. 10725; Cass., 5 giugno 2003, n. 8991; Cass., 18 luglio 2003, n.
11230; Cass., 23 settembre 2004, n. 19131; Cass., 7 marzo 2005, n. 4933; Cass., 31 maggio 2006, n. 12998.
(17) Cass., 20 maggio 1977, n. 2096.
(18) Di «beni conferiti in trust» parla anche Trib. Bologna, 1 ottobre 2003, in TAF, 2004, p. 67 ss.
(19) Secondo quanto invece ritenuto (come si è visto) da GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 1, le cui
conclusioni in parte qua appaiono peraltro pienamente condivisibili.
(20) Cfr. LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170.
(21) Cfr. LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 170.
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come riferita ad un’actio mandati del costituente stesso contro il mandatario che il medesimo abbia
eventualmente incaricato di attuare lo scopo ( 22). D’altra parte, come messo in luce in dottrina, «la
previsione di una sistematica legittimazione attiva del conferente potrebbe (…) anche indicare che il
conferente, essendo sempre altresì gestore del fondo destinato, ha il potere di attivarsi per la
realizzazione del fine di destinazione contro qualunque soggetto terzo che tenti di impedirla» ( 23).
Concludendo sul punto, ben può concordarsi con chi afferma che la norma non pare offrire
elementi testuali decisivi in un senso o nell’altro, poiché utilizza ora termini neutri al riguardo (beni
«destinati»; «vincolo di destinazione»; «fine di destinazione»), ora termini ambivalenti, in quanto
evocano l’immagine di un trasferimento di beni («conferente»; beni «conferiti»), ma vengono
inseriti in un contesto in cui mai viene menzionata l’esistenza di un soggetto gestore che sia diverso
dal soggetto autore della destinazione ( 24). Proprio per questo motivo, anzi, se si considera che
«profilo statico» (attinente alla costituzione del vincolo) e «profilo dinamico» (relativo al momento
traslativo) sono concetti ben distinti e che l’idea stessa di un vincolo limitato nel tempo appare
esclusivamente compatibile (in assenza di ulteriori elementi, magari propri della cultura di common
law, ma inesistenti nel caso di specie) con l’erogazione di redditi (oltre che con l’utilizzo diretto)
dei beni vincolati, dovrà necessariamente concludersi che il predetto vincolo non può ritenersi di
per sé ( 25), per la sua struttura, finalizzato alla traslazione di diritti dominicali sui beni medesimi.
3. Vicende traslative disposte dall’autonomia delle parti in relazione all’art. 2645-ter c.c.
La conclusione di cui sopra – secondo cui costituzione di un vincolo e trasferimento del diritto
sul bene già vincolato, o da vincolarsi, sono vicende radicalmente distinte tra di loro, mentre l’art.
2645-ter c.c. sembra far riferimento alla sola prima delle due, con conseguente differenziazione
rispetto al trust – non risolve ancora di per sé sola l’ulteriore quesito circa la possibilità che le parti
prevedano un trasferimento in vista dell’attuazione del vincolo, avvalendosi (non già della norma
testé citata, ma) delle regole generali sull’autonomia privata. La questione rievoca gli accaniti
dibattiti sull’idoneità del consenso a riprodurre nel diritto italiano questo effetto, tipicamente
conosciuto dagli atti costitutivi di trust (almeno, di quelli non autodichiarati) nel diritto
anglosassone ( 26). Ad essa si è fatto cenno in altra sede ( 27), mentre qui non si potrà far altro che
rilevare come l’esistenza di un articolo quale il 2645-ter c.c., ancorché non delineante di per sé –
come si è visto – una fattispecie traslativa, possa oggi porsi quale idonea causa al trasferimento
operato in funzione del vincolo di destinazione meritevole di tutela e costituito con il rispetto delle
regole previste dalla disposizione.
In altre parole, mentre in precedenza il trasferimento in funzione della costituzione di un
vincolo da trust, non coperto dall’operatività della Convenzione dell’Aja, per effetto del disposto
del suo art. 4, non poteva ritenersi sorretto da idonea causa, se non ricorrendo alla controversa tesi
della causa fiduciae, può ora dirsi che la translatio dominii compiuta in funzione della costituzione
di un vincolo quale quello (malamente) descritto dall’art. 2645-ter c.c. sia giustificata, proprio
(22) Secondo GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 7, è possibile «che il conferente concluda un autonomo
contratto di gestione con un terzo, assumendo i costi e attribuendo i poteri. Si stipulerebbe allora, parallelamente al
contratto di destinazione, un contratto di mandato, onde l’azione che l’art. 2645 ter c.c. attribuisce al conferente per la
realizzazione dell’interesse, sarebbe appunto l’actio mandati».
(23) Cfr. BARTOLI, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno
e trust, cit., p. 701, il quale rileva ulteriormente quanto segue: «Quanto poi alla previsione della concorrente
legittimazione ad agire di “qualsiasi interessato”, occorre preliminarmente considerare che il termine “interessato”
potrebbe riferirsi sia ad un soggetto beneficiario in senso tecnico del negozio di destinazione, sia ad un soggetto che, pur
non essendo beneficiario in senso tecnico di detto negozio, destinato a riceverne vantaggi eventuali, sia ad un soggetto
cui il conferente abbia attribuito, nel negozio di destinazione, il ruolo di controllore dell’attività del gestore, sia infine al
soggetto gestore».
(24) Cfr. BARTOLI, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c. e sul rapporto fra negozio di destinazione di diritto interno
e trust, cit., p. 701.
(25) Il significato ed i limiti dell’inciso «di per sé» saranno chiariti nel paragrafo immediatamente successivo.
(26) Cfr. per tutti MARICONDA, Contrastanti decisioni sul trust interno: nuovi interventi a favore, ma sono
nettamente prevalenti gli argomenti contro l’ammissibilità, in Corr. giur., 2004, p. 57 ss.
(27) OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 351 ss.
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perché diretta a porre in essere un vincolo (questa volta espressamente) riconosciuto dalla legge.
Trattasi dunque di trasferimento causalizzato dall’art. 2645-ter c.c., in quanto posto in essere
per raggiungere lo scopo meritevole di tutela e perché attuato verso un soggetto incaricato, in base
ad un apposito mandato (e/o di un contratto d’opera, visto che il più delle volte non si tratterà certo
solo di porre in essere atti giuridici), di porre in essere tutti i comportamenti ritenuti idonei al fine di
ottenere il conseguimento dello scopo sperato.
Strettamente collegata al problema dell’effetto traslativo è la questione dell’eventuale
ritrasferimento del diritto dominicale – una volta trascorso il periodo di durata, o che si sia
verificata la morte del beneficiario – dall’ «attuatore» al costituente, o a un terzo, ovvero ancora
dallo stesso costituente (e contemporaneamente «attuatore», o dagli eredi di quest’ultimo) ad un
terzo. È noto che questo aspetto è uno dei profili salienti dei trusts, che sovente prevedono proprio
la duplice figura del beneficiario immediato e del beneficiario finale: il primo dei quali è costituito
dal soggetto che s’avvantaggia del vincolo di durata, mentre il secondo (che può anche coincidere
con il primo) è la persona cui andrà trasferita la proprietà dei beni (già) vincolati ( 28).
Ancora una volta i sostenitori della ammissibilità del trust interno non sembrano mostrare
dubbi sulla liceità di una siffatta pattuizione ( 29), al punto da spingersi ad ipotizzare la trascrivibilità
immediata, nel caso di mandato senza rappresentanza ad acquistare, del «vincolo di destinazione dei
beni a beneficio del mandante. Senza, quindi, necessità di attendere l’eventuale inadempimento del
mandatario al fine di trascrivere la domanda di esecuzione in forma specifica dell’obbligo di
ritrasferimento»; si assicurerebbe in tal modo «al mandante una tutela reale almeno a partire dal
momento in cui l’acquisto è effettuato ad opera del mandatario» ( 30).
Ma, a parte il dubbio ( 31), più che legittimo, che la novella si occupi veramente del mandato
senza rappresentanza e della causa fiduciae, tutto quanto si può ricavare (e con una certa fatica!)
dall’art. 2645-ter c.c. è – come si è visto – l’ammissibilità di un trasferimento strumentale ad un
vincolo e non certo quella di un vincolo strumentale ad un (ri)trasferimento. Il vincolo di cui si
discute, infatti, per la sua intrinseca temporaneità non può esaurirsi se non in un impiego del bene
perché il suo reddito (o il suo uso temporaneo) realizzi scopi meritevoli di tutela denunziati nell’atto
costitutivo: tale impiego non può dunque risolversi un un’attribuzione definitiva del diritto
dominicale (o di altri diritti reali) una volta esaurita la funzione per cui il vincolo era stato creato.
4. Conclusioni sull’applicabilità del vincolo di destinazione alla famiglia di fatto. Le differenze
rispetto al fondo patrimoniale.
Nei limiti e con le precisazioni di cui sopra, va dunque ribadito che il vincolo di cui all’art.
2645-ter c.c. potrà essere costituito in favore della famiglia di fatto, ad instar di quanto accade per
la famiglia fondata sul matrimonio per il fondo patrimoniale.
Ciò detto, si stagliano però nette diverse differenze rispetto all’istituto di cui agli artt. 167 ss.
(28) Sul tema v. per tutti LUPOI, I trust nel diritto civile, cit., p. 292 ss., 317 ss.
(29) Cfr. LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit., p. 172 s., il
quale osserva al riguardo quanto segue: «Guardando al momento finale, quando il vincolo cessa, nel diritto dei trust è
perfettamente possibile che i beni in trust tornino al disponente o ai suoi eredi o comunque a un soggetto diverso da
quello in favore dei quale erano stati vincolati net corso del trust. Questo è ciò che normalmente avviene nei trust interni
per sostenere persone con disabilità: durante la vita delle persone con disabilità il reddito dei beni è al loro servizio e, se
necessario, lo sono anche i beni stessi (alienabilità dei beni in trust), ma successivamente il trustee trasferisce i beni o i
beni residui ad altri soggetti (usualmente gli altri figli del disponente) e il trust cessa. Il vincolo, quindi, non è andato a
vantaggio del soggetto, titolare dei beni vincolati né nella vigenza del vincolo né alla sua cessazione. Questa
configurazione potrebbe non essere necessariamente richiesta per gli “atti di destinazione” perché non sembra esservi
incompatibilità fra il vincolo e la patrimonializzazione, in capo al soggetto proprietario, alla cessazione del vincolo
medesimo. Infatti, il disponente che vincoli i beni per un breve periodo e, al termine, sia vivo riacquista la pienezza
della posizione dominicale. Lo stesso potrebbe accadere al diverso soggetto al quale il disponente abbia trasferito i beni
con il patto che, alla cessazione del vincolo, i beni gli appartengano pienamente (vi è una analogia con il fedecommesso
assistenziale)».
(30) Così PETRELLI, La trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 8.
(31) Su cui v. anche LUPOI, Gli “atti di destinazione” nel nuovo art. 2645-ter cod. civ. quale frammento di trust, cit.,
p. 170.
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c.c.
Cominciando dalla ragione principale per la quale il fondo viene costituito ( 32), vale a dire la
costituzione di una situazione d’insaisissabilité ( 33) di uno o più beni, va subito notato che il vincolo
ex art. 2645-ter c.c. è più «forte» ( 34) di quello da fondo patrimoniale, per via dell’opponibilità nei
confronti di tutti i creditori dei coniugi, anche a prescindere dalla ricorrenza delle condizioni, per
così dire, «soggettive» descritte dall’art. 170 c.c., nonché per la diversa ripartizione dell’onus
probandi delle condizioni «oggettive» ( 35).
La formulazione di tale ultima norma, invero, impone, per l’opponibilità del vincolo al
creditore, non solo l’obiettiva estraneità del credito ai bisogni della famiglia, ma anche la
conoscenza, in capo al creditore, di tale estraneità. Stato soggettivo, questo, il cui onere probatorio
ricade sul debitore ( 36). Al contrario, l’art. 2645-ter c.c. si limita a stabilire che «I beni conferiti e i
loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e possono
costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per
debiti contratti per tale scopo».
Ciò significa, in primo luogo, che sul debitore non graverà l’onere di fornire alcuna prova (e
sovente si tratta di vera e propria probatio diabolica) sullo stato soggettivo del creditore al
momento della nascita del rapporto obbligatorio e, in secondo luogo, che spetta al creditore
dimostrare che il debito è stato contratto «per la realizzazione del fine di destinazione», posto che
qui tale fatto viene descritto in positivo, quale elemento costitutivo della fattispecie rappresentata
dalla realizzazione in executivis della pretesa creditoria, laddove l’art. 170 c.c. si riferisce ad un
elemento impeditivo (descritto in negativo: «l’esecuzione … non può avere luogo…»), che
individua inevitabilmente il debitore quale soggetto onerato ( 37).
Per queste ragioni non appaiono condivisibili le posizioni di chi afferma che la norma in tema
di destinazione è analoga all’art. 170 c.c. ( 38). Tesi, questa, che può accettarsi, a tutto concedere,
solo limitatamente ai crediti nascenti ex delicto, in relazione ai quali, come esattamente rilevato in
dottrina ( 39), l’obbligazione nasce indipendentemente dalla conoscenza o conoscibilità del vincolo
di destinazione, oltre che al di fuori di qualsiasi scelta del creditore, mancando una situazione
(32) Che costituirà, verosimilmente, la ragione principale per la quale anche i vincoli di destinazione verranno creati,
non appena (ci sia consentita la battuta) i commercialisti, pur con qualche anno di ritardo, si saranno resi conto di
quanto viene illustrato in appresso nel testo.
(33) Con questa fondamentale differenza, peraltro, rispetto al noto istituto introdotto in Francia da una legge del
2003, estesa nel 2008 a tutti i biens immobiliers non professionnels, e cioè che l’insaisissabilité «ne joue que pour les
dettes à venir»: principio, questo, che, ove accolto nel nostro sistema normativo (che talora sembra concepito per
premiare i «furbi»), risolverebbe non pochi dei problemi pratici posti dal fondo patrimoniale.
(34) Cfr. OBERTO, Atti di destinazione (art. 2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 351 ss., 424 s.; in
senso conforme v. anche G.A.M. TRIMARCHI, op. loc. ultt. citt. (il quale rileva, per l’appunto, che «lo “stato” di
separazione dei beni in vincolo di destinazione è più “forte” di quelli in fondo patrimoniale»); cfr. inoltre BULLO, Sub
art. 2645-ter c.c., cit., p. 3330.
(35) Per comodità del lettore si pongono qui a raffronto le due disposizioni:
Art. 2645-ter c.c.
Art. 170 c.c.
(…) I beni conferiti e i loro frutti possono essere
170. Esecuzione sui beni e sui frutti. — L’esecuzione
impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione sui beni del fondo e sui frutti di essi non può avere luogo
e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti
previsto dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti per scopi estranei ai bisogni della famiglia.
contratti per tale scopo.
(36) Cfr. da ultimo Cass., 15 marzo 2006, n. 5684. V. inoltre, per la giurisprudenza di merito, Trib. Parma, 7 gennaio
1997, in Nuova giur. civ. comm., 1998, I, p. 31, con nota di MORA.
(37) Anche DI SAPIO, op. cit., p. 31, rileva che «L’art. 2645-ter è una disposizione scritta “in positivo” (ci dice chi
può rivalersi su quei beni). L’art. 170 è invece una disposizione scritta “in negativo” (ci dice chi non può rivalersi su
quei beni). C’è una bella differenza. Manca inoltre ogni riferimento allo stato soggettivo del creditore la cui tutela
risulta, dunque, affievolita. Anche il tema dell’onere della prova andrà rivisitato: non si chiede più una prova negativa
(non essere stato a conoscenza dell’estraneità del credito rispetto allo scopo: art. 170), ma una prova positiva
(l’attinenza del debito rispetto allo scopo). Se non ho preso un abbaglio, mi pare ci siano ampi margini per argomentare
che il creditore, prima di contrarre, deve accertarsi se l’obbligazione risponda allo scopo: in sede esecutiva l’onere della
prova graverà sul medesimo (art. 2697)».
(38) In questo senso v. invece GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 9.
(39) Cfr. DI SAPIO, op. cit., p. 14 s.
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affidante che giustifichi la limitazione della responsabilità ( 40). Così, pur in assenza di una norma
analoga all’art. 2447-quinquies, terzo comma, c.c., dovrà affermarsi che, come per il fondo
patrimoniale ( 41), così nella fattispecie in esame i beni vincolati rispondono ove siano fonte di
danni, perché, in entrambi i casi, è il vincolo di destinazione, quale elemento distintivo, a fornire il
criterio di riferimento per stabilire le categorie di creditori interessate dalla vicenda destinatoria ( 42).
Altro effetto è sicuramente quello – lasciando da parte, ovviamente, l’ipotesi della revocatoria
– dell’esclusione dei beni vincolati dalla eventuale massa fallimentare, se non in relazione a quei
debiti contratti «per la realizzazione del fine di destinazione»: ciò in forza del generale riferimento,
nella norma in esame, ai «terzi», a prescindere dalla sede nella quale (e dalle modalità con cui) essi
facciano valere i loro diritti, nonché avuto riguardo a quella già ricordata parte della disposizione
secondo la quale «I beni conferiti e i loro frutti possono essere impiegati solo per la realizzazione
del fine di destinazione e possono costituire oggetto di esecuzione, salvo quanto previsto
dall’articolo 2915, primo comma, solo per debiti contratti per tale scopo». Tale effetto, derivando
direttamente dall’art. 2645-ter c.c., non abbisogna di alcuna estensione analogica dell’art. 46, primo
comma, n. 3, r.d. 16 marzo 1942, n. 267, così come modificato dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, che,
per il fondo patrimoniale, prevede l’inclusione dei relativi beni nella massa fallimentare nel caso di
ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 170 c.c., inapplicabile, come si è detto, al caso di specie.
Inapplicabile appare inoltre, per la sua specialità, l’art. 155, r.d. cit., che attribuisce al curatore, nel
caso di patrimonio destinato ad uno specifico affare, ex art. 2447-bis c.c., l’amministrazione del
patrimonio medesimo.
D’altro canto, per ciò che attiene agli eventuali atti dispositivi, se il vincolo ai sensi dell’art.
2645-ter c.c. può sembrare a tutta prima più «debole» di quello da fondo patrimoniale, avuto
riguardo alla non necessità di autorizzazione giudiziale per gli atti ex art. 169 c.c. in presenza di figli
minorenni, è anche vero che la regola appena citata risulta, quanto meno secondo l’opinione
dominante, derogabile ( 43). Inoltre, l’effettuazione della pubblicità rende comunque il vincolo di
destinazione ex art. 2645-ter c.c. opponibile verso ogni subacquirente, a differenza di quello che
accade allorquando i coniugi si siano riservati la facoltà di alienazione dei beni del fondo
patrimoniale senza autorizzazione (ovvero quando, in presenza della necessità di autorizzazione,
quest’ultima sia stata rilasciata), posto che, in tal caso, il terzo acquista il bene certamente libero dal
vincolo.
Il ricorso all’art. 2645-ter c.c. permette poi anche la costituzione di un vincolo temporale
nell’interesse della famiglia di fatto al di là delle ipotesi in cui l’istituto ex artt. 167 ss. c.c. è
consentito per la famiglia fondata sul matrimonio. I costituenti, per esempio, potranno derogare a
quanto stabilito dall’art. 171 c.c., stabilendo ad esempio che il vincolo non cessi (ed anzi, questa
sarà la regola, atteso il principio che autorizza una durata dello stesso per novanta anni o per tutta la
vita della persona fisica beneficiaria) in caso di scioglimento del ménage (e, dunque, di una
situazione speculare rispetto al divorzio), pur in assenza di figli minori.
In quest’ottica il vincolo ex art. 2645-ter c.c. può prestarsi a fornire garanzie per le prestazioni
a favore della prole, una volta intervenuta la crisi del ménage, in maniera esattamente speculare
rispetto a quanto già consentito da una decisione di merito in relazione alla separazione personale
dei coniugi ( 44).
(40) Come osserva DI SAPIO, op. loc. ultt. citt., «Il creditore non sceglie nulla. Subisce un danno ingiusto. Se potesse
scegliere, ragionevolmente sceglierebbe dell’altro: che il fatto illecito non si verifichi».
(41) Cfr. Cass., 5 luglio 2003, n. 8991, in Riv. notar., 2003, p. 1563; Cass., 18 luglio 2003, n. 11230, in Giur. it.,
2004, 1615; Trib. Sanremo, 29 ottobre 2003, in Dir. fam. pers., 2004, p. 101; in dottrina cfr. LENZI, I patrimoni
destinati: costituzione e dinamica dell’affare, in Riv. notar., 2003, p. 566.
(42) Cfr. GAZZONI, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., § 9, secondo cui «la limitazione della responsabilità [non]
opererà, in caso bene destinato, in favore dei soli crediti risarcitori sorti, ad esempio, da circolazione dell’autoveicolo
adibito a trasporto del disabile o da rovina dell’edificio o, sempre nel quadro della destinazione, da uso di un bene
mobile registrato di natura pericolosa».
(43) Cfr. per tutti OBERTO, Contratto e famiglia, cit., p. 217 ss.
(44) La prima applicazione giurisprudenziale di cui si abbia notizia dell’art. 2645-ter c.c. alla crisi coniugale è
costituita da una decisione resa nel 2007 da un tribunale emiliano (Trib. Reggio Emilia, 26 marzo 2007, in Guida dir.,
2007, n. 18, p. 58; in Dir. fam. pers., 2007, p. 1726). Il giudice era qui stato chiamato a decidere su di un’istanza ex art.
710 c.p.c. di modifica delle condizioni di una separazione consensuale. In particolare i coniugi volevano sostituire il
92
Infine, potrà richiamarsi in questa sede quanto già illustrato circa la possibilità che l’atto
costitutivo del vincolo possa prevedere una clausola di automatica trasformazione in fondo
patrimoniale in caso di celebrazione delle nozze tra i partners ( 45).
5. Il problema dell’individuazione dei beneficiari del vincolo di destinazione a favore della
famiglia di fatto.
Venendo, infine, a trattare del profilo soggettivo, va subito posto in evidenza che l’art. 167
versamento d’un assegno mensile da parte del marito, pari ad € 400,00, per il contributo al mantenimento dei figli, con
il trasferimento della proprietà per intero o per quota di unità immobiliari, non già ai figli, ma alla moglie, ancorché a
titolo di contributo al mantenimento dei figli. La soluzione, suggerita dallo stesso collegio, ha previsto, al fine di
salvaguardare l’interesse della prole, l’inserimento nell’intesa traslativa di una clausola aggiuntiva rispetto a quella che
prevedeva i trasferimenti immobiliari a vantaggio della moglie, nei termini seguenti: «7) ai sensi e per gli effetti di cui
all’art. 2645-ter c.c. la sig.ra (B) si obbliga ad impiegare i frutti degli immobili indicati alla condizione n. 1 punti a), b),
e) e d) per il pagamento del mutuo ipotecario iscritto dal Gruppo (K) a carico degli immobili indicati alla condizione n.
1, punti a), b), c) e, una volta estinto detto mutuo, ad impiegare i frutti degli immobili per il mantenimento della prole
sino al raggiungimento dell’autosufficienza economica del più giovane dei figli; 8) ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
2645-ter cc. la sig.ra (B) si impegna. altresì, a non alienare gli immobili indicati alla condizione n. 1, punti a), b), c) e d)
sino al raggiungimento dell’autosufficienza economica del più giovane dei figli». Sulla base dei predetti accordi il
tribunale ha reso una decisione con cui ha modificato le previe intese di separazione consensuale, nei termini sopra
descritti. Ora, a prescindere dalla circostanza che il tribunale, riconosciuta la rispondenza della clausola all’interesse
della prole, avrebbe dovuto, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, dichiarare non luogo a provvedere
sull’istanza, dal momento che è ormai pacificamente assodato che le intese modificative delle condizioni della
separazione, anche per ciò che attiene alla gestione del rapporto con i figli minori, sono sottratte al procedimento ex art.
710 c.p.c. e non necessitano di alcuna forma di omologazione, è interessante soffermarsi brevemente sulle distinte prese
di posizione della decisione relativamente a varie questioni connesse all’applicazione dell’art. 2645-ter c.c. In
particolare, sulla forma, il giudice ha riconosciuto che «Nel caso di specie, il verbale dell’udienza del 22/3/2007
costituisce atto pubblico ai sensi e per gli effetti dell’art. 2699 cod. civ. e (previa omologazione dell’accordo) è titolo
idoneo alla trascrizione nei Registri Immobiliari, a norma dell’art. 2657 cod. civ., del negozio di trasferimento di diritti
reali immobiliari ivi contenuto (…). È soddisfatto, pertanto, il requisito formale». In punto meritevolezza degli interessi
perseguiti il tribunale ha poi motivato rilevando come la giurisprudenza in tema di trasferimenti immobiliari in favore
della prole nella crisi coniugale attenga ad ipotesi di atti traslativi verso i figli, «mentre nel caso de quo il trasferimento
avviene tra i coniugi, seppure con vincolo di destinazione a favore della prole e a titolo di mantenimento di questa: deve
comunque essere riconosciuta la meritevolezza degli interessi perseguiti». Più oltre, sullo stesso tema, il tribunale pone
l’accento sulla funzione di garanzia del vincolo rispetto agli atti di esecuzione (in confronto rispetto al fondo
patrimoniale), nei termini seguenti: «Infine, è prevista una piena ed efficace garanzia sui beni rispetto agli atti di
esecuzione, addirittura superiore alla previsione di impignorabilità dei beni costituiti in fondo patrimoniale: infatti
mentre l’impignorabilità per debiti contratti per scopi estranei o differenti rispetto a quelli individuati nell’atto di
destinazione dei beni (e dei relativi frutti) conferiti ai sensi del nuovo art. 2645-ter cod. civ. appare assoluta, l’art. 170
cod. civ. assoggetta ad esecuzione i beni del fondo patrimoniale anche per debiti contratti per scopi estranei ai bisogni
della famiglia, a condizione che il creditore non sia a conoscenza di tale ultima circostanza. Più specificamente, si
osserva che il primo vincolo impresso sui beni trasferiti alla (B) riguarda i loro frutti (che, a norma dell’ari 2645-ter
cod. civ., “possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione”) e prevede che gli stessi siano
destinati – dopo l’estinzione del mutuo che grava sugli immobili – al mantenimento della prole sino al raggiungimento
dell’autosufficienza economica. Si tratta, con ogni evidenza, di una pattuizione favorevole per la prole: dopo la
liberazione del bene dai gravami relativi al mutuo stipulato dai coniugi acquirenti (e proprio a questo fine devono in
primis essere destinati i frutti), è assicurata ai figli – sino al raggiungimento della loro autosufficienza economica – una
fonte sicura di reddito (peraltro non aggredibile da eventuali creditori della (B))». A commento della decisione può
dunque dirsi che, in buona sostanza, l’art. 2645-ter c.c. consente una nuova categoria di trasferimenti: quelli in favore
del coniuge o ex tale (cioè dell’altro genitore: e dunque il principio ben sembra trasferibile alla materia della crisi della
famiglia di fatto), ma nell’interesse della prole, quale contributo al mantenimento della prole stessa (minorenne o
maggiorenne ma non autosufficiente), laddove sino ad ora la giurisprudenza si era occupata di atti traslativi in funzione
di contributo al mantenimento della prole, ma disposti in favore della prole medesima (sul punto v. OBERTO,
Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, Milano, 2000, p. 149 ss.;
ID., Trasferimenti patrimoniali in favore della prole operati in sede di crisi coniugale, nota a Trib. Salerno, 4 luglio
2006, in Fam. dir., 2007, p. 64 ss.; ID., Gli accordi patrimoniali tra coniugi in sede di separazione o divorzio tra
contratto e giurisdizione: il caso delle intese traslative, disponibile alla pagina web seguente:
http://giacomooberto.com/bologna2011/relazione_oberto_bologna_8_aprile_2011.htm; sulla decisione di merito sopra
citata v. anche MARRA, op. cit., p. 1199 ss.).
(45) V. supra, § 1, in questo Cap.
93
c.c., in materia di fondo patrimoniale, individua genericamente «la famiglia» come beneficiaria
dell’istituto. Ora, secondo la dottrina, la famiglia cui la norma fa richiamo possiede un’estensione
che non va oltre la famiglia nucleare, atteso l’evidente collegamento del fondo con l’obbligo di
contribuzione dei coniugi (art. 143 c.c.) e dei figli (art. 315 c.c.), nonché con quello di
mantenimento della prole (artt. 147 e 148 c.c.). Per quanto attiene a quest’ultima, fermo restando
che in tale concetto si debbono far rientrare i figli (legittimi, legittimati, adottivi, nonché i minori in
affido temporaneo) della coppia a prescindere dalla loro nascita rispetto al momento di costituzione
del fondo, si discute sulla possibilità di riferire il fondo anche ai figli (legittimi, naturali o adottivi)
di un solo coniuge. La tesi preferibile valorizza l’indispensabilità dell’elemento matrimoniale per la
costituzione del fondo, al fine di ricavarne l’impossibilità di pervenire alla ventilata estensione. Non
manca però chi ritiene di valorizzare il ruolo dell’eventuale introduzione del minore unilaterale
nella famiglia legittima del proprio genitore. Si discute infine sulla riferibilità dell’istituto ai figli
maggiorenni, pervenendo la tesi prevalente e preferibile alla soluzione di ritenere compresi i figli
maggiorenni non ancora autosufficienti ( 46).
Ora, a differenza dell’art. 167 c.c. («… bisogni della famiglia»), l’art. 2645-ter c.c. sembra
presupporre invece l’esatta individuazione di uno o più soggetti determinati («… altri enti o persone
fisiche»).
Ad avviso di chi scrive, peraltro, la meritevolezza dell’interesse, per le ragioni solidaristiche
che ispirano la norma, è di tale evidenza da consentire anche di collocare la famiglia nel suo
complesso (vuoi legittima, vuoi di fatto) tra uno di quegli «altri enti» cui fa richiamo la
disposizione, magari valorizzando quell’indirizzo che ormai unanimemente considera tanto la
famiglia fondata sul matrimonio, come il ménage di fatto, quali «formazioni sociali» riconosciute
dall’art. 2 Cost. ( 47). È chiaro che la soluzione, la quale individua come beneficiario del vincolo di
destinazione la famiglia nel suo complesso eviterebbe la necessità di un riferimento specifico ai
membri attuali del nucleo in considerazione, e, conseguentemente, il ricorso a non agevolmente
ipotizzabili atti di revoca e/o modifica, qualora il nucleo medesimo avesse ad ampliarsi o ridursi.
Non vi è dubbio che, dal punto di vista fattuale, tale soluzione appaia, almeno a prima vista,
più problematica per la convivenza more uxorio rispetto all’unione matrimoniale. Si è infatti
rilevato ( 48) che manca un elemento che consenta d’individuarne i componenti, come componenti di
un gruppo. E ciò in quanto il rapporto tra i conviventi non è desumibile da un atto formale, così
come il rapporto tra i conviventi ed i figli non è un rapporto collettivo che riguarda tutti, ma è
rapporto che lega individualmente ciascuno di essi (ad eccezione – solo ad alcuni fini – per i fratelli
naturali riconosciuti dal medesimo genitore).
Si è così ulteriormente sottolineato che «mentre la famiglia legittima contiene in sé l’elemento
formale ed unificante che consente l’immediato riconoscimento di tutti i suoi componenti presenti e
futuri rispetto al momento genetico di un qualunque atto d’autonomia che possa riguardarli (tali,
infatti, sono i coniugi uniti in matrimonio, o i loro figli legittimi), la famiglia di fatto non consente
un’identificazione collettiva dei suoi componenti: i conviventi possono nel tempo cambiare senza
alcuna ripercussione giuridica, e gli stessi figli sono tali, sul piano giuridico, in relazione a ciascun
genitore che effettua il riconoscimento» ( 49).
Peraltro, come sopra chiarito, neppure nella famiglia legittima i confini soggettivi appaiono
sempre così chiaramente delineati, se è vero che non manca chi ha inteso fondare proprio sulla
convivenza il tratto identificativo della «famiglia» rilevante ex artt. 167 ss. c.c. ( 50), mentre diversi
Autori non esitano a riferire il fondo patrimoniale, come si è visto, anche ai minori in affidamento,
(46) Per tutti i richiami si fa rinvio ad AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, p. 29 ss.; ID., Il fondo
patrimoniale, in AA.VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della
famiglia, Torino, 1997, p. 392 s.; CENNI, Il fondo patrimoniale, cit., p. 563; FUSARO, Del fondo patrimoniale, cit., p.
1048 s.; DEMARCHI ALBENGO, Il fondo patrimoniale, Milano, 2011, p. 95 ss.
(47) Sul punto OBERTO, Atti di destinazione (2645-ter c.c.) e trust: analogie e differenze, cit., p. 385 ss.; anche per
G.A.M. TRIMARCHI, op. loc. ultt. citt., «Sul piano generale non può certo escludersi che la famiglia non fondata sul
matrimonio possa considerarsi un “ente”, una formazione all’interno della quale le persone che la compongono
sviluppino la propria persona il cui valore è centrale nel ragionamento sulla meritevolezza sopra esteso».
(48) G.A.M. TRIMARCHI, op. loc. ultt. citt.
(49) G.A.M. TRIMARCHI, op. loc. ultt. citt.
(50) Cfr. DEMARCHI ALBENGO, op. loc. ultt. citt.
94
ai figli (legittimi, naturali, adottivi) di uno solo dei coniugi, purché inseriti nel nucleo familiare, e
agli stessi figli maggiorenni della coppia coniugata, purché ancora non autosufficienti e conviventi
con i genitori.
Del resto, non è escluso che, nella famiglia di fatto, l’identificazione dei componenti possa
avvenire anche solo per relationem. Una volta individuati nell’atto costitutivo i due soggetti del cui
ménage si tratta, sarà sufficiente indicare, genericamente, la prole che da tale unione nascerà (e –
perché no? – aggiungervi l’astratta possibilità che il nucleo si estenda, con l’inserimento di fatto di
eventuali figli unilaterali o minori in affido). Quanto all’ulteriore possibile presupposto, costituito
dalla previsione che il rapporto di filiazione sia legalmente accertato mercé riconoscimento o
dichiarazione giudiziale, atteso il carattere meramente dichiarativo di siffatti atti e la presenza di
un’obbligazione naturale per ciò che attiene al mantenimento di figli naturali eventualmente non
riconosciuti né dichiarati, non sembra possa predicarsi l’assoluta indispensabilità di tale elemento
(ancorché dal punto di vista pratico il suo inserimento appaia raccomandabile, così come
consigliabile comunque appare la nominativa menzione dei soggetti beneficiari già in vita).
95
CAPITOLO VII
LA RESPONSABILITA’ DEI CONVIVENTI
PER LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE PER IL MÉNAGE
E LA RESPONSABILITA’ DEI GENITORI
PER LE OBBLIGAZIONI CONTRATTE DAI FIGLI
SOMMARIO: 1. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte
nell’interesse del ménage di fatto. – 2. Accordi programmatici tra conviventi e attività
negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza esterna degli accordi dei conviventi relativi alla
prole. – 3. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.
1. La responsabilità verso terzi dei conviventi more uxorio per le obbligazioni contratte
nell’interesse del ménage di fatto.
È noto che una delle questioni maggiormente dibattute in relazione ai rapporti patrimoniali tra
(e dei) coniugi attiene al modo in cui si atteggia la loro responsabilità verso terzi per le obbligazioni
da uno di essi contratte nell’interesse della famiglia ( 1). Occorre dunque chiedersi quale sia la
posizione dei conviventi more uxorio rispetto a tale tema. Come si è già avuto modo di accennare in
altra sede ( 2), non mancano ordinamenti stranieri che, sul solco della radicata esperienza della
solidarité ménagère tra coniugi, hanno ritenuto di poter estendere la soluzione prevista in quella
sede anche al caso dei conviventi: quanto meno di quelli che abbiano inteso «solennizzare» il loro
rapporto tramite la stipula di un apposito patto o contratto.
È il caso, ad esempio dell’art. 515-4 cpv. del Code civil francese, introdotto dalla legge sui
PACS (art. 1, legge nº 99-944 del 15 novembre 1999), secondo il quale «Les partenaires sont tenus
solidairement à l’égard des tiers des dettes contractées par l’un d’eux pour les besoins de la vie
courante. Toutefois, cette solidarité n’a pas lieu pour les dépenses manifestement excessives. Elle
n’a pas lieu non plus, s’ils n’ont été conclus du consentement des deux partenaires, pour les achats à
tempérament ni pour les emprunts à moins que ces derniers ne portent sur des sommes modestes
nécessaires aux besoins de la vie courante». Similmente, il § 8 cpv. del Gesetz über die
Eingetragene Lebenspartnerschaft (Lebenspartnerschaftsgesetz - LPartG) stabilisce che, per le
coppie omosessuali che abbiano stipulato una eingetragene Lebenspartnerschaft, Ǥ 1357 des
Bürgerlichen Gesetzbuchs [cioè la norma che introduce per i coniugi la regola della
Schlüsselgewalt] gilt entsprechend». Sotto il profilo della tecnica legislativa potrà notarsi che,
mentre l’opzione francese consiste nella nuova formulazione di una regola ricalcata su quella
concernente la solidarité ménagère coniugale, ( 3), la soluzione germanica consiste in un rinvio puro
e semplice al paragrafo del BGB che disciplina l’istituto relativamente ai coniugi ( 4).
(1) Sul tema v. per tutti OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, Milano, 2006, p. 75 ss.
(2) Cfr. OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 100 ss., 105 ss.
(3) Andrà notato che la versione originale della disposizione sul PACS non coincideva esattamente con la regola
dettata per i coniugi, difettando per i concubins « pacsés » ogni richiamo ai limiti di cui all’art. 220, secondo e terzo
comma, Code civil. In proposito osservava la dottrina (cfr. MÉCARY e LEROY-FORGEOT, Le PACS, Paris, 2000, p. 71 s.)
che, dal momento che i partners non beneficiavano del limite alla responsabilità solidale fissato dagli artt. 220, cpv. e
terzo comma, cit., essi si trovavano ad avere «un engagement à l’égard des tiers plus important que celui des époux,
dont on ne comprend pas la justification». La dottrina d’Oltralpe sembrava comunque intenzionata a non estendere ai
concubins pacsés la limitazione in oggetto, prevista dall’art. 220 cit. per i coniugi: cfr. per esempio COURBE, Droit de la
famille, Paris, 2003, p. 233 s. Si noti poi che la legge francese prevedeva che la solidarietà valesse «pour les dépenses
relatives au logement commun», ciò che era stato interpretato come comprensivo non solo dei canoni di locazione e
delle spese accessorie, bensì anche delle mensilità di un mutuo immobiliare che fosse stato contratto da un partner per
finanziare l’acquisto della casa familiare (cfr. ALLEAUME, Solidarité contre solidarité. Etudes comparatives des
avantages respectifs du mariage et du PACS au regard du droit du crédit, in D. 2000, chron. 450). Il testo in oggetto
della legge sul PACS è però stato modificato dalla legge n° 2010-737 del 1° luglio 2010 (art. 9), che è venuta ad
introdurre una dizione assai simile, ancorché non esattamente identica, a quella prevista per i coniugi dal citato art. 220;
si v. sul punto il seguente schema di raffronto:
96
Anche in Italia chi scrive ha legato la soluzione del problema in esame alla stipula di un
contratto di convivenza ( 5), ben potendosi ipotizzare che nel patto i conviventi inseriscano clausole
volte a disciplinare l’attività negoziale che ciascuno di essi, al fine di soddisfare le esigenze del
ménage, può svolgere contraendo con terzi. In particolare, cogliendo un suggerimento della dottrina
straniera, si potrebbe pensare a un esplicito reciproco conferimento di procura (revocabile) in
relazione ai negozi necessari a soddisfare le quotidiane esigenze della vita in comune ( 6).
L’espediente potrebbe servire a tutelare non solo i creditori (per lo meno in tutti i casi in cui il
patrimonio del convivente non agente offrisse maggiori garanzie), bensì anche il partner che
materialmente si occupa del disbrigo delle faccende domestiche e dei figli, cui sarebbe consentito
sottrarsi alle pretese di coloro che hanno fornito beni o servizi ordinati a nome del rappresentato.
Si eviterebbe in tal modo la necessità di ricorrere a quegli espedienti enucleati dalla dottrina e
dalla giurisprudenza, soprattutto all’estero, per affermare una responsabilità anche in capo al
convivente rimasto estraneo al negozio, e che, a giudizio di chi scrive, sono tutti inevitabilmente
Art. 515-4 cpv. Code civil
«Les partenaires sont tenus solidairement à l’égard des
tiers des dettes contractées par l’un d’eux pour les besoins
de la vie courante. Toutefois, cette solidarité n’a pas lieu
pour les dépenses manifestement excessives. Elle n’a pas
lieu non plus, s’ils n’ont été conclus du consentement des
deux partenaires, pour les achats à tempérament ni pour
les emprunts à moins que ces derniers ne portent sur des
sommes modestes nécessaires aux besoins de la vie
courante».
Art. 220 Code civil
«Chacun des époux a pouvoir pour passer seul les
contrats qui ont pour objet l’entretien du ménage ou
l’éducation des enfants : toute dette ainsi contractée par
l’un oblige l’autre solidairement.
La solidarité n’a pas lieu, néanmoins, pour des
dépenses manifestement excessives, eu égard au train de
vie du ménage, à l’utilité ou à l’inutilité de l’opération, à
la bonne ou mauvaise foi du tiers contractant.
Elle n’a pas lieu non plus, s’ils n’ont été conclus du
consentement des deux époux, pour les achats à
tempérament ni pour les emprunts à moins que ces
derniers ne portent sur des sommes modestes nécessaires
aux besoins de la vie courante».
Sul PACS e per ulteriori richiami cfr. inoltre RIVA, Il PACS o la convivenza registrata in Francia, in Contratto e
impresa/Europa, 2005, p. 742 ss.; BONINI BARALDI, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, cit.,
p. 86 ss.
(4) Pure in Spagna il legislatore è intervenuto sul tema. Così la legge catalana 10/1998, de 15 de julio, de uniones
estables de pareja stabilisce agli artt. 4 e 5 quanto segue:
«Artículo 4. Gastos comunes de la pareja.
1. Tienen la consideración de gastos comunes de la pareja los necesarios para su mantenimiento y el de los hijos y
las hijas comunes o no que convivan con ellos, de acuerdo con sus usos y su nivel de vida, y especialmente:
a. Los originados en concepto de alimentos, en el sentido más amplio.
b. Los de conservación o mejora de las viviendas u otros bienes de uso de la pareja.
c. Los originados por las atenciones de previsión, médicas y sanitarias.
2. No tienen la consideración de gastos comunes los derivados de la gestión y la defensa de los bienes propios de
cada miembro, ni, en general, las que respondan al interés exclusivo de uno de los miembros de la pareja.
Artículo 5. Responsabilidad.
Ante terceras personas, ambos miembros de la pareja responden solidariamente de las obligaciones contraídas por
razón de los gastos comunes que establece el artículo 4, si se trata de gastos adecuados a los usos y al nivel de vida de la
pareja; en cualquier otro caso responde quien haya contraído la obligación».
Per le altre disposizioni locali che contengono principi analoghi cfr., per l’Aragona, la legge 6/1999, del 25 marzo
1999 (relativa a parejas estables no casadas); per la Navarra cfr. la Ley Foral 6/2000 del 3 luglio 2000 (para la
igualdad jurídica de las parejs estables); per le Isole Baleari cfr. la legge 18/2001 del 19 dicembre 2001 (de Pareja
Estables); per la Comunidad Autónoma di Valencia cfr. la legge 1/2001 del 6 aprile 2001 (por la que se regulan las
uniones de hecho); per la Comunidad Autónoma di Madrid cfr. la legge 11/2001 del 19 dicembre 2001 (de Uniones de
Hecho de la Comunidad de Madrid); per le Asturie cfr. la legge 4/2002 del 23 maggio 2002 (de Parejas Estables).
(5) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 272 ss. Per la dottrina tedesca cfr. GRZIWOTZ,
Partnerschaftsvertrag für die nichteheliche Lebensgemeinschaft, München, 1998, p. 21 s.
und eheähnlichem
(6) Cfr. KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem
Zusammenleben, Stuttgart, 1978, p. 125 s.; cfr. inoltre il «modello di Leida», redatto ormai circa vent’anni or sono sotto
la direzione del prof. Van Mourik da un gruppo di studenti dell’Università di quella città, in AA. VV., Couple et
modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., art. 3, comma terzo («les deux parties sont les mandataires de
l’autre partie pour faire des actes juridiques au nom des deux parties. Chacune des parties est obligée d’agir aussi au
nom de l’autre partie»). Contra LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 928, secondo il quale
sarebbe opportuno escludere esplicitamente ogni possibilità di agire per ciascuno dei partners a nome e per conto
dell’altro «ohne besondere Vollmacht».
97
destinati ad abortire. Si pensi, innanzitutto, alla teoria del mandat domestique che, elaborata in
Francia tra Otto e Novecento in relazione alle obbligazioni contratte dalla moglie presso terzi
nell’interesse della famiglia (purché nei limiti di un normale ménage familiare), allorquando era
ancora richiesta l’autorizzazione maritale agli acquisti ( 7), venne estesa, per una supposta identità di
ratio, alle obbligazioni contratte dalla convivente ( 8), salvo essere poi abbandonata, dopo che
l’abrogazione dell’autorisation maritale ( 9) comportò la sparizione dell’istituto in relazione alla
famiglia legittima ( 10).
Nemmeno appaiono invocabili, se non in casi del tutto marginali, teorie come quelle
dell’apparenza, o della tutela dell’affidamento, che pure hanno riscosso un gran successo all’estero
nella materia in discorso ( 11) e la cui applicazione è stata proposta anche in Italia ( 12). Invero, come
(7) Sul tema v. per tutti OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 80 ss.
(8) Cfr. BAUDRY-LACANTINERIE, Dei contratti aleatori, del mandato, della fideiussione e della transazione, in AA.
VV., Trattato teorico-pratico di diritto civile, Milano, s.d., ma 1911, p. 262 ss. (secondo cui la ratio del mandato
domestico andava ricercata nel fatto che «la vita in comune fa supporre, in ciascuno dei due coniugi, l’intenzione di
partecipare alle spese della famiglia»); BATAILLE, Le mandat domestique hors mariage, Caen, 1923, p. 77; JOSSERAND,
Cours de droit civil positif français, Paris, 1932, I, p. 615; ESMEIN, Le problème de l’union libre, in Rev. trim. dr. civ.,
1935, p. 756 ss., p. 784; CHARLIER, Le mandat de la concubine pour les achats du ménage, in Hommage à Léon
Graulich, Liège, 1957, p. 606; JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, cit., p. 248 ss.;
LABROUSSE-RIOU, Droit de la famille, 1. Les personnes, Paris, New York, Barcelone, 1984, p. 243. Per la
giurisprudenza v. Cass. Civ., 29 avril 1969, in J.C.P., 1969, II, 15972; App. Paris, 21 novembre 1923, in Gaz. Pal.,
1924, 1, p. 187; App. Paris, 23 juillet 1932, ivi, 1932, 2, p. 423; App. Rouen, 30 octobre 1973, in D., 1974, Som., p. 19;
Trib. Nice, 27 octobre 1909, in D., 1912, 2, p. 216; Trib. Nogent-sur-Marne, 28 janvier 1910, in Gaz. Pal., 1910, I, p.
397; Trib. Paris, 14 novembre 1912, in Rev. trim. dr. civ., 1913, p. 800; Trib. Paris, 21 novembre 1923, ivi, 1924, p.
350; Trib. Lagny, 4 juin 1954, in J.C.P., 1955, p. 2395. Nel senso che la finzione del mandat domestique avrebbe
comunque presupposto l’esistenza di una famiglia legittima cfr. TARANTO, voce Concubinato (diritto civile), in Noviss.
dig. it., III, Torino, 1959, p. 1055.
(9) Disposta con legge 17 luglio 1919, n. 1176. Un ulteriore motivo di abbandono della teoria del mandato
domestico in relazione alla famiglia legittima è collegato alla legge 13 luglio 1965, n. 570, che modificò il testo dell’art.
220 del Code, ai sensi del quale venne da allora attribuito a ciascuno dei coniugi disgiuntamente il potere di concludere
i contratti «qui ont pour objet l’entretien du ménage ou l’éducation des enfants», per i cui debiti è stabilita la
responsabilità solidale. La giurisprudenza, prima dell’introduzione del PACS, o comunque in relazione a fattispecie
anteriori, ebbe a negare l’estensibilità in via analogica di tale norma ai conviventi (v. Cass. Civ., 11 janvier 1984, in D.,
1984, I.R., p. 275; Cass. Civ., 2 mai 2001, in Bull. Civ., 2001, n. 111, p. 53; cfr. inoltre App. Bordeaux, 15 mars 1983,
riportata da RUBELLIN-DEVICHI, La condition juridique de la famille de fait en France, in La Semaine Juridique, 1986,
I, 3241, n° 7).
(10) Per un’applicazione al campo dei rapporti tra coniugi della teoria del mandato tacito v. Cass., 23 settembre 1986,
n. 5709, cit. (sul tema cfr. inoltre OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 80 ss.). Si noti
che un analogo istituto è conosciuto anche dai sistemi di common law, tanto in relazione alla famiglia legittima che a
quella di fatto (cfr. P. GALLO, L’arricchimento senza causa, Padova, 1990, p. 527 ss.). È evidente che la costruzione in
esame può comunque trovare applicazione soltanto in relazione agli affari relativi all’ordinario svolgimento del ménage
familiare: così essa non potrebbe certo essere invocata nell’ipotesi di alienazione immobiliare effettuata a nome del
partner ma in difetto di procura (per un caso del genere cfr. App. Versailles, 29 septembre 1989, in D., 1989, I.R., p.
297).
(11) L’applicazione al caso di specie della teoria dell’apparence trompeuse è stata proposta in Francia quale
surrogato di quella del mandato domestico: cfr. JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage,
cit., p. 250 ss. con ampi richiami alla giurisprudenza; RODIÈRE, Le ménage de fait devant la loi française, in AA. VV.,
Les situations de fait, Travaux de l’Association Henri Capitant pour la culture juridique française, cit., p. 65;
MALAURIE e AYNÈS, Cours de droit civil, La famille, Paris, 1987, p. 133; PROTHAÏS, Dettes ménagères des concubins:
solidaires, in solidum, indivisibles ou conjointes ? (après l’arrêt Civ. 1re, 11 janv. 1984), in D., 1987, Chr. XLII, p. 237
ss.; Cass. Civ., 29 avril 1979, in J.C.P., II, 15.972; App. Rouen, 30 octobre 1973, in D., 1974, Som., p. 19. Prima di
divenire inutile, quanto meno per i concubins pacsés, la tesi è stata esportata con notevole successo in numerosi altri
Paesi europei. Per il Belgio cfr. PIRET, Le ménage de fait en droit civil belge, cit., p. 78 s. (secondo cui, pur non
potendosi estendere ai conviventi la teoria del mandato domestico tra coniugi, tuttavia, entrambi possono essere
chiamati a rispondere solidalmente in quanto «vivant comme s’ils étaient mari et femme, créent une apparence
trompeuse, de laquelle les tiers ont pu déduire l’existence du mandat domestique. Ces tiers ont cru ainsi avoir le faux
mari pour débiteur»); per la Svizzera v. NOIR-MASNATA, Les effets patrimoniaux du concubinage et leur influence sur
le devoir d’entretien entre époux séparés, Genève, 1982, p. 30, nota 94; per la Spagna (per il periodo anteriore
all’entrata in vigore delle legislazioni delle comunità autonome che, come si è appena visto, sono venute ad introdurre
ipotesi di responsabilità solidale per le obbligazioni contratte nell’interesse della pareja de hecho) cfr. ESTRADA
ALONSO, Las uniones extramatrimoniales en el derecho civil español, Madrid, 1986, p. 312 ss.; GARCIA CANTERO, El
concubinato en el Derecho Civil Frances, Cuadernos del Instituto juridico Español, Madrid, 1956, p. 182. Anche in
Germania, ove pure – prima dell’entrata in vigore della citata riforma che ha introdotto la eingetragene
98
si è avuto modo di vedere per ciò che attiene ai rapporti tra i coniugi ( 13), il ricorso all’apparence
trompeuse non risulta praticabile se non nel caso in cui il convivente agente abbia dichiarato o
comunque reso evidente di contrarre anche in nome dell’altro. È noto infatti che tale istituto postula
un negozio posto in essere da un falsus procurator ( 14), il quale abbia agito ponendo in essere
quella contemplatio domini, che, come in altra sede illustrato ( 15), costituisce quel riconoscibile
riferimento alla sfera patrimoniale altrui che, se non richiede necessariamente la menzione espressa
del nome del dominus, presuppone però comunque la manifestazione dell’intento del dichiarante di
concludere il negozio non per sé, ma in nome e per conto di un altro soggetto.
Trattasi dunque di situazione assai raramente riscontrabile nelle fattispecie in esame, che
vedono di solito uno dei conviventi agire esclusivamente in nome proprio, anche se obiettivamente
nell’interesse del ménage. Non va poi trascurato il fatto che la teoria dell’apparenza viene invocata
per porre rimedio a una situazione in cui il contratto, in quanto concluso (a nome altrui) dal falso
rappresentante, non potrebbe produrre effetto né verso di questi, né verso il rappresentato. Nel caso
di cui si discute, invece, difetta la spendita del nome altrui, e pertanto il negozio produce senz’altro
effetto nei confronti del convivente che lo ha stipulato, facendo comunque acquistare al terzo un
debitore ( 16).
Lebenspartnerschaft – veniva comunemente negata l’applicabilità ai conviventi della regola di cui al § 1357 BGB
(Schlüsselgewalt), in base a cui ciascuno dei coniugi può disgiuntamente compiere tutti i negozi «zu angemessen
Deckung des Lebensbedarfs der Familie mit Wirkung auch für den anderen Ehegatten», si ammetteva che lo stesso
risultato potesse essere raggiunto «nach den Grundsätzen über die Duldungs- oder Anscheinsvollmacht»: cfr. REBMANN
e SÄCKER, Münchener Kommentar zum BGB, 5, München, 1978, p. 136; SCHLÜTER, Die nichteheliche
Lebensgemeinschaft, Berlin - New York, 1981, p. 23 s.; KUNIGK, op. cit., p. 100; STRÄTZ, Rechtsfragen des
Konkubinats im Überblick, in FamRZ, 1980, p. 307; ROTH-STIELOW, Rechtsfragen des ehelosen Zusammenlebens von
Mann und Frau, in Juristische Rundschau, 1978, p. 234; sull’argomento cfr. anche KÄPPLER, Familiäre
Bedarfsdeckung im Spannungsfeld von Schlüsselgewalt und Güterstand, in Archiv für die civilistische Praxis, 179,
1979, p. 285 ss. La teoria dell’apparenza viene invocata infine anche in Brasile: cfr. RIZZARDO, Casamento e
concubinato. Efeitos patrimoniais, Rio de Janeiro, 1985, p. 212 ss.; DE MOURA BITTENCOURT, O concubinato no
direito, Rio de Janeiro, 1969, p. 82 s. (da notare che la legge del 1996 sull’união estavel (su cui v. per tutti GIOIA,
Unione stabile o famiglia di fatto? L’esperienza brasiliana a confronto con quella italiana, in Fam. dir., 1998, p. 105
ss.) e le conseguenti norme del codice civile brasiliano, entrato in vigore nel 2002 (art. 1.723 ss.), non estendono
automaticamente la «responsabilidade pelas dívidas contraídas» gravante invece sui coniugi.
(12) Cfr. D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 414 s. In generale sulle teorie dell’apparenza e della tutela
dell’affidamento cfr. D’AMELIO, voce Apparenza del diritto, in Noviss. dig. it., I, Torino, 1957, p. 714 ss.; FALZEA,
voce Apparenza, in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 682 ss.; MOSCHELLA, Contributo alla teoria dell’apparenza
giuridica, Milano, 1973, passim e p. 61 ss.; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile, Napoli, 1978, p.
102.
(13) Cfr. OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 80 ss.
(14) In questo senso v., tra le tante, Cass., 15 ottobre 1966, n. 2472, in Foro pad., 1968, I, c. 778; Cass., 27 ottobre
1966, n. 2666, in Rep. Foro it., 1966, voce Obbligazioni e contratti, n. 440; Cass., 24 novembre 1981, n. 6244, in Rep.
Foro it., 1981, voce Contratto in genere, n. 59; Cass., 7 aprile 1979, n. 2006, in Rep. Foro it., 1979, voce
Rappresentanza nei contratti, n. 13; Cass., 7 gennaio 1981, n. 102, ivi, 1981, voce cit., n. 7; Cass., 27 giugno 1983, n.
4406. Cfr. però anche le osservazioni critiche di MESSINEO, La sorte del contratto stipulato dal rappresentante
apparente («falsus procurator»), in Riv. trim. dir. proc. civ., 1956, p. 394 ss., e di TORRENTE, nota a Cass., 14 dicembre
1957, n. 4703, in Foro it., 1958, I, c. 391.
(15) Cfr. OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 92 ss.
(16) A ciò si aggiunga ancora che in molti dei casi in oggetto il problema della tutela dell’affidamento sarebbe in
pratica superato, in presenza della contemplatio domini, dalla ratifica tacita da parte dell’altro convivente (per esempio,
mediante utilizzazione della cosa acquistata dal partner). Le considerazioni di cui al testo non mutano nemmeno
inquadrando la fattispecie nell’ambito della procura tacita (e quindi non meramente apparente), supponendo cioè che il
convivente che non ha agito abbia veramente, anche se in maniera implicita, conferito il potere rappresentativo al
partner che ha stipulato con il terzo. Anche in questo caso, infatti, la riconduzione degli effetti del negozio al primo
presuppone pur sempre la spendita del suo nome da parte di chi ha stipulato (cfr. MOSCHELLA, op. cit., p. 185 ss.).
È da segnalare, ancora, la posizione di ALAGNA, La famiglia di fatto al bivio: rilevanza di singole fattispecie o
riconoscimento generalizzato del fenomeno?, in Giust. civ., 1982, II, p. 39 s., secondo cui la responsabilità (solidale) del
convivente non agente in ordine alle obbligazioni contratte dall’altro e attinenti al ménage familiare sarebbe ricavabile
in considerazione del fatto che «lo strumento della solidarietà è previsto dalla legge (1298 c.c. arg. a contr.) in tutti i casi
in cui un’obbligazione venga assunta nell’interesse comune e manchi un precetto normativo inteso ad escludere la
natura solidale dell’obbligo (art. 1294 c.c.)»; l’istituto della solidarietà assumerebbe quindi «carattere di regola generale
applicabile a tutte le ipotesi riconducibili allo schema legislativamente fissato. E come vi rientrano le obbligazioni
99
Per tutti i motivi testé illustrati, dunque, appare chiaro che l’espediente del reciproco
conferimento di una procura, in tanto consente di risolvere il problema, in quanto il partner agente
usi l’accortezza di esprimere ogni volta quella contemplatio domini che costituisce condizione
imprescindibile per l’operatività delle norme in tema di rappresentanza, ciò che, per ragioni
evidenti, appare assai difficilmente immaginabile nei negozi di cui si discute ( 17).
Di maggior utilità potrebbe rivelarsi semmai un patto tra conviventi circa la ripartizione
interna delle obbligazioni (ordinarie e straordinarie) del ménage, con eventuale specificazione delle
singole spese alle quali entrambi i contraenti sono tenuti a concorrere, nonché delle rispettive
percentuali ( 18). È evidente che un accordo del genere potrebbe essere assunto in seno a un
programma più generale, nel quale si potrebbero prevedere anche impegni circa la ripartizione dei
rispettivi compiti analogamente a quanto avviene per quell’accordo che tra i coniugi va sotto il
nome di «indirizzo concordato» (cfr. art. 144 c.c.) ( 19). Anche in quest’ambito occorrerà però
prestare attenzione a non inserire clausole contrastanti con l’ordine pubblico in quanto
eccessivamente restrittive della libertà d’azione (per esempio: mi impegno a non lavorare fuori casa,
obbligandomi invece a esplicare la mia attività nell’ambito del solo lavoro domestico, ecc.).
Proprio su questo tema sarà interessante vedere come i conviventi possano assumere
convenzionalmente un obbligo di contribuzione senza rispettare il criterio della proporzionalità «in
relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo» scolpito
per i coniugi dall’art. 143 c.c., norma sicuramente non estensibile in via analogica ai conviventi
more uxorio, attesa l’irriferibilità alla famiglia di fatto del disposto dell’art. 160 c.c. Appare quindi
senz’altro ammissibile una pattuizione con la quale le parti si impegnino a contribuire in misura
paritaria al ménage, pur in presenza di una situazione di squilibrio patrimoniale e reddituale delle
medesime ( 20), nonostante che una decisione di merito abbia ritenuto di dover risolvere proprio
questo specifico problema in senso contrario ( 21).
2. Accordi programmatici tra conviventi e attività negoziale con i terzi. Cenni alla rilevanza
esterna degli accordi dei conviventi relativi alla prole.
assunte dai coniugi, vi rientrano anche quelle assunte dai conviventi». La conclusione sembra però trascurare il fatto che
il disposto dell’art. 1298 c.c. presuppone pur sempre un’obbligazione contratta da una pluralità di soggetti, ciò che nel
caso preso in esame non avviene. Del tutto fuori luogo appare, infine, il richiamo all’art. 186 c.c., posto che tale norma
non prevede una responsabilità solidale dei coniugi in ordine alle obbligazioni contratte da uno solo di essi
nell’interesse della famiglia (in questo senso v. invece D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 415), ma si limita ad
individuare quei creditori la cui azione esecutiva è disciplinata dall’art. 190 c.c. Il problema della configurabilità di una
Sclüsselgewalt in Italia dovrebbe, semmai, essere affrontato con riguardo all’art. 144, secondo comma, c.c. (in questo
senso v. per tutti CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, I, cit., p. 40 ss., nonché i richiami effettuati in OBERTO,
La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 89 ss.), norma che è però certamente inestensibile alla
famiglia di fatto.
(17) Nel caso poi si tratti di prestazioni di valore considerevole sembra difficile immaginare che il terzo non pretenda
comunque un’assunzione di debito a nome proprio anche da parte del convivente agente in nome e per conto dell’altro.
(18) Cfr. WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage: Tradition and Change, in California Law Review, 62 (1974), p.
1250, il quale suggerisce, in alternativa, due sistemi, di cui il primo consiste nell’individuare quali saranno le singole
spese che dovranno essere sopportate singolarmente da ciascuno dei partners, mentre l’altro prevede invece la
specificazione nel contratto che, in relazione ad una serie di spese, entrambi i conviventi saranno tenuti a contribuire,
ciascuno in una certa proporzione. Per analoghi suggerimenti v. anche il «modello di Leida», art. 3, comma primo (in
AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 521). Sul contratto di contribuzione v. per
tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 s.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia
privata e modelli legislativi, cit., p. 49 ss.
(19) Per l’opportunità di un’espressa Aufgabenanteilung si pronunzia KUNIGK, op. cit., p. 124 s. Analoghe
considerazioni in WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1251; FLEISCHMANN, Marriage by Contract:
Defining the Terms of the Relationship, in Family Law Quarterly, 8, 1974, p. 27 ss.
(20) Sul tema (su cui v. comunque supra, Cap. V, § 3) cfr., anche per i necessari rinvii, OBERTO, I regimi
patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 241 ss.; ID., I contratti di convivenza tra autonomia privata e modelli
legislativi, cit., p. 49 ss.; sulla non estensibilità alla famiglia di fatto dell’art. 143 c.c. cfr. Pret. Milano, 8 febbraio 1990,
in Foro it., 1991, I, c. 329; Trib. Napoli, 8 luglio 1999, in Fam. dir., 2000, p. 501, con nota di MORELLO DI GIOVANNI.
(21) Ci si riferisce a Trib. Savona, 29 giugno 2002, cit., su cui v. supra, Cap. IV, § 2.
100
Di particolare interesse – in considerazione della loro funzione preventiva rispetto a possibili
controversie al momento dello scioglimento – paiono poi tutte quelle clausole, contenute in alcuni
modelli stranieri di contratti di convivenza, intese ad attribuire (o a negare) un determinato
significato negoziale ai comportamenti che i conviventi terranno in futuro, durante il ménage, sia
nei reciproci rapporti, che con riguardo all’attività negoziale verso terzi.
Così, a seconda dei casi e delle intenzioni dei partners, è opportuno chiarire preventivamente
la sorte delle attribuzioni patrimoniali che le parti dovessero eventualmente effettuarsi «a senso
unico» (senza specificarne la natura), magari nell’ambito di un negozio stipulato con un terzo. Si
pensi al caso «classico» dell’acquisto di un bene, magari di rilevante entità, presso un terzo, con
pagamento del prezzo in tutto o in parte a carico di un convivente e «intestazione» del medesimo a
nome dell’altro. Al riguardo il contratto di convivenza potrebbe previamente stabilire, per atti del
genere, vuoi una presunzione di mutuo ( 22), vuoi una presunzione di liberalità dell’atto, fatto salvo il
caso di un’espressa, eventuale, pattuizione di una restitutio ( 23). Allo stesso modo è consigliabile
disciplinare l’eventuale rimborso per l’utilizzazione di beni del compagno ( 24), nonché l’onerosità o
meno dei servizi prestati da ciascuno nelle faccende domestiche, oppure a sostegno dell’attività
dell’altro, prevedendo in anticipo che, pur non stabilendosi reciproci (o unilaterali) obblighi in tal
senso, siffatte prestazioni lavorative, eventualmente di fatto eseguite nel corso della durata del
ménage, vadano o meno retribuite, presumendosi le stesse eseguite nell’ambito di un rapporto di
lavoro subordinato oneroso o, per converso, di una prestazione resa affectionis vel benevolentiae
causa ( 25).
L’opinione di cui sopra, già espressa dallo scrivente ( 26), è stata criticata da chi ( 27), con
particolare riguardo agli accordi diretti a chiarire preventivamente la sorte delle attribuzioni
patrimoniali appena definite «a senso unico», nonché l’onerosità o meno dei servizi prestati, ha
rilevato che tali patti «sono diretti a stabilire preventivamente la causa dei vari negozi che in futuro
stipuleranno i conviventi nello svolgimento della loro convivenza senza espressamente indicarne la
causa». Sulla base di tale premessa se ne è concluso che le clausole qui consigliate contrasterebbero
con la regola secondo cui «tutti i negozi, dato il principio della causalità delle attribuzioni
patrimoniali accolto dal nostro ordinamento, devono indicare, a pena di nullità, la loro causa», che
non potrebbe «essere semplicemente determinabile mediante la relatio ad un precedente negozio
normativo».
Sul punto sarà sufficiente ricordare, tanto per portare un paio di esempi, come la nostra più
autorevole dottrina ammetta – e da tempo – la piena validità di negozi traslativi a causa esterna ( 28),
(22) Magari limitata alle spese di carattere straordinario (mantenimento agli studi, acquisto di un veicolo, di un
computer...) o comunque a quelle di una determinata entità (usando, per esempio, come parametro, lo stipendio del
disponente). Sull’argomento cfr. anche LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927, 929, nonché il
Modello svizzero redatto dall’Association des Centres Sociaux Protestants e allegato a UNION INTERNATIONALE DU
NOTARIAT LATIN, Problèmes juridiques du couple non marié, Amsterdam, 1987, p. 22 (art. 4.3).
(23) LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 936 (il quale riporta l’esempio di una segretaria che
mantenga agli studi il convivente). È evidente però che un accordo del genere non varrebbe ad esonerare le parti dal
rispetto, per ogni singola attribuzione, della forma solenne, in tutti i casi in cui la stessa è richiesta dalla normativa in
tema di donazione.
(24) LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927 (che suggerisce di escludere ogni forma di
Nutzungsentschädigung per i beni apportati in godimento).
(25) Cfr. LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 936, il quale consiglia di escludere
espressamente ogni compenso per tali prestazioni, salva la stipula di apposito contratto di lavoro. Del tutto inutile
appare invece l’assunzione dell’impegno di non concludere determinati tipi di negozi, quali l’acquisto in comune di
beni, ovvero l’effettuazione di donazioni tra gli stessi conviventi (come pure consigliato da una parte della dottrina
tedesca: v. LANGENFELD, Die nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 927), posto che la successiva stipulazione di
uno dei contratti «vietati» manifesterebbe nella maniera più evidente l’intento delle parti di derogare all’obbligo
preventivamente assunto.
(26) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 280 s.
(27) ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997, p. 537 s.
(28) Cfr. M. GIORGIANNI, voce Causa, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 564 ss.; NATOLI, L’attuazione del rapporto
obbligatorio. Appunti dalle lezioni, II, Milano, 1967, p. 42 ss.; MENGONI, Gli acquisti a non domino, Milano, 1975, p.
200 ss.; per ulteriori richiami cfr. CAMARDI, Principio consensualistico, produzione e differimento dell’effetto reale, in
Contratto e impresa, 1998, p. 572 ss., 590 ss. L’ammissibilità di tale negozio trova, come noto, il suo punto d’appoggio
principale nella constatazione per cui nel nostro ordinamento positivo non fanno certo difetto bene individuate ipotesi di
101
ipotesi alla quale può poi essere affiancata anche quella del contratto normativo o programmatico,
specie tenuto conto dell’incontestabile dato normativo scolpito nell’art. 1321 c.c., da cui emerge
che, mercé lo strumento contrattuale, le parti possono non solo costituire od estinguere, bensì anche
«regolare» rapporti giuridici, senza che la disposizione distingua a seconda che tali rapporti
giuridici siano già in essere o meno inter partes. Del resto, una volta ammessa la validità del
negozio d’accertamento nel nostro ordinamento, non si riuscirebbe a comprendere per quale ragione
tale istituto non dovrebbe avere cittadinanza nel sistema vigente sol perché concluso in via
preventiva rispetto ai negozi che si pongono quali possibili fonti, a loro volta, di situazioni di
incertezza.
Infine, un ulteriore aspetto di un simile accordo programmatico può essere dato dalla
fissazione della misura e delle modalità del rispettivo contributo al mantenimento, all’istruzione e
all’educazione della prole comune, sia durante il rapporto, che dopo la rottura del medesimo ( 29),
secondo quanto in precedenza illustrato, in merito alla possibilità di intervenire pattiziamente sul
tema dell’affidamento, dei diritti di visita e di tutti i profili attinenti alla potestà sul minore, figlio
della coppia di fatto ( 30).
Non sussistono pertanto motivi per negare la validità di una pattuizione diretta alla
ripartizione delle spese connesse all’esercizio del diritto-dovere di cui sopra. Come si è già detto
relativamente ai rapporti «interni» tra i conviventi, anche in questo caso si potrebbe ipotizzare il
conferimento di un mandato con procura da un convivente all’altro per la stipula dei contratti
attinenti all’interesse del minore (dalla iscrizione alla scuola privata, all’iscrizione al corso di
musica o di danza o alla palestra, al contratto con il dentista, etc.), con conseguente rilievo
«esterno» dell’accordo, peraltro a condizione che sia, di volta in volta, riscontrabile la presenza di
una (anche non formale, come si è visto) contemplatio domini.
Le conclusioni di cui sopra, già argomentabili sulla base del disposto dell’art. 317-bis c.c.,
hanno ricevuto successiva conferma dalle disposizioni della l. 8 febbraio 2006, n. 54,
sull’affidamento condiviso dei figli, nelle coppie tanto legittime che di fatto. Basti pensare al già
atti del genere di quelli testé descritti: si pensi, ad esempio, alle fattispecie disciplinate dagli artt. 651, 1197 cpv., 1706
cpv. c.c. Neanche il fatto che il nostro sistema abbia accolto il principio consensualistico può rappresentare un ostacolo
al riguardo, posto che qui il trasferimento non è qualificabile come astratto, ma è pur sempre operato in virtù del
consenso, appoggiato ad una valida causa ed espresso nel negozio obbligatorio: come si è esattamente rilevato, l’art.
1376 c.c. agevola le parti, ma non può vincolarle contro la loro stessa volontà: così CHIANALE, Obbligazioni di dare e
atti traslativi solvendi causa, in Riv. dir. civ., II, 1989, p. 246 ss.; CHIANALE, Obbligazioni di dare e trasferimento della
proprietà, Milano, 1990, p. 48 ss., cui si fa rinvio anche per ulteriori richiami dottrinali; analoghe considerazioni anche
in SACCO e DE NOVA, Il contratto, nel Trattato di diritto civile diretto da R. Sacco, II, Torino, 1993, p. 56; DI MAJO,
Causa e imputazione negli atti solutori, in Riv. dir. civ., I, 1994, p. 782, il quale rileva che la causa solvendi non intende
porsi in concorrenza con la «regola consensualistica», che trova il suo baricentro nell’art. 1376 c.c., ma, anzi, per così
dire, affiancarla su terreni sui quali quella regola non è destinata a trovare applicazione; cfr. inoltre SCALISI, Negozio
astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, p. 52 ss.; SCIARRONE ALIBRANDI, Pagamento traslativo e art. 1333 c.c., in
Riv. dir. civ., II, 1989, p. 525 ss.; CAMARDI, op. cit., p. 572 ss., 599 ss.; MACCARONE, Considerazioni d’ordine generale
sulle obbligazioni di dare in senso tecnico, in Contratto e impresa, 1998, p. 626 ss., 679 ss.; sulla distinzione storica tra
titulus e modus adquirendi v. CHIANALE, Obbligazioni di dare e trasferimento della proprietà, cit., p. 103 ss.;
sull’applicazione specifica del tema della causa praeterita al caso in esame cfr. anche DE PAOLA, Il diritto patrimoniale
della famiglia coniugale, I, Milano, 1995, p. 238, nota 242; MACCARONE, Obbligazione di dare e adempimento
traslativo, in Riv. notar., 1994, I, p. 1330 ss.; OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, Milano, 1999, p. 1353 ss.;
ID., Prestazioni «una tantum» e trasferimenti tra coniugi in occasione di separazione e divorzio, cit., p. 265 s. Del resto,
che il principio consensualistico possa essere derogato si desume anche dal secondo comma dell’art. 1465 c.c. (in
materia di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione), che consente che l’effetto
traslativo o costitutivo sia differito fino allo scadere di un termine, nonché dalla ammissibilità nel nostro ordinamento,
della clausola che eleva il pagamento del prezzo a condizione sospensiva di efficacia del contratto (così MACCARONE,
Obbligazione di dare e adempimento traslativo, cit., p. 1334; ID., Considerazioni d’ordine generale sulle obbligazioni
di dare in senso tecnico, cit., p. 679).
(29) Cfr. WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1251. Si noti che sul punto esiste un precedente in
Germania, ove già oltre vent’anni fa il BGH ha avuto modo di affermare non solo la validità di un patto con il quale due
conviventi more uxorio avevano previsto l’obbligo in capo ad uno di essi di corrispondere all’altro un assegno mensile
per il mantenimento dei figli, bensì anche l’estensione del medesimo anche una volta venuto meno il legame (cfr. BGH,
16 settembre 1985, in NJW, 1986, p. 374).
(30) V. supra, Cap. V, §§ 1 s.
102
ricordato art. 155, cpv. c.c. ( 31), che impone al giudice di «Prende(re) atto, se non contrari
all’interesse dei figli, degli accordi intervenuti tra i genitori». Disposizione, questa, che, oltre a
riconoscere a pieno titolo la validità di accordi tra conviventi sulla gestione della crisi del rapporto,
anche relativamente al delicato aspetto delle relazioni con la prole, sembra addirittura far presagire
l’ammissibilità di una vera e propria procedura d’omologazione degli accordi di separazione
consensuale tra conviventi, ad instar di quanto stabilito dall’art. 158 c.c. per i coniugi e secondo
quanto proposto dallo scrivente già sotto il vigore della previgente normativa ( 32).
Ancora, il quarto comma dell’art. 155 c.c. stabilisce che ciascuno dei genitori provvede al
mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito «salvo accordi diversi,
liberamente sottoscritti dalle parti». Principio, questo, che sembra volersi addirittura porre (per
quanto attiene alla derogabilità del criterio di proporzionalità) in evidente contrasto con quanto
stabilito dall’art. 148 c.c., norma sino ad oggi ritenuta inderogabile, sollevando altresì (quanto a tale
limitato aspetto) forse anche un problema di conformità rispetto all’art. 30 Cost. ( 33).
3. La responsabilità dei genitori per le obbligazioni contratte dai figli.
Ci chiediamo ora se e come i genitori possano eventualmente rispondere delle obbligazioni
contratte verso terzi dai figli minorenni o da quelli maggiorenni con essi ancora conviventi e non
autosufficienti. Il quesito viene qui posto – atteso il contesto in cui il presente studio si colloca –
con precipuo riguardo ai figli della famiglia di fatto, ma le considerazioni che qui si svolgeranno
attengono, evidentemente, anche alla filiazione legittima (oltre che alla filiazione naturale non
caratterizzata dall’inserimento in una relazione tra i genitori di convivenza more uxorio).
In proposito potrà notarsi, innanzi tutto, che il fenomeno della conclusione di contratti da
parte di figli (minorenni o maggiorenni) conviventi con i genitori è sicuramente in aumento, in
considerazione, da un lato, del numero ben più elevato, rispetto al passato, di giovani in grado di
accedere al «mercato del consumo» (si pensi, tanto per citare un esempio, alle possibilità di
concludere contratti offerte dagli strumenti elettronici e telematici) e, dall’altro, dal sensibile
allungamento temporale del periodo di convivenza dei figli, ben oltre il raggiungimento della
maggiore età, con i propri genitori (c.d. «famiglia lunga»).
Iniziando dal caso dei minorenni va notata l’assenza di qualsiasi disposizione che
espressamente renda i genitori parte del rapporto obbligatorio contratto dal proprio rampollo.
D’altro canto, è noto che l’ordinamento non considera validi i contratti stipulati dai minorenni, ma
richiede che gli stessi siano conclusi dai genitori esercenti la potestà o dal tutore, previa
autorizzazione giudiziale. Va però tenuto presente che il sistema descritto dagli artt. 320 ss. e 343
ss. c.c. per gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione e dall’art. 1425 c.c. per i contratti commina
non già la nullità per i negozi stipulati in deroga alle prescritte disposizioni, ma l’annullamento
degli stessi ( 34).
La conseguenza di tale scelta di politica legislativa è che i contratti conclusi dai minori senza
la rappresentanza dei genitori o del tutore e le prescritte autorizzazioni producono effetti giuridici
fino a quanto non siano annullati (art. 1425 c.c.) su istanza degli stessi incapaci o di coloro che per
essi sono legittimati all’azione di annullamento. Né, a tal fine, è necessaria la convalida del
(31) Estensibile anche alla materia divorzile, nonché a quella dei figli di soggetti non coniugati, come disposto
dall’art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54, «Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei
figli».
(32) Cfr. OBERTO, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 247 ss. V. inoltre supra, Cap. V, § 2.
(33) Si noti infine che, ai sensi dell’art. 155, comma quinto, c.c., l’accordo delle parti può pure derogare ai parametri
di adeguamento agli indici ISTAT dell’assegno per la prole.
(34) Sul tema v. per tutti VACCA, in AA. VV., Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, II, Padova,
2004, p. 1366 ss. In giurisprudenza v. Cass., 12 agosto 1996, n. 7495, secondo cui «La mancanza di autorizzazione per
gli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione riguardanti i minori di età non dà luogo ad inesistenza o a nullità degli atti
stessi, bensì alla loro annullabilità, la quale può essere fatta valere soltanto dal genitore che abbia agito in
rappresentanza del figlio o dal figlio medesimo. Pertanto, l’annullabilità, per mancanza dell’autorizzazione del giudice
tutelare, dell’accettazione dell’eredità devoluta a minori di età non può essere fatta valere dai coeredi allo scopo di
accrescere la loro quota dell’asse ereditario».
103
contratto, che serve soltanto ad assicurare la definitiva efficacia del negozio, paralizzando l’azione
di annullamento eventualmente esercitata prima che si compia il termine di prescrizione
quinquennale previsto dall’art. 1442 c.c. ( 35).
Quanto sopra comporta dunque che il contratto non impugnato dal minore può rimanere
inadempiuto da parte di costui. Trattandosi, peraltro, di un debitore inadempiente minore d’età e,
quindi, normalmente privo di un patrimonio e di redditi propri sui quali far valere le pretese
risarcitorie, il terzo creditore potrebbe restare insoddisfatto.
È legittimo, pertanto, chiedersi, se il terzo possa agire giudizialmente anche nei confronti dei
genitori del minore, nell’ipotesi di inadempimento di quest’ultimo ed incapienza del suo patrimonio
personale (si pensi, a titolo di esempio, al ragazzo di 15 o 16 anni che acquisti un motorino, magari
usato, un capo di vestiario, un cellulare o un personal computer, magari versando un acconto, e non
sia poi in grado di pagare il residuo prezzo) ( 36).
Si è osservato al riguardo che nel nostro ordinamento non vi è una norma che consenta di
addossare automaticamente al genitore l’obbligo di adempiere questo tipo di obbligazioni. Peraltro,
sulla base di alcuni dati normativi potrebbe forse essere ricostruita una tale forma di responsabilità
contrattuale dei genitori del minore inadempiente. In particolare, il fondamento di questa
responsabilità potrebbe essere ravvisato nel disposto dell’art. 322 c.c. Da tale articolo – che prevede
la legittimazione anche dei genitori ad esercitare l’azione di annullamento del contratto posto in
essere dal figlio minore – potrebbe inferirsi che per i genitori che non esercitino la detta azione né
oppongano al terzo creditore l’eccezione di annullabilità, un’acquiescenza a tale rapporto
obbligatorio e una conseguente loro corresponsabilità per l’inesatta esecuzione dello stesso. A
fronte di un inadempimento del figlio minore e del mancato esercizio dell’azione di annullamento il
creditore potrebbe allora far valere il proprio diritto al risarcimento dei danni, oltre che direttamente
nei confronti del minore inadempiente, anche nei confronti dei genitori, che finirebbero così per
rispondere per un fatto proprio e non altrui ( 37).
Tuttavia, si è obiettato che configurare una tale responsabilità dei genitori, pur tutelando e
favorendo i rapporti commerciali e la posizione del terzo creditore, sembra porsi in contrasto con il
fondamentale principio di salvaguardia degli interessi dei minori a cui è informato l’intero nostro
ordinamento. Si è rilevato infatti in proposito che la conclusione favorevole alla responsabilità
solidale del genitore trascurerebbe di tenere conto del principio desumibile dal secondo comma
dell’art. 1426 c.c., secondo il quale chi contrae con un soggetto senza accertarsi della sua età, e
dunque della sua capacità di agire – non essendo sufficiente la semplice dichiarazione di essere
maggiorenne per esonerare il terzo dall’onere di verificare la reale età dell’altro contraente – e della
conseguente esistenza di una sufficiente garanzia patrimoniale, si assume il rischio del cattivo esito
della contrattazione ( 38).
A tali considerazioni si potrebbe però ulteriormente ribattere, rilevando che il comportamento
del terzo, che ha contratto con il minore, è già adeguatamente sanzionato dalla presenza di
un’invalidità di protezione, che può essere fatta valere, come tale, dal solo soggetto nell’interesse
del quale il rimedio è stato previsto. Non sembra corretto, pertanto, sanzionare ulteriormente il
terzo, addossandogli anche il rischio dell’inadempimento di un rapporto obbligatorio che il minore
ed i suoi legali rappresentanti hanno deciso di consolidare, astenendosi dal proporre l’azione di
annullamento, perché evidentemente, tale rapporto hanno ritenuto conveniente, peraltro arrogandosi
il diritto di non adempierlo.
In altri termini, se non vi è dubbio che al minore e ai suoi legali rappresentanti competa il
diritto di far venire meno il vinculum iuris, ciò non significa certo che essi siano esonerati dal
rispettarlo, una volta che abbiano scelto la via di mantenerlo in vita, tanto più che l’eccezione di
annullamento ben potrebbe essere sollevata anche oltre il quinquennio, nel caso venissero citati per
l’adempimento (cfr. art. 1442, ult. cpv., c.c.): il mancato esperimento dell’azione o la mancata
proposizione dell’eccezione confermano dunque che l’affare è ritenuto conveniente per il minore e
(35) Cfr. Cass., 22 dicembre 1984, n. 6666.
(36) Cfr. VACCA, op. cit., p. 1367.
(37) Così VACCA, op. cit., p. 1367.
(38) Cfr. VACCA, op. cit., p. 1367 s.
104
pertanto non si vede per quali ragioni dovrebbe derogarsi al fondamentale principio per cui pacta
sunt servanda ( 39).
In questo contesto varrebbe la pena chiedersi se, ferma restando la personale responsabilità
del minore per il contratto dallo stesso stipulato e non impugnato, non possa trovare applicazione il
principio espresso dagli artt. 2047 e 2048 c.c., intendendo i concetti di «danno» e di «illecito»
contenuti nelle norme citate come riferiti non solo all’illecito aquiliano, ma anche a quello costituito
dall’inadempimento di un rapporto obbligatorio. Un’apertura verso un’interpretazione dell’art. 2048
c.c. che ritenga questa norma estensibile all’ipotesi del danno da illecito contrattuale compiuto dal
minore potrebbe cogliersi in quella giurisprudenza che di tale articolo ha fatto uso per affermare la
responsabilità del genitore del minorenne che aveva danneggiato un’autovettura presa a noleggio
dal minore stesso ( 40). È evidente che la regola in oggetto, dettata dalla Corte Suprema per
l’inadempimento costituito dalla mancata riconsegna della cosa locata nello stato in cui si trovava
all’inizio del rapporto, ben potrebbe valere per quell’altra forma di inadempimento rappresentata
dal mancato pagamento del prezzo pattuito per un acquisto operato dal minore.
Conseguenza di tale premessa non sarebbe tanto l’estensione del rapporto obbligatorio sul lato
passivo e in via solidale anche ai genitori, ma il riconoscimento dell’esistenza di una situazione di
responsabilità per fatto altrui, che troverebbe il suo fondamento nelle norme citate e
nell’inadempimento del minore. Ciò significa, in pratica, che il terzo non potrebbe convenire in
giudizio, oltre al minore, anche i genitori, se non allegando l’inadempimento del figlio ( 41).
Non diversa da quella sin qui illustrata, nelle sue conseguenze rispetto ai genitori, è l’ipotesi
in cui il minore abbia «con raggiri occultato la sua età», secondo quanto previsto dall’art. 1426 c.c.
Qui, invero, il contratto non è annullabile ed al riguardo si è osservato ( 42) che la condizione di
buona fede del terzo contraente renderebbe legittima la sua richiesta di tutela. La conclusione,
peraltro, non sembra desumibile tanto dall’applicazione delle regole in tema di responsabilità
precontrattuale, posto che in tale caso, non essendo il contratto annullabile, non sarebbe neppure
ipotizzabile un danno legato ad una culpa in contrahendo per invalidità del negozio ( 43). Ancora
una volta, invece, appare opportuno riferirsi ai principi ex artt. 2047 e 2048 c.c., da ritenersi, per le
ragioni sopra illustrate, estensibili al danno da responsabilità contrattuale per inadempimento delle
obbligazioni (in questo caso, validamente) contratte dal minore.
Passando ora all’esame del problema di una ipotetica responsabilità dei genitori per le
obbligazioni assunte in proprio dai figli maggiorenni, ma non autosufficienti, vi è da dire che, in tali
fattispecie, il contratto concluso è perfettamente valido e vincolante per i figli medesimi, ed
estendere ai genitori questo tipo di obbligazioni appare, de iure condito, impossibile.
Come si è rilevato in dottrina, il principio di un’ipotetica responsabilità solidale (non prevista,
come noto, da alcuna specifica disposizione) non può essere fatto discendere dall’obbligo di
mantenimento imposto ai genitori, anche nei confronti dei figli già maggiorenni ma non ancora in
grado di provvedere alle proprie esigenze, in quanto tale obbligo riguarda solo il dovere, da parte
dei genitori, di fornire l’assistenza materiale necessaria per le normali esigenza di vita del figlio. Il
(39) Cfr. già OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 120 s.
(40) Cfr. Cass., 3 luglio 1968, n. 2240, secondo cui «Colui che ha dato in locazione un’autovettura ad un minore,
munito di patente, conoscendo la sua minore età, può agire a’ termini dell’art. 2048 c.c. nei confronti del di lui genitore,
che non abbia prestato il proprio consenso al contratto, qualora l’autovettura sia rimasta danneggiata nell’uso fattone dal
minore. Infatti non può ritenersi esente dalla responsabilità, prevista dall’art. 2048 cod. civ., il genitore per il solo fatto
che il danno sia stato cagionato a seguito della volontaria consegna dell’autovettura, fatta dal danneggiato al minore in
attuazione del contratto di locazione, giacché l’attività del minore, consistente nell’uso dell’altrui autoveicolo, rientra
nella sfera del dovere di sorveglianza del genitore» (cfr. inoltre, nello stesso senso, Cass., 27 maggio 1975, n. 2139).
(41) Cfr. già OBERTO, La responsabilità contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 120 s.
(42) Cfr. VACCA, op. cit., p. 1368 s.
(43) Sul tema cfr. anche BIANCA, Diritto civile, 3, Il contratto, Milano, 1987, p. 181, che, ponendosi il problema di
una responsabilità precontrattuale dell’incapace, rileva che tale questione potrebbe porsi «quando si è al di fuori
dell’ipotesi di annullamento del contratto per incapacità. In tal caso non vi è una lesione (invalidità del contratto) che
consegue alla tutela dell’incapace. La lesione alla libertà negoziale che il contraente subisce ad opera dell’incapace non
è allora diversa dalla lesione che può essere arrecata da un qualsiasi soggetto. In applicazione della regola sull’illecito
extracontrattuale la responsabilità dell’incapace legale può per altro ammettersi solo in quanto risulti concretamente
accertata la sua capacità di intendere e volere. Accanto alla posizione dell’incapace può poi rilevare la responsabilità dei
genitori e di altri soggetti tenuti alla sua vigilanza».
105
contenuto di tale obbligo non può, dunque, essere dilatato fino al punto di comprendere anche
eventuali inadempimenti contrattuali dei figli ( 44).
D’altro canto è più che chiaro che i principi sopra invocati, espressi dagli artt. 2047 e 2048
c.c., non possono in alcun modo venire qui in considerazione, avendo gli stessi tratto a persone
incapaci e come tali essendo inestensibili ai maggiorenni capaci di intendere e di volere, avuto
riguardo alla tassatività delle ipotesi di responsabilità per fatto altrui ( 45).
Per concludere si potrà poi ricordare che a ben diverse conclusioni potrà pervenirsi nel caso in
cui dovesse accertarsi che il figlio ha agito quale rappresentante (se maggiorenne) o nuncius (se
minorenne) ( 46) dei genitori o di uno di essi. In tal caso, infatti, è evidente che i genitori si
troverebbero ad esser obbligati non già in via solidale con il figlio, ma quali esclusivi soggetti
passivi del rapporto obbligatorio.
Legato a questo tema è poi quello dell’assenza o dell’eccesso di potere rappresentativo in
capo al figlio agente.
In tal ultimo caso, il terzo creditore potrà avvalersi, ricorrendone tutti i presupposti (apparente
esistenza di un potere di rappresentanza, comportamento colposo dell’apparente rappresentato nel
determinare l’insorgere dell’apparenza, assenza di colpa del terzo nell’apprezzare il comportamento
colposo dell’apparente rappresentato), del principio di tutela della apparenza di diritto ed agire, per
ottenere il rispetto delle pattuizioni contrattuali, facendo valere, dunque, la responsabilità
contrattuale dei genitori, ma non in quanto tali, bensì come soggetti «rappresentati» dall’agire del
figlio, e quindi in forza delle disposizioni dettate in tema di rappresentanza (art. 1387-1399 c.c.)
( 47).
(44) VACCA, op. cit., p. 1370 s. L’Autrice nota in proposito che il terzo contraente non può inoltre, invocare la
responsabilità dei genitori dell’altro contraente e fare affidamento sulla loro solvibilità, ove la loro presenza e adesione,
seppur tacita, al contratto non sia stata mai neppure ipotizzata. Peraltro, una «obbligazione» dei genitori potrebbe essere
ravvisata sul piano morale, sociale o degli affetti, atteso che il legame di parentela e affettivo potrebbe spingere il
genitore, pur in assenza di un preciso obbligo giuridico in tal senso, ad assumersi la responsabilità, sotto il profilo
risarcitorio, per gli inadempimenti dei propri figli. Conseguentemente, nel caso i genitori spontaneamente
provvedessero ad assumersi l’obbligazione di adempiere all’obbligazione del figlio, ci si troverebbe di fronte ad
un’obbligazione naturale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2034 c.c.
(45) Sulla tassatività delle ipotesi di responsabilità civile per fatto altrui v. Cass., 9 dicembre 1992, n. 13015, in
Giust. civ., 1993, I, p. 932; in Foro it., 1994, I, c. 556, con nota di DE MARZO.
(46) Sul tema della capacità del nuncius v. per tutti BETTI, op. cit., p. 129 ss. Cfr. inoltre BARBERO, Sistema
istituzionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1955, p. 363, secondo cui, se è vero che il nuncius non emette una
dichiarazione propria, la riesprime con propria autonomia e perciò, se certamente non occorre nel messo la capacità di
agire in ordine al contenuto della dichiarazione, occorre almeno, affinché la comunicazione sia valida, la capacità di
comunicare, che si concreta nella capacità di intendere il contenuto espressogli e di riesprimerlo. Pertanto una
comunicazione fatta per mezzo d’un messo privo di tale capacità (un bambino senza l’uso della ragione o un
mentecatto) deve ritenersi come non fatta, se l’incapacità è apparente, di guisa che il destinatario non possa invocare la
buona fede del suo affidamento e addossare al mittente la responsabilità della scelta del messo inidoneo; ma se il messo
è capace, le eventuali divergenze fra la dichiarazione affidatagli e la riespressione da lui fattane vanno imputate al
dichiarante, che ha scelto quel mezzo (art. 1433 c.c.).
(47) VACCA, op. cit., p. 1371. In giurisprudenza v. Cass., 29 aprile 1999, n. 4299, in Corr. giur., 1999, p 1501: «Il
principio dell’apparenza del diritto, riconducibile a quello più generale della tutela dell’affidamento incolpevole, può
essere invocato in tema di rappresentanza, nei confronti dell’apparente rappresentato, dal terzo che abbia in buona fede
contratto con persona sfornita di procura, allorché l’apparente rappresentato abbia tenuto un comportamento, colposo,
tale da giustificare nel terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e
validamente conferito, al rappresentante apparente».
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CAPITOLO VIII
LA CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA
PER ROTTURA DEL RAPPORTO
SOMMARIO: 1. Le pattuizioni del contratto di convivenza in vista di un’eventuale rottura del
rapporto. – 2. Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto. –
3. La rottura in assenza di contratto. Esclusione di pretese risarcitorie per la cessazione della
convivenza. – 4. Le conseguenze della rottura sul diritto all’abitazione nei rapporti con il
locatore (e con il comodante «terzo» rispetto alla coppia). – 5. Le conseguenze della rottura
in presenza di figli minorenni. Generalità. Gli accordi tra i conviventi. – 6. Segue. La sorte
della casa familiare in presenza di prole (ed in assenza di accordi). – 7. Cessazione della
convivenza e questioni possessorie nei rapporti tra i conviventi.
1. Le pattuizioni del contratto di convivenza in vista di un’eventuale rottura del rapporto.
Anche per la famiglia di fatto, così come per la famiglia fondata sul matrimonio, il momento
della rottura è sovente quello del redde rationem, in cui risentimenti sopiti e pretese accantonate
tornano imperiosamente d’attualità, facendo emergere rapporti personali e patrimoniali che
l’affectio prima esistente sembrava ammantare d’un apparente velo di agiuridicità. È dunque in tale
fase terminale che l’operatività di determinate regole di diritto viene in rilievo, poiché fino ad allora
difficilmente i membri della famiglia di fatto (o i loro possibili eredi) avranno invocato la tutela
dell’ordinamento giuridico al fine di veder accolte le proprie pretese.
Ancora una volta, la presenza di un contratto di convivenza può porre rimedio a talune di
queste situazioni, se non altro portando certezza, esattamente come avviene tra coniugi che abbiano
avuto l’accortezza di programmare le conseguenze di una crisi della loro unione. Proprio in questo
settore, tra l’altro, si manifesta, ancora una volta, la rispondenza al vero del rilievo per cui famiglia
di fatto e famiglia fondata sul matrimonio costituiscono null’altro se non due facce di una stessa
medaglia: «pile et face d’une même contractualisation des rapports privés» ( 1). Non per nulla
l’esperienza degli ordinamenti più avanzati in questo settore mostra come sovente la previsione
legislativa della possibilità di stipulare patti di convivenza in vista di una possibile rottura si traduca
poi anche nell’adozione di normative in materia di accordi prematrimoniali ( 2).
Venendo dunque al contenuto in contemplation of separation di un possibile contratto di
convivenza, andrà ricordato che la promessa dell’effettuazione di prestazioni di carattere economico
per il periodo successivo alla rottura viene generalmente ritenuta valida ( 3). Ma, a ben vedere,
(1) «Au fil de ce parcours, on voudrait aussi proposer une hypothèse: aujourd’hui encore et plus que jamais, les
débats sur le divorce sont fondamentalement des débats sur le mariage. Cette idée peut étonner. En effet, après avoir
dans un premier temps dramatisé la montée du concubinage et traqué ses spécificités, on s’accorde aujourd’hui à
souligner la coexistence pacifique du mariage et de l’union libre, deux formes d’union quasi interchangeables, pile et
face d’une même contractualisation des rapports privés» (cfr. THÉRY, Le démariage. Justice et vie privée, Paris, 1993, p.
12).
(2) Cfr. ad es. i casi dell’Australia e della Catalogna, di cui si riferisce in OBERTO, Contratti prematrimoniali e
accordi preventivi sulla crisi coniugale, in Fam. dir., 2012, p. 74 s.
(3) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 282 ss.; ID., Famiglia di fatto e convivenze:
tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661ss.;
BALESTRA, I contratti di convivenza, in Fam., pers. succ., 2006, p. 1 ss.; v. inoltre GAZZONI, Dal concubinato alla
famiglia di fatto, cit., p. 165; BERNARDINI, La convivenza fuori del matrimonio tra contratto e relazione sentimentale,
cit., p. 205. Per la dottrina straniera cfr. SCHWAB, Zivilrecht und nichteheliche Lebensgemeinschaft, in AA. VV., Die
nichtheliche Lebensgemeinschaft, Herausgegeben im Auftrag der Joachim Jungius-Gesellschaft der Wissenschaften von
Götz Landwehr, Göttingen, 1978, p. 67; ALT-MAES, La situation de la concubine et de la femme mariée dans le droit
français, in Rev. trim. dr. civ., 1983, p. 641 ss.; cfr. inoltre la formula della Direction de la recherche et de l’information
de la Chambre des notaires du Québec (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p.
519, che prevede non solo la fissazione di un vero e proprio «assegno», ma anche la specificazione delle concrete
modalità di somministrazione dello stesso, le relative scadenze, nonchè la rivalutabilità secondo indici prefissati).
107
occorre ancora distinguere due ipotesi. Si profila infatti la necessità di evitare che la pattuizione
possa essere qualificata come clausola penale per il caso di abbandono (giustificato o ingiustificato:
come si è visto non fa differenza): ché, in tale fattispecie, la disposizione sarebbe nulla in quanto
eccessivamente limitativa della libertà del contraente ( 4).
Diverso è il discorso ogni qual volta sia possibile appurare che l’intento delle parti non era
diretto a configurare uno strumento di dissuasione per il convivente intenzionato a porre fine al
ménage, bensì a predisporre una forma di «soccorso» per le necessità del soggetto destinato a
trovarsi sprovvisto della fonte di reddito su cui prima poteva contare.
Si è da parte di taluno suggerito di effettuare un richiamo alla normativa in tema di assegno di
separazione o di divorzio ( 5). Ora, se pure non esistono ostacoli in linea di principio a riconoscere la
validità di un accordo del genere, va subito precisato che non appaiono riproducibili per via
negoziale tutti quegli strumenti tecnici approntati dal legislatore a tutela dei rapporti giuridici
sussistenti tra separati o divorziati (obbligo di prestare garanzia, sequestro, ordine di pagamento al
terzo debitore del coniuge, o ex coniuge, obbligato: cfr. artt. 156, commi quarto e ss. c.c.;
attribuzione degli assegni familiari ex art. 211, l. 19 maggio 1975, n. 151; art. 8, l.div., così come
sostituito dall’art. 13, l. 6 marzo 1987, n. 74) ( 6). Allo stesso modo, non sarà possibile attribuire
alcun rilievo a un ipotetico «addebito» della rottura, per le già esposte ragioni d’ordine pubblico.
Piuttosto, sarà più opportuno fissare nello stesso contratto di convivenza l’an e il quantum
dell’assegno o, quanto meno, parametri certi per la sua determinazione (per esempio, una
percentuale del reddito annuo risultante dall’ultima dichiarazione ai fini IRPEF), così come la
durata e le cause di estinzione dello stesso (per esempio, passaggio a nuova convivenza o
celebrazione di matrimonio da parte dell’avente diritto e/o dell’obbligato) ( 7).
Un’apposita clausola potrebbe concernere l’attribuzione del diritto di abitazione sulla casa in
cui si svolgeva la convivenza per il periodo successivo alla rottura del ménage. Al riguardo, occorre
distinguere a seconda che l’immobile sia in proprietà di uno dei conviventi (o di entrambi), ovvero
formi oggetto di un rapporto locatizio. Nella prima ipotesi, la relativa pattuizione potrebbe
configurare, in alternativa, un diritto reale di abitazione, ovvero un comodato, in ogni caso sotto
condizione sospensiva della rottura del rapporto.
Inutile dire che, delle due possibilità, è la prima a fornire il maggior numero di garanzie per il
convivente a favore del quale un simile diritto viene pattuito. Invero, il carattere reale dell’istituto
disciplinato dagli artt. 1022 ss. c.c. ne determina l’opponibilità nei confronti dei terzi, anche se
l’effetto è legato alla trascrizione del relativo titolo (v. art. 2643, n. 4, c.c.). D’altro canto, un
comodato del genere di quello descritto, in difetto di fissazione di un termine per la restituzione,
darebbe luogo a notevoli incertezze in ordine all’individuazione del momento di cessazione, ex art.
1809, primo comma, c.c. ed esporrebbe comunque il comodatario al rischio di una richiesta di
restituzione per effetto di un urgente ed impreveduto bisogno del comodante, ai sensi dell’art. 1809
cpv. c.c. ( 8).
Se invece l’immobile fosse semplicemente detenuto in conduzione, l’accordo sortirebbe
l’effetto di una cessione condizionata del rapporto locatizio, avente anche un valore «esterno», nei
Consiglia la previsione di «termination fees, lump sums or periodic payments provisions for support of partner, children
or parents» anche WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1253. Contra TRABUCCHI, Pas par cette voie s’il
vous plaît!, cit., p. 350.
(4) V. supra, Cap. IV, § 5.
(5) SCHWAB, Zivilrecht und nichteheliche Lebensgemeinschaft, cit., p. 67.
(6) Sul carattere eccezionale di tali rimedi v. per tutti VINCENZI AMATO, Gli alimenti, in AA. VV., Trattato di diritto
privato, diretto da Rescigno, 4, Torino, 1982, p. 883.
(7) Cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 282 ss. Assolutamente da evitare appaiono
invece tutte quelle clausole dirette a rimettere misura e modalità di versamento di un’eventuale «indennità di rottura» al
comune accordo delle parti, come pure suggerito dalla formula della Direction de la recherche et de l’information de la
Chambre des notaires du Québec (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 519),
atteso che, almeno il più delle volte, al momento della cessazione del ménage deve senz’altro presumersi che i rapporti
tra le parti si siano a tal punto deteriorati da non consentire di raggiungere un consenso neppure su tali aspetti.
(8) Sul tema v. anche supra, Cap. IV, § 2.
108
confronti del locatore ( 9). Siffatto accordo potrebbe pure essere concluso, ad avviso dello scrivente,
in via preventiva. Un analogo patto, diretto ad attribuire il diritto di abitazione sulla ex residenza
comune, di proprietà di uno dei conviventi (o di entrambi), per il caso di cessazione del rapporto
determinata dalla morte di quest’ultimo (10), se da un lato potrebbe in un certo senso «porre
rimedio» al mancato riconoscimento di un diritto del convivente superstite, verrebbe dall’altro a
scontrarsi irrimediabilmente con il divieto dei patti successori ( 11).
2. Scioglimento del contratto di convivenza e cessazione del ménage di fatto.
Sin qui si è detto degli effetti che il contratto di convivenza può prevedere per il caso di
rottura della relazione. Si tratta ora di vedere quali effetti la rottura può determinare sul contratto, in
presenza, o meno, di apposite clausole.
In primo luogo, a parte l’ipotesi del mutuo dissenso ( 12), v’è da chiedersi se sia opportuno
legare espressamente la cessazione degli effetti dell’accordo anche a situazioni diverse, che
avessero a verificarsi durante l’unione e in particolare alla rottura del ménage.
Molti dei modelli stranieri sembrano porre una certa enfasi sul punto, senza peraltro indicare
un rimedio di carattere unitario. Secondo taluni, infatti, la soluzione andrebbe cercata in una
espressa condizione risolutiva, legata al semplice abbandono della vita comune (che comunque
deve ritenersi verificabile in qualsiasi momento e senza restrizioni di sorta) ( 13), mentre per altri
occorrerebbe invece attribuire un diritto di recesso ad nutum in capo a ciascuno dei contraenti, che
sarebbe così tenuto a informare l’altro secondo modalità stabilite ( 14).
La risposta a tale interrogativo non può che essere data caso per caso. Invero, se il rapporto è
strutturato come a prestazioni corrispettive (si pensi all’obbligo reciproco di contribuzione),
un’adeguata soluzione sembra già rinvenibile nell’ambito dei rimedi sinallagmatici ( 15), tra cui, in
particolare, l’exceptio inadimpleti contractus e la facoltà di sospensione dell’esecuzione, ex artt.
1460 e 1461 c.c. Nelle altre ipotesi (si pensi a un impegno di mantenimento unilaterale, o a un
contratto diretto all’instaurazione di un regime analogo a quello della comunione legale), appare
invece opportuno legare lo scioglimento del contratto all’esercizio di uno ius poenitendi rimesso a
ciascun convivente da esercitarsi mediante atto scritto da comunicare alla controparte e con effetto
(per evitare pericolose incertezze) dalla data della comunicazione stessa ( 16).
Nessuna obiezione sembra possa muoversi alla pattuizione di una clausola compromissoria,
ovvero di deroga alla competenza territoriale dell’autorità giudiziaria, nonché all’inserimento
(consigliabile laddove il negozio venga perfezionato dopo che si sia già iniziato a convivere) di un
(9) «Nel silenzio dell’art. 6 della legge n. 392 del 1978, in caso di separazione coniugale ovvero di cessazione della
convivenza more uxorio con presenza di prole naturale, nell’ipotesi di accordo tra i coniugi o tra gli ex-conviventi, il
subingresso nel contratto di locazione si verifica in modo del tutto automatico, indipendentemente dalla comunicazione
o comunque dalla conoscenza che di tale situazione abbia il locatore» (cfr. Pret. Pordenone, 23 dicembre 1998, in Arch.
locaz. cond., 1999, p. 846). Va però subito precisato che la soluzione indicata nel testo non sembra essere quella
prevalente. Sulla questione dell’applicabilità alla fattispecie in esame della sentenza Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404,
cfr. OBERTO, I contratti della crisi coniugale, II, cit., p. 928 ss., nonché infra, § 4, in questo Cap.
(10) Come suggerito dal «modello di Leida» (v. art. 7, secondo comma, in AA. VV., Couple et modernité, 84ème
congrès des notaires de France, cit., p. 523).
(11) Sul diverso tema del legato d’usufrutto v. infra, Cap. IX, § 1.
(12) Per l’esercizio del quale potrebbe prevedersi, a mezzo di apposita clausola, il necessario rispetto della forma
scritta (per evidenti fini di carattere probatorio).
(13) V. per esempio il «modello di Leida», art. 8, c. 1 (in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires
de France, cit., p. 524) e la formula della Direction de la recherche et de l’information de la Chambre des notaires du
Québec (ivi, p. 519).
(14) Cfr. WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1249 s.; GRAY, Cohabitation Contract, in New Law
Journal, 1973, p. 591 (che propone la seguente clausola: «Either party may terminate this agreement by notice of three
months, such notice to be in writing in the form set out in the schedule hereto and served on the other party in person»).
(15) Al riguardo si tenga presente che, trattandosi di rapporto di durata, dovrebbe trovare applicazione l’art. 1458 c.c.
(16) In alternativa, è ipotizzabile l’apposizione di una condizione risolutiva, legata alla cessazione (per qualunque
causa) della convivenza. Una simile clausola è stata già ritenuta dalla giurisprudenza compatibile con la struttura del
contratto vitalizio (v. Cass., 10 gennaio 1966, n. 186, in Giur. it. 1966, I, 1, c. 1635; cfr. CALÒ, Profili di interesse
notarile della famiglia di fatto, cit., p. 89).
109
accordo di carattere transattivo in relazione ai rapporti pregressi ( 17).
Nel caso le parti non abbiano previsto l’ipotesi di cessazione del ménage c’è da chiedersi se in
qualche modo si possano interrompere gli eventuali rapporti di durata a titolo gratuito, specie
qualora il soggetto cui è imputabile la rottura sia nel contempo il beneficiario delle attribuzioni.
L’unico strumento astrattamente ipotizzabile, soprattutto in relazione a quegli impegni di lunga
durata (o addirittura di carattere vitalizio) la cui originaria previsione abbia tratto la propria ragion
d’essere da un legame affettivo ormai cessato, sarebbe quello della presupposizione. Ma la
soluzione deve essere scartata, per effetto dell’impossibilità di ravvisare il fondamento negoziale
degli atti in oggetto nell’affidamento (fallace) delle parti su di un (improbabile) carattere durevole
dell’unione ( 18).
Sempre nel campo delle donazioni si pone il problema di un’eventuale revocabilità per
ingratitudine nei confronti del partner responsabile del naufragio del rapporto. Con riguardo alle
donazioni tra coniugi, dottrina e giurisprudenza tendono a ravvisare la presenza di un’«ingiuria
grave» ex art. 801 c.c. nella violazione di quel dovere giuridico di fedeltà, che invece, nell’ambito
della relazione more uxorio, non ha (né può avere, nemmeno ex contractu) cittadinanza. Ciò
peraltro non esclude ancora che un obbligo di tal genere si instauri tra i conviventi sul piano morale.
Ne consegue che – fermo restando il diritto di por fine in ogni momento all’unione – non può
negarsi rilievo al comportamento del soggetto che durante il ménage intrattenga relazioni con terze
persone all’insaputa del partner ( 19).
Proprio con riguardo a questa peculiare situazione, si è già avuto modo di ricordare ( 20) che
nel 2011 la Cassazione ha respinto la domanda di un ex convivente, il quale, nel corso del rapporto,
aveva donato alla propria compagna un immobile e che, dopo la rottura dell’unione, aveva chiesto
la revoca dell’atto. La Corte ha confermato il rigetto di ogni domanda posta dall’uomo,
evidenziando come questi non avesse provveduto a specificare «le ragioni per le quali i
comportamenti attribuiti alla [donna] sarebbero idonei a concretare il presupposto dell’ “ingiuria
grave” richiesto dall’art. 801 c.c.», così dando chiaramente ad intendere che la sola rottura
dell’unione non può considerarsi alla stregua di uno di quei comportamenti rilevanti ai fini della
revocazione della donazione ( 21).
3. La rottura in assenza di contratto. Esclusione di pretese risarcitorie per la cessazione della
convivenza.
In assenza di previsioni contrattuali, nonché di alcuno dei possibili rimedi identificati nel Cap.
II di questa monografia ( 22), non appare possibile riconoscere al convivente abbandonato diritti di
sorta sulla base del semplice fatto della rottura dell’unione, anche se si dovesse trattare del risultato
di una unilaterale ed improvvisa determinazione del partner. Ed infatti, la tesi della responsabilità
extracontrattuale da rottura (ingiustificata) della convivenza, che pure ha ricevuto una qualche
(17) Secondo le proposte del «modello di Leida» (v. art. 9, in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des
notaires de France, cit., p. 524, che individua la persona dell’arbitro nello stesso notaio rogante, o nel suo successore) e
di WEITZMAN, Legal Regulation of Marriage, cit., p. 1253.
(18) Per una più approfondita disamina della questione cfr. già OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto,
cit., p. 139 ss. In senso conforme cfr. DERLEDER, Vermögenskonflikte zwischen Lebensgefährten bei Auflösung ihrer
Gemeinschaft, in NJW, 1980, p. 548, il quale nota come «mit der Auflösung der ehelosen Verbindung sehr viel eher
gerechnet werden muß, als Ehegatten mit der Eheauflösung rechnen müssen». Anche DEL PRATO, Patti di convivenza,
cit., p. 978, sembra voler contestare l’applicabilità del rimedio in esame alla convivenza more uxorio. Contra Trib.
Savona, 7 marzo 2001, cit., che, in relazione ad un contratto di usufrutto vitalizio su di un immobile, esclusa la natura
donativa dell’attribuzione, ha ammesso (peraltro solo in obiter) la possibilità per il nudo proprietario di far valere la
presupposizione, con conseguente risoluzione del contratto, una volta venuta meno la convivenza. Per una critica della
decisione cfr. OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 83 ss.
(19) Per una disamina della questione e per i necessari rinvii cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di
fatto, cit., p. 290 ss.
(20) V. supra, Cap. II, § 2.
(21) Cfr. Cass., 24 novembre 2011, n. 24843.
(22) V. in particolare i rimedi legati all’arricchimento ingiustificato e alla ripetizione dell’indebito, su cui cfr. supra,
Cap. II, §§ 3-6 e Cap. III, §§ 1-3.
110
accoglienza all’estero ( 23), è destinata a infrangersi contro la scriminante dell’esercizio di quel droit
de rupture che è inerente alla struttura stessa del legame more uxorio.
La conclusione, prevalente nel pensiero giuridico straniero ( 24), è stata accolta pure dalla
maggioritaria dottrina italiana ( 25), sebbene non abbiano fatto difetto isolate voci, che hanno
ipotizzato una responsabilità civile del convivente che abbia cagionato l’interruzione del rapporto di
fatto, peraltro fondando tale affermazione non sulla circostanza della rottura in sé e per sé
considerata, ma sulla violazione del dovere generale di solidarietà sociale sancito dall’art. 2 Cost., la
quale si produrrebbe, appunto, con la rottura del rapporto, con possibili conseguenze pregiudizievoli
di carattere non patrimoniale. Tale ultimo principio, posto a fondamento di tutta la comunità,
sarebbe applicabile anche alla famiglia di fatto per equilibrare le pretese e i comportamenti reciproci
dei conviventi. In particolare, secondo un’opinione, l’ipotizzabilità dell’applicazione dei principi
risarcitori da illecito aquiliano alla famiglia di fatto farebbe sorgere la pretesa di ciascun convivente
nei confronti dell’altro «a tenere un comportamento non dominato dalla logica dell’individualismo,
bensì attento ai bisogni dell’altro convivente più debole, così da condannare quei comportamenti
dolosi semplicemente sleali, o reticenti, di chi, approfittando della buona fede altrui, abbia
ingenerato nell’altra convivente un affidamento ragionevole circa la stabilità e durata della
relazione» ( 26).
Ma la relazione fra i conviventi è fondata su di un libero e spontaneo impegno e nessuna
norma impone la prosecuzione del rapporto, cosicché non è ipotizzabile alcun tipo di danno contra
jus, anche in caso di rottura ingiustificata della relazione, per il principio per cui volenti non fit
injuria. Peraltro non si può neppure negare che, in talune situazioni eccezionali, la rottura della
relazione si accompagni a circostanze idonee a costituire illecito ex art. 2043 c.c. Tra questi casi si
(23) Ciò è avvenuto soprattutto in Francia, ove sono molti a propendere per una risposta positiva, agevolati in ciò
dalla mancanza nell’art. 1382 del Code di qualsiasi espresso riferimento all’antigiuridicità del comportamento fonte di
danno. Così la giurisprudenza, mossa più che altro da ragioni d’equità, ha riconosciuto più volte a carico del convivente
resosi responsabile dell’abbandono l’esistenza di una faute (v. LABROUSSE-RIOU, op. cit., p. 243), con particolare
riguardo al caso della «séduction dolosive», caratterizzata dalla presenza di una promessa di matrimonio non adempiuta
(cfr. JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, cit., p. 225 ss.; MULLER, L’indemnisation du
concubin abandonné sans ressources, in D., 1980, Chr., p. 328; RUBELLIN-DEVICHI, L’évolution du statut civil de la
famille depuis 1945, cit., p. 64 s.; HUET-WEILLER, Le couple non marié en droit français, in AA. VV., Una legislazione
per la famiglia di fatto?, cit. p. 89; VERHEYDEN-JEANMART, Le developpement de la famille de fait - Aspectes sociojuridiques - La situation en droit belge, cit., p. 66 s.; Cass. Civ., 12 juillet 1955, in D., 1955, p. 736; Cass. Civ., 3 mars
1964, in Gaz. Pal., 1964, II, p. 83; Cass. Civ., 29 novembre 1977, in D., 1978, I.R., p. 185, con nota di HUET-WEILLER).
Non di rado, però, i giudici si sono spinti ad accordare il risarcimento anche per la sola ipotesi di semplice rottura
«ingiustificata», giungendo persino a scaricare sull’autore dell’abbandono l’onere di dimostrare che lo stesso era invece
avvenuto giustificatamente (cfr. JEANMART, Les effets civils de la vie commune en dehors du mariage, cit., p. 230 ss.;
RUBELLIN-DEVICHI, op. ult. cit., p. 65; MALAURIE e AYNÈS, op. cit., p. 128; del resto, già ESMEIN, Le problème de
l’union libre, cit., p. 776, affermava che l’abbandono ingiustificato costituiva in sè una faute morale, idonea a dar luogo
al risarcimento).
(24) Cfr. NAST, Vers l’union libre, ou le crépuscule du mariage légal, in D. Chron., 1938, p. 41 ss.; PIRET, Le
ménage de fait en droit civil belge, cit., p. 80; AMZALAC, Le procès entre concubins à la suite de la rupture de leurs
relations, in La Semaine Juridique, 1969, I, p. 2216; LABROUSSE-RIOU, op. cit., p. 243; JEANMART, Les effets civils de
la vie commune en dehors du mariage, cit., p. 222 s.; MALAURIE e AYNÈS, op. cit., p. 128; AA. VV., Couple et
modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 474 ss.; Cass. Civ., 29 juillet 1935, in D., 1935, p. 444; Cass.
Civ., 17 juin 1953, in Gaz. Pal., 1953, II, p. 23; Cass. Civ., 3 marzo 1964, ivi, 1964, II, p. 83; Cass. Civ., 24 novembre
1976, in D., 1977, p. 99; App. Lyon, 18 janvier 1929, in D., 1929, 2, p. 37; App. Aix, 28 décembre 1933, in Gaz. Pal.,
1934, 2, p. 83; App. Lyon, 18 décembre 1973, in D., 1974, I.R., p. 73; App. Paris, 28 mars 1985, in D., 1985, I.R., p.
481; Trib. Seine, 4 mars 1935, in Gaz. Pal., 1935, I, p. 84. Anche in Germania viene escluso ogni risarcimento sulla
base del semplice abbandono unilaterale della convivenza (cfr. STEINERT, op. cit., p. 689; STRÄTZ, Rechtsfragen des
Konkubinats, cit., p. 434).
(25) Cfr. G. STELLA RICHTER, Aspetti civilistici del concubinato, cit., p. 1127 s.; GAZZONI, Dal concubinato alla
famiglia di fatto, cit., p. 132 ss.; FURGIUELE, Libertà e famiglia, cit., p. 289; D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 457
ss.; PARADISO, I rapporti personali tra coniugi, cit., p. 101; OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit.,
p. 282 ss.; BALESTRA, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, cit., p. 468.
(26) V. i riferimenti in M. SGROI, op. cit., p. 1095. In precedenza v. anche BILE, La famiglia di fatto; profili
patrimoniali, in AA.VV., La famiglia di fatto. Atti del convegno nazionale di Pontremoli (27-30 maggio 1976), cit., p.
95 s.; BUSNELLI, Sui criteri di determinazione della disciplina normativa, cit., p. 141; DOGLIOTTI, voce Famiglia di
fatto, cit., p. 196.
111
poteva senz’altro annoverare un tempo la seduzione con promessa di matrimonio ( 27), quanto meno
fin tanto che l’istituto ebbe cittadinanza nel nostro ordinamento ( 28). Ora potrà pensarsi soltanto a
situazioni quali truffe, percosse, lesioni, etc., laddove la fattispecie generatrice della responsabilità
ex lege Aquilia non risiede, evidentemente, nell’abbandono, bensì nelle circostanze, per così dire,
«di contorno», che quest’ultimo hanno caratterizzato ( 29).
Per questi motivi appare del tutto condivisibile la posizione della nostra giurisprudenza, che
esclude il risarcimento del danno da rottura della convivenza, basandosi per lo più sul principio
volenti non fit iniuria, secondo un risalente insegnamento dei giudici di legittimità ( 30) di cui hanno
fatto applicazione, in tempi assai meno remoti, anche i giudici di merito ( 31).
4. Le conseguenze della rottura sul diritto all’abitazione nei rapporti con il locatore (e con il
comodante «terzo» rispetto alla coppia).
Al di là dell’ipotesi del decesso del conduttore ( 32), è noto che, con la già citata decisione n.
404 del 1988, la Consulta ebbe a dichiarare incostituzionale l’art. 6, l. n. 392/78 «nella parte in cui
non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che abbia cessato la convivenza,
quando vi sia prole naturale». La regola ha ricevuto applicazione in almeno due decisioni di
legittimità ( 33), in casi in cui la convivente, non titolare del rapporto di conduzione, era purtuttavia
rimasta nell’immobile con la prole minorenne che le era stata affidata ( 34). La questione della
costituzionalità, invece, dell’art. 6 cit., con riguardo all’ipotesi di «separazione consensuale» dei
conviventi, in assenza di prole, ha formato oggetto di svariate ordinanze di rimessione, rimaste però
senza esito, avendo dato luogo ad oggi a decisioni di manifesta inammissibilità o infondatezza ( 35).
Ora, come correttamente posto in luce in dottrina ( 36), nella decisione del 1988, la Consulta
aveva ritenuto «irragionevole che nell’elencazione dei successori nel contratto di locazione non
compaia chi al titolare originario del contratto era nella stabile convivenza more uxorio»,
premurandosi poi di specificare che «l’art. 3 della Costituzione va qui invocato non per la sua
portata uguagliatrice, restando comunque diversificata la condizione del coniuge da quella del
convivente more uxorio, ma per la contraddittorietà logica della esclusione di un convivente
convivente dalla previsione di una norma che intende tutelare l’abituale convivenza».
(27) Cfr. DE CUPIS, Il concubinato nel diritto privato, cit., p. 76; CAFERRA, Il dovere di solidarietà tra i coniugi, in
Foro it., 1976, V, c. 309, nota 79; A. TRABUCCHI, Morte della famiglia o famiglie senza famiglia?, in Riv. dir. civ.,
1988, I, p. 35 s.; OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 284, nota 87.
(28) Sul tema e sull’abrogazione dell’art. 526 c.p. per effetto dell’art. 1, l. 15 febbraio 1996, n. 66, cfr. OBERTO, La
seduzione con promessa di matrimonio al capolinea, in Danno e resp., 1996, 416 ss.
(29) Più in generale, in tema di responsabilità contrattuale nella famiglia di fatto, OBERTO, La responsabilità
contrattuale nei rapporti familiari, cit., p. 64 ss.
(30) V. Cass., 17 gennaio 1958, n. 84, in Foro it., 1959, I, c. 470; Cass., 25 gennaio 1960, n. 68, ivi, 1961, I, c. 2017;
Cass., 15 gennaio 1969, n. 60, ivi, 1969, I, c. 1517; Cass., 29 novembre 1986, n. 7064, cit.
(31) Cfr. Trib. Milano, 13 marzo 2009, citata da M. SGROI, op. cit., p. 1095: «La domanda di risarcimento danni, ex
art. 2043 c.c., avanzata da parte attrice nei confronti del proprio compagno al termine della convivenza more uxorio
durata diversi anni e condotta nel lusso e nell’agiatezza da entrambe le parti, deve dichiararsi infondata. L’interruzione
della convivenza more uxorio, difatti, non rappresenta una fattispecie ascrivibile all’illecito aquiliano con conseguente
inconfigurabilità del diritto di alcuna delle parti ad avanzare pretese risarcitorie. Del resto, neppure la separazione
personale dei coniugi rappresenta nell’ambito dell’ordinamento, un illecito dal quale derivino lesioni del diritto alla
persona costituzionalmente garantito. Le circostanze in forza delle quali parte attrice fonda la pretesa risarcitoria sulla
perdita di chance per aver interrotto la prestigiosa carriera di modella ed indossatrice e sulla delusione delle mille
aspettative di coronamento della vita coniugale, non integrano alcun illecito non solo nei riguardi della compagna di
fatto ma neppure nei riguardi della moglie, potendo costituire, al più, nei riguardi di quest’ultima, causa di addebito
della pronuncianda separazione». V. inoltre App. Firenze, 4 novembre 2010, cit.
(32) Su cui v. infra, Cap. IX, § 1.
(33) Cfr. Cass., 25 maggio 1989, n. 2524; Cass., 10 ottobre 1997, n. 9868, in Fam. dir., 1998, p. 175.
(34) V. anche Pret. Pordenone, 23 dicembre 1998, in Arc. locaz. cond., 1999, p. 846.
(35) Corte cost., 15 marzo 2002, n. 61; Corte cost., 11 giugno 2003, n. 204; Corte cost., 7 gennaio 2010, n. 7, in Fam.
dir., 2011, p. 113, con nota di ALVISI.
(36) ALVISI, Fine della convivenza e successione nel contratto di locazione: l’onda lunga di una dimenticata distonia
tra motivazione e dispositivo, Nota a Corte cost., 7 gennaio 2010, n. 7, in Fam. dir., 2011, p. 117.
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È quindi evidente che il parametro usato per addivenire alla declaratoria di accoglimento delle
questioni di illegittimità fu, non già il principio di uguaglianza, bensì quello di ragionevolezza. Con
specifico riferimento alla questione, sollevata dal tribunale di Firenze (che aveva rimesso la
questione alla Corte costituzionale), della possibile inclusione del convivente more uxorio tra gli
aventi diritto a succedere nel contratto ai sensi del terzo comma, la Consulta affermò espressamente,
in motivazione, che «essendo la separazione tra i conviventi more uxorio soltanto un’espressione
metaforica che indica in realtà l’estinzione del rapporto more uxorio, l’esistenza di prole naturale
“valorizza ulteriormente” la ratio decidendi per la conservazione dell’abitazione alla residua
comunità familiare».
La Corte, quindi, riconobbe la spettanza del diritto a succedere nel contratto di locazione nel
momento della crisi della coppia in caso di accordo tra i partner al convivente in sé considerato, la
presenza di prole comune convivente altro non essendo che un accidentale argomento a fortiori del
ragionamento svolto. Sennonché di tale fondamentale sfumatura si perse traccia in dispositivo,
poiché la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, terzo comma, della legge sull’equo
canone «nella parte in cui non prevede la successione nel contratto di locazione al conduttore che
abbia cessato la convivenza a favore del convivente “quando vi sia prole naturale”» ( 37).
Quanto sopra non esclude, ad avviso dello scrivente e secondo quanto già preconizzato da
almeno una decisione di merito, che del sistema possa fornirsi una lettura costituzionalmente
orientata, così evitando di sollevare l’ennesima questione di legittimità costituzionale, destinata ad
essere nuovamente fraintesa – o aggirata – dalla Consulta ( 38).
Le questioni sin qui discusse attengono alla tutela del diritto di abitazione sulla casa della
famiglia di fatto nell’ipotesi in cui si tratti di «casa in affitto». Problematiche diverse si pongono
nella fattispecie di abitazione in proprietà di uno dei partners, laddove la convivenza cessi per
morte del proprietario, ovvero per rottura dell’unione. Le varie situazioni saranno esaminate a
tempo debito ( 39).
Un tema, invece, per più versi simile a quello sin qui dibattuto attiene all’ipotesi in cui
l’immobile sia nella disponibilità abitativa dei conviventi (o di uno di essi), non già in forza di un
diritto reale o di un rapporto di conduzione, bensì per via di un comodato concesso da un terzo
(solitamente si tratterà dei genitori, o di altri stretti parenti, di uno dei membri della coppia).
Al riguardo dovrà osservarsi che una decisione di legittimità del 2011 ( 40) è venuta a stabilire
che un comodato, stipulato senza prefissione di termine, di un immobile successivamente adibito,
per inequivoca e comune volontà delle parti contraenti, ad abitazione di un nucleo familiare di fatto,
costituito dai conviventi e da un figlio minore, non può essere risolto in virtù della mera
manifestazione di volontà ad nutum espressa dal comodante ai sensi dell’art. 1810, primo comma,
ultima parte, c.c., «dal momento che deve ritenersi impresso al contratto un vincolo di destinazione
alle esigenze abitative familiari idoneo a conferire all’uso cui la cosa è destinata il carattere
implicito della durata del rapporto, anche oltre la crisi familiare tra i conviventi». Da tali premesse
la Corte ha fatto derivare che il rilascio dell’immobile, finché non cessano le esigenze abitative
(37) Che la ragione dell’evidenziata distonia tra motivazione e dispositivo sia da ricercarsi nelle peculiarità del caso
di specie sottoposto all’attenzione dei giudici costituzionali dal tribunale di Firenze, è reso evidente dalla lettura
dell’ordinanza di remissione (cfr. Trib. Firenze, 6 ottobre 1982, in G.U., 14 settembre 1983, I, n. 253). In essa, con
riferimento all’art. 6, comma 3, legge sull’equo canone, si legge che «la mancata previsione di applicabilità dell’ultimo
comma ai coniugi di fatto, impedisce al conduttore che abbia procreato figli di garantire loro un’abitazione e, quindi,
quella sicurezza che – invece – è concessa ai genitori legittimi con l’esercitare appieno il loro diritto-dovere che viene
sancito dai richiamati precetti costituzionali. Quello di evitare il grave disagio di una sistemazione precaria, con la
conseguenza di non poter offrire al figlio il conforto di un alloggio, sembra costituire una grave menomazione del diritto
dell’uomo che ha procreato e che, in questo modo, in quanto genitore, rimane privo, nei confronti della prole, del libero
assolvimento del diritto-dovere di una civile assistenza».
(38) Secondo quanto illustrato supra, § 1, in questo Cap., la portata della più volte citata decisione n. 404 del 1988
della Consulta potrebbe forse essere estesa, in via ermeneutica, senza necessità di ulteriori interventi da parte della
Corte costituzionale, anche alla successione dell’ex convivente nel rapporto locatizio in caso di «separazione
consensuale» della famiglia di fatto. In questo senso va infatti letta Pret. Pordenone, 23 dicembre 1998, cit., la quale,
pur in presenza di prole naturale, sembra porre l’accento sull’accordo dei partners.
(39) V., quanto alla posizione del convivente superstite, infra, Cap. IX, § 1; per i diritti in caso di rottura inter vivos
della convivenza v. infra, §§ 6 e 7, in questo Cap.
(40) Cass., 21 giugno 2011, n. 13592.
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familiari cui esso è stato destinato, può essere richiesto, ai sensi dell’art. 1809, secondo comma,
c.c., solo nell’ipotesi di un bisogno contrassegnato dall’urgenza e dall’imprevedibilità.
Non sarà così sfuggito all’attento lettore che la Suprema Corte ha qui fatto applicazione della
regola dettata (non senza contrasti!) dalle Sezioni Unite nel 2004 per il c.d. «comodato familiare»
nell’ambito della crisi coniugale ( 41).
La situazione qui descritta va, a sua volta, tenuta ben distinta da quella del comodato tra i
conviventi, di cui già si è detto ( 42) e sulla quale comunque si tornerà ancora ( 43).
5. Le conseguenze della rottura in presenza di figli minorenni. Generalità. Gli accordi tra i
conviventi.
Si è esattamente rilevato in dottrina ( 44) che la dissoluzione della convivenza, con riguardo ai
figli, pone praticamente gli stessi problemi che si prospettano in occasione della separazione o del
divorzio. Proprio in ragione di tali considerazioni, la l. 8 febbraio 2006, n. 54 – che ha introdotto la
disciplina sull’affidamento condiviso – ha statuito che le relative disposizioni si applicano anche ai
procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (art. 4 cpv.) ( 45).
L’applicazione della legge sull’affidamento condiviso anche ai procedimenti concernenti i
figli naturali non ha però comportato la tacita abrogazione dell’art. 317-bis cpv. c.c., posto che
l’applicazione della nuova disciplina presuppone l’attivazione di un procedimento, mentre ex art.
317-bis c.c. il ricorso al giudice non è necessario. Infatti, mentre nel caso di separazione o divorzio
è il giudice che provvede ovvero, trattandosi di separazione consensuale o divorzio su domanda
congiunta, controlla la rispondenza all’interesse del minore dell’accordo raggiunto dai genitori,
nell’ipotesi di cessazione della convivenza more uxorio l’intervento del giudice è previsto dall’art.
317-bis, secondo comma, c.c., come meramente eventuale e successivo ( 46).
Si è peraltro correttamente rilevato che la conflittualità che sovente caratterizza la
dissoluzione della coppia imporrà il più delle volte ricorso al giudice ( 47). I tribunali per i
minorenni, di fronte al contenzioso in discorso, hanno sempre seguito i criteri elaborati dai tribunali
ordinari nei casi di separazione e di divorzio. Così, ad es., una decisione del 1997 ( 48) ha stabilito
che «Poiché la norma costituzionale non distingue tra la potestà del genitore naturale e quella del
(41) Cfr. Cass., Sez. Un., 21 luglio 2004, n. 13603, in Corr. giur., 2004, p. 1439, con nota di E. QUADRI. In senso
contrario v. però, ad es., Cass., 7 luglio 2010, n. 15986, la quale ha stabilito che i suoceri possono chiedere alla nuora la
restituzione della casa concessa in comodato a lei e al figlio, e adibita ad abitazione familiare, anche se dopo la
separazione l’immobile è stato assegnato alla donna affidataria dei figli. Secondo la decisione la fattispecie integra il
cosiddetto comodato precario, caratterizzato dalla circostanza che la determinazione del termine di efficacia del vincolo
è rimesso in via potestativa alla sola volontà del comodante, che ha facoltà di manifestarla con la semplice richiesta di
restituzione del bene, senza che assuma rilievo «la circostanza che l’immobile sia stato adibito a uso familiare e sia stato
assegnato, in sede di separazione tra coniugi, all’affidatario dei figli». Cfr. poi anche Cass., 14 febbraio 2012, n. 2103.
(42) V. supra, Cap. IV, § 2; Cap. V, § 3; Cap. VIII, § 1. Come già detto, la S.C. ha escluso la nullità del contratto di
comodato di un appartamento concesso da un uomo in favore della convivente e soggetto alla condizione risolutiva di
cessazione della convivenza per volontà della donna in virtù del principio per cui «la convivenza more uxorio tra
persone in stato libero non costituisce causa di illiceità e, quindi, di nullità di un contratto attributivo di diritti
patrimoniali collegato a detta relazione, in quanto tale convivenza, ancorché non disciplinata dalla legge, non contrasta
né con norme imperative, non esistendo norme di tale natura che la vietino, né con l’ordine pubblico, che comprende i
principi fondamentali informatori dell’ordinamento giuridico, né con il buon costume, inteso, a norma delle disposizioni
del codice civile, come il complesso dei principi etici costituenti la morale sociale di un determinato momento storico,
bensì ha rilevanza nel vigente ordinamento» (cfr. Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit.).
(43) V. infra, § 7, in questo Cap.
(44) Cfr. per tutti BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3787.
(45) Sull’impatto della riforma del 2006 sulla materia della filiazione naturale nell’ambito della famiglia di fatto v.
per tutti FALLETTI, La fine della famiglia di fatto: gli aspetti patrimoniali, cit., p. 856 ss.; M. SGROI, op. cit., p. 1069 ss.
(46) Cfr. Cass., 3 aprile 2007, n. 8362, in Fam. dir., 2007, p. 446, ove si legge che «l’art. 317-bis cod. civ., resta il
referente normativo della potestà e dell’affidamento nella filiazione naturale, con finalità essenzialmente correttive dei
criteri previsti dalla stessa norma» (sul punto cfr. anche OBERTO, Accordi tra conviventi e diritti del minore, alla luce
della riforma sull’affidamento condiviso, in AA. VV., Il nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso,
a cura di Oberto, Padova, 2007, p. 271 ss.).
(47) Cfr. PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, cit., p. 612.
(48) Trib. Min. Perugia, 25 agosto 1997, in Rass. giur. umbra, 1998, p. 349.
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genitore legittimo, deve essere analogicamente estesa alle norme che attribuiscono un controllo del
giudice sulla potestà dei genitori naturali in caso di cessata convivenza, la disciplina prevista per il
controllo del giudice sulla potestà dei genitori divorziati (al divorzio infatti, più che alla
separazione, consegue una situazione analoga a quella dei genitori non conviventi rispetto al residuo
rapporto di ciascuno di essi con la prole). Rientra di conseguenza nella competenza del tribunale per
i minorenni il potere di prendere tutti i provvedimenti in ordine alla potestà sui figli naturali,
adottando gli omologhi provvedimenti di competenza del giudice del divorzio, fermo restando che,
in caso di accordo – sopravvenuto al ricorso di uno dei genitori – sulle condizioni inerenti
all’affidamento e al mantenimento della prole, il giudice “deve tener conto” di esso anche se i suoi
provvedimenti possono essere diversi rispetto all’accordo medesimo».
D’altro canto, già da epoca precedente alla riforma del 2006 sull’affidamento condiviso, si era
riconosciuta la possibilità di estendere istituti che, come nel caso dell’affidamento congiunto, erano
esplicitamente previsti solo dalla disciplina sul divorzio ( 49), anche nel caso di conflittualità tra i
genitori ( 50).
In tema di competenza si tende a ritenere che questa spetti al tribunale per i minorenni, mentre
permane la competenza del tribunale ordinario per le decisioni in tema di mantenimento ( 51). La
questione è peraltro animatamente discussa in dottrina e giurisprudenza a partire dall’entrata in
vigore della riforma sull’affidamento condiviso ( 52). Ad avviso della Cassazione ( 53), dunque, L’art.
317-bis c.c. continua a rappresentare lo statuto normativo della potestà del genitore e
dell’affidamento del figlio nella crisi dell’unione di fatto e il richiamo ad esso contenuto nell’art.
38, primo comma, disp. att. c.c. deve ritenersi tuttora vigente. Di conseguenza, la competenza a
emanare i provvedimenti nell’interesse del figlio naturale spetta al tribunale per i minorenni.
Peraltro, una volta confermata la competenza del giudice minorile per l’emanazione dei
provvedimenti relativi all’esercizio della potestà e all’affidamento dei figli naturali, ne deriva
l’attrazione, in capo allo stesso giudice specializzato, della competenza a provvedere, altresì, sulla
misura e sul modo con cui ciascuno dei genitori deve contribuire al mantenimento del figlio, con la
conseguenza che, in caso di contestualità della domanda di natura patrimoniale con quella relativa
all’affidamento, il tribunale per i minorenni è competente a provvedere anche sul contributo al
mantenimento dei figli naturali stessi. Nel caso invece di controversia tra genitori naturali
conviventi o ex conviventi more uxorio sul (solo) mantenimento dei figli è esclusivamente
competente il tribunale ordinario ( 54).
(49) V. Trib. Min. L’Aquila, 22 aprile 1998, in Giust. civ., 1999, I, p. 596.
(50) Trib. Min. Perugia, 16 gennaio 1998, in Fam. dir., 1998, p. 376.
(51) PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, cit., p. 612; SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 409, il quale
evidenzia che in tal modo si determina un differente trattamento processuale tra figli legittimi e figli naturali, che
tuttavia è rimasto privo di censure di legittimità costituzionale in due diverse pronunce del giudice delle leggi aventi ad
oggetto la conformità a Costituzione del combinato disposto di cui agli artt. 317-bis e 38 disp. att. c.c.: Corte cost., 5
febbraio 1996, n. 23, in Dir. fam. pers., 1996, I, p. 1327; Corte cost., 30 dicembre 1997, n. 451, in Foro it., 1998, I, c.
1377, con nota di CONSENTINO.
(52) Per alcuni commenti al riguardo cfr. FACCHINI, Quale giudice e quale rito per i figli naturali?, in AA. Vv., Il
nuovo rito del contenzioso familiare e l’affidamento condiviso – Le riforme del diritto di famiglia viste dagli avvocati –
Commenti, formulari e documenti, a cura di Oberto, cit., p. 237 ss.; CENICCOLA e SARRACINO, L’affidamento condiviso
alla luce della Legge n. 54/2006, Matelica, 2007, p. 235 ss.; GIUNTI, La competenza in materia di provvedimenti sui
figli naturali prima e dopo la legge sull’affidamento condiviso, Nota a Trib. Pescara, 16 novembre 2008, in Giur.
merito, 2009, p. 2116 ss.
(53) Cass., 3 aprile 2007, n. 8362 cit.
(54) Cfr. Cass., 27 ottobre 2010, n. 22001, secondo cui «La competenza a decidere sulle controversie inerenti il
mantenimento dei figli spetta sempre al tribunale ordinario, anche qualora la misura riguardi il contributo necessario per
i figli di conviventi». La ratio decidendi riposa sulla constatazione per cui la domanda è introdotta da uno dei genitori in
nome proprio e non in rappresentanza del figlio minore sul quale esercità la potestà. La lite, quindi, è tra due soggetti
maggiorenni e «ha come causa petendi la comune qualità di genitori e come petitum il contributo che l’uno deve versare
all’altro in adempimento dell’obbligo di mantenimento del figlio». La riforma introdotta dalla legge n. 54/2006 non
lascia spazio all’ipotesi di un principio generale di unificazione delle competenze in materia di conflitti familiari che
«sia pure invocato dalla dottrina – scrivono i giudici i legittimità – non ha finora trovato il consenso del legislatore».
Cfr. inoltre Cass., 13 gennaio 2011, n. 674, secondo cui «Spetta al Tribunale ordinario (e non al Tribunale per i
minorenni) giudicare sulla domanda di regresso proposta da uno dei genitori, (nella specie a seguito della conclusione
della convivenza tra genitori naturali) in nome proprio, nei confronti dell’altro, al fine di ottenere, ai sensi dell’art. 1299
115
Per il resto, nel caso di cessazione della convivenza more uxorio in presenza di figli, è dato
riscontrare il frequente ricorso all’applicazione analogica delle norme previste in tema di
separazione e divorzio, proprio per assicurare una più completa tutela ai figli nati al di fuori dal
matrimonio in assenza di una disciplina ad hoc prevista. L’accordo dei conviventi, quando vi sia,
considerata l’immediata operatività dei criteri di legge, è produttivo di effetti senza la necessità di
un preventivo vaglio giudiziario ( 55).
Tuttavia, come si è già avuto modo di chiarire ( 56), l’esigenza di attribuire a siffatti accordi
efficacia vincolante, spinge sovente i conviventi a richiederne la «ratifica», di modo che si è posto il
problema in merito all’accoglimento del ricorso presentato dai coniugi congiuntamente e volto ad
ottenere una sorta di omologa o ratifica dell’accordo già raggiunto. Si è dunque instaurata una prassi
presso i tribunali per i minorenni che prevede l’emissione di un provvedimento che, pur non
essendo un’omologazione in senso formale, è volto ad assolvere la medesima funzione. Si osserva,
in particolare, che sussiste un interesse all’adozione di un provvedimento che recepisca l’accordo
raggiunto da ravvisarsi, essenzialmente, nella prevenzione di future conflittualità ( 57).
I provvedimenti del tribunale per i minorenni vengono assunti mutuando gli istituti previsti
per la separazione ed il divorzio, così da assicurare ai figli naturali un trattamento paritario rispetto
a quello dei figli legittimi ( 58). Si realizza così quanto dallo scrivente preconizzato in merito ad una
sostanziale estensione analogica dell’art. 158 c.c. alla famiglia di fatto ( 59).
6. Segue. La sorte della casa familiare in presenza di prole (ed in assenza di accordi).
Prima della riforma del 2006 sull’affidamento condiviso la giurisprudenza si era invece divisa
sull’applicabilità analogica dell’istituto dell’assegnazione della casa coniugale. Secondo un primo
orientamento si era ritenuto che «in applicazione analogica dell’art. 155, quarto comma, c.c., in caso
di cessazione della convivenza more uxorio la casa familiare di proprietà comune dei genitori può
essere assegnata a quello che sia affidatario dei figli minori» ( 60). In senso contrario, escludendo
cod. civ., il rimborso pro-quota delle spese sostenute per sé, nel periodo anteriore alla nascita dei figli, e per la prole,
trattandosi di lite tra due soggetti maggiorenni, che ha come causa petendi la comune qualità di genitori, e non essendo
la domanda assimilabile a (né connessa con) quelle contemplate dall’art. 38 disp. att. cod. civ. riguardanti l’affidamento
e il mantenimento dei figli minorenni». V. poi anche Cass., 20 giugno 2011, n. 13508, secondo cui «L’attrazione al
giudizio del Tribunale per i minorenni della domanda di corresponsione di un contributo per il mantenimento del figlio
minore può giustificarsi esclusivamente in caso di contestualità fra la stessa e la domanda principale, proposta ai sensi
dell’art. 155 cod. civ., riguardante l’affidamento dei figli e l’esercizio della potestà genitoriale».
(55) BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3787; cfr. inoltre OBERTO, Accordi tra conviventi e diritti del minore,
alla luce della riforma sull’affidamento condiviso, cit., p. 271 ss.
(56) V. supra, Cap. V, § 2.
(57) Così Trib. Min. Reggio Calabria, 17 ottobre 1994, cit., secondo cui: «allorché i partners di una famiglia di fatto
cessino dal convivere e, nell’interesse della prole da essi concepita e generata, raggiungano un accordo extragiudiziale
sull’affidamento della prole stessa [...] è ammissibile e legittimo l’intervento, a richiesta dei genitori, del tribunale per i
minorenni che, constatata la conformità dell’accordo agli interessi della prole, ne omologhi il contenuto»;
analogamente, si è sostenuto che «poiché la norma costituzionale non distingue tra la potestà del genitore naturale e
quella del genitore legittimo, deve essere analogicamente estesa alle norme che attribuiscono un controllo del giudice
sulla potestà dei genitori naturali in caso di cessata convivenza, la disciplina prevista per il controllo del giudice sulla
potestà dei genitori divorziati del tribunale per i minorenni, che, nell’interesse della prole, potrebbe adottare
provvedimenti diversi»: in tal senso Trib. Min. Perugia, 25 agosto 1997, cit.; in precedenza v. Trib. Min. L’Aquila, 31
gennaio 1994, cit.; App. Milano, 4 dicembre 1995, in Fam. dir., 1996, p. 247, con nota di MORETTI; favorevole in
dottrina FERRANDO, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, cit., p. 188;
per una critica, cfr. GALIZIA DANOVI, Sui limiti dell’intervento del giudice nella soluzione dei conflitti familiari, in Dir.
fam. pers., 1995, p. 1044; sul tema v. anche FIORINI, Autonomia privata e affidamento condiviso, in Riv. notar., 2007, p.
47 ss.
(58) Sul tema cfr. PALADINI, La filiazione nella famiglia di fatto, cit., p. 612; per una critica dell’ammissibilità di
un’omologazione di tali accordi da parte del tribunale dei minorenni cfr. SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 413 s.; in
argomento v. anche OBERTO, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 240 ss.
(59) Cfr. OBERTO, Contratti di convivenza e diritti del minore, cit., p. 240 ss. V. anche supra, Cap. V, § 2.
(60) Trib. Palermo, 20 luglio 1993, in Foro it., 1996, I, c. 122; Trib. Milano, 23 gennaio 1997, in Fam. dir., 1997, p.
560; Trib. Bari, 11 giugno 1982, in Foro it., 1982, I, c. 2032.
116
implicitamente che la disposizione in questione fosse applicabile alla famiglia di fatto – neppure in
forza di interpretazione analogica o estensiva – si era invece affermato che «non è manifestamente
infondata la q.l.c. dell’art. 155, quarto comma, c.c., nella parte in cui non prevede la possibilità di
assegnazione in godimento della casa familiare al genitore naturale affidatario di un figlio minore
nato da un rapporto di convivenza more uxorio cessato» ( 61).
Al riguardo il giudice delle leggi, con sentenza interpretativa di rigetto, aveva ritenuto che,
considerato il fatto «che l’obbligo di mantenimento della prole, sancito dall’art. 147 c.c., comprende
in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla
prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, e
segnatamente, tra queste, la predisposizione e la conservazione dell’ambiente domestico,
considerato quale centro di affetti, di interessi e di consuetudini di vita, che contribuisce in misura
fondamentale alla formazione armonica della personalità del figlio – l’interpretazione sistematica
dell’art. 30 Cost. in correlazione agli artt. 261, 146 e 148 c.c. impone che l’assegnazione della casa
familiare nell’ipotesi di cessazione di un rapporto di convivenza more uxorio, allorché vi siano figli
minori o maggiorenni non economicamente autosufficienti, deve regolarsi mediante l’applicazione
del principio di responsabilità genitoriale, il quale postula che sia data tempestiva ed efficace
soddisfazione alle esigenze di mantenimento del figlio, a prescindere dalla qualificazione dello
status» ( 62). La decisione della Consulta aveva ricevuto applicazione da una decisione del 2004
della Corte di Cassazione ( 63).
La questione è stata però legislativamente risolta dal già citato art. 4, l. 8 febbraio 2006, n. 54,
che ha reso applicabile anche ai genitori non coniugati le disposizioni di cui all’art. 155-quater c.c.
7. Cessazione della convivenza e questioni possessorie nei rapporti tra i conviventi.
Assai dibattuta è la questione della tutela possessoria del convivente in merito ad una
possibile estromissione, operata dal partner, dalla casa in cui si svolge(va) il ménage. Più
esattamente, si è posto in luce ( 64) che occorre distinguere: a) il caso in cui ad invocare la tutela
possessoria sia il partner estromesso dall’abitazione che, pur non vantando alcun diritto reale od
obbligatorio, voglia recuperarne la disponibilità e continuare a goderne; b) il caso in cui il partner
titolare del diritto di proprietà, o di altro diritto reale o personale di godimento sull’immobile,
intenda allontanare l’altro in ragione degli intervenuti dissidi.
Per quanto attiene alla prima delle due ipotesi appena indicate, cioè allorquando ad invocare
la tutela possessoria sia il partner estromesso dall’abitazione, secondo un orientamento che può
dirsi in fase di consolidamento, il convivente more uxorio è da qualificare detentore autonomo, in
quanto tale legittimato all’azione di spoglio nei confronti del partner che lo abbia cacciato di casa
( 65). L’orientamento evidenziato non è univoco, in quanto si registrano pronunce di segno opposto
(61) Trib. Cagliari, 24 febbraio 1998, in Rass. giur. sarda, 1999, p. 137.
(62) Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, cit.; in dottrina SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 412 ss.; PALADINI, La
filiazione nella famiglia di fatto, cit., p. 609 ss.
(63) Cfr. Cass., 26 maggio 2004, n. 10102, in Foro it., 2004, I, c. 2742; in Fam. dir., 2005, p. 23, con nota di
DOLCINI; v. inoltre Trib. Foggia, 9 agosto 2002, in Foro it., 2002, I, c. 303; in Familia, 2003, p. 244, con nota di
CUBEDDU; nello stesso senso cfr. inoltre Trib. Genova, 15 ottobre 2003, in Dir. fam. pers., 2004, p. 477. Prima della
decisione della Corte cost., Trib. Palermo, 20 luglio 1993, in Foro it., 1996, I, c. 122 ss., aveva dichiarato
analogicamente applicabile alla famiglia di fatto l’art. 155, quarto comma, c.c., nella formulazione vigente prima della
riforma sull’affidamento condiviso.
(64) BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 253 ss.; ID., Rapporti di convivenza, cit., p. 3785 ss.
(65) Pret. Roma, 22 novembre 1975, riportata da BALESTRA, La famiglia di fatto, 2004, cit., p. 448, ove, tra l’altro, si
afferma che «la mancanza di un vincolo coniugale e quindi di un diritto a detenere, non può in alcun modo incidere sul
contenuto e sulla essenza stessa della detenzione»; Pret. Perugia, 29 settembre 1994, in Rass. giur. umbra, 1994, p. 725;
Pret. Firenze, 27 febbraio 1992, in Foro it., 1993, I, c. 1712; Trib. Perugia, 22 settembre 1997, in Foro it., 1997, I, c.
3686; Trib. Milano, 7 maggio 2008, in Fam. dir., 2009, p. 40, con nota di CAMPAGNOLI («La convivenza more uxorio
determina un potere di fatto sulla casa di abitazione basato su un interesse proprio ben diverso da quello derivante da
ragioni di mera ospitalità. Conseguentemente, l’estromissione violenta del convivente dall’unità abitativa giustifica il
ricorso ai mezzi di tutela forniti dalla legge, anche in via d’urgenza»). V. anche, per altri riferimenti giurisprudenziali,
SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 407.
117
( 66).
In una prospettiva contrapposta – secondo l’ipotesi sopra individuata sub b) – occorre poi
analizzare l’ipotesi in cui sia l’effettivo titolare di un diritto sull’immobile ad agire in reintegrazione
contro il convivente more uxorio che pretenda di continuare ad occuparlo, nonostante il venir meno
dell’unione.
Ora, se si considera la posizione del convivente, non titolare di alcun diritto, in termini di
detenzione qualificata, appare difficile concedere al proprietario l’azione possessoria nell’ipotesi in
cui il partner, nonostante il venir meno dell’unione, rifiuti di lasciare l’immobile. Nello specifico,
ha invece concesso l’azione possessoria una ormai remota decisione di merito ( 67), anche in
considerazione delle seguenti concrete circostanze: a) la convivenza era durata non più di due anni;
b) l’appartamento era stato concesso al ricorrente quale corrispettivo di un contratto d’opera
stipulato con terzi; c) il resistente aveva inizialmente lasciato l’immobile, ma poi vi si era
reintrodotto con violenza ( 68).
Si è peraltro esattamente rimarcato che la negazione della tutela possessoria non comporta la
privazione di qualsivoglia tutela e, dunque, l’impossibilità di recuperare la disponibilità esclusiva
dell’immobile a seguito della rottura della convivenza more uxorio ( 69). Al fine di dirimere le
controversie insorte al momento della dissoluzione dell’unione ed aventi ad oggetto il godimento in
comune dell’immobile, può essere avviato un giudizio ordinario di accertamento del venir meno del
titolo giustificativo con conseguente richiesta di condanna al rilascio. Ciò in quanto il convivente
titolare del diritto sull’immobile, mettendo a disposizione dell’altro la propria abitazione, darebbe
vita ad un rapporto negoziale di fatto rientrante nello schema della causa comodati ( 70).
Andrà però subito ricordato che la possibilità stessa di ricondurre la situazione, nelle relazioni
inter partes, allo schema del comodato non trova certo tutti concordi. Così, una decisione di merito
del 2008 ha stabilito che nel rapporto di convivenza more uxorio il godimento dell’immobile adibito
ad abitazione comune da parte del convivente che non ne è proprietario «non si fonda su un
contratto di comodato» ( 71). Di conseguenza, anche se il termine è indeterminato e non viene
(66) Cfr. ad es. Pret. Pietrasanta, 19 aprile 1988, in Foro it., 1989, I, c. 1662, ove, pur rifiutando la qualifica di ospite
al convivente more uxorio, piuttosto da considerare alla stregua di un detentore qualificato, si è giunti comunque a
negare il rimedio possessorio al convivente, poiché riconoscere la legittimazione attiva ex art. 1168 c.c. «contrasterebbe
con l’impossibilità di configurare situazioni di vantaggio da farsi valere dopo la fine del rapporto e, prima ancora, con
l’assenza, nel nostro ordinamento, di un giudice della dissoluzione del ménage di fatto»; Pret. Vigevano, 10 giugno
1996, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 240; in dottrina cfr. MONTEVERDE, op. cit., p. 961 ss.
(67) Pret. Firenze, 26 ottobre 1990, in Giur. mer., 1992, p. 861.
(68) Contra Pret. Pordenone, 9 maggio 1995, in Nuova giur. civ. comm., 1997, I, p. 240; sul tema in dottrina cfr.
BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3785 s.
(69) BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3785 s.
(70) Pret. Monza, 30 aprile 1988, in Giur. merito, 1990, p. 74; Pret. Pordenone, 9 maggio 1995, cit.; Pret. Pordenone,
18 marzo 1997, in Arch. loc. cond., 1997, p. 664; Trib. Napoli, 8 marzo 2004, in Giur. nap., 2004, p. 321; osserva
tuttavia LEPRE, Abitazione «parafamiliare» e problemi possessori, Nota a Pret. Vigevano, 10 giugno 1996, in Nuova
giur. civ. comm., 1997, I, p. 247, che «la riportata ricostruzione, pur nel lodevole sforzo di razionalizzare un fenomeno
così sfuggente, quale quello della convivenza more uxorio, sembra, però, peccare di un’eccessiva artificiosità, laddove
attribuisce alla coppia la volontà di stipulare un contratto che, nella sostanza, altro non sarebbe se non un negozio
riconducibile a quello regolato dalle disposizioni di cui agli artt. 1803 ss., c.c.». In quest’ottica, ad es., Trib. Bologna, 12
marzo 2008, in Fam. pers. succ., 2008, p. 756, ha stabilito che il rapporto di convivenza more uxorio «soprattutto se
caratterizzato da stabilità, rappresenta il diritto inviolabile di esprimere la propria personalità in una formazione sociale
(art. 2 Cost.) e gode di una rilevanza giuridica che incide sul titolo in virtù del quale uno dei conviventi ha diritto di
godimento sull’abitazione di cui l’altro convivente è proprietario. Pertanto, nel caso in cui la coabitazione si svolga
nella casa di cui è proprietario uno dei conviventi, all’altro convivente l’immobile non viene conferito a titolo di
comodato, ma affinché ne possa godere e se ne possa servire in condivisione col convivente stesso (art. 1803 c.c.).
Conseguentemente non deve essere accolta la domanda di rilascio che si fondi sul comodato nel caso in cui il
godimento sia avvenuto in costanza di convivenza more uxorio. Nel caso concreto la domanda è stata accolta in base ad
una causa petendi differente, basata sulla cessazione del legame affettivo-solidaristico tra i partners».
(71) Cfr. Trib. Bologna, 14 maggio 2008, in Obbl. e contr., 2008, p. 750, con nota di SCHIAVONE. In motivazione si
può leggere quanto segue: «Qualificare detto titolo come comodato a tempo indeterminato (in tal senso si era espresso
Trib. Napoli, 8 marzo 2004) invece appare pretermettere l’esistenza del rapporto di convivenza more uxorio, negandogli
il rilievo giuridico ed “estrapolandone” soltanto, scisso dagli altri elementi che compongono la fattispecie, il dato di
fatto dell’abitazione nella casa dell’altro convivente, e giungendo così ad affermare, in effetti, che l’inizio di una
coabitazione more uxorio rappresenta per facta concludentia la stipulazione di un contratto di comodato tra il
118
corrisposto alcun corrispettivo, la domanda di rilascio da parte del proprietario non potrebbe essere
fondata sull’art. 1810 c.c.
In ogni caso, il convivente titolare di un diritto reale o personale di godimento può agire in via
d’urgenza, al fine di ottenere un ordine a carico dell’altro di abbandono dell’immobile,
ogniqualvolta la situazione, così come determinatasi a seguito della crisi dell’unione, sia divenuta
insopportabile ( 72). Da segnalare poi anche quella decisione di merito ( 73) che ha riconosciuto il
diritto al risarcimento del danno, in base all’art. 2043 c.c., alla ex convivente e ai suoi genitori nei
confronti dell’ex partner che aveva continuato ad abitare nell’appartamento anche dopo l’ordine
giudiziale di allontanamento; il tribunale ha in particolare riconosciuto il diritto al risarcimento del
danno non patrimoniale, per la violazione del diritto al riserbo dell’intimità della vita domestica
privata delle parti attrici.
In relazione, infine, al caso della morte di uno dei membri della coppia di fatto, si è affermato
che non sussistono gli estremi dello spoglio e quindi non si può ricorrere alla tutela possessoria nel
caso in cui il convivente more uxorio, dopo la morte del partner, impedisca all’erede l’accesso
nell’immobile
già
abitazione
della
coppia
(74).
proprietario della casa dove la coabitazione si verifica e la persona che viene ad abitarvi. Si tratta di una palese forzatura
del concetto di facta concludentia, che inoltre omette di valutare la caratteristica che connota il conferimento del
godimento nel caso in questione: è vero, infatti, che il proprietario (o chi è in posizione equivalente quanto a dominio
sul bene) conferisce a controparte l’immobile perché “se ne serva” (cfr. art. 1803 c.c.), ma perché se ne serva insieme a
lui e finché appunto il godimento del bene è condiviso. Come si è già accennato, invero il conferimento dell’abitazione
è solo un elemento di un rapporto composito, che gli aspetti materiali (ovvero patrimoniali) congiunge e conforma a una
base non patrimoniale, costituita dal legame affettivo-solidaristico che si instaura tra i conviventi. L’immobile è quindi
conferito per la convivenza: non, si ripete, perché il convivente se ne serva, ma perché ne condivida il godimento, cioè
se ne serva insieme all’altra parte».
(72) Pret. Milano, 31 marzo 1990, in Foro pad., 1990, I, c. 363; Trib. Messina, 10 settembre 1997, in Fam. dir.,
1998, p. 255; Pret. Pisa, 30 marzo 1990, in Foro it., 1991, I, c. 329.
(73) Trib. Bologna, 12 ottobre 2005, in Resp. civ. prev., 2006, p. 913.
(74) Pret. Venezia, 16 aprile 1996, in Giur. it., 1997, I, 2, c. 330; sempre in tema di tutela possessoria a favore del
convivente cfr. ASPREA, La famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 289 ss.; FERRANDO, Convivere senza
matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, cit., p. 188.
119
CAPITOLO IX
LA CESSAZIONE DELLA CONVIVENZA
PER MORTE
SOMMARIO: 1. La morte del convivente more uxorio: diritto di abitazione, tutela del convivente e
problemi di carattere successorio. – 2. Contratti di convivenza ed effetti post mortem.
Possibili negozi post mortem. Generalità. – 3. Segue. Il contratto a favore di terzo. Rendita
vitalizia e mantenimento vitalizio (rinvio). – 4. Segue. Acquisto en tontine, acquisto
«incrociato», riconoscimenti di debito. – 5. Conclusioni sui possibili negozi post mortem. –
6. La morte del convivente more uxorio a seguito dell’illecito compiuto da un terzo.
1. La morte del convivente more uxorio: diritto di abitazione, tutela del convivente e problemi
di carattere successorio.
In caso di morte di uno dei membri della coppia di fatto l’ordinamento non prevede alcuna
tutela per il partner superstite: come già rilevato in altra sede da chi scrive ( 1), l’odierna condizione
della coppia di fatto italiana non è sostanzialmente diversa da quella descritta da Filippo Decio
cinque secoli or sono, allorquando l’illustre maestro del Guicciardini osservava che «Concubina
non succedit ab intestato ejus concubinario, nec e contra, quia in ista successione requiritur justum
matrimonium et hoc non verificatur in concubina; legatum tamen concubinae fieri potest a privato»
( 2).
La situazione appare vieppiù paradossale ove si ponga mente al raffronto tra la protezione del
diritto all’abitazione offerta al convivente superstite di soggetto titolare di rapporto di conduzione
sulla casa familiare, con quella dell’ex partner di un defunto titolare del diritto di proprietà
sull’immobile: mentre nel primo caso la già più volte citata decisione n. 404 del 1988 della
Consulta fornisce al supersite una qualche forma di tutela, facendolo subentrare automaticamente
(ed anche invito domino) nel rapporto locatizio ex latere conductoris, il secondo soggetto sopra
individuato dovrà senz’altro (in assenza di apposite disposizioni del defunto) «fare le valigie» ( 3)!
Per la casa in affitto, si diceva, è stato lo stesso giudice delle leggi ( 4) a dichiarare
l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della l. c.d. sull’«equo canone», nella parte in cui non
prevedeva che, in caso di morte del conduttore di un immobile adibito ad uso abitativo, gli
succedesse nel contratto il convivente superstite ( 5).
La giurisprudenza successiva ha rilevato che la convivenza, ai fini dell’applicazione della
citata norma, deve essere accertata alla data del decesso del conduttore, a nulla rilevando che gli
aventi diritto alla successione nel contratto siano o meno rimasti nell’alloggio locato dopo la morte
del dante causa, giacché la successione mortis causa nel contratto di locazione è fatto giuridico
istantaneo, che si realizza all’atto stesso della morte del conduttore, restando insensibile agli
(1) Cfr. OBERTO, Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti interessati e regolamentazione dei rapporti
patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661 ss.
(2) DECIO, In Primam Secundamque Digesti Veteris. Item in Primam ac Secundam Codicis Partem Commentaria,
Lugduni, 1547, f. 251. L’insigne umanista rispondeva in tal modo negativamente al quesito se il passo del Codex di
Giustiniano relativo ai (pur modestissimi, in allora) diritti successori del coniuge superstite (cfr. l. maritus, C., de
carboniano edicto: C. 6. 18. 1.) fosse estensibile ai concubinarii.
(3) V. Corte cost., 26 maggio 1989, n. 310, che respinge la questione di legittimità costituzionale degli artt. 565 e
582 c.c., nella parte in cui non parificano il convivente non unito in matrimonio al coniuge; in tema di trattamento
successorio della famiglia di fatto cfr. anche Corte cost., 12 maggio 1977, n. 76; Corte cost., 8 maggio 1976, n. 71.
(4) Corte cost., 7 aprile 1988, n. 404, cit.
(5) Sul tema, amplius, COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, cit., p. 981 ss.; BUSNELLI e SANTILLI,
op. cit., p. 789 s.; per l’ipotesi della successione nel contratto del convivente in caso di allontanamento del partner
dall’alloggio comune ponendo termine alla convivenza: Corte cost., 7 aprile 1988, n. 423, in Foro it., 1988, I, c. 2514;
principio esteso da Cass., 10 ottobre 1997, n. 9868, cit., quand’anche lo stato di convivenza non sia conosciuto dal
locatore.
120
accadimenti successivi ( 6).
I giudici, nel sottolineare la necessità di un accertamento circa l’effettività della convivenza,
hanno peraltro posto significativamente in luce come la speciale norma di cui all’art. 6 cit. precluda
l’applicabilità della disciplina generale (art. 1614 c.c.), da ritenersi implicitamente abrogata, e
dunque la successione nel contratto degli eredi ( 7). Il convivente more uxorio, dunque, in virtù della
disciplina di cui all’art. 6, cit., così come risultante dall’intervento del giudice delle leggi, succede
nel contratto indipendentemente dalla circostanza che manchino eredi del conduttore e dunque
anche in presenza di figli legittimi del conduttore convivente ( 8).
Potrà aggiungersi che, in tema di edilizia residenziale pubblica, l’art. 17, l. 17 febbraio 1992,
n. 179, dopo aver disposto che, in caso di decesso del socio di una cooperativa edilizia, assegnatario
di un alloggio di edilizia economica e popolare, gli succedono il coniuge e i figli, prevede che «in
mancanza del coniuge e dei figli minorenni, uguale diritto è riservato ai conviventi more uxorio e
agli altri componenti del nucleo familiare, purché conviventi alla data del decesso e purché in
possesso dei requisiti in vigore per l’assegnazione degli alloggi. La convivenza, alla data del
decesso, deve essere instaurata da almeno due anni ed essere documentata da apposita certificazione
anagrafica od essere dichiarata in forma pubblica con atto di notorietà da parte della persona
convivente con il socio defunto».
Al di là delle disposizioni appena citate, appare evidente che soltanto gli strumenti
dell’autonomia privata potranno venire incontro alle esigenze (abitative e non) del soggetto
superstite nel rapporto more uxorio ( 9).
Al riguardo, la prima soluzione immaginabile è, ovviamente, quella di disporre tramite
testamento o donazione ( 10).
Potrà dunque citarsi una decisione di legittimità del 2011 ( 11), in relazione alla domanda
proposta dalla ex convivente more uxorio nei confronti degli eredi del defunto partner, per sentir
accertare il suo diritto di usufrutto vitalizio sull’abitazione di proprietà del de cuius, riconosciutole
dallo stesso con testamento olografo. Considerato che l’uomo aveva venduto la casa, espressamente
menzionata nel testamento, per trasferirsi con la convivente in altra abitazione, mentre la
disposizione testamentaria non era stata altrettanto modificata, il tribunale e la corte d’appello
avevano rigettato l’istanza della convivente, ritenendo che il diritto di abitazione si riferisse
esclusivamente all’immobile menzionato nell’atto di ultima volontà e che al momento della morte
non si trovava più nella disponibilità della parte.
La Cassazione, per contro, ha ribaltato il ragionamento, rinviando ad altra sezione della corte
d’appello, al fine dell’accertamento di una volontà del testatore, sulla base del complesso della
scheda testamentaria e della mancata revoca della disposizione di usufrutto, eventualmente diretta
non tanto all’attribuzione di un diritto di abitazione con riguardo a un determinato bene, quanto
piuttosto all’apprestamento di una tutela nei confronti di colei che era stata sempre al fianco del
testatore, riservandole quindi in concreto un usufrutto sull’abitazione nella quale i conviventi
avevano convissuto, indipendentemente dall’individuazione specifica del bene. Si può dunque
concludere sul punto rimarcando che, come osservato in dottrina, la riconosciuta «ambulatorietà»
(6) Cass., 1° agosto 2000, n. 10034, in Giur. it., 2001, p. 902.
(7) Cass., 23 novembre 1990, n. 11328, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 341; Cass., 22 luglio 1991, n. 8155, in Arch. civ.,
1992, p. 94; Cass., 21 aprile 1992, n. 4767, ibidem, p. 778; App. Roma, 14 marzo 1990, ivi, 1991, p. 573; Trib. Roma, 8
giugno 1992, in Giust. civ., 1982, I, p. 2195; Pret. Genova, 24 settembre 1994, in Arch. civ., 1994, p. 845; Pret. Capri,
31 dicembre 1990, ivi, 1991, p. 350; contra G. GABRIELLI e PADOVINI, La locazione di immobili urbani, Padova, 1994,
p. 753 s.
(8) Cfr. Cass. 8 giugno 1994, n. 5544, in Foro it., 1994, I, c. 3438.
(9) In dottrina cfr., ex multis, OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; ID., Famiglia e
rapporti patrimoniali. Questioni di attualità, cit., p. 1004 ss.; ID., Famiglia di fatto e convivenze: tutela dei soggetti
interessati e regolamentazione dei rapporti patrimoniali in vista della successione, cit., p. 661 ss.; v. inoltre ASPREA, La
famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 172 ss.; ID., La famiglia di fatto, cit., p. 210 ss.; MOSCATI, Rapporti di
convivenza e diritto successorio, in AA. VV., I contratti di convivenza, a cura di Moscati e Zoppini, cit., p. 140 ss.;
COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, in AA. VV., Il diritto di famiglia, Trattato diretto da Bonilini e
Cattaneo, I. Famiglia e matrimonio, 2, cit., p. 990 ss.; FRANZONI, Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more
uxorio, cit., p. 485 ss.
(10) SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 407; COPPOLA, La successione del convivente more uxorio, cit., p. 990 ss.
(11) Cass., 20 dicembre 2011, n. 27773, in Fam. dir., 2012, p. 125, con nota di CALVO.
121
del legato d’usufrutto vita natural durante aiuta a vedere nella disposizione testamentaria in esame
uno dei modi con cui l’autonomia privata viene in soccorso alla tutela pro convivente ( 12).
2. Contratti di convivenza ed effetti post mortem. Possibili negozi post mortem. Generalità.
Venendo ora alla disamina dei possibili rimedi «preventivi» di fonte contrattuale, va osservato
che una delle clausole di cui all’estero viene con maggior frequenza raccomandato l’inserimento nei
contratti di convivenza concerne proprio la previsione di effetti giuridici destinati a prodursi dopo la
morte di uno dei contraenti e a beneficio dell’altro, quale strumento al fine di assicurare la
tranquillità economica del partner superstite ( 13).
Nel nostro ordinamento, però, la proposta viene inevitabilmente a scontrarsi con il divieto dei
patti successori ( 14), il quale, come noto, investe non soltanto i negozi con cui un soggetto dispone
della propria successione, bensì anche quelli con i quali ci si obbliga a istituire erede taluno ( 15),
come in quei casi, su cui la giurisprudenza ha già avuto modo di pronunziarsi, che vedevano la
promessa di istituzione di erede scambiarsi con l’impegno della controparte di accudire alle
faccende domestiche del de cuius ( 16), ovvero di fornire a quest’ultimo alloggio e assistenza per il
resto dei suoi giorni ( 17).
Ma non basta. La dottrina e la giurisprudenza dominanti vanno da tempo affermando la nullità
non solo del patto successorio, ma anche del testamento che vi abbia dato esecuzione, dal momento
che la presenza di un impegno a testare in un determinato modo escluderebbe la spontaneità
dell’atto di ultima volontà, pur restando salva la possibilità (per il vero assai remota) di una
convalida ex art. 590 c.c. ( 18). La gravità di tali conseguenze deve indurre dunque alla massima
attenzione circa l’eventuale predisposizione nel contratto in esame di effetti destinati a operare sul
patrimonio di uno dei conviventi dopo la sua morte. Al riguardo, c’è da chiedersi quale sia
l’interesse dei partners a concludere un patto successorio e in quale modo lo stesso possa essere
soddisfatto mediante negozi che non siano vietati, né direttamente, né mediante la regola della frode
alla legge.
Sul primo interrogativo va detto che l’interesse in discorso sembra essere quello di operare
trasferimenti di diritti che godano, a un tempo, delle due caratteristiche dell’irrevocabilità, da un
lato, e della operatività dal momento della morte del dante causa dall’altro ( 19). È chiaro che il
(12) Così CALVO, Il legato di usufrutto “ambulatorio” pro convivente, Nota a Cass., 20 dicembre 2011, n. 27773, in
Fam. dir., 2012, p. 130.
(13) Suggerisce, tra gli altri, l’inclusione di un Erbvertrag nel contratto tra i conviventi KUNIGK, Die
Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem Zusammenleben, cit., p. 128. Per i sistemi
di common law cfr. WEITZMAN, Legal regulation of marriage, cit., p. 1253. Per una più approfondita disamina della
questione e per i necessari rinvii cfr. OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 295 ss.; per la dottrina
successiva cfr. DEL PRATO, Patti di convivenza, cit., p. 986 s.; COPPOLA, La successione del convivente more uxorio,
cit., p. 695 ss.
(14) GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, cit., p. 165. È chiaro che ci si intende qui riferire ai soli patti
successori istitutivi (detti anche confermativi), ex art. 458, prima parte, c.c.
(15) Cfr. per tutti FERRI, Successioni in generale, nel Commentario del codice civile a cura di Scialoja e Branca,
Bologna-Roma, 1964, p. 83 ss.; GROSSO e BURDESE, Le successioni. Parte generale, Torino, 1977, p. 94; DE GIORGI,
voce Patto successorio, in Enc. dir., XXXII, Milano, 1982, p. 535. Nello stesso senso è orientata la giurisprudenza: v.
Cass., 10 aprile 1964, n. 835, in Giust. civ., 1964, I, p. 1604; Cass., 24 luglio 1971, n. 2477, in Rep. Foro it., 1971, voce
«Successione ereditaria», n. 31; Cass., 21 aprile 1979, n. 2228, in Rep. Foro it., 1979, voce «Successione ereditaria», n.
55.
(16) Cass., 10 aprile 1964, n. 835, cit.; cfr. anche Cass., 8 marzo 1985, n. 1896, in Rep. Foro it., 1985, voce «Lavoro
(rapporto)», n. 496. Nello stesso senso v. in dottrina DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., 542 s.; PALAZZO, I negozi
trans-morte nell’ambito familiare, in AA. VV., I trasferimenti patrimoniali nell’ambito della famiglia. Aspetti civili e
tributari. Convegno organizzato dal comitato Regionale Notarile della Sicilia Taormina 20 e 21 novembre 1987,
Palermo, 1987, p. 95 s.
(17) Cass., 6 gennaio 1981, n. 63, in Rep. Foro it., 1981, voce «Successione ereditaria», n. 20.
(18) DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., p. 547. In giurisprudenza v. Cass., 22 febbraio 1974, n. 527, in Rep.
Foro it., 1974, voce «Successione ereditaria», n. 20.
(19) Diversa è la posizione di PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale, Napoli, 1983, p. 3 e passim,
secondo cui l’interesse che giustificherebbe la conclusione dei patti successori sarebbe rivolto a realizzare trasferimenti
122
primo dei due obiettivi potrebbe essere agevolmente raggiunto mercé il contratto (si pensi
soprattutto alla donazione), che presenta però anche l’«inconveniente» di determinare la perdita
immediata dei diritti trasferiti, mentre il secondo potrebbe essere conseguito con il testamento, che
peraltro è un atto per sua natura revocabile usque ad vitae supremum exitum.
I requisiti comunemente indicati come caratteristici dei patti successori istitutivi (o
confermativi) sono, come noto, i seguenti: a) che la convenzione sia stipulata prima dell’apertura
della successione; b) che con essa il promittente abbia inteso provvedere in tutto o in parte alla
propria successione, privandosi così dello ius poenitendi; c) che l’acquirente abbia contrattato o
stipulato come avente diritto alla successione stessa; d) che i diritti oggetto del patto facciano parte
di una successione ancora da aprirsi; e) che l’acquisto avvenga successionis causa, e non ad altro
titolo (20). Di particolare importanza appare dunque quest’ultimo elemento, posto che i contratti di
cui si discute sono sicuramente stipulati prima dell’apertura della successione e (almeno
generalmente) su diritti destinati a far parte della stessa. Occorre perciò chiedersi se vi siano atti
destinati a produrre effetti (o, quanto meno, taluni effetti) solo dopo la morte del titolare dei diritti
alienati, ma che possano ciò non di meno qualificarsi come inter vivos.
È noto che ormai da diversi anni è stata individuata una nuova categoria di negozi tra vivi,
definiti post mortem, nei quali l’evento del decesso di uno dei contraenti non è considerato o elevato
dalle parti a causa dell’attribuzione, bensì è ritenuto un mero requisito condizionante la produzione
degli effetti definitivi propri del negozio, senza escludere la produzione di effetti limitati o
prodromici, peculiari al contratto sottoposto a condizione sospensiva, consistenti nell’aspettativa
tutelata dalla legge (art. 1356 c.c.) dell’acquisto del diritto ( 21). Non è questa la sede per una
disamina dei singoli istituti: sarà sufficiente, ai fini della presente indagine, un richiamo a quelli che
maggiormente si prestano a soddisfare le esigenze di tipo successorio proprie della coppia di fatto.
Si è già avuto modo di dire che la donazione pura e semplice è (problemi di riduzione a parte)
l’istituto destinato a realizzare nel migliore dei modi l’interesse del beneficiario, in quanto atto, a
differenza del testamento, essenzialmente irrevocabile (se non nelle circoscritte ipotesi
dell’ingratitudine e della sopravvenienza di figli); essa presenta peraltro la già segnalata
controindicazione di privare immediatamente il donante della disponibilità dei beni donati, cui il
disponente in vita non intende invece rinunziare. Quest’effetto indesiderato può essere, almeno in
parte, evitato per mezzo della donazione con riserva di usufrutto a vantaggio del donante (art. 796
c.c.), la cui validità è fuori discussione, in quanto in essa il trasferimento della proprietà è
immediato ( 22). Dibattuta è invece la possibilità di sottoporre gli effetti di una donazione alla morte
del disponente: tale eventualità va però negata, tanto con riguardo alla cosiddetta donatio mortis
causa, la quale non si distingue da un patto successorio istitutivo a titolo gratuito ( 23), quanto con
riferimento alla liberalità sottoposta alla condizione della morte (si moriar) o della premorienza (si
praemoriar) del donante ( 24), la cui invalidità andrebbe comunque affermata sotto il profilo della
frode alla legge ( 25).
soggetti ad una qualche forma di revoca da parte del disponente. Sembra invece che, almeno nella maggior parte dei
casi, il desiderio di colui che intende disciplinare la propria successione con un atto inter vivos – specie se in favore di
una persona cui il disponente è legato da speciali vincoli di carattere affettivo – sia quello non già di lasciarsi aperto uno
spiraglio per un eventuale pentimento, bensì di operare un trasferimento dotato della definitività, anche se non
immediatamente efficace.
(20) Cfr. GIANNATTASIO, Delle successioni. Disposizioni generali. Successioni legittime, nel Commentario del
codice civile, a cura di magistrati e docenti, Torino, 1971, p. 2821; DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., p. 535; cfr.
anche Cass., 22 luglio 1971, n. 2404, in Foro it., 1972, I, c. 700.
(21) Cfr. i richiami in OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 300.
(22) Cfr. DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., p. 536; PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale,
cit., p. 50 ss.; ID., I negozi trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 79 ss.
(23) DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., p. 536 s.; Cass., 9 aprile 1947, n. 526, in Mon. trib., 1947, p. 143; Cass.,
27 settembre 1954, n. 3136, in Giust. civ., 1955, I, p. 244. Suggerisce un’applicazione della donazione con riserva di
usufrutto al campo dei rapporti tra conviventi more uxorio MAZZOCCA, La famiglia di fatto. Realtà attuale e
prospettive, cit., p. 114 ss.
(24) TORRENTE, Variazioni sul tema della donazione «mortis causa», in Foro it., 1959, I, c. 580; DE GIORGI, voce
Patto successorio, cit., p. 536 ss.
(25) Invero, la semplice costituzione di un’aspettativa di diritto a beneficio del donatario non sembra discostarsi di
123
Un espediente ugualmente poco produttivo al fine di eludere in qualche modo le aspettative
dei legittimari potrebbe essere costituito dalla… trasformazione del convivente in legittimario
mediante adozione, ovviamente a condizione che di tale atto sussistano i presupposti. Il rimedio è
però sconsigliabile per il suo carattere intimamente irreversibile: in caso di rottura, invero, i
partners si vedrebbero condannati, paradossalmente, a restare uniti per il futuro da un rapporto (a
differenza del matrimonio, addirittura) indissolubile ( 26).
3. Segue. Il contratto a favore di terzo. Rendita vitalizia e mantenimento vitalizio (rinvio).
Uno strumento che può consentire di raggiungere lecitamente risultati sostanzialmente
analoghi a quelli di un patto successorio è costituito dal contratto a favore di terzo con prestazione
da effettuarsi dopo la morte dello stipulante (art. 1412 c.c.), e – in particolare – dall’assicurazione
sulla vita a favore di un terzo (art. 1920 ss. c.c.). In entrambi i casi, infatti, la causa dell’acquisto da
parte del terzo (cioè il convivente superstite) è rappresentata non già dalla morte dello stipulante,
ma dal contratto. Inoltre, ogni dubbio in punto frode alla legge è eliminato dall’evidente diversità di
«risultati giuridici» rispetto al patto successorio, posto che il rapporto contrattuale intercorre non già
fra il beneficiario e lo stipulante, ma tra quest’ultimo e il promittente. Per giunta, il diritto
acquistato, stando almeno all’opinione prevalente, non proviene dal patrimonio dello stipulante, ma
è un rapporto autonomo che trae la sua origine dal contratto e che si trasmette al terzo inter vivos
( 27).
La tranquillità del convivente «debole» ben potrà, dunque, essere garantita anche per il
periodo successivo alla morte del partner per mezzo di un contratto di assicurazione sulla vita di
quest’ultimo, l’impegno a sottoscrivere (magari reciprocamente) il quale può essere assunto nel
contratto stesso di convivenza ( 28). Con riferimento a quest’ultima clausola andrà osservato che un
eventuale inadempimento rispetto a tale obbligo esporrebbe gli eredi del soggetto inadempiente al
risarcimento dei danni verso il superstite, che potrebbe così richiedere a essi il pagamento della
somma che avrebbe ottenuto qualora il de cuius avesse concluso l’assicurazione.
Sempre in relazione al contratto a favore di terzi e a quello di assicurazione sulla vita, si
potrebbe suggerire di inserire nello stesso contratto di convivenza (per iscritto) quella rinunzia al
potere di revoca del beneficio attribuito al terzo prevista dagli artt. 1412 e 1921 cpv. c.c., per il caso
la prestazione debba essere effettuata dopo la morte dello stipulante, e che, secondo taluni,
costituirebbe un’eccezione al divieto dei patti successori ( 29); ad essa dovrebbe accompagnarsi,
nell’atto medesimo, la dichiarazione del beneficiario di voler profittare del beneficio, dichiarazione
che, ai sensi delle disposizioni testé citate, produce l’effetto di paralizzare un’eventuale revoca ( 30).
Ancora nell’ambito delle disposizioni a favore di terzo potrebbe suggerirsi la costituzione di
un deposito bancario con intestazione del libretto di risparmio nominativo al terzo, ma con riserva
molto da quello che è l’effetto tipico del fenomeno successorio, vale a dire il trasferimento di un diritto per effetto del
decesso di un soggetto: risulterebbe così evidente quell’identità di «risultati giuridici» che (a differenza della semplice
identità di «risultati economici») determina l’illiceità della causa ex art. 1344 c.c. (cfr. SCOGNAMIGLIO, Dei contratti in
generale, nel Commentario del codice civile, a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1970, p. 345; nel senso della
nullità per fraus legi sembrano orientati anche DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., p. 536 ss. e IEVA, I fenomeni c.d.
parasuccessori, in Riv. notar., 1988, I, p. 1190 s.).
(26) Per un approfondimento delle questioni legate all’adozione del convivente e per gli ulteriori rinvii cfr. OBERTO,
I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 316 ss.
(27) DE GIORGI, voce Patto successorio, cit., p. 538 ss.; PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale,
cit., p. 76 ss; ID., I negozi trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 92 ss.; IEVA, I fenomeni c.d. parasuccessori, cit., p.
1149 ss.; cfr. inoltre MAJELLO, L’interesse dello stipulante nel contratto a favore di terzi, Napoli, 1962, p. 201 s.;
MOSCARINI, I negozi a favore di terzo, Milano, 1970, p. 219 s.
(28) In questo senso v. KUNIGK, Die Lebensgemeinschaft, Rechtliche Gestaltung von ehelichem und eheähnlichem
Zusammenleben, cit., p. 128.
(29) Sull’argomento cfr. PALAZZO, I negozi trans-morte nell’ambito familiare, cit., p. 93; IEVA, I fenomeni c.d.
parasuccessori, cit., p. 1155.
(30) Nel caso di assicurazione sulla vita a favore del convivente superstite, poi, la rinunzia del contraente e la
dichiarazione del beneficiario vanno comunicate all’assicuratore: cfr. art. 1921, secondo comma, c.c.
124
in capo al solo costituente della facoltà di effettuare prelevamenti, e con conferimento del diritto di
prelievo all’intestatario sospensivamente subordinato alla morte del primo: il marchingegno è già
uscito indenne da almeno un vaglio giurisprudenziale ( 31). Un’ulteriore applicazione del contratto a
favore di terzi può poi essere ravvisata nella costituzione di una rendita vitalizia a vantaggio del
convivente, oppure di un vitalizio alimentare, in relazione ai quali occorrerà però avere l’accortezza
di pattuire espressamente l’intrasmissibilità del potere di revoca agli eredi dello stipulante ( 32).
Non va però trascurato che tutti i negozi in questione – come del resto ogni disposizione a
favore di terzi compiuta animo donandi – assumono il carattere di donazioni indirette e sono quindi
assoggettabili a riduzione.
4. Segue. Acquisto en tontine, acquisto «incrociato», riconoscimenti di debito.
Abbandonando le figure negoziali tendenti ad assicurare forme di rendita o comunque diritti
di godimento (obbligatori o reali) a favore del convivente superstite e tornando al problema
dell’individuazione dei modi in cui sia eventualmente possibile predisporre forme di acquisto della
proprietà di beni in capo al partner, ci si imbatte subito in due rimedi suggeriti in Francia, ma che
non sembrano avere ancora suscitato interesse da noi.
Il primo concerne il cosiddetto acquisto en tontine, con cui si pattuisce, all’atto della stipula di
un contratto di acquisto da parte di entrambi i conviventi, che il primo di essi a morire si
considererà come non fosse mai stato titolare del diritto, che si riterrà invece come sin ab initio
trasferito in capo al solo superstite. Un medesimo avvenimento, cioè la morte di uno dei due
partners, fungerebbe così, al contempo, da condizione risolutiva dell’acquisto in capo al premorto e
sospensiva del trasferimento in capo all’altro. La clausola, non prevedendo (a differenza di quella
detta d’accroissement, colpita da nullità), un trasferimento mortis causa, sfugge al divieto dei patti
successori ( 33).
In Italia l’unico precedente in termini sembra costituito da un’ormai remota pronunzia di
legittimità ( 34), che ha ricondotto alla figura del patto successorio vietato «l’atto con il quale due
soggetti comprino in comune la proprietà di un immobile, contestualmente pattuendo che la quota
ideale di comproprietà da ciascuno acquistata debba successivamente pervenire a chi di essi
sopravviva, in quanto quest’ultimo acquista l’altra quota non dall’originario venditore che l’aveva
già alienata al soggetto premorto, ma direttamente dal medesimo, al di fuori delle prescritte forme
di successione mortis causa». Dalla lettura della massima non è dato evincere se il trasferimento
post mortem della quota fosse o meno dotato di carattere retroattivo. La motivazione, del resto,
(31) Cfr. Trib. Catania, 5 marzo 1958, in Banca, borsa, tit. cred., 1961, II, p. 311, con nota di MAJELLO, che ha
negato che l’espediente possa ritenersi in violazione del divieto dei patti successori; sull’argomento cfr. anche NICOLÒ,
Disposizioni di beni «mortis causa» in forma «indiretta», in Riv. notar., 1967, I, p. 641 ss., secondo cui invece la
pattuizione in esame sarebbe nulla per frode alla legge.
(32) PALAZZO, Autonomia contrattuale e successioni anomale, cit., p. 95; ID., I negozi trans-morte nell’ambito
familiare, cit., p. 96 ss.
(33) Cfr. Cass., ch. mixte, 27 novembre 1970, in D., 1971, p. 81; Cass. Civ., 11 janvier 1983, ivi, 1983, p. 501; AA.
VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 403 ss.; MORIN, La clause d’accroissement, in
D., 1971, Chron., p. 55 ss.; CHAPPERT, Droit d’usage et d’habitation et pacte tontinier, in Defrénois, 1999, n. 6, p. 330
ss. Per avere un’idea del successo che Oltralpe ha avuto questa clausola basterà digitare l’espressione «achat en tontine»
o quella «pacte tontinier» in qualsiasi motore di ricerca su Internet. La terminologia deriva, come noto, dalla «tontina»,
contratto di investimento di tipo assicurativo proposto dal banchiere italiano Lorenzo de Tonti alla Corte di Francia
nella seconda metà del Seicento. L’idea era anche legata all’emissione di un prestito nazionale basato su questo
meccanismo finanziario-assicurativo. Il contraente del prestito avrebbe corrisposto allo stato francese un capitale ed in
cambio quest’ultimo avrebbe pagato al contraente una rendita vitalizia. I contraenti del prestito venivano divisi in
«classi di età» ed alla morte di ciascuno di essi, le sue quote di rendita ancora dovute sarebbero state suddivise fra i
rimanenti, fino alla morte dell’ultimo appartenente alla classe di età ed alla emissione del prestito, quando lo stato
avrebbe cessato i pagamenti. La tontina è oggi vietata, sebbene non manchino tentativi, in questi tempi disperati, di
riesumazioni di istituti tutto sommato analoghi, pur se sotto le attraenti e menzognere vesti di «nuovi prodotti
finanziari» (cfr. ad es. RODOTÀ, Se le banche lanciano i bond della morte, in Repubblica, 8 febbraio 2012, p. 1).
Nell’espressione «pacte tontinier» qui in discussione, invece, il richiamo alla tontina sta solo ad indicare il riferimento
ad un principio del genere: «tutto il patrimonio va all’ultimo sopravvissuto».
(34) Cfr. Cass., 18 agosto 1986, n. 5079, in Rep. Foro it., 1986, voce «Successione ereditaria», n. 33.
125
contiene un unico fugace accenno (si tratta, in particolare, dell’uso del verbo «ritrasferire») dal
quale si può comprendere che le parti avevano previsto un trasferimento successivo della quota del
premoriente al superstite ( 35).
L’altro espediente suggerito dalla pratica d’Oltralpe è costituito dall’acquisto «incrociato» in
capo, rispettivamente, all’uno e all’altro dei conviventi, della nuda proprietà su di una metà del bene
e dell’usufrutto sulla rimanente metà. Ne consegue che, alla morte del primo degli acquirenti, il
superstite acquista la proprietà piena della quota di cui era nudo proprietario, mentre rimane
usufruttuario dell’altra quota, così evitando di perdere la disponibilità del bene stesso ( 36).
Con notevole cautela deve poi essere accolto l’ulteriore suggerimento, conosciuto da tempo
dalla prassi francese, relativo al rilascio di dichiarazioni di debito da parte di un convivente a
vantaggio dell’altro ( 37), così che, al momento dell’apertura della successione, quest’ultimo «possa
assumere la posizione di creditore nei confronti di quel compendio dal quale è escluso come erede»
( 38).
Di tutta evidenza appare infatti la necessità di evitare che le predette dichiarazioni si
trasformino in facile strumento di ricatto ai danni del partner che le ha rilasciate. Così, se ne
potrebbe ipotizzare un’emissione vicendevole e su identiche somme, di modo che gli atti ricognitivi
finirebbero con l’«annullarsi» reciprocamente qualora uno dei due intendesse farne uso in vita
dell’altro. In tal caso occorrerebbe però anche adottare accorgimenti idonei a evitare che le
«controdichiarazioni» confessorie in possesso del convivente deceduto per primo cadessero in mani
estranee (si pensi a eventuali altri eredi). La soluzione migliore sembra quella di affidare le stesse a
un depositario (per esempio a un notaio) scelto di comune accordo, con l’impegno da parte di
quest’ultimo di farne consegna al convivente superstite oppure, durante la vita di entrambi, soltanto
sulla base di una richiesta congiunta.
5. Conclusioni sui possibili negozi post mortem.
Al fine di giungere a qualche conclusione utile anche dal punto vista pratico per la coppia di
fatto che intenda assicurare la tranquillità economica del convivente superstite con strumenti che si
pongano nell’ottica dei negozi inter vivos, e volgendo innanzi tutto l’attenzione all’istituto di cui
all’art. 2645-ter c.c. ( 39), andrà tenuto presente che, in base a quanto sopra illustrato, rimane
un’importante ragione di distinzione della fattispecie descritta dall’art. cit. rispetto al trust, nel
quale, come già ricordato ( 40), il fenomeno del ritrasferimento al settlor o del trasferimento ad un
soggetto distinto dal trustee costituisce un elemento naturale del trust non autodichiarato ( 41). Un
elemento che peraltro viene sovente a porre, con riguardo alla nostra legislazione, seri problemi di
compatibilità con taluni istituti del diritto successorio (e di ammissibilità stessa del trust, ai sensi
dell’art. 15 della Convenzione dell’Aja): la clausola di ritrasferimento, se legata alla morte del
trustee, potrebbe invero incorrere in nullità per violazione del divieto dei patti successori e, se
contenuta in una disposizione mortis causa, per violazione del principio che fa divieto di creare
nelle successioni un ordo successivus.
Deve dunque darsi per confermato che, in assenza di disposizioni normative che
espressamente si occupino della successione del convivente, il testamento costituisce l’unico modo
(35) Per uno studio italiano sul tema cfr. CALOGERO, «Tontine» e «achat tontinier». Ovvero, di una interessante
vicenda francese, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 743 ss.
(36) AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France, cit., p. 408.
(37) La giurisprudenza d’Oltralpe suole riconoscere in tali atti delle donazioni dissimulate: v. Cass. Civ., 2 février
1966, in Bull. civ., 1966, I, n. 84, p. 63; Cass. Civ., 8 julliet 1975, ivi, 1975, I, n. 225, p. 190; Cass. Civ., 22 octobre
1975, ivi, 1975, I, n. 291, p. 243; cfr. inoltre in AA. VV., Couple et modernité, 84ème congrès des notaires de France,
cit., p. 433.
(38) Cfr. MAZZOCCA, op. cit., p. 113.
(39) Su cui v. supra, Cap. VI, per totum.
(40) V. supra, Cap. V, §§ 7 e 8; Cap. VI, § 2.
(41) Sul fatto che nel trust vi possano essere, rispetto ad un medesimo vincolo di destinazione, beneficiari immediati
e beneficiari finali, cfr. LUPOI, L’atto istitutivo di trust, Milano, 2005, p. 94 ss.; PETRELLI, Formulario notarile
commentato, III, 1, Milano, p. 1024, 1036; ID., La trascrizione degli atti destinazione, cit., p. 13.
126
per operare il trasferimento mortis causa di diritti dall’uno all’altro dei partners, mentre il ricorso ai
negozi post mortem sopra enucleati ( 42) potrà valere, per lo più, per assicurare la tranquillità
economica della parte «debole», mercé negozi a favore di terzo che il convivente «forte» avrà
dovuto avere l’accortezza di stipulare in vita.
Tanto il trust (sempre, beninteso, che si ritenga l’istituto ammissibile, pur in difetto di
elementi di internazionalità della fattispecie), quanto il vincolo ex art. 2645-ter c.c., infine, paiono
adatti ad assicurare quella sicurezza economica cui si è appena fatto riferimento più attraverso
l’erogazione di redditi (derivanti dal capitale vincolato) o la messa a disposizione dei beni vincolati
(si pensi alla casa d’abitazione), che non attraverso la traslazione post mortem della proprietà su
cespiti determinati.
Così ad esempio, il già più volte menzionato «fondo patrimoniale tra conviventi», grazie
all’elevato livello di «duttilità» dello strumento ex art. 2645-ter c.c. rispetto a quello delineato dagli
artt. 167 ss. c.c. ( 43) (ecco, finalmente, una conseguenza positiva della tecnica legislativa da paese
del Terzo Mondo che sembra caratterizzare il legislatore italiano del terzo millennio!), ben potrebbe
spingersi a prevedere l’erogazione del mantenimento di uno dei membri del ménage de fait, anche
dopo la rottura di quest’ultimo, o dopo la morte del compagno, per tutta la vita del superstite.
6. La morte del convivente more uxorio a seguito dell’illecito compiuto da un terzo.
Diverso da quelli sin qui affrontati è il tema della configurabilità di un diritto al risarcimento
del danno subito dal convivente a seguito dell’uccisione del partner ( 44). È noto che qui, se
inizialmente la giurisprudenza escludeva siffatta possibilità ( 45), in un secondo momento è stato
riconosciuto il risarcimento, dapprima del danno morale e poi del danno patrimoniale.
Come rilevato in dottrina ( 46), i primi segnali verso tale cambiamento di prospettiva vennero
avviati da parte della giurisprudenza di merito, la quale, traendo spunto dal radicale mutamento dei
valori e dagli sconvolgimenti politici e culturali che ne seguirono, anche a seguito della riforma del
diritto di famiglia del 1975, segnalò il riconoscimento di alcune poste di danno in capo al partner
superstite, a causa della dipartita del congiunto cagionata dal terzo sulla base di un giudizio
connotato da equità e giustizia sostanziale ( 47).
La giurisprudenza formatasi a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo ritiene dunque
che «il diritto al risarcimento da fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto –
con riguardo sia al danno morale, sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di
uno stabile contributo economico apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al
convivente more uxorio del defunto stesso, quando risulti concretamente dimostrata siffatta
relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza morale e materiale» ( 48).
(42) Cfr. supra, §§ 2 – 4.
(43) Che è, ovviamente, comunque inapplicabile alla famiglia di fatto.
(44) Per un’esaustiva analisi al riguardo cfr. BARDARO, Il convivente della vittima, in AA. VV., Trattato dei nuovi
danni, diretto Cendon, III, Uccisione del congiunto. Responsabilità familiare. Affido, Adozione, Padova, 2011, p. 215
ss.
(45) Cfr., ex multis, Cass. pen., 21 settembre 1981, n. 8209, in Dir. e prat. ass., 1982, p. 716; Cass. pen., 5 novembre
1982, n. 5410; Cass. pen., 7 luglio 1992, in Giur. it., 1993, II, c. 659. Come osservato da BARDARO, Il convivente della
vittima, cit., p. 216, «la ragione di tale presa di posizione veniva motivata sulla base della valutazione che, mancando
una famiglia legittima, la pretesa in parola si risolveva in una aspettativa di mero fatto, come tale non tutelata, poiché
nel nostro ordinamento giuridico non vi sono norme che estendono al rapporto di convivenza gli stessi diritti e obblighi
previsti per la famiglia fondata sul matrimonio».
(46) Cfr. BARDARO, Il convivente della vittima, cit., p. 216 s.
(47) Cfr. Assise Genova, 18 marzo 1982, in Giur. merito, 1983, p. 433; Trib. Verona, 3 dicembre 1980, in Resp. civ.
prev., 1981, p. 74, che ammette l’azione ex art. 2059 c.c., mentre viene negato il risarcimento dei danni patrimoniali, sul
presupposto che in base al diritto positivo il coniuge di fatto non vanta, verso il partner, alcuna pretesa patrimoniale
quantificabile in termini di diritto soggettivo. Cfr. poi anche Cass. pen., 4 febbraio 1994, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996,
371, con nota di PEYRON.
(48) Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, in Giust. civ., 1994, I, p. 1849; in Giur. it., 1995, p. 1366; dell’avvenuta
equiparazione mediante tale pronuncia della posizione del convivente a quella dei congiunti della vittima dà atto Cass.
31 maggio 2003, n. 8828, in Foro it., 2003, I, c. 2272. Sul tema, per i richiami alla dottrina, cfr. altresì ASPREA, La
127
Sarà opportuno considerare che, per ciò che attiene alla dottrina, quest’ultima, sin dagli anni
Sessanta dello scorso secolo aveva posto in luce la contraddittorietà della posizione dell’«antica»
giurisprudenza nella misura in cui altre decisioni, per contro, ritenevano ammissibile il risarcimento
del danno patrimoniale sofferto per effetto della morte di un congiunto nella forma del danno
potenziale, consistendo il danno, pur nell’assenza di un obbligo alimentare attuale, nell’aspettativa
di una futura prestazione alimentare ( 49).
Come rilevato dagli Autori più recenti ( 50), nel revirement del 1994 i giudici di legittimità
hanno affermato che, sussistendo un rapporto diretto fra il danno e il fatto lesivo, tutti coloro che
abbiano subito un danno, siano essi legati al soggetto leso da un rapporto di natura familiare o
parafamiliare, hanno diritto al risarcimento. Invero, per quanto attiene al danno morale, anche il
convivente more uxorio patisce una sofferenza a seguito della perdita del partner in termini
analoghi a quanto accade nella famiglia legittima; con riferimento invece al danno patrimoniale,
questo non discende automaticamente dalla morte del convivente, né può identificarsi nel venir
meno di elargizioni occasionali, né con una mera aspettativa: sarà dunque l’attore a dover fornire la
prova del carattere stabile del contributo patrimoniale e personale che il partner deceduto
apportava. Del resto, sostiene la Suprema Corte, anche il decesso di un coniuge comporta un danno
patrimoniale solo nei limiti in cui esso determini il venire meno di un contributo al soddisfacimento
dei bisogni della famiglia.
Osserva poi anche la dottrina ( 51) che la giurisprudenza successiva al revirement del 1994 in
senso favorevole non si è attestata su posizioni univoche, posto che a fronte di una serie di decisioni
di merito che hanno riconosciuto il diritto al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale
( 52), si sono contrapposte altre pronunce che, facendo leva sul tradizionale orientamento che
ravvisava l’ingiustizia del danno unicamente nella violazione di un diritto soggettivo, hanno negato
qualsiasi tutela al convivente della vittima di un altrui fatto illecito ( 53).
Peraltro andrà aggiunto che la giurisprudenza di legittimità ha invece ritenuto di dover
confermare nel 2008 il precedente del 1994, stabilendo che «Il diritto al risarcimento del danno da
fatto illecito concretatosi in un evento mortale va riconosciuto – con riguardo sia al danno morale,
sia a quello patrimoniale, che presuppone, peraltro, la prova di uno stabile contributo economico
apportato, in vita, dal defunto al danneggiato – anche al convivente more uxorio del defunto stesso,
quando risulti dimostrata tale relazione caratterizzata da tendenziale stabilità e da mutua assistenza
morale e materiale; a tal fine non sono sufficienti né le dichiarazioni rese dagli interessati per la
formazione di un atto di notorietà, né le indicazioni dai medesimi fornite alla P.A. per fini
anagrafici. (Nella specie la S.C. ha confermato sul punto la sentenza impugnata nella parte in cui
aveva, appunto, escluso che la ricorrente, che aveva contratto matrimonio canonico privo di effetti
civili con la vittima, potesse vantare diritti risarcitori per la morte dell’uomo, essendo mancata la
prova dell’esistenza di una relazione tendenzialmente stabile e di una mutua assistenza morale e
materiale tra i due)» ( 54).
Tre anni dopo, la Corte ha ribadito che «Il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo
famiglia di fatto in Italia e in Europa, cit., p. 311 ss., mentre FRACCON, Relazioni familiari e responsabilità civile,
Milano, 2003, p. 397, ricollega le aperture della giurisprudenza ai «cambiamenti paralleli del costume sociale e della
dogmatica della responsabilità civile»; su questo argomento, in generale, v. anche AMBANELLI, Il risarcimento del
danno stradale in favore del convivente, in Fam. pers. succ., 2006, p. 251 ss.
(49) SBISÀ, Risarcimento di danni in seguito a morte di un familiare di fatto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1965, p.
1256.
(50) BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3790; v. anche MONTEVERDE, op. cit., p. 968 ss., BARDARO, Il
convivente della vittima, cit., p. 217 ss.
(51) BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3790.
(52) App. Perugia, 15 maggio 1998, in Rass. giur. umbra, 1998, p. 473; Trib. Milano, 21 luglio 1998, in Resp. civ.
prev., 2000, p. 763; App. Milano, 14 agosto 1998, ivi; Ass. app. Ancona, 31 maggio 2002, in Giur. mer., 2002, p. 1351,
ove il riferimento è al diritto di libertà, nascente direttamente dalla Costituzione, alla continuazione del rapporto.
(53) Ass. Milano, 20 maggio 1998, in Resp. civ. prev., 2000, p. 764. In particolare Trib. Perugia, 30 ottobre 1996, in
Rass. giur. umbra, 1997, p. 747, ha esplicitamente preso posizione contro la decisione della S.C. (Cass., 28 marzo 1994,
n. 2988, cit.), alla luce delle disposizioni che prevedono e disciplinano la risarcibilità del danno e dei principi generali
dell’ordinamento, anche costituzionale (la pronuncia è stata riformata da App. Perugia, 15 maggio 1998, cit.).
(54) Cass., 16 settembre 2008, n. 23725, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 446, con nota di BARBANERA.
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congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli
della famiglia naturale, come il convivente more uxorio ed il figlio naturale non riconosciuto, a
condizione che gli interessati dimostrino la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra
essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale» ( 55).
La dottrina più attenta ( 56) rileva del resto correttamente come non possa in alcun modo
dubitarsi che la tendenza attualmente in atto sia nel senso di attribuire rilevanza, ai fini risarcitori,
anche ai legami di fatto, naturalmente a prescindere dal gender del convivente ( 57).
Si riporta al riguardo il caso risolto dal tribunale di Milano nel 2007 ( 58), ove il riferimento è
alla convivenza indipendentemente dal fatto che essa sia more uxorio: il diritto al risarcimento del
danno non patrimoniale «è già stato riconosciuto dalla giurisprudenza, in casi analoghi, al
convivente more uxorio a seguito del decesso dell’altro convivente, e non vi è astrattamente alcun
motivo per negare il diritto, a determinate condizioni, al risarcimento del danno non patrimoniale
allorché la convivenza riguarda, oltre alla coppia, anche il figlio di uno dei conviventi, con il quale
il convivente non genitore abbia instaurato un solido legame affettivo» ( 59).
Particolare menzione, in questo contesto, merita anche una decisione del tribunale di Venezia
60
( ), che ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, patrimoniale e non patrimoniale, alla
sorella della vittima di un altrui illecito sul presupposto che tra l’ucciso e l’anzidetta sorella esisteva
una convivenza more uxorio. In proposito si è affermato ( 61) che la decisione in questione
rappresenta per l’osservatore attento un documento interessante poiché testimonia la sensibilità
ormai maturata dalla magistratura in ordine al rilievo che, nell’odierno contesto sociale, rivestono i
rapporti affettivi, e ciò a prescindere da ogni atto formale che ne sancisca la rilevanza esplicita al
cospetto dell’ordinamento e, anzi, come nel caso di specie, anche quando l’ordinamento esprima
una valutazione di contrarietà.
Circa la dimostrazione del legame di convivenza si è esattamente rimarcato che questa può
essere fornita con qualsiasi mezzo ( 62), mentre, per quanto attiene al quantum, va rilevato che il
danno non patrimoniale non deve essere liquidato facendo ricorso a una serie di voci di danno
puntualmente «etichettate», ma può essere determinato, una volta accertata la lesione dell’interesse
(55) Cass., 7 giugno 2011, n. 12278.
(56) Cfr. sempre BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3790; v. inoltre BARBANERA, Ancora sulla tutela
aquiliana dei rapporti di fatto, Nota Cass., 16 settembre 2008, n. 23725, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 450 ss.
(57) Cfr. BARDARO, Il convivente della vittima, cit., p. 219 ss.
(58) Trib. Milano, 21 febbraio 2007, in Fam. dir., 2007, p. 938.
(59) Da notare che, peraltro, la decisione richiede, in motivazione, «una comunanza di vita e di affetti con
vicendevole assistenza materiale e morale». Per Trib. Milano, 9 marzo 2004, in Nuova giur. civ. comm., 2005, II, p. 213
«per la sussistenza della cd famiglia di fatto, non è sufficiente la semplice coabitazione, dovendosi fare riferimento ad
una situazione interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva che, analogamente ai rapporti
familiari, si esplichi in una comunanza di vita e d’interessi e nella reciproca assitenza morale e materiale». Continua tale
decisione osservando che non rileva «l’intenzione di non avere (…) figli in quanto, per il riconoscimento del rapporto di
convivenza more uxorio, non è necessaria la procreazione, dato che la filiazione è solo una delle estrinsecazioni del
rapporto coniugale. Se il progetto della coppia di avere dei figli può costituire un forte indice probatorio della stabilità
del vincolo della convivenza more uxorio, non ne rappresenta tuttavia un elemento cssenziale ai fini della tutela
giuridica nei confronti dei terzi ex artt. 2 Cost. e 2043 c.c. in quanto ciò che rileva è la prova di una situazione
interpersonale, con carattere di tendenziale stabilità, di natura affettiva che, analogamente ai rapporti fmiliari, si esplichi
in una comunanza di interessi e nella reciproca assistenza morale e materiale (Cass., 28 marzo 1994, n. 2988)».
(60) Trib. Venezia, 31 luglio 2006, in Nuova giur. civ. comm., 2007, I, p. 864.
(61) BALESTRA, Rapporti di convivenza, cit., p. 3792.
(62) Cfr. BARDARO, Il convivente della vittima, cit., p. 220 s. In giurisprudenza è stato stabilito che «il carattere
stesso della famiglia di fatto, che prescinde da un particolare crisma giuridico (e ne è anzi aliena), pone, in difetto di
particolari, specifiche registrazioni, il problema della prova della sua esistenza, che può essere data con ogni mezzo
previsto dalla legge, e, normalmente, attraverso testimoni: il relativo onere incombe, a norma dell’art. 2697 c.c., su chi
nell’esistenza di un tale rapporto fonda un proprio diritto» (Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, cit.). In ordine al certificato
anagrafico è stato evidenziato che esso possa «tutt’al più provare la coabitazione, insufficiente a provare altresì la
condivisione di pesi e oneri di assistenza personale e di contribuzione e collaborazione domestica analoga a quella
matrimoniale» (Cass., 29 aprile 2005, n. 8976). Si è peraltro sottolineato che non risultano sufficienti «le dichiarazioni
rese dagli interessati a fine di formazione di un atto di notorietà» (così Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, cit.), posto che il
suo valore di atto pubblico facente fede fino a querela di falso è infatti, per costante indirizzo esegetico, circoscritto
«all’attestazione, da parte del pubblico ufficiale, di aver ricevuto le dichiarazioni in esso contenute, previa
identificazione dei loro autori» (Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, cit.).
129
costituzionalmente garantito, in modo complessivo e onnicomprensivo ( 63), tenendo conto di tutta
una serie di parametri: tipo di illecito (eventuale rilevanza penale, con ulteriore rilevanza delle
circostanze aggravanti, se presenti); tipo di elemento soggettivo dell’illecito (colpa o dolo); età del
danneggiato, etc. ( 64).
Una parte della dottrina osserva peraltro che il danneggiato potrà domandare giudizialmente
altresì il risarcimento del c.d. «danno esistenziale», voce di danno che, seppur superata come
autonoma sottocategoria, potrà assumere rilevanza laddove emerga un pregiudizio causato dal
peggioramento della qualità della vita, rispetto all’andamento della quotidianità anteriore al fatto
illecito ( 65).
Per il danno patrimoniale, poi, il relativo risarcimento non può essere escluso per il fatto che
le attribuzioni patrimoniali a favore del convivente configurano l’adempimento di un’obbligazione
naturale ( 66). Naturalmente, vale al riguardo il monito di cui al leading case del 1994 ( 67), secondo
cui, a differenza del danno non patrimoniale, l’esistenza del pregiudizio in questione non discende
ipso iure dalla morte del convivente «e non può farsi coincidere con la sopravvenuta mancanza di
elargizioni meramente episodiche o graziose, né con una mera ed eventuale aspettativa» ( 68).
(63) La giurisprudenza di merito precisa che il danno da morte del convivente costituisce una voce di danno unitario
«al cui interno si collocano il danno morale tradizionalmente inteso, il danno esistenziale e da lesione del rapporto
parentale ed il danno biologico alla sfera psichica» (così Trib. Milano, 14 gennaio 2009, n. 449, in De Jure Banca Dati).
(64) Così M. SGROI, op. cit., p. 1104. In giurisprudenza cfr. ad es. Trib. Milano, 9 marzo 2004, cit., secondo cui «nel
risarcimento dei danni da uccisione del convivente more uxorio la liquidazione del danno non patrimoniale include il
danno da perdita del rapporto di convivenza more uxorio e il danno morale da reato, senza che sia proficuo ritagliare
all’interno della categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno etichettate in vario modo, fra cui quella
del cd. danno esistenziale».
(65) Cfr., anche per gli ulteriori richiami, BARDARO, Il convivente della vittima, cit., p. 224. Giova a tal fine ricordare
che un giudice di merito ha, ad esempio, riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale per la perdita del convivente
more uxorio (Trib. Arezzo, 2 febbraio 2005, n. 127, in www.altalex.com). In tale fattispecie il giudice adito,
nell’equiparare il diritto del coniuge a chiedere il risarcimento del danno esistenziale a quello del convivente, ha
precisato che il convivente more uxorio che chiede iure proprio il risarcimento del danno subito in conseguenza
dell’uccisione del proprio partner, lamenta un pregiudizio diverso sia «dal bene salute del quale è titolare, la cui tutela
ex art. 32 Cost. si esprime mediante il risarcimento del danno biologico, sia dall’interesse all’integrità morale, che trova
riparazione mediante il risarcimento del danno morale soggettivo». In tale decisione viene altresì specificato che
l’interesse fatto valere nel caso di uccisione del congiunto è quello «alla intangibilità della sfera degli affetti e della
reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, alla inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività
realizzatrici della persona umana nell’ambito di quella peculiare formazione sociale costituita dalla famiglia, la cui
tutela è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.».
(66) Trib. Milano, 9 marzo 2004, cit.: «Il carattere di obbligazione naturale, infatti, rileva nell’ambito del rapporto
interno, nel senso che il convivente more uxorio non ha azione per ottenere l’adempimento della prestazione
patrimoniale ed è tutelato solo con la soluti retentio ex art. 2034 c.c.; tuttavia ciò non implica che i terzi possano
pregiudicare senza conseguenze la legittima aspettativa di uno dei conviventi all’attribuzione patrimoniale dell’altro,
dato che la perdita di chances di un incremento del patrimonio per il fatto illecito del terzo obbliga quest’ultimo al
risarcimento del danno ex art. 2043 c.c.».
(67) Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, cit.
(68) Sul tema v. amplius BARDARO, Il convivente della vittima, cit., p. 225 ss.
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CAPITOLO X
LA TUTELA DELLE CONVIVENZE OMOSESSUALI
SOMMARIO: 1. Le convivenze omosessuali nella dottrina e nella giurisprudenza italiane. I rapporti
civilistici. – 2. Segue. I problemi legati al ricongiungimento familiare. – 3. La questione del
matrimonio tra persone del medesimo sesso nel diritto italiano. Impostazione del problema.
– 4. Segue. La posizione della giurisprudenza italiana. – 5. Le convivenze omosessuali nella
giurisprudenza sovranazionale. Generalità. La posizione del Parlamento europeo e gli effetti
della Carta di Nizza. – 6. Segue. La posizione della Corte di giustizia dell’Unione europea. –
7. Segue. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo. – 8. Convivenze
omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità. Ininfluenza dell’orientamento sessuale
del genitore sull’affidamento della prole. – 9. Crisi della coppia omosessuale e conseguenze
per la prole: impostazione del problema. – 10. Segue. il rilievo degli accordi sui profili
patrimoniali. – 11. Segue. il rilievo degli accordi sui profili personali ed i rimedi in caso di
disaccordo. – 12. Cenni su alcuni problemi di diritto internazionale privato relativi alle
obbligazioni alimentari nelle convivenze omosessuali.
1. Le convivenze omosessuali nella dottrina e nella giurisprudenza italiane. I rapporti
civilistici.
La necessità di ricorrere, de italico iure condito, agli strumenti del diritto comune (ed in
particolare di quello contrattuale) per la soluzione dei problemi posti dalla famiglia di fatto consente
il superamento di taluni dei limiti talora imposti alla convivenza more uxorio, primo tra i quali
quello della diversità di sesso tra i suoi componenti ( 1). Naturalmente, chi scrive ha già chiarito che,
secondo l’opinione preferibile, l’identità di sesso tra i partners, come non dovrebbe essere più
d’ostacolo alla celebrazione delle nozze, così non dovrebbe opporsi alla possibilità di ravvisare la
presenza, a tutti gli effetti, di una convivenza more uxorio.
È noto peraltro che, sino a non molti anni fa, tanto la dottrina che la giurisprudenza di
legittimità apparivano compattamente schierate nel senso che per convivenza more uxorio potesse
intendersi soltanto quella tra persone di sesso diverso ( 2). Così, per esempio, in una pronunzia di
legittimità ormai risalente, si legge che la fattispecie in esame «si concreta in quella consuetudine di
vita fra due persone di sesso diverso, che abbia il requisito subiettivo del trattamento reciproco delle
persone analogo, per contenuto e forma, a quella normalmente nascente dal vincolo coniugale e che
abbia, altresì, il requisito oggettivo della notorietà esterna del rapporto stesso quale rapporto
coniugale, inteso non in senso assoluto, ma in relazione alle condizioni sociali e al cerchio di
relazioni dei conviventi, anche se sempre con un certo carattere di stabilità» ( 3). Ancora, il non così
risalente leading case già ricordato in materia di risarcimento del danno da uccisione del convivente
( 4) contiene l’affermazione secondo cui «il diritto non può ignorare l’esistenza e la (ancora relativa)
diffusione della cosiddetta famiglia di fatto, derivante dalla convivenza di due soggetti di sesso
diverso al di fuori del matrimonio» ( 5).
Peraltro, già prima che iniziasse in gran parte del nostro continente la «stagione della
contrattualità» della famiglia di fatto (e, segnatamente, di quella omosessuale), che diversi segnali
(1) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 8, nota 9; E. QUADRI, Problemi giuridici attuali
della famiglia di fatto, cit., p. 502 ss.; CALÒ, Le convivenze registrate in Europa, cit., passim; CARICATO, La legge
tedesca sulle convivenze registrate, cit., p. 501 ss.; AA.VV., Matrimonio, Matrimonii, cit., passim; SESTA, Diritto di
famiglia, cit., p. 417 ss.; BALESTRA, La famiglia di fatto, 2008, cit., p. 1040 ss.; PESCARA, op. cit., p. 979 ss.
(2) D’ANGELI, La famiglia di fatto, cit., p. 250.
(3) Cass., 23 aprile 1966, n. 1041, in Giur. it., 1967, I, 1, c. 67.
(4) Cass., 28 marzo 1994, n. 2988, cit.
(5) All’incirca negli stessi termini cfr. anche Cass., 8 giugno 1993, n. 6381, cit., che parla di «convivenza more
uxorio tra un uomo ed una donna in stato libero».
131
d’apertura comincia a registrare anche al di qua delle Alpi ( 6), qualche voce isolata si era levata da
parte di alcuni giudici di merito.
Così, il tribunale di Roma ( 7) aveva ritenuto la convivenza – espressamente qualificata come
more uxorio – tra persone dello stesso sesso idonea a escludere la presunzione di sublocazione di
cui all’art. 59, l. 27 luglio 1978, n. 392 e comunque non costituente abuso della cosa locata. Il
tribunale di Firenze ( 8), dal canto suo, dopo aver qualificato senz’altro come more uxorio una
convivenza omosessuale, aveva rigettato la domanda proposta da uno dei conviventi avverso gli
eredi dell’altro e avente ad oggetto il pagamento delle spese sopportate dall’attore per l’ospitalità
offerta al defunto per un periodo di circa tre anni, nonché quelle mediche e per l’assistenza del
defunto stesso durante tutta la durata della malattia, ritenendo tali prestazioni rientranti nella
obbligazione naturale tra i partners.
Già diversi anni fa si rimarcava come l’abbandono della via del diritto di famiglia
costringesse l’interprete a concentrare la propria attenzione sui singoli atti posti in essere dai
conviventi, a prescindere dal loro compimento nell’ambito, o meno, di una cornice paramatrimoniale ( 9). In quest’ottica il problema viene inevitabilmente a spostarsi sulla possibilità del
riconoscimento di un’obbligazione naturale tra conviventi omosessuali, argomento sul quale si
registra già da tempo la segnalata presa di posizione del tribunale di Firenze. A favore di una simile
soluzione può anche invocarsi l’evoluzione nel concetto di obbligazione naturale che è intervenuta a
livello sia dottrinale che giurisprudenziale, per cui il dovere morale e sociale di assistenza e di
contribuzione reciproca viene oggi a poggiare, più che altro, sull’«affidamento» ingenerato nella
controparte.
Si noti peraltro che, ancora in tempi non troppo remoti, la Corte Suprema ha ritenuto
congruamente motivata una decisione d’appello che aveva qualificato come donazioni
remuneratorie (e non come atti di adempimento di obbligazioni naturali) alcune compravendite
simulate con le quali, nell’ambito di una convivenza omosessuale, uno dei partners aveva trasferito
all’altro la titolarità di beni immobili, con conseguente declaratoria di nullità dei trasferimenti ( 10).
La lettura della motivazione dimostra come, in quell’occasione, la Corte abbia
sostanzialmente eluso il problema posto alla base del motivo di ricorso, vale a dire, non già il
carattere remuneratorio o meno della donazione (irrilevante nel caso di specie, posto che la forma
solenne non era stata rispettata), bensì la presenza – in forza del rapporto di convivenza more uxorio
– di quel dovere morale e sociale più elevato della gratitudine, che induce ad ascrivere l’attribuzione
alla categoria degli atti di adempimento di un’obbligazione morale, come tale esente dai requisiti di
forma imposti alla donazione, «semplice» o remuneratoria che sia ( 11).
Ma, ben al di là dei dati surriferiti, s’impone la considerazione per cui ogni differenza di
trattamento tra convivenza eterosessuale e convivenza omosessuale si tradurrebbe in una illegittima
discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, vietata dall’art. 21 della Carta dei diritti
fondamentali dell’Unione Europea ( 12), nonché – prima ancora – in modo implicito, ma sicuro,
dall’art. 3 Cost. ( 13).
Nessun dubbio può del resto sorgere sull’ammissibilità di contratti di convivenza tra
omosessuali, negli stessi limiti valevoli per le coppie eterosessuali, tanto più che proprio nella
direzione della negozialità, e non certo in quella dell’imposizione di effetti giuridici conseguenti
alla sola sussistenza del rapporto di fatto, si muovono le soluzioni normative che in vari paesi
(6) Sul tema cfr. per tutti BONINI BARALDI, Le nuove convivenze tra discipline straniere e diritto interno, cit., p. 1
ss.; ID., Le nuove convivenze: profili internazional-privatistici, in AA. VV., Il nuovo diritto di famiglia, Trattato diretto
da Ferrando, II, Rapporti personali e patrimoniali, cit., p. 1109 ss.
(7) Trib. Roma, 20 novembre 1982, Riv. giur. edil., 1983, I, p. 959.
(8) Trib. Firenze, 11 agosto 1986, in Nuovo dir., 1988, p. 321.
(9) OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 6, nota 9.
(10) Cass., 22 febbraio 1995, n. 1989, in Arch. civ., 1996, I, p. 484.
(11) Cfr. su tali argomenti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 90 ss.
(12) Sul punto cfr. SESTA, Diritto di famiglia, cit., p. 417 ss.
(13) Cfr. OBERTO, Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, cit., p. 125 ss.; sul tema v. inoltre, in senso
adesivo, CORDIANO, Tutela delle coppie omosessuali ed esigenza di regolamentazione, in Familia, 2004, p. 107; LONG,
Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, cit., p. 226.
132
europei si sono prefissate di affrontare e risolvere i problemi in esame ( 14).
2. Segue. I problemi legati al ricongiungimento familiare.
Alle aperture sul piano dei rapporti civilistici, specie se legati all’utilizzo di rimedi di diritto
comune, fanno riscontro persistenti e preoccupanti chiusure nella nostra giurisprudenza in settori in
cui la discriminazione rispetto alle coppie eterosessuali appare più odiosa.
Sul punto sarà utile evocare la vicenda risolta dalla corte d’appello di Firenze nel 2006,
secondo cui, poiché il nostro ordinamento subordina il rilascio del permesso di soggiorno per motivi
familiari alla qualità di «familiare» del soggetto richiedente, il provvedimento dell’autorità
neozelandese che riconosce a due persone del medesimo sesso la qualifica di partners di fatto, cioè
di conviventi, e non di familiari, non costituisce titolo idoneo perché possa essere rilasciato il
permesso di soggiorno ai sensi del d.lgs. n. 286/1998 ( 15). La predetta decisione è stata confermata
dalla Suprema Corte ( 16).
La soluzione è stata da chi scrive ritenuta deludente ( 17), con riguardo al contenuto ed agli
effetti della Carta di Nizza. Secondo la Cassazione, infatti, al fine di accedere ad una nozione di
«familiare» comprensiva anche del convivente omosessuale, non varrebbero le disposizioni dell’art.
9 del predetto documento sovranazionale («Il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia
sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), posto che, «Se è vero che
la formulazione del citato art. 9 da un lato conferma l’apertura verso forme di relazioni affettive di
tipo familiare diverse da quelle fondate sul matrimonio e, dall’altro, non richiede più come requisito
necessario per invocare la garanzia dalla norma stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del
rapporto, resta fermo che anche tale disposizione, così come l’art. 12 CEDU, rinvia alle leggi
nazionali per la determinazione delle condizioni per l’esercizio del diritto, con ciò escludendo sia il
riconoscimento automatico di unioni di tipo familiare diverse da quelle previste dagli ordinamenti
interni che l’obbligo degli stati membri di adeguarsi al pluralismo delle relazioni familiari, non
necessariamente eterosessuali».
Del tutto ignorato è rimasto, invece, l’art. 21 della predetta Carta, che, come noto, fonda un
chiaro divieto di trattamenti discriminatori, a ragione, tra l’altro, delle «tendenze sessuali».
Quest’ultimo profilo viene, invece, velocemente sfiorato dalla Cassazione con riguardo agli artt. 8 e
14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in relazione alla (dai ricorrenti) lamentata
«arbitraria ingerenza nelle scelte del modello familiare, avente anche portata discriminatoria sulla
base degli orientamenti sessuali». Ma siffatto peculiare aspetto viene invece espressamente scartato
dalla Corte, «in quanto la mancata equiparazione al coniuge è prevista in relazione a qualsiasi tipo
di convivenza non matrimoniale, e non soltanto per quelle tra persone dello stesso sesso». Peraltro,
(14) V. supra, Cap. IV, § 1.
(15) Cfr. App. Firenze, 6 dicembre 2006, in Fam. dir., 2007, p. 1040, con nota di PASCUCCI.
(16) Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, in Fam. dir., 2009, p. 454, con nota di ACIERNO; in Giur. it., 2009, p. 2664, con
nota di DE MEO e MANCINELLI; in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 829, con nota di PASCUCCI; in Foro it., 2009, I, c.
2076, con nota di CALÒ. Secondo, invero, la Cassazione, «In tema di diritto dello straniero al ricongiungimento
familiare, il cittadino extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da un’unione di fatto debitamente
attestata nel paese d’origine del richiedente, non può essere qualificato come “familiare” ai sensi dell’ art. 30, primo
comma, lettera c), del d.lgs. n. 286 del 1998, in quanto tale nozione, delineata dal legislatore in via autonoma, agli
specifici fini della disciplina del fenomeno migratorio, non è suscettibile di estensione in via analogica a situazioni
diverse da quelle contemplate, non essendo tale interpretazione imposta da alcuna norma costituzionale. Nè tale più
ampia nozione può desumersi dagli artt. 8 e 12 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo o dall’art. 9 della
Carta di Nizza (…) in quanto tali disposizioni escludono il riconoscimento automatico di unioni diverse da quelle
previste dagli ordinamenti interni, salvaguardando l’autonomia dei singoli Stati nell’ambito dei modelli familiari.
Infine, non può trovare applicazione la più recente normativa di derivazione comunitaria, in quanto il d.lgs. n. 5 del
2007 si applica soltanto ai familiari di soggiornanti provenienti da paesi terzi e il d.lgs. n. 30 del 2007 tutela la libertà di
circolazione e di soggiorno dei cittadini UE e dei loro familiari nel territorio di uno stato membro diverso da quello di
appartenenza, e non il diritto al ricongiungimento familiare con un cittadino di uno Stato membro regolarmente
residente e dimorante nel suo paese d’origine».
(17) OBERTO, Modelli educativi ideologici, culturali e religiosi rispetto al minore di genitori in crisi, in Fam. dir.,
2010, p. 511.
133
che la via del matrimonio sia (da noi) irrimediabilmente sbarrata agli omosessuali non sembra
sfiorare neppure per un attimo le menti dei Supremi Giudici.
Eppure, proprio questo appare essere il terreno sul quale anche la nostra Corte Suprema e,
prima ancora, la Corte costituzionale, potrebbero inaugurare sulle rive del Tevere una lettura
dell’art. 3 Cost. alla luce del principio di non discriminazione espresso dalla Carta di Nizza, ad
instar di quel «dialogo tra Carte» che, sulle rive dell’Ill, la Corte di Strasburgo, come si dirà tra
breve ( 18), ha già dimostrato di voler intessere. Non per nulla, ben diversa sensibilità al problema ha
mostrato una successiva decisione di merito che, sempre con riguardo al tema del ricongiungimento
familiare, non ha esitato a considerare coniuge ai sensi dell’art. 7, primo comma, lett. b) del d.lgs. n.
30 del 2007, in collegamento con l’art. 2, lett. b), n. 1 del citato d.lgs.***, il cittadino uruguayano
coniugato in Spagna con cittadino italiano del medesimo sesso ( 19). La decisone, ben consapevole
dell’odierna nozione europea di matrimonio e di famiglia, facendo applicazione del rationale della
decisione nella causa Schalk ***, supera la limitazione di cui all’art. 9 della Carta di Nizza
derivante dal riconoscimento del diritto al matrimonio «secondo le leggi nazionali che ne
disciplinano l’esercizio», osservando esattamente come» con tale espressione si debba intendere che
il legislatore europeo ha inteso evitare di imporre formule predeterminate ai legislatori, nazionali,
scongiurando qualsiasi incursione nella sfera di esclusiva competenza dei medesimi; «cosa ben
diversa quando sia in questione la libertà dì circolazione dei cittadini europei nell’ambito
dell’Unione; in questo caso (…) entrano in gioco specifici interessi dell’Unione in materia alla
stessa riservata, nel cui ambito deve trovare applicazione il diritto sovranazionale o, comunque, di
derivazione europea ( 20).
In senso contrario all’invocabilità del principio di non discriminazione (sub specie, però,
dell’art. 3 Cost.) si esprime parte della dottrina ( 21), pervenendo alla non condivisibile conclusione
per cui la convivenza omosessuale, pur se formazione sociale rilevante ex art. 2 Cost., non potrebbe
assurgere al rango di «famiglia». Ora, se si pone mente al fatto che il termine «famiglia» non può
ormai essere negato alla convivenza more uxorio tra persone di sesso diverso ( 22), appare più che
lampante come la negazione della medesima qualifica alla stabile unione affettiva tra persone del
medesimo sesso non tragga altra origine se non da una (preconcetta e gratuita) discriminazione non
basata su altra «ragione», che non sia proprio l’orientamento sessuale.
Negare la presenza di una discriminazione rilevante ai sensi dell’art. 21 della Carta di Nizza
(ma, quasi altrettanto certamente, anche ex art. 3 Cost.) significa, dunque, negare l’evidenza ( 23).
3. La questione del matrimonio tra persone del medesimo sesso nel diritto italiano.
(18) V. infra, § 7, in questo Cap.
(19) Cfr. Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012, in ***.
(20) Sul punto cfr. anche Cass., ***
***
della S.C. che interpretando il disposto de quo., contenuto nel n. 1 della lettera 2 del D.Lgs. il 30 del 2007, ha
affermato che in.relazione ad un matrimonio tra persone dello stesso sesso contratto in Spagna la sentenza impugnata ha
disconosciuto il diritto di libera circolazione soggiorno dell’U. nel territorio dello Stato italiano in sostanza qualificando
lo stesso come partner di una situazione non riconoscibile in Italia, mancando però di verificare se, sulla base della
legislazione interna dello Stato membro, l’unione in parala sia qualificabile - o equiparabile - a rapporto di coniugio.,
quale è stato prospettato, con relativa documentazione, dall’imputato. In tal senso e parimenti evidente che lo status di
coniuge esime dalla documentazione sulla cittadinanza, trattandosi di due condizioni equiparate ex lege" (Corte di
Cassazione n. 1328 del 19/1/2011; la S..C, ha rinviato al giudice di merito perché verifichi se la disciplina spagnola
equipari il. matrimonio tra persone dello stesso sesso al matrimonio tra persone di d!verso sesso, circostanza che
tuttavia, può darsi per acquisita - a prescindere dal principio iura novil curia, non conferente nella specie ~ essendo
notorio, anche per il clamore anche fuori, dall’ambito scientifico, che a norma della legge n. 13/2005 in vigore dal 3
luglio 2005 è stato modificato l’articolo 44 del codice civile spagnolo, specificando che il matrimonio richiede gli stessi
requisiti e produce gli stessi effetti quando a contrarlo sonò due persone dello stesso o di diverso sesso).***
(21) D’ANGELI, Il fenomeno delle convivenze omosessuali: quale tutela giuridica?, cit., p. 18 ss.
(22) Sul tema v. per tutti OBERTO, I regimi patrimoniali della famiglia di fatto, cit., p. 21 ss.
(23) Ed infatti cfr. Trib. Venezia, 3 aprile 2009 (su cui v. il § seguente, anche per l’indicazione della decisione della
Consulta che ha respinto la questione). Sui temi collocati al crocevia tra convivenza more uxorio, immigrazione,
espulsione e ricongiungimento familiare v. anche Corte cost., 22 dicembre 2006, n. 444, in Corr. giur., 2007, p. 253;
Cass. pen., 22 maggio 2008, n. 240596, in Fam. dir., 2009, p. 407.
134
Impostazione del problema.
Al tema svolto nei paragrafi che precedono non può non affiancarsi, quello dell’impossibilità,
nel nostro ordinamento, per le coppie conviventi composte da soggetti del medesimo sesso di
accedere al matrimonio. La materia ha, come noto, scatenato appassionati dibattiti e registrato
l’intervento di non poche autorità giurisdizionali, sulla scorta delle esperienze maturate in altri
sistemi.
È noto che ormai svariati ordinamenti hanno sic et simpliciter abrogato il requisito della
diversità di sesso, quale presupposto per la celebrazione delle nozze ( 24), laddove altri, oltre ad aver
introdotto forme negoziali di convivenza registrata, si stanno interrogando sugli eventuali ulteriori
passi da compiere, in vista del definitivo superamento di ogni forma di discriminazione.
Così, ad esempio, in Francia, il 25 novembre 2008, è stata presentata una proposta di legge
tesa a «permettre la reconnaissance des unions conclues dans un autre État de l’Union européenne
par tous les couples quelle que soit leur orientation sexuelle» ( 25). Al momento, ammettendo solo il
PACS francese, le coppie gay unite in un vincolo (matrimoniale o para-matrimoniale) secondo
l’ordinamento di un altro stato europeo, si trovano in «une situation kafkaïenne : l’administration
leur demandait de rompre leur union civile pour pouvoir se pacser» ( 26). Qualora questa proposta
diventasse legge, la Francia renderebbe legittimi anche gli effetti del vincolo matrimoniale contratto
in un altro stato UE tra due persone dello stesso sesso residenti sul territorio francese (la questione
principale riguarderebbe alcuni aspetti del diritto di successione). Sempre secondo la presentazione
della proposta, la legge così envisagée consentirebbe «une solution plus adéquate qui s’inspire en
partie du dispositif adopté en Grande-Bretagne en 2004 (Civil Partnership Act). D’une part, elle
pose le principe selon lequel les mariages, les partenariats et les unions régulièrement conclus dans
un autre État de l’Union européenne doivent produire des effets de droit en France. D’autre part,
elle autorise les couples auxquels est refusée la reconnaissance de leur mariage, partenariat ou union
à conclure un pacte civil de solidarité s’ils résident en France».
Proprio il Civil Partnership Act britannico ( 27) al quale fa riferimento la proposta di legge
francese riconosce le unioni legittimamente contratte in un ordinamento straniero, secondo il diritto
di quello stato. Un capitolo intitolato «Overseas relationships treated as civil partnerships» (par.
212-218) disciplina direttamente la questione, offrendo definizioni, le condizioni e regole generali,
(24) CANATA, La legalizzazione della vita di coppia: panorama europeo e prospettive di riforma in Italia, in Fam.
pers. succ., 2010, p. 198 ss.; GATTUSO, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, cit., p. 810 ss. In generale, per
un’analisi critica della questione del matrimonio tra persone dello stesso sesso cfr. ESKRIDGE, Gay Marriage. For Better
or for Worse?, Oxford, 2006; TINCANI, Le nozze di Sodoma. La morale e il diritto del matrimonio omosessuale, Milano,
2009; BONINI BARALDI, La famiglia de-genere. Matrimonio, omosessualità e Costituzione, Milano-Udine, 2010;
NUSSBAUM, From Disgust to Humanity. Sexual Orientation and the Constitution, Oxford, 2010. Molti contributi recenti
sul tema sono raccolti in AA. VV., La «società naturale» e i suoi «nemici». Sul paradigma eterosessuale del
matrimonio. Atti del seminario Ferrara, 26 febbraio 2010, a cura di Bin, Brunelli, Guazzarotti, Pugiotto e Veronesi,
Torino, 2010, di cui in particolare cfr. PEZZINI, Dentro il mestiere di vivere: uguali in natura o uguali in diritto?, p. 1
ss., CRIVELLI, Il diritto al matrimonio riconosciuto dall’art. 12 CEDU alla luce della recente giurisprudenza della
Corte costituzionale e della Corte EDU, p. 91 ss. e RUGGERI, Le unioni tra soggetti dello stesso sesso e la loro
(innaturale ...) pretesa a connotarsi come «famiglie», p. 307 ss.. Sulla disciplina delle coppie gay e lesbiche v. AA. VV.,
Le unioni tra persone dello stesso sesso. Profili di diritto civile, comunitario e comparato, a cura di Bilotta, MilanoUdine, 2008, di cui cfr. BONINI BARALDI, Lo spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia: pluralismo di valori e
pregiudizi nazionali a confronto, p. 103 ss.; PASTORE, I modelli di tutela delle unioni tra persone dello stesso sesso nel
diritto europeo, p. 129 ss., e DAL CANTO, La nozione costituzionale di famiglia e la tutela dei modelli familiari diversi
dalla famiglia fondata sul matrimonio, p. 201 ss. In tema di discriminazione fondata sull’orientamento sessuale negli
Stati Uniti cfr. GERSTMANN, The Constitutional Underclass. Gays, Lesbians, and the Failure of Class-Based Equal
Protection, Chicago, 1999.
(25) «L’article 515-3 du code civil est complété par un alinéa ainsi rédigé : “Les personnes de même sexe ayant
conclu un mariage et les personnes de sexe différent ou de même sexe ayant conclu un partenariat civil ou une union
civile dans un État membre de l’Union européenne autre que la France sont autorisées à s’en prévaloir lorsqu’elles
résident sur le territoire français ; à défaut, elles ont la possibilité de conclure un pacte civil de solidarité”». Il testo
integrale della proposta di legge è consultabile in http://www.senat.fr/leg/ppl08-111.html.
(26) Cfr. l’Exposé des motifs della citata proposta di legge.
Il
testo
del
Civil
Partnership
Act
2004
è
consultabile
su
(27)
http://www.opsi.gov.uk/acts/acts2004/ukpga_20040033_en_1. Per consultare le «equivalenze» tra unioni, si veda
http://www.civilpartnerships.org.uk/RegistrationAndRecognitionOfPartnershipsFormedOverseas.htm.
135
il requisito del sesso identico tra i partner, e le eccezioni ( 28).
Interessante, ai nostri fini, il raffronto che si può presentare rispetto al diritto spagnolo, nel
quale il tenore letterale dell’art. 32 della Costituzione di quel regno abbia in certo modo
«agevolato» il compito del riformatore spagnolo, che ha potuto trarre argomento dalla formulazione
letterale della Carta fondamentale: la norma riconosce piena eguaglianza tra uomo e donna nel
diritto a contrarre matrimonio, ma non indica con quale sesso ci si debba sposare ( 29).
Più gravoso, almeno a prima vista, appare il compito del legislatore italiano, poiché l’art. 29
Cost. sconta una certa ambiguità nell’accostare la famiglia naturale ad un negozio giuridico proprio
del diritto positivo, quale è il matrimonio, istituto sul cui significato si sono confrontate due diverse
interpretazioni, che a più di sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione sono ancora un
punto di riferimento di ogni dibattito concernente l’introduzione di una legge sulle unioni civili.
Da un lato, vi è chi, fedele alla tradizione di stampo giusnaturalistico, la quale considera la
famiglia un prius, vale a dire un’entità immutabile, preesistente allo Stato, riferisce la nozione di
matrimonio all’unione stabile di un uomo e di una donna, potenzialmente aperta alla procreazione
( 30); in senso opposto, chi aderisce all’interpretazione storicistica dell’art. 29, lo considera norma a
carattere «recettizio», il cui contenuto viene definito a seconda della concezione di famiglia che si
realizza in un determinato contesto sociale e storico ( 31).
Si rileva correttamente, a sostegno di quest’ultima (e preferibile) impostazione, che il modello
tradizionale di matrimonio è profondamente mutato nel corso del tempo, perdendo molti di quei
caratteri che, all’epoca della Costituente, ne erano elemento integrante, come il principio di
indissolubilità, il riconoscimento della posizione di supremazia dell’uomo all’interno della famiglia
e la finalità procreativa ( 32).
Quanto a quest’ultimo profilo, basterà pensare al tema dell’obiettiva rilevanza dell’impotenza,
secondo quanto disposto dall’art. 123 c.c. 1942, così come formulato prima della Riforma del 1975.
Orbene, proprio tale riforma ha chiaramente dimostrato che il matrimonio civile non è più
istituzionalmente orientato alla procreazione, poiché l’impotenza è causa d’invalidità del
matrimonio soltanto quando sia anche causa di errore, tale da incidere sullo svolgimento della vita
(28) «Overseas relationships treated as civil partnerships: the general rule
(1) Two people are to be treated as having formed a civil partnership as a result of having registered an overseas
relationship if, under the relevant law, they—
(a) had capacity to enter into the relationship, and
(b) met all requirements necessary to ensure the formal validity of the relationship.
(2) Subject to subsection (3), the time when they are to be treated as having formed the civil partnership is the time
when the overseas relationship is registered (under the relevant law) as having been entered into.
(3) If the overseas relationship is registered (under the relevant law) as having been entered into before this section
comes into force, the time when they are to be treated as having formed a civil partnership is the time when this section
comes into force.
(4) But if—
(a) before this section comes into force, a dissolution or annulment of the overseas relationship was obtained outside
the United Kingdom, and
(b) the dissolution or annulment would be recognised under Chapter 3 if the overseas relationship had been treated
as a civil partnership at the time of the dissolution or annulment,
subsection (3) does not apply and subsections (1) and (2) have effect subject to subsection (5).
(5) The overseas relationship is not to be treated as having been a civil partnership for the purposes of any
provisions except—
(a) Schedules 7, 11 and 17 (financial relief in United Kingdom after dissolution or annulment obtained outside the
United Kingdom);
(b) such provisions as are specified (with or without modifications) in an order under section 259;
(c) Chapter 3 (so far as necessary for the purposes of paragraphs (a) and (b)).
(6) This section is subject to sections 216, 217 and 218».
(29) CARRILLO, La Legge spagnola sul matrimonio tra omosessuali e i principi costituzionali, in Foro it., 2005, IV,
c. 264; CANATA, La legalizzazione della vita di coppia: panorama europeo e prospettive di riforma in Italia, cit., p. 198
ss.
(30) GRASSETTI, voce Famiglia, in Noviss. Dig. it., VII, Torino, 1961, p. 50 ss.; LOMBARDI, La famiglia
nell’ordinamento italiano, in Iustitia, 1965, p. 3 ss.
(31) MANCINI, Uguaglianza tra coniugi e società naturale nell’art. 29 Cost., in Riv. dir. civ., 1963, I, p. 223 ss.
(32) CANATA, La legalizzazione della vita di coppia: panorama europeo e prospettive di riforma in Italia, cit., p.
198.
136
coniugale ( 33), oltre tutto, avuto riguardo alle condizioni dell’altro coniuge (il quale potrebbe essere
a sua volta affetto da impotenza); inoltre, possono contrarre matrimonio anche le persone che per
età abbiano perso la capacità di generare, oppure siano inidonee alla procreazione a seguito della
rettificazione di sesso (l. n. 164/1982).
Ora, secondo una parte della dottrina ( 34), la soluzione legislativa apparirebbe l’unica in grado
di stravolgere una tradizione plurisecolare, aprendo l’istituto del matrimonio alle coppie gay e
lesbiche. In senso contrario, altra dottrina suggerisce un’applicazione estensiva del matrimonio alle
coppie omosessuali, sulla base di un’interpretazione adeguatrice della giurisprudenza di merito ( 35).
Non esistendo nel nostro ordinamento una nozione di matrimonio, né un divieto espresso ( 36) al
matrimonio tra persone dello stesso sesso, si potrebbe attribuire al giudice ordinario il compito di
formulare le regole che disciplinano la fattispecie, sulla base di un’interpretazione estensiva
costituzionalmente orientata.
4. Segue. La posizione della giurisprudenza italiana.
Tra le poche voci giurisprudenziali che si dichiarano de lege ferenda favorevoli all’estensione
del matrimonio alle coppie omosessuali (peraltro negandolo nella specie de lege lata), si segnala la
nota decisione della corte d’appello di Roma, relativa ad un caso di trascrizione di matrimonio tra
cittadini italiani dello stesso sesso, celebrato in Olanda ( 37).
La corte territoriale, in primo luogo, riporta la questione nell’ambito della valutazione
internazionalprivatistica per mezzo delle vigenti norme di conflitto (gli artt. 27 e 28 l. 218/1995) da
cui il giudice di prime cure, il tribunale di Latina, sembrava essersi allontanato valutando l’atto
straniero senza tener conto della lex causae richiamata dalle norme di conflitto (il diritto italiano).
In definitiva, la corte d’appello rileva che l’art. 27, l. 218/1995 ( 38) subordina la validità sostanziale
del vincolo coniugale al rispetto dei requisiti previsti dalla legge nazionale di ciascuno degli
interessati; di conseguenza, la cittadinanza italiana di almeno uno dei protagonisti impedisce il
riconoscimento del matrimonio da essi contratto, dal momento che, in base al diritto materiale
italiano, la differenza di sesso tra i coniugi è un requisito imprescindibile non solo per la validità,
ma addirittura per l’esistenza del vincolo coniugale.
In effetti la dottrina prevalente considera l’identità di sesso tra gli interessati causa di
(33) FERRANDO, Il matrimonio gay, il giudice, il legislatore, Nota a App. Firenze, 27 giugno 2008, in Resp. civ.
prev., 2008, p. 2344.
(34) V. per tutti CANATA, La legalizzazione della vita di coppia: panorama europeo e prospettive di riforma in Italia,
cit., p. 198 ss.
(35) BILOTTA, Matrimonio (gay) all’italiana, Nota a Trib. Latina, 10 giugno 2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006,
I, p. 91 ss.
(36) Il divieto compare espressamente soltanto in una circolare del Ministero degli interni, datata 18 ottobre 2007, n.
55, in Dir. fam. pers., 2008, p. 549, ove in riferimento all’applicazione della Convenzione di Vienna dell’8 settembre
1976, si rammenta che in mancanza di modifiche legislative in materia, il nostro ordinamento non ammette il
matrimonio omosessuale: la richiesta di un simile atto compiuto all’estero deve essere rifiutata perché in contrasto con
l’ordine pubblico interno.
(37) App. Roma, 13 luglio 2006, in Guida al dir., 2006, n. 35, p. 55, che conferma Trib. Latina, 10 giugno 2005, in
Riv. dir. int. priv. proc., 2005, p. 1095 ss., su cui cfr. CORBETTA, Trascrizione del matrimonio tra cittadini italiani dello
stesso sesso contratto all’estero e diritto internazionale privato, in Dir. imm. e citt., n. 3-2006, p. 32 ss. V. anche
SCHLESINGER, Matrimonio tra individui dello stesso sesso contratto all’estero, in Fam. dir., 2005, p. 411 ss.; BONINI
BARALDI, Il matrimonio fra cittadini italiani dello stesso sesso contratto all’estero non è trascrivibile: inesistente,
invalido o contrario all’ordine pubblico?, ibidem, p. 415 ss.; CAVANA, Sulla intrascrivibilità dell’atto di matrimonio
validamente contratto all’estero tra persone dello stesso sesso, in Dir. fam. pers., 2005, p. 1268 ss.; ORLANDI,
Matrimonio contratto all’estero da cittadini italiani dello stesso sesso e sua efficacia giuridica in Italia, in Giur. merito,
2005, p. 2292 ss.
(38) «Art. 27.
Condizioni per contrarre matrimonio.
1. La capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di
ciascun nubendo al momento del matrimonio. Resta salvo lo stato libero che uno dei nubendi abbia acquistato per
effetto di un giudicato italiano o riconosciuto in Italia».
137
inesistenza del matrimonio ( 39) e così pure la giurisprudenza ( 40). In senso conforme si esprime
anche la circolare del Ministero dell’interno in materia di registri dello stato civile in data 26 marzo
2001, che esclude la possibilità di trascrivere il matrimonio «tra omosessuali» (e la circostanza che
non si sia usata l’espressione «tra soggetti del medesimo sesso» sembra dirla lunga sul persistente
«marchio d’infamia» che nel nostro arretrato Paese sembra ancora aleggiare su quella che molti
s’ostinano a considerare una vera e propria «categoria a parte») contratto all’estero dal cittadino
italiano ( 41).
La soluzione adottata, a ben vedere, non sembra far leva sulla contrarietà all’ordine pubblico
del rapporto dedotto, bensì sulla conformità del matrimonio tra persone del medesimo sesso al
modello coniugale contemplato dalla lex causae richiamata dalla norma di collegamento, e cioè
dalla legge italiana. Il limite dell’ordine pubblico, e tutte le problematiche connesse al suo
intervento, vengono invece in rilievo ogni qual volta si renda necessario valutare gli effetti
dell’applicazione del diritto straniero rispetto ai principi essenziali del foro: è quanto avverrebbe, ad
esempio, nel caso in cui si richiedesse il riconoscimento del matrimonio omosessuale contratto in
Olanda tra cittadini olandesi, e cioè tra soggetti la cui legge nazionale ammette siffatta possibilità.
La corte romana, nella citata decisione, ha osservato che il matrimonio contratto dai due
italiani non poteva essere nella specie trascritto nei registri dello stato civile italiano perché
mancante di uno dei «requisiti essenziali» per la sua configurabilità come matrimonio
nell’ordinamento interno, vale a dire la diversità di sesso tra i coniugi.
I giudici hanno però lasciato una qualche apertura per il futuro: se da una parte, infatti, la
formula di famiglia come «società naturale» rende inattuabile la prospettiva volta a riconoscere in
via pretoria l’unione tra persone dello stesso sesso, dall’altra la medesima formula potrebbe
consentire la ricezione da parte del legislatore di nuove figure alle quali sia la società civile ad
attribuire il «senso e il valore» dell’esperienza di «famiglia». In altre parole, è al legislatore, e non
al giudice, che compete dare attuazione alle istanze provenienti dalla società nelle forme che lo
stesso ritenga più opportune, nulla ostando, ad opinione del collegio romano, la Carta costituzionale
( 42).
Considerazioni analoghe si ritrovano in una decisione successiva della corte d’appello di
Firenze ( 43), che si è pronunciata su un ricorso presentato da una coppia omosessuale avverso il
Comune di Firenze, il quale aveva negato la pubblicazione del matrimonio, per l’asserita mancanza
di previsione nell’ordinamento dello Stato italiano della possibilità di contrarre matrimonio tra
persone dello stesso sesso.
La corte ha nella fattispecie respinto il reclamo, sul rilievo che l’ordinamento giuridico
italiano vieta, allo stato, la possibilità di disciplinare attraverso l’istituto pubblicistico del
matrimonio le unioni tra persone dello stesso sesso. Peraltro, osservano i giudici fiorentini, la
disciplina normativa del matrimonio, se da un lato non viola alcun diritto fondamentale
dell’individuo, non essendo vietata la convivenza, dall’altro non esclude che il legislatore possa
farsi interprete dei valori comunemente accettati dal corpo sociale e provveda pertanto alla
regolamentazione delle unioni omosessuali. La corte esclude perciò che il giudice ordinario possa
(39) Cfr. SPALLAROSSA, Le condizioni per contrarre matrimonio, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto
da Zatti, I, Famiglia e matrimonio, 1, prima edizione, cit., p. 513 ss.; FERRANDO, Le cause di invalidità del matrimonio,
ibidem, p. 615 ss.; secondo JEMOLO, Il matrimonio, in Trattato di diritto civile, diretto da Vassalli, Torino, 1961, p. 48
ss., invece, essa costituirebbe una causa di nullità.
(40) Cfr. Trib. Roma, 28 giugno 1980, in Foro it., 1981, I, c. 869 e, incidenter tantum, Cass., 9 giugno 2000, n. 7877,
in Fam. dir., 2000, p. 509; Cass., 2 marzo 1999, n. 1739, in Riv. dir. int. priv. proc., 1999, p. 613; Cass. 22 febbraio
1990, n. 1304, in Riv. dir. int. priv. proc., 1991, p. 726.
(41) La circolare recita testualmente: «È trascrivibile il primo matrimonio celebrato secondo il rito islamico tra un
cittadino italiano e un cittadino di religione islamica; mentre non è trascrivibile il matrimonio celebrato all’estero tra
omosessuali, di cui uno italiano, in quanto contrario alle norme di ordine pubblico».
(42) In senso analogo cfr. anche App. Firenze, 30 giugno 2008, in Foro it., 2008, I, c. 3695, con nota di DEL CANTO.
Anche il giudice fiorentino chiama direttamente in causa il legislatore, al quale, com’è avvenuto per «tutti quei paesi
ove l’unione in matrimonio tra persone dello stesso sesso è prevista nei rispettivi ordinamenti», nulla potrà impedire in
futuro di «farsi interprete del mutato sentire del corpo sociale e legiferare nel senso auspicato dai reclamanti ...».
(43) App. Firenze, 27 giugno 2008, in Resp. civ. prev., 2008, p. 2342, su cui DAL CANTO, Persone dello stesso sesso:
a vent’otto anni dalla prima pronuncia ancora chiuse le porte alle pubblicazioni matrimoniali, in Foro it., 2008, c.
3697.
138
arrogarsi il diritto di coprire un vuoto normativo, in sostituzione del legislatore.
Sul punto si è osservato che è indubbio che il ruolo della giurisprudenza di merito non sia
esclusivamente limitato alla tutela dei diritti esistenti, ma possa estendersi fino a crearne di nuovi:
questo perché l’art. 2 Cost. non contiene un elenco tassativo di diritti, ma si pone quale clausola
generale, aperta, che impone al giudice il rispetto e la tutela integrale della persona umana nelle
diverse situazioni in cui si esplica la personalità individuale. Ciò nondimeno, appare evidente tutta
la debolezza degli strumenti della giurisprudenza ordinaria di fronte ad un così difficile e travagliato
processo di «inclusione» delle coppie omosessuali ( 44). Altri ancora osservano che la via più
semplice per modificare la regola di diritto potrebbe essere quella del ricorso alla Corte
costituzionale ( 45).
Ora, tale via è proprio quella inutilmente tentata da alcuni giudici rimettenti ( 46), che ha
portato ad una pilatesca decisione, in cui la Consulta ( 47), la quale, sostanzialmente rinviando la
soluzione del problema al legislatore, ha tra l’altro ritenuto il principio di non discriminazione
inapplicabile, in quanto derogato per «specialità» dagli artt. 12 CEDU e 9 della Carta di Nizza, che
prevedono il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia (peraltro con rinvio ai limiti propri delle
legislazioni nazionali).
Sul punto sarà appena il caso di osservare che la regola di non discriminazione non ha nulla a
che vedere con il diritto di sposarsi, né quest’ultimo può essere qualificato come «speciale» rispetto
al primo, atteso che il diritto di contrarre matrimonio non è certo una specificazione del diritto di
non essere discriminati. Semmai, è proprio la concreta conformazione del diritto di sposarsi nel
nostro ordinamento a costituire patente violazione del principio di non discriminazione ( 48).
(44) PIGNATELLI, Nozione di matrimonio e disciplina delle coppie omosessuali in Europa, in Foro it., 2005, V, c.
263.
(45) FERRANDO, Il matrimonio gay, il giudice, il legislatore, cit., p. 2342.
(46) Cfr. Trib. Venezia, 3 aprile 2009, in Resp. civ. prev., 2009, p. 1905, con nota di FERRANDO, Il matrimonio gay:
il testimone passa alla Consulta; in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 911, con nota BUFFONE; App. Trento, 29 luglio
2009; App. Firenze, 3 dicembre 2009; Tribunale Ferrara,14 dicembre 2009. A commento delle ordinanze v. anche
BONINI BARALDI, “Comizi d’amore” in tempo di crisi, in Fam. dir., 2009, p. 830 ss.; CRIVELLI, Il matrimonio
omosessuale all’esame della Corte Costituzionale, in Giur. cost., 2009, p. 726; FIORILLO Matrimonio omosessuale: la
lacuna italiana nella tutela dei diritti, alla luce della Costituzione e della normativa europea, in Giur. merito, 2009;
MELANI, Il matrimonio omosessuale davanti alla Corte Costituzionale: azzardo o svolta? in
www.forumcostituzionale.it; PATRONE, Il matrimonio tra persone omosessuali davanti alla Corte Costituzionale, in
Quest. giust., 2009, p. 143; PIGNATELLI, Dubbi di legittimità costituzionale sul matrimonio, in Forum di Quad. cost.,
2010.
Con particolare riguardo a Trib. Venezia, 3 aprile 2009, cit., nonchè App. Trento, 29 luglio 2009, che per la prima
volta hanno sollecitato l’intervento della Corte Costituzionale sulla questione del matrimonio omosessuale, va detto che,
ad avviso di tali provvedimenti il mancato riconoscimento del matrimonio omosessuale determinerebbe
un’ingiustificata compromissione del diritto inviolabile di contrarre matrimonio, in contrasto con l’art. 2 Cost. e una
sostanziale disparità di trattamento, in riferimento all’art. 3 Cost., tra i soggetti omosessuali e transessuali, i quali, una
volta ottenuta la rettificazione di sesso, ai sensi della l. n. 164 del 1982, possono unirsi in matrimonio con persone del
proprio sesso di nascita (cfr. BUFFONE, Riconoscibilità del diritto delle persone omosessuali di contrarre matrimonio
con persone del proprio sesso, Nota a Trib. Venezia, 3 aprile 2009, in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 921).
L’ordinanza veneziana aderisce poi all’interpretazione storico-sociologica dell’art. 29 Cost., sostenendo che il
riferimento alla famiglia come società naturale fondata sul matrimonio non può esaurirsi nella famiglia tradizionale,
formata dall’unione dell’uomo e della donna, trattandosi invece di una nozione dinamica, aperta alle trasformazioni
sociali e storiche. Tale lettura, che sarebbe confermata sia dai lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, sia
dall’evoluzione del diritto di famiglia, dal 1948 fino ad oggi, non ostacolerebbe, ma anzi imporrebbe il matrimonio tra
persone dello stesso sesso. In ultimo, il giudice veneziano assume violato l’art. 117, comma primo, Cost., che impone al
legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali. Nello specifico,
si richiamano gli atti delle Istituzioni comunitarie, che da tempo invitano gli Stati ad introdurre il matrimonio
omosessuale, o forme di tutela analoghe, per le coppie omosessuali e le norme della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo che sanciscono il rispetto della vita privata e familiare (art. 8), il diritto al matrimonio (art. 12) e il divieto di
discriminazione (art. 14). In termini non dissimili, anche la successiva ordinanza della corte d’appello di Firenze (App.
Firenze, 3 dicembre 2009) aderisce alla concezione naturalistica della famiglia, come realtà che preesiste allo Stato: «il
matrimonio in quanto realtà naturale, non può essere considerato ostacolo ma stimolo ad ammettere il matrimonio
omosessuale».
(47) Corte cost., 15 aprile 2010, cit.
(48) Come osservato da BIANCHI, La Corte chiude le porte al matrimonio tra persone dello stesso sesso, nota a Corte
cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Giur. it., 2011, p. 542, «L’ultimo passaggio della motivazione riguarda il richiamo,
139
Desta poi stupore che, in motivazione, la Consulta s’appigli all’art. 30 Cost., rilevando che da
tale norma si desumerebbe la «potenziale finalità procreativa dell’istituto». Ora, a parte la
considerazione per cui anche la coppia omosessuale potrebbe avere figli ( 49) e che la stessa Corte di
cassazione sta operando inaspettate aperture sul tema dell’adozione da parte dei singles ( 50) va detto
che la Corte costituzionale sembra ignorare quanto sopra riportato circa il definitivo superamento di
ogni possibile finalità procreativa con l’abrogazione del previgente art. 123 c.c. e l’introduzione nel
1975 della versione attualmente in vigore dell’art. 122 c.c. ***adde riferimento trib. reggio emilia,
già illustrata prima***
5. Le convivenze omosessuali nella giurisprudenza sovranazionale. Generalità. La posizione
del Parlamento europeo e gli effetti della Carta di Nizza.
Si è esattamente posto in luce in dottrina ( 51) che, quando ancora nel diritto di origine interna
mancavano riferimenti espliciti all’orientamento sessuale, furono le fonti internazionali a indicare
tale condizione personale tra quelle che non possono di per sé giustificare un trattamento
differenziato ( 52). Così, nel caso Toonen v Australia, il Comitato O.N.U. per i diritti umani ha
affermato che il termine «sesso» di cui agli art. 2, primo comma, e 26 del Patto dir. civ. e pol.
comprende anche l’ «orientamento sessuale» ( 53).
Dal 1999 i testi fondamentali dell’Unione europea e delle Comunità europee prevedono
espressamente che le politiche e le azioni europee debbano mirare a combattere le discriminazioni
fondate sull’orientamento sessuale ( 54). La Direttiva 2000/78/CE del 27 novembre 2000 sulla parità
di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro vieta le discriminazioni fondate,
tra l’altro, sull’«orientamento sessuale». L’art. 21 della Carta di Nizza, come più volte ricordato,
vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata», tra l’altro, sulle «tendenze sessuali» ( 55).
Il Parlamento europeo, dal canto suo, ha indirizzato alcune raccomandazioni e risoluzioni, sia
agli Stati membri, che alla Commissione, in materia di diritti delle persone omosessuali.
In particolare, già in data 8 febbraio 1994 è stata adottata una risoluzione sulla parità dei diritti
degli omosessuali, con la quale il Parlamento ha chiesto alla Commissione di presentare una
proposta di raccomandazione nella quale venisse sollecitata la rimozione degli «ostacoli frapposti al
matrimonio di coppie omosessuali ovvero a un istituto giuridico equivalente, garantendo
contenuto nelle ordinanze di rimessione, alla sentenza Goodwin, oltre che alle disposizioni della Cedu e della Carta di
Nizza in materia di diritto al matrimonio e alla tutela della vita privata e familiare. La Corte si sofferma sulla decisione
della Corte europea dei diritti dell’uomo (che aveva ritenuto contrario alla convenzione il divieto di matrimonio con
persona dello stesso sesso biologico che avesse cambiato sesso), per rilevare che la pretesa apertura alla tutela
dell’orientamento sessuale è contraddetta dalla circostanza che vi fosse stato un cambiamento di sesso, non riconosciuto
dal diritto inglese a differenza di quello italiano. Inoltre, si conferma la non comparabilità tra la situazione del
transessuale e quella dell’omosessuale. È appena da notare che è omessa ogni valutazione sul punto chiave di Goodwin:
la garanzia del diritto a sposarsi, non condizionato né dal sesso né dall’orientamento sessuale».
(49) Sul tema v. infra, §§ 8-11, in questo Cap.
(50) V. ad es. Cass., 14 febbraio 2011, n. 3572 con cui la Corte ha, tra le righe, auspicato una nuova
regolamentazione della materia dell’adozione da parte di soggetti non coniugati, invitando il legislatore ad ampliare
l’ambito di possibilità di adozione di un minore da parte di persone singole con effetti legittimanti, laddove tuttavia ne
ricorrano particolari circostanze.
(51) LONG, Le fonti di origine extranazionale, in AA. VV., Trattato di diritto di famiglia, diretto da Zatti, I, Famiglia
e matrimonio, 1, seconda edizione, cit., p. 150.
(52) Sul ruolo delle fonti internazionali nell’affermazione del principio di non discriminazione per ragioni di
orientamento sessuale cfr. DANISI, Il principio di non discriminazione dalla CEDU alla Carta di Nizza: il caso
2010,
in
dell’orientamento
sessuale,
http://www.forumcostituzionale.it/site/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0154_danisi.pdf; PALLARO, I diritti
degli omosessuali nella Convenzione europea per i diritti umani e nel diritto comunitario, in Riv. int. dir. uomo, 2000,
p. 104; WINTEMUTE, Sexual Orientation and Human Rights, Oxford, 1997.
(53) Nicholas Toonen v Australia, 31 marzo 1994.
(54) Cfr. art. 13 Trattato CE, così come inserito dal Trattato di Amsterdam nel 1997, e oggi l’art. 10 del TFUE.
(55) Esattamente rimarca LONG, Le fonti di origine extranazionale, cit., p. 151, nota 89, che la locuzione
«orientamento sessuale», che compare nelle altre lingue, è stranamente resa in italiano con «tendenze sessuali».
140
pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e consentendo la registrazione delle unioni», nonché la
rimozione di «qualsiasi limitazione del diritto degli omosessuali di essere genitori ovvero di
adottare o avere in affidamento dei bambini».
Queste indicazioni sono state riprese dalla risoluzione sul rispetto dei diritti umani
nell’Unione europea in relazione al biennio 1998-1999, adottata il 16 marzo 2000, con la quale,
richiamando l’art. 13 del Trattato istitutivo della Comunità europea, il Parlamento europeo ha
chiesto «agli Stati che non vi abbiano ancora provveduto di modificare la propria legislazione al
fine di riconoscere legalmente la convivenza al di fuori del matrimonio indipendentemente dal
sesso» e ha evidenziato «la necessità di compiere rapidi progressi nell’ambito del riconoscimento
reciproco delle varie forme di convivenza legale a carattere non coniugale e dei matrimoni legali tra
persone dello stesso sesso».
Richieste di analogo tenore sono state formulate anche nella Risoluzione sulla situazione dei
diritti fondamentali nell’Unione europea, approvata dal Parlamento europeo il 4 settembre 2003.
Con essa, il Parlamento europeo ha auspicato la legittimazione, all’interno degli Stati membri, dei
rapporti di coniugio e dell’adozione, anche se richiesti da nuclei familiari composti da persone dello
stesso sesso.
Ancora, si potrà menzionare l’art. 56 della Risoluzione del Parlamento europeo del 16 marzo
2000, in tema di rispetto dei diritti umani nell’Unione, volto a garantire alle coppie non sposate ed a
quelle omosessuali i medesimi diritti rispetto alle coppie ed alle famiglie tradizionali, in particolare
in materia di legislazione fiscale, regime patrimoniale e diritti sociali. In tale atto il Parlamento
europeo aveva indicato la necessità di compiere rapidi progressi nell’ambito del riconoscimento
delle varie forme di convivenza legale a carattere non coniugale e dei matrimoni legali tra persone
del medesimo sesso. Si potrà poi anche citare la Direttiva 2004/38/CE che, in materia di
ricongiungimenti familiari, ha stabilito che il cittadino europeo che prenda la residenza in un altro
Stato membro, possa riunirsi al coniuge ma anche al partner con cui ha registrato l’unione nello
Stato di provenienza, purché riconosciuta equivalente al matrimonio dallo Stato ospitante.
Si tratta di interventi in tema di disciplina delle unioni di fatto che il Parlamento europeo fa
rientrare nell’ambito della generale tutela dei diritti umani, essendo la normativa del diritto di
famiglia riservata alla competenza esclusiva dei singoli Stati membri, e costituendo una materia
incisivamente sottoposta ed influenzata da valori, cultura e tradizioni propri di una nazione. Le
iniziative del Parlamento europeo, pur incoraggiando l’adozione di strumenti atti ad eliminare le
discriminazioni esistenti, non hanno indicato il matrimonio omosessuale quale unica forma di tutela,
lasciando gli Stati membri liberi di scegliere un altro strumento giuridico equivalente.
Il legislatore europeo ha peraltro rivolto nel 2008 un ulteriore invito alla Commissione perché
intervenisse al fine di eliminare gli ostacoli frapposti al matrimonio omosessuale o ad un istituto
giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del matrimonio e consentendo la
registrazione delle unioni, a modificare dunque i propri ordinamenti in modo da introdurre la
convivenza registrata e riconoscere giuridicamente le unioni di fatto, senza discriminazioni basate
sul sesso ( 56).
Successivamente, con la Risoluzione del 14 gennaio 2009 in tema di diritti fondamentali
nell’Unione europea, il detto Parlamento ha nuovamente sollecitato gli Stati membri – che non
abbiano ancora operato in tal senso – ad adottare normative di legge al fine di eliminare le
discriminazioni cui sono soggette determinate coppie in ragione del proprio orientamento sessuale,
esortando la Commissione a formulare proposte che assicurino il principio del riconoscimento
giuridico delle coppie omosessuali – siano esse sposate o legate da una unione civile registrata.
Della Carta di Nizza, dei suoi effetti e dei suoi limiti si è già avuto modo di trattare ( 57),
allorquando si è cercato di individuare le possibili ricadute sulla famiglia di fatto
«tradizionalmente» intesa. Qui potrà ribadirsi che, avendo tale documento, all’art. 9, individuato in
capo ad ogni persona «il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia» (pur «secondo le leggi
nazionali che ne disciplinano l’esercizio»), la Carta ha compiuto una scelta decisiva, poiché ha
(56) Risoluzione del Parlamento europeo dell’8 febbraio 2008 per la parità dei diritti degli omosessuali nella
Comunità europea.
(57) V. supra, Cap. I, §§ 3 s.
141
consapevolmente optato per un’espressione diversa da quella contenuta nell’art. 12 della
Convenzione europea sui diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (per cui «uomini e donne in età
adatta hanno diritto di sposarsi»), proprio al fine di non escludere le coppie omosessuali.
Esattamente la dottrina ha rilevato come «in tal modo si apre la via al riconoscimento delle
coppie omosessuali e dello stesso matrimonio tra omosessuali» ( 58), influenzando, a sua volta,
l’interpretazione dello stesso art. 12 della C.E.D.U., atteso che, come si vedrà, anche la Corte di
Strasburgo, chiamata a verificare la compatibilità dell’esclusione delle coppie omosessuali
dall’istituto matrimoniale, con una decisione resa nel 2010, ha marcato un chiarissimo revirement
di portata storica ( 59).
6. Segue. La posizione della Corte di giustizia dell’Unione europea.
Non vi è dubbio che la Corte di Giustizia dell’Unione europea abbia manifestato a lungo una
notevole cautela nell’estendere ai conviventi omosessuali i diritti riconosciuti alle coppie
eterosessuali (coniugate o meno). Ad esempio, ancora al finire dello scorso millennio, la Corte del
Lussemburgo affermava che «allo stato attuale del diritto nella Comunità, le relazioni stabili tra due
persone dello stesso sesso non sono equiparate alle relazioni tra persone coniugate o alle relazioni
stabili fuori del matrimonio tra persone di sesso opposto» ( 60).
Ma, rispettivamente, dieci e tredici anni dopo il precedente da ultimo citato, nei casi Maruko e
Römer, può veramente dirsi che l’atteggiamento della Corte sia venuto a mutare in modo radicale. E
ciò già a partire dal c.d. giudizio di comparazione, cioè dall’individuazione del termine di paragone
alla luce del quale esaminare la situazione della coppia convivente omosessuale. Nei casi Maruko e
Römer, infatti, la Corte di giustizia ha affermato che tale termine non è costituito necessariamente
dagli individui di pari status (cioè i conviventi more uxorio eterosessuali), bensì dalle coppie che si
trovino in una situazione sostanzialmente analoga e quindi dalle coppie coniugate eterosessuali,
qualora la situazione della coppia dello stesso sesso appaia, in concreto, assimilabile a quella
dell’unione coniugale ( 61).
(58) FERRANDO, Il matrimonio gay: il testimone passa alla Consulta, Nota a Trib. Venezia, 3 aprile 2009, in Resp.
civ. prev., 2009, p. 1905. V. inoltre GATTUSO, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, cit., p. 808. Come osservato
dalla Corte di Cassazione, l’art. 9 «non richiede più come requisito necessario per invocare la garanzia dalla norma
stessa prevista la diversità di sesso dei soggetti del rapporto» (Cass., 17 marzo 2009, n. 6441).
(59) Cfr. Schalk and Kopf v Austria, cit. Per una prima analisi della sentenza cfr. GATTUSO, La Corte costituzionale
sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, Nota a Corte cost., 15 aprile 2010, n. 138, in Fam. dir., 2010, p. 653 ss.;
DANISI, La Corte di Strasburgo e i matrimoni omosessuali: vita familiare e difesa dell’unione tradizionale, in Quad.
cost., 2010, p. 867; SILEONI, La Corte di Strasburgo e i matrimoni omosessuali: il consenso europeo, un criterio fragile
ma necessario, ibidem, p. 870; WINKLER, Le famiglie omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo, in
Nuova giur. civ. comm., 2010, I, p. 1337.
(60) Corte di giustizia, Lisa Jacqueline Grant v South-West Trains Ltd, 17 febbraio 1998, in causa n. C-249/96, par.
38. Sul punto v. anche TONER, Immigration rights of same sex couples in EC Law, in AA. VV., BOELE-WOELKI e
FUCHS, Legal recognition of same sex couple in Europe, cit., p. 178; CANOR, Equality for Lesbians and Gay Men in the
European Community Legal Order — They Shall be Male and Female, in MJ, 7, (2000), p. 273 ss.
(61) Corte di giustizia, Grande sezione, Maruko v Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen, 10 aprile 2008, in causa
C-267/06, in Fam. e dir., 2008, p. 653, con nota di BONINI BARALDI (cfr. in particolare par. 67); Corte di giustizia,
Grande Sezione, 10 maggio 2011, Römer v Freie und Hansestadt Hamburg, in causa C-147/08, in Fam. dir., 2012, p.
113 ss., con nota di NUNIN, che ha affermato il principio della parità di diritti pensionistici per gli omosessuali congiunti
con una unione civile registrata; secondo la Corte, il trattamento non può essere inferiore a quello più favorevole
concesso alle persone di diverso sesso regolarmente sposate. Ad avviso dei giudici del Lussemburgo, la direttiva del
Consiglio n. 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e
condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che non sono escluse dal suo ambito di applicazione ratione
materiae – né sulla base del suo art. 3, n. 3, né a norma del suo ventiduesimo considerando – le pensioni complementari
di vecchiaia come quelle versate agli ex dipendenti della Freie und Hansestadt Hamburg e ai loro superstiti ai sensi
della legge del Land di Amburgo del 30 maggio 1995, le quali costituiscono retribuzione ai sensi dell’art. 157 TFUE. Il
combinato disposto degli artt. 1, 2 e 3, n. 1, lett. c), della direttiva 2000/78 osta ad una norma nazionale, come quella di
cui all’art. 10, n. 6, della succitata legge del Land Amburgo, per cui un beneficiario partner di un’unione civile
percepisca una pensione complementare di vecchiaia di importo inferiore rispetto a quella concessa ad un beneficiario
coniugato non stabilmente separato, qualora nello Stato membro interessato, il matrimonio sia riservato a persone di
sesso diverso e coesista con un’unione civile quale quella prevista dalla legge 16 febbraio 2001, sulle unioni civili
142
È dunque vero che, nei casi in cui si accerti in concreto che la posizione del partner dello
stesso sesso è analoga a quella del coniuge (pensiamo ai caratteri individuati dalla giurisprudenza
interna per ammettere il risarcimento del danno patrimoniale da morte del convivente more uxorio),
in applicazione del «metodo Maruko» occorrerà concludere nel senso dell’esistenza di un
trattamento discriminatorio: costituisce infatti una discriminazione diretta ogni differenza di
trattamento tra situazioni che risultino in concreto assimilabili ( 62).
Simili modo, ove si ponga mente al diritto successorio di abitazione della casa familiare di
proprietà del partner defunto che il nostro legislatore riserva al coniuge superstite (art. 540 cpv.
c.c.), il fatto che l’esigenza di tutela della famiglia «tradizionale» coincida con la protezione dei
diritti dei successori legittimi e legittimari, induce a dubitare della necessarietà dell’esclusione tout
court del convivente dal diritto al mantenimento dell’habitat domestico ai fini della tutela dei
controinteressati stessi. Qualora gli eredi legittimi manchino, è evidentemente assente qualsiasi
esigenza di tutela. Qualora tali eredi esistano, occorre invece effettuare un bilanciamento tra gli
interessi contrapposti: il riconoscimento al convivente del diritto di abitazione e agli eredi della
nuda proprietà dell’immobile e dei mobili consente probabilmente in concreto di offrire tutela a
entrambe le posizioni.
Il margine di apprezzamento di cui gode lo Stato italiano in questa materia, inoltre, deve
ritenersi sensibilmente ridotto in virtù del fatto che ai conviventi omosessuali è precluso tout court
il matrimonio (e dunque la soddisfazione del requisito stabilito dalla legge per l’accesso al
beneficio) e non esistono strumenti lato sensu negoziali con cui una coppia non coniugata possa
tutelarsi reciprocamente e i cui effetti vadano oltre la loro relazione privata ( 63).
7. Segue. La posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Fino a non molti anni or sono era sicuramente corretto affermare ( 64) che la consolidata
giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo rifiutava di riconoscere l’esistenza di una
«vita familiare» tra persone del medesimo sesso, ritenendo invece sempre applicabile alle questioni
concernenti gli omosessuali l’art. 8 sotto il profilo del diritto al rispetto della «vita privata» ( 65). È
però altrettanto innegabile che, nel volgere di breve tempo, anche a Strasburgo la musica è
radicalmente mutata.
Ed invero, a parte il già segnalato revirement sul diritto dei transessuali al matrimonio ( 66), il
«la» a questo nuovo modo di guardare alla convivenza omosessuale, sulle rive dell’Ill, era stato dato
dal caso Salgueiro da Silva Mouta v Portugal, in cui la Corte affrontò per la prima volta una
controversia concernente un omosessuale dal punto di vista del rispetto della vita familiare; tuttavia
la pronuncia, sebbene interessante, non segna ancora un superamento del tradizionale approccio
della Corte: nel caso di specie infatti si discuteva del rispetto della vita familiare del ricorrente
omosessuale e della figlia avuta da questi in una precedente relazione eterosessuale ( 67). Altro
precedente di peso attiene alla vicenda dell’adozione da parte di single, che viva però in coppia con
registrate (Gesetz über die Engetragene Lebenspartnerschaft), che è riservata a persone dello stesso sesso, e sussista
una discriminazione diretta fondata sulle tendenze sessuali, per il motivo che, nell’ordinamento nazionale, il suddetto
partner di un’unione civile si trova in una situazione di diritto e di fatto paragonabile a quella di una persona coniugata
per quanto riguarda la pensione summenzionata. La valutazione della comparabilità ricade nella competenza del giudice
del rinvio e deve essere incentrata sui rispettivi diritti ed obblighi dei coniugi e delle persone legate in un’unione civile,
quali disciplinati nell’ambito dei corrispondenti istituti e che risultano pertinenti alla luce della finalità e dei presupposti
di concessione della prestazione in questione.
(62) LONG, Le fonti di origine extranazionale, cit., p. 153.
(63) Così ancora LONG, Le fonti di origine extranazionale, cit., p. 153 s.
(64) Cfr. ad es. LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, cit., p. 187.
(65) Sul diritto al rispetto della vita privata quale strumento per la tutela delle coppie omosessuali cfr. diffusamente
LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, cit., p. 198 ss.
(66) V. supra, Cap. I, § 5.
(67) Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo, Salgueiro da Silva Mouta v Portugal, 21 dicembre 1999, su cui v. infra,
§ 8, in questo Cap.
143
un partner del medesimo sesso ( 68).
Tali decisioni, come previsto, tra gli altri da chi scrive ( 69), hanno segnato una vistosa svolta,
che ha portato la Corte europea a includere «l’orientamento sessuale» tra le ragioni che non possono
di per sé determinare una differenza di trattamento ai sensi dell’art. 14 ( 70), essendo le differenze di
trattamento fondate sull’orientamento sessuale conformi alla Convenzione, solo se se ne dimostra la
necessità per il perseguimento di un fine legittimo ( 71).
E dunque, mentre già nel 2003, nel caso Karner v Austria, lo Stato convenuto era stato
condannato per violazione degli artt. 8 (che garantisce tra l’altro il rispetto al proprio «domicilio») e
14 della Convenzione, poiché non aveva dimostrato che l’esclusione dei conviventi more uxorio
omosessuali dalla successione di diritto nel contratto di locazione dopo la morte del convivente
conduttore fosse «necessaria» per raggiungere il fine legittimo della «protezione della famiglia
intesa in senso tradizionale» ( 72), nella successiva pronuncia Schalk e Kopf v Austria, emanata nel
2010, la Corte di Strasburgo ha affermato che l’esclusione delle coppie omosessuali dal matrimonio
non integra un trattamento discriminatorio contrario alla C.E.D.U., ma ciò solo in quanto in Austria
è oggi riconosciuta la possibilità di registrare la convivenza, con attribuzione di alcuni diritti e
doveri simili, sia pur più limitati, a quelli coniugali ( 73).
Questa decisione, come non si è mancato di notare, costituisce prova di un «affascinante
“dialogo tra le Carte”», nell’ambito del quale i giudici di Strasburgo hanno richiamato proprio l’art.
9 della Carta della U.E. per modificare la propria interpretazione dell’art. 12 della C.E.D.U.,
annunciando solennemente che «la Corte non considererà più che il diritto di sposarsi ai sensi
dell’art. 12 debba essere necessariamente limitato al matrimonio tra persone di sesso opposto» ( 74).
(68) V. il caso E.B. v France, sui cui v. infra, § 8, in questo Cap.
(69) OBERTO, Problemi di coppia, omosessualità e filiazione, cit., in Dir. fam. pers., 2010, p. 802 ss., 809 ss. (lo
studio è altresì edito in AA. VV., Omogenitorialità. Filiazione, orientamento sessuale e diritto, a cura di Schuster,
Milano-Udine, 2011, p. 245 ss.; le citazioni in questo lavoro si riferiscono all’articolo pubblicato su Dir. fam. pers.).
(70) Il cui testo, pur menzionando le discriminazioni «fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le
opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la
ricchezza, la nascita od ogni altra condizione» non menziona espressamente l’orientamento sessuale.
(71) Il principio è stato affermato con riferimento alla differenza di trattamento nel diritto penale dei rapporti sessuali
tra persone consenzienti dello stesso sesso e di sesso diverso (Corte europea dei diritti dell’uomo, L. and V. v Austria, 9
gennaio 2003, in cause nn. 39392/98 and 39829/98), alla scelta sull’affidamento della prole minorenne a seguito della
rottura della relazione di coppia tra i genitori (Salgueiro da Silva Mouta v Portugal, 21 dicembre 1999), alla valutazione
dell’idoneità all’adozione di minori della persona omosessuale (Fretté v France, 26 febbraio 2002 e E. B. v France, 22
gennaio 2008), al diritto del convivente more uxorio superstite dello stesso sesso a succedere nel contratto di locazione
intestato al compagno defunto (Karner v Austria, 24 luglio 2003), al diritto dei partners dello stesso Sesso di ottenere il
riconoscimento della loro relazione di coppia (Schalk and Kopf v Austria, 24 giugno 2010).
(72) Karner v Austria, cit., par. 41.
(73) Schalk and Kopf v Austria, cit., par. 109. Per il periodo di tempo precedente tale riforma legislativa non
sussisteva comunque una violazione, poiché l’Austria non aveva ecceduto il margine di apprezzamento che doveva
esserle riconosciuto in ragione della mancanza di un consensus sul punto tra gli Stati membri del Consiglio d’Europa
(ivi, parr. 104 ss.). La Corte ha poi ritenuto all’unanimità l’inesistenza di una violazione dell’art. 12 CEDU e ha
respinto, con una maggioranza di soli quattro voti contro tre, la tesi del ricorrente di esistenza di una violazione del
combinato disposto degli artt. 8 e 14 CEDU. Su tale decisione cfr. CONTE, Profili costituzionali del riconoscimento
giuridico delle coppie omosessuali alla luce di una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, Nota a Corte
europea dei diritti dell’uomo, Schalk and Kopf v Austria, cit., in Corr. giur., 2011, p. 573 ss.; CONTI, Convergenze
(inconsapevoli o…naturali) e contaminazioni tra giudici nazionali e Corte EDU: a proposito del matrimonio di coppie
omosessuali, ibidem, p. 579 ss.; WINKLER, Le famiglie omosessuali nuovamente alla prova della Corte di Strasburgo,
in Nuova giur. civ. comm., 2010, p. 1148 ss.
(74) «60. Turning to the comparison between Article 12 of the Convention and Article 9 of the Charter of
Fundamental Rights of the European Union (the Charter), the Court has already noted that the latter has deliberately
dropped the reference to men and women (see Christine Goodwin, cited above, § 100). The commentary to the Charter,
which became legally binding in December 2009, confirms that Article 9 is meant to be broader in scope than the
corresponding articles in other human rights instruments (see paragraph 25 above). At the same time the reference to
domestic law reflects the diversity of national regulations, which range from allowing same-sex marriage to explicitly
forbidding it. By referring to national law, Article 9 of the Charter leaves the decision whether or not to allow same-sex
marriage to the States. In the words of the commentary: “... it may be argued that there is no obstacle to recognize samesex relationships in the context of marriage. There is however, no explicit requirement that domestic laws should
facilitate such marriages.” 61. Regard being had to Article 9 of the Charter, therefore, the Court would no longer
consider that the right to marry enshrined in Article 12 must in all circumstances be limited to marriage between two
144
In motivazione, richiamata la propria pregressa giurisprudenza per cui le famiglie de facto
sono da ricondurre nella nozione di «vita familiare» e premesso che «le coppie dello stesso sesso
hanno la stessa capacità delle coppie di sesso diverso di entrare in relazioni stabili e impegnative», i
giudici europei hanno così ritenuto che sarebbe oramai «artificial» mantenere la pregressa
distinzione tra omosessuali ed eterosessuali, annunciando che le relazioni omosessuali non saranno
più comprese soltanto nella nozione di «vita privata», ma nella nozione di «vita familiare», pure
contenuta nell’art. 8.
Correttamente si è ritenuto ( 75) che proprio il rilievo dato dalla Corte nella pronuncia in esame
al consensus che si sta progressivamente formando tra gli Stati europei sull’esigenza di riconoscere
alle coppie dello stesso sesso il diritto di formalizzare in qualche modo la loro unione induce a
ritenere che la perdurante mancanza nell’ordinamento italiano di modalità di formalizzazione delle
unioni omosessuali sarà in un prossimo futuro (se non, ad avviso di chi scrive, già da ora) da
ritenersi in contrasto con l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo alla C.E.D.U.
Su altro versante, sarà di particolare interesse verificare nel prossimo periodo gli effetti delle
novità normative ed interpretative nelle materie di competenza dell’Unione europea, con particolare
riguardo alla libertà di circolazione. La questione si pone sia per i ricongiungimenti familiari sia,
più in generale, per i riflessi dell’eventuale interruzione dello status matrimoniale (conseguente allo
spostamento da un Paese all’altro) sulla stessa nozione di cittadinanza europea e sulla salvaguardia
del principio di non discriminazione sancito dall’art. 21 della Carta di Nizza e dall’art. 14 C.E.D.U.
I Trattati europei, pur avendo valenza diretta soltanto nel loro campo di applicazione,
agiscono quali potenti strumenti interpretativi per il giudice nazionale anche nell’applicazione del
diritto statuale ( 76): è ragionevole pertanto ritenere che in un futuro ormai prossimo andrà
considerata inaccettabile la posizione di chi nel nostro arretrato Paese s’ostina a negare che l’unione
omosessuale possa dar luogo ad una famiglia.
8. Convivenze omosessuali e questioni legate all’omogenitorialità.
dell’orientamento sessuale del genitore sull’affidamento della prole.
Ininfluenza
Una serie di questioni messe a fuoco nel corso di questi ultimi anni da dottrina e
giurisprudenza, anche sulla scorta di esperienze straniere e transnazionali, attiene al profilo
dell’omogenitorialità: materia, questa, che a sua volta appare strettamente legata ai temi della
procreazione medicalmente assistita, nonché dell’adozione e dell’affido familiare ( 77).
Per ciò che attiene, più specificamente, all’incidenza che, nell’ambito della crisi del rapporto
di coppia, l’orientamento sessuale dei genitori può dispiegare sulle relazioni con i figli minori,
vanno tenuti distinti i due versanti seguenti: (a) quello delle conseguenze per la prole della crisi di
una coppia eterosessuale, allorquando uno dei due genitori abbia dato vita ad una relazione
omosessuale con un nuovo partner; (b) quello delle conseguenze per la prole della fine un rapporto
di coppia omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) sia sorto un rapporto di filiazione, o
si siano sviluppate relazioni privilegiate tra il/la compagno/a e il figlio dell’altro/a.
Il primo caso da prendere in considerazione è dunque quello di una coppia eterosessuale –
coniugata o meno, ma convivente e con prole minorenne – la quale si venga a trovare in una
situazione di crisi, mentre uno dei suoi componenti inizia un rapporto di tipo omosessuale, che
magari sfocia anche in una convivenza con il nuovo/la nuova partner. Al riguardo si dovrà tenere
persons of the opposite sex. Consequently, it cannot be said that Article 12 is inapplicable to the applicants’ complaint.
However, as matters stand, the question whether or not to allow same-sex marriage is left to regulation by the national
law of the Contracting State». La Corte cita in tale decisione il caso Goodwin; va però tenuto conto del fatto che il
medesimo rationale, fondato sul dialogo tra la Convenzione EDU e la Carta di Nizza si rinviene anche in Case of I. v
The United Kingdom, 11 luglio 2002 (in causa n° 25680/94).
(75) LONG, Le fonti di origine extranazionale, cit., p. 152.
(76) Così GATTUSO, Il matrimonio tra persone dello stesso sesso, cit., p. 810.
(77) Per i richiami alla letteratura, sterminata in materia, si fa rinvio a AA. VV., Omogenitorialità. Filiazione,
orientamento sessuale e diritto, a cura di Schuster, cit., passim; v. inoltre OBERTO, Problemi di coppia, omosessualità e
filiazione, cit., p. 802 ss.
145
presente in primo luogo la regola del divieto, sul piano sovranazionale, di discriminazioni basate
sull’orientamento sessuale. Sul punto rilievo dirimente assumono regole quali quelle di non
discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale consacrate nella già più volte ricordata Carta
di Nizza (art. 21, primo comma) e di rispetto della vita privata e familiare di cui alla Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (art. 8).
Sul punto, a parte i già ricordati interventi del Parlamento europeo, va detto che per quanto
attiene alla Corte europea dei diritti dell’uomo, se è vero che tale consesso si è (per lo meno sino ad
ora) rifiutato di estendere alle coppie omosessuali i principi attinenti alla legislazione matrimoniale,
con le conseguenti norme «di favore» verso i nubendi, esso ha chiaramente preso posizione in senso
contrario all’applicazione di principi «di sfavore» (e dunque discriminatori) verso genitori
omosessuali. Potrà citarsi al riguardo, ancora una volta, la sentenza del 21 dicembre 1999, nel caso
Salgueiro da Silva Mouta v Portugal. Sul punto la Corte europea ha ritenuto che una decisione della
Corte d’appello di Lisbona, la quale aveva negato l’affidamento della figlia minorenne al padre,
motivando sulla base dell’omosessualità di quest’ultimo e della sua convivenza con un altro uomo,
costituisse violazione degli artt. 8 e 14 della Convenzione ( 78).
Sarà interessante notare che il riscontro della medesima violazione dell’art. 14 della
Convenzione cit. «combiné avec l’article 8» si pone alla base del successivo arresto del 22 gennaio
2008, con il quale i giudici di Strasburgo hanno condannato la Francia nel caso E.B. v France,
dichiarando contrario alla Convenzione il diniego dell’idoneità all’adozione deciso dalle autorità di
uno Stato membro che consente per legge al singolo di adottare, qualora tale diniego sia motivato
con la mancanza di un riferimento genitoriale del sesso opposto a quello dell’aspirante genitore
adottivo celibe o nubile. Decisione, quest’ultima, che costituisce un’importante novità, atteso che,
nel precedente caso Fretté v France, la medesima Corte europea dei diritti dell’uomo aveva
ritenuto, con una maggioranza di soli quattro voti contro tre, che il rifiuto al ricorrente dell’idoneità
all’adozione non integrasse un trattamento ingiustificatamente discriminatorio ( 79).
Principi analoghi a quelli del caso Salgueiro da Silva Mouta v Portugal sono stati affermati
anche dalla giurisprudenza italiana, che ha in diverse occasioni ritenuto di per sé irrilevante
l’orientamento sessuale del genitore (e la situazione di eventuale convivenza con una persona del
medesimo sesso) ai fini dei provvedimenti che il giudice deve assumere relativamente alla concreta
gestione del rapporto genitoriale ( 80).
9. Crisi della coppia omosessuale e conseguenze per la prole: impostazione del problema.
Potranno ora esaminarsi le conseguenze per la prole della fine un rapporto di coppia
omosessuale, nel corso del quale (nei modi più vari) sia sorto un rapporto di filiazione, o si siano
sviluppate relazioni privilegiate tra il/la compagno/a e il figlio dell’altro/a.
Al riguardo dovrà subito dirsi che un rapporto di filiazione bilaterale rispetto ad entrambi i
membri della coppia omosessuale potrebbe darsi soltanto qualora si trattasse di prole adottiva di
entrambi, ovvero di prole biologica di uno di essi (ovviamente vuoi legittima, in quanto derivante
da precedente unione matrimoniale, vuoi naturale riconosciuta o dichiarata), successivamente
adottata dall’altro; ciò sempre a condizione, beninteso, che la creazione di questo secondo vincolo
non avesse «cancellato» il preesistente rapporto, ma vi avesse aggiunto, per così dire, il secondo al
primo, come avviene, ad es., in base all’art. 44, lett. b), l. n. 184 del 1983: cosa che, peraltro, è da
noi consentita soltanto al coniuge e pertanto non al convivente, tanto dell’opposto, come del
medesimo sesso, del genitore ( 81).
(78) Per rilievi al riguardo si fa rinvio a OBERTO, Problemi di coppia, omosessualità e filiazione, cit., p. 809 ss.
(79) Per i richiami e ulteriori commenti cfr. OBERTO, Problemi di coppia, omosessualità e filiazione, cit., p. 811 ss.
(80) Per i richiami e ulteriori commenti cfr. OBERTO, Problemi di coppia, omosessualità e filiazione, cit., p. 814 ss.
(81) Rileva LONG, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte dell’adozione agli omosessuali, Nota a Corte europea
dei diritti dell’uomo, 22 gennaio 2008, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 675, che «Tutti i Paesi dell’Europa
occidentale, a eccezione del Lussemburgo e dell’Italia, equiparano la coppia coniugata e il singolo nell’accesso
all’adozione. L’obiettivo è di favorire quanto più possibile le adozioni al fine di offrire una protezione stabile e
definitiva ai minori abbandonati (…). La Francia, in particolare, consente al singolo sia l’adozione legittimante
146
Le uniche adozioni legittimanti, in relazione ad un minore abbandonato, da parte di un single
ammesse oggi dal nostro ordinamento sono quella della separazione personale tra i coniugi aspiranti
adottanti nel corso dell’affidamento preadottivo (art. 25, quinto comma, l. n. 184/1983) e quella
dell’adozione pronunciata in un Paese straniero che consente al singolo l’adozione, a istanza di un
cittadino italiano, il quale dimostri al momento della pronuncia di aver soggiornato
continuativamente e risieduto da almeno due anni in tale Paese, ai sensi dell’art. 36, comma quarto,
l. n. 184/1983 (82). A favore del singolo possono inoltre essere pronunciate, come detto, le adozioni
in casi particolari di cui all’art. 44, l. n. 184/1983.
Ben diversa la situazione in svariati altri Paesi, anche europei, i quali consentono l’adozione
del figlio biologico o adottivo del partner indipendentemente dall’orientamento sessuale ( 83). Altri
sistemi ammettono l’esercizio condiviso della potestà genitoriale tra i partners. Così, ad esempio, in
Francia la l. 4 marzo 2002, n. 2002-305, relativa all’autorità parentale, consente al genitore la
delega a terzi di parte o tutta la potestà genitoriale ( 84). Proprio tale istituto ha ricevuto applicazione
in taluni casi di omogenitorialità: così, ad esempio, la Corte d’appello di Montpellier ha confermato
una decisione di primo grado, in relazione alla posizione di due fratelli minorenni, figli biologici di
genitori entrambi omosessuali, concepiti «dans le cadre du projet d’enfant» della madre con la sua
convivente. Dopo la morte della madre biologica i figli avevano continuato a vivere con la ex
convivente di questa, sulla base di un documento redatto dalla madre tre anni prima di morire, nel
quale la stessa aveva espresso «sa volonté de voir ses enfants confiés en cas de décès à
(adoption plénière) sia l’adozione non legittimante (adoption simple). Il singolo e i coniugi che desiderino adottare un
minore con adozione plénière devono essere preventivamente dichiarati idonei dal président du Conseil général du
Département di loro residenza. La dichiarazione di idoneità (agrément) è emanata a seguito di un’istruttoria svolta
interamente ed esclusivamente dai servizi socio-assistenziali territoriali (in Italia invece, com’è noto, l’istruttoria è
condivisa tra i servizi e l’autorità giudiziaria e a quest’ultima spetta la decisione finale). Sebbene la legge non contenga
alcuna norma che regoli espressamente l’adozione da parte della persona omosessuale, i servizi rifiutano quasi
sistematicamente l’agrément ai singoli che si dichiarino omosessuali: il loro choix de vie, infatti, sarebbe contrario
all’interesse del minore in quanto lo priverebbe di un riferimento genitoriale dell’altro sesso (…). L’operato dei servizi
sociali è confermato dalla giurisprudenza amministrativa consolidata (che decide l’impugnazione contro il
provvedimento del président du Conseil général) con l’autorevole avallo del Conseil d’Etat.
(82) Per un esempio v. App. Torino, 30 ottobre 2000, in Minorigiustizia, 2001, n. 1, p. 162.
(83) Cfr. LONG, I giudici di Strasburgo socchiudono le porte dell’adozione agli omosessuali, cit., p. 675.
(84) Cfr. artt. 377, 377-1, 377-2, 377-3 del Code Civil:
«Article 377.
Les père et mère, ensemble ou séparément, peuvent, lorsque les circonstances l’exigent, saisir le juge en vue de voir
déléguer tout ou partie de l’exercice de leur autorité parentale à un tiers, membre de la famille, proche digne de
confiance, établissement agréé pour le recueil des enfants ou service départemental de l’aide sociale à l’enfance.
En cas de désintérêt manifeste ou si les parents sont dans l’impossibilité d’exercer tout ou partie de l’autorité
parentale, le particulier, l’établissement ou le service départemental de l’aide sociale à l’enfance qui a recueilli l’enfant
peut également saisir le juge aux fins de se faire déléguer totalement ou partiellement l’exercice de l’autorité parentale.
Dans tous les cas visés au présent article, les deux parents doivent être appelés à l’instance. Lorsque l’enfant
concerné fait l’objet d’une mesure d’assistance éducative, la délégation ne peut intervenir qu’après avis du juge des
enfants.
Article 377-1.
La délégation, totale ou partielle, de l’autorité parentale résultera du jugement rendu par le juge aux affaires
familiales.
Toutefois, le jugement de délégation peut prévoir, pour les besoins d’éducation de l’enfant, que les père et mère, ou
l’un d’eux, partageront tout ou partie de l’exercice de l’autorité parentale avec le tiers délégataire. Le partage nécessite
l’accord du ou des parents en tant qu’ils exercent l’autorité parentale. La présomption de l’article 372-2 est applicable à
l’égard des actes accomplis par le ou les délégants et le délégataire.
Le juge peut être saisi des difficultés que l’exercice partagé de l’autorité parentale pourrait générer par les parents,
l’un d’eux, le délégataire ou le ministère public. Il statue conformément aux dispositions de l’article 373-2-11.
Article 377-2.
La délégation pourra, dans tous les cas, prendre fin ou être transférée par un nouveau jugement, s’il est justifié de
circonstances nouvelles.
Dans le cas où la restitution de l’enfant est accordée aux père et mère, le juge aux affaires familiales met à leur
charge, s’ils ne sont indigents, le remboursement de tout ou partie des frais d’entretien.
Article 377-3.
Le droit de consentir à l’adoption du mineur n’est jamais délégué».
147
Mademoiselle Valérie F...[la convivente, per l’appunto, della madre biologica]». In proposito la
Corte d’appello ha rilevato che sebbene tale lettre d’intention della madre non fosse stata
«enregistrée devant un notaire, elle constitue néanmoins un élément devant être pris en
considération», unitamente all’accordo del padre biologico, unico titolare della potestà genitoriale, a
seguito del decesso della madre. Da tali premesse ne ha derivato la validità di una delega parziale
«des droits de l’autorité parentale des droits de Monsieur A... à l’égard des enfants Hugo et
Adrien», così respingendo la domanda dei nonni materni dei due ragazzi, che si opponevano a che
costoro vivessero con la ex convivente della madre dei minori ( 85).
Similmente, in Germania, una sentenza emessa nel 2009 dal Bundesverfassungsgericht
(Corte costituzionale) ha riaffermato che le persone omosessuali hanno il diritto di adottare la prole
(biologica) del partner, rigettando la questione di costituzionalità sollevata da un tribunale sulla
legge che consente tale tipo di adozione. La Corte ha spiegato che la genitorialità sociale deve
essere considerata alla stregua di quella biologica ( 86). Si desume, quindi, che il ruolo sociale ed
affettivo del partner stabile del genitore costituisce la ratio alla quale fare riferimento, e dà diritto
ad un riconoscimento formale nell’ordinamento tedesco. In Germania, quindi, l’ipotesi di bigenitorialità omosessuale (con conseguente potestà genitoriale esercitata da entrambi i partner)
viene ammessa in quanto si riconosce espressamente che il compagno omosessuale o eterosessuale
del genitore biologico può effettivamente affiancarsi a quello dello stesso, previo accertamento
dell’interesse dal minore.
È chiaro, quindi, per tornare all’Italia, che, nell’ipotesi (fantagiuridica, per quanto attiene al
sistema italiano, nonostante diverse e rilevanti esperienze straniere stiano a dimostrare l’arretratezza
del nostro Paese) di previsione di matrimonio tra persone del medesimo sesso, ovvero di
predisposizione di forme di adozione legittimante aperte alle coppie del medesimo sesso, il caso qui
appena descritto verrebbe a ricadere, in tutto e per tutto, sotto le regole degli artt. 155 ss. c.c. Si
potrebbe allora parlare a pieno titolo di «bigenitorialità omosessuale».
Così non stando le cose, è comunque innegabile che un rapporto di «genitorialità de facto»
della coppia omosessuale possa darsi: basti pensare al caso dell’unico genitore biologico (o
adottivo, o al genitore biologico o adottivo affidatario a seguito di allentamento o scioglimento di
un precedente legame di coppia eterosessuale) che inizi uno stabile rapporto di coppia con una
persona del medesimo sesso, la quale di fatto venga ad assumere, agli occhi della prole, un ruolo
«co-genitoriale» (si usa al riguardo talora il termine «genitore intenzionale» proprio per designare il
convivente del genitore biologico e/o legale). Il tutto con l’ulteriore particolarità costituita dalla
circostanza che il minore in questione (il quale ha il sacrosanto diritto di infischiarsi delle etichette
che i giuristi possono voler appiccicare alla situazione in esame) ben può aver sviluppato un
rapporto affettivo verso entrambi i partners omosessuali, assolutamente identico a quello che i suoi
coetanei nutrono verso i propri genitori (biologici o adottivi) eterosessuali.
10. Segue. il rilievo degli accordi sui profili patrimoniali.
Il problema è che la crisi della coppia omosessuale, in assenza di un idoneo quadro normativo
(rectius: in assenza, da noi, di un quadro normativo tout court), rischia di essere consegnata a
strumenti di tutela (e sovente di autotutela) incongrui rispetto alla delicatezza richiesta dalla
situazione in cui sono comunque coinvolti minori.
A ben vedere, il problema non appare così grave nelle ipotesi in cui sussista accordo tra gli ex
(85)
Cfr.
App.
Montpellier,
1
décembre
2006,
disponibile
al
sito
web
seguente:
http://www.legifrance.gouv.fr/affichJuriJudi.do?oldAction=rechExpJuriJudi&idTexte=JURITEXT000007633168&fast
ReqId=1865519338&fastPos=1.
Cfr.
BverfG,
10
agosto
2009,
disponibile
al
seguente
sito
web:
(86)
http://www.bundesverfassungsgericht.de/entscheidungen/lk20090810_1bvl001509.html; per il comunicato stampa cfr.
http://www.bundesverfassungsgericht.de/pressemitteilungen/bvg09-098.html; per un’informazione in lingua inglese cfr.
http://www.ilgaeurope.org/europe/guide/country_by_country/germany/important_steps_towards_common_adoption_for_homosexual_
parents_in_germany.
148
partners e questi (come del resto, fortunatamente, sovente accade) siano dotati di un adeguato grado
di maturità e serietà.
Ancora una volta, infatti, esattamente come succede nel caso della crisi della famiglia fondata
sul matrimonio (così come in quella della coppia convivente eterosessuale), un rilievo decisivo
potrà e dovrà assumere la negozialità. Segnatamente, tutti gli strumenti negoziali a disposizione dei
genitori legittimi e naturali per la tutela della prole minorenne sono anche utilizzabili nel quadro di
una situazione del genere di quella qui supposta.
Nulla esclude, quindi, che una coppia omosessuale che intenda separarsi «civilmente»
s’accordi pure per i profili attinenti alla gestione del rapporto con la prole, ancorché si tratti di figli
(biologicamente e/o giuridicamente) di uno solo di essi. Ciò vale innanzi tutto, ad avviso di chi
scrive, per i profili patrimoniali, la cui causa ha natura contrattuale ed è legata al principio di
autonomia riferibile agli artt. 1321 e 1322 c.c., in una situazione di sicura meritevolezza di
protezione da parte dell’ordinamento. Ne deriva che l’assunzione di eventuali impegni ad
effettuazioni di prestazioni pecuniariamente valutabili dovrà ritenersi valida: dall’obbligo di
corrispondere un assegno, all’impegno a contribuire al mantenimento in natura, all’assunzione del
vincolo ad effettuare trasferimenti di beni, alla messa a disposizione di un’unità abitativa, alla
creazione di vincoli di destinazione nell’interesse della prole, ex art. 2645-ter c.c. ( 87), alla
creazione di un trust ( 88).
Potrà qui aggiungersi che attribuzioni, obbligazioni ed esborsi di provenienza del «genitore de
facto» (cioè del «non-genitore» biologico e/o giuridico, ma considerato come vero e proprio
genitore dal minore) dovrebbero essere rivestiti della forma solenne, per evitare ogni contestazione
legata ad un loro supposto carattere donativo.
Ma si tratterebbe comunque di un consiglio a fini di mero tuziorismo. A ben vedere, infatti,
l’interprete potrebbe sovente ravvisare (pur dovendosi modulare la valutazione di volta in volta
sulle particolarità del caso concreto) in questi atti i connotati dell’adempimento di un’obbligazione
naturale. Ben potrebbe dirsi, invero, che, nell’ambito di un rapporto di omogenitorialità, le relazioni
tra i membri di tale famiglia e l’«affidamento» ingenerato nella prole dalla creazione di un rapporto
de facto dotato di (quanto meno apparente) solidità giustificano l’esistenza di «doveri» rilevanti ai
sensi dell’art. 2034 c.c., non dissimilmente da quanto avviene nel contesto della procreazione
biologica naturale non dichiarata né riconosciuta (se non addirittura non riconoscibile) ( 89), o dalla
convivenza more uxorio nei rapporti tra i partners ( 90).
11. Segue. il rilievo degli accordi sui profili personali ed i rimedi in caso di disaccordo.
Per quanto attiene, invece, ai profili personali, è indiscutibile che il fondamento normativo
circa l’ammissibilità di intese sull’affidamento (condiviso o esclusivo) e sulle relative modalità di
gestione del rapporto genitoriale non appare riferibile al caso in cui la potestà risulti giuridicamente
in capo ad una sola persona. Sarà opportuno ricordare che tale fondamento, nel caso di
bigenitorialità, legittima o naturale che sia, va riscontrato vuoi nella disciplina in materia di
separazione personale tra coniugi (cfr. art. 711 c.p.c., laddove si fa riferimento alle «condizioni
della separazione consensuale»), vuoi in quella del divorzio (cfr. art. 4, sedicesimo comma, l.div.,
laddove si fa riferimento alle «condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici») ( 91), vuoi,
infine, nell’estensione del riconoscimento della validità ed efficacia delle intese sulla prole anche al
campo della filiazione fuori dal matrimonio (cfr. i riferimenti agli «accordi» tra i coniugi, rinvenibili
negli artt. 155, secondo, terzo e quarto comma, 155-quater cpv. e 155-sexies cpv. c.c. e applicabili
(87) Su cui v. supra, Cap. VI, per totum.
(88) Ovviamente solo se e nella misura in cui si ritenga ammissibile, secondo il nostro diritto interno, il ricorso a tale
figura: v. supra, Cap. V, § 7.
(89) Su tale fenomeno quale causa di obbligazioni naturali cfr. per tutti BALESTRA, Le obbligazioni naturali, cit., p.
80 s.
(90) V. supra, Cap. V, § 7.
(91) Sul punto v. per tutti OBERTO, I contratti della crisi coniugale, I, cit., p. 696 ss.
149
alla filiazione naturale per effetto dell’art. 4 cpv., l. n. 54/2006) ( 92).
Nulla esclude, però, che, nell’ambito dei poteri/doveri che costituiscono l’essenza della
potestà genitoriale, il titolare di tale situazione decida di riconoscere comunque un ruolo al proprio
ex partner, a condizione che ciò non venga in conflitto (cela va sans dire) con il fondamentale e già
richiamato principio della tutela dell’interesse esclusivo del minore. Con l’ulteriore precisazione
che eventuali deleghe della potestà non potrebbero avere effetto verso i terzi, in assenza di una
normativa analoga a quella che, come si è ricordato, esiste Oltralpe. Per completezza potrà ancora
aggiungersi che, ad esempio, nel regime del civil partnership britannico, la dissoluzione delle
unioni omosessuali in cui sono sorti rapporti di filiazione va accompagnata da uno «Statement of
arrangements» ( 93). Questo documento, dunque, dispone, su accordo dei partner, le conseguenze
per la prole in caso di separazione.
Nel caso di contrasto tra le parti è invece evidente che il partner non genitore non potrà far
valere alcun diritto (e corrispondentemente, non sarà sottoposto ad alcun dovere giuridico) verso il
minore figlio dell’altro. Non va però dimenticato che il criterio cardine per la soluzione dei
problemi in cui un minore può essere coinvolto nella crisi della coppia è pur sempre quello del suo
esclusivo interesse. In nome di tale interesse, ad avviso di chi scrive, il giudice ( 94) è legittimato a
disporre un affidamento anche a favore di un estraneo e tale «estraneo» ben potrebbe essere proprio
il «genitore di fatto».
Come del resto riconosciuto in dottrina ( 95), per quanto paradossale possa sembrare, l’unica
tutela della genitorialità omosessuale è assicurata proprio nel caso di contrasto tra i partners o di
dissenso dell’altro genitore del minore ( 96): in tali casi, infatti, può essere chiesto al tribunale per i
minorenni un provvedimento limitativo della potestà del genitore che con il suo comportamento
pregiudichi l’interesse del figlio minore. A sostegno dell’illustrata soluzione può invocarsi mutatis
mutandis quell’orientamento giurisprudenziale che utilizza l’art. 333 c.c. per consentire i contatti tra
nipoti e nonni cui il genitore esercente la potestà (perché unico genitore vivente o affidatario
esclusivo) o il parente affidatario del minore impedisca di frequentare i nipoti ( 97). In applicazione
degli amplissimi poteri concessi al tribunale per i minorenni, nel contesto della citata procedura, il
partner potrebbe addirittura richiedere l’affidamento del minore, posto che, come riconosciuto dalla
stessa giurisprudenza di legittimità, l’intervento ai sensi del ricordato articolo del codice civile
consente l’eventuale affidamento a terze persone, diverse da un genitore biologico ( 98).
È da notare, infine, che una soluzione del genere rinviene un suo preciso pendant nell’ambito
della disciplina della rottura della coppia eterosessuale (coniugata o meno), in merito ai rapporti
rispetto ai figli di entrambi i membri della coppia stessa.
È da ritenere, invero, che la scomparsa del previgente sesto comma dell’art. 155 c.c., decretata
dalla riforma del 2006 (secondo cui «In ogni caso il giudice può per gravi motivi ordinare che la
prole sia collocata presso una terza persona o, nella impossibilità, in un istituto di educazione») non
impedisce al giudice – chiamato comunque ad adottare i provvedimenti relativi alla prole con
esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa (art. 155, comma secondo, prima parte,
(92) Sul punto cfr. per tutti OBERTO, Accordi tra conviventi e diritti del minore alla luce della riforma
sull’affidamento condiviso, cit., p. 274 ss.
(93) «In a civil partnership where children are involved within the family, a “Statement of Arrangements”, should be
filed. This should include any plans for the children after the dissolution has taken place»: cfr.
http://www.civilpartnershipinfo.co.uk/#Dissolution. La norma di riferimento è il Par. 43 del Civil Partnership Act 2004,
su cui v. http://www.opsi.gov.uk/acts/acts2004/ukpga_20040033_en_3#pt2-ch2-pb2-l1g44.
(94) In tal caso si tratterebbe del Tribunale per i minorenni: cfr. Cass., 7 maggio 2009, n. 10569, in Fam. dir., 2009,
p. 992, con nota di VULLO.
(95) Cfr. LONG, Il diritto italiano della famiglia alla prova delle fonti internazionali, cit., p. 677.
(96) Anche se in tal caso, a ben vedere, non è certo la genitorialità omosessuale ad essere di per sé tutelata, quanto,
ancora una volta, l’interesse del minore, mentre l’«omogenitore» si rende mero strumento di tale interesse.
(97) Dispongono una limitazione della potestà dei genitori ex art. 333 c.c. per consentire i contatti tra nipoti e nonni
cui il genitore esercente la potestà o l’affidatario del minore impediva di frequentare i nipoti minorenni Cass., 24
febbraio 1981, n. 1115, in Foro it., 1982, I, c. 1144 e, nella giurisprudenza di merito, Trib. Min. Perugia, 12 giugno
1979, in Giur. merito, 1980, p. 6; Trib. Min. Torino, 11 maggio 1988, in Giur. it., 1989, I, 2, p. 234; Trib. Min. Bari, 10
gennaio 1991, in Giur. merito, 1992, p. 571; Trib. Min. Messina, 19 marzo 2001, in Dir. fam. pers., 2001, p. 1522.
(98) Cfr. ad es. Cass., 13 agosto 1999, n. 8633; v. inoltre Cass., 15 novembre 1989, n. 4862; Cass., 4 maggio 1996, n.
4147; Cass., 29 marzo 1999, n. 2998.
150
c.c.) – di disporre il collocamento dei figli minori presso terze persone, per esempio i nonni o altri
parenti nell’eventualità che nessuno dei genitori sia in grado di occuparsi adeguatamente dei figli.
Come stabilito in precedenza dalla giurisprudenza di legittimità, si tratta del resto di un
affidamento che il giudice può disporre utilizzando quei larghi poteri che la legge gli attribuisce in
contemplazione dell’esclusivo e superiore interesse del minore ( 99). Del resto, nonostante le discordi
opinioni dottrinali sul punto ( 100), la giurisprudenza intervenuta dopo l’entrata in vigore della l.
2006/54, ha fatto talvolta applicazione dell’affidamento a terze persone, conformemente, a tacer
d’altro, alla locuzione contenuta nell’art. 155 c.c. che consente al giudice di adottare «ogni altro
provvedimento relativo alla prole». Così, ad esempio, una pronunzia di merito ha valorizzato la
costruzione di una categoria di provvedimenti atipici che il giudice è abilitato ad assumere
nell’interesse del minore, ai sensi del secondo comma dell’art. 155 c.c., affidando il minore ai nonni
( 101).
Anche sotto questo profilo, quindi, omo- ed etero-genitorialità mostrerebbero di essere
null’altro che due facce della stessa medaglia.
12. Cenni su alcuni problemi di diritto internazionale privato relativi alle obbligazioni
alimentari nelle convivenze omosessuali.
Venendo ora ad accennare ad alcuni dei risvolti di tipo internazionalprivatistico legati alle
convivenze più o meno formalizzate tra persone del medesimo sesso ( 102), occorre porre in luce un
profilo, dalle conseguenze pratiche di una certa evidenza, legato proprio all’omogenitorialità. È
chiaro, infatti, che, comunque si voglia inquadrare il rapporto omogenitoriale, il riconoscimento di
siffatta situazione postula l’esistenza di doveri di mantenimento, istruzione ed educazione della
prole in tutto e per tutto identici a quelli che esistono nell’ambito di un rapporto «tradizionale».
Orbene, vi è da chiedersi quale rilievo sia stato attribuito, nelle situazioni considerate, al
profilo dell’obbligazione alimentare dal Regolamento (CE) N. 4/2009 del 18 dicembre 2008,
relativo alla competenza, alla legge applicabile, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e
alla cooperazione in materia di obbligazioni alimentari ( 103), ribadendo, a scanso di equivoci, che la
nozione comunitaria di «alimenti» è assai più ampia di quella da noi tecnicamente desumibile dagli
artt. 433 ss. c.c., abbracciando anche le prestazioni contributive endo-matrimoniali, così come
quelle di mantenimento nascenti dalla crisi del rapporto di coppia sia tra gli ex partners (coniugati o
meno che siano o fossero), che verso i figli (legittimi o naturali) ( 104).
Sarà il caso di notare che, a differenza dell’art. 5, paragrafo 2, del Regolamento (CE) n.
44/2001 (previgente ed abrogato in parte qua dal Regolamento del 2009), il quale parlava
genericamente di «obbligazioni alimentari», il Regolamento n. 4/2009 stabilisce, all’art. 1, che esso
«si applica alle obbligazioni alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio
o di affinità».
Ora, proprio in relazione a questo inciso, va registrato un netto regresso rispetto alla
(99) Cfr. Cass., 7 febbraio 1995, n. 1401, in Giur. it., 1996, I, 1, c. 538 ss., con nota di A. GABRIELLI; cfr. inoltre
Cass., 8 maggio 2003, n. 6970, in Fam. dir., 2003, p. 319 ss.
(100) Su cui v. per tutti ARCERI, Commento agli artt. 155-155-ter c.c., in AA. VV., Codice della famiglia, a cura di
Sesta, I, Milano, 2009, p. 706 s.
(101) Cfr. Trib. Salerno 20 giugno 2006, citata da PAPPALARDO, L’affidamento condiviso, disponibile al sito web
seguente: http://www.giustizia.catania.it/formazione/190407/pappalardo.pdf, p. 14. V. inoltre Trib. Min. Milano, 12
luglio 2006, in Fam. pers. succ., 2007, p. 82, in una controversia ex art. 317-bis c.c. tra genitori naturali, ha affidato i
minori, collocati presso la madre, ai servizi sociali; Trib. Bologna, l° ottobre 2007, ined. (ma menzionata da ARCERI, op.
loc. ultt. citt.), ha del pari disposto l’affidamento dei minori ai servizi sociali.
(102) Per una panoramica e per gli ulteriori rinvii cfr. BONINI BARALDI, Le nuove convivenze tra discipline straniere
e diritto interno, cit., p. 199 ss., 223 ss.
(103) Tale strumento è applicabile, ai sensi del relativo art. 76, dal 18 giugno 2011. Per alcune informazioni di
carattere generale si fa rinvio a OBERTO, Gli obblighi di mantenimento e il recupero dei crediti alimentari in diritto
comunitario: la nozione comunitaria di «alimenti» e i principi in tema di competenza giurisdizionale, disponibile al sito
web seguente: http://giacomooberto.com/milano2009/relazione.htm.
(104) Per un’illustrazione si fa rinvio a OBERTO, Gli obblighi di mantenimento e il recupero dei crediti alimentari in
diritto comunitario: la nozione comunitaria di «alimenti» e i principi in tema di competenza giurisdizionale, cit., § 2.
151
precedente Proposta di Regolamento del Consiglio relativo alla competenza, alla legge applicabile,
al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni e alla cooperazione in materia di obbligazioni
alimentari recante la data del 15 dicembre 2005 (da cui il Regolamento n. 4/2009 è poi scaturito),
nel senso che ne sembrano risultare escluse proprio le obbligazioni alimentari derivanti da rapporti
di coppie non coniugate, esplicitamente compresi, invece, nella citata Proposta ( 105).
Inutile dire al riguardo che l’inciso del considerando n. 9 della Proposta, così formulato: «al
fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i creditori di alimenti», pateticamente mantenuto nel
considerando n. 11 del nuovo Regolamento, perde oggi qualsiasi significato, nel momento in cui
l’esclusione dei creditori alimentari sulla base di rapporti di convivenza, ancorché eventualmente
riconosciuta dalla legge nazionale (ed in svariati ordinamenti europei sostanzialmente equiparata al
matrimonio), viene a privare migliaia di creditori alimentari del nostro Continente dei vantaggi del
nuovo strumento, così riproponendo sul piano comunitario una discriminazione che diversi
legislatori nazionali si sono ormai lasciati da tempo alle spalle.
È vero, indiscutibilmente, che l’inciso «rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di
affinità» potrebbe prestarsi anche ad una lettura diversa e più «liberal»: una lettura in cui al concetto
di «famiglia», pur sempre menzionato ed affiancato a quelli di «parentela, di matrimonio o di
affinità», viene attribuito un significato più ampio rispetto a questi ultimi, idoneo a comprendere in
sé anche tutti i rapporti derivanti dalla convivenza more uxorio. È però anche vero che, in difetto di
strumenti comunitari sulla disciplina della convivenza e di fronte ad un testo della proposta assai
esplicito sul punto, dal quale il regolamento ha chiaramente inteso discostarsi, sembra assai difficile
poter attribuire al predetto sostantivo «famiglia» una portata più estesa di quella semplicemente
riassuntiva delle espressioni che ad essa fanno immediatamente seguito («parentela, matrimonio,
affinità»).
Sin qui, naturalmente, si è discorso in questo § dei soli profili attinenti ai rapporti tra partners.
Quid, allora, delle obbligazioni attinenti alla prole? La risposta più ovvia sembrerebbe quella legata
al riscontro della presenza, comunque, di un rapporto di «parentela» tra genitori e figli e non vi è il
minimo dubbio che ciò valga con riguardo a tutti i casi in cui all’estero si sia costituito (vuoi sulla
base della generazione biologica, vuoi per effetto di forme di adozione legittimante) un rapporto
definibile come, per l’appunto, di genitorialità e, dunque, di «parentela». Qualche interrogativo
potrebbe però porsi per una situazione di omogenitorialità non rispondente ai «canoni» che
caratterizzano la genitorialità nel nostro sistema: intendo riferirmi al genitore (es.: convivente
omosessuale del genitore biologico) che tale sia in base alle regole dell’ordinamento straniero, ma
che non potrebbe esserlo secondo l’ordinamento italiano.
Sul punto non andrà trascurato che l’art. 22 del citato Regolamento n. 4/2009 (e cfr. anche il
considerando n. 25) stabilisce testualmente quanto segue: «Il riconoscimento e l’esecuzione di una
decisione in materia di obbligazioni alimentari a norma del presente regolamento non implicano in
alcun modo il riconoscimento del rapporto di famiglia, di parentela, di matrimonio o di affinità alla
base dell’obbligazione alimentare che ha dato luogo alla decisione».
La previsione (assente nella Proposta del 2005) sembra dettata dal timore delle conseguenze
(105) I passi indietro compiuti dal legislatore comunitario sul punto sono resi evidenti dalle seguenti tabelle di
raffronto:
Proposta di regolamento del Consiglio del 2005,
Regolamento n. 4/2009, considerando n. 11:
considerando n. 9:
«L’ambito d’applicazione del regolamento deve
«L’ambito di applicazione del regolamento dovrebbe
estendersi a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da estendersi a tutte le obbligazioni alimentari derivanti da
rapporti familiari o rapporti che producono effetti simili, e rapporti di famiglia, di parentela, di matrimonio o di
ciò al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti i affinità, al fine di garantire la parità di trattamento tra tutti
creditori di alimenti».
i creditori di alimenti».
Proposta di regolamento del Consiglio del 2005, art. 1,
primo comma:
«Il presente regolamento si applica alle obbligazioni
alimentari derivanti dai rapporti familiari o dai rapporti
che, in forza della legge ad essi applicabile, producono
effetti simili».
Regolamento n. 4/2009, art. 1, primo comma:
«1. Il presente regolamento si applica alle obbligazioni
alimentari derivanti da rapporti di famiglia, di parentela,
di matrimonio o di affinità».
152
possibili del riconoscimento e dell’esecuzione di pronunce su obblighi alimentari nascenti da
rapporti di coniugio tra persone dello stesso sesso, ammessi dalle legislazioni di Paesi europei
comunitari quali quelle del Belgio, dei Paesi Bassi, del Portogallo, della Spagna e della Svezia ( 106).
È chiaro infatti che il riconoscimento di tali obblighi alimentari non può essere impedito dalla citata
limitazione di cui all’art. 1, poiché non vi è dubbio che i crediti alimentari tra coniugi omosessuali
ai sensi degli ordinamenti nazionali citati siano a tutti gli effetti «obbligazioni alimentari derivanti
da rapporti di famiglia» e «di matrimonio».
Il timore che sembra trasparire dalla lettura del Regolamento del 2009 è dunque quello che il
riconoscimento delle prestazioni alimentari tra persone del medesimo sesso possa essere utilizzato
in altri sistemi europei per riconoscere diversi ed ulteriori effetti a tali unioni, anche se, a tal fine,
già dovrebbe venire in considerazione la norma relativa all’ordine pubblico (art. 24 Regolamento
cit.).
Sul punto vi è anzi da chiedersi se per caso lo stesso riconoscimento del solo «limitato»
effetto alimentare di un’unione omosessuale non possa ritenersi in determinati ordinamenti europei
(si pensi a quelli più arretrati, quali quelli della Grecia o dell’Italia) come impedito dalla clausola
dell’ordine pubblico ( 107). Ciò che per altro verso (a sommesso avviso dello scrivente) non
dovrebbe ritenersi possibile, atteso che la nozione di «matrimonio» e di «famiglia» cui si deve
accedere è, per l’appunto, quella europea, nell’ambito della quale non si può non tenere conto della
presenza di numerossimi ordinamenti che o ammettono il matrimonio tra persone del medesimo
sesso, ovvero prevedono forme di unione che del matrimonio producono i medesimi (o pressoché i
medesimi) effetti.
Se quanto sopra è vero, i timori di contrarietà rispetto all’ordine pubblico dovrebbero ritenersi
fugati anche con riguardo al caso qui in esame. In altre parole, i provvedimenti e gli atti relativi alle
obbligazioni alimentari di cui si occupa il nuovo Regolamento, di provenienza di Paesi in cui la
relazione omogenitoriale si è legalmente costituita, dovrebbero liberamente circolare ed essere
eseguibili (oltre tutto, secondo le regole del nuovo strumento, senza necessità di exequatur), anche
se, in ipotesi, afferenti ad obbligazioni alimentari gravanti sull’omogenitore che tale non potrebbe
legalmente essere in base al nostro ordinamento, senza tema di incorrere negli strali di una possibile
violazione delle regole d’ordine pubblico.
Diverso, probabilmente, il discorso per le obbligazioni tra i partners: ma questa, come detto, è
un’altra storia ( 108).
(106) Curiosamente, quasi tutte monarchie… A tali ordinamenti vanno poi aggiunti quelli della Norvegia e
dell’Islanda, Paesi non membri dell’U.E., ma facenti parte del Consiglio d’Europa.
(107) Sulla reiezione, da parte di un giudice di merito, dell’istanza di trascrizione dell’adozione di un minore
effettuata da una coppia omosessuale coniugata negli Stati Uniti cfr. Trib. Brescia, 26 settembre 2006, citata da
LOLLINI, L’importanza della visibilità, già disponibile al seguente sito web (ora non più reperibile online):
http://zibalblog.wordpress.com/2007/10/02/limportanza-della-visibilita/. Nel senso, invece, della riconoscibilità in
Italia (per assenza di contrasto con l’ordine pubblico) di un parental order emesso da un giudice britannico e relativo ad
un caso di maternità surrogata realizzato (da una coppia italiana coniugata) all’estero cfr. App. Bari, 13 febbraio 2009,
disponibile
al
seguente
sito
web:
http://www.personaedanno.it/index.php?option=com_content&view=article&id=29604&catid=120&Itemid=367&mese
=02&anno=2009.
(108) Per un tentativo di soluzione cfr. OBERTO, Gli obblighi di mantenimento e il recupero dei crediti alimentari in
diritto comunitario: la nozione comunitaria di «alimenti» e i principi in tema di competenza giurisdizionale, cit., § 3.
153
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DIRITTO CIVILE - Corte d`Appello di Milano