COMUNICAZIONE INTERCULTURALE appunti tratti da: PAOLO E. BALBONI PAROLE COMUNI, CULTURE DIVERSE. Guida alla comunicazione interculturale Saggi Marsilio 1) “software of the mind” Gli esseri umani hanno come strumenti comunicativi il corpo, oggetti sul corpo e intorno ad esso, la lingua. Spesso si è portati a credere che la comunicazione linguistica sia preponderante, mente invece : • tra il 75 e l'80% delle informazioni che raggiungono la nostra corteccia cerebrale passa attraverso gli occhi • solo il 15 % giunge dall'orecchio Dunque siamo molto più visti che ascoltati. Le ricerche neurolinguistiche indicano poi chiaramente la priorità dell'elaborazione visiva (globale,simultanea, analogica, contestuale) che avviene nella parte destra del cervello, rispetto a quella linguistica (analitica, logica ) che avviene nell'emisfero sinistro. Dunque siamo prima visti, poi ascoltati Pur senza sottovalutare il linguaggio verbale, occorre quindi prestare attenzione agli aspetti non verbali, che risultano connotati in modo diverso nelle diverse culture. Infatti, secondo la metafora creata da uno dei padri fondatori delle ricerche sulla comunicazione interculturale, Hofstede (1), ogni persona ha un “software of the mind”, costituito da una serie di file di sistema che costituiscono la sua competenza comunicativa e ai quali ricorre per poter partecipare ad un evento comunicativo; essi controllano il registro (formale / informale), il tono della voce, la scelta delle parole., i gesti, le posture ecc. Questa programmazione mentale è collettiva e distingue i membri di un gruppo da quelli di altri gruppi; essa ci appare naturale, indiscutibile, perchè l'abbiamo respirata insieme all'aria nascendo in un determinato ambiente e influenza la nostra comunicazione senza che ne siamo consapevoli. E' quindi possibile che nascano problemi di incompatibilità tra i diversi tipi di software culturale che gestiscono questi aspetti della comunicazione, dando origine ad incomprensioni e conflitti. Come dice Hofstede “tutto comincia con la consapevolezza : il riconoscere che ciascuno porta con sé un particolare software mentale che deriva dal mondo in cui è cresciuto e che coloro che sono cresciuti in altre condizioni hanno, per le stese ottime ragioni, un diverso software mentale..” (2) 2) l'abito fa il monaco Nella comunicazione l'abito fa il monaco, a scapito della saggezza popolare : e l'abito non è solo il vestito, ma il modo di gesticolare, la distanza più o meno invadente che si tiene con l'interlocutore, gli oggetti di cui ci si circonda e così via; questi aspetti, cui non si presta generalmente molta attenzione perchè li si ritiene naturali e globalmente condivisi, sono invece altrettanto culturali quanto le lingue verbali. a) sorriso in Europa questa espressione del viso vuole comunicare all'interlocutore un generico accordo o almeno attesta la comprensione di quanto si sta dicendo; in altre culture questa interpretazione non è altrettanto certa : in quelle culture che non accettano la possibilità di dire “no” ad un ospite straniero importante, il dissenso viene manifestato in modo indiretto, ad esempio con il sorriso accompagnato dal silenzio; per questo motivo un giapponese imbarazzato può limitarsi a sorridere silenzioso e noi potremmo interpretare come assenso un segnale di dissenso. b) occhi In Occidente guardare l'interlocutore negli occhi è in genere ritenuto un segno di franchezza, ma in molte culture, ad esempio in Estremo Oriente o nei paesi arabi, può comunicare un atteggiamento di sfida; in molte culture africane o asiatiche un subordinato non guarda mai negli occhi un superiore; gli occhi quasi chiusi in una fessura in Giappone possono rappresentare una forma di rispetto verso chi parla (gli si comunica che l'attenzione è massima, che non ci si vuole distrarre), ma l'ascoltatore europeo potrebbe pensare che il suo interlocutore stia per addormentarsi c) espressioni del viso Esprimere emozioni e pensieri con la mimica facciale per noi è cosa ovvia, mentre per un orientale il concetto di “espressione spontanea” non è concepibile, tanto che si educano i bambini ad una certa riservatezza riguardo ai propri sentimenti; anche l'annuire ( gesto spontaneo per indicare accordo o comprensione di quanto ci viene detto) è culturale e non naturale : nel Mediterraneo orientale l'annuire significa “no” d) i gesti delle mani nelle culture euro-americane si usa abitualmente la stretta di mano come forma di saluto e si ritiene che una stretta di mano decisa mostri sincerità, ma in oriente la stretta di mano è inusuale per cui non sempre un orientale sa dosarne la forza e veicolare con ciò il giusto messaggio; nella cultura araba la mano sinistra è impura e quindi va considerata come inesistente. Ci sono due gesti che hanno causato gaffe di Bush e Clinton : il primo ha usato il gesto americano con il pugno chiuso e il pollice eretto verso l'alto che significa “ok”, ma il contesto era Manila e in Oriente questo è un gesto volgare; la stessa cosa accadde al secondo che fece l'altro segno americano per “ok” (pollice e indice uniti) a Mosca, ma nei paesi slavi anche questo è un gesto volgare e offensivo. e) distanza tra corpi tutti gli animali vivono in una sorta di bolla virtuale che rappresenta la loro intimità e che ha per raggio la distanza di sicurezza, cioè quella che consente di difendersi da un attacco o di inziare una fuga; negli uomini essa è di circa 60 cm., più o meno la distanza di un braccio teso. L'esistenza di questa “bolla” è un dato di natura, mentre le sue dimensioni e i significati connessi sono dati di cultura e quindi variano. L'infrazione delle regole prossemiche può far interpretare come aggressivi e invasivi dei movimenti di avvicinamento che non hanno questo significato per chi li ha compiuti; ciò può innescare una reazione di “escalation” dagli effetti negativi per gli interlocutori. 3) la voce del silenzio L'aspetto sonoro della voce è il primo ad essere percepito e viene interpretato in modo inconsapevole e automatico. Parlare ad alta voce in Italia e in tutte le culture mediterranee può indicare molto spesso partecipazione e coinvolgimento, anziché irritazione, ma è sgradito nel resto d'Europa e in oriente, dove prevale la tendenza a sussurrare. Anche il sovrapporsi delle voci, dall'interruzione vera e propria al semplice prendere il proprio turno conversativo mentre l'altro sta ancora concludendo la sua battuta, rappresentano un problema culturale molto delicato : le culture mediterranee accettano la sovrapposizione, quasi tutte le altre la vietano; i nordeuropei e gli americani ad esempio sono particolarmente gelosi del loro diritto di parola, che è come un territorio da difendere ad ogni costo, per cui mal tollerano le interruzioni dell'interlocutore fino a quando, con il tono della voce o con una pausa, non abbiano indicato che la loro battuta è terminata. Sulla base di queste osservazioni possiamo immaginare che l'inglese che sente due italiani discutere possa pensare che stanno litigando perchè quel tono di voce e quel reciproco interrompersi verrebbero usati in Inghilterra solo in un litigio. Un'altra questione comunicativa estremamente delicata è quella delle pause di silenzio. Il rifiuto del silenzio è tipico di molte culture,che lo vivono con disagio e cercano in tutti modi di riempirlo : ad esempio gli italiani, come tutti i latini, hanno orrore delle pause di silenzio e se in un colloquio ci sono dieci secondi di silenzio cominciano a parlare anche di nulla; gli scandinavi e i baltici invece apprezzano le pause e tendono ad irritarsi per il cicaleccio senza scopo : in questo caso gli italiani presentano un comportamento “logorroico” sgradito. Un cinese ben educato lascia passare qualche istante dopo una domanda intelligente del suo interlocutore per dimostrare quanto sia degna di riflessione prima della risposta; ma l'occidentale può pensare che il cinese non abbia capito, per cui riprende la parola e il cinese vede rifiutato il proprio silenzio che voleva significare rispetto. 4) Questioni lessicali, ma non solo Alcuni problemi interculturali possono emergere dalle scelte lessicali. La scelta delle parole è delicatissima in ogni cultura, sopratutto in quelle più formali : ad esempio in giapponese esistono verbi “onorifici” da usare parlando dell'interlocutore e verbi “auto-dispregiativi” da usare per chi parla; le culture orientali, inoltre, prestano grande attenzione all'anziano che va rispettato, per cui tutto l'impianto comunicativo tiene conto di questo fattore, del tutto ignorato nelle società occidentali : si useranno con lui modi comunicativi formali, gli si offrirà la precedenza nel parlare ecc. In un rapporto di affari l'americano si sente a suo agio se usa il nome di battesimo e pensa di dimostrarsi amichevole chiamando il collega cinese con il nome ufficiale; ma in Cina il nome ufficiale è raramente usato; ne segue l'imbarazzo del cinese, che sorride in silenzio, .... ma per l'americano il sorriso suona come approvazione per il suo comportamento e il disagio interculturale continua. Un altro esempio significativo riguarda l'uso dei tempi verbali. Nella cultura araba vi è una certa reticenza ad usare il tempo futuro, i quanto il futuro è nelle mani di Dio; l'interiezione araba “inshallah” non è solo un modo di dire, come può pensare un europeo, ma risponde a una necessità religiosa di riconoscere che il futuro non dipende dall'uomo. Per questo l'uso dei tempi futuri dei verbi può risultare blasfemo; a questo proposito si è molto dibattuto sul ruolo degli ultimatum ( basati su due futuri : “se farete x, noi faremo y) nella guerra del Golfo del 1991 : l'ultimatum del presidente americano Bush veniva ripetuto incessantemente dalle televisioni arabe sottolineando il carattere demoniaco del Nemico. 5) Conclusioni Le osservazioni fatte finora hanno avuto lo scopo di renderci consapevoli dei problemi legati alla comunicazione interculturale : non si tratta di differenze esotiche, di superficie, del tipo “il mondo è bello perchè è vario”, ma derivano da modelli di comportamento radicati in profondità nelle persone ( software mentali) che operano ala radice stessa dell'interazione in un evento comunicativo. Di conseguenza ci siamo resi conto che la comunicazione interculturale è complessa ma indispensabile: Come dice Paolo Balboni : “la comunicazione interculturale crea problemi, rallenta le operazioni, ma l'alternativa è una società omologata che costringe tutti a rinunciare alle proprie radici e ai propri valori in nome di valori più universali – scelti da chi? Fa scoprire, in altre parole, concludendo la metafora informatica, che il mondo perfetto non è quello in cui tutti hanno Windows o Macintosh, ma in cui ciascuno ha il sistema operativo che preferisce o che si è trovato nel suo computer, ma questo non gli crea difficoltà nel collegarsi con gli altri” (P. Balboni, pag 118) APPROFONDIMENTO : IL SALUTO NELLA COMUNICAZIONE INTERCULTURALE L’ars retorica si è occupata da sempre con attenzione della salutatio, del discorso di benvenuto, e delle forme di saluto quotidiano, soprattutto nella sua espressione epistolare. Ne viene sottolineata la stretta ritualità, l’apparente mancanza di una vasta scelta di espressioni retoriche, diverse dal repertorio di parole e gesti convenzionali. Dalla linguistica, poi, i saluti vengono definiti come “elementi fortemente convenzionali dell’interazione simbolica”. Non può, d’altro canto, sorprendere che tutti i galatei, i manuali delle 'reglas de urbanidad', insistano sull’importanza dell’'arte di saper salutare bene': chi fa il suo ingresso in una comitiva con una 'brutta figura', dopo avrà tanto da faticare per recuperare il danno della 'gaffe' iniziale! Il saluto come primo momento di presentazione decide chiaramente non tutto, ma conferisce subito un indirizzo importante al seguito dell’interazione. Proprio a causa della sua ritualità, il saluto risulta tra gli oggetti principali della ricerca scientifica soprattutto nella sociologia e nell’antropologia Le norme del saluto non variano soltanto da un contesto culturale all’altro, ma subiscono anche forti cambiamenti nel corso della storia. Per la comprensione del carattere generale di questi mutamenti si mostrano molto utili le categorie che Norbert Elias ha definito nella sua ricerca di sociologia storica sul “Processo di civilizzazione”: Elias pone l’attenzione sul rapporto tra formalità e informalità in una società, rapporto che si mostra, però, molto più complicato di quanto si potrebbe pensare. Sicuramente molti di noi non avranno dubbi sul fatto che durante il secolo scorso, con una forte accelerazione dopo il ’68, le nostre società occidentali abbiano intrapreso un percorso che, dalla dominanza di rigide regole formali nel comportamento sociale, va verso una sempre più diffusa libertà dalle restrizioni. Quello che ci possono prescrivere i galatei sembra sempre meno rilevante e ci sentiamo anche autorizzati a disattendere i loro consigli senza temere gravi conseguenze. Le formule di saluto si sono tendenzialmente unificate e ridotte a pochi gesti ed espressioni verbali che non si differenziano socialmente Anche il saluto ormai universalmente diffuso, indifferentemente se radicato o no nella cultura del singolo paese, è da interpretare in questa ottica: la “stretta di mano”. Questo gesto è una sorta di via di mezzo tra il saluto a distanza e quello con un contatto fisico più intimo nelle varie forme di bacio o abbraccio. Era tradizionalmente legato alla funzione di suggellare un accordo, un affare, e questo significato continua a sopravvivere in vaste aree di negoziazioni, dal mercato del bestiame alla diplomazia politica. Una volta offrire la mano dava il segnale di intenzioni pacifiche – chi dà la mano nuda fa vedere che non ha armi in pugno -, oggi, nel mondo del commercio e della politica può essere letto come segnale di volontà di intesa. L’internazionalizzazione del gesto comporta il suo sradicamento dalle specifiche tradizioni culturali e di conseguenza un tendenziale svuotamento del suo significato. Il fatto che la stretta di mano nel contesto della comunicazione interculturale si sia universalmente affermata nella funzione di gesto di saluto, non vuol dire che si sia introdotto e radicato nelle culture del mondo che fino a poco fa non ne facevano nessun uso. Trainings interculturali tra americani, europei e orientali, per esempio, evidenziano che gli asiatici usano questo gesto di saluto esclusivamente in contesti ufficiali e di lavoro, mentre tra amici non ci si saluterebbe mai in tal modo! Profonde differenze culturali rispetto al comportamento durante un primo incontro tra sconosciuti difficilmente si lasciano esprimere attraverso quell’unico gesto di saluto che è di forte impronta occidentale. La stretta di mano parte dalla convinzione dell’uguaglianza tra gli interlocutori, mentre i risultati della ricerca interculturale tra studenti di vari nazioni portano alla constatazione che gli studenti giapponesi sono indirizzati a cercare sempre le differenti collocazioni nella struttura sociale, cioè partono dall’idea che nel primo incontro deve essere stabilito chi dei due occupa la posizione più alta e chi quella più bassa e, nel caso di difficile individuazione, la cortesia chiede di presentarsi nel ruolo di inferiorità. Nonostante la restrizione di significati specifici che la stretta di mano ha inevitabilmente subito a causa della sua diffusione globale, questo gesto si presenta lo stesso molto più complesso di quanto appaia a prima vista. La generale funzione antropologica resta quella di tutte le forme di saluto, cioè quella di stabilire un primo contatto amichevole: si tratta di una combinazione di autorappresentazione e assicurazione, si cerca di far capire all’altro chi siamo e che abbiamo intenzione pacifiche. Per esprimere questi due messaggi fondamentali, il gesto della stretta di mano si avvale di variazioni che riguardano le mani stesse, la mimica e il portamento. Di regola, quando ci si dà la mano, il gesto richiede che si guardi l’altro direttamente negli occhi: se uno dei due non lo fa, il suo sguardo volto altrove provoca irritazione e può essere, appunto, interpretato come espressione di inferiorità o superiorità. Guardarsi negli occhi mentre si dà la mano, a seconda delle situazioni dell’incontro, può acquisire vari significati: conferma della stima reciproca, sottolineatura del fatto che non ci sono intenzioni nascoste (gli occhi come ‘specchio dell’anima’), espressione di gioia etc. Benevolenza o gioia di solito richiedono anche il sorriso. Il portamento durante la stretta di mano significa la conferma di uguaglianza quando le due persone si mettono una di fronte all’altra con la schiena dritta, mentre le varie forme di inchino (per lo più solo accennato) possono sottolineare la stima reciproca oppure, quando soltanto uno dei due si inchina, il rituale posizionamento di inferiorità. La combinazione della posizione che affianca uno all’altro con le mani incrociate si inserisce nei rituali politici che cercano di dimostrare all’opinione pubblica l’intenzione di collaborazione. Naturalmente anche le mani stesse permettono una grande molteplicità di varianti che va dallo sfiorare soltanto le dita dell’altro alla vera e propria stretta che aumenta anche la valenza del gesto in relazione alla sua durata nel tempo. Talvolta la posizione di una mano su quella di un’altra persona può diventare una sottile lotta per l’espressione di superiorità; celebre per questo gesto la mano sinistra che il candito John F. Kennedy pose su quella di Richard Nixon dopo il dibattito televisivo che era risultato nettamente al suo favore. Per concludere: dobbiamo renderci conto del fatto che anche il saluto ormai universalmente accettato contiene in sé un'infinità di sfaccettature, di sfumature, per lo più legate alla mimica che, forse per fortuna, per buona parte non è facilmente controllabile, ed è, invece, un'espressione involontaria del nostro stato d'animo.