la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 NUMERO 532 Cult La copertina. L’immaginario ricomincia daccapo Straparlando. Berengo Gardin: “Credo solo nelle foto” Mondovisioni. A Mérida la vita è una partita a scacchi Mentre Cannes celebra la star Isabella Rossellini racconta la sua Bergman INGRID BERGMAN A ROMA, 1952. FOTO DAVID SEYMOUR/MAGNUM/CONTRASTO Ingrid mia madre IRENE BIGNARDI ANTONIO MONDA NEW YORK P ARLA IN FRETTA, allegra e trafelata, deve sbrigare ancora un mucchio di faccende prima di riuscire a prendere l’aereo per Cannes dove in questi giorni il Festival del cinema celebra il centenario di Ingrid Bergman, sua madre. Ma è sufficiente una domanda molto semplice perché sul viso di Isabella Rossellini compaia d’improvviso un sorriso intenerito e lo stesso timbro di voce si faccia più riflessivo, come sovrappensiero: qual è il primo ricordo che ha di sua madre? Isabella si ferma, respira profondamente, quindi risponde senza esitare: «Un abbraccio, lungo, e molto caldo». Poi subito riprende il ritmo consueto: «Tuttavia, sa cosa? Non riesco in alcun modo a ricordare con precisione dove sia avvenuto. Probabilmente a Roma, dove ho vissuto fino a quando avevo cinque anni». >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE R ACCONTA LA LEGGENDA hollywoodiana che David O. Selznick, il potente produttore di Pranzo alle otto e futuro ras di Via col vento, che aveva comprato, insieme, i diritti per il remake americano di Intermezzo e la sua interprete, quando se la vide davanti, quella ragazza svedese così diversa dalle sue dive — troppo alta, un buffo naso troppo lungo, le sopracciglia troppo folte — non poté fare a meno di chiederle di raddriz- zarsi i denti, aggiustare qui, sistemare. E, soprattutto, visto che si era alla vigilia della guerra, di cambiare quel suo cognome che sapeva di tedesco. La bella ragazza svedese acqua e sapone e carattere che gli stava davanti disse semplicemente no. Oppure se ne tornava a Stoccolma. E Ingrid Bergman ha continuato a dire no, e a scegliere, nella vita e nel cinema. Vincendo lei. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’attualità. Il ritorno a casa dell’American sniper L’officina. Inge Feltrinelli ricorda Richard Seaver e l’età d’oro dell’editoria Next. Quando internet sarà dappertutto L’incontro. Conchita Wurst: “Spenti i riflettori e tolte le ciglia finte chiamatemi Tom” Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 26 La copertina. Ingrid Bergman “Severa?Èsolo l’immagine che dava di sé, ma con noi no, non lo è stata mai Piuttosto una persona forte e libera, un po’ come la sua Giovanna d’Arco” Prima di volare per Cannes, nel centenario della nascita, Isabella Rossellini racconta la madre, la donna e l’attrice ROBERTO RENZO (1906-1977) IL REGISTA-PADRE DEL NEOREALISMO ITALIANO NEL1950 SPOSA INGRID BERGMAN DALLA QUALE HA TRE FIGLI: ROBERTINO E LE GEMELLE ISABELLA E ISOTTA INGRID DETTO RENZINO, OGGI 73 ANNI, REGISTA E PRODUTTORE, È IL FIGLIO NATO DAL PRECEDENTE MATRIMONIO DI ROSSELLINI CON LA COSTUMISTA MARCELLA DE MARCHIS <SEGUE DALLA COPERTINA RITRATTO DI FAMIGLIA ANTONIO MONDA E l’ultimo ricordo che ha di sua madre, qual è? «La festa del mio trentesimo compleanno. Fu l’ultimo viaggio di mamma in America, ed era già molto malata. Pochi giorni dopo tornò sulla sua isola, in Svezia. Poi andò a Londra, dove è morta. Proprio nel giorno del suo compleanno». In che lingua parlavate tra di voi? «Nelle nostre chiacchierate c’era un misto di tante lingue diverse. Mamma ne conosceva cinque e parlava molto bene l’italiano. Di solito amava parlare nella lingua che usava nello spettacolo o nel film che in quel periodo interpretava. Credo lo facesse per tenersi in esercizio e evitare di confondersi, ma riusciva a farlo con molta naturalezza, come se la cosa non le richiedesse alcuno sforzo, cercando di insegnarci sempre qualcosa, un’espressione, o una parola. Era una donna estremamente concreta». Che ricordi ha dei suoi genitori insieme? «Il ricordo più vivo è legato ancora a un compleanno, questa volta era il settantesimo di mio padre. Mamma venne a trovarci. Siamo stati a cena insieme la sera prima, come si trattasse di una normale riunione familiare e la sua visita non fosse legata al compleanno. Poi, la mattina successiva, gli facemmo una sorpresa, lui ne rimase deliziato, commosso. Una cosa che non viene raccontata mai sui miei genitori è quanto si divertissero insieme e come fossero rimasti amici anche dopo il divorzio». Che giudizio dà, oggi, di sua madre come attrice? «Non ho dubbi, in molti film io credo che non sia stata “soltanto” una star ma anche una magnifica attrice». Quale la sua migliore interpretazione? «Quando rivedo i suoi film riconosco come familiare la sua gestualità intima, e allora so- anche per quelle scene oniriche disegnate no presa dalla commozione e dalla nostalgia. da Salvador Dalì. Notorious, che probabilSe comunque dovessi scegliere direi Noto- mente è migliore, mi apparve troppo comrious, Viaggio in Italia e Sinfonia d’autunno, plicato». dove lei è migliore del film, che pure è diretEra una madre severa la sua? to da un grande come Ingmar Bergman». «Forse è questa l’immagine che proiettaCosa non le piace di quel film? va, e in chi lo pensa ci deve essere anche un «La tesi di fondo: una donna che lavora ha po’ dello stereotipo donna-del-nord. Ma la necessariamente una famiglia disastrata. È realtà è opposta. No, non era affatto una donun’idea datata: la storia ha dimostrato che na severa. E nonostante gli impegni non è non è affatto vero che debba per forza esse- stata neppure una madre assente, quando re così». stava con noi la sua dedizione era totale». Il primo ricordo che ho di lei Il primo film di sua madre che ha visto? «Sa che non me lo ricordo? Piuttosto ho una vaga memoria di quando andavo a trovarla sul set. Su quello di Santa Giovanna al rogo mi ci hanno portata che ero poco più che neonata. Quando sono nata, i miei lavoravano insieme e so che mi facevano vedere i premontati dei loro film. Quando avevo dieci anni, invece, la Rai trasmise una retrospettiva organizzata da Gian Luigi Rondi, me la ricordo perché le sere in cui veniva trasmesso il film potevo andare a letto alle dieci e mezza anziché alle otto e mezza. Ero affascinata dalle interviste che precedevano». A quell’epoca quale film la colpì di più? «Io ti salverò, per la storia, così morbosa, e Dunque, non come in Sinfonia d’autunno: nella vita vera vostra madre è riuscita a conciliare maternità e carriera. «Si, e mi sembra che lo abbia dimostrato. Oggi anche io so bene quanto sia difficile. Da questo punto di vista sono stati fatti enormi passi da gigante, ma ancora c’è molta strada per la parità tra i sessi. Le faccio solo un piccolo esempio. In America, per molti versi un paese all’avanguardia, da una parte non esiste deduzione fiscale per le baby sitter e dall’altra si fissano gli incontri con i professori alle tre del pomeriggio…Ecco, mia madre di fronte a una cosa NELLA FOTO GRANDE, TUTTA LA FAMIGLIA RIUNITA NEL 1953 NELLA VILLA DI SANTA MARINELLA (ROMA) PER IL PRIMO COMPLEANNO DI ISOTTA INGRID E ISABELLA. SOTTO, LA BERGMAN CON LE DUE GEMELLE A ROMA NEL 1952. LE FOTOGRAFIE SONO TRATTE DA “INGRID BERGMAN. A LIFE IN PICTURES” (SCHIRMER/MOSEL, 2013) DI ISABELLA ROSSELLINI E LOTHAR SCHIRMER del genere non si sarebbe mai abbattuta e avrebbe certamente trovato una soluzione organizzativa. In questo forse l’essere donna-del-nord in effetti l’ha aiutata». In cos’altro era una donna del nord? «Beh, gli svedesi tengono molto più degli italiani alle attività fisiche e mia madre sciava, tirava di scherma, giocava a tennis, tutte cose che ha provato a insegnarci sempre con grande naturalezza. Devo a lei se ho imparato ad apprezzare l’equitazione e il ballo. La ricordo ancora in giro per Roma alla ricerca di istruttori: non demordeva mai. E poi in un’altra cosa era una del nord: aveva molta libertà, forse anche modernità, nel modo di vestire, a cominciare dai pantaloni, addirittura corti d’estate. In certe foto sembra un’attrice di oggi». Era religiosa? «No». Eppure i film girati con suo padre hanno una forte dimensione spirituale. «Questo è innegabile, ma temo di non essere in grado di parlare di una cosa tanto intima e che appartiene solo a loro. Ho imparato che viste da fuori molte tra le cose più importanti della vita non si capiscono mai Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 27 La bella svedese che tra due amori scelse la vita ISOTTA INGRID ISABELLA ROBERTO JR. INGRID LA GEMELLA DI ISABELLA OGGI HA 62 ANNI, HA INSEGNATO LETTERATURA ITALIANA ALLE UNIVERSITÀ DI HARVARD, PRINCETON E ALLA NEW YORK UNIVERSITY. HA DUE FIGLI OLTRE CHE ATTRICE È STATA GIORNALISTA E MODELLA. HA UNA FIGLIA, ELETTRA, DI 31 ANNI E UN FIGLIO, ROBERTO, DI 21. A CANNES PRESIEDE LA GIURIA DI “UN CERTAIN REGARD” ALL’ANAGRAFE RENATO ROBERTO, MA PER TUTTI ROBERTINO, FRATELLO DI ISABELLA E ISOTTA. OGGI HA 64 ANNI, LAVORA NEL MONDO DELLA FINANZA NATA IL 29 AGOSTO DEL 1915 (E MORTA NEL 1982), HA VINTO TRE PREMI OSCAR. PRIMA DI CONOSCERE ROSSELLINI AVEVA AVUTO UN’ALTRA FIGLIA IN UN PRECEDENTE MATRIMONIO, PIA FRIEDAL <SEGUE DALLA COPERTINA IRENE BIGNARDI IFFICILE trovare nella sua D CANNES 2015 IL VOLTO SORRIDENTE DI INGRID BERGMAN SUL POSTER UFFICIALE DEL FESTIVAL DI CANNES 2015 DEDICATO ALL’ATTRICE SVEDESE A CENT’ANNI DALLA NASCITA del tutto. Posso dire però con assoluta certezza che mia madre non era osservante». Che cosa ha preso da lei? «Alcuni tratti prettamente svedesi, come appunto la manìa dell’organizzazione, a cominciare dall’ordine e dalla razionalità con cui mettere mano a una casa». E cosa invece vorrebbe aver preso? «Il suo charme, inimitabile, e un certo distacco: il saper parlare di sé dall’esterno». Cosa amava di più dell’Italia? «La convivialità, così diversa dall’approccio esistenziale degli svedesi. E ovviamente la bellezza folgorante, inarrivabile dell’Italia». Come considera la famosa lettera che scrisse a suo padre, dalla quale nacquero collaborazione artistica e storia d’amore? «Sinceramente credo sia stata un po’ mitizzata. Mamma ha scritto tante altre lettere a tanti registi e colleghi, e sono molto più innocenti di quanto si possa pensare. Per esempio ha scritto a Ingmar Bergman, dicendogli che avevano lo stesso cognome ma non avevano ancora mai lavorato insieme». D’accordo, ma quella lettera a suo padre terminava con un “ti amo”. «Bah, conoscendola non la vedo come una forma di seduzione, piuttosto un gesto informale e scherzoso, tipico anche di molte altre attrici». Vede una grande differenza tra lo star system dell’epoca in cui lavorava sua mamma e quello di oggi? «Non sono in grado di rispondere, ho conosciuto Hollywood molto più tardi, sono arrivata lì che avevo venticinque anni. Ho incontrato registi leggendari amici di mamma, Hitchcock, Renoir, è vero, ma erano già estremamente anziani». Che cos’ha in programma per Cannes e per il centenario di sua madre? «In queste celebrazioni io vedo soprattutto la possibilità di proporre il grande cinema a una nuova generazione di spettatori, come si fa con la storia dell’arte: è importante far conoscere alle generazioni che verranno Giotto o Picasso, no? E dunque a Cannes sarà presentato nei prossimi giorni un documentario su mia madre di Stig Björkman, accademico svedese, mentre più in là interpreterò a Londra, Parigi, New York e ovviamente Roma uno spettacolo diretto da Guido Torlonia e Ludovica Damia- ni, che in passato hanno diretto spettacoli simili, estremamente riusciti, su Fellini e Visconti. Si tratta di un progetto molto diverso da Papà compie cent’anni che realizzai qualche anno fa con Guy Maddin. Proietteremo anche scene di film e materiale d’archivio mai visto. Per esempio c’è un filmino in 16 millimetri girato da mia madre sul set della Giovanna d’Arco di Victor Fleming, una pellicola che produsse svincolandosi da David O’Selznick». Vero, me ne ero dimenticato, sua mamma ha interpretato ben due volte Giovanna d’Arco: vede che torniamo alla religiosità? «Se è per questo l’ha interpretata anche a Broadway, e poi comunque i due film sono diversissimi: quello di Fleming molto hollywoodiano, quello di papà nasceva invece da un testo di Claudel. Ma se proprio vuole che risponda alla domanda la verità è un’altra: mia madre amava moltissimo questa santa guerriera perché era una donna forte. E io credo che sia stata proprio quella donna così forte ad averla ispirata tutta la vita». filmografia, da Intermezzo a Sinfonia d’autunno, che ha chiuso la sua carriera in un’emozionante associazione con l’altro grande Bergman, un titolo che non abbia almeno qualche qualità speciale. E difficile non vedere nei suoi molti amori — da Robert Capa al musicista Larry Adler, da Victor Fleming, che la diresse in Dr Jekyll e Mr Hyde, al grande amore Roberto Rossellini — la ricerca di una libertà di scelta che Hollywood non prevedeva, e che per gli anni della sua vita italiana non le perdonò. Anche se dichiarava insistentemente che la cosa più importante per lei era recitare (basti pensare a quando abbandonò la Svezia, un marito e una figlia piccola per tentare la via di Hollywood), Ingrid Bergman ogni giorno sceglieva la vita. Come fece quando l’amore per Roberto Rossellini e la nascita dei loro figli, Roberto, Isabella, Isotta, la condannarono, dal 1949 al 1956, all’ostracismo da Hollywood, e gli amori dell’ex santa diventata pubblica peccatrice vennero perfino discussi al Congresso. In quegli anni Ingrid Bergman, sotto l’influsso del grande Roberto, cambiò completamente il suo stile di vita e il suo registro interpretativo, da Stromboli a La paura, intrecciando, per questo cambiamento, i sentimenti e il suo talento. Sapeva anche riconoscere il momento in cui i sentimenti non la nutrivano più. Nel 1956 tornò in America, forte di un’esperienza umana e professionale che l‘avrebbe arricchita per anni e di qualcosa che le altre non avevano. Fino al 1978, a quel film rivelatore e crudele, Sinfonia d’autunno, che ha portato alla ribalta la sua lacerazione profonda attraverso il negato pentimento di una donna, la grande pianista, che ha messo al primo posto non sua figlia, ma la carriera e l’espressione di se stessa. Era stato questo, confessò al suo biografo Alan Burgess, il suo tormento: la scissione tra due amori, quelli familiari e lo schermo. Lo schermo spesso ha avuto la meglio. Ma dalla Ilsa di Casablanca a Giovanna d’Arco, dalla Maria di Per chi suona la campana alla Katherine di Viaggio in Italia, ci ha lasciato il ricordo indelebile di una grande “persona” — nel duplice senso di attrice e di donna. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 28 Il racconto. American sniper “Devi concentrarti sulla tacca di mira, così il bersaglio diventa sfocato, come una macchia grigia”. Negli Usa il libro dell’anno lo ha scritto un Marine. Parla del ritorno a casa dopo la guerra in Iraq. Dove tutto era più facile PHIL KLAY S PARAVAMO AI CANI. Non per sbaglio. Lo facevamo di proposito, e la chiamavamo Operazione Scooby. Io amo i cani, per questo ci ho pensato parecchio. La prima volta è stato per istinto. Sento O’Leary che fa: «Gesú», e vedo un cane marrone tutto pelle e ossa che lecca il sangue come se bevesse acqua da una ciotola. Non è sangue americano, però insomma, quel cane lo sta leccando. Da quell’istante si apre la caccia al cane. Sul momento non ci pensi. Ti chiedi solo chi ci sarà in quella casa, che armi avrà, come ucciderà te e i tuoi compagni. Procedi da un isolato all’altro, armato di un fucile che spara a cinquecentocinquanta metri, e ammazzi gente a cinque metri dentro una scatola di cemento. Cominci a pensarci più tardi, quando te ne lasciano il tempo. Non è che dalla guerra al centro commerciale di Jacksonville uno ci vada tirando dritto. Al termine della missione ci hanno mandati a TQ, una base logistica nel deserto, per farci decomprimere un po’. Non ho capito bene cosa volessero dire. Decomprimere. Per noi voleva dire farci un sacco di seghe sotto la doccia. Fumare un sacco di sigarette e giocare un sacco a carte. E poi ci hanno portati in Kuwait e ci hanno caricati su un aereo di linea per rispedirci a casa. Ecco qua. Prima eri in una zona di guerra dura e adesso ti ritrovi su un sedile imbottito a fissare la bocchetta dell’aria condizionata, pensando: ma dove cazzo sono? Hai un fucile tra le ginocchia, come tutti gli altri. Anche se vi siete fatti la doccia, sembrate tutti lerci e deperiti. Avete gli occhi infossati e la mimetica ridotta una merda. E tu stai lì seduto, chiudi gli occhi e pensi. Il problema è che i tuoi pensieri non hanno un ordine logico. Cerchi di pensare a casa tua, e ti ritrovi nella casa delle torture. Vedi le membra mozzate nell’armadietto e il ritardato nella gabbia. Starnazzava come un pollo. La testa rimpicciolita sembrava una noce di cocco. Dopo un po’ ti ricordi che secondo Doc gli avevano iniettato del mercurio nel cranio, eppure continui a non capire. Rivedi quello che hai visto le volte che hai sfiorato la morte. Il televisore rotto e il cadavere dell’hajji. Eicholtz coperto di sangue. Il tenente alla radio. Ho cercato di pensare ad altro, tipo a mia moglie Cheryl. Ha la pelle chiara e una leggera peluria scura sulle braccia. Lei se ne vergogna, però è morbida. Delicata. Ma pensare a Cheryl mi faceva sentire in colpa, e allora ho pensato al caporale Hernandez, al caporal maggiore Smith e a Eicholtz. Eravamo come fratelli, io e Eicholtz. Una volta abbiamo salvato la vita a un marine. Qualche settimana dopo Eicholtz si arrampica su un muro. Quando è a metà, un insorto si sporge da una finestra e gli spara nella schiena. Così penso a queste cose. E vedo il ritardato, e il muro su cui è morto Eicholtz. Ma il fatto è che penso un sacco, proprio un sacco, a quei cani del cazzo. E penso al mio, di cane. Vicar. Al canile dove l’abbiamo preso, quando Cheryl ha detto che dovevamo prendere un cane anziano perché nessuno sceglie i cani anziani. Al fatto che non siamo mai riusciti a insegnargli niente. A quando vomitava tutte quelle schifezze che non avrebbe dovuto mangiare. A quando se la svignava pieno di vergogna, coda bassa e testa bassa, rannicchiato sulle zampe posteriori. A quando ha cominciato a diventare grigio, due anni dopo che l’abbiamo preso, e con tutti quei peli bianchi sul muso sembrava che avesse i baffi. E allora ecco qua. Vicar e Operazione Scooby per tutto il viaggio di ritorno. Forse, non so, sei preparato ad ammazzare la gente. Ti addestri su bersagli a forma di uomo proprio per essere pronto. Certo, abbiamo anche il «bersaglio cane». Il bersaglio Delta. Ma non somiglia per un cazzo a un cane. Durante il volo ho pensato anche a quello. Te ne stai lì seduto con il fucile in mano ma senza munizioni. E poi l’aereo atterra in Irlanda per fare rifornimento. E c’è una nebbia che non si vede un cazzo, però siamo in Irlanda, ci dovrà pur essere della birra. E il pilota dell’aereo ci legge un messaggio secondo cui le disposizioni generali rimangono in vigore finché non arrivia- mo negli States, e noi al momento siamo ancora in servizio. Perciò niente alcol. Be’, l’ufficiale comandante è saltato su e ha detto: «Quest’ordine ha senso come una maledetta mazza da football. Forza, marine, avete tre ore di tempo. Ho sentito che qui si beve Guinness». Ci siamo ubriacati in fretta. Quasi tutti avevamo perso una decina di chili, e non toccavamo un goccio d’alcol da sette mesi. È stato bello. Siamo risaliti sull’aereo e ci siamo addormentati come stronzi. Ci siamo svegliati in America. Solo che quando siamo atterrati a Cherry Point non c’era nessuno. Niente famiglie. Il sergente artigliere ha detto che ci aspettavano a Lejeune. In pratica, prima carichiamo la nostra roba sui camion e prima le rivediamo. Ricevuto. Ci siamo divisi in squadre e abbiamo buttato zaini e sacche sui camion. Poi sono arrivati gli autobus e noi ci siamo ammassati dentro. Da Cherry Point a Lejeune c’è un’ora di strada. Il primo pezzo è in mezzo agli alberi. Al buio non si vede molto. Negozi ancora chiusi. Neon spenti nei distributori e nei bar. Guardando fuori capivo vagamente dove mi trovavo, ma non mi sentivo a casa. Ho pensato che sarei davvero arrivato a casa quando avessi baciato mia moglie e accarezzato il mio cane. S iamo entrati dal cancello laterale di Lejeune, che dista circa dieci minuti dalla zona del nostro battaglione. Ho visto la caserma e ho pensato: eccola. E poi ci siamo fermati quando mancavano solo quattrocento metri. Sarebbe bastata una corsetta per raggiungere le famiglie. Vedevo i riflettori installati dietro una delle caserme. E c’erano macchine parcheggiate dappertutto. Sentivo il brusio della folla. Le famiglie erano lì. Ma noi ci siamo messi tutti in fila, pensando a loro là in fondo. Io pensavo a Cheryl e Vicar. E abbiamo aspettato. Quando sono arrivato allo sportello e ho consegnato il fucile, però, mi sono bloccato. Era da mesi che non me ne separavo. Non sapevo dove mettere le mani. Prima le ho infilate in tasca, poi le ho tirate fuori e ho incrociato le braccia, e alla fine le ho lasciate penzolare lungo i fianchi, inutili. Dopo che tutti abbiamo restituito il fucile, il primo sergente ci ha fatti disporre in una formazione di parata di quelle serie. Abbiamo marciato preceduti da un cazzo di stendardo sventolante. Quando abbiamo raggiunto la prima caserma, la gente ha cominciato ad applaudire. Non ho visto nessuno finché non abbiamo svoltato l’angolo, e poi ecco, un grande muro di persone con cartelli in mano sotto una fila di riflettori, e i riflettori erano puntati su di noi e ci abbagliavano, così era difficile scrutare tra la folla e distinguere le facce. Ho visto delle telecamere. C’erano un sacco di bandiere americane. Al centro della prima fila, l’intero clan dei MacManigan reggeva uno striscione con la scritta: URRÀ SOLDATO SCELTO BRADLEY MACMANIGAN. SIAMO FIERI DI TE. Ho passato lo sguardo sulla folla. Avevo parlato al telefono con Cheryl dal Kuwait, non per molto, giusto il tempo di dire: «Ehi, sto bene», e: «Sì, entro quarantott’ore». E lei aveva detto che ha visto e si è illuminata. Era da tanto che una donna non mi sorrideva così. Mi sono fatto sotto e l’ho baciata. Ma era passato troppo tempo ed eravamo entrambi troppo nervosi, e ho avuto l’impressione che stessimo solo unendo le labbra, non so. Lei si è tirata indietro e mi ha guardato, poi mi ha messo le mani sulle spalle ed è scoppiata a piangere. Si è strofinata gli occhi e mi ha abbracciato, stringendomi forte a sé. Il suo corpo morbido si adattava al mio. Mi ha chiesto se volevo guidare, e accidenti se volevo. Un’altra cosa che non facevo da tanto tempo. Ho messo la retromarcia, sono uscito dal parcheggio e mi sono diretto verso casa. Stavo pensando che avevo voglia di fermarmi in un posto buio e rannicchiarmi con lei sul sedile posteriore, come ai tempi della scuola. Invece sono uscito dal parcheggio e ho imboccato il McHugh. Cheryl mi ha chiesto: «Come stai?» che voleva dire: com’è stato? adesso sei pazzo? Io ho risposto: «Bene. Sto benone». Poi è tornato il silenzio. Ero contento di guidare. Così avevo qualcosa su cui concentrarmi. Percorri questa via, gira il volante, percorrine un’altra. Un passo alla volta. Si può superare tutto, un passo alla volta. Lei ha detto: «Sono felice che sei a casa». Poi ha detto: «Ti amo tanto». Poi ha detto: «Sono fiera di te». Io ho risposto: «Ti amo anch’io». ME NE STAVO SUL DIVANO CON VICAR A GUARDARE LE PARTITE DI BASEBALL CHE CHERYL MI AVEVA REGISTRATO. A VOLTE IO E LEI PARLAVAMO DEI SUOI SETTE MESI, DELLE MOGLI RIMASTE A CASA. A VOLTE MI FACEVA QUALCHE TIMIDA DOMANDA. A VOLTE RISPONDEVO sarebbe venuta, ma era strano parlarle al telefono. Era da un po’ che non sentivo la sua voce. Cercavo mia moglie. E ho visto il mio nome su un cartello: SERG. PRICE, diceva. Ma il resto era coperto dalla folla, e non vedevo chi lo reggeva. E poi ho visto il resto del cartello. Diceva: SERG. PRICE, ADESSO CHE SEI TORNATO PUOI DARE UNA MANO IN CASA. ECCO LA LISTA DELLE COSE DA FARE. 1) IO 2) RIPETERE NUMERO 1. E lì, con il cartello in mano, c’era Cheryl. Portava un paio di calzoncini mimetici e una canottiera, anche se faceva freddo. Doveva averli messi per me. Era più magra di quanto ricordassi. Anche più truccata. Però era lei. Mi sono avvicinato e lei mi Il soldatoche Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica DOMENICA 17 MAGGIO 2015 29 L’AUTORE E IL LIBRO PHIL KLAY HA TRENTADUE ANNI, È STATO MARINE IN IRAQ DAL 2007 AL 2008. “FINE MISSIONE”, IL SUO PRIMO LIBRO, DA CUI È TRATTO IL RACCONTO DI CUI QUI ANTICIPIAMO ALCUNI BRANI, HA VINTO IL NATIONAL BOOK AWARD ED È UNO DEI CINQUE LIBRI DELL’ANNO PER IL “NEW YORK TIMES”. EDITO IN ITALIA DA EINAUDI (TRADUZIONE DI SILVIA PARESCHI, 248 PAGINE, 19 EURO). È IN LIBRERIA DA OGGI Quando siamo arrivati a casa Cheryl mi ha aperto la porta. Non sapevo neanche dov’erano le mie chiavi. Vicar non mi è venuto incontro. Sono entrato, ho guardato in giro, ed eccolo lì sul divano. Probabilmente tutte le mogli avevano un po’ paura. E questo è stato il mio ritorno a casa. Non è andato male, credo. Tornare indietro è come respirare per la prima volta dopo aver rischiato di annegare. Anche se è doloroso, fa bene. Non posso lamentarmi. Cheryl si è comportata alla grande. A Jacksonville ho visto la moglie del caporale Curtis. Gli aveva speso tutta la paga di guerra prima che tornasse ed era incinta di cinque mesi, non abbastanza incinta per un marine che rientra da una missione di sette mesi. La moglie del caporal maggiore Weissert non è neanche andata a prenderlo. Lui ha riso, ha detto che probabilmente sua moglie aveva capito male l’orario, e O’Leary lo ha accompagnato a casa. Arrivano e la trovano vuota. Vuota di tutto, non Q uando mi ha visto si è alzato adagio. Aveva il pelo più grigio di prima e strani grumi di grasso sulle zampe, quei piccoli tumori che vengono ai labrador, solo che lui ne aveva un sacco. Si è messo a scodinzolare. È sceso dal divano con grande cautela, come se sentisse dolore. E Cheryl ha detto: «Si ricorda di te». «Perché è così magro?» ho detto, e mi sono chinato ad accarezzarlo dietro le orecchie. «Il veterinario ha detto di tenergli il peso sotto controllo. E ormai dopo mangiato vomita quasi sempre». Cheryl mi stava tirando per il braccio. Mi stava tirando via da Vicar. E io l’ho lasciata fare. Mi ha chiesto: «Non sei contento di essere a casa?». Le tremava la voce, come se non fosse sicura di cosa avrei risposto. E io ho detto: «Sì, sì, certo». E lei mi ha baciato con foga. L’ho afferrata, l’ho presa in braccio e l’ho portata in camera da letto. Mi sono appiccicato un gran sorriso sulla faccia, ma non è servito. Allora mi è sembrato che avesse un po’ paura di me. ERA PESANTE E CALDO, E MENTRE LO TRASPORTAVO MI LECCAVA LA FACCIA. QUANDO L’HO MESSO GIÙ E HO FATTO UN PASSO INDIETRO, LUI MI HA GUARDATO. HA AGITATO LA CODA. E IO MI SONO BLOCCATO. SOLO UN’ALTRA VOLTA AVEVO ESITATO IN QUEL MODO. NEL BEL MEZZO DI FALLUJA solo di persone: niente mobili, niente roba alle pareti, niente di niente. Weissert guarda quello schifo, scrolla la testa e si mette a ridere. Allora lui e O’Leary sono usciti a comprare del whisky e si sono sbronzati proprio lì, nella casa vuota. Weissert ha bevuto fino ad addormentarsi e quando si è svegliato si è trovato accanto MacManigan seduto sul pavimento. Ed è stato proprio MacManigan a ripulirlo e portarlo alla base, in tempo per le lezioni che ti fanno seguire su argomenti tipo non suicidarti o non picchiare tua moglie. E Weissert fa: «Io non posso picchiare mia moglie. Non so dove cazzo è andata». Quando non ero con il resto della squadra, me ne stavo sul divano con Vicar, a guardare le partite di baseball che Cheryl mi aveva registrato. A volte io e Cheryl parlavamo dei suoi sette mesi, delle mogli rimaste a casa, della sua famiglia, del suo lavoro, del suo capo. A volte mi faceva qualche timida domanda. A volte rispondevo. E per quanto fossi contento di essere negli States, e anche se avevo odiato gli ultimi sette mesi e l’unica cosa che mi aveva dato forza erano stati i miei commilitoni marine e il pensiero del rientro a casa, mi stava venendo voglia di tornare indietro. E fanculo tutto quanto. La settimana dopo, al lavoro, abbiamo fatto solo mezze giornate e stronzate. Visite mediche per curare ferite che i ragazzi avevano nascosto o ignorato. E tutte le sere io e Vicar guardavamo la tv sul divano, aspettando che Cheryl finisse il turno alla Texas Roadhouse. Vicar dormiva con la testa sulle mie ginocchia, svegliandosi ogni volta che gli allungavo una fetta di salame. Il veterinario aveva raccomandato a Cheryl di non dargli il salame, ma Vicar si meritava qualcosa di buono. Quando lo accarezzavo, la metà delle volte sfregavo contro uno dei suoi tumori e di sicuro gli facevo male. Sembrava che gli facesse male tutto, anche scodinzolare e mangiare la pappa. Camminare. Sedersi. E quando vomitava, un giorno sì e uno no, tossiva come se stesse soffocando. Era il rumore che mi dava fastidio. Pulire il tappeto non mi disturbava. poi Cheryl tornava a casa, ci guardava, scuoteva la testa e diceva sorridendo: «Be’, fate proprio pena». Volevo che Vicar mi stesse accanto, ma non sopportavo di guardarlo. Dev’essere per questo che quel fine settimana ho lasciato che Cheryl mi trascinasse fuori di casa. Abbiamo preso la mia paga di guerra e abbiamo comprato un sacco di roba. Perché è così che l’America combatte il terrorismo. Che esperienza. Tua moglie che ti porta a fare acquisti a Wilmington. L’ultima volta che hai camminato in una via cittadina, il marine di punta si è messo sul ciglio della strada a controllare cosa c’era più avanti e sui tetti di fronte. Dietro di lui, un altro marine teneva d’occhio le finestre dei piani alti, un altro controllava le finestre un po’ più in basso, fino ai ragazzi che coprivano il livello della strada e all’ultimo marine che guardava le spalle a tutti. In una città possono ammazzarti da un mi- AP PHOTO/ED ANDRIESKI E lione di posti. A Wilmington non hai una squadra, non hai un compagno di battaglia, non hai neanche un’arma. Per dieci volte fai per prenderla e quando non la trovi sussulti. Sei al sicuro, dovresti sentirti in codice bianco, e invece no. Invece sei rinchiuso dentro un negozio American Eagle. Tua moglie ti passa dei vestiti e tu entri nella minuscola cabina di prova. Chiudi la porta e non vuoi più riaprirla. Fuori c’è gente che passa davanti alle finestre come se niente fosse. Gente che non ha idea di dove sia Falluja, dove sono morti tre membri del tuo plotone. Gente che ha passato tutta la vita in codice bianco. Alla fine ero schizzato. Cheryl non mi ha lasciato guidare. E quando siamo arrivati a casa abbiamo visto che Vicar aveva vomitato ancora. L’ho trovato sul divano che cercava di alzarsi sulle zampe tremanti. E ho detto: «È arrivato il momento». Lei ha risposto: «Domani lo porto dal veterinario». E io: «Nel senso che darai cento dollari a uno stronzo perché ammazzi il mio cane». Lei è stata zitta. Le ho detto: «Non si fa così. È compito mio». «Okay», mi ha risposto. È andata da Vicar e si è chinata ad abbracciarlo. I capelli le hanno nascosto la faccia e non ho visto se stava piangendo. Poi è andata in camera da letto e ha chiuso adagio la porta. Mi sono seduto sul divano e mentre grattavo Vicar dietro le orecchie ho escogitato un piano. Non era un buon piano, però era un piano. Vicino a casa mia c’è una strada sterrata, e di fianco alla strada c’è un torrente dove intorno al tramonto filtra la luce. È bello lì. Ogni tanto ci andavo a correre. Mi sembrava che fosse il posto giusto. In macchina non ci vuole molto. Siamo arrivati proprio al tramonto. Ho parcheggiato sul ciglio della strada, ho tirato fuori il fucile dal baule, me lo sono messo a tracolla e sono andato dal lato del passeggero. Ho aperto lo sportello, ho preso in braccio Vicar e l’ho portato giù al torrente. Era pesante e caldo, e mentre lo trasportavo mi leccava la faccia, le leccate lente e pigre di un cane che è stato felice tutta la vita. Quando l’ho messo giù e ho fatto un passo indietro, lui mi ha guardato. Ha agitato la coda. E io mi sono bloccato. S olo un’altra volta avevo esitato in quel modo. Nel bel mezzo di Falluja, un insorto si era introdotto nel nostro perimetro. Quando avevamo lanciato l’allarme era scomparso. Lo avevamo cercato dappertutto, finché Curtis aveva guardato dentro una cisterna dell’acqua che veniva usata come pozzo nero, pieno per un quarto di merda liquida. L’insorto ci sguazzava dentro, nascondendosi sotto il liquame e tornando su solo per respirare. Sembrava un pesce che veniva a galla per catturare una mosca. Non riuscivo neanche a immaginarlo. Già l’odore era insopportabile. Quattro o cinque marine avevano puntato il fucile e sparato nella merda. Io no. In quel momento, mentre guardavo Vicar, avevo la stessa sensazione. Che qualcosa dentro di me si sarebbe spezzato, se lo avessi fatto. E poi ho pensato a Cheryl che portava Vicar dal veterinario, a un estraneo che metteva le mani sul mio cane, e mi sono detto: Devo farlo. Non avevo un fucile a pallettoni, avevo un AR-15. Praticamente uguale a un M16, l’arma su cui ero stato addestrato, ed ero stato addestrato bene. Puntamento, controllo del grilletto, controllo del respiro. Concentrati sulla tacca di mira, non sul bersaglio. Il bersaglio deve essere sfocato. Mi sono concentrato su Vicar, poi sulla tacca. Vicar è diventato una macchia grigia. Ho tolto la sicura. Dovevano essere tre spari. Non basta tirare il grilletto. Bisogna farlo bene. Due colpi consecutivi al corpo. Poi uno ben mirato alla testa. I primi due devono essere in rapida successione, è importante. Ho tirato il grilletto, ho sentito il rinculo e mi sono concentrato sulla tacca, non su Vicar, per tre volte. Due proiettili gli hanno trapassato il petto, uno il cranio, e sono arrivati in fretta, troppo in fretta perché potesse sentirli. È così che va fatto, uno sparo subito dopo l’altro così non puoi neanche cercare di riprenderti, perché è quello il momento in cui fa male. Sono rimasto lì a fissare la tacca. Vicar era una macchia grigia e nera. La luce stava calando. Non ricordavo più cosa volessi farmene del corpo. Titolo originale Redeployment © 2014 Phil Klay © 2015 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino © RIPRODUZIONE RISERVATA sparavaai cani Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 30 L’officina. Parigi-New York Dal Café de Flore al Village, l’età d’oro dell’editorianell’autobiografia di Richard Seaver RICHARD SEAVER A RRIVATO al terzo numero, il Merlin era una rivista cambiata. Come Trocchi, io e Austryn eravamo fortemente convinti che nella Parigi degli anni Cinquanta non si poteva ignorare la situazione politica, che negli ultimi cinque anni si era evoluta in modo tanto rapido ed estremo. Quell’autunno avevo suggerito a Trocchi che, se eravamo impegnati politicamente (non verso un’idea o un partito, ma semplicemente nel riconoscere la Realpolitik della nostra epoca, come aveva dichiarato esplicitamente l’editoriale del numero due), non dovevamo limitarci agli editoriali ma dovevamo dedicarle una sezione di cronache nella rivista. Potevamo trovare o commissionare articoli di nostra iniziativa, ma anche accordarci con qualche rivista francese compatibile e affine, come per esempio Les Temps Modernes. Alex non era troppo sicuro che la seconda opzione fosse praticabile. «Cosa vi fa credere che Sartre ci rivolgerebbe anche soltanto la parola?» chiese. «È famoso in tutto il mondo, cavolo. Come facciamo ad arrivare a lui?». «Abita proprio qui, in rue Bonaparte», dissi, indicando una finestra dall’altra parte della piazza rispetto a dove eravamo seduti. «Scriviamo una lettera, accludiamo una copia di entrambi i numeri e gli spieghiamo la nostra idea. Cosa abbia- ioe Sartre L’AUTORE RICHARD SEAVER (1926-2009), AMERICANO MA LAUREATO ALLA SORBONA DI PARIGI, TRADUTTORE, CRITICO LETTERARIO, EDITORE, FONDATORE DI ARCADE PUBLISHING, È STATO UNA DELLE FIGURE PIÙ PRESTIGIOSE E INNOVATIVE DELL’EDITORIA INTERNAZIONALE mo da perdere?». Stavolta la risposta fu rapida, ma solo in parte positiva. Nel giro di una settimana ricevetti una lettera, su carta intestata di Sartre, non dal grand’uomo in persona ma da qualcuno di nome Jean Cau, che a quanto pareva era il suo segretario. Ci propose un incontro al Flore la settimana dopo. Volevo farmi accompagnare da Trocchi, ma lui si tirò indietro, preoccupato che la sua scarsa padronanza del francese potesse essere un ostacolo. «Fai tu il primo passo, Dick», mi suggerì, «e poi andiamo avanti a partire da lì». Jean Cau si rivelò giovane, forse di cinque anni buoni meno di me, un bell’uomo dal viso aperto e dal sorriso spontaneo, nonostante il fatto che, lavorando tutto il giorno con Sartre, portasse sulle spalle un bel po’ del peso politico del mondo. «Monsieur Sartre è rimasto colpito dalla vostra rivista», disse mentre bevevamo una birra. «Noi pensavamo a un accordo reciproco» azzardai, e mentre lo dicevo mi rendevo conto che sarebbe stato più in una sola direzione che reciproco. «Voi potete usare tutto quello che volete della nostra rivista e noi della vostra. Non possiamo pagarvi molto, però possiamo contribuire in qualche modo, anche se simbolico», aggiunsi. «Allora me lo faccia sapere», mi rispose. «So che Sartre è meno interessato ai soldi che non a diffondere ovunque le idee e i fatti che ritiene importanti». Fedele alla parola data, la settimana dopo Jean Cau mi mandò un messaggio per chiedermi se potevo incontrare Sartre. Stavolta la resistenza di Trocchi si sciolse: vedere il Grande Esistenzialista a quattr’occhi era un’occasione troppo ghiotta per rinunciare. Vestiti al meglio dei nostri abiti usati, arrivammo puntuali all’ora prefissata. Jean Cau ci accolse sulla soglia e ci scortò nell’appartamento dal mobilio squisito fino allo studio tappezzato di libri di Sartre. Mi sorprese scoprire che un uomo che collegavo a idee di estrema sinistra avesse un gusto così borghese: mi ero aspettato qualcosa di più spartano. Ma stavo imparando ra- pidamente che in Francia, un paese decisamente conservatore per tanti aspetti, le idee politiche e lo stile di vita di una persona potevano essere diametralmente opposti. Sartre era seduto alla scrivania e scorreva delle pagine scritte a mano. Quando si alzò per accoglierci restammo entrambi sorpresi dalla sua bassa statura. Aveva un sorriso cordiale e accogliente. Cau ci presentò, e dopo le strette di mano di prammatica Sartre ci fece cenno di sederci davanti alla scrivania. Cau si sedette da una parte. Per noi, abituati all’oscurità di rue du Sabot, l’appartamento di Sartre era di una luminosità accecante. «Jean mi ha parlato di voi e della vostra richiesta» esordì, fissandoci, lo sapevo, entrambi. Dico “lo sapevo” perché, per quanto avessi sentito dire che Sartre era strabico, una cosa era sentirselo dire, l’altra vederlo di persona: con un occhio guardava dritto davanti a sé, con l’altro di lato. Anche se portava gli occhiali, sembrava solo che aggravassero il problema. Alex, sfoggiando il suo accento scozzese più elegante, si dilungò sul Merlin e sul ruolo che sperava acquisisse nel mondo letterario anglofono. Sartre annuì, ma poi, dimostrandoci di aver guardato approfonditamente i numeri che gli avevamo spedito, disse: «Credo che il pezzo del dottor Ayer sul primo numero sia molto interessante. Naturalmente non sono d’accordo con gran parte di quello che dice, ma è un uomo intelligente e il suo approccio all’esistenzialismo è provocatorio. Immagino che voi inglesi non soccomberete mai al suo fascino». «Io sono scozzese», lo corresse Trocchi. Sartre sorrise debolmente. «Avrei dovuto dire “voi anglosassoni”». «E se pubblicassimo l’articolo di Nyiszli?» proposi. Per come mi ricordavo l’articolo di Ayer, mirava più a seppellire l’esistenzialismo che a lodarlo. Eppure, Sartre era chiaramente interessato a quello che Ayer aveva da dire sulla sua filosofia ed era anche colpito che il Merlin l’avesse pubblicato. «Funzionerebbe, secondo lei?». «È un pezzo potente», disse Sartre. «Temo che stiamo cominciando solo a sfiorare la superficie di quello che è successo davvero in quei campi. Comunque, idealmente dovreste tradurlo dall’ungherese. Ce l’avete un traduttore?». Io e Trocchi ci guardammo, perplessi. «Non proprio» dissi. «E se lo traducessimo dal francese?». «Forse», rispose Sartre, «ma in quel caso vi metterò in contatto con il nostro traduttore, Monsieur Tibère Kremer. Vive qui a Parigi, quindi potete tradurlo insieme o sottoporre la vostra traduzione per un controllo. Jean», chiese, «abbiamo l’indirizzo di Tibère a portata di mano?». Cau annuì e andò verso l’archivio a cercarlo. «Pensa che sia necessario un accordo formale di qualche tipo?» chiesi. «Una specie di scritto tra di noi?». Sartre scosse il capo. «Secondo me non c’è motivo. Possiamo farlo volta per volta. Ricordate semplicemente di indicare, per qualsiasi cosa scegliete, che è stato pubblicato d’accordo con Les Temps Modernes». «E il pagamento?» chiese Trocchi. «Discutetene con Jean», disse Sartre. «Qualsiasi accordo raggiungiate mi va bene». Avrei voluto dirgli quanto ammiravo la sua opera, specialmente il teatro, ma chissà perché non riuscii a farlo. Ci aveva trattato come dei pari, ed era meglio lasciare le cose così, decisi. Gli stringemmo la mano e ci congedammo. Sulla soglia, Jean Cau disse: «Per i soldi, quando Sartre ha detto di discuterne con me significava che pagherete quello che potete». Al piano di sotto, Trocchi disse: «Ecco un vero gentiluomo. Vorrei tanto che ce ne fossero di più come lui». «Cosa mi dici della faccenda degli occhi?» gli chiesi mentre tornavamo in fretta verso rue du Sabot per dare la buona notizia agli altri. «Ah, sì, quello era un test, vero?» disse Trocchi. «Ma sai che alla fine della riunione ormai non ci facevo nemmeno più caso? E tu?». «No, ma ora capisco per la prima volta un verso che ha scritto, non mi ricordo dove: l’enfer, c’est les autres, che più o meno si traduce con “l’inferno sono gli altri”. Deve rendersi conto molto bene che “gli altri” ogni volta cercano di affrontare il suo strabismo». © 2012 by Jeannette Seaver Introduction copyright © 2012 by James Salter Published by arrangement with Farrar, Straus and Giroux, LLC, New York and Marco Vigevani Agenzia Letteraria © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica DOMENICA 17 MAGGIO 2015 31 L’uomo che fece conoscere al mondo Miller, Genet, Burroughs, Coover, Pinter... INGE FELTRINELLI CAFE DE FLORE, PARIGI, 1947. FOTO ROBERT DOISNEAU/GAMMA-RAPHO/GETTY FIFTIES, EUROPE. FRANCE A RICHARD Seaver, che tutti chiamavamo Dick, piacevano le cravatte di lino Brooks Brothers. Era un uomo stupendamente casual. Niente a che vedere con la visione stantia dell’editoria degli anni Cinquanta che ancora veniva considerata “a profession for gentlemen”. Dick non aveva bisogno di esibire nulla e, se lo faceva, il suo apparire era fuori dai codici convenuti, senza per questo mai sfiorare la stravaganza. Una cravatta di lino era già un segno. Una volta gliene regalai una rosa. Sì, rosa shocking. E lui ne fu contento. Apparteneva a una generazione di americani che faticavano a stare dentro i confini della cultura yankee degli anni dopo la guerra. Non è un caso che la sua formazione fosse molto europea. E forse, ancor prima che europea, francese, e nella fattispecie parigina. Quando ci arriva (anzi ci torna), all’inizio degli anni Cinquanta, Parigi è una città sofferta, che porta ancora le cicatrici dell’occupazione e della guerra, lontana dalla febbre che l’aveva segnata negli anni Venti e Trenta e dall’immagine che ne avevano dato Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Henry Miller, Gertrude Stein. La Parigi di Dick, in verità, si sta risvegliando velocemente e non è un caso che nella sua memoria si sovrappongano quella, popolare, delle Halles, con le prostitute scarmigliate che si muovono nelle prime luci dell’alba e nell’odore di zuppa di cipolle, i camionisti, le fisarmoniche, e quella di Orson Welles, della Sorbonne, delle esplorazioni di librerie. È in quella Parigi che Dick entra nell’avventura della piccola banda di intellettuali anglofoni che fanno perno intorno alla rivista Merlin (e al danaro di Jane Lougee, figlia di un banchiere). Merlin e due importanti interventi su Beckett e sul conflitto Sartre-Camus. Si stabiliscono rapporti fra Merlin e Les Temps Modernes, Beckett entra in scena, e con lui Brendan Behan. E infine Jean Genet ed Eugène Ionesco. La formazione si compie, l’editore contenuto nella crisalide dell’intellettuale è pronto a uscire, rivelando il gusto squisito della ricerca, il senso della sfida, il fiuto della scrittura forte, la confidenza, anche umana, con gli scrittori. Fra gli anni Cinquanta a Parigi e gli anni Sessanta a New York esiste una sorta di febbrile continuità. Nella capitale francese Seaver ha incontrato Barney Rosset. Lui aveva appena acquistato la Grove Press per tremila dollari e sposato Loly, il suo insostituibile direttore commerciale. Vogliono stabilire un piano di collaborazione fra Merlin e Grove. Quando Dick snocciola i suoi autori di riferimento, Barney non fa una piega, non è spaventato dalla complessità di Beckett, dall’omosessualità di Genet, dall’alcolismo di Behan. Nel gennaio del 1959, Barney Rosset fa un’offerta che Dick non può rifiutare: direttore di Grove e caporedattore della rivista Evergreen Review. Lì comincia il Richard Seaver americano. Quando Barney Rosset gli comunica che sta pensando a un’edizione non purgata de L’amante di Lady Chatterley, capisce di essere approdato al posto giusto e al momento giusto. L’anti-Vietnam Evergreen Review suona come la Charlie Hebdo degli anni Sessanta americani. Non vi si pubblicavano solo autori come William S. Burroughs, Allen Ginsberg, Günter Grass, Marguerite Duras, Jack Kerouac. Vi si pubblicò una delle prime, se non la prima in assoluto, graphic novel: The Adventures of Phoebe ZeitGeist di Michael O’Donoghue e Frank Springer. Casa editrice e rivista sembrano avvertire, come uno straordinario sensore, l’imminenza di trasformazioni sociali e culturali decisive. Dick è un uomo che sa cosa sta accadendo e si schiera, si muove, gli piace sparigliare. Dopo D. H. Lawrence arriva il tempo di pubblicare Henry Miller, vietato negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi del mondo. In Francia era uscito nel 1934 per i tipi di Obelisk Press, e quell’edizione era circolata, sotto banco, anche in America. Il successo di Lolita di Nabokov ora sembrava aprire un credito anche al Tropico. Finalmente il romanzo esce, siamo nella primavera del 1961. Due anni dopo è la volta del Pasto nudo. Nell’uno e nell’altro caso, Grove deve affrontare un processo per oscenità che si trascina nel tempo. Ma nello stesso momento, e in perfetta consonanza con l’avventura editoriale, Evergreen pubblica uno Statement in support of the freedom to read firmato da scrit- tori, editori americani ed europei (c’è anche la firma del Che Guevara) per sostenere il giudice Samuel B. Epstein e la sua battaglia legale contro la censura. Siamo nell’ambito di quella che allora si chiamava con un termine poi caduto in disuso: controcultura. A Giangiacomo Feltrinelli Dick piaceva molto. Forse avvertiva una prossimità di intenti, di visioni. Quando capitava, ci si incontrava volentieri. Ricordo i locali del Greenwich Village a New York, i meeting a Chicago, a Miami e a Mexico City. Forse quella generazione di editori americani non guardava neppure al danaro come obiettivo primario. Al successo, sì. Volevano far accadere le cose. Volevano essere protagonisti di un cambiamento. Niente a che a vedere con la squisita eleganza di un flamboyant gentleman come Roger Straus e i suoi inviti al Colony di New York, o al Côte Basque, il ristorante di Truman Capote. Erano davvero tempi affascinanti. Non si andava mai a letto. Eravamo tutti dinamici, vitali, alla ricerca di stimoli. E Dick avanti a tutti. L’editoria era per lui qualcosa che ricordava il gioco d’azzardo. Amava i suoi autori con determinazione e autenticità. Da Beckett a Brendan Behan, da Jean Genet ad Allen Ginsberg, la sua adesione era totale. Gli autori erano i numeri della sua roulette. E forse non è un caso che, a loro volta, molti dei suoi autori fossero legati al senso del gioco, della sfida. Henry Miller era un fanatico del ping-pong, al punto da dover installare appositamente per lui un tavolo da ping-pong negli uffici della casa editrice. E le sue compagne, che cambiavano spesso, dovevano avere quel requisito: saper tenere in mano una racchetta. Me lo IL LIBRO “LA DOLCE LUCE DEL CREPUSCOLO” DI RICHARD SEAVER (FELTRINELLI, TRADUZIONE DI ANNA MIONI, 520 PAGINE, 29 EURO) È IN LIBRERIA ioe Seaver ricordo bene, ospite a Villadeati, mostrare tutta la sua valentia al nostro tavolo. Senza nostalgia. Ma va detto: erano tempi veramente affascinanti. Come quelli, del resto, che abbiamo vissuto in Italia con Giangiacomo. Quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla fondazione della casa editrice ed è quasi automatico pensare a quanto di comune è esistito fra il vento che soffiava qui e in America. Là la mentalità puritana, qui la cappa cattolica in versione democristiana. Là la sessuofobia, qui l’ipocrisia, il provincialismo, le cautele politiche. Anche a sinistra. Ho una foto in cui appaiono Giangiacomo e Barney Rosset, quando quest’ultimo si presentò a Varese al processo per oscenità contro Ultima fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr. A penna spicca una dedica più che significativa di Barney Rosset a Giangiacomo Feltrinelli: “We had the convictions, he had the courage”. Il mondo sembrava davvero a portata di libro: si trattava di cogliere al volo quello che stava accadendo e di accenderlo dentro le pagine che andavamo pubblicando. Quel tempo, lo stesso tempo in cui Richard Seaver metteva in moto la sua intelligenza, era per noi un tempo di incontri, di incroci fecondi, di spostamenti continui. Era un tempo di curiosità che non si placava mai e si traduceva spessissimo in rapporti durevoli, di collaborazione, di scambio, talora di vera amicizia. In questo senso riconosco nell’autobiografia di Richard Seaver un segmento importante della nostra avventura. Il titolo originale è The Tender Hour of Twilight. “Twilight”, che noi abbiamo tradotto con “crepuscolo”. La luce del crepuscolo non è soltanto quella della sera, è una luce che egualmente comprende alba e tramonto. Da una parte dice il giorno che si chiude, dall’altra è la promessa di un giorno nuovo. Io sono una inguaribile ottimista. L’AUTRICE INGE FELTRINELLI (GOTTINGA,1930), FOTOGRAFA E GIORNALISTA, INSIEME A GIANGIACOMO È STATA L’ARTEFICE DELLA STORICA CASA EDITRICE MILANESE CHE QUEST’ANNO FESTEGGIA I SESSANT’ANNI. CELEBRATI ANCHE CON UNA MOSTRA IN QUESTI GIORNI AL SALONE DEL LIBRO DI TORINO Dalla prefazione a La dolce luce del crepuscolo di Richard Seaver © 2015 Giangiacomo Feltrinelli Editore © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 32 Spettacoli. Prima fila LE IMMAGINI/1 LA FOTO SULLO SFONDO È DA “PERELÀ UOMO DI FUMO” (REGIA DI ROBERTO GUICCIARDINI, 1988). QUI A DESTRA DALL’ALTO “L’IMPRESARIO DELLE SMIRNE” (ROBERTO GRAZIOSI, 1993), “I GIORNI DEL BUIO” (GABRIELE LAVIA, 2013) E “NAPOLI MILIONARIA” (ARTURO CIRILLO, 2012) Quarant’anni di scatti sotto il palco L’album di famiglia del teatro italiano firmato da Tommaso Le Pera Fotografo la scena RODOLFO DI GIAMMARCO ROMA «S ROMA NEL 1965, partivo da Sersale in provincia di Catanzaro dove avevo fatto esperienza di matrimoni, cresime e foto-tessere con mio padre fotografo. Leggevo il teatro ordinando libri a Milano. Sognavo di scattare foto agli spettacoli. Avevo smania di evasione. Partii. Condivisi un laboratorio con un amico sull’Appia Nuova, cominciai a imbucarmi nelle platee, e di nascosto scattavo foto con gli interpreti in movimento (all’epoca ancora si ricavavano immagini dalle pose), finché non mi cacciavano via. Spedivo il materiale sviluppato agli attori. Mi telefonò Peppino De Filippo e, stupito del servizio che gli avevo fatto clandestinamente al Teatro delle Arti, fu il primo a commissionarmene uno. Pagandomi. Poi ho lavorato con Valli, De Lullo e i Giovani, con Albertazzi, Gassman, la Melato, e tante nuove compagnie...». Tommaso Le Pera ha nel suo archivio le foto di oltre duecentoquindici allestimenti di Shakespeare, di oltre duecentodieci lavori di Pirandello, di circa sessanta edizioni di testi di Beckett. Ha un portfolio babelico di volti d’artisti, di scenografie e di costumi, di dotazioni sperimentali, di orizzonti nuovi della regia. Classe 1942, un eterno sorriso stampato sulla bocca, una mitezza d’animo che si traduce in laboriosità instancabile, ha fotografato migliaia d’attori in più di cinquemila spettacoli di teatro documentati (con la sua tecnica “dinamica”) da oltre quarant’anni, passando dagli strumenti analogici alla modalità digitale. È il fotografo della scena più assiduo, più cercato, più presente, più paziente, e anche il più minuzioso ed enciclopedico nella conservazione di un patrimonio di immagini che rispecchiano i fondamentali e il progresso della società teatrale italiana. Cita cordialmente i colleghi Norberth e Buscarino, con cui divide una vera deontologia. Non si limita a dotare di foto di scena i quotidiani, i periodici, le mostre e i settori specializzati del web, ma offre SONO ARRIVATO A anche una scientifica materia prima a libri monografici. Finora, tra vari cataloghi teatrali a tema, l’iniziativa più rilevante è un ciclo di dieci illustratissimi volumi distinti per autori, la collana La memoria del teatro della Guido Talarico Editore, di cui sono stati pubblicati Pirandello, Shakespeare e Goldoni, in attesa di un prossimo Molière. Ma la novità è un altro ghiotto, storicizzato e prestigioso album di foto di molti degli spettacoli-saggi a firma di importanti registi italiani che hanno avuto luogo dal 1973 al 2014, per quarantuno anni, presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, tutti lavori fissati nell’obiettivo professionista del nostro reporter d’affezione, diluiti in un gran bel coffe table book intitolato l’Accademia nelle fotografie di Tommaso Le Pera. Una pubblicazione voluta su iniziativa del direttore-regista Lorenzo Salveti: «A Le Pera va il merito d’aver accompagnato i primi passi dei protagonisti del teatro, d’aver avuto uno sguardo sull’inimmaginabile, tanto da poter essere considerato a buon diritto un insegnante dell’Accademia e non soltanto un fotografo di scena». Questa collezione basata su una ricchissima filiera di scatti permette oggi di porre a confronto i saggi di Ronconi del ’73 con Una partita a scacchi di Middleton (recitavano Giorgio Barberio Corsetti, Remo Girone e Walter Pagliaro), dell’83 con Il sogno di Strindberg (con Margherita Buy), o di Aldo Trionfo dell’85 (con Sabina Guzzanti) dopo aver diretto nell’82 Luca Zingaretti, accostando Aldo Ferrero (con Arturo Cirillo) ad Andrea Camilleri (con Emma Dante), alle regie di Cecchi, di Binasco, fino al Pirandello di Ronconi del 2013, a Lavia, a Latella. Decennio per decennio Le Pera offre un’indagine comparata della logica dei corpi. «Un tempo gli atteggiamenti erano più impostati, rigidi, oggi sono più spontanei. Cambia anche il mio punto di vista. Prima, con la Leica, scattavo da un solo angolo, col cavalletto. Col digitale, che è più sensibile, faccio uso delle Nikon e mi muovo continuamente. E concorre il fatto che man mano sono diventato amico degli attori, venendo incontro alle loro fisime: il doppio mento, la cicatrice, il “lato buono”...». Tempo addietro usava per ogni spettacolo anche una ventina di rullini, ora va spesso e volentieri oltre, e alla compagnia offre al massimo venti immagini («ma le restanti non sono da buttare»). I diritti delle foto non creano problemi? «Sono sempre del fotografo». L’archivio è un caveau di rara portata. «È immenso. Ho foto storiche che non so a chi attribuire, ma ho messo a segno un gran lavoro di classificazione con fascicoli e Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica DOMENICA 17 MAGGIO 2015 33 LE IMMAGINI/2 A SINISTRA DALL’ALTO “LE VERGINI DI NORIMBERGA” (ALDO TRIONFO, CON MARGHERITA BUY, 1985), “UNA PARTITA A SCACCHI” (LUCA RONCONI, 1973) E “RIUNIONE DI FAMIGLIA” (MARIO FERRERO, 1991) “Da imbucato in platea ad amico: leggo il copione, parlo con il regista, colgo l’attimo. E mi commuovo” dvd per ogni spettacolo, dotati di locandine complete. Dal ’67 a oggi ho accumulato milioni di immagini». I registi non invadono il lavoro fotografico? «Mai. Ed è reciproco il mio rispetto per il taglio delle messinscene, come per i singoli attori». Ci sono criteri ferrei per decidere come e quando scattare le foto. «Io vado preparato, leggo il copione, parlo col regista, coi tecnici, e se possibile vedo una o due prove senza assolutamente fotografare. Faccio i miei scatti tornando a un’ennesima prova. Rare volte sono costretto a operare mentre c’è il pubblico. Problematico, perché non mi posso spostare granché». Chissà se la nudità degli attori a teatro crea una differenza tra ieri e oggi. «C’era un periodo in cui il nudo era d’obbligo nelle cantine, poi ai sensi s’è imposto il senso del fisico. L’Accademia è a volte in controtendenza, il corpo tende di recente un po’ più a scoprirsi». E verrebbe da chiedersi se è Tommaso Le Pera a essere cambiato in questi quarant’anni. «L’atteggiamento dei ragazzi e delle ragazze allievi-attori mi commuove sempre, ai saggi». I primi piani circolano poco. «In genere non servono, ma io ufficiosamente li ritraggo, più per me». E pare che ci sia un solo ostacolo alla professione del fotografo di teatro: «I datori luce non bravi, non motivati». © RIPRODUZIONE RISERVATA FOTO TOMMASO LE PERA ma non la rubomai I suoi ritratti li conservo a casa e lì ritrovo la mia innocenza EMMA DANTE A FOTOGRAFIA RISPETTO AL VIDEO è più fedele, nella restituzione di uno spettacolo, nel farsi storia e memoria del teatro. Un video può snaturare la tragedia che si compie in scena, e invece un’immagine le rende sempre giustizia, perché è un frammento di sguardo rubato allo spettatore, e permette di carpire i dettagli. Il mio teatro, poi, che è fisico e carnale, e non psicologico, come conferma proprio la Carmen che ho riallestito per il Teatro alla Scala, viene documentato meglio da una “fotografia muscolare” che colga i tendini tesi degli attori. Qui la relazione si fa immediata, con Tommaso Le Pera. La dimestichezza tra noi è cominciata fin dal mio primo spettacolo, mPalermu del 2001. Le Pera è un maestro cui non sfugge niente, che ti viene a cercare con curiosità, che non vuole mai smettere di imparare. Sa riprodurre i lavori della L scena con luci sempre diverse, con gran mobilità dei protagonisti, con sensibilità, discrezione. Lui racconta l’anima di quello che ritrae. Io tengo in casa le sue foto incorniciate. Sono affezionata a tutte, e trovo toccanti quelle che ha fatto a Vita mia, a Le pulle. E grazie ai suoi servizi, grazie al foto-book degli spettacoli dell’Accademia, ora mi ritrovo innocente e intraprendente com’ero nel 1991, al secondo anno del corso di recitazione, quando Andrea Camilleri mi diresse ne La Morsa di Pirandello. Tre personaggi, l’avevamo tutto per noi, Camilleri. La sua ironia mi divertiva tantissimo. Ci credevo, allora, in me attrice, ma ero nel contempo anche lucida. Tant’è vero che ho poi preferito contagiare ad altri la mia passione. DOMANI IN REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) RODOLFO DI GIAMMARCO SFOGLIA L’ALBUM DI TOMMASO LE PERA © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 34 Next. Nella rete Internet everywhere JAIME D’ALESSANDRO BARCELLONA A RRIVERANNO ANCHE IN ITALIA, perché anche da noi il 40 per cento degli abitanti non è ancora connesso al web e loro vogliono raggiungere tutti. Tutti quelli che restano: quattro miliardi di persone che nel mondo ancora non hanno accesso alla rete, dalle zone più remote dell’Africa a quelle più refrattarie dell’Europa. Il piano è già in atto, progredisce passo dopo passo a un anno dalla sua nascita. Internet.org di Facebook venne lanciato nell’estate del 2014 in Zambia e ora, dai dieci paesi dove è presente, vuol superare i cento entro la fine dell’anno. “Possiamo farcela”, recita uno slogan sul sito. Ed è probabile che andrà così. Il progetto fornisce una connessione dati basilare da telefono e lo fa gratuitamente grazie a una serie di accordi stretti con le compagnie di telecomunicazione. Basta sottoscrivere il contratto, che durerà per sempre, e da quel momento in poi si potrà entrare in una versione semplificata del social network di Mark Zuckerberg, privo di foto e video per ridurre al minimo il peso delle informazioni scambiate, più una serie di altri servizi come Wikipedia o Bbc News. Il numero delle applicazioni cam- bia di paese in paese. In India, dove Internet.org è sbarcato a febbraio, assieme a Facebook ce ne sono quasi quaranta. Meno in Ghana, Colombia, Kenya, Tanzania, Indonesia, Filippine, Tanzania, Zambia e Bangladesh. Ma comunque in numero sufficiente per consentire alle persone di comunicare e di informarsi. «Si tratta di dare, a quel 52 per cento dell’umanità che è rimasto fuori, i servizi fondamentali che tutti dovrebbero avere», spiega contento Chris Daniels, il vice presidente di Facebook a capo di Internet.org. Capelli rossi, occhiali sottili, carnagione molto chiara, ha l’aspetto da ragazzino per bene. Un Richie Cunningham, quello di Happy Days, versione Silicon Valley. Racconta la sua idea col candore d’altri tempi che si respira spesso fra chi lavora per i colossi americani del web. Un positivismo senza incertezze, dietro il quale però alcuni leggono la volontà di controllare il mondo più che di miglioralo. Ma che siate del partito di Dave Eggers, che nel suo ultimo romanzo Il Cerchio (Mondadori) ha dato corpo agli incubi peggiori legati ai colossi del web, o che invece crediate davvero che si tratti di Progresso con la P maiuscola, la portata di Internet.org e la sua messa in pratica in appena un anno rappresenta una ri- Quattro miliardi di persone non hanno ancora accesso al web Ecco perché da Google a Facebook è partita la gara per mettere online il mondo voluzione. La sicurezza con la quale Daniels parla lascia trapelare tutta l’esperienza che ha alle spalle: assunto dalla Lehman Brothers nel 1998, è stato a lungo alla Microsoft approdando a Facebook nel 2011. I numeri esatti dell’operazione si rifiuta di fornirli, ma ci tiene a sottolineare che il team che ci sta lavorando non è piccolo e che per Facebook si tratta di uno sforzo notevole da ogni punto di vista. Il bello è che questa rivoluzione sta avvenendo in una forma decisamente “low-fi”. Il 90 per cento delle persone raggiunte da Internet.org naviga attraverso cellulari 2G. Ma questo non significa che non lo usino in maniera intensiva, come infatti pare avvenga in Zambia. «Quando abbiamo aperto Amazon in India», racconta Diego Piacentini, vicepresidente della multinazionale fondata da Jeff Bezos, «non pensavo avremmo avuto tanto successo. Né che il 60 per cento dei nostri utenti sarebbe arrivato attraverso telefoni 2G. Ecco perché stiamo studiando un sito molto più leggero per consentire una navigazione più facile». Ma c’è anche chi, come Google, quando parla di web parla della rete in tutto il suo splendore: video, immagini, servizi di ogni tipo. Anche perché a Mountain View hanno diversi servizi sui quali pun- Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica DOMENICA 17 MAGGIO 2015 35 “La rivoluzione è già cominciata Non vede lassù?” ENRICO FRANCESCHINI LONDRA E USCITE DALLA STAZIONE del metrò di Old INFOGRAFICA DI PAULA SIMONETTI S Street, vi trovate davanti al Silicon Roundabout, la rotonda attorno a cui è cresciuta la Silicon Valley londinese, quartiere di centinaia di aziende e start-up tecnologiche. Se al Silicon Roundabout alzate gli occhi al cielo, vedete un grattacielo sormontato di antenne. Se entrate nel grattacielo, sede della Inmarsat, l’azienda britannica pioniere e leader mondiale delle comunicazioni via satellite, e salite in cima, incontrate Michele Franci, “l’italiano di più alto livello dell’industria spaziale” nel mondo, come lo chiama il suo ufficio stampa. Più in alto di lui, in questo momento, c’è solo AstroSamantha. Lei però tornerà sulla Terra. L’ingegner Franci, invece, va sempre più su: come Chief Technology Officer della Inmarsat sovraintende al lancio dei Global Xpress, nuova generazione di satelliti che promette, dopo l’“internet of everything” (l’internet di tutte le cose), l’“internet of everywhere”, l’internet dappertutto. Dalla plancia di comando dell’Inmarsat, una sala degna della Nasa o di guerre stellari con mappe elettroniche del nostro pianeta solcate dai satelliti, la fantascienza diventa realtà. Cosa fa di preciso la Inmarsat, ingegnere? «Offre una connessione mobile via satellite in zone difficilmente raggiungibili, dove non è economico avere comunicazioni via cavo. In cielo, in mare, nei deserti, sulle montagne». Chi sono i vostri clienti? «Governi, servizi di soccorso, ong, compagnie marittime, compagnie aeree, i media, l’industria energetica. Un domani saranno anche e sempre di più i privati, a cui offriremo un accesso in banda larga a internet potente, sicuro e ovunque IL MANAGER funzionante, a un prezzo sempre MICHELE FRANCI più accessibile mano a mano che È CHIEF TECHNOLOGY aumenterà la domanda. Internet OFFICER raggiungerà le zone dove oggi la DI INMARSAT ricezione non è buona e non succederà più che i telefonini vadano in tilt per troppo uso, come dopo Real Madrid-Juvents quando tutti chiamavano per dire che la Juve aveva passato il turno». Quanto costano, al momento, i vostri servizi? tano, iniziando da YouTube. Di qui una serie di progetti pensati per aree diverse del mondo: Project Fi negli Stati Uniti, per avere da smartphone la connessione migliore automaticamente passando dal wi-fi all’Lte e da operatore a operatore; Google Fiber, una rete sperimentale ultra veloce a 1000mbps in Kansas e Missouri; Project Link in Africa per sviluppare le infrastrutture in fibra ottica; Titan, pensato per le zone colpite da cataclismi dove portare internet con i droni; Project Loon, per dare accesso alla rete attraverso palloni aerostatici in zone del pianeta dove gli operatori telefonici non hanno interesse o non possono portarla. «Per ora è un progetto sperimentale», spiega Katelin Jabbari che lavora a Loom nella divisione Google X. «Abbiamo fatto test in Australia e Nuova Zelanda e siamo riusciti a offrire un accesso veloce, 4G, in maniera stabile. I palloni aerostatici sono molto più economici di un satellite e li puoi far volare dove serve, portando il web vero e non una sua forma ridotta», conclude lanciando una frecciatina a Facebook. Anche se alla fine l’obbiettivo è esattamente lo stesso. Connettere l’intera umanità, nessuno escluso, nel più breve tempo possibile. © RIPRODUZIONE RISERVATA «Installare un satellite nello Spazio centinaia di milioni. Ma già ora vendiamo telefonini portatili (ne mostra uno, grande come i cellulari della prima generazione, ndr) a 800 dollari in grado di comunicare da tutto il mondo». E cosa offriranno in più i nuovi satelliti Global Xpress? In che senso nascerà l’“internet everywhere”? «Finora i nostri satelliti garantivano comunicazioni telefoniche e di dati o messaggi scritti. La nuova generazione darà un accesso rapido e robusto a internet. Significa che da un aereo in volo o in cima all’Everest si potranno scaricare film o musica e navigare sul web come dall’ufficio o da casa propria». Sull’Everest in questo momento farebbe molto comodo. «In effetti, grazie a due satelliti Global Xpress già funzionanti su tre che avremo presto in totale, stiamo facilitando i soccorsi per il terremoto in Nepal». Insomma non staremo più in pace neanche in aereo? «Il mondo di oggi, in particolare i più giovani, vuole avere la possibilità di connettersi a internet sempre e dovunque nelle migliori condizioni possibili. Poi, se uno vuole, può spegnere lo smartphone». E l’“internet delle cose”? È già realtà? «Solo come concetto: uno studio della Cisco indica che il 97 per cento delle cose non sono ancora connesse al web. La domotica in realtà è solo agli inizi». E quando diventerà realtà l’“internet dappertutto”? «In questo preciso momento, grazie ai nostri satelliti lassù, a trentaseimila chilometri di altitudine sopra le nostre teste». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 36 Sapori. Sempreverdi PASTA E PISELLI, FINTO RAGÙ, FRITTELLE DI FARRO E ZUCCHINE: CHI HA DETTO CHE UN MENÙ SENZA CARNE NÉ LATTICINI NON PUÒ FAR VENIRE L’ACQUOLINA IN BOCCA? ECCO QUALCHE ESEMPIO Vegano ma buono. Parmigiane e fichi farciti (o del ritorno alle origini) LICIA GRANELLO A Il libro Si intitola “Il sale della vita”, l’autobiografia di Pietro Leemann (Mondadori Electa). Lo chef-patron del milanese Joia, unico ristorante vegetariano stellato d’Europa, racconta il suo percorso di formazione umana, professionale e spirituale, connesso con l’adesione ai principi della cucina naturale TLETI: CARL LEWIS, LE SORELLE WILLIAMS, FIONA OAKES. Attori: Brad Pitt, Ben Stiller, Anne Hathaway. Cantanti: Prince, Alanis Morissette, Sinead O’Connor. Da una parte all’altra del mondo, la dieta vegana vanta un corollario di testimonial insospettabili e famosissimi, che la primavera ripropone sulla passerella dei media in un profluvio di ricette green-style. Vegani, non vegetariani: la distinzione è d’obbligo e le differenze fondamentali, anche se spesso i due stili alimentari fanno parte dello stesso percorso, un po’ come l’agricoltura biologica e quella biodinamica. I contadini che decidono di non usare chimica nei campi, spesso vanno oltre, coltivando in armonia con le fasi lunari, usando fertilizzanti auto-prodotti, facendo della propria azienda un unicum governato in totale accordo con la natura. Allo stesso modo, si comincia non mangiando proteine di animali morti — carne, pesce — e a volte si finisce per non mangiare nemmeno quelle di animali vivi, ovvero uova, latticini e miele, in un crescendo di restrizioni cibarie che richiede una presa di coscienza forte, per affrontare al meglio gli scompensi nutrizionali — ferro e vitamine B12 e D in primis notati allegri del buon mangiare. Una ten— dovuti al menù vegetaliano (altro nome denza soprattutto italiana, se è vero che da Londra a New York i ristoranti dedicati offroper vegano). Salute, cultura, etica, moda: ogni neo-ve- no piatti sfiziosi e pieni di gusto, tanto da esgano è figlio di un mix diverso di motivazioni. sere frequentati in egual misura da vegani e Carni rosse e latticini sul banco degli impu- onnivori. Del resto, buona parte della nostra amata tati perché generano processi infiammatori, mentre frutta e verdura sono passaporto per dieta mediterranea — quella che fulminò il l’eterna giovinezza. L’assenza di proteine dottor Ancel Keys sulla via del Cilento e dei animali capace di risvegliare i sensi intorpi- suoi abitanti centenari — è a tutti gli effetti di diti da processi digestivi faticosi e rendere stampo vegano. L’elenco è ad alto rischio di acquolina in più lucido l’intelletto. Le torture e l’inquinamento degli allevamenti intensivi lette come bocca: dalla parmigiana di melanzane — che un male insopportabile a cui è necessario op- nella versione originaria non contemplava porsi a partire da scelte individuali forti. E formaggio — alla pasta e piselli, dal pan bipoi, un sacco di star hanno abbracciato la fi- scotto con extravergine e pomodoro ai fichi farciti con le mandorle, dal finto ragù alle linlosofia vegana... In realtà, oltre alla sostanza del veganesi- guine con le vongole fujute (scappate). Piatti mo inquieta l’approccio, spesso ideologico. E vegani loro malgrado, semplicemente per imin scia, un’informazione che non fa sconti al possibilità di accedere al lusso di carne, pesce piacere del cibo, assumendo la scelta vegana e formaggi. come un atto intellettuale, lontano dai con© RIPRODUZIONE RISERVATA GNOCCHI DI PISELLI FRITTI L’appuntamento L’ultima settimana di maggio, Milano diventa capitale del Commercio Equo e Solidale. La “World Fair Trade Week” ospiterà trecento produttori da oltre trenta nazioni, accomunati dal valore nutrizionale, etico e sociale del cibo, con il coinvolgimento di cuochi e ristoranti cittadini La ricetta Il mio dolce di riso al cocco con cioccolato e panna di soia INGREDIENTI 100 G. DI RISO ARBORIO 400 ML. DI LATTE DI COCCO IN SCATOLA 4 CUCCHIAI DI ZUCCHERO DI CANNA GREZZO 1 BACCA DI VANIGLIA 2 CUCCHIAI DI POLPA DI COCCO (ANCHE ESSICCATA) 100 G. DI CIOCCOLATO FONDENTE AL 70% 4 CUCCHIAI DI PANNA DI SOIA Il manuale “Divento vegano”, di Sue Quinn pubblicato in Italia da Guido Tommasi Editore, è un manuale a tutto tondo sulla cucina senza prodotti di origine animale. Oltre a insegnare le tecniche di base per le alternative a uova, miele e latticini, racconta il meglio della cucina vegana in centoquaranta ricette golose P er prima cosa bisogna mettere in infusione i semi della bacca di vaniglia nel latte. Filtrare. Poi mescolare il riso in una casseruola larga con fondo spesso insieme al latte di cocco che va diluito con due cucchiai d’acqua. Quindi far sobbollire, aggiungendo lo zucchero e la polpa di cocco e mescolando spesso, fino a cottura. Mentre il composto si fredda, sciogliere a bagnomaria il cioccolato fondente tagliato a scagliette, versando la panna a filo, per raggiungere una consistenza cremosa, poi inserire in un sac-àpoche. Porre il riso in coppette individuali, decorando con la crema di cioccolato. LA CHEF FOTOGRAFA CON LA PASSIONE PER LA CUCINA, FIGLIA DI LINDA E PAUL, MARY MCCARTNEY È VEGETARIANA, COME IL RESTO DELLA FAMIGLIA, E COINVOLTA NEL MARCHIO LINDA MCCARTNEY FOODS, PRODOTTI VEGETARIANI E VEGANI RISOTTO PRIMAVERA Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica DOMENICA 17 MAGGIO 2015 37 Non temete, ci bastano due spaghetti al pomodoro Cereali integrali Farro e quinoa, grani rustici (enkir, monococco) e avena, purché da coltivazione biologica, per evitare i pesticidi che si accumulano nella parte esterna. Ottime le frittelle di farro e zucchine 8 piatti e ristoranti Legumi Campioni di nutrizione grazie all’apporto di fibre e proteine vegetali, sono anche ottimi alcalinizzanti (tranne piselli e lenticchie, neutri). Perfetti con i carboidrati: per esempio nel risotto primavera TORINO SOUL KITCHEN VIA SANTA GIULIA 2 TEL. 011-884700 MILANO GHEA VIA VALENZA 5 TEL. 02-58110980 Tofu PEPERONI RIPIENI CON INSALATA DI QUINOA Latte di soia cagliato con un enzima naturale e poi pressato utilizzando intensità crescente per dare consistenze diverse, da cremoso (silken) a solido ed extra solido. Arrostito con spezie VENEZIA ZUCCA SANTA CROCE 1762 TEL. 041-5241570 BOLOGNA ZENZERO BISTROT VIA FRATELLI ROSSELLI 18 TEL. 051-5877026 Agar agar Addensante naturale (si estrae da un’alga) e termo-resistente. In alternativa, gomma xantana, fecola di patate o amido di mais. Nella parmigiana di melanzane FIRENZE LA RACCOLTA VIA GIACOMO LEOPARDI 2 TEL. 055-2479068 ROMA OPS! VIA BERGAMO 56 TEL. 06-8411769 Semi di lino Eccellenti fornitori di omega3 da gustare decorticati, per migliorarne l’assorbimento intestinale. Macinati al momento e mescolati con acqua sostituiscono l’uovo. Per il clafoutis di ciliegie NAPOLI UN SORRISO INTEGRALE VICO S. PIETRO A MAIELLA 6 TEL. 081 455026 CATANIA HAIKU VIA QUINTINO SELLA 28 TEL. 095-530377 Datteri Tra i frutti più ricchi di zuccheri buoni — fruttosio, a lento rilascio — insieme ai fichi secchi, si usano tritati o frullati, sia per dolcificare sia per addensare. Nelle barrette energetiche Latte di cocco Avocado In gara con quello di mandorle per gusto e cremosità, si utilizza al meglio nelle ricette dolci da forno (con quello di soia, meno saporito, si fanno yogurt e panna). Perfetto per il gelato Goloso e nutriente, una volta aperto va battezzato rapidamente con succo di limone, perché non si ossidi (diventando nero). Ottimo in salse e insalate. Per esempio, nel guacamole MARGHERITA D’AMICO B ASTA GUARDARE I CAPOLAVORI realizzati quando, giocoforza, l’ispirazione degli artisti era circoscritta a soggetti religiosi e poco altro, per ricordare che limiti e confini giocano spesso a favore della creativa bellezza. Così dunque si può ragionare riguardo la scelta vegana, che stabilisce il proprio raggio nell’ambito descritto da ragioni morali, e non per questo manca di essere attraente. Eliminare dalla tavola gli animali uccisi e quanto proviene dal loro sfruttamento (latte, uova, miele) ci pone infatti nella condizione di apprezzare la straordinaria ricchezza della terra, a maggior ragione in un Paese come il nostro, che a tale dieta sarebbe incline. Nel primo Dopoguerra l’italiano consumava in media diciotto chili di carne l’anno, mentre oggi, grazie a politiche consumistiche e all’allevamento intensivo, si sfiorano i cento. Verdure di ogni tipo, pasta, riso, frutta, legumi, sono alla base della scelta cruelty free, che si giova di derivati assai vari e buoni. Con il seitan, la soia e altri ricavati vegetali si imbandiscono polpette e würstel capaci di ingannare chi crede di non poter rinunciare al sapore della carne, oppure gelati cremosi, tuttavia meno calorici e pesanti. Rimangono abbastanza costosi negozi e supermercati di genere, poiché il sistema, ancora concepito a detrimento degli animali, preferisce relegare una nuova, forte tendenza collettiva al ruolo di nicchia privilegiata. Ma, al pari dei prodotti non testati sugli animali, nei grandi centri commerciali si trovano oggi alimenti vegetariani e vegani industriali, con una discreta gamma di scelte, a partire dal richiestissimo latte di soia, riso, mandorla, avena. I ristoranti dedicati sono in aumento, e si espandono catene di fast food (come Veggy Days e Universo Vegano), dove si consumano ottimi hamburger vegetali, formaggi realizzati con fecola di patate, mozzarelle scaturite dalla farina di riso, mentre negli autogrill delle nostre autostrade, neanche a farlo apposta, l’unico panino papabile è ripieno di sole melanzane appassite. Ma il vegano, nella realtà, mangia ovunque: basta un piatto di spaghetti al pomodoro, insalata, pizza nel cui impasto non vi sia strutto, con giovamento di salute e finanze. Escludendo sieri, sangue, umori corporei, frollature, il cibo veg è inevitabilmente più fresco e controllabile, la filosofia che lo accompagna favorisce biologico e chilometro zero. Persino i colori sono più allegri, ravvivati dall’idea di proteggere, con una decisione tanto semplice, i diritti delle altre specie e la salvaguardia del Pianeta. © RIPRODUZIONE RISERVATA BRUSCHETTA CON PUREA DI FAVE Repubblica Nazionale 2015-05-17 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 17 MAGGIO 2015 38 L’incontro. Queen SONO ENTRATA NELLO SHOW BUSINESS A DICIASSETTE ANNI, ERO INGENUA, CANTAVO IN CLUB DA VENTI PERSONE E MI SENTIVO ARRIVATA. PER ME LA FELICITÀ È VIVERE A DIECI METRI DAL PALCOSCENICO La prima gonna gliela regalò sua nonna. “Fin da bambino mi piaceva farmi notare. Il mio motto è sempre stato: datemi un tappeto rosso e io ci sarò. Poi un bel giorno mi dissi: ok mi piacciono i ragazzi ”. Non sempre è stato facile, ma oggi, barba curatissima, è una star internazionale, ha pubblicato un’autobiografia e tra due giorni uscirà con il suo primo disco. Nessuno, dice Jean Paul Gaultier, ha saputo annullare come lei i confini tra Conchita. La mia storia, che Mondadori ha pubblicato l’altro ieri, Jean Paul che l’ha voluta in passerella, le scrive: «Se Madonna ha il corpo di una donna e lo spirito di un macho, tu hai il corpo di un uomo e lo spirito di wonder maschile e femminile. “Sempli- Gaultier, woman. Nessuno, prima di te, ha saputo annullare i confini tra maschile e femminile. Erede dell’avanguardia e della subcultura, sei riuscita a diventare un’ipopolare e in eterno un’icona della moda». Conchita confessa che il libro cemente io sono due persone: cona è stata un’idea dell’editore. «Non volevo, ho ventisei anni, troppo giovane», mormora. «Ma alla fine sa una cosa? Mi ha fatto bene, ho imparato più cose su me che in cento sedute di psicoterapia. Tornare indietro e cercare di sofferTom il gay e Conchita la drag. dimarsi anche sui più piccoli dettagli è un’operazione straordinaria. Per esempio ho capito perché sono attratta istintivamente da personaggi come Karl Lae Vivienne Westwood: hanno lo stesso odore di mia nonna. Fu lei, coTom soffre per gli insulti, a Con- gerfeld me mia madre non smette mai di ricordare, a comprarmi la prima gonna». L’infanzia non è facile quando il bullismo è dietro la porta di casa. Tom, fortuna sua, non si lasciò intimidire. Oggi Conchita ammette che fu proprio quel desiderio chita non importa un fico” di stupire a salvarle la vita. «Gli sguardi degli altri non mi hanno mai messo in Conchita Wurst GIUSEPPE VIDETTI VIENNA N ONÈL’ORAPERUNASIGNORINA di presentarsi a questo modo. Sono le die- ci del mattino di sabato. Vienna ancora sonnecchia. Lei no, lei perfettissima nel suo tubino blu di Cina a pois sotto il ginocchio, la camicetta di crêpe che protesta per assenza di seno, calze coprenti, tacchi a spillo di vernice bianca. I capelli corvini le incorniciano il viso come due vele senza vento. Le ciglia più lunghe di un cerbiatto; sembra di sentirle frusciare quando ammicca maliziosa per confessare una debolezza o due. Conchita Wurst, trionfatrice con Rise Like a Phoenix dell’edizione 2014 dell’Eurovision Contest, è composta e in ordine come una stenografa 2.0 al primo colloquio aziendale. Trasgressiva? Neanche per idea. Oddio, sì, la barba, di tre giorni, curatissima anch’essa. Mica fenomeno da baraccone come la Girardot nel film cult di Ferreri di cinquant’anni fa, La donna scimmia. Conchita, al secolo Thomas Neuwirth, austriaca, ventiseienne, non è neanche la solita drag queen kitsch alla Ru Paul per intenderci, semplicemente un surrogato di bizzarria chic: più mondana di Gloria Vanderbilt quando parla dei suoi amici vip, Jean Paul Gaultier, Karl Lagerfeld o Carine Roitfeld, l’ex direttrice di Vogue France; più intensa della Mangano quando racconta dell’infanzia tormentata a Gmunden, il paesino natale; più esaltata di Shirley Bassey quando si parla di carriera e di canzoni e di interpretazioni. «Ho avuto un solo idolo e un solo modello, Shirley Bassey», ammette subito. «Avevo otto anni quando fui fulminata da Goldfinger. Non capivo le parole, ma subivo il potere di quella donna, della voce, della gestualità». Fu la prepotenza alla Shirley, tanta voce e l’ardire di presentarsi come la prima drag barbuta del pop che l’anno scorso la guidò verso la vittoria. Quest’anno, come è consuetudine, farà da madrina alla manifestazione nella sua città, Vienna, pochi giorni dopo la pubblicazione, dopodomani, del- IL LIBRO, LO CONFESSO, L’HA VOLUTO L’EDITORE, NON IO. HO VENTISEI ANNI, È TROPPO PRESTO MI DICEVO. MA POI SA COSA? MI HA FATTO BENE SCRIVERLO, HO IMPARATO PIÙ COSE SU DI ME CHE IN CENTO SEDUTE DI PSICOTERAPIA l’atteso esordio discografico (Conchita, Ed. Sony Music). «Sarà una performance esagerata, sto provando da una settimana», esclama indaffarata nel camerino del Wiener Stadthalle, dove il 23 si disputerà la finale (in lizza per l’Italia c’è Il Volo). «Per me la felicità è vivere qui a dieci metri dal palcoscenico, il posto che ho desiderato per tutta la vita», dice. «È esattamente quello che volevo, non mi sento a disagio in questa dimensione, anzi perfettamente in equilibrio. Mi godo il privilegio di una carriera fortunata ma anche di una intensa vita privata, senza ciglia finte e parrucche, quando spenti i riflettori torno a essere Tom». Nella precoce autobiografia già tradotta in quattro lingue, Io imbarazzo, neanche quando erano carichi di odio o di sarcasmo», dice abbassando lo sguardo, «li desideravo pazzamente. Fin da bambino mi piaceva farmi notare. Non farei questo mestiere diversamente. Oggi il mio motto è: datemi un tappeto rosso e io ci sono». E infatti è ovunque: ai Golden Globe e da Givenchy, al Parlamento europeo e al Palazzo dell’Onu a Vienna. E, come già Lady Gaga, sarà la Queen alla guida del gay pride romano il prossimo 13 giugno. «Oggi abbiamo un movimento agguerrito per la difesa di gay, lesbiche e transgender che ci tiene parzialmente al riparo da violenze e discriminazioni», dice. «Ai Golden Globe hanno presentato una dozzina di film a tematica gay; Bruce Jenner (atleta e attore americano poche settimane fa ha pubblicamente annunciato di voler diventar donna ndr) ha parlato apertamente della sua transizione: c’è ancora molto da fare, ma molto si sta facendo. Ovviamente, nel periodo della pubertà non avevo queste certezze. Non saprei chi fu il primo ad accorgersi della mia diversità, se io o i miei compagni di scuola. I ragazzi hanno un sesto senso e, a un’età in cui tutti vogliono essere nel branco, la parola “diverso” equivale a un insulto. Basta che un ragazzino abbia dei riccioli biondi per essere chiamato frocetto. A quel punto o reagisci o soccombi. Superate quelle fragilità, quando ho cominciato a conoscermi meglio, non ho esitato a prendere posizione: ok, mi piacciono i ragazzi, la società mi condanna, ma non sono io a essere sbagliato, è la società. Fu un momento glorioso della mia giovane età, ma il coming out non fu né facile né indolore». Dopo la vittoria all’Eurovision il vice primo ministro russo Dmitry Rogozin bestemmiò: «Ecco il futuro dell’Europa, una donna con la barba». Se avesse controllato su Twitter, avrebbe scoperto quanti milioni di russi, gay o gay friendly, andavano pazzi per l’artista. «Fortunatamente Putin non governa tutto il mondo», esclama Conchita, «ma il bullismo non è certo scomparso ora che sono famosa. E poi siamo in due a reggere il colpo. Vede, da quando cominciai a travestirmi — Conchita ancora non esisteva — il personaggio che esibivo sul palco era sempre una persona distinta da Tom. Mi guardavo allo specchio e vedevo un’altra. E ancora oggi siamo in due: Tom il gay, e Conchita la drag queen. Tom soffre per gli insulti, a Conchita non importa un fico; davvero avete tanto tempo da NON HO ANCORA CONOSCIUTO IL LATO OSCURO DEL SUCCESSO, CERCO DI FREGARMENE DEI GIUDIZI E DI NON PASSARE NOTTI INSONNI ASPETTANDO UNA RECENSIONE sprecare per parlare di qualcuno che disprezzate? Grazie per l’attenzione! Quando ho iniziato questo mestiere ho subito capito che non sarei riuscito a tollerare i contraccolpi della popolarità, la totale invasione della privacy. Ho bisogno di separare i due territori, quello pubblico e quello privato, e in maniera netta. Ecco perché Conchita non ha mai ucciso Tom». Si fa un gran parlare della sindrome di Garland, della solitudine degli artisti, delle gavette sfibranti, di tanto stress per un’ora di gloria. Non è il caso della Wurst. «A me piace chiudere la porta e starmene da sola», assicura. «Non ho ancora fatto conoscenza con il lato oscuro del successo. Per non cadere nel tranello cerco di non pendere dalle labbra degli altri, di fregarmene dei giudizi, di non passare notti insonni aspettando la recensione del giorno dopo, di non leggere gli insulti su questo o quel blog. Ho deciso di ignorare le umiliazioni e gli attacchi già molti anni fa. Lei penserà: vive sulle nuvole; ma questa è Conchita, concentrata su se stessa, motivata e determinata. Sono entrata a far parte dello show business a diciassette anni e ho imparato molto. All’epoca ero ingenua, cantavo in un club per venti persone e mi sentivo arrivata. Sbagliavo. Ho dovuto lavorare sodo per diventare una star. E ora se dovesse andar male pazienza, me ne torno da Tom». La chiamano per la prova, il palcoscenico immenso acceso con tutte le luci del paradiso e cento comparse l’aspettano per un numero che si preannuncia strabiliante. Arrivederci, Conchita. O vuole che la chiami Tom? Tende cortesemente la mano, sulle lunghe dita virili sono piantate unghie rosso giungla. «Conchita!», esclama. «Conchita! Tom non si concia così. Non l’avrei mai fatta entrare nella sua noiosissima vita, che io adoro». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-05-17