la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 17 MAGGIO 2015 NUMERO 532
Cult
La copertina. L’immaginario ricomincia daccapo
Straparlando. Berengo Gardin: “Credo solo nelle foto”
Mondovisioni. A Mérida la vita è una partita a scacchi
Mentre Cannes
celebra la star
Isabella Rossellini
racconta
la sua Bergman
INGRID BERGMAN A ROMA, 1952. FOTO DAVID SEYMOUR/MAGNUM/CONTRASTO
Ingrid
mia
madre
IRENE BIGNARDI
ANTONIO MONDA
NEW YORK
P
ARLA IN FRETTA, allegra e trafelata,
deve sbrigare ancora un mucchio
di faccende prima di riuscire a
prendere l’aereo per Cannes dove in questi giorni il Festival del cinema celebra il centenario di Ingrid Bergman, sua madre. Ma è sufficiente una domanda molto semplice perché sul viso di Isabella Rossellini compaia d’improvviso un
sorriso intenerito e lo stesso timbro di voce
si faccia più riflessivo, come sovrappensiero:
qual è il primo ricordo che ha di sua madre?
Isabella si ferma, respira profondamente,
quindi risponde senza esitare: «Un abbraccio, lungo, e molto caldo». Poi subito riprende il ritmo consueto: «Tuttavia, sa cosa? Non
riesco in alcun modo a ricordare con precisione dove sia avvenuto. Probabilmente a
Roma, dove ho vissuto fino a quando avevo
cinque anni».
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
R
ACCONTA LA LEGGENDA hollywoodiana che David O. Selznick, il potente produttore di Pranzo alle
otto e futuro ras di Via col vento,
che aveva comprato, insieme, i
diritti per il remake americano di Intermezzo e la sua interprete, quando se la vide davanti, quella ragazza svedese così diversa
dalle sue dive — troppo alta, un buffo naso
troppo lungo, le sopracciglia troppo folte —
non poté fare a meno di chiederle di raddriz-
zarsi i denti, aggiustare qui, sistemare. E, soprattutto, visto che si era alla vigilia della
guerra, di cambiare quel suo cognome che
sapeva di tedesco.
La bella ragazza svedese acqua e sapone e
carattere che gli stava davanti disse semplicemente no. Oppure se ne tornava a Stoccolma. E Ingrid Bergman ha continuato a dire
no, e a scegliere, nella vita e nel cinema. Vincendo lei.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L’attualità. Il ritorno a casa dell’American sniper L’officina. Inge Feltrinelli ricorda Richard Seaver e l’età d’oro dell’editoria
Next. Quando internet sarà dappertutto L’incontro. Conchita Wurst: “Spenti i riflettori e tolte le ciglia finte chiamatemi Tom”
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la Repubblica
LA DOMENICA
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La copertina. Ingrid Bergman
“Severa?Èsolo l’immagine che dava di sé,
ma con noi no, non lo è stata mai
Piuttosto una persona forte e libera,
un po’ come la sua Giovanna d’Arco”
Prima di volare per Cannes, nel centenario
della nascita, Isabella Rossellini
racconta la madre, la donna e l’attrice
ROBERTO
RENZO
(1906-1977) IL REGISTA-PADRE
DEL NEOREALISMO ITALIANO
NEL1950 SPOSA
INGRID BERGMAN
DALLA QUALE HA TRE FIGLI:
ROBERTINO E LE GEMELLE
ISABELLA E ISOTTA INGRID
DETTO RENZINO, OGGI 73 ANNI,
REGISTA E PRODUTTORE,
È IL FIGLIO NATO
DAL PRECEDENTE MATRIMONIO
DI ROSSELLINI
CON LA COSTUMISTA
MARCELLA DE MARCHIS
<SEGUE DALLA COPERTINA
RITRATTO DI FAMIGLIA
ANTONIO MONDA
E
l’ultimo ricordo che ha di sua madre, qual è?
«La festa del mio trentesimo compleanno. Fu l’ultimo viaggio di
mamma in America, ed era già molto malata. Pochi giorni dopo
tornò sulla sua isola, in Svezia. Poi andò a Londra, dove è morta.
Proprio nel giorno del suo compleanno».
In che lingua parlavate tra di voi?
«Nelle nostre chiacchierate c’era un misto di tante lingue diverse.
Mamma ne conosceva cinque e parlava molto bene l’italiano. Di
solito amava parlare nella lingua che usava nello spettacolo o nel
film che in quel periodo interpretava. Credo lo facesse per tenersi
in esercizio e evitare di confondersi, ma riusciva a farlo con molta
naturalezza, come se la cosa non le richiedesse alcuno sforzo, cercando di insegnarci sempre qualcosa, un’espressione, o una parola. Era una donna estremamente concreta».
Che ricordi ha dei suoi genitori insieme?
«Il ricordo più vivo è legato ancora a un compleanno, questa volta era il settantesimo di
mio padre. Mamma venne a trovarci. Siamo stati a cena insieme la sera prima, come si trattasse di una normale riunione familiare e la sua visita non fosse legata al compleanno. Poi,
la mattina successiva, gli facemmo una sorpresa, lui ne rimase deliziato, commosso. Una cosa che non viene raccontata mai sui miei genitori è quanto si divertissero insieme e come
fossero rimasti amici anche dopo il divorzio».
Che giudizio dà, oggi, di sua madre come attrice?
«Non ho dubbi, in molti film io credo che non sia stata “soltanto” una star ma anche una
magnifica attrice».
Quale la sua migliore interpretazione?
«Quando rivedo i suoi film riconosco come
familiare la sua gestualità intima, e allora so- anche per quelle scene oniriche disegnate
no presa dalla commozione e dalla nostalgia. da Salvador Dalì. Notorious, che probabilSe comunque dovessi scegliere direi Noto- mente è migliore, mi apparve troppo comrious, Viaggio in Italia e Sinfonia d’autunno, plicato».
dove lei è migliore del film, che pure è diretEra una madre severa la sua?
to da un grande come Ingmar Bergman».
«Forse è questa l’immagine che proiettaCosa non le piace di quel film?
va, e in chi lo pensa ci deve essere anche un
«La tesi di fondo: una donna che lavora ha po’ dello stereotipo donna-del-nord. Ma la
necessariamente una famiglia disastrata. È realtà è opposta. No, non era affatto una donun’idea datata: la storia ha dimostrato che na severa. E nonostante gli impegni non è
non è affatto vero che debba per forza esse- stata neppure una madre assente, quando
re così».
stava con noi la sua dedizione era totale».
Il primo
ricordo
che ho
di lei
Il primo film di sua madre che ha visto?
«Sa che non me lo ricordo? Piuttosto ho
una vaga memoria di quando andavo a trovarla sul set. Su quello di Santa Giovanna al
rogo mi ci hanno portata che ero poco più che
neonata. Quando sono nata, i miei lavoravano insieme e so che mi facevano vedere i premontati dei loro film. Quando avevo dieci anni, invece, la Rai trasmise una retrospettiva
organizzata da Gian Luigi Rondi, me la ricordo perché le sere in cui veniva trasmesso
il film potevo andare a letto alle dieci e mezza anziché alle otto e mezza. Ero affascinata
dalle interviste che precedevano».
A quell’epoca quale film la colpì di più?
«Io ti salverò, per la storia, così morbosa, e
Dunque, non come in
Sinfonia d’autunno: nella vita vera vostra madre è riuscita a conciliare maternità e carriera.
«Si, e mi sembra che lo abbia
dimostrato. Oggi anche io so bene
quanto sia difficile. Da questo punto di vista
sono stati fatti enormi passi da gigante, ma
ancora c’è molta strada per la parità tra i sessi. Le faccio solo un piccolo esempio. In America, per molti versi un paese all’avanguardia, da una parte non esiste deduzione fiscale per le baby sitter e dall’altra si fissano gli
incontri con i professori alle tre del pomeriggio…Ecco, mia madre di fronte a una cosa
NELLA FOTO GRANDE,
TUTTA LA FAMIGLIA RIUNITA
NEL 1953 NELLA VILLA
DI SANTA MARINELLA (ROMA)
PER IL PRIMO COMPLEANNO
DI ISOTTA INGRID E ISABELLA.
SOTTO, LA BERGMAN
CON LE DUE GEMELLE
A ROMA NEL 1952.
LE FOTOGRAFIE SONO TRATTE
DA “INGRID BERGMAN.
A LIFE IN PICTURES”
(SCHIRMER/MOSEL, 2013)
DI ISABELLA ROSSELLINI
E LOTHAR SCHIRMER
del genere non si sarebbe mai abbattuta e
avrebbe certamente trovato una soluzione
organizzativa. In questo forse l’essere donna-del-nord in effetti l’ha aiutata».
In cos’altro era una donna del nord?
«Beh, gli svedesi tengono molto più degli
italiani alle attività fisiche e mia madre sciava, tirava di scherma, giocava a tennis, tutte cose che ha provato a insegnarci sempre
con grande naturalezza. Devo a lei se ho imparato ad apprezzare l’equitazione e il ballo.
La ricordo ancora in giro per Roma alla ricerca di istruttori: non demordeva mai. E poi
in un’altra cosa era una del nord: aveva molta libertà, forse anche modernità, nel modo
di vestire, a cominciare dai pantaloni, addirittura corti d’estate. In certe foto sembra
un’attrice di oggi».
Era religiosa?
«No».
Eppure i film girati con suo padre hanno
una forte dimensione spirituale.
«Questo è innegabile, ma temo di non essere in grado di parlare di una cosa tanto intima e che appartiene solo a loro. Ho imparato che viste da fuori molte tra le cose più
importanti della vita non si capiscono mai
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la Repubblica
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La bella svedese
che tra due amori
scelse la vita
ISOTTA INGRID
ISABELLA
ROBERTO JR.
INGRID
LA GEMELLA DI ISABELLA
OGGI HA 62 ANNI,
HA INSEGNATO LETTERATURA
ITALIANA ALLE UNIVERSITÀ
DI HARVARD, PRINCETON
E ALLA NEW YORK UNIVERSITY.
HA DUE FIGLI
OLTRE CHE ATTRICE
È STATA GIORNALISTA
E MODELLA. HA UNA FIGLIA,
ELETTRA, DI 31 ANNI
E UN FIGLIO, ROBERTO, DI 21.
A CANNES PRESIEDE LA GIURIA
DI “UN CERTAIN REGARD”
ALL’ANAGRAFE
RENATO ROBERTO,
MA PER TUTTI ROBERTINO,
FRATELLO DI ISABELLA
E ISOTTA. OGGI HA 64 ANNI,
LAVORA NEL MONDO
DELLA FINANZA
NATA IL 29 AGOSTO DEL 1915
(E MORTA NEL 1982), HA VINTO
TRE PREMI OSCAR. PRIMA
DI CONOSCERE ROSSELLINI
AVEVA AVUTO UN’ALTRA FIGLIA
IN UN PRECEDENTE
MATRIMONIO, PIA FRIEDAL
<SEGUE DALLA COPERTINA
IRENE BIGNARDI
IFFICILE trovare nella sua
D
CANNES 2015
IL VOLTO
SORRIDENTE
DI INGRID
BERGMAN
SUL POSTER
UFFICIALE
DEL FESTIVAL
DI CANNES 2015
DEDICATO
ALL’ATTRICE
SVEDESE
A CENT’ANNI
DALLA NASCITA
del tutto. Posso dire però con assoluta certezza che mia madre non era osservante».
Che cosa ha preso da lei?
«Alcuni tratti prettamente svedesi, come
appunto la manìa dell’organizzazione, a cominciare dall’ordine e dalla razionalità con
cui mettere mano a una casa».
E cosa invece vorrebbe aver preso?
«Il suo charme, inimitabile, e un certo distacco: il saper parlare di sé dall’esterno».
Cosa amava di più dell’Italia?
«La convivialità, così diversa dall’approccio esistenziale degli svedesi. E ovviamente la bellezza folgorante, inarrivabile
dell’Italia».
Come considera la famosa lettera che
scrisse a suo padre, dalla quale nacquero
collaborazione artistica e storia d’amore?
«Sinceramente credo sia stata un po’ mitizzata. Mamma ha scritto tante altre lettere a tanti registi e colleghi, e sono molto più
innocenti di quanto si possa pensare. Per
esempio ha scritto a Ingmar Bergman, dicendogli che avevano lo stesso cognome ma
non avevano ancora mai lavorato insieme».
D’accordo, ma quella lettera a suo padre
terminava con un “ti amo”.
«Bah, conoscendola non la vedo come una
forma di seduzione, piuttosto un gesto informale e scherzoso, tipico anche di molte altre
attrici».
Vede una grande differenza tra lo star system dell’epoca in cui lavorava sua mamma e quello di oggi?
«Non sono in grado di rispondere, ho conosciuto Hollywood molto più tardi, sono arrivata lì che avevo venticinque anni. Ho incontrato registi leggendari amici di mamma, Hitchcock, Renoir, è vero, ma erano già
estremamente anziani».
Che cos’ha in programma per Cannes e
per il centenario di sua madre?
«In queste celebrazioni io vedo soprattutto la possibilità di proporre il grande cinema a una nuova generazione di spettatori, come si fa con la storia dell’arte: è importante far conoscere alle generazioni che
verranno Giotto o Picasso, no? E dunque a
Cannes sarà presentato nei prossimi giorni
un documentario su mia madre di Stig
Björkman, accademico svedese, mentre
più in là interpreterò a Londra, Parigi, New
York e ovviamente Roma uno spettacolo diretto da Guido Torlonia e Ludovica Damia-
ni, che in passato hanno diretto spettacoli
simili, estremamente riusciti, su Fellini e
Visconti. Si tratta di un progetto molto diverso da Papà compie cent’anni che realizzai qualche anno fa con Guy Maddin. Proietteremo anche scene di film e materiale d’archivio mai visto. Per esempio c’è un filmino
in 16 millimetri girato da mia madre sul set
della Giovanna d’Arco di Victor Fleming,
una pellicola che produsse svincolandosi da
David O’Selznick».
Vero, me ne ero dimenticato, sua mamma ha interpretato ben due volte Giovanna d’Arco: vede che torniamo alla religiosità?
«Se è per questo l’ha interpretata anche
a Broadway, e poi comunque i due film sono diversissimi: quello di Fleming molto
hollywoodiano, quello di papà nasceva invece da un testo di Claudel. Ma se proprio
vuole che risponda alla domanda la verità
è un’altra: mia madre amava moltissimo
questa santa guerriera perché era una donna forte. E io credo che sia stata proprio
quella donna così forte ad averla ispirata
tutta la vita».
filmografia, da Intermezzo a
Sinfonia d’autunno, che ha
chiuso la sua carriera in
un’emozionante
associazione con l’altro grande
Bergman, un titolo che non abbia
almeno qualche qualità speciale. E
difficile non vedere nei suoi molti amori
— da Robert Capa al musicista Larry
Adler, da Victor Fleming, che la diresse
in Dr Jekyll e Mr Hyde, al grande amore
Roberto Rossellini — la ricerca di una
libertà di scelta che Hollywood non
prevedeva, e che per gli anni della sua
vita italiana non le perdonò.
Anche se dichiarava
insistentemente che la cosa
più importante per lei era
recitare (basti pensare a
quando abbandonò la
Svezia, un marito e una figlia
piccola per tentare la via di
Hollywood), Ingrid
Bergman ogni giorno
sceglieva la vita. Come fece
quando l’amore per Roberto
Rossellini e la nascita dei
loro figli, Roberto, Isabella,
Isotta, la condannarono, dal
1949 al 1956, all’ostracismo
da Hollywood, e gli amori
dell’ex santa diventata
pubblica peccatrice vennero perfino
discussi al Congresso.
In quegli anni Ingrid Bergman, sotto
l’influsso del grande Roberto, cambiò
completamente il suo stile di vita e il suo
registro interpretativo, da Stromboli a La
paura, intrecciando, per questo
cambiamento, i sentimenti e il suo
talento.
Sapeva anche riconoscere il momento in
cui i sentimenti non la nutrivano più. Nel
1956 tornò in America, forte di
un’esperienza umana e professionale
che l‘avrebbe arricchita per anni e di
qualcosa che le altre non avevano. Fino al
1978, a quel film rivelatore e crudele,
Sinfonia d’autunno, che ha portato alla
ribalta la sua lacerazione profonda
attraverso il negato pentimento di una
donna, la grande pianista, che ha messo
al primo posto non sua figlia, ma la
carriera e l’espressione di se stessa.
Era stato questo, confessò al suo biografo
Alan Burgess, il suo tormento: la
scissione tra due amori, quelli familiari e
lo schermo. Lo schermo spesso ha avuto
la meglio. Ma dalla Ilsa di Casablanca a
Giovanna d’Arco, dalla Maria di Per chi
suona la campana alla Katherine di
Viaggio in Italia, ci ha lasciato il ricordo
indelebile di una grande “persona” — nel
duplice senso di attrice e di donna.
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DOMENICA 17 MAGGIO 2015
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Il racconto. American sniper
“Devi concentrarti sulla tacca di mira, così il bersaglio
diventa sfocato, come una macchia grigia”. Negli Usa
il libro dell’anno lo ha scritto un Marine. Parla del ritorno
a casa dopo la guerra in Iraq. Dove tutto era più facile
PHIL KLAY
S
PARAVAMO AI CANI. Non per sbaglio.
Lo facevamo di proposito, e la chiamavamo Operazione Scooby. Io
amo i cani, per questo ci ho pensato parecchio. La prima volta è stato per istinto. Sento O’Leary che fa:
«Gesú», e vedo un cane marrone
tutto pelle e ossa che lecca il sangue come se bevesse acqua da una
ciotola. Non è sangue americano,
però insomma, quel cane lo sta leccando. Da quell’istante si apre la
caccia al cane. Sul momento non ci pensi. Ti chiedi solo chi ci
sarà in quella casa, che armi avrà, come ucciderà te e i tuoi compagni. Procedi da un isolato all’altro, armato di un fucile che
spara a cinquecentocinquanta metri, e ammazzi gente a cinque metri dentro una scatola di cemento. Cominci a pensarci
più tardi, quando te ne lasciano il tempo.
Non è che dalla guerra al centro commerciale di Jacksonville uno ci vada tirando dritto. Al termine della missione ci hanno mandati a TQ, una base logistica nel deserto, per farci decomprimere un po’. Non ho capito bene cosa volessero dire. Decomprimere. Per noi voleva dire farci un sacco di seghe sotto la
doccia. Fumare un sacco di sigarette e giocare un sacco a carte.
E poi ci hanno portati in Kuwait e ci hanno caricati su un aereo
di linea per rispedirci a casa.
Ecco qua. Prima eri in una zona di guerra dura e adesso ti ritrovi su un sedile imbottito a fissare la bocchetta dell’aria condizionata, pensando: ma dove cazzo sono? Hai un fucile tra le
ginocchia, come tutti gli altri. Anche se vi siete fatti la doccia,
sembrate tutti lerci e deperiti. Avete gli occhi infossati e la mimetica ridotta una merda. E tu stai lì seduto, chiudi gli occhi e
pensi. Il problema è che i tuoi pensieri non hanno un ordine logico. Cerchi di pensare a casa tua, e ti ritrovi nella casa delle torture. Vedi le membra mozzate nell’armadietto e il ritardato
nella gabbia. Starnazzava come un pollo. La testa rimpicciolita sembrava una noce di cocco. Dopo un po’ ti ricordi che secondo Doc gli avevano iniettato del mercurio nel cranio, eppure continui a non capire.
Rivedi quello che hai visto le volte che hai sfiorato la morte.
Il televisore rotto e il cadavere dell’hajji. Eicholtz coperto di sangue. Il tenente alla radio.
Ho cercato di pensare ad altro, tipo a mia moglie Cheryl. Ha
la pelle chiara e una leggera peluria scura sulle braccia. Lei se
ne vergogna, però è morbida. Delicata. Ma pensare a Cheryl mi
faceva sentire in colpa, e allora ho pensato al caporale Hernandez, al caporal maggiore Smith e a Eicholtz. Eravamo come
fratelli, io e Eicholtz. Una volta abbiamo salvato la vita a un marine. Qualche settimana dopo Eicholtz si arrampica su un muro. Quando è a metà, un insorto si sporge da una finestra e gli
spara nella schiena. Così penso a queste cose. E vedo il ritardato, e il muro su cui è morto Eicholtz. Ma il fatto è che penso un
sacco, proprio un sacco, a quei cani del cazzo.
E penso al mio, di cane. Vicar. Al canile dove l’abbiamo preso, quando Cheryl ha detto che dovevamo prendere un cane anziano perché nessuno sceglie i cani anziani. Al fatto che non siamo mai riusciti a insegnargli niente. A quando vomitava tutte
quelle schifezze che non avrebbe dovuto mangiare. A quando
se la svignava pieno di vergogna, coda bassa e testa bassa, rannicchiato sulle zampe posteriori. A quando ha cominciato a diventare grigio, due anni dopo che l’abbiamo preso, e con tutti
quei peli bianchi sul muso sembrava che avesse i baffi.
E allora ecco qua. Vicar e Operazione Scooby per tutto il viaggio di ritorno.
Forse, non so, sei preparato ad ammazzare la gente. Ti addestri su bersagli a forma di uomo proprio per essere pronto.
Certo, abbiamo anche il «bersaglio cane». Il bersaglio Delta. Ma
non somiglia per un cazzo a un cane.
Durante il volo ho pensato anche a quello. Te ne stai lì seduto con il fucile in mano ma senza munizioni. E poi l’aereo atterra in Irlanda per fare rifornimento. E c’è una nebbia che non si
vede un cazzo, però siamo in Irlanda, ci dovrà pur essere della
birra. E il pilota dell’aereo ci legge un messaggio secondo cui le
disposizioni generali rimangono in vigore finché non arrivia-
mo negli States, e noi al momento siamo ancora in servizio. Perciò niente alcol. Be’, l’ufficiale comandante è saltato su e ha detto: «Quest’ordine ha senso come una maledetta mazza da football. Forza, marine, avete tre ore di tempo. Ho sentito che qui
si beve Guinness».
Ci siamo ubriacati in fretta. Quasi tutti avevamo perso una
decina di chili, e non toccavamo un goccio d’alcol da sette mesi. È stato bello. Siamo risaliti sull’aereo e ci siamo addormentati come stronzi. Ci siamo svegliati in America. Solo che quando siamo atterrati a Cherry Point non c’era nessuno. Niente famiglie. Il sergente artigliere ha detto che ci aspettavano a
Lejeune. In pratica, prima carichiamo la nostra roba sui camion
e prima le rivediamo. Ricevuto. Ci siamo divisi in squadre e abbiamo buttato zaini e sacche sui camion. Poi sono arrivati gli
autobus e noi ci siamo ammassati dentro. Da Cherry Point a
Lejeune c’è un’ora di strada. Il primo pezzo è in mezzo agli alberi. Al buio non si vede molto. Negozi ancora chiusi. Neon
spenti nei distributori e nei bar. Guardando fuori capivo vagamente dove mi trovavo, ma non mi sentivo a casa. Ho pensato
che sarei davvero arrivato a casa quando avessi baciato mia
moglie e accarezzato il mio cane.
S
iamo entrati dal cancello laterale di Lejeune, che
dista circa dieci minuti dalla zona del nostro battaglione. Ho visto la caserma e ho pensato: eccola.
E poi ci siamo fermati quando mancavano solo
quattrocento metri. Sarebbe bastata una corsetta
per raggiungere le famiglie. Vedevo i riflettori installati dietro
una delle caserme. E c’erano macchine parcheggiate dappertutto. Sentivo il brusio della folla. Le famiglie erano lì. Ma noi ci
siamo messi tutti in fila, pensando a loro là in fondo. Io pensavo a Cheryl e Vicar. E abbiamo aspettato. Quando sono arrivato allo sportello e ho consegnato il fucile, però, mi sono bloccato. Era da mesi che non me ne separavo. Non sapevo dove mettere le mani. Prima le ho infilate in tasca, poi le ho tirate fuori e
ho incrociato le braccia, e alla fine le ho lasciate penzolare lungo i fianchi, inutili. Dopo che tutti abbiamo restituito il fucile, il
primo sergente ci ha fatti disporre in una formazione di parata
di quelle serie. Abbiamo marciato preceduti da un cazzo di stendardo sventolante. Quando abbiamo raggiunto la prima caserma, la gente ha cominciato ad applaudire. Non ho visto nessuno finché non abbiamo svoltato l’angolo, e poi ecco, un grande muro di persone con cartelli in mano sotto una fila di riflettori, e i riflettori erano puntati su di noi e ci abbagliavano, così
era difficile scrutare tra la folla e distinguere le facce. Ho visto
delle telecamere. C’erano un sacco di bandiere americane. Al
centro della prima fila, l’intero clan dei MacManigan reggeva
uno striscione con la scritta: URRÀ SOLDATO SCELTO BRADLEY MACMANIGAN. SIAMO FIERI DI TE.
Ho passato lo sguardo sulla folla. Avevo parlato al telefono con
Cheryl dal Kuwait, non per molto, giusto il tempo di dire: «Ehi,
sto bene», e: «Sì, entro quarantott’ore». E lei aveva detto che
ha visto e si è illuminata. Era da tanto che una donna non mi sorrideva così. Mi sono fatto sotto e l’ho baciata. Ma era passato
troppo tempo ed eravamo entrambi troppo nervosi, e ho avuto l’impressione che stessimo solo unendo le labbra, non so. Lei
si è tirata indietro e mi ha guardato, poi mi ha messo le mani
sulle spalle ed è scoppiata a piangere. Si è strofinata gli occhi e
mi ha abbracciato, stringendomi forte a sé. Il suo corpo morbido si adattava al mio. Mi ha chiesto se volevo guidare, e accidenti se volevo. Un’altra cosa che non facevo da tanto tempo.
Ho messo la retromarcia, sono uscito dal parcheggio e mi sono
diretto verso casa. Stavo pensando che avevo voglia di fermarmi in un posto buio e rannicchiarmi con lei sul sedile posteriore, come ai tempi della scuola. Invece sono uscito dal parcheggio e ho imboccato il McHugh. Cheryl mi ha chiesto: «Come
stai?» che voleva dire: com’è stato? adesso sei pazzo?
Io ho risposto: «Bene. Sto benone».
Poi è tornato il silenzio. Ero contento di guidare. Così avevo
qualcosa su cui concentrarmi. Percorri questa via, gira il volante, percorrine un’altra. Un passo alla volta. Si può superare
tutto, un passo alla volta.
Lei ha detto: «Sono felice che sei a casa». Poi ha detto: «Ti amo
tanto». Poi ha detto: «Sono fiera di te».
Io ho risposto: «Ti amo anch’io».
ME NE STAVO SUL DIVANO CON VICAR
A GUARDARE LE PARTITE
DI BASEBALL CHE CHERYL
MI AVEVA REGISTRATO. A VOLTE
IO E LEI PARLAVAMO DEI SUOI SETTE MESI,
DELLE MOGLI RIMASTE A CASA.
A VOLTE MI FACEVA QUALCHE TIMIDA
DOMANDA. A VOLTE RISPONDEVO
sarebbe venuta, ma era strano parlarle al telefono. Era da un
po’ che non sentivo la sua voce.
Cercavo mia moglie. E ho visto il mio nome su un cartello:
SERG. PRICE, diceva. Ma il resto era coperto dalla folla, e non
vedevo chi lo reggeva. E poi ho visto il resto del cartello. Diceva:
SERG. PRICE, ADESSO CHE SEI TORNATO PUOI DARE UNA
MANO IN CASA. ECCO LA LISTA DELLE COSE DA FARE. 1) IO
2) RIPETERE NUMERO 1.
E lì, con il cartello in mano, c’era Cheryl. Portava un paio di
calzoncini mimetici e una canottiera, anche se faceva freddo.
Doveva averli messi per me. Era più magra di quanto ricordassi. Anche più truccata. Però era lei. Mi sono avvicinato e lei mi
Il soldatoche
Repubblica Nazionale 2015-05-17
la Repubblica
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L’AUTORE E IL LIBRO
PHIL KLAY HA TRENTADUE ANNI, È STATO MARINE
IN IRAQ DAL 2007 AL 2008. “FINE MISSIONE”,
IL SUO PRIMO LIBRO, DA CUI È TRATTO IL RACCONTO
DI CUI QUI ANTICIPIAMO ALCUNI BRANI,
HA VINTO IL NATIONAL BOOK AWARD
ED È UNO DEI CINQUE LIBRI DELL’ANNO
PER IL “NEW YORK TIMES”. EDITO IN ITALIA DA EINAUDI
(TRADUZIONE DI SILVIA PARESCHI, 248 PAGINE, 19 EURO).
È IN LIBRERIA DA OGGI
Quando siamo arrivati a casa Cheryl mi ha aperto la porta.
Non sapevo neanche dov’erano le mie chiavi. Vicar non mi è venuto incontro. Sono entrato, ho guardato in giro, ed eccolo lì sul
divano.
Probabilmente tutte le mogli avevano un po’ paura.
E questo è stato il mio ritorno a casa. Non è andato male, credo. Tornare indietro è come respirare per la prima volta dopo
aver rischiato di annegare. Anche se è doloroso, fa bene. Non
posso lamentarmi. Cheryl si è comportata alla grande. A Jacksonville ho visto la moglie del caporale Curtis. Gli aveva speso
tutta la paga di guerra prima che tornasse ed era incinta di cinque mesi, non abbastanza incinta per un marine che rientra da
una missione di sette mesi.
La moglie del caporal maggiore Weissert non è neanche andata a prenderlo. Lui ha riso, ha detto che probabilmente sua
moglie aveva capito male l’orario, e O’Leary lo ha accompagnato a casa. Arrivano e la trovano vuota. Vuota di tutto, non
Q
uando mi ha visto si è alzato adagio. Aveva il pelo più grigio di prima e strani grumi di grasso sulle zampe, quei piccoli tumori che vengono ai labrador, solo che lui ne aveva un sacco. Si è messo
a scodinzolare. È sceso dal divano con grande
cautela, come se sentisse dolore. E Cheryl ha detto: «Si ricorda di te».
«Perché è così magro?» ho detto, e mi sono chinato ad accarezzarlo dietro le orecchie.
«Il veterinario ha detto di tenergli il peso sotto controllo. E ormai dopo mangiato vomita quasi sempre». Cheryl mi stava tirando per il braccio. Mi stava tirando via da Vicar. E io l’ho lasciata fare. Mi ha chiesto: «Non sei contento di essere a casa?».
Le tremava la voce, come se non fosse sicura di cosa avrei risposto. E io ho detto: «Sì, sì, certo». E lei mi ha baciato con foga.
L’ho afferrata, l’ho presa in braccio e l’ho portata in camera da
letto. Mi sono appiccicato un gran sorriso sulla faccia, ma non
è servito. Allora mi è sembrato che avesse un po’ paura di me.
ERA PESANTE E CALDO, E MENTRE
LO TRASPORTAVO MI LECCAVA
LA FACCIA. QUANDO L’HO MESSO GIÙ
E HO FATTO UN PASSO INDIETRO, LUI
MI HA GUARDATO. HA AGITATO LA CODA.
E IO MI SONO BLOCCATO. SOLO UN’ALTRA
VOLTA AVEVO ESITATO IN QUEL MODO.
NEL BEL MEZZO DI FALLUJA
solo di persone: niente mobili, niente roba alle pareti, niente di
niente. Weissert guarda quello schifo, scrolla la testa e si mette a ridere. Allora lui e O’Leary sono usciti a comprare del whisky e si sono sbronzati proprio lì, nella casa vuota. Weissert ha
bevuto fino ad addormentarsi e quando si è svegliato si è trovato accanto MacManigan seduto sul pavimento. Ed è stato
proprio MacManigan a ripulirlo e portarlo alla base, in tempo
per le lezioni che ti fanno seguire su argomenti tipo non suicidarti o non picchiare tua moglie. E Weissert fa: «Io non posso
picchiare mia moglie. Non so dove cazzo è andata».
Quando non ero con il resto della squadra, me ne stavo sul divano con Vicar, a guardare le partite di baseball che Cheryl mi
aveva registrato. A volte io e Cheryl parlavamo dei suoi sette
mesi, delle mogli rimaste a casa, della sua famiglia, del suo lavoro, del suo capo. A volte mi faceva qualche timida domanda.
A volte rispondevo. E per quanto fossi contento di essere negli
States, e anche se avevo odiato gli ultimi sette mesi e l’unica cosa che mi aveva dato forza erano stati i miei commilitoni marine e il pensiero del rientro a casa, mi stava venendo voglia di
tornare indietro. E fanculo tutto quanto.
La settimana dopo, al lavoro, abbiamo fatto solo mezze giornate e stronzate. Visite mediche per curare ferite che i ragazzi
avevano nascosto o ignorato. E tutte le sere io e Vicar guardavamo la tv sul divano, aspettando che Cheryl finisse il turno alla Texas Roadhouse. Vicar dormiva con la testa sulle mie ginocchia, svegliandosi ogni volta che gli allungavo una fetta di
salame. Il veterinario aveva raccomandato a Cheryl di non dargli il salame, ma Vicar si meritava qualcosa di buono. Quando
lo accarezzavo, la metà delle volte sfregavo contro uno dei suoi
tumori e di sicuro gli facevo male. Sembrava che gli facesse male tutto, anche scodinzolare e mangiare la pappa. Camminare.
Sedersi. E quando vomitava, un giorno sì e uno no, tossiva come se stesse soffocando. Era il rumore che mi dava fastidio. Pulire il tappeto non mi disturbava.
poi Cheryl tornava a casa, ci guardava, scuoteva la
testa e diceva sorridendo: «Be’, fate proprio pena».
Volevo che Vicar mi stesse accanto, ma non sopportavo di guardarlo. Dev’essere per questo che
quel fine settimana ho lasciato che Cheryl mi trascinasse fuori di casa. Abbiamo preso la mia paga di guerra e
abbiamo comprato un sacco di roba. Perché è così che l’America combatte il terrorismo.
Che esperienza. Tua moglie che ti porta a fare acquisti a Wilmington. L’ultima volta che hai camminato in una via cittadina, il marine di punta si è messo sul ciglio della strada a controllare cosa c’era più avanti e sui tetti di fronte. Dietro di lui,
un altro marine teneva d’occhio le finestre dei piani alti, un altro controllava le finestre un po’ più in basso, fino ai ragazzi che
coprivano il livello della strada e all’ultimo marine che guardava le spalle a tutti. In una città possono ammazzarti da un mi-
AP PHOTO/ED ANDRIESKI
E
lione di posti. A Wilmington non hai una squadra, non hai un
compagno di battaglia, non hai neanche un’arma. Per dieci volte fai per prenderla e quando non la trovi sussulti. Sei al sicuro,
dovresti sentirti in codice bianco, e invece no. Invece sei rinchiuso dentro un negozio American Eagle. Tua moglie ti passa
dei vestiti e tu entri nella minuscola cabina di prova. Chiudi la
porta e non vuoi più riaprirla. Fuori c’è gente che passa davanti alle finestre come se niente fosse. Gente che non ha idea di
dove sia Falluja, dove sono morti tre membri del tuo plotone.
Gente che ha passato tutta la vita in codice bianco.
Alla fine ero schizzato. Cheryl non mi ha lasciato guidare. E
quando siamo arrivati a casa abbiamo visto che Vicar aveva vomitato ancora. L’ho trovato sul divano che cercava di alzarsi sulle zampe tremanti. E ho detto: «È arrivato il momento».
Lei ha risposto: «Domani lo porto dal veterinario».
E io: «Nel senso che darai cento dollari a uno stronzo perché
ammazzi il mio cane». Lei è stata zitta. Le ho detto: «Non si fa
così. È compito mio».
«Okay», mi ha risposto. È andata da Vicar e si è chinata ad abbracciarlo. I capelli le hanno nascosto la faccia e non ho visto se
stava piangendo. Poi è andata in camera da letto e ha chiuso
adagio la porta. Mi sono seduto sul divano e mentre grattavo
Vicar dietro le orecchie ho escogitato un piano. Non era un buon
piano, però era un piano. Vicino a casa mia c’è una strada sterrata, e di fianco alla strada c’è un torrente dove intorno al tramonto filtra la luce. È bello lì. Ogni tanto ci andavo a correre. Mi
sembrava che fosse il posto giusto. In macchina non ci vuole
molto. Siamo arrivati proprio al tramonto. Ho parcheggiato sul
ciglio della strada, ho tirato fuori il fucile dal baule, me lo sono
messo a tracolla e sono andato dal lato del passeggero. Ho aperto lo sportello, ho preso in braccio Vicar e l’ho portato giù al torrente. Era pesante e caldo, e mentre lo trasportavo mi leccava
la faccia, le leccate lente e pigre di un cane che è stato felice tutta la vita. Quando l’ho messo giù e ho fatto un passo indietro,
lui mi ha guardato. Ha agitato la coda. E io mi sono bloccato.
S
olo un’altra volta avevo esitato in quel modo. Nel
bel mezzo di Falluja, un insorto si era introdotto
nel nostro perimetro. Quando avevamo lanciato
l’allarme era scomparso. Lo avevamo cercato dappertutto, finché Curtis aveva guardato dentro
una cisterna dell’acqua che veniva usata come pozzo nero, pieno per un quarto di merda liquida. L’insorto ci sguazzava dentro, nascondendosi sotto il liquame e tornando su solo per respirare. Sembrava un pesce che veniva a galla per catturare
una mosca. Non riuscivo neanche a immaginarlo. Già l’odore
era insopportabile. Quattro o cinque marine avevano puntato
il fucile e sparato nella merda. Io no.
In quel momento, mentre guardavo Vicar, avevo la stessa
sensazione. Che qualcosa dentro di me si sarebbe spezzato, se
lo avessi fatto. E poi ho pensato a Cheryl che portava Vicar dal
veterinario, a un estraneo che metteva le mani sul mio cane, e
mi sono detto: Devo farlo.
Non avevo un fucile a pallettoni, avevo un AR-15. Praticamente uguale a un M16, l’arma su cui ero stato addestrato, ed
ero stato addestrato bene. Puntamento, controllo del grilletto,
controllo del respiro. Concentrati sulla tacca di mira, non sul
bersaglio. Il bersaglio deve essere sfocato. Mi sono concentrato su Vicar, poi sulla tacca. Vicar è diventato una macchia grigia. Ho tolto la sicura. Dovevano essere tre spari. Non basta tirare il grilletto. Bisogna farlo bene. Due colpi consecutivi al corpo. Poi uno ben mirato alla testa. I primi due devono essere in
rapida successione, è importante.
Ho tirato il grilletto, ho sentito il rinculo e mi sono concentrato sulla tacca, non su Vicar, per tre volte. Due proiettili gli
hanno trapassato il petto, uno il cranio, e sono arrivati in fretta, troppo in fretta perché potesse sentirli. È così che va fatto,
uno sparo subito dopo l’altro così non puoi neanche cercare di
riprenderti, perché è quello il momento in cui fa male.
Sono rimasto lì a fissare la tacca. Vicar era una macchia grigia e nera. La luce stava calando. Non ricordavo più cosa volessi farmene del corpo.
Titolo originale Redeployment
© 2014 Phil Klay
© 2015 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
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sparavaai cani
Repubblica Nazionale 2015-05-17
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 17 MAGGIO 2015
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L’officina. Parigi-New York
Dal Café de Flore al Village, l’età d’oro dell’editorianell’autobiografia di Richard Seaver
RICHARD SEAVER
A
RRIVATO al terzo
numero, il Merlin
era una rivista
cambiata. Come
Trocchi, io e Austryn eravamo
fortemente convinti che nella Parigi degli anni Cinquanta non si poteva ignorare la situazione politica,
che negli ultimi cinque anni si era evoluta in modo tanto rapido ed estremo. Quell’autunno avevo
suggerito a Trocchi che, se eravamo impegnati
politicamente (non verso un’idea o un partito, ma
semplicemente nel riconoscere la Realpolitik della nostra epoca, come aveva dichiarato esplicitamente l’editoriale del numero due), non dovevamo limitarci agli editoriali ma dovevamo dedicarle una sezione di cronache nella rivista. Potevamo trovare o commissionare articoli di nostra
iniziativa, ma anche accordarci con qualche rivista francese compatibile e affine, come per esempio Les Temps Modernes.
Alex non era troppo sicuro che la seconda opzione fosse praticabile. «Cosa vi fa credere che Sartre ci rivolgerebbe anche soltanto la parola?»
chiese. «È famoso in tutto il mondo, cavolo. Come
facciamo ad arrivare a lui?».
«Abita proprio qui, in rue Bonaparte», dissi, indicando una finestra dall’altra parte della piazza
rispetto a dove eravamo seduti. «Scriviamo una
lettera, accludiamo una copia di entrambi i numeri e gli spieghiamo la nostra idea. Cosa abbia-
ioe
Sartre
L’AUTORE
RICHARD SEAVER
(1926-2009),
AMERICANO
MA LAUREATO
ALLA SORBONA
DI PARIGI,
TRADUTTORE,
CRITICO
LETTERARIO,
EDITORE,
FONDATORE
DI ARCADE
PUBLISHING,
È STATO
UNA DELLE FIGURE
PIÙ PRESTIGIOSE
E INNOVATIVE
DELL’EDITORIA
INTERNAZIONALE
mo da perdere?».
Stavolta la risposta fu rapida, ma solo in parte
positiva. Nel giro di una settimana ricevetti una
lettera, su carta intestata di Sartre, non dal
grand’uomo in persona ma da qualcuno di nome
Jean Cau, che a quanto pareva era il suo segretario. Ci propose un incontro al Flore la settimana
dopo.
Volevo farmi accompagnare da Trocchi, ma lui
si tirò indietro, preoccupato che la sua scarsa padronanza del francese potesse essere un ostacolo.
«Fai tu il primo passo, Dick», mi suggerì, «e poi
andiamo avanti a partire da lì».
Jean Cau si rivelò giovane, forse di cinque anni
buoni meno di me, un bell’uomo dal viso aperto e
dal sorriso spontaneo, nonostante il fatto che, lavorando tutto il giorno con Sartre, portasse sulle
spalle un bel po’ del peso politico del mondo.
«Monsieur Sartre è rimasto colpito dalla vostra
rivista», disse mentre bevevamo una birra.
«Noi pensavamo a un accordo reciproco» azzardai, e mentre lo dicevo mi rendevo conto che
sarebbe stato più in una sola direzione che reciproco. «Voi potete usare tutto quello che volete
della nostra rivista e noi della vostra. Non possiamo pagarvi molto, però possiamo contribuire in
qualche modo, anche se simbolico», aggiunsi.
«Allora me lo faccia sapere», mi rispose. «So che
Sartre è meno interessato ai soldi che non a diffondere ovunque le idee e i fatti che ritiene importanti».
Fedele alla parola data, la settimana dopo Jean
Cau mi mandò un messaggio per chiedermi se potevo incontrare Sartre. Stavolta la resistenza di
Trocchi si sciolse: vedere il Grande Esistenzialista
a quattr’occhi era un’occasione troppo ghiotta
per rinunciare. Vestiti al meglio dei nostri abiti
usati, arrivammo puntuali all’ora prefissata. Jean
Cau ci accolse sulla soglia e ci scortò nell’appartamento dal mobilio squisito fino allo studio tappezzato di libri di Sartre. Mi sorprese scoprire che
un uomo che collegavo a idee di estrema sinistra
avesse un gusto così borghese: mi ero aspettato
qualcosa di più spartano. Ma stavo imparando ra-
pidamente che in Francia, un paese decisamente
conservatore per tanti aspetti, le idee politiche e
lo stile di vita di una persona potevano essere diametralmente opposti. Sartre era seduto alla scrivania e scorreva delle pagine scritte a mano.
Quando si alzò per accoglierci restammo entrambi sorpresi dalla sua bassa statura. Aveva un sorriso cordiale e accogliente. Cau ci presentò, e dopo le strette di mano di prammatica Sartre ci fece
cenno di sederci davanti alla scrivania. Cau si sedette da una parte. Per noi, abituati all’oscurità di
rue du Sabot, l’appartamento di Sartre era di una
luminosità accecante.
«Jean mi ha parlato di voi e della vostra richiesta» esordì, fissandoci, lo sapevo, entrambi. Dico
“lo sapevo” perché, per quanto avessi sentito dire
che Sartre era strabico, una cosa era sentirselo dire, l’altra vederlo di persona: con un occhio guardava dritto davanti a sé, con l’altro di lato. Anche
se portava gli occhiali, sembrava solo che aggravassero il problema. Alex, sfoggiando il suo accento scozzese più elegante, si dilungò sul Merlin
e sul ruolo che sperava acquisisse nel mondo letterario anglofono. Sartre annuì, ma poi, dimostrandoci di aver guardato approfonditamente i
numeri che gli avevamo spedito, disse: «Credo
che il pezzo del dottor Ayer sul primo numero sia
molto interessante. Naturalmente non sono d’accordo con gran parte di quello che dice, ma è un
uomo intelligente e il suo approccio all’esistenzialismo è provocatorio. Immagino che voi inglesi non soccomberete mai al suo fascino».
«Io sono scozzese», lo corresse Trocchi.
Sartre sorrise debolmente. «Avrei dovuto dire
“voi anglosassoni”».
«E se pubblicassimo l’articolo di Nyiszli?» proposi. Per come mi ricordavo l’articolo di Ayer, mirava più a seppellire l’esistenzialismo che a lodarlo. Eppure, Sartre era chiaramente interessato a quello che Ayer aveva da dire sulla sua filosofia ed era anche colpito che il Merlin l’avesse pubblicato. «Funzionerebbe, secondo lei?».
«È un pezzo potente», disse Sartre. «Temo che
stiamo cominciando solo a sfiorare la superficie di
quello che è successo davvero in quei campi. Comunque, idealmente dovreste tradurlo dall’ungherese. Ce l’avete un traduttore?».
Io e Trocchi ci guardammo, perplessi.
«Non proprio» dissi. «E se lo traducessimo dal
francese?».
«Forse», rispose Sartre, «ma in quel caso vi metterò in contatto con il nostro traduttore, Monsieur
Tibère Kremer. Vive qui a Parigi, quindi potete
tradurlo insieme o sottoporre la vostra traduzione per un controllo. Jean», chiese, «abbiamo l’indirizzo di Tibère a portata di mano?».
Cau annuì e andò verso l’archivio a cercarlo.
«Pensa che sia necessario un accordo formale
di qualche tipo?» chiesi. «Una specie di scritto tra
di noi?».
Sartre scosse il capo. «Secondo me non c’è motivo. Possiamo farlo volta per volta. Ricordate
semplicemente di indicare, per qualsiasi cosa scegliete, che è stato pubblicato d’accordo con Les
Temps Modernes».
«E il pagamento?» chiese Trocchi.
«Discutetene con Jean», disse Sartre. «Qualsiasi accordo raggiungiate mi va bene».
Avrei voluto dirgli quanto ammiravo la sua opera, specialmente il teatro, ma chissà perché non
riuscii a farlo. Ci aveva trattato come dei pari, ed
era meglio lasciare le cose così, decisi. Gli stringemmo la mano e ci congedammo.
Sulla soglia, Jean Cau disse: «Per i soldi, quando Sartre ha detto di discuterne con me significava che pagherete quello che potete».
Al piano di sotto, Trocchi disse: «Ecco un vero
gentiluomo. Vorrei tanto che ce ne fossero di più
come lui».
«Cosa mi dici della faccenda degli occhi?» gli
chiesi mentre tornavamo in fretta verso rue du Sabot per dare la buona notizia agli altri.
«Ah, sì, quello era un test, vero?» disse Trocchi.
«Ma sai che alla fine della riunione ormai non ci facevo nemmeno più caso? E tu?».
«No, ma ora capisco per la prima volta un verso
che ha scritto, non mi ricordo dove: l’enfer, c’est
les autres, che più o meno si traduce con “l’inferno sono gli altri”. Deve rendersi conto molto bene
che “gli altri” ogni volta cercano di affrontare il
suo strabismo».
© 2012 by Jeannette Seaver
Introduction copyright
© 2012 by James Salter
Published by arrangement with Farrar,
Straus and Giroux, LLC, New York
and Marco Vigevani Agenzia Letteraria
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-05-17
la Repubblica
DOMENICA 17 MAGGIO 2015
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L’uomo che fece conoscere al mondo Miller, Genet, Burroughs, Coover, Pinter...
INGE FELTRINELLI
CAFE DE FLORE, PARIGI, 1947. FOTO ROBERT DOISNEAU/GAMMA-RAPHO/GETTY FIFTIES, EUROPE. FRANCE
A
RICHARD Seaver,
che tutti chiamavamo Dick, piacevano le cravatte
di lino Brooks
Brothers. Era un
uomo stupendamente casual.
Niente a che vedere con la visione
stantia dell’editoria degli anni Cinquanta che ancora veniva considerata “a profession for gentlemen”. Dick non aveva bisogno di
esibire nulla e, se lo faceva, il suo apparire era fuori dai codici convenuti, senza per questo mai sfiorare la stravaganza. Una cravatta di lino era già
un segno. Una volta gliene regalai una rosa. Sì,
rosa shocking. E lui ne fu contento.
Apparteneva a una generazione di americani
che faticavano a stare dentro i confini della cultura yankee degli anni dopo la guerra. Non è un
caso che la sua formazione fosse molto europea.
E forse, ancor prima che europea, francese, e nella fattispecie parigina. Quando ci arriva (anzi ci
torna), all’inizio degli anni Cinquanta, Parigi è
una città sofferta, che porta ancora le cicatrici
dell’occupazione e della guerra, lontana dalla
febbre che l’aveva segnata negli anni Venti e
Trenta e dall’immagine che ne avevano dato Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald,
Henry Miller, Gertrude Stein. La Parigi di Dick,
in verità, si sta risvegliando velocemente e non è
un caso che nella sua memoria si sovrappongano
quella, popolare, delle Halles, con le prostitute
scarmigliate che si muovono nelle prime luci dell’alba e nell’odore di zuppa di cipolle, i camionisti, le fisarmoniche, e quella di Orson Welles, della Sorbonne, delle esplorazioni di librerie. È in
quella Parigi che Dick entra nell’avventura della
piccola banda di intellettuali anglofoni che fanno perno intorno alla rivista Merlin (e al danaro
di Jane Lougee, figlia di un banchiere). Merlin e
due importanti interventi su Beckett e sul conflitto Sartre-Camus. Si stabiliscono rapporti fra
Merlin e Les Temps Modernes, Beckett entra in
scena, e con lui Brendan Behan. E infine Jean Genet ed Eugène Ionesco. La formazione si compie,
l’editore contenuto nella crisalide dell’intellettuale è pronto a uscire, rivelando il gusto squisito della ricerca, il senso della sfida, il fiuto della
scrittura forte, la confidenza, anche umana, con
gli scrittori.
Fra gli anni Cinquanta a Parigi e gli anni Sessanta a New York esiste una sorta di febbrile continuità. Nella capitale francese Seaver ha incontrato Barney Rosset. Lui aveva appena acquistato la Grove Press per tremila dollari e sposato
Loly, il suo insostituibile direttore commerciale.
Vogliono stabilire un piano di collaborazione fra
Merlin e Grove. Quando Dick snocciola i suoi autori di riferimento, Barney non fa una piega, non
è spaventato dalla complessità di Beckett, dall’omosessualità di Genet, dall’alcolismo di
Behan. Nel gennaio del 1959, Barney Rosset fa
un’offerta che Dick non può rifiutare: direttore
di Grove e caporedattore della rivista Evergreen
Review. Lì comincia il Richard Seaver americano. Quando Barney Rosset gli comunica che sta
pensando a un’edizione non purgata de L’amante di Lady Chatterley, capisce di essere approdato al posto giusto e al momento giusto.
L’anti-Vietnam Evergreen Review suona come
la Charlie Hebdo degli anni Sessanta americani.
Non vi si pubblicavano solo autori come William
S. Burroughs, Allen Ginsberg, Günter Grass,
Marguerite Duras, Jack Kerouac. Vi si pubblicò
una delle prime, se non la prima in assoluto,
graphic novel: The Adventures of Phoebe ZeitGeist di Michael O’Donoghue e Frank Springer.
Casa editrice e rivista sembrano avvertire, come uno straordinario sensore, l’imminenza di
trasformazioni sociali e culturali decisive. Dick è
un uomo che sa cosa sta accadendo e si schiera,
si muove, gli piace sparigliare. Dopo D. H. Lawrence arriva il tempo di pubblicare Henry Miller,
vietato negli Stati Uniti e in quasi tutti i paesi del
mondo. In Francia era uscito nel 1934 per i tipi di
Obelisk Press, e quell’edizione era circolata, sotto banco, anche in America. Il successo di Lolita
di Nabokov ora sembrava aprire un credito anche al Tropico. Finalmente il romanzo esce, siamo nella primavera del 1961. Due anni dopo è la
volta del Pasto nudo. Nell’uno e nell’altro caso,
Grove deve affrontare un processo per oscenità
che si trascina nel tempo. Ma nello stesso momento, e in perfetta consonanza con l’avventura
editoriale, Evergreen pubblica uno Statement in
support of the freedom to read firmato da scrit-
tori, editori americani ed europei (c’è anche la
firma del Che Guevara) per sostenere il giudice
Samuel B. Epstein e la sua battaglia legale contro
la censura. Siamo nell’ambito di quella che allora si chiamava con un termine poi caduto in disuso: controcultura.
A Giangiacomo Feltrinelli Dick piaceva molto.
Forse avvertiva una prossimità di intenti, di visioni. Quando capitava, ci si incontrava volentieri. Ricordo i locali del Greenwich Village a New
York, i meeting a Chicago, a Miami e a Mexico
City. Forse quella generazione di editori americani non guardava neppure al danaro come
obiettivo primario. Al successo, sì. Volevano far
accadere le cose. Volevano essere protagonisti di
un cambiamento. Niente a che a vedere con la
squisita eleganza di un flamboyant gentleman
come Roger Straus e i suoi inviti al Colony di New
York, o al Côte Basque, il ristorante di Truman
Capote. Erano davvero tempi affascinanti. Non
si andava mai a letto. Eravamo tutti dinamici, vitali, alla ricerca di stimoli. E Dick avanti a tutti.
L’editoria era per lui qualcosa che ricordava il
gioco d’azzardo. Amava i suoi autori con determinazione e autenticità. Da Beckett a Brendan
Behan, da Jean Genet ad Allen Ginsberg, la sua
adesione era totale. Gli autori erano i numeri della sua roulette. E forse non è un caso che, a loro
volta, molti dei suoi autori fossero legati al senso
del gioco, della sfida. Henry Miller era un fanatico del ping-pong, al punto da dover installare appositamente per lui un tavolo da ping-pong negli
uffici della casa editrice. E le sue compagne, che
cambiavano spesso, dovevano avere quel requisito: saper tenere in mano una racchetta. Me lo
IL LIBRO
“LA DOLCE LUCE
DEL CREPUSCOLO”
DI RICHARD SEAVER
(FELTRINELLI,
TRADUZIONE
DI ANNA MIONI,
520 PAGINE,
29 EURO)
È IN LIBRERIA
ioe
Seaver
ricordo bene, ospite a Villadeati, mostrare tutta
la sua valentia al nostro tavolo.
Senza nostalgia. Ma va detto: erano tempi veramente affascinanti. Come quelli, del resto, che
abbiamo vissuto in Italia con Giangiacomo. Quest’anno ricorrono i sessant’anni dalla fondazione della casa editrice ed è quasi automatico pensare a quanto di comune è esistito fra il vento che
soffiava qui e in America. Là la mentalità puritana, qui la cappa cattolica in versione democristiana. Là la sessuofobia, qui l’ipocrisia, il provincialismo, le cautele politiche. Anche a sinistra. Ho una foto in cui appaiono Giangiacomo e
Barney Rosset, quando quest’ultimo si presentò
a Varese al processo per oscenità contro Ultima
fermata a Brooklyn di Hubert Selby Jr. A penna
spicca una dedica più che significativa di Barney
Rosset a Giangiacomo Feltrinelli: “We had the
convictions, he had the courage”.
Il mondo sembrava davvero a portata di libro:
si trattava di cogliere al volo quello che stava accadendo e di accenderlo dentro le pagine che andavamo pubblicando. Quel tempo, lo stesso tempo in cui Richard Seaver metteva in moto la sua
intelligenza, era per noi un tempo di incontri, di
incroci fecondi, di spostamenti continui. Era un
tempo di curiosità che non si placava mai e si traduceva spessissimo in rapporti durevoli, di collaborazione, di scambio, talora di vera amicizia.
In questo senso riconosco nell’autobiografia di
Richard Seaver un segmento importante della
nostra avventura. Il titolo originale è The Tender
Hour of Twilight. “Twilight”, che noi abbiamo
tradotto con “crepuscolo”. La luce del crepuscolo non è soltanto quella della sera, è una luce che
egualmente comprende alba e tramonto. Da una
parte dice il giorno che si chiude, dall’altra è la
promessa di un giorno nuovo. Io sono una inguaribile ottimista.
L’AUTRICE
INGE FELTRINELLI
(GOTTINGA,1930),
FOTOGRAFA
E GIORNALISTA,
INSIEME
A GIANGIACOMO
È STATA L’ARTEFICE
DELLA STORICA
CASA EDITRICE
MILANESE
CHE QUEST’ANNO
FESTEGGIA
I SESSANT’ANNI.
CELEBRATI ANCHE
CON UNA MOSTRA
IN QUESTI GIORNI
AL SALONE
DEL LIBRO
DI TORINO
Dalla prefazione a La dolce luce
del crepuscolo di Richard Seaver
© 2015 Giangiacomo Feltrinelli Editore
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-05-17
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 17 MAGGIO 2015
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Spettacoli. Prima fila
LE IMMAGINI/1
LA FOTO SULLO SFONDO È DA “PERELÀ UOMO DI FUMO”
(REGIA DI ROBERTO GUICCIARDINI, 1988). QUI A DESTRA
DALL’ALTO “L’IMPRESARIO DELLE SMIRNE” (ROBERTO
GRAZIOSI, 1993), “I GIORNI DEL BUIO” (GABRIELE LAVIA,
2013) E “NAPOLI MILIONARIA” (ARTURO CIRILLO, 2012)
Quarant’anni di scatti sotto il palco
L’album di famiglia del teatro italiano
firmato da Tommaso Le Pera
Fotografo la scena
RODOLFO DI GIAMMARCO
ROMA
«S
ROMA NEL 1965, partivo da
Sersale in provincia di Catanzaro dove avevo fatto esperienza di matrimoni, cresime e
foto-tessere con mio padre fotografo. Leggevo il teatro ordinando libri a Milano. Sognavo di scattare foto agli spettacoli. Avevo
smania di evasione. Partii. Condivisi un laboratorio con un amico sull’Appia Nuova,
cominciai a imbucarmi nelle platee, e di nascosto scattavo foto con gli interpreti in movimento (all’epoca ancora si ricavavano immagini dalle pose), finché non mi cacciavano via. Spedivo il materiale sviluppato agli attori. Mi telefonò Peppino De Filippo e, stupito
del servizio che gli avevo fatto clandestinamente al Teatro delle Arti, fu il primo a commissionarmene uno. Pagandomi. Poi ho lavorato con Valli, De Lullo e i Giovani, con Albertazzi, Gassman, la Melato, e tante nuove compagnie...».
Tommaso Le Pera ha nel suo archivio le foto di oltre duecentoquindici allestimenti di
Shakespeare, di oltre duecentodieci lavori di Pirandello, di circa sessanta edizioni di testi
di Beckett. Ha un portfolio babelico di volti d’artisti, di scenografie e di costumi, di dotazioni
sperimentali, di orizzonti nuovi della regia. Classe 1942, un eterno sorriso stampato sulla
bocca, una mitezza d’animo che si traduce in laboriosità instancabile, ha fotografato migliaia d’attori in più di cinquemila spettacoli di teatro documentati (con la sua tecnica “dinamica”) da oltre quarant’anni, passando dagli strumenti analogici alla modalità digitale. È il fotografo della scena più assiduo, più cercato, più presente, più paziente, e anche il
più minuzioso ed enciclopedico nella conservazione di un patrimonio di immagini che rispecchiano i fondamentali e il progresso della società teatrale italiana. Cita cordialmente
i colleghi Norberth e Buscarino, con cui divide una vera deontologia. Non si limita a dotare
di foto di scena i quotidiani, i periodici, le mostre e i settori specializzati del web, ma offre
SONO ARRIVATO A
anche una scientifica materia prima a libri
monografici. Finora, tra vari cataloghi teatrali a tema, l’iniziativa più rilevante è un ciclo di dieci illustratissimi volumi distinti per
autori, la collana La memoria del teatro della Guido Talarico Editore, di cui sono stati
pubblicati Pirandello, Shakespeare e Goldoni, in attesa di un prossimo Molière. Ma la
novità è un altro ghiotto, storicizzato e prestigioso album di foto di molti degli spettacoli-saggi a firma di importanti registi italiani che hanno avuto luogo dal 1973 al
2014, per quarantuno anni, presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, tutti lavori fissati nell’obiettivo professionista del nostro reporter d’affezione, diluiti in un gran bel coffe table book intitolato l’Accademia nelle fotografie di Tommaso Le Pera. Una pubblicazione voluta su iniziativa del
direttore-regista Lorenzo Salveti: «A Le Pera va il merito d’aver accompagnato i primi
passi dei protagonisti del teatro, d’aver avuto uno sguardo sull’inimmaginabile, tanto
da poter essere considerato a buon diritto
un insegnante dell’Accademia e non soltanto un fotografo di scena». Questa collezione basata su una ricchissima filiera di
scatti permette oggi di porre a confronto i
saggi di Ronconi del ’73 con Una partita a
scacchi di Middleton (recitavano Giorgio
Barberio Corsetti, Remo Girone e Walter Pagliaro), dell’83 con Il sogno di Strindberg
(con Margherita Buy), o di Aldo Trionfo
dell’85 (con Sabina Guzzanti) dopo aver diretto nell’82 Luca Zingaretti, accostando
Aldo Ferrero (con Arturo Cirillo) ad Andrea
Camilleri (con Emma Dante), alle regie di
Cecchi, di Binasco, fino al Pirandello di Ronconi del 2013, a Lavia, a Latella. Decennio
per decennio Le Pera offre un’indagine comparata della logica dei corpi. «Un tempo gli
atteggiamenti erano più impostati, rigidi,
oggi sono più spontanei. Cambia anche il
mio punto di vista. Prima, con la Leica, scattavo da un solo angolo, col cavalletto. Col digitale, che è più sensibile, faccio uso delle
Nikon e mi muovo continuamente. E concorre il fatto che man mano sono diventato
amico degli attori, venendo incontro alle loro fisime: il doppio mento, la cicatrice, il “lato buono”...».
Tempo addietro usava per ogni spettacolo anche una ventina di rullini, ora va spesso e volentieri oltre, e alla compagnia offre
al massimo venti immagini («ma le restanti non sono da buttare»). I diritti delle foto
non creano problemi? «Sono sempre del fotografo». L’archivio è un caveau di rara portata. «È immenso. Ho foto storiche che non
so a chi attribuire, ma ho messo a segno un
gran lavoro di classificazione con fascicoli e
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LE IMMAGINI/2
A SINISTRA DALL’ALTO “LE VERGINI DI NORIMBERGA”
(ALDO TRIONFO, CON MARGHERITA BUY, 1985),
“UNA PARTITA A SCACCHI” (LUCA RONCONI, 1973)
E “RIUNIONE DI FAMIGLIA” (MARIO FERRERO, 1991)
“Da imbucato in platea ad amico:
leggo il copione, parlo con il regista,
colgo l’attimo. E mi commuovo”
dvd per ogni spettacolo, dotati di locandine
complete. Dal ’67 a oggi ho accumulato milioni di immagini». I registi non invadono il
lavoro fotografico? «Mai. Ed è reciproco il
mio rispetto per il taglio delle messinscene,
come per i singoli attori». Ci sono criteri ferrei per decidere come e quando scattare le
foto. «Io vado preparato, leggo il copione,
parlo col regista, coi tecnici, e se possibile vedo una o due prove senza assolutamente fotografare. Faccio i miei scatti tornando a
un’ennesima prova. Rare volte sono costretto a operare mentre c’è il pubblico. Problematico, perché non mi posso spostare
granché». Chissà se la nudità degli attori a
teatro crea una differenza tra ieri e oggi.
«C’era un periodo in cui il nudo era d’obbligo nelle cantine, poi ai sensi s’è imposto il
senso del fisico. L’Accademia è a volte in controtendenza, il corpo tende di recente un po’
più a scoprirsi». E verrebbe da chiedersi se è
Tommaso Le Pera a essere cambiato in questi quarant’anni. «L’atteggiamento dei ragazzi e delle ragazze allievi-attori mi commuove sempre, ai saggi». I primi piani circolano poco. «In genere non servono, ma io
ufficiosamente li ritraggo, più per me». E pare che ci sia un solo ostacolo alla professione
del fotografo di teatro: «I datori luce non bravi, non motivati».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
FOTO TOMMASO LE PERA
ma non la rubomai
I suoi ritratti li conservo a casa
e lì ritrovo la mia innocenza
EMMA DANTE
A FOTOGRAFIA RISPETTO AL VIDEO è più fedele, nella
restituzione di uno spettacolo, nel farsi storia e
memoria del teatro. Un video può snaturare la
tragedia che si compie in scena, e invece
un’immagine le rende sempre giustizia, perché è un
frammento di sguardo rubato allo spettatore, e permette di
carpire i dettagli. Il mio teatro, poi, che è fisico e carnale, e non
psicologico, come conferma proprio la Carmen che ho
riallestito per il Teatro alla Scala, viene documentato meglio da
una “fotografia muscolare” che colga i tendini tesi degli attori.
Qui la relazione si fa immediata, con Tommaso Le Pera. La
dimestichezza tra noi è cominciata fin dal mio primo
spettacolo, mPalermu del 2001. Le Pera è un maestro cui non
sfugge niente, che ti viene a cercare con curiosità, che non
vuole mai smettere di imparare. Sa riprodurre i lavori della
L
scena con luci sempre diverse, con gran
mobilità dei protagonisti, con sensibilità,
discrezione. Lui racconta l’anima di quello
che ritrae. Io tengo in casa le sue foto
incorniciate. Sono affezionata a tutte, e
trovo toccanti quelle che ha fatto a Vita
mia, a Le pulle. E grazie ai suoi servizi,
grazie al foto-book degli spettacoli
dell’Accademia, ora mi ritrovo innocente
e intraprendente com’ero nel 1991, al
secondo anno del corso di recitazione, quando Andrea
Camilleri mi diresse ne La Morsa di Pirandello. Tre personaggi,
l’avevamo tutto per noi, Camilleri. La sua ironia mi divertiva
tantissimo. Ci credevo, allora, in me attrice, ma ero nel
contempo anche lucida. Tant’è vero che ho poi preferito
contagiare ad altri la mia passione.
DOMANI
IN REPTV NEWS
(ORE 19.45, CANALE
50 DEL DIGITALE
E 139 DI SKY)
RODOLFO
DI GIAMMARCO
SFOGLIA L’ALBUM
DI TOMMASO
LE PERA
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Next. Nella rete
Internet
everywhere
JAIME D’ALESSANDRO
BARCELLONA
A
RRIVERANNO ANCHE IN ITALIA, perché anche
da noi il 40 per cento degli abitanti non è
ancora connesso al web e loro vogliono
raggiungere tutti. Tutti quelli che restano: quattro miliardi di persone che nel
mondo ancora non hanno accesso alla rete, dalle zone più remote dell’Africa a
quelle più refrattarie dell’Europa. Il piano è già in atto, progredisce passo dopo
passo a un anno dalla sua nascita. Internet.org di Facebook venne lanciato nell’estate del 2014 in Zambia e ora, dai dieci paesi dove è presente, vuol superare i
cento entro la fine dell’anno. “Possiamo
farcela”, recita uno slogan sul sito. Ed è
probabile che andrà così. Il progetto fornisce una connessione dati basilare da telefono e lo fa gratuitamente grazie a una
serie di accordi stretti con le compagnie
di telecomunicazione. Basta sottoscrivere il contratto, che durerà per sempre, e
da quel momento in poi si potrà entrare
in una versione semplificata del social
network di Mark Zuckerberg, privo di foto e video per ridurre al minimo il peso
delle informazioni scambiate, più una serie di altri servizi come Wikipedia o Bbc
News. Il numero delle applicazioni cam-
bia di paese in paese. In India, dove Internet.org è sbarcato a febbraio, assieme
a Facebook ce ne sono quasi quaranta.
Meno in Ghana, Colombia, Kenya, Tanzania, Indonesia, Filippine, Tanzania,
Zambia e Bangladesh. Ma comunque in
numero sufficiente per consentire alle
persone di comunicare e di informarsi.
«Si tratta di dare, a quel 52 per cento
dell’umanità che è rimasto fuori, i servizi
fondamentali che tutti dovrebbero avere», spiega contento Chris Daniels, il vice
presidente di Facebook a capo di Internet.org. Capelli rossi, occhiali sottili, carnagione molto chiara, ha l’aspetto da ragazzino per bene. Un Richie Cunningham, quello di Happy Days, versione Silicon Valley. Racconta la sua idea col candore d’altri tempi che si respira spesso fra
chi lavora per i colossi americani del web.
Un positivismo senza incertezze, dietro il
quale però alcuni leggono la volontà di
controllare il mondo più che di miglioralo. Ma che siate del partito di Dave Eggers, che nel suo ultimo romanzo Il Cerchio (Mondadori) ha dato corpo agli incubi peggiori legati ai colossi del web, o
che invece crediate davvero che si tratti
di Progresso con la P maiuscola, la portata di Internet.org e la sua messa in pratica in appena un anno rappresenta una ri-
Quattro miliardi
di persone
non hanno
ancora
accesso al web
Ecco perché
da Google
a Facebook
è partita la gara
per mettere
online il mondo
voluzione. La sicurezza con la quale Daniels parla lascia trapelare tutta l’esperienza che ha alle spalle: assunto dalla
Lehman Brothers nel 1998, è stato a lungo alla Microsoft approdando a Facebook
nel 2011. I numeri esatti dell’operazione
si rifiuta di fornirli, ma ci tiene a sottolineare che il team che ci sta lavorando non
è piccolo e che per Facebook si tratta di
uno sforzo notevole da ogni punto di vista. Il bello è che questa rivoluzione sta
avvenendo in una forma decisamente
“low-fi”. Il 90 per cento delle persone raggiunte da Internet.org naviga attraverso
cellulari 2G. Ma questo non significa che
non lo usino in maniera intensiva, come
infatti pare avvenga in Zambia. «Quando
abbiamo aperto Amazon in India», racconta Diego Piacentini, vicepresidente
della multinazionale fondata da Jeff Bezos, «non pensavo avremmo avuto tanto
successo. Né che il 60 per cento dei nostri
utenti sarebbe arrivato attraverso telefoni 2G. Ecco perché stiamo studiando
un sito molto più leggero per consentire
una navigazione più facile».
Ma c’è anche chi, come Google, quando parla di web parla della rete in tutto il
suo splendore: video, immagini, servizi
di ogni tipo. Anche perché a Mountain
View hanno diversi servizi sui quali pun-
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“La rivoluzione
è già cominciata
Non vede lassù?”
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA
E USCITE DALLA STAZIONE del metrò di Old
INFOGRAFICA DI PAULA SIMONETTI
S
Street, vi trovate davanti al Silicon
Roundabout, la rotonda attorno a cui è
cresciuta la Silicon Valley londinese,
quartiere di centinaia di aziende e start-up
tecnologiche. Se al Silicon Roundabout alzate gli occhi
al cielo, vedete un grattacielo sormontato di antenne.
Se entrate nel grattacielo, sede della Inmarsat,
l’azienda britannica pioniere e leader mondiale delle
comunicazioni via satellite, e salite in cima, incontrate
Michele Franci, “l’italiano di più alto livello
dell’industria spaziale” nel mondo, come lo chiama il
suo ufficio stampa. Più in alto di lui, in questo
momento, c’è solo AstroSamantha. Lei però tornerà
sulla Terra. L’ingegner Franci, invece, va sempre più
su: come Chief Technology Officer della Inmarsat
sovraintende al lancio dei Global Xpress, nuova
generazione di satelliti che promette, dopo l’“internet
of everything” (l’internet di tutte le cose), l’“internet
of everywhere”, l’internet dappertutto. Dalla plancia
di comando dell’Inmarsat, una sala degna della Nasa o
di guerre stellari con mappe elettroniche del nostro
pianeta solcate dai satelliti, la fantascienza diventa
realtà.
Cosa fa di preciso la Inmarsat, ingegnere?
«Offre una connessione mobile via satellite in zone
difficilmente raggiungibili, dove non è economico
avere comunicazioni via cavo. In
cielo, in mare, nei deserti, sulle
montagne».
Chi sono i vostri clienti?
«Governi, servizi di soccorso, ong,
compagnie marittime,
compagnie aeree, i media,
l’industria energetica. Un
domani saranno anche e sempre
di più i privati, a cui offriremo un
accesso in banda larga a internet
potente, sicuro e ovunque
IL MANAGER
funzionante, a un prezzo sempre MICHELE FRANCI
più accessibile mano a mano che È CHIEF
TECHNOLOGY
aumenterà la domanda. Internet
OFFICER
raggiungerà le zone dove oggi la
DI INMARSAT
ricezione non è buona e non
succederà più che i telefonini vadano in tilt per troppo
uso, come dopo Real Madrid-Juvents quando tutti
chiamavano per dire che la Juve aveva passato il
turno».
Quanto costano, al momento, i vostri servizi?
tano, iniziando da YouTube. Di qui una
serie di progetti pensati per aree diverse
del mondo: Project Fi negli Stati Uniti,
per avere da smartphone la connessione
migliore automaticamente passando dal
wi-fi all’Lte e da operatore a operatore;
Google Fiber, una rete sperimentale ultra veloce a 1000mbps in Kansas e Missouri; Project Link in Africa per sviluppare le infrastrutture in fibra ottica; Titan,
pensato per le zone colpite da cataclismi
dove portare internet con i droni; Project
Loon, per dare accesso alla rete attraverso palloni aerostatici in zone del pianeta
dove gli operatori telefonici non hanno
interesse o non possono portarla. «Per
ora è un progetto sperimentale», spiega
Katelin Jabbari che lavora a Loom nella
divisione Google X. «Abbiamo fatto test
in Australia e Nuova Zelanda e siamo riusciti a offrire un accesso veloce, 4G, in maniera stabile. I palloni aerostatici sono
molto più economici di un satellite e li
puoi far volare dove serve, portando il
web vero e non una sua forma ridotta»,
conclude lanciando una frecciatina a Facebook. Anche se alla fine l’obbiettivo è
esattamente lo stesso. Connettere l’intera umanità, nessuno escluso, nel più breve tempo possibile.
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«Installare un satellite nello Spazio centinaia di
milioni. Ma già ora vendiamo telefonini portatili (ne
mostra uno, grande come i cellulari della prima
generazione, ndr) a 800 dollari in grado di comunicare
da tutto il mondo».
E cosa offriranno in più i nuovi satelliti Global Xpress? In
che senso nascerà l’“internet everywhere”?
«Finora i nostri satelliti garantivano comunicazioni
telefoniche e di dati o messaggi scritti. La nuova
generazione darà un accesso rapido e robusto a
internet. Significa che da un aereo in volo o in cima
all’Everest si potranno scaricare film o musica e
navigare sul web come dall’ufficio o da casa propria».
Sull’Everest in questo momento farebbe molto comodo.
«In effetti, grazie a due satelliti Global Xpress già
funzionanti su tre che avremo presto in totale, stiamo
facilitando i soccorsi per il terremoto in Nepal».
Insomma non staremo più in pace neanche in aereo?
«Il mondo di oggi, in particolare i più giovani, vuole
avere la possibilità di connettersi a internet sempre e
dovunque nelle migliori condizioni possibili. Poi, se
uno vuole, può spegnere lo smartphone».
E l’“internet delle cose”? È già realtà?
«Solo come concetto: uno studio della Cisco indica che
il 97 per cento delle cose non sono ancora connesse al
web. La domotica in realtà è solo agli inizi».
E quando diventerà realtà l’“internet dappertutto”?
«In questo preciso momento, grazie ai nostri satelliti
lassù, a trentaseimila chilometri di altitudine sopra le
nostre teste».
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Sapori. Sempreverdi
PASTA E PISELLI,
FINTO RAGÙ,
FRITTELLE
DI FARRO
E ZUCCHINE:
CHI HA DETTO
CHE UN MENÙ
SENZA CARNE
NÉ LATTICINI
NON PUÒ FAR
VENIRE
L’ACQUOLINA
IN BOCCA? ECCO
QUALCHE ESEMPIO
Vegano ma buono.
Parmigiane e fichi farciti
(o del ritorno alle origini)
LICIA GRANELLO
A
Il libro
Si intitola “Il sale della vita”,
l’autobiografia di Pietro
Leemann (Mondadori Electa).
Lo chef-patron del milanese Joia,
unico ristorante vegetariano
stellato d’Europa, racconta il suo
percorso di formazione umana,
professionale e spirituale,
connesso con l’adesione
ai principi della cucina naturale
TLETI: CARL LEWIS, LE SORELLE WILLIAMS, FIONA OAKES. Attori: Brad Pitt,
Ben Stiller, Anne Hathaway. Cantanti: Prince, Alanis Morissette,
Sinead O’Connor. Da una parte all’altra del mondo, la dieta vegana vanta un corollario di testimonial insospettabili e famosissimi,
che la primavera ripropone sulla passerella dei media in un profluvio di ricette green-style. Vegani, non vegetariani: la distinzione è d’obbligo e le differenze fondamentali, anche se spesso i due
stili alimentari fanno parte dello stesso percorso, un po’ come l’agricoltura biologica e quella biodinamica. I contadini che decidono di non usare chimica nei campi, spesso vanno oltre, coltivando
in armonia con le fasi lunari, usando fertilizzanti auto-prodotti, facendo della propria azienda un unicum governato in totale accordo con la natura. Allo stesso modo, si comincia non mangiando proteine di animali morti — carne, pesce — e a volte si finisce per non mangiare nemmeno quelle di animali vivi, ovvero uova,
latticini e miele, in un crescendo di restrizioni cibarie che richiede una presa di coscienza forte, per affrontare al meglio gli scompensi nutrizionali — ferro e vitamine B12 e D in primis notati allegri del buon mangiare. Una ten— dovuti al menù vegetaliano (altro nome denza soprattutto italiana, se è vero che da
Londra a New York i ristoranti dedicati offroper vegano).
Salute, cultura, etica, moda: ogni neo-ve- no piatti sfiziosi e pieni di gusto, tanto da esgano è figlio di un mix diverso di motivazioni. sere frequentati in egual misura da vegani e
Carni rosse e latticini sul banco degli impu- onnivori.
Del resto, buona parte della nostra amata
tati perché generano processi infiammatori,
mentre frutta e verdura sono passaporto per dieta mediterranea — quella che fulminò il
l’eterna giovinezza. L’assenza di proteine dottor Ancel Keys sulla via del Cilento e dei
animali capace di risvegliare i sensi intorpi- suoi abitanti centenari — è a tutti gli effetti di
diti da processi digestivi faticosi e rendere stampo vegano.
L’elenco è ad alto rischio di acquolina in
più lucido l’intelletto. Le torture e l’inquinamento degli allevamenti intensivi lette come bocca: dalla parmigiana di melanzane — che
un male insopportabile a cui è necessario op- nella versione originaria non contemplava
porsi a partire da scelte individuali forti. E formaggio — alla pasta e piselli, dal pan bipoi, un sacco di star hanno abbracciato la fi- scotto con extravergine e pomodoro ai fichi
farciti con le mandorle, dal finto ragù alle linlosofia vegana...
In realtà, oltre alla sostanza del veganesi- guine con le vongole fujute (scappate). Piatti
mo inquieta l’approccio, spesso ideologico. E vegani loro malgrado, semplicemente per imin scia, un’informazione che non fa sconti al possibilità di accedere al lusso di carne, pesce
piacere del cibo, assumendo la scelta vegana e formaggi.
come un atto intellettuale, lontano dai con© RIPRODUZIONE RISERVATA
GNOCCHI DI PISELLI FRITTI
L’appuntamento
L’ultima settimana di maggio,
Milano diventa capitale
del Commercio Equo e Solidale.
La “World Fair Trade Week”
ospiterà trecento produttori
da oltre trenta nazioni,
accomunati dal valore
nutrizionale, etico e sociale
del cibo, con il coinvolgimento
di cuochi e ristoranti cittadini
La ricetta
Il mio dolce di riso al cocco
con cioccolato e panna di soia
INGREDIENTI
100 G. DI RISO ARBORIO
400 ML. DI LATTE DI COCCO IN SCATOLA
4 CUCCHIAI DI ZUCCHERO DI CANNA GREZZO
1 BACCA DI VANIGLIA
2 CUCCHIAI DI POLPA DI COCCO (ANCHE ESSICCATA)
100 G. DI CIOCCOLATO FONDENTE AL 70%
4 CUCCHIAI DI PANNA DI SOIA
Il manuale
“Divento vegano”, di Sue Quinn
pubblicato in Italia da Guido
Tommasi Editore, è un manuale
a tutto tondo sulla cucina senza
prodotti di origine animale.
Oltre a insegnare le tecniche
di base per le alternative a uova,
miele e latticini, racconta
il meglio della cucina vegana
in centoquaranta ricette golose
P
er prima cosa bisogna mettere in infusione i semi
della bacca di vaniglia nel latte. Filtrare.
Poi mescolare il riso in una casseruola larga con
fondo spesso insieme al latte di cocco che va diluito con
due cucchiai d’acqua. Quindi far sobbollire, aggiungendo
lo zucchero e la polpa di cocco e mescolando spesso, fino a
cottura. Mentre il composto si fredda, sciogliere a
bagnomaria il cioccolato fondente tagliato a scagliette, versando la panna a filo, per raggiungere
una consistenza cremosa, poi inserire in un sac-àpoche. Porre il riso in coppette individuali, decorando con la crema di cioccolato.
LA CHEF
FOTOGRAFA
CON
LA PASSIONE
PER LA CUCINA,
FIGLIA DI LINDA
E PAUL, MARY
MCCARTNEY
È VEGETARIANA,
COME IL RESTO
DELLA FAMIGLIA,
E COINVOLTA
NEL MARCHIO
LINDA
MCCARTNEY
FOODS,
PRODOTTI
VEGETARIANI
E VEGANI
RISOTTO PRIMAVERA
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Non temete,
ci bastano
due spaghetti
al pomodoro
Cereali integrali
Farro e quinoa, grani rustici
(enkir, monococco) e avena,
purché da coltivazione
biologica, per evitare
i pesticidi che si accumulano
nella parte esterna.
Ottime le frittelle
di farro e zucchine
8
piatti
e
ristoranti
Legumi
Campioni di nutrizione grazie
all’apporto di fibre
e proteine vegetali, sono
anche ottimi alcalinizzanti
(tranne piselli e lenticchie,
neutri). Perfetti
con i carboidrati: per esempio
nel risotto primavera
TORINO
SOUL KITCHEN
VIA SANTA GIULIA 2
TEL. 011-884700
MILANO
GHEA
VIA VALENZA 5
TEL. 02-58110980
Tofu
PEPERONI RIPIENI CON INSALATA DI QUINOA
Latte di soia cagliato
con un enzima naturale
e poi pressato utilizzando
intensità crescente per dare
consistenze diverse,
da cremoso (silken)
a solido ed extra solido.
Arrostito con spezie
VENEZIA
ZUCCA
SANTA CROCE 1762
TEL. 041-5241570
BOLOGNA
ZENZERO BISTROT
VIA FRATELLI
ROSSELLI 18
TEL. 051-5877026
Agar agar
Addensante naturale
(si estrae da un’alga)
e termo-resistente.
In alternativa, gomma
xantana, fecola
di patate o amido di mais.
Nella parmigiana
di melanzane
FIRENZE
LA RACCOLTA
VIA GIACOMO LEOPARDI 2
TEL. 055-2479068
ROMA
OPS!
VIA BERGAMO 56
TEL. 06-8411769
Semi di lino
Eccellenti fornitori
di omega3 da gustare
decorticati, per migliorarne
l’assorbimento intestinale.
Macinati al momento
e mescolati con acqua
sostituiscono l’uovo.
Per il clafoutis di ciliegie
NAPOLI
UN SORRISO INTEGRALE
VICO S. PIETRO
A MAIELLA 6
TEL. 081 455026
CATANIA
HAIKU
VIA QUINTINO
SELLA 28
TEL. 095-530377
Datteri
Tra i frutti più ricchi
di zuccheri buoni —
fruttosio, a lento rilascio —
insieme ai fichi secchi,
si usano tritati o frullati,
sia per dolcificare
sia per addensare.
Nelle barrette energetiche
Latte di cocco
Avocado
In gara con quello
di mandorle per gusto
e cremosità, si utilizza
al meglio nelle ricette dolci
da forno (con quello di soia,
meno saporito, si fanno
yogurt e panna).
Perfetto per il gelato
Goloso e nutriente,
una volta aperto va battezzato
rapidamente con succo
di limone, perché
non si ossidi (diventando
nero). Ottimo in salse
e insalate. Per esempio,
nel guacamole
MARGHERITA D’AMICO
B
ASTA GUARDARE I CAPOLAVORI
realizzati quando,
giocoforza, l’ispirazione
degli artisti era circoscritta
a soggetti religiosi e poco
altro, per ricordare che limiti e confini
giocano spesso a favore della creativa
bellezza. Così dunque si può ragionare
riguardo la scelta vegana, che stabilisce
il proprio raggio nell’ambito descritto da
ragioni morali, e non per questo manca
di essere attraente. Eliminare dalla
tavola gli animali uccisi e quanto
proviene dal loro sfruttamento (latte,
uova, miele) ci pone infatti nella
condizione di apprezzare la
straordinaria ricchezza della terra, a
maggior ragione in un Paese come il
nostro, che a tale dieta sarebbe incline.
Nel primo Dopoguerra l’italiano
consumava in media diciotto chili di
carne l’anno, mentre oggi, grazie a
politiche consumistiche e
all’allevamento intensivo, si sfiorano i
cento.
Verdure di ogni tipo, pasta, riso, frutta,
legumi, sono alla base della scelta
cruelty free, che si giova di derivati assai
vari e buoni. Con il seitan, la soia e altri
ricavati vegetali si imbandiscono
polpette e würstel capaci di ingannare
chi crede di non poter rinunciare al
sapore della carne, oppure gelati
cremosi, tuttavia meno calorici e pesanti.
Rimangono abbastanza costosi negozi e
supermercati di genere, poiché il
sistema, ancora concepito a detrimento
degli animali, preferisce relegare una
nuova, forte tendenza collettiva al ruolo
di nicchia privilegiata. Ma, al pari dei
prodotti non testati sugli animali, nei
grandi centri commerciali si trovano
oggi alimenti vegetariani e vegani
industriali, con una discreta gamma di
scelte, a partire dal richiestissimo latte di
soia, riso, mandorla, avena.
I ristoranti dedicati sono in aumento, e si
espandono catene di fast food (come
Veggy Days e Universo Vegano), dove si
consumano ottimi hamburger vegetali,
formaggi realizzati con fecola di patate,
mozzarelle scaturite dalla farina di riso,
mentre negli autogrill delle nostre
autostrade, neanche a farlo apposta,
l’unico panino papabile è ripieno di sole
melanzane appassite.
Ma il vegano, nella realtà, mangia
ovunque: basta un piatto di spaghetti al
pomodoro, insalata, pizza nel cui
impasto non vi sia strutto, con
giovamento di salute e finanze.
Escludendo sieri, sangue, umori
corporei, frollature, il cibo veg è
inevitabilmente più fresco e
controllabile, la filosofia che lo
accompagna favorisce biologico e
chilometro zero. Persino i colori sono più
allegri, ravvivati dall’idea di proteggere,
con una decisione tanto semplice, i diritti
delle altre specie e la salvaguardia del
Pianeta.
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BRUSCHETTA CON PUREA DI FAVE
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L’incontro. Queen
SONO ENTRATA
NELLO SHOW
BUSINESS
A DICIASSETTE
ANNI, ERO INGENUA,
CANTAVO IN CLUB
DA VENTI PERSONE
E MI SENTIVO
ARRIVATA.
PER ME LA FELICITÀ
È VIVERE
A DIECI METRI
DAL PALCOSCENICO
La prima gonna gliela regalò sua nonna. “Fin da bambino mi piaceva farmi notare. Il mio motto è sempre stato: datemi un tappeto rosso e io ci sarò. Poi un bel giorno mi dissi: ok mi piacciono i ragazzi ”.
Non sempre è stato facile, ma oggi, barba curatissima, è una star internazionale, ha pubblicato un’autobiografia e tra due giorni uscirà
con il suo primo disco. Nessuno, dice Jean Paul Gaultier, ha saputo
annullare come lei i confini tra
Conchita. La mia storia, che Mondadori ha pubblicato l’altro ieri, Jean Paul
che l’ha voluta in passerella, le scrive: «Se Madonna ha il corpo di una
donna e lo spirito di un macho, tu hai il corpo di un uomo e lo spirito di wonder
maschile e femminile. “Sempli- Gaultier,
woman. Nessuno, prima di te, ha saputo annullare i confini tra maschile e femminile. Erede dell’avanguardia e della subcultura, sei riuscita a diventare un’ipopolare e in eterno un’icona della moda». Conchita confessa che il libro
cemente io sono due persone: cona
è stata un’idea dell’editore. «Non volevo, ho ventisei anni, troppo giovane»,
mormora. «Ma alla fine sa una cosa? Mi ha fatto bene, ho imparato più cose su
me che in cento sedute di psicoterapia. Tornare indietro e cercare di sofferTom il gay e Conchita la drag. dimarsi
anche sui più piccoli dettagli è un’operazione straordinaria. Per esempio ho capito perché sono attratta istintivamente da personaggi come Karl Lae Vivienne Westwood: hanno lo stesso odore di mia nonna. Fu lei, coTom soffre per gli insulti, a Con- gerfeld
me mia madre non smette mai di ricordare, a comprarmi la prima gonna». L’infanzia non è facile quando il bullismo è dietro la porta di casa. Tom, fortuna sua,
non si lasciò intimidire. Oggi Conchita ammette che fu proprio quel desiderio
chita non importa un fico”
di stupire a salvarle la vita. «Gli sguardi degli altri non mi hanno mai messo in
Conchita
Wurst
GIUSEPPE VIDETTI
VIENNA
N
ONÈL’ORAPERUNASIGNORINA di presentarsi a questo modo. Sono le die-
ci del mattino di sabato. Vienna ancora sonnecchia. Lei no, lei perfettissima nel suo tubino blu di Cina a pois sotto il ginocchio, la camicetta di crêpe che protesta per assenza di seno, calze coprenti,
tacchi a spillo di vernice bianca. I capelli corvini le incorniciano il viso come due vele senza vento. Le ciglia più lunghe di un cerbiatto; sembra di sentirle frusciare quando ammicca maliziosa per confessare una debolezza o due.
Conchita Wurst, trionfatrice con Rise Like a Phoenix dell’edizione 2014 dell’Eurovision Contest, è composta e in ordine come una stenografa 2.0 al primo
colloquio aziendale. Trasgressiva? Neanche per idea. Oddio, sì, la barba, di tre
giorni, curatissima anch’essa. Mica fenomeno da baraccone come la Girardot
nel film cult di Ferreri di cinquant’anni fa, La donna scimmia. Conchita, al secolo Thomas Neuwirth, austriaca, ventiseienne, non è neanche la solita drag
queen kitsch alla Ru Paul per intenderci, semplicemente un surrogato di bizzarria chic: più mondana di Gloria Vanderbilt quando parla dei suoi amici
vip, Jean Paul Gaultier, Karl Lagerfeld o Carine Roitfeld, l’ex direttrice
di Vogue France; più intensa della Mangano quando racconta dell’infanzia tormentata a Gmunden, il paesino natale; più esaltata di Shirley Bassey quando si parla di carriera e di canzoni e di interpretazioni.
«Ho avuto un solo idolo e un solo modello, Shirley Bassey», ammette
subito. «Avevo otto anni quando fui fulminata da Goldfinger. Non capivo le parole, ma subivo il potere di quella donna, della voce, della gestualità». Fu la prepotenza alla Shirley, tanta voce e l’ardire di presentarsi come la prima drag barbuta del pop che l’anno scorso la
guidò verso la vittoria. Quest’anno, come è consuetudine,
farà da madrina alla manifestazione nella sua città, Vienna, pochi giorni dopo la pubblicazione, dopodomani, del-
IL LIBRO, LO CONFESSO, L’HA VOLUTO L’EDITORE,
NON IO. HO VENTISEI ANNI, È TROPPO PRESTO
MI DICEVO. MA POI SA COSA? MI HA FATTO BENE
SCRIVERLO, HO IMPARATO PIÙ COSE SU DI ME
CHE IN CENTO SEDUTE DI PSICOTERAPIA
l’atteso esordio discografico (Conchita, Ed. Sony Music). «Sarà una
performance esagerata, sto provando da una settimana», esclama indaffarata nel camerino del Wiener Stadthalle, dove il 23 si disputerà
la finale (in lizza per l’Italia c’è Il Volo). «Per me la felicità è vivere
qui a dieci metri dal palcoscenico, il posto che ho desiderato per
tutta la vita», dice. «È esattamente quello che volevo, non mi sento a disagio in questa dimensione, anzi perfettamente in equilibrio. Mi godo il privilegio di una carriera fortunata ma anche di
una intensa vita privata, senza ciglia finte e parrucche, quando
spenti i riflettori torno a essere Tom».
Nella precoce autobiografia già tradotta in quattro lingue, Io
imbarazzo, neanche quando erano carichi di odio o di sarcasmo», dice abbassando lo sguardo, «li desideravo pazzamente. Fin da bambino mi piaceva farmi notare. Non farei questo mestiere diversamente. Oggi il mio motto è: datemi un tappeto rosso e io ci sono». E infatti è ovunque: ai Golden Globe e da Givenchy, al Parlamento europeo e al Palazzo dell’Onu a Vienna. E, come già Lady
Gaga, sarà la Queen alla guida del gay pride romano il prossimo 13 giugno.
«Oggi abbiamo un movimento agguerrito per la difesa di gay, lesbiche e transgender che ci tiene parzialmente al riparo da violenze e discriminazioni», dice.
«Ai Golden Globe hanno presentato una dozzina di film a tematica gay; Bruce
Jenner (atleta e attore americano poche settimane fa ha pubblicamente annunciato di voler diventar donna ndr) ha parlato apertamente della sua transizione: c’è ancora molto da fare, ma molto si sta facendo. Ovviamente, nel periodo della pubertà non avevo queste certezze. Non saprei chi fu il primo ad accorgersi della mia diversità, se io o i miei compagni di scuola. I ragazzi hanno un sesto senso e, a un’età in cui tutti vogliono essere nel branco, la parola “diverso”
equivale a un insulto. Basta che un ragazzino abbia dei riccioli biondi per essere
chiamato frocetto. A quel punto o reagisci o soccombi. Superate quelle fragilità,
quando ho cominciato a conoscermi meglio, non ho esitato a prendere posizione: ok, mi piacciono i ragazzi, la società mi condanna, ma non sono io a essere
sbagliato, è la società. Fu un momento glorioso della mia giovane età, ma il coming out non fu né facile né indolore».
Dopo la vittoria all’Eurovision il vice primo ministro russo Dmitry Rogozin bestemmiò: «Ecco il futuro dell’Europa, una donna con la barba». Se avesse controllato su Twitter, avrebbe scoperto quanti milioni di russi, gay o gay friendly,
andavano pazzi per l’artista. «Fortunatamente Putin non governa tutto il mondo», esclama Conchita, «ma il bullismo non è certo scomparso ora che sono famosa. E poi siamo in due a reggere il colpo. Vede, da quando cominciai a travestirmi — Conchita ancora non esisteva — il personaggio che esibivo sul palco era
sempre una persona distinta da Tom. Mi guardavo allo specchio e vedevo un’altra. E ancora oggi siamo in due: Tom il gay, e Conchita la drag queen. Tom soffre
per gli insulti, a Conchita non importa un fico; davvero avete tanto tempo da
NON HO ANCORA CONOSCIUTO
IL LATO OSCURO DEL SUCCESSO,
CERCO DI FREGARMENE DEI GIUDIZI
E DI NON PASSARE NOTTI INSONNI
ASPETTANDO UNA RECENSIONE
sprecare per parlare di qualcuno che disprezzate? Grazie per l’attenzione! Quando ho iniziato questo mestiere ho subito capito che non sarei
riuscito a tollerare i contraccolpi della popolarità, la totale invasione
della privacy. Ho bisogno di separare i due territori, quello pubblico e
quello privato, e in maniera netta. Ecco perché Conchita non ha mai
ucciso Tom».
Si fa un gran parlare della sindrome di Garland, della solitudine degli artisti, delle gavette sfibranti, di tanto stress per un’ora di gloria. Non è il caso della Wurst. «A me piace chiudere la
porta e starmene da sola», assicura. «Non ho ancora fatto conoscenza con il lato oscuro del successo. Per non cadere nel
tranello cerco di non pendere dalle labbra degli altri, di fregarmene dei giudizi, di non passare notti insonni aspettando la recensione del giorno dopo, di non leggere gli insulti su questo o quel blog. Ho deciso di ignorare le umiliazioni e gli attacchi già molti anni fa. Lei penserà: vive
sulle nuvole; ma questa è Conchita, concentrata su se
stessa, motivata e determinata. Sono entrata a far parte dello show business a diciassette anni e ho imparato
molto. All’epoca ero ingenua, cantavo in un club per
venti persone e mi sentivo arrivata. Sbagliavo. Ho dovuto lavorare sodo per diventare una star. E ora se dovesse andar male pazienza, me ne torno da Tom».
La chiamano per la prova, il palcoscenico immenso acceso
con tutte le luci del paradiso e cento comparse l’aspettano per
un numero che si preannuncia strabiliante. Arrivederci,
Conchita. O vuole che la chiami Tom? Tende cortesemente la mano, sulle lunghe dita virili sono piantate unghie
rosso giungla. «Conchita!», esclama. «Conchita! Tom non
si concia così. Non l’avrei mai fatta entrare nella sua noiosissima vita, che io adoro».
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Repubblica Nazionale 2015-05-17
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