Francesca Serra
Calvino 1956 :
tre libri e la fine del mondo
Anno zero
Italo Calvino, nel 1956, aveva esattamente trentatré anni; un’età a dir poco
emblematica dal punto di vista della periodizzazione di una vita umana. Poiché il
destino, il caso o quello che sia, volle che morisse poco più che sessantenne, in effetti
nel 1956 Calvino si trovava all’incirca a metà della sua vita. Il 1956 si trova anche a
circa metà del secolo ventesimo, è stato uno dei suoi anni più complessi e
controversi: anno lunghissimo fu definito, anno terribile e indimenticabile, l’anno
della fine del mondo per alcuni. Al termine di quei dieci lunghi inverni immortalati da
Franco Fortini in un famoso libro del 1957, iniziava infatti la fine del mondo
comunista. Nella morsa tra le speranze di rinnovamento aperte dal XX° congresso
del PCUS del febbraio e la pietra tombale che sulle stesse calarono i carri armati
sovietici entrando a Budapest all’inizio di novembre, si svolge la parabola ad alto
contenuto esplosivo di questo anno zero, che tagliava a metà non solo la vita di
Calvino, ma anche la storia del secolo scorso. 1
Calvino visto attraverso il 1956 apre, dunque, una finestra sulla fine del mondo.
In mezzo a quel finimondo campeggiano tre libri, che non hanno in comune solo il
1956, ma anche qualcos’altro: sono, probabilmente, i più importanti libri di Calvino.
Affermazione quanto mai audace, essendo Calvino un autore che ha scritto
tantissimo e sempre all’insegna della varietà. Ma intanto vediamo di quali libri si
tratta: nel 1956, più esattamente alla fine del 1956, Calvino inizia a comporre Il barone
rampante, che a mio parere è il più importante romanzo che abbia scritto. Appena
prima dell’inizio della stesura del Barone, Calvino aveva pubblicato le Fiabe italiane, che
sono secondo me il più importante non-libro di Calvino. Infine, il terzo libro chiave
di questo 1956 è La speculazione edilizia, il più importante libro-ombra di Calvino.
1
F. FORTINI, Dieci inverni 1947-1957. Contribuiti ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957.
Dei rapporti tra Calvino e il 1956 si è già occupato, da una diversa prospettiva, D. SCARPA, Da Poznań
alle Antille. Italo Calvino e il 1956, in «Paragone», n. 41-42, ottobre-dicembre 1993, pp. 60-73. Per il più
ampio contesto storico-culturale nel quale l’esemplare vicenda calviniana si colloca, si vedano N.
AJELLO, Intellettuali e PCI 1944/1958, Laterza, Bari, 1979 e P. SPRIANO, Le passioni di un decennio (19461956), Milano, Garzanti, 1986.
1
Sul fatto che il Barone rampante sia il più importante romanzo di Calvino si può
discutere, e sarà forse solo questione di gusto. Mi pare indubbio, però, che di
romanzi veri e propri Calvino sia riuscito a scriverne ben pochi nella sua carriera: di
conseguenza penso che si possa concordare sul fatto che questo è forse l’unico
romanzo a tutti gli effetti di Calvino; di qui la sua innegabile importanza. Passiamo
alle Fiabe italiane, che ho definito il suo più importante non-libro: in effetti non si
tratta di un libro di sua invenzione, ma della scelta e della trascrizione di duecento
fiabe appartenenti al patrimonio folklorico italiano. Testi popolari, anonimi. Di fatto,
fin da subito, sono state presentate editorialmente e percepite dal pubblico come le
Fiabe di Italo Calvino, e in quanto tali hanno avuto una decisiva influenza sul profilo
del loro autore. Infine, La speculazione edilizia è il più importante libro realista che
Calvino sia riuscito a scrivere in quegli anni; ma in un certo senso è un libro ombra,
perché a differenza delle Fiabe italiane e del Barone rampante non viene pubblicato da
Einaudi come tutti i “veri” libri di Calvino, ma esce in una sede minore e defilata, per
quanto autorevole, come la rivista romana «Botteghe Oscure». 2
Tre libri, anzi quattro
Una cronologia dettagliata del 1956 (tav. I°), e della sua scia nell’anno seguente (tav.
II°), 3 rende conto del sovrapporsi e dell’intrecciarsi di questi tre testi. Le Fiabe italiane,
alle quali Calvino aveva iniziato a lavorare nel 1954, escono nel novembre 1956 da
Einaudi; gran parte di questo anno, lo dobbiamo dunque cosiderare occupato dal
lavoro molto impegnativo sulle Fiabe. La stesura del Barone rampante inizia subito
dopo la pubblicazione delle Fiabe; la vicinanza delle date è strettissima: il 12
novembre escono le Fiabe, il 10 dicenbre Calvino inizia a scrivere il Barone. Il 24
febbraio 1957 il romanzo è terminato, e il 4 giugno dello stesso anno viene
pubblicato da Einaudi. Nel frattempo, mentre ancora era occupato a finire le Fiabe,
Calvino aveva iniziato a scrivere La speculazione edilizia, tra il 5 e il 25 aprile 1956. Tra
dicembre 1956 e febbraio 1957 ne interrompe la stesura per dedicarsi al Barone,
2
Fondata dalla principessa Marguerite Caetani nel 1948, la rivista prendeva il nome dalla via
romana dove si trova Palazzo Caetani; il redattore capo era Giorgio Bassani. Calvino vi aveva già
pubblicato La formica argentina nel 1952. La speculazione edilizia uscì sul quaderno XX del 1957, pp. 438517, poi fu raccolta, in una versione ridotta, nel volume dei Racconti del 1958, mentre in volume
autonomo venne pubblicata da Einaudi soltanto nel 1963, ripristinando la versione lunga della rivista.
La vicenda filologica del testo è stata ricostruita da M. MCLAUGHLIN, in “La speculazione edilizia”: natura
e storia in un racconto ‘difficile’, in Italo Calvino. A writer for the next millennium, a cura di Giorgio Bertone,
Torino, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 205-20.
3
Ognuna delle due tavole, che si trovano in fondo al testo, è divisa a metà dalla linea dei dodici
mesi: nella metà sinistra si segnalano gli eventi storici di stretta pertinenza al discorso calviniano,
insieme alla scelta di venti libri in prosa che uscirono in Italia nel corso del biennio 1956-1957, dei
quali non si discuterà, ma che varranno come colpo d’occhio; nella metà destra compare, invece, una
selezione di testi ed eventi solo calvininiani: sullo sfondo, i grandi libri in preparazione, in primo piano
alcuni riquadri a sfondo bianco (articoli o racconti) oppure grigio (testi o eventi di natura politica).
2
quindi la riprende tra il marzo e il luglio 1957; il testo esce pubblicato, come si diceva,
nell’autunno del 1957 su «Botteghe Oscure».
Questa la situazione della nostra triade di libri tra 1956 e 1957. Sullo sfondo
degli eventi che si susseguono, emerge con chiarezza l’esistenza di due piani – uno
più in vista, l’altro più in ombra – che lo scrittore utilizza per gestire i propri testi al
momento di proporli al pubblico. Da una parte le edizioni Einaudi, riservate in
questo caso al filone diciamo “fantastico” di Calvino, prima le Fiabe, poi il Barone;
dall’altro le riviste che ospitano articoli e saggi, ma anche il libro che appartiene al
filone “realista”, ovvero La speculazione. La percezione di questa sorta di doppio
fondo si rafforza con l’entrata in scena di un quarto libro, che si affaccia all’inizio del
1957 intrecciandosi alla vicenda degli altri tre. Questo quarto libro s’intitola I giovani
del Po e viene pubblicato in cinque puntate, sulla rivista «Officina» di Pasolini, dal
gennaio 1957 all’aprile 1958; 4 nessuna notizia di composizione lo accompagna nel
nostro schema (tav. II°), semplicemente perché si tratta di un libro antico, scritto
all’inizio degli anni Cinquanta. Calvino lo aveva composto e finito, tra il gennaio 1950
e il luglio 1951, ma mai pubblicato.
Perché decide di farlo adesso? Le insistenze di Pasolini per ottenere dall’amico
un contributo alla sua rivista (a fine gennaio 1957 scriveva agli altri due redattori,
Francesco Leonetti e Roberto Roversi: «notizia folgorante: Calvino, visto a Torino,
mi ha dato un suo romanzo»), 5 avranno avuto la loro parte; quanto energica fosse la
sua capacità di persuasione, Pasolini lo aveva del resto già dimostrato strappando al
recalcitrante Gadda il Libro delle furie, che precede su «Officina» la pubblicazione dei
Giovani del Po. 6 Ma Calvino è autore troppo accorto nella gestione della propria
immagine, troppo cauto, addirittura guardingo nella divulgazione dei propri testi, da
lasciarsi trascinare in qualcosa che non volesse lui stesso; e a ridimensionare il ruolo
del caso nelle sue scelte, a favore di una coscienza sempre pianificante, non si sbaglia
quasi mai.
In una lettera a Leonetti del 19 febbraio 1957, Calvino si raccomandava che il
testo fosse pubblicato in corpo tipografico minore e con una nota di
accompagnamento. Lo considerava un libro «fallito da tutti i punti di vista», che
aveva acconsentito a pubblicare solo perché potesse almeno «servire come oggetto di
studio su tavolo anatomico», 7 senza cambiarci una virgola. Nella nota che uscì
insieme alla prima puntata del romanzo, l’autore spiegava l’antica genesi del testo e il
perché si era deciso a pubblicarlo: «ci riuscirò, una volta o l’altra» a scriverlo questo
4
Precisamente: gennaio 1957, n. 8, pp. 331-38; giugno 1957, nn. 9-10, pp. 398-414; novembre
1957, n. 11, pp. 463-74; aprile 1958, n. 12, pp. 538-52. Il romanzo si legge adesso in I. CALVINO,
Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano,
Mondadori, 1994, vol. III, pp. 1011-126 (d’ora in poi RR).
5
La lettera, del 29 gennaio 1957, si legge in P.P. PASOLINI, Lettere 1955-1975, a cura di N.
Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 275.
6
Del Libro delle furie di Gadda uscirono su «Officina» quattro puntate, dal n. 1 (maggio 1955) al
n. 5 (febbraio 1956).
7
I. CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, pp. 482-83
(d’ora in poi L).
3
benedetto romanzo sulla «città con operai»; ma siccome ci vorranno ancora diversi
anni, perché «è un tema che non faccio che prenderci delle testate da dieci anni»,
intanto posso esibire solo questo «romanzetto», 8 testimonianza della buona volontà
ma anche del fallimento. Come dire: vedete, io ci ho provato e riprovato, ma non ci
sono riuscito.
Il posto delle favole
Con l’articolo Opinioni su Metello, uscito sulla rivista «Società» nel febbraio 1956 (tav.
I°), Calvino interveniva nella famosa polemica suscitata dall’uscita del romanzo di
Vasco Pratolini nel 1955 intorno alla cosiddetta “questione del realismo”,
pubblicando una sua lettera privata a Pratolini. Questa lettera finiva con tali parole:
«M’accorgo intanto che ho scritto forse la lettera più lunga della mia vita. Prendila,
caro Vasco, come lo sfogo d’uno che non sa scrivere romanzi e che si rifà
arrovellandosi sui romanzi altrui». 9 L’affermazione sembra da prendersi, a prima
vista, come una boutade bella e buona. Nel 1956 Calvino era già uno degli autori più
famosi della nuova generazione e aveva alle spalle dieci anni di onorata carriera
letteraria; mettendo pure in conto una certa dose di understatement, come poteva
castigarsi e sottostimarsi in tale misura?
In realtà si tratta di un’affermazione assolutamente seria, da prendersi anzi alla
lettera. Nel febbraio del 1956 i libri all’attivo dello scrittore Italo Calvino erano i
seguenti: un breve romanzo d’esordio, uscito nel lontano 1947 e intitolato Il sentiero
dei nidi di ragno, la cui forza propulsiva legata all’epoca di guerra si era ormai spenta da
tempo. Un paio di libri di racconti (Ultimo viene il corvo del 1949 e l’Entrata in guerra del
1954), che ovviamente non facevano testo per la questione del romanzo. E una
favoletta cavalleresca, che Calvino sottovalutava nel modo più assoluto, stimandola
una parentesi irrilevante, di mero divertimento: Il visconte dimezzato del 1952. Di un
“romanzo” con tutti i crismi era difficile trovarne traccia; se non nel sottobosco di
tentativi falliti che avevano costellato quel difficile passaggio tra la fine degli anni
Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta.
8
La Nota che accompagnava la prima puntata del romanzo si trova riprodotta in RR, III, p.
1342.
9
Opinioni su «Metello» e il neorealismo, in «Società», XII, 1, febbraio 1956, pp. 207-11 (la lettera a
Pratolini, che era del 22 febbraio 1955, viene preceduta nell’articolo da un cappello introduttivo); poi
in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, p. 1244
(d’ora in poi S). Nella cronologia (tav. I°) si segnalano altri tre articoli di Calvino, legati al dibattito
culturale che si svolse in quei mesi internamente al PCI, e alle nuove speranze di rinnovamento di cui
s’alimentava: Nord e Roma-Sud (in «Il Contemporaneo», a. III, n, 13, 31 marzo 1956, p. 6; poi in S, II,
pp. 2183-87), nei manoscritti dell’autore s’intitolava ben più esplicitamente Arrivano i posteri!; la scheda
sul Futuro ha un cuore antico di Levi (in «Notiziario Einaudi», a. V, n. 5, maggio 1956, pp. 1-2; poi in S, I,
pp. 1117-21), terminava inneggiando al futuro di «questo mondo sovietico che attraversa un momento
fondamentale di presa di coscienza di sé e del suo recente passato»; infine con La poesia e il dialetto (in
«Il Contemporaneo», a. III, n. 26, 30 giugno 1956, p. 8) Calvino interveniva polemicamente, a
proposito delle Ceneri di Gramsci di Pasolini, contro certo immobilismo intellettuale della sinistra.
4
Calvino prova per ben tre volte a scrivere il grande romanzo realista che
avrebbe voluto consegnare all’Italia del suo tempo, ma tutte e tre le volte fallisce in
modo patente e clamoroso. Le date sono chiare, coprendo esattamente l’arco di
tempo che va dalla stampa del primo romanzo di Calvino all’inizio del lavoro sulle
Fiabe italiane: tra il 1947 e il 1949 scrive Il bianco veliero, tra il 1950 e il 1951 I giovani del
Po, tra il 1952 e il 1954 La collana della regina. I primi due erano romanzi fatti e finiti,
che gli amici einaudiani consigliarono di non pubblicare semplicemente perché venuti
male; il terzo rimase invece incompiuto: l’ultimo appunto di scrittura sulla Collana
della regina è datato dicembre 1954, proprio in coincidenza con l’entrava nel vivo
dell’impresa delle Fiabe. 10
Furono delle vere e proprie doglie romanzesche, insomma, quelle che diedero
al nostro autore il tormento lungo tutti gli anni Cinquanta: per circa un decennio
Calvino si trovò in uno stato di perenne “gravidanza isterica”. Covava il grande
romanzo realista, senza mai riuscire a partorirlo, patendo un «mal di romanzo» 11 che
ancora risuona nelle righe finali della lettera a Pratolini su Metello. Quell’articolo, per
altro, cominciava dicendo un’altra cosa interessante: Calvino raccontava di essersi
incontrato con Pratolini, dopo avergli scritto la lettera, e di aver convenuto con lui
che, in ogni caso, il principio narrativo più importante da seguire fosse quello di
evitare a tutti i costi una «rappresentazione della realtà meccanica e legnosa, buona in
una stilizzazione alla Brecht, non in una descrizione più sensibile e attenta alla realtà»
(S, p. 1239). Teniamo a mente questi tre termini chiave: “stilizzazione”,
“descrizione”, “realtà”. In nome di quest’ultima, il primo termine si dimostra una
trappola, il secondo un salvacondotto.
Passano sei mesi e intanto Bertold Brecht muore a Berlino il 14 agosto 1956.
«La morte di Brecht, quest’anno, non ci voleva», scriverà Calvino nel necrologio
uscito sul «Notiziario Einaudi» del settembre 1956 (tav. I°). «Per anni ho faticato ad
accettare quel che di meccanico, legnoso e manicheo porta con sé ogni sua
invenzione», prosegue l’articolo; non lo accettava per timore che fosse un «rifiuto
della complessità del reale, una semplificazione geometrica». Poi, qualcosa è
cambiato: «Invece, più vado avanti a capire il nostro tempo – e che docce fredde
della coscienza, questo 1956! – più vedo che era Brecht, l’autore della Vita di Galileo,
a dire sempre la verità». 12 Sono trascorsi sei mesi dall’articolo su Metello e la posizione
10
Sui tre romanzi mancati, si vedano le Note e notizie sui testi relative alla sezione Prove di romanzo,
in RR, III, pp. 1340-44.
11
Calvino usa quest’espressione in una lettera a Enrico Ardù dell’11 dicembre 1947 (L, p. 208).
12
Brecht, in «Notiziario Einaudi», a. V, n. 9, settembre 1956, p. 4; poi in S, I, p. 1301. Su Brecht
Calvino sarebbe tornato anche nell’articolo intitolato Le sorti del romanzo, nel quale dichiarava di essersi
«affezionato a Brecht» negli ultimi tempi, «a cominciare da quel suo primo, meraviglioso assioma: che
lo scopo del teatro è di divertire»; anche per la narrativa dovrebbe essere lo stesso, continuava Calvino,
ma «ce lo si dimentica troppo» (in «Ulisse», a. X, vol. IV, nn. 24-25, autunno-inverno 1956-57, pp.
948-50; poi in S, I, p. 1514). Quanto il punto fosse ideologicamente delicato, lo dimostra il fatto che
nel necrologio di settembre, citando quello stesso assioma di Brecht, Calvino lo aveva definito
«professione di fede non certo di un evasivo edonismo, ma della sua moralità concreta, del suo
“umanesimo”» (S, I, p. 1302).
5
di Calvino appare rovesciata: adesso è la stilizzazione di Brecht che fa la parte della
verità, che meglio serve a descrivere il mondo. Nel giro di mezzo anno, la trappola si
è capovolta in salvacondotto.
Ma quale mezzo anno. Tra l’articolo su Metello e quello su Brecht era successo
il finimondo. Soprattutto due eventi avevano scompigliato le carte, tanto dal côté
biografico, quanto da quello storico. Due eventi distanti anni luce l’uno dall’altro, per
dimensioni e natura: eppure, avranno un riflesso convergente nella parabola
calviniana, che la giravolta a 360° gradi su Brecht ci aiuta a capire. Partiamo dal più
domestico, che riguarda l’approssimarsi della data di pubblicazione delle Fiabe, che
nel settembre 1956 – quando Calvino scrive il necrologio di Brecht – è ormai
imminente. Il punto di svolta che la pubblicazione nel 1956 delle Fiabe italiane segna
nella carriera di Calvino, mi pare difficile da sopravvalutare, una volta che quel libro
torni a essere incastonato esattamente tra gli aborti del “mal di romanzo” realista che
si fermano al 1954, ossia quando la raccolta fiabesca viene messa in cantiere, e la
scrittura del Barone rampante che inizia pochi giorni dopo il suo finito di stampare. Il
lavoro sulle Fiabe, insomma, sblocca qualcosa; di sicuro sospende e cauterizza, in
parte, il mal di romanzo; si potrebbe dire che sfociando, tra 1956 e 1957, nelle due
soluzioni agli antipodi della Speculazione e del Barone addirittura lo risolva del tutto, se
non fosse troppo semplicistico; quel male avrà ancora un futuro, più sotterraneo ma
non meno tenace.
Soprattutto, però, le Fiabe furono per Calvino una grande palestra sia linguistica
che figurativa, nel senso stretto e ben definito che già conosciamo: la stilizzazione.
Nei due anni che vanno dal 1954 al 1956, e in particolare negli ultimi mesi prima
della pubblicazione del volume, Calvino assunse una dose massiccia di quella
semplificazione geometrica della realtà che prima ebbe a rimproverare, poi a lodare in
Brecht. Il lavoro sulle fiabe fu un fondamentale lavoro tecnico, dal punto di vista
della scrittura e dei suoi rapporti con l’immaginazione, che tenne lontano lo scrittore
dal grigio e incombente moloch del realismo degli anni Cinquanta. Un lavoro di taglia e
cuci: tagli netti e scattanti, da cucire all’interno di una logica puramente allegorica e
antidescrittiva. La lezione era ariosa, liberatoria e difficile da dimenticare, una volta
chiuso e stampato il volume; soprattutto quando fu chiaro che quel libro, lanciato
come un grande evento editoriale nella collana di punta della Einaudi, «I Millenni»,
avrebbe portato Calvino a una nuova fase di notorietà e successo, che sarebbe
proseguita con il Barone rampante e che più nulla aveva a che fare con gli affanni
precedenti.
D’altra parte dedicarsi a scrivere un libro di fiabe in pieno clima di realismo
socialista, non era affatto uno scherzo per un intellettuale integrato com’era a tutti gli
effetti Calvino. Significava andare inevitabilmente incontro all’accusa di “evasione”,
peccato capitale per uno scrittore di fede comunista; quindi dover affrontare
l’estrema diffidenza marxista verso il mondo folklorico, come fonte decadente di
primitivismo e irrazionalismo. Insomma, superare un limite, rompere un tabù:
6
provocare il moloch realista, che da sempre sentenziava che non era tempo di dedicarsi
alle favole.
Il vero e il falso
Nel frattempo il rapporto segreto di Kruscev giungeva, per strane vie, in America: il
«New York Times» ne divulgò il contenuto nel marzo 1956, quindi il Dipartimento di
stato americano ne rese pubblica una prima versione il 4 giugno 1956. 13 A partire da
quella data tutto il mondo seppe che lo zio Stalin non era affatto il grande eroe
buono che si credeva, ma una specie di criminale dell’umanità. Il moloch era
irrimediabilmente infranto. Peggio: quel moloch aveva mentito. E qui arriviamo al
secondo evento che si colloca nel passaggio dal febbraio al settembre 1956, ovvero
tra la condanna e la riabilitazione calviniana di Brecht. Da una parte, abbiamo detto,
la grande lezione di stilizzazione delle fiabe; dall’altra uno dei più clamorosi gesti di
svelamento della storia del Novecento. Eventi incommensurabili, senza alcun
dubbio, che tuttavia risuonano in un punto comune, toccando entrambi il nervo
scoperto che lega la narrazione alla verità o alla menzogna. Con il rapporto segreto di
Kruscev cadeva, infatti, la più grande narrazione realista dell’epoca: un vero e proprio
shock narrativo, che ebbe il potere di scuotere profondamente tutta la generazione
intellettuale del tempo; trattandosi della revoca, improvvisa e irrimediabile, del valore
di verità attribuito a un racconto che fino allora era stato vangelo, e che da un giorno
all’altro si riduceva a una favoletta.
Il mondo alla rovescia: il mondo del realismo socialista diventava un mondo di
favole. Questo succede nel 1956. Un terremoto che metteva in discussione,
soprattutto, la netta spartizione tra vero e falso nel racconto e quindi nella lettura
stessa della realtà. Quando le sentinelle più fedeli alla legge inderogabile del racconto
dei fatti oggettivi passano dalla parte della menzogna, cosa rimane del principio di
separazione tra verità e finzione, quindi della capacità di comprendere a colpo sicuro
dove stia l’una e dove l’altra? La parola che di lì a poco Calvino dovrà usare per
denunciare il racconto che «l’Unità» stava fornendo della rivoluzione d’Ungheria è
chiara, univoca e dolorosissima: «falsificazione» (tav. I). 14 Il giornale, per suo statuto
difensore del vessillo dell’oggettività, il suo giornale, sulle cui colonne Calvino si era
fatto scrittore nel primo dopoguerra, mentiva di fronte al mondo. Questo davvero
poteva dirsi il mondo alla rovescia.
13
Per un’agile ricostruzione di quegli eventi, si veda il libro di L. CANFORA, 1956. L’anno
spartiacque, Palermo, Sellerio, 2008.
14
Il 26 ottobre Calvino presentava all’organizzazione di partito della casa editrice Einaudi
(cellula intitolata a Giaime Pintor), un ordine del giorno che denunciava «l’inammissibile falsificazione
della realtà» che l’«Unità» andava compiendo nel riferire gli avvenimenti polacchi e ungheresi (cfr.
Cronologia, in L, p. LVII). Ma già il 24 luglio 1956, nel corso di una riunione della commissione
culturale del PCI, della quale Calvino era membro dal gennaio dello stesso anno, lo scrittore era
intervenuto molto duramente contro Mario Alicata, esprimendo «una mozione di sfiducia verso tutti i
compagni che attualmente occupano posti direttivi nelle istanze culturali del partito» (ibidem).
7
Altro che fiabe. Nel momento esatto in cui lo scrittore usava la parola
«falsificazione» per definire la descrizione distorta della realtà da parte del giornale
organo del Partito comunista italiano, nell’Introduzione alle Fiabe che stavano per
essere pubblicate usava un’altra parola altrettanto scioccante, e probabilmente
impensabile prima del 1956: in quella lunga introduzione, a un certo punto Calvino
dice che le fiabe sono «vere». 15 Il testo apparentemente oggettivo era diventato falso;
quello apparentememte più lontano dalla realtà, vero. Questo è il rovesciamento di
valori fondamentale al quale si assiste nel 1956: questo il passaggio fondamentale che
porta a salvare Brecht nel settembre, dopo averlo condannato nel febbraio. Mentre la
descrizione si macchiava di menzogna, la stilizzazione veniva nobilitava entrando nel
campo per lei generalmente bandito della verità.
La novelletta di Togliatti
La frattura tra vero e falso che s’andava sempre più allargando in quel lunghissimo
1956, segna la strada che di lì a poco porterà Calvino alle sofferte dimissioni dal PCI,
il 1° agosto del 1957, una volta che anche l’ultima speranza di rinnovamento,
incarnata da Antonio Giolitti, aveva ceduto le armi alla fine di luglio (tav. II).
Proviamo a leggere il culmine drammatico di tutta questa concatenazione di eventi,
attraverso tre testi calvinani di natura nettamente diversa: il documento ufficiale delle
dimissioni, un racconto e una lettera privata. Sono testi complementari e gemelli.
Gemelli perché vengono scritti oppure pubblicati più o meno in contemporanea;
complementari perché si completano l’uno con l’altro nell’interpretazione di questo
nodo fondamentale della vicenda.
In particolare, i primi due sono la trasposizione l’uno dell’altro, la codifica di
uno stesso messaggio in due linguaggi diversi. Sono, insomma, due testi che dicono la
stessa cosa: mi sto allontando da voi, perché il vostro grigio immobilismo non
permette di guardare al futuro sperando in un cambiamento. Ma il modo in cui la
dicono è agli antipodi. La lettera di dimissioni, datata 1° agosto e pubblicata
sull’«Unità» il 7 agosto, è un testo importante nella storia dei rapporti tra intellettuali
e politica nel secondo Novecento; testo sofferto, che s’immagina scritto e riscritto dal
suo autore, certamente soppesato in ogni sua parola, sapendo che di ogni parola
avrebbe dovuto rendere conto ad amici e nemici: «Sono consapevole di quanto il
partito ha contato nella mia vita», scrive Calvino in uno dei passi più vibranti della
lettera; «vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho
vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono
diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito».
15
I. CALVINO, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in
lingua dai vari dialetti, prefazione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 1993, pp. 12-13. In tali parole
sarà forse da percepire l’eco della seguente affermazione di Antonio Gramsci: «Il folclore non
dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa
che è molto seria e da prendere sul serio» (in Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, p. 218).
8
La gran bonaccia delle Antille è invece un racconto fantastico, giocoso e allegorico
pubblicato sulla rivista «Città aperta» del 25 luglio 1957. Inizia così: «Dovevate sentire
mio zio Donald, che aveva navigato con l’ammiraglio Drake, quando attaccava a
raccontare una delle sue avventure. – Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle
orecchie, quando vedevamo il guizzo d’uno sguardo affacciarsi di tra le sue palpebre
perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran bonaccia
delle Antille. – eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con voce
fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare
liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare un qualche raro filo di
vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo. Il galeone
stava fermo, noi ci fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a
fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro». 16 Il galeone
spagnolo era ovviamente la Democrazia cristiana, la flotta di Drake il Partito
comunista.
La reazione del Partito alla pubblicazione del racconto di Calvino fu durissima:
venne subito pubblicato su «Rinascita» un contro-racconto allegorico che riscriveva
in chiave parodica quello di Calvino; i redattori di «Città aperta» furono deferiti alla
Commissione di controllo; ma soprattutto Palmiro Togliatti in persona intervenne,
durante una sessione del Comitato Centrale di fine settembre, con parole di rara
asprezza: «il letterato che ieri si rifiutava di scrivere qualcosa che significasse un suo
impegno politico a sostegno di nobili battaglie che il Partito conduceva, appena
uscito dal Partito ha scritto la novelletta per buttar fango, agli ordini dei giornali della
borghesia, sopra il Partito e i suoi dirigenti per accrescere la confusione, la sfiducia e
il disfattismo». 17
L’aspetto più interessante di questa vicenda è che Togliatti non attacca Calvino
per la lettera di dimissioni del 1° agosto, in cui lo scrittore diligentemente
argomentava la sua posizione mettendo in discussione la linea del partito: non è
quello il testo che manda su tutte le furie Togliatti, ma i suoi strali di rivolgono
decisamente contro il racconto di fine luglio. Quindi non contro il testo letterale e
oggettivo, ma contro quello in apparenza più innocuo, perché totalmente
d’invenzione. Certificandone la maggiore pericolosità, quindi anche la maggiore
efficacia. Togliatti, che era uomo di cultura e d’intelligenza non comune, capisce che
16
La gran bonaccia delle Antille (prima in «Città aperta», a. I, n. 4-5, 25 luglio 1957 p. 3; poi in
«L’Espresso», a. III, n. 34, 25 agosto 1957, p. 5), si legge adesso in RR, III, pp. 221-25. In occasione di
una ristampa del testo nel volume Il Pci nell’anno dell’Ungheria, a cura di F. Froio, Roma, I libri
dell’Espresso, 1980, Calvino precisava di non poter «stabilire ora la data esatta in cui scrissi il racconto;
ricordo che il numero di “Città aperta” tardò molto a uscire, quindi il racconto è databile alcuni mesi
prima, quando ancora ero nel caldo delle discussioni interne per il rinnovamento del PCI» (RR, III, p.
1230).
17
Maurizio Ferrara pubblicò su «Rinascita» (a. XIV, n. 9, settembre 1957, p. 471) La grande
caccia delle Antille, sotto lo pseudomino di Little Bald (Piccolo Calvo, Calvino). All’intervento di
Togliatti, che fu pubblicato sull’«Unità» del 29 settembre 1957, Calvino rispose con una lettera del 3
ottobre 1957, nella quale si dichiarava incredulo che la frase di Togliatti citata si riferisse proprio a lui;
Togliatti a sua volta rispose il 19 ottobre (L, pp. 523-25)
9
il testo più insidioso, quello che aveva una forza sovversiva maggiore, tra i due, era
quello allegorico. Naturalmente non dice che quel testo sia vero, tutt’altro; ma
neanche la lettera di dimissioni di Calvino, per Togliatti era un testo portatore di
qualche verità. Fatto sta che, tra due testi che erano dal suo punto di vista
ugualmente falsificanti, Togliatti scarta il testo letterale come un falso bersaglio,
mentre sceglie come autentico bersaglio, da prendere sul serio, il testo di finzione.
Come se il primo in definitiva suonasse più fiacco e stonato, mentre il secondo
squillasse come la più autentica delle accuse.
Raccontare novelle vuol dire favoleggiare, inventare storie. Il disprezzo del
diminutivo “novelletta” va evidentemente contro l’uso dell’allegoria, il discorso
indiretto, il linguaggio figurativo; la stilizzazione, si potrebbe dire tornando ancora
una volta a Brecht, la semplificazione geometrica. Ma novella è anche uno dei termini
nobili della nostra tradizione letteraria, il genere di più lunga vita nella storia della
letteratura italiana. Non sarà stata scelta a caso. Questi non sono tempi da favole,
ribadisce il moloch Togliatti, scendi dal carro che porta al paese dei balocchi e torna al
tuo dovere.
Finalmente
A questo punto ci si aspetterebbe che Calvino, momentaneamente risanato dal
grigiore degli anni Cinquanta grazie alla felicità stilistica delle fiabe, finalmente
riconciliato con Brecht, pubblicamente schiaffeggiato da Togliatti nel talento
maggiore che aveva, l’invenzione letteraria, traesse le giuste conseguenze e
s’incamminasse senza rimpianti per la sua strada maestra. Quella che gli veniva più
facile e migliore. Ma Calvino non sarebbe lo scrittore controverso che io credo sia
stato, se avesse fatto così.
Se qualcosa questo 1956, dal punto di vista della sua opera letteraria, gli aveva
insegnato (o meglio ribadito), era che il libro “fantastico” gli veniva più facile, mentre
il libro “realista” incontrava maggiori difficoltà tecniche. La cronologia intrecciata
della Speculazione edilizia e del Barone rampante a cavallo tra il 1956 e il 1957, racconta di
un libro – che forse non era neanche un romanzo ma solo un raccconto lungo, non a
caso nel 1958 verrà raccolto nel volume dei Racconti – scritto faticosamente nell’arco
di quindici mesi (Speculazione); e di un altro, che era invece un romanzo lungo e pieno,
scritto di filata in due mesi e mezzo (Barone). Inoltre, il libro “fantastico” funzionava
decisamente meglio, incontrava subito il favore del pubblico, aprendo quella stagione
di successo già preannunciata dalle Fiabe e poi ribadita dalla pubblicazione
complessiva della Trilogia degli antenati nel 1960. Viceversa, il libro realista aveva
inevitabilmente un carattere più marginale, rivolgendosi a un pubblico più ristretto;
era un oggetto più difficile, più spigoloso e grigio: ma non per questo meno amato
dal suo autore, anzi tutto il contrario.
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La felicità di scrittura e il successo di pubblico sono due componenti che si
direbbero irresistibili per qualsiasi scrittore, due segni infallibili per riconoscere la
propria vocazione. Ebbene, uno dei fatti più straordinari e nascosti della vicenda
letteraria di Italo Calvino è invece la strenua resistenza che egli ha opposto a questo
mainstream personale, una lotta contro se stesso caparbia e lunghissima, che durò per
lo meno dieci anni, i famosi dieci inverni di cui si parlava all’inizio; ma che in realtà si
può dire non sia mai cessata.
Per comprendere meglio la portata di tale fenomento, torniamo a quel fatidico
inizio di agosto del 1957, analizzando il terzo testo in questione. Nello stesso giorno
in cui Calvino aveva scritto la lettera di dimissioni dal PCI, scrive anche una lettera a
Paolo Spriano, che era suo amico e dirigente del PCI. L’ansia di dare spiegazioni, di
argomentare la propria posizione, era in quel momento altissima. Calvino manda a
Spriano una copia della sua lettera di dimissioni dal Pci e gli dice che in realtà si tratta
di una «lettera d’amore» (forse per questo Togliatti l’aveva ignorata, si potrebbe
pensare con qualche malizia, come fosse un testo infantilmente sentimentale,
piccandosi invece della ben più pungente allegoria). Ma il punto più importante della
lettera è il suo finale: «Comunque, non sono un socialdemocratico né un olivettiano,
e lo sai. È diffcile fare il comunista stando da solo. Ma io sono e resto comunista. Se
riuscirò a dimostrarti questo, t’avrò anche dimostrato che il Barone rampante non è un
libro troppo lontano dalle cose che ci stanno a cuore». Il moloch era evidentemente
ancora in piedi davanti a lui; chiedeva spiegazioni sul libro d’evasione, spingendo
l’autore in posizione difensiva. Soprattutto, quel moloch abitava dentro di lui, sotto
forma di un’evidente ansia autocensoria e autogiustificatoria.
In ogni caso, se l’operazione di salvataggio del Barone si fosse dimostrata
troppo ardua o incerta, c’era sempre l’altra carta da giocare. «Comunque», prosegue
Calvino, «ora sono entrato, finalmente, in un periodo di letteratura “realistica”, e il
racconto che ho finito ora è forse la cosa più comunista che io abbia mai scritto» (L,
p. 507). Il racconto che aveva appena finito di scrivere era La speculazione edilizia. La
Speculazione è il contraltare del Barone; sta al Barone, come la lettera di dimissioni dal
PCI stava alla Gran bonaccia delle Antille. Al contrario di quello che sembrerebbe far
credere a Spriano, però, la Speculazione non fu scritta dopo il Barone, per fare da
contrappeso all’opera di svago, ma le date di composizione della nostra cronologia
(tavv. I° e II°) ci dicono che era successo il contrario: mentre Calvino scriveva e
faticava sull’opera realistica, a un certo punto s’interrompe, e come se non riuscisse
ad astenersi da una grande, peccaminosa tentazione, scrive l’opera di fantasia in
quattro e quattr’otto.
«Finalmente», dice Calvino ancora nel 1957, sono entrato in un periodo di
letteratura realistica. Questa storia ne ricorda una più lontana, ma idealmente
vicinissima, che porta di nuovo a galla la vicenda dei Giovani del Po. Un libro che
appare, a questo punto, come il più importante tra tutti quelli citati finora; il quarto
libro, il libro più in ombra di tutti, rischia di illuminare della sua luce tutti gli altri.
Non perché sia un libro da riscattare, ma viceversa: perché era un libro, che
11
nonostante tutta l’affezione di Calvino per i suoi ambiziosi testi realisti, rimaneva
irrimediabilmente sgraziato e francamente brutto. Il libro fallito, questo libro che a
mala pena gli addetti ai lavori riconoscono come il titolo di un romanzo di Calvino,
va messo sul tavolo anatomico, come l’autore stesso suggeriva, perché i libri mancati
spesso hanno molte cose da dirci su quelli riusciti.
Anche questa volta ci soccorrono le date: Calvino racconta di aver finito di
scrivere I giovani del Po nel luglio del 1951, dopo un anno e mezzo di fatiche; subito
dopo comincia a scrivere il Visconte dimezzato, che in poche settimane era finito e che
verrà subito pubblicato nel febbraio del 1952. In una lettera di fine gennaio al suo
amico Silvio Michele, spiega tutta la vicenda: «Io lavoravo da anni a un romanzo con
la classe operaia e tutto, ma nessuno riesce a leggerlo fino in fondo perché dicono
che è una barba, e io finché non trovo almeno un lettore non lo pubblico. Invece un
raccontino che ho scritto in poche settimane per divertirmi, la storia d’un visconte
che viene dimezzato da una cannonata dei Turchi, quello piace a tutti, tanto che
m’han convinto a farne un librettino che uscirà a marzo. Ma io sono stanco di fare le
favolette» (L, p. 336). Le favolette, la novelletta, il cerchio si chiude. 18
E ogni cosa si voltava contro se stessa
Nella nota che accompagnava I giovani del Po su «Officina», Calvino diceva
chiaramente che I giovani del Po e il Visconte dimezzato parlavano della stessa cosa: sia
l’uno che l’altro declinavano in modi diversi il tema dell’«uomo mutilato e alienato» e
della sua «aspirazione all’interezza» (RR, III, p. 1342). E se non bastasse la
dichiarazione esplicita dell’autore, sarebbe sufficiente leggere a confronto i due
seguenti brani per convincersene. Il primo (a) proviene dai Giovani del Po, romanzo in
parte epistolare, che racconta la vita da operaio di Nino, un giovane di origine
costiera che si trasferisce nella grande città industriale, acquistando sempre maggiore
consapevolezza politica; Nanin è l’amico del cuore rimasto nel paese d’origine, il suo
doppio più cupo e pessimista, che scrive a Nino una lettera sul generale sbranamento
che coinvolge uomini e natura. Il secondo brano (b) proviene invece dal Visconte
dimezzato ed è la lode del dimezzamento da parte del Gramo, la parte malvagia del
visconte tornata dalla guerra coi Turchi.
18
In effetti, al centro dei Giovani del Po sta proprio lo scontro tra il rigore dell’impegno politico
e la sirena piccolo-borghese dell’evasione e dell’edonismo. Per precisi rilievi testuali in tal senso, si
confronti RR, III, pp. 1014, 1017, 1019, 1051 (in quest’ultima occorrenza, dentro la voce di Nino
risuona quella di Kim, non a caso protagonista della parte più forzata e didascalica del Sentiero dei nidi di
ragno).
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a) Alle volte penso che sto dalla parte
sbagliata, che dovrei tenere per i pesci, i corvi,
le formiche. E quando gli uomini hanno il
fatto loro, rallegrarmi. Forse il genere umano
sta per distruggersi; io al momento buono
passerò dall’altra parte: con le formiche o con
chiunque verrà. Ma non c’è modo di uscirne.
Chi ama i pesci e gli animali selvatici fa come
me, gli dà la caccia, finché uno distrugge
l’altro, come capita. Non c’è altro rapporto
che questo farsi a pezzi. Tu lo stesso, coi tuoi
avanguardisti e le tue piccole italiane. Ci
sbraneremo tutti finché ne resterà intera una
fibra. Ma forse ogni cosa si difa e ricrea. Ti
lascio alle tue legnate e ai tuoi amori; a me che
me ne importa? Che mi mangino i pesci
quando muoio. Ciao. NANIN. (RR, III, p.
1095)
b) – Così si potesse dimezzare ogni cosa
intera, – disse mio zio coricato bocconi sullo
scoglio, carezzando quelle convulse metà di
polpo, – così ognuno potesse uscire dalla sua
ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte
le cose erano per me naturali e confuse,
stupide come l’aria; credevo di veder tutto e
non era che la scorza. Se mai tu diventerai
metà di te stesso, e te l’auguro, ragazzo, capirai
cose al di là della comune intelligenza dei
cervelli interi. Avrai perso metà di te e del
mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte
più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che
tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine,
perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono
solo in ciò che è fatto a brani. (RR, I, p. 403)
La dinamica è la stessa che corre tra la lettera di dimissioni dell’agosto 1957 e
La gran bonaccia della Antille. Lo scarto è solo nei modi della rappresentazione; una
questione apparentemente meccanica, che ha la facoltà però di cambiare tutto. Di
passare da un romanzo didascalico e goffo come I giovani del Po alla grazia svelta e
concisa del Visconte dimezzato. La bacchetta magica è quella solita di Brecht, ovvero la
capacità di trasformare l’opacità lenta e ponderata del descrivere, nella limpidezza
agile e quasi impaziente dello stilizzare, come dimostra un confronto formale, e in
particolare sintattico, tra l’incipit dei due romanzi. Calvino li scrive nello stesso
momento e sembrano addirittura di mano diversa. I poteri della tecnica in letteratura.
a) Prima di trovare lavoro, al tempo in cui
girava spaesato per le vie mattina e sera,
Nino non aveva badato al fiume. Per lui,
nuovo del posto, il fiume era quell’acqua che
vedeva scorrere tra due sponde di muro, con
ogni tanto un ponte carico di statue.; un
pezzo di città, insomma, come il tram, i
portici. E con tutto ch’era acqua, cioè la cosa
che più amava al mondo, gli favea
l’impressione che fosse lì ingabbiata,
coltivata, come i praticelli e gli alberi che
incontrava ogni tanto radunati nei palazzi.
(RR, III, p. 1012)
b) C’era una guerra contro i turchi. Il visconte
Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la
pianura di Boemia diretto all’accampamento
dei cristiani. Lo seguiva uno scudiero a nome
Curzio.
Le cicogne volavano basse, in bianchi stormi,
traversando l’aria opaca e ferma.
Perché tante cicogne? – chiese Medardo a
Curzio, - dove volano?
Mio zio era nuovo arrivato, essendosi
arruolato appena allora, per compiacere certi
duchi nostri vicini impegnati in quella guerra.
S’era munito d’un cavallo e d’uno scudiero
all’ultimo castello in mano cristiana,e andava a
presentarsi al quartiere imperiale. (RR, I, p.
367)
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Una curiosità, prima di abbandonare questi testi: il narratore del Visconte
dimezzato è il nipote del visconte stesso, che racconta tutta la storia. Anche nella Gran
bonaccia delle Antille torneranno zio e nipote, a comparti narrativi ugualmente divisi:
l’uno protagonista, l’altro narratore che racconta in prima persona. Infine, facendo un
passo ancora avanti, lo stesso schema narrativo sarà riproposto in un racconto che
s’intitola Lo zio acquatico: una delle Cosmicomiche pubblicate nel 1965. La Gran bonaccia
delle Antille, in un certo senso, è la prima cosmicomica che Calvino abbia scritto; si
inserisce nel filone degli antenati – anche le Cosmicomiche parlano di antenati, in scala
cosmica – e sfrutta gli stessi stratagemmi narrativi.
Il Visconte si chiudeva con una furiosa scena di autolesionismo universale,
prima che le due parti del protagonista dimezzato si ricompongano, entrando nel
cono d’ombra di ciò che non è più degno di racconto. Mentre «ogni cosa si voltava
contro se stessa» (RR, I, p. 441), il nipote confessa di aver passato tutta l’infanzia a
raccontarsi storie di nascosto: «Poi mi prendeva la vergogna di queste fantasticherie e
scappavo» (RR, I, p. 444). Quel piacere censurato, quella vergogna e quella fuga sono
un marchio preciso del Calvino narratore. Per molti anni, infatti, Calvino è stato un
scrittore che ha sbattuto la testa su un’unica domanda, riguardo alla scelta dei modi di
rappresentazione: “quale dice la verità?”. Invece di abbandonarsi all’unica domanda
che, forse, davvero conta in letteratura: “quale funziona meglio?”.
Apparentemente, a partire dalle Cosmicomiche, che Calvino inizia a scrivere nel
1963 – in esatta coincidenza con la pubblicazione del suo ultimo libro “realista”, La
giornata d’uno scrutatore –, lo scrittore sembra finalmente persuaso di lasciarsi andare a
ciò che nel suo caso funzionava meglio, e quindi la partita sembra vinta dalla
stilizzazione. Ma fu una vittoria di Pirro, a ben vedere. Se è vero che negli ultimi anni,
in un clima culturale e filosofico ovviamente lontanissimo da questi anni Cinquanta,
nell’opera di Calvino rispunterà la tensione verso testi squisitamente descrittivi, come
dimostra l’ultima opera narrativa pubblicata nel 1984, Palomar, che era esattamente
questo: un quaderno di esercizi di descrizione. Ovvero una nuova versione, ben più
raffinata di quella di trent’anni prima, del grande tormento del realismo. Una
sofisticata rimodulazione del problema non certo postmoderno ma ancora
modernista, essenzialista della verità e della menzogna, che percorre tutta la sua opera
dall’inizio alla fine.
Come si dimezza un cavaliere
La frattura del 1956 ci ha portati lontano. Per molti quella frattura corrisponde a un
taglio orizzontale: c’è un Calvino prima del 1956 e ce n’è uno dopo. Prima del 1956
Calvino è un autore con i piedi ben piantati nella storia e nella politica del nostro
paese; dopo il 1956 si disimpegna e distacca sempre più dalla realtà, per diventare un
autore tra i più astratti e cerebrali del nostro Novecento. In questa prospettiva il
taglio orizzontale fa leva semplicemente su una contesa ideologica, ossia su una
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dinamica di adesione e disillusione ideologica che si consuma appunto nel 1956. Se
invece all’aspetto ideologico si antepone quello di poetica, la questione cambia volto,
puntando il dito su un problema specifico di rappresentazione, vale a dire su
un’antica e interminabile contesa tra realtà e finzione, che non era certo nata nel
1956, né finirà allora.
Negli antichi poemi cavallereschi, i cavalieri si dimezzano in due modi: per
dritto o per traverso, ovvero per verticale o per orizzontale. Nel secondo caso gambe
e ventre rimango a cavalcioni, mentre le braccia e la testa volano via; nel primo caso,
il cavaliere viene tagliato invece verticalmente, e le due parti cascano a destra e a
sinistra del cavallo. Questo è il modo in cui la palla di cannone divide a metà il
visconte Medardo di Terralba, per dritto; questo è anche il taglio che meglio raffigura
l’opera di Calvino: con una lunga ferita verticale che l’attraversa per intero,
mantenendola sempre inquieta ma viva. Non c’è un prima e un dopo, in questa
prospettiva, casomai un davanti e un dietro, un dritto e un rovescio, una parte destra
e una sinistra. Soprattutto c’è un autore in guerra con se stesso, che nel 1956 va
incontro ai fantasmi di dimezzamento, in grande scala, della storia.
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Calvino 1956: