Francesca Serra Calvino 1956 : tre libri e la fine del mondo Anno zero Italo Calvino, nel 1956, aveva esattamente trentatré anni; un’età a dir poco emblematica dal punto di vista della periodizzazione di una vita umana. Poiché il destino, il caso o quello che sia, volle che morisse poco più che sessantenne, in effetti nel 1956 Calvino si trovava all’incirca a metà della sua vita. Il 1956 si trova anche a circa metà del secolo ventesimo, è stato uno dei suoi anni più complessi e controversi: anno lunghissimo fu definito, anno terribile e indimenticabile, l’anno della fine del mondo per alcuni. Al termine di quei dieci lunghi inverni immortalati da Franco Fortini in un famoso libro del 1957, iniziava infatti la fine del mondo comunista. Nella morsa tra le speranze di rinnovamento aperte dal XX° congresso del PCUS del febbraio e la pietra tombale che sulle stesse calarono i carri armati sovietici entrando a Budapest all’inizio di novembre, si svolge la parabola ad alto contenuto esplosivo di questo anno zero, che tagliava a metà non solo la vita di Calvino, ma anche la storia del secolo scorso. 1 Calvino visto attraverso il 1956 apre, dunque, una finestra sulla fine del mondo. In mezzo a quel finimondo campeggiano tre libri, che non hanno in comune solo il 1956, ma anche qualcos’altro: sono, probabilmente, i più importanti libri di Calvino. Affermazione quanto mai audace, essendo Calvino un autore che ha scritto tantissimo e sempre all’insegna della varietà. Ma intanto vediamo di quali libri si tratta: nel 1956, più esattamente alla fine del 1956, Calvino inizia a comporre Il barone rampante, che a mio parere è il più importante romanzo che abbia scritto. Appena prima dell’inizio della stesura del Barone, Calvino aveva pubblicato le Fiabe italiane, che sono secondo me il più importante non-libro di Calvino. Infine, il terzo libro chiave di questo 1956 è La speculazione edilizia, il più importante libro-ombra di Calvino. 1 F. FORTINI, Dieci inverni 1947-1957. Contribuiti ad un discorso socialista, Milano, Feltrinelli, 1957. Dei rapporti tra Calvino e il 1956 si è già occupato, da una diversa prospettiva, D. SCARPA, Da Poznań alle Antille. Italo Calvino e il 1956, in «Paragone», n. 41-42, ottobre-dicembre 1993, pp. 60-73. Per il più ampio contesto storico-culturale nel quale l’esemplare vicenda calviniana si colloca, si vedano N. AJELLO, Intellettuali e PCI 1944/1958, Laterza, Bari, 1979 e P. SPRIANO, Le passioni di un decennio (19461956), Milano, Garzanti, 1986. 1 Sul fatto che il Barone rampante sia il più importante romanzo di Calvino si può discutere, e sarà forse solo questione di gusto. Mi pare indubbio, però, che di romanzi veri e propri Calvino sia riuscito a scriverne ben pochi nella sua carriera: di conseguenza penso che si possa concordare sul fatto che questo è forse l’unico romanzo a tutti gli effetti di Calvino; di qui la sua innegabile importanza. Passiamo alle Fiabe italiane, che ho definito il suo più importante non-libro: in effetti non si tratta di un libro di sua invenzione, ma della scelta e della trascrizione di duecento fiabe appartenenti al patrimonio folklorico italiano. Testi popolari, anonimi. Di fatto, fin da subito, sono state presentate editorialmente e percepite dal pubblico come le Fiabe di Italo Calvino, e in quanto tali hanno avuto una decisiva influenza sul profilo del loro autore. Infine, La speculazione edilizia è il più importante libro realista che Calvino sia riuscito a scrivere in quegli anni; ma in un certo senso è un libro ombra, perché a differenza delle Fiabe italiane e del Barone rampante non viene pubblicato da Einaudi come tutti i “veri” libri di Calvino, ma esce in una sede minore e defilata, per quanto autorevole, come la rivista romana «Botteghe Oscure». 2 Tre libri, anzi quattro Una cronologia dettagliata del 1956 (tav. I°), e della sua scia nell’anno seguente (tav. II°), 3 rende conto del sovrapporsi e dell’intrecciarsi di questi tre testi. Le Fiabe italiane, alle quali Calvino aveva iniziato a lavorare nel 1954, escono nel novembre 1956 da Einaudi; gran parte di questo anno, lo dobbiamo dunque cosiderare occupato dal lavoro molto impegnativo sulle Fiabe. La stesura del Barone rampante inizia subito dopo la pubblicazione delle Fiabe; la vicinanza delle date è strettissima: il 12 novembre escono le Fiabe, il 10 dicenbre Calvino inizia a scrivere il Barone. Il 24 febbraio 1957 il romanzo è terminato, e il 4 giugno dello stesso anno viene pubblicato da Einaudi. Nel frattempo, mentre ancora era occupato a finire le Fiabe, Calvino aveva iniziato a scrivere La speculazione edilizia, tra il 5 e il 25 aprile 1956. Tra dicembre 1956 e febbraio 1957 ne interrompe la stesura per dedicarsi al Barone, 2 Fondata dalla principessa Marguerite Caetani nel 1948, la rivista prendeva il nome dalla via romana dove si trova Palazzo Caetani; il redattore capo era Giorgio Bassani. Calvino vi aveva già pubblicato La formica argentina nel 1952. La speculazione edilizia uscì sul quaderno XX del 1957, pp. 438517, poi fu raccolta, in una versione ridotta, nel volume dei Racconti del 1958, mentre in volume autonomo venne pubblicata da Einaudi soltanto nel 1963, ripristinando la versione lunga della rivista. La vicenda filologica del testo è stata ricostruita da M. MCLAUGHLIN, in “La speculazione edilizia”: natura e storia in un racconto ‘difficile’, in Italo Calvino. A writer for the next millennium, a cura di Giorgio Bertone, Torino, Edizioni dell’Orso, 1998, pp. 205-20. 3 Ognuna delle due tavole, che si trovano in fondo al testo, è divisa a metà dalla linea dei dodici mesi: nella metà sinistra si segnalano gli eventi storici di stretta pertinenza al discorso calviniano, insieme alla scelta di venti libri in prosa che uscirono in Italia nel corso del biennio 1956-1957, dei quali non si discuterà, ma che varranno come colpo d’occhio; nella metà destra compare, invece, una selezione di testi ed eventi solo calvininiani: sullo sfondo, i grandi libri in preparazione, in primo piano alcuni riquadri a sfondo bianco (articoli o racconti) oppure grigio (testi o eventi di natura politica). 2 quindi la riprende tra il marzo e il luglio 1957; il testo esce pubblicato, come si diceva, nell’autunno del 1957 su «Botteghe Oscure». Questa la situazione della nostra triade di libri tra 1956 e 1957. Sullo sfondo degli eventi che si susseguono, emerge con chiarezza l’esistenza di due piani – uno più in vista, l’altro più in ombra – che lo scrittore utilizza per gestire i propri testi al momento di proporli al pubblico. Da una parte le edizioni Einaudi, riservate in questo caso al filone diciamo “fantastico” di Calvino, prima le Fiabe, poi il Barone; dall’altro le riviste che ospitano articoli e saggi, ma anche il libro che appartiene al filone “realista”, ovvero La speculazione. La percezione di questa sorta di doppio fondo si rafforza con l’entrata in scena di un quarto libro, che si affaccia all’inizio del 1957 intrecciandosi alla vicenda degli altri tre. Questo quarto libro s’intitola I giovani del Po e viene pubblicato in cinque puntate, sulla rivista «Officina» di Pasolini, dal gennaio 1957 all’aprile 1958; 4 nessuna notizia di composizione lo accompagna nel nostro schema (tav. II°), semplicemente perché si tratta di un libro antico, scritto all’inizio degli anni Cinquanta. Calvino lo aveva composto e finito, tra il gennaio 1950 e il luglio 1951, ma mai pubblicato. Perché decide di farlo adesso? Le insistenze di Pasolini per ottenere dall’amico un contributo alla sua rivista (a fine gennaio 1957 scriveva agli altri due redattori, Francesco Leonetti e Roberto Roversi: «notizia folgorante: Calvino, visto a Torino, mi ha dato un suo romanzo»), 5 avranno avuto la loro parte; quanto energica fosse la sua capacità di persuasione, Pasolini lo aveva del resto già dimostrato strappando al recalcitrante Gadda il Libro delle furie, che precede su «Officina» la pubblicazione dei Giovani del Po. 6 Ma Calvino è autore troppo accorto nella gestione della propria immagine, troppo cauto, addirittura guardingo nella divulgazione dei propri testi, da lasciarsi trascinare in qualcosa che non volesse lui stesso; e a ridimensionare il ruolo del caso nelle sue scelte, a favore di una coscienza sempre pianificante, non si sbaglia quasi mai. In una lettera a Leonetti del 19 febbraio 1957, Calvino si raccomandava che il testo fosse pubblicato in corpo tipografico minore e con una nota di accompagnamento. Lo considerava un libro «fallito da tutti i punti di vista», che aveva acconsentito a pubblicare solo perché potesse almeno «servire come oggetto di studio su tavolo anatomico», 7 senza cambiarci una virgola. Nella nota che uscì insieme alla prima puntata del romanzo, l’autore spiegava l’antica genesi del testo e il perché si era deciso a pubblicarlo: «ci riuscirò, una volta o l’altra» a scriverlo questo 4 Precisamente: gennaio 1957, n. 8, pp. 331-38; giugno 1957, nn. 9-10, pp. 398-414; novembre 1957, n. 11, pp. 463-74; aprile 1958, n. 12, pp. 538-52. Il romanzo si legge adesso in I. CALVINO, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, Milano, Mondadori, 1994, vol. III, pp. 1011-126 (d’ora in poi RR). 5 La lettera, del 29 gennaio 1957, si legge in P.P. PASOLINI, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1988, p. 275. 6 Del Libro delle furie di Gadda uscirono su «Officina» quattro puntate, dal n. 1 (maggio 1955) al n. 5 (febbraio 1956). 7 I. CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, Milano, Mondadori, 2000, pp. 482-83 (d’ora in poi L). 3 benedetto romanzo sulla «città con operai»; ma siccome ci vorranno ancora diversi anni, perché «è un tema che non faccio che prenderci delle testate da dieci anni», intanto posso esibire solo questo «romanzetto», 8 testimonianza della buona volontà ma anche del fallimento. Come dire: vedete, io ci ho provato e riprovato, ma non ci sono riuscito. Il posto delle favole Con l’articolo Opinioni su Metello, uscito sulla rivista «Società» nel febbraio 1956 (tav. I°), Calvino interveniva nella famosa polemica suscitata dall’uscita del romanzo di Vasco Pratolini nel 1955 intorno alla cosiddetta “questione del realismo”, pubblicando una sua lettera privata a Pratolini. Questa lettera finiva con tali parole: «M’accorgo intanto che ho scritto forse la lettera più lunga della mia vita. Prendila, caro Vasco, come lo sfogo d’uno che non sa scrivere romanzi e che si rifà arrovellandosi sui romanzi altrui». 9 L’affermazione sembra da prendersi, a prima vista, come una boutade bella e buona. Nel 1956 Calvino era già uno degli autori più famosi della nuova generazione e aveva alle spalle dieci anni di onorata carriera letteraria; mettendo pure in conto una certa dose di understatement, come poteva castigarsi e sottostimarsi in tale misura? In realtà si tratta di un’affermazione assolutamente seria, da prendersi anzi alla lettera. Nel febbraio del 1956 i libri all’attivo dello scrittore Italo Calvino erano i seguenti: un breve romanzo d’esordio, uscito nel lontano 1947 e intitolato Il sentiero dei nidi di ragno, la cui forza propulsiva legata all’epoca di guerra si era ormai spenta da tempo. Un paio di libri di racconti (Ultimo viene il corvo del 1949 e l’Entrata in guerra del 1954), che ovviamente non facevano testo per la questione del romanzo. E una favoletta cavalleresca, che Calvino sottovalutava nel modo più assoluto, stimandola una parentesi irrilevante, di mero divertimento: Il visconte dimezzato del 1952. Di un “romanzo” con tutti i crismi era difficile trovarne traccia; se non nel sottobosco di tentativi falliti che avevano costellato quel difficile passaggio tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. 8 La Nota che accompagnava la prima puntata del romanzo si trova riprodotta in RR, III, p. 1342. 9 Opinioni su «Metello» e il neorealismo, in «Società», XII, 1, febbraio 1956, pp. 207-11 (la lettera a Pratolini, che era del 22 febbraio 1955, viene preceduta nell’articolo da un cappello introduttivo); poi in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, vol. I, p. 1244 (d’ora in poi S). Nella cronologia (tav. I°) si segnalano altri tre articoli di Calvino, legati al dibattito culturale che si svolse in quei mesi internamente al PCI, e alle nuove speranze di rinnovamento di cui s’alimentava: Nord e Roma-Sud (in «Il Contemporaneo», a. III, n, 13, 31 marzo 1956, p. 6; poi in S, II, pp. 2183-87), nei manoscritti dell’autore s’intitolava ben più esplicitamente Arrivano i posteri!; la scheda sul Futuro ha un cuore antico di Levi (in «Notiziario Einaudi», a. V, n. 5, maggio 1956, pp. 1-2; poi in S, I, pp. 1117-21), terminava inneggiando al futuro di «questo mondo sovietico che attraversa un momento fondamentale di presa di coscienza di sé e del suo recente passato»; infine con La poesia e il dialetto (in «Il Contemporaneo», a. III, n. 26, 30 giugno 1956, p. 8) Calvino interveniva polemicamente, a proposito delle Ceneri di Gramsci di Pasolini, contro certo immobilismo intellettuale della sinistra. 4 Calvino prova per ben tre volte a scrivere il grande romanzo realista che avrebbe voluto consegnare all’Italia del suo tempo, ma tutte e tre le volte fallisce in modo patente e clamoroso. Le date sono chiare, coprendo esattamente l’arco di tempo che va dalla stampa del primo romanzo di Calvino all’inizio del lavoro sulle Fiabe italiane: tra il 1947 e il 1949 scrive Il bianco veliero, tra il 1950 e il 1951 I giovani del Po, tra il 1952 e il 1954 La collana della regina. I primi due erano romanzi fatti e finiti, che gli amici einaudiani consigliarono di non pubblicare semplicemente perché venuti male; il terzo rimase invece incompiuto: l’ultimo appunto di scrittura sulla Collana della regina è datato dicembre 1954, proprio in coincidenza con l’entrava nel vivo dell’impresa delle Fiabe. 10 Furono delle vere e proprie doglie romanzesche, insomma, quelle che diedero al nostro autore il tormento lungo tutti gli anni Cinquanta: per circa un decennio Calvino si trovò in uno stato di perenne “gravidanza isterica”. Covava il grande romanzo realista, senza mai riuscire a partorirlo, patendo un «mal di romanzo» 11 che ancora risuona nelle righe finali della lettera a Pratolini su Metello. Quell’articolo, per altro, cominciava dicendo un’altra cosa interessante: Calvino raccontava di essersi incontrato con Pratolini, dopo avergli scritto la lettera, e di aver convenuto con lui che, in ogni caso, il principio narrativo più importante da seguire fosse quello di evitare a tutti i costi una «rappresentazione della realtà meccanica e legnosa, buona in una stilizzazione alla Brecht, non in una descrizione più sensibile e attenta alla realtà» (S, p. 1239). Teniamo a mente questi tre termini chiave: “stilizzazione”, “descrizione”, “realtà”. In nome di quest’ultima, il primo termine si dimostra una trappola, il secondo un salvacondotto. Passano sei mesi e intanto Bertold Brecht muore a Berlino il 14 agosto 1956. «La morte di Brecht, quest’anno, non ci voleva», scriverà Calvino nel necrologio uscito sul «Notiziario Einaudi» del settembre 1956 (tav. I°). «Per anni ho faticato ad accettare quel che di meccanico, legnoso e manicheo porta con sé ogni sua invenzione», prosegue l’articolo; non lo accettava per timore che fosse un «rifiuto della complessità del reale, una semplificazione geometrica». Poi, qualcosa è cambiato: «Invece, più vado avanti a capire il nostro tempo – e che docce fredde della coscienza, questo 1956! – più vedo che era Brecht, l’autore della Vita di Galileo, a dire sempre la verità». 12 Sono trascorsi sei mesi dall’articolo su Metello e la posizione 10 Sui tre romanzi mancati, si vedano le Note e notizie sui testi relative alla sezione Prove di romanzo, in RR, III, pp. 1340-44. 11 Calvino usa quest’espressione in una lettera a Enrico Ardù dell’11 dicembre 1947 (L, p. 208). 12 Brecht, in «Notiziario Einaudi», a. V, n. 9, settembre 1956, p. 4; poi in S, I, p. 1301. Su Brecht Calvino sarebbe tornato anche nell’articolo intitolato Le sorti del romanzo, nel quale dichiarava di essersi «affezionato a Brecht» negli ultimi tempi, «a cominciare da quel suo primo, meraviglioso assioma: che lo scopo del teatro è di divertire»; anche per la narrativa dovrebbe essere lo stesso, continuava Calvino, ma «ce lo si dimentica troppo» (in «Ulisse», a. X, vol. IV, nn. 24-25, autunno-inverno 1956-57, pp. 948-50; poi in S, I, p. 1514). Quanto il punto fosse ideologicamente delicato, lo dimostra il fatto che nel necrologio di settembre, citando quello stesso assioma di Brecht, Calvino lo aveva definito «professione di fede non certo di un evasivo edonismo, ma della sua moralità concreta, del suo “umanesimo”» (S, I, p. 1302). 5 di Calvino appare rovesciata: adesso è la stilizzazione di Brecht che fa la parte della verità, che meglio serve a descrivere il mondo. Nel giro di mezzo anno, la trappola si è capovolta in salvacondotto. Ma quale mezzo anno. Tra l’articolo su Metello e quello su Brecht era successo il finimondo. Soprattutto due eventi avevano scompigliato le carte, tanto dal côté biografico, quanto da quello storico. Due eventi distanti anni luce l’uno dall’altro, per dimensioni e natura: eppure, avranno un riflesso convergente nella parabola calviniana, che la giravolta a 360° gradi su Brecht ci aiuta a capire. Partiamo dal più domestico, che riguarda l’approssimarsi della data di pubblicazione delle Fiabe, che nel settembre 1956 – quando Calvino scrive il necrologio di Brecht – è ormai imminente. Il punto di svolta che la pubblicazione nel 1956 delle Fiabe italiane segna nella carriera di Calvino, mi pare difficile da sopravvalutare, una volta che quel libro torni a essere incastonato esattamente tra gli aborti del “mal di romanzo” realista che si fermano al 1954, ossia quando la raccolta fiabesca viene messa in cantiere, e la scrittura del Barone rampante che inizia pochi giorni dopo il suo finito di stampare. Il lavoro sulle Fiabe, insomma, sblocca qualcosa; di sicuro sospende e cauterizza, in parte, il mal di romanzo; si potrebbe dire che sfociando, tra 1956 e 1957, nelle due soluzioni agli antipodi della Speculazione e del Barone addirittura lo risolva del tutto, se non fosse troppo semplicistico; quel male avrà ancora un futuro, più sotterraneo ma non meno tenace. Soprattutto, però, le Fiabe furono per Calvino una grande palestra sia linguistica che figurativa, nel senso stretto e ben definito che già conosciamo: la stilizzazione. Nei due anni che vanno dal 1954 al 1956, e in particolare negli ultimi mesi prima della pubblicazione del volume, Calvino assunse una dose massiccia di quella semplificazione geometrica della realtà che prima ebbe a rimproverare, poi a lodare in Brecht. Il lavoro sulle fiabe fu un fondamentale lavoro tecnico, dal punto di vista della scrittura e dei suoi rapporti con l’immaginazione, che tenne lontano lo scrittore dal grigio e incombente moloch del realismo degli anni Cinquanta. Un lavoro di taglia e cuci: tagli netti e scattanti, da cucire all’interno di una logica puramente allegorica e antidescrittiva. La lezione era ariosa, liberatoria e difficile da dimenticare, una volta chiuso e stampato il volume; soprattutto quando fu chiaro che quel libro, lanciato come un grande evento editoriale nella collana di punta della Einaudi, «I Millenni», avrebbe portato Calvino a una nuova fase di notorietà e successo, che sarebbe proseguita con il Barone rampante e che più nulla aveva a che fare con gli affanni precedenti. D’altra parte dedicarsi a scrivere un libro di fiabe in pieno clima di realismo socialista, non era affatto uno scherzo per un intellettuale integrato com’era a tutti gli effetti Calvino. Significava andare inevitabilmente incontro all’accusa di “evasione”, peccato capitale per uno scrittore di fede comunista; quindi dover affrontare l’estrema diffidenza marxista verso il mondo folklorico, come fonte decadente di primitivismo e irrazionalismo. Insomma, superare un limite, rompere un tabù: 6 provocare il moloch realista, che da sempre sentenziava che non era tempo di dedicarsi alle favole. Il vero e il falso Nel frattempo il rapporto segreto di Kruscev giungeva, per strane vie, in America: il «New York Times» ne divulgò il contenuto nel marzo 1956, quindi il Dipartimento di stato americano ne rese pubblica una prima versione il 4 giugno 1956. 13 A partire da quella data tutto il mondo seppe che lo zio Stalin non era affatto il grande eroe buono che si credeva, ma una specie di criminale dell’umanità. Il moloch era irrimediabilmente infranto. Peggio: quel moloch aveva mentito. E qui arriviamo al secondo evento che si colloca nel passaggio dal febbraio al settembre 1956, ovvero tra la condanna e la riabilitazione calviniana di Brecht. Da una parte, abbiamo detto, la grande lezione di stilizzazione delle fiabe; dall’altra uno dei più clamorosi gesti di svelamento della storia del Novecento. Eventi incommensurabili, senza alcun dubbio, che tuttavia risuonano in un punto comune, toccando entrambi il nervo scoperto che lega la narrazione alla verità o alla menzogna. Con il rapporto segreto di Kruscev cadeva, infatti, la più grande narrazione realista dell’epoca: un vero e proprio shock narrativo, che ebbe il potere di scuotere profondamente tutta la generazione intellettuale del tempo; trattandosi della revoca, improvvisa e irrimediabile, del valore di verità attribuito a un racconto che fino allora era stato vangelo, e che da un giorno all’altro si riduceva a una favoletta. Il mondo alla rovescia: il mondo del realismo socialista diventava un mondo di favole. Questo succede nel 1956. Un terremoto che metteva in discussione, soprattutto, la netta spartizione tra vero e falso nel racconto e quindi nella lettura stessa della realtà. Quando le sentinelle più fedeli alla legge inderogabile del racconto dei fatti oggettivi passano dalla parte della menzogna, cosa rimane del principio di separazione tra verità e finzione, quindi della capacità di comprendere a colpo sicuro dove stia l’una e dove l’altra? La parola che di lì a poco Calvino dovrà usare per denunciare il racconto che «l’Unità» stava fornendo della rivoluzione d’Ungheria è chiara, univoca e dolorosissima: «falsificazione» (tav. I). 14 Il giornale, per suo statuto difensore del vessillo dell’oggettività, il suo giornale, sulle cui colonne Calvino si era fatto scrittore nel primo dopoguerra, mentiva di fronte al mondo. Questo davvero poteva dirsi il mondo alla rovescia. 13 Per un’agile ricostruzione di quegli eventi, si veda il libro di L. CANFORA, 1956. L’anno spartiacque, Palermo, Sellerio, 2008. 14 Il 26 ottobre Calvino presentava all’organizzazione di partito della casa editrice Einaudi (cellula intitolata a Giaime Pintor), un ordine del giorno che denunciava «l’inammissibile falsificazione della realtà» che l’«Unità» andava compiendo nel riferire gli avvenimenti polacchi e ungheresi (cfr. Cronologia, in L, p. LVII). Ma già il 24 luglio 1956, nel corso di una riunione della commissione culturale del PCI, della quale Calvino era membro dal gennaio dello stesso anno, lo scrittore era intervenuto molto duramente contro Mario Alicata, esprimendo «una mozione di sfiducia verso tutti i compagni che attualmente occupano posti direttivi nelle istanze culturali del partito» (ibidem). 7 Altro che fiabe. Nel momento esatto in cui lo scrittore usava la parola «falsificazione» per definire la descrizione distorta della realtà da parte del giornale organo del Partito comunista italiano, nell’Introduzione alle Fiabe che stavano per essere pubblicate usava un’altra parola altrettanto scioccante, e probabilmente impensabile prima del 1956: in quella lunga introduzione, a un certo punto Calvino dice che le fiabe sono «vere». 15 Il testo apparentemente oggettivo era diventato falso; quello apparentememte più lontano dalla realtà, vero. Questo è il rovesciamento di valori fondamentale al quale si assiste nel 1956: questo il passaggio fondamentale che porta a salvare Brecht nel settembre, dopo averlo condannato nel febbraio. Mentre la descrizione si macchiava di menzogna, la stilizzazione veniva nobilitava entrando nel campo per lei generalmente bandito della verità. La novelletta di Togliatti La frattura tra vero e falso che s’andava sempre più allargando in quel lunghissimo 1956, segna la strada che di lì a poco porterà Calvino alle sofferte dimissioni dal PCI, il 1° agosto del 1957, una volta che anche l’ultima speranza di rinnovamento, incarnata da Antonio Giolitti, aveva ceduto le armi alla fine di luglio (tav. II). Proviamo a leggere il culmine drammatico di tutta questa concatenazione di eventi, attraverso tre testi calvinani di natura nettamente diversa: il documento ufficiale delle dimissioni, un racconto e una lettera privata. Sono testi complementari e gemelli. Gemelli perché vengono scritti oppure pubblicati più o meno in contemporanea; complementari perché si completano l’uno con l’altro nell’interpretazione di questo nodo fondamentale della vicenda. In particolare, i primi due sono la trasposizione l’uno dell’altro, la codifica di uno stesso messaggio in due linguaggi diversi. Sono, insomma, due testi che dicono la stessa cosa: mi sto allontando da voi, perché il vostro grigio immobilismo non permette di guardare al futuro sperando in un cambiamento. Ma il modo in cui la dicono è agli antipodi. La lettera di dimissioni, datata 1° agosto e pubblicata sull’«Unità» il 7 agosto, è un testo importante nella storia dei rapporti tra intellettuali e politica nel secondo Novecento; testo sofferto, che s’immagina scritto e riscritto dal suo autore, certamente soppesato in ogni sua parola, sapendo che di ogni parola avrebbe dovuto rendere conto ad amici e nemici: «Sono consapevole di quanto il partito ha contato nella mia vita», scrive Calvino in uno dei passi più vibranti della lettera; «vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito». 15 I. CALVINO, Fiabe italiane raccolte dalla tradizione popolare durante gli ultimi cento anni e trascritte in lingua dai vari dialetti, prefazione di M. Lavagetto, Milano, Mondadori, 1993, pp. 12-13. In tali parole sarà forse da percepire l’eco della seguente affermazione di Antonio Gramsci: «Il folclore non dev’essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio» (in Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1950, p. 218). 8 La gran bonaccia delle Antille è invece un racconto fantastico, giocoso e allegorico pubblicato sulla rivista «Città aperta» del 25 luglio 1957. Inizia così: «Dovevate sentire mio zio Donald, che aveva navigato con l’ammiraglio Drake, quando attaccava a raccontare una delle sue avventure. – Zio Donald, zio Donald! – gli gridavamo nelle orecchie, quando vedevamo il guizzo d’uno sguardo affacciarsi di tra le sue palpebre perennemente socchiuse, – raccontateci come andò quella volta della gran bonaccia delle Antille. – eh? Ah, bonaccia, sì, sì, la gran bonaccia… – cominciava lui, con voce fioca. – Eravamo al largo delle Antille, procedevamo a passo di lumaca, sul mare liscio come l’olio con tutte le vele spiegate per acchiappare un qualche raro filo di vento. Ed ecco che ci troviamo a tiro di cannone da un galeone spagnolo. Il galeone stava fermo, noi ci fermiamo pure, e lì, in mezzo alla gran bonaccia, prendiamo a fronteggiarci. Non potevamo passare noi, non potevano passare loro». 16 Il galeone spagnolo era ovviamente la Democrazia cristiana, la flotta di Drake il Partito comunista. La reazione del Partito alla pubblicazione del racconto di Calvino fu durissima: venne subito pubblicato su «Rinascita» un contro-racconto allegorico che riscriveva in chiave parodica quello di Calvino; i redattori di «Città aperta» furono deferiti alla Commissione di controllo; ma soprattutto Palmiro Togliatti in persona intervenne, durante una sessione del Comitato Centrale di fine settembre, con parole di rara asprezza: «il letterato che ieri si rifiutava di scrivere qualcosa che significasse un suo impegno politico a sostegno di nobili battaglie che il Partito conduceva, appena uscito dal Partito ha scritto la novelletta per buttar fango, agli ordini dei giornali della borghesia, sopra il Partito e i suoi dirigenti per accrescere la confusione, la sfiducia e il disfattismo». 17 L’aspetto più interessante di questa vicenda è che Togliatti non attacca Calvino per la lettera di dimissioni del 1° agosto, in cui lo scrittore diligentemente argomentava la sua posizione mettendo in discussione la linea del partito: non è quello il testo che manda su tutte le furie Togliatti, ma i suoi strali di rivolgono decisamente contro il racconto di fine luglio. Quindi non contro il testo letterale e oggettivo, ma contro quello in apparenza più innocuo, perché totalmente d’invenzione. Certificandone la maggiore pericolosità, quindi anche la maggiore efficacia. Togliatti, che era uomo di cultura e d’intelligenza non comune, capisce che 16 La gran bonaccia delle Antille (prima in «Città aperta», a. I, n. 4-5, 25 luglio 1957 p. 3; poi in «L’Espresso», a. III, n. 34, 25 agosto 1957, p. 5), si legge adesso in RR, III, pp. 221-25. In occasione di una ristampa del testo nel volume Il Pci nell’anno dell’Ungheria, a cura di F. Froio, Roma, I libri dell’Espresso, 1980, Calvino precisava di non poter «stabilire ora la data esatta in cui scrissi il racconto; ricordo che il numero di “Città aperta” tardò molto a uscire, quindi il racconto è databile alcuni mesi prima, quando ancora ero nel caldo delle discussioni interne per il rinnovamento del PCI» (RR, III, p. 1230). 17 Maurizio Ferrara pubblicò su «Rinascita» (a. XIV, n. 9, settembre 1957, p. 471) La grande caccia delle Antille, sotto lo pseudomino di Little Bald (Piccolo Calvo, Calvino). All’intervento di Togliatti, che fu pubblicato sull’«Unità» del 29 settembre 1957, Calvino rispose con una lettera del 3 ottobre 1957, nella quale si dichiarava incredulo che la frase di Togliatti citata si riferisse proprio a lui; Togliatti a sua volta rispose il 19 ottobre (L, pp. 523-25) 9 il testo più insidioso, quello che aveva una forza sovversiva maggiore, tra i due, era quello allegorico. Naturalmente non dice che quel testo sia vero, tutt’altro; ma neanche la lettera di dimissioni di Calvino, per Togliatti era un testo portatore di qualche verità. Fatto sta che, tra due testi che erano dal suo punto di vista ugualmente falsificanti, Togliatti scarta il testo letterale come un falso bersaglio, mentre sceglie come autentico bersaglio, da prendere sul serio, il testo di finzione. Come se il primo in definitiva suonasse più fiacco e stonato, mentre il secondo squillasse come la più autentica delle accuse. Raccontare novelle vuol dire favoleggiare, inventare storie. Il disprezzo del diminutivo “novelletta” va evidentemente contro l’uso dell’allegoria, il discorso indiretto, il linguaggio figurativo; la stilizzazione, si potrebbe dire tornando ancora una volta a Brecht, la semplificazione geometrica. Ma novella è anche uno dei termini nobili della nostra tradizione letteraria, il genere di più lunga vita nella storia della letteratura italiana. Non sarà stata scelta a caso. Questi non sono tempi da favole, ribadisce il moloch Togliatti, scendi dal carro che porta al paese dei balocchi e torna al tuo dovere. Finalmente A questo punto ci si aspetterebbe che Calvino, momentaneamente risanato dal grigiore degli anni Cinquanta grazie alla felicità stilistica delle fiabe, finalmente riconciliato con Brecht, pubblicamente schiaffeggiato da Togliatti nel talento maggiore che aveva, l’invenzione letteraria, traesse le giuste conseguenze e s’incamminasse senza rimpianti per la sua strada maestra. Quella che gli veniva più facile e migliore. Ma Calvino non sarebbe lo scrittore controverso che io credo sia stato, se avesse fatto così. Se qualcosa questo 1956, dal punto di vista della sua opera letteraria, gli aveva insegnato (o meglio ribadito), era che il libro “fantastico” gli veniva più facile, mentre il libro “realista” incontrava maggiori difficoltà tecniche. La cronologia intrecciata della Speculazione edilizia e del Barone rampante a cavallo tra il 1956 e il 1957, racconta di un libro – che forse non era neanche un romanzo ma solo un raccconto lungo, non a caso nel 1958 verrà raccolto nel volume dei Racconti – scritto faticosamente nell’arco di quindici mesi (Speculazione); e di un altro, che era invece un romanzo lungo e pieno, scritto di filata in due mesi e mezzo (Barone). Inoltre, il libro “fantastico” funzionava decisamente meglio, incontrava subito il favore del pubblico, aprendo quella stagione di successo già preannunciata dalle Fiabe e poi ribadita dalla pubblicazione complessiva della Trilogia degli antenati nel 1960. Viceversa, il libro realista aveva inevitabilmente un carattere più marginale, rivolgendosi a un pubblico più ristretto; era un oggetto più difficile, più spigoloso e grigio: ma non per questo meno amato dal suo autore, anzi tutto il contrario. 10 La felicità di scrittura e il successo di pubblico sono due componenti che si direbbero irresistibili per qualsiasi scrittore, due segni infallibili per riconoscere la propria vocazione. Ebbene, uno dei fatti più straordinari e nascosti della vicenda letteraria di Italo Calvino è invece la strenua resistenza che egli ha opposto a questo mainstream personale, una lotta contro se stesso caparbia e lunghissima, che durò per lo meno dieci anni, i famosi dieci inverni di cui si parlava all’inizio; ma che in realtà si può dire non sia mai cessata. Per comprendere meglio la portata di tale fenomento, torniamo a quel fatidico inizio di agosto del 1957, analizzando il terzo testo in questione. Nello stesso giorno in cui Calvino aveva scritto la lettera di dimissioni dal PCI, scrive anche una lettera a Paolo Spriano, che era suo amico e dirigente del PCI. L’ansia di dare spiegazioni, di argomentare la propria posizione, era in quel momento altissima. Calvino manda a Spriano una copia della sua lettera di dimissioni dal Pci e gli dice che in realtà si tratta di una «lettera d’amore» (forse per questo Togliatti l’aveva ignorata, si potrebbe pensare con qualche malizia, come fosse un testo infantilmente sentimentale, piccandosi invece della ben più pungente allegoria). Ma il punto più importante della lettera è il suo finale: «Comunque, non sono un socialdemocratico né un olivettiano, e lo sai. È diffcile fare il comunista stando da solo. Ma io sono e resto comunista. Se riuscirò a dimostrarti questo, t’avrò anche dimostrato che il Barone rampante non è un libro troppo lontano dalle cose che ci stanno a cuore». Il moloch era evidentemente ancora in piedi davanti a lui; chiedeva spiegazioni sul libro d’evasione, spingendo l’autore in posizione difensiva. Soprattutto, quel moloch abitava dentro di lui, sotto forma di un’evidente ansia autocensoria e autogiustificatoria. In ogni caso, se l’operazione di salvataggio del Barone si fosse dimostrata troppo ardua o incerta, c’era sempre l’altra carta da giocare. «Comunque», prosegue Calvino, «ora sono entrato, finalmente, in un periodo di letteratura “realistica”, e il racconto che ho finito ora è forse la cosa più comunista che io abbia mai scritto» (L, p. 507). Il racconto che aveva appena finito di scrivere era La speculazione edilizia. La Speculazione è il contraltare del Barone; sta al Barone, come la lettera di dimissioni dal PCI stava alla Gran bonaccia delle Antille. Al contrario di quello che sembrerebbe far credere a Spriano, però, la Speculazione non fu scritta dopo il Barone, per fare da contrappeso all’opera di svago, ma le date di composizione della nostra cronologia (tavv. I° e II°) ci dicono che era successo il contrario: mentre Calvino scriveva e faticava sull’opera realistica, a un certo punto s’interrompe, e come se non riuscisse ad astenersi da una grande, peccaminosa tentazione, scrive l’opera di fantasia in quattro e quattr’otto. «Finalmente», dice Calvino ancora nel 1957, sono entrato in un periodo di letteratura realistica. Questa storia ne ricorda una più lontana, ma idealmente vicinissima, che porta di nuovo a galla la vicenda dei Giovani del Po. Un libro che appare, a questo punto, come il più importante tra tutti quelli citati finora; il quarto libro, il libro più in ombra di tutti, rischia di illuminare della sua luce tutti gli altri. Non perché sia un libro da riscattare, ma viceversa: perché era un libro, che 11 nonostante tutta l’affezione di Calvino per i suoi ambiziosi testi realisti, rimaneva irrimediabilmente sgraziato e francamente brutto. Il libro fallito, questo libro che a mala pena gli addetti ai lavori riconoscono come il titolo di un romanzo di Calvino, va messo sul tavolo anatomico, come l’autore stesso suggeriva, perché i libri mancati spesso hanno molte cose da dirci su quelli riusciti. Anche questa volta ci soccorrono le date: Calvino racconta di aver finito di scrivere I giovani del Po nel luglio del 1951, dopo un anno e mezzo di fatiche; subito dopo comincia a scrivere il Visconte dimezzato, che in poche settimane era finito e che verrà subito pubblicato nel febbraio del 1952. In una lettera di fine gennaio al suo amico Silvio Michele, spiega tutta la vicenda: «Io lavoravo da anni a un romanzo con la classe operaia e tutto, ma nessuno riesce a leggerlo fino in fondo perché dicono che è una barba, e io finché non trovo almeno un lettore non lo pubblico. Invece un raccontino che ho scritto in poche settimane per divertirmi, la storia d’un visconte che viene dimezzato da una cannonata dei Turchi, quello piace a tutti, tanto che m’han convinto a farne un librettino che uscirà a marzo. Ma io sono stanco di fare le favolette» (L, p. 336). Le favolette, la novelletta, il cerchio si chiude. 18 E ogni cosa si voltava contro se stessa Nella nota che accompagnava I giovani del Po su «Officina», Calvino diceva chiaramente che I giovani del Po e il Visconte dimezzato parlavano della stessa cosa: sia l’uno che l’altro declinavano in modi diversi il tema dell’«uomo mutilato e alienato» e della sua «aspirazione all’interezza» (RR, III, p. 1342). E se non bastasse la dichiarazione esplicita dell’autore, sarebbe sufficiente leggere a confronto i due seguenti brani per convincersene. Il primo (a) proviene dai Giovani del Po, romanzo in parte epistolare, che racconta la vita da operaio di Nino, un giovane di origine costiera che si trasferisce nella grande città industriale, acquistando sempre maggiore consapevolezza politica; Nanin è l’amico del cuore rimasto nel paese d’origine, il suo doppio più cupo e pessimista, che scrive a Nino una lettera sul generale sbranamento che coinvolge uomini e natura. Il secondo brano (b) proviene invece dal Visconte dimezzato ed è la lode del dimezzamento da parte del Gramo, la parte malvagia del visconte tornata dalla guerra coi Turchi. 18 In effetti, al centro dei Giovani del Po sta proprio lo scontro tra il rigore dell’impegno politico e la sirena piccolo-borghese dell’evasione e dell’edonismo. Per precisi rilievi testuali in tal senso, si confronti RR, III, pp. 1014, 1017, 1019, 1051 (in quest’ultima occorrenza, dentro la voce di Nino risuona quella di Kim, non a caso protagonista della parte più forzata e didascalica del Sentiero dei nidi di ragno). 12 a) Alle volte penso che sto dalla parte sbagliata, che dovrei tenere per i pesci, i corvi, le formiche. E quando gli uomini hanno il fatto loro, rallegrarmi. Forse il genere umano sta per distruggersi; io al momento buono passerò dall’altra parte: con le formiche o con chiunque verrà. Ma non c’è modo di uscirne. Chi ama i pesci e gli animali selvatici fa come me, gli dà la caccia, finché uno distrugge l’altro, come capita. Non c’è altro rapporto che questo farsi a pezzi. Tu lo stesso, coi tuoi avanguardisti e le tue piccole italiane. Ci sbraneremo tutti finché ne resterà intera una fibra. Ma forse ogni cosa si difa e ricrea. Ti lascio alle tue legnate e ai tuoi amori; a me che me ne importa? Che mi mangino i pesci quando muoio. Ciao. NANIN. (RR, III, p. 1095) b) – Così si potesse dimezzare ogni cosa intera, – disse mio zio coricato bocconi sullo scoglio, carezzando quelle convulse metà di polpo, – così ognuno potesse uscire dalla sua ottusa e ignorante interezza. Ero intero e tutte le cose erano per me naturali e confuse, stupide come l’aria; credevo di veder tutto e non era che la scorza. Se mai tu diventerai metà di te stesso, e te l’auguro, ragazzo, capirai cose al di là della comune intelligenza dei cervelli interi. Avrai perso metà di te e del mondo, ma la metà rimasta sarà mille volte più profonda e preziosa. E tu pure vorrai che tutto sia dimezzato e straziato a tua immagine, perché bellezza e sapienza e giustizia ci sono solo in ciò che è fatto a brani. (RR, I, p. 403) La dinamica è la stessa che corre tra la lettera di dimissioni dell’agosto 1957 e La gran bonaccia della Antille. Lo scarto è solo nei modi della rappresentazione; una questione apparentemente meccanica, che ha la facoltà però di cambiare tutto. Di passare da un romanzo didascalico e goffo come I giovani del Po alla grazia svelta e concisa del Visconte dimezzato. La bacchetta magica è quella solita di Brecht, ovvero la capacità di trasformare l’opacità lenta e ponderata del descrivere, nella limpidezza agile e quasi impaziente dello stilizzare, come dimostra un confronto formale, e in particolare sintattico, tra l’incipit dei due romanzi. Calvino li scrive nello stesso momento e sembrano addirittura di mano diversa. I poteri della tecnica in letteratura. a) Prima di trovare lavoro, al tempo in cui girava spaesato per le vie mattina e sera, Nino non aveva badato al fiume. Per lui, nuovo del posto, il fiume era quell’acqua che vedeva scorrere tra due sponde di muro, con ogni tanto un ponte carico di statue.; un pezzo di città, insomma, come il tram, i portici. E con tutto ch’era acqua, cioè la cosa che più amava al mondo, gli favea l’impressione che fosse lì ingabbiata, coltivata, come i praticelli e gli alberi che incontrava ogni tanto radunati nei palazzi. (RR, III, p. 1012) b) C’era una guerra contro i turchi. Il visconte Medardo di Terralba, mio zio, cavalcava per la pianura di Boemia diretto all’accampamento dei cristiani. Lo seguiva uno scudiero a nome Curzio. Le cicogne volavano basse, in bianchi stormi, traversando l’aria opaca e ferma. Perché tante cicogne? – chiese Medardo a Curzio, - dove volano? Mio zio era nuovo arrivato, essendosi arruolato appena allora, per compiacere certi duchi nostri vicini impegnati in quella guerra. S’era munito d’un cavallo e d’uno scudiero all’ultimo castello in mano cristiana,e andava a presentarsi al quartiere imperiale. (RR, I, p. 367) 13 Una curiosità, prima di abbandonare questi testi: il narratore del Visconte dimezzato è il nipote del visconte stesso, che racconta tutta la storia. Anche nella Gran bonaccia delle Antille torneranno zio e nipote, a comparti narrativi ugualmente divisi: l’uno protagonista, l’altro narratore che racconta in prima persona. Infine, facendo un passo ancora avanti, lo stesso schema narrativo sarà riproposto in un racconto che s’intitola Lo zio acquatico: una delle Cosmicomiche pubblicate nel 1965. La Gran bonaccia delle Antille, in un certo senso, è la prima cosmicomica che Calvino abbia scritto; si inserisce nel filone degli antenati – anche le Cosmicomiche parlano di antenati, in scala cosmica – e sfrutta gli stessi stratagemmi narrativi. Il Visconte si chiudeva con una furiosa scena di autolesionismo universale, prima che le due parti del protagonista dimezzato si ricompongano, entrando nel cono d’ombra di ciò che non è più degno di racconto. Mentre «ogni cosa si voltava contro se stessa» (RR, I, p. 441), il nipote confessa di aver passato tutta l’infanzia a raccontarsi storie di nascosto: «Poi mi prendeva la vergogna di queste fantasticherie e scappavo» (RR, I, p. 444). Quel piacere censurato, quella vergogna e quella fuga sono un marchio preciso del Calvino narratore. Per molti anni, infatti, Calvino è stato un scrittore che ha sbattuto la testa su un’unica domanda, riguardo alla scelta dei modi di rappresentazione: “quale dice la verità?”. Invece di abbandonarsi all’unica domanda che, forse, davvero conta in letteratura: “quale funziona meglio?”. Apparentemente, a partire dalle Cosmicomiche, che Calvino inizia a scrivere nel 1963 – in esatta coincidenza con la pubblicazione del suo ultimo libro “realista”, La giornata d’uno scrutatore –, lo scrittore sembra finalmente persuaso di lasciarsi andare a ciò che nel suo caso funzionava meglio, e quindi la partita sembra vinta dalla stilizzazione. Ma fu una vittoria di Pirro, a ben vedere. Se è vero che negli ultimi anni, in un clima culturale e filosofico ovviamente lontanissimo da questi anni Cinquanta, nell’opera di Calvino rispunterà la tensione verso testi squisitamente descrittivi, come dimostra l’ultima opera narrativa pubblicata nel 1984, Palomar, che era esattamente questo: un quaderno di esercizi di descrizione. Ovvero una nuova versione, ben più raffinata di quella di trent’anni prima, del grande tormento del realismo. Una sofisticata rimodulazione del problema non certo postmoderno ma ancora modernista, essenzialista della verità e della menzogna, che percorre tutta la sua opera dall’inizio alla fine. Come si dimezza un cavaliere La frattura del 1956 ci ha portati lontano. Per molti quella frattura corrisponde a un taglio orizzontale: c’è un Calvino prima del 1956 e ce n’è uno dopo. Prima del 1956 Calvino è un autore con i piedi ben piantati nella storia e nella politica del nostro paese; dopo il 1956 si disimpegna e distacca sempre più dalla realtà, per diventare un autore tra i più astratti e cerebrali del nostro Novecento. In questa prospettiva il taglio orizzontale fa leva semplicemente su una contesa ideologica, ossia su una 14 dinamica di adesione e disillusione ideologica che si consuma appunto nel 1956. Se invece all’aspetto ideologico si antepone quello di poetica, la questione cambia volto, puntando il dito su un problema specifico di rappresentazione, vale a dire su un’antica e interminabile contesa tra realtà e finzione, che non era certo nata nel 1956, né finirà allora. Negli antichi poemi cavallereschi, i cavalieri si dimezzano in due modi: per dritto o per traverso, ovvero per verticale o per orizzontale. Nel secondo caso gambe e ventre rimango a cavalcioni, mentre le braccia e la testa volano via; nel primo caso, il cavaliere viene tagliato invece verticalmente, e le due parti cascano a destra e a sinistra del cavallo. Questo è il modo in cui la palla di cannone divide a metà il visconte Medardo di Terralba, per dritto; questo è anche il taglio che meglio raffigura l’opera di Calvino: con una lunga ferita verticale che l’attraversa per intero, mantenendola sempre inquieta ma viva. Non c’è un prima e un dopo, in questa prospettiva, casomai un davanti e un dietro, un dritto e un rovescio, una parte destra e una sinistra. Soprattutto c’è un autore in guerra con se stesso, che nel 1956 va incontro ai fantasmi di dimezzamento, in grande scala, della storia. 15