GIOVANI IN TERRASANTA (7‐14 Agosto 2013) Ricco, intenso e faticoso. Ricco di significati, poiché dal Vangelo non si smette mai di pescare, e qui, in Terrasanta, tutto assume forme più precise; quei testi, letti e ascoltati cento volte, si illuminano quando li affronti dove sono stati ambientati. È come rivedere un film girato in posti familiari; lo senti più tuo. Intenso, con una tabella di marcia serratissima, per vedere il più possibile in sette giorni. Basti pensare che si prendeva il caffè solo perché già compreso, né c’era il tempo per l’abbiocco (o pisolino) dopo pranzo, che già si ripartiva. Faticoso quindi, ma di una fatica che fa apprezzare le bellezze del territorio, i panorami, andare oltre il programma, vedere di più e, in via definitiva, portare a casa di più. Atterrati a Tel Aviv, col sole ormai tramontato, abbiamo subito un assaggio culturale (quello culinario seguirà in albergo); mentre raggiungiamo Nazareth, la guida si presenta. Osama, di origine araba, con passaporto israeliano, è cristiano e, oltre a ebraico e arabo, parla un ottimo italiano. Spesso facciamo una gran confusione tra lingue, etnie e religioni; arabi e musulmani sono la stessa cosa o semplicemente ‘quelli lì’. Ci è richiesta sensibilità e attenzione per superare i pregiudizi che ci portiamo dietro, in questa terra così controversa. Giunti a Nazareth ci attende lo spuntino della mezzanotte che gustiamo, insieme alla vista della città illuminata, sulla terrazza del St. Gabriel Hotel. È finito il Ramadan e qualche fuoco d’artificio completa gli alberelli ‘natalizi’ esposti per la festa. Che coraggio deve aver avuto Maria, dicendo quel sì, disposta a portare in grembo Gesù, correndo il rischio di diventare una ragazza madre: si sparla oggi nei nostri paesi, figuriamoci a quel tempo, quando il villaggio di Nazareth non contava 500 persone (tutti conoscenti e imparentati) cosa avrebbe significato il ripudio di Giuseppe. Prima di lasciare il nord, passiamo una giornata al Lago di Tiberiade, un tempo snodo mercantile con un consistente flusso di persone (forse proprio per questo, Gesù lo frequentò spesso). Tra i momenti significativi ricordo la messa al Primato di Pietro e il giro in battello, entrambe seguiti da episodi simpatici. Dopo la celebrazione scendiamo in spiaggia, dove si possono ‘pucciare i piedi’, ma in 3 o 4 non sappiamo resistere e ci tuffiamo. Veniamo subito richiamati da un francescano che con tono severo esclama: ‘mi meraviglio di lei, padre’, riferendosi a don Luca (ci sentiamo a posto in coscienza… anche San Pietro si tuffò a suo tempo). L’altro episodio, al quale tutti hanno potuto prendere parte, ha luogo in battello: terminata la riflessione del don e la spiegazione di Osama, il DJ attacca musica (israeliana/palestinese) e il capitano ci trascina in balli popolari, per poi passare ai grandi classici italiani, come Volare. Sabato raggiungiamo Gerusalemme, 800.000 abitanti dislocati in un saliscendi di colline. Rimasto valido un decreto della corona inglese fino al XIX secolo, che obbligava all’uso del calcare come rivestimento per ogni edificio e mantenuta la consuetudine, la capitale è tutta bianca, conservando ancora oggi uno stile e un’estetica unici (fatta eccezione per alcuni grattacieli orribili, spuntati nella zona centrale). Si imprime nella memoria l’incontro con suor Maria Chiara, clarissa. Tono di voce e sorriso raccontano la storia di una chiamata, maturata passo dopo passo, fino alla disponibilità di venire fin qui: “Facevo tutto, ma sentivo che mancava qualcosa, Gesù ha riempito il mio cuore”. Rispondendo ad alcune domande, spiega che qui i conflitti sono esasperati, il fanatismo portato al limite; un banco di prova per la convivenza e il dialogo tra religioni che, chissà, potrebbe anche avere risvolti positivi e diventare un modello per altre città. Non si tratta di una clausura “totale”: collaborano, ascoltano persone in difficoltà e accolgono pellegrini di passaggio. Nel caos di Gerusalemme c’è un angolo di pace e speranza; siamo ben contenti di acquistare oggetti realizzati a mano dalle sorelle, per proseguire l’opera di Santa Chiara. La domenica inizia alle 5:30 per non fare troppa coda ala spianata del Tempio. La sicurezza è massima, soprattutto per evitare che ebrei estremisti salgano sulla spianata, violino la moschea e la Cupola della Roccia, scatenando una nuova intifada (dopo che la “passeggiata” provocatoria di Ariel Sharon provocò la seconda). Giriamo, scattiamo qualche foto (senza troppi abbracci e pose strane, malviste) e apprendiamo la lunga quanto travagliata storia del Tempio, fin da Salomone (anche se i dissidi risalgono a fatti precedenti). Forse il Padre dall’alto ride e ci commisera, mentre litighiamo per queste quattro pietre ove oggi pregano i Musulmani. Molti sono stati, e sono ancora, disposti ad uccidere per guadagnarne un pezzo, ma proprio qui – sottolinea il don – sta la differenza dei cristiani d’oggi: neanche il Tempio nel suo splendore originale vale la vita di un solo bambino. Prima della visita a Qumran (ove furono rinvenuti scritti della comunità essena) e il bagno contro i reumatismi nel Mar Morto (il 30% di sale impedisce a chiunque di affogare), ci spostiamo in un luogo fortemente simbolico: Gerico. Celebriamo la messa festiva nella piccola comunità, composta da 500 cristiani su 20.000 abitanti; qui capiamo veramente cosa voglia dire essere minoranza. Solo una fede viva e una speranza nel Padre possono spiegare ciò, e la carità dei fratelli non può che sostenerli. Gerico è simbolo dell’abisso. Situata a 240 metri sotto il livello del mare, è la più antica città del mondo (tracce dal 10.000 a.C.). Gesù non si tirò indietro, scese nel punto più basso del mondo e, come chiamò Zaccheo dal sicomoro, così ci chiama, pur nella bassezza dei nostri peccati e debolezze; sta a noi scendere o meno da quella pianta. La giornata si chiude in un luogo bellissimo, vicino alla strada ‘che andava da Gerusalemme a Gerico’: il Monte delle Tentazioni. Non è importante se Gesù venne condotto lì dove vuole la tradizione o 50/100 metri più in là. Di certo anche lui fronteggio la maestosità del paesaggio, coi pensieri che entravano e uscivano dalla testa, trasportati da una leggera brezza che sa farsi raffica sferzante. Suor Maria Elena ci stimola con alcune domande, poiché oltre alle grandi tentazioni, rischiamo di farci adescare dalla pigrizia, la svogliatezza e le scorciatoie, che a poco a poco ci lasciano con un pugno di polvere in mano. Più si scrive e più riaffiorano alla mente i dettagli, gli incontri con altri gruppi italiani, della diocesi, la cortesia dei palestinesi a Betlemme, la messa al Santo Sepolcro o alla Basilica delle Nazioni (con visita notturna all’orto degli Ulivi e, il giorno dopo, la Gerusalemme by night), il rinnovo delle promesse battesimali al Giordano e di quelle matrimoniali (con un pensiero ai fidanzati che a breve si sposeranno) a Cana, ma non basterebbe una settimana di scrittura. Solo i racconti dei partecipanti, le chiacchierate e le foto insieme possono compensare questo tentativo di ricostruire un’avventura stupenda. Non è stato un viaggio turistico né un pellegrinaggio eremitico, il dono grande è stato poter cogliere il realismo del Vangelo, aiutati dai luoghi e dalle parole, ma soprattutto dalla comunità; da soli né ci divertiamo né ci salviamo. Prima di tornare in aeroporto a Tel Aviv, sostiamo ad Emmaus (Abu Gosh, la più accreditata delle tre plausibili) e cantiamo un vigoroso Resta qui con noi. Finiti questi sette giorni si torna a casa, con qualche risposta in più, ma certamente qualche domanda in più. Si torna alla vita di sempre, vissuta però con la consapevolezza che possiamo rendere santa ogni terra che calchiamo. Davide B.