mi r ia m m a fa i
il lungo freddo
Storia di Bruno Pontecorvo,
lo scienziato che scelse l’Urss
Proprietà letteraria riservata
© 2012 RCS Libri S.p.A., Milano
Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria
ISBN 978-88-17-06119-3
Prima edizione BUR Saggi ottobre 2012
Per conoscere il mondo BUR visita il sito www.bur.eu
Prologo
Piazza Verdi, agosto 1950
L’uomo, seduto sullo sgabello davanti alla Casa dell’Automobile, si faceva vento con un giornale ripiegato. Sudava.
Di tanto in tanto allontanava, con un gesto infastidito della
mano, le mosche. L’asfalto rovente mandava un odore acido.
Piazza Verdi, a Roma, tra via Bellini e via Cimarosa, alle
spalle di Villa Borghese, era più che una piazza uno slargo, un
grande spazio vuoto. A quell’ora – era il primo pomeriggio
di un giorno di fine agosto – i ragazzi venivano costretti in
casa, dietro le persiane accostate. Solo più tardi, quando il
ponentino avesse cominciato a soffiare sulla città, sarebbero
usciti per andare a mangiare un gelato, fare una corsa fino a
Villa Borghese, o giocare per la strada una partita di pallone.
Sulla piazza incombeva l’edificio bianco del Poligrafico
dello Stato. Il gran silenzio estivo era interrotto soltanto dallo
sferragliare dei tram lungo il viale alberato che si snodava al
di là della piazza e che, stringendo il quartiere come in un
anello, ne definiva i confini.
Rolando B. conosceva da tempo immemorabile quel quartiere e i clienti della Casa dell’Automobile. Li conosceva uno
per uno: erano medici, avvocati, notai, funzionari dello Stato,
che abitavano lì attorno, nelle vecchie ville di via Salaria (tutte
con il loro bel giardino davanti e una torretta merlata) o nei
lussuosi condomini costruiti poco prima della guerra sulla
collina verde dei Parioli. La nuova Lancia Aurelia era la macchina preferita dai suoi clienti, ma non tutti la possedevano.
Era la fine di agosto del 1950. I ricchi erano partiti in ritardo per le vacanze. Alla fine di giugno era scoppiata la guerra
in Corea, e con la guerra si era diffusa una incertezza che as-
6
Il lungo freddo
somigliava al panico. Qualcuno aveva pensato di riprendere,
come una volta, la via della Svizzera. Poi il barometro si era
fissato al bello e il quartiere si era svuotato: via tutti al mare,
con mogli bambini cameriere e bambinaie, a Capri a Rapallo
a Viareggio o in montagna a Cortina e a Chamonix.
Al Lido di Venezia Barbara Hutton, la miliardaria americana giunta al suo ottavo matrimonio, si esibiva in un costume
da bagno rigorosamente nero e rigorosamente intero; a Capri
la splendida Consuelo O’Connor sposata Crespi passeggiava
a piedi nudi, un filo d’oro attorno alla caviglia, in un due pezzi assolutamente scandaloso; a Viareggio per la cerimonia del
premio si erano rivisti, dopo molti anni, signori in smoking e
signore in abito da sera.
Tra un paio di settimane, a metà settembre, lentamente, il
quartiere avrebbe ripreso la sua vita di sempre: le bambinaie
sarebbero tornate a spingere le carrozzine verso il Parco dei
Daini, le signore sarebbero tornate a bere un aperitivo al bar
di piazza Ungheria e a frequentare, la domenica, la Messa nella stessa chiesa mentre Rolando B. sarebbe tornato a salutare,
ogni mattina, i suoi clienti.
L’uomo continuava a cacciare le mosche e a sventolarsi in
attesa del ponentino quando sulla piazza deserta irruppe una
macchina inglese, che si fermò a pochi passi da lui con un
esagerato stridore di gomme. Gli inglesi non erano simpatici
a Rolando B. e nemmeno gli americani, ma erano quelli che
lasciavano le mance più cospicue e quindi andavano trattati
con riguardo. Dunque smise di sventolarsi e si alzò per andare incontro al cliente straniero.
L’uomo scese dalla macchina, che in verità a guardarla
bene era piuttosto malandata e coperta di polvere come se
avesse fatto un lungo viaggio, e gli si rivolse, giocando con le
chiavi che teneva in mano, in perfetto italiano.
Era giovane, abbronzato, i capelli neri e lisci pettinati
all’indietro, gli occhi chiari. Indossava pantaloni di lino bianco e una maglietta aperta sul collo, non portava calze, aveva
sandali impolverati e sporchi ai piedi nudi. Conosceva questa
macchina?, chiese lo sconosciuto. Poteva revisionare il mo-
Prologo
7
tore, lavarla e ingrassarla, cambiare l’olio? Certo che poteva,
assicurò Rolando che si impegnò a restituirgli la macchina
perfettamente in ordine in un paio di giorni.
Lo straniero (ma era davvero uno straniero?) sembrò soddisfatto. Gli lasciò le chiavi e lo salutò con un cenno cordiale
della mano mentre si allontanava a piedi verso viale Liegi. Il
giorno dopo, verso le quattro del pomeriggio, tornò, questa
volta accompagnato da un bambino di una decina d’anni, i
capelli biondi tagliati cortissimi. Si trattenne solo qualche minuto: lo guardò lavorare, ritirò qualcosa da una tasca laterale
dello sportello della macchina e si raccomandò, ancora una
volta, che l’olio fosse quello da lui richiesto.
Il giorno dopo all’ora fissata la Vanguard targata
H.V.C.744 era pronta ingrassata e pulita, l’olio cambiato e
il motore revisionato, una gran bella macchina, dopotutto,
anche se mal tenuta. Ma nessuno venne a ritirarla.
Nessuno venne nemmeno nei giorni seguenti, e nemmeno
nella prima settimana di settembre e nemmeno nella seconda. Fino a quando il meccanico decise che non era prudente
tenere in garage una macchina di cui non conosceva il proprietario, e che poteva anche essere stata rubata. Alla fine
si rivolse al commissariato di zona. Nella tasca interna della
macchina non c’erano più i documenti, ma non fu difficile
risalire dalla targa al nome del proprietario.
L’uomo che il 29 agosto aveva portato la Vanguard alla
Casa dell’Automobile di piazza Verdi, che era tornato il giorno dopo per sollecitare il lavoro, e che non era più tornato
a ritirarla, si chiamava Bruno Pontecorvo. Aveva trentasette
anni un sorriso accattivante, grandi occhi chiari e l’aspetto
di uno sportivo, di un uomo abituato a vivere molto all’aria
aperta.
Era invece un fisico, abituato a passare la maggior parte
delle sue giornate al chiuso di un laboratorio, a studiare i
misteri del nucleo e delle particelle elementari. Originario di
Pisa, aveva fatto parte, nei primi anni Trenta, della celebre
Scuola di via Panisperna sotto la direzione di Enrico Fermi.
Poi, nel 1936, si era trasferito a Parigi per lavorare al Centro
8
Il lungo freddo
di energia nucleare di Joliot-Curie. Da lì era fuggito per raggiungere l’America poche ore prima che la capitale francese
venisse occupata dai tedeschi. A guerra finita era tornato in
Europa, per lavorare nel Centro atomico di Harwell, in Inghilterra. Da due anni era cittadino inglese.
Tutti questi e altri particolari vennero accertati dalle competenti autorità, nel corso delle prime settimane di settembre.
Ma nessuno denunciò la sua scomparsa.
In altri tempi la sua sparizione sarebbe stata considerata
un fatto puramente privato, senza rilevanza, ma da quando,
il 6 agosto del 1945, la prima bomba atomica era scoppiata
su Hiroshima, da allora i fisici erano considerati, in tutto il
mondo, personaggi di grande importanza, la risorsa militare
fondamentale di cui uno Stato potesse disporre. La politica
e la scienza militare avevano bussato con violenza alla porta
della fisica moderna, si erano impadronite dei laboratori, degli uomini che vi lavoravano e della loro intelligenza, ne avevano messo sotto controllo le vite, gli esperimenti e i pensieri.
Quanto valeva, dunque, in quel momento Bruno Pontecorvo? Conosceva o no la formula della bomba atomica? Di
quali segreti era entrato in possesso? Quali misteri era in grado di svelare? E quale Stato se ne sarebbe servito a partire
da quel 29 agosto 1950, quando aveva abbandonato la sua
macchina a Roma, nel garage di piazza Verdi?
prima parte
1
Il segreto della bomba
La prima bomba atomica del mondo assomigliava «a un bidone della spazzatura allungato e con le pinne». Così l’aveva
descritta Paul Tibbets, il comandante del B 29 che la portò a
destinazione. Lunga poco più di tre metri e con un diametro
di 74 cm, tutta di opaco acciaio brunito, aveva l’aspetto di
un cilindro corazzato con un muso leggermente arrotondato.
Pesava 4200 chilogrammi. Venne sganciata sulla città giapponese di Hiroshima dall’aereo che lo stesso Tibbets aveva
battezzato, in onore della sua mamma, Enola Gay. Erano le
8 e 15 del mattino del 6 agosto 1945. Dopo 43 secondi esatti
esplose a 570 metri dal suolo, sopra l’ospedale Shima, 170
metri a sud-est del ponte Aioi.
«Eravamo a diciotto chilometri e mezzo in linea d’aria
dall’esplosione atomica, ma tutto l’aereo scricchiolò e cigolò per il colpo» raccontò lo stesso Tibbets. «Ci girammo a
guardare Hiroshima. La città era nascosta da quella nuvola
orribile, ribollente, a forma di fungo, terribile e incredibilmente alta. Per un momento non parlò nessuno, poi si misero
a parlare tutti...»
Il mitragliere di coda incaricato di scattare le fotografie
così descrisse la scena: «Il fungo era una visione spettacolare
di per sé: una massa ribollente di fumo grigio rossastro, e si
vedeva benissimo che dentro aveva un nucleo rosso nel quale
tutto bruciava... Sembrava una colata di lava o di melassa che
coprisse tutta la città e pareva che traboccasse e salisse per
le colline... Intanto scoppiavano incendi dappertutto e così
in poco tempo diventò difficile vedere qualcosa per via del
fumo».
12
Il lungo freddo
Quando era scoppiata la guerra Hiroshima aveva 400.000
abitanti, ma molti erano stati evacuati. All’inizio di agosto del
1945, la popolazione residente era di circa 280.000 civili, più
40.000 soldati: 320.000 persone in tutto. I morti di quel giorno
furono almeno 100.000, molte altre decine di migliaia morirono nelle settimane e negli anni successivi per malattie ricollegabili alla bomba. La temperatura sul luogo dell’esplosione raggiunse quel giorno i 3000 gradi. Coloro che stavano all’aperto
in un raggio di circa un chilometro ebbero gli organi interni
vaporizzati e si ridussero a mucchietti di cenere fumigante.
Tre giorni dopo una seconda atomica, familiarmente chiamata Fat Man, venne sganciata su Nagasaki. Esplose alle 11
di mattina del 9 agosto a 340 metri di altezza sulle colline della città. A Nagasaki morirono subito 70.000 persone e altrettante negli anni successivi per le conseguenze dell’esplosione.
Il giorno dopo l’imperatore Hiro Hito offrì agli americani la
resa. La Seconda guerra mondiale era finita ed era cominciata
l’era del Terrore atomico.
In Europa la guerra era finita già in primavera: il 25 aprile
le truppe americane avevano incontrato quelle russe sull’Elba
e l’8 maggio la Germania si era arresa. L’Italia aveva firmato
l’armistizio due anni prima, nel settembre del 1943.
Solo il Giappone dunque resisteva, sia pure in condizioni
disperate: la sua produzione industriale era ridotta della metà, la flotta imperiale non era più in condizione di nuocere e la
contraerea non riusciva nemmeno a difendere la capitale che,
dai primi di marzo, veniva bombardata ogni notte. Di fatto il
Giappone poteva considerarsi sconfitto.
Proprio nelle settimane successive alla resa della Germania, in un deserto sperduto del Nuovo Messico venivano
intensificati gli sforzi per portare a compimento il Progetto
Manhattan. Si trattava di mettere a punto una nuova arma
alla quale migliaia di scienziati, di tecnici, di ingegneri, di chimici di tutto il mondo stavano lavorando da quasi tre anni nel
più assoluto segreto.
Il test ebbe luogo il 16 luglio. Quel giorno, al confine tra
l’Arizona e il Nuovo Messico, qualcuno notò sbalordito un
Scarica

miriam mafai il lungo freddo