Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras Matteo Poddi Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras. Abstract Between the end of the XIXth Century and the first half of the XXth Century, the social stratification in the village of Cabras was also expressed through the traditional clothing. In fact, although almost exclusive, the clothes of the upper classes represented a point of reference for the population that always tried to model their own tastes looking at those of the upper classes. Furthermore, the use of clothing as a sign of social distinction favored the creation of a non-verbal language, whose codification was known almost exclusively by the community members, but considered important especially by women, the main bearers of novelty, always hovering between the desire to amaze and the fear of criticism. Through the analysis of literary, iconographic, photographical and oral sources, we tried to understand the dynamics, underlying the transformation and the variety of the styles of Cabras clothing that, for a long time, was an important identifier element for the “Cabraresi” and, in some cases, also for all the surrounding area. Keywords Abbigliamento tradizionale, Cabras,Costume,Sardegna,Differenze sociali. ______________________________________ La situazione economica e la stratificazione sociale presenti a Cabras tra il XIX e la prima metà e oltre del XX secolo, del tutto simili a quella di molti altri paesi sardi, non potevano non riflettersi anche nell’abbigliamento tradizionale che, in questo centro, ha registrato una certa continuità di vita, essendosi, il vestiario tradizionale maschile, estinto definitivamente intorno agli anni Sessanta del Novecento, mentre quello femminile sopravvive ancora oggi, spesso in forme semplificate, presso le fasce più anziane della popolazione. In questo ambito, dunque, si cercherà di approfondire un particolare aspetto dell’abbigliamento tradizionale cabrarese, quello incentrato sulle differenze dettate dalla strarificazione sociale. Come si vedrà più avanti, infatti, sarà proprio la volontà di distinguersi attraverso l’abbigliamento, caratteristica dei più benestanti, a far sì che, nel tempo, gli abiti tradizionali assumessero quella linea comune nella quale tutti i cabraresi hanno finito col riconoscersi. Considerato che a Cabras, in linea generale, fra l’abbigliamento dei ricchi e quello dei poveri vi erano più somiglianze che differenze e che, spesso, queste ultime erano affidate a dettagli ben noti solo alle persone del luogo, si è scelto di partire dalle descrizioni dell’abbigliamento dei più benestanti, in quanto da sempre modello di riferimento per tutti gli altri. Va inoltre precisato che, anche nelle descrizioni dei viaggiatori del XIX secolo, si riscontra una predilezione per le fogge festive mentre minore interesse ha sempre destato l’abbigliamento quotidiano, spesso coincidente con quello festivo dei meno abbienti, costituito da capi confezionati per lo più con tessuti a Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 115 buon mercato, sovente indossati dai poveri fin quasi al disfacimento e quindi, meno documentato. Indipendentemente dal volere di chi scrive, in questo lavoro, la parte dedicata al vestiario tradizionale femminile, data la lunga vitalità d’uso e la conseguente maggiore varietà, risulta più estesa rispetto a quella dedicata all’abbigliamento tradizionale maschile, il quale, come si è detto, si è estinto più precocemente, anche sotto l’influsso dell’abbigliamento borghese, adottato da alcuni benestanti già alla fine dell’Ottocento. 1 Sarà opportuno premettere che la linea dell’abbigliamento tipico cabrarese, lungi dall’essere caratteristica del solo paese di Cabras, si ritrova in buona parte dell’Oristanese, città compresa; 2 questa omogeneità, infatti, rimarcata da molti dei viaggiatori del XIX secolo, è una caratteristica mantenutasi pressoché inalterata fino ad oggi. 3 Per questa ragione, nel caso in cui manchino delle informazioni specifiche, soprattutto per quanto riguarda il XIX secolo, si è scelto di utilizzare descrizioni non limitate alla sola Cabras, allo scopo di avere un quadro quanto più possibile esaustivo sull’argomento. Naturalmente, le fonti letterarie e iconografiche citate sono state utilizzate con la consapevolezza che, in molti casi, non si tratta di relazioni scientifiche ma di descrizioni ‘abbellite’ o ‘poetizzanti’ come, tanto per citare due esempi, le pagine scritte dal padre Bresciani (1850) nella sua opera Dei costumi dell’isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali o da Enrico Costa (1897), soprattutto, nel romanzo La Bella di Cabras. Pertanto, si è cercato di analizzare le informazioni riportate nel modo più critico possibile, dando giusto peso alla soggettività di alcuni passi, dettata dal gusto per il pittoresco o da intenti più letterari che scientifici. Oltre alle fonti appena citate, sono state poi di grande aiuto, specialmente per quanto riguarda il periodo tra la fine del XIX secolo e i giorni nostri, le numerosissime fotografie e gli altrettanto numerosi capi originali, nonchè le conversazioni e le interviste con tante anziane che, nel corso degli anni, hanno aiutato a capire le differenze e le varie sfumature presenti nell’abbigliamento cabrarese. In merito alla bibliografia consultata, quella di carattere generale riguardante l’abbigliamento tradizionale sardo si è rivelata non particolarmente nutrita. In proposito, comunque, va ricordato il saggio di Enrica Delitala presente nel volume Costumi di Sardegna (Delitala 1987), l’opera Costumi: storia, linguaggio e prospettive del vestire in Sardegna (Pau 2003) e il catalogo Costumi ritrovati. Gli abiti sardi dell’esposizione internazionale di Roma del 1911 (Massari-Piquereddu 2004). Scendendo più nello specifico, ben pochi si sono curati di studiare l’abbigliamento tipico cabrarese in modo approfondito. Enrico Costa (1897), nel suo Album di costumi sardi, inserisce una tavola a colori, soffermandosi, senza troppa precisione, sulla tipologia festiva più semplice, quella usata dalle donne di ceto medio-basso alla fine dell’Ottocento. Vengono completamente ignorati, dunque, sia l’abbigliamento maschile, che compare solo nello sfondo della tavola a colori, sia quello delle classi più ricche. Più precisa, la breve descrizione del costume maschile e femminile 1 La quantità di capi maschili giunta fino a noi è nettamente inferiore rispetto a quella dei capi femminili, presenti in quasi tutte le case di Cabras. Fortunatamente, alcune informatrici si sono mostrate in grado di descrivere con una certa precisione tutti i capi del vestiario maschile, in quanto indossato abitualmente dai loro padri. 2 Come si vedrà più avanti, molti studiosi descrissero il costume di Oristano, specificando che in nulla si discostava da quello dei paesi circostanti. Questa città, però, abbandonò già verso la fine dell'Ottocento l'uso dell'abbigliamento tradizionale. Si veda, ad esempio, quanto si dice in Bresciani 1850:. 67-69; Angius 2006: 124 per Barattili S. Pietro, 224 per Cabras, 1024 per Oristano; Costa 1897: 101-102. 3 Effettivamente, ancora oggi, all'interno di un sistema vestimentario abbastanza omogeneo, si riscontrano differenze minime da paese a paese, legate spesso alla cura nelle rifiniture, ai dettagli o al gusto locale. 116 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras inserita nel volume I pescatori di Cabras (Manca Cossu 1990), interessante, insieme a una piccola pubblicazione di Menicucci (1938), soprattutto per le immagini che documentano le fogge lavorative utilizzate dai pescatori all’interno della peschiera di Mar ‘e Pontis. Di una qualche utilità sono stati sia il catalogo Donne di Cabras (Manca Cossu – Simbula 1997), sia un volumetto di recente pubblicazione, In Cabras (Muroni 2010), che raccoglie qualche centinaia di immagini fotografiche cabraresi, tutte collocabili tra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento. La stratificazione sociale La società cabrarese ha presentato, almeno fino alla metà del secolo scorso, caratteristiche legate, soprattutto, ad attività lavorative rimaste invariate per lunghissimo tempo 4. Al vertice, se così si può dire, della società, era una classe, piuttosto ristretta, di grandi proprietari terrieri/allevatori. Queste famiglie erano solite avvalersi dei servigi di numerosi mezzadri, lavoratori a giornata, servi e serve che consentivano ai padroni di seguire gli affari e alle donne di famiglia di amministrare l’economia della casa o di seguire, talvolta, l’andamento di un negozio di generi alimentari e merce varia. Per conseguenza, se ne deduce che il commercio in grande scala fosse sempre in mano a famiglie importanti, almeno in due casi su tre 5. Tuttavia, bisogna ricordare che anche il commercio ittico consentiva buoni guadagni ad un certo numero di commercianti. Non troppo numerosi erano anche i nuclei familiari, per lo più di agricoltori/allevatori, benestanti ma con possibilità meno ampie mentre, tra i pescatori, potevano trovarsi sia elementi con un buon tenore economico, sia persone che lavoravano quasi solo per la pura sussistenza (Manca Cossu: 97-104, 110-118). Assimilabili a questi ultimi erano anche molti braccianti agricoli, servi pastori, o comunque prestatori d’opera occasionali. La maggior parte degli artigiani (muratori, falegnami, fabbri, calzolai, sarti etc.) godeva di variabili condizioni economiche legate, in parte alla quantità di lavoro che era in grado di svolgere, in parte alle proprietà (vigne, oliveti, piccoli o medi terreni) di cui disponeva. I meno abbienti erano la maggioranza. Lungi dall’essere una categoria nettamente distinta, si trovavano fra di loro sia persone che, a prezzo di grandi sacrifici e di un duro lavoro, disponendo almeno di una casa riuscendo a vivere in modo dignitoso, sia individui che, vivendo di piccoli lavori occasionali o anche di elemosina, non potendo contare neanche su un’abitazione vera e propria, si accontentavano di vivere in una semplice capanna, ai margini del paese. In ogni caso, è evidente che le differenze sociali, abbastanza nette ma non prive di sfumature, erano, per tutti e indifferentemente dal lavoro svolto, strettamente legate alla possibilità di possedere della terra, in grande, media o piccola quantità, cosa che permetteva, superate le necessità primarie, di migliorare o, per lo meno, di rendere meno aleatorio il bilancio familiare. L’abbigliamento maschile Si veda in proposito Manca Cossu 1990: 27-30. Fino alla Seconda Guerra mondiale, a Cabras, un negozio vendeva solo tessuti mentre altri due, oltre alle stoffe, commerciavano generi alimentari e merce varia. Tutti appartenevano a famiglie di proprietari benestanti, in due casi di origine bosana. Va anche detto che alcuni di questi negozi effettuavano una vendita all'ingrosso di generi alimentari che venivano acquistati e poi rivenduti, per lo più da donne, in altre piccole rivendite, a conduzione familiare, sparse nel paese. 4 5 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 117 Per chiarezza, sarà necessario specificare che, intorno alla fine dell’Ottocento, l’abbigliamento tradizionale maschile comprendeva, di base, la camicia, sa camisa, e is cratzonis, mutandoni confezionati con lino di fattura domestica; su cossu, il corpetto, is cratzonis de arroda, i calzoni a ruota, is cratzas, le ghette e sa giacchetta, la giacca, erano in invece di orbace nero. Il copricapo, sa barritta, in panno nero, veniva in genere acquistato già pronto (Manca Cossu 1990: 156). Le notizie precedenti alla prima metà dell’Ottocento sono pochissime e non sempre chiare: uno degli acquerelli di Nicole Benedetto Tiole, raffigurante un uomo di Cabras, vista l’assenza delle ghette e il cappello, potrebbe rappresentare una tipologia giornaliera 6. Più arduo stabilire se uno dei due costumi maschili di Oristano, attribuibile, come sembrerebbe, a una foggia festiva o ‘ricca’, possa essere ritenuto, come i modelli femminili di cui si parlerà più avanti, valido anche per Cabras (Naitza – Delitala – Piloni 1990, Tav. 42, 59). Vittorio Angius, in una breve descrizione del vestiario tipico di Oristano ricorda piccole brache sopra i calzoni di lino, giubboncino, pelliccia o gabbano talare, e in particolare gli artigiani cingono a mezza vita uno scheggiale, i figuli o vasai distinguonsi per un corpetto aperto a triangolo sul petto e adattansi una cintola di cuojo lustrato e ricamato, e tutti fan pompa di ricche bottoniere (Angius 2006: 1024). Come già affermato poc’anzi, visto il carattere omogeneo del vestire oristanese, è possibile che molte di queste caratteristiche possano essere applicate anche al coevo abbigliamento maschile cabrarese, soprattutto quando si accenna ad un corpetto con scollatura triangolare, il quale trova puntuale riscontro nel modello che ancora sopravviveva intorno agli anni Sessanta del Novecento. Più esaurienti, le immagini fotografiche – tutte collocabili tra la seconda metà del XIX e la prima metà del XX secolo – ci restituiscono tipologie non molto variate. 7 Nell’ambito del vestiario tradizionale maschile, infatti, la differenza fondamentale tra ricchi e poveri era data soprattutto dallo stato degli indumenti, in buone condizioni e poco usurati per i primi, lisi e spesso rammendati quelli dei secondi. Finora non si è registrata alcuna notizia circa l’uso, da parte dei benestanti, di tessuti più fini o di capi confezionati con maggiore cura dei dettagli, due caratteristiche ragionevolmente ipotizzabili ma che, a tutt’oggi, appaiono evidenti solo nell’abbigliamento femminile. A Cabras, i primi ad adottare i pantaloni lunghi di foggia europea, alla fine dell’Ottocento, furono i contadini, i quali, in moltissimi casi, continuarono comunque a portare tutti gli altri elementi del costume, in particolare la camicia, 8 il copricapo, nonché il gilet lungo in pelo di montone nero, s’esti ‘e peddi 9, o quello corto in pelle di agnello, s’estighedda, elementi, questi, utilizzati comunque anche dai pescatori. Sembra che furono proprio costoro gli ultimi ad indossare il costume completo, con cratzonis e cratzonis de 6 La corrispondenza tra questa foggia e quella nota attraverso immagini fotografiche e capi originali di fine Ottocento-metà Novecento, è eccezionale; sembrerebbe proprio che l’abbigliamento maschile, contrariamente a quello femminile, si sia mantenuto, per lungo tempo, quasi del tutto inalterato. Sull’uso del cappello nell’abbigliamento giornaliero si veda Pau 2003: 237-238. 7 Si fa riferimento, in particolare, al cospicuo patrimonio fotografico custodito da tanti cabraresi che, gentilmente, mi hanno mostrato le loro immagini. 8 La camicia tradizionale, in lino tessuto al telaio, chiusa con i bottoni in oro o argento, si è mantenuta a lungo, ben oltre la Seconda Guerra Mondiale, quando veniva ancora indossata da molti anziani e da alcuni uomini di mezza età. 9 Si vedano, in proposito, le immagini fotografiche in Menicucci 1938. 118 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras arroda: evidentemente, più che da motivazioni economiche, queste scelte erano dettate anche dalla ‘praticità’ sul lavoro, visto che, in ogni caso, molti di essi, anche fra i più ricchi, continuarono a vestire alla maniera tradizionale. In proposito, sembra che le osservazioni di Enrica Delitala, circa l’esistenza di una foggia specifica per i pescatori, possano essere, in un certo senso, fuorvianti; infatti, in nulla differiva il loro abbigliamento completo, rispetto a quello dei pastori o dei contadini, se non nel fatto che durante il lavoro, in genere, essi si limitavano ad indossare solo la camicia di lino, il corpetto e i calzoni bianchi (Delitala 1987: XVI). 10 Pochi e sobri gli ornamenti maschili: i bottoni, in oro o argento, del tipo localmente denominato a cannuga e l’orologio da taschino, con o senza ciondoli ad ornare la catena. I bottoni d’oro e gli orologi, come si può immaginare, erano posseduti soprattutto dai benestanti. In una fotografia degli anni Novanta dell’Ottocento, 11 in cui sono curiosamente presenti diverse fogge maschili dell’epoca, alcuni fra gli uomini ritratti – tre possidenti e un pescatore, tutti di famiglia agiata – portano un orologio da taschino, orgogliosamente esibito dal più giovane di essi, pescatore benestante e unico ad indossare il costume completo Un fattore di forte differenziazione sociale, del resto comune alla maggioranza dei paesi della Sardegna, furono le calzature. A tal proposito, sarà opportuno rimarcare che le persone benestanti utilizzavano le scarpe, sempre in ambito festivo e spesso in quello giornaliero e lavorativo: in particolare i contadini e i pastori disponevano di scarpe chiodate, necessarie nei lavori agricoli e in campagna. Tra le calzature confezionate dai calzolai, per gli uomini si ricordano le scarpe chiodate (crapittas accioadas), caratterizzate da un tacco medio. 12 L’abbigliamento femminile Il vestiario femminile comprende una camicia di tela, sa camisa, ora di cotone, più anticamente di lino, variamente ricamata, s’imbustu, un corsetto di tessuto pesante, broccato, lampasso, di seta o di cotone a seconda delle occasioni e delle possibilità, un giacchino nero, corto, aperto o chiuso sul davanti, su gipponi, un fazzoletto copri-seno, sa perr’e tzrugu o su mucadoreddu ‘e ananti, una gonna liscia nella parte anteriore e pieghettata in quella posteriore, sa ‘unnedda, un grembiale, su panniananti. Sulla testa, un piccolo fazzoletto di tessuto stampato rosso o nero, su scuffiottu, poi caduto in disuso, tratteneva la crocchia; un fazzoletto più grande, su mucadori, piegato a triangolo, veniva annodato sotto il mento ed un manto di medie o grandi dimensioni, su mucadori tanau, indossato spiegato, ricadeva svolazzante lungo la persona, talvolta fino a raggiungere la piegatura delle ginocchia. Le fonti scritte e iconografiche riguardanti i primi decenni dell’Ottocento, oltreché non molto numerose, risultano in alcuni casi poco chiare o approssimative. Analizzando le tavole del Tiole (Naitza – Delitala – Piloni 1990, Tav. 41, 60, 64), è evidente la consonanza tra l’abbigliamento femminile di Oristano, Cabras e Milis ma, mentre gli ultimi due esempi sembrano rimandare a fogge giornaliere, il costume attribuito ad Oristano sembra Proprio questa foggia, decisamente lavorativa perché più pratica, molto comune anche tra i bambini, è testimoniata da numerose fotografie scattate all’interno della Peschiera di Mar’e Pontis nella prima metà del Novecento. 11 Immagine posseduta da chi scrive. 12 Si veda il modello 484 in Pau 2003: 295. 10 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 119 richiamare un uso festivo, visto che la figura ritratta indossa il giacchino e le scarpe. Si potrebbe pensare che esso rappresenti l’abbigliamento festivo tipico delle classi agiate anche se, specifica Angius (2006: 1024) che scriveva qualche anno più tardi, “le persone delle classi alte e medie vestono come nella capitale, gli altri alla sardesca”. Poco esaustiva anche la breve descrizione dell’abbigliamento cabrarese tramandataci dal Valery (2003: 111), attorno agli anni Trenta dell’Ottocento: [...]Una di queste ragazze, che era completamente vestita quando arrivammo, portava un costume spagnolo: per la nobiltà dei lineamenti e con lo scialle di seta nera sembrava una vera doňa; e non fu senza sorpresa che, guardando in fondo alla bottega, scoprii che la mia Cimene era la figlia di un maniscalco..... La maggior parte degli abiti che avevo ammirato erano opera delle stesse donne che li portavano: sono loro che ancora fanno a mano e ricamano l’ottima tela e gli eleganti tessuti di cotone. Poco si può dire riguardo l’abbigliamento di questa fanciulla ma, ragionevolmente, essa doveva appartenere ad una famiglia benestante, visto che il suo costume fu mostrato ad una visitatore straniero come esempio di vestiario tipico. Molto più dettagliato, sebbene non del tutto chiaro, si dimostra padre Bresciani (1850: 67-69), autore di un’entusiastica descrizione del “vestito ellenico delle donne del Campidan d’Oristano”. Qui, sembrano potersi rilevare alcune connotazioni di differenziazione sociale nelle gonna, descritta come [...]vesticciuola per lo più vermiglia o bianca 13 e di poche e larghe increspature e talora di una tinta leggera e chiara con isprazzi qui e là di stelluzze, e piastrelli. La intornia una cinturetta di nastro incarnato, o di tocca d’oro con isvolazzi, e da piede una balza di raso verde e scarlattino o d’ altro colore acceso e appariscente (Ibidem). Come si vede, si descrivono due modelli di gonne: una di colore rosso/bianco, probabilmente in panno/saja, un’altra di tessuto chiaro stampato a disegni minuti (stelluzze) o a quadri (piastrelli), caratterizzate (entrambe le tipologie?) da una balza in raso di seta di colore acceso. Sulla base di alcuni esiti della fine dell’Ottocento, di cui si parlerà poco più avanti, si potrebbe ipotizzare che il primo tipo, forse di gala, fosse appannaggio delle più abbienti, le quali potevano fare uso giornaliero del secondo tipo di gonne che, con tutta probabilità, facevano invece parte dell’abbigliamento festivo delle donne meno agiate. Proseguendo, poco più avanti, Bresciani fa menzione di una cinturetta di nastro rosa o di gallone d’oro con frange, evidentemente indossata attorno alla vita. Questo elemento, almeno ai giorni nostri, è stato completamente dimenticato, sicuramente perché caduto in disuso abbastanza precocemente; tuttavia, proprio una di queste cinture – un gallone con disegno geometrico, in seta rossa, gialla e azzurra su fondo bianco – figura all’interno della Collezione Passino come “nastro per costume femminile da sposa, Cabras XIX secolo”. Sarà opportuno chiarie subito che anche la cintura, e specialmente quella di gallone d’oro con frange, potrebbe essere ritenuto un accessorio ad uso delle classi più agiate. Le considerazioni circa l’utilizzo, da parte dei benestanti, della gonna rossa, si basano sul confronto con alcuni elementi del vestiario di altri centri; infatti, presso Quartu S. Elena, Ittiri o Osilo, per citare tre esempi o anche, restando nell’Oristanese, presso Busachi, Questo dettaglio non coincide né con le fonti iconografiche né con altre descrizioni, precedenti o di poco posteriori a questa; infatti solo qui si parla di gonne di colore rosso o bianco, altrove si illustrano, a parole o con disegni, gonne rosse con una piccola balza bianca cucita sull'orlo inferiore. 13 120 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras l’abbigliamento di gala dei ceti più abbienti è caratterizzato da una gonna di colore rosso acceso (Pau 2003: 188-189). Il rosso, dunque, come sinonimo di ricchezza e di festa. Tornando alla cintura, essa compare nell’abbigliamento di gala di Nuoro, Orani, Bitti, Dorgali, Monserrato e, ancora, di Quartu S. Elena (Ivi: 185). Ma le informazioni fornite da Bresciani non sono ancora finite. Infatti, egli prosegue descrivendo il “peplo”, cioè quel grande manto, caratteristica specifica del vestiario popolare dell’Oristanese, che “scende maestosamente per le spalle insino presso all’ultima falda della vesta”. [...] Le donne di Oristano non son già reine, ma per povera nazione gli han vaghi; e se non tessuti d’oro a soprariccio come il peplo, che Antinoo donava a Penelope; almeno son fioriti con grazia di vivaci colori. Le più agiate hannoli di seta di fondo paglierino con istampe di mascherine, di farfalle, di fiori e i lembi scaccheggiati, addogati, screziati di bei capricci. Le altre portanseli di mussolina celeste, o d’arancione o d’amaranto, con istampe attorno per ornamento che gli inquadra (Bresciani 1850: 67-69). Qui è lo stesso autore che opera una distinzione: i manti delle donne benestanti sono di tessuto di seta color paglierino, decorati con stampe a vivaci colori. Le altre, invece, si devono accontentare del medesimo articolo realizzato con una più economica mussolina di cotone, certamente utilizzato dalle più ricche in ambito giornaliero. Soffermandoci ancora su questo elemento, esso trova immediato riscontro nella breve descrizione del costume oristanese lasciataci dall’Angius (2006: 1024): “le donne [...] hanno per velo un gran fazzoletto, e soventi uno sciallo di seta, che scende tutto ripiegato sul dorso sino ai piedi”. Questo grande manto è ricordato pure da Baldassarre Luciano (1841: 138) il quale, nel suo Cenni sulla Sardegna, a proposito dell’abbigliamento popolare oristanese ricorda, come carattersistica principale, una “grandissima pezzuola di seta o di tela a vivaci colori, ovvero a palme, e le vesti rosse ornate di gialle guarnizioni”. Anche qui, sembra si faccia riferimento ad un abbigliamento di gala, specialmente laddove si parla di seta o di vesti rosse, probabilmente ornate con gallone d’oro. Non si può dire molto circa questi manti/veli di cui, almeno fino ad ora, non sembra essersi conservato neppure un esemplare. Sicuramente si tratta degli antecedenti di quei mucadoris tanaus (o mucadoris mannus), manti di grandi o medie dimensioni, in cotone stampato e dai colori in prevalenza scuri, tanto diffusi nell’abbigliamento festivo e giornaliero dell’Oristanese, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento. Fin qui le descrizioni che, talvolta correlate con immagini, più o meno fedeli, permettono di ricavare alcune impressioni circa un abbigliamento di cui, al giorno d’oggi, nessuno sembra serbare memoria, fatta eccezzione per la gonna di panno rossa, della quale alcune anziane intervistate ricordano di aver sentito parlare. Il discorso cambia portandoci agli ultimi decenni dell’Ottocento; a Cabras, infatti sono conservati numerosi pezzi e un cospicuo numero di immagini fotografiche, tutti ascrivibili a questo periodo. Unendo questi a una serie di testimonianze analizzate con una certa criticità, è possibile tracciare un quadro abbastanza fedele delle tipologie vestimentarie dell’epoca e del loro uso a seconda dell’appartenenza sociale. Tra la fine dell’Ottocento e gli anni della Prima Guerra Mondiale, le donne appartenenti ai ceti benestanti erano solite utilizzare, per le nozze, un abbigliamento particolare, per certi versi distante dalle fogge giornaliere e festive più comuni. 14 La gamma cromatica di 14 Anche Enrica Delitala (1987: XXI) si sofferma a parlare di questa prassi, abbastanza comune in Sardegna. Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 121 questo tipo di abbigliamento era giocata tutta sul contrasto tra toni scuri, in prevalenza nero e viola e quelli chiari o vivaci, come il bianco e l’oro. Alcuni elementi non si discostano dalla cifra comune, così la camicia, il bustino, il giacchino e il grembiale sono del tutto identici a quelli utilizzati dalle altre donne, fatta eccezione, forse, per l’uso di tessuti più fini o rari, dunque più costosi. Tuttavia, la sposa ricca indossava una gonna di panno nero ornata da un gallone d’oro (sa unnedda ‘e pannu a frisa ‘e oru) o da nastri di velluto e, molto probabilmente, in taluni casi, anche da una piccola balza in seta. 15 Sul capo, un velo bianco, di tulle o garza sottile, generalmente con ricami meccanici, prendeva il posto del più comune fazzoletto di seta. Le sue dimensioni sono variabili, tuttavia non si scende mai al di sotto del metro, superandolo abbondantemente nella maggior parte dei casi. Sopra il velo si indossava uno scialle di seta di grandi dimensioni, orlato di lunghe frange. I colori dello scialle erano vari: si andava dai toni cangianti del viola/nero, o ciclamino/nero al ciclamino/marrone scuro, ruggine/nero, rosa salmone o rosa/blu violetto. Diverse persone hanno poi riferito che alcune donne indossavano il velo sopra lo scialle, probabilmente sia per sottolinearne l’uso nuziale (Contu 2003: 98-101) sia per metterne in risalto i ricami, giocando sull’effetto della trasparenza. Il grembiale, confezionato con sete operate dai toni cangianti, soprattutto viola/nero, ciclamino/nero o marrone/nero, in alcuni casi veniva abbinato ai colori dello scialle. Talvolta, per arricchire questo capo, di per sé di semplicissima fattura, 16 si cucivano insieme due teli, ottenendo un grembiale più ampio rispetto a quelli comuni, normalmente costituiti da un solo telo. Questa particolare foggia nuziale, dopo il matrimonio, non era più utilizzata nella sua completezza; infatti, lo scialle e il velo, custoditi e riutilizzati in diversi modi, non venivano più portati dalla proprietaria, la quale, in gala, nel corso della sua vita, avrebbe indossato gli altri elementi, coprendo però il capo con un fazzoletto di seta e il solito mucadori tanau, scelti nei colori serius o alligrus, a seconda delle occasioni o dell’età. Una prova ulteriore dello scarso utilizzo di velo e scialle dopo le nozze può essere data dal fatto che, mentre oggi è quasi impossibile reperire una gonna di panno o un grembiale di seta operata originali, in quanto indossati dalle proprietarie per il loro ultimo viaggio, in un certo numero di case del paese ancora si conservano gli scialli o i veli che, evidentemente, non venivano scelti per l’abbigliamento funebre. 17 É anche possibile che, nel corso della vita, venisse scucita l’eventuale balza di seta e che i galloni dorati venissero sostituiti con semplici nastri di velluto nero, cosa che rendeva la gonna utilizzabile sia in lutto che in tarda età, quando diventava d’obbligo indossare capi sobri e colori scuri. 18 Non si è trovato, finora, alcun capo originale con questa caratteristica anche se rimane qualche esempio in alcune immagini fotografiche risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta o nelle descrizioni di alcuni anziani. In ogni caso, questo tipo di ornamento risulta perfettamente credibile se confrontato con le gonne descritte dal Bresciani (ornate da una balza di seta) e con la gonna, appartenente al costume di Milis (altro centro dell'Oristanese in cui l'abbigliamento è del tutto simile a quello cabrarese), esposto insieme ad altri costumi della Sardegna, all'Esposizione Internazionale di Roma del 1911 (Massari – Piquereddu 2004: 144-145). 16 Si tratta di un rettangolo di tessuto, liscio o ornato con un semplice piegone ad un terzo della lunghezza, rifinito nella parte superiore, con un cordino o un nastro passante, in modo da essere stretto a piacimento al momento di indossarlo. 17 Secondo la tradizione, la defunta dovrebbe indossare i suoi abiti più belli che, nel caso delle donne sposate, coincidono con l'abbigliamento delle nozze. Per questo, ragionevolmente, si sarebbero dovuti indossare anche scialle e velo, cosa che, invece, è avvenuta molto raramente. 18 Questa deduzione deriva dal fatto che alcune donne, parlando di gunnedda ‘e pannu a fris’e oru, la descrivono comunque come ornata da nastri di velluto nero. 15 122 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras Lo scialle era, in molti casi, fermato da una spilla d’oro, come d’oro erano anche i bottoni e gli orecchini a cerchio, lorigas, o pendenti, arracadas. Talvolta si indossava anche qualche anello, mentre, almeno fino a questo momento, non si è avuto notizia riguardo l’uso di collane 19. Dal confronto con tantissimi altri costumi della Sardegna, appare evidente la quasi totale mancanza di ornamenti vistosi, d’oro o d’argento. Contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, forse troppo frettolosamente, questa tendenza doveva essere legata non tanto e non solo alla povertà generalizzata ma, evidentemente, anche ad un certo gusto caratterizzante tutto l’Oristanese, giacché, anche presso le famiglie più ricche, il corredo di gioielli fu sempre modesto e poco appariscente. Finora si è potuto riscontrare, puntualmente, come questa tipologia di abbigliamento venisse utilizzata dalle donne appartenenti a famiglie di grandi proprietari terrieri e allevatori, le quali, nella maggioranza dei casi, andavano spose ad altrettanti proprietari terrieri e allevatori. É chiaro quindi che proprio la gonna di panno connotava fortemente l’appartenza sociale della donna che la indossava, comunque, molto di rado e solo nelle occasioni solenni. 20 Altre donne, spesso benestanti ma non quanto le loro coetanee più ricche, non indossavano la gonna di panno ma un tipo di gonna di calancà nero stampato a disegni dorati. Il grande successo di questo tessuto, comunque di un certo costo, visto che, per il suo prezzo, è nota come ‘unnedda de quattru e mesu (probabilmente quattro soldi e mezzo, cioè poco meno di cinquanta centesimi al metro) potrebbe spiegarsi col fatto che nei colori, nero e oro, ricordava la più ricca gonna di panno alla quale, in ogni caso, non avrebbero potuto aspirare. Lasciati alle più ricche anche lo scialle e il velo, esse indossavano un fazzoletto di seta di colore chiaro o vivace, al quale si sovrapponeva su mucadori tanau, quello della misura più generosa, adatto per le nozze e, quindi, anche per le occasioni di gala. In tutti gli altri elementi, fra le une e le altre, non c’era sostanziale differenza, in quanto anche una donna di ceto medio riusciva, talvolta a costo di sacrifici, ad acquistare il broccato d’oro per s’imbustu e la seta operata per su gipponi e per il grembiale. Tutte le altre donne, nell’abbigliamento festivo e di gala, dovevano contentarsi di gonne di indiana stampata, per lo più sui toni del marrone, dal costo decisamente più contenuto, note, per il loro costo di venticinque centesimi al metro, come gunneddas de mesu petza. 21 Molto interessante, in proposito, un aneddoto raccontato da una delle anziane intervistate la cui madre, che lavorava come domestica, comperò di nascosto, su consiglio della sua padrona ma contro il parere della madre, una stoffa de quattru e mesu per confezionare la gonna nuziale. Benché sua madre, che temeva le critiche delle altre donne, Una collana, forse del tipo “a poste”, compare in quella che, probabilmente, è l'immagine fotografica più antica del costume di Cabras. V. AA VV 2004, pp. 176-177, n° 263 e p. 274, n° 518 e 519 . 20 Su questo punto concordano all’unanimità tutte le donne intervistate. Potrebbe trattarsi di un costume caratterizzato sia da una funzione di distinzione di classe, in quanto usato solo dalle donne appartenenti a famiglie di ricchi proprietari terrieri, che da una funzione rituale, in quanto indossato molto raramente o, nel caso dello scialle e del velo, solo nel giorno delle nozze. Si veda in proposito Bogatyrëv 1986: 98. 21 Esse sono però chiamate anche gunneddas de sattinu, in riferimento alla tipologia del tessuto. Più anticamente, conobbero una certa diffusione anche gonne realizzate con un tessuto di cotone a minutissime righe rosso/blu. Per l'effetto cangiante che derivava dall'alternanza dei due colori, esse erano note come gunneddas a girasoi. Si veda Costa 1898: 101-102. Precedentemente, queste gonne rientravano già nella descrizione dell'abbigliamento cabraese riportata, dallo stesso Costa, nel suo romanzo La Bella di Cabras, pubblicato per la prima volta nel 1887. Dal confronto con fotografie o capi originali dello stesso periodo, risulta evidente che l'attenzione dello scrittore si incentrò, volutamente, sulla tipologia più modesta del vestiario popolare cabrarese. Si veda COSTA 2001, pp. 74-77. 19 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 123 l’avesse costretta ad acquistare un tessuto de mesu petza, alla fine, sfidando l’opinione comune, andò all’altare indossando sì la gonna più modesta, ma sotto quella nera e dorata, alla quale non aveva saputo rinunciare. 22 Anche tutti gli altri elementi, o talvolta solo parte di essi, a seconda delle possibilità, erano confezionati con tessuti più economici e quindi molto più diffusi. Le donne benestanti indossavano questo stesso tipo di capi in ambito feriale, per la domenica o per feste minori, prova ne sia che tuttora se ne conserva un discreto numero, tenuto dalle anziane in una certa considerazione, in quanto capi antichi e per questo preferiti, dalle intenditrici, ad altre tipologie, forse più appariscenti ma comunque più recenti. Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, l’utilizzo della gonna di panno nero, del velo e dello scialle di seta da parte delle più ricche decadde quasi del tutto. 23 Mentre qualcuna delle donne benestanti non vestiva più il costume tradizionale, le altre prediligevano, per l’abbigliamento di gala, gonne in seta, liscia, operata o moirée, quasi sempre sui toni del grigio perla, del beige, del marrone, del verde chiaro, anche se non mancano colori più accesi come il giallo oro o il rosa confetto. Talvolta, per differenziarsi ed assicurarsi un capo unico, si acquistava o si faceva acquistare il tessuto a Oristano, a Cagliari, a Sassari o addirittura nel Continente. Sul capo, per le occasioni di gala, fazzoletto di seta e mucadori tanau di grandi dimensioni, del tutto simili a quelli utilizzati dalle altre donne ma spesso caratterizzati da decori più raffinati e vivaci e, quindi, più costosi. Per tutte le altre, continua l’utilizzo delle gonne de quattru e mesu e de mesu petza, che cominciano però a passare di moda, soppiantate, a partire dagli anni Venti e Trenta, da gonne festive e di gala in tessuti di misto seta, liscio, operato, cangiante o moirée, di costo moderato ma, comunque, d’effetto. Insomma, un’imitazione delle gonne delle più ricche confezionata con tessuti di prezzo relativamente abbordabile, acquistati a Cabras o in altri paesi del circondario e quindi già più comuni. Per quanto riguarda l’abbigliamento giornaliero, l’unico discrimine era dato dal fatto che le donne benestanti, non avendo bisogno di un abito di fatica, disponevano generalmente di capi in buono stato, mai scoloriti o rammendati come quelli delle più povere. 24 Tra le due guerre, la produzione dei fazzoletti da testa, necessari sia nell’abbigliamento festivo che in quello giornaliero, subì una certa flessione e, nei negozi, la scelta si limitò ad un ristretto numero di fantasie, divenute in breve tempo molto comuni. A quel punto, solo le donne benestanti, potendo fare affidamento su un ricco corredo personale e familiare, riuscivano a sfoggiare fazzoletti particolari e più rari. Ad esempio, sembra che taluni fazzoletti di seta damascata, con piccoli tralci di fiori colorati in rilievo su ogni angolo, localmente denominati a matta in corru (lett. pianta nell’angolo), prodotti tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento ma tuttora ricercatissimi dalle intenditrici, fossero caratteristica delle persone benestanti che, in genere, ne possedevano più d’uno, sia nella tonalità chiara che scura. Questa stessa prassi, poi, finì col riguardare anche e soprattutto i fazzoletti di cotone, L’informatrice, R. B. è nata nel 1926. Verosimilmente, il fatto dovrebbe essere accaduto agli inizi degli anni Venti. 23 Si è avuto notizia di una sola gonna in panno confezionata in questi anni; tuttavia, stando a quanto riferito dall’informatrice, M. R. E., nata del 1919, che indossò questo costume in occasione dell’arrivo di Mussolini a Oristano, si utilizzò del panno marrone, in abbinamento ad uno scialle di seta color ruggine. 24 Si veda, in proposito, quanto affermato da Enrica Delitala in Samugheo 1987: 21. 22 124 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras specie quelli caratterizzati da motivi più vivaci o curiosi i quali, tramandati di madre in figlia, erano appannaggio di poche, gelosissime donne che, indossandoli, mostravano, più o meno volutamente, di appartenere ad una determinata classe sociale. Generalmente, una donna di famiglia benestante poteva possederne un certo numero, spesso ereditati o ricevuti in dono da qualche parente, motivo, questo, di grande vanto. Invece, chi proveniva da una famiglia povera o modesta, di solito, si limitava ad indossare quelli più comuni, sempre in vendita nei negozi, o le riproduzioni in pintura, eseguite da alcune abili pittrici locali, diffusesi a partire dagli anni Trenta ma divenute molto in voga tra gli anni della Seconda Guerra Mondiale e gli anni Cinquanta. Dopo la Prima Guerra Mondiale, con l’abbandono nell’uso del costume da sposa con gonna di panno, scialle di seta e velo, ciò che rimarcava l’appartenenza sociale non era tanto la foggia dei capi quanto la rarità e la qualità dei tessuti, presumibilmente più costosi rispetto a quelli ordinariamente reperibili nei negozi locali. Infatti, solo i capi o i tessuti più a buon prezzo venivano acquistati da molte persone, diventando comuni e cessando subito di essere interessanti o desiderati, mentre la rarità divenne una qualità da ostentare come segno di ricchezza e di eleganza. 25 Così, furono sempre le più ricche che, per differenziarsi dalle altre, iniziarono ad inventare decorazioni e ricami particolari, arrogandosi la prerogativa di lanciare nuove mode; ma mentre alcune novità riscuotevano immediato successo e venivano subito imitate, altre restarono semplice espressione del gusto personale. Una giovane di famiglia povera o modesta non avrebbe potuto ambire a tanto: sarebbe stata subito accusata di superbia e criticata per aver osato sfidare la tradizione o per essersi messa allo stesso livello delle più ricche. Non è un caso se, dagli anni Venti in poi, un certo numero di donne, appartenenti per lo più a famiglie agiate, non avendo necessità di lavorare, poté specializzarsi nell’arte del ricamo, perfezionandosi sotto gli insegnamenti delle suore del Cottolengo, alle quali era stata affidata la gestione dell’asilo infantile. Questo fece sì che si arricchissero sempre di più i ricami delle camicie e si introducessero i primi grembiali ricamati, festivi o giornalieri, presto imitati anche dalle altre donne, le quali potevano dedicare al ricamo solo il poco tempo libero dal lavoro. Inutile dire, poi, che erano le più benestanti a potersi permettere gioielli d’oro: i bottoni, la spilla da appuntare sul fazzoletto o sul giacchino, qualche anello, una catenina; le altre potevano disporre di bottoni in argento bagnato, delle spille con medaglietta, in metallo vile, distribuite in occasione delle feste patronali o di altri gioielli, realizzati nelle leghe più svariate ma sempre di modesto valore. Come per gli uomini, anche per le donne le calzature furono a lungo un forte simbolo di distinzione sociale, divenuto però meno significativo mano a mano che ci si avvicina agli anni della Seconda Guerra Mondiale. Per quanto riguarda le calzature femminili, si ricordano is bottinus, stivaletti chiusi con elastico o bottoni laterali, in linea con i modelli in uso alla fine dell’Ottocento, e is scarpinus, scarpe più leggere, spesso di foggia scollata. Dagli anni Venti in poi, si diffuse l’uso delle scarpe commerciali, scelte, a seconda delle esigenze e delle possibilità, tra i modelli più in voga (Pau 2003: 224, modelli 339, 341, 342). In ambito giornaliero, le donne che non andavano scalze – e chi poteva cercava di evitarlo o di limitarsi all’ambito strettamente domestico – calzavano zoccoli o pantofole, aperti o chiusi sul davanti, utilizzati dalle meno abbienti anche in ambito festivo. 26 Illuminante, quanto affermato in proposito da Bogatyrëv (1986: 108): “Il fatto che l’abito sia cucito in tessuto più costoso, come quello che portano i ricchi, riguarda propriamente il vestito, ma serve anche a segnalare la differenza di classe di chi lo indossa”. 26 Per esempio, il modello 340 in Pau 2003: 224. Calzare scarpe durante le cerimonie era considerato così 25 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 125 L’abbigliamento infantile Ben poco si sa riguardo l’abbigliamento infantile, meno che mai di eventuali segni di appartenenza sociale, anche se qualche dettaglio e qualche aneddoto aiutano a ricostruire un quadro che, seppur non del tutto esaustivo, si ricollega a quelle stesse norme che regolavano l’abbigliamento degli adulti. 27 Generalmente, i neonati indossavano sopra is fatzadas, le fasce, piccoli camicini con o senza maniche, is gipponeddus; sul capo, l’immancabile caretta, la cuffietta, variamente ornata. In seguito, fino ai quattro-cinque anni, indistintamente, bambini e bambine indossavano abitini, ‘estireddus, più o meno lunghi, e grembiali, grembialleddus, del tutto simili a quelli che le riviste di moda italiane o europee proponevano a seconda delle mode. Solo attorno ai sei anni, mentre alcune bambine iniziavano ad indossare un costume pressoché completo; 28 altre passavano ad una fase intermedia, costituita da fazzoletto, gonna, grembiule e blusetta. Purtroppo, molto meno si sa sull’abbigliamento dei maschi, dal momento che questi iniziarono ad indossare già ai primi del Novecento indumenti di foggia borghese. É noto però, soprattutto da alcune fotografie di gruppo risalenti alla fine dell’Ottocento, che spesso, nell’infanzia, non si indossavano i calzoni a ruota (Pau 2003: 309). Le principali differenze di censo tra i bambini di età inferiore ai cinque o sei anni, erano generalmente espresse dallo stato dei loro abiti e dalla varietà delle ornamentazioni, in particolare i ricami, i pizzi e i nastri, che seguivano i modelli allora in voga (Ivi: 304) 29. Per quanto riguarda gli insiemi tradizionali, è veramente difficile farsi un’idea precisa su eventuali differenze differenze legate alla classe sociale di appartenenza. Verosimilmente, si può ipotizzare che i capi dei ragazzi appartenenti a famiglie benestanti fossero in migliori condizioni rispetto a quelli provenienti da famiglie molto modeste mentre, spostandoci nell’ambito dell’abbigliamento tradizionale femminile, sono soprattutto le immagini fotografiche delle scolaresche, scattate nei primi quarant’anni del Novecento, a mostrarci come le differenze di censo si esprimessero, per i più ricchi, attraverso l’uso di capi in buono stato e tessuti più costosi, anche se raramente di seta; infatti, se in occasioni di festa venivano fatti indossare grembiuli o fazzoletti di questo tessuto, spesso facevano parte del corredo da nubile, de bagadìa, della propria madre, magari opportunamente adattati (Pau 2003: 309). Quasi più che per gli adulti, l’uso di scarpe da parte dei bambini era un forte segno di appartenenza a una famiglia agiata. Era infatti diffusissima, nell’infanzia, la prassi di non portare scarpe, probabilmente perchè la rapidità di crescita avrebbe costretto a frequenti cambi di calzature, difficili da sostenere per molte famiglie. Tuttavia, specie per le importante che non era infrequente chiederne un paio in prestito, pur di non mostrarsi con gli zoccoli o, peggio che mai, scalze. 27 La predilezione per i capi unici, così tipica del gusto delle cabraresi in fatto di abbigliamento, sembra confermata, anche per il vestiario infantile, da una vicenda curiosa narrata dalla nonna paterna di chi scrive e risalente ai primi anni del Novecento. Pare infatti che sua suocera le avesse raccontato che, avendo trovato di suo gusto una cuffietta indossata da una bambina del vicinato, ne avesse fatto confezionare una identica per suo figlio. Quando l’altra donna, di famiglia agiata, se ne accorse, fu talmente infastidita che, non solo non fece più indossare la cuffietta alla sua bambina, ma la eliminò del tutto, usandola per tappare il buco di fuoriuscita dell’acqua nella vasca per lavare i panni. 28 Facevano eccezione i fazzoletti copri-seno, raramente indossati prima dei dieci anni. 29 Non è un caso se chi confezionava anche indumenti da bambino era chiamata modista. Presso queste sarte era possibile scegliere alcuni modelli di abitini in appositi giornali di mode, is catallicus. 126 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras bambine, anche nelle famiglie più modeste, si acquistavano zoccoli da usare per la messa domenicale o le feste. Riflessioni conclusive É dunque evidente che a Cabras una delle più grandi differenze tra ricchi e poveri era data proprio dalla possibilità di variare spesso il proprio abbigliamento, meglio ancora se questo era costituito da capi ereditati da altri membri della famiglia, quindi antigus. Curiosamente, ancora oggi, agli occhi di molte anziane donne, un ricco corredo personale di capi ‘di famiglia’ è senz’altro più legittimo, di uno altrettanto ricco ma costituito, per lo più, da pezzi acquistati da altre persone; così, mentre il primo va incontro ad ammirazione, il secondo è spesso motivo di un certo biasimo nei confronti della proprietaria, accusata di troppa vanità. Oltrettutto, un corredo personale ricco poteva essere anche una buona risorsa a cui attingere in caso di rovesci economici. Infatti, non poche donne, in grande segretezza, affidavano alcuni capi ad altre donne che, dietro modesto compenso, si impegnavano a venderli, preferibilmente in paesi del circondario, perché i capi non venissero riconosciuti e non si venisse a sapere che loro stesse o la propria famiglia versavano in uno stato di difficoltà economica. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, si assiste ad un progressivo livellamento delle differenze; infatti, grazie agli scambi sempre più frequenti, molte donne, pur essendo di modeste origini, riuscirono ad impossessarsi di capi che, altrimenti, non avrebbero mai potuto avere. Le trattative avvenivano sempre in grande segretezza, sia per non far sapere a nessuno della compravendita, sia per assicurarsi la scelta dei capi migliori. La possibilità di distinguersi, altra importante distinzione tra classi povere e classi agiate, alle quali la comunità concedeva questa prerogativa, nel tempo ha portato alla creazione di fogge diverse, alla predilezione per alcuni tessuti o decori rispetto ad altri, finendo col determinare così quell’insieme di caratteristiche nelle quali i cabraresi, per lungo tempo, hanno riconosciuto i loro abiti. Queste ‘mode’ – tale è il termine usato da alcune informatirici per designare, in particolare, i cambiamenti dell’abbigliamento femminile – se accetttate e assimilite dalla comunità, 30 si diffondevano gradatamente fino ai più poveri, i quali amavano modellare i propri gusti su quelli dei benestanti, ovviamente entro i limiti delle loro possibilità economiche. Si trattava di un fenomeno, per così dire, a senso unico: l’innovazione partiva sempre dai più ricchi, senza che si verificasse mai il fenomeno contrario, dal momento che, più di ogni altra cosa, erano le possibilità economiche ad incidere sul modo di vestire di una comunità nella quale era dovere di ciascuno evitare, per quanto possibile, di diventare oggetto di critica, dove ognuno imparava fin dalla nascita a ‘stare al suo posto’ e a comportarsi nei modi in cui il proprio censo esigeva. Introdurre un dettaglio nuovo o una variazione nel modo di vestire abituale, infatti, inevitabilmente attirava l’attenzione su chi li esibiva; 31 per questo, considerando che le persone benestanti godevano già di per sè di una posizione di spicco, veniva concessa loro la prerogativa di farsi notare anche attraverso l’abbigliamento. Affinché una novità venisse assimilata e entrasse a far parte del sistema vestimentario comune, era fondamentale l’accettazione da parte della comunità. Si veda in proposito Bogatyrëv 1986: 109, 116 nota 1. 31 Le donne che introducevano delle modifiche nel proprio modo di vestire, generalmente allo scopo di renderlo più bello, erano pienamente consapevoli delle attenzioni che avrebbero ottenuto. Il richiamo dell’attenzione su un particolare oggetto è uno dei più importanti aspetti della funzione estetica. Bogatyrëv 1986: 105. 30 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 127 Viceversa, la comunità si sarebbe mostrata meno tollerante con una persona di famiglia modesta che si fosse messa in mostra nello stesso modo: quel gesto avrebbe potuto essere interpretato quasi come una sfida nei confronti delle compaesane di rango più elevato del suo, generando, di conseguenza, tutte le critiche del caso. 32 Appare evidente, dunque, che norme non scritte, le stesse a cui accenna Alberto Cirese (1997: 180-181) a proposito della dicotomia tra costumi ‘popolari’ e abbigliamento borghese – il primo simbolo della classe subalterna, il secondo di quella dominante – regolavano anche il sistema vestimentario tradizionale cabrarese visto che, per lungo tempo, si è sentita l’esigenza di trovare, pur col variare delle mode, alcuni dettagli che differenziassero le classi sociali. In ogni caso, va specificato che la capacità di decodificare questo tipo di linguaggio è andata affievolendosi mano a mano che ci si avvicina ai giorni nostri, vista la progressiva sparizione delle persone in grado di assegnare un significato a questo tipo di simboli. Di tutto questo, infatti, oggi rimane ben poco, fatta eccezione per alcune anziane che hanno indossato o che ancora indossano quotidianamente il costume e che si mostrano informate anche sui capi posseduti da molte loro compaesane, defunte o ancora in vita. A parte questi casi, sempre più sporadici, l’abbigliamento tradizionale viene utilizzato raramente, in occasione di qualche festività o manifestazione folkloristica, senza che, almeno nella maggior parte dei casi, vi sia una conoscenza del valore dei capi indossati. Al giorno d’oggi, in ambito folkloristico, viene presentato come ‘costume di Cabras’ una foggia, elaborata negli anni Settanta, che ricorda l’abbigliamento delle spose ricche, quello con gonna di panno, scialle di seta e velo. Tuttavia, si tratta di una versione di fattura molto semplificata e decisamente più economica, fortemente uniformata negli accostamenti di colore, incentrati su nero, rosso e oro, una gamma cromatica alla quale si è omologato anche l’abbigliamento maschile, caratterizzato dai calzoni a ruota in panno rosso, in luogo di quelli tradizionali in panno nero, comparsi nei primi anni Sessanta e ormai diffusissimi in nome di una presunta ‘antichità’ della quale, putroppo, non si è trovato finora riscontro nemmeno nelle fonti più antiche, che riportano sempre e solo calzoni di colore nero. Inoltre, la creazione del mito degli ‘Scalzi’, nato in ambito folkloristico a partire dagli anni Sessanta, ha fatto si che, anche con un abbigliamento festivo o ‘ricco’, si faccia comunque a meno delle calzature, con grande disappunto degli anziani che si mostrano spesso vivacemente contrari e che non si riconoscono in una prassi che, al contrario, per le generazioni più giovani è diventata un forte simbolo identitario, molto più significativo dello stesso costume. Bibliografia ANGIUS V. 2006 Città e villaggi della Sardegna nell'Ottocento, Nuoro, Ilisso. BRESCIANI A. 1850 Dei costumi dell'isola di Sardegna comparati con gli antichissimi popoli orientali, Dal momento che chi aveva bisogno di lavorare non poteva permettersi tessuti molto costosi o un ricco guardaroba, potevano anche sorgere dubbi sulla legittimità della provenienza di certi capi. A testimonianza della maldicenza sulla provenienza di certi capi ostentati da donne di modeste possibilità, esiste una vecchia canzone satirica cabrarese nella quale due servette, vantandosi dei doni ricevuti per aver ceduto alle attenzioni dei loro giovani padroni, enumerano, tra i vari omaggi, proprio una serie di capi d’abbigliamento (Manca Cossu – Camedda – Loche 2007: 39. 32 128 Intrecci. Quaderni di antropologia culturale, Anno II, n°1 Poddi M., Alcune considerazioni sulle differenze di classe nell’abbigliamento tradizionale di Cabras Napoli, Giannini. CIRESE A. 1997 Dislivelli di cultura e altri discorsi inattuali, Roma, Meltemi. CONTU F.R.. 2003 “Il sistema vestimentario”, in Costumi. Storia, linguaggio e prospettive del vestire in Sardegna, a cura di A. Pau, Nuoro, Ilisso. COSTA E. 1898 Album di costumi sardi, Sassari, Dessì. 2001 La Bella di Cabras, Nuoro, Ilisso. DELITALA E. 1987 “Prefazione“, in Chiara Samugheo, Costumi di Sardegna, L’Unione Sarda, Cagliari. 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