ATTUALITÀ
il nostro
tempo
Domenica 20 Aprile 2003
n. 15
7
soli venti giorni: un record. Il mestiere dell’inviato, con i suoi rischi e la sua difficile, talvolta impossibile ricerca della verità fra i contendenti
le candeline
al «Palestina»
déi: come ieri sera, davanti al video, hai pensato di
Riccardo Muti che dirigeva la paradisiaca Serenata
«La gran partita» di Mozart
a La Sapienza di Roma,
dopo la chiassata pacifista
degli studenti placata dalle parole del Maestro, semplici e dirette come lampi
di luce (davanti a un Andreotti impassibile, seduto
in prima fila).
Poi il Tg3 delle undici, e
il tuo umore tracolla: dicono che a Bagdad sono
stati uccisi due giornalisti da un colpo di cannone
partito da un carro armato americano e finito contro il «Palestine». E’ l’albergo dove gli inviati dei
giornali e delle radio-tv di
tutto il mondo rimasti nella capitale irachena si sono concentrati dopo che
il Pentagono aveva chiesto
loro di lasciare la precedente residenza, considerata un obiettivo militare.
Con questi due, più uno
di Al Jazeera ucciso da
un missile nella sede della sua tv, fanno undici.
INTERVISTA
In venti giorni: un record.
Compare sullo schermo la
portavoce del Pentagono,
Victoria Clarke, una bionda di mezza età dal volto
duro, solitamente irritato
e irritante. Chiede freddamente scusa ai colleghi
dei caduti, ma avverte: «In
guerra si muore». Vero, lo
dice anche il Papa.
Zapping. Su Raiuno c’è
«Porta a porta». Vespa ha
con sé un assistente, addirittura un generale, che
tiene in mano una bacchetta e segnala su una
cartina in rilievo di Bagdad i luoghi di cui si parla: il fiume Tigri, le residenze di Saddam (chissà dov’è finito il raìss, causa prima di tutto questo)
l’albergo «Palestine». Sullo
sfondo, dal «Palestine», Lilli Gruber con un giubbotto
su cui è scritto «Press», come un salvacondotto. Parla e la voce le trema, dice
che i giornalisti del «Palestine» non sono eroi, tutti
hanno paura, ma è il loro
mestiere, cercano di farlo
il meglio possibile.
Vespa appare preoccupato solo di farle raccontare il fatto del giorno, il
colpo di cannone del tank,
senza un minimo di emozione, senza un giudizio
critico. Dal Pentagono sostengono, segnala a Lilli,
che il colpo è stato sparato «per autodifesa», può
essere vero? Lilli si trattiene, non vuole che qualcuno di An ripeta che lei, come Giovanna Botteri del
Tg3, è una «velina di Saddam», un’«infiltrata di sinistra» nella Rai del centrodestra.
Si trattiene, ma non può
non dire che il Pentagono
racconta una frottola: al
«Palestine» non c’era in
quel momento, né c’è mai
stato, un cecchino pronto
a sparare sugli americani.
Fornisce la prova numero
uno di quel che dice: nessuno nell’albergo ha sentito spari nei minuti precedenti il colpo di cannone.
Prova numero due: il Pentagono sostiene che erano
partiti proiettili dalla lobby al pianterreno dell’al-
bergo, ma la lobby è dalla
parte opposta al fiume,
sulla cui sponda occidentale si trovava il tank.
In studio c’è un altro generale, il generale Ramponi, deputato di Alleanza nazionale e presidente
della commissione Difesa
della Camera. Non fa nulla per nascondere il fastidio che prova per i discorsi di Lilli. Propone un’ipotesi: che l’addetto a quel
cannone sul carro armato
sia stato messo in allarme
da quanto vedeva sporgere dai balconi del «Palestine», e cioè possibili armi
da fuoco puntate proprio
contro gli americani. Può
cioè aver confuso telecamere e macchine fotografiche con kalashnikov.
Sul volto di Lilli, a migliaia di chilometri di distanza, appare un’espressione insieme di sorpresa, disgusto, indignazione
e commiserazione: come
è possibile che il carrista
non sapesse cos’era quel
palazzo di diciotto piani,
dall’altra parte del fiume?
Un edificio da cui non venivano spari? E gli ordini
impartiti di evitare danni
collaterali e perdite fra i
civili? E perché ha esploso
un solo colpo, se riteneva
tanto minaccioso quel parallelepido di cemento color crema e le presunte
armi dei presunti cecchi-
ni erano tante, appoggiate sulle ringhiere dei balconi?
Il generale scuote il capo. Non gli passa nemmeno per la testa che Lilli
possa aver ragione. Che
l’America possa sbagliare
(come i suoi carristi). Che
se «in guerra si muore» sia
meglio non fare la guerra.
Che prima di fare una
guerra presidenti, congressi, governi e ovviamente comandanti militari debbano leggere qualcosa; ad esempio «La prima
guerra mondiale» dell’inglese B. H. Liddell Hart,
un classico in materia di
conflitti armati moderni.
Quel libro si conclude con
una pagina memorabile,
in cui si spiega perché sia
«assurdo chiedersi quale
Paese vinse la guerra»: un
elenco freddo e drammatico delle incongruenze e
delle contraddizioni in cui
ogni impresa di quel genere cade fatalmente, quando la cruda realtà della
storia gioca con le velleità
degli uomini. Con una lezione di modestia anche
per superpotenze (allora
il riferimento era la Germania imperiale che progettava l’assalto al potere
mondiale): «In tempo di
pace la tecnica militare
è così potente da scatenare la guerra; in tempo di
guerra è così impotente da
non riuscire ad assicurarsi la vittoria».
Zapping. Un Tg mostra
Bush il Giovane e Tony
Blair che escono dal loro
summit irlandese e si presentano alla conferenza
stampa; viene letto il comunicato finale, con quell’unico accenno al ruolo
«vitale» lasciato all’Onu per
il dopoguerra. Davanti alla domanda «Cosa vuol dire vitale?», George W. fa la
stessa faccia stupita e infastidita del professor Kagan. «Vitale vuol dire vitale», è la secca risposta.
Zapping. A «Porta a porta» si accende una piccola
disputa su quella parola.
L’ex premier e ministro degli Esteri Lamberto Dini,
fino a quel momento confinato silenzioso in un angolo, sbotta: «Vitale significa che alle Nazioni unite
l’America lascia il compito di portare all’Iraq generi alimentari e medicinali.
Più vitale di così…». Il controllo del petrolio, gli equi-
libri in Medio Oriente, la
soluzione della questione
palestinese, le altre guerre eventuali rimangono di
spettanza americana. «Del
resto è logico», conclude
Dini sempre più imbronciato, «l’America ha fatto
la guerra, l’America è giusto che faccia la pace».
Zapping, zapping. Da
qualche parte («Primo piano» su Raitre, La7?) irrompe la scena madre, inattesa, straziante: un gruppo di giornalisti sono scesi
nel giardino del «Palestine» e accanto a un tendone accendono una candelina ciascuno e la posano
su un tavolo. Uno di loro
alza gli occhi al cielo e
pronuncia i nomi dei colleghi uccisi dal proiettile del
carro armato. Forse è spagnolo. Forse prega. Spegni
l’audio e mentre la scena
va in dissolvenza nel cielo
notturno ti sembra di sentire in lontananza il triste
walzer tzigano dello zingarello del pullman.
Càndito: è l’ora della notizia
ridotta a continuo spettacolo
La seconda guerra del
Golfo ha offerto nuovi e
interessanti spunti di discussione sul mestiere dell’inviato. Ne abbiamo parlato con Mimmo Càndito,
reporter de «la Stampa» e
docente universitario. Da
più di 25 anni segue e racconta i conflitti in ogni angolo del pianeta. In questi
giorni è in Italia per presentare il suo ultimo libro,
«L’apocalisse di Saddam»,
edito da Baldini & Castoldi.
Iniziamo da una questione di deontologia
professionale.
Cosa
pensa del licenziamen-
to di Peter Arnett in seguito all’intervista rilasciata a un collega
iracheno?
Il sistema giornalistico
americano è sottoposto a
un notevole stress patriottico. Censura pesantemente qualsiasi voce che
non sia conformista. Quello che ha detto Peter Arnett sulle strategie americane è la verità, ma nessuno si sentiva di dirla.
Il risultato: un gravissimo
colpo all’immagine del sistema giornalistico americano.
Comunque Arnett è
stato subito assunto da
una testata inglese…
Così è il mondo dell’informazione e per un certo verso quello dello spettacolo.
Chiunque diventi un “personaggio” è appetibile dal
punto di vista della produzione giornalistica, perché
fa pubblicità.
Per allestire la sala stampa in Qatar, il Pentagono ha speso 1,2 milioni
di dollari, ingaggiando
uno scenografo di Hollywood. Che dire?
Siamo ormai all’interno
della logica della comunicazione spettacolare. Ciò
che conta per i produttori
di informazione è raggiungere il massimo di efficacia possibile.
Il piccolo schermo ha
esigenze di spettacolarizzazione, la notizia si
“consuma” in pochissimi minuti. Come lavora l’inviato della carta stampata?
È consapevole di giocare
un’altra partita. Sa perfettamente che il suo ruolo è un ruolo subordinato,
al traino dell’informazione televisiva, ma cerca di
guadagnarsi spazi che siano autenticamente suoi.
Per onestà verso il lettore,
ma anche per principio deontologico, deve resistere
il più possibile alla pressione della spettacolarizzazione, anche se opera in
una realtà dove il pubbli-
co è condizionato da questo tipo di comunicazione.
È cambiato il modo di
“scrivere” la guerra?
Oggi la scrittura tende ad
essere più attenta alle esigenze della comunicazione
visiva: il giornalista è consapevole che comunque la
notizia si consuma per immagini.
La tv è tornata a essere protagonista dopo il
Vietnam?
Sicuramente. La tv ci sta
portando la guerra in casa. Fino all’Afghanistan la
scelta era di tener lontano
i giornalisti dal campo di
battaglia. Adesso li si «incastra» (dal termine americano embedded) al se-
guito delle truppe. L’obiettivo (almeno all’inizio) era
di legittimare l’intervento
attraverso sequenze di immagini corroboranti per il
patriottismo e la retorica
Usa. La prova sul campo
ha deluso le aspettative di
politici e militari, ma resta
il fatto che siamo dinanzi
a una guerra “televisiva”.
Nel conflitto del 1991
nastia hashemita (rovesciata nel luglio 1958
da un cruento colpo di
Stato militare, colpevolmente tollerato dagli inglesi) potrebbe sperare
di impedirne l’esplosione. Ne verrebbe certo garantita la costituzione di
un governo super partes,
con un minimo di tolleranza (secondo la migliore tradizione hashemita) in mancanza di una
vera democrazia, davvero difficile, se non impossibile, da instaurare
in un Paese sostanzialmente tribale dai fondamenti islamici.
Rebus sic stantibus
proprio non vorremmo
che di lì a qualche tempo
gli iracheni “liberati” dovessero giustificatamente pronunciare l’abusata frase «si stava meglio
quando si stava peggio».
avrebbe dovuto insegnare qualcosa all’ingenuo George W. Bush
degli americani
dittatura del Viet-Minh,
mentre in Cambogia
spadroneggia il criminale Pol-Pot.
1979 - Figuraccia del
democratico Carter che,
dopo aver tradito il regime filo-occidentale dello scià, fallisce clamorosamente il tentativo di
salvare alcuni prigionieri americani, finendo per
rafforzare il brutale regime di Khomeini e consegnare di fatto la Casa
Bianca al repubblicano
Ronald Reagan.
1991 - Gli Stati Uniti
costringono l’Iraq ad abbandonare il Kuwait, ma
Bush sr. Non conclude
l’opera lasciando indenni le strutture del regime totalitario di Saddam
Hussein, che in compenso manda a morte mi-
Dal 1917 a oggi, passando per la
Russia di Stalin, la Corea, Nasser,
il Vietnam, l’Iran dello Scià e di
Khomeini: quante scelte sbagliate...
gliaia di curdi e sciiti, finiti giustamente sul conto degli americani.
Sono due etnie, sentenziano i nostri radio
e telecronisti che, unitamente a una terza (i
sunniti), danno vita all’Iraq. È una sciocchezza piramidale. Equivale
a dire, per esempio, che
in Germania ci sono attualmente tre etnie: turchi, luterani e cattolici.
Gli americani tuttavia,
notoriamente incolti e
ignari della storia altrui,
nulla sanno, a differenza degli inglesi, dell’intricata vicenda dell’Iraq,
che venne inventato da
Churchill dopo la Grande guerra ritagliandone
i confini sulla carta geografica.
Naturalmente tutto ciò
ha pesato sul modo politicamente superficiale di
affrontare questa guerra, senza cioè valutare
appieno l’esistenza di secolari contenziosi sia di
natura politico-religiosa
fra sciiti e sunniti, sia
etno-politici fra turchi
e curdi, i quali sembrano intravedere finalmente l’agognata meta di un
Kurdistan indipendente
(o almeno autonomo nell’ambito di un presunto
Iraq federale), ma anche
trascurando l’esistenza
di una minoranza turcomanna che guarda consapevolmente ad Ankara. Ci troviamo insomma dinanzi a un’autentica polveriera che finora
controllata con il terrore
di Saddam Hussein, oggi
forse soltanto un’eventuale restaurazione (però improbabile) della di-
100
95
92,2
Kosovo
Palestina
80
57,6
60
la stampa era imbrigliata. Oggi il Pentagono ha permesso a centinaia di giornalisti di
seguire le truppe. Un
passo avanti?
Il guinzaglio non è meno
corto, anzi. L’inviato embedded è subordinato agli
ordini del comandante del
battaglione in cui si trova:
deve accettare di avere un
orizzonte limitato. In qualche modo è come se si piegasse ad essere giornalista di agenzia, cioè a riportare soltanto una piccola parte di quello che
sta avvenendo. Senza non
pochi rischi, c’è comunque chi, spinto dalla voglia
di conoscere e raccontare,
viaggia da solo per il fronte e riesce ad avere una visione globale dell’evento.
Cnn e Al Jazeera forniscono spesso notizie
contrastanti. Dove finisce l’informazione e
inizia la propaganda?
Da tempo si dice che la
Cnn è diventata il braccio
televisivo della Casa Bianca e che Al Jazeera è mossa da uno spirito di fratellanza musulmana. La verità va ricercata nel confronto tra le due diverse
fonti di informazione.
Al Jazeera per prima
ha mostrato le immagini dei soldati morti
al fronte. Censura pesante oltre oceano, minore in Europa. Chi ha
ragione?
In Europa molte tv si sono
trincerate dietro alla deontologia professionale e al
diritto all’informazione. Le
Colombia,
Guinea
Bissau,
Angola,
Sierra
Leone,
Sri Lanka
42,4
40
20
7,8
5
0
tv
radio giornali
SCHEDA
Cronisti al fronte:
quanto ci costano
S
E LA GUERRA in Iraq
costa in media 300 milioni di dollari al giorno, le spese della copertura
informativa non sono da
meno: solo per il media center di Doha, in Qatar, il
comando centrale Usa ha
sborsato 1,2 milioni di dollari (circa due miliardi e
mezzo di vecchie lire). Dotato di 24 grandi schermi televisivi ultra sottili al plasma,
con impianto audio dolby
hi-fi per assicurare la massima fedeltà alle veline del
generale Tommy Franks, il
centro è di fatto un set spettacolare progettato da George Allison, uno dei più noti
direttori artistici di Hollywood, assoldato dal PentagoBambini a
Baghdad
davanti a un
carro armato
americano (Sir)
e, nel riquadro,
l’inviato de «La
Stampa»
Mimmo
Càndito. In alto
a sinistra,
accanto al titolo,
l’ingresso delle
truppe
statunitensi nella
capitale
irachena (Sir) e,
nell’immagine
piccola a destra,
la giornalista
del Tg3
Giovanna
Botteri. A
fondo pagina,
una statua di
Saddam Hussein
presa a calci
(Sir)
Parla un “vecchio” del giornalismo più pericoloso
CARLO VIGLIANI
Percentuale di spazio riservato
alle notizie su sette guerre-campione
(dati Caritas, Italia, 1999-2001)
tv Usa, invece, hanno dato
priorità all’etica patriottica: d’altronde i morti erano tutti angloamericani.
I media hanno ancora
un forte potere sull’opinione pubblica?
In astratto sì, in concreto
no. Negli Stati Uniti c’è la
campagna promozionale a
favore della guerra è impressionante. Certo, non
mancano le voci fuori dal
coro: il «New York Times»,
ad esempio, ha chiaramente detto no alla guerra, però il quadro generale
resta segnato da un forte
spirito patriottico.
Qual è oggi l’equipaggiamento standard di
un inviato di guerra?
Sicuramente il cellulare
satellitare. E poi il video
telefono, il computer portatile, un elmetto, un giubbotto anti proiettile, viveri
di sussistenza, tanto denaro e, magari, una macchina da scrivere per quando
manca l’elettricità.
I diari su Internet (i cosiddetti blog) sono utili
al processo dell’informazione?
Temo che rispondano più
che altro al processo di
spettacolarizzazione cui
accennavo sopra, perché
sono espressione di sentimenti ed emozioni. Servono sicuramente a comprendere ciò che sta avvenendo in una realtà , ma
non la rappresentano meglio di quanto possa fare
il precorso tradizionale del
giornalismo, che è invece
un processo di analisi distaccata.
no per 200 mila dollari.
Nella corsa al war show
anche i mass media non
sfigurano. Fare una stima
esatta dei costi diretti è
pressoché impossibile: le
variabili sono infinite, a cominciare dalla durata del
conflitto. Tuttavia qualche
conto in tasca si può fare.
La Rai, ad esempio, ha in
tutto sedici inviati: 7 per
il Tg1 (tra cui Lilli Gruber,
Monica Maggioni e Duilio
Gianmaria), 4 per il Tg2 (tra
loro Sandro Petrone e Angelo Figorilli), 5 per il Tg3
(compresi Giovanna Botteri, autrice dello scoop sul
bombardamento in diretta
a Baghdad, e Giovanni Buonavolontà). Non solo: ogni
giornalista ha almeno un
telecineoperatore al seguito. E per tutti: biglietti aerei,
alberghi, assicurazioni, attrezzature. Solo i videotelefoni satellitari «Immarsat», i
preziosi ritrovati tecnologici
che trasmettono voci e immagini senza utilizzare i ripetitori di terra, costano 35
mila euro l’uno e ogni inviato ne ha in dotazione due.
Insomma, la stima di viale
Mazzini all’inizio delle ostilità si aggirava sui 5 milioni di euro totali, ma difficilmente sarà rispettata. E
Mediaset? Gli inviati in tutto sono sette, tra cui Tony
Capuozzo, Mimosa Martini,
Pietro Suber e Silvia Brasca.
Secondo i calcoli del presidente del Biscione, Piersilvio Berlusconi, la copertura
della guerra dovrebbe costare circa 40 mila euro al
giorno.
Pesanti anche i costi indiretti dovuti ai mancati introiti pubblicitari. Negli Usa
i guru del marketing hanno
infatti bloccato gli investimenti e hanno revocato annunci pubblicitari per oltre
100 milioni di dollari. In Italia l’effetto della guerra sulla pubblicità è più lieve, ma
ha comunque messo in allarme i grandi inserzionisti
che già devono fare i conti
con consumi debolissimi.
L’imprenditore Diego Della
Valle, ad esempio, ha chiesto a quotidiani e riviste di
sospendere le inserzioni relative alle sue scarpe di lusso Tods. Altre marche (come Genertel, Tele2 e alcune case automobilistiche)
hanno imposto ai creativi
di eliminare dai messaggi
le scene di incontrastata felicità urbana, per puntare
su sconti e promozioni. Ma
anche gli editori sono corsi
ai ripari, come rivela Felice
Lioy, direttore generale dei
pubblicitari Upa: «Per favorire le aziende che non vogliono congelare o far slittare la pubblicità televisiva
in un periodo cruciale come quello delle feste pre-pasquali, Rai e Mediaset hanno istituito una “zona franca” depurata dalle news di
guerra, una sorta di riserva
che va dalle 20 alle 22,30».
Gli affari sono affari, anche
sotto le bombe.
[l.r.]
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