IL ROMANZO
Ishtar è ancora una fanciulla quando viene rapita da una spedizione di guerrieri ittiti. È lei – conosciuta da
tutti come la camminatrice dei sogni per i suoi poteri straordinari – che la Profezia indica come la sola
capace di sconfiggere la peste che da mesi semina morte tra la popolazione della Terra di Hatti, uno dei
regni più potenti dell’antichità. Da qui, ha inizio un viaggio affascinate continuamente sospeso tra storia e
mito che cambierà per sempre il destino di Ishtar e trascinerà il lettore in un’avventura entusiasmante tra
intrighi di palazzo, lotte eroiche e battaglie epocali.
L’AUTRICE
Irene Grazzini è nata nel 1985 ad Arezzo e lavora come medico a Siena. Le sue passioni sono la musica,
l'equitazione (ha un cavallo di nome Emilton), i viedeogiochi e la letteratura. Collabora con le riviste web
Fantasy Magazine e Altrisogni.
I signori dei cavalli
di
Irene Grazzini
© 2014 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 9788898562237
Prima edizione eBook gennaio 2014
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Qualsiasi riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale e indipendente dalla volontà dell’autore.
I signori dei cavalli
PROLOGO
I sette uomini attendevano in religioso silenzio.
Avvolti in mantelli di lana nera, stavano in piedi di fronte alla grande porta chiusa.
Sui battenti di legno si stagliavano in rilievo due tori che si fronteggiavano a testa
bassa. Statuette di terracotta che li rappresentavano erano sparse ovunque tra le
colonne, indicando come quel luogo appartenesse al dio della tempesta di Sarissa.
Il vento che spirava da oriente spazzava il cortile con violenza, ma gli uomini non
battevano ciglio. Muti e immobili, parevano anch’essi statue alla luce della luna che
brillava sulle corazze di bronzo, sugli elmi rotondi e sull’elsa delle spade ricurve che
portavano alla cintura. Il metallo era freddo a contatto con i loro corpi, ma tremare
sarebbe stato sintomo di debolezza.
I deboli morivano e i forti sopravvivevano.
Persino gli dei rispettavano questa legge, feroce nella sua semplicità.
Con l’avanzare della notte la temperatura si abbassò e la falce della luna cominciò
a combattere con le nubi che cercavano di soffocarla. Qualche goccia di pioggia
ticchettò sulle armature, ma gli uomini non si muovevano.
Arrivò un altro guerriero. Anche lui era armato, ma teneva in mano l’elmo e il
volto tradiva lo sforzo della corsa per arrivare fino a lì.
Un uomo si staccò dal gruppo per andare ad accoglierlo. L’elsa della sua spada
era placcata d’oro.
Intendeva ostentare il suo rango perché aveva paura di perderlo.
“È arrivato?” chiese in un sussurro, come temendo che il vento portasse le sue
parole a orecchie indiscrete.
“Sì, principe,” rispose il guerriero in fretta, “ti aspetta nelle stanze degli ospiti.”
“Allora prendi il mio posto e di’ agli altri che devo sbrigare una breve
incombenza” disse Urhitesup, figlio del re Muwatalli, signore della Terra di Hatti.
Gettò una rapida occhiata alla scorta che attendeva alle porte. La pioggia si stava
infittendo, era sottile e pungente. Sapeva che non si sarebbero mossi, fin quando il
re non fosse uscito dalle sacre celle del dio Teshup, la Tempesta.
Cercava una risposta da cui poteva dipendere il futuro della sua nazione. Se non
era possibile trovarla tra gli uomini, non restava che rivolgersi agli dei. Ma non
sempre gli dei erano in ascolto delle parole dei mortali. E Urhitesup temeva che
neppure parlassero la stessa lingua. Erano due mondi che non potevano
comprendersi.
Attraversò a passo rapido il cortile pavimentato con mattoni di terracotta, con un
colonnato ai due lati. L’intero complesso gli ricordava i templi della capitale,
Hattusas, ma era più piccolo, raccolto. Più... intimo. Si respirava un’aria di quieto
mistero e, mentre camminava tra le ceneri dei sacrifici che ancora ricoprivano il
grande cortile, Urhitesup cominciò a provare un senso di inquietudine sottile.
Quello non era il posto giusto per l’incontro che sua madre aveva programmato
per lui.
Ma ormai l’emissario era arrivato. Rimandarlo indietro non avrebbe mondato la
sua coscienza davanti agli dei, né coronato i suoi sogni. Avrebbe soltanto vanificato
tutti gli sforzi per ingraziarsi gli alleati del sud.
Non era difficile, quando si promettevano potere e ricchezza.
Un grido acuto riecheggiò nel tempio. Un grido di follia che non aveva nulla di
umano. Urhitesup suo malgrado sussultò.
La Profezia era iniziata.
Allungò il passo, costeggiando la vasca in cui l’acqua lustrale era uno specchio
scuro e insondabile. La pioggia lo increspava in minuscole onde concentriche. La
montagna, ai cui piedi Sarissa era costruita, era ricca di acqua e poco lontano
sgorgava il fiume Mirasantiya, il più importante del regno.
Urhitesup lo aveva risalito pochi giorni prima insieme al re e alla sua scorta,
spronando i cavalli fino a farli crollare di fatica. La situazione a Hattusas era grave e
la fiducia del popolo cominciava a vacillare. I regni vicini aspettavano con
impazienza l’evolversi degli eventi, tanti cani ringhianti in attesa di cogliere un attimo
di debolezza per piombare sulla Terra di Hatti.
Muwatalli sapeva che doveva agire subito, prima che lo scontento dilagasse. Per il
momento, solo grazie al fratello il potere era ancora nelle sue mani.
Urhitesup strinse il pugno e proseguì. Intorno al tempio erano sorti
disordinatamente magazzini e altri locali per i sacerdoti e per i guerrieri, che
sorvegliavano il complesso per paura degli incendi. Bastava che una scintilla
guizzasse dai focolari per scatenare l’inferno sulla terra e l’ira degli dei. Era già
successo e il tempio era stato ricostruito.
Ma forse gli dei si erano offesi comunque.
Il Morbo Nero però era una punizione troppo grande.
La porta della sua stanza era accostata. Urhitesup era convinto di averla lasciata
chiusa. Non che importasse, non aveva nulla di valore là dentro. Tutti i suoi averi li
portava addosso ed era partito troppo in fretta per preparare il bagaglio. Come
principe, era abituato ad agi maggiori nella capitale, ma per lo meno là era al sicuro
dal pericolo del contagio. Anche sua madre si era temporaneamente trasferita in una
tenuta fuori città, in attesa del responso divino.
Tutto il regno lo aspettava con il fiato sospeso.
Entrò nella stanza spoglia. Una torcia ardeva su un supporto metallico, lasciando
un filo di fumo che si allungava verso la terrazza. Un’ombra si stagliava sotto la
pioggia, assaporandola come un dono.
Gli abitanti del Regno del Sole non erano abituati ad averla in abbondanza.
“Salute, principe” la voce dell’uomo era bassa. Il suo ittita era scorrevole, ma
indugiava sulle sibilanti come se gli risultasse difficile pronunciarle in quella lingua
che non era la sua. Se a un esame superficiale poteva sembrare un membro della
Terra di Hatti, la sua carnagione più scura e la pronuncia più dolce, lo palesavano
come egiziano. Urhitesup fece una smorfia. Per lo meno l’emissario aveva rinunciato
alla ridicola moda di truccarsi gli occhi e indossare parrucche come una donna. Gli
uomini del sud erano delle femminucce.
“Vieni dentro” sbottò Urhitesup. Doveva essere lui a condurre la conversazione.
Si sentì quasi messo alle strette. Calma, si impose. Suo padre gli aveva insegnato che
la calma era indispensabile per ogni trattativa.
Anche per quelle rivolte contro di lui.
L’egiziano accennò un sorriso. Si strinse nel mantello, sedendosi su una panca di
legno.
“La vostra terra è ricca di acqua, ma fredda.”
Urhitesup non si curò di rispondere. In Egitto forse erano abituati a giochi di
parole, ma per lui erano solo una perdita di tempo.
“Cosa ne pensa il Faraone della mia proposta?”
L’egiziano accavallò le gambe con un movimento sinuoso. Non portava la barba
e il suo volto era completamente rasato. Oppure glabro. Osservandolo con
attenzione mista a disprezzo, Urhitesup ebbe il dubbio che non fosse un uomo
completo. Ma non aveva intenzione di alzargli la tunica per controllare l’integrità dei
suoi testicoli.
“Ramses II, Amon lo protegga sempre, signore del Sole, poiché il sovrano è
Ptah˗a˗sud˗delle˗sue˗mura...”
“Sì, sì, ho capito,” lo incalzò Urhitesup spazientito, “senti, non abbiamo molto
tempo. Presto mio padre il re uscirà dalla cella del tempio e io dovrò essere là ad
accoglierlo, e tu lontano da qui. E nessuno dei due ricorderà di aver parlato con
l’altro, siamo intesi?” In caso contrario lui avrebbe negato tutto. Suo padre si
sarebbe fidato. Forse.
I suoi soldati avevano il compito di uccidere quell’uomo, se si fosse attardato a
Sarissa più del necessario.
Il sorriso dell’egiziano non ebbe tentennamenti. Sembrava dipinto sulla sua
faccia.
“Ramses è giovane, ma è come suo padre. Vuole che il suo Ka viva per sempre.”
Notò che l’altro si era accigliato. “Il Ka è la sua anima immortale.”
Urhitesup cominciava a pensare che niente fosse immortale. Il Morbo Nero lo
aveva dimostrato. Gli uomini che un attimo prima erano sani cominciavano a sputare
sangue, erano consumati dalla febbre, si gonfiavano come scrofe in calore e si
coprivano di pustole sotto le ascelle e l’inguine. I guaritori non potevano nulla, anzi,
erano stati i primi a morire, per il contatto con i malati. Il terrore dilagava.
Il palazzo era stato isolato per tenere lontano il Morbo, ma era stato inutile. Era
giunto e aveva cominciato a mietere vittime, costringendo la famiglia reale alla fuga.
Urhitesup era uno dei pochi che ancora manteneva fiducia nel futuro e organizzava
piani per quando il Morbo sarebbe finito. Il dio della tempesta avrebbe parlato a suo
padre, svelando come espiare la colpa di cui il popolo si era macchiato. L’importante
era sopravvivere fino a quel momento.
E approfittare della debolezza dell’autorità paterna per aumentare la propria.
“In poche parole, vuole la gloria” disse Urhitesup, annuendo. Prese una brocca e
versò il vino. In un altro momento il principe avrebbe chiamato il coppiere per
riempirgli il calice. Ma non dovevano esserci testimoni a quel colloquio. Altrimenti
avrebbe dovuto perdere tempo a ucciderli. Troppi cadaveri erano ingombranti.
L’egiziano sollevò il calice con un cenno di ringraziamento, ma non lo portò alle
labbra. Aspettava che fosse l’altro a bere per primo. Era un uomo previdente,
avvezzo alla vita di palazzo che, a sud o a nord, non era poi così diversa.
“Voi abitanti della Terra di Hatti avete il dono della sintesi.”
“E voi quello di indorare ogni parola che esce dalla vostra bocca, al pari dei
pettorali del vostro faraone.” Urhitesup bevve un sorso. Non sentì nessun sapore,
concentrato sull’uomo che gli stava davanti.
Su ciò che poteva offrire.
“Il faraone ha bisogno di soldi per mantenere il suo esercito. Quindi deve
conquistare altre terre. Oppure ridurre le spese militari, assicurandosi l’amicizia dei
regni vicini. Wassukanni è stata conquistata. Adesso che i mitanni e i popoli loro
alleati sono sotto il nostro impero, non ci sono più cuscinetti che separino i due
regni.” Urhitesup si accomodò meglio sullo sgabello. Ci teneva a ribadire cose che
l’emissario già sapeva.
Gli ittiti e l’Egitto stavano per scontrarsi.
“Quadesh e Amurru sono sempre state egiziane” obiettò l’altro, osando un
piccolo sorso. Era più dolce della shedeh, la bevanda popolare della sua gente fatta
con melegrane o uva.
“E adesso non lo sono.” Questa volta fu Urhitesup a sorridere. “Per il momento.”
Si tese verso l’emissario, cercando di ignorare il suo lezzo di oli e profumi da
donna, come l’egiziano cercava di ignorare il suo odore di sudore e di cavallo. Era
uno sforzo per entrambi. “Tra poco saranno truppe a me fedeli a presidiare Amurru.
Potrebbero ritirarsi, spaventati dal vostro esercito, senza farvi sprecare neppure un
uomo.”
L’emissario si accarezzò il mento, pensoso. Non intendeva far trapelare il proprio
interesse.
“Ma il resto dell’esercito è fedele a tuo padre. E a tuo zio!”
Urhitesup tacque. Hattusili era un gran condottiero, ma aveva un difetto: era
convinto che gli altri credessero nell’onore come lui.
Era un difetto che costava caro.
“Lascia che pensi io a lui.” L’ittita guardò negli occhi l’egiziano. “Tu riporta al
faraone le mie parole. Amurru in cambio del suo appoggio. E in futuro, se avrò
successo, potrei essere così riconoscente da regalare anche Quadesh e il regno di
Yamhad, con le sue ricchezze.” Un territorio comunque difficilmente controllabile,
soggetto a incursioni sempre più frequenti da parte della gente di Ahhiyawa, che per
di più incoraggiava le ribellioni nelle terre di Arzawa contro il dominio ittita. Che gli
egiziani si prendessero pure quella rogna e se la vedessero con i popoli del Mare
Grande!
A Urhitesup bastava diventare re.
Quando l’emissario se ne fu andato il principe ittita indugiò nella stanza,
sorseggiando il vino senza togliersi di bocca il vago sapore di vittoria. Tutto stava
andando secondo i piani di sua madre.
“I miei piani” si corresse in fretta.
Posò il calice e uscì sulla terrazza, appoggiandosi al balcone. Aveva smesso di
piovere e una nebbia sottile si alzava dalle pendici della montagna, srotolandosi nella
città sacra.
Urhitesup fece passare lo sguardo sull’acropoli e sugli edifici che la
racchiudevano. Il muro di fortificazione era forte e delimitava un silo sufficiente per
tutta la popolazione, circa cinquemila persone, per un anno intero. Quattro porte si
aprivano in corrispondenza dei quattro punti cardinali, munite di alte torri.
Un cavallo galoppava oltre la soglia, seguendo il sentiero che portava a sud.
L’egiziano era partito con la sua risposta.
Urhitesup si chiese se anche il padre ne avesse trovata una.
Un ultimo grido proveniente dalla cella del dio. Era convulso e distorto e, per
quanto si sforzasse, l’ittita non riuscì a coglierne le parole. Tornò in fretta nel cortile.
Muwatalli gli aveva ordinato di vegliare sulle porte del sacrario e lui intendeva
obbedirgli. Lo scontro era inevitabile, ma non si sentiva ancora pronto a farselo
nemico. Un amico, per di più un parente stretto, era molto più pericoloso.
Le porte si stavano aprendo. Una zaffata di fumo acre emerse dai battenti e il
vento lo sputò contro gli uomini di guardia. Nel respirarlo, Urhitesup sentì il cuore
battere più forte e i colori divenire più vividi. Lo scalpiccio degli stivali di cuoio del
padre sulla pietra si fece più vicino e minaccioso.
Al chiarore del Fuoco Profetico si stagliò la possente figura di Muwatalli, signore
della Terra di Hatti, prediletto del dio della tempesta. Urhitesup strinse gli occhi e
non riuscì a vederlo in volto. Si inchinò, insieme agli altri uomini, rimanendo in
silenzio. In lontananza gli parve di udire un tuono, il cielo a nord era cupo.
Cercò di non pensare, perché i suoi pensieri lo tradivano. Si impose di
preoccuparsi del Morbo Nero e del motivo per cui erano giunti fino a lì.
Muwatalli continuava a tacere, mentre scendeva lentamente gli scalini di pietra.
Urhitesup si azzardò a sollevare la testa, sbirciando verso di lui.
“Qual è il responso del dio della tempesta?” domandò, in un soffio.
Muwatalli non rispose. Si limitò ad alzare lo sguardo sulla luna che illuminava e
tagliava le nubi di tempesta.
PARTE PRIMA
LA CAMMINATRICE DI SOGNI
1
Il mondo sta cambiando.
Lo sento nel fruscio del bosco intorno a me. Nel bubbolio del tuono lontano che
lascia la mia terra e si sposta a Occidente, seguendo il sole crollato oltre la volta di un
cielo troppo grande. Ricordo gli scoppi assordanti e il divampare dei fulmini che
scavavano le nubi di tempesta. Solchi di luce con cui la mano di un dio artiglia il
mondo.
Non avevo paura. Non l’ho neppure adesso.
Ma so che dovrei averla.
Il mondo sta cambiando.
La tempesta se ne è andata, rapida come è venuta, e sento il cambiamento nel
mormorio dell’acqua che scorre sul terreno. Lo disseta e lo rende fertile. È vita, ma
troppa può uccidere. Rammento cinque inverni fa, quando il torrente è uscito dal
suo corso e ha portato via la capanna di Azan, il conciatore. Era costruita troppo
vicino al fiume. Aveva offeso lo spirito dell’acqua ed era stato punito. Me lo ha
detto mia madre.
Non credo che sia così semplice.
Niente è semplice, tanto più in questa notte in cui la luna mostra il suo volto
perfettamente rotondo al mondo.
Chiudi gli occhi, bambina, e apri quello nascosto...
Scuoto la testa e mi spingo nel torrente, nel tentativo di lavare qualcosa che è
impresso indelebile dentro di me. Ma in questo momento non so definirlo. Mi
sfugge, come quando cerco di stringere in pugno l’acqua del fiume. Rimane solo un
sottile strato umido sulla pelle, le gocce si sfaldano tra le mie dita e si riformano
sempre nuove, eppure uguali a se stesse. Tutto cambia e rimane immutato. Non
capisco. E non controllo l’acqua.
Forse non controllo neppure me stessa.
L’inquietudine senza nome rimane, sospesa in un limbo pulsante al ritmo del mio
cuore. Cerco di non pensarci. L’acqua è fresca sotto le mie zampe. Questo mi
confonde. C’è qualcosa di strano. Ma non nell’acqua. È in me.
E nel mondo che sta cambiando.
Lo sento nella miriade di odori che mi aggrediscono le narici. La pregnanza
muschiata del bosco, l’umido grondante del torrente, il sentore nervoso del cinghiale
femmina che accudisce i suoi piccoli, l’essenza selvatica di un predatore in agguato
nella notte, il tanfo dei maiali nei recinti del villaggio e l’aroma delle capanne in cui il
sonno veglia sulle anime stanche. Il vento della notte è prodigo di odori e rumori che
mi riempiono e mi assorbono, rendendomi parte di un tutto che affonda le sue radici
all’inizio del mondo. Non mi capita spesso di sentirmi così. Mi piace e mi spaventa.
Di colpo mi immobilizzo. Sollevo la testa verso le fronde. Anche loro sono
immobili, scure, sembrano in attesa. Tendo le orecchie, mentre i muscoli guizzano
lungo il mio corpo snello. No, non mi sono sbagliata.
Il rumore si ripete. Sordo, beccheggiante, quasi ritmico. Non riesco a
identificarlo. Non l’ho mai sentito prima d’ora. Non dovrebbe essere in queste terre
strette tra il mare scuro e i rocciosi altipiani del sud, un ventre boscoso che si dibatte
fiero della propria libertà selvaggia. Non dovrebbe turbare questa notte in cui sogno
e realtà si scontrano fino a rendere fin troppo sottile il confine che li separa.
Ma il mondo cambia. Possiamo solo scegliere se rifiutarlo o accettarlo. E al
mondo forse neppure interessa.
Mi muovo rapida e guardinga seguendo il corso del torrente. La riva è sassosa e
così lascio solo qualche impronta che si confonde con quella di uri, cinghiali e lupi
che scendono dalle montagne orientali. Nessuno del mio popolo ha mai scalato le
loro vette. Sono sacre, quindi oltre l’umano. Si dice che sulla cima più alta sia
incatenato un gigante e che un’aquila ogni notte giunga a mangiargli il fegato, che
ricresce durante il giorno per rendere eterna la sua sofferenza. A volte, quando non
riesco a dormire, mi sembra che il vento freddo che spira da quei monti porti con sé
i lamenti del gigante prigioniero.
O forse è solo l’eco dei miei.
Chi lo ha incatenato ha la stessa crudeltà di chi mi incatena in questa esistenza che
non è del tutto mia. D’un tratto vorrei gridare per la frustrazione, ma solo un ringhio
sordo esce dalla mia gola. Lo trattengo. Non voglio sentirlo.
E non sarebbe saggio rivelare la mia presenza a chiunque stia profanando la mia
terra, producendo questo sciabordio.
Le acque del torrente si gettano nel fiume, mescolandosi in un grumo di pece che
scivola lento verso il mare. So che non è lontano. Una volta l’ho raggiunto e
sorvolato, sorpresa di fronte a quella distesa immensa. Mia madre ha riso quando le
ho raccontato la mia esperienza. Ha detto che quel mare scuro non è altro che una
pozzanghera per il mondo e che esistono distese d’acqua molto più grandi e un
uccello può volare per giorni e giorni senza vedere mai l’altra riva.
Eppure non è un grosso uccello quello che mi sta davanti.
Mi schiaccio nel sottobosco, le orecchie appiattite. Una nuvola ha coperto la luna,
ma non mi impedisce di scorgere l’enorme sagoma che si staglia sul fiume. Un muto
gigante d’ombra che galleggia magicamente sull’acqua. Sembra fatto di legno e
questo ha una logica. Da piccola mi sono divertita a gettare foglie e pezzi di legno
nel fiume, osservandoli galleggiare e fluire via, trascinati dalla corrente.
Eppure questo gigante sta fermo. Non affonda, non scappa via. Si limita a oziare
vicino alla riva e a produrre il rumore che ho sentito poco prima.
Non sembra pericoloso, anche se qualcosa mi esorta a stare in guardia. Niente è
mai quello che sembra. Un lago visto dall’alto sembra una piatta lamina di metallo e
solo guardando sotto la sua superficie se ne comprende la vera natura e i pericoli che
cela.
Eppure non ho paura. Sono curiosa.
Striscio cauta tra i fitti arbusti della riva. L’ombra dell’uccello di legno è una
presenza costante che mi spinge alla prudenza. Cosa insolita per me. Mia madre dice
che sono impulsiva. E non credo che lo intenda come un complimento. Ma in questo
momento non penso a lei, non penso a niente. Solo a questa novità che ha infranto il
Rituale.
Adesso che sono vicina, vedo un albero altissimo partire dal ventre di legno e
svettare verso il cielo. Larghe coperte sono tutt’intorno, alcune funi solcano il fianco
del gigante e spariscono nelle acque scure. Guardando con più attenzione, mi
accorgo che parte di quell’essere poggia sulla terraferma, immerso nella riva
fangosa. E che ha vomitato fuori i suoi figli.
Come una stella caduta dal cielo, un fuoco arde tra i sassi della spiaggia. L’odore
del fumo mi pizzica le narici, mischiato al sentore più caldo di esseri umani che si
stringono l’uno all’altro.
Molti esseri umani.
Stai attenta!
Seguendo per una volta il consiglio della voce che mi parla dentro, che mia madre
chiama spirito interiore e io semplicemente buon senso, mi soffermo a distanza di
sicurezza. Non serve avvicinarsi di più. Sono controvento e l’aria mi porta tutto ciò
che voglio sapere. L’odore del sudore, freddo, misto allo sconcerto e alla paura. Le
voci nervose, sussurri appena accennati che subito il vento strappa via dalle labbra.
Le loro parole sono mormorate in una lingua che non ho mai sentito. Anche se sono
lontana capisco che non è quella del mio popolo. È più... dolce, quasi musicale.
Rimango un po’ a osservarli, incuriosita, poi mi allontano senza far rumore. Uno
di loro, sentinella rivolta verso la boscaglia, scruta ansioso nella mia direzione. Non
mi ha visto, ma sente la minaccia. Stringe la lancia in pugno.
Prima che sia pronto a scagliarla sono già lontana, trotterellando nel bosco. Una
parte di me è dispiaciuta. Ero curiosa di capire chi fossero quegli uomini, da quale
terra provenissero. E ho fame.
Ma cosa sto pensando?
D’un tratto ho molta fretta di andarmene. Un senso di urgenza mi spinge ad
accelerare l’andatura. Ma non perché ho paura di quegli uomini. Perché ho paura di
me stessa, di quello che potrei fare.
Voglio tornare.
Eppure l’odore degli stranieri non accenna a diminuire. Impronte nel fango, sul
sentiero che anch’io sto percorrendo. Non tutti gli umani sono intorno al fuoco,
stretti nelle loro coperte, al sicuro sotto l’ombra del gigante che li ha condotti fino a
qui.
Raggiungo un bivio nel sentiero, le strade si dividono. Un gruppo di stranieri è
andato a destra. Soltanto un paio di orme prosegue inoltrandosi incautamente nel
bosco, verso il mio villaggio. Prima di sapere quello che sto facendo, mi trovo a
seguirle. Sono stanca. Da quanto tempo vago in un sogno che non mi lascia andare?
Avverto in bocca il sapore dolciastro delle erbe che mia madre getta nel fuoco,
salmodiando.
I suoi occhi sono l’ultima cosa che vedo prima di addormentarmi.
Mi sembra di risentire la sua litania nella testa, ma capisco che mi sbaglio. È il
ringhio inferocito di un animale che protegge la sua prole. Non c’è avvertimento,
non c’è possibilità di scampo. Il rumore della lotta mi giunge alle orecchie, attutito.
Si sta alzando la nebbia dalle sponde del fiume e soffoca i rumori con il suo sudario
grigio. Resta bassa, aleggiando tra i tronchi. O forse è solo nella mia testa.
Mi viene da vomitare.
I rumori finiscono rapidamente come sono iniziati. Solo allora mi azzardo a
proseguire. Non sono così stupida da sfidare un cinghiale femmina che ha da poco
partorito. L’odore dell’animale si sta allontanando in fretta, con una scia di feroce
soddisfazione. Ma lascia dietro di sé il sentore ferrigno del sangue.
Mi passo la lingua sulle labbra.
Non farlo!
Quell’odore è invitante, ma mi fermo. Una parte di me mi sta urlando che quello
che sto per fare è tremendamente sbagliato. Barcollo, sono sempre più confusa. Un
ceppo nodoso, quello che resta di un vecchio albero colpito dal fulmine due estati fa,
mi riporta ricordi che galleggiano sotto la superficie del mio essere. Lentamente,
divento cosciente della pelliccia bruna che mi ricopre, delle quattro orme che lascio
dietro di me sul terreno morbido, delle zanne affilate che snudo arricciando le
labbra.
No, non sono io a farlo.
Così come non intendo permettere alla lupa di fare quello che sta pensando.
Vattene! Ti prego, vattene!
Mi volto e comincio a correre nella direzione opposta. Verso nord, verso le
boscaglie più fitte e le montagne. Lontano dall’odore di sangue e da colui a cui
appartiene. Adesso macchia una terra che non avrebbe dovuto vedere. E ci sono
segni che niente può cancellare. Distorcono un disegno che pareva definito e
costringono a crearne uno nuovo.
Non so perché sto pensando queste cose. Penso cose strane, durante i Rituali.
Non vorrei farli. Ma mia madre ha gettato l’erba nel fuoco e ha cantato. E sono qui.
Adesso ho davvero paura. Corro più veloce, come se in questo modo potessi
scappare anche da me stessa. Solo quando sono abbastanza lontana mi fermo e alzo
la testa alla luna in un ululato frustrato.
È tempo di tornare!
Una tremenda sensazione di strappo fa a pezzi la mia anima per poi riformarla di
nuovo. I miei pensieri si frammentano, separandosi da quelli del lupo. Ne ricordo
solo uno.
Il mondo sta cambiando.
2
Ishtar si svegliò di soprassalto, il respiro affannoso.
All’inizio non riuscì a capire dove si trovasse. Pensare le risultava difficile e la
testa le pulsava come se fosse sul punto di spaccarsi in due. Una volta Aieta, il
capotribù, aveva portato come trofeo la testa mozzata di un ittita, per poi conficcarla
in una picca davanti alla sua capanna. Una dimostrazione di potere per un paio di
giorni, per poi tramutarsi in una nauseante fonte di cattivo odore e di mosche
agguerrite. Su consiglio del guaritore del villaggio, nonché di tutti i vicini, Aieta
l’aveva tolta e, sdegnato, l’aveva pestata con il tacco dello stivale. Ishtar era in
disparte, appollaiata sul recinto dei maiali, ma aveva visto l’osso frantumarsi e una
poltiglia grigiastra schizzare tutt’intorno.
Non riusciva a capire come quella roba potesse contenere lo spirito di una
persona, né tanto meno pulsare così forte.
Emise un gemito e provò a sollevarsi. Era raggomitolata su una coperta di
montone e il pelo ispido le faceva prudere la pelle nuda. Stava tremando, ma non di
freddo. Anzi, l’aria nella capanna era fin troppo afosa. Le mozzava il respiro. Aveva
la fronte sudata e un calore fastidioso le rallentava i movimenti. Si sentiva pesante,
impacciata, come se dovesse abituarsi a riutilizzare il proprio corpo.
Le succedeva sempre così, dopo il Rituale.
L’ondata di nausea la colse a tradimento mentre lottava per alzarsi. Si piegò di
lato e vomitò il poco cibo che si era costretta a mandare giù per cena. Tanto sapeva
che sarebbe finita in quel modo. Ma sua madre aveva insistito, non bisognava
affrontare quella notte in una condizione di debolezza.
“E io faccio sempre quello che lei dice” mormorò Ishtar, pulendosi la bocca con il
dorso della mano. Adesso il nodo allo stomaco si era trasformato in una pietra.
Era passato. Per il momento.
Ingoiò più volte, cercando di togliersi di bocca il sapore dolce e amaro che le
ricordava la radice che aveva masticato prima di coricarsi. Quanto tempo era
passato? Minuti? Ore? Non era facile quantizzare la durata del Rituale. Per quello
che ne sapeva, poteva essere già l’alba.
Eppure non un filo di luce filtrava dalla porta della capanna.
Ishtar si allungò, strisciando verso la brocca d’acqua. La portò alle labbra e bevve
tutto d’un fiato. Per un attimo temette che avrebbe vomitato anche quella e provò
una punta di perversa soddisfazione pensando a sua madre che puliva la capanna dal
vomito. Scosse la testa con una smorfia. No, avrebbe fatto da sola, prima che lei
vedesse. E che pensasse che sua figlia era stata debole.
La nausea non scomparve, ma si attenuò abbastanza per permetterle di mettersi a
sedere. Incrociò le gambe. Era sola nella grande capanna circolare e gli ultimi
bagliori del fuoco morente ansimavano tra le ceneri. Il fumo si era dissipato,
fuggendo dall’apertura in cima al tetto e da sotto le pelli che costituivano la porta,
unica separazione tra interno ed esterno.
Ishtar si sentiva comunque in gabbia.
Sua madre era scomparsa. La ragazza non riusciva a ricordare quando se ne fosse
andata, comunque non era più lì. Ishtar non poté trattenere un sospiro di sollievo.
Si era svegliata presto, questa volta.
Afferrò la brocca e si rovesciò in faccia il contenuto. L’acqua fresca la fece
sentire meglio. Era abituata alla debolezza che la coglieva dopo ogni Rituale, la
spossatezza fisica e mentale che derivava dal varcare le barriere tra i mondi. Lasciò
che la rabbia prendesse il suo posto.
Perché devo farlo?
A quanto pareva, nessuno si curava di rispondere. Doveva farlo e basta.
Si alzò di scatto. Il mondo prese a rotearle attorno e dovette appoggiarsi per non
cadere. La capanna era spoglia, se non per le pelli che tappezzavano le pareti e il
tetto di paglia. Pareva più che altro la tana di un animale. Corna di montoni e palchi
di cervi erano fissati a ogni superficie disponibile, zanne di cinghiale ornavano i rozzi
vasi di terracotta disposti intorno al focolare, una buca scavata nel terreno al centro
esatto della costruzione. Alcuni erano rovesciati e Ishtar temeva di esserne lei la
causa, con qualche movimento incontrollato durante il sonno in cui era stata
costretta.
Ancora una volta.
“Finirà mai?” si chiese, amaramente. Solo il silenzio le rispose e, scuotendo la
testa, la ragazza si passò intorno al corpo una coperta di lana di capretto. Se la
appuntò con una delle spille di bronzo che teneva tra i capelli. Rappresentava il
muso di un cavallo ed era la sua preferita. Forse l’unica cosa veramente sua in quel
posto.
Gliela aveva regalata Tasadas.
In un altro momento avrebbe sorriso al pensiero. Adesso non riusciva a togliersi
dalle narici un vago sentore di sangue.
Arrancò verso la porta e uscì all’aria aperta, inspirando a pieni polmoni. Si liberò
degli ultimi strascichi dei fumi che le facevano bruciare gli occhi e le ovattavano la
mente. Si stava schiarendo e tornava finalmente padrona di se stessa.
Il cadavere di un corvo, sventrato e imbottito di sale, penzolava sulla soglia,
fissandola con i ciottoli lucidi che aveva al posto degli occhi. L’aria della notte era
pungente e Ishtar si strinse addosso la coperta, volgendo le spalle a quel lugubre
corpo impagliato. Il villaggio era silenzioso e la luna lo tagliava in fette d’argento e di
ombra. Le capanne crescevano in ordine sparso, tanti mucchi di legno e paglia che
custodivano il sonno degli abitanti. Erano rettangolari, a differenza di quella da cui
era uscita Ishtar. Per i Rituali era necessario utilizzare la figura più sacra e perfetta, il
cerchio. Doveva ricordare a tutti che non c’era una fine o un inizio, ma soltanto un
continuo ripetersi dell’equilibrio che reggeva il mondo.
Ripetendo i soliti gesti, Ishtar avrebbe dovuto rientrare e coricarsi, aspettando il
mattino al sicuro nella Casa Sacra, pronta a raccontare alla madre quanto aveva
visto, perché ne fossero tratti i presagi per il bene della tribù.
Invece la ragazza si avviò a passo svelto verso la boscaglia, prima di avere il
tempo di ripensarci. Sapeva di stare commettendo una grave infrazione alle legge del
suo popolo e del Rituale. Era questo che la spaventava di più, perché poteva
schernire le leggi degli uomini, ma non quelle degli dei. Tuttavia, ragionò, nessun dio
si era mai presentato alla porta della sua capanna a ordinarle qualcosa. Lo avevano
fatto sua madre e gli abitanti del villaggio. Dicevano di parlare per bocca del dio. Ma
era vero?
In punta di piedi, Ishtar superò il recinto dei maiali e corse lungo i pascoli
accompagnata dal chiarore della luna. Era una sensazione simile a quella che aveva
provato poco prima, nel bosco... scosse la testa. Sembrava un sogno, ma non lo era.
Almeno, non del tutto.
Era parte del Rituale.
Rallentò soltanto quando raggiunse la protezione degli alberi. Là nessuno poteva
vederla. Si appoggiò a un tronco, raccogliendo le idee. La corteccia era ruvida sotto
la sua pelle e portava i segni del tempo e degli animali che l’avevano toccata. Lupi,
cinghiali, stranieri... il bosco era un luogo pericoloso.
Ishtar si maledisse per non aver pensato a portare un coltello o un arco. Un’arma
qualsiasi che le permettesse di difendersi. Erano rimasti nel villaggio e sapeva che, se
fosse tornata indietro, non avrebbe più avuto il coraggio di allontanarsi.
E lui sarebbe morto.
“Forse è già morto,” si corresse con uno sbuffo, “e io sto perdendo tempo.”
Eppure riprese a camminare, circospetta, tagliando la nebbia che si faceva quasi
solida, come a sospingerla indietro. Ricordava il luogo in cui doveva arrivare, lo
aveva già visto. Si era impresso nella sua anima e sarebbe stato in grado di ritrovarlo
anche a occhi chiusi. Il verso lugubre di un uccello la fece sussultare, uno sfarfallio
tra i rami. Ishtar ebbe la spiacevole sensazione che fosse il corvo impagliato che sua
madre teneva davanti alla Casa Sacra, custode dei suoi segreti. L’aveva seguita per
ricondurla a casa?
Non ci sarebbe riuscito.
Si mise a correre, le mani strette intorno alla coperta, incurante del freddo e delle
sagome minacciose degli alberi che non capivano il suo comportamento. Non lo
capiva neppure lei. Non faceva parte del Rituale e del cerchio.
Ma era qualcosa di suo.
Raggiunse il ceppo nodoso in mezzo al sentiero, emerse dalla nebbia di colpo. Le
fece uno strano effetto vederlo. Poco prima l’aveva guardato con gli occhi della lupa
bruna. Non era la stessa cosa. Cioè, il ceppo era sempre lo stesso, ma cambiava in
base all’essere che interagiva con esso. Ishtar sentì che il cuore le accelerava i battiti.
Era vicina.
Ed era sicura di volerlo fare?
Fare cosa? Non ne aveva un’idea chiara. Era incuriosita dalla propria reazione.
Insomma, era arrivata fino a lì, rischiando le ire della madre e la punizione della
tribù... per cosa?
Per chi?
Un lamento la riscosse dalle sue riflessioni. Dopo un’ultima esitazione, Ishtar si
decise a seguire quel rumore.
L’uomo era accasciato con la schiena contro il tronco di un albero. Faticava a
respirare e si teneva la mano premuta sulla coscia, da cui il sangue continuava a
zampillare. Stava formando una pozza scura intorno a lui, macchiando la tunica e la
corazza di cuoio che gli avvolgeva il torace muscoloso. Al suo fianco giaceva una
lancia spezzata.
Ishtar non aveva bisogno di grande immaginazione per capire come era andata. Il
cinghiale aveva caricato. Lo sventurato si era difeso con la lancia, ferendolo, ma il
legno si era spezzato. L’animale gli aveva squarciato una coscia con le zanne. La
domanda giusta era: perché l’uomo si era allontanato dai suoi compagni?
“Stupido” mormorò la ragazza.
L’uomo dovette sentirla. Sollevò la testa. Qualche filo d’argento penetrava le
fronde nebbiose e scivolava sul volto pallido, su cui le ciocche castane ricadevano
disordinatamente. Il sudore le appiccicava sulla fronte, mescolandosi al sangue che
continuava a fluire, inesorabile.
Ishtar mosse un passo verso di lui, poi si fermò. Quell’uomo stava morendo e lei
non era una guaritrice. Forse Iskhan lo Sciamano avrebbe potuto fare qualcosa con
le sue erbe, forse sua madre... ma avrebbero aiutato uno straniero? Sua madre li
odiava. No, con ogni probabilità gli avrebbero tagliato la gola, ponendo così fine alle
sue sofferenze.
Stranamente la cosa le suscitava raccapriccio. Era abituata alla morte, in ogni sua
forma. I membri della sua tribù morivano ogni giorno, chi per malattia, chi per
vecchiaia, chi in battaglia. Quando le giornate si facevano più corte trovava i gusci di
insetti morti tra le coperte. Gli uccellini che cadevano dal nido diventavano minuscoli
scheletri che si sbriciolavano al vento. Sua madre le aveva raccontato di certe farfalle
che nascevano e morivano nell’arco di un solo giorno.
La morte era parte della vita, la sua naturale prosecuzione nel cerchio infinito.
Eppure il pensiero che quell’uomo morisse le sembrava tremendamente sbagliato.
Se non poteva portarlo al villaggio, c’era un altro modo. Rischioso, ma c’era.
Ishtar raggiunse lo straniero e si inginocchiò al suo fianco. Fece per toccarlo, ma
si accorse di essere spaventata, come quando la sua mente era volata via per la prima
volta dal corpo. Forse di più. Non sapeva nulla di lui. Poteva essere un mostro come
quelli delle storie del vecchio Harnu. E se la sua pelle fosse stata velenosa?
L’uomo disse qualcosa, ma Ishtar non conosceva la sua lingua. Scosse la testa,
affranta, mentre lui la scrutava. Aveva gli occhi chiari, cerchiati di un viola livido per
la sofferenza. Tuttavia in essi la ragazza scorse le sfumature del cielo d’estate che si
mischiavano al muschio d’inverno. Per un attimo si lasciò catturare da quello
sguardo, persa tra gli interrogativi che si facevano strada nelle pieghe di sentimenti
che non aveva mai provato.
“Non capisco” mormorò. E non si riferiva solo a quelle parole.
L’uomo corrugò la fronte, ansimando. Restare cosciente era uno sforzo. Ishtar
comprese che non c’era un secondo da perdere.
Strappò un brandello della tunica insanguinata e lo strinse intorno alla coscia
dell’uomo, nel tentativo di fermare l’emorragia. Non sarebbe bastato, ma era il
meglio che poteva fare.
“Aggrappati a me” gli ordinò, e si passò il suo braccio intorno alle spalle,
“dobbiamo sbrigarci!”
Lo aiutò a sollevarsi. Era pesante e l’armatura non le facilitava il compito. Chi
mai poteva mettersi addosso quell’affare ingombrante? E perché? Intralciava soltanto
i movimenti. Quegli stranieri erano degli sciocchi. Sciocchi e imprudenti. Non
sapevano che non bisognava sfidare il bosco di notte, tanto più da soli? Per fortuna
lei era robusta, una donna dei kaskas, ed era abituata a sollevare gli agnelli e le
matasse di lino. Stringendo i denti, cominciò a trascinare l’uomo nella boscaglia.
Non era un kaskas, Ishtar non aveva dubbi. A parte la lingua, aveva un aspetto
diverso. La mascella meno prominente, il taglio degli occhi delicato. La ragazza non
aveva mai visto nessuno come lui.
Un viaggiatore sospinto là dalla tempesta.
L’unica possibilità era riportarlo dai suoi compagni.
Si concentrò sul mettere un passo dietro l’altro. La testa dell’uomo cominciava a
ciondolare e lei sentiva i suoi capelli solleticarle il collo. Ciononostante si sforzava di
camminare, appoggiandosi a lei e alla gamba sana. L’altra era soltanto un peso che si
trascinava dietro. Ishtar diede un’occhiata alla benda. Una macchia scura si allargava
sempre di più. Non poteva morire proprio adesso, non dopo tutti i suoi sforzi!
Tutto inutile. Le sembrava di sentire la voce della madre. Si era accorta della sua
assenza? La stava cercando? Cosa avrebbe pensato, se la figlia avesse rivelato la sua
presenza, e quindi quella della tribù, a stranieri potenzialmente pericolosi? Ishtar non
dimenticava che quegli uomini avevano armi con sé.
“Resisti, siamo vicini” mormorò. Un gemito fu l’unica risposta. L’uomo stava
perdendo conoscenza.
Fu un sollievo quando raggiunsero il limitare del boschetto. Oltre gli arbusti Ishtar
intravedeva il chiarore del fuoco e i mormorii degli stranieri. Forse si erano accorti
che un compagno mancava all’appello. Lo avrebbero cercato presto, o per lo meno
se lo augurava.
Lei aveva fatto abbastanza.
Adagiò il corpo del ferito su un morbido tappeto di foglie. Il suo respiro usciva
irregolare dalle labbra esangui e il petto si alzava e si abbassava a fatica. Ishtar
pensava che fosse svenuto e quindi si stupì quando lui le afferrò il polso. Una scossa
sorpresa le attraversò tutto il braccio, riempiendola di sconcerto. Non era abituata al
contatto fisico. Nella tribù era qualcosa di intimo, riservato soltanto ai familiari più
stretti.
E si stupì ancora di più quando comprese le parole dell’uomo.
“Chi... sei...?” rantolò, in un ittita stentato. La lingua del nemico. Eppure lui non
era ittita. Ishtar esitò, mentre la mano dell’uomo risaliva fino a sfiorarle il volto e
allontanare una ciocca ribelle. Lo sentì trasalire, mentre toccava ciò che i suoi ricci
nascondevano sulla fronte.
Il segno che la marchiava.
Avrebbe voluto strapparselo e cristallizzare la sua vita in quel piccolo attimo di
libertà, in cui stava facendo qualcosa per se stessa invece che per la tribù. Rubare un
po’ di tempo al cerchio del mondo che la circondava. Era così sbagliato? Se fosse
rimasta, rivelando a quell’uomo il suo nome e quindi la sua anima, sarebbe riuscita a
fuggire al destino che era stato scritto per lei?
La scelta non le fu concessa. Il tramestio di passi le rivelò che infine gli stranieri
avevano abbandonato la sicurezza del fuoco e della gigantesca tazza galleggiante per
venire a cercare il compagno. Doveva essere qualcuno di importante per loro.
Ishtar si liberò con un gesto fin troppo brusco. Continuava a sentire il tocco di
quell’uomo sulla pelle, mentre i suoi occhi la seguivano. Non si fidava a parlare,
neppure in ittita.
Aveva paura di quello che avrebbe detto o sentito.
Corse via, scomparendo nella boscaglia e nella nebbia. Quella era la sua casa,
conosceva ogni albero e ogni arbusto. Non l’avrebbero mai trovata. Doveva
allontanarsi dagli stranieri e da ciò che rappresentavano. Il destino di quell’uomo non
era più nelle sue mani.
Neppure il proprio. Non lo era mai stato.
Superò di corsa il ceppo nodoso e si fermò soltanto quando raggiunse il vecchio
pino che da anni era guardiano silenzioso del suo villaggio. Ishtar si precipitò contro
il tronco, abbracciandolo. La coperta di lana le era scivolata ai piedi, macchiata di
sangue, ma non le importava. Il contatto della corteccia ruvida contro la pelle non
riuscì a calmare i suoi brulicanti pensieri.
Era stata drogata durante il Rituale, la sua mente scagliata nel corpo di un lupo,
aveva trascinato un uomo ferito attraverso la foresta rischiando di essere scoperta da
stranieri che, era certa, non avrebbero dovuto essere lì.
Era troppo.
Tutta la tensione si sciolse e si radunò sulle ciglia, premendo per uscire. Lacrime
calde e inaspettate le sgorgarono dagli occhi.
L’attimo di libertà era finito. E in quella notte di luna piena non era sicura che
non fosse stato solo un sogno.
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