PREMESSA
La lettera N del VES, una cui redazione non definitiva ora si offre alla
lettura e alla discussione, è stata originariamente redatta poco dopo l’uscita
del vol. 1 (1986) ed è stata aggiornata, si spera adeguatamente, anche con il
contributo della dott. Adriana Cascone, che ha operato lo spoglio di gran parte
della bibliografia posteriore. La responsabilità di qualsiasi errore o difetto è
naturalmente mia.
Il testo che ora si distribuisce mostra tutti i problemi che si incontrano
nel completare il VES a parecchi decenni dalla pubblicazione del suo vol. I e
dalla redazione di una parte delle voci successive. Nel 1986 non disponevo
che dei vol. I e II (appena uscito) del VS; quando il VES fu impostato non
potevo contare sul LEI; non era uscito nessun volume dell’ALI, e
naturalmente non disponevo di tutte le fonti ed i lessici etimologici (DELI2,
DCECH, DECLlC, ecc.) che sono apparsi nei successivi 25 anni.
Che le voci redatte da tempo e quelle da redigere debbano essere
aggiornate è cosa indubbia, ma non manca qualche problema, anche serio.
Nell’impostare il VES, non potendo contare sul LEI, mi convinsi a dare
abbondanti (ma non esaustivi) riscontri italo-romanzi, soprattutto meridionali,
per individuare l’area di diffusione delle singole voci, che è sempre pertinente
per l’accertamento dell’etimo. Se avessi avuto in mano il LEI, anche senza
farmi illusioni circa un suo rapido completamento, sarei stato molto più
sommario. Non c’è infatti dubbio che questa sezione del VES sarà del tutto
superata man mano che usciranno le voci corrispondenti del LEI. Basterà
confrontare la voce AXUNGIA in LEI 3/2, 2745-2764 (senza trascurare Pfister,
ID 66-67, 2005-2006, 126-133) con la voce nzunza qui sotto. Lo stesso si
deve dire per l’ALI rispetto all’AIS.
Più complesso è il problema posto dal VS. Poiché era evidente fin dal
primo volume che le entrate di questo ricchissimo vocabolario si
moltiplicavano incomodamente a causa del proliferare delle varianti fonetiche
3
(e grafiche) e che esse non venivano ricondotte se non in piccola parte alle
voci principali, io cercai di dare tutti i rinvii che riuscivo ad identificare. Lo
stesso ha ora fatto Adriana Cascone con i 5 volumi dell’opera completa. Ciò
però ha determinato un enorme aumento del volume delle voci, a volte fino ad
un terzo. Continuando così, non soltanto il lavoro (da rifare anche per il vol. I
del VES) si rallenta molto, ma la dimensione dell’opera si accresce in modo
impressionante.
Ho forti dubbi sulla reale utilità di tutto ciò. Di fatto gran parte del
materiale del VS proviene dalle risposte che i numerosi informatori hanno
registrato sui formulari che venivano mandati da Catania e rimandati alla
redazione. Si tratta di forme scritte nel modo che pareva opportuno ad
informatori sempre utili ma non sempre capaci di una trascrizione che non
fosse estemporanea e personale; per la stessa ragione avvenne una
proliferazione di significati che per lo più sono varianti o traslati del
significato principale, più o meno occasionali. Le localizzazioni sono
significative in positivo, ma non si può mai escludere che le forme e i sensi
esistano anche in altre località dell’isola.
Un problema comparabile si pone ora con il CorpusArtesia (al sito
www.ovi.cnr.it), che raccoglie tutte le occorrenze di molte voci che ci
interessano nei testi anteriori all’inizio della tradizione lessicografica.
Riportarne tutto il materiale è impensabile; spesso è sufficiente rinviare al
Corpus (il che potrebbe essere fatto anche in forma implicita). Basterà una
selezione.
Un lessico etimologico non è un trattato sulle grafie né di fonetica né
di semantica e neanche una fonte per opere del genere. Il fine del VES è
risalire all’origine prossima della famiglia lessicale siciliana e illustrare di
questa la storia e la complessità. Bisogna ridurre le informazioni grafiche,
fonetiche e semantiche a ciò che è essenziale per il fine specifico.
Io ritengo pertanto che sia opportuno, anzi necessario, che la
redazione delle voci nuove e la revisione delle vecchie rinunci a questa selva
portentosa, discutibile e sostanzialmente inutile, limitandosi a trarre dal VS e
dalle altre fonti le forme e i significati veramente importanti per la storia della
parola. Sarò grato ai colleghi che vorranno esprimere il loro parere in merito e
che miglioreranno il mio lavoro con qualsiasi suggerimento o critica.
Alberto Varvaro
4
naca1 s. f. ‘culla (in primo luogo
quella sospesa)’ (ante 1337), prestito
o relitto dal gr. ant. νάκη ‘vello di
pecora’, perché con questo si faceva
la culla sospesa; è voce di area sic.
ed it. merid., fino al Cilento ed alla
Puglia.
Ante 1337: «Mida…essendu citellu et
durmendu a la naka…» (ValMax
1.4.221) e «Tulliu Hostilliu, standu a la
naka, nutricatu fu in casa di furitanu»
(ib. 3.4.3) e «incumenzaroyu commu da
la naka [chò èn da lu principiu] di lu
suvranu hunuri» (ib. 4.1.8; cfr.
CorpusArtesia); 1348: «Crepudium…
lectus infantium, qui dicitur nacha vel
cuna…; Crocea… cuna pueri, que
dicitur nacha; Cuna… lectus infantium,
qui dicitur nacha» (Sen 92); 1a metà sec.
XV: «fichi fari una naca di ferru»
(SCristina 25); 1442 a Palermo
(BrescCasa 126); 1487: «questa
creatura… a le fiate essendo posta a la
nacca, la trovarono sotto lo lecto»
(BEustochia 57.3); 1497 Francofonte:
«unu chiccu di argentu di naca… dui
brochi grossi di naca di argentu»
(Gaudioso LXXXIII); sec. XV: «fichisi
pichulillu… plangendu a la naca»
(Meditacioni 123.29); 1519: «naca di
pichulillu:
cunae,
cunabulum,
incunabula» (Scobar 69r); 1736 Catania:
«pozzu jri a la naca» (Musmeci 118);
1752 n. ‘culla’ dBono 2, 415 e poi
sempre fino a Cav 131, RohlfsSuppl 73
e VS 3, 4 (qui anche molti sensi traslati);
la diffusione generale della voce
nell’isola è confermata da AIS 1, 61 e
ora da ALI 7, 679; da AIS risulta anche
che si tratta di norma della culla sospesa
con corde fissate alle pareti (cfr. Rohlfs,
RLiR 9, 1933, 256-7, con la fig. 25 da
Giarratana e la fig. 8 da Oriolo [CS];
UccelloCanti 85; UccelloCasa 34; è
detta anche n. a ventu NicD 539,
NicDUr 165 e VS l.c. ┌n. a ventu┐ (da
Andrano, Aci Castello, Casteltèrmini,
Enna, Licàta e Pantelleria), e n. a volu.(
da Palazzolo Acreide e S. Michele di
Ganzarìa); oggi le culle di tipo più mod.
conservano in dialetto la stessa
denominazione (così già n. di lignu
‘zana’ in NicD l.c. e NicDUr l.c.); da
‘culla’ provengono altri sensi, tra cui:
‘arnese da dimenar la bombola’ 1752
dBono l.c.; ‘branda (di nave), amaca’
1868 Tr 627 e poi NicD 539 e VS l.c. (n.
di navi); ‘altalena’ 1883 PitrèGiuochi
361 (da Riesi e Milazzo), VS l.c.; poi
AIS 4, 748 a Baucina, Catenanuova,
Naro, S. Michele (RohlfsSuppl 73
aggiunge Mistretta); ora ALI 7, 706
mostra che nel senso di ‘altalena’ n. ha
una diffusione analoga a quella di
‘culla’; ‘piccola rete a strascico, con
sacco, fornita di piombi e di sugheri
all’orlo superiore’ (a Palermo) 1937
DizMar 492 e poi DEI 4, 2541; ‘pezzi di
corda ai due lati del basto per legare e
tener ferme le some da trasportare’
1990, VS l.c. (da Altofonte, Montedoro
e Palazzolo Acreide, ma già in Tri). – Mi
pare difficile che vada qui (per traslato
da ‘culla di legno’?) anche naca3 ‘muro
di rivestimento per impedire lo
smottamento della terra’ 1868 Tr 1152 e
poi solo TrV 266, nonché VS 3, 5:
‘pietraia, cumulo di pietre raccolte
insieme nei campi coltivati ammucchiate
alla rinfusa (a Palazzolo Acreide) o
sistemate ad arte in forme geometriche
(a Canicattini Bagni)’; ‘striscia di
terreno risultante dal terrazzamento di
un pendio’ da Solarino (qui anche fari annachi a-nnachi ‘terrazzare un terreno in
forte pendìo’); a queste voci va aggiunto
nacúni s.m. ‘cumulo di pietre raccolte
insieme nei campi coltivati, sistemate ad
arte in forme geometriche; muro di
sostegno nelle opere di terrazzamento’,
da Palazzolo Acreide. – Cfr. piazz. naca
‘cuna, culla’ (Roccella 166), confermato
da AIS l.c. per S. Fratello, Fantina e
Sperlinga (non Aidone, per cui
5
Raccuglia 255 dà nacca). Cfr. malt.
nieqa ‘id.’ (Barbera 3, 845; Kalepin 224;
AquilinaSurveys 104).
La c. cit. dell’AIS mostra che l’area di
┌
naca┐ si estende compattam. fino a tutta
la Basilicata (più Teggiano) e in Puglia
fino a Spinazzola, Ruvo e Bari, anche se
la denominazione corrisponde a tipi
diversi (accanto alla culla sospesa c’è
quella di legno e quella a cesto). La c.
679 di ALI conferma questa area,
mentre nella c. 706 il senso ‘altalena’
appare solo in qualche punto della
Calabria merid. Cfr. infatti NDDC 449
(anche ‘altalena’); Lausberg 221;
Paternoster 19; Mennonna 127; Pisticci
‘altalena’ AIS 4, 748; Festa 274 (a
Pisticci e Matera nachə è anche un tipo
di arnese da portare la soma: AIS 6,
1232 Cp e Scheuermeier 1, 65 e 112);
VDS 2, 381 (anche tar. naca-naca
‘altalena’); Saracino 286; Di Terlizzi 78.
I lessici estendono un po’ l’area: per il
Cilento cfr. Rohlfs, Z 57, 1937, 453; per
Molfetta Scardigno 335; per Bisceglie
Còcola 115; per Foggia Villani 67. È
anche bov. e otr. (cfr. LGII 346).
Amari 3/3, 912n e Mortillaro, ASS 6,
1881, 135 lo dissero arabismo, ma senza
indicare la base, che Avolio 46 credette
di trovare nell’ar. qenāq ‘le lieu où l’on
couche quand on est en voyage’ di Dozy
2, 414a, che però, oltre ad essere poco
verosimile foneticam., ha anche il difetto
di essere in ar. di origine turca (come
osservano DALCalv 267-8, che pur non
rifiutano l’origine dalla radice ar. n-q-l
‘agitare’), il che non quadra con la
cronologia (né l’area è quella di un
arabismo). All’ar. pensava ancora De
Gregorio, StGl 1, 1899, 134, ma
ritenendo n. un traslato di naca2, idea
presto abbandonata da lui stesso e spesso
sostituita dall’idea inversa (→ naca2).
Intanto Morosi, AGl 4, 1878, 140, aveva
dato un etimo lat.: *NAVICA dimin. di
navis, che D’Ovidio, ib. 407, modificava
considerando n. deverb. di nacá <
NAVIGARE;
cfr. anche Salvioni (in
FaréSalv 479) e ancora Festa, Z 38,
1917, 274; ma già Meyer-Lübke, Z 26,
1902, 728 (e poi ASNS 150, 1926, 72;
REW 5813) ne aveva individuato
l’origine gr., accettata da De Gregorio,
StGl 7, 1920, 247; Rohlfs, Z 46, 1926,
144n; Battisti, RLiR 3, 1927, 42 e 54;
Alessio, RIL 77, 1943-44, 694; DEI 4,
2541; Alessio Postille 15; LGII 346;
AlessioLexicon 277; RohlfsSuppl 73. Il
gr. ant. νάκη valeva ‘vello di pecora’ e
una pelle di pecora fissata ad un telaio
rettangolare costituiva probabilm. la
culla sospesa, la quale si usa ancora in
zone del Peloponneso e del Dodecaneso
e vi ha il nome νάκα. L’area della voce
sic. ed it. merid. è tipica di un grecismo
ant. (impossibile dire se ci sia stata una
mediazione nel lat. regionale); il prestito
riguardò
l’oggetto
e
la
sua
denominazione, anche se poi n. si è
esteso ad altri tipi di culla. — Secondo
NicD 539 si chiama (o chiamava) corda
a naca ‘quella corda o altro sospeso in
cui i ragazzi si trastullano’. VS 3, 5, ma
come voce a parte, segnala la locuzione
fari n. che a Canicattini Bagni (sic. sudor.) presenta il significato ‘fare la corda
molla, ad es. del filo dell'aquilone
quando viene dondolato’, inoltre riporta
il sintagma n. furzata ‘sifone a corda
molla’, quest'ultimo da* Tri.
nacári v.tr. e rifl. ‘cullare’: 1a metà
sec. XV: «la fachia nacari a quactru
homini iuvini« (SCristina 25) e «si
nacava comu si nacava quandu era
pichula infanti» (ib.); 1519: «nacari v.
annacari: cunas agere» (Scobar 69r);
1752 n. ‘v. annacari’ dBono 2, 415 e
così poi Pasq 3, 240, Tr 627 (da Noto),
TrV 266, VS 3, 5 (da Mòdica,
Pantelleria, Ragusa e S. Michele di
Ganzarìa,) e AIS 1, 62 (da Giarratana);
n. rifl. ‘cullarsi, dondolarsi’ 1990, VS
l.c. (da Mòdica); ‘indugiare, attardarsi,
perdere tempo, ad es. nel lavoro’ ib. (da
Pantelleria e S. Michele); ‘ancheggiare,
6
dimenarsi troppo’ ib. (da S. Michele);
‘pavoneggiarsi nel camminare’ ib. (da
Pantelleria). Molto più diffuso è
annacári v.tr.: 1519: «annacari
pichulillu: cunas agere, cunis soprie [sic;
corr. sopire]» (Scobar 10v); 1721 a.
picciriddi ‘cullare, ninnare’ Dr 32; poi a.
‘cullare’ 1751 dBono 1, 52r e poi sempre
fino a Cav 29 e VS 1, 190, nonché in
AIS 1, 62 in tutti i P. sic. tranne
Mandanici, S. Michele e Giarratana;
‘cantarellare acciò addormentinsi i
bambini, ninnare’ 1868 Tr 57 e poi solo
NicD 57; ‘dimenare’ 1751 dBono l.c. e
poi Pasq 1, 103, Rocca 30, NicD 57 e
VS l.c.; ‘scuotere, scrollare, ad es. un
albero’ 1937 AIS 7, 1256 (‘scuotere un
pero’, a Baucina) e poi VS l.c. (da
Paternò, Baucina e Mazara, ma già Meli
1, 200 ha «ddà truvirai li zefiri /
ch’annàcanu li cimi», autoglossato
‘agitano lentamente’); ‘pascere uno di
vane speranze’ 1751 dBono l.c. e poi
fino a NicD l.c., in VS l.c. come ‘menar
per le lunghe q. o qc.’ (da Corleone,
Campobello e Marsala); ‘adulare
beffando’ 1751 dBono l.c. e poi fino a
TrV 65 e VS l.c., come disus.; a. intr.
‘dondolarsi, ciondolare, di casa posta in
bilico;
ondeggiare,
delle
messi;
beccheggiare, di imbarcazioni (da Tri e
Lipari)’ 1977 VS l.c.; a. rifl. ‘cullarsi,
dondolarsi’ 1977 VS l.c.; ‘dimenarsi’
fine sec. XVIII («annacánnusi tuttu
niscìu in menzu», Meli 2, 736
autoglossato appunto ‘dimenarsi’), 1838
Mort 1, 55 e poi fino a TrV l.c.;
‘culeggiarsi’ 1838 Mort l.c. e poi fino a
NicD l.c. e VS l.c.; Calvaruso 29 ha a. ’u
vasu ‘culeggiare camminando, parlando
specialm. di donna’; ‘ondeggiare, di
imbarcazione e di persona’ 1977 VS l.c.;
‘muoversi’ 1940 AIS 8, 1665 a Bronte
(come nnacári, forma per cui cfr. sotto)
e Mascalucia; ‘perder tempo’ 1751
dBono l.c. e poi in Mort l.c., NicDUr 16
e VS l.c., con alcune localizzazioni e
l’aggiunta di annacarisilla ‘id.’;
‘tentennare, esitare, pigliar tempo’ 1914
NicDUr l.c. e poi VS l.c., da Marsala, e
annacarisilla ‘id.’, da Enna, nonché, a
parte, ‘tergiversare, cercare cavilli’;
‘assumere atteggiamenti da mafioso;
vantarsi’ 1977 VS l.c.; ‘affrettarsi, spec.
in frasi imperative’ 1977 VS l.c., come
etneo sud-or. e da Gagliano. La forma
nnacári (cfr. già sopra) è nel 1752
dBono 2, 497 e poi Pasq 3, 302, Tr 648,
TrV 285, VS 3, 261 (anche intr. e rifl., e
con molti traslati) e AIS 1, 62 (‘cullare’
a Mandanici e S. Michele). Cfr. piazz.
nachè ‘cullare’ (Roccella 167); aid.
nacchè e nacculiè ‘id.’ (Raccuglia 255);
AIS 1, 62 ‘cullare’ ha lo stesso tipo a
Fantina e Sperlinga, ┌annacare┐ a S.
Fratello. Cfr. regg. nnacari ‘cullare’ e
rifl. ‘temporeggiare’ (NDDC 473); cal.
annacare
‘cullare’,
rifl.
regg.
‘temporeggiare’ (ib. 82; cfr. Rensch 246;
AIS 4, 722 registra nnacare ‘barcollare
come un ubriaco’ a Verbicaro); luc.
annaká ‘id.’ (Lausberg 196). Cfr. DEI 1,
210; FaréSalv 5813; LGII 346.
nacalóra s.f. ‘altalena’ (1752, dBono
2, 415 e poi fino a TrV 266 e VS 3, 5),
‘culla’ (1752, dBono l.c. e poi fino a
NicD 539 e VS l.c.), ‘quel ragno che
fabbrica i ragnateli di figura sferica’
(1752, dBono l.c. e poi Pasq. 3, 240 e
Rocca 216), ‘tarantola, ragno dei
licosidi’ (1990, VS l.c., ma da Tr 1152 a
NicD l.c. come agg. ‘di ragno grosso,
nero e velenoso’ e infatti AIS 3, 485 N
ha a Giarratana trarántula n. ‘ragno
casalingo [Zimmerspinne]’, cfr. anche
VS l.c.), ‘certa ruota di fuochi artificiali’
(1868, Tr 627 e poi fino a NicD l.c. e VS
3, 5); come agg. in vizza n. ‘una varietà
di veccia’ (1990, VS l.c., da Ragusa); n.
s.f. ‘persona dinoccolata’ (ib., da Noto).
La forma nacaluóra ‘altalena’ 1932 AIS
4, 748 a Palermo e VS 3, 5 a Corleone,
da ALI; ‘culla’ ib. ad Altavilla Milicia e
Corleone, da ALI; nnacalóra ‘culla’ (a
Marinèo), ‘altalena’ (a Balestrate,
Borgetto e Càccamo), ‘il cullare’ (a
7
Villarosa) 1990 VS 3, 261; nnacaruóra
‘altalena’ 1990, VS 3, 262 da Corleone;
nnaccalóra ‘v. nacalora’ 1752, dBono
2, 497, Pasq 3, 302 e VS l.c.;
annacalóra ‘culla a dondolo’ (a
Casteltermini), ‘altalena’ (pal.) 1977 VS
1, 190, che lo registra separatam. per ‘un
ragno ritenuto velenoso, tarantola,
Lycosa tarentula’, anche come agg.;
annacaluóra ‘altalena’ ib. (da Altavilla
Milicia). La c. 679 di ALI 1 registra
nacalora ai P. 1003, 1004, 1018, 1023,
1031, 1037, 1063, 1064, spesso come
alternativa a naca. Cfr. piazz. nacalöra
‘v. naca’ (Roccella 166). Cfr. FaréSalv
5813. Il suff. -lora è raram. deverb. per
indicare strumenti (cfr. Rohlfs, § 1074);
può anche avere valore aggettivale.
nacalúru s.m.: 1519: «nacaluru
auchellu: acantillus» (Scobar 69r); 1890
naccaluóru ‘rigogolo, Oriolus Galbula’
nelle Madonie (Giglioli 604; VS 3, 6
aggiunge Pòllina, da De Gregorio e
segnala n. aggruppa filu [lett. n. ‘annoda
filo’] ‘id.’ a Castelbuono; nacaluóru
‘id.’ 1990 VS 3, 5, da Tri, a Castelbuono
e nelle Madonìe; nnacaluòru ‘id.’ ib.
261, da Cerami. La collocazione qui mi
pare dubbia.
nacalúni s.m. e agg. ‘persona stupida,
sciocca’ (da Buscemi, Giarratana e
Ragusa), ‘persona corpacciuta’ (da
Chiaromonte Gulfi e Palazzolo Acreide),
‘persona che cammina traballando’ (da
Acate e Sortino), ‘spilungone’ (da
Palazzolo Acreide) (VS 3, 5); nnacalúni
‘id.’ ib. 261 (da Barrafranca e
Centuripe), nnaccalúni s.m. ‘uomo alto,
corpacciuto e mezzo scemo’ ib. 262 (da
Balestrate), e il v.intr. nacalunïári
‘bighellonare’ ib. 5 (da Giarratana e
Ragusa).
annáca s.f. ‘culla’ (ALI 7, 679, ai P.
1004 e 1035).
annacaméntu s.m. ‘dimenamento di
cuna’ (1751, dBono 1, 52r e poi NicD
57), ‘dimenamento’ (1785, Pasq 1, 103 e
poi fino a Tr 57), ‘vane promesse’
(1751, dBono l.c. e poi fino a Tr l.c.),
‘adulazione mescolata alquanto di beffa’
(1751, dBono l.c. e poi fino a Tr l.c.);
inoltre,
nnacaméntu
s.m.
‘dondolamento’ VS 3, 261, da Tri.
annacáta s.f. ‘dimenamento, dimenio’
e più specificam. ‘cullata’ (1838, Mort
1, 55 e poi fino a NicD 57 e VS 1, 191,
che aggiunge ‘scrollata, scossone;
l’ancheggiare o dimenarsi troppo nel
camminare, per spavalderia o per
civetteria’, nonché ‘tentennamento,
indugio’); ‘presa in giro’, in faricci n’a.
(1785, Pasq 1, 103 e poi Rocca 30 e VS
l.c.).
Inoltre,
nnacáta
s.f.
‘dondolamento; scrollata, scossone;
tentennamento, indugio, perdita di
tempo; portamento’ 1990, VS 3, 262.
Inoltre: nnácati-nnácati agg. inv. ‘di
persona dinoccolata’ 1990, VS 3, 262
(da Nissoria).
nnacatúri s.m. ‘culla a dondolo;
altalena’ VS 3, 262 (il 1° senso da
Bronte e Riposto).
annacatína
s.f.
‘dondolamento’
(1977, VS 1, 191, da Av).
annacatélla [sic] s.f. ‘altalena’ (1977,
VS 1, 191, da Acicastello e Catania);
nnacatélla s.f. ‘id.’ 1990 VS 3, 262 da
Calatabiano, Messina, Raddusa e
dall'etneo sud-or., nnacatéḍḍa ib., da
Siracusa, nacatéḍḍa ib. 5, da Letoianni,
nacatella ib. da Aci Bonaccorsi, inoltre
nacarélla ib. ad Augusta, da ALI.
nachïárisi v. rifl. ‘v. annacarisi o
annaculiarisi’ (1789, Pasq 3, 240 e VS
3, 6, dove anche nachiári v.tr.
‘dondolare cullare’ e v.intr. ‘nuotare,
spostarsi o procedere a nuoto’,
quest'ultimo senso da Man e a S.
Giuseppe Jato, da ALI). Cfr. piazz.
nachiè v.intr. ‘dimenar leggermente;
muovere a lenti passi’ (Roccella 166).
Cfr. cos. nachïare ‘cullare’ (NDDC
449). La forma annachïárisi 1977 VS 1,
191, localizzata nella Sicilia or. La
forma nacchïárisi (cfr. VS 3, 6, da Pasq
8
e TrV) vale sì ‘annacarisi’ ma è
formalm. da → nnacchiu.
annachïáta s.f. ‘dondolio (da Av);
ancheggiamento (da Caltanissetta e rag.
[ma è anche pal.]); il farsi avanti con
atteggiamento minaccioso e di sfida
contro q.’ (1977, VS 1, 191).
naculïári v.tr. ‘v. annaculiari’ (1752,
dBono 2, 415 e poi fino a NicDUr 165 e
VS 3, 7, da Tri, Licata e Marsala; in VS
l.c. anche: ‘scuotere (ad es. un albero)’,
da
Tri;
‘muovere
leggermente,
tremolare’, anche rifl., da Pantelleria;
‘tentennare, ad es. di mobile che non sia
bene poggiato’, anche intr., da S.
Michele; n. v. rifl. ‘attardarsi, perdere
tempo’, da S. Michele; in VS 3, 263-4
anche nnaculïári con usi tr., intr. e rifl.,
e alcuni traslati e nnacculïári v.intr.
‘tentennare, di dente’, da Paternò). Cfr.
piazz. naculiè ‘v. nachiè’ (Roccella
166). Cfr. regg. nnaculïari ‘dondolare,
cullare’ (NDDC 473). Cfr. FaréSalv
5813. Molto più vivo annaculïári ‘v.
annacari’ (1751, dBono 1, 52r e poi
sempre fino a Cav 29 e VS 1, 191; al
rifl. è soprattutto ‘muoversi, agitarsi (di
persone, fronde ecc.); tentennare’).
annaculiaméntu
s.m.
‘v.
annacamentu’ (1751, dBono 1, 52r e poi
fino a NicD 57).
annaculïáta
s.f.
‘l'azione
del
dimenare’ (1883, NicD 57 e poi VS 1,
191), e naculïáta ‘il cullare; il
dondolare’ 1990, VS 3, 7, da Pantelleria.
Cfr.
inoltre
l'agg.
nnaculïátu
‘dinoccolato’ ib. 264, da S. Elisabetta.
annacúni s.m. ‘scossa, scrollone’
(1977, VS 1, 191, da Man).
annacarïári v.intr. ‘v. arrisinari’
(1868, Tr 1130, da S. Giovanni Gemini,
poi TrV 65, Pitrè 8, che aggiunge
Cammarata, e VS 1, 191). Semanticam.
pare senza relazione con la nostra
famiglia, ma cfr. nnacarïári v.tr.
‘cullare, dondolare’ 1990, VS 3, 262, da
Tri e Lìmina; ‘scuotere, scrollare’ ib., da
Tri; v.intr. ‘ciondolare, di oggetto posto
in bilico; tentennare, esitare’ ib., da Tri;
v. rifl. ‘indugiare, perdere tempo’ ib. da
Tri e Villafranca Tirrena. Cfr. anche
regg.
nacarïari
‘dondolarsi’
e
annacarïari ‘dimenarsi, dondolarsi con
studiata affettazione’ (NDDC 449 e 82).
Da questo v. nnacarïáta s.f. ‘lo
scuotere,
lo
scrollare;
lentezza
nell'operare; temporeggiamento’ 1990,
VS 3, 262 (il 1° senso da Tri);
nnacarïaméntu
s.m.
‘dondolio,
oscillazione; temporeggiamento, perdita
di tempo’ ib., da Tri. Inoltre,
nnachiḍḍïári v.tr. ‘scuotere, ad es. una
pianta per farne cadere a terra i frutti’
VS 3, 263, da Tripi.
’ncannacári v.tr. ‘v. annacari’ (1868,
Tr 631 e poi solo TrV 269 e VS 3, 35,
dove è anche il rifl. ‘dondolarsi’).
Avolio 46 lo considera der. di naca, ma
la formazione non è chiara e la cosa
rimane incerta.
cacanáca s.m. ‘uomo da nulla’ (fine
sec. XVIII: «l'avirrò poi un sollenni
cacanaca, / èrramu, tintu, putrunazzu e
vili», Meli 1, 723, autoglossato ‘uomo
da nulla’, mentre a 2, 223 per «Tu …
cunti ancora ntra li cacanachi» il poeta
annota: ‘si dice per ischerno agli uomini
dappoco’; 1868 Tr 136 e poi TrV 103,
NicDUr 37 e Calvaruso 46 per ‘giovane
inesperto’, e VS 1, 502, che ha anche
‘persona inetta e oziosa’.
náca-bózza s.f. ‘altalena’ (1883,
PitrèGiuochi 361, da Licata; poi Pitrè
62), nacabbózza 1990, VS 3, 5. VS 1,
190
ha
annacabbuózza
s.m.
‘perditempo’, da Corleone. Nel 1868 Tr
1152
ha,
sempre
da
Licata,
nacatabbózza s.f. ‘altalena’, che torna
solo in TrV 266 e VS 3, 5 (che ha anche
nachetabbozza a Licata, da ALI),
nonché, nella forma náchita-bózza 1901
La Rosa 61, De Gregorio, StGl 7, 1920,
65, come di Noto; nachitabbózza in VS
l.c., a Licata, localizzazione in cui è
attestata anche naticabbózza ‘id.’ 1990,
VS 3, 24. Cfr. bbózza a-nnáca s.f.
9
‘cantimplora a bilico’ (1838, Mort 1,
115 e poi Tr 125, che ha anche fari la
bozza a naca ‘giuoco che fassi tra due
fanciulli che si volgono le spalle e colle
braccia intrigatesi tra loro alzandosi a
vicenda l’un l’altro’ (cfr. PitrèGiuochi
360), e VS 1, 438, ib. 3, 4); sembra
chiaro che il nostro composto proviene
da inversione di questi due termini, ma
nelle ultime var. naca assume la forma
che ritroviamo in náchita-cícca ‘id.’
(1977, RohlfsSuppl 73, da Rodì, e VS 3,
7 (con var. nel messinese); cfr. annácati
cicca ‘lentamente, pian pianino’ 1977
VS 1, 707 s.v. cicca, da Tri, dove cicca
sarebbe il dimin. di Francesca; cfr. cos.
náchita-zunna ‘altalena’ NDDC 449).
nacanaca s.f. ‘altalena, tavola sospesa
con due corde a un ramo o a un qualsiasi
altro sostegno’ 1990, VS 3, 5, da Isola
delle Femmine; nnacannáca s.f. ‘id.’
VS 3, 261 da Roccella Valdèmone;
‘dondolio; tentennamento’ ib., da Tri; id.
s.m. ‘terremoto’ ib., da S. Alfio.
nacanzíca s.f. ‘altalena’ VS 3, 5 (da
Av); nacazzíca s.f. ‘id.’ VS 3, 6 (da
Capaci).
nácula-’nzícula ‘altalena’ (1883,
PitrèGiuochi 361, da Catania, poi Pitrè
62 e AIS 4, 748 a Mascalucia e VS 3, 7
(con alcune var.); per la seconda parte
cfr. vocanzíca e vocalanzícula, VS 5,
1171 s.).
nácula-pénnula
‘id.’
(1977,
RohlfsSuppl 73, da Naso, e VS 3, 7).
nnacapréuli s.m. ‘persona sciocca e
inconcludente’ VS 3, 261 (da
Biancavilla).
nácula-túcca ‘id.’ (1883 PitrèGiuochi
361, da Messina, come ‘culla turca’ e
poi Pitrè 62, anche in VS l.c.).
nnachiticiúḍḍa s.f. ‘id.’, VS 3, 263
(da Nizza Sicilia); nachína s.f. ‘culla’
VS 3, 6 (a Barrafranca, da ALI);
nachïola s.f. ‘id.’ ib. (da Marsala);
nnacularína s.f. ‘altalena’ VS 3, 263
(da Noto) e nnacularrína ib. (da Tri e
Noto)
naca2 s.f. ‘pozza d’acqua stagnante
nel letto di un fiume’ (1752, nel
senso di ‘terreno poco compatto’ e
‘gorgo’), relitto dell’ar. naqc o naqac
‘acqua stagnante; acquitrino’, di area
soltanto sic. e regg. e senza
corrispondenti in altre lingue rom.
1752 n. ‘terreno che sfonda e non
regge al piè’ dBono 2, 415 (non torna
altrove, se non citato in VS 3, 5) e
‘gorgo’ dBono l.c., poi in Pasq 3, 240 Tr
627, TrV 266 e VS l.c., da Troina; 1844
‘letto di fiume’ Mort 2, 1 e poi Tr l.c.,
TrV l.c., NicD 539 e VS l.c. (da
Casteltèrmini); AIS 3, 429 Cp ‘buca nel
letto del fiume’ ha n. a Vita, Villalba e
Naro; ‘avvallamento o rientranza del
corso del fiume dove l’acqua ristagna’ e
‘pozza d’acqua’ (GenchiCannizzaro 180,
a Castelbuono); nonché nella galloit.
Sperlinga; RohlfsSuppl 73 aggiunge S.
Biagio Platani, altre localizzazioni in VS
3, 4 s.; Nicotra 249 ha nachi ‘fossi pieni
di acque dolci’ ad Alia; VS 3, 5 ha anche
n. ‘cunetta, avvallamento del piano della
strada’, da Tri.
Cfr. regg. naca ‘avvallamento, fossa’
(NDDC 449).
Avolio 46 accosta il sic. n. d’acqua
(cfr. anche VS 3, 5) allo sp. noque ‘fossa
di conceria’, ricondotto all’ar. noqueca,
per cui sarebbe connesso a → bunaca2.
Così anche De Gregorio, StGl 1, 1899,
134, che ritiene naca1 sviluppo di naca2;
ma questo studioso cambiò parere,
escluse n.2 dagli arabismi da lui raccolti
in StGl 3, 1903 ed in StGl 7, 1920, 247
mantenne il nesso con naca1, ma
invertendo la direzione dello sviluppo,
per cui ora era la nostra voce ad essere
traslato di ‘culla’ (così anche REW
5813; Prati, ID 16, 1940, 171-2 e
PratiStorie 39; Alessio, Boll 4, 1956,
337; Giuffrida 71). Nel frattempo
DAlCalv 267 avevano riformulato
l’etimo ar., proponendo naqc ‘terreno
10
dove l’acqua stagna, acqua stagnante’
(cfr. Wehr 993 e Steingass 1143:
‘maceration, soaking, steeping; infusion;
stagnant water, quagmire, swamp, bog’;
Nallino-Traini 3, 1557: ‘macerazione,
infusione; acqua stagnante, stagno,
acquitrino, palude’), parola che Edrisi
usa al f. (cfr. Dozy 2, 715b). Questa base
è stata accolta da Rohlfs, Z 46, 1926,
150 (che osserva giustam. che l’area di
naca2 è del tutto diversa da quella di
naca1), Steiger 216, PagliaroAspetti 361
(pone accanto a naqc un dial. naqac),
AlessioPostille 15, Pellegrini 268,
RohlfsSuppl 73. Fin da Avolio l.c. si è
collocato accanto alla voce sic. quella
sp. (cfr. ancora Alessio, Boll 4, 1956,
337), ma noque è prestito dal cat. noc
‘taüt’, a sua volta dal lat. *NAUCUS
(attestato solo nel sec. VI: cfr. DCECH
4, 236a; DECLlC 5, 943b ss.; FEW 7,
60). Per quanto sia esistito il
corrispondente der. f. di navis, cioè
*navica, ed abbia continuatori gallorom.
nel senso di ‘condotto d’acqua’ e tosc.
(cfr. FEW 7, 58b e 60a), la fonetica
esclude che la voce sic. possa avere
questa origine. Si tratta dunque di relitto
ar., che designa in primo luogo, giusta
l’etimologia, le pozze d’acqua stagnante
cui spesso si riducono i corsi d’acqua
sic. Per i nomi di luogo corrispondenti a
questo tipo cfr. Alessio, Boll 4, 1956,
337, che integra AvolioTop 90; cfr.
anche Prati, ID 14, 1939, 175-6. →
bunáca2.
annacári2
v.intr.
‘ingorgarsi
(dell’acqua)’ (1977, VS 1, 191, da Tri).
nachicéḍḍa s.f. ‘pozzanghera’ (1990,
VS 3, 6, da Altofonte).
nacúni s.m. ‘modesto avvallamento
nel terreno nel quale l'acqua ristagna per
qualche tempo’ (1990, VS 3, 7, da
Castelbuono) e ‘pozzanghera’ ib., da
Isnello.
nnácchiu s.m. ‘organo genitale della
donna’ (1789, nel senso traslato
‘sciocco’; 1844, nel senso proprio), è
voce con isolati riscontri in Calabria,
di
origine
controversa
(*CUNNACŬLUM?; PINNACŬLUM?;
ar. nakḥ?), ma forse semplice
rifacimento di → pacchiu con la
nasale di cunnu ‘id.’.
1789
n.
‘persona
da
poco,
sempliciotto’ Pasq 3, 303 e poi fino a Tr
649, nn. VS 3, 263; 1844 nn. ‘v. cunnu’
Mort 2, 26 e poi solo Tr l.c. ed ora
RohlfsSuppl 75 (da Ucria e Palermo, cui
VS 3, 263 aggiunge Castellammare del
Golfo, Frazzanò e Gioiosa Marea), n.
VS 3, 6 (da Adrano); 1990 nn. ‘abitante
di montagne boscose o oriundo da paesi
situati tra i boschi’ VS 3, 263 (da
Troina) e ‘persona che viene dai paesi
limitrofi a vendere uova o altro genere di
merce di scarso valore’ (da Cesarò).
L'agg. nn. ‘stupido, scemo’ ib. da
Barcellona, e ‘piccolo’ ib. (da Bronte e
Maletto). Inoltre, nnágghiu s.m.
‘pudende femminili’ VS 3, 264 (da Tri),
e nácciu s.m. ‘id.’ VS 3, 6 (da Mòdica).
In VS 3, 272 anche nnícchiu s.m.
‘pudende femminili’ (da Messina, da cui
l’unica attestazione in ALI 1, 65, P.
1016, nonché da Nizza Sicilia, Rocca
Lumera e S. Stefano di Briga), e nn. agg.
‘sciocco, babbeo’ (già in AA,
Sanclemente e Tr 650) e nícchiu agg.
‘id.’ (da Sanclemente).
Cfr. catanz. (Nicotera) nacchiu
‘organo genitale della donna’ (NDDC
449); regg. nicchiu ‘fica’ (NDDC 4697).
La tarda e scarsa attestazione, dato che
la parola è viva nell’uso, è certo dovuta
a tabù. La prima proposta etimologica
sembra quella di De Gregorio, StGl 7,
1920, 247, che pensò al lat. NACCA di
Festo, che egli traduceva ‘uomo che
esercita qualunque vile mestiere;
qualunque
sporchissimo
uomo’,
11
attraverso un der. *NACCŬLUS. In realtà
nacca -ae s.m. (anche di Apuleio) è
sinon. volg. di fullo ‘lavandaio’, sicché
la base è inverosimile sia semanticam.
che morfologicam.; Alessio, ID 12,
1936, 72 (e poi AlessioLatinità 88)
propose CUNNUS ‘genitale femminile’,
supponendo che si tratti di forma
aplologica del continuatore di un
*CUNNACŬLUS, spiegazione accolta da
FaréSalv 2399 e da RohlfsSuppl 75 (e
NDDC 449; ambedue le volte come
riduzione di un *cunnácchiu che non mi
risulta esistere né in sic. né in cal.);
quest’ultimo studioso ha accostato alla
nostra voce il regg. nicchiu ‘fica’
(NDDC 4697), in cui certo scorge un
der. in -ICŬLUS, parallelo a quello in ACŬLUS; ma la voce regg. può andare
con tosc. ant. nicchio ‘id.’ e ‘conchiglia’,
di etimo oscuro (cfr. DEI 4, 2582; VEI
688; DELI2 1038a), che ha il senso
anatomico (Batt 11, 421). Più
recentemente AlessioLexicon 316 ha
abbandonato la precedente spiegazione a
favore del lat. tardo PINNACŬLUM,
dimin. di PINNA ‘penna’, che avrebbe
avuto il senso ‘clitoride’ (peraltro non
attestato: conosciamo solo ‘aluccia’ e
‘pinnacolo’), da confrontare con sic. e
cal. pinna ‘membro virile’; sempre a
Nicotera in effetti troviamo pinnácchiu
‘genitale della donna’ (NDDC 524;
altrove ‘pennacchio, fiocco, ciondolo’).
Si deve però osservare che non si
conoscono esiti di PINNACŬLUM con
analoga forma e/o senso (cfr. FEW 8,
536-7), come sono ignoti eventuali
continuatori di *CUNNACŬLUM; l’aferesi
può giustificarsi con l’analogo fenomeno
in → sticchiu, ma l’iniziale nn- data dai
vocab. non impone affatto una base con
-NN-, dato che l’alternanza n-/nn- (nella
nostra parola anche catanz.) è
abbastanza comune e probabilm. dovuta
a rafforzamento dopo l’articolo. A
questo punto diventa degno di memoria
che l’ar. conosca un nakĥ ‘pudenda of a
woman’ (Steingass 1146; non lo trovo in
altri vocab.). Poiché altre comunissime
denominazioni del genitale femminile,
come → pácchiu e → stícchiu,
presentano analoga struttura fonetica,
sorge il dubbio che si tratti semplicem.
di rifacimento di pacchiu con la nasale
del più comune cunnu. L’isolamento di
tosc. ant. nicchio nel senso anatomico
porta ad escludere che sia questa la
forma più antica del sic., dove invece si
sarà avuto un accostamento a sticchiu. Il
passaggio semantico ‘genitale’ →
‘sciocco’ è comunissimo (per il
gallorom. cfr. FEW 2/2, 1541). Strano
invece il senso di ‘abitante dei boschi;
rivendugliolo’.
nnacchïári v.tr. ‘v. tirziari o burrari’
(1789, Pasq 3, 303 e poi fino a TrV 285
e VS 3, 263; Mort 2, 26 preferisce
rinviare a cugghiuniari). Cfr. piazz.
nacchié ‘v. buzzarè’ (Roccella 166). Per
l’evoluzione semantica cfr. sopra. Esiste
anche un rifl. nacchïárisi ‘v. annacarisi;
v. natichiarisi’ (1868, Tr 627 e poi fino
a NicD 539, che ha solo il 2° senso, e
VS 3, 6, da Pasq e TrV), che risente
senza dubbio di naca, ma che formalm.
va qui e non sotto la base naka, dove lo
colloca FaréSalv 5813.
nánfara s.f. ‘il parlare col naso’
(1752), è voce esclusivam. sic., di
probabile origine onomatopeica,
anche se rimane il dubbio che possa
provenire da un v. ar. incrociato con
nasu.
1752 n. ‘il parlare nel naso’ dBono 2,
415 e poi fino a NicDUr 165 e VS 3, 8;
1789 anche ‘corizza’, cioè ‘raffreddore’
Pasq 3, 241, poi anch’esso fino a
NicDUr l.c. e VS l.c.; 1990 ‘raucedine’
VS l.c. (da Tri e Tortorici); le loc.
parrari cu la n. o aviri la n. ‘esser
nasino’ 1868 Tr 628 e poi fino a NiD
12
539 e VS l.c. Cfr. anche le forme
nnánfara
‘costipazione
nasale,
raffreddore’ 1990, VS 3, 265 (da Tri);
námpara ‘id.; voce di timbro nasale’
VS 3, 8 (dall'agr. or.); námpira
‘costipazione nasale o raffreddore’ ib.
(da Centuripe); nánfira ‘id.’, ib. 9 (da
Cerami e Palazzolo Acreide), ‘voce di
timbro
nasale’
ib.
(diverse
localizzazioni); nánfra ‘costipazione
nasale o raffreddore’ ib. (da Buscemi e
Giarratana). Cfr. piazz. nánf’ra ‘corizza’
(Roccella 167); aid. nànfira ‘voce
nasale’ (Raccuglia 257)..
Non
si
conoscono
paralleli
continentali di questa voce.
Avolio 46 considerò nanfara prestito
(o relitto) dell’ar. ḫanfara, che egli
trovava in Dozy 1, 409a come ‘ronfler’
(cfr. Wehr 263b ‘to snuffle, snort’ e
soprattutto NallinoTraini 1, 324 ‘parlare
nel naso; nasalizzare, dar suono nasale;
respirare rumorosamente col naso’). La
stessa opinione adottano De GregorioSeybold,
StGl
3,
1903,
242,
aggiungendo che l’iniziale sarà stata
mutata per ottenere un’onomatopea e per
influsso di naso; ma, dopo le critiche di
DAlCalv 270 (che trovano molto distanti
il senso della voce sic. e l’ar. ‘ronfare’ o,
per l’identico s.f., ‘narice’, e che
considerano ben difficile un passaggio
ḫ- > n-, e quindi escludono l’origine ar.),
De Gregorio, StGl 7, 1920, 131 sembra
considerare n. una pura onomatopea,
influenzata da nasu. Di onomatopea
aveva nel frattempo parlato Prati, AGl
17, 1910-13, 420 n2, avvicinando n. al
ven. sgnanfo, valsug. gnanfo ‘che parla
nel naso’ (cfr. poi PratiEtVen 76 s.v.
gnaga venez. ‘voce imperfetta e
ingrata’); più tardi M. L. Wagner, RPh
6, 1952-53, 333 cita n. tra voci rom. con
a tonica che imitano la voce nasale (port.
fanhar, fanha, fanhoso; cal. fánfici);
infine Corominas, NRFH 10, 1956, 178
(=Tópica hespérica 2, 83) pone n.
accanto al venez. sgnanfar ‘parlare col
naso’. In effetti l’origine imitativa
sembra la più probabile, anche se
sorprende la mancanza di forme
analoghe oltre lo stretto, che contrasta
con la buona diffusione della voce
nell’isola; contro l’origine ar. la
definizione di ḫanfara in NallinoTraini
fa cadere l’obiezione semantica, ma
rimane quella fonetica (superabile per
l’incrocio con nasu?) e preoccupa
l’assenza in malt. Si noti infine che, se la
base fosse realm. ḫanfara, bisognerebbe
partire non da n. ma da → nanfariari e si
tratterebbe di uno dei pochi verbi di
origine araba.
nánfaru s.m. ‘il difetto di chi, per
raffreddore o per malformazione
costituzionale, parla con voce nasale’,
VS 3, 8 (da Marsala).
nanfarïári v.intr. ‘parlare col naso’
(1759, Vinci 168 e poi sempre fino a
NicDUr 165 e VS 3, 8 (da Casteltèrmini,
Cesarò, Ragusa, Riesi e S. Croce
Camerina); anche rifl. (da Agrigento); n.
‘respirare affannosamente’ ib. (da
Bronte); namparïári ‘id.’ 1990, VS l.c.
(da Montallegro e Montedoro), anche
rifl. (da Castrofilippo e Milena);
nambarïárisi v. rifl. ‘id.’ ib. (da
Raffadali). Cfr. piazz. nanfarié v.intr.
‘parlare in suono nasale’ (Roccella 166).
nanfarúsu agg. ‘parlante nel naso’
(1752, dBono 2, 416 e poi sempre fino a
Cav 131 e VS 3, 9 dal sic. or. e occ., qui
anche come s.m.); da Tr 628 a NicD 539
e VS l.c. si aggiunge ‘nasale (di voce)’;
namparúsu s.m. e agg. ‘chi o che parla
con voce nasale’ 1990, VS 3, 8, dall'agr.
or. L'uso avv. (parlari nanfarusu) è
segnalato in VS 3, 9, da Gàlati
Malertino, Mistretta e Oliveri. Cfr.
piazz. nanfarös ‘chi parlando manda un
suono nasale’ (Roccella 166); aid.
nanfaruse ‘id.’ (Raccuglia 257).
annanfarátu agg. ‘chi ha le vie nasali
costipate’ (2000, GenchiCannizzaro 20).
13
nánnu s.m. ‘nonno’ (1519), è voce
infantile di area circum-mediterranea
(Sicilia, Calabria, Lucania, Puglie,
Sardegna, Francia merid., Spagna,
Africa sett., Malta, Grecia), nel cui
ambito è impossibile definire il
focolaio di diffusione (ma la forma f.
pare più ant. e diffusa); parallelo il
tipo núnnu ‘id.’, documentato già in
lat.
Documentazione del s.m.: 1519:
«nanu parenti: avus; n. bisavu: proavus;
n. terczu: atavus; n. quartu: abavus; n. de
mi mugleri: prosocer; n. cosa di nanu:
avitus» (Scobar 69r); 1522: «nanno sive
nonno: hic avus» (Vall 57); 1598 ca.
Palermo: «Carlo V imperatore, nanno di
Filippo III nostro re» (Diari 1, 233);
1736: «Tornu e juru pri l’arma di me
nannu» (Musmeci 102); 1751 ‘nonno,
avolo’ dBono 2, 416 e poi sempre fino a
Cav 131 e VS 3, 11, che lo dà come
antiq.; AIS 1, 16 (e cfr. 8, 1702) ‘il
nostro nonno’ ha n. in tutta l’isola tranne
Palermo e Mandanici (nonnu); VS l.c.
segnala anche n. ‘bisnonno’ a Pantelleria
e nannú ‘id.’ a Palazzolo Acreide,
entrambe le attestazioni da ALI, inoltre
abbiamo nágnu ‘nonno’ VS 3, 7 da S.
Michele; a Castelbuono nunnu ‘zio;
prozio’ (GenchiCannizzaro 197); le
forme allocutive nannò, nnonnò e
nonnò sono registrate da VS 3
(rispettivam. alle p. 11, 279 e 287). Solo
Tr 628 nel 1868, e poi VS l.c., attesta pl.
‘le parti posteriori della ravogghia’;
1877 ‘il fantoccio del carnevale’ TrV
267 e poi NicD 540 e VS l.c. (ma per
questo cfr. PitrèUsi 1, 93 ss.). VS 3, 11
segnala per n. anche i sensi ‘pappo dei
semi di molte piante composite’ (a
Catania, da Can); ‘dente di leone o
soffione’ (a S. Teodoro, da ALI);
‘saltimpalo’ (a Siculiana, da PitrèUsi).
In alcuni punti dell'area etnea sud-or. e a
Pachino la parola designa inoltre diversi
tipi di vermi, larve, ecc. (VS l.c.). Nella
c. cit. dell’AIS tutti e quattro i P. galloit.
hanno ┌nannu┐; cfr. piazz. nannu ‘avo’
(Roccella 167). ― Documentazione del
s.f.: 1519: «nana idem [parenti]: avia; n.
bisava: proavia; n. tercza: atavia; n.
quarta: abavia; n. idem [de mi muglieri]:
prosocrus mea» (Scobar 69r); 1752
nanna ‘nonna, avola’ dBono 2, 416 e poi
sempre fino a Cav 131 e VS 3, 9; AIS 1,
17 ha n. in tutta l’isola ad eccezione di
S. Biagio e Mandanici (qui nonna), ma
compresi i P. galloit.; 1789 ‘termine di
giuoco di palla’ Pasq 3, 241 e poi fino a
TrV 267 e VS l.c. (si tratta del giuoco a
bocci e ragogghia: cfr. PitrèGiuochi
156); 1844 ‘piccola stizza’ e ‘vino
generoso e vecchio’ Mort 2, 2 e poi Tr
628, TrV 267 e VS l.c.; 1868
‘pennacchio’ Tr l.c. e poi TrV l.c. e VS
l.c.; 1877 ‘diarrea’ TrV l.c. e poi
NicDUr 165 e VS l.c. (in numerose
località); AIS 4, 677 lo raccoglie in
questo senso a Baucina. VS l.c. ci dà
anche n. ‘bisnonno’ (da Pantelleria);
‘impasto di carta, polvere, olio o saliva
che, asciugatosi, veniva bruciato durante
feste locali o a carnevale’ (da PitrèUsi);
‘larve della Polyphylla fulva’ (da Can).
La var. accentuativa nanná s.f. ‘v.
nanna’ 1888 TrVApp 19 e poi VS l.c.
(da Casteltèrmini); inoltre nágna ‘id.’
VS 3, 7 (da S. Michele). – Cfr. aid.
nanne, nanna ‘nonno, -a’ (Raccuglia
257). Cfr. malt. nannu e nanna ‘nonno’
e ‘nonna’ (Barbera 3, 829-30), nanna
‘grand mother; an old dame’ e nannu
‘grand father; an old man, a beggar’
(Kalepin 219).
Cfr. cal. nannu ‘nonno’ (NDDC 450;
cfr. AIS 1, 16) e nanna ‘nonna’ (ib.; cfr.
AIS 1, 17, che mostra il f. più esteso del
m.; nanna è già nel 1478 a Cosenza:
TestiQuattrocento 115); S. Chirico
Raparo e Pisticci nanna ‘nonna’ (AIS 1,
17; diversi i tipi per il m.); sal. nanni, -u
‘nonno’ (VDS 2, 383; cfr. AIS 1, 16) e
nanna ‘nonna’ (ib.; cfr. AIS 1, 17);
14
sardo nannái ‘nonna’ (DES 2, 154b).
Una base infantile nanna (cfr. it.
nanna ‘sonno’ e ninna-nanna) appare
specializzata attorno al Mediterraneo
(soprattutto occ.) per ‘madre’ o ‘nonna’
o altre figure femminili adulte: cfr., oltre
le voci sic., cal., luc., sal. e sarde, bearn.
nane ‘mère’ (FEW 7, 5a, con qualche
altra voce gallorom. dial.); sp. nana ant.
‘mujer casada, madre’, famil. ‘abuela’
(DCECH 4, 256a; in Messico è ‘niñera;
nodriza’); ar. maghr. nānna e nanna
‘maman, grand’mère, bonne’ (Dozy 2,
632a); berb. nanna ‘Grossmutter,
Mutter,
ältere
Schwester’
(SchuchardtBerb 45); gr. ant. νάννη
‘sorella della madre’. In questa
situazione è inutile considerare n. come
var. di → nunnu (come fa Gioeni 205), o
come arabismo (come propongono
DAlCalv 272-3) o come grecismo (così
De Gregorio, StGl 7, 1920, 247-8 e DEI
4, 2598, che precisa «bizantinismo», e
forse LGII 346, nonché, con qualche
dubbio, Bonfante, Boll 2, 1954, 286).
Più ragionevole sembra la collocazione
di
REW
5817.1
(seguito
da
AlessioLatinità 415) e di FEW 7, 6ab
come continuatore dell’antichissima
voce infantile nanna, senza che sia più
possibile precisare quale ne sia stato il
focolaio di diffusione. Come videro De
Gregorio l.c., Bonfante l.c., la forma m.
è secondaria (anche la sua area è
minore). Questa voce infantile conosce
varianti apofoniche (nenn-, ninn-, nonn), delle quali almeno due sono presenti
in Sicilia: nenna ‘mammella’ e nunnu, a, che qui trattiamo. Il m. è núnnu 1752
‘babbo, padre’ dBono 2, 540 e poi fino a
NicD 569 e VS 3, 345 (si avverte che
Vinci 173 lo dice pal. e da Pasq 3, 337 a
Mort 2, 40 si afferma che anticam. era
usato dai figli di nobili e di borghesi, ma
ai loro tempi dai figli degli artigiani;
LaRosaAllotropi 269 lo dice usato nella
Sicilia sud-or. come appellativo per i
genitori e un tempo forse in riferimento
alla Madonna); 1853 ‘nonno’ Mort2 593
e poi fino a NicD 569, a VS l.c. (da
Pantelleria), e in AIS 1, 16 a S. Michele
di Ganzaria; 1853 ‘uomo vecchio’ Mort2
l.c. e poi fino a TrV 294 e VS l.c.; 1868
‘v. gaddu d’India’ Tr 659, come catan.,
e poi TrV 294; 1895 ‘suocero’ ATrP 14,
356 (da Isnello), poi VS l.c. (da
Pantelleria); 1990 ‘bisnonno’ VS l.c. (da
Acate, Menfi e Mòdica); ‘padrino’ ib.
(da Regalbuto e Castel di Judica), e in
più di un punto dell'area linguistica
etnea; ‘ruffiano’ ib. (da Man e Paternò);
‘chi chiedeva la mano di una ragazza per
conto di un giovane pretendente’ ib. (da
Cefalà Diana); nunn'i cannalivari
‘fantoccio di carnevale’ ib. (da Pòllina);
per n. ‘v. nuddu’ → nuḍḍu; la forma
nnúnnu 1875 Mac 212 e VS 3, 283 nn.
‘nonno’ (da Mac, Tri e Canicattini
Bagni), ‘padre’ (da Mac e Tri), e
‘bisnonno’, dato come disus. (a
Siracusa); cfr. piazz. nunnu ‘nonno;
ruffiano’ (Roccella 183). Per il s.f.:
núnna 1752 ‘mamma, madre’ dBono 2,
540 e poi fino a Tr 659 (che è l’unico
assieme a VS 3, 345 a dare anche
‘ruffiana’), VS l.c.; 1789 ‘nonna’ Pasq 3,
337 fino a Tr 659, VS l.c. (dal pal. oltre
che da Pantelleria e S. Ninfa) e AIS 8,
1702 a Naro; 1895 ‘suocera’ ATrP 14,
356, da Isnello e VS l.c. (da Pòllina);
1940 ‘bisnonna’ AIS 8, 1702, da Bronte;
1990 ‘termine con cui i figli si
rivolgevano, in segno di rispetto, alla
madre’ VS l.c.; ‘madrina’ VS l.c. (da
Regalbuto, Castel di Judica, e da alcuni
punti dell'area etnea). La forma nnúnna
‘madre’ 1990, VS 3, 283 (da Siracusa);
‘nonna’ ib. (da Canicattini Bagni). Cfr.
malt. nuna e nunu, che Barbera 3, 852-3
definisce ant. ‘nonna’ e ‘nonno’, ora ‘si
dà a ciascuna persona, accennandola ai
bambini’; Kalepin 227 ha solo nuna
‘grand mother, grandma, grannie, a lady,
an old schoolmistress’.
Cfr. nunnu catanz. ‘nonno’, cos.
‘padrino’ e nunna catanz. ‘nonna’, cos.
15
‘madrina’ (e anche ‘sbornia’) (NDDC
482); sal. nunnu ‘padrino di battesimo’
(a Brindisi anche ‘uomo, persona’, a
Lecce e Taranto anche ‘titolo che si dà a
un uomo di una certa età di cui si ignora
il nome’) e nunna ‘madrina di
battesimo’ (a Brindisi anche ‘donna’, a
Lecce anche ‘titolo che si dà a una
donna…’) (VDS 2, 429); sardo nónnu
‘padrino’ e nònna ‘madrina’ (DES 2,
171b).
Gioeni non esitò a riportare le voci sic.
al lat. NONNUS ‘balio’ nelle iscrizioni,
‘anziano monaco’ da S. Girolamo (cfr.
Blaise 557b) e NONNA ‘nutrice, balia’
nelle iscrizioni, ‘anziana religiosa
vedova’ da S. Girolamo (cfr. Blaise
557a), da cui it. nonno, -a (sec. XVII:
DEI 4, 2598); così anche De Gregorio,
StGl 7, 1920, 247-8; REW 5817.3; DEI
l.c.; DELI2 1045a (solo LaRosaAllotropi
268-9 dà una stravagante pseudospiegazione da DOMINUS). Bisogna
però spiegare la u tonica del sic., cal. e
sal., perché la base lat. sembra aver
avuto Ŏ. La c. 17 dell’AIS mostra che il
tipo ┌nonna┐ è realizzato con ọ (e
qualche volta con u) in località sparse
dalla Liguria e dalle Alpi piem. a
Cherso, non però in Emilia (tranne
Bologna: cfr. 8, 1702); nella penisola
balcanica troviamo rum. e macedorum.
nun ‘testimone di matrimonio, padrino’
che postulerebbero addirittura *NUNNUS
(e cfr. alb. nun, núnë ‘padrino, madrina’,
gr. νοῦνος» ‘id.’; forse qui libanese
nûnû, nûnâ ‘babbo, nonno, nonna,
persona di avanzata età’ parlando con
bambini: Barbera 3, 852-3). Bisogna
dunque pensare che già la voce lat.
avesse una vocale tonica oscillante tra Ŏ
e U. ― Le due c. dell’AIS più volte cit.
presentano, accanto a casi assai
sporadici di nónnu, certo italianismo
(cfr. VS 3, 287, dove anche il f. nónna),
la coppia papa ranni ~ mamma ranni a
S. Biagio Platani (AIS 8, 1702 aggiunge
Bronte); VS, 3, 561 registra in diverse
localizzazioni e var. ┌paparanni┐
‘nonno’, oltre a ‘bisnonno’ (da
Caltagirone e Camastra); VS 5, 544
segnala il m. tataranni ‘nonno’ a Lipari
e Malfa (da RohlfsSuppl) e ‘bisnonno’ a
Canicattini Bagni; VS 2, 609 registra
come antiq. il tipo mammaranni
‘nonna’, da TrV; si tratta di
denominazione che in AIS 1, 16-17 e 8,
1702 ha riscontro a Verbicaro (solo il
m.), Salve, S. Chirico Raparo, Vernole,
Palagiano, Alberobello (solo il f.),
Ripacandida, Monte di Procida, Canosa,
Vico del Gargano, S. Giovanni Rotondo,
Lucera (il f. sempre con mamma, il m.
con tata o patə; a S. Giovanni Rotondo e
Monte di Procida l’agg. è ┌grosso┐),
nonché nell’estrema Liguria occ. e nel
Piemonte alpino, a stretto contatto con la
Francia, dove domina (cfr. FEW 4, 2234). Bonfante, Boll 2, 1945, 286 n18, si
chiede se in Sicilia e Italia merid. esso
non sia dovuto a influenza francese; la
cosa è possibile, ma rimane dubbia
perché nulla sappiamo sull’antichità di
questa denominazione in Italia e la
documentazione fr. non risale ad epoca
normanna (grand-père è del 1564 e
grand’mère del sec. XIII, ma è probabile
che l’uso risalga più indietro, dato il ted.
Grossvater ‘id.’ del sec. XII nella zona
della Mosella: FEW 4, 224a).
nannúni s.m. ‘bisnonno’ (con diverse
localizzazioni) e ‘avo, antenato’ (1990,
VS 3, 11, da Man.).
nannulínu agg, ‘di bambino molto
legato alla nonna’ (1990, ib., da Av).
nannacúni s.m. ‘bisnonno’ (1990, VS
3, 9; da Acate, Comiso e Ragusa (qui
anche il pl. i n. ‘gli
antenati’), nannucúnu da Comisu e
Ragusa VS ib.), nannucúnnu (da S.
Croce Camerina e Vittoria), nannucu
(da Buccheri). Per il f. nannacúna
‘bisnonna’ (1990 VS 3, 9, da Comiso e
Ragusa), nannacúnna (da Vittoria).
16
nannículu s.m. ‘bisnonno’ (1990, VS
3, 11, da Alia, Aliminusa, Altavilla
Milicia e Valledolmo).
nannurarà s.m. ‘bisnonno’ (1990, ib.
11, da Castelbuono).
nannásciu s.m. ‘il padre del patrigno
o della matrigna’ e nannáscia ‘la madre
del patrigno o della matrigna’ (1990, VS
3, 10, da Casteltermini).
nannáṣṭṛu
s.m.
‘bisnonno’
e
nannáṣṭṛa s.f. ‘bisnonna’ (1990, ib., da
Cesarò e S. Teodoro).
nannávu s.m. ‘bisavo, bisavolo’ (già
alla fine del sec. XVIII in Tempio 9: «lu
mpararu li nannavi»; 1839, Rocca 217 e
poi fino a Cav 131, a RohlfsSuppl 73,
anche da Ucria, e a VS 3, 10); 1875
nánnu-ávu ‘id.’ Mac 203; 1928
nannuváu ‘id.’ AIS 1, 16 Cp, a
Giarratana; 1977 nánnu ávu ‘id.’ VS 1,
342, a Scordia, Militello V. C.,
Cassibile, pal. centr. e occ., S. Giovanni
Gemini e Sciacca, nannuàvu VS 3, 11;
1977 nannáu ‘id.’ RohlfsSuppl l.c., a
Linguaglossa, Roccella Valdemone,
Taormina e Tripi, VS 3, 10, dove anche,
con lo stesso senso e in diverse
localizzazioni: nannávulu, nannáulu,
nannaláu (nonché nannaláu s.m.
‘idiota, cretino’ VS 3, 265, da Mart),
oltre a nannuváu e nannuvávu ib. 11,
nnannáu e nnannáulu ib. 265. Per il f.
abbiamo nannáva ‘bisava, bisavola’
1839 Rocca 217 e poi NicD 539,
NicDUr 165, Cav 131, RohlfsSuppl 73 a
Linguaglossa, Roccella e Taormina, VS
l.c. aggiunge Paternò e Tripi; nannáa
‘id.’ VS 3, 9 (da Acireale e Paternò);
nanna ava l.c. (da Marineo); nannáia
VS 3, 10 (da Lìmina); nannaváva ib.
(da Francofonte e Paceco). Ci sono poi
le forme in nu-: 1928 nunnáu
‘bisnonno’ AIS 1, 16 Cp, a Mandanici e
poi RohlfsSuppl 73 e VS 3, 345 (dal
mess.); 1990 nunnávu ‘id.’ ib. (dal
mess.) e nunnuvávu ib. (da Canicattini
Bagni); 1928 nunnáua ‘bisnonna’ AIS
1, 17 Cp, a Mandanici; 1977 nunnáva
‘id.’ RohlfsSuppl 73, a Rometta e S.
Lucia del Mela, VS l.c. Già De
Gregorio, StGl 7, 1920, 34 (e poi DEI 5,
3996) individuò la composizione di
nannu, -a (e rispettivam. nunnu, -a) con
lat. AVUS ‘avo, nonno, bisnonno,
antenato’, che ha continuatori anche
nell’Italia merid. (cfr. REW 839;
FaréSalv 839; DEI l.c.) ed in Sicilia: ávu
s.m. ‘padre del nonno, bisavolo’
(attestazioni medievali in CorpusArtesia,
poi 1721, Dr 56 e poi fino a TrV 87 e
VS 1, 342, anche da Corleone e
Poggioreale); áva s.f. ‘bisavola’ (1519:
«ava» v. nana: avia» (Scobar 16r); 1751
dBono 1, 96 e poi fino a Rocca 49 e VS
1, 336, disus.); ávulu s.m. ‘bisnonno’
(attestazioni medievali in CorpusArtesia;
poi 1751, dBono 1, 98 e poi fino a Pasq
1, 171 e VS 1, 342, anche da Nizza
Sicilia e Marineo); ávula s.f. ‘bisnonna’
(1751, dBono l.c. e poi fino a Pasq l.c. e
VS l.c.).
nannïári v.intr. ‘diventare nonno’
1990, VS 3, 10 (da Casteltermini);
‘essere affettuoso verso i bambini, di
persona anziana’ ib. (da Bronte e
Casteltermini). (VS 3, 345 ha nuna f.
‘donna cui si attibuisce la capacità di
fare il malocchio’, da Pantelleria, con
rimando a → nunïari; è dubbio che
questa voce vada qui).
catanánnu s.m. ‘v. avu’ (1877, TrV
121 e poi in AIS 1, 16 Cp e 8, 1702 a
Villalba, senza alcun rinvio, e in
RohlfsSuppl 35 (anche da Naso e Rodì).
Trovo catanánna s.f. ‘bisnonna’ solo
nel 1940 AIS 8, 1702, a Naro. Cfr. aid.
catananne ‘trisavolo’(Raccuglia 70).
Cfr. cal. catanannu ‘bisavo, padre del
nonno; vecchione decrepito’ (NDDC
147). È composto dal gr. καηά, che in
questo caso indica un rapporto più
lontano: cfr. REW 1755.1; Bonfante,
Boll 2, 1954, 287 e n.; LGII 221;
FaréSalv 1755. In sic. cfr. catanipúti
‘bisnipote’ (VS 1, 626) e catazzíu
‘prozio’ (ib. 629); altri analoghi
17
composti merid. in LGII l.c.
rratanánnu s.m. ‘bisnonno e, più
spesso, avo’ (1997, VS 4, 100, da varie
località; anche rretinánnu ‘id.’ (VS 4,
120, da Grammichele), rritinánnu (ib.
219) e rritanánnu (ib. 218).
annannátu agg. ‘che è sul fare de’
nonni’ (1838; Mort 1, 55), ‘chi ha tanto
o quanto di vecchio, di nonno’ (1868, Tr
57 e poi fino a NicD 57 e VS 1, 192, che
aggiunge ‘vecchissimo, decrepito’; a
Palermo si dice di abito troppo grande e
antiquato). C’è anche annunnátu1 agg.
‘che ha tanto o quanto del vecchio, del
nonno’ (1875, Mac 24 e poi TrV 66 e
VS 1, 202, che aggiunge ‘curvo, dei
vecchi; freddoloso, come i vecchi (da
Modica); di bambini non regolarmente
sviluppati o malaticci; cresciuto poco,
quasi rachitico, anche di animali e piante
(anche da Solarino, Floridia e
Canicattini Bagni)’. Per annunnatu2 →
nunnata.
násca s.f. ‘narice (o frogia) del
cavallo; naso (spreg.)’ (ante 1337,
nel 1° senso), è voce di area sic. ed
it. merid., fino alla Campania ed alla
Puglia, dal lat. *NASĬCA ‘naso
ricurvo’, continuato in Francia dalla
forma NASĪCA, usata già nel lat.
class. come soprannome.
Ante 1337: «lu uduri di corpu arssu
ende venia a li naski di quilli ki stavanu
inturnu» (ValMax 3.3.52) e «misi la
manu a li naski di lu cavallu» (ib.
7.3.196; altri ess. in CorpusArtesia); ante
1337: «dui cavalli… li quali… da li
naski gictavanu ardenti focu» (Eneas
7.27); 1368: «li naschi grandi e unflati»
(Mascalcia 575, parlando del cavallo;
altri ess. in CorpusArtesia); sec. XV in.:
«recipe lu fumu per li radichi di li
naschi» (ThesPaup 14.3); 1721 naschi
pl. ‘le nari’ Dr 255 e poi sempre, al pl. e
al sing., da dBono 2, 417 a Cav 131 e
VS 3, 16, spesso (almeno d a Palermo e
Cataniaa Tr 628) con la precisazione che
sono anche ‘le froge del cavallo’, come
già nei testi med.; ALI 1, 24 e 25 lo ha
solo a Barrafranca; 1759 ‘naso
schiacciato, camuso’ Vinci 168 e poi da
Rocca 217 fino a Cav l.c. e VS 3, 14 s.,
nonché ALI 1, 25Cp; 1868 ‘chi ha il
naso camuso’ Tr 628 e poi fino a Cav
l.c. e VS 3, 16; 1990 ‘olfatto, riferito
soprattutto a cani da caccia’ VS l.c. (da
Giarratana, ma con usi traslati e alcuni
modi di dire anche in altre
localizzazioni); ‘cocca del fuso’ ib. (da
Palazzolo Acreide); ‘varietà di funghi’
ib. (da Francavilla di Sicilia e
Passopisciaro); n. di ferru ‘ruggine
rossa, parassita del limone’ ib. (a S.
Agata di Militello, da Can; questo senso
e il precedente vanno forse tra i nomi
botanici, che elenco più sotto);
‘elemento sporgente, prominente’ ib. (da
Tri). In gergo naschi! ‘così per avvertire
dell'arrivo dei poliziotti o dei carabinieri,
tra delinquenti, o toccandosi il naso con
il pollice e l'indice e fiutando un po'’ VS
l.c., da Tri e Calvaruso. La parola entra
in parecchie locuzioni e modi di dire
(cfr. VS 3, 15), tra i quali cito solo,
perché non dai vocab., «ccu ssa nasca
trânti»
‘con
piglio
arrogante’
(GuastellaCarnevale 76; VS 3, 15
registra, da Guastella, Vestru, 1882: n.
ṭŗanti ‘naso affilato tipico di persona
impertinente e rissosa’). – Cfr. piazz.
nasca ‘naso camuso’ (Roccella 167);
aid. nasca ‘naso; froge’ (Raccuglia 257).
Cfr. malt. naska ‘odorato, proprio dei
cani’ (Barbera 3, 832; Kalepin 220).
Cfr. cal. nasca ‘narice; naso grosso,
naso’ (NDDC 451); luc. nask ‘narice’
(Lausberg 221); nap. e irp. nasca ‘id.’
(D’Ambra 252; Nittoli 144); Brienza
nasche pl. ‘narici’ (Paternoster 19);
Muro nasca ‘naso grosso dalle narici
larghe’ (Mennonna 127); sal. nasca
‘narice; naso; grosso naso’ (VDS 2,
18
384); bit. nasche ‘naso (spreg.); naso
grosso e brutto; chi ha il naso piccolo e
brutto’, pl. ‘narici; froge’ (Saracino
279); rub. nasche ‘narici; froge’ (Di
Terlizzi 77); molf. nesche ‘naso
pronunziato per grandezza o perché
rincagnato; narici’ (Scardigno 338);
bisc. nasche ‘naso camuso; persona
boriosa’ e pl. ‘froge, narici’ (Còcola
115); andr. nasche ‘narici; naso
schiacciato e deforme’ (Cotugno 74);
Lesina naske ‘il fiuto di un buon cane da
caccia’ (Melillo 94); abr. naschə ‘grosso
naso’ (Giammarco 3, 1245); roman.
nasca ‘naso grande, nasone (volg.)’
(Chiappini 191). Cfr. ALI 1, 25 e 26.
Già Gioeni 192, correggendo Diez,
Gramm. 2, 308 , riporta n. al lat. NASICA
‘naso irregolare’; così anche Ascoli, AGl
13, 1892-94, 285; De Gregorio, StGl 1,
1899, 133-4 e 7, 1920, 249; Zauner, RF
14,
1903,
362;
REW
5833;
AlessioLatinità 416; DEI 4, 2548
(sembra possederne documentazione it.
reg. del sec. XIX). Il lat. aveva però
NASĪCA ‘chi ha il naso sottile e a punta’
(sec. V, Blaise 548, ma già prima come
soprannome), der. di nasus ‘naso’ (il
senso ‘narice curva’ par conservato
nell’agg. sic. → annascatu); mentre
questa forma piana ha continuatori solo
nella Gallia merid. (REW 5834; FEW 7,
25b), le forme sic. ed it. merid. risalgono
a *NASĬCA, con normale dileguo della
postonica. ― Vanno tenute separate le
denominazioni bot. n. di morti ‘bifora,
coriandolo selvatico, Bifora testiculata’
(1923, AssenzaBot 85 e poi Penzig 1,
70, come da Modica, mentre Avola
avrebbe naschi di mortu, e VS 3, 16
aggiunge n. di muòrtu a Palazzolo
Acreide e n. ri mottu a Siracusa); n. di
mortu ‘Moluccella spinosa’ (1924,
Penzig 1, 303, da Avola), n. ri mottu VS
l.c. a Catania, da Cannarella; nascazza
‘pulicaria, Inula viscosa’ (1965, Rohlfs,
Boll 9, 101-2 e poi RohlfsSuppl 74, da
S. Piero Patti, VS l.c.); nascaredda
‘stregonia, Sideritis romana’ (1923,
AssenzaBot 199; Penzig 1, 457
erroneam. *mascaredda), nascaréḍḍa
‘id.; timo’ VS l.c. (il 2° senso a Castel di
Iùdica,
da
ALI),
nascareḍa
‘attaccamani, pianta delle rubiacee:
Galium aparine’ ib., a Monterosso
Almo, da ALI, nascariéḍḍu ‘nome di
un'ombrellifera: Athamanta sicula’, ib.,
da Rosolini. Come ha chiarito Rohlfs
l.c., queste voci, che postulano un
násca2 vanno con nasca ‘pulicaria’
nell’area galloit. del golfo di Policastro
(cfr. Z 61, 1941, 103; cfr. anche Penzig
1, 200 s.v. Fistulina hepatica e 372 s.v.
Polyporus frondosus) e provengono
dalla Liguria, dove la pulicaria è
chiamata nasca a Levanto e ñasca a
Portofino (Rohlfs l.c.; cfr. Penzig 1, 150
s.v. Cupularia viscosa, 244 s.v. Inula
graveolens e 389 s.v. Pulicaria
dysenterica), mentre a Genova nasca è
‘conizza, Erigeron viscosum’ (Casaccia
534) e già nel lat. med. degli statuti di
Oneglia naschas sono degli arbusti che
crescono in terreni non coltivati (Rossi
1, 69). Inoltre nasco è ‘pulicaria’ nei
dipartimenti fr. delle Bouches du Rhône
e del Var (FEW 7, 28b n1). Si tratta
certo di parola pre-lat. (sia o no il gallico
naska ‘nastro, cordicella’: cfr. FEW l.c.),
giunta in Sicilia con la colonizzazione
galloit.
náscu s.m. ‘v. nasu’ (1868, Tr 1152,
da Riesi; VS 3, 18 aggiunge Mazzarino,
S. Cono e, da ALI 1, 25, P. 1047).
náscheri s.m. ‘anello che si mette al
naso dei buoi’ 1990, VS 3, 17, da Acate;
Il f. náschera vale ‘sorta di museruola
per proteggere i bovini dagli insetti’ VS
l.c., da Buscemi e Palazzolo Acreide.
Anche náschili s.m. ‘nasiera dei buoi’
VS l.c., da Avola.
nascarínu s.m. ‘persona col naso
camuso’ 1990, VS 3, 16, da Carini, dove
anche nascarína s.f. ‘id.’. Il s.f. vale
anche ‘chiave’, come forma gerg., ib., da
Patti.
19
nascaréḍḍa s.f. ‘si dice a uom che
abbia il naso schiacciato e in dentro,
camuso, rincagnato’ (1721, Dr 255 e poi
dBono 2, 417, Pasq 3, 243, VS 3, 16;
solo da Rocca 217 a Mac 203 e VS l.c.
appare come dimin. di nasca). In VS l.c.
anche agg., ma solo in cani n. ‘una razza
di cane: cane mascaretta, doghino’, da
Can. Anche nascarélli s.f. pl. ‘spezie di
pasta’ (1868, Tr 629, poi TrV 267 e VS
l.c., mentre nel 1914 NicDUr 166 ha
nascarétti s.m. pl. ‘pasta imitante le
nocciole’, anche in VS l.c.). Per il senso
bot., di altra origine, cfr. più sopra.
nascútu agg. ‘che ha grande naso
camuso’ (1868, Tr 629 e poi fino a
NicDUr 166 e VS 3, 18, anche da
Marsala). Cfr. cal. nascutu ‘nasone,
nasuto’ (NDDC 451).
nascáta s.f. ‘colpo dato nel naso per lo
più con carte da giuoco’ [ci si riferisce
ad un segno di intesa tra i giocatori]
(1752, dBono 2, 417 e poi fino a TrV
267 e VS 3, 16, anche da Pantelleria e S.
Caterina Villarmosa). In VS l.c. ‘fiutata,
il fiutare’, da Scicli, e ‘ondata di odore’,
da Pantelleria (vengono indicati anche
alcuni modi di dire). Solo per la
formazione cfr. tar. naschetə ‘sberleffo
fatto col naso’ (VDS 2, 384).
naschïári v.intr. ‘soffiare, per lo più a
cagion d’ira’ (1752, dBono 2, 417 e poi
solo in TrV 267, NicDUr 166 e VS 3,
17), ‘fiutare, odorare, detto partic. del
cane sulla traccia della selvaggina’
(1990, VS l.c., da Pantelleria), ‘cercare
qc.’ ib., da Camastra, ‘arricciare il naso
in segno di disapprovazione o di
diniego’ ib., da Bronte e Maletto,
‘comportarsi in maniera snob’ ib., da
Centuripe, ‘starnutire’ ib., da Gaggi, tr.
‘annasare’ (1789, Pasq 3, 243 e poi fino
a NicDUr l.c.). Cfr. piazz. naschiè tr.
‘fiutare, annasare’ (Roccella 167); aid.
naschïè ‘civettare’ (Raccuglia 257). Cfr.
cal. centro-merid. naschïare ‘id.’
(NDDC 451); bisc. naschià ‘annusare’
(Còcola 115); solo per la formazione,
anche lecc. naschiare ‘fare uno sberleffo
col naso’ (VDS 2, 384). Cfr. De
Gregorio, StGl 7, 1920, 249; Merlo, RIL
86, 1953, 233-4; FaréSalv 5833.
naschïáta s.f. ‘l'annusare’ (1868, Tr
629 e poi solo NicD 540 e VS 3, 17, da
Tr, Av e Marsala), ‘l'arricciare il naso’
1990, VS l.c., da Bronte, ‘ondata di
odore o di puzzo’ ib., da Ragusa. Cfr.
piazz. naschiada ‘annusata’ (Roccella
167).
naschínu agg. ‘v. nanfarusu’ [cioè
‘chi parla col naso stretto’] (1875, Mac
203, aggiungendo che naschi stritti è lo
stesso che nánfara, informazione già in
Tr 629, e poi TrV 267; VS 3, 17
aggiunge S. Maria di Licodìa); ‘chi o
che ha il naso schiacciato’, come s.m. e
agg., 1990, VS l.c., in molte
localizzazioni. Anche naschína f. ‘naso
brutto’ ib., da Tri, e ‘ragazza frivola’ ib.,
da S. Caterina Villarmosa. È diverso, o è
mal definito, piazz. naschingh ‘chi ha il
naso all’aria’ (Roccella 167), ma cfr. VS
l.c. n. ‘che ha il naso all'insù’ da
Maletto.
naschïáli s.m. ‘i muscoli e le
cartilagini della punta del naso degli
animali macellati’ (1990 ma da fonte del
1957, VS 3, 17, da Messina).
annascári1 v.tr. ‘annusare, fiutare (da
Corleone e Cammarata); subodorare;
andare investigando su qc.’, intr. e rifl.
‘arricciare il naso, infastidirsi (rag.);
prendersela a male, impermalirsi’, rifl.
‘stizzirsi (etneo sud-or.); insuperbirsi (da
Bronte)’ (1977, VS 1, 194, in due voci
inutilm. distinte, mentre va separato
annascári2 ‘v. anniscari’, già nel 1785
in Pasq 1, 104); ‘domare un animale,
specialm. un bovino, stringendogli le
narici col pollice e il medio’
(GenchiCannizzaro 20); nnascári v.tr.
‘annusare, fiutare, special. del cane per
scovare la selvaggina’ VS 3, 268 (da Tri,
Messina e Patti), ‘subodorare; conoscere
q. molto bene’ ib. (da Tri). Il part.
annascátu era già come agg. ‘ritorto’
20
nel 1785 in Pasq 1, 104 (e poi fino a Tr
57) e ‘chi ha il naso schiacciato,
camuso’ nel 1839 in Rocca 30 e poi solo
in NicD 57 e VS 3, 268, nella forma
nnascátu; ora VS 1, 194 ha anche
‘scoperto, sorpreso sul fatto (da Tri);
bitorzoluto, di certi frutti, ad es. dei
limoni (da Tri); ricurvo, ad uncino
(anche del becco degli uccelli)’, inoltre,
per il senso di ‘bitorzoluto’, anche nn. in
VS 3, 268 (da Tri). Cfr. cal. annascare
‘annusare, fiutare’ (NDDC 82); luc.
annašká ‘id.’ (Lausberg 196); Trevico
annascá ‘id.’ AIS 3, 520; Brienza e
Muro annascà ‘id.’ (Paternoster 6;
Mennonna 23); Pisticci annascá ‘id.’
AIS l.c.; sal. annascare ‘id.’ (VDS 1,
47); bit. annaschèue ‘id.’ (Saracino 54);
rub.
annaskó
‘id.’
e
‘intuire’
(JurilliTedone 1, 68); molf. annescà ‘id.’
e ‘arricciare il naso per ripugnanza’
(Scardigno 49). Poiché il gallorom. ha
paralleli indigeni (ant. fr. nascier
‘renifler, nasiller’, nasquier ‘flairer’
ecc.: FEW 7, 25b ss.), è stato postulato
un lat. *NASĬCARE, denom. di nasica:
REW 5835; AlessioPostille 182; FEW
l.c. 27a e n5. A rigore le voci sic. ed it.
merid. possono benissimo essere denom.
da nasca, come De Gregorio, StGl 7,
1920, 249 affermava per → naschiari e
come par intedere FaréSalv 5833.
annaschïári v.tr. ‘annusare, fiutare’ e
intr. e rifl. ‘prendersela a male,
impermalirsi’ (1977, VS 1, 194, come
rag. e, nel senso tr., anche da Gagliano
Castelferrato);
nnaschïári
v.intr.
‘fiutare, odorare’ VS 3, 268 (da Tri,
Corleone e Linguaglossa), ‘subodorare;
conoscere q. molto bene’ ib. (da Tri).
Cfr. bisc. annaschiá ‘odorare, annusare;
spiare, investigare’ (Còcola 26).
annaschïáta s.f. ‘ondata di odore,
buono o cattivo, che arriva da lontano;
sentore’ (1977, VS 1, 194, come rag.).
naschicirúsi s. inv. ‘moccioso,
ragazzo o ragazza che si dà aria da
adulto’ 1990, VS 3, 17 (da Chiaromonte
Gulfi). → cirúsu
násca-santísca s.f. ‘giuoco dei
ragazzi’ (1977, RohlfsSuppl 74, da
Ucria, ripreso in VS 3, 16).
supranásca
s.f.
‘v.
capizzuni
[‘cavezzone’], così detto perché si mette
in sul naso della bestia’ (1790, Pasq 4,
157 e poi fino a TrV 441, VS 5, 451;
Rocca 341 ha invece pl. supranaschi
‘id.’, registrato anche da Tr 1000, TrV
l.c. e VS l.c.). In VS l.c il m. vale anche,
scherz., ‘occhiali’ (da Tri), dove anche
avv. fari una cosa s. ‘fare qc.
malvolentieri’.
È molto dubbio che vadano qui
sinásca s.f. ‘rabbia’ VS 5, 29 (da
Sanclemente, 1645-53), aviri la s. ccu
unu o aviri a unu nta la s. ‘avere uno sul
naso’ ib. (da Marineo), sináscu s.m. in
fari di lu s. ‘mostrarsi collerico’ ib. (da
AA e Mal), fari lu sináschi ‘ricalcitrare’
(1868, Tr 932 e poi solo TrV 411,
segnalato in VS 5, 29), che
AlessioLatinità 77 collega col regg.
(Molochio) fari u sinascu ‘beffare,
canzonare, motteggiare’ (cfr. regg.
sinascu ‘vezzo, smorfia’ NDDC 660) e
riporta ad un *ASINASCUS da asinus, che
sarebbe notevole per il suff. pre-lat.; ma
più tardi (AlessioPostille 182), senza
criticare la precedente spiegazione, lo
stesso studioso considera invece deverb.
da un presunto *sinascari, *sinaschiari,
a sua volta da un *SUBNĀSICĀRE
ricostruito in base al solo march.
sornaschiá ‘russare’. L’accostamento ad
ásinu sarebbe soltanto paretimologico.
FaréSalv 704 pare attenersi alla prima
spiegazione, perché colloca la forma sic.
sotto ASINUS. In realtà né l’una né l’altra
ipotesi sono convincenti (limitandoci al
sic., la seconda appare foneticam. e
semanticam. assai difficile) ed è meglio
dire che l’origine di sinaschi è ancora
sconosciuta.
nasíta
21
s.f.
‘terreno
alluvionale
coltivabile, lungo un corso d’acqua’
(1101, in lat. nella forma nasida;
1924 in sic.), continua un dorismo
gr. di Sicilia ναζίδα ‘isoletta’, per
νηζίδα, con lo stesso senso del
termine patrimoniale ísula e
dell’arabismo gisira.
1101: «descendit ad nasidam, ubi est
lapis cruce signatus» (AttiRuggeriani
617; copia del 1144); 1115: «A nasida
dicta Apsicha… et descendit per flumen
flumen et pervenitur ad nasidam de
Apsicha» (DocIn 11-12; il luogo è
Sicaminò); 1117: «ascendendo per
eumdem flumen usque ad vallonum
capitis nasidae Sancti Honufrii» (Pirro
1039-40; il luogo è Agrò); 1142: «τωρίς
ηῆς ναζύδας... ἕως οὖ εἰς ηον μέγαν
ῥύακον ’ανηικύς ναζύδαν» (Cusa 308;
trad. lat. del 1555 in Pirro 391; il luogo è
Gagliano); 1759 Vinci 168 registra
nasida ‘lingua terrae, vineae’, come
parola che si legge in atti pubblici mess.;
lo copiano Pasq 3, 244 e VS 3, 19; 1930
nasita ‘isola, terreno alluvionale piano,
vicino ad un fiume (coltivato)’ a
Mandanici AIS 3, 429 Cp, 1964, LGII
348
(da
Barcellona,
Mandanici,
Rometta, Naso, ecc.); 1977 RohlfsSuppl
74 (cfr. già Z 46, 1926, 145) aggiunge
Castroreale, Castelmola, Fiumedinisi,
Furci, Rometta, S. Lucia del Mela e
Venètico,
VS
l.c.,
sempre
esclusivamente in area mess. or., segnala
n. anche ad Alì, Giardini, Nizza di
Sicilia, S. Filippo del Mela, Rodì Mìlici
e Ucrìa; 1990 n. ‘orto’ VS l.c., da Tri,
dove anche n. di cucuzzi, n. di muluni
‘pezzo di terreno coltivato a zucche, ad
angurie, ecc.’. Inoltre, troviamo nasída a
Castroreale 1977 RohlfsSuppl 74, a cui
VS l.c. aggiunge Barcellona, Gualtieri
Sicaminò, Nizza di Sicilia e S. Pietro
Patti), e nasía ad Antillo 1977
RohlfsSuppl l.c. e VS l.c., che segnala
inoltre nasira ‘id.’ a Raccùia e Ucrìa.
Cfr. regg. nasida ‘terreno coltivato
lungo una fiumara’ (NDDC 451; cfr. già
AIS l.c. P. 791 e 792); bov. nasíδa id.’
(LGII 348).
La voce mess. è stata segnalata da
Rohlfs, Griechen und Romanen (1924),
che la spiegò subito col gr. ναζíς -íδα
‘isoletta’, forma dorica sic. invece di
νηζíδα; così poi Z 46, 1926, 145; Boll 8,
1962, 130; LGII 348; RohlfsScavi 161;
RohlfsSuppl 74. In effetti Rohlfs ha
documentato νᾶζος nello stesso senso
nelle tavole di Eraclea, νῆζος ‘terreno
che viene allagato dal Nilo’ in papiri
egiziani, asía ecc. ‘id.’ nel dialetto gr.
zaconico; la forma dorica è confermata
in Sicilia da ηόπος Νοκερείας ναζείηιδος
‘sepolcro
di
Noceria
originaria
dell’isola’ in una iscrizione sirac.
prebizantina
(IG
14,
153;
FanciulloOriente 89) e dai topon.
Nasira, presso Ucria, e Nasidi, presso
Librizzi (cfr. Boll 3, 1955, 241; per la
Calabria cfr. DTOC 210). Semanticam.
n. corrisponde al frequente ┌isula┐ ‘id.’
(cfr. AIS l.c., in Sicilia e nella penisola)
ed al topon. di origine ar. Gisira
(AvolioSaggio 86 e Giuffrida 70; c’è
anche un altro sinon. di origine ar.: →
dágala). Malgrado i dubbi di Alessio,
RIL 72, 1938-39, 72 e 77, 1943-44, 692,
la dimostrazione va considerata solida
(cfr. già Battisti, RLiR 3, 1927, 61, ora
FanciulloOriente l.c.): si tratta di antico
dorismo, rimasto nel gr. della zona mess.
e regg. e passato al romanzo.
’nchiappári v.tr. ‘sporcare; far male
una cosa’ (1519, nella forma inch- e
nel senso ‘avviluppare’; 1752 nel 2°
senso), è voce sic. e cal. centromerid. in ultima analisi di origine
onomatopeica (clapp), che potrebbe
sembrare prestito dal cat. clapar
‘macchiare’ se non fosse contigua ad
una compatta area it. merid. di
22
┌
nchiaccare┐ ‘sporcare’, che pare
foneticam. modificata dal sinon.
┌
nguacchiare┐.
1519: «inchiappari: implico» (Scobar
115v); 1752 ’nchiappari tr. ‘far male una
cosa, guastare’ dBono 2, 438 e poi
sempre fino a NicDUr 169 e VS 3, 67;
1844 ‘macchiare, sporcare’ Mort 2, 8 e
poi sempre fino a NicDUr l.c., come
senso principale, e VS l.c. (con diversi
traslati); il rifl., oltre che ‘imbrattarsi,
sporcarsi’ e ‘invilupparsi, sgarrare,
imbrogliarsi’ (1752, dBono l.c. fino a
Mort l.c., ma tuttora vivissimo: cfr. VS
l.c.), è 1844 ‘avvinazzarsi’ Mort l.c. e
poi fino a NicD 546 e VS l.c.; intr.
‘mettere inavvertitamente un piede ad
es. sullo sterco’ VS l.c., da Acate (nello
stesso senso la variante ’nghiappari, da
Leonforte,
nonché
’nchiapparari
(incrociato con chiáppara), da Acate,
Bronte e Maletto, VS 3, 209 e 67),
‘posarsi o fermarsi (con un movimento
dall'altro verso il basso)’ ib., ‘incappare’
ib., da Man. Per ’n. ‘fornire di
bandelle…’ e n. li ficu → chiappa.
Normale la var. ’nciappári v. ass. e rifl.
‘imbrattare,
sporcare;
lordare;
impiastricciare’ 1990, VS 3, 80-1, da
Floridia, Licata, Palma di Montechiaro,
Pantelleria e dai dialetti ragusani. Per
’nciappari ‘fare le picce dei fichi secchi’
e ‘lastricare’ → ciappa, e anche i
significati di → chiappa. La forma
inchiappári 1786 Pasq 2, 308. La forma
chiappári
v.tr.
‘imbrattare’
di
Tremestieri Etneo (1977, VS 1, 676) è
certam. estratta dal nostro v. Cfr. piazz.
’nchiappé ‘macchiare, imbrattare; far
una
cosa
erroneamente
o
disordinatamente’ (Roccella 170).
Cfr. cal. centro-merid. nchiappari
‘imbrattare di sterco’ (NDDC 454).
Avolio 77 lo considerò prestito dal cat.
clapar e così fece Gioeni 193, che però
collegava → nchiappa e cat. clapa. In
effetti cat. clapa ‘petita extensió que es
distingeix, per alguna cosa, de la
superfície que l’envolta; especialment,
tro que és de color diferent que la resta
de la superfície de què forma part’ (ad
es. ‘macchia di alberi’ o viceversa
‘radura’) (sec. XIII: DCVB 3, 184b) è
accompagnato da un denom. clapar tr.
‘posar clapes’ (sec. XIV: ib. 185a;
Coromines, DECLlC 2, 734b, ha un
clapar ‘posar o tacar de clapes’ come
solo dalla fine dell’’800). In Francia
merid. il rapporto si rovescia, perché
troviamo ant. lang. clapa ‘tache’ (ca.
1370) ma solo ant. prov. clapat ‘tacheté’
(ca. 1300) e qualche der. dial., ma non il
v. (FEW 2/1, 732a, che cita pure, 735b
n10, il guasc. plapo ‘fleck’). Sembra
dunque che Sicilia, Catalogna (con le
Baleari) e Francia merid. siano tre aree
di affioramento di un ┌clappare┐
‘macchiare’ (o ┌clappa┐ ‘macchia’), che
Wartburg (e già REW 4706a) colloca
sotto la base onomatopeica rom. e germ.
clapp ‘colpire, battere’ mentre DCVB
l.c. pensa ad un lat. *clappare, di origine
germ. (il passaggio di senso, più
complicato per DCVB, per FEW postula
solo ‘colpire’ → ‘macchiare’, perché i
colpi lasciano il segno: ib. 734b). Una
spiegazione puram. onomatopeica, come
quella di Wartburg, è di gran lunga
preferibile, anche per evitare di
confondere con questa famiglia lessicale
quella del pre-lat. clappa ‘sasso’ (→
ciappa), come accade in REW l.c. e
soprattutto in FaréSalv 4706a. Ma si
veda tutta la discussione in DECLlC, 2,
732a ss. In ogni caso non pare il caso di
considerare la voce sic. un catalanismo,
tanto più che non conviene trascurare
che l’area sic. e cal. merid. di nchiappari
confina con un’altra, semanticam. quasi
identica e formalm. assai simile: regg. e
cos.
nchiacchare
tr.
‘sgorbiare,
chiazzare,
imbrattare
d’inchiostro’
(NDDC 454) e cos. nghiaccare
‘imbrattare, sporcare’ (ib. 465); nap.
23
nchiaccare
‘sporcare,
insudiciare,
imbrattare; impiastricciare; acciabattare,
far le cose alla grossa’ (D’Ambra 254);
irp.
nchiaccà
‘imbrattare,
impiastricciare’ (Nittoli 146); sal.
nchiaccare ‘inchiazzare, macchiare,
sporcare, imbrattare’ (VDS 2, 390);
molf. nghiaccà ‘sgorbiare, macchiare
con sgorbi’ (Scardigno 347); bisc.
inchiaccà
‘spiaccicare,
imbrattare;
scarabocchiare’ (Còcola 89); fogg.
nchiaccà ‘imbrattare, infardare’ (Villani
68); abr. nghjaccá tr. e rifl. ‘impiastrare,
sporcare’ (Giammarco 3, 1307). Salvioni
(RIL 44, 1911, 934 e FaréSalv 1666)
collocò ’nchiacco ‘lordura’, peraltro
meno diffuso del v., sotto capŭlum
‘laccio’, il che è foneticam. corretto, ma
semanticam. inesplicabile (invece non
c’è dubbio che da CAPŬLUM derivino i
sic. nchiaccári, nciaccári, nghiaccári,
gnaccári, nchiáccu (rispettivam. VS 3,
63, 78-79, 209, 270), da cui per incrocio
nchiappari2 v.tr. ‘acchiappare o
prendere’ (VS 3, 67, da Barcellona
Pozzo di Gotto). Non c’è dubbio che
┌
nchiaccare┐ ‘lordare’ non sia che
┌
nchiappare┐ x ┌nguacchiare┐, che copre
esattam. la stessa area: regg. nquacchiari
tr. ‘sgorbiare’ (NDDC 475); nap.
nguacchiare tr. e rifl. ‘guazzare;
insozzare’
(D’Ambra
261);
irp.
nguacchià tr. ‘legare male ed in fretta’
(Nittoli 151); Muro nguacchià tr.
‘macchiare, insudiciare’ (Mennonna 98);
sal. nguacchiare ‘sporcare, lordare’,
nquacchiare ‘id.’, guacchiare brind.
‘id.’ (VDS 2, 409 e 419; 1, 264); bit.
nguacchièue
‘macchiare,
sporcare,
insudiciare’ (Saracino 294); molf.
nguacchià ‘sgorbiare, macchiare con
sgorbi’ (Scardigno 350); abr. nguacchjá
tr. e rifl. ‘sporcare, imbrattare’
(Giammarco 3, 1322). Queste forme
sono state considerate probabilm.
onomatopeiche (Valente, in Saracino
l.c., tenta una improbabile base lat.
incacare), ma ora LEIGermanismi 1,
920-923 considera ┌nguacchiare┐ come
derivato di longob. *blaihha x
coagulare. In conclusione, se veram.
tutto il mezzogiorno ha avuto
┌
inchiappare┐, conservato poi solo in
Sicilia, dove quasi non esiste
┌
nguacchiare┐, la scelta fra il prestito dal
cat. e il semplice parallelismo con le
voci cat. inclina verso la seconda ipotesi.
― Il significato dato nel 1519 da Scobar
sorprende, anche perché i valori del s.
corrispondente
(→
’nchiappa)
escludono che si tratti di ‘mescolare
insieme’; è probabile che qui si abbia un
der. di → ciappa. Altra variante fonetica
è
nquacchiári
v.tr.
‘sporcare,
impiastricciare’ (VS 3, 290, da Tri,
Augusta, Nizza Sicilia e Pantelleria),
rifl. ‘sporcarsi, impiastricciarsi’ (ib.), da
cui il frequentativo nquacchiarïári v.tr.
‘impasticciare, mettere insieme frasi
senza senso o confuse allo scopo di
ingannare chi ascolta’ (ib. da Mart),
nguacchiarïári
‘id.’
(ib.
230);
nquácchiátu agg. ‘unto e bisunto’ (ib.
290, da Bivona).
’nchiáppa s.f. ‘cosa mal fatta’: 1519:
«inchapi v. impachu: impedimentum»
(Scobar 54r) e «inchappa: implicatio»
(ib. 115v); 1752 ’nchiappa ‘lavoro
cattivo; qualsivoglia cosa mal fatta’
dBono 2, 438 e poi fino a NicD 546 e
VS 3, 67 in numerose localizzazioni,
spesso con altre definizioni che sono
solo specificazioni, come ‘azione
contraria al dovere o al convenuto, ma
solo per isbaglio’, ‘danno, sconcio’,
‘qualunque
intruglio
di
cucina’,
‘qualsiasi cosa di qualità scadente’; 1868
‘fandonia’ Tr 633 e poi fino a NicD l.c e
VS l.c.; 1990 ‘bruscolo’ ib., da
Camastra. Inoltre nguácchiu s.m.
‘pasticcio, cosa mal fatta, disordinata e
confusa’ (VS 3, 230) e nquácchiu
‘brutta avventura, malanno fortuito’ (ib.
291, da Gagliano Castelferrato). La
forma inchiappa è nel 1786 in Pasq 2,
308. L’ipotesi che si tratti di un deverb.
24
(e non che il v. sia un denom.) sembra
confermata dalla limitazione al senso
‘far male una cosa’, senza traccia di
‘sporcare’ (se non forse in VS l.c.
‘pagina pasticciata o piena di
scarabocchi’,
da
Av,
Tri
e
Casteltermini), che pare il valore
originario della famiglia. Il s., per lo più
m., è documentato per le altre due
famiglie connesse: 1) regg. nchiacca
‘macchia d’inchiostro’ (NDDC 454);
nap. nchiacco ‘macchia, lordura,
impiastramento’ (D’Ambra 254); irp.
nchiàcco ‘id.’ (Nittoli 146); sal.
nchiaccu ‘sgorbio, lordura’ (VDS 2,
390; cfr. lecc. chiacca ‘macchia,
chiazza’ ib. 1, 136); molf. nghiacche
‘sgorbio calcato e macchiato’ (Scardigno
347);
bisc.
inchiacche
‘impiastricciamento,
scarabocchio,
scarabocchiatura’ (Còcola 89); fogg.
nchiàcco ‘farda, imbratto; sgorbio’
(Villani 68); abr. nghjacchiə ‘pastriccio;
lavoro fatto alla peggio; cosa che abbia
del fradicio e dell’appiccicaticcio’
(Giammarco 3, 1307); 2) nap. nguacchio
‘untume; melma; miscela di cose non
affini; sgorbio, farfallone’ (D’Ambra
261); lecc. nguácchiu, nquácchiu
‘macchia d’unto’ (VDS 2, 409 e 419; la
2ª forma al pl. anche ‘sgorbi’) e sal.
gnacchiu ‘grossa macchia, macchia
brutta’ (ib. 1, 264); molf. nguàcchie
‘sgorbo macchiato’ (Scardigno 350). Per
il senso che la voce sic. ha in Scobar →
’nchiappari.
’nchiappáta s.f. ‘v. ’nchiappa’ (1752,
dBono 2, 438 e poi fino a Mac 206 e VS
3, 68), ‘l'imbrattare’ (1868, Tr 634 e VS
3, 67), ‘donna vile’ (1868, Tr l.c. e poi
NicD 546 e VS 3, 68). In VS 3, 68
questo ultimo senso è sotto un
nchiappata2, sia s. che agg., con
rimando all'agg. verb. m. nchiappátu,
per il quale VS l.c. registra pressoché
tutti i sensi indicati sotto nchiappari, ma
anche ‘buono a nulla, inetto, malaccorto;
impacciato, lento nei movimenti, fiacco,
maldestro’, e avv. in parrari n. ‘parlare
in maniera affettata’ ib., da Mort e S.
Michele. Cfr. anche nciappátu agg.
‘sporco, imbrattato’ (1990 , VS 3, 81, da
Floridia e dai dialetti ragusani);
‘inconcludente, maldestro’ (ib., da
Pantelleria; qui anche avv. in pallari n.
‘parlare in maniera stentata e poco
comprensibile’). In VS 3, 209 l'agg.
nghiappátu vale ‘elegante’, da Riesi.
Cfr. piazz. ’nchiappada ‘l'imbrattare’
(Roccella 170).
’nchiappatína
s.f.
‘l'imbrattare’
(1868, Tr 634 e VS l.c.); ’nchiappadíni
pl. ‘orme della lepre’ (VS 3, 67, a
Gualtieri Sicaminò, da ALI), e
’nghiappatíni pl. ‘lividi prodotti da urti
o percosse’ (ib. 209, da Viagrande;
questo piuttosto da chiappa); cfr. piazz.
’nchiappatina ‘l'imbrattare’ (Roccella
170).
’nchiappaméntu s.m. ‘zaffardata;
imbrattamento; inviluppamento’ (1752,
dBono 2, 438; non torna altrove).
’nchiappéri s.m. ‘non buono a nulla’
(1868, Tr 634 e poi fino a NicD 546; in
VS 3, 68 è agg.), nchiappèriu 1990, VS
l.c., da Pantelleria. Già prima è attestato
il der. ’nchiappittéri s.m. ‘v.
’nchiappacasa; parolaio, cianciatore’
(1844, Mort 2, 8, anche -era s.f.; il 1°
senso [‘v. ’nchiapperi’] poi in Tr 632,
TrV 272 e VS l.c., dove anche
’nchiappiḍḍéri ‘id.’; il 2° in NicDUr
169 e VS l.c.).
’nchiappulïári v.tr. ‘infinocchiare,
imbrogliare’ (1789, Pasq 3, 258 e poi
fino a NicD 546 e VS 3, 68); 1868 ‘fare
strana mescolanza di checchessia;
imbrattare; far checchessia a caso alla
grossa; confondere insieme cose che
andrebbero separate’ Tr 634 e poi fino a
NicDUr 169 e VS l.c., con alcuni traslati
e in diverse localizzazioni; rifl.
‘impiastricciarsi’
(VS
l.c.,
da
Bisacquino, Falcone, Làscari e Pòllina).
La var. nciappulïari ‘abborracciare;
tergiversare, confondere i termini di un
25
discorso; dire bugie’ è, da Pantelleria, in
VS 3, 8.
’nchiappacarta
s.m.
‘scrittore
dappoco’ (1990, VS 3, 67, da Tri). Ib.
altri composti.
’nchiappacása s.m. ‘chi non sa
condurre a fine cosa alcuna’ (1752,
dBono 2, 438 e poi fino a NicD 546 e
VS 3, 67).
’ncignári v.tr. ‘cominciare a usare
(un vestito, una botte, ecc.); iniziare’
(1572, nella forma ingignari), è voce
dell’intera Italia merid., ma anche di
località umbre, della Toscana nordocc., della Corsica e della Sardegna,
dal tardo grecismo del lat. cristiano
ENCAENIARE ‘inaugurare (un abito)’.
1572 Messina: «ingignari [un vestito]
per la luminaria, festa et allegrezza dilo
naximento dilo Ser.mo principe di
Spagna» (ASS 28, 1903, 97); 1752 ’nc.
‘cominciar ad usare’ dBono 2, 440 e poi
fino a Cav 101 e VS 3, 83, anche in
sensi più specifici come ‘mettersi un
abito nuovo o altro vestimento per la
prima volta’ (1868 [ma già 1572], Tr
635 e poi fino a NicDUr 169 e VS l.c. da
Camastra e Licata, nonché AIS 5, 1001
N a S. Michele e Giarratana) e ALI 3,
286 in vari P. centr. e sud-or.;
‘manomettere (botti)’ (1914, NicDUr l.c.
e VS l.c.); ‘manimettere (una salsiccia)’
(1933, AIS 5, 1001 a Catenanuova,
Mascalucia, S. Michele e Giarratana);
‘cominciare a usare un recipiente’ (1933,
AIS l.c. N a S. Michele, VS l.c. da
Licata); anche ‘fare i primi atti d’una
operazione’ (1914, NicDUr l.c.; alcuni
esempi in VS l.c.); v.intr. ‘cominciare a
deporre uova’ (AIS l.c. a Catenanuova,
VS l.c. da Av, Mac, PitrèUsi,
Calatabiano, Niscemi e Paternò);
‘restare incinta’ (1990, VS l.c. da
Castiglione di Sicilia, Nàpola e S.
Alfio); ‘cominciare a fruttificare, di
pianta’ (1990, VS l.c., da Grammichele).
L’uso rifl. con il senso ‘allignare o
attecchire’ (1990, VS l.c., da Tri), si
ritrova nella forma ngigghiári (1990, VS
3, 214, da Mistretta), che vale
principalmente ‘mettere il germoglio’
(ib., da Bronte e Mistretta) e fig.
‘intirizzirsi’ (ib., da Mistretta), che
proviene da ggigghiu ‘germoglio’ (VS 2,
234b), che dunque si è incrociato con il
nostro termine. Le forme incignári
(1868 Tr 477, e poi NicD 403) e
’ngignári (1888 TrVApp 19, poi
NicDUr 403 e VS 3, 214 ‘usare per la
prima volta’; qui, più specificam., anche
‘indossare per la prima volta’ da Bronte,
Paternò e S. Michele di Ganzarìa;
‘rilevare (conigli, colombi, ecc.)’ (da
Tri); ’ng. a càccia ‘ripopolare di
selvaggina una riserva’ (da Tri); v. ass.
‘fare il primo uovo, della gallina’, da
Paternò);
v.
rifl.
‘moltiplicarsi,
propagarsi, riferito ai pidocchi (da AA)
o a piante infestanti (da AA e Tri)’;
ncingári v.tr. ‘usare per la prima volta
qc. di nuovo’ (1990 VS 3, 87, da
Vittoria) e v.intr. ‘cominciare a fare le
uova, delle galline’ ib. (da S. Croce
Camerina). Cfr. piazz. ’ng’gnè ‘vestir la
prima volta l’abito nuovo’ (Roccella
177).
Cfr.
cal.
ncignare,
ngignari
‘cominciare; cominciare una forma di
cacio, un prosciutto, una botte di vino,
mettersi un vestito nuovo per la prima
volta’ (NDDC 456; cfr. AIS 5, 1001 e 7,
1261 e 1264; è anche bov.: LGII 135);
nap. ncignare ‘cominciare, principiare’
(D’Ambra 255); procid. ncignà tr. e rifl.
‘cominciare, iniziare; mettere in uso
cose nuove’ (Parascandola 173); AIS 5,
1001 ‘manimettere (una salsiccia)’ ha
ngegná ancora a S. Donato e ncigná a
Sonnino; irp. ncignà ‘cominciare,
principiare’ (Nittoli 146); Muro ngegnà
‘usare per la prima volta una cosa’
(Mennonna 93); AIS l.c. ha il tipo in
26
tutta la Basilicata meno Maratea e i Cp
aggiungono Picerno per ‘incignare la
botte’; sal. ncignare ‘cominciare;
incignare una botte di vino, un salame’
(VDS 2, 392; è anche otr.: LGII l.c.);
molf. ngegné ‘mettere in uso’
(Scardigno
343);
bisc.
incignà
‘manimettere, incignare’ (Còcola 89);
fogg. id. ‘usare per la prima volta (una
botte, un vestito)’ (Villani 68); per la
Puglia cfr. anche AIS 5, 1001 e Cp; abr.
ngəgná e ngigná ‘incignare, méttere o
indossare, per la prima volta, di vestiti in
genere, prendere a usare un oggetto per
la prima volta; incignare (il prosciutto)’
(Giammarco 3, 1301 e 1311); it.
incignare ‘adoperare per la prima volta
(un
letto,
una
casa);
avviare,
intraprendere, incominciare (un’attività);
indossare o calzare per la prima volta;
cominciare (pane, salame, botte, fiasco
ecc.)’ (sec. XV: Batt 7, 681c); ncignare,
nce- è voce della Toscana nord-occ.
(Pistoia, Lucca, Pisa): cfr. AGl 14, 189698, 129; AIS 5, 1001 P. 511 e 530;
Malagoli 189 (pis. e lucch. incignà
‘incominciare a servirsi di una cosa,
specialm. di vestiti’), ma anche di zone
umbre: cfr. Jaberg, RLiR 1, 1925, 142-3;
corso incignà ‘sbocconcellare’ (Falcucci
203);
campid.
inčinğai,
Urzulei
inkinğare ‘indossare, adoperare la prima
volta (vestiti, scarpe, una botte nuova
ecc.)’ (DES 1, 625a).
La base è il lat. cristiano ENCAENIARE
‘inaugurer’ (S. Agostino, parlando di
una tunica: Blaise 308), formato sul
grecismo lat. crist. encaenia ‘cerimonia
di consacrazione’: REW 2867; Sacco 1,
105; Rohlfs, ARom 9, 1925, 158;
Jaberg, RLiR 1, 1925, 126 e 142-3;
Battisti, ib. 3, 1927, 64; Alessio, RIL 74,
1940-41, 698; Merlo, RIL 83, 1950, 135;
VEI 544; DEI 3, 1987; LGII 134;
FaréSalv 2867. Per la sonorizzazione
della sorda dopo nasale, peraltro rimasta
allo stato di variante (→ ncinagghia) cfr.
Salvioni, RIL 41, 1908, 896 n2. Il sic.
possiede un ’ncignári2 v.tr. e rifl.
‘inventare’, ‘ingegnarsi’: 1373: «sappi
ingignari unu sì nobili instrumentu…»
(SposMatteo 46.12; cfr. 139.6 e 333.30);
1519: «ingeniari: excogito, argutor; i.
cusi grandi: machinor; i. vide frabicari:
fabricor» (Scobar 55v); 1839 ’ncignari
rifl. ‘impegnarsi’ Rocca 220 e poi Mort
2, 9 e fino a NicDUr 169; Tr 477 nella
forma incignári2; si tratta ovviam. di un
der. di lat. ĬNGĔNĬUM, parallelo all’it.
ingegnare, -rsi (cfr. REW 4419). Ancor
più ant. (1348) è incignáre3, incinnáre
di Sen 76: «Anictito… dormitare vel
cum palpebris signum facere et vocare et
incignare;
Annuo…
confirmare,
concedere, assentire, assignare vel cum
oculis incignare; Annuto… incinnare,
confirmare vel cum oculis et alíis
membris alloqui» (seguono altre due
definizioni analoghe); oggi troviamo
nzignari2 v.intr. ‘far cenno con gli occhi
o con le mani’ 1990 (VS 3, 365 da
Agrigento, Galati Mamertino, Naso e
Roccafiorita) e nzingari ‘id.’ (ib., 367
da Agrigento, Gallotti Giardina e
Mistretta). Queste voci vanno sotto la
base lat. *CĬNNARE (cfr. it. accennare):
REW
1932;
AlessioLatinità
84;
Ambrosini 26. Invece l’incignari di
Regole (cfr. gloss.) è semplice grafia per
insignari.
’ncignáta s.f. ‘atto del mettere la
prima volta non solo un abito, ma anche
di oggetti, di una stoviglia o altro’
(1928, Pitrè 63, col sinon. ’ncignatúra
s.f.). Entrambe le forme sono riportate
anche da VS 3, 84, con l'aggiunta di
ncignatína s.f. ‘id.; il fare l'uovo per la
prima volta, delle galline’, da Av). Cfr.
procid. ncignata re Pasca ‘sfoggio di
toilettes primaverili, in occasione dei riti
di settimana santa’ (Parascandola 173).
ncignatu agg. ‘attaccato’ (1990, VS 3,
84, da Alimena e Bagheria, e da
BarCarini 264.94 «ciùri n. a la frunna;
vermi ncignati a la gula»).
27
’ncinágghia s.f. ‘inguine’ (1a metà
sec. XIV nella forma anginalla»;
1348, nella forma anguinagla), è
voce anche dell’Italia merid. e sett.,
dell’ant. prov. e del cat., dal pl.
neutr. (divenuto f. sing.) dell’agg.
INGUĬNĀLIS,
der.
da
ĭnguen
‘inguine’, der. che nelle nostre zone
ha fatto concorrenza alla voce
principale.
1a metà sec. XIV: «appi una infirmitati
all’anginalla» (SGregoriu 167.3); 1348:
«inguen… illa pars corporis que est
circha pudenda, que vulgariter dicitur
anguinagla» (Sen 23; con una 2ª
attestazione analoga); 1390: «appiru di
inginalli tr. ij gr. ij» (Rinaldi 147.3); sec.
XV in.: «a la inginagla» (ThesPaup
104.13); sec. XV: «appari umflatu in la
anginagla» (Mascalcia 36.1); 1600 ca.
Palermo: «con certi vozzi all’incinagli»
(Diari 1, 63); 1630 ca. Palermo:
«videndoci alla inginagla quanto una
nocilla di bozo» (ib. 2, 110); la forma
’ncinágghia è poi da 1752 dBono 2, 441
a Cav 101 e VS 3, 86 (anche pl.
ncinagghi ‘id.’ da Gratteri, Niscemi e
Ustica); incinágghia in Pasq 2, 309 e
poi Tr 477 e NicD 403; ’nginágghia
1868 Tr 644 e poi TrV 282, NicDUr 175
e VS 3, 215 (anche pl. nginagghi 'id.', da
Acireale e Gela.); ancinágghia riappare
nel 1868 Tr 55 e poi fino a Cav 29 e VS
1, 182, con ancináglia; ib. 183
anciunágghia; ib. 187 anginágghia, da
Pozzallo e S. Caterina Villarmosa, anche
ib. 834 cunágghia (da S. Stefano di
Briga); ’ngunágghia 1877 TrV 284 e
VS 3, 235 (anche pl. ngunagghi 'id.', da
PitréMedicina); gunágghia 1877 TrV
202 e VS 2, 328 (da Spadafora e Tripi);
’ncináglia 1990 VS 3, 86; ’ncinálla ib.
(da Alimena e Bompietro); ’ngináglia
ib. 215 (da Pietraperzia, Termini
Imerese, Villadoro e dall'agr. or. e centr.
(anche pl. ncinágli ‘id.’ da Comitini);
’ngunáglia ib. 235 (da Castel di Lucio e
Montalbano Elicona); ’ncunágghia ib.
123 (da Barcellona-Pozzo di Gotto,
Cerami, Cesarò, Mongiuffi-Melìa e
Troina); il senso è sempre ‘inguine’
(solo a Pantelleria ’ncinàgghia vale
anche ‘grassella degli equini’ ib. 86).
ALI 1, 67Cp documenta la parola in
varie forme in P. sparsi per tutta l’isola.
Cfr. piazz. ’ng’nágghia ‘inguine’
(Roccella 177); aid. unagghja ‘inguine’
(Raccuglia 463).
Cfr. cal. anginaglia, anguinagghia,
ancinaglia;
ncinaglia,
ncinagghia;
ngunagghia, nganagghia, nguinagghia
‘inguine’ (NDDC 80, 456 e 469); luc.
ngənáǵǵ ‘id.’ (Lausberg 222); nap.
anguenaglia ‘id.’ (D’Ambra 44); procid.
unàgghia ‘id.’ (Parascandola 20); irp.
ncenàglia ‘poplite’ (Nittoli 146); tar.
angənacchiə
‘anguinaia,
regione
inguinale’, lecc. cinaja ‘id.’ e ncinaja
‘id.’ (VDS 1, 46 e 150 e 2, 392); Pisticci
anšinággə ‘id.’ (AIS 1, 135 Cp); bar.
nginagghie ‘id.’ (Zonno 57); rub.
ngenagghie ‘id.’ (Di Terlizzi 60); molf.
ngenégghie ‘id.’ e ‘parte interna
dell’articolazione
del
ginocchio’
(Scardigno 344); bisc. inginagghie
‘ernia’ (Còcola 93); andr. ngenàgghie
‘inguine’
(Cotugno
60);
fogg.
anginaglia ‘id.’ (Villani 7); abr.
angunaglia ‘id.’ (Giammarco 1, 140); it.
anguinaia, -aglia ‘id.’ (da Dante: Batt 1,
476a) e inguinaia, -aglia ‘id.’ (da
Boccaccio: ib. 7, 1085c); lig. (sec.
XVIII) angunaggia ‘id.’ (AGl 16, 190205, 143 e 359); piem. angonaja ‘id.’
(Sant’Albino 92); prov. ant. enguenalha
‘bubon inguinal’ (FEW 4, 691b); cat.
engonal ‘part del cos en què s’uneix
cada cuixa amb el ventre’ (ca. 1380:
DECLlC 3, 355b).
La base è il lat. INGUĬNĀLIA neutro pl.
dell’agg. inguinalis, der. da inguen guĭnis ‘inguine; tumore inguinale’: cfr.
REW 4433; DEI 1, 206; FaréSalv 4433.
28
Questo der. ha fatto concorrenza, nella
Romània
circum-mediterranea,
a
ĬNGUEN, di cui però non mancano
continuatori qua e là (a parte l’it.
inguine), come il sic. áncini s.f. pl.
‘ghiandole inguinali’ (1977, VS 1, 183,
da S. Caterina Villarmosa), che come
altre forme rom. (cfr. FEW 4, 691b692a; DEI 3, 2034) risale direttam. al
lat. tardo INGUĬNA. Quanto ad a-,
comune al sic. ed a una buona parte
delle voci it. dial. e non, piuttosto che ad
incrocio tra inguen e anguen ‘serpente’ e
‘antrace’ (DEI 1, 206), si dovrà pensare
(con Batt 1, 476a) a falsa separazione
dell’art. (la ’nc. → l’anc.): cfr. Rohlfs, §
341. Non ha fondamento l’opinione di
Ambrosini 55, secondo cui anguinagla
di Sen sarebbe provenzalismo; la voce
prov. risulta solo da PLevy 149 e
verosimilm. non ebbe grande vitalità né
si vede per che tramite sarebbe giunta in
Sicilia e in tutto il mezzogiorno.
’ncinagghiátu agg. ‘del feto basso’
(1888, TrVApp 19, da cui VS 3, 86).
ncúnia s.f. ‘incudine’ (1348, nella
forma incuyna), continua il lat.
*ĬNCŬGĬNE ‘id.’, sviluppo di incūs ūdis ‘id.’, attestato da esiti cal.
merid., camp., aret., it. sett. e fr.
merid., oltre che sic.
1348: «Incus dis… illud istrumentum
ferreum, in quo cuditur, quod vulgare
dicitur incuyna» (Sen 76); 1380-1390:
«fici prindiri la incugina di la putiga di
mastru Nicola» (Rinaldi 135.41); 1490
Palermo: «una maza… et la incunya sua
facta secundu la maza» (EeS 11, 1964,
527); sec. XV: «λα κκοσγινα» (ID 68,
2007, 50), che potrebbe essere letto
/ncúiina/; 1519: «incuina di ferru: incus,
acmon»
(Scobar
54r);
1537
Castellammare: «unu martellu di ferrari
li prixuni cum la incunia» (ASS 10,
1885, 324); 1721 ncuina ‘ancudine’ Dr
261 e poi da dBono 2, 450 a TrV 275 e
VS 3, 120 (con la var. incúina, già med.,
in Pasq 2, 309 e Tr 480); 1844 ncúnia
‘incudine’ Mort 2, 12 e poi fino a Cav
101 e VS 3, 124 (incúnia Tr 481); 1914
ngúnia NicDUr 176 e VS 3, 235 (da Tri,
Bompietro, Caltanissetta, da ALI, e
Piedimonte Etneo); 1751 ancúina
dBono 1, 50r e poi fino a VS 1, 184
(anche da Bronte e Bisacquino; si noti
che nel 1522 Vall 7 ha «ancudini. hec
incus»; nel 1990 ncúdina VS 3, 117, da
Stromboli); 1875 ancúnia Mac 22 e poi
NicD 55 e VS 1, 184 (anche da
Campobello di Licata e Marsala); 1977
cúnia VS 1, 840 (a Patti, da ALI); 1990
’ncúni VS 3, 124 (da Ragusa), e ’ncúria
ib. 129 (da Camastra; qui anche facci di
ncùria ‘persona sfacciata’). AIS 2, 214
‘l'incudine’ presenta la forma ncunia
come dominante (compresa Palermo,
che avrebbe nc nia), mentre ncúina è
solo a Bronte e Calascibetta. Significati
secondari: ncúina ‘seguace molesto’
1877 TrV 275, da qui ripreso in VS 3,
120); ncúnia ‘persona assillante’ a
Castelbuono (GenchiCannizzaro 186);
ncúnia ‘cappello a due punte come
quello dei Carabinieri reali’ (scherz.)
1875 Mac 207, poi NicDUr 171 e VS 3,
124 (anche da Mussomeli e S. Alfio),
inoltre Mannino (sotto dubbia forma
’ncúna), ‘carabiniere’ 1990 VS l.c., a n.
‘carabinieri (gerg.)’ ib. (da Patti); 1957
‘nuvola a forma ovale allungata quasi
come incudine, ritenuta indizio di
prossima pioggia, specialmente se la
base di essa si vede affondare nel mare,
dal quale si ritiene che aspiri l'acqua
(Piccitto)’ Giuffrida I, 96, nel ragusano
(senso da qui ripreso in VS l.c.); inoltre
n. ri casa ‘persona che conduce una vita
senza significato e senza ideali’ (1990
VS l.c., da Catania). – In AIS l.c. anche
Aidone ha ncoiina (Raccuglia 263
ncùina; cfr. piazz. ’ncuina ‘incudine’
Roccella 172), S. Fratello e Sperlinga
29
ncunia, Fantina ancoia.
La c. cit. dell’AIS ci dà il tipo
┌
nc iina┐ nella Calabria merid., fino a
Centrache (non però a Ghorio), nonché
ad Acerno; gran parte dei P. camp.
(Formicola, Colle Sannita, Napoli,
Ottaviano e Montefusco), hanno
┌
nc nia┐; il resto del mezzogiorno
conserva nella penultima sillaba la
dentale. ‘ncugine è già nel 1282 in
Ristoro d’Arezzo (OVI).
La base è solo indirettam. il lat. ĭncūs ūdis ‘incudine’; su di esso si è formato
un obl. ĭncūdĭne (da cui it. incudine),
accanto al quale è certo esistita una
forma *ĬNCŪGĬNE, dalla quale proviene
regolarm. sic. nc iina (cfr. REW 4367.3;
AlessioLatinità 383), assieme alle forme
cal. merid. e camp., all’ant. aret.
ancugine (AGl 2, 1876, 404) ed a tutte le
forme it. sett. (cfr. REW l.c.; FaréSalv
4367.3; AIS l.c.). Il dubbio di Ambrosini
50 sulla provenienza della voce sic. dal
prov. non tiene conto del fatto che le
forme prov. postulano *INCLUGINE (cfr.
FEW 4, 633b). Che il tipo sic. sia di
provenienza galloit. è escluso dalla sua
esistenza in Calabria, Campania e
perfino Toscana. Lo sviluppo -iina > ina > -nia presenta la tipica metatesi di i;
le forme con a- riposano su errata
separazione dell’articolo (la ncuina →
l’ancuina).
ncúttu agg. ‘serrato’ e ‘chi sta
appiccicato ad un altro e gli dà
fastidio’ e avv. ‘vicinissimo’ (1752),
voce sic. e cal. che continua il lat.
CŌCTU, part. forte di CŌGĔRE
‘costringere;
spingere
insieme;
riunire, raccogliere’, che sostituisce
la più comune forma coactus.
1752 nc. agg. ‘stretto, unito, fitto,
serrato’ e ‘vicinissimo (in eccesso)’
dBono 2, 454; il 1° senso ritorna fino a
TrV 277, Cav 101, RohlfsSuppl 74 e VS
3, 134 (a volte come ‘folto, denso’), il 2°
sempre fino a Cav l.c., RohlfsSuppl l.c. e
VS l.c. (a volte come ‘chi sta fitto
addosso e annoia’ o senz’altro
‘importuno’); anche satari a-ppedi ncutti
(1990, VS 3, 135) o ngutti (ib. 239, da
Pantelleria) ‘saltare a piè pari’; 1868
‘tarchiato’ Tr 638 e poi solo NicD 550 e
VS l.c.; ‘affezionato, legato da un
sentimento di affetto’ 1990 VS l.c., da
Palermo; ‘insistente, che dura a lungo’
ib. (da Palermo); ‘insistente, della
pioggia’ ib. (da Tri); ‘frequente’ ib. (da
Av); ib. 239 anche ngúttu ‘folto, riferito
ai capelli (da Noto); frequente o
continuo (da Pantelleria); petulante,
insistente noioso (da Leonforte)’;
inoltre, nc. ntô manciári ‘di persona che
mangia poco e spesso’ ib. (da
Biancavilla); corp'i mari nc. ‘onda corta’
ib. (da Pantelleria; o corpi'i mari ng. ib.
239); ng. ng. ‘molto vicino; fitto, stretto’
ib.; nc. avv. ‘stretto’ e ‘vicinissimo’
1752 dBono l.c. e 1990 VS 3, 135
(anche da Casteltèrmini e Licata), poi
‘accosto’ e ‘importunamente’ 1868 Tr
l.c., TrV 277 e VS l.c. (da Palazzolo
Acreide); ‘di frequente’ ib. (da Av); ng.
ng. ng. ‘da vicino, da presso’ VS 3, 239
(da Pantelleria); anche discúrriri ncutti
ncutti ‘discorrere o parlare fitto, tra due
persone’ ib. 135 (da Av); íri ncutti ‘non
andare d'accordo’ ib. (da Buscemi);
manciári ncuttu ncuttu ‘mangiare in
fretta, quasi senza prendere fiato’ ib. (da
Pantelleria; o manciari ng. ng. ib. 239),
talïári nc. ‘guardare fisso’ ib. 135 (da
Gratteri, Mòdica e Racalmuto). Molto
comune stari ncutti, comu li sardi
‘serrarsi, come le sardelle’ (1752, dBono
2, 454 ecc.) e soprattutto éssiri ncuttu
‘stare continuamente d’attorno ad uno, o
troppo vicino, annoiandolo’ (1789, Pasq
3, 269 ecc.), mittírisi ncuttu ‘id.’ (1868,
Tr 638 ecc.), ma anche èssiri ncútti 1990
VS 3, 134 ‘essere amici molto stretti’
(anche da Palermo), ‘di persone che si
30
frequentano in maniera esagerata’ (da
Altofonte). La var. incúttu in Pasq 2,
315. La var. ncúrtu (VS 3, 131) ha, oltre
al valore di avv. ‘vicino, che è a poca
distanza, come rapporto temporale e
come rapporto spaziale’ (da Tri; inoltre
tèniri ncurtu a unu ‘tenere d'occhio q.’
ib., senza localizzazione) anche quello di
agg. ‘petulante, insistente, noioso’ (da
Capizzi e Paternò). Il f. ncútta ‘diarrea’
è a Castelbuono (GenchiCannizzaro
187). – Cfr. piazz. ’ncutt ‘noioso,
fastidioso’ (Roccella 173); aid. ncutte
‘fitto; fastidioso’ (Raccuglia 264).
Cfr. cal. ncuttu, nguttu ‘fitto, folto’,
cos. ‘vicino’, catanz. ngutt’a prep.
‘presso’ (NDDC 459).
Le prime spiegazioni etimologiche
sono fantasiose: Avolio 32 pensava al
gr. ἐγγύθι ‘vicino’; De Gregorio, StGl 7,
1920, 21-2 al gr. ἀγτόθι, ἀγτόθεν ‘da
vicino’. Malgrado le obbiezioni di
quest’ultimo studioso, aveva visto giusto
Salvioni, RIL 43, 1910, 623, pensando
ad un *CŌCTU, part. forte di cōgere,
sostituito a coactu (REW 2003) proprio
per analogia all’inf. e ad altre forme in
cog-. Questa spiegazione è accolta da
Alessio,
AGl
34,
1942,
26;
AlessioLatinità 334; DEI 2, 990;
RohlfsSuppl 74. Quest’ultimo afferma
senz’altro che si tratta del part. di ncúiri
‘premere’. In realtà ncúiri è già nel 1519
in Scobar 54r («incuiri v. calcar[i]:
constipo, trudo») e torna più tardi come
v.tr. ‘accostare, stringere, avvicinare’
1789 Pasq 3, 266 (da Spat) anche con il
rinvio a → ncugnari, che è l’unica
spiegazione di Tr 637 e TrV 276, i soli
altri vocab., con RohlfsSuppl 74 e VS 3,
120 (da Spat), che lo abbiano (De
Gregorio, StGl 7, 1920, 21, non dà
alcuna ragione per la sua affermazione
che TrV [egli ignora gli altri vocab.]
equivochi rinviando a ncugnari); c’è
però anche un uso rifl.: ‘far forza per
mandar fuori gli escrementi del corpo’
1875 Mac 207 e poi solo TrV l.c. e VS
l.c. (ncuírisi). Questo v. poco comune
trova riscontro nel cal. centro-sett.
ncújere, ncújire ‘premere, pigiare’ e nel
cos. cújere ‘pigiare, ponsare’ (NDDC
458); a quest’ultimo è stata assegnata la
base lat. CŌGĔRE ‘costringere (cfr. REW
2026, che cita l’articolo in cui Merlo
stabilì quest’etimo, accolto da Salvioni,
RIL 43, 1910, 623; De Gregorio, StGl 7,
1920, 22; Pagliaro, ARom 18, 1934,
374; AlessioLatinità 335; DEI 2, 990;
FaréSalv 2026; RohlfsSuppl l.c. e
NDDC l.c., e da tutti, tranne il REW,
esteso alla voce sic., tutt’al più
postulando un già lat. *INCŌGĔRE). Ma il
part. di ncuiri è regolarm. ncuiútu
‘stretto, molto accostato o premuto’ (sec.
XVII VS l.c., da AA e Sanclemente);
dato per scontato da De Gregorio l.c., è
documentato da Pagliaro l.c., per
Mistretta; cfr. AlessioLatinità l.c., DEI
l.c.) (esiste anche il deverb. ncúitu s.m.
‘lo sforzo che si fa andando di corpo’
1875 Mac 207 e poi TrV 276;
‘enterocolite’ 1914 NicDUr 171;
‘tenesmo, dissenteria o diarrea’ 1990 VS
l.c. (dall'area catan.-sir. oltre che da
Mòdica e Pozzallo); si aggiunga ncutti
pl. in aviri i nc. ‘avere il tenesmo’ 1990
VS 3, 134, da Licodia Eubea, e ngutti
pl. ‘coliche renali’ ib. 238, da
Caltavuturo;
cfr.
regg.
cújutu
‘sofferenza’ NDDC 215) e non ha torto
De Gregorio l.c. ad affermare che su di
esso si sarebbe costruita una forma forte
*ncóttu (come murutu ~ mortu ecc.), e
non ncuttu. Invece, malgrado le
obbiezioni dello stesso De Gregorio,
smantellate se non altro dalla
documentazione lat. della forma, rimane
perfettam. in piedi la base CŌCTU;
semanticam. si sarà avuto ‘riunito,
(co)stretto insieme’ → ‘fitto’ → ‘chi sta
appiccicato ad altri’ (per la storia
semantica di cogo cfr. ErnoutMeillet
17).
ncuttízza s.f. ‘vicinanza troppa;
importunità’ (1868, Tr 638 e poi, nei due
31
sensi, fino a NicD 550 e VS 3, 134
(anche da Altofonte), nel 2° anche in
NicDUr 172, oltre a VS l.c. (‘insistenza,
l'essere insistente o il chiedere con
insistenza’), dove troviamo i sinonimi
ncuttággini s.f. (da Av), e ncuttimi s.f.,
da Ragusa). Cfr. piazz. ’ncutezza ‘noia,
fastidio’ (Roccella 173). Cfr. FaréSalv
2026, s.v. COGERE.
ncuirízzu m. ‘dissenteria prodotta da
irritazione nello intestino’ 1868 Tr 637 e
‘diarrea, dissenteria (da Niscemi);
tenesmo (da Av)’ VS 3, 120.
négghia s.f. ‘nebbia; nuvola; persona
o cosa noiosa’ (ante 1322, nella
forma nébula e nei primi due sensi),
continua
assieme
all’allotropo
névula ‘nuvola’ e ‘cialda’ il lat.
NĔBŬLA, diffuso in tutta la Romània;
nel senso ‘nuvola’ sono più vitali i
continuatori di NŬBĬLUS (nelle forme
núvulu, nú(v)ula), ma le due basi si
sono reciprocam. influenzate in
*NĬBŬLUS, da cui in Sicilia ní(v)ula
‘nuvola’ e ‘cialda’.
I testi sic. ant. hanno sempre il
cultismo nébula: ante 1322: «standu
l’ayru ben serenu e claru, una nebula sì
se stise e stava supra lu altaru de kista
ecclesia» (SGregoriu 113.6; altri ess.
CorpusArtesia);
ante
1337:«Venus
cumbuglau ad ipsu [Eneas] et a lu so
cumpagnuni Achates in una nebula»
(Eneas 1.53; altri rinvii nel gloss.); 1373:
«comu in una nebula insembli esti acqua
et focu, tronu et lampu, ploia et gelu,
grandini et fulguri?» (SposMatteo
104.27; altri rinvii nel gloss.); 1380:
«comu lu suli leva li tenebri di la nocti et
guasta li nebuli et li alburi di la mattina»
(Vitii 95.9; cfr. 190.159); 2a metà sec.
XV: «elevatu Helia per la nevula in
chelu» (SIheronimu 17.27); sec. XV:
«subitamenti una nebula lu livau di li
ochi loru» (MedChristu 257.25); 1519
«nebula v. negla: nebula» (Scobar 69v).
Ma anche négla appare nella 2a metà
sec. XV: «era in la menti sua comu una
negla
di
un
anticu
sonnu»
(TransIheronimu 30.27); abbiamo visto
1519 «nebula v. negla: nebula» (Scobar
69v) e «néglia oi nevula: nebula,
omichle, nephele; n. cosa di negla:
nebulosus; n. fari: nebulo; n. che guasta
lavuri: rubigo, aurugo; n. cosa di questa:
rubiginosus» (ib.) nonché «névula di
farina: laganum; nevula v. niula: nubs;
nevula di ochu: albugo, ulixatum» (ib.);
1522: «nebia vel neglia. hic nebula» e
«nevula sive nuvila. hec nubes» (Vall
58); 1600 ca. Palermo: «successi una
neglia tantu grandi, che…» (Diari 1,
211); 1752 negghia ‘nebbia’ dBono 2,
460 e poi sempre fino a Cav 131 e VS 3,
146 s.; anche nígghiu s.m. ‘id.’ 1868 Tr
647, ripreso da VS 3, 246; AIS 2, 365 ‘la
nebbia’ ha negghia in tutta l’isola (con
la sola eccezione di paisana a Mistretta
e búira nella galloit. Aidone), salvo che
la forma neglia, registrata nel 1868 da Tr
639 come di S. Cataldo, appare a
Villalba, Calascibetta, S. Biagio e Naro
(accanto alle tre colonie galloit. che in
AIS l.c. hanno questo tipo va piazz.
négghia ‘nebbia’ (Roccella 174) e aid.
negghja ‘id’ (Raccuglia 264); cfr. inoltre
VS 3, 147 neglia ‘nebbia’ da Enna, da
tutta l'area niss. nord-or. e niss. sud-occ.,
e dall'area agr. or. e agr. centr.); 1752
negghia ‘moltitudine’ dBono l.c. non
torna altrove se non in VS 3, 146 che lo
registra a S. Teodoro (ma cfr. anche
Rocca s.v. nuvulu e, più sotto, →
annigghiari); cfr. anche na nígghia
di...‘un gran numero di..’ 1990 VS 3,
245 (da Tri) e n nígghiu di...‘id.’ ib. 246
(da Tri); na nèvula d'oceḍḍi ‘uno stormo
di uccelli’ ib. 160 (da Ribera); nìvula ‘un
branco numeroso di bestiame o uno
stormo di uccelli’ ib. 260 (da
Barrafranca e Buscemi); nùvula ‘stormo
32
d'uccelli’ da Acate e Chiaramonte Gulfi.
1752 negghia ‘gramezza’ dBono l.c.
giunge poi a Mort 2, 15, TrV 277 e VS
3, 147; 1752 negghia ‘persona noiosa e
talora dappoco’ dBono l.c. giunge a
NicD 551 ed è molto vivo ancor oggi
(per il 1° senso, VS 3, 147 da
Pantelleria, ma ib. anche alcuni traslati);
1868 (ma cfr. sopra Scobar) negghia ‘v.
risina e lupa’ Tr 638, TrV l.c. e VS l.c.
(dove si fa riferimento a diversi tipi di
malattie delle piante; anche ib. 244
niégghia s.f. ‘ruggine delle foglie del
grano’,
a
Corleone);
al
pl.,
‘cianfrusaglie,
cose
vecchie
e
ingombranti’ ib., da Castelvetrano, Isola
delle Femmine e S. Giuseppe Iato (con
questo senso anche négli pl. ib. 147, da
Caltanissetta); il senso ‘nuvola’, ben
documentato nel medioevo, torna per
negghia solo nel 1875 Mac 208, ma AIS
2, 364 ‘la nuvola’ ha la stessa forma a
Baucina, Mistretta e Catenanuova (solo
quest’ultimo
P.
ha
la
stessa
denominazione per ‘nebbia’ e ‘nuvola’:
Baucina distingue tra n. tirrana e n.),
mentre a Vita, S. Biagio e S. Michele
appare névula (che in questo senso era
solo nel 1839 in Rocca 223, ma ora
anche in VS 3, 160) e Villalba níavula
(il tipo ┌névula┐ è anche ad Aidone e
Fantina, mentre S. Fratello ha anche ora
negia); altrove troviamo ┌nívula┐ e
┌
núvula┐, di cui diremo sotto. VS 3, 146
aggiunge negghia ‘nuvola’ (da Àlia,
Balestrate, Centùripe e Cerami, e
registra inoltre numerose localizzazioni
tratte da ALI e BarCarini; anche pl. i
negghi da Altofonte, Centùripe, Làscari,
Mezzojuso e S. Teodoro, quest'ultimo da
ALI); ib. 147 néglia ‘id.’ (a
Castelbuono, Gangi e Marianopoli); ib.
nélla ‘id.’ (a Alimena e Bompietro, da
ALI), ib. 159 néula ‘id.’ (da Raffadali e
da alcune localizzazioni di area mess. e
etnea nord-occ.). VS l.c. registra per
néula anche il senso ‘sciagura, disgrazia
o sventura’, da Tri (→ più sotto néulu);
tèssiri a-mmenza néula ‘tessere col
telaio tradizionale un tipo di stoffa che
nel disegno ricorda lontanamente il nodo
d'ape’ 1990 VS 3, 160 (da Pantelleria
(anche tèssiri a-mmenza négula, ib.
147); ib. 147 négula ‘nuvola’ (a S.
Stefano Quisquina), ib. 160 névura ‘id.’
(da Francavilla di Sicilia e S. Cataldo;
anche névura ‘persona che porta
sfortuna’ ib. da Bronte); névvura da
Tripi, névvula da Ucrìa, néura da
Francavilla di Sicilia e Malvagna, ib.
névulu s.m. ‘nuvola o nube’ (a Marsala
e Salemi, da ALI) e néulu (da Letoiànni,
Lìmina e Mongiuffi-Melìa). Passando
ora al senso ‘cialda’, attestato nel 1519
per névula, ritroviamo nel 1752 la stessa
forma glossata ‘pasta intrisa con miele o
con zucchero, che stretta in forme di
ferro si riduce in sottili falde e cuocesi
sulla fiamma’ dBono 2, 470 e poi
sempre fino a Cav 132 e VS 3, 160. Lo
stesso senso ha néula 1752 dBono 2, 470
e poi fino a NicD 553 (Mort 2, 17 anche
‘cosa sottilissima’) e VS l.c. (qui anche
nèula fritta ‘cialda di forma piatta’ da
Francofonte), nonché névulu s.m. ‘id.’
VS l.c., nívula ‘id.’ (1868, Tr 649, da S.
Cataldo, e poi TrV 285 e VS 3, 260) e
níula (1868, Tr 648 e poi TrV 285 e VS
3, 254); infine nívola s.f. ‘aquilone’ VS
3, 260 (da Butera e Gela).
AIS 2, 365 ‘la nebbia’ mostra
l’estensione del tipo ┌nebbia┐ su tutta la
penisola, con continue oscillazioni tra ẹ
ed ę toniche (il P. più merid. con la
vocale chiusa è 724 Acerno) e con pochi
casi, nel meridione, di i tonica (780
Conidoni, 744 S. Chirico Raparo, 742
Acquafredda, 749 Salve e 625 Sassa).
Invece in AIS 2, 364 ‘la nuvola’ il tipo
┌
neglia/negghia┐ è solo a 772 Centrache,
771 Serrastretta e 752 Saracena; più a
nord domina ┌núvola┐; in un’area che
include la Liguria occ., il Piemonte
centr. e sud-or., nonché un angolo nordor., la Lombardia (col Ticino e qualche
P. trent.) c’è invece ┌nívola┐. Per
33
‘cialda’ nel meridione trovo solo abr.
nèulə, nèvələ, níulə, ‘id.’ (Giammarco 3,
1286); gli altri sensi non sembrano
trovare corrispondenti it. merid.
La base delle diverse forme sic. è stata
facilm. riconosciuta nel lat. NĔBŬLA
‘nebbia; nube’: Salvioni, RIL 40, 1907,
1056-7;
LaRosaAllotropi
287;
AlessioLatinità 417; Bonfante, Boll 1,
1953, 53; FaréSalv 5865. NĔBŬLA è
pressoché pan-rom. (cfr. REW 5865),
ma con notevoli problemi fonetici e
semantici, anche per la sua vicinanza a
NŬBĬLUS. Per limitarci a ciò che tocca il
sic., si osserva l’alternanza tra forme con
conservazione e forme con perdita della
penultima vocale atona (névula vs
négghia); ma più importa che anche in
Sicilia appaiano forme con i tonica.
Poco diffusa è nígghia 1868 Tr 1153 e
poi AIS 2, 365 a Mandanici (ma VS 3,
245 la registra in tutta l'area mess. or.),
che si pone accanto all’identica forma
cal. centro-merid. (cfr. NDDC 462) e
può collegarsi tanto alle forme
peninsulari con ẹ (tra cui it. nẹbbia) che
al tipo sett. ┌nívola┐. Per nígghia
abbiamo anche il senso ‘oppressione,
incubo;
persona
eccessivamente
fastidiosa’ VS 3, 245 (da Tri, con alcuni
traslati). Inoltre, niégghia s.f. ‘nebbia’
1990 VS 3, 244 (da Altavilla Milìcia,
Corleone, Palermo e Torretta, anche in
usi figurati) e ‘nuvola’ ib. (da Altavìlla
Milìcia, Capaci, Corleone Palermo,
Torretta e Vìcari).
Ma già nel medioevo abbiamo in
Sicilia nívula: ante 1337: «O Yris, …
cui fu killa ki ti misi a li nivuli et
mandauti a mi in terra?» (Eneas 9.5 e
cfr. 10.80, 12.30, 36, 83, sempre
chiaram. ‘nuvola’); 1877 nívula ‘nuvola’
TrV 285, AIS 2, 364 ‘id.’ a Calascibetta
(e cfr. Sperlinga) e VS 3, 260 (a
Caltanissetta, Casteltermini, Noto [da
LaRosaAllotropi], S. Cataldo, Serra di
Falco, Siracusa, Sortino, in alcuni punti
dell'area enn. merid. e in sir. Merid.).
Nel 1519 abbiamo in questo senso níula:
«niula oi nevula: nubs, nubis; n. pichula:
nubecula; n. china di pluvia: nymbus; n.
cum ventu: typho; n. comu serpenti:
phyton; n. in lu ochu: albugo, argema»
(Scobar 70r; si noti l’ultimo senso, che
nella stessa fonte è anche di névula); da
Scobar níula passa in Pasq 3, 302 e Tr
648, ma nel 1914 NicDUr 177 ha come
vivo níula ‘nuvola’, che ritroviamo
anche in VS 3, 254 (a Capizzi, Buccheri,
Canicattini Bagni e Palazzolo Acreide);
ib. 259 inoltre ha nívila ‘id.’ (da
Buccheri). Di nívula e níula ‘cialda’ s’è
detto sopra. Queste forme riportano
senz’altro all’area it. sett. già indicata
(cfr. anche MussafiaBeitrag 82; Prati,
AGl 17, 1910-13, 281 e 390) nonché alla
Francia merid. (cfr. FEW 7, 222a). S’è
tentato di spiegarle direttam. da NĔBŬLA,
ma già Ascoli, AGl 2, 1876, 440 (e cfr.
REW 5975.2 e FEW l.c.) postulò
*NĪBŬLUS per metatesi di nūbĭlus.
L’isolamento di queste forme in Sicilia
rispetto all’Italia merid. fa pensare che
esse siano state portate da immigrati
galloit. (così forse già Bonfante, Boll 1,
1953, 53, poco chiaro). Nigghia può
essersi collocato accanto a negghia
come nívula rispetto a névula. Il lat.
NŪBĬLUS (pan-rom.: REW 5975.1) ha
continuatori diretti anche nell’isola,
come nel resto del meridione (Bonfante
l.c. lo considera perciò indigeno): ante
1337: «la Fama… si fa tantu grandi ki…
la testa ficca intru li nuvuli» (Eneas 4.19;
cfr. 5.82 e 12.39); 1373: «Mictirò l’arcu
meu a li nuvuli di lu chelu, in pactu ki eu
non destrudirò la terra per dilluviu»
(SposMatteo 232.23); 1752 núvula s.f.
‘nube, nuvola’ dBono 2, 544 e poi fino a
NicD 570 e VS 3, 350 (anche da Acate,
Chiaramonte Gulfi, Ognina di Siracusa e
Siracusa) (Mort 2, 41 anche ‘quantità
grande di checchessia’), nonché AIS 2,
364 a Palermo, Mascalucia, Naro e
Giarratana; 1877 núula ‘id.’ TrV 294 e
VS 3, 349; 1839 núvulu s.m. ‘id.’ Rocca
34
235, poi fino a NicDUr 185 e VS 3, 351
da Acireale (il solo Rocca anche
‘quantità di cose’: → negghia; 1883
‘voce degli artisti, con cui chiamano
quel gruppo di nuvoli che sostengono o
accerchiano una figura’ NicD 570);
nùulu ‘nube nera isolata’ 1990 VS 3,
349 (da Acireale, Giarre, Riposto e S.
Alfio). ― Venendo ora alla storia
semantica di negghia ecc. la interferenza
tra ‘nebbia’ e ‘nuvola’ è ant. (già lat.) e
generale; il senso ‘malattia delle piante’
trova riscontro in lig. (cfr. Plomteux 1,
701), lomb. (cfr. già Gioeni 194), sardo
(cfr. DES 2, 164b), gallorom., cat. (cfr.
DCVB 7, 745b; DECLlC 5, 920a) e sp.
(Salamanca): cfr. FEW 7, 70a e 71b, e si
spiega perché la nebbia favorisce lo
sviluppo del male (cfr. l’identico
passaggio in → risina); altri significati
sembrano traslati propri del sic., meno
forse ‘albugine’ di Scobar, sia perché già
lat. tardo nebula è ‘oculorum caligo’
(Arn 2, 386) sia perché trovo nuor. sas
néulas 'essos òkros ‘le macchie degli
occhi’ (DES 2, 164b). Quanto a ‘cialda’,
REW 5866 ne fa un lemma distinto da
nĕbŭla ‘nebbia’, in quanto già in lat.
abbiamo (da Marziale in poi) nĕbŭla
‘materia o sostanza fine, trasparente’ (di
vesti),
passato
in
berbero
(SchuchardtBerb 55), ma si tratta di una
sola parola con due sensi (cfr.
ErnoutMeillet 434). LaRosaAllotropi
287 ricorda accanto alla voce sic. il lat.
med. nebula ‘ganfre, oublie’ (sec. XI,
anche se verosimilm. più ant.: NGloss
1142; Nierm 716; FEW 7, 71b) e il cat.
neula ‘full prim de pasta de farina cuita,
amb sucre o sense’ (sec. XIII: DCVB 7,
745b; DECLlC 5, 920b), ma il
significato è presente in parecchie aree
it. (oltre all’abr., già cit., emil., lig.,
monferr., com., ant. trevis.: cfr. REW e
FEW l.c.), nel gallorom. (già ant. fr.
niule ‘oublie, pain à cacheter’, ant. prov.
neola, neula ‘id.’: FEW l.c.) e nel cat.
neula cit. sopra (da cui il campid. néula
‘id.’: DES 2, 165a), sicché è ben
difficile stabilire se sia indigeno o
importato, e in questo caso da dove.
Der. di negghia:
nigghiúmi: s.m. ‘nebbie’ [sic] (1877,
TrV 284; 1928 ‘grossa e fitta nebbia’
Pitrè 65, da Erice; VS 3, 246). Cfr.
FaréSalv 5865 (-uni è un errore).
nijjázza s.f. ‘banco di nebbia basso e
fitto’ (GenchiCannizzaro 191).
nigghiáta s.f. ‘quantità di nuvole,
nuvolaglia’ (1868, Tr 647, poi fino a
NicD 558 e VS 3, 245) e ‘nebbia’ (da
Spat e Partanna). Cfr. cal. centromerid.
nigghiata ‘id.’ (NDDC 470). Cfr.
FaréSalv 5865. Anche nigghiatína s.f.
‘nebbiolina’ VS l.c. (da Giardini e
Troina).
nigghiúsu agg. ‘nebbioso, nuvoloso’
(1752, dBono 2, 489 e poi fino a
NicDUr 176 e VS 3, 246); ‘che di tutto
si annoia o che annoia altrui’ (1868, Tr
647 e poi fino a NicDUr l.c. e VS l.c.);
‘permaloso (da Gagliano Catelferrato);
pieno di ansie, turbato (da Centuripe)’
1990 VS l.c. Cfr. cos. negliusu
‘nebbioso; nuvoloso’ (NDDC 462); irp.
negliuso ‘nebbioso’ (Nittoli 148). Cfr.
FaréSalv 5865 (ne- è un errore); la base
è qui lat. NEBULOSUS (→ annigghiúsu).
annigghiári v.tr., intr. e rifl.: 1519:
«anniglari: mingo [sic], nubilo» (Scobar
11r); tr. e intr. ‘annebbiare’ dal 1751
dBono 1, 53r a Cav 29 e VS 1, 197
(secondo cui è disus.); altri sensi tr. o
intr.
(propriam.
assoluti):
1751
‘funestare, rattristare’ dBono l.c. e poi
fino a TrV 66 e VS l.c.; 1868
‘ingombrare, arruffare’ Tr 58 e poi fino
a TrV l.c. e VS l.c. (anche rag.); 1868
‘imbrattare’ Tr l.c. (non torna altrove);
1877 ‘caricarsi di figli, di cure’ TrV l.c.
(altrove già rifl., in VS l.c. intr.); 1883
‘delle frutta e delle biade, quando sono
in fiore, che offese dalla nebbia riardono
e non allegano’ NicD 58 e poi in VS l.c.
(→
annigghiatu);
1977
anche
35
‘annebbiare, offuscare la vista o la
mente; ingannare qc.; rovinare qc.;
ridurlo in miseria; riempir di fumo, di
polvere o di puzza, ad es. la via o la
casa; invadere un luogo fin quasi a
coprirlo come fa la nebbia’ VS l.c.
Come intr. anche 1977 ‘essere in gran
numero (di uccelli, cavallette, insetti)’
VS l.c. Come rifl. 1721 ‘annuvolarsi’ Dr
32 e poi solo VS l.c.; 1785 ‘annebbiarsi’
Pasq 1, 105 e poi fino a NicDUr 16 e VS
l.c.; 1838 ‘funestarsi’ e a. di figghi, di
debiti, di guai ‘aggravarsi di figli, debiti
ecc.’ Mort 1, 56, sensi di cui solo il 2°
torna in VS l.c. La forma nnigghiári in
VS 3, 273: v.tr. ‘annebbiare, coprire di
nebbia (da Giardini); riempire di
polvere, impolverare (da Tri, Bronte,
Giardini e Pantelleria); riempire (da Tri
e Pantelleria); angustiare, rattristare (da
Pantelleria); inguaiare una ragazza
maritandola male (da Messina)’; v. rifl.
‘offuscarsi, del tempo, ricoprirsi di nubi,
del sole (da Pantelleria); inguaiarsi con
un cattivo matrimonio (da Messina)’. La
forma anniglári dopo il 1519 torna in
VS 1, 197, come sic. centr. Il piazz. ha
una forma senza pref.: n’gghiè intr.
‘annebbiare’ (Roccella 176). Cfr. cal.
annegliare, annigghiari ‘annebbiare’;
regg. ‘aggredire, degli insetti quando
volano addosso a un oggetto’ (NDDC
82); nap. annegliare ‘annebbiare,
offuscare’ (D’Ambra 45); irp. anneglià
‘id.’ (Nittoli 23); sal. (an)nigghiare ‘id.’
(VDS 1, 48 e 2, 400); bit. annegghièue
‘id.; incatorzolire, imbozzacchire (di
frutta)’ (Saracino 54); molf. annegghià
‘annebbiare’ (Scardigno 49); bisc.
annigghià ‘incatorzire’ (Còcola 26). Cfr.
FaréSalv 5865. ― Il part. annigghiátu
è, come agg., forse già nel sec. XV in.:
«lu sucu di lu vinu anniglatu»,
ThesPauperum 204.2; ma il senso non è
chiaro); poi nel 1519: «anniglatu:
nebulosus, nubilosus; a. lu lavuri:
rubiginosus, auriginosus» (Scobar 11 r;
questo 2° senso non appare più, ma cfr.
cos. annegliatu ‘riarsu dalla nebbia
(grano, frutta)’, NDDC 82; bit.
annegghièute ‘imbozzacchito, afato,
incatorzolito (di frutta)’, Saracino 55;
rub. annəgghiótə ‘id.’, JurilliTedone 68;
bisc. annigghiate ‘id.’, Còcola 26; 1868
‘attristato’ e ‘ingannato’ Tr 58; 1868
‘tutto scomposto’ ib. e poi VS l.c., anche
da Casteldaccia; 1875 ‘ingombrato (di
casa)’ Mac 23; 1977 ‘confuso (da
Modica); disordinato’ VS l.c.; considero
semplici part. ‘annebbiato’ (1751 dBono
1, 53r fino a NicD 59 e VS l.c.) e a. di
figghi ‘carico di figli’ (1751, dBono l.c.
e poi fino a Rocca 31 e Mac 23). La
forma annigliátu è in VS l.c., anche per
‘che non riesce a vedere, a distinguere
bene; abbagliato’, da Montedoro e
Serradifalco. In VS 3, 273 anche
nnigghiátu agg. ‘annuvolato, nuvoloso’
(da Castroreale, Partinico, Rodi e S.
Cipirello);
nnigghiatinélla
s.f.
‘nebbiolina’
ib.
(da
Bronte);
nnigghiatúra s.f. ‘capogiro (da Castel di
Judica); svenimento (da Centuripe)’ (per
il 2° senso, sempre a Centuripe, anche le
var. nnigliatúra ib. e nigliatúra ib.
246); nnigghilazzïóni s.f. ‘svenimento’
ib. 273, da Alia.
annigghiaméntu
s.m.
‘annebbiamento,
rannuvolamento;
rattristamento; ingombro’ (1868, Tr 58)
‘disordine, confusione’ (1977, VS 1,
197). Cfr. procid. annigghjamentu
‘riduzione della visibilità per nebbia’
(Parascandola 175).
annigghiúsu agg. ‘troppo ombroso, di
sito o luogo tetro e uggioso’ (1977, VS
1, 197). Vivissimo a Palermo, anche in
riferimento a persone.
’nnégghia-cori agg. ‘uggioso, del
tempo (da Pantelleria); di chi col suo
aspetto o col suo stato d'animo depresso
provochi afflizione o depressione in q.,
oppure di cosa che affligga o faccia
rattristare’ (1990, VS 3, 270).
Der. di né(v)ula o ní(v)ula (non
36
distinguibili):
nivulátu1 s.m. ‘nuvolato, nuvolaglia’:
ante 1322: «Tandu era tanta serenitate
all’ayru, ki nullu nebulatu che paria»
(SGregoriu 70.30) e «de lu quali flumi si
livava unu nivulatu nigru e ffitenti» (ib.
163.25 e cfr. 163.33 e 167.7); ante 1337:
«li nivulati si riconciru in tal modu ki
l’airu sclariu» (Eneas 1.22; altri ess.
CorpusArtesia); ante 1337 anche
nuvulátu: «lu celu serinu poi di lu
nuvulatu» ValMax 4.2.9; altro es. in
CorpusArtesia);
nuvulátu
s.m.
‘nuvolaglia, nuvolato’ (1752, dBono 2,
544 e fino a NicD 570 e VS 3, 350, da
Cefalù, Malfa e Noto); in AIS 2, 364 è
‘nuvola’ a Mandanici (cfr. anche VS l.c.,
da Pasq); nivulatu ‘nuvola’ VS 3, 260
(da AA, Cav, Favignana, Malfa, Marsala
e Mazara del Vallo); 1877 nïulátu1
‘nuvolato, nuvolaglia’ TrV 285 e poi
NicDUr 177 e VS 3, 255 (ad Àvola e
Roccavaldina), n. ‘nuvola’ VS l.c. (a S.
Marco di Milazzo, da ALI); nïuladu
‘id.’ e nïuladúsu agg. ‘nuvoloso’ VS l.c.
(a Gualtieri Sicaminò, da ALI) e ib.;
nïuláta s.f. ‘insieme di nubi’ ib. (da
Lìmina). Inoltre ’nneulátu1 d'aceḍḍi
‘stormo d'uccelli’ VS 3, 271.
nivulátu2 agg. ‘v. annuvulatu’ (1964,
Cav 132); 1877 niulátu2 ‘nuvolato’ TrV
285, da qui ripreso in VS 3, 255;
’nneulátu2 ‘nuvoloso, coperto di nubi’
ib. 271 (da Tri).
nebulusu: 2a metà sec. XV: «in tenpu
fridu nebulusu» (Mascalcia 3.3);
nivulúsu agg. ‘nuvoloso’ (1990 VS 3,
260, da AA); nuvulúsu agg. ‘nuvoloso’
(1752, dBono 2, 544 e poi fino a Tr 660
e VS 3, 351).
nuvuláta s.f. ‘pioggerella’ (1877, TrV
295 e poi NicD 570 e VS 3, 350 da Man
e Tr).
niulári v.intr.: 1519: «niulari lu
tempu: nubilo» (Scobar 70r). Ib. 56v
anche il comp.: «innivulári: nubilo; i.
multu: obnubilo; i.: innubilo».
annivulári
v.tr.
‘annuvolare,
annebbiare’ (1914, NicDUr 16 e VS 1,
200, anche da AA e Mal); v. rifl.
‘rabbuiarsi, annuvolarsi del cielo’ 1977
VS l.c. (da AA, Castellammare del
Golfo, Marianopoli e Villarosa). Anche
a. la vista ‘abbagliare’ VS l.c., da
Sutera.
annivulátu agg. ‘v. annuvulatu’
(1751, dBono 1, 53, poi VS 1, 200); ‘di
vino sulla cui superficie si sia formato
come un velo’ 1977, VS l.c. (da
Marsala). Inoltre ib. 278 nnivulátu
‘nuvoloso, ricoperto di nubi’ (da
Barrafranca e Floresta); ib. anche s.m.
‘nuvola’ (da Augusta e Pantelleria) e
‘filante del vino’ (da Pantelleria).
nnivulïári (l'occhi) v.tr. ‘abbagliare’
(1990, VS 3, 278, da Mazzarino).
Da nívula ‘cialda’:
nivuláru s.m. ‘chi fa o vende cialde’
(1868, Tr 649 e poi fino a NicD 560 e
VS 2, 260, da Mort e Tr). Cfr. FaréSalv
5866.
nivulétta s.f. ‘dolce di forma rotonda,
confezionato con farina, uova e
zucchero’ 1990 VS 3, 260 (da Floresta e
Raccùia) con le var. nivurétta ib. (da
Bronte) e nigurétta ib. 247 (da S.
Domenica Vittoria).
nésciri v.tr. e intr. ‘uscire’ (1358,
nella forma néssiri), è voce sic. e cal.
centro-merid., con isolati riscontri
tosc. e piem., dal lat. EXĪRE
probabilm. incrociato con nascere;
essa ha eliminato le forme sic. ant.
issiri (1320), esciri (ante 1322),
isciri (id.) e sciri (1368) ‘id.’, che
provenivano direttam. da EXĪRE.
I: issiri, esciri, isciri, e sciri
(documentazione da integrare con
CorpusArtesia):
1320
Messina:
«intrandu et issendu» (Rinaldi 1.21) e
«pagi pir lu intrari et pir lu issiri»
37
(Rinaldi 1.27; successive occorrenze nel
gloss.); ante 1322: «da poy non foru
pluy visti exiri da li monimenti»
(SGregoriu 64.11; per gli altri
numerosissimi passi cfr. gloss.; c’è
anche la forma ixiri: ad es. «nulla
pirsuna pò ixiri fora de la casa» 152.21;
ci sono grafie essia, essiu, essinu, per cui
cfr. gloss.; solo il ms. tosc. P ha ensire,
insire, per cui cfr. gloss.); 1341 S. Lucia
del Mela: «li nostri di Milazu inchi
eranu issuti» (Rinaldi 82.36); 1350: «li
ischeru incontru da lu portu di Missina»
(Rinaldi 84.14); 1354: «iscirò di sti gran
peni» (Poesie a. 132; qui numerosi ess.
posteriori sia di exiri che di ixiri); 1358:
«li Normandi non potianu exiri a preda
et murianu di fami» (Conq 53.25; subito
dopo «intrari et essiri» 54.8; c’è anche
ixiri: «ixiri di l’isula» 12.12, e issiri
54.3; per altri passi cfr. gloss.); 1368:
quatru volti l’annu li fa ixiri sangui»
(Mascalcia 572); 1373: «da lu latu di
Cristu exiu sangui et acqua» (SposMatt
8.23; per altri passi cfr. gloss.; c’è anche
ixiri: «abuctau lu flascu et ixiundi unu
scursuni» 90.25 e passim); 1380: «per
nui non ni possamu rilevari nì isciri di lu
peccatu» (Vitii 88.14, ma assai più
frequenti forme come: «non ausavanu
issiri di loru hosteri» 137.83; invece
l’alternanza tra e nelle forme rizotoniche
ed i in quelle arizotoniche è
regolarissima: cfr. gloss.); 2ª metà sec.
XIV: «nullu haya licencia di ischiri fora
di la clausura» (Regole 36.8; cfr. eschi
42.22; nei testi del sec. XV solo exiri e
forme analoghe: cfr. gloss.); 1478
Trapani:
«intrari
et
ixiri»
(CodDiplGiudei 2, 228); 1492 Messina:
«ixiri» (ib. 3, 48). È esistita anche una
forma xíri: 1368: «liga lu cannolu ala
cuda di lu cavallu ki non di poza xiri»
(Mascalcia 581); 1398: «sindi xiu et
andau» (CapIn 14); 1471: «Cridir si pò
chi l’anima vulia xiri / et giri ad illa»
(Poesie l. 258.5; ci sono altri ess. fino
alla fine del sec. XV); sec. XV: «Hai
xutu a dansari?» (Regole 172.23). Il s.f.
xúta è già ante 1337: «la grandissima
gloria di la xuta di Dardanu» (Eneas
6.10); poi sec. XV: «innanzi la exuta di
lu suli» (SChiara 42.5). Le uniche tracce
mod. di queste forme sono è šš ta di
AIS 6, 1049 (a Naro), AIS 6, 1070 (a
Vita e ancora Naro), e sciri di VS 4, 675
(in varie località e con vari significati
traslati) dove si specifica tuttavia che il
v. «manca delle forme del presente,
supplite da quelle corrispondenti di
nèsciri» (VS l.c. ha anche sciritúri s.m.
‘rete molto resistente e a maglie
piccolissime usata nel corso della
mattanza per sollevare i tonni quasi a
fior d'acqua’ ib. da Nàpola; non sono
sicuro che la voce appartenga alla
famiglia).
Forme del tipo ┌escere, escire┐
riappaiono, nei dial. mod., solo nella
metà sett. della Calabria: cfr. catanz.
escire, cos. éscere e jissə ‘uscire’
(NDDC 250, 340 e 829; cfr. AIS 2, 360
e 6, 1133 Cp e 1184) e poi a nord di una
linea che include Napoli e Foggia, con
qualche puntata più meridionale: cfr.,
oltre alle stesse c., nap. ascire e scire
(D’Ambra 67 e 335), procid. ascì e scì
(Parascandola 28), irp. ascì e scì (Nittoli
32 e 198), Muro scì (Mennonna 173),
fogg. ascì (Villani 10), abr. ašcì, ešcì,
išcì, šcì (Giammarco 1, 260 e 736),
sempre ‘uscire’.
La base è lat. EXĪRE ‘id.’, panrom.
(REW 3018), ma di vitalità spesso
limitata alla fase med. (cfr. per il
gallorom. FEW 3, 297b, per l’iberorom.
DCECH 3, 549a); in area it. hanno
prevalso nello standard il tipo ┌uscire┐,
incrociato con uscio (cfr. VEI 1022; DEI
5, 3963), in Sicilia e altrove ┌nesciri┐,
per cui cfr. sotto. Non c’è più da
dubitare,
in
base
alla
nostra
documentazione, della vitalità med. di
┌
escire┐, ma non sappiamo come la
parola fosse accentata (le accentazioni
degli editori sono gratuite), come non
38
possiamo dire se le grafie -sscorrispondano sempre a pronunce [šš],
come fa pensare l’alternanza -ss- / -xnegli stessi testi, o, almeno alcune volte,
a [ss], come in un’area camp.-luc.-pugl.
per cui cfr. più avanti. In ogni caso le
forme mod. sono sempre palatalizzate.
L’inserimento di -n- nelle var. del
SGregoriu è tipicam. tosc. (Lunigiana:
SFR 7, 238) ed it. sett. (cfr. FaréSalv
3018; FEW 3, 298 n14, con
documentazione ant.); non a caso le
forme ant. nap. ensiri, insire ricordate da
Rohlfs, ARom 9, 1925, 158 sono proprio
nella redaz. toscaneggiante del De
balneis puteolanis.
II: nésciri (ricca documentazione in
CorpusArtesia): 1358: «non mi partirò di
cza, non nissirò may di assiyarivi, per
fina chi non sia diviniatu di illu» (Conq
49.11, gloss. ‘cesserò’) e «lu Conti nixiu
et illu fui prisu in manu salva» (ib.
119.18); 1373: «da lu so latu [di Adamo]
Eva nixia» (SposMatteo 279.26); 1380
ca.: «divi essiri pisata la parolla ananti ki
nessa di la bucca» (Vitii 193.42); 2ª
metà sec. XIV: «azò ki nixinu scandalu
poza nixiri in la nostra cumpagna»
(Regole 23.3 var.; ci sono qui altri due
ess. del sec. successivo); 1411: «nixiu
contra
la
nostra
maiestati»
(LettRegBianca 11); 1ª metà sec. XV:
«Hora nexanu tutti li patri santi… nexa
Adam cum Eva» (Poesie g. 31); 1451
Monreale: «per nexiri li tavuli dipinti»
(ASS 28, 1903, 299); 1471: «trasi per
quilla [porta] et nexi cun soy ali» (Poesie
l. 183.8); 1480: «et tantu abondatu latti
nexi et duna, / chi maraviglar farrà ad
omni persuna» (Poesie m. 73.7 e
passim); 1487: «et ora nixiranno questa
usanza»
(BEustochia
177.19:
‘metteranno in pratica’; ib. 222.55
nescendo ‘cavando fuori’); 1492
Messina: «nexiri di loro casa»
(CodDiplGiudei 3, 75; cfr. 3, 136); 1497
Francofonte:
«pi
nexiri
acqua»
(Gaudioso XCIV); sec. XV: «Et fattu
nexiri spavintatu di paura, non mi pocti
excitari» (SOnofrio 79); 1519: «nexiri in
locu patenti: expato; n. di regula:
denormo, excipio; n. di lu pectu:
exsinuo; n. budegli: exintestino; n.
bocza: exgurgito; …; n. comu si vogla:
exeo, egredior» (Scobar 69v, 70n, con
ben 42 entrate); 1520 ca. Catania?:
«nixero fora di la ditta turri» (ASS 6,
1881, 125); 1522: «nexiri di fora
egredior… vel exuo…» (Vall 58); 1593
Francofonte:
«per
nexire
alla
presecutione di banniti» (Gaudioso
XLIX); sec. XVI: «la via che veni di lo
Craperi e nexi a li Chiappi di Mancina»
(ConsCastiglione 63); 1600 ca. Palermo:
«e niscendola [la roba], tornao la peste»
(Diari 1, 89); sec. XVII: «nixianu»
(VinutaReJapicu 165); 1721 nesciri
‘uscire’ Dr 262-4, con 23 entrate, e poi
sempre da dBono 2, 464-5 a Cav 131 e
VS 3, 151 ss. (con numerosi significati
traslati, usi figurati e locuzioni, come
v.intr., tr. e rifl.). Meli autoglossa nesci
fora ‘esce fuori all’aperto’ 2, 364;
niscennu di manuzzi ‘pigliando ardire’ 1,
328; nisciutu di li panni ‘lieto
oltremodo’ 2, 632; nisceva fora di lu
siminatu ‘traviava’ 2, 775; nesci da li
pedi di lu nigghiu ‘a grande stento
scappa’ 2, 794. AIS 6, 1133 Cp ‘uscire
(dal guscio)’ e 1184 ‘far uscire le vacche
dalla stalla’, nonché 2, 360 ‘si leva il
sole’ (cfr. Giuffrida 28), presentano
nésciri praticam. in tutti i P. sic. (il tipo è
anche nei P. galloit.; cfr. piazz. nesc
‘uscire’, Roccella 174, e aid. nìscire
‘id.’, Raccuglia 275); solo Bronte ha
nescíre (sic 1133 Cp) o nəscír (1184),
che potrebbe essere la stessa cosa del
curioso niscíri di Mort 2, 26, che è poi
in Mort2 581, NicDUr 177 (niscïri) e VS
3, 253 (anche da Av, Tri e Adrano; in
quest'ultimo punto la forma è presente
anche con altri significati). Altra var. è
nísciri (1752, dBono 2, 494 e poi fino a
TrV 285, sempre senza indicazione di
39
accento). Dal punto di vista semantico
AIS 6, 1049 per la vacca, 1078 per la
pecora documentano è nnisciúta ‘è in
caldo’ ai P. 819, 821, 826, 838, 844,
846, 851, 873, 875; qui anche AIS 6,
1080 Cp a Mistretta è nnisciúta ‘(la
capra) è coperta’; inoltre AIS 7, 1343
nella stessa località nnésciri u vinu
‘prendere del vino’ e 8, 1506 a S.
Michele nésciri u capu ‘cercare il
bandolo’ (ma per questi e altri significati
cfr. anche VS 3, 151 ss.).
Da NDDC 463 néscere, nescire,
nisciri ‘uscire’ risulta di tutta la Calabria
(l'ultima forma è regg.), ma AIS c. cit.
mostra che la forma è viva dallo Stretto
fino ai P. 765 e 771, mentre più a nord
abbiamo ┌escire┐ (cfr. più sopra); il tipo
sic. ritorna nel versil. niscí, sarzan.
nəsirə, chian. nišire, pis. e Montale
nuscí, questo con vocale e accento di
uscire (ID 36, 1973, 77 e StLI 1, 1979,
163), nel piem. nesi ‘colare (di liquido
attraverso una fessura)’ (Levi 184; in
Alione abbiamo già nessir: FEW 3, 298
n14; cfr. niscír ‘(mi ha fatto) sanguinare
il naso’ AIS 8, 1618 al P. 182).
La forma sic. è stata spiegata in vario
modo: Wentrup, ASNS 25, 1859, 153
(da cui PitrèFiabe CLV) pensò a INEXIRE (base che NDDC 95 dà per il tosc.
nescire);
REW
3018
(seguendo
precedenti opinioni dello stesso MeyerLübke e Salvioni, SFR 7, 328) postula
INDE-EXIRE, opinione accolta da Levi
184; FEW 3, 298 n14; AlessioLatinità
92; DES 1, 494b; NDDC 463 e, se non
erro, AlessioLexicon 158; ma Salvioni
(in FaréSalv 3018) considera poi ovvio
l’incrocio con nascere, difeso per suo
conto da S. Santangelo, ASSO 53, 1957,
225 e ammesso dubitativam. anche da
NDDC l.c. La più diffusa ipotesi ( INDEEXIRE) urta contro la circostanza che in
nessuna delle aree di ┌nescire┐
l’assimilazione di -ND- è antica (cfr. MR
6, 1979, 189-206; ma nel caso specifico
il dubbio, per il cal., è già in Rohlfs,
ARom 9, 1925, 158): in Sicilia
dovremmo trovare nel medioevo
qualcosa come *ndésciri e oggi
verosimilm. nnésciri, forma che
nell’AIS
è
sempre
dovuta
a
raddoppiamento
fonosintattico.
La
concorrenza ant. tra (e)sciri e nesciri fa
pensare che la seconda forma sia
un’innovazione, come le altre che hanno
eliminato o reso poco vitali i
continuatori di EXIRE in altre aree; ma di
innovazione proveniente dall’esterno
non può trattarsi, data la sporadicità e
ristrettezza dei paralleli tosc. e piem.
Penserei dunque ad incrocio locale con
násciri. Bonfante, Boll 5, 1957, 295-6
afferma che la palatalizzazione di -X- in
Sicilia è di origine gallorom. (dal fr. ant.
eissir, issir con s fortem. palatale, prov.
eisir, cat. eixir). In realtà in Sicilia -X- ha
la doppia uscita -ss- e -šš- (cfr. Ducibella
473-5), che merita uno studio più
accurato, ma nulla fa pensare che voci
come masciḍḍa, sciamu, sciḍḍa e vusciu
siano prestiti. Per altro l’area di -X- > ss- in EXĪRE, dalle informazioni
dell’AIS, risulta coprire solo la
Basilicata (senza il P. 732, ma col P. cal.
750), il Cilento e l’Avellinese, la Puglia
escluso il fogg. e il Gargano (cfr. infatti
luc. ssí, yéss Lausberg 234; Brienza esse
Paternoster 13; Muro assì ma anche scì
Mennonna 28 e 173; sal. assiri, essire,
issire, ssè, ssire VDS 1, 63 e 218; 2,
690-1; 3, 892 e 957; bit. assì, assòje
Saracino 70; rub. assèiə JurilliTedone
85; molf. assàie Scardigno 66; bisc. assì
Còcola 34; andr. assòie Cotugno 22;
Bovino e Candela assì Melillo 88). A
nord di Napoli e Foggia riprende -šš-.
Quanto al passaggio dalla coniugazione
in -íri a quella in –iri, esso è frequente in
sic.: cfr. Coray 194 n2.
isciúta s.f. ‘uscita’: 1380: «a la isuta
di Milanu dumandau…» (Vitii 156.2) e
«illu divi rendiri suo contu et sue intrati
et issuti dinanti a lu suo Signuri» (ib.
142.37; qui è ‘spesa’); 2ª metà sec. XIV:
40
«rendiri raiuni… di la intrata e di la
issuta» (Regole 11.10: ‘spesa’; nello
stesso senso ixuta 22.9, mentre ischuta
19.20 è ‘termine (di un ufficio)’; alla
stessa data risale sciúta1: la forma xuti
appare come var. a Regole 11.10, xuta
‘spesa’ è var. ib. 22.6; poi 1492
Palermo: «de intrata et de xuta»
(CodDiplGiudei 3, 161), ma cfr. VS 4,
689 sciúta1 s.f. ‘uscita’ (da AA, Pasq,
Tr, Mac, Consol, Castelbuono e
Marsala), cui si aggiungono numerosi
altri significati (per lo più da fonti
scritte, con poche localizzazioni) per i
quali si rimanda a VS l.c., e sciúta2 s.f.
‘diarrea’ ib. (da Mal, Pasq, Cefalù,
Florìdia, Làscari, Pozzallo, S. Croce
Camerina e Solarino, oltre che a Noto da
PitrèMedicina, e a Pantelleria da ALI 2,
163) e ‘femmina in calore’ (Sottile 152;
cfr. ’nnisciúta); sciútu agg. ‘uscito’ (con
alcuni tralsati) VS 4, 691 (si segnala in
part., al f., ‘in calore, di femmina di
animali’, con poche localizzazioni di
area agr. e trap). Infine appare nisciúta:
Regole 19.4 var. ha «a la intrata et a la
nixuta di omni recturia» (il ms. B è del
1400 ca.); 1a metà sec. XV: «non sapenti
la mia intrata et la mia nixuta»
(Soliloquia 2.24); poi nisciuta è nel 1752
dBono 2, 494 e fino a Cav 132 e VS 3,
253 per ‘uscita’ nonché per una gamma
di sensi più specifici, tra cui: ‘lo
spuntare, nascimento’ (1752, dBono l.c.,
Pasq 3, 301 e VS l.c. da Giardini, Giarre,
Riposto e S. Alfio); ‘il cavare fuori’
(1752, dBono l.c. e Pasq l.c.); ‘sollazzo,
spasso, diporto’ (1839, Rocca 228, fino
a TrV 285 e VS l.c., da S. Alfio); ‘grido
imperioso’ (1839, Rocca l.c.); ‘bravata,
rabbuffo; caldo parlare; portamento
sconsigliato’ e poi anche ‘sfuriata’
(1844, Mort 2, 26 e poi fino a NicD 177
e VS 3, 254, anche da S. Alfio);
‘discorso, proposta, atto spiritoso o
strano e improvviso’ ib. 253, da Licata,
Lìmina, Pantelleria e S. Alfio; ‘piccolo
appezzamento di terreno (da Tri); uscita,
spesa;
occasione
favorevole
(da
Barcellona Pozzo di Gotto)’ ib.. La
forma ’nnisciúta ‘uscita, atto dell'uscire
da un luogo o da un ambiente (da Enna);
trovata, piano o idea escogitati per
risolvere un problema (da S. Cataldo);
‘di femmina di animali in genere,
quando è in calore’ 1990, VS 3, 254 e
277. Cfr. nap. asciuta ‘uscita’ (D’Ambra
67); irp. id. ‘id.’ (Nittoli 32); Muro
sciuta
‘andata,
allontanamento’
(Mennonna 177); sal. (a)ssuta ‘uscita’
(VDS 1, 64 e 2, 692); bit. assìute ‘id.’
(Saracino 71); bisc. assiute ‘id.’ (Còcola
35); it. uscita (sec. XIII: DEI 5, 3963).
nisciutína s.f. ‘v. nisciuta’ (1868, Tr
648).
escitúra s.f. ‘uscita’: 1368: «la exitura
tua lu porta» (Rinaldi 86.23); 1465
Palermo: «lu drictu di la manganelli per
la exitura di la sita» (CodDiplGiudei 2,
24); la forma niscitúra è nel 1519:
«nixitura v. nexitu: exitus» (Scobar 70r;
qui anche «nixiticza cosa: emissarius»,
spiegabile solo con il mod. è nisciuta ‘è
in caldo; è coperta’, per cui cfr. sopra);
poi solo 1868 Tr 648 e TrV 285 (con
rinvio a → néscitu) e VS 3, 253 (qui
vale sia ‘esito’ che ‘uscita’); ‘frangitura
delle olive’ CastiglioneParole 410 (da
Mazzarino). Anche VS 5, 942 uscitúra
s.f. ‘enfiagione, tumore’ (da Tr, Mac,
Av) e uscitúri s.m. ‘id.’ (da Tr e da
Niscemi, qui anche ‘eczema’), con
rimando a usciari1 ‘gonfiare’. I riscontri
sono
catanz.
nescitura
‘pustola,
flemmone’ (NDDC 463); nap. uscetura
‘id.’ e ‘sboccatura di via, vico,
chiassuolo’ (D’Ambra 387); lecc.
essitura ‘piccolo orto dietro la casa’, pl.
‘pustoletta di un eczema’ (VDS 1, 219);
it. uscitura ‘andare, venire fuori’ (DEI 5,
3963); cat. eixidura ‘efecte d’eixir, dit
especialment de coses de caràcter
morbós’ (DCVB 4, 668a).
nisciméntu s.m. ‘escimento’ (1839,
Rocca 228 e poi solo fino a Tr 648).
néscitu s.m. ‘uscita’: 1519: «nexitu
41
vide fini: exitus» (Scobar 70r); 1789
‘uscita’ Pasq 3, 276 e poi fino a Cav 131
e VS 3, 157; 1877 ‘diarrea’ TrV 278, poi
VS l.c. (da Francofonte e Vizzini); 1914
‘sfuriata’ NicDUr 173; 1990 ‘rinfresco
che si offre agli invitati in occasione di
un matrimonio o di un battesimo’ VS 3,
157 (da Bronte); ib. ‘qualsiasi spazio
(spiazzo o cortile) cui si acceda dalla
parte posteriore della casa’ (da S. Alfio,
qui anche con alcuni traslati); 1877
anche níscitu ‘uscita; esito; diarrea’ TrV
285 e VS 3, 253, ’nníscitu TrV 286 e
VS 3, 277, nésciutu ‘cortile adiacente a
una casa’ VS 3, 157 (da Biancavilla);
qui anche nisciticéḍḍu s.m. ‘piccolo
appezzamento di terreno’ ib. 253). Cfr.
piazz. nésc’t’ ‘uscita’ (Roccella 174).
Cfr. cal. centro-merid. néscitu ‘esito,
uscita’ e regg. néscita ‘uscita’ (NDDC
463). AlessioLatinità 92; FaréSalv
3018b;
AlessioLexicon
158
lo
considerano der. di lat. EXĬTUS, il che è
certam. possibile, ma nulla impedisce di
inserirlo tra i normali deverb. a suff.
atono del sic. Per il senso ‘diarrea’ si
veda quanto detto sopra, e cfr. cos. e
regg. sciuta ‘id.’ (NDDC 633); catanz.
sciti ‘id.’ (ib. 635); luc. ššit ‘id.’
(Lausberg 234); sal. aüsciti pl., sciuta,
ušcitə, vušciti pl. ‘id.’ (VDS 1, 67 e 2,
622, 791 e 829); abr. èsətə ‘id.’
(Giammarco 1, 736) e scite ‘id.’
(Finamore 272); it. uscito ‘sterco’ (sec.
XIV: DEI 5, 3963); corso áscita, úscito,
escitu (Falcucci 95).
niscitúri s.m. ‘secchio di lamiera’
1990, VS 3, 253 (da Cerami); a
Castelbuono
nniscitúri
‘l’apertura
d’uscita della tana del selvatico’
(GenchiCastiglione 193).
nisciulínu agg. ‘che ha l'abitudine di
uscire di casa di notte’ 1990, VS 3, 253
(da Altofonte, con alcuni significati
simili).
niscirínu agg. ‘di adulto dal
comportamento infantile’ 1990, VS 3,
253 (da Cerami).
niscénza s.f. ‘v. uscituri [cioè
‘fignolo’]’ (1868, Tr 648, poi TrV 285 e
VS 3, 253). Cfr. catanz. nescenza
‘flemmone’ (NDDC 463).
annésciri v.intr. ‘uscire’ 1977, VS 1,
195, da Villarosa e ’nnésciri ‘uscire,
venir fuori’ 1990, VS 3, 270 (da
Bompietro, Caltanissetta, San Cataldo e
Santa Caterina Villarmosa).
rinésciri v.intr. e tr.: 1494: «[le opere
di una miniera] renixuti beni» (EeS 11,
1964, 521); 1754 r. tr. ‘recare a fine,
ridurre a perfezione’ dBono 3, 356 e poi
fino a NicDUr 248 e VS 4, 182 (rr.); r. a
unu ‘farlo divenire uomo di conto,
esperto di qualche mestiere’ ib. e poi
fino a Tr 823 e VS l.c. (rr. a unu); intr.
‘riuscire’ ib. e poi fino a Cav 166 e VS
ib.; ‘far buona riuscita (di persona o
cosa)’ ib. e poi fino a Tr l.c. e VS l.c.
(qui anche altri traslati e locuzioni). VS
4, 187 registra anche rriniscíri, senza
localizzazioni. La forma rafforzata
arrinésciri è nel sec. XVII in
VinutaReJapicu 165 («alli Franzisi ci
arrinixiu sfallu» ‘la cosa fallì’) e poi nel
1751 in dBono 1, 75 e da allora sempre
fino a Cav 32 e VS 1, 265 (con qualche
localizzazione) negli stessi sensi. Il part.
arrinisciútu
come
agg.
‘rifatto,
arricchito, di persona venuta su dal nulla
(da Catenanuova, Caltanissetta, Licata e
Marsala); colto, dotto’ (1977, VS 1,
266). Cfr. regg. rinésciri, rinisciri
‘riuscire, prosperare, divenire’ (NDDC
580) e cal. centro-merid. arrinésciri
‘riuscire’ (ib. 95); tosc. (Pistoia,
Montale) rinescire, rinuscire; campid.
arrenèširi ‘riuscire’ (DES 1, 122a).
Ovviam. è un composto di nesciri e non
un der. di *RE-EXIRE con n epentetica,
come pretende De Gregorio, StGl 3,
1903, 280.
rinéscitu s.m. ‘successo, evento,
riuscita’ (1790, Pasq 4, 268 e poi fino a
NicDUr 248 e VS 4, 182 (rr.), nonché in
La Rosa 19), ‘profitto’ (1844, Mort 2,
202 e poi fino a NicDUr l.c.). C’è anche
42
la forma rafforzata arrinéscitu s.m.
‘riuscita’ (1883, NicD 79 e poi VS 1,
265 ‘esito, risultato’, anche da Marsala,
e ‘riuscita, buon esito’). Cfr. regg.
rinéscitu ‘riuscita’ (NDDC 580), nonché
tutte le forme del tipo ┌riuscita┐.
rinisciúta s.f. ‘riuscita’ (1868, Tr 824,
1875, Mac 257 e VS 4, 187 rr., anche da
Bronte),
rinisciuta
‘profitto,
avanzamento’ (1868, Tr l.c. e VS l.c.
rr.), rinusciuta ‘riuscita; buon esito’
(1754, dBono 357, s.v. riniscimentu) e
arrinisciúta (1977, VS 1, 266, da
Vittoria e Marsala). Tr l.c. segnala anche
gli alterati rinisciutédda e rinisciutúna.
rinisciútu agg. ‘detto di negozio:
conchiuso; detto di persona vale: chi ha
fatto buona riuscita’ 1754, dBono 357,
Pasq 4, 269, Tr 823 (s. v. rinésciri) fino
a VS 4, 187 (anche da Adrano, Bronte e
Pantelleria, oltre a Vittoria, da
Consolino). In VS l.c. anche alcuni
traslati, inoltre ib. caìnu rrinisciutázzu
‘villano rifatto’, da Capizzi.
rinisciméntu
s.m.
‘riuscita,
riuscimento’ 1754, dBono 357, Pasq 269
e Tr 824.
’nfénta s.f. ‘pattina, striscia di
rinforzo o di copertura delle aperture
degli abiti’ (1598, nella forma
infenta), è prestito da dial. merid.
(probabilm. dal napol.), dove essa
proviene da *FINCTU per fictus, da
fingĕre ‘foggiare’; lo sviluppo
semantico è di area solo it.
1598 Palermo: «un lenzolo et una
sponzola di tela… con le infente de
taffetà giallo innorato» (ASS 1, 1878,
238); 1789 ’nf. ‘fascia o striscia lunga e
stretta, di panno o panno lino, la quale si
cuce dentro la sponda della veste per
rinforzarla’ Pasq 3, 279 e poi fino a Cav
101 e VS 3, 168; da Tr 641 in poi si
aggiungono sensi specifici (‘strisce di
pelle attaccate nell’apertura della gamba
dello stivale; striscia laterale della toppa
dei calzoni e delle tasche; bocchetti delle
scarpe; solino della camicia; pistagna’),
che è inutile datare con precisione
perché non si tratta che di tipi sempre
possibili di ’nfente; ulteriori sensi
specifici, sempre relativi al campo
dell'abbigliamento umano, in VS l.c.,
dove tuttavia troviamo anche ’nf.
‘striscia di terreno’ (da Altofonte). La
forma ’nventa di TrV 295 non si trova
altrove né prima né dopo se non in VS 3,
352 (da Paternò e Buscemi); cfr. il piazz.
’nvénta ‘fascia dei cappotti, soprabiti e
simili’ (Roccella 183). Anche le forme
’nfrénta ‘pezzo di pelle cucito per
rinforzo
in
corrispondenza
dell'allacciatura delle scarpe’ 1990 VS 3,
181 (da Gagliano Castelferrato; forse
anche mprenta ‘per ’nfenta’ 1868 Tr
611 (ripreso da VS 2, 854, che
documenta anche il senso ‘sparato della
camicia’ a Centuripe e quello di
‘bocchetta della scarpa’ a Leonforte; cfr.
anche ALS 1.1, c. 5, a Montedoro);
nfinta ‘v. nfenta’ 1868 Tr 641 e TrV
279 (ripreso da VS 3, 174, che segnala
anche il senso ‘striscia di stoffa che si
piega verso l'interno di determinate parti
di indumenti, ecc.’ a Pantelleria; fénta
‘linguetta della scarpa (da Regalbuto e
S. Alfio); ciascuna delle strisce che
coprono la parte posteriore del tallone
della scarpa (da S. Alfio)’ 1985, VS 2,
46; fénda ‘linguetta della scarpa (da
Troina); pistagnino della tasca della
giacca o del soprabito (da Centuripe e
Paternò)’ ib.
Cfr. nap. fentarella ‘term. de’ sarti,
delle cucitrici di bianco e simili:
pistagnino’ (Andreoli 160); irp. id. ‘id.’
(Nittoli 102); tar. fəntarèddə ‘il ricamo
malcucito (all’orlo della gonnella)’
(VDS 1, 228); bit. fènde ‘finta, rivoltina
(delle
tasche,
della
bottoniera)’
(Saracino 180); molf. fènde ‘finta, fascia
sovrapposta nei capi di biancheria per
43
far combaciare i lati aperti’ (Scardigno
221); andr. fènde ‘quella parte dei
calzoni che fa finimento alle tasche’
(Cotugno 54); it. finta ‘striscia di tessuto
o di panno che si sovrappone e ricopre i
bottoni o l’apertura della tasca; pattina,
falsatura’ (1800 ca.: VEI 435; Batt 5,
1053b); gen. finta davanti di cäsoin
‘lista della medesima stoffa, che si mette
alla parte sinistra dello sparato davanti
de’ pantaloni’ (Casaccia 378); piem.
finta ‘presso i sarti, quella parte del
vestito che fa finimento alle tasche e fa
parte della mostreggiatura’ (Sant’Albino
576); mil. finta ‘striscia di panno o altro
che simula una tasca (termine dei sarti)’
(Angiolini 319).
A parte Salvioni, RIL 40, 1907, 105051 n3, che è tratto in inganno da TrV e si
interroga sull’oscillazione ’nfenta ~
’nventa, solo De Gregorio, StGl 1, 1899,
88-9, si occupa di ’nfenta per collocarla
sotto *FINDĬTUS (da findĕre). Egli non
teneva conto dei paralleli, sopra elencati,
che indicano con chiarezza che la nostra
voce è invece da FĬNGĔRE (REW 3313),
o meglio da INFĬNGĔRE (REW 4402a); in
ogni caso essa non è patrimoniale, come
dimostra la vocale tonica, ma prestito
dalle aree dial. merid. che non operano
la chiusura di ẹ in i prima di nasale
seguita da occlusiva (cfr. Rohlfs, § 49).
In queste aree non ho reperito traccia di
┌
nfenta┐ ‘pattina’, ma solo, in questo
senso, di ┌fenta┐, ma esiste nfenta
‘finzione, apparenza’ (D’Ambra 258)
per il nap., Vignoli 68 per Amaseno,
Nittoli 149 per l’irp.) e nféndə ‘finta’
(abr.: Giammarco 3, 1288). È dunque
verosimile che la voce sic. sia stata
importata nella forma attuale. Quanto
allo sviluppo semantico, esso è proprio
dell’area it.; il cat. fenta ‘fesa, fenella’
(DCVB 5, 797a, che a torto postula
*FĬNTA, da findĕre; per DECLlC 3, 954a
non esiste) è solo in testi della corte
aragonese di Napoli.
’nfúrgiri (1ª pers. ind. pres.
’nf rgiu) v.tr. ‘rimpinzare di cibo (o
di altro); condizionare con i propri
ripetuti discorsi’ (1752), continua il
lat. INFULCĪRE ‘sostenere’ e già
‘ristorare (con cibo)’, insieme a voci
it. merid. e mil. Ma ’nfurgicari è
documentato fin dal 1519.
1752 ‘mettere altrui il cibo in bocca
per forza; empire uno di cibo’ dBono 2,
477 e poi fino a TrV 280 e VS 3, 189
(anche da Frazzanò e Gratteri); ‘mettere
ad uno in bocca le cose da dire’ dBono
2, 477 e poi fino a TrV l.c. e VS 3, 190;
1844 ‘apprestare alimenti a sufficienza
cotidianamente’ Mort 2, 20 (ripreso da
VS l.c.); ‘aizzare una persona contro
un'altra, sobillare, istigare’ 1990 VS l.c.
(da Frazzanò e Gratteri); la voce è
vivissima almeno a Palermo, nei due
primi sensi e per ‘riempire a forza’. La
forma infúrgiri è nel 1786 Pasq 2, 329 e
poi Tr 488 e NicD 406; inoltre ’nfúggiri
‘rimpinzare (da Marsala); prevenire q.
contro un'altra persona’ 1990, VS 3, 186
(da cui ib. ’nfuggiútu agg. ‘rimpinzato,
da Corleone; prevenuto contro un'altra
persona’); ’nfurghíri v.tr. ‘rimpinzare di
cibo (da Pantelleria); aizzare una
persona contro un'altra, sobillare,
istigare’ 1990 VS 3, 189.
Cfr. regg. nfurgiri ‘rimpinzare,
istigare’ (NDDC 464) e cos. nfruci
‘mettere dentro a forza’ (ib.); nap.
nfrùcere ‘rimpinzare, ficcare’ (D’Ambra
259); mil. ant. (Bonvesin) infulcir
‘infarcire, rimpinzare’ (Marri 114; l’it.
ant. id. di Batt 7, 1000a è la stessa cosa);
mil.
mod.
infolcì
‘rimpinzare’
(Cherubini 305).
Già Gioeni 149 riconobbe l’origine del
v. sic. nel lat. INFULCĪRE ‘ficcar giù (il
cibo a qc.); inserire, introdurre,
aggiungere’ (sec. I d. Cr.), composto di
fulcire ‘sostenere, rafforzare’, anche
44
‘ristorare (col cibo)’. La stessa
spiegazione in Salvioni, RIL 40, 1907,
1051 n3; De Gregorio, StGl 7, 1920,
182; AlessioLatinità 384; DEI 3, 2024,
nonché REW 3554 e 4413. Fulcire ha
continuatori gallorom. (FEW 3, 840b),
soprasilv. (fultscher: DRG 6, 690b) nel
senso ‘riempire, rimpinzare’, mater.
fǫlce ‘tappare’ (Z 38, 1917, 269); non
trovo il nap. f čere di REW 3554; l’it.
folcire
‘sostenere;
mantenere
in
esistenza’ (sec. XIII: Batt 6, 107b) mi
pare prestito dal lat., ed è il solo a
conservare il senso originale, con
paralleli prestiti fr. (cfr. FEW l.c. 841a);
il sardo fruččiri, frokkire, forčire
‘chiocciare’ è incrociato con *CLOCIRE
(DES 1, 408a). L’esito sic. -LC- > -RĞfa qualche difficoltà: Salvioni l.c. citava
forgia ‘folaga’ < FŬLĬCE, un congetturale
*surgi < surci ‘topo’ e piangia < fr.
planche; De Gregorio l.c. considera
eccezionale tale evoluzione ed ipotizza
un’eventuale influenza di forgia ‘forgia’,
del tutto improbabile; in realtà la
sonorizzazione dopo r in Sicilia è
sporadica ma non eccezionale (cfr.
Rohlfs, § 263). Non c’è ragione per
parlare di incrocio tra infulcire e
infarcire, come fa AlessioLatinità l.c.
’nfurgiári v.tr. ‘dare a mangiare a
sazietà’ (1839, Rocca 225, Tr 642 e TrV
280 (dove anche ‘mettere in fucina’,
ovviam. da forgia e quindi da tenere
distinto), e poi VS 3, 189: qui inoltre v.
ass. ‘mangiare eccessivamente, di
persona malata o convalescente che
dovrebbe tenersi entro centi limiti (da S.
Alfio); mangiare in fretta e con avidità
(da Acireale e Calatabiano)’; ib.
’nfurghiári ‘rimpinzare di cibo (da
Pantelleria); aizzare una persona contro
un'altra, sobillare, istigare’).
’nfurgicári v.tr. ‘comunicare uno
all’altro il latino già fatto, imbeccare’:
1519: «nfurgicari: suggero» (Scobar
55r); 1752 ’nf. ‘id.’ dBono 2, 477 e poi
fino a NicD 554 e VS 3, 189; Tr 488,
TrV 280 e NicD 406 più specificam.
anche ‘subornare’); 1789 ‘dare a
mangiare a sazietà’ Pasq 3, 284 e poi
fino a TrV l.c. e VS l.c.; 1868 ‘cacciar
alla rinfusa materia entro checchessia’
Tr l.c. e poi TrV l.c., NicD l.c. e VS l.c.;
‘aizzare una persona contro un'altra,
sobillare, istigare’ 1990 VS l.c. (da S.
Michele di Ganzaria e Vizzini). La
forma ’nfruggicári 1752 dBono 2, 476,
fino a TrV 280 e VS 3, 183; infurgicári
Pasq 2, 329, Tr l.c. e NicD 406;
infrurgicári Pasq l.c.; ’nfurgichïári
‘aizzare una persona contro un'altra,
sobillare, istigare’ VS l.c. (da
Castelbuono); ’nforgicári ‘istigare,
fomentare’ VS 3, 177 (da Tri). Cfr.
piazz. ’nfurg’chè ‘imbeccare; far
mangiare gli altri più del conveniente’
(Roccella 176). Cfr. regg. nfurgicari
‘rimpinzare il ventre; ammaestrare
alcuno in ciò che deve dire o fare’
(NDDC
464);
nap.
nfrocecare,
nfrucchiare
‘spipare,
affastellare;
suggerire, insinuare, ispirare’ (D’Ambra
259); irp. nfrocecà ‘rimpinzare, ficcare;
affastellare;
suggerire,
ispirare;
subornare, imbecherare’ (Nittoli 150).
Questo frequentativo pare di area
esclusivam. it. merid. Cfr. FaréSalv
3554.
’nfurgicaméntu s.m. ‘l’imboccare’:
1519:
«infurgicamentu:
suggestio»
(Scobar 55v); poi dal 1752 dBono 2, 477
a Mort 2, 20 e VS 3, 189;
infurgicaméntu 1868 Tr 488.
’nfurgicazzióni
s.f.
‘v.
’nfurgicamentu’ (1752, dBono 2, 477 e
poi fino a Mort 2, 20 e VS 3, 189, e
infurgicazióni Tr 488). Cfr. piazz.
’nfurg’caziöngh ‘imbeccata’ (Roccella
176).
’nforgicatúri s.m. ‘fomentatore’
(1990 VS 3, 177, da Tri).
’nfurgicatória s.f. ‘v. ’nfurgicamentu’
(1752, dBono 2, 477 e poi fino a Mort 2,
20, TrV 280 e VS 3, 189; Tr 488 ha
infurgicatória).
Cfr.
piazz.
45
’nfurg’catoria ‘il mettere in bocca ad
alcuno le parole che deve dire’ (Roccella
176).
a rifúrgiu avv. ‘smisuratamente, a
bizzeffe, abbondantemente’ (1785, Pasq
1, 131 e poi fino a NicDUr 246 e VS 4,
158 [a rr.]).
’nfutári (3ª pers. ind; pr. ’nf ti) v.tr.
‘aizzare (soprattutto dei cani)’
(1752), voce che i riscontri
iberorom.
(sp.
enfotarse
‘insuperbirsi, sentirsi sicuro’, ajotar
‘instigare’ e port. afouto ‘ardito, che
ha fiducia’) riportano al lat.
INFATUARE ‘far impazzire; stordire
con chiacchiere’; ma la voce non è
patrimoniale e il tramite sp. presenta
problemi.
1752 ‘aizzare’ dBono 2, 480 e così poi
fino a Cav 102 e VS 3, 194 (anche da
Caltagirone, Giammichele, Licodìa
Eubèa e Regalbuto), a volte (da Mort 2,
20) distinguendo tra cane ed essere
umano (solo nel primo senso Struppa,
ASS 16, 1891, 467 da Marsala); 1883
‘stimolare, spingere altrui a fare;
subornare’ NicD l.c. e VS l.c.; 1907
‘imputare, accusare’: «stu bon omu fu
’nfutatu d’ammazzatina, e fu misu
carciaratu» (ATrP 23, 218, senza
localizzazione), poi 1914 in NicDUr
174, come solo senso, e VS l.c. (da
Marsala e Pantelleria); 1990 ‘avventarsi,
del cane’ VS l.c. (da Av); ‘far empito
(da AA); stringere, incalzare, premere
(da Spat); fare avvicinare le galline (da
Bronte)’ VS l.c., 195; v.intr. 1877
‘ringhiare o abbaiare forte dei cani’ TrV
280 e poi NicD 554, Cav l.c. e VS l.c.
(da Castellammare del Golfo, Centùripe,
Marsala e Ragusa); 1990 ‘si dice anche
di persone e partic. di un ragazzo che si
avventa contro chi a ragione gli dà botte
(da Troina); insistere, essere troppo
insistente (da Marsala)’ VS l.c. Una
forma infutári è nel 1786 in Pasq 2, 329
e poi in Tr 489.
Non sembra avere riscontri in Italia.
Un it. ant. affutare tr. ‘mettere in fuga’
(Fanfani),
‘confutare’
(Alberti),
ricordato da Gioeni 195, manca in DEI e
Batt, ma è presente nella Crusca del
1729 (falso rediano?) che lo documenta
nel Tesoretto di Brunetto Latini («ed
affuta follía», ma il dato non è
confermato dall'OVI che nell'ed. di
Contini dà «e atutar follia»). TB
riprende la Crusca e dà affutari come
forma morta: ‘Mettere in fuga. Da Futa,
che è in Dante analogo al franc. Fuite;
ambidue da Fugitare, frequent. di
Fugere». Si veda ora la voce affoltare di
TLIO.
L’agg.
(paroli)
affutati
‘eccessivamente adornate’di Vitii 175.53
è altra cosa.
Gioeni l.c. indicò l’etimo nel port.
afoutar ‘rendere ardito, incoraggiare,
inanimire’, vitale e circondato da der.;
non spiegò però come fosse giunto tra
noi. De Gregorio, StGl 3, 1903, 273-4 si
dichiarò invece per un *IN-FUTARE per
FUTUERE, ma non spiegò perché il
composto non utilizzasse i normali
continuatori della base semplice lat. né
come
si
spiegasse
l’evoluzione
semantica; infine AlessioLatinità 384 ha
postulato *INFULTARE da infulcire
‘ficcar dentro’ (→ ’nfurgiri), adducendo
che il regg. nfurgiri è ‘rimpinzare’ e
‘istigare’ (NDDC 464) e che il cal.
centro-sett. possiede ntufare ‘intasare,
rimpinzare’, ntufatu ‘mal lievitato
(pane); ammassato e cotto male (cibo)’
(ib. 481), che proverrebbe da nfutare
«per raccostamento paretimologico a
tufo». Ma questo presunto cal. *nfutare
non presenterebbe analogie semantiche
con la voce sic., perché ad avere i
significati ‘istigare’ (ma non ‘aizzare’) e
‘rimpinzare’ è solo cal. nfurgiri; né la
formazione di *infultare è molto
46
convincente. Torniamo allora all’etimo
presunto di Gioeni. L’agg. port. afouto
‘atrevido, confiado en sí o en otro’ è del
sec. XIII o XV (DCECH 3, 404b) ed ha
accanto afouteza ‘osadía’ (sec. XV: ib.),
ma Gioeni ignorava che in cast. abbiamo
non solo in America ajotar ‘azuzar’ o
‘instigar’ (in questo senso anche in
Estremadura),
‘afanar’,
‘repulsar,
despreciar’,
ma
anche
enfotarse
‘ensoberbecerse, sentirse seguro’ (sec.
XIII: ib. 956a) e enfotado, anche
‘infatuado, insolente’ (ib., anche 957b
n3), nonché forme senza prefisso. La
base di questa famiglia, che era stata
vista in FAUTUM, da faveo ‘favorire’ (cfr.
REW 3224 e ancora Machado 1, 135a),
è identificata da Corominas l.c. in
INFATUARE
‘far impazzire, render
balordo; stordire con discorsi vani’,
attraverso un normale *INFAUTARE.
Sembra ovvio cercare qui l’origine della
voce sic., anche perché troviamo qui,
come in Spagna, ’nf. e → affutari; ma da
noi -AU- non può dare -u- [cfr. Rohlfs, §
43; cfr. semmai regg. nfatarisi
‘infatuarsi, impazzirsi’ (NDDC 463)],
sicché dovrebbe trattarsi di prestito
dall’iberorom., al che può opporsi che la
parola manca al cat. (che spiegherebbe
bene -o- > -u-) e in cast. dal sec. XVI ha
-f- > -h-, mentre da noi c’è ancora -f-.
Insomma, per essere certi dell’iberismo
ci mancano elementi adeguati, ma pesa
dichiarare la voce come di origine ignota
dato che molte cose spingono verso
INFATUARE. — In ogni caso, la nostra
voce non ha nulla a che fare con
’nfutari v.intr. ‘infoltire, diventare folto
o più folto, di barba, peli e sim. (da
Acate); crescere rigogliosamente, di
piante (da Vizzini)’ VS 3, 194, ’mputári
‘id.’ VS 2, 867 e ’nfutátu agg. ‘molto
fitto, folto, detto ad es. del basilico (da
Vizzini)’ VS 3, 195; ’nfutu1 agg.
‘denso, spesso, folto, fitto’ (1752, dBono
2, 480 e poi fino a Cav 102 e VS 3, 195;
anche «tra li rami nfuti» Tempio 164); la
forma infútu 1786 in Pasq 2, 329. Cfr.
piazz. ’nfut ‘folto’ (Roccella 176). Cfr.
irp. nfuto ‘folto’ (Nittoli 150); Montella
nfuto ‘profondo’ (ID 5, 1929, 125);
Brienza nfute ‘affollato, addossato,
pigiato, denso’ (Paternoster 20); molf.
mbulte ‘folto, fitto’ (Scardigno 280). Si
tratta evidentem. del lat. ĬNFŬLTUS
‘ficcato, introdotto’: REW 4414;
AlessioLatinità 384; DEI 3, 2020;
FaréSalv 4414. Cfr. it. folto, dal
semplice FŬLTUS (REW 3564, con esiti
dial.).
nfutaméntu s.m. ‘incitamento’ (1752,
dBono 2, 480 e poi fino Tr 643); il
sinonimo ’nfútu2 ‘l'aizzare, l'istigare’
VS 3, 195 (da Bronte).
affutári v.intr. ‘il correr del cane in
verso alcuno per morderlo’ (1721, Dr
18), tr. ‘canes incitare’ (1759, Vinci 6,
poi solo in VS 1, 76; il senso ‘fiutare’ è
stato attribuito erroneam. a Vinci da Tr
30 e poi Pitrè 3 e VS l.c., ma in Vinci
era l’etimo presunto), ‘dire con violenza’
(1875, AvolioCanti 34 e poi TrV 51 e
VS l.c.), ‘soffiar che fa il gatto quando si
arronciglia per minacciare e porsi in
difesa’ (1875, AvolioCanti l.c. e poi TrV
l.c., Pitrè 3 e VS l.c., dove è detto intr.,
contro l’indicazione esplicita di Avolio),
‘rimproverare acerbamente, scagliarsi
contro q.’ (1977, VS l.c.); inoltre
’ffutàri v.tr. ‘cacciar via in malo modo’
1985, VS 2, 55 (da Alì). L’apparente
riscontro cos. affutare ‘affaticare,
affoltare’ (NDDC 61), per quanto
richiamato da AlessioLatinità 384, andrà
sotto
FULTUS,
attraverso
un
*AFFULTARE, come postula Rohlfs, l.c.
Si veda TLIO s.v. affoltare ‘lanciarsi in
qc., darsi da fare, affannarsi’ e milit.
‘lanciare contro’. Per i paralleli
iberorom. cfr. più sopra.
affútu s.m. ‘parole violente’ (1875,
AvolioCanti 34; poi TrV 51, La Rosa
13, VS 1, 76), ‘il soffiar del gatto’
(1875, AvolioCanti l.c. e poi TrV l.c., La
Rosa l.c., Pitrè 4, RohlfsSuppl 18, VS
47
l.c.), ‘fiuto (dis., ma forse è un puro
errore: → affutari); l’aizzare i cani;
atteggiamento minaccioso contro q.’
(1977, VS l.c.). La Rosa l.c. pensava al
lat. tardo futare ‘abbattere’ o ‘essere
sovente’, che non c’entra, ma non è più
plausibile
l’accostamento
di
RohlfsSuppl l.c. al cos. áχχitu ‘alito;
leggiero soffio di vento’ (cfr. NDDC
67), dal lat. *AFFLĬTUM per afflatum
‘soffio’, che comunque non potrebbe
essere la base della voce sic., che invece
si inquadra bene nella nostra famiglia.
’ngranciári v.tr. ‘rosolare (una
vivanda)’ (1752), è voce viva ma del
tutto isolata in Sicilia, di etimo
sconosciuto.
1752 ’ngr. ‘dorare (dei cuochi)’
dBono 2, 484 e poi sempre fino a
NicDUr 175, glossato come ‘rosolare,
dare alle vivande un colore dorato’ e VS
3, 220 e (dal 1868 Tr 644 a NicDUr l.c.
e VS l.c.) ‘dar una prima cottura alle
vivande, perché possano conservarsi’; il
senso ‘pigliar certa crosta’ di TrV 282
non è cosa diversa, ma solo uso intr.; a
Castelbuono ngranciari intr. ‘rassodarsi
del terreno’ (GenchiCannizzaro 190).
Anche Meli 2, 751 ha: «e qualchi vota
l’arrusti e l’ingrancia / e comu
beccafichi si li mancia», autoglossato
‘frigge in modo che prendono il colore
dell’oro’. Questa forma ingranciári
torna in Pasq 2, 331 e Tr 490. Cfr. piazz.
'ngrancè ‘rosolare’ (Roccella 177); aid.
ngrangèrise ‘rosolarsi’ (Raccuglia 271).
Non conosco riscontri dialettali it.
A quanto pare, solo Gioeni 197 si è
occupato di questa voce, riprendendo il
suggerimento di Tr 490, che rinviava a
granciu ‘granchio’, per il colore; Gioeni
invece pensa al fr. garance ‘robbia’ ed al
suo denom. garancer. In realtà il fr.
garance ‘rubia tinctorum’ e ‘teinture
qu’on tire de cette plante; couleur de
cette teinture’ è attestato dal sec. XII, ma
il v. garancer ‘teindre en garance’ è
documentato al più presto alla fine del
sec. XIII (FEW 17, 622; la base è il
francese *wratja) e v. e sost. non
risultano in alcun caso usati fuori del
loro senso proprio (il sost. designa anche
qualche
erba).
Dal
gallorom.
provengono
il
piem.
garanss
(Sant’Albino 614) e lo sp. granza
(gallicismo recente: 1764, DCECH 3,
198b), oltre l’ingl. garance, ma nessuno
pare avere altro significato che quello
bot. Appare dunque più che dubbio che
l’etimologia di Gioeni sia difendibile né
è verosimile il rapporto con granciu
‘granchio’. Per il momento la parola
rimane di origine sconosciuta.
’ngranciátu, oltre che come part.
pass. è registrato come agg. ‘a faccia
rubiconda’ (1877, TrV 282 e poi solo
NicD 556 e VS 3, 220, da Mort, Tr, Tri e
da Petralìa Sottana).
’ngranciáta s.f. ‘l'azione del rosolare
la vivanda’ (1868, Tr 644 e poi solo
NicD 556, ripreso in VS 3, 220).
aggranciári v.tr. ‘rosolare, far la
crosta alle vivande’ (VS 1, 88, da Tr e
Man), e ‘fermare la carne con una prima
rapida cottura’ (da Man e dal ragusano),
inoltre ib. 251 arranciári v.tr. ‘fermare,
dare una prima cottura ad un cibo perché
possa conservarsi’ (da Catenanuova e
Ragusa), e ‘apparecchiare, cucinare una
vivanda, detto spec. di carne in
casseruola’ (da Av e Man); in VS l.c. è
voce a sé un arranciári1 ‘accomodare
alla meglio’; cfr. ancora granciári v.tr.
‘v. aggranciari’ (ossia: ‘rosolare, far la
crosta alle vivande’) VS 2, 288 (da San
Cono). Inoltre, ’nganciári ‘soffriggere,
rosolare’ in VS 3, 201 (da Castiglione di
Sicilia); ’nghianciári ‘rosolare o
soffriggere in padella o in tegame carni,
verdure e sim.’ ib. 209 (da Mazara del
Vallo, Paceco e Trapani).
48
aggranciáta s.f. ‘dev. di aggranciari’
(VS 1, 88, senza indicazione di fonti né
localizzazioni), e ib. 251 arranciáta s.f.
in dari n'a. ‘dare una prima cottura a un
cibo perché possa conservarsi’ (da
Catenanuova, Gagliano Castelferrato e
Leonforte, ma anche ‘aggiustare alla
meglio’ da Catenanuova).
nichéia s.f. ‘dispetto; stizza’ (1519),
è voce esclusivam. sic. (solo il v.
denom. sembra avere riscontri in
Calabria ed in Sardegna), che
continua l’ar. nikaya ‘dispetto,
molestia; danno; offesa’.
1519: «nicheya v. indissopru: ex
industria; n. nequiter» (Scobar 70r);
1752 nichéa ‘dispetto, onta’ e ‘noia,
molestia’ dBono 2, 488 e poi solo Pasq
3, 296 e VS 3, 241 s. (qui il 2° senso è
anche da Campobello di Licata; cfr.
inoltre nnichèa ‘dispetto’ da Rosolini e
‘odio, rancore’, raro, da Marineo);
nicheia torna in Meli (1, 215: «lu vinu fa
passari ogni nicheia / e leva ogni
stanchizza», e 1, 788: «nun t’avviliri, ma
fatti coraggiu, / nè sfugari cu l’àutri li
nichei», la 1ª volta autoglossato ‘stizza,
cordoglio’, la 2ª ‘la bile o la collera’) e
inoltre da Pasq 3, 296 ‘onta, fastidio,
dispetto’ a NicD 558 e VS l.c.; il senso
‘ira, stizza’ 1839 Rocca 227, poi TrV
284 e VS l.c. (anche da Capizzi, Galiano
Castelferrato e S. Caterina Villarmosa),
quello ‘beffa’ solo 1868 Tr 646 e VS l.c.
(da Acate e Sciacca). La forma nichía
1875 Mac 210 e poi TrV 284 e NicDUr
176, con i sensi ‘dispetto, onta’ e
‘sdegno, ira, corruccio’, per il primo dei
quali VS l.c. aggiunge Barlestrate e
Carlentini. Cfr. malt. nkejja ‘onta,
dispetto’ (Barbera 3, 850; Kalepin 226).
Si contrappongono tre spiegazioni di
n. Da un lato Pasq 3, 297; Diez 1, 80; De
Gregorio, StGl 4, 1907, 326-7 e 7, 1920,
249-50 ne hanno affermato l’origine dal
gr. νεικέω, νεικείω ‘risso, contendo,
specialm. a parole’, postulando dunque
che il sost. sia deverb. di → nichïari e
che nicheia sia var. secondaria di nichía.
In realtà di tale verbo gr. non esiste
traccia nell’Italia merid. (esso non
appare nel LGII) né semanticam.
sarebbe del tutto soddisfacente. D’altro
canto Avolio 46, seguito da DAlCalv
277; AlessioProblemi 332; Pellegrini
225, postulava l’ar. nikāya ‘danno,
pregiudizio, torto; dispetto, molestia,
fastidio; offesa’ (NallinoTraini 3, 1568;
Wehr 1000; Dozy 2, 724a; Harrell 102),
semanticam. e formalm. ineccepibile (il
passaggio ā > e è quasi generale nei
prestiti ar. in sic.). Una terza etimologia
appare prima in REW 4439, che
considera sic. nichiari come der. di
ĬNĪQUUS e poi contemporaneam. in
AlessioLatinità 385 e DEI 1, 211 (s.v.
annicare, che è poi un travestimento del
catanz. annicari ‘annoiare, rompere le
scatole’ NDDC 82), per i quali la base
sarebbe un lat. tardo (attestato solo dalle
glosse: cfr. CGlL 5, 642.78) INĪQUĀRE
‘divenire iniquo’; non c’è traccia di altri
eventuali continuatori di questa base (e
limitato e non it. merid. è il riflesso di
iniquitas e iniquus: REW 4438 e 4439;
FEW 4, 694-5), che foneticam.
giustificherebbe un sic. *nicari, non
nichïari, e semanticam. è molto più
sforzata dell’etimo ar., che mi sembra di
gran lunga preferibile. (Si sarà notato
che AlessioLatinità 385 spiega le parole
sic. dal lat. e poi AlessioProblemi 332
dall’ar.; non direi però che si tratti di un
ripensamento, perché nella seconda sede
lo studioso dice la voce sic. assente nel
DEI e dunque deve essergli sfuggita la
registrazione s.v. annicare e la relativa
spiegazione). ― Abbiamo da rilevare
alcune locuzioni: a nichéia (per errore
tipografico: a nichesa) ‘a dispetto’ 1839
Rocca 227 e poi Tr 646 e Mac 210, fino
a VS l.c. (da Acate e Licata); ppi-
49
nnichéa ‘id. (da Mòdica); a bella posta,
appositamente (da Chiaromonte Gulfi)’
1990 VS l.c. (cfr. pirnichéia avv. ‘a
dispetto’ 1883 NicD 647 e VS 3, 807,
pinnichéa ib. 772, da Av). Esistono
anche in pirnichéia ‘ad onta, a dispetto’
1868 Tr 739 e poi TrV 325 e,
documentato già nel 1785, a la
’mpirnichéia ‘id.’ Pasq 1, 68; Mort 1,
37 (anche ‘inconsideratamente, alla
trista’); Rocca 19 (ambedue i sensi); Tr
l.c., poi TrV 284 e VS 2, 849 (anche da
S. Margherita Bèlice, qui senza a la, e
indicato come raro); ib. le var.
’mpirnichéa,
’mpirnichía,
'mprinichéia, ’mprinnichéia, solo dalle
fonti scritte); si ricordi che già in Scobar
n. era registrato con questo valore.
Verosimilm. abbiamo dunque a che fare
con un pirnichéia ‘dispetto’ (e VS 3, 772
pinnichea s.f. ‘ripicca’, da Tri): pippinnichea ‘per ripicca’), ottenuto con
per- rafforzativo (cfr. Rohlfs, § 1022;
cfr. sic. pircantari e pirculari) + nicheia,
usato quasi esclusivamente nelle loc. pi
p. e in p., quest'ultima a sua volta sentita
come un lessema e quindi completata
con a la. Un v.intr. pirnichïári
‘perfidiare’ è registrato nel 1888 in
TrVApp 22, e da qui ripreso in VS 3,
807.
nichïári v.tr. e rifl.: sec. XVI: «E si la
mia signura si nichia / fazzu cuntu ch’è
ruttu di radici [l'albero della nave]» (M.
Bonincontro, ASS 30, 1905, 53: ‘si
adira’); 1752 tr. ‘beffare, beffeggiare’ (e
fari n. ‘fare incollerire’) e rifl. ‘andare in
collera’ dBono 2, 488; 1759 tr. ‘irritare’
Vinci 171, ma annotando che è voce rara
a Messina, anche se frequente in Sicilia;
1789 tr. ‘far prendere stizza’ e rifl.
‘adirarsi, stizzirsi’ Pasq 1, 297. Il senso
più comune è questo rifl., attestato più
volte in una poesia agr. del 1800 ca. («la
puzza / l’offenni, e nell’internu si
nichia», «E stava nichiatu veramenti»,
«quannu si nichia», QFLS 1, 1973, 48,
65 e 86) e poi sempre fino a Cav 132
(s.v. nnichïári) e VS 3, 242 (anche nn.
ib. 272), mentre il senso tr. è registrato
solo in NicD 558 e poi in VS 3, 242, che
aggiunge inoltre ‘beffeggiare q.’ (da
Corleone) e ‘importunare, infastidire’
(da Grammichele e S. Caterina
Villarmosa; quest'ultimo senso ha anche
nn. VS 3, 272, da Adrano, Bronte e
Niscemi); 1868 Tr 646 anche rifl.
‘mostrare di non essere soddisfatto
interamente’, poi fino a NicD l.c. e
ripreso da VS l.c.; ‘adombrarsi,
imbronciarsi (da Assoro, Casteltermini e
Licata); annoiarsi (da Agira e S.
Giovanni Gèmini)’ VS 3, 242. Anche
nighïárisi
v.
rifl.
‘adombrarsi,
imbronciarsi’ 1990 VS 3, 246 (da Nizza
Sicilia); nchinïárisi v. rifl. ‘imbizzire’
1877, Tr 272, VS 3, 72 (da Av e
Grammichele). In VS 3, 242 (s. v.
nichïári) il rimando a ddighïárisi (VS 1,
906) che in parte si sovrappone
semanticamente a nighïárisi, ecc., infatti
vale ‘smaniare per difficile digestione
(da Gela)’, ma anche ‘piagnucolare, dei
bambini (da Grammichele); annoiarsi
(da Gela e Niscemi); arrabbiarsi (da
Grammichele)’. La var. prefissale
annichïári è nel 1875 in Mac 23 e torna
poi in TrV 66 e VS 1, 196, qui solo
come rifl. ‘seccarsi, adirarsi’ (ed anche
da Alia). Cfr. piazz. n’cchiè rifl.
‘stizzirsi’ (Roccella 170). Per la
spiegazione da una base gr. → nicheia.
Mentre AlessioLatinità 385 cita come
esito sic. di INĪQUĀRE annicari (e
(n)necca), DEI 1, 211 ricorda appunto
(an)nichiari; ambedue sono citati in
DES 1, 91b come riscontri per il logud.
annikare ‘essere serio, prendere il
broncio’, rifl. ‘sdegnarsi, adirarsi’,
accanto all’it. nicchiare ‘rammaricarsi,
lamentarsi’, ritenuto la fonte probabile
della voce sarda. Conviene tenere
attentam. separati (an)nichïari e
anniccari ‘far resistenza, opporsi,
reagire; contrapporsi a q.; contrariare,
contraddire; recalcitrare (di cavallo o
50
mulo); rinculare; corrucciarsi’, che è
senza dubbio denom. di (n)necca
‘rancore’ (nnecca s.f. ‘ripicca, dispetto’
VS 3, 269 da Bagheria, Campobello di
Mazara e Pantelleria (ppi n. ‘per
dispetto’); malgrado la vicinanza
semantica, le due serie appaiono ben
distinte dall’opposizione -k- ~ -kk- e
dalla diversa accentazione ed uscita dei
sostantivi; inoltre il rapporto nnecca →
anniccari è parallelo ma distinto da
quello nicheia → (an)nichiárisi.
Pertanto il catanz. annicari ‘annoiare,
rompere le scatole’ (NDDC 82) ed il
logud.
annikare
(cfr.
sopra)
sembrerebbero piuttosto prestiti dal sic.,
il che non fa difficoltà per il catanz.,
mentre lascia incerti per la voce sarda.
nichïaméntu s.m. ‘il crucciarsi;
nicchiamento’ (1868, Tr 646). Cfr.
piazz.
n’cchiamènt
‘stizza,
crucciamento’ (Roccella 170).
nichiátu agg. ‘inciprignito, intozzato,
adirato’ 1752 dBono 2, 488 fino a Tr
646 (s.v. nichïari), poi VS 3, 242 (da
Sanclemente (1645-53) e da Camastra,
Gagliano Castelferrato, Leonforte e S.
Alfio).
nichïáta s.f. ‘v. nichïamentu’ (1868,
Tr 646). In VS 3, 242 (solo sing.) vale
‘ira, collera’ (anche da Giarratana e
Ragusa).
nichïúsu agg. ‘noioso; difficile (detto
di cosa)’ (1752, dBono 2, 488). Il primo
senso è poi in Meli 2, 399 («A sti palori
un poco nichiusi /iddu mi rispunnìu:
‘Lassami diri’», autoglossato appunto
‘noiose’) e da Pasq 3, 297 e NicD 558,
fino a VS 3, 242 (anche da S. Alfio),
mentre il secondo non appare più (se
non ripreso da VS 3, 243), sostituito da
‘disastroso (detto di cosa)’ da Pasq l.c. a
Mort 2, 24 (segnalato in VS l.c.); anche
‘smorfioso, special. di ragazza’ VS l.c.
(da Favignana); ma il senso principale è
certo ‘che irrita, dispettoso’ (1789, Pasq
l.c. e poi fino a Cav 132 [qui nella forma
nnichïúsu] e VS 3, 242, anche da
Balestrate, Catania, Marsala e Trapani;
ib. 272 anche nn., da Francofonte e S.
Alfio) e ‘facile a stizzarsi’ (1839, Rocca
227 e poi solo Cav l.c. e VS l.c.; qui
anche ‘burbero, scontroso’, da Man e
Mòdica; inoltre ib. 272 nn. da S. Alfio,
ib. 246 nighïúsu ‘id.’ da Nizza Sicilia).
– Cfr. piazz. n’cchiös ‘stizzoso’
(Roccella
170);
aid.
nicchjuse
‘irrequieto’ (Raccuglia 273). Il malt.
nekkejj ‘dispettoso’ (Barbera 3, 839) non
ha con il sic. altro rapporto che quello
etimologico.
nichitá s.f. ‘per nicheia’ (1868, Tr
646, ripreso da VS 3, 242).
nichitúsu agg. ‘dispettoso (da Tri e
Roccafiorita); stizzoso, irascibile (da Tri
e S. Alessio Siculo)’ (1990, VS 3, 242).
nichíu s.m. ‘noia, molestia’ (1990, VS
3, 242, da Assoro).
nichisanzi pl. ‘dispetti’ (VS 3, 242, da
Erice), ma c'è nichisenza s.f. (solo sing.)
‘negligenza’ ib. (da ATP).
máncia-nichéi ‘persona impertinente’
(1990, VS 3, 242, da Pozzallo).
nícu agg. ‘piccolo’ (1752), è voce
con stretti paralleli solo cal. e abr.,
ma che rientra in una ampia rete di
creazioni espressive in -í- per
esprimere ‘piccolo’ e ‘grazioso’.
1752 n. agg. ‘piccino d’età o di mole’
dBono 2, 489 e poi sempre fino a Cav
132, RohlfsSuppl 75 e VS 3, 243, con
larghissime attestazioni nella letteratura
dialettale (anche nn. ‘id.’ ib. 273, da
Canicattini Bagni, Noto e Ragusa,
‘moccioso’ ib. da Noto); 1868 n. s.m.
‘bambino’ Tr 646, poi TrV 284 e VS 3,
244 (anche da Agrigento, Casteltermini
e Pantelleria); solo TrV l.c. ha anche ‘il
minore de’ fratelli ecc. (dovrebbe dire
propriam. u nicu: già in Meli 2, 117,
parlando di cani, «ma a lu nicu… ci
acchianau la verra»), significato
51
documentato da VS l.c. a S. Vito Lo
Capo; 1868 nicu nicu ‘modo di chiamare
i porci’ Tr 1153, poi Pitrè 65 e VS l.c.
(da Castellammare del Golfo, Pantelleria
e Vìcari; con lo stesso significato anche
nichi nichi nichi ib. 242, da Tri). AIS 1,
39 ‘piccolo’ ha nicu solo a Baucina,
Villalba e S. Biagio, ma l’agg. appare
poi nella c. 1, 155 ‘il mignolo’ a
Palermo, Vita, Baucina, Mistretta,
Villalba (ora ALI 1, 48, in punti sparsi),
nella c. 2, 228 ‘il succhiello’ a Naro,
nella c. 5, 943 ‘è troppo stretta’ a Vita,
Mistretta, Villalba e Mascalucia;
Villalba ha la forma m. nécu (e necu
agg. ‘piccolo, minuto; in tenera età’
viene registrato anche in VS 3, 146 a
Mòdica, da G. Ragusa). Cfr. inoltre
nníccu agg. ‘grazioso, bello’ 1888
TrVApp 20, da Castrogiovanni, Enna (a
cui VS 3, 272 aggiunge Villarosa), poi
con lo stesso senso niccu ib. 241 e nnicu
ib. 273, entrambi da Enna, e nnéccu
‘carino, grazioso; cordiale, affabile’ ib.
270 da Assoro.
Cfr. cal. centromerid. nicu, (n)niccu
‘piccolo, piccolissimo’ (NDDC 470; ib.
anche cos. e regg. niccu-niccu ‘voce per
chiamare il maiale’, cos. niccu, neccu
‘nome vezzeggiativo che si dà al
maiale’; ib. 471 cos. nincu ‘piccolo’);
abr. nichə ‘piccolo’ (Giammarco 3,
1331; molto meno diffuse le forme
néchə, nòcchə, nicchə ib. 1330-1).
Pasq 3, 297 avanzò la fantasiosa
ipotesi della provenienza di n. da μικρός
e, per quanto contraria ad ogni evidenza
fonetica, questa spiegazione è ripetuta da
Avolio 32 e Sacco 1, 106; Gioeni 198
pensò a NĪDĬCUS ‘del nido’ (veram. la
forma con continuatori rom. è *NĪDAX,
REW 5909), base accolta da De
Gregorio, StGl 7, 1920, 250-1 (che
accetterebbe perfino NIHILUM), ma
foneticam. e semanticam. difficile; REW
5559 (e FaréSalv 5559) colloca la voce
sic. sotto MĪCA ‘briciolina’, ma non è
sicuro di questa base neppure per rum.
mic e cal. miccu (ammette che
potrebbero essere dal gr. μικ(κ)ός) e
riconosce
inesplicabile
n-);
AlessioLatinità 417 avanza dubitativam.
la base NĒQUAM, NĒQUUS REW 5895, i
cui continuatori hanno però sensi ben
diversi (cfr. anche FEW 7, 99b); rimane
l’ipotesi di Rohlfs, EWUG 1527 e poi
LGII 363, RohlfsSuppl 75, nonché
Maccarrone, AGl 27, 1935, 65-6,
secondo cui si tratta di una creazione
espressiva, parallela ad altre con i (tra le
tante sic. piccittu; it. piccolo, piccino; fr.
petit; sp. chico e lo stesso rum. mic).
Accettando, come pare necessario,
questa spiegazione si entra in una rete di
voci di vari dialetti più o meno collegate
foneticam. e semanticam., che non
seguiremo. Ricordiamo solo, tra gli
appellativi del maiale, corso nicciú
nicciú Falcucci 247 (e cfr. Maccarrone
l.c. 77 n208). Ricordo appena i dimin. e
vezz. sic. nichíttu 1868 Tr 646 (e poi
NicD 558 e TrVApp 19; in VS 3, 242
vale ‘voce di richiamo per il porco’, da
Tri e da AIS, che lo registra a
Mandanici; nicúddu 1888 TrVApp 19,
nicúzzu e nicuzzéḍḍu 1928 Pitrè 65, ma
solo per osservare che è sentito come
normale dimin. e vezz. nicaréḍḍu
(anche in VS 3, 241, dove troviamo n.
agg. ‘basso di statura’ da Adrano e
‘mingherlino’ da Raffadali, oltre a u n.
s.m. ‘il più piccolo dei fratelli’), in realtà
da → nícaru.
nichízza s.f. ‘l'esser piccolo’ (1868, Tr
646 e poi solo TrV 284).
nícaru agg. ‘v. nicu’ (1868, Tr 646 e
poi solo TrV 284 e VS 3, 241). È
ricordato da Avolio 32 e De Gregorio,
StGl 7, 1920, 250-1. Si noti il suff. atono
-aru con cui è formato questo der. (i
presunti paralleli di De Gregorio l.c.,
427 sono però s.), che suggerisce che sia
esistito anche un agg. *nículu, che
troverebbe riscontro nel regg. nículi pl.
‘dadi (ossi) per giocare’ NDDC 470 e
nell’abr. nículə, níquələ ‘piccolo’
52
Giammarco 3, 1331) e che induce ad
accettare il suggerimento di De Gregorio
l.c. di collocare qui ’nnúccaru agg. ‘si
dice di fanciullo che ha grazia piacevole’
1789 Pasq 3, 306 e poi fino a NicD 561
(dal 1844 Mort 2, 27 anche di animale),
núccuru ‘id.’ (1868, Tr 1153 e poi TrV
294), ’nnúccuru ‘id.’ (1877, TrV 287),
da
cui
’nnuccarátu
agg.
‘v.
’nzuccaratu’ (1868, Tr 650 e poi fino a
TrVApp 20 e VS 3, 280; anche
nnaccaratu e nnaccarïatu ib. 262),
nnúccaru agg. (VS 3, 280 anche da
Carini), nnúccuru ib. 281, núccuru ib.
339 (da Mac e TrV) e núccaru ib. (da
Av) ‘voce con cui ci si rivolge
vezzosamente ad un bambino o a una
bestiolina’. Tutte queste forme sono
probabilm. influenzate da zúccaru
‘zucchero’. Non inserirei qui (malgrado
Maccarrone l.c.) le forme sic. nícili e
simili (cfr. VS 3, 243).
nólitu1 s.m. ‘capriccio’ (1752), è
voce del tutto isolata, anche se ben
viva; probabilm. si tratta di una
coniazione colta, forse in ambiente
giuridico, sul lat. NOLO ‘non voglio’.
1752 n. ‘capriccio, voglia’ e ‘briga,
impiglio’ dBono 2, 503; il 1° senso poi
sempre, fino a Cav 133 e VS 3, 286,
anche da Altofonte e Marinèo; il 2° solo
da Tr 651 (‘seccatura’) a NicDUr 178 e
VS l.c., anche da Marineo (‘seccatura,
fastidio’), e da Marsala e Pantelleria
(‘piccolo
lavoro,
incarico
quasi
fastidioso’); al pl. ‘cianfrusaglie, cose
vecchie e ingombranti’ VS l.c. da Gàlati
Mamertino, Raccùia e Ucrìa (anche nella
forma nuóliti ib. 346, da Nìssoria);
‘dicerie, chiacchiere (da Tri, Canicattì e
S. Alfio); lagnanze, lamentele (antiq., da
Paternò); moine, smancerie (da Gioeni
200)’ ib. 286; ‘cavilli, pretesti’ VS l.c,
da Av e Tri (quest'ultimo senso anche
nelle forme nóriti ib. 287 da S.
Domenica Vittoria, nuóliti ib. 346 da
Augusta e Solarino, nuólichi ib. da
Centuripe). La forma ’nnólitu 1877 TrV
287 e poi NicDUr l.c e VS 3, 279;
núlitu 1990 ib. 344 (da Casteltermini),
nóritu ib. 287 (da Bronte e Francavilla
di Sicilia), forse nórti pl. ‘argomenti
inopportuni’ ib. 288 (da Pantelleria).
Cfr. piazz. nòl’t’ ‘capriccio, ghiribizzo’
(Roccella 179).
Avolio 103 e Gioeni 200 lo
considerano deverb. da collocare nella
classe di accáttitu, asséttitu, jéttitu; il
secondo dei due studiosi si preoccupa
della semantica e porta a parallelo lo sp.
dengue ‘svenevolezza, lezziosaggine,
smanceria femminile’, che non è però
dal lat. denegare, come affermava Diez
(cfr. DCECH 2, 442b). Che n. venga da
NOLO ‘non voglio’ è accolto da La Rosa
19 e Salvioni (in FaréSalv 5948a, come
cultismo), ma in verità tutti i s.m. della
serie atona in -itu corrispondono ad un v.
sic., che in questo caso invece non c’è
(nolo non ha continuatori rom., ma dà
solo luogo a qualche isolato prestito: cfr.
FEW 7, 174-5), AlessioLatinità 418
pensò dunque a NOTŬLA ‘piccolo
segno’, ipotizzando — oltre alla metatesi
— un passaggio da ‘voglia sulla pelle’ a
‘capriccio’ e portando un paio di
riscontri di rapporto semantico tra
‘desiderio’ e ‘voglia sulla pelle’. Ma non
c’è traccia di n. ‘voglia sulla pelle’, e lo
stesso Alessio deve essere stato così
poco convinto della sua idea che in Boll
6, 1962, 59 pensò che la nostra parola
rappresentasse
un’evoluzione
di
significato dell’it. ant. nòlito ‘nolo’ (sec.
XVI: DizMar 523; DEI 4, 2595), che
trova riscontro ancor oggi nel nap.
noleto ‘id.’ (Galiani 1, 266; D’Ambra
263) e nel corso nòlitu ‘id.’ (Falcucci
429). Alessio non dice (ma vi accennava
DizMar l.c.) che un sic. nólitu2 s.m.
‘nolo marittimo’ è esistito accanto a
nolu: 1492 Messina nolitu e lu nolitu
53
(CodDiplGiudei 3, 35 e 139); 1519:
«nolitu di passaiu: nauleum, vectura,
hippagium» (Scobar 70r); 1522: «nolito
di barca hoc naulum» (Vall 59); inoltre
n. ‘id.’ 1990 VS 3, 286 (da AA e Spat).
Cfr. anche cat. noli e nòlit ‘id.’ (dal
1259, nella 2ª forma: DCVB 7, 775b;
DECLlC 5, 951b); la voce sic. va
dunque inserita in un’area mediterranea
occ., che fa forse capo al cat.; la base è il
grecismo lat. NAULUM: VEI 691; DCVB
e DECLlC ll.cc.; DCECH 2, 915b.
Catalanismo è forse il sic. nolïaméntu
(1402 Maiorca: «la carta di lu n.» ‘il
contratto di nolo’ Curti 125, cfr. cat.
noliament ‘id.’ 1343). Non vedo, però,
come da ‘nolo marittimo’ si sia potuto
passare a ‘capriccio, voglia’. Bisogna
dunque abbandonare queste spiegazioni
e considerare che n. è limitato all’isola e
forse relativam. mod., molto diffuso e
comune ma probabilm. di livello
relativam. alto (è del Meli e della poesia
dial.): par dunque probabile che si tratti
di una coniazione colta (di ambiente
giuridico?) sul lat. NOLO (il n. è
l’atteggiamento di chi dice ‘non voglio
questo, non voglio quest’altro’) e
secondo uno schema accentuativo, ma
senza un reale rapporto morfologico con
l’affine classe di deverb. (tutt’al più
varrà il rapporto tra accattu: accáttitu e
NOLO: nólitu). L’origine colta mi sembra
confermata da der. nolitusu.
nulitïári v.intr. ‘perdere tempo in cose
da nulla (da Man e Marineo); accudire a
piccole faccende (da Pantelleria);
distrarsi, spassarsela (da Man)’ 1990,
VS
3,
344.
Anche
nurtïári
‘lavoricchiare, eseguire piccoli lavori
quasi per passatempo’ ib. 347 (da
Pantelleria).
nulitúsu agg. ‘capriccioso’ (1752,
dBono 2, 539 e poi fino a NicDUr 184 e
VS 3, 344, anche da Altofonte e
Marineo; ib. 346 nuritúśu ‘id.’, da
Bronte); ‘cavilloso, che trova sempre da
ridire’ ib. 344 (da Av e Gagliano
Castelferrato; si aggiunga Calamonaci
da RuffinoGiochi 93); anche nelle forme
nüalitúsu ib. 339 (da Ustica), e nutilúsu
ib. 348 (da Floridia); ‘di chi, con un
atteggiamento di scarsa serietà, va
diffondendo notizie che andrebbero
mantenute segrete’ ib. 344 (da Capizzi).
La forma nolitúsu è già nel 1752 in
dBono 2, 503 e torna fino a Tr 651 e VS
3, 286; essa sembra confermare la
coniazione colta recente. Cfr. FaréSalv
5948a.
’nsémmula avv. ‘insieme’ (e ’ns. cu
prep.) (sec. XIII ex., nella forma
insemble ad), dal lat. IN SĔMUL per
in simul, con evoluzione comune a
forme sparse in tutta l’Italia merid.,
più sporadiche a nord e normali
almeno nel gallorom., mentre in
Toscana ed in altre aree it., ed anche
in Sicilia, è presente un diverso
continuatore della stessa base, cioè il
tipo ┌insieme┐.
I poeti sic. del sec. XIII documentano
avv. insembra (Ruggeri d’Amici, PSs
2.2, v. 27; congetturato anche a 25.2, v.
121) e insembre (Galletto Pisano, PSs
26.1, v. 30); in Guido delle Colonne c’è
insembremente (PSs 4.4, v. 47). Sec.
XIII ex.: «faça buli jnsenble ad una
punta d’o[.]u» (PagliaroRicette 189);
ante 1322: «E videndusi insembla …
assectarusi e raiuniyarusi» (SGregoriu
39.24; per altri ess. di avv. cfr. gloss.) e
«Placidu cadiu allu lacu insembla cu lu
vaxellu» (ib. 47.13) e «et stando et
parlando insembli, lu dimoniu prise lu
fillu de lu villanu» (ib. 29.33; il ms. P ha
ensembla; la forma insiemi è nei mss.
tosc. e in una rubrica: cfr. gloss.; altre
occorrenze in CorpusArtesia); ante
1337: «si abrazau cum li soi cumpagnuni
et multu si alligraru videndusi insembla»
(Eneas 1.75; per altri ess. cfr. gloss.) e
«vulissi deu ki Eneas… fussi insembla
54
cum vui» (ib. 1.70; per altri ess. cfr.
gloss.); ante 1337: «la terza guerra,
c’appiru insembla da poy» (ValMax
1.1.148) e «li Veyentani [fugianu]
insembla cum loru» (ib. 1.6.101) e
«Marcellu… vulendu fari una cella
insembla a la Virtuti et a l’Unuri» (ib.
1.1.51; ma non è es. di i. a; altri ess. in
CorpusArtesia); 1346 Corleone: «la
perdita che trovamo intro la boteca
insieme con Anselmo» (Rinaldi 53.11);
1349 Caltagirone: «sia insembli iza cu
nui» (Rinaldi 21.2); 1351 Barcellona:
«tracteriamu
ansembla
cum
lu
serenissimi principi signuri re Petru»
(Rinaldi 85.9); 1358: «Et cumbattendu
insembli l’una parti et l’altra…» (Conq
115.1; per altri ess. cfr. gloss.) e
«abraczarusi insembuli» (ib. 50.22; cfr.
72.14) e «parlaru a fidancza insembla»
(ib. 76.12) e «intraru insembli cum illi a
la chitati di Missina» (ib. 9.16); 1368:
«lu quali vermi naxi di mali humuri
longu insembli tropu congregati»
(Mascalcia 576; altro es. a 579); 1370
Gaeta: «esti insembla cu nuy altri in
Monti Cassinu» (Rinaldi 87.29); 1373:
«in una nebula insembli esti acqua et
focu, tronu et lampu…» (SposMatteo
104.27; per altri ess. cfr. gloss.) e
«fammi insembli muriri cu lu to figlu»
(ib. 206.19; cfr. 302.25); 1380:
«naturalmenti li agnelli si amanu
insembli et fuginu li lupi» (Vitii 118.29;
per altri ess. cfr. gloss.; a 190.34
insembli cum); 1391? Girgenti: «eu
insembla cum frati Gerollmu» (Rinaldi
109.2); sec. XIV? Messina: «insembla»
avv. e «insembla cum li nutari»
(ConsMessina 274); 1405 Palermo: «vi
pregu ki vui insembuli cun Antoni nostru
iuvini chi aiati in pocu la cura» (Curti
76); 1411: «insembli cum vui»
(LettRegBianca 93); 1412: «tucti
insembli» (ib. 146) e «insembli cum lu
consiglu ki e iza» (ib. 172); 1415: «una
insembla cum li gintili homini» (ib.
236); 1416 Catania: «insembula cum una
altra persuna» (TestiQuattrocento 21);
1433
Palermo
«insembla»
avv.
(CodDiplGiudei 1, 416) e «insembla
cum li christiani» (ib. 416); 1445
Messina: «Insembra et cum loru
consigleri» (ASSO 2, 1905, 94); 1ª metà
sec. XV: «Hora vayanu tutti insembla a
lu paradisu» (Poesie g. 409d; cfr. ib.
816); 1450 ca.: «Quistu ha donatu
insembola cum quilla / Eclesia…» (ib. h.
103); 1463: «li iurati insembla cum altri
citatini» (Sciacca 301); 1471: «[foru]
finalmenti poy passionati / cun Ursula
insembli et cun l’altri beati» (Poesie
l.CLI.8); 1474 Palermo: «insembla cum
vui» (CodDiplGiudei 2, 159; ma ib. 160,
dallo stesso luogo e di ugual data «che
nulla
persuna
si
digia
insemi
congregari»); 1480: «intranbu insembli
presentati foru / a lu inperaturi» (Poesie
m. XI.5) e «tutti insembla» (ib.
CCXXV.3);
1497
Francofonte:
«actaccati tucti insembla» (Gaudioso
LXXXIII); sec. XV Randazzo: «insembi
cu loru consiglieri» (ASSO 2, 1905, 96);
1519: «insembla: simul una, pariter»
(Scobar 56v); 1520 ca.? Catania?: «tutti
insembuli cavalcaro et andarosindi in la
cità di Termini» (ASS 6, 1881, 115; ib.
117: «insembli con lo signor baruni di
Radusa»); sec. XV: «insembla cum li
ditti loro fratri oi soru» (ConsCastiglione
21; a 57 insembla con); numerose altre
occorrenze antiche in CorpusArtesia,
con le forme insembla, insembli,
insembuli, insemi (molto raro), con cun
se prep.; 1752 ’nsémmula ‘insieme’
senza distinzione tra avv. e prep. dBono
2, 514 e poi sempre fino a NicDUr 179;
la forma insémmula 1786 Pasq 2, 337;
’nzémmula è alla fine del '700 in Meli
1, 334 («Poi tuttu ’nzèmmula, /
pigghiannu ciatu»; qui però, 2, 681,
anche insemi) e poi 1868 Tr 661, poi
TrV 296, NicDUr 186 e VS 3, 362 s.; la
terminazione -i, dopo la fine del '400,
riappare nel 1964 ’nzémuli Cav 104 ed
è anche in VS 3, 363 (da Acireale e S.
55
Alfio); la loc. tuttu ’nsémmula è già nel
1754 in dBono 3, 647-8 (in VS 3, 362
tuttu nzèmmula ‘ad un tratto,
all'improvviso’, da Favara e Licata, ‘di
soprassalto’, da Comitini e Palermo,
‘tutto d'un fiato’, da Favignana); 1877
TrV 288 (ripreso poi da VS l.c.)
aggiunge ‘si dice anche a uomo alla
buona’ (?). Solo nel 1877 assiémmula
TrV 82, certam. influenzato da it.
assieme ‘id.’ (VS 1, 300 ha assémmula
da Av, assémula da Pitrè e assémila da
Canicattini Bagni). AIS 8, 1635 ha
nsémmula solo a Palermo e Vita,
nzémmula a Baucina, Villalba e S.
Biagio, ma anche anzémmula a S.
Michele (cfr. sopra; VS 1, 207 aggiunge
Gela e registra anziémmula (da Licodia
Eubea), anziémula (a Palazzolo
Acreide, da ALI), anziémuli (da
Vizzini), anziémila (da Ragusa),
anziémmila (da Pachino; qui anche
tutt'a. ‘ad un tratto, improvvisamente’) e
anzémula (da Mal); nsémula (a
Mascalucia)
e
zíemmuli
(a
Calascibetta); la galloit. Sperlinga ha
nsémbru. VS 3, 362 registra invece
nzémbra (da Bronte e Rodì, oltre che a
S. Marco di Milazzo, da ALI), ma
troviamo anche nzérma ib. 363 (da
Tripi) e anzémbra VS 1, 207 (da
Roccella Valdèmone). Cfr. inoltre
nzémula VS 3, 363 (in diverse località),
nziémila ib. 364 (da Ragusa),
nziémmula ib. (a Palermo, da AIS e
ALI), nzímula ib. 366 (da Enna),
nzúmmula ib. 379 (da Bivona),
nzémbula ib. 362 (da varie fonti scritte).
Cfr. aid. nsémula ‘insieme’ (Raccuglia
279). Ma bisogna aggiungere che è
rappresentato anche il tipo ┌insieme┐:
AIS l.c. ha nsiémi a Mistretta, nziémi a
Catenanuova, anziémi a Giarratana
(quest'ultimo anche in VS 1, 207). Per
nzemi e nzièmi si veda inoltre VS 3, 362
ss., oltre a inzemi nella loc. avv. nta l'i.
‘nello stesso tempo’ da Paternò (e cfr.
’nsèmu a Piazza: Roccella 179).
La c. cit. dell’AIS mostra che anche
nella penisola i tipi ┌nzémməla┐ e
┌
insieme┐ si alternano continuam.: il
primo appare ai P. 752, 735, 737, 708,
709, 682, 648, 637; i vocab.
confermano: cfr. cos. sett. nsémula, -ə,
nzémmula,
nzémməra,
nsémmera
‘insieme’ (NDDC 475); nap. nsemmora,
nz-, 'n zembra ‘id.’ (Galiani 1, 268;
D’Ambra 269; insembra è già frequente
in Masuccio alla fine del sec. XV:
GentilePostille
53);
Amaseno
nźémb(e)ra ‘id.’ (Vignoli 73); irp.
nzèmmora ‘id.’ (Nittoli 156); sal.
nzèməla, nsèmmələ ‘id.’ (VDS 2, 431);
fogg. (Carpino) nzémbra a ‘insieme a’
(Melillo 94); abr. nźíəmbrə ecc. ‘id.’
(Giammarco 3, 1364). In altre aree
(pugl.)
appare
il
denom.
(→
inzimmulari). Ma queste forme non
coprono un’area compatta, bensì si
mescolano al tipo ┌insieme┐, che sulla c.
cit. dell’AIS dà luogo anche, dal P. 618
fino al Piemonte, al Grigioni e all’Istria,
a forme con -l. Non diversa è la
situazione nei testi ant.: dal gloss. del
Monaci, il tipo ┌insieme┐ risulta tosc.
ma anche sett., mentre abbiamo
insenbre, imsembra in Gallo da Pisa e
Rugieri
d’Amici,
ensembre
nell’Orlandino franco-veneto, ensembori
nelle Storie di Troia e di Roma,
ensemmore nella Giostra delle Virtù (cfr.
anche Batt 8, 99c, con le forme
insembre, -a, -i, -o, insembla, -e, a volte
seguite da con).
La base è ovviam. il lat. IN SIMUL,
come già dice Pasq 3, 316 e poi Avolio
178. Più tardi essa è giustam. corretta in
*INSĔMUL (ma semul è attestato in
epigrafi: ErnoutMeillet 626), dato che le
forme rom., compresa la sic., postulano
ę (cfr. REW 4465; De Gregorio, StGl 7,
1920, 184). Ambedue gli studiosi ora cit.
affermano che il tipo ┌nzémmula┐ è di
origine gallorom.: infatti il fr. ha
ensemble ‘l'un avec l’altre; l’un en
même temps que l’altre’ fin dall’Alexis
56
(FEW 4, 716a), da cui proverebbero,
oltre alle forme it., lo sp. ant. e port. ant.
ensembra. In effetti anche DCECH 2,
640a dà le forme ensemble (dal 1212 in
Rioja e Aragona), -a (dal 1233 nel
León), -bra (dal 1212 a Toledo) come
gallicismo (non così però Machado 2,
408a, che considera patrimoniale port.
ensembra com, del 1301) ed ancora
Ambrosini 183 considera gallorom. la
voce sic.; ma già FEW 717a n6
osservava che non è necessario
considerare francesismi le forme it. ant.
e mod. (elencate ib. 716b) e mi pare
evidente che avesse ragione, perché
l’endemicità della forma e la sicura
popolarità tanto di ┌nzemmula┐ che di
┌
insieme┐
parlano
a
vantaggio
dell’origine indigena di entrambi.
Abbiamo a che fare con due esiti
divergenti di *INSEMUL: in un caso la -L
dilegua e la vocale di uscita è adattata
alla finale di avv. e cong. (come, dove,
mentre ecc.; non convince *INSĬMUL X
SĔMEL di Rohlfs, § 51), nell’altro la -L si
è conservata ed ha dato luogo ad una
vocale di appoggio (cfr. Lausberg, §
562), mentre -U- atona a volte è
conservata, a volte dilegua, con normali
sviluppi di -M’L- (cfr. gli esiti di
FLAMMULA [REW 3353] e TREMULARE
[REW 8879]). Già in lat. è attestato
simul cum prep. (cfr. ErnoutMeillet l.c.).
La diffusione dell’uso preposizionale ha
determinato
un
ipercaretterizzato
insemblaménti: ante 1322: «paria… ki
tuctu lu mundu insemblamenti fossi
recoltu in unu radiu de sule» (SGregoriu
72.15; ci sono pure le forme
insemblamente,
insemblimenti,
insemblementi: cfr. gloss.; a 98.27 il
senso pare ‘subitamente’ e non insieme);
altri ess. poi in ValMax 4.2.15; Eneas
(cfr. gloss.); Regole (cfr. gloss.);
SposMatteo (cfr. gloss.); Poesie (cfr.
gloss.); cfr. CorpusArtesia. Ma anche
questa forma ebbe uso preposizionale:
così già in Guido delle Colonne (Batt 8,
100a; Panvini 88) e poi ante 1322: «è
coniuncta la rasuni insenblamenti cu la
fidi» (SGregoriu 130.31; cfr. anche
114.18); poi Eneas 2.14; Regole 52.12.
Ambrosini 188 dice insemblamenti
gallicismo (cfr. ensemblament od nel
1165 ca.: FEW 4, 716b), ma anche
questo è tutt’altro che sicuro (cfr. it. ant.
insembramente in Batt l.c. e Monaci
142.34).
’nsimmulári v.tr. e rifl. ‘raccogliere,
riunire’: ante 1322: «pàrsili di vidiri
quasi tuctu lu mundu insimblatu sucta
unu radiu di suli» (SGregoriu 135.34; a
53.28 il ms. tosc. F ha insembiò per
aiunse di R); ante 1337: «et cussì si
insimblaru tucti killi li quali divianu
sagictari la dicta palumba» (Eneas 5.40;
cfr. G.5); sec. XV: «Di quilli chi senza
comandamentu di l’abbati si inzemblanu
cum li escomunicati» (Regole 83.9 e 11;
cfr. 102.27); 1471: «multi gran dompni
virgini cu amuri / cun ipsa si insimblaru
in quilla via» (Poesie l. CIX.4; per altri
ess. cfr. gloss.); 1500 ca.: «Essendo tutti
illà insemblati / cum lo cavaler beatu»
(VCorrado in Avolio 178); 1519:
«insimbulari: commisceo, coniungo,
coaduno»
(Scobar
56v);
1752
‘congiungere, mescolare’ dBono 2, 516
e poi fino a Mort 2, 32 e VS 3, 366
(anche da Vizzini); 1839 intr. ‘far
società’ Rocca 230 e poi fino a NicDUr
180 e VS l.c. (da Camastra); 1868 tr.
‘accoppiare (persone o cose)’ Tr 653 e
poi fino a NicDUr l.c. e VS l.c. (1857
AvolioCanti 49 specifica il rifl. come
‘propriam. dei coniugi che si rappaciano
dopo che sono stati in dissidio’ e così
poi TrV 288, fino a NicDUr l.c. e VS l.c.
‘id.’ (anche da Comiso, Giarratana e
Ragusa) e ‘andare a convivere more
uxorio’ (da Pantelleria); 1920 De
Gregorio, StGl 7, 184 specifica la forma
di Milazzo nzimbrári come ‘celebrare il
matrimonio in chiesa’, e così poi Pitrè
68, REW 4465 e VS 3, 365 s., dove
anche tr. ‘unire; mescolare’ (da Roccella
57
Valdèmone e Rodì), e rifl. ‘convivere
more uxorio’ (da Roccella Valdèmone);
1877 rifl. ‘accomunarsi’ TrV l.c. e poi
anche NicDUr l.c., dove anche tr.
‘accozzare’. Dal 1844 Mort l.c. anche
’nsimulári, che giunge a NicD 563; VS
3, 366 ha nzimulári v.tr. e rifl., nei suoi
significati principali e in diverse
localizzazioni,
nzimmulïári
v.tr.
‘mescolare, mischiare’ da Marsala, e
nzimulïárisi v. rifl. ‘mischiarsi, far lega
stretta’
(da
Pantelleria);
inoltre
nzemulári v.tr. ‘riunire, conglobare’ VS
3,
363
(da
Tri);
nzimilári
‘riappacificarsi, di coniugi che tornano a
vivere insieme dopo un periodo di
separazione’ ib. 366 (da Palazzolo
Acreide); nzimbulári ib. (da AA, Mal e
Spat); nzummulári ‘raggranellare’ ib.
379 (da Scicli e Vizzini). Cfr. piazz.
’ns’mulè ‘unire, congiungere insieme’
(Roccella 180). Cfr. Matera nźəmməlá
‘mettere insieme, raggranellare’ (Festa
275); sal. nzəmulá ‘raggruzzolare’ (VDS
2, 431); bit. nzemuèue ‘accumulare,
ammucchiare, ammassare; raggranellare,
racimolare’ (Saracino 299); rub. nzemuò
‘raggranellare,
raggruzzolare’
(Di
Terlizzi 145); molf. nzemelà ‘mettere
insieme, raccogliere accumulando’
(Scardigno 355). FaréSalv 4465
aggiunge
il
bell.
sambiar.
AlessioLatinità 313 colloca le nostre
voci sotto ASSIMILARE, chiaram.
inadeguato (ma REW 731 è in verità
*ASSĬMŬLARE; ancor peggio l’INSOMMOLARE (sic) di Saracino l.c.).
’nsimmulátu
agg.
‘accoppiato,
mischiato’ (1752, dBono 2, 516 fino Tr
654,
dove
anche
nsimuláto);
’nzimmuláto ‘id.; del contadino quando
coltiva un fondo a mezzadria’ 1990, VS
3, 366, il 2° senso a Agrigento (da ALI).
’nzimbráti agg. ‘di due, ad es. pastori,
uniti in società’ (1990, VS 3, 366, da
Roccella Valdèmone).
’nzimbráta s.f. ‘celebrazione del
matrimonio’, a Milazzo (1920, De
Gregorio, StGl 7, 184 e poi Pitrè 68,
ripreso da VS 3, 366).
assimmulári v.tr. e rifl. ‘riunire’:
1519: «assimbulari vide insemblari:
misceo» (Scobar 15r); 1785 id. Pasq 1,
155 (da Scobar); 1868 assimmulari ‘v.
insimmulari’ Tr 92, poi TrV 82 e VS 1,
302, dove anche: assimmarari ‘unire,
congiungere; attaccare’ (da Tri);
anzimmulári ‘raggranellare, mettere
insieme’ ib. 208 (da Ragusa e Vittoria);
assummulári ‘v. assimulári’ ib. 309.
Non pare esito diretto di ASSĬMŬLARE
(REW 731).
’ntamári v.intr. ‘essere come
sbalordito’ (sec. XIII ca., in forma
it.; 1519, il part. ’ntamatu come
agg.), prestito dal fr. ant. entamer
‘ferire’, con sviluppo semantico
locale, connesso con sporadiche voci
cal., nap., irp., sal. e abr. (ma anche
ancon.), per lo più col senso
‘magagnare, diventare internamente
ammalato (di vegetale)’.
In Pier delle Vigne (1a metà sec. XIII)
leggiamo: «mi passao lo core e m’à
’ntamato» (PSs 10.4, v. 6), inteso in
genere ‘ferito, leso’, ma potrebbe essere
‘sbalordito, incapace di fare alcunché’;
un anonimo ha: «già me no ’ntamo»
(PSs 49.54, v. 8), inteso ‘mi tormento’;
1519:
«intamatu
v.
spiridatu:
demoniacus» (Scobar 57r); 1752 ’nt.
‘allibire, sbalordire’ dBono 2, 522, poi
fino a TrV 289 e VS 3, 296 (da
Camastra, Casteltermini, Catenanuova,
Grammichele, Pantelleria e S. Caterina
Villarmosa); ib. 297 anche la forma
ntammári (da Bronte); ib. 296 aggiunge
i sensi ‘balzare di soprassalto sorpreso;
essere
congestionato
dal
pianto
convulso, di bambino’ (da Regalbuto);
‘spaventarsi’ (da Catenanuova e
Regalbuto), e ‘intristire, seccarsi, dei
58
germogli a causa del gelo’ (da Alia). Ib.
anche come v. ass. ‘della corrente d'aria
che, facendo raffreddare il sudore del
corpo, produce brividi di freddo’ (da
Ragusa); v.tr. ‘sbalordire, far rimanere
attonito (da Tri, Barrafranca e Mòdica);
spaventare (da Agira e Assoro); del
vento impetuoso: far disseccare le messi
(da Ragusa); impiagare, provocare una
piaga (da Tri); pestare, malmenare (da
Lìmina)’; v. rifl. ‘spaventarsi (da
Gagliano Castelferrato e Regalbuto);
provare dolore in qualche parte del
corpo in seguito ad un urto (da Vinci);
del frumento, essere infestato da erbe
parassite (da Mistretta)’. Il part.
’ntamátu, dopo Scobar, è in dBono 2,
522 ‘attonito, sbalordito’ e poi fino a
NicD 564 e VS l.c. (da Altofonte,
Assoro, Licata, S. Cataldo e Vizzini);
Mort 2, 34 a ‘balordo, stupido e che non
sappia ciò che ei si faccia’, ripreso nei
vocab. successivi, aggiunge ‘disattento,
sbadato’; in VS l.c. il part. riprende
anche gli altri sensi principali del verbo,
e in particolare vengono segnalate
numerose localizzazioni per il senso
‘che ha abitualmente l'aria melensa’. La
forma intamátu nel 1786 in Pasq 2, 340
e poi in Tr 496. – Cfr. piazz. ’ntamé intr.
‘stupidire’ e ntamà ‘stupido, sbadato’
(Roccella 180); aid. ntamè ‘intontire’
(Raccuglia 282).
Cfr. regg. ntamari tr. ‘viziare; fare
male
ad
alcuno
specialmente
nell’epidermide’, intr. ‘intorpidirsi’, rifl.
‘crescere a stento, imbozzacchire,
incatorzolire’, cos. id. intr. ‘aver gran
fame’ e regg. ntamatu ‘malsano,
magagnato, guasto; che cresce a stento’
(NDDC 477); nap. ntamare intr.
‘magagnare’ e ntamato ‘sano di fuori ed
ammalato di dentro’, ma anche
ntammare intr. ‘ammalarsi dentro, non
parendo da fuori; esser magagnato’
(D’Ambra 265; solo l’agg. in Andreoli
265; Batt 8, 165c ha intamare ‘intaccare,
compromettere,
danneggiare’
nel
Genovesi); irp. ntamà ‘cominciare’
(Nittoli
153);
Trevico
ndamà
‘manimettere (una salsiccia)’ e ‘spillare
(una botte)’ AIS 5, 1001 e N; Montella
ndamárisi ‘ammalarsi’ (ID 5, 1929,
123);
lecc.
ntamatu
‘sporcato,
macchiato’ (VDS 2, 421); abr. ndamarsə
‘magagnarsi, propr. degli alberi; deperire
in
salute
per
interno
malore’
(Giammarco
3,
1252);
Arcevia
ntamenasse ‘magagnarsi’ (REW 4478);
tosc. intamato ‘guasto’ (Cella 240 ).
La provenienza di sic. ’nt. dal fr.
entamer è già indicata da Vinci 172 e
TrV 289 ed è accolta più di recente da
De Gregorio, StGl 1, 1899, 106; Bezzola
222; DEI 1, 218; Rizzo, Boll 2, 1954,
130-1; Jost 62; NDDC 477 e VDS 2,
421. Non mancano però i dissenzienti.
Prescindendo dalle idee stravaganti di
Gioeni 201 (dal gr. θασμάζω ‘mi
meraviglio, stupisco’, cui accenna anche
De Gregorio l.c.; ma si vedano in LGII
178 i suoi continuatori otr.) e di De
Gregorio e Seybold, StGl 3, 1903, 243
(dall’ar. ṭamec ‘cupidigia, avidità,
eccessiva bramosia’;
contro cfr.
Scheegans, Z 29, 1905, 486), c’è l’idea
che le voci sic. ed it. merid. provengano
direttam. dalla base lat. del fr. entamer,
cioè da ĬNTAMĬNĀRE ‘macchiare’ (sec.
IV). Ne dubitava REW1 4478, certo
perché la distanza semantica è sensibile:
fr. entamer (sec. XII) è ‘blesser qn,
endommager, faire une fente profonde’ o
‘couper, enlever un premier morceau
d’une chose mangeable (p. ex. pain)’ o
‘commencer, entreprendre, engager (un
procès, une querelle, un ouvrage)’ (FEW
4, 731b-733a). Gli dette ragione Rohlfs,
ARom 9, 1925, 169, spiegando la
difficolatà fonetica con una ricostruzine
intam-inare → intam-are (così anche
Merlo, ID 5, 1929, 123n) ed invocando
il parallelo di it. merid. allumare <
LUMEN, cal. carmare < CARMEN, it.
colmare < CULMEN. È singolare che poi
Rohlfs abbia abbandonato o trascurato
59
questa spiegazione, accolta da REW3
4478 (e cfr. FaréSalv 4478), con la sola
eccezione dell’it. ant. (cioè verosimilm.
dei poeti sic. e del Villani), e da
Wartburg, FEW 4, 733b-734a n6 (ma il
cal. ntamari ‘guastare, viziare’ vi è
considerato gallicismo). In realtà non c’è
prova di -m’n- > -m- in Italia, come
illustra Rohlfs, § 268 (l'esito indigeno è nn-). Degli esempi di ARom l.c.,
colmare è denom. (cfr. DELI2 359c) e
gli altri due sono francesismi (→
aḍḍumari e lo stesso Rohlfs, § 268).
Gallicismo sarà dunque anche la voce
sic. ed it. merid., anche se si spinge fino
ad Arcevia (AN); il senso ‘ferire’ e
quello ‘cominciare’ non pongono
problemi, gli intr. ‘sbalordire’ (già ant.
‘struggersi’) e ‘magagnare’ sembrano
sviluppi indigeni di entamer ‘blesser’,
spesso usato riflessivam. (cfr. FEW l.c.,
731b-732a). In stretto rapporto con
l’area gallorom. è l’area it. sett. (dal
piem. alla Valtellina) di ┌intemná┐
‘intaccare’ e ‘cominciare’, per cui cfr.
Flechia, AGl 2, 1876, 357; Jaberg, RLiR
1, 1925, 143; FEW l.c. 733b.
ntamaméntu s.m. ‘attonitaggine,
sbalordimento’ (1752, dBono 2, 522 e
poi Pasq 3, 321 e Tr 654),
‘sbadataggine’ (1844, Mort 2, 34).
nuára s.f. ‘orto irriguo’ (1312, nella
forma lat. nohara; 1600 ca. nella
forma rom.), probabilm. relitto
dell’ar. nuwwār, generalm. ‘fiore;
germoglio’, ma che fu usato anche
per ‘orto irriguo’; è voce solo sic.
1312 Palermo: «milingianis, que
harabice nohara dicuntur» (Pandette
18); sec. XIV-XV Palermo noharia
‘jardin irrigué’ e noharia e nuara
‘potager irrigué’ BrescJardins 68 e 81; in
particolare nel 1429 a Palermo si parla
di una «zappa fluminis Ambleri et
Parci» in una noharia (ib. 65 n4); 1600
ca Palermo: «nelle noare fuori porta di
san Giorgio» (Diari 1, 133); 1752 n.
‘orto seminato di melloni d’acqua’ e
‘luogo dove son piantate zucche’ dBono
2, 533 e così fino a NicDUr 184,
RohlfsSuppl 76, VS 3, 339 e
GenchiCannizzaro 197, ma da Pasq 3,
331 in poi si chiarisce che n. è propriam.
‘orto irriguo’ e si specifica come n. di
muluni
o
di
cucuzzi
ecc.
DeGregorioSeybold, StGl 3, 1903, 243
ha n. ‘terreno coltivato a cocomeri’ e ‘le
piante dei cocomeri’; inoltre VS l.c. ci
restituisce anche i sensi ‘zucca, la
pianta’ (da Longi), e ‘primizia, frutto o
ortaggio maturato in anticipo e messo
sul mercato nei primi giorni di
produzione’ (da S. Vito Lo Capo), oltre
a ‘scampagnata nel periodo della
raccolta dei cocomeri’. La forma nuvára
1868 Tr 660, poi in AIS 7, 1354 N a
Vita, e in VS 3, 349 (anche da AA, Av e
Poggioreale). Inoltre noára Pasq 3, 307,
ripreso da VS 3, 285, e novála ib. 289
(da Man).
Amari 2, 512 n1 dà come base l’ar.
nuwwār e questa origine è ripetuta da
Picone 412; TrV 293; De GregorioSeybold l.c.. Ma già questi ultimi
osservavano che l’ar. nuwwār vale
‘fiore’ (così infatti Wehr 1009;
NallinoTraini 3, 1582; Dozy 2, 736a;
Harrell 105, e cfr. malt. nwar ‘fiore,
germoglio d’albero o di pianta; muffa’
Barbera 3, 852; Kalepin 227) e DAlCalv
279-80 escludendo che possa mai aver
significato
‘cocomero’,
sicché
preferiscono come base ar. noqrat
‘terreno basso, rotondo e di poca
estensione’ o forse nāchūrat, che
contiene l’idea di irrigazione (cfr. nuqra
‘pit, hollow, cavity, hole; depression’
Wehr 990; la seconda voce è nācūra
‘noria, Persian wheel’ ib. 979 e
NallinoTraini 3, 1531). Per quanto
AlessioProblemi 332 ammetta la
provenienza da nuwwār (seguendo
60
Lokotsch 1582) e BrescJardins 81 da
nācūra, sembra aver ragione Pellegrini
269 a considerare assai incerte le
proposte di etimi ar. (così anche
RohlfsSuppl 76) ed a preferire la base
lat. NOVUS, dalla quale come der. lo
ricavava già REW 5972, seguito da
Giuffrida 79. In verità al lat. aveva
pensato già Pasq 3, 331-2, ma
postulando NOVALIA; cfr. REW 5966
NOVĀLE, con continuatori it., logud.,
friul., ant. fr. ed iberorom. Ed a NOVĀLE
tornava AlessioLatinità 419, ipotizzando
cambio di suff. Nello stesso ambito si
muove poi Rohlfs, Boll 9, 1965, 93-4,
pensando a (terra) novaria, che potrebbe
essere elemento lat. autoctono se il
topon. Novara, galloit. da porre accanto
al piem. Novara, non inducesse a
considerare n. prestito galloit. (così
anche
RohlfsSuppl
76).
Già
AlessioProblemi l.c. staccava però
giustam. la nostra voce dal piem. Novara
< NOVĀRIA e dalla Novara sic., che nel
1308-10 è chiamata in lat. Naucaria,
Nucaria, Nugaria e quindi deve
provenire da NUCĀRIA ‘noceto’ (così
anche
Peri,
Bollettino
storicobibliografico subalpino 57, 1959, 278:
nei documenti dei sec. XII e XIII appare
come Nucara o Nogara, e come Naria o
Noara solo nelle copie di Pirro, da cui (o
da Amico 2, 229n) RohlfsSuppl l.c. ha
un sospetto Nohara del 1144).
Sorprende però che AlessioLexicon 195
contraddica ambedue i suoi precedenti
studi, riunendo il topon. sic. ed il piem. e
riportandoli, con n., a *NOVĀRIA.
Orbene, la distinzione da fare tra i due
topon. e tra questi ed il s. è confermata
dall’osservazione che n. è voce, a quanto
sembra, di area sic. occ. e non or.
(Novara è invece in provincia di
Messina). Un lat. (terra) *novaria non è
attestato né probabile, esistendo
vivissimo novalis, -e, né il cambio di
suff. è confortato da paralleli (-L- > -rin Sicilia è della zona galloit.: cfr.
Rohlfs, § 221) né comunque il senso
potrebbe essere lontano da quello di
novale ‘campo da poco messo a cultura’.
Le basi lat. proposte sono dunque
insoddisfacenti
morfologicam.
e
semanticam. Pare sia sfuggito che
Amari, di solito assai generico
nell’individuazione degli
arabismi,
faceva questa volta un riferimento
preciso, al Libro de agricultura del
sivigliano Ibn al-‘Awwām (sec. XII),
ediz. di Madrid, 1802, 2, 213. La parola
nuwwār ha dunque avuto lo stesso
valore della sic., anche se esso non è
stato registrato dai lessici e sarà stato
limitatam. diffuso, tanto da non esistere
oggi in malt.; è vero che in questo passo,
a differenza di altri, Ibn al-‘Awwām non
si riferisce esplicitam. alla Sicilia, ma
nulla esclude che questo sistema di
coltivazione irrigua, altrove da lui
descritto proprio come sic. (cfr.
AmariBibl 2, 305-6), vi avesse tal nome.
Che la parola sia ar. è confermato del
resto esplicitam. dall’attestazione pal.
del 1312, anche se sorprende che n.
fosse il nome ar. della melanzana (forse
‘fiore’ → ‘germoglio’ → ‘frutto in
genere’ → ‘melanzana’ → *‘orto di
melanzane’ → ‘orto irriguo in genere’).
nuaráta s.f. ‘sin. di nuara’ (1752,
dBono 2, 533 e poi solo Tr 657 e TrV
294, da qui ripreso in VS 3, 339). Esiste
pure la forma nuariáta (1868, Tr l.c. e
VS l.c.).
nuaráru s.m. ‘ortolano’ (1789, Pasq
3, 332 e poi sempre fino a NicD 567 e
VS 3, 339, anche da Casteltermini). Il
sinon. nuarótu è nel 1868 in Tr 657 e
poi solo in TrV 294, ripreso infine da
VS l.c.
núḍḍu agg. e pron. ‘nessuno’ (ante
1322, nella forma nullu), continua il
lat. NŪLLUS agg. ‘nessuno’, che già
in lat. tendeva a soppiantare nemo
61
pron. ‘id.’ e lo ha eliminato nella
Romània occ. e in Italia, salvo ad
essere poi confinato in aree
recessive, come la Sicilia, da
composti di unus (come ┌nessuno┐).
Già nel lat. della Sicilia med. nullus è
frequentem. usato come pron.: 1092
Messina: «et nullus unquam potestatem
habeat regimen ipsum impedire»
(DocEpNorm 8); 1182 Palermo:
«Sanctientes
ut
nullus
heredum
nostrorum aut regum succedentium
nobis… aliquid infringere aut evacuare
presumat» (ib. 177); 1200 (?) Palermo
(?): «ipsius loci quietem nullus audeat in
fututrum
temere
perturbare»
(HistDiplFrid 1, 44); 1224 Catania:
«nullus ejusdem judicialem causam
spernat» (ib. 2, 418), ecc. I poeti sic.
hanno nullo agg. e pron. ‘nessuno’ (ad
es. rispettivam. PSs 1.18, v. 11 e 1.7, v.
28). In sic. di nuḍḍu pron. cito pochi
esempi, integrabili dal CorpusArtesia:
ante 1322: «lu episcupu commandau…
ky chistu miraculu non lu divissi diri a
nullu» (SGregoriu 23.28; cfr. 24.2 e
46.14); ante 1337: «non culpari a nullu
nin ti lamintari» (Eneas 2.98; per altri
ess. cfr. gloss.); 1341 S. Lucia del Mela:
«Di li nostri… non fu tuccatu nullu»
(VNS 121); 1358: «nullu di li cavaleri si
havia misu in navi» (Conq 28.7; per altri
ess. cfr. gloss.); 1373: «senza fidi nullu
vivi beni» (SposMatteo 141.11; per altri
ess. cfr. gloss.); 1380: «lu orgoglusu
surgidatu cridi plui valiri ki nullu altru,
et potiri et sapiri plui ki nullu altru»
(Vitii 32. 12-3; per altri ess. cfr. gloss.);
2ª metà sec. XIV: «nullu non si poti
ammuchari davanti la fachi mia» (Boll
4, 1956, 45); 2ª metà del sec. XIV: «ki
nullu non presumma di tentari ad alcunu
per intrari a quista cumpangna ordinata a
processioni» (Regole 12.10; per altri
ess., anche posteriori, cfr. gloss.); 1417
Catania: «a nullu sia licitu dari li colpi ki
navissi ad alcunu altru» (ASSO 2, 1905,
221); 1420 Sciacca: «nullu paga duana
durante lu dittu terminu» (CapSciacca
9); 1423-28 Palermo: «nullu si arrisica
ad extrahiri et navigari frumenti»
(TestiQuattrocento 30); 1501: «nullu di
li populanti» (GattusoMezzojuso 37);
1519: «nullu v. ninxunu: nullus» (Scobar
71r); 1752 nuḍḍu ‘nessuno’ dBono 2,
535 e poi sempre fino a Cav 133 e VS 3,
343 (da S. Alfio; ib. anche nuḍḍru, da
Pantelleria); dal 1853 Mort2 593 attesta
don n. (poi anche zu n.) ‘dicesi a persona
vile e abietta, ad un disutile e inetto’, poi
fino a NicD 568 e VS l.c. (a Palermo,
Licata e S. Alfio); 1875 n. ô munnu
‘persona incalcolabile’ AvolioCanti 49.
Do adesso qualche attestazione dell’uso
come
agg.,
integrabile
con
CorpusArtesia: ante 1322: «Deu, alla
voluntate de lu quale nullu homu poti
resisteri» (SGregoriu 33.10; per altri ess.
cfr. gloss.); ante 1337: «lu vostru re
nulla potestati havi in lu meu regnu»
(Eneas 1.20; per altri ess. cfr. gloss.);
1351 Palermo: «nullu bankeri» (Rinaldi
12.8); 1358: «senza nullu periculu
passaru lu Faru di Missina» (Conq 13.1;
per altri ess. cfr. gloss.); 1373: «nullu
santu homu per iusticia mori»
(SposMatteo 25.10; per altri ess. cfr.
gloss.); 1380: «non est nullu peccatu sì
grandi ki Deu non perdoni» (Vitii 40.78;
per altri ess. cfr. gloss.); 2ª metà sec.
XIV: «qualuncata pirsuna… sparlassi y
murmurassi… contra di nullu frati ki in
la dicta religioni servissi…» (Regole
25.4; per altri ess. cfr. gloss.); 1426
Palermo: «di nullu tempu… a nullu
iocu…» (TestiQuattrocento 34); 1519:
«nullu modu: nequaquam, nullatenus»
(Scobar 71r); 1585: «per cui ma[i] nuddo
spasso mi pigliava» (Boll 3, 1955, 165,
ott. 103); poi nei vocab. (cfr. sopra; VS
l.c. documenta l'agg. a S. Alfio) e in
tutta l’isola in AIS 8, 1957 ‘non lo trovo
in nessun luogo’ (cfr. anche a-nnuḍḍṛa
parti ‘in nessun luogo’ VS l.c.). In AIS
62
l.c. ┌nuḍḍu┐ figura anche nei P. galloit.
ed infatti il piazz. ha nudd pron.
‘nessuno’ (Roccella 183) e l’aid. nudde
‘id.’ (Raccuglia 286).
Cfr. cal. nuḍḍu pron. e agg. ‘nessuno’
(NDDC 482; confermato da AIS l.c.);
irp. nuddo agg. ‘nulla, niente’ (Nittoli
155); sal. nuḍḍu pron. e agg. ‘nessuno’
(VDS 2, 428); molf. nudde pron. ‘nulla’
(Scardigno 353); abr. nullə agg.
‘nessuno’ (Giammarco 3, 1352, con un
es. del sec. XVI come pron.); Ascrea
(Rieti) nullo (ID 16, 1940, 108); it. ant.
nullo pron. e agg. ‘nessuno’ o ‘alcuno’
(sec. XIII: DEI 4, 2610); log. nuḍḍu agg.
‘nessuno’ (DES 2, 174b); fr. nul ‘aucun,
pas un’ (sec. IX: FEW 7, 232a); ant.
prov. nul ‘id.’ (ib.); cat. nul(l) agg. ‘que
es redueix a no-res; que no té cap
validesa o força legal’ (sec. XIII: DCVB
7, 807a; DECLlC 5, 942ab); sp. ant. nul
agg., mod. nulo ‘id.’ e pron. ‘ninguno’
(DCECH 4, 232ab); port. nulo agg.
(Machado 4, 226b).
La base è il lat. NŪLLUS agg.
‘nessuno’, che nel corso della storia del
lat. sostituì
sempre più nemo
(ErnoutMeillet 450; per il lat. med. cfr.
NGloss 1498-1501), eliminandolo nella
Ròmania occ. e in Italia, salvo a dovervi
affrontare la concorrenza di NE ĬPS’ŪNUS
(REW 5883; in sic. nixunu è già in
SGregoriu 67.18; poi 1325 Palermo,
nella forma nischunu, Rinaldi 3-12, etc.:
cfr. CorpusArtesia). In Italia oggi il
nostro tipo ha una distribuzione
geografica tipicam. arcaica. Cfr. REW
5992; AlessioLatinità 420; FEW 7,
233b; Rohlfs, § 498; FaréSalv 5992.
’nnunnáta s.f. ‘gelatina di pesciolini
minutissimi, latterini’ (1593, nella
forma nonnata, ma già prima [1537]
come agg.), voce sic., cal., lecc.,
nonché della Liguria occ. e di Nizza,
da un lat. *NON NATA ‘id.’, calcato
sul gr. ἀθύα ‘id.’.
Nei calmieri pal. del pesce del sec.
XVI abbiamo nunati e nonati (dal 1537),
nonnati (dal 1542), nunnati (dal 1545),
sempre apparentem. agg. di pixi, e infine
nonnáta (dal 1593) e nunnáta (dal
1595) s.f.: Rinaldi, BALM 16-17, 197475, 48; MaggiorePerni 575 aggiunge
«nunnata» e «nonnata di acqua dolce» a
Palermo nel 1614; 1752 nunnáta e
’nnunnáta ‘sorte di pesciolini’ dBono 2,
502; la 1ª delle due forme è poi sempre
fino a NicDUr 184, RohlfsSuppl 76 (da
S. Stefano di Camastra), nonché in Saitta
40, Traina, FIt 3, 1928, 288 (da S. Elia),
e VS 3, 345 (‘bianchetti, novellame di
sardine e acciughe’), che aggiunge
Favignana, Marineo e Patti, oltre a
Malfa; la 2ª forma è pure registrata fino
a NicDUr 178, Saitta l.c. e VS 3, 283 da
Altofonte, Barcellona Pozzo di Gotto e
Patti, oltre che a Palermo; 1844
‘moltitudine di fanciulli o oggetti
minuti’ Mort 2, 27, poi fino a NicD 561
e VS 3, 345 e ib. 283. Quanto al pesce,
Saitta l.c. spiega che il termine (come il
sinon. → muccu) indica una quantità di
pesci minutissimi, appena nati; non
specificato, si riferisce in genere a
sardine; altrimenti si dirà n. di anciova,
n. di cicireddu (cfr. anche AssenzaZool
74), ecc. Il nome è però passato anche a
singole specie: n. di lúvaru (o lúvuru o
lúuru) è ‘Latrunculus albo, ghiozzo
bianco’ (1902, Saitta 41; AssenzaZool
137, ripresi in VS 3, 345), ‘Atherina
hepsetus’ e ‘A. mocho’ (1908, Z 32,
243), ‘Aphya pellucida, rossetto’ (1934,
Lo Presti, FIt 9, 97, nel golfo di
Catania). Altre forme per il senso
generale di ‘bianchetti, novellame di
sardine, acciughe, ecc.’: nannáta s.f.
(1902, Saitta 40, poi VS 3, 10),
’nnannáta (1868, Tr 649, poi TrV 286,
Saitta l.c. e VS 3, 264, anche da Giardini
e S. Stefano di Briga); nunnátu s.m.
63
(1882, Avolio 77 e poi LaRosaAllotropi
288, ripreso da VS 3, 345); nannátu
(1990, VS 3, 10, da Acicastello e
Piedimonte Etneo); ’nnannátu (1839,
Rocca 228, poi Cav 132 e VS 3, 265, da
Castiglione di Sicilia, Catenanuova, e
nei dialetti etnei sud-or., da Tropea);
nnonnátu 1990 VS 3, 279 da Riposto.
Inoltre VS 3, 283 regista anche nnunnu
con lo stesso senso, da Siracusa. Cfr.
piazz. nunnada ‘neonata’ (Roccella
183).
Cfr. regg. (n)nannata e nonnata, cal.
centro-sett. nunnata e ninnata, catanz.
nennata ‘pesciolini di mare, nati da
poco, che si pescano in grandi masse
compatte’ (NDDC 450); lecc. nannata
‘insieme di pesci neonati’ (VDS 2, 383);
it. nonnati m. pl. ‘pesciolini nati da
poco’ (1875: DEI 4, 2598; sicilianismo;
nell’it. regionale di Sicilia abbiamo
catan. neonato e pal. neonata ‘id.’:
TropeaItaliano 63); lig. nonnati gionchi
‘piccoli pesci conosciuti col nome di
avannotti’ (Rossi 1, 120, senza
informare su data e localizzazione);
Nizza nounat m. ‘atherina minuta’
(FEW 7, 21a; da qui fr. mod. nonnat
‘id.’, dal 1681).
Ad Avolio 77 (che lo definisce ‘il
frutto di un parto immaturo’) sembrò
prestito dal cat. nonat, a Gioeni 200 dal
fr. nonnat; ambedue pensano certo ad
una base ultima lat. NON NATUS. Che si
tratti di un prestito non è però
verosimile: la voce cat. non si riferisce a
pesce (cfr. → ’nnunnatu) e quella fr. è
solo il riflesso di un termine dial. di area
limitata. Ciò però non toglie plausibilità
alla base NON NATUS, accolta infatti da
Barbier, RDR 3, 1911, 142 e poi da De
Gregorio,
StGl
7,
1920,
252.
L’alternativa *NEONATUS doveva però
circolare, perché nel 1907 è accettata da
LaRosaAllotropi 288, è implicita in
Salvioni, RIL 40, 1147 (la nostra voce
appare come es. di dileguo di i) ed è
argomentata solidam. da Schuchardt, Z
32, 1908, 242-4: *neonatus sarebbe
calcato sul gr. νεογέννηηος» e
passerebbe a *nonatus come nofitus da
neofitus e Todosius da Teodosius ecc.; si
distingue tra NON NATUS ‘nato per parto
cesareo’ (da cui le voci che citeremo
sotto → ’nnunnatu) e *NEONATUS, detto
di pesci (dall’uso come collettivo si
sviluppò quello come denominazione di
pesci specifici), che stabilisce un legame
Sicilia-Francia merid. che si ritrova per
minusa e nurrimi. Questa articolata
spiegazione passa a REW 5888;
AlessioLatinità 417, FEW 7, 22b n15
(pensa a grecismo lat. irradiato da
Marsiglia e dalla Sicilia); LGII 347 (e
anche nei più recenti vocab. di Rohlfs).
Se De Gregorio l.c. la rifiutava, era
perché in sic. non esiste il tipo
┌
neonato┐ (il che è vero, malgrado VEI
691; → nutricu) e perché essa non
spiega -nn-. Ben più convincente è il
rifiuto di Prati (DizMar 525; VEI l.c.),
che osserva come fin da dBono 2, 502
(da Spat) si fosse segnalata la
corrispondenza tra sic. n. ed it. afui, apui
‘id.’, dal gr. ἀθύα ‘id.’, da α privativo e
θύω ‘genero’, nome di vari pesciolini,
dovuto alla convinzione (ancora non
scomparsa) che essi nascessero da uova
formatesi da sé nelle acque e non per
generazione: la voce lat. è dunque un
calco sul greco, come aveva intuito
Schuchardt, ma la parola gr. suggerita da
Prati ha già il nostro senso, sicché
risolve il problema semantico del lat. e
del rom. Quest’ottima spiegazione è
stata poi ripresa da DEI 4, 2598 e
AlessioLexicon 281. Per il senso
‘moltitudine di fanciulli’ Schuchardt l.c.
244 ricordava che gr. ἀθερίνα era già
‘bande de gamins’.
annunnáta s.f. ‘v. nunnata’ (1785,
Pasq 1, 108, da Spat); torna solo in VS
1, 202 (da Agrigento), assieme al
traslato a. di iardinu ‘i germogli fiorali
di alcune cucurbitacee, che si usa
mangiare indorati e fritti [senso dovuto
64
all’uso di mangiare la n. di pesce sotto
forma di polpette]; i fiori ancora teneri
delle zucche’.
’nnunnátu agg. ‘v. annunnatu’ (1752,
dBono 2, 502, poi fino a Tr 651 e VS 3,
283); ‘da poco nato, neonato’ (1868, Tr
651 e poi fino a NicD 561); ‘si dice ad
uomo piccolo, rachitico’ (1875, Mac
212, poi TrV 287 e VS l.c., anche da
Floridia e Siracusa). La forma nunnátu
è nel 1789 in Pasq 3, 337, poi in Mort 2,
40, e ripresa da VS 3, 345. Il composto
annunnátu1 agg. ‘uovo nonnato’ è nel
1751 in dBono 1, 54v e poi in Pasq 1,
108 e VS 1, 202; 1907 ‘di persona, di
animale e di piante, specialmente di
tenera età, che non abbiano avuto un
regolare sviluppo e siano poco vegnenti
e deboli: stento’ LaRosaAllotropi 288.
Cfr. nap. nunnato ‘nonnato (di uova)’
(Andreoli 268) e nonnatura ‘feto
mostruoso, mal confermato’ (Galiani 1,
267; D’Ambra 264 ‘aborto’ e
‘omiciattolo inetto’); it. nonnato, in
carta d’agnello n. (Cavalca), carta non
nata (D’Alberti) e nonnata (Grazzini)
‘carta fatta di pelle di animale tratto dal
ventre della madre prima che sia
partorito’ (VEI l.c.); cat. nonat ‘no
nascut naturalment, sinó extret del
claustre matern mitjançant l’operació
cesària; vedell trobat dins el ventre
d’una vaca en mater-la; cuiro del dit
vedell’ (DCVB 7, 782a, ricordando il
cat. Sant Ramon Nonat; DECLlC 5,
905b); sp. nonato nel 1º senso cat. e
noñato nel 2º (DCECH 4, 203a). Per il
senso ‘rachitico’ cfr. già gr. ἀθσής
‘inetto; non favorito da natura; che non
vien su, non cresce’.
annunnátu s.m. ‘di agnello o capretto
estratto dal corpo della madre prima
della nascita’ (1977, VS 1, 202, da Av).
ovannunnáti s. ? ‘v. ovalora [‘organo
nella femmina, in cui son i germi quasi
delle uova: ovaia’]’ (1868, Tr 681 e poi
TrV 301, ripreso da VS 3, 420, che lo dà
come s.m. pl.).
nutricári v.tr. ‘allevare’ (ante 1322),
continua il lat. NŬTRĪCĀRE (la
quantità documentata nel lat. class.
era però NŪTRĬCĀRE), assieme a voci
sparsam. attestate in Italia, nel
retorom. e nel lad., in Sardegna, in
Francia merid. e nel macedorum.
Appare già, come tr., nei poeti sic.
(PSs 11.3, v. 27; 28.4, v. 44) e più
spesso nei siculo-toscani; il senso pare
‘nutrire’ piuttosto che ‘allevare’. Ante
1322: «li gallini chi mia matri nutrica, la
vulpe sì nde lle porta et maniasìlle»
(SGregoriu 28.2) e «a nnuy intraveni
comu ad unu garzuni ki naschissi e
nutricassisi in una obscura prisuni» (ib.
129.18; nonché passim: cfr. gloss.); ante
1337: «intrau in lu boscu et nutricavasi
di lacti di besti salvagi et di sucu di erbi»
(Eneas 11.56) e «li feri tigri ti nutricaru»
(ib. 4.45) e «qual pagura vi nutrica tanta
pigricia in li vostri animi?» (ib. 11.75;
per altri passi cfr. gloss.); ante 1337:
«Tanaquil, mullyeri di lu rigi Anciu, …
lu nutricau a modu de fillyu» (ValMax
1.4.9) e «Tulliu Hostilliu, standu a la
naka, nutricatu fu in casa di furitanu»
(ib. 3.4.3; per altri passi cfr. gloss.);
1358: «Custuma est di li Sarrachini di
nutricari palumbi cum furmentu
adulcatu cum meli» (Conq 71.4 e cfr. 10
e 13); 1368: «si illa [la cavalla] esti
troppu magra nun po nutricari lu figlu in
la ventri» (Mascalcia 570); 1373:
«cunchipiri cum peccatu et cum
virgogna, et parturiri cum doglia, et
nutricari cum fatica» (SposMatteo
352.2) e «et naxa unu di tali semini, et
nutrikisi di carni di homini» (ib. 343.17;
per altri passi cfr. gloss.); 1380: «[la
matri terra] porta et nutrica li porchelli
altrusì beni comu fa li rey» (Vitii 84.61)
e «quandu l’omu pensa… in quali peni
illu fu nutrigatu» ib. 112.14) e «lu
65
diavulu… guarda e nutrica tucti li
peccati spirituali» (ib. 32.9; per altri
passi cfr. gloss.); post 1455: «si…
obtegnu da lu eternu Deu unu figlolu, ti
promectu nutricarilu et crixirilu grandi»
(SVincenciu 10.5); sec. XV: «eu habitai
in quistu desertu, nutricatu di la
misiricordia di Deu» (SOnofrio 63, e cfr.
68); numerosi altri ess. antichi in
CorpusArtesia; 1519: «nutricari vide
criari: nutrio; nutricarisi: alesco;
nutricari: creasso; nutricatu per maniari:
altilis» (Scobar 71r); sec. XVI: «lo patri
et la matri poveri… di la substantia di li
figli si digianu nutricari et alimentari»
(ConsCastiglione 28); 1752 n. ‘allattare;
sostenere; allevare’ dBono 2, 542; il 1º
senso poi fino a Rocca 234 e VS 3, 348
(nuṭṛicari) da S. Alfio (anche nella
forma nnuṭṛicari ib. 285, da Bronte), il
2º ed il 3º fino a TrV 294 e VS 3, 348
(da Adrano, Corleone, Lèvanzo,
Linguaglossa, Pantelleria, Ragusa e S.
Alfio) sono comunque vivissimi almeno
nella Sicilia occ.; 1789 ‘fare i bachi da
seta’ Pasq 3, 338, poi solo in Rocca l.c.
e, nella forma nurricari, in VS 3, 346
(da Limina); 1844 ‘secondare alcuna
inclinazione, spesso non buona’ Mort 2,
41; non torna altrove, ma è spesso
presente negli ess. med. e sempre
possibile per traslato; cfr. in VS l.c.
anche ‘essere sincero, operare con
sincerità’ (da Meli e Av), e ‘non avere
colpe sulla coscienza, non avere nulla da
temere’ (da PitrèUsi e da Corleone);
1990 ‘curare, prendersi cura’ (ad es.
della casa) VS l.c. (da S. Alfio). Cfr.
piazz. nutr’chè ‘allevare, nutricare’
(Roccella 183).
Cfr. regg. e cos. nutricari ‘nutrire’,
regg. ‘allevare i bachi da seta’ (NDDC
483);
nap.
notrecare
‘nutrire,
alimentare’ (Galiani 1, 267; cfr.
D’Ambra 264); irp. notrecà ‘id.’ (Nittoli
152); lecc. nutricari ‘dar da mangiare,
nutrire’ (VDS 2, 429); abr. ant. (sec.
XIII) notricare ‘allevare con cura’
(Giammarco 3, 1347); it. ant. (sec. XIIIXIV) nutricare, no- ‘nutrire’ (DEI 4,
2604 e 2612); per la vasta area sett.
(Emilia, Lombardia, retorom. e lad.,
nonché gen. ant.) cfr. FEW 7, 247a;
prov. (sec. XIV) noirigar ‘nourrir;
élever (un enfant)’ (FEW 7, 246b); log.
ant. nutrikare, log. nurdigare, campid.
nurdiai ‘nutrire’ (DES 2, 179b);
macedorum.
ntric
‘nourrir
un
nourrisson’ (Papahagi 783).
La base è senza dubbio il lat.
NŪTRĬCĀRE ‘nutrire (in particolare il
lattante)’, ant. ma raro in epoca imp.:
cfr. REW 6002 (e FaréSalv 6002);
AlessioLatinità 420; DEI 4, 2612; FEW
7, 247a. Le forme rom. postulano NŬ(così REW l.c., AlessioLatinità l.c., DEI
l.c., FEW l.c.), come i continuatori rom.
di nūtrīx non presuppongono Ū, come
dovrebbero, ma Ŭ; che nel nostro v. si
tratti di influsso di nutrix è confermato
dalla quantità della i, lunga come in
nutrix e non breve. Insomma, il lat.
attesta NŪTRĬCO (per la cui origine cfr.
ErnoutMeillet 453), ma le lingue rom.
necessitano di NŬTRĪCO (cfr. anche
Alessio, LN 27, 1966, 12-3).
nutricátu, oltre che come part. pass.,
è documentato come s.m. ‘lattante’:
1373: «tucta la substancia di lu cibu non
intra in tucta la substancia di lu
nutricatu» (SposMatteo 343.24 e cfr. 26
e 28); 1522: «nutricato. hic alumnus»
(Vall 60); 1752 n. ‘v. nutricu’ dBono 2,
542 e poi fino a Rocca 234; lo stesso
valore ha il part. nella Francia merid.
(FEW 7, 246b). Dal 1752 al 1839 (ib.) n.
è attestato anche ‘il far nascere e nutrire
i bigatti ad effetto di averne la seta’ (cfr.
n. ‘allevamento di bachi da seta’ VS 3,
348 (da AA e Spat). Cfr. Fantina
nutrigadu ‘baco da seta’ (AIS 6, 1160),
e VS l.c. nuṭṛicatu ‘id.’ (da Can,
Castiglione di Sicilia, Francavilla di
Sicilia, Frazzanò e Pagliara); cal.
nutricatu ‘allevamento dei bachi da seta’
e catanz. ‘baco da seta’ (NDDC 483).
66
Per l'agg., VS l.c. registra n. ‘nutrito;
allevato’ (a partire da Mal e dBono) e
‘grassoccio’ (da Salemi). Il dimin.
nutricatízzu agg. ‘grosso, corpulento’
1868 Tr 659.
nutricáta s.f. ‘il nutrire’ (1868, Tr
659). Cfr. cal. centro-merid. nutricata
‘allevamento dei bachi da seta’ (NDDC
483).
nutrícu s.m. ‘quegli che è allevato,
lattante’ (1752, dBono 2, 542 e poi
sempre fino a NicD 569 e VS 3, 348 [è
infatti tuttora voce generale, almeno
nella Sicilia occ.], con la specificazione
in Pasq 3, 338 e Rocca 234 che ‘si dice
anche delle bestie’, senso ripreso in VS
l.c.); 1990 ‘bambino fino a due anni’ VS
l.c. (da Nàpola); 1844 ‘ognuno che ci
tiene esercitati a qualche cosa, ma non
senza un certo peso e nostro malgrado’
Mort 2, 41 e poi fino a NicD l.c., da qui
in VS l.c. Cfr. piazz. nutricu ‘bambino,
lattante’ (Roccella 183). Deverb. di
nutricari (cfr. De Gregorio, StGl 7,
1920, 56).
nuṭṛicúni s.m. ‘neonato, lattante’
(1990 VS 3, 348, da Marsala).
nutricaméntu s.m.: nutricamento
‘nutrimento’ è in Giacomo da Lentini
(PSs 1.19c, v. 4). Ante 1337:
«efficacissimu
et
copiosissimu
nutricamentu di virtuti esti lu hunuri»
(ValMax 2.1.578; altri ess. in
CorpusArtesia); 1373: «lu corpu di
Cristu passa et smalticxissi in nostru
nutricamentu?» (SposMatteo 126.20;
cfr. 343.15); 1380: «in quistu pani havi
plui di virtuti et di beni et di
nutricamentu ki l’omu non porria
pensari nì diri» (Vitii 98.96); ultimo
quarto sec. XV: «la sollecitudini di lu
nutricamentu di li figloli» (EpEustochiu
6.6); dal 1752 n. è attestato per
‘allattamento, allevamento; educazione’
dBono 2, 542 e poi fino a Tr 659. I
paralleli ant. (regola bologn. del 1281 e
Disticha Catonis ven. e tosc.: Monaci
138.52, 66.29 e 66t.70; cfr. anche DEI 4,
2604 e 2612) e mod. (nap. notrecamento
Galiani 1, 267, cfr. D’Ambra 264) hanno
sempre il valore del sic. ant.
nutricatúra s.f. ‘educazione’: ante
1322: «alcuni garzuni su cussì
malamenti da li parenti nutricati, ki pir
mali nutricatura loru esti chusa la porta
de vita eterna» (SGregoriu 144.13).
nutricatúri s.m. ‘alimentatore’: ante
1322: «Sanctu Petru, pasture e
nutricature nostru» (SGregoriu 109.1);
1752 n. ‘nutricatore, allevatore’ dBono
2, 542; non torna altrove. Cfr. it. ant.
nutricatore, no- (sec. XIV: DEI 4, 2604
e 2612).
nutricábili agg. ‘atto a nutrire’: 1380:
«comu est [la vidanda] plui nutricabili,
plui dichi l’omu ki illa est substanciosa»
(Vitii 98.95). Qui anche il sinon.
nutrikívuli: «tri cosi sunu necessarii a
tucti li cosci ki in terra crissinu: terra
convenivuli, humuri nutrikivuli et caluri
rasunivuli» (ib. 87. 25).
’nzaiári1 v.tr. e intr. ‘provare
(specialmente vestiti)’ (1411), voce
soltanto sic., cal, nap. e abr.,
probabilm. prestito dallo sp. ensayar
‘id.’, a sua volta formato sul lat.
EXAGIUM
‘tentativo,
prova’,
modificato all’inizio con il prefisso
in-.
1411: «non insayati la cosa
impossibili» (LettRegBianca 112); 1417
Catania: «li iocaturi dijanu insayari tri
colpi» (ASSO 2, 1905, 221); 1519:
«insayarisi: meditor, similo, exerceo;
insayari lu passu: vador» (Scobar 56v);
1736 ’nzaiari ‘cercare, tentare’ Musmeci
98; 1752 ’nsaiari tr. ‘provare,
assaggiare, sperimentare’ e intr. ‘tentare,
provarsi’ (dBono 2, 513); il valore tr.
ritorna sempre fino a NicDUr 179, a
volte specificato per i vestiti, quello intr.
solo in Pasq 3, 314; solo Pasq l.c. e
67
Rocca 229 hanno il rifl. ‘far prova se
stiano bene su la persona (vestiti,
scarpe)’. Cfr. ALI 3, 286, in vari punti.
La forma ’nzaiari, dopo Musmeci, è nel
1752 in dBono 2, 544 e poi sempre fino
a Cav 103 e VS 3, 355 (da Pantelleria),
da Tr 661 considerata forma principale;
il significato è quello tr., che solo Tr l.c.
e VS 3, 356 (da Baucina) estendono
anche ad ‘assaggiare’, inoltre VS l.c. ha
‘usare per la prima volta’ (da Enna,
Maletto e S. Alfio), n. m-picciutteḍḍṛu
(da Pantelleria) o n. m-picciriḍḍu (da
Centuripe) ‘mettere un bambino sul
vasino per abituarlo a farci la cacca o la
pipì’, n. a-bbíviri ‘provare a far bere un
animale’ (da Pantelleria), n. l'acqua â
vacca ‘provare a far bere dell'acqua alla
vacca’; il rifl. è in Tr l.c., Mac 216, TrV
295 e VS l.c., dove vale ‘provarsi un
abito o un paio di scarpe (da S. Alfio);
indossare un vestito per la prima volta
(da Av, Tri, Casteltermini, Centuripe,
Maletto, Piedimonte Etneo, S. Alfio e
Villarosa)’. AIS 2, 263 ‘te la prova’ ha il
nostro tipo in tutta l’isola, tranne Naro,
Giarratana, Bronte e Mandanici, che
hanno ┌pruvari┐, ma contro una
prevalenza di nz- abbiamo nź- a Villalba
e S. Michele. In gergo ’nzajari ‘tastare
con le dita nelle tasche o provare una
chiave falsa nella serratura’ (Calvaruso
124, ripreso in VS l.c.). La forma
insaiári, dopo gli es. ant., è solo nel
1786 in Pasq 2, 336. Documentazione
aggiuntiva in Michel 402-403 – Altra
cosa è nzaiári2 v.tr. ‘inalverare,
incanalare’ (da Tri): n. n'àcqua
‘incanalare un corso d'acqua’, inoltre,
‘tentare il guado di un corso d'acqua’ e
‘fig. imbrattare, insudiciare’ VS 3, 356,
per cui → sáia. Tornando a ’nzaiari1,
delle colonie galloit., in AIS l.c., S.
Fratello, Fantina e Sperlinga hanno
questo tipo, Aidone invece pruva
(Raccuglia 278 ha però nsaiè); cfr.
piazz. ’nzajè ‘provare, cimentare,
esperimentare’ (Roccella 184).
Cfr. regg. nsajari ‘mettere in
movimento, eccitare’ e cos. nsajá ‘far
saggio, far esperimento, istruire’ (NDDC
475); nap. nzajare ‘aizzare, incitare’
(D’Ambra 268); abr. nzajá ‘indettare’
(Giammarco 3, 1357, come non comune;
in realtà è voce passata da Pansa a
Finamore e a Giammarco, del cui
significato è lecito dubitare); log. e
camp. insayare (DES 1, 636).
La spiegazione dallo sp. ensayar è
attribuita da Pasq 3, 314 a Vinci (in
realtà Vinci 172 rinvia da nsajari a saja
‘textile laneum tenue’, non certo a saja
‘rivus’) e torna in TrV 295, mentre
Sacco 1, 296 non dubita che si tratti di
prestito dal fr. essayer; De Gregorio,
StGl 7, 1920, 118-9 rifiuta il prestito e
pensa che si tratti di denom. dall’ant. sic.
saju < EXAGIUM, base sotto la quale la
nostra voce appare in FaréSalv 2932 (da
Merlo, ID 5, 1929, 127 n10, che però la
diceva manifestam. dallo sp.). In realtà il
lat. EXAGIUM ‘tentativo, prova’ ha avuto
modificata l’iniziale in tutte le lingue
rom. (cfr. FEW 3, 257a) ed ha fatto
ricorso ad in- sia nel fr. ant. ensaier (ib.
256b) che nel prov. ant. ensaiar (ib.),
cat. id. (DCUB 5, 22b), sp. ensayar (dal
Cid: DCECH 2, 640b), port. ensaiar
(sec. XVI: Machado 2, 407b), sempre
‘provare’. La forma è ed è stata vitale,
però, solo in sp. e la distribuzione dei
pochi corrispondenti it. non si oppone ad
un prestito dalla Spagna (così anche
Michel 403), prestito che per la sua data
di apparizione in Sicilia sarebbe fra i più
antichi. Si aggiunga che sp. ensayar non
solo si dice in particolare degli abiti, ma
può spiegare regg. e nap. ‘aizzare’
attraverso
‘acometer,
atacar’
e
‘esforzarse en la lucha’ (EncId 2,
1739b). Foneticam. invece nulla esclude
un’origine indigena, mentre il sic. med.
saiu ‘saggio’ (cfr. ad es. i gloss. di S.
Gregoriu e SposMatteo) sarà piuttosto
[sağğu] che [saiu] e quindi un
toscanismo: non a caso in ambedue i
68
testi cit. alterna con saviu e col pl.
sag(g)i. Pertanto la trafila cui aveva
pensato De Gregorio è improponibile.
’nzaiáta s.f. ‘la prova che si fa in
dosso di un abito prima che si finisca’
(1868, Tr 661, poi Mac 216, TrV 295 e
VS 3, 356); 1883 ’nsaiáta ‘id.’ NicD
562 e poi NicDUr 179. Nel 1889
PitrèUsi 4, 334-5 (poi Pitrè 68) registra
da Roccapalumba ’nzaiatéḍḍa s.f.
‘pezzettino di pasta, spiccato dalla
vastedda, cioè dal pane pronto per
infornarsi, e si mette verso la bocca del
forno per vedere se prende colore di
cottura’, ripreso da VS l.c. che registra
anche nzaiatureḍḍa ‘id.’ (da Marineo).
’nzaiaméntu
s.m.:
1519:
«insayamentu: simulacrum; i. idem [lu
passu]: vadatio» (Scobar 56v); 1789
’nsaiaméntu ‘prova’ Pasq 3, 314 e poi
fino a Mort 2, 31; 1868 ’nz. ‘il provare’
Tr 661.
’nsáia avv. ‘abbondante, a ufo’ (1868,
Tr 653 e poi TrV 288, ripreso in VS 3,
355 nella forma ’nzáia1, con rimando a
saia).
nzáia2 s.f. ‘prova che i pescatori fanno
in un tratto di mare, calando da trenta a
quaranta metri di rete, per assicurarsi
della presenza dei pesci’ (1990, VS 3,
355, da Licata).
Non vanno qui nzaiaréḍḍa s.f.
‘fettuccia, nastrino, ecc.’, nzaréḍa,
nzaréḍḍa; nzaiariḍḍáru s.m. ‘venditore
di fettucce, nastri e sim.’ (VS 3; in VS 5
nelle
forme
źźaiaréḍḍa
e
źźaiariḍḍáru), in VS 4, 325 inoltre sáia
s.f. ‘panno di lana leggero e sottile’.
Conviene trattare qui anche la famiglia
di assaiári, etimologicam. legata a
quella di ’nzaiari. Non è sicuro che a.
appaia ante 1322 nel SGregoriu: ib.
89.26 «lu re assayau Pirosa secte anni»
si tratta certo del lat. obsedit (le var.
sono asighayu e asseggiò), ma a 166.1
abbiamo: «è cosa justa... ki li animi li
quali in kista vita su invultati in peccatu
carnali, in killa pena sianu assaiati de
fituri penali», e qui il senso è dubbio
(non ci sono var.); 1354: «quandu a tortu
è firutu, non assaya sua raxuni» (Poesie
a.108); 1368: «assaiandu lu meli l’altra
fiata [lu cavallu] vi lassa mictiri plui
vulinteri lu frenu» (Mascalcia 573);
parecchi altri esempi ant., nelle forme
assagiari,
(as)saiari,
assiari
in
CorpusArtesia; 1519: «assaiari oi
insaiari: periculum facere; assayari:
experior, probo, inito; assayarisi per
guerra: meditor, simulo pugnam»
(Scobar 14v); 1751 assaiarisi ‘v. ardiri’
dBono 1, 84, senso che torna in Mort. 1,
85, Tr 91 e TrV 81, mentre Pasq 1, 153,
Rocca 45 e Mac 37 hanno ‘arrischiarsi’,
che è infine in VS 1, 297 (anche in
Floridia, Modica e S. Caterina
Villarmosa), il quale aggiunge a. troppu
‘prendersi eccessiva confidenza’ (da
Carini). Nel 1785 si documenta il tr.
‘aizzare (i cani)’ Pasq 1, 153, poi fino a
Cav. 34 e VS l.c. (anche da Paternò, S.
Michele di Ganzaria e Partanna); qui
anche (da Catania) ‘assalire, aggredire,
ad es. del cane’, nonché ‘provare,
tentare’ e ‘saggiare se la cavalla è
gravida’ (questo da Modica); AIS 6,
1102 ‘aizzare’ ha assaiari a Baucina,
Mascalucia e Giarratana. Solo Tr 1132
ha l’uso assoluto ‘essere troppo vivo (di
colore)’ (cfr. TrV 81, NicD 89 e VS 1,
297 assaiatu ‘che avventa (di colore)’).
Cfr. catanz. assajare ‘eguagliare,
preparare una tavola (del falegname)’
(NDDC 102); nap. id. ‘aizzare, stizzire,
incitare’ (D’Ambra 69); Muro assajà
‘provare, saggiare’ (Mennona 28); brind.
assajà ‘provare’ (VDS 1, 62); rub.
assaiò
‘frastornare,
confondere’
(JurilliTedone 85);
molf.
assaià
‘saggiare,
comprovare,
provare’
(Scardigno 66).
Gioeni 38-9, come ora VS l.c.,
distingue tra assaiarisi ‘ardirsi’ e a.
‘incitare’ ed attribuisce il 1° al lat.
EXAGIUM come denom. di assaiu; lo
69
stesso sembrano fare De Gregorio, StGl
7, 1920, 119 e AlessioLatinità 350
(senza accenni ad a. ‘incitare’). In effetti
l’iniziale di EXAGIUM (cfr. sopra) ha
subito anche la modifica in ad-: così
nell’ant. picc. assaiier ‘essayer’, ant.
prov. asajar ‘id.’ (FEW 3, 256b, con
altre forme ant. e mod.), cat. assajar ant.
‘sotmetre a prova’ e ‘arriscar-se’, e più
tardi ‘aplicar o posar en execuciò
provisòriament una cosa per venre si
avvirà bé’ e ‘posar a algù un vestit o
altra peça d’indument, per venre si li
està bé’ (DCVB 2, 74b; cfr. DECLlC 1,
454a, dal sec. XIII), cast. ant. (sec. XVXVI) asayar ‘experimentar, probar;
intentar, procurar’ (EncId 1, 520a),
nonché naturalm. it. assaggiare ‘provare
il sapore di un cibo o di una bevanda’
(fine del sec. XIII) e solo secondariam.
‘sottoporre a saggio, saggiare; tentare,
sperimentare, provare’ e ‘tentare,
sperimentare le forze del nemico’ (dal
'300 al '500) (DELI2 135b; Batt 1, 744c).
Quest’ultimo ha un sicuro riflesso
nell’assaggiári
v.tr.
‘assaggiare,
sperimentare’ di Vitii ed una pronuncia
[ğğ] può nascondersi dietro qualche
grafia ant.; ma l’assenza in assaiari del
senso principale della voce it. (senso che
troviamo solo nei volgarizzamenti ant.) e
viceversa la presenza e vitalità in cat. del
senso ‘arrischiarsi’ mi fanno propendere
per il prestito della voce sic. dal cat. (del
resto questo tipo lessicale è vitale solo in
Italia e in Catalogna). Quanto al senso
‘aizzare’, Gioeni l.c. pensava o al fr.
sayer o a metatesi di aissare, anch’esso
ritenuto francesismo. Un sic. aissári v.tr.
‘aizzare’ esiste ma è estremam. raro
(1977, VS 1, 101, da Mal), mentre pare
più vitale assïári ‘id.’ (1751, dBono 1,
85 con rinvio a assugghiari ‘aizzare il
cane’ ib. 87, mentre Pasq 1, 154 rinvia
ad assajari [così poi Rocca 45; Tr 92;
TrV 81; Cav 34; VS 1, 300, anche etneo
sud-or.] ed a 157 dà assugghiari sempre
col senso ‘aizzare’ [dal DizMsAnt],
mentre poi Tr 94 e TrV 82 lo registrano
con rinvio al solito assaiari [per
completare l’informazione dirò che AIS
l.c. ha assugghiari a Vita, assuglari a
Villalba, S. Biagio e Naro]). Se aissari e
assiari sono l’uno metatesi dell’altro, il
rapporto più probabile è assiari →
aissari, data la frequenza del trasporto a
sinistra della i (cfr. MR 5, 1978, 436).
Che si tratti di francesismo è
improbabile: per l’incerta origine di
aizzare cfr. DELI2 76b; il fr. ant. hicier
‘exciter’, per altro raro (cfr. FEW 16,
210a), non ha in nessuna forma un
vocalismo adeguato al suo presunto
continuatore it.; il prov. mod. ahissá
‘id.’ non si vede come possa essere
giunto in Sicilia; quanto infine a saier
‘essayer, éprouver; goûter’, si tratta
proprio di un denom. di sai ‘essai’ <
EXAGIUM (FEW 3, 256b), cioè di un
gemello di assaiier, ancor meno
adeguato a spiegare la voce sic.
Insomma, non si vede possibilità né
ragione di distinguere due sic. assaiari
(‘provare’ e ‘aizzare’) con due storie
diverse: il secondo senso sarà
semplicem. uno sviluppo di ‘mettere alla
prova (i cani nel combattimento)’; né la
voce sic. pare separabile da quella cat.
Quanto ad assïari, Salvioni (RIL 43,
1910, 616) ipotizzava un possibile, ma
tutt’altro che sicuro, parallelo assaiari
→ assiari = favaiana → faviana =
*firraiolu → firriolu. La spiegazione mi
pare dubbia e ritengo questo v. di etimo
ancora sconosciuto.
assáiu s.m. ‘prova, cimento’ (ultimo
quarto sec. XV: «di li vidandi et di li
chivi si fa assaiu… per vidiri si sunnu
cotti et conduti a rraxuni» (EpEustochiu
70.21); 1868, Tr 91 e poi TrV 81 e VS 1,
297 ‘rischio’). Gioeni 38 lo ricavava da
EXAGIUM ‘prova’, alle parallele voci
rom., ed è stato seguito da
AlessioLatinità 350; Rohlfs, Boll 9,
1965, 78 rifiuta l’origine lat. diretta e
pensa al fr. essai (semmai bisognerebbe
70
riferirsi ad ant. picc. assai ‘essai’, FEW
3, 256a). La tarda documentazione e la
debole vitalità della voce sic. fanno
preferire la spiegazione come semplice
deverb.
assaiaméntu
s.m.:
1519:
«assayamentu idem [per guerra]:
simulacrum pugne, meditation» (Scobar
14v); 1751 a. ‘v. ardimentu’ dBono 1,
84; 1868 a. ‘ardimento’ Tr 91.
assaiatúri s.m. ‘v. arditu’ (1751,
dBono 1, 84); 1785 ‘assalitore’ Pasq 1,
153; 1839 ‘aizzatore’ Rocca 45.
’nzirtári (3a sing. ind. pres. ’nzerta)
v.tr. e intr. ‘indovinare; colpire’
(1519, nella forma incertari e in
ambedue i sensi), voce di area sic.,
cal. e sarda, prestito dal cat. encertar
‘id.’, a sua volta der. di cat. cert
‘certo’.
1519: «incertari la mira: figo signum;
i. a casu: casu tango» (Scobar 53v); 1555
Messina: «vedendo li habia incertato il
valore di lo dito anello» (ASS 39, 1914,
360); 1600 ca. Palermo: «detta
scopettata non l’inzirtao» (Diari 1, 87);
1a metà sec. XVII Palermo: «tirandoli
due scopettonati, non lu insirtâro» (Diari
2, 30); 1736 ’nzirtari giustu ‘colpire nel
segno’ Musmeci 71; fine sec. XVIII
Catania: «iu ’nzertu roccu dicu»
(Tempio 25); fine sec. XVIII Palermo:
«una sula chi n’inzerta / lu cumpensa di
li danni» (Meli 1, 249) e «tra sgarra e
’nzerta apprinniri si soli» (ib. 1, 652;
autoglossato ambedue le volte ‘dar nel
segno’); i vocab. hanno le due forme ’nz.
e ’nsirtári dal 1752 dBono 2, 517 e 544
fino a Cav 104, RohlfsSuppl 76 e VS 3,
372 per la prima, NicDUr 180 per la
seconda. I valori registrati sono: tr.
‘indovinare’ (sia ‘dare nel segno’ che
‘indovinare il futuro’) da dBono l.c. a
RohlfsSuppl l.c. e VS l.c.; tr. ‘ferire,
colpire’ 1789 Pasq 3, 317 fino a TrV
297 e VS l.c.; tr. ‘trovare una cosa a suo
genio’ solo 1839 Rocca l.c.; AIS 4, 746
‘indovinare’ conferma la grande
diffusione del tipo (i concorrenti sono
addiminari e abbisari) nell’isola, nelle
forme nz. a Baucina, Villalba,
Calascibetta e Catenanuova, nzittári a
Palermo e Mandanici (che VS 3, 374 dà
come sic. or.), nźirtári a S. Michele,
nsirtari a Mascalucia, anzirtári a
Giarratana (questa forma sud-or. era già
nel 1875 in Mac 24 e da qui in TrV 67;
VS 1, 208 la registra a Còmiso,
Leonforte, Ragusa e Vittoria); azzirtári
VS 1, 349 (da Spat). Cfr. inoltre
nzïittári VS 3, 365 da Altofonte e
dall'area trap. occ., e nzitári2 ib. 374 da
Gratteri. – Nelle colonie galloit.
troviamo nsertá a Fantina, nzərté
‘cogliere nel segno’ a Sperlinga e
nzərtér ad Aidone; cfr. piazz. ’nz’ertè tr.
‘indovinare’ (Roccella 185); aid. nzirtè
(Raccuglia 289). Cfr. malt. nzerta
‘succedere per caso e accidente’
(AquilinaSurveys 104).
Cfr. regg. nsertari, nzertari, nsartari,
nsirtari, cos. nzertare ‘indovinare,
colpire nel segno’ (NDDC 475) e cal.
centro-merid. nzertari ‘id.’ (ib. 484);
logud. e campid. attsertai, intsertare
‘indovinare’ (DES 1, 157a). Per
azzirtari il parallelo è sardo attsertai
(Michel 246).
Tr 622 e TrV 297 lo dicono prestito
dallo sp. acertar, mentre Avolio 77 dà
alla pari cat. encertar e cast. acertar.
Invece De Gregorio, StGl 1, 1899, 106
postula la base lat. INSERTARE, che è
semanticam. cosa del tutto diversa (cfr.
REW 4459). Più tardi (DonJaberg 69),
anche Rohlfs la ritiene voce indigena,
ma assumendo come base lat.
*INCERTARE, un plausibile der. di certus,
accolto poi da AlessioLatinità 383.
Purtroppo tale base è foneticam.
inadeguata, se non altro perchè in sardo
dovremmo avere *inkertare (ed in sic.
71
*incertari), come osserva Wagner, DES
1, 157a, il quale riconosce in tutta la
famiglia prestiti dal cat. encertar, che
vale ‘fer una cosa amb tota conformetat
amb el fi preestablert; fer-la bé’, ‘ferir o
tocar amb precisió un objecte
determinat’, ‘trobar allò que es cercava,
entre coses incertes o dubtoses;
esdevinar, descobrir per casualidat’ ed è
documentato dal sec. XV (DCVB 4,
867b – 868a; DECLlC 2, 685a). La
corrispondenza è dunque perfetta sia
nella semantica che nella fonetica,
mentre lo sp. acertar è morfologicam.
più lontano (come nota Beccaria 5n). A
favore dell’origine cat. anche Rohlfs,
Boll 9, 1965, 91 (e RohlfsSuppl 76;
NDCC 475 e 484); VarvaroCatalanismi
88; Michel 406.
’nzérta s.f. ‘indovinello’ (1990, VS 3,
363, da Bompietro); ib. 3, 372 il
sinonimo ’nzirtariḍḍu s.m. (da S.
Cataldo).
’nzértu s.m. ‘indovino’ (1990, VS 3,
363, da Solarino).
’nzirtaméntu
s.m.:
1519:
«incertamentu idem [la mira]: ictus
fortuitus; i.: casus, fortuna» (Scobar
53v).
’nzirtáta
s.f.
‘l'imberciare,
l’indovinare’ (1868, Tr 662).
’nzíru s.m. ‘recipiente di creta per
conservare acqua o altri liquidi’
(1440, nella forma inziru), continua
l’ar. zīr ‘grande giara d’argilla
porosa per conservare acqua’; la
voce si è diffusa fino alla Toscana e
all’Abruzzo, nonché in Sardegna,
probabilm. perché recipienti del
genere erano usati nell’esportazione
di olio e/o vino.
1440 Sciacca: «si li quartarari
fachissiru li quartari, langelli et li inziri
di minuri capacitati...» e «lu inziro divi
essiri quartuchi quattro» (CapSciacca 14
e 16; dal 2° passo risulta che lo nz. è la
metà della → lanceḍḍa); 1519: «incziru
oi lanchella: urcens, orca, mansisterna,
lagena; i. vide quartarulla: urnula»
(Scobar 53v) e «zíru v. incziru: urcens»
(ib. 115r); 1522: «ziru vide iarra» (Vall
89); 1752 nziru e nsíru ‘piccol vaso di
creta da acqua’ dBono 2, 517. La forma
nziru torna poi costantem. da Pasq 3,
340 a Cav 104, RohlfsSuppl 76 e VS 3,
372, ed è registrata da AIS 5, 968 ‘il
boccale’ a Vita, S Biagio, S. Michele e
Giarratana (con questo senso anche in
VS
l.c.,
che
aggiunge
alcune
localizzazioni); nsiru è ancora in Vinci
172 (ma come parola sconosciuta), Pasq
3, 318, Rocca 230, Tr 654 e Mac 213;
ziru è più raro: Tr 1116 (da cui
RohlfsSuppl 114), Mac 351 e, nella
forma źźíru in VS 5, 1292. Solo VS 1,
208 ha anzíru ‘brocca’ (da Man). Un f.
’nzíra è nel 1868 in Tr 662, poi in TrV
296 e in VS 3, 370 (da Alia, Marineo,
Mezzojuso, S. Vito lo Capo e Vicari); da
Vicari la dà ALI 5, 501. Da Pasq in poi,
i vocab. lo descrivono come un vaso di
creta corpacciuto ma senza manici (così
ancora RohlfsSuppl 76), ma AIS l.c. lo
dà come recipiente a forma di anfora con
due manici e Fagone 68 spiega (e
illustra) come a Lentini le quartare si
distinguono in nziri, se hanno bocca e
collo larghi, e búmmuli, se a collo lungo
e stretto. In realtà il nome deve essere
servito e deve servire ancora a
denominare recipienti diversi tra loro,
anche se di norma di creta e per olio o
vino o acqua (si vedano a questo
proposito i sensi registrati in VS 3, 372;
qui, solo da Ragusa, vale anche
‘recipiente di latta di ridotte capacità’,
cfr. anche sotto). Secondo Scheuermeier
2, 39 nz. può denominare anche un
piccolo boccale per bere, con quattro
becchi arrotondati: in effetti VS l.c.
registra n. ‘boccale di terracotta’ in
numerose località (cfr. sopra), e in
72
particolare segnala per Francofonte e
Villarosa la specificazione ‘a quattro
beccucci’. In VS l.c. anche alcuni sensi
riferiti a persona: ‘ragazzino piccolo di
statura e molto vivace’ (da Bivona) e
‘persona estremamente povera; chi è
sprovvisto di panni per potere resistere
alle intemperie’ (da Man). – Cfr. piazz.
nzir ‘orcio, brocca’ (Roccella 184);
Aidone avrebbe solo nzirotta ‘anfora di
terracotta di ca. 20 litri’ (Raccuglia 289).
Cfr. malt. żir ‘brocca’ (Barbera 4, 1171;
Kalepin 383).
Cfr. regg. nziru ‘orcio grande e alto
per tenervi l’olio’ e cos. nzirrə ‘orciuolo
da acqua’ (NDDC 484), cal. centro-sett.
źirru (cos. anche z-) ‘grande orcio di
creta a bocca larga per tenervi olio, vino
ecc.’ (ib. 813); c’è anche un cal. centromerid. źirra, źira, źina ‘grande
recipiente di latta per l’olio’ (ib. 812);
nap. ziro ‘vaso grande per tenervi olio,
vino o simili’ (D’Ambra 410); Minturno
zirru ‘ziro, orcio’ (De Santis 98); Sezze
ziro ‘grosso piatto pieno di cibo’
(Zaccheo 249); irp. ziro ‘vaso grande’
(Nittoli 252); Montella zirro ‘recipiente
grande di terra cotta per riporre vino’
(ID 9, 1933, 194); sal. źirru ‘alto
recipiente di latta o zinco, di forma
cilindrica, per serbare l’olio nei
magazzini’ (VDS 2, 842; forse non è
mai esistito tar. ziro ‘boccale di creta per
acqua’ ib.) e lecc. nziru ‘vaso grande di
creta per l’olio’ (ib. 433); bit. źirre
‘recipiente di latta per contenere olio’
(Saracino 573); bisc. zirrone, zu‘stagnata, vaso di latta, cassa di latta o di
stagna’ (Còcola 227); fogg. ziro ‘vase di
terra cotta per lo più da riporvi olio’
(Villani 100; cfr. AIS 5, 969 Cp P. 706;
a Serracapriola źirrə è il vaso per lo
strutto: ib. 5, 970); mol. źźirrə ‘vaso di
stagno per il latte’ (Minacheo 313); abr.
źźirre ‘vaso di terra cotta simile
all’orcio, nato per tenerci il vino o
l’aceto’ (Finamore 321; Bielli 416; cfr.
AIS 5, 969 Cp P. 6371); it. źiro ‘giara
grande da olio’ (sec. XVII: VEI 1065);
oggi è voce pist., sen. e aret. (cfr. ID 5,
1929, 233 n e 15, 1939, 148) nonché pis.
źiro ‘conca del bucato’ (che va collegato
con ┌źiro┐ ‘mastello da bucato’ ai P.
584, 633 e 640 di AIS 8, 1523; cfr.
Scheuermeier 2, 214) e źira ‘sorta di
coppo panciuto da olio’ (Malagoli 463);
cfr. anche pist. zirla ‘orcio grande’ (VEI
l.c.), da porre accanto a Cassano (Bari) u
zirlə ‘anfora alta da vino a due manici’
(Scheuermeier 1, 170). Anche la
Sardegna centr. e merid. ha dzíru ‘orcio,
giarra’ (DES 2, 596b, dall’it.). Il zirum
‘orcio’ del 1357 di SellaIt 636 non è
roman. ma della Curia rom. (Avignone);
non mi pare sicuro uno zirum in
Dalmazia nel 1069 (DuC 8, 432a); nel
1420 troviamo zirrus in Liguria
(Pellegrini 1, 342-3). Scheuermeier 2, 47
tratta il nostro tipo lessicale come
denominazione del recipiente per olio,
con o senza manici, in Toscana, Umbria,
Lazio e Campania e nella foto 330 del
vol. I ne illustra alcuni senza manici a
Omignano (P. 740) e nella foto 55 del
vol. II uno a tre manici da Montefusco
(P. 723); egli poi informa (2, 48) che
nell’Italia merid. ed in Umbria il tipo par
la denominazione corrente del cilindro
di latta con coperchio e tappo, usato per
conservare olio.
L'etimo ar. zīr ‘orcio’ fu già
individuato da Gioeni 303; cfr. poi De
Gregorio-Seybold, StGl 3, 1903, 243
(rifiuta giustam. la provenienza dal lat.
SĒRIA ‘recipiente’, postulato da Körting
8635 e che lascia ancora tracce in REW
7846); DACalv 284; Rohlfs, Z 46, 1926,
152; VEI 1065; DEI 5, 4117; Pellegrini
168; RohlfsSuppl 76. L’ar. zīr è ‘grande
giara di argilla porosa, per conservare
l’acqua’ (NallinoTraini 1, 536a; Wehr
389b; Steingass 471; Dory 1, 618b; Ben
Sedira 194; Nallino 231, con ampia
descrizione); usato soprattutto in Egitto
e nel Maghreb, esso è in genere più
grande del recipiente sic., it. e sardo. La
73
grande area di diffusione dell’arabismo
non può essere dovuta che all’uso dello
z. nel commercio del vino e dell’olio (→
giarra): si tratta dunque di un prestito,
più che di un relitto, ma nel caso della
Sicilia può darsi che la voce, anche se
attestata un po’ tardi, sia indigena. Il
passaggio z- > nz- (o l’alternanza tra le
due iniziali) si riscontra in altre voci ed è
diffuso anche nel Salento dove infatti
ritroviamo nziru; per il Salento cfr.
Rohlfs, § 169); data la limitata area
geografica e l’estensione al f. non pare
dovuto a concrezione dell’art. indef.
’nsirúni s.m. ‘vaso di creta da acqua,
brocca, mezzina, idria’ (1789, Pasq 3,
318 e poi Mort 2, 33 e NicD 563),
nzirúni VS 3, 372-3. Non è semanticam.
né accr. né dimin. di ’nziru ma suo
sinon.; infatti AIS 5, 968 ha nzirúni ‘il
boccale’ a Naro, ripreso da VS l.c. La
stessa forma era nel 1877 in TrV 297 ‘v.
cufinu’, ma tra i diversi sensi di →
cufinu solo ‘conca per il bucato’ sembra
verosimilm. appartenere a questa
famiglia lessicale. C’è però un gruppo di
forme che presuppongono un *’nziru2
‘cestino di vimini’: 1977 RohlfsSuppl
114, s.v. zirguni (accr. di ź rgu) s.m.
‘alto cesto dalla forma di grossa giarra,
usato per conservare il pane’, vengono
indicate come var. le forme źirúni
dall'area mess. centr. e occ., źirrúni da
Tortorici e źurrúni da Naso; VS 5, 1292
conferma il dato aggiungendo a queste
forme alcune specificazioni semantiche
(sempre in relazione a cesti e panieri), in
localizzazioni appartenenti alla stessa
area (ma anche a Bronte), e segnala
anche la var. źźurúni ib. 1322 (da
Naso); inoltre, ib. 1292 źźirúni vale
anche ‘persona assai ingenua’, da
Troina. In VS l.c. abbiamo ’nzíruni
‘cesta di vimini di forma cilindrica con
coperchio, usata in campagna per
contenere generi alimentari e soprattutto
il pane’ VS l.c., da Avola. Tornando ai
recipienti di creta, PitrèCatalogo 41
registra ed illustra (da Sciacca) ’nz. di
senia ‘secchia di creta per noria, grande
e a bocca larga’, ripreso da VS 3, 372. I
dimin. di ’nziru sono nsirìddu 1752
dBono 2, 516 (dove anche nsirèddu e
nsiriddùzzu), nziríḍḍu in Pasq 3, 339 e
fino a Cav 104 e VS 3, 370 (da Bivona,
Gibellina e Poggioreale), ziríḍḍu (1977,
RohlfsSuppl 114, da Baucina, segnalato
anche da VS 5, 1290 nella forma
źźiríḍḍu e anche nziréḍḍu, da Avola e
Licata, nzirièḍḍu da Mòdica, Pachino,
Rosolini e Scicli; ib. 371 nziríttu, da
Caltagirone; ib. 383 nzuréḍḍu, da Gela,
e nzurièḍḍu, da Butera). Per nziríḍḍu,
VS 3, 370 restituisce anche il senso
‘ragazzino piccolo di statura e molto
vivace (da Bivona)’ (questo senso anche
nella forma źźiríllu VS 5, 1290, da
Capizzi), inoltre ‘persona estremamente
povera (da CavallaroMs); chi è
sprovvisto di abiti per poter resistere alle
intemperie (da Gratteri)’ VS 3, 370; VS
5, 1290 ha zziriddu di meli ‘sorta di
piccola pasta dolce’, da Mort (ed. 1876)
e zz. (e zzirillu) ‘una varietà di frassino’,
a Castelbuono, da Can; cfr. in particolare
(éssiri) comu (un) n. di meli ‘sogliamo
dire nel familiare a chi non ben
provveduto di panni si espone alle
intemperie, brullo’ da 1844 Mort 2, 42
fino a NicD 571 e VS l.c., dove vale
anche ‘di persona mal vestita o
poverissima’ da CavallaroMs (con altro
senso anche nel 1789 in Pasq, cfr.
sopra). źźirílli pl. vale anche ‘capricci
(da Catania e Furci Siculo); cavilli,
pretesti, scuse’ VS 5, 1290. In VS 3 c'è
un gruppo di parole che rimanda ai sensi
‘infreddolire, infreddolito, ecc.’: nziríri
v.intr. ‘intirizzire dal freddo’ (ma anche
‘restare di stucco, allibire; guardare
fisso; girare vorticosamente della
trottola’, da nzíniri?); nzirítu ‘di
bambino congestionato dal pianto
convulso’; nzirútu ‘infreddolito’ (ma
anche ‘sbigottito, allibito; sciocco,
stupido’; cfr. sopra, nel corpo del testo,
74
dove in relazione a questo senso si
rimanda a nzinitu); nziricchiátu
‘infreddolito’. Non sarei sicuro neppure
che si tratti di traslati della nostra
famiglia. Aggiungo azziriḍḍári v.intr.
‘zampillare con violenza’ 1977 VS 1,
349, da Frazzanò); ’nziróttu (1519:
«incziroctu: urceolus, orcula; i. vide
cannata: laguncula», Scobar 53v); nel
1868 Tr 662 (e poi TrV 296) ci dà
’nziróta ‘v. nziru’, che suscitò
l’attenzione di SalvioniParlate 5 n2,
come es. del suff. dimin. -otu, ma un uso
del genere è un po’ strano (cfr. Rohlfs, §
1139) e mi chiedo se la voce sic. sia cosa
diversa rispetto al piazz. ’nz’ròtta ‘orcio’
di Roccella 184 (VS 5, 1291 registra
źźirótta ‘anfora, vaso a due manici,
stretto all'imboccatura e alla base, che si
usava per trasportare e contenere
l'acqua’, da Mirabella Imbàccari).
’nziráru s.m. ‘facitore o venditore di
nziru’ (1868, Tr 662 e poi TrV 296,
ripreso da VS 3, 370). Il f. ’nzirára
‘venditrice di nziru’ è solo in Tr 662,
che lo dà anche come sinon. di ’ncirata
ad Aidone (solo così TrV 296), che è
ovviam. altra cosa.
’nzirútu agg. ‘sbalordito’ (1868, Tr
662, poi TrV 297, NicD 572 e VS 3,
373) non ha niente a che fare con questa
famiglia, perché è modifica di ’nzìnutu,
’nsinutu ‘insensato’.
’nzíta2 s.f. ‘setola (del porco)’
(1497), voce di area sic. e cal., dal
lat. SAETA ‘id.’ con l’inserzione del
pref. in- (probabilm. da → ’nzitari)
per differenziarla da sita ‘seta’, che
ha la stessa base; ’nzita3 ‘pustola,
foruncolo’ ha la stessa origine.
1497 Francofonte: «una scupecta di
inziti» (Gaudioso LXXXIII; ancora
dBono 2, 517 registra «scupitta di nsiti
di porcu»); 1519: «inciti pilu di porcu:
seta» (Scobar 54r); 1752 ’nsíta ‘setola
del porco’ dBono 2, 517 e poi fino a
NicD 563, mentre ’nzita è registrata dal
1752 dBono l.c. a Cav 104 e VS 3, 373,
anche con diversi usi figurati. AIS 6,
1093 ‘la setola’ ha il tipo in tutta la
Sicilia, ma il f. è solo a Palermo (qui al
pl., come negli ess. ant.), Vita, Mistretta,
Mascalucia e Naro (sempre ns-) nonché
con nz- a S. Biagio. Molto più diffuso
appare il m. ’nzítu ‘id.’ (a Mandanici,
Bronte,
Villalba,
Calascibetta,
Catenanuova, S.Michele, Giarratana e,
dubbio, a Baucina), che appare nel 1759
in Vinci 171 (nella forma nsitu) e poi
torna in NicDUr 186; lo ritroviamo in
VS 3, 374, da Tri e in varie
localizzazioni. Anche nzíta ‘resta del
frumento’ 1990 VS 3, 373, a Scicli, da
ALI e zzíta ‘bruscolo d'aveva’ 2002 VS
5, 1294, da Pachino). Nel gergo il pl. f.
’nziti ‘baffi’ (Calvaruso 124, segnalato
anche da VS 3, 373). – Cfr. piazz. ’nzita
‘setola’ (Roccella 184), confermato da
AIS l.c. per S. Fratello e Aidone, che
avrebbe (ma lo nega Raccuglia 289)
pure la forma m., unica a Fantina e
Sperlinga.
Cfr. cal. nsita, nz- ‘setola di maiale,
pelo lungo del cavallo’ (NDDC 476) e
catanz. nsitu, nz- ‘id.’ (ib.), confermati
da AIS l.c.
Appare attribuito al lat. SAETA ‘pelo,
setola’ da Sapienza, AGl 6, 1912, 15,
che parla di influsso di → ’nzita
‘innesto’;
la
stessa
base
di
AlessioLatinità 459, che rinvia a REW
7498, ma le forme sic. e cal. non
appaiono né qui né in FaréSalv 7498, sí
però in FEW 11, 50b, accanto ai
continuatori it. sett., lad., friul.,
gallorom. ed iberorom. Wartburg vede
nel pref. in- del sic. e cal. (certo da
’nzitari) un modo per sfuggire alla
coincidenza con sita ‘seta’ (della stessa
origine), parallelo al ricorso di altre
parlate al dimin. lat. saetŭla. Converrà
allora aggiungere che anche il sic. ha un
75
continuatore di SAETŬLA, con iniziale
modificata dalla nostra voce: zítula s.f.
‘v. nzita’ (1868, Tr 1117 e poi solo TrV
492; inoltre nzítula s.f. ‘pellicola che si
solleva alla base e ai lati dell'unghia’
1990 VS 3, 374 (da Falcone), a nz. di
l'uócchiu ‘la pupilla dell'occhio’ ib. (da
Malfa), zzítula ‘pupilla (degli occhi)’
2002, VS 5, 1296 (da Stromboli), e
zzítuli s.f. pl. ‘ciglia degli occhi’ ib., da
AA), e che il regg. nzítula (NDDC 485)
e l’abr. nzètələ ‘setola’ (Giammarco 3,
1363) hanno sia il pref. che il dimin. ―
Esiste anche ’nsíta3 s.f. ‘piccol tumore,
piccolo enfiatello’ 1752 dBono 2, 517 e
poi da Pasq 3, 318 a NicD 363 (ma non
in Tr e TrV) e ’nzíta3 ‘id.’ 1752 dBono
2, 544 e poi fino a Cav 104 e VS 3, 373.
AIS 4, 685 ‘il foruncolo’ ha nsita a
Naro, senso registrato per nzita anche da
VS l.c. (da Augusta, Gela, Giarratana,
Marsala e Noto, e dall'agr.). Anche
’nzita ‘malattia della pecora’ 1896 ATrP
15, 357, da Caltanissetta, ripreso da VS
l.c., anche come ‘carbonchio nero degli
ovini e dei caprini’ (da Licata); ‘piccola
ferita (da Montevago); pellicola che si
solleva alla base e ai lati dell'unghia (da
Tri, e dall'area mess.or.)’. Esiste anche
’nzítu3 s.m. ‘foruncolo’: 1519: «inczitu
che naxi in la fachi: varus» (Scobar 53v);
1877 ’nzitu ‘v. ’nzituni’ TrV 297 e poi
VS 3, 374 da Butera e Raffadali; inoltre
‘pellicola che si solleva ai lati e alla base
dell'unghia’ ib., da Tri e Roccavaldina;
al pl. ‘le cicatrici della vaccinazione
antivaiolosa’ ib., da Adrano. Cfr. regg.
nziti pl. ‘pipite, filamenti cutanei’
(NDDC 485). L’unica spiegazione è
finora quella di Gioeni 205, che ritiene
possibile riportare ’nzita allo sp. nacida
‘tumore, pustola’ (1495, EncId 3, 2935a;
in ast. anche ‘malattia di bovini e suini’),
il che è foneticam. impossibile.
Conviene osservare che di solito la voce
sic. denomina suppurazioni alla radice di
un pelo (il foruncolo vero e proprio è →
cravunchiu; cfr. anche → cocciu) e che
in gallorom. ci sono continuatori di
SAETA con valori analoghi: soyes f.pl.
‘maladie des porcs causée par des soies
qui croissent dans la gorge’, soie
‘sécrétion produite par des glandes
spéciales, chez certains insectes’, sion
‘soie (maladie des porcs)’ (FEW 11, 48b
- 49a: la 1a voce dal 1564, la 2a dal
1710, la 3a dal 1609). Ritengo perciò che
’nzita e ’nzitu ‘foruncolo’ non siano che
un’altra coppia di continuatori di SAETA.
Ma la forma più diffusa, in questo senso,
è l’accr. ’nsitúni s.m. (1789, Pasq 3, 318
e così fino a NicDUr 180); nella forma
’nzitúni 1868 Tr 662 esso è dato non
come accr. ma come sinon. (‘enfiatura
piena di pus’) e così fino a NicDUr 186
e VS 3, 374 in diverse località e in AIS
4, 685 ‘il foruncolo’ per Palermo e
Catenanuova, nonché la galloit. Aidone
ntsətũn
(altrove
principalm.
→
cravunchiu e → cocciu); nella forma
zzitúni ‘id.’ 2002, VS 5, 1296, da
Mezzojuso e Terrasini Favarotta. Cfr.
sopra il fr. sion. ’nzituni s.m. vale anche
‘setola’ in VS l.c., da Malfa, e con uso
figurato anche da Mistretta e Pantelleria.
— Nessuna spiegazione so dare di
’nzíta4 s.f. ‘v. nziru’ (1868, Tr 662, poi
solo TrV297, come catan., e da qui
ripreso in VS 3, 373 ‘brocca di
terracotta’); → ziru. VS l.c. ha anche
nzíta s.f. ‘tordela o tordella’ a
Castelbuono, da ALI.
’nzitúsu agg.: 1519: «incitusa cosa
idem [di porcu]: setosus; incitusu che li
porta: setiger» (Scobar 54r) e «insitusi di
incziti pili: setosus» (ib. 56v); 1990 VS
3, 375 varva n. ‘barba ispida’ (da
Alcamo, Catania e Mistretta), capiḍḍi n.
‘capelli ispidi’ (da Assoro, Cesarò e
Militello Val di Catania). Cfr. catanz.
nsitusu ‘pieno di setole’ e cos. nzitusu
‘ispido’ (NDDC 476). — È esistito
anche «incitusu questu homu: narosus»
(1519, Scobar 54r).
’nzitígna agg.: 1990 VS 3, 374 solo in
varva n. ‘barba ispida’, da Petralia
76
Sottana.
’nzitári v.tr. ‘innestare’ (ante 1337),
è voce molto, ma non compattam.,
diffusa nel mezzogiorno, lungo
l’Appennino, in Emilia e Lombardia,
nell’arco alpino, in Sardegna, che
continua un lat. *ĬNSĬTĀRE ‘id.’,
formato su insĭtus, part. perf. di
inserere ‘id.’.
Ante 1337: «mictendusi a la chima di
killu lauru incontinenti cum grandi
rimuri chi insitaru unu pendenti ramu»
(Eneas 6.145); ante 1337: «li quali,
essendu nati di bassa manu, e sforzaru di
insitarsi oy di mittirsi intra nobilissimi
familgi» (ValMax Indice.117) e «lu
nostru principi et patri tantu amuri a so
frati Drusu appi insitatu intra lu so cori
que...» (ib. 5.4.260) e «a quistu so
suppliciu fu insetata una nota ad eterna
memoria» (ib. 6.3.17; cfr. anche 6.3.41,
7.4.86, 9.7.17, mai in senso proprio; altri
esempi in CorpusArtesia); 1373: «comu
piru insitatu supra pumu vivi per vita di
piru et per vita di pumu» (SposMatt
311.17; cfr. 263.13, 311.28, 316.11 e
12); 1519: «inczitari oi insitari: insero; i.
insembla: consero; incitari di ochu:
inoculo, oculos imponere; incitari a
cona: emplastro» (Scobar 53v, accanto a
«inczitari cumuviri: incito» ecc.) e
«insitari vide incitari: insero» (ib. 56v).
Dal 1752 fino a Cav 104 e VS 3, 373
tutti i vocab. registrano la voce, da
dBono 2, 518 fino a NicDUr 180 dando
come principale la forma ’nsitári, da Tr
662 a Cav l.c. e VS l.c. considerando
tale invece ’nzitári, che appare
comunque da dBono 2, 544. AIS 7, 1255
‘innestare l’albero’ registra la forma
’nsitari a Vita, Naro, Mascalucia,
Mandanici e Mistretta, ’nzitari a
Baucina, S. Biagio, Calascibetta,
Catenanuova, Bronte, S. Michele e
Giarratana; anche le isole Eolie e
Barcellona hanno ’nz- (cfr. Coray 313).
Anche nzitari li vaialori v.tr. ‘innestare
il vaiolo’ (1875 Mac 217), nz. li valori
VS 3, 373 (da Man e Tri) e cocci nzitati
‘le
cicatrici
della
vaccinazione
antivaiolosa’ ib. 374 (da Adrano). Altre
forme: insitári 1786 a Pasq 2, 338 e poi
solo Tr 494; zitári 1868 Tr 1116 e TrV
492, poi ripreso da VS 5, 1295 (zzitári);
anzitári 1977, VS 1, 208 da Carlentini;
’nzidári 1990, VS 3, 364 (a Faro
Superiore e Milazzo, da ALI). Quanto
al senso, tutti i vocab. danno tr.
‘innestare’, a volte specificando i vari
tipi di innesto (così dBono 2, 518; Pasq
3, 340; VS l.c. ecc.); dal 1789 Pasq l.c.
c’è anche il valore generico ‘attaccare,
congiungere’ (ripreso in VS 3, 374), che
in Tr 662 (e poi TrV 297, NicD 563 e
VS 3, 373) si specifica in ‘unire i
doccioni ficcando le estremità dell’uno
nella bocca dell’altro’, in Mac 217, TrV
l.c. e NicDUr 180 in ‘mettere o
congiunger la setola allo spago’ (dei
calzolai), che risente di → ’nzíta, in VS
3, 374 anche da Montedoro e Ragusa, e
‘legar l’amo alla lenza’ (dei pescatori),
in VS l.c. (anche da Acicastello e, con
significato affine, da Portopalo di Capo
Pàssero). C’è inoltre un uso assoluto,
che dBono 2, 518 definisce ‘quadrare,
cadere in acconcio’, Pasq 3, 318
‘piacere, accomodarsi, quadrare’ e che
torna in Rocca 230 (viene ripreso da VS
l.c.); dBono l.c. aveva ancora ‘strigner
amicizia’, da qui in VS l.c. VS 3, 374
separa un nzitári v.intr. ‘ronzare, della
trottola quando, girando vorticosamente,
emette un ronzio caratteristico’, da
Regalbuto. – Dalla c. cit. nell’AIS si
ricava che il tipo è presente a S. Fratello,
Sperlinga e Aidone (cfr. Raccuglia 289),
sempre con ’nz-; cfr. piazz. ’nz’tté
‘innestare’ (Roccella 185).
Cfr. cos. nsitare, nz- ‘innestare’
(NDDC 476, cui AIS l.c. aggiunge
sporadiche attestazioni della Calabria
77
centro-merid., dove prevale ┌annestari┐);
Maratea, S. Chirico Raparo e Teggiano
nźitá ‘id.’ AIS l.c.; Amaseno nźetá ‘id.’
(Vignoli 73); roman. insitare ‘id.’
(Chiappini 150); irp. nzetà ‘id.’ (Nittoli
156); sal. nsetare, nz- ‘id.’ (VDS 2, 420;
è già del sec. XV: cfr. AGl 16, 1902-05,
67); bit. nzetène ‘id.’ (Saracino 300);
rub. nzetò ‘id.’ (Di Terlizzi 145); molf.
nzetà ‘id.’ (Scardigno 355); bisc. inzità
‘id.’ (Còcola 96); andr. nzetèie ‘id.’
(Cotugno 130); abr. nźitá ‘id.’
(Giammarco 3, 1365; poco comune: qui
come in gran parte del mezzogiorno
prevale ┌insertare┐). La c. cit. dell’AIS
conferma questa distribuzione Matera,
Pisticci e Ripa Candida in Basilicata e
Sonnino nel basso Lazio; c’è poi qualche
P. tra Abruzzo e Umbria (615, 616 e
566), la Romagna e l’appennino toscoemil., compreso 511 Campori e 500
Pontremoli e fino a 420 Coli. Ma
insertare ‘id.’ è del tosc. ant. (1300 ca.:
Batt. 8, 109c, dove anche Leopardi lo
dichiara diffuso) e probabilm. ancora
vivo. Il tipo ritorna in Lombardia (dalla
bassa mil. fino alle Alpi del Ticino),
nelle valli alpine del Piemonte or. e nel
Friuli (cfr. AIS l.c.); anche il campid. ha
insiđai ‘id.’ (DES 1, 637a).
A parte l’inesplicabile insinuazione in
Amari 3/3, 912n che possa trattarsi di
arabismo ed una dilettantesca etimologia
di Sacco 1, 122 (da INSERTARE), tutti gli
studiosi, da De Gregorio, StGl 1, 1899,
106 a Coray 313; AlessioLatinità 385;
Merlo, RIL 84, 1951, 61; Wartburg, Z
68, 1952, 18 e FEW 4, 718a; FaréSalv
4467 e Ambrosini 155, concordano nel
riconoscere la base in un lat. *ĬNSĬTĀRE,
formato su insĭtus, part. perf. di inserere
‘innestare’. REW 4467 e chi ne dipende
danno il v. lat. come attestato, ma di
esso non trovo traccia prima del 936
(Arnaldi 1, 278, dal codice di Cava, 1,
203.17). Per l’oscillazione -ns- / -nz- cfr.
Rohlfs, § 267.
’nzítu s.m. ‘innesto’: 1519: «incitu
quistu [a cona]: emplastratio; i. planta:
talea, surculus; i. pichulu: taleola»
(Scobar 53v) e «insitu vide inczitu:
talea» (ib. 56v); ’nsítu appare nel 1752
dBono 2, 518 per ‘pianta o ramo
innestato’ e torna fino a Tr 654, mentre
la forma con nz- è nel 1844 in Mort 2,
42 e poi in Tr 662, TrV 297 e VS 3, 374,
dove vale anche ‘marza (da Spat e Man);
tralcio o ramo che viene fuori dalla
gemma dell'innesto (da Man); alberello
(a Caronìa, da ALI); piantina d'olivo (da
Frazzanò)’; insítu 1786 Pasq 2, 338;
nzídu 1990 VS 3, 364 (a S. Marco di
Milazzo, da ALI). Cfr. piazz. ’nzitt ‘id.’
(Roccella 184). Cfr. cos. nsitu, nz‘innesto’ e regg. nsitu ‘albero giovane,
per lo più di agrume, innestato e che
comincia a far frutti’ (NDDC 476);
Trevico e nźit S. Donato (i) nźitə
‘innesto’ (AIS 7, 1255); Amaseno nźetə
‘id.’ (Vignoli 73); irp. nzito ‘id.’ (Nittoli
156); sal. nzitu ‘id.’ (VDS 2, 434a); rub.
nzèite ‘id.’ (Di Terlizzi 145); fogg.
(Carpino) nzìte ‘id.’ (Melillo 94). È
probabile, ma non sicuro, che la stessa
parola sia attestata a Bagnoregio nel
1373 (SellaIt 221 e 295 s.v. ensitus e
insitus). De Gregorio, StGl 1, 1899, 106
dà come base di questa voce il lat.
INSITUS, che in effetti ha avuto
continuatori in Italia (cfr. REW 4468),
ma la cui penultima vocale era breve,
sicché ne possono essere continuatori il
roman. e marchig. énseto (nonché l’it.
ínseto di Caro, Soderini e Leopardi, Batt
8, 109c, a patto che l’accento sia proprio
sdrucciolo, e il regg. ínsitu ‘pollone di
olivo; piccolo olivo già innestato;
castagnuolo, che si coltiva per i travi’,
catanz. id. ‘olivo giovane’, NDDC 328),
non però forme come le sic. (malgrado
Coray 313; FaréSalv 4468, ma non
REW ib.). Peraltro Flechia, AGl 2, 1876,
352-3, aveva postulato *INSĒTUM
(accettato pur esso da FaréSalv 4459a,
nonché in NDDC s.v. insitu), da cui
traeva le voci piane, ma è certo
78
preferibile la soluzione di REW 4467,
che le considera tutte deverb. di
┌
insitare┐ (si noti l’incoerenza con cui
FaréSalv accoglie anche questa terza
spiegazione, oltre alle due già
menzionate).
’nsitúni1 s.m. ‘pianta innestata ben
abbarbicata e fronduta’ (1789, Pasq 3,
318); ’nzitúni ‘pianta innestata da pochi
anni’ (1990, VS 3, 374, da Bronte), poi
solo ’nzit ni ‘alberetto (per es. di
carrubbo) ancora giovanissimo’ (Leone,
Boll 14, 1980, 342, dalla Sicilia sud-or.,
segnalato in VS l.c.). Cfr. bit. ’nzetàune
‘ramo adatto per fare gli innesti’
(Saracino
300).
Per
’nzitúni2
2
‘foruncolo’ ’nzita .
’nsíta
s.f.
‘innestamento,
innestagione’ (1789, Pasq 3, 318 e poi
fino a NicD 563; la forma ’nzíta ‘id.’ da
Pasq 3, 340 a TrV 297 e VS 3, 373
(anche da Francofonte, Frazzanò,
Grammichele e dai dialetti etnei sudor.). Il senso ‘pianta o ramo innestato’ è
nel 1839 in Rocca 230 e poi in NicD l.c.,
ma cfr. nz. ‘pianta, soprattutto vite,
innestata da recente (da Acicastello,
Paternò e S. Alfio); marza (da Man,
Paternò e S. Maria di Licodia); tralcio o
ramo che viene fuori dalla gemma
dell'innesto (da Man, Centuripe e S.
Alfio)’ 1990, VS l.c.; 1977 ’nzita ‘olivo
giovane
(selvatico)
innestato’
(RohlfsSuppl 76, da Taormina, ripreso
in VS l.c., anche da Tri); nzída (rar.) ib.
264 a Faro Superiore, da ALI. La forma
f. appare nel 925 nel codice di Cava (cfr.
Arnaldi 278 e De Bartholomaeis, AGl
15, 1899-1901, 345) e ha paralleli emil.:
cfr. mod. insêda ‘id.’ (Neri 110). Cfr.
anche sardo sita, siđa ‘ramoscello,
frasca’ (DES 1, 637a).
’nsitaméntu s.m. ‘innestamento’:
1519: «inczitamentu: insitio, consitio;
incitamentu idem [di ochu]: inoculatio»
(Scobar 53v); 1752 ’ns. ‘innestamento’
dBono 2, 517 e poi fino a Tr 654; qui a
494 anche insitaméntu e a 662
’nzitaméntu.
’nsitatúra s.f. ‘l'atto e il luogo dello
innestare’ (1844, Mort 2, 33 e poi NicD
563 e NicDUr 180); ‘la parte dove il
doccione s’inoscula nell’altro’ (1883,
NicD 563); 1868 ’nzitatúra Tr 662
negli stessi sensi e poi fino a NicDUr
186, il 2° senso ripreso anche da VS 3,
374 (qui anche nz. ‘legatura che viene
fatta attorno al gambo dell'amo per
assicurarlo alla lenza’, da Riposto);
nzitatura ‘parte del tronco in cui è stato
praticato l’innesto’ (Genchi-Cannizzaro
199).
Cfr.
roman.
insitatura
‘congiunzione di due assi a maschio e
femmina’ (dei falegnami) (Chiappini
150); lecc. nsitatura ‘la parte superiore
del timone dell’aratro che si divide in
due pezzi’ (VDS 2, 420a); it. insetatura
‘innesto’ (1300 ca.: Batt 8, 109c).
’nzitátu agg. ‘innestato, di pianta su
cui sia stato praticato un innesto’ (1990,
VS 3, 374, senza localizzazioni).
’nzitáta
s.f.
‘l'insetare
[cioè
‘innestare’]; l’inosculare (tegole)’ (1868,
Tr 662); ‘operazione consistente nel
sostituire in un infisso la parte fradicia’
(GenchiCannizzaro 199). Si veda anche
’nzitatina s.f. ‘la somma di denaro
occorrente per praticare un certo numero
di innesti in un vigneto o in un frutteto’
(1990, VS 3, 374, da Bompensiere).
’nsitatúri s.m. ‘innestatore’ (1752,
dBono 2, 518 e poi fino a Mort 2, 33 ed
in
NicD
563,
NicDUr
180;
GenchiCannizzaro 199). La forma
’nzitatúri ‘chi o che innesta’ 1868 Tr
662 e poi fino a Cav 104, che ha anche
‘coltello da innestare’, e VS 3, 374. Cfr.
piazz. ’nz’ttaor ‘innestatore’ (Roccella
185).
’nzitábili agg.: 1519: «inczitabili
cosa: insititius, insitivus» (Scobar 53v).
’nzólia s.f. ‘qualità d’uva relativam.
tardiva, di colore dorato, a forte
contenuto zuccherino’ (1522, nella
79
forma insolia), è voce di area cal.,
nap. e tosc. (ma quasi solo lungo le
coste e con vitalità scarsa), nonché
sarda, di origine finora ignota.
1522: «Uva. hec uva... cuius plures
sunt species:... precis la insolia, quasi
praecox...» (Vall 88); 1614-15 Palermo:
«inzolia» (MaggiorePerni 577); 1752
’nz. ‘sorte d’uva bianca e nera assai
buona, i cui acini sono bislunghi’ dBono
2, 545; la forma ’nz. è poi da Pasq 3, 340
a Cav 104 e VS 3, 375, sempre con la
stessa definizione (Tr 663 rinvia anche a
→ zibbibbu) o con il rinvio alla forma
nsólia, che (dopo Vall) è nel 1759 in
Vinci 172 (‘uvae species’) e poi da Pasq
3, 318 a Tr 654, NicD 563 e NicDUr
180, con definizione identica a quella
data sopra. La forma nzúolia (da Salina)
e quella nsúolia (da Lipari) in Coray
312, cui VS 3, 381 aggiunge nzuólia da
Castelbuono; sória è solo nel 1877 TrV
416, ripreso da VS 5, 94-5 (qui anche da
Can); anzólia ‘varietà di uva bianca da
tavola’ è nel 1977 VS 1, 208, da Naro,
con anzuólia ‘id.’, da Adrano; nzória è
nel 1990 VS 3, 376 (da Bronte e
Castiglione di Sicilia, e a Tortorici, da
Franchina 1982, dove vale anche ‘botte,
percosse’; źźólia ‘inzolia, una qualità di
uva’ VS 5, 1302 (da Can, con
attestazioni a Biancavilla, Cammarata,
Castellammare del Golfo, Castrofilippo
e Isola delle Femmine); VS l.c. dà anche
źźória ‘id.’ (da Man). Nell’uso pal.
attuale, ’nz. designa un’uva a chicchi
tondeggianti, piuttosto piccoli, di colore
bianco dorato, a forte tenore zuccherino,
che matura più tardi di altre qualità
come lo → zibbibbu. Il nome può
designare anche uva passa (cfr. Coray
336, per le Eolie) e ‘il vino che si ricava
dalla ‘nz.’ (VS l.c.). Una serie di usi
traslati e locuzioni, a volte attestate fin
dal 1752, sono in VS 3, 375. Cfr. piazz.
’nzölia ‘uva bianca’ (Roccella 184).
Cfr. cal. centro-merid. nzólia e insólia,
cos. ansólia, nsuólia, anzulu e ansólicu
‘ansoria, sorta di uva bianca’ (NDDC
83, 84 e 485; le forme sono tutte
localizzate in paesi del versante
tirrenico, con la sola eccezione di
Castrovillari); nap. uva nzóleca (DES 1,
637b, sec. XVII), insòlia, insòlica, -ga,
anzònica ‘uva bianca e rossa’
(Maccarrone, AGl 29, 192, 33, da fonti
ampelografiche ottocentesche di dubbia
precisione); Pitigliano anzónika ‘sorta di
uva bianca’ (ID 12, 1936, 105); Porto
Ercole e Isola del Giglio anzónaka, Isola
del Giglio anche anzónika, ‘varietà di
uva bianca’ (ID 41, 1978, 136; il vino è
detto all’I. del Giglio anzónako,
anzóniko); Elba ansóniko ‘sorta d’uva
bianca che fa un vino dello stesso nome’
(ID 8, 1932, 215; manca nel recente
lessico della Diodati Caccavelli, come la
forma f. registrata nell’800); it. ant.
ansòria (sec. XVI: DEI 1, 217); sardo
èrƀa ins lika ‘varietà di vite a frutto
bianco’ (DES 1, 637b) da confrontare
con sic. nzólica medica s.f. ‘bugola
(Ajuga reptans L.)’ 1924 Penzig 1, 17,
ripreso in VS 3, 376 (anche da Man).
Gioeni 200 si limita a stabilire la
corrispondenza tra sic. ’ns lia ed it.
ansòria, citando ess. dubbi di -r- > -l-.
Maccarrone, AGl 29, 192, 33-6 tratta
ampiam. la questione, esclude l’etimo
gr. Σσρία ‘Siria’ ed il corrispondente
agg. ζσρία ‘siriaca’ (per ragioni
fonetiche), il topon. iberico Soria e
quello ciprioto Σολία (per scarsa o nulla
forma dei relativi vitigni e/o vini) ed
infine ritiene fondato il prestito dall’ant.
fr. *sorie ‘fulva, bionda, color d’oro’
(presunta var. dell’attestato soire ‘id.’),
da cui grazie ai Normanni si sarebbe
avuto in Sicilia (racina) sória, forma a
partire dalla quale Maccarrone ritiene
spiegabili tutte le altre, sic. e no. Questa
trafila è data come incerta in DEI 1, 217,
discussa in Enotria 16, n° 4 (che
conosco solo da DES 1, 637b: Alessio la
80
accoglierebbe,
Dalmasso
la
considererebbe inverosimile), esposta
senza prendere posizione da Wagner,
DES l.c., che si limita a giudicare come
di origine probabilm. nap. o sic. la voce
sarda. I dubbi in effetti non sono pochi:
in fr. ant. esistono soltanto saur, sor,
soir ‘jaune brun, fauve’, ‘d’un blond
doré’ (FEW 17, 18) ed anche il lat.
d’Inghilterra non ha altro che sorus,
saurus (Latham 445), sicché il sic.
dovrebbe avere *sóra; se del resto un
ant. fr. f. *sórie fosse esistito, in Sicilia
si avrebbe *suría e non sória. A questo
punto diventano superflue osservazioni
minori (la -z- di nz. è sorda e non sonora,
il passaggio -r- > -l- non è registrato da
Rohlfs, § 224, mentre ib., § 221a c’è
semmai il fenomeno inverso, sia pure
con focolai galloit.). L’unica plausibilità
della base ant. fr. è dunque quella
semantica, perché in effetti si tratta di
una qualità dorata di uva, ma la
mancanza di conferme fonetiche
costringe a dichiarare insoluto il
problema. La diffusione e vitalità del
termine in Sicilia, in contrasto con la sua
attestazione debole e limitata alle coste
tirreniche nella penisola e alla sua natura
avventizia in Sardegna, fanno pensare
che il focolaio di diffusione sia sic. (si
avverta però che nulla sappiamo
dell’antichità del ceppo e che del resto
l’attestazione del termine è relativam.
mod.).
nzulïúni s.m. (solo sing.) ‘varietà di
uva, non meglio determinabile’ (1990,
VS 3, 379, da Aci Castello).
’nzúnza s.f. ‘sugna’ (1367, nella
forma insunza), continua il lat.
AXŬNGIA ‘grasso’, attraverso una
forma *INXŬNGIA, assicurata dai
riflessi, oltre che in Sicilia, in Italia
merid., Grigioni, Vallese, penisola
iberica; ma nell’isola esistono o sono
esistiti anche esiti diretti di axungia e
forme rifatte sull’it., come ’nzugna.
1367 Alcamo: «carne salata, insunza,
formaggi et cascavalli» (CapAlcamo 65;
è però copia del sec. XVI); 1368: «li
favi... cocti beni cun la sunza di lu porcu
nova e calda» (Mascalcia 582) e «la
sunza di lu porcu veccha» (ib. 590) e «la
assunza veccha» (ib.) e «la assungia di
lu porcu vecchia... cun la dicta assunzia»
(ib. 590) e «altritanta sungia veccha»
(ib. 594); 1371 Palermo: «la sunza»
(Rinaldi 14.78); 1399 (?) Messina:
«cantario assungie» (Pandette 92); 1440
Sciacca: «lu rotulo di li inzunzi divi
essiri unc. xxxiij et terza» (CapSciacca
14); 1497 Francofonte: «unu cofinu di
stirrari plinu di insuncza» (Gaudioso
XCVI); 1500 ca. Modica: «la inzunza»
(ASSO 64, 1968, 244); ulteriore
documentazione
antica
in
CorpusArtesia, con le forme ansugia,
anzunza, assuncza, asunza, czuncza,
insuncza, insungia, insunza, inzunza,
sungna, sunza, zunza; 1519: «czuncza:
adeps, unguen; cz. per carru: axungia»
(Scobar 35r) e «insuncza: adeps,
obdomen [sic]» (ib. 57r) e «zuncza vide
czuncza: axungia» (ib. 115r); 1522:
«zunza, hec azungia..., adeps..., dicitur
etiam axungia» (Vall 89); sec. XVI:
«πήγγια
μένηζζοσ
ρρόηοσ
δι
νζού<ν>ηζα» e «ηνζοσ<ν>ηζα» (Z 32,
1908, 578 e 579; cfr. la discussione tra
Scheegans, Salvioni e Subak ib. 33,
1909, 325-7, 329, 335 e 337; la lettura
(i)nsuccia di Salvioni non ha nessun
fondamento ed è molto meno costoso
ipotizzare con Scheegans l’omissione di
ν che non, con Subak, un errore ν → σ e
quindi una o tonica assai strana nella
nostra parola); 1752 ’nz nza e ’nsúnza
‘grasso d’animale attaccato alle reni’
dBono 2, 519; la 1a forma è in Meli 2,
711 («l'invittu don Chisciotti,/ longu ed
asciuttu, senza carni e ’nzunza»,
81
autoglossato ‘qui vale magro’) e poi da
Mort 2, 42 a Cav 105 e VS 3, 380,
sempre ‘grasso del porco’ (varie
locuzioni in VS l.c.), mentre la 2a arriva
solo fino a Mort 2, 33 e torna poi in
NicD 564; nel 1759 Vinci 172 dava
súnza come mess., nel 2002 VS 5, 443
registra tale forma a Frazzanò, Milazzo e
Mistretta, ma anche a Pantelleria, col
senso di ‘grasso del maiale che si
scioglie per fare lo strutto’ e aggiunge
altri sensi analoghi. Nel 2002 VS 5,
1317 registra anche zzunza da Buscemi
e S. Teodoro (e, con il senso fig. di
‘untume, sporco untuoso e persistente’,
da S. Giovanni Gèmini). Da AIS 2, 248
‘la sugna’ la distribuzione delle var.
risulta questa: nzunza è a Vita, Baucina,
Calascibetta e Catananuova; nźunźa a S.
Michele e Giarratana, nsúnsa a Naro,
sunza a Mandanici e Villalba, cui VS l.c.
aggiunge per questo senso Pantelleria (la
voce concorrente → saími appare a
Palermo, Mistretta, S. Biagio e
Mascalucia). Inoltre abbiamo il f. pl. i
sunzi ‘id.’ 1990 VS l.c., da Pantelleria e
da ALI (a Campofelice di Roccella,
Caltavuturo e Castelbuono). L’uso del
Meli trova riscontro nelle loc. aviri li
nzunzi ‘essere grasso’ e faricci li ’nzunzi
‘ingrassare; godersela’, che sono già in
dBono l.c. (aviri li ns.; fari li ns.) e Pasq
3, 319 (aviri li ns.; fari li nz.), e vengono
ripresi anche in VS 3, 380 (nonché in
VS 5, 443: aviri i sunzi, da Pantelleria).
Can dà anche sunza di ṭṛofa ‘varietà di
uva non meglio specificata’ 2002, VS 5,
443. – Cfr. piazz. ’nzonza ‘sugna’
(Roccella 184), confermato da AIS l.c.,
che ha il nostro tipo a S. Fratello,
Fantina ed Aidone (cfr. Raccuglia 290).
La c. cit. dell’AIS, e ora LEI 3/2,
2745-2764, ci mostrano come il tipo sia
generale nell’it. centr. e merid., con
sporadica concorrenza di ┌saime┐.
L’elemento discriminante è solo
fonetico: l’uscita -nza copre quasi tutta
la Calabria (meno i P. estremi 791 e
745), ma poi appare solo ai P. 733, 725 e
715, salvo a ripresentarsi a partire da
Liguria, Garfagnana ed Emilia; l’area
intermedia ha invece -gna (cfr. it.
sugna); una stretta fascia di -ngia corre
lungo l’appennino tosco-emiliano ed a
cavallo tra Romagna e Marche. Infatti
nei lessici troviamo cal. nzunza (o
nźunźa, nzunźa, nsunza, nźonźa, cal.
centro-merid. sunza, zunza, regg. sunźa,
catanz. źunźa) ‘sugna’ (NDDC 485, 702
e 818) cui posso aggiungere solo un
dubbio lecc. nzonźa ‘strutto’ (VDS 2,
434). C’è poi da ricordare il logud.
assúndza (contro campid. assúnğa)
‘sugna; sego per le scarpe’ (DES 1,
140b). C’è poi un altro criterio
discriminante, l’inserzione di -n- prima
dell’esito di -X-: qui l’area che concorda
con la Sicilia è più ampia, in quanto con
poche eccezioni ingloba nell’AIS l.c.,
Calabria Basilicata Campania Puglia
Molise e Abruzzo (per il quale cfr.
nźògna ‘sugna, strutto’ Giammarco 3,
1365); il fenomeno inoltre si ritrova al P.
15, nel Grigioni, nonché nel Vallese
(VRom 13, 1954, 249) ed in tutto
l’iberorom. (cfr. DCECH 2, 633).
Fin da Vinci 172 è stato chiaro che la
base delle forme sic. è il lat. AXŬNGIA
‘unto, grasso’ (sec. I d.Cr.): cfr. De
Gregorio, StGl 3, 1903, 260; Salvioni,
RIL 44, 1911, 939n; Rohlfs, § 279;
FaréSalv 846; LEI l.c. Per la storia di
questa base in Italia (ed anche nella
Romània) cfr. oltre REW 846 e FEW 1,
190b, soprattutto Jud, VRom 13, 1954,
220-65, che considera l’inserzione di -n, data la distibuzione areale, come
risalente ad epoca ant. ed analoga a
quella che riscontriamo in inverno,
imbriaco e soprattutto nell’it. merid.
nzorare ‘sposare’: così da AXUNGIA si
passa ad *ANXUNGIA e poi ad
*INXUNGIA. Da questa base l’esito
normale in sic. è (i)nsunza, con -z- di
norma sorda (→ granza, → sponza; ma
la sonora alterna senza precisa regola:
82
cfr. Jud, l.c., 228). Ma rispetto al quadro
lineare di Jud, la documentazione sic.
introduce una forte accentuazione della
variazione: nella sola Mascalcia (1368)
troviamo assunza (e -zia, probabilm.
semplice var. grafica) ed il suo probabile
sviluppo sunza, ma anche (as)sungia, la
cui uscita non è più attestata nell’isola
(ma dietro al diagramma ηζ del testo
cinquecentesco in caratteri greci
potrebbe nascondersi anche [ğ]) ma
trova modernam. riscontro nella Toscana
sett., in alcune aree lomb. e nel Trentino,
oltre che nel Campidano. Il dubbio assai
forte sull’autoctonia di (as)sungia porta
con sé quello analogo su assunza, che
sarebbe però superato se il sunza di area
mess. (1759 e AIS; qui anche a Villalba)
fosse certam. da questa forma. È però
possibile che sunza stia a insunza come
zunza a inzunza, cioè che non si tratti di
falsa discrezione dell’articolo (l'assunza
→ la sunza), ma di retroformazione in
base alla frequente alternanza s-/ns- e
soprattutto z-/nz-. In ogni caso insunza è
attestato quasi contemporaneam. a
inzunza (con -ns- > -nz-: cfr. Tekavčić, §
228) e convive con esso fino ad oggi. La
convivenza in Sicilia di esiti di AXUNGIA
e di INXUNGIA non è sicura ma è
possibile, ed in ogni caso i continuatori
della prima base hanno avuto, anche se
di provenienza esterna, una qualche
vitalità: lo stesso è accaduto con una
forma certam. non autoctona, ’nsúgna
(1868, Tr 1153 e poi Mac 213, TrV 289
e A. De Gregorio, StGl 8, 1928, 162, che
la dice comune), ’nzúgna (1875, Mac
213; VS 3, 378 documenta la forma a
Malfa, da ALI), sinon. di ’nzunza, che
rappresentano incroci tra le forme sic.
con n- ed il tosc. sugna (nei dial. merid.
con -gna la vocale tonica è o tranne che
in Basilicata e Salento; anche oltre lo
stretto troviamo però cal. nzugna, regg.
anche nsugna ‘id.’ (NDDC 485; Jud l.c.
234 non dubita che si tratti di prestiti
dall’it.). In Sicilia ritroviamo così tutti i
tipi distinti da Jud.
nzúnzia s.f. ‘sugna, complesso delle
parti grasse e molli del maiale situate
nella regione renale, da cui si estrae lo
strutto’ (VS 3, 380, da Spat). Ancora,
cfr. le forme maschili nzúnzu ‘id.’
(1990, VS 3, 381, da Bronte), ‘untume,
sostanza grassa e sporca’ (ib., da Bronte,
Cammarata, Niscemi e Randazzo);
zzúnzu ‘id.’ (2002, VS 5, 1318, da
Bronte), ‘sugna, grasso del maiale da cui
si ricava lo strutto’ (ib., da Bronte e
Motta Camastra). Ib. anche zunzú s.m.
‘scherz., maiale; carne di maiale’, da
Tortorici.
’nzunziéḍḍu s.m. ‘nome di una
maschera carnevalesca a Monterosso e
Giarratana’ (1887, GuastellaCarnevale
81). Guastella la descrive così: «[il 17
gennaio, alla fine della messa]
prorompea nella chiesa una frotta briaca,
con pelli e corna di becco, con facce
tinte di fuma e di terra rossa... Venivan
chiamate
’nzunzieddi,
cioè
impiastricciati,
appunto
perché
insudiciavan la faccia».
assunzári v.tr. ‘imbrattare, sporcare’
(VS 1, 310, da Mal) .
’nzunzári v.tr. e rifl. ‘impiastricciare
con grascia; imbrattare con checchessia’
(1752, dBono 2, 519 e poi da Tr 663 a
Cav 105 e VS 3, 380), tr. ‘ungere’
(1868, Tr l.c. fino a NicDUr 186 e VS
l.c.), ‘ingrassare le scarpe’ ib. (a Naro,
cfr. AIS 8, 1566); ‘ungere stoppa o
stracci con olio, petrolio, nafta e sim.’
ib. (da Pantelleria); gerg. ‘dare una
coltellata’ (1930, Calvaruso 124, ripreso
in VS l.c.). Le var. ’nsunzári 1752
dBono l.c. fino a NicDUr 180, anche con
rifl. ‘arricchirsi’ 1789 Pasq 3, 319 e poi
Rocca 231 (anche in VS l.c., nella forma
’nz.); zzunzári 2002 VS 5, 1318 (da
Bronte).
’nsunzátu agg. ‘untato, unto, o
lordato’ 1752, dBono 2, 520 fino a NicD
564; ’nzunzátu 1868, Tr 663 fino a VS
3, 380, in varie localizzazioni; anche
83
zzunzátu 2002 VS 5, 1318 (da Bronte).
’nzunzáta s.f. ‘l'ungere’ (1868, Tr 663
e poi fino a NicD 572; ib. 564 la var.
’nsunzáta). La forma compare anche in
VS 3, 380, ma solo in dari a nz.
‘chiedere per necessità ma con molta
riluttanza un favore o un aiuto a persona
alla quale si preferirebbe non rivolgersi’
(da Catenanuova).
’nzunzúsu agg.: 1519: «czunczusu:
adiposus» e «insunczusu: adiposus»
(Scobar 35r e 57r); 1868 ’nz. ‘che
insudicia’ Tr 663 e poi fino a NicD 572
e VS 3, 381, mentre 1914 NicDUr 187
ha ‘che ha in sé dell’unto’. La var.
’nsunzúsu ‘che insudicia’ 1883 NicD
564; mani sunzusi ‘mani sudicie’ 2002,
VS 5, 444 (da Castelbuono).
’nzúnzuli s.m. pl. ‘ciccioli, residui
abbrustoliti della sugna dopo l'estrazione
dello strutto’ (1990, VS 3, 381, da
Altavilla Milicia, Catenanuova e
Leonforte); źźúnzuli 2002, VS 5, 1318
(da Lipari e S. Maria di Licodia).
’nzunzúni s.m. ‘chi mangia o chi
cucina sciatto e sudicio; lercio’ (1868,
Tr 663 e poi TrV 297 e NicDUr 572, che
rinvia a 564, dove si registra con gli
stessi sensi la var. ’nsunzúni; ’nz.,
anche da Palermo, in VS 3, 381). Per
questo tipo di formazione su tema
verbale cfr. Rohlfs, § 1095 (FaréSalv
846 registra a Mirandola sunźòn
‘sudicione’.
’nzunzaréḍḍa ‘escl. di buon augurio
rivolta al bambino in fasce quando rutta’
(1990, VS 3, 380, da Riposto); i
sinonimi nzunzaríḍḍu ib. (da Adrano) e
nzunzíḍḍa ib. 381 (da Catenanuova).
’nzunzunaría
s.f.
‘sudiciume,
sporcizia’ (1990, VS 3, 381, da
Palermo).
’nzunzunïári v.tr. e intr. ‘accr. di
nzunzari’ (1868, Tr 663 e poi fino a
NicDUr 187e VS 3, 381), ‘far una cosa
alla peggio’ (1868, Tr l.c., poi TrV 297 e
VS l.c.), ‘muovere, eccitare, stuzzicare’
(1868, Tr l.c., poi TrV l.c. e VS l.c., da
Avola), ‘indurre q. ad azioni illecite con
ragionamenti capziosi e subdoli’ (1990,
VS l.c., da Mistretta, ma già in Tri). La
var. ’nsunzunïári è già nel 1844 in Mort
2, 33 (e poi in NicD 564) nei due primi
sensi, mentre nel penultimo si trova solo
in NicD l.c.; zzunzuniári ‘sporcare di
untume’ 2002, VS 5, 1318 (da
CavallaroMs).
’nzunzuniátu agg. ‘incrostato di
sudiciume’ (1990, VS 3, 381, da
Gagliano Castelferrato).
zzunzadóru in pira zz. ‘una varietà
non meglio determinata di pere’ (2002,
VS 5, 1318, a Dèlia, da Can); anche pira
zzunzudóru ib. (a Mazzarino).
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3 PREMESSA - Centro di studi filologici e linguistici siciliani