PREMESSA La lettera N del VES, una cui redazione non definitiva ora si offre alla lettura e alla discussione, è stata originariamente redatta poco dopo l’uscita del vol. 1 (1986) ed è stata aggiornata, si spera adeguatamente, anche con il contributo della dott. Adriana Cascone, che ha operato lo spoglio di gran parte della bibliografia posteriore. La responsabilità di qualsiasi errore o difetto è naturalmente mia. Il testo che ora si distribuisce mostra tutti i problemi che si incontrano nel completare il VES a parecchi decenni dalla pubblicazione del suo vol. I e dalla redazione di una parte delle voci successive. Nel 1986 non disponevo che dei vol. I e II (appena uscito) del VS; quando il VES fu impostato non potevo contare sul LEI; non era uscito nessun volume dell’ALI, e naturalmente non disponevo di tutte le fonti ed i lessici etimologici (DELI2, DCECH, DECLlC, ecc.) che sono apparsi nei successivi 25 anni. Che le voci redatte da tempo e quelle da redigere debbano essere aggiornate è cosa indubbia, ma non manca qualche problema, anche serio. Nell’impostare il VES, non potendo contare sul LEI, mi convinsi a dare abbondanti (ma non esaustivi) riscontri italo-romanzi, soprattutto meridionali, per individuare l’area di diffusione delle singole voci, che è sempre pertinente per l’accertamento dell’etimo. Se avessi avuto in mano il LEI, anche senza farmi illusioni circa un suo rapido completamento, sarei stato molto più sommario. Non c’è infatti dubbio che questa sezione del VES sarà del tutto superata man mano che usciranno le voci corrispondenti del LEI. Basterà confrontare la voce AXUNGIA in LEI 3/2, 2745-2764 (senza trascurare Pfister, ID 66-67, 2005-2006, 126-133) con la voce nzunza qui sotto. Lo stesso si deve dire per l’ALI rispetto all’AIS. Più complesso è il problema posto dal VS. Poiché era evidente fin dal primo volume che le entrate di questo ricchissimo vocabolario si moltiplicavano incomodamente a causa del proliferare delle varianti fonetiche 3 (e grafiche) e che esse non venivano ricondotte se non in piccola parte alle voci principali, io cercai di dare tutti i rinvii che riuscivo ad identificare. Lo stesso ha ora fatto Adriana Cascone con i 5 volumi dell’opera completa. Ciò però ha determinato un enorme aumento del volume delle voci, a volte fino ad un terzo. Continuando così, non soltanto il lavoro (da rifare anche per il vol. I del VES) si rallenta molto, ma la dimensione dell’opera si accresce in modo impressionante. Ho forti dubbi sulla reale utilità di tutto ciò. Di fatto gran parte del materiale del VS proviene dalle risposte che i numerosi informatori hanno registrato sui formulari che venivano mandati da Catania e rimandati alla redazione. Si tratta di forme scritte nel modo che pareva opportuno ad informatori sempre utili ma non sempre capaci di una trascrizione che non fosse estemporanea e personale; per la stessa ragione avvenne una proliferazione di significati che per lo più sono varianti o traslati del significato principale, più o meno occasionali. Le localizzazioni sono significative in positivo, ma non si può mai escludere che le forme e i sensi esistano anche in altre località dell’isola. Un problema comparabile si pone ora con il CorpusArtesia (al sito www.ovi.cnr.it), che raccoglie tutte le occorrenze di molte voci che ci interessano nei testi anteriori all’inizio della tradizione lessicografica. Riportarne tutto il materiale è impensabile; spesso è sufficiente rinviare al Corpus (il che potrebbe essere fatto anche in forma implicita). Basterà una selezione. Un lessico etimologico non è un trattato sulle grafie né di fonetica né di semantica e neanche una fonte per opere del genere. Il fine del VES è risalire all’origine prossima della famiglia lessicale siciliana e illustrare di questa la storia e la complessità. Bisogna ridurre le informazioni grafiche, fonetiche e semantiche a ciò che è essenziale per il fine specifico. Io ritengo pertanto che sia opportuno, anzi necessario, che la redazione delle voci nuove e la revisione delle vecchie rinunci a questa selva portentosa, discutibile e sostanzialmente inutile, limitandosi a trarre dal VS e dalle altre fonti le forme e i significati veramente importanti per la storia della parola. Sarò grato ai colleghi che vorranno esprimere il loro parere in merito e che miglioreranno il mio lavoro con qualsiasi suggerimento o critica. Alberto Varvaro 4 naca1 s. f. ‘culla (in primo luogo quella sospesa)’ (ante 1337), prestito o relitto dal gr. ant. νάκη ‘vello di pecora’, perché con questo si faceva la culla sospesa; è voce di area sic. ed it. merid., fino al Cilento ed alla Puglia. Ante 1337: «Mida…essendu citellu et durmendu a la naka…» (ValMax 1.4.221) e «Tulliu Hostilliu, standu a la naka, nutricatu fu in casa di furitanu» (ib. 3.4.3) e «incumenzaroyu commu da la naka [chò èn da lu principiu] di lu suvranu hunuri» (ib. 4.1.8; cfr. CorpusArtesia); 1348: «Crepudium… lectus infantium, qui dicitur nacha vel cuna…; Crocea… cuna pueri, que dicitur nacha; Cuna… lectus infantium, qui dicitur nacha» (Sen 92); 1a metà sec. XV: «fichi fari una naca di ferru» (SCristina 25); 1442 a Palermo (BrescCasa 126); 1487: «questa creatura… a le fiate essendo posta a la nacca, la trovarono sotto lo lecto» (BEustochia 57.3); 1497 Francofonte: «unu chiccu di argentu di naca… dui brochi grossi di naca di argentu» (Gaudioso LXXXIII); sec. XV: «fichisi pichulillu… plangendu a la naca» (Meditacioni 123.29); 1519: «naca di pichulillu: cunae, cunabulum, incunabula» (Scobar 69r); 1736 Catania: «pozzu jri a la naca» (Musmeci 118); 1752 n. ‘culla’ dBono 2, 415 e poi sempre fino a Cav 131, RohlfsSuppl 73 e VS 3, 4 (qui anche molti sensi traslati); la diffusione generale della voce nell’isola è confermata da AIS 1, 61 e ora da ALI 7, 679; da AIS risulta anche che si tratta di norma della culla sospesa con corde fissate alle pareti (cfr. Rohlfs, RLiR 9, 1933, 256-7, con la fig. 25 da Giarratana e la fig. 8 da Oriolo [CS]; UccelloCanti 85; UccelloCasa 34; è detta anche n. a ventu NicD 539, NicDUr 165 e VS l.c. ┌n. a ventu┐ (da Andrano, Aci Castello, Casteltèrmini, Enna, Licàta e Pantelleria), e n. a volu.( da Palazzolo Acreide e S. Michele di Ganzarìa); oggi le culle di tipo più mod. conservano in dialetto la stessa denominazione (così già n. di lignu ‘zana’ in NicD l.c. e NicDUr l.c.); da ‘culla’ provengono altri sensi, tra cui: ‘arnese da dimenar la bombola’ 1752 dBono l.c.; ‘branda (di nave), amaca’ 1868 Tr 627 e poi NicD 539 e VS l.c. (n. di navi); ‘altalena’ 1883 PitrèGiuochi 361 (da Riesi e Milazzo), VS l.c.; poi AIS 4, 748 a Baucina, Catenanuova, Naro, S. Michele (RohlfsSuppl 73 aggiunge Mistretta); ora ALI 7, 706 mostra che nel senso di ‘altalena’ n. ha una diffusione analoga a quella di ‘culla’; ‘piccola rete a strascico, con sacco, fornita di piombi e di sugheri all’orlo superiore’ (a Palermo) 1937 DizMar 492 e poi DEI 4, 2541; ‘pezzi di corda ai due lati del basto per legare e tener ferme le some da trasportare’ 1990, VS l.c. (da Altofonte, Montedoro e Palazzolo Acreide, ma già in Tri). – Mi pare difficile che vada qui (per traslato da ‘culla di legno’?) anche naca3 ‘muro di rivestimento per impedire lo smottamento della terra’ 1868 Tr 1152 e poi solo TrV 266, nonché VS 3, 5: ‘pietraia, cumulo di pietre raccolte insieme nei campi coltivati ammucchiate alla rinfusa (a Palazzolo Acreide) o sistemate ad arte in forme geometriche (a Canicattini Bagni)’; ‘striscia di terreno risultante dal terrazzamento di un pendio’ da Solarino (qui anche fari annachi a-nnachi ‘terrazzare un terreno in forte pendìo’); a queste voci va aggiunto nacúni s.m. ‘cumulo di pietre raccolte insieme nei campi coltivati, sistemate ad arte in forme geometriche; muro di sostegno nelle opere di terrazzamento’, da Palazzolo Acreide. – Cfr. piazz. naca ‘cuna, culla’ (Roccella 166), confermato da AIS l.c. per S. Fratello, Fantina e Sperlinga (non Aidone, per cui 5 Raccuglia 255 dà nacca). Cfr. malt. nieqa ‘id.’ (Barbera 3, 845; Kalepin 224; AquilinaSurveys 104). La c. cit. dell’AIS mostra che l’area di ┌ naca┐ si estende compattam. fino a tutta la Basilicata (più Teggiano) e in Puglia fino a Spinazzola, Ruvo e Bari, anche se la denominazione corrisponde a tipi diversi (accanto alla culla sospesa c’è quella di legno e quella a cesto). La c. 679 di ALI conferma questa area, mentre nella c. 706 il senso ‘altalena’ appare solo in qualche punto della Calabria merid. Cfr. infatti NDDC 449 (anche ‘altalena’); Lausberg 221; Paternoster 19; Mennonna 127; Pisticci ‘altalena’ AIS 4, 748; Festa 274 (a Pisticci e Matera nachə è anche un tipo di arnese da portare la soma: AIS 6, 1232 Cp e Scheuermeier 1, 65 e 112); VDS 2, 381 (anche tar. naca-naca ‘altalena’); Saracino 286; Di Terlizzi 78. I lessici estendono un po’ l’area: per il Cilento cfr. Rohlfs, Z 57, 1937, 453; per Molfetta Scardigno 335; per Bisceglie Còcola 115; per Foggia Villani 67. È anche bov. e otr. (cfr. LGII 346). Amari 3/3, 912n e Mortillaro, ASS 6, 1881, 135 lo dissero arabismo, ma senza indicare la base, che Avolio 46 credette di trovare nell’ar. qenāq ‘le lieu où l’on couche quand on est en voyage’ di Dozy 2, 414a, che però, oltre ad essere poco verosimile foneticam., ha anche il difetto di essere in ar. di origine turca (come osservano DALCalv 267-8, che pur non rifiutano l’origine dalla radice ar. n-q-l ‘agitare’), il che non quadra con la cronologia (né l’area è quella di un arabismo). All’ar. pensava ancora De Gregorio, StGl 1, 1899, 134, ma ritenendo n. un traslato di naca2, idea presto abbandonata da lui stesso e spesso sostituita dall’idea inversa (→ naca2). Intanto Morosi, AGl 4, 1878, 140, aveva dato un etimo lat.: *NAVICA dimin. di navis, che D’Ovidio, ib. 407, modificava considerando n. deverb. di nacá < NAVIGARE; cfr. anche Salvioni (in FaréSalv 479) e ancora Festa, Z 38, 1917, 274; ma già Meyer-Lübke, Z 26, 1902, 728 (e poi ASNS 150, 1926, 72; REW 5813) ne aveva individuato l’origine gr., accettata da De Gregorio, StGl 7, 1920, 247; Rohlfs, Z 46, 1926, 144n; Battisti, RLiR 3, 1927, 42 e 54; Alessio, RIL 77, 1943-44, 694; DEI 4, 2541; Alessio Postille 15; LGII 346; AlessioLexicon 277; RohlfsSuppl 73. Il gr. ant. νάκη valeva ‘vello di pecora’ e una pelle di pecora fissata ad un telaio rettangolare costituiva probabilm. la culla sospesa, la quale si usa ancora in zone del Peloponneso e del Dodecaneso e vi ha il nome νάκα. L’area della voce sic. ed it. merid. è tipica di un grecismo ant. (impossibile dire se ci sia stata una mediazione nel lat. regionale); il prestito riguardò l’oggetto e la sua denominazione, anche se poi n. si è esteso ad altri tipi di culla. — Secondo NicD 539 si chiama (o chiamava) corda a naca ‘quella corda o altro sospeso in cui i ragazzi si trastullano’. VS 3, 5, ma come voce a parte, segnala la locuzione fari n. che a Canicattini Bagni (sic. sudor.) presenta il significato ‘fare la corda molla, ad es. del filo dell'aquilone quando viene dondolato’, inoltre riporta il sintagma n. furzata ‘sifone a corda molla’, quest'ultimo da* Tri. nacári v.tr. e rifl. ‘cullare’: 1a metà sec. XV: «la fachia nacari a quactru homini iuvini« (SCristina 25) e «si nacava comu si nacava quandu era pichula infanti» (ib.); 1519: «nacari v. annacari: cunas agere» (Scobar 69r); 1752 n. ‘v. annacari’ dBono 2, 415 e così poi Pasq 3, 240, Tr 627 (da Noto), TrV 266, VS 3, 5 (da Mòdica, Pantelleria, Ragusa e S. Michele di Ganzarìa,) e AIS 1, 62 (da Giarratana); n. rifl. ‘cullarsi, dondolarsi’ 1990, VS l.c. (da Mòdica); ‘indugiare, attardarsi, perdere tempo, ad es. nel lavoro’ ib. (da Pantelleria e S. Michele); ‘ancheggiare, 6 dimenarsi troppo’ ib. (da S. Michele); ‘pavoneggiarsi nel camminare’ ib. (da Pantelleria). Molto più diffuso è annacári v.tr.: 1519: «annacari pichulillu: cunas agere, cunis soprie [sic; corr. sopire]» (Scobar 10v); 1721 a. picciriddi ‘cullare, ninnare’ Dr 32; poi a. ‘cullare’ 1751 dBono 1, 52r e poi sempre fino a Cav 29 e VS 1, 190, nonché in AIS 1, 62 in tutti i P. sic. tranne Mandanici, S. Michele e Giarratana; ‘cantarellare acciò addormentinsi i bambini, ninnare’ 1868 Tr 57 e poi solo NicD 57; ‘dimenare’ 1751 dBono l.c. e poi Pasq 1, 103, Rocca 30, NicD 57 e VS l.c.; ‘scuotere, scrollare, ad es. un albero’ 1937 AIS 7, 1256 (‘scuotere un pero’, a Baucina) e poi VS l.c. (da Paternò, Baucina e Mazara, ma già Meli 1, 200 ha «ddà truvirai li zefiri / ch’annàcanu li cimi», autoglossato ‘agitano lentamente’); ‘pascere uno di vane speranze’ 1751 dBono l.c. e poi fino a NicD l.c., in VS l.c. come ‘menar per le lunghe q. o qc.’ (da Corleone, Campobello e Marsala); ‘adulare beffando’ 1751 dBono l.c. e poi fino a TrV 65 e VS l.c., come disus.; a. intr. ‘dondolarsi, ciondolare, di casa posta in bilico; ondeggiare, delle messi; beccheggiare, di imbarcazioni (da Tri e Lipari)’ 1977 VS l.c.; a. rifl. ‘cullarsi, dondolarsi’ 1977 VS l.c.; ‘dimenarsi’ fine sec. XVIII («annacánnusi tuttu niscìu in menzu», Meli 2, 736 autoglossato appunto ‘dimenarsi’), 1838 Mort 1, 55 e poi fino a TrV l.c.; ‘culeggiarsi’ 1838 Mort l.c. e poi fino a NicD l.c. e VS l.c.; Calvaruso 29 ha a. ’u vasu ‘culeggiare camminando, parlando specialm. di donna’; ‘ondeggiare, di imbarcazione e di persona’ 1977 VS l.c.; ‘muoversi’ 1940 AIS 8, 1665 a Bronte (come nnacári, forma per cui cfr. sotto) e Mascalucia; ‘perder tempo’ 1751 dBono l.c. e poi in Mort l.c., NicDUr 16 e VS l.c., con alcune localizzazioni e l’aggiunta di annacarisilla ‘id.’; ‘tentennare, esitare, pigliar tempo’ 1914 NicDUr l.c. e poi VS l.c., da Marsala, e annacarisilla ‘id.’, da Enna, nonché, a parte, ‘tergiversare, cercare cavilli’; ‘assumere atteggiamenti da mafioso; vantarsi’ 1977 VS l.c.; ‘affrettarsi, spec. in frasi imperative’ 1977 VS l.c., come etneo sud-or. e da Gagliano. La forma nnacári (cfr. già sopra) è nel 1752 dBono 2, 497 e poi Pasq 3, 302, Tr 648, TrV 285, VS 3, 261 (anche intr. e rifl., e con molti traslati) e AIS 1, 62 (‘cullare’ a Mandanici e S. Michele). Cfr. piazz. nachè ‘cullare’ (Roccella 167); aid. nacchè e nacculiè ‘id.’ (Raccuglia 255); AIS 1, 62 ‘cullare’ ha lo stesso tipo a Fantina e Sperlinga, ┌annacare┐ a S. Fratello. Cfr. regg. nnacari ‘cullare’ e rifl. ‘temporeggiare’ (NDDC 473); cal. annacare ‘cullare’, rifl. regg. ‘temporeggiare’ (ib. 82; cfr. Rensch 246; AIS 4, 722 registra nnacare ‘barcollare come un ubriaco’ a Verbicaro); luc. annaká ‘id.’ (Lausberg 196). Cfr. DEI 1, 210; FaréSalv 5813; LGII 346. nacalóra s.f. ‘altalena’ (1752, dBono 2, 415 e poi fino a TrV 266 e VS 3, 5), ‘culla’ (1752, dBono l.c. e poi fino a NicD 539 e VS l.c.), ‘quel ragno che fabbrica i ragnateli di figura sferica’ (1752, dBono l.c. e poi Pasq. 3, 240 e Rocca 216), ‘tarantola, ragno dei licosidi’ (1990, VS l.c., ma da Tr 1152 a NicD l.c. come agg. ‘di ragno grosso, nero e velenoso’ e infatti AIS 3, 485 N ha a Giarratana trarántula n. ‘ragno casalingo [Zimmerspinne]’, cfr. anche VS l.c.), ‘certa ruota di fuochi artificiali’ (1868, Tr 627 e poi fino a NicD l.c. e VS 3, 5); come agg. in vizza n. ‘una varietà di veccia’ (1990, VS l.c., da Ragusa); n. s.f. ‘persona dinoccolata’ (ib., da Noto). La forma nacaluóra ‘altalena’ 1932 AIS 4, 748 a Palermo e VS 3, 5 a Corleone, da ALI; ‘culla’ ib. ad Altavilla Milicia e Corleone, da ALI; nnacalóra ‘culla’ (a Marinèo), ‘altalena’ (a Balestrate, Borgetto e Càccamo), ‘il cullare’ (a 7 Villarosa) 1990 VS 3, 261; nnacaruóra ‘altalena’ 1990, VS 3, 262 da Corleone; nnaccalóra ‘v. nacalora’ 1752, dBono 2, 497, Pasq 3, 302 e VS l.c.; annacalóra ‘culla a dondolo’ (a Casteltermini), ‘altalena’ (pal.) 1977 VS 1, 190, che lo registra separatam. per ‘un ragno ritenuto velenoso, tarantola, Lycosa tarentula’, anche come agg.; annacaluóra ‘altalena’ ib. (da Altavilla Milicia). La c. 679 di ALI 1 registra nacalora ai P. 1003, 1004, 1018, 1023, 1031, 1037, 1063, 1064, spesso come alternativa a naca. Cfr. piazz. nacalöra ‘v. naca’ (Roccella 166). Cfr. FaréSalv 5813. Il suff. -lora è raram. deverb. per indicare strumenti (cfr. Rohlfs, § 1074); può anche avere valore aggettivale. nacalúru s.m.: 1519: «nacaluru auchellu: acantillus» (Scobar 69r); 1890 naccaluóru ‘rigogolo, Oriolus Galbula’ nelle Madonie (Giglioli 604; VS 3, 6 aggiunge Pòllina, da De Gregorio e segnala n. aggruppa filu [lett. n. ‘annoda filo’] ‘id.’ a Castelbuono; nacaluóru ‘id.’ 1990 VS 3, 5, da Tri, a Castelbuono e nelle Madonìe; nnacaluòru ‘id.’ ib. 261, da Cerami. La collocazione qui mi pare dubbia. nacalúni s.m. e agg. ‘persona stupida, sciocca’ (da Buscemi, Giarratana e Ragusa), ‘persona corpacciuta’ (da Chiaromonte Gulfi e Palazzolo Acreide), ‘persona che cammina traballando’ (da Acate e Sortino), ‘spilungone’ (da Palazzolo Acreide) (VS 3, 5); nnacalúni ‘id.’ ib. 261 (da Barrafranca e Centuripe), nnaccalúni s.m. ‘uomo alto, corpacciuto e mezzo scemo’ ib. 262 (da Balestrate), e il v.intr. nacalunïári ‘bighellonare’ ib. 5 (da Giarratana e Ragusa). annáca s.f. ‘culla’ (ALI 7, 679, ai P. 1004 e 1035). annacaméntu s.m. ‘dimenamento di cuna’ (1751, dBono 1, 52r e poi NicD 57), ‘dimenamento’ (1785, Pasq 1, 103 e poi fino a Tr 57), ‘vane promesse’ (1751, dBono l.c. e poi fino a Tr l.c.), ‘adulazione mescolata alquanto di beffa’ (1751, dBono l.c. e poi fino a Tr l.c.); inoltre, nnacaméntu s.m. ‘dondolamento’ VS 3, 261, da Tri. annacáta s.f. ‘dimenamento, dimenio’ e più specificam. ‘cullata’ (1838, Mort 1, 55 e poi fino a NicD 57 e VS 1, 191, che aggiunge ‘scrollata, scossone; l’ancheggiare o dimenarsi troppo nel camminare, per spavalderia o per civetteria’, nonché ‘tentennamento, indugio’); ‘presa in giro’, in faricci n’a. (1785, Pasq 1, 103 e poi Rocca 30 e VS l.c.). Inoltre, nnacáta s.f. ‘dondolamento; scrollata, scossone; tentennamento, indugio, perdita di tempo; portamento’ 1990, VS 3, 262. Inoltre: nnácati-nnácati agg. inv. ‘di persona dinoccolata’ 1990, VS 3, 262 (da Nissoria). nnacatúri s.m. ‘culla a dondolo; altalena’ VS 3, 262 (il 1° senso da Bronte e Riposto). annacatína s.f. ‘dondolamento’ (1977, VS 1, 191, da Av). annacatélla [sic] s.f. ‘altalena’ (1977, VS 1, 191, da Acicastello e Catania); nnacatélla s.f. ‘id.’ 1990 VS 3, 262 da Calatabiano, Messina, Raddusa e dall'etneo sud-or., nnacatéḍḍa ib., da Siracusa, nacatéḍḍa ib. 5, da Letoianni, nacatella ib. da Aci Bonaccorsi, inoltre nacarélla ib. ad Augusta, da ALI. nachïárisi v. rifl. ‘v. annacarisi o annaculiarisi’ (1789, Pasq 3, 240 e VS 3, 6, dove anche nachiári v.tr. ‘dondolare cullare’ e v.intr. ‘nuotare, spostarsi o procedere a nuoto’, quest'ultimo senso da Man e a S. Giuseppe Jato, da ALI). Cfr. piazz. nachiè v.intr. ‘dimenar leggermente; muovere a lenti passi’ (Roccella 166). Cfr. cos. nachïare ‘cullare’ (NDDC 449). La forma annachïárisi 1977 VS 1, 191, localizzata nella Sicilia or. La forma nacchïárisi (cfr. VS 3, 6, da Pasq 8 e TrV) vale sì ‘annacarisi’ ma è formalm. da → nnacchiu. annachïáta s.f. ‘dondolio (da Av); ancheggiamento (da Caltanissetta e rag. [ma è anche pal.]); il farsi avanti con atteggiamento minaccioso e di sfida contro q.’ (1977, VS 1, 191). naculïári v.tr. ‘v. annaculiari’ (1752, dBono 2, 415 e poi fino a NicDUr 165 e VS 3, 7, da Tri, Licata e Marsala; in VS l.c. anche: ‘scuotere (ad es. un albero)’, da Tri; ‘muovere leggermente, tremolare’, anche rifl., da Pantelleria; ‘tentennare, ad es. di mobile che non sia bene poggiato’, anche intr., da S. Michele; n. v. rifl. ‘attardarsi, perdere tempo’, da S. Michele; in VS 3, 263-4 anche nnaculïári con usi tr., intr. e rifl., e alcuni traslati e nnacculïári v.intr. ‘tentennare, di dente’, da Paternò). Cfr. piazz. naculiè ‘v. nachiè’ (Roccella 166). Cfr. regg. nnaculïari ‘dondolare, cullare’ (NDDC 473). Cfr. FaréSalv 5813. Molto più vivo annaculïári ‘v. annacari’ (1751, dBono 1, 52r e poi sempre fino a Cav 29 e VS 1, 191; al rifl. è soprattutto ‘muoversi, agitarsi (di persone, fronde ecc.); tentennare’). annaculiaméntu s.m. ‘v. annacamentu’ (1751, dBono 1, 52r e poi fino a NicD 57). annaculïáta s.f. ‘l'azione del dimenare’ (1883, NicD 57 e poi VS 1, 191), e naculïáta ‘il cullare; il dondolare’ 1990, VS 3, 7, da Pantelleria. Cfr. inoltre l'agg. nnaculïátu ‘dinoccolato’ ib. 264, da S. Elisabetta. annacúni s.m. ‘scossa, scrollone’ (1977, VS 1, 191, da Man). annacarïári v.intr. ‘v. arrisinari’ (1868, Tr 1130, da S. Giovanni Gemini, poi TrV 65, Pitrè 8, che aggiunge Cammarata, e VS 1, 191). Semanticam. pare senza relazione con la nostra famiglia, ma cfr. nnacarïári v.tr. ‘cullare, dondolare’ 1990, VS 3, 262, da Tri e Lìmina; ‘scuotere, scrollare’ ib., da Tri; v.intr. ‘ciondolare, di oggetto posto in bilico; tentennare, esitare’ ib., da Tri; v. rifl. ‘indugiare, perdere tempo’ ib. da Tri e Villafranca Tirrena. Cfr. anche regg. nacarïari ‘dondolarsi’ e annacarïari ‘dimenarsi, dondolarsi con studiata affettazione’ (NDDC 449 e 82). Da questo v. nnacarïáta s.f. ‘lo scuotere, lo scrollare; lentezza nell'operare; temporeggiamento’ 1990, VS 3, 262 (il 1° senso da Tri); nnacarïaméntu s.m. ‘dondolio, oscillazione; temporeggiamento, perdita di tempo’ ib., da Tri. Inoltre, nnachiḍḍïári v.tr. ‘scuotere, ad es. una pianta per farne cadere a terra i frutti’ VS 3, 263, da Tripi. ’ncannacári v.tr. ‘v. annacari’ (1868, Tr 631 e poi solo TrV 269 e VS 3, 35, dove è anche il rifl. ‘dondolarsi’). Avolio 46 lo considera der. di naca, ma la formazione non è chiara e la cosa rimane incerta. cacanáca s.m. ‘uomo da nulla’ (fine sec. XVIII: «l'avirrò poi un sollenni cacanaca, / èrramu, tintu, putrunazzu e vili», Meli 1, 723, autoglossato ‘uomo da nulla’, mentre a 2, 223 per «Tu … cunti ancora ntra li cacanachi» il poeta annota: ‘si dice per ischerno agli uomini dappoco’; 1868 Tr 136 e poi TrV 103, NicDUr 37 e Calvaruso 46 per ‘giovane inesperto’, e VS 1, 502, che ha anche ‘persona inetta e oziosa’. náca-bózza s.f. ‘altalena’ (1883, PitrèGiuochi 361, da Licata; poi Pitrè 62), nacabbózza 1990, VS 3, 5. VS 1, 190 ha annacabbuózza s.m. ‘perditempo’, da Corleone. Nel 1868 Tr 1152 ha, sempre da Licata, nacatabbózza s.f. ‘altalena’, che torna solo in TrV 266 e VS 3, 5 (che ha anche nachetabbozza a Licata, da ALI), nonché, nella forma náchita-bózza 1901 La Rosa 61, De Gregorio, StGl 7, 1920, 65, come di Noto; nachitabbózza in VS l.c., a Licata, localizzazione in cui è attestata anche naticabbózza ‘id.’ 1990, VS 3, 24. Cfr. bbózza a-nnáca s.f. 9 ‘cantimplora a bilico’ (1838, Mort 1, 115 e poi Tr 125, che ha anche fari la bozza a naca ‘giuoco che fassi tra due fanciulli che si volgono le spalle e colle braccia intrigatesi tra loro alzandosi a vicenda l’un l’altro’ (cfr. PitrèGiuochi 360), e VS 1, 438, ib. 3, 4); sembra chiaro che il nostro composto proviene da inversione di questi due termini, ma nelle ultime var. naca assume la forma che ritroviamo in náchita-cícca ‘id.’ (1977, RohlfsSuppl 73, da Rodì, e VS 3, 7 (con var. nel messinese); cfr. annácati cicca ‘lentamente, pian pianino’ 1977 VS 1, 707 s.v. cicca, da Tri, dove cicca sarebbe il dimin. di Francesca; cfr. cos. náchita-zunna ‘altalena’ NDDC 449). nacanaca s.f. ‘altalena, tavola sospesa con due corde a un ramo o a un qualsiasi altro sostegno’ 1990, VS 3, 5, da Isola delle Femmine; nnacannáca s.f. ‘id.’ VS 3, 261 da Roccella Valdèmone; ‘dondolio; tentennamento’ ib., da Tri; id. s.m. ‘terremoto’ ib., da S. Alfio. nacanzíca s.f. ‘altalena’ VS 3, 5 (da Av); nacazzíca s.f. ‘id.’ VS 3, 6 (da Capaci). nácula-’nzícula ‘altalena’ (1883, PitrèGiuochi 361, da Catania, poi Pitrè 62 e AIS 4, 748 a Mascalucia e VS 3, 7 (con alcune var.); per la seconda parte cfr. vocanzíca e vocalanzícula, VS 5, 1171 s.). nácula-pénnula ‘id.’ (1977, RohlfsSuppl 73, da Naso, e VS 3, 7). nnacapréuli s.m. ‘persona sciocca e inconcludente’ VS 3, 261 (da Biancavilla). nácula-túcca ‘id.’ (1883 PitrèGiuochi 361, da Messina, come ‘culla turca’ e poi Pitrè 62, anche in VS l.c.). nnachiticiúḍḍa s.f. ‘id.’, VS 3, 263 (da Nizza Sicilia); nachína s.f. ‘culla’ VS 3, 6 (a Barrafranca, da ALI); nachïola s.f. ‘id.’ ib. (da Marsala); nnacularína s.f. ‘altalena’ VS 3, 263 (da Noto) e nnacularrína ib. (da Tri e Noto) naca2 s.f. ‘pozza d’acqua stagnante nel letto di un fiume’ (1752, nel senso di ‘terreno poco compatto’ e ‘gorgo’), relitto dell’ar. naqc o naqac ‘acqua stagnante; acquitrino’, di area soltanto sic. e regg. e senza corrispondenti in altre lingue rom. 1752 n. ‘terreno che sfonda e non regge al piè’ dBono 2, 415 (non torna altrove, se non citato in VS 3, 5) e ‘gorgo’ dBono l.c., poi in Pasq 3, 240 Tr 627, TrV 266 e VS l.c., da Troina; 1844 ‘letto di fiume’ Mort 2, 1 e poi Tr l.c., TrV l.c., NicD 539 e VS l.c. (da Casteltèrmini); AIS 3, 429 Cp ‘buca nel letto del fiume’ ha n. a Vita, Villalba e Naro; ‘avvallamento o rientranza del corso del fiume dove l’acqua ristagna’ e ‘pozza d’acqua’ (GenchiCannizzaro 180, a Castelbuono); nonché nella galloit. Sperlinga; RohlfsSuppl 73 aggiunge S. Biagio Platani, altre localizzazioni in VS 3, 4 s.; Nicotra 249 ha nachi ‘fossi pieni di acque dolci’ ad Alia; VS 3, 5 ha anche n. ‘cunetta, avvallamento del piano della strada’, da Tri. Cfr. regg. naca ‘avvallamento, fossa’ (NDDC 449). Avolio 46 accosta il sic. n. d’acqua (cfr. anche VS 3, 5) allo sp. noque ‘fossa di conceria’, ricondotto all’ar. noqueca, per cui sarebbe connesso a → bunaca2. Così anche De Gregorio, StGl 1, 1899, 134, che ritiene naca1 sviluppo di naca2; ma questo studioso cambiò parere, escluse n.2 dagli arabismi da lui raccolti in StGl 3, 1903 ed in StGl 7, 1920, 247 mantenne il nesso con naca1, ma invertendo la direzione dello sviluppo, per cui ora era la nostra voce ad essere traslato di ‘culla’ (così anche REW 5813; Prati, ID 16, 1940, 171-2 e PratiStorie 39; Alessio, Boll 4, 1956, 337; Giuffrida 71). Nel frattempo DAlCalv 267 avevano riformulato l’etimo ar., proponendo naqc ‘terreno 10 dove l’acqua stagna, acqua stagnante’ (cfr. Wehr 993 e Steingass 1143: ‘maceration, soaking, steeping; infusion; stagnant water, quagmire, swamp, bog’; Nallino-Traini 3, 1557: ‘macerazione, infusione; acqua stagnante, stagno, acquitrino, palude’), parola che Edrisi usa al f. (cfr. Dozy 2, 715b). Questa base è stata accolta da Rohlfs, Z 46, 1926, 150 (che osserva giustam. che l’area di naca2 è del tutto diversa da quella di naca1), Steiger 216, PagliaroAspetti 361 (pone accanto a naqc un dial. naqac), AlessioPostille 15, Pellegrini 268, RohlfsSuppl 73. Fin da Avolio l.c. si è collocato accanto alla voce sic. quella sp. (cfr. ancora Alessio, Boll 4, 1956, 337), ma noque è prestito dal cat. noc ‘taüt’, a sua volta dal lat. *NAUCUS (attestato solo nel sec. VI: cfr. DCECH 4, 236a; DECLlC 5, 943b ss.; FEW 7, 60). Per quanto sia esistito il corrispondente der. f. di navis, cioè *navica, ed abbia continuatori gallorom. nel senso di ‘condotto d’acqua’ e tosc. (cfr. FEW 7, 58b e 60a), la fonetica esclude che la voce sic. possa avere questa origine. Si tratta dunque di relitto ar., che designa in primo luogo, giusta l’etimologia, le pozze d’acqua stagnante cui spesso si riducono i corsi d’acqua sic. Per i nomi di luogo corrispondenti a questo tipo cfr. Alessio, Boll 4, 1956, 337, che integra AvolioTop 90; cfr. anche Prati, ID 14, 1939, 175-6. → bunáca2. annacári2 v.intr. ‘ingorgarsi (dell’acqua)’ (1977, VS 1, 191, da Tri). nachicéḍḍa s.f. ‘pozzanghera’ (1990, VS 3, 6, da Altofonte). nacúni s.m. ‘modesto avvallamento nel terreno nel quale l'acqua ristagna per qualche tempo’ (1990, VS 3, 7, da Castelbuono) e ‘pozzanghera’ ib., da Isnello. nnácchiu s.m. ‘organo genitale della donna’ (1789, nel senso traslato ‘sciocco’; 1844, nel senso proprio), è voce con isolati riscontri in Calabria, di origine controversa (*CUNNACŬLUM?; PINNACŬLUM?; ar. nakḥ?), ma forse semplice rifacimento di → pacchiu con la nasale di cunnu ‘id.’. 1789 n. ‘persona da poco, sempliciotto’ Pasq 3, 303 e poi fino a Tr 649, nn. VS 3, 263; 1844 nn. ‘v. cunnu’ Mort 2, 26 e poi solo Tr l.c. ed ora RohlfsSuppl 75 (da Ucria e Palermo, cui VS 3, 263 aggiunge Castellammare del Golfo, Frazzanò e Gioiosa Marea), n. VS 3, 6 (da Adrano); 1990 nn. ‘abitante di montagne boscose o oriundo da paesi situati tra i boschi’ VS 3, 263 (da Troina) e ‘persona che viene dai paesi limitrofi a vendere uova o altro genere di merce di scarso valore’ (da Cesarò). L'agg. nn. ‘stupido, scemo’ ib. da Barcellona, e ‘piccolo’ ib. (da Bronte e Maletto). Inoltre, nnágghiu s.m. ‘pudende femminili’ VS 3, 264 (da Tri), e nácciu s.m. ‘id.’ VS 3, 6 (da Mòdica). In VS 3, 272 anche nnícchiu s.m. ‘pudende femminili’ (da Messina, da cui l’unica attestazione in ALI 1, 65, P. 1016, nonché da Nizza Sicilia, Rocca Lumera e S. Stefano di Briga), e nn. agg. ‘sciocco, babbeo’ (già in AA, Sanclemente e Tr 650) e nícchiu agg. ‘id.’ (da Sanclemente). Cfr. catanz. (Nicotera) nacchiu ‘organo genitale della donna’ (NDDC 449); regg. nicchiu ‘fica’ (NDDC 4697). La tarda e scarsa attestazione, dato che la parola è viva nell’uso, è certo dovuta a tabù. La prima proposta etimologica sembra quella di De Gregorio, StGl 7, 1920, 247, che pensò al lat. NACCA di Festo, che egli traduceva ‘uomo che esercita qualunque vile mestiere; qualunque sporchissimo uomo’, 11 attraverso un der. *NACCŬLUS. In realtà nacca -ae s.m. (anche di Apuleio) è sinon. volg. di fullo ‘lavandaio’, sicché la base è inverosimile sia semanticam. che morfologicam.; Alessio, ID 12, 1936, 72 (e poi AlessioLatinità 88) propose CUNNUS ‘genitale femminile’, supponendo che si tratti di forma aplologica del continuatore di un *CUNNACŬLUS, spiegazione accolta da FaréSalv 2399 e da RohlfsSuppl 75 (e NDDC 449; ambedue le volte come riduzione di un *cunnácchiu che non mi risulta esistere né in sic. né in cal.); quest’ultimo studioso ha accostato alla nostra voce il regg. nicchiu ‘fica’ (NDDC 4697), in cui certo scorge un der. in -ICŬLUS, parallelo a quello in ACŬLUS; ma la voce regg. può andare con tosc. ant. nicchio ‘id.’ e ‘conchiglia’, di etimo oscuro (cfr. DEI 4, 2582; VEI 688; DELI2 1038a), che ha il senso anatomico (Batt 11, 421). Più recentemente AlessioLexicon 316 ha abbandonato la precedente spiegazione a favore del lat. tardo PINNACŬLUM, dimin. di PINNA ‘penna’, che avrebbe avuto il senso ‘clitoride’ (peraltro non attestato: conosciamo solo ‘aluccia’ e ‘pinnacolo’), da confrontare con sic. e cal. pinna ‘membro virile’; sempre a Nicotera in effetti troviamo pinnácchiu ‘genitale della donna’ (NDDC 524; altrove ‘pennacchio, fiocco, ciondolo’). Si deve però osservare che non si conoscono esiti di PINNACŬLUM con analoga forma e/o senso (cfr. FEW 8, 536-7), come sono ignoti eventuali continuatori di *CUNNACŬLUM; l’aferesi può giustificarsi con l’analogo fenomeno in → sticchiu, ma l’iniziale nn- data dai vocab. non impone affatto una base con -NN-, dato che l’alternanza n-/nn- (nella nostra parola anche catanz.) è abbastanza comune e probabilm. dovuta a rafforzamento dopo l’articolo. A questo punto diventa degno di memoria che l’ar. conosca un nakĥ ‘pudenda of a woman’ (Steingass 1146; non lo trovo in altri vocab.). Poiché altre comunissime denominazioni del genitale femminile, come → pácchiu e → stícchiu, presentano analoga struttura fonetica, sorge il dubbio che si tratti semplicem. di rifacimento di pacchiu con la nasale del più comune cunnu. L’isolamento di tosc. ant. nicchio nel senso anatomico porta ad escludere che sia questa la forma più antica del sic., dove invece si sarà avuto un accostamento a sticchiu. Il passaggio semantico ‘genitale’ → ‘sciocco’ è comunissimo (per il gallorom. cfr. FEW 2/2, 1541). Strano invece il senso di ‘abitante dei boschi; rivendugliolo’. nnacchïári v.tr. ‘v. tirziari o burrari’ (1789, Pasq 3, 303 e poi fino a TrV 285 e VS 3, 263; Mort 2, 26 preferisce rinviare a cugghiuniari). Cfr. piazz. nacchié ‘v. buzzarè’ (Roccella 166). Per l’evoluzione semantica cfr. sopra. Esiste anche un rifl. nacchïárisi ‘v. annacarisi; v. natichiarisi’ (1868, Tr 627 e poi fino a NicD 539, che ha solo il 2° senso, e VS 3, 6, da Pasq e TrV), che risente senza dubbio di naca, ma che formalm. va qui e non sotto la base naka, dove lo colloca FaréSalv 5813. nánfara s.f. ‘il parlare col naso’ (1752), è voce esclusivam. sic., di probabile origine onomatopeica, anche se rimane il dubbio che possa provenire da un v. ar. incrociato con nasu. 1752 n. ‘il parlare nel naso’ dBono 2, 415 e poi fino a NicDUr 165 e VS 3, 8; 1789 anche ‘corizza’, cioè ‘raffreddore’ Pasq 3, 241, poi anch’esso fino a NicDUr l.c. e VS l.c.; 1990 ‘raucedine’ VS l.c. (da Tri e Tortorici); le loc. parrari cu la n. o aviri la n. ‘esser nasino’ 1868 Tr 628 e poi fino a NiD 12 539 e VS l.c. Cfr. anche le forme nnánfara ‘costipazione nasale, raffreddore’ 1990, VS 3, 265 (da Tri); námpara ‘id.; voce di timbro nasale’ VS 3, 8 (dall'agr. or.); námpira ‘costipazione nasale o raffreddore’ ib. (da Centuripe); nánfira ‘id.’, ib. 9 (da Cerami e Palazzolo Acreide), ‘voce di timbro nasale’ ib. (diverse localizzazioni); nánfra ‘costipazione nasale o raffreddore’ ib. (da Buscemi e Giarratana). Cfr. piazz. nánf’ra ‘corizza’ (Roccella 167); aid. nànfira ‘voce nasale’ (Raccuglia 257).. Non si conoscono paralleli continentali di questa voce. Avolio 46 considerò nanfara prestito (o relitto) dell’ar. ḫanfara, che egli trovava in Dozy 1, 409a come ‘ronfler’ (cfr. Wehr 263b ‘to snuffle, snort’ e soprattutto NallinoTraini 1, 324 ‘parlare nel naso; nasalizzare, dar suono nasale; respirare rumorosamente col naso’). La stessa opinione adottano De GregorioSeybold, StGl 3, 1903, 242, aggiungendo che l’iniziale sarà stata mutata per ottenere un’onomatopea e per influsso di naso; ma, dopo le critiche di DAlCalv 270 (che trovano molto distanti il senso della voce sic. e l’ar. ‘ronfare’ o, per l’identico s.f., ‘narice’, e che considerano ben difficile un passaggio ḫ- > n-, e quindi escludono l’origine ar.), De Gregorio, StGl 7, 1920, 131 sembra considerare n. una pura onomatopea, influenzata da nasu. Di onomatopea aveva nel frattempo parlato Prati, AGl 17, 1910-13, 420 n2, avvicinando n. al ven. sgnanfo, valsug. gnanfo ‘che parla nel naso’ (cfr. poi PratiEtVen 76 s.v. gnaga venez. ‘voce imperfetta e ingrata’); più tardi M. L. Wagner, RPh 6, 1952-53, 333 cita n. tra voci rom. con a tonica che imitano la voce nasale (port. fanhar, fanha, fanhoso; cal. fánfici); infine Corominas, NRFH 10, 1956, 178 (=Tópica hespérica 2, 83) pone n. accanto al venez. sgnanfar ‘parlare col naso’. In effetti l’origine imitativa sembra la più probabile, anche se sorprende la mancanza di forme analoghe oltre lo stretto, che contrasta con la buona diffusione della voce nell’isola; contro l’origine ar. la definizione di ḫanfara in NallinoTraini fa cadere l’obiezione semantica, ma rimane quella fonetica (superabile per l’incrocio con nasu?) e preoccupa l’assenza in malt. Si noti infine che, se la base fosse realm. ḫanfara, bisognerebbe partire non da n. ma da → nanfariari e si tratterebbe di uno dei pochi verbi di origine araba. nánfaru s.m. ‘il difetto di chi, per raffreddore o per malformazione costituzionale, parla con voce nasale’, VS 3, 8 (da Marsala). nanfarïári v.intr. ‘parlare col naso’ (1759, Vinci 168 e poi sempre fino a NicDUr 165 e VS 3, 8 (da Casteltèrmini, Cesarò, Ragusa, Riesi e S. Croce Camerina); anche rifl. (da Agrigento); n. ‘respirare affannosamente’ ib. (da Bronte); namparïári ‘id.’ 1990, VS l.c. (da Montallegro e Montedoro), anche rifl. (da Castrofilippo e Milena); nambarïárisi v. rifl. ‘id.’ ib. (da Raffadali). Cfr. piazz. nanfarié v.intr. ‘parlare in suono nasale’ (Roccella 166). nanfarúsu agg. ‘parlante nel naso’ (1752, dBono 2, 416 e poi sempre fino a Cav 131 e VS 3, 9 dal sic. or. e occ., qui anche come s.m.); da Tr 628 a NicD 539 e VS l.c. si aggiunge ‘nasale (di voce)’; namparúsu s.m. e agg. ‘chi o che parla con voce nasale’ 1990, VS 3, 8, dall'agr. or. L'uso avv. (parlari nanfarusu) è segnalato in VS 3, 9, da Gàlati Malertino, Mistretta e Oliveri. Cfr. piazz. nanfarös ‘chi parlando manda un suono nasale’ (Roccella 166); aid. nanfaruse ‘id.’ (Raccuglia 257). annanfarátu agg. ‘chi ha le vie nasali costipate’ (2000, GenchiCannizzaro 20). 13 nánnu s.m. ‘nonno’ (1519), è voce infantile di area circum-mediterranea (Sicilia, Calabria, Lucania, Puglie, Sardegna, Francia merid., Spagna, Africa sett., Malta, Grecia), nel cui ambito è impossibile definire il focolaio di diffusione (ma la forma f. pare più ant. e diffusa); parallelo il tipo núnnu ‘id.’, documentato già in lat. Documentazione del s.m.: 1519: «nanu parenti: avus; n. bisavu: proavus; n. terczu: atavus; n. quartu: abavus; n. de mi mugleri: prosocer; n. cosa di nanu: avitus» (Scobar 69r); 1522: «nanno sive nonno: hic avus» (Vall 57); 1598 ca. Palermo: «Carlo V imperatore, nanno di Filippo III nostro re» (Diari 1, 233); 1736: «Tornu e juru pri l’arma di me nannu» (Musmeci 102); 1751 ‘nonno, avolo’ dBono 2, 416 e poi sempre fino a Cav 131 e VS 3, 11, che lo dà come antiq.; AIS 1, 16 (e cfr. 8, 1702) ‘il nostro nonno’ ha n. in tutta l’isola tranne Palermo e Mandanici (nonnu); VS l.c. segnala anche n. ‘bisnonno’ a Pantelleria e nannú ‘id.’ a Palazzolo Acreide, entrambe le attestazioni da ALI, inoltre abbiamo nágnu ‘nonno’ VS 3, 7 da S. Michele; a Castelbuono nunnu ‘zio; prozio’ (GenchiCannizzaro 197); le forme allocutive nannò, nnonnò e nonnò sono registrate da VS 3 (rispettivam. alle p. 11, 279 e 287). Solo Tr 628 nel 1868, e poi VS l.c., attesta pl. ‘le parti posteriori della ravogghia’; 1877 ‘il fantoccio del carnevale’ TrV 267 e poi NicD 540 e VS l.c. (ma per questo cfr. PitrèUsi 1, 93 ss.). VS 3, 11 segnala per n. anche i sensi ‘pappo dei semi di molte piante composite’ (a Catania, da Can); ‘dente di leone o soffione’ (a S. Teodoro, da ALI); ‘saltimpalo’ (a Siculiana, da PitrèUsi). In alcuni punti dell'area etnea sud-or. e a Pachino la parola designa inoltre diversi tipi di vermi, larve, ecc. (VS l.c.). Nella c. cit. dell’AIS tutti e quattro i P. galloit. hanno ┌nannu┐; cfr. piazz. nannu ‘avo’ (Roccella 167). ― Documentazione del s.f.: 1519: «nana idem [parenti]: avia; n. bisava: proavia; n. tercza: atavia; n. quarta: abavia; n. idem [de mi muglieri]: prosocrus mea» (Scobar 69r); 1752 nanna ‘nonna, avola’ dBono 2, 416 e poi sempre fino a Cav 131 e VS 3, 9; AIS 1, 17 ha n. in tutta l’isola ad eccezione di S. Biagio e Mandanici (qui nonna), ma compresi i P. galloit.; 1789 ‘termine di giuoco di palla’ Pasq 3, 241 e poi fino a TrV 267 e VS l.c. (si tratta del giuoco a bocci e ragogghia: cfr. PitrèGiuochi 156); 1844 ‘piccola stizza’ e ‘vino generoso e vecchio’ Mort 2, 2 e poi Tr 628, TrV 267 e VS l.c.; 1868 ‘pennacchio’ Tr l.c. e poi TrV l.c. e VS l.c.; 1877 ‘diarrea’ TrV l.c. e poi NicDUr 165 e VS l.c. (in numerose località); AIS 4, 677 lo raccoglie in questo senso a Baucina. VS l.c. ci dà anche n. ‘bisnonno’ (da Pantelleria); ‘impasto di carta, polvere, olio o saliva che, asciugatosi, veniva bruciato durante feste locali o a carnevale’ (da PitrèUsi); ‘larve della Polyphylla fulva’ (da Can). La var. accentuativa nanná s.f. ‘v. nanna’ 1888 TrVApp 19 e poi VS l.c. (da Casteltèrmini); inoltre nágna ‘id.’ VS 3, 7 (da S. Michele). – Cfr. aid. nanne, nanna ‘nonno, -a’ (Raccuglia 257). Cfr. malt. nannu e nanna ‘nonno’ e ‘nonna’ (Barbera 3, 829-30), nanna ‘grand mother; an old dame’ e nannu ‘grand father; an old man, a beggar’ (Kalepin 219). Cfr. cal. nannu ‘nonno’ (NDDC 450; cfr. AIS 1, 16) e nanna ‘nonna’ (ib.; cfr. AIS 1, 17, che mostra il f. più esteso del m.; nanna è già nel 1478 a Cosenza: TestiQuattrocento 115); S. Chirico Raparo e Pisticci nanna ‘nonna’ (AIS 1, 17; diversi i tipi per il m.); sal. nanni, -u ‘nonno’ (VDS 2, 383; cfr. AIS 1, 16) e nanna ‘nonna’ (ib.; cfr. AIS 1, 17); 14 sardo nannái ‘nonna’ (DES 2, 154b). Una base infantile nanna (cfr. it. nanna ‘sonno’ e ninna-nanna) appare specializzata attorno al Mediterraneo (soprattutto occ.) per ‘madre’ o ‘nonna’ o altre figure femminili adulte: cfr., oltre le voci sic., cal., luc., sal. e sarde, bearn. nane ‘mère’ (FEW 7, 5a, con qualche altra voce gallorom. dial.); sp. nana ant. ‘mujer casada, madre’, famil. ‘abuela’ (DCECH 4, 256a; in Messico è ‘niñera; nodriza’); ar. maghr. nānna e nanna ‘maman, grand’mère, bonne’ (Dozy 2, 632a); berb. nanna ‘Grossmutter, Mutter, ältere Schwester’ (SchuchardtBerb 45); gr. ant. νάννη ‘sorella della madre’. In questa situazione è inutile considerare n. come var. di → nunnu (come fa Gioeni 205), o come arabismo (come propongono DAlCalv 272-3) o come grecismo (così De Gregorio, StGl 7, 1920, 247-8 e DEI 4, 2598, che precisa «bizantinismo», e forse LGII 346, nonché, con qualche dubbio, Bonfante, Boll 2, 1954, 286). Più ragionevole sembra la collocazione di REW 5817.1 (seguito da AlessioLatinità 415) e di FEW 7, 6ab come continuatore dell’antichissima voce infantile nanna, senza che sia più possibile precisare quale ne sia stato il focolaio di diffusione. Come videro De Gregorio l.c., Bonfante l.c., la forma m. è secondaria (anche la sua area è minore). Questa voce infantile conosce varianti apofoniche (nenn-, ninn-, nonn), delle quali almeno due sono presenti in Sicilia: nenna ‘mammella’ e nunnu, a, che qui trattiamo. Il m. è núnnu 1752 ‘babbo, padre’ dBono 2, 540 e poi fino a NicD 569 e VS 3, 345 (si avverte che Vinci 173 lo dice pal. e da Pasq 3, 337 a Mort 2, 40 si afferma che anticam. era usato dai figli di nobili e di borghesi, ma ai loro tempi dai figli degli artigiani; LaRosaAllotropi 269 lo dice usato nella Sicilia sud-or. come appellativo per i genitori e un tempo forse in riferimento alla Madonna); 1853 ‘nonno’ Mort2 593 e poi fino a NicD 569, a VS l.c. (da Pantelleria), e in AIS 1, 16 a S. Michele di Ganzaria; 1853 ‘uomo vecchio’ Mort2 l.c. e poi fino a TrV 294 e VS l.c.; 1868 ‘v. gaddu d’India’ Tr 659, come catan., e poi TrV 294; 1895 ‘suocero’ ATrP 14, 356 (da Isnello), poi VS l.c. (da Pantelleria); 1990 ‘bisnonno’ VS l.c. (da Acate, Menfi e Mòdica); ‘padrino’ ib. (da Regalbuto e Castel di Judica), e in più di un punto dell'area linguistica etnea; ‘ruffiano’ ib. (da Man e Paternò); ‘chi chiedeva la mano di una ragazza per conto di un giovane pretendente’ ib. (da Cefalà Diana); nunn'i cannalivari ‘fantoccio di carnevale’ ib. (da Pòllina); per n. ‘v. nuddu’ → nuḍḍu; la forma nnúnnu 1875 Mac 212 e VS 3, 283 nn. ‘nonno’ (da Mac, Tri e Canicattini Bagni), ‘padre’ (da Mac e Tri), e ‘bisnonno’, dato come disus. (a Siracusa); cfr. piazz. nunnu ‘nonno; ruffiano’ (Roccella 183). Per il s.f.: núnna 1752 ‘mamma, madre’ dBono 2, 540 e poi fino a Tr 659 (che è l’unico assieme a VS 3, 345 a dare anche ‘ruffiana’), VS l.c.; 1789 ‘nonna’ Pasq 3, 337 fino a Tr 659, VS l.c. (dal pal. oltre che da Pantelleria e S. Ninfa) e AIS 8, 1702 a Naro; 1895 ‘suocera’ ATrP 14, 356, da Isnello e VS l.c. (da Pòllina); 1940 ‘bisnonna’ AIS 8, 1702, da Bronte; 1990 ‘termine con cui i figli si rivolgevano, in segno di rispetto, alla madre’ VS l.c.; ‘madrina’ VS l.c. (da Regalbuto, Castel di Judica, e da alcuni punti dell'area etnea). La forma nnúnna ‘madre’ 1990, VS 3, 283 (da Siracusa); ‘nonna’ ib. (da Canicattini Bagni). Cfr. malt. nuna e nunu, che Barbera 3, 852-3 definisce ant. ‘nonna’ e ‘nonno’, ora ‘si dà a ciascuna persona, accennandola ai bambini’; Kalepin 227 ha solo nuna ‘grand mother, grandma, grannie, a lady, an old schoolmistress’. Cfr. nunnu catanz. ‘nonno’, cos. ‘padrino’ e nunna catanz. ‘nonna’, cos. 15 ‘madrina’ (e anche ‘sbornia’) (NDDC 482); sal. nunnu ‘padrino di battesimo’ (a Brindisi anche ‘uomo, persona’, a Lecce e Taranto anche ‘titolo che si dà a un uomo di una certa età di cui si ignora il nome’) e nunna ‘madrina di battesimo’ (a Brindisi anche ‘donna’, a Lecce anche ‘titolo che si dà a una donna…’) (VDS 2, 429); sardo nónnu ‘padrino’ e nònna ‘madrina’ (DES 2, 171b). Gioeni non esitò a riportare le voci sic. al lat. NONNUS ‘balio’ nelle iscrizioni, ‘anziano monaco’ da S. Girolamo (cfr. Blaise 557b) e NONNA ‘nutrice, balia’ nelle iscrizioni, ‘anziana religiosa vedova’ da S. Girolamo (cfr. Blaise 557a), da cui it. nonno, -a (sec. XVII: DEI 4, 2598); così anche De Gregorio, StGl 7, 1920, 247-8; REW 5817.3; DEI l.c.; DELI2 1045a (solo LaRosaAllotropi 268-9 dà una stravagante pseudospiegazione da DOMINUS). Bisogna però spiegare la u tonica del sic., cal. e sal., perché la base lat. sembra aver avuto Ŏ. La c. 17 dell’AIS mostra che il tipo ┌nonna┐ è realizzato con ọ (e qualche volta con u) in località sparse dalla Liguria e dalle Alpi piem. a Cherso, non però in Emilia (tranne Bologna: cfr. 8, 1702); nella penisola balcanica troviamo rum. e macedorum. nun ‘testimone di matrimonio, padrino’ che postulerebbero addirittura *NUNNUS (e cfr. alb. nun, núnë ‘padrino, madrina’, gr. νοῦνος» ‘id.’; forse qui libanese nûnû, nûnâ ‘babbo, nonno, nonna, persona di avanzata età’ parlando con bambini: Barbera 3, 852-3). Bisogna dunque pensare che già la voce lat. avesse una vocale tonica oscillante tra Ŏ e U. ― Le due c. dell’AIS più volte cit. presentano, accanto a casi assai sporadici di nónnu, certo italianismo (cfr. VS 3, 287, dove anche il f. nónna), la coppia papa ranni ~ mamma ranni a S. Biagio Platani (AIS 8, 1702 aggiunge Bronte); VS, 3, 561 registra in diverse localizzazioni e var. ┌paparanni┐ ‘nonno’, oltre a ‘bisnonno’ (da Caltagirone e Camastra); VS 5, 544 segnala il m. tataranni ‘nonno’ a Lipari e Malfa (da RohlfsSuppl) e ‘bisnonno’ a Canicattini Bagni; VS 2, 609 registra come antiq. il tipo mammaranni ‘nonna’, da TrV; si tratta di denominazione che in AIS 1, 16-17 e 8, 1702 ha riscontro a Verbicaro (solo il m.), Salve, S. Chirico Raparo, Vernole, Palagiano, Alberobello (solo il f.), Ripacandida, Monte di Procida, Canosa, Vico del Gargano, S. Giovanni Rotondo, Lucera (il f. sempre con mamma, il m. con tata o patə; a S. Giovanni Rotondo e Monte di Procida l’agg. è ┌grosso┐), nonché nell’estrema Liguria occ. e nel Piemonte alpino, a stretto contatto con la Francia, dove domina (cfr. FEW 4, 2234). Bonfante, Boll 2, 1945, 286 n18, si chiede se in Sicilia e Italia merid. esso non sia dovuto a influenza francese; la cosa è possibile, ma rimane dubbia perché nulla sappiamo sull’antichità di questa denominazione in Italia e la documentazione fr. non risale ad epoca normanna (grand-père è del 1564 e grand’mère del sec. XIII, ma è probabile che l’uso risalga più indietro, dato il ted. Grossvater ‘id.’ del sec. XII nella zona della Mosella: FEW 4, 224a). nannúni s.m. ‘bisnonno’ (con diverse localizzazioni) e ‘avo, antenato’ (1990, VS 3, 11, da Man.). nannulínu agg, ‘di bambino molto legato alla nonna’ (1990, ib., da Av). nannacúni s.m. ‘bisnonno’ (1990, VS 3, 9; da Acate, Comiso e Ragusa (qui anche il pl. i n. ‘gli antenati’), nannucúnu da Comisu e Ragusa VS ib.), nannucúnnu (da S. Croce Camerina e Vittoria), nannucu (da Buccheri). Per il f. nannacúna ‘bisnonna’ (1990 VS 3, 9, da Comiso e Ragusa), nannacúnna (da Vittoria). 16 nannículu s.m. ‘bisnonno’ (1990, VS 3, 11, da Alia, Aliminusa, Altavilla Milicia e Valledolmo). nannurarà s.m. ‘bisnonno’ (1990, ib. 11, da Castelbuono). nannásciu s.m. ‘il padre del patrigno o della matrigna’ e nannáscia ‘la madre del patrigno o della matrigna’ (1990, VS 3, 10, da Casteltermini). nannáṣṭṛu s.m. ‘bisnonno’ e nannáṣṭṛa s.f. ‘bisnonna’ (1990, ib., da Cesarò e S. Teodoro). nannávu s.m. ‘bisavo, bisavolo’ (già alla fine del sec. XVIII in Tempio 9: «lu mpararu li nannavi»; 1839, Rocca 217 e poi fino a Cav 131, a RohlfsSuppl 73, anche da Ucria, e a VS 3, 10); 1875 nánnu-ávu ‘id.’ Mac 203; 1928 nannuváu ‘id.’ AIS 1, 16 Cp, a Giarratana; 1977 nánnu ávu ‘id.’ VS 1, 342, a Scordia, Militello V. C., Cassibile, pal. centr. e occ., S. Giovanni Gemini e Sciacca, nannuàvu VS 3, 11; 1977 nannáu ‘id.’ RohlfsSuppl l.c., a Linguaglossa, Roccella Valdemone, Taormina e Tripi, VS 3, 10, dove anche, con lo stesso senso e in diverse localizzazioni: nannávulu, nannáulu, nannaláu (nonché nannaláu s.m. ‘idiota, cretino’ VS 3, 265, da Mart), oltre a nannuváu e nannuvávu ib. 11, nnannáu e nnannáulu ib. 265. Per il f. abbiamo nannáva ‘bisava, bisavola’ 1839 Rocca 217 e poi NicD 539, NicDUr 165, Cav 131, RohlfsSuppl 73 a Linguaglossa, Roccella e Taormina, VS l.c. aggiunge Paternò e Tripi; nannáa ‘id.’ VS 3, 9 (da Acireale e Paternò); nanna ava l.c. (da Marineo); nannáia VS 3, 10 (da Lìmina); nannaváva ib. (da Francofonte e Paceco). Ci sono poi le forme in nu-: 1928 nunnáu ‘bisnonno’ AIS 1, 16 Cp, a Mandanici e poi RohlfsSuppl 73 e VS 3, 345 (dal mess.); 1990 nunnávu ‘id.’ ib. (dal mess.) e nunnuvávu ib. (da Canicattini Bagni); 1928 nunnáua ‘bisnonna’ AIS 1, 17 Cp, a Mandanici; 1977 nunnáva ‘id.’ RohlfsSuppl 73, a Rometta e S. Lucia del Mela, VS l.c. Già De Gregorio, StGl 7, 1920, 34 (e poi DEI 5, 3996) individuò la composizione di nannu, -a (e rispettivam. nunnu, -a) con lat. AVUS ‘avo, nonno, bisnonno, antenato’, che ha continuatori anche nell’Italia merid. (cfr. REW 839; FaréSalv 839; DEI l.c.) ed in Sicilia: ávu s.m. ‘padre del nonno, bisavolo’ (attestazioni medievali in CorpusArtesia, poi 1721, Dr 56 e poi fino a TrV 87 e VS 1, 342, anche da Corleone e Poggioreale); áva s.f. ‘bisavola’ (1519: «ava» v. nana: avia» (Scobar 16r); 1751 dBono 1, 96 e poi fino a Rocca 49 e VS 1, 336, disus.); ávulu s.m. ‘bisnonno’ (attestazioni medievali in CorpusArtesia; poi 1751, dBono 1, 98 e poi fino a Pasq 1, 171 e VS 1, 342, anche da Nizza Sicilia e Marineo); ávula s.f. ‘bisnonna’ (1751, dBono l.c. e poi fino a Pasq l.c. e VS l.c.). nannïári v.intr. ‘diventare nonno’ 1990, VS 3, 10 (da Casteltermini); ‘essere affettuoso verso i bambini, di persona anziana’ ib. (da Bronte e Casteltermini). (VS 3, 345 ha nuna f. ‘donna cui si attibuisce la capacità di fare il malocchio’, da Pantelleria, con rimando a → nunïari; è dubbio che questa voce vada qui). catanánnu s.m. ‘v. avu’ (1877, TrV 121 e poi in AIS 1, 16 Cp e 8, 1702 a Villalba, senza alcun rinvio, e in RohlfsSuppl 35 (anche da Naso e Rodì). Trovo catanánna s.f. ‘bisnonna’ solo nel 1940 AIS 8, 1702, a Naro. Cfr. aid. catananne ‘trisavolo’(Raccuglia 70). Cfr. cal. catanannu ‘bisavo, padre del nonno; vecchione decrepito’ (NDDC 147). È composto dal gr. καηά, che in questo caso indica un rapporto più lontano: cfr. REW 1755.1; Bonfante, Boll 2, 1954, 287 e n.; LGII 221; FaréSalv 1755. In sic. cfr. catanipúti ‘bisnipote’ (VS 1, 626) e catazzíu ‘prozio’ (ib. 629); altri analoghi 17 composti merid. in LGII l.c. rratanánnu s.m. ‘bisnonno e, più spesso, avo’ (1997, VS 4, 100, da varie località; anche rretinánnu ‘id.’ (VS 4, 120, da Grammichele), rritinánnu (ib. 219) e rritanánnu (ib. 218). annannátu agg. ‘che è sul fare de’ nonni’ (1838; Mort 1, 55), ‘chi ha tanto o quanto di vecchio, di nonno’ (1868, Tr 57 e poi fino a NicD 57 e VS 1, 192, che aggiunge ‘vecchissimo, decrepito’; a Palermo si dice di abito troppo grande e antiquato). C’è anche annunnátu1 agg. ‘che ha tanto o quanto del vecchio, del nonno’ (1875, Mac 24 e poi TrV 66 e VS 1, 202, che aggiunge ‘curvo, dei vecchi; freddoloso, come i vecchi (da Modica); di bambini non regolarmente sviluppati o malaticci; cresciuto poco, quasi rachitico, anche di animali e piante (anche da Solarino, Floridia e Canicattini Bagni)’. Per annunnatu2 → nunnata. násca s.f. ‘narice (o frogia) del cavallo; naso (spreg.)’ (ante 1337, nel 1° senso), è voce di area sic. ed it. merid., fino alla Campania ed alla Puglia, dal lat. *NASĬCA ‘naso ricurvo’, continuato in Francia dalla forma NASĪCA, usata già nel lat. class. come soprannome. Ante 1337: «lu uduri di corpu arssu ende venia a li naski di quilli ki stavanu inturnu» (ValMax 3.3.52) e «misi la manu a li naski di lu cavallu» (ib. 7.3.196; altri ess. in CorpusArtesia); ante 1337: «dui cavalli… li quali… da li naski gictavanu ardenti focu» (Eneas 7.27); 1368: «li naschi grandi e unflati» (Mascalcia 575, parlando del cavallo; altri ess. in CorpusArtesia); sec. XV in.: «recipe lu fumu per li radichi di li naschi» (ThesPaup 14.3); 1721 naschi pl. ‘le nari’ Dr 255 e poi sempre, al pl. e al sing., da dBono 2, 417 a Cav 131 e VS 3, 16, spesso (almeno d a Palermo e Cataniaa Tr 628) con la precisazione che sono anche ‘le froge del cavallo’, come già nei testi med.; ALI 1, 24 e 25 lo ha solo a Barrafranca; 1759 ‘naso schiacciato, camuso’ Vinci 168 e poi da Rocca 217 fino a Cav l.c. e VS 3, 14 s., nonché ALI 1, 25Cp; 1868 ‘chi ha il naso camuso’ Tr 628 e poi fino a Cav l.c. e VS 3, 16; 1990 ‘olfatto, riferito soprattutto a cani da caccia’ VS l.c. (da Giarratana, ma con usi traslati e alcuni modi di dire anche in altre localizzazioni); ‘cocca del fuso’ ib. (da Palazzolo Acreide); ‘varietà di funghi’ ib. (da Francavilla di Sicilia e Passopisciaro); n. di ferru ‘ruggine rossa, parassita del limone’ ib. (a S. Agata di Militello, da Can; questo senso e il precedente vanno forse tra i nomi botanici, che elenco più sotto); ‘elemento sporgente, prominente’ ib. (da Tri). In gergo naschi! ‘così per avvertire dell'arrivo dei poliziotti o dei carabinieri, tra delinquenti, o toccandosi il naso con il pollice e l'indice e fiutando un po'’ VS l.c., da Tri e Calvaruso. La parola entra in parecchie locuzioni e modi di dire (cfr. VS 3, 15), tra i quali cito solo, perché non dai vocab., «ccu ssa nasca trânti» ‘con piglio arrogante’ (GuastellaCarnevale 76; VS 3, 15 registra, da Guastella, Vestru, 1882: n. ṭŗanti ‘naso affilato tipico di persona impertinente e rissosa’). – Cfr. piazz. nasca ‘naso camuso’ (Roccella 167); aid. nasca ‘naso; froge’ (Raccuglia 257). Cfr. malt. naska ‘odorato, proprio dei cani’ (Barbera 3, 832; Kalepin 220). Cfr. cal. nasca ‘narice; naso grosso, naso’ (NDDC 451); luc. nask ‘narice’ (Lausberg 221); nap. e irp. nasca ‘id.’ (D’Ambra 252; Nittoli 144); Brienza nasche pl. ‘narici’ (Paternoster 19); Muro nasca ‘naso grosso dalle narici larghe’ (Mennonna 127); sal. nasca ‘narice; naso; grosso naso’ (VDS 2, 18 384); bit. nasche ‘naso (spreg.); naso grosso e brutto; chi ha il naso piccolo e brutto’, pl. ‘narici; froge’ (Saracino 279); rub. nasche ‘narici; froge’ (Di Terlizzi 77); molf. nesche ‘naso pronunziato per grandezza o perché rincagnato; narici’ (Scardigno 338); bisc. nasche ‘naso camuso; persona boriosa’ e pl. ‘froge, narici’ (Còcola 115); andr. nasche ‘narici; naso schiacciato e deforme’ (Cotugno 74); Lesina naske ‘il fiuto di un buon cane da caccia’ (Melillo 94); abr. naschə ‘grosso naso’ (Giammarco 3, 1245); roman. nasca ‘naso grande, nasone (volg.)’ (Chiappini 191). Cfr. ALI 1, 25 e 26. Già Gioeni 192, correggendo Diez, Gramm. 2, 308 , riporta n. al lat. NASICA ‘naso irregolare’; così anche Ascoli, AGl 13, 1892-94, 285; De Gregorio, StGl 1, 1899, 133-4 e 7, 1920, 249; Zauner, RF 14, 1903, 362; REW 5833; AlessioLatinità 416; DEI 4, 2548 (sembra possederne documentazione it. reg. del sec. XIX). Il lat. aveva però NASĪCA ‘chi ha il naso sottile e a punta’ (sec. V, Blaise 548, ma già prima come soprannome), der. di nasus ‘naso’ (il senso ‘narice curva’ par conservato nell’agg. sic. → annascatu); mentre questa forma piana ha continuatori solo nella Gallia merid. (REW 5834; FEW 7, 25b), le forme sic. ed it. merid. risalgono a *NASĬCA, con normale dileguo della postonica. ― Vanno tenute separate le denominazioni bot. n. di morti ‘bifora, coriandolo selvatico, Bifora testiculata’ (1923, AssenzaBot 85 e poi Penzig 1, 70, come da Modica, mentre Avola avrebbe naschi di mortu, e VS 3, 16 aggiunge n. di muòrtu a Palazzolo Acreide e n. ri mottu a Siracusa); n. di mortu ‘Moluccella spinosa’ (1924, Penzig 1, 303, da Avola), n. ri mottu VS l.c. a Catania, da Cannarella; nascazza ‘pulicaria, Inula viscosa’ (1965, Rohlfs, Boll 9, 101-2 e poi RohlfsSuppl 74, da S. Piero Patti, VS l.c.); nascaredda ‘stregonia, Sideritis romana’ (1923, AssenzaBot 199; Penzig 1, 457 erroneam. *mascaredda), nascaréḍḍa ‘id.; timo’ VS l.c. (il 2° senso a Castel di Iùdica, da ALI), nascareḍa ‘attaccamani, pianta delle rubiacee: Galium aparine’ ib., a Monterosso Almo, da ALI, nascariéḍḍu ‘nome di un'ombrellifera: Athamanta sicula’, ib., da Rosolini. Come ha chiarito Rohlfs l.c., queste voci, che postulano un násca2 vanno con nasca ‘pulicaria’ nell’area galloit. del golfo di Policastro (cfr. Z 61, 1941, 103; cfr. anche Penzig 1, 200 s.v. Fistulina hepatica e 372 s.v. Polyporus frondosus) e provengono dalla Liguria, dove la pulicaria è chiamata nasca a Levanto e ñasca a Portofino (Rohlfs l.c.; cfr. Penzig 1, 150 s.v. Cupularia viscosa, 244 s.v. Inula graveolens e 389 s.v. Pulicaria dysenterica), mentre a Genova nasca è ‘conizza, Erigeron viscosum’ (Casaccia 534) e già nel lat. med. degli statuti di Oneglia naschas sono degli arbusti che crescono in terreni non coltivati (Rossi 1, 69). Inoltre nasco è ‘pulicaria’ nei dipartimenti fr. delle Bouches du Rhône e del Var (FEW 7, 28b n1). Si tratta certo di parola pre-lat. (sia o no il gallico naska ‘nastro, cordicella’: cfr. FEW l.c.), giunta in Sicilia con la colonizzazione galloit. náscu s.m. ‘v. nasu’ (1868, Tr 1152, da Riesi; VS 3, 18 aggiunge Mazzarino, S. Cono e, da ALI 1, 25, P. 1047). náscheri s.m. ‘anello che si mette al naso dei buoi’ 1990, VS 3, 17, da Acate; Il f. náschera vale ‘sorta di museruola per proteggere i bovini dagli insetti’ VS l.c., da Buscemi e Palazzolo Acreide. Anche náschili s.m. ‘nasiera dei buoi’ VS l.c., da Avola. nascarínu s.m. ‘persona col naso camuso’ 1990, VS 3, 16, da Carini, dove anche nascarína s.f. ‘id.’. Il s.f. vale anche ‘chiave’, come forma gerg., ib., da Patti. 19 nascaréḍḍa s.f. ‘si dice a uom che abbia il naso schiacciato e in dentro, camuso, rincagnato’ (1721, Dr 255 e poi dBono 2, 417, Pasq 3, 243, VS 3, 16; solo da Rocca 217 a Mac 203 e VS l.c. appare come dimin. di nasca). In VS l.c. anche agg., ma solo in cani n. ‘una razza di cane: cane mascaretta, doghino’, da Can. Anche nascarélli s.f. pl. ‘spezie di pasta’ (1868, Tr 629, poi TrV 267 e VS l.c., mentre nel 1914 NicDUr 166 ha nascarétti s.m. pl. ‘pasta imitante le nocciole’, anche in VS l.c.). Per il senso bot., di altra origine, cfr. più sopra. nascútu agg. ‘che ha grande naso camuso’ (1868, Tr 629 e poi fino a NicDUr 166 e VS 3, 18, anche da Marsala). Cfr. cal. nascutu ‘nasone, nasuto’ (NDDC 451). nascáta s.f. ‘colpo dato nel naso per lo più con carte da giuoco’ [ci si riferisce ad un segno di intesa tra i giocatori] (1752, dBono 2, 417 e poi fino a TrV 267 e VS 3, 16, anche da Pantelleria e S. Caterina Villarmosa). In VS l.c. ‘fiutata, il fiutare’, da Scicli, e ‘ondata di odore’, da Pantelleria (vengono indicati anche alcuni modi di dire). Solo per la formazione cfr. tar. naschetə ‘sberleffo fatto col naso’ (VDS 2, 384). naschïári v.intr. ‘soffiare, per lo più a cagion d’ira’ (1752, dBono 2, 417 e poi solo in TrV 267, NicDUr 166 e VS 3, 17), ‘fiutare, odorare, detto partic. del cane sulla traccia della selvaggina’ (1990, VS l.c., da Pantelleria), ‘cercare qc.’ ib., da Camastra, ‘arricciare il naso in segno di disapprovazione o di diniego’ ib., da Bronte e Maletto, ‘comportarsi in maniera snob’ ib., da Centuripe, ‘starnutire’ ib., da Gaggi, tr. ‘annasare’ (1789, Pasq 3, 243 e poi fino a NicDUr l.c.). Cfr. piazz. naschiè tr. ‘fiutare, annasare’ (Roccella 167); aid. naschïè ‘civettare’ (Raccuglia 257). Cfr. cal. centro-merid. naschïare ‘id.’ (NDDC 451); bisc. naschià ‘annusare’ (Còcola 115); solo per la formazione, anche lecc. naschiare ‘fare uno sberleffo col naso’ (VDS 2, 384). Cfr. De Gregorio, StGl 7, 1920, 249; Merlo, RIL 86, 1953, 233-4; FaréSalv 5833. naschïáta s.f. ‘l'annusare’ (1868, Tr 629 e poi solo NicD 540 e VS 3, 17, da Tr, Av e Marsala), ‘l'arricciare il naso’ 1990, VS l.c., da Bronte, ‘ondata di odore o di puzzo’ ib., da Ragusa. Cfr. piazz. naschiada ‘annusata’ (Roccella 167). naschínu agg. ‘v. nanfarusu’ [cioè ‘chi parla col naso stretto’] (1875, Mac 203, aggiungendo che naschi stritti è lo stesso che nánfara, informazione già in Tr 629, e poi TrV 267; VS 3, 17 aggiunge S. Maria di Licodìa); ‘chi o che ha il naso schiacciato’, come s.m. e agg., 1990, VS l.c., in molte localizzazioni. Anche naschína f. ‘naso brutto’ ib., da Tri, e ‘ragazza frivola’ ib., da S. Caterina Villarmosa. È diverso, o è mal definito, piazz. naschingh ‘chi ha il naso all’aria’ (Roccella 167), ma cfr. VS l.c. n. ‘che ha il naso all'insù’ da Maletto. naschïáli s.m. ‘i muscoli e le cartilagini della punta del naso degli animali macellati’ (1990 ma da fonte del 1957, VS 3, 17, da Messina). annascári1 v.tr. ‘annusare, fiutare (da Corleone e Cammarata); subodorare; andare investigando su qc.’, intr. e rifl. ‘arricciare il naso, infastidirsi (rag.); prendersela a male, impermalirsi’, rifl. ‘stizzirsi (etneo sud-or.); insuperbirsi (da Bronte)’ (1977, VS 1, 194, in due voci inutilm. distinte, mentre va separato annascári2 ‘v. anniscari’, già nel 1785 in Pasq 1, 104); ‘domare un animale, specialm. un bovino, stringendogli le narici col pollice e il medio’ (GenchiCannizzaro 20); nnascári v.tr. ‘annusare, fiutare, special. del cane per scovare la selvaggina’ VS 3, 268 (da Tri, Messina e Patti), ‘subodorare; conoscere q. molto bene’ ib. (da Tri). Il part. annascátu era già come agg. ‘ritorto’ 20 nel 1785 in Pasq 1, 104 (e poi fino a Tr 57) e ‘chi ha il naso schiacciato, camuso’ nel 1839 in Rocca 30 e poi solo in NicD 57 e VS 3, 268, nella forma nnascátu; ora VS 1, 194 ha anche ‘scoperto, sorpreso sul fatto (da Tri); bitorzoluto, di certi frutti, ad es. dei limoni (da Tri); ricurvo, ad uncino (anche del becco degli uccelli)’, inoltre, per il senso di ‘bitorzoluto’, anche nn. in VS 3, 268 (da Tri). Cfr. cal. annascare ‘annusare, fiutare’ (NDDC 82); luc. annašká ‘id.’ (Lausberg 196); Trevico annascá ‘id.’ AIS 3, 520; Brienza e Muro annascà ‘id.’ (Paternoster 6; Mennonna 23); Pisticci annascá ‘id.’ AIS l.c.; sal. annascare ‘id.’ (VDS 1, 47); bit. annaschèue ‘id.’ (Saracino 54); rub. annaskó ‘id.’ e ‘intuire’ (JurilliTedone 1, 68); molf. annescà ‘id.’ e ‘arricciare il naso per ripugnanza’ (Scardigno 49). Poiché il gallorom. ha paralleli indigeni (ant. fr. nascier ‘renifler, nasiller’, nasquier ‘flairer’ ecc.: FEW 7, 25b ss.), è stato postulato un lat. *NASĬCARE, denom. di nasica: REW 5835; AlessioPostille 182; FEW l.c. 27a e n5. A rigore le voci sic. ed it. merid. possono benissimo essere denom. da nasca, come De Gregorio, StGl 7, 1920, 249 affermava per → naschiari e come par intedere FaréSalv 5833. annaschïári v.tr. ‘annusare, fiutare’ e intr. e rifl. ‘prendersela a male, impermalirsi’ (1977, VS 1, 194, come rag. e, nel senso tr., anche da Gagliano Castelferrato); nnaschïári v.intr. ‘fiutare, odorare’ VS 3, 268 (da Tri, Corleone e Linguaglossa), ‘subodorare; conoscere q. molto bene’ ib. (da Tri). Cfr. bisc. annaschiá ‘odorare, annusare; spiare, investigare’ (Còcola 26). annaschïáta s.f. ‘ondata di odore, buono o cattivo, che arriva da lontano; sentore’ (1977, VS 1, 194, come rag.). naschicirúsi s. inv. ‘moccioso, ragazzo o ragazza che si dà aria da adulto’ 1990, VS 3, 17 (da Chiaromonte Gulfi). → cirúsu násca-santísca s.f. ‘giuoco dei ragazzi’ (1977, RohlfsSuppl 74, da Ucria, ripreso in VS 3, 16). supranásca s.f. ‘v. capizzuni [‘cavezzone’], così detto perché si mette in sul naso della bestia’ (1790, Pasq 4, 157 e poi fino a TrV 441, VS 5, 451; Rocca 341 ha invece pl. supranaschi ‘id.’, registrato anche da Tr 1000, TrV l.c. e VS l.c.). In VS l.c il m. vale anche, scherz., ‘occhiali’ (da Tri), dove anche avv. fari una cosa s. ‘fare qc. malvolentieri’. È molto dubbio che vadano qui sinásca s.f. ‘rabbia’ VS 5, 29 (da Sanclemente, 1645-53), aviri la s. ccu unu o aviri a unu nta la s. ‘avere uno sul naso’ ib. (da Marineo), sináscu s.m. in fari di lu s. ‘mostrarsi collerico’ ib. (da AA e Mal), fari lu sináschi ‘ricalcitrare’ (1868, Tr 932 e poi solo TrV 411, segnalato in VS 5, 29), che AlessioLatinità 77 collega col regg. (Molochio) fari u sinascu ‘beffare, canzonare, motteggiare’ (cfr. regg. sinascu ‘vezzo, smorfia’ NDDC 660) e riporta ad un *ASINASCUS da asinus, che sarebbe notevole per il suff. pre-lat.; ma più tardi (AlessioPostille 182), senza criticare la precedente spiegazione, lo stesso studioso considera invece deverb. da un presunto *sinascari, *sinaschiari, a sua volta da un *SUBNĀSICĀRE ricostruito in base al solo march. sornaschiá ‘russare’. L’accostamento ad ásinu sarebbe soltanto paretimologico. FaréSalv 704 pare attenersi alla prima spiegazione, perché colloca la forma sic. sotto ASINUS. In realtà né l’una né l’altra ipotesi sono convincenti (limitandoci al sic., la seconda appare foneticam. e semanticam. assai difficile) ed è meglio dire che l’origine di sinaschi è ancora sconosciuta. nasíta 21 s.f. ‘terreno alluvionale coltivabile, lungo un corso d’acqua’ (1101, in lat. nella forma nasida; 1924 in sic.), continua un dorismo gr. di Sicilia ναζίδα ‘isoletta’, per νηζίδα, con lo stesso senso del termine patrimoniale ísula e dell’arabismo gisira. 1101: «descendit ad nasidam, ubi est lapis cruce signatus» (AttiRuggeriani 617; copia del 1144); 1115: «A nasida dicta Apsicha… et descendit per flumen flumen et pervenitur ad nasidam de Apsicha» (DocIn 11-12; il luogo è Sicaminò); 1117: «ascendendo per eumdem flumen usque ad vallonum capitis nasidae Sancti Honufrii» (Pirro 1039-40; il luogo è Agrò); 1142: «τωρίς ηῆς ναζύδας... ἕως οὖ εἰς ηον μέγαν ῥύακον ’ανηικύς ναζύδαν» (Cusa 308; trad. lat. del 1555 in Pirro 391; il luogo è Gagliano); 1759 Vinci 168 registra nasida ‘lingua terrae, vineae’, come parola che si legge in atti pubblici mess.; lo copiano Pasq 3, 244 e VS 3, 19; 1930 nasita ‘isola, terreno alluvionale piano, vicino ad un fiume (coltivato)’ a Mandanici AIS 3, 429 Cp, 1964, LGII 348 (da Barcellona, Mandanici, Rometta, Naso, ecc.); 1977 RohlfsSuppl 74 (cfr. già Z 46, 1926, 145) aggiunge Castroreale, Castelmola, Fiumedinisi, Furci, Rometta, S. Lucia del Mela e Venètico, VS l.c., sempre esclusivamente in area mess. or., segnala n. anche ad Alì, Giardini, Nizza di Sicilia, S. Filippo del Mela, Rodì Mìlici e Ucrìa; 1990 n. ‘orto’ VS l.c., da Tri, dove anche n. di cucuzzi, n. di muluni ‘pezzo di terreno coltivato a zucche, ad angurie, ecc.’. Inoltre, troviamo nasída a Castroreale 1977 RohlfsSuppl 74, a cui VS l.c. aggiunge Barcellona, Gualtieri Sicaminò, Nizza di Sicilia e S. Pietro Patti), e nasía ad Antillo 1977 RohlfsSuppl l.c. e VS l.c., che segnala inoltre nasira ‘id.’ a Raccùia e Ucrìa. Cfr. regg. nasida ‘terreno coltivato lungo una fiumara’ (NDDC 451; cfr. già AIS l.c. P. 791 e 792); bov. nasíδa id.’ (LGII 348). La voce mess. è stata segnalata da Rohlfs, Griechen und Romanen (1924), che la spiegò subito col gr. ναζíς -íδα ‘isoletta’, forma dorica sic. invece di νηζíδα; così poi Z 46, 1926, 145; Boll 8, 1962, 130; LGII 348; RohlfsScavi 161; RohlfsSuppl 74. In effetti Rohlfs ha documentato νᾶζος nello stesso senso nelle tavole di Eraclea, νῆζος ‘terreno che viene allagato dal Nilo’ in papiri egiziani, asía ecc. ‘id.’ nel dialetto gr. zaconico; la forma dorica è confermata in Sicilia da ηόπος Νοκερείας ναζείηιδος ‘sepolcro di Noceria originaria dell’isola’ in una iscrizione sirac. prebizantina (IG 14, 153; FanciulloOriente 89) e dai topon. Nasira, presso Ucria, e Nasidi, presso Librizzi (cfr. Boll 3, 1955, 241; per la Calabria cfr. DTOC 210). Semanticam. n. corrisponde al frequente ┌isula┐ ‘id.’ (cfr. AIS l.c., in Sicilia e nella penisola) ed al topon. di origine ar. Gisira (AvolioSaggio 86 e Giuffrida 70; c’è anche un altro sinon. di origine ar.: → dágala). Malgrado i dubbi di Alessio, RIL 72, 1938-39, 72 e 77, 1943-44, 692, la dimostrazione va considerata solida (cfr. già Battisti, RLiR 3, 1927, 61, ora FanciulloOriente l.c.): si tratta di antico dorismo, rimasto nel gr. della zona mess. e regg. e passato al romanzo. ’nchiappári v.tr. ‘sporcare; far male una cosa’ (1519, nella forma inch- e nel senso ‘avviluppare’; 1752 nel 2° senso), è voce sic. e cal. centromerid. in ultima analisi di origine onomatopeica (clapp), che potrebbe sembrare prestito dal cat. clapar ‘macchiare’ se non fosse contigua ad una compatta area it. merid. di 22 ┌ nchiaccare┐ ‘sporcare’, che pare foneticam. modificata dal sinon. ┌ nguacchiare┐. 1519: «inchiappari: implico» (Scobar 115v); 1752 ’nchiappari tr. ‘far male una cosa, guastare’ dBono 2, 438 e poi sempre fino a NicDUr 169 e VS 3, 67; 1844 ‘macchiare, sporcare’ Mort 2, 8 e poi sempre fino a NicDUr l.c., come senso principale, e VS l.c. (con diversi traslati); il rifl., oltre che ‘imbrattarsi, sporcarsi’ e ‘invilupparsi, sgarrare, imbrogliarsi’ (1752, dBono l.c. fino a Mort l.c., ma tuttora vivissimo: cfr. VS l.c.), è 1844 ‘avvinazzarsi’ Mort l.c. e poi fino a NicD 546 e VS l.c.; intr. ‘mettere inavvertitamente un piede ad es. sullo sterco’ VS l.c., da Acate (nello stesso senso la variante ’nghiappari, da Leonforte, nonché ’nchiapparari (incrociato con chiáppara), da Acate, Bronte e Maletto, VS 3, 209 e 67), ‘posarsi o fermarsi (con un movimento dall'altro verso il basso)’ ib., ‘incappare’ ib., da Man. Per ’n. ‘fornire di bandelle…’ e n. li ficu → chiappa. Normale la var. ’nciappári v. ass. e rifl. ‘imbrattare, sporcare; lordare; impiastricciare’ 1990, VS 3, 80-1, da Floridia, Licata, Palma di Montechiaro, Pantelleria e dai dialetti ragusani. Per ’nciappari ‘fare le picce dei fichi secchi’ e ‘lastricare’ → ciappa, e anche i significati di → chiappa. La forma inchiappári 1786 Pasq 2, 308. La forma chiappári v.tr. ‘imbrattare’ di Tremestieri Etneo (1977, VS 1, 676) è certam. estratta dal nostro v. Cfr. piazz. ’nchiappé ‘macchiare, imbrattare; far una cosa erroneamente o disordinatamente’ (Roccella 170). Cfr. cal. centro-merid. nchiappari ‘imbrattare di sterco’ (NDDC 454). Avolio 77 lo considerò prestito dal cat. clapar e così fece Gioeni 193, che però collegava → nchiappa e cat. clapa. In effetti cat. clapa ‘petita extensió que es distingeix, per alguna cosa, de la superfície que l’envolta; especialment, tro que és de color diferent que la resta de la superfície de què forma part’ (ad es. ‘macchia di alberi’ o viceversa ‘radura’) (sec. XIII: DCVB 3, 184b) è accompagnato da un denom. clapar tr. ‘posar clapes’ (sec. XIV: ib. 185a; Coromines, DECLlC 2, 734b, ha un clapar ‘posar o tacar de clapes’ come solo dalla fine dell’’800). In Francia merid. il rapporto si rovescia, perché troviamo ant. lang. clapa ‘tache’ (ca. 1370) ma solo ant. prov. clapat ‘tacheté’ (ca. 1300) e qualche der. dial., ma non il v. (FEW 2/1, 732a, che cita pure, 735b n10, il guasc. plapo ‘fleck’). Sembra dunque che Sicilia, Catalogna (con le Baleari) e Francia merid. siano tre aree di affioramento di un ┌clappare┐ ‘macchiare’ (o ┌clappa┐ ‘macchia’), che Wartburg (e già REW 4706a) colloca sotto la base onomatopeica rom. e germ. clapp ‘colpire, battere’ mentre DCVB l.c. pensa ad un lat. *clappare, di origine germ. (il passaggio di senso, più complicato per DCVB, per FEW postula solo ‘colpire’ → ‘macchiare’, perché i colpi lasciano il segno: ib. 734b). Una spiegazione puram. onomatopeica, come quella di Wartburg, è di gran lunga preferibile, anche per evitare di confondere con questa famiglia lessicale quella del pre-lat. clappa ‘sasso’ (→ ciappa), come accade in REW l.c. e soprattutto in FaréSalv 4706a. Ma si veda tutta la discussione in DECLlC, 2, 732a ss. In ogni caso non pare il caso di considerare la voce sic. un catalanismo, tanto più che non conviene trascurare che l’area sic. e cal. merid. di nchiappari confina con un’altra, semanticam. quasi identica e formalm. assai simile: regg. e cos. nchiacchare tr. ‘sgorbiare, chiazzare, imbrattare d’inchiostro’ (NDDC 454) e cos. nghiaccare ‘imbrattare, sporcare’ (ib. 465); nap. 23 nchiaccare ‘sporcare, insudiciare, imbrattare; impiastricciare; acciabattare, far le cose alla grossa’ (D’Ambra 254); irp. nchiaccà ‘imbrattare, impiastricciare’ (Nittoli 146); sal. nchiaccare ‘inchiazzare, macchiare, sporcare, imbrattare’ (VDS 2, 390); molf. nghiaccà ‘sgorbiare, macchiare con sgorbi’ (Scardigno 347); bisc. inchiaccà ‘spiaccicare, imbrattare; scarabocchiare’ (Còcola 89); fogg. nchiaccà ‘imbrattare, infardare’ (Villani 68); abr. nghjaccá tr. e rifl. ‘impiastrare, sporcare’ (Giammarco 3, 1307). Salvioni (RIL 44, 1911, 934 e FaréSalv 1666) collocò ’nchiacco ‘lordura’, peraltro meno diffuso del v., sotto capŭlum ‘laccio’, il che è foneticam. corretto, ma semanticam. inesplicabile (invece non c’è dubbio che da CAPŬLUM derivino i sic. nchiaccári, nciaccári, nghiaccári, gnaccári, nchiáccu (rispettivam. VS 3, 63, 78-79, 209, 270), da cui per incrocio nchiappari2 v.tr. ‘acchiappare o prendere’ (VS 3, 67, da Barcellona Pozzo di Gotto). Non c’è dubbio che ┌ nchiaccare┐ ‘lordare’ non sia che ┌ nchiappare┐ x ┌nguacchiare┐, che copre esattam. la stessa area: regg. nquacchiari tr. ‘sgorbiare’ (NDDC 475); nap. nguacchiare tr. e rifl. ‘guazzare; insozzare’ (D’Ambra 261); irp. nguacchià tr. ‘legare male ed in fretta’ (Nittoli 151); Muro nguacchià tr. ‘macchiare, insudiciare’ (Mennonna 98); sal. nguacchiare ‘sporcare, lordare’, nquacchiare ‘id.’, guacchiare brind. ‘id.’ (VDS 2, 409 e 419; 1, 264); bit. nguacchièue ‘macchiare, sporcare, insudiciare’ (Saracino 294); molf. nguacchià ‘sgorbiare, macchiare con sgorbi’ (Scardigno 350); abr. nguacchjá tr. e rifl. ‘sporcare, imbrattare’ (Giammarco 3, 1322). Queste forme sono state considerate probabilm. onomatopeiche (Valente, in Saracino l.c., tenta una improbabile base lat. incacare), ma ora LEIGermanismi 1, 920-923 considera ┌nguacchiare┐ come derivato di longob. *blaihha x coagulare. In conclusione, se veram. tutto il mezzogiorno ha avuto ┌ inchiappare┐, conservato poi solo in Sicilia, dove quasi non esiste ┌ nguacchiare┐, la scelta fra il prestito dal cat. e il semplice parallelismo con le voci cat. inclina verso la seconda ipotesi. ― Il significato dato nel 1519 da Scobar sorprende, anche perché i valori del s. corrispondente (→ ’nchiappa) escludono che si tratti di ‘mescolare insieme’; è probabile che qui si abbia un der. di → ciappa. Altra variante fonetica è nquacchiári v.tr. ‘sporcare, impiastricciare’ (VS 3, 290, da Tri, Augusta, Nizza Sicilia e Pantelleria), rifl. ‘sporcarsi, impiastricciarsi’ (ib.), da cui il frequentativo nquacchiarïári v.tr. ‘impasticciare, mettere insieme frasi senza senso o confuse allo scopo di ingannare chi ascolta’ (ib. da Mart), nguacchiarïári ‘id.’ (ib. 230); nquácchiátu agg. ‘unto e bisunto’ (ib. 290, da Bivona). ’nchiáppa s.f. ‘cosa mal fatta’: 1519: «inchapi v. impachu: impedimentum» (Scobar 54r) e «inchappa: implicatio» (ib. 115v); 1752 ’nchiappa ‘lavoro cattivo; qualsivoglia cosa mal fatta’ dBono 2, 438 e poi fino a NicD 546 e VS 3, 67 in numerose localizzazioni, spesso con altre definizioni che sono solo specificazioni, come ‘azione contraria al dovere o al convenuto, ma solo per isbaglio’, ‘danno, sconcio’, ‘qualunque intruglio di cucina’, ‘qualsiasi cosa di qualità scadente’; 1868 ‘fandonia’ Tr 633 e poi fino a NicD l.c e VS l.c.; 1990 ‘bruscolo’ ib., da Camastra. Inoltre nguácchiu s.m. ‘pasticcio, cosa mal fatta, disordinata e confusa’ (VS 3, 230) e nquácchiu ‘brutta avventura, malanno fortuito’ (ib. 291, da Gagliano Castelferrato). La forma inchiappa è nel 1786 in Pasq 2, 308. L’ipotesi che si tratti di un deverb. 24 (e non che il v. sia un denom.) sembra confermata dalla limitazione al senso ‘far male una cosa’, senza traccia di ‘sporcare’ (se non forse in VS l.c. ‘pagina pasticciata o piena di scarabocchi’, da Av, Tri e Casteltermini), che pare il valore originario della famiglia. Il s., per lo più m., è documentato per le altre due famiglie connesse: 1) regg. nchiacca ‘macchia d’inchiostro’ (NDDC 454); nap. nchiacco ‘macchia, lordura, impiastramento’ (D’Ambra 254); irp. nchiàcco ‘id.’ (Nittoli 146); sal. nchiaccu ‘sgorbio, lordura’ (VDS 2, 390; cfr. lecc. chiacca ‘macchia, chiazza’ ib. 1, 136); molf. nghiacche ‘sgorbio calcato e macchiato’ (Scardigno 347); bisc. inchiacche ‘impiastricciamento, scarabocchio, scarabocchiatura’ (Còcola 89); fogg. nchiàcco ‘farda, imbratto; sgorbio’ (Villani 68); abr. nghjacchiə ‘pastriccio; lavoro fatto alla peggio; cosa che abbia del fradicio e dell’appiccicaticcio’ (Giammarco 3, 1307); 2) nap. nguacchio ‘untume; melma; miscela di cose non affini; sgorbio, farfallone’ (D’Ambra 261); lecc. nguácchiu, nquácchiu ‘macchia d’unto’ (VDS 2, 409 e 419; la 2ª forma al pl. anche ‘sgorbi’) e sal. gnacchiu ‘grossa macchia, macchia brutta’ (ib. 1, 264); molf. nguàcchie ‘sgorbo macchiato’ (Scardigno 350). Per il senso che la voce sic. ha in Scobar → ’nchiappari. ’nchiappáta s.f. ‘v. ’nchiappa’ (1752, dBono 2, 438 e poi fino a Mac 206 e VS 3, 68), ‘l'imbrattare’ (1868, Tr 634 e VS 3, 67), ‘donna vile’ (1868, Tr l.c. e poi NicD 546 e VS 3, 68). In VS 3, 68 questo ultimo senso è sotto un nchiappata2, sia s. che agg., con rimando all'agg. verb. m. nchiappátu, per il quale VS l.c. registra pressoché tutti i sensi indicati sotto nchiappari, ma anche ‘buono a nulla, inetto, malaccorto; impacciato, lento nei movimenti, fiacco, maldestro’, e avv. in parrari n. ‘parlare in maniera affettata’ ib., da Mort e S. Michele. Cfr. anche nciappátu agg. ‘sporco, imbrattato’ (1990 , VS 3, 81, da Floridia e dai dialetti ragusani); ‘inconcludente, maldestro’ (ib., da Pantelleria; qui anche avv. in pallari n. ‘parlare in maniera stentata e poco comprensibile’). In VS 3, 209 l'agg. nghiappátu vale ‘elegante’, da Riesi. Cfr. piazz. ’nchiappada ‘l'imbrattare’ (Roccella 170). ’nchiappatína s.f. ‘l'imbrattare’ (1868, Tr 634 e VS l.c.); ’nchiappadíni pl. ‘orme della lepre’ (VS 3, 67, a Gualtieri Sicaminò, da ALI), e ’nghiappatíni pl. ‘lividi prodotti da urti o percosse’ (ib. 209, da Viagrande; questo piuttosto da chiappa); cfr. piazz. ’nchiappatina ‘l'imbrattare’ (Roccella 170). ’nchiappaméntu s.m. ‘zaffardata; imbrattamento; inviluppamento’ (1752, dBono 2, 438; non torna altrove). ’nchiappéri s.m. ‘non buono a nulla’ (1868, Tr 634 e poi fino a NicD 546; in VS 3, 68 è agg.), nchiappèriu 1990, VS l.c., da Pantelleria. Già prima è attestato il der. ’nchiappittéri s.m. ‘v. ’nchiappacasa; parolaio, cianciatore’ (1844, Mort 2, 8, anche -era s.f.; il 1° senso [‘v. ’nchiapperi’] poi in Tr 632, TrV 272 e VS l.c., dove anche ’nchiappiḍḍéri ‘id.’; il 2° in NicDUr 169 e VS l.c.). ’nchiappulïári v.tr. ‘infinocchiare, imbrogliare’ (1789, Pasq 3, 258 e poi fino a NicD 546 e VS 3, 68); 1868 ‘fare strana mescolanza di checchessia; imbrattare; far checchessia a caso alla grossa; confondere insieme cose che andrebbero separate’ Tr 634 e poi fino a NicDUr 169 e VS l.c., con alcuni traslati e in diverse localizzazioni; rifl. ‘impiastricciarsi’ (VS l.c., da Bisacquino, Falcone, Làscari e Pòllina). La var. nciappulïari ‘abborracciare; tergiversare, confondere i termini di un 25 discorso; dire bugie’ è, da Pantelleria, in VS 3, 8. ’nchiappacarta s.m. ‘scrittore dappoco’ (1990, VS 3, 67, da Tri). Ib. altri composti. ’nchiappacása s.m. ‘chi non sa condurre a fine cosa alcuna’ (1752, dBono 2, 438 e poi fino a NicD 546 e VS 3, 67). ’ncignári v.tr. ‘cominciare a usare (un vestito, una botte, ecc.); iniziare’ (1572, nella forma ingignari), è voce dell’intera Italia merid., ma anche di località umbre, della Toscana nordocc., della Corsica e della Sardegna, dal tardo grecismo del lat. cristiano ENCAENIARE ‘inaugurare (un abito)’. 1572 Messina: «ingignari [un vestito] per la luminaria, festa et allegrezza dilo naximento dilo Ser.mo principe di Spagna» (ASS 28, 1903, 97); 1752 ’nc. ‘cominciar ad usare’ dBono 2, 440 e poi fino a Cav 101 e VS 3, 83, anche in sensi più specifici come ‘mettersi un abito nuovo o altro vestimento per la prima volta’ (1868 [ma già 1572], Tr 635 e poi fino a NicDUr 169 e VS l.c. da Camastra e Licata, nonché AIS 5, 1001 N a S. Michele e Giarratana) e ALI 3, 286 in vari P. centr. e sud-or.; ‘manomettere (botti)’ (1914, NicDUr l.c. e VS l.c.); ‘manimettere (una salsiccia)’ (1933, AIS 5, 1001 a Catenanuova, Mascalucia, S. Michele e Giarratana); ‘cominciare a usare un recipiente’ (1933, AIS l.c. N a S. Michele, VS l.c. da Licata); anche ‘fare i primi atti d’una operazione’ (1914, NicDUr l.c.; alcuni esempi in VS l.c.); v.intr. ‘cominciare a deporre uova’ (AIS l.c. a Catenanuova, VS l.c. da Av, Mac, PitrèUsi, Calatabiano, Niscemi e Paternò); ‘restare incinta’ (1990, VS l.c. da Castiglione di Sicilia, Nàpola e S. Alfio); ‘cominciare a fruttificare, di pianta’ (1990, VS l.c., da Grammichele). L’uso rifl. con il senso ‘allignare o attecchire’ (1990, VS l.c., da Tri), si ritrova nella forma ngigghiári (1990, VS 3, 214, da Mistretta), che vale principalmente ‘mettere il germoglio’ (ib., da Bronte e Mistretta) e fig. ‘intirizzirsi’ (ib., da Mistretta), che proviene da ggigghiu ‘germoglio’ (VS 2, 234b), che dunque si è incrociato con il nostro termine. Le forme incignári (1868 Tr 477, e poi NicD 403) e ’ngignári (1888 TrVApp 19, poi NicDUr 403 e VS 3, 214 ‘usare per la prima volta’; qui, più specificam., anche ‘indossare per la prima volta’ da Bronte, Paternò e S. Michele di Ganzarìa; ‘rilevare (conigli, colombi, ecc.)’ (da Tri); ’ng. a càccia ‘ripopolare di selvaggina una riserva’ (da Tri); v. ass. ‘fare il primo uovo, della gallina’, da Paternò); v. rifl. ‘moltiplicarsi, propagarsi, riferito ai pidocchi (da AA) o a piante infestanti (da AA e Tri)’; ncingári v.tr. ‘usare per la prima volta qc. di nuovo’ (1990 VS 3, 87, da Vittoria) e v.intr. ‘cominciare a fare le uova, delle galline’ ib. (da S. Croce Camerina). Cfr. piazz. ’ng’gnè ‘vestir la prima volta l’abito nuovo’ (Roccella 177). Cfr. cal. ncignare, ngignari ‘cominciare; cominciare una forma di cacio, un prosciutto, una botte di vino, mettersi un vestito nuovo per la prima volta’ (NDDC 456; cfr. AIS 5, 1001 e 7, 1261 e 1264; è anche bov.: LGII 135); nap. ncignare ‘cominciare, principiare’ (D’Ambra 255); procid. ncignà tr. e rifl. ‘cominciare, iniziare; mettere in uso cose nuove’ (Parascandola 173); AIS 5, 1001 ‘manimettere (una salsiccia)’ ha ngegná ancora a S. Donato e ncigná a Sonnino; irp. ncignà ‘cominciare, principiare’ (Nittoli 146); Muro ngegnà ‘usare per la prima volta una cosa’ (Mennonna 93); AIS l.c. ha il tipo in 26 tutta la Basilicata meno Maratea e i Cp aggiungono Picerno per ‘incignare la botte’; sal. ncignare ‘cominciare; incignare una botte di vino, un salame’ (VDS 2, 392; è anche otr.: LGII l.c.); molf. ngegné ‘mettere in uso’ (Scardigno 343); bisc. incignà ‘manimettere, incignare’ (Còcola 89); fogg. id. ‘usare per la prima volta (una botte, un vestito)’ (Villani 68); per la Puglia cfr. anche AIS 5, 1001 e Cp; abr. ngəgná e ngigná ‘incignare, méttere o indossare, per la prima volta, di vestiti in genere, prendere a usare un oggetto per la prima volta; incignare (il prosciutto)’ (Giammarco 3, 1301 e 1311); it. incignare ‘adoperare per la prima volta (un letto, una casa); avviare, intraprendere, incominciare (un’attività); indossare o calzare per la prima volta; cominciare (pane, salame, botte, fiasco ecc.)’ (sec. XV: Batt 7, 681c); ncignare, nce- è voce della Toscana nord-occ. (Pistoia, Lucca, Pisa): cfr. AGl 14, 189698, 129; AIS 5, 1001 P. 511 e 530; Malagoli 189 (pis. e lucch. incignà ‘incominciare a servirsi di una cosa, specialm. di vestiti’), ma anche di zone umbre: cfr. Jaberg, RLiR 1, 1925, 142-3; corso incignà ‘sbocconcellare’ (Falcucci 203); campid. inčinğai, Urzulei inkinğare ‘indossare, adoperare la prima volta (vestiti, scarpe, una botte nuova ecc.)’ (DES 1, 625a). La base è il lat. cristiano ENCAENIARE ‘inaugurer’ (S. Agostino, parlando di una tunica: Blaise 308), formato sul grecismo lat. crist. encaenia ‘cerimonia di consacrazione’: REW 2867; Sacco 1, 105; Rohlfs, ARom 9, 1925, 158; Jaberg, RLiR 1, 1925, 126 e 142-3; Battisti, ib. 3, 1927, 64; Alessio, RIL 74, 1940-41, 698; Merlo, RIL 83, 1950, 135; VEI 544; DEI 3, 1987; LGII 134; FaréSalv 2867. Per la sonorizzazione della sorda dopo nasale, peraltro rimasta allo stato di variante (→ ncinagghia) cfr. Salvioni, RIL 41, 1908, 896 n2. Il sic. possiede un ’ncignári2 v.tr. e rifl. ‘inventare’, ‘ingegnarsi’: 1373: «sappi ingignari unu sì nobili instrumentu…» (SposMatteo 46.12; cfr. 139.6 e 333.30); 1519: «ingeniari: excogito, argutor; i. cusi grandi: machinor; i. vide frabicari: fabricor» (Scobar 55v); 1839 ’ncignari rifl. ‘impegnarsi’ Rocca 220 e poi Mort 2, 9 e fino a NicDUr 169; Tr 477 nella forma incignári2; si tratta ovviam. di un der. di lat. ĬNGĔNĬUM, parallelo all’it. ingegnare, -rsi (cfr. REW 4419). Ancor più ant. (1348) è incignáre3, incinnáre di Sen 76: «Anictito… dormitare vel cum palpebris signum facere et vocare et incignare; Annuo… confirmare, concedere, assentire, assignare vel cum oculis incignare; Annuto… incinnare, confirmare vel cum oculis et alíis membris alloqui» (seguono altre due definizioni analoghe); oggi troviamo nzignari2 v.intr. ‘far cenno con gli occhi o con le mani’ 1990 (VS 3, 365 da Agrigento, Galati Mamertino, Naso e Roccafiorita) e nzingari ‘id.’ (ib., 367 da Agrigento, Gallotti Giardina e Mistretta). Queste voci vanno sotto la base lat. *CĬNNARE (cfr. it. accennare): REW 1932; AlessioLatinità 84; Ambrosini 26. Invece l’incignari di Regole (cfr. gloss.) è semplice grafia per insignari. ’ncignáta s.f. ‘atto del mettere la prima volta non solo un abito, ma anche di oggetti, di una stoviglia o altro’ (1928, Pitrè 63, col sinon. ’ncignatúra s.f.). Entrambe le forme sono riportate anche da VS 3, 84, con l'aggiunta di ncignatína s.f. ‘id.; il fare l'uovo per la prima volta, delle galline’, da Av). Cfr. procid. ncignata re Pasca ‘sfoggio di toilettes primaverili, in occasione dei riti di settimana santa’ (Parascandola 173). ncignatu agg. ‘attaccato’ (1990, VS 3, 84, da Alimena e Bagheria, e da BarCarini 264.94 «ciùri n. a la frunna; vermi ncignati a la gula»). 27 ’ncinágghia s.f. ‘inguine’ (1a metà sec. XIV nella forma anginalla»; 1348, nella forma anguinagla), è voce anche dell’Italia merid. e sett., dell’ant. prov. e del cat., dal pl. neutr. (divenuto f. sing.) dell’agg. INGUĬNĀLIS, der. da ĭnguen ‘inguine’, der. che nelle nostre zone ha fatto concorrenza alla voce principale. 1a metà sec. XIV: «appi una infirmitati all’anginalla» (SGregoriu 167.3); 1348: «inguen… illa pars corporis que est circha pudenda, que vulgariter dicitur anguinagla» (Sen 23; con una 2ª attestazione analoga); 1390: «appiru di inginalli tr. ij gr. ij» (Rinaldi 147.3); sec. XV in.: «a la inginagla» (ThesPaup 104.13); sec. XV: «appari umflatu in la anginagla» (Mascalcia 36.1); 1600 ca. Palermo: «con certi vozzi all’incinagli» (Diari 1, 63); 1630 ca. Palermo: «videndoci alla inginagla quanto una nocilla di bozo» (ib. 2, 110); la forma ’ncinágghia è poi da 1752 dBono 2, 441 a Cav 101 e VS 3, 86 (anche pl. ncinagghi ‘id.’ da Gratteri, Niscemi e Ustica); incinágghia in Pasq 2, 309 e poi Tr 477 e NicD 403; ’nginágghia 1868 Tr 644 e poi TrV 282, NicDUr 175 e VS 3, 215 (anche pl. nginagghi 'id.', da Acireale e Gela.); ancinágghia riappare nel 1868 Tr 55 e poi fino a Cav 29 e VS 1, 182, con ancináglia; ib. 183 anciunágghia; ib. 187 anginágghia, da Pozzallo e S. Caterina Villarmosa, anche ib. 834 cunágghia (da S. Stefano di Briga); ’ngunágghia 1877 TrV 284 e VS 3, 235 (anche pl. ngunagghi 'id.', da PitréMedicina); gunágghia 1877 TrV 202 e VS 2, 328 (da Spadafora e Tripi); ’ncináglia 1990 VS 3, 86; ’ncinálla ib. (da Alimena e Bompietro); ’ngináglia ib. 215 (da Pietraperzia, Termini Imerese, Villadoro e dall'agr. or. e centr. (anche pl. ncinágli ‘id.’ da Comitini); ’ngunáglia ib. 235 (da Castel di Lucio e Montalbano Elicona); ’ncunágghia ib. 123 (da Barcellona-Pozzo di Gotto, Cerami, Cesarò, Mongiuffi-Melìa e Troina); il senso è sempre ‘inguine’ (solo a Pantelleria ’ncinàgghia vale anche ‘grassella degli equini’ ib. 86). ALI 1, 67Cp documenta la parola in varie forme in P. sparsi per tutta l’isola. Cfr. piazz. ’ng’nágghia ‘inguine’ (Roccella 177); aid. unagghja ‘inguine’ (Raccuglia 463). Cfr. cal. anginaglia, anguinagghia, ancinaglia; ncinaglia, ncinagghia; ngunagghia, nganagghia, nguinagghia ‘inguine’ (NDDC 80, 456 e 469); luc. ngənáǵǵ ‘id.’ (Lausberg 222); nap. anguenaglia ‘id.’ (D’Ambra 44); procid. unàgghia ‘id.’ (Parascandola 20); irp. ncenàglia ‘poplite’ (Nittoli 146); tar. angənacchiə ‘anguinaia, regione inguinale’, lecc. cinaja ‘id.’ e ncinaja ‘id.’ (VDS 1, 46 e 150 e 2, 392); Pisticci anšinággə ‘id.’ (AIS 1, 135 Cp); bar. nginagghie ‘id.’ (Zonno 57); rub. ngenagghie ‘id.’ (Di Terlizzi 60); molf. ngenégghie ‘id.’ e ‘parte interna dell’articolazione del ginocchio’ (Scardigno 344); bisc. inginagghie ‘ernia’ (Còcola 93); andr. ngenàgghie ‘inguine’ (Cotugno 60); fogg. anginaglia ‘id.’ (Villani 7); abr. angunaglia ‘id.’ (Giammarco 1, 140); it. anguinaia, -aglia ‘id.’ (da Dante: Batt 1, 476a) e inguinaia, -aglia ‘id.’ (da Boccaccio: ib. 7, 1085c); lig. (sec. XVIII) angunaggia ‘id.’ (AGl 16, 190205, 143 e 359); piem. angonaja ‘id.’ (Sant’Albino 92); prov. ant. enguenalha ‘bubon inguinal’ (FEW 4, 691b); cat. engonal ‘part del cos en què s’uneix cada cuixa amb el ventre’ (ca. 1380: DECLlC 3, 355b). La base è il lat. INGUĬNĀLIA neutro pl. dell’agg. inguinalis, der. da inguen guĭnis ‘inguine; tumore inguinale’: cfr. REW 4433; DEI 1, 206; FaréSalv 4433. 28 Questo der. ha fatto concorrenza, nella Romània circum-mediterranea, a ĬNGUEN, di cui però non mancano continuatori qua e là (a parte l’it. inguine), come il sic. áncini s.f. pl. ‘ghiandole inguinali’ (1977, VS 1, 183, da S. Caterina Villarmosa), che come altre forme rom. (cfr. FEW 4, 691b692a; DEI 3, 2034) risale direttam. al lat. tardo INGUĬNA. Quanto ad a-, comune al sic. ed a una buona parte delle voci it. dial. e non, piuttosto che ad incrocio tra inguen e anguen ‘serpente’ e ‘antrace’ (DEI 1, 206), si dovrà pensare (con Batt 1, 476a) a falsa separazione dell’art. (la ’nc. → l’anc.): cfr. Rohlfs, § 341. Non ha fondamento l’opinione di Ambrosini 55, secondo cui anguinagla di Sen sarebbe provenzalismo; la voce prov. risulta solo da PLevy 149 e verosimilm. non ebbe grande vitalità né si vede per che tramite sarebbe giunta in Sicilia e in tutto il mezzogiorno. ’ncinagghiátu agg. ‘del feto basso’ (1888, TrVApp 19, da cui VS 3, 86). ncúnia s.f. ‘incudine’ (1348, nella forma incuyna), continua il lat. *ĬNCŬGĬNE ‘id.’, sviluppo di incūs ūdis ‘id.’, attestato da esiti cal. merid., camp., aret., it. sett. e fr. merid., oltre che sic. 1348: «Incus dis… illud istrumentum ferreum, in quo cuditur, quod vulgare dicitur incuyna» (Sen 76); 1380-1390: «fici prindiri la incugina di la putiga di mastru Nicola» (Rinaldi 135.41); 1490 Palermo: «una maza… et la incunya sua facta secundu la maza» (EeS 11, 1964, 527); sec. XV: «λα κκοσγινα» (ID 68, 2007, 50), che potrebbe essere letto /ncúiina/; 1519: «incuina di ferru: incus, acmon» (Scobar 54r); 1537 Castellammare: «unu martellu di ferrari li prixuni cum la incunia» (ASS 10, 1885, 324); 1721 ncuina ‘ancudine’ Dr 261 e poi da dBono 2, 450 a TrV 275 e VS 3, 120 (con la var. incúina, già med., in Pasq 2, 309 e Tr 480); 1844 ncúnia ‘incudine’ Mort 2, 12 e poi fino a Cav 101 e VS 3, 124 (incúnia Tr 481); 1914 ngúnia NicDUr 176 e VS 3, 235 (da Tri, Bompietro, Caltanissetta, da ALI, e Piedimonte Etneo); 1751 ancúina dBono 1, 50r e poi fino a VS 1, 184 (anche da Bronte e Bisacquino; si noti che nel 1522 Vall 7 ha «ancudini. hec incus»; nel 1990 ncúdina VS 3, 117, da Stromboli); 1875 ancúnia Mac 22 e poi NicD 55 e VS 1, 184 (anche da Campobello di Licata e Marsala); 1977 cúnia VS 1, 840 (a Patti, da ALI); 1990 ’ncúni VS 3, 124 (da Ragusa), e ’ncúria ib. 129 (da Camastra; qui anche facci di ncùria ‘persona sfacciata’). AIS 2, 214 ‘l'incudine’ presenta la forma ncunia come dominante (compresa Palermo, che avrebbe nc nia), mentre ncúina è solo a Bronte e Calascibetta. Significati secondari: ncúina ‘seguace molesto’ 1877 TrV 275, da qui ripreso in VS 3, 120); ncúnia ‘persona assillante’ a Castelbuono (GenchiCannizzaro 186); ncúnia ‘cappello a due punte come quello dei Carabinieri reali’ (scherz.) 1875 Mac 207, poi NicDUr 171 e VS 3, 124 (anche da Mussomeli e S. Alfio), inoltre Mannino (sotto dubbia forma ’ncúna), ‘carabiniere’ 1990 VS l.c., a n. ‘carabinieri (gerg.)’ ib. (da Patti); 1957 ‘nuvola a forma ovale allungata quasi come incudine, ritenuta indizio di prossima pioggia, specialmente se la base di essa si vede affondare nel mare, dal quale si ritiene che aspiri l'acqua (Piccitto)’ Giuffrida I, 96, nel ragusano (senso da qui ripreso in VS l.c.); inoltre n. ri casa ‘persona che conduce una vita senza significato e senza ideali’ (1990 VS l.c., da Catania). – In AIS l.c. anche Aidone ha ncoiina (Raccuglia 263 ncùina; cfr. piazz. ’ncuina ‘incudine’ Roccella 172), S. Fratello e Sperlinga 29 ncunia, Fantina ancoia. La c. cit. dell’AIS ci dà il tipo ┌ nc iina┐ nella Calabria merid., fino a Centrache (non però a Ghorio), nonché ad Acerno; gran parte dei P. camp. (Formicola, Colle Sannita, Napoli, Ottaviano e Montefusco), hanno ┌ nc nia┐; il resto del mezzogiorno conserva nella penultima sillaba la dentale. ‘ncugine è già nel 1282 in Ristoro d’Arezzo (OVI). La base è solo indirettam. il lat. ĭncūs ūdis ‘incudine’; su di esso si è formato un obl. ĭncūdĭne (da cui it. incudine), accanto al quale è certo esistita una forma *ĬNCŪGĬNE, dalla quale proviene regolarm. sic. nc iina (cfr. REW 4367.3; AlessioLatinità 383), assieme alle forme cal. merid. e camp., all’ant. aret. ancugine (AGl 2, 1876, 404) ed a tutte le forme it. sett. (cfr. REW l.c.; FaréSalv 4367.3; AIS l.c.). Il dubbio di Ambrosini 50 sulla provenienza della voce sic. dal prov. non tiene conto del fatto che le forme prov. postulano *INCLUGINE (cfr. FEW 4, 633b). Che il tipo sic. sia di provenienza galloit. è escluso dalla sua esistenza in Calabria, Campania e perfino Toscana. Lo sviluppo -iina > ina > -nia presenta la tipica metatesi di i; le forme con a- riposano su errata separazione dell’articolo (la ncuina → l’ancuina). ncúttu agg. ‘serrato’ e ‘chi sta appiccicato ad un altro e gli dà fastidio’ e avv. ‘vicinissimo’ (1752), voce sic. e cal. che continua il lat. CŌCTU, part. forte di CŌGĔRE ‘costringere; spingere insieme; riunire, raccogliere’, che sostituisce la più comune forma coactus. 1752 nc. agg. ‘stretto, unito, fitto, serrato’ e ‘vicinissimo (in eccesso)’ dBono 2, 454; il 1° senso ritorna fino a TrV 277, Cav 101, RohlfsSuppl 74 e VS 3, 134 (a volte come ‘folto, denso’), il 2° sempre fino a Cav l.c., RohlfsSuppl l.c. e VS l.c. (a volte come ‘chi sta fitto addosso e annoia’ o senz’altro ‘importuno’); anche satari a-ppedi ncutti (1990, VS 3, 135) o ngutti (ib. 239, da Pantelleria) ‘saltare a piè pari’; 1868 ‘tarchiato’ Tr 638 e poi solo NicD 550 e VS l.c.; ‘affezionato, legato da un sentimento di affetto’ 1990 VS l.c., da Palermo; ‘insistente, che dura a lungo’ ib. (da Palermo); ‘insistente, della pioggia’ ib. (da Tri); ‘frequente’ ib. (da Av); ib. 239 anche ngúttu ‘folto, riferito ai capelli (da Noto); frequente o continuo (da Pantelleria); petulante, insistente noioso (da Leonforte)’; inoltre, nc. ntô manciári ‘di persona che mangia poco e spesso’ ib. (da Biancavilla); corp'i mari nc. ‘onda corta’ ib. (da Pantelleria; o corpi'i mari ng. ib. 239); ng. ng. ‘molto vicino; fitto, stretto’ ib.; nc. avv. ‘stretto’ e ‘vicinissimo’ 1752 dBono l.c. e 1990 VS 3, 135 (anche da Casteltèrmini e Licata), poi ‘accosto’ e ‘importunamente’ 1868 Tr l.c., TrV 277 e VS l.c. (da Palazzolo Acreide); ‘di frequente’ ib. (da Av); ng. ng. ng. ‘da vicino, da presso’ VS 3, 239 (da Pantelleria); anche discúrriri ncutti ncutti ‘discorrere o parlare fitto, tra due persone’ ib. 135 (da Av); íri ncutti ‘non andare d'accordo’ ib. (da Buscemi); manciári ncuttu ncuttu ‘mangiare in fretta, quasi senza prendere fiato’ ib. (da Pantelleria; o manciari ng. ng. ib. 239), talïári nc. ‘guardare fisso’ ib. 135 (da Gratteri, Mòdica e Racalmuto). Molto comune stari ncutti, comu li sardi ‘serrarsi, come le sardelle’ (1752, dBono 2, 454 ecc.) e soprattutto éssiri ncuttu ‘stare continuamente d’attorno ad uno, o troppo vicino, annoiandolo’ (1789, Pasq 3, 269 ecc.), mittírisi ncuttu ‘id.’ (1868, Tr 638 ecc.), ma anche èssiri ncútti 1990 VS 3, 134 ‘essere amici molto stretti’ (anche da Palermo), ‘di persone che si 30 frequentano in maniera esagerata’ (da Altofonte). La var. incúttu in Pasq 2, 315. La var. ncúrtu (VS 3, 131) ha, oltre al valore di avv. ‘vicino, che è a poca distanza, come rapporto temporale e come rapporto spaziale’ (da Tri; inoltre tèniri ncurtu a unu ‘tenere d'occhio q.’ ib., senza localizzazione) anche quello di agg. ‘petulante, insistente, noioso’ (da Capizzi e Paternò). Il f. ncútta ‘diarrea’ è a Castelbuono (GenchiCannizzaro 187). – Cfr. piazz. ’ncutt ‘noioso, fastidioso’ (Roccella 173); aid. ncutte ‘fitto; fastidioso’ (Raccuglia 264). Cfr. cal. ncuttu, nguttu ‘fitto, folto’, cos. ‘vicino’, catanz. ngutt’a prep. ‘presso’ (NDDC 459). Le prime spiegazioni etimologiche sono fantasiose: Avolio 32 pensava al gr. ἐγγύθι ‘vicino’; De Gregorio, StGl 7, 1920, 21-2 al gr. ἀγτόθι, ἀγτόθεν ‘da vicino’. Malgrado le obbiezioni di quest’ultimo studioso, aveva visto giusto Salvioni, RIL 43, 1910, 623, pensando ad un *CŌCTU, part. forte di cōgere, sostituito a coactu (REW 2003) proprio per analogia all’inf. e ad altre forme in cog-. Questa spiegazione è accolta da Alessio, AGl 34, 1942, 26; AlessioLatinità 334; DEI 2, 990; RohlfsSuppl 74. Quest’ultimo afferma senz’altro che si tratta del part. di ncúiri ‘premere’. In realtà ncúiri è già nel 1519 in Scobar 54r («incuiri v. calcar[i]: constipo, trudo») e torna più tardi come v.tr. ‘accostare, stringere, avvicinare’ 1789 Pasq 3, 266 (da Spat) anche con il rinvio a → ncugnari, che è l’unica spiegazione di Tr 637 e TrV 276, i soli altri vocab., con RohlfsSuppl 74 e VS 3, 120 (da Spat), che lo abbiano (De Gregorio, StGl 7, 1920, 21, non dà alcuna ragione per la sua affermazione che TrV [egli ignora gli altri vocab.] equivochi rinviando a ncugnari); c’è però anche un uso rifl.: ‘far forza per mandar fuori gli escrementi del corpo’ 1875 Mac 207 e poi solo TrV l.c. e VS l.c. (ncuírisi). Questo v. poco comune trova riscontro nel cal. centro-sett. ncújere, ncújire ‘premere, pigiare’ e nel cos. cújere ‘pigiare, ponsare’ (NDDC 458); a quest’ultimo è stata assegnata la base lat. CŌGĔRE ‘costringere (cfr. REW 2026, che cita l’articolo in cui Merlo stabilì quest’etimo, accolto da Salvioni, RIL 43, 1910, 623; De Gregorio, StGl 7, 1920, 22; Pagliaro, ARom 18, 1934, 374; AlessioLatinità 335; DEI 2, 990; FaréSalv 2026; RohlfsSuppl l.c. e NDDC l.c., e da tutti, tranne il REW, esteso alla voce sic., tutt’al più postulando un già lat. *INCŌGĔRE). Ma il part. di ncuiri è regolarm. ncuiútu ‘stretto, molto accostato o premuto’ (sec. XVII VS l.c., da AA e Sanclemente); dato per scontato da De Gregorio l.c., è documentato da Pagliaro l.c., per Mistretta; cfr. AlessioLatinità l.c., DEI l.c.) (esiste anche il deverb. ncúitu s.m. ‘lo sforzo che si fa andando di corpo’ 1875 Mac 207 e poi TrV 276; ‘enterocolite’ 1914 NicDUr 171; ‘tenesmo, dissenteria o diarrea’ 1990 VS l.c. (dall'area catan.-sir. oltre che da Mòdica e Pozzallo); si aggiunga ncutti pl. in aviri i nc. ‘avere il tenesmo’ 1990 VS 3, 134, da Licodia Eubea, e ngutti pl. ‘coliche renali’ ib. 238, da Caltavuturo; cfr. regg. cújutu ‘sofferenza’ NDDC 215) e non ha torto De Gregorio l.c. ad affermare che su di esso si sarebbe costruita una forma forte *ncóttu (come murutu ~ mortu ecc.), e non ncuttu. Invece, malgrado le obbiezioni dello stesso De Gregorio, smantellate se non altro dalla documentazione lat. della forma, rimane perfettam. in piedi la base CŌCTU; semanticam. si sarà avuto ‘riunito, (co)stretto insieme’ → ‘fitto’ → ‘chi sta appiccicato ad altri’ (per la storia semantica di cogo cfr. ErnoutMeillet 17). ncuttízza s.f. ‘vicinanza troppa; importunità’ (1868, Tr 638 e poi, nei due 31 sensi, fino a NicD 550 e VS 3, 134 (anche da Altofonte), nel 2° anche in NicDUr 172, oltre a VS l.c. (‘insistenza, l'essere insistente o il chiedere con insistenza’), dove troviamo i sinonimi ncuttággini s.f. (da Av), e ncuttimi s.f., da Ragusa). Cfr. piazz. ’ncutezza ‘noia, fastidio’ (Roccella 173). Cfr. FaréSalv 2026, s.v. COGERE. ncuirízzu m. ‘dissenteria prodotta da irritazione nello intestino’ 1868 Tr 637 e ‘diarrea, dissenteria (da Niscemi); tenesmo (da Av)’ VS 3, 120. négghia s.f. ‘nebbia; nuvola; persona o cosa noiosa’ (ante 1322, nella forma nébula e nei primi due sensi), continua assieme all’allotropo névula ‘nuvola’ e ‘cialda’ il lat. NĔBŬLA, diffuso in tutta la Romània; nel senso ‘nuvola’ sono più vitali i continuatori di NŬBĬLUS (nelle forme núvulu, nú(v)ula), ma le due basi si sono reciprocam. influenzate in *NĬBŬLUS, da cui in Sicilia ní(v)ula ‘nuvola’ e ‘cialda’. I testi sic. ant. hanno sempre il cultismo nébula: ante 1322: «standu l’ayru ben serenu e claru, una nebula sì se stise e stava supra lu altaru de kista ecclesia» (SGregoriu 113.6; altri ess. CorpusArtesia); ante 1337:«Venus cumbuglau ad ipsu [Eneas] et a lu so cumpagnuni Achates in una nebula» (Eneas 1.53; altri rinvii nel gloss.); 1373: «comu in una nebula insembli esti acqua et focu, tronu et lampu, ploia et gelu, grandini et fulguri?» (SposMatteo 104.27; altri rinvii nel gloss.); 1380: «comu lu suli leva li tenebri di la nocti et guasta li nebuli et li alburi di la mattina» (Vitii 95.9; cfr. 190.159); 2a metà sec. XV: «elevatu Helia per la nevula in chelu» (SIheronimu 17.27); sec. XV: «subitamenti una nebula lu livau di li ochi loru» (MedChristu 257.25); 1519 «nebula v. negla: nebula» (Scobar 69v). Ma anche négla appare nella 2a metà sec. XV: «era in la menti sua comu una negla di un anticu sonnu» (TransIheronimu 30.27); abbiamo visto 1519 «nebula v. negla: nebula» (Scobar 69v) e «néglia oi nevula: nebula, omichle, nephele; n. cosa di negla: nebulosus; n. fari: nebulo; n. che guasta lavuri: rubigo, aurugo; n. cosa di questa: rubiginosus» (ib.) nonché «névula di farina: laganum; nevula v. niula: nubs; nevula di ochu: albugo, ulixatum» (ib.); 1522: «nebia vel neglia. hic nebula» e «nevula sive nuvila. hec nubes» (Vall 58); 1600 ca. Palermo: «successi una neglia tantu grandi, che…» (Diari 1, 211); 1752 negghia ‘nebbia’ dBono 2, 460 e poi sempre fino a Cav 131 e VS 3, 146 s.; anche nígghiu s.m. ‘id.’ 1868 Tr 647, ripreso da VS 3, 246; AIS 2, 365 ‘la nebbia’ ha negghia in tutta l’isola (con la sola eccezione di paisana a Mistretta e búira nella galloit. Aidone), salvo che la forma neglia, registrata nel 1868 da Tr 639 come di S. Cataldo, appare a Villalba, Calascibetta, S. Biagio e Naro (accanto alle tre colonie galloit. che in AIS l.c. hanno questo tipo va piazz. négghia ‘nebbia’ (Roccella 174) e aid. negghja ‘id’ (Raccuglia 264); cfr. inoltre VS 3, 147 neglia ‘nebbia’ da Enna, da tutta l'area niss. nord-or. e niss. sud-occ., e dall'area agr. or. e agr. centr.); 1752 negghia ‘moltitudine’ dBono l.c. non torna altrove se non in VS 3, 146 che lo registra a S. Teodoro (ma cfr. anche Rocca s.v. nuvulu e, più sotto, → annigghiari); cfr. anche na nígghia di...‘un gran numero di..’ 1990 VS 3, 245 (da Tri) e n nígghiu di...‘id.’ ib. 246 (da Tri); na nèvula d'oceḍḍi ‘uno stormo di uccelli’ ib. 160 (da Ribera); nìvula ‘un branco numeroso di bestiame o uno stormo di uccelli’ ib. 260 (da Barrafranca e Buscemi); nùvula ‘stormo 32 d'uccelli’ da Acate e Chiaramonte Gulfi. 1752 negghia ‘gramezza’ dBono l.c. giunge poi a Mort 2, 15, TrV 277 e VS 3, 147; 1752 negghia ‘persona noiosa e talora dappoco’ dBono l.c. giunge a NicD 551 ed è molto vivo ancor oggi (per il 1° senso, VS 3, 147 da Pantelleria, ma ib. anche alcuni traslati); 1868 (ma cfr. sopra Scobar) negghia ‘v. risina e lupa’ Tr 638, TrV l.c. e VS l.c. (dove si fa riferimento a diversi tipi di malattie delle piante; anche ib. 244 niégghia s.f. ‘ruggine delle foglie del grano’, a Corleone); al pl., ‘cianfrusaglie, cose vecchie e ingombranti’ ib., da Castelvetrano, Isola delle Femmine e S. Giuseppe Iato (con questo senso anche négli pl. ib. 147, da Caltanissetta); il senso ‘nuvola’, ben documentato nel medioevo, torna per negghia solo nel 1875 Mac 208, ma AIS 2, 364 ‘la nuvola’ ha la stessa forma a Baucina, Mistretta e Catenanuova (solo quest’ultimo P. ha la stessa denominazione per ‘nebbia’ e ‘nuvola’: Baucina distingue tra n. tirrana e n.), mentre a Vita, S. Biagio e S. Michele appare névula (che in questo senso era solo nel 1839 in Rocca 223, ma ora anche in VS 3, 160) e Villalba níavula (il tipo ┌névula┐ è anche ad Aidone e Fantina, mentre S. Fratello ha anche ora negia); altrove troviamo ┌nívula┐ e ┌ núvula┐, di cui diremo sotto. VS 3, 146 aggiunge negghia ‘nuvola’ (da Àlia, Balestrate, Centùripe e Cerami, e registra inoltre numerose localizzazioni tratte da ALI e BarCarini; anche pl. i negghi da Altofonte, Centùripe, Làscari, Mezzojuso e S. Teodoro, quest'ultimo da ALI); ib. 147 néglia ‘id.’ (a Castelbuono, Gangi e Marianopoli); ib. nélla ‘id.’ (a Alimena e Bompietro, da ALI), ib. 159 néula ‘id.’ (da Raffadali e da alcune localizzazioni di area mess. e etnea nord-occ.). VS l.c. registra per néula anche il senso ‘sciagura, disgrazia o sventura’, da Tri (→ più sotto néulu); tèssiri a-mmenza néula ‘tessere col telaio tradizionale un tipo di stoffa che nel disegno ricorda lontanamente il nodo d'ape’ 1990 VS 3, 160 (da Pantelleria (anche tèssiri a-mmenza négula, ib. 147); ib. 147 négula ‘nuvola’ (a S. Stefano Quisquina), ib. 160 névura ‘id.’ (da Francavilla di Sicilia e S. Cataldo; anche névura ‘persona che porta sfortuna’ ib. da Bronte); névvura da Tripi, névvula da Ucrìa, néura da Francavilla di Sicilia e Malvagna, ib. névulu s.m. ‘nuvola o nube’ (a Marsala e Salemi, da ALI) e néulu (da Letoiànni, Lìmina e Mongiuffi-Melìa). Passando ora al senso ‘cialda’, attestato nel 1519 per névula, ritroviamo nel 1752 la stessa forma glossata ‘pasta intrisa con miele o con zucchero, che stretta in forme di ferro si riduce in sottili falde e cuocesi sulla fiamma’ dBono 2, 470 e poi sempre fino a Cav 132 e VS 3, 160. Lo stesso senso ha néula 1752 dBono 2, 470 e poi fino a NicD 553 (Mort 2, 17 anche ‘cosa sottilissima’) e VS l.c. (qui anche nèula fritta ‘cialda di forma piatta’ da Francofonte), nonché névulu s.m. ‘id.’ VS l.c., nívula ‘id.’ (1868, Tr 649, da S. Cataldo, e poi TrV 285 e VS 3, 260) e níula (1868, Tr 648 e poi TrV 285 e VS 3, 254); infine nívola s.f. ‘aquilone’ VS 3, 260 (da Butera e Gela). AIS 2, 365 ‘la nebbia’ mostra l’estensione del tipo ┌nebbia┐ su tutta la penisola, con continue oscillazioni tra ẹ ed ę toniche (il P. più merid. con la vocale chiusa è 724 Acerno) e con pochi casi, nel meridione, di i tonica (780 Conidoni, 744 S. Chirico Raparo, 742 Acquafredda, 749 Salve e 625 Sassa). Invece in AIS 2, 364 ‘la nuvola’ il tipo ┌ neglia/negghia┐ è solo a 772 Centrache, 771 Serrastretta e 752 Saracena; più a nord domina ┌núvola┐; in un’area che include la Liguria occ., il Piemonte centr. e sud-or., nonché un angolo nordor., la Lombardia (col Ticino e qualche P. trent.) c’è invece ┌nívola┐. Per 33 ‘cialda’ nel meridione trovo solo abr. nèulə, nèvələ, níulə, ‘id.’ (Giammarco 3, 1286); gli altri sensi non sembrano trovare corrispondenti it. merid. La base delle diverse forme sic. è stata facilm. riconosciuta nel lat. NĔBŬLA ‘nebbia; nube’: Salvioni, RIL 40, 1907, 1056-7; LaRosaAllotropi 287; AlessioLatinità 417; Bonfante, Boll 1, 1953, 53; FaréSalv 5865. NĔBŬLA è pressoché pan-rom. (cfr. REW 5865), ma con notevoli problemi fonetici e semantici, anche per la sua vicinanza a NŬBĬLUS. Per limitarci a ciò che tocca il sic., si osserva l’alternanza tra forme con conservazione e forme con perdita della penultima vocale atona (névula vs négghia); ma più importa che anche in Sicilia appaiano forme con i tonica. Poco diffusa è nígghia 1868 Tr 1153 e poi AIS 2, 365 a Mandanici (ma VS 3, 245 la registra in tutta l'area mess. or.), che si pone accanto all’identica forma cal. centro-merid. (cfr. NDDC 462) e può collegarsi tanto alle forme peninsulari con ẹ (tra cui it. nẹbbia) che al tipo sett. ┌nívola┐. Per nígghia abbiamo anche il senso ‘oppressione, incubo; persona eccessivamente fastidiosa’ VS 3, 245 (da Tri, con alcuni traslati). Inoltre, niégghia s.f. ‘nebbia’ 1990 VS 3, 244 (da Altavilla Milìcia, Corleone, Palermo e Torretta, anche in usi figurati) e ‘nuvola’ ib. (da Altavìlla Milìcia, Capaci, Corleone Palermo, Torretta e Vìcari). Ma già nel medioevo abbiamo in Sicilia nívula: ante 1337: «O Yris, … cui fu killa ki ti misi a li nivuli et mandauti a mi in terra?» (Eneas 9.5 e cfr. 10.80, 12.30, 36, 83, sempre chiaram. ‘nuvola’); 1877 nívula ‘nuvola’ TrV 285, AIS 2, 364 ‘id.’ a Calascibetta (e cfr. Sperlinga) e VS 3, 260 (a Caltanissetta, Casteltermini, Noto [da LaRosaAllotropi], S. Cataldo, Serra di Falco, Siracusa, Sortino, in alcuni punti dell'area enn. merid. e in sir. Merid.). Nel 1519 abbiamo in questo senso níula: «niula oi nevula: nubs, nubis; n. pichula: nubecula; n. china di pluvia: nymbus; n. cum ventu: typho; n. comu serpenti: phyton; n. in lu ochu: albugo, argema» (Scobar 70r; si noti l’ultimo senso, che nella stessa fonte è anche di névula); da Scobar níula passa in Pasq 3, 302 e Tr 648, ma nel 1914 NicDUr 177 ha come vivo níula ‘nuvola’, che ritroviamo anche in VS 3, 254 (a Capizzi, Buccheri, Canicattini Bagni e Palazzolo Acreide); ib. 259 inoltre ha nívila ‘id.’ (da Buccheri). Di nívula e níula ‘cialda’ s’è detto sopra. Queste forme riportano senz’altro all’area it. sett. già indicata (cfr. anche MussafiaBeitrag 82; Prati, AGl 17, 1910-13, 281 e 390) nonché alla Francia merid. (cfr. FEW 7, 222a). S’è tentato di spiegarle direttam. da NĔBŬLA, ma già Ascoli, AGl 2, 1876, 440 (e cfr. REW 5975.2 e FEW l.c.) postulò *NĪBŬLUS per metatesi di nūbĭlus. L’isolamento di queste forme in Sicilia rispetto all’Italia merid. fa pensare che esse siano state portate da immigrati galloit. (così forse già Bonfante, Boll 1, 1953, 53, poco chiaro). Nigghia può essersi collocato accanto a negghia come nívula rispetto a névula. Il lat. NŪBĬLUS (pan-rom.: REW 5975.1) ha continuatori diretti anche nell’isola, come nel resto del meridione (Bonfante l.c. lo considera perciò indigeno): ante 1337: «la Fama… si fa tantu grandi ki… la testa ficca intru li nuvuli» (Eneas 4.19; cfr. 5.82 e 12.39); 1373: «Mictirò l’arcu meu a li nuvuli di lu chelu, in pactu ki eu non destrudirò la terra per dilluviu» (SposMatteo 232.23); 1752 núvula s.f. ‘nube, nuvola’ dBono 2, 544 e poi fino a NicD 570 e VS 3, 350 (anche da Acate, Chiaramonte Gulfi, Ognina di Siracusa e Siracusa) (Mort 2, 41 anche ‘quantità grande di checchessia’), nonché AIS 2, 364 a Palermo, Mascalucia, Naro e Giarratana; 1877 núula ‘id.’ TrV 294 e VS 3, 349; 1839 núvulu s.m. ‘id.’ Rocca 34 235, poi fino a NicDUr 185 e VS 3, 351 da Acireale (il solo Rocca anche ‘quantità di cose’: → negghia; 1883 ‘voce degli artisti, con cui chiamano quel gruppo di nuvoli che sostengono o accerchiano una figura’ NicD 570); nùulu ‘nube nera isolata’ 1990 VS 3, 349 (da Acireale, Giarre, Riposto e S. Alfio). ― Venendo ora alla storia semantica di negghia ecc. la interferenza tra ‘nebbia’ e ‘nuvola’ è ant. (già lat.) e generale; il senso ‘malattia delle piante’ trova riscontro in lig. (cfr. Plomteux 1, 701), lomb. (cfr. già Gioeni 194), sardo (cfr. DES 2, 164b), gallorom., cat. (cfr. DCVB 7, 745b; DECLlC 5, 920a) e sp. (Salamanca): cfr. FEW 7, 70a e 71b, e si spiega perché la nebbia favorisce lo sviluppo del male (cfr. l’identico passaggio in → risina); altri significati sembrano traslati propri del sic., meno forse ‘albugine’ di Scobar, sia perché già lat. tardo nebula è ‘oculorum caligo’ (Arn 2, 386) sia perché trovo nuor. sas néulas 'essos òkros ‘le macchie degli occhi’ (DES 2, 164b). Quanto a ‘cialda’, REW 5866 ne fa un lemma distinto da nĕbŭla ‘nebbia’, in quanto già in lat. abbiamo (da Marziale in poi) nĕbŭla ‘materia o sostanza fine, trasparente’ (di vesti), passato in berbero (SchuchardtBerb 55), ma si tratta di una sola parola con due sensi (cfr. ErnoutMeillet 434). LaRosaAllotropi 287 ricorda accanto alla voce sic. il lat. med. nebula ‘ganfre, oublie’ (sec. XI, anche se verosimilm. più ant.: NGloss 1142; Nierm 716; FEW 7, 71b) e il cat. neula ‘full prim de pasta de farina cuita, amb sucre o sense’ (sec. XIII: DCVB 7, 745b; DECLlC 5, 920b), ma il significato è presente in parecchie aree it. (oltre all’abr., già cit., emil., lig., monferr., com., ant. trevis.: cfr. REW e FEW l.c.), nel gallorom. (già ant. fr. niule ‘oublie, pain à cacheter’, ant. prov. neola, neula ‘id.’: FEW l.c.) e nel cat. neula cit. sopra (da cui il campid. néula ‘id.’: DES 2, 165a), sicché è ben difficile stabilire se sia indigeno o importato, e in questo caso da dove. Der. di negghia: nigghiúmi: s.m. ‘nebbie’ [sic] (1877, TrV 284; 1928 ‘grossa e fitta nebbia’ Pitrè 65, da Erice; VS 3, 246). Cfr. FaréSalv 5865 (-uni è un errore). nijjázza s.f. ‘banco di nebbia basso e fitto’ (GenchiCannizzaro 191). nigghiáta s.f. ‘quantità di nuvole, nuvolaglia’ (1868, Tr 647, poi fino a NicD 558 e VS 3, 245) e ‘nebbia’ (da Spat e Partanna). Cfr. cal. centromerid. nigghiata ‘id.’ (NDDC 470). Cfr. FaréSalv 5865. Anche nigghiatína s.f. ‘nebbiolina’ VS l.c. (da Giardini e Troina). nigghiúsu agg. ‘nebbioso, nuvoloso’ (1752, dBono 2, 489 e poi fino a NicDUr 176 e VS 3, 246); ‘che di tutto si annoia o che annoia altrui’ (1868, Tr 647 e poi fino a NicDUr l.c. e VS l.c.); ‘permaloso (da Gagliano Catelferrato); pieno di ansie, turbato (da Centuripe)’ 1990 VS l.c. Cfr. cos. negliusu ‘nebbioso; nuvoloso’ (NDDC 462); irp. negliuso ‘nebbioso’ (Nittoli 148). Cfr. FaréSalv 5865 (ne- è un errore); la base è qui lat. NEBULOSUS (→ annigghiúsu). annigghiári v.tr., intr. e rifl.: 1519: «anniglari: mingo [sic], nubilo» (Scobar 11r); tr. e intr. ‘annebbiare’ dal 1751 dBono 1, 53r a Cav 29 e VS 1, 197 (secondo cui è disus.); altri sensi tr. o intr. (propriam. assoluti): 1751 ‘funestare, rattristare’ dBono l.c. e poi fino a TrV 66 e VS l.c.; 1868 ‘ingombrare, arruffare’ Tr 58 e poi fino a TrV l.c. e VS l.c. (anche rag.); 1868 ‘imbrattare’ Tr l.c. (non torna altrove); 1877 ‘caricarsi di figli, di cure’ TrV l.c. (altrove già rifl., in VS l.c. intr.); 1883 ‘delle frutta e delle biade, quando sono in fiore, che offese dalla nebbia riardono e non allegano’ NicD 58 e poi in VS l.c. (→ annigghiatu); 1977 anche 35 ‘annebbiare, offuscare la vista o la mente; ingannare qc.; rovinare qc.; ridurlo in miseria; riempir di fumo, di polvere o di puzza, ad es. la via o la casa; invadere un luogo fin quasi a coprirlo come fa la nebbia’ VS l.c. Come intr. anche 1977 ‘essere in gran numero (di uccelli, cavallette, insetti)’ VS l.c. Come rifl. 1721 ‘annuvolarsi’ Dr 32 e poi solo VS l.c.; 1785 ‘annebbiarsi’ Pasq 1, 105 e poi fino a NicDUr 16 e VS l.c.; 1838 ‘funestarsi’ e a. di figghi, di debiti, di guai ‘aggravarsi di figli, debiti ecc.’ Mort 1, 56, sensi di cui solo il 2° torna in VS l.c. La forma nnigghiári in VS 3, 273: v.tr. ‘annebbiare, coprire di nebbia (da Giardini); riempire di polvere, impolverare (da Tri, Bronte, Giardini e Pantelleria); riempire (da Tri e Pantelleria); angustiare, rattristare (da Pantelleria); inguaiare una ragazza maritandola male (da Messina)’; v. rifl. ‘offuscarsi, del tempo, ricoprirsi di nubi, del sole (da Pantelleria); inguaiarsi con un cattivo matrimonio (da Messina)’. La forma anniglári dopo il 1519 torna in VS 1, 197, come sic. centr. Il piazz. ha una forma senza pref.: n’gghiè intr. ‘annebbiare’ (Roccella 176). Cfr. cal. annegliare, annigghiari ‘annebbiare’; regg. ‘aggredire, degli insetti quando volano addosso a un oggetto’ (NDDC 82); nap. annegliare ‘annebbiare, offuscare’ (D’Ambra 45); irp. anneglià ‘id.’ (Nittoli 23); sal. (an)nigghiare ‘id.’ (VDS 1, 48 e 2, 400); bit. annegghièue ‘id.; incatorzolire, imbozzacchire (di frutta)’ (Saracino 54); molf. annegghià ‘annebbiare’ (Scardigno 49); bisc. annigghià ‘incatorzire’ (Còcola 26). Cfr. FaréSalv 5865. ― Il part. annigghiátu è, come agg., forse già nel sec. XV in.: «lu sucu di lu vinu anniglatu», ThesPauperum 204.2; ma il senso non è chiaro); poi nel 1519: «anniglatu: nebulosus, nubilosus; a. lu lavuri: rubiginosus, auriginosus» (Scobar 11 r; questo 2° senso non appare più, ma cfr. cos. annegliatu ‘riarsu dalla nebbia (grano, frutta)’, NDDC 82; bit. annegghièute ‘imbozzacchito, afato, incatorzolito (di frutta)’, Saracino 55; rub. annəgghiótə ‘id.’, JurilliTedone 68; bisc. annigghiate ‘id.’, Còcola 26; 1868 ‘attristato’ e ‘ingannato’ Tr 58; 1868 ‘tutto scomposto’ ib. e poi VS l.c., anche da Casteldaccia; 1875 ‘ingombrato (di casa)’ Mac 23; 1977 ‘confuso (da Modica); disordinato’ VS l.c.; considero semplici part. ‘annebbiato’ (1751 dBono 1, 53r fino a NicD 59 e VS l.c.) e a. di figghi ‘carico di figli’ (1751, dBono l.c. e poi fino a Rocca 31 e Mac 23). La forma annigliátu è in VS l.c., anche per ‘che non riesce a vedere, a distinguere bene; abbagliato’, da Montedoro e Serradifalco. In VS 3, 273 anche nnigghiátu agg. ‘annuvolato, nuvoloso’ (da Castroreale, Partinico, Rodi e S. Cipirello); nnigghiatinélla s.f. ‘nebbiolina’ ib. (da Bronte); nnigghiatúra s.f. ‘capogiro (da Castel di Judica); svenimento (da Centuripe)’ (per il 2° senso, sempre a Centuripe, anche le var. nnigliatúra ib. e nigliatúra ib. 246); nnigghilazzïóni s.f. ‘svenimento’ ib. 273, da Alia. annigghiaméntu s.m. ‘annebbiamento, rannuvolamento; rattristamento; ingombro’ (1868, Tr 58) ‘disordine, confusione’ (1977, VS 1, 197). Cfr. procid. annigghjamentu ‘riduzione della visibilità per nebbia’ (Parascandola 175). annigghiúsu agg. ‘troppo ombroso, di sito o luogo tetro e uggioso’ (1977, VS 1, 197). Vivissimo a Palermo, anche in riferimento a persone. ’nnégghia-cori agg. ‘uggioso, del tempo (da Pantelleria); di chi col suo aspetto o col suo stato d'animo depresso provochi afflizione o depressione in q., oppure di cosa che affligga o faccia rattristare’ (1990, VS 3, 270). Der. di né(v)ula o ní(v)ula (non 36 distinguibili): nivulátu1 s.m. ‘nuvolato, nuvolaglia’: ante 1322: «Tandu era tanta serenitate all’ayru, ki nullu nebulatu che paria» (SGregoriu 70.30) e «de lu quali flumi si livava unu nivulatu nigru e ffitenti» (ib. 163.25 e cfr. 163.33 e 167.7); ante 1337: «li nivulati si riconciru in tal modu ki l’airu sclariu» (Eneas 1.22; altri ess. CorpusArtesia); ante 1337 anche nuvulátu: «lu celu serinu poi di lu nuvulatu» ValMax 4.2.9; altro es. in CorpusArtesia); nuvulátu s.m. ‘nuvolaglia, nuvolato’ (1752, dBono 2, 544 e fino a NicD 570 e VS 3, 350, da Cefalù, Malfa e Noto); in AIS 2, 364 è ‘nuvola’ a Mandanici (cfr. anche VS l.c., da Pasq); nivulatu ‘nuvola’ VS 3, 260 (da AA, Cav, Favignana, Malfa, Marsala e Mazara del Vallo); 1877 nïulátu1 ‘nuvolato, nuvolaglia’ TrV 285 e poi NicDUr 177 e VS 3, 255 (ad Àvola e Roccavaldina), n. ‘nuvola’ VS l.c. (a S. Marco di Milazzo, da ALI); nïuladu ‘id.’ e nïuladúsu agg. ‘nuvoloso’ VS l.c. (a Gualtieri Sicaminò, da ALI) e ib.; nïuláta s.f. ‘insieme di nubi’ ib. (da Lìmina). Inoltre ’nneulátu1 d'aceḍḍi ‘stormo d'uccelli’ VS 3, 271. nivulátu2 agg. ‘v. annuvulatu’ (1964, Cav 132); 1877 niulátu2 ‘nuvolato’ TrV 285, da qui ripreso in VS 3, 255; ’nneulátu2 ‘nuvoloso, coperto di nubi’ ib. 271 (da Tri). nebulusu: 2a metà sec. XV: «in tenpu fridu nebulusu» (Mascalcia 3.3); nivulúsu agg. ‘nuvoloso’ (1990 VS 3, 260, da AA); nuvulúsu agg. ‘nuvoloso’ (1752, dBono 2, 544 e poi fino a Tr 660 e VS 3, 351). nuvuláta s.f. ‘pioggerella’ (1877, TrV 295 e poi NicD 570 e VS 3, 350 da Man e Tr). niulári v.intr.: 1519: «niulari lu tempu: nubilo» (Scobar 70r). Ib. 56v anche il comp.: «innivulári: nubilo; i. multu: obnubilo; i.: innubilo». annivulári v.tr. ‘annuvolare, annebbiare’ (1914, NicDUr 16 e VS 1, 200, anche da AA e Mal); v. rifl. ‘rabbuiarsi, annuvolarsi del cielo’ 1977 VS l.c. (da AA, Castellammare del Golfo, Marianopoli e Villarosa). Anche a. la vista ‘abbagliare’ VS l.c., da Sutera. annivulátu agg. ‘v. annuvulatu’ (1751, dBono 1, 53, poi VS 1, 200); ‘di vino sulla cui superficie si sia formato come un velo’ 1977, VS l.c. (da Marsala). Inoltre ib. 278 nnivulátu ‘nuvoloso, ricoperto di nubi’ (da Barrafranca e Floresta); ib. anche s.m. ‘nuvola’ (da Augusta e Pantelleria) e ‘filante del vino’ (da Pantelleria). nnivulïári (l'occhi) v.tr. ‘abbagliare’ (1990, VS 3, 278, da Mazzarino). Da nívula ‘cialda’: nivuláru s.m. ‘chi fa o vende cialde’ (1868, Tr 649 e poi fino a NicD 560 e VS 2, 260, da Mort e Tr). Cfr. FaréSalv 5866. nivulétta s.f. ‘dolce di forma rotonda, confezionato con farina, uova e zucchero’ 1990 VS 3, 260 (da Floresta e Raccùia) con le var. nivurétta ib. (da Bronte) e nigurétta ib. 247 (da S. Domenica Vittoria). nésciri v.tr. e intr. ‘uscire’ (1358, nella forma néssiri), è voce sic. e cal. centro-merid., con isolati riscontri tosc. e piem., dal lat. EXĪRE probabilm. incrociato con nascere; essa ha eliminato le forme sic. ant. issiri (1320), esciri (ante 1322), isciri (id.) e sciri (1368) ‘id.’, che provenivano direttam. da EXĪRE. I: issiri, esciri, isciri, e sciri (documentazione da integrare con CorpusArtesia): 1320 Messina: «intrandu et issendu» (Rinaldi 1.21) e «pagi pir lu intrari et pir lu issiri» 37 (Rinaldi 1.27; successive occorrenze nel gloss.); ante 1322: «da poy non foru pluy visti exiri da li monimenti» (SGregoriu 64.11; per gli altri numerosissimi passi cfr. gloss.; c’è anche la forma ixiri: ad es. «nulla pirsuna pò ixiri fora de la casa» 152.21; ci sono grafie essia, essiu, essinu, per cui cfr. gloss.; solo il ms. tosc. P ha ensire, insire, per cui cfr. gloss.); 1341 S. Lucia del Mela: «li nostri di Milazu inchi eranu issuti» (Rinaldi 82.36); 1350: «li ischeru incontru da lu portu di Missina» (Rinaldi 84.14); 1354: «iscirò di sti gran peni» (Poesie a. 132; qui numerosi ess. posteriori sia di exiri che di ixiri); 1358: «li Normandi non potianu exiri a preda et murianu di fami» (Conq 53.25; subito dopo «intrari et essiri» 54.8; c’è anche ixiri: «ixiri di l’isula» 12.12, e issiri 54.3; per altri passi cfr. gloss.); 1368: quatru volti l’annu li fa ixiri sangui» (Mascalcia 572); 1373: «da lu latu di Cristu exiu sangui et acqua» (SposMatt 8.23; per altri passi cfr. gloss.; c’è anche ixiri: «abuctau lu flascu et ixiundi unu scursuni» 90.25 e passim); 1380: «per nui non ni possamu rilevari nì isciri di lu peccatu» (Vitii 88.14, ma assai più frequenti forme come: «non ausavanu issiri di loru hosteri» 137.83; invece l’alternanza tra e nelle forme rizotoniche ed i in quelle arizotoniche è regolarissima: cfr. gloss.); 2ª metà sec. XIV: «nullu haya licencia di ischiri fora di la clausura» (Regole 36.8; cfr. eschi 42.22; nei testi del sec. XV solo exiri e forme analoghe: cfr. gloss.); 1478 Trapani: «intrari et ixiri» (CodDiplGiudei 2, 228); 1492 Messina: «ixiri» (ib. 3, 48). È esistita anche una forma xíri: 1368: «liga lu cannolu ala cuda di lu cavallu ki non di poza xiri» (Mascalcia 581); 1398: «sindi xiu et andau» (CapIn 14); 1471: «Cridir si pò chi l’anima vulia xiri / et giri ad illa» (Poesie l. 258.5; ci sono altri ess. fino alla fine del sec. XV); sec. XV: «Hai xutu a dansari?» (Regole 172.23). Il s.f. xúta è già ante 1337: «la grandissima gloria di la xuta di Dardanu» (Eneas 6.10); poi sec. XV: «innanzi la exuta di lu suli» (SChiara 42.5). Le uniche tracce mod. di queste forme sono è šš ta di AIS 6, 1049 (a Naro), AIS 6, 1070 (a Vita e ancora Naro), e sciri di VS 4, 675 (in varie località e con vari significati traslati) dove si specifica tuttavia che il v. «manca delle forme del presente, supplite da quelle corrispondenti di nèsciri» (VS l.c. ha anche sciritúri s.m. ‘rete molto resistente e a maglie piccolissime usata nel corso della mattanza per sollevare i tonni quasi a fior d'acqua’ ib. da Nàpola; non sono sicuro che la voce appartenga alla famiglia). Forme del tipo ┌escere, escire┐ riappaiono, nei dial. mod., solo nella metà sett. della Calabria: cfr. catanz. escire, cos. éscere e jissə ‘uscire’ (NDDC 250, 340 e 829; cfr. AIS 2, 360 e 6, 1133 Cp e 1184) e poi a nord di una linea che include Napoli e Foggia, con qualche puntata più meridionale: cfr., oltre alle stesse c., nap. ascire e scire (D’Ambra 67 e 335), procid. ascì e scì (Parascandola 28), irp. ascì e scì (Nittoli 32 e 198), Muro scì (Mennonna 173), fogg. ascì (Villani 10), abr. ašcì, ešcì, išcì, šcì (Giammarco 1, 260 e 736), sempre ‘uscire’. La base è lat. EXĪRE ‘id.’, panrom. (REW 3018), ma di vitalità spesso limitata alla fase med. (cfr. per il gallorom. FEW 3, 297b, per l’iberorom. DCECH 3, 549a); in area it. hanno prevalso nello standard il tipo ┌uscire┐, incrociato con uscio (cfr. VEI 1022; DEI 5, 3963), in Sicilia e altrove ┌nesciri┐, per cui cfr. sotto. Non c’è più da dubitare, in base alla nostra documentazione, della vitalità med. di ┌ escire┐, ma non sappiamo come la parola fosse accentata (le accentazioni degli editori sono gratuite), come non 38 possiamo dire se le grafie -sscorrispondano sempre a pronunce [šš], come fa pensare l’alternanza -ss- / -xnegli stessi testi, o, almeno alcune volte, a [ss], come in un’area camp.-luc.-pugl. per cui cfr. più avanti. In ogni caso le forme mod. sono sempre palatalizzate. L’inserimento di -n- nelle var. del SGregoriu è tipicam. tosc. (Lunigiana: SFR 7, 238) ed it. sett. (cfr. FaréSalv 3018; FEW 3, 298 n14, con documentazione ant.); non a caso le forme ant. nap. ensiri, insire ricordate da Rohlfs, ARom 9, 1925, 158 sono proprio nella redaz. toscaneggiante del De balneis puteolanis. II: nésciri (ricca documentazione in CorpusArtesia): 1358: «non mi partirò di cza, non nissirò may di assiyarivi, per fina chi non sia diviniatu di illu» (Conq 49.11, gloss. ‘cesserò’) e «lu Conti nixiu et illu fui prisu in manu salva» (ib. 119.18); 1373: «da lu so latu [di Adamo] Eva nixia» (SposMatteo 279.26); 1380 ca.: «divi essiri pisata la parolla ananti ki nessa di la bucca» (Vitii 193.42); 2ª metà sec. XIV: «azò ki nixinu scandalu poza nixiri in la nostra cumpagna» (Regole 23.3 var.; ci sono qui altri due ess. del sec. successivo); 1411: «nixiu contra la nostra maiestati» (LettRegBianca 11); 1ª metà sec. XV: «Hora nexanu tutti li patri santi… nexa Adam cum Eva» (Poesie g. 31); 1451 Monreale: «per nexiri li tavuli dipinti» (ASS 28, 1903, 299); 1471: «trasi per quilla [porta] et nexi cun soy ali» (Poesie l. 183.8); 1480: «et tantu abondatu latti nexi et duna, / chi maraviglar farrà ad omni persuna» (Poesie m. 73.7 e passim); 1487: «et ora nixiranno questa usanza» (BEustochia 177.19: ‘metteranno in pratica’; ib. 222.55 nescendo ‘cavando fuori’); 1492 Messina: «nexiri di loro casa» (CodDiplGiudei 3, 75; cfr. 3, 136); 1497 Francofonte: «pi nexiri acqua» (Gaudioso XCIV); sec. XV: «Et fattu nexiri spavintatu di paura, non mi pocti excitari» (SOnofrio 79); 1519: «nexiri in locu patenti: expato; n. di regula: denormo, excipio; n. di lu pectu: exsinuo; n. budegli: exintestino; n. bocza: exgurgito; …; n. comu si vogla: exeo, egredior» (Scobar 69v, 70n, con ben 42 entrate); 1520 ca. Catania?: «nixero fora di la ditta turri» (ASS 6, 1881, 125); 1522: «nexiri di fora egredior… vel exuo…» (Vall 58); 1593 Francofonte: «per nexire alla presecutione di banniti» (Gaudioso XLIX); sec. XVI: «la via che veni di lo Craperi e nexi a li Chiappi di Mancina» (ConsCastiglione 63); 1600 ca. Palermo: «e niscendola [la roba], tornao la peste» (Diari 1, 89); sec. XVII: «nixianu» (VinutaReJapicu 165); 1721 nesciri ‘uscire’ Dr 262-4, con 23 entrate, e poi sempre da dBono 2, 464-5 a Cav 131 e VS 3, 151 ss. (con numerosi significati traslati, usi figurati e locuzioni, come v.intr., tr. e rifl.). Meli autoglossa nesci fora ‘esce fuori all’aperto’ 2, 364; niscennu di manuzzi ‘pigliando ardire’ 1, 328; nisciutu di li panni ‘lieto oltremodo’ 2, 632; nisceva fora di lu siminatu ‘traviava’ 2, 775; nesci da li pedi di lu nigghiu ‘a grande stento scappa’ 2, 794. AIS 6, 1133 Cp ‘uscire (dal guscio)’ e 1184 ‘far uscire le vacche dalla stalla’, nonché 2, 360 ‘si leva il sole’ (cfr. Giuffrida 28), presentano nésciri praticam. in tutti i P. sic. (il tipo è anche nei P. galloit.; cfr. piazz. nesc ‘uscire’, Roccella 174, e aid. nìscire ‘id.’, Raccuglia 275); solo Bronte ha nescíre (sic 1133 Cp) o nəscír (1184), che potrebbe essere la stessa cosa del curioso niscíri di Mort 2, 26, che è poi in Mort2 581, NicDUr 177 (niscïri) e VS 3, 253 (anche da Av, Tri e Adrano; in quest'ultimo punto la forma è presente anche con altri significati). Altra var. è nísciri (1752, dBono 2, 494 e poi fino a TrV 285, sempre senza indicazione di 39 accento). Dal punto di vista semantico AIS 6, 1049 per la vacca, 1078 per la pecora documentano è nnisciúta ‘è in caldo’ ai P. 819, 821, 826, 838, 844, 846, 851, 873, 875; qui anche AIS 6, 1080 Cp a Mistretta è nnisciúta ‘(la capra) è coperta’; inoltre AIS 7, 1343 nella stessa località nnésciri u vinu ‘prendere del vino’ e 8, 1506 a S. Michele nésciri u capu ‘cercare il bandolo’ (ma per questi e altri significati cfr. anche VS 3, 151 ss.). Da NDDC 463 néscere, nescire, nisciri ‘uscire’ risulta di tutta la Calabria (l'ultima forma è regg.), ma AIS c. cit. mostra che la forma è viva dallo Stretto fino ai P. 765 e 771, mentre più a nord abbiamo ┌escire┐ (cfr. più sopra); il tipo sic. ritorna nel versil. niscí, sarzan. nəsirə, chian. nišire, pis. e Montale nuscí, questo con vocale e accento di uscire (ID 36, 1973, 77 e StLI 1, 1979, 163), nel piem. nesi ‘colare (di liquido attraverso una fessura)’ (Levi 184; in Alione abbiamo già nessir: FEW 3, 298 n14; cfr. niscír ‘(mi ha fatto) sanguinare il naso’ AIS 8, 1618 al P. 182). La forma sic. è stata spiegata in vario modo: Wentrup, ASNS 25, 1859, 153 (da cui PitrèFiabe CLV) pensò a INEXIRE (base che NDDC 95 dà per il tosc. nescire); REW 3018 (seguendo precedenti opinioni dello stesso MeyerLübke e Salvioni, SFR 7, 328) postula INDE-EXIRE, opinione accolta da Levi 184; FEW 3, 298 n14; AlessioLatinità 92; DES 1, 494b; NDDC 463 e, se non erro, AlessioLexicon 158; ma Salvioni (in FaréSalv 3018) considera poi ovvio l’incrocio con nascere, difeso per suo conto da S. Santangelo, ASSO 53, 1957, 225 e ammesso dubitativam. anche da NDDC l.c. La più diffusa ipotesi ( INDEEXIRE) urta contro la circostanza che in nessuna delle aree di ┌nescire┐ l’assimilazione di -ND- è antica (cfr. MR 6, 1979, 189-206; ma nel caso specifico il dubbio, per il cal., è già in Rohlfs, ARom 9, 1925, 158): in Sicilia dovremmo trovare nel medioevo qualcosa come *ndésciri e oggi verosimilm. nnésciri, forma che nell’AIS è sempre dovuta a raddoppiamento fonosintattico. La concorrenza ant. tra (e)sciri e nesciri fa pensare che la seconda forma sia un’innovazione, come le altre che hanno eliminato o reso poco vitali i continuatori di EXIRE in altre aree; ma di innovazione proveniente dall’esterno non può trattarsi, data la sporadicità e ristrettezza dei paralleli tosc. e piem. Penserei dunque ad incrocio locale con násciri. Bonfante, Boll 5, 1957, 295-6 afferma che la palatalizzazione di -X- in Sicilia è di origine gallorom. (dal fr. ant. eissir, issir con s fortem. palatale, prov. eisir, cat. eixir). In realtà in Sicilia -X- ha la doppia uscita -ss- e -šš- (cfr. Ducibella 473-5), che merita uno studio più accurato, ma nulla fa pensare che voci come masciḍḍa, sciamu, sciḍḍa e vusciu siano prestiti. Per altro l’area di -X- > ss- in EXĪRE, dalle informazioni dell’AIS, risulta coprire solo la Basilicata (senza il P. 732, ma col P. cal. 750), il Cilento e l’Avellinese, la Puglia escluso il fogg. e il Gargano (cfr. infatti luc. ssí, yéss Lausberg 234; Brienza esse Paternoster 13; Muro assì ma anche scì Mennonna 28 e 173; sal. assiri, essire, issire, ssè, ssire VDS 1, 63 e 218; 2, 690-1; 3, 892 e 957; bit. assì, assòje Saracino 70; rub. assèiə JurilliTedone 85; molf. assàie Scardigno 66; bisc. assì Còcola 34; andr. assòie Cotugno 22; Bovino e Candela assì Melillo 88). A nord di Napoli e Foggia riprende -šš-. Quanto al passaggio dalla coniugazione in -íri a quella in –iri, esso è frequente in sic.: cfr. Coray 194 n2. isciúta s.f. ‘uscita’: 1380: «a la isuta di Milanu dumandau…» (Vitii 156.2) e «illu divi rendiri suo contu et sue intrati et issuti dinanti a lu suo Signuri» (ib. 142.37; qui è ‘spesa’); 2ª metà sec. XIV: 40 «rendiri raiuni… di la intrata e di la issuta» (Regole 11.10: ‘spesa’; nello stesso senso ixuta 22.9, mentre ischuta 19.20 è ‘termine (di un ufficio)’; alla stessa data risale sciúta1: la forma xuti appare come var. a Regole 11.10, xuta ‘spesa’ è var. ib. 22.6; poi 1492 Palermo: «de intrata et de xuta» (CodDiplGiudei 3, 161), ma cfr. VS 4, 689 sciúta1 s.f. ‘uscita’ (da AA, Pasq, Tr, Mac, Consol, Castelbuono e Marsala), cui si aggiungono numerosi altri significati (per lo più da fonti scritte, con poche localizzazioni) per i quali si rimanda a VS l.c., e sciúta2 s.f. ‘diarrea’ ib. (da Mal, Pasq, Cefalù, Florìdia, Làscari, Pozzallo, S. Croce Camerina e Solarino, oltre che a Noto da PitrèMedicina, e a Pantelleria da ALI 2, 163) e ‘femmina in calore’ (Sottile 152; cfr. ’nnisciúta); sciútu agg. ‘uscito’ (con alcuni tralsati) VS 4, 691 (si segnala in part., al f., ‘in calore, di femmina di animali’, con poche localizzazioni di area agr. e trap). Infine appare nisciúta: Regole 19.4 var. ha «a la intrata et a la nixuta di omni recturia» (il ms. B è del 1400 ca.); 1a metà sec. XV: «non sapenti la mia intrata et la mia nixuta» (Soliloquia 2.24); poi nisciuta è nel 1752 dBono 2, 494 e fino a Cav 132 e VS 3, 253 per ‘uscita’ nonché per una gamma di sensi più specifici, tra cui: ‘lo spuntare, nascimento’ (1752, dBono l.c., Pasq 3, 301 e VS l.c. da Giardini, Giarre, Riposto e S. Alfio); ‘il cavare fuori’ (1752, dBono l.c. e Pasq l.c.); ‘sollazzo, spasso, diporto’ (1839, Rocca 228, fino a TrV 285 e VS l.c., da S. Alfio); ‘grido imperioso’ (1839, Rocca l.c.); ‘bravata, rabbuffo; caldo parlare; portamento sconsigliato’ e poi anche ‘sfuriata’ (1844, Mort 2, 26 e poi fino a NicD 177 e VS 3, 254, anche da S. Alfio); ‘discorso, proposta, atto spiritoso o strano e improvviso’ ib. 253, da Licata, Lìmina, Pantelleria e S. Alfio; ‘piccolo appezzamento di terreno (da Tri); uscita, spesa; occasione favorevole (da Barcellona Pozzo di Gotto)’ ib.. La forma ’nnisciúta ‘uscita, atto dell'uscire da un luogo o da un ambiente (da Enna); trovata, piano o idea escogitati per risolvere un problema (da S. Cataldo); ‘di femmina di animali in genere, quando è in calore’ 1990, VS 3, 254 e 277. Cfr. nap. asciuta ‘uscita’ (D’Ambra 67); irp. id. ‘id.’ (Nittoli 32); Muro sciuta ‘andata, allontanamento’ (Mennonna 177); sal. (a)ssuta ‘uscita’ (VDS 1, 64 e 2, 692); bit. assìute ‘id.’ (Saracino 71); bisc. assiute ‘id.’ (Còcola 35); it. uscita (sec. XIII: DEI 5, 3963). nisciutína s.f. ‘v. nisciuta’ (1868, Tr 648). escitúra s.f. ‘uscita’: 1368: «la exitura tua lu porta» (Rinaldi 86.23); 1465 Palermo: «lu drictu di la manganelli per la exitura di la sita» (CodDiplGiudei 2, 24); la forma niscitúra è nel 1519: «nixitura v. nexitu: exitus» (Scobar 70r; qui anche «nixiticza cosa: emissarius», spiegabile solo con il mod. è nisciuta ‘è in caldo; è coperta’, per cui cfr. sopra); poi solo 1868 Tr 648 e TrV 285 (con rinvio a → néscitu) e VS 3, 253 (qui vale sia ‘esito’ che ‘uscita’); ‘frangitura delle olive’ CastiglioneParole 410 (da Mazzarino). Anche VS 5, 942 uscitúra s.f. ‘enfiagione, tumore’ (da Tr, Mac, Av) e uscitúri s.m. ‘id.’ (da Tr e da Niscemi, qui anche ‘eczema’), con rimando a usciari1 ‘gonfiare’. I riscontri sono catanz. nescitura ‘pustola, flemmone’ (NDDC 463); nap. uscetura ‘id.’ e ‘sboccatura di via, vico, chiassuolo’ (D’Ambra 387); lecc. essitura ‘piccolo orto dietro la casa’, pl. ‘pustoletta di un eczema’ (VDS 1, 219); it. uscitura ‘andare, venire fuori’ (DEI 5, 3963); cat. eixidura ‘efecte d’eixir, dit especialment de coses de caràcter morbós’ (DCVB 4, 668a). nisciméntu s.m. ‘escimento’ (1839, Rocca 228 e poi solo fino a Tr 648). néscitu s.m. ‘uscita’: 1519: «nexitu 41 vide fini: exitus» (Scobar 70r); 1789 ‘uscita’ Pasq 3, 276 e poi fino a Cav 131 e VS 3, 157; 1877 ‘diarrea’ TrV 278, poi VS l.c. (da Francofonte e Vizzini); 1914 ‘sfuriata’ NicDUr 173; 1990 ‘rinfresco che si offre agli invitati in occasione di un matrimonio o di un battesimo’ VS 3, 157 (da Bronte); ib. ‘qualsiasi spazio (spiazzo o cortile) cui si acceda dalla parte posteriore della casa’ (da S. Alfio, qui anche con alcuni traslati); 1877 anche níscitu ‘uscita; esito; diarrea’ TrV 285 e VS 3, 253, ’nníscitu TrV 286 e VS 3, 277, nésciutu ‘cortile adiacente a una casa’ VS 3, 157 (da Biancavilla); qui anche nisciticéḍḍu s.m. ‘piccolo appezzamento di terreno’ ib. 253). Cfr. piazz. nésc’t’ ‘uscita’ (Roccella 174). Cfr. cal. centro-merid. néscitu ‘esito, uscita’ e regg. néscita ‘uscita’ (NDDC 463). AlessioLatinità 92; FaréSalv 3018b; AlessioLexicon 158 lo considerano der. di lat. EXĬTUS, il che è certam. possibile, ma nulla impedisce di inserirlo tra i normali deverb. a suff. atono del sic. Per il senso ‘diarrea’ si veda quanto detto sopra, e cfr. cos. e regg. sciuta ‘id.’ (NDDC 633); catanz. sciti ‘id.’ (ib. 635); luc. ššit ‘id.’ (Lausberg 234); sal. aüsciti pl., sciuta, ušcitə, vušciti pl. ‘id.’ (VDS 1, 67 e 2, 622, 791 e 829); abr. èsətə ‘id.’ (Giammarco 1, 736) e scite ‘id.’ (Finamore 272); it. uscito ‘sterco’ (sec. XIV: DEI 5, 3963); corso áscita, úscito, escitu (Falcucci 95). niscitúri s.m. ‘secchio di lamiera’ 1990, VS 3, 253 (da Cerami); a Castelbuono nniscitúri ‘l’apertura d’uscita della tana del selvatico’ (GenchiCastiglione 193). nisciulínu agg. ‘che ha l'abitudine di uscire di casa di notte’ 1990, VS 3, 253 (da Altofonte, con alcuni significati simili). niscirínu agg. ‘di adulto dal comportamento infantile’ 1990, VS 3, 253 (da Cerami). niscénza s.f. ‘v. uscituri [cioè ‘fignolo’]’ (1868, Tr 648, poi TrV 285 e VS 3, 253). Cfr. catanz. nescenza ‘flemmone’ (NDDC 463). annésciri v.intr. ‘uscire’ 1977, VS 1, 195, da Villarosa e ’nnésciri ‘uscire, venir fuori’ 1990, VS 3, 270 (da Bompietro, Caltanissetta, San Cataldo e Santa Caterina Villarmosa). rinésciri v.intr. e tr.: 1494: «[le opere di una miniera] renixuti beni» (EeS 11, 1964, 521); 1754 r. tr. ‘recare a fine, ridurre a perfezione’ dBono 3, 356 e poi fino a NicDUr 248 e VS 4, 182 (rr.); r. a unu ‘farlo divenire uomo di conto, esperto di qualche mestiere’ ib. e poi fino a Tr 823 e VS l.c. (rr. a unu); intr. ‘riuscire’ ib. e poi fino a Cav 166 e VS ib.; ‘far buona riuscita (di persona o cosa)’ ib. e poi fino a Tr l.c. e VS l.c. (qui anche altri traslati e locuzioni). VS 4, 187 registra anche rriniscíri, senza localizzazioni. La forma rafforzata arrinésciri è nel sec. XVII in VinutaReJapicu 165 («alli Franzisi ci arrinixiu sfallu» ‘la cosa fallì’) e poi nel 1751 in dBono 1, 75 e da allora sempre fino a Cav 32 e VS 1, 265 (con qualche localizzazione) negli stessi sensi. Il part. arrinisciútu come agg. ‘rifatto, arricchito, di persona venuta su dal nulla (da Catenanuova, Caltanissetta, Licata e Marsala); colto, dotto’ (1977, VS 1, 266). Cfr. regg. rinésciri, rinisciri ‘riuscire, prosperare, divenire’ (NDDC 580) e cal. centro-merid. arrinésciri ‘riuscire’ (ib. 95); tosc. (Pistoia, Montale) rinescire, rinuscire; campid. arrenèširi ‘riuscire’ (DES 1, 122a). Ovviam. è un composto di nesciri e non un der. di *RE-EXIRE con n epentetica, come pretende De Gregorio, StGl 3, 1903, 280. rinéscitu s.m. ‘successo, evento, riuscita’ (1790, Pasq 4, 268 e poi fino a NicDUr 248 e VS 4, 182 (rr.), nonché in La Rosa 19), ‘profitto’ (1844, Mort 2, 202 e poi fino a NicDUr l.c.). C’è anche 42 la forma rafforzata arrinéscitu s.m. ‘riuscita’ (1883, NicD 79 e poi VS 1, 265 ‘esito, risultato’, anche da Marsala, e ‘riuscita, buon esito’). Cfr. regg. rinéscitu ‘riuscita’ (NDDC 580), nonché tutte le forme del tipo ┌riuscita┐. rinisciúta s.f. ‘riuscita’ (1868, Tr 824, 1875, Mac 257 e VS 4, 187 rr., anche da Bronte), rinisciuta ‘profitto, avanzamento’ (1868, Tr l.c. e VS l.c. rr.), rinusciuta ‘riuscita; buon esito’ (1754, dBono 357, s.v. riniscimentu) e arrinisciúta (1977, VS 1, 266, da Vittoria e Marsala). Tr l.c. segnala anche gli alterati rinisciutédda e rinisciutúna. rinisciútu agg. ‘detto di negozio: conchiuso; detto di persona vale: chi ha fatto buona riuscita’ 1754, dBono 357, Pasq 4, 269, Tr 823 (s. v. rinésciri) fino a VS 4, 187 (anche da Adrano, Bronte e Pantelleria, oltre a Vittoria, da Consolino). In VS l.c. anche alcuni traslati, inoltre ib. caìnu rrinisciutázzu ‘villano rifatto’, da Capizzi. rinisciméntu s.m. ‘riuscita, riuscimento’ 1754, dBono 357, Pasq 269 e Tr 824. ’nfénta s.f. ‘pattina, striscia di rinforzo o di copertura delle aperture degli abiti’ (1598, nella forma infenta), è prestito da dial. merid. (probabilm. dal napol.), dove essa proviene da *FINCTU per fictus, da fingĕre ‘foggiare’; lo sviluppo semantico è di area solo it. 1598 Palermo: «un lenzolo et una sponzola di tela… con le infente de taffetà giallo innorato» (ASS 1, 1878, 238); 1789 ’nf. ‘fascia o striscia lunga e stretta, di panno o panno lino, la quale si cuce dentro la sponda della veste per rinforzarla’ Pasq 3, 279 e poi fino a Cav 101 e VS 3, 168; da Tr 641 in poi si aggiungono sensi specifici (‘strisce di pelle attaccate nell’apertura della gamba dello stivale; striscia laterale della toppa dei calzoni e delle tasche; bocchetti delle scarpe; solino della camicia; pistagna’), che è inutile datare con precisione perché non si tratta che di tipi sempre possibili di ’nfente; ulteriori sensi specifici, sempre relativi al campo dell'abbigliamento umano, in VS l.c., dove tuttavia troviamo anche ’nf. ‘striscia di terreno’ (da Altofonte). La forma ’nventa di TrV 295 non si trova altrove né prima né dopo se non in VS 3, 352 (da Paternò e Buscemi); cfr. il piazz. ’nvénta ‘fascia dei cappotti, soprabiti e simili’ (Roccella 183). Anche le forme ’nfrénta ‘pezzo di pelle cucito per rinforzo in corrispondenza dell'allacciatura delle scarpe’ 1990 VS 3, 181 (da Gagliano Castelferrato; forse anche mprenta ‘per ’nfenta’ 1868 Tr 611 (ripreso da VS 2, 854, che documenta anche il senso ‘sparato della camicia’ a Centuripe e quello di ‘bocchetta della scarpa’ a Leonforte; cfr. anche ALS 1.1, c. 5, a Montedoro); nfinta ‘v. nfenta’ 1868 Tr 641 e TrV 279 (ripreso da VS 3, 174, che segnala anche il senso ‘striscia di stoffa che si piega verso l'interno di determinate parti di indumenti, ecc.’ a Pantelleria; fénta ‘linguetta della scarpa (da Regalbuto e S. Alfio); ciascuna delle strisce che coprono la parte posteriore del tallone della scarpa (da S. Alfio)’ 1985, VS 2, 46; fénda ‘linguetta della scarpa (da Troina); pistagnino della tasca della giacca o del soprabito (da Centuripe e Paternò)’ ib. Cfr. nap. fentarella ‘term. de’ sarti, delle cucitrici di bianco e simili: pistagnino’ (Andreoli 160); irp. id. ‘id.’ (Nittoli 102); tar. fəntarèddə ‘il ricamo malcucito (all’orlo della gonnella)’ (VDS 1, 228); bit. fènde ‘finta, rivoltina (delle tasche, della bottoniera)’ (Saracino 180); molf. fènde ‘finta, fascia sovrapposta nei capi di biancheria per 43 far combaciare i lati aperti’ (Scardigno 221); andr. fènde ‘quella parte dei calzoni che fa finimento alle tasche’ (Cotugno 54); it. finta ‘striscia di tessuto o di panno che si sovrappone e ricopre i bottoni o l’apertura della tasca; pattina, falsatura’ (1800 ca.: VEI 435; Batt 5, 1053b); gen. finta davanti di cäsoin ‘lista della medesima stoffa, che si mette alla parte sinistra dello sparato davanti de’ pantaloni’ (Casaccia 378); piem. finta ‘presso i sarti, quella parte del vestito che fa finimento alle tasche e fa parte della mostreggiatura’ (Sant’Albino 576); mil. finta ‘striscia di panno o altro che simula una tasca (termine dei sarti)’ (Angiolini 319). A parte Salvioni, RIL 40, 1907, 105051 n3, che è tratto in inganno da TrV e si interroga sull’oscillazione ’nfenta ~ ’nventa, solo De Gregorio, StGl 1, 1899, 88-9, si occupa di ’nfenta per collocarla sotto *FINDĬTUS (da findĕre). Egli non teneva conto dei paralleli, sopra elencati, che indicano con chiarezza che la nostra voce è invece da FĬNGĔRE (REW 3313), o meglio da INFĬNGĔRE (REW 4402a); in ogni caso essa non è patrimoniale, come dimostra la vocale tonica, ma prestito dalle aree dial. merid. che non operano la chiusura di ẹ in i prima di nasale seguita da occlusiva (cfr. Rohlfs, § 49). In queste aree non ho reperito traccia di ┌ nfenta┐ ‘pattina’, ma solo, in questo senso, di ┌fenta┐, ma esiste nfenta ‘finzione, apparenza’ (D’Ambra 258) per il nap., Vignoli 68 per Amaseno, Nittoli 149 per l’irp.) e nféndə ‘finta’ (abr.: Giammarco 3, 1288). È dunque verosimile che la voce sic. sia stata importata nella forma attuale. Quanto allo sviluppo semantico, esso è proprio dell’area it.; il cat. fenta ‘fesa, fenella’ (DCVB 5, 797a, che a torto postula *FĬNTA, da findĕre; per DECLlC 3, 954a non esiste) è solo in testi della corte aragonese di Napoli. ’nfúrgiri (1ª pers. ind. pres. ’nf rgiu) v.tr. ‘rimpinzare di cibo (o di altro); condizionare con i propri ripetuti discorsi’ (1752), continua il lat. INFULCĪRE ‘sostenere’ e già ‘ristorare (con cibo)’, insieme a voci it. merid. e mil. Ma ’nfurgicari è documentato fin dal 1519. 1752 ‘mettere altrui il cibo in bocca per forza; empire uno di cibo’ dBono 2, 477 e poi fino a TrV 280 e VS 3, 189 (anche da Frazzanò e Gratteri); ‘mettere ad uno in bocca le cose da dire’ dBono 2, 477 e poi fino a TrV l.c. e VS 3, 190; 1844 ‘apprestare alimenti a sufficienza cotidianamente’ Mort 2, 20 (ripreso da VS l.c.); ‘aizzare una persona contro un'altra, sobillare, istigare’ 1990 VS l.c. (da Frazzanò e Gratteri); la voce è vivissima almeno a Palermo, nei due primi sensi e per ‘riempire a forza’. La forma infúrgiri è nel 1786 Pasq 2, 329 e poi Tr 488 e NicD 406; inoltre ’nfúggiri ‘rimpinzare (da Marsala); prevenire q. contro un'altra persona’ 1990, VS 3, 186 (da cui ib. ’nfuggiútu agg. ‘rimpinzato, da Corleone; prevenuto contro un'altra persona’); ’nfurghíri v.tr. ‘rimpinzare di cibo (da Pantelleria); aizzare una persona contro un'altra, sobillare, istigare’ 1990 VS 3, 189. Cfr. regg. nfurgiri ‘rimpinzare, istigare’ (NDDC 464) e cos. nfruci ‘mettere dentro a forza’ (ib.); nap. nfrùcere ‘rimpinzare, ficcare’ (D’Ambra 259); mil. ant. (Bonvesin) infulcir ‘infarcire, rimpinzare’ (Marri 114; l’it. ant. id. di Batt 7, 1000a è la stessa cosa); mil. mod. infolcì ‘rimpinzare’ (Cherubini 305). Già Gioeni 149 riconobbe l’origine del v. sic. nel lat. INFULCĪRE ‘ficcar giù (il cibo a qc.); inserire, introdurre, aggiungere’ (sec. I d. Cr.), composto di fulcire ‘sostenere, rafforzare’, anche 44 ‘ristorare (col cibo)’. La stessa spiegazione in Salvioni, RIL 40, 1907, 1051 n3; De Gregorio, StGl 7, 1920, 182; AlessioLatinità 384; DEI 3, 2024, nonché REW 3554 e 4413. Fulcire ha continuatori gallorom. (FEW 3, 840b), soprasilv. (fultscher: DRG 6, 690b) nel senso ‘riempire, rimpinzare’, mater. fǫlce ‘tappare’ (Z 38, 1917, 269); non trovo il nap. f čere di REW 3554; l’it. folcire ‘sostenere; mantenere in esistenza’ (sec. XIII: Batt 6, 107b) mi pare prestito dal lat., ed è il solo a conservare il senso originale, con paralleli prestiti fr. (cfr. FEW l.c. 841a); il sardo fruččiri, frokkire, forčire ‘chiocciare’ è incrociato con *CLOCIRE (DES 1, 408a). L’esito sic. -LC- > -RĞfa qualche difficoltà: Salvioni l.c. citava forgia ‘folaga’ < FŬLĬCE, un congetturale *surgi < surci ‘topo’ e piangia < fr. planche; De Gregorio l.c. considera eccezionale tale evoluzione ed ipotizza un’eventuale influenza di forgia ‘forgia’, del tutto improbabile; in realtà la sonorizzazione dopo r in Sicilia è sporadica ma non eccezionale (cfr. Rohlfs, § 263). Non c’è ragione per parlare di incrocio tra infulcire e infarcire, come fa AlessioLatinità l.c. ’nfurgiári v.tr. ‘dare a mangiare a sazietà’ (1839, Rocca 225, Tr 642 e TrV 280 (dove anche ‘mettere in fucina’, ovviam. da forgia e quindi da tenere distinto), e poi VS 3, 189: qui inoltre v. ass. ‘mangiare eccessivamente, di persona malata o convalescente che dovrebbe tenersi entro centi limiti (da S. Alfio); mangiare in fretta e con avidità (da Acireale e Calatabiano)’; ib. ’nfurghiári ‘rimpinzare di cibo (da Pantelleria); aizzare una persona contro un'altra, sobillare, istigare’). ’nfurgicári v.tr. ‘comunicare uno all’altro il latino già fatto, imbeccare’: 1519: «nfurgicari: suggero» (Scobar 55r); 1752 ’nf. ‘id.’ dBono 2, 477 e poi fino a NicD 554 e VS 3, 189; Tr 488, TrV 280 e NicD 406 più specificam. anche ‘subornare’); 1789 ‘dare a mangiare a sazietà’ Pasq 3, 284 e poi fino a TrV l.c. e VS l.c.; 1868 ‘cacciar alla rinfusa materia entro checchessia’ Tr l.c. e poi TrV l.c., NicD l.c. e VS l.c.; ‘aizzare una persona contro un'altra, sobillare, istigare’ 1990 VS l.c. (da S. Michele di Ganzaria e Vizzini). La forma ’nfruggicári 1752 dBono 2, 476, fino a TrV 280 e VS 3, 183; infurgicári Pasq 2, 329, Tr l.c. e NicD 406; infrurgicári Pasq l.c.; ’nfurgichïári ‘aizzare una persona contro un'altra, sobillare, istigare’ VS l.c. (da Castelbuono); ’nforgicári ‘istigare, fomentare’ VS 3, 177 (da Tri). Cfr. piazz. ’nfurg’chè ‘imbeccare; far mangiare gli altri più del conveniente’ (Roccella 176). Cfr. regg. nfurgicari ‘rimpinzare il ventre; ammaestrare alcuno in ciò che deve dire o fare’ (NDDC 464); nap. nfrocecare, nfrucchiare ‘spipare, affastellare; suggerire, insinuare, ispirare’ (D’Ambra 259); irp. nfrocecà ‘rimpinzare, ficcare; affastellare; suggerire, ispirare; subornare, imbecherare’ (Nittoli 150). Questo frequentativo pare di area esclusivam. it. merid. Cfr. FaréSalv 3554. ’nfurgicaméntu s.m. ‘l’imboccare’: 1519: «infurgicamentu: suggestio» (Scobar 55v); poi dal 1752 dBono 2, 477 a Mort 2, 20 e VS 3, 189; infurgicaméntu 1868 Tr 488. ’nfurgicazzióni s.f. ‘v. ’nfurgicamentu’ (1752, dBono 2, 477 e poi fino a Mort 2, 20 e VS 3, 189, e infurgicazióni Tr 488). Cfr. piazz. ’nfurg’caziöngh ‘imbeccata’ (Roccella 176). ’nforgicatúri s.m. ‘fomentatore’ (1990 VS 3, 177, da Tri). ’nfurgicatória s.f. ‘v. ’nfurgicamentu’ (1752, dBono 2, 477 e poi fino a Mort 2, 20, TrV 280 e VS 3, 189; Tr 488 ha infurgicatória). Cfr. piazz. 45 ’nfurg’catoria ‘il mettere in bocca ad alcuno le parole che deve dire’ (Roccella 176). a rifúrgiu avv. ‘smisuratamente, a bizzeffe, abbondantemente’ (1785, Pasq 1, 131 e poi fino a NicDUr 246 e VS 4, 158 [a rr.]). ’nfutári (3ª pers. ind; pr. ’nf ti) v.tr. ‘aizzare (soprattutto dei cani)’ (1752), voce che i riscontri iberorom. (sp. enfotarse ‘insuperbirsi, sentirsi sicuro’, ajotar ‘instigare’ e port. afouto ‘ardito, che ha fiducia’) riportano al lat. INFATUARE ‘far impazzire; stordire con chiacchiere’; ma la voce non è patrimoniale e il tramite sp. presenta problemi. 1752 ‘aizzare’ dBono 2, 480 e così poi fino a Cav 102 e VS 3, 194 (anche da Caltagirone, Giammichele, Licodìa Eubèa e Regalbuto), a volte (da Mort 2, 20) distinguendo tra cane ed essere umano (solo nel primo senso Struppa, ASS 16, 1891, 467 da Marsala); 1883 ‘stimolare, spingere altrui a fare; subornare’ NicD l.c. e VS l.c.; 1907 ‘imputare, accusare’: «stu bon omu fu ’nfutatu d’ammazzatina, e fu misu carciaratu» (ATrP 23, 218, senza localizzazione), poi 1914 in NicDUr 174, come solo senso, e VS l.c. (da Marsala e Pantelleria); 1990 ‘avventarsi, del cane’ VS l.c. (da Av); ‘far empito (da AA); stringere, incalzare, premere (da Spat); fare avvicinare le galline (da Bronte)’ VS l.c., 195; v.intr. 1877 ‘ringhiare o abbaiare forte dei cani’ TrV 280 e poi NicD 554, Cav l.c. e VS l.c. (da Castellammare del Golfo, Centùripe, Marsala e Ragusa); 1990 ‘si dice anche di persone e partic. di un ragazzo che si avventa contro chi a ragione gli dà botte (da Troina); insistere, essere troppo insistente (da Marsala)’ VS l.c. Una forma infutári è nel 1786 in Pasq 2, 329 e poi in Tr 489. Non sembra avere riscontri in Italia. Un it. ant. affutare tr. ‘mettere in fuga’ (Fanfani), ‘confutare’ (Alberti), ricordato da Gioeni 195, manca in DEI e Batt, ma è presente nella Crusca del 1729 (falso rediano?) che lo documenta nel Tesoretto di Brunetto Latini («ed affuta follía», ma il dato non è confermato dall'OVI che nell'ed. di Contini dà «e atutar follia»). TB riprende la Crusca e dà affutari come forma morta: ‘Mettere in fuga. Da Futa, che è in Dante analogo al franc. Fuite; ambidue da Fugitare, frequent. di Fugere». Si veda ora la voce affoltare di TLIO. L’agg. (paroli) affutati ‘eccessivamente adornate’di Vitii 175.53 è altra cosa. Gioeni l.c. indicò l’etimo nel port. afoutar ‘rendere ardito, incoraggiare, inanimire’, vitale e circondato da der.; non spiegò però come fosse giunto tra noi. De Gregorio, StGl 3, 1903, 273-4 si dichiarò invece per un *IN-FUTARE per FUTUERE, ma non spiegò perché il composto non utilizzasse i normali continuatori della base semplice lat. né come si spiegasse l’evoluzione semantica; infine AlessioLatinità 384 ha postulato *INFULTARE da infulcire ‘ficcar dentro’ (→ ’nfurgiri), adducendo che il regg. nfurgiri è ‘rimpinzare’ e ‘istigare’ (NDDC 464) e che il cal. centro-sett. possiede ntufare ‘intasare, rimpinzare’, ntufatu ‘mal lievitato (pane); ammassato e cotto male (cibo)’ (ib. 481), che proverrebbe da nfutare «per raccostamento paretimologico a tufo». Ma questo presunto cal. *nfutare non presenterebbe analogie semantiche con la voce sic., perché ad avere i significati ‘istigare’ (ma non ‘aizzare’) e ‘rimpinzare’ è solo cal. nfurgiri; né la formazione di *infultare è molto 46 convincente. Torniamo allora all’etimo presunto di Gioeni. L’agg. port. afouto ‘atrevido, confiado en sí o en otro’ è del sec. XIII o XV (DCECH 3, 404b) ed ha accanto afouteza ‘osadía’ (sec. XV: ib.), ma Gioeni ignorava che in cast. abbiamo non solo in America ajotar ‘azuzar’ o ‘instigar’ (in questo senso anche in Estremadura), ‘afanar’, ‘repulsar, despreciar’, ma anche enfotarse ‘ensoberbecerse, sentirse seguro’ (sec. XIII: ib. 956a) e enfotado, anche ‘infatuado, insolente’ (ib., anche 957b n3), nonché forme senza prefisso. La base di questa famiglia, che era stata vista in FAUTUM, da faveo ‘favorire’ (cfr. REW 3224 e ancora Machado 1, 135a), è identificata da Corominas l.c. in INFATUARE ‘far impazzire, render balordo; stordire con discorsi vani’, attraverso un normale *INFAUTARE. Sembra ovvio cercare qui l’origine della voce sic., anche perché troviamo qui, come in Spagna, ’nf. e → affutari; ma da noi -AU- non può dare -u- [cfr. Rohlfs, § 43; cfr. semmai regg. nfatarisi ‘infatuarsi, impazzirsi’ (NDDC 463)], sicché dovrebbe trattarsi di prestito dall’iberorom., al che può opporsi che la parola manca al cat. (che spiegherebbe bene -o- > -u-) e in cast. dal sec. XVI ha -f- > -h-, mentre da noi c’è ancora -f-. Insomma, per essere certi dell’iberismo ci mancano elementi adeguati, ma pesa dichiarare la voce come di origine ignota dato che molte cose spingono verso INFATUARE. — In ogni caso, la nostra voce non ha nulla a che fare con ’nfutari v.intr. ‘infoltire, diventare folto o più folto, di barba, peli e sim. (da Acate); crescere rigogliosamente, di piante (da Vizzini)’ VS 3, 194, ’mputári ‘id.’ VS 2, 867 e ’nfutátu agg. ‘molto fitto, folto, detto ad es. del basilico (da Vizzini)’ VS 3, 195; ’nfutu1 agg. ‘denso, spesso, folto, fitto’ (1752, dBono 2, 480 e poi fino a Cav 102 e VS 3, 195; anche «tra li rami nfuti» Tempio 164); la forma infútu 1786 in Pasq 2, 329. Cfr. piazz. ’nfut ‘folto’ (Roccella 176). Cfr. irp. nfuto ‘folto’ (Nittoli 150); Montella nfuto ‘profondo’ (ID 5, 1929, 125); Brienza nfute ‘affollato, addossato, pigiato, denso’ (Paternoster 20); molf. mbulte ‘folto, fitto’ (Scardigno 280). Si tratta evidentem. del lat. ĬNFŬLTUS ‘ficcato, introdotto’: REW 4414; AlessioLatinità 384; DEI 3, 2020; FaréSalv 4414. Cfr. it. folto, dal semplice FŬLTUS (REW 3564, con esiti dial.). nfutaméntu s.m. ‘incitamento’ (1752, dBono 2, 480 e poi fino Tr 643); il sinonimo ’nfútu2 ‘l'aizzare, l'istigare’ VS 3, 195 (da Bronte). affutári v.intr. ‘il correr del cane in verso alcuno per morderlo’ (1721, Dr 18), tr. ‘canes incitare’ (1759, Vinci 6, poi solo in VS 1, 76; il senso ‘fiutare’ è stato attribuito erroneam. a Vinci da Tr 30 e poi Pitrè 3 e VS l.c., ma in Vinci era l’etimo presunto), ‘dire con violenza’ (1875, AvolioCanti 34 e poi TrV 51 e VS l.c.), ‘soffiar che fa il gatto quando si arronciglia per minacciare e porsi in difesa’ (1875, AvolioCanti l.c. e poi TrV l.c., Pitrè 3 e VS l.c., dove è detto intr., contro l’indicazione esplicita di Avolio), ‘rimproverare acerbamente, scagliarsi contro q.’ (1977, VS l.c.); inoltre ’ffutàri v.tr. ‘cacciar via in malo modo’ 1985, VS 2, 55 (da Alì). L’apparente riscontro cos. affutare ‘affaticare, affoltare’ (NDDC 61), per quanto richiamato da AlessioLatinità 384, andrà sotto FULTUS, attraverso un *AFFULTARE, come postula Rohlfs, l.c. Si veda TLIO s.v. affoltare ‘lanciarsi in qc., darsi da fare, affannarsi’ e milit. ‘lanciare contro’. Per i paralleli iberorom. cfr. più sopra. affútu s.m. ‘parole violente’ (1875, AvolioCanti 34; poi TrV 51, La Rosa 13, VS 1, 76), ‘il soffiar del gatto’ (1875, AvolioCanti l.c. e poi TrV l.c., La Rosa l.c., Pitrè 4, RohlfsSuppl 18, VS 47 l.c.), ‘fiuto (dis., ma forse è un puro errore: → affutari); l’aizzare i cani; atteggiamento minaccioso contro q.’ (1977, VS l.c.). La Rosa l.c. pensava al lat. tardo futare ‘abbattere’ o ‘essere sovente’, che non c’entra, ma non è più plausibile l’accostamento di RohlfsSuppl l.c. al cos. áχχitu ‘alito; leggiero soffio di vento’ (cfr. NDDC 67), dal lat. *AFFLĬTUM per afflatum ‘soffio’, che comunque non potrebbe essere la base della voce sic., che invece si inquadra bene nella nostra famiglia. ’ngranciári v.tr. ‘rosolare (una vivanda)’ (1752), è voce viva ma del tutto isolata in Sicilia, di etimo sconosciuto. 1752 ’ngr. ‘dorare (dei cuochi)’ dBono 2, 484 e poi sempre fino a NicDUr 175, glossato come ‘rosolare, dare alle vivande un colore dorato’ e VS 3, 220 e (dal 1868 Tr 644 a NicDUr l.c. e VS l.c.) ‘dar una prima cottura alle vivande, perché possano conservarsi’; il senso ‘pigliar certa crosta’ di TrV 282 non è cosa diversa, ma solo uso intr.; a Castelbuono ngranciari intr. ‘rassodarsi del terreno’ (GenchiCannizzaro 190). Anche Meli 2, 751 ha: «e qualchi vota l’arrusti e l’ingrancia / e comu beccafichi si li mancia», autoglossato ‘frigge in modo che prendono il colore dell’oro’. Questa forma ingranciári torna in Pasq 2, 331 e Tr 490. Cfr. piazz. 'ngrancè ‘rosolare’ (Roccella 177); aid. ngrangèrise ‘rosolarsi’ (Raccuglia 271). Non conosco riscontri dialettali it. A quanto pare, solo Gioeni 197 si è occupato di questa voce, riprendendo il suggerimento di Tr 490, che rinviava a granciu ‘granchio’, per il colore; Gioeni invece pensa al fr. garance ‘robbia’ ed al suo denom. garancer. In realtà il fr. garance ‘rubia tinctorum’ e ‘teinture qu’on tire de cette plante; couleur de cette teinture’ è attestato dal sec. XII, ma il v. garancer ‘teindre en garance’ è documentato al più presto alla fine del sec. XIII (FEW 17, 622; la base è il francese *wratja) e v. e sost. non risultano in alcun caso usati fuori del loro senso proprio (il sost. designa anche qualche erba). Dal gallorom. provengono il piem. garanss (Sant’Albino 614) e lo sp. granza (gallicismo recente: 1764, DCECH 3, 198b), oltre l’ingl. garance, ma nessuno pare avere altro significato che quello bot. Appare dunque più che dubbio che l’etimologia di Gioeni sia difendibile né è verosimile il rapporto con granciu ‘granchio’. Per il momento la parola rimane di origine sconosciuta. ’ngranciátu, oltre che come part. pass. è registrato come agg. ‘a faccia rubiconda’ (1877, TrV 282 e poi solo NicD 556 e VS 3, 220, da Mort, Tr, Tri e da Petralìa Sottana). ’ngranciáta s.f. ‘l'azione del rosolare la vivanda’ (1868, Tr 644 e poi solo NicD 556, ripreso in VS 3, 220). aggranciári v.tr. ‘rosolare, far la crosta alle vivande’ (VS 1, 88, da Tr e Man), e ‘fermare la carne con una prima rapida cottura’ (da Man e dal ragusano), inoltre ib. 251 arranciári v.tr. ‘fermare, dare una prima cottura ad un cibo perché possa conservarsi’ (da Catenanuova e Ragusa), e ‘apparecchiare, cucinare una vivanda, detto spec. di carne in casseruola’ (da Av e Man); in VS l.c. è voce a sé un arranciári1 ‘accomodare alla meglio’; cfr. ancora granciári v.tr. ‘v. aggranciari’ (ossia: ‘rosolare, far la crosta alle vivande’) VS 2, 288 (da San Cono). Inoltre, ’nganciári ‘soffriggere, rosolare’ in VS 3, 201 (da Castiglione di Sicilia); ’nghianciári ‘rosolare o soffriggere in padella o in tegame carni, verdure e sim.’ ib. 209 (da Mazara del Vallo, Paceco e Trapani). 48 aggranciáta s.f. ‘dev. di aggranciari’ (VS 1, 88, senza indicazione di fonti né localizzazioni), e ib. 251 arranciáta s.f. in dari n'a. ‘dare una prima cottura a un cibo perché possa conservarsi’ (da Catenanuova, Gagliano Castelferrato e Leonforte, ma anche ‘aggiustare alla meglio’ da Catenanuova). nichéia s.f. ‘dispetto; stizza’ (1519), è voce esclusivam. sic. (solo il v. denom. sembra avere riscontri in Calabria ed in Sardegna), che continua l’ar. nikaya ‘dispetto, molestia; danno; offesa’. 1519: «nicheya v. indissopru: ex industria; n. nequiter» (Scobar 70r); 1752 nichéa ‘dispetto, onta’ e ‘noia, molestia’ dBono 2, 488 e poi solo Pasq 3, 296 e VS 3, 241 s. (qui il 2° senso è anche da Campobello di Licata; cfr. inoltre nnichèa ‘dispetto’ da Rosolini e ‘odio, rancore’, raro, da Marineo); nicheia torna in Meli (1, 215: «lu vinu fa passari ogni nicheia / e leva ogni stanchizza», e 1, 788: «nun t’avviliri, ma fatti coraggiu, / nè sfugari cu l’àutri li nichei», la 1ª volta autoglossato ‘stizza, cordoglio’, la 2ª ‘la bile o la collera’) e inoltre da Pasq 3, 296 ‘onta, fastidio, dispetto’ a NicD 558 e VS l.c.; il senso ‘ira, stizza’ 1839 Rocca 227, poi TrV 284 e VS l.c. (anche da Capizzi, Galiano Castelferrato e S. Caterina Villarmosa), quello ‘beffa’ solo 1868 Tr 646 e VS l.c. (da Acate e Sciacca). La forma nichía 1875 Mac 210 e poi TrV 284 e NicDUr 176, con i sensi ‘dispetto, onta’ e ‘sdegno, ira, corruccio’, per il primo dei quali VS l.c. aggiunge Barlestrate e Carlentini. Cfr. malt. nkejja ‘onta, dispetto’ (Barbera 3, 850; Kalepin 226). Si contrappongono tre spiegazioni di n. Da un lato Pasq 3, 297; Diez 1, 80; De Gregorio, StGl 4, 1907, 326-7 e 7, 1920, 249-50 ne hanno affermato l’origine dal gr. νεικέω, νεικείω ‘risso, contendo, specialm. a parole’, postulando dunque che il sost. sia deverb. di → nichïari e che nicheia sia var. secondaria di nichía. In realtà di tale verbo gr. non esiste traccia nell’Italia merid. (esso non appare nel LGII) né semanticam. sarebbe del tutto soddisfacente. D’altro canto Avolio 46, seguito da DAlCalv 277; AlessioProblemi 332; Pellegrini 225, postulava l’ar. nikāya ‘danno, pregiudizio, torto; dispetto, molestia, fastidio; offesa’ (NallinoTraini 3, 1568; Wehr 1000; Dozy 2, 724a; Harrell 102), semanticam. e formalm. ineccepibile (il passaggio ā > e è quasi generale nei prestiti ar. in sic.). Una terza etimologia appare prima in REW 4439, che considera sic. nichiari come der. di ĬNĪQUUS e poi contemporaneam. in AlessioLatinità 385 e DEI 1, 211 (s.v. annicare, che è poi un travestimento del catanz. annicari ‘annoiare, rompere le scatole’ NDDC 82), per i quali la base sarebbe un lat. tardo (attestato solo dalle glosse: cfr. CGlL 5, 642.78) INĪQUĀRE ‘divenire iniquo’; non c’è traccia di altri eventuali continuatori di questa base (e limitato e non it. merid. è il riflesso di iniquitas e iniquus: REW 4438 e 4439; FEW 4, 694-5), che foneticam. giustificherebbe un sic. *nicari, non nichïari, e semanticam. è molto più sforzata dell’etimo ar., che mi sembra di gran lunga preferibile. (Si sarà notato che AlessioLatinità 385 spiega le parole sic. dal lat. e poi AlessioProblemi 332 dall’ar.; non direi però che si tratti di un ripensamento, perché nella seconda sede lo studioso dice la voce sic. assente nel DEI e dunque deve essergli sfuggita la registrazione s.v. annicare e la relativa spiegazione). ― Abbiamo da rilevare alcune locuzioni: a nichéia (per errore tipografico: a nichesa) ‘a dispetto’ 1839 Rocca 227 e poi Tr 646 e Mac 210, fino a VS l.c. (da Acate e Licata); ppi- 49 nnichéa ‘id. (da Mòdica); a bella posta, appositamente (da Chiaromonte Gulfi)’ 1990 VS l.c. (cfr. pirnichéia avv. ‘a dispetto’ 1883 NicD 647 e VS 3, 807, pinnichéa ib. 772, da Av). Esistono anche in pirnichéia ‘ad onta, a dispetto’ 1868 Tr 739 e poi TrV 325 e, documentato già nel 1785, a la ’mpirnichéia ‘id.’ Pasq 1, 68; Mort 1, 37 (anche ‘inconsideratamente, alla trista’); Rocca 19 (ambedue i sensi); Tr l.c., poi TrV 284 e VS 2, 849 (anche da S. Margherita Bèlice, qui senza a la, e indicato come raro); ib. le var. ’mpirnichéa, ’mpirnichía, 'mprinichéia, ’mprinnichéia, solo dalle fonti scritte); si ricordi che già in Scobar n. era registrato con questo valore. Verosimilm. abbiamo dunque a che fare con un pirnichéia ‘dispetto’ (e VS 3, 772 pinnichea s.f. ‘ripicca’, da Tri): pippinnichea ‘per ripicca’), ottenuto con per- rafforzativo (cfr. Rohlfs, § 1022; cfr. sic. pircantari e pirculari) + nicheia, usato quasi esclusivamente nelle loc. pi p. e in p., quest'ultima a sua volta sentita come un lessema e quindi completata con a la. Un v.intr. pirnichïári ‘perfidiare’ è registrato nel 1888 in TrVApp 22, e da qui ripreso in VS 3, 807. nichïári v.tr. e rifl.: sec. XVI: «E si la mia signura si nichia / fazzu cuntu ch’è ruttu di radici [l'albero della nave]» (M. Bonincontro, ASS 30, 1905, 53: ‘si adira’); 1752 tr. ‘beffare, beffeggiare’ (e fari n. ‘fare incollerire’) e rifl. ‘andare in collera’ dBono 2, 488; 1759 tr. ‘irritare’ Vinci 171, ma annotando che è voce rara a Messina, anche se frequente in Sicilia; 1789 tr. ‘far prendere stizza’ e rifl. ‘adirarsi, stizzirsi’ Pasq 1, 297. Il senso più comune è questo rifl., attestato più volte in una poesia agr. del 1800 ca. («la puzza / l’offenni, e nell’internu si nichia», «E stava nichiatu veramenti», «quannu si nichia», QFLS 1, 1973, 48, 65 e 86) e poi sempre fino a Cav 132 (s.v. nnichïári) e VS 3, 242 (anche nn. ib. 272), mentre il senso tr. è registrato solo in NicD 558 e poi in VS 3, 242, che aggiunge inoltre ‘beffeggiare q.’ (da Corleone) e ‘importunare, infastidire’ (da Grammichele e S. Caterina Villarmosa; quest'ultimo senso ha anche nn. VS 3, 272, da Adrano, Bronte e Niscemi); 1868 Tr 646 anche rifl. ‘mostrare di non essere soddisfatto interamente’, poi fino a NicD l.c. e ripreso da VS l.c.; ‘adombrarsi, imbronciarsi (da Assoro, Casteltermini e Licata); annoiarsi (da Agira e S. Giovanni Gèmini)’ VS 3, 242. Anche nighïárisi v. rifl. ‘adombrarsi, imbronciarsi’ 1990 VS 3, 246 (da Nizza Sicilia); nchinïárisi v. rifl. ‘imbizzire’ 1877, Tr 272, VS 3, 72 (da Av e Grammichele). In VS 3, 242 (s. v. nichïári) il rimando a ddighïárisi (VS 1, 906) che in parte si sovrappone semanticamente a nighïárisi, ecc., infatti vale ‘smaniare per difficile digestione (da Gela)’, ma anche ‘piagnucolare, dei bambini (da Grammichele); annoiarsi (da Gela e Niscemi); arrabbiarsi (da Grammichele)’. La var. prefissale annichïári è nel 1875 in Mac 23 e torna poi in TrV 66 e VS 1, 196, qui solo come rifl. ‘seccarsi, adirarsi’ (ed anche da Alia). Cfr. piazz. n’cchiè rifl. ‘stizzirsi’ (Roccella 170). Per la spiegazione da una base gr. → nicheia. Mentre AlessioLatinità 385 cita come esito sic. di INĪQUĀRE annicari (e (n)necca), DEI 1, 211 ricorda appunto (an)nichiari; ambedue sono citati in DES 1, 91b come riscontri per il logud. annikare ‘essere serio, prendere il broncio’, rifl. ‘sdegnarsi, adirarsi’, accanto all’it. nicchiare ‘rammaricarsi, lamentarsi’, ritenuto la fonte probabile della voce sarda. Conviene tenere attentam. separati (an)nichïari e anniccari ‘far resistenza, opporsi, reagire; contrapporsi a q.; contrariare, contraddire; recalcitrare (di cavallo o 50 mulo); rinculare; corrucciarsi’, che è senza dubbio denom. di (n)necca ‘rancore’ (nnecca s.f. ‘ripicca, dispetto’ VS 3, 269 da Bagheria, Campobello di Mazara e Pantelleria (ppi n. ‘per dispetto’); malgrado la vicinanza semantica, le due serie appaiono ben distinte dall’opposizione -k- ~ -kk- e dalla diversa accentazione ed uscita dei sostantivi; inoltre il rapporto nnecca → anniccari è parallelo ma distinto da quello nicheia → (an)nichiárisi. Pertanto il catanz. annicari ‘annoiare, rompere le scatole’ (NDDC 82) ed il logud. annikare (cfr. sopra) sembrerebbero piuttosto prestiti dal sic., il che non fa difficoltà per il catanz., mentre lascia incerti per la voce sarda. nichïaméntu s.m. ‘il crucciarsi; nicchiamento’ (1868, Tr 646). Cfr. piazz. n’cchiamènt ‘stizza, crucciamento’ (Roccella 170). nichiátu agg. ‘inciprignito, intozzato, adirato’ 1752 dBono 2, 488 fino a Tr 646 (s.v. nichïari), poi VS 3, 242 (da Sanclemente (1645-53) e da Camastra, Gagliano Castelferrato, Leonforte e S. Alfio). nichïáta s.f. ‘v. nichïamentu’ (1868, Tr 646). In VS 3, 242 (solo sing.) vale ‘ira, collera’ (anche da Giarratana e Ragusa). nichïúsu agg. ‘noioso; difficile (detto di cosa)’ (1752, dBono 2, 488). Il primo senso è poi in Meli 2, 399 («A sti palori un poco nichiusi /iddu mi rispunnìu: ‘Lassami diri’», autoglossato appunto ‘noiose’) e da Pasq 3, 297 e NicD 558, fino a VS 3, 242 (anche da S. Alfio), mentre il secondo non appare più (se non ripreso da VS 3, 243), sostituito da ‘disastroso (detto di cosa)’ da Pasq l.c. a Mort 2, 24 (segnalato in VS l.c.); anche ‘smorfioso, special. di ragazza’ VS l.c. (da Favignana); ma il senso principale è certo ‘che irrita, dispettoso’ (1789, Pasq l.c. e poi fino a Cav 132 [qui nella forma nnichïúsu] e VS 3, 242, anche da Balestrate, Catania, Marsala e Trapani; ib. 272 anche nn., da Francofonte e S. Alfio) e ‘facile a stizzarsi’ (1839, Rocca 227 e poi solo Cav l.c. e VS l.c.; qui anche ‘burbero, scontroso’, da Man e Mòdica; inoltre ib. 272 nn. da S. Alfio, ib. 246 nighïúsu ‘id.’ da Nizza Sicilia). – Cfr. piazz. n’cchiös ‘stizzoso’ (Roccella 170); aid. nicchjuse ‘irrequieto’ (Raccuglia 273). Il malt. nekkejj ‘dispettoso’ (Barbera 3, 839) non ha con il sic. altro rapporto che quello etimologico. nichitá s.f. ‘per nicheia’ (1868, Tr 646, ripreso da VS 3, 242). nichitúsu agg. ‘dispettoso (da Tri e Roccafiorita); stizzoso, irascibile (da Tri e S. Alessio Siculo)’ (1990, VS 3, 242). nichíu s.m. ‘noia, molestia’ (1990, VS 3, 242, da Assoro). nichisanzi pl. ‘dispetti’ (VS 3, 242, da Erice), ma c'è nichisenza s.f. (solo sing.) ‘negligenza’ ib. (da ATP). máncia-nichéi ‘persona impertinente’ (1990, VS 3, 242, da Pozzallo). nícu agg. ‘piccolo’ (1752), è voce con stretti paralleli solo cal. e abr., ma che rientra in una ampia rete di creazioni espressive in -í- per esprimere ‘piccolo’ e ‘grazioso’. 1752 n. agg. ‘piccino d’età o di mole’ dBono 2, 489 e poi sempre fino a Cav 132, RohlfsSuppl 75 e VS 3, 243, con larghissime attestazioni nella letteratura dialettale (anche nn. ‘id.’ ib. 273, da Canicattini Bagni, Noto e Ragusa, ‘moccioso’ ib. da Noto); 1868 n. s.m. ‘bambino’ Tr 646, poi TrV 284 e VS 3, 244 (anche da Agrigento, Casteltermini e Pantelleria); solo TrV l.c. ha anche ‘il minore de’ fratelli ecc. (dovrebbe dire propriam. u nicu: già in Meli 2, 117, parlando di cani, «ma a lu nicu… ci acchianau la verra»), significato 51 documentato da VS l.c. a S. Vito Lo Capo; 1868 nicu nicu ‘modo di chiamare i porci’ Tr 1153, poi Pitrè 65 e VS l.c. (da Castellammare del Golfo, Pantelleria e Vìcari; con lo stesso significato anche nichi nichi nichi ib. 242, da Tri). AIS 1, 39 ‘piccolo’ ha nicu solo a Baucina, Villalba e S. Biagio, ma l’agg. appare poi nella c. 1, 155 ‘il mignolo’ a Palermo, Vita, Baucina, Mistretta, Villalba (ora ALI 1, 48, in punti sparsi), nella c. 2, 228 ‘il succhiello’ a Naro, nella c. 5, 943 ‘è troppo stretta’ a Vita, Mistretta, Villalba e Mascalucia; Villalba ha la forma m. nécu (e necu agg. ‘piccolo, minuto; in tenera età’ viene registrato anche in VS 3, 146 a Mòdica, da G. Ragusa). Cfr. inoltre nníccu agg. ‘grazioso, bello’ 1888 TrVApp 20, da Castrogiovanni, Enna (a cui VS 3, 272 aggiunge Villarosa), poi con lo stesso senso niccu ib. 241 e nnicu ib. 273, entrambi da Enna, e nnéccu ‘carino, grazioso; cordiale, affabile’ ib. 270 da Assoro. Cfr. cal. centromerid. nicu, (n)niccu ‘piccolo, piccolissimo’ (NDDC 470; ib. anche cos. e regg. niccu-niccu ‘voce per chiamare il maiale’, cos. niccu, neccu ‘nome vezzeggiativo che si dà al maiale’; ib. 471 cos. nincu ‘piccolo’); abr. nichə ‘piccolo’ (Giammarco 3, 1331; molto meno diffuse le forme néchə, nòcchə, nicchə ib. 1330-1). Pasq 3, 297 avanzò la fantasiosa ipotesi della provenienza di n. da μικρός e, per quanto contraria ad ogni evidenza fonetica, questa spiegazione è ripetuta da Avolio 32 e Sacco 1, 106; Gioeni 198 pensò a NĪDĬCUS ‘del nido’ (veram. la forma con continuatori rom. è *NĪDAX, REW 5909), base accolta da De Gregorio, StGl 7, 1920, 250-1 (che accetterebbe perfino NIHILUM), ma foneticam. e semanticam. difficile; REW 5559 (e FaréSalv 5559) colloca la voce sic. sotto MĪCA ‘briciolina’, ma non è sicuro di questa base neppure per rum. mic e cal. miccu (ammette che potrebbero essere dal gr. μικ(κ)ός) e riconosce inesplicabile n-); AlessioLatinità 417 avanza dubitativam. la base NĒQUAM, NĒQUUS REW 5895, i cui continuatori hanno però sensi ben diversi (cfr. anche FEW 7, 99b); rimane l’ipotesi di Rohlfs, EWUG 1527 e poi LGII 363, RohlfsSuppl 75, nonché Maccarrone, AGl 27, 1935, 65-6, secondo cui si tratta di una creazione espressiva, parallela ad altre con i (tra le tante sic. piccittu; it. piccolo, piccino; fr. petit; sp. chico e lo stesso rum. mic). Accettando, come pare necessario, questa spiegazione si entra in una rete di voci di vari dialetti più o meno collegate foneticam. e semanticam., che non seguiremo. Ricordiamo solo, tra gli appellativi del maiale, corso nicciú nicciú Falcucci 247 (e cfr. Maccarrone l.c. 77 n208). Ricordo appena i dimin. e vezz. sic. nichíttu 1868 Tr 646 (e poi NicD 558 e TrVApp 19; in VS 3, 242 vale ‘voce di richiamo per il porco’, da Tri e da AIS, che lo registra a Mandanici; nicúddu 1888 TrVApp 19, nicúzzu e nicuzzéḍḍu 1928 Pitrè 65, ma solo per osservare che è sentito come normale dimin. e vezz. nicaréḍḍu (anche in VS 3, 241, dove troviamo n. agg. ‘basso di statura’ da Adrano e ‘mingherlino’ da Raffadali, oltre a u n. s.m. ‘il più piccolo dei fratelli’), in realtà da → nícaru. nichízza s.f. ‘l'esser piccolo’ (1868, Tr 646 e poi solo TrV 284). nícaru agg. ‘v. nicu’ (1868, Tr 646 e poi solo TrV 284 e VS 3, 241). È ricordato da Avolio 32 e De Gregorio, StGl 7, 1920, 250-1. Si noti il suff. atono -aru con cui è formato questo der. (i presunti paralleli di De Gregorio l.c., 427 sono però s.), che suggerisce che sia esistito anche un agg. *nículu, che troverebbe riscontro nel regg. nículi pl. ‘dadi (ossi) per giocare’ NDDC 470 e nell’abr. nículə, níquələ ‘piccolo’ 52 Giammarco 3, 1331) e che induce ad accettare il suggerimento di De Gregorio l.c. di collocare qui ’nnúccaru agg. ‘si dice di fanciullo che ha grazia piacevole’ 1789 Pasq 3, 306 e poi fino a NicD 561 (dal 1844 Mort 2, 27 anche di animale), núccuru ‘id.’ (1868, Tr 1153 e poi TrV 294), ’nnúccuru ‘id.’ (1877, TrV 287), da cui ’nnuccarátu agg. ‘v. ’nzuccaratu’ (1868, Tr 650 e poi fino a TrVApp 20 e VS 3, 280; anche nnaccaratu e nnaccarïatu ib. 262), nnúccaru agg. (VS 3, 280 anche da Carini), nnúccuru ib. 281, núccuru ib. 339 (da Mac e TrV) e núccaru ib. (da Av) ‘voce con cui ci si rivolge vezzosamente ad un bambino o a una bestiolina’. Tutte queste forme sono probabilm. influenzate da zúccaru ‘zucchero’. Non inserirei qui (malgrado Maccarrone l.c.) le forme sic. nícili e simili (cfr. VS 3, 243). nólitu1 s.m. ‘capriccio’ (1752), è voce del tutto isolata, anche se ben viva; probabilm. si tratta di una coniazione colta, forse in ambiente giuridico, sul lat. NOLO ‘non voglio’. 1752 n. ‘capriccio, voglia’ e ‘briga, impiglio’ dBono 2, 503; il 1° senso poi sempre, fino a Cav 133 e VS 3, 286, anche da Altofonte e Marinèo; il 2° solo da Tr 651 (‘seccatura’) a NicDUr 178 e VS l.c., anche da Marineo (‘seccatura, fastidio’), e da Marsala e Pantelleria (‘piccolo lavoro, incarico quasi fastidioso’); al pl. ‘cianfrusaglie, cose vecchie e ingombranti’ VS l.c. da Gàlati Mamertino, Raccùia e Ucrìa (anche nella forma nuóliti ib. 346, da Nìssoria); ‘dicerie, chiacchiere (da Tri, Canicattì e S. Alfio); lagnanze, lamentele (antiq., da Paternò); moine, smancerie (da Gioeni 200)’ ib. 286; ‘cavilli, pretesti’ VS l.c, da Av e Tri (quest'ultimo senso anche nelle forme nóriti ib. 287 da S. Domenica Vittoria, nuóliti ib. 346 da Augusta e Solarino, nuólichi ib. da Centuripe). La forma ’nnólitu 1877 TrV 287 e poi NicDUr l.c e VS 3, 279; núlitu 1990 ib. 344 (da Casteltermini), nóritu ib. 287 (da Bronte e Francavilla di Sicilia), forse nórti pl. ‘argomenti inopportuni’ ib. 288 (da Pantelleria). Cfr. piazz. nòl’t’ ‘capriccio, ghiribizzo’ (Roccella 179). Avolio 103 e Gioeni 200 lo considerano deverb. da collocare nella classe di accáttitu, asséttitu, jéttitu; il secondo dei due studiosi si preoccupa della semantica e porta a parallelo lo sp. dengue ‘svenevolezza, lezziosaggine, smanceria femminile’, che non è però dal lat. denegare, come affermava Diez (cfr. DCECH 2, 442b). Che n. venga da NOLO ‘non voglio’ è accolto da La Rosa 19 e Salvioni (in FaréSalv 5948a, come cultismo), ma in verità tutti i s.m. della serie atona in -itu corrispondono ad un v. sic., che in questo caso invece non c’è (nolo non ha continuatori rom., ma dà solo luogo a qualche isolato prestito: cfr. FEW 7, 174-5), AlessioLatinità 418 pensò dunque a NOTŬLA ‘piccolo segno’, ipotizzando — oltre alla metatesi — un passaggio da ‘voglia sulla pelle’ a ‘capriccio’ e portando un paio di riscontri di rapporto semantico tra ‘desiderio’ e ‘voglia sulla pelle’. Ma non c’è traccia di n. ‘voglia sulla pelle’, e lo stesso Alessio deve essere stato così poco convinto della sua idea che in Boll 6, 1962, 59 pensò che la nostra parola rappresentasse un’evoluzione di significato dell’it. ant. nòlito ‘nolo’ (sec. XVI: DizMar 523; DEI 4, 2595), che trova riscontro ancor oggi nel nap. noleto ‘id.’ (Galiani 1, 266; D’Ambra 263) e nel corso nòlitu ‘id.’ (Falcucci 429). Alessio non dice (ma vi accennava DizMar l.c.) che un sic. nólitu2 s.m. ‘nolo marittimo’ è esistito accanto a nolu: 1492 Messina nolitu e lu nolitu 53 (CodDiplGiudei 3, 35 e 139); 1519: «nolitu di passaiu: nauleum, vectura, hippagium» (Scobar 70r); 1522: «nolito di barca hoc naulum» (Vall 59); inoltre n. ‘id.’ 1990 VS 3, 286 (da AA e Spat). Cfr. anche cat. noli e nòlit ‘id.’ (dal 1259, nella 2ª forma: DCVB 7, 775b; DECLlC 5, 951b); la voce sic. va dunque inserita in un’area mediterranea occ., che fa forse capo al cat.; la base è il grecismo lat. NAULUM: VEI 691; DCVB e DECLlC ll.cc.; DCECH 2, 915b. Catalanismo è forse il sic. nolïaméntu (1402 Maiorca: «la carta di lu n.» ‘il contratto di nolo’ Curti 125, cfr. cat. noliament ‘id.’ 1343). Non vedo, però, come da ‘nolo marittimo’ si sia potuto passare a ‘capriccio, voglia’. Bisogna dunque abbandonare queste spiegazioni e considerare che n. è limitato all’isola e forse relativam. mod., molto diffuso e comune ma probabilm. di livello relativam. alto (è del Meli e della poesia dial.): par dunque probabile che si tratti di una coniazione colta (di ambiente giuridico?) sul lat. NOLO (il n. è l’atteggiamento di chi dice ‘non voglio questo, non voglio quest’altro’) e secondo uno schema accentuativo, ma senza un reale rapporto morfologico con l’affine classe di deverb. (tutt’al più varrà il rapporto tra accattu: accáttitu e NOLO: nólitu). L’origine colta mi sembra confermata da der. nolitusu. nulitïári v.intr. ‘perdere tempo in cose da nulla (da Man e Marineo); accudire a piccole faccende (da Pantelleria); distrarsi, spassarsela (da Man)’ 1990, VS 3, 344. Anche nurtïári ‘lavoricchiare, eseguire piccoli lavori quasi per passatempo’ ib. 347 (da Pantelleria). nulitúsu agg. ‘capriccioso’ (1752, dBono 2, 539 e poi fino a NicDUr 184 e VS 3, 344, anche da Altofonte e Marineo; ib. 346 nuritúśu ‘id.’, da Bronte); ‘cavilloso, che trova sempre da ridire’ ib. 344 (da Av e Gagliano Castelferrato; si aggiunga Calamonaci da RuffinoGiochi 93); anche nelle forme nüalitúsu ib. 339 (da Ustica), e nutilúsu ib. 348 (da Floridia); ‘di chi, con un atteggiamento di scarsa serietà, va diffondendo notizie che andrebbero mantenute segrete’ ib. 344 (da Capizzi). La forma nolitúsu è già nel 1752 in dBono 2, 503 e torna fino a Tr 651 e VS 3, 286; essa sembra confermare la coniazione colta recente. Cfr. FaréSalv 5948a. ’nsémmula avv. ‘insieme’ (e ’ns. cu prep.) (sec. XIII ex., nella forma insemble ad), dal lat. IN SĔMUL per in simul, con evoluzione comune a forme sparse in tutta l’Italia merid., più sporadiche a nord e normali almeno nel gallorom., mentre in Toscana ed in altre aree it., ed anche in Sicilia, è presente un diverso continuatore della stessa base, cioè il tipo ┌insieme┐. I poeti sic. del sec. XIII documentano avv. insembra (Ruggeri d’Amici, PSs 2.2, v. 27; congetturato anche a 25.2, v. 121) e insembre (Galletto Pisano, PSs 26.1, v. 30); in Guido delle Colonne c’è insembremente (PSs 4.4, v. 47). Sec. XIII ex.: «faça buli jnsenble ad una punta d’o[.]u» (PagliaroRicette 189); ante 1322: «E videndusi insembla … assectarusi e raiuniyarusi» (SGregoriu 39.24; per altri ess. di avv. cfr. gloss.) e «Placidu cadiu allu lacu insembla cu lu vaxellu» (ib. 47.13) e «et stando et parlando insembli, lu dimoniu prise lu fillu de lu villanu» (ib. 29.33; il ms. P ha ensembla; la forma insiemi è nei mss. tosc. e in una rubrica: cfr. gloss.; altre occorrenze in CorpusArtesia); ante 1337: «si abrazau cum li soi cumpagnuni et multu si alligraru videndusi insembla» (Eneas 1.75; per altri ess. cfr. gloss.) e «vulissi deu ki Eneas… fussi insembla 54 cum vui» (ib. 1.70; per altri ess. cfr. gloss.); ante 1337: «la terza guerra, c’appiru insembla da poy» (ValMax 1.1.148) e «li Veyentani [fugianu] insembla cum loru» (ib. 1.6.101) e «Marcellu… vulendu fari una cella insembla a la Virtuti et a l’Unuri» (ib. 1.1.51; ma non è es. di i. a; altri ess. in CorpusArtesia); 1346 Corleone: «la perdita che trovamo intro la boteca insieme con Anselmo» (Rinaldi 53.11); 1349 Caltagirone: «sia insembli iza cu nui» (Rinaldi 21.2); 1351 Barcellona: «tracteriamu ansembla cum lu serenissimi principi signuri re Petru» (Rinaldi 85.9); 1358: «Et cumbattendu insembli l’una parti et l’altra…» (Conq 115.1; per altri ess. cfr. gloss.) e «abraczarusi insembuli» (ib. 50.22; cfr. 72.14) e «parlaru a fidancza insembla» (ib. 76.12) e «intraru insembli cum illi a la chitati di Missina» (ib. 9.16); 1368: «lu quali vermi naxi di mali humuri longu insembli tropu congregati» (Mascalcia 576; altro es. a 579); 1370 Gaeta: «esti insembla cu nuy altri in Monti Cassinu» (Rinaldi 87.29); 1373: «in una nebula insembli esti acqua et focu, tronu et lampu…» (SposMatteo 104.27; per altri ess. cfr. gloss.) e «fammi insembli muriri cu lu to figlu» (ib. 206.19; cfr. 302.25); 1380: «naturalmenti li agnelli si amanu insembli et fuginu li lupi» (Vitii 118.29; per altri ess. cfr. gloss.; a 190.34 insembli cum); 1391? Girgenti: «eu insembla cum frati Gerollmu» (Rinaldi 109.2); sec. XIV? Messina: «insembla» avv. e «insembla cum li nutari» (ConsMessina 274); 1405 Palermo: «vi pregu ki vui insembuli cun Antoni nostru iuvini chi aiati in pocu la cura» (Curti 76); 1411: «insembli cum vui» (LettRegBianca 93); 1412: «tucti insembli» (ib. 146) e «insembli cum lu consiglu ki e iza» (ib. 172); 1415: «una insembla cum li gintili homini» (ib. 236); 1416 Catania: «insembula cum una altra persuna» (TestiQuattrocento 21); 1433 Palermo «insembla» avv. (CodDiplGiudei 1, 416) e «insembla cum li christiani» (ib. 416); 1445 Messina: «Insembra et cum loru consigleri» (ASSO 2, 1905, 94); 1ª metà sec. XV: «Hora vayanu tutti insembla a lu paradisu» (Poesie g. 409d; cfr. ib. 816); 1450 ca.: «Quistu ha donatu insembola cum quilla / Eclesia…» (ib. h. 103); 1463: «li iurati insembla cum altri citatini» (Sciacca 301); 1471: «[foru] finalmenti poy passionati / cun Ursula insembli et cun l’altri beati» (Poesie l.CLI.8); 1474 Palermo: «insembla cum vui» (CodDiplGiudei 2, 159; ma ib. 160, dallo stesso luogo e di ugual data «che nulla persuna si digia insemi congregari»); 1480: «intranbu insembli presentati foru / a lu inperaturi» (Poesie m. XI.5) e «tutti insembla» (ib. CCXXV.3); 1497 Francofonte: «actaccati tucti insembla» (Gaudioso LXXXIII); sec. XV Randazzo: «insembi cu loru consiglieri» (ASSO 2, 1905, 96); 1519: «insembla: simul una, pariter» (Scobar 56v); 1520 ca.? Catania?: «tutti insembuli cavalcaro et andarosindi in la cità di Termini» (ASS 6, 1881, 115; ib. 117: «insembli con lo signor baruni di Radusa»); sec. XV: «insembla cum li ditti loro fratri oi soru» (ConsCastiglione 21; a 57 insembla con); numerose altre occorrenze antiche in CorpusArtesia, con le forme insembla, insembli, insembuli, insemi (molto raro), con cun se prep.; 1752 ’nsémmula ‘insieme’ senza distinzione tra avv. e prep. dBono 2, 514 e poi sempre fino a NicDUr 179; la forma insémmula 1786 Pasq 2, 337; ’nzémmula è alla fine del '700 in Meli 1, 334 («Poi tuttu ’nzèmmula, / pigghiannu ciatu»; qui però, 2, 681, anche insemi) e poi 1868 Tr 661, poi TrV 296, NicDUr 186 e VS 3, 362 s.; la terminazione -i, dopo la fine del '400, riappare nel 1964 ’nzémuli Cav 104 ed è anche in VS 3, 363 (da Acireale e S. 55 Alfio); la loc. tuttu ’nsémmula è già nel 1754 in dBono 3, 647-8 (in VS 3, 362 tuttu nzèmmula ‘ad un tratto, all'improvviso’, da Favara e Licata, ‘di soprassalto’, da Comitini e Palermo, ‘tutto d'un fiato’, da Favignana); 1877 TrV 288 (ripreso poi da VS l.c.) aggiunge ‘si dice anche a uomo alla buona’ (?). Solo nel 1877 assiémmula TrV 82, certam. influenzato da it. assieme ‘id.’ (VS 1, 300 ha assémmula da Av, assémula da Pitrè e assémila da Canicattini Bagni). AIS 8, 1635 ha nsémmula solo a Palermo e Vita, nzémmula a Baucina, Villalba e S. Biagio, ma anche anzémmula a S. Michele (cfr. sopra; VS 1, 207 aggiunge Gela e registra anziémmula (da Licodia Eubea), anziémula (a Palazzolo Acreide, da ALI), anziémuli (da Vizzini), anziémila (da Ragusa), anziémmila (da Pachino; qui anche tutt'a. ‘ad un tratto, improvvisamente’) e anzémula (da Mal); nsémula (a Mascalucia) e zíemmuli (a Calascibetta); la galloit. Sperlinga ha nsémbru. VS 3, 362 registra invece nzémbra (da Bronte e Rodì, oltre che a S. Marco di Milazzo, da ALI), ma troviamo anche nzérma ib. 363 (da Tripi) e anzémbra VS 1, 207 (da Roccella Valdèmone). Cfr. inoltre nzémula VS 3, 363 (in diverse località), nziémila ib. 364 (da Ragusa), nziémmula ib. (a Palermo, da AIS e ALI), nzímula ib. 366 (da Enna), nzúmmula ib. 379 (da Bivona), nzémbula ib. 362 (da varie fonti scritte). Cfr. aid. nsémula ‘insieme’ (Raccuglia 279). Ma bisogna aggiungere che è rappresentato anche il tipo ┌insieme┐: AIS l.c. ha nsiémi a Mistretta, nziémi a Catenanuova, anziémi a Giarratana (quest'ultimo anche in VS 1, 207). Per nzemi e nzièmi si veda inoltre VS 3, 362 ss., oltre a inzemi nella loc. avv. nta l'i. ‘nello stesso tempo’ da Paternò (e cfr. ’nsèmu a Piazza: Roccella 179). La c. cit. dell’AIS mostra che anche nella penisola i tipi ┌nzémməla┐ e ┌ insieme┐ si alternano continuam.: il primo appare ai P. 752, 735, 737, 708, 709, 682, 648, 637; i vocab. confermano: cfr. cos. sett. nsémula, -ə, nzémmula, nzémməra, nsémmera ‘insieme’ (NDDC 475); nap. nsemmora, nz-, 'n zembra ‘id.’ (Galiani 1, 268; D’Ambra 269; insembra è già frequente in Masuccio alla fine del sec. XV: GentilePostille 53); Amaseno nźémb(e)ra ‘id.’ (Vignoli 73); irp. nzèmmora ‘id.’ (Nittoli 156); sal. nzèməla, nsèmmələ ‘id.’ (VDS 2, 431); fogg. (Carpino) nzémbra a ‘insieme a’ (Melillo 94); abr. nźíəmbrə ecc. ‘id.’ (Giammarco 3, 1364). In altre aree (pugl.) appare il denom. (→ inzimmulari). Ma queste forme non coprono un’area compatta, bensì si mescolano al tipo ┌insieme┐, che sulla c. cit. dell’AIS dà luogo anche, dal P. 618 fino al Piemonte, al Grigioni e all’Istria, a forme con -l. Non diversa è la situazione nei testi ant.: dal gloss. del Monaci, il tipo ┌insieme┐ risulta tosc. ma anche sett., mentre abbiamo insenbre, imsembra in Gallo da Pisa e Rugieri d’Amici, ensembre nell’Orlandino franco-veneto, ensembori nelle Storie di Troia e di Roma, ensemmore nella Giostra delle Virtù (cfr. anche Batt 8, 99c, con le forme insembre, -a, -i, -o, insembla, -e, a volte seguite da con). La base è ovviam. il lat. IN SIMUL, come già dice Pasq 3, 316 e poi Avolio 178. Più tardi essa è giustam. corretta in *INSĔMUL (ma semul è attestato in epigrafi: ErnoutMeillet 626), dato che le forme rom., compresa la sic., postulano ę (cfr. REW 4465; De Gregorio, StGl 7, 1920, 184). Ambedue gli studiosi ora cit. affermano che il tipo ┌nzémmula┐ è di origine gallorom.: infatti il fr. ha ensemble ‘l'un avec l’altre; l’un en même temps que l’altre’ fin dall’Alexis 56 (FEW 4, 716a), da cui proverebbero, oltre alle forme it., lo sp. ant. e port. ant. ensembra. In effetti anche DCECH 2, 640a dà le forme ensemble (dal 1212 in Rioja e Aragona), -a (dal 1233 nel León), -bra (dal 1212 a Toledo) come gallicismo (non così però Machado 2, 408a, che considera patrimoniale port. ensembra com, del 1301) ed ancora Ambrosini 183 considera gallorom. la voce sic.; ma già FEW 717a n6 osservava che non è necessario considerare francesismi le forme it. ant. e mod. (elencate ib. 716b) e mi pare evidente che avesse ragione, perché l’endemicità della forma e la sicura popolarità tanto di ┌nzemmula┐ che di ┌ insieme┐ parlano a vantaggio dell’origine indigena di entrambi. Abbiamo a che fare con due esiti divergenti di *INSEMUL: in un caso la -L dilegua e la vocale di uscita è adattata alla finale di avv. e cong. (come, dove, mentre ecc.; non convince *INSĬMUL X SĔMEL di Rohlfs, § 51), nell’altro la -L si è conservata ed ha dato luogo ad una vocale di appoggio (cfr. Lausberg, § 562), mentre -U- atona a volte è conservata, a volte dilegua, con normali sviluppi di -M’L- (cfr. gli esiti di FLAMMULA [REW 3353] e TREMULARE [REW 8879]). Già in lat. è attestato simul cum prep. (cfr. ErnoutMeillet l.c.). La diffusione dell’uso preposizionale ha determinato un ipercaretterizzato insemblaménti: ante 1322: «paria… ki tuctu lu mundu insemblamenti fossi recoltu in unu radiu de sule» (SGregoriu 72.15; ci sono pure le forme insemblamente, insemblimenti, insemblementi: cfr. gloss.; a 98.27 il senso pare ‘subitamente’ e non insieme); altri ess. poi in ValMax 4.2.15; Eneas (cfr. gloss.); Regole (cfr. gloss.); SposMatteo (cfr. gloss.); Poesie (cfr. gloss.); cfr. CorpusArtesia. Ma anche questa forma ebbe uso preposizionale: così già in Guido delle Colonne (Batt 8, 100a; Panvini 88) e poi ante 1322: «è coniuncta la rasuni insenblamenti cu la fidi» (SGregoriu 130.31; cfr. anche 114.18); poi Eneas 2.14; Regole 52.12. Ambrosini 188 dice insemblamenti gallicismo (cfr. ensemblament od nel 1165 ca.: FEW 4, 716b), ma anche questo è tutt’altro che sicuro (cfr. it. ant. insembramente in Batt l.c. e Monaci 142.34). ’nsimmulári v.tr. e rifl. ‘raccogliere, riunire’: ante 1322: «pàrsili di vidiri quasi tuctu lu mundu insimblatu sucta unu radiu di suli» (SGregoriu 135.34; a 53.28 il ms. tosc. F ha insembiò per aiunse di R); ante 1337: «et cussì si insimblaru tucti killi li quali divianu sagictari la dicta palumba» (Eneas 5.40; cfr. G.5); sec. XV: «Di quilli chi senza comandamentu di l’abbati si inzemblanu cum li escomunicati» (Regole 83.9 e 11; cfr. 102.27); 1471: «multi gran dompni virgini cu amuri / cun ipsa si insimblaru in quilla via» (Poesie l. CIX.4; per altri ess. cfr. gloss.); 1500 ca.: «Essendo tutti illà insemblati / cum lo cavaler beatu» (VCorrado in Avolio 178); 1519: «insimbulari: commisceo, coniungo, coaduno» (Scobar 56v); 1752 ‘congiungere, mescolare’ dBono 2, 516 e poi fino a Mort 2, 32 e VS 3, 366 (anche da Vizzini); 1839 intr. ‘far società’ Rocca 230 e poi fino a NicDUr 180 e VS l.c. (da Camastra); 1868 tr. ‘accoppiare (persone o cose)’ Tr 653 e poi fino a NicDUr l.c. e VS l.c. (1857 AvolioCanti 49 specifica il rifl. come ‘propriam. dei coniugi che si rappaciano dopo che sono stati in dissidio’ e così poi TrV 288, fino a NicDUr l.c. e VS l.c. ‘id.’ (anche da Comiso, Giarratana e Ragusa) e ‘andare a convivere more uxorio’ (da Pantelleria); 1920 De Gregorio, StGl 7, 184 specifica la forma di Milazzo nzimbrári come ‘celebrare il matrimonio in chiesa’, e così poi Pitrè 68, REW 4465 e VS 3, 365 s., dove anche tr. ‘unire; mescolare’ (da Roccella 57 Valdèmone e Rodì), e rifl. ‘convivere more uxorio’ (da Roccella Valdèmone); 1877 rifl. ‘accomunarsi’ TrV l.c. e poi anche NicDUr l.c., dove anche tr. ‘accozzare’. Dal 1844 Mort l.c. anche ’nsimulári, che giunge a NicD 563; VS 3, 366 ha nzimulári v.tr. e rifl., nei suoi significati principali e in diverse localizzazioni, nzimmulïári v.tr. ‘mescolare, mischiare’ da Marsala, e nzimulïárisi v. rifl. ‘mischiarsi, far lega stretta’ (da Pantelleria); inoltre nzemulári v.tr. ‘riunire, conglobare’ VS 3, 363 (da Tri); nzimilári ‘riappacificarsi, di coniugi che tornano a vivere insieme dopo un periodo di separazione’ ib. 366 (da Palazzolo Acreide); nzimbulári ib. (da AA, Mal e Spat); nzummulári ‘raggranellare’ ib. 379 (da Scicli e Vizzini). Cfr. piazz. ’ns’mulè ‘unire, congiungere insieme’ (Roccella 180). Cfr. Matera nźəmməlá ‘mettere insieme, raggranellare’ (Festa 275); sal. nzəmulá ‘raggruzzolare’ (VDS 2, 431); bit. nzemuèue ‘accumulare, ammucchiare, ammassare; raggranellare, racimolare’ (Saracino 299); rub. nzemuò ‘raggranellare, raggruzzolare’ (Di Terlizzi 145); molf. nzemelà ‘mettere insieme, raccogliere accumulando’ (Scardigno 355). FaréSalv 4465 aggiunge il bell. sambiar. AlessioLatinità 313 colloca le nostre voci sotto ASSIMILARE, chiaram. inadeguato (ma REW 731 è in verità *ASSĬMŬLARE; ancor peggio l’INSOMMOLARE (sic) di Saracino l.c.). ’nsimmulátu agg. ‘accoppiato, mischiato’ (1752, dBono 2, 516 fino Tr 654, dove anche nsimuláto); ’nzimmuláto ‘id.; del contadino quando coltiva un fondo a mezzadria’ 1990, VS 3, 366, il 2° senso a Agrigento (da ALI). ’nzimbráti agg. ‘di due, ad es. pastori, uniti in società’ (1990, VS 3, 366, da Roccella Valdèmone). ’nzimbráta s.f. ‘celebrazione del matrimonio’, a Milazzo (1920, De Gregorio, StGl 7, 184 e poi Pitrè 68, ripreso da VS 3, 366). assimmulári v.tr. e rifl. ‘riunire’: 1519: «assimbulari vide insemblari: misceo» (Scobar 15r); 1785 id. Pasq 1, 155 (da Scobar); 1868 assimmulari ‘v. insimmulari’ Tr 92, poi TrV 82 e VS 1, 302, dove anche: assimmarari ‘unire, congiungere; attaccare’ (da Tri); anzimmulári ‘raggranellare, mettere insieme’ ib. 208 (da Ragusa e Vittoria); assummulári ‘v. assimulári’ ib. 309. Non pare esito diretto di ASSĬMŬLARE (REW 731). ’ntamári v.intr. ‘essere come sbalordito’ (sec. XIII ca., in forma it.; 1519, il part. ’ntamatu come agg.), prestito dal fr. ant. entamer ‘ferire’, con sviluppo semantico locale, connesso con sporadiche voci cal., nap., irp., sal. e abr. (ma anche ancon.), per lo più col senso ‘magagnare, diventare internamente ammalato (di vegetale)’. In Pier delle Vigne (1a metà sec. XIII) leggiamo: «mi passao lo core e m’à ’ntamato» (PSs 10.4, v. 6), inteso in genere ‘ferito, leso’, ma potrebbe essere ‘sbalordito, incapace di fare alcunché’; un anonimo ha: «già me no ’ntamo» (PSs 49.54, v. 8), inteso ‘mi tormento’; 1519: «intamatu v. spiridatu: demoniacus» (Scobar 57r); 1752 ’nt. ‘allibire, sbalordire’ dBono 2, 522, poi fino a TrV 289 e VS 3, 296 (da Camastra, Casteltermini, Catenanuova, Grammichele, Pantelleria e S. Caterina Villarmosa); ib. 297 anche la forma ntammári (da Bronte); ib. 296 aggiunge i sensi ‘balzare di soprassalto sorpreso; essere congestionato dal pianto convulso, di bambino’ (da Regalbuto); ‘spaventarsi’ (da Catenanuova e Regalbuto), e ‘intristire, seccarsi, dei 58 germogli a causa del gelo’ (da Alia). Ib. anche come v. ass. ‘della corrente d'aria che, facendo raffreddare il sudore del corpo, produce brividi di freddo’ (da Ragusa); v.tr. ‘sbalordire, far rimanere attonito (da Tri, Barrafranca e Mòdica); spaventare (da Agira e Assoro); del vento impetuoso: far disseccare le messi (da Ragusa); impiagare, provocare una piaga (da Tri); pestare, malmenare (da Lìmina)’; v. rifl. ‘spaventarsi (da Gagliano Castelferrato e Regalbuto); provare dolore in qualche parte del corpo in seguito ad un urto (da Vinci); del frumento, essere infestato da erbe parassite (da Mistretta)’. Il part. ’ntamátu, dopo Scobar, è in dBono 2, 522 ‘attonito, sbalordito’ e poi fino a NicD 564 e VS l.c. (da Altofonte, Assoro, Licata, S. Cataldo e Vizzini); Mort 2, 34 a ‘balordo, stupido e che non sappia ciò che ei si faccia’, ripreso nei vocab. successivi, aggiunge ‘disattento, sbadato’; in VS l.c. il part. riprende anche gli altri sensi principali del verbo, e in particolare vengono segnalate numerose localizzazioni per il senso ‘che ha abitualmente l'aria melensa’. La forma intamátu nel 1786 in Pasq 2, 340 e poi in Tr 496. – Cfr. piazz. ’ntamé intr. ‘stupidire’ e ntamà ‘stupido, sbadato’ (Roccella 180); aid. ntamè ‘intontire’ (Raccuglia 282). Cfr. regg. ntamari tr. ‘viziare; fare male ad alcuno specialmente nell’epidermide’, intr. ‘intorpidirsi’, rifl. ‘crescere a stento, imbozzacchire, incatorzolire’, cos. id. intr. ‘aver gran fame’ e regg. ntamatu ‘malsano, magagnato, guasto; che cresce a stento’ (NDDC 477); nap. ntamare intr. ‘magagnare’ e ntamato ‘sano di fuori ed ammalato di dentro’, ma anche ntammare intr. ‘ammalarsi dentro, non parendo da fuori; esser magagnato’ (D’Ambra 265; solo l’agg. in Andreoli 265; Batt 8, 165c ha intamare ‘intaccare, compromettere, danneggiare’ nel Genovesi); irp. ntamà ‘cominciare’ (Nittoli 153); Trevico ndamà ‘manimettere (una salsiccia)’ e ‘spillare (una botte)’ AIS 5, 1001 e N; Montella ndamárisi ‘ammalarsi’ (ID 5, 1929, 123); lecc. ntamatu ‘sporcato, macchiato’ (VDS 2, 421); abr. ndamarsə ‘magagnarsi, propr. degli alberi; deperire in salute per interno malore’ (Giammarco 3, 1252); Arcevia ntamenasse ‘magagnarsi’ (REW 4478); tosc. intamato ‘guasto’ (Cella 240 ). La provenienza di sic. ’nt. dal fr. entamer è già indicata da Vinci 172 e TrV 289 ed è accolta più di recente da De Gregorio, StGl 1, 1899, 106; Bezzola 222; DEI 1, 218; Rizzo, Boll 2, 1954, 130-1; Jost 62; NDDC 477 e VDS 2, 421. Non mancano però i dissenzienti. Prescindendo dalle idee stravaganti di Gioeni 201 (dal gr. θασμάζω ‘mi meraviglio, stupisco’, cui accenna anche De Gregorio l.c.; ma si vedano in LGII 178 i suoi continuatori otr.) e di De Gregorio e Seybold, StGl 3, 1903, 243 (dall’ar. ṭamec ‘cupidigia, avidità, eccessiva bramosia’; contro cfr. Scheegans, Z 29, 1905, 486), c’è l’idea che le voci sic. ed it. merid. provengano direttam. dalla base lat. del fr. entamer, cioè da ĬNTAMĬNĀRE ‘macchiare’ (sec. IV). Ne dubitava REW1 4478, certo perché la distanza semantica è sensibile: fr. entamer (sec. XII) è ‘blesser qn, endommager, faire une fente profonde’ o ‘couper, enlever un premier morceau d’une chose mangeable (p. ex. pain)’ o ‘commencer, entreprendre, engager (un procès, une querelle, un ouvrage)’ (FEW 4, 731b-733a). Gli dette ragione Rohlfs, ARom 9, 1925, 169, spiegando la difficolatà fonetica con una ricostruzine intam-inare → intam-are (così anche Merlo, ID 5, 1929, 123n) ed invocando il parallelo di it. merid. allumare < LUMEN, cal. carmare < CARMEN, it. colmare < CULMEN. È singolare che poi Rohlfs abbia abbandonato o trascurato 59 questa spiegazione, accolta da REW3 4478 (e cfr. FaréSalv 4478), con la sola eccezione dell’it. ant. (cioè verosimilm. dei poeti sic. e del Villani), e da Wartburg, FEW 4, 733b-734a n6 (ma il cal. ntamari ‘guastare, viziare’ vi è considerato gallicismo). In realtà non c’è prova di -m’n- > -m- in Italia, come illustra Rohlfs, § 268 (l'esito indigeno è nn-). Degli esempi di ARom l.c., colmare è denom. (cfr. DELI2 359c) e gli altri due sono francesismi (→ aḍḍumari e lo stesso Rohlfs, § 268). Gallicismo sarà dunque anche la voce sic. ed it. merid., anche se si spinge fino ad Arcevia (AN); il senso ‘ferire’ e quello ‘cominciare’ non pongono problemi, gli intr. ‘sbalordire’ (già ant. ‘struggersi’) e ‘magagnare’ sembrano sviluppi indigeni di entamer ‘blesser’, spesso usato riflessivam. (cfr. FEW l.c., 731b-732a). In stretto rapporto con l’area gallorom. è l’area it. sett. (dal piem. alla Valtellina) di ┌intemná┐ ‘intaccare’ e ‘cominciare’, per cui cfr. Flechia, AGl 2, 1876, 357; Jaberg, RLiR 1, 1925, 143; FEW l.c. 733b. ntamaméntu s.m. ‘attonitaggine, sbalordimento’ (1752, dBono 2, 522 e poi Pasq 3, 321 e Tr 654), ‘sbadataggine’ (1844, Mort 2, 34). nuára s.f. ‘orto irriguo’ (1312, nella forma lat. nohara; 1600 ca. nella forma rom.), probabilm. relitto dell’ar. nuwwār, generalm. ‘fiore; germoglio’, ma che fu usato anche per ‘orto irriguo’; è voce solo sic. 1312 Palermo: «milingianis, que harabice nohara dicuntur» (Pandette 18); sec. XIV-XV Palermo noharia ‘jardin irrigué’ e noharia e nuara ‘potager irrigué’ BrescJardins 68 e 81; in particolare nel 1429 a Palermo si parla di una «zappa fluminis Ambleri et Parci» in una noharia (ib. 65 n4); 1600 ca Palermo: «nelle noare fuori porta di san Giorgio» (Diari 1, 133); 1752 n. ‘orto seminato di melloni d’acqua’ e ‘luogo dove son piantate zucche’ dBono 2, 533 e così fino a NicDUr 184, RohlfsSuppl 76, VS 3, 339 e GenchiCannizzaro 197, ma da Pasq 3, 331 in poi si chiarisce che n. è propriam. ‘orto irriguo’ e si specifica come n. di muluni o di cucuzzi ecc. DeGregorioSeybold, StGl 3, 1903, 243 ha n. ‘terreno coltivato a cocomeri’ e ‘le piante dei cocomeri’; inoltre VS l.c. ci restituisce anche i sensi ‘zucca, la pianta’ (da Longi), e ‘primizia, frutto o ortaggio maturato in anticipo e messo sul mercato nei primi giorni di produzione’ (da S. Vito Lo Capo), oltre a ‘scampagnata nel periodo della raccolta dei cocomeri’. La forma nuvára 1868 Tr 660, poi in AIS 7, 1354 N a Vita, e in VS 3, 349 (anche da AA, Av e Poggioreale). Inoltre noára Pasq 3, 307, ripreso da VS 3, 285, e novála ib. 289 (da Man). Amari 2, 512 n1 dà come base l’ar. nuwwār e questa origine è ripetuta da Picone 412; TrV 293; De GregorioSeybold l.c.. Ma già questi ultimi osservavano che l’ar. nuwwār vale ‘fiore’ (così infatti Wehr 1009; NallinoTraini 3, 1582; Dozy 2, 736a; Harrell 105, e cfr. malt. nwar ‘fiore, germoglio d’albero o di pianta; muffa’ Barbera 3, 852; Kalepin 227) e DAlCalv 279-80 escludendo che possa mai aver significato ‘cocomero’, sicché preferiscono come base ar. noqrat ‘terreno basso, rotondo e di poca estensione’ o forse nāchūrat, che contiene l’idea di irrigazione (cfr. nuqra ‘pit, hollow, cavity, hole; depression’ Wehr 990; la seconda voce è nācūra ‘noria, Persian wheel’ ib. 979 e NallinoTraini 3, 1531). Per quanto AlessioProblemi 332 ammetta la provenienza da nuwwār (seguendo 60 Lokotsch 1582) e BrescJardins 81 da nācūra, sembra aver ragione Pellegrini 269 a considerare assai incerte le proposte di etimi ar. (così anche RohlfsSuppl 76) ed a preferire la base lat. NOVUS, dalla quale come der. lo ricavava già REW 5972, seguito da Giuffrida 79. In verità al lat. aveva pensato già Pasq 3, 331-2, ma postulando NOVALIA; cfr. REW 5966 NOVĀLE, con continuatori it., logud., friul., ant. fr. ed iberorom. Ed a NOVĀLE tornava AlessioLatinità 419, ipotizzando cambio di suff. Nello stesso ambito si muove poi Rohlfs, Boll 9, 1965, 93-4, pensando a (terra) novaria, che potrebbe essere elemento lat. autoctono se il topon. Novara, galloit. da porre accanto al piem. Novara, non inducesse a considerare n. prestito galloit. (così anche RohlfsSuppl 76). Già AlessioProblemi l.c. staccava però giustam. la nostra voce dal piem. Novara < NOVĀRIA e dalla Novara sic., che nel 1308-10 è chiamata in lat. Naucaria, Nucaria, Nugaria e quindi deve provenire da NUCĀRIA ‘noceto’ (così anche Peri, Bollettino storicobibliografico subalpino 57, 1959, 278: nei documenti dei sec. XII e XIII appare come Nucara o Nogara, e come Naria o Noara solo nelle copie di Pirro, da cui (o da Amico 2, 229n) RohlfsSuppl l.c. ha un sospetto Nohara del 1144). Sorprende però che AlessioLexicon 195 contraddica ambedue i suoi precedenti studi, riunendo il topon. sic. ed il piem. e riportandoli, con n., a *NOVĀRIA. Orbene, la distinzione da fare tra i due topon. e tra questi ed il s. è confermata dall’osservazione che n. è voce, a quanto sembra, di area sic. occ. e non or. (Novara è invece in provincia di Messina). Un lat. (terra) *novaria non è attestato né probabile, esistendo vivissimo novalis, -e, né il cambio di suff. è confortato da paralleli (-L- > -rin Sicilia è della zona galloit.: cfr. Rohlfs, § 221) né comunque il senso potrebbe essere lontano da quello di novale ‘campo da poco messo a cultura’. Le basi lat. proposte sono dunque insoddisfacenti morfologicam. e semanticam. Pare sia sfuggito che Amari, di solito assai generico nell’individuazione degli arabismi, faceva questa volta un riferimento preciso, al Libro de agricultura del sivigliano Ibn al-‘Awwām (sec. XII), ediz. di Madrid, 1802, 2, 213. La parola nuwwār ha dunque avuto lo stesso valore della sic., anche se esso non è stato registrato dai lessici e sarà stato limitatam. diffuso, tanto da non esistere oggi in malt.; è vero che in questo passo, a differenza di altri, Ibn al-‘Awwām non si riferisce esplicitam. alla Sicilia, ma nulla esclude che questo sistema di coltivazione irrigua, altrove da lui descritto proprio come sic. (cfr. AmariBibl 2, 305-6), vi avesse tal nome. Che la parola sia ar. è confermato del resto esplicitam. dall’attestazione pal. del 1312, anche se sorprende che n. fosse il nome ar. della melanzana (forse ‘fiore’ → ‘germoglio’ → ‘frutto in genere’ → ‘melanzana’ → *‘orto di melanzane’ → ‘orto irriguo in genere’). nuaráta s.f. ‘sin. di nuara’ (1752, dBono 2, 533 e poi solo Tr 657 e TrV 294, da qui ripreso in VS 3, 339). Esiste pure la forma nuariáta (1868, Tr l.c. e VS l.c.). nuaráru s.m. ‘ortolano’ (1789, Pasq 3, 332 e poi sempre fino a NicD 567 e VS 3, 339, anche da Casteltermini). Il sinon. nuarótu è nel 1868 in Tr 657 e poi solo in TrV 294, ripreso infine da VS l.c. núḍḍu agg. e pron. ‘nessuno’ (ante 1322, nella forma nullu), continua il lat. NŪLLUS agg. ‘nessuno’, che già in lat. tendeva a soppiantare nemo 61 pron. ‘id.’ e lo ha eliminato nella Romània occ. e in Italia, salvo ad essere poi confinato in aree recessive, come la Sicilia, da composti di unus (come ┌nessuno┐). Già nel lat. della Sicilia med. nullus è frequentem. usato come pron.: 1092 Messina: «et nullus unquam potestatem habeat regimen ipsum impedire» (DocEpNorm 8); 1182 Palermo: «Sanctientes ut nullus heredum nostrorum aut regum succedentium nobis… aliquid infringere aut evacuare presumat» (ib. 177); 1200 (?) Palermo (?): «ipsius loci quietem nullus audeat in fututrum temere perturbare» (HistDiplFrid 1, 44); 1224 Catania: «nullus ejusdem judicialem causam spernat» (ib. 2, 418), ecc. I poeti sic. hanno nullo agg. e pron. ‘nessuno’ (ad es. rispettivam. PSs 1.18, v. 11 e 1.7, v. 28). In sic. di nuḍḍu pron. cito pochi esempi, integrabili dal CorpusArtesia: ante 1322: «lu episcupu commandau… ky chistu miraculu non lu divissi diri a nullu» (SGregoriu 23.28; cfr. 24.2 e 46.14); ante 1337: «non culpari a nullu nin ti lamintari» (Eneas 2.98; per altri ess. cfr. gloss.); 1341 S. Lucia del Mela: «Di li nostri… non fu tuccatu nullu» (VNS 121); 1358: «nullu di li cavaleri si havia misu in navi» (Conq 28.7; per altri ess. cfr. gloss.); 1373: «senza fidi nullu vivi beni» (SposMatteo 141.11; per altri ess. cfr. gloss.); 1380: «lu orgoglusu surgidatu cridi plui valiri ki nullu altru, et potiri et sapiri plui ki nullu altru» (Vitii 32. 12-3; per altri ess. cfr. gloss.); 2ª metà sec. XIV: «nullu non si poti ammuchari davanti la fachi mia» (Boll 4, 1956, 45); 2ª metà del sec. XIV: «ki nullu non presumma di tentari ad alcunu per intrari a quista cumpangna ordinata a processioni» (Regole 12.10; per altri ess., anche posteriori, cfr. gloss.); 1417 Catania: «a nullu sia licitu dari li colpi ki navissi ad alcunu altru» (ASSO 2, 1905, 221); 1420 Sciacca: «nullu paga duana durante lu dittu terminu» (CapSciacca 9); 1423-28 Palermo: «nullu si arrisica ad extrahiri et navigari frumenti» (TestiQuattrocento 30); 1501: «nullu di li populanti» (GattusoMezzojuso 37); 1519: «nullu v. ninxunu: nullus» (Scobar 71r); 1752 nuḍḍu ‘nessuno’ dBono 2, 535 e poi sempre fino a Cav 133 e VS 3, 343 (da S. Alfio; ib. anche nuḍḍru, da Pantelleria); dal 1853 Mort2 593 attesta don n. (poi anche zu n.) ‘dicesi a persona vile e abietta, ad un disutile e inetto’, poi fino a NicD 568 e VS l.c. (a Palermo, Licata e S. Alfio); 1875 n. ô munnu ‘persona incalcolabile’ AvolioCanti 49. Do adesso qualche attestazione dell’uso come agg., integrabile con CorpusArtesia: ante 1322: «Deu, alla voluntate de lu quale nullu homu poti resisteri» (SGregoriu 33.10; per altri ess. cfr. gloss.); ante 1337: «lu vostru re nulla potestati havi in lu meu regnu» (Eneas 1.20; per altri ess. cfr. gloss.); 1351 Palermo: «nullu bankeri» (Rinaldi 12.8); 1358: «senza nullu periculu passaru lu Faru di Missina» (Conq 13.1; per altri ess. cfr. gloss.); 1373: «nullu santu homu per iusticia mori» (SposMatteo 25.10; per altri ess. cfr. gloss.); 1380: «non est nullu peccatu sì grandi ki Deu non perdoni» (Vitii 40.78; per altri ess. cfr. gloss.); 2ª metà sec. XIV: «qualuncata pirsuna… sparlassi y murmurassi… contra di nullu frati ki in la dicta religioni servissi…» (Regole 25.4; per altri ess. cfr. gloss.); 1426 Palermo: «di nullu tempu… a nullu iocu…» (TestiQuattrocento 34); 1519: «nullu modu: nequaquam, nullatenus» (Scobar 71r); 1585: «per cui ma[i] nuddo spasso mi pigliava» (Boll 3, 1955, 165, ott. 103); poi nei vocab. (cfr. sopra; VS l.c. documenta l'agg. a S. Alfio) e in tutta l’isola in AIS 8, 1957 ‘non lo trovo in nessun luogo’ (cfr. anche a-nnuḍḍṛa parti ‘in nessun luogo’ VS l.c.). In AIS 62 l.c. ┌nuḍḍu┐ figura anche nei P. galloit. ed infatti il piazz. ha nudd pron. ‘nessuno’ (Roccella 183) e l’aid. nudde ‘id.’ (Raccuglia 286). Cfr. cal. nuḍḍu pron. e agg. ‘nessuno’ (NDDC 482; confermato da AIS l.c.); irp. nuddo agg. ‘nulla, niente’ (Nittoli 155); sal. nuḍḍu pron. e agg. ‘nessuno’ (VDS 2, 428); molf. nudde pron. ‘nulla’ (Scardigno 353); abr. nullə agg. ‘nessuno’ (Giammarco 3, 1352, con un es. del sec. XVI come pron.); Ascrea (Rieti) nullo (ID 16, 1940, 108); it. ant. nullo pron. e agg. ‘nessuno’ o ‘alcuno’ (sec. XIII: DEI 4, 2610); log. nuḍḍu agg. ‘nessuno’ (DES 2, 174b); fr. nul ‘aucun, pas un’ (sec. IX: FEW 7, 232a); ant. prov. nul ‘id.’ (ib.); cat. nul(l) agg. ‘que es redueix a no-res; que no té cap validesa o força legal’ (sec. XIII: DCVB 7, 807a; DECLlC 5, 942ab); sp. ant. nul agg., mod. nulo ‘id.’ e pron. ‘ninguno’ (DCECH 4, 232ab); port. nulo agg. (Machado 4, 226b). La base è il lat. NŪLLUS agg. ‘nessuno’, che nel corso della storia del lat. sostituì sempre più nemo (ErnoutMeillet 450; per il lat. med. cfr. NGloss 1498-1501), eliminandolo nella Ròmania occ. e in Italia, salvo a dovervi affrontare la concorrenza di NE ĬPS’ŪNUS (REW 5883; in sic. nixunu è già in SGregoriu 67.18; poi 1325 Palermo, nella forma nischunu, Rinaldi 3-12, etc.: cfr. CorpusArtesia). In Italia oggi il nostro tipo ha una distribuzione geografica tipicam. arcaica. Cfr. REW 5992; AlessioLatinità 420; FEW 7, 233b; Rohlfs, § 498; FaréSalv 5992. ’nnunnáta s.f. ‘gelatina di pesciolini minutissimi, latterini’ (1593, nella forma nonnata, ma già prima [1537] come agg.), voce sic., cal., lecc., nonché della Liguria occ. e di Nizza, da un lat. *NON NATA ‘id.’, calcato sul gr. ἀθύα ‘id.’. Nei calmieri pal. del pesce del sec. XVI abbiamo nunati e nonati (dal 1537), nonnati (dal 1542), nunnati (dal 1545), sempre apparentem. agg. di pixi, e infine nonnáta (dal 1593) e nunnáta (dal 1595) s.f.: Rinaldi, BALM 16-17, 197475, 48; MaggiorePerni 575 aggiunge «nunnata» e «nonnata di acqua dolce» a Palermo nel 1614; 1752 nunnáta e ’nnunnáta ‘sorte di pesciolini’ dBono 2, 502; la 1ª delle due forme è poi sempre fino a NicDUr 184, RohlfsSuppl 76 (da S. Stefano di Camastra), nonché in Saitta 40, Traina, FIt 3, 1928, 288 (da S. Elia), e VS 3, 345 (‘bianchetti, novellame di sardine e acciughe’), che aggiunge Favignana, Marineo e Patti, oltre a Malfa; la 2ª forma è pure registrata fino a NicDUr 178, Saitta l.c. e VS 3, 283 da Altofonte, Barcellona Pozzo di Gotto e Patti, oltre che a Palermo; 1844 ‘moltitudine di fanciulli o oggetti minuti’ Mort 2, 27, poi fino a NicD 561 e VS 3, 345 e ib. 283. Quanto al pesce, Saitta l.c. spiega che il termine (come il sinon. → muccu) indica una quantità di pesci minutissimi, appena nati; non specificato, si riferisce in genere a sardine; altrimenti si dirà n. di anciova, n. di cicireddu (cfr. anche AssenzaZool 74), ecc. Il nome è però passato anche a singole specie: n. di lúvaru (o lúvuru o lúuru) è ‘Latrunculus albo, ghiozzo bianco’ (1902, Saitta 41; AssenzaZool 137, ripresi in VS 3, 345), ‘Atherina hepsetus’ e ‘A. mocho’ (1908, Z 32, 243), ‘Aphya pellucida, rossetto’ (1934, Lo Presti, FIt 9, 97, nel golfo di Catania). Altre forme per il senso generale di ‘bianchetti, novellame di sardine, acciughe, ecc.’: nannáta s.f. (1902, Saitta 40, poi VS 3, 10), ’nnannáta (1868, Tr 649, poi TrV 286, Saitta l.c. e VS 3, 264, anche da Giardini e S. Stefano di Briga); nunnátu s.m. 63 (1882, Avolio 77 e poi LaRosaAllotropi 288, ripreso da VS 3, 345); nannátu (1990, VS 3, 10, da Acicastello e Piedimonte Etneo); ’nnannátu (1839, Rocca 228, poi Cav 132 e VS 3, 265, da Castiglione di Sicilia, Catenanuova, e nei dialetti etnei sud-or., da Tropea); nnonnátu 1990 VS 3, 279 da Riposto. Inoltre VS 3, 283 regista anche nnunnu con lo stesso senso, da Siracusa. Cfr. piazz. nunnada ‘neonata’ (Roccella 183). Cfr. regg. (n)nannata e nonnata, cal. centro-sett. nunnata e ninnata, catanz. nennata ‘pesciolini di mare, nati da poco, che si pescano in grandi masse compatte’ (NDDC 450); lecc. nannata ‘insieme di pesci neonati’ (VDS 2, 383); it. nonnati m. pl. ‘pesciolini nati da poco’ (1875: DEI 4, 2598; sicilianismo; nell’it. regionale di Sicilia abbiamo catan. neonato e pal. neonata ‘id.’: TropeaItaliano 63); lig. nonnati gionchi ‘piccoli pesci conosciuti col nome di avannotti’ (Rossi 1, 120, senza informare su data e localizzazione); Nizza nounat m. ‘atherina minuta’ (FEW 7, 21a; da qui fr. mod. nonnat ‘id.’, dal 1681). Ad Avolio 77 (che lo definisce ‘il frutto di un parto immaturo’) sembrò prestito dal cat. nonat, a Gioeni 200 dal fr. nonnat; ambedue pensano certo ad una base ultima lat. NON NATUS. Che si tratti di un prestito non è però verosimile: la voce cat. non si riferisce a pesce (cfr. → ’nnunnatu) e quella fr. è solo il riflesso di un termine dial. di area limitata. Ciò però non toglie plausibilità alla base NON NATUS, accolta infatti da Barbier, RDR 3, 1911, 142 e poi da De Gregorio, StGl 7, 1920, 252. L’alternativa *NEONATUS doveva però circolare, perché nel 1907 è accettata da LaRosaAllotropi 288, è implicita in Salvioni, RIL 40, 1147 (la nostra voce appare come es. di dileguo di i) ed è argomentata solidam. da Schuchardt, Z 32, 1908, 242-4: *neonatus sarebbe calcato sul gr. νεογέννηηος» e passerebbe a *nonatus come nofitus da neofitus e Todosius da Teodosius ecc.; si distingue tra NON NATUS ‘nato per parto cesareo’ (da cui le voci che citeremo sotto → ’nnunnatu) e *NEONATUS, detto di pesci (dall’uso come collettivo si sviluppò quello come denominazione di pesci specifici), che stabilisce un legame Sicilia-Francia merid. che si ritrova per minusa e nurrimi. Questa articolata spiegazione passa a REW 5888; AlessioLatinità 417, FEW 7, 22b n15 (pensa a grecismo lat. irradiato da Marsiglia e dalla Sicilia); LGII 347 (e anche nei più recenti vocab. di Rohlfs). Se De Gregorio l.c. la rifiutava, era perché in sic. non esiste il tipo ┌ neonato┐ (il che è vero, malgrado VEI 691; → nutricu) e perché essa non spiega -nn-. Ben più convincente è il rifiuto di Prati (DizMar 525; VEI l.c.), che osserva come fin da dBono 2, 502 (da Spat) si fosse segnalata la corrispondenza tra sic. n. ed it. afui, apui ‘id.’, dal gr. ἀθύα ‘id.’, da α privativo e θύω ‘genero’, nome di vari pesciolini, dovuto alla convinzione (ancora non scomparsa) che essi nascessero da uova formatesi da sé nelle acque e non per generazione: la voce lat. è dunque un calco sul greco, come aveva intuito Schuchardt, ma la parola gr. suggerita da Prati ha già il nostro senso, sicché risolve il problema semantico del lat. e del rom. Quest’ottima spiegazione è stata poi ripresa da DEI 4, 2598 e AlessioLexicon 281. Per il senso ‘moltitudine di fanciulli’ Schuchardt l.c. 244 ricordava che gr. ἀθερίνα era già ‘bande de gamins’. annunnáta s.f. ‘v. nunnata’ (1785, Pasq 1, 108, da Spat); torna solo in VS 1, 202 (da Agrigento), assieme al traslato a. di iardinu ‘i germogli fiorali di alcune cucurbitacee, che si usa mangiare indorati e fritti [senso dovuto 64 all’uso di mangiare la n. di pesce sotto forma di polpette]; i fiori ancora teneri delle zucche’. ’nnunnátu agg. ‘v. annunnatu’ (1752, dBono 2, 502, poi fino a Tr 651 e VS 3, 283); ‘da poco nato, neonato’ (1868, Tr 651 e poi fino a NicD 561); ‘si dice ad uomo piccolo, rachitico’ (1875, Mac 212, poi TrV 287 e VS l.c., anche da Floridia e Siracusa). La forma nunnátu è nel 1789 in Pasq 3, 337, poi in Mort 2, 40, e ripresa da VS 3, 345. Il composto annunnátu1 agg. ‘uovo nonnato’ è nel 1751 in dBono 1, 54v e poi in Pasq 1, 108 e VS 1, 202; 1907 ‘di persona, di animale e di piante, specialmente di tenera età, che non abbiano avuto un regolare sviluppo e siano poco vegnenti e deboli: stento’ LaRosaAllotropi 288. Cfr. nap. nunnato ‘nonnato (di uova)’ (Andreoli 268) e nonnatura ‘feto mostruoso, mal confermato’ (Galiani 1, 267; D’Ambra 264 ‘aborto’ e ‘omiciattolo inetto’); it. nonnato, in carta d’agnello n. (Cavalca), carta non nata (D’Alberti) e nonnata (Grazzini) ‘carta fatta di pelle di animale tratto dal ventre della madre prima che sia partorito’ (VEI l.c.); cat. nonat ‘no nascut naturalment, sinó extret del claustre matern mitjançant l’operació cesària; vedell trobat dins el ventre d’una vaca en mater-la; cuiro del dit vedell’ (DCVB 7, 782a, ricordando il cat. Sant Ramon Nonat; DECLlC 5, 905b); sp. nonato nel 1º senso cat. e noñato nel 2º (DCECH 4, 203a). Per il senso ‘rachitico’ cfr. già gr. ἀθσής ‘inetto; non favorito da natura; che non vien su, non cresce’. annunnátu s.m. ‘di agnello o capretto estratto dal corpo della madre prima della nascita’ (1977, VS 1, 202, da Av). ovannunnáti s. ? ‘v. ovalora [‘organo nella femmina, in cui son i germi quasi delle uova: ovaia’]’ (1868, Tr 681 e poi TrV 301, ripreso da VS 3, 420, che lo dà come s.m. pl.). nutricári v.tr. ‘allevare’ (ante 1322), continua il lat. NŬTRĪCĀRE (la quantità documentata nel lat. class. era però NŪTRĬCĀRE), assieme a voci sparsam. attestate in Italia, nel retorom. e nel lad., in Sardegna, in Francia merid. e nel macedorum. Appare già, come tr., nei poeti sic. (PSs 11.3, v. 27; 28.4, v. 44) e più spesso nei siculo-toscani; il senso pare ‘nutrire’ piuttosto che ‘allevare’. Ante 1322: «li gallini chi mia matri nutrica, la vulpe sì nde lle porta et maniasìlle» (SGregoriu 28.2) e «a nnuy intraveni comu ad unu garzuni ki naschissi e nutricassisi in una obscura prisuni» (ib. 129.18; nonché passim: cfr. gloss.); ante 1337: «intrau in lu boscu et nutricavasi di lacti di besti salvagi et di sucu di erbi» (Eneas 11.56) e «li feri tigri ti nutricaru» (ib. 4.45) e «qual pagura vi nutrica tanta pigricia in li vostri animi?» (ib. 11.75; per altri passi cfr. gloss.); ante 1337: «Tanaquil, mullyeri di lu rigi Anciu, … lu nutricau a modu de fillyu» (ValMax 1.4.9) e «Tulliu Hostilliu, standu a la naka, nutricatu fu in casa di furitanu» (ib. 3.4.3; per altri passi cfr. gloss.); 1358: «Custuma est di li Sarrachini di nutricari palumbi cum furmentu adulcatu cum meli» (Conq 71.4 e cfr. 10 e 13); 1368: «si illa [la cavalla] esti troppu magra nun po nutricari lu figlu in la ventri» (Mascalcia 570); 1373: «cunchipiri cum peccatu et cum virgogna, et parturiri cum doglia, et nutricari cum fatica» (SposMatteo 352.2) e «et naxa unu di tali semini, et nutrikisi di carni di homini» (ib. 343.17; per altri passi cfr. gloss.); 1380: «[la matri terra] porta et nutrica li porchelli altrusì beni comu fa li rey» (Vitii 84.61) e «quandu l’omu pensa… in quali peni illu fu nutrigatu» ib. 112.14) e «lu 65 diavulu… guarda e nutrica tucti li peccati spirituali» (ib. 32.9; per altri passi cfr. gloss.); post 1455: «si… obtegnu da lu eternu Deu unu figlolu, ti promectu nutricarilu et crixirilu grandi» (SVincenciu 10.5); sec. XV: «eu habitai in quistu desertu, nutricatu di la misiricordia di Deu» (SOnofrio 63, e cfr. 68); numerosi altri ess. antichi in CorpusArtesia; 1519: «nutricari vide criari: nutrio; nutricarisi: alesco; nutricari: creasso; nutricatu per maniari: altilis» (Scobar 71r); sec. XVI: «lo patri et la matri poveri… di la substantia di li figli si digianu nutricari et alimentari» (ConsCastiglione 28); 1752 n. ‘allattare; sostenere; allevare’ dBono 2, 542; il 1º senso poi fino a Rocca 234 e VS 3, 348 (nuṭṛicari) da S. Alfio (anche nella forma nnuṭṛicari ib. 285, da Bronte), il 2º ed il 3º fino a TrV 294 e VS 3, 348 (da Adrano, Corleone, Lèvanzo, Linguaglossa, Pantelleria, Ragusa e S. Alfio) sono comunque vivissimi almeno nella Sicilia occ.; 1789 ‘fare i bachi da seta’ Pasq 3, 338, poi solo in Rocca l.c. e, nella forma nurricari, in VS 3, 346 (da Limina); 1844 ‘secondare alcuna inclinazione, spesso non buona’ Mort 2, 41; non torna altrove, ma è spesso presente negli ess. med. e sempre possibile per traslato; cfr. in VS l.c. anche ‘essere sincero, operare con sincerità’ (da Meli e Av), e ‘non avere colpe sulla coscienza, non avere nulla da temere’ (da PitrèUsi e da Corleone); 1990 ‘curare, prendersi cura’ (ad es. della casa) VS l.c. (da S. Alfio). Cfr. piazz. nutr’chè ‘allevare, nutricare’ (Roccella 183). Cfr. regg. e cos. nutricari ‘nutrire’, regg. ‘allevare i bachi da seta’ (NDDC 483); nap. notrecare ‘nutrire, alimentare’ (Galiani 1, 267; cfr. D’Ambra 264); irp. notrecà ‘id.’ (Nittoli 152); lecc. nutricari ‘dar da mangiare, nutrire’ (VDS 2, 429); abr. ant. (sec. XIII) notricare ‘allevare con cura’ (Giammarco 3, 1347); it. ant. (sec. XIIIXIV) nutricare, no- ‘nutrire’ (DEI 4, 2604 e 2612); per la vasta area sett. (Emilia, Lombardia, retorom. e lad., nonché gen. ant.) cfr. FEW 7, 247a; prov. (sec. XIV) noirigar ‘nourrir; élever (un enfant)’ (FEW 7, 246b); log. ant. nutrikare, log. nurdigare, campid. nurdiai ‘nutrire’ (DES 2, 179b); macedorum. ntric ‘nourrir un nourrisson’ (Papahagi 783). La base è senza dubbio il lat. NŪTRĬCĀRE ‘nutrire (in particolare il lattante)’, ant. ma raro in epoca imp.: cfr. REW 6002 (e FaréSalv 6002); AlessioLatinità 420; DEI 4, 2612; FEW 7, 247a. Le forme rom. postulano NŬ(così REW l.c., AlessioLatinità l.c., DEI l.c., FEW l.c.), come i continuatori rom. di nūtrīx non presuppongono Ū, come dovrebbero, ma Ŭ; che nel nostro v. si tratti di influsso di nutrix è confermato dalla quantità della i, lunga come in nutrix e non breve. Insomma, il lat. attesta NŪTRĬCO (per la cui origine cfr. ErnoutMeillet 453), ma le lingue rom. necessitano di NŬTRĪCO (cfr. anche Alessio, LN 27, 1966, 12-3). nutricátu, oltre che come part. pass., è documentato come s.m. ‘lattante’: 1373: «tucta la substancia di lu cibu non intra in tucta la substancia di lu nutricatu» (SposMatteo 343.24 e cfr. 26 e 28); 1522: «nutricato. hic alumnus» (Vall 60); 1752 n. ‘v. nutricu’ dBono 2, 542 e poi fino a Rocca 234; lo stesso valore ha il part. nella Francia merid. (FEW 7, 246b). Dal 1752 al 1839 (ib.) n. è attestato anche ‘il far nascere e nutrire i bigatti ad effetto di averne la seta’ (cfr. n. ‘allevamento di bachi da seta’ VS 3, 348 (da AA e Spat). Cfr. Fantina nutrigadu ‘baco da seta’ (AIS 6, 1160), e VS l.c. nuṭṛicatu ‘id.’ (da Can, Castiglione di Sicilia, Francavilla di Sicilia, Frazzanò e Pagliara); cal. nutricatu ‘allevamento dei bachi da seta’ e catanz. ‘baco da seta’ (NDDC 483). 66 Per l'agg., VS l.c. registra n. ‘nutrito; allevato’ (a partire da Mal e dBono) e ‘grassoccio’ (da Salemi). Il dimin. nutricatízzu agg. ‘grosso, corpulento’ 1868 Tr 659. nutricáta s.f. ‘il nutrire’ (1868, Tr 659). Cfr. cal. centro-merid. nutricata ‘allevamento dei bachi da seta’ (NDDC 483). nutrícu s.m. ‘quegli che è allevato, lattante’ (1752, dBono 2, 542 e poi sempre fino a NicD 569 e VS 3, 348 [è infatti tuttora voce generale, almeno nella Sicilia occ.], con la specificazione in Pasq 3, 338 e Rocca 234 che ‘si dice anche delle bestie’, senso ripreso in VS l.c.); 1990 ‘bambino fino a due anni’ VS l.c. (da Nàpola); 1844 ‘ognuno che ci tiene esercitati a qualche cosa, ma non senza un certo peso e nostro malgrado’ Mort 2, 41 e poi fino a NicD l.c., da qui in VS l.c. Cfr. piazz. nutricu ‘bambino, lattante’ (Roccella 183). Deverb. di nutricari (cfr. De Gregorio, StGl 7, 1920, 56). nuṭṛicúni s.m. ‘neonato, lattante’ (1990 VS 3, 348, da Marsala). nutricaméntu s.m.: nutricamento ‘nutrimento’ è in Giacomo da Lentini (PSs 1.19c, v. 4). Ante 1337: «efficacissimu et copiosissimu nutricamentu di virtuti esti lu hunuri» (ValMax 2.1.578; altri ess. in CorpusArtesia); 1373: «lu corpu di Cristu passa et smalticxissi in nostru nutricamentu?» (SposMatteo 126.20; cfr. 343.15); 1380: «in quistu pani havi plui di virtuti et di beni et di nutricamentu ki l’omu non porria pensari nì diri» (Vitii 98.96); ultimo quarto sec. XV: «la sollecitudini di lu nutricamentu di li figloli» (EpEustochiu 6.6); dal 1752 n. è attestato per ‘allattamento, allevamento; educazione’ dBono 2, 542 e poi fino a Tr 659. I paralleli ant. (regola bologn. del 1281 e Disticha Catonis ven. e tosc.: Monaci 138.52, 66.29 e 66t.70; cfr. anche DEI 4, 2604 e 2612) e mod. (nap. notrecamento Galiani 1, 267, cfr. D’Ambra 264) hanno sempre il valore del sic. ant. nutricatúra s.f. ‘educazione’: ante 1322: «alcuni garzuni su cussì malamenti da li parenti nutricati, ki pir mali nutricatura loru esti chusa la porta de vita eterna» (SGregoriu 144.13). nutricatúri s.m. ‘alimentatore’: ante 1322: «Sanctu Petru, pasture e nutricature nostru» (SGregoriu 109.1); 1752 n. ‘nutricatore, allevatore’ dBono 2, 542; non torna altrove. Cfr. it. ant. nutricatore, no- (sec. XIV: DEI 4, 2604 e 2612). nutricábili agg. ‘atto a nutrire’: 1380: «comu est [la vidanda] plui nutricabili, plui dichi l’omu ki illa est substanciosa» (Vitii 98.95). Qui anche il sinon. nutrikívuli: «tri cosi sunu necessarii a tucti li cosci ki in terra crissinu: terra convenivuli, humuri nutrikivuli et caluri rasunivuli» (ib. 87. 25). ’nzaiári1 v.tr. e intr. ‘provare (specialmente vestiti)’ (1411), voce soltanto sic., cal, nap. e abr., probabilm. prestito dallo sp. ensayar ‘id.’, a sua volta formato sul lat. EXAGIUM ‘tentativo, prova’, modificato all’inizio con il prefisso in-. 1411: «non insayati la cosa impossibili» (LettRegBianca 112); 1417 Catania: «li iocaturi dijanu insayari tri colpi» (ASSO 2, 1905, 221); 1519: «insayarisi: meditor, similo, exerceo; insayari lu passu: vador» (Scobar 56v); 1736 ’nzaiari ‘cercare, tentare’ Musmeci 98; 1752 ’nsaiari tr. ‘provare, assaggiare, sperimentare’ e intr. ‘tentare, provarsi’ (dBono 2, 513); il valore tr. ritorna sempre fino a NicDUr 179, a volte specificato per i vestiti, quello intr. solo in Pasq 3, 314; solo Pasq l.c. e 67 Rocca 229 hanno il rifl. ‘far prova se stiano bene su la persona (vestiti, scarpe)’. Cfr. ALI 3, 286, in vari punti. La forma ’nzaiari, dopo Musmeci, è nel 1752 in dBono 2, 544 e poi sempre fino a Cav 103 e VS 3, 355 (da Pantelleria), da Tr 661 considerata forma principale; il significato è quello tr., che solo Tr l.c. e VS 3, 356 (da Baucina) estendono anche ad ‘assaggiare’, inoltre VS l.c. ha ‘usare per la prima volta’ (da Enna, Maletto e S. Alfio), n. m-picciutteḍḍṛu (da Pantelleria) o n. m-picciriḍḍu (da Centuripe) ‘mettere un bambino sul vasino per abituarlo a farci la cacca o la pipì’, n. a-bbíviri ‘provare a far bere un animale’ (da Pantelleria), n. l'acqua â vacca ‘provare a far bere dell'acqua alla vacca’; il rifl. è in Tr l.c., Mac 216, TrV 295 e VS l.c., dove vale ‘provarsi un abito o un paio di scarpe (da S. Alfio); indossare un vestito per la prima volta (da Av, Tri, Casteltermini, Centuripe, Maletto, Piedimonte Etneo, S. Alfio e Villarosa)’. AIS 2, 263 ‘te la prova’ ha il nostro tipo in tutta l’isola, tranne Naro, Giarratana, Bronte e Mandanici, che hanno ┌pruvari┐, ma contro una prevalenza di nz- abbiamo nź- a Villalba e S. Michele. In gergo ’nzajari ‘tastare con le dita nelle tasche o provare una chiave falsa nella serratura’ (Calvaruso 124, ripreso in VS l.c.). La forma insaiári, dopo gli es. ant., è solo nel 1786 in Pasq 2, 336. Documentazione aggiuntiva in Michel 402-403 – Altra cosa è nzaiári2 v.tr. ‘inalverare, incanalare’ (da Tri): n. n'àcqua ‘incanalare un corso d'acqua’, inoltre, ‘tentare il guado di un corso d'acqua’ e ‘fig. imbrattare, insudiciare’ VS 3, 356, per cui → sáia. Tornando a ’nzaiari1, delle colonie galloit., in AIS l.c., S. Fratello, Fantina e Sperlinga hanno questo tipo, Aidone invece pruva (Raccuglia 278 ha però nsaiè); cfr. piazz. ’nzajè ‘provare, cimentare, esperimentare’ (Roccella 184). Cfr. regg. nsajari ‘mettere in movimento, eccitare’ e cos. nsajá ‘far saggio, far esperimento, istruire’ (NDDC 475); nap. nzajare ‘aizzare, incitare’ (D’Ambra 268); abr. nzajá ‘indettare’ (Giammarco 3, 1357, come non comune; in realtà è voce passata da Pansa a Finamore e a Giammarco, del cui significato è lecito dubitare); log. e camp. insayare (DES 1, 636). La spiegazione dallo sp. ensayar è attribuita da Pasq 3, 314 a Vinci (in realtà Vinci 172 rinvia da nsajari a saja ‘textile laneum tenue’, non certo a saja ‘rivus’) e torna in TrV 295, mentre Sacco 1, 296 non dubita che si tratti di prestito dal fr. essayer; De Gregorio, StGl 7, 1920, 118-9 rifiuta il prestito e pensa che si tratti di denom. dall’ant. sic. saju < EXAGIUM, base sotto la quale la nostra voce appare in FaréSalv 2932 (da Merlo, ID 5, 1929, 127 n10, che però la diceva manifestam. dallo sp.). In realtà il lat. EXAGIUM ‘tentativo, prova’ ha avuto modificata l’iniziale in tutte le lingue rom. (cfr. FEW 3, 257a) ed ha fatto ricorso ad in- sia nel fr. ant. ensaier (ib. 256b) che nel prov. ant. ensaiar (ib.), cat. id. (DCUB 5, 22b), sp. ensayar (dal Cid: DCECH 2, 640b), port. ensaiar (sec. XVI: Machado 2, 407b), sempre ‘provare’. La forma è ed è stata vitale, però, solo in sp. e la distribuzione dei pochi corrispondenti it. non si oppone ad un prestito dalla Spagna (così anche Michel 403), prestito che per la sua data di apparizione in Sicilia sarebbe fra i più antichi. Si aggiunga che sp. ensayar non solo si dice in particolare degli abiti, ma può spiegare regg. e nap. ‘aizzare’ attraverso ‘acometer, atacar’ e ‘esforzarse en la lucha’ (EncId 2, 1739b). Foneticam. invece nulla esclude un’origine indigena, mentre il sic. med. saiu ‘saggio’ (cfr. ad es. i gloss. di S. Gregoriu e SposMatteo) sarà piuttosto [sağğu] che [saiu] e quindi un toscanismo: non a caso in ambedue i 68 testi cit. alterna con saviu e col pl. sag(g)i. Pertanto la trafila cui aveva pensato De Gregorio è improponibile. ’nzaiáta s.f. ‘la prova che si fa in dosso di un abito prima che si finisca’ (1868, Tr 661, poi Mac 216, TrV 295 e VS 3, 356); 1883 ’nsaiáta ‘id.’ NicD 562 e poi NicDUr 179. Nel 1889 PitrèUsi 4, 334-5 (poi Pitrè 68) registra da Roccapalumba ’nzaiatéḍḍa s.f. ‘pezzettino di pasta, spiccato dalla vastedda, cioè dal pane pronto per infornarsi, e si mette verso la bocca del forno per vedere se prende colore di cottura’, ripreso da VS l.c. che registra anche nzaiatureḍḍa ‘id.’ (da Marineo). ’nzaiaméntu s.m.: 1519: «insayamentu: simulacrum; i. idem [lu passu]: vadatio» (Scobar 56v); 1789 ’nsaiaméntu ‘prova’ Pasq 3, 314 e poi fino a Mort 2, 31; 1868 ’nz. ‘il provare’ Tr 661. ’nsáia avv. ‘abbondante, a ufo’ (1868, Tr 653 e poi TrV 288, ripreso in VS 3, 355 nella forma ’nzáia1, con rimando a saia). nzáia2 s.f. ‘prova che i pescatori fanno in un tratto di mare, calando da trenta a quaranta metri di rete, per assicurarsi della presenza dei pesci’ (1990, VS 3, 355, da Licata). Non vanno qui nzaiaréḍḍa s.f. ‘fettuccia, nastrino, ecc.’, nzaréḍa, nzaréḍḍa; nzaiariḍḍáru s.m. ‘venditore di fettucce, nastri e sim.’ (VS 3; in VS 5 nelle forme źźaiaréḍḍa e źźaiariḍḍáru), in VS 4, 325 inoltre sáia s.f. ‘panno di lana leggero e sottile’. Conviene trattare qui anche la famiglia di assaiári, etimologicam. legata a quella di ’nzaiari. Non è sicuro che a. appaia ante 1322 nel SGregoriu: ib. 89.26 «lu re assayau Pirosa secte anni» si tratta certo del lat. obsedit (le var. sono asighayu e asseggiò), ma a 166.1 abbiamo: «è cosa justa... ki li animi li quali in kista vita su invultati in peccatu carnali, in killa pena sianu assaiati de fituri penali», e qui il senso è dubbio (non ci sono var.); 1354: «quandu a tortu è firutu, non assaya sua raxuni» (Poesie a.108); 1368: «assaiandu lu meli l’altra fiata [lu cavallu] vi lassa mictiri plui vulinteri lu frenu» (Mascalcia 573); parecchi altri esempi ant., nelle forme assagiari, (as)saiari, assiari in CorpusArtesia; 1519: «assaiari oi insaiari: periculum facere; assayari: experior, probo, inito; assayarisi per guerra: meditor, simulo pugnam» (Scobar 14v); 1751 assaiarisi ‘v. ardiri’ dBono 1, 84, senso che torna in Mort. 1, 85, Tr 91 e TrV 81, mentre Pasq 1, 153, Rocca 45 e Mac 37 hanno ‘arrischiarsi’, che è infine in VS 1, 297 (anche in Floridia, Modica e S. Caterina Villarmosa), il quale aggiunge a. troppu ‘prendersi eccessiva confidenza’ (da Carini). Nel 1785 si documenta il tr. ‘aizzare (i cani)’ Pasq 1, 153, poi fino a Cav. 34 e VS l.c. (anche da Paternò, S. Michele di Ganzaria e Partanna); qui anche (da Catania) ‘assalire, aggredire, ad es. del cane’, nonché ‘provare, tentare’ e ‘saggiare se la cavalla è gravida’ (questo da Modica); AIS 6, 1102 ‘aizzare’ ha assaiari a Baucina, Mascalucia e Giarratana. Solo Tr 1132 ha l’uso assoluto ‘essere troppo vivo (di colore)’ (cfr. TrV 81, NicD 89 e VS 1, 297 assaiatu ‘che avventa (di colore)’). Cfr. catanz. assajare ‘eguagliare, preparare una tavola (del falegname)’ (NDDC 102); nap. id. ‘aizzare, stizzire, incitare’ (D’Ambra 69); Muro assajà ‘provare, saggiare’ (Mennona 28); brind. assajà ‘provare’ (VDS 1, 62); rub. assaiò ‘frastornare, confondere’ (JurilliTedone 85); molf. assaià ‘saggiare, comprovare, provare’ (Scardigno 66). Gioeni 38-9, come ora VS l.c., distingue tra assaiarisi ‘ardirsi’ e a. ‘incitare’ ed attribuisce il 1° al lat. EXAGIUM come denom. di assaiu; lo 69 stesso sembrano fare De Gregorio, StGl 7, 1920, 119 e AlessioLatinità 350 (senza accenni ad a. ‘incitare’). In effetti l’iniziale di EXAGIUM (cfr. sopra) ha subito anche la modifica in ad-: così nell’ant. picc. assaiier ‘essayer’, ant. prov. asajar ‘id.’ (FEW 3, 256b, con altre forme ant. e mod.), cat. assajar ant. ‘sotmetre a prova’ e ‘arriscar-se’, e più tardi ‘aplicar o posar en execuciò provisòriament una cosa per venre si avvirà bé’ e ‘posar a algù un vestit o altra peça d’indument, per venre si li està bé’ (DCVB 2, 74b; cfr. DECLlC 1, 454a, dal sec. XIII), cast. ant. (sec. XVXVI) asayar ‘experimentar, probar; intentar, procurar’ (EncId 1, 520a), nonché naturalm. it. assaggiare ‘provare il sapore di un cibo o di una bevanda’ (fine del sec. XIII) e solo secondariam. ‘sottoporre a saggio, saggiare; tentare, sperimentare, provare’ e ‘tentare, sperimentare le forze del nemico’ (dal '300 al '500) (DELI2 135b; Batt 1, 744c). Quest’ultimo ha un sicuro riflesso nell’assaggiári v.tr. ‘assaggiare, sperimentare’ di Vitii ed una pronuncia [ğğ] può nascondersi dietro qualche grafia ant.; ma l’assenza in assaiari del senso principale della voce it. (senso che troviamo solo nei volgarizzamenti ant.) e viceversa la presenza e vitalità in cat. del senso ‘arrischiarsi’ mi fanno propendere per il prestito della voce sic. dal cat. (del resto questo tipo lessicale è vitale solo in Italia e in Catalogna). Quanto al senso ‘aizzare’, Gioeni l.c. pensava o al fr. sayer o a metatesi di aissare, anch’esso ritenuto francesismo. Un sic. aissári v.tr. ‘aizzare’ esiste ma è estremam. raro (1977, VS 1, 101, da Mal), mentre pare più vitale assïári ‘id.’ (1751, dBono 1, 85 con rinvio a assugghiari ‘aizzare il cane’ ib. 87, mentre Pasq 1, 154 rinvia ad assajari [così poi Rocca 45; Tr 92; TrV 81; Cav 34; VS 1, 300, anche etneo sud-or.] ed a 157 dà assugghiari sempre col senso ‘aizzare’ [dal DizMsAnt], mentre poi Tr 94 e TrV 82 lo registrano con rinvio al solito assaiari [per completare l’informazione dirò che AIS l.c. ha assugghiari a Vita, assuglari a Villalba, S. Biagio e Naro]). Se aissari e assiari sono l’uno metatesi dell’altro, il rapporto più probabile è assiari → aissari, data la frequenza del trasporto a sinistra della i (cfr. MR 5, 1978, 436). Che si tratti di francesismo è improbabile: per l’incerta origine di aizzare cfr. DELI2 76b; il fr. ant. hicier ‘exciter’, per altro raro (cfr. FEW 16, 210a), non ha in nessuna forma un vocalismo adeguato al suo presunto continuatore it.; il prov. mod. ahissá ‘id.’ non si vede come possa essere giunto in Sicilia; quanto infine a saier ‘essayer, éprouver; goûter’, si tratta proprio di un denom. di sai ‘essai’ < EXAGIUM (FEW 3, 256b), cioè di un gemello di assaiier, ancor meno adeguato a spiegare la voce sic. Insomma, non si vede possibilità né ragione di distinguere due sic. assaiari (‘provare’ e ‘aizzare’) con due storie diverse: il secondo senso sarà semplicem. uno sviluppo di ‘mettere alla prova (i cani nel combattimento)’; né la voce sic. pare separabile da quella cat. Quanto ad assïari, Salvioni (RIL 43, 1910, 616) ipotizzava un possibile, ma tutt’altro che sicuro, parallelo assaiari → assiari = favaiana → faviana = *firraiolu → firriolu. La spiegazione mi pare dubbia e ritengo questo v. di etimo ancora sconosciuto. assáiu s.m. ‘prova, cimento’ (ultimo quarto sec. XV: «di li vidandi et di li chivi si fa assaiu… per vidiri si sunnu cotti et conduti a rraxuni» (EpEustochiu 70.21); 1868, Tr 91 e poi TrV 81 e VS 1, 297 ‘rischio’). Gioeni 38 lo ricavava da EXAGIUM ‘prova’, alle parallele voci rom., ed è stato seguito da AlessioLatinità 350; Rohlfs, Boll 9, 1965, 78 rifiuta l’origine lat. diretta e pensa al fr. essai (semmai bisognerebbe 70 riferirsi ad ant. picc. assai ‘essai’, FEW 3, 256a). La tarda documentazione e la debole vitalità della voce sic. fanno preferire la spiegazione come semplice deverb. assaiaméntu s.m.: 1519: «assayamentu idem [per guerra]: simulacrum pugne, meditation» (Scobar 14v); 1751 a. ‘v. ardimentu’ dBono 1, 84; 1868 a. ‘ardimento’ Tr 91. assaiatúri s.m. ‘v. arditu’ (1751, dBono 1, 84); 1785 ‘assalitore’ Pasq 1, 153; 1839 ‘aizzatore’ Rocca 45. ’nzirtári (3a sing. ind. pres. ’nzerta) v.tr. e intr. ‘indovinare; colpire’ (1519, nella forma incertari e in ambedue i sensi), voce di area sic., cal. e sarda, prestito dal cat. encertar ‘id.’, a sua volta der. di cat. cert ‘certo’. 1519: «incertari la mira: figo signum; i. a casu: casu tango» (Scobar 53v); 1555 Messina: «vedendo li habia incertato il valore di lo dito anello» (ASS 39, 1914, 360); 1600 ca. Palermo: «detta scopettata non l’inzirtao» (Diari 1, 87); 1a metà sec. XVII Palermo: «tirandoli due scopettonati, non lu insirtâro» (Diari 2, 30); 1736 ’nzirtari giustu ‘colpire nel segno’ Musmeci 71; fine sec. XVIII Catania: «iu ’nzertu roccu dicu» (Tempio 25); fine sec. XVIII Palermo: «una sula chi n’inzerta / lu cumpensa di li danni» (Meli 1, 249) e «tra sgarra e ’nzerta apprinniri si soli» (ib. 1, 652; autoglossato ambedue le volte ‘dar nel segno’); i vocab. hanno le due forme ’nz. e ’nsirtári dal 1752 dBono 2, 517 e 544 fino a Cav 104, RohlfsSuppl 76 e VS 3, 372 per la prima, NicDUr 180 per la seconda. I valori registrati sono: tr. ‘indovinare’ (sia ‘dare nel segno’ che ‘indovinare il futuro’) da dBono l.c. a RohlfsSuppl l.c. e VS l.c.; tr. ‘ferire, colpire’ 1789 Pasq 3, 317 fino a TrV 297 e VS l.c.; tr. ‘trovare una cosa a suo genio’ solo 1839 Rocca l.c.; AIS 4, 746 ‘indovinare’ conferma la grande diffusione del tipo (i concorrenti sono addiminari e abbisari) nell’isola, nelle forme nz. a Baucina, Villalba, Calascibetta e Catenanuova, nzittári a Palermo e Mandanici (che VS 3, 374 dà come sic. or.), nźirtári a S. Michele, nsirtari a Mascalucia, anzirtári a Giarratana (questa forma sud-or. era già nel 1875 in Mac 24 e da qui in TrV 67; VS 1, 208 la registra a Còmiso, Leonforte, Ragusa e Vittoria); azzirtári VS 1, 349 (da Spat). Cfr. inoltre nzïittári VS 3, 365 da Altofonte e dall'area trap. occ., e nzitári2 ib. 374 da Gratteri. – Nelle colonie galloit. troviamo nsertá a Fantina, nzərté ‘cogliere nel segno’ a Sperlinga e nzərtér ad Aidone; cfr. piazz. ’nz’ertè tr. ‘indovinare’ (Roccella 185); aid. nzirtè (Raccuglia 289). Cfr. malt. nzerta ‘succedere per caso e accidente’ (AquilinaSurveys 104). Cfr. regg. nsertari, nzertari, nsartari, nsirtari, cos. nzertare ‘indovinare, colpire nel segno’ (NDDC 475) e cal. centro-merid. nzertari ‘id.’ (ib. 484); logud. e campid. attsertai, intsertare ‘indovinare’ (DES 1, 157a). Per azzirtari il parallelo è sardo attsertai (Michel 246). Tr 622 e TrV 297 lo dicono prestito dallo sp. acertar, mentre Avolio 77 dà alla pari cat. encertar e cast. acertar. Invece De Gregorio, StGl 1, 1899, 106 postula la base lat. INSERTARE, che è semanticam. cosa del tutto diversa (cfr. REW 4459). Più tardi (DonJaberg 69), anche Rohlfs la ritiene voce indigena, ma assumendo come base lat. *INCERTARE, un plausibile der. di certus, accolto poi da AlessioLatinità 383. Purtroppo tale base è foneticam. inadeguata, se non altro perchè in sardo dovremmo avere *inkertare (ed in sic. 71 *incertari), come osserva Wagner, DES 1, 157a, il quale riconosce in tutta la famiglia prestiti dal cat. encertar, che vale ‘fer una cosa amb tota conformetat amb el fi preestablert; fer-la bé’, ‘ferir o tocar amb precisió un objecte determinat’, ‘trobar allò que es cercava, entre coses incertes o dubtoses; esdevinar, descobrir per casualidat’ ed è documentato dal sec. XV (DCVB 4, 867b – 868a; DECLlC 2, 685a). La corrispondenza è dunque perfetta sia nella semantica che nella fonetica, mentre lo sp. acertar è morfologicam. più lontano (come nota Beccaria 5n). A favore dell’origine cat. anche Rohlfs, Boll 9, 1965, 91 (e RohlfsSuppl 76; NDCC 475 e 484); VarvaroCatalanismi 88; Michel 406. ’nzérta s.f. ‘indovinello’ (1990, VS 3, 363, da Bompietro); ib. 3, 372 il sinonimo ’nzirtariḍḍu s.m. (da S. Cataldo). ’nzértu s.m. ‘indovino’ (1990, VS 3, 363, da Solarino). ’nzirtaméntu s.m.: 1519: «incertamentu idem [la mira]: ictus fortuitus; i.: casus, fortuna» (Scobar 53v). ’nzirtáta s.f. ‘l'imberciare, l’indovinare’ (1868, Tr 662). ’nzíru s.m. ‘recipiente di creta per conservare acqua o altri liquidi’ (1440, nella forma inziru), continua l’ar. zīr ‘grande giara d’argilla porosa per conservare acqua’; la voce si è diffusa fino alla Toscana e all’Abruzzo, nonché in Sardegna, probabilm. perché recipienti del genere erano usati nell’esportazione di olio e/o vino. 1440 Sciacca: «si li quartarari fachissiru li quartari, langelli et li inziri di minuri capacitati...» e «lu inziro divi essiri quartuchi quattro» (CapSciacca 14 e 16; dal 2° passo risulta che lo nz. è la metà della → lanceḍḍa); 1519: «incziru oi lanchella: urcens, orca, mansisterna, lagena; i. vide quartarulla: urnula» (Scobar 53v) e «zíru v. incziru: urcens» (ib. 115r); 1522: «ziru vide iarra» (Vall 89); 1752 nziru e nsíru ‘piccol vaso di creta da acqua’ dBono 2, 517. La forma nziru torna poi costantem. da Pasq 3, 340 a Cav 104, RohlfsSuppl 76 e VS 3, 372, ed è registrata da AIS 5, 968 ‘il boccale’ a Vita, S Biagio, S. Michele e Giarratana (con questo senso anche in VS l.c., che aggiunge alcune localizzazioni); nsiru è ancora in Vinci 172 (ma come parola sconosciuta), Pasq 3, 318, Rocca 230, Tr 654 e Mac 213; ziru è più raro: Tr 1116 (da cui RohlfsSuppl 114), Mac 351 e, nella forma źźíru in VS 5, 1292. Solo VS 1, 208 ha anzíru ‘brocca’ (da Man). Un f. ’nzíra è nel 1868 in Tr 662, poi in TrV 296 e in VS 3, 370 (da Alia, Marineo, Mezzojuso, S. Vito lo Capo e Vicari); da Vicari la dà ALI 5, 501. Da Pasq in poi, i vocab. lo descrivono come un vaso di creta corpacciuto ma senza manici (così ancora RohlfsSuppl 76), ma AIS l.c. lo dà come recipiente a forma di anfora con due manici e Fagone 68 spiega (e illustra) come a Lentini le quartare si distinguono in nziri, se hanno bocca e collo larghi, e búmmuli, se a collo lungo e stretto. In realtà il nome deve essere servito e deve servire ancora a denominare recipienti diversi tra loro, anche se di norma di creta e per olio o vino o acqua (si vedano a questo proposito i sensi registrati in VS 3, 372; qui, solo da Ragusa, vale anche ‘recipiente di latta di ridotte capacità’, cfr. anche sotto). Secondo Scheuermeier 2, 39 nz. può denominare anche un piccolo boccale per bere, con quattro becchi arrotondati: in effetti VS l.c. registra n. ‘boccale di terracotta’ in numerose località (cfr. sopra), e in 72 particolare segnala per Francofonte e Villarosa la specificazione ‘a quattro beccucci’. In VS l.c. anche alcuni sensi riferiti a persona: ‘ragazzino piccolo di statura e molto vivace’ (da Bivona) e ‘persona estremamente povera; chi è sprovvisto di panni per potere resistere alle intemperie’ (da Man). – Cfr. piazz. nzir ‘orcio, brocca’ (Roccella 184); Aidone avrebbe solo nzirotta ‘anfora di terracotta di ca. 20 litri’ (Raccuglia 289). Cfr. malt. żir ‘brocca’ (Barbera 4, 1171; Kalepin 383). Cfr. regg. nziru ‘orcio grande e alto per tenervi l’olio’ e cos. nzirrə ‘orciuolo da acqua’ (NDDC 484), cal. centro-sett. źirru (cos. anche z-) ‘grande orcio di creta a bocca larga per tenervi olio, vino ecc.’ (ib. 813); c’è anche un cal. centromerid. źirra, źira, źina ‘grande recipiente di latta per l’olio’ (ib. 812); nap. ziro ‘vaso grande per tenervi olio, vino o simili’ (D’Ambra 410); Minturno zirru ‘ziro, orcio’ (De Santis 98); Sezze ziro ‘grosso piatto pieno di cibo’ (Zaccheo 249); irp. ziro ‘vaso grande’ (Nittoli 252); Montella zirro ‘recipiente grande di terra cotta per riporre vino’ (ID 9, 1933, 194); sal. źirru ‘alto recipiente di latta o zinco, di forma cilindrica, per serbare l’olio nei magazzini’ (VDS 2, 842; forse non è mai esistito tar. ziro ‘boccale di creta per acqua’ ib.) e lecc. nziru ‘vaso grande di creta per l’olio’ (ib. 433); bit. źirre ‘recipiente di latta per contenere olio’ (Saracino 573); bisc. zirrone, zu‘stagnata, vaso di latta, cassa di latta o di stagna’ (Còcola 227); fogg. ziro ‘vase di terra cotta per lo più da riporvi olio’ (Villani 100; cfr. AIS 5, 969 Cp P. 706; a Serracapriola źirrə è il vaso per lo strutto: ib. 5, 970); mol. źźirrə ‘vaso di stagno per il latte’ (Minacheo 313); abr. źźirre ‘vaso di terra cotta simile all’orcio, nato per tenerci il vino o l’aceto’ (Finamore 321; Bielli 416; cfr. AIS 5, 969 Cp P. 6371); it. źiro ‘giara grande da olio’ (sec. XVII: VEI 1065); oggi è voce pist., sen. e aret. (cfr. ID 5, 1929, 233 n e 15, 1939, 148) nonché pis. źiro ‘conca del bucato’ (che va collegato con ┌źiro┐ ‘mastello da bucato’ ai P. 584, 633 e 640 di AIS 8, 1523; cfr. Scheuermeier 2, 214) e źira ‘sorta di coppo panciuto da olio’ (Malagoli 463); cfr. anche pist. zirla ‘orcio grande’ (VEI l.c.), da porre accanto a Cassano (Bari) u zirlə ‘anfora alta da vino a due manici’ (Scheuermeier 1, 170). Anche la Sardegna centr. e merid. ha dzíru ‘orcio, giarra’ (DES 2, 596b, dall’it.). Il zirum ‘orcio’ del 1357 di SellaIt 636 non è roman. ma della Curia rom. (Avignone); non mi pare sicuro uno zirum in Dalmazia nel 1069 (DuC 8, 432a); nel 1420 troviamo zirrus in Liguria (Pellegrini 1, 342-3). Scheuermeier 2, 47 tratta il nostro tipo lessicale come denominazione del recipiente per olio, con o senza manici, in Toscana, Umbria, Lazio e Campania e nella foto 330 del vol. I ne illustra alcuni senza manici a Omignano (P. 740) e nella foto 55 del vol. II uno a tre manici da Montefusco (P. 723); egli poi informa (2, 48) che nell’Italia merid. ed in Umbria il tipo par la denominazione corrente del cilindro di latta con coperchio e tappo, usato per conservare olio. L'etimo ar. zīr ‘orcio’ fu già individuato da Gioeni 303; cfr. poi De Gregorio-Seybold, StGl 3, 1903, 243 (rifiuta giustam. la provenienza dal lat. SĒRIA ‘recipiente’, postulato da Körting 8635 e che lascia ancora tracce in REW 7846); DACalv 284; Rohlfs, Z 46, 1926, 152; VEI 1065; DEI 5, 4117; Pellegrini 168; RohlfsSuppl 76. L’ar. zīr è ‘grande giara di argilla porosa, per conservare l’acqua’ (NallinoTraini 1, 536a; Wehr 389b; Steingass 471; Dory 1, 618b; Ben Sedira 194; Nallino 231, con ampia descrizione); usato soprattutto in Egitto e nel Maghreb, esso è in genere più grande del recipiente sic., it. e sardo. La 73 grande area di diffusione dell’arabismo non può essere dovuta che all’uso dello z. nel commercio del vino e dell’olio (→ giarra): si tratta dunque di un prestito, più che di un relitto, ma nel caso della Sicilia può darsi che la voce, anche se attestata un po’ tardi, sia indigena. Il passaggio z- > nz- (o l’alternanza tra le due iniziali) si riscontra in altre voci ed è diffuso anche nel Salento dove infatti ritroviamo nziru; per il Salento cfr. Rohlfs, § 169); data la limitata area geografica e l’estensione al f. non pare dovuto a concrezione dell’art. indef. ’nsirúni s.m. ‘vaso di creta da acqua, brocca, mezzina, idria’ (1789, Pasq 3, 318 e poi Mort 2, 33 e NicD 563), nzirúni VS 3, 372-3. Non è semanticam. né accr. né dimin. di ’nziru ma suo sinon.; infatti AIS 5, 968 ha nzirúni ‘il boccale’ a Naro, ripreso da VS l.c. La stessa forma era nel 1877 in TrV 297 ‘v. cufinu’, ma tra i diversi sensi di → cufinu solo ‘conca per il bucato’ sembra verosimilm. appartenere a questa famiglia lessicale. C’è però un gruppo di forme che presuppongono un *’nziru2 ‘cestino di vimini’: 1977 RohlfsSuppl 114, s.v. zirguni (accr. di ź rgu) s.m. ‘alto cesto dalla forma di grossa giarra, usato per conservare il pane’, vengono indicate come var. le forme źirúni dall'area mess. centr. e occ., źirrúni da Tortorici e źurrúni da Naso; VS 5, 1292 conferma il dato aggiungendo a queste forme alcune specificazioni semantiche (sempre in relazione a cesti e panieri), in localizzazioni appartenenti alla stessa area (ma anche a Bronte), e segnala anche la var. źźurúni ib. 1322 (da Naso); inoltre, ib. 1292 źźirúni vale anche ‘persona assai ingenua’, da Troina. In VS l.c. abbiamo ’nzíruni ‘cesta di vimini di forma cilindrica con coperchio, usata in campagna per contenere generi alimentari e soprattutto il pane’ VS l.c., da Avola. Tornando ai recipienti di creta, PitrèCatalogo 41 registra ed illustra (da Sciacca) ’nz. di senia ‘secchia di creta per noria, grande e a bocca larga’, ripreso da VS 3, 372. I dimin. di ’nziru sono nsirìddu 1752 dBono 2, 516 (dove anche nsirèddu e nsiriddùzzu), nziríḍḍu in Pasq 3, 339 e fino a Cav 104 e VS 3, 370 (da Bivona, Gibellina e Poggioreale), ziríḍḍu (1977, RohlfsSuppl 114, da Baucina, segnalato anche da VS 5, 1290 nella forma źźiríḍḍu e anche nziréḍḍu, da Avola e Licata, nzirièḍḍu da Mòdica, Pachino, Rosolini e Scicli; ib. 371 nziríttu, da Caltagirone; ib. 383 nzuréḍḍu, da Gela, e nzurièḍḍu, da Butera). Per nziríḍḍu, VS 3, 370 restituisce anche il senso ‘ragazzino piccolo di statura e molto vivace (da Bivona)’ (questo senso anche nella forma źźiríllu VS 5, 1290, da Capizzi), inoltre ‘persona estremamente povera (da CavallaroMs); chi è sprovvisto di abiti per poter resistere alle intemperie (da Gratteri)’ VS 3, 370; VS 5, 1290 ha zziriddu di meli ‘sorta di piccola pasta dolce’, da Mort (ed. 1876) e zz. (e zzirillu) ‘una varietà di frassino’, a Castelbuono, da Can; cfr. in particolare (éssiri) comu (un) n. di meli ‘sogliamo dire nel familiare a chi non ben provveduto di panni si espone alle intemperie, brullo’ da 1844 Mort 2, 42 fino a NicD 571 e VS l.c., dove vale anche ‘di persona mal vestita o poverissima’ da CavallaroMs (con altro senso anche nel 1789 in Pasq, cfr. sopra). źźirílli pl. vale anche ‘capricci (da Catania e Furci Siculo); cavilli, pretesti, scuse’ VS 5, 1290. In VS 3 c'è un gruppo di parole che rimanda ai sensi ‘infreddolire, infreddolito, ecc.’: nziríri v.intr. ‘intirizzire dal freddo’ (ma anche ‘restare di stucco, allibire; guardare fisso; girare vorticosamente della trottola’, da nzíniri?); nzirítu ‘di bambino congestionato dal pianto convulso’; nzirútu ‘infreddolito’ (ma anche ‘sbigottito, allibito; sciocco, stupido’; cfr. sopra, nel corpo del testo, 74 dove in relazione a questo senso si rimanda a nzinitu); nziricchiátu ‘infreddolito’. Non sarei sicuro neppure che si tratti di traslati della nostra famiglia. Aggiungo azziriḍḍári v.intr. ‘zampillare con violenza’ 1977 VS 1, 349, da Frazzanò); ’nziróttu (1519: «incziroctu: urceolus, orcula; i. vide cannata: laguncula», Scobar 53v); nel 1868 Tr 662 (e poi TrV 296) ci dà ’nziróta ‘v. nziru’, che suscitò l’attenzione di SalvioniParlate 5 n2, come es. del suff. dimin. -otu, ma un uso del genere è un po’ strano (cfr. Rohlfs, § 1139) e mi chiedo se la voce sic. sia cosa diversa rispetto al piazz. ’nz’ròtta ‘orcio’ di Roccella 184 (VS 5, 1291 registra źźirótta ‘anfora, vaso a due manici, stretto all'imboccatura e alla base, che si usava per trasportare e contenere l'acqua’, da Mirabella Imbàccari). ’nziráru s.m. ‘facitore o venditore di nziru’ (1868, Tr 662 e poi TrV 296, ripreso da VS 3, 370). Il f. ’nzirára ‘venditrice di nziru’ è solo in Tr 662, che lo dà anche come sinon. di ’ncirata ad Aidone (solo così TrV 296), che è ovviam. altra cosa. ’nzirútu agg. ‘sbalordito’ (1868, Tr 662, poi TrV 297, NicD 572 e VS 3, 373) non ha niente a che fare con questa famiglia, perché è modifica di ’nzìnutu, ’nsinutu ‘insensato’. ’nzíta2 s.f. ‘setola (del porco)’ (1497), voce di area sic. e cal., dal lat. SAETA ‘id.’ con l’inserzione del pref. in- (probabilm. da → ’nzitari) per differenziarla da sita ‘seta’, che ha la stessa base; ’nzita3 ‘pustola, foruncolo’ ha la stessa origine. 1497 Francofonte: «una scupecta di inziti» (Gaudioso LXXXIII; ancora dBono 2, 517 registra «scupitta di nsiti di porcu»); 1519: «inciti pilu di porcu: seta» (Scobar 54r); 1752 ’nsíta ‘setola del porco’ dBono 2, 517 e poi fino a NicD 563, mentre ’nzita è registrata dal 1752 dBono l.c. a Cav 104 e VS 3, 373, anche con diversi usi figurati. AIS 6, 1093 ‘la setola’ ha il tipo in tutta la Sicilia, ma il f. è solo a Palermo (qui al pl., come negli ess. ant.), Vita, Mistretta, Mascalucia e Naro (sempre ns-) nonché con nz- a S. Biagio. Molto più diffuso appare il m. ’nzítu ‘id.’ (a Mandanici, Bronte, Villalba, Calascibetta, Catenanuova, S.Michele, Giarratana e, dubbio, a Baucina), che appare nel 1759 in Vinci 171 (nella forma nsitu) e poi torna in NicDUr 186; lo ritroviamo in VS 3, 374, da Tri e in varie localizzazioni. Anche nzíta ‘resta del frumento’ 1990 VS 3, 373, a Scicli, da ALI e zzíta ‘bruscolo d'aveva’ 2002 VS 5, 1294, da Pachino). Nel gergo il pl. f. ’nziti ‘baffi’ (Calvaruso 124, segnalato anche da VS 3, 373). – Cfr. piazz. ’nzita ‘setola’ (Roccella 184), confermato da AIS l.c. per S. Fratello e Aidone, che avrebbe (ma lo nega Raccuglia 289) pure la forma m., unica a Fantina e Sperlinga. Cfr. cal. nsita, nz- ‘setola di maiale, pelo lungo del cavallo’ (NDDC 476) e catanz. nsitu, nz- ‘id.’ (ib.), confermati da AIS l.c. Appare attribuito al lat. SAETA ‘pelo, setola’ da Sapienza, AGl 6, 1912, 15, che parla di influsso di → ’nzita ‘innesto’; la stessa base di AlessioLatinità 459, che rinvia a REW 7498, ma le forme sic. e cal. non appaiono né qui né in FaréSalv 7498, sí però in FEW 11, 50b, accanto ai continuatori it. sett., lad., friul., gallorom. ed iberorom. Wartburg vede nel pref. in- del sic. e cal. (certo da ’nzitari) un modo per sfuggire alla coincidenza con sita ‘seta’ (della stessa origine), parallelo al ricorso di altre parlate al dimin. lat. saetŭla. Converrà allora aggiungere che anche il sic. ha un 75 continuatore di SAETŬLA, con iniziale modificata dalla nostra voce: zítula s.f. ‘v. nzita’ (1868, Tr 1117 e poi solo TrV 492; inoltre nzítula s.f. ‘pellicola che si solleva alla base e ai lati dell'unghia’ 1990 VS 3, 374 (da Falcone), a nz. di l'uócchiu ‘la pupilla dell'occhio’ ib. (da Malfa), zzítula ‘pupilla (degli occhi)’ 2002, VS 5, 1296 (da Stromboli), e zzítuli s.f. pl. ‘ciglia degli occhi’ ib., da AA), e che il regg. nzítula (NDDC 485) e l’abr. nzètələ ‘setola’ (Giammarco 3, 1363) hanno sia il pref. che il dimin. ― Esiste anche ’nsíta3 s.f. ‘piccol tumore, piccolo enfiatello’ 1752 dBono 2, 517 e poi da Pasq 3, 318 a NicD 363 (ma non in Tr e TrV) e ’nzíta3 ‘id.’ 1752 dBono 2, 544 e poi fino a Cav 104 e VS 3, 373. AIS 4, 685 ‘il foruncolo’ ha nsita a Naro, senso registrato per nzita anche da VS l.c. (da Augusta, Gela, Giarratana, Marsala e Noto, e dall'agr.). Anche ’nzita ‘malattia della pecora’ 1896 ATrP 15, 357, da Caltanissetta, ripreso da VS l.c., anche come ‘carbonchio nero degli ovini e dei caprini’ (da Licata); ‘piccola ferita (da Montevago); pellicola che si solleva alla base e ai lati dell'unghia (da Tri, e dall'area mess.or.)’. Esiste anche ’nzítu3 s.m. ‘foruncolo’: 1519: «inczitu che naxi in la fachi: varus» (Scobar 53v); 1877 ’nzitu ‘v. ’nzituni’ TrV 297 e poi VS 3, 374 da Butera e Raffadali; inoltre ‘pellicola che si solleva ai lati e alla base dell'unghia’ ib., da Tri e Roccavaldina; al pl. ‘le cicatrici della vaccinazione antivaiolosa’ ib., da Adrano. Cfr. regg. nziti pl. ‘pipite, filamenti cutanei’ (NDDC 485). L’unica spiegazione è finora quella di Gioeni 205, che ritiene possibile riportare ’nzita allo sp. nacida ‘tumore, pustola’ (1495, EncId 3, 2935a; in ast. anche ‘malattia di bovini e suini’), il che è foneticam. impossibile. Conviene osservare che di solito la voce sic. denomina suppurazioni alla radice di un pelo (il foruncolo vero e proprio è → cravunchiu; cfr. anche → cocciu) e che in gallorom. ci sono continuatori di SAETA con valori analoghi: soyes f.pl. ‘maladie des porcs causée par des soies qui croissent dans la gorge’, soie ‘sécrétion produite par des glandes spéciales, chez certains insectes’, sion ‘soie (maladie des porcs)’ (FEW 11, 48b - 49a: la 1a voce dal 1564, la 2a dal 1710, la 3a dal 1609). Ritengo perciò che ’nzita e ’nzitu ‘foruncolo’ non siano che un’altra coppia di continuatori di SAETA. Ma la forma più diffusa, in questo senso, è l’accr. ’nsitúni s.m. (1789, Pasq 3, 318 e così fino a NicDUr 180); nella forma ’nzitúni 1868 Tr 662 esso è dato non come accr. ma come sinon. (‘enfiatura piena di pus’) e così fino a NicDUr 186 e VS 3, 374 in diverse località e in AIS 4, 685 ‘il foruncolo’ per Palermo e Catenanuova, nonché la galloit. Aidone ntsətũn (altrove principalm. → cravunchiu e → cocciu); nella forma zzitúni ‘id.’ 2002, VS 5, 1296, da Mezzojuso e Terrasini Favarotta. Cfr. sopra il fr. sion. ’nzituni s.m. vale anche ‘setola’ in VS l.c., da Malfa, e con uso figurato anche da Mistretta e Pantelleria. — Nessuna spiegazione so dare di ’nzíta4 s.f. ‘v. nziru’ (1868, Tr 662, poi solo TrV297, come catan., e da qui ripreso in VS 3, 373 ‘brocca di terracotta’); → ziru. VS l.c. ha anche nzíta s.f. ‘tordela o tordella’ a Castelbuono, da ALI. ’nzitúsu agg.: 1519: «incitusa cosa idem [di porcu]: setosus; incitusu che li porta: setiger» (Scobar 54r) e «insitusi di incziti pili: setosus» (ib. 56v); 1990 VS 3, 375 varva n. ‘barba ispida’ (da Alcamo, Catania e Mistretta), capiḍḍi n. ‘capelli ispidi’ (da Assoro, Cesarò e Militello Val di Catania). Cfr. catanz. nsitusu ‘pieno di setole’ e cos. nzitusu ‘ispido’ (NDDC 476). — È esistito anche «incitusu questu homu: narosus» (1519, Scobar 54r). ’nzitígna agg.: 1990 VS 3, 374 solo in varva n. ‘barba ispida’, da Petralia 76 Sottana. ’nzitári v.tr. ‘innestare’ (ante 1337), è voce molto, ma non compattam., diffusa nel mezzogiorno, lungo l’Appennino, in Emilia e Lombardia, nell’arco alpino, in Sardegna, che continua un lat. *ĬNSĬTĀRE ‘id.’, formato su insĭtus, part. perf. di inserere ‘id.’. Ante 1337: «mictendusi a la chima di killu lauru incontinenti cum grandi rimuri chi insitaru unu pendenti ramu» (Eneas 6.145); ante 1337: «li quali, essendu nati di bassa manu, e sforzaru di insitarsi oy di mittirsi intra nobilissimi familgi» (ValMax Indice.117) e «lu nostru principi et patri tantu amuri a so frati Drusu appi insitatu intra lu so cori que...» (ib. 5.4.260) e «a quistu so suppliciu fu insetata una nota ad eterna memoria» (ib. 6.3.17; cfr. anche 6.3.41, 7.4.86, 9.7.17, mai in senso proprio; altri esempi in CorpusArtesia); 1373: «comu piru insitatu supra pumu vivi per vita di piru et per vita di pumu» (SposMatt 311.17; cfr. 263.13, 311.28, 316.11 e 12); 1519: «inczitari oi insitari: insero; i. insembla: consero; incitari di ochu: inoculo, oculos imponere; incitari a cona: emplastro» (Scobar 53v, accanto a «inczitari cumuviri: incito» ecc.) e «insitari vide incitari: insero» (ib. 56v). Dal 1752 fino a Cav 104 e VS 3, 373 tutti i vocab. registrano la voce, da dBono 2, 518 fino a NicDUr 180 dando come principale la forma ’nsitári, da Tr 662 a Cav l.c. e VS l.c. considerando tale invece ’nzitári, che appare comunque da dBono 2, 544. AIS 7, 1255 ‘innestare l’albero’ registra la forma ’nsitari a Vita, Naro, Mascalucia, Mandanici e Mistretta, ’nzitari a Baucina, S. Biagio, Calascibetta, Catenanuova, Bronte, S. Michele e Giarratana; anche le isole Eolie e Barcellona hanno ’nz- (cfr. Coray 313). Anche nzitari li vaialori v.tr. ‘innestare il vaiolo’ (1875 Mac 217), nz. li valori VS 3, 373 (da Man e Tri) e cocci nzitati ‘le cicatrici della vaccinazione antivaiolosa’ ib. 374 (da Adrano). Altre forme: insitári 1786 a Pasq 2, 338 e poi solo Tr 494; zitári 1868 Tr 1116 e TrV 492, poi ripreso da VS 5, 1295 (zzitári); anzitári 1977, VS 1, 208 da Carlentini; ’nzidári 1990, VS 3, 364 (a Faro Superiore e Milazzo, da ALI). Quanto al senso, tutti i vocab. danno tr. ‘innestare’, a volte specificando i vari tipi di innesto (così dBono 2, 518; Pasq 3, 340; VS l.c. ecc.); dal 1789 Pasq l.c. c’è anche il valore generico ‘attaccare, congiungere’ (ripreso in VS 3, 374), che in Tr 662 (e poi TrV 297, NicD 563 e VS 3, 373) si specifica in ‘unire i doccioni ficcando le estremità dell’uno nella bocca dell’altro’, in Mac 217, TrV l.c. e NicDUr 180 in ‘mettere o congiunger la setola allo spago’ (dei calzolai), che risente di → ’nzíta, in VS 3, 374 anche da Montedoro e Ragusa, e ‘legar l’amo alla lenza’ (dei pescatori), in VS l.c. (anche da Acicastello e, con significato affine, da Portopalo di Capo Pàssero). C’è inoltre un uso assoluto, che dBono 2, 518 definisce ‘quadrare, cadere in acconcio’, Pasq 3, 318 ‘piacere, accomodarsi, quadrare’ e che torna in Rocca 230 (viene ripreso da VS l.c.); dBono l.c. aveva ancora ‘strigner amicizia’, da qui in VS l.c. VS 3, 374 separa un nzitári v.intr. ‘ronzare, della trottola quando, girando vorticosamente, emette un ronzio caratteristico’, da Regalbuto. – Dalla c. cit. nell’AIS si ricava che il tipo è presente a S. Fratello, Sperlinga e Aidone (cfr. Raccuglia 289), sempre con ’nz-; cfr. piazz. ’nz’tté ‘innestare’ (Roccella 185). Cfr. cos. nsitare, nz- ‘innestare’ (NDDC 476, cui AIS l.c. aggiunge sporadiche attestazioni della Calabria 77 centro-merid., dove prevale ┌annestari┐); Maratea, S. Chirico Raparo e Teggiano nźitá ‘id.’ AIS l.c.; Amaseno nźetá ‘id.’ (Vignoli 73); roman. insitare ‘id.’ (Chiappini 150); irp. nzetà ‘id.’ (Nittoli 156); sal. nsetare, nz- ‘id.’ (VDS 2, 420; è già del sec. XV: cfr. AGl 16, 1902-05, 67); bit. nzetène ‘id.’ (Saracino 300); rub. nzetò ‘id.’ (Di Terlizzi 145); molf. nzetà ‘id.’ (Scardigno 355); bisc. inzità ‘id.’ (Còcola 96); andr. nzetèie ‘id.’ (Cotugno 130); abr. nźitá ‘id.’ (Giammarco 3, 1365; poco comune: qui come in gran parte del mezzogiorno prevale ┌insertare┐). La c. cit. dell’AIS conferma questa distribuzione Matera, Pisticci e Ripa Candida in Basilicata e Sonnino nel basso Lazio; c’è poi qualche P. tra Abruzzo e Umbria (615, 616 e 566), la Romagna e l’appennino toscoemil., compreso 511 Campori e 500 Pontremoli e fino a 420 Coli. Ma insertare ‘id.’ è del tosc. ant. (1300 ca.: Batt. 8, 109c, dove anche Leopardi lo dichiara diffuso) e probabilm. ancora vivo. Il tipo ritorna in Lombardia (dalla bassa mil. fino alle Alpi del Ticino), nelle valli alpine del Piemonte or. e nel Friuli (cfr. AIS l.c.); anche il campid. ha insiđai ‘id.’ (DES 1, 637a). A parte l’inesplicabile insinuazione in Amari 3/3, 912n che possa trattarsi di arabismo ed una dilettantesca etimologia di Sacco 1, 122 (da INSERTARE), tutti gli studiosi, da De Gregorio, StGl 1, 1899, 106 a Coray 313; AlessioLatinità 385; Merlo, RIL 84, 1951, 61; Wartburg, Z 68, 1952, 18 e FEW 4, 718a; FaréSalv 4467 e Ambrosini 155, concordano nel riconoscere la base in un lat. *ĬNSĬTĀRE, formato su insĭtus, part. perf. di inserere ‘innestare’. REW 4467 e chi ne dipende danno il v. lat. come attestato, ma di esso non trovo traccia prima del 936 (Arnaldi 1, 278, dal codice di Cava, 1, 203.17). Per l’oscillazione -ns- / -nz- cfr. Rohlfs, § 267. ’nzítu s.m. ‘innesto’: 1519: «incitu quistu [a cona]: emplastratio; i. planta: talea, surculus; i. pichulu: taleola» (Scobar 53v) e «insitu vide inczitu: talea» (ib. 56v); ’nsítu appare nel 1752 dBono 2, 518 per ‘pianta o ramo innestato’ e torna fino a Tr 654, mentre la forma con nz- è nel 1844 in Mort 2, 42 e poi in Tr 662, TrV 297 e VS 3, 374, dove vale anche ‘marza (da Spat e Man); tralcio o ramo che viene fuori dalla gemma dell'innesto (da Man); alberello (a Caronìa, da ALI); piantina d'olivo (da Frazzanò)’; insítu 1786 Pasq 2, 338; nzídu 1990 VS 3, 364 (a S. Marco di Milazzo, da ALI). Cfr. piazz. ’nzitt ‘id.’ (Roccella 184). Cfr. cos. nsitu, nz‘innesto’ e regg. nsitu ‘albero giovane, per lo più di agrume, innestato e che comincia a far frutti’ (NDDC 476); Trevico e nźit S. Donato (i) nźitə ‘innesto’ (AIS 7, 1255); Amaseno nźetə ‘id.’ (Vignoli 73); irp. nzito ‘id.’ (Nittoli 156); sal. nzitu ‘id.’ (VDS 2, 434a); rub. nzèite ‘id.’ (Di Terlizzi 145); fogg. (Carpino) nzìte ‘id.’ (Melillo 94). È probabile, ma non sicuro, che la stessa parola sia attestata a Bagnoregio nel 1373 (SellaIt 221 e 295 s.v. ensitus e insitus). De Gregorio, StGl 1, 1899, 106 dà come base di questa voce il lat. INSITUS, che in effetti ha avuto continuatori in Italia (cfr. REW 4468), ma la cui penultima vocale era breve, sicché ne possono essere continuatori il roman. e marchig. énseto (nonché l’it. ínseto di Caro, Soderini e Leopardi, Batt 8, 109c, a patto che l’accento sia proprio sdrucciolo, e il regg. ínsitu ‘pollone di olivo; piccolo olivo già innestato; castagnuolo, che si coltiva per i travi’, catanz. id. ‘olivo giovane’, NDDC 328), non però forme come le sic. (malgrado Coray 313; FaréSalv 4468, ma non REW ib.). Peraltro Flechia, AGl 2, 1876, 352-3, aveva postulato *INSĒTUM (accettato pur esso da FaréSalv 4459a, nonché in NDDC s.v. insitu), da cui traeva le voci piane, ma è certo 78 preferibile la soluzione di REW 4467, che le considera tutte deverb. di ┌ insitare┐ (si noti l’incoerenza con cui FaréSalv accoglie anche questa terza spiegazione, oltre alle due già menzionate). ’nsitúni1 s.m. ‘pianta innestata ben abbarbicata e fronduta’ (1789, Pasq 3, 318); ’nzitúni ‘pianta innestata da pochi anni’ (1990, VS 3, 374, da Bronte), poi solo ’nzit ni ‘alberetto (per es. di carrubbo) ancora giovanissimo’ (Leone, Boll 14, 1980, 342, dalla Sicilia sud-or., segnalato in VS l.c.). Cfr. bit. ’nzetàune ‘ramo adatto per fare gli innesti’ (Saracino 300). Per ’nzitúni2 2 ‘foruncolo’ ’nzita . ’nsíta s.f. ‘innestamento, innestagione’ (1789, Pasq 3, 318 e poi fino a NicD 563; la forma ’nzíta ‘id.’ da Pasq 3, 340 a TrV 297 e VS 3, 373 (anche da Francofonte, Frazzanò, Grammichele e dai dialetti etnei sudor.). Il senso ‘pianta o ramo innestato’ è nel 1839 in Rocca 230 e poi in NicD l.c., ma cfr. nz. ‘pianta, soprattutto vite, innestata da recente (da Acicastello, Paternò e S. Alfio); marza (da Man, Paternò e S. Maria di Licodia); tralcio o ramo che viene fuori dalla gemma dell'innesto (da Man, Centuripe e S. Alfio)’ 1990, VS l.c.; 1977 ’nzita ‘olivo giovane (selvatico) innestato’ (RohlfsSuppl 76, da Taormina, ripreso in VS l.c., anche da Tri); nzída (rar.) ib. 264 a Faro Superiore, da ALI. La forma f. appare nel 925 nel codice di Cava (cfr. Arnaldi 278 e De Bartholomaeis, AGl 15, 1899-1901, 345) e ha paralleli emil.: cfr. mod. insêda ‘id.’ (Neri 110). Cfr. anche sardo sita, siđa ‘ramoscello, frasca’ (DES 1, 637a). ’nsitaméntu s.m. ‘innestamento’: 1519: «inczitamentu: insitio, consitio; incitamentu idem [di ochu]: inoculatio» (Scobar 53v); 1752 ’ns. ‘innestamento’ dBono 2, 517 e poi fino a Tr 654; qui a 494 anche insitaméntu e a 662 ’nzitaméntu. ’nsitatúra s.f. ‘l'atto e il luogo dello innestare’ (1844, Mort 2, 33 e poi NicD 563 e NicDUr 180); ‘la parte dove il doccione s’inoscula nell’altro’ (1883, NicD 563); 1868 ’nzitatúra Tr 662 negli stessi sensi e poi fino a NicDUr 186, il 2° senso ripreso anche da VS 3, 374 (qui anche nz. ‘legatura che viene fatta attorno al gambo dell'amo per assicurarlo alla lenza’, da Riposto); nzitatura ‘parte del tronco in cui è stato praticato l’innesto’ (Genchi-Cannizzaro 199). Cfr. roman. insitatura ‘congiunzione di due assi a maschio e femmina’ (dei falegnami) (Chiappini 150); lecc. nsitatura ‘la parte superiore del timone dell’aratro che si divide in due pezzi’ (VDS 2, 420a); it. insetatura ‘innesto’ (1300 ca.: Batt 8, 109c). ’nzitátu agg. ‘innestato, di pianta su cui sia stato praticato un innesto’ (1990, VS 3, 374, senza localizzazioni). ’nzitáta s.f. ‘l'insetare [cioè ‘innestare’]; l’inosculare (tegole)’ (1868, Tr 662); ‘operazione consistente nel sostituire in un infisso la parte fradicia’ (GenchiCannizzaro 199). Si veda anche ’nzitatina s.f. ‘la somma di denaro occorrente per praticare un certo numero di innesti in un vigneto o in un frutteto’ (1990, VS 3, 374, da Bompensiere). ’nsitatúri s.m. ‘innestatore’ (1752, dBono 2, 518 e poi fino a Mort 2, 33 ed in NicD 563, NicDUr 180; GenchiCannizzaro 199). La forma ’nzitatúri ‘chi o che innesta’ 1868 Tr 662 e poi fino a Cav 104, che ha anche ‘coltello da innestare’, e VS 3, 374. Cfr. piazz. ’nz’ttaor ‘innestatore’ (Roccella 185). ’nzitábili agg.: 1519: «inczitabili cosa: insititius, insitivus» (Scobar 53v). ’nzólia s.f. ‘qualità d’uva relativam. tardiva, di colore dorato, a forte contenuto zuccherino’ (1522, nella 79 forma insolia), è voce di area cal., nap. e tosc. (ma quasi solo lungo le coste e con vitalità scarsa), nonché sarda, di origine finora ignota. 1522: «Uva. hec uva... cuius plures sunt species:... precis la insolia, quasi praecox...» (Vall 88); 1614-15 Palermo: «inzolia» (MaggiorePerni 577); 1752 ’nz. ‘sorte d’uva bianca e nera assai buona, i cui acini sono bislunghi’ dBono 2, 545; la forma ’nz. è poi da Pasq 3, 340 a Cav 104 e VS 3, 375, sempre con la stessa definizione (Tr 663 rinvia anche a → zibbibbu) o con il rinvio alla forma nsólia, che (dopo Vall) è nel 1759 in Vinci 172 (‘uvae species’) e poi da Pasq 3, 318 a Tr 654, NicD 563 e NicDUr 180, con definizione identica a quella data sopra. La forma nzúolia (da Salina) e quella nsúolia (da Lipari) in Coray 312, cui VS 3, 381 aggiunge nzuólia da Castelbuono; sória è solo nel 1877 TrV 416, ripreso da VS 5, 94-5 (qui anche da Can); anzólia ‘varietà di uva bianca da tavola’ è nel 1977 VS 1, 208, da Naro, con anzuólia ‘id.’, da Adrano; nzória è nel 1990 VS 3, 376 (da Bronte e Castiglione di Sicilia, e a Tortorici, da Franchina 1982, dove vale anche ‘botte, percosse’; źźólia ‘inzolia, una qualità di uva’ VS 5, 1302 (da Can, con attestazioni a Biancavilla, Cammarata, Castellammare del Golfo, Castrofilippo e Isola delle Femmine); VS l.c. dà anche źźória ‘id.’ (da Man). Nell’uso pal. attuale, ’nz. designa un’uva a chicchi tondeggianti, piuttosto piccoli, di colore bianco dorato, a forte tenore zuccherino, che matura più tardi di altre qualità come lo → zibbibbu. Il nome può designare anche uva passa (cfr. Coray 336, per le Eolie) e ‘il vino che si ricava dalla ‘nz.’ (VS l.c.). Una serie di usi traslati e locuzioni, a volte attestate fin dal 1752, sono in VS 3, 375. Cfr. piazz. ’nzölia ‘uva bianca’ (Roccella 184). Cfr. cal. centro-merid. nzólia e insólia, cos. ansólia, nsuólia, anzulu e ansólicu ‘ansoria, sorta di uva bianca’ (NDDC 83, 84 e 485; le forme sono tutte localizzate in paesi del versante tirrenico, con la sola eccezione di Castrovillari); nap. uva nzóleca (DES 1, 637b, sec. XVII), insòlia, insòlica, -ga, anzònica ‘uva bianca e rossa’ (Maccarrone, AGl 29, 192, 33, da fonti ampelografiche ottocentesche di dubbia precisione); Pitigliano anzónika ‘sorta di uva bianca’ (ID 12, 1936, 105); Porto Ercole e Isola del Giglio anzónaka, Isola del Giglio anche anzónika, ‘varietà di uva bianca’ (ID 41, 1978, 136; il vino è detto all’I. del Giglio anzónako, anzóniko); Elba ansóniko ‘sorta d’uva bianca che fa un vino dello stesso nome’ (ID 8, 1932, 215; manca nel recente lessico della Diodati Caccavelli, come la forma f. registrata nell’800); it. ant. ansòria (sec. XVI: DEI 1, 217); sardo èrƀa ins lika ‘varietà di vite a frutto bianco’ (DES 1, 637b) da confrontare con sic. nzólica medica s.f. ‘bugola (Ajuga reptans L.)’ 1924 Penzig 1, 17, ripreso in VS 3, 376 (anche da Man). Gioeni 200 si limita a stabilire la corrispondenza tra sic. ’ns lia ed it. ansòria, citando ess. dubbi di -r- > -l-. Maccarrone, AGl 29, 192, 33-6 tratta ampiam. la questione, esclude l’etimo gr. Σσρία ‘Siria’ ed il corrispondente agg. ζσρία ‘siriaca’ (per ragioni fonetiche), il topon. iberico Soria e quello ciprioto Σολία (per scarsa o nulla forma dei relativi vitigni e/o vini) ed infine ritiene fondato il prestito dall’ant. fr. *sorie ‘fulva, bionda, color d’oro’ (presunta var. dell’attestato soire ‘id.’), da cui grazie ai Normanni si sarebbe avuto in Sicilia (racina) sória, forma a partire dalla quale Maccarrone ritiene spiegabili tutte le altre, sic. e no. Questa trafila è data come incerta in DEI 1, 217, discussa in Enotria 16, n° 4 (che conosco solo da DES 1, 637b: Alessio la 80 accoglierebbe, Dalmasso la considererebbe inverosimile), esposta senza prendere posizione da Wagner, DES l.c., che si limita a giudicare come di origine probabilm. nap. o sic. la voce sarda. I dubbi in effetti non sono pochi: in fr. ant. esistono soltanto saur, sor, soir ‘jaune brun, fauve’, ‘d’un blond doré’ (FEW 17, 18) ed anche il lat. d’Inghilterra non ha altro che sorus, saurus (Latham 445), sicché il sic. dovrebbe avere *sóra; se del resto un ant. fr. f. *sórie fosse esistito, in Sicilia si avrebbe *suría e non sória. A questo punto diventano superflue osservazioni minori (la -z- di nz. è sorda e non sonora, il passaggio -r- > -l- non è registrato da Rohlfs, § 224, mentre ib., § 221a c’è semmai il fenomeno inverso, sia pure con focolai galloit.). L’unica plausibilità della base ant. fr. è dunque quella semantica, perché in effetti si tratta di una qualità dorata di uva, ma la mancanza di conferme fonetiche costringe a dichiarare insoluto il problema. La diffusione e vitalità del termine in Sicilia, in contrasto con la sua attestazione debole e limitata alle coste tirreniche nella penisola e alla sua natura avventizia in Sardegna, fanno pensare che il focolaio di diffusione sia sic. (si avverta però che nulla sappiamo dell’antichità del ceppo e che del resto l’attestazione del termine è relativam. mod.). nzulïúni s.m. (solo sing.) ‘varietà di uva, non meglio determinabile’ (1990, VS 3, 379, da Aci Castello). ’nzúnza s.f. ‘sugna’ (1367, nella forma insunza), continua il lat. AXŬNGIA ‘grasso’, attraverso una forma *INXŬNGIA, assicurata dai riflessi, oltre che in Sicilia, in Italia merid., Grigioni, Vallese, penisola iberica; ma nell’isola esistono o sono esistiti anche esiti diretti di axungia e forme rifatte sull’it., come ’nzugna. 1367 Alcamo: «carne salata, insunza, formaggi et cascavalli» (CapAlcamo 65; è però copia del sec. XVI); 1368: «li favi... cocti beni cun la sunza di lu porcu nova e calda» (Mascalcia 582) e «la sunza di lu porcu veccha» (ib. 590) e «la assunza veccha» (ib.) e «la assungia di lu porcu vecchia... cun la dicta assunzia» (ib. 590) e «altritanta sungia veccha» (ib. 594); 1371 Palermo: «la sunza» (Rinaldi 14.78); 1399 (?) Messina: «cantario assungie» (Pandette 92); 1440 Sciacca: «lu rotulo di li inzunzi divi essiri unc. xxxiij et terza» (CapSciacca 14); 1497 Francofonte: «unu cofinu di stirrari plinu di insuncza» (Gaudioso XCVI); 1500 ca. Modica: «la inzunza» (ASSO 64, 1968, 244); ulteriore documentazione antica in CorpusArtesia, con le forme ansugia, anzunza, assuncza, asunza, czuncza, insuncza, insungia, insunza, inzunza, sungna, sunza, zunza; 1519: «czuncza: adeps, unguen; cz. per carru: axungia» (Scobar 35r) e «insuncza: adeps, obdomen [sic]» (ib. 57r) e «zuncza vide czuncza: axungia» (ib. 115r); 1522: «zunza, hec azungia..., adeps..., dicitur etiam axungia» (Vall 89); sec. XVI: «πήγγια μένηζζοσ ρρόηοσ δι νζού<ν>ηζα» e «ηνζοσ<ν>ηζα» (Z 32, 1908, 578 e 579; cfr. la discussione tra Scheegans, Salvioni e Subak ib. 33, 1909, 325-7, 329, 335 e 337; la lettura (i)nsuccia di Salvioni non ha nessun fondamento ed è molto meno costoso ipotizzare con Scheegans l’omissione di ν che non, con Subak, un errore ν → σ e quindi una o tonica assai strana nella nostra parola); 1752 ’nz nza e ’nsúnza ‘grasso d’animale attaccato alle reni’ dBono 2, 519; la 1a forma è in Meli 2, 711 («l'invittu don Chisciotti,/ longu ed asciuttu, senza carni e ’nzunza», 81 autoglossato ‘qui vale magro’) e poi da Mort 2, 42 a Cav 105 e VS 3, 380, sempre ‘grasso del porco’ (varie locuzioni in VS l.c.), mentre la 2a arriva solo fino a Mort 2, 33 e torna poi in NicD 564; nel 1759 Vinci 172 dava súnza come mess., nel 2002 VS 5, 443 registra tale forma a Frazzanò, Milazzo e Mistretta, ma anche a Pantelleria, col senso di ‘grasso del maiale che si scioglie per fare lo strutto’ e aggiunge altri sensi analoghi. Nel 2002 VS 5, 1317 registra anche zzunza da Buscemi e S. Teodoro (e, con il senso fig. di ‘untume, sporco untuoso e persistente’, da S. Giovanni Gèmini). Da AIS 2, 248 ‘la sugna’ la distribuzione delle var. risulta questa: nzunza è a Vita, Baucina, Calascibetta e Catananuova; nźunźa a S. Michele e Giarratana, nsúnsa a Naro, sunza a Mandanici e Villalba, cui VS l.c. aggiunge per questo senso Pantelleria (la voce concorrente → saími appare a Palermo, Mistretta, S. Biagio e Mascalucia). Inoltre abbiamo il f. pl. i sunzi ‘id.’ 1990 VS l.c., da Pantelleria e da ALI (a Campofelice di Roccella, Caltavuturo e Castelbuono). L’uso del Meli trova riscontro nelle loc. aviri li nzunzi ‘essere grasso’ e faricci li ’nzunzi ‘ingrassare; godersela’, che sono già in dBono l.c. (aviri li ns.; fari li ns.) e Pasq 3, 319 (aviri li ns.; fari li nz.), e vengono ripresi anche in VS 3, 380 (nonché in VS 5, 443: aviri i sunzi, da Pantelleria). Can dà anche sunza di ṭṛofa ‘varietà di uva non meglio specificata’ 2002, VS 5, 443. – Cfr. piazz. ’nzonza ‘sugna’ (Roccella 184), confermato da AIS l.c., che ha il nostro tipo a S. Fratello, Fantina ed Aidone (cfr. Raccuglia 290). La c. cit. dell’AIS, e ora LEI 3/2, 2745-2764, ci mostrano come il tipo sia generale nell’it. centr. e merid., con sporadica concorrenza di ┌saime┐. L’elemento discriminante è solo fonetico: l’uscita -nza copre quasi tutta la Calabria (meno i P. estremi 791 e 745), ma poi appare solo ai P. 733, 725 e 715, salvo a ripresentarsi a partire da Liguria, Garfagnana ed Emilia; l’area intermedia ha invece -gna (cfr. it. sugna); una stretta fascia di -ngia corre lungo l’appennino tosco-emiliano ed a cavallo tra Romagna e Marche. Infatti nei lessici troviamo cal. nzunza (o nźunźa, nzunźa, nsunza, nźonźa, cal. centro-merid. sunza, zunza, regg. sunźa, catanz. źunźa) ‘sugna’ (NDDC 485, 702 e 818) cui posso aggiungere solo un dubbio lecc. nzonźa ‘strutto’ (VDS 2, 434). C’è poi da ricordare il logud. assúndza (contro campid. assúnğa) ‘sugna; sego per le scarpe’ (DES 1, 140b). C’è poi un altro criterio discriminante, l’inserzione di -n- prima dell’esito di -X-: qui l’area che concorda con la Sicilia è più ampia, in quanto con poche eccezioni ingloba nell’AIS l.c., Calabria Basilicata Campania Puglia Molise e Abruzzo (per il quale cfr. nźògna ‘sugna, strutto’ Giammarco 3, 1365); il fenomeno inoltre si ritrova al P. 15, nel Grigioni, nonché nel Vallese (VRom 13, 1954, 249) ed in tutto l’iberorom. (cfr. DCECH 2, 633). Fin da Vinci 172 è stato chiaro che la base delle forme sic. è il lat. AXŬNGIA ‘unto, grasso’ (sec. I d.Cr.): cfr. De Gregorio, StGl 3, 1903, 260; Salvioni, RIL 44, 1911, 939n; Rohlfs, § 279; FaréSalv 846; LEI l.c. Per la storia di questa base in Italia (ed anche nella Romània) cfr. oltre REW 846 e FEW 1, 190b, soprattutto Jud, VRom 13, 1954, 220-65, che considera l’inserzione di -n, data la distibuzione areale, come risalente ad epoca ant. ed analoga a quella che riscontriamo in inverno, imbriaco e soprattutto nell’it. merid. nzorare ‘sposare’: così da AXUNGIA si passa ad *ANXUNGIA e poi ad *INXUNGIA. Da questa base l’esito normale in sic. è (i)nsunza, con -z- di norma sorda (→ granza, → sponza; ma la sonora alterna senza precisa regola: 82 cfr. Jud, l.c., 228). Ma rispetto al quadro lineare di Jud, la documentazione sic. introduce una forte accentuazione della variazione: nella sola Mascalcia (1368) troviamo assunza (e -zia, probabilm. semplice var. grafica) ed il suo probabile sviluppo sunza, ma anche (as)sungia, la cui uscita non è più attestata nell’isola (ma dietro al diagramma ηζ del testo cinquecentesco in caratteri greci potrebbe nascondersi anche [ğ]) ma trova modernam. riscontro nella Toscana sett., in alcune aree lomb. e nel Trentino, oltre che nel Campidano. Il dubbio assai forte sull’autoctonia di (as)sungia porta con sé quello analogo su assunza, che sarebbe però superato se il sunza di area mess. (1759 e AIS; qui anche a Villalba) fosse certam. da questa forma. È però possibile che sunza stia a insunza come zunza a inzunza, cioè che non si tratti di falsa discrezione dell’articolo (l'assunza → la sunza), ma di retroformazione in base alla frequente alternanza s-/ns- e soprattutto z-/nz-. In ogni caso insunza è attestato quasi contemporaneam. a inzunza (con -ns- > -nz-: cfr. Tekavčić, § 228) e convive con esso fino ad oggi. La convivenza in Sicilia di esiti di AXUNGIA e di INXUNGIA non è sicura ma è possibile, ed in ogni caso i continuatori della prima base hanno avuto, anche se di provenienza esterna, una qualche vitalità: lo stesso è accaduto con una forma certam. non autoctona, ’nsúgna (1868, Tr 1153 e poi Mac 213, TrV 289 e A. De Gregorio, StGl 8, 1928, 162, che la dice comune), ’nzúgna (1875, Mac 213; VS 3, 378 documenta la forma a Malfa, da ALI), sinon. di ’nzunza, che rappresentano incroci tra le forme sic. con n- ed il tosc. sugna (nei dial. merid. con -gna la vocale tonica è o tranne che in Basilicata e Salento; anche oltre lo stretto troviamo però cal. nzugna, regg. anche nsugna ‘id.’ (NDDC 485; Jud l.c. 234 non dubita che si tratti di prestiti dall’it.). In Sicilia ritroviamo così tutti i tipi distinti da Jud. nzúnzia s.f. ‘sugna, complesso delle parti grasse e molli del maiale situate nella regione renale, da cui si estrae lo strutto’ (VS 3, 380, da Spat). Ancora, cfr. le forme maschili nzúnzu ‘id.’ (1990, VS 3, 381, da Bronte), ‘untume, sostanza grassa e sporca’ (ib., da Bronte, Cammarata, Niscemi e Randazzo); zzúnzu ‘id.’ (2002, VS 5, 1318, da Bronte), ‘sugna, grasso del maiale da cui si ricava lo strutto’ (ib., da Bronte e Motta Camastra). Ib. anche zunzú s.m. ‘scherz., maiale; carne di maiale’, da Tortorici. ’nzunziéḍḍu s.m. ‘nome di una maschera carnevalesca a Monterosso e Giarratana’ (1887, GuastellaCarnevale 81). Guastella la descrive così: «[il 17 gennaio, alla fine della messa] prorompea nella chiesa una frotta briaca, con pelli e corna di becco, con facce tinte di fuma e di terra rossa... Venivan chiamate ’nzunzieddi, cioè impiastricciati, appunto perché insudiciavan la faccia». assunzári v.tr. ‘imbrattare, sporcare’ (VS 1, 310, da Mal) . ’nzunzári v.tr. e rifl. ‘impiastricciare con grascia; imbrattare con checchessia’ (1752, dBono 2, 519 e poi da Tr 663 a Cav 105 e VS 3, 380), tr. ‘ungere’ (1868, Tr l.c. fino a NicDUr 186 e VS l.c.), ‘ingrassare le scarpe’ ib. (a Naro, cfr. AIS 8, 1566); ‘ungere stoppa o stracci con olio, petrolio, nafta e sim.’ ib. (da Pantelleria); gerg. ‘dare una coltellata’ (1930, Calvaruso 124, ripreso in VS l.c.). Le var. ’nsunzári 1752 dBono l.c. fino a NicDUr 180, anche con rifl. ‘arricchirsi’ 1789 Pasq 3, 319 e poi Rocca 231 (anche in VS l.c., nella forma ’nz.); zzunzári 2002 VS 5, 1318 (da Bronte). ’nsunzátu agg. ‘untato, unto, o lordato’ 1752, dBono 2, 520 fino a NicD 564; ’nzunzátu 1868, Tr 663 fino a VS 3, 380, in varie localizzazioni; anche 83 zzunzátu 2002 VS 5, 1318 (da Bronte). ’nzunzáta s.f. ‘l'ungere’ (1868, Tr 663 e poi fino a NicD 572; ib. 564 la var. ’nsunzáta). La forma compare anche in VS 3, 380, ma solo in dari a nz. ‘chiedere per necessità ma con molta riluttanza un favore o un aiuto a persona alla quale si preferirebbe non rivolgersi’ (da Catenanuova). ’nzunzúsu agg.: 1519: «czunczusu: adiposus» e «insunczusu: adiposus» (Scobar 35r e 57r); 1868 ’nz. ‘che insudicia’ Tr 663 e poi fino a NicD 572 e VS 3, 381, mentre 1914 NicDUr 187 ha ‘che ha in sé dell’unto’. La var. ’nsunzúsu ‘che insudicia’ 1883 NicD 564; mani sunzusi ‘mani sudicie’ 2002, VS 5, 444 (da Castelbuono). ’nzúnzuli s.m. pl. ‘ciccioli, residui abbrustoliti della sugna dopo l'estrazione dello strutto’ (1990, VS 3, 381, da Altavilla Milicia, Catenanuova e Leonforte); źźúnzuli 2002, VS 5, 1318 (da Lipari e S. Maria di Licodia). ’nzunzúni s.m. ‘chi mangia o chi cucina sciatto e sudicio; lercio’ (1868, Tr 663 e poi TrV 297 e NicDUr 572, che rinvia a 564, dove si registra con gli stessi sensi la var. ’nsunzúni; ’nz., anche da Palermo, in VS 3, 381). Per questo tipo di formazione su tema verbale cfr. Rohlfs, § 1095 (FaréSalv 846 registra a Mirandola sunźòn ‘sudicione’. ’nzunzaréḍḍa ‘escl. di buon augurio rivolta al bambino in fasce quando rutta’ (1990, VS 3, 380, da Riposto); i sinonimi nzunzaríḍḍu ib. (da Adrano) e nzunzíḍḍa ib. 381 (da Catenanuova). ’nzunzunaría s.f. ‘sudiciume, sporcizia’ (1990, VS 3, 381, da Palermo). ’nzunzunïári v.tr. e intr. ‘accr. di nzunzari’ (1868, Tr 663 e poi fino a NicDUr 187e VS 3, 381), ‘far una cosa alla peggio’ (1868, Tr l.c., poi TrV 297 e VS l.c.), ‘muovere, eccitare, stuzzicare’ (1868, Tr l.c., poi TrV l.c. e VS l.c., da Avola), ‘indurre q. ad azioni illecite con ragionamenti capziosi e subdoli’ (1990, VS l.c., da Mistretta, ma già in Tri). La var. ’nsunzunïári è già nel 1844 in Mort 2, 33 (e poi in NicD 564) nei due primi sensi, mentre nel penultimo si trova solo in NicD l.c.; zzunzuniári ‘sporcare di untume’ 2002, VS 5, 1318 (da CavallaroMs). ’nzunzuniátu agg. ‘incrostato di sudiciume’ (1990, VS 3, 381, da Gagliano Castelferrato). zzunzadóru in pira zz. ‘una varietà non meglio determinata di pere’ (2002, VS 5, 1318, a Dèlia, da Can); anche pira zzunzudóru ib. (a Mazzarino). 84