Multinazionali
"Tutti da Ikea", ma è davvero sostenibile?
Oltre al risparmio, tra i fattori che hanno decretato il successo di Ikea vi è il suo essere 'eco'.
Quanto però la multinazionale svedese low cost può essere considerata realmente sostenibile
dal punto di vista ambientale, economico e sociale?
di Umberto Mezzacapo - 28 Settembre 2012
Il carattere innovativo di Ikea che ne ha decretato
il successo fa leva su tre fattori: il risparmio,
l’essere ‘eco’ e la ‘sindrome da Lego'
La geografia del paesaggio italiano è in costante e
mutevole evoluzione, provate a monitorare Google earth o
map o qualsiasi webgis, o ancora più semplicemente
percorrere qualsiasi infrastruttura durante un range
temporale non necessariamente lungo per rendersi conto
dell’antropizzazione crescente dei luoghi.
Il cemento delle lottizzazioni e dei servizi annessi e
connessi ha trovato posto soprattutto nelle adiacenze di nodi stradali ed autostradali e
viceversa, alimentando blob di cemento e asfalto tecnicamente definiti sprawling: si
abbandonano i centri urbani costosi ed inquinati e si va nelle periferie anonime assurte a
dormitori. In corrispondenza dei sobborghi si insediano le cattedrali del consumo
rassicurante, democratico e ‘liquido’, quei centri commerciali provider di prodotti e servizi
uguali da Bolzano a Catania. Il rituale per eccellenza viene consumato in quegli enormi
blocchi color blu lucido con la scritta in giallo, diventati negli anni mete turistiche o,
addirittura, costruiti in seguito a raccolta firme di sostenitori locali stufi dei pellegrinaggi in
altre regioni: parlo di Ikea, la multinazionale svedese specializzata nella vendita di mobili,
complementi d'arredo e oggettistica domestica low cost, che annovera 258 centri di vendita in
37 paesi, gran parte dei quali in Europa.
Il carattere innovativo di Ikea che ne ha decretato il successo fa leva su tre fattori: il
risparmio, l’essere ‘eco’ e la ‘sindrome da Lego'. Ikea, infatti, si limita a fornire i materiali
smontati, di origine certificata e in un formato facilmente trasportabile, sarà il cliente a
provvedere a propria cura al trasporto ed all'assemblaggio del mobile.
Sono stato un paio di volte in un mega store Ikea, ma la struttura labirintica degli spazi
espositivi mi disturbava e mi disorientava, abbastanza da tenermene alla larga il più a lungo
possibile. Ho scoperto, poi, che la struttura dell'Ikea è un'arma psicologica tesa a
confondere e disorientare i clienti in modo da farli spendere sempre di più.
Il catalogo Ikea è considerato il più importante strumento
di marketing del gruppo
La multinazionale scandinava, in ogni caso, ha reso asset
fondamentali della sua strategia aziendale i valori, gli usi e
costumi del paese di origine che si riflettono nel design, nello stile
razionale e lineare, una perfetta sintesi tra funzionalità ed
estetica.
La comunicazione del gruppo svedese, lo spot 'Ikea basta poco’
è paradigmatico in tal senso, è driver di questi valori: apertura
mentale, essenzialità, familiarità.
L’impegno di Ikea per la sostenibilità sembrerebbe notevole e la
Corporate Social Responsability uno dei suoi tratti distintivi: si va
dal Cause Related Marketing al finanziamento di progetti di
Cooperazione allo Sviluppo, dal legno certificato all’uso di energie
alternative (Ikea punta ad essere completamente indipendente dal punto di vista energetico
nel giro di qualche anno) per ridurre le emissioni di gas clima-alteranti, dalla lavorazione del
cotone eco-compatibile all’utilizzo razionale di risorse idriche. L’impegno sociale di Ikea si
manifesta anche attraverso le collaborazioni con diverse
Ong ed istituzioni pubbliche che si occupano di temi sociali
e di ambiente (Unicef, Save the Children, WWF).
Un accurato controllo di tutta la filiera di produzione
garantirebbe, poi, che tutto il ciclo di vita dei prodotti sia
sostenibile.
Il successo commerciale di Ikea è indubbio, la sua
formula funziona: ha arredato e arreda milioni di appartamenti, ha creato l’immaginario di un
mondo di clienti-progettisti/arredatori low cost, ha esportato ovunque l’idea che la semplicità
abbinata alla funzionalità possano sopperire alla mancanza di originalità.
Ikea vende prodotti low cost che durano poco quindi destinati ad ingrossare le
discariche, scelta più sostenibile sarebbe quella di produrre prodotti che durino di
più. Non basta, Ikea vuole spingersi oltre e costruire anche la cornice di quegli spazi arredati
in maniera lineare e razionale. Il colosso svedese, infatti, ha deciso di investire nel mattone e
il glossario dell’urbanistica sostenibile si va ad arricchire dell’ennesimo neologismo, per cui
accanto o dentro alle città intelligenti (smart city), a quelle in transizione (transition town),
agli eco-quartieri ad impatto zero, in un futuro molto vicino avremo gli ‘ Ikea District’,
rigorosamente low cost, semplici e funzionali. Ikea sta progettando un intero quartieread
Amburgo nei pressi dell’aeroporto, in un'area di cinque ettari, per costruire uffici,
appartamenti, negozi per migliaia di persone all’insegna della democratica accessibilità per il
portafogli di tutti e con la irrinunciabile dimensione sociale della casa scandinava.
Un simile progetto è stato presentato anche a Londra nelle vicinanze del parco olimpico,
dove si dovrebbero realizzare 1.200 edifici, destinati appunto ad alloggi, uffici, un albergo e
dei negozi. Provo a fare alcune riflessioni più scevre possibili dai miei pregiudizi su
multinazionali e mega store, per capire se Ikea è un’azienda effettivamente sostenibile
nella dimensione sociale, economica ed ecologica.
Facendo una piccola ricerca nel web e leggendo attentamente i bilanci di sostenibilità
pubblicati on-line sul sito della società, emerge la poca trasparenza del gruppo svedese e
l'impossibilità di conoscere il reale bilancio consolidato dell’azienda.
Sempre sul sito di Ikea si può trovare una lista di attività, comportamenti, azioni future, un
imprecisato futuro, che verranno implementate per rendere ancora più sostenibile l’azienda;
parliamo di impegni vaghi e senza obiettivi precisi.
Tenere i prezzi dei prodotti bassi, per un colosso che fa del low cost il dogma assoluto della
sua strategia di marketing, significa abbassare il costo del lavoro il più possibile, da qui la
delocalizzazione nei paesi dove una debole legislatura sui diritti dei lavoratori e un’inefficiente
apparato sindacale fanno sì che un operaio Ikea venga pagato 1,60 euro al giorno, come
accede in alcuni paesi asiatici, in Cina soprattutto, dove avviene il 30% della produzione totale
di Ikea.
"Se il modello Ikea prenderà piede le nostre città
rischieranno di diventare ‘invisibili’"
Non vi è traccia di certificazioni relative ai diritti e alla sicurezza dei
lavoratori nella strategia green di Ikea, come ad esempio la
OHSAS18001 (Occupational Health and Safety Assessment Series
che identifica uno standard internazionale per un sistema di
gestione della Sicurezza e della Salute dei Lavoratori), e le accuse in
rete sull’atteggiamento del colosso scandinavo nei riguardo dei lavoratori abbondano.
La Responsabilità Sociale di cui si vanta il gruppo svedese risponde, poi, ad una strategia topdown senza nessun coinvolgimento degli attori locali dei territori dove sono insediati i suoi
negozi, un atteggiamento tipico delle aziende multinazionali che localmente non hanno
nessun legame con il territorio ed i relativi stakeholders.
Ikea vende prodotti low cost che durano poco quindi destinati ad ingrossare le discariche,
scelta più sostenibile sarebbe quella di produrre prodotti che durino di più; è localizzata in
zone periferiche, fattore questo che incrementa le emissioni a causa dell’incremento di
traffico diretto ai negozi.
Il catalogo Ikea è considerato il più importante strumento di marketing del gruppo, dato che
influisce sul 70% del budget dedicato al marketing aziendale; nel 2008 ne sono state
stampate 198 milioni di copie ed è, dopo la Bibbia, il testo più diffuso al mondo, pubblicato
ogni estate in 52 differenti edizioni, in 27 lingue per 35 paesi. È sostenibile, benché certificata
e di origine controllata, questo tsunami di carta?
Per quanto riguarda i nuovi investimenti del gruppo nel settore immobiliare, anche qui si
risponde ad una logica top-down per esportare un modello abitativo ovunque, senza tenere
conto delle caratteristiche socio-culturali della comunità autoctona, imponendo un modo di
abitare che andrà bene in Svezia, ma ciò non garantisce, come tutti i modelli che pretendono
di essere universali, che possa essere applicato a differenti contesti territoriali. Sostenibilità è
innanzitutto valorizzare e riqualificare l’esistente, signori Ikea, altrimenti il rischio di tirare su
l’ennesimo sprawling è alto.
Nuove periferie, senza soluzione di continuità, figlie del concetto di città globale. Vanno
sparendo le città degli individui, quelle città che avevamo costruito per difenderci e dalle quali
poi ci siamo difesi, per fare posto alle città intelligenti, in transizione. Se il modello Ikea
prenderà piede le nostre città rischieranno di diventare ‘invisibili’, una falsa democrazia
socio/immobiliare senza nessun capitale sociale.
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