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Editoriale
F
inalmente esce il numero della rivista “Il Gobetti” dedicato ad argomenti e tematiche scientifiche! E’ infatti la prima volta che ciò accade, e questo rappresenta un vanto per la nostra
scuola in particolare, e, più in generale, per la divulgazione della cultura scientifica al di fuori
dell’ambiente degli addetti ai lavori. Particolarmente significativo ci sembra, in tal senso, il fatto che
si siano create condizioni favorevoli affinché questo lavoro abbia potuto vedere la
luce, con numerosi e
significativi contributi
“trasversali” da parte
del personale docente
della scuola, e non
solo.
Il problema della diffusione della cultura
scientifica è irrisolto
nel nostro paese. Personalità illustri del nostro panorama politico
e culturale si sono
pubblicamente vantate
di ignorare totalmente
aspetti fondamentali
della matematica, del- Questa foto presa dal BEBC (Big European Bubble Chamber) mostra un
la fisica, della chimica, interazione tra un neutrino e un protone che genera un Mesone D eccitato.
e delle altre scienze.
La spiegazione di ciò si può trovare nella impostazione politico-culturale “ostile” nei confronti delle
discipline scientifiche, in particolare nella scuola ad indirizzo scientifico, dove orari e programmi
sono ancor’oggi fortemente sbilanciati a favore della cultura letteraria. Spesso si adduce come
giustificazione la difficoltà di approccio a queste discipline, che richiede conoscenze specifiche
matematiche. Ciò non toglie che, spinti da un interesse culturale, si possano superare tali difficoltà, così come, per esempio, le difficoltà stilistiche della poesia non impediscono di accedere alla
lettura della Divina Commedia.
Crediamo fermamente che anche la scienza, in senso lato, sia cultura, non in antitesi con la cultura nell’accezione comune, ma complementare ad essa. Il lavoro compiuto vuole esser un primo
passo per raggiungere questo ambizioso obiettivo. La speranza è quella che l’esperienza continui,
anche in altre forme, estendendosi al di fuori dell’ambiente scolastico. Infatti, nella società moderna, non è concepibile una cultura mancante del tutto delle conoscenze scientifiche, pena
l’emarginazione e la perdita di contatto con il mondo reale. ◊
Paolo Boncinelli - Nello Mangani
3
Numero monografico a diffusione interna
Hanno collaborato a questo numero:
Silvio Biagi
Paolo Boncinelli
Antonio Borrani
Stefano Dominici
Nello Mangani
Marice Massai
Doria Polli
Antonio Restivo
Marco Salucci
Fabio Sottili
Manuela Taddei
Francesca Tatini
e inoltre:
Massimo Bartoli
Liceo Scientifico Statale “Piero Gobetti”
Via Roma, 75/77 - 50012 Bagno a Ripoli (Firenze)
tel. 055 6510035 - fax 055 6510107
[email protected] - www.lsgobetti.it
Indice
Editoriale ........................................................ pag. 1
Moscarda e Einstein:
relatività in letteratura e in fisica
di Gregorio Formiconi ............... pag. 3
A Gregorio
di Silvio Biagi .................................................. pag. 3
Le scienze al Gobetti:
dalla massa oscura alle balene
di Antonio Restivo............................ pag. 6
Opabinia, ovvero i fossili e l’enigma della complessità
di Antonio Borrani ........................................... pag. 7
Dal fondo del mare
di Stefano Dominici ......................................... pag. 8
Bioinformatica;
i database della conoscenza scientifica
di Francesca Tatini ........................................... pag. 11
Potenziale o attuale?
di Nello Mangani .............................................. pag. 14
Il poliedrico mondo di Ipazia d’Alessandria
di Doria Polli ......................................... pag. 21
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La realizzazione grafica e l’impaginazione di questo numero
sono state curate dagli studenti del Liceo Gobetti che hanno
partecipato allo stage di formazione professionale.
Coordinatore dello stage: Giovanni De Lorenzo
Assistente tecnico: Luigi Roseto
Gli studenti che con il loro impegno e la loro
creatività hanno realizzato questo numero:
Francesca Bottai
Giulia Branchi
Sara Brunelleschi
Francesca Burroni
Elena Giorni
Tommaso Lai
Khaufra Maggini
Leonardo Magursi
4a E
4a A
5a E
5a E
4a B
5a C
5a F
5a E
Cosimo Marcoti
4a A
Lorenzo Orlandi
4a A
Federico Perodi Ginanni 5a E
Sherry Saggese
5a E
Martina Santarlasci 3a A
Debora Tempo
5a E
Christian Trapani
4a E
Jacopo Zurlo
5a A
Stampa: IT.COMM. S.r.l. - Via di Ripoli, 48-50r - Firenze
Questa pubblicazione è stampata
su carta riciclata Cyclus Offset Polyedra.
Determinismo
di Massimo Bartoli ............................. pag. 21
Le lezioni di anatomia in età moderna
fra arte e scienza
di Fabio Sottili ................................... pag. 24
La distanza fra noi e la scienza:
discorso semiserio
di Marco Salucci ................................ pag. 29
Costruzione geometrica delle radici
dell’equazione di secondo grado
di Marice Massai .............................................. pag. 34
I Fluidi, questi sconosciuti!
di Paolo Boncinelli .......................... pag. 36
Le coniche
come luoghi geometrici
di Marice Massai ....... pag. 42
Il futuro, la scuola digitale?
di Manuela Taddei ................................ pag. 45
Moscarda e Einstein:
relatività in letteratura e in fisica.
Gregorio Formiconi
A Gregorio,
A scuola, normalmente, noi insegnanti ci andiamo per insegnare. Però vi troviamo
anche molto da imparare. Soprattutto persone che ci fanno imparare. Ho avuto la fortuna
di avere Gregorio come allievo per cinque anni, dal 1999 al 2004. E ho avuto la fortuna di
averlo come amico fino all’ottobre 2005. Considero accessorio il fatto che io sia stato suo
insegnante: il ‘caso’ ha fatto sì che ci incontrassimo quando lui aveva quattordici anni ed io
quarantuno. Considero essenziale, invece, l’averlo incontrato. Da lui ho imparato tanto e,
sono sicuro, non solo io. Il modo di aiutare i compagni, il modo per farli stupire per quello
che riusciva a fare senza che nessuno provasse per lui invidia, ma solo stima ed affetto; il
modo di porsi nei confronti dell’insegnante, pieno di rispetto e umiltà, ma anche di un
naturale senso di parità frutto non di presunzione bensì della consapevolezza della sua
intelligenza; un senso critico costruttivo utile a se stesso e agli altri. La sua lucida intelligenza,
duttile e profonda, la sua originalità, la sua profondissima umanità, il sorriso nei confronti
della vita, la pazienza, la serenità e la speranza nei momenti di terribile sofferenza fisica e
interiore, anche quando sembrava non esserci prospettiva, le ho sempre vive in me. Ma la
maggioranza delle cose restano inespresse. Quello che resta è il fatto che l’aver conosciuto
Gregorio è stata ed è, per molti di noi, una grande lezione di vita.
Gregorio Formiconi ha frequentato il Liceo Gobetti dal 1999 al 2004, anno in cui si è licenziato
con il massimo dei voti. Iscrittosi a Matematica, dopo aver superato brillantemente tutti gli
esami del primo anno, nonostante la grave malattia che lo aveva colpito tre anni prima,
aveva manifestato l’intenzione di passare a Lettere Classiche. Dall’ottobre del 2005 non è
più con noi. Il testo che proponiamo è un suo lavoro scritto nel 2004 in occasione di un
convegno su Luigi Pirandello, a partire dal romanzo Uno, nessuno e centomila. ◊
Silvio Biagi
U
no specchio e un naso. Tutto ini
zia con uno specchio e un comu
nissimo naso. Che però pende verso destra, fatto di cui l’ignaro proprietario
mai si era accorto se non quando, quella
fatidica mattina, la moglie glielo fece notare. Se fosse stato un uomo normale tutto
sarebbe finito qui, al massimo con la considerazione “che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri”, ma si dà il caso che non possa essere
definito tale un personaggio pirandelliano,
tanto più Vitangelo Moscarda, alias Gengè,
che si definisce lui stesso “fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta,
o mosca che vedessi volare, in abissi di
riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto
e su per traverso lo spirito, come una tana
di talpa”. Una riflessione inizia quindi a
“bucherare” lo sfortunato Gengè: “ch’io
non ero per gli altri quel che finora, den-
tro di me, m’ero figurato d’essere”. E il problema era che il suo
altro neanche poteva conoscerlo
perché “davanti a uno specchio,
avveniva come un arresto in me;
ogni spontaneità era finita, ogni
mio gesto appariva a me stesso fittizio e rifatto”. Il che porta Gengè
alle prime forme di follia: “ ... quelle
piccole (pazzie) che cominciai a
fare in forma di pantomime,
5
nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli specchi di
casa ...”.
Uno specchio e un naso, dunque, il principio della fine, il principio della follia ... Ma
la questione si complica ulteriormente quando Vitangelo si rende
conto di non essere un
solo altro per tutte quante le persone che gli stavano attorno, bensì
centomila altri a seconda di come ognuno lo
vede:”Ma Tizio lo conoscete anche voi, e
certo quello che conoscete voi non è quello
che conosco io, perché
ciascuno di noi lo conosce a suo
modo e gli dà a suo modo una
realtà.”. Addirittura Gengè si ritroverà alle prese con l’aritmetica, quando cercherà di stabilire
quante persone ci sono realmente in una stanza assieme con lui:
p= n2 – 1, questa la formula a cui
giunge Vitangelo e nella quale egli
figura come il -1 “visto che io –
per me stesso – ormai non contavo più”.
La presa di coscienza della molteplicità del suo essere scatena
in Moscarda un feroce impulso
distruttore che lo porterà a cercare di distruggere una ad una tutte
le varie realtà che gli altri gli
attribuivano,ovvero a commettere azioni che agli occhi altrui non
possono che apparire come eccessi di un matto, “pazzie per forza”. La prima delle quali fu cercare di smentire la fama di “usurajo”
che ormai Moscarda, volente o
nolente, anche per tradizione familiare, si era ritrovato addosso.
Gli intenti di Vitangelo, tuttavia,
falliscono tutti ed egli, etichettato come pazzo, finisce per
impelagarsi in un processo che
supererà ‘indenne’ solo grazie all’ormai lampante pazzia: “Si ven6
ne alla decisione che io avrei dato un
esmplare e solennissimo esempio di pentimento e d’abnegazione”, ovvero la fondazione con i soldi della liquidazione della
banca di un ospizio di mendicità in cui il
personaggio emblematico del suo tempo,
o meglio, di quello dell’autore. Forse nei
dubbi che assalgono Vitangelo è anche racchiuso lo sconcerto suscitato dalle nuove
teorie scientifiche di inizio XX sec.: lo spazio e il tempo, quegli innati principi sintetici a priori, vanto e orgoglio dell’austero filosofo tedesco, vengono ad un tratto a
farsi labili e relativi. Da una parte Moscarda, sgomento di fronte alla lucida percezione della relatività del suo essere, dall’altra la teoria della relatività, al limite del comprensibile per la nostra intuizione, che relativizza i
concetti di spazio e tempo, prima ritenuti indubbiamente assoluti.
Alla fine del XIX sec. la teoria
di quel “maestro venerando e terribile” che
era stato Newton per la fisica si incrinò
irrimediabilmente al riscontro con la cruda
realtà dei fatti: la velocità della luce è sempre la stessa, un raggio di luce che sia lanciato o no in movimento si muove sempre
alla stessa velocità, sovvertendo così le
leggi della fisica che avrebbero voluto che
si muovesse ad una velocità diversa a seconda della velocità alla quale è stato lanciato. I più si arrovellarono a cercare le più
improbabili spiegazioni a questo apparentemente inspiegabile fenomeno, un semplice impiegato dell’ufficio brevetti di
Berna, un tale Albert Einstein, invece, se
ne uscì con una “Zur Elektrodynamic
bewegter Korper” che rappresentò una
vera e propria pietra miliare della fisica moderna. In questo articolo Einstein mostrò
come si potesse superare questo punto fermo a cui era giunta la fisica cessando di
considerare lo spazio e il tempo come assoluti ma relativi allo stato di moto degli
osservatori: più ci muoviamo velocemente
più scorre lentamente il nostro orologio per
un osservatore fermo, e più ci assottigliamo nella direzione del moto. Lo spazio e il
tempo appaiono quindi differenti a osservatori che non si muovono del medesimo
moto rettilineo uniforme.
Ma chi ha ragione? Tutti, perché non c’è
una verità assoluta se parliamo di spazio e
tempo, ma tante relative allo stato di moto
“notiamo facilmente
i difetti altrui e non ci
accorgiamo dei
nostri”
donatore stesso sarebbe stato internato,
essendo stato riconosciuto come pazzo all’unanimità. decisione che porta Moscarda
alla naturale conclusione del suo iter di follia, già indicata precedentemente dal medesimo come unica auspicabile: “Ah, non
aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi più
neanche del proprio nome! Sdraiati qua
sull’erba, con le mani intrecciate alla
nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole ...”. E’ proprio questa, infatti, la
fine di Moscarda, una totale negazione del
proprio essere come qualcosa di a sé stante e con una propria storia personale: “
Nessun nome, nessun ricordo oggi del
nome di ieri; del nome d’oggi, domani”.
Nell’assenza di ogni ricordo è come se l’exMoscarda morisse e rinascesse in ogni
istante: “ ..muoio ogni attimo, io, e rinasco
nuovo e senza ricordi … “; e la sua percezione del mondo circostante è priva di alcuna interpretazione personale, ovvero non
crea più una propria realtà per le cose che
percepisce: “Ma ora quelle campane le
odo non più dentro di me, ma fuori, per sé
sonare”, giungendo quindi ad identificarsi con ogni altro essere che percepisce:
“Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il
vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.”.
Forse però Moscarda è molto più di un
semplice individuo spostato, forse è un
dei corpi facenti parte del sistema preso in
esame. E’ un po’ come la risposta che oggi
diamo a Zenone quando ci dice che il movimento non può esistere in quanto due
corridori che corrono in sensi opposti percepirebbero la velocità reciproca maggiore
rispetto ad uno spettatore fermo, e ciò a
suo parere violerebbe il principio di non
contraddizione: la velocità da sé, come insegna Galileo, non ha un valore assoluto,
ma, poiché deve essere sempre riferita ad
altri corpi, relativo. Questo il vecchio
Zenone stentava a comprenderlo, noi stentiamo invece forse ancor di più ad afferrare
il senso della teoria di Einstein, perché troppo è radicata nel nostro essere la percezione dello scorrere del tempo come qualcosa
di assoluto, come scandito da un grande
ed inesorabile orologio cosmico.
Anche Gengè, in fondo, arriva alla stessa
conclusione, pur se, invece della luce, l’elemento scatenante delle sue considerazioni
è il suo più comprensibile naso che pende
verso destra: se all’osservatore in moto sostituiamo Vitangelo, al suo orologio la sua
personalità e all’osservatore fermo Dida (la
moglie), l’equazione torna ancora: la sua
personalità appare diversa a Dida da quella che appare a lui, come le lancette degli
orologi scandiscono i secondi in modo diverso per
i due osservatori; e Gengè
constata inoltre che entrambe le realtà sono vere
allo stesso modo tanto
che ad un certo punto
prende per vera quella
della moglie. Così come si
viene a perdere in fisica il
concetto di simultaneità,
dal momento che tutti gli
orologi scorrono a seconda del loro moto, Vitangelo perde l’illusoria concezione del proprio essere
come unico e quindi assoluto. Questa però era
solo la “relatività ristretta”, che nel 1916
verrà integrata da Einstein nella più ampia
ed esauriente “relatività generale” che comprenderà anche la descrizione di fenomeni
quali l’attrazione gravitazionale e l’accelerazione, che verranno rivisti e riclassificati
sotto un aspetto totalmente differente da
come lo erano stati fino a quel momento.
Ma già davanti a quella ristretta il nostro
Gengè si è spaurito e vaga senza meta prendendo a prestito ora questa ora quella real-
tà che lui o gli altri hanno deciso
di assegnargli. Perché un conto è
scherzare con orologi e osservatori, un conto è sostituire a questi la bistrattata personalità del
povero Gengè! Dietro a quella c’è
molto di più di una semplice quantità fisica misurabile come il tempo, c’è un uomo! Uomo? E’ forse
ancora appropriato il termine per
l’individuo che ora, toltosi la
maschera molteplicemente sfaccettata che lui stesso e tutti gli altri gli
attribuivano, si è
esposto alla cruda
luce della verità che
ha illuminato un
volto mancante di
ogni connotato,
totalmente anonimo…
Un senso di inquietudine ci sale
su per la spina
dorsale, un voluttuoso desiderio di
autodistruzione ci
assale mentre immaginiamo cosa
sarebbe se anche
noi mettessimo a
nudo le nostre
fattezze... ◊
7
Le scienze al Gobetti:
dalla massa oscura alle balene
Antonio Restivo
A
ben guardare tra la
miriade di circolari e
i numerosi manifesti che si accavallano nei
corridoi della scuola l’offerta di approfondimenti sulle
tematiche scientifiche al
Gobetti è veramente ampia,
diversificata e sempre più
ricca.
Si inizia già nel mese di
ottobre con il “Pianeta
Galileo”, una serie di conferenze a carattere scientifico promosse dal Consiglio
Regionale della Toscana in
collaborazione con gli enti
locali e gli atenei della regione che hanno l’obiettivo di
mettere in comunicazione il
mondo della ricerca con le
scuole superiori. Il nostro liceo è tra le scuole protagoniste essendo sede di importanti incontri con personaggi di primo piano del
mondo accademico.
Sempre in ottobre parte l’ormai tradizionale corso teorico-pratico sulle
biotecnologie. Gli studenti, sequenziando il proprio
DNA mitocondriale, hanno
l’opportunità di conoscere
le tecniche utilizzate nei
laboratori di paleoantropologia dove si studiano le
modificazioni del patrimo8
nio genetico degli esseri umani e
le migrazioni dei nostri antenati.
Senza l’uso dei moderni calcolatori elettronici sarebbe impossibile ricavare e utilizzare l’enorme
mole di informazioni contenute nel
nostro DNA. Di bioinformatica, e
delle scoperte di qualche intraprendente liceale, ci parla in queste pagine la prof.ssa Tatini, docente di scienze in una classe
prima dove gli alunni iniziano da
subito a frequentare il nuovo laboratorio del liceo.
Significative sono anche le lezioni con i docenti delle diverse facoltà scientifiche per orientare gli
studenti nella difficile scelta dell’indirizzo di studio. Può così capitare di sentire parlare un
astrofisico di “Massa oscura” o
uno specialista di informatica di
“Etica hacker”.
Gli studenti hanno anche l’opportunità di partecipare a congressi, stage e ad iniziative organizzate dalle diverse istituzioni
che operano nel nostro territorio.
Interessante è stata la giornata di
studio sull’origine della vita che si
è svolta lo scorso anno nell’aula
magna dell’ateneo fiorentino a cui
hanno partecipato alcune classi
terze. In quell’occasione è stato
anche possibile visitare in anteprima la balena fossile ritrovata ad
Orciano Pisano che fra qualche
tempo verrà esposta nel museo
di Paleontologia di Firenze e di cui
ci parla il dott. Dominici in questo
numero. Altri ragazzi di quarta
hanno invece tenuto una relazione
alla
mostra-convegno
“Terrafutura” sui primi risultati a cui
si è giunti con il progetto sul risparmio energetico della scuola.
All’orizzonte ci sono anche le
celebrazioni dell’”Anno Internazionale dell’Astronomia” proclamato
dalle Nazioni Unite per celebrare
il quarto centenario dell’uso del
cannocchiale da parte di Galileo
e le iniziative legate ai 200 anni
dalla nascita di Darwin e ai 150
anni dalla prima pubblicazione de
“L’origine delle specie” che sicuramente potranno essere occasione per docenti e studenti di ulteriori approfondimenti.
Anche i docenti del liceo da qualche tempo si stanno cimentando
nella divulgazione scientifica rivolta non solo ai propri studenti ma anche alla cittadinanza. Gli argomenti scelti sono spesso insoliti e affascinanti, basti pensare ad esempio
alla logica matematica o alla fisica
dei fluidi.
Per concludere, l’invito a tutti è
di trasformarsi in Opabinia regalis,
lo strano fossile dotato di cinque
occhi ritrovato nelle argilliti di
Burgess, per non lasciarsi sfuggire le tante occasioni di arricchimento culturale che con tanta passione
vengono organizzate al Gobetti. ◊
Opabinia,
ovvero i fossili
e l’enigma della
complessità
Antonio Borrani 5a B
O
gni tanto, nella storia della
scienza, avvengono scoperte
che segnano la fine di un’era
e l’inizio di un’altra. Qualcosa del genere è accaduta anche in paleontologia, ed in tempi ben più recenti rispetto alla pubblicazione dell’ “origine della specie”. Tale rivoluzione ha origine
con la scoperta di uno strano animale, Opabinia, avvenuto in una località
canadese chiamata Burgess. Nelle
formazioni geologiche di tale luogo, risalenti a più di 500 milioni di anni fa,
sono stati ritrovati fossili straordinariamente ben conservati, tra i quali i
rappresentati di phyla fino ad allora
sconosciuti: tra questi appunto
Opabinia (fig.1, mentre afferra un verme gelatinoso). Un phylum è gruppo
di animali dotati di un piano strutturale comune, evolutosi da un antenato
ancestrale; per esempio i tonni e l’uomo fanno parte del phylum Cordata
perché, perlomeno nei primi stadi dello sviluppo embrionale, presentano
una struttura di sostegno del corpo,
situata sul dorso, chiamata notocorda.
La classificazione di Opabinia è problematica dato che sembra unire le
caratteristiche di almeno due o tre
phyla moderni a tratti assolutamente
inusuali. È infatti un invertebrato, lungo una decina di centimetri e dotato
di segmenti, come i comuni lombrichi, ma le 10 paia di zampe (o pagaie)
che esso possiede sono dotate di
branchie, la testa è munita di cinque
occhi e di una specie di proboscide
flessibile, atta a portare il cibo ad una
bocca posta ventralmente. Ecco perché i paleontologi lo hanno classificato in un phylum estintosi in tempi antichissimi. Tuttavia, la scomparsa di
un intero phylum apre numerosi interrogativi: è come se il piano strutturale
tipico dei cordati non avesse lasciato
discendenti, per cui animali come l’uomo non avrebbero avuto la possibilità
di evolversi. Si suppone infatti che
l’ambiente nel quale viveva Opabinia
fosse sostanzialmente simile al nostro, ma, a differenza degli ecosistemi
attuali, gli habitat erano quasi tutti da
colonizzare. Per questo motivo l’evoluzione di organismi pluricellulari portò inizialmente alla diversificazione di
moltissimi phyla; tuttavia, nel corso
del tempo, alcuni phyla, come i
cordati, si sono imposti su altri, che
si sono estinti.
In definitiva, lo studio dei fossili delle
argilliti di Burgess ha fatto crollare
definitivamente la vecchia teoria che
descriveva l’evoluzione come un continuo aumento della complessità dei
viventi. La complessità di Opabinia era
pari o superiore a quella di molti rappresentanti di phyla odierni. L’evoluzione tende invece a prediligere pochi
phyla, cioè pochi piani strutturali e la
direzione intrapresa sembra essere
casuale.
All’interno dei phyla si assiste invece
alla comparsa di una grande abbondanza di forme. L’adattamento all’ambiente porta quindi ad un perfezionamento
continuo di poche caratteristiche favorevoli.
In conclusione, se fosse possibile riavvolgere il nastro della
storia della vita sulla Terra e ricominciare da capo, il risultato sarebbe un mondo con viventi dotati di pochi piani strutturali, completamente diversi
da quelli odierni e probabilmente altrettanto diversificati. ◊
Indicazioni bibliografiche:
- Stephen J. Gould,
“La vita meravigliosa”,
Feltrinelli
- Simon Conway Morris e H.B.
Whittington,
“La testimonianza dei fossili”,
Le Scienze quaderni N. 42
(pp.24-35)
9
Dal fondo del mare
Stefano Dominici
L
a dinamica interna della
Terra, i movimenti della
crosta, il lento incedere
del tempo geologico concorrono a realizzare un fenomeno
che è stato oggetto di scrutinio da parte degli antichi filosofi: la presenza sotto il sole
di antichi fondali marini disseccati e delle ricchezze da loro
custodite nel tempo. Ma se i
filosofi potevano essere per
mestiere attenti alle manifestazioni della natura, a molti di noi
facilmente sfuggono le schiere di conchiglie che a volte
riemergono dopo la pioggia sui
campi coltivati di Piemonte,
Emilia o Toscana. Quando notandole si riaffacciassero le
nozioni inculcate dalla maestre
nel tempo della scuola elementare, preferiamo passare oltre
piuttosto che soffermarci con
meraviglia. Ma quando ad affiorare sono le ossa del grosso cetaceo che un tempo inghiottì Pinocchio, la regina dei
mari, il più grande animale vivente, le cose cambiano.
Quando accanto alle conchiglie si stagliano le grosse costole e le vertebre sbiancate di
una balena, allora la notizia dai
campi emerge sulle pagine dei
quotidiani locali e da lì fin sullo
schermo della televisione, e
tutti ne discutono, affollando
nella mente immagini di
tirannosauri, felci arboree, libellule gigantesche, e per un attimo chiunque diventa geologo.
Così è successo dopo l’ennesimo ritrovamento in un campo arato nei pressi di Orciano
Pisano, a qualche chilometro
nell’entroterra alle spalle di Livorno, di alcune vertebre di
grosse dimensioni e colore
rossastro. Lo scheletro ritrovato
alla fine dell’estate 2006, tuttavia, racconta una storia di
particolare interesse. Racconta di una balena lunga 10 metri, ma non solo. Una storia che
10
ci ricongiunge ad una scoperta scientifica fatta nei moderni fondali oceanici
dai biologi marini del sommergibile Alvin,
poco più di venti anni fa. Una storia di
balene affondate e banchetti pantagruelici.
Quando muore
una balena
Molti grandi cetacei hanno una struttura corporea con densità complessiva
maggiore della densità dell’acqua.
Quando una balena muore, quindi, affonda, trasformandosi in una particella
di detrito organico di dimensioni considerevoli (una balenottera di 18-20 metri
pesa circa 30 tonnellate) che rapidamente raggiunge il fondo del mare. Organismi di diversa natura approfittano
di una tale abbondanza, organismi in
competizione per lo stesso oggetto:
batteri che decompongono i tessuti a
partire dagli intestini e pesci necrofagi
che si accingono a mangiare la carcassa dall’esterno, carne a volontà per tutti, ma non solo. Dopo qualche giorno i
gas della decomposizione spingono la
carcassa a riaffiorare, a meno che essa
non sia finita a profondità sufficienti perché la pressione idrostatica favorisca il
passaggio in soluzione dei gas, impedendo la risalita della carcassa. Una
carcassa riemersa continua a decomporsi e ad essere mangiata da pesci e
invertebrati, fino al cedimento degli intestini e allo smembramento delle mandibole, degli arti e infine della testa.
Dopo poco non esiste più una balena,
ma brandelli dall’incerto destino. Altra
cosa sono le balene finite oltre i limiti
della piattaforma continentale, a profondità maggiori di circa 200 metri, che si
mantengono integre al procedere del
banchetto per dare vita allo spettacolo
che si sono trovati davanti i biologi marini Chris Smith e compagni dell’Università dell Hawaii, al largo della California,
nel 1987: uno scheletro mostruoso affollato da lamprede, squali dormiglioni
(si chiamano così), crostacei isopodi e
vermi policheti. La scoperta dei biologi
americani e le successive spedizioni
hanno portato alla realizzazione che le
carcasse dei grandi cetacei che ‘piovo-
no come manna dal cielo’ nelle
desertiche profondità oceaniche ospitano una catena alimentare particolare,
con forti analogie con quella di altri
habitat abissali, come i camini
idrotermali lungo gli assi delle dorsali
oceaniche. La successione ecologica
caratteristica delle comunità presso le
carcasse di balena ( Whale Fall
Community, WFC) può essere suddivisa in quattro stadi: 1) degli spazzini, 2)
degli opportunisti, 3) dei solfofilici e 4)
di ‘scogliera’. Durante il primo stadio e
nell’arco di pochi giorni o settimane gli
spazzini mangiano i tessuti molli della
balena. Dapprima intervengono i
necrofagi di dimensioni maggiori, gli
squali dormiglioni (sleeper sharks) e le
mixine parenti delle lamprede (pesci
senza mandibole). Poi carnivori sempre più piccoli che ‘puliscono le briciole’ lasciate dai più grossi vertebrati, ovvero crostacei anfipodi ed isopodi, fino
alla completa ripulitura delle ossa. Nel
frattempo tessuti sparsi e grasso hanno impregnato il fondale circostante,
portanto ad un secondo e più duraturo
stadio di sfruttamento, detto degli opportunisti. Gli invertebrati che si nutrono della grande quantità di sostanze
energetiche, presenti in un sedimento
solitamente povero, popolano in gran
numero i luoghi prossimi alle ossa, adottando strategie a rapida riproduzione ed
alto numero d’individui, da cui il nome
di opportunisti. Tra questi troviamo
depositivori come oloturie e bivalvi, e poi
pesci e invertebrati predatori che si nutrono dei gradini più bassi della piramide trofica, insomma il banchetto di cui
ci aveva parlato Craig Smith nel suo primo, meravigliato resoconto. In mezzo
alla mischia, a formare tappeti rossastri
sopra e sotto le ossa esposte, si trovano i piccoli vermi mangiatori d’ossa,
policheti sibonoglinidi parenti dei vermi
scoperti qualche anno presso i camini
idrotermali in popolazioni sterminate.
Ovviamente, i bone-eating worms delle
carcasse di balena hanno adattamenti
del tutto particolari che li differenziano
da qualsiasi altro cugino: ‘radici’ fatte
di tessuto epiteliale che penetrano nelle ossa di balena e, dentro le radici,
batteri chemosimbiotici che degradano
il grasso presente nelle ossa, nutrendosi di esso e a loro volta nutrendo i
vermi policheti. Osedax il nome del verme, da os- (osso) ed -edax (mangiatore),
caratteristico per il pennacchio di ciglia
rossastre esposto alle correnti marine
dalle quali estrae l’ossigeno necessario al suo metabolismo aerobico, privo
di bocca e tubo digerente, quindi diverso da tutti gli altri policheti. Dopo qualche ulteriore settimana dalla morte della balena, qualche mese al massimo,
si esauriscono le sostanze nutritizie e
all’interfaccia grasso-radici l’ossigeno
necessario al metabolismo dei batteri
chemosimbiotici aerobi. Gli opportunisti del secondo stadio cominciano a
scemare. Ma all’interno delle ossa più
grosse rimane in abbondanza grasso
inutilizzato (fino al 60% delle ossa di
balena è fatto da lipidi, come ben sanno i famigerati cacciatori delle baleniere). Niente deve evidentemente andar
perduto in mezzo al ‘deserto’ oceanico
e la preziosa sostanza rimasta diventa
nutrimento per una particolare flora
batterica anaerobia che si instaura dentro le ossa. Questi batteri anaerobi, diversi dai precedenti, nel degradare i lipidi
sottraggono solfato dall’acqua del mare
e riducono lo zolfo in sulfuro. L’acido
solfidrico che si sviluppa impregna le
ossa e le zone adiacenti, un veleno intollerabile per la maggior parte degli organismi a noi noti, ma non per quelli
che si sono adattati ad utilizzare l’energia chimica contenuta in questo composto riducente. Di nuovo batteri, appartenenti al genere Beggiatoa, proliferanti sulla superficie delle ossa a formare tappeti mucillagginosi bianchi
come neve (il secondo colore dominante documentato dai biologi delle profondità nelle riprese video giunte fino a noi).
La comparsa di Beggiatoa indica il terzo stadio detto appunto dei solfofilici,
o ‘amanti dell’acido solfidrico’. I tappeti
bianchi di batteri costituiscono un
appettitoso cibo per una grande varietà
di animali invertebrati solfo-tolleranti,
che pascolano come snow-boarders sui
fianchi delle montagne. Altrove sulle
ossa e sotto di esse grossi bivalvi appartenenti ad altri gruppi di specialisti
dell’acido solfidrico, vesicomyidi e bathymodioline, lucinidi e thyasiridi,
beneficiano di una simbiosi particolare
con batteri riducenti, ospitati entro le
branchie e nutriti con l’amore con il quale
un contadino coltiva la lattuga. Durante
il terzo stadio una nuova e più comples-
sa catena alimentare così si forma, per
durare fino a molte decine d’anni per le
balene più grosse, più ricche di ‘carburante lipidico’. Al termine i ricercatori
presuppongono - ma non hanno ancora
documentato - che le ossa possano
costituire un banco rilevato dove le correnti subiscono un minor rallentamento
da attrito rispetto al fondo e pertanto
una zona preferenziale per organismi
filtratori. E’ lo stadio di ‘scogliera’ che
termina la successione ecologica. Questa la storia conosciuta prima del ritrovamento del fossile di Orciano Pisano,
assieme al fatto che gli strati con il fossile si erano deposti in ambienti non
profondi. Cosa ci potevamo aspettare
di trovare, al di là di una balena fossile?
Esistono anche in acque relativamente
basse le WFC documentate dagli americani in acque profonde? Può il registro fossile fornire indicazioni finora non
disponibili ai biologi marini? La storia si
faceva interessante.
Balene fossili italiane
glie di balene e balenottere,
cetacei che più facilmente affondano. Tali scheletri fossili
sono spesso in buono stato di
conservazione, non come le
carcasse che subiscono gli
effetti di decine d’anni di attività chemiosimbiotica. Quindi, in
acque basse la storia sembra
essere diversa. Con questa
consapevolezza, il ritrovamento di Orciano ha fornito l’opportunità di condurre uno scavo
con lo scopo di recuperare uno
scheletro fossile e quante più
informazioni possibile sulla
comunità fossile associata. Il
risultato ha ripagato delle
aspettative, fornendo indicazioni su una successione ecologica simile a quelle di mare
profondo, ma con alcune sostanziali differenze.
La balena (o balenottera) di
Orciano giace sulla pancia ed
è ben articolata, ma le ossa
non sono in buono stato di conservazione. Lo strato superficiale (corticale) è spesso mancante e quello spugnoso sottostante è molto fragile, con un
colore diverso da quello origi-
WFC fossili sono state documentate da
ricercatori giapponesi in ossa di età
miocenica (22-5 milioni d’anni fa), associate a bivalvi specialisti di ambienti
riducenti profondi come vesicomye e bathymodioline (i bivalvi
sono molluschi dalla
conchiglia carbonatica
facilmente conservata
allo stato fossile), trovate in sedimenti di
ambiente profondo. Alcune carcasse impiantate artificialmente da
ricercatori inglesi e svedesi hanno mostrato
che Osedax vive anche
in acque basse, fino a
soli 30 m di profondità. Tuttavia non è stato documentato finora
lo stadio solfofilico in
acque basse, quello
più ricco di complicate specializzazioni biologiche. D’altra parte
da più di un secolo gli
strati pliocenici (5-1,5
milioni d’anni) che affiorano estesamente in
Italia hanno restituito
scheletri anche completi di grossi misticeti
La balena di Orciano
appartenenti alle fami-
11
nale per la presenza di ossidi
di ferro. Le vertebre toraciche
mancano completamente, probabilmente a causa della completa dissoluzione in loco. Il
cranio, articolato alle vertebre
cervicali, è pure profondamente consumato, rendendo difficile il riconoscimento tassonomico del cetaceo. Le mandibole giacciono una a fianco
del cranio, l’altra ruotata di 90°.
Le ossa degli arti sono alterate superficialmente, mentre
sono ben conservate le poche
falangi ritrovate (i cetacei hanno un numero di falangi più elevato degli altri mammiferi). Sotto uno degli arti è emerso un
grosso dente di squalo bianco
(Carcharodon carcharias) e le
ossa del timpano presentano
incisioni prodotta da denti simili a quello ritrovato. Altri denti
appartenenti allo squalo azzurro (Prionace glauca) sono stati trovati nelle vicinanze. Tra i
carnivori tre grossi esemplari di
crostacei decapodi. I molluschi
sono ovunque abbondanti e
con molte specie: grossi predatori, piccoli e numerosi
necrofagi tra i gasteropodi,
filtratori e depositivori tra i
bivalvi. Tra questi ultimi troviamo infine la specie più significativa ai fini della comprensione della successione ecologica, il lucinide Megaxinus
incrassatus, abbondante nella
zona del torace e del cranio,
con le valve articolate e in posizione di vita. I lucinidi sono
organismi chemiosimbiotici,
ospitando nei filamenti delle
branchie colonie di batteri
solfofilici e per questo sono
abbondanti in ambienti ricchi di
materia organica e riducenti,
sia in acque basse (ad esempio presso le praterie di
Posidonia) sia in profondità.
Tramite correnti create all’interno delle cavità dove si trovano le branchie, Megaxinus
pompa acido solfidrico dal
fondale riducente e con esso
nutre la flora batterica, mantenendo tale liquido separato
dall’acqua ricca di ossigeno
utilizzato per la respirazione.
12
Cosa è successo su quel fondale marino riemerso dopo 3 milioni di anni? La
moderna distribuzione batimetrica di
molte specie ritrovate ci rivela che la
profondità di sedimentazione era compresa nell’intervallo tra 50-150 m, quindi a profondità alle quali non è a tutt’oggi noto come si strutturi una comunità
presso una carcassa di balena. L’abbondanza di tracce e resti lasciate dagli squali rivela che pesci lunghi anche
4 metri hanno dato l’avvio al banchetto,
consumando le carni prima della decomposizione. Perché diciamo ‘prima’?
Perché grossi predatori che strappano
carne da un animale anche solo parzialmente decomposto non lascerebbero uno scheletro ben articolato come
quello di Orciano (la decomposizione indebolisce le giunture articolari). Perché
lo squalo bianco preferisce comunque
attaccare prede vive e non è annoverato
tra gli spazzini. I grandi pesci cartilaginei hanno quindi dato inizio alla fase degli
spazzini, ma non sono stati i soli attori. Lo stato delle ossa può essere inteso come indice dell’opera estensiva
di Osedax, come prova il confronto
con gli analoghi attuali brevemente
raccontati sopra. In questa ricostruzione, i vermi mangia-ossa avrebbero
eroso il cranio fino a cancellarne ogni
asperità e le vertebre toraciche fino a
farle scomparire, indebolendo ovunque
la struttura dei tessuti spugnosi. Ipotesi alternative come l’abrasione di origine meccanica sono da escludere,
nuovamente a ragione dell’alto grado
di articolazione dei resti. Quindi all’azione dei necrofagi si è affiancata e
ha seguito quella degli opportunisti,
tra i quali possiamo contare i
depositivori. Possiamo aggiungere che
l’azione è stata più intensa nella zone
toracica e cranica, probabilmente a
causa della maggiore quantità di materia organica presente. In queste
stesse zone si è passati allo stadio
di produzione di acido solfidrico e ad
un ambiente riducente favorevole alla
proliferazione di Megaxinus e dei suoi
chemiosimbionti, il terzo stadio di una
tipica WFC, anche se priva delle forme specializzate incontrate negli ambienti riducenti profondi. Rimane solo
un’ipotesi la presenza dell’ultimo stadio di ‘scogliera’ avendo trovato solo
filtratori mobili, non necessariamente
legati alla presenza di ossa sul fondo.
Ambienti riducenti
in acque basse
L’insieme dei fossili studiati a Orciano
Pisano costituisce la prima documentazione che la successione ecologica
di una WFC in acque basse è analoga
a quella riconosciuta presso WFC profonde. Nello stesso tempo rivela che i
molti specialisti dello stadio solfofilico
e di altri habitat riducenti incontrati negli abissi sono assenti in piattaforma.
Alcuni ricercatori, lavorando su altri
ambienti riducenti, propongono che la
ragione di una tale assenza sia da ricercarsi nella più intensa pressione
ecologica causata da competizione e
predazione. In acque basse, dove il fondale è raggiunto da luce più o meno viva,
la catena alimentare è incentrata sulla
fotosintesi. La grande quantità di materia organica distribuita in modo stagionale favorisce la diversità degli adattamenti e la competizione per le risorse,
originando una maggiore diversità di
specie e quindi una pressione ecologica sulle forme adattate agli ambienti riducenti maggiore che in ambienti profondi afotici. Tra queste i bivalvi lucinidi
sono presenti in ambienti di piattaforma continentale dal Palezoico inferiore
(Siluriano: 415-440 milioni di anni), occupando le stessa nicchia ecologica
nella quale vivono oggi. Sembrano pertanto aver avuto una la prerogativa sulla
chemiosimbiosi ben prima dell’evoluzione dei cetacei (Eocene: 55-35 milioni
di anni) e tra questi delle grandi balene
che solcano gli oceani (Oligocene: 3522 milioni di anni fa). Non così nei fondali oceanici, dove la competizione è
più trascurabile e dove le grandi quantità di materia organica che si rendono
disponibili in poco tempo, in uno spazio limitato circondato da un ‘deserto’,
costituiscono un laboratorio evolutivo
ben più efficace, fonte di nuovi adattamenti e di stili di vita altamente specializzati.
Il patrimonio fossile in genere, e quello italiano in particolare, costituiscono un’importante fonte di informazioni
sull’ecologia di organismi difficilmente raggiungibili in ambienti moderni,
fornendo alla conoscenza una dimensione temporale profonda a sostegno
delle teorie evolutive e delle tappe attraverso le quali si è diversificata la
vita nel nostro pianeta. Una buona ragione per dedicare una vita alla
paleobiologia. ◊
Bioinformatica; i database
della conoscenza scentifica
Francesca Tatini
E
ra il 1970 quando fu pubblicato il
primo algoritmo in grado di con
frontare due sequenze di DNA;
solo 26 anni dopo una liceale sedicenne
può identificare un gene umano sconosciuto semplicemente collegandosi alla
rete dal suo PC di casa, come è in effetti accaduto nel luglio scorso.L’enorme
avanzamento nella produzione di dati
che si è avuto negli ultimi vent’anni è
dovuto in massima parte allo sviluppo
della tecnologia informatica. Una delle
conseguenze più eclatanti è che oggi
su internet sono presenti, e accessibili
a tutti, le banche dati in cui è presente
il genoma umano, completamente
sequenziato e comparabile con il DNA
di altre specie.
La bioinformatica è una disciplina giovane, rappresentata dalle applicazioni
di tecniche e supporti informatici alle
varie aree della ricerca scientifica. Pur
trattandosi non di una scienza ma di un
insieme di tecniche, le dimensioni del
suo sviluppo e la profondità con cui sta
modificando tempi e modi della ricerca
scientifica meritano sicuramente una riflessione.
Un po’ di storia…
Il nostro DNA è caratterizzato da un insieme di sequenze nucleotidiche, oggi
completamente sequenziate (il
genoma), che contiene le informazioni
per l’organizzazione e il funzionamento
delle nostre cellule, e quindi dell’intero
organismo.
Gli acidi nucleici e le proteine hanno la
particolarità di essere costituiti da sequenze lineari di unità, rispettivamente
dai nucleotidi e dagli amminoacidi, che
possono essere rappresentate da singole lettere; in questo modo le sequenze possono essere codificate e utilizzate come una stringa di caratteri attraverso programmi informatici. Dal momento che una particolare sequenza ha
anche un significato biologico, che, per
quanto sia più complesso, è racchiuso
nella sequenza stessa, il dato
informatico può essere utilizzato per ottenere informazioni; le informazioni ottenute, se correttamente manipolate e
interpretate, avranno anch’esse un significato biologico.
Le prime sequenze di DNA vennero
sequenziate negli anni ’70, periodo in
cui si iniziò quindi a sentire la necessità di una qualche forma di archivio per
un insieme di informazioni, quello appunto delle sequenze nucleotidiche, che
già si profilava di notevole mole; è proprio in questi anni infatti che nacque la
bioinformatica.
Il primo database fu quello della National
Biomedical Research Foundation e raccoglieva dati relativi
alle sequenze proteiche che
erano state pubblicate fino ad
allora.
Nel 1970 nacque il primo
algoritmo in grado di confrontare fra loro due sequenze
estrapolando il migliore allineamento, ossia la migliore combinazione fra le due sequenze
dal punto di vista della somiglianza. Nel 1971 nacque invece il primo programma per
visualizzare le regioni di maggiore o minore similarità fra sequenze diverse.
elica del DNA
13
La comparazione fra le sequenze è un punto centrale: se
alla similarità fra due sequenze corrisponde una similarità
dal punto di vista funzionale, è
evidente come lo studio comparativo delle sequenze possa
fornire dati di grande valore.
L‘analisi delle regioni simili infatti è fondamentale sia per
identificare un percorso
evolutivo fra le diverse sequenze analizzate, sia per ipotizzare funzioni plausibili per una
sequenza dal significato sconosciuto.
A seguito del completamento
del genoma umano, avvenuto
nel 2000-2001, sono stati svolti
numerosi studi che hanno permesso di rilevare la sequenza
di moltissimi geni umani sconosciuti, che codificano per
proteine dalla funzione altrettanto ignota. A partire dalla sequenza nucleotidica è possibile risalire alla sequenza
amminoacidica di queste proteine, ovvero a quella che si
definisce struttura proteica primaria; in seguito, per capire
come la proteina svolga la propria funzione, è utilissimo,
quando non essenziale, confrontarla con altre proteine simili dal punto di vista della sequenza, la cui funzione è già
nota.
L’analisi della similarità fra proteine diverse, e quindi dell’allineamento rilevato dai programmi informatici, è quindi un passo fondamentale per lo studio
delle proteine, della loro evoluzione e delle loro funzioni.
A partire dai primi anni settanta fino ad arrivare ai giorni nostri, la mole di programmi e
banche dati è cresciuta in
modo esponenziale, ben oltre
la crescita delle pubblicazioni
scientifiche, rappresentando di
fatto una realtà di riferimento
essenziale per qualsiasi ricercatore.
14
Le banche dati
Le banche dati di cui la ricerca in campo biologico fa un maggiore utilizzo
sono quelle che raccolgono le sequenze nucleotidiche del DNA o le sequenze amminoacidiche delle proteine. Una
banca dati di questo tipo è organizzata
un po’ come lo schedario di un ufficio,
e raccoglie quindi moltissime informazioni fruibili in maniera semplice e veloce.
Le due maggiori banche dati al momento sono rappresentate da quelle dell’americano N.C.B.I. (National Center for
Biotechnology information) e dell’europeo E.B.I. (European Bioinformatics
Institute.
I database rappresentano lo strumento
attraverso il quale la bioinformatica opera nel campo che ha modificato più di
ogni altro: quello della comunicazione
scientifica. È infatti evidente come la
possibilità di accedere a informazioni
così preziose e sofisticate da parte di
chiunque abbia ampliato la gamma di
interventi in un campo che prima era
appannaggio esclusivo di pochi scienziati esperti.
Tutto ciò che è necessario possedere
o utilizzare per confrontarsi con questi
dati è un computer, una connessione a
internet e qualche informazione essenziale. Per verificarlo è sufficiente accedere al sito http://www.ncbi.nlm.nih.gov/
BLAST/; BLAST è il programma attualmente più utilizzato per effettuare ricerche nelle banche dati al fine di identificare il migliore allineamento fra sequenze selezionate. Sul sito segnalato è
presente anche un tutorial (in inglese)
che consente di acquisire le informazioni necessarie per l’utilizzo del programma.
Certamente la fruizione di questi strumenti necessita di una certa familiarità
dell’utente con le nozioni basilari della
biologia molecolare e della navigazione
in rete, ma il livello richiesto è tale da
consentirci di definire popolare la diffusione delle informazioni.
La rivoluzione bioinformatica delle conoscenze scientifiche è solo all’inizio,
la necessità di rendere sempre più immediata la consultazione delle banche
dati consente infatti di guardare al futu-
ro con entusiasmo; già oggi per esempio è possibile risalire, da una sequenza nucleotidica alla proteina da essa
codificata e, se nota, alla sua funzione.
Inoltre le banche dati riguardano non
solo la catalogazione delle sequenze,
ma anche un’enorme mole di altre informazioni, dalle pubblicazioni
biomediche alle malattie genetiche
umane alla tassonomia.
Se consideriamo anche la sempre maggiore diffusione delle risorse on line e la
nascita di programmi in grado di organizzare i vari tipi di informazione nel
modo più funzionale possibile, è chiaro
come comunicazione e produzione dell’informazione si evolveranno parallelamente e come dall’interazione fra le due
cose potrà nascere un’interessante sfida intellettuale per gli scienziati del
nostro tempo.
Lo studio della struttura
delle proteine
Un altro campo modificato in modo radicale dallo sviluppo dell’informatica è
quello dello studio della struttura delle
proteine.Gli amminoacidi presentano
delle caratteristiche chimico-fisiche
note che, se analizzate nell’insieme della sequenza che compongono, possono indicare in che modo tale sequenza
si dispone nello spazio. È possibile
anche rilevare in che modo gli amminoacidi che compongono la sequenza
interagiscono fra loro all’interno della
struttura proteica tridimensionale; inoltre, a un livello ancora successivo, dallo studio della struttura tridimensionale
della proteina si possono identificare le
sue interazioni chimico-fisiche con l’ambiente circostante.
Attraverso software sofisticati, le cui
versioni più commerciali sono disponibili gratuitamente in rete, è possibile
visualizzare la struttura di molte proteine e ottenere quindi preziose informazioni che in precedenza si potevano acquisire solo mediante tecniche complesse e dispendiose.
Analisi dei dati e dell’immagine
Un’immagine digitale è, per definizione, rappresentata da un insieme di dati;
di conseguenza è possibile acquisire
un’immagine e, in seguito, ottenere informazioni qualitative e quantitative sulla base dell’analisi dei dati relativi all’immagine stessa.
Per fare un esempio pratico, molte tecniche di laboratorio si basano sullo sviluppo di reazioni che colorano in modo
specifico alcune strutture cellulari o alcune molecole. In seguito all’esecuzione di queste reazioni è possibile fotografare, con una fotocamera digitale posta sul microscopio, le cellule trattate,
riportate per esempio su un vetrino da
laboratorio.
La fotografia riporterà l’immagine ottenuta dalla reazione e conterrà anche i
dati relativi alla localizzazione, alla quantità e alla distribuzione del colore, che
sono ovviamente rappresentativi del parametro biologico che la tecnica in questione intendeva misurare.
Con un software per l’analisi dell’immagine è possibile tradurre queste informazioni, in maniera immediata, in
dati facilmente quantificabili e
interpretabili.
Per esempio, per analizzare quante
cellule all’interno di una determinata
popolazione contengono una particolare proteina, è possibile effettuare
una reazione che porti allo sviluppo di
un colore solo nelle cellule che contengono la proteina ricercata; una volta fatto ciò si dovrebbero contare tutte le cellule risultate “positive” alla
colorazione. Evidentemente è molto
più immediato premere un tasto del
computer e lasciare che sia il software
a quantificare, in un istante, quante
sono le cellule colorate.
L’analisi dell’immagine consente di fare
molte operazioni che richiedevano tempo e risorse in modo molto efficace ed
economico, e rappresenta quindi uno
strumento informatico essenziale, del
quale probabilmente oggi non potremmo più fare a meno, soprattutto in alcuni campi, come quello dell’immunoistochimica, che fanno un largo impiego di
tecniche basate sulla visualizzazione
dei risultati sperimentali.
Dalla tecnica alla scienza
La bioinformatica, per quanto potente, è uno strumento, un insieme di tec-
niche, che rende i suoi fruitori comunque in grado di fare “scoperte” che solo
uno scienziato avrebbe potuto fare in
momenti diversi della storia, e con
molta dedizione e fortuna. Ma è proprio questo il punto: oggi chi usa lo
strumento, se, come in questo caso,
lo strumento è particolarmente semplice, non è necessariamente uno
scienziato ma un tecnico. Senza niente togliere a chi svolge un lavoro nobile e fondamentale per la ricerca scientifica moderna, anche le scoperte che
derivano dalle applicazioni della bioinformatica sono spesso non vere e proprie scoperte ma semplicemente dati
aggiuntivi. Questa distinzione, per
quanto scontata, merita di essere sottolineata perché è andata via via scomparendo dalla coscienza scientifica
comune, e soprattutto dalle pagine dei
giornali. Da essa inoltre nasce la consapevolezza di quanto sia oggi necessario tornare ad una figura che sia insieme tecnico e scienziato, al contrario di quanto sembra avvenire nei
laboratori di ricerca e nelle Università, non per responsabilità personali ma
a causa di un sistema che premia la
produttività prima di tutto, l’acquisizione di dati più della speculazione sulle
leggi che governano la realtà.
La bioinformatica fa emergere questa
tematica in modo particolarmente evidente. Grazie agli strumenti che essa
fornisce è infatti possibile trovare nuovi
dati semplicemente utilizzando uno
strumento, senza necessariamente
conoscere ciò che è alla base del dato
in questione; in altre parole chi analizza le banche dati che comprendono le sequenze di tutto il genoma
umano, può non comprendere la biologia cellulare nel suo complesso, non
ne ha bisogno. È così che una liceale
milanese ha potuto “scoprire” un nuovo gene umano; senza voler svalutare
il suo lodevolissimo lavoro, come quello di altri, questo è un caso evidente
in cui siamo di fronte non a una scoperta di concetto, non a qualcosa prodotto da un ragionamento e poi verificato sperimentalmente, ma a un dato
nuovo che, solo a condizione di essere utilizzato scientificamente, potrà
produrre un avanzamento della conoscenza.
La differenza può apparire
sottile, forse a posteriori persino inesistente, ma è quella
che, almeno secondo il mio
pensiero, caratterizza la ricerca scientifica come tale;
la differenza è quella che c’è
fra chi da una mela che cade
intuisce una legge fondamentale e chi, analizzando un
elenco di equazioni che rappresentano il moto della mela,
scopre che una di esse è
plausibile.
A fronte dell’affascinante avanzamento della bioinformatica,
è bello anche ricordare che non
c’è un modo facile per dedicarsi alla ricerca scientifica, lo
scienziato studia per anni, in
questo paese spesso lo fa quasi gratis e senza crediti né appoggio dalla società, ma è contento di cercare una connessione e un senso fra i dati a
sua disposizione, a prescindere dalla tecnica utilizzata per
ottenerli, esalta l’importanza
dei progressi della tecnologia
informatica perché la considera un mezzo straordinario, e
non il fine, della sua ricerca.
Proprio la bioinformatica può
consentire di far emergere collegamenti fra discipline diverse in modo molto più facile e,
se di per sé non è una scienza, per uno scienziato è uno
strumento formidabile. Se da
un lato infatti è pur vero che
spesso è il computer che attua i collegamenti e i confronti
fra una quantità di dati così
enorme che l’uomo non può
analizzare, dall’altro è vero anche che non si può prescindere da quell’analisi, sospesa fra
il caso e la ricerca, insita nelle
scoperte più fortunate, che
qualcuno chiama serendipity e
che solo la mente umana è in
grado di produrre, almeno per
il momento. ◊
15
Descartes
Aristotele
Leibniz
Bolzano
Potenziale o attuale?
Cantor
Nello Mangani
Il “cattivo” infinito
Bernard Bolzano, matematico e filosofo estremamente acuto, nella
sua opera più geniale “I paradossi dell’infinito”1riporta il giudizio
sprezzante di alcuni filosofi, tra i
quali Hegel2 , che considerano
l’infinito dei matematici il “cattivo” infinito pretendendo di conoscerne il “vero” infinito, quello
della filosofia prima e della teologia.
Trascuriamo il “vero” infinito e
occupiamoci dell’infinito dei matematici.
In matematica, l’infinitezza è la
proprietà che appartiene unicamente alla molteplicità o pluralità, un insieme omogeneo di elementi dello stesso tipo, grandezze e numeri, che sono specificati
da un unico concetto. Il «cattivo
infinito quantitativo» è l’ infinito
potenziale, vale a dire il concetto
di infinito contrapposto a quello
attuale.
Più avanti spiegheremo perché
l’infinito dei matematici è considerato “cattivo”, ma procediamo con ordine e proviamo a chiarire le due diverse concezioni
dell’infinito, che sono state e
sono oggetto di speculazioni,
dibattiti, confronti e contrapposizioni.
Non c’è filosofo o matematico
che non abbia affrontato il problema e non abbia preso posizione, pur con diverse sfumature,
per l’una o l’altra concezione.
16
L’illimitato (indefinito) ovvero l’infinito
potenziale
«I numeri (naturali) non finiscono mai, sono
infiniti.»
L’idea è così naturale e spontanea da ritenere che sia nel bagaglio genetico di ciascuno. Se si aggiunge uno ad ogni numero
si ottiene un numero più grande e non esiste un numero più grande di tutti, ed è possibile continuare l’operazione quanto si
vuole, senza fine, in un processo inesauribile.
Non possiamo immaginare l’insieme di tutti i numeri in quanto è illimitato nel senso
che, volendo individuarne uno ad uno tutti gli elementi, non si riesce a formare un
tutto perché c’è sempre e in ogni caso,
qualche elemento che non avremo considerato.
Forse non ne siamo consapevoli, ma concepiamo l’insieme dei numeri come un insieme illimitato, un infinito potenziale.
Un’idea questa che ha radici lontane ed è
dominante almeno fino alla fine del XIII
secolo, ma che non è l’unica. Nel mondo
greco, infatti, si allude all’infinità con il
termine
(apeiron) che letteralmente vuol dire «senza limiti», ossia «illimitato»3 e che appare per la prima volta nella
filosofia di Anassimandro4 . All’
è
associata un’idea negativa, espressione
di incompletezza e di potenzialità non attuata e non attuabile; sarebbe consigliabile
tradurre il termine con «indefinito», o con
«illimitato», piuttosto che con «infinito»
in quanto in passato, come vedremo in seguito, non sempre è chiara la distinzione
tra limitatezza e infinità, nella terminologia attuale, tra l’infinito limitato (attuale) e
l’infinito illimitato (potenziale).
Nella matematica greca, salvo rare eccezioni, non è introdotto l’infinito.
Aristotele è consapevole delle due concezioni dell’
, usa i termini
per l’infinito in potenza o infinito
potenziale, e
per l’infinito in atto o infinito
attuale.
Nel Medioevo si inventa una originale formula per distinguere tra le due concezioni
dell’infinito. Petus Hispanus5 , nel settimo
trattato delle Summulae logicale, intende
l’infinito in due modi distinti; usa il termine
«categorematico» per designare qualcosa
che è più grande di qualsiasi grandezza finita
esistente, qualcosa di simile all’infinito attuale, mentre con «sincategorematico» esprime l’idea di infinito potenziale aristotelico,
privato però del termine
(potenza),
ritenuto ambiguo e in un certo senso contraddittorio, all’
in quanto si ritiene
che il termine (potenza) presuma un fine, un
orientamento, all’indefinito che implica invece disordine e casualità.
Contorcimenti filosofico-linguistici di cui
è piena la storia del concetto di infinito.
L’illimitato, dai Presocratici alla sistemazione aristotelica, è manipolato con estrema cautela nei procedimenti del pensiero
discorsivo ed è sempre trattato da infinito
potenziale, concepito nel segno della «negazione » (non-esistenza), vale a dire ciò
che non può contenere
L’
I significati che tradizionalmente sono attribuiti all’
si ricavano dalle affermazioni di Aristotele6 che ne rivelano la na-
tura, da un lato divina e incorruttibile, dall’altro ambigua e refrattaria ad ogni
accostamento e tentativo di comprensione.
«.. esso non ha principio ma sembra essere
esso principio di tutte le altre cose..», per
natura divino «…ingenerato e incorruttibile,…. immortale e indistruttibile..».7
L’illimitato esiste: il tempo è illimitato e così
pure la divisione delle grandezze.
La specificità dell’
è l’inesauribilità:
«…siccome non sono mai pienamente
esaurite nel pensiero il numero e le grandezze matematiche e tutto quel che c’è oltre i cieli pare siano illimitati»8. Aristotele si esprime in questi termini: «L’
non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla,
ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa.»9
Di conseguenza, l’indefinito, in nessun
caso, può essere pensato come un tutto
completo dato che non ha una fine, ossia
un elemento limitante,
, (limite). Ed è
il limite ciò che fa esistere concretamente
ogni oggetto e che determina un ordine
logico agli eventi e ne evita la casualità.
Se da un lato il divenire temporale sembra
,
costituire il campo di azione dell’
d’altro, l’esistenza di un insieme illimitato
si spiega con l’idea che gli elementi non
esistono tutti simultaneamente ma esistono uno dopo l’altro in un susseguirsi interminabile.
Infinito illimitato e infinito limitato.
Aristotele, nel libro III della Phisica, tratta la questione dell’infinito al fine di stabilire in quale modo sia possibile ammettere
l’esistenza di grandezze infinte. Egli osserva che, secondo l’accezione comune, una
grandezza si dice infinita se è maggiore di
qualunque altra e nessun’altra può essere
maggiore di essa. In questo senso, nessuna grandezza sensibile è, o può essere,
infinita in atto o in potenza, in quanto,
necessariamente limitata , non può essere
aumentata oltre ogni limite.
Non esistono grandezze attuali infinitamente grandi.
Una grandezza può essere infinita per divisione (o per sottrazione) e per addizione10
È infinita per divisione in quanto divisibile
illimitatamente11; è infinita per addizione
in quanto la si può immaginare formata da
un numero infinito di altre grandezze. «Ciò
che è infinito per addizione, in un certo
senso, è allo stesso modo infinito di quello
per divisione; giacché in una cosa finita
si ha l’infinito per addizione in un modo
inverso [a quello in cui si ha l’infinito per
divisione]. A quel modo infatti che la divi-
sione tende all’infinito, allo stesso modo
con l’addizione si ritorna al finito. Infatti,
data una grandezza limitata e presane una
determinata parte, se questa si aumenta
nello stesso rapporto, ma in modo che non
si aggiunga sempre una medesima grandezza alla totale [risultante dalle successive grandezze aggiunte], non si arriverà
mai al termine della grandezza limitata.
Se invece il rapporto si aumenta in maniera che si aggiunga sempre una medesima
grandezza, si arriverà al termine; perché
ogni grandezza limitata vene esaurita da
una qualsiasi determinata parte di essa. E
così dunque non si ha altro modo l’infinito
, ma in questo modo soltanto: cioè in potenza e per sottrazione»12
In altre parole, Aristotele considera una
grandezza limitata infinita per sottrazione
ma, di conseguenza , anche infinita per
addizione nel senso che si può considerare l’infinità esauribile in essa.
Sul concetto di infinito per addizione Aristotele insiste spiegando che è da escludere
la possibilità di un altro infinito per addizione
che possa dar luogo ad una grandezza infinitamente grande sia pur potenziale.
«In questo modo si ha un infinito potenziale anche per addizione, il quale in un
certo senso diciamo essere lo stesso che
quello per divisione; ché ci sarà sempre
qualche cosa di esso da prendere fuori di
esso. Però esso mai oltrepasserà tutte le
grandezze limitate, come quello per divisione oltrepassa qualsiasi grandezza limitata e diventa più piccolo. Di modo che
per addizione non è possibile superare
ogni grandezza neppure in potenza»13
Vale a dire, con la divisione si possono
ottenere grandezze sempre più piccole di
qualunque grandezza data e quindi la possibilità di grandezze infinitamente piccole
ma è da escludere la possibilità di grandezze infinitamente grandi.
Ma ciò non vale per i numeri:
«Con buona ragione si ammette, che per
quanto riguarda l’infinito nei numeri, esiste un limite verso più piccolo e verso il più
[grande] si può superare ogni moltitudine;
e che al contrario, nel caso delle grandezze
verso il più piccolo si può oltrepassare ogni
grandezza, verso i più grande non esiste una
grandezza infinita»
L’infinitamente piccolo
Dunque , c’è l’illimitato, ma c’è anche l’infinito limitato e l’infinitamente piccolo.
Le teorie di Democrito14 e di Epicuro15 sono
riferite alla materia, gli atomi che sono le parti
elementari che la costituiscono sono piccoli
ma non infinitamente piccoli. Un
implicito accenno all’infinitamente
piccolo lo si può trovare in
Anassagora16 che definisce illimitato il caos in cui nulla esiste e le
forme non sono ancora concepite.
In un frammento , tramandato da
Simplicio scrive «insieme erano
tutte le cose, illimiti per quantità e
per piccolezza poiché anche il piccolo era illimite». Il riferimento è
alle omeomerie, entità costituenti i
corpi, che sono in quantità infinite, ma diversamente dagli atomi, infinitamente divisibili. In questo
passo: «del piccolo non c’è un minimo sempre un più piccolo» come
pure «anche del grande c’è sempre un più grande e per quantità è
uguale al piccolo..» l’allusione all’
infinitamente grande e all’infinitamente piccolo.
Ma anche nei tentativi
Antitonte17 e Brisone18 di quadratura del cerchio 19, trovare un quadrato di area uguale a quella di
un cerchio, si fa ricorso ai concetti di infinitamente piccolo e infinitamente grande e anche se l’infinito è potenziale se ne intravede la possibilità di una diversa
concezione.
Antifonte, sofista, indovino e
scrittore di versi e contemporaneo di Socrate, argomenta che
un arco minimo non si distingue
da una porzione minima di retta e
quindi un poligono regolare con
un numero illimitato di lati non si
distingue da una circonferenza e
poiché è possibile costruire un
quadrato di area uguale a quella
di un qualunque poligono regolare è possibile quadrare il cerchio20.
L’insieme dei poligoni iscritti nella circonferenza è un insieme illimitato nel senso che, dato un
poligono di un numero qualunque di lati di lunghezza data
inscritto nella circonferenza, se ne
può sempre iscrivere un altro con
un numero di lati maggiore ma di
minore lunghezza.
Il numero dei lati dei poligoni
inscritti è infinitamente grande,
la lunghezza dei lati è infinitamente piccola, ossia è minore di
una qualunque lunghezza data.
Un altro classico esempio è il primo argomento di Zenone 21 con17
tro il moto. In esso si sostiene che
chi voglia percorrere una unità di
lunghezza non potrà mai portare
a compimento la sua impresa perché dovrà percorrere la succes
sione infinita di intervalli in cui
l’unità è divisibile per dicotomia.
Chi vuole arrivare a 1 partendo
da 0 dovrà prima raggiungere
ammettere che è possibile ridurre l’area
della regione residua tra il cerchio e il poligono a una grandezza arbitrariamente piccola senza introdurre il concetto di un insieme attualmente infinito.
Allo stesso modo, nell’argomento di
Zenone non si ammette che la somma di
1
, poi
2
sia uguale a 1.
Aristotele sostiene che i matematici, nelle
loro dimostrazioni, non hanno bisogno di
grandezze attualmente infinite in quanto ciò
non pregiudica il conseguimento dei risultati. Tuttavia nel pensiero classico si intravede la possibilità di liberare l’infinito
dalla negatività specifica dell’essere potenziale, dall’esame dei metodi si può individuare la premessa di una diversa concezione dell’infinito.
Per esempio, la successione dei poligoni
non è arbitrariamente indeterminata, ma è
orientata, pur nell’indeterminatezza, verso
un limite rappresentato dalla circonferenza
che, pur non costituendo un termine effettivo della successione dei poligoni, rappresenta comunque una soluzione all’indefinita potenzialità di sviluppo.
È quindi possibile configurarsi concretamente la soluzione finale di un processo
illimitato pur non rinunciando al carattere
potenziale di quest’ultimo.
Il limite non è un termine della successione
e perciò non è una semplice approssimazione del risultato della somma infinita, ma
si può raggiungere rinunciando all’analisi
indefinita della successione e ponendosi
in un punto di riferimento esterno.
1 1 3
+ =
e ancora
2 4 4
1 1 1 7
+ + =
2 4 8 8
e così di seguito.
1 1
1
1
+
+
+ ... + n + .....
2 22 23
2
I termini della successione sono
infiniti
1 1 1
1
, , ,... n ..... ma di am2 2 2 23
2
piezza sempre più piccola
Verso una diversa concezione
dell’infinito: il limite
Il punto di vista aristotelico rimane nella sostanza rispettato nei
procedimenti di Eudosso 22, di
Archimede23 e di Euclide 24, quest’ultimo, ad esempio, formula il
III postulato degli Elementi in
questi termini: «E che una retta
limitata si possa prolungare continuamente in linea retta
e nella proposizione 20 del libro
IX :
“I numeri primi sono più di una
qualsiasi assegnata moltitudine
di numeri primi”
Anche Antifonte, nel tentativo di
della quadratura del cerchio, non
ammette alcun termine finale ma
solo un indefinito sviluppo, l’insieme dei poligoni non può comprendere un termine conclusivo,
un poligono limite che coincida
con la circonferenza, in quanto
con ciò si ammetterebbe l’esistenza attuale dell’infinità dei poligoni contraria alla concezione
dell’illimitato. E’ sufficiente, però,
18
infiniti termini
1 1
1
1
+
+
+ ... + n + .....
2 2 2 23
2
Esiste l’infinito attuale ?
Nel tempo si forma la convinzione che l’infinito possa esistere come totalità attuale.
È lunghissimo l’elenco di coloro che avvertono l’esigenza di un infinito statico che
non sia un puro sinonimo di divenire temporale. Per avere l’idea dell’infinito passibile di essere pensata, nominata o designata con un simbolo, come ogni altra cosa
concreta, si deve risalire a Renè
Descartes25, il primo a cambiare punto di
vista e a concepire l’infinito in un modo da
influenzare il pensiero successivo.
Nella prima metà del XVII secolo ci si adopera per dimostrare l’inesistenza di insiemi
infiniti, in particolare, Mersenne26, amico
di Descartes, sostiene che non può esistere una linea infinita in quanto esistendo
dovrebbe contenere infiniti piedi ma anche infinite tese, (una tesa è sei volte più
grande di un piede) e l’insieme infinito di
tese dovrebbe paradossalmente contenere come sua parte propria l’insieme infinito
dei piedi. Dunque, la linea non può esistere poiché se esistesse dovrebbe contenere due insiemi infiniti di cui uno più “grande” dell’altro.
Descartes, in una lettera del 1630, dichiara di
accettare il contenuto paradossale dell’argomentazione ma non la conclusione, sostenendo che non si può estendere a insiemi
infiniti la relazione d’ordine stabilita per insiemi finiti, come quella tra tesa e piede. L’infinito è paradossale proprio perché ad esso
non sono applicabili le relazioni di confronto
che spettano al finito.
Due secoli dopo Cauchy 27 riprende il ragionamento di Mersenne con lo stesso proposito: dimostrare l’inesistenza di insiemi
attualmente infiniti. Citando un esempio
che egli attribuisce a Galileo, vuole dimostrare l’inesistenza dell’insieme dei numeri
(naturali). Se si assume come dato l’insieme dei numeri esso contiene come parte
propria l’insieme dei quadrati dei numeri e
i due insiemi infiniti hanno lo stesso numero di elementi ( n n2) ma d’altra parte l’insieme dei quadrati è solo una parte dell’insieme più “grande “ formato da tutti i numeri interi.
Per Cauchy , l’atto per esistere deve essere finito. Non è possibile contare tutti i numeri, uno per uno, fino ad arrivare ad un
termine conclusivo senza sentirsi costretti
a pensare di aver agito come fosse una totalità finita, come se, invece di aver contato tutti i numeri ne fossero stati contati
mille o un milione.
In effetti, concezione potenziale dell’infinito come quantità illimitata più grande di
qualsiasi limite prefissato, ma che resta
attualmente finita, è conseguente alla negazione, mai perfettamente compiuta, del
finito e quindi, proprio perché l’infinito è
definito per negazione del finito
non-finito → infinito
che è considerato un «cattivo infinito».
Si deve a Dedekind28 il capovolgimento
della definizione.
Egli usa il paradosso di Cauchy, non come
prova dell’inesistenza dell’insieme infinito, ma come contenuto per la definizione
dello stesso:
Un insieme è infinito se è posto in corrispondenza biunivoca con una parte propria.
Proprietà questa peculiare di insiemi infiniti per cui non deve meravigliare il fatto che i numeri possano essere posti in
corrispondenza biunivoca con i loro quadrati (n n2) o coi numeri pari (n 2n) e
una retta essere in corrispondenza
biunivoca con un segmento.
Con la definizione di insieme infinito è l’insieme finito ad essere definito per negazione
non-infinito → finito
Tuttavia Descartes non arriva ad ammettere la possibilità di comprendere l’infinito
tutto intero. Egli ragiona in questi termini:
se concepiamo “qualcosa” non è possibile concepire l’infinito proprio perché l’infinito trascende qualsiasi cosa concepita, ma
di ciò siamo consapevoli e proprio questa
consapevolezza rivela l’esistenza dell’idea.
L’infinito, pur non essendo riferibile ad alcuna cosa concreta, ha un contenuto di
oggettività, diventa accessibile almeno
come idea esprimibile con parole.
L’altro aspetto dell’infinito di cui Descartes
è anticipatore è legato al concetto di continuità dello spazio. In una lettera a
Desargues29 , condivide l’idea di considerare le rette parallele come caso limite di
rette incidenti e, come queste, hanno un
punto in comune anche le rette parallele
hanno qualcosa in comune che è la «direzione» che Desargues chiama «punto all’infinito».
I punti all’infinito si possono giustificare
con l’applicazione particolare del cosiddetto principio di continuità che Leibniz30 formula successivamente in questi termini: se
la differenza tra due casi o configurazioni
può diminuire al di sotto di ogni livello effettivamente assegnabile in dati concreti,
allora è necessario che tale differenza possa trovarsi diminuita al di sotto di ogni
quantità assegnata anche in quelle configurazioni che non possono esistere «in
concreto» ma solamente cercate e immaginate come risultato di una variazione continua. Ciò che le rette hanno in comune in
tutte le configurazioni intermedie deve esistere anche nell’ultima conseguenza della
variazione, rappresentata appunto dal parallelismo. Tale deduzione, inconfutabile
sull’esistenza dell’infinito, si basa sulla
continuità dello spazio nell’accezione
intuitiva ed è il risultato di un’idea di infinito opposta a quella di Aristotele.
Sul principio di continuità Leibniz definisce il differenziale e lo fa in modo esclusivamente geometrico.
Data una curva C rappresentata in un piano cartesiano,
se dx e dy rappresentano le corrispettive
variazioni finite nel passaggio dal punto P
di coordinate x e y al punto Q di coordinate
x+dx e y+dy, entrambi sulla curva C e ∆x
un segmento fissato, si può definire una
quantità ∆y con questa relazione
In cui dx/dy è la tangente dell’angolo formato della retta passante per P e Q e dall’asse x.
Se dx diminuisce fino ad avvicinarsi allo zero,
il rapporto dx/dy diventa il rapporto tra grandezze molto piccole, se poi dx si annulla
definitivamente la retta c, attraverso infiniti
passaggi intermedi, coincide con la retta tangente t. alla curva in P. Ciò significa, spiega
Leibniz, che anche la quantità ∆y può essere definita anche con dx=0, poiché il rapporto
∆y/ ∆x in tal caso deve coincidere con la
tangente dell’angolo dalla retta t con l’asse x
e rimane un rapporto finito anche se dx=0 e di
conseguenza in questo caso il rapporto dx/
dy significa qualcosa che non può essere
espresso assegnando a dx un valore nullo
ma deve essere espresso da un concetto che
si riferisca allo zero conservando la visibilità
del simbolo. È questo il concetto di
infinitesimo e in tal caso si dice che dx e dy
sono infinitesimi e risulta naturale ritenere
l’infinitesimo una quantità più piccola di
qualsiasi quantità finita assegnata.
Applicando il principio di continuità è possibile supporre che ci sia una configurazione finale di una successione infinita di
casi intermedi, ma Leibniz non immagina la
configurazione finale un limite, come successivamente lo intende Weierstrass31, ma
come una configurazione cui è possibile
avvicinarsi indefinitivamente senza raggiungerla. È un ritorno al riferimento temporale in perfetta assonanza con Aristotele.
La meta finale di un percorso illimitato è
l’apparente dimostrazione dell’esistenza
dell’infinito attuale e in questa prospettiva
una curva è come una linea poligonale con
un numero infinito di lati e la somma infinita di numeri si può estendere al caso “continuo”, ad una somma infinita di differenziali, cioè l’integrale pensato come infinità
attuale.
Leibniz parla degli infinitesimi come di «finzioni», entità immaginarie non corrispondenti a cose esistenti al di fuori della mente. All’occorrenza in sostituzione di essi si
possono usare espressioni quali «piccolo
quanto occorre affinché l’errore sia più
piccolo di qualsiasi errore assegnato», sostituendo , di fatto, all’infinito attuale dell’infinitesimo,
l’infinito potenziale delle dimostrazioni per esaustione di
Eudosso e Archimede.
Euclide giudica confrontabili 32,
solo le quantità omogenee di cui
una può diventare più grande
dell’altra se moltiplicata per un
numero33. Due grandezze che differiscono per un infinitesimo
sono uguali in quanto non
confrontabili poiché qualunque
multiplo di un infinitesimo rimane minore di una qualunque grandezza finita assegnata 34.
La nozione di infinitesimo rimane nel linguaggio matematico anche dopo Weierstrass e viene
usata come finzione didattica.
Nel ‘700 si discute sui fondamenti
metafisici del differenziale e del
principio di continuità ma persiste la convinzione che l’idea dell’infinito deve affermarsi e consolidarsi nel linguaggio matematico.
Nella prima metà dell’800,
Bolzano si convince dell’esistenza dell’infinito almeno come
realtà intellettuale. Egli perviene
alle conclusioni simili a quelle di
Descartes ma sostiene tesi decisamente più audaci. Le idee non
sono in generale qualcosa di “esistente” ma semplicemente “qualcosa” che non cessa di esistere
realmente anche quando non
sono pensate. Ci sono anche le
«idee oggettive» in quanto
inequivocabili cui tuttavia non
corrisponde alcun oggetto concreto, per esempio «nulla», «0»,
«√-1».
La determinazione di una cosa
qualsiasi non deve basarsi necessariamente sull’effettiva esistenza di un oggetto e l’infinito non è
un’eccezione, e anche se esso
non è determinabile come descrizione degli elementi nondimeno
esistono metodi che consentono
di definirlo senza ambiguità.
Dalle tesi espresse nel I paradossi dell’infinito comincia ad
essere sottointeso che i legittimi
depositari del concetto di molteplicità infinita sono i matematici.
A Bolzano si deve anche un’in19
novazione finalizzata a ridurre al
minimo i vincoli ontologici del linguaggio, l’abbozzo di una logica
capace di ridimensionare i proble
mi di esistenza. Egli distingue tra
i diversi tipi di proposizioni esistenziali. Dire «A esiste» non è lo
stesso che dire «c’è un A», infatti, nella prima espressione, diversamente dalla seconda, l’esistenza appare come predicato e
«c’è un A» allude al fatto che l’idea
«A» ha referenza, come dire «c’è
l’ippogrifo» non significa che
l’animale esista davvero.
Insieme attualmente infinito
Una classe di oggetti è definibile
a prescindere dal fatto che sia finita o infinita, all’idea spetta la
coerenza in virtù del principio del
terzo escluso: una cosa è determinata o determinabile se soltanto uno dei due attributi (a è nona) appartiene ad essa.
Bolzano confida nell’infinito attuale convinto che l’atto mentale
di concepire un’insieme non produca contraddizioni logiche. I fatti
lo smentiranno e determineranno
la rinuncia ad ogni tentativo di
dare una definizione di insieme,
tuttavia le idee di Bolzano anticipano un periodo dell’800 in cui si
inventa un linguaggio matematico, quello della teoria degli insiemi, che dell’infinito intende formare una totalità attuale e statica
(infinito attuale), non governata
dal divenire temporale.
Infatti, termini infiniti possono
essere definiti mediante leggi di
formazione (costruzione) che rendono superflua l’enumerazione
dei termini stessi.
Per esempio gli infiniti termini
della successione
possono essere individuati esibendo il termine generico
oppure mediante la legge di costruzione (induzione o ricorrenza) con cui si individua il primo
termine e ogni altro a partire dal
20
precedente
Anche la definizione di funzione continua
in un punto:
“f(x) è continua in x=c intendendo che
converge a f(c) quando x si avvicina indefinitamente ad c” che suggerisce l’idea del
divenire e della potenzialità può essere
sostituita da quella di Weierstrass in cui
l’uso di ε e δ mostra l’esigenza di staticità:
“Per ogni ε positivo esiste un δ positivo
tale che per tutti gli x, con
in cui termini chiave della definizione: ogni,
esiste, tutti, indicano totalità infinite e
statiche non soggette all’inesauribilità del
divenire temporale.
Inoltre, anche nella teoria di Weierstrass
dei numeri irrazionali, basata sulla nozione
di insieme, le operazioni e le relazioni d’ordine sono estese ad aggregati infiniti di
numeri razionali e l’’infinità potenziale dello sviluppo di cifre dei numeri razionali è
racchiusa in un’entità attuale indipendente dall’idea di successione temporale.
Il paradiso di Cantor
È però con Cantor 35 che l’infinito attuale
assume un ruolo importante nella matematica.
Egli rifiuta l’apriorismo kantiano del tempo,
l’apriorismo dello spazio non resiste all’invenzione delle geometrie non-euclidee, e stabilisce la priorità dell’idea del continuo. La
nozione o l’idea di tempo non deve servire la
nozione più primitiva del continuo; l’idea del
tempo presuppone, per essere chiaramente
spiegata, la nozione di continuità, più primitiva e generale. Il tempo «non può essere
concepito né oggettivamente come sostanza, né soggettivamente come idea necessaria a priori».
La serie dei numeri non deve essere costruita sull’intuizione dello spazio e del
tempo ma deve essere emanazione diretta
delle pure leggi del pensiero e non c’è l’esigenza di un unione inscindibile, nel pensiero arcaico, tra numero e tempo
(Simplicio36).
La crisi dell’apriorismo kantiano risulta decisiva nella matematica di fine ‘800, lo svolgersi di un’aritmetica e di una geometria fuori
dal tempo consente una definizione dell’infinito in termini statici che precede una fondazione matematica dell’infinito attuale
La svolta arriva con la teoria degli insiemi
di Cantor ma alcuni fatti matematici la anticipano riproducendo meccanismi di generazione di numeri che Cantor chiamerà
«transfiniti» .
Soprattutto merita di essere ricordato, per
l’idea che in esso è espressa, il teorema di
du Bois-Reymond37 sulle successioni di
funzioni crescenti:
«Data una qualunque successione
numerabile38 di funzioni crescenti
f1(x) < f2(x) < f3(x) <…….< fm(x) <.. …
esiste una funzione crescente ed effettivamente costruibile f(x) tale che
fm(x) <f(x) 39 »
Con questo teorema è assicurata l’esistenza di funzioni dominanti un infinità potenziale di funzioni crescenti.
Per esempio, sia n un qualunque numero
naturale, le funzioni
f1(n)=1×n = 1, 2, 3,…….,ν, …
f2(n)= 2×n = 2, 4, 6,…….,2ν, …
f3(n)= 3×n= 3, 6, 9,…….,3ν, …
…….
fm(n)=m×n= m×1, m×2, m×3,…….,m×ν, …
……..
……..
costituiscono una successione indefinita strettamente crescente, cioè:
f1(n) < f2(n) < f3(n) <…….< fm(n) <.. …
Allora esiste una funzione che è «maggiore» di tutte, almeno da un certo termine in
poi, per esempio la successione dei quadrati dei numeri naturali
f(n)=n2=1, 4, 9, 16, ….,ν2,…
e si può continuare con una nuova successione di funzioni:
g1(n)=n2=f(n)
g2 (n)= n3
g3(n)=n4
……………..
…………….
g m(n)=nm+1
.....................
....................
Ma anche in questo caso esiste una funzione che è «maggiore» di tutte, almeno da
un certo termine in poi, per esempio,
g(n)=2 n, che può essere generatrice di
un’altra successione indefinita di funzioni
crescenti maggiorabile da un’ulteriore funzione, h(n), anch’essa generatrice di una
nuova successione
h1(n)=2n=g(n)
h2(n) =22n=g(h1(n))
………
………
...........................
In questo modo si ottiene una successione di funzioni
f(n), g(n), h(n),……………..
per le quali risulterebbe l’esistenza di una
funzione maggiore di ciascuna di esse.
Se da un lato il teorema costituisce il
“fatto”matematico per esibire l’infinito attuale come evento concreto, ossia l’esistenza di una entità che limita un’infinità
potenziale di oggetti ma a cui non appartiene, dall’altro, l’inesauribilità dell’
esclusa dall’indeterminato infinito potenziale, si trasferisce, mediante il
meccanismo di generazione, dall’infinito
all’oltre infinito, cioè al «transfinito».
Nel 1883 Cantor ritiene i tempi maturi per l’introduzione di una nuova specie di infinito,
un infinito perfettamente determinato e dunque attuale. Ha presente i risultati derivanti
dall’applicazione del teorema du BoisReymond ma la costruzione che egli fa dei
numeri «transfiniti» è originale poiché non
giustificata da teoremi o fatti matematici,
come nel caso dei numeri reali definiti da
Dedekind, ma da due principi a priori.
È un atto del pensiero che crea i nuovi oggetti della matematica.
Egli assume come primo principio di formazione quello per la costruzione dei numeri naturali finiti per cui si può addizionare un’unità ad un numero già formato
ν ,…
«La serie dei numeri interi 1,2,3,…ν
deve la sua formazione alla ripetizione e
alla riunione di unità che sono prese come
punto di partenza e che sono considerate
come uguali. Il numero í esprime un numero finito determinato di ripetizioni successive di questo genere, così pure come
la riunione delle unità scelte in un’unica
totalità. Il numero dei numeri í della classe formata in questo modo è infinito e fra
tutti questi numeri non c’è uno che sia più
grande degli altri»
Il secondo principio di formazione: «data
una successione qualsiasi di numeri (reali) interi definiti, tra i quali non ce ne sia
uno che sia più grande di tutti gli altri, si
pone, basandosi su questo secondo principio di formazione, un nuovo numero che si
considera come limite dei primi, che è cioè
definito come immediatamente superiore
a tutti questi numeri.»
« Sarebbe contraddittorio parlare di numero massimo della classe, tuttavia si può
immaginare un nuovo numero, ω che
esprime che l’intero insieme è dato in virtù della legge nella sua successione naturale. Si può anche rappresentarsi il nuovo
numero come limite cui tendono i numeri
ν, alla condizione di intendere con ciò che
ω sarà il primo numero intero che seguirà tutti i numeri ν, in modo che occorra
dichiararlo superiore a tutti i numeri ν»40
Associando il numero ω con le unità e applicando il primo principio si costruiscono
i numeri
ω+1, ω+2, ω+3,…, ω+ í+… ω+ω= ω2
e ancora con
ω×2+1, ω2+2, ω×2+3,…, ω×2+ν, ...,
ω×2+ω=ω×3 e ancora
………………………….
ω×2, ω×3, ω×4,….,ω×ω=ω2 e
ω2+1,…
fino ad ottenere la seguente disposizione:
1,2,3,…..
ω+1, +2, ω+3,… ω+ω
ω×2, ω×2+1, ω×2+2, ω×2+3,…. ω×2+ω
ω×3, ω×3+1, ω×3+2,…. ω×3+ω
………………………………
ω2, ω2+1,…
ω2+ω×,ω2+ω×2, ω2+ω×3….
ω22+ω,….
ω3,…
ω4,…
….
Questi sono i primi numeri transfiniti o
numeri della seconda classe numerica,
come li definisce Cantor, che si ottengono
continuando a contare oltre l’ordinario infinito numerabile, ossia mediante una prosecuzione del tutto naturale e
univocamente determinata dell’ordinario
contare nel finito.
Se , per esempio, si considerano, dal punto
di vista quantitativo , due insiemi infiniti:
1. insieme dei numeri naturali, 1, 2,
3,…, n, ...
2. insieme dei numeri reali dell’intervallo [0,1]
è possibile dimostrare le proprietà specifiche dell’ infinito che male si conciliano col
senso comune.
L’insieme dei numeri naturali è equipotente
sia all’insieme dei numeri interi relativi, ma
anche a quello dei numeri razionali e all’insieme dei numeri algebrici (numeri otte
nibili mediante estrazioni di radici). Questi
insiemi, per il fatto di essere equipotenti
con l’insieme dei naturali , sono detti
numerabili.
Inaspettatamente anche l’insieme dei pun-
ti di un quadrato o di un cubo e
persino l’insieme di tutte le funzioni continue, dal punto di vista
della quantità non è più grande
dell’insieme [0,1].
Contrariamente al senso comune
non esiste un unico infinito, gli
insiemi 1. e 2. non sono
equipotenti. Il secondo insieme
non è numerabile, anzi contiene
più elementi del primo insieme, in
questo consiste la svolta concettuale provocata da Cantor e che
Hilbert giudica con queste parole: «Questa mi appare come il fiore più bello dello spirito matematico e in generale una delle
più alte prestazioni dell’attività
intellettuale dell’uomo…»41
In questa situazione si pone il
problema di sapere se con questo modo di contare transfinito è
possibile contare anche insiemi
che non sono numerabili. In particolare, il «famoso problema del
continuo posto ma non risolto da
Cantor», consiste nel domandare se i numeri reali di [0,1] possano essere contati mediante i numeri della seconda classe.
Cantor costruisce la teoria dei numeri transfiniti e crea un calcolo
completo per essi ma sulla “effettiva” esistenza dei nuovi oggetti matematici non si pronuncia. Crede
che la matematica possa essere sviluppata in modo autonomo purché
soggetta all’unica condizione della non contraddittorietà e della
coerenza intrinseca dei propri
enunciati e separata dalla metafisica. Il problema di “esistenza” è
metafisico e pertanto estraneo agli
scopi della matematica. Successivamente però è di diverso avviso.
Poiché il termine “attuale” coinvolge in qualche modo anche la realtà
del mondo esterno egli ritiene che
anche le invenzioni intellettuali
possano trovare un corrispettivo
nella realtà.
Per merito del lavoro collettivo di
Frege42 , Dedekind e Cantor, l’infinito, raggiunge una «vertiginosa vetta di successi».
Non mancano però le reazioni che
portano alla scoperta di contraddizioni, i cosiddetti paradossi
della teoria degli insiemi. In particolare la contraddizione scoperta da Zermelo 43 e Russell44 ha un
21
effetto catastrofico nel mondo matematico. Di fronte a queste contraddizioni Dedekind e Frege abbandonano di fatto le loro
posizioni e rinunciano. Contro la teoria di Cantor sono indirizzati, da parti più diverse, violenti attacchi, e consigliati i più
svariati rimedi. Poincaré45 nella controversia con Russell, sostiene la tesi che la causa delle antinomie derivanti dalla teoria
degli insiemi è da ricercarsi nell’assunzione di insiemi attualmente infiniti. Gauss46 pensa che nella matematica non si può
parlare di un infinito completato e Kronecher47 conduce una campagna contro il programma cantoriano. Brower 48, massimo
esponente della corrente dell’ intuizionismo, nella sua prolusione all’università di Amsterdam, ammette che lo sviluppo della
geometria non-euclidea ha screditato la concezione kantiana dello spazio ma che l’aritmetica e con essa tutta la matematica
deve essere derivata dall’intuizione del tempo.
Hilbert ritiene insopportabile la condizione in cui si trovano i matematici di fronte alle contraddizioni e ipotizza la via per
evitarle senza però rinunciare ai risultati raggiunti da Cantor:
«Dal paradiso che Cantor ha creato per noi, nessuno deve poterci mai scacciare.».49 ◊
Nella tabella sono riportati i nomi di alcuni illustri filosofi e matema- Bibliografia essenziale
Euclide Elementi a cura di A.Frajese e M. Maccioni,
tici che hanno condiviso l’uno o l’altro significato di infinito
Torino, Utet, 1970
Aristotele, Metaphisic, Gamma (IV), in Opere, vol. II, trad.
A. Russ, Roma-Bari, Laterza, 1994
Aristotele, Opere, Roma, Laterza, 1995
Dedekind, J.W.R., Scritti sui fondamenti della matematica,
trad. F. Gana, Napoli, Bibliopolis 1982
Carruccio, E., Matematiche elementari da un punto di vista
superiore, a cura di B. D’Amore, Bologna, Pitagora, 1972
Bernard Bolzano (1781-1848) I paradossi dell’infinito,
Milano, Cappelli Editore, 1965
Zellini, P., Breve storia dell’infinito, Milano, Adelphi
Edizioni s.p.a., 19996
Rufini, E., Il “metodo di Archimedee le origini del calcolo
infinitesimale nell’antichità, Milano, Biblioteca Scientifica
Feltrinelli, 1961
Boyer, Carl B., Storia della Matematica, Milano,Mondatori
editore,1980
Mangani, N., Relog. Regole logiche nelle dimostrazioni
matematiche, Firenze, Libri Liberi, Firenze, 2004
Note:
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
16
17
18
19
20
21
Bernard Bolzano(1781-1848)
I paradossi dell’infinito, Cappelli Editore, Milano 1965, pag.49
Georg,Wilhelm, Friedrich, Hegel (1770-1831)
Limite in greco è
Anassimandro
(609-547 a.C.)
Abitualmente identificato con Pietro Giuliano (1226-1277)
Aristotele
, (384 a.C-322 a.C)
Aristotele, Phisica, III, 6, 203 b 6
Aristotele, Phisica, III, 6, 203 b 20
Aristotele, Phisica, III, 6, 206 a7
Aristotele, op. cit, 4, 204 a6; 6, 206 a15: Metaphysica, X, 10, 1066 b 1
Secondo Aristotele la linea è una grandezza continua e come tale sempre
divisibile in parti sempre divisibili Metaphysica, IV, 13, 1020 a11; IV, 6,
1016, b 24 e non è possibile che possa essere composta di punti né
di parti indivisibili (linee indivisibili) Phisica,VI, 2, 233 b 15; 6, 237, b
8; IV, 12, 220, e 30 contrariamente a Senocrate e Platone.
Aristotele,Phisica,III, 6, 206 b 3-13
Aristotele,Phisica,III, 6, 206 b 16-22
Democrito
(460-370 a.C.)
Epicuro (341-271/270 a:C.)
Anassagora
(496-428 a. C.)
Antitonte (480-441 a.C.)
L’argomentazione di Brisone (VI sec. a. C.), contemporaneo e
discepolo di Pitagora, consiste nell’inscrivere nel cerchio
successivamente poligoni regolari di 2, 4, 8, .. lati e crede così
facendo in continuazione e in questo modo inscrivere un poligono
con i lati abbastanza piccoli da coincidere con l’arco sotteso
Problema classico la cui soluzione comporterebbe esprimere π a partire
dal raggio, unità di misura, mediante operazioni razionali e
estrazioni di radici quadrate. In altre parole π dovrebbe essere un
numero algebrico (soluzione di un’equazione della forma a nxn+an-1xn1
+…+a1x+a0=0 con an, an-1,…,a0 numeri razionali)
Nel 1882 Carl Louis Ferdinand von Lindemann(1852-1939) dimostra
che π è un numero trascendente (non algebrico) e mette fine alla ricerca
della soluzione del problema.
Zenone di Elea
(495 a.C.- 430 a.C.)
22
22
23
24
25
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45
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47
48
49
Eudosso di Cnido (408 a.C.– 355 a.C.)
Archimede
(circa 287 a.C.–212 a.C.)
Euclide di Alessandria
(seconda metà XIII sec.inizio XIV sec. a.C.)
Renè Descartes (1596-1650).
Marin Mersennus(1588 – 1648)
Augustin-Louis Cauchy(1789 – 1857)
Julius, Wilhelm, Richard Dedekind (1831-1936)
Girard Desargues (1591-1661)
Gottfried, Wilhelm von Leibniz (1646-1716)
Karl Weierstrass (1815-1897)
Si possa stabilire una relazione d’ordine.
Libro V 5a definizione conosciuta anche come il postulato di
Archimede: due grandezze diseguali sono tali che esiste un
multiplo della minore che supera la maggiore.
Un infinitesimo è una grandezza non archimedea in quanto un
qualsiasi multiplo rimane minore di una qualunque grandezza
finita assegnata. Il postulato esclude l’esistenza di infinitesimi.
George Cantor (1845-1918)
Simplicio (attivo verso il 520 d.C.)
du Bois-Reymond, Emile. (Berlino 1818-1896)
U insieme infinito è numerabile se è in corrispondenza
biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi o naturali
Per tutti gli m
Foundements d’une théorie générale des ensembles, in «Acta
mathematica» 2, 1883
David Hilbert, Ricerche sui fondamenti della matematica, a
cura di M. Abrusci, Napoli, Bibliopolis, 1985,pag 239
Gottlob Frege (1848-1925)
Ernst, Friedrich, Ferdinand Zermelo (1871-1953)
Bertrand, Arthur, William Russell (1872-1970)
Jules-Henri Poincaré (1854-1912)
Carl, Friedrich Gauss (1777-1855)
Leopold Kronecher (1823-1891)
Luitzen, Egbertus Brower (1881-1066)
David Hilbert Ricerche sui fondamenti della matematica, op. cit
pag.242.
Il poliedrico mondo di Ipazia d’Alessandria
“E il fanatismo è infido, travolge chi vi si affida
non meno di chi vi si scontra” (da Libro di Ipazia di M. Luzi)
I
ncontrai Ipazia nel 1991-2 durante la
lettura, in classe, delle Città invisibili
di I. Calvino: di Ipazia, quarta città della
sezione “le città e i segni”, sottolineai con
cura il passo “I segni formano una lingua,
ma non quella che credi di conoscere”1. A
me ed ai miei studenti di allora Ipazia di
Calvino suggerì cautela, consapevolezza
dei limiti di ogni nostra conoscenza, ma
anche coraggio ed entusiasmo, necessità
di continuo spostamento di punto di vista,
o meglio confronto per pervenire ad un
qualche risultato e quindi ripartire per nuovi
luoghi in senso lato, facendo tesoro pure
dello scacco, delle sconfitte.
Rincontrai Ipazia, come personaggio storico, nel dicembre 2005 ad una serie di incontri su Città reale/città possibile, promossi
dalla Libera Università di donne e uomini
Ipazia, nata dalla collaborazione fra l’Associazione Rosa Luxemburg e il Giardino
dei Ciliegi. In tale occasione conobbi il testo Ipazia, scienziata alessandrina, 8 marzo 415 d. C., di A. Petta e A. Colavito2. Questo avvincente romanzo storico, che si sviluppa secondo due percorsi strettamente
legati ma distinti, perché l’uno riguarda la
vicenda biografica di Ipazia ricostruita storicamente, l’altro privilegia il pensiero, gli
insegnamenti di questa donna scienziata,
mi ha indotto a continuare a leggere altre
opere che la riguardano, appartenenti ad
ambiti e periodi diversi, che pure consentono di comprendere quanto il mondo di
Ipazia fosse poliedrico, e dunque capace
di interessare filosofi, scienziati, storici,
pittori e letterati. Anche solo per questo,
in quanto argomento capace di attrarre indagini di saperi diversi, in occasione di un
numero della nostra rivista dedicato principalmente a temi di carattere scientifico,
mi è sembrato che Ipazia meritasse un po’
di spazio, ma soprattutto perché la sua stessa vicenda di donna scienziata ci ricorda il
faticoso e doloroso cammino della libertà
di pensiero.
Doria Polli
Un modo per accostarsi alla conoscenza di capaci di muoversi secondo
tale donna è proprio quello di leggere il ro- un’ottica trasversale non tolleramanzo citato sopra, perché ci offre un’ap- bile da chi deteneva il potere: il
passionante ricostruzione di una parte del- potere predilige una configuraziola vita di Ipazia, dal I Luglio del 391 d.C. ne verticale capace di controllare
all’8 marzo del 415 d.C., giorno funesto per quanto si agita in basso, nelle vie,
Ipazia e per la stessa
ricerca scientifica del
mondo antico. Le pagine di questo libro ci
fanno percorrere le vie
di Alessandria d’Egitdi Massimo Bartoli
to tra la fine del IV ed
inizio V secolo d. C. e
scoprirne celebri luoVoce secondo cui qualunque effetto,
ghi, come già indicato
è sempre provocato da un motivo.
dai titoli delle tre diverE il mondo dice, è all’ordine perfetto
se parti in cui il testo è
di un suo fattore determinativo.
suddiviso: La BiblioCosì per soddisfare l’intelletto
teca e il Serapeo; Il
dell’uomo dal sapere volitivo,
Centro studi in via del
esprime quella legge universale
Sole; la cupola nera
appunto del preambolo causale.
del Cesareo. Il fascino di Alessandria
Insomma tutto quello che succede,
d’Egitto, al tempo del
è sempre e in ogni forma necessario.
tramonto di un’epoca,
E il mondo, e tutto quello che si vede
traspare continuamenè un solo gigantesco macchinario.
te dall’intersecarsi delPerciò che dal seicento l’uomo diede
le sue strade e dei suoi
la vita al suo famoso corollario:
celebri palazzi descritLe cose stanno tutte in relazione,
ti nella loro progressitra loro e in matematica funzione.
va rovina, nel continuo avvicendarsi di
Rispose bene allora a quelle scienze,
luce, talora sfolgorante, e tenebre che li avdi indagine sul mondo naturale.
volgono, in un’atmoDi indagine sui nessi e dipendenze
sfera che diviene semper mezzo della via sperimentale.
pre più cupa; ma l’inMa lo sviluppo delle conoscenze
canto è offerto dalle
più tardi lo piegò proprio a star male:
tracce di quel crogiolo
al mondo non esiste l’immutabile,
di lingue e culture dima solo la certezza del probabile 1.
verse che lì si erano
incontrate e contaminate
1
La Meccanica quantistica
nel generare nuovi
modi di convivenza,
DETERMINISMO
23
nelle piazze e induce a cercare luoghi nascosti per continuare a studiare, costringe alla solitudine, impaurisce fino ad aggredire ed uccidere, come è successo ad una
donna che era riuscita ad intraprendere nuove strade conoscitive, sul tracciato del pensiero filosofico greco.
Ipazia, una delle prime donne di
scienza, è stata violentata ed uccisa ed il suo stesso cadavere è
stato fatto a pezzi, perché la sua
morte fosse di monito ai suoi stessi discepoli e/o perché non ne restasse memoria alcuna, secondo
diverse interpretazioni.
I suoi studi si collocano entro
la linea della tradizione matematico-astronomica di Alessandria
e del Neoplatonismo logico, ma
tutti i suoi scritti sono andati
perduti. Nata nel 370 d. C., figlia
di Teone, un matematico e
astronomo del Museo, venne
avviata allo studio dallo stesso
padre, cui probabilmente offrì
forte collaborazione nella stesura di un commento all’Almagesto di Tolomeo e per l’edizione
delle Opere di Euclide; le vengono anche attribuiti un commento all’Aritmetica di Diofanto, un trattato Sulle coniche di
Apollonio, un matematico
alessandrino del III sec. d. C..
Ipazia ci è nota grazie in particolare alle lettere a lei indirizzate da parte del suo discepolo
Sinesio di Cirene, divenuto poi
vescovo di Tolemaide. Numerose sono le testimonianze indirette da parte di storici a lei contemporanei: la sua vita si è svolta in un periodo di decadenza
dell’Impero, ormai diviso, sempre più esposto alle invasioni,
in cui il Cristianesimo andava
diffondendosi ma anche cristallizzandosi in religione di stato
ed in dispute teologiche, fino a
costituire un patrimonio
dottrinale di cui lo stesso vescovo Ambrogio di Milano si
servì per sostenere la suprema24
zia dell’autorità spirituale su quella temporale. Non era trascorso nemmeno un
secolo dal celebre Editto del 313 con cui
Costantino riconoscendo la libertà di
culto ai cristiani stabiliva la fine delle tremende persecuzioni e la restituzione dei
beni loro confiscati, ed ancor meno tempo era trascorso dal tentativo di un ritorno al paganesimo sotto l’imperatore Giuliano, quando l’imperatore Teodosio,
indotto dal vescovo Ambrogio a fare
ammenda pubblica per il massacro della
popolazione di Tessalonica del 390, emanò poi tutta una serie di decreti per rendere il cristianesimo religione di Stato e
per vietare i culti pagani ed ebraici. Tali
misure ebbero le loro ripercussioni anche nei territori provinciali, dove il potere dei vescovi andò via via rafforzandosi: ad Alessandria il vescovo Teofilo ordinò la distruzione del Serapeo. La storia
di Ipazia si inserisce in questa intricata
trama di vicende.
Mentre alle sue lezioni affluivano pagani,
ebrei e cristiani, il criterio dei potenti era
quello fin troppo noto del ‘divide et impera’
da un lato, dall’altro, consapevoli dell’importanza della conoscenza quale instrumentum regni, cercarono di imbrigliarla ed assoggettarla ai loro disegni, senza per altro
riuscirvi e quindi ricorsero alla violenza.
“Sembra che Ipazia, sempre a seconda di
Sinesio, svolgesse il suo insegnamento, distinguendo il piano più strettamente religioso-privato, dal piano logico-scientifico,
in una ricerca che non concedeva nulla a
tutto ciò che potesse avere sapore di dogma(…).”3 Gli stessi autori del romanzo storico a lei dedicato così la fanno parlare nel
rivolgersi al vescovo Teofilo. “Non esiste
uno scontro tra Scienza e Religione. Esiste
un’avversità, non voglio dire da parte del
cristianesimo, ma da parte di alcuni suoi
rappresentanti nei riguardi della Scienza.”4
Ed ancora: “la Scienza unisce gli uomini, e
può aiutare a unire i popoli, e può contribuire alla diffusione del messaggio d’amore di
Cristo.
In questo Centro Studi siamo pagani, ebrei,
cristiani, uomini, donne, di qualunque condizione sociale. Sette secoli fa, ad Atene,
nel giardino di Epicuro, alla sua scuola dove
si studiava proprio l’atomismo, vennero ammesse donne e schiavi, più o meno di pari
condizione (…). Il ruolo della donna non è
stato scritto da Dio, ma da uomini come te,
patriarca. La donna si è quasi sempre vista
negare l’accesso al sapere e alle scienze,
alle scuole, alle accademie, alle biblioteche,
ai centri studi. Tu sai perfettamente che chi
detiene la conoscenza, detiene un potere.
Tu hai paura della mia scienza, di quello
che ho imparato e di quello che imparerò.
Perché quello che io sto scoprendo può
mettere in pericolo la tua posizione di vescovo e patriarca.” 5
Se i rapporti di Ipazia con l’autorità religiosa divennero sempre più tesi, complessi
furono quelli con l’autorità politica, tanto
più che essa “era la portavoce dell’aristocrazia cittadina presso i rappresentanti del
governo centrale romano e in particolare
presso Oreste d’Egitto.”6
Morto Teodosio, i suoi successori continuarono nell’azione da lui intrapresa di chiudere tutti i templi pagani, Ipazia pure continuò ad insegnare “a dubitare, a disobbedire… non a credere e obbedire!”7 Continuò
a costruire e perfezionare importanti strumenti, come un astrolabio, un idroscopio
ed un aerometro; sul finire del 414 ottenne
qualche sovvenzione da parte dell’autorità
imperiale di Costantinopoli per il suo Centro Studi, ma ad Alessandria, nel 412, al vescovo Teofilo successe Cirillo, “fanatico militante della cristianità, che si pose in aper-
ta ostilità con Oreste, prefetto romano
d’Egitto e da tempo amico e discepolo di
Ipazia.”8 Cirillo perseguitò gli ebrei contro
l’opposizione di Oreste che venne accusato di averli sostenuti contro i cristiani, e
che inutilmente cercò di convincere Ipazia
ad allontanarsi da Alessandria. Ipazia non
rinunciò alla battaglia combattuta tutta una
vita, alla sua libertà di pensiero e venne
pertanto massacrata ed uccisa dai monaci
fanatici guidati da un tal Pietro lettore della
Chiesa del vescovo Cirillo, più noto come
teologo e proclamato, per le sue dottrine,
dottore della Chiesa.
L’uccisione di Ipazia è rimasta impunita e
l’intera vicenda ha ispirato autori che ne
hanno dato tante diverse interpretazioni: impossibile, in tale sede, ricordarle tutte. Il
nostro Leopardi, giovanissimo, nella sua
Storia dell’Astronomia, così la ricorda:
“Questa fece sì grandi progressi nelle scienze, ed in particolare nell’Astronomia: che
fu tenuta per la più dotta persona del suo
tempo. Compose vari trattati di Matematica, che disgraziatamente si sono smarriti.
Venne crudelmente massacrata perché
credevasi che ella impedisse la riconciliazione di S. Cirillo con Oreste governatore
della città, o come vuole Esichio Milesio, a
cagione della invidia, che contro di lei aveva suscitata la sua perizia in particolare
nelle cose atronomiche.”9
Per restare in Italia, in particolare nella nostra città, non posso non ricordare almeno
il testo teatrale di M. Luzi, Libro di Ipazia.10
Anche in quest’opera emerge con forza il
contrasto tra un solare passato di un’Alessandria d’Egitto, perché luogo di incontro,
studio e confronto, e un cupo periodo di
un’Alessandria in preda ai divieti, agli incendi e distruzioni fino alla morte di Ipazia.
“Tempo di tolleranza da coniugarsi al passato
-al passato, temo, irreversibilequando tutto poteva convivere.
La città era famosa per questo.
La differenza qui perdeva le unghie.
Uomini, navi e mercanzie,
fogge, pratiche, costumi
e credenze e dottrine di ogni nazione,
questa linfa le correva nel sangue,
le scoppiava in gemme, in fioriture perenni..”11
(…)
“Il fanatismo le ha cambiato volto, la deforma in tutte
le ossa.”12
(…)
“Bruciano libri,
distruggono le statue, devastano i templi.”13
“..com’è proteiforme il potere
e com’è sempre identico a se
stesso.”16
Inutile che la stessa Ipazia ribadisca il suo intento pacifico:
“Non siamo noi che portiamo la guerra.
E’ una parola di pace vera la nostra.
Se provoca clamore e scandalo, è
necessaria lo stesso.”17
Nel Libro di Luzi l’uccisione di
Ipazia, le cui sole armi erano quelle della conoscenza, non ci viene descritta, ma solo dichiarata
nella sua orribile crudeltà:
“Ipazia è morta. Uccisa. Il modo è anche
più crudele,
ma, ti prego, non chiedermi altro.”18
Ed in questa città sempre più devastata,
“Ipazia è una forza non consumata,
un dente non eroso dall’attrito. Inoltre ne è consapevole.”14
(…)
“Ipazia insiste, non so se per sola imprudenza,
a far gente ai crocicchi, a eccitare e sferzare la
moltitudine
inseguendo quel sogno con discorsi che pochi
capiscono” (…)
“Essa vede lontano. Promana una luce di aurora
da quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo.”15
Svolge dunque instancabilmente la sua
funzione socratica per le strade ed è
proprio questo che incute timore ai potenti: da sempre non possono tollerare
che la conoscenza si diffonda, si faccia
appunto strada, arrivi alle moltitudini;
quando questo accade talora scendono
a patti, altre volte ricorrono alla loro
forza distruttiva e colpiscono, fino ad
uccidere.
Poche pagine dopo ci ricorda:
“Così finisce il sogno della ragione ellenica.
Così, sul pavimento di Cristo.”19
Ci lascia quindi un monito contro ogni tipo di fanatismo distruttivo ed omicida, tanto più
che la tragica vicenda di Ipazia
del marzo del 415 d. C. accadde
a distanza di circa un secolo da
un’altra tragica morte, nel 307,
quella di Caterina: una martire
cristiana, anche lei studiosa di
Alessandria, soprattutto di filosofia, (secondo la tradizione)
tanto da essere stata resa
patrona della stessa facoltà di
Filosofia dell’Università di Parigi. ◊
note
1
Cfr. I. Calvino, Le città invisibili,1977,
Torino, Einaudi, pp.53-4.
2
Cfr. A. Petta e A. Colavito, Ipazia, scienziata
alessandrina, 8 marzo 415 d. C., 2004, Milano
, Lampi di stampa: il testo è corredato da
un’ampia bibliografia.
3
Cfr. F. Adorno, La filosofia antica, vol. 2,
Milano, Feltrinelli, p. 704.
4
Cfr. A. Petta e A. Colavito, op. cit., p. 64.
5
ibidem.
6
Cfr. S. Ronchey, Ipazia , l’intellettuale, in
Roma al Femminile, (a cura di
A.Fraschetti),1994, Bari, Laterza, p.216.
Anche questo testo contiene una Nota
bibliografica assai ben documentata che
permette di avviare uno studio approfondito
circa le diverse fonti ed interpretazioni di
Ipazia.
7
Cfr. A. Petta e A. Colavito, op. cit., p. 217.
8
Cfr. M. Alic, L’eredità di Ipazia, trad. it. di D.
Minerva, Roma, Editori Riuniti, p. 65.
9
Cfr. G. Leopardi M. Hack, Storia
dell’astronomia, dalle origini al duemila e
oltre, Roma, Edizioni dell’Altana, p. 157.
10
Cfr. M-Luzi, Libro di Ipazia, 1993, Milano,
Garzanti.
11
op. cit. p. 12.
12
op.cit. p.13.
13
14
15
16
17
18
19
cfr. op. cit., p. 19.
op. cit., p. 30.
op. cit., p. 31.
op. cit., p. 18.
op. cit., p. 40.
op. cit., p. 47.
op. cit., p. 49.
25
Le lezioni di anatomia in età moderna
fra arte e scienza
Fabio Sottili
A
metà del settecento, nella Napoli borbonica, il principe Raimondo di Sansevero, nobile eccentrico, curioso, e
sperimentatore, fu forse il primo a riuscire nella difficile operazione di rappresentare il sistema venoso umano. I
suoi contemporanei sostenevano che tale risultato fosse stato ottenuto iniettando sostanze sclerotizzanti in uomini vivi, ma pare che ricerche condotte in tal campo neghino l’accusa, e portino le sue ricerche all’interno dello
sperimentalismo iniziatico dell’epoca. La stessa cappella Sansevero di Sangro (fig. 1) nella quale sono conservate le
figure umane ricostruite dal principe napoletano, è un
vero e proprio scrigno tardo barocco, nel quale domina al
centro l’anatomia perfetta del marmoreo Cristo morto di
Giuseppe Sammartino (1753), avvolto virtuosisticamente
da un velo trasparente (fig. 2).
Il risultato al quale era arrivato il nobile partenopeo aveva
avuto i suoi inizi dallo studio del corpo umano, nei primi
secoli della nostra era, con Galeno, un medico di Pergamo, nell’Asia Minore, che operò nel II secolo D. C., raccogliendo il risultato delle ricerche condotte dagli antichi
egizi, greci, etruschi e romani. Un altro grande contributo
arrivò, successivamente, sempre dall’oriente, con
Avicenna, il più importante medico della fine del primo
millennio, nato in Persia, a Bukhara, luogo famoso ancora oggi per la realizzazione di tappeti. La cultura araba,
infatti, giocò un ruolo fondamentale nella scienza medievale del mondo occidentale.
A cavallo dell’anno Mille prese avvio la prima importante
scuola
di medicina, quella di Salerno, che riassumeva in
Fig. 1 - Napoli, Cappella Sansevero di Sangro
sé le conoscenze degli antichi, con quelle recenti, provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo: gli studi anatomici vennero ripresi con sezioni di animali e di cadaveri umani,
fino ad arrivare all’imperatore Federico II che promulgò una legge, che vietava l’esercizio della medicina a chiunque
fosse profano di esperienze anatomiche dirette sul corpo dell’uomo.
Con Mondino de’ Luzzi (1270-1326), laureatosi a Bologna nel 1290, l’osservazione del corpo umano diventò
diretta, svolgendo lezioni sopra i cadaveri, come già
ne erano state fatte ad Alessandria d’Egitto oltre un
millennio prima; nel 1316 scrisse un testo base di
anatomia, intitolato “Anathomia Mundini”, edito decine
di volte, nel quale si afferma che le viscere devono
essere ritenute le fondamenta della stabilità del corpo
umano, e non il sistema scheletrico.
Nel rinascimento l’arte riscopre le citazioni più antiche
di epoca greco-romana, insieme agli scritti di Galeno,
nei quali la concezione del corpo si basava sullo scheletro come asse portante della struttura umana. Divenne sostanziale il rapporto fra ricerca artistica e ricerca medica nel campo dell’anatomia, com’è
ravvisabile nel disegno raffigurante la Battaglia degli
ignudi di Antonio del Pollaiolo (1470).
Mentre nelle università fioriva l’indagine anatomica,
pittori, disegnatori e scultori studiavano essi stessi le
particolarità anatomiche sui cadaveri. Piero della Fran- Fig. 2 - Giuseppe Sammartino, Cristo morto (1753),
cesca, Andrea Verrocchio, Luca Signorelli, Antonio del
Napoli, Cappella Sansevero di Sangro
Pollaiolo e Andrea Mantegna conobbero profondamente l’anatomia; Benvenuto Cellini partecipava, secondo quanto racconta egli stesso nella sua autobiografia, alle dissezioni di Vido Vidi e di Berengario da Carpi.
26
Fu Leonardo da Vinci, però, con i celeberrimi disegni di anatomia del cosiddetto “Codice
Windsor” (fig. 3), a evidenziare quanto l’indagine sperimentale da lui condotta sulla natura
fosse un percorso parallelo, sia nell’arte, che nella scienza, perché l’arte veniva considerata area di indagine, tanto quanto la medicina. Il disegno artistico serviva a spiegare i risultati
ottenuti in campo scientifico, ed a comprendere meglio l’indagine sperimentale da lui promulgata, che andava contro il pensiero neoplatonico allora egemone.
Mosso dal duplice amore della conoscenza e del bello, si fece anatomista, compiendo la
dissezione di una trentina di cadaveri maschili e femminili, e fissò sulla carta note e disegni, che ci fanno comprendere la profondità della sua visuale di scienziato e di artista. A
questi studi desistette solo quando, denunciato alla corte di papa Leone X come profanatore
Fig. 3 - Leonardo da Vinci,
di corpi umani, gli fu vietato l’accesso all’Ospedale di S. Spirito, dove abitualmente si recava
Testa maschile,
per le sue dissezioni.
dal Codice Windsor
I disegni del codice Windsor, al contempo modelli di bellezza e di esattezza scientifica,
testimoniano la potenza di osservazione del grande maestro anche in questa scienza, a cui egli avrebbe inteso dar forma
attraverso un trattato di anatomia umana, di anatomia comparata e di fisiologia di ben centoventi libri, mai attuato.
Nella qualità tecnica del disegno maniacale di Leonardo si possono trovare assonanze con le ricerche sulle proporzioni
umane dell’artista tedesco Albrecht Dürer, pubblicate fra il 1510 ed il 1515 nel trattato “Della simmetria de’ corpi umani”:
entrambi tendevano al rispetto del foglio di carta, e dell’impostazione grafica ed estetica totale, con un equilibrio fra i
disegni e la perfezione della calligrafia.
Nel cinquecento i dottori tentarono sempre più di visualizzare temi, che, né l’esposizione verbale, né la descrizione scritta
avrebbero reso con la stessa efficacia.
Nacque così il disegno dal vero, sussidio fondamentale per la
comprensione e la memorizzazione. La stretta collaborazione di
anatomisti, artisti, incisori, e tipografi permise la creazione di
opere didatticamente efficaci e artisticamente significative.
La prima rivoluzione nel campo dei testi di divulgazione scientifica sull’anatomia umana avvenne nel 1543 con il “De humani
corporis fabrica”, opera di Andrea Vesalio (1514-1564), al quale
si deve l’inizio della grande scuola di anatomia dell’Università di
Padova, ed al quale spetta il merito di aver compreso la straordinaria importanza scientifica delle tavole anatomiche, perfettamente disegnate per i medici e gli studenti.
La sua fondamentale opera sull’anatomia, composta da sette
libri, proponeva una riscrittura complessiva dell’anatomia umana, ed era arricchita da stupende incisioni del fiammingo Giovanni Stefano Calcar, allievo di Tiziano, così magistralmente disegnate, da essere ritenute a lungo, da alcuni studiosi, di mano
dello stesso Vecellio. Si tratta di immagini di stampo prettamente
manierista, dove scheletri assumono pose artistiche e filosofiche, ma che dimostrano al contempo una conoscenza incredibilmente articolata del corpo umano, cervello compreso.
Fin dal XVI secolo furono in uso le cosiddette “dissezioni di carta”: sollevando il foglio di superficie, che mostra le parti esterne
del corpo, si aprivano le cavità, evidenziando gli organi mobili,
ritagliati in carta, che potevano essere collocati al loro posto
nell’ordine anatomico o su fogli volanti, o su volumi. Lo stesso
Fig. 4 - Padova, Teatro Anatomico
Vesalio utilizzò questo espediente; ci sono infatti pervenuti fogli
volanti di organi intercambiabili da lui stesso elaborati.
Dopo la Controriforma il corpo umano all’interno delle pubblicazioni scientifiche diventò ricettacolo di indicazioni etiche
sul comportamento, e sul significato morale che ciascuna parte del corpo doveva racchiudere.
Agli inizi dell’epoca barocca apparve il volume “Monstrorum historia”, scritto dallo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi
(1522-1605), e pubblicato postumo nel 1642, fondamentale per una visione dello studio dell’anatomia che si concentra
sugli aspetti più curiosi o mai visti, secondo il più puro spirito seicentesco, poiché si punta l’attenzione su corpi affetti da
deformazioni, esseri bizzarri e donne pelose.
Ma l’anatomista più rappresentativo in Italia nei primi anni del XVII secolo fu Girolamo Fabrizi di Acquapendente (15651616), filosofo e medico, professore all’Università di Padova. Il suo testo “De locutione et eius instrumentis” (1601)
contiene tavole anatomiche che sono degli autentici capolavori artistici nel migliore gusto chiaroscurale seicentesco. La
sua indagine è totale, sia nel campo animale, che in quello umano, studiandolo alla perfezione.
Negli anni di Fabrizi da Acquapendente, Padova era l’Università di Medicina più importante d’Europa, ed in quella sede, nel
1594, da Paolo Sarpi venne costruito il Teatro Anatomico, una grande sala con una struttura in legno, costruita probabilmente
da maestri d’ascia veneziani in uno stile che recupera l’estetica cinquecentesca della capitale lagunare (fig. 4).
27
È composto da sette ordini di forma ellissoidale, che servivano a
contenere 250 studenti, i quali, proprio come in un teatro per spettacoli, guardavano dall’alto l’operazione di dissezione dei cadaveri, operata dai docenti universitari, che così insegnavano l’anatomia del corpo umano. Al centro il tavolo operatorio era il fulcro
della vasta sala, sulla quale dominava lo scranno del professore:
da questo posto, dal 1715 fino alla sua morte, insegnò
Giovanbattista Morgagni, fondatore dell’anatomia patologica, chiamato “Sua Maestà Anatomica”, perché fu il più famoso medico
anatomista del XVIII secolo. Nel XIX secolo, per evitare sgradevoli
problemi olfattivi, la parte bassa fu chiusa e fu previsto un meccanismo elevatore per poter portare il cadavere nell’aula, trasformando così il progetto originario che prevedeva un letto al centro
della cavea.
Nell’Archiginnasio di Bologna troviamo un altro Teatro Anatomico,
costruito quarant’anni dopo di quello di Padova (1637); distrutto
durante l’ultimo conflitto mondiale, è stato ricostruito recuperando
le settecentesche statue degli “Scorticati” di Ercole Lelli (fig. 5).
Come in quello di Padova, anche in questa aula gli studenti sedevano su delle gradinate concentriche; il professore, detto il Lettore, era seduto sul seggio più alto, e sotto di lui stava in piedi
l’Ostensore, che, con una pertica, indicava le parti del corpo da
sezionare al barbiere, detto il Cerusico, il quale, davanti al tavolo
centrale di marmo, eseguiva manualmente la dissezione del cadavere. Anche questa struttura di Bologna è interamente in legno,
ed è arricchita, alle pareti, dalle sculture del Lelli, alle quali ho
accennato precedentemente, dove si evidenzia, insieme alla ricerca della bellezza fisica e della precisione anatomica, anche il
Fig. 5 - Bologna, Teatro Anatomico
lato ironico e fantasmagorico, tipico della città felsinea.
Ercole Lelli (1700-1766) fu uno dei maggiori ceroplasti italiani del
settecento, che, collaborando con gli anatomisti Giovanni Manzolini e Anna Morandi (moglie di quest’ultimo), fondò una
delle scuole più straordinarie di ceroplastica, nella quale si elaborarono strepitosi materiali didattici in cera, secondo la
nuova visione dell’anatomia, promossa dal papato illuminato di Benedetto XIV. Fu grazie alle sue cere, alle statue
miologiche in legno e in bronzo, e all’opera pubblicata postuma “Anatomia esterna del corpo umano per uso delli pittori
e scultori”, della quale fu autore ed illustratore, che riuscì a tenere alto il prestigio dell’alleanza tra arte e anatomia.
Una volta sciolto il veto sullo studio dei cadaveri nei Paesi Bassi, Germania e
Francia, anche gli artisti di quei paesi poterono assistere alle pubbliche lezioni
di anatomia, che si svolgevano in sale appositamente create, come il teatro
anatomico di Leida.
Così, vari pittori, soprattutto di ambito fiammingo, si cimentarono nella raffigurazione delle lezioni di anatomia, sintomo anche del raggiunto stato sociale
del medico e dell’importanza sempre maggiore che la medicina aveva assunto successivamente al rinascimento.
Pochi anni dopo la costruzione del Teatro Anatomico di Padova, nel 1632,
Rembrandt, il più innovativo pittore dei Paesi Bassi settentrionali, dipinse La
lezione di anatomia del professor Tulp (fig. 6). L’artista era stato studente
all’Università di Leida, e conosceva medici ed anatomici, presso i quali si
recava ad assistere alle dissezioni, forse obbedendo alla moda, la quale riFig. 6 - Rembrandt Van Rijn,
chiamava in quell’epoca davanti al tavolo chirurgico ricchi, nobili, e curiosi.
La lezione di anatomia
Il dottor Nicolaes Tulp, primo anatomista della gilda dei chirurghi di Amsterdam,
del professor Tulp, 1632
nel gennaio di quell’anno tenne una lezione pubblica sulla conformazione del
braccio, sezionando il cadavere di un giustiziato. Quest’ultimo nel dipinto viene raffigurato con un pallore spettrale,
accentuato anche dalla dominanza dei toni bruni e neri del fondo e degli abiti, seguendo la caratteristica del rapporto
luce-ombra della pittura naturalistica caravaggesca che nei primi decenni del seicento dominava la scena artistica
europea.
La disposizione obliqua del cadavere sul tavolo anatomico crea movimento e coinvolgimento con lo spettatore, ma
ancor più grazie ai ritratti rubicondi dei membri della corporazione che stanno assistendo alla lezione, attraverso i
quali Rembrandt riesce ad individuare le loro personalità e la loro vivezza, superando il rischio dell’ufficialità e della
monotonia, e diventando, pertanto, emblemi di una vita vera intorno alla morte, e simbolo di una società moderna,
pulsante, ed organizzata.
28
Purtroppo di un’altra scena anatomica dipinta da Rembrandt, quella che rappresenta il dottor Deyman, non è rimasta che una parte, salvatasi da un
incendio.
Ben diversa è la situazione nel dipinto La lezione di anatomia del dottor
Egbertsz di Aert Pietersz (fig. 7), nel quale si evidenza la voglia degli spettatori
di partecipare alla scena, poiché il cadavere e l’anatomista non sono i veri
protagonisti dell’opera, ma i medici che assistono alla lezione, e che per
Fig. 7 - Aert Pietersz,
poter avere un posto nel dipinto pagavano una cospicua cifra, facendo perLa lezione di anatomia del dottor
tanto diventare la tela un’immagine ufficiale e priva di espressività.
Sebastiaen Egbertsz de Vrij, 1603
L’iconografia della “lezione di anatomia” si ritrova anche nella cultura
sperimentatrice ed enciclopedica del settecento, come è esemplificato nell’opera La lezione di anatomia del professor
Roëll del pittore olandese Cornelis Troost (fig. 8), dove con maggior crudezza si raffigura l’articolazione di un ginocchio,
intorno a dottori dalle pose manierate.
L’insegnamento dal vero, però, era difficile, sia per il reperimento
di cadaveri per autopsie, sia per la possibilità di conservare nel
tempo i reperti anatomici.
Iniziarono quindi ricerche per solidificare e rendere maneggevoli le
parti anatomiche: i metodi maggiormente usati furono l’essiccazione e la colorazione.
Ci furono anche anatomisti che, dopo aver ottenuto buoni risultati, non
ne divulgarono i segreti, o li descrissero in modo così vago da non
poter essere trasmessi. Il processo di conservazione dei preparati
secchi provocava la riduzione di volume del preparato stesso: non
essendo immersi in un liquido atto a conservarli, inevitabilmente il
raggrinzimento ne provocava la deformazione.
Pertanto, insieme ai testi scientifici e alle dissezioni dei cadaveri,
la produzione di oggetti plastici in legno, terracotta e cera, che ri- Fig. 8 - Cornelis Troots, La lezione di anatomia
producevano figure umane ed organi animali e umani, divenne
del professor Willem Roëll, 1728
sempre più diffusa come materiale didattico fra XVII e XVIII secolo.
Furono anche costruite statue anatomiche smontabili in legno a grandezza naturale. Di quelle settecentesche fatte
eseguire da Felice Fontana a Firenze, nel Museo di Fisica e Storia Naturale, solo due sono sopravvissute: una si trova
attualmente al Museo Zoologico “La Specola”, l’altra al Museo di Storia della Medicina di Parigi.
La cera, comunque, si dimostrò sempre più un materiale particolarmente adatto per riprodurre le immagini dal vero, perché
estremamente duttile, colorabile, economico, e soprattutto qualitativamente simile alla materia che voleva imitare.
La scuola degli “Scorticati” iniziò nel ‘600, ed ebbe degli esiti
eccellenti non soltanto a Bologna, ma anche nella Firenze
granducale, dove operava l’abate Giulio Gaetano Zumbo (16651701), rinomato ceroplasta siciliano.
Allo Zumbo si devono quattro gruppi simbolici, le cosiddette “Pesti”, rappresentazioni di epidemie diverse, conservate al Museo
della Specola di Firenze, intitolate Il Teatro della Peste, Il Trionfo
del Tempo, La Corruzione dei Corpi, La Sifilide (fig. 9), con riproduzioni delle varie fasi di decomposizione di corpi umani maschili e femminili, che, atteggiati in pose affettate di
michelangiolesca memoria, mostrano un gusto realistico fortemente impressionante, tipico del barocco gesuitico, anche se
non propongono un fine ed un trionfo cristiani, ma soltanto un’osservazione del fenomeno coraggiosamente distaccata e tecniFig. 9 - Giulio Gaetano Zumbo, La Sifilide,
camente analitica.
frammenti del gruppo originario, 1691-94
I gruppi suddetti, realizzati a Firenze fra il 1691 ed il 1694, furono
patrocinati dal clima creato nella corte di Cosimo III de’ Medici dalla letteratura di scrittori gesuiti, e dal gusto del granduca, il
quale, ad esempio, proprio nel 1693, aveva ordinato a Giuseppe Nasini gli affreschi dei Quattro Novissimi in Palazzo Pitti, oggi
scomparsi, contenenti la rappresentazione di corpi in disfacimento.
I riferimenti artistici dello Zumbo furono quelli tipici di un artista aggiornato della sua epoca, vale a dire Michelangelo,
Caravaggio, Mattia Preti, Poussin, i berniniani, ma anche la scultura greca di stampo ellenistico.
L’interesse sempre maggiore del ceroplasta siciliano per una scultura costruita sull’anatomia del cadavere umano,
forse spinto verso un’arte “scientifica” dal medico aretino Francesco Redi che in quegli anni proseguiva i suoi esperimenti sulla decomposizione, lo portò alla decisione di recarsi a Bologna, il centro più importante per l’anatomia. Il
soggiorno a Bologna nel 1695 ebbe su di lui un’influenza notevole, e che lo condusse alla creazione delle sue opere più
celebri: le “teste anatomiche”. La sua Anatomia di una testa maschile modellata in cera su un vero cranio, realizzata a
Genova fra il 1695 ed il 1700, e inviata come regalo per Cosimo III, fu molto ammirata, tra gli altri, dal grande anatomico
29
e naturalista settecentesco Albrecht von Haller. Il capolavoro
dello Zumbo fu eseguito basandosi su numerosi decapitati, tra
cui una donna, e gli dette una fortuna tale da portarlo alla corte
parigina di Luigi XIV, dove riscosse una fama eccezionale, e
dove creò altre teste anatomiche.
La ceroplastica anatomica nacque, così, a Firenze, nel tardo
seicento, dalla collaborazione di Gaetano Zumbo con
l’anatomista Guillaume Desnoes (chirurgo parigino degli Ospedali di Genova col quale il plasticatore siciliano si associò dal
1695 al 1700), ma fu solo nella seconda metà del settecento
che, seguendo la spinta delle idee illuministiche, divenne sempre più urgente uno studio anatomico del corpo umano e la
costituzione di una vera e propria scuola di ceroplasti.
Nelle attuali collezioni del museo zoologico fiorentino “La
Fig. 10 - Una delle sale che conservano le cere anatomiche
Specola”, fondato dal granduca Pietro Leopoldo nel 1775 con il
del Museo della Specola
nome di “Imperiale Regio Museo di Fisica e Storia Naturale”, si
trovano gli esemplari della raccolta dei preparati anatomici in cera, conservati in circa 600 teche (fig. 10), eseguiti
nell’antica officina ceroplastica del museo, che fu attiva fra la seconda metà del ‘700 ed il 1895. Sono opera di Carlo
Calenzuoli, di Luigi Calamai, e, soprattutto, del fiorentino Clemente Susini, il più importante modellatore di cera dell’opificio, che vi lavorò fra il 1775 ed il 1814, sotto la direzione del famoso anatomico e fisiologo Felice Fontana.
I modelli più recenti, creati fra il 1848 ed il 1895, sono invece dovuti al Tortuoli. Questa raccolta di cere anatomiche rappresenta ancora oggi la maggiore attrattiva del museo, è costituita da 1400 pezzi unici al
mondo per bellezza ed accuratezza scientifica, e fu eseguita con lo scopo di creare un vero e proprio trattato di anatomia umana, infatti
ogni pezzo è accompagnato da uno o più disegni e da diversi
fogli esplicativi.
Fra tutti spiccano le figure della famosa Venere e de Lo
Scorticato (figg. 11-12).
Un’altra importante collezione di cere didattiche, intorno
al 1770, venne commissionata al modellatore Giuseppe Ferrini da Giuseppe Galletti, professore di ostetricia nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, sulla base
dei più aggiornati trattati ostetrici e reperti autoptici, e
dopo aver potuto ammirare la serie di cere bolognesi,
Fig. 11 - Venere, Museo della Specola
commissionate da Gian Antonio Galli e realizzate da
Ercole Lelli.
Detti modelli, insieme ad alcune riproduzioni in gesso, vennero acquistati nel 1785
dall’Arcispedale stesso per la scuola di ostetricia, ma andarono poi perduti. Negli ultimi decenni del XVIII secolo ne furono eseguiti altri in cera ed in terracotta dall’of- Fig. 12 - Lo Scorticato,
ficina ceroplastica del Museo di Fisica e Storia Naturale, i quali, nel
Museo della Specola
1816, furono trasferiti alla scuola di ostetricia. In tal modo l’Arcispedale
ne diventò proprietario ed i modelli servirono per più di un secolo ad istruire il personale medico
fiorentino. Una volta perduta la funzione didattica, i 21 pezzi superstiti sono stati trasferiti al
Museo di Storia della Scienza dove si trovano tuttora.
Ancora oggi è evidente la volontà di studiare il corpo umano in ogni minimo dettaglio e di
impressionare lo spettatore. É il caso di Gunther von Hagens, anatomopatologo e
pseudo-artista, il quale in questi ultimi anni ha allestito mostre in vari paesi del mondo, nelle quali espone veri corpi umani, ceduti da donatori, e trattati con la tecnica
della plastinazione, attraverso la quale liquidi e grassi vengono sostituiti, tramite particolari processi, con polimeri reattivi come silicone, resine epossidiche, poliesteri,
dando forma e consistenza agli organi, permettendo così di poterli esaminare e studiare direttamente.
A queste figure fa poi assumere pose quotidiane: ad esempio, mentre rende evidente il
sistema muscolare di una persona, quest’ultima sta correndo o sta leggendo il giornale, in un’estetica neobarocca che stupisce e attira folle di curiosi, ma che non può certo
venire considerata un’operazione artistica (fig. 13).
Oggi la medicina ha varcato i confini della vecchia anatomia ed è entrata nel mondo
complesso ed invisibile della biogenetica. E l’arte sembra aver messo da parte la
rappresentazione umana per concentrarsi su astrattismi e concettualismi ormai sorpassati, non pensando che, forse, il futuro possibile potrebbe essere
Fig. 13 - Gunther Von Hagens, Lo Spellato
quello che parte proprio dall’uomo. ◊
30
La distanza fra noi e la scienza:
discorso semiserio.
Marco Salucci
L
’atteggiamento dell’opi sta ci si sente raccontare più o
nione comune nei con meno la (solita) storia seguente:
fronti della scienza mi uno scienziato elabora una teoria e
sembra caratterizzato da due ele- poi procede a effettuare esperimenti
menti: l’uomo della strada ritiene per verificarla. Se una teoria ha suche (a) la scienza descriva e spie- perato un certo numero di verifiche
ghi la realtà e che
sperimentali è, ap(b) tale spiegaziopunto, vera. QueNonostante la sua
ne sia accessibile
sto metodo funzionatura democratica
agli scienziati e
na, si conclude, in
la scienza non è
solo limitatamente
quanto sono i fatti
accessibile a tutti
all’uomo comune.
stessi a decidere
Si tratta di due cadella verità di una
ratteri che hanno a che fare con teoria. Ebbene non c’è una sola fra
ambiti diversi: il primo attiene alla le affermazioni che ho appena ririflessione sulla scienza, il secon- portato che sia pacifica. In primo
do concerne i risultati conseguiti luogo non si può dire di aver verifidalla scienza. Ma mentre nel secon- cato la teoria “tutti i corvi sono neri”
do caso si ammette esplicitamen- perché tutti i
te un’ignoranza, nel primo caso si corvi osservati
ritiene di essere nel giusto: che fino ad oggi
cosa potrebbe altrimenti essere la sono risultati
scienza se non una spiegazione di neri: nulla infatti
cosa accade in natura? Nella pri- impedisce che
ma parte richiamerò uno dei possi- domani si osbili modi con cui è possibile mette- servi un corvo
re in dubbio i luoghi comuni relativi bianco. Non è
al modo di procedere della scien- neppure possiza; nella seconda parte accennerò bile appellarsi
a una ragione che spiega il caratte- all’esistenza di
re esoterico che l’uomo comune at- una legge di natura per la quale tuttribuisce alla scienza – in verità l’im- ti i corvi – compresi quelli non ospresa più democratica che esista - servati - sono neri; per giustificare
. Lo scopo è quello di misurare la tale legge, infatti, dovremmo citare
distanza che corre fra noi e la scien- pur sempre il fatto che tutti i corvi
za.
osservati sono neri, esponendoci
così alla stessa obiezione. In conA) Cosa significa “spiegare”? clusione l’osservazione di un certo
numero di corvi neri non rende cerComunemente si afferma – tamente vera ma solo probabilmene quasi sempre perché lo si è im- te vera la teoria “tutti i corvi sono
parato a scuola – che la scienza neri”. Ma qui si presenta un’altra difmoderna sia caratterizzata dal me- ficoltà: siccome l’enunciato “tutti i
todo sperimentale. E fin qui tutto corvi sono neri” è logicamente equibene. Quando si cerca però di pre- valente a “tutte le cose che non
cisare in cosa tale metodo consi- sono nere non sono corvi” allora
l’osservazione di un tramonto rosso conferma la
teoria “tutti i corvi sono neri”.
Il che è, evidentemente,
paradossale. I guai dell’opinione comune sul metodo
usato dalla scienza non
sono però finiti: cosa sono i
“fatti” l’osservazione dei
quali dovrebbe decidere
della “verità” di una teoria?
Sono fatti osservati i quark?
I buchi neri? I neutrini? Non
osservavano lo stesso fatto Tolomeo e Copernico
quando vedevano il Sole
sorgere all’orizzonte? Eppure per Tolomeo si trattava
del Sole che si alzava mentre per
Galileo dell’orizzonte terrestre che si
abbassava. Se,
dunque, uno stesso fatto è compatibile con teorie diverse, come si può sostenere che una teoria descrive ed è
verificata dai fatti?
I problemi appena
menzionati hanno, nella
letteratura specialistica,
un nome e un cognome:
si tratta dei problemi dell’induzione, della verifica,
della conferma, della distinzione fra termini osservativi e termini teorici,
della sottodeterminazione
delle teorie. Per ovvi motivi di spazio non posso
fare nulla di più che nominarli 1 . Tuttavia, vorrei dare
un’idea meno sommaria almeno di una questione, una
31
delle grandi quei corvi neri. Come faccia- formule magiche non si sciolgono
stioni della filomo a sapere che tutti i nell’acqua” sarebbe falsa, mentre
sofia della scienmetalli se riscaldati si “se i metalli non sono sottoposti a
za contemporaespandono? Solo quelli calore non si dilatano” è vera. Il punnea: quella della
fino ad oggi osservati si to però è che non sempre possiaspiegazione. Il
espandono. Vogliamo mo sapere se una condizione è ridibattito ha un
precisare allora che tutti levante o se è una generalizzaziopunto di riferii metalli se riscaldati si ne senza aver già un’idea di cosa
mento ben precidilatano perché c’è una sia rilevante e di quale sia la legge.
so e imprescinlegge di natura che afferTerzo problema. Supponiadibile rappresenma “tutti i metalli se ri- mo che l’arrivo di un certo tipo di
tato dal modello Carl Gustav Hempel scaldati si dilatano”. Ma fronte atmosferico di bassa prescosiddetto notale legge deriva sempre sione sia sempre seguito da una
mologico deduttivo propo- dal fatto che i metalli osservati fino tempesta e che certe letture di un
sto nel 1948 da C. G. ad oggi si espandono. Dunque non barometro siano un segno certo
Hempel e P. Oppenheim2. siamo nelle condizioni di fare pre- dell’arrivo di tale tipo di fronte. DunSecondo tale modello un visioni sul futuro o affermazioni ge- que la lettura di bassa pressione del
evento E è spiegato quan- nerali, anzi siamo di fronte a un evi- barometro è sempre seguita da una
do è stato dedotto da pre- dente circolo vizioso.
tempesta. Ma la tempesta non può
messe che esprimono le
Secondo problema. Consi- essere spiegata dalla lettura del
condizioni iniziali C e alme- deriamo la seguente spiegazione barometro. Per ovviare a tale prono una legge universale L. del perché un cucchiaio di sale si è blema si è cercato di far giocare il
Per esempio, se vogliamo sciolto nell’acqua:
concetto di causa: la lettura del baspiegare la dilatazione di
• sono stati fatti gesti e reci- rometro non è una spiegazione peruna certa quantità di mertate formule magiche sul cuc- ché non causa la tempesta. Modificurio in un termometro, fra
chiaio di sale;
care la spiegazione introducendo la
le condizioni iniziali ci sa• il sale è stato posto nell’acqua causa non è tuttavia un’operazione
ranno la temperatura inizia• tutti i cucchiai di sale sotto- gratuita: essa eredita tutta una sele del mercurio, dell’ampolposti a gesti e a formule magi- rie di problemi che non è qui possila di vetro, di una bacinella
che si sciolgono nell’acqua;
bile neppure elencare ma che sono
d’acqua calda e la legge per
oggetto di discussione da almeno
• il cucchiaio di sale si è sciol- tre secoli 3.
la quale i metalli si dilatano
to nell’acqua.
quando riscaldati.
Questa evidentemente non
B) Perché a volte la scienLa deduzione avverrà
è una spiegazione scientifica, ma za sembra difficile?
come segue:
• un’ampolla di vetro come distinguerla da una genuina
contenente mercurio spiegazione scientifica? Qualche
Nell’opinione comune è alalla temperatura di 20 0 autore si è appellato al concetto di tresì diffusa una diagnosi del punto
gradi centigradi è stata rilevanza (gesti e forb: l’analfabetismo
posta in una bacinella mule magiche sono
scientifico. Le ragio“L’analfabetismo
d’acqua calda alla tem- irrilevanti per il verini di tale analfabetiscientifico è in Italia
peratura di 500 ;
ficarsi del fenome- particolarmente grave” smo sono varie e
• il mercurio è un me- no), qualche altro
complesse, richietallo;
alla distinzione fra generalizzazio- derebbero un esame delle politiche
• tutti i metalli si dila- ni accidentali e leggi. Ciò che distin- educative e scolastiche, degli inditano se riscaldati;
gue una legge da una generalizza- rizzi dell’industria culturale e dei
zione lo si può capire immaginan- mass media, dei caratteri della cul• il mercurio nell’am- do cosa accadrebbe se… Nel no- tura nazionale (nel caso del nostro
polla si è dilatato.
stro caso se “tutti i cucchiai di sale paese tradizionalmente di tipo letTutto bene? No. Pri- sottoposti a gesti e a formule ma- terario, umanistico e giuridico).
mo problema: quello dell’in- giche si sciolgono nell’acqua” fos- L’analfabetismo scientifico esiste,
duzione, lo stesso proble- se una legge allora “se i cucchiai di innegabilmente; e in Italia il problema che abbiamo avuto con sale non sono sottoposti a gesti e ma è particolarmente grave. Affer32
mato con decisione tutto ciò, vorrei quella novecentesca contempora- posto su un corpo in moviperò concentrarmi su un aspetto di- nea. Il punto che vorrei sottolineare mento, se non vi è fissato,
verso che chiamerò antropologico: è però che tali specie di homo non tende a cadere in direzione
l’ignoranza scientifica dell’uomo sono estinte, ma convivono oggi contraria al senso del mocomune dipende dalla distanza che tutte insieme. L’homo aristotelicus vimento; in natura tutti i corpi
c’è fra le teorie scientifiche e il è l’uomo della strada, è colui che hanno grandezze loro promodo con cui l’uomo comune vede non ha nessuna
prie indipenden“le leggi naturali
e percepisce spontaneamente il c o n o s c e n z a
temente dal fatmondo. La formulazione forse più scientifica e che che valgono sulla Terra to che siano
valgono in tutto
efficace della distanza fra l’imma- per conoscere la
misurate o no;
l’universo”
gine scientifica del mondo e quella realtà usa la dotatutti i corpi che
ruotano su se
dell’esperienza comune è stata zione di strumenti
espressa da Eddington nel 1929 fornitagli dalla natura: i cinque sen- stessi presentano la stesquando, introducendo la sua opera si e qualche semplice struttura ra- sa faccia dopo ogni giro. Se
The Nature of the Physical World, zionale della logica classica. L’ anche il mio lettore condividichiarava di averla scritta seduto homo positivisticus ovviamente è de tali affermazioni allora
ai suoi due tavoli: “uno di essi mi è dotato di tutte le conoscenze e ca- appartiene alla specie
familiare fin dall’infanzia [...] Ha pacità percettive dell’uomo comu- homo aristotelicus. Che c’è
estensione; è relativamente costan- ne ma in più ha una media cultura di male? Approfondiamo le
te; è colorato; soprattutto, è solido scientifica, normalmente appresa a conseguenze di tali affer[...] L’altro [...] è soprattutto vuoto. scuola. L’homo einstenianus, infine, mazioni e lo capiremo. “In
Disseminate in questo vuoto ci è colui che ha accesso alla scien- natura un oggetto si muove
sono numerose cariche elettriche za ad un livello abbastanza eleva- fintanto che dura la forza
che viaggiano a gran velocità; ma to; sicuramente appartengono a tale che lo fa muovere”, signifila loro massa complessiva è meno specie gli scienziati ma anche chi ca che tutti i corpi tendono
di un miliardesimo della massa del abbia una cultura scientifica aggior- naturalmente a stare in
tavolo medesimo [...] Non ho biso- nata (il che, dunque, non vuol dire quiete e anche che le leggi
gno di dirvi che la scienza moder- ottocentesca). Per saggiare il valo- naturali che valgono sulla
na mi ha assicurato [...] che il mio re esplicativo della nostra nuova Terra non valgono nel resto
secondo tavolo, quello scientifico, teoria antropologico-culturale, ve- dell’universo dal momento
è il solo che esista realmente”4.
diamo quali sono le culture delle tre che i corpi celesti, come il
Poiché ho detto sopra che specie di homo citandone alcune Sole, ruotano incessantela distanza tra scienza e uomo co- semplici credenze. Il mio lettore può mente. Falso! Galilei e
mune dipende da caratteri psico- utilizzarle come un test per scopri- Newton hanno mostrato
antropologici, tenterò di esprimere re a quale specie di homo appartie- che tutti i corpi, in Terra e in
il mio punto di vista in modo un po’ ne, a seconda delle affermazioni cielo, perseverano nel loro
stato di quiete o di movischerzoso immaginando tre che condividerà.
sottospecie di homo sapiens: l’hoL’homo aristotelicus pensa, mento a meno che una formo aristotelicus, l’hoper esempio, che: sic- za non intervenga a cammo positivisticus e
come se smettiamo di biarne lo stato (principio
l’homo einstenianus. Si
pedalare la bicicletta si d’inerzia). Non va meglio
tratta, come si capiferma, allora in natura un neppure per le altre credensce, di una classificaoggetto si muove ze dell’homo aristotelicus.
zione che ripercorre tre
fintanto che dura la for- Infatti: la piuma giunge a
tappe fondamentali delza che lo fa muovere; toccare il suolo dopo la palla storia del pensiero:
siccome una palla di la di piombo perché offre
rispettivamente quella
piombo raggiunge il suo- più resistenza all’aria, in
antica e medievale raplo prima di una piuma condizioni di vuoto entrampresentata da Aristoteanche quando entram- be toccherebbero terra nel
le “maestro di color
be siano fatte cadere medesimo istante. La veloAristotele
che sanno”, quella modalla stessa altezza al- cità di caduta è una funzione
derna ottocentesca della quale lora in natura i corpi più pesanti ca- del tempo e degli spazi perprendo a simbolo il positivismo, e dono più velocemente; un oggetto corsi, non della pesantezza.
33
Si può dare una de- che non percepiamo il movimento re. Abbiamo così compiuto un salto
scrizione matematica della della Terra e che anzi ci sembra pro- evolutivo (cognitivo) che ci ha fatto
caduta (in termini di spazi prio di star ben piantati immobili sulla lasciare lo stadio dell’homo aristotee tempi) senza ricorrere a terra? E non è forse vero anche che licus per quello successivo. Fuori di
concetti come pesantezmetafora: siamo stati a scuola e
za e leggerezza. La peabbiamo imparato un po’ di sciensantezza e la leggerezza
za galileiana. Ma non è finita: il
non sono proprietà intrinpeggio deve venire perché restaseche dei corpi ma dipenno ancora due delle nostre afferdono dalla forza di gravità
mazioni esemplari che anche chi
con cui la Terra li attrae.
ha studiato un po’ di scienza non
“Un oggetto posto su un
può mettere in discussione e cioè
corpo in movimento, se
- prima affermazione - “in natura
non vi è fissato, tende a
tutti i corpi hanno grandezze loro
cadere”; non è forse
proprie indipendentemente dal fatvero? Non è per questo
to che siano misurate” (banalche leghiamo le valigie sul
mente ciò significa che la lunghezLa forma dello spazio in prossimità del Sole
portapacchi della macchiza di una strada non dipende dalna? Ma se fosse vero ne
l’atto di misurarla); - seconda afconseguirebbe che la Terra se smettiamo di pedalare la biciclet- fermazione - “tutti i corpi che ruotano
è immobile, altrimenti gli og- ta si ferma? Dunque la condizione di su se stessi presentano la stessa
getti che si trovano o che Aristotele in cui si trovava quando ela- faccia dopo ogni giro” (banalmente
cadono dall’alto di una torre, borava la sua scienza è la stessa in ciò significa che rivedremo il nostro
per esempio, toccherebbero cui ci troviamo noi nel percepire la amico seduto sulla giostra al termine
il suolo spostati in direzione realtà nella vita quotidiana (l’immagi- di ogni giro). Se non condividete più
contraria al movimento della ne del senso comune di Eddington): le affermazioni di Aristotele ma conterra, cioè verso est5. Appar- la fisica di Aristotele è la fisica spon- dividete ancora queste due appena
tenete alla specie homo ari- tanea che deriva dal nostro ordinario citate allora appartenete alla specie
stotelicus fino a questo pun- uso dell’apparato percettivo e homo positivisticus, cioè avete una
to? Mai sentito nominare il sensoriale di cui siamo naturalmen- cultura scientifica, sì, ma ottocenteconcetto di sistema inerzia- te dotati. I sensi di cui noi uomini con- sca, vecchia cioè di cento anni.
le? Beh, è un concetto vec- temporanei disponiamo sono gli stesLa prima affermazione è falchio di tre secoli6.
si di quelli di cui disponeva Aristotele: sa perché la fisica atomica ha moCiò che mi interessa gli antichi non credevano che la Ter- strato che le particelle fondamentali
mostrare non è però quanto ra fosse immobile perché ci vedeva- di cui è composta la realtà acquisifosse errata la dottrina di Ari- no peggio di noi!
scono certe granstotele, ma quanta fatica è La fisica di Aristodezze solo nel
occorsa ed occorra per mo- tele è dunque ben “L’amico seduto sulla giostra momento in cui
strare che è sbagliata: oltre radicata nel modo
sarebbe visibile
vengono misuraventi secoli di storia per in cui il nostro apte. La seconda afun giro sì e un giro no!”
l’umanità e oltre dieci anni di parato percettivo
fermazione è falstudio per i nuovi nati delle è fatto: è dunque
sa perché, per
specie homo positivisticus e una fisica spontanea, ingenua7.
esempio, l’elettrone possiede una proI nostri sensi ci fanno crede- prietà, detta spin, che può essere aphomo einstenianus. Si fa presto a dire che la dottrina di re, per esempio, che la Terra sia im- prossimativamente immaginata
Aristotele è tutta sbagliata: mobile, ma sappiamo che ci ingan- come la strana proprietà che avrebche stupido Aristotele a pen- nano: la Terra si muove. I nostri sen- be un corpo in rotazione su se stessare che la Terra fosse fer- si sono uguali a quelli dell’homo ari- so se presentasse la stessa faccia
ma al centro del sistema so- stotelicus e noi continuiamo a perce- ogni due giri. L’amico seduto sulla giolare! Che ingenuo a credere pire la Terra immobile; tuttavia la no- stra sarebbe visibile un giro sì e un
che se un cavallo smette di stra ragione e le nostre conoscenze giro no! Sono, questi appena ricortrainare un carro il carro si si sono evolute: sappiamo che la na- dati, risultati conseguiti tra la fine delferma! Ma non è forse vero tura non è esattamente come appa- l’Ottocento e il Novecento quando
34
sono avvenuti cambiamenti così pro- la meraviglia). La prima: “meravigliofondi nella scienza che vanno ben al sa è la ragione” che ci permette di
di là non solo del nostro modo natu- elaborare teorie che vanno al di là di
rale di percepire il mondo ma sfidano ciò che è possibile percepire. La seanche la nostra ordinaria capacità di conda: “meravigliosa è la matematiimmaginazione.
ca” che ci permetCrisi dei fondamente di trascendere
“ la distanza
ti della matematica,
non solo i limiti
fra noi e la scienza
geometrie non
della percezione
è un buon motivo
euclidee, teoria delma anche quelli
per avvicinarla,
la relatività e mecdell’immaginazionon per evitarla”
canica quantistica
ne. La terza: “mesono i campi in cui
ravigliosa è la nala scienza ha conosciuto tali tura” nella quale ci sono più cose di
sconvolgimenti. Si tratta di ambiti nei quanto la tua scienza e la tua poesia,
quali sono sorte teorie che sono or- Orazio, possano immaginare.
mai non solo ampiamente accettate
Oltre a una morale c’è anche
dalla comunità scientifica ma che fan- una conclusione, e come ogni conno parte del normale curriculum uni- clusione che si rispetti si trova all’iniversitario delle facoltà scientifiche. Te- zio, già nel titolo: la distanza fra noi e
orie ormai vecchie di quasi cento anni, la scienza è un buon motivo per avvisono ancora ignote all’uomo comu- cinarla, non per evitarla.
ne e ignorate anche da coloro che abbiano una cultura scientifica di livello
P.S. Rileggendo quanto ho
medio perché i curricula scolastici al scritto inclino a credere nella verità
massimo riescono a formare un del motto “si diventa ciò che si è”.
homo positivisticus. Le “stranezze” Fanno parte delle caratteristiche
della fisica contemporanea non si li- delle persone non solo i tratti fisici
mitano ovviamente alle due appena e psicologici ma anche opinioni,
menzionate, sono innumerevoli, si idee e interessi molti dei quali afpensi al rallentamento del tempo e al- fondano le radici negli anni della giol’accorciamento delle lunghezze per vinezza. Per quanto mi ricordo
velocità prossime a quella della luce, sono sempre stato affascinato dalad un universo a n dimensioni (non la capacità della scienza di oltrepiù solo quello quadridimensionale passare sistematicamente le codello spazio-tempo di Einstein e lonne d’Ercole della percezione e
Minkowski), alla casualità degli even- dell’immaginazione. Ho anche semti subatomici. In tutti questi casi si ha pre provato un sentimento di ama che fare con risultati ottenuti con mirazione per gli scienziati-esplostrumenti matematici. La soluzione ratori e di meraviglia per i nuovi
di certe equazioni ci conduce a con- mondi scoperti. Ovviamente con
clusioni che non è possibile uno stile e con contenuti diversi rivisualizzare neppure con la fantasia cordo di aver svolto lo stesso argo(si pensi ad alcuni risultati non solo mento in un tema di italiano al pridella meccanica quantistica ma an- mo anno delle superiori. La profesche della cosmologia nonché alle pro- soressa lo valutò gravemente insufspettive aperte dalla teoria delle cor- ficiente (ritenendomi anche meritede o superstringhe8).
vole di una pubblica reprimenda) e
C’è una morale in tutto que- mi giudicò senza appello inadatto
sto? Ce ne sono molte, ne suggeri- a proseguire gli studi. Dedico quesco una che chiamerò “la morale sto scritto a lei, e a quegli studenti
delle tre meraviglie” (vi ricordo che la (ormai rari) che si sentono scoragconoscenza era per i greci figlia del- giati da un brutto voto. ◊
Note
1
Si veda un qualunque
manuale introduttivo alla
filosofia della scienza, per es.
fra i più recenti:
S. Okasha, Il primo libro di
filosofia della scienza, Torino,
Einaudi 2006;
M. Dorato, Cosa c’entra l’anima
con gli atomi? Introduzione
alla filosofia della scienza,
Bari, Laterza 2007; J.
Ladyman, filosofia della
scienza, Roma Carocci 2007.
2
C. G. Hempel, P. Oppenheim,
Studies in the Logic of
Explanation, in “Philosophy of
Science” 15, 1948, pp. 135175, si può leggere in italiano
in C.G. Hempel, Aspetti della
spiegazione scientifica, Milano,
Il Saggiatore,1986.
3
Intendo almeno dalla
discussione fattane da D.
Hume.
4
A.S. Eddington, The Nature of
the Physical World, New York,
Cambridge UniversityPress,
1929, pp. IX-XII.
5
E’ l’obiezione degli aristotelici
contro Galilei.
6
Cioè almeno quanto colui
che l’ha elaborato: Galilei.
7
Sulla fisica ingenua cfr.
M.McCloskey,
Intuitive Physics, in “Scientific
American“, 248(4), 1983, pp.
122-130 e P. Bozzi,
Fisica ingenua, Milano,
Garzanti 1998.
8
Sulla quale si può vedere B.
Greene, L’universo elegante,
Torino, Einaudi 2003. Fra i
moltissimi testi divulgativi cito
solo: S, Hawking, Dal Big Bang
a i buchi neri, Milano Rizzoli
1988 e P. Davies, Il cosmo
intelligente, Milano, Mondadori,
1989.
35
Costruzione geometrica delle radici dell’eq. 2°
Marice Massai
La risoluzione dell’equazione di secondo grado mediante costruzioni geometriche viene affrontata e risolta da Cartesio
suddividendola in vari casi a seconda del segno dei coefficienti.Riportiamo la costruzione che permette di determinare le
soluzioni della seguente equazione di secondo grado
(1) che corrisponde all’equazione
nel caso in cui ci sono due soluzioni reali distinte. (
La soluzione di
è
ovvero
)
che può essere scritta
(2)
COSTRUZIONE GEOMETRICA
Si costruisca la circonferenza di raggio NL uguale ad
(a = coefficiente della x nella (1))
Si tracci la parallela ad un diametro alla distanza pari a b (*), siano R ed Q le intersezioni
della retta con la circonferenza.
Si tracci da L la perpendicolare a tale retta e si indichi con M la loro intersezione.
MQ e MR sono le soluzioni cercate
Per il teorema di Pitagora applicato al triangolo NQO
, ovvero
segue
-
(prima soluzione)
(seconda soluzione)
Verifichiamo geometricamente che MQ e MR sono le soluzioni cercate:
Si unisca L con Q ed Q con L’ il triangolo L’QL è rettangolo perchè inscitto in una
semicirconferenza.
Si mandi la perpendicolare da Q ad NL
36
Per il Teorema di Pitagora applicato al traingolo rettangolo LQH si ha
Per il teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo LQL’
ovvero
Ne segue che MQ è soluzione
Si unisca L’ con R ed R con L il triangolo L’RL è rettangolo perche inscitto in una
semicirconferenza
Si mandi la perpendicolare da R ad NL’
per differenza di segmenti uguali, ne segue:
Per il Teorema di Pitagora applicato al traingolo rettangolo LRH’ si ha
Per il teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo LRL’
ovvero
Ne segue che MR è soluzione
(*) Si dovrà saper costruire un segmento di lunghezza
Si riporta la costruzione con riga e compasso di
Si dispongono consecutivamente un segmento OA = x ed un segmento AB =1; si traccia quindi la circonferenza di
diametro OB (centro nel punto C) e la perpendicolare per A al diametro OB , che Incontra in D la circonferenza. Essendo il
triangolo ODB rettangolo in D, il segmento DA , per il II° teorema di Euclide, risulta appunto
.◊
37
I FLUIDI, QUESTI SCONOSCIUTI!
Paolo Boncinelli
INTRODUZIONE
Parlare di fluidi significa parlare di sistemi fisici incontrati in
numerose esperienze di vita
quotidiana. Aprire il rubinetto dell’acqua in casa, ripararsi da un
forte vento, fare il bagno fra le
onde del mare, gonfiare gli
pneumatici dell’automobile,
compiere un viaggio in aereo,
sono tutti semplici esempi di
occasioni in cui ci si trova ad
interagire con un fluido e con il
suo stato di quiete o di moto.
Le caratteristiche e il comportamento dei fluidi iniziano ad
essere oggetto di studio scientifico a partire dal XVII secolo,
con i lavori di Torricelli e Pascal,
anche se già Archimede nel III
secolo a.C. se ne era occupato,
formulando il suo celeberrimo
Principio riguardante la spinta
ricevuta dai corpi immersi in un
liquido. Lo studio si è poi sviluppato con il contributo, fra i tanti,
di Eulero, Bernoulli, Navier e
Stokes, Reynolds, Rayleigh,
Prandtl. Inoltre, soprattutto nel
corso dell’ultimo secolo, è cresciuto in modo enorme il numero di applicazioni tecnologiche
in cui i fluidi rivestono un ruolo
importante, se non essenziale:
basti pensare ai motori a combustione interna per le automobili, o ai turbojet per gli aerei, per
fare due esempi.
Perché allora parlare di fluidi come di “sconosciuti”?
In questo lavoro, si è cercato
di approfondire, da un punto di
vista fisico, la conoscenza dei
fluidi. Partendo da una definizione di tali sistemi basata
sulle loro proprietà meccaniche
e termodinamiche, che chiariscono in modo più preciso il
concetto di fluido, l’attenzione si
è concentrata sulla fluidodinamica, cioè sullo studio del moto
dei fluidi. Sono presentate le
principali caratteristiche fisiche
dei fluidi in movimento (flussi),
associate alla comprimibilità,
che distingue i gas dai liquidi, e
alla viscosità, cioè all’attrito interno di un fluido. Nella seconda parte del lavoro, sono stati
38
discussi alcuni aspetti particolari del
moto, in cui gli effetti della comprimibilità
e della viscosità caratterizzano in modo
fondamentale la struttura del flusso. Nelle conclusioni, sulla base di quanto emerso dalle precedenti considerazioni, si è
cercato di dare una risposta alla domanda da cui è originato il presente lavoro.
IL CONCETTO DI FLUIDO
Lo stato fisico della materia definito
come “fluido” comprende, in generale,
tutte quelle sostanze che non hanno caratteristiche meccaniche di rigidità, e che
possono deformarsi e scorrere. Di conseguenza, un fluido non ha una forma
propria, ma assume quella del recipiente che lo contiene. In tale categoria rientrano tutte le sostanze allo stato liquido o
gassoso, in cui i legami intermolecolari
sono costituiti da forze di coesione molto
deboli, che consentono appunto lo spostamento delle molecole l’une rispetto
alle altre [1]. Una caratterizzazione formalmente rigorosa di un fluido può essere
fatta solo ricorrendo a strumenti di calcolo tensoriale, ed esula dalla presente trattazione. Tuttavia è possibile dare anche
una definizione di fluido più semplice e
altrettanto corretta, anche se meno formale.
Si consideri un corpo continuo in quiete, e si supponga di sezionarlo idealmente in due parti tramite un piano. Le due
parti in cui il corpo è suddiviso eserciteranno una certa forza l’una sull’altra in
corrispondenza dell’interfaccia di separazione sul piano. Tale forza, espressa in
termini di “forza per unità di superficie”
(sforzo), può essere scomposta in generale in due componenti: una componente normale alla superficie (sforzo normale σ ), e una tangente alla superficie stessa (sforzo tangenziale o “di taglio” τ )
(Fig.1). Si definisce “fluido” un corpo che
in condizioni statiche è incapace di applicare sforzi tangenziali (τ = 0) [2]. In base a
tale definizione, un corpo solido in quiete
sottoposto aduno sforzo esterno è in grado di deformarsi opponendo sia sforzi
normali che tangenziali, mentre un fluido
(liquido o gas), può applicare solo sforzi
normali (o “di pressione”).
Per caratterizzare fisicamente un fluido, è necessario definire anche due grandezze essenziali per descriverne il comportamento dinamico e termodinamico:
densità e pressione.
Si definisce densità (puntuale) ρ di un
Figura 1. Sforzo normale σ
e tangenziale τ su una sezione
di un corpo continuo.
corpo il rapporto fra la massa δm e il volume δV di una porzione “infinitesima” del
corpo. Da un punto di vista fisico è essenziale precisare esattamente cosa si
intende per porzione “infinitesima” di corpo. Dato che i fenomeni studiati dalla fluidodinamica sono macroscopici, un fluido viene schematizzato come un corpo
continuo [3]. D’altra parte, la fisica moderna ha mostrato come la materia sia
fortemente disomogenea e discontinua
a livello molecolare. Ciò significa che il
modello di fluido come sistema continuo
è valido solo se per porzione infinitesima
si considera un volume di fluido sufficientemente grande da contenere una gran
quantità di molecole. Esiste quindi un
volume minimo δV* al di sotto del quale
non è possibile scendere. Tale volume
corrisponde, come ordine di grandezza,
al volume medio intermolecolare. Nei liquidi e gas in condizioni normali di pressione si ha δV* ~ 10 -9 mm 3. δV* viene comunemente indicato come elemento fluido o particella fluida. Quindi, quando si
parla di “spostamento di una particella
fluida”, non ci si riferisce al moto di una
singola molecola, ma a quello di un volume contenente molte molecole, anche se
le dimensioni di tale volume vengono trascurate, e il volume assimilato ad un punto
[3].
La pressione p in un punto del fluido,
associata allo sforzo normale σ , è dovuta all’azione di una forza dFn che agisce
perpendicolarmente su una superficie
dA. Essa è definita come il rapporto fra
l’intensità della forza dFn e l’area dA, nel
limite di dA infinitesima. La pressione p,
come la densità, è una quantità scalare il
cui valore è indipendente dall’orientamen-
to spaziale della superficie dA. Tale risultato è conosciuto come Principio di
isotropia della pressione, o Principio di
Pascal.
CARATTERISTICHE FISICHE DEI FLUSSI
La fluidodinamica è la parte della meccanica che studia il moto dei fluidi e la
loro interazione con altri fluidi e/o con corpi solidi, utilizzando le consuete grandezze fisiche della cinematica (spostamento, velocità, accelerazione) e della termodinamica (densità, pressione, temperatura,....). Un fluido in movimento viene
generalmente indicato come un flusso.
Esistono diverse tipologie di flusso osservate in natura, caratterizzate da particolari fenomeni fisici associati a determinate proprietà del fluido. In questa
sede saranno discussi gli effetti della
comprimibilità e della viscosità del fluido.
Flussi Incomprimibili e Comprimibili
Una prima importante distinzione riguarda la differenza fra flussi incomprimibili e comprimibili. Un criterio di massima per distinguere le due tipologie di
flusso può basarsi sullo stato fisico del
fluido di cui si studia il moto: liquido o
gassoso. I liquidi danno generalmente
luogo a flussi incomprimibili, mentre vapori e gas in movimento rappresentano
flussi comprimibili. Tale criterio, anche se
fondamentalmente corretto, non è tuttavia rigorosamente esatto. Se infatti si considerano, ad esempio, i flussi dell’atmosfera, i venti, questi possono essere
schematizzati nella pressoché totalità dei
casi, come flussi incomprimibili, anche
se il fluido in questione è un gas. È quindi necessario precisare meglio tale distinzione, basandosi non sono sullo stato fisico del fluido, ma anche sulle caratteristiche cinematiche del moto.
Una distinzione più precisa fra flussi
comprimibili e incomprimibili si basa
sull’analisi del comportamento della densità ρ del fluido durante il moto. Un flusso
è incomprimibile se la densità di ogni singolo elemento fluido rimane costante
qualunque sia la sua condizione di moto,
e varia solo per effetti termodinamici.
Quando invece il valore della densità ρ
del singolo elemento fluido dipende anche della velocità dell’elemento fluido
stesso, il flusso è comprimibile.
Dalle precedenti considerazioni,
emerge il fatto che in comprimibilità e
comprimibilità sono associate alla la velocità u del flusso, da confrontarsi con
un’altra velocità caratteristica del fluido,
la velocità del suono a, funzione del tipo
di fluido e della sua temperatura T. La
propagazione di onde sonore all’interno
di un fluido, con velocità a, costituisce il
principale fenomeno associato alla com-
primibilità del mezzo. Se la velocità u risulta molto più piccola di a (u
a), allora
il flusso è incomprimibile. Nel caso invece in cui u sia confrontabile o superiore
ad a (u
a), il flusso è comprimibile.
Questa distinzione fra fluissi incomprimibili e comprimibili prescinde dal fatto che il fluido in movimento sia un liquido oppure un gas. In generale, però, la
velocità del suono nei liquidi è molto
maggiore che nei gas: a
1100km/h in
aria, mentre in acqua il suo valore è quasi
cinque volte più grande (a
5100km/h).
Per questo motivo, i flussi comprimibili
sono caratteristici dei gas, mentre i flussi
incomprimibili sono associati al moto dei
liquidi. Tuttavia, tornando all’esempio precedente dei venti, anche in un fenomeno
atmosferico particolarmente intenso quale un potente uragano la velocità del vento u difficilmente supera i 200km/h, cioè
meno di un quinto della velocità del suono a. Ne consegue che tale flusso può
considerarsi a tutti gli effetti incomprimibile, pur essendo l’aria un gas.
Flussi Ideali e Viscosi
Come visto, un fluido è incapace di
applicare sforzi di taglio τ in risposta ad
una sollecitazione proveniente dall’esterno se esso si trova in uno stato di quiete
(in condizioni statiche). Questo però non
è più vero in condizioni dinamiche, cioè
se il fluido si muove. In tal caso, il movimento relativo dei diversi elementi fluidi uno rispetto all’altro è ostacolato dalla presenza di attriti interni, che determinano sforzi di taglio non nulli. Tali
attriti vengono descritti per mezzo di una
grandezza fisica, la viscosità dinamica
µ del fluido, che dipende dalle caratteristiche fisiche e termodinamiche del fluido (principalmente dalla sua temperatura T ).
Il valore della viscosità µ è “piccolo”
per molti fluidi di interesse comune (aria,
acqua). Questo fa sì che, in alcuni casi, lo
studio delle caratteristiche del flusso possa trascurare l’effetto della viscosità e
degli sforzi di taglio τ ad essa associati.
Sulla base di questo, si distinguono due
diverse tipologie di flussi:
flussi ideali:
flussi nei i quali la viscosità non ne
influenza le caratteristiche principali,
e può pertanto essere trascurata;
flussi viscosi:
flussi nei i quali non è invece possibile
trascurare la viscosità, dato che questa
influenza in modo fondamentale le caratteristiche del moto stesso.
I flussi ideali, in alcune particolari condizioni, possono essere descritti dalla
seguente equazione che lega fra loro le
grandezze cinematiche (u) e termodina-
miche (p e ρ), detta equazione
di Bernoulli:
(1)
dove g = 9.81m/s2 è l’accelerazione di gravità. Tale semplice
equazione, ricavata applicando
la seconda legge di Newton della meccanica e il primo principio della termodinamica (conservazione dell’energia) ad un
flusso ideale, è tuttavia valida
solamente se il flusso è ideale
e stazionario, e in presenza del
campo di gravità g, conservativo.
Pur sotto tali ipotesi limitative,
l’equazione di Bernoulli è estremamente utile nello studio di
numerose configurazioni di flusso, proprio in virtù della sua
semplicità.
Se la viscosità µ non può invece essere trascurata, l’equazione di Bernoulli non è più valida, e le equazioni che governano il flusso si complicano notevolmente. Di fatto, non esiste ancora una teoria generale capace di descrivere in modo completo i flussi viscosi, e probabilmente non esisterà mai. Questo perché il comportamento di
un flusso è profondamente e
sostanzialmente modificato dalla presenza della viscosità, con
la comparsa di un fenomeno
estremamente complesso: la
turbolenza.
L’importanza degli effetti viscosi nel determinare le caratteristiche di un flusso è “misurata” mediante un parametro
adimensionale, il cosiddetto
Numero di Reynolds, definito
come:
(2)
ρ e µ sono la densità e la
viscosità del fluido, mentre u e L
rappresentano rispettivamente
la velocità e la lunghezza scala
caratteristiche del flusso (cioè
l’ordine di grandezza delle velocità e delle dimensioni del flusso in esame). Se il numero di
Reynolds Re è “basso” gli effetti
viscosi sono importanti, mentre
se Re è “alto” gli effetti viscosi
sono trascurabili, e il flusso può
essere considerato quasi ideale. Naturalmente occorre precisare in modo quantitativo cosa
si intende per Re basso o alto.
Senza entrare nei dettagli, i flus-
39
si più comuni incontrati quotidianamente (l’acqua che esce dal
rubinetto, il vento, le onde del
mare, ...) sono caratterizzati da
valori del numero di Reynolds
“alti” (Re ≥ 10 5). Pertanto, essi
possono essere descritti utilizzando il modello di flusso ideale in modo sostanzialmente corretto ed accurato. Tuttavia, anche in un flusso ideale vi possono essere regioni del fluido
in cui l’effetto della viscosità diventa importante (basso valore
locale di Re ), e non può essere
trascurato. Di seguito saranno
illustrati e discussi alcuni esempi.
ALCUNI ASPETTI PARTICOLARI
Lo “Strato Limite”
Come detto, anche in flussi
caratterizzati da un valore elevato del numero di Reynolds Re , e
quindi sostanzialmente ideali, ci
possono essere regioni in cui
gli effetti viscosi sono importanti, e influenzano il comportamento dell’intero flusso.
Un caso tipico è quello in cui
un flusso viscoso viene a contatto con la superficie di un corpo solido in esso immerso. In
tal caso, gli elementi fluidi immediatamente a contatto con la
parete solida hanno velocità
nulla rispetto alla parete stessa, per effetto dell’attrito fra solido e fluido. Questo fenomeno
fisico viene generalmente descritto come condizione di aderenza a parete. Gli elementi fluidi a contatto con la parete, a loro
volta, applicano agli elementi
immediatamente adiacenti sforzi
di taglio non nulli. Tali sforzi sono
proporzionali alla variazione di
velocità in direzione perpendicolare alla parete e alla viscosità
del fluido, e determinano un rallentamento degli elementi stessi. Come illustrato in Fig. 2, muo-
Figura 3. Visualizzazione dello strato
limite su un profilo alare
vendosi lungo il corpo, in direzione x, il
fenomeno si estende progressivamente
all’interno del flusso fino ad una certa distanza dalla parete δ(x) . In prossimità
della parete, quindi, il flusso ha una velocità u(x,y) variabile punto per punto, e più
bassa rispetto alla velocità del flusso
indisturbato U. La regione così individuata viene detta strato limite. Lo strato limite
si genera in prossimità della superficie
di ogni corpo solido immerso in un flusso viscoso in moto relativo rispetto ad
esso. In Fig. 3 si riporta, come esempio,
la visualizzazione, ottenuta da esperimenti
di laboratorio, dello strato limite sviluppato su un profilo alare.
Nello strato limite sono dunque importanti, e quindi non trascurabili, gli effetti viscosi. Il suo spessore δ(x), indicato
in Fig. 2 dalla linea tratteggiata, dipende
dalle caratteristiche del flusso (viscosità
µ , densità ρ e velocità del flusso
indisturbato U) e dalla lunghezza L del
corpo solido, cioè dal numero di
Reynolds Re. Tipicamente lo spessore
dello strato limite è piccolo rispetto alle
dimensioni del corpo solido. Ad esempio, sull’ala di un comune aereo passeggeri in volo, lo strato limite che si genera
per effetto del moto relativo dell’aria può
avere uno spessore dell’ordine di qualche centimetro. Tuttavia, l’impatto degli
effetti viscosi all’interno dello strato limite
è importante, dato che da essi dipende
la resistenza all’avanzamento che il corpo solido incontra muovendosi rispetto al fluido.
Figura 2. Sviluppo dello strato limite su
una lastra piana.
40
Flussi Laminari e Turbolenti
In natura è possibile osservare essenzialmente due diversi regimi di flusso, aventi caratteristiche molto diverse fra loro: flussi in regime laminare e flussi
in regime turbolento.
(a) Flusso laminare (Re basso)
(b) Flusso turbolento (Re alto)
(c) Struttura del flusso nei diversi regimi
Figura 4. Confronto tra un flusso
laminare e un flusso turbolento
uscenti da un condotto
Si parla di flusso laminare quando il
moto del fluido avviene in modo ordinato,
simile a quello di tante lamine sovrapposte
in relativo scorrimento (da cui il nome). In
un flusso laminare, le velocità e le variabili
termodinamiche sono stazionarie o variano lentamente e con regolarità nel tempo,
e piccole perturbazioni del moto sono rapidamente smorzate.
I flussi turbolenti sono invece caratterizzati da un moto fortemente disordinato
e vorticoso, in cui si osserva un intenso
miscelamento fra strati diversi di fluido.
Sia la velocità che le variabili termodinamiche hanno un andamento mediamente regolare nel tempo, come nel caso laminare, ma a questo campo di moto medio si sovrappongono fluttuazioni rapide
e casuali, che rendono estremamente
difficile descrivere il moto in dettaglio.
In Fig. 4 sono riportati per confronto i
due diversi regimi nel caso di un flusso
uscente da un tubo. È evidente la maggior complessità della struttura del flusso turbolento (Fig. 4(b)) rispetto a quello
laminare (Fig. 4(a)). La diversa struttura
del flusso nei due diversi regimi è schematicamente illustrata in Fig. 4(c): in regime laminare, ogni strato di elementi fluidi si muove con regolarità dall’ingresso
all’uscita del tubo, senza mescolarsi con
gli strati adiacenti. In regime turbolento,
invece, i diversi strati si mescolano fra
loro, e non è più possibile individuare traiettorie regolari per i singoli elementi. È
possibile che un flusso sia inizialmente
laminare, e successivamente, nel corso
del suo sviluppo, diventi turbolento. La
fase in cui avviene il passaggio da laminare a turbolento viene detta transizione.
Come nel caso dei flussi ideali e viscosi, la tipologia di flusso, laminare o
turbolento, è determinata dal valore assunto dal numero di Reynolds Re . Tipicamente, se Re è “basso” (generalmente
Re ≤ 103 ), il flusso è laminare. Per valori
di Re compresi fra 103 e 104 si ha transizione da regime laminare a turbolento.
Se invece Re è “alto” (Re ≥ 104) il flusso è
turbolento. Tali valori di Re non sono da
considerare come limiti “rigidi” di passaggio da un regime ad un altro, ma piuttosto come valori indicativi, ordini di grandezza di riferimento. Dato che, come precedentemente discusso, i flussi più comuni sono caratterizzati da alti valori del
numero di Reynolds (Re
105), in natura
si incontrano più facilmente flussi turbolenti che laminari.
Il diverso regime, laminare o turbolento, non ha influenza solo sulla struttura
del flusso, ma anche su altri effetti globali, quale la resistenza opposta ad un corpo solido che si muove rispetto al fluido.
Si consideri, ad esempio, il moto di una
sfera in acqua (flusso incomprimibile), illustrato in Fig. 5. Forma e spessore dello
strato limite che si sviluppa sulla sfera
sono notevolmente diversi nei due diversi regimi, laminare (Fig. 5(a)) o turbolento (Fig. 5(b)). Così è anche per la forza di
resistenza viscosa applicata dall’acqua
alla sfera nei due casi. In Fig. 5(c) è riportato l’andamento sperimentale del
coefficiente di resistenza viscosa CD, proporzionale a tale forza, in funzione del nu-
mero di Reynolds Re per una sfera. Si
può osservare come, all’aumentare del
valore di Re (passando cioè da un flusso
laminare ad un flusso completamente turbolento) il valore di CD diminuisce di diversi ordini di grandezza, passando dal
valore CD = 100 per Re = 1 ad un valore
circa mille volte più piccolo (CD 0,1 ) per
Re 106. Nel caso di una sfera, dunque,
un flusso turbolento offre una resistenza
all’avanzamento notevolmente inferiore rispetto ad un flusso laminare.
riazione delle grandezze fluidodinamiche e termodinamiche
del flusso, che avviene in una
regione spaziale molto limitata.
A tale fenomeno sono dovuti gli
effetti associati alla propagazione delle onde sonore emesse
da una sorgente acustica in mo-
Flussi Subsonici e Transonici
Come visto, se un flusso acquista una
velocità u confrontabile con la sua velocità del suono a (u
a), la sua densità
varia significativamente al variare delle
condizioni di moto, e gli effetti di comprimibilità diventano importanti. Due sono i
principali fenomeni fisici osservati:
1. la comparsa di onde d’urto all’interno del flusso, che consistono in
brusche e forti variazioni della velocità e delle altre grandezze termodinamiche in una regione molto ristretta
del flusso;
2. il fenomeno del choking (in inglese, “soffocamento”), per il quale
esiste un valore massimo della portata (cioè della massa per unità di tempo) di fluido smaltibile da un condotto.
In analogia col ruolo svolto dal numero di Reynolds Re nel caso degli effetti
della viscosità, anche nel caso degli effetti di comprimibilità è possibile definire
un parametro adimensionale capace di
misurare la loro importanza. Tale parametro si chiama numero di Mach, ed è
definito come il rapporto fra la velocità del
flusso u e la velocità del suono a:
(a) Strato limite laminare (Re basso)
(b) Strato limite turbolento (Re alto)
(3)
Così, se il valore del numero di Mach Ma
è “basso” ( Ma < 0.3), il flusso è incomprimibile. Al crescere del suo valore, si incontrano i regimi di “flusso comprimibile
subsonico” (0.3 < Ma < 0.8) , “flusso
comprimibile transonico” (0.8 < Ma < 1.2)
e “flusso supersonico” (1.2 < Ma). Considerando, ad esempio, l’aria, in condizioni
normali di temperatura e di pressione la
velocità del suono è circa a
1100km/h.
Tutti i moti dei venti rientrano quindi nel
regime dei flussi incomprimibili, mentre
il moto degli aerei viene a cadere nei regimi di flussi subsonici (aerei civili) e
transonici (aerei militari), con alcune punte
in campo supersonico, nel caso degli
aerei militari di ultima generazione.
Il primo fenomeno associato alla comprimibilità, le onde d’urto, è, come detto, caratterizzato da una improvvisa va-
(c) Coefficiente di resistenza
viscosa cd in funzione del
numero di Reynolds Re
Figura 5. Struttura dello strato
limite e resistenza
viscosa per una sfera
in acqua (da [2]).
41
(a) Sorgente a velocità
subsonica (Ma < 1 )
(b) Sorgente a velocità
sonica (Ma = 1)
(c) Sorgente a velocità
supersonica (Ma > 1)
Figura 6. Fronti d’onda emessi
da una sorgente acustica
in movimento in un fluido
(da [2]).
42
vimento all’interno di un fluido,
noti dall’esperienza di tutti i
giorni. Si consideri una sorgente acustica (ad esempio, un aereo in volo) in movimento in un
fluido con velocità U. Per semplicità, si supponga che la sorgente sia puntiforme e che
emetta rumore in modo uniforme in ogni direzione dello spazio, cosicché i fronti delle onde
sonore sono circonferenze
aventi il centro in corrispondenza del punto dello spazio
in cui si trova la sorgente al momento della emissione. Il fenomeno è illustrato schematicamente in Fig. 6. Sono possibili tre diversi casi:
sorgente in moto con velocità
subsonica (Ma < 1):
in questo caso, l’onda sonora
raggiunge ogni punto dello
spazio attorno alla sorgente,
come illustrato in Fig. 6(a). Per
effetto del moto della sorgente,
i fronti d’onda circolari si
schiacciano dalla parte in cui
la sorgente avanza, e si allontanano dalla parte opposta. Ciò
determina il ben noto fenomeno dell’effetto Doppler per cui,
il tono del rumore dell’aereo in
avvicinamento sembra più acuto del normale, mentre quando
l’aereo si allontana il tono sembra più basso;
sorgente in moto
con velocità sonica
(Ma = 1):
in questo caso, la sorgente acustica si
muove assieme ai
fronti d’onda da essa
emessi, e l’onda sonora raggiunge solamente i punti situati
nel semispazio da cui
la sorgente proviene
(Fig. 6(b));
sorgente in moto con
velocità supersonica
(Ma > 1):
in questo caso, la sorgente precede nel suo
moto i fronti d’onda, e
l’onda sonora può essere percepita solo all’interno di una regione conica detta cono di Mach
(Fig. 6(c)) (zona del rumore),
mentre all’esterno di tale regione nessun segnale acustico
può pervenire (zona del silenzio). La superficie di separazione del cono di Mach costituisce
un’onda d’urto di spessore
Figura 7.
Fenomeno del “boom” sonico
dovuto ad un aereo in moto
supersonico (da [2]).
estremamente ridotto. L’apertura geometrica del cono di Mach dipende dal valore
del numero di Mach Ma, ed è tanto più
ridotta quanto maggiore è tale valore.
Questo comportamento delle onde
sonore è responsabile del ben noto fenomeno del “boom” sonico che si avverte al passaggio di un aereo supersonico,
illustrato in Fig. 7. Infatti, un osservatore
che si trova a terra non si accorge del
passaggio dell’aereo se non nel momento in cui entra all’interno del cono di Mach
da esso prodotto. In quel momento egli
passa bruscamente dalla zona del silenzio alla zona del rumore, percependo un
rumore tanto intenso quanto improvviso.
Il secondo fenomeno associato agli
effetti di comprimibilità, il choking, si osserva ogni volta in cui si ha un flusso
comprimibile all’interno di un condotto
a sezione variabile, come quello illustrato in Fig. 8: il flusso proviene da sinistra, dove sono fissate determinate
condizioni a monte (essenzialmente
pressione e temperatura), incontra un
restringimento di sezione del condotto
(la cui sezione ad area A minima è detta gola), e di seguito un nuovo allargamento. Tale configurazione viene indicata come condotto convergente–divergente. A valle, in uscita dal condotto stesso, la pressione viene fatta variare in
modo da variare le condizioni di flusso
all’interno del convergente–divergente.
Sperimentalmente, si osserva che, se
la velocità u del flusso ne condotto raggiunge e supera la velocità del suono
a, la portata, cioè la massa di fluido che
attraversa il condotto nell’unità di tempo, raggiunge un valore massimo e non
aumenta più, anche aumentando ulteriormente la velocità. Questo fenomeno
viene indicato come choking del condotto, dato che esso risulta “strozzato”,
e non può smaltire una portata maggiore di quella massima, a meno di non
aumentarne la sezione. Risolvendo le
equazioni che governano il moto del fluido, si osserva che la condizione di
Figura 8. Condotto convergente–divergente.
sonicità (Ma = 1 ) è sempre raggiunta
nella sezione di gola, mentre a valle di
quest’ultima si forma un’onda d’urto
che riporta il flusso ad un regime
subsonico (Ma < 1 ).
Occorre considerare l’effetto di
choking in tutte quelle applicazioni in cui
è importante l’effetto della portata di flusso in un condotto. Ad esempio, nel motore di un aereo (Fig. 9(a)), la portata è associata alla spinta che il motore può sviluppare, e quindi al massimo carico
trasportabile dall’aereo. Come illustrato
in Fig. 9(b), l’aria che entra nel motore si
trova ad attraversare un complesso insieme di condotti di sezione variabile, in
cui viene accelerata, prima di uscire dalla parte posteriore e fornire la spinta all’aereo. Dato che il flusso all’interno del
motore può raggiungere velocità soniche,
l’effetto di choking deve essere tenuto in
debito conto nel determinare le prestazioni del motore.
CONCLUSIONI
Perché dunque i fluidi sono “sconosciuti”? Da quanto discusso, risulta
chiaro che il comportamento dinamico
di questo stato fisico della materia, incontrato nelle esperienze quotidiane più
comuni ed in una serie innumerevole di
applicazioni tecnologiche, è in generale estremamente complesso. Questa
complessità non è dovuta tanto alle leggi
della fisica che lo governano, rappresentate dalle ben note leggi di Newton
della meccanica classica e dai principi
della termodinamica, quanto ai fenomeni ad esso associati, quali gli effetti della viscosità (in particolare la turbolenza) e della comprimibilità del fluido
(onde d’urto, choking, etc...). Tutto ciò
si riflette nella complessità dei modelli
matematici utilizzati per la descrizione
delle caratteristiche dei flussi, e nella
mancanza, a tutt’oggi, di una teoria
completa ed esaustiva, capace di fornire previsioni dettagliate sul moto dei fluidi in ogni condizione di moto.
A tali difficoltà di ordine fisico e matematico, si aggiunge, inoltre, il fatto che
(a) vista esterna del motore montato sull’ala dell’aereo
(b) spaccato del motore
Figura 9. Motore aeronautico per aerei commerciali.
le equazioni della fluidodinamica non
possono essere risolte esattamente in
configurazioni geometriche complesse,
quali quelle incontrate nelle applicazioni. Così, soluzioni teoriche esatte possono essere ottenute solo in casi molto semplici (lastre piane, condotti circolari a sezione costante, etc..), e sotto
ipotesi molto restrittive (flussi ideali o
laminari). Negli altri casi, il supporto
dell’attività sperimentale rappresenta
ancora un complemento essenziale
dello studio teorico. Come giustamente osservato da White [2], “bisogna tenere ben presente che teoria ed esperimenti devono sempre marciare mano
nella mano in ogni studio di fluidodinamica.”
Per concludere, è importante
evidenziare il fatto che, nel corso degli
ultimi anni, a fianco della “sperimenta-
zione tradizionale” di laboratorio ha acquisito sempre maggiore importanza la “sperimentazione numerica”, basata sulla risoluzione al calcolatore
delle equazioni della fluidodinamica, capace di fornire informazioni sempre più dettagliate ed accurate sulla struttura
dei flussi, per applicazioni sia
in ambito scientifico che tecnologico. ◊
Riferimenti bibliografici
[1] Caforio, A., and Ferilli, A., 2004.
Fisica, Vol. 1. LeMonnier.
[2] White, F. M., 2002. Fluid
Mechanics. McGraw–Hill.
[3] Landau, L. D., and Lifshitz, E.
M., 1987. Fluid Mechanics.
Butterworth–Heinemann.
43
LE CONICHE COME LUOGHI GEOMETRICI
Marice Massai
Dicesi LUOGO GEOMETRICO l’insieme di tutti e soli i punti che soddisfano a certe condizioni, o godono una
stessa proprietà.
Sono luoghi geometrici:
l’asse di un segmento:
luogo dei punti del piano
equidistanti dagli estremi
del segmento.
la bisettrice di un
angolo: luogo dei
punti del piano
equidistanti dai lati
dell’angolo.
Anche le coniche ovvero quelle curve che si
ottengono intersecando un cono rotondo indefinito
con un piano non passante per il vertice del cono,
sono luoghi geometrici.
ELLISSE
Definiamo l’ellisse come il luogo geometrico dei punti del piano per i quali è
costante la somma delle distanze da due punti fissi detti fuochi.
ELLISSE costruzione
Dalla definizione seguono due semplici costruzioni dell’ellisse, una
meccanica e l’altra geometrica:
•
“metodo del giardiniere” (costruzione meccanica)
•
costruzione geometrica a partire da una
circonferenza
•
costruzione geometrica a partire da un
segmento
Metodo del giardiniere
Questa costruzione consiste nel fissare i due capi di
un filo inestensibile in due punti F1 e F2 di un foglio da
disegno. Facendo scorrere la punta P di una matita
lungo il filo tenuto ben teso, si traccia una linea curva chiusa
formata da punti per i quali la somma delle distanze da F1 e F2 è costante, in
questo caso uguale alla lunghezza del filo. Questo metodo è detto anche del
giardiniere perché può essere utilizzato per tracciare sul terreno aiuole a
contorno ellittico.
Costruzione geometrica a partire da una circonferenza
La seconda costruzione si effettua con riga e compasso: Si stabilisce la
posizione dei due fuochi F1 e F2 si disegna una circonferenza di centro un punto
F1 e raggio = k (ovvero uguale alla somma delle distanze dai due punti fissi
PF1 + PF2 = k), F2sarà interno alla circonferenza. Preso un punto A sulla
circonferenza si traccia la retta AF1 e l’asse del segmento AF 2. Il loro punto di intersezione P appartiene ad
un’ellisse di fuochi F1 e F1 .
Si può dimostrare inoltre che: l’asse del segmento AF2 è tangente all’ellisse.
44
Costruzione geometrica a partire da un segmento
Fissiamo sul piano un segmento AB uguale alla somma delle distanze di un
punto dell’ellisse dai due fuochi. In seguito, scelto ad arbitrio un punto P interno
al segmento AB, si tracciano due archi di circonferenza rispettivamente di
centro F1 e raggio PB e di centro F2 e raggio AP. I punti P e P’ in cui gli archi
si intersecano appartengono all’ellisse. Facendo variare P su AB si ottengono, a
coppie, tutti i punti della curva.
ELLISSE e le sue proprietà geometriche
1) Sia
P0 un punto dell’ellisse di fuochi F1 e F2 . Allora la bisettrice di
uno dei due angoli formati dalle rette P0 F1 e P0 F2 è la tangente all’ellisse
in
P0 , l’altra la normale all’ellisse in P0 . (ovvero la perpendicolare
all’ellisse in un suo punto qualsiasi divide per metà l’angolo formato dai
segmenti che uniscono questo punto con i due fuochi).
2) Coppie di tangenti ortogonali ad un ellisse si incontrano in un punto di una stessa circonferenza avente centro
coincidente con il centro dell’ellisse.
PARABOLA
Definiamo la parabola come il luogo geometrico dei punti del piano equidistanti da
un punto fisso detto fuoco e da una retta fissa detta direttrice.
L’asse della parabola è la retta passante per il fuoco e perpendicolare alla direttrice.
Il vertice è il punto di intersezione tra l’asse e la parabola.
PF = PH
PARABOLA costruzione
Assegnata la retta d e il punto
F, consideriamo un punto H
su d, quindi consideriamo il
punto di intersezione P tra
l’asse del segmento FH e la
perpendicolare a d passante
per H. Poiché P appartiene
all’asse del segmento FH, è
equidistante dagli estremi,
pertanto P appartiene alla parabola di fuoco F e direttrice d.
PARABOLA e le sue proprietà geometriche
“L’asse del segmento FH è tangente alla parabola”
Dimostrazione sintetica
La dimostrazione procede per assurdo.
Supponiamo, per assurdo, che sull’asse del segmento FH
(che sicuramente non è perpendicolare alla direttrice) vi
sia un ulteriore punto P’ della parabola (ovvero che l’asse
del segmento FH non sia tangente in P ma passi per due
punti della parabola P e P’) Poiché P’ si trova sull’asse del
segmento FH, → P’F=P’H
D’altra parte poiché P’ si trova anche sulla parabola (quindi
è equidistante dal fuoco F e dalla direttrice)→P’F = P’H’
Ma allora nel triangolo rettangolo P’HH’ abbiamo l’ipotenusa
P’H uguale al cateto P’H’ ma sappiamo che l’ipotenusa è
sempre maggiore dei cateti e quindi c’è contraddizione.
45
“Le tangenti a una parabola condotte da un
qualunque punto P della direttrice sono tra loro
perpendicolari e il segmento di estremi i punti di
tangenza passa per il fuoco F”
“In ogni punto P della parabola, gli angoli che la
tangente forma con la retta congiungente P e il fuoco
F e che la tangente forma con la retta
perpendicolare per P alla direttrice hanno uguale
ampiezza”
IPERBOLE
Definiamo l’iperbole come il luogo geometrico dei punti P del piano per i
quali è costante il valore assoluto della differenza delle distanze da due
punti fissi F1 e F1 detti fuochi
IPERBOLE costruzione
Metodo del giardiniere
La costruzione dell’iperbole con il metodo del giardiniere è molto meno
nota della costruzione utilizzata per l’ellisse.
Considerato un righello rigido AB, di lunghezza l, libero di ruotare attorno al
punto A fissato, si prenda una corda, con una lunghezza s inferiore a quella
del righello, e la si fissi in un punto H come in figura. Si faccia inoltre in
modo che la corda, rimanendo sempre tesa, tocchi il righello in un punto P
e poi vi rimanga attaccata fino all’estremo B, dove è fissata sul righello
stesso. Allora PH + PB = s = PH + 1 - PA
Se ne deduce che PA - PH = 1 - s = costante, cioè che il punto P descrive
proprio un tratto di iperbole (naturalmente fin che lo spago è sufficiente!).
Scambiando i ruoli di A e H si descrive il ramo simmetrico di iperbole.
Costruzione a partire da un segmento
Si disegni la retta passante per AB poi segnare su di essa un altro
punto P, con P esterno ad AB sarà PA - PB = 2a.
Disegnare una qualunque retta, poi prendere su di essa due punti
F1, F2.
Utilizzando il compasso costruire le due circonferenze di centro F1
e raggio AP e di centro F2 e raggio PB.
Siano P’, P’’ l’intersezione tra le due circonferenze. Si costruiscano
i segmenti F1,P’, F2P’. Al variare di P sulla retta per AB varia anche
la posizione di P’ restando però invariata la differenza delle loro
distanze. Il punto P’ descrive quindi un’iperbole.
IPERBOLE e le sue proprietà geometriche
L’iperbole equilatera gode della seguente proprietà:
1) Sia P un punto dell’iperbole equilatera. Al variare di P, l’area del triangolo
delimitato dalla retta tangente all’iperbole in P e dagli asintoti è costante.
Tutte le proprietà geometriche enunciate possono essere dimostrate per
via analitica. ◊
Bibliografia
Boyer, Carl B., Storia della matematica, Oscar Studio Mondadori.
Descartes, René, Discorso sul metodo,
Eric T. Bell, I grandi matematici, Sansoni, Firenze, 1997
Università di Roma “Tor Vergata” - Laboratorio: Geometria della visione
Manuali scolastici di vari autori (Ferrauto, Maraschini-Palma, Lamberi-Mereu-Nanni, Dodero...)
46
Il futuro, la scuola digitale?
Manuela Taddei
I
l percorso che deve compiere la scuola di fronte al
rivoluzionario cambiamento apportato nella formazio
ne dall’informazione e la comunicazione tecnologiche;
come cambiano i tempi e gli spazi dell’apprendimento;
gli stili cognitivi degli allievi del nuovo millennio; il problema della formazione degli insegnanti: come evitare il gap
generazionale tra scuola e studenti: questi gli argomenti fondamentali affrontati in questo interessante testo di
Paolo Ferri (1), La scuola digitale, B. Mondadori,
2008. La rivoluzione digitale in corso, in seguito soprattutto all’introduzione del web2.0 (2) può essere paragonata a invenzioni secolari come l’introduzione del vapore nei processi produttivi oppure a eventi chiave della
storia dell’umanità come per esempio l’invenzione della
scrittura o della stampa? Quest’ultima ipotesi potrebbe
essere confermata da ricerche
che sostengono come l’ homo
da economicus si stia finalmente trasformando in sapiens,
“inverando” così l’attributo
scientifico; rapidissima è stata infatti la diffusione della tecnologia cognitiva: secondo una
ricerca di P.C. Rivoltella (3) dell’Università Cattolica di Milano
un italiano su due ha accesso
ai servizi digitali e la percentuale di adolescenti è addirittura al 78%.
Dall’introduzione di internet,
non siamo più né nell’epoca gutemberghiana né in quella dei massmedia, la fissità della stampa e l’intransitività
passivante del mezzo televisivo non sono più in grado di
reggere la necessità di un flusso bidirezionale di informazioni: ormai siamo immersi in un universo ipermediale
di comunicazione audio visuale fluido, in perenne trasformazione attraverso la rete mondiale ed è proprio la
scuola a doversi far carico della nuova alfabetizzazione
connessa con questo processo. Ma qual è la differenza
fra l’apprendimento gutemberghiano e quello tramite
ipertesto o ipermedia fruiti on-line si chiede l’autore?
Riprendendo una teoria elaborata da Cesare Segre nel
1974 (4) sul problema della sintesi memoriale, possiamo
affermare che di fronte a un libro non ancora letto uno
studente ha davanti a sé un’infinita possibilità di significato limitata solo dal campo semantico del titolo del
volume ma, a mano a mano che procede nella lettura la
sua sintesi memoriale diviene sempre più preponderante
mentre il campo di possibilità aperte diminuisce fino a
giungere al grado 0 delle possibilità quando la lettura ha
termine, in quanto la formazione avviene tramite un’or-
dinata successione di significati contrapposti, in modo
omogeneo e lineare; invece nell’ipertesto e nell’ipermedia
didattici l’ordine del discorso cambia strutturalmente: non
è gerarchico intanto ed è espresso in una rete di unità di
lettura (lessìe) attraversabile dai fruitori e modificabile,
fatto che comporta che la sintesi memoriale dell’utente
non è più un orizzonte che si saturi progressivamente
sulle intenzioni del docente ma, come dice Ferri, “ una
quinta mobile che si sposta a ogni nuovo percorso intrapreso”.
Tratti distintivi della didattica ipermediale saranno dunque:
a) l’impossibilità di controllo gerarchico del percorso
formativo da parte del docente, che dovrà modulare la
sua offerta di contenuti in base alle integrazioni del gruppo di apprendimento;
b) la fusione di differenti modalità comunicative come elementi
linguistici, grafici, video, iconici,
e sonori che in generale si intersecano in una struttura a rete
(network).
Se osserviamo le camere dei
bambini o preadolescenti di oggi
ci accorgiamo che esse sono
tecnologicamente molto più ricche di quelle della nostra gioventù e soprattutto di quanto lo siano le loro aule scolastiche: accanto a radio televisione e libri,
troviamo computer, servizi Internet, webcam e videogiochi.
Il processo è inarrestabile, afferma Ferri e rischia di aprirsi
uno iato incolmabile fra società e scuola, iato tanto più
pericoloso se si pensa che è compito proprio della scuola
di educare ai media, mettendo ordine nella confusione
di messaggi che bombarda tutti noi, ma che colpisce
soprattutto i giovani.
Considerando che la crescita o il declino di un paese
dipende dal ruolo e dalla capacità innovativa di università, centri di ricerca,sistema scolastico, gravissimo errore sarebbe lasciare ai giovani la galassia digitale che
porterebbe ad un autodidattismo confuso e pericoloso e
probabilmente ad un progressivo, inesorabile allontanamento dall’istituzione formativa.
La scuola avrà quindi il dovere di educare bambini e adolescenti ad una fruizione mediale che permetta loro di
accedere a un livello di “alfabetizzazione mediale”tale
da consentire di codificare in modo critico e con consapevolezza la molteplicità di messaggi e di contenuti comunicativi, informativi e formativi che li inonda.
Prima di analizzare quali siano gli stili cognitivi degli stu-
ormai siamo immersi
in un universo
ipermediale di
comunicazione audio
visuale fluido
47
denti del nuovo millennio, Ferri definisce la differenza fra i
digital native (DN) e i digital immigrant o gutemberg native:
I primi sono coloro che sono nati intorno alla metà degli
anni ottanta se non, per lo meno in Italia, addirittura dal
1996 in poi e che crescono, apprendono, comunicano e
socializzano all’interno dell’ecosistema mediale dell’informazione e della formazione digitali e globalizzate; i secondi coloro che, come tutti gli immigranti, hanno dovuto adattarsi al nuovo ambiente socio-tecnologico ma, come dire,
conservano il loro accento gutemberghiano; Internet sarà
sempre una seconda scelta e questi leggeranno sempre i
manuali di un software invece di affidarsi all’ uso del programma stesso per capirne l’uso. In altre parole per gli
immigrant vivere nel mondo digitale è come apprendere
anche alla perfezione una seconda lingua, che però non
useranno mai per pensare!
Dunque i DN stanno probabilmente sviluppando schemi
differenti nell’interpretare la realtà che li circonda, dico
“probabilmente” perché insufficiente è ancora una trattazione scientifica dell’argomento data la recente diffusione del fenomeno. (5)
48
I DN sono molto più abituati di noi ad ambienti digitali di
apprendimento; pensiamo ai videogiochi, per esempio: non
tutti inficiano le capacità di apprendimento, ce ne sono
alcuni che richiedono riflessione, sviluppando nei ragazzi
un’attenzione selettiva e forse un’intelligenza secondo una
modalità nuova. Ma per Ferri, questi videogiochi sono solo
la punta di un iceberg perché i DN hanno a disposizione
una gran quantità di strumenti di apprendimento e comunicazione: Messenger, cellulare, chat di internet, siti di scambio e condivisione di contenuti on-line. Da non sottovalutare nello studio dei nuovi comportamenti cognitivi il cosiddetto multitasking: i DN studiano mentre ascoltano musica, mantengono il contatto MSN, mentre il televisore è
acceso. Per l’autore questo comportamento non è necessariamente foriero di disattenzione e disorientamento, in
quanto forse i DN stanno imparando a “navigare” attraverso
fonti differenti di informazione e comunicazione, muovendosi in maniera non lineare. Essi imparano per esperienza, approssimazione, assestamenti, non hanno bisogno
come noi adulti di inquadrare un oggetto di studio prima di
affrontarlo (attenzione! Ferri non esprime valutazioni su questo, individua solo i fatti da cui dobbiamo partire per un
corretto approccio). Essi procedono attraverso prove ed
errori, imparando dai medesimi, sicuramente in modo meno
dogmatico del nostro. “Per trovare la soluzione a un problema o apprendere il significato di un concetto i digital
native utilizzano un nuovo approccio: piuttosto che interpretare, configurano; piuttosto che concentrarsi su oggetti
statici, vedono il sapere come un processo
dinamico;piuttosto che essere spettatori, sono attori e autori delle trame multiple e delle molteplici conclusioni che
danno alle storie che essi stessi costruiscono in cooperazione con i loro pari. L’approccio del digital native alla conoscenza può (…) essere descritto nel modo seguente:
basato sulla ricerca e la scoperta, a rete, esperienziale,
collaborativo, attivo, autorganizzato, centrato sul problema solving e sulla condivisione dei saperi.” (Ferri, ibidem,
p.54).
La scuola si trova dunque di fronte a una situazione nuova, ad un’ accelerazione del tempo della formazione, a
una disponibilità di contenuti in tempo reale che potrebbero portare ad una rincorsa all’informazione piuttosto
che a una riflessione, cosa, invece, che avveniva e avviene nell’universo gutemberghiano; ma il problema, nota
lucidamente Ferri, “non è quello di sostituire integralmente il paradigma lineare della formazione
gutemberghiana di scrittura/lettura alfabetica con quello reticolare e multicodicale dei multimedia. Non è nemmeno quello di sostituire integralmente lo spazio e il tempo lineare e riflessivo dell’apprendimento testuale con
quello reticolare, topologico e distrattentivo (6) degli
ipermedia”. Si tratta invece di ri-mediare la linearità e la
riflessione stimolate dal testo gutemberghiano, inserendole nella “temporalità estesa” dei media telematici.
Per esempio, dato che la rete rende elastici spazio e
tempo di apprendimento, perché non utilizzarla, rendendo sempre disponibili i contenuti on-line, offrendo in ogni
momento agli alunni la possibilità di interagire fra loro e/
o con l’insegnante? Anche la lezione in classe potrebbe
così essere più stimolante, grazie alla possibile discussione su quanto elaborato on-line. Questo tipo di formazione è definito blended, mista cioè on-line e tradizionale.
E’ evidente a questo punto, come del resto già precedentemente accennato che forse sono da ridefinire il
tempo e lo spazio. Ferri suggerisce che “Il tempo e lo
spazio della vita e della formazione si sganciano
definitivamente, anche nella loro dimensione interiore,
dalla loro origine astronomica e assumono caratteristiche individuali e sociali di natura multipla
e variabile. Per
esempio, uno studente che partecipi a un
progetto di formazione on-line che preveda il coinvolgimento
attraverso la mail, una
classe virtuale o uno
strumento
di
videoconferenza, può
trovarsi in contatto
diretto e quotidiano con altri studenti negli Stati Uniti o
in Albania, che non condividono la sua lingua, le sue
pratiche sociali, alimentari, familiari e di relazione oltre
che di apprendimento. In questo modo avrà la possibilità, oltre che di sviluppare quel progetto didattico specifico, anche di ampliare la sua formazione conoscendo e
condividendo nuovi modi di relazionarsi al mondo e nuove culture.”
Ecco perché occorre abbattere i muri e ridisegnare gli
spazi di un’aula scolastica.
Un elemento che rivela il gap che si sta creando fra
studenti digital native e insegnanti digital immigrant è
proprio il fatto che il computer che è entrato a pieno
diritto addirittura nelle camere dei bambini e degli adole-
scenti, stenta a trovare una collocazione centrale nelle
scuole ( per lo meno in Italia ). La modalità più diffusa
nella scuola italiana è il laboratorio informatico che, di
fatto, confina, sostiene Ferri, la didattica multimediale
in una dimensione specialistica, isolandola dal dialogo
con la didattica tradizionale. Per l’autore questo è profondamente sbagliato: la ghettizzazione del computer
veicola un messaggio per cui tecnologia e crescita culturale sono incommensurabili.
Ma come può e deve essere strutturato allora un ambiente formativo che permetta alla didattica di valersi
appieno
delle
potenzialità della rivoluzione digitale?
Occorreranno, suggerisce Ferri, banchi
mobili e ricombinabili,
un videoproiettore sospeso al soffitto, un
computer per docente, dotato di scheda
televisiva, di scanner,
e stampante e di una
postazione
di
videoripresa digitale; ovviamente l’aula dovrà essere dotata di una connessione di rete a banda larga e di un
computer portatile per lo meno ogni quattro alunni, dotato del software di fruizione e di produzione multimediale
per web.
Nella fase di insegnamento frontale l’aula sarà simile ad
una tradizionale, quando l’insegnante lo riterrà opportuno lo spazio potrà essere modificato con la formazione
di isole di lavoro, intorno alle quali prenderanno posto gli
studenti collegati con Internet, stampanti, scanner,
videoproiettore. (7) E il libro di testo?
Sta subendo e subirà sempre di più una metamorfosi digitale. Per ora la maggior parte delle case editrici si limita a
corredarlo di eserciziari in DVD e solo alcune (Palumbo,
il laboratorio informatico confina la
didattica multimediale in una
dimensione specialistica, isolandola dal
dialogo con la didattica tradizionale
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per esempio) a fornire una versione ridotta del manuale,
contenente la trattazione essenziale della materia, letture
di base, test di verifica, integrata da DVD con fonti, approfondimenti, schede, iconografia. Ma questo non
basta,afferma Ferri, occorrerebbe invece che le integrazioni
si trovassero all’interno di un sito web correlato al volume
stesso; tutti i materiali di approfondimento potrebbero essere inseriti in una piattaforma open source che favorisse il
trasferimento di materiale didattico e ambienti virtuali di
comunicazione e insegnamento. Nascerebbe così negli
anni anche una specie di banca dati di contenuti utilizzabili
da altri insegnanti della medesima disciplina.
E’ questo ciò che l’autore intende per ri-mediare la
linearità del testo gutemberghiano.
Emergono due dati certi, secondo Ferri, da quanto detto
fin qui: il primo è che gli attuali studenti non sono più
una versione in piccolo di quello che gli insegnanti erano
da studenti; il secondo è che con ogni probabilità gli
attuali insegnanti non saranno mai in grado di utilizzare
la tecnologia con l’ abilità dei loro studenti, ma hanno il
dovere di adattare i loro metodi educativi alle esigenze
dei loro allievi.
Si arriva così all’ultimo punto analizzato dall’autore: la
formazione degli insegnanti.
Ferri ripercorre le politiche governative degli ultimi 1015 anni, a partire dal 1995, col primo intervento strutturato in questo campo, il PNI che prevedeva la formazione di circa ventimila docenti e la realizzazione di
settemila strutture informatiche in altrettante scuole
superiori. Il più serio intervento di abilitazione digitale
della scuola italiana è stato il PSTD, voluto da
Berlinguer che però dopo la fine della stagione dell’Ulivo, o per volontà politica o per incuria non ha raggiunto gli obiettivi fissati; successivamente la
“controriforma Moratti” (Ferri, ibidem) ha inteso la tecnologia come strumento per premiare l’efficienza delle realtà già avvantaggiate, snaturando così tutto ciò
che era stato fatto fino a quel momento; attribuendo
inoltre competenze esclusive alle regioni ha fatto sì
che quelle più ricche come Lombardia e Veneto hanno potuto finanziare e rinnovare il nuovo sistema scolastico, mentre non hanno potuto farlo quelle più disagiate. Ferri parla poi di “strabismo mediale e culturale” del governo di centro-destra, che ha annunciato
con grandissima visibilità sui media opere ed interventi grandiosi, che poi non sono stati sostenuti da
risorse finanziarie. L’errore più grave degli ultimi anni è
individuato da Ferri nel cercare di insegnare l’informatica e non “con” l’informatica.
Confessiamo che la lettura di questo testo ci ha confuso e a volte disorientato. Credo che noi insegnanti, ci
rendiamo conto che occorre un cambiamento nella didattica, ma forse non siamo ancora preparati, perché,
come dice giustamente il nostro autore, “la rivoluzione
digitale è stata così rapida da mettere in forte tensione
la capacità dei digital immigrant di comprendere la trasformazione in atto”. ◊
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Note
1) Laureato in filosofia presso l’Università degli studi di Milano,
Paolo Ferri lavora presso la casa editrice Bruno Mondadori di
Milano in qualità di editor per il settore Università; tra le altre
attività dirige la collana di Classici della filosofia commentati
della casa editrice.
(2)Tim O’Reilly, l’inventore di questo termine ( 2005, What Is
Web 2.0, Safari Books ) sostiene che questo consiste
nell’affermarsi di applicazioni che permettono agli utenti di creare
e condividere contenuti online tramite strumenti quali Wiki, blog,
YouToube, recensioni di Amazon. Questo fenomeno si basa quindi
sul fatto che gli utilizzatori del Web, attraverso la loro azione
partecipativa, aggiungono valore alle proposte del sito medesimo.
Da qui il concetto di intelligenza collettiva (definizione di Pierre
Lévy in L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del
cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996) per cui gli interventi degli
utenti attraverso nuovi concetti e nuovi siti vengono integrati alla
struttura del web da altri utenti che creano a loro volta link così
come le sinapsi nel cervello si rafforzano con le associazioni.
(3) Rivoltella P.C.,Screen Generation. Gli adolescenti e le
prospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Vita e
Pensiero, Milano, 2006.
(4) Segre C., Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli,
Einaudi, 1974.
(5) Si sono occupati di questo tema fra gli altri, uno scrittore
russo, Viktor Pelevin con un romanzo e uno studioso di tecnologie
didattiche, Wim Veen, con alcuni saggi:
Pelevin V., Babylon. Un romanzo, A. Mondadori , 2000. Vavilen
Tatarskij, il protagonista, appartiene a quella “generazionePepsi”
nata in Russia negli anni ’60 che ora si trova a vivere nel melmoso
interregno tra il vecchio e il nuovo.Vavilen a 21 anni legge
Pasternak, è iscritto all’Istituto di Lettere ed è un aspirante scrittore,
ma assieme all’URSS crollano i suoi ideali e il ragazzo è costretto
ad affrontare la realtà che lo circonda. Comincia così la sua
rapida ascesa sociale in una Russia ormai neocapitalista,
cambiando così da aspirante scrittore a copywriter abituato alle
più sottili falsificazioni dei media. Il romanzo è una denuncia di
una società assoggettata al regime dell’informazione televisiva e
pubblicitaria. Veen W., A New Force for Change. Homo Zappiens,
in “The Learning Citizen”, n. 7; Veen W., Vrakking B., Homo
Zappiens. Growing up in a Digital Age, Network Continuum
Education, London.
(6) Per “distrattenzione” Ferri intende la modalità con cui si accede
ai contenuti del web. “Invece di fruire i contenuti secondo la
temporalità omogenea della successione dei significanti
alfabetici, adottiamo una modalità non lineare e “veloce” di accesso
all’informazione che procede per associazioni non lineari,
secondo una temporalità sincopata che prevede lunghe pause di
“distrazione” e improvvise accelerazioni di “attenzione”
concentrata.”
(7) Per conoscere un esempio concreto di un nuovo spazio per
una nuova scuola confronta il caso della Snaefellsnes
Comprehensive Upper Secondary School (Islanda )nell’intervento
di Jòna Pàlsdòttir “From idea to reality” al Convegno
internazionale”Re-mediare la scuola”organizzato da INDIRE e
dal Ministero della pubblica istruzione il 3 e 4 marzo 2006, i cui
atti sono disponibili in formato elettronico all’indirizzo
http://www.bdp.it/-convegno/remediarelascuola/materiali/.
Ferri comunque nel testo in questione esamina il caso della scuola
islandese, dedicandole una decina di pagine (pp.78-87)
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