2 Editoriale F inalmente esce il numero della rivista “Il Gobetti” dedicato ad argomenti e tematiche scientifiche! E’ infatti la prima volta che ciò accade, e questo rappresenta un vanto per la nostra scuola in particolare, e, più in generale, per la divulgazione della cultura scientifica al di fuori dell’ambiente degli addetti ai lavori. Particolarmente significativo ci sembra, in tal senso, il fatto che si siano create condizioni favorevoli affinché questo lavoro abbia potuto vedere la luce, con numerosi e significativi contributi “trasversali” da parte del personale docente della scuola, e non solo. Il problema della diffusione della cultura scientifica è irrisolto nel nostro paese. Personalità illustri del nostro panorama politico e culturale si sono pubblicamente vantate di ignorare totalmente aspetti fondamentali della matematica, del- Questa foto presa dal BEBC (Big European Bubble Chamber) mostra un la fisica, della chimica, interazione tra un neutrino e un protone che genera un Mesone D eccitato. e delle altre scienze. La spiegazione di ciò si può trovare nella impostazione politico-culturale “ostile” nei confronti delle discipline scientifiche, in particolare nella scuola ad indirizzo scientifico, dove orari e programmi sono ancor’oggi fortemente sbilanciati a favore della cultura letteraria. Spesso si adduce come giustificazione la difficoltà di approccio a queste discipline, che richiede conoscenze specifiche matematiche. Ciò non toglie che, spinti da un interesse culturale, si possano superare tali difficoltà, così come, per esempio, le difficoltà stilistiche della poesia non impediscono di accedere alla lettura della Divina Commedia. Crediamo fermamente che anche la scienza, in senso lato, sia cultura, non in antitesi con la cultura nell’accezione comune, ma complementare ad essa. Il lavoro compiuto vuole esser un primo passo per raggiungere questo ambizioso obiettivo. La speranza è quella che l’esperienza continui, anche in altre forme, estendendosi al di fuori dell’ambiente scolastico. Infatti, nella società moderna, non è concepibile una cultura mancante del tutto delle conoscenze scientifiche, pena l’emarginazione e la perdita di contatto con il mondo reale. ◊ Paolo Boncinelli - Nello Mangani 3 Numero monografico a diffusione interna Hanno collaborato a questo numero: Silvio Biagi Paolo Boncinelli Antonio Borrani Stefano Dominici Nello Mangani Marice Massai Doria Polli Antonio Restivo Marco Salucci Fabio Sottili Manuela Taddei Francesca Tatini e inoltre: Massimo Bartoli Liceo Scientifico Statale “Piero Gobetti” Via Roma, 75/77 - 50012 Bagno a Ripoli (Firenze) tel. 055 6510035 - fax 055 6510107 [email protected] - www.lsgobetti.it Indice Editoriale ........................................................ pag. 1 Moscarda e Einstein: relatività in letteratura e in fisica di Gregorio Formiconi ............... pag. 3 A Gregorio di Silvio Biagi .................................................. pag. 3 Le scienze al Gobetti: dalla massa oscura alle balene di Antonio Restivo............................ pag. 6 Opabinia, ovvero i fossili e l’enigma della complessità di Antonio Borrani ........................................... pag. 7 Dal fondo del mare di Stefano Dominici ......................................... pag. 8 Bioinformatica; i database della conoscenza scientifica di Francesca Tatini ........................................... pag. 11 Potenziale o attuale? di Nello Mangani .............................................. pag. 14 Il poliedrico mondo di Ipazia d’Alessandria di Doria Polli ......................................... pag. 21 4 La realizzazione grafica e l’impaginazione di questo numero sono state curate dagli studenti del Liceo Gobetti che hanno partecipato allo stage di formazione professionale. Coordinatore dello stage: Giovanni De Lorenzo Assistente tecnico: Luigi Roseto Gli studenti che con il loro impegno e la loro creatività hanno realizzato questo numero: Francesca Bottai Giulia Branchi Sara Brunelleschi Francesca Burroni Elena Giorni Tommaso Lai Khaufra Maggini Leonardo Magursi 4a E 4a A 5a E 5a E 4a B 5a C 5a F 5a E Cosimo Marcoti 4a A Lorenzo Orlandi 4a A Federico Perodi Ginanni 5a E Sherry Saggese 5a E Martina Santarlasci 3a A Debora Tempo 5a E Christian Trapani 4a E Jacopo Zurlo 5a A Stampa: IT.COMM. S.r.l. - Via di Ripoli, 48-50r - Firenze Questa pubblicazione è stampata su carta riciclata Cyclus Offset Polyedra. Determinismo di Massimo Bartoli ............................. pag. 21 Le lezioni di anatomia in età moderna fra arte e scienza di Fabio Sottili ................................... pag. 24 La distanza fra noi e la scienza: discorso semiserio di Marco Salucci ................................ pag. 29 Costruzione geometrica delle radici dell’equazione di secondo grado di Marice Massai .............................................. pag. 34 I Fluidi, questi sconosciuti! di Paolo Boncinelli .......................... pag. 36 Le coniche come luoghi geometrici di Marice Massai ....... pag. 42 Il futuro, la scuola digitale? di Manuela Taddei ................................ pag. 45 Moscarda e Einstein: relatività in letteratura e in fisica. Gregorio Formiconi A Gregorio, A scuola, normalmente, noi insegnanti ci andiamo per insegnare. Però vi troviamo anche molto da imparare. Soprattutto persone che ci fanno imparare. Ho avuto la fortuna di avere Gregorio come allievo per cinque anni, dal 1999 al 2004. E ho avuto la fortuna di averlo come amico fino all’ottobre 2005. Considero accessorio il fatto che io sia stato suo insegnante: il ‘caso’ ha fatto sì che ci incontrassimo quando lui aveva quattordici anni ed io quarantuno. Considero essenziale, invece, l’averlo incontrato. Da lui ho imparato tanto e, sono sicuro, non solo io. Il modo di aiutare i compagni, il modo per farli stupire per quello che riusciva a fare senza che nessuno provasse per lui invidia, ma solo stima ed affetto; il modo di porsi nei confronti dell’insegnante, pieno di rispetto e umiltà, ma anche di un naturale senso di parità frutto non di presunzione bensì della consapevolezza della sua intelligenza; un senso critico costruttivo utile a se stesso e agli altri. La sua lucida intelligenza, duttile e profonda, la sua originalità, la sua profondissima umanità, il sorriso nei confronti della vita, la pazienza, la serenità e la speranza nei momenti di terribile sofferenza fisica e interiore, anche quando sembrava non esserci prospettiva, le ho sempre vive in me. Ma la maggioranza delle cose restano inespresse. Quello che resta è il fatto che l’aver conosciuto Gregorio è stata ed è, per molti di noi, una grande lezione di vita. Gregorio Formiconi ha frequentato il Liceo Gobetti dal 1999 al 2004, anno in cui si è licenziato con il massimo dei voti. Iscrittosi a Matematica, dopo aver superato brillantemente tutti gli esami del primo anno, nonostante la grave malattia che lo aveva colpito tre anni prima, aveva manifestato l’intenzione di passare a Lettere Classiche. Dall’ottobre del 2005 non è più con noi. Il testo che proponiamo è un suo lavoro scritto nel 2004 in occasione di un convegno su Luigi Pirandello, a partire dal romanzo Uno, nessuno e centomila. ◊ Silvio Biagi U no specchio e un naso. Tutto ini zia con uno specchio e un comu nissimo naso. Che però pende verso destra, fatto di cui l’ignaro proprietario mai si era accorto se non quando, quella fatidica mattina, la moglie glielo fece notare. Se fosse stato un uomo normale tutto sarebbe finito qui, al massimo con la considerazione “che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri”, ma si dà il caso che non possa essere definito tale un personaggio pirandelliano, tanto più Vitangelo Moscarda, alias Gengè, che si definisce lui stesso “fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa”. Una riflessione inizia quindi a “bucherare” lo sfortunato Gengè: “ch’io non ero per gli altri quel che finora, den- tro di me, m’ero figurato d’essere”. E il problema era che il suo altro neanche poteva conoscerlo perché “davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio e rifatto”. Il che porta Gengè alle prime forme di follia: “ ... quelle piccole (pazzie) che cominciai a fare in forma di pantomime, 5 nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli specchi di casa ...”. Uno specchio e un naso, dunque, il principio della fine, il principio della follia ... Ma la questione si complica ulteriormente quando Vitangelo si rende conto di non essere un solo altro per tutte quante le persone che gli stavano attorno, bensì centomila altri a seconda di come ognuno lo vede:”Ma Tizio lo conoscete anche voi, e certo quello che conoscete voi non è quello che conosco io, perché ciascuno di noi lo conosce a suo modo e gli dà a suo modo una realtà.”. Addirittura Gengè si ritroverà alle prese con l’aritmetica, quando cercherà di stabilire quante persone ci sono realmente in una stanza assieme con lui: p= n2 – 1, questa la formula a cui giunge Vitangelo e nella quale egli figura come il -1 “visto che io – per me stesso – ormai non contavo più”. La presa di coscienza della molteplicità del suo essere scatena in Moscarda un feroce impulso distruttore che lo porterà a cercare di distruggere una ad una tutte le varie realtà che gli altri gli attribuivano,ovvero a commettere azioni che agli occhi altrui non possono che apparire come eccessi di un matto, “pazzie per forza”. La prima delle quali fu cercare di smentire la fama di “usurajo” che ormai Moscarda, volente o nolente, anche per tradizione familiare, si era ritrovato addosso. Gli intenti di Vitangelo, tuttavia, falliscono tutti ed egli, etichettato come pazzo, finisce per impelagarsi in un processo che supererà ‘indenne’ solo grazie all’ormai lampante pazzia: “Si ven6 ne alla decisione che io avrei dato un esmplare e solennissimo esempio di pentimento e d’abnegazione”, ovvero la fondazione con i soldi della liquidazione della banca di un ospizio di mendicità in cui il personaggio emblematico del suo tempo, o meglio, di quello dell’autore. Forse nei dubbi che assalgono Vitangelo è anche racchiuso lo sconcerto suscitato dalle nuove teorie scientifiche di inizio XX sec.: lo spazio e il tempo, quegli innati principi sintetici a priori, vanto e orgoglio dell’austero filosofo tedesco, vengono ad un tratto a farsi labili e relativi. Da una parte Moscarda, sgomento di fronte alla lucida percezione della relatività del suo essere, dall’altra la teoria della relatività, al limite del comprensibile per la nostra intuizione, che relativizza i concetti di spazio e tempo, prima ritenuti indubbiamente assoluti. Alla fine del XIX sec. la teoria di quel “maestro venerando e terribile” che era stato Newton per la fisica si incrinò irrimediabilmente al riscontro con la cruda realtà dei fatti: la velocità della luce è sempre la stessa, un raggio di luce che sia lanciato o no in movimento si muove sempre alla stessa velocità, sovvertendo così le leggi della fisica che avrebbero voluto che si muovesse ad una velocità diversa a seconda della velocità alla quale è stato lanciato. I più si arrovellarono a cercare le più improbabili spiegazioni a questo apparentemente inspiegabile fenomeno, un semplice impiegato dell’ufficio brevetti di Berna, un tale Albert Einstein, invece, se ne uscì con una “Zur Elektrodynamic bewegter Korper” che rappresentò una vera e propria pietra miliare della fisica moderna. In questo articolo Einstein mostrò come si potesse superare questo punto fermo a cui era giunta la fisica cessando di considerare lo spazio e il tempo come assoluti ma relativi allo stato di moto degli osservatori: più ci muoviamo velocemente più scorre lentamente il nostro orologio per un osservatore fermo, e più ci assottigliamo nella direzione del moto. Lo spazio e il tempo appaiono quindi differenti a osservatori che non si muovono del medesimo moto rettilineo uniforme. Ma chi ha ragione? Tutti, perché non c’è una verità assoluta se parliamo di spazio e tempo, ma tante relative allo stato di moto “notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri” donatore stesso sarebbe stato internato, essendo stato riconosciuto come pazzo all’unanimità. decisione che porta Moscarda alla naturale conclusione del suo iter di follia, già indicata precedentemente dal medesimo come unica auspicabile: “Ah, non aver più coscienza d’essere, come una pietra, come una pianta! Non ricordarsi più neanche del proprio nome! Sdraiati qua sull’erba, con le mani intrecciate alla nuca, guardare nel cielo azzurro le bianche nuvole ...”. E’ proprio questa, infatti, la fine di Moscarda, una totale negazione del proprio essere come qualcosa di a sé stante e con una propria storia personale: “ Nessun nome, nessun ricordo oggi del nome di ieri; del nome d’oggi, domani”. Nell’assenza di ogni ricordo è come se l’exMoscarda morisse e rinascesse in ogni istante: “ ..muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi … “; e la sua percezione del mondo circostante è priva di alcuna interpretazione personale, ovvero non crea più una propria realtà per le cose che percepisce: “Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare”, giungendo quindi ad identificarsi con ogni altro essere che percepisce: “Sono quest’albero. Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo.”. Forse però Moscarda è molto più di un semplice individuo spostato, forse è un dei corpi facenti parte del sistema preso in esame. E’ un po’ come la risposta che oggi diamo a Zenone quando ci dice che il movimento non può esistere in quanto due corridori che corrono in sensi opposti percepirebbero la velocità reciproca maggiore rispetto ad uno spettatore fermo, e ciò a suo parere violerebbe il principio di non contraddizione: la velocità da sé, come insegna Galileo, non ha un valore assoluto, ma, poiché deve essere sempre riferita ad altri corpi, relativo. Questo il vecchio Zenone stentava a comprenderlo, noi stentiamo invece forse ancor di più ad afferrare il senso della teoria di Einstein, perché troppo è radicata nel nostro essere la percezione dello scorrere del tempo come qualcosa di assoluto, come scandito da un grande ed inesorabile orologio cosmico. Anche Gengè, in fondo, arriva alla stessa conclusione, pur se, invece della luce, l’elemento scatenante delle sue considerazioni è il suo più comprensibile naso che pende verso destra: se all’osservatore in moto sostituiamo Vitangelo, al suo orologio la sua personalità e all’osservatore fermo Dida (la moglie), l’equazione torna ancora: la sua personalità appare diversa a Dida da quella che appare a lui, come le lancette degli orologi scandiscono i secondi in modo diverso per i due osservatori; e Gengè constata inoltre che entrambe le realtà sono vere allo stesso modo tanto che ad un certo punto prende per vera quella della moglie. Così come si viene a perdere in fisica il concetto di simultaneità, dal momento che tutti gli orologi scorrono a seconda del loro moto, Vitangelo perde l’illusoria concezione del proprio essere come unico e quindi assoluto. Questa però era solo la “relatività ristretta”, che nel 1916 verrà integrata da Einstein nella più ampia ed esauriente “relatività generale” che comprenderà anche la descrizione di fenomeni quali l’attrazione gravitazionale e l’accelerazione, che verranno rivisti e riclassificati sotto un aspetto totalmente differente da come lo erano stati fino a quel momento. Ma già davanti a quella ristretta il nostro Gengè si è spaurito e vaga senza meta prendendo a prestito ora questa ora quella real- tà che lui o gli altri hanno deciso di assegnargli. Perché un conto è scherzare con orologi e osservatori, un conto è sostituire a questi la bistrattata personalità del povero Gengè! Dietro a quella c’è molto di più di una semplice quantità fisica misurabile come il tempo, c’è un uomo! Uomo? E’ forse ancora appropriato il termine per l’individuo che ora, toltosi la maschera molteplicemente sfaccettata che lui stesso e tutti gli altri gli attribuivano, si è esposto alla cruda luce della verità che ha illuminato un volto mancante di ogni connotato, totalmente anonimo… Un senso di inquietudine ci sale su per la spina dorsale, un voluttuoso desiderio di autodistruzione ci assale mentre immaginiamo cosa sarebbe se anche noi mettessimo a nudo le nostre fattezze... ◊ 7 Le scienze al Gobetti: dalla massa oscura alle balene Antonio Restivo A ben guardare tra la miriade di circolari e i numerosi manifesti che si accavallano nei corridoi della scuola l’offerta di approfondimenti sulle tematiche scientifiche al Gobetti è veramente ampia, diversificata e sempre più ricca. Si inizia già nel mese di ottobre con il “Pianeta Galileo”, una serie di conferenze a carattere scientifico promosse dal Consiglio Regionale della Toscana in collaborazione con gli enti locali e gli atenei della regione che hanno l’obiettivo di mettere in comunicazione il mondo della ricerca con le scuole superiori. Il nostro liceo è tra le scuole protagoniste essendo sede di importanti incontri con personaggi di primo piano del mondo accademico. Sempre in ottobre parte l’ormai tradizionale corso teorico-pratico sulle biotecnologie. Gli studenti, sequenziando il proprio DNA mitocondriale, hanno l’opportunità di conoscere le tecniche utilizzate nei laboratori di paleoantropologia dove si studiano le modificazioni del patrimo8 nio genetico degli esseri umani e le migrazioni dei nostri antenati. Senza l’uso dei moderni calcolatori elettronici sarebbe impossibile ricavare e utilizzare l’enorme mole di informazioni contenute nel nostro DNA. Di bioinformatica, e delle scoperte di qualche intraprendente liceale, ci parla in queste pagine la prof.ssa Tatini, docente di scienze in una classe prima dove gli alunni iniziano da subito a frequentare il nuovo laboratorio del liceo. Significative sono anche le lezioni con i docenti delle diverse facoltà scientifiche per orientare gli studenti nella difficile scelta dell’indirizzo di studio. Può così capitare di sentire parlare un astrofisico di “Massa oscura” o uno specialista di informatica di “Etica hacker”. Gli studenti hanno anche l’opportunità di partecipare a congressi, stage e ad iniziative organizzate dalle diverse istituzioni che operano nel nostro territorio. Interessante è stata la giornata di studio sull’origine della vita che si è svolta lo scorso anno nell’aula magna dell’ateneo fiorentino a cui hanno partecipato alcune classi terze. In quell’occasione è stato anche possibile visitare in anteprima la balena fossile ritrovata ad Orciano Pisano che fra qualche tempo verrà esposta nel museo di Paleontologia di Firenze e di cui ci parla il dott. Dominici in questo numero. Altri ragazzi di quarta hanno invece tenuto una relazione alla mostra-convegno “Terrafutura” sui primi risultati a cui si è giunti con il progetto sul risparmio energetico della scuola. All’orizzonte ci sono anche le celebrazioni dell’”Anno Internazionale dell’Astronomia” proclamato dalle Nazioni Unite per celebrare il quarto centenario dell’uso del cannocchiale da parte di Galileo e le iniziative legate ai 200 anni dalla nascita di Darwin e ai 150 anni dalla prima pubblicazione de “L’origine delle specie” che sicuramente potranno essere occasione per docenti e studenti di ulteriori approfondimenti. Anche i docenti del liceo da qualche tempo si stanno cimentando nella divulgazione scientifica rivolta non solo ai propri studenti ma anche alla cittadinanza. Gli argomenti scelti sono spesso insoliti e affascinanti, basti pensare ad esempio alla logica matematica o alla fisica dei fluidi. Per concludere, l’invito a tutti è di trasformarsi in Opabinia regalis, lo strano fossile dotato di cinque occhi ritrovato nelle argilliti di Burgess, per non lasciarsi sfuggire le tante occasioni di arricchimento culturale che con tanta passione vengono organizzate al Gobetti. ◊ Opabinia, ovvero i fossili e l’enigma della complessità Antonio Borrani 5a B O gni tanto, nella storia della scienza, avvengono scoperte che segnano la fine di un’era e l’inizio di un’altra. Qualcosa del genere è accaduta anche in paleontologia, ed in tempi ben più recenti rispetto alla pubblicazione dell’ “origine della specie”. Tale rivoluzione ha origine con la scoperta di uno strano animale, Opabinia, avvenuto in una località canadese chiamata Burgess. Nelle formazioni geologiche di tale luogo, risalenti a più di 500 milioni di anni fa, sono stati ritrovati fossili straordinariamente ben conservati, tra i quali i rappresentati di phyla fino ad allora sconosciuti: tra questi appunto Opabinia (fig.1, mentre afferra un verme gelatinoso). Un phylum è gruppo di animali dotati di un piano strutturale comune, evolutosi da un antenato ancestrale; per esempio i tonni e l’uomo fanno parte del phylum Cordata perché, perlomeno nei primi stadi dello sviluppo embrionale, presentano una struttura di sostegno del corpo, situata sul dorso, chiamata notocorda. La classificazione di Opabinia è problematica dato che sembra unire le caratteristiche di almeno due o tre phyla moderni a tratti assolutamente inusuali. È infatti un invertebrato, lungo una decina di centimetri e dotato di segmenti, come i comuni lombrichi, ma le 10 paia di zampe (o pagaie) che esso possiede sono dotate di branchie, la testa è munita di cinque occhi e di una specie di proboscide flessibile, atta a portare il cibo ad una bocca posta ventralmente. Ecco perché i paleontologi lo hanno classificato in un phylum estintosi in tempi antichissimi. Tuttavia, la scomparsa di un intero phylum apre numerosi interrogativi: è come se il piano strutturale tipico dei cordati non avesse lasciato discendenti, per cui animali come l’uomo non avrebbero avuto la possibilità di evolversi. Si suppone infatti che l’ambiente nel quale viveva Opabinia fosse sostanzialmente simile al nostro, ma, a differenza degli ecosistemi attuali, gli habitat erano quasi tutti da colonizzare. Per questo motivo l’evoluzione di organismi pluricellulari portò inizialmente alla diversificazione di moltissimi phyla; tuttavia, nel corso del tempo, alcuni phyla, come i cordati, si sono imposti su altri, che si sono estinti. In definitiva, lo studio dei fossili delle argilliti di Burgess ha fatto crollare definitivamente la vecchia teoria che descriveva l’evoluzione come un continuo aumento della complessità dei viventi. La complessità di Opabinia era pari o superiore a quella di molti rappresentanti di phyla odierni. L’evoluzione tende invece a prediligere pochi phyla, cioè pochi piani strutturali e la direzione intrapresa sembra essere casuale. All’interno dei phyla si assiste invece alla comparsa di una grande abbondanza di forme. L’adattamento all’ambiente porta quindi ad un perfezionamento continuo di poche caratteristiche favorevoli. In conclusione, se fosse possibile riavvolgere il nastro della storia della vita sulla Terra e ricominciare da capo, il risultato sarebbe un mondo con viventi dotati di pochi piani strutturali, completamente diversi da quelli odierni e probabilmente altrettanto diversificati. ◊ Indicazioni bibliografiche: - Stephen J. Gould, “La vita meravigliosa”, Feltrinelli - Simon Conway Morris e H.B. Whittington, “La testimonianza dei fossili”, Le Scienze quaderni N. 42 (pp.24-35) 9 Dal fondo del mare Stefano Dominici L a dinamica interna della Terra, i movimenti della crosta, il lento incedere del tempo geologico concorrono a realizzare un fenomeno che è stato oggetto di scrutinio da parte degli antichi filosofi: la presenza sotto il sole di antichi fondali marini disseccati e delle ricchezze da loro custodite nel tempo. Ma se i filosofi potevano essere per mestiere attenti alle manifestazioni della natura, a molti di noi facilmente sfuggono le schiere di conchiglie che a volte riemergono dopo la pioggia sui campi coltivati di Piemonte, Emilia o Toscana. Quando notandole si riaffacciassero le nozioni inculcate dalla maestre nel tempo della scuola elementare, preferiamo passare oltre piuttosto che soffermarci con meraviglia. Ma quando ad affiorare sono le ossa del grosso cetaceo che un tempo inghiottì Pinocchio, la regina dei mari, il più grande animale vivente, le cose cambiano. Quando accanto alle conchiglie si stagliano le grosse costole e le vertebre sbiancate di una balena, allora la notizia dai campi emerge sulle pagine dei quotidiani locali e da lì fin sullo schermo della televisione, e tutti ne discutono, affollando nella mente immagini di tirannosauri, felci arboree, libellule gigantesche, e per un attimo chiunque diventa geologo. Così è successo dopo l’ennesimo ritrovamento in un campo arato nei pressi di Orciano Pisano, a qualche chilometro nell’entroterra alle spalle di Livorno, di alcune vertebre di grosse dimensioni e colore rossastro. Lo scheletro ritrovato alla fine dell’estate 2006, tuttavia, racconta una storia di particolare interesse. Racconta di una balena lunga 10 metri, ma non solo. Una storia che 10 ci ricongiunge ad una scoperta scientifica fatta nei moderni fondali oceanici dai biologi marini del sommergibile Alvin, poco più di venti anni fa. Una storia di balene affondate e banchetti pantagruelici. Quando muore una balena Molti grandi cetacei hanno una struttura corporea con densità complessiva maggiore della densità dell’acqua. Quando una balena muore, quindi, affonda, trasformandosi in una particella di detrito organico di dimensioni considerevoli (una balenottera di 18-20 metri pesa circa 30 tonnellate) che rapidamente raggiunge il fondo del mare. Organismi di diversa natura approfittano di una tale abbondanza, organismi in competizione per lo stesso oggetto: batteri che decompongono i tessuti a partire dagli intestini e pesci necrofagi che si accingono a mangiare la carcassa dall’esterno, carne a volontà per tutti, ma non solo. Dopo qualche giorno i gas della decomposizione spingono la carcassa a riaffiorare, a meno che essa non sia finita a profondità sufficienti perché la pressione idrostatica favorisca il passaggio in soluzione dei gas, impedendo la risalita della carcassa. Una carcassa riemersa continua a decomporsi e ad essere mangiata da pesci e invertebrati, fino al cedimento degli intestini e allo smembramento delle mandibole, degli arti e infine della testa. Dopo poco non esiste più una balena, ma brandelli dall’incerto destino. Altra cosa sono le balene finite oltre i limiti della piattaforma continentale, a profondità maggiori di circa 200 metri, che si mantengono integre al procedere del banchetto per dare vita allo spettacolo che si sono trovati davanti i biologi marini Chris Smith e compagni dell’Università dell Hawaii, al largo della California, nel 1987: uno scheletro mostruoso affollato da lamprede, squali dormiglioni (si chiamano così), crostacei isopodi e vermi policheti. La scoperta dei biologi americani e le successive spedizioni hanno portato alla realizzazione che le carcasse dei grandi cetacei che ‘piovo- no come manna dal cielo’ nelle desertiche profondità oceaniche ospitano una catena alimentare particolare, con forti analogie con quella di altri habitat abissali, come i camini idrotermali lungo gli assi delle dorsali oceaniche. La successione ecologica caratteristica delle comunità presso le carcasse di balena ( Whale Fall Community, WFC) può essere suddivisa in quattro stadi: 1) degli spazzini, 2) degli opportunisti, 3) dei solfofilici e 4) di ‘scogliera’. Durante il primo stadio e nell’arco di pochi giorni o settimane gli spazzini mangiano i tessuti molli della balena. Dapprima intervengono i necrofagi di dimensioni maggiori, gli squali dormiglioni (sleeper sharks) e le mixine parenti delle lamprede (pesci senza mandibole). Poi carnivori sempre più piccoli che ‘puliscono le briciole’ lasciate dai più grossi vertebrati, ovvero crostacei anfipodi ed isopodi, fino alla completa ripulitura delle ossa. Nel frattempo tessuti sparsi e grasso hanno impregnato il fondale circostante, portanto ad un secondo e più duraturo stadio di sfruttamento, detto degli opportunisti. Gli invertebrati che si nutrono della grande quantità di sostanze energetiche, presenti in un sedimento solitamente povero, popolano in gran numero i luoghi prossimi alle ossa, adottando strategie a rapida riproduzione ed alto numero d’individui, da cui il nome di opportunisti. Tra questi troviamo depositivori come oloturie e bivalvi, e poi pesci e invertebrati predatori che si nutrono dei gradini più bassi della piramide trofica, insomma il banchetto di cui ci aveva parlato Craig Smith nel suo primo, meravigliato resoconto. In mezzo alla mischia, a formare tappeti rossastri sopra e sotto le ossa esposte, si trovano i piccoli vermi mangiatori d’ossa, policheti sibonoglinidi parenti dei vermi scoperti qualche anno presso i camini idrotermali in popolazioni sterminate. Ovviamente, i bone-eating worms delle carcasse di balena hanno adattamenti del tutto particolari che li differenziano da qualsiasi altro cugino: ‘radici’ fatte di tessuto epiteliale che penetrano nelle ossa di balena e, dentro le radici, batteri chemosimbiotici che degradano il grasso presente nelle ossa, nutrendosi di esso e a loro volta nutrendo i vermi policheti. Osedax il nome del verme, da os- (osso) ed -edax (mangiatore), caratteristico per il pennacchio di ciglia rossastre esposto alle correnti marine dalle quali estrae l’ossigeno necessario al suo metabolismo aerobico, privo di bocca e tubo digerente, quindi diverso da tutti gli altri policheti. Dopo qualche ulteriore settimana dalla morte della balena, qualche mese al massimo, si esauriscono le sostanze nutritizie e all’interfaccia grasso-radici l’ossigeno necessario al metabolismo dei batteri chemosimbiotici aerobi. Gli opportunisti del secondo stadio cominciano a scemare. Ma all’interno delle ossa più grosse rimane in abbondanza grasso inutilizzato (fino al 60% delle ossa di balena è fatto da lipidi, come ben sanno i famigerati cacciatori delle baleniere). Niente deve evidentemente andar perduto in mezzo al ‘deserto’ oceanico e la preziosa sostanza rimasta diventa nutrimento per una particolare flora batterica anaerobia che si instaura dentro le ossa. Questi batteri anaerobi, diversi dai precedenti, nel degradare i lipidi sottraggono solfato dall’acqua del mare e riducono lo zolfo in sulfuro. L’acido solfidrico che si sviluppa impregna le ossa e le zone adiacenti, un veleno intollerabile per la maggior parte degli organismi a noi noti, ma non per quelli che si sono adattati ad utilizzare l’energia chimica contenuta in questo composto riducente. Di nuovo batteri, appartenenti al genere Beggiatoa, proliferanti sulla superficie delle ossa a formare tappeti mucillagginosi bianchi come neve (il secondo colore dominante documentato dai biologi delle profondità nelle riprese video giunte fino a noi). La comparsa di Beggiatoa indica il terzo stadio detto appunto dei solfofilici, o ‘amanti dell’acido solfidrico’. I tappeti bianchi di batteri costituiscono un appettitoso cibo per una grande varietà di animali invertebrati solfo-tolleranti, che pascolano come snow-boarders sui fianchi delle montagne. Altrove sulle ossa e sotto di esse grossi bivalvi appartenenti ad altri gruppi di specialisti dell’acido solfidrico, vesicomyidi e bathymodioline, lucinidi e thyasiridi, beneficiano di una simbiosi particolare con batteri riducenti, ospitati entro le branchie e nutriti con l’amore con il quale un contadino coltiva la lattuga. Durante il terzo stadio una nuova e più comples- sa catena alimentare così si forma, per durare fino a molte decine d’anni per le balene più grosse, più ricche di ‘carburante lipidico’. Al termine i ricercatori presuppongono - ma non hanno ancora documentato - che le ossa possano costituire un banco rilevato dove le correnti subiscono un minor rallentamento da attrito rispetto al fondo e pertanto una zona preferenziale per organismi filtratori. E’ lo stadio di ‘scogliera’ che termina la successione ecologica. Questa la storia conosciuta prima del ritrovamento del fossile di Orciano Pisano, assieme al fatto che gli strati con il fossile si erano deposti in ambienti non profondi. Cosa ci potevamo aspettare di trovare, al di là di una balena fossile? Esistono anche in acque relativamente basse le WFC documentate dagli americani in acque profonde? Può il registro fossile fornire indicazioni finora non disponibili ai biologi marini? La storia si faceva interessante. Balene fossili italiane glie di balene e balenottere, cetacei che più facilmente affondano. Tali scheletri fossili sono spesso in buono stato di conservazione, non come le carcasse che subiscono gli effetti di decine d’anni di attività chemiosimbiotica. Quindi, in acque basse la storia sembra essere diversa. Con questa consapevolezza, il ritrovamento di Orciano ha fornito l’opportunità di condurre uno scavo con lo scopo di recuperare uno scheletro fossile e quante più informazioni possibile sulla comunità fossile associata. Il risultato ha ripagato delle aspettative, fornendo indicazioni su una successione ecologica simile a quelle di mare profondo, ma con alcune sostanziali differenze. La balena (o balenottera) di Orciano giace sulla pancia ed è ben articolata, ma le ossa non sono in buono stato di conservazione. Lo strato superficiale (corticale) è spesso mancante e quello spugnoso sottostante è molto fragile, con un colore diverso da quello origi- WFC fossili sono state documentate da ricercatori giapponesi in ossa di età miocenica (22-5 milioni d’anni fa), associate a bivalvi specialisti di ambienti riducenti profondi come vesicomye e bathymodioline (i bivalvi sono molluschi dalla conchiglia carbonatica facilmente conservata allo stato fossile), trovate in sedimenti di ambiente profondo. Alcune carcasse impiantate artificialmente da ricercatori inglesi e svedesi hanno mostrato che Osedax vive anche in acque basse, fino a soli 30 m di profondità. Tuttavia non è stato documentato finora lo stadio solfofilico in acque basse, quello più ricco di complicate specializzazioni biologiche. D’altra parte da più di un secolo gli strati pliocenici (5-1,5 milioni d’anni) che affiorano estesamente in Italia hanno restituito scheletri anche completi di grossi misticeti La balena di Orciano appartenenti alle fami- 11 nale per la presenza di ossidi di ferro. Le vertebre toraciche mancano completamente, probabilmente a causa della completa dissoluzione in loco. Il cranio, articolato alle vertebre cervicali, è pure profondamente consumato, rendendo difficile il riconoscimento tassonomico del cetaceo. Le mandibole giacciono una a fianco del cranio, l’altra ruotata di 90°. Le ossa degli arti sono alterate superficialmente, mentre sono ben conservate le poche falangi ritrovate (i cetacei hanno un numero di falangi più elevato degli altri mammiferi). Sotto uno degli arti è emerso un grosso dente di squalo bianco (Carcharodon carcharias) e le ossa del timpano presentano incisioni prodotta da denti simili a quello ritrovato. Altri denti appartenenti allo squalo azzurro (Prionace glauca) sono stati trovati nelle vicinanze. Tra i carnivori tre grossi esemplari di crostacei decapodi. I molluschi sono ovunque abbondanti e con molte specie: grossi predatori, piccoli e numerosi necrofagi tra i gasteropodi, filtratori e depositivori tra i bivalvi. Tra questi ultimi troviamo infine la specie più significativa ai fini della comprensione della successione ecologica, il lucinide Megaxinus incrassatus, abbondante nella zona del torace e del cranio, con le valve articolate e in posizione di vita. I lucinidi sono organismi chemiosimbiotici, ospitando nei filamenti delle branchie colonie di batteri solfofilici e per questo sono abbondanti in ambienti ricchi di materia organica e riducenti, sia in acque basse (ad esempio presso le praterie di Posidonia) sia in profondità. Tramite correnti create all’interno delle cavità dove si trovano le branchie, Megaxinus pompa acido solfidrico dal fondale riducente e con esso nutre la flora batterica, mantenendo tale liquido separato dall’acqua ricca di ossigeno utilizzato per la respirazione. 12 Cosa è successo su quel fondale marino riemerso dopo 3 milioni di anni? La moderna distribuzione batimetrica di molte specie ritrovate ci rivela che la profondità di sedimentazione era compresa nell’intervallo tra 50-150 m, quindi a profondità alle quali non è a tutt’oggi noto come si strutturi una comunità presso una carcassa di balena. L’abbondanza di tracce e resti lasciate dagli squali rivela che pesci lunghi anche 4 metri hanno dato l’avvio al banchetto, consumando le carni prima della decomposizione. Perché diciamo ‘prima’? Perché grossi predatori che strappano carne da un animale anche solo parzialmente decomposto non lascerebbero uno scheletro ben articolato come quello di Orciano (la decomposizione indebolisce le giunture articolari). Perché lo squalo bianco preferisce comunque attaccare prede vive e non è annoverato tra gli spazzini. I grandi pesci cartilaginei hanno quindi dato inizio alla fase degli spazzini, ma non sono stati i soli attori. Lo stato delle ossa può essere inteso come indice dell’opera estensiva di Osedax, come prova il confronto con gli analoghi attuali brevemente raccontati sopra. In questa ricostruzione, i vermi mangia-ossa avrebbero eroso il cranio fino a cancellarne ogni asperità e le vertebre toraciche fino a farle scomparire, indebolendo ovunque la struttura dei tessuti spugnosi. Ipotesi alternative come l’abrasione di origine meccanica sono da escludere, nuovamente a ragione dell’alto grado di articolazione dei resti. Quindi all’azione dei necrofagi si è affiancata e ha seguito quella degli opportunisti, tra i quali possiamo contare i depositivori. Possiamo aggiungere che l’azione è stata più intensa nella zone toracica e cranica, probabilmente a causa della maggiore quantità di materia organica presente. In queste stesse zone si è passati allo stadio di produzione di acido solfidrico e ad un ambiente riducente favorevole alla proliferazione di Megaxinus e dei suoi chemiosimbionti, il terzo stadio di una tipica WFC, anche se priva delle forme specializzate incontrate negli ambienti riducenti profondi. Rimane solo un’ipotesi la presenza dell’ultimo stadio di ‘scogliera’ avendo trovato solo filtratori mobili, non necessariamente legati alla presenza di ossa sul fondo. Ambienti riducenti in acque basse L’insieme dei fossili studiati a Orciano Pisano costituisce la prima documentazione che la successione ecologica di una WFC in acque basse è analoga a quella riconosciuta presso WFC profonde. Nello stesso tempo rivela che i molti specialisti dello stadio solfofilico e di altri habitat riducenti incontrati negli abissi sono assenti in piattaforma. Alcuni ricercatori, lavorando su altri ambienti riducenti, propongono che la ragione di una tale assenza sia da ricercarsi nella più intensa pressione ecologica causata da competizione e predazione. In acque basse, dove il fondale è raggiunto da luce più o meno viva, la catena alimentare è incentrata sulla fotosintesi. La grande quantità di materia organica distribuita in modo stagionale favorisce la diversità degli adattamenti e la competizione per le risorse, originando una maggiore diversità di specie e quindi una pressione ecologica sulle forme adattate agli ambienti riducenti maggiore che in ambienti profondi afotici. Tra queste i bivalvi lucinidi sono presenti in ambienti di piattaforma continentale dal Palezoico inferiore (Siluriano: 415-440 milioni di anni), occupando le stessa nicchia ecologica nella quale vivono oggi. Sembrano pertanto aver avuto una la prerogativa sulla chemiosimbiosi ben prima dell’evoluzione dei cetacei (Eocene: 55-35 milioni di anni) e tra questi delle grandi balene che solcano gli oceani (Oligocene: 3522 milioni di anni fa). Non così nei fondali oceanici, dove la competizione è più trascurabile e dove le grandi quantità di materia organica che si rendono disponibili in poco tempo, in uno spazio limitato circondato da un ‘deserto’, costituiscono un laboratorio evolutivo ben più efficace, fonte di nuovi adattamenti e di stili di vita altamente specializzati. Il patrimonio fossile in genere, e quello italiano in particolare, costituiscono un’importante fonte di informazioni sull’ecologia di organismi difficilmente raggiungibili in ambienti moderni, fornendo alla conoscenza una dimensione temporale profonda a sostegno delle teorie evolutive e delle tappe attraverso le quali si è diversificata la vita nel nostro pianeta. Una buona ragione per dedicare una vita alla paleobiologia. ◊ Bioinformatica; i database della conoscenza scentifica Francesca Tatini E ra il 1970 quando fu pubblicato il primo algoritmo in grado di con frontare due sequenze di DNA; solo 26 anni dopo una liceale sedicenne può identificare un gene umano sconosciuto semplicemente collegandosi alla rete dal suo PC di casa, come è in effetti accaduto nel luglio scorso.L’enorme avanzamento nella produzione di dati che si è avuto negli ultimi vent’anni è dovuto in massima parte allo sviluppo della tecnologia informatica. Una delle conseguenze più eclatanti è che oggi su internet sono presenti, e accessibili a tutti, le banche dati in cui è presente il genoma umano, completamente sequenziato e comparabile con il DNA di altre specie. La bioinformatica è una disciplina giovane, rappresentata dalle applicazioni di tecniche e supporti informatici alle varie aree della ricerca scientifica. Pur trattandosi non di una scienza ma di un insieme di tecniche, le dimensioni del suo sviluppo e la profondità con cui sta modificando tempi e modi della ricerca scientifica meritano sicuramente una riflessione. Un po’ di storia… Il nostro DNA è caratterizzato da un insieme di sequenze nucleotidiche, oggi completamente sequenziate (il genoma), che contiene le informazioni per l’organizzazione e il funzionamento delle nostre cellule, e quindi dell’intero organismo. Gli acidi nucleici e le proteine hanno la particolarità di essere costituiti da sequenze lineari di unità, rispettivamente dai nucleotidi e dagli amminoacidi, che possono essere rappresentate da singole lettere; in questo modo le sequenze possono essere codificate e utilizzate come una stringa di caratteri attraverso programmi informatici. Dal momento che una particolare sequenza ha anche un significato biologico, che, per quanto sia più complesso, è racchiuso nella sequenza stessa, il dato informatico può essere utilizzato per ottenere informazioni; le informazioni ottenute, se correttamente manipolate e interpretate, avranno anch’esse un significato biologico. Le prime sequenze di DNA vennero sequenziate negli anni ’70, periodo in cui si iniziò quindi a sentire la necessità di una qualche forma di archivio per un insieme di informazioni, quello appunto delle sequenze nucleotidiche, che già si profilava di notevole mole; è proprio in questi anni infatti che nacque la bioinformatica. Il primo database fu quello della National Biomedical Research Foundation e raccoglieva dati relativi alle sequenze proteiche che erano state pubblicate fino ad allora. Nel 1970 nacque il primo algoritmo in grado di confrontare fra loro due sequenze estrapolando il migliore allineamento, ossia la migliore combinazione fra le due sequenze dal punto di vista della somiglianza. Nel 1971 nacque invece il primo programma per visualizzare le regioni di maggiore o minore similarità fra sequenze diverse. elica del DNA 13 La comparazione fra le sequenze è un punto centrale: se alla similarità fra due sequenze corrisponde una similarità dal punto di vista funzionale, è evidente come lo studio comparativo delle sequenze possa fornire dati di grande valore. L‘analisi delle regioni simili infatti è fondamentale sia per identificare un percorso evolutivo fra le diverse sequenze analizzate, sia per ipotizzare funzioni plausibili per una sequenza dal significato sconosciuto. A seguito del completamento del genoma umano, avvenuto nel 2000-2001, sono stati svolti numerosi studi che hanno permesso di rilevare la sequenza di moltissimi geni umani sconosciuti, che codificano per proteine dalla funzione altrettanto ignota. A partire dalla sequenza nucleotidica è possibile risalire alla sequenza amminoacidica di queste proteine, ovvero a quella che si definisce struttura proteica primaria; in seguito, per capire come la proteina svolga la propria funzione, è utilissimo, quando non essenziale, confrontarla con altre proteine simili dal punto di vista della sequenza, la cui funzione è già nota. L’analisi della similarità fra proteine diverse, e quindi dell’allineamento rilevato dai programmi informatici, è quindi un passo fondamentale per lo studio delle proteine, della loro evoluzione e delle loro funzioni. A partire dai primi anni settanta fino ad arrivare ai giorni nostri, la mole di programmi e banche dati è cresciuta in modo esponenziale, ben oltre la crescita delle pubblicazioni scientifiche, rappresentando di fatto una realtà di riferimento essenziale per qualsiasi ricercatore. 14 Le banche dati Le banche dati di cui la ricerca in campo biologico fa un maggiore utilizzo sono quelle che raccolgono le sequenze nucleotidiche del DNA o le sequenze amminoacidiche delle proteine. Una banca dati di questo tipo è organizzata un po’ come lo schedario di un ufficio, e raccoglie quindi moltissime informazioni fruibili in maniera semplice e veloce. Le due maggiori banche dati al momento sono rappresentate da quelle dell’americano N.C.B.I. (National Center for Biotechnology information) e dell’europeo E.B.I. (European Bioinformatics Institute. I database rappresentano lo strumento attraverso il quale la bioinformatica opera nel campo che ha modificato più di ogni altro: quello della comunicazione scientifica. È infatti evidente come la possibilità di accedere a informazioni così preziose e sofisticate da parte di chiunque abbia ampliato la gamma di interventi in un campo che prima era appannaggio esclusivo di pochi scienziati esperti. Tutto ciò che è necessario possedere o utilizzare per confrontarsi con questi dati è un computer, una connessione a internet e qualche informazione essenziale. Per verificarlo è sufficiente accedere al sito http://www.ncbi.nlm.nih.gov/ BLAST/; BLAST è il programma attualmente più utilizzato per effettuare ricerche nelle banche dati al fine di identificare il migliore allineamento fra sequenze selezionate. Sul sito segnalato è presente anche un tutorial (in inglese) che consente di acquisire le informazioni necessarie per l’utilizzo del programma. Certamente la fruizione di questi strumenti necessita di una certa familiarità dell’utente con le nozioni basilari della biologia molecolare e della navigazione in rete, ma il livello richiesto è tale da consentirci di definire popolare la diffusione delle informazioni. La rivoluzione bioinformatica delle conoscenze scientifiche è solo all’inizio, la necessità di rendere sempre più immediata la consultazione delle banche dati consente infatti di guardare al futu- ro con entusiasmo; già oggi per esempio è possibile risalire, da una sequenza nucleotidica alla proteina da essa codificata e, se nota, alla sua funzione. Inoltre le banche dati riguardano non solo la catalogazione delle sequenze, ma anche un’enorme mole di altre informazioni, dalle pubblicazioni biomediche alle malattie genetiche umane alla tassonomia. Se consideriamo anche la sempre maggiore diffusione delle risorse on line e la nascita di programmi in grado di organizzare i vari tipi di informazione nel modo più funzionale possibile, è chiaro come comunicazione e produzione dell’informazione si evolveranno parallelamente e come dall’interazione fra le due cose potrà nascere un’interessante sfida intellettuale per gli scienziati del nostro tempo. Lo studio della struttura delle proteine Un altro campo modificato in modo radicale dallo sviluppo dell’informatica è quello dello studio della struttura delle proteine.Gli amminoacidi presentano delle caratteristiche chimico-fisiche note che, se analizzate nell’insieme della sequenza che compongono, possono indicare in che modo tale sequenza si dispone nello spazio. È possibile anche rilevare in che modo gli amminoacidi che compongono la sequenza interagiscono fra loro all’interno della struttura proteica tridimensionale; inoltre, a un livello ancora successivo, dallo studio della struttura tridimensionale della proteina si possono identificare le sue interazioni chimico-fisiche con l’ambiente circostante. Attraverso software sofisticati, le cui versioni più commerciali sono disponibili gratuitamente in rete, è possibile visualizzare la struttura di molte proteine e ottenere quindi preziose informazioni che in precedenza si potevano acquisire solo mediante tecniche complesse e dispendiose. Analisi dei dati e dell’immagine Un’immagine digitale è, per definizione, rappresentata da un insieme di dati; di conseguenza è possibile acquisire un’immagine e, in seguito, ottenere informazioni qualitative e quantitative sulla base dell’analisi dei dati relativi all’immagine stessa. Per fare un esempio pratico, molte tecniche di laboratorio si basano sullo sviluppo di reazioni che colorano in modo specifico alcune strutture cellulari o alcune molecole. In seguito all’esecuzione di queste reazioni è possibile fotografare, con una fotocamera digitale posta sul microscopio, le cellule trattate, riportate per esempio su un vetrino da laboratorio. La fotografia riporterà l’immagine ottenuta dalla reazione e conterrà anche i dati relativi alla localizzazione, alla quantità e alla distribuzione del colore, che sono ovviamente rappresentativi del parametro biologico che la tecnica in questione intendeva misurare. Con un software per l’analisi dell’immagine è possibile tradurre queste informazioni, in maniera immediata, in dati facilmente quantificabili e interpretabili. Per esempio, per analizzare quante cellule all’interno di una determinata popolazione contengono una particolare proteina, è possibile effettuare una reazione che porti allo sviluppo di un colore solo nelle cellule che contengono la proteina ricercata; una volta fatto ciò si dovrebbero contare tutte le cellule risultate “positive” alla colorazione. Evidentemente è molto più immediato premere un tasto del computer e lasciare che sia il software a quantificare, in un istante, quante sono le cellule colorate. L’analisi dell’immagine consente di fare molte operazioni che richiedevano tempo e risorse in modo molto efficace ed economico, e rappresenta quindi uno strumento informatico essenziale, del quale probabilmente oggi non potremmo più fare a meno, soprattutto in alcuni campi, come quello dell’immunoistochimica, che fanno un largo impiego di tecniche basate sulla visualizzazione dei risultati sperimentali. Dalla tecnica alla scienza La bioinformatica, per quanto potente, è uno strumento, un insieme di tec- niche, che rende i suoi fruitori comunque in grado di fare “scoperte” che solo uno scienziato avrebbe potuto fare in momenti diversi della storia, e con molta dedizione e fortuna. Ma è proprio questo il punto: oggi chi usa lo strumento, se, come in questo caso, lo strumento è particolarmente semplice, non è necessariamente uno scienziato ma un tecnico. Senza niente togliere a chi svolge un lavoro nobile e fondamentale per la ricerca scientifica moderna, anche le scoperte che derivano dalle applicazioni della bioinformatica sono spesso non vere e proprie scoperte ma semplicemente dati aggiuntivi. Questa distinzione, per quanto scontata, merita di essere sottolineata perché è andata via via scomparendo dalla coscienza scientifica comune, e soprattutto dalle pagine dei giornali. Da essa inoltre nasce la consapevolezza di quanto sia oggi necessario tornare ad una figura che sia insieme tecnico e scienziato, al contrario di quanto sembra avvenire nei laboratori di ricerca e nelle Università, non per responsabilità personali ma a causa di un sistema che premia la produttività prima di tutto, l’acquisizione di dati più della speculazione sulle leggi che governano la realtà. La bioinformatica fa emergere questa tematica in modo particolarmente evidente. Grazie agli strumenti che essa fornisce è infatti possibile trovare nuovi dati semplicemente utilizzando uno strumento, senza necessariamente conoscere ciò che è alla base del dato in questione; in altre parole chi analizza le banche dati che comprendono le sequenze di tutto il genoma umano, può non comprendere la biologia cellulare nel suo complesso, non ne ha bisogno. È così che una liceale milanese ha potuto “scoprire” un nuovo gene umano; senza voler svalutare il suo lodevolissimo lavoro, come quello di altri, questo è un caso evidente in cui siamo di fronte non a una scoperta di concetto, non a qualcosa prodotto da un ragionamento e poi verificato sperimentalmente, ma a un dato nuovo che, solo a condizione di essere utilizzato scientificamente, potrà produrre un avanzamento della conoscenza. La differenza può apparire sottile, forse a posteriori persino inesistente, ma è quella che, almeno secondo il mio pensiero, caratterizza la ricerca scientifica come tale; la differenza è quella che c’è fra chi da una mela che cade intuisce una legge fondamentale e chi, analizzando un elenco di equazioni che rappresentano il moto della mela, scopre che una di esse è plausibile. A fronte dell’affascinante avanzamento della bioinformatica, è bello anche ricordare che non c’è un modo facile per dedicarsi alla ricerca scientifica, lo scienziato studia per anni, in questo paese spesso lo fa quasi gratis e senza crediti né appoggio dalla società, ma è contento di cercare una connessione e un senso fra i dati a sua disposizione, a prescindere dalla tecnica utilizzata per ottenerli, esalta l’importanza dei progressi della tecnologia informatica perché la considera un mezzo straordinario, e non il fine, della sua ricerca. Proprio la bioinformatica può consentire di far emergere collegamenti fra discipline diverse in modo molto più facile e, se di per sé non è una scienza, per uno scienziato è uno strumento formidabile. Se da un lato infatti è pur vero che spesso è il computer che attua i collegamenti e i confronti fra una quantità di dati così enorme che l’uomo non può analizzare, dall’altro è vero anche che non si può prescindere da quell’analisi, sospesa fra il caso e la ricerca, insita nelle scoperte più fortunate, che qualcuno chiama serendipity e che solo la mente umana è in grado di produrre, almeno per il momento. ◊ 15 Descartes Aristotele Leibniz Bolzano Potenziale o attuale? Cantor Nello Mangani Il “cattivo” infinito Bernard Bolzano, matematico e filosofo estremamente acuto, nella sua opera più geniale “I paradossi dell’infinito”1riporta il giudizio sprezzante di alcuni filosofi, tra i quali Hegel2 , che considerano l’infinito dei matematici il “cattivo” infinito pretendendo di conoscerne il “vero” infinito, quello della filosofia prima e della teologia. Trascuriamo il “vero” infinito e occupiamoci dell’infinito dei matematici. In matematica, l’infinitezza è la proprietà che appartiene unicamente alla molteplicità o pluralità, un insieme omogeneo di elementi dello stesso tipo, grandezze e numeri, che sono specificati da un unico concetto. Il «cattivo infinito quantitativo» è l’ infinito potenziale, vale a dire il concetto di infinito contrapposto a quello attuale. Più avanti spiegheremo perché l’infinito dei matematici è considerato “cattivo”, ma procediamo con ordine e proviamo a chiarire le due diverse concezioni dell’infinito, che sono state e sono oggetto di speculazioni, dibattiti, confronti e contrapposizioni. Non c’è filosofo o matematico che non abbia affrontato il problema e non abbia preso posizione, pur con diverse sfumature, per l’una o l’altra concezione. 16 L’illimitato (indefinito) ovvero l’infinito potenziale «I numeri (naturali) non finiscono mai, sono infiniti.» L’idea è così naturale e spontanea da ritenere che sia nel bagaglio genetico di ciascuno. Se si aggiunge uno ad ogni numero si ottiene un numero più grande e non esiste un numero più grande di tutti, ed è possibile continuare l’operazione quanto si vuole, senza fine, in un processo inesauribile. Non possiamo immaginare l’insieme di tutti i numeri in quanto è illimitato nel senso che, volendo individuarne uno ad uno tutti gli elementi, non si riesce a formare un tutto perché c’è sempre e in ogni caso, qualche elemento che non avremo considerato. Forse non ne siamo consapevoli, ma concepiamo l’insieme dei numeri come un insieme illimitato, un infinito potenziale. Un’idea questa che ha radici lontane ed è dominante almeno fino alla fine del XIII secolo, ma che non è l’unica. Nel mondo greco, infatti, si allude all’infinità con il termine (apeiron) che letteralmente vuol dire «senza limiti», ossia «illimitato»3 e che appare per la prima volta nella filosofia di Anassimandro4 . All’ è associata un’idea negativa, espressione di incompletezza e di potenzialità non attuata e non attuabile; sarebbe consigliabile tradurre il termine con «indefinito», o con «illimitato», piuttosto che con «infinito» in quanto in passato, come vedremo in seguito, non sempre è chiara la distinzione tra limitatezza e infinità, nella terminologia attuale, tra l’infinito limitato (attuale) e l’infinito illimitato (potenziale). Nella matematica greca, salvo rare eccezioni, non è introdotto l’infinito. Aristotele è consapevole delle due concezioni dell’ , usa i termini per l’infinito in potenza o infinito potenziale, e per l’infinito in atto o infinito attuale. Nel Medioevo si inventa una originale formula per distinguere tra le due concezioni dell’infinito. Petus Hispanus5 , nel settimo trattato delle Summulae logicale, intende l’infinito in due modi distinti; usa il termine «categorematico» per designare qualcosa che è più grande di qualsiasi grandezza finita esistente, qualcosa di simile all’infinito attuale, mentre con «sincategorematico» esprime l’idea di infinito potenziale aristotelico, privato però del termine (potenza), ritenuto ambiguo e in un certo senso contraddittorio, all’ in quanto si ritiene che il termine (potenza) presuma un fine, un orientamento, all’indefinito che implica invece disordine e casualità. Contorcimenti filosofico-linguistici di cui è piena la storia del concetto di infinito. L’illimitato, dai Presocratici alla sistemazione aristotelica, è manipolato con estrema cautela nei procedimenti del pensiero discorsivo ed è sempre trattato da infinito potenziale, concepito nel segno della «negazione » (non-esistenza), vale a dire ciò che non può contenere L’ I significati che tradizionalmente sono attribuiti all’ si ricavano dalle affermazioni di Aristotele6 che ne rivelano la na- tura, da un lato divina e incorruttibile, dall’altro ambigua e refrattaria ad ogni accostamento e tentativo di comprensione. «.. esso non ha principio ma sembra essere esso principio di tutte le altre cose..», per natura divino «…ingenerato e incorruttibile,…. immortale e indistruttibile..».7 L’illimitato esiste: il tempo è illimitato e così pure la divisione delle grandezze. La specificità dell’ è l’inesauribilità: «…siccome non sono mai pienamente esaurite nel pensiero il numero e le grandezze matematiche e tutto quel che c’è oltre i cieli pare siano illimitati»8. Aristotele si esprime in questi termini: «L’ non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa.»9 Di conseguenza, l’indefinito, in nessun caso, può essere pensato come un tutto completo dato che non ha una fine, ossia un elemento limitante, , (limite). Ed è il limite ciò che fa esistere concretamente ogni oggetto e che determina un ordine logico agli eventi e ne evita la casualità. Se da un lato il divenire temporale sembra , costituire il campo di azione dell’ d’altro, l’esistenza di un insieme illimitato si spiega con l’idea che gli elementi non esistono tutti simultaneamente ma esistono uno dopo l’altro in un susseguirsi interminabile. Infinito illimitato e infinito limitato. Aristotele, nel libro III della Phisica, tratta la questione dell’infinito al fine di stabilire in quale modo sia possibile ammettere l’esistenza di grandezze infinte. Egli osserva che, secondo l’accezione comune, una grandezza si dice infinita se è maggiore di qualunque altra e nessun’altra può essere maggiore di essa. In questo senso, nessuna grandezza sensibile è, o può essere, infinita in atto o in potenza, in quanto, necessariamente limitata , non può essere aumentata oltre ogni limite. Non esistono grandezze attuali infinitamente grandi. Una grandezza può essere infinita per divisione (o per sottrazione) e per addizione10 È infinita per divisione in quanto divisibile illimitatamente11; è infinita per addizione in quanto la si può immaginare formata da un numero infinito di altre grandezze. «Ciò che è infinito per addizione, in un certo senso, è allo stesso modo infinito di quello per divisione; giacché in una cosa finita si ha l’infinito per addizione in un modo inverso [a quello in cui si ha l’infinito per divisione]. A quel modo infatti che la divi- sione tende all’infinito, allo stesso modo con l’addizione si ritorna al finito. Infatti, data una grandezza limitata e presane una determinata parte, se questa si aumenta nello stesso rapporto, ma in modo che non si aggiunga sempre una medesima grandezza alla totale [risultante dalle successive grandezze aggiunte], non si arriverà mai al termine della grandezza limitata. Se invece il rapporto si aumenta in maniera che si aggiunga sempre una medesima grandezza, si arriverà al termine; perché ogni grandezza limitata vene esaurita da una qualsiasi determinata parte di essa. E così dunque non si ha altro modo l’infinito , ma in questo modo soltanto: cioè in potenza e per sottrazione»12 In altre parole, Aristotele considera una grandezza limitata infinita per sottrazione ma, di conseguenza , anche infinita per addizione nel senso che si può considerare l’infinità esauribile in essa. Sul concetto di infinito per addizione Aristotele insiste spiegando che è da escludere la possibilità di un altro infinito per addizione che possa dar luogo ad una grandezza infinitamente grande sia pur potenziale. «In questo modo si ha un infinito potenziale anche per addizione, il quale in un certo senso diciamo essere lo stesso che quello per divisione; ché ci sarà sempre qualche cosa di esso da prendere fuori di esso. Però esso mai oltrepasserà tutte le grandezze limitate, come quello per divisione oltrepassa qualsiasi grandezza limitata e diventa più piccolo. Di modo che per addizione non è possibile superare ogni grandezza neppure in potenza»13 Vale a dire, con la divisione si possono ottenere grandezze sempre più piccole di qualunque grandezza data e quindi la possibilità di grandezze infinitamente piccole ma è da escludere la possibilità di grandezze infinitamente grandi. Ma ciò non vale per i numeri: «Con buona ragione si ammette, che per quanto riguarda l’infinito nei numeri, esiste un limite verso più piccolo e verso il più [grande] si può superare ogni moltitudine; e che al contrario, nel caso delle grandezze verso il più piccolo si può oltrepassare ogni grandezza, verso i più grande non esiste una grandezza infinita» L’infinitamente piccolo Dunque , c’è l’illimitato, ma c’è anche l’infinito limitato e l’infinitamente piccolo. Le teorie di Democrito14 e di Epicuro15 sono riferite alla materia, gli atomi che sono le parti elementari che la costituiscono sono piccoli ma non infinitamente piccoli. Un implicito accenno all’infinitamente piccolo lo si può trovare in Anassagora16 che definisce illimitato il caos in cui nulla esiste e le forme non sono ancora concepite. In un frammento , tramandato da Simplicio scrive «insieme erano tutte le cose, illimiti per quantità e per piccolezza poiché anche il piccolo era illimite». Il riferimento è alle omeomerie, entità costituenti i corpi, che sono in quantità infinite, ma diversamente dagli atomi, infinitamente divisibili. In questo passo: «del piccolo non c’è un minimo sempre un più piccolo» come pure «anche del grande c’è sempre un più grande e per quantità è uguale al piccolo..» l’allusione all’ infinitamente grande e all’infinitamente piccolo. Ma anche nei tentativi Antitonte17 e Brisone18 di quadratura del cerchio 19, trovare un quadrato di area uguale a quella di un cerchio, si fa ricorso ai concetti di infinitamente piccolo e infinitamente grande e anche se l’infinito è potenziale se ne intravede la possibilità di una diversa concezione. Antifonte, sofista, indovino e scrittore di versi e contemporaneo di Socrate, argomenta che un arco minimo non si distingue da una porzione minima di retta e quindi un poligono regolare con un numero illimitato di lati non si distingue da una circonferenza e poiché è possibile costruire un quadrato di area uguale a quella di un qualunque poligono regolare è possibile quadrare il cerchio20. L’insieme dei poligoni iscritti nella circonferenza è un insieme illimitato nel senso che, dato un poligono di un numero qualunque di lati di lunghezza data inscritto nella circonferenza, se ne può sempre iscrivere un altro con un numero di lati maggiore ma di minore lunghezza. Il numero dei lati dei poligoni inscritti è infinitamente grande, la lunghezza dei lati è infinitamente piccola, ossia è minore di una qualunque lunghezza data. Un altro classico esempio è il primo argomento di Zenone 21 con17 tro il moto. In esso si sostiene che chi voglia percorrere una unità di lunghezza non potrà mai portare a compimento la sua impresa perché dovrà percorrere la succes sione infinita di intervalli in cui l’unità è divisibile per dicotomia. Chi vuole arrivare a 1 partendo da 0 dovrà prima raggiungere ammettere che è possibile ridurre l’area della regione residua tra il cerchio e il poligono a una grandezza arbitrariamente piccola senza introdurre il concetto di un insieme attualmente infinito. Allo stesso modo, nell’argomento di Zenone non si ammette che la somma di 1 , poi 2 sia uguale a 1. Aristotele sostiene che i matematici, nelle loro dimostrazioni, non hanno bisogno di grandezze attualmente infinite in quanto ciò non pregiudica il conseguimento dei risultati. Tuttavia nel pensiero classico si intravede la possibilità di liberare l’infinito dalla negatività specifica dell’essere potenziale, dall’esame dei metodi si può individuare la premessa di una diversa concezione dell’infinito. Per esempio, la successione dei poligoni non è arbitrariamente indeterminata, ma è orientata, pur nell’indeterminatezza, verso un limite rappresentato dalla circonferenza che, pur non costituendo un termine effettivo della successione dei poligoni, rappresenta comunque una soluzione all’indefinita potenzialità di sviluppo. È quindi possibile configurarsi concretamente la soluzione finale di un processo illimitato pur non rinunciando al carattere potenziale di quest’ultimo. Il limite non è un termine della successione e perciò non è una semplice approssimazione del risultato della somma infinita, ma si può raggiungere rinunciando all’analisi indefinita della successione e ponendosi in un punto di riferimento esterno. 1 1 3 + = e ancora 2 4 4 1 1 1 7 + + = 2 4 8 8 e così di seguito. 1 1 1 1 + + + ... + n + ..... 2 22 23 2 I termini della successione sono infiniti 1 1 1 1 , , ,... n ..... ma di am2 2 2 23 2 piezza sempre più piccola Verso una diversa concezione dell’infinito: il limite Il punto di vista aristotelico rimane nella sostanza rispettato nei procedimenti di Eudosso 22, di Archimede23 e di Euclide 24, quest’ultimo, ad esempio, formula il III postulato degli Elementi in questi termini: «E che una retta limitata si possa prolungare continuamente in linea retta e nella proposizione 20 del libro IX : “I numeri primi sono più di una qualsiasi assegnata moltitudine di numeri primi” Anche Antifonte, nel tentativo di della quadratura del cerchio, non ammette alcun termine finale ma solo un indefinito sviluppo, l’insieme dei poligoni non può comprendere un termine conclusivo, un poligono limite che coincida con la circonferenza, in quanto con ciò si ammetterebbe l’esistenza attuale dell’infinità dei poligoni contraria alla concezione dell’illimitato. E’ sufficiente, però, 18 infiniti termini 1 1 1 1 + + + ... + n + ..... 2 2 2 23 2 Esiste l’infinito attuale ? Nel tempo si forma la convinzione che l’infinito possa esistere come totalità attuale. È lunghissimo l’elenco di coloro che avvertono l’esigenza di un infinito statico che non sia un puro sinonimo di divenire temporale. Per avere l’idea dell’infinito passibile di essere pensata, nominata o designata con un simbolo, come ogni altra cosa concreta, si deve risalire a Renè Descartes25, il primo a cambiare punto di vista e a concepire l’infinito in un modo da influenzare il pensiero successivo. Nella prima metà del XVII secolo ci si adopera per dimostrare l’inesistenza di insiemi infiniti, in particolare, Mersenne26, amico di Descartes, sostiene che non può esistere una linea infinita in quanto esistendo dovrebbe contenere infiniti piedi ma anche infinite tese, (una tesa è sei volte più grande di un piede) e l’insieme infinito di tese dovrebbe paradossalmente contenere come sua parte propria l’insieme infinito dei piedi. Dunque, la linea non può esistere poiché se esistesse dovrebbe contenere due insiemi infiniti di cui uno più “grande” dell’altro. Descartes, in una lettera del 1630, dichiara di accettare il contenuto paradossale dell’argomentazione ma non la conclusione, sostenendo che non si può estendere a insiemi infiniti la relazione d’ordine stabilita per insiemi finiti, come quella tra tesa e piede. L’infinito è paradossale proprio perché ad esso non sono applicabili le relazioni di confronto che spettano al finito. Due secoli dopo Cauchy 27 riprende il ragionamento di Mersenne con lo stesso proposito: dimostrare l’inesistenza di insiemi attualmente infiniti. Citando un esempio che egli attribuisce a Galileo, vuole dimostrare l’inesistenza dell’insieme dei numeri (naturali). Se si assume come dato l’insieme dei numeri esso contiene come parte propria l’insieme dei quadrati dei numeri e i due insiemi infiniti hanno lo stesso numero di elementi ( n n2) ma d’altra parte l’insieme dei quadrati è solo una parte dell’insieme più “grande “ formato da tutti i numeri interi. Per Cauchy , l’atto per esistere deve essere finito. Non è possibile contare tutti i numeri, uno per uno, fino ad arrivare ad un termine conclusivo senza sentirsi costretti a pensare di aver agito come fosse una totalità finita, come se, invece di aver contato tutti i numeri ne fossero stati contati mille o un milione. In effetti, concezione potenziale dell’infinito come quantità illimitata più grande di qualsiasi limite prefissato, ma che resta attualmente finita, è conseguente alla negazione, mai perfettamente compiuta, del finito e quindi, proprio perché l’infinito è definito per negazione del finito non-finito → infinito che è considerato un «cattivo infinito». Si deve a Dedekind28 il capovolgimento della definizione. Egli usa il paradosso di Cauchy, non come prova dell’inesistenza dell’insieme infinito, ma come contenuto per la definizione dello stesso: Un insieme è infinito se è posto in corrispondenza biunivoca con una parte propria. Proprietà questa peculiare di insiemi infiniti per cui non deve meravigliare il fatto che i numeri possano essere posti in corrispondenza biunivoca con i loro quadrati (n n2) o coi numeri pari (n 2n) e una retta essere in corrispondenza biunivoca con un segmento. Con la definizione di insieme infinito è l’insieme finito ad essere definito per negazione non-infinito → finito Tuttavia Descartes non arriva ad ammettere la possibilità di comprendere l’infinito tutto intero. Egli ragiona in questi termini: se concepiamo “qualcosa” non è possibile concepire l’infinito proprio perché l’infinito trascende qualsiasi cosa concepita, ma di ciò siamo consapevoli e proprio questa consapevolezza rivela l’esistenza dell’idea. L’infinito, pur non essendo riferibile ad alcuna cosa concreta, ha un contenuto di oggettività, diventa accessibile almeno come idea esprimibile con parole. L’altro aspetto dell’infinito di cui Descartes è anticipatore è legato al concetto di continuità dello spazio. In una lettera a Desargues29 , condivide l’idea di considerare le rette parallele come caso limite di rette incidenti e, come queste, hanno un punto in comune anche le rette parallele hanno qualcosa in comune che è la «direzione» che Desargues chiama «punto all’infinito». I punti all’infinito si possono giustificare con l’applicazione particolare del cosiddetto principio di continuità che Leibniz30 formula successivamente in questi termini: se la differenza tra due casi o configurazioni può diminuire al di sotto di ogni livello effettivamente assegnabile in dati concreti, allora è necessario che tale differenza possa trovarsi diminuita al di sotto di ogni quantità assegnata anche in quelle configurazioni che non possono esistere «in concreto» ma solamente cercate e immaginate come risultato di una variazione continua. Ciò che le rette hanno in comune in tutte le configurazioni intermedie deve esistere anche nell’ultima conseguenza della variazione, rappresentata appunto dal parallelismo. Tale deduzione, inconfutabile sull’esistenza dell’infinito, si basa sulla continuità dello spazio nell’accezione intuitiva ed è il risultato di un’idea di infinito opposta a quella di Aristotele. Sul principio di continuità Leibniz definisce il differenziale e lo fa in modo esclusivamente geometrico. Data una curva C rappresentata in un piano cartesiano, se dx e dy rappresentano le corrispettive variazioni finite nel passaggio dal punto P di coordinate x e y al punto Q di coordinate x+dx e y+dy, entrambi sulla curva C e ∆x un segmento fissato, si può definire una quantità ∆y con questa relazione In cui dx/dy è la tangente dell’angolo formato della retta passante per P e Q e dall’asse x. Se dx diminuisce fino ad avvicinarsi allo zero, il rapporto dx/dy diventa il rapporto tra grandezze molto piccole, se poi dx si annulla definitivamente la retta c, attraverso infiniti passaggi intermedi, coincide con la retta tangente t. alla curva in P. Ciò significa, spiega Leibniz, che anche la quantità ∆y può essere definita anche con dx=0, poiché il rapporto ∆y/ ∆x in tal caso deve coincidere con la tangente dell’angolo dalla retta t con l’asse x e rimane un rapporto finito anche se dx=0 e di conseguenza in questo caso il rapporto dx/ dy significa qualcosa che non può essere espresso assegnando a dx un valore nullo ma deve essere espresso da un concetto che si riferisca allo zero conservando la visibilità del simbolo. È questo il concetto di infinitesimo e in tal caso si dice che dx e dy sono infinitesimi e risulta naturale ritenere l’infinitesimo una quantità più piccola di qualsiasi quantità finita assegnata. Applicando il principio di continuità è possibile supporre che ci sia una configurazione finale di una successione infinita di casi intermedi, ma Leibniz non immagina la configurazione finale un limite, come successivamente lo intende Weierstrass31, ma come una configurazione cui è possibile avvicinarsi indefinitivamente senza raggiungerla. È un ritorno al riferimento temporale in perfetta assonanza con Aristotele. La meta finale di un percorso illimitato è l’apparente dimostrazione dell’esistenza dell’infinito attuale e in questa prospettiva una curva è come una linea poligonale con un numero infinito di lati e la somma infinita di numeri si può estendere al caso “continuo”, ad una somma infinita di differenziali, cioè l’integrale pensato come infinità attuale. Leibniz parla degli infinitesimi come di «finzioni», entità immaginarie non corrispondenti a cose esistenti al di fuori della mente. All’occorrenza in sostituzione di essi si possono usare espressioni quali «piccolo quanto occorre affinché l’errore sia più piccolo di qualsiasi errore assegnato», sostituendo , di fatto, all’infinito attuale dell’infinitesimo, l’infinito potenziale delle dimostrazioni per esaustione di Eudosso e Archimede. Euclide giudica confrontabili 32, solo le quantità omogenee di cui una può diventare più grande dell’altra se moltiplicata per un numero33. Due grandezze che differiscono per un infinitesimo sono uguali in quanto non confrontabili poiché qualunque multiplo di un infinitesimo rimane minore di una qualunque grandezza finita assegnata 34. La nozione di infinitesimo rimane nel linguaggio matematico anche dopo Weierstrass e viene usata come finzione didattica. Nel ‘700 si discute sui fondamenti metafisici del differenziale e del principio di continuità ma persiste la convinzione che l’idea dell’infinito deve affermarsi e consolidarsi nel linguaggio matematico. Nella prima metà dell’800, Bolzano si convince dell’esistenza dell’infinito almeno come realtà intellettuale. Egli perviene alle conclusioni simili a quelle di Descartes ma sostiene tesi decisamente più audaci. Le idee non sono in generale qualcosa di “esistente” ma semplicemente “qualcosa” che non cessa di esistere realmente anche quando non sono pensate. Ci sono anche le «idee oggettive» in quanto inequivocabili cui tuttavia non corrisponde alcun oggetto concreto, per esempio «nulla», «0», «√-1». La determinazione di una cosa qualsiasi non deve basarsi necessariamente sull’effettiva esistenza di un oggetto e l’infinito non è un’eccezione, e anche se esso non è determinabile come descrizione degli elementi nondimeno esistono metodi che consentono di definirlo senza ambiguità. Dalle tesi espresse nel I paradossi dell’infinito comincia ad essere sottointeso che i legittimi depositari del concetto di molteplicità infinita sono i matematici. A Bolzano si deve anche un’in19 novazione finalizzata a ridurre al minimo i vincoli ontologici del linguaggio, l’abbozzo di una logica capace di ridimensionare i proble mi di esistenza. Egli distingue tra i diversi tipi di proposizioni esistenziali. Dire «A esiste» non è lo stesso che dire «c’è un A», infatti, nella prima espressione, diversamente dalla seconda, l’esistenza appare come predicato e «c’è un A» allude al fatto che l’idea «A» ha referenza, come dire «c’è l’ippogrifo» non significa che l’animale esista davvero. Insieme attualmente infinito Una classe di oggetti è definibile a prescindere dal fatto che sia finita o infinita, all’idea spetta la coerenza in virtù del principio del terzo escluso: una cosa è determinata o determinabile se soltanto uno dei due attributi (a è nona) appartiene ad essa. Bolzano confida nell’infinito attuale convinto che l’atto mentale di concepire un’insieme non produca contraddizioni logiche. I fatti lo smentiranno e determineranno la rinuncia ad ogni tentativo di dare una definizione di insieme, tuttavia le idee di Bolzano anticipano un periodo dell’800 in cui si inventa un linguaggio matematico, quello della teoria degli insiemi, che dell’infinito intende formare una totalità attuale e statica (infinito attuale), non governata dal divenire temporale. Infatti, termini infiniti possono essere definiti mediante leggi di formazione (costruzione) che rendono superflua l’enumerazione dei termini stessi. Per esempio gli infiniti termini della successione possono essere individuati esibendo il termine generico oppure mediante la legge di costruzione (induzione o ricorrenza) con cui si individua il primo termine e ogni altro a partire dal 20 precedente Anche la definizione di funzione continua in un punto: “f(x) è continua in x=c intendendo che converge a f(c) quando x si avvicina indefinitamente ad c” che suggerisce l’idea del divenire e della potenzialità può essere sostituita da quella di Weierstrass in cui l’uso di ε e δ mostra l’esigenza di staticità: “Per ogni ε positivo esiste un δ positivo tale che per tutti gli x, con in cui termini chiave della definizione: ogni, esiste, tutti, indicano totalità infinite e statiche non soggette all’inesauribilità del divenire temporale. Inoltre, anche nella teoria di Weierstrass dei numeri irrazionali, basata sulla nozione di insieme, le operazioni e le relazioni d’ordine sono estese ad aggregati infiniti di numeri razionali e l’’infinità potenziale dello sviluppo di cifre dei numeri razionali è racchiusa in un’entità attuale indipendente dall’idea di successione temporale. Il paradiso di Cantor È però con Cantor 35 che l’infinito attuale assume un ruolo importante nella matematica. Egli rifiuta l’apriorismo kantiano del tempo, l’apriorismo dello spazio non resiste all’invenzione delle geometrie non-euclidee, e stabilisce la priorità dell’idea del continuo. La nozione o l’idea di tempo non deve servire la nozione più primitiva del continuo; l’idea del tempo presuppone, per essere chiaramente spiegata, la nozione di continuità, più primitiva e generale. Il tempo «non può essere concepito né oggettivamente come sostanza, né soggettivamente come idea necessaria a priori». La serie dei numeri non deve essere costruita sull’intuizione dello spazio e del tempo ma deve essere emanazione diretta delle pure leggi del pensiero e non c’è l’esigenza di un unione inscindibile, nel pensiero arcaico, tra numero e tempo (Simplicio36). La crisi dell’apriorismo kantiano risulta decisiva nella matematica di fine ‘800, lo svolgersi di un’aritmetica e di una geometria fuori dal tempo consente una definizione dell’infinito in termini statici che precede una fondazione matematica dell’infinito attuale La svolta arriva con la teoria degli insiemi di Cantor ma alcuni fatti matematici la anticipano riproducendo meccanismi di generazione di numeri che Cantor chiamerà «transfiniti» . Soprattutto merita di essere ricordato, per l’idea che in esso è espressa, il teorema di du Bois-Reymond37 sulle successioni di funzioni crescenti: «Data una qualunque successione numerabile38 di funzioni crescenti f1(x) < f2(x) < f3(x) <…….< fm(x) <.. … esiste una funzione crescente ed effettivamente costruibile f(x) tale che fm(x) <f(x) 39 » Con questo teorema è assicurata l’esistenza di funzioni dominanti un infinità potenziale di funzioni crescenti. Per esempio, sia n un qualunque numero naturale, le funzioni f1(n)=1×n = 1, 2, 3,…….,ν, … f2(n)= 2×n = 2, 4, 6,…….,2ν, … f3(n)= 3×n= 3, 6, 9,…….,3ν, … ……. fm(n)=m×n= m×1, m×2, m×3,…….,m×ν, … …….. …….. costituiscono una successione indefinita strettamente crescente, cioè: f1(n) < f2(n) < f3(n) <…….< fm(n) <.. … Allora esiste una funzione che è «maggiore» di tutte, almeno da un certo termine in poi, per esempio la successione dei quadrati dei numeri naturali f(n)=n2=1, 4, 9, 16, ….,ν2,… e si può continuare con una nuova successione di funzioni: g1(n)=n2=f(n) g2 (n)= n3 g3(n)=n4 …………….. ……………. g m(n)=nm+1 ..................... .................... Ma anche in questo caso esiste una funzione che è «maggiore» di tutte, almeno da un certo termine in poi, per esempio, g(n)=2 n, che può essere generatrice di un’altra successione indefinita di funzioni crescenti maggiorabile da un’ulteriore funzione, h(n), anch’essa generatrice di una nuova successione h1(n)=2n=g(n) h2(n) =22n=g(h1(n)) ……… ……… ........................... In questo modo si ottiene una successione di funzioni f(n), g(n), h(n),…………….. per le quali risulterebbe l’esistenza di una funzione maggiore di ciascuna di esse. Se da un lato il teorema costituisce il “fatto”matematico per esibire l’infinito attuale come evento concreto, ossia l’esistenza di una entità che limita un’infinità potenziale di oggetti ma a cui non appartiene, dall’altro, l’inesauribilità dell’ esclusa dall’indeterminato infinito potenziale, si trasferisce, mediante il meccanismo di generazione, dall’infinito all’oltre infinito, cioè al «transfinito». Nel 1883 Cantor ritiene i tempi maturi per l’introduzione di una nuova specie di infinito, un infinito perfettamente determinato e dunque attuale. Ha presente i risultati derivanti dall’applicazione del teorema du BoisReymond ma la costruzione che egli fa dei numeri «transfiniti» è originale poiché non giustificata da teoremi o fatti matematici, come nel caso dei numeri reali definiti da Dedekind, ma da due principi a priori. È un atto del pensiero che crea i nuovi oggetti della matematica. Egli assume come primo principio di formazione quello per la costruzione dei numeri naturali finiti per cui si può addizionare un’unità ad un numero già formato ν ,… «La serie dei numeri interi 1,2,3,…ν deve la sua formazione alla ripetizione e alla riunione di unità che sono prese come punto di partenza e che sono considerate come uguali. Il numero í esprime un numero finito determinato di ripetizioni successive di questo genere, così pure come la riunione delle unità scelte in un’unica totalità. Il numero dei numeri í della classe formata in questo modo è infinito e fra tutti questi numeri non c’è uno che sia più grande degli altri» Il secondo principio di formazione: «data una successione qualsiasi di numeri (reali) interi definiti, tra i quali non ce ne sia uno che sia più grande di tutti gli altri, si pone, basandosi su questo secondo principio di formazione, un nuovo numero che si considera come limite dei primi, che è cioè definito come immediatamente superiore a tutti questi numeri.» « Sarebbe contraddittorio parlare di numero massimo della classe, tuttavia si può immaginare un nuovo numero, ω che esprime che l’intero insieme è dato in virtù della legge nella sua successione naturale. Si può anche rappresentarsi il nuovo numero come limite cui tendono i numeri ν, alla condizione di intendere con ciò che ω sarà il primo numero intero che seguirà tutti i numeri ν, in modo che occorra dichiararlo superiore a tutti i numeri ν»40 Associando il numero ω con le unità e applicando il primo principio si costruiscono i numeri ω+1, ω+2, ω+3,…, ω+ í+… ω+ω= ω2 e ancora con ω×2+1, ω2+2, ω×2+3,…, ω×2+ν, ..., ω×2+ω=ω×3 e ancora …………………………. ω×2, ω×3, ω×4,….,ω×ω=ω2 e ω2+1,… fino ad ottenere la seguente disposizione: 1,2,3,….. ω+1, +2, ω+3,… ω+ω ω×2, ω×2+1, ω×2+2, ω×2+3,…. ω×2+ω ω×3, ω×3+1, ω×3+2,…. ω×3+ω ……………………………… ω2, ω2+1,… ω2+ω×,ω2+ω×2, ω2+ω×3…. ω22+ω,…. ω3,… ω4,… …. Questi sono i primi numeri transfiniti o numeri della seconda classe numerica, come li definisce Cantor, che si ottengono continuando a contare oltre l’ordinario infinito numerabile, ossia mediante una prosecuzione del tutto naturale e univocamente determinata dell’ordinario contare nel finito. Se , per esempio, si considerano, dal punto di vista quantitativo , due insiemi infiniti: 1. insieme dei numeri naturali, 1, 2, 3,…, n, ... 2. insieme dei numeri reali dell’intervallo [0,1] è possibile dimostrare le proprietà specifiche dell’ infinito che male si conciliano col senso comune. L’insieme dei numeri naturali è equipotente sia all’insieme dei numeri interi relativi, ma anche a quello dei numeri razionali e all’insieme dei numeri algebrici (numeri otte nibili mediante estrazioni di radici). Questi insiemi, per il fatto di essere equipotenti con l’insieme dei naturali , sono detti numerabili. Inaspettatamente anche l’insieme dei pun- ti di un quadrato o di un cubo e persino l’insieme di tutte le funzioni continue, dal punto di vista della quantità non è più grande dell’insieme [0,1]. Contrariamente al senso comune non esiste un unico infinito, gli insiemi 1. e 2. non sono equipotenti. Il secondo insieme non è numerabile, anzi contiene più elementi del primo insieme, in questo consiste la svolta concettuale provocata da Cantor e che Hilbert giudica con queste parole: «Questa mi appare come il fiore più bello dello spirito matematico e in generale una delle più alte prestazioni dell’attività intellettuale dell’uomo…»41 In questa situazione si pone il problema di sapere se con questo modo di contare transfinito è possibile contare anche insiemi che non sono numerabili. In particolare, il «famoso problema del continuo posto ma non risolto da Cantor», consiste nel domandare se i numeri reali di [0,1] possano essere contati mediante i numeri della seconda classe. Cantor costruisce la teoria dei numeri transfiniti e crea un calcolo completo per essi ma sulla “effettiva” esistenza dei nuovi oggetti matematici non si pronuncia. Crede che la matematica possa essere sviluppata in modo autonomo purché soggetta all’unica condizione della non contraddittorietà e della coerenza intrinseca dei propri enunciati e separata dalla metafisica. Il problema di “esistenza” è metafisico e pertanto estraneo agli scopi della matematica. Successivamente però è di diverso avviso. Poiché il termine “attuale” coinvolge in qualche modo anche la realtà del mondo esterno egli ritiene che anche le invenzioni intellettuali possano trovare un corrispettivo nella realtà. Per merito del lavoro collettivo di Frege42 , Dedekind e Cantor, l’infinito, raggiunge una «vertiginosa vetta di successi». Non mancano però le reazioni che portano alla scoperta di contraddizioni, i cosiddetti paradossi della teoria degli insiemi. In particolare la contraddizione scoperta da Zermelo 43 e Russell44 ha un 21 effetto catastrofico nel mondo matematico. Di fronte a queste contraddizioni Dedekind e Frege abbandonano di fatto le loro posizioni e rinunciano. Contro la teoria di Cantor sono indirizzati, da parti più diverse, violenti attacchi, e consigliati i più svariati rimedi. Poincaré45 nella controversia con Russell, sostiene la tesi che la causa delle antinomie derivanti dalla teoria degli insiemi è da ricercarsi nell’assunzione di insiemi attualmente infiniti. Gauss46 pensa che nella matematica non si può parlare di un infinito completato e Kronecher47 conduce una campagna contro il programma cantoriano. Brower 48, massimo esponente della corrente dell’ intuizionismo, nella sua prolusione all’università di Amsterdam, ammette che lo sviluppo della geometria non-euclidea ha screditato la concezione kantiana dello spazio ma che l’aritmetica e con essa tutta la matematica deve essere derivata dall’intuizione del tempo. Hilbert ritiene insopportabile la condizione in cui si trovano i matematici di fronte alle contraddizioni e ipotizza la via per evitarle senza però rinunciare ai risultati raggiunti da Cantor: «Dal paradiso che Cantor ha creato per noi, nessuno deve poterci mai scacciare.».49 ◊ Nella tabella sono riportati i nomi di alcuni illustri filosofi e matema- Bibliografia essenziale Euclide Elementi a cura di A.Frajese e M. Maccioni, tici che hanno condiviso l’uno o l’altro significato di infinito Torino, Utet, 1970 Aristotele, Metaphisic, Gamma (IV), in Opere, vol. II, trad. A. Russ, Roma-Bari, Laterza, 1994 Aristotele, Opere, Roma, Laterza, 1995 Dedekind, J.W.R., Scritti sui fondamenti della matematica, trad. F. Gana, Napoli, Bibliopolis 1982 Carruccio, E., Matematiche elementari da un punto di vista superiore, a cura di B. D’Amore, Bologna, Pitagora, 1972 Bernard Bolzano (1781-1848) I paradossi dell’infinito, Milano, Cappelli Editore, 1965 Zellini, P., Breve storia dell’infinito, Milano, Adelphi Edizioni s.p.a., 19996 Rufini, E., Il “metodo di Archimedee le origini del calcolo infinitesimale nell’antichità, Milano, Biblioteca Scientifica Feltrinelli, 1961 Boyer, Carl B., Storia della Matematica, Milano,Mondatori editore,1980 Mangani, N., Relog. Regole logiche nelle dimostrazioni matematiche, Firenze, Libri Liberi, Firenze, 2004 Note: 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 Bernard Bolzano(1781-1848) I paradossi dell’infinito, Cappelli Editore, Milano 1965, pag.49 Georg,Wilhelm, Friedrich, Hegel (1770-1831) Limite in greco è Anassimandro (609-547 a.C.) Abitualmente identificato con Pietro Giuliano (1226-1277) Aristotele , (384 a.C-322 a.C) Aristotele, Phisica, III, 6, 203 b 6 Aristotele, Phisica, III, 6, 203 b 20 Aristotele, Phisica, III, 6, 206 a7 Aristotele, op. cit, 4, 204 a6; 6, 206 a15: Metaphysica, X, 10, 1066 b 1 Secondo Aristotele la linea è una grandezza continua e come tale sempre divisibile in parti sempre divisibili Metaphysica, IV, 13, 1020 a11; IV, 6, 1016, b 24 e non è possibile che possa essere composta di punti né di parti indivisibili (linee indivisibili) Phisica,VI, 2, 233 b 15; 6, 237, b 8; IV, 12, 220, e 30 contrariamente a Senocrate e Platone. Aristotele,Phisica,III, 6, 206 b 3-13 Aristotele,Phisica,III, 6, 206 b 16-22 Democrito (460-370 a.C.) Epicuro (341-271/270 a:C.) Anassagora (496-428 a. C.) Antitonte (480-441 a.C.) L’argomentazione di Brisone (VI sec. a. C.), contemporaneo e discepolo di Pitagora, consiste nell’inscrivere nel cerchio successivamente poligoni regolari di 2, 4, 8, .. lati e crede così facendo in continuazione e in questo modo inscrivere un poligono con i lati abbastanza piccoli da coincidere con l’arco sotteso Problema classico la cui soluzione comporterebbe esprimere π a partire dal raggio, unità di misura, mediante operazioni razionali e estrazioni di radici quadrate. In altre parole π dovrebbe essere un numero algebrico (soluzione di un’equazione della forma a nxn+an-1xn1 +…+a1x+a0=0 con an, an-1,…,a0 numeri razionali) Nel 1882 Carl Louis Ferdinand von Lindemann(1852-1939) dimostra che π è un numero trascendente (non algebrico) e mette fine alla ricerca della soluzione del problema. Zenone di Elea (495 a.C.- 430 a.C.) 22 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 43 44 45 46 47 48 49 Eudosso di Cnido (408 a.C.– 355 a.C.) Archimede (circa 287 a.C.–212 a.C.) Euclide di Alessandria (seconda metà XIII sec.inizio XIV sec. a.C.) Renè Descartes (1596-1650). Marin Mersennus(1588 – 1648) Augustin-Louis Cauchy(1789 – 1857) Julius, Wilhelm, Richard Dedekind (1831-1936) Girard Desargues (1591-1661) Gottfried, Wilhelm von Leibniz (1646-1716) Karl Weierstrass (1815-1897) Si possa stabilire una relazione d’ordine. Libro V 5a definizione conosciuta anche come il postulato di Archimede: due grandezze diseguali sono tali che esiste un multiplo della minore che supera la maggiore. Un infinitesimo è una grandezza non archimedea in quanto un qualsiasi multiplo rimane minore di una qualunque grandezza finita assegnata. Il postulato esclude l’esistenza di infinitesimi. George Cantor (1845-1918) Simplicio (attivo verso il 520 d.C.) du Bois-Reymond, Emile. (Berlino 1818-1896) U insieme infinito è numerabile se è in corrispondenza biunivoca con l’insieme dei numeri interi positivi o naturali Per tutti gli m Foundements d’une théorie générale des ensembles, in «Acta mathematica» 2, 1883 David Hilbert, Ricerche sui fondamenti della matematica, a cura di M. Abrusci, Napoli, Bibliopolis, 1985,pag 239 Gottlob Frege (1848-1925) Ernst, Friedrich, Ferdinand Zermelo (1871-1953) Bertrand, Arthur, William Russell (1872-1970) Jules-Henri Poincaré (1854-1912) Carl, Friedrich Gauss (1777-1855) Leopold Kronecher (1823-1891) Luitzen, Egbertus Brower (1881-1066) David Hilbert Ricerche sui fondamenti della matematica, op. cit pag.242. Il poliedrico mondo di Ipazia d’Alessandria “E il fanatismo è infido, travolge chi vi si affida non meno di chi vi si scontra” (da Libro di Ipazia di M. Luzi) I ncontrai Ipazia nel 1991-2 durante la lettura, in classe, delle Città invisibili di I. Calvino: di Ipazia, quarta città della sezione “le città e i segni”, sottolineai con cura il passo “I segni formano una lingua, ma non quella che credi di conoscere”1. A me ed ai miei studenti di allora Ipazia di Calvino suggerì cautela, consapevolezza dei limiti di ogni nostra conoscenza, ma anche coraggio ed entusiasmo, necessità di continuo spostamento di punto di vista, o meglio confronto per pervenire ad un qualche risultato e quindi ripartire per nuovi luoghi in senso lato, facendo tesoro pure dello scacco, delle sconfitte. Rincontrai Ipazia, come personaggio storico, nel dicembre 2005 ad una serie di incontri su Città reale/città possibile, promossi dalla Libera Università di donne e uomini Ipazia, nata dalla collaborazione fra l’Associazione Rosa Luxemburg e il Giardino dei Ciliegi. In tale occasione conobbi il testo Ipazia, scienziata alessandrina, 8 marzo 415 d. C., di A. Petta e A. Colavito2. Questo avvincente romanzo storico, che si sviluppa secondo due percorsi strettamente legati ma distinti, perché l’uno riguarda la vicenda biografica di Ipazia ricostruita storicamente, l’altro privilegia il pensiero, gli insegnamenti di questa donna scienziata, mi ha indotto a continuare a leggere altre opere che la riguardano, appartenenti ad ambiti e periodi diversi, che pure consentono di comprendere quanto il mondo di Ipazia fosse poliedrico, e dunque capace di interessare filosofi, scienziati, storici, pittori e letterati. Anche solo per questo, in quanto argomento capace di attrarre indagini di saperi diversi, in occasione di un numero della nostra rivista dedicato principalmente a temi di carattere scientifico, mi è sembrato che Ipazia meritasse un po’ di spazio, ma soprattutto perché la sua stessa vicenda di donna scienziata ci ricorda il faticoso e doloroso cammino della libertà di pensiero. Doria Polli Un modo per accostarsi alla conoscenza di capaci di muoversi secondo tale donna è proprio quello di leggere il ro- un’ottica trasversale non tolleramanzo citato sopra, perché ci offre un’ap- bile da chi deteneva il potere: il passionante ricostruzione di una parte del- potere predilige una configuraziola vita di Ipazia, dal I Luglio del 391 d.C. ne verticale capace di controllare all’8 marzo del 415 d.C., giorno funesto per quanto si agita in basso, nelle vie, Ipazia e per la stessa ricerca scientifica del mondo antico. Le pagine di questo libro ci fanno percorrere le vie di Alessandria d’Egitdi Massimo Bartoli to tra la fine del IV ed inizio V secolo d. C. e scoprirne celebri luoVoce secondo cui qualunque effetto, ghi, come già indicato è sempre provocato da un motivo. dai titoli delle tre diverE il mondo dice, è all’ordine perfetto se parti in cui il testo è di un suo fattore determinativo. suddiviso: La BiblioCosì per soddisfare l’intelletto teca e il Serapeo; Il dell’uomo dal sapere volitivo, Centro studi in via del esprime quella legge universale Sole; la cupola nera appunto del preambolo causale. del Cesareo. Il fascino di Alessandria Insomma tutto quello che succede, d’Egitto, al tempo del è sempre e in ogni forma necessario. tramonto di un’epoca, E il mondo, e tutto quello che si vede traspare continuamenè un solo gigantesco macchinario. te dall’intersecarsi delPerciò che dal seicento l’uomo diede le sue strade e dei suoi la vita al suo famoso corollario: celebri palazzi descritLe cose stanno tutte in relazione, ti nella loro progressitra loro e in matematica funzione. va rovina, nel continuo avvicendarsi di Rispose bene allora a quelle scienze, luce, talora sfolgorante, e tenebre che li avdi indagine sul mondo naturale. volgono, in un’atmoDi indagine sui nessi e dipendenze sfera che diviene semper mezzo della via sperimentale. pre più cupa; ma l’inMa lo sviluppo delle conoscenze canto è offerto dalle più tardi lo piegò proprio a star male: tracce di quel crogiolo al mondo non esiste l’immutabile, di lingue e culture dima solo la certezza del probabile 1. verse che lì si erano incontrate e contaminate 1 La Meccanica quantistica nel generare nuovi modi di convivenza, DETERMINISMO 23 nelle piazze e induce a cercare luoghi nascosti per continuare a studiare, costringe alla solitudine, impaurisce fino ad aggredire ed uccidere, come è successo ad una donna che era riuscita ad intraprendere nuove strade conoscitive, sul tracciato del pensiero filosofico greco. Ipazia, una delle prime donne di scienza, è stata violentata ed uccisa ed il suo stesso cadavere è stato fatto a pezzi, perché la sua morte fosse di monito ai suoi stessi discepoli e/o perché non ne restasse memoria alcuna, secondo diverse interpretazioni. I suoi studi si collocano entro la linea della tradizione matematico-astronomica di Alessandria e del Neoplatonismo logico, ma tutti i suoi scritti sono andati perduti. Nata nel 370 d. C., figlia di Teone, un matematico e astronomo del Museo, venne avviata allo studio dallo stesso padre, cui probabilmente offrì forte collaborazione nella stesura di un commento all’Almagesto di Tolomeo e per l’edizione delle Opere di Euclide; le vengono anche attribuiti un commento all’Aritmetica di Diofanto, un trattato Sulle coniche di Apollonio, un matematico alessandrino del III sec. d. C.. Ipazia ci è nota grazie in particolare alle lettere a lei indirizzate da parte del suo discepolo Sinesio di Cirene, divenuto poi vescovo di Tolemaide. Numerose sono le testimonianze indirette da parte di storici a lei contemporanei: la sua vita si è svolta in un periodo di decadenza dell’Impero, ormai diviso, sempre più esposto alle invasioni, in cui il Cristianesimo andava diffondendosi ma anche cristallizzandosi in religione di stato ed in dispute teologiche, fino a costituire un patrimonio dottrinale di cui lo stesso vescovo Ambrogio di Milano si servì per sostenere la suprema24 zia dell’autorità spirituale su quella temporale. Non era trascorso nemmeno un secolo dal celebre Editto del 313 con cui Costantino riconoscendo la libertà di culto ai cristiani stabiliva la fine delle tremende persecuzioni e la restituzione dei beni loro confiscati, ed ancor meno tempo era trascorso dal tentativo di un ritorno al paganesimo sotto l’imperatore Giuliano, quando l’imperatore Teodosio, indotto dal vescovo Ambrogio a fare ammenda pubblica per il massacro della popolazione di Tessalonica del 390, emanò poi tutta una serie di decreti per rendere il cristianesimo religione di Stato e per vietare i culti pagani ed ebraici. Tali misure ebbero le loro ripercussioni anche nei territori provinciali, dove il potere dei vescovi andò via via rafforzandosi: ad Alessandria il vescovo Teofilo ordinò la distruzione del Serapeo. La storia di Ipazia si inserisce in questa intricata trama di vicende. Mentre alle sue lezioni affluivano pagani, ebrei e cristiani, il criterio dei potenti era quello fin troppo noto del ‘divide et impera’ da un lato, dall’altro, consapevoli dell’importanza della conoscenza quale instrumentum regni, cercarono di imbrigliarla ed assoggettarla ai loro disegni, senza per altro riuscirvi e quindi ricorsero alla violenza. “Sembra che Ipazia, sempre a seconda di Sinesio, svolgesse il suo insegnamento, distinguendo il piano più strettamente religioso-privato, dal piano logico-scientifico, in una ricerca che non concedeva nulla a tutto ciò che potesse avere sapore di dogma(…).”3 Gli stessi autori del romanzo storico a lei dedicato così la fanno parlare nel rivolgersi al vescovo Teofilo. “Non esiste uno scontro tra Scienza e Religione. Esiste un’avversità, non voglio dire da parte del cristianesimo, ma da parte di alcuni suoi rappresentanti nei riguardi della Scienza.”4 Ed ancora: “la Scienza unisce gli uomini, e può aiutare a unire i popoli, e può contribuire alla diffusione del messaggio d’amore di Cristo. In questo Centro Studi siamo pagani, ebrei, cristiani, uomini, donne, di qualunque condizione sociale. Sette secoli fa, ad Atene, nel giardino di Epicuro, alla sua scuola dove si studiava proprio l’atomismo, vennero ammesse donne e schiavi, più o meno di pari condizione (…). Il ruolo della donna non è stato scritto da Dio, ma da uomini come te, patriarca. La donna si è quasi sempre vista negare l’accesso al sapere e alle scienze, alle scuole, alle accademie, alle biblioteche, ai centri studi. Tu sai perfettamente che chi detiene la conoscenza, detiene un potere. Tu hai paura della mia scienza, di quello che ho imparato e di quello che imparerò. Perché quello che io sto scoprendo può mettere in pericolo la tua posizione di vescovo e patriarca.” 5 Se i rapporti di Ipazia con l’autorità religiosa divennero sempre più tesi, complessi furono quelli con l’autorità politica, tanto più che essa “era la portavoce dell’aristocrazia cittadina presso i rappresentanti del governo centrale romano e in particolare presso Oreste d’Egitto.”6 Morto Teodosio, i suoi successori continuarono nell’azione da lui intrapresa di chiudere tutti i templi pagani, Ipazia pure continuò ad insegnare “a dubitare, a disobbedire… non a credere e obbedire!”7 Continuò a costruire e perfezionare importanti strumenti, come un astrolabio, un idroscopio ed un aerometro; sul finire del 414 ottenne qualche sovvenzione da parte dell’autorità imperiale di Costantinopoli per il suo Centro Studi, ma ad Alessandria, nel 412, al vescovo Teofilo successe Cirillo, “fanatico militante della cristianità, che si pose in aper- ta ostilità con Oreste, prefetto romano d’Egitto e da tempo amico e discepolo di Ipazia.”8 Cirillo perseguitò gli ebrei contro l’opposizione di Oreste che venne accusato di averli sostenuti contro i cristiani, e che inutilmente cercò di convincere Ipazia ad allontanarsi da Alessandria. Ipazia non rinunciò alla battaglia combattuta tutta una vita, alla sua libertà di pensiero e venne pertanto massacrata ed uccisa dai monaci fanatici guidati da un tal Pietro lettore della Chiesa del vescovo Cirillo, più noto come teologo e proclamato, per le sue dottrine, dottore della Chiesa. L’uccisione di Ipazia è rimasta impunita e l’intera vicenda ha ispirato autori che ne hanno dato tante diverse interpretazioni: impossibile, in tale sede, ricordarle tutte. Il nostro Leopardi, giovanissimo, nella sua Storia dell’Astronomia, così la ricorda: “Questa fece sì grandi progressi nelle scienze, ed in particolare nell’Astronomia: che fu tenuta per la più dotta persona del suo tempo. Compose vari trattati di Matematica, che disgraziatamente si sono smarriti. Venne crudelmente massacrata perché credevasi che ella impedisse la riconciliazione di S. Cirillo con Oreste governatore della città, o come vuole Esichio Milesio, a cagione della invidia, che contro di lei aveva suscitata la sua perizia in particolare nelle cose atronomiche.”9 Per restare in Italia, in particolare nella nostra città, non posso non ricordare almeno il testo teatrale di M. Luzi, Libro di Ipazia.10 Anche in quest’opera emerge con forza il contrasto tra un solare passato di un’Alessandria d’Egitto, perché luogo di incontro, studio e confronto, e un cupo periodo di un’Alessandria in preda ai divieti, agli incendi e distruzioni fino alla morte di Ipazia. “Tempo di tolleranza da coniugarsi al passato -al passato, temo, irreversibilequando tutto poteva convivere. La città era famosa per questo. La differenza qui perdeva le unghie. Uomini, navi e mercanzie, fogge, pratiche, costumi e credenze e dottrine di ogni nazione, questa linfa le correva nel sangue, le scoppiava in gemme, in fioriture perenni..”11 (…) “Il fanatismo le ha cambiato volto, la deforma in tutte le ossa.”12 (…) “Bruciano libri, distruggono le statue, devastano i templi.”13 “..com’è proteiforme il potere e com’è sempre identico a se stesso.”16 Inutile che la stessa Ipazia ribadisca il suo intento pacifico: “Non siamo noi che portiamo la guerra. E’ una parola di pace vera la nostra. Se provoca clamore e scandalo, è necessaria lo stesso.”17 Nel Libro di Luzi l’uccisione di Ipazia, le cui sole armi erano quelle della conoscenza, non ci viene descritta, ma solo dichiarata nella sua orribile crudeltà: “Ipazia è morta. Uccisa. Il modo è anche più crudele, ma, ti prego, non chiedermi altro.”18 Ed in questa città sempre più devastata, “Ipazia è una forza non consumata, un dente non eroso dall’attrito. Inoltre ne è consapevole.”14 (…) “Ipazia insiste, non so se per sola imprudenza, a far gente ai crocicchi, a eccitare e sferzare la moltitudine inseguendo quel sogno con discorsi che pochi capiscono” (…) “Essa vede lontano. Promana una luce di aurora da quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo.”15 Svolge dunque instancabilmente la sua funzione socratica per le strade ed è proprio questo che incute timore ai potenti: da sempre non possono tollerare che la conoscenza si diffonda, si faccia appunto strada, arrivi alle moltitudini; quando questo accade talora scendono a patti, altre volte ricorrono alla loro forza distruttiva e colpiscono, fino ad uccidere. Poche pagine dopo ci ricorda: “Così finisce il sogno della ragione ellenica. Così, sul pavimento di Cristo.”19 Ci lascia quindi un monito contro ogni tipo di fanatismo distruttivo ed omicida, tanto più che la tragica vicenda di Ipazia del marzo del 415 d. C. accadde a distanza di circa un secolo da un’altra tragica morte, nel 307, quella di Caterina: una martire cristiana, anche lei studiosa di Alessandria, soprattutto di filosofia, (secondo la tradizione) tanto da essere stata resa patrona della stessa facoltà di Filosofia dell’Università di Parigi. ◊ note 1 Cfr. I. Calvino, Le città invisibili,1977, Torino, Einaudi, pp.53-4. 2 Cfr. A. Petta e A. Colavito, Ipazia, scienziata alessandrina, 8 marzo 415 d. C., 2004, Milano , Lampi di stampa: il testo è corredato da un’ampia bibliografia. 3 Cfr. F. Adorno, La filosofia antica, vol. 2, Milano, Feltrinelli, p. 704. 4 Cfr. A. Petta e A. Colavito, op. cit., p. 64. 5 ibidem. 6 Cfr. S. Ronchey, Ipazia , l’intellettuale, in Roma al Femminile, (a cura di A.Fraschetti),1994, Bari, Laterza, p.216. Anche questo testo contiene una Nota bibliografica assai ben documentata che permette di avviare uno studio approfondito circa le diverse fonti ed interpretazioni di Ipazia. 7 Cfr. A. Petta e A. Colavito, op. cit., p. 217. 8 Cfr. M. Alic, L’eredità di Ipazia, trad. it. di D. Minerva, Roma, Editori Riuniti, p. 65. 9 Cfr. G. Leopardi M. Hack, Storia dell’astronomia, dalle origini al duemila e oltre, Roma, Edizioni dell’Altana, p. 157. 10 Cfr. M-Luzi, Libro di Ipazia, 1993, Milano, Garzanti. 11 op. cit. p. 12. 12 op.cit. p.13. 13 14 15 16 17 18 19 cfr. op. cit., p. 19. op. cit., p. 30. op. cit., p. 31. op. cit., p. 18. op. cit., p. 40. op. cit., p. 47. op. cit., p. 49. 25 Le lezioni di anatomia in età moderna fra arte e scienza Fabio Sottili A metà del settecento, nella Napoli borbonica, il principe Raimondo di Sansevero, nobile eccentrico, curioso, e sperimentatore, fu forse il primo a riuscire nella difficile operazione di rappresentare il sistema venoso umano. I suoi contemporanei sostenevano che tale risultato fosse stato ottenuto iniettando sostanze sclerotizzanti in uomini vivi, ma pare che ricerche condotte in tal campo neghino l’accusa, e portino le sue ricerche all’interno dello sperimentalismo iniziatico dell’epoca. La stessa cappella Sansevero di Sangro (fig. 1) nella quale sono conservate le figure umane ricostruite dal principe napoletano, è un vero e proprio scrigno tardo barocco, nel quale domina al centro l’anatomia perfetta del marmoreo Cristo morto di Giuseppe Sammartino (1753), avvolto virtuosisticamente da un velo trasparente (fig. 2). Il risultato al quale era arrivato il nobile partenopeo aveva avuto i suoi inizi dallo studio del corpo umano, nei primi secoli della nostra era, con Galeno, un medico di Pergamo, nell’Asia Minore, che operò nel II secolo D. C., raccogliendo il risultato delle ricerche condotte dagli antichi egizi, greci, etruschi e romani. Un altro grande contributo arrivò, successivamente, sempre dall’oriente, con Avicenna, il più importante medico della fine del primo millennio, nato in Persia, a Bukhara, luogo famoso ancora oggi per la realizzazione di tappeti. La cultura araba, infatti, giocò un ruolo fondamentale nella scienza medievale del mondo occidentale. A cavallo dell’anno Mille prese avvio la prima importante scuola di medicina, quella di Salerno, che riassumeva in Fig. 1 - Napoli, Cappella Sansevero di Sangro sé le conoscenze degli antichi, con quelle recenti, provenienti dall’altra sponda del Mediterraneo: gli studi anatomici vennero ripresi con sezioni di animali e di cadaveri umani, fino ad arrivare all’imperatore Federico II che promulgò una legge, che vietava l’esercizio della medicina a chiunque fosse profano di esperienze anatomiche dirette sul corpo dell’uomo. Con Mondino de’ Luzzi (1270-1326), laureatosi a Bologna nel 1290, l’osservazione del corpo umano diventò diretta, svolgendo lezioni sopra i cadaveri, come già ne erano state fatte ad Alessandria d’Egitto oltre un millennio prima; nel 1316 scrisse un testo base di anatomia, intitolato “Anathomia Mundini”, edito decine di volte, nel quale si afferma che le viscere devono essere ritenute le fondamenta della stabilità del corpo umano, e non il sistema scheletrico. Nel rinascimento l’arte riscopre le citazioni più antiche di epoca greco-romana, insieme agli scritti di Galeno, nei quali la concezione del corpo si basava sullo scheletro come asse portante della struttura umana. Divenne sostanziale il rapporto fra ricerca artistica e ricerca medica nel campo dell’anatomia, com’è ravvisabile nel disegno raffigurante la Battaglia degli ignudi di Antonio del Pollaiolo (1470). Mentre nelle università fioriva l’indagine anatomica, pittori, disegnatori e scultori studiavano essi stessi le particolarità anatomiche sui cadaveri. Piero della Fran- Fig. 2 - Giuseppe Sammartino, Cristo morto (1753), cesca, Andrea Verrocchio, Luca Signorelli, Antonio del Napoli, Cappella Sansevero di Sangro Pollaiolo e Andrea Mantegna conobbero profondamente l’anatomia; Benvenuto Cellini partecipava, secondo quanto racconta egli stesso nella sua autobiografia, alle dissezioni di Vido Vidi e di Berengario da Carpi. 26 Fu Leonardo da Vinci, però, con i celeberrimi disegni di anatomia del cosiddetto “Codice Windsor” (fig. 3), a evidenziare quanto l’indagine sperimentale da lui condotta sulla natura fosse un percorso parallelo, sia nell’arte, che nella scienza, perché l’arte veniva considerata area di indagine, tanto quanto la medicina. Il disegno artistico serviva a spiegare i risultati ottenuti in campo scientifico, ed a comprendere meglio l’indagine sperimentale da lui promulgata, che andava contro il pensiero neoplatonico allora egemone. Mosso dal duplice amore della conoscenza e del bello, si fece anatomista, compiendo la dissezione di una trentina di cadaveri maschili e femminili, e fissò sulla carta note e disegni, che ci fanno comprendere la profondità della sua visuale di scienziato e di artista. A questi studi desistette solo quando, denunciato alla corte di papa Leone X come profanatore Fig. 3 - Leonardo da Vinci, di corpi umani, gli fu vietato l’accesso all’Ospedale di S. Spirito, dove abitualmente si recava Testa maschile, per le sue dissezioni. dal Codice Windsor I disegni del codice Windsor, al contempo modelli di bellezza e di esattezza scientifica, testimoniano la potenza di osservazione del grande maestro anche in questa scienza, a cui egli avrebbe inteso dar forma attraverso un trattato di anatomia umana, di anatomia comparata e di fisiologia di ben centoventi libri, mai attuato. Nella qualità tecnica del disegno maniacale di Leonardo si possono trovare assonanze con le ricerche sulle proporzioni umane dell’artista tedesco Albrecht Dürer, pubblicate fra il 1510 ed il 1515 nel trattato “Della simmetria de’ corpi umani”: entrambi tendevano al rispetto del foglio di carta, e dell’impostazione grafica ed estetica totale, con un equilibrio fra i disegni e la perfezione della calligrafia. Nel cinquecento i dottori tentarono sempre più di visualizzare temi, che, né l’esposizione verbale, né la descrizione scritta avrebbero reso con la stessa efficacia. Nacque così il disegno dal vero, sussidio fondamentale per la comprensione e la memorizzazione. La stretta collaborazione di anatomisti, artisti, incisori, e tipografi permise la creazione di opere didatticamente efficaci e artisticamente significative. La prima rivoluzione nel campo dei testi di divulgazione scientifica sull’anatomia umana avvenne nel 1543 con il “De humani corporis fabrica”, opera di Andrea Vesalio (1514-1564), al quale si deve l’inizio della grande scuola di anatomia dell’Università di Padova, ed al quale spetta il merito di aver compreso la straordinaria importanza scientifica delle tavole anatomiche, perfettamente disegnate per i medici e gli studenti. La sua fondamentale opera sull’anatomia, composta da sette libri, proponeva una riscrittura complessiva dell’anatomia umana, ed era arricchita da stupende incisioni del fiammingo Giovanni Stefano Calcar, allievo di Tiziano, così magistralmente disegnate, da essere ritenute a lungo, da alcuni studiosi, di mano dello stesso Vecellio. Si tratta di immagini di stampo prettamente manierista, dove scheletri assumono pose artistiche e filosofiche, ma che dimostrano al contempo una conoscenza incredibilmente articolata del corpo umano, cervello compreso. Fin dal XVI secolo furono in uso le cosiddette “dissezioni di carta”: sollevando il foglio di superficie, che mostra le parti esterne del corpo, si aprivano le cavità, evidenziando gli organi mobili, ritagliati in carta, che potevano essere collocati al loro posto nell’ordine anatomico o su fogli volanti, o su volumi. Lo stesso Fig. 4 - Padova, Teatro Anatomico Vesalio utilizzò questo espediente; ci sono infatti pervenuti fogli volanti di organi intercambiabili da lui stesso elaborati. Dopo la Controriforma il corpo umano all’interno delle pubblicazioni scientifiche diventò ricettacolo di indicazioni etiche sul comportamento, e sul significato morale che ciascuna parte del corpo doveva racchiudere. Agli inizi dell’epoca barocca apparve il volume “Monstrorum historia”, scritto dallo scienziato bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), e pubblicato postumo nel 1642, fondamentale per una visione dello studio dell’anatomia che si concentra sugli aspetti più curiosi o mai visti, secondo il più puro spirito seicentesco, poiché si punta l’attenzione su corpi affetti da deformazioni, esseri bizzarri e donne pelose. Ma l’anatomista più rappresentativo in Italia nei primi anni del XVII secolo fu Girolamo Fabrizi di Acquapendente (15651616), filosofo e medico, professore all’Università di Padova. Il suo testo “De locutione et eius instrumentis” (1601) contiene tavole anatomiche che sono degli autentici capolavori artistici nel migliore gusto chiaroscurale seicentesco. La sua indagine è totale, sia nel campo animale, che in quello umano, studiandolo alla perfezione. Negli anni di Fabrizi da Acquapendente, Padova era l’Università di Medicina più importante d’Europa, ed in quella sede, nel 1594, da Paolo Sarpi venne costruito il Teatro Anatomico, una grande sala con una struttura in legno, costruita probabilmente da maestri d’ascia veneziani in uno stile che recupera l’estetica cinquecentesca della capitale lagunare (fig. 4). 27 È composto da sette ordini di forma ellissoidale, che servivano a contenere 250 studenti, i quali, proprio come in un teatro per spettacoli, guardavano dall’alto l’operazione di dissezione dei cadaveri, operata dai docenti universitari, che così insegnavano l’anatomia del corpo umano. Al centro il tavolo operatorio era il fulcro della vasta sala, sulla quale dominava lo scranno del professore: da questo posto, dal 1715 fino alla sua morte, insegnò Giovanbattista Morgagni, fondatore dell’anatomia patologica, chiamato “Sua Maestà Anatomica”, perché fu il più famoso medico anatomista del XVIII secolo. Nel XIX secolo, per evitare sgradevoli problemi olfattivi, la parte bassa fu chiusa e fu previsto un meccanismo elevatore per poter portare il cadavere nell’aula, trasformando così il progetto originario che prevedeva un letto al centro della cavea. Nell’Archiginnasio di Bologna troviamo un altro Teatro Anatomico, costruito quarant’anni dopo di quello di Padova (1637); distrutto durante l’ultimo conflitto mondiale, è stato ricostruito recuperando le settecentesche statue degli “Scorticati” di Ercole Lelli (fig. 5). Come in quello di Padova, anche in questa aula gli studenti sedevano su delle gradinate concentriche; il professore, detto il Lettore, era seduto sul seggio più alto, e sotto di lui stava in piedi l’Ostensore, che, con una pertica, indicava le parti del corpo da sezionare al barbiere, detto il Cerusico, il quale, davanti al tavolo centrale di marmo, eseguiva manualmente la dissezione del cadavere. Anche questa struttura di Bologna è interamente in legno, ed è arricchita, alle pareti, dalle sculture del Lelli, alle quali ho accennato precedentemente, dove si evidenzia, insieme alla ricerca della bellezza fisica e della precisione anatomica, anche il Fig. 5 - Bologna, Teatro Anatomico lato ironico e fantasmagorico, tipico della città felsinea. Ercole Lelli (1700-1766) fu uno dei maggiori ceroplasti italiani del settecento, che, collaborando con gli anatomisti Giovanni Manzolini e Anna Morandi (moglie di quest’ultimo), fondò una delle scuole più straordinarie di ceroplastica, nella quale si elaborarono strepitosi materiali didattici in cera, secondo la nuova visione dell’anatomia, promossa dal papato illuminato di Benedetto XIV. Fu grazie alle sue cere, alle statue miologiche in legno e in bronzo, e all’opera pubblicata postuma “Anatomia esterna del corpo umano per uso delli pittori e scultori”, della quale fu autore ed illustratore, che riuscì a tenere alto il prestigio dell’alleanza tra arte e anatomia. Una volta sciolto il veto sullo studio dei cadaveri nei Paesi Bassi, Germania e Francia, anche gli artisti di quei paesi poterono assistere alle pubbliche lezioni di anatomia, che si svolgevano in sale appositamente create, come il teatro anatomico di Leida. Così, vari pittori, soprattutto di ambito fiammingo, si cimentarono nella raffigurazione delle lezioni di anatomia, sintomo anche del raggiunto stato sociale del medico e dell’importanza sempre maggiore che la medicina aveva assunto successivamente al rinascimento. Pochi anni dopo la costruzione del Teatro Anatomico di Padova, nel 1632, Rembrandt, il più innovativo pittore dei Paesi Bassi settentrionali, dipinse La lezione di anatomia del professor Tulp (fig. 6). L’artista era stato studente all’Università di Leida, e conosceva medici ed anatomici, presso i quali si recava ad assistere alle dissezioni, forse obbedendo alla moda, la quale riFig. 6 - Rembrandt Van Rijn, chiamava in quell’epoca davanti al tavolo chirurgico ricchi, nobili, e curiosi. La lezione di anatomia Il dottor Nicolaes Tulp, primo anatomista della gilda dei chirurghi di Amsterdam, del professor Tulp, 1632 nel gennaio di quell’anno tenne una lezione pubblica sulla conformazione del braccio, sezionando il cadavere di un giustiziato. Quest’ultimo nel dipinto viene raffigurato con un pallore spettrale, accentuato anche dalla dominanza dei toni bruni e neri del fondo e degli abiti, seguendo la caratteristica del rapporto luce-ombra della pittura naturalistica caravaggesca che nei primi decenni del seicento dominava la scena artistica europea. La disposizione obliqua del cadavere sul tavolo anatomico crea movimento e coinvolgimento con lo spettatore, ma ancor più grazie ai ritratti rubicondi dei membri della corporazione che stanno assistendo alla lezione, attraverso i quali Rembrandt riesce ad individuare le loro personalità e la loro vivezza, superando il rischio dell’ufficialità e della monotonia, e diventando, pertanto, emblemi di una vita vera intorno alla morte, e simbolo di una società moderna, pulsante, ed organizzata. 28 Purtroppo di un’altra scena anatomica dipinta da Rembrandt, quella che rappresenta il dottor Deyman, non è rimasta che una parte, salvatasi da un incendio. Ben diversa è la situazione nel dipinto La lezione di anatomia del dottor Egbertsz di Aert Pietersz (fig. 7), nel quale si evidenza la voglia degli spettatori di partecipare alla scena, poiché il cadavere e l’anatomista non sono i veri protagonisti dell’opera, ma i medici che assistono alla lezione, e che per Fig. 7 - Aert Pietersz, poter avere un posto nel dipinto pagavano una cospicua cifra, facendo perLa lezione di anatomia del dottor tanto diventare la tela un’immagine ufficiale e priva di espressività. Sebastiaen Egbertsz de Vrij, 1603 L’iconografia della “lezione di anatomia” si ritrova anche nella cultura sperimentatrice ed enciclopedica del settecento, come è esemplificato nell’opera La lezione di anatomia del professor Roëll del pittore olandese Cornelis Troost (fig. 8), dove con maggior crudezza si raffigura l’articolazione di un ginocchio, intorno a dottori dalle pose manierate. L’insegnamento dal vero, però, era difficile, sia per il reperimento di cadaveri per autopsie, sia per la possibilità di conservare nel tempo i reperti anatomici. Iniziarono quindi ricerche per solidificare e rendere maneggevoli le parti anatomiche: i metodi maggiormente usati furono l’essiccazione e la colorazione. Ci furono anche anatomisti che, dopo aver ottenuto buoni risultati, non ne divulgarono i segreti, o li descrissero in modo così vago da non poter essere trasmessi. Il processo di conservazione dei preparati secchi provocava la riduzione di volume del preparato stesso: non essendo immersi in un liquido atto a conservarli, inevitabilmente il raggrinzimento ne provocava la deformazione. Pertanto, insieme ai testi scientifici e alle dissezioni dei cadaveri, la produzione di oggetti plastici in legno, terracotta e cera, che ri- Fig. 8 - Cornelis Troots, La lezione di anatomia producevano figure umane ed organi animali e umani, divenne del professor Willem Roëll, 1728 sempre più diffusa come materiale didattico fra XVII e XVIII secolo. Furono anche costruite statue anatomiche smontabili in legno a grandezza naturale. Di quelle settecentesche fatte eseguire da Felice Fontana a Firenze, nel Museo di Fisica e Storia Naturale, solo due sono sopravvissute: una si trova attualmente al Museo Zoologico “La Specola”, l’altra al Museo di Storia della Medicina di Parigi. La cera, comunque, si dimostrò sempre più un materiale particolarmente adatto per riprodurre le immagini dal vero, perché estremamente duttile, colorabile, economico, e soprattutto qualitativamente simile alla materia che voleva imitare. La scuola degli “Scorticati” iniziò nel ‘600, ed ebbe degli esiti eccellenti non soltanto a Bologna, ma anche nella Firenze granducale, dove operava l’abate Giulio Gaetano Zumbo (16651701), rinomato ceroplasta siciliano. Allo Zumbo si devono quattro gruppi simbolici, le cosiddette “Pesti”, rappresentazioni di epidemie diverse, conservate al Museo della Specola di Firenze, intitolate Il Teatro della Peste, Il Trionfo del Tempo, La Corruzione dei Corpi, La Sifilide (fig. 9), con riproduzioni delle varie fasi di decomposizione di corpi umani maschili e femminili, che, atteggiati in pose affettate di michelangiolesca memoria, mostrano un gusto realistico fortemente impressionante, tipico del barocco gesuitico, anche se non propongono un fine ed un trionfo cristiani, ma soltanto un’osservazione del fenomeno coraggiosamente distaccata e tecniFig. 9 - Giulio Gaetano Zumbo, La Sifilide, camente analitica. frammenti del gruppo originario, 1691-94 I gruppi suddetti, realizzati a Firenze fra il 1691 ed il 1694, furono patrocinati dal clima creato nella corte di Cosimo III de’ Medici dalla letteratura di scrittori gesuiti, e dal gusto del granduca, il quale, ad esempio, proprio nel 1693, aveva ordinato a Giuseppe Nasini gli affreschi dei Quattro Novissimi in Palazzo Pitti, oggi scomparsi, contenenti la rappresentazione di corpi in disfacimento. I riferimenti artistici dello Zumbo furono quelli tipici di un artista aggiornato della sua epoca, vale a dire Michelangelo, Caravaggio, Mattia Preti, Poussin, i berniniani, ma anche la scultura greca di stampo ellenistico. L’interesse sempre maggiore del ceroplasta siciliano per una scultura costruita sull’anatomia del cadavere umano, forse spinto verso un’arte “scientifica” dal medico aretino Francesco Redi che in quegli anni proseguiva i suoi esperimenti sulla decomposizione, lo portò alla decisione di recarsi a Bologna, il centro più importante per l’anatomia. Il soggiorno a Bologna nel 1695 ebbe su di lui un’influenza notevole, e che lo condusse alla creazione delle sue opere più celebri: le “teste anatomiche”. La sua Anatomia di una testa maschile modellata in cera su un vero cranio, realizzata a Genova fra il 1695 ed il 1700, e inviata come regalo per Cosimo III, fu molto ammirata, tra gli altri, dal grande anatomico 29 e naturalista settecentesco Albrecht von Haller. Il capolavoro dello Zumbo fu eseguito basandosi su numerosi decapitati, tra cui una donna, e gli dette una fortuna tale da portarlo alla corte parigina di Luigi XIV, dove riscosse una fama eccezionale, e dove creò altre teste anatomiche. La ceroplastica anatomica nacque, così, a Firenze, nel tardo seicento, dalla collaborazione di Gaetano Zumbo con l’anatomista Guillaume Desnoes (chirurgo parigino degli Ospedali di Genova col quale il plasticatore siciliano si associò dal 1695 al 1700), ma fu solo nella seconda metà del settecento che, seguendo la spinta delle idee illuministiche, divenne sempre più urgente uno studio anatomico del corpo umano e la costituzione di una vera e propria scuola di ceroplasti. Nelle attuali collezioni del museo zoologico fiorentino “La Fig. 10 - Una delle sale che conservano le cere anatomiche Specola”, fondato dal granduca Pietro Leopoldo nel 1775 con il del Museo della Specola nome di “Imperiale Regio Museo di Fisica e Storia Naturale”, si trovano gli esemplari della raccolta dei preparati anatomici in cera, conservati in circa 600 teche (fig. 10), eseguiti nell’antica officina ceroplastica del museo, che fu attiva fra la seconda metà del ‘700 ed il 1895. Sono opera di Carlo Calenzuoli, di Luigi Calamai, e, soprattutto, del fiorentino Clemente Susini, il più importante modellatore di cera dell’opificio, che vi lavorò fra il 1775 ed il 1814, sotto la direzione del famoso anatomico e fisiologo Felice Fontana. I modelli più recenti, creati fra il 1848 ed il 1895, sono invece dovuti al Tortuoli. Questa raccolta di cere anatomiche rappresenta ancora oggi la maggiore attrattiva del museo, è costituita da 1400 pezzi unici al mondo per bellezza ed accuratezza scientifica, e fu eseguita con lo scopo di creare un vero e proprio trattato di anatomia umana, infatti ogni pezzo è accompagnato da uno o più disegni e da diversi fogli esplicativi. Fra tutti spiccano le figure della famosa Venere e de Lo Scorticato (figg. 11-12). Un’altra importante collezione di cere didattiche, intorno al 1770, venne commissionata al modellatore Giuseppe Ferrini da Giuseppe Galletti, professore di ostetricia nell’Arcispedale di Santa Maria Nuova, sulla base dei più aggiornati trattati ostetrici e reperti autoptici, e dopo aver potuto ammirare la serie di cere bolognesi, Fig. 11 - Venere, Museo della Specola commissionate da Gian Antonio Galli e realizzate da Ercole Lelli. Detti modelli, insieme ad alcune riproduzioni in gesso, vennero acquistati nel 1785 dall’Arcispedale stesso per la scuola di ostetricia, ma andarono poi perduti. Negli ultimi decenni del XVIII secolo ne furono eseguiti altri in cera ed in terracotta dall’of- Fig. 12 - Lo Scorticato, ficina ceroplastica del Museo di Fisica e Storia Naturale, i quali, nel Museo della Specola 1816, furono trasferiti alla scuola di ostetricia. In tal modo l’Arcispedale ne diventò proprietario ed i modelli servirono per più di un secolo ad istruire il personale medico fiorentino. Una volta perduta la funzione didattica, i 21 pezzi superstiti sono stati trasferiti al Museo di Storia della Scienza dove si trovano tuttora. Ancora oggi è evidente la volontà di studiare il corpo umano in ogni minimo dettaglio e di impressionare lo spettatore. É il caso di Gunther von Hagens, anatomopatologo e pseudo-artista, il quale in questi ultimi anni ha allestito mostre in vari paesi del mondo, nelle quali espone veri corpi umani, ceduti da donatori, e trattati con la tecnica della plastinazione, attraverso la quale liquidi e grassi vengono sostituiti, tramite particolari processi, con polimeri reattivi come silicone, resine epossidiche, poliesteri, dando forma e consistenza agli organi, permettendo così di poterli esaminare e studiare direttamente. A queste figure fa poi assumere pose quotidiane: ad esempio, mentre rende evidente il sistema muscolare di una persona, quest’ultima sta correndo o sta leggendo il giornale, in un’estetica neobarocca che stupisce e attira folle di curiosi, ma che non può certo venire considerata un’operazione artistica (fig. 13). Oggi la medicina ha varcato i confini della vecchia anatomia ed è entrata nel mondo complesso ed invisibile della biogenetica. E l’arte sembra aver messo da parte la rappresentazione umana per concentrarsi su astrattismi e concettualismi ormai sorpassati, non pensando che, forse, il futuro possibile potrebbe essere Fig. 13 - Gunther Von Hagens, Lo Spellato quello che parte proprio dall’uomo. ◊ 30 La distanza fra noi e la scienza: discorso semiserio. Marco Salucci L ’atteggiamento dell’opi sta ci si sente raccontare più o nione comune nei con meno la (solita) storia seguente: fronti della scienza mi uno scienziato elabora una teoria e sembra caratterizzato da due ele- poi procede a effettuare esperimenti menti: l’uomo della strada ritiene per verificarla. Se una teoria ha suche (a) la scienza descriva e spie- perato un certo numero di verifiche ghi la realtà e che sperimentali è, ap(b) tale spiegaziopunto, vera. QueNonostante la sua ne sia accessibile sto metodo funzionatura democratica agli scienziati e na, si conclude, in la scienza non è solo limitatamente quanto sono i fatti accessibile a tutti all’uomo comune. stessi a decidere Si tratta di due cadella verità di una ratteri che hanno a che fare con teoria. Ebbene non c’è una sola fra ambiti diversi: il primo attiene alla le affermazioni che ho appena ririflessione sulla scienza, il secon- portato che sia pacifica. In primo do concerne i risultati conseguiti luogo non si può dire di aver verifidalla scienza. Ma mentre nel secon- cato la teoria “tutti i corvi sono neri” do caso si ammette esplicitamen- perché tutti i te un’ignoranza, nel primo caso si corvi osservati ritiene di essere nel giusto: che fino ad oggi cosa potrebbe altrimenti essere la sono risultati scienza se non una spiegazione di neri: nulla infatti cosa accade in natura? Nella pri- impedisce che ma parte richiamerò uno dei possi- domani si osbili modi con cui è possibile mette- servi un corvo re in dubbio i luoghi comuni relativi bianco. Non è al modo di procedere della scien- neppure possiza; nella seconda parte accennerò bile appellarsi a una ragione che spiega il caratte- all’esistenza di re esoterico che l’uomo comune at- una legge di natura per la quale tuttribuisce alla scienza – in verità l’im- ti i corvi – compresi quelli non ospresa più democratica che esista - servati - sono neri; per giustificare . Lo scopo è quello di misurare la tale legge, infatti, dovremmo citare distanza che corre fra noi e la scien- pur sempre il fatto che tutti i corvi za. osservati sono neri, esponendoci così alla stessa obiezione. In conA) Cosa significa “spiegare”? clusione l’osservazione di un certo numero di corvi neri non rende cerComunemente si afferma – tamente vera ma solo probabilmene quasi sempre perché lo si è im- te vera la teoria “tutti i corvi sono parato a scuola – che la scienza neri”. Ma qui si presenta un’altra difmoderna sia caratterizzata dal me- ficoltà: siccome l’enunciato “tutti i todo sperimentale. E fin qui tutto corvi sono neri” è logicamente equibene. Quando si cerca però di pre- valente a “tutte le cose che non cisare in cosa tale metodo consi- sono nere non sono corvi” allora l’osservazione di un tramonto rosso conferma la teoria “tutti i corvi sono neri”. Il che è, evidentemente, paradossale. I guai dell’opinione comune sul metodo usato dalla scienza non sono però finiti: cosa sono i “fatti” l’osservazione dei quali dovrebbe decidere della “verità” di una teoria? Sono fatti osservati i quark? I buchi neri? I neutrini? Non osservavano lo stesso fatto Tolomeo e Copernico quando vedevano il Sole sorgere all’orizzonte? Eppure per Tolomeo si trattava del Sole che si alzava mentre per Galileo dell’orizzonte terrestre che si abbassava. Se, dunque, uno stesso fatto è compatibile con teorie diverse, come si può sostenere che una teoria descrive ed è verificata dai fatti? I problemi appena menzionati hanno, nella letteratura specialistica, un nome e un cognome: si tratta dei problemi dell’induzione, della verifica, della conferma, della distinzione fra termini osservativi e termini teorici, della sottodeterminazione delle teorie. Per ovvi motivi di spazio non posso fare nulla di più che nominarli 1 . Tuttavia, vorrei dare un’idea meno sommaria almeno di una questione, una 31 delle grandi quei corvi neri. Come faccia- formule magiche non si sciolgono stioni della filomo a sapere che tutti i nell’acqua” sarebbe falsa, mentre sofia della scienmetalli se riscaldati si “se i metalli non sono sottoposti a za contemporaespandono? Solo quelli calore non si dilatano” è vera. Il punnea: quella della fino ad oggi osservati si to però è che non sempre possiaspiegazione. Il espandono. Vogliamo mo sapere se una condizione è ridibattito ha un precisare allora che tutti levante o se è una generalizzaziopunto di riferii metalli se riscaldati si ne senza aver già un’idea di cosa mento ben precidilatano perché c’è una sia rilevante e di quale sia la legge. so e imprescinlegge di natura che afferTerzo problema. Supponiadibile rappresenma “tutti i metalli se ri- mo che l’arrivo di un certo tipo di tato dal modello Carl Gustav Hempel scaldati si dilatano”. Ma fronte atmosferico di bassa prescosiddetto notale legge deriva sempre sione sia sempre seguito da una mologico deduttivo propo- dal fatto che i metalli osservati fino tempesta e che certe letture di un sto nel 1948 da C. G. ad oggi si espandono. Dunque non barometro siano un segno certo Hempel e P. Oppenheim2. siamo nelle condizioni di fare pre- dell’arrivo di tale tipo di fronte. DunSecondo tale modello un visioni sul futuro o affermazioni ge- que la lettura di bassa pressione del evento E è spiegato quan- nerali, anzi siamo di fronte a un evi- barometro è sempre seguita da una do è stato dedotto da pre- dente circolo vizioso. tempesta. Ma la tempesta non può messe che esprimono le Secondo problema. Consi- essere spiegata dalla lettura del condizioni iniziali C e alme- deriamo la seguente spiegazione barometro. Per ovviare a tale prono una legge universale L. del perché un cucchiaio di sale si è blema si è cercato di far giocare il Per esempio, se vogliamo sciolto nell’acqua: concetto di causa: la lettura del baspiegare la dilatazione di • sono stati fatti gesti e reci- rometro non è una spiegazione peruna certa quantità di mertate formule magiche sul cuc- ché non causa la tempesta. Modificurio in un termometro, fra chiaio di sale; care la spiegazione introducendo la le condizioni iniziali ci sa• il sale è stato posto nell’acqua causa non è tuttavia un’operazione ranno la temperatura inizia• tutti i cucchiai di sale sotto- gratuita: essa eredita tutta una sele del mercurio, dell’ampolposti a gesti e a formule magi- rie di problemi che non è qui possila di vetro, di una bacinella che si sciolgono nell’acqua; bile neppure elencare ma che sono d’acqua calda e la legge per oggetto di discussione da almeno • il cucchiaio di sale si è sciol- tre secoli 3. la quale i metalli si dilatano to nell’acqua. quando riscaldati. Questa evidentemente non B) Perché a volte la scienLa deduzione avverrà è una spiegazione scientifica, ma za sembra difficile? come segue: • un’ampolla di vetro come distinguerla da una genuina contenente mercurio spiegazione scientifica? Qualche Nell’opinione comune è alalla temperatura di 20 0 autore si è appellato al concetto di tresì diffusa una diagnosi del punto gradi centigradi è stata rilevanza (gesti e forb: l’analfabetismo posta in una bacinella mule magiche sono scientifico. Le ragio“L’analfabetismo d’acqua calda alla tem- irrilevanti per il verini di tale analfabetiscientifico è in Italia peratura di 500 ; ficarsi del fenome- particolarmente grave” smo sono varie e • il mercurio è un me- no), qualche altro complesse, richietallo; alla distinzione fra generalizzazio- derebbero un esame delle politiche • tutti i metalli si dila- ni accidentali e leggi. Ciò che distin- educative e scolastiche, degli inditano se riscaldati; gue una legge da una generalizza- rizzi dell’industria culturale e dei zione lo si può capire immaginan- mass media, dei caratteri della cul• il mercurio nell’am- do cosa accadrebbe se… Nel no- tura nazionale (nel caso del nostro polla si è dilatato. stro caso se “tutti i cucchiai di sale paese tradizionalmente di tipo letTutto bene? No. Pri- sottoposti a gesti e a formule ma- terario, umanistico e giuridico). mo problema: quello dell’in- giche si sciolgono nell’acqua” fos- L’analfabetismo scientifico esiste, duzione, lo stesso proble- se una legge allora “se i cucchiai di innegabilmente; e in Italia il problema che abbiamo avuto con sale non sono sottoposti a gesti e ma è particolarmente grave. Affer32 mato con decisione tutto ciò, vorrei quella novecentesca contempora- posto su un corpo in moviperò concentrarmi su un aspetto di- nea. Il punto che vorrei sottolineare mento, se non vi è fissato, verso che chiamerò antropologico: è però che tali specie di homo non tende a cadere in direzione l’ignoranza scientifica dell’uomo sono estinte, ma convivono oggi contraria al senso del mocomune dipende dalla distanza che tutte insieme. L’homo aristotelicus vimento; in natura tutti i corpi c’è fra le teorie scientifiche e il è l’uomo della strada, è colui che hanno grandezze loro promodo con cui l’uomo comune vede non ha nessuna prie indipenden“le leggi naturali e percepisce spontaneamente il c o n o s c e n z a temente dal fatmondo. La formulazione forse più scientifica e che che valgono sulla Terra to che siano valgono in tutto efficace della distanza fra l’imma- per conoscere la misurate o no; l’universo” gine scientifica del mondo e quella realtà usa la dotatutti i corpi che ruotano su se dell’esperienza comune è stata zione di strumenti espressa da Eddington nel 1929 fornitagli dalla natura: i cinque sen- stessi presentano la stesquando, introducendo la sua opera si e qualche semplice struttura ra- sa faccia dopo ogni giro. Se The Nature of the Physical World, zionale della logica classica. L’ anche il mio lettore condividichiarava di averla scritta seduto homo positivisticus ovviamente è de tali affermazioni allora ai suoi due tavoli: “uno di essi mi è dotato di tutte le conoscenze e ca- appartiene alla specie familiare fin dall’infanzia [...] Ha pacità percettive dell’uomo comu- homo aristotelicus. Che c’è estensione; è relativamente costan- ne ma in più ha una media cultura di male? Approfondiamo le te; è colorato; soprattutto, è solido scientifica, normalmente appresa a conseguenze di tali affer[...] L’altro [...] è soprattutto vuoto. scuola. L’homo einstenianus, infine, mazioni e lo capiremo. “In Disseminate in questo vuoto ci è colui che ha accesso alla scien- natura un oggetto si muove sono numerose cariche elettriche za ad un livello abbastanza eleva- fintanto che dura la forza che viaggiano a gran velocità; ma to; sicuramente appartengono a tale che lo fa muovere”, signifila loro massa complessiva è meno specie gli scienziati ma anche chi ca che tutti i corpi tendono di un miliardesimo della massa del abbia una cultura scientifica aggior- naturalmente a stare in tavolo medesimo [...] Non ho biso- nata (il che, dunque, non vuol dire quiete e anche che le leggi gno di dirvi che la scienza moder- ottocentesca). Per saggiare il valo- naturali che valgono sulla na mi ha assicurato [...] che il mio re esplicativo della nostra nuova Terra non valgono nel resto secondo tavolo, quello scientifico, teoria antropologico-culturale, ve- dell’universo dal momento è il solo che esista realmente”4. diamo quali sono le culture delle tre che i corpi celesti, come il Poiché ho detto sopra che specie di homo citandone alcune Sole, ruotano incessantela distanza tra scienza e uomo co- semplici credenze. Il mio lettore può mente. Falso! Galilei e mune dipende da caratteri psico- utilizzarle come un test per scopri- Newton hanno mostrato antropologici, tenterò di esprimere re a quale specie di homo appartie- che tutti i corpi, in Terra e in il mio punto di vista in modo un po’ ne, a seconda delle affermazioni cielo, perseverano nel loro stato di quiete o di movischerzoso immaginando tre che condividerà. sottospecie di homo sapiens: l’hoL’homo aristotelicus pensa, mento a meno che una formo aristotelicus, l’hoper esempio, che: sic- za non intervenga a cammo positivisticus e come se smettiamo di biarne lo stato (principio l’homo einstenianus. Si pedalare la bicicletta si d’inerzia). Non va meglio tratta, come si capiferma, allora in natura un neppure per le altre credensce, di una classificaoggetto si muove ze dell’homo aristotelicus. zione che ripercorre tre fintanto che dura la for- Infatti: la piuma giunge a tappe fondamentali delza che lo fa muovere; toccare il suolo dopo la palla storia del pensiero: siccome una palla di la di piombo perché offre rispettivamente quella piombo raggiunge il suo- più resistenza all’aria, in antica e medievale raplo prima di una piuma condizioni di vuoto entrampresentata da Aristoteanche quando entram- be toccherebbero terra nel le “maestro di color be siano fatte cadere medesimo istante. La veloAristotele che sanno”, quella modalla stessa altezza al- cità di caduta è una funzione derna ottocentesca della quale lora in natura i corpi più pesanti ca- del tempo e degli spazi perprendo a simbolo il positivismo, e dono più velocemente; un oggetto corsi, non della pesantezza. 33 Si può dare una de- che non percepiamo il movimento re. Abbiamo così compiuto un salto scrizione matematica della della Terra e che anzi ci sembra pro- evolutivo (cognitivo) che ci ha fatto caduta (in termini di spazi prio di star ben piantati immobili sulla lasciare lo stadio dell’homo aristotee tempi) senza ricorrere a terra? E non è forse vero anche che licus per quello successivo. Fuori di concetti come pesantezmetafora: siamo stati a scuola e za e leggerezza. La peabbiamo imparato un po’ di sciensantezza e la leggerezza za galileiana. Ma non è finita: il non sono proprietà intrinpeggio deve venire perché restaseche dei corpi ma dipenno ancora due delle nostre afferdono dalla forza di gravità mazioni esemplari che anche chi con cui la Terra li attrae. ha studiato un po’ di scienza non “Un oggetto posto su un può mettere in discussione e cioè corpo in movimento, se - prima affermazione - “in natura non vi è fissato, tende a tutti i corpi hanno grandezze loro cadere”; non è forse proprie indipendentemente dal fatvero? Non è per questo to che siano misurate” (banalche leghiamo le valigie sul mente ciò significa che la lunghezLa forma dello spazio in prossimità del Sole portapacchi della macchiza di una strada non dipende dalna? Ma se fosse vero ne l’atto di misurarla); - seconda afconseguirebbe che la Terra se smettiamo di pedalare la biciclet- fermazione - “tutti i corpi che ruotano è immobile, altrimenti gli og- ta si ferma? Dunque la condizione di su se stessi presentano la stessa getti che si trovano o che Aristotele in cui si trovava quando ela- faccia dopo ogni giro” (banalmente cadono dall’alto di una torre, borava la sua scienza è la stessa in ciò significa che rivedremo il nostro per esempio, toccherebbero cui ci troviamo noi nel percepire la amico seduto sulla giostra al termine il suolo spostati in direzione realtà nella vita quotidiana (l’immagi- di ogni giro). Se non condividete più contraria al movimento della ne del senso comune di Eddington): le affermazioni di Aristotele ma conterra, cioè verso est5. Appar- la fisica di Aristotele è la fisica spon- dividete ancora queste due appena tenete alla specie homo ari- tanea che deriva dal nostro ordinario citate allora appartenete alla specie stotelicus fino a questo pun- uso dell’apparato percettivo e homo positivisticus, cioè avete una to? Mai sentito nominare il sensoriale di cui siamo naturalmen- cultura scientifica, sì, ma ottocenteconcetto di sistema inerzia- te dotati. I sensi di cui noi uomini con- sca, vecchia cioè di cento anni. le? Beh, è un concetto vec- temporanei disponiamo sono gli stesLa prima affermazione è falchio di tre secoli6. si di quelli di cui disponeva Aristotele: sa perché la fisica atomica ha moCiò che mi interessa gli antichi non credevano che la Ter- strato che le particelle fondamentali mostrare non è però quanto ra fosse immobile perché ci vedeva- di cui è composta la realtà acquisifosse errata la dottrina di Ari- no peggio di noi! scono certe granstotele, ma quanta fatica è La fisica di Aristodezze solo nel occorsa ed occorra per mo- tele è dunque ben “L’amico seduto sulla giostra momento in cui strare che è sbagliata: oltre radicata nel modo sarebbe visibile vengono misuraventi secoli di storia per in cui il nostro apte. La seconda afun giro sì e un giro no!” l’umanità e oltre dieci anni di parato percettivo fermazione è falstudio per i nuovi nati delle è fatto: è dunque sa perché, per specie homo positivisticus e una fisica spontanea, ingenua7. esempio, l’elettrone possiede una proI nostri sensi ci fanno crede- prietà, detta spin, che può essere aphomo einstenianus. Si fa presto a dire che la dottrina di re, per esempio, che la Terra sia im- prossimativamente immaginata Aristotele è tutta sbagliata: mobile, ma sappiamo che ci ingan- come la strana proprietà che avrebche stupido Aristotele a pen- nano: la Terra si muove. I nostri sen- be un corpo in rotazione su se stessare che la Terra fosse fer- si sono uguali a quelli dell’homo ari- so se presentasse la stessa faccia ma al centro del sistema so- stotelicus e noi continuiamo a perce- ogni due giri. L’amico seduto sulla giolare! Che ingenuo a credere pire la Terra immobile; tuttavia la no- stra sarebbe visibile un giro sì e un che se un cavallo smette di stra ragione e le nostre conoscenze giro no! Sono, questi appena ricortrainare un carro il carro si si sono evolute: sappiamo che la na- dati, risultati conseguiti tra la fine delferma! Ma non è forse vero tura non è esattamente come appa- l’Ottocento e il Novecento quando 34 sono avvenuti cambiamenti così pro- la meraviglia). La prima: “meravigliofondi nella scienza che vanno ben al sa è la ragione” che ci permette di di là non solo del nostro modo natu- elaborare teorie che vanno al di là di rale di percepire il mondo ma sfidano ciò che è possibile percepire. La seanche la nostra ordinaria capacità di conda: “meravigliosa è la matematiimmaginazione. ca” che ci permetCrisi dei fondamente di trascendere “ la distanza ti della matematica, non solo i limiti fra noi e la scienza geometrie non della percezione è un buon motivo euclidee, teoria delma anche quelli per avvicinarla, la relatività e mecdell’immaginazionon per evitarla” canica quantistica ne. La terza: “mesono i campi in cui ravigliosa è la nala scienza ha conosciuto tali tura” nella quale ci sono più cose di sconvolgimenti. Si tratta di ambiti nei quanto la tua scienza e la tua poesia, quali sono sorte teorie che sono or- Orazio, possano immaginare. mai non solo ampiamente accettate Oltre a una morale c’è anche dalla comunità scientifica ma che fan- una conclusione, e come ogni conno parte del normale curriculum uni- clusione che si rispetti si trova all’iniversitario delle facoltà scientifiche. Te- zio, già nel titolo: la distanza fra noi e orie ormai vecchie di quasi cento anni, la scienza è un buon motivo per avvisono ancora ignote all’uomo comu- cinarla, non per evitarla. ne e ignorate anche da coloro che abbiano una cultura scientifica di livello P.S. Rileggendo quanto ho medio perché i curricula scolastici al scritto inclino a credere nella verità massimo riescono a formare un del motto “si diventa ciò che si è”. homo positivisticus. Le “stranezze” Fanno parte delle caratteristiche della fisica contemporanea non si li- delle persone non solo i tratti fisici mitano ovviamente alle due appena e psicologici ma anche opinioni, menzionate, sono innumerevoli, si idee e interessi molti dei quali afpensi al rallentamento del tempo e al- fondano le radici negli anni della giol’accorciamento delle lunghezze per vinezza. Per quanto mi ricordo velocità prossime a quella della luce, sono sempre stato affascinato dalad un universo a n dimensioni (non la capacità della scienza di oltrepiù solo quello quadridimensionale passare sistematicamente le codello spazio-tempo di Einstein e lonne d’Ercole della percezione e Minkowski), alla casualità degli even- dell’immaginazione. Ho anche semti subatomici. In tutti questi casi si ha pre provato un sentimento di ama che fare con risultati ottenuti con mirazione per gli scienziati-esplostrumenti matematici. La soluzione ratori e di meraviglia per i nuovi di certe equazioni ci conduce a con- mondi scoperti. Ovviamente con clusioni che non è possibile uno stile e con contenuti diversi rivisualizzare neppure con la fantasia cordo di aver svolto lo stesso argo(si pensi ad alcuni risultati non solo mento in un tema di italiano al pridella meccanica quantistica ma an- mo anno delle superiori. La profesche della cosmologia nonché alle pro- soressa lo valutò gravemente insufspettive aperte dalla teoria delle cor- ficiente (ritenendomi anche meritede o superstringhe8). vole di una pubblica reprimenda) e C’è una morale in tutto que- mi giudicò senza appello inadatto sto? Ce ne sono molte, ne suggeri- a proseguire gli studi. Dedico quesco una che chiamerò “la morale sto scritto a lei, e a quegli studenti delle tre meraviglie” (vi ricordo che la (ormai rari) che si sentono scoragconoscenza era per i greci figlia del- giati da un brutto voto. ◊ Note 1 Si veda un qualunque manuale introduttivo alla filosofia della scienza, per es. fra i più recenti: S. Okasha, Il primo libro di filosofia della scienza, Torino, Einaudi 2006; M. Dorato, Cosa c’entra l’anima con gli atomi? Introduzione alla filosofia della scienza, Bari, Laterza 2007; J. Ladyman, filosofia della scienza, Roma Carocci 2007. 2 C. G. Hempel, P. Oppenheim, Studies in the Logic of Explanation, in “Philosophy of Science” 15, 1948, pp. 135175, si può leggere in italiano in C.G. Hempel, Aspetti della spiegazione scientifica, Milano, Il Saggiatore,1986. 3 Intendo almeno dalla discussione fattane da D. Hume. 4 A.S. Eddington, The Nature of the Physical World, New York, Cambridge UniversityPress, 1929, pp. IX-XII. 5 E’ l’obiezione degli aristotelici contro Galilei. 6 Cioè almeno quanto colui che l’ha elaborato: Galilei. 7 Sulla fisica ingenua cfr. M.McCloskey, Intuitive Physics, in “Scientific American“, 248(4), 1983, pp. 122-130 e P. Bozzi, Fisica ingenua, Milano, Garzanti 1998. 8 Sulla quale si può vedere B. Greene, L’universo elegante, Torino, Einaudi 2003. Fra i moltissimi testi divulgativi cito solo: S, Hawking, Dal Big Bang a i buchi neri, Milano Rizzoli 1988 e P. Davies, Il cosmo intelligente, Milano, Mondadori, 1989. 35 Costruzione geometrica delle radici dell’eq. 2° Marice Massai La risoluzione dell’equazione di secondo grado mediante costruzioni geometriche viene affrontata e risolta da Cartesio suddividendola in vari casi a seconda del segno dei coefficienti.Riportiamo la costruzione che permette di determinare le soluzioni della seguente equazione di secondo grado (1) che corrisponde all’equazione nel caso in cui ci sono due soluzioni reali distinte. ( La soluzione di è ovvero ) che può essere scritta (2) COSTRUZIONE GEOMETRICA Si costruisca la circonferenza di raggio NL uguale ad (a = coefficiente della x nella (1)) Si tracci la parallela ad un diametro alla distanza pari a b (*), siano R ed Q le intersezioni della retta con la circonferenza. Si tracci da L la perpendicolare a tale retta e si indichi con M la loro intersezione. MQ e MR sono le soluzioni cercate Per il teorema di Pitagora applicato al triangolo NQO , ovvero segue - (prima soluzione) (seconda soluzione) Verifichiamo geometricamente che MQ e MR sono le soluzioni cercate: Si unisca L con Q ed Q con L’ il triangolo L’QL è rettangolo perchè inscitto in una semicirconferenza. Si mandi la perpendicolare da Q ad NL 36 Per il Teorema di Pitagora applicato al traingolo rettangolo LQH si ha Per il teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo LQL’ ovvero Ne segue che MQ è soluzione Si unisca L’ con R ed R con L il triangolo L’RL è rettangolo perche inscitto in una semicirconferenza Si mandi la perpendicolare da R ad NL’ per differenza di segmenti uguali, ne segue: Per il Teorema di Pitagora applicato al traingolo rettangolo LRH’ si ha Per il teorema di Euclide applicato al triangolo rettangolo LRL’ ovvero Ne segue che MR è soluzione (*) Si dovrà saper costruire un segmento di lunghezza Si riporta la costruzione con riga e compasso di Si dispongono consecutivamente un segmento OA = x ed un segmento AB =1; si traccia quindi la circonferenza di diametro OB (centro nel punto C) e la perpendicolare per A al diametro OB , che Incontra in D la circonferenza. Essendo il triangolo ODB rettangolo in D, il segmento DA , per il II° teorema di Euclide, risulta appunto .◊ 37 I FLUIDI, QUESTI SCONOSCIUTI! Paolo Boncinelli INTRODUZIONE Parlare di fluidi significa parlare di sistemi fisici incontrati in numerose esperienze di vita quotidiana. Aprire il rubinetto dell’acqua in casa, ripararsi da un forte vento, fare il bagno fra le onde del mare, gonfiare gli pneumatici dell’automobile, compiere un viaggio in aereo, sono tutti semplici esempi di occasioni in cui ci si trova ad interagire con un fluido e con il suo stato di quiete o di moto. Le caratteristiche e il comportamento dei fluidi iniziano ad essere oggetto di studio scientifico a partire dal XVII secolo, con i lavori di Torricelli e Pascal, anche se già Archimede nel III secolo a.C. se ne era occupato, formulando il suo celeberrimo Principio riguardante la spinta ricevuta dai corpi immersi in un liquido. Lo studio si è poi sviluppato con il contributo, fra i tanti, di Eulero, Bernoulli, Navier e Stokes, Reynolds, Rayleigh, Prandtl. Inoltre, soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, è cresciuto in modo enorme il numero di applicazioni tecnologiche in cui i fluidi rivestono un ruolo importante, se non essenziale: basti pensare ai motori a combustione interna per le automobili, o ai turbojet per gli aerei, per fare due esempi. Perché allora parlare di fluidi come di “sconosciuti”? In questo lavoro, si è cercato di approfondire, da un punto di vista fisico, la conoscenza dei fluidi. Partendo da una definizione di tali sistemi basata sulle loro proprietà meccaniche e termodinamiche, che chiariscono in modo più preciso il concetto di fluido, l’attenzione si è concentrata sulla fluidodinamica, cioè sullo studio del moto dei fluidi. Sono presentate le principali caratteristiche fisiche dei fluidi in movimento (flussi), associate alla comprimibilità, che distingue i gas dai liquidi, e alla viscosità, cioè all’attrito interno di un fluido. Nella seconda parte del lavoro, sono stati 38 discussi alcuni aspetti particolari del moto, in cui gli effetti della comprimibilità e della viscosità caratterizzano in modo fondamentale la struttura del flusso. Nelle conclusioni, sulla base di quanto emerso dalle precedenti considerazioni, si è cercato di dare una risposta alla domanda da cui è originato il presente lavoro. IL CONCETTO DI FLUIDO Lo stato fisico della materia definito come “fluido” comprende, in generale, tutte quelle sostanze che non hanno caratteristiche meccaniche di rigidità, e che possono deformarsi e scorrere. Di conseguenza, un fluido non ha una forma propria, ma assume quella del recipiente che lo contiene. In tale categoria rientrano tutte le sostanze allo stato liquido o gassoso, in cui i legami intermolecolari sono costituiti da forze di coesione molto deboli, che consentono appunto lo spostamento delle molecole l’une rispetto alle altre [1]. Una caratterizzazione formalmente rigorosa di un fluido può essere fatta solo ricorrendo a strumenti di calcolo tensoriale, ed esula dalla presente trattazione. Tuttavia è possibile dare anche una definizione di fluido più semplice e altrettanto corretta, anche se meno formale. Si consideri un corpo continuo in quiete, e si supponga di sezionarlo idealmente in due parti tramite un piano. Le due parti in cui il corpo è suddiviso eserciteranno una certa forza l’una sull’altra in corrispondenza dell’interfaccia di separazione sul piano. Tale forza, espressa in termini di “forza per unità di superficie” (sforzo), può essere scomposta in generale in due componenti: una componente normale alla superficie (sforzo normale σ ), e una tangente alla superficie stessa (sforzo tangenziale o “di taglio” τ ) (Fig.1). Si definisce “fluido” un corpo che in condizioni statiche è incapace di applicare sforzi tangenziali (τ = 0) [2]. In base a tale definizione, un corpo solido in quiete sottoposto aduno sforzo esterno è in grado di deformarsi opponendo sia sforzi normali che tangenziali, mentre un fluido (liquido o gas), può applicare solo sforzi normali (o “di pressione”). Per caratterizzare fisicamente un fluido, è necessario definire anche due grandezze essenziali per descriverne il comportamento dinamico e termodinamico: densità e pressione. Si definisce densità (puntuale) ρ di un Figura 1. Sforzo normale σ e tangenziale τ su una sezione di un corpo continuo. corpo il rapporto fra la massa δm e il volume δV di una porzione “infinitesima” del corpo. Da un punto di vista fisico è essenziale precisare esattamente cosa si intende per porzione “infinitesima” di corpo. Dato che i fenomeni studiati dalla fluidodinamica sono macroscopici, un fluido viene schematizzato come un corpo continuo [3]. D’altra parte, la fisica moderna ha mostrato come la materia sia fortemente disomogenea e discontinua a livello molecolare. Ciò significa che il modello di fluido come sistema continuo è valido solo se per porzione infinitesima si considera un volume di fluido sufficientemente grande da contenere una gran quantità di molecole. Esiste quindi un volume minimo δV* al di sotto del quale non è possibile scendere. Tale volume corrisponde, come ordine di grandezza, al volume medio intermolecolare. Nei liquidi e gas in condizioni normali di pressione si ha δV* ~ 10 -9 mm 3. δV* viene comunemente indicato come elemento fluido o particella fluida. Quindi, quando si parla di “spostamento di una particella fluida”, non ci si riferisce al moto di una singola molecola, ma a quello di un volume contenente molte molecole, anche se le dimensioni di tale volume vengono trascurate, e il volume assimilato ad un punto [3]. La pressione p in un punto del fluido, associata allo sforzo normale σ , è dovuta all’azione di una forza dFn che agisce perpendicolarmente su una superficie dA. Essa è definita come il rapporto fra l’intensità della forza dFn e l’area dA, nel limite di dA infinitesima. La pressione p, come la densità, è una quantità scalare il cui valore è indipendente dall’orientamen- to spaziale della superficie dA. Tale risultato è conosciuto come Principio di isotropia della pressione, o Principio di Pascal. CARATTERISTICHE FISICHE DEI FLUSSI La fluidodinamica è la parte della meccanica che studia il moto dei fluidi e la loro interazione con altri fluidi e/o con corpi solidi, utilizzando le consuete grandezze fisiche della cinematica (spostamento, velocità, accelerazione) e della termodinamica (densità, pressione, temperatura,....). Un fluido in movimento viene generalmente indicato come un flusso. Esistono diverse tipologie di flusso osservate in natura, caratterizzate da particolari fenomeni fisici associati a determinate proprietà del fluido. In questa sede saranno discussi gli effetti della comprimibilità e della viscosità del fluido. Flussi Incomprimibili e Comprimibili Una prima importante distinzione riguarda la differenza fra flussi incomprimibili e comprimibili. Un criterio di massima per distinguere le due tipologie di flusso può basarsi sullo stato fisico del fluido di cui si studia il moto: liquido o gassoso. I liquidi danno generalmente luogo a flussi incomprimibili, mentre vapori e gas in movimento rappresentano flussi comprimibili. Tale criterio, anche se fondamentalmente corretto, non è tuttavia rigorosamente esatto. Se infatti si considerano, ad esempio, i flussi dell’atmosfera, i venti, questi possono essere schematizzati nella pressoché totalità dei casi, come flussi incomprimibili, anche se il fluido in questione è un gas. È quindi necessario precisare meglio tale distinzione, basandosi non sono sullo stato fisico del fluido, ma anche sulle caratteristiche cinematiche del moto. Una distinzione più precisa fra flussi comprimibili e incomprimibili si basa sull’analisi del comportamento della densità ρ del fluido durante il moto. Un flusso è incomprimibile se la densità di ogni singolo elemento fluido rimane costante qualunque sia la sua condizione di moto, e varia solo per effetti termodinamici. Quando invece il valore della densità ρ del singolo elemento fluido dipende anche della velocità dell’elemento fluido stesso, il flusso è comprimibile. Dalle precedenti considerazioni, emerge il fatto che in comprimibilità e comprimibilità sono associate alla la velocità u del flusso, da confrontarsi con un’altra velocità caratteristica del fluido, la velocità del suono a, funzione del tipo di fluido e della sua temperatura T. La propagazione di onde sonore all’interno di un fluido, con velocità a, costituisce il principale fenomeno associato alla com- primibilità del mezzo. Se la velocità u risulta molto più piccola di a (u a), allora il flusso è incomprimibile. Nel caso invece in cui u sia confrontabile o superiore ad a (u a), il flusso è comprimibile. Questa distinzione fra fluissi incomprimibili e comprimibili prescinde dal fatto che il fluido in movimento sia un liquido oppure un gas. In generale, però, la velocità del suono nei liquidi è molto maggiore che nei gas: a 1100km/h in aria, mentre in acqua il suo valore è quasi cinque volte più grande (a 5100km/h). Per questo motivo, i flussi comprimibili sono caratteristici dei gas, mentre i flussi incomprimibili sono associati al moto dei liquidi. Tuttavia, tornando all’esempio precedente dei venti, anche in un fenomeno atmosferico particolarmente intenso quale un potente uragano la velocità del vento u difficilmente supera i 200km/h, cioè meno di un quinto della velocità del suono a. Ne consegue che tale flusso può considerarsi a tutti gli effetti incomprimibile, pur essendo l’aria un gas. Flussi Ideali e Viscosi Come visto, un fluido è incapace di applicare sforzi di taglio τ in risposta ad una sollecitazione proveniente dall’esterno se esso si trova in uno stato di quiete (in condizioni statiche). Questo però non è più vero in condizioni dinamiche, cioè se il fluido si muove. In tal caso, il movimento relativo dei diversi elementi fluidi uno rispetto all’altro è ostacolato dalla presenza di attriti interni, che determinano sforzi di taglio non nulli. Tali attriti vengono descritti per mezzo di una grandezza fisica, la viscosità dinamica µ del fluido, che dipende dalle caratteristiche fisiche e termodinamiche del fluido (principalmente dalla sua temperatura T ). Il valore della viscosità µ è “piccolo” per molti fluidi di interesse comune (aria, acqua). Questo fa sì che, in alcuni casi, lo studio delle caratteristiche del flusso possa trascurare l’effetto della viscosità e degli sforzi di taglio τ ad essa associati. Sulla base di questo, si distinguono due diverse tipologie di flussi: flussi ideali: flussi nei i quali la viscosità non ne influenza le caratteristiche principali, e può pertanto essere trascurata; flussi viscosi: flussi nei i quali non è invece possibile trascurare la viscosità, dato che questa influenza in modo fondamentale le caratteristiche del moto stesso. I flussi ideali, in alcune particolari condizioni, possono essere descritti dalla seguente equazione che lega fra loro le grandezze cinematiche (u) e termodina- miche (p e ρ), detta equazione di Bernoulli: (1) dove g = 9.81m/s2 è l’accelerazione di gravità. Tale semplice equazione, ricavata applicando la seconda legge di Newton della meccanica e il primo principio della termodinamica (conservazione dell’energia) ad un flusso ideale, è tuttavia valida solamente se il flusso è ideale e stazionario, e in presenza del campo di gravità g, conservativo. Pur sotto tali ipotesi limitative, l’equazione di Bernoulli è estremamente utile nello studio di numerose configurazioni di flusso, proprio in virtù della sua semplicità. Se la viscosità µ non può invece essere trascurata, l’equazione di Bernoulli non è più valida, e le equazioni che governano il flusso si complicano notevolmente. Di fatto, non esiste ancora una teoria generale capace di descrivere in modo completo i flussi viscosi, e probabilmente non esisterà mai. Questo perché il comportamento di un flusso è profondamente e sostanzialmente modificato dalla presenza della viscosità, con la comparsa di un fenomeno estremamente complesso: la turbolenza. L’importanza degli effetti viscosi nel determinare le caratteristiche di un flusso è “misurata” mediante un parametro adimensionale, il cosiddetto Numero di Reynolds, definito come: (2) ρ e µ sono la densità e la viscosità del fluido, mentre u e L rappresentano rispettivamente la velocità e la lunghezza scala caratteristiche del flusso (cioè l’ordine di grandezza delle velocità e delle dimensioni del flusso in esame). Se il numero di Reynolds Re è “basso” gli effetti viscosi sono importanti, mentre se Re è “alto” gli effetti viscosi sono trascurabili, e il flusso può essere considerato quasi ideale. Naturalmente occorre precisare in modo quantitativo cosa si intende per Re basso o alto. Senza entrare nei dettagli, i flus- 39 si più comuni incontrati quotidianamente (l’acqua che esce dal rubinetto, il vento, le onde del mare, ...) sono caratterizzati da valori del numero di Reynolds “alti” (Re ≥ 10 5). Pertanto, essi possono essere descritti utilizzando il modello di flusso ideale in modo sostanzialmente corretto ed accurato. Tuttavia, anche in un flusso ideale vi possono essere regioni del fluido in cui l’effetto della viscosità diventa importante (basso valore locale di Re ), e non può essere trascurato. Di seguito saranno illustrati e discussi alcuni esempi. ALCUNI ASPETTI PARTICOLARI Lo “Strato Limite” Come detto, anche in flussi caratterizzati da un valore elevato del numero di Reynolds Re , e quindi sostanzialmente ideali, ci possono essere regioni in cui gli effetti viscosi sono importanti, e influenzano il comportamento dell’intero flusso. Un caso tipico è quello in cui un flusso viscoso viene a contatto con la superficie di un corpo solido in esso immerso. In tal caso, gli elementi fluidi immediatamente a contatto con la parete solida hanno velocità nulla rispetto alla parete stessa, per effetto dell’attrito fra solido e fluido. Questo fenomeno fisico viene generalmente descritto come condizione di aderenza a parete. Gli elementi fluidi a contatto con la parete, a loro volta, applicano agli elementi immediatamente adiacenti sforzi di taglio non nulli. Tali sforzi sono proporzionali alla variazione di velocità in direzione perpendicolare alla parete e alla viscosità del fluido, e determinano un rallentamento degli elementi stessi. Come illustrato in Fig. 2, muo- Figura 3. Visualizzazione dello strato limite su un profilo alare vendosi lungo il corpo, in direzione x, il fenomeno si estende progressivamente all’interno del flusso fino ad una certa distanza dalla parete δ(x) . In prossimità della parete, quindi, il flusso ha una velocità u(x,y) variabile punto per punto, e più bassa rispetto alla velocità del flusso indisturbato U. La regione così individuata viene detta strato limite. Lo strato limite si genera in prossimità della superficie di ogni corpo solido immerso in un flusso viscoso in moto relativo rispetto ad esso. In Fig. 3 si riporta, come esempio, la visualizzazione, ottenuta da esperimenti di laboratorio, dello strato limite sviluppato su un profilo alare. Nello strato limite sono dunque importanti, e quindi non trascurabili, gli effetti viscosi. Il suo spessore δ(x), indicato in Fig. 2 dalla linea tratteggiata, dipende dalle caratteristiche del flusso (viscosità µ , densità ρ e velocità del flusso indisturbato U) e dalla lunghezza L del corpo solido, cioè dal numero di Reynolds Re. Tipicamente lo spessore dello strato limite è piccolo rispetto alle dimensioni del corpo solido. Ad esempio, sull’ala di un comune aereo passeggeri in volo, lo strato limite che si genera per effetto del moto relativo dell’aria può avere uno spessore dell’ordine di qualche centimetro. Tuttavia, l’impatto degli effetti viscosi all’interno dello strato limite è importante, dato che da essi dipende la resistenza all’avanzamento che il corpo solido incontra muovendosi rispetto al fluido. Figura 2. Sviluppo dello strato limite su una lastra piana. 40 Flussi Laminari e Turbolenti In natura è possibile osservare essenzialmente due diversi regimi di flusso, aventi caratteristiche molto diverse fra loro: flussi in regime laminare e flussi in regime turbolento. (a) Flusso laminare (Re basso) (b) Flusso turbolento (Re alto) (c) Struttura del flusso nei diversi regimi Figura 4. Confronto tra un flusso laminare e un flusso turbolento uscenti da un condotto Si parla di flusso laminare quando il moto del fluido avviene in modo ordinato, simile a quello di tante lamine sovrapposte in relativo scorrimento (da cui il nome). In un flusso laminare, le velocità e le variabili termodinamiche sono stazionarie o variano lentamente e con regolarità nel tempo, e piccole perturbazioni del moto sono rapidamente smorzate. I flussi turbolenti sono invece caratterizzati da un moto fortemente disordinato e vorticoso, in cui si osserva un intenso miscelamento fra strati diversi di fluido. Sia la velocità che le variabili termodinamiche hanno un andamento mediamente regolare nel tempo, come nel caso laminare, ma a questo campo di moto medio si sovrappongono fluttuazioni rapide e casuali, che rendono estremamente difficile descrivere il moto in dettaglio. In Fig. 4 sono riportati per confronto i due diversi regimi nel caso di un flusso uscente da un tubo. È evidente la maggior complessità della struttura del flusso turbolento (Fig. 4(b)) rispetto a quello laminare (Fig. 4(a)). La diversa struttura del flusso nei due diversi regimi è schematicamente illustrata in Fig. 4(c): in regime laminare, ogni strato di elementi fluidi si muove con regolarità dall’ingresso all’uscita del tubo, senza mescolarsi con gli strati adiacenti. In regime turbolento, invece, i diversi strati si mescolano fra loro, e non è più possibile individuare traiettorie regolari per i singoli elementi. È possibile che un flusso sia inizialmente laminare, e successivamente, nel corso del suo sviluppo, diventi turbolento. La fase in cui avviene il passaggio da laminare a turbolento viene detta transizione. Come nel caso dei flussi ideali e viscosi, la tipologia di flusso, laminare o turbolento, è determinata dal valore assunto dal numero di Reynolds Re . Tipicamente, se Re è “basso” (generalmente Re ≤ 103 ), il flusso è laminare. Per valori di Re compresi fra 103 e 104 si ha transizione da regime laminare a turbolento. Se invece Re è “alto” (Re ≥ 104) il flusso è turbolento. Tali valori di Re non sono da considerare come limiti “rigidi” di passaggio da un regime ad un altro, ma piuttosto come valori indicativi, ordini di grandezza di riferimento. Dato che, come precedentemente discusso, i flussi più comuni sono caratterizzati da alti valori del numero di Reynolds (Re 105), in natura si incontrano più facilmente flussi turbolenti che laminari. Il diverso regime, laminare o turbolento, non ha influenza solo sulla struttura del flusso, ma anche su altri effetti globali, quale la resistenza opposta ad un corpo solido che si muove rispetto al fluido. Si consideri, ad esempio, il moto di una sfera in acqua (flusso incomprimibile), illustrato in Fig. 5. Forma e spessore dello strato limite che si sviluppa sulla sfera sono notevolmente diversi nei due diversi regimi, laminare (Fig. 5(a)) o turbolento (Fig. 5(b)). Così è anche per la forza di resistenza viscosa applicata dall’acqua alla sfera nei due casi. In Fig. 5(c) è riportato l’andamento sperimentale del coefficiente di resistenza viscosa CD, proporzionale a tale forza, in funzione del nu- mero di Reynolds Re per una sfera. Si può osservare come, all’aumentare del valore di Re (passando cioè da un flusso laminare ad un flusso completamente turbolento) il valore di CD diminuisce di diversi ordini di grandezza, passando dal valore CD = 100 per Re = 1 ad un valore circa mille volte più piccolo (CD 0,1 ) per Re 106. Nel caso di una sfera, dunque, un flusso turbolento offre una resistenza all’avanzamento notevolmente inferiore rispetto ad un flusso laminare. riazione delle grandezze fluidodinamiche e termodinamiche del flusso, che avviene in una regione spaziale molto limitata. A tale fenomeno sono dovuti gli effetti associati alla propagazione delle onde sonore emesse da una sorgente acustica in mo- Flussi Subsonici e Transonici Come visto, se un flusso acquista una velocità u confrontabile con la sua velocità del suono a (u a), la sua densità varia significativamente al variare delle condizioni di moto, e gli effetti di comprimibilità diventano importanti. Due sono i principali fenomeni fisici osservati: 1. la comparsa di onde d’urto all’interno del flusso, che consistono in brusche e forti variazioni della velocità e delle altre grandezze termodinamiche in una regione molto ristretta del flusso; 2. il fenomeno del choking (in inglese, “soffocamento”), per il quale esiste un valore massimo della portata (cioè della massa per unità di tempo) di fluido smaltibile da un condotto. In analogia col ruolo svolto dal numero di Reynolds Re nel caso degli effetti della viscosità, anche nel caso degli effetti di comprimibilità è possibile definire un parametro adimensionale capace di misurare la loro importanza. Tale parametro si chiama numero di Mach, ed è definito come il rapporto fra la velocità del flusso u e la velocità del suono a: (a) Strato limite laminare (Re basso) (b) Strato limite turbolento (Re alto) (3) Così, se il valore del numero di Mach Ma è “basso” ( Ma < 0.3), il flusso è incomprimibile. Al crescere del suo valore, si incontrano i regimi di “flusso comprimibile subsonico” (0.3 < Ma < 0.8) , “flusso comprimibile transonico” (0.8 < Ma < 1.2) e “flusso supersonico” (1.2 < Ma). Considerando, ad esempio, l’aria, in condizioni normali di temperatura e di pressione la velocità del suono è circa a 1100km/h. Tutti i moti dei venti rientrano quindi nel regime dei flussi incomprimibili, mentre il moto degli aerei viene a cadere nei regimi di flussi subsonici (aerei civili) e transonici (aerei militari), con alcune punte in campo supersonico, nel caso degli aerei militari di ultima generazione. Il primo fenomeno associato alla comprimibilità, le onde d’urto, è, come detto, caratterizzato da una improvvisa va- (c) Coefficiente di resistenza viscosa cd in funzione del numero di Reynolds Re Figura 5. Struttura dello strato limite e resistenza viscosa per una sfera in acqua (da [2]). 41 (a) Sorgente a velocità subsonica (Ma < 1 ) (b) Sorgente a velocità sonica (Ma = 1) (c) Sorgente a velocità supersonica (Ma > 1) Figura 6. Fronti d’onda emessi da una sorgente acustica in movimento in un fluido (da [2]). 42 vimento all’interno di un fluido, noti dall’esperienza di tutti i giorni. Si consideri una sorgente acustica (ad esempio, un aereo in volo) in movimento in un fluido con velocità U. Per semplicità, si supponga che la sorgente sia puntiforme e che emetta rumore in modo uniforme in ogni direzione dello spazio, cosicché i fronti delle onde sonore sono circonferenze aventi il centro in corrispondenza del punto dello spazio in cui si trova la sorgente al momento della emissione. Il fenomeno è illustrato schematicamente in Fig. 6. Sono possibili tre diversi casi: sorgente in moto con velocità subsonica (Ma < 1): in questo caso, l’onda sonora raggiunge ogni punto dello spazio attorno alla sorgente, come illustrato in Fig. 6(a). Per effetto del moto della sorgente, i fronti d’onda circolari si schiacciano dalla parte in cui la sorgente avanza, e si allontanano dalla parte opposta. Ciò determina il ben noto fenomeno dell’effetto Doppler per cui, il tono del rumore dell’aereo in avvicinamento sembra più acuto del normale, mentre quando l’aereo si allontana il tono sembra più basso; sorgente in moto con velocità sonica (Ma = 1): in questo caso, la sorgente acustica si muove assieme ai fronti d’onda da essa emessi, e l’onda sonora raggiunge solamente i punti situati nel semispazio da cui la sorgente proviene (Fig. 6(b)); sorgente in moto con velocità supersonica (Ma > 1): in questo caso, la sorgente precede nel suo moto i fronti d’onda, e l’onda sonora può essere percepita solo all’interno di una regione conica detta cono di Mach (Fig. 6(c)) (zona del rumore), mentre all’esterno di tale regione nessun segnale acustico può pervenire (zona del silenzio). La superficie di separazione del cono di Mach costituisce un’onda d’urto di spessore Figura 7. Fenomeno del “boom” sonico dovuto ad un aereo in moto supersonico (da [2]). estremamente ridotto. L’apertura geometrica del cono di Mach dipende dal valore del numero di Mach Ma, ed è tanto più ridotta quanto maggiore è tale valore. Questo comportamento delle onde sonore è responsabile del ben noto fenomeno del “boom” sonico che si avverte al passaggio di un aereo supersonico, illustrato in Fig. 7. Infatti, un osservatore che si trova a terra non si accorge del passaggio dell’aereo se non nel momento in cui entra all’interno del cono di Mach da esso prodotto. In quel momento egli passa bruscamente dalla zona del silenzio alla zona del rumore, percependo un rumore tanto intenso quanto improvviso. Il secondo fenomeno associato agli effetti di comprimibilità, il choking, si osserva ogni volta in cui si ha un flusso comprimibile all’interno di un condotto a sezione variabile, come quello illustrato in Fig. 8: il flusso proviene da sinistra, dove sono fissate determinate condizioni a monte (essenzialmente pressione e temperatura), incontra un restringimento di sezione del condotto (la cui sezione ad area A minima è detta gola), e di seguito un nuovo allargamento. Tale configurazione viene indicata come condotto convergente–divergente. A valle, in uscita dal condotto stesso, la pressione viene fatta variare in modo da variare le condizioni di flusso all’interno del convergente–divergente. Sperimentalmente, si osserva che, se la velocità u del flusso ne condotto raggiunge e supera la velocità del suono a, la portata, cioè la massa di fluido che attraversa il condotto nell’unità di tempo, raggiunge un valore massimo e non aumenta più, anche aumentando ulteriormente la velocità. Questo fenomeno viene indicato come choking del condotto, dato che esso risulta “strozzato”, e non può smaltire una portata maggiore di quella massima, a meno di non aumentarne la sezione. Risolvendo le equazioni che governano il moto del fluido, si osserva che la condizione di Figura 8. Condotto convergente–divergente. sonicità (Ma = 1 ) è sempre raggiunta nella sezione di gola, mentre a valle di quest’ultima si forma un’onda d’urto che riporta il flusso ad un regime subsonico (Ma < 1 ). Occorre considerare l’effetto di choking in tutte quelle applicazioni in cui è importante l’effetto della portata di flusso in un condotto. Ad esempio, nel motore di un aereo (Fig. 9(a)), la portata è associata alla spinta che il motore può sviluppare, e quindi al massimo carico trasportabile dall’aereo. Come illustrato in Fig. 9(b), l’aria che entra nel motore si trova ad attraversare un complesso insieme di condotti di sezione variabile, in cui viene accelerata, prima di uscire dalla parte posteriore e fornire la spinta all’aereo. Dato che il flusso all’interno del motore può raggiungere velocità soniche, l’effetto di choking deve essere tenuto in debito conto nel determinare le prestazioni del motore. CONCLUSIONI Perché dunque i fluidi sono “sconosciuti”? Da quanto discusso, risulta chiaro che il comportamento dinamico di questo stato fisico della materia, incontrato nelle esperienze quotidiane più comuni ed in una serie innumerevole di applicazioni tecnologiche, è in generale estremamente complesso. Questa complessità non è dovuta tanto alle leggi della fisica che lo governano, rappresentate dalle ben note leggi di Newton della meccanica classica e dai principi della termodinamica, quanto ai fenomeni ad esso associati, quali gli effetti della viscosità (in particolare la turbolenza) e della comprimibilità del fluido (onde d’urto, choking, etc...). Tutto ciò si riflette nella complessità dei modelli matematici utilizzati per la descrizione delle caratteristiche dei flussi, e nella mancanza, a tutt’oggi, di una teoria completa ed esaustiva, capace di fornire previsioni dettagliate sul moto dei fluidi in ogni condizione di moto. A tali difficoltà di ordine fisico e matematico, si aggiunge, inoltre, il fatto che (a) vista esterna del motore montato sull’ala dell’aereo (b) spaccato del motore Figura 9. Motore aeronautico per aerei commerciali. le equazioni della fluidodinamica non possono essere risolte esattamente in configurazioni geometriche complesse, quali quelle incontrate nelle applicazioni. Così, soluzioni teoriche esatte possono essere ottenute solo in casi molto semplici (lastre piane, condotti circolari a sezione costante, etc..), e sotto ipotesi molto restrittive (flussi ideali o laminari). Negli altri casi, il supporto dell’attività sperimentale rappresenta ancora un complemento essenziale dello studio teorico. Come giustamente osservato da White [2], “bisogna tenere ben presente che teoria ed esperimenti devono sempre marciare mano nella mano in ogni studio di fluidodinamica.” Per concludere, è importante evidenziare il fatto che, nel corso degli ultimi anni, a fianco della “sperimenta- zione tradizionale” di laboratorio ha acquisito sempre maggiore importanza la “sperimentazione numerica”, basata sulla risoluzione al calcolatore delle equazioni della fluidodinamica, capace di fornire informazioni sempre più dettagliate ed accurate sulla struttura dei flussi, per applicazioni sia in ambito scientifico che tecnologico. ◊ Riferimenti bibliografici [1] Caforio, A., and Ferilli, A., 2004. Fisica, Vol. 1. LeMonnier. [2] White, F. M., 2002. Fluid Mechanics. McGraw–Hill. [3] Landau, L. D., and Lifshitz, E. M., 1987. Fluid Mechanics. Butterworth–Heinemann. 43 LE CONICHE COME LUOGHI GEOMETRICI Marice Massai Dicesi LUOGO GEOMETRICO l’insieme di tutti e soli i punti che soddisfano a certe condizioni, o godono una stessa proprietà. Sono luoghi geometrici: l’asse di un segmento: luogo dei punti del piano equidistanti dagli estremi del segmento. la bisettrice di un angolo: luogo dei punti del piano equidistanti dai lati dell’angolo. Anche le coniche ovvero quelle curve che si ottengono intersecando un cono rotondo indefinito con un piano non passante per il vertice del cono, sono luoghi geometrici. ELLISSE Definiamo l’ellisse come il luogo geometrico dei punti del piano per i quali è costante la somma delle distanze da due punti fissi detti fuochi. ELLISSE costruzione Dalla definizione seguono due semplici costruzioni dell’ellisse, una meccanica e l’altra geometrica: • “metodo del giardiniere” (costruzione meccanica) • costruzione geometrica a partire da una circonferenza • costruzione geometrica a partire da un segmento Metodo del giardiniere Questa costruzione consiste nel fissare i due capi di un filo inestensibile in due punti F1 e F2 di un foglio da disegno. Facendo scorrere la punta P di una matita lungo il filo tenuto ben teso, si traccia una linea curva chiusa formata da punti per i quali la somma delle distanze da F1 e F2 è costante, in questo caso uguale alla lunghezza del filo. Questo metodo è detto anche del giardiniere perché può essere utilizzato per tracciare sul terreno aiuole a contorno ellittico. Costruzione geometrica a partire da una circonferenza La seconda costruzione si effettua con riga e compasso: Si stabilisce la posizione dei due fuochi F1 e F2 si disegna una circonferenza di centro un punto F1 e raggio = k (ovvero uguale alla somma delle distanze dai due punti fissi PF1 + PF2 = k), F2sarà interno alla circonferenza. Preso un punto A sulla circonferenza si traccia la retta AF1 e l’asse del segmento AF 2. Il loro punto di intersezione P appartiene ad un’ellisse di fuochi F1 e F1 . Si può dimostrare inoltre che: l’asse del segmento AF2 è tangente all’ellisse. 44 Costruzione geometrica a partire da un segmento Fissiamo sul piano un segmento AB uguale alla somma delle distanze di un punto dell’ellisse dai due fuochi. In seguito, scelto ad arbitrio un punto P interno al segmento AB, si tracciano due archi di circonferenza rispettivamente di centro F1 e raggio PB e di centro F2 e raggio AP. I punti P e P’ in cui gli archi si intersecano appartengono all’ellisse. Facendo variare P su AB si ottengono, a coppie, tutti i punti della curva. ELLISSE e le sue proprietà geometriche 1) Sia P0 un punto dell’ellisse di fuochi F1 e F2 . Allora la bisettrice di uno dei due angoli formati dalle rette P0 F1 e P0 F2 è la tangente all’ellisse in P0 , l’altra la normale all’ellisse in P0 . (ovvero la perpendicolare all’ellisse in un suo punto qualsiasi divide per metà l’angolo formato dai segmenti che uniscono questo punto con i due fuochi). 2) Coppie di tangenti ortogonali ad un ellisse si incontrano in un punto di una stessa circonferenza avente centro coincidente con il centro dell’ellisse. PARABOLA Definiamo la parabola come il luogo geometrico dei punti del piano equidistanti da un punto fisso detto fuoco e da una retta fissa detta direttrice. L’asse della parabola è la retta passante per il fuoco e perpendicolare alla direttrice. Il vertice è il punto di intersezione tra l’asse e la parabola. PF = PH PARABOLA costruzione Assegnata la retta d e il punto F, consideriamo un punto H su d, quindi consideriamo il punto di intersezione P tra l’asse del segmento FH e la perpendicolare a d passante per H. Poiché P appartiene all’asse del segmento FH, è equidistante dagli estremi, pertanto P appartiene alla parabola di fuoco F e direttrice d. PARABOLA e le sue proprietà geometriche “L’asse del segmento FH è tangente alla parabola” Dimostrazione sintetica La dimostrazione procede per assurdo. Supponiamo, per assurdo, che sull’asse del segmento FH (che sicuramente non è perpendicolare alla direttrice) vi sia un ulteriore punto P’ della parabola (ovvero che l’asse del segmento FH non sia tangente in P ma passi per due punti della parabola P e P’) Poiché P’ si trova sull’asse del segmento FH, → P’F=P’H D’altra parte poiché P’ si trova anche sulla parabola (quindi è equidistante dal fuoco F e dalla direttrice)→P’F = P’H’ Ma allora nel triangolo rettangolo P’HH’ abbiamo l’ipotenusa P’H uguale al cateto P’H’ ma sappiamo che l’ipotenusa è sempre maggiore dei cateti e quindi c’è contraddizione. 45 “Le tangenti a una parabola condotte da un qualunque punto P della direttrice sono tra loro perpendicolari e il segmento di estremi i punti di tangenza passa per il fuoco F” “In ogni punto P della parabola, gli angoli che la tangente forma con la retta congiungente P e il fuoco F e che la tangente forma con la retta perpendicolare per P alla direttrice hanno uguale ampiezza” IPERBOLE Definiamo l’iperbole come il luogo geometrico dei punti P del piano per i quali è costante il valore assoluto della differenza delle distanze da due punti fissi F1 e F1 detti fuochi IPERBOLE costruzione Metodo del giardiniere La costruzione dell’iperbole con il metodo del giardiniere è molto meno nota della costruzione utilizzata per l’ellisse. Considerato un righello rigido AB, di lunghezza l, libero di ruotare attorno al punto A fissato, si prenda una corda, con una lunghezza s inferiore a quella del righello, e la si fissi in un punto H come in figura. Si faccia inoltre in modo che la corda, rimanendo sempre tesa, tocchi il righello in un punto P e poi vi rimanga attaccata fino all’estremo B, dove è fissata sul righello stesso. Allora PH + PB = s = PH + 1 - PA Se ne deduce che PA - PH = 1 - s = costante, cioè che il punto P descrive proprio un tratto di iperbole (naturalmente fin che lo spago è sufficiente!). Scambiando i ruoli di A e H si descrive il ramo simmetrico di iperbole. Costruzione a partire da un segmento Si disegni la retta passante per AB poi segnare su di essa un altro punto P, con P esterno ad AB sarà PA - PB = 2a. Disegnare una qualunque retta, poi prendere su di essa due punti F1, F2. Utilizzando il compasso costruire le due circonferenze di centro F1 e raggio AP e di centro F2 e raggio PB. Siano P’, P’’ l’intersezione tra le due circonferenze. Si costruiscano i segmenti F1,P’, F2P’. Al variare di P sulla retta per AB varia anche la posizione di P’ restando però invariata la differenza delle loro distanze. Il punto P’ descrive quindi un’iperbole. IPERBOLE e le sue proprietà geometriche L’iperbole equilatera gode della seguente proprietà: 1) Sia P un punto dell’iperbole equilatera. Al variare di P, l’area del triangolo delimitato dalla retta tangente all’iperbole in P e dagli asintoti è costante. Tutte le proprietà geometriche enunciate possono essere dimostrate per via analitica. ◊ Bibliografia Boyer, Carl B., Storia della matematica, Oscar Studio Mondadori. Descartes, René, Discorso sul metodo, Eric T. Bell, I grandi matematici, Sansoni, Firenze, 1997 Università di Roma “Tor Vergata” - Laboratorio: Geometria della visione Manuali scolastici di vari autori (Ferrauto, Maraschini-Palma, Lamberi-Mereu-Nanni, Dodero...) 46 Il futuro, la scuola digitale? Manuela Taddei I l percorso che deve compiere la scuola di fronte al rivoluzionario cambiamento apportato nella formazio ne dall’informazione e la comunicazione tecnologiche; come cambiano i tempi e gli spazi dell’apprendimento; gli stili cognitivi degli allievi del nuovo millennio; il problema della formazione degli insegnanti: come evitare il gap generazionale tra scuola e studenti: questi gli argomenti fondamentali affrontati in questo interessante testo di Paolo Ferri (1), La scuola digitale, B. Mondadori, 2008. La rivoluzione digitale in corso, in seguito soprattutto all’introduzione del web2.0 (2) può essere paragonata a invenzioni secolari come l’introduzione del vapore nei processi produttivi oppure a eventi chiave della storia dell’umanità come per esempio l’invenzione della scrittura o della stampa? Quest’ultima ipotesi potrebbe essere confermata da ricerche che sostengono come l’ homo da economicus si stia finalmente trasformando in sapiens, “inverando” così l’attributo scientifico; rapidissima è stata infatti la diffusione della tecnologia cognitiva: secondo una ricerca di P.C. Rivoltella (3) dell’Università Cattolica di Milano un italiano su due ha accesso ai servizi digitali e la percentuale di adolescenti è addirittura al 78%. Dall’introduzione di internet, non siamo più né nell’epoca gutemberghiana né in quella dei massmedia, la fissità della stampa e l’intransitività passivante del mezzo televisivo non sono più in grado di reggere la necessità di un flusso bidirezionale di informazioni: ormai siamo immersi in un universo ipermediale di comunicazione audio visuale fluido, in perenne trasformazione attraverso la rete mondiale ed è proprio la scuola a doversi far carico della nuova alfabetizzazione connessa con questo processo. Ma qual è la differenza fra l’apprendimento gutemberghiano e quello tramite ipertesto o ipermedia fruiti on-line si chiede l’autore? Riprendendo una teoria elaborata da Cesare Segre nel 1974 (4) sul problema della sintesi memoriale, possiamo affermare che di fronte a un libro non ancora letto uno studente ha davanti a sé un’infinita possibilità di significato limitata solo dal campo semantico del titolo del volume ma, a mano a mano che procede nella lettura la sua sintesi memoriale diviene sempre più preponderante mentre il campo di possibilità aperte diminuisce fino a giungere al grado 0 delle possibilità quando la lettura ha termine, in quanto la formazione avviene tramite un’or- dinata successione di significati contrapposti, in modo omogeneo e lineare; invece nell’ipertesto e nell’ipermedia didattici l’ordine del discorso cambia strutturalmente: non è gerarchico intanto ed è espresso in una rete di unità di lettura (lessìe) attraversabile dai fruitori e modificabile, fatto che comporta che la sintesi memoriale dell’utente non è più un orizzonte che si saturi progressivamente sulle intenzioni del docente ma, come dice Ferri, “ una quinta mobile che si sposta a ogni nuovo percorso intrapreso”. Tratti distintivi della didattica ipermediale saranno dunque: a) l’impossibilità di controllo gerarchico del percorso formativo da parte del docente, che dovrà modulare la sua offerta di contenuti in base alle integrazioni del gruppo di apprendimento; b) la fusione di differenti modalità comunicative come elementi linguistici, grafici, video, iconici, e sonori che in generale si intersecano in una struttura a rete (network). Se osserviamo le camere dei bambini o preadolescenti di oggi ci accorgiamo che esse sono tecnologicamente molto più ricche di quelle della nostra gioventù e soprattutto di quanto lo siano le loro aule scolastiche: accanto a radio televisione e libri, troviamo computer, servizi Internet, webcam e videogiochi. Il processo è inarrestabile, afferma Ferri e rischia di aprirsi uno iato incolmabile fra società e scuola, iato tanto più pericoloso se si pensa che è compito proprio della scuola di educare ai media, mettendo ordine nella confusione di messaggi che bombarda tutti noi, ma che colpisce soprattutto i giovani. Considerando che la crescita o il declino di un paese dipende dal ruolo e dalla capacità innovativa di università, centri di ricerca,sistema scolastico, gravissimo errore sarebbe lasciare ai giovani la galassia digitale che porterebbe ad un autodidattismo confuso e pericoloso e probabilmente ad un progressivo, inesorabile allontanamento dall’istituzione formativa. La scuola avrà quindi il dovere di educare bambini e adolescenti ad una fruizione mediale che permetta loro di accedere a un livello di “alfabetizzazione mediale”tale da consentire di codificare in modo critico e con consapevolezza la molteplicità di messaggi e di contenuti comunicativi, informativi e formativi che li inonda. Prima di analizzare quali siano gli stili cognitivi degli stu- ormai siamo immersi in un universo ipermediale di comunicazione audio visuale fluido 47 denti del nuovo millennio, Ferri definisce la differenza fra i digital native (DN) e i digital immigrant o gutemberg native: I primi sono coloro che sono nati intorno alla metà degli anni ottanta se non, per lo meno in Italia, addirittura dal 1996 in poi e che crescono, apprendono, comunicano e socializzano all’interno dell’ecosistema mediale dell’informazione e della formazione digitali e globalizzate; i secondi coloro che, come tutti gli immigranti, hanno dovuto adattarsi al nuovo ambiente socio-tecnologico ma, come dire, conservano il loro accento gutemberghiano; Internet sarà sempre una seconda scelta e questi leggeranno sempre i manuali di un software invece di affidarsi all’ uso del programma stesso per capirne l’uso. In altre parole per gli immigrant vivere nel mondo digitale è come apprendere anche alla perfezione una seconda lingua, che però non useranno mai per pensare! Dunque i DN stanno probabilmente sviluppando schemi differenti nell’interpretare la realtà che li circonda, dico “probabilmente” perché insufficiente è ancora una trattazione scientifica dell’argomento data la recente diffusione del fenomeno. (5) 48 I DN sono molto più abituati di noi ad ambienti digitali di apprendimento; pensiamo ai videogiochi, per esempio: non tutti inficiano le capacità di apprendimento, ce ne sono alcuni che richiedono riflessione, sviluppando nei ragazzi un’attenzione selettiva e forse un’intelligenza secondo una modalità nuova. Ma per Ferri, questi videogiochi sono solo la punta di un iceberg perché i DN hanno a disposizione una gran quantità di strumenti di apprendimento e comunicazione: Messenger, cellulare, chat di internet, siti di scambio e condivisione di contenuti on-line. Da non sottovalutare nello studio dei nuovi comportamenti cognitivi il cosiddetto multitasking: i DN studiano mentre ascoltano musica, mantengono il contatto MSN, mentre il televisore è acceso. Per l’autore questo comportamento non è necessariamente foriero di disattenzione e disorientamento, in quanto forse i DN stanno imparando a “navigare” attraverso fonti differenti di informazione e comunicazione, muovendosi in maniera non lineare. Essi imparano per esperienza, approssimazione, assestamenti, non hanno bisogno come noi adulti di inquadrare un oggetto di studio prima di affrontarlo (attenzione! Ferri non esprime valutazioni su questo, individua solo i fatti da cui dobbiamo partire per un corretto approccio). Essi procedono attraverso prove ed errori, imparando dai medesimi, sicuramente in modo meno dogmatico del nostro. “Per trovare la soluzione a un problema o apprendere il significato di un concetto i digital native utilizzano un nuovo approccio: piuttosto che interpretare, configurano; piuttosto che concentrarsi su oggetti statici, vedono il sapere come un processo dinamico;piuttosto che essere spettatori, sono attori e autori delle trame multiple e delle molteplici conclusioni che danno alle storie che essi stessi costruiscono in cooperazione con i loro pari. L’approccio del digital native alla conoscenza può (…) essere descritto nel modo seguente: basato sulla ricerca e la scoperta, a rete, esperienziale, collaborativo, attivo, autorganizzato, centrato sul problema solving e sulla condivisione dei saperi.” (Ferri, ibidem, p.54). La scuola si trova dunque di fronte a una situazione nuova, ad un’ accelerazione del tempo della formazione, a una disponibilità di contenuti in tempo reale che potrebbero portare ad una rincorsa all’informazione piuttosto che a una riflessione, cosa, invece, che avveniva e avviene nell’universo gutemberghiano; ma il problema, nota lucidamente Ferri, “non è quello di sostituire integralmente il paradigma lineare della formazione gutemberghiana di scrittura/lettura alfabetica con quello reticolare e multicodicale dei multimedia. Non è nemmeno quello di sostituire integralmente lo spazio e il tempo lineare e riflessivo dell’apprendimento testuale con quello reticolare, topologico e distrattentivo (6) degli ipermedia”. Si tratta invece di ri-mediare la linearità e la riflessione stimolate dal testo gutemberghiano, inserendole nella “temporalità estesa” dei media telematici. Per esempio, dato che la rete rende elastici spazio e tempo di apprendimento, perché non utilizzarla, rendendo sempre disponibili i contenuti on-line, offrendo in ogni momento agli alunni la possibilità di interagire fra loro e/ o con l’insegnante? Anche la lezione in classe potrebbe così essere più stimolante, grazie alla possibile discussione su quanto elaborato on-line. Questo tipo di formazione è definito blended, mista cioè on-line e tradizionale. E’ evidente a questo punto, come del resto già precedentemente accennato che forse sono da ridefinire il tempo e lo spazio. Ferri suggerisce che “Il tempo e lo spazio della vita e della formazione si sganciano definitivamente, anche nella loro dimensione interiore, dalla loro origine astronomica e assumono caratteristiche individuali e sociali di natura multipla e variabile. Per esempio, uno studente che partecipi a un progetto di formazione on-line che preveda il coinvolgimento attraverso la mail, una classe virtuale o uno strumento di videoconferenza, può trovarsi in contatto diretto e quotidiano con altri studenti negli Stati Uniti o in Albania, che non condividono la sua lingua, le sue pratiche sociali, alimentari, familiari e di relazione oltre che di apprendimento. In questo modo avrà la possibilità, oltre che di sviluppare quel progetto didattico specifico, anche di ampliare la sua formazione conoscendo e condividendo nuovi modi di relazionarsi al mondo e nuove culture.” Ecco perché occorre abbattere i muri e ridisegnare gli spazi di un’aula scolastica. Un elemento che rivela il gap che si sta creando fra studenti digital native e insegnanti digital immigrant è proprio il fatto che il computer che è entrato a pieno diritto addirittura nelle camere dei bambini e degli adole- scenti, stenta a trovare una collocazione centrale nelle scuole ( per lo meno in Italia ). La modalità più diffusa nella scuola italiana è il laboratorio informatico che, di fatto, confina, sostiene Ferri, la didattica multimediale in una dimensione specialistica, isolandola dal dialogo con la didattica tradizionale. Per l’autore questo è profondamente sbagliato: la ghettizzazione del computer veicola un messaggio per cui tecnologia e crescita culturale sono incommensurabili. Ma come può e deve essere strutturato allora un ambiente formativo che permetta alla didattica di valersi appieno delle potenzialità della rivoluzione digitale? Occorreranno, suggerisce Ferri, banchi mobili e ricombinabili, un videoproiettore sospeso al soffitto, un computer per docente, dotato di scheda televisiva, di scanner, e stampante e di una postazione di videoripresa digitale; ovviamente l’aula dovrà essere dotata di una connessione di rete a banda larga e di un computer portatile per lo meno ogni quattro alunni, dotato del software di fruizione e di produzione multimediale per web. Nella fase di insegnamento frontale l’aula sarà simile ad una tradizionale, quando l’insegnante lo riterrà opportuno lo spazio potrà essere modificato con la formazione di isole di lavoro, intorno alle quali prenderanno posto gli studenti collegati con Internet, stampanti, scanner, videoproiettore. (7) E il libro di testo? Sta subendo e subirà sempre di più una metamorfosi digitale. Per ora la maggior parte delle case editrici si limita a corredarlo di eserciziari in DVD e solo alcune (Palumbo, il laboratorio informatico confina la didattica multimediale in una dimensione specialistica, isolandola dal dialogo con la didattica tradizionale 49 per esempio) a fornire una versione ridotta del manuale, contenente la trattazione essenziale della materia, letture di base, test di verifica, integrata da DVD con fonti, approfondimenti, schede, iconografia. Ma questo non basta,afferma Ferri, occorrerebbe invece che le integrazioni si trovassero all’interno di un sito web correlato al volume stesso; tutti i materiali di approfondimento potrebbero essere inseriti in una piattaforma open source che favorisse il trasferimento di materiale didattico e ambienti virtuali di comunicazione e insegnamento. Nascerebbe così negli anni anche una specie di banca dati di contenuti utilizzabili da altri insegnanti della medesima disciplina. E’ questo ciò che l’autore intende per ri-mediare la linearità del testo gutemberghiano. Emergono due dati certi, secondo Ferri, da quanto detto fin qui: il primo è che gli attuali studenti non sono più una versione in piccolo di quello che gli insegnanti erano da studenti; il secondo è che con ogni probabilità gli attuali insegnanti non saranno mai in grado di utilizzare la tecnologia con l’ abilità dei loro studenti, ma hanno il dovere di adattare i loro metodi educativi alle esigenze dei loro allievi. Si arriva così all’ultimo punto analizzato dall’autore: la formazione degli insegnanti. Ferri ripercorre le politiche governative degli ultimi 1015 anni, a partire dal 1995, col primo intervento strutturato in questo campo, il PNI che prevedeva la formazione di circa ventimila docenti e la realizzazione di settemila strutture informatiche in altrettante scuole superiori. Il più serio intervento di abilitazione digitale della scuola italiana è stato il PSTD, voluto da Berlinguer che però dopo la fine della stagione dell’Ulivo, o per volontà politica o per incuria non ha raggiunto gli obiettivi fissati; successivamente la “controriforma Moratti” (Ferri, ibidem) ha inteso la tecnologia come strumento per premiare l’efficienza delle realtà già avvantaggiate, snaturando così tutto ciò che era stato fatto fino a quel momento; attribuendo inoltre competenze esclusive alle regioni ha fatto sì che quelle più ricche come Lombardia e Veneto hanno potuto finanziare e rinnovare il nuovo sistema scolastico, mentre non hanno potuto farlo quelle più disagiate. Ferri parla poi di “strabismo mediale e culturale” del governo di centro-destra, che ha annunciato con grandissima visibilità sui media opere ed interventi grandiosi, che poi non sono stati sostenuti da risorse finanziarie. L’errore più grave degli ultimi anni è individuato da Ferri nel cercare di insegnare l’informatica e non “con” l’informatica. Confessiamo che la lettura di questo testo ci ha confuso e a volte disorientato. Credo che noi insegnanti, ci rendiamo conto che occorre un cambiamento nella didattica, ma forse non siamo ancora preparati, perché, come dice giustamente il nostro autore, “la rivoluzione digitale è stata così rapida da mettere in forte tensione la capacità dei digital immigrant di comprendere la trasformazione in atto”. ◊ 50 Note 1) Laureato in filosofia presso l’Università degli studi di Milano, Paolo Ferri lavora presso la casa editrice Bruno Mondadori di Milano in qualità di editor per il settore Università; tra le altre attività dirige la collana di Classici della filosofia commentati della casa editrice. (2)Tim O’Reilly, l’inventore di questo termine ( 2005, What Is Web 2.0, Safari Books ) sostiene che questo consiste nell’affermarsi di applicazioni che permettono agli utenti di creare e condividere contenuti online tramite strumenti quali Wiki, blog, YouToube, recensioni di Amazon. Questo fenomeno si basa quindi sul fatto che gli utilizzatori del Web, attraverso la loro azione partecipativa, aggiungono valore alle proposte del sito medesimo. Da qui il concetto di intelligenza collettiva (definizione di Pierre Lévy in L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 1996) per cui gli interventi degli utenti attraverso nuovi concetti e nuovi siti vengono integrati alla struttura del web da altri utenti che creano a loro volta link così come le sinapsi nel cervello si rafforzano con le associazioni. (3) Rivoltella P.C.,Screen Generation. Gli adolescenti e le prospettive dell’educazione nell’età dei media digitali, Vita e Pensiero, Milano, 2006. (4) Segre C., Le strutture e il tempo. Narrazione, poesia, modelli, Einaudi, 1974. (5) Si sono occupati di questo tema fra gli altri, uno scrittore russo, Viktor Pelevin con un romanzo e uno studioso di tecnologie didattiche, Wim Veen, con alcuni saggi: Pelevin V., Babylon. Un romanzo, A. Mondadori , 2000. Vavilen Tatarskij, il protagonista, appartiene a quella “generazionePepsi” nata in Russia negli anni ’60 che ora si trova a vivere nel melmoso interregno tra il vecchio e il nuovo.Vavilen a 21 anni legge Pasternak, è iscritto all’Istituto di Lettere ed è un aspirante scrittore, ma assieme all’URSS crollano i suoi ideali e il ragazzo è costretto ad affrontare la realtà che lo circonda. Comincia così la sua rapida ascesa sociale in una Russia ormai neocapitalista, cambiando così da aspirante scrittore a copywriter abituato alle più sottili falsificazioni dei media. Il romanzo è una denuncia di una società assoggettata al regime dell’informazione televisiva e pubblicitaria. Veen W., A New Force for Change. Homo Zappiens, in “The Learning Citizen”, n. 7; Veen W., Vrakking B., Homo Zappiens. Growing up in a Digital Age, Network Continuum Education, London. (6) Per “distrattenzione” Ferri intende la modalità con cui si accede ai contenuti del web. “Invece di fruire i contenuti secondo la temporalità omogenea della successione dei significanti alfabetici, adottiamo una modalità non lineare e “veloce” di accesso all’informazione che procede per associazioni non lineari, secondo una temporalità sincopata che prevede lunghe pause di “distrazione” e improvvise accelerazioni di “attenzione” concentrata.” (7) Per conoscere un esempio concreto di un nuovo spazio per una nuova scuola confronta il caso della Snaefellsnes Comprehensive Upper Secondary School (Islanda )nell’intervento di Jòna Pàlsdòttir “From idea to reality” al Convegno internazionale”Re-mediare la scuola”organizzato da INDIRE e dal Ministero della pubblica istruzione il 3 e 4 marzo 2006, i cui atti sono disponibili in formato elettronico all’indirizzo http://www.bdp.it/-convegno/remediarelascuola/materiali/. Ferri comunque nel testo in questione esamina il caso della scuola islandese, dedicandole una decina di pagine (pp.78-87) 51