UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI ROMA “LA SAPIENZA” ‐ FACOLTÀ DI FILOSOFIA CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELL’EDUCAZIONE E DELLA FORMAZIONE ELABORATO DI LAUREA IN PEDAGOGIA GENERALE LAUREANDA Bellucci Elisa RELATORE Chiar.mo prof. Nicola Siciliani de Cumis Matricola 983128 CORRELATORE Chiar.mo prof. Furio Pesci PER UNA NUOVA EDIZIONE DI L. N. TOLSTOJ, I QUATTRO LIBRI DI LETTURA Editrice Nuova Cultura – Roma Anno Accademico 2005 – 2006 Composizione grafica a cura dell’Autore Indice Premessa .........................................................................................................VII Introduzione .................................................................................................... IX 1. La genesi dei Quattro libri di lettura .......................................................... IX 2. Il ruolo degli animali................................................................................. XII 3. Il gioco .........................................................................................................XV 4. La scienza spiegata ai ragazzi ..................................................................XV 5. Le descrizioni ............................................................................................XVI 6. I bambini: destinatari e protagonisti dei Quattro libri di lettura.......XVIII 7. Il carattere popolare dei Quattro libri di lettura e le influenze del mondo classico ..................................................................................XIX 8. Storia antica e moderna nei Quattro libri di lettura ..............................XXI 9. I sentimenti ............................................................................................. XXIII 10. Scelte ideologiche ed impegno sociale nei Quattro libri di let‐ tura ........................................................................................................... XXV 11. I Quattro libri di lettura in Italia..........................................................XXVII 12. La morte ................................................................................................. XXX 13. La religione ........................................................................................... XXXI 14. La pedagogia tolstojana .....................................................................XXXII 15. Il furto................................................................................................XXXVII 16. Attualità pedagogica in Tolstoj.....................................................XXXVIII Indice dei testi utilizzati da Tolstoj ................................................................. XLI Indice delle tematiche ricorrenti ..................................................................XLVII L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura................................................................ 1 Avvertenza ........................................................................................................ 3 Primo libro di lettura........................................................................................ 5 Secondo libro di lettura.................................................................................. 49 Terzo libro di lettura .................................................................................... 113 Quarto libro di lettura .................................................................................. 181 Bibliografia e Sitografia................................................................................... 257 Indice dei nomi ................................................................................................ 259 Premessa Il seguente elaborato di laurea nasce innanzitutto dalla mia passione nei confronti di due delle opere più note della grande letteratura inter‐ nazionale, di cui è autore Lev Nicolaevič Tolstoj: Guerra e pace e Anna Ka‐ renina. Non sono certamente la prima a sostenere la stupefacente attuali‐ tà di questi due testi, capaci di trasportare in un mondo i cui personaggi si sanno essere frutto dell’inventiva dell’autore, ma dipinti con una mae‐ stria tale, da stentare a credere nella loro effettiva irrealtà. Se le vicende dei Rostov, dei Bolkoskij, degli Oblonskij e dei Karenin mi erano quindi ben note anche prima dell’inizio della carriera universi‐ taria, non lo stesso posso affermare riguardo l’attività pedagogica di Tolstoj. È infatti grazie agli esami di Terminologia pedagogica del prof. Nico‐ la Siciliani de Cumis e di Storia della pedagogia del prof. Furio Pesci che ho potuto conoscere la scuola di «Jasnaja Poljana», in cui Tolstoj insegnò ai figli dei contadini della sua tenuta. La curiosità e l’interesse destati in me fin dal primo anno di corso dall’acquisizione di questa nozione, mi hanno quindi portato al non poter scegliere altro argomento all’infuori di questo per l’elaborato di laurea. Se quindi inizialmente la mia intenzione era di occuparmi esclusiva‐ mente della scuola di «Jasnaja Poljana», quando il prof. Siciliani de Cu‐ mis mi ha proposto di realizzare un’edizione dei Quattro libri di lettura, avendo come punto di partenza e di confronto la tesi di Elisa Medolla Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri di lettura di Tolstoj, ne so‐ no stata subito entusiasta. I Quattro libri di lettura sono certamente un testo meno conosciuto, nonostante il successo editoriale riscosso in patria all’epoca della pubbli‐ cazione, rispetto agli altri citati, ma rappresentano senz’altro una delle migliori prove a conferma del profondo amore nutrito da Tolstoj verso i bambini. Ed è proprio questo sentimento ad emergere con maggior forza nel corso della lettura; se le numerose storie contenute nel volume ad un’analisi superficiale appaiono quasi del tutto prive di un legame co‐ mune, ad uno sguardo più attento non possono che rivelare un’unitarie‐ tà più significativa, determinata dall’attenzione dell’autore nello sceglie‐ re i brani, disponendoli secondo il criterio della gradualità, uniti tra loro dall’impegno di Tolstoj nello scrivere un’opera che può essere conside‐ rata un vero e proprio tributo all’infanzia. VIII Premessa Tramite il lavoro di ricerca ho avuto la possibilità di approfondire non solo quei temi, l’ascendenza popolare dell’opera tolstojana, lo sguardo attento al punto di vista dei bambini, che avevo già avuto modo di amare nella lettura dei due grandi classici di quest’autore, ma soprat‐ tutto di apprendere nuovi contenuti, ed in particolare la sorprendente modernità letteraria e pedagogica non solo dell’opera in sé, ma soprat‐ tutto del pensiero tolstojano in essa rappresentato, capace di sollevare problematiche ancora attuali a più di un secolo di distanza. Introduzione 1. La genesi dei Quattro libri di lettura L’insegnamento da parte di Lev Nicolaevič Tolstoj nella scuola di «Ja‐ snaja Poljana», tra il 1859 ed il 1863 e tra il 1872 ed il 1873; lo studio dei problemi scolastici condotto nel suo secondo viaggio all’estero (1860‐ 1861), al fine di osservare la scuole popolari di Francia, Germania, Sviz‐ zera, Inghilterra e Belgio; la pubblicazione della rivista «Jasnaja Poljana» e la composizione di articoli pedagogici fra il 1862 ed il 1863, costitui‐ scono la premessa fondamentale alla stesura dell’Abbecedario1. La rivista «Jasnaja Poljana» ebbe vita dal maggio 1861 al dicembre del 1862 e fu costituita da dodici numeri in tutto. Era divisa in due fascicoli distinti: uno portava il sottotitolo «Scuola. Rivista pedagogica» e l’altro quello di «Libretti per bambini». «Jasnaja Poljana» fu l’organo dell’espe‐ rienza didattica di Tolstoj ispirata alla “libera educazione”; caratteristico è il titolo di uno degli ultimi articoli che vi pubblicò: Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi, o noi dai ragazzi di campagna?2 La ri‐ sposta è che lo scrittore, dovendo osservare il mondo nella sua realtà, deve apprendere questa capacità dai figli dei contadini, che contempla‐ no la vita con ingenuità, riuscendo a percepirla in un modo impossibile agli adulti. Da quest’esperienza maturerà la composizione di un libro su e per l’infanzia, l’Abbecedario, la cui prima edizione risale al 1872. All’insuc‐ cesso di questa prima edizione, contribuirono i numerosi problemi edi‐ toriali e la mancata approvazione da parte del Ministero della Pubblica istruzione dell’utilizzo come manuale scolastico, probabilmente a causa della diffidenza da parte del governo zarista per l’attività pedagogica dello scrittore. Nel 1874 Tolstoj predispose quindi una nuova edizione, anch’essa accolta poco favorevolmente da pubblico e critica. Dalla pro‐ fonda rielaborazione di questo testo, nel 1875 verrà pubblicato il Nuovo Abbecedario3, la cui parte narrativa verrà raccolta nei Quattro libri di lettu‐ Cfr. L. N. TOLSTOJ, Azbuka, S. Peterburg , Tip. Zamyslovskij, 1872. Cfr. ID., Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi o noi da i ragazzi di campagna?, in ID., I quattro libri di lettura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 265‐292. 3 Cfr. ID., Novaja azbuka, Moskva, Tip. Torleckij i Terichov, 1875. 1 2 X Introduzione ra , con un notevole arricchimento di materiale e l’esclusione di alcuni brani, divenendo, contro ogni aspettativa, uno dei più grandi successi editoriali dell’epoca. La rivista «Jasnaja Poljana» ha permesso di ricostruire il percorso at‐ traverso cui Tolstoj ha elaborato quelle teorie educative basilari nella composizione dei Quattro libri di lettura. Il contatto diretto con i figli dei contadini pone in discussione certezze già acquisite ed è probabile che, proprio ripensando a questi bambini come ideali lettori, egli abbia com‐ preso l’impostazione necessaria a rendere interessanti i Quattro libri di lettura. Tolstoj attribuisce al popolo un profondo interesse per l’istruzione, ma l’istituzione scolastica, mortificando la personalità degli allievi, porta ad un rifiuto della scuola e ad una acquisizione confusa delle nozioni impartite. Ciò si può evitare soltanto garantendo ad ogni bambino la possibilità di esprimere liberamente se stesso, facendolo sentire parte at‐ tiva del processo formativo. Espressione pratica di questa sua volontà è la struttura della scuola di «Jasnaja Poljana», nella quale non ci sono suddivisioni in classi per età e livello di preparazione, ma solo dei grup‐ pi flessibili che si formano e si sciolgono in funzione dell’attività svolta. Nella lettera del 12 gennaio 1872 con la quale comunica a Aleksandra Andreevna Tolstaja l’imminente pubblicazione dell’Abbecedario, ben si esprimono le forti aspettative nutrite da Tolstoj riguardo al testo, la cui stesura ebbe inizio all’apertura della scuola di «Jasnaja Poljana»: 4 La mia ambizione è questa: che, per il corso di due generazioni, tutti i ragaz‐ zi russi, da quelli della famiglia imperiale fino a quelli dei contadini, siano for‐ mati da questo libro e ne traggano le loro prime impressioni poetiche, cosicché io possa morire tranquillo, avendolo scritto5. I Quattro libri di lettura, furono quindi concepiti dal loro autore come un’opera pedagogica e didattica di carattere universale, che avrebbe contribuito alla formazione umana e culturale di moltissimi ragazzi, do‐ vendone però superare un giudizio critico che Tolstoj, in virtù dell’e‐ sperienza maturata nella scuola di «Jasnaja Poljana», prevedeva sarebbe stato particolarmente severo. 4 Cfr. L. N. TOLSTOJ, Russkie knigi dlja čtenija, Moskva, Tip. Ris, 1875, (I quattro libri di lettura, cit.). 5 ID., Lettere, Milano, Longanesi, 1977‐78, vol. I, p. 378. Introduzione XI Nei Quattro libri di lettura sono presenti alcuni dei testi più importanti della letteratura per l’infanzia: Esopo, Plutarco, Erodoto, due raccolte di fiabe indiane tradotte in francese, Les Avadanes e Les mille et un jours, vari scrittori russi e stranieri, tra cui Aleksandr Nicolaevič Afanasjev, i fratelli Jacob Ludwing Karl e Wilhelm Karl Grimm, Victor Hugo, Christian An‐ dersen. Il valore dell’opera non è determinato dal legame con una preci‐ sa teoria pedagogica, che ne avrebbe comportato il superamento nel cor‐ so del tempo, al contrario, come afferma Elisa Medolla nella tesi Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri di lettura di Tolstoj: Ciò che costituisce il valore intrinseco dell’antologia tolstoiana è l’inevitabile disegno dell’autore, che sorregge scelte ed esclusioni entrambe significative, volte a conferire un’impronta unitaria ad un’opera per comporre la quale Tol‐ stoj «si sforzò di scoprire, raccogliere, esporre le verità eterne, di risvegliare l’interesse spontaneo, la fantasia, l’amore, la curiosità dei bambini e della gente semplice»; non si comprenderebbe altrimenti come una raccolta di brani di così diversa origine abbia una tale unitarietà di tono da apparire come il risultato di un’unica volontà e di un’unica ispirazione6. Riguardo i contenuti dei Quattro libri di lettura, la semplicità d’espres‐ sione ne costituisce, dal punto di vista stilistico, uno dei maggiori pregi. Eppure questa stessa limpidezza è il punto di arrivo di un tragitto artistico faticoso e tormentato, lungo il quale lo scrittore ebbe come esclusivi punti di ri‐ ferimento i componimenti dei propri alunni di Jasnaja Poljana7. Essendo un testo rivolto ai bambini, particolare rilevanza assume la cura nel graduare la scelta dei brani secondo criteri di crescente com‐ plessità: nei primi due libri prevalgono favole e racconti di facile lettura, mentre negli ultimi due vengono affrontati anche argomenti complessi. Tra alcuni racconti è possibile riscontrare alcune similitudini; ad e‐ sempio la favola Fili sottili8, nel Primo libro, narra di una filatrice che, ad E. MEDOLLA, Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri di lettura di Tolstoj, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Roma «La Sapienza», Tesi di laurea in Pedagogia, (Relatore Chiar.mo prof. Nicola Siciliani de Cumis, Correla‐ tore Chiar.mo prof. Aldo Visalberghi), A.a. 1996/97, p. XIV, per la citazione interna si veda I. BERLIN, Tolstoj e l’educazione del popolo, in «Tempo presente», settembre‐ ottobre 1960, p. 636. 7 Ivi, p. 21. 6 XII Introduzione un uomo che chiedeva fili sempre più sottili, aveva presentato una scato‐ la vuota, accettata con entusiasmo dall’uomo, che ne aveva ordinate molte altre. Nel Quarto libro è poi presente un celebre racconto di An‐ dersen, Il vestito nuovo del re9, il cui motivo ispiratore è apparentemente simile in quanto tutti credono di vedere ciò che non esiste. La favola di Andersen è però più complessa perché, pur evitando esplicite sanzioni morali, si presenta come una forma di denuncia della falsità e del con‐ formismo. 2. Il ruolo degli animali In alcuni brani gli animali sono chiamati a rappresentare difetti e pre‐ gi dell’umanità, probabilmente con il fine di garantire un minor grado di coinvolgimento emotivo ed in questo espediente è riscontrabile l’esem‐ pio di Esopo e l’ammirazione nutrita da Tolstoj nei confronti del mondo greco. La trasposizione di caratteristiche umane in alcuni animali prota‐ gonisti di racconti edificanti, risponde all’esigenza di esemplificare in pochi tratti valori come la fedeltà e l’amicizia. Tolstoj affida agli animali «il compito di rappresentare in maniera compiuta ed esaustiva senti‐ menti che in questo modo acquisiscono un’universalità che va al di là dell’episodio contingente»10. Nel racconto dal vero I cani dei pompieri11, l’eroismo di Bob, cane dei pompieri addestrato al salvataggio dei bam‐ bini intrappolati dalle fiamme, è descritto con semplicità, senza alcuna enfasi. Il rischio di assumere un tono declamatorio è scongiurato dal fi‐ nale comico del racconto, nel quale Bob, dopo aver tratto in salvo una bambina, torna nella casa incendiata, portandone fuori una bambola. Una favola caratterizzata invece totalmente dalla comicità della vi‐ cenda narrata è L’orso sul carretto12, il cui fine è certamente quello di di‐ vertire i lettori. Nel descrivere l’avventura di un orso che sale su un car‐ ro incostudito che riparte al galoppo, trainato da tre cavalli imbizzarriti, non vi è infatti nessun intento educativo, ma la semplice narrazione di un evento che per la sua straordinarietà provoca lo stupore di tutti. L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., p. 9, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 11). 9 Ivi, pp. 198‐199, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 194‐195). 10 E. MEDOLLA, op. cit., p. 17. 11 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 10‐11, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 12). 12 Ivi, p. 63, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 62‐63). 8 Introduzione XIII D’impostazione differente è invece il commovente brano, adattamen‐ to d’un episodio del racconto inglese di Grace Greenwood Hector il le‐ vriero, Il cane arrabbiato13. La sofferenza del padrone, costretto ad uccidere il proprio animale ammalato di rabbia, non è sintomo di debolezza, ma piuttosto di ricchezza interiore; la perdita di Amico, esempio di fedeltà assoluto, protagonista della vita familiare, compagno di giochi per i bambini e di battute di caccia per il padrone, non può che suscitare dolo‐ re e turbamento. Gli animali però non interpretano soltanto sentimenti elevati; nella favola Il topo sotto il granaio14, tratta da Les mille et un jours, Tolstoj con‐ danna l’avidità e la smania di suscitare invidia attraverso il racconto di un topo che, comodamente installato sotto un granaio, dal cui pavimen‐ to danneggiato cade il grano, invita i suoi compagni per esibire il suo benessere. Non potrà però raggiungere lo scopo, perché il padrone del granaio, accortosi del buco, provvederà a ripararlo. La giusta punizione per i vanitosi e tutti coloro che deridono gli altri, vantantosi delle proprie abilità, è inflitta anche alla lepre del brano Il ric‐ cio e la lepre15, nel quale un riccio, avendo sfidato in una gara di velocità una lepre che lo aveva preso in giro per i suoi piedi storti, riuscirà a vin‐ cerla tramite uno stratagemma. Il riccio chiede infatti alla moglie di porsi alla fine del percorso di gara e quando la lepre, giunta al traguardo, cor‐ rerà all’altra estremità per ripetere la gara, credendola il riccio, ad aspet‐ tarla ci sarà il marito. La lepre continuerà a correre da un capo all’altro del percorso, incapace di accettare la sconfitta, ma alla fine, sfinita, è co‐ stretta a dichiararsi vinta. Può valere anche per i Quattro libri di lettura ciò che Vladimir Jakovle‐ vič Propp scrive a proposito degli animali nelle fiabe russe: la forza del realismo artistico è così forte da non permetterci di notare che, no‐ nostante le caratteristiche degli animali vengano descritte con grande precisio‐ ne, i protagonisti non agiscono quasi mai da animali e le loro azioni non corri‐ spondono alla loro natura16. Ivi, pp.72‐73, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 70‐71). Ivi, p. 66, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 64‐65). 15 Ivi, pp. 90‐91, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 88‐89). 16 V. J. PROPP, La fiaba russa, Torino, Einaudi, 1990, p. 350. 13 14 XIV Introduzione La forte presenza degli animali, del loro sguardo sulle vicende del mondo, non è però soltanto espressione della personificazione favolisti‐ ca frequente nelle fonti classiche dello scrittore, ma Agisce e parla qui, soprattutto nelle cose da Tolstoj scritte appositamente per i Quattro libri di lettura, un soggetto allargato, un grande “noi”, che abbraccia la volpe, l’uccellino, il gatto, il cane (le storie di Bul’ka), il cavallo […], la mucca, il vitellino[…]17. Significativa in proposito è la leggenda in versi Volga l’eroe18, nella quale il protagonista acquisisce la capacità sciamanica di trasformarsi in animale, e grazie a questa, insieme alla sua compagnia, prima cattura ogni specie di pesce, poi gli animali da pelliccia nei boschi, ed infine im‐ pedisce all’imperatore turco Saltàn Bekètyč di conquistare la città di Kiev. Gli animali, nella veste di prede o compagni di avventure venatorie, sono una presenza costante non solo all’interno dei Quattro libri di lettu‐ ra, ma anche e soprattutto nella vita di Tolstoj. Lo scrittore non seppe mai sottrarsi al fascino della caccia, e questa sua passione si nota forte‐ mente nell’economia dei brani. Tale sentimento si fa particolarmente e‐ vidente nel racconto Milton e Bulka19. Nonostante il rapporto tra il caccia‐ tore e il suo cane sia concepito da superiore ad inferiore, ciò non sminui‐ sce il valore dell’animale, ma lo circoscrive all’ambito che gli è proprio. Quando Bulka viene gravemente ferito dal cinghiale, l’ufficiale non pensa a soccorrerlo, in quanto ancora impegnato nella battuta di caccia; ciò non è indice di crudeltà o di poca considerazione per l’animale ma è piuttosto emblema dell’estremo realismo di Tolstoj, in virtù del quale non vengono attribuiti al militare atteggiamenti che non può avere, co‐ sicché sia il cane che il suo padrone rivestono i ruoli che, per la mentalità dell’epoca, competono loro. Com’è nello stile dei Quattro libri di lettura, l’autore non vuole in alcun modo influenzare il giudizio del lettore, la‐ sciando che siano i fatti stessi a suscitare i sentimenti. Quando Bulka, nel brano Fine di Bulka e di Milton20, ammalato di rabbia, scompare, il suo padrone lo cerca ovunque ma senza successo, ed anche in questa circo‐ stanza la sparizione di Bulka non assume toni drammatici, ma si inqua‐ L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, Introduzione di P. C. BORI, cit., p. VIII. Ivi, pp. 179‐184, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 175‐179). 19 Ivi, p. 156, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 152‐153). 20 Ivi, pp. 162‐163, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 158‐159). 17 18 Introduzione XV dra nel normale ordine delle cose, nel naturale avvicendarsi della vita e della morte. 3. Il gioco Piuttosto singolare, è il fatto che nei Quattro libri di lettura non si ac‐ cenni quasi mai ai giochi dei bambini, ma, nelle rare volte in cui ciò av‐ viene, spesso i loro compagni di gioco sono animali, come nel caso dei racconti Il gattino21 ed il già citato Il cane arrabbiato22. Secondo Tolstoj, il gioco riveste un ruolo fondamentale nell’universo infantile, soprattutto per evitare che i bambini si annoino nell’apprendere. Tramite un’attività ludica i limiti della realtà oggettiva vengono infranti e la fantasia per‐ mette la creazione di un mondo alternativo, improntato ad altri valori e scandito da ritmi differenti. Il gioco permette una percezione profonda del reale, che consente una rappresentazione del mondo al di sopra di ogni mediazione o spiegazione teorica, che rischierebbero di alterare un’autentica comprensione della vita. 4. La scienza spiegata ai ragazzi I Quattro libri di lettura sono certamente espressione di quella sensibi‐ lità illuministica che fa parte della complessa formazione di Tolstoj, ri‐ spondendo all’intento di propagare nozioni scientifiche elementari, combattendo al contempo immagini errate e superstizioni. Fra le molte considerazioni di carattere scientifico presenti del Terzo e nel Quarto dei Quattro libri di lettura, (Per quale ragione il gelo fa scoppiare gli alberi?23, L’umidità24, Le particelle della materia sono collegate tra loro in modi diversi25, I gas26, Il sole è il calore27), un esempio esplicativo della vi‐ sione pedagogica di Tolstoj è il brano L’aria mefitica28. L’autore spiega ai bambini questo concetto scientifico con parole semplici, prima tramite il racconto della morte di una coppia di fattori, caduti in un pozzo saturo Ivi, pp. 25‐26, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 26‐27). Ivi, pp. 72‐73, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 70‐71). 23 Ivi, p. 129, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 126‐127). 24 Ivi, pp. 130‐131, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 127‐128). 25 Ivi, p. 131, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 128‐129). 26 Ivi, pp. 213‐215, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 208‐210). 27 Ivi, pp. 225‐227, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 220‐222). 28 Ivi, pp. 193‐195, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 198‐191). 21 22 XVI Introduzione di aria mefitica; poi attraverso le necessarie delucidazioni scientifiche ed il ricorso ad un esempio storico. Lo stesso meccanismo, ma in ordine inverso, è presente nel brano Come si fabbricano i pallono aerostatici29, nel quale le considerazioni scienti‐ fiche precedono la descrizione dell’esperienza reale. Secondo Luigi Volpicelli, tramite la dimostrazione di nozioni scienti‐ fiche attraverso dati rilevabili dall’esperienza, l’insegnamento scientifico di Tolstoj, «muovendo sempre dall’osservazione, si compone di centri d’interesse, i quali consentono un insegnamento globale e, noi diremmo, interdisciplinare»30. Tolstoj ha conferito attendibilità ad uno degli attuali capisaldi delle tecniche educative, il metodo dell’osservazione e della sperimentazione, rendendo la scienza costruita in classe, […] con la partecipazione viva dei ragazzi, e dunque, non definitiva nozione scientifica, ma capacità di dialogo, ulteriore sollecitazione ad osservare e a ricercare, complesso procedimento educativo, […] piuttosto che lezione31. Una tematica molto presente nei Quattro libri di lettura è quella dei fe‐ nomeni atmosferici, che fanno spesso da sfondo alla narrazione. Un e‐ sempio significativo è dato dal brano Un ragazzo racconta come, nel bosco, lo colse il temporale32, scritto dall’allievo Rumjancev. La prima parte del racconto, nella quale domina la paura per la violenza della tempesta, si chiude con lo svenimento del protagonista, il quale, al suo risveglio, può osservare come, passato il temporale, gli uccelli siano tornati a cantare ed il sole si scorga nuovamente tra i rami. A ricordare l’impetuosità della natura è una quercia schiantata da un fulmine, ma lo spavento è presto dimenticato, ed il bambino corre a casa per riposarsi, dopo aver mangia‐ to un po’ di pane. 5. Le descrizioni Al fine di soddisfare le innumerevoli curiosità dei bambini, nei Quat‐ tro libri di lettura Tolstoj presenta molte descrizioni. Ivi, pp. 219‐221, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 214‐216). L. VOLPICELLI, A scuola da Tolstoj, Roma, Armando, 1977, p. 119. 31 Ivi, p. 120. 32 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 13‐14, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 15). 29 30 Introduzione XVII Particolarmente interessante è la quella degli eschimesi: Al mondo c’è una terra, dove per tre mesi soltanto fa estate, e tutto il resto dell’anno fa inverno. D’inverno le giornate sono così corte, che appena il sole s’affaccia, subito tramonta. E per tre mesi, proprio nel cuore dell’inverno, il sole non si leva affatto, e per quei tre mesi è sempre buio. In questa terra vivono de‐ gli uomini: essi si chiamano Eschimesi. […] Gli Eschimesi abitano in case di ne‐ ve. Essi le costruiscono così: tagliano nella neve tanti blocchi, e con questi com‐ pongono la casa, come quando si monta una stufa. Al posto dei vetri incastrano nei muri lastre di ghiaccio, e al posto della porta fanno una lunga galleria sotto la neve, e per questa galleria strisciano fin dentro alla casa. Quando sopravviene l’inverno, le loro case restano seppellite interamente dalla neve, e dentro ci fa un bel caldo33. L’analisi di queste righe può essere effettuata operando su due diversi livelli di lettura: uno, immediato, che coglie l’unitarietà e la coesione del brano attraverso la poeticità e la limpidezza di uno stile asciut‐ to e vivace, l’altro, di tipo analitico, volto ad individuare, alla base dell’informazione complessiva, un insieme di indicazioni relative a diversi campi conoscitivi che concorrono alla definizione globale di un argomento, la vita degli esquimesi, ricco di fascino e di interesse per i bambini di ogni epoca e paese34. Nelle descrizioni prende corpo la tecnica tolstojana basata sulla spie‐ gazione in termini semplici e facilmente comprensibili di femoneni complessi, riscontrabile anche nel brano A che scopo soffia il vento?35 Tol‐ stoj non spiega cosa sia il vento, ma, insegnando come si costruisce un aquilone, ne descrive gli effetti relativamente ad un gioco amato dai bambini, in modo da catturare l’attenzione anche dell’alunno più distrat‐ to. Evitando il ricorso a delle definizioni astratte, lo scrittore ben inter‐ preta il punto di vista dei bambini, rendendo la spiegazione scientifica interessante e stimolante. Ivi, p. 7, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 9‐10). E. MEDOLLA, op. cit., p. 51. 35 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 77‐79, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 76‐77). 33 34 XVIII Introduzione 6. I bambini: destinatari e protagonisti dei Quattro libri di lettura Come si evince chiaramente dai Quattro libri di lettura, Tolstoj seppe sempre rispettare il punto di vista dei bambini, evitando di sovrapporvi le proprie convinzioni ed i propri giudizi di adulto, sia nell’attività di maestro, sia nella scrivere un’opera a misura del proprio pubblico di ri‐ ferimento. È infatti proprio questo uno dei testi nei quali emerge più chiaramen‐ te la centralità, nell’universo tolstojano, del ruolo dei bambini, rappre‐ sentanti di quell’armonia e di quella semplicità d’espressione che costi‐ tuirono la perenne aspirazione dello scrittore. Proprio in virtù di questo ideale, la narrazione si svolge tramite l’utilizzo di una prosa chiara e semplice, che costituiva per Tolstoj il punto di arrivo della propria arte. Numerosi sono i brani nei quali il mondo è scrutato con gli occhi dei bambini: da un bambino viene l’affermazione della verità riguardo l’ab‐ bigliamento del re nel brano Il vestito nuovo del re36, tratto dai fratelli Grimm, e da una bambina la salvezza del prigioniero Žílin nel brano Prigioniero nel Caucaso37. A fornire due ulteriori esempi sono i racconti Un ragazzo racconta come avvenne che scoprí al nonno la regina delle api38 e In che modo ammazzai la mia prima lepre39. Nel primo racconto un bambino narra in prima persona come sia casualmente riuscito a scoprire l’ape regina nell’arniaio del nonno. L’intento didattico di fornire informazioni precise sulla vita delle api non compromette la poeticità del linguaggio, al contrario comporta una maggiore aderenza alla realtà ed alla quotidianità, apprezzata, se‐ condo Tolstoj, dai bambini di ogni ceto sociale. Nel secondo racconto ben si esprimono, invece, le emozioni di un ra‐ gazzo durante una battuta di caccia. La vicenda è condotta con toni ra‐ pidi, al fine di esprimere tutta l’impazienza del giovane nel dimostrare la propria abilità. La determinazione del ragazzo e la sua forte capacità di concentrazione durante il momento della mira, verranno premiate con l’uccisione della lepre, rappresentativa del superamento di una pro‐ va importante nella vita personale di chi l’ha vissuta. Ivi, pp. 198‐199, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 194‐195). Ivi, pp. 233‐259, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 227‐252). 38 Ivi, p. 18, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 18‐19). 39 Ivi, pp. 35‐37, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 36‐37). 36 37 Introduzione XIX 7. Il carattere popolare dei Quattro libri di lettura e le influenze del mondo classico I Quattro libri di lettura rappresentano anzitutto la volontà di Tolstoj di trasmettere e diffondere fra il popolo quello che egli aveva appreso dal popolo stesso. In quest’opera si proponeva di raccogliere il meglio della produzione letteraria della tradizione ed ovviamente le scelte dello scrittore hanno un significato ben preciso. In questo senso, stupisce, nel racconto Castigo severo40, il richiamo a Shylock41 del Mercante di Venezia di William Shake‐ speare, data l’estrema severità di giudizio a questi riservata. Le riflessio‐ ni estetiche di Tolstoj erano infatti determinate dalla convinzione che le arti nel corso dei secoli fossero state snaturate dal prevalere del gusto decadente delle classi privilegiate, portando al distacco dalla coscienza popolare, che deve invece rappresentare, per Tolstoj, il motivo ispiratore di ogni opera veramente grande: la mancata attribuzione del carattere “popolare” ad un’opera ne decretava au‐ tomaticamente la condanna sul piano artistico. […] una visione del mondo, quella tolstoiana, in dichiarata controtendenza rispetto alla posizione un po’ i‐ pocrita di che credeva che comunque i bambini andassero indottrinati propo‐ nendo loro modelli di vita assolutamente esemplari, anche se in fondo falsi […]42. Una delle maggiori preoccupazioni di Tolstoj è di salvare e riproporre la sostanza intrinseca alla sapienza popolare. Nel corso della lettura, mentre i proverbi russi illustrano le varie ammonizioni contro la pigri‐ zia, l’avidità, la superstizione, mentre la vita tipica del villaggio russo viene descritta nella sua bellezza, ma anche nel suo squallore, si acquisi‐ sce l’insegnamento fondamentale di questa sapienza: l’impossibilità di una vita realmente piena se non nel viverla per gli altri. Ne sono esempi i brani Un ragazzo racconta in che modo gli passò la paura dei mendicanti cie‐ chi43, espressione del sentimento di compassione, ed ancora La zia raccon‐ Ivi, p. 118, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 116). Cfr. W. SHAKESPEARE, Il mercante di Venezia, Mondadori, Milano, 2000. 42 E. MEDOLLA, op. cit., pp. 39‐40. 43 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., p. 21 (cfr. in questo elaborato di lau‐ rea p. 21). 40 41 XX Introduzione ta in che modo il brigante Pugaciòv le donò una monetina da dieci centesimi44 e Pietro il grande e il contadino45, tramite i quali il punto di osservazione del potere è quello degli oppressi. Ancor più che nei racconti, il carattere popolare della narrazione è avvertibile nelle byline, leggende in versi poste a conclusione di ogni li‐ bro di lettura. Nella bylina che chiude il Primo libro di lettura, L’eroe Svia‐ tagòr46, si rivisita il mito di Atlante tramite una visione più terrena della storia e delle vicende umane e l’orgoglio del titano è rimarcato dal rico‐ noscimento dei limiti delle proprie forze. Il contadino Mikula, l’antago‐ nista di Sviatagòr, rappresenta invece i valori in cui Tolstoj crede: la semplicità d’animo ed il rispetto per il lavoro duro e costante. Non mancano le notazioni minute, che umanizzano il racconto: il titano, che all’inizio, nel suo orgoglio, si considera superiore ai comuni mortali, è costretto poi a chiedere all’umile viandante di aspettarlo, dal momento che, neanche do‐ po aver lanciato al galoppo il proprio cavallo, riesce a raggiungerlo; dopo aver tentato inutilmente di sollevare il sacco, Sviatagor diviene “tutto rosso in viso”: è il ridimensionamento dell’eroe, che alla fine riesce nel suo intento, ma dopo aver faticato e sofferto; quale distanza intercorre tra la levigatezza degli antichi eroi e la fibra tutta umana di Sviatagor, la cui forza e tenacia non è superiore a quella del contadino Michele, che ha il grande merito, nei confronti del titano, di amare la terra madre e tutte le sue creature47. L’influenza di un antico mito è presente anche nella favola La biscia48 la quale narra di una ragazza che, in base ad una promessa, è costretta a sposare una biscia e a lasciare sua madre e la sua casa per vivere con il suo sposo nelle profondità marine; la madre però non si rassegna e con uno stratagemma riesce ad uccidere il genero. Evidenti sono i richiami al mito di Persefone, rapita da Ade e costretta a trascorrere sei mesi l’anno negli inferi. Nella conclusione della fiaba, la protagonista, addolorata per la morte del marito, trasforma i loro due figli in una rondine e in un usignolo e se stessa in un cuculo; anche in questa circostanza vi sono si‐ gnificativi rimandi al mito di Progne e Filomela, le sorelle che fecero Ivi, pp. 28‐30, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 29‐31). Ivi, p. 70, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 69‐70). 46 Ivi, pp. 46‐47, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 47‐48). 47 E. MEDOLLA, op. cit., p. 45. 48 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 94‐96, (cfr. in questo elaborato di laurea pp.91‐93). 44 45 Introduzione XXI mangiare al re Tereo la carni del figlio Iti, di cui erano madre e zia, ve‐ nendo trasformate in rondine e usignolo. 8. Storia antica e moderna nei Quattro libri di lettura Oltre ai brani ispirati ad antichi miti, sono molto presenti nei Quattro libri di lettura riduzioni di Erodoto e Plutarco riguardanti alcuni tra i più noti racconti della storia antica: La fondazione di Roma49, Cambise e Psam‐ menite50, In che modo le oche salvarono Roma51. Queste narrazioni presenta‐ no dei contenuti ancora molto attuali, in quanto riguardano temi univer‐ sali, come la vendetta, la dignità, la pietà, la crudeltà, la giustizia, la mor‐ te e il potere. Nella stesura di questi brani Tolstoj aveva certamente ben presente quanto esposto nel 1862 nell’articolo La scuola di Jasnaja Poljana in novem‐ bre e dicembre. Riferendosi all’insegnamento e all’apprendimento della storia dei propri alunni, affermava infatti che alcuni passi della storia an‐ tica erano ricordati quasi per caso, «non perché suscitassero qualche nuova idea, ma perché erano poetici e artistici»52, precisando ulterior‐ mente il proprio pensiero nelle pagine successive: Per insegnare la storia, è necessario prima di tutto sviluppare nel fanciullo l’interesse storico. Come fare? Ho molte volte sentito dire che per insegnare la storia, non bisogna cominciare dall’inizio, ma dalla fine, cioè non dalla storia antica, ma dalla storia contemporanea. In effetti, questa idea è molto giusta. Come spiegare a un fanciullo le origini dello Stato russo e interessarlo quan‐ do non sa che cosa è lo Stato russo e, in generale, uno Stato? […] Secondo le mie osservazioni e le mie esperienze, il primo germe dell’interesse storico appare con la conoscenza della storia contemporanea, talvolta, grazie alla coscienza di parteciparvi, grazie all’interesse politico, alle discussioni, alla lettura dei giorna‐ li. Per questo l’idea di iniziare dalla storia contemporanea deve venire in mente a ogni maestro che rifletta53. Ivi, pp. 166‐167, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 162‐163). Ivi, pp. 97‐98, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 94‐95). 51 Ivi, pp. 128‐129, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 125‐126). 52 ID., La scuola di Jasnaja Poljana in novembre e dicembre, in U. ZANDRINO (a cura di) La scuola di Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, Bergamo, Minerva Italica, 1965, p. 108. 53 Ivi, pp. 111‐112. 49 50 XXII Introduzione A conferma di quanto detto anni prima, nei Quattro libri di lettura Tol‐ stoj inserisce anche numerosi episodi della storia russa più recente, in‐ trecciando spesso, in brani già citati come Pietro il grande e il contadino54 e La zia racconta in che modo il brigante Pugaciòv le donò una monetina da dieci centesimi55, i destini delle persone comuni con quelli di celebri personali‐ tà storiche. Proprio come in Guerra e pace, «I personaggi d’invenzione e i personaggi storici si avvicendano […] senza che si avverta uno squilibrio di toni»56. Esemplare è proprio il brano La zia racconta in che modo il brigante Pu‐ gaciòv le donò una monetina da dieci centesimi57. La piccola Caterina, narra che lei e sua sorella minore sono state affidate, dai genitori in fuga, alle cure della governante Anna Trofímovna, perché essi temevano, nel corso del viaggio, di essere assaliti dalla banda del sanguinario brigante Puga‐ ciòv. Ciò avviene però proprio a casa delle bambine, e a Caterina viene da‐ ta istruzione di dire, se interrogata, di essere la nipote della governante. Nel punto culminante della vicenda, l’incontro tra Pugaciòv e Cateri‐ na, il brigante si mostra però inaspettatamente gentile, elogiando la bambina e lasciandole in dono una monetina da dieci centesimi. Immenso è il valore didattico di questo racconto, in quanto i bambini, leggendolo, possono facilmente appassionarsi alla storia, comprendendo come non sia soltanto il resoconto di imprese compiute da eroi spesso molto lontani nel tempo, ma piuttosto lo svolgersi di vicende di cui cia‐ scuno di noi, proprio come la bambina del brano, è protagonista. 9. I sentimenti Fondamentale è la tematica dei sentimenti, presenti in molteplici ac‐ cezioni nei Quattro libri di lettura. Nei brani, dello stesso sentimento ven‐ gono presi in considerazione aspetti molto differenti ed un esempio è il senso dell’amicizia, riscontrabile sia nel racconto dal vero Il cane arrabbia‐ ID., I quattro libri di lettura, cit., p. 70, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 69‐ 54 70). Ivi, pp. 28‐30, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 29‐31). ID., Tutti i romanzi, Introduzione di M. B. LUPORINI, Firenze, Sansoni Editore, 1967, p. XXV. 57 ID., I quattro libri di lettura, cit., pp. 28‐30, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 29‐31). 55 56 XXIII Introduzione to , sia nel racconto storico Policrate di Samo . Nel primo brano, uno dei più commoventi, la storia di un cagnolino gettato nella gabbia di un leo‐ ne, che però, invece di sbranarlo, ne diviene amico, offre la possibilità di presentare, seppur in modo anticonvenzionale, la forza e l’esclusività dell’amicizia, capace di superare qualsiasi ostacolo. Il leone non viene qui presentato, come invece accade in altri brani più tradizionali, secon‐ do lo stereotipo dell’animale feroce e violento, ma come un essere gene‐ roso e leale, capace di provare e manifestare sentimenti nobili quali l’amicizia e l’affetto. Dopo la morte del cagnolino, nella sua esplosione d’ira, il leone reagisce nel modo che da lui ci si sarebbe aspettati, ma, nonostante le manifestazioni rispondano ad uno stereotipo, le motiva‐ zioni di tale gesto sono del tutto differenti, dettate dal dolore per la per‐ dita dell’amico. Malgrado il leone, nella sua furia, sbrani un altro cagnolino, messogli nella gabbia per tentare di consolarlo, nel lettore prevale comunque il senso di solidarietà verso l’espressione di un sentimento così totalizzan‐ te da portare alla morte dello stesso leone. Nella vicenda narrata nel secondo brano invece, espressione dell’ami‐ cizia tra il re greco Policrate ed il re d’Egitto Amasis, sono i consigli det‐ tati da quest’ultimo verso il primo. Secondo Amasis infatti, la troppa for‐ tuna di Policrate non è un buon segno, consigliandogli di disfarsi della cosa a lui più cara, in modo da permettere un avvicendamento tra fortu‐ na e sfortuna, tra felicità ed infelicità. Pur seguendo il consiglio dell’ amico, la fortuna di Policrate fa sì che l’oggetto di cui si è disfatto venga ritrovato, spingendo Amasis a rompere la loro amicizia, considerando il suo destino ormai ineluttabile. Proprio come previsto da Amasis, la grande fortuna di Policrate terminerà con una grande sfortuna, venendo ucciso da un suo nemico, Oroteis. Tra i sentimenti maggiormente rappresentati all’interno dei Quattro libri di lettura vi sono sicuramente la collera e la pietà. Riguardo il primo sentimento un esempio può essere dato con la favola Il re e il falco60, trat‐ ta dalla raccolta Les mille et un jours. Durante una battuta di caccia, un falco, rovesciando la ciotola, impedisce al re di bere l’acqua che goccia da un greppo. Quando ciò avviene per la terza volta, il re, adirato per l’inspiegabile comportamento del fedele compagno, lo uccide scaglian‐ dolo contro una roccia, per poi scoprire dai suoi servitori che egli gli ha 58 59 Ivi, pp. 72‐73, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 70‐71). Ivi, pp. 177‐179, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 173‐174). 60 Ivi, p. 117, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 115). 58 59 XXIV Introduzione invece salvato la vita, in quanto l’acqua della sorgente è avvelenata da un serpente. Non sembrerebbe casuale che ad un re, simbolo del potere e dell’autoritarsmo, venga affidato il compito di rappresentare i dram‐ matici effetti dell’ira e della violenza, di fronte ai quali il pentimento ed il riconoscimento della dedizione del falco non possono che essere una tardiva quanto inutile presa di coscienza. Il sentimento della pietà è ben raffigurato dal racconto dal vero Il ve‐ scovo e il brigante61, rielaborazione di un episodio tratto da I miserabili62 di Hugo. È infatti quest’ emozione a spingere un vescovo ad ospitare nella sua casa un brigante inseguito dalla polizia. Nella conclusione del rac‐ conto, la generosità del religioso, che continuerà a proteggere il bandito nonostante il furto subito, spingerà l’uomo a pentirsi delle sue cattive a‐ zioni e a chiedere perdono a Dio. La paura è invece il filo conduttore di alcuni brani di ispirazione eso‐ piana. Nella favola La rana e il leone63, un leone, spaventato dal gracidio di una rana, quando si rende conto di avere a che fare con un innocuo animaletto, lo schiaccia. Nella frase conclusiva pronunciata dal leone, «Se prima non avrò visto bene di che si tratta, non mi lascerò più spa‐ ventare»64 è racchiusa tutta la morale della storia, dalla quale si può trar‐ re l’insegnamento che la paura dell’ignoto possa essere vinta attraverso la conoscenza. Nella favola Le lepri e le rane65 una lepre saggia invita le sue compagne a desistere dall’intento di un suicidio collettivo, avendo compreso come l’esistenza delle rane sia minacciata da un senso di paura più forte del proprio. Tale consapevolezza può preludere una più autentica cognizio‐ ne di sé, nell’accettare e non nell’arrendersi al proprio destino. La favola L’asino nella pelle del leone66 è infine emblematica del senso di rivincita su chi, avendo solo l’apparenza della forza, ispira paura ma viene infine smascherato e punito. Un colpo di vento permette infatti di ristabilire la verità, portando via la pelle del leone che l’asino aveva usa‐ to per camuffarsi e seminare il panico, scatenando la reazione della folla, che prende a bastonate il bugiardo. Ivi, pp. 101‐102, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 98‐100). Cfr. V. HUGO, I miserabili, Milano, Mondadori, 1991, L. I cap. 6, L. II capp. 3‐12. 63 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., p. 20, (cfr. in questo elaborato di lau‐ rea p. 21). 64 Ibidem. 65 Ivi, p. 67, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 65‐66). 66 Ivi, p. 52, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 51). 61 62 Introduzione XXV 10. Scelte ideologiche ed impegno sociale nei Quattro libri di lettura Nei Quattro libri di lettura, il piglio polemico presente in molti altri scritti di Tolstoj è mitigato, scelta probabilmente dovuta al profondo senso di rispetto e di equilibrio nutrito dallo scrittore verso i bambini. Ciononostante, alcune scelte ideologiche di fondo si avvertono con evidenza ed in questo senso non è certamente casuale l’assenza di brani inneggianti al patriottismo. Quest’ultimo appare infatti agli occhi di Tol‐ stoj come uno strumento con cui il potere irretisce il popolo mantenen‐ dolo nell’ignoranza. Centrale è quindi il problema dell’educazione, at‐ traverso la quale, eliminando «tutte le barriere che si oppongono alla cultura […] e all’insegnamento»67, è invece possibile colmare il divario di incomprensione che divide il popolo dai governanti. Nel racconto L’indiano e l’inglese68, è inoltre riscontrabile il convinci‐ mento della necessità della fratellanza tra i popoli ed una forte critica al colonialismo. Il concetto della non−violenza è espresso nel gesto dell’in‐ diano, che potendo disporre della vita dell’inglese suo prigioniero, pri‐ ma lo ospita nella propria capanna e poi lo lascia libero. Ciò ne eleva la figura morale ed evidenzia, al contrario, la meschinità dell’inglese, che ne comprenderebbe il desiderio di vendetta ma è del tutto impreparato alla propria liberazione. particolarmente significativo, nell’economia del racconto, è il fatto che la deci‐ sione di liberare l’inglese non si dettata dall’acquiescenza ad una norma preco‐ stituita, ma scaturisca da un percorso di sofferenza, segnato dalla perdita del figlio; se interiorizzato e vissuto con coraggio, un grande dolore può insegnare non solo a comprendere le motivazioni altrui, ma a perdonare i torti subiti, nella prospettiva di una rigenerazione morale che coinvolga tutti gli uomini69. Motivo ricorrente dell’intera produzione tolstojana è la venatura an‐ timilitaristica, ravvisabile nei Quattro libri di lettura nel racconto intitolato Un contadino racconta perché vuol bene al fratello maggiore70, in cui un gio‐ vane contadino, costretto ad abbandonare la sua sposa perché deve par‐ ID., Appello allo Zar e ai suoi aiutanti, in I. SIBALDI (a cura di) Perché la gente si dro‐ ga?: e altri saggi su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988, p. 265. 68 ID., I quattro libri di lettura, cit., p. 53, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 52‐ 53). 69 E. MEDOLLA, op. cit., p. 55. 70 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 34‐35, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 35). 67 XXVI Introduzione tire per il servizio militare, viene sostituito dal fratello maggiore. Ed è proprio il sentimento di profonda solidarietà tra i due fratelli a rappre‐ sentare l’accusa verso l’apparato militare, che corrompe gli istinti mi‐ gliori dei giovani, preparandoli all’omicidio sistematico. Nel racconto non vengono denunciati gli artefici e i promotori delle guerre, né ci si poteva aspettare tanto da un testo per ragazzi, ma la tristezza dei due giovani, l’angoscia che attanaglia la madre, sono già di per sé una denuncia di responsabilità che, seppur lontane, non appaiono per questo meno gravi71. Nell’articolo L’istruzione pubblica72, apparso sul primo numero della rivista «Jasnaja Poljana» Tolstoj sostiene che l’insegnamento popolare debba svincolarsi dal controllo del potere politico, tornando ad afferma‐ re con forza il convincimento della capacità del popolo di istruirsi, al di là di ogni tentativo di indottrinamento dall’alto. Lo scrittore considera del resto con forte diffidenza la scienza ufficiale, accusandola di pesare «sul collo del popolo reso schiavo»73, convinto invece che la vera scienza consista nell’impegno concreto a migliorare le condizioni di vita del po‐ polo. La scienza per Tolstoj consiste in qualsiasi conoscenza in grado di fornire soluzioni concrete ai problemi che affligono la vita degli uomini, condannando ogni presunta superiorità dell’attività intellettuale sul la‐ voro fisico. Nei Quattro libri di lettura tali considerazioni si esprimono con particolare ironia nella favola Il figlio istruito74, nella quale il figlio di un contadino si rifiuta di prendere il rastrello per aiutare suo padre a falciare il fieno, affermando di aver studiato le scienze e di aver dimenti‐ cato i vocaboli agricoli pronunciati dal genitore. La pigrizia del ragazzo viene però punita con un comico espediente, quando, inciampando sul rastrello, viene colpito in testa proprio dall’oggetto simbolo di quel mondo contadino che egli non considera più alla sua altezza. La decisa affermazione del buon senso sulle vane parole di intellet‐ tuali che hanno perso il contatto con la realtà, di «gente che vive – ille‐ galmente, delittuosamente – una vita oziosa e corrotta»75, è il motivo E. MEDOLLA, op. cit., pp. 56‐57. Cfr. L. N. TOLSTOJ, L’istruzione pubblica, in G. SANTOMAURO (a cura di) Scritti pe‐ dagogici, Bari, Adriatica, 1972, p. 37. 73 ID., Sulla scienza, in I. SIBALDI (a cura di) Perché la gente si droga?: e altri saggi su società, politica e religione, cit., p. 713. 74 ID., I quattro libri di lettura, cit., p. 26, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 27). 75 ID., Sulla scienza, in I. SIBALDI (a cura di) Perché la gente si droga?: e altri saggi su società, politica e religione, cit., p. 713. 71 72 Introduzione XXVII conduttore del racconto dal vero intitolato In che modo un contadino tolse via un macigno76. Diversi ingegneri propongono soluzioni complicate e dispendiose per rimuovere un grande masso di pietra che intralcia lo spiazzo di un paese; mentre si vagliano varie ipotesi, un contadino si impegna a risolvere il problema dietro ricompensa di sole cinquecento lire. Il contadino illustra la sua idea, spiegando l’intenzione di scavare un fosso in cui far rotolare il masso, spianando poi il terreno. Ad impre‐ sa riuscita al contadino viene consegnato il denaro pattuito ed altre cin‐ quecento lire come ricompensa per la sua ingegnosità. La figura del con‐ tadino è emblematica di un modo di affrontare i problemi semplice e di‐ retto, privo di superflue complicazioni e non è certamente casuale l’assenza quasi totale, nei Quattro libri di lettura, dei ceti privilegiati, i cui valori non erano evidentemente vicini alla mentalità dello scrittore. 11. I Quattro libri di lettura in Italia Riguardo la fortuna critica dei Quattro libri di lettura in Italia, La risonanza dei Quattro libri di lettura in ambito letterario e pedagogico, considerevole già negli anni successivi alla pubblicazione, non s’è attenuata nel tempo, il che, oltre ad essere indice della vitalità dell’opera, dimostra come, oc‐ cupandosi di letteratura per ragazzi, Tolstoj abbia convogliato l’attenzione della critica su un genere che erroneamente e contro il parere stesso dello scrittore, si sarebbe portati a considerare “minore”77. Tra le critiche negative «che circondarono l’opera fin dal suo appari‐ re»78, particolarmente aspra fu quella espressa da Tommaso Carletti: Tolstoj è dominato dall’idea fissa che si deve scrivere per il popolo e quindi adattarsi alla sua intelligenza e ai suoi gusti, dottrina democratica quanto si vuole, ma non altrettanto artistica. Perciò le novelle, i racconti, le parabole, […] rispondono al sentimento fantastico del popolo, e sono piene di puerilità, di so‐ prannaturale, qualche cosa tra le novelle delle Mille e una notte e le favole che le balie o le nonne sogliono raccontare a veglia79. ID., I quattro libri di lettura, cit., p. 58, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 57). E. MEDOLLA, op. cit., p. 65. 78 Ibidem. 79 T. CARLETTI, Dottrine filosofiche, religiose e sociali del conte L. Tolstoi, in «Rassegna nazionale», 16/02/1893, p. 649. 76 77 XXVIII Introduzione Simili atteggiamenti Denunciano la miopia di certa critica passatista, impegnata a coltivare il rimpianto di antichi fasti, dimenticando però che al fondo della letteratura an‐ che più elevata, sempre che sia autentica, è possibile rintracciare elementi ri‐ conducibili ad un’origine o quanto meno ad un’ispirazione “popolare”, così come è stato per la poesia epica o per la lirica, fin dai primordi80. Se l’acredine dei toni di Carletti appare un caso alquanto isolato, non la stessa cosa si può affermare riguardo la considerazione nutrita nei confronti della scuola di «Jasnaja Poljana» da molti studiosi. Un esempio è l’opinione espressa da Aurelio Stoppoloni81, il quale, «pur riconoscen‐ do i meriti della scuola di «Jasnaja Poljana», ne ravvisa la sostanziale ca‐ rica utopica»82. Stoppoloni ed altri studiosi considerano infatti la scuola di «Jasnaja Poljana» come un “capriccio” del grande scrittore; eppure tutti i documenti relativi all’esperienza pedagogica di Tolstoj (la rivista, i componimenti, i ricordi degli allievi, le testimonianze dei familiari) confermano l’assoluta priorità, per lo scrittore, di tutto ciò che gravita intorno alla scuola, organizzazione della didat‐ tica, scelta degli insegnanti e dei testi e così via83. Una studiosa che dimostra invece di aver ben compreso i motivi di fondo della pedagogia tolstojana è Emilia Santamaria, la quale afferma: «l’esperienza del Tolstoj vale più della teoria, e se la scuola di Jasnaja Poljana non influirà molto sull’educazione del carattere, ci darà certo fanciulli dall’intelligenza aperta e vivace, e fisicamente sani»84. A susci‐ tare le riserve della Santamaria è il carattere “negativo” del metodo edu‐ cativo tolstojano, riconducibile direttamente a Jean−Jacques Rosseau, che essa considera uno degli errori «del pedagogista russo […] ma d’altra parte […] se non sempre esso porta a buoni risultati, ciò si deve alle ardi‐ te teorie del maestro, che lo conducono ad eccedere anche nel buono»85. E. MEDOLLA, op. cit., pp. 65‐66. Cfr. A. STOPPOLONI, La scuola di Jasnaja Poljana, in «Rivista d’Italia», Roma, fasc. 1, 1903. 82 E. MEDOLLA, op.cit., p. 66. 83 Ibidem. 84 E. SANTAMARIA, Le idee pedagogiche di Tolstoi, Bari, Laterza, 1904, p. 83. 85 Ibidem. 80 81 Introduzione XXIX Se la Santamaria ravvisa nei libri di lettura adottati ai suoi tempi dalle scuole elementari un «evidente sforzo di far notare la morale del raccon‐ to, e di persuadere i lettori a seguire l’esempio che vien loro mostrato»86, certamente l’antologia di Tolstoj doveva apparire fortemente innovativa, conferendo dignità alle sottovalutate opere di letteratura per ragazzi. Volpicelli dedica il quarto capitolo del libro A scuola da Tolstoj ai Quat‐ tro libri di lettura, analizzandone la nascita e le motivazioni di fondo. Animati da un “respiro epico” che viene ad essere l’elemento di raccordo dell’opera, i brani scientifici così come quelli narrativi si ispirano a principi che evidentemente ne costituiscono l’essenza più profonda; «il realismo, l’obiettivi‐ tà, questo distaccato rappresentar le cose quali sono e per quel che sono. È il punto in cui ordine estetico e ordine morale confluiscono»87. Nell’analisi di Volpicelli di alcuni brani dei Quattro libri di lettura, par‐ ticolare risalto viene dato al realismo tolstojano, capace di riprodurre si‐ tuazioni ed avvenimenti senza falsarne l’autentico significato. Volpicelli spende poi parole di apprezzamento per la disposizione dei brani realizzata da Tolstoj, la quale, ispirandosi al criterio della gra‐ dualità, si basa sulle effettive capacità di comprensione dei ragazzi. 12. La morte Una tematica molto presente all’interno dei Quattro libri di lettura è quella della morte, «ricondotta all’ambito di situazioni che, evitando o‐ gni ostentazione del dolore, rappresentano con sobrietà la sofferenza ed il rimpianto della vita»88. Due esempi in tal senso indicativi sono due brani in cui lo scrittore descrive con semplicità la morte di un passerotto e di un antico salice. Nel primo racconto, intitolato La zia racconta d’un passerotto agevolino che aveva da bambina, e che si chiamava Vispetto89, una nidiata di passerotti rimasti orfani della madre viene allevata amore‐ volmente da alcune sorelle. Dopo la morte di quattro dei cinque passe‐ rotti l’ultimo uccellino, chiamato Vispetto per l’allegria del carattere, di‐ Ivi, p. 85. E. MEDOLLA, op. cit., p. 77, per la citazione interna si veda L. VOLPICELLI, A scuo‐ la da Tolstoj, cit., p. 114. 88 Ivi, p. 83. 89 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 67‐69, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 66‐68). 86 87 XXX Introduzione viene il beniamino della famiglia, fino a quando, ammalatosi improvvi‐ samente, muore, addolorando profondamente le bambine. Nonostante il soggetto certamente triste del racconto, il tema della morte è trattato con estrema delicatezza ed al lettore l’immagine più viva del brano rimane sicuramente quella del passerotto gioioso ed esuberante. Più amara è invece la vicenda narrata nel secondo racconto, Il salcio90, in cui un vecchio salice, dopo aver allietato i passanti con la vista dei suoi fiori ed offertogli riparo dal sole in estate, viene bruciato da un gruppo di ragazzi ed insultato da una cornacchia. Nella sopportazione ed umiltà dell’albero di fronte le offese è sicuramente ravvisabile il prin‐ cipio della non–violenza. La morte dell’albero, decretata dall’uomo e non dal destino come nel caso di Vispetto, appare perciò più ingiusta e crudele ed è quindi destinata ad impressionare maggiormente il lettore. Probabilmente non è quindi casuale che i due brani siano separati l’uno dall’altro da poche pagine e che la vicenda del salice, la più amara, preceda, quasi a lasciare un margine di speran‐ za, la storia di Givic91, in cui le lacrime e il dolore, apertamente manifestati, sono un conforto per le sorelle e un tributo d’amore per l’uccellino; nessun rimpianto addolcisce invece la morte dell’albero, che solo è vissuto e solo è morto ed per‐ ciò stesso simbolo di solitudine e di pacata, rassegnata fierezza dinanzi un desi‐ derio oscuro e indecifrabile […]92. Tolstoj riesce a presentare ai bambini una realtà così difficile da com‐ prendere ed accettare con lucidità ed attenzione, attraverso il riferimento ad episodi riconducibili ad esperienze quotidiane. 13. La religione Un altro elemento importante è quello della religione. Negli anni suc‐ cessivi alla sua conversione al Vangelo, Tolstoj si dedicò appassionata‐ mente alla critica e alla rifondazione della teologia dogmatica e della sto‐ ria delle dottrine religiose. La dottrina cristiana, da lui definita “cristia‐ no–ecclesiastica”, era a suo avviso colpevole di aver snaturato e occulta‐ to per secoli l’autentica dottrina di Cristo, sviandone l’attenzione tramite precetti e superstizioni del tutto estranee all’intendimento dei Vangeli. Il Ivi, pp. 64‐66, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 63‐64). Il vivace. 92 E. MEDOLLA, op. cit., p. 85. 90 91 Introduzione XXXI cristianesimo tolstojano si fonda invece su una rigorosa lettura dei soli Vangeli e della Prima epistola di Giovanni a loro integrazione; in base a questi testi si esprime la convinzione che Dio si manifesti nella vita stes‐ sa, o piuttosto che la vita di ogni singolo individuo sia la manifestazione esteriore di Dio. Tolstoj, negando tutti i dogmi concernenti la trinità e la divinità di Cristo, considerati ulteriori superflui supplementi all’auten‐ tico messaggio cristiano, non considera come figlio di Dio il solo Gesù, ma bensì l’uomo stesso, l’autentico “io” di ciascun uomo, di cui il Gesù dei Vangeli ne è piena rappresentazione. Adempiere alla volontà divina, così come Gesù insegna a fare nei suoi comandamenti, costituisce dun‐ que per l’uomo l’attività più naturale e scoprire la via di questa obbe‐ dienza costituisce la rivelazione della propria vera volontà e natura. Riconsiderando il cristianesimo tramite l’ausilio dell’etica e della filo‐ sofia, secondo Tolstoj la morale autenticamente cristiana non ha bisogno dei puntelli della filosofia, destinati a frantumarsi nello scontro con la realtà. Rivendicando quindi l’indipendenza dell’etica cristiana rispetto alla filosofia, la riconduce alla comprensione immediata delle anime semplici, restituendole la forza originaria, perduta nel corso dei secoli. Un esempio dell’espressione del sentimento cristiano all’interno dei Quattro libri di lettura, è il brano Dio vede la verità ma non ha fretta di dirla93. Il giovane mercante Ivàn Dmítrevič Aksiònov è accusato, sebbene in‐ nocente, di omicidio e viene condannato ai lavori forzati in Siberia. Tra‐ scorsi ventisei anni, nel corso dei quali non ha più rivisto la moglie e i figli, ed ormai rassegnato al proprio destino, incontra in carcere il vero assassino, Makàr Semiònov. Seppur inizialmente mediti vendetta, non appena se ne presenta l’occasione, desiste, riconoscendosi di fronte a Dio colpevole dei sentimenti di rabbia e rancore provati ed inducendo così il responsabile al pentimento ed alla confessione. Il mercante non potrà però giovare del conseguente ordine di liberazione, che giungerà dopo la sua morte. Il racconto suscita una forte impressione di straniamento, dovuta non solo all’eccezionalità del fat‐ to narrato ma soprattutto al paradosso finale per cui l’innocente si dichiara più colpevole dinanzi a Dio dell’assassino; in questa disposizione all’autoumiliazione, da intendersi al tempo stesso come affermazione del sog‐ getto etico sulla propria debolezza di essere finito, si misura tutta la grandezza 93 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit., pp. 167‐175, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 163‐171). XXXII Introduzione e la profondità dello “scandalo” cristiano, considerato nella sua irriducibilità alla convenzione, al fariseismo, alle lusinghe del mondo94. 14. La pedagogia tolstojana Riguardo la pratica educativa, Tolstoj è fortemente critico verso i trat‐ tati di pedagogia, particolare, questo, in comune con Anton Sëmenovič Makarenko, il quale, dalle pagine del Poema pedagogico, afferma: I primi mesi della nostra colonia furono per me e per i miei compagni non solo mesi di disperazione e di sforzi infruttuosi: furono anche i mesi della ricer‐ ca della verità. In tutta la mia vita non ho mai letto tanti libri di pedagogia come l’inverno del 1920. […] Per me il principale risultato di quelle letture fu la cer‐ tezza, divenuta chissà perché ad un tratto salda e fondata, di non avere in mano alcuna scienza e alcuna teoria, e che una teoria bisognava se mai trarla da tutta la somma dei fenomeni reali che accadevano sotto i miei occhi. Inizialmente non tanto capii, quanto mi accorsi che quello che mi occorreva non erano formule libresche, che non trovavano applicazione nella realtà, ma un’analisi immediata ed un’azione diretta95. Nell’attività scolastica, Tolstoj rileva l’incapacità del maestro di com‐ prendere l’effettivo grado di sviluppo intellettivo dei propri allievi, co‐ stringendoli a lezioni mortificanti per la propria intelligenza. Ciò è do‐ vuto ad una sorta di aristocratico disprezzo degli insegnanti nei confron‐ ti degli alunni, considerati alla stregua di selvaggi da indottrinare. Una posizione del genere, supponente e sconcertante nella sua aridità, deno‐ ta unicamente l’intolleranza di che è convinto di possedere l’infallibilità peda‐ gogica; con l’onestà e l’umiltà di chi è veramente grande Tolstoj ammette che non possiamo sapere «ciò che è necessario alle generazioni future, anche se sen‐ tiamo il dovere e cerchiamo di coglierne i bisogni; […] e non possiamo accusare il popolo, che respinge il nostro tipo d’istruzione, ma dobbiamo accusare noi stessi d’ignoranza e di superbia, se pretendiamo d’imporre al popolo l’istru‐ zione che vogliamo»96. E. MEDOLLA, op. cit., p. 87. A. S. MAKARENKO, Poema pedagogico, Mosca, Raduga, 1985, p. 16. 96 E. MEDOLLA, op. cit., p. 94, per la citazione interna si veda L. N. TOLSTOJ, L’istruzione pubblica in G. SANTOMAURO (a cura di) Scritti pedagogici, cit., p. 53. 94 95 Introduzione XXXIII Non esistendo alcun piano didattico precostituito cui dover ispirare la propria azione pedagogica, il pensiero educativo risulta calibrato sulle esigenze dei ragazzi, quali emergevano nel confronto quotidiano tra ma‐ estro e allievi nella scuola di «Jasnaja Poljana», e la cui caratteristica fon‐ damentale è data dal delicato equilibrio tra il rispetto delle esigenze dei bambini e la necessità di garantire loro una guida costante ma non auto‐ ritaria. Per Tolstoj la scommessa pedagogica più stimolante consiste nel rico‐ noscimento dei metodi di autoeducazione del popolo, e la scuola di «Ja‐ snaja Poljana», che si propone inizialmente come mezzo per realizzare tale progetto, nei risultati va al di là della semplice attuazione di tecni‐ che educative, portando ad una complessa analisi di tematiche, ricondu‐ cibili alla morale ed alla critica sociale. Lo scrittore è particolarmente attento ai contenuti dell’esperienza e‐ ducativa, alla cui formulazione contribuiscono i bambini e nel corso del‐ la quale il maestro deve cercare di comprendere il mondo infantile, pre‐ parandosi ad un confronto con realtà spesso in contrasto rispetto alla scala di valori degli adulti. Nel già citato articolo Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi, o noi dai ragazzi di campagna?97, Tolstoj descrive la genesi del rac‐ conto di due alunni, Fed’ka e Sëmka, intitolato Vita della famiglia d’un sol‐ dato98, apparso nel fascicolo di settembre della stessa rivista e poi inserito nel Terzo libro di lettura. Lo scrittore appare estremamente commosso ed emozionato nel narrare come, dopo numerosi ed infruttuosi tentativi, sia casualmente riuscito a far comprendere ai suoi alunni il fascino dell’arte dello scrivere, «la bellezza dell’esprimere la vita in parole»99. Tolstoj si assume la responsabilità riguardo a «qualche banalità di sti‐ le nella parte introduttiva, nella descrizione delle persone e dell’abita‐ zione»100 in quanto «mentre questo capitolo veniva scritto, non mi sono saputo trattenere dal dare a Fed’ka dei suggerimenti e dall’esporgli in che modo avrei scritto io»101. Man mano che l’influenza di Tolstoj dimi‐ nuisce il racconto trova il giusto approccio, cresce in qualità, ed è a L. N. TOLSTOJ, Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi o noi dai ragazzi di campagna?, in ID., I quattro libri di lettura, cit., pp. 265‐292. 98 ID., I quattro libri di lettura, cit., pp. 142‐147, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 139‐144). 99 ID., Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi o noi dai ragazzi di campagna?, in ID., I quattro libri di lettura, cit., p. 266. 100 Ivi, p. 278. 101 Ibidem. 97 XXXIV Introduzione Fed’ka che viene attribuito il merito di aver saputo rendere in poche pa‐ role le lamentele della madre o i rapporti tra la famiglia e la sorella mag‐ giore. Particolarmente elogiata da Tolstoj è la narrazione della notte nel‐ la quale Fedor si sveglia per il pianto della madre ed apprende la morte del fratellino da poco nato: non c’è una parola che si possa togliere, non c’è una parola che si possa mutare o aggiungere. Cinque righe in tutto: e in queste cinque righe si prospetta in pie‐ no al lettore il quadro di quella triste nottata, e insieme il quadro che di essa s’è impresso nell’immaginazione d’un ragazzetto di sei o sett’anni102. Del resto, come afferma lo stesso Tolstoj poche pagine prima, «Ogni parola artistica, appartenga a Goethe o a Fed’ka, appunto in questo si di‐ stingue dalla parola non artistica, nel potere che ha di evocare un’innumerevole quantità d’idee, di immagini, di spiegazioni»103. Rifacendosi all’assunto rousseauiano secondo il quale “l’uomo nasce perfetto”, Tolstoj afferma: Quando un bambino sano viene al mondo, esso soddisfa completamente quelle istanze d’armonia incondizionata, sotto i rispetti del vero, del bello e del bene, che sono insite in noi; esso è vicino alle creature senz’anima, alle piante, alle bestie: è vicino, insomma, alla natura, che costantemente rappresenta ai no‐ stri occhi quella verità, quella bellezza e quel bene che cerchiamo e desideria‐ mo104. Gli educatori però perdono di vista che l’età infantile è il prototipo dell’armonia, assumendo lo sviluppo del bambino come scopo. Secondo Tolstoj, invece, «L’ideale ci sta alle spalle, e non già davanti»105. Occorre quindi ricomporre quell’equilibrio originario «che è stato compromesso dalla stratificazione di credenze passivamente accolte come opinione comune […]»106, da un’educazione che, se scorretta, «corrompe, non cor‐ regge gli uomini»107. Ciò che occorre realmente ad un bambino Ivi, p. 279. Ivi, p. 271. 104 Ivi, p. 290. 105 Ivi, p. 291. 106 E. MEDOLLA, op. cit., p. 99. 107 L. N. TOLSTOJ, Chi deve imparare a scrivere: i ragazzi di campagna da noi o noi dai ragazzi di campagna?, in ID., I quattro libri di lettura, cit., p. 291. 102 103 Introduzione XXXV non è altro che del materiale per completarsi in modo armonico e in tutte le di‐ rezioni. Non appena io gli ho dato piena libertà, non appena ho cessato d’im‐ partirgli i miei insegnamenti, egli ha scritto un brano poetico di cui non esisteva ancora l’uguale nella letteratura russa. E quindi, secondo la mia convinzione, noi non dobbiamo insegnare a scrivere e a comporre, specialmente quando si tratti di composizione poetica, ai bambini in genere, e in particolare ai bambini dei contadini. Tutt’al più, possiamo insegnar loro il modo più conveniente di affrontare la composizione108. Successivamente Tolstoj indica i procedimenti da lui utilizzati per raggiungere questo risultato: 1) Proporre una scelta di temi estremamente ampia e varia, senza escogitarli a bella posta e su misura per i bambini, bensì ricorrendo a temi della massima serietà e tali che interessino lo stesso insegnante. 2) Dare a leggere ai ragazzi composizioni di ragazzi, e soltanto composizioni di ragazzi proporre loro come modello, giacché le composizioni dei ragazzi so‐ no sempre più veritiere, più belle e più morali di quelle degli adulti. 3) (Di particolare importanza). Mai, mentre si tiene d’occhio il lavoro di composizione dei ragazzi, si facciano agli allievi appunti circa la pulizia dei quaderni, o la calligrafia, o l’ortografia; né si facciano appunti, soprattutto, sulla costruzione delle proposizioni e sulla logica. 4) Siccome, per il comporre, la difficoltà risiede non già nella vastità o nel contenuto del tema che si assegna, ma nella sua artisticità, ne consegue che la gradualità dei temi dovrà riferirsi non alla vastità, non al contenuto, non alla lingua, ma al meccanismo del comporre, meccanismo che consiste in primo luogo nello scegliere una, e una sola, fra le tante idee e immagini che si affollano alla mente; in secondo luogo, nello scegliere per essa le parole adatte a configu‐ rarla; in terzo luogo, nel tenerla ben presente e nel trovare il posto giusto in cui collocarla; in quarto luogo, nel ricordarsi di ciò che già si è scritto, e quindi non fare ripetizioni, non lasciarsi sfuggire nulla, ricollegare quel che segue a quel che precede; in quinto luogo, finalmente, nel riuscire a far sì che, pensando e scrivendo nello stesso tempo, una cosa non sia d’ostacolo all’altra. Per ottenere questo, io mi sono regolato così: alcuni di questi lati del lavoro, in un primo tempo, li ho presi su di me, e poi gradualmente li ho affidati tutti alle cure degli stessi ragazzi. Da principio, sceglievo io per essi, di tra la folla delle idee e delle immagini, quelle che a me parevano le migliori, e le tenevo ben a mente, e indi‐ cavo il posto giusto per collocarle, e confrontavo di continuo quanto già s’era Ibidem. 108 XXXVI Introduzione scritto, trattenendoli così dal ripetersi, ed eseguivo di mano mia l’operazione di scrivere, lasciando a loro soltanto il compito di configurare le immagini e le idee in parole; poi affidavo a loro soli anche la scelta; poi anche il confronto col già scritto; finché da ultimo – com’è avvenuto nella composizione della Vita della moglie d’un soldato – i ragazzi non si assumevano direttamente l’operazione stessa di scrivere109. Fed’ka è autore di un altro racconto, Un ragazzo racconta d’una volta che non lo portarono in città110, il quale tratta di un viaggio mancato, vissu‐ to in sogno da un ragazzo deluso dal padre che non ha voluto condurlo in città. La versione apparsa nei Quattro libri di lettura è stata modificata da Tolstoj, agendo in senso contrario rispetto al racconto Vita della fami‐ glia d’un soldato111, conferendo all’originale componimento scolastico di Fed’ka, una maggiore complessità. Tolstoj, anticipando posizioni della scienza pedagogica moderna, non considerava la scuola l’unico veicolo di trasmissione culturale, in quanto «Dovunque il popolo forma la parte principale della propria istruzione non nella scuola, ma nella vita»112, anteponendole quindi quelle forme di educazione indiretta che si realizzano tramite occasioni di incontro con altre persone. Per questo motivo nei Quattro libri di lettura le informazio‐ ni sono fornite inserendole in contesti e situazioni quotidiane, in cui i bambini possono facilmente riconoscersi. In molti brani vengono infatti fornite spiegazioni di temi anche molto articolati in tono naturale e an‐ tiaccademico; come ad esempio nei racconti Lo zio racconta in che modo imparò ad andare a cavallo113 e Il vecchio nonno e il nipotino114, nei quali il ri‐ spetto per gli animali e per le persone anziane non viene appreso per via teorica, ma tramite esperienze che segnano il destino di coloro che le hanno vissute. Nel primo racconto, un bambino frusta un vecchio caval‐ lo che si rifiuta di cavalcare, ma l’indifferenza iniziale, segno di un’egoi‐ stica volontà infantile, si tramuta in compassione quando il precettore dirige l’attenzione dell’allievo proprio verso l’anzianità dell’animale. Ivi, pp. 291‐292. ID., I quattro libri di lettura, cit. p. 11, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 13). 111 Ivi, pp. 142‐147, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 139‐144). 112 L. N. TOLSTOJ, in http://www.ecologiasociale.org/pg/qualescuola.html, (Con‐ sultato il giorno 08/10/2006). 113 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit, pp. 88‐90, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 86‐88). 114 Ivi, p. 15, (cfr. in questo elaborato di laurea pp. 16‐17). 109 110 Introduzione XXXVII Nel secondo brano invece, una coppia di sposi, stanchi di accudire durante i pasti il padre di lui, decidono di dargli da mangiare nel ma‐ stello delle rigovernature ma, quando notano il loro figlio intento a co‐ struire un altro mastello per quando loro saranno anziani, comprendono l’ingratitudine e l’offesa arrecate al vecchio, e ricominciano ad assisterlo con premura. 15. Il furto Frequente all’interno dei Quattro libri di lettura è la tematica del furto, problematica della quale Tolstoj ebbe esperienza diretta nella scuola di «Jasnaja Poljana». La crudele condanna inflitta dagli alunni ad un loro compagno, colpevole di aver rubato prima un libro e poi del denaro, e per questo costretto a portare un cartello con la scritta “ladro”, è per Tol‐ stoj indice di come il desiderio di imitare il mondo degli adulti porti i bambini ad uno stravolgimento del loro essere, della loro naturale ten‐ denza al bene. La reazione degli allievi, la gioia malvagia con la quale assistono alla punizione da loro stabilita, comportano un’ulteriore presa di coscienza da parte dello scrittore dell’impossibilità di preservare i ra‐ gazzi dalle molteplici influenze cui sono sottoposti. Ciò comunque non comporta una rinuncia al valore della libertà come principio pedagogico, in quanto l’unione tra tale ideale e l’educazione, costituisce l’unica alter‐ nativa all’autoritarismo. Convinto della profonda ingiustizia di ogni punizione lesiva della di‐ gnità umana, e consapevole di come questa precluda un’autentica com‐ prensione della realtà infantile, Tolstoj, di fronte all’imbarazzo e alla sof‐ ferenza del ragazzo, decide di togliere il cartello e lascia lo studente libe‐ ro di andare dove preferisce. Lo scrittore intuisce infatti come il furto, in un ragazzo, non sia la manifestazione di un animo corrotto, ma piuttosto il segnale di un disagio spesso molto difficile da comprendere. Tolstoj non si sente in diritto di infliggere al giovane un così vergognoso casti‐ go, dubitando dell’efficacia pedagogica di questo espediente contro l’in‐ clinazione al furto, convinto che invece lo incoraggi. Nei Quattro libri di lettura, uno dei brani nei quali è presente la temati‐ ca del furto è Il corpettino115, nel quale un contadino, divenuto un ricco commerciante, rinuncia a denunciare il ladro che gli ha sottratto il dena‐ 115 L. N. TOLSTOJ, I quattro libri di lettura, cit. p. 54, (cfr. in questo elaborato di lau‐ rea pp. 53‐54). XXXVIII Introduzione ro, ricordando che questi, suo compagno nell’entrata in commercio, gli aveva, molti anni prima, prestato l’abito nuziale. Un’altra favola a trattare questo argomento è Il contadino e i cocome‐ ri116, in cui un contadino, recatosi in un orto per rubare dei cocomeri, è talmente entusiasta dell’impresa che sta per compiere da lasciarsi trasci‐ nare dalla fantasia, immaginando ad alta voce i sostanziosi guadagni che quel furto gli consentirà. Nella conclusione, saranno proprio le sue grida ad allertare l’attenzione dei guardiani dell’orto, che lo puniranno pic‐ chiandolo con un bastone. 16. Attualità pedagogica in Tolstoj Nella realizzazione del principio secondo il quale la riflessione, di‐ nanzi ad una situazione problematica contingente, indirizza il compor‐ tamento, è ravvisabile un punto di contatto con la teoria gnoseologica di John Dewey, ad ulteriore conferma «dell’indipendenza di Tolstoj rispet‐ to agli schemi educativi del suo tempo»117. Le analogie tra Tolstoj e Dewey, seppur manifestandosi indirettamen‐ te, appaiono evidenti soprattutto nell’adesione da parte di entrambi ad un modello d’indagine i cui capisaldi sono l’esperienza e la percezione unitaria della realtà e ad una critica della dicotomia tra scienza e senso comune. La ricomposizione di tale frattura per Dewey è risolvibile sul piano logico con una riappropriazione da parte della scienza dei metodi del senso comune; posizione analoga a quella di Tolstoj, il quale ha più volte rivendicato la priorità dell’esperienza su ogni forma di dogmatismo, ri‐ conoscendo come compito esclusivo della scienza la soluzione dei pro‐ blemi sociali. Vicine alle convinzioni tolstojane, secondo le quali la sensibilità e l’esperienza diretta si antepongono spesso all’indagine scientifica, ap‐ paiono le parole di Ovide Decroly: negli esercizi in cui il fanciullo può soddisfare il suo bisogno di conoscere, la sua curiosità riguardo ad esseri, oggetti, fatti, quando esegue disegni, lavori manuali in rapporto con gli esercizi d’osservazione e di associazione nel tempo e nello spazio, non vi è dubbio che egli avrà molteplici occasioni stimolanti in rapporto agli interessi che si collegano a queste tendenze; queste stesse occasio‐ Ivi, p. 14, (cfr. in questo elaborato di laurea p. 16). Ivi, p. 106. 116 117 Introduzione XXXIX ni si ritrovano in tutte una serie di altre occupazioni scolastiche, particolarmen‐ te nelle ricreazioni, nelle passeggiate, nelle escursioni […]118. Numerosi sono poi i punti di contatto con la posizione tolstojana nell’affermazione di come la scuola debbe assolvere il proprio compito, regolandosi con il bambino facendo ricorso in un primo tempo all’osservazione diretta ed aiutandolo a ri‐ conoscere i processi vitali che in lui si svolgono; guidando poi alla comprensio‐ ne dei fenomeni del suo ambiente immediato e, infine, alla comprensione dei fenomeni a lui più lontani nel tempo e nello spazio […]119. Contrario ai procedimenti analitici, colpevoli di sviare l’attenzione dalla comprensione unitaria del fenomeno verso concetti e parole ancora inacessibili ai bambini, Tolstoj sostiene che, se l’alunno intende o legge una parola incomprensibile in una frase che capisce, un’altra volta, in un’altra frase, comincerà a rappresentarsi vagamente il nuovo concetto e sentirà, infine, per caso, la necessità di usare quella parola, e una volta usata, questa parola e il suo concetto diventeranno sua proprietà120. Tolstoj riconosce così una gradualità interna allo sviluppo del pensie‐ ro e la possibilità di ricostruirne le tappe, sconsigliando però ogni forza‐ tura. Queste stesse parole vengono ricordate da Lev Semënovič Vygotskij, che a Tolstoj riconosce il merito di essersi reso conto più chiaramente della maggior parte degli educatori, dell’impossibilità di tra‐ sferire semplicemente un concetto dal maestro all’allievo […]. Ciò di cui il bam‐ bino ha bisogno, dice Tolstoj, è l’opportunità di imparare nuovi concetti e nuo‐ ve parole dal contesto linguistico generale121. O. DECROLY, La funzione di globalizzazione e l’insegnamento, Firenze, La Nuova Italia, 1962, p. 49 sgg. 119 ID., Una scuola per la vita attraverso la vita, Torino, Loescher, 1963, p. 12. 120 L. N. TOLSTOJ, La scuola di Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, cit., p. 81. 121 L. S. VYGOTSKIJ, Pensiero e linguaggio, Firenze, Giunti Barbera, 1966, pp. 108‐ 109. 118 XL Introduzione Le stesse considerazioni vengono espresse anche da Jean Piaget in un saggio del 1966: lo sviluppo mentale del bambino appare globalmente come una successione di tre grandi costruzioni di cui ciascuna prolunga la precedente, ricostruendola dapprima su un nuovo piano per poi in seguito superarla sempre più ampia‐ mente122. Nel mondo attuale, nel quale la civiltà contadina, così come viene de‐ scritta da Tolstoj, è tramontata, la modernità dei Quattro libri di lettura consiste nella capacità dei brani di suscitare emozione e curiosità, ed è certamente segno della genialità del suo autore se un’opera così datata riesce ancora a parlare al cuore dei bambini. J. PIAGET, La psicologia del bambino, Torino, Einaudi, 1966, p. 130. 122 Indice dei testi utilizzati da L. N. Tolstoj∗ Primo libro di lettura........................................................................................... 5 La formica e la colomba (Favola).................................................................... 7 Il cieco e il sordo ( Racconto dal vero) ........................................................... 7 La tartaruga e l’aquila (Favola)....................................................................... 7 Il trovatello (Racconto dal vero) ..................................................................... 8 La testa e la coda del serpente (Favola) ......................................................... 8 La pietra (Racconto dal vero) .......................................................................... 9 Gli Eschimesi (Descrizione)............................................................................. 9 La puzzola (Favola) ........................................................................................ 10 La zia racconta in che modo imparò a cucire (Racconto).......................... 10 Fili sottili (Favola) ........................................................................................... 11 La velocità fa la forza (Racconto dal vero) .................................................. 11 Il leone e il topolino (Favola)......................................................................... 12 I cani dei pompieri (Racconto dal vero) ...................................................... 12 La scimmia (Favola) ....................................................................................... 13 Un ragazzo racconta d’una volta che non lo portarono in città (Racconto) ........................................................................................................ 13 Il bugiardo (Favola) ........................................................................................ 14 Come fu aggiustata una casa a Parigi (Racconto dal vero)....................... 14 L’asino e il cavallo (Favola) ........................................................................... 14 Un ragazzo racconta come, nel bosco, lo colse il temporale (Rac‐ conto dal vero) ................................................................................................ 15 La cornacchia e i piccioni (Favola) ............................................................... 15 Il contadino e i cocomeri (Favola) ................................................................ 16 La massaia e la gallina (Favola) .................................................................... 16 Il vecchio nonno e il nipotino (Favola) ........................................................ 16 La spartizione dell’eredità (Favola) ............................................................. 17 Dove va a finire l’acqua del mare (Considerazioni) .................................. 17 Il leone, l’orso, la volpe (Favola)................................................................... 18 Un ragazzo racconta come avvenne che scoprí al nonno la re‐ gina delle api (Racconto) ............................................................................... 18 Il cane, il gallo e la volpe (Favola) ................................................................ 19 Il mare (Descrizione) ...................................................................................... 19 ∗ Si è ritenuto necessario inserire in appendice all’introduzione l’indice dei testi che compongono i Quattro libri di lettura, per confermare il debito nei confronti del‐ l’edizione Einaudi del 1994, a cura di P. C. BORI, con la traduzione di A. VILLA, stabi‐ lendo un’ulteriore continuità tra il presente elaborato di laurea e la suddetta edizio‐ ne. XLII Indice dei testi Il cavallo e il mozzo di stalla (Favola) ..........................................................20 L’incendio (Racconto) .....................................................................................20 La rana e il leone (Favola) ..............................................................................21 L’elefante (Racconto dal vero) .......................................................................21 La scimmia e i piselli (Favola) .......................................................................22 Un ragazzo racconta in che modo gli passò la paura dei medi‐ canti ciechi (Racconto) ....................................................................................22 La vacca gattaiola (Favola).............................................................................22 L’imperatrice cinese Si–ling–ci (Racconto dal vero)...................................23 La cicala e le formiche (Favola) .....................................................................23 La ragazza−topolino (Leggenda)...................................................................23 La gallina dalle uova d’oro (Favola) .............................................................24 Filo di lino (Leggenda)....................................................................................24 Il lupo e la vecchia (Favola) ...........................................................................26 Il gattino (Racconto dal vero) ........................................................................26 Il figlio istruito (Favola)..................................................................................27 In che modo gli abitanti di Buchàra impararono ad allevare i bachi da seta (Racconto dal vero)..................................................................28 Il contadino e la cavalla (Favola)...................................................................28 La zia racconta in che modo il brigante Emiliano Pugaciòv le donò una monetina da dieci centesimi (Racconto).....................................29 Il visir Abdul (Leggenda) ...............................................................................31 In che modo un ladro si tradí (Racconto dal vero) .....................................31 Il carico (Favola) ..............................................................................................32 Il nocciolo (Racconto dal vero) ......................................................................32 I due mercanti (Favola)...................................................................................33 I cani del San Gottardo (Descrizione) ...........................................................34 Un contadino racconta perché vuol bene al fratello maggiore (Racconto) .........................................................................................................35 In che modo ammazzai la mia prima lepre (Racconto d’un si‐ gnore) ................................................................................................................36 Mignolino (Leggenda) ....................................................................................37 Lo sciocco (Leggenda in versi).......................................................................40 L’eroe Svjatagòr (Leggenda in versi) ............................................................47 Secondo libro di lettura ......................................................................................49 La bambina e i funghi (Racconto dal vero)..................................................51 L’asino nella pelle del leone (Favola) ...........................................................51 La rugiada sull’erba (Descrizione) ................................................................52 La gallina e la rondine (Favola) .....................................................................52 L’Indiano e l’Inglese (Racconto dal vero) ....................................................52 Il cervo e il cerbiatto (Favola).........................................................................53 Il corpettino (Racconto dal vero)...................................................................53 Indice dei testi XLIII La volpe e l’uva (Favola) ............................................................................... 54 La fortuna (Racconto dal vero) ..................................................................... 54 Le operaie e il gallo (Favola) ......................................................................... 54 La macchina che gira da sola (Racconto dal vero) ..................................... 55 Il pescatore e il pesciolino (Favola) .............................................................. 56 Il tatto e la vista (Considerazioni) ................................................................ 56 La volpe e il caprone (Favola)....................................................................... 57 In che modo un contadino tolse via un macigno (Racconto dal vero).................................................................................................................. 57 Il cane e la sua ombra (Favola) ..................................................................... 58 Sciat e Don (Leggenda russa)........................................................................ 58 La gru e la cicogna (Favola)........................................................................... 59 Sudoma (Leggenda russa) ............................................................................. 59 Il vignaiolo e i figli (Favola) .......................................................................... 60 Il gufo e la lepre (Favola) ............................................................................... 60 Il lupo e la gru (Favola ................................................................................... 60 L’aquila (Racconto dal vero) ......................................................................... 61 L’oca e la luna (Favola) .................................................................................. 62 L’orso sul carretto (Favola)............................................................................ 62 Il lupo nel polverone (Favola)....................................................................... 63 Il salcio (Racconto dal vero) .......................................................................... 63 Il topo sotto il granaio (Favola)..................................................................... 64 In che modo i lupi danno lezione ai loro figli (Racconto)......................... 65 Le lepri e le rane (Favola) .............................................................................. 65 La zia racconta d’un passerotto agevolino che aveva da bambi‐ na, e che si chiamava Vispetto (Racconto) .................................................. 66 Tre panini e una ciambella (Favola)............................................................. 68 Mille monete d’oro (Racconto dal vero) ...................................................... 68 Pietro il Grande e il contadino (Racconto dal vero)................................... 69 Il cane arrabbiato (Racconto dal vero) ......................................................... 70 I due cavalli (Favola) ...................................................................................... 71 Il leone e il cagnolino (Racconto dal vero) .................................................. 72 L’eredità pareggiata (Favola) ........................................................................ 73 I tre ladri (Racconto dal vero) ....................................................................... 74 Il padre e i figli (Favola)................................................................................. 75 Come si forma il vento? (Considerazioni)................................................... 75 A che scopo soffia il vento? (Considerazioni) ............................................ 76 Le pere più buone di tutte (Favola).............................................................. 77 Volga e Vasusa (Leggenda russa)................................................................. 78 Il vitello sul ghiaccio (Favola) ....................................................................... 79 La principessa dai capelli d’oro (Leggenda)............................................... 79 Il falco e il gallo (Favola)................................................................................ 81 Il calore (Considerazioni) .............................................................................. 81 XLIV Indice dei testi Gli sciacalli e l’elefante (Favola) ....................................................................83 Magnete (Descrizione) ....................................................................................84 L’airone, i pesci e il gambero (Favola)..........................................................85 Lo zio racconta in che modo imparò ad andare a cavallo (Rac‐ conto).................................................................................................................86 Il riccio e la lepre..............................................................................................88 I due fratelli (Leggenda) .................................................................................89 Lo spirito delle acque e la perla (Favola) .....................................................91 La biscia (Leggenda) .......................................................................................91 Il passero e le rondini (Racconto) ..................................................................93 Cambise e Psammenite (Racconto storico) ..................................................94 Il pescecane (Racconto)...................................................................................95 Perché le finestre s’appannano e cade la guazza? (Considera‐ zioni)..................................................................................................................97 Il vescovo e il brigante (Racconto dal vero).................................................98 Jermàk (Racconto di storia russa)................................................................100 Suchmàn (Leggenda russa) ..........................................................................107 Terzo libro di lettura ........................................................................................113 Il re e il falco (Favola)....................................................................................115 La volpe (Favola) ...........................................................................................115 Castigo severo (Leggenda)...........................................................................116 L’asino selvatico e quello domestico (Favola) ...........................................116 La lepre e il segugio (Favola) .......................................................................116 Il cervo (Favola) .............................................................................................117 Le lepri (Descrizione)....................................................................................117 Il cane e il lupo (Favola) ...............................................................................118 I fratelli del re (Leggenda)............................................................................118 Il cieco e il latte (Favola) ...............................................................................119 La lepre della steppa (Descrizione).............................................................119 Il lupo e l’arco (Leggenda russa) .................................................................121 In che modo il contadino seppe spartire l’oca (Leggenda)......................121 La zanzara e il leone (Favola) ......................................................................122 Gli alberi di melo (Racconto) .......................................................................123 Il cavallo e i suoi padroni (Favola)..............................................................124 Le cimici (Racconto) ......................................................................................124 Il vecchio e la morte (Favola) .......................................................................125 In che modo le oche salvarono Roma (Considerazioni) ..........................125 Per quale ragione il gelo fa scoppiare gli alberi? (Favola) .......................126 L’umidità (Considerazioni)..........................................................................127 Le particelle della materia sono collegate tra loro in modo di‐ versi (Considerazioni)...................................................................................128 Il leone e la volpe (Favola) ...........................................................................129 Indice dei testi XLV Il giudice giusto (Leggenda) ....................................................................... 129 Il cervo e la vigna (Favola) .......................................................................... 132 Il figlio del re e i suoi compagni (Favola).................................................. 132 La piccola cornacchia (Favola).................................................................... 135 In che modo io imparai ad andare a cavallo (Racconto d’un si‐ gnore) ............................................................................................................. 136 L’accetta e la sega (Favola) .......................................................................... 138 Vita della famiglia d’un soldato (Racconto d’un contadino).................. 139 Il gatto e i sorci (Favola)............................................................................... 144 Il ghiaccio, l’acqua e il vapore (Considerazioni) ...................................... 144 La quaglia e i suoi pulcini (Favola) ............................................................ 147 Bulka (Racconto d’un ufficiale)................................................................... 147 Bulka e cinghiale (Racconto) ....................................................................... 148 I fagiani (Descrizione) ................................................................................. 151 Milton e Bulka (Racconto) ........................................................................... 152 La tartaruga (Racconto) ............................................................................... 153 Bulka e il lupo (Racconto)............................................................................ 154 Cosa accadde a Bulka a Piatigòrsk (Racconto) ......................................... 156 Fine di Bulka e di Milton (Racconto) ......................................................... 158 Gli uccelli e la rete (Favola) ......................................................................... 159 L’olfatto (Considerazioni) ........................................................................... 160 I cani e il cuoco (Favola) .............................................................................. 161 La fondazione di Roma (Racconto storico) ............................................... 162 Dio vede la verità, ma non ha fretta di dirla (Racconto) ......................... 163 I cristalli (Considerazioni) ........................................................................... 171 Il lupo e la capra (Favola) ............................................................................ 173 Policrate di Samo (Racconto storico).......................................................... 173 Volgà l’eroe (Leggenda in versi)................................................................. 175 Quarto libro di lettura ..................................................................................... 181 Il re e la camicia (Leggenda)........................................................................ 183 Il giunco e l’olivo (Favola) ........................................................................... 183 Il lupo e il contadino (Leggenda) ............................................................... 184 I due compagni (Favola) .............................................................................. 186 Il salto (Racconto dal vero).......................................................................... 186 La quercia e il nocciolo (Favola) ................................................................. 188 L’aria mefitica (Racconto dal vero) ............................................................ 189 L’aria mefitica (Considerazioni) ................................................................. 191 Il lupo e l’agnello (Favola)........................................................................... 192 Il peso specifico (Racconto storico) ............................................................ 192 Il leone, il lupo e la volpe (Favola) ............................................................. 193 Il vestito nuovo del re (Leggenda) ............................................................. 194 La coda della volpe (Favola) ....................................................................... 195 XLVI Indice dei testi I bachi da seta (Racconto).............................................................................195 Il re e gli elefanti (Favola).............................................................................199 A caccia d’orsi (Racconto d’un cacciatore).................................................200 La chioccia e i pulcini (Favola) ....................................................................207 I gas (Considerazioni) ...................................................................................208 Il leone, l’asino e la volpe (Favola)..............................................................210 Il vecchio pioppo (Racconto) .......................................................................211 Il marasco selvatico (Racconto) ...................................................................212 In che modo camminano gli alberi (Racconto)..........................................213 Il re delle quaglie e la sua femmina (Favola).............................................214 Come si fabbricano i palloni aerostatici (Considerazione) ......................214 Racconto d’un aeronauta (Racconto)..........................................................216 La vacca e il caprone (Leggenda) ................................................................218 Il cornacchione e i cornacchini (Favola) .....................................................219 Il sole è il calore (Considerazioni) ...............................................................220 Di dove viene il male a questo mondo (Favola)........................................222 Il galvanismo (Considerazioni) ...................................................................224 Il contadino e lo spirito del fiume (Favola)................................................226 Il corvo e la volpe (Favola) ...........................................................................227 Prigioniero del Caucaso (Racconto d’un ufficiale) ...................................227 Mikùluscka Seljanínovič (Leggenda in versi)............................................253 Indice delle tematiche ricorrenti Abbandono, 69, 142, 211 Acidi, 225 Acqua, XXIV, XLI, XLV, 8, 15, 17, 23, 55‐56, 58, 62, 66, 69, 74‐75, 77, 82, 91 sgg., 108, 115, 124 sgg., 139 sgg., 159, 171 sgg., 188 sgg., 208 sgg., 215, 220 sgg., 231 sgg. Alberi, XV, XLIV, XLIV, 15, 23, 28, 37, 77, 117, 123, 126, 151, 195, 209, 211, 213, 220‐221, 231, 251 Allevare, XLII, 8, 28, 195, 220 Alunni, XI, XXI, XXXIII‐XXXIV, XXXVII Amicizia, XII, XXII, XXIII, 154, 166, 173 Amore, VII, XI, XXIX, XXX, 170, 222‐ 223, 229 Anima, XXXV, 99, 168, 170, 217, 243 Animali (vari), V, XII, XX, XXXVII, 154, 160, 193, 208‐209, 221, 225 Apparato militare, XXVI Apparenza, XXV Aria, XV, XLV, 7, 11, 54, 68, 76, 83, 95, 97‐98, 115, 127‐128, 145 sgg., 158, 172, 174, 189 sgg., 203, 208 sgg., 242, 247 Autoeducazione (del popolo), XXXIII Autoritarismo, XXXVII Avidità, XIII, XX Azoto, 209 Ballare, 13, 142 Bambini, V sgg., XXII, XXV, XXI, XXXIII sgg., 12, 20‐21, 26‐27, 29‐ 30, 32‐33, 37 sgg., 70, 120, 147, 162, 165‐166, 168, 232 Belgio, IX Bene, XXIV, XXVI, XXXV, XXXVII, XLII, 11‐12, 21, 25, 35, 38‐39, 41 sgg., 52, 59‐60, 67, 71, 83 sgg., 101, 116, 123 sgg., 132 sgg., 148, 160 sgg., 173, 186, 194, 211, 222, 224, 236 Beneficio, 184 sgg. Benessere, XIII Bisogno, XXXIX‐XL, 11, 33, 55, 69, 100, 119, 132, 146, 158, 160, 204, 221, 225, 238 Brigante, XX, XXII, XXIV, XLII, XLIV 29, 98 sgg., 164 Byline, XX Caccia, XIV, XVIII, XXIII, 12, 70, 115, 121, 148‐149, 150 sgg., 200 Calamita, 84‐85, 226 Calore, XV, XLIII, XLVI, 81 sgg., 98, 145 sgg., 172, 220, sgg. Cantare, XVI, 19, 23, 141‐142, 217, 244 Carattere popolare, V, XIX‐XX Carità, 71, 129, 246, 249 Ceti privilegiati, XXVII Cibo, 136, 149, 196, 203, 221 Cinesi, 23, 28 Civiltà contadina, XL Colonialismo, XXV Collera (vedi Rabbia), XXIII, 34, 115, 139, 162, 188, 192, 210, 235, 245 Comicità, XII Complessità, XI, XXXVI Compassione (vedi Pietà), XIX, XXXVII, 8, 22, 53, 73, 87‐88, 95, 132, 184, 212 Condanna (vedi Condannato), XIII, XIX, XXXVII Indice delle tematiche ricorrenti XLVIII Dolore (vedi Sofferenza), XIII, XXIII, Condannato (vedi Condanna), 166, XXVI, XXX, 68, 73, 95, 159, 166, 167 207 Conformismo, XII Conoscenza, XXI, XXIV, XXVI Educazione, IX, XXV, XXIX, XXXV, Contadini, VII, IX‐X, XXXV, 14, 64‐65, XXXVII‐XXXVIII 69‐70, 82, 86, 117, 120, 138 sgg., Egiziani, 94 190, 200, 204‐205, 213‐214, 227, 253 Elettricità, 224 sgg. sgg. Etica, XXXI, XXXV Contatto, X, XXVII, XXXVIII‐XXXIX, Esperienza, IX‐X, XVI, XXVIII‐XXIX, 85, 226 Contentezza (vedi Felicità), 13 XXXIII, XXXVII sgg. Convento, 34 Coraggio, XXVI, 28, 66, 101, 105, 175, Falsità, XII 202 Fame, 62, 68, 99, 121, 133‐134, 222‐ Cosacchi, 29‐30, 101 sgg., 152, 252 223, 228 Coscienza, XXI, XXIV, XXXVII, 184 Famiglia, X, XXX, XXXIV, XXXVI, ‐ popolare, XIX XLV, 69, 139, 142‐143, 163‐164, 166 Covoni, 20, 256 Fantasia, XI, XV, XXXVIII Cristianesimo, XXXI Fatica, 61, 71, 75, 86‐87, 105, 184, 201, Critica sociale, XXXV 240, 244, 246 Crudeltà, XIV, XXI Fedeltà, XII‐XIII Cultura, XXV Felicità (vedi Contentezza), XXIII, 89‐ Curiosità, VII, XI, XVI, XXXIX‐XL 90, 173 Festa, 23, 90, 101, 126, 136, 147, 189, Debito, 69, 235 231 Debolezza, XIII, XXXII, 136 Filosofia, XXXI Dedizione, XXIV Folla, XXV, XXXVI, 103, 130, 134‐135, Denaro, XXVII, XXXVII‐XXXVIII, 35, 190, 216 38, 53, 56, 68, 122, 130‐131, 133‐ Fortuna, XXIII, XXVII, XLIII, 54, 74, 134, 165 90, 115, 132‐133, 173, 175, 206, 217, Destino, XXIII‐XXIV, XXX, XXXII, 238 XXXVII, 174, 212, 250, 252 Forza, VII, XIII, XX, XXIII, XXV‐XXVI, Diavolo, 101, 246 XXXI, XLI, 8, 11, 25, 27, 47‐48, 56, 58, 65, 76, 81, 85, 87, 89, 96, 102, Dignità, XXI, XXIX, XXXVII 107, 115, 117, 122, 126, 133‐134, Dio, XXIV, XXXI, XLV, 18‐19, 22, 31, 137, 157‐158, 165 sgg., 195, 206, 40 sgg., 69, 100, 104‐105, 117‐118, 208, 223, 232, 246, 248, 250 133 sgg., 140, 143, 163, 166, 169‐ 170, 183, 195, 228, 237, 239, 244, Francia, IX 246, 252 sgg. Fratellanza, XXV Disonore, 101 Fumo, 12, 15, 20, 64, 96, 153, 204‐205, XLIX Innocente, XXXII, 59, 135, 165, 167 Intelligenza, XXVIII‐XXIX, 29, 192 Interesse, VII, X‐IX, XVI‐XVII ‐ politico, XXI ‐ storico, XXI Invidia, XIII, 162 Insegnamento, IX, XIX, XXI, XXIV sgg. ‐ globale, XVI ‐ scientifico, XVI Ironia, XXVII Istinto, 213 Istituzione scolastica, X Istruzione, IX‐X, XXII, XXVI, XXXIII, XXXVII, 55, 257 Italia, VII, XXVIII, 34, 257 Jasnaja Poljana ‐ rivista, IX‐X, XXVI ‐ scuola, VII, IX‐X, XXI, XXVIII‐XXIX, XXXIII, XXXVII Lavoro, VIII, XX, XXVI, 54, 60‐61, 102, 124, 133 sgg., 169, 192, 198, 212, 237 Lavori ‐ forzati, XXXII, 166‐167 ‐ manuali, XXXIX Letteratura, XXVIII ‐ internazionale, VI ‐ per l’infanzia, X ‐ per ragazzi, XXVII, XXIX ‐ russa, XXXV Libertà, XXXV, XXXVII, 29, 31 Libri, XXIX, XXXII, 55 Limiti della realtà oggettiva, XV, XX Lirica, XXVIII Litigare (vedi Litigio), 8, 78, 200 Litigio (vedi Litigare), 132 Indice delle tematiche ricorrenti 231, 241, 252 Fuoco, 12, 14, 16, 20‐21, 29, 64, 140, 156, 208‐209, 214‐215, 220‐221, 239, 246 Furbizia, 37, 125, 144 Furto (vedi Rubare), VI, XXIV, XXXVII‐XXXVIII, 99 Galli, 125‐126 Gas, XV, XLVI, 208 sgg., 214‐215, 217 Generosità, XXIV Germania, IX Ghiaccio, XVII, XLIII, XLV, 9, 13, 78‐ 79, 82, 126‐127, 144 sgg., 172, 220 Giappone, 8 Giocare (vedi Gioco), 10, 26‐27, 47, 68, 120 Gioco (vedi Giocare), V, XV, XVII Giudizio, XIV, XIX ‐ critico, X Giustizia, XXI, 59, 130, 218 Governo zarista, IX Gradualità, VII, XXIX, XXXVI, XL Guerra,VII, XXII, 52, 122, 132, 154, 177, 191, 228 Gusto, XIX, 28, 118, 160 Idea, XXI‐XXII, XXVII‐XVIII, 55, 57, 64, 121, 156, 246, 248 Ideale, XVIII, XXXV, XXXVII Idrogeno, 214 Ignoranza, XXV, XXXIII Impazienza, XVIII Incendio, XLII, 20 Infanzia, VIII sgg. Infelicità, XXIII, 173 Ingannare, 153, 195 Ingegnosità, XXVIII Inghilterra, IX Ingiustizia, XXXVII Indice delle tematiche ricorrenti L Malanimo, 223 241 Malato, 67‐68, 129, 156, 193 Non– violenza, XXV, XXX Male, XLVI, 15‐16, 20, 29‐30, 35, 62, 69, 87, 90‐91, 99, 101, 105, 115, 123‐ Olfatto, XLV, 160‐161 124, 129, 135, 138, 144, 166, 192 Omicidio, XXVI, XXXII sgg., 197, 205, 218, 222‐223, 229, Onore, 23 236, 239, 245, 250 Orco, 38 sgg. Mare, XLI, 9, 17, 58, 62, 77 sgg., 85, 91, Ordine, XIV, XVI, 100, 109, 148, 157, 171 95‐96, 108, 132, 173 sgg., 188, 217, ‐ di liberazione, XXXII 219 ‐ estetico, XXIX Matrimonio (vedi Sposalizio), 44 ‐ morale, XXIX Metodo Orgoglio, XX ‐ educativo tolstojano, XXIX Oro, XLII‐XLIII, 24, 39‐40, 68‐69, 74, ‐ della sperimentazione, XVI 79‐80, 107, 118, 130, 174, 179, 192‐ ‐ dell’osservazione, XVI 193, 226‐227, 250 Militare, XIV, XXVI Miracolo, 104, 203 Ossigeno, 208 sgg. Mito, XX‐XXI Mondo, VII, IX, XIII, XVII sgg., Pace, VII XXXII, XXXIV, XLVI, 9, 17, 19, 24, Patriottismo, XXV Paura (vedi Spavento), XVI, XIX, 70, 89‐90, 103, 105, 132 sgg., 142, XXIV‐XXV, XLII, 12, 18, 22, 30, 53, 186, 222‐223 66, 74, 78, 90, 117‐118, 134, 137‐ ‐ alternativo, XV 138, 151‐152, 155, 160, 163‐164, 174 ‐ attuale, XL sgg., 194, 207, 214, 216, 222‐223, ‐ classico, V, XIX 235, 245, 248‐249 ‐ contadino, XXVI Pazzia, 165 ‐ degi adulti, XXXVII Pedagogia, VII, XXXII ‐ greco, XII ‐ tolstojana, VI, XI, XXIX, ‐ infantile, XXXIII XXXII Morale, XXIV sgg., XXIX‐XXXI Perdono, XXIV, 88, 53, 170 Morte, V, XIV‐XV, XX‐XXI, XXIII, Piangere (vedi Pianto), 8, 10, 13, 17, XXX, XXXII, XXXIV, XLIV, 35, 71, 20‐21, 26, 33, 35, 37‐38, 68, 73‐74, 94‐95, 99, 104, 121, 125, 132, 134, 91, 94‐95, 99, 104, 120, 136 sgg., 169, 211, 224‐225 142, 144, 170, 187, 212, 223, 226‐ Movimento, 51, 76, 147, 203, 220 sgg. 227, 250‐251 Pianto (vedi Piangere), XXXIV, 95, Natura, XIII, XVI, XXXI, XXXIV, 81, 140, 142 127, 220 Pietà (vedi Compassione), XXI, XXIII‐ Neve, XVII, 9, 34, 82, 117, 119‐120, XXIV, 9, 99, 166, 184, 223, 226 123, 156, 166, 172, 200 sgg., 220, Indice delle tematiche ricorrenti Pigrizia, XIX, XXVII Pioggia, 77, 104, 127, 220, 238, 248 Poesia epica, XXVIII Poeticità, XVII‐XVIII Popolo, X, XIX, XXV‐XXVI, XXXIII, XXXVII, 23, 31, 59, 83, 102, 162‐ 163, 168, 244 Potere, XX‐XXI, XXIV sgg., XXXIV Povero, 9, 33‐34, 37, 46, 68‐69, 90, 121‐ 122, 183 Prigioniero, XVIII, XXV, XLVI, 52, 95, 106, 227 Promessa, XX, 137 Prospettiva, XXVI, 3 Pubblico, IX, XVIII Punizione, XIII, XXXVII Quotidianità, XVIII Rabbia (vedi Collera), XIII, XIV, XXXII, 54, 156, 159, 187, 223 Realismo, VII, XI, XIV, XXXIX, 257 ‐ artistico, XIII ‐ tolstojano, XXIX Regole, 248 Religione, V, XXXI Ricchezza interiore, XIII Ricco, XXXVIII, 9, 33‐34, 68‐69, 73, 90, 95, 122, 132, 173, 183, 236 Ricordo, 10, 29, 126, 139, 142, 202 Rimpianto, XXVIII, XXX Roma, XXI, XLIV‐XLV, 125‐126, 162‐ 163 Romani, 125‐126 Rubare (vedi Furto), XXXVIII, 7, 15, 99, 101 Rumore, 18, 32, 51, 157, 160, 170, 203, 205, 216, 242 sgg., 251 Russia, 40 sgg., 58, 78, 101, 106‐107, 156‐157, 175, 177 LI Sapienza popolare, XIX Scienza, XI, XV‐XVI, XXXII, XXXVIII‐ XXXIX, 258 ‐ pedagogica, XXXVI ‐ ufficiale, XXVI Sconfitta, XIII Scuola, X, XXVIII, XXXVI, XXXIX Scuole popolari, IX Semplicità ‐ d’espressione, XI, XVIII, XII, XXX ‐ d’animo, XX Sensibilità, XXXIX ‐ illuministica, XV Senso comune, XXXVIII‐XXXIX Servizio militare, XXVI Sentimenti, V, XII sgg., XXIII, XXXII Sfortuna, XXIII, 175 Siberia, XXXII, 53, 103, 105, 166‐167 Silenzio, 107, 120, 130, 135, 137, 174, 188, 203, 205, 236, 242, 244, 249, 251 Sogno, XXXVI, 13, 136, 139, 163‐164, 174 Sofferenza (vedi Dolore), XIII, XXVI, XXX, XXXVIII Solidarietà, XXIII, XXVI Spavento (vedi Paura), XVI, 103, 187‐ 188, 205, 223, 245 Spirito, XLIV, XLVI, 91, 215, 226‐227 Sposalizio (vedi Matrimonio), 54, 118, 141 Stratagemma, XV, XX Storia, V, XX, XXI, XXXII, XXIII, XXIV, XXX ‐ antica, VI ‐ delle dottrine religiose, XXXI ‐ moderna, VI ‐ russa, XXII, XLIV, 100 Studio, 175 LII Indice delle tematiche ricorrenti ‐ dei problemi scolastici, IX Stupore, XII Suicidio, XXIV Superstizione, XIX Soldato (vedi Militare), XXXIV, XXXVI, XLV, 35, 139, 142, 166, 170, 234, 236 Svizzera, IX, 34 Tartari, 100 sgg., 227 sgg., 233, 237 sgg. Tatto, 56, 160 Teologia dogmatica, XXXI Teoria ‐ pedagogica, XI ‐ gnoseologica, XXXVIII Teorie educative, X Udito, 160 Umidità, XV, XLIV, 126‐127 Umiltà, XXX, XXXIII Vapori acquei, 209 Vecchiaia (vedi Vecchio), 95, 129, 168, 219 Vecchio (vedi Vecchiaia), XXX, XXXVII, XLII, XLIV, XLVI, 16‐17, 24, 45, 52, 58, 60, 65, 69, 83, 85‐86, 96, 99, 103, 120, 125, 139, 155‐156, 158, 160, 167, 169‐170, 179, 185, 190, 193‐194, 211, 213, 219‐220, 239, 247‐248 Velocità, XIII, XLI, 11, 96 Vendetta, XXI, XXV, XXXII, 169 Vento, XVII, XXV, XLIII, 17, 19, 24, 27, 41, 51, 55, 63, 75 sgg., 82‐83, 95, 183, 201, 216‐217, 220‐221 Vergogna, 17, 115, 138 Verità, XI, XVIII, XXV, XXXI‐XXXII, XXXV, XLV, 47, 53, 89, 110, 129, 131, 163, 166, 170, 185, 219 Viaggio, IX, XXII, XXXVI, 29, 33, 85, 106, 132, 164, 167, 228 Violenza, XVI, XXIV Vista, 150, 155‐156, 160, 162, 178, 188, 201, 204‐205, 215‐216, 229 Vita, IX, XIV‐XV, XVII sgg., XXIV‐ XXV, XXVI, XXX sgg., XLV, 35, 38, 53‐54, 65‐66, 73, 80, 85, 90‐91, 115‐ 116, 112‐123, 139‐140, 142, 159, 166, 173, 178, 191, 202, 204, 211, 222‐223, 230, 247‐248, 257 ‐ familiare, XIII Volontà, X‐XI, XIX, XXXI, XXXVII, 81, 118, 132 Lev Nicolaevič Tolstoj I quattro libri di lettura Avvertenza Fra le numerose edizioni italiane dei Quattro libri di lettura, per il testo se‐ guente si è deciso di utilizzare l’edizione Einaudi del 1994, a cura di Pier Cesare Bori, con la traduzione di Agostino Villa. Tale scelta è motivata non solo dall’esigenza di avvalersi di un’edizione il più possibile vicina nel tempo, ma soprattutto dall’autorità dei curatori, garanzia della qualità della pubblicazione presa in considerazione. Nel rispetto di tale autorità, si è deciso di non modifi‐ carne le dimensioni editoriali e grafiche, anche nella prospettiva di ulteriori ri‐ scontri dal testo russo. Primo libro di lettura La formica e la colomba123. (Favola). Una formica s’inoltrò sulla sponda d’un fiumicello: aveva voglia di bere. Un’onda la investì, e per poco non la fece annegare. Passava una colomba, portando nel becco un ramoscello: vide la formica che annega‐ va, e le lanciò il ramoscello nell’acqua. La formica si mise a cavallo del ramoscello, e così fu salva. Più tardi un cacciatore tese la rete per prendere quella colomba, e sta‐ va già sul punto di fargliela richiudere sopra. La formica, avvicinandosi al cacciatore, gli morse una gamba; il cacciatore sussultò e si fece sfuggi‐ re dalle mani la rete. La colomba frullò in aria e volò lontano. Il cieco e il sordo. (Racconto dal vero). Un cieco e un sordo andarono in un campo a rubare i piselli. Il sordo disse al cieco: – Tu tieni ben dritte le orecchie, e dì a me tutto quello che senti; io baderò a guardare, e ti dirò tutto quello che vedo. Così entrarono in quella piantagione di piselli, e ci si accoccolarono in mezzo. Il cieco tastò i piselli e disse: – Che bei baccelli pieni! – Il sordo rispose: – Che cosa, i carabinieri? – Il cieco inciampo’ in un fossetto, e cadde. – Che c’è? – domandò il sordo. Il cieco rispose: – C’è un fosso! – Il sordo disse: – Ci vengono addosso? – e via a gambe levate. E il cieco, dietro. La tartaruga e l’aquila. (Favola). La tartaruga chiese all’aquila che le insegnasse a volare. L’aquila la sconsigliò, dicendo che non era roba per lei: ma la tartaruga insisteva. Allora l’aquila la prese fra gli artigli, la sollevò in aria, e poi la lasciò. La tartaruga cadde giù fra le pietre, e si fracassò in cento pezzi. Le distinzioni che seguono ai titoli sono di Tolstoj. 123 8 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il trovatello. (Racconto dal vero). C’era una donna povera, che aveva una figlia di nome Marietta. Ma‐ rietta, una mattina, uscì da casa per prendere l’acqua, e vide per terra, di fuori alla porta, un involto di stracci. Marietta posò la secchia e svoltolò gli stracci. Mentre toccava quegli stracci, sentì che ne usciva una voce: uà! uà! uà! Marietta ci si chinò sopra, e vide che c’era un bambino piccolo picco‐ lo, rosso rosso. Il bambino gridava forte: uà! uà! Marietta se lo prese fra le braccia, lo portò dentro casa, e si mise a dargli, con un cucchiaino, un po’ di latte. La madre le disse: — E che m’hai portato in casa? — Marietta rispose: — Un bambino piccino: l’ho trovato qua davanti alla porta! — La madre disse: — Siamo già tanto poveri, non possiamo mica allevare an‐ che un bambino: andrò a denunciarlo alle autorità, che se lo prendano loro. Marietta si mise a piangere, e disse: — Mammina, lui mangerà tanto poco, lascia che stia con noi! Guarda com’è carino con queste manine rosse, tutte grinzose, e con questi ditini! La madre lo guardò meglio, e sentì compassione. Decise che il bam‐ bino sarebbe rimasto in casa loro. E Marietta gli dava da mangiare e gli cambiava le fasce, e gli cantava le canzoncine quando doveva dormire. La testa e la coda del serpente. (Favola). La coda del serpente si mise a litigare con la testa, a chi delle due toc‐ casse andare innanzi per prima. La testa diceva: — Tu non puoi andare innanzi per prima: non hai occhi e non hai orecchie! — La coda diceva: — In compenso, però, la forza sta in me: sono io che ti muovo; se mi viene il capriccio di arrotolarmi intorno a un albero, tu non ti sposti più! Disse la testa: — Dunque, dividiamoci! E la coda si staccò dalla testa, e incominciò a strisciare in avanti. Ma, appena si fu scostata dalla testa, s’imbatté in un crepaccio, e là dentro sprofondò. Primo libro di lettura 9 La pietra. (Racconto dal vero). Un povero giunse alla casa d’un ricco, e si mise a chiedere l’elemosina. Il ricco non gli diede nulla, e gli disse: — Và via! — Ma il povero non se ne andava. Allora il ricco s’infuriò, raccolse una pietra e la gettò addosso al povero. Il povero raccolse la pietra, la mise nella bisac‐ cia e disse: — Porterò questa pietra fino a tanto che non venga anche per me il momento di gettarla addosso a lui. E quel momento venne. Il ricco commise una mala azione; gli fu tolto tutto ciò che possedeva, e fu condotto in prigione. Mentre lo conduceva‐ no in prigione, il povero gli s’avvicinò, cavò fuori dalla bisaccia la pietra, e fece per tirarla: poi rifletté, lasciò cadere la pietra, e disse: — Inutilmen‐ te ho portato per tanto tempo questa pietra: quando era ricco e potente, io lo temevo; ma ora, mi fa pietà. Gli Eschimesi. (Descrizione). Al mondo c’è una terra, dove per tre mesi soltanto fa estate, e tutto il resto dell’anno fa inverno. D’inverno le giornate sono così corte, che ap‐ pena il sole s’affaccia, subito tramonta. E per tre mesi, proprio nel cuore dell’inverno, il sole non si leva affatto, e per quei tre mesi è sempre buio. In questa terra vivono degli uomini: essi si chiamano Eschimesi. Que‐ sti uomini parlano una lingua loro, non capiscono altre lingue, e non si recano mai fuori della loro terra. Di statura gli Eschimesi sono poco alti, ma la testa l’hanno molto grossa. Hanno il corpo non bianco, ma marro‐ ne, i capelli neri e ruvidi. Hanno nasi sottili, zigomi larghi, occhi piccoli‐ ni. Gli Eschimesi abitano in case di neve. Essi le costruiscono così: ta‐ gliano nella neve tanti blocchi, e con questi compongono la casa, come quando si monta una stufa. Al posto dei vetri incastrano nei muri lastre di ghiaccio, e al posto della porta fanno una lunga galleria sotto la neve, e per questa galleria strisciano fin dentro alla casa. Quando sopravviene l’inverno, le loro case restano seppellite interamente dalla neve, e dentro ci fa un bel caldo. Si cibano, questi Eschimesi, di cervi, di lupi, d’orsi bianchi. Prendono il pesce dal mare con bastoni forniti d’uncini e con re‐ ti. La selvaggina la uccidono con frecce e con lance. Gli Eschimesi man‐ giano, come le bestie, la carne cruda. Essi non hanno né lino né canapa, 10 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura da farci camicie e corde, e nemmeno la lana, da farci le stoffe: le corde se le fanno coi nervi delle bestie, e i vestiti con le pelli. Accostano insieme due pelli col pelo all’indentro, ci fanno i buchi con una lisca di pesce, e le cuciono coi nervi. In questo modo fanno camicie, calzoni e stivali. Non conoscono nemmeno il ferro. Per fare le lance e le frecce adoperano gli ossi. Preferiscono a ogni altra cosa mangiare il gras‐ so delle bestie e dei pesci. Donne e uomini vanno vestiti nello stesso modo; le donne, però, portano certi stivaloni larghissimi. Nei larghi gambali di questi stivaloni esse infilano i figliolini da latte, e così li por‐ tano. Nel cuore dell’inverno gli Eschimesi hanno tre mesi di buio. Ma quando viene l’estate, il sole non ci tramonta mai, e non fa mai notte. La puzzola. (Favola). Una puzzola s’intrufolò nella bottega d’un calderaio, e si mise a lecca‐ re una lima. Dalla lingua cominciò a uscire il sangue, ma la puzzola si rallegrò: seguitò a leccare, credendo che fosse il ferro a far sangue. Così si rovinò tutta la lingua. La zia racconta come imparò a cucire. (Racconto). Quando io avevo sei anni, pregai la mamma che mi facesse cucire. Lei mi disse: — Tu sei piccola ancora, ti pungeresti le dita e nient’altro —; ma io insistevo sempre. Allora la mamma tirò fuori dal baule una pez‐ zetta rossa, e me la diede; poi infilò nell’ago un filo rosso, e mi fece ve‐ dere come dovevo tenerlo. Io mi misi a cucire, ma non riuscivo a fare i punti uguali: un punto mi veniva troppo grande, un altro m’andava a finire proprio all’orlo, e sbucava dall’altra parte. Poi mi punsi un dito, e cercavo di non piangere, ma la mamma mi domandò: — Che hai? — e così io non potei più frenarmi, e scoppiai a piangere. Allora la mamma mi mandò a giocare. Quando andai a letto, sempre negli occhi mi ballavano quei punti: stavo sempre a pensare in che modo potevo imparar presto a cucire, e mi pareva tanto difficile, che non avrei imparato mai. E invece, ora che sono diventata grande, non mi ricordo neppure come imparai a cucire: e Primo libro di lettura 11 quando insegno a cucire alla mia figliolina, mi meraviglio che non sap‐ pia tenere l’ago. Fili sottili. (Favola). Un tale ordinò a una filatrice fili sottili. La filatrice filò i fili sottili, ma l’uomo disse che quei fili non andavano bene, e che lui aveva bisogno di fili straordinariamente sottili. La filatrice disse: — Se questi non ti sem‐ brano sottili, eccone qui degli altri, — e gli faceva segno a mezz’aria. Quello disse che non vedeva nulla. La filatrice disse: — Appunto non li vedi, perché sono straordinariamente sottili: nemmeno io riesco a ve‐ derli. Lo sciocco fu tutto contento, e ordinò altri fili così; e intanto comperò quelli a suon di moneta. La velocità fa la forza. (Racconto dal vero). Una volta un treno avanzava a grande velocità sulla strada ferrata. E proprio sulla strada ferrata, a un passaggio a livello, stava fermo un ca‐ vallo attaccato a un carro pesante. Il contadino non riusciva a smuovere il carro, perché una ruota di dietro era saltata via. Il capotreno gridò al macchinista: — Frena! — ma il macchinista non gli diede retta. Egli ave‐ va compreso che il contadino non poteva né spostare in avanti il cavallo col carro, né farlo rigirare indietro, e che la macchina, così di colpo, non si poteva fermare. Quindi non cercò di fermarla, ma anzi lanciò la mac‐ china alla massima velocità, e a tutto vapore s’avventò sul carro. Il con‐ tadino, di corsa, s’era scostato dal carro, e la macchina fece schizzar via dai binari carro e cavallo come una scheggia: ma essa non ne fu scossa, e seguitò a correre oltre. Allora il macchinista disse al capotreno: — Ora noi abbiamo ammaz‐ zato soltanto un cavallo, e abbiamo fracassato un carretto: ma se avessi dato retta a te, ci saremmo ammazzati anche noi, e avremmo massacrato tutti i passeggeri. A grande velocità, abbiamo fatto schizzar via il carro e non abbiamo risentito l’urto; ma a piccola velocità, saremmo stati noi a schizzar fuori dai binari. 12 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il leone e il topolino. (Favola). Il leone dormiva. Un topolino gli corse su per il corpo. Quello si sve‐ gliò e lo acchiappo’. Il topolino cominciò a pregare che lo lasciasse; dice‐ va: — Se tu mi lasci, vedrai che io ti farò del bene —. Il leone si mise a ridere, a sentire che il topolino prometteva di fargli del bene; e lo lasciò andare. Più tardi, certi cacciatori acchiapparono il leone, e lo legarono con una fune a un albero. Il topolino udì il leone che ruggiva, accorse, rosicò la fune torno torno, e disse: — Ti ricordi? Tu ridevi, non credevi che io potessi farti del bene; ma ora lo vedi: anche da un topolino si può riceve‐ re del bene. I cani dei pompieri. (Racconto dal vero). In città, quando scoppiano gl’incendi, vi sono spesso dei bambini che rimangono dentro le case, e non si riesce a tirarli in salvo, perché essi, dalla paura, stanno rimpiattati zitti zitti, e tra il fumo non si riesce a di‐ stinguerli. Per questo, a Londra, ammaestrano apposta certi cani. Questi cani stanno sempre coi pompieri, e quando va a fuoco una casa, subito i pompieri mandano i cani a scovare i bambini. Uno di questi cani, a Lon‐ dra, salvò dodici bambini: aveva nome Bob. Un giorno, una casa aveva preso fuoco, e quando i pompieri arriva‐ rono là, corse fuori incontro a loro una donna. Essa piangeva e diceva che in casa c’era rimasta una bambinetta di due anni. I pompieri manda‐ rono Bob. Bob corse su per le scale e sparì tra il fumo. Cinque minuti dopo, Bob sbucava fuori dalla casa, e fra i denti reggeva la bambinetta per la camicina. La madre si slanciò sulla figlia, e piangeva dalla gioia che la figlia era viva. I pompieri si misero a carezzare il cane e ad osser‐ varlo, se aveva qualche scottatura: ma Bob si divincolò, come per tornare dentro la casa. I pompieri pensarono che nella casa ci fosse ancora qual‐ che persona, e lo lasciarono andare. Il cane corse dentro la casa e, un momento dopo, scappo’ fuori con una cosa fra i denti. Quando la gente vide che cosa aveva portato, tutti scoppiarono a ridere: aveva portato una grossa bambola. Primo libro di lettura 13 La scimmia. (Favola). Un uomo andò al bosco, abbatté un albero e si preparò a segarlo. Sol‐ levò un capo dell’albero su un ceppo, ci si mise a cavalcioni, e cominciò a segare. Poi conficcò una zeppa nel punto dov’era arrivato con la sega, e riprese a segare più innanzi. Segò un buon tratto, cavò fuori la zeppa, e la collocò ancora più innanzi. Una scimmia, dalla cima d’un albero, stava a guardare. Quando l’uomo si coricò per dormire, la scimmia venne a mettersi a cavalcioni dell’albero, e voleva fare tutto come lui: ma appena essa cavò la zeppa, l’albero si rinserrò, e la imprigionò per la coda. La scimmia cominciò a dimenarsi e a gridare. L’uomo si svegliò, bastonò la scimmia e la legò a una fune. Un ragazzo racconta d’una volta che non lo portarono in città. (Racconto). Il babbo si preparava per andare in città; io gli dissi: — Babbino, por‐ tami insieme con te! — Ma lui mi disse: — Tu moriresti di freddo: dove vuoi andare? — Io mi voltai dall’altra parte, scoppiai a piangere e me n’andai nello sgabuzzino. Piansi, piansi, e finì che m’addormentai. Ed ecco che, in sogno, mi pare di vedere quella stradella che dal nostro pae‐ se porta alla chiesa, e mi pareva che per questa stradella ci camminasse il babbo. Io lo arrivai, e tutt’e due insieme ci avviammo verso la città. Io cammino, e vedo come se dinanzi a noi ci fosse un forno acceso. Dico: — Babbino, è quella la città? — E lui: — Proprio quella —. Poi arrivam‐ mo dov’era il forno, e mi pareva che là ci cuocessero le frittelle. Io dico: — Comprami una frittellina! — Lui me la comperava e me la dava. Allora io mi svegliai, m’alzai, m’infilai le scarpe, pigliai i guantoni e uscii sulla strada. Sulla strada i ragazzi facevano a scivolare sulla neve coi blocchi di ghiaccio e con le slitte. Io mi misi con loro a scivolare, e scivolai finché non mi fui intirizzito. Ero appena tornato in casa e m’ero arrampicato sulla stufa, sento il babbo che torna dalla città. Tutto conten‐ to, gli salto incontro e gli dico: — Babbino, me l’hai comprata qualche frittellina? — Lui mi dice: — Te l’ho comprata —. E mi diede le frittelle. Io saltai sulla panca e mi misi a ballare dalla contentezza. 14 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il bugiardo. (Favola). Un ragazzo badava le pecore e, come se avesse visto il lupo, cominciò a gridare: — Aiuto, il lupo, il lupo! — I contadini corsero, e videro che non c’era niente di vero. Ancora due o tre volte il ragazzo fece così, finché per davvero, un giorno, sbucò fuori il lupo. Il ragazzo si mise a gridare: — Qua, qua, fate presto, il lupo! — I contadini credettero che anche stavolta facesse per finta, al solito suo, e non gli diedero retta. Il lupo s’avvide che non c’era niente da temere: comodo comodo, sgozzò tutto il gregge. Come fu raggiustata una casa a Parigi. (Racconto dal vero). I muri d’un grande palazzo s’erano scostati uno dall’altro. Si comin‐ ciò a cercare un modo di riportarli a posto senza demolire il tetto. E ci fu un uomo che trovò il modo. Piantò nei muri, da un lato e dall’altro, degli anelli di ferro; poi fabbricò, pure di ferro, una sbarra, che era un po’ troppo corta per arrivare da un anello all’altro: mancavano cinque cen‐ timetri. Poi incurvò i due capi della sbarra a forma d’uncino, in modo che gli uncini potessero entrare negli anelli. Finalmente, arroventì la sbarra sul fuoco: essa si dilatò, e venne a stendersi da un anello all’altro. Allora l’uomo la assicurò coi due uncini dentro gli anelli, e la lasciò stare così. La sbarra tornò a freddarsi e a ritirarsi, e fece ricombaciare i muri. L’asino e il cavallo. (Favola). C’era un uomo che aveva un asino e un cavallo. Mentre camminava‐ no insieme per la strada, l’asino disse al cavallo: — Quanto fatico, non posso portare più tutta questa roba, prendimi tu qualche cosa! — Il ca‐ vallo non gli diede retta. L’asino cadde a terra dallo sforzo, e morí. Quando il padrone ebbe caricato tutta la roba dell’asino sul cavallo, e per giunta anche la pelle dell’asino, allora il cavallo gemette: — Oh di‐ sgraziato me, come sono nato sfortunato! Non ho voluto dare un piccolo Primo libro di lettura 15 aiuto al mio compagno, ed ecco che adesso porto io la roba di tutt’e due, e per giunta la sua pelle! Un ragazzo racconta come, nel bosco, lo colse il temporale. (Racconto dal vero). Quando io ero piccolo, mi mandarono al bosco per funghi. Io mi spinsi nel bosco, raccolsi i funghi e feci per tornarmene a casa. D’im‐ provviso si rabbuiò, cominciò a piovere e a tuonare. Io mi spaventai, e mi appostai sotto una grande quercia. Sfolgorò una saetta così forte, che gli occhi mi fecero male, e li serrai. Sopra di me risonò uno schianto e un tuono; poi un non so che mi colpì alla testa. Io caddi, e restai per terra finché non smise di piovere. Quando riaprii gli occhi, per tutto il bosco gocciava acqua dagli alberi, cantavano gli uccelletti, e brillava un bel so‐ le. La grande quercia era schiantata, e buttava fumo. Intorno a me stava‐ no sparsi tanti scheggioni di legno di quercia. Il mio vestito era tutto molle e appiccicato alla pelle; sulla testa avevo un bernoccolo, e mi face‐ va un po’ male. Quand’ebbi ritrovato il mio cappello, agguantai i funghi e corsi a ca‐ sa. A casa non c’era nessuno: io presi sul tavolo un pezzetto di pane, e m’arrampicai sulla stufa. Quando mi svegliai, vidi, lassù dalla stufa, che avevano arrostito i funghi, li avevano portati in tavola, e già stavano per mangiarli. Io gridai: — Perché mangiate senza di me? – Loro mi dissero: – E tu, perché dormi? Sbrigati, vieni a mangiare. La cornacchia e i piccioni. (Favola). Una cornacchia s’avvide che i piccioni avevano buoni pasti: si finse tutta di bianco, e volò alla piccionaia. I piccioni credettero, lì per lì, che fosse un piccione come loro, e la lasciarono entrare. Ma la cornacchia si scordò chi era, e si mise a gridare come tutte le cornacchie. Allora i pic‐ cioni cominciarono a canzonarla, e la cacciarono via. La cornacchia se ne volò un’altra volta fra le compagne; ma le cornacchie si spaventarono quando la videro bianca: e anche loro la cacciarono via. 16 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il contadino e i cocomeri. (Favola). Una volta un contadino andò in un orto a rubare i cocomeri. Adagio adagio, s’avvicina ai cocomeri, e pensa: «Se posso portar via un sacco di cocomeri, me li vendo: con quello che incasso, mi ci compro una gallinel‐ la. La gallina mi farà le uova, le coverà, mi porterà alla luce un branco di pulcini. Io li alleverò, li venderò, e comprerò una troietta: la troia mi fi‐ glierà tanti porcellini. Venderò i porcellini, e comprerò una cavallina: la cavallina mi figlierà tanti puledrini. Alleverò i puledrini, e li venderò: comprerò una casa, e pianterò un bell’orto. Pianterò un bell’orto, ci col‐ tiverò i cocomeri, e non lascerò che me li rubino, ci farò fare buona guar‐ dia. Prenderò dei guardiani, li porrò a bada dei cocomeri, e io stesso, o‐ gni tanto, ci verrò di soppiatto, e darò un grido: “Ohé, fate buona guar‐ dia!”» Il contadino s’era talmente ingolfato nei suoi pensieri, da scordarsi completamente che si trovava nell’orto d’un altro, e gridò a squarciagola quelle parole. I guardiani sentirono, saltarono fuori e presero il contadi‐ no a bastonate. La massaia e la gallina. (Favola). C’era una volta una gallina che faceva ogni giorno il suo ovetto. La padrona ebbe il pensiero che, se le dava più mangime, la gallina avrebbe fruttato il doppio. E così provò a fare. Ma la gallina ingrassò e cessò del tutto di far l’uovo. Il vecchio nonno e il nipotino. (Favola). Il nonno diventò molto vecchio. Le gambe non gli camminavano più, gli occhi non gli vedevano, le orecchie non gli sentivano, non aveva più un dente. E quando mangiava, la roba gli ricadeva giù dalla bocca. Il fi‐ glio e la nuora non gli apparecchiarono più il posto a tavola: gli davano da mangiare accanto al fuoco. Una volta, gli avevano portato da mangia‐ re in una ciotola. Lui voleva accostarsela, ma la fece cadere e la mandò in pezzi. La nuora cominciò a sgridare il vecchio, che in casa le mandava a Primo libro di lettura 17 male ogni cosa, e disse che d’ora in poi gli avrebbe dato da mangiare nel mastello delle rigovernature. Il vecchio fece un sospiro, e non disse nul‐ la. Di lì a qualche giorno, la donna e l’uomo se ne stavano in casa, e ve‐ dono il figliolino che gioca per terra con certe tavolette, come se volesse fabbricarci qualche cosa. Il padre, allora, gli domanda: – Che stai a fare, Micheluccio? – E Micheluccio gli dice: – Io, babbino, sto a fare un mastel‐ lo. Così, quando tu e mammina sarete vecchi, in questo mastello io ci da‐ rò da mangiare a voi. L’uomo e la donna si guardarono tra loro, e si misero a piangere. Eb‐ bero vergogna di offendere a quel modo il vecchio; e, da quel giorno in poi, ricominciarono a mettergli il posto a tavola e ad assisterlo con pre‐ mura. La spartizione dell’eredità. (Favola). Un padre aveva due figli. Egli disse loro: – Quando morrò, voi sparti‐ te ogni cosa a mezzo –. Quando il padre mori, i figli non riuscirono a spartire senza venire a lite. Andarono a chiedere il parere d’un vicino. Il vicino domandò: — In che modo vostro padre vi ha ordinato di spartire? — Essi dissero: — Ci ha ordinato di spartire ogni cosa a mezzo —. Il vicino disse: — E voi, allora, strappate a mezzo tutti i vestiti, spezzate a mezzo tutte le stoviglie, e pure a mezzo squartate tutto il bestiame. I fratelli diedero retta al vicino, e rimasero senza più nulla. Dove va a finire l’acqua del mare? (Considerazioni). Dalle sorgenti, dalle vene e dalle paludi l’acqua si versa nei ruscelli, dai ruscelli nei fiumiciattoli, dai fiumiciattoli nei grandi fiumi, e dai grandi fiumi si versa nel mare. Da altre parti, nel mare, si versano altri fiumi, e tutti i fiumi continuano a versarsi nel mare da quando è comin‐ ciato il mondo. Dove va a finire l’acqua del mare? Come mai non traboc‐ ca dalle rive? L’acqua si solleva dal mare sotto forma di nebbia; la nebbia si solleva più in alto, e finalmente dalla nebbia si formano le nuvole. Le nuvole so‐ no spinte via dal vento, e si spandono per tutta la terra. Dalle nuvole l’acqua viene a cadere sulla terra. Dalla terra va a versarsi nelle paludi e 18 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura nei ruscelli. Dai ruscelli si versa nei fiumi; dai fiumi nel mare. Dal mare si solleva di nuovo a formare le nuvole: e le nuvole si spandono per tutta la terra... Il leone, l’orso e la volpe. (Favola). Un leone e un orso s’impadronirono d’un pezzo di carne, e comincia‐ rono a litigarselo. L’orso era duro a cedere, e il leone più duro ancora. Lottarono tanto a lungo, che perdettero le forze, e tutt’e due s’accovacciarono a terra. Una volpe scorse, nel mezzo fra i due, quel pezzo di carne; l’agguantò e scappo’ via. Un ragazzo racconta come avvenne che scoprí al nonno la regina delle api. (Racconto). Il mio nonnino abitava, d’estate, dov’era l’arniaio. Ogni volta che io andavo a trovarlo, lui mi dava un po’ di miele. Un giorno, io me ne andai all’arniaio, e cominciai a inoltrarmi in mezzo agli alveari. Io non avevo paura delle api, perché il nonno mi a‐ veva insegnato a camminare senza rumore fra le arnie. Anche le api s’erano abituate a vedermi, e non mi pungevano. In uno degli alveari, sentii qualche cosa che chiocciava. Andai dal nonno alla baracca, e glielo ridissi. Lui mi venne dietro, ascoltò a sua volta, e disse: — Da questo alveare è già volato uno sciame, quello primaticcio, con la regina vecchia; e a‐ desso le regine giovani sono uscite dall’uovo. Sono loro che stridono. Domani, col secondo sciame, esse faranno il volo —. Io domandai al nonno che cosa fossero, queste regine. E lui mi disse: — Le regine delle api sono la stessa cosa che l’imperatore per gli uo‐ mini: senza di esse, le api non possono vivere. Io domandai: — Ma di figura, come sono fatte? Lui mi disse: — Vieni domani; a Dio piacendo, sciameranno: e io te le farò vedere, e ti darò del miele. Quando io, il giorno dopo, arrivai lì dal nonno, nell’ingressetto della baracca stavano appesi due canestri chiusi, con le api dentro. Nonno mi fece infilare in testa la reticella, e me la legò con un fazzoletto intorno al collo; poi prese uno di quei canestri chiusi con le api, e lo portò dov’era‐ no gli alveari. Le api ci rombavano dentro. Io mi spaventai, e mi nascosì Primo libro di lettura 19 le mani nei calzoni; ma avevo voglia di vedere la regina, e andai dietro al nonno. Quando fummo all’arniaia, il nonno s’avvicinò a un tronco vuoto, ci appoggiò un vassoietto di legno, aprì il canestro e ne scrollò fuori le api giù nel vassoio. Le api si misero a strisciare lungo il vassoio alla volta del tronco, e strombettavano a tutto spiano, mentre il nonno, con uno sco‐ pettino, ci andava frugando tra mezzo. — Ecco qua la regina! — il nonno mi fece segno con lo scopettino, e io vidi una lunga ape con le alucce corte. Essa strisciò via con le altre e scomparve. Allora il nonno mi sfilò la reticella, e tornò alla baracchetta. Là mi diede un bel tocco di miele; io lo mangiai, e m’impiastrai tutte le guance e le mani. Quando arrivai a casa, mamma mi disse: — Anche oggi quel guastaragazzi del nonno ti ha rimpinzato di miele! — Ma io le risposi: — Sfido che mi ha dato il miele: io, iersera, gli ho scoperto un’arnia con le regine giovani, e or ora, tutt’e due insieme, abbiamo si‐ stemato uno sciame. Il cane, il gallo e la volpe. (Favola). Un cane e un gallo si misero, da buoni compagni, a girare il mondo. Al calar della sera, il gallo s’addormentò sopra un albero, e il cane s’accomodò sotto quello stesso albero, fra le radici. Quando venne l’ora, il gallo attaccò a cantare. Una volpe udì il gallo, corse lì, e dal basso co‐ minciò a pregarlo che le scendesse accanto, come se volesse fargli i com‐ plimenti per la bella voce che aveva. Il gallo disse: — Bisogna prima svegliare il portiere: ecco, sta a dormire fra le radici. Quando lui avrà aperto, io verrò giù. La volpe si mise a cercare il portiere e cominciò a schiamazzare. Il ca‐ ne, d’impeto, saltò fuori e strozzò la volpe. Il mare. (Descrizione). Il mare è largo e profondo; del mare non si vede fine. Nel mare il sole si leva e nel mare tramonta. Il fondo del mare, nessuno l’ha raggiunto mai, e nessuno lo conosce. Quando il vento non c’è, il mare è azzurro e liscio; quando soffia il vento, subito il mare s’agita e fa le scale. S’alzano, 20 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura là per il mare, le onde; un’onda corre dietro all’altra; si uniscono insie‐ me, si urtano, e sprizzano una schiuma bianca. Allora i bastimenti sono sbattuti qua e là dalle onde come fossero schegge di legno. Chi non s’è mai trovato in mezzo al mare, non sa che vuol dire raccomandarsi a Dio. Il cavallo e il mozzo di stalla. (Favola). Un mozzo di stalla rubava al cavallo l’avena, e la rivendeva; ma non passava giorno che non ripulisse il cavallo da capo a piedi. Allora il ca‐ vallo gli disse: — Se vuoi davvero che io sia bello, non rivendere la mia avena! L’incendio. (Racconto dal vero). Era di mietitura: uomini e donne erano andati fuori a lavorare. Nel villaggio erano rimasti soltanto i vecchi e i bambini. In una casetta era rimasta la nonna con tre nipotini. La nonna accese la stufa e s’allungò a fare un sonnellino. Le mosche le si posavano addosso e la punzecchia‐ vano. Essa si coprì la testa con un panno, e s’addormentò. Una delle ni‐ potine, Marietta, che aveva tre anni, aprì la stufa, ne tirò fuori un po’ di braci in un coccerello, e andò nell’ingresso. Nell’ingresso c’erano am‐ mucchiati tanti fasci di paglia. Le donne avevano preparato questi fasci per farne legacci per i covoni. Marietta portò li quelle braci, le posò sotto la paglia, e si mise a soffiare. Quando la paglia cominciò a prender fuo‐ co, lei fu tutta contenta: andò nella camera, condusse di qua per mano il fratellino, Pietruccio (aveva un anno e mezzo, aveva appena imparato a camminare), e gli disse: — Guarda, Pietruccio, che bella stufa ho acceso io! — I covoni già bruciavano e crepitavano. Quando l’ingresso si fu riempito di fumo, Marietta si spaventò, e corse di là in camera. Pietruc‐ cio cadde sulla soglia, si fece male al naso, e si mise a piangere. Marietta lo trascinò in camera, e tutt’e due s’appiattarono sotto la panca. La non‐ na non sentiva niente, e continuava a dormire. Il fratello più grande, Nino, che aveva otto anni, era sulla strada. Quando s’avvide che dall’ingresso usciva il fumo, corse alla porta, saltò tra il fumo fin dentro la camera, e si fece a svegliare la nonna; ma la nonna, svegliandosi di soprassalto, perse la testa, e non pensò ai bambi‐ Primo libro di lettura 21 ni: balzò su e corse dai vicini a chiamar gente. Marietta, intanto, se ne stava sotto la panca, zitta zitta; solo il fratellino piccolo strillava, perché si era fatto molto male al naso. Nino udì i suoi strilli, guardò sotto alla panca, e gridò a Marietta: — Scappa, o ti bruci! — Marietta corse verso l’ingresso, ma dal fumo e dal fuoco non si poteva passare. Essa tornò in‐ dietro. Allora Nino aprì la finestra e le disse di arrampicarsi lì. Quando lei si fu arrampicata, Nino afferrò il fratellino e lo trascinò da quella pa‐ ne. Ma il bambino era pesante, e resisteva al fratello. Piangeva e dava strattoni a Nino. Due volte Nino cadde, prima che riuscisse a trascinarlo fino alla finestra, e intanto la porta della camera aveva già preso fuoco. Nino ficcò nella finestra la testa del fratellino, e cercava di farlo tra‐ boccare fuori; ma il bambino (che s’era spaventato assai) si teneva ag‐ grappato con le sue manine, e non le staccava. Allora Nino gridò a Ma‐ rietta: — Tiralo per la testa! — e intanto lui lo spingeva per di dietro. In questo modo riuscirono a ribaltarlo dalla finestra sulla strada: e così an‐ che loro saltarono all’aperto. La rana e il leone. (Favola). Un leone udì una rana che gracidava a gran voce, e si spaventò. Pen‐ sò che doveva essere una belva ben grossa, se aveva tanta voce. Si avvi‐ cinò pian piano; e che cosa vide? Una rana che era uscita da un pantano. Il leone la schiacciò con la zampa, e disse: — Se prima non avrò visto bene di che si tratta, non mi lascerò più spaventare. L’elefante. (Racconto dal vero). Un Indiano aveva un elefante. Il padrone gli dava poco da mangiare, e lo faceva lavorare molto. Un giorno l’elefante s’infuriò, e schiacciò con la zampa il suo padrone. L’Indiano morí. Allora la moglie dell’Indiano scoppiò a piangere, portò i suoi bambini lì dall’elefante, e glieli gettò dinanzi ai piedi. Essa diceva: — Elefante! Tu hai ucciso il padre, uccidi anche loro: L’elefante guardò i bambini, prese con la proboscide il più grande, adagio adagio lo sollevò, e se lo pose a sedere sul collo. E da quel giorno l’elefante obbedì al ragazzo e lavorò per lui. 22 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura La scimmia e i piselli. (Favola). Una scimmia portava nel cavo delle mani una giumella di piselli. Un pisello saltò via: la scimmia andò per raccattarlo, e fece cadere in terra una ventina di piselli. Si slanciò per riprenderli, e li fece cadere in terra tutti quanti. Allora s’infuriò, sparpagliò i piselli ai quattro venti, e se la diede a gambe. Un ragazzo racconta in che modo gli passò la paura dei mendicanti ciechi. (Racconto). Quando io ero piccolo, mi avevano spaventato coi mendicanti ciechi, e così avevo una gran paura di loro. Una volta, arrivai a casa, e sulla sca‐ letta dinanzi alla porta c’erano seduti due mendicanti ciechi. Io non sa‐ pevo come fare: avevo paura di scappar via, e avevo paura di passare accanto a loro, perché credevo che loro mi avrebbero acciuffato. D’im‐ provviso uno dei due (aveva gli occhi bianchi come il latte), s’alzò, mi prese per la mano e disse: — Ragazzetto! Me la faresti una piccola ele‐ mosina? — Io mi strappai da lui e corsi dalla mamma. Essa mi diede da portare in elemosina qualche monetina e un po’ di pane. I mendicanti furono contenti del pane, si fecero il segno della croce e cominciarono a mangiare. Poi quello con gli occhi bianchi mi disse: — Il tuo pane è buo‐ no, che Dio ti benedica! — E mi prese un’altra volta per la mano, e me la tastava. Io sentii compassione di lui, e da quel giorno mi passò la paura dei mendicanti ciechi. La vacca lattaiola. (Favola). Un uomo possedeva una vacca: essa gli dava ogni giorno un secchio di latte. L’uomo invitò certa gente a casa sua, e per aver pronto più latte per gl’invitati, stette dieci giorni senza mungere la vacca. Egli pensava che, in capo a dieci giorni, la vacca gli avrebbe dato dieci vasi di latte. Ma alla vacca tutto quel latte s’era cagliato dentro: e quando final‐ mente il padrone la munse, gli diede meno latte che l’altre volte. Primo libro di lettura 23 L’imperatrice cinese Si–ling–ci. (Racconto dal vero). L’imperatore cinese Huang–ci amava molto sua moglie, Si–ling–ci. L’imperatore voleva che tutto il popolo ricordasse per sempre la sua amata imperatrice. Egli fece vedere alla moglie un baco da seta, e le dis‐ se: – Impara che cosa si può fare con questo piccolo baco, e come può es‐ sere allevato: e il popolo non si scorderà mai di te! Si–ling–ci cominciò a osservare quei bachi, e s’avvide che quando essi stanno per morire, intorno a loro si forma una specie di ragnatela. Essa srotolò questa ragnatela, la filò, e ci tessé un fazzoletto di seta. Poi notò che i bachi si sviluppavano sugli alberi di gelso. Allora provò a racco‐ gliere la foglia del gelso e a governare i bachi con quella. Allevò bachi in gran numero, e insegnò al suo popolo il modo di allevarli. Da allora sono passati cinquemila anni, ma i Cinesi ricordano ancora la principessa Si–ling–ci, e fanno festa in onore di lei. La cicala e le formiche. (Favola). In autunno, nel formicaio, il grano s’era un po’ inumidito: le formiche lo portarono fuori a rasciugare. Una cicala affamata chiese loro qualche cosa da mangiare. Le formiche dissero: – E perché, quando era estate, tu non ti sei fatta la provvista? – Quella rispose: – Non avevo tempo: avevo le mie canzoni da cantare! – Le formiche risero e dissero: – Se d’estate hai fatto musica, d’inverno ballerai. La ragazza–topolino. (Leggenda). Una volta, un uomo camminava in riva al fiume, e vide un corvo che portava un topolino. Gli tirò una sassata, e il corvo lasciò il topolino: il topolino cadde nell’acqua. L’uomo riuscì a pigliarlo di dentro all’acqua, e lo portò a casa sua. Egli non aveva figlioli, e disse: – Oh se questo topo‐ lino potesse diventare una ragazzetta! – Ed ecco che il topolino diventò proprio una ragazzetta. Quando la ragazzetta fu grande, l’uomo le domandò: – Chi vuoi per marito? – La ragazzetta disse: – Voglio per marito quello che è il più for‐ 24 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura te di tutto il mondo! – L’uomo andò dal sole e gli disse: – Sole! Mia figlia vuole per marito quello che è il più forte di tutto il mondo. Tu sei il più forte di tutti: sposa mia figlia! – Il sole disse: – Io non sono il più forte: le nuvole mi coprono. L’uomo andò dalle nuvole e disse: – Nuvole! Voi siete più forti di tut‐ ti: sposate mia figlia! – Le nuvole dissero: – No, noi non siamo più forti di tutti: il vento ci spinge di qua e di là. L’uomo andò dal vento e disse: – Vento! Tu sei il più forte di tutti: sposa mia figlia! – Il vento disse: – Io non sono il più forte: le montagne mi fermano. L’uomo andò dalle montagne e disse: – Montagne! Sposate mia figlia: voi siete più forti di tutti! – Le montagne dissero: – Più forte di noi c’è il sorcio: esso ci rode. Allora l’uomo andò dal sorcio e disse: – Sorcio! Tu sei il più forte di tutti: sposa mia figlia! – Il sorcio acconsentì. L’uomo ritornò dalla figlia e le disse: – Il sorcio è il più forte di tutti: esso rode le montagne, le mon‐ tagne fermano il vento, il vento spinge le nuvole, le nuvole coprono il sole; e il sorcio ti vuole sposare! – Ma la figlia disse: – Povera me, e ades‐ so come farò? Come farò a pigliare per marito un sorcio? – Allora l’uomo disse: – Oh, se la mia figliola diventasse un’altra volta un topoli‐ no! Detto fatto: la ragazza diventò una topolina, e la topolina pigliò per marito il sorcio. La gallina e le uova d’oro. (Favola). Un contadino aveva una gallina che gli faceva le uova d’oro. Egli s’in‐ capricciò di aver più oro tutto in una volta, e ammazzò la gallina (crede‐ va che dentro ci fosse un gran globo d’oro). Ma la gallina era uguale in tutto e per tutto alle altre galline. Filo di lino. (Leggenda). C’erano una volta un vecchio e una vecchia. Essi non avevano figli. Il vecchio andò al campo ad arare, e la vecchia restò in casa a cuocere le frittelle. Quando ebbe cotto le frittelle, la vecchia disse: Primo libro di lettura 25 – Se noi avessimo un figlio, porterebbe lui le frittelle a suo padre; ora, invece, da chi gliele manderò? D’improvviso, dalle acce del lino, sbucò fuori un figliolino piccino, e disse: – Salute, mammina! Disse la vecchia: – E di dove vieni, figliolino? E come ti chiami? Disse il figliolino: – Tu, mammina, hai filato il lino e l’hai messo sul naspino: appunto là io sono nato. E mi chiamo Filo di lino. Se permetti, mammina, porterò io le frittelle al babbino. Rispose la vecchia: – Riuscirai a portargliele, Filo di lino? – Si che ci riuscirò, mammina mia! La vecchia legò le frittelle in un fagottello e le consegnò al figliolino. Filo di lino prese il fagottello e corse via verso il campo. Sul campo, gli si parò davanti un monticello di terra, e lui gridò: – Babbo, babbo, fammi passare di là da questo monticello! Io ti ho portato le frittelle. Il vecchio, in fondo al campo, udì una voce che lo chiamava, si fece incontro al figlio, gli fece passare il monticello, e disse: – Di dove ne vie‐ ni, figlioletto mio? E il bambino gli disse: – Io, babbo, sono nato dalle acce del lino, – e diede al padre le frittelle. Il vecchio si sedette a far colazione, e il bambino gli disse: – Se per‐ metti, babbo, io vorrei arare. Ma il vecchio gli disse: – Tu non hai forza abbastanza per arare. Ma Filo di lino afferrò l’aratro e si mise ad arare. E non solo arava, ma cantava fior di canzoni. Passava in carrozza lungo quel campo un signore, e che cosa vide? Il vecchio seduto che fa colazione, e il cavallo che ara da solo. Il signore scende di carrozza, e fa al vecchio: – Come va che a te, vecchio, il cavallo ti ara da solo? Il vecchio risponde: – C’è là un ragazzo che mi ara, e canta fior di canzoni. Il signore venne più innanzi, udì le canzoni, e vide Filo di lino. Allora il signore disse: – Vecchio! Vendimi il ragazzo. Ma il vecchio rispose: – No, io non posso venderlo: io ho lui solo. Filo di lino, però, disse al vecchio: – Vendimi, babbino: io gli scappe‐ rò. Il contadino, allora, vendette il ragazzo per cento lire. Il signore sbor‐ sò le monete, prese il ragazzo, lo avvoltolò ben bene in un fazzoletto, e se lo mise in tasca. Quando arrivò a casa sua, il signore disse alla moglie: 26 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura – Ti ho portato una bella sorpresa! – E la moglie disse subito: – Fa ve‐ dere che cos’è! Il signore cavò di tasca il fazzoletto, io svoltolò, ma nel fazzoletto non c’era un bel niente: già da un pezzo Filo di lino era scappato da suo pa‐ dre. Il lupo e la vecchia. (Favola). Un lupo affamato girava in cerca di preda. All’entrata d’un paesino; di dentro a una casa, il lupo sentì un bambino che piangeva, e una vec‐ chia che gli diceva: – Se non la finisci di piangere, ti farò mangiare dal lupo. Il lupo non si mosse più di lì, e si mise ad aspettare il momento che gli avrebbero dato da mangiare quel bambino. Ecco che fece notte: lui stava sempre ad aspettare. A un tratto sente di nuovo la voce della vec‐ chia, che dice: – Non piangere, piccino mio: non ti farò mangiare, no, dal lupo! Fà che il lupo si presenti, e vedrai come l’ammazziamo. Il lupo, allora, pensò: si vede proprio che, qui, parlano in un modo e fanno in un altro. E se ne andò via dal paesino. Il gattino. (Racconto dal vero). C’erano un fratello e una sorella, Pino e Caterina: essi avevano una gatta. A primavera la gatta sparì. I bambini la cercarono da tutte le parti, ma non poterono trovarla. Un giorno, stavano a giocare accanto al ca‐ pannone del magazzino, e sentirono, sopra di loro, miagolare certe vo‐ cette fine fine. Pino s’arrampicò sulla scala fin sotto al tetto del magazzi‐ no. E intanto Caterina stava ritta da piedi, e domandava ogni momento: – Trovi niente? Trovi niente? – Ma Pino non le rispondeva. Finalmen‐ te, Pino gridò: – Ho trovato! È la nostra gatta... e ci ha i gattini: se vedi come sono belli! Vieni qua, sbrigati. Caterina corse in casa, prese un po’ di latte e lo portò alla gatta. I gattini erano cinque. Quando furono cresciuti un pochino, e comin‐ ciarono a trascinarsi fuori dal quel cantuccio dov’erano nati, i bambini scelsero fra gli altri un gattino grigio con le zampette bianche, e se lo Primo libro di lettura 27 portarono in casa. La madre diede via tutti i gattini, ma questo lo lasciò ai figlioli. I bambini gli davano da mangiare, ci giocavano insieme e lo mettevano a dormire con loro; Una volta, i bambini andarono a giocare per la strada, e portarono anche il gattino con loro. Il vento faceva muovere i fili di paglia sulla strada, e il gattino gioca‐ va con la paglia, e i bambini si divertivano a guardarlo. Ma poi essi tro‐ varono, poco lontano dalla strada, un po’ di acetosella, si misero a rac‐ coglierla, e si scordarono del gattino. D’improvviso sentirono una voce che gridava forte: — Qua, qua! — e videro un cacciatore a cavallo che veniva di galoppo, e innanzi a lui due cani: i cani avevano avvistato il gattino, e volevano acciuffarlo. E il gatti‐ no, sciocco, invece di scappar via, s’era piantato lì, aveva incurvato la schiena, e fissava i cani. Caterina si spaventò di quei cani, cominciò a gridare e s’allontanò di corsa. Pino, con quanta forza aveva, si slanciò verso il gattino, e gli arrivò sopra nello stesso istante dei cani. I cani vo‐ levano acciuffare il gattino, ma Pino si buttò sul gattino a faccia avanti, e lo nascose ai cani. Sopraggiunse col cavallo il cacciatore, e scacciò via i cani. Pino riportò a casa il gattino, e da quel giorno non lo portò più in campagna. Il figlio istruito. (Favola). Il figlio arrivò dalla città in casa del padre in campagna. Il padre gli disse: — Stiamo falciando il fieno: prendi il rastrello, e vieni ad aiutarmi! — Ma il figlio non aveva voglia di lavorare, e rispose: — Io ho studia‐ to le scienze, e tutte queste parole contadinesche me le sono scordate: che cos’è, un rastrello? Appena uscì sul davanti della casa, mise piede su un rastrello: e il ra‐ strello andò a battergli sulla fronte. Allora si ricordò che cos’era un ra‐ strello, si premette la fronte con la mano, e disse: — Chi sarà stato quel‐ l’imbecille che ha lasciato qua in mezzo il rastrello? 28 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura In che modo gli abitanti di Buchàra impararono ad allevare i bachi da seta. (Racconto dal vero). I Cinesi, per molto tempo, furono soli a conoscere il modo di fabbri‐ care la seta: non insegnavano a nessuno l’arte loro, e vendevano a caro prezzo le stoffe di seta. Il re di Buchàra venne a sapere la cosa, e s’invogliò di procurarsi i ba‐ chi e d’imparare ad allevarli. Egli pregò i Cinesi di fornirgli il seme, tan‐ to dei bachi quanto dei gelsi. Quelli rifiutarono. Allora il re di Buchàra mandò a chiedere in sposa la figlia dell’imperatore dei Cinesi, e fece dire alla fidanzata che, nel suo regno, c’era di tutto in abbondanza, ma una cosa mancava: le stoffe di seta; e dunque bisognava che lei, di nascosto, si portasse dietro il seme dei gelsi e quello dei bachi, altrimenti non si sa‐ rebbe potuta vestire di gala. La principessa raccolse i semi dei bachi e degli alberi, e se li nascose nella benda fra i capelli. Quando, al confine dell’impero, le guardie cinesi si misero a cercare se la principessa portava con sé qualche cosa di contrabbando, non ci fu nessuno che ebbe il coraggio di slegare la sua benda. E gli abitanti di Buchàra coltivarono nel loro paese gli alberi di gelso e i bachi da seta, e la regina insegnò anche a loro il modo di servirsene. Il contadino e la cavalla. (Favola). Un contadino andò in città a comprare l’avena per la cavalla. Appena furono usciti dal paese, la cavalla cominciò a smaniare per tornare indie‐ tro. Il contadino batté la cavalla con la frusta. Essa, allora, tirò innanzi, e fece tra sé: «Chissà questo stupido dove mi porta! Sarebbe meglio tor‐ narsene a casa». Quando furono vicini alla città, il contadino s’avvide che la cavalla fa‐ ticava a camminare nel fango, e la spinse verso il selciato: ma la cavalla scartò via dal selciato. Il contadino batté con la frusta e tirò il morso alla cavalla. Essa, finalmente, si mise sul selciato, ma pensava: «Perché mi avrà cacciato qua sul selciato, per il gusto di rompermi gli zoccoli? Qua, sotto i piedi, è duro!» Il contadino fermò a un bottega, comperò l’avena, e si riavviò; verso casa. Quando fu arrivato a casa, diede alla cavalla l’avena. La cavalla comincia a mangiare, e pensa: «Come sono stupidi gli uomini! Ci tengo‐ Primo libro di lettura 29 no tanto a fare con noialtri le persone intelligenti, mentre, d’intelligenza, ne hanno meno di noi. Perché si è dato tanto da fare? Si è messo in viag‐ gio per non so dove, e dàgli, a farmi camminare. Dopo aver tanto viag‐ giato, abbiamo finito col tornare a casa. Quanto sarebbe stato meglio ri‐ manere addirittura in casa tutt’e due: lui se ne sarebbe stato accanto al fuoco, e io a mangiare l’avena!» La zia racconta in che modo il brigante Emiliano Pugaciòv donò una monetina da dieci centesimi. (Racconto). Io avevo otto anni; si stava nel governatorato di Kazàn, nella nostra campagna. Mi ricordo che il babbo e la mamma cominciarono ad agitar‐ si, e parlavano sempre di un certo Pugaciòv. Solo più tardi io venni a sa‐ pere chi era Pugaciòv il brigante. Costui si faceva chiamare lo zar Pietro III, aveva raccolto un gran numero di altri briganti, e impiccava tutti i signori: i servi, invece, li metteva in libertà. E si diceva appunto che lui e la sua banda non erano, ormai, distanti da noi. Il babbo voleva partire per Kazàn, ma non si decideva a portar via anche noi, che eravamo piccoli, perché il tempo era freddo, e le strade cattive. Era di novembre, eppoi, a viaggiare, c’era anche pericolo. Così, il babbo decise di andare con la mamma a Kazàn, e di là ci promise che sa‐ rebbe tornato a prenderci con una scorta di cosacchi. Loro partirono, e noi restammo sole con la nostra governante Anna Trofímovna, e si abitava insieme giù a pianterreno, tutte in una stanza. Mi pare di vedere ancora come stavamo lì, una sera: la governante a cullare la sorellina piccola e a portarla su e giù per la stanza, ché le face‐ va male la pancetta, e io a vestire la bambola. E intanto Paràscia, la no‐ stra cameriera, e la moglie del diacono, stavano li alla tavola, bevevano il tè e discorrevano, sempre di Pugaciòv. Io vesto la bambola, ma intanto non perdo una parola, di tutti gli spaventi che racconta la moglie del diacono. – Mi rammento, – diceva la donna, – quando dai vicini nostri,a qua‐ ranta miglia di distanza, arrivò Pugaciòv, e impiccò il padrone sul can‐ cello, e ammazzò tutti i bambini. – E in che modo, mascalzoni, li ammazzavano? – domandò Paràscia. – Ecco in che modo, comare mia. Me l’ha detto Ighnàtyč: li prendeva‐ no per i piedini, e li sbattevano alle cantonate. 30 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Via, basta di raccontar questi spaventi in presenza della bambina, – disse allora la governante. – Và, Kàtenka, và a letto, che è ora. Io stavo già per mettermi a letto, quando d’improvviso si sente che bussano al portone, i cani abbaiano, e s’alzano grida. La moglie del diacono e Paràscia corsero a guardare, e subito ritorna‐ rono indietro: – È lui! È lui! La governante, allora, non pensò più se alla sorellina faceva male la pancia: la buttò là sul lettino, corse al baule, tirò fuori una camicetta e un abituccio da contadina. Mi strappo’ tutto di dosso, mi scalzò, e m’infilò quei panni campagnuoli. In testa, mi ci legò un fazzoletto, e mi disse: – Bada, se ti faranno delle domande, tu dì che sei la nipotina mia. Avevano appena fatto in tempo a vestirmi, che già sentiamo, di sopra, un trepestio di stivaloni. Si sentiva ch’erano venuti in tanti. Sopraggiun‐ se di corsa la moglie del diacono. – Lui in persona, lui in persona è arrivato! Ordina che s’ammazzino degli agnelli. Manda a chiedere vino, liquori. Anna Trofímovna risponde: – Dategli di tutto. Ma badate di non dire che ci sono i figli dei padroni. Dite che sono tutti partiti. E questa, dite ch’è la nipotina mia. Tutta quella nottata, la passammo senza dormire. Ogni momento, en‐ travano lì da noi cosacchi ubriachi. Ma Anna Trofímovna non aveva paura di loro. Ogni volta che ne en‐ trava qualcuno, lei gli diceva: – Figlio mio, che t’occorre? Qui, per voial‐ tri, non c’è niente da fare. Bambini piccoli, lo vedete, e io vecchiarella. I cosacchi se ne riandavano. Verso mattina, io m’addormentai; e quando mi svegliai, vidi lì nella stanza un cosacco in pelliccia di velluto verde, e Anna Trofímovna che gli s’inchinava ai piedi. Quell’uomo indicò verso mia sorella, e disse: – Di chi è, questa? — E Anna Trofímovna rispondeva: – È di mia figlia, una nipotina mia. Mia figlia è partita coi padroni, e l’ha lasciata a me. E questa ragazzet‐ ta? — E faceva segno a me. — Anche lei una nipotina, signore. Quello mi chiamò a sé col dito: — Vieni qua, birichina. Io mi inombrii. Ma Anna Trofímovna mi disse: — Và, Kàtenka, non aver paura —. E allora m’accostai là. Quello mi prese per il ganascino, e mi disse: — Guarda che bel visino bianco: diventerà un fior di ragazza! — Cavò di tasca una manciata di monete d’argento, ne scelse una da dieci cen‐ tesimi, e me la diede. Primo libro di lettura 31 — Ecco a te: ricordati dell’imperatore —. E se ne andò. Si trattennero da noi, così, due giorni: mangiarono, bevvero, sfracas‐ sarono tutto: ma non bruciarono niente, e se ne ripartirono. Quando mio padre e mia madre furono di ritorno, non sapevano co‐ me ringraziare Anna Trofímovna: le diedero la libertà, ma lei non la vol‐ le, e fino all’ultimo visse e morí in casa nostra, A me, per scherzo, mi misero nome, da quella volta: «la fidanzata di Pugaciòv». E quella monetina, che mi diede Pugaciòv, io la conservo fi‐ no a oggi: e come ci poso l’occhio, mi tornano in mente quegli anni quand’ero bambina, e la nostra buona Anna Trofímovna. Il vizir Abdul. (Leggenda). Al servizio d’un re persiano c’era un ministro giusto, Abdul. Un gior‐ no, egli passava a cavallo per la città, andando dal re. Ma nella città il popolo s’era radunato a fare una sommossa. Appena videro il vizir, lo circondarono, fermarono il cavallo, e minacciarono di ucciderlo se non faceva come volevano loro. Un uomo arrivò al punto che lo pigliò per la barba, e gliela tirò. Quando il vizir fu lasciato libero, egli andò dal re, e lo pregò che aiu‐ tasse il popolo e non punisse nessuno, sebbene lo avessero offeso così. Il giorno dopo, si presentò dal vizir un bottegaio. Il vizir gli chiese che cosa gli occorreva. Il bottegaio disse: — Io sono venuto a informarti chi è quell’uomo che ti ha offeso ieri. Io lo conosco: è un mio vicino, e si chia‐ ma Nahim. Fallo arrestare, e puniscilo! Il vizir mandò via il bottegaio e fece chiamare Nahim. Nahim indovinò che lo avevano denunciato: si presentò più morto che vivo lì dinanzi al vizir, e gli cadde ai piedi. Il vizir lo sollevò e gli disse: — Io non ti ho mandato a chiamare per punirti, ma soltanto per dirti che tu hai un vicino cattivo. Egli ti ha de‐ nunciato: stà in guardia! E ora, và con Dio. In che modo un ladro si tradí. (Racconto dal vero). Un ladro s’arrampicò, di notte, nella soffitta d’un mercante. Affagottò pellicce e pezze di tela, e fece per svignarsela, ma inciampo’ in una trave 32 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura e fece fracasso. Il mercante udì quel rumore dall’alto, svegliò un garzo‐ ne, e s’avviò con la candela in soffitta. Il garzone, morto di sonno, disse al mercante: — Che volete guardare, non c’è nessuno, sarà stato il gatto! — Ma il mercante salí ugualmente in soffitta. Quando il ladro sentì che veniva gente, ricollocò le pellicce e le pezze di tela dove stavano prima, e cercò un posto dove nascondersi. Vide, da una parte, un gran mucchio di roba. Era un mucchio di tabacco in foglia. Il ladro scavò fra il tabacco, ci s’intrufolò dentro, e si ricoprì di tabac‐ co fin sopra alla testa. Ed ecco che il ladro distingue che sono in due a venire: entrano e parlano fra loro. Il mercante dice: — Io ho sentito che è stata una cosa pesante a fare fracasso —. Ma il garzone risponde: — Chi volete che abbia fatto fracasso! O è stato il gatto, oppure uno di questi spiritelli che stanno nelle case —. Il mercante passò accanto al tabacco, non s’accorse di nulla, e disse: — Si vede proprio che mi è sembrato: non c’è nessuno: bè, andiamo. Il ladro capisce che se ne vanno, e pensa: adesso riprendo ogni cosa, e scappo dalla finestra. Ma d’improvviso sente che nel naso il tabacco gli ha svegliato un pizzicorino, e gli viene da starnutire. Si preme con la mano la bocca, ma il pizzicorino gli diventa sempre più forte, finché non può più far a meno di rompere in uno starnuto. Il mercante e il garzone stavano già uscendo. Sentono che, là in un angolo, qualcuno starnutisce: — Ci! Ci! Ecci! — Tornarono indietro e acciuffarono il ladro. Il carico. (Favola). Due uomini andavano insieme per una strada, e portavano spalla cia‐ scuno il suo carico. Uno lo portò per tutta la strada senza mai posarlo; l’altro, invece, ogni poco si fermava, posava il carico e si sedeva a ri‐ prender fiato. Ma poi doveva ogni volta risollevare il carico e rigettarse‐ lo in spalla. E così, quello che posava il carico fu più stanco, alla fine, di quello che lo aveva portato senza mai posarlo. Il nocciolo. (Racconto dal vero). La mamma aveva comperato le prugne, e voleva darle ai bambini alla fine del pranzo. Intanto, stavano là in un piatto. Giovannino non aveva Primo libro di lettura 33 mangiato mai le prugne: tornava sempre a odorarle, e gli piacevano mol‐ to. Aveva una gran voglia di mangiarle e girava e rigirava intorno a quelle prugne. In un momento che nella stanza non c’era nessuno, lui non seppe più frenarsi, afferrò una prugna e la mangiò. Prima di pranzo, la mamma contò le prugne, vide che ne mancava una, e lo disse al babbo. Mentre pranzavano, il babbo disse: – Sentite, bambini: qualcuno di voi ha mangiato una prugna? – Tutti dissero: – No! – Giovannino diven‐ tò rosso come un gambero, e disse anche lui: – No, io non l’ho mangiata. Allora il babbo disse: – Se qualcuno di voi l’ha mangiata, non è certo una bella cosa; ma il peggio non sta qui. Il peggio è che nelle prugne ci sono i noccioli, e se uno non sa il modo di mangiarle, e manda giù uno di questi noccioli, in giornata muore. È questo che mi dà pensiero. Giovannino diventò bianco, e disse: – No, io il nocciolo l’ho buttato dalla finestra. Allora tutti scoppiarono a ridere, e Giovannino scoppiò a piangere. I due mercanti. (Favola). Un mercante povero si mise in viaggio, e tutte le ferramenta che pos‐ sedeva le affidò in custodia a un mercante ricco. Quando fu di ritorno, andò dal mercante ricco e gli chiese di nuovo il suo ferro. Il mercante ricco aveva venduto tutte quelle ferramenta, e ora, per scusarsi in qualche modo, disse: – Al tuo ferro gli è successa una disgra‐ zia. – E che cosa? – Ma io lo avevo riposto nel granaio. Là, di sorci, ce n’è un subisso. E tutto il ferro se lo sono rosicato loro. Ho visto io stesso come lo rosicava‐ no. Se non ci credi, và a guardare da te. Il mercante povero non si mise a discutere. Disse: – Che bisogno c’è di andare a guardare! Io ci credo lo stesso. Lo so anch’io che i sorci hanno il vizio di rodere il ferro. Arrivederci! – E il mercante povero se ne andò. Per la strada vide un bambino che stava giocando: era il figlio del mercante ricco. Il mercante povero fece le carezze al bambino, lo prese in braccio e lo portò a casa sua. Il giorno dopo, il mercante ricco s’incontra col povero, gli racconta di questa sua sventura, che aveva smarrito il figlioletto, e gli domanda: – Tu non lo hai veduto, per caso? Non ne hai sentito dire niente? 34 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il mercante povero, allora, gli risponde: – Come no, l’ho veduto! Sta‐ vo uscendo iersera da casa tua, quando vedo un falco che s’avventa di‐ ritto diritto sul tuo bambino, lo afferra e lo porta via. Il mercante ricco andò in collera, e disse: – Ti dovresti vergognare a riderti di me! Ti pare una cosa credibile che un falco possa portare via un bambino? – No, io non mi rido di te. C’è da meravigliarsi che un falco abbia por‐ tato via un bambino, una volta che i sorci hanno mangiato cento chili di ferro? Tutto può accadere. Allora il mercante ricco comprese, e disse: – I sorci non hanno man‐ giato il tuo ferro: io l’ho venduto, e io te lo ripagherò due volte tanto. – Se è così, anche il falco non ha portato via tuo figlio: e io te lo rende‐ rò. I cani del San Gottardo. (Descrizione). L’Italia e la Svizzera sono confinanti. Fra i due paesi ci sono le mon‐ tagne delle Alpi. Queste montagne sono tanto alte che la neve, sopra, non si scioglie mai. Per andare dall’Italia alla Svizzera, bisogna attraver‐ sare queste montagne. La strada passa attraverso la montagna del San Gottardo. Proprio sulla vetta di questa montagna, sorge sulla strada un convento. E in questo convento abitano dei frati. Questi frati pregano il Signore e danno ristoro ai viaggiatori e albergo per la notte. Sul San Gottardo il cielo è sempre chiuso: d’estate c’è la neb‐ bia e non si vede niente. D’inverno, poi, ci fanno certe tormente, che ammassano fino a quattro metri di neve. E i passanti, sia in carrozza sia a piedi, spesso rimangono assiderati in queste tormente. I frati tengono dei cani. E questi cani sono ammaestrati a ricercare fra la neve le perso‐ ne. Una volta, per la strada che porta in Svizzera, camminava una donna con un bambinello. Cominciò la tormenta, la donna smarrì la strada, s’accucciò fra la neve e s’intirizzì. I frati uscirono coi cani e trovarono la donna col bambinello. I frati riscaldarono il bambinello e gli diedero da mangiare. Ma la donna, quando la portarono su, era già morta; e la sep‐ pellirono nel loro convento. Primo libro di lettura 35 Un contadino racconta perché vuol bene al fratello maggiore. (Racconto). Io, a mio fratello, gli voglio bene anche così, ma più di tutto gli voglio bene perché ha fatto il soldato al posto mio. Ecco come andò la faccenda. Cominciarono a tirare a sorte, e la sorte toccò a me. Bisognava che io andassi a fare il soldato: e io, in quei momenti, era una settimana che a‐ vevo sposato. Non mi piaceva davvero, lasciare la giovane sposa. Mammina si mise a lamentarsi e a dire: – Come farà Pietruccio a par‐ tire, che è così piccolo! – Ma non c’era niente da fare: cominciarono a prepararmi la roba. La sposa mi cucì le camicie, mi raggranellò un po’ di denaro; e senz’altro, come domani, si sarebbe dovuto andare in città, al distretto. Mia madre si finiva dal piangere, e io, quando pensavo che dovevo partire, mi sentivo stringere il cuore come se andassi alla morte. Ci riunimmo tutti, la sera, a cena. Ma nessuno aveva voglia di man‐ giare. Il mio fratello più grande, Nicola, restava sdraiato sulla stufa, e non faceva parola. La mia sposetta piangeva. Il babbo stava lì di malu‐ more. La minestra, come mammina l’aveva posta in tavola così era rima‐ sta, senza che la toccasse nessuno. Allora nostra madre chiamò giù Nicola, che scendesse dalla stufa a cenare. Egli scese, si fece il segno della croce, si sedette a tavola, ed ecco che dice: – Non ti disperare tanto, mammina! Andrò io al posto di Pietro a fare il soldato: io sono più grande di lui. Vedrai che me la caverò. Farò il mio dovere, e poi me ne tornerò a casa. Ma tu, Pietro, mentre io starò lontano, consola il babbo e la mamma, e non far torto a mia moglie! – Io mi sentii rinascere; nostra madre, anche lei, smise di lamentarsi; e si mi‐ sero a preparar la roba per Nicola. Al mattino, quando mi svegliai, appena mi si presentò quel pensiero che al posto mio partiva mio fratello, mi sentii venir male. Prendo e dico: − Non muoverti, Nicola, la sorte è toccata a me, e io me ne partirò! – Lui zitto, e si prepara. E anch’io mi preparo. Così ce n’andammo tutt’e due in città, al distretto. Lui si presenta alla visita, e anch’io mi presento. Eravamo tutt’e due ragazzi forti: restiamo lì ad aspettare la risposta: non ci scartarono. Mio fratello, allora, mi dà un’occhiata, scoppia a ride‐ re e fa: – Basta, Pietro, vattene a casa. E non datevi pena di me, che io sono contento di partire. Io ruppi a piangere, e tornai a casa. E adesso, come penso al mio fra‐ tello maggiore, mi pare che per lui darei la vita. 36 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura In che modo ammazzai la mia prima lepre. (Racconto d’un signore). Io avevo, per uomo d’accompagno, un certo Ivàn Andrèič. Egli m’insegnò a sparare che avevo appena tredici anni. Mi procurò un pic‐ colo fuciletto e mi ci faceva tirare quando si andava a passeggio. E io, una volta ammazzai una gracchia, e un’altra volta una pica. Ma il babbo non sapeva che ero buono a tirare. Un giorno, era d’autunno, e precisamente l’onomastico della mamma, noi stavamo aspettando lo zio a pranzo, e io m’ero messo in finestra a guardar da quella parte di dove doveva arrivare, mentre il babbo cam‐ minava per la stanza. Vidi a un tratto, di dietro al boschetto, i quattro cavalli grigi e la carrozza, e gridai: — Arriva! Arriva! Il babbo s’affacciò alla finestra, vide la carrozza, prese il berretto e gli uscì incontro sul pianerottolo d’ingresso. Io gli corsi dietro. Il babbo sa‐ lutò lo zio, e gli disse: — Smonta, dunque! — Ma lo zio disse: — No, prendi il fucile piuttosto, e vieni con me. Laggiù, vedi? Appena dietro al boschetto, c’è un bel leprone accovacciato fra il grano in erba. Prendi il fucile, e arriviamo là con la carrozza: lo ammazzeremo —. Il babbo si fe‐ ce portare il giaccone e il fucile, e io corsi su in camera, al piano di sopra, mi misi il cappello e presi il fucile mio. Quando il babbo fu montato ac‐ canto allo zio in carrozza, io col fucile m’aggrappai di dietro, al portaba‐ gagli, in modo che nessuno mi poteva vedere. Appena la carrozza ebbe oltrepassato il boschetto, lo zio ordinò al cocchiere che fermasse; s’alzò, e disse: — Vedi laggiù, in quel fossatello, quella cosa grigia? A destra c’è un cespugliolo, e a sinistra, a cinque pas‐ si di distanza...lo vedi? — Il babbo stette un pezzo a guardare, ma non riusciva a vedere niente. Da parte mia, così dal basso, la vista mi rima‐ neva tutta chiusa. Alla fine, il babbo avvistò il punto, e insieme con lo zio s’inoltrarono per il campo. Il babbo teneva il fucile tra mano, e lo zio continuava a far‐ gli segno. Io venivo dietro col mio fucile, e non riuscivo a vedere niente. Ma ero contento perché non s’erano accorti di me. Facemmo così cento passi. Il babbo si fermò, fece per puntare il fucile, ma lo zio lo trattenne. — No, è lontano ancora, andiamo avanti. Si lascia avvicinare di più —. Il babbo gli diede retta, ma avevano fatto pochi altri passi, che la lepre scattò, e allora fu che la vidi. Era un leprone grosso, quasi bianco: solo il fil della schiena era argentato. Scattò, alzò un orec‐ chio, e a piccoli salti cominciò a dilungarsi da noi. Il babbo pigliò la mira: bum! La lepre seguita a correre. Il babbo spara da quell’altra canna. La Primo libro di lettura 37 lepre corre sempre. Io, ormai, non pensavo più né al babbo né a tutto il resto. Pigliai la mira, così alle loro spalle: bum! Guardo, e non credo ne‐ anch’io ai miei occhi: la lepre aveva fatto una capriola, stava là in terra, e solo con la zampa di dietro annaspava. Il babbo e lo zio si voltarono: — E tu, di dove sei scaturito? Bravo il nostro giovanotto! — E da quel giorno mi diedero il fucile, e mi permise‐ ro di tirare. Mignolino. (Leggenda). Un uomo povero aveva sette figli, uno più piccino dell’altro. Il più piccino di tutti era così piccolo, che quando era nato, non era più grosso d’un dito. Poi era cresciuto un pochino, ma era sempre rimasto di poco piú grosso d’un dito: e per questo gli avevano messo nome Mignolino. Ma Mignolino, benché fosse piccolo, era molto svelto e furbo. Il padre e la madre diventarono sempre più poveri, e alla fine si ri‐ dussero in tanta miseria, che non avevano più nemmeno un boccone da dar da mangiare ai figlioli. Si consigliarono, si consigliarono fra loro, e decisero di portare i bambini nel bosco, più lontano possibile, e là ab‐ bandonarli, in modo che a casa non tornassero più. Mentre il padre e la madre parlavano di queste cose, Mignolino non dormiva e ascoltava o‐ gni parola. Al mattino, Mignolino si svegliò prima di tutti, corse al fiu‐ micello, e si riempì le tasche di sassolini bianchi. Quando il padre e la madre condussero i bambini nel bosco, Mignolino andava dietro per ul‐ timo, e ogni tanto prendeva di tasca un sassolino e lo gettava sulla stra‐ da. Allorché il padre e la madre ebbero portato i bambini ben lontano nel bosco, scivolarono dietro agli alberi e fuggirono via. I bambini comincia‐ rono a chiamarli, e quando s’avvidero che non veniva nessuno, si misero a piangere. Soltanto Mignolino non piangeva. Egli gridava agli altri, con la sua voce fina fina: — Smettetela di piangere, vi porterò io fuori del bosco! — Ma i fratelli piangevano tanto forte, che non lo sentivano. Quando fi‐ nalmente l’ebbero sentito, lui li avvisò che aveva gettato lungo la strada tutti quei sassolini bianchi, e così avrebbe potuto condurli fuori del bo‐ sco: e quelli si rallegrarono, e gli andarono appresso. Mignolino s’avanzava di sassolino in sassolino, e in questo snodo li ricondusse fino a casa. 38 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Proprio quello stesso giorno che il padre e la madre avevano portato i bambini via per il bosco, era arrivato al padre un po’ di denaro. E il pa‐ dre e la madre stavano dicendo: — Perché abbiamo portato i nostri figli nel bosco? Essi, laggiù, perderanno la vita. E pensare che adesso il dena‐ ro non ci manca, e potremmo dar da mangiare in abbondanza a quei bambini! — La madre si mise a piangere, e disse: — Ah, se quei bambini fossero qua con noi! — Allora Mignolino, che stava sotto la finestra, la udì, e disse: — Eccoci qua! La madre si rallegrò tutta, corse alla porta, e tutti i bambini; uno die‐ tro l’altro, entrarono in casa. Comperarono tutto quello che bisognava, e ricominciarono a vivere come prima; e vissero bene, fino a quando il denaro non fu terminato. Ma il denaro terminò un’altra volta, e un’altra volta padre e madre ri‐ cominciarono a chiedersi come potevano fare, e un’altra volta decisero di portare i bambini nel bosco, e abbandonarli là. Mignolino, anche questa volta, sentì quel che dicevano, e appena fu giorno, zitto zitto, fece per andare al fiumicello a prendere i sassolini. Si accostò alla porta e cercò d’aprire, ma la porta era chiusa col saliscendi; lui cercò di spostarlo, ma per quanto s’arrabattasse, non riuscì ad arriva‐ re fino al saliscendi. I sassolini, così, non gli fu possibile raccoglierli: e allora prese, del pa‐ ne. Se lo mise in tasca e pensò: quando ci porteranno via, io butterò tante briciole di questo pane lungo la strada, e appresso alle briciole ricondur‐ rò i miei fratelli in casa. Il padre e la madre condussero un’altra volta i bambini nel, bosco, e là li abbandonarono; e un’altra volta Mignolino gettò lungo la strada tante briciole di pane. Quando i fratelli più grandi cominciarono a piangere, Mignolino promise un’altra volta di portarli in salvo. Ma questa volta, però, non riuscì a ritrovare la strada, perché gli uc‐ celli s’erano beccate tutte quante le briciole del pane. I bambini camminarono, camminarono per il bosco senza trovare la strada, fin tanto che fece notte fonda. Piansero, piansero, e poi s’addormentarono tutti. Mignolino fu il primo a risvegliarsi; e s’ar‐ rampicò su un albero: guardò tutt’intorno, e vide una capannella. Scese dall’albero, svegliò i fratelli e li condusse a quella capannella. Provarono a bussare, e apparve sulla porta una vecchietta, e doman‐ dò che cosa volevano. Loro dissero che s’erano perduti nel bosco. Allora la vecchietta li fece entrare in casa, e disse: — Ho pena di voi, che siete venuti qui! Mio marito è un orco. E se lui vi vede, vi mangia. Mi fate Primo libro di lettura 39 proprio pena. Nascondetevi qua sotto il letto, e domani vi farò scappar via! —. I bambini si spaventarono, e s’appiattarono sotto il letto. D’im‐ provviso sentono qualcuno che bussa alla porta, e entra nella stanza. Mignolino sbirciò da sotto il letto, e che cosa vide? Il terribile orco s’era seduto a tavola, e gridava alla vecchietta: — Dà qua il vino! — La vecchia gli diede il vino; quello bevve, e poi cominciò a fiutare: — Cosa c’è qua dentro, che manda quest’odore d’uomo? Tu hai nascosto qual‐ cuno? — La vecchietta insisteva che non c’era nessuno, ma l’orco si mise a fiu‐ tare sempre più alle strette, e così, guidandosi col fiuto, arrivò al letto. Si mise a spazzare con le mani sotto al letto, acchiappo’ per una gambetta Mignolino, e gridò: — Ah, eccoli qua! — E li tirò fuori tutti quanti, e fece grandi feste. Poi prese un coltello, e si preparò a squartarli, ma la moglie lo trattenne. Essa gli disse: — Vedi come sono magri e patiti: ingrassia‐ moli un pochino, diventeranno più freschi e gustosi! — L’orco le diede ascolto: le ordinò che li facesse ingrassare e li mettesse a dormire insieme con le loro figliolette. Infatti l’orco aveva sette figliolette, piccoline come i fratelli di Migno‐ lino. Queste figliolette, si coricavano e dormivano tutte in un letto, e o‐ gnuna teneva in capo una cuffietta d’oro. Mignolino notò la cosa, e quando l’orco e la moglie se ne furono andati, pian pianino tolse le cuf‐ fiette alle figlie dell’orco, se le infilò lui coi fratelli, e i berrettini, che ave‐ vano lui e i suoi fratelli, li mise in testa alle bambine. Tutta la notte l’orco continuò a bere vino. E quando ebbe bevuto ben bene, gli tornò voglia di mangiare. S’alzò e andò in quella stanza dove stavano a dormire Mignolino coi suoi fratelli e le sette bambine. Si avvi‐ cinò ai ragazzetti, tastò sulle loro teste le cuffiette d’oro, e disse: — Ma guarda, sono tanto ubriaco che per un capello non ho sgozzato le figlie mie! — Lasciò i maschietti e andò dalle figlie: tastò in capo a quelle i ber‐ rettini flosci, e le sgozzò dalla prima all’ultima: poi s’addormentò. Allora Mignolino fece levare i fratelli, aprì la porta e fuggì con loro nel bosco. Tutta quella notte, e tutto il giorno dopo, i bambini camminarono sempre, eppure non vennero a capo di uscire dal bosco. Intanto l’orco, quando la mattina si svegliò, e vide che invece di quei figli d’altri aveva sgozzato i figli suoi, calzò gli stivali delle sette leghe e corse al bosco a cercare i bambini. E bisogna sapere che questi stivali delle sette leghe erano fatti in mo‐ do, che chi li calzava, ogni passo che faceva, percorreva sette leghe. 40 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura L’orco cercò, cercò i bambini, ma non li trovò, e alla fine, poco distan‐ te da loro, si fermò a riposare, e s’addormentò. Mignolino avvistò l’orco che dormiva, gli s’accostò chiotto chiotto, gli cavò di tasca una manciata di monete d’oro, e le distribuì ai fratelli. Poi, pian pianino, gli sfilò gli stivali. Quando glieli ebbe sfilati, calzò lui stes‐ so quegli stivali delle sette leghe, disse ai fratelli che si prendessero forte per mano, e si tenessero ben attaccati a lui. E lui si slanciò a correre così alla svelta, che in un lampo uscì fuori dal bosco e si ritrovò a casa sua. Quando furono tornati, diedero quell’oro ai genitori. E così diventa‐ rono ricchi, e non accadde più che li cacciassero di casa. Lo sciocco. (Leggenda in versi). Volle uno sciocco girar la Russia, vedere gente, farsi presente. Vide lo sciocco due case vuote: guardò in cantina: là in fondo, diavoli col capo a punta, occhi a cucchiaio, baffi a forchetta, mani a rastrello, giocano a carte, tirano i dadi, contano i soldi. Disse lo sciocco: —Che Dio vi aiuti, buoni cristiani! — Non piacque ai diavoli, che lo agguantarono, lo briscolarono, lo soffocarono: poi mezzo morto lo abbandonarono. Torna lo sciocco Primo libro di lettura a casa urlando, piagnucolando. Mamma a sgridarlo, moglie e sorella a rimbrottarlo: — Un grande sciocco sei tu, Babino: non a quel modo dovevi dire! — Dovevi dire: «Nemico, Iddio ti maledica!» Allora i diavoli via come il vento, e tu d’argento ti caricavi, non di legnate! — Va bene, moglie, si, mogliettina, mamma Pasquetta, sorella Betta, sciocco son stato, non sarò più! — E andò lo sciocco via per la Russia a veder gente, farsi presente. Vide lo sciocco quattro fratelli: coi correggiati battono il grano. Dice ai fratelli: — Nemico, Iddio ti maledica! Quelli lo acchiappano in quattro insieme, e lo stangarono, e lo tritarono: poi mezzo morto lo abbandonarono. Torna lo sciocco a casa urlando, 41 42 piagnucolando. Mamma a sgridarlo, moglie e sorella a rimbrottarlo: — Un grande sciocco sei tu, Babino: non a quel modo dovevi dire! Dovevi dire: «Che Dio vi aiuti: così possiate far cento sacchi per ogni dí: ed ogni tribolo lontan di qui! » — Va bene, moglie, si, mogliettina, mamma Pasquetta, sorella Betta, sciocco son stato, non sarò piú! — E andò lo sciocco via per la Russia a veder gente, farsi presente. Vede lo sciocco sette fratelli: portan la madre al camposanto: piangono tutti, urlano forte. E lui gli dice: — Che Dio vi aiuti, da bravi, in sette, a seppellire la vostra madre: così possiate portarne cento per ogni dí: ed ogni tribolo L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Primo libro di lettura lontan di qui! — Quelli lo acchiappano in sette insieme: lo malmenarono, lo taroccarono, in mezzo al fango lo rotolarono: poi mezzo morto lo abbandonarono. E va, lo sciocco, a casa urlando, piagnucolando. Mamma a sgridarlo, moglie e sorella a rimbrottarlo: — Sei un grande sciocco, non a quel modo dovevi dire! Dovevi dire: «Incenso e preci! Che Iddio vi prenda nella sua gloria, in Paradiso!» Così tu, sciocco, ti rimpinzavi di buon risotto e di frittelle! — Va bene, moglie, si, mogliettina, mamma Pasquetta, sorella Betta, sciocco son stato, non sarò più! — E andò lo sciocco via per la Russia a veder gente, farsi presente. Incontra un grande corteo di sposi, e lui gli dice: 43 44 — Incenso e preci! Che Iddio vi prenda nella sua gloria, in Paradiso! — Saltano fuori quei giovanotti, e giù allo sciocco: lo bastonarono, lo scardassarono, perfino in faccia lo scudisciarono. Se ne va in lacrime, cammina e piange. Mamma a sgridarlo, moglie e sorella a rimbrottarlo: — Un grande sciocco sei tu, Babino: non a quel modo dovevi dire! Dovevi dire: «Dio vi conceda, mio re e regina, il sacramento del matrimonio: viver d’accordo e aver figlioli!» — Si si, finora sciocco son stato, non sarò più! — E andò lo sciocco via per la Russia a veder gente, farsi presente. Gli viene incontro un eremita. E lui gli dice: — Dio ti conceda il sacramento del matrimonio: L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Primo libro di lettura viver d’accordo e aver figlioli! — Lo agguanta il vecchio per il colletto, e giù a picchiarlo, a tempestarlo con quel bastone, fino a spezzarlo. Torna lo sciocco a casa, e piange. Mamma a sgridarlo, moglie e sorella a rimbrottarlo: — Un grande sciocco sei tu, Babino: non a quel modo dovevi dire! Dovevi dire: «Oh padre santo, deh, benedicimi!» Va bene, moglie, si, mogliettina, mamma Pasquetta, sorella Betta: sciocco son stato, non sarò più! — E andò lo sciocco via per la Russia, dentro una selva. Vide lo sciocco, nel folto, un orso: l’orso fra i pini sbrana una vacca. E lui gli dice: — Oh padre santo, deh, benedicimi! — S’avventa l’orso, piglia lo sciocco, e giù a sgraffiarlo, 45 46 a massacrarlo: poi mezzo morto lo lascia a terra. Torna lo sciocco a casa urlando, piagnucolando. Lo dice a mamma. Mamma a sgridarlo, moglie e sorella a rimbrottarlo: — Un grande sciocco sei tu, Babino: non a quel modo dovevi dire! Dovevi aizzarlo, fargli l’urlata, la chiucchiurlaia! —Va bene, moglie, si mogliettina, mamma Pasquetta, sorella Betta: sciocco son stato, non sarò più. — E andò lo sciocco via per la Russia a veder gente, farsi presente. Mentre s’avanza in campo aperto, gli viene incontro un generale. E lui l’aizza, gli fa l’urlata, la chiucchiurlaia. Il generale chiama i soldati: quelli lo agguantano, e giù a pestarlo... E lì alla fine, povero sciocco, L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Primo libro di lettura l’ossa lasciò. L’eroe Svjatagòr. (Leggenda in versi). Cavalca Svjatagòr in campo aperto, e non trova nessuno da affrontare, da provar la sua forza di gigante: ed egli sente in sé una forza immensa, se la sente giocare nelle vene. E dice Svjatagòr superbamente: — Se con questa mia forza di gigante trovo un puntello, sollevo la terra —. Detto appena così, vede un viandante lontano per la steppa, sacco a spalla: e indirizza il cavallo a quel viandante. Avanza al trotto, e quello è sempre innanzi: si lancia a tutta corsa, e non lo arriva. Allora Svjatagòr gridò a gran voce: — Oh quell’uomo, viandante, aspetta un poco, ché non t’arrivo col mio buon cavallo —. Di lontano il viandante l’ha sentito, s’è fermato, scarica il sacco a terra. S’accosta Svjatagòr a questo sacco, col suo frustino lo tocca e ritocca: fermo sta il sacco, come radicato, Di sella, allora, col dito lo stuzzica, ma non dà volta il sacco, non si sposta. Di sella Svjatagòr lo agguanta, tira: non s’alza il sacco, come radicato. Allora Svjatagòr scese di sella, s’aggiustò bene, lo afferrò a due mani, con tutta la sua forza di gigante scattò: sul bianco viso affiorò il sangue, ma alzò il sacco da terra appena un filo. E a mezza gamba intanto era affondato egli nella feconda terra madre. Esclama qui Svjatagòr a gran voce: —Dimmi, viandante, la verità santa: che cosa, dì, nel sacco sta racchiuso? — 47 48 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura E gli dice il viandante di rimando: — Nel sacco è il peso della terra madre —. Allora Svjatagòr dice al viandante: — Ma tu chi sei, come ti fai chiamare? — E gli dice il viandante di rimando: — Son Mikula124, il villano, il contadino: mi vuol bene la terra nostra madre. Forma contadinesca per Nicolaj, Nicola. 124 Secondo libro di lettura La bambina e i funghi. (Racconto dal vero) Due bambine tornavano a casa con un po’ di funghi. Esse dovevano attraversare la linea ferroviaria. Pensando che il treno fosse lontano, s’arrampicarono sul terrapieno e passarono attraverso i binari. D’improvviso si sentì il rumore del treno. La bambina più grande tornò indietro di corsa; la più piccola, di corsa anche lei, s’inoltrò in mezzo alla linea. La più grande gridò alla sorella: — Non tornare indietro. Ma il treno era così vicino e faceva tanto rumore, che la bambina più piccola non udì bene: capì di dover tornare indietro. Tornò indietro di corsa scavalcando i binari, inciampo’, fece cadere i funghi, e si mise a raccogliergli. Il treno era già vicino, e il macchinista fischiava a più non posso. La bambina più grande gridò: — Lascia stare i funghi! — ma la bam‐ bina più piccola capì che doveva raccoglierli, e s’attardava accucciata là in mezzo alla linea. Il macchinista non riuscì a fermare il treno. Fischiando a più non pos‐ so, la macchina investì la bambina. La sorella più grande gridava e piangeva. Tutti i viaggiatori s’erano affacciati ai finestrini dei vagoni, e il capotreno corse in coda al treno, per vedere che cosa era accaduto alla bambina. Quando il treno fu passato, tutti videro che la bambina stava stesa fra le verghe delle rotaie con la testa contro terra, e non faceva il più piccolo movimento. Poi, quando il treno si fu ben scostato da lei, la bambina sollevò la te‐ sta, si rizzò sulle ginocchia, raccattò tutti i funghi, e di corsa tornò dalla sorella. L’asino nella pelle del leone. (Favola). Un asino aveva indossato la pelle d’un leone, e tutti credevano che fosse un leone. Uomini e bestie scappavano via. Levò il vento, la pelle s’apri, e apparve l’asino. La gente accorse: e l’asino fu caricato di legnate. 52 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura La rugiada sull’erba. (Descrizione). Quando, una bella mattina d’estate, tu vai in un bosco, o in mezzo ai campi, vedi sparsi sull’erba tanti brillanti. Questi brillanti risplendono e giocano sotto il sole con tanti colori diversi: giallo, rosso, azzurro. Quan‐ do ti accosti più da vicino, e guardi bene che cosa sono, ti accorgi che sono gocce di rugiada posate su foglie d’erba a tre lobi, di dove risplen‐ dono al sole. Si tratta di un’erba che ha le foglioline pelose all’interno e soffici come velluto. E le gocce rotolano sulla foglia senza bagnarla. Se strappi sbadatamente una di queste foglioline che sostengono la rugiada, la gocciolina rotola giù come una pallina luccicante e, prima che te ne accorgi, è già scivolata via per il gambo. Ma se cogli una di queste tazzettine, te l’accosti pian piano alla bocca, e riesci a berne la goccia di rugiada, quella rugiada ti parrà più gustosa di qualunque bevanda. La gallina e la rondine. (Favola). Una gallina trovò certe uova di serpe, e si mise a covarle. La vide una rondine, e disse: — Guarda, guarda che stupida! Tu ne farai sbocciare i serpi, e quando quelli saranno cresciuti, assaliranno per prima te! L’Indiano e l’Inglese. (Racconto dal vero). Gl’Indiani avevano fatto prigioniero in guerra un giovane Inglese: lo legarono a un albero, e volevano ucciderlo. Un vecchio Indiano s’avvicinò e disse: — Non lo uccidete: datelo a me. E a lui fu dato. Il vecchio Indiano slegò l’Inglese, lo portò alla sua capanna, gli diede da mangiare e gli preparò da dormire. La mattina dopo, l’Indiano ordinò all’Inglese che lo seguisse. Cam‐ minarono un pezzo, e quando furono vicini all’accampamento inglese, l’Indiano disse: Secondo libro di lettura 53 — I tuoi compagni hanno ucciso mio figlio, e io ti ho salvato la vita: tu torna pure dai tuoi, e continua a ucciderci. L’Inglese restò meravigliato, e disse: — Perché tu ti beffi di me? Io so che i miei compagni hanno ucciso tuo figlio: uccidimi dunque, senza farla più lunga. Allora l’Indiano disse: — Quando stavano per ucciderti, io mi sono ricordato di mio figlio, e m’è venuta compassione di te. Io non dico per beffa: torna dai tuoi, e continua a ucciderci, se così ti pare! — E l’Indiano lasciò libero l’Ingle‐ se. Il cervo e il cerbiatto. (Favola). Un cerbiatto disse una volta a un cervo: — Babbo, tu sei più grosso e più svelto dei cani, e per dippiù hai certe corna così grandi per difenderti: come mai, dunque, hai tanta paura dei cani? Il cervo si mise a ridere e disse: — Dici la verità, figliolo mio! Il guaio è uno solo: appena sento ab‐ baiare i cani, prima ancora di fare un pensiero qualsiasi, già scappo. Il corpettino. (Racconto dal vero). Un contadino s’era messo a commerciare, e s’era tanto arricchito, che era diventato il primo riccone della città. Teneva sotto di sé centinaia di commessi, e anzi non li conosceva neanche tutti per nome. Un giorno, mancarono al commerciante ventimila rubli. I commessi più anziani si misero a far le ricerche, e finalmente trovarono quello che aveva rubato il denaro. Uno dei commessi anziani andò dal mercante e gli disse: — Io ho tro‐ vato il ladro. Bisogna mandarlo in Siberia. Il mercante disse: — Chi è che ha rubato? Il commesso disse: — Ivàn Petròv, lo ha confessato lui stesso. Il mer‐ cante pensò un momento, poi disse: — Ivàn Petròv va perdonato. Il commesso si meravigliò e disse: — Come, va perdonato? Così an‐ che gli altri commessi agiranno allo stesso modo: faranno man bassa di tutto. 54 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Ma il mercante disse: — Ivàn Petròv va perdonato. Quando io entrai in commercio, io e lui eravamo compagni. Quando presi moglie, non sa‐ pevo come vestirmi per lo sposalizio. Fu lui che mi prestò il suo corpet‐ tino. Ivàn Petròv va perdonato. E così tutto fu perdonato a Ivàn Petròv. La volpe e l’uva. (Favola). Una volpe vide pendere in aria certi grappoli d’uva ben maturi, e si mise a cercare il modo e la maniera di arrivare a mangiarli. Essa s’arrabattò per un pezzo, ma non riuscì ad arrivarci. Per mandar giù la rabbia, disse: — Sono acerbi, ancora! La fortuna. (Racconto dal vero). Certi uomini erano sbarcati su un’isola, dove c’era abbondanza di pietre preziose. Gli uomini si sforzavano di trovarne più che potevano: poco mangiavano, poco dormivano, e stavano sempre a lavorare. Uno solo non faceva mai niente: se ne stava li fermo fermo, mangiava, beveva e dormiva. Quando venne l’ora di tornare a casa, gli altri svegliarono quest’uo‐ mo, e gli dissero: — E tu, con che cosa tornerai a casa? Quello prese a casaccio una manciata di terra che aveva lì sotto i pie‐ di, e se la mise nel sacco. Quando tutti furono in casa, l’uomo cavò dal sacco la sua terra, e ci trovò una pietra più preziosa di tutte le altre messe insieme. Le operaie e il gallo. (Favola). Una padrona svegliava di notte le sue operaie e, al primo canto del gallo, le metteva al lavoro. Alle operaie questa vita riusciva dura, e pensarono d’ammazzare il gallo, in modo che non svegliasse più la padrona. Lo ammazzarono, e fu Secondo libro di lettura 55 peggio: la padrona, per timore di non svegliarsi a tempo, da quel giorno in poi fece alzare le operaie ancora più di buonora. La macchina che gira da sola. (Racconto dal vero). Un contadino s’era impratichito nella costruzione dei mulini, e si mi‐ se a fabbricare mulini ad acqua, a vento e a cavalli. Poi gli venne l’idea di congegnare un mulino fatto in modo che non avesse bisogno né d’acqua, né di vento, né di cavalli: voleva congegnarlo in modo che una pietra pesante scendesse in basso, e col suo peso faces‐ se girare una ruota, poi di nuovo si sollevasse in alto, e di nuovo rica‐ desse giù: e così il mulino andasse da solo. Il contadino si recò dal padrone e gli disse: — Io ho ideato un mulino fatto in modo che dovrà andare da solo, senz’acqua e senza cavalli: ba‐ sterà metterlo in moto, e quello seguiterà a girare finché tu non lo ferme‐ rai. Mi mancano soltanto i denari per il legname e per il ferro. Dammi tu, padrone, un migliaio di lire, e io fabbricherò questo mulino per te prima di tutti. Il padrone domandò al contadino se sapeva leggere. Il contadino rispose di no. Allora il padrone gli disse: — Ecco, se tu sapevi leggere, io ti avrei da‐ to un libretto di meccanica, e lì avresti letto quello che c’è scritto a pro‐ posito dei mulini come il tuo, e avresti veduto che un mulino così non è possibile fabbricarlo, e che già molte persone istruite hanno perso il cer‐ vello per questa idea d’inventare un mulino che andasse da solo. Il contadino non credette al padrone, e rispose: — Nei vostri libri ci sono scritte tante sciocchezze! Per esempio, c’è stato un meccanico con tanto d’istruzione, che ha montato un vaglio per il grano a un negozian‐ te in città, e glielo ha guastato e nient’altro. Invece io, che sono un igno‐ rante, appena ci ho dato un’occhiata ho subito capito: ha raggiustato una manovella, e il vaglio ha cominciato a lavorare. Il padrone gli disse: — Dì un po’: in che modo vorresti far risalire la tua pietra, quando sarà scesa in basso? Il contadino rispose: — Risalirà da sola, con la ruota stessa. Il padrone disse: — Risalirà, ma fino a un punto più basso di prima, e la seconda volta a un punto ancora più basso, e poi si fermerà, qualun‐ que specie di ruote tu cerchi di congegnare. È la stessa cosa come quan‐ do, con una slitta, vieni giù da una grande altura: potrai risalire su un’al‐ 56 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura tura più piccola, ma da quella più piccola non potrai mai risalire indietro su quella grande. Il contadino non gli credette: andò da un commerciante, e gli promise di fabbricargli un mulino senz’acqua e senza cavalli. Il commerciante sborsò il denaro. Il contadino si mise a fare, a disfare, consumò nella faccenda tutt’e mille le lire, ma il mulino non andava. Allora il contadino cominciò a vendere del suo, e a forza di tentativi si ridusse al verde. Ma il commerciante gli diceva: — O tu mi dai il mulino che va da so‐ lo, oppure mi ridai i miei soldi. Tornò il contadino dal padrone, e gli raccontò tutte le sue pene. Il padrone gli diede il denaro e gli disse: — Resta con me a lavorare: tu mi farai dei mulini, ma ad acqua e a cavalli, come sei maestro; e d’ora in avanti non ti mettere più a certe imprese, che anche persone più intel‐ ligenti di te non hanno saputo condurre in porto. Il pescatore e il pesciolino. (Favola). Un pescatore acchiappo’ un pesciolino. Allora il pesciolino gli disse: — Pescatore, ributtami in acqua: mi vedi, sono piccolino; tu, con me, faresti poco profitto. Se invece mi lasci andare, io crescerò, e allora si mi potrai pigliare: ci farai molto più profitto. Rispose il pescatore: — Sarei uno sciocco, se ora mi mettessi ad aspet‐ tare un profitto grosso, e intanto mi lasciassi scappare quello piccolo che ho fra le mani. Il tatto e la vista. (Considerazioni). Prova a intrecciare il dito indice col medio, e con le dita così intreccia‐ te tocca una pallina in modo che essa scorra fra le due dita, e intanto tu chiudi gli occhi. Ti sembrerà che ci siano due palline. Riapri gli occhi: vedrai che c’è una pallina sola. Le dita ti hanno ingannato, ma gli occhi hanno corretto il tuo errore. Prova a guardare (specialmente di sghembo) un buono specchio ben pulito: ti sembrerà che sia una finestra o una porta, e che là dietro ci sia Secondo libro di lettura 57 qualche cosa. Tasta col dito, e vedrai che è uno specchio. Gli occhi ti hanno ingannato, ma le dita hanno corretto il tuo errore. La volpe e il caprone. (Favola). Un caprone ebbe voglia di bere: saltò giù sotto una scarpata, dov’era un pozzo, s’abbeverò e divenne greve. Tentò d’arrampicarsi su di nuo‐ vo, e non ci riuscì. Allora cominciò a lamentarsi. La volpe lo vide, e dis‐ se: — Guarda lì che sventato! Se avessi tanto cervello in zucca quanti peli hai nella barba, tu, prima di fare il salto, avresti pensato se era possibile, dopo, riarrampicarti su! In che modo un contadino tolse via un macigno. (Racconto dal vero). Sulla piazza d’una città stava buttato là un gran macigno. Il macigno occupava molto posto e impediva il traffico della città. Chiamarono de‐ gli ingegneri e chiesero a loro in che modo si poteva togliere quel maci‐ gno, e quanta sarebbe stata la spesa. Uno degl’ingegneri disse che il macigno bisognava mandarlo in pezzi con una mina, poi pezzo per pezzo portarlo via, e la spesa sarebbe stata di quarantamila lire; un altro disse che sotto il macigno bisognava infila‐ re un grosso rullo, e su questo rullo portar via il macigno: e la spesa sa‐ rebbe stata di trentamila lire. Ma ci fu un contadino che disse: — Io toglierò di mezzo il macigno e prenderò in tutto cinquecento lire. Gli domandarono come avrebbe fatto. E lui disse: — Scaverò, proprio accanto al macigno, una gran buca: la terra della buca la spanderò per la piazza, farò rotolare il macigno nella buca, e sopra pareggerò con la ter‐ ra. E così il contadino fece, e gli furono date le cinquecento lire, e altre cinquecento di giunta per l’idea ingegnosa. 58 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il cane e la sua ombra. (Favola). Un cane stava traversando un fiume su una passerella, e fra i denti portava un pezzo di carne. Vide se stesso dentro all’acqua, e credette che lì sotto ci fosse un altro cane che portava in bocca un pezzo di carne: la‐ sciò andare la carne sua, e si lanciò a strapparla all’altro cane. Di quella carne non c’era neppure l’ombra, e la sua fu portata via dalle onde. E così il cane restò senza nulla di nulla. Sciat e Don. (Leggenda russa). Il vecchio Ivàn aveva due figli: Sciat Ivànič e Don Ivànič. Sciat Ivànič era il maggiore dei due fratelli: era più forte e più grosso; Don Ivànič, invece, era il minore, ed era più piccolo e più deboluccio. Il padre indicò a ciascuno la strada che doveva fare, e raccomandò che dessero retta alle sue parole. Sciat Ivànič non diede retta al padre, e non seguì la strada che quello gli aveva indicata: si perdette e non se ne seppe più nulla. Ma Don Ivànič diede retta al padre, e prese quella direzione che il padre gli aveva indicata. E la conseguenza fu che egli attraversò tutta la Russia, e diventò famoso. Nella provincia di Tula, distretto di Epifàn, c’è un villaggio che porta il nome di «Lago di Ivàn», e proprio nel mezzo del villaggio c’è un lago. Dal lago escono due fiumiciattoli in direzioni opposte. Uno dei fiumiciattoli è così stretto, che un uomo può scavalcarlo con un passo: e questo fiumicello ha nome Don. L’altro è d’una certa larghezza, e ha nome Sciat. Il Don se ne va sempre diritto, e più lontano va, più largo diventa. Lo Sciat continua a far giravolte di qua e di là. Il Don attraversa tutta la Russia e sfocia nel Mare di Azòv. Nelle sue acque ci sono molti pesci, e sulla sua superficie viaggiano barconi di merci e bastimenti a vapore. Lo Sciat ha fatto lo sciattone125: a forza di traccheggiare, non è uscito neanche dalla provincia di Tula, e finisce nel fiume Upà. Gioco di parole russo: Šat zašatalsja, lo Sciat ha fatto il perdigiorno. 125 Secondo libro di lettura 59 Le gru e la cicogna. (Favola). Un contadino tese le reti alle gru, che gli facevano danno alla sementa. Nelle reti rimasero prese alcune gru, e insieme con le gru una cicogna. E disse la cicogna al contadino: — Lasciami libera: io non sono una gru, sono una cicogna; noialtre siamo la razza d’uccelli piú rispettabile di tutte: io abito sul tetto della casa di tuo padre. Anche dalle penne si vede che non sono una gru. Rispose il contadino: — Con le gru t’ho acciuffato, e con loro t’ammazzo. Sudoma. (Leggenda russa). Nella provincia di Pskov, distretto di Porochòv, si trova il fiumicello Sudoma, e lungo le rive di questo fiumicello ci sono due poggi, uno di faccia all’altro. Su uno di questi poggi c’era una volta la cittadina di Vìsgorod; sull’altro poggio, ai tempi antichi, gli Slavi amministravano la giustizia. I vecchi raccontano che su questo poggio, a quei tempi, pendeva dal cielo una catena, e chi era innocente arrivava con la mano a toccare quella catena, chi era colpevole, invece, non ci poteva arrivare. Ci fu un tale che prese in prestito da un altro certi soldi, e poi negò di averli presi. Li condussero tutti e due al poggio di Sudoma, e ordinarono che toccassero la catena. Quello che aveva dato i soldi alzò la mano, e subito ci arrivò. Venne la volta che la toccasse il colpevole. Costui non si rifiutò: non fece altro che consegnare il suo bastone a quello con cui stava in lite, in modo da essere più agile con le mani a toccar la catena: stese bene le mani, e la toccò. Allora il popolo si meravigliò: come potevano aver ragione tutti e due? Il fatto è che il colpevole aveva il bastone vuoto, e nel vano c’erano nascosti appunto quei soldi, che negava di aver presi. Quando aveva dato a reggere il bastone a quello che glieli aveva prestati, gli aveva dato insieme col bastone anche i soldi, e perciò era arrivato a toccar la catena. In questo modo l’uomo ingannò tutti. Ma, da quella volta, la catena si sollevò nel cielo, e non s’abbassò più. Così raccontano i vecchi. 60 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il vignaiolo e i figli. (Favola). Un vignaiolo voleva che i figli s’affezionassero al lavoro della vigna. Quando fu vicino a morire, li chiamò e disse: — Sentite, figli miei: quando io sarò morto, voi cercate bene nella vigna, in modo da trovare quel che c’è nascosto. I figli credettero che là ci fosse un tesoro: e quando il padre fu morto, si misero a scavare, a scavare, e rivoltarono sottosopra tutta la terra. Il tesoro non lo trovarono; ma la terra della vigna era stata così ben rivoltata, che cominciò a fruttare molto di più. E loro diventarono ricchi. Il gufo e la lepre. (Favola). Aveva fatto buio. I gufi cominciavano a volare per il bosco lungo il burrone, in cerca di preda. Saltò fuori, su una piccola radura, un leprone maschio, e si mise a pavoneggiarsi lì in mostra. Un vecchio gufo diede un’occhiata al leprone, e si appollaiò su un ramo; ma un gufo giovane gli disse: — Che fai, che non acchiappi quella lepre? — Il vecchio rispose: — Non è roba per le nostre forze, è troppo grosso, il lepraccio: tu lo artigli, e lui ti travolge via nel folto! — Ma il gufo giovane disse: — Allora io, con una zampa lo artiglierò, e con l’altra, lesto lesto, mi aggrapperò a un albero. E s’avventò il gufo giovane addosso alla lepre, l’artigliò con una zampa alla schiena, in modo che tutte le unghie gli ci affondarono dentro, e con l’altra zampa stava pronto ad aggrapparsi a un albero. Quando la lepre lo travolse via, il gufo s’aggrappo’ con l’altra zampa a un albero, e pensò: «Non mi scappa più!» La lepre diede una stratta, e squarciò il gufo in due. Una zampa rimase attaccata all’albero, l’altra alla schiena della lepre. L’anno dopo, un cacciatore uccise quella lepre, e con gran meraviglia vide che sulla schiena, dentro la carne, c’erano degli artigli di gufo. Il lupo e la gru. (Favola). Un lupo aveva in gola un osso per traverso, e non riusciva a rigettarlo Secondo libro di lettura 61 fuori. Chiamò una gru e le disse: — Suvvia, gru, tu che hai il collo lungo, ficca la testa nella mia gola, e cavami quest’osso: te ne compenserò. La gru ficcò la testa là dentro, cavò fuori quell’osso, e disse: — Ora dammi la ricompensa. Il lupo digrignò i denti, e poi rispose: — Ti pare una ricompensa da poco, che io con un morso non ti abbia staccato la testa, quando mi stava fra i denti? L’aquila. (Racconto dal vero). Un’aquila aveva fatto il nido su una strada maestra, lontano dal mare, e lì aveva covato i suoi piccoli. Un giorno, vicino all’albero, c’era gente al lavoro, quando l’aquila venne a volo al suo nido con un grosso pesce fra gli artigli. La gente vide quel pesce: circondarono l’albero, cominciarono a gridare e a tirar sassi all’aquila. L’aquila lasciò cadere il pesce, e quelli lo raccattarono e s’allontanarono. L’aquila si posò sull’orlo del nido: allora gli aquilotti alzarono le teste e si misero a pigolare: chiedevano da mangiare. L’aquila era stanca e non poteva volare un’altra volta fino al mare. Si lasciò scivolare dentro al nido, coprì gli aquilotti con le ali, li carezzò, ravviò le loro piccole penne, e pareva che li pregasse di aspettare un po’. Ma più lei li accarezzava, più quelli pigolavano forte. Allora l’aquila, svolazzando, si discostò un pochino da loro, e s’appollaiò su un ramo in cima all’albero. Gli aquilotti si misero a stridere e a pigolare ancora più lamentosi. Finalmente, d’improvviso, anche l’aquila gettò un grido: aprì le ali e, con gran fatica, volò via verso il mare. Fu di ritorno soltanto a sera avanzata: volava adagio e bassa da terra: negli artigli aveva di nuovo un grosso pesce. Quando fu per arrivare all’albero, essa si guardò intorno, se ci fosse ancora gente nelle vicinanze; poi rapidamente chiuse le ali, e si posò sull’orlo del nido. Gli aquiloni alzarono le teste e spalancarono le bocche: l’aquila fece a pezzi il pesce, e sfamò i figlioli. 62 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura L’oca e la luna. (Favola). Un’oca andava a nuoto per il fiume in cerca di pesci, e in tutta la giornata non ne aveva trovato nessuno. Quando fece notte, l’oca vide la luna nell’acqua, credette che fosse un pesce, e si tuffò per acchiappare la luna. Le altre oche la videro e cominciarono a riderle dietro. Da quel giorno quell’oca diventò così vergognosa e impacciata che, anche quando vedeva un pesce sott’acqua, non lo acchiappava più: e così, morí di fame. L’orso sul carretto. (Favola). Uno zingaro che girava con l’orso arrivò a un’osteria, legò l’orso fuori della porta, ed entrò nell’osteria a bere. Un carrettiere con un tiro a tre cavalli sopravvenne di lì a poco, assicurò il cavallo di mezzo con la testa legata a una stanga, e anche lui entrò nell’osteria. Nel carro del carrettiere c’erano certe paste dolci. L’orso sentì venire, di là dentro, quell’odore di dolci, si sciolse, s’accostò al carro, ci s’arrampicò sopra, e cominciò a rimestare tra il fieno. I cavalli stralunarono gli occhi, e frullarono via dall’osteria per la strada. L’orso s’era aggrappato con le zampe alle coste del carro, e non sapeva che diamine fare. E intanto i cavalli, più strada facevano, più si sfrenavano a correre a rotta di collo. L’orso si regge con le zampe davanti alle coste del carro, e non fa altro che girare la testa ora da una parte, ora dall’altra. E i cavalli continuano a stralunare gli occhi, e sempre più all’impazzata galoppano via per la strada, giù per le discese, su per le salite... I passanti non fanno in tempo a scansarsi. Galoppano i tre cavalli tutti in sudore: in cima al carro se ne sta l’orso, e si regge alle coste, e gira gli occhi di qua e di là. Capisce, l’orso, che la faccenda si mette male, che i cavalli finiranno per accopparlo: e comincia a muggire. Ma i cavalli, sentendo quel muggito, s’avventano innanzi più scatenati che mai. Galoppa galoppa, arrivarono i cavalli alla casa del padrone, in un villaggio. Tutti guardavano chi diavolo correva a quel modo. I cavalli andarono a sbatacchiare contro il recinto del loro cortile, contro il cancello. La padrona s’affaccia: che cosa succede? Non è arrivato come di regola, il padrone: dev’essere ubriaco. La donna esce in cortile, ed ecco che dal carro, invece del padrone, scende un orso. Secondo libro di lettura 63 L’orso saltò a terra, e via per i campi, via dentro ai boschi. Il lupo nel polverone. (Favola). Un lupo aveva voglia d’arraffare una pecora dal branco s’accostò sotto vento, in modo da restare avvolto nel polvere che il branco si lasciava dietro. Il cane del pecoraio lo avvistò, e gli disse: — Inutilmente, lupo mio, tu cammini nel polverone: gli occhi ti si ammaleranno. Allora il lupo rispose: — Questo è il guaio, cagnoletto mio, che già da un pezzo ho gli occhi malati: e mi hanno detto che il polverone che s’alza un branco di pecore è un buon rimedio per guarire gli occhi. Il salcio. (Racconto dal vero). Per la settimana santa, il contadino andò a guardare se la terra disgelava. Uscì nell’orto e con un palo appuntito tastò la terra. La terra ribollí tutta. Il contadino andò al bosco. Nel bosco, ai salci, già gonfiavano le gemme. E al contadino venne un pensiero: «Voglio fare intorno all’orto una piantata di salci: cresceranno, e sarà una difesa!» Pigliò l’accetta, tagliò una diecina di quelle vermene di saldo, le aguzzò a punta dal capo più grosso, e le ficcò in terra. Tutti i salciuoli cacciarono fuori delle gettate in alto, con tanto di foglioline, e in basso, sotterra, cacciarono fuori dell’altre gettate simili a quelle, a uso di radici: e alcune fecero presa in terra e attecchirono, altre invece stentarono a far presa in terra con le radici, e così appassirono e piegarono giù. Al venir dell’autunno, il contadino fu contento dei suoi salci: sei avevano attecchito. A nuova primavera, le pecore rosero torno torno quattro dei salci, e ne restarono soltanto due. La primavera dopo, anche questi furono rosi dalle pecore. Uno si seccò completamente, ma l’altro si riebbe, fece buone radici, e crebbe in un bell’albero. Quand’era di primavera, le api ronzavano a tutt’andare su quel salcio. Al tempo della 64 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura sciamatura, spesso gli sciami venivano a posarsi sul salcio, e lì i contadini li catturavano. Donne e uomini venivano spesso a far colazione e a dormire sotto al salcio. E i ragazzi ci s’arrampicavano sopra, e ne strappavano quei frustini. Il contadino che aveva piantato il salcio era morto da un pezzo ma il salcio era sempre ben vivo. Il figlio maggiore aveva già due volte scamozzato i rami, per farci il fuoco; ma il salcio era sempre ben vivo. Per quanto lo scapitozzino torno torno, da ridurlo una pigna, non importa: come torna primavera, ributta nuovi rami, magari più sottili, ma il doppio più fitti di prima, come il pelame d’un puledro. Anche il figlio maggiore aveva smesso di mandare avanti l’azienda; anche i contadini del villaggio erano stati trasportati lontano: ma il salcio era sempre ben vivo là al suo posto126. Altri contadini sopravvennero, lo scamozzarono: esso era sempre ben vivo. La grandine ci tempestò sopra: il salcio se ne rifece coi rami di fianco, e sempre viveva e fioriva. Un contadino voleva abbatterlo per farci un trogolo, ma smise l’idea: era tutto imporrito. Il salcio si piegò da un lato, e si reggeva da un lato solo, ma sempre viveva, e sempre, d’anno in anno, ci volavano le api a raccogliere bottino dai suoi fiori. Una volta certi ragazzi, in principio di primavera, si radunarono sotto al salcio a pasturare i cavalli. Sentirono freddo: si misero a fare il fuoco, e raccolsero stoppie, semenzina, sterpaglie. Uno s’arrampicò sul salcio, e ne schiantò qualche ramo. Ammucchiarono tutto nel cavo del salcio, e ci appiccarono fuoco. Il salcio cominciò a sfrigolare, ribollí la linfa all’interno, s’alzò il fumo, e guizzarono le fiamme. Tutto il dentro del salcio s’annerí. S’avvizzirono le gettate giovani, i fiori appassirono. I ragazzi ricondussero a casa i cavalli. Il salcio bruciato rimase solo là in mezzo ai campi. Venne a volo una cornacchia nera, ci s’appollaiò sopra, e gracchiò: — Ah, sei schiattato, vecchia carogna: da un pezzo era tempo! Il topo sotto il granaio. (Favola). Un topo abitava sotto un granaio. Nel piancito del granaio c’era un forellino, e il grano si versava man mano giù per quel forellino. Il topo, 126 Il testo ha qui un’espressione tolta dalle antiche ballate epiche russe: «in cam‐ po aperto». Secondo libro di lettura 65 così, faceva una buona vita: ma gli venne l’estro di menar vanto della vita che faceva. A forza di rosicchiare, slargò il buco, e invitò altri topi a fargli visita. — Venite, — diceva, — a far baldoria a casa mia. Vi farò una bella accoglienza. Da mangiare ce ne sarà per tutti. Ma quando ebbe condotto gli altri topi sul posto, s’avvide che il buco non c’era più. Il contadino aveva notato quel grosso buco nel piancito, e lo aveva turato. In che modo i lupi danno lezione ai loro figli. (Racconto). Io camminavo per una strada di campagna, quando alle mie spalle sentii un grido. Gridava un ragazzo che badava le pecore. Egli correva per i campi e faceva segni in direzione di qualche cosa. Guardai in quella direzione e vidi due lupi che correvano per i campi: uno era matricino, l’altro era un cucciolotto. Il cucciolotto portava sulla groppa un agnelletto sgozzato, e coi denti lo reggeva per una zampa. Il lupo matricino gli andava alle calcagna. Quando vidi quei lupi, insieme col pastore io li inseguii, e ci mettemmo a gridare. Alle nostre grida, accorsero i contadini coi cani. Appena il vecchio lupo avvistò i cani e la gente, s’accostò a quello giovane, gli strappo’ di dosso l’agnello, se lo gettò sulla groppa: e tutt’e due insieme si misero a correre più alla svelta, finché si nascosero alla vista. Allora il ragazzo cominciò a raccontare com’erano andate le cose: da un burrone era saltato fuori il lupo grosso, aveva afferrato un agnello, lo aveva sgozzato e lo aveva portato via. Incontro a lui era uscito il lupacchiotto, e s’era slanciato a prendere l’agnello. Il vecchio aveva dato a portare l’agnello al giovane lupo, e così, rimasto libero, lo aveva seguito da vicino. — Solo quando era venuto il pericolo, il vecchio aveva sospeso la lezione, e aveva ripreso lui l’agnello. Le lepri e le rane. (Favola). Si radunarono un giorno le lepri, e cominciarono a lamentarsi della 66 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura loro vita: — Gli uomini, i cani, le aquile, cento altre bestie d’ogni sorta, ci uccidono. Meglio morire una volta sola, che vivere e soffrire fra continue paure. Coraggio, anneghiamoci! E le lepri si slanciarono verso uno stagno, per annegarsi là dentro. Le rane udirono le lepri, e púnfete, si tuffarono in acqua. Allora una lepre disse: — Fermi, ragazzi! Aspettiamo ad annegarci: vedete, ci sono qui le rane che fanno una vita ancora peggio della nostra: loro hanno paura anche di noi! La zia racconta d’un passerotto agevolino che aveva da bambina, e che si chiamava Vispetto. (Racconto). In casa nostra, dietro l’imposta d’una finestra, un passero aveva fatto il nido, e ci aveva deposto cinque ovetti. Io e le mie sorelline eravamo state sempre lì a guardare il passero, mentre portava dietro quell’imposta ora una pagliuzza, ora una piumetta, e intrecciava il nido. Ma quando poi ci depose le uova, noi fummo ancora più contente. Il passero smise di fare quei voli con le piumette e la paglia, e rimase fermo a covare le sue uova. Un altro passero (ci spiegarono che uno era il marito, l’altro la moglie) portava alla moglie qualche verme, e così la nutriva. Di lì a qualche giorno, noi sentimmo di dietro all’imposta un pigolo, e andammo a spiare che cosa era successo nel nido dei passeri. C’erano dentro cinque minuscoli uccelletti nudi, senz’ali e senza piume; i loro beccucci erano gialli e teneri, le teste grosse grosse. Essi ci parvero molto brutti, e non fummo più tanto contente di loro; soltanto di rado andavamo a guardare che cosa facevano. La madre, ogni tanto, li lasciava per cercar da mangiare, e quando ritornava, i passerotti pigolavano e spalancavano i loro beccucci gialli, e la madre li imbeccava con pezzettini di vermi. Dopo una settimana, i piccoli passeri crebbero, si rivestirono di lanugine, e diventarono più belli: e allora noi tornammo a guardarli più spesso. Una mattina, ci accostammo alla finestra per dare un’occhiata ai nostri passerotti, e vedemmo che la passera grossa giaceva morta dietro l’imposta. Noi indovinammo che la passera, la sera prima, s’era appollaiata sull’imposta, ci s’era addormentata, ed era rimasta schiacciata quando l’imposta era stata chiusa. Secondo libro di lettura 67 Prendemmo la passera e la gettammo fra l’erba. I piccoli pigolavano, si sporgevano in fuori con le loto testoline e spalancavano i beccucci, ma non c’era nessuno che li nutrisse. La nostra sorella più grande esclamò: – Ecco che ora non hanno più madre, non hanno nessuno che gli dia da mangiare: diamogli da mangiare noi! Noialtre, tutte contente, prendemmo una scatoletta, la imbottimmo di ovatta, ci collocammo dentro il nido cogli uccelletti, e portammo tutto di sopra, in camera nostra. Poi andammo a dissotterrare un po’ di vermi, intingemmo nel latte un po’ di pane, e ci mettemmo a imbeccare i passerotti. Essi mangiavano bene, scrollavano le testoline, si ripulivano i beccucci contro le pareti della scatola, e tutti stavano allegri. Così li imbeccammo per tutta la giornata, e ci divertimmo tanto con loro. Il giorno dopo, quando andammo a guardare nella scatola, vedemmo che il passerotto più piccolo di tutti stava li morto, con le zampette impigliate fra l’ovatta. Noi lo buttammo via e togliemmo tutta l’ovatta, in modo che qualcun altro non ci restasse impigliato: poi mettemmo dentro alla scatola un po’ d’erba e di muschio. Ma prima di sera, altri due passerotti arruffarono le loro corte penne, aprirono la bocca, chiusero gli occhi, e anche loro morirono. Due giorni dopo, morí anche il quarto passerotto, e di tutti ne rimase uno solo. Ci dissero che noi gli avevamo dato troppo da mangiare. La nostra sorella piangeva per i suoi passeri, e l’ultimo passero lo volle imbeccare lei sola: noialtre stavamo a guardare. L’ultimo passerotto, il quinto, era allegro, in buona salute e vispo: noi gli mettemmo nome Vispetto. Questo Vispetto visse tanto a lungo, che già cominciava a volare e a riconoscere chi lo chiamava. Tante volte che la nostra sorella gridava: – Vispetto, Vispetto! – lui volava subito lì, le si appollaiava sulla spalla, sulla testa o sul braccio, e lei gli dava da mangiare. Poi si fece grande, e imparò a mangiare da sé. Viveva con noi nelle stanze di sopra; qualche volta volava via dalla finestra; ma sempre tornava a passare la notte al suo posto, nella scatoletta. Una mattina, non volò fuori affatto dalla sua scatoletta: le penne gli erano diventate umide, e lui le arruffava tutte, come avevano fatto gli altri passeri quando stavano per morire. La nostra sorella non lasciava un momento Vispetto, gli stava sempre intorno; ma lui non mangiava niente, e non beveva piú. Tre giorni stette malato, e il quarto morí. Quando noi lo vedemmo 68 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura morto, a pancia per aria, con quelle zampette rattrappite, ci mettemmo tutt’e tre a piangere così forte, che la mamma venne su di corsa a sentire che cos’era successo. Quando entrò, vide sul tavolo il passero morto, e allora capì il nostro dolore. La nostra sorella più grande restò per parecchi giorni senza mangiare, senza giocare, sempre a piangere. Avvoltolammo Vispetto nelle nostre pezzuole più belle, lo deponemmo dentro una cassettina di legno, e lo seppellimmo in giardino, in una piccola fossa. Poi, sulla piccola tomba, facemmo un monticello di terra, e sopra ci collocammo una lastrina di pietra. Tre panini e una ciambella. (Favola). A un contadino venne voglia di mangiare. Comprò un panino e lo mangiò: aveva ancora fame. Comprò un altro panino e lo mangiò: aveva ancora fame. Comprò un terzo panino e lo mangiò: aveva sempre fame. Finalmente, comprò qualche ciambelletta: e, quando ne ebbe mangiata una, fu sazio. Allora il contadino si batté la fronte e disse: – Stupido che sono stato! Perché ho mangiato inutilmente tanti panini? Sarebbe bastato che, da principio, mangiassi una sola di queste ciambellette! Mille monete d’oro. (Racconto dal vero). Un uomo ricco aveva intenzione di dare ai poveri mille monete d’oro, ma non sapeva a quali poveri dare questo denaro. Andò da un prete e gli disse: — Voglio dare mille monete d’oro ai poveri, ma non so a chi darle. Prendete voi il denaro e distribuitelo a chi credete. Il prete disse: — La somma è grossa, e non saprei nemmeno io a chi distribuirla: forse a uno darei troppo, a un altro troppo poco. Ditemi voi a quali poveri debbo dare il vostro denaro, e quanto a ciascuno. Il ricco disse: — Se non sapete voi a chi dare il denaro, c’è Iddio che lo sa: il primo povero che verrà a casa vostra, dategli tutto il denaro. In quella stessa parrocchia viveva un uomo povero. Egli aveva molti figli, ma era malato, e non poteva lavorare. Il povero, un giorno, stava leggendo i Salmi, quando vide queste parole: «Io fui giovane e sono Secondo libro di lettura 69 diventato vecchio, e non ho mai veduto l’uomo giusto abbandonato e i suoi figli che chiedevano il pane». Il povero pensò: «Ecco, io sono abbandonato da Dio! Eppure non ho fatto nulla di male... Voglio andare dal prete, a domandargli come mai una cosa tanto falsa sta scritta nella Bibbia». E andò dal prete. Il prete, appena lo vide, pensò: «Questo povero è il primo che viene da me!» E diede a lui tutte quante, una sull’altra, le mille monete d’oro del ricco. Pietro il Grande e il contadino. (Racconto dal vero). L’imperatore Pietro il Grande, passando per un bosco, incontrò un contadino. Il contadino spezzava la legna. Disse l’imperatore: — Che Dio t’aiuti, contadino! Risponde il contadino: — Per davvero ho bisogno dell’aiuto di Dio! L’imperatore gli domanda: — Perché, hai famiglia grossa? — La mia famiglia è di due figli maschi e di due figlie femmine. Allora non è mica grossa, la tua famiglia! O dunque i denari dove li impieghi? Io, i denari, li impiego in tre modi: primo, ci pago il debito; secondo, li do a credito; terzo, li butto in acqua. L’imperatore rifletté, e non riusciva a capire che cosa voleva dire quel vecchio, che pagava il debito, dava a credito, e buttava in acqua. Allora il vecchio disse: — Ci pago il debito: mantengo i genitori; li do a credito: mantengo i figlioli; li butto in acqua: allevo le figlie femmine. Disse l’imperatore: — Hai la testa fina, vecchietto. Adesso conducimi fuori del bosco, allo scoperto, perché io da solo non troverei la strada. Il contadino rispose: — La troverai anche da solo, la strada: và diritto, poi volta a destra, poi a sinistra, e poi ancora a destra. Disse l’imperatore: — Questo latino, io, non lo capisco: guidami tu! — Io, caro signore, non ho tempo di accompagnarti: la giornata di noi contadini vale parecchio. — Allora, se vale parecchio, io te la pagherò. — Se paghi, andiamo pure. Montarono sul calessino, e s’avviarono. Strada facendo, l’imperatore venne a domandare al contadino: — Sei stato mai, contadino, lontano di qui? 70 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — Un po’ di mondo l’ho girato anch’io. — E l’hai veduto mai, l’imperatore? — L’imperatore non l’ho mai veduto: magari, però, potessi vederlo! — Ebbene: come usciremo allo scoperto, tu vedrai l’imperatore. — Ma come farò a riconoscerlo? — Tutti staranno senza cappello. L’imperatore solo avrà il cappello in testa. Ecco che arrivano allo scoperto. La gente vide l’imperatore, e tutti si levarono i cappelli. Il contadino sgrana tanto d’occhi, ma non vede nessun imperatore. Finalmente domandò: — Ma dov’è, l’imperatore? Allora gli disse Pietro il Grande: — Vedi, siamo in due soli col cappello in testa: uno di noi due, bisogna che sia l’imperatore. Il cane arrabbiato. (Racconto dal vero). Un signore comperò in città un cucciolo di cane da fermo, e nella manica del cappotto se lo portò alla sua villa. La moglie s’affezionò al cucciolo, e lo teneva con sé nelle stanze di sopra, e lo custodiva. Il cucciolo crebbe: gli misero nome Amico. Andava a caccia col padrone, faceva guardia alla casa e giocava coi bambini. Un giorno, un cane di contadini s’infilò nel giardino. Questo cane correva diritto diritto lungo lo stradello, teneva la coda fra le zampe, la bocca aperta, e dalla bocca gli colava la bava. I bambini del signore stavano in giardino. Il signore vide quel cane, e gridò: — Bambini! Correte subito in casa: un cane arrabbiato! I bambini sentirono che il padre gridava, ma non vedendo il cane, gli correvano proprio incontro. Il cane, arrabbiato com’era, fece per avventarsi su uno dei bambini: ma in quel momento Amico si slanciò addosso al cane, e incominciarono a mordersi. I bambini riuscirono a fuggire: ma quando Amico rientrò in casa, guaiva, e sul collo aveva del sangue. Di lì a dieci giorni, Amico diventò triste: non beveva, non mangiava, e s’avventò a mordere un cucciolo. Allora Amico fu rinchiuso in una stanza vuota. I bambini non capivano perché avessero rinchiuso Amico, e andarono Secondo libro di lettura 71 di nascosto a guardare il cane. Essi aprirono la porta e si misero a chiamare Amico. Per poco Amico non li rovesciò per terra, corse fuori di casa e andò ad accucciarsi in giardino, sotto un cespuglio. Quando la madre vide là Amico, lo chiamò, ma Amico non le diede ascolto, non agitò la coda, non la guardò neppure. I suoi occhi erano velati; dalla bocca gli colava la bava. Allora la signora chiamò il marito, e gli disse: — Vieni subito! Qualcuno ha fatto uscire dalla stanza Amico: è proprio arrabbiato. Per carità, deciditi a far qualche cosa. Il marito venne qua col fucile, e s’avvicinò a Amico. Prese la mira, ma mentre mirava, la mano gli tremava. Sparò, e invece di colpirlo alla testa, lo colpí di dietro. Il cane cominciò a guaire e a dimenarsi. Il padrone gli s’accostò più da presso, per veder meglio com’era stato colpito. Tutto il posteriore di Amico era in sangue, e tutt’e due le zampe di dietro erano spezzate. Amico si trascinò fin sotto al padrone, e si mise a leccargli un piede. Il padrone fu preso da un tremito, scoppiò in lacrime e corse via verso casa. Allora chiamarono un cacciatore: e il cacciatore, con un altro fucile, colpí il cane a morte, e lo portò lontano. I due cavalli. (Favola). Due cavalli tiravano due carri. Il cavallo che veniva per primo tirava bene, ma quello che veniva dietro, si fermava ogni momento. Allora il padrone dei carri fece trasportare sul primo cavallo il carico del carro di dietro: e quando ci ebbero trasportato tutto, il cavallo di dietro, camminando leggero leggero, disse a quello davanti: — Ammazzati e suda! Più tu ti darai da fare, e più ti faranno crepar di fatica. Quando arrivarono alla locanda; il padrone pensò: «Che tengo a fare due cavalli, se uno solo mi porta il carico? Sarà meglio che uno dei due lo governi a sazietà, e l’altro lo scanni: almeno, ci guadagnerò la pelle!» E così fece. 72 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il leone e il cagnolino. (Racconto dal vero). A Londra c’era una mostra di bestie feroci, e per entrare a visitarle, si poteva pagare oppure portare dei cani e dei gatti, da dare in pasto alle belve. Un tale ebbe voglia di vedere le belve: acchiappo’ per la strada un cagnolino e lo portò al serraglio. L’uomo fu lasciato entrare, e il cagnolino fu preso e gettato nella gabbia del leone, che se lo mangiasse. Il canino si mise la coda fra le zampe e si ritirò in un angolo della gabbia. Il leone gli s’accostò e lo fiutò. Il canino si coricò sulla schiena, alzò le zampette e si mise ad agitare la codina. Il leone gli diede un tocco con la zampa, e lo rivoltolò. Il canino saltò su e restò seduto dinanzi al leone sulle zampette di dietro. Il leone lo guardava fisso, piegava la testa ora di qua ora di là, e non lo toccava. Quando il padrone delle belve gettò al leone la carne, il leone ne strappo’ un boccone e lo lasciò al canino. Alla sera, quando il leone si stese a dormire, il canino gli si stese accanto, e gli posò la testa sulla zampa. Da quel giorno, il canino visse sempre dentro la gabbia del leone, e il leone non lo toccava, mangiava e dormiva con lui, e certe volte perfino ci giocava insieme. Una volta, un signore venne a visitare il serraglio, e riconobbe il suo cagnolino: disse che il cagnolino era suo, e chiese al padrone del serraglio che glielo restituisse. Il padrone glielo voleva restituire, ma come provarono a chiamare il canino per tirarlo fuori della gabbia, il leone s’incollerì e si mise a ruggire. Così seguitarono a vivere insieme, leone e canino, un anno intero nella stessa gabbia. Passato un anno, il canino s’ammalò e morí. Il leone smise di mangiare, e stava sempre a fiutare il canino, a leccarlo, a smuoverlo con la zampa. Quand’ebbe capito che era morto, d’improvviso diede un balzo, drizzò la criniera, cominciò a battersi la coda sui fianchi, poi si slanciò contro la parete della gabbia e si mise a mordere i chiavistelli e il piancito. Per tutta la giornata si dibatté, girò su e giù per la gabbia, e ruggiva; alla fine, s’accovacciò accanto al canino morto, e si quietò. Il padrone Secondo libro di lettura 73 andò per portar via il canino morto, ma il leone non permetteva a nessuno di accostarvisi. Allora il padrone pensò che il leone avrebbe scordato il suo dolore se gli si fosse dato un altro cagnolino come quello, e gli mise nella gabbia un cagnolino vivo: ma subito il leone lo sbranò in mille pezzi. Poi abbracciò con le sue zampe il canino morto, e così rimase disteso cinque giorni. Il sesto giorno, il leone morí. L’eredità pareggiata. (Favola). Un mercante aveva due figli. Il più grande era il preferito del padre, e il padre voleva dare a lui tutta la sua eredità. La madre aveva compassione del figlio più piccolo, e pregò il marito che non dicesse ai figlioli, per ora, come avrebbe diviso le parti: essa voleva trovar qualche modo di pareggiare le parti di tutt’e due. Il mercante le diede ascolto, e non disse nulla ai figlioli della sua decisione. Un giorno, la madre sedeva alla finestra e piangeva. Passò accanto alla finestra un forestiero, e domandò per quale ragione piangeva. Essa disse: — Ho ben ragione di piangere: tutt’e due i figli miei sono uguali per me, e invece il padre vuole dare tutto a uno solo, e all’altro niente. Io ho pregato mio marito di non far sapere nulla della sua decisione ai figlioli, fin quando non avrò trovato qualche modo di venire in aiuto al più piccolo. Ma denari di mio, non ne ho, e non so in che modo potrò liberarmi da questa pena. Il forestiero le disse: — Dalla tua pena è facile liberarsi: và, fa’ sapere ai figlioli che al più grande toccherà tutta la sostanza, e al più piccolo niente: e vedrai che in questo modo otterranno parti uguali. Il figlio più piccolo, quando seppe che lui non avrebbe avuto niente, partì per paesi lontani, e là s’impratichì di tanti mestieri e acquistò tante cognizioni; il più grande, invece, continuò a vivere in casa del padre, e non si curò d’imparare niente, perché sapeva che sarebbe stato ricco. Quando il padre morí, il più grande non sapeva fare niente, e si mangiò tutto il suo capitale; il più piccolo, invece, aveva imparato a guadagnarsi la vita lontano da casa, e diventò ricco. 74 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura I tre ladri. (Racconto dal vero). Un contadino portava a vendere in città un asino e una capra. La capra aveva al collo un campanaccio. Tre ladri videro il contadino, e uno disse: — Io ruberò quella capra in modo, che il contadino non se n’accorgerà nemmeno. Un altro disse: — E io, al contadino, gli ruberò quell’asino proprio di tra le mani. Il terzo disse: — Anche questo non è difficile. Ma io ruberò al contadino addirittura tutti i panni che ha indosso. Il primo ladro, pian piano, s’accostò alla capra, le sfilò il campanaccio, e lo attaccò alla coda dell’asino: poi portò via la capra per i campi. Il contadino, alla prima svolta, si guardò indietro, s’avvide che la capra non c’era più, e si mise a cercarla. Allora gli si avvicinò il secondo ladro, e gli domandò che cosa cercava. Il contadino disse che gli era stata rubata una capra. Il secondo ladro gli disse: — Io l’ho veduta, la tua capra: ecco, proprio adesso, verso quel bosco laggiù, stava scappando un uomo con una capra. Lo puoi ancora arrivare! Il contadino, di corsa, si mise a inseguire la capra, e pregò il ladro di badargli un po’ all’asino. Il secondo ladro portò via l’asino. Quando il contadino tornò indietro dal bosco, e s’avvide che anche il suo asino non c’era più, scoppiò a piangere, e s’incamminò lungo la strada. Al margine della strada, vicino a uno stagno, che cosa vide? Un uomo, seduto per terra, che piangeva. Il contadino gli domandò che cosa gli era accaduto. L’uomo rispose che gli avevano dato da portare in città un sacco pieno d’oro: lui s’era seduto a riposarsi vicino a questo stagno, aveva preso sonno e, dormendo, aveva fatto rovesciare il sacco nell’acqua. Il contadino gli domandò perché non si tuffava a riprenderlo. L’uomo disse: — Io ho paura dell’acqua e non so nuotare, ma darò venti monete d’oro a chi riuscirà a riprendermelo. Il contadino si rallegrò tutto, e pensò: «È il Signore che mi manda questa fortuna, in compenso della capra e dell’asino che mi hanno rubato!» Si tolse i panni, si tuffò in acqua, ma il sacco dell’oro non poté trovarlo: e, quando uscì dall’acqua, i suoi panni non c’erano più. Questa era opera del terzo ladro: gli aveva rubato anche i panni che Secondo libro di lettura 75 aveva indosso. Il padre e i figli. (Favola). Un padre aveva raccomandato ai figli che vivessero tutti d’accordo: ma essi non gli davano ascolto. Il padre, un bel giorno, si fece portare da loro un fascetto di vinchi, e disse: — Spezzatelo! Per quanti sforzi facessero, i figli non riuscirono a spezzarlo. Allora il padre slegò il fascetto, e ordinò che spezzassero i vinchi a uno a uno. I figli spezzarono senza fatica un vinco per volta. E il padre disse loro: Così sarà anche di voi: se vivrete tutti d’accordo; nessuno vi potrà sopraffare; ma se litigherete e spartirete ogni cosa, chiunque riuscirà facilmente a mandarvi in rovina. Come si forma il vento? (Considerazioni). I pesci vivono nell’acqua, e gli uomini nell’aria. I pesci non sentono e non vedono l’acqua finché loro stessi non si muovono, o finché l’acqua non si muove. E noi, allo stesso modo, non sentiamo l’aria finché non ci moviamo, o finché l’aria non si muove. Ma appena noi ci mettiamo a correre, sentiamo l’aria che ci soffia in faccia: e certe volte, correndo, sentiamo l’aria che ci fischia nelle orecchie. E quando apriamo una porta che dà in una stanza riscaldata, si forma sempre un vento che in basso soffia dall’esterno verso la stanza, e in alto soffia dalla stanza verso l’esterno. Quando qualcuno cammina per una stanza o agita il vestito, noi diciamo che fa vento; e quando si accende una stufa, c’è sempre un po’ di vento che ci soffia dentro. Quando, in campagna, tira il vento, continua a tirare per giorni e per notti, a volte in una direzione, a volte in un’altra. Questo accade perché, in qualche punto della terra, l’aria si riscalda molto, e in qualche altro punto si raffredda: allora nasce il vento, e in basso si muove l’aria fredda, in alto quella tiepida, proprio come accade quando si apre la porta d’un locale riscaldato. E il vento soffierà fino a tanto che quel punto dov’era freddo non si sarà riscaldato, e quel punto dov’era caldo non si sarà raffreddato. 76 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura A che scopo soffia il vento? (Considerazioni). Si legano due bacchette in croce, e intorno a questa croce si dispongono altre quattro bacchette. Sopra ci s’incolla un foglio di carta. A uno dei due capi s’attacca una coda di stoppa, all’altro capo s’attacca un lungo spago: ed ecco fatto un aquilone. Poi si prende l’aquilone, si corre contro vento, e lo si lancia: il vento solleva l’aquilone, e lo innalza su su nel cielo. E l’aquilone vibra tutto, e sfruscia, e dà strattoni, e fa le giravolte, e ondeggia con la coda di stoppa. Se non ci fosse il vento, non sarebbe possibile mandare l’aquilone. Con tante tavolette di legno si fabbricano quattro ali, si fissano in croce su un mozzo, e all’asse del mozzo si adattano ingranaggi e ruote dentate, di modo che, quando l’asse gira, trasmette il movimento agl’ingranaggi e alle ruote, e le ruote fanno girare una pietra da macina. Poi si collocano le ali in direzione contraria al vento: le ali cominciano a girare, gl’ingranaggi e le ruote trasmettono via via il movimento, e la pietra della macina si mette a girare sull’altra pietra che sta sotto. E allora si può versare fra le due macine il grano, e il grano si stritola, e nella cassa viene giù la farina. Se il vento non ci fosse, non si potrebbe macinare il grano coi mulini a vento. Quando si va in barca, e si vuole andare più veloci, si pianta al centro della barca, in un buco, una grossa pertica: a questa pertica c’è adattata una traversa. Su questa traversa si issa una vela di tela, e al basso della vela si lega una cordicella, che si regge fra le mani. Poi si espone la vela incontro al vento. E allora il vento gonfia la vela con tanta forza, che la barca si piega su un fianco, la cordicella dà strattoni alle mani, e la barca corre via secondo la direzione del vento, così veloce che l’acqua bolle sotto la prua, e sembra che le rive corrano indietro ai due lati della barca. Se non ci fosse il vento, non sarebbe possibile navigare a vela. Nei locali dove si abita, l’aria diventa cattiva: se non ci fosse il vento, quest’aria resterebbe sempre lì. Invece arriva il vento, caccia via l’aria cattiva, e porta dai boschi e dai campi l’aria buona, pulita. Se non ci fosse il vento, gli uomini, col fiato, impregnerebbero e avvelenerebbero l’aria. L’aria starebbe sempre allo stesso posto, e gli uomini sarebbero costretti ad andarsene via da quel posto dove l’aria fosse stata già respirata da loro. Quando le bestie selvatiche vanno per boschi e per campi, camminano sempre contro vento, e così avvertono con le orecchie e Secondo libro di lettura 77 sentono col naso tutto quello che sta dinanzi a loro. Se non ci fosse il vento, esse non saprebbero in che direzione andare. Quasi tutte le erbe, i cespugli e gli alberi sono creati in modo, che il loro seme non si può formare su nessuna pianta, se una specie di polverina non vola dal fiore di una sul fiore di un’altra. I fiori si trovano lontani fra loro, e non possono mandarsi quella polverina da uno all’altro. Quando i cocomeri sono coltivati nelle serre, dove il vento non tira, bisogna che gli uomini, con le loro mani, colgano un fiore e lo pongano sopra un altro, in modo che la polverina del polline vada a cadere sul fiore che fa il frutto, e questo fiore possa legare. Le api e altri insetti, qualche volta, trasportano sulle zampe la polverina da un fiore all’altro; ma è il vento, soprattutto, che trasporta questa polverina. Se non ci fosse il vento, la metà delle piante resterebbe senza seme. Nella stagione calda, dall’acqua, si solleva un vapore. Questo vapore si solleva sempre più, e quando, in alto, si ghiaccia, ricade giù in goccioline di pioggia. Ma il vapore si solleva soltanto da quei punti della terra, dove c’è acqua: dai ruscelli, dalle paludi, dagli stagni, dai fiumi, e soprattutto dal mare. Se il vento non ci fosse, i vapori non si sposterebbero qua e là, ma si raccoglierebbero in nubi soltanto sull’acqua, e ricadrebbero di, nuovo in quegli stessi punti, di dove si sono alzati. Sul ruscello, sulla palude, sul fiume, sul mare; ci pioverebbe, e invece sulla terra, sui campi e sui boschi non ci pioverebbe mai. È il vento che trasporta le nubi è annaffia la terra. Se il vento non ci fosse, nei punti dove già c’è acqua ci sarebbe ancora più acqua, e la terra, invece, si seccherebbe e brucerebbe tutta. Le pere più buone di tutte. (Favola). Un signore mandò il servitore a comprare le pere, e gli disse: Comprami di quelle più buone di tutte! — Il servitore andò alla bottega e chiese le pere. Il bottegaio gliele, diede ma il servitore disse: — No, datemi quelle più buone di tutte. Il bottegaio disse: — Assaggiane una, e vedrai che sono davvero buone. — E come faccio a sapere che sono buone tutte quante, — disse il servitore, — se io ne assaggio una sola? 78 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Un po’ per volta, diede un morso a ogni pera, e così le portò al suo padrone. Allora il padrone lo cacciò via. Volga e Vasusa127. (Leggenda russa). C’erano una volta due fratelli: Volga e Vasusa. Si misero a litigare per sapere chi dei due era più intelligente, e chi avrebbe vissuto con più larghezza. Volga disse: — Perché dobbiamo litigare? Noi siamo tutt’e due abbastanza grandicelli. Domani mattina usciamo da casa e andiamo ognuno per la sua strada: si vedrà, allora, chi dei due saprà fare più cammino e arriverà più presto nel Regno di Chvalí n. Vasusa si mostrò d’accordo, ma ingannò Volga. Non appena Volga si fu addormentato, Vasusa, di notte, s’avviò di corsa per la strada più diretta verso il Regno di Chvalín. Quando Volga si levò, e vide che il fratello era già partito, si mise, d’un passo né svelto né lento, per la sua strada, e finí per raggiungere Vasusa. Allora Vasusa ebbe paura che Volga lo castigasse: disse che lui era il fratello più piccino, e pregò Volga di accompagnarlo fino al Regno di Chvalín. Volga perdonò il fratello e lo prese con sé. Il fiume Volga ha origine nel distretto di Ostakovo, dalle paludi presso il villaggio di Volgo. C’è là un pozzo non molto grande: da esso nasce il Volga. Il fiume Vasusa, invece, ha origine fra i monti. Il Vasusa scorre diritto, ma il Volga fa molte giravolte. Al venire della primavera, il Vasusa è più svelto a spezzare il ghiaccio e ad aprirsi la strada, mentre il Volga è più tardivo. Ma quando i due fiumi si congiungono insieme, il Volga ha già sessanta metri di larghezza, mentre il Vasusa è ancora un fiumiciattolo stretto stretto e piccolino. Il Volga fa cammino attraverso tutta la Russia, per una lunghezza di tremila duecento chilometri, e va a buttarsi nel Mare di Chvalín (cioè nel Caspio). E quando è in piena, esso raggiunge una larghezza perfino di dodici chilometri. 127 Nomi di fiumi che, in russo, sono femminili: e quindi, nell’originale, «sorelle» invece che «fratelli». Secondo libro di lettura 79 Il vitello sul ghiaccio. (Favola). Un vitello, saltando nella sua stalletta, aveva imparato a fare giravolte e piroette. Quando arrivò l’inverno, il vitello fu lasciato andare con l’altro bestiame sul ghiaccio, all’abbeveratoio. Tutte le vacche s’avvicinarono guardinghe al trogolo; il vitello, invece, si mise a galoppare sul ghiaccio, arrotolò in alto la coda, aguzzò le orecchie, e incominciò a piroettare. Ma alla prima piroetta, il piede gli mancò, e andò a battere con la testa contro il trogolo. Allora, giù a mugliare. — Guarda come sono disgraziato! — diceva. — Con la paglia fino al ginocchio, saltavo e non cascavo, e qui, sul liscio, sono subito sdrucciolato. Una vacca anziana gli disse: — Se tu non fossi un vitello, sapresti che dove è più facile saltare, è più difficile reggersi dritti. La principessa dai capelli d’oro. (Leggenda). In India c’era una principessa coi capelli d’oro; essa aveva una cattiva matrigna. La matrigna odiava la figliastra coi capelli d’oro, e persuase il re a mandarla via in un deserto. Portarono via la ragazza coi capelli d’oro in un deserto lontano, e là l’abbandonarono. Dopo cinque giorni, la principessa coi capelli d’oro, a cavallo d’un leone, ritornò da suo padre. Allora la matrigna persuase il re a mandare la figliastra coi capelli d’oro in certe montagne selvagge, dove vivevano soltanto gli sparvieri. Gli sparvieri, dopo quattro giorni, la riportarono a casa. Allora la matrigna fece mandare la principessa in un’isola in mezzo al mare. I pescatori videro la principessa coi capelli d’oro, e dopo sei giorni la riportarono dal padre. Allora la matrigna fece scavare nel cortile un pozzo profondo, ci fece calare la principessa coi capelli d’oro, e la fece sotterrare là dentro. Dopo sei giorni, da quel punto dove era stata seppellita la principessa, trasparì una luce, e quando il re ordinò di togliere la terra, ritrovarono là in fondo la principessa coi capelli d’oro. 80 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Allora la matrigna fece incavare un tronco di gelso128 ci serrò dentro la principessa, e la lasciò in balia del mare. Dopo nove giorni, il mare portò la principessa coi capelli d’oro alle terre del Giappone, e là i giapponesi la tirarono fuori dal tronco. Essa era ancora viva. Ma, appena fu uscita sulla riva, morí, e si trasformò in un baco da seta. Il baco da seta s’arrampicò su un albero di gelso, e si mise a mangiare quella foglia di gelso. Quando si fu fatto un po’ più grosso, d’improvviso diventò come morto: non mangiava e non si muoveva più. Dopo cinque giorni, in quel medesimo termine di tempo che il leone aveva riportato la principessa dal deserto, il baco rinvivì e ricominciò a mangiare la foglia. Quando il baco si fu fatto ancora piú grossetto, morí un’altra volta, e dopo quattro giorni, in quel medesimo termine di tempo che gli sparvieri avevano riportato la principessa a casa sua, il baco rinvivì di nuovo, e ricominciò a mangiare. E un’altra volta morí, e poi, in quel medesimo termine di tempo che la principessa era tornata con la barca dei pescatori, un’altra volta rinvivì. E ancora, per la quarta volta, morì, e rinvivì il sesto giorno, quando la principessa era stata dissotterrata dal pozzo. E ancora, per l’ultima volta, morí, e al nono giorno, in quel medesimo termine di tempo che la principessa era approdata in Giappone, rinvivì in un bozzolo di seta color dell’oro. Dal bozzolo volò fuori una farfalla e depose gli ovicini, e da quegli vicini uscirono tanti bachi, e si sparsero per il Giappone. Cinque volte i bachi s’addormentano, e cinque volte ritornano in vita. I Giapponesi allevano molti di questi bachi, e fabbricano molta seta. E il primo sonno del baco lo chiamano sonno del leone, il secondo sonno dello sparviero, il terzo sonno della barca, il quarto sonno del cortile, e il quinto sonno del tronco incavato. 128 L’albero di gelso produce delle bacche simili al lampone, e ha la foglia simile a quella della betulla; con questa foglia si nutriscono i bachi da seta [N. d. A.]. Secondo libro di lettura 81 Il falco e il gallo. (Favola). Un falco s’era lasciato addomesticare, e veniva a posarsi sulla mano del padrone, quando lo chiamava; il gallo, invece, scappava lontano e schiamazzava, quando il padrone gli si avvicinava. Allora il falco disse al gallo: – Voialtri galli non conoscete la gratitudine; si vede proprio che avete la natura del servitore. Soltanto quando siete affamati vi accostate ai padroni! Ben diversi siamo noialtri, uccelli selvatici: noi; di forza, ne abbiamo tanta, e in volo siamo piú veloci di voi: ma non scappiamo lontano dagli uomini, anzi andiamo di nostra volontà a posarci sulla loro mano, quando essi ci chiamano. Noi siamo riconoscenti a chi ci dà da mangiare. Rispose il gallo: — Voi non scappate lontano dagli uomini perché non avete mai veduto un falco arrosto: ma noi, di galli arrosto, ne vediamo ogni momento. Il calore. (Considerazioni). I. Per quale ragione, nelle linee ferroviarie, le verghe dei binari sono disposte in modo che l’estremità di una non tocca l’estremità dell’altra? Per la ragione che d’inverno, col freddo, il ferro si restringe, mentre d’estate, col caldo, si dilata. Se, quando è inverno, si piantassero i binari in modo da combaciare insieme con le estremità delle verghe, queste, quando viene l’estate, si allungherebbero, farebbero forza una contro l’altra, e si solleverebbero da terra. Col caldo ogni cosa si allarga, col freddo ogni cosa si restringe. Se una vite non entra nel dado, si riscalda il dado, e la vite ci entrerà. E se la vite ci giuoca dentro, si riscalda la vite, e ci andrà a perfezione. Per quale ragione un bicchiere si spezza, se ci si mesce l’acqua bollente? Per la ragione che quel punto del bicchiere, dov’è l’acqua bollente, si riscalda, si slarga, e invece quel punto, dove l’acqua bollente non c’è, rimane com’era prima: in basso il bicchiere fa forza in fuori, ma in alto non consente, e così si spezza. 82 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura II. Per quale ragione, quando viene il disgelo, la neve si scioglie sulle mani, ma sul cappotto regge? Per la ragione che il calore del viso e delle mani trapassa nella neve e la fa fondere: infatti, quel punto del viso dove la neve s’è sciolta, diventa freddo. Per quale ragione, tenendo fra le mani una ciotola di latta piena d’acqua fredda, l’acqua si riscalda, mentre il palmo delle mani si raffredda? Per la ragione che, dalle mani; il calore trapassa nella latta, e di lì nell’acqua. Se si tiene la ciotola coi guanti, per quale ragione tarda un pezzo a scaldarsi? Per la ragione che i guanti non permettono al calore delle mani di diffondersi nell’acqua, mentre invece la latta lascia passare il calore dalle mani nell’acqua. Il ferro e la latta lasciano passare il caldo e il freddo; la pelliccia e il legno non lo lasciano passare. Per questa ragione il ferro, la latta, il rame e tanti altri metalli129 si riscaldano al sole più del legno, della lana, della carta, e fanno più presto a raffreddarsi. E appunto per questo, nella stagione fredda, ci vestiamo di pellicce, di lana e di tutte le cose che non lasciano uscire il calore. Per quale ragione la pasta del pane, che deve levitare, si ricopre con una coperta di lana, e non con un pezzo di bandone? Per quale ragione, sotto i trucioli e sotto la paglia, la neve non si scioglie, e si mantiene fino a giugno? Per quale ragione il ghiaccio si mantiene meglio nelle cantine che sono riparate da un tetto di paglia? Per quale ragione, quando si vogliono far prosciugare le assi tagliate di fresco, si mettono sotto una tettoia di bandone, non già di paglia? Per quale ragione, di fienatura e di mietitura, i contadini, per conservare l’acqua fresca, avvolgono le brocche in un tovagliolo? III. Per quale ragione, quando tira il vento ma non gela, ci sentiamo 129 Metalli sono l’oro, l’argento, il rame, il ferro, lo stagno, il mercurio, e altri [N. d. A.]. Secondo libro di lettura 83 intirizzire più di quando gela senza vento? Per la ragione che il calore passa dal nostro corpo nell’aria, e se il tempo è calmo, l’aria che sta intorno al corpo si riscalda e rimane intiepidita. Ma quando tira il vento, porta via l’aria riscaldata, e ne porta dell’altra fredda. Dal corpo esce nuovo calore, e di nuovo riscalda l’aria che gli sta intorno: ma di nuovo il vento porta via l’aria intiepidita. E quando molto calore, in questo modo, è uscito dal corpo, noi ci sentiamo intirizzire. Per quale ragione, quando in una tazzina il tè è bollente, ci si soffia sopra? Gli sciacalli e l’elefante. (Favola). 130 Gli sciacalli avevano mangiato tutte le carogne che c’erano nel bosco, e non avevano più da mangiare. Ed ecco che a un vecchio sciacallo venne in mente un modo di trovare da sfamarsi. Andò dall’elefante e gli disse: – Noialtri avevamo un re, ma da un po’ di tempo non fila dritto: ci ordina di fare certe cose, che non è possibile eseguire. Noi ci vogliamo scegliere un altro re, e il nostro popolo mi ha mandato appunto a pregarti di diventare tu il re nostro. Si campa bene, da noi: qualunque cosa tu ci comanderai, noi la faremo, e ti rispetteremo in tutto. Vieni nel nostro regno! L’elefante acconsentì, e andò dietro allo sciacallo. Lo sciacallo lo condusse in una palude. Quando l’elefante fu ben affondato nel fango, lo sciacallo gli disse: – Adesso, comanda pure: qualunque cosa ci ordini, noi la faremo. L’elefante rispose: – Io vi comando di tirarmi fuori di qui. Lo sciacallo si mise a ridere, e disse: – Attaccati con la proboscide alla coda mia, e subito ti tiro fuori. Rispose l’elefante: – Ti pare possibile, con la coda, tirar fuori me? Allora lo sciacallo gli disse: — E perché, dunque, tu comandi una cosa che non si può fare? Apposta abbiamo cacciato via il re di prima, perché ci comandava certe cose che non si potevano eseguire. Quando l’elefante, lì nella palude, fu morto, gli sciacalli vennero e se Bestie feroci simili a piccoli lupi. [ N. d. A.]. 130 84 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura lo mangiarono. Magnete. (Descrizione). Nei tempi antichi c’era un pastore: aveva nome Magnete. Un giorno, una pecora gli si smarrì. Magnete andò a cercarla sui, monti. Arrivò in un luogo dove non c’era altro che pietre nude. Lui andò avanti fra quelle pietre, e a un tratto s’accorse che gli scarponi gli s’attaccavano a quelle pietre. Le toccò con la mano: le pietre erano asciutte, e alle mani non restavano attaccate. Ricominciò a camminare, e gli scarponi ricominciarono ad attaccarglisi alle pietre. Si sedette, si scalzò, prese gli scarponi in mano, e con essi provò a toccare le pietre. Se le tocca con il cuoio o con la suola, le pietre non si attaccano; ma appena le tocca coi chiodi, sono bell’e attaccate. Aveva con sé, Magnete, un bastone col puntale di ferro. Toccò una pietra col legno, e non s’attaccò; la toccò col ferro, e s’attaccò così forte, che la dovette strappare. Magnete, allora, osservò bene quel genere di pietre: vide che erano somiglianti al ferro, e ne portò qualche pezzo a casa. Da quel giorno, la gente conobbe questo genere di pietre, e le chiamò magnete, o calamita. La calamita si trova sotto terra insieme col minerale di ferro. Dove nel minerale c’è la calamita, lì il ferro è migliore. L’aspetto della calamita è poco diverso da quello del ferro. Se si pone un pezzetto di ferro sopra la calamita, anche il ferro acquista la virtù di attirare altro ferro. E se si pone sulla calamita un ago d’acciaio, e ci si tiene un certo tempo, l’ago si trasforma in calamita e acquista la virtù di attirare il ferro. Se due calamite si accostano insieme per le estremità, da una parte le estremità si respingeranno, dall’altra si attireranno fra loro. Prendendo una calamita a forma di verghetta, e dividendola in due metà, avverrà di nuovo la stessa cosa: tutt’e due queste metà, da una parte si attireranno, dall’altra si respingeranno. A dividerle ancora, avverrà la stessa cosa, e potrai dividerle quante volte, vuoi, sempre avverrà la stessa cosa: le estremità uguali si respingeranno, quelle diverse si attireranno, come se la calamita, da un’estremità spingesse in fuori, dall’altra tirasse a sé. E per quanto tu cercherai di spezzettarla, sempre da un’estremità spingerà in fuori, e dall’altra tirerà a sé, proprio allo stesso modo che una pigna di abete, in qualunque punto tu la Secondo libro di lettura 85 spezzi, risulterà sempre da un lato a punta, dall’altro a incavo. Da qualunque verso si prenda, l’incavo combinerà con la punta, ma punta con punta e incavo con incavo non combineranno mai. Se si magnetizza un ago (tenendolo a contatto con la calamita), e poi se ne fissa il centro su un pernio, in modo che vi giuochi liberamente, potrai far ruotare a tuo piacere l’ago magnetizzato; ma appena lo lascerai libero, esso si girerà con uno dei capi verso mezzogiorno (sud), con l’altro capo verso mezzanotte (nord). Quando non si conosceva la calamita, non era possibile navigare in mare molto lontano da terra. Se una barca si spinge molto lontano in mare, la terra non si vede più, e soltanto il sole e le stelle possono guidare la navigazione. Ma se il tempo è coperto, e non si vede né sole né stelle, allora non si sa davvero in che direzione navigare. E la nave, travolta dal vento, viene sbattuta contro gli scogli e si frantuma. Così, fin quando la calamita non fu conosciuta, gli uomini non s’allontanavano di molto dalle coste; ma quando fu conosciuta la calamita, adattarono l’ago magnetico su un pernio, in modo che vi giocasse liberamente. E dai movimenti di quest’ago impararono a regolarsi in quale direzione fosse da guidare la nave. Con l’ago magnetico incominciarono ad avventurarsi più lontano dalle coste e, da allora in poi, conobbero molti mari nuovi. Sulle navi c’è sempre un ago magnetico (la bussola), e c’è anche una funicella misurata, con tanti nodi, che si tiene arrotolata all’estremità della nave. E questa funicella è congegnata in modo che si srotola via via, e da essa si può vedere quanta strada la nave ha percorso. In questo modo, su una nave in viaggio, si sa sempre in che luogo si trova la nave in quel certo momento, e quanto è lontana dalla costa, e in quale direzione cammina. L’airone, i pesci e il gambero. (Favola). Un airone abitava in uno stagno, e s’era invecchiato: non aveva più forza d’acchiappare i pesci. Si mise a pensare in che modo, con l’astuzia, potesse campar la vita. E disse ai pesci: — Voi, pesci, non sapete che grande disgrazia vi pende sul capo: ho sentito io che cosa dicevano gli uomini: vogliono prosciugare, lo stagno, e voi, quanti siete, acchiapparvi tutti. Ma io so bene che là, dietro a quel poggio, c’è un altro stagno meraviglioso. Vi aiuterei volentieri io stesso, ma mi sono fatto vecchio: 86 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura mi è fatica volare. I pesci incominciarono a pregare l’airone che li aiutasse. L’airone, allora rispose: —Di buon cuore mi darò da fare per voi: vi trasporterò senz’altro. Ma, tutti insieme, non è possibile: uno alla volta! I pesci furono contenti lo stesso, anzi contentissimi: e tutti a gridare: — Porta me, porta me! L’airone, dunque, s’accinse al trasporto: ne afferra uno, lo porta al largo, e se lo divora. Poi un secondo, e un terzo. E in questa maniera trangugiò un sacco di pesci. Abitava in quello stagno un vecchio gambero. Non appena l’airone aveva cominciato a portar via i pesci, egli aveva capito l’antifona; e finalmente gli disse: —Su, airone, ora porta anche me alla nuova dimora. L’airone prese il gambero e lo portò via. Quando fu giunto al largo, fece per scagliare il gambero a terra. Ma il gambero aveva visto le spine dei pesci là in terra: abbrancò con le tenaglie l’airone per il collo, e lo strozzò. Poi da solo si trascinò di nuovo fino allo stagno, e raccontò tutto ai pesci. Lo zio racconta in che modo imparò ad andare a cavallo. (Racconto). C’era fra i nostri contadini un vecchione decrepito, Pimen di Timoteo. Aveva novant’anni. Viveva in casa d’un suo nipote senza lavorare. La sua schiena era piegata in due, camminava col bastone, e metteva innanzi i piedi lento lento. Non aveva più un dente, e il viso gli s’era tutto raggrinzito. Il labbro di sotto gli ballava, mentre camminava e mentre parlava, continuava sempre a biascicare con la bocca, e non si poteva capire che cosa diceva. Noi eravamo quattro fratelli, e ci piaceva a tutti andare a cavallo. Ma cavalli tranquilli, da montare a sella, non ne avevamo. Soltanto su un vecchio cavallo avevamo il permesso di montare: era un cavallo chiamato Corvino. Un giorno, nostra madre ci diede il permesso di cavalcare, e noi andammo tutti alla scuderia col nostro istitutore. Lo stalliere ci sellò Corvino, e il più grande di noi fratelli montò per primo. Egli fece una buona cavalcata: andò fino all’aia e fece il giro del giardino; e quando noi lo vedemmo ritornare, ci mettemmo a gridargli: — Su, ora lanciati al Secondo libro di lettura 87 galoppo! Nostro fratello cominciò a battere Corvino coi piedi e con lo scudiscio, e Corvino, di galoppo, ci passò rasente. Dopo il fratello più grande, ne montò un altro, e anche questo fece una cavalcata ben lunga, e poi anche lui, con lo scudiscio, forzò Corvino a correre, e venne giù lanciato di galoppo. Voleva continuare ancora a cavalcare, ma il terzo fratello insistette perché lasciasse subito montar lui. Il terzo fratello, come gli altri, si spinse fino all’aia, e poi intorno al giardino, e per giunta anche per il villaggio: infine, di gran galoppo, venne giù fino alla scuderia. Quando fu lì da noi, Corvino ansimava, e il collo e le cosce gli s’erano anneriti dal sudore. Quando arrivò il turno mio, io cercai di far colpo sui fratelli, e di mostrare quant’ero bravo a stare a cavallo: e così, mi misi subito a incitare Corvino quanto più potevo. Ma Corvino non voleva staccarsi dalla scuderia. Per quanto io lo tempestassi di colpi, non ci fu verso che si lanciasse: andava al passo, non solo, ma di continuo tentava di rigirarsi indietro. Io m’infuriai contro il cavallo, e di tutta forza lo picchiai con lo scudiscio e coi piedi. Cercavo di picchiarlo proprio in quei punti dove poteva fargli più male; spezzai lo scudiscio, e col mozzicone, che mi restò in mano, mi misi a picchiarlo sopra alla testa. Ma Corvino, niente: non si lanciava. Allora io lo feci tornare indietro, mi avvicinai all’istitutore, e gli chiesi uno scudiscio più forte. Ma l’istitutore mi disse: — Basta col cavalcare, signorino: scendete. Perché tormentare tanto la bestia? Io mi offesi, e dissi: — Ma come, io non ho cavalcato per niente! Stà a vedere, ora, che galoppata gli faccio fare! Dà qua per favore, uno scudiscio più forte: ci penso io a scaldarlo. Allora l’istitutore scrollò la testa, e disse: — Ah, signorino mio, voi siete senza cuore. Come parlate di scaldarlo? — Ha vent’anni, sapete! La bestia è sfinita, ha il fiato grosso, e poi, soprattutto, è vecchia. Lo sapete quant’è vecchia? Né più né meno che Pimen di Timoteo. Fate conto che foste montato in groppa a Pimen, e così, di tutta forza, lo aveste preso a frustate. Ebbene, non vi avrebbe fatto compassione? Io mi ricordai di Pimen, e diedi ascolto all’istitutore. Smontai giù dal cavallo, e quando ebbi visto come ondeggiava coi fianchi sudati, come respirava a fatica dalle froge, e agitava quella codina spelacchiata, capii che il cavallo non se la passava bene, E io credevo, invece, che fosse stato 88 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura allegro e contento com’ero io! Allora mi prese una tale compassione di Corvino, che cominciai a baciarlo su quel collo bagnato di sudore, e a chiedergli perdono se lo avevo picchiato. Da quel giorno sono cresciuto, mi sono fatto grande, ma sempre ho compassione dei cavalli, e sempre mi tornano in mente Corvino e Pimen di Timoteo, quando vedo qualcuno che tormenta un cavallo. Il riccio e la lepre. (Favola). La lepre incontrò il riccio, e gli disse: – Tu saresti senza difetti, o riccio, ma hai le zampe storte: ti s’imbrogliano una con l’altra. Il riccio andò su tutte le furie, e rispose: – Hai poco da prendermi in giro: le mie zampe storte corrono più svelte delle tue, che sono dritte. Lascia che arrivi un momento fino a casa, e poi faremo a chi corre di più! Il riccio andò a casa e disse alla moglie: – Io ho fatto una scommessa con la lepre: vogliamo fare a chi corre di più. La moglie del riccio rispose: – Si vede proprio che sei uscito di cervello! Come puoi correre a gara con la lepre? Quella ha le zampe leste, e tu ce le hai storte e lente. Ma il riccio disse: – Se lei ci ha leste le zampe, io ci ho lesto il cervello. Basta che tu faccia come ti dirò. Andiamo là al campo. Ecco che arrivarono su quel campo arato, dove la lepre aspettava: e allora il riccio disse alla moglie: —Tu nasconditi da questo capo del solco, ché io e la lepre spiccheremo la corsa da quell’altro capo: quando lei si sarà ben lanciata, io me ne tornerò indietro: e quando arriverà qui da te, tu salta fuori e dì: «È già un pezzo che sto qui ad aspettarti!» Lei non potrà distinguerti da me, e crederà che sia qui io. La moglie del riccio si nascose nel solco, e il riccio con la lepre attaccarono a correre da quell’altro capo. Appena la lepre si fu lanciata, il riccio se ne tornò indietro, e si nascose nel solco. La lepre arrivò di galoppo all’altro capo del solco: oh guarda! La moglie del riccio si trovava già lì. Essa vide la lepre, e le disse: – È già un pezzo che sto qui ad aspettarti! La lepre non distinse la moglie del riccio dal riccio in persona, e fece tra sé: «Questa si che è bella! Come ha fatto a passarmi innanzi?» Secondo libro di lettura 89 — Ebbene, – disse al riccio, – proviamo ancora una volta! — Proviamo! La lepre tornò a slanciarsi su per il solco, arrivò di gran corsa al capo di là: oh guarda! Là c’era già il riccio, che le dice: – Eh, fratello, tu arrivi tardi: è già un pezzo che sto qui ad aspettarti! «Questa si che è bella! – pensa la lepre. – Io ho corso di buona lena, eppure lui mi è passato innanzi. Bè, allora proviamo a correre una terza volta: vedrai che, ora, non mi passa più!» E disse: — Forza, corriamo! La lepre galoppo’ via con quanto fiato aveva: oh guarda! Il riccio le sta seduto lì davanti, e l’aspetta. E così la lepre galoppo’ su e giù da un capo all’altro del solco, fin tanto che le forze la abbandonarono. Alla fine la lepre s’arrese, e disse che, da quel giorno in poi, non avrebbe più fatto scommesse. I due fratelli. (Leggenda). Due fratelli si misero a viaggiare insieme per il mondo. Sul mezzogiorno si sdraiarono a riposare in un bosco. Quando si svegliarono, s’avvidero che accanto a loro c’era una pietra, e sulla pietra c’era scritto qualche cosa. Guardarono ben bene, e lessero: «Chi troverà questa pietra, vada diritto per il bosco in direzione di levante. Nel bosco incontrerà un fiume: passi a nuoto quel fiume fino alla sponda opposta. Là vedrà un’orsa con gli orsacchiotti: dovrà strappare gli orsacchiotti all’orsa e fuggire senza mai voltarsi, diritto alla montagna. In cima alla montagna vedrà una casa, e in quella casa troverà la felicità». I fratelli lessero come stava scritto, e il più piccolo disse: — Andiamoci insieme. Forse riusciremo a passare a nuoto il fiume, porteremo gli orsacchiotti fino alla casa, e tutt’e due insieme troveremo la felicità. Allora il più grande disse: — Io non ci vengo per il bosco a cercare gli orsacchiotti, e ti consiglio di non andarci neppure te. Prima di tutto, nessuno sa se è vero quel che sta scritto su questa pietra: potrebbe essere che abbiano scritto tutto per burla; oppure, chissà che noi non abbiamo inteso a dovere. Eppoi, secondo punto: anche se quel che è scritto è verità, noi ci mettiamo per il bosco, ci si fa notte, e il fiume non lo 90 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura incontriamo, e finiamo per perderci. E anche nel caso che trovassimo il fiume, come faremo a passarlo a nuoto? Terzo punto: dato pure che passassimo il fiume, ti pare una cosa facile strappare all’orsa gli orsacchiotti? Quella ci sbranerà, e noialtri, invece di trovare la felicità, perderemo inutilmente le vita. Quarto punto: se anche ci riuscisse bene di portar via con noi gli orsacchiotti, non potremo mai arrivare tutto d’un fiato fino alla montagna. Ma il punto principale è questo, che non c’è mica scritto quale genere di felicità troveremo in quella casa: potrebbe darsi che là ci aspetti un certo genere di felicità, che a noi non servirebbe a nulla. Ma il più piccolo disse: — Secondo me, non sta così. Se non ci fosse niente di vero, tante cose su questa pietra non le avrebbero scritte. E tutto sta scritto in modo chiarissimo. Il primo punto è questo: non ci accadrà nulla di male, se tentiamo la sorte. Secondo punto: se non andiamo noi, qualcun altro leggerà la scritta sopra la pietra, e troverà la felicità, mentre noialtri resteremo a mani vuote. Terzo punto: se a questo mondo non ti dai da fare, la fortuna non ti cadrà mai in bocca. Quarto punto: non mi va giù che la gente possa pensare che io ho avuto paura di qualche cosa. Allora il più grande disse: — Anche il proverbio dice: «Chi troppo vuole nulla stringe», e ancora: «È meglio un uovo oggi, che una gallina domani». Ma il più piccolo disse: — E invece io ho sentito dire: «Se cominci ad aver paura dei lupi, non andrai più nel bosco»; e ancora: «Uomo che dorme, non piglia pesci». Secondo me, bisogna andare. E così, il fratello più piccolo andò, e il più grande rimase.Appena entrato nel bosco, il più piccolo dei due fratelli trovò il fiume, lo passò a nuoto, e subito, sulla riva di là, vide l’orsa. L’orsa dormiva. Lui acchiappo’ gli orsacchiotti, e via, senza mai voltarsi, verso la montagna. Era appena arrivato sulla cima, che gli esce incontro tanta gente, lo fanno salire su una carrozza, lo conducono nella loro città, e lo fanno re. Egli regnò cinque anni. Nel sest’anno di regno, gli salí contro un altro re, più forte di lui: conquistò la città, e lo scacciò via. Allora il più piccolo dei due fratelli ricominciò a girare per il mondo, finché capitò dal fratello più grande. Il fratello più grande viveva da contadino, né ricco né povero. I due fratelli si fecero festa, e cominciarono a raccontarsi la vita che era toccata a ciascuno. Allora il fratello più grande disse: — Vedi che ho avuto ragione io? Io ho campato sempre pacifico e tranquillo, mentre tu sei diventato re, ma Secondo libro di lettura 91 hai anche provato grandi dolori. Ma il più piccolo rispose: — Io non mi pento, se quel giorno mi misi per il bosco alla volta della montagna: anche se adesso me la passo male, almeno ho qualche cosa di bello da ricordare della mia vita, mentre tu non hai nulla neppure da ricordare. Lo spirito delle acque e la perla. (Favola). Un uomo andava in barca sul mare, e gli cadde nell’acqua una perla preziosa. L’uomo tornò a riva, pigliò un secchio, e si mise a tirar su l’acqua e a rovesciarla sulla terra. Tirò su e rovesciò giù per tre giorni di fila. Al quarto giorno, usci dal mare lo spirito delle acque, e domandò: — Perché attingi così? L’uomo rispose: — Attingo così perché m’è caduta una perla. Lo spirito delle acque gli domandò: — E quando pensi di smettere? L’uomo rispose: — Quando avrò asciugato il mare, allora smetterò. Allora lo spirito delle acque rientrò nel mare, portò su proprio quella perla, e la restituì all’uomo. La biscia. (Leggenda). Una donna aveva una figlia che si chiamava Mariolina. Mariolina andò con le amiche a fare un bagno. Le ragazzette si tolsero le camicine, le posero sulla sponda e saltarono in acqua. Dall’acqua scivolò fuori una grossa biscia e, arrotolandosi, si adagiò sulla camicia di Mariolina. Le ragazzette riuscirono dall’acqua, indossarono le loro camicine, e corsero a casa. Quando Mariolina s’accostò alla camicia sua, e vide che sopra c’era quel biscione, prese un bastone e fece per cacciarlo via; ma il biscione sollevò la testa e incominciò a fischiare, con voce umana: – Mariolina, Mariolina, promettimi che mi sposerai. Mariolina scoppiò a piangere, e disse: – Basta che mi ridai la camicia, 92 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura farò quello che vuoi. – Mi prenderai per sposo? Mariolina disse: – Ti prenderò! – E il biscione scivolò via dalla camicia e scomparve sott’acqua. Mariolina indossò la sua camicia e corse a casa. In casa disse alla madre: – Mammina, un biscione s’è posato sulla mia camicia e mi ha detto: prendimi per sposo, altrimenti non ti ridò la camicia. Io gli ho dato la parola. La madre si mise a ridere e disse: – Tu te lo sei sognato! Di lì a una settimana, un branco di tante bisce riunite insieme venne a strisciare fino alla casa di Mariolina. Mariolina vide le bisce, si spaventò e disse: – Mamma, le bisce sono venute a prendermi! La madre non ci credeva; ma quando le vide, si spaventò anche lei, e chiuse la porta di strada e l’uscio di camera. Le bisce, sempre strisciando, passarono sotto il portone ed entrarono nell’andito: ma non riuscirono a insinuarsi dentro la camera. Allora strisciarono di nuovo all’aperto, tutte insieme s’arrotolarono come una gran palla, e si lanciarono contro la finestra. Ruppero il vetro, piombarono sul piancito della camera, e si misero a strisciare su per le panche, sui tavoli e sulla stufa. Mariolina s’era rannicchiata in un cantuccio sopra la stufa: ma le bisce la trovarono la tirarono via di lassù, e la trascinarono al fiume. La madre piangeva e le rincorreva, sua non poté arrivarle. Le bisce, insieme con Mariolina, si tuffarono sott’acqua. La madre, allora, pianse la figlia, pensando che fosse morta. Un giorno, la madre stava alla finestra e guardava in strada. A un tratto, vede la sua Mariolina che le viene incontro, e porta per mano un maschiettino e in braccio una femminella. La madre fu tutta contenta, e si mise a baciare Mariolina e a domandarle dov’era stata finora, e di chi erano questi figliolini. Mariolina disse che questi erano i figliolini suoi: il biscione l’aveva sposata, e lei viveva con lui nel regno degli spiriti delle acque. La madre domandò alla figlia se si trovava bene, a vivere nel regno degli spiriti delle acque: e la figlia rispose che ci si trovava meglio che sulla terra. La madre pregò Mariolina che rimanesse con lei, ma Mariolina non acconsentì. Disse che aveva promesso al marito di tornare da lui. Allora la madre domandò alla figlia: – E come farai, per andare a casa tua? – Andrò là, chiamerò forte: «Simeone, Simeone, esci fuori a pren‐ Secondo libro di lettura 93 dermi!» E lui uscirà sulla riva e mi prenderà. Sentendo questo, la madre disse a Mariolina: – Va bene, ma almeno per stanotte rimani con me. Mariolina si coricò e s’addormentò; la madre prese l’accetta e andò al fiume. Arrivò al fiume e si mise a chiamare: – Simeone, Simeone, esci fuori a prendermi! Il biscione, a nuoto, venne a riva. Allora la madre gli diede un colpo d’accetta, e gli staccò la testa. L’acqua si fece rossa di sangue. La madre tornò a casa, ed ecco che la figlia si sveglia e dice: – Io me ne vado a casa, mamma: mi ha preso una malinconia... – E così, s’incamminò. Mariolina aveva preso la femminella in braccio, e il maschietto per mano. Quando furono all’acqua, cominciò a chiamare: – Simeone, Simeone, esci fuori, che sono io! – Ma nessuno veniva fuori. Allora essa guardò meglio sull’acqua, e vide che l’acqua era rossa, e la testa del biscione ci galleggiava sopra. A quella vista, Mariolina baciò la figlia e il figlio, e disse loro: Non avete più il babbo, non avrete più neanche la mamma! Tu, figliolina mia, diventerai una rondinella, e volerai sull’acqua; tu, figliolino, diventerai un usignoletto, e spanderai i tuoi canti giorno e notte: e io diventerò un cuculo, e mi lamenterò del mio sposo ucciso. E tutt’e tre se ne volarono via, chi da una parte chi dall’altra. Il passero e le rondini. (Racconto). Io, un giorno, m’ero fermato in cortile a guardare un nido di rondini sotto il tetto. Mentre guardavo, tutt’e due le rondini volarono via, e il nido rimase vuoto. Mentre le rondini erano assenti, volò giù dal tetto un passero, saltellò verso il nido, diede un’occhiata intorno, annaspo’ con le alucce e s’intrufolò dentro al nido; poi cacciò fuori la sua testolina, e mandò un cinguettio. Poco dopo, arrivò al nido una delle rondini. Essa andò per infilarsi nel nido; ma appena s’avvide dell’ospite, pigolò, sbatté le ali lì di fuori, e volò via. Il passero rimaneva al suo posto, e cinguettava. 94 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura D’improvviso arrivarono un branchetto di rondini: tutte queste rondini, volando, s’accostarono al nido, come per dare un’occhiata al passero, e poi rivolarono via. Il passero non si spaventò: girava la testa di qua e di là, e cinguettava. Le rondini, volando, s’accostarono al nido un’altra volta, fecero qualche cosa, e poi di nuovo rivelarono via. Le rondini avevano il loro motivo, per accostarsi al nido così: ognuna portava nel becco un pochino di fango, e con questo, un po’ per volta, muravano l’apertura del nido. Un’altra volta le rondini volarono via, e un’altra volta tornarono a volo, e ogni volta un po’ di più muravano il nido, e l’apertura di questo diventava più stretta, più stretta. Da principio si vedeva tutto il collo del passero, poi si vide la testolina sola, poi il becco, e poi non si vide più niente: le rondini lo avevano completamente murato nel nido. Allora se ne volarono lontano, e coi loro stridi si misero a girare intorno alla casa. Cambise e Psammenite. (Racconto storico). Quando il re di Persia, Cambise, conquistò l’Egitto e catturò il re egiziano Psammenite, ordinò che portassero su una piazza il re Psammenite con altri Egiziani, e poi ordinò che su quella piazza fossero portate duemila persone, e tra queste la figlia di Psammenite. La fece vestire di stracci e la mandò, con le secchie, a prender l’acqua; e insieme con lei, vestite allo stesso modo, ci mandò le figlie dei più grandi personaggi egiziani. Quando le ragazze, urlando e piangendo, passarono davanti ai loro padri, i padri si misero a piangere, guardando le loro figlie. Solo Psammenite non pianse: non fece altro che abbassare il viso verso terra. Quando le ragazze furono passate oltre, Cambise ordinò che venisse il figlio di Psammenite con altri Egiziani. Tutti costoro avevano il collo avvoltolato da una corda, e in bocca avevano un morso da cavalli. Li condussero via per ucciderli. Psammenite vide tutto, e capì che il figlio era condotto alla morte. Ma come aveva già fatto alla vista della figliola, così anche adesso, mentre gli altri padri piangevano i loro figli, lui non fece altro che abbassare il viso verso terra. Secondo libro di lettura 95 Poco dopo venne a passare davanti a Psammenite un vecchio compagno suo, che gli era anche parente. Questo, prima, era stato un riccone, e invece ora, come un mendicante, andava chiedendo l’elemosina ai soldati. Appena Psammenite lo vide, lo chiamò per nome, si batté coi pugni la testa, e ruppe in singhiozzi. Cambise si meravigliò che Psammenite facesse così e mandò a interrogarlo in questi termini: — Psammenite! Il tuo signore Cambise ti domanda: per quale ragione, quando la tua figliola è stata oltraggiata, e tuo figlio è stato condotto alla morte, tu non hai pianto, e invece un mendicante, che non è affatto del tuo stesso sangue, ti ha provocato tanta compassione? Psammenite rispose: — Cambise! Il dolore che io soffro per conto mio è tanto grande, che non ci posso nemmeno piangere: ma questo compagno mi ha fatto compassione perché, così in vecchiaia, da ricco che era, è caduto in miseria. Era il presente un altro re prigioniero, Creso. Quando egli udì quelle parole, senti più vivo il suo dolore, e si mise a piangere: e allora tutti i persiani, che si trovavano intorno, si misere a piangere anche loro. E Cambise stesso fu assalito dalla compassione: ordinò che il figlio di Psammenite fosse riportato indietro, e che Psammenite in persona fosse condotto alla sua presenza. Ma il figlio non fu trovato vivo: già lo avevano ucciso. Psammenite fu condotto alla presenza di Cambise, e Cambise gli fece grazia. Il pescecane. (Racconto). La nostra nave stava all’ancora sulla costa africana. Era una giornata bellissima: dal mare soffiava un vento fresco; ma verso sera il tempo cambiò: si fece un caldo soffocante, e un’aria infocata, come se uscisse da un forno, tirava dal deserto del Sahara. Poco prima che il sole tramontasse, il capitano uscì sul ponte, gridò: — Fate il bagno! — e, in un momento, i marinai saltarono in acqua, calarono in acqua una vela, la legarono, e così, in quella vela, apprestarono una specie di vasca da bagno. Sulla nave c’erano con noi due ragazzi. I ragazzi furono i primi a saltare in acqua, ma dentro la vela si sentivano stretti, e pensarono di far la gara a chi nuotava meglio in mare aperto. 96 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Tutt’e due, come due lucertole, guizzarono via per l’acqua e, nuotando di tutta forza, si spinsero verso un punto, dove stava ancorata una boa. Uno dei ragazzi, da principio, era passato innanzi al compagno, ma poi cominciò a restare indietro. Il padre del ragazzo, un vecchio artigliere, se ne stava sul ponte, e si compiaceva a guardare il suo figliolo. Quando il figlio cominciò a restare indietro, il padre gli gridò: — Non cedere! Fa’ ancora uno sforzo! A un tratto, dal ponte, una voce gridò: — Un pescecane! — E tutti vedemmo, nell’acqua, la schiena del mostro marino. Il pescecane filava diritto verso i ragazzi. — Indietro, indietro! Voltate! II pescecane! — si mise a gridare l’artigliere. Ma i ragazzi non lo udirono: seguitavano a nuotare, e ridevano, e gridavano, sempre più allegri e chiassosi. L’artigliere, bianco come un panno, immobile, guardava i ragazzi. I marinai calarono una scialuppa, vi si gettarono dentro e, piegando i remi dallo sforzo, si lanciarono verso i ragazzi a tutta velocità: ma erano ancora lontani da loro, mentre il pescecane era arrivato a non più di venti passi. I ragazzi, da principio, non avevano inteso le grida, e non avevano veduto il pescecane: ma poi uno dei due allungò un’occhiata indietro, e noi udimmo tutti uno strillo acuto, e i ragazzi si lanciarono a nuoto uno di qua e un altro di là. Quello strillo fu come se risvegliasse l’artigliere. Egli si strappo’ al suo posto, e corse ai cannoni. Girò un affusto, si curvò sul cannone, mirò, e afferrò la miccia. Tutti noi, quanti ci trovavamo sopra la nave, eravamo senza fiato, e aspettavamo che cosa sarebbe successo. Rimbombò un colpo: e noi vedemmo l’artigliere che s’era gettato in ginocchio accanto al cannone, e si copriva il viso con le mani. Che cosa era successo là, tra il pescecane e i ragazzi, noi non lo vedevamo, perché il fumo dello sparo, per un minuto, ci chiuse la vista. Ma quando il fumo si sciolse sull’acqua, si senti da tutte le parti un mormorio leggero, poi il mormorio si fece più forte, e alla fine, da tutte le parti, risonò un grido forte e festoso. Il vecchio artigliere si scopri il viso, si levò in piedi e guardò sul mare. Sulle onde ballonzolava la pancia gialla del pescecane morto. In pochi minuti la scialuppa fu accanto ai ragazzi, e li riportò alla nave. Secondo libro di lettura 97 Perché le finestre s’appannano, e cade la guazza?. (Considerazioni). Quando l’acqua svapora, quest’acqua dove va a finire? Col caldo tutte le cose si dilatano. Anche l’acqua, col caldo, si dilata, e si divide in particelle tanto piccole, che il nostro occhio non le distingue: e così si solleva nell’aria. Queste particelle (cioè il vapore) vengono trasportate dall’aria, e non si possono vedere finché l’aria è tiepida. Ma appena l’aria si raffredda, subito il vapore si gela, e allora diventa visibile. Se si riscalda un bagno a vapore, e sui mattoni roventi si versa dell’acqua, l’acqua se ne andrà tutta in vapore, e il piancito rimarrà asciutto. Versiamone ancora un po’: l’acqua svaporerà come l’altra. Se il bagno è ben infocato, anche un intero secchio d’acqua potrà perdersi in vapore. Un secchio d’acqua, cioè, rimarrà in sospeso nell’aria infocata del bagno, e non se ne vedrà più nulla. L’aria del bagno assorbe così tutta l’acqua d’un secchio. Ma se ne versiamo ancora dell’altra, l’aria sarà già troppo imbevuta, e non potrà più ricevere acqua: e allora, l’acqua in soprappiú colerà a gocce. L’acqua, d’un secchio rimarrà in sospeso, ma quella in soprappiú goccerà in basso. In quello stesso bagno, non riscaldato, proviamo a portare dei mattoni roventi, e a versarci dell’acqua: se ne versiamo una mestolata, l’acqua svaporerà e sparirà, perché l’aria l’assorbirà tutta. Ma se ne verseremo un’altra mestolata, l’acqua colerà a gocce. L’acqua in soprappiú colerà a gocce, e l’aria fredda potrà contenerne una mestolata sola. Dunque, nel medesimo bagno, quando l’aria era infocata, assorbiva un secchio d’acqua, ma ora che è fredda, può assorbirne soltanto una mestolata. Se soffiamo col fiato su un vetro, si formano sul vetro tante goccioline. E quanto più fa freddo, più goccioline si formano. Perché avviene questo? Perché il fiato dell’uomo è più caldo del vetro, e nel fiato c’è molta acqua in sospeso. Appena questo fiato si posa sul freddo del vetro, l’acqua ne esce fuori. Una spugna è capace di contenere molta acqua, e l’acqua non si vede fintanto che la spugna non viene spremuta: ma appena la spremi, l’acqua gronda. Allo stesso modo, anche l’aria è capace di contenere molta acqua, fin tanto che è infocata: ma appena si raffredda, l’acqua gronda. Se d’estate porti su dalla cantina una bottiglia fredda, questa si coprirà subito di gocce d’acqua. Di dove è venuta quest’acqua? Essa era 98 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura già lì. Ma finché tutto era caldo, non era possibile vederla: invece, quando il calore è passato dall’aria nella bottiglia fredda, l’aria intorno alla bottiglia s’è gelata, e sono apparse le gocce. La stessa cosa avviene sui vetri delle finestre. Nell’interno delle stanze fa caldo, e il vapor d’acqua resta contenuto nell’aria; ma dall’esterno i vetri si gelano, e allora, all’interno, vicino alle finestre, l’aria si raffredda, ed ecco che sui vetri colano le gocce. Così si forma anche la guazza. Quando, di notte, la terra si gela, l’aria che ci sta sopra si gela ugualmente, e da quest’aria così fredda il vapore si stacca a gocce e si posa sulla terra. Certe volte accade che fa freddo di fuori, e in casa fa caldo, eppure i vetri delle finestre non s’appannano; certe volte, fa piú caldo di fuori, e in casa fa piú freddo, eppure i vetri s’appannano. Accade pure che la notte è calda, e c’è molta guazza; e altre volte, la notte è fredda, e la guazza non c’è. Da che cosa dipende? Questo dipende dal fatto che l’aria può essere secca e può essere umida. L’aria è secca quando, senza riscaldarsi, può ancora tenere in sospeso molto vapor d’acqua; è umida quando, senza riscaldarsi, non può più tenere in sospeso molto vapor d’acqua. L’aria secca è come la spugna che non è ancora tutta imbevuta d’acqua; l’aria umida è come la spugna che è già tutta imbevuta d’acqua. Appena l’aria si raffredda un po’, o appena la spugna viene spremuta, l’acqua ne gronda fuori. Nell’aria umida tutte le cose più fredde dell’aria si bagnano; nell’aria secca, tutte le cose bagnate si asciugano. Il vapor d’acqua si leva da esse, e l’aria lo assorbe. Il vescovo e il brigante. (Racconto dal vero). C’era un brigante che da molto tempo era ricercato dalla polizia. Un giorno, egli si travestì e andò in città. In città le guardie lo riconobbero e lo inseguirono. Il brigante riuscì a fuggire e, di gran corsa, arrivò al palazzo del vescovo. Il portone era aperto: lui entrò nel cortile. Un servitore del vescovo gli domandò che cosa voleva. Il brigante non sapeva come rispondere, e disse a casaccio: – Devo parlare col vescovo. Il vescovo ricevette il brigante e gli domandò per quale affare era Secondo libro di lettura 99 venuto a trovarlo. Il brigante rispose: – Io sono un brigante, mi stanno inseguendo: nascondimi, o t’uccido. Il vescovo rispose: – Io sono un vecchio, non temo la morte: ma sento pietà di te. Và in quella stanza: tu sei stanco, riposa: e intanto io ti porterò da mangiare. Le guardie non si arrischiarono a entrare nel palazzo del vescovo, e il brigante rimase lì a passare la notte. Quando il brigante si fu riposato, il vescovo gli si avvicinò, e gli disse: – Tu mi fai pietà, a vedere che hai freddo, hai fame, sei inseguito come un lupo; ma più di tutto mi fai pietà per il gran male che hai fatto, e per l’anima tua, che stai mandando in perdizione. Smetti di fare le cattive azioni! Il brigante disse: – No, ormai io non posso più vincere l’abitudine di fare il male; da brigante ho vissuto, e da brigante morrò. Il vescovo lo lasciò, spalancò tutte le porte, e andò a dormire. Durante la notte, il brigante s’alzò e si mise a girare per le stanze. Gli pareva una cosa incredibile che il vescovo non avesse rinchiuso nessun oggetto, e avesse lasciato tutte le porte spalancate. Il brigante cominciò a guardare qua e là, che cosa poteva rubare. Vide un grosso candeliere d’argento, e pensò: «Piglierò questo, che ha un buon valore: così me ne andrò di qui, e non starò ad ammazzare quel vecchio». E così fece. Le guardie non s’erano allontanate dal palazzo del vescovo, e continuavano sempre a far la posta al brigante. Appena questo uscì dal palazzo, lo circondarono, e gli trovarono indosso il candeliere. Il brigante volle scolparsi, ma le guardie gli dissero: — Di tutti i delitti passati, tu ti puoi scolpare, ma il furto di questo candeliere non puoi negarlo. Andiamo dal vescovo; lui ti smaschererà. Condussero il ladro alla presenza del vescovo, gli mostrarono il candeliere, e gli domandarono: — È vostro questo oggetto? — Il vescovo rispose: — È mio. Il brigante taceva: i suoi occhi, come quelli d’un lupo, sfuggivano qua e là. Il vescovo non fece parola: andò nella stanza, prese l’altro candeliere che c’era là, compagno di quello, lo diede al brigante e disse: — Ma perché, figlio mio, hai preso un candeliere solo? Eppure io te li avevo regalati tutt’e due. Il brigante scoppiò a piangere, e disse alle guardie: — Sono un ladro e 100 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura un brigante: portatemi via! Poi disse al vescovo: — Perdonami, in nome di Cristo, e prega Iddio per me. Jermàk (Racconto di storia russa). Al tempo dello zar Ivàn il Terribile, vivevano i ricchi mercanti Strògonov, che abitavano a Perm, sul fiume Kàma. Essi vennero a sapere che, lungo il fiume Kàma, per un’estensione di centoquaranta miglia, c’era un’ottima terra: terreni arativi non mai lavorati, boschi d’altofusto non tagliati mai. Nei boschi c’era selvaggina in abbondanza, lungo il fiume c’erano laghi pieni di pesci: e nessuno abitava quella terra: solo i Tartari ci facevano delle scorrerie. Gli Strògonov mandarono allo zar una lettera: — Dà a noi questa terra, e noi, per conto nostro, penseremo a fabbricarci dei villaggi fortificati, a raccogliere gente e a farcela stabilite: così impediremo che i Tartari abbiano il passo attraverso questa terra. Lo zar acconsentì, e diede a loro quella terra. Gli Strògonov mandarono i loro commessi a raccogliere gente. E si radunò, così, una gran quantità di gente disoccupata. Chiunque si presentava, gli Strògonov gli assegnavano un pezzo di terra e di bosco, gli davano il bestiame, e non chiedevano nessuna tassa: bastava che tu ti adattassi a vivere là, e quando c’era bisogno, ti trovassi pronto a combattere contro i Tartari. In questo modo quella terra fu colonizzata dai Russi. Passarono vent’anni. I mercanti Strògonov diventarono ancora più ricchi, e allora cominciò a sembrargli poco quel possesso di centoquaranta miglia. Essi s’invogliarono di possedere altra terra ancora. A cento miglia di lì, c’erano le alte montagne degli Urali, e di dietro a quelle montagne essi vennero a sapere che c’era una terra meravigliosa, una terra che non aveva fine. Comandava su questa terra il piccolo principe siberiano Kuciúm. Questo Kuciúm, nei tempi passati, s’era sottomesso allo zar dei Russi, ma poi s’era ribellato, e minacciava di distruggere i villaggi fortificati degli Strògonov. Allora gli Strògonov dissero allo zar: — Tu ci hai dato questa terra, e noi l’abbiamo ridotta in tuo potere: adesso, però, un furfante d’un reuccio, Kuciúm, si ribella contro di te, e vuole strapparci questa terra e mandarci in rovina. Dacci l’ordine di conquistare quella terra dietro ai monti Urali: noi domeremo Kuciúm, e la sua terra la ridurremo tutta in Secondo libro di lettura 101 tuo potere. Lo zar acconsentì, e rispose: — Se siete in forze, togliete a Kuciùm la sua terra. Badate, però, di non distogliere troppi uomini dalla Russia. Detto fatto: gli Strògonov, appena ricevuta dallo zar questa lettera, mandarono i loro commessi a raccogliere altra gente. E soprattutto li incaricarono di far venire i Cosacchi dal Volga e dal Don. A quei tempi, lungo il Volga e lungo il Don, i Cosacchi giravano in gran numero. Si raggruppavano in bande di trecento, seicento uomini, sceglievano un atamàn, ossia un capo, e navigando su grandi barconi catturavano i bastimenti da carico, vivevano di rapina, e poi d’inverno si stabilivano in un villaggio fortificato sulla riva dei fiumi. Giunsero gli arrolatori sul Volga, e incominciarono a informarsi quali erano, lì, i Cosacchi più famosi. Gli rispondevano: – Di Cosacchi ce n’è tanti: ce n’è tanti che non ci lasciano più campare! C’è Michelaccio Cerkascenin; c’è Sary– Asmàn... Ma non ce n’è nessuno più cattivo di Jermàk figlio di Timoteo, l’atamàn. Quello ha una banda di mille uomini, e non solo è il terrore della popolazione e dei mercanti, ma perfino l’esercito dello zar non ha coraggio di accostarglisi. E allora gli arrolatori andarono da Jermàk, l’atamàn, e si misero a persuaderlo che si recasse dagli Strògonov. Jermàk li accolse bene, ascoltò con attenzione i loro discorsi, e promise che si sarebbe trovato là coi suoi uomini per la festa dell’Assunzione. Quando fu l’Assunzione, i Cosacchi arrivarono dagli Strògonov: seicento uomini al comando dell’atamàn Jermàk di Timoteo. Prima di tutto, il mercante Strògonov li mandò contro i Tartari confinanti. I Cosacchi li batterono. Poi, quando non ci fu niente da fare, i Cosacchi si misero a vagabondare e a saccheggiare nei dintorni. Strògonov chiamò Jermàk, e gli disse: – Io, d’ora in poi, non vi terrò più con me, se voi continuate a comportarvi così male! – E Jermàk gli rispose: – Anche io sono dispiacente, ma coi miei uomini non ce la cava nemmeno il diavolo: si sono troppo guastati. Dacci qualche cosa da fare! – Allora Strògonov disse: – Andate al di là degli Urali, a combattere contro Kuciùm, e impadronitevi delle sue terre. Vedrete che lo zar vi ricompenserà –. E mostrò a Jermàk la lettera imperiale. Jermàk fu tutto contento, radunò i Cosacchi, e disse a costoro: – Voi mi fate disonore davanti al padrone di questi posti: continuate a rubare all’impazzata. Se non la smettete, il padrone vi caccerà via: e allora, dove andrete? Sul Volga lo zar ha mandato molte truppe: se voi tornaste là, vi acchiapperebbero, e dovreste rispondere di tutte le faccende passate. Ché se fosse la noia che vi dà addosso, in questo caso 102 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura ho qui del lavoro per voi. E gli mostrò la lettera imperiale, che permetteva agli Strògonov di conquistare le terre dietro gli Urali. I Cosacchi si consigliarono fra loro e acconsentirono a partire. Jermàk tornò da Strògonov, e presero accordi per preparare la spedizione. Stabilirono insieme quanti barconi erano necessari, che quantità di grano, di bestiame, di fucili, di polvere da sparo, di piombo, quanti prigionieri tartari per far da interpreti, quanti mastri armaioli tedeschi. Strògonov pensava tra sé: «Per quanto caro mi costi, bisogna dargli d’ogni cosa, ché se rimangono qua, mi mandano in rovina!». Perciò Strògonov convenne su ogni punto, procurò ogni cosa, ed equipaggiò a perfezione Jermàk e i suoi Cosacchi. Il primo di settembre i Cosacchi di Jermàk partirono risalendo il fiume Ciusovà su trentadue barconi, e in ciascun barcone c’erano venti uomini. Navigarono per quattro giorni a forza di remi contro corrente, e andarono a sboccare nel fiume Serebrianà. Di lì in poi, la navigazione diventava impossibile. Chiesero informazioni alle guide, e sentirono che a questo punto bisognava mettersi per le montagne, e andare avanti per duecento miglia sempre per via di terra: dopo, però, sarebbero ricominciati i fiumi. I Cosacchi si fermarono lì, impiantarono un villaggio fortificato e sbarcarono a terra ogni arnese: i barconi li abbandonarono, e al loro posto fabbricarono dei carri: caricarono tutto su questi, e s’avviarono per via di terra attraverso i monti. Quei luoghi erano tutti boschi, e non c’era nemmeno un abitante. Avanzarono dieci giorni per via di terra, e incontrarono la Zarovnià, un nuovo fiume. Allora si fermarono un’altra volta, e si misero a fabbricarsi degli altri barconi. Finito di fabbricare i barconi, si misero giù per il fiume seguendo la corrente. Navigarono così per cinque giorni, e vennero in posti ancora più belli: stagni, boschi, laghi. Pesci, selvaggina in abbondanza: ed era selvaggina che non era stata mai spaventata. Proseguirono ancora una giornata, e sboccarono nel fiume Turà. Qui, lungo il fiume Turà, incominciarono a incontrare gente, e qualche villaggetto tartaro. Jermàk mandò i suoi Cosacchi a osservare uno di quei villaggi, che sorta di fortificazioni avesse, e se ci fossero molte forze. Andarono una ventina di Cosacchi, spaventarono tutti quei Tartari, spogliarono il villaggio da cima a fondo e pigliarono tutto il bestiame. Dei Tartari che c’erano dentro, qualcuno ne uccisero, e qualcuno ne riportarono vivo. Allora Jermàk, per mezzo degl’interpreti, fece domandare ai Tartari: – Che popolo siete, e da chi dipendete? – I Tartari dissero che facevano Secondo libro di lettura 103 parte dell’impero di Siberia, e che il loro imperatore era Kuciúm. Jermàk rimandò liberi i Tartari, ma tre più intelligenti degli altri li tenne con sé, in modo che gl’insegnassero la strada. Ripresero a navigare in avanti. E più i barconi vengono avanti, più il fiume diventa grosso: e i posti, più avanti si va, più belli si fanno. Anche la popolazione, a mano a mano, s’incontrava più fitta di prima. Però, non era una popolazione forte. E i Cosacchi, quanti villaggi trovavano lungo il fiume, tanti ne conquistavano In un villaggio fecero prigionieri un gran numero di Tartari, e tra essi un vecchio Tartaro di riguardo. Interrogarono il vecchio, chi fosse. Quello rispose: — Io sono Tauzík: io sono un servo del mio re Kuciúm, e per lui comando in questo villaggio. Jermàk si mise a chiedere a Tauzìk notizie del suo re: stava lontano di qui la città sua, Sibìr? Kuciúm aveva molti soldati, molte ricchezze? Tauzìk raccontò tutto. Diceva: — Kuciúm è il più potente imperatore del mondo. La sua città, Sibìr, è la città più grande del mondo. In questa città, — diceva, — c’è tanta gente e tanto bestiame, quante stelle ci sono in cielo. E i soldati che ha il re Kuciúm non si contano: tutti i re messi insieme, non riuscirebbero a vicerlo! Ma Jermàk gli disse: — Noi, Russi, siamo venuti qui a vincere il tuo re e a prendere la sua città, per sottometterla allo zar russo. Noi abbiamo grandi forze. Questi che sono venuti con me, sono soltanto le avanguardie, ma dietro a noi sta avanzando una flotta di barconi, con tanti uomini che non si possono contare, e ognuno ha il suo fucile. E i fucili nostri trapassano un albero da parte a parte: non sono mica come i vostri archi e le vostre frecce. Su, guarda! E Jermàk sparò contro un albero, e spaccò l’albero in due, e da ogni parte i Cosacchi si misero a sparare. Tauzìk, dallo spavento, cadde in ginocchio. Allora Jermàk gli disse: — Dunque và dal tuo re, e digli da te quel che hai visto. Digli che si sottometta; e se non si sottomette, ci penseremo noi a domarlo! — E lasciò partire Tauzík. I Cosacchi navigarono più avanti. Sboccarono nel gran fiume Tobòl, e a mano a mano la città di Sibìr si faceva sempre più vicina. Quando giunsero coi barconi al fiumicello Babasàn, guardano, e là sulla riva vedono un villaggetto, e intorno al villaggetto una gran folla di Tartari. Mandarono da quei Tartari un interprete, per sapere che gente fosse. L’interprete riviene indietro e dice: — Quello è l’esercito di Kuciúm che s’è radunato. E a capo dell’esercito c’è il genero di Kuciúm in persona, Mametkúl. Egli mi ha chiamato alla sua presenza, e mi ha ordinato di dirvi che ritorniate indietro, altrimenti vi massacrerà tutti 104 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura quanti. Jermàk radunò i Cosacchi, sbarcò sulla riva e incominciò a sparare contro i Tartari. Quelli, appena udirono la sparatoria, via a gambe levate. I Cosacchi li inseguirono, e parecchi ne uccisero, parecchi ne fecero prigionieri. Mametkúl riuscì per miracolo a prendere il largo. I Cosacchi navigarono più avanti. Sboccarono in un largo, rapido fiume: l’Irtísc. Lungo l’Irtísc avanzarono per una giornata, arrivarono a un villaggio ben situato, e si fermarono. I Cosacchi mossero verso il villaggio. Appena ci furono sotto, i Tartari si misero a tirar con le frecce, e ferirono tre dei Cosacchi. Jermàk mandò un interprete a dite ai Tartari che cedessero il villaggio, altrimenti li massacravano tutti. L’interprete andò, tornò e disse: — Questa è la residenza d’un altro vassallo di Kuciúm, Atik– Mursa– Karacià. Egli ha molti soldati, e dice che non vuol cedere il villaggio. Jermàk radunò i Cosacchi e disse: — Ebbene, ragazzi, se noi non prendiamo questo villaggio, i Tartari si ringalluzziscono, e non ci daranno più il passo. Più presto riusciamo a spaventarli, più liscio andrà l’affare. Sbarcate giù tutti quanti! All’assalto tutti insieme!,— E così fecero. I Tartari, qui, erano molti, ed erano Tartari coraggiosi. Quando i Cosacchi si slanciarono contro di loro, i Tartari si misero a tirare con gli archi. Una pioggia di frecce copri i Cosacchi. Qualcuno fu trafitto a morte, qualcun altro ferito. S’infuriarono a loro volta i Cosacchi, si spinsero addosso ai Tartari, e, quanti gliene venivano a mano, li ammazzavano tutti. In quel villaggio i Cosacchi trovarono gran quantità di roba: bestiame, tappeti, pellicce, miele in abbondanza; seppellirono i morti, si riposarono, pigliarono con sé ogni ben di Dio, e ripresero a navigare più avanti. Non erano avanzati di molto, che ecco, là sulla riva, avvistano una città, truppe che non se ne vede la fine, e tutto questo esercito sta trincerato dietro un fossato, e il fossato è difeso da una palizzata. I Cosacchi si fermarono. Incominciarono le consultazioni. Jermàk li raccolse in circolo: — Ebbene, ragazzi, che ne dite? Come conviene fare? I Cosacchi s’erano scoraggiati. Alcuni dicevano: — Bisognerebbe passar oltre coi barconi —. Altri dicevano: — Torniamo indietro. E diventarono di cattivo umore, e incominciarono a prendersela con Jermàk. Gli dicevano: — E tu, perché ci hai portato fin qua? Già parecchi di noi sono stati uccisi o feriti: e adesso, qui, moriremo tutti —. E si mettevano a piangere. Allora Jermàk disse al suo aiutante, Ivàn Kolzòv: — Ebbene, Ivàn: e tu, che ne dici? Secondo libro di lettura 105 E Kolzòv gli rispose: — Che vuoi che ti dica? A questo mondo, se non ti uccidono oggi, ti uccideranno domani, e se non sarà domani, moriremo scioccamente in fondo a un letto. A mio parere, la meglio cosa sarebbe di sbarcar sulla riva, e diritti diritti scagliarci come una valanga addosso ai Tartari, alla buona di Dio! Jermàk disse allora: — Bravo il mio Ivàn, tu si che hai del fegato! Così bisogna essere. Ehi, voialtri, ragazzi! Voi non siete Cosacchi, siete donnicciole. Si vede proprio che siete buoni soltanto ad acchiappar gli storioni e a far tremare le donne tartare! Ma dunque non lo capite da voi? Se ora torniamo indietro, ci massacreranno: se coi barconi passiamo oltre, ci massacreranno: se restiamo qua fermi, ci massacreranno. A che ci giova, insomma, perderci d’animo? Facciamo uno sforzo, e dopo sarà tutto più facile. Sapete, ragazzi: il mio babbo aveva una bella cavallina. Finché si trattava di andare in discesa, tirava; in piano, tirava; ma come si arrivava a una salita, s’impuntava, voleva dar indietro, pensando di cavarsela con meno fatica. Allora il babbo pigliò un buon passone, e con quel passone la pestò ben bene. E quella, dagli a torcersi e a dibattersi, fin tanto che non ebbe fracassato tutto il carro. Finì che il babbo la staccò e le fece la pelle. Se invece avesse tirato il carico, non avrebbe sofferto nessun male... Così è anche per noi, ragazzi! C’è rimasta un’uscita sola: piombare in pieno su quei Tartari. Scoppiarono a ridere i Cosacchi, e dissero: — Si vede proprio che tu, Jermàk di Timoteo, sei più fino di noi: a chiedere il parere a noialtri, ignoranti, è fiato sprecato. Portaci dove sai tu: tanto, due volte non si muore, e una volta non si scampa. Allora Jermàk disse: — Ebbene, ascoltate, ragazzi! Facciamo così. Il nemico non ci ha ancora visti tutti. Spartiamoci in tre gruppi. Il primo gruppo, al centro, andrà diritto all’assalto, e gli altri due, da destra e da sinistra, si spingeranno all’accerchiamento. Certamente, quando quelli di mezzo si avvicineranno, i Tartari crederanno che siamo tutti lì, e salteranno fuori. E allora noi, dai lati, gli salteremo addosso. Proprio così, ragazzi! Quando poi avremo sbaragliato costoro, non avremo più da temere nessuno. Diventeremo noi gl’imperatori della Siberia. E così fecero. Appena s’avanzò il gruppo di mezzo, guidato da Jermàk, i Tartari si misero a urlare e saltarono fuori: allora gli s’avventarono contro, da destra Ivàn Kolzòv, da sinistra l’atamàn Mesceriàk. Si spaventarono i Tartari, e si diedero alla fuga. I Cosacchi ne fecero un macello. Da quel momento in poi, nessuno ebbe più coraggio di resistere a Jermàk. E in questo modo egli entrò fin nell’interno della città di Sibìr. E là Jermàk si insediò né più né meno che come un 106 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura imperatore. Cominciarono a venire da lui i signorotti a fargli omaggio. I Tartari vennero a stabilirsi in maggior numero nella città di Sibìr. In quanto a Kuciúm e al genero Mametkúl, essi non si fidavano di affrontare Jermàk in campo aperto, e s’aggiravano di qua e di là cercando qualche modo di mandarlo in rovina. A primavera, quando le nevi si sciolsero, certi Tartari accorsero da Jermàk, e gli dissero: — Mametkúl ti viene addosso un’altra volta: ha radunato un grande esercito: stanno sul fiume Vagaià. Jermàk si avventurò attraverso fiumi, paludi, ruscelli, foreste; si avvicinò coi suoi Cosacchi di nascosto: assalí Mametkúl, uccise molti Tartari, e prese vivo Mametkúl in persona, e lo portò a Sibìr. Da allora in poi, pochi dei Tartari rimasero ribelli, e quelli che non si sottomisero, Jermàk andò a combatterli in quella stessa estate. E tra l’Irtísc e l’Obi, fu tanto il territorio conquistato da Jermàk, che in due mesi non si riusciva a girarlo tutto. Quando ebbe procacciato tutto questo territorio, Jermàk mandò un ambasciatore dagli Strògonov, con una lettera che diceva così: «Io ho preso la città capitale di Kuciúm, e ho fatto prigioniero Mametkúl, e tutta la popolazione di queste parti è ridotta in mio potere. Però i miei cosacchi hanno avuto grandi perdite. Mandate qua altra gente, in modo che noi ce la passiamo più allegramente. In quanto a ricchezze, queste terre ne hanno a non finire». E spedì molte pellicce di valore: volpi, martore e zibellini. Passarono, dopo d’allora, due anni. Jermàk teneva sempre Sibìr, ma gli aiuti dalla Russia non arrivavano e Jermàk era rimasto con pochi russi. Un giorno, il tartaro Karacià mandò da Jermàk un ambasciatore, che gli disse: — Noi ci siamo sottomessi a te, ma gli abitanti del Nogài ci infastidiscono: mandaci qua in aiuto i tuoi valorosi compagni. D’intesa con loro, domeremo tutti quelli del Nogài. Per farti star sicuro che non offenderemo i tuoi, te ne facciamo giuramento solenne. Jermàk si fidò del loro giuramento, e inviò Ivàn Kolzòv con quaranta uomini. Appena questi quaranta uomini furono là, i Tartari si scagliarono su loro e li uccisero. Così i cosacchi diventarono ancora di meno. Un’altra volta, i mercanti di Buchara mandarono a dire a Jermàk che s’erano messi in viaggio con tante merci da portargli a Sibír, ma sulla strada che dovevano fare, c’era Kuciùm col suo esercito, e non li lasciava passare. Secondo libro di lettura 107 Jermàk pigliò con sé cinquanta uomini, e mosse per sgombrare la strada ai mercanti di Buchara. Arrivò al fiume Irtìsc, e non trovò i mercanti. Si fermò lì a pernottare. La nottata era buia, e pioveva. I cosacchi s’erano coricati da poco, quando all’improvviso i Tartari li assalirono, mezzi addormentati, e si misero a massacrarli. Balzò in piedi Jermàk, e cominciò a battersi. Fu ferito di coltello a un braccio. Lui si buttò a correre verso il fiume. I Tartari appresso. Lui giù dentro al fiume. E non fu visto più. Neppure il suo corpo fu più ritrovato. E nessuno ha saputo mai come morí. L’anno seguente, arrivò dalla Russia l’esercito dello zar, e i Tartari furono sottomessi. Suchmàn. (Leggenda in versi). Nel palazzo del principe Vladímir c’è un gran banchetto, c’è un banchetto splendido di principi, boiardi e cavalieri. Tutti, durante il banchetto, si vantano: uno si vanta dei propri tesori, l’altro si vanta del suo buon cavallo, si vanta il forte della propria forza, lo sciocco vanta la sua sposa giovane, il savio vanta la sua vecchia madre. Siede in silenzio, pensoso, alla tavola l’eroe Suchmàn, il figlio d’Odichmàne, e di nulla, Suchmàn, lui non si vanta. Ecco il bel sole, il principe Vladìmir, che per la sala su e giù passeggia, scrolla i riccioli d’oro, e si rivolge al figlio d’Odichmàne, domandandogli: — Che hai, Suchmàn, che stai così pensoso Perché non mangi, non bevi, e non prendi un boccone di questo cigno candido, e di nulla, al banchetto, non ti vanti? — E risponde Suchmàn queste parole: — Se di vantarmi tu mi dai comando, io ti porterò (questo è il mio vanto) un cigno bianco non insanguinato 108 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura e non ferito: vivo tu l’avrai —. E si levò Suchmàn sui piedi rapidi, mise la sella al bravo suo cavallo, e se n’andò Suchmàn al mare azzurro, al mare azzurro, alle baie tranquille. Suchmàn s’avvicinò alla prima baia e non poté incontrare i cigni candidi. S’avvicinò Suchmàn alla seconda, e non poté trovar le cigne femmine. Suchmàn s’avvicinò alla terza baia: né grige femmine, né cigni candidi. Allora il figlio d’Odichmàne pensa: «Come tornerò a Kiev, la magnifica? Che mi dirà Vladímir, il bel principe?» Va alla Njeprà, alla fiumana madre: ma la Njeprà non scorre come al solito, non come al solito, non come un tempo: l’acqua, dalla gran sabbia, è tutta torbida. Alla Njeprà Suchmàn domandò allora: — Perché scorri così, o Njeprà madre, non come al solito, non come un tempo, ma tutta l’acqua la sabbia t’intorbida? — E proferisce la fiumana madre: — Se io non scorro più come di solito, non come un tempo, non come in antico, gli è che mi stanno sopra, sul mio fiume, quarantamila maledetti Tartari. Su me, da mane a sera, un ponte fabbricano. Quanto ne fanno il giorno, a notte io sradico: ma le forze, oramai, più non mi reggono —. Disse allora Suchmàn queste parole: — Portare il nome d’eroe non mi merito, se non esploro queste forze tartare —. Diede lo slancio al bravo suo cavallo, di là dalla Njeprà passò d’un salto, non bagnò zoccolo il suo cavallo bravo. Corse Suchmàn verso una verde quercia, verso una verde quercia ben piantata, e strappo’ via la quercia con le radiche: sgorgò fuori dal tronco il succo candido. Secondo libro di lettura Quel randelletto afferrò per un capo, e poi spronò il cavallo contro i Tartari. E cominciò Suchmàn a mulinare quel suo randello; ed a frullarlo a tondo. Come lo frulla innanzi, fa una strada: come lo mena indietro, fa un bel vicolo. Così Suchmàn uccise tutti i Tartari: solo scamparono tre tartartícoli, sotto i cespugli, sotto i folti vetrici della Njeprà, per dove s’appiattarono. S’avvicinò alla Njeprà l’Odichmànide, e dai cespugli quei tre tartartícoli contro Suchmàn le saette lanciarono, nel costato di lui, nel corpo candido. Le saette strappo’ Suchmàn lo splendido dai fianchi, dalle piaghe sanguinose, le tamponò con foglie di papavero, e squartò col coltello i tartarucoli. Venne Suchmàn da Vladímir bel principe, legò il cavallo fuori a una colonna, ed egli entrò, Suchmàn, dove banchettano. Là il principe Vladìmir, sole fulgido, per il salone su e giù passeggia, e al figlio d’Odichmàne così dice: — Ebbene, Suchmàn caro, non mi porti il cigno bianco, non insanguinato? — E risponde Suchmàn queste parole: — Ahimè, sulla Njeprà, Vladìmir principe, ho avuto a fare con altro che cigni! Sulla Njeprà mi s’è parata incontro un’armata, quarantamila uomini: marciavano su Kiev gli odiosi Tartari, da mane a sera i ponti fabbricavano, e la Njeprà li sradicava a notte, ma ormai le forze già la abbandonavano. Io m’avventai col cavallo sui Tartari, e li sterminai tutti fino all’ultimo —. Il principe Vladìmir, sole fulgido, non prestò fede a queste sue parole: ai servi suoi fedeli diede ordine d’afferrare 109 110 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura a Suchmàn le mani candide, di chiuderlo in profondi sotterranei: e intanto alla Njeprà mandò, Dobrýnja, che di Suchmàn controllasse le imprese. Si levò il buon Dobrýnja sui piè rapidi, mise la sella al cavallo suo bravo, si spinse fino là alla Njeprà madre. Ed ecco, giace là una grande armata, quarantamila uomini, distrutta. E accanto c’è una quercia con le radiche, tutta schiantata in mille schegge e trucioli. La quercia il buon Dobrýnja alzò da terra, la trascinò fin dinanzi a Vladímir, e così gli diceva, il buon Dobrýnja: — Il vanto di Suchmàn è verità. Sulla Njeprà, li ho visti io stesso, giacciono quarantamila maledetti Tartari, e questo randelletto d’Odichmànide, tutto schiantato in mille schegge e trucioli— Allora ai servi comandò il bel principe che corressero ai cupi sotterranei, e il figlio d’Odichmàne liberassero, qui al suo cospetto glielo conducessero; e ancora pronunciò tali parole: — Di tutte queste imprese memorande il buon eroe voglio rimunerare, ricompensarlo vò a suo beneplacito, col dono di città e loro sobborghi, col dono di paesi e lor villaggi, e con oro in tesori incalcolabili — Discesero nei cupi sotterranei i fidi servi a chiamar l’Odichmànide, e rivolsero a lui queste parole: — Esci, Suchmàn, da questi sotterranei: il principe Vladìmir ti fa grazia, e di tutte le gesta memorande il bel sole ti vuol rimunerare, col dono di città e loro sobborghi, col dono di paesi e lor villaggi, e con oro in tesori incalcolabili —. Secondo libro di lettura Uscì fuori Suchmàn allo scoperto, e pronunciò Suchmàn queste parole: — Ahi, principe Vladímir, sole splendido, non hai saputo in tempo farmi grazia, non hai saputo in tempo darmi merito: e ora più non mi potrai vedere, non mi potrai vedere al tuo cospetto —. E strappo’ via Suchmàn, dalle sue piaghe sanguinanti, le foglie di papavero, e così disse, il fulgido Odichmànide: —Voglio che un fiume scorra dal mio sangue, da questo sangue mio così bruciante, così bruciante, così sparso invano: scorri, Suchmàn, oh tu fiume Suchmàn, e alla madre Njeprà sii buon fratello! — 111 Terzo libro di lettura Il re e il falco. (Favola). Un re, andando a caccia, lanciò su una lepre il suo falco fedele, e col cavallo gli corse dietro. Il falco afferrò la lepre. Il re gli tolse la lepre e andò in cerca d’acqua, da calmare la gran sete. Sotto un greppo, il re travò l’acqua. Ma cadeva a goccia a goccia. Allora il re staccò di sélla la sua tazza, e la mise sotto l’acqua. L’acqua colava a gocce, e quando la tazza fu piena, il re se la portò alla bocca e fece per bere. D’improvviso, il falco starnazzò sulla mano del re, sbatté le ali e mandò per aria tutta l’acqua. Il re tese la tazza per la seconda volta. Aspettò un buon pezzo, in modo che si riempisse fino all’orlo: e quando poi fu sul punto di accostarla alla bocca, il falco si rimise a starnazzare, e rovesciò l’acqua. Quando, per la terza volta, il re si fu ben riempita la tazza, e fece per accostarsela alle labbra, il falco tornò daccapo a rovesciarla. Allora il re andò in collera e, sbattendo di tutta forza il falco su una pietra, lo uccise. In quel momento arrivarono i servi del re, e uno di loro s’arrampicò più in alto verso la sorgente, per trovare più acqua e far più presto a riempire la tazza. Ma il servo non riportò l’acqua: tornò indietro con la tazza vuota, e disse: — Quest’acqua non è da bere: nella fonte c’è un ser‐ pente, e il serpente ha sparso nell’acqua il suo veleno. Fortuna che il fal‐ co ha rovesciato l’acqua! Se tu avessi bevuto di quest’acqua, saresti mor‐ to. Il re disse: — Male ho ricompensato il mio falco: lui mi ha salvato la vita, e io l’ho ucciso. La volpe. (Favola). Una volpe cascò in una tagliola: con uno strappo si staccò la coda, e scappo’. Allora cominciò a pensare in che modo poteva nascondere la sua vergogna. Chiamò a raccolta le altre volpi, e cercò di persuaderle che anche loro si mozzassero la coda. – La coda, – diceva, – non serve a un bel niente: non si sa proprio perché ci trasciniamo dietro questo peso i‐ nutile –. Ma una volpe rispose: – Oh, tu non avresti detto così, se non fossi stata senza coda! La volpe scodata non parlò più, e filò via. 116 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Castigo severo. (Leggenda). Un tale andò al mercato a comprar della carne. Al mercato lo ingan‐ narono: gli vendettero carne cattiva, e per dippiú lo frodarono sul peso. Così egli se n’andava verso casa con quella carne, e imprecava. Lo in‐ contrò il re, e gli disse: – Contro chi vai imprecando? – E quello rispose: – Impreco contro chi mi ha ingannato. Ho pagato per tre libbre, e me ne hanno date soltanto due, eppoi di carne cattiva –. Allora il re disse: – Torniamo al mercato: là tu mi indicherai chi è quello che ti ha ingan‐ nato –. L’uomo tornò indietro e indicò il venditore. Il re fece pesare la carne alla sua presenza: e vide che veramente l’uomo era stato inganna‐ to. Allora il re disse: – Dunque ora dimmi in che modo vuoi che io puni‐ sca questo venditore! – Quello rispose: – Ordina che venga tagliata dalla sua schiena tanta carne, quanta lui ne ha truffata a me. Il re disse: – Bene: prendi tu stesso un coltello, e taglia di dosso a que‐ sto venditore una libbra di carne: ma stà ben attento che il peso riesca esatto: se taglierai un pochino di più o un pochino di meno d’una libbra, tu ne dovrai rispondere! L’uomo non parlò più, e se ne tornò a casa sua. L’asino selvatico e quello domestico. (Favola). Un asino selvatico vide un asino domestico, gli s’avvicinò, e si mise a lodarlo della bella vita che faceva: com’era grasso e lustro, e che buoni cibi si buscava. Ma poi, quando l’asino domestico fu caricato col basto, e il conduttore, di dietro, cominciò a incitarlo col randello, l’asino selvatico disse: – No, fratello, adesso non t’invidio più: vedo che il tuo campar be‐ ne ti costa sudore. La lepre e il segugio. (Favola). Una lepre disse a un segugio: – Perché tu abbai così, quando ci inse‐ gui? Faresti prima ad acchiapparci, se corressi a bocca chiusa. Tu, ab‐ baiando, non fai altro che spingerci sul cacciatore: quello sente che noi scappiamo, ci corre incontro col fucile, ci ammazza e a te non dà niente. Terzo libro di lettura 117 Disse il cane: – Non per questo io abbaio: io abbaio soltanto perché, quando sento il tuo odore, mi arrabbio e insieme mi rallegro che sto lì lì per acchiapparti: non so nemmeno io perché, ma non posso far a meno d’abbaiare. Il cervo. (Favola). Un cervo venne a un fiumicello per abbeverarsi: vide se stesso nell’acqua, e si rallegrò tutto delle sue corna, che erano tanto grandi e ramose; poi si guardò le zampe, e disse: – Peccato che le mie zampe sia‐ no così malfatte e meschine! – D’improvviso salta fuori un leone e s’avventa sul cervo. Il cervo si lanciò di galoppo per l’aperta pianura. Es‐ so guadagnava terreno: ma quando giunse al bosco, s’impigliò con le corna fra i rami, e il leone lo acchiappo’. Vedendo che stava per morire, il cervo disse: – Ero davvero sciocco! Quelle che mi parevano malfatte e meschine, mi hanno salvato; e quelle che mi davano tanta soddisfazione, sono state la mia rovina. Le lepri. (Descrizione). Le lepri di bosco, la notte, si cibano di scorza d’alberi; le lepri di cam‐ po si cibano di grano tenero e d’erba; le lepri d’aia si cibano del grano secco ammassato sulle aie. In nottata, le lepri stampano sulla neve una traccia profonda e ben visibile. Esse sono perseguitate da tutti: uomini, cani, lupi, volpi, corvi, aquile. Se una lepre camminasse spedita lungo una linea retta, appena fa giorno la sua traccia la farebbe scoprire, e sa‐ rebbe presa. Ma Dio le ha dato la paura, e la paura la salva. La lepre, finché è notte, va per campi e per boschi senza paura, e stampa una traccia diritta; ma quando sta per far giorno, i suoi nemici si svegliano: la lepre comincia a sentire ora un abbaio di cani, ora lo stridio d’una slitta, ora le voci dei contadini, ora il fruscio d’un lupo nel bosco: s’impaurisce, e comincia a sbandare di qua e di là. Viene avanti a saltel‐ loni, si spaventa di qualche cosa, e riscappa indietro sulla traccia sua. Poi sente qualche altra cosa, e allora, di tutta forza, fa un balzo di fianco, e si mette a saltellare un po’ distante dalla traccia di prima. Poi di nuovo qualche cosa dà uno scrocchio, e di nuovo la lepre fa dietrofronte, e si 118 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura rimette a correre in un altro verso. Quando è giorno chiaro, si accovac‐ cia. I cacciatori, al mattino, vanno per seguire la traccia della lepre, si con‐ fondono con quelle doppie péste e con quei salti fuor di strada, e si me‐ ravigliano della furberia della lepre. Ma la lepre non ci ha neanche pen‐ sato, a fare la furba. Ha paura di tutto, e altro non sa. Il cane e il lupo. (Favola). Un cane s’addormentò fuori del suo cortile. Arrivò un lupo affamato e fece per mangiarlo. Il cane gli disse: — Lupo! Aspetta a mangiarmi: adesso io sono magro, tutt’ossa. Ma se dai tempo al tempo, i miei pa‐ droni stanno per fare uno sposalizio, e anch’io avrò da mangiare a vo‐ lontà, e diventerò ben grasso: allora si che ci sarà gusto a mangiarmi! Il lupo gli credette, e se ne andò. Ecco che ritorna un’altra volta, e che cosa vede? Il cane sta coricato sul tetto. Allora il lupo gli fa: — Ebbene, è stato fatto questo sposalizio? Gli rispose il cane: — Senti, lupo mio: un’altra volta che mi trovi a dormire davanti al cortile, non stare più ad aspettare gli sposalizi. I fratelli del re. (Leggenda). Un re stava camminando per la strada. Un mendicante gli s’avvicinò e gli chiese l’elemosina. Il re non gli diede niente. Il mendicante disse: — Re, si vede che tu ti sei scordato che tutti quanti abbiamo un padre solo, Dio: noi siamo tutti fratelli, e tutti dobbiamo dividere la nostra roba con gli altri. A queste parole, il re si fermò, e disse: — Hai ragione: noi siamo fra‐ telli, e dobbiamo dividere ogni cosa fra noi —; e diede al mendicante una moneta d’oro. Il mendicante prese la moneta d’oro, e disse: — Tu mi dai poco: è questo il modo di dividere le proprie cose coi fratelli? Bisogna dividere in parti uguali. Tu hai un milione di queste monete, e qui me ne hai data una sola. Terzo libro di lettura 119 Allora il re rispose: — È vero che io ho un milione di monete, e che a te ne ho data una sola; ma anche di fratelli io ne ho tanti, quante sono le mie monete. Il cieco e il latte. (Favola). Un tale, cieco nato, domandò a uno che ci vedeva: — Di che colore è il latte? Quello che ci vedeva disse: — Il colore del latte somiglia a quello del‐ la carta bianca. Il cieco domandò: — Ma forse questo colore sfruscia sotto le mani come fa la carta? Quello che ci vedeva disse: — No, è bianco come la farina bianca. Il cieco domandò: — Ma forse è morbido e in polvere come la farina? Quello che ci vedeva disse: — No, è bianco e basta, come una lepre di quelle bianche. Il cieco domandò: — Ma allora, è peloso e morbido come una lepre? Quello che ci vedeva disse: — No, il color bianco è tal e quale com’è la neve. Il cieco domandò: – Ma allora, è freddo come la neve? E così, per quanti paragoni portasse quello che ci vedeva, il cieco non poté capire com’è fatto il colore bianco che ha il latte. La lepre della steppa. (Descrizione). Una grossa lepre abitava, d’inverno, vicino a un villaggio. Quando venne la notte, essa drizzò un orecchio, e stette in ascolto; drizzò quel‐ l’altro, torse i baffi, annusò, e si sedette sulle zampe di dietro. Poi fece due o tre salterelli sulla neve alta, e daccapo si mise a sedere sulle zampe di dietro, guardandosi intorno. Da tutte le parti non c’era niente in vista, tranne che neve. La neve si stendeva a onde, e lustrava come fosse zuc‐ chero. Sul capo della lepre stava sospeso un vapore gelato, e attraverso questo vapore apparivano grandi stelle splendenti. La lepre aveva bisogno di scavalcare la strada maestra, per recarsi al‐ la solita aia. Per la strada maestra, si udiva fin qui come stridevano i pat‐ tini, come sbuffavano i cavalli, come scricchiolavano i fusti delle slitte. 120 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura La lepre tornò a fermarsi al margine della strada. I contadini cammi‐ navano dietro alle slitte coi baveri alzati. Le loro facce si scorgevano ap‐ pena. Le barbe, i baffi, le sopracciglia, erano bianche. Dalle bocche e dai nasi il fiato vaporava. I loro cavalli erano sudati, e sul sudore s’era attac‐ cata la brina. I cavalli scrollavano i collari, sprofondavano nelle buche, se ne tiravano fuori. I contadini li rincorrevano, li sorpassavano, li prende‐ vano a frustate. Due vecchi camminavano a fianco a fianco, e uno stava raccontando d’un cavallo che gli era stato rubato. Quando la sfilata delle slitte fu passata, la lepre traversò in due salti la strada, e leggera leggera se n’andò verso l’aia. Ma un cagnuolo, da quelle slitte, aveva avvistato la lepre: cominciò ad abbaiare e gli si slan‐ ciò appresso. La lepre si mise a galoppare su su per quell’onde di neve: la neve reggeva la lepre; ma il cane, quand’ebbe fatto dieci salti, s’impegolò fra la neve e si fermò. Allora anche la lepre si fermò, stette un po’ a sedere sulle zampe di dietro, e calma calma se n’andò alla volta dell’aia. Strada facendo, tra certi grani in erba, s’imbatté in altre due le‐ pri. Esse stavano mangiando e giocando. La lepre si trattenne a giocar colle compagne, scavò insieme con loro la neve gelata, mangiò di quel grano invernale, e continuò per la strada sua. Al villaggio, c’era un gran silenzio; le luci erano spente. Si udiva sol‐ tanto il piangere d’un bambino da latte di dentro una casupola, e gli scoppi che il legname della casupola mandava pel gelo. La lepre s’inoltrò fin sull’aia, e là trovò le altre compagne. Si mise a giocare con loro sullo spiazzo selciato, sgombro di neve; mangiò l’avena da una massa già incominciata, s’arrampicò su per il tetto, carico di neve, fin dentro il seccatoio, e scavalcando la siepe se ne tornò verso il suo burro‐ ne. A levante schiariva l’alba, le stelle diventavano più rade, e sempre più fitto il vapore gelato si sollevava da sotto la terra. Nel villaggio vici‐ no, s’erano già svegliate le donne, e andavano per acqua; gli uomini, dal‐ le aie, portavano da mangiare alle bestie; i bambini gridavano e piange‐ vano. Sulla strada maestra passavano ancora più carri di prima, e i con‐ tadini chiacchieravano più forte. La lepre, a salti, riattraversò la strada, s’accostò al suo covo vecchio, si scelse un posticino un po’ più a monte, scavò la neve, s’adattò parte in‐ dietro nel nuovo covàcciolo, s’applicò le orecchie sulla schiena, e s’addormentò cogli occhi aperti. Terzo libro di lettura 121 Il lupo e l’arco (Favola). Un cacciatore con arco e frecce andò a caccia, uccise un capriolo, se lo caricò sulle spalle, e così lo portava verso casa. Strada facendo, vide un cinghiale. Il cacciatore buttò in terra il capriolo, tirò al cinghiale e lo ferì. Il cinghiale s’avventò contro il cacciatore, lo squarciò a morte con le zanne, e poi subito anch’esso, lì sul posto, morí. Un lupo fiutò l’odore del sangue, e arrivò dove giacevano per terra il capriolo, il cinghiale, l’uomo e il suo arco. Il lupo si rallegrò tutto, e fece tra sé: — Adesso, per un pezzo, non avrò più fame! Non voglio, però, mangiare tutto d’un colpo: voglio mangiare un pochino per volta, in modo che nulla vada sprecato: prima mi mangerò quel che c’è di più duro, poi mi papperò le cosette più tenere e dolci. Il lupo annusò il capriolo, il cinghiale e l’uomo, e disse: — Questi so‐ no tutti cibi teneri: li mangerò più tardi. Prima, fammi mangiare questo nervo dell’arco! – E si mise a rosicchiare il nervo teso sull’arco. Quando ebbe finito di tagliare coi denti la corda, l’arco scattò e diede un colpo al lupo nella pancia. Subito, lì sul posto, il lupo morí: e vennero altri lupi, e mangiarono a loro volta l’uomo, il capriolo, il cinghiale e il lupo. In che modo il contadino seppe spartire l’oca. (Leggenda). Un contadino povero rimase senza grano. Gli venne l’idea di chiedere del grano al padrone. Per non presentarsi dal padrone a mani vuote, ammazzò un’oca, l’arrostì e gliela portò in regalo. Il padrone accettò l’o‐ ca, e disse al contadino: – Ti ringrazio dell’oca, contadino: ma io non so in che modo faremo a spartire la tua oca. Devi sapere che siamo io, mia moglie, due figli maschi e due figlie femmine. In che modo si potrebbe spartire quest’oca senza far torto a nessuno? Il contadino rispose: – Te la spartisco io! – Prese il suo coltelluccio, ta‐ gliò la testa, e disse al padrone: – Tu sei il capo di tutta la casa: a te la te‐ sta! – Poi tagliò il sedere e lo offrì alla padrona: – Tu, – le disse, – in casa stai seduta, sulla casa vigili: a te il sedere! – Poi tagliò le cosce e le diede ai figli maschi: – A voi, – disse, – le zampe: del vostro babbo ricalcate le stampe! – E alle figlie femmine diede le ali: – Voi,– disse, – presto presto 122 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura via di casa volerete: d’un’aluccia per ciascuna voi vi accontenterete... E tutto quel che resta, me lo piglierò io! – E prese per sé tutta l’oca. Il padrone rise, diede al contadino il grano e vi aggiunse del denaro. Venne all’orecchio d’un altro contadino, benestante, che il padrone, in compenso di un’oca, aveva dato al contadino povero grano e denaro: s’affrettò ad arrostire cinque oche, e le portò al padrone. Il padrone gli disse: – Grazie delle oche. Ma vedi, io ho moglie, due figli maschi, due figlie femmine: in tutto siamo sei: in che modo si po‐ trebbe, in parti uguali, spartire tra noi le tue oche? Il contadino ricco si mise a pensare: pensa e ripensa, non gli venne in mente un bel nulla. Allora il padrone mandò a chiamare il contadino povero, e disse a lui di fare quella divisione. Il contadino povero prese una delle oche e la diede al padrone e alla padrona insieme, dicendo: – Così, con quest’oca, siete in tre –; un’altra ne diede ai figli maschi: – E anche voi, – disse, – siete in tre –; un’altra ne diede alle figlie femmine: – E anche voi siete in tre –; e finalmente, per sé, prese due oche: – Così, – disse, – anche noi, io e quest’oche, siamo in tre: a tutti parti uguali! Il padrone rise e diede al contadino povero altro denaro e altro grano. In quanto al contadino ricco, lo fece cacciar via senza niente. La zanzara e il leone. (Favola). Una zanzara venne a posarsi su un leone, e gli disse: – Tu credi di a‐ vere più forza di me? Temo che ti sbagli! In che consiste la tua forza? Se consiste nel graffiare con le unghie e nel mordere coi denti, allora anche le donnicciòle sanno battersi così coi loro mariti! Io sono più forte di te: vieni, facciamo la guerra! – E la zanzara si mise a strombettare e a pun‐ zecchiare il leone sul nudo delle guance e sul naso. Il leone continuava a darsi colpi di zampa e unghiate alla faccia: si scorticò tutta la faccia a sangue, e rimase sfinito dalla stanchezza. La zanzara, strombettando di gioia, se ne volò via. Poco dopo, però, andò a impigliarsi nella tela d’un ragno, e il ragno incominciò a suc‐ chiarsela. Allora la zanzara disse: – Una fiera forte come il leone, io ho saputo vincerla: ma ecco, per mano d’un miserabile ragno ora perdo la vita. Terzo libro di lettura 123 Gli alberi di melo. (Racconto). Avevo piantato duecento giovani meli, e per tre anni, in primavera e in autunno, avevo rimosso ben bene intorno ai tronchi la terra, e nell’in‐ vernata li avevo avvoltolati di paglia per difenderli dalle lepri. Il quarto anno, quando la neve si sciolse, andai a guardare i miei meli. S’erano in‐ grossati parecchio, in quell’ultima invernata; avevano la scorza lucida e piena di linfa; i rametti erano tutti interi, e alle loro estremità, come pure alle biforcazioni, spiccavano rotonde, come tanti piselli, le gemme dei fiori. Qua e là gl’involucri delle gemme erano già scoppiati, e si scorge‐ vano, d’un rosso vivo, gli orli dei petali. Io sapevo che tutti quei bottoni sarebbero diventati fiori e frutti, e perciò mi rallegravo, guardando così i miei meli. Ma quando svoltolai la paglia dal primo degli alberetti, m’av‐ vidi che in basso, proprio a fior di terra, la scorza del melo era stata ro‐ sicchiata giro giro, alla profondità dell’alburno, in una specie di anello bianco. Questa era opera dei sorci. Io tolsi la paglia a un secondo alberet‐ to: anche a quest’altro era accaduta la stessa cosa. Di duecento meli, nemmeno uno era rimasto intatto. Provai a spalmare i punti rosicchiati con pece e cera; ma quando i me‐ li, poco più tardi, sbocciarono, i loro fiori caddero subito. Poi spuntarono delle piccole foglioline, ma anche queste appassirono e si seccarono. La scorza si raggrinzi e s’annerí. Di duecento meli, se ne salvarono soltanto nove. Erano nove meli sui quali la scorza non era stata mangiata in un giro completo: in quella specie di anello bianco era rimasta qualche stri‐ sciolina di scorza. Su queste striscioline, nei punti in cui la scorza s’aprì, si formarono delle escrescenze: e gli alberetti, sia pure un po’ malaticci, continuarono a svilupparsi. Gli altri andarono tutti a male: soltanto al di sotto dei punti rosicchiati crebbe qualche rimessiticcio, ma anche questo inselvatichito. La scorza è per gli alberi la stessa cosa che la pelle per l’uomo: attra‐ verso le vene il sangue circola nell’uomo, e così, attraverso la scorza, la linfa circola per il tronco dell’albero, e sale ai rami, alle foglie e ai fiori. Si può scavare un albero all’interno e svuotarlo del tutto, come accade ai vecchi salci, purché la scorza, però, resti viva: allora tutto l’albero resterà in vita; ma se la scorza andrà a male, anche per l’albero sarà finita. Se a un uomo si tagliassero le vene, egli morrebbe, prima di tutto perché perderebbe il sangue, e poi perché il sangue non avrebbe piú modo di circolare per il suo corpo. 124 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Così anche le betulle si seccano quando i ragazzi ci scavano una fos‐ setta per berne la linfa, e tutta la linfa man mano ne sgorga fuori. E così anche i miei meli andarono a male, dopo che i sorci ebbero mangiato tutta la scorza giro giro, e la linfa non aveva più modo di pas‐ sare dalle radici ai rami, alle foglie e ai fiori. Il cavallo e i suoi padroni. (Favola). Un cavallo stava con un giardiniere. Da lavorare ne aveva tanto, ma da mangiare ben poco. Perciò si mise a pregare il Signore di poter anda‐ re da un altro padrone. E così gli avvenne. Il giardiniere vendette il cavallo a un vasaio. Il cavallo fu tutto con‐ tento: ma, stando col vasaio, il lavoro gli crebbe ancora più di prima. Al‐ lora il cavallo ricominciò a lamentarsi della sua sorte, e a pregare il Si‐ gnore di poter andare da un padrone migliore. E anche stavolta ottenne quel che voleva. Il vasaio vendette il cavallo a un pellaio. Ma appena, nel cortile del pellaio, il cavallo vide tutte quelle pelli cavalline, subito si mise a frigna‐ re: – Oh poveretto me, disgraziato che non sono altro! Era meglio che fossi rimasto coi padroni di prima. Adesso, lo vedo bene, non per fare un lavoro sono stato venduto, ma per la pelle che ho indosso! Le cimici. (Racconto). M’ero fermato a pernottare in una locanda con stallaggio. Prima di coricarmi, presi la candela e diedi un’occhiata ai cantoni del letto e delle pareti: e quando vidi che in tutti i cantoni c’erano le cimici, mi misi a pensare come potevo sistemarmi per la notte in modo che le cimici non riuscissero a raggiungermi. Avevo con me un lettino pieghevole, ma sapevo che, piantandolo nel mezzo della stanza, le cimici sarebbero strisciate giù dalle pareti fin sul piancito, e dal piancito, risalendo su per le zampe del letto, sarebbero riuscite a raggiungermi. Quindi io chiesi al locandiere quattro ciotole di legno: riempii le ciotole d’acqua: e posi le quattro zampe del letto cia‐ scuna in una ciotola piena. Poi mi coricai, appoggiai la candela in terra, e stetti a guardare che cosa avrebbero fatto le cimici. Terzo libro di lettura 125 Erano in molte, le cimici, e avevano già fiutato il mio odore: le vidi strisciare per il piancito, arrampicarsi sulle ciotole fino all’orlo, e di lì, al‐ cune cadere in acqua, altre tornarsene indietro. «Sono stato più furbo di voi! — dissi tra me. — Ora non mi raggiungerete più!» E già facevo per spegnere la candela, quando, improvvisamente, sentii qualche cosa che mi pungeva. Mi guardo addosso: una cimice! Come diamine aveva fatto a infilarsi fin lì ? Non era passato un minuto, e ne trovai un’altra. Allora mi misi a scrutare bene tutt’intorno, cercando d’indovinare in che modo erano riuscite a raggiungermi. Per un bel pezzo non potei capirci niente, ma alla fine, alzai un’oc‐ chiata al soffitto, e che cosa vidi? Le cimici s’arrampicavano su per il sof‐ fitto: strisciando strisciando, arrivavano al livello del letto: quando erano lì, si staccavano dal soffitto e venivano a cadermi addosso. «No, — dissi allora fra me, — più furbo di voi non c’è nessuno!» M’infilai la pelliccia e uscii nel cortile. Il vecchio e la morte. (Favola). Un vecchio era andato a tagliare la legna, e la portava verso casa. La strada era lunga; il vecchio si senti sfinito, depose il suo fascio in terra, e disse: — Ah, se venisse la morte! La morte venne, e gli disse: — Eccomi qua: che ti occorre? Il vecchio si spaventò, e rispose: — Che tu mi aiuti a sollevare questo fascio. In che modo le oche salvarono Roma. (Racconto storico). Nel 390 avanti Cristo, delle popolazioni selvagge, i Galli, assalirono i Romani. I Romani non riuscirono a fermarli, e molti fuggirono dalla cit‐ tà, molti altri si rinchiusero dentro la rocca. Questa rocca aveva nome Campidoglio. In città non era rimasto nessuno fuorché i senatori. I Galli entrarono nella città, uccisero tutti i senatori, e incendiarono Roma. Ri‐ maneva, al centro di Roma, la rocca sola, il Campidoglio, dove i Galli non avevano potuto penetrare. I Galli erano desiderosi di saccheggiare il Campidoglio, giacché sapevano che là c’erano grandi ricchezze. Ma il Campidoglio era posto su un’altura dirupata: da una parte c’erano le 126 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura mura e le porte, dall’altra un dirupo a picco. Una notte, di soppiatto, i Galli s’arrampicarono su, dalla parte del dirupo, verso il Campidoglio: essi si sostenevano dal basso l’uno sull’altro, e si passavano l’uno all’al‐ tro le lance e le spade. In questo modo, pian piano, arrivarono fino in cima al dirupo: e nemmeno i cani li avevano uditi. Stavano già scavalcando il muro, quando a un tratto certe oche senti‐ rono che veniva gente, e si misero a gracidare e a sbattere le ali. Uno dei Romani si svegliò, corse al muro e ribaltò giti nel dirupo uno dei Galli. Il Gallo precipitò e travolse altri con lui. Allora i Romani si radunarono in fretta e incominciarono a lanciare tronchi e pietre verso il dirupo, e così uccisero molti dei Galli. Poi arrivarono a Roma aiuti dal di fuori, e i Galli furono ricacciati lontano. Da allora i Romani, in ricordo di quella giornata, stabilirono di fare una festa. I sacerdoti, in paramenti solenni, andavano in giro per la città, e uno portava fra le braccia un’oca; dietro di loro, legato a una corda, trascinavano un cane. La gente s’avvicinava all’oca e s’inchinava alla be‐ stia e al sacerdote; al cane, invece, davano bastonate a tutto andare, fin tanto che non lo vedevano morto. Per quale ragione il gelo fa scoppiare gli alberi? (Considerazioni). La ragione è questa, che dentro agli alberi c’è dell’umidità, e questa umidità si congela, né più né meno di come fa l’acqua. Quando l’acqua si congela, si dilata; e quando non trova spazio per dilatarsi, tanto fa che spacca qualunque recipiente, e così anche gli alberi. Se provate a mescere dell’acqua in una bottiglia, e a metterla in ghiac‐ cio, l’acqua si congelerà e spaccherà la bottiglia. Quando l’acqua si muta in ghiaccio, questo ghiaccio contiene in sé una forza tale che, se riempite d’acqua la canna di ferro d’un cannone, e ce la fate gelare dentro, il ghiaccio la farà spaccare. Per quale ragione l’acqua non si restringe col freddo, come fa il ferro, ma si dilata mentre si congela? Per la ragione che quando l’acqua si con‐ gela, le particelle di cui è composta si collegano fra loro in un modo di‐ verso, e fra l’una e l’altra di queste particelle resta un maggior numero di spazi vuoti. Terzo libro di lettura 127 E a quale scopo la natura non fa restringere l’acqua, quando si conge‐ la? Allo scopo che l’acqua, nei fiumi e nei laghi, non si congeli fino al fondo. Il ghiaccio, formandosi, si dilata, e così diventa più leggero dell’ac‐ qua, e resta a galla sull’acqua; più in basso si forma soltanto un mezzo ghiaccio, che acquista uno spessore sempre più grosso, ma non arriva mai fino al fondo. Se invece l’acqua si restringesse col gelo, come si re‐ stringe il ferro, accadrebbe che l’acqua di superficie, gelando sui fiumi, affonderebbe giù, giacché il ghiaccio sarebbe più pesante dell’acqua. Poi di nuovo altra acqua, alla superficie, gelerebbe a sua volta, e affondereb‐ be giù: e così, laghi e fiumi si congelerebbero per intero, dalla superficie fino al fondo. L’umidità. (Considerazioni). I. Come mai il ragno, certe volte, fa la ragnatela e rimane lì fermo al centro del suo nido, e altre volte esce dal nido e si tesse un’altra ragnate‐ la? Il ragno fa le sue ragnatele a seconda del tempo che è e che sarà. Noi, osservando le ragnatele, possiamo sapere che cosa farà il tempo: se il ra‐ gno se ne sta fermo, ficcato al centro della ragnatela, e di lì non si muo‐ ve, è segno di pioggia: se esce dal nido e tesse altre ragnatele, è segno di buon tempo. Come fa, il ragno, a sapere in anticipo che tempo sarà? I sensi del ragno sono talmente fini, che appena nell’aria comincia a raccogliersi un pochino di umidità, e noialtri non ce ne accorgiamo nep‐ pure, e il tempo ci pare ancora sereno, per il ragno già piove. Allo stesso modo che anche un uomo, se è svestito, sente subito l’u‐ midità, ma se è vestito non l’avverte, così per il ragno già piove, quando per noialtri la pioggia si sta appena preparando. II. Per quale ragione, in autunno e in inverno, le porte si gonfiano e non chiudono più, mentre in estate si prosciugano e chiudono bene? 128 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura La ragione è che in autunno e in inverno il legno s’impregna d’acqua, come una spugna, e cresce: in estate, invece, ogni umore ne svapora, ed esso si rattrappisce. Per quale ragione il legname tenero, per esempio il pioppo, si gonfia di più, e la quercia di meno? La ragione è che il legno forte, come la quercia, contiene in sé meno spazi vuoti, e l’acqua non trova dove infiltrarsi: nel legno tenero, invece, come il pioppo, gli spazi vuoti sono di più, e l’acqua trova dove infiltrar‐ si. Nel legno fradicio, poi, ci sono ancora più spazi vuoti: e per questo il legno fradicio è quello che si gonfia più di tutti, e più di tutti si ritira. I tronchi scavati, che servono di arnia per le api, sono fatti con legno più tenero e più fradicio possibile: le arnie migliori sono quelle di salcio fradicio. Per quale ragione? Per la ragione che, attraverso il legno fradi‐ cio, passa l’aria; e le api, nelle arnie fatte così, trovano aria più leggera. Per quale ragione le assi umide fanno la gobba? La ragione è che esse non si prosciugano in modo uguale in ogni pun‐ to. Se un’asse umida viene disposta con una faccia verso la stufa, l’umore ne uscirà, e allora il legno si restringerà da quella faccia, e tirerà a sé l’altra faccia: ma la faccia ancora umida non potrà restringersi, giac‐ ché contiene acqua, e così, tutta l’asse s’incurverà per intero. Le particelle della materia sono collegate tra loro in modi diversi. (Considerazioni). Per quale ragione il ceppo del carro e i mozzi delle ruote non si fanno di legno di quercia, ma di betulla? Eppure, il ceppo e i mozzi debbono essere forti, e la quercia è più forte e non costa di più della betulla. La ragione è che la quercia si spacca per lungo, mentre la betulla non si spacca in nessun verso, non fa altro che sfilaccicarsi. E questo dipende dal fatto che la quercia è composta di particelle più compatte della betul‐ la, ma è composta in modo che, per il lungo, si fende, mentre la betulla non è soggetta a fendersi. Per quale ragione le ruote e i pattini da slitta s’incurvano, se sono fatti di quercia o di olmo, e invece non s’incurvano, se sono di betulla o di ti‐ glio? La ragione è che la quercia e l’olmo, quando si ammolliscono col va‐ pore, s’incurvano e non si spezzano: la betulla e il tiglio, invece, si sfilac‐ cicano in tutti i versi. Terzo libro di lettura 129 E tutto dipende sempre dal fatto che le particelle del legno, nella quercia e nella betulla, sono collegate tra loro in modi diversi. Il leone e la volpe. (Favola). Un leone, dalla gran vecchiaia, non era più capace d’acchiappare le bestie selvatiche, e allora pensò di campare con la furberia: si ritirò in una grotta, e finse d’essere malato. Le bestie selvatiche vennero a fargli visita, e lui, tutte quelle che mettevano piede nella sua grotta, se le man‐ giava. La volpe subodorò la faccenda: si fermò sull’entrata della grotta, e disse: — Bè, caro il mio leone, come te la passi? Il leone rispose: — Male. Ma tu, perché non vieni dentro? Gli ribatté la volpe: — Sai perché non vengo dentro? Perché, dalle tracce di fuori, vedo che ad entrare sono stati in molti, ma nessuno è u‐ scito. Il giudice giusto. (Leggenda). Un re d’Algeri, Bauakas, volle accertarsi coi suoi occhi se era vero ciò che gli avevano detto, che in una delle città del suo regno viveva un giudice giusto, il quale sapeva subito riconoscere la verità, e non c’era nessun imbroglione capace di sfuggirgli. Bauakas si travestì da mercante e partì, a cavallo, per la città dove il giudice viveva. All’entrata della cit‐ tà, s’avvicinò a Bauakas uno storpio, e gli chiese l’elemosina. Bauakas gliela diede, e fece per proseguire oltre, ma lo storpio gli s’aggrappo’ al vestito. — Che cosa vuoi? — gli domandò Bauakas. — Forse non te l’ho data, l’elemosina? — L’elemosina me l’hai data, — disse lo storpio, — ma ora fammi u‐ n’altra carità: montami sul tuo cavallo e portami fino in piazza, ché qui, fra cavalli e cammelli, finirò per restare schiacciato. Bauakas fece sedere lo storpio alle sue spalle, e così lo portò fino alla piazza. Quando fu sulla piazza, Bauakas fermò il cavallo: ma il mendi‐ cante non scendeva a terra. Bauakas gli disse: — Che fai, che non scendi? Siamo arrivati —. Ma il mendicante rispose: — E perché dovrei scende‐ re? Il cavallo è mio! E se poi, con le buone, tu non me lo vuoi rendere, vieni con me dinanzi al giudice. 130 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Intorno a loro s’era radunata gente, che stava a sentire perché litiga‐ vano; poi tutti si misero a gridare: — Andate dinanzi al giudice, quello vi farà giustizia! Bauakas e lo storpio andarono, dunque, dal giudice. Nel tribunale c’e‐ ra folla, e il giudice chiamava a turno quelli che doveva giudicare. Prima che venisse il turno di Bauakas, il giudice chiamò un dotto e un contadi‐ no: costoro stavano in lite per una donna. Il contadino diceva che quella era sua moglie, e il dotto diceva che, invece, era moglie sua. Il giudice li ascoltò ben bene, restò un minuto in silenzio, e poi disse: — Lasciate questa donna qui da me, e voi tornate domani. Quando quei due se ne furono andati, entrarono un macellaio e un o‐ lialo. Il macellaio era tutto sporco di sangue, e l’oliaio di olio. Il macel‐ laio teneva nella mano del denaro: l’oliaio teneva nella sua mano la ma‐ no del macellaio. Il macellaio diceva: — Io ho comperato da costui dell’olio e ho tratto fuori il borsello per pagarlo: ma lui mi ha afferrato per la mano e ha fatto per strapparmi il denaro. In questo modo siamo venuti fin qui da te: io tengo nella mano il borsello, e lui mi tiene stretto per la mano. Ma il denaro è mio: e lui è un ladro. L’oliaio diceva, da parte sua: — Non è vero. Il macellaio è venuto da me a comperare dell’olio. Dopo che io gliene ho fatta piena la brocca, lui mi ha pregato di cambiargli una moneta d’oro. Io ho tirato fuori gli spic‐ cioli e li ho disposti sul bancone: allora lui li ha arraffati e ha fatto per fuggire. Io l’ho afferrato per la mano e l’ho condotto fin qui. Il giudice restò un minuto in silenzio, e poi disse: — Lasciate questo denaro qui da me, e voi ritornate domani. Quando venne il turno di Bauakas e dello storpio, Bauakas raccontò com’era andato il fatto. Il giudice lo ascoltò, quindi interrogò il mendi‐ cante. Il mendicante disse: — Sono tutte bugie. Io passavo a cavallo per la città: costui stava accoccolato per terra, e mi ha pregato di trasportarlo con me. Io l’ho fatto montare sul mio cavallo e l’ho portato fin dove mi aveva chiesto: ma lui s’è rifiutato di scendere e ha detto che il cavallo era suo. Sono tutte bugie! Il giudice stette a pensare un minuto, e poi disse: — Lasciate questo cavallo qui da me, e voi ritornate domani. L’indomani, molta gente si radunò in tribunale per sentire in che mo‐ do il giudice avrebbe fatto giustizia. Per primi s’avanzarono il dotto e il contadino. — Riprenditi tua moglie, — disse il giudice al dotto, — e al contadino siano date quaranta bastonate —. E il dotto si riprese sua moglie, e il contadino fu punito lì per lì. Terzo libro di lettura 131 Poi il giudice chiamò il macellaio. — Il denaro è tuo, — disse al macellaio, poi indicò l’oliaio e disse: — E a lui, cinquanta bastonate. Allora furono chiamati Bauakas e lo storpio. — Saresti capace di rico‐ noscere il tuo cavallo fra altri venti? — domandò il giudice a Bauakas. — Si che lo riconoscerei! — E tu? — Anch’io lo riconoscerei! — disse lo storpio. — Vieni con me, — disse a Bauakas il giudice. Andarono nella scuderia. Bauakas, senza un attimo d’esitazione, fra venti altri cavalli, indicò il suo. Poi il giudice chiamò lo storpio alla scu‐ deria, e anche a lui ordinò d’indicare qual era il cavallo. Lo storpio rico‐ nobbe il cavallo e lo indicò. Allora il giudice tornò a sedere al suo posto e disse a Bauakas: — Il cavallo è tuo: riprenditelo. E allo storpio, cinquanta bastonate. Terminato il giudizio, il giudice s’avviò a casa: ma Bauakas gli andò dietro. Che cosa c’è: non sei contento, forse, della mia sentenza? — gli do‐ mandò il giudice. — No, sono contento, — disse Bauakas: — vorrei sapere, soltanto, come hai fatto a capire che la donna era moglie del dotto e non del con‐ tadino, e che il denaro era del macellaio e non dell’oliaio, e che il cavallo era mio e non del mendicante! In quanto alla donna, ecco come ho fatto: l’ho chiamata, stamattina a buonora, e le ho detto che riempisse d’inchiostro il mio calamaio. Lei ha preso il calamaio, lo ha lavato svelta e sicura, e ci ha versato dentro l’in‐ chiostro. Vuol dire che era abituata a questa faccenda. Se fosse stata mo‐ glie d’un contadino, non avrebbe saputo sbrigarsela così. Dunque, la ra‐ gione era del dotto. — In quanto poi al denaro, ecco come ho fatto: ho messo quel denaro in una ciotola piena d’acqua, e stamattina sono andato a guardare se, a galla sull’acqua, c’era dell’olio. Se il denaro fosse appartenuto all’oliaio, sarebbe rimasto impiastricciato dalle sue mani unte e bisunte. Ma, a gal‐ la sull’acqua, olio non ce n’era: dunque, il macellaio diceva la verità. — Per il cavallo, finalmente, la cosa era più difficile. Lo storpio, né più né meno di te, fra venti cavalli ha subito indicato il cavallo giusto. Ma io non vi avevo condotti tutt’e due alla scuderia per vedere se voi riconoscevate il cavallo; vi ci avevo condotti per vedere chi di voi due sarebbe stato riconosciuto dal cavallo! Quando tu ti sei accostato alla be‐ stia, essa ha girato la testa, e si è protesa verso di te: ma quando lo stor‐ 132 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura pio l’ha toccata, ha abbassato le orecchie e ha levato una zampa. Da que‐ sto io ho capito che il vero padrone del cavallo eri tu. Allora Bauakas disse: — Io non sono un mercante, ma il re Bauakas. Io sono venuto qui per vedere se era vero ciò che dicevano di te. E, ora, vedo che tu sei un giu‐ dice saggio. Chiedimi tutto quello che vuoi: io ti ricompenserò. Disse il giudice: — Non ho bisogno di ricompense: sono già felice ab‐ bastanza che il mio re mi abbia lodato. Il cervo e la vigna. (Favola). Un cervo si nascose ai cacciatori dentro una vigna. Quando i cacciato‐ ri furono passati oltre, il cervo si mise a brucare le grandi foglie dell’uva. I cacciatori notarono che le foglie si muovevano, e pensarono: «Non ci sarà qualche bestia selvatica laggiù sotto le foglie?» Spararo‐ no, e ferirono il cervo. Allora il cervo disse, già in punto di morte: — Me lo sono meritato: ho voluto mangiare proprio quelle foglie, che mi avevano salvato la vita. Il figlio del re e i suoi compagni. (Leggenda). Un re aveva due figli. Il re voleva più bene al maggiore, e diede a lui tutto il regno. La madre aveva compassione del figlio minore, e si oppo‐ neva alla volontà del re. Il re ne era irritato, e non passava giorno che fra loro non nascesse un litigio. Il principe più piccolo, allora, pensò: «È me‐ glio che me ne vada lontano!» Si congedò dal padre e dalla madre, in‐ dossò un abito modesto, e si mise in viaggio per il mondo. Strada facendo, s’imbatté in un mercante. Il mercante raccontò al principino che, un tempo, lui era stato ricco, ma poi tutte le sue mercan‐ zie erano colate in fondo al mare, e ora stava andando in paesi stranieri in cerca di fortuna. I due s’accompagnarono insieme. Di lì a due giorni, venne a unirsi con loro anche un terzo compagno. Si misero a discorrere fra loro, e il nuovo compagno raccontò che lui era un contadino: aveva tanto di casa e di terra; ma c’era stata la guerra, i suoi campi erano stati devastati, le Terzo libro di lettura 133 sue provviste incendiate, non gli era rimasto più nulla da vivere: e ora stava andando in cerca di lavoro in paesi stranieri. Tutt’e tre s’accompagnarono insieme. Arrivarono nei paraggi d’una grande città, e si fermarono a riposare. Ed ecco che il contadino dice: – Ebbene, fratelli: smettiamola, adesso, di fare i vagabondi: giacché siamo arrivati a una città, ci conviene metterci al lavoro, ciascuno secon‐ do quello che sa fare. Il mercante disse:– Quello che so fare io, è commerciare. Se avessi del denaro, anche pochissimo, commercerei e ne guadagnerei moltissimo. Disse il principino: – Io, per conto mio, non so né lavorare né com‐ merciare: so soltanto regnare. Se avessi un regno, io sarei un re bravis‐ simo. E il contadino disse: – A me, invece, non occorre né denaro né regno: a me basta soltanto che i piedi mi vadano e le mani mi si muovano: con questo riuscirò a campare e a dar da mangiare anche a voialtri benissi‐ mo. Se no, voi due, intanto che uno aspetta il denaro e l’altro il regno, fi‐ nirete per morire di fame. Ma il principino ribatté: – Al mercante occorre il denaro, a me occorre il regno, a te occorre la forza per lavorare: ma sia il denaro, sia il regno, sia la forza, tutto ci viene da Dio. Se Dio vorrà, a me darà il regno e a te la forza; ma se non vorrà, né a te darà la forza, né a me il regno! Il contadino non diede ascolto a quelle parole, ed entrò in città. Là si mise a lavorare a giornata, trasportando la legna. Quando fu sera, gli fu pagato il suo. Lui portò il denaro ai compagni, e disse: – Intanto che voi pensate al modo di fare i re, io ho già lavorato e guadagnato. Il giorno dopo, il mercante chiese in prestito quel denaro al contadi‐ no, ed entrò in città. Al mercato, il mercante seppe che in città scarseggiava l’olio, e che giorno per giorno aspettavano che ne arrivasse una nuova partita. Il mercante andò al porto e si mise a osservare i bastimenti. Arrivò, mentre lui stava lì, un bastimento carico d’olio. Il mercante fu più svelto di tutti a salire sul bastimento, domandò del padrone, comperò tutto l’olio, e versò per caparra il denaro che aveva. Poi corse in città, rivendette quell’olio e, dandosi da fare per quattro, guadagnò una somma dieci volte più grossa di quella del contadino, e la portò ai compagni. Allora il principino disse: – Bè, adesso tocca a me, di entrare in città! Voi avete avuto tutt’e due fortuna; chissà che anche a me non accada lo stesso. Per Dio non c’è nulla di difficile: per Lui è la stessa cosa darti lavoro se sei un contadino, darti un grosso profitto se sei un mercante, oppure, se sei un principe, darti un regno. 134 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Entra il principe in città, e che cosa vede? La gente gira per le vie piangendo. Il principe domanda perché piangono. Gli rispondono: – Dunque non sai che stanotte il nostro re è morto, e che un altro re come quello non lo potremo trovare più? – Ma di che cosa è morto? – Eh, debbono essere stati quei malfattori che sappiamo noi, che lo hanno avvelenato. Il principe scoppiò a ridere e disse: – Questo non può essere. Allora, d’improvviso, un uomo squadrò il principe da capo a piedi, s’accorse che egli non parlava perfettamente nella loro lingua, e non era vestito come usavano tutti in quella città, e gridò: _ Ragazzi! Quest’uomo è stato mandato fra noi da quei malfattori, per prendere informazioni sulla nostra città. Forse è stato proprio lui che ha avvelena‐ to il re. Fate attenzione: ha una parlata diversa dalla nostra e, mentre noi piangiamo, lui ride. Prendetelo, e portatelo in prigione! Il principe fu preso, portato in prigione e, per due giorni, lasciato sen‐ za mangiare. Il terzo giorno, vennero a cercarlo, e lo condussero al tri‐ bunale. Molta folla si radunò per ascoltare in che modo il principe sa‐ rebbe stato giudicato. In tribunale domandarono al principe chi era e per quale scopo era venuto nella loro città. Il principe disse: – Io sono il figlio d’un re. Mio padre ha dato tutto il regno al mio fratello maggiore: mia madre ha cer‐ cato di difendermi, e così, per causa mia, i miei genitori si sono messi in contrasto fra loro. Era una cosa che a me dispiaceva troppo: ho detto ad‐ dio ai miei genitori e ho incominciato a viaggiare per il mondo. Strada facendo, ho incontrato due compagni: un contadino e un mercante, e in‐ sieme con loro sono venuto alla vostra città. Mentre c’eravamo fermati a riposare fuori di città, il contadino disse che era arrivato il momento di metterci al lavoro, ciascuno secondo quello che sapeva fare; e allora il mercante disse che lui sapeva commerciare, ma gli mancava il denaro: e io dissi che sapevo soltanto regnare, ma mi mancava il regno. Il contadi‐ no ribatté che noi due saremmo morti di fame, intanto che aspettavamo il denaro e il regno: lui, invece, aveva forza abbastanza nelle sue braccia per dar da mangiare a se stesso e a noialtri. Detto fatto, è entrato in città, ha trovato lavoro, ha guadagnato denaro e l’ha portato a noi. Con questo denaro il mercante è entrato a sua volta, e ci ha guadagnato dieci volte tanto; poi sono entrato io, ed ecco che sono stato preso e imprigionato senza nessuna ragione, e già da due giorni non mi si dà da mangiare, e ora si vorrebbe condannarmi a morte. Ma queste sono tutte cose che non mi fanno paura, perché io so che tutto viene da Dio, e che, se così vuole Terzo libro di lettura 135 Dio, voi mi condannerete a morrò innocente; se invece Dio vuole altri‐ menti, voi mi farete vostro re, Quando il principe ebbe terminato di parlare, i giudici restarono in si‐ lenzio, e non sapevano che cosa dire. Allora, d’improvviso, un uomo gridò in mezzo alla folla: – È stato Dio che ci ha mandato questo princi‐ pe! Un re migliore di questo, noi non potremo trovarlo mai! Scegliete lui come nostro re! E tutti quanti lo scelsero come loro re. Dopo che fu eletto re, il principe mandò a cercare fuori di città i suoi due compagni, che fossero condotti da lui. Quando quelli si sentirono dire che li voleva il re, si spaventarono: credettero di aver commesso qualche mancanza mentre erano stati in città. Ma non c’era, per loro, possibilità di fuggire: e furono condotti dinanzi al re. Essi si gettarono subito ai suoi piedi; ma il re ordinò che s’alzassero. Allora i due riconobbero il loro compagno. Il re raccontò tutto quello che gli era accaduto, e disse loro: – Vedete che avevo ragione io? Il male e il bene, tutto viene da Dio. E per Dio non è più difficile dare il regno a un principe, che dare a un mercante il suo profitto, o a un contadino il suo lavoro. Poi diede a tutt’e due grandi ricompense, e li fece stabilire nel suo re‐ gno. La piccola cornacchia. (Favola). Un eremita vide una volta, in un bosco, uno sparviero. Lo sparviero portava al suo nido un pezzo di carne: lacerò quella carne in tanti piccoli pezzi, e si mise a imbeccare una piccola cornacchia. L’eremita si meravigliò che uno sparviero imbeccasse così una piccola cornacchia, e pensò: «Una piccola cornacchia, anche lei vien protetta da Dio: apposta per salvarla, Dio ha insegnato a quello sparviero a dare l’imbeccata a una creaturina d’altra razza, rimasta orfana al mondo. Si vede proprio che Dio dà il necessario a tutte le creature: e noi, invece, stiamo sempre in pensiero per noi stessi. Voglio smetterla di preoccuparmi di me stesso! Da oggi in poi, non mi procurerò più da mangiare! Dio non abbando‐ na nessuna delle sue creature: non abbandonerà neanche me». E così fece: si mise a sedere in quel bosco e non si mosse più di là: pregava, pregava, e nient’altro. Per tre giorni e per tre notti rimase così, 136 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura senza bere un sorso d’acqua e senza mangiare un boccone. Dopo tre giorni, l’eremita s’era tanto indebolito, che non era più capace d’alzare la mano. Dalla gran debolezza, s’addormentò. Ed ecco apparirgli in sogno il suo confessore. Il confessore gli veniva accanto, e gli diceva: – Perché non ti procuri il cibo necessario? Tu credi di piacere a Dio, e invece stai facendo un peccato. Dio ha regolato il mondo in maniera che ogni crea‐ tura si deve procacciare quel che le occorre. Se Dio ha ordinato allo sparviero di dare l’imbeccata alla piccola cornacchia, è stato perché la piccola cornacchia sarebbe morta, senza l’aiuto dello sparviero; ma tu sei in condizioni di lavorare per conto tuo. Tu, comportandoti così, vuoi mettere Dio alla prova: e questo è un peccato. Svegliati, su, e torna a la‐ vorare come prima! L’eremita si svegliò e ricominciò a vivere come aveva fatto sempre. In che modo io imparai ad andare a cavallo. (Racconto d’un signore). Nei mesi che noi stavamo in città, tutti i giorni li passavamo a studia‐ re; soltanto le domeniche e le giornate di festa andavamo a passeggio e giocavamo tra fratelli. Una volta il babbo disse: – Bisogna che i più grandicelli dei ragazzi imparino ad andare a cavallo. Conduceteli al ma‐ neggio! Io ero il più piccolo di tutti i fratelli, e domandai: – E io, non potrei imparare? – Il babbo mi rispose: – Tu cadresti! – Ma io mi misi a pregar‐ lo di far dare lezione anche a me, e quasi quasi ci piangevo. Allora il babbo disse: – Bè, va bene, prendi lezione anche te. Bada, però, non piangere quando cadrai. Chi non cade almeno una volta da cavallo, non imparerà mai a cavalcare. Quando arrivò il giovedì, tutt’e tre fummo condotti al maneggio. En‐ trammo su un largo pianerottolo, e da questo passammo a un altro pia‐ nerottolo piccino piccino. Di lì, con una scaletta, si scendeva in uno stan‐ zone di straordinaria grandezza. Quello stanzone, al posto del piancito, aveva tutta sabbia. E in giro per lo stanzone andavano a cavallo signori e signore e ragazzetti tali e quali come noi. Quello stanzone era il maneg‐ gio. Nel maneggio non c’era molta luce, e c’era odore di cavalli. Si senti‐ vano i colpi dei frustini, i versi che facevano per incitare i cavalli, e i ca‐ valli che battevano con gli zoccoli contro il legno delle pareti. Io, lì per lì, mi spaventai, e non riuscivo a distinguere niente. Poi il nostro istitutore Terzo libro di lettura 137 chiamò il maestro di equitazione, e gli disse: – Date dei cavalli a questi ragazzi: vogliono imparare a cavalcare –. Il maestro rispose: – Benissimo. Poi allungò un’occhiata a me, e disse: – Questo è piccolo parecchio! – Ma l’istitutore gli disse: – Lui ha fatto la promessa di non piangere, quando cadrà –. Il maestro si mise a ridere, e s’allontanò. Furono condotti tre cavalli sellati: noi ci togliemmo il cappotto, e scendemmo per quella scaletta giù nel maneggio. Il maestro teneva il cavallo per la corda131, e i miei fratelli, uno dopo l’altro, facevano una ca‐ valcata intorno a lui. Da principio andavano al passo; poi, di trotto. Poi fu condotto qua da noi un cavallino di statura piccolina: era di pe‐ lo rossino, e la coda l’aveva mozza. Si chiamava Zecchino. Il maestro si mise a ridere, e disse a me: – Forza, cavallerizzo, salite in sella! – Io ero contento e insieme avevo paura, e cercavo di comportarmi in modo che nessuno s’avvedesse di nulla. Per un pezzo mi sforzai d’imbroccare col piede la staffa, ma proprio non ci riuscivo, perché ero troppo bassino. Allora il maestro mi sollevò tra le braccia e mi pose in sella. – Non è pesante, – disse, – il signorino: un paio di libbre, di più non sarà! Da principio mi reggeva per un braccio: ma io avevo veduto che i miei fratelli non li reggeva nessuno, e perciò pregai d’essere lasciato so‐ lo. Il maestro mi disse: – E non avete paura? – Io, di paura, ne avevo molta, ma dissi che non avevo paura. La mia paura veniva soprattutto dal fatto che Zecchino, a ogni momento, abbassava le orecchie, e io cre‐ devo che fosse inquieto con me. Il maestro disse: – Attenzione, allora, a non cadere! – E mi lasciò solo. Zecchino, da principio, andava al passo, e io mi reggevo bene diritto. Ma la sella era sdrucciolevole, e mi teneva in ansia di slittare di lato. Il maestro mi domandò: – Bè, come va? Avete trovato la posizione giusta? – Io gli risposi: – Si, l’ho trovata! – Dunque, ora, di trotto! – E il mae‐ stro fece schioccare la lingua. Zecchino s’avviò di piccolo trotto, e io cominciai a sentirmi sbilicare. Ma continuavo a far silenzio, e mi sforzavo di non piegarmi di lato. Il maestro mi fece le lodi: – Bravo il mio cavallerizzo, benissimo! – E io ne fui tutto contento. In quel punto, s’avvicinò al maestro un suo collega, e si mise a chiac‐ chierare con lui. Il maestro, così, smise di seguirmi con l’occhio. Tutt’a un tratto, quando già non ci pensavo più, m’accorsi d’essermi un pochino piegato su un fianco della sella. Feci per raddrizzarmi: mac‐ ché, impossibile! Volevo chiamare il maestro, che fermasse il cavallo, ma Korda: funicella di cui ci si serve per far girare i cavalli intorno [N. d. A.]. 131 138 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura mi pareva che fosse vergogna fare così, e non aprii bocca. Il maestro non guardava affatto dalla parte mia. Zecchino continuava a trotterellare, e io pencolavo sempre peggio da quel lato. Allungai un’occhiata al mae‐ stro, pensando che lui mi sarebbe venuto in aiuto: ma quello chiacchie‐ rava sempre col suo collega, e, senza neanche sbirciarmi, ripeteva: – È gamba, il nostro cavallerizzo! Io ero ormai tutto storto da un lato, e avevo addosso una gran paura. Pensavo che da un momento all’altro sarei cascato.Ma, a chiamare aiuto, sentivo sempre vergogna. Zecchino mi diede ancora una scrollata: io finii di scivolare del tutto, e ruzzolai per terra. Allora Zecchino si fermò: il maestro si girò a guardare, e s’avvide che, in groppa a Zecchino, io non c’ero più. – Oh guarda guarda! Esclamò. – Il nostro cavallerizzo ha fatto un capitombolo! – e mi venne vicino. Quando io gli ebbi detto che non m’ero fatto male, lui scoppiò a ride‐ re, e disse: – I ragazzetti hanno le ossa elastiche! – Ma a me, intanto, ve‐ niva voglia di piangere. Chiesi d’essere rimesso in sella, e infatti mi ci rimisero. E, dopo quella prima caduta, non ne feci più nessun’altra. Così continuammo a recarci al maneggio due volte la settimana, e ben presto io imparai a cavalcare bene, e non avevo più paura di niente. L’accetta e la sega. (Favola). Due contadini andarono al bosco per legna. Uno aveva portato un’ac‐ cetta, l’altro una sega. Quando ebbero scelto l’albero, cominciarono a questionare. Uno diceva che l’albero bisognava abbatterlo con l’accetta, l’altro diceva che bisognava segarlo. Un terzo contadino intervenne fra i due: – Ci penso io, – disse, – a mettervi subito in pace: se l’accetta è ben affilata, sarà meglio dargli d’accetta, ma se la sega è più affilata ancora, sarà meglio segarlo –. Detto fatto, agguantò l’accetta e si mise a menar colpi contro l’albero. Ma l’ac‐ cetta aveva il taglio così ottuso, che con essa non era possibile abbattere un albero. Quindi pigliò la sega: la sega era malconcia, e non tagliava affatto. Allora il contadino disse: – Aspettate a questionare! L’accetta non in‐ tacca, e la sega non taglia. Prima, arrotate l’accetta e racconciate la sega: poi questionerete. Terzo libro di lettura 139 Ma gli altri due contadini andarono più in collera che mai per il fatto che uno aveva portato l’accetta non arrotata, l’altro la sega sdentata: e incominciarono a darsi botte da orbi. Vita della famiglia d’un soldato132. (Racconto d’un contadino). Campavamo da poveretti in una casa in fondo al villaggio. Io abitavo con la mamma, con una sorella grande e con la nonna. La nonna andava vestita con un vecchio grembialone e un abituccio mal ridotto, e in testa si copriva con un cencio qualsiasi; la pelle, sotto la gola, le pendeva come una borsetta. A me, la nonna mi voleva più bene della mamma, e mi compativa di più. Mio padre era soldato. Di lui la gente diceva che be‐ veva troppo, e che perciò lo avevano mandato a fare il soldato. Io mi ri‐ cordo, come un sogno, di qualche volta che veniva a trovarci in licenza. La stanza di casa nostra era stretta, con un palo nel mezzo per soste‐ gno del tetto: anzi mi ricordo che, un giorno, m’arrampicai su per quel sostegno, persi l’equilibrio e andai a rompermi la fronte contro una pan‐ ca. E ancora oggi m’è rimasto il segno sulla fronte. La stanza aveva due finestrelle piccole piccole, e una stava sempre tappata con uno straccio. Il cortiletto, fuori, era stretto e senza tettoie. Nel mezzo c’era un vecchio trogolo per le bestie. Noi avevamo, in tut‐ to una vecchia cavalla sfiancata; la vacca non ce l’avevamo: avevamo due pecorucce malandate e un agnello. Io dormivo sempre con quell’a‐ gnello. Il nostro mangiare era pane e acqua. A lavorare, nessuno di noi era buono: mia madre si lamentava sempre che le doleva il corpo; alla nonna le doleva sempre la testa, e se ne stava tutto il giorno accanto alla stufa. Lavorava soltanto mia sorella, ma lei non metteva niente in fami‐ glia, metteva tutto da parte per il suo corredo: si comperava la roba buona, e faceva i preparativi per maritarsi. Mi ricordo che mia madre si senti peggio, e poi le nacque un bambi‐ no. Mammina fu sistemata nel locale d’entrata. La nonna si fece impre‐ stare dai vicini il miglio per fare la zuppa, e mandò zio Nefiòd a chiama‐ re il prete. E intanto mia sorella andò a chiamare la gente che doveva venire al battesimo. Venne la gente, e portarono tre forme rotonde di pane di grano. I pa‐ renti si misero a stendere le tavole e a coprirle con le tovaglie. Poi porta‐ Letteralmente, «della moglie d’un soldato». 132 140 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura rono gli sgabelli e un mastello pieno d’acqua. E cos tutti si sedettero ai loro posti. Quando arrivò il calesse del prete, il compare e la comare si alzarono e si misero dinanzi a tutti, e dietro a loro zia Akulina col bam‐ bino fra le braccia. Incominciarono a pregare, poi tirarono fuori dai pan‐ ni il bambino nudo nato, e il prete lo prese e lo tuffò dentro all’acqua. Io mi spaventai e mi misi a gridare: – Da’ qua il bambino! – Ma la nonna s’inquietò, e mi disse: – Zitto, sennò ti picchio! Il prete lo immerse tre volte, poi lo ridiede a zia Akulina. Lei lo avvol‐ tolò in una pezza di cotonina, e lo riportò a mia madre nell’andito. Poi tutti si sedettero a tavola, la nonna portò due ciotole di legno piene di polentina di miglio, ci versò sopra l’olio, e servì la gente. Quando tutti ebbero mangiato a sazietà, s’alzarono da tavola, ringraziarono la nonna, e se n’andarono. Allora io andai dalla mamma, e le dissi: – Ma’133, che nome gli mette‐ te? Mia madre mi rispose: – Lo stesso nome che hai tu. Il bambino era magro: le gambette, i braccini, li aveva fini fini, e stava sempre a strillare. La notte, a qualunque ora ti svegliavi, lui sempre stril‐ lava, e sempre la mamma lo cullava e gli cantava le ninnenanne. Si ra‐ schiava la gola, tossiva, ma gli cantava sempre. Una notte, io mi svegliai, e che sento? Mia madre piangeva. La nonna si levò dal letto e le disse: – Che hai, che Dio ti benedica? – Mia madre rispose: – Il bambino è morto. La nonna accese il fuoco, lavò il bambino, gl’infilò una camicina di bucato, gli mise una cinta alla vita, e lo accomodò sotto le immagini san‐ te. Quando fu giorno, la nonna uscì di casa, e tornò con zio Nefiòd. Zio Nefiòd aveva portato due vecchie assicelle, e si mise a fare una cassetti‐ na. Fabbricò una cassa da morto piccola piccola, e accomodò il bambino lì dentro. Poi mia madre andò ad accucciarsi accanto alla cassettina, e con una voce sottile sottile incominciò a fare le lamentazioni e il pianto. Poi zio Nefiòd pigliò la cassettina sotto il braccio, e la portò al campo‐ santo. L’unica allegria che ci fu in casa nostra, fu quando sposammo la mia sorella grande. Ecco che un giorno arrivarono coi carri certi contadini: s’erano portate dietro forme di pane e acquavite. E si misero a offrire della loro acquavite a mia madre. Mia madre ne bevve un bicchiere. Poi zio Ivàn tagliò una fetta di quel pane, e gliela diede a mangiare. Io stavo 133 Così anche nel testo russo, con un diminutivo per «mamma» che coincide con molti dialetti italiani e con altre lingue straniere. Terzo libro di lettura 141 in piedi accanto al tavolo, e mi venne voglia d’un po’ di pane. Tirai la mamma verso di me, fin, ché non mi si fu curvata sopra, e glielo dissi in un orecchio. La mamma si mise a ridere, e zio Ivàn le disse: – Che cosa vuole, un po’ di panino? – e me ne tagliò una fetta grossa. Io presi il pa‐ ne e me ne andai nello sgabuzzino della dispensa. Proprio là nello sga‐ buzzino se ne stava rinchiusa mia sorella. Subito incominciò a doman‐ darmi: – Che dicono, di là, quei contadini? – Io le risposi: – Stanno a bere l’acquavite! – Lei scoppiò a ridere e disse: – Sono venuti a combinare il mio fidanzamento con Kondraska. Poi venne il giorno che bisognava fare lo sposalizio. Tutti s’alzarono a buonora. La nonna accese la stufa, la mamma fece la pasta per gli sfor‐ mati dolci, e zia Akulina lavò la carne da cuocere. Mia sorella si calzò le scarpe nuove, indossò un vestito rosso e un faz‐ zoletto buono, e stava lì senza fare niente. Poi, quando la stufa fu ben avviata, anche mia madre si cambiò, e incominciarono a venire a casa nostra un sacco di gente: tutta la stanza era piena. Poi al cancello del nostro cortile arrivarono tre tiri a due, coi campa‐ nelli. E sul tiro più indietro di tutti c’era Kondraska, lo sposo, con un caf‐ fettano nuovo e un cappello alto in testa. Lo sposo scese dalla carretta e venne dentro casa. Alla sposa fu fatta indossare una pelliccia nuova, e fu condotta dinanzi allo sposo. Tutt’e due, sposo e sposa, furono fatti ac‐ comodare a tavola, e le donne si misero a cantare le loro lodi. Poi loro s’alzarono da tavola, fecero una preghiera, e uscirono da casa. Kondra‐ ska fece salire mia sorella su una di quelle carrette, e lui sali su un’altra. Tutti quanti presero posto sulle carrette, si fecero il segno della croce, e partirono. Io me ne tornai in casa, e mi sedetti accanto alla finestra, a‐ spettando che il corteo degli sposi fosse di ritorno. Mia madre mi diede un pezzetto di pane: io lo mangiai, e appena mangiato, m’addormentai. Mi svegliò mia madre, dicendomi: – Arrivano! – e subito mi mise in mano il matterello per spianare la pasta, e mi fece sedere lì a tavola. Kondraska e mia sorella entrarono nella stanza, e appresso a loro un sacco di gente, ancora più di prima. Anche di fuori, sulla strada, c’era gente, e tutti, dalle finestre, guardavano a noi. Zio Gherasim era il com‐ pare; s’accostò qua da me, e mi disse: – Via da tavola, tu! – Io mi spaven‐ tai, e feci atto di andarmene; ma la nonna mi disse: – Fagli vedere il mat‐ terello, e rispondigli: – Lo vedi che ci ho io? – Come lei mi disse, così io feci. Allora zio Gherasim mise delle monetine in un bicchiere, ci mescé so‐ pra l’acquavite, e me l’offrì. Io pigliai il bicchiere e lo diedi alla nonna. Fatto questo, noialtri d levammo di tavola, e loro s’accomodarono. 142 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Poi incominciarono a portare in tavola acquavite, carne in gelatina, manzo lesso; e si misero a cantare in coro e a ballare. A zio Gherasim of‐ frirono un bicchiere pieno: lui ne bevve un sorso, e disse: – Quest’acqua‐ vite mi sa di amaro! – Allora mia sorella pigliò Kondraska per le orec‐ chie e si mise a baciarlo. Ancora per un pezzo seguitarono a cantare in coro e a ballare; alla fine, se ne andarono tutti, e anche Kondraska si por‐ tò via mia sorella a casa sua. Dopo d’allora, incominciò per noialtri una vita ancora più povera. Vendemmo la cavalla e le pecore che ci restavano, e spesso spesso, in casa nostra, perfino il pane ci mancava. Mia madre andava a prenderlo in prestito dai parenti. Non passò molto che anche la nonna morí. Mi ri‐ cordo che mia madre faceva il pianto per lei e le lamentazioni: – Madre bella del mio cuore! In mano a chi mi hai lasciata, misera me, sfortunata? A chi hai abbandonato la creatura tua infelice? Da chi andrò, ora, a prendere consiglio? Come farò a tirare innanzi a questo mondo? – E così durò un pezzo a urlare e a fare le lamentazioni. Un bel giorno, me n’ero andato con altri ragazzi sulla strada maestra a pascolare i cavalli, ed ecco che vedo venire un soldato con una sacchet‐ ta sulle spalle. S’avvicina a noi ragazzi, e domanda: – Di che villaggio siete, ragazzi? – Noialtri, – gli rispondiamo, –siamo di Nikòlskoie. – Di‐ temi, allora: c’è sempre, da voi, la moglie di quel soldato, Matriòna? – Allora io gli faccio: – Altro se c’è: è mamma mia! – Il soldato mi dà un’occhiata, e mi dice: – E il tuo babbo, lo hai mai veduto? – Io rispondo: – Lui fa il soldato, non l’ho veduto mai –. Il soldato, allora, mi dice: – Bè, vieni con me: conducimi tu a casa di Matriòna, ché io ho portato per lei una lettera di tuo padre! – Io gli dico: – Che lettera sarebbe? – Ma quello mi fa: – Ora andiamo, lo vedrai! – Perché no, andiamo pure! Il soldato riprese il cammino insieme con me, ma d’un passo così svelto, che io, di corsa, faticavo a tenergli dietro. Ecco che arriviamo a casa nostra. Il soldato fece la sua preghiera, e poi disse: – Salute a tutti! – Poi si tolse di dosso il pastrano, andò a sedersi sulla cassa, guardò e riguardò tutt’in giro per la stanza, la famiglia è tutta qui? – Mia madre s’era tanto confusa che non apriva bocca: guardava il soldato, e nient’altro; Lui disse ancora: – E la mamma, dov’è? – e intanto, gli veni‐ va da piangere. Allora mia madre gli corse accosto e incominciò a baciar‐ lo. E anch’io m’arrampicai sulle sue ginocchia, e incominciai a frugargli nelle tasche. Lui, a vedere così, smise di piangere, e si mise a ridere. Poi venne in casa gente, e mio padre salutava tutti quanti, e racconta‐ va che stavolta era venuto via per sempre, in congedo. Terzo libro di lettura 143 Quando fu l’ora che il bestiame tornava dal pascolo, arrivò in casa anche la mia sorella grande, e scambiò un bacio col babbo. Ma subito il babbo domandò: – Di che famiglia è, questa massaietta così giovane?— Mia madre scoppiò a ridere, e disse: – È sua figlia, e non l’ha ricono‐ sciuta! – Allora mio padre la richiamò accanto a lui, e la ribaciò, e le do‐ mandò come s’era sistemata. Poi la mamma andò a cuocere una frittata, e mandò mia sorella a comprare da bere. Mia sorella tornò con la bottiglia piena, tappata con un batuffolo di carta, e la pose in tavola. Disse il babbo: – E questa, che roba è? – Rispose la mamma: – Un pochino d’acquavite per te! – Ma lui disse: – No, va già per i cinqu’anni che io non bevo più. La frittata, quel‐ la si, portala qua! – Fece la sua preghiera, si sedette a tavola, e incomin‐ ciò a mangiare. Poi disse: – Se non avessi smesso di bere, neanche sarei diventato sergente, e a casa non avrei riportato un bel nulla: ora, inve‐ ce... Dio sia lodato! – Tirò fuori dalla sacchetta un borsello pieno di mo‐ nete, e lo consegnò a mia madre. Mia madre, tutta contenta, non perse tempo, e andò a nasconderlo al sicuro. Poi, quando tutti se ne furono andati alle loro case, mio padre si cori‐ cò sulla panca più interna della stanza, e mi fece adagiare di fianco a lui, mentre la mamma si stendeva ai nostri piedi. E per un pezzo essi segui‐ tarono a discorrere tra loro, che quasi quasi era mezzanotte. Poi io m’ad‐ dormentai. Alla mattina, mia madre disse: – Oh, che di legna non ce ne ho più! – Rispose mio padre: – Un’accetta, ce l’hai? – Ce l’ho, ma tutta sbrecca‐ ta, non vale niente! – Mio padre si calzò per bene, prese l’accetta, e usci in cortile. Io gli corsi dietro. Mio padre strappo’ giù dal tetto un travicello, lo aggiustò sul trogolo, levò alta l’accetta, con pochi colpi robusti lo ridusse in tanti pezzi, portò tutto in casa, e disse: – Ebbene, eccoti qua la legna, accendici la stufa; io, intanto, vado a vedere se trovo da comprare il legname per fabbricare una casa nuova, e le stalle. Anche una vacca bisognerà comprare! La mamma disse: – Oh, chissà quanti soldi ci vorranno, per fare ogni cosa! Ma le rispose mio padre: – E noi lavoreremo! Non vedi, qua, che con‐ tadino abbiamo, che vien su? – Mio padre fece segno a me. Dunque mio padre fece la sua preghiera, mangiò un po’ di pane, si vestì, e disse alla mamma: – Se ci fossero delle uova fresche, cuocimele sotto la cenere per pranzo –. E se ne andò. Stette un pezzo, mio padre, a ritornare. Io mi misi a pregare la mam‐ ma che mi lasciasse andare incontro al babbo. Lei non cedeva. Io feci per 144 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura uscire lo stesso, ma lei non me la diede vinta, e mi picchiò. Io mi appol‐ laiai sulla stufa, e incominciai a piangere. In quel momento mio padre rientrò in casa, e mi disse: – Perché piangi? – Io gli feci: – Volevo scap‐ parti incontro, ma la mamma non mi ha lasciato uscire, e per giunta mi ha picchiato! – e più forte che mai scoppiai a piangere. Il babbo si mise a ridere, andò accosto alla mamma, fece finta di picchiarla, e intanto le ri‐ peteva: – Tu non devi toccarlo, Fedoruccio! Tu non devi toccarlo, Fedo‐ ruccio! – La mamma, per finta, si mise a piangere; mio padre si mise a ridere, e disse: – Si vede proprio che tu e Fedoruccio avete le lacrime in tasca: per un nonnulla, giù a piangere! – Poi mio padre s’accomodò a ta‐ vola, mi fece sedere di fianco a lui, e gridò: – Su, ora portaci qua, per me e per Fedoruccio, questo pranzo: noialtri vogliamo mangiare! La mamma ci portò la polentina di miglio e le uova, e noi ci mettem‐ mo a mangiare. E la mamma, intanto, disse: – Bè, che hai fatto, poi, di quel legname? – E il babbo rispose: – L’ho comprato: ottanta rubli, tutto di tiglio, bianco che pare il vetro! Lascia che venga il momento, paghe‐ remo ai contadini da bere, e loro ce lo porteranno coi carri, una domeni‐ ca... Da allora in poi, incominciammo a campare bene. Il gatto e i sorci. (Favola). In una casa s’era creato un gran numero di sorci. Un gatto s’intrufolò nella casa, e si mise ad acchiappare i sorci. S’avvidero, i sorci, che la fac‐ cenda andava male, e dissero: – Sapete che facciamo, ragazzi? Non scendiamo più dal soffitto: così, fin quassù, gatto non potrà arrivarci! Non appena i sorci ebbero smesso di scendere in basso, il gatto cercò tra sé il modo d’essere più furbo di loro. S’attaccò con una zampetta al soffitto, e così si lasciò penzolare, facendo finta d’essere morto. Uno dei sorci lo adocchiò in quella posizione, ma gli disse: — No, fratello! Ti ri‐ ducessi pure a sembrare un sacchetto, nemmeno allora mi ti accosterei! Il ghiaccio, l’acqua e il vapore. (Considerazioni). Il ghiaccio può essere duro come una pietra. Se, tra il ghiaccio, ci resta congelato un bastone, non riuscirai a strapparlo fuori finché non avrai Terzo libro di lettura 145 riscaldato e squagliato il ghiaccio. Quando il ghiaccio è freddo, i carri ca‐ richi ci passano sopra senza sprofondare; e se anche ci fai cadere di schianto un masso di ferro d’un quintale e mezzo, il ghiaccio non si sfonderà, Quanto più freddo è il ghiaccio, tanto più forte è. Non appena il ghiaccio sente il calore, s’indebolisce, diventa come una polentina; se un oggetto c’era rimasto congelato dentro, si riesce a cavarlo fuori con la mano; sotto i piedi si sfonda, e non sostiene più neanche una libbra di ferro. Quando il ghiaccio viene riscaldato ancora, si converte in acqua. Qualunque oggetto, dall’acqua, si cava fuori con facilità, e l’acqua non sostiene più nessun oggetto, all’infuori del legno. Se l’acqua, a sua volta, viene riscaldata, diventerà ancora meno capace di sostenere una cosa qualsiasi. Nell’acqua fredda è più facile nuotare che in quella calda. E nell’acqua bollente, poi, perfino il legno va a fondo. Continuando sempre a riscaldare l’acqua, finirà che essa andrà tutta in vapore: e il vapore non sostiene più assolutamente nulla, e tende, da parte sua, a spandersi in tutte le direzioni. Facendo bollire l’acqua sotto un coperchio, l’acqua svapora e si posa in tante gocce sotto il coperchio: di lì cola in basso, e ridiventa acqua. A raccogliere quest’acqua, e ad esporla al gelo, ridiventerà ghiaccio. Riscaldate l’acqua: diventerà vapore; fate gelare l’acqua: diventerà ghiaccio. È sempre la medesima acqua che si trova allo stato gassoso quando è calda, allo stato solido quando si gela. Nel ghiaccio non c’è calore affatto; nell’acqua ce n’è un pochino; nel vapore ce n’è moltissimo. Se sul ghiaccio si posa un altro blocco di ghiaccio, questo blocco di ghiaccio non si riscalda e non si raffredda. Ma se si versa dell’acqua sul ghiaccio, il ghiaccio si farà più tiepido, e l’acqua più fredda. Se l’acqua sarà molta, il ghiaccio si scioglierà addirit‐ tura: e l’acqua si gelerà, se sarà molto il ghiaccio. Se poi contro il ghiaccio si manderà del vapore, il ghiaccio si farà più tiepido e il vapore si farà più freddo: il ghiaccio si scioglierà fino a convertirsi in acqua, e il vapore si raffredderà fino a convertirsi anch’esso in acqua. Quando l’acqua è fredda, e l’aria è fredda ugualmente, allora l’acqua non si riscalderà, e l’aria non si raffredderà. Ma se l’aria è calda, e l’acqua è fredda, che cosa accadrà? Accadrà che dall’aria il calore passe‐ rà nell’acqua: l’acqua diventerà sempre più calda, e l’aria sempre più fredda, fin tanto che l’una e l’altra non si saranno pareggiate. 146 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Quando l’aria è più calda dell’acqua, l’acqua si riscalderà, e l’aria si raffredderà; quando l’acqua è la più calda delle due, l’aria si riscalderà, e l’acqua si raffredderà. Se, dall’acqua allo stato liquido, verrà a formarsi, nell’aria, dell’acqua allo stato di ghiaccio, vuol dire che l’acqua era più calda dell’aria: in queste condizioni, l’acqua si raffredda e l’aria si riscalda. Se, nell’aria, l’acqua allo stato gassoso diventerà acqua allo stato li‐ quido, vuol dire che l’aria era più fredda dell’acqua allo stato gassoso: in queste condizioni, l’acqua si raffredda, e l’aria si riscalda. Se dall’acqua allo stato solido verrà a formarsi, nell’aria, acqua allo stato liquido, vuol dire che l’aria era la più calda delle due: in queste condizioni l’aria si raffredda, si condensa, e il ghiaccio si riscalda. Se nell’aria verrà a formarsi, dall’acqua, il vapore (cioè, se l’acqua si rasciugherà), vuol dire che l’aria era la più calda: essa, in queste condi‐ zioni, si raffredda, e l’acqua si riscalda. Il ghiaccio non si può usare come mezzo di riscaldamento, ma l’acqua e il vapore si possono usare. Ecco in che modo il vapore si può usare come mezzo di riscaldamento: si porta dell’acqua, in inverno, in un loca‐ le freddo. Quando l’acqua si gelerà, produrrà del ghiaccio quando si ge‐ lerà di nuovo, produrrà altro ghiaccio. E nel locale farà sempre più cal‐ do, e il caldo arriverà al punto che l’acqua smetterà di gelarsi. Per quale ragione avviene questo? Per la ragione che, quando l’acqua si gela, essa fa passare nell’aria il soprappiú di calore che conteneva, e ne farà passa‐ re fin tanto che l’aria si sarà riscaldata, e l’acqua smetterà di coprirsi di ghiaccio. Col vapore si può riscaldare in questo modo: si fa entrare del vapore in un locale freddo. Il vapore comincerà a freddarsi a poco a poco, colerà verso il basso in forma di gocce, e si convertirà in acqua. Portando via quest’acqua, nel locale ci sarà caldo. Per quale ragione avviene questo? Per la ragione che, non appena il vapore si converte in acqua, esso fa passare nell’aria il soprappiú di calore che conteneva. Quando l’acqua si converte in ghiaccio, e il vapore si converte in ac‐ qua, il calore dell’acqua e del vapore passa nell’aria, e allora l’aria diven‐ ta più calda. Quando invece il ghiaccio si converte in acqua, e l’acqua si converte in vapore, il calore dell’aria passa nell’acqua e nel vapore, e al‐ lora l’aria diventa più fredda. Se avrai bisogno di freddare una stanza troppo calda, portaci del ghiaccio e lascialo sciogliere. Per quale ragione farà piú freddo? Per la ragione che il ghiaccio, per diventare acqua, dovrà assorbire il calore che è nell’aria. Terzo libro di lettura 147 Così pure, per freddare una stanza, potrai versarci dell’acqua e la‐ sciarcela asciugare. Per quale ragione otterrai un raffreddamento? Per la ragione che l’acqua si convertirà in vapore: e, per convertirsi in vapore, l’acqua assorbirà gran parte del calore che è nell’aria. Per la stessa ragione, fa più freddo quando piove, e fa più caldo quando il tempo si prepara a piovere. Infatti, quando piove, l’acqua via via si rasciuga, svapora e assorbe calore; ma quando si prepara a piove‐ re, ci sono dei vapori in giro nell’aria, e questi vapori si raffreddano for‐ mando le nubi: da essi, appunto, viene calore. E noi, allora, diciamo che sembra di stare in un bagno a vapore. La quaglia e i suoi pulcini. (Favola). I contadini falciavano i prati. In un prato, al riparo d’una zolla di ter‐ ra, c’era un nido di quaglie. La quaglia madre, tornando a volo con l’imbeccata, arrivò al suo ni‐ do, e vide che, giro giro, tutto era già stato falciato. Subito disse ai suoi pulcini: — Ah, bambini miei, che guaio c’è capitato fra capo e collo! Ora state zitti zitti, e non fate nessun movimento, sennò sarebbe una rovina! Appena fa sera, vi porterò in un altro posto. Ma i pulcini erano tutti contenti che lì nel prato fosse venuta più luce, e dicevano: — La mamma è vecchia: apposta non vuole che noi facciamo festa! — E si misero a pigolare e a fischiare. Certi ragazzi che portavano il pranzo ai falciatori, sentirono il verso dei pulcini di quaglia: accorsero, e strapparono a tutti le testoline. Bulka. (Racconto d’un ufficiale). Io avevo un cane mastino. Si chiamava Bulka. Era tutto nero: solo le estremità delle zampe davanti erano bianche. In tutti i mastini, la mascella di sotto è più lunga di quella di sopra, e i denti di sopra restano indietro a quelli di sotto; ma a Bulka la mascella di sotto sporgeva talmente in avanti, che c’era posto per ficcare un dito, comodamente, nello scarto fra i denti. La faccia di Bulka era larga; gli oc‐ chi grandi, neri e brillanti; i denti, soprattutto i canini, bianchissimi, 148 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura sempre ben esposti in fuori. Aveva una certa rassomiglianza con un ne‐ gro. Bulka era pacifico e non aveva il vizio di mordere, ma era molto ro‐ busto e aveva una presa fortissima. Quando s’attaccava a qualche cosa, serrava i denti e ci restava appeso come un cencio: non si riusciva più in nessun modo a staccarlo, né più né meno che se fosse una zecca. Una volta lo avevano aizzato contro un orso, e lui s’era attaccato all’o‐ recchio dell’orso e c’era rimasto appeso come una sanguisuga. L’orso lo malmenava con le zampe, se lo serrava contro il petto, lo sbalestrava di qua e di là, ma non riusciva a staccarselo di dosso, e aveva finito per ro‐ tolarsi con la testa contro terra, cercando di schiacciare Bulka: ma Bulka non allentava la presa, fin tanto che non lo ebbero annaffiato ben bene d’acqua gelata. Io lo avevo preso da cucciolo, e avevo pensato da me ad allevarlo. Quando partii per il Caucaso, non volevo portarmelo dietro: m’allontanai da lui alla chetichella, e diedi ordine che lo chiudessero a chiave. Arrivato alla prima stazione di tappa, stavo già per salire su un’altra carrozza, quando a un tratto m’accorsi che, lungo la strada mae‐ stra, rotolava in questa direzione una cosa nera e rilucente. Era Bulka col suo collare di metallo. Correva a perdifiato verso la stazione. Mi si slan‐ ciò addosso, mi leccò la mano, poi si stese lungo nell’ombra della car‐ rozza. La lingua gli penzolava in fuori d’un buon palmo. Ora la ritirava dentro, inghiotte: la saliva, ora tornava a spenzolarla quant’era lunga. Aveva un affanno talmente precipitoso, che il respiro gli restava in tronco. Si voltolava ora su un fianco ora sull’altro, e con la coda tamburellava contro il terreno. Come seppi poi, quando s’era accorto che io ero partito, aveva sfon‐ dato la finestra ed era saltato all’aperto: e senz’altro, seguendo la mia traccia, s’era lanciato di galoppo per la strada maestra e così di galoppo aveva percorso tutto d’un fiato venti chilometri nel colmo del caldo. Bulka e il cinghiale. (Racconto). Un giorno, mentre stavo nel Caucaso, andammo a caccia di cinghiali, e Bulka volle venire con me. Non appena i segugi incominciarono a in‐ seguire la fiera, Bulka si lanciò dietro alle loro voci, e sparì nel bosco. Era Terzo libro di lettura 149 novembre: i cinghiali maschi e le troie, di quella stagione, sono molto grassi. Nel Caucaso, per i boschi dove vivono i cinghiali, c’è abbondanza di frutti saporosi: uva selvatica, pigne, mele, pere, funghi, ghiande, bacche di spino. E quando tutti questi frutti arrivano a maturazione, e vengono infrolliti dal gelo, i cinghiali hanno cibo a sazietà, e così ingrassano. Accade, di quella stagione, che il cinghiale sia talmente grasso, da non poter correre molto a lungo dinanzi alla muta dei cani. Dopo che è stato inseguito per un paio d’ore, va a ficcarsi in un folto, e là si ferma. Allora i cacciatori accorrono nel punto dove lui resta immobile, e gli sparano addosso. Dal modo come abbaiano i cani, si può indovinare se il cinghiale s’è fermato, o se continua a correre. Se continua a correre, i ca‐ ni abbaiano con una specie di guaito, come se li frustassero; se invece s’è fermato, abbaiano come fanno contro un uomo, e ululano. In quella giornata di caccia io corsi a lungo qua e là per il bosco, ma non mi capitò neppure una volta di traversare la strada al cinghiale. Alla fine, mi giunse all’orecchio l’abbaio prolungato e lamentoso dei segugi, e corsi da quella parte. Mi trovavo già vicino al cinghiale. Già distinguevo lo schianto dei rami nel folto. Era il cinghiale che stava alle prese coi ca‐ ni. Ma si sentiva, al modo d’abbaiare, che i cani non lo avevano afferrato: si limitavano girargli attorno. Improvvisamente, sentii un fruscio alle mie spalle, e avvistai Bulka. Doveva aver perduto i segugi tra il bosco, smarrendo la strada: ma ora aveva udito i loro abbai e, allo stesso modo che avevo fatto io, s’era lanciato da questa parte con quanto fiato aveva. Veniva avanti di corsa per una radura, attraverso l’erba alta, e io non scorgevo nient’altro che la sua testa nera e la lingua stretta fra il bianco dei denti. Lo chiamai, ma non si voltò: passò oltre, e scomparve nel folto. Io gli corsi dietro, ma via via che m’avanzavo, il bosco diventava sempre più fitto e intricato. I rametti mi strappavano il cappello, mi bat‐ tevano in faccia; le spine dei pruni mi uncinavano il vestito. Ero, ormai, vicinissimo all’abbaiare dei cani, ma non riuscivo a distinguere nulla. D’improvviso sentii rinforzare il latrato: qualche cosa diede un gran‐ de schianto: e il cinghiale si mise ad anfanare e a rantolare. Pensai subito che Bulka lo avesse raggiunto, e ci stesse lottando insieme. Facendo un ultimo sforzo, mi spinsi in fretta, attraverso il folto, fino a quel punto. Nel più cupo del forteto mi apparve il manto pezzato d’uno dei se‐ gugi. Abbaiava e gemeva senza spostarsi di lì: e, tre passi distante, si muoveva qualche cosa di nero. Quando mi fui spinto più da presso, distinsi il cinghiale, e udii il guaito lacerante di Bulka. Il cinghiale emise un grugnito e s’avventò con‐ 150 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura tro quel segugio, che rimpiattò la coda fra le gambe e balzò lontano. A me, allora, si scoprí il fianco del cinghiale, e la testa. Mirai al fianco e sparai. Vidi che lo avevo centrato. Il cinghiale grugnì e si dilungò da me, schiantando i rami tra il folto. I cani, stridendo e abbaiando, gli si butta‐ rono dietro; io, tra quel folto, mi aprii un varco dietro a loro. Quand’ecco, improvvisamente, quasi dinanzi ai piedi, mi vidi, udii un non so che. Era Bulka. Giaceva su un fianco e guaiva. Sotto di lui, c’era una pozza di sangue. Dissi tra me: «È finita, povera bestia»; ma in quel momento avevo altro da pensare, e cercai di aprirmi un varco più oltre. Di lì a poco, infatti, il cinghiale mi apparve alla vista. I cani lo te‐ nevano per il deretano, e il cinghiale si rivoltava indietro, di scatto, ora da una parte ora dall’altra. Quando si fu avveduto di me, mi s’avventò contro. Io sparai un altro colpo, quasi a bruciapelo, tanto che le setole si bruciacchiarono addosso alla bestia. Poi il cinghiale emise un rantolo, barcollò e, di schianto, con un tonfo greve, crollò a terra. Quando gli fui sopra, il cinghiale era già morto: solo a tratti, ora in un punto ora in un altro del corpo, gli appariva un groppo, una contrazio‐ ne. Ma i segugi, ormai, s’erano inferociti: e chi gli addentava il ventre e le cosce, chi gli leccava il sangue delle ferite. Soltanto allora io mi rammentai di Bulka, e tornai indietro a ricercar‐ lo. Anche lui mi stava strisciando incontro, e si lamentava. Io m’accostai, m’accovacciai accanto a lui, ed esaminai la sua ferita. Aveva il ventre squarciato, e la matassa delle budella, che ne era uscita fuori, si trascina‐ va sulle foglie secche. Quando i miei compagni di caccia mi ebbero rag‐ giunto, rimettemmo a posto a Bulka le budella, e gli cucimmo il ventre. Intanto che gli si davano i punti al ventre, e gli si facevano i fori nella pelle, lui non smetteva mai di leccarmi le mani. Il cinghiale fu legato alla coda d’un cavallo per essere trasportato fuo‐ ri dal bosco; e Bulka fu posto sulla groppa del, cavallo, e così portato fi‐ no a casa. Rimase ammalato, Bulka, per sei settimane; poi guarì. Terzo libro di lettura 151 I fagiani. (Descrizione). Nel Caucaso134 i fagiani sono tanti che, da quelle parti, costano meno del pollame domestico. Ne vanno a caccia in tre modi: con la cavallina, a pollo e a frullo. Con la cavallina la caccia si svolge così: si prende un pezzo di tela da barca, e si stende su un telaio di legno; nel mezzo del telaio si applica una traversina, e nella tela si fa uno spiraglio. Questo telaio rivestito di tela prende il nome di cavallina. All’alba, con la cavallina e col fucile, ci si avvia al bosco. Il cacciatore porta la cavallina dinanzi a sé, e attraverso quello spiraglio nella tela va spiando i fagiani. I fagiani, all’alba, si ciba‐ no sulle radure: certe volte se ne trova una covata intera, chioccia e pul‐ cini; altre volte il gallo con la sua femmina; altre volte parecchi galli in‐ sieme. I fagiani non scorgono l’uomo, e non hanno paura di quel quadro di tela: perciò si lasciano avvicinare fino a pochi passi. Allora il cacciatore colloca in terra la cavallina, introduce nello spiraglio il fucile, e spara a sua scelta. A pollo, invece, ecco come si caccia: si mette nel bosco un qualsiasi cagnolaccio da cortile, e gli si va dietro. Quando il cane trova un fagiano, gli s’avventa contro. Il fagiano vola su un albero, e allora il cane inco‐ mincia ad abbaiargli. Il cacciatore si dirige verso l’albero, e spara al fa‐ giano appollaiato là sopra. Sarebbe una caccia facile, se il fagiano s’ap‐ pollaiasse sull’albero in un posto scoperto, e così rimanesse fermo, in modo da riuscire ben visibile. Ma i fagiani vanno sempre ad appollaiarsi sugli alberi che sorgono fitti, nel più cupo del bosco, e poi, appena avvi‐ stano il cacciatore, vanno a ficcarsi ben addentro tra il fogliame. Così, riesce difficile aprirsi il passo tra il folto, per arrivare fino a quel certo al‐ bero, e altrettanto difficile riesce distinguere l’animale. Fin quando il ca‐ ne, da solo, abbaia contro il fagiano, questo non si spaventa, se ne resta appollaiato su un ramo, e addirittura si pavoneggia di fronte al cane, starnazzando con le ali. Ma basta che avvisti l’uomo, subito si rannicchia tra il fogliame, in una maniera che solo un cacciatore ben pratico riesce a distinguerlo; a chi non è, pratico, può capitare di star lì a due passi e non scorgere nulla. 134 Abbiamo omesso la frase del testo, comprensibile solo ai lettori russi: «la gal‐ line selvatiche si chiamano fagiani». 152 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Quando i Cosacchi s’avvicinano di soppiatto ai fagiani, si calano il cappello sulla faccia e non guardano verso l’alto, perché il fagiano ha paura dell’uomo col fucile, ma più di tutto ha paura dei suoi occhi. A frullo, poi, si caccia così: si prende un cane da punta, e gli si va die‐ tro nel bosco. Il cane sente, al fiuto, dove i fagiani hanno pedinato e si sono cibati all’alba: si metterà quindi a battere le loro tracce. E, per quan‐ to i fagiani le abbiano intrecciate e arruffate, un buon cane troverà sem‐ pre l’ultima traccia, quella che porta fuori dal luogo dove hanno sostato a cibarsi. A mano a mano, poi, che il cane s’inoltrerà lungo quella traccia, ne sentirà sempre più forte l’odore, e così arriverà fino a quel punto do‐ ve il fagiano passa la giornata, accovacciato fra l’erba o pedinando. Quando il cane sarà a poca distanza, gli sembrerà che il fagiano sia già dinanzi a lui: s’avanzerà sempre più guardingo, per non spaventarlo, e ogni tanto farà una fermatina, per poter poi d’un tratto avventarsi e ac‐ ciuffarlo. Quando il cane, in questo modo, sarà arrivato proprio a ridos‐ so, il fagiano frullerà, e il cacciatore potrà sparargli. Milton e Bulka. (Racconto). Avevo preso, per la caccia ai fagiani, un cane da punta. Questo cane si chiamava Milton. Era alto, magro, d’un grigio picchiettato; aveva le o‐ recchie pendenti e ben lunghe, ed era assai forte e intelligente. Lui e Bul‐ ka non si mordevano mai. Nessun cane, del resto, aveva mai fatto a morsi con Bulka. Bastava che Bulka mostrasse i denti, e subito qualun‐ que cane abbassava la coda e s’allontanava. Un giorno, io ero andato con Milton a fagiani. Tutt’a un tratto, di gran corsa, Bulka mi raggiunse nel bosco. Io volevo scacciarlo via, ma non ci riuscii in nessun modo. Tornare a casa, e riportarlo fin là, era troppa strada. Pensando che non mi avrebbe dato troppo fastidio, proseguii senz’altro; ma, non appena Milton ebbe fiutato tra l’erba un fagiano, e si mise a cercarlo, Bulka si slanciò innanzi e incominciò a frugare di qua e di là. Faceva di tutto per essere più lesto di Milton a levare il fagiano. Sentiva anche lui qualche cosa tra l’erba, dava balzi, si rigirava su se stesso; ma il suo fiuto era poco fine, e non riusciva, da solo, a trovare la traccia: perciò teneva d’occhio Milton e correva là dove Milton si dirige‐ va. Appena Milton imbroccava la traccia, Bulka gli passava innanzi a precipizio. Io richiamavo Bulka, lo battevo, ma con lui non c’era niente da fare. Bastava che Milton incominciasse a cercare, lui si slanciava in‐ Terzo libro di lettura 153 nanzi, e gl’impediva di lavorare. Avevo già deciso di tornare a casa, giacché ormai ero sicuro che la mia cacciata era andata in fumo: ma Mil‐ ton fu più bravo di me a inventare un modo d’ingannare Bulka. Ecco che cosa fece: appena Bulka gli passava innanzi, Milton abbandonava la traccia, deviava da un’altra parte, e faceva finta di cercare in quella dire‐ zione, Bulka si precipitava subito là dove Milton lo aveva indirizzato, e allora Milton si voltava a me, mi dava un’occhiata, batteva la coda, e s’avviava di nuovo sulla traccia vera. Bulka tornava di corsa da Milton, gli passava innanzi un’altra volta: e Milton, un’altra volta, faceva a bella posta una decina di passi fuori strada, traendo Bulka in inganno: poi mi riconduceva nella direzione giusta. Così, per tutta la cacciata, Milton continuò a ingannare Bulka, e non gli permise di rovinare definitivamente ogni cosa. La tartaruga. (Racconto). Un giorno, io ero andato con Milton a caccia. Nei paraggi del bosco, Milton incominciò a cercare: tese la coda, drizzò le orecchie e si mise ad annusare. Io preparai il fucile e gli andai dietro. Pensavo che battesse la traccia d’una starna, d’un fagiano, o d’una lepre. Ma Milton non s’addentrò nel bosco: s’inoltrava sempre ala scoperto. Io continuavo a seguirlo, guardando in avanti. D’improvviso, scorsi la cosa di cui anda‐ va in cerca. C’era in terra dianzi a lui una grossa tartaruga, della gran‐ dezza d’un cappello. La testa nuda e grigia, in cima al lungo collo, le stava tesa all’infuori, pareva un pestello; le zampe annaspavano ben di‐ varicate; la toppa era coperta per intero dalla corazza. Quando la tartaruga avvistò il cane, nascose le zampe e la teca, e s’appiattò in mezzo all’erba, in modo che non si vedeva più nient’altro che il guscio. Milton la afferrò e si mise a rosicchiarla attorno, ma non riusciva ad addentarla, giacché la tartaruga a una corazza anche sul ven‐ tre, né più né meno che sulla groppa. soltanto dinanzi, di dietro e ai due fianchi la corazza ha delle aperture, di dove passano la testa, le zampe e la coda. Io tolsi a Milton la tartaruga e osservai i disegni che aveva sulla groppa, e com’era fatto quel guscio, e in che modo la bestia ci i ritirava dentro. Quando si tiene una tartaruga fra le mani, e si guarda sotto al suo guscio, si scorge in fondo in fondo, come dentro a una cantina, qual‐ che cosa di nero e di vivo. Gettai la tartaruga fra l’erba e proseguii per la 154 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura mia strada, ma Milton non volle lasciarla lì, e mi venne dietro portando‐ la fra i denti. Improvvisamente, Milton guaì e la lasciò cadere in terra. La tartaruga, standogli sospesa fra i denti, aveva tirato fuori una zampa e gli aveva graffiato la bocca. Il cane ne fu tanto irritato che ruppe ad ab‐ baiare, la afferrò di nuovo, e riprese a portarla in bocca dietro a me. Io gli ordinai di nuovo di lasciarla, ma Milton non mi obbediva. Allora gli strappai la tartaruga e la gettai lontano. Ma il cane non la lasciò così. Con le zampe, in fretta in fretta, si mise a scavare accanto a lei una buca. E quando ebbe scavato la buca, con zampe ci ruzzolò dentro la tar‐ taruga, e la seppellí sotto terra. Le tartarughe vivono tanto a terra quanto in acqua, come le bisce e le rane. Partoriscono i figli chiusi in un uovo, e queste uova le depongono in terra e non le covano: le uova, da sole, come quelle dei pesci, si apro‐ no, e ne escono le tartarughine. Ci sono tartarughe di razza piccola, non più grosse d’un piattino, e di razza grossa, lunghe fino a due metri e pe‐ santi più di tre quintali. Queste grandi tartarughe vivono nei mari. A ogni primavera, una tartaruga depone centinaia di uova. La coraz‐ za della tartaruga è per lei la stessa cosa che per noi sono le costole. Ma mentre negli uomini e negli altri animali le costole sono separate l’una dall’altra, le costole della tartaruga si sono unite tutte insieme nella co‐ razza. La differenza principale, però, è che in tutti gli altri animali le costole si trovano all’interno, sotto la carne; nelle tartarughe, invece, le costole si trovano alla superficie, e la carne sta al di sotto. Bulka e il lupo. (Racconto). Quando io ripartii dal Caucaso, laggiù c’era ancora la guerra, e di notte era pericoloso viaggiare senza scorta. Io decisi di partire la mattina più presto possibile, e perciò non andai affatto a dormire. Un mio amico era venuto a farmi compagnia le ultime ore, e pas‐ sammo insieme tutta la sera e la notte seduti di fuori alla mia casetta, sulla strada del villaggio. Era una nottata di luna e di nebbia, e c’era tanta luce che si poteva leggere, sebbene la luna restasse invisibile. Terzo libro di lettura 155 Nel colmo della notte, d’improvviso, sentimmo dall’altra parte della strada, in un cortile, pigolare un maialino. Uno di noi esclamò: — È un lupo che scanna un maialino! Io corsi in casa, afferrai il fucile già carico e mi slanciai per la strada. Tutti stavano fermi all’entrata di quel cortile, dove il maialino aveva pigolato, e mi gridavano: — Di qua, di qua! — Milton m’era corso dietro (credeva di certo che io andassi a caccia, con quel fucile), e Bulka aveva rizzato le sue corte orecchie e si buttava di qua e di là, come se chiedesse chi doveva addentare. Quando io arrivai alla siepe di quel cortile, vidi che, dall’altra parte del cortile, veniva di corsa proprio verso di me una bestiaccia selvatica. Era il lupo. Così correndo, s’avvicinò fino alla siepe, e spiccò un salto per passarci sopra. Io mi scostai da un lato, tenendo pronto il fucile. Appena il lupo fu saltato di qua della siepe, puntai il fu‐ cile quasi a bruciapelo, e premetti il grilletto: ma il fucile fece «cich», e non lasciò partire il colpo. Il lupo, senza fermarsi, era proseguito di corsa attraverso la strada. Milton e Bulka gli s’erano slanciati appresso. Milton stava vicino al lupo, ma si vedeva che aveva paura di afferrarlo: e Bulka, per quanto s’arrabattasse con le sue corte zampe, non riusciva a stargli dietro. An‐ che noi correvamo con tutte le forze appresso al lupo, ma già lupo e cani s’erano persi di vista. Soltanto da un canale, che passava all’estremità del villaggio, sentimmo latrare, guaire, e vedemmo attraverso la nebbia, luminosa di luna, levarsi un polverone, e i cani alle prese col lupo. Quando noialtri arrivammo là al canale, il lupo non c’era più, e i due cani se ne tornavano verso di noi con le code ritte e i musi imbronciati. Bulka ringhiava e mi dava urtoni con la testa: si vedeva che voleva dire qualche cosa, ma non poteva. Esaminammo con attenzione i due cani, e scoprimmo che sulla testa di Bulka c’era una piccola ferita. Senza dubbio, Bulka aveva raggiunto il lupo in riva al canale, ma non era riuscito ad afferrarlo: e il lupo, digri‐ gnando i denti, lo aveva morso di sfioro, e via di corsa. Era una ferita da poco, e non c’era nulla di pericoloso. Tornammo a casa, ci sedemmo, e ci mettemmo a chiacchierare del‐ l’accaduto. Io non potevo rassegnarmi che il fucile mi si fosse inceppato a quel modo, e continuavo a pensare a come il lupo sarebbe rimasto lì secco, se il colpo fosse partito. L’amico mio non si capacitava come aves‐ se fatto, il lupo, a scavalcare la siepe di quel cortile. Un vecchio Cosacco diceva che, in quanto a questo, non era il caso di meravigliarsi: non era mica un lupo, quello, era una strega, tant’è vero che aveva gettato l’in‐ canto sul mio fucile. Così, riuniti insieme dentro casa, facevamo conver‐ 156 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura sazione. Tutt’a un tratto, i cani s’avventarono, e noi scorgemmo nel bel mezzo della strada, proprio dinanzi a noi, un’altra volta quel medesimo lupo: ma stavolta, appena ci senti gridare, fu tanto svelto a fuggire, che i cani non lo raggiunsero più. Il vecchio Cosacco, dopo un fatto simile, fu più che mai sicuro che quello non era un lupo, ma una strega. A me, invece, venne l’idea che poteva essere un lupo arrabbiato, giacché finora non m’era mai accaduto di vedere o di sentire che un lupo, dopo essere stato scacciato dagli uo‐ mini, tornasse un’altra volta fra loro. Perciò, a ogni buon conto, versai sulla ferita di Bulka della polvere da sparo, e ci diedi fuoco. La polvere divampo’, e bruciò il punto malato. Bruciai così la ferita con la speranza di bruciare insieme la saliva in‐ fetta di rabbia, se ancora non aveva avuto tempo di entrare nel sangue. Se poi la saliva era già andata a segno, ed era entrata nel sangue, io sapevo benissimo che essa, attraverso il sangue, sarebbe sparsa per tutto il corpo, e allora non ci sarebbe stata più nessuna cura da fare. Che cosa accadde a Bulka a Piatigòrsk. (Racconto). Dal villaggio cosacco dov’ero stato finora, io non venni direttamente in Russia, ma mi trasferii a Piatigòrsk, e là mi fermai un paio di mesi. Milton, lo avevo regalato a un Cosacco cacciatore; ma Bulka, lo portai con me a Piatigòrsk. Piatigòrsk si chiama così135 perché è situata sul monte Besctàn. In lin‐ gua tartara, Besc vuol dire cinque, tan vuol dite monte. Da questa mon‐ tagna nasce un’acqua solforosa a temperatura caldissima. È tanto calda, quest’acqua, che scotta, e nel luogo dove esce dalla montagna, c’è sem‐ pre un vapore che ristagna come su una pentola in ebollizione. Tutto il luogo dove sta la città è molto ridente. Dall’alto sgorgano le sorgenti calde, in basso scorre il fiume Podkumok. In alto, tutti boschi; in giro, campi lavorati; in lontananza, sono sempre in vista le grandi montagne del Caucaso. Su quelle montagne la neve non si scioglie mai, e restano sempre bianche come zucchero. La grande montagna dell’Elbruz, bianca come un grande pan di zucchero, si scorge da tutte le parti del Caucaso, quando il tempo è sereno. Alle fonti d’acqua calda viene a curarsi gente di lontano; e presso le fonti sono stati fabbricati chioschi, rimesse, e tut‐ «Città dai cinque monti». 135 Terzo libro di lettura 157 t’intorno sono stati scavati nella montagna giardini e stradelli. Ogni mat‐ tina ci suona la musica, e la gente beve l’acqua, fa i bagni, passeggia. La città sta piantata sopra un’altura, e sotto l’altura ci sono i sobbor‐ ghi. Io abitavo in questi sobborghi, in una piccola casettina. La casettina aveva intorno una spiazzo cintato: dinanzi alle finestre c’era un giardi‐ netto, e in giardino c’erano le api dei miei padroni di casa, che non erano tenute in arnie di tronchi svuotati, come usa in Russia, ma in una specie di canestre rotonde. Le api, da quelle parti, sono tanto pacifiche, che io passavo le mattinate intere con Bulka in quel giardinetto, lì in mezzo alle arnie. Bulka gironzolava fra le arnie, contemplava le api, le annusava, ascol‐ tava il ronzio che facevano; ma era talmente guardingo nel passarci ac‐ canto, che non le infastidiva in nessun modo, e quelle non lo toccavano. Una mattina, tornando a casa dalle fonti, io mi sedetti a prendere il caffè nel giardinetto sotto le finestre. Bulka si mise a grattarsi dietro le orecchie, facendo tintinnare il collare. Quel rumore inquietava le api, e io tolsi a Bulka il collare. Poco dopo, dalla parte della città alta, sentii un fracasso strano e spaventevole. Cani che abbaiavano, guaivano, gente che gridava: e il fracasso, scendendo dall’alto, s’avvicinava, s’avvicinava sempre più al nostro sobborgo. Bulka aveva smesso di grattarsi: aveva steso la larga testa dai denti bianchi fra le sue bianche zampe anteriori, ci aveva steso sopra anche la lingua, come non poteva a meno di fare, e ri‐ maneva adagiato buono buono accanto a me. Quando sentì quel fracas‐ so, fu come se capisse di che cosa si trattava: drizzò le orecchi, digrignò i denti, balzò in piedi e incominciò a ringhiare. Il fracasso s’andava sem‐ pre avvicinando. Pareva che i cani di tutta la città si lamentassero, guais‐ sero e abbaiassero. Io andai al cancello d’entrata per vedere un po’, e la mia padrona di casa venne là anche lei. Le domandai: – Che cosa succe‐ de? – Lei mi disse: – Sono i forzati della prigione, che girano ad ammaz‐ zare i cani. I cani sono diventati troppi, e le autorità municipali hanno dato ordine di ammazzarli tutti, quanti ne trovano per la città. – Sicché, anche il mio Bulka ammazzerebbero, se gli capitasse a tiro? – No, quelli col collare non c’è ordine d’ammazzarli. Proprio mentre dicevamo così, i forzati stavano già arrivando al no‐ stro recinto. In testa a tutti procedevano dei soldati; dietro a questi, quattro forzati con le catene ai piedi. Due forzati tenevano in pugno certi lunghi uncini di ferro; gli altri due, dei grossi randelli. Dinanzi al nostro cancello uno dei forzati, col suo uncino, afferrò un cagnoletto da cortile, lo trascinò nel mezzo della strada, e là un altro forzato si mise a picchiarlo col suo 158 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura grosso randello. Il cagnoletto guaiva tremendamente, ma i forzati grida‐ vano tra loro e ridevano. Il forzato con l’uncino rivoltò il cagnoletto sot‐ tosopra, e quando vide che era morto, ne estrasse l’uncino, e si mise a spiare tutt’intorno, se ci fossero altri cani. In quel momento Bulka, all’impazzata, come quando s’era avventato contro l’orso, si scagliò contro quel forzato. Io mi ricordai, allora, che stava senza collare, e gli gridai: – Bulka, qua! – e insieme gridavo ai for‐ zati che non toccassero Bulka. Ma il forzato più vicino aveva già avvista‐ to Bulka: scoppiò in una risata e, con l’uncino, lo colpì abilmente, affer‐ randolo per una coscia. Bulka cercava di slanciarsi dall’altra parte, ma il forzato lo tirò a sé, gridò al compagno: — Picchia giù! — Il compagno alzò in aria suo grosso randello, e Bulka sarebbe rimasto ucciso: ma, im‐ provvisamente, diede uno strattone, le pelle della coscia gli si squarciò, e, con la coda fra le gambe, con quella ferita rossa sulla c scia, infilò di gran corsa la porticina di servizio del giardino, e lì s’imbucò dentro casa, dove fini per ficcarsi sotto il mio letto S’era salvato soltanto perché la pelle gli s’era squarciata di netto in quel punto dov’era entrato l’uncino. Fine di Bulka e di Milton. (Racconto). Bulka e Milton finirono tutt’e due nello stesso tempo. Quel vecchio Cosacco non seppe servirsi di Milton come avrebbe dovuto. Invece di farlo cacciare soltanto a penna, incominciò a portarlo contro i cinghiali. E, in quell’autunno stesso, un cinghiale di due anni, di quelli con le difese aguzze, non ancora incurvate all’insù, gli squarciò il ventre. Nes‐ suno seppe ricucirgli lo squarcio, e Milton morí. Anche Bulka poco visse, dopo essersi salvato dai forzati. Non passò molto da quel giorno, che divenne malinconico, e incominciò a leccare qualunque cosa gli capitava. Continuava a leccarmi le mani, ma in un modo diverso da quando, prima, mi faceva le feste. Me le leccava a lun‐ go, e ci premeva forte la lingua: poi, a un tratto, accennava a stringerme‐ le un pochino coi denti. Si capiva che sentiva bisogno di mordermi le mani, ma non voleva. Io smisi di dargli a leccare la mano. Allora lui in‐ cominciò a leccare il mio stivale, una zampa del tavolo, e poi a mordere lo stivale o la zampa del tavolo. Questo durò due giorni; il terzo giorno, Bulka scomparve, e nessuno lo vide più: non se ne seppe più nulla. Terzo libro di lettura 159 Rubarlo non era possibile; andarsene da casa mia, era una cosa che lui non avrebbe mai fatta. La sua sparizione avvenne sei settimane dopo che quel lupo lo aveva morso alla testa. Si vede dunque che il lupo, come io pensavo, era arrabbiato. Bulka era stato preso dalla rabbia, e s’era allon‐ tanato. Gli era venuto ciò che i cacciatori chiamano un ingorgo. Si dice che la rabbia consista in questo, che alla bestia arrabbiata vengono degli spasimi in gola. Le bestie arrabbiate vogliono bere e non possono, perché con l’acqua gli spasimi diventano più forti. Allora, dal dolore e dalla sete, impazzi‐ scono, e si mettono a mordere. A Bulka, probabilmente, erano incomin‐ ciati questi spasimi quando s’era messo a leccare, e poi a mordere, la mia mano e la zampa del tavolo. Girai a cavallo tutti i dintorni domandando di Bulka, ma non riuscii a sapere dove s’era ficcato e come era morto. Se fosse corso qua e là, e a‐ vesse morso la gente, come fanno i cani arrabbiati, lo avrei sentito dire da qualcuno. Penso che Bulka, invece, si sia rifugiato in qualche angolo solitario, e là, solo solo, sia morto. Dicono i cacciatori che quando a un cane intelligente viene l’ingorgo della rabbia, fugge via in campagna, o nei boschi, e là cerca una certa erba che fa per lui: si voltola fra la guazza, e così si cura da sé. Si vede che Bulka, seppure si curò, non riuscii a gua‐ rire. Non fece più ritorno, e la sua vita ebbe fine. Gli uccelli e la rete. (Favola). Un cacciatore tese la rete presso un lago, e la richiuse su una gran quantità d’uccelli. Gli uccelli erano grossi: sollevarono la rete da terra e volarono via insieme con essa. Il cacciatore si mise a correre dietro agli uccelli. Un contadino vide li cacciatore che correva, e gli disse: — E dove cor‐ ri, tu? Si può mai, a piedi, raggiungere un uccello? Il cacciatore rispose: — Se fosse stato un uccello solo, non lo avrei mai raggiunto: ma questi, ora, li raggiungerò. E così avvenne. Quando fu sera, gli uccelli vollero ritornare ai luoghi dove pernottavano sempre, e ciascuno tirava dalla parte sua: uno verso il bosco, un altro verso la palude, un terzo verso i campi. E così, tutti quanti insieme, precipitarono a terra, e il cacciatore li catturò. 160 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura L’olfatto. (Considerazioni). L’uomo esercita la vista con gli occhi, l’udito con le orecchie, l’olfatto col naso, il gusto con la lingua, e il tatto con le dita. Uno ha l’occhio più acuto, un altro meno. Uno ha l’udito fine, un altro è sordo. L’olfatto d’u‐ no è più forte, tanto che sente un odore fin da lontano; un altro fiuta un uovo marcio, e non sente nulla. Uno, al tatto, riconosce le varie cose; un altro non sa riconoscere nulla al tatto, non distingue neppure il legno dalla carta. Uno, appena porta una cosa alla bocca, sente che è dolce; un altro la inghiotte, e non distingue se è dolce o amara. Allo stesso modo, anche in un animale o nell’altro, c’è un senso o l’al‐ tro che ha più forza di tutti. Ma, in tutti gli animali, l’olfatto ha più forza che nell’uomo. L’uomo, quando vuole sapere una cosa com’è, la guarda ben bene, ascolta che rumore fa, certe volte la annusa e la degusta: ma, per sapere com’è con più sicurezza, l’uomo ha bisogno soprattutto di tastarla. Gli animali, invece, nella grande maggioranza, hanno bisogno soprat‐ tutto di fiutare le cose. Il cavallo, il lupo, il cane, la vacca, l’orso, non sanno come sono le cose fin tanto che non le fiutano. Quando un cavallo ha paura di qualche cosa, sbuffa: cioè, si ripulisce il naso per meglio fiutare; e non smetterà di aver paura fin tanto che non avrà fiutato ben bene. Il cane, spesso spesso, corre dietro al padrone seguendone la traccia, ma appena il padrone gli appare dinanzi agli occhi, si spaventa: non lo riconosce alla vista, e incomincia ad abbaiare, fin tanto che non riesce a fiutarlo e a riconoscere che quella cosa, che a vederla gli fa paura, è pro‐ prio il padrone suo. I buoi vedono ammazzare altri buoi come loro, odono muggire questi buoi nel macello, eppure non capiscono ancora che cosa accade. Ma ba‐ sta che una vacca o un bue passi in un punto dove c’è del sangue bovi‐ no, e lo fiuti: subito capirà, si metterà a muggire, a pestare con le zampe, e sarà difficile farlo spostare più da quel punto. A un vecchio s’ammalò la moglie, che era abituata a mungere la vac‐ ca: il vecchio andò a mungerla da sé. La vacca sbuffò, riconobbe che non era la padrona, e non voleva dare il latte. Allora la padrona disse al ma‐ rito d’indossare il suo cappotto, e di legarsi in testa il suo fazzoletto: e subito la vacca diede il latte. Ma poi il vecchio si sbottonò il cappotto, la vacca fiutò quell’odore diverso, e di nuovo fermò il latte. Terzo libro di lettura 161 I cani segugi, quando incalzano una bestia selvatica seguendone la traccia, non corrono mai proprio lungo la traccia, ma un pochino di lato, a una ventina di passi di distanza. Quando un cacciatore poco pratico vuole riportare il cane sulla traccia del selvatico, e preme il naso al cane proprio contro la traccia, il cane torna sempre a balzare da un lato. Per lui, la traccia manda un odore così forte, che non riesce a distinguere nulla quando ci sta sopra e non sa più se il selvatico è fuggito in avanti o all’indietro. Perciò fa uno scarto da un lato, e soltanto allora può fiutare con sicurezza in quale direzione l’odore è più forte, e si slancia dietro al‐ la preda. Il cane, così, si comporta allo stesso modo che ci comportiamo noi, quando ci parlano ad alta voce proprio contro l’orecchio: noi ci sco‐ stiamo, e soltanto allora, di più lontano, distinguiamo che cosa ci dicono. O come quando abbiamo troppo vicina una cosa che cerchiamo di di‐ stinguere: ci tiriamo indietro, e allora riusciamo a distinguerla. I cani si riconoscono tra loro e si danno indicazioni per mezzo dell’o‐ dore. E ancora più fino è l’olfatto degl’insetti. L’ape vola diritta a quel fiore che fa per lei. Il verme s’arrampica su quella foglia che gli ci vuole. La cimice fiuta l’uomo a una distanza di centinaia di migliaia dei suoi passi cimiceschi; e altrettanto fanno la pulce, la zanzara. Se sono piccole le particelle che si staccano dagli oggetti e vengono a toccare il nostro naso, quanto dovranno essere piccole quelle particelle che vanno a cadere sotto l’olfatto degl’insetti! I cani e il cuoco. (Favola). Un cuoco preparava il pranzo; i cani se ne stavano sdraiati alla porta di cucina. Il cuoco ammazzò un vitellino, e gettò le budella in cortile. I cani le presero a volo, le divorarono, e dissero: — Che bravo cuoco! Cucina ch’è una meraviglia. Poco dopo, il cuoco si mise a ripulire piselli, rape e cipolle, e gettò fuori gli scarti. I cani ci si avventarono sopra, storsero il muso, e dissero: — Come s’è guastato, il nostro cuoco! Prima faceva da mangiare così bene, ma adesso non vale più niente. Il cuoco, però, non diede ascolto ai cani, e continuò a preparare il pranzo a modo suo. Il pranzo fu consumato e lodato dai padroni, non già dai cani. 162 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura La fondazione di Roma. (Racconto storico). Nei tempi antichi c’era un re che aveva due figli: Numitore e Amulio. Quando egli morí disse ai figlioli: — In che modo avete intenzione di fare le parti tra voi? Chi dei due prenderà il regno e chi tutte le mie ric‐ chezze? — Numitore prese il regno e Amulio prese le ricchezze. Quando Amulio ebbe preso le ricchezze, sentì invidia che il fratello fosse re, e incominciò a dar regali ai soldati, incitandoli che scacciassero Numitore e ci mettessero lui al posto di re. Così fecero i soldati, e Amu‐ lio diventò re. Numitore aveva una figlia. A questa figlia nacque una coppia di ge‐ melli, tutt’e due maschi. E tutt’e due erano grossi e belli. Amulio temeva che il popolo prendesse affezione a questi gemelli, quando fossero diventati grandi, e li scegliesse come suoi re. Chiamò un servo, di nome Fàustolo, e gli disse: — Prendi quei due bambini, e butta‐ li nel fiume. Il fiume che passava di là, si chiamava Tevere. Fàustolo mise i bambini in una culla, li portò sulla riva, e là li depose. Egli era sicuro che sarebbero morti senz’altro. Ma le acque del Tevere in piena salirono fino alla riva, sollevarono quella piccola culla, la trasci‐ narono lontano, e la fecero fermare sotto un albero d’alto fusto. A notte sopravvenne una lupa, e si mise a nutrire col suo latte i due gemelli. I bambini diventarono grandi, e si fecero belli e forti. Vivevano in un bosco poco lontano dalla città dove stava Amulio; avevano imparato a uccidere le bestie selvatiche, e di queste si cibavano. Il popolo venne a sapere di loro, e prese ad amarli per la loro bellezza. Al più grande mise‐ ro nome Romolo, al più piccolo Remo. Un giorno, i pastori di Numitore e d’Amulio stavano badando le pe‐ core poco lontano da quel bosco, e vennero a lite. I pastori di Numito‐ re136 portarono via le greggi di Amulio. I due gemelli, a quella vista, rin‐ corsero i pastori, li raggiunsero, e ritolsero loro il bestiame. Allora i pastori di Numitore andarono in collera contro i gemelli: scelsero un momento che Romolo non c’era, presero Remo, e lo condus‐ sero in città, da Numitore, dicendogli; — Sono comparsi nel bosco due fratelli che portano via il bestiame e fanno i briganti. Ecco qua, ne ab‐ biamo acciuffato uno, e lo abbiamo portato dinanzi a te! — Numitore ordinò che Remo fosse condotto dal re Amulio. Amulio disse: — Costoro Il testo ha una svista evidente: «di Amulio», e, quindi, «di Numitore». 136 Terzo libro di lettura 163 hanno offeso i pastori di mio fratello: dunque sia mio fratello a giudicar‐ li—. Così Remo fu di nuovo condotto da Numitore. E Numitore lo chia‐ mò a sé, e gli domandò: — Di dove vieni, tu? Remo disse: — Noi siamo due fratelli: quando eravamo piccolini, fummo trascinati dalle acque, dentro una culla, fino a un albero sulla ri‐ va del Tevere, e là ci nutrirono bestie selvatiche e uccelli. Sempre là noi ci siamo fatti grandi. Se poi vuoi sapere chi siamo, la nostra culla si con‐ serva ancora. Ci sono, sopra, delle strisce di bronzo, e sulle strisce c’è qualche cosa in iscrittura. Numitore rimase stupito, e pensò: non saranno stati i suoi nipoti? Fe‐ ce lasciare Remo lì con lui, e mandò a chiamare Fàustolo, per interrogar‐ lo. In quel frattempo Romolo andava in cerca del fratello, e non poteva trovarlo da nessuna parte. Quando i pastori gli dissero che suo fratello era stato condotto in città, egli prese con sé la culla e s’avviò là. Fàustolo riconobbe subito la culla, e disse al popolo che questi erano i nipoti di Numitore, e che Amulio aveva cercato di farli annegare. Allora il popolo si sdegnò contro Amulio, e lo uccise: Romolo e Remo, invece, li fece suoi re. Ma a Romolo e a Remo non piacque di vivere in quella città: lasciaro‐ no che vi regnasse il loro nonno Numitore. E loro fecero ritorno al luogo presso quell’albero, dove la lupa li aveva allattati, lungo la riva del Teve‐ re: e lì costruirono una nuova città, che fu Roma. Dio vede la verità, ma non ha fretta di dirla. (Racconto). Nella città di Vladímir viveva un giovane mercante, Aksiònov. Egli aveva due botteghe e la casa. Di persona, Aksiònov era biondo, ricciuto, bello, ed era un allegrone e un canterino dei primi. Da giovanotto era stato gran bevitore, e quando aveva il vino in corpo, faceva il turbolento; ma, dacché aveva preso mo‐ glie, aveva smesso di bere, e solo di rado ci ricascava. Una volta, d’estate, Aksiònov parti per la fiera di Nizni. Sul punto di accomiatarsi dalla famiglia, la moglie gli disse: — Ivàn Dmitrevič, non partire oggi: io ho fatto, su te, un brutto sogno. Aksiònov fece una risatina, e disse: — Dunque hai sempre paura ch’io faccia baldoria, alle fiere? 164 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — La moglie disse: Non so neanch’io di che cosa ho paura, ma ho fat‐ to un sogno così brutto: mi pareva come se tu arrivassi dalla città, ti to‐ glievi il cappello, e che cosa vedevo? la testa ti s’era tutta incanutita. Aksiònov si mise a ridere. — Bah, questo è di buon augurio. Vedrai, appena ho fatto affari, che regalucci di prezzo ti porterò! E così, s’accomiatò dalla famiglia e se ne partì. A mezza strada, s’accompagnò con un mercante di sua conoscenza, e insieme con questo si fermò a pernottare. Presero il tè tutt’e due insieme, e si coricarono in due camere attigue. Ad Aksiònov non piaceva dormir molto: si svegliò a notte alta, e, per viaggiar meglio così col frescolino, destò il vetturale e gli ordinò che attaccasse. Poi andò alla baracca di servizio, fece i conti col locandiere, e partì. Dopo quaranta miglia di strada, si fermò di nuovo a governare i ca‐ valli; si riposò nell’atrio dell’albergo, e, all’ora di desinare, uscì sul pia‐ nerottolo d’ingresso, ordinando che gli approntassero il samovàr: e in‐ tanto, pigliò la chitarra e si mise a suonare. Tutt’a un tratto, viene a fer‐ marsi lì nel cortile un tiro a tre con tanto di sonagliera, e dalla carrozza scende un funzionario con due soldati, s’accosta ad Aksiònov, e gli do‐ manda chi è e dove va. Aksiònov spiega tutto come sta, e poi propone all’altro se non gradirebbe bere insieme una tazza di tè. Il funzionario, però, seguita a insistere con le domande: dove aveva albergato la notte scorsa, da solo o con un mercante; se aveva veduto il mercante a giorno nuovo; perché aveva lasciato l’albergo tanto a buonora. Aksiònov non si capacitava perché gli facessero tutte queste domande: raccontò ogni cosa com’era andata, e finalmente soggiunse: – Ma che c’è, da farmi un simile interrogatorio? Io non sono mica un ladro o un brigante qualsiasi. Sto in viaggio per i miei affari, e non è il caso d’interrogarmi a questo modo. Allora il funzionario chiamò i soldati, e disse: – Io sono il capo della polizia del distretto, e t’interrogo perché quel mercante, col quale tu hai albergato stanotte, è stato sgozzato. Fà vedere le tue robe: e voi, perquisitelo. Entrarono nel locale, presero la valigia e il sacco da viaggio,e si mise‐ ro a slegarli e a frugarci dentro. D’improvviso, il capo della polizia tirò fuori dal sacco un coltello, e gridò: – Questo coltello, di chi è? Aksiònov diede là un’occhiata: vide quel coltello insanguinato, che avevano cavato dal sacco suo, e si spaventò. – E come mai c’è del sangue sul coltello? Aksiònov voleva rispondere, ma non riusciva a pronunciar le parole: Terzo libro di lettura 165 — Io... io non so... io... questo coltello... io... non è mio. — Allora il capo della polizia gli disse: — Stamattina quel mercante è stato trovato sgozzato nel letto. A ec‐ cezione di te, nessuno può aver fatto questo. La baracca dov’erano le camere stava chiusa dall’interno, e nella baracca, a eccezione di te, non c’era nessuno. Ed ecco che il coltello insanguinato sta qui nel sacco tuo, eppoi basta guardarti in viso. Dì su, in che modo l’hai ammazzato, e quanto danaro gli hai portato via? Aksiònov giurava che lui non aveva fatto niente, e che non aveva più veduto il mercante da quando ci aveva preso il tè insieme, e che il dena‐ ro che aveva addosso erano ottomila rubli di suo, e che il coltello era di chissà chi. Ma intanto la voce gli si spezzava, aveva il viso bianco, e tre‐ mava da capo a piedi dal terrore, come se fosse reo. Il capo della polizia chiamò i soldati, e lo fece legare e caricar sulla te‐ lèga. Quando, coi piedi legati, lo buttarono dentro alla telèga, Aksiònov si fece il segno della croce e pianse. Furono sequestrati ad Aksiònov og‐ getti e danari, e fu portato alla città più vicina, e in prigione. Mandarono poi a chiedere informazioni a Vladímir che uomo fosse questo Aksiònov, e tutti i mercanti e gli altri abitanti di Vladímir dichiararono che Aksiò‐ nov, da giovanotto, aveva bevuto e fatto chiasso, ma era un brav’uomo. Quindi gli fecero il processo. E fu giudicato colpevole d’aver ucciso quel mercante di Rjazàn, e d’averlo depredato di ventimila rubli. La moglie si sentiva impazzire per via del marito, e non sapeva che cosa pensare. I figli, li aveva ancora tutti piccini, e uno al petto. Li prese tutti quanti con sé, e partí per quella città, dove suo marito era chiuso in prigione. Da principio, non la lasciarono passare, ma poi, a forza di pre‐ gare le autorità, la condussero in presenza del marito. Quando lo vide vestito da galeotto, coi ceppi ai piedi, mischiato ai malfattori, stramazzò lunga per terra, e per un pezzo non poté tornare in sé. Poi si mise i bam‐ bini tutti intorno, si sedette lì con lui a fianco a fianco, e incominciò a parlargli degli affari di casa, e a domandargli di tutto quello che gli era accaduto. Lui le raccontò ogni cosa. Lei disse: — E che si può fare, adesso? Lui le rispose: — Bisogna rivolgersi allo zar. Non può essere che un innocente peri‐ sca! La moglie rispose che già l’aveva mandata, una supplica allo zar, ma che la supplica non era arrivata in porto. Aksiònov non disse più nulla: chinò gli occhi a terra, e basta. Allora disse la moglie: 166 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — Non per nulla quel giorno, ti ricordi?, io mi sognai che t’eri fatto canuto. Ecco qua, e ora sul serio, dal dolore, ti sei incanutito. Ah se non fossi partito da casa, quel giorno! E si faceva passar fra le dita i suoi capelli, e gli disse: — Vànja, mio caro, a tua moglie dilla, la verità: non sei stato tu, a commettere il fatto? Aksiònov esclamò: — Anche tu hai pensato male di me! — e si nasco‐ se il viso tra le mani, e pianse. Poi venne un soldato a dire che la moglie e i bambini dovevano andarsene. E Aksiònov per l’ultima volta si acco‐ miatò dalla sua famiglia. Quando la moglie si fu allontanata, Aksiònov cominciò a richiamarsi alla mente quel che avevano detto. Quando gli tornò alla mente che per‐ fino la moglie aveva pensato male di lui, e gli aveva domandato se era stato lui a uccidere il mercante, egli disse a se stesso: «Evidentemente, fuorché Iddio, nessuno può saper la verità: e solo Lui bisogna supplica‐ re, e da Lui solo aspettar pietà». E, da quel momento, Aksiònov cessò di scrivere suppliche, cessò di sperare, e non fece più che pregare il Signo‐ re. Aksiònov era stato condannato alla fustigazione, e ad esser inviato ai lavori forzati. Così gli fu fatto. Lo fustigarono con lo knut, e poi, quando le piaghe dello knut gli si furono rimarginate, lo convogliarono via con gli altri forzati in Siberia. In Siberia, ai lavori forzati, Aksiònov ci visse ventisei anni. I capelli, sulla sua testa, erano diventati bianchi come la neve, e la barba gli era cresciuta lunga, stretta, canuticcia. Tutta la sua allegria era passata. S’era ingobbito, aveva preso l’abitudine di camminar adagio, di parlar poco, non rideva mai, e spesso pregava il Signore. In prigione, Aksiònov aveva imparato a fare il calzolaio, e coi danari guadagnati s’era comperato le Vite dei Santi, e le leggeva, quando c’era luce nella prigione; i giorni festivi, poi, andava alla chiesa della prigione, recitava gli Atti e le Epistole, e cantava nel coro: la voce gli si manteneva sempre bella. Le autorità vedevano di buon occhio Aksiònov per la sua mansuetudine, e anche i compagni di prigione avevano rispetto di lui, e lo chiamavano «nonnetto» e «uomo di Dio». Quando c’era da far qual‐ che richiesta alle autorità per cose della prigione, i compagni mandava‐ no sempre Aksiònov; e quando, tra i forzati, nascevano liti, sempre ad Aksiònov venivano ad appellarsi. Da casa, nessuno mai scriveva ad Aksiònov, ed egli non sapeva se fossero in vita la moglie e i figliuoli. Terzo libro di lettura 167 Furono condotti un giorno, lì ai lavori forzati, dei nuovi galeotti. A sera, tutti i vecchi galeotti si radunarono intorno ai nuovi, e si misero a interrogarli, di che città fosse ciascuno; o di che villaggio, e per quali fatti si trovassero qui. Anche Aksiònov s’era accoccolato lì sul tavolaccio po‐ co lontano dai nuovi, e, col viso basso, ascoltava quel che ciascuno veni‐ va raccontando. Uno dei nuovi galeotti era un alto, vigoroso vecchio sul‐ la sessantina, con la barba grigia tagliata a garbo. Raccontando perché l’avessero preso, egli disse: — Fratelli miei, così, per nulla, io mi trovo qui. A un vetturale, slegai un cavallo dalla slitta. M’acciuffano e mi dicono: l’hai rubato. Io gli ri‐ spondo: volevo soltanto far il viaggio più alla svelta, tant’è vero che il cavallo l’ho rilasciato: eppoi, quel vetturale, è un mio amico! No, insisto‐ no, l’hai rubato... E pensare che non lo sapevano mica, che cosa e dove avevo rubato davvero! Qualcosìna, via, l’ho fatta, e da un pezzo mi sa‐ rebbe toccato di capitar quaggiú, ma non sono riusciti a trovar le prove, e adesso, invece, a torto mi ci hanno cacciato! Ma si sbagliano: son venu‐ to in Siberia, ma non ci faccio dimora lunga... — O di dove sei, tu? — gli domandò uno dei forzati. — Noi siamo della città di Vladímir, artigiani del luogo. Mi chiamo Makàr, e di nome paterno, Semiònovič. Aksiònov sollevò la testa, e domandò: — Di’ un po’, Semiònovič , non hai sentito parlare, lì a Vladímir, degli Aksiònov, mercanti? Son vivi? — Altro se ne ho sentito parlare! Mercanti ricchi, benché il padre l’abbiano in Siberia. Quello, si vede, era né più né meno che noi peccato‐ ri. E tu, nonnetto, che hai fatto, per star qui? Non piaceva, ad Aksiònov, parlare della sua sventura; diede un so‐ spiro e disse: — Per i miei peccati, da ventisei anni sono qui in galera. — Makàr Semiònovič disse: — Ma per quale sorta di peccati? Aksiònov disse: — Bisogna proprio che me lo sia meritato, – e non volle raccontar di più; ma gli altri forzati, suoi compagni spiegarono es‐ si, al nuovo, come mai Aksiònov fosse finito in Siberia. Raccontarono come, in viaggio, uno sconosciuto avesse ucciso un mercante, e avesse appiattato il coltello nella roba d’Aksiònov, e per questo, innocente, egli fosse stato condannato, Quando Makàr d’Aksiònov sentì queste cose, lanciò un’occhiata ad Aksiònov, si batté le mani sui ginocchi, e disse: 168 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — Oh, che combinazione! Questa si che è una combinazione! Ti sei invecchiato, però, nonno mio! Subito incominciarono a domandargli di che cosa si meravigliasse tanto, e dove avesse veduto Aksiònov.; ma Makàr Semiònovič non ri‐ spondeva: disse, soltanto: — Sono davvero combinazioni, ragazzi: guarda dov’era scritto che ci si rivedesse! E, da queste parole, nacque ad Aksiònov un pensiero: non avrà sapu‐ to, quest’uomo, chi era stato l’uccisore del mercante? Gli disse: — O che tu, Semiònyč, hai sentito altre volte parlar di questa cosa, o che m’hai già veduto altre volte! — E come non ne avrei sentito parlare! Le notizie fanno il giro della terra. Ma è un gran pezzo che la cosa è successa: quel che ho sentito, m’è caduto di mente, — disse Makàr Semiònov. — Forse hai sentito dire chi ha ucciso il mercante? — domandò A‐ ksiònov. Makàr Semiònov ruppe in una risata, e disse: — Ma certo, è evidente: chi ha ucciso è quello, a cui s’è trovato il col‐ tello nel sacco. Se anche qualcuno te l’avesse ficcato lì dentro, non è stato acchiappato, e dunque non è il ladro. Ma poi, com’era possibile ficcare il coltello nel sacco tuo? Questo ti stava, diamine, al capezzale! Te ne sare‐ sti accorto. Appena Aksiònov ebbe sentito queste parole, gli venne il pensiero che proprio quest’uomo avesse ucciso il mercante. Si levò, e s’allontanò di lì. Tutta quella nottata non poté chiuder occhio. Lo aveva assalito una gran tristezza, e tante immagini gli risorgevano dinanzi: ora gli risorge‐ va l’immagine della moglie, com’era quando, per l’ultima volta, lo aveva salutato sul punto di partir per la fiera: la vedeva lì come viva, vedeva il suo viso, i suoi occhi, la sentiva parlargli e ridere; poi, gli risorgevano le immagini dei bambini, tali quali erano allora: piccolini, uno con la pellic‐ cetta, un altro lattante. E anche di se stesso si ricordava, com’era a quei tempi: allegro, giovanile; sì ricordava di quei momenti che stava là, sul pianerottolo dell’albergo, dove poi era stato arrestato, a suonar la chitar‐ ra, e quanta allegria aveva allora nell’anima. Ed ecco tornargli a mente il palco infame, dove lo avevano fustigato: e il boia, e il popolo intorno, e i ceppi, e i forzati, e tutti questi ventisei anni di galera, e la sua vecchiaia. E tanta tristezza assaliva Aksiònov, che avrebbe alzato le mani contro se stesso. «E tutto per causa di quest’assassino!» pensava Aksiònov. Terzo libro di lettura 169 E finì per invaderlo un tale rancore contro Makàr Semiònov, che, a costo di perdersi, ma avrebbe voluto prenderne vendetta. Continuò a dir preghiere tutta la notte, ma non riusciva a ritrovar la calma. Il giorno se‐ guente, non si avvicinò a Makàr Semiònov, e non lo guardò neppure. Così passarono due settimane. La notte, Aksiònov non poteva dormi‐ re, ed era assalito da una tale tristezza, che non sapeva dove voltarsi. Una volta, così di notte, mentre camminava per la prigione, s’avvide che di sotto a un tavolaccio schizzava su della terra. Egli si fermò a guardare. Tutt’a un tratto, Makàr Semiònov saltò fuori di sotto al tavo‐ laccio, e con una faccia spaventata sbirciò Aksiònov. Aksiònov voleva passar oltre, per non vederlo: ma Makàr lo afferrò pel braccio e gli disse che lui stava scavando un passaggio sotto le mura, e la terra, giorno per giorno, la portava fuori dentro ai gambali, e la versava strada facendo, mentre li conducevano al lavoro. Poi disse: — Purché tu stia zitto, vecchio, anche te farò fuggire. Se invece parle‐ rai, a me toccheranno le verghe, ma tu pure non avrai scampo: t’ammaz‐ zerò. A vedersi lì dinanzi il suo carnefice, Aksiònov cominciò a tremare tut‐ to dal rancore: si svincolò col braccio, e rispose: — Fuggire, io, non saprei dove, ed essere ucciso, non me n’importa: già da un pezzo tu m’hai ammazzato. Quanto poi a denunciarti o no, fa‐ rò come Iddio mi pone nell’animo. L’indomani, mentre menavano i forzati al lavoro, í soldati s’avvidero che Makàr Semiònov versava fuori dai gambali la terra: andarono a cer‐ care dentro la prigione, e trovarono la buca. Il direttore venne subito lì alla prigione, e si mise a interrogar tutti quanti, chi avesse scavato la bu‐ ca. Tutti quanti negarono. Anche quelli che sapevano, si guardavano dal denunciare Makàr Semiònov, ben sapendo che, per un fatto simile, lo avrebbero bastonato fin quasi a morte. Allora, il direttore della prigione si rivolse ad Aksiònov. Sapeva che Aksiònov era un uomo giusto, e per‐ ciò gli disse: — Vecchio, tu sei veritiero: dimmi, dinanzi a Dio, chi ha fatto questa cosa. Makàr Semiònov se ne stava lì come niente fosse, con gli occhi fissi al direttore, e neanche li girava verso Aksiònov. Aksiònov fu preso da un tremito alle mani e alla labbra, tanto che per un pezzo non poté proferir parola. Pensava, tra sé: «Ricoprirlo? Ma perché dovrei perdonargli, se è lui che m’ha rovinato? Che paghi tutto il martirio che m’ha fatto patire! Ad accusarlo, però, è certo che sarà bastonato. E che sarebbe, se io mi sbagliassi a sospettar di lui? Eppoi, forse che a me ne verrebbe sollievo?» 170 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il direttore disse un’altra volta: — Ebbene, vecchio, dì la verità: chi è stato a scavare? Aksiònov posò gli occhi su Makàr Semiònov, e disse: — Io non ho veduto e non so niente. E così, non si venne a sapere chi avesse scavato la buca. Quando fu scesa la notte, mentre Aksiònov, coricato sul suo tavolac‐ cio, stava tra veglia e sonno, sentì qualcuno che s’accostava in qua, e gli si sedeva ai piedi. Guardò fra il buio, e ravvisò Makàr. Aksiònov gli disse: — Che altro ti serve, da me? Che stai a fare, lì? Makàr Semiònov taceva. Aksiònov si tirò su, e gli disse: — Che vuoi? Vattene via. Altrimenti chiamo il soldato. Makàr Semiònov si curvò più accosto ad Aksiònov, e con un soffio di voce gli disse: —Ivàn Dmìtrevič, perdonami! Aksiònov disse: — E di che, dovrei perdonarti! — Sono stato io che ho ammazzato il mercante, e io ho ficcato il col‐ tello nella tua roba: anche te volevo ammazzare, ma di fuori fecero ru‐ more: allora ti ficcai il coltello nel sacco, e saltai dalla finestra. Aksiònov taceva, e non sapeva che dire. Makàr Semiònov scivolò giù dal tavolaccio, si prostrò fino a terra, e disse: — Ivàn Dmítrevič, perdonami, perdona in nome di Dio. Io dichiarerò che il mercante è stato ucciso da me, e tu sarai perdonato. Tu ritornerai a casa tua. Aksiònov rispose: — Tu fai presto a parlare: ma io, quanto ho sofferto? E dove posso andare, ormai?... La moglie m’è morta, i figliuoli m’hanno scordato: io non ho più dove andare... Makàr Semiònov non si rialzava da terra, e batteva la testa contro il piancito, e diceva: — Ivàn Dmítrevič, perdona! Quando, con quello knut, mi fustigava‐ no, non soffrivo quanto adesso a guardar te... E tu, per di più, m’hai ri‐ sparmiato: sei stato zitto. Perdonami, per amore di Cristo! Perdona que‐ sto assassino maledetto! — e scoppiò in singhiozzi. Quando Aksiònov senti che Makàr Semiònov piangeva, scoppiò a piangere anche lui, e gli disse: — Il Signore ti perdoni: io, forse, sono cento volte peggiore di te! E d’improvviso, nell’anima, gli si fece una gran leggerezza. E gli pas‐ sò quella nostalgia di casa sua, e non usciva mai di dentro alla prigione, e non faceva più che pensare alla sua ultima ora. Terzo libro di lettura 171 Makàr Semiònov non diede retta ad Aksiònov, e confessò la sua col‐ pa. Ma quando giunse, per Aksiònov, l’ordine di liberazione, Aksiònov era già morto. I cristalli. (Considerazioni). Se si versa del sale nell’acqua, e si rimescola, il sale comincerà a scio‐ gliersi, e alla fine sarà così ben sciolto, che nell’acqua non si vedrà più affatto il sale; ma se si verserà dell’altro sale, e dell’altro ancora, arriverà il momento che il sale smetterà di sciogliersi, e per quanto lo si rimescoli, rimarrà pur sempre nell’acqua come una polverina bianca. L’acqua è di‐ venuta satura di sale, e non può riceverne più. Se però quell’acqua si riscalda, essa ne riceverà ancora: il sale, che non riusciva a sciogliersi nell’acqua fredda, in quella calda si scioglierà. Ma se si continuerà a versare altro sale, allora verrà il momento che anche l’acqua calda non potrà più ricevere sale. E se si cercherà di riscal‐ dare l’acqua sempre più, finirà che l’acqua se ne andrà in vapore, e la‐ scerà un resto di sale ancora più grosso. Così, per ogni sostanza che si scioglie nell’acqua, c’è una certa misura, oltrepassando la quale l’acqua non è più capace di scioglierla. Qualsiasi sostanza si scioglie in maggior quantità nell’acqua calda, piuttosto che in quella fredda: ma, una volta che l’acqua calda sarà divenuta satura, non potrà riceverne più. La so‐ stanza rimarrà lì in disparte, e l’acqua andrà in vapore. Se si saturerà l’acqua di polvere di salnitro, e poi si verserà ancora del salnitro in più, e si riscalderà tutta l’infusione, lasciando che si freddi senza rimuoverla, si vedrà che quel salnitro in più non giacerà in fondo all’acqua in forma di polvere, ma si sarà tutto condensato in tante colon‐ nine a sei facce, posate sul fondo e sui lati, una colonnina accanto all’al‐ tra. Se, dopo aver saturato l’acqua di polvere di salnitro, la si porrà in un luogo caldo, l’acqua andrà in vapore, e il salnitro in più si condenserà allo stesso modo in tante colonnine a sei facce. Saturando l’acqua di sale da cucina, riscaldandola, e lasciando che l’acqua svapori, il sale in più si condenserà anch’esso, non in forma di colonnine137 ma in tanti cubetti. Saturando l’acqua di salnitro e di sale mischiati insieme, il dippiú di salnitro e il dippiú di sale non si confon‐ Nel testo, per una svista evidente, «in forma di polvere». 137 172 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura deranno, e si condenseranno ognuno a proprio modo: il salnitro in co‐ lonnine, il sale in cubetti. Saturando l’acqua di calce, o d’un sale diverso, o d’un’altra sostanza qualsiasi, avverrà sempre che, quando l’acqua svaporerà, ogni sostanza si condenserà a modo proprio: una in colonnine a tre facce, un’altra a ot‐ to facce, un’altra in mattoncini, un’altra in stelline: ognuna, insomma, secondo il modo che è proprio ad essa. Queste diverse figure geometri‐ che si formano in tutte le sostanze solide. Certe volte sono figure di grandi dimensioni, come un pugno d’uomo: così sono quelle che si tro‐ vano in alcune pietre sotto terra. Altre volte sono figure tanto piccole, che non si distinguono a occhio nudo. Ma ogni sostanza prende la figura sua. Provate, quando l’acqua è satura di salnitro, e le figure incominciano a condensarvisi, provate a staccare con un ago l’estremità d’una di quel‐ le figure: subito, nello stesso punto, accorreranno altri pezzettini di salni‐ tro, e rifaranno quell’estremità spezzata secondo la forma che deve ave‐ re, di colonnina a sei facce. La stessa cosa accadrà sia col sale, sia con u‐ n’altra sostanza qualunque. Tutti i più piccoli granelli della sostanza si mettono in moto, e vanno ad appiccicarsi là dove occorre. Quando si forma il ghiaccio, accade la stessa cosa. In un fiocco di neve, fin tanto che vola nell’aria, non si vede nessuna figura geometrica; ma appena viene a posarsi su una cosa scura e fredda, come una stoffa o una pelliccia, si può distinguere la figura che ha preso: una stellina, oppure una tavolettina a sei facce. Sui vetri delle finestre il vapore non gela a casaccio: appena esso comincerà a gelare, subito si comporrà in forma di stelline. Che cos’è il ghiaccio? È acqua fredda, solida. Quando, dall’acqua li‐ quida, si forma acqua solida, questa si compone in figure geometriche, ed emette calore. Lo stesso accade col salnitro: quando, dallo stato liqui‐ do, il salnitro si compone in figure solide, esso emette calore. Lo stesso fa il sale, lo stesso fa il ferro fuso, quando da liquido diventa solido. Quan‐ do una sostanza qualsiasi, da liquida che era, diventa solida, essa emette calore, e si compone in figure geometriche. Quando, invece, da solida diventa liquida, ogni sostanza assorbe calore, e il freddo né esce, e le sue figure si sciolgono. Prendi del ferro fuso, e lascialo freddare: prendi della pasta di pane bollente, e lasciala freddare; prendi della calce viva, e lasciala freddare: ogni volta si produrrà del calore. Prendi del ghiaccio e scioglilo: si pro‐ durrà del freddo. Prendi del salnitro, del sale, una sostanza qualsiasi di Terzo libro di lettura 173 quelle che nell’acqua si sciolgono, e lascia che si sciolga nell’acqua: si produrrà del freddo. Per far ghiacciare il gelato, si versa del sale nell’acqua. Il lupo e la capra. (Favola). Un lupo vide una capra che pascolava in cima a una roccia, e non c’e‐ ra modo, per lui, di salire lassù. Perciò le disse: — Perché non scendi a basso? Quaggiù il luogo è più piano, eppoi troverai dell’erba più dolce per il tuo pasto. Gli rispose la capra: — Lupo, non è per questo che tu mi chiami a basso: non è il pasto mio, ma il tuo che ti sta a cuore! Policrate di Samo. (Racconto storico). C’era un re greco che si chiamava Policrate. Egli era fortunato in ogni cosa. Aveva conquistato molte città, ed era diventato molto ricco. Poli‐ crate descrisse in una lettera tutta la sua vita fortunata, e mandò questa lettera a un amico suo, il re Amasis di Egitto. Amasis lesse la lettera e scrisse a Policrate la sua risposta dicendogli così: «Fa piacere sapere che a un amico le cose vanno bene. Ma la tua fortuna non mi persuade. Se‐ condo me, è meglio quando a un uomo una faccenda va bene, un’altra no, in modo che vi sia un avvicendamento. Ascoltami e fà come ti dico: la cosa che hai più cara di tutte, tu pigliala e buttala in un posto dove nessuno possa ritrovarla. E allora tu avrai, avvicendate tra loro, felicità e infelicità». Policrate lesse la risposta e diede ascolto al suo amico. Ed ecco che co‐ sa fece. Egli aveva un anello prezioso: pigliò questo anello, radunò molta gente, e salí con tutta questa gente su una nave. Poi ordinò di salpare per l’altomare. E quando si fu spinto ben al largo della sua isola, allora, in presenza di tutta quella gente, gettò l’anello in mare, e fece ritorno a terra. Di lì a cinque giorni, capitò a un pescatore di prendere un grosso, bel‐ lissimo pesce; e il pescatore pensò di portarlo in dono al re. Ecco che ar‐ riva all’ingresso della reggia di Policrate, e quando Policrate gli esce in‐ contro, il pescatore gli dice: — Maestà, io ho preso questo pesce e l’ho 174 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura portato a te, perché un pesce così bello, solo il re deve mangiarlo! — Po‐ licrate ringraziò il pescatore e lo invitò a pranzare con lui. Il pescatore consegnò il pesce ai servi e s’avviò dal re; e i cuochi, intanto, aprirono il pesce e ci trovarono dentro proprio quell’anello, che Policrate aveva get‐ tato in mare. Quando i cuochi portarono a Policrate il suo anello, e gli dissero come lo avevano trovato, Policrate scrisse un’altra lettera là in Egitto, al suo amico Amasis, raccontandogli come aveva gettato via l’anello, e come questo era stato ritrovato. Amasis lesse la lettera e pensò: «Non è buon segno, questo: si vede proprio che al destino non si scampa! Sarà meglio che io la tronchi con questo mio amico, se un giorno o l’altro non voglio averne chissà quanta pena!» E mandò a dire a Policrate che la loro ami‐ cizia era finita. Viveva in quel tempo un tale di nome Oroites. Questo Oroites aveva rancore contro Policrate, e desiderava mandarlo in rovina. Ed ecco a quale astuzia Oroites fece ricorso. Scrisse a Policrate dicendo che il re dei Persiani, Cambise, gli aveva fatto un torto, e aveva cercato di ucciderlo, ma lui era riuscito a sfuggirgli. E Oroites diceva a Policrate: «Io ho molte ricchezze, ma non so dove andare a stabilirmi. Accoglimi presso di te con tutte le mie ricchezze, e allora noi due diventeremo i più forti di tutti i re della terra. Se poi tu non credi che io ho molte ricchezze, manda qualcuno ad accertarsene coi suoi occhi». Policrate, infatti, mandò uno dei suoi servi ad accertarsi se era vero che Oroites era fuggito con tante ricchezze. Ma quando il servo si fu re‐ cato là per vedere quelle ricchezze, Oroites lo ingannò così: prese molte navi, le caricò tutte di pietre, e sopra le pietre, le ricolmò d’oro fino agli orli. Quando il servo di Policrate le vide, credette che tutte quelle navi fos‐ sero piene rase d’oro: e così andò a riferire a Policrate. Allora Policrate senti il desiderio di recarsi lui stesso da Oroites, a ve‐ dere le sue ricchezze. La notte prima della partenza, la figlia di Policrate ebbe un sogno: le pareva che il padre stesse penzoloni nell’aria. La figlia si mise a pregare il padre che non partisse per andare da Oroites: ma il padre s’inquietò, e disse che non l’avrebbe lasciata sposare, se non aves‐ se fatto silenzio immediatamente. La figlia rispose: — Sono ben contenta di non sposare, purché tu non vada da Oroites: io ho paura che ti accada qualche disgrazia! Il padre non le diede retta, e partì. Quando arrivò sul posto, subito Oroites lo fece acciuffare e impiccare. In questo modo il sogno della fi‐ glia s’avverò. Terzo libro di lettura 175 E così accadde quello che aveva preveduto Amasis: che la grande for‐ tuna di Policrate terminò con una grande sfortuna. Volgà l’eroe. (Leggenda in versi). Per quanto fitte e vivide le stelle disseminate per il cielo brillino, per quanto luminoso nell’altissima volta risplenda il lume della luna, ben più lucente un vivo sole illumina la terra della nostra santa Russia: in Russia, nella nostra madre santa, è nato, ecco, un eroe senza paura, Volgà lo splendido, il sire Buslàevič. Al nascere del grande paladino ha tremato l’umida terra madre, il mare azzurro ondeggiando s’è alzato, fuggiti in fondo al mare sono i pesci, e l’impero del Turco ha vacillato. Quando Volgà ha toccato i suoi sett’anni, vasta sapienza egli ha voluto apprendere: ai saggi s’è affidato, e nelle scienze s’è approfondito con alacre studio. Ha acquistato Volgà tutte le arti: maestro egli s’è fatto nella prima — l’arte di trasformarsi in uccellino; nella seconda s’è fatto maestro — l’arte di trasformarsi in pesciolino; maestro egli s’è fatto nella terza — l’arte di trasformarsi in lupo grigio. Come ha compiuto Volgà i quindici anni, raduna intorno a sé una compagnia: e tutti pari a lui sceglie i suoi amici, bravi giovani pieni di coraggio, trenta fratelli in tutto meno uno: appunto egli, Volgà, è quel trentesimo. Quando Volgà e i compagni si trovarono nei paraggi di Kiev su un picco ripido, 176 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura disse allora così Volgà Buslàevič: —Oh voi, mia compagnia senza paura, trenta fratelli in tutto meno uno (appunto io, Volgà, sono il trentesimo), al fratello maggiore date ascolto, l’opera ch’egli v’ordina eseguite: intrecciate, intrecciate reti seriche, e nell’azzurro mare, poi, calatele! — Diede ascolto a Volgà la compagnia: si mise ad intrecciare reti seriche, e quindi le calò nel mare azzurro. In pesciolino Volgà si trasforma, nel pesce luccio dai denti lunghissimi, scende a nuoto nei più profondi tònfani, spaventa i pesci del color dell’iride, tutti li spinge nelle reti fitte. Quando Volgà e i compagni si trovarono nei paraggi di Kiev su un picco ripido, disse allora così Volgà Buslàevič: —Oh voi, mia compagnia senza paura, trenta fratelli in tutto meno uno (appunto io, Volgà, sono il trentesimo), al fratello maggiore date ascolto, l’opera ch’egli v’ordina eseguite: attorcete, attorcete seriche funi, poi qua e là per il bosco disponetele, lungo i sentieri che le fiere battono! — Diede ascolto a Volgà la compagnia: attorse tante funicelle seriche, poi qua e là per il bosco le dispose; egli in fiera, Volgà, si trasformò, in grigio lupo dalle lunghe zampe, e nei boschi remoti galoppo’, nei forteti più tetri e inaccessibili. Spaurì la selvaggina da pelliccia, spinse la selvaggina nei lacciuoli. Quando Volgà e i compagni si trovarono nei paraggi di Kiev su un picco ripido, disse allora così Volgà Buslàevič: —Catturato noi abbiamo d’ogni pesce Terzo libro di lettura dentro gli abissi dell’azzurro mare; catturato le bestie da pelliccia dentro gli ombrosi boschi solitari: non si troverà, ora, un valoroso che all’impero del Turco voglia andare, dal grande imperatore Saltàn Bekètyič, a spiare i disegni suoi imperiali? — Tutti quei prodi allora s’appiattarono, il più alto alle spalle del mezzano, il mezzano alle spalle del più piccolo: né dal più piccolo venne risposta. Dice allora così Volgà Buslàevič: — Volgà in persona, dunque, andrà fin là! — E in uccellino Volgà si trasforma, alto si libra al culmine del cielo, all’impero del Turco a volo arriva, su una finestra sporgente si posa. Siede li dentro il re Saltàn Bekètyč, e accanto a lui la regina Davídievna, e insieme si trattengono a colloquio. Dice in quel punto il re Saltàn Bekètyč: —Sai, moglie mia fra tutte prediletta, fresca luce degli occhi miei, Davídievna, guerra alla santa Russia io voglio muovere, Kiev, la famosa città, voglio prendere, far dono voglio d’una città russa a ciascuno dei nove figli nostri: e a te voglio portare una pelliccia di gran pregio, di zibellino candido —. E di rimando a lui dice Davídievna: — Ahimè, ahimè, gran re Saltàn Bekètyč! Invano, invano tu ti stai apprestando a guerreggiar contro la terra russa! Non t’avvedi tu dunque d’una cosa: che tutto in Russia, da un tempo, è mutato? Un bel sole lucente ha illuminato la gloriosa santa terra russa: è nato, ecco, un eroe senza paura, Volgà Buslàevič, il gran paladino! E in quest’istante egli, Volgà Buslaevič, 177 178 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura sulla finestra s’è posato, e ascolta i colloqui fra me e te più segreti: Kiev la famosa tu non prenderai, non farai dono d’una città russa a ciascuno dei nove figli nostri: ma rovina verrà al tuo stesso capo da parte di costui, Volgà Buslàevič! — A questi detti Saltàn non vuol credere, e contro la regina il re s’adira: la batte egli sulla guancia candida, caccia dal suo cospetto la Davìdievna. Ebbe un pensiero allora Volg138 Buslàevič: prese e si trasformò in un ermellino, e corse nei profondi sotterranei. Egli, là, tutte quelle corde seriche agli archi tesi a una a una rosica; ai dardi ben forgiati gli aghi ferrei sfila e poi seppellisce a uno a uno; poi di bel nuovo si muta in uccello, a volo torna indietro fino a Kiev, raduna la sua brava compagnia, e marcia contro l’impero del Turco. L’impero è saldamente circondato da una muraglia tutta in pietra, altissima: nella muraglia una porta ben solida s’apre, ch’ è tutta d’acciaio dorato, e come chiavistelli ha arpioni bronzei, e un raro dente di pesce ha per soglia, in minuti trafori lavorato, in astrusi trafori minutissimi, che a stento una formica ci s’insinua. La compagnia, a quella vista, si scora: —Come faremo a passar la muraglia? Dovremo dunque, così prodi e giovani, perdere qui la nostra vita invano? — Ebbe un pensiero allora Volg Buslàevič: in formica se stesso trasformò, e i prodi suoi in altrettante formiche: Forma contratta di «Volgà» [N. d. T.]. 138 Terzo libro di lettura s’insinuò, con la sua compagnia, in quella soglia di dente di pesce: quando furono dentro alla muraglia, mutò quelle formiche, Volg Buslàevič, in altrettanti prodi ben armati. E disse allora così Volg Buslàevič: — Al fratello maggiore date ascolto, l’opera ch’egli v’ordina eseguite: in questo impero splendido del Turco, squartate con la spada il vecchio e il piccolo! Sterminateli fino alla radice: risparmiate soltanto le animucce delle trenta ragazze più leggiadre! — E Volgà stesso va in cerca del re, rinchiuso nel palazzo suo marmoreo: serrata sta quella gran porta ferrea, alla porta stan chiavistelli solidi: ma d’improvviso esclama Volg Buslàevič: — Dovessi rompermi un piede, la scàrdino! — Col piede un calcio diè alla porta ferrea, fracassò tutti i chiavistelli solidi, l’imperatore famoso del Turco prese Volgà per le sue mani candide. E gli disse così Volgà Buslàevič: — Eppoi si dice che i re non si toccano! che quelli come voi non si castigano! — Sbatacchiò il re ai mattoni del piancito, e mandò il cranio di Saltàn in briciole. Quindi alla compagnia sua valorosa spartì Volgà il bottino in parti eguali: un migliaio di bei cavalli indomiti, una botte ricolma d’oro fino, e una ragazza a ognuno dei suoi prodi. 179 Quarto libro di lettura Il re e la camicia. (Leggenda). C’era un re che non stava bene in salute, e disse ai suoi: — Darò la metà del mio regno a colui che saprà farmi guarire. Si riunirono tutti i sapienti e si consultarono sul modo di guarire il re. Nessuno sapeva il modo. Uno solo di quei sapienti disse che il re si poteva far guarire. Disse che, se si trovava un uomo che era felice, basta‐ va togliergli la camicia e farla indossare al re: allora il re sarebbe tornato in buona salute. Subito il re mandò a ricercare per il suo reame un uomo che fosse feli‐ ce; ma i messi reali viaggiarono a lungo per tutto il reame, e non riusci‐ rono a trovare un uomo felice. Non c’era nessuno che fosse contento in ogni cosa. Chi era ricco, ma in cattiva salute; chi era in buona salute, ma povero; chi era in buona salute e anche ricco, ma aveva la moglie cattiva; chi aveva cattivi i figlioli: tutti, insomma, d’una cosa o dell’altra si la‐ mentavano. Un giorno, il figlio del re, passando a tarda sera fuori d’una capannella, senti che un tale, là dentro, diceva: — Grazie a Dio, ecco qua: mi sono guadagnato la mia giornata, ho mangiato a sazietà, e ora mi metto a dormire: che cos’altro dovrei desiderare? Il figlio del re si rallegrò: ordinò che a quest’uomo si togliesse la ca‐ micia, e in compenso gli fosse data qualunque somma lui pretendesse: e la camicia fosse portata al re. I messi entrarono in casa dell’uomo felice, e andarono per togliergli la camicia: ma l’uomo felice era talmente povero, che non aveva indosso neppure la camicia. Il giunco e l’olivo. (Favola). Un olivo e un giunco si misero a discutere chi dei due fosse più resistente e più forte. L’olivo si beffò del giunco, dicendogli che qualunque vento era buono a piegarlo. Il giunco taceva. Sopravvenne la bufera: il giunco ondeggiava tutto, sbatteva di qua e di là, si piegava fino a terra – ma se la cavò senza danno. L’olivo s’irrigidì coi rami contro il vento – e ne fu schiantato. 184 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il lupo e il contadino. (Leggenda). I cacciatori inseguivano un lupo. Il lupo, fuggendo, s’imbatté in un contadino. Il contadino stava tornando dall’aia, e portava con sé il correggiato e un sacco. Allora il lupo gli disse: – Contadino, nascondimi: ho dietro i cacciatori che m’inseguono! – Il contadino ebbe compassione del lupo: lo nascose dentro al sacco, e se lo caricò sulle spalle. Arrivarono i cacciatori e domandarono al contadino se non aveva veduto un lupo. – No, non l’ho veduto. I cacciatori s’allontanarono. Il lupo saltò fuori dal sacco e s’avventò sul contadino, per mangiarlo. Allora il contadino disse: – Ah, lupo, tu non hai coscienza! Io t’ho salvato, e tu, come niente fosse, mi vuoi mangiare. Gli rispose il lupo: – Quando un beneficio è passato, è bell’e scordato. – No, un beneficio passato si ricorda sempre! Prova a domandarlo a chi ti pare: chiunque ti risponderà che si ricorda sempre. – Ribatté il lupo: – Benissimo, facciamo un pezzo di strada insieme. Al primo che incontreremo, faremo questa domanda: non si ricorda più un beneficio passato, o si ricorda sempre? Se ci diranno: si ricorda sempre, io ti lascerò andare; ma se ci diranno: non si ricorda più, io ti mangerò. S’avviarono insieme per la strada, e incontrarono una vecchia cavalla cieca. Subito il contadino le domanda: – Di’ un po’, cavalla: si ricorda un beneficio passato, o non si ricorda più? La cavalla disse: – State a sentire: io sono stata col mio padrone per dodici anni, gli ho figliato dodici puledrini, e nello stesso tempo non ho mai smesso di lavorare per lui, sia all’aratro, sia al carro. Siccome poi, l’anno scorso, sono diventata cieca, ho continuato a lavorargli alla macina. Ma proprio in questi giorni, ecco, non ce l’ho fatta più a girare, e sono caduta contro la macina. Mi hanno battuta, battuta senza pietà, poi m’hanno trascinata per la coda fino al burrone, e scaraventata di sotto. Quando mi sono riavuta, con gran fatica mi sono cavata di là; e dove andrò ora, nemmeno io lo so. Disse il lupo: – Contadino, lo vedi? Un beneficio passato, è bell’e scordato. Il contadino disse: Quarto libro di lettura 185 – Aspetta, domandiamo ancora! Proseguirono oltre. Ecco che incontrarono un vecchio cane. Arrancava a stento, strascicando il sedere per terra. Il contadino gli domandò: – Bè, cane, dicci un po’ tu: non si ricorda più un beneficio passato, o si ricorda sempre? – Eh, state a sentire: io sono stato col mio padrone per quindici anni, gli ho fatto la guardia alla casa, ho abbaiato e mi sono avventato a mordere. Ora, ecco qua, sono diventato vecchio, ho perduto i denti, e loro mi hanno cacciato via: anzi per giunta, con una stanga, mi hanno fracassato le zampe di dietro. Così mi trascino per terra, senza sapere nemmeno io dove vado: mi basta di andarmene lontano, più lontano possibile dal mio padrone! Disse il lupo: – Contadino, senti che cosa dice? Ma il contadino disse: – Aspetta, ancora, finché non abbiamo fatto un terzo incontro! Ed ecco che, incontro a loro, viene una volpe. Le domanda il contadino: – Volpe, di’ un po’: si ricorda un beneficio passato, o non si ricorda più? E la volpe gli risponde: – Perché lo vorresti sapere? E il contadino: – Ma ecco, c’era questo lupo che fuggiva dinanzi ai cacciatori, e mi ha tanto pregato, che io ho acconsentito a nasconderlo nel mio sacco: e ora, lui, mi vorrebbe mangiare! Allora la volpe disse: — Ma com’è possibile che un lupo tanto grosso possa entrare in un sacco tanto piccolo? Se io lo vedessi, potrei darvi una risposta. Il contadino disse: — No, credi pure che c’entra dentro benissimo: eppoi, domandalo anche a lui. — Verità sacrosanta! — disse il lupo. — Ma la volpe disse: — Questa è una cosa che io non riesco a credere, se non la vedo coi miei occhi. Lupo, fammi vedere come hai fatto a intrufolarti li dentro! Subito il lupo ficcò la testa nel sacco, dicendo: — Ecco come ho fatto! La volpe insistette: — Tutto quanto ficcati dentro: se no, così, io non la vedo chiara! Il lupo prese e si ficcò dentro al sacco. La volpe, allora, disse al 186 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura contadino: — Adesso, lega a dovere! — Il contadino legò la bocca del sacco. E la volpe gli disse: — E adesso, contadino, facci vedere come sei bravo quando sull’aia hai da battere il grano! Il contadino si rallegrò tutto, e si mise a battere col correggiato sul lupo. Poi, quand’ebbe battuto ben bene, disse: — Guarda ora, volpe, come si fa sull’aia, quando il grano dev’essere rivoltato! — E diede una botta alla volpe sul capo, così forte che quella morí. E il contadino, rimasto solo, disse: — È proprio vero che un beneficio passato è bell’e scordato! I due compagni. (Favola). Andavano due compagni per un bosco: sbucò fuori un orso, e li assalí. Uno dei due fece in tempo a fuggire: s’arrampicò su un albero, e lassù si nascose; l’altro rimase lì sulla strada. Non c’era nulla da fare, per lui: si buttò lungo per terra, e fece finta d’essere morto. L’orso gli si accostò e incominciò a fiutarlo: lui smise perfino di respirare. L’orso gli diede una fiutata alla faccia, credette che fosse morto davvero, e se ne andò. Quando l’orso fu scomparso, l’altro compagno scese dall’albero, e si mise a ridere: — Bè, — gli diceva, — cosa aveva da dirti l’orso nell’orecchio? — Sai che mi ha detto? Che sono gente da nulla quelli che, nel pericolo, fuggono via e lasciano soli i compagni. Il salto. (Racconto dal vero). Una nave, che aveva fatto il giro del mondo, stava tornando in patria. Il tempo era calmo; tutti stavano in coperta. Fra gli uomini s’aggirava una grossa scimmia, e li faceva divertire. La scimmia gesticolava, saltava, faceva tante smorfie buffe, canzonava la gente. Si capiva che anche lei sapeva che si divertivano a guardarla, e perciò si sfrenava Quarto libro di lettura 187 sempre più. Con un salto, d’improvviso, s’accostò a un ragazzo di dodici anni, che era il figlio del capitano, gli strappo’ di testa il cappello, se lo calzò lei, e poi, svelta svelta, s’arrampicò sull’albero della nave. Tutti scoppiarono a ridere, ma il ragazzo era rimasto senza cappello, e non sapeva se doveva ridere o piangere. La scimmia s’appollaiò sul pennone più basso dell’albero, si tolse il cappello, e cominciò, coi denti e con le zampe, a sdrucirlo. Pareva che canzonasse il ragazzo: proprio a lui faceva segno, e a lui faceva le boccacce. Il ragazzo la minacciò con la mano, e la sgridò: ma quella con più rabbia di prima continuava a sdrucire il cappello. I marinai si misero a ridere più forte che mai, ma il ragazzo diventò rosso, buttò via la giacchetta, e si lanciò verso la scimmia là sull’albero. In un minuto, su su per la fune, egli raggiunse il pennone: ma la scimmia, ancora più agile e più svelta di lui, proprio in quell’istante che il ragazzo credeva di riacchiappare il suo cappello, s’arrampicò più in alto. — Non ci riesci, no, a sfuggirmi! — gridò allora il ragazzo, e anche lui s’inerpicò più in alto. La scimmia lo attirò di nuovo a sé, poi scivolò ancora più in alto: ma ormai il ragazzo ci s’era messo di puntiglio, e non le restava indietro. Così, in un batter d’occhi, la scimmia e il ragazzo ebbero raggiunto la cima dell’albero. Quando fu proprio in cima, la scimmia si protese in fuori quant’era lunga e, tenendosi aggrappata alla fune con una delle mani posteriori139, appese il cappello all’estremità del pennone più alto; poi andò a rifugiarsi sulla punta dell’albero, e di lassù gesticolava, mostrava i denti e gongolava di gioia. Dall’albero all’estremità del pennone, dov’era appeso il cappello, correva circa un metro e mezzo, cosicché, per arrivare a prenderlo, ci sarebbe stato un modo solo: abbandonare con le mani la fune e l’albero. Ma il puntiglio del ragazzo cresceva sempre più. Egli staccò le mani dall’albero e, in equilibrio sui piedi, s’avanzò lungo il pennone. Giù in coperta, finora, tutti erano stati a guardare e a ridere delle giostre che facevano la scimmia e il figlio del capitano; ma quando videro che il ragazzo abbandonava la fune e s’avanzava in equilibrio sul pennone, dondolando le braccia, tutti restarono senza fiato dallo spavento. Bastava che il ragazzo mettesse un piede in fallo, e sarebbe venuto a fracassarsi in cento pezzi contro la tolda. Ma anche se il piede non gli fosse mancato, e fosse arrivato fino all’estremità del pennone, e avesse La scimmia ha quattro mani [N. d. A.]. 139 188 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura preso il cappello, gli sarebbe riuscito ben difficile rigirarsi indietro, e ritornare fino all’albero. Tutti lo guardavano in silenzio, e aspettavano che cosa sarebbe accaduto. Tutt’a un tratto, uno degli uomini mandò un’esclamazione di spavento. Il ragazzo, a quella voce, si riscosse, guardò in basso, e vacillò. In quel momento il capitano della nave, che era il padre del ragazzo, era uscito dalla sua cabina. Aveva in mano il fucile, perché voleva tirare ai gabbiani140. Vide il figlio in cima all’albero, e subito lo prese di mira col fucile, gridandogli: – In acqua! Salta subito in acqua, o ti sparo! – Il ragazzo continuava a vacillare là sul pennone, ma non capiva. – Salta o ti sparo! Uno, due... – e appena il padre gridò tre, il ragazzo, slanciandosi a testa bassa, spiccò il salto. Come un proiettile di cannone, il corpo del ragazzo diede un tonfo in mare: e ancora non era scomparso sotto le onde, che già una ventina di robusti marinai s’erano buttati dalla nave in acqua. Passarono quaranta secondi, che parvero a tutti ben lunghi: ed ecco tornare a galla il corpo del ragazzo. Lo afferrarono e lo tirarono a bordo. Dopo qualche minuto, dalla bocca e dal naso l’acqua gli sgorgò fuori, e lui ricominciò a respirare. Il capitano, a quella vista, si mise improvvisamente a gridare, come se qualcuno lo strozzasse: e di corsa si ritirò nella sua cabina, per non far vedere a nessuno che piangeva. La quercia e il nocciolo. (Favola). Una vecchia quercia lasciò cadere una ghianda sotto un cespuglio di nocciole. Il nocciolo disse alla quercia: – C’è poco spazio, forse, sotto i tuoi rami? Potresti far cadere le ghiande in un posto non occupato da nessuno! Qua sto già tanto stretto coi miei polloni: pensa che neanch’io butto in terra le mie nocciole, ma le dò alla gente. – Io campo da duecento anni, – disse di rimando la quercia, – e il querciolo che nascerà da questa ghianda camperà altrettanto a lungo. Allora il nocciolo andò in collera, ed esclamò: – Dunque io soffocherò il tuo querciolo con la mia ombra: così non camperà neanche tre giorni! – Ma la quercia non rispose nulla: ordinò al suo figliolino che si sviluppasse pure dalla ghianda. Uccelli marini [N. d. A.]. 140 Quarto libro di lettura 189 La ghianda si macerò, scoppiò e s’aggrappo’ alla terra con l’uncino del germoglio, mentre un altro germoglio ne sbocciava verso l’alto. Il cespuglio di nocciole lo aduggiava con la sua ombra, e non gli lasciava passare un filo di sole. Ma il querciolo si protese verso l’alto, e diventò più forte all’ombra del nocciolo. Passarono cent’anni. Il nocciolo ormai, s’era seccato da un pezzo, ma la quercia nata da quella ghianda s’era innalzata fino al cielo, e slargava tutt’intorno la sua cupola di verdura. L’aria mefitica. (Racconto dal vero). Nel villaggio di Nikòlskoe, in una giornata di festa, la gente era andata in chiesa. Presso la casa dei proprietari del luogo erano rimasti soltanto la vaccaia, il fattore e lo stalliere. La vaccaia andò al pozzo ad attingere acqua. Il pozzo stava in mezzo al cortile. La donna tirò su la secchia, ma non seppe tenerla fino all’ultimo. La secchia le sfuggi, andò a battere contro la parete del pozzo, e spezzò la fune. La vaccaia tornò alla sua baracca e disse al fattore: — Alessandro! Fa’ il favore, scendi dentro al pozzo: mi ci è caduta la secchia. Alessandro le disse: — Tu l’hai fatta cadere, e tu tirala fuori! La vaccaia rispose che ci sarebbe scesa da sé, perché no? Bastava che lui la aiutasse a calarsi giù. Il fattore, ridendo, le ribatté: — Bè, andiamo pure. Tu ora sei a digiuno, dunque ce la farò a sorreggerti: se fosse stato dopo pranzato, eh, allora non ce l’avrei fatta! Il fattore legò un bastone alla fune; la donna si sedette a cavalcioni sul bastone, s’attaccò con le mani alla fune, e s’apprestò a scendere nel pozzo, mentre il fattore, facendo scorrere la fune sulla ruota, incominciava a calarla giù. Il pozzo non era profondo più di quattro o cinque metri, e c’era meno di un metro d’acqua. Il fattore faceva scorrere la fune pian piano, e ripeteva di continuo la domanda: — Ancora, dì? Ancora? — La vaccaia gli gridava, di laggiù: — Ancora un pezzetto! D’improvviso il fattore sentì che la fune s’era allentata: chiamò la vaccaia, ma quella non rispondeva più. Il fattore s’affacciò a guardare nel pozzo, e vide che la donna stava rovesciata con la testa nell’acqua e 190 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura le gambe per aria. Il fattore si mise a gridare, chiamando gente: ma non c’era nessuno. Accorse soltanto lo stalliere. Il fattore gli disse di tener ferma la ruota: poi da sé tirò su la fune, saltò a cavallo del bastone, e scese nel pozzo. Non appena lo stalliere ebbe calato il fattore fino al livello dell’acqua, accadde anche al fattore la stessa cosa: egli abbandonò la fune e cadde a testa in giù sopra la donna. Lo stalliere si mise a gridare, poi corse in chiesa a chiamar gente. La messa era finita, e la gente stava uscendo di chiesa. Tutti, uomini e donne, corsero al pozzo. Tutti s’affollavano lì al pozzo, e ognuno gridava la sua: ma nessuno sapeva che cosa fare. Un giovane carpentiere, Ivàn, si apri il passo tra la folla, raggiunse il pozzo, afferrò la fune, saltò a cavallo del bastone, e si fece calare giù. Ivàn, però, s’era legato alla fune con la fusciacca dei calzoni. Due uomini incominciarono a calarlo, mentre gli altri guardavano tutti dentro al pozzo, per vedere come sarebbe andata a Ivàn. Non appena egli fu vicino al livello dell’acqua, abbandonò con le mani la fune, e sarebbe caduto anche lui a testa in giù, se la fusciacca non lo avesse sostenuto. Tutti si misero a gridare: — Tiratelo su! —E Ivàn fu subito tirato su di nuovo verso l’alto. Penzolava come un cadavere, così attaccato alla fusciacca: anche la testa gli penzolava, e gli sbatacchiò contro la sponda del pozzo. Il suo viso aveva un colore paonazzo livido. Lo trassero fuori dal pozzo, lo staccarono dalla fune, e lo adagiarono a terra. Credevano che fosse morto. Ma, tutt’a un tratto, mandò un profondo sospiro, gli venne da tossire, e tornò in sé. Allora altre persone proposero di scendere nel pozzo, ma ci fu un vecchio contadino che disse che non era possibile scendere là dentro, perché nel pozzo c’era la putizza, ossia l’aria mefitica, che è una cosa che fa morire gli uomini. I contadini, allora, corsero a prendere dei raffi, e con questi raffi si misero a tirare fuori il fattore e la donna. La moglie del fattore e la madre piangevano accanto al pozzo; altre persone cercavano di condurle via; i contadini tuffavano i raffi nel pozzo, e si sforzavano di tirarne fuori i cadaveri. Due volte riuscirono a sollevare il fattore fino alla metà del pozzo, tenendolo uncinato per il vestito: ma l’uomo era pesante, il vestito si squarciava, e quello ricadeva giù. Finalmente, lo uncinarono con due raffi insieme, e così lo tirarono fuori. Poi tirarono fuori anche la vaccaia. Tutt’e due, ormai, erano morti: non si riebbero più. In seguito, quando il pozzo fu esaminato, si venne a sapere che era proprio così: nel fondo del pozzo c’era l’aria mefitica. Quarto libro di lettura 191 L’aria mefitica. (Considerazioni). L’aria mefitica, in certi posti, è talmente gravosa che nessun uomo o animale ci può vivere. Ci sono certi posti, sotto terra, dove quest’aria viene a raccogliersi: e chi capita in un posto di questi, subito muore. Appunto per questo, nelle miniere, adoperano delle lampade speciali, e prima di far andare gli uomini nei punti pericolosi, ci calano giù una di quelle lampade. Se la lampada si spegne, vuol dire che neppure gli uomini ci possono andare; allora mandano laggiù dell’aria pura, fino a tanto che la fiamma della lampada riesce ad ardere. Poco lontano da Napoli si trova una di queste grotte. In essa l’aria mefitica rimane sempre in basso, a circa settanta centimetri da terra: più in alto l’aria è buona. Un uomo può passeggiare in questa grotta senza sentire nessun disturbi; ma un cane, appena entra là dentro, resta asfissiato. Di dove proviene quest’aria mefitica? Essa si forma dalla stessa aria buona che noi respiriamo. Se molte persone si radunano insieme in un locale, e si chiudono tutte le porte e le finestre in modo che non ci passi aria fresca, allora viene a formarsi un’aria uguale a quella che c’era in fondo a quel pozzo, e gli uomini vi muoiono. Alla fine del Settecento141, durante una guerra, gli Indiani fecero prigionieri 146 Inglesi. Li rinchiusero in una grotta sotterranea, dove l’aria non poteva passare. I prigionieri inglesi, dopo parecchie ore che stavano lì , cominciarono a sentirsi soffocare, e al termine della nottata ne erano morti 123: gli altri uscirono da quella grotta in fin di vita, e rimasero invalidi per molto tempo. Da principio, nell’interno della grotta, l’aria era buona; ma quando i prigionieri avevano respirato tutta l’aria buona che c’era, e altra aria buona non ne passava, s’era formata un’aria cattiva, simile a quella che c’era in quel pozzo: e questo li aveva fatti morire. Per quale ragione l’aria buona diventa cattiva, quando molti uomini si radunano insieme? Per la ragione che gli uomini, quando respirano, assorbono l’aria buona, e rimandano fuori quella cattiva. Il testo ha «quasi cent’anni fa». 141 192 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il lupo e l’agnello. (Favola). Un lupo vide un agnello che beveva a un fiume. Subito il lupo ebbe voglia di mangiare l’agnello, e cercò di attaccarci lite: – Tu, – gli disse, – mi intorbidi l’acqua, e non mi lasci bere! Rispose l’agnello: – Ah, lupo, come è possibile che io t’intorbidì l’acqua? Eppure, lungo questo fiume, io sto più a valle di te; eppoi, bevo appena in punta di labbra! Ma il lupo gli disse: – Bè, dunque perché, l’anno scorso, tu hai insultato mio padre? Rispose l’agnello: – Ma se io, lupo, non ero nemmeno nato, l’anno scorso! Allora il lupo andò in collera, e disse: – Tu la vuoi sempre vinta. Sappi, una buona volta, che io sto a digiuno: perciò, ti mangerò! Il peso specifico. (Racconto storico). Il re greco Ierone di Siracusa ordinò al suo orefice Demetrio una corona d’oro per la statua di Giove, e gli consegnò dodici libbre d’oro. Demetrio fabbricò la corona: e quando il re la pesò, ritrovò nella corona le dodici libbre esatte. Ma venne all’orecchio del re la voce che Demetrio aveva rubato gran parte dell’oro, e che nella corona ci aveva mescolato dell’argento. Il re volle sincerarsi se ci fosse davvero molto argento mescolato nella corona, e ordinò che la stritolassero in mille pezzi, per vedere com’era all’interno. C’era lì un uomo di grande intelligenza e dottrina, parente del re, di nome Archimede. Egli disse al re: – Non farla rompere, quella corona: è peccato mandare a male tanto lavoro! Io, senza rompere la corona, so il modo di verificare quanto argento c’è dentro e quanto oro. Il re acconsentì alla richiesta di Archimede, ed ecco Archimede come fece. Prese una libbra d’oro e una d’argento, e le pesò con una bilancia; poi le pesò di nuovo, tenendo la bilancia nell’acqua. La libbra d’oro, dentro all’acqua, sollevò un piombino in meno di prima; la libbra d’argento sollevò due piombini in meno. Poi Archimede pesò tutta la corona nell’acqua; chiamò il re, e gli Quarto libro di lettura 193 disse: – Se una libbra d’oro si pesa nell’acqua, avanza un piombino; se si pesa nell’acqua l’argento, avanzano per ogni libbra due piombini: dunque, se la corona fosse tutta d’oro puro, e ne contenesse dodici libbre, bisognerebbe togliere dalla bilancia dodici piombini. Ora guarda! Pose sulla bilancia un contrappeso di dodici142 libbre, e pesò la corona nell’acqua. La corona non sollevò dodici libbre meno dodici piombini, ma un peso minore. Bisognò togliere ancora degli altri piombini. E Archimede disse: – Ecco, quanto è il peso di quest’altri piombini che si sono dovuti togliere, tanto è l’oro che Demetrio ti ha frodato. In questo modo Archimede aveva saputo con sicurezza quanto argento era stato mescolato di nascosto nella corona. Il leone, il lupo e la volpe. (Favola). Un vecchio leone malato stava sdraiato dentro una grotta. Tutti gli animali venivano a far visita al loro re: soltanto la volpe non si faceva vedere. Il lupo, tutto contento, ne approfittò per dir male della volpe dinanzi al leone. — Quella, — diceva il lupo, — non ti stima un soldo: nemmeno una volta è venuta a visitare il suo re! Proprio mentre diceva così, sopravvenne la volpe. Essa sentì le parole del lupo, e pensò: «Aspetta, lupo: mi vendicherò di te». Il leone si voltò alla volpe con un ruggito. Allora lei gli disse: — Non farmi punire, o leone: permetti che io dica una parola. Se non sono mai venuta fino a oggi, la ragione è che non ho avuto tempo. E non ho avuto tempo per la ragione che sono corsa di qua e di là, da un medico all’altro, a chiedere una medicina per te. Soltanto ora l’ho trovata, e subito mi sono affrettata qua. Domandò il leone: — E di quale medicina si tratta? — Ecco di che si tratta: se tu scorticherai un lupo vivo, e ti metterai indosso la sua pelle calduccia calduccia... Non appena il leone ebbe steso il lupo a terra, la volpe si mise a 142 Così nella prima edizione dell’Abbecedario del 1872; in seguito, in tutte le edi‐ zioni del Nuovo Abbecedario e dei Libri di lettura, il «dodici» è sostituito da un «undi‐ ci». 194 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura ridere, e disse: —Impara, fratello: ai signori non bisogna mai suggerire il male, ma il bene! Il vestito nuovo del re. (Leggenda). C’era una volta un re molto amante di bei vestiti. Non pensava a nient’altro che a vestirsi il meglio possibile. Un giorno, gli si presentarono due sarti, e gli dissero: — Noi siamo capaci di farti un vestito talmente bello, che mai nessuno ne ha portato l’uguale. Però, se una persona è stupida, e non è degna del posto che occupa, quella persona non riesce a vedere il nostro vestito. Chi è intelligente, lo potrà vedere; ma chi è stupido, starà lì a due passi, e non vedrà il vestito di nostra lavorazione. Il re fu tutto soddisfatto di questi sarti, e ordinò che gli cucissero il vestito. Ai sarti fu assegnata una stanza nella reggia, e gli fu dato velluto, seta, oro, tutto quello che poteva occorrere per fare un vestito. Quando fu passata una settimana, il re mandò il suo ministro a informarsi se il vestito nuovo era pronto. Il ministro andò e chiese notizie; i sarti gli risposero che era pronto, e mostrarono al ministro uno spazio vuoto. Sapeva bene, il ministro, che se una persona era stupida, e non era degna del posto che occupava, quella persona non riusciva a vedere il vestito: perciò fece finta di vedere il vestito, e lo lodò moltissimo. Allora il re ordinò che il vestito gli fosse portato. I sarti glielo portarono, e gli mostrarono uno spazio vuoto. Il re fece finta anche lui di vedere il vestito nuovo: si tolse il vestito vecchio, e ordinò che gli mettessero indosso quello nuovo. Quando il re, col suo vestito nuovo, andò a passeggio per la città, tutti vedevano benissimo che indosso al re non c’era nessun vestito: ma tutti avevano paura di dire che non vedevano il vestito, perché avevano sentito dire che solo gli stupidi non riuscivano a vedere questo vestito nuovo. E ciascuno credeva d’essere il solo a non vedere niente, e credeva che tutti gli altri vedessero tutto a perfezione. Così il re se ne andava a passeggio per la città, e tutta la popolazione lodava moltissimo il suo nuovo vestito. D’improvviso un sempliciotto vide il re, e si mise a gridare: — Guardate, guardate: il re gira per le strade svestito! E il re si vergognò di non essere vestito, e tutti s’avvidero che, Quarto libro di lettura 195 indosso al re, non c’era un bel nulla. La coda della volpe. (Favola). Un uomo acchiappo’ una volpe, e le domandò: — Chi ha insegnato alle volpi a ingannare i cani con la coda? La volpe ribatté: — Come, a ingannare? Noi non inganniamo i cani: noi non facciamo altro che fuggire dinanzi a loro, con quanta forza abbiamo. L’uomo insistette: — No, voi li ingannate con la coda! Quando i cani vi raggiungono, e stanno lì lì per acciuffarvi, voi voltate la coda da un lato: il cane fa una voltata brusca per addentare la coda, e allora voi fuggite dal lato opposto. La volpe scoppiò a ridere, e disse: — Noi non facciamo così per ingannare i cani; facciamo così per poter voltare. Quando il cane sta per raggiungerci, e noi vediamo che non possiamo più correre diritte in avanti, cerchiamo di voltare da un lato: ma, per fare questa voltata, siamo costrette a spingere la coda dal lato opposto, come voi uomini fate con le mani quando correte e volete voltare. Non è una furberia nostra: è una cosa che ha pensato Dio stesso fin da quando ci ha create, per impedire che i cani riuscissero ad acchiappare tutte le volpi dalla prima all’ultima. I bachi da seta. (Racconto). C’erano dei vecchi alberi di gelso nel mio giardino. Erano stati piantati fin dai tempi del nonno. Alcuni amici mi diedero, d’autunno, cinque grammi di seme di baco da seta, e mi suggerirono di allevare i bachi e di ricavarne la seta. I semi erano d’un bigio scuro, e così piccolini che, in quei pochi grammi, ne potei contare cinquemilaottocentotrenta‐ cinque. Erano più piccoli della più piccola capocchia di spilla. Ed erano, assolutamente, morti: soltanto a schiacciarli, davano, si, uno schioccherello. Questi semini mi restarono là, fra tant’altre cose, sul tavolo, e finirono quasi per cadermi di mente. Ma un giorno, a primavera, scesi in giardino, e notai che la gemma 196 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura del gelso incominciava a sbocciare, mentre, a solatio, c’era già la foglia. Allora mi ricordai dei semi di baco, e, tornato in casa, mi misi a sceglierli e a spanderli un po’ più larghi. La maggior parte dei semini non era più di quel bigio scuro che avevano prima: erano d’un bigio chiaro, e alcuni addirittura chiarissimi, sfumati d’un bianco latte. La mattina dopo, di buon’ora, andai a guardare gli ovicini, e m’avvidi che da qualcuno era uscito già il vermicciuolo, mentre gli altri s’erano gonfiati e parevano in succhio. Le bestioline, evidentemente, avevano sentito, di dentro ai loro gusci, che il foraggio era maturo per loro. I vermicciuoli erano neri, pelosi, e tanto minuscoli, da riuscir difficile distinguerli. Io li guardai con la lente d’ingrandimento, e scoprii che essi, dentro all’ovicino, stavano arrotolati a ciambella, e come ne uscivano, subito si raddrizzavano. Scesi in giardino a far foglia di gelso, ne raccolsi tre manciate, me le portai in camera, sul tavolo, e m’ingegnai ad acconciar per i bachi il luogo adatto, come m’avevano insegnato. Intanto che io preparavo il cartone, i bacolini avevano annusato, lì sul tavolo, la presenza del loro foraggio, ed erano strisciati in quella direzione. Io scostai la foglia più lontano, ed essi, come tanti cani dietro a un boccone di carne, strisciarono appresso alla foglia su per il panno del tavolo, scavalcando matite, temperini e carte. Allora io tagliai il cartone, ci feci tanti fori col temperino, ci disposi sopra la foglia, e senz’altro, con la foglia e tutto, disposi il cartone sui bacolini. Questi s’arrampicarono su attraverso quei forellini, riuscirono tutti a raggiunger la foglia, e via, attaccarono a mangiare. Sui bachi rimanenti, quando ebbero sgusciato, posi allo stesso modo un cartone carico di foglia, e tutti quanti, arrampicatisi attraverso i forellini, si misero a mangiare. Su ogni foglio di cartone tutti i vermicciuoli si raccoglievano insieme, e si facevano dagli orli a mangiar la foglia. Poi, quando avevano mangiato tutto, si mettevano a strisciar per il cartone e a cercar nuovo cibo. Allora io ponevo su loro nuovi fogli di cartone così bucherellato, carichi di foglia di gelso, e quelli s’arrampicavano verso il nuovo cibo. Li tenevo su un palchetto lì nella mia stanza, e quando la foglia veniva a mancare, essi strisciavano per il palchetto, e si spingevano fin proprio all’orlo, ma non accadeva mai che ne cadessero giù, sebbene i bacolini siano ciechi. Non appena una di queste bestiole arriva dove incomincia il vuoto, prima di buttarsi giù, mette fuori dalla bocca come un filino di ragnatela, s’attacca con esso all’ultima sporgenza, si cala nel vuoto, ci resta sospeso, osserva ben bene, e se gli va di scendere, scende in basso, se gli va di tornarsene indietro, si tira su lungo la sua Quarto libro di lettura 197 ragnatelina. Per ventiquattr’ore filate, i bacolini non fecero altro fuorché mangiare. E, della foglia, bisognava dargliene sempre di più, di più. Quando portavi loro della foglia fresca, e loro ci si mettevano dentro, nasceva un fruscio, come quando piove sulle fronde: erano loro che attaccavano a divorar la foglia fresca. A questo modo, i più anziani dei bachi durarono cinque giorni. Erano, ormai, molto cresciuti, e mangiavano dieci volte più di prima. Al quinto giorno, io sapevo che si sarebbero dovuti addormentare, e stavo sempre in attesa che la cosa avvenisse. Alla sera del quinto giorno, per l’appunto, un baco degli anziani restò lì aderente al cartone, senza più mangiare né muoversi di pezzo. Nelle ventiquattr’ore successive, rimasi lunghi tratti a sorvegliarlo. Sapevo che i bachi vanno soggetti a parecchie mute, giacchè, ché divengono via via più grossi, e quindi si trovano stretti nella pelle precedente, e ne indossano una nuova. Si montava la guardia a turno io e un mio compagno. Verso sera, il mio compagno gridò: — Ha incominciato a spogliarsi, venite! — M’accostai là, e vidi che, infatti, il nostro vermicciuolo aveva fatto presa con la vecchia pelle contro il cartone, ci aveva aperto — presso la bocca — uno squarcio, ne aveva sporto la testa, a dagli a sforzarsi, a storcersi tutto, come se volesse cavarsene fuori, ma la vecchia camicia non lo lasciasse uscire. Stetti un pezzo a guardare come si dibatteva, incapace di uscirne, e mi venne voglia di aiutarlo un po’. Lo scalfii, appena appena, con l’unghia: ma subito m’avvidi d’aver fatto una sciocchezza. Sotto l’unghia m’era rimasto qualcosa di liquido, e il vermicciuolo stava lì senza più moto. Credevo che fosse sangue, quello; ma poi seppi che i bachi, sotto la pelle, hanno un umore acquoso, destinato a lubrificare e a render più agevole la muta. Con l’unghia, probabilmente, io avevo guastato la nuova camicia, giacché il baco, sebbene venisse alla luce, poco dopo morí. Gli altri, mi guardai bene dal toccarli, e tutti, allo stesso modo, s’arrabattarono a uscire dalle loro camicie: soltanto pochi andarono a male: quasi tutti, pur soffrendoci un pezzo, riuscirono però a tirarsi fuori dalle vecchie camicie. Finita la muta, i bachi si diedero a mangiare più forte di prima, e la foglia andava via ancora di più. In capo a quattro giorni, di nuovo s’addormentarono, e di nuovo si fecero a uscir dalla pelle. La foglia andava via sempre di più, e le bestiole avevano ormai una lunghezza di mezzo centimetro. Poi, di lì a sei giorni, daccapo s’addormentarono, e 198 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura daccapo uscirono fuori con un’altra pelle da quella vecchia, ed erano ormai ben lunghi e ben grossi, tanto che noi stentavamo a dar loro la foglia necessaria. Nove giorni dopo, i bachi più anziani cessarono del tutto di mangiare, e incominciarono a strisciar per le mensole e su su per le colonnine del palchetto. Io li radunai insieme, e ammannii loro della foglia fresca, ma essi torcevano la testa dall’altra parte, e strisciavano via. Mi tornò a mente, allora, che quando i bachi s’accingono ad avvolgersi nei bozzoli, cessano del tutto di mangiare, e s’inerpicano verso l’alto. Li lasciai fare, e mi misi a osservare che cosa avrebbero fatto. I più anziani s’inerpicarono fin sulla mensola più alta, si dilungarono ognuno per conto suo, strisciando, e, giunti a una certa distanza, incominciarono a tendere un filino, e poi un altro, ogni volta in direzioni diverse. Io tenni dietro a uno. Questo andò a posarsi in un angolo, emise sei fili, d’una lunghezza di cinque centimetri, tesi in tutte le direzioni, ci si sospese sopra, si piegò in due, a ferro di cavallo, e incominciò a prillar col capo su se stesso, di continuo emettendo un filo di seta, dimodoché il filo gli si veniva aggomitolando intorno. A sera, esso era già come in una nebbia, dentro alla sua ragnatela. Si e no che ne traspariva: e, quando fu mattina, non ne traspariva più nulla, di dentro alla ragnatela: s’era tutto avvoltolato di seta, e continuava pur sempre ad avvoltolarcisi. Per tre giorni continuò così: poi smise di voltolarsi, e restò come morto. In seguito io son venuto a sapere quale sia la lunghezza del filo, che il baco emette in queste tre giornate. A sgomitolare tutto quel filo, ne risulta a volte più d’un chilometro, e di rado si resta al di sotto. E se si calcola quante volte il baco deve aver voltolato la testa nel corso di queste tre giornate, per metter fuori tutto il suo filo, si troverà che esso gira su se stesso, in queste tre giornate, trecentomila volte. Vuol dire, cioè, che, senza un attimo di sosta, esso compie ogni secondo un giro. S’intende bene perché, dopo un simile lavoro, quando andammo a prendere qualcuno di quei bozzoli, e li sfasciammo, ci trovammo dentro dei vermicciuoli completamente essiccati, bianchi, come di cera. Sapevo, si, che da questi bozzoli, con quei cerei, bianchi cadaveri dentro, dovevano uscire delle farfalle: ma, guardandoli, non ci potevo credere. Tuttavia, a dispetto d’ogni apparenza, quando furono passati venti giorni, mi feci a osservare se accadesse qualche cosa a quelli che avevo lasciati intatti. Nel ventesimo giorno, infatti, sapevo che ci doveva essere un Quarto libro di lettura 199 cambiamento. Ma nulla si dava a vedere; e già io pensavo che le cose non andassero a modo, quando, improvvisamente, notai che uno di quei bozzoli, in punta, s’era un po’ annerito e inumidito. Ne avevo già tratto la conclusione che si fosse marcito, e stavo per gettarlo via. Ma poi riflettei: «non sarà così che incomincia? », e mi misi a osservare che cosa accadesse. E difatti, da quel punto così umido, ecco bucicare un non so che. Per un pezzo mi fu impossibile distinguere di che cosa si trattasse. Ma poi, apparve una cosa che rassomigliava a un capino con dei balletti.. I balletti si movevano. Poi, ancora, notai una zampetta che sbucava fuori da una fessurina, poi un’altra: ed ecco che le zampette cercavano presa e s’arrovellavano a cavarsi dal bozzolo. Non so bene che cosa, veniva scoprendosi sempre più largamente: e infine io distinsi, tutta bagnata, una farfallina. Quando si furono cavate tutt’e sei le zampette, anche il deretano venne in luce: la farfalla si trascinò fuori, e lì restò accoccolata. Quando fu ben rasciutta, divenne bianca, spiegò le ali, fece una svolazzata, girò a tondo, e andò a posarsi sulla finestra. Di lì a due giorni, la farfalla, là sul davanzale della finestra, depose delle uova, e ce le incollò. Quegli ovicini erano gialli. Venticinque farfalle deposero le uova: e io raccolsi cinquemila ovicini. L’anno seguente, allevai maggior numero di bachi, e fu maggiore la quantità di seta che ne sbozzolai. Il re e gli elefanti. (Favola). Un re indiano ordinò che si radunassero tutti i ciechi: e quando i ciechi furono arrivati alla reggia, fece mostrare a loro i suoi elefanti. Uno tastò le zampe, un altro la punta della coda, un terzo la radice della coda, un quarto il ventre, un quinto il groppone, un sesto le orecchie, un settimo le zanne, un ottavo la proboscide. Poi il re chiamò a sé quei ciechi, e domandò: — Come sono fatti i miei elefanti? Uno dei ciechi disse: — I tuoi elefanti somigliano a colonne! — Era il cieco che aveva tastato le zampe. Un altro cieco disse: — Somigliano a scopette! — Era quello che aveva tastato la punta della coda. Un terzo disse: — Somigliano a rami! — Era quello che aveva tastato la radice della coda. Quello che aveva tastato il ventre, disse: — Gli elefanti somigliano a un mucchio di terra! — Quello che aveva tastato i fianchi, disse: 200 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — Somigliano a un muraglione! — Quello che aveva tastato il groppone, disse: — Somigliano a una montagna! — Quello che aveva tastato le orecchie, disse: — Somigliano a fazzoletti! — Quello che aveva tastato la testa, disse: — Somigliano a un gran mortaio! — Quello che aveva tastato le zanne, disse: — Somigliano a corna! — Quello che aveva tastato la proboscide, disse: — Somigliano a una grossa fune! E tutti quei ciechi si misero a discutere e a litigare fra loro. A caccia d’orsi. (Racconto d’un cacciatore)143. Eravamo a caccia d’orsi. Al mio compagno capitò un orso a tiro: lo colpì, ma nelle parti molli. Rimase un po’ di sangue sulla neve, e l’orso fuggi. Ci radunammo nel bosco, e incominciammo a discutere che cosa fare: andare adesso alla ricerca dell’orso, o aspettare tre giorni, finché l’orso si fosse rimesso al covo. Ci facemmo a domandare ai contadini cacciatori d’orsi144 se si poteva o no fare adesso il giro dell’orso. Un vecchio cacciatore disse: — È impossibile: bisogna dar tempo all’orso di calmarsi; fra cinque giorni il giro si può fare, ma andargli dietro adesso, non servirebbe che a spaventarlo: e nemmeno si riaccoverebbe. Ma un giovane cacciatore d’orsi contraddisse al vecchio, e affermava che il giro si poteva fare adesso. — Con questa neve, —diceva, — l’orso lontano non va: è una bestia grassa. Oggi stesso quello si riaccova. E caso mai non si riaccovasse, io con le racchette lo arriverei. Anche il compagno mio non voleva far subito il giro, e consigliava di star ad aspettare. Io, allora, dico: — Ma perché discutere tanto? Voi fate come volete: io e Damiano ce n’andremo traccia traccia. Se riusciamo a far la girata, bene; se non ci riusciamo, tanto ormai non c’è più da far nulla, e ancora non è tardi. E così facemmo. Gli altri se ne tornarono alle slitte, e via al paese; io e Damiano ci Il titolo originale del racconto è costituito da un proverbio, che si potrebbe tra‐ durre: «quel che si fa per gusto, non si fa per forza» (ma in russo c’è anche un gioco di parole fra «gusto» e «caccia»). 144 Medvežatniki, professionisti – e guide – della caccia all’orso. 143 Quarto libro di lettura 201 prendemmo un po’ di pane, e restammo al bosco. Quando tutti se ne furono andati, io e Damiano esaminammo i fucili, ci rimboccammo le pellicce a cintola, e ci avviammo traccia traccia. Il tempo era buono: freddo sotto zero, e niente vento. Ma avanzate con le racchette era fatica: la neve era profonda e farinosa. Non si trovavano strati di neve indurita, così nel bosco; e, per giunta, n’era caduta un po’ anche il giorno prima, cosicché le racchette se n’andavano sotto neve quattro dita, e a tratti anche più. La traccia dell’orso risaltava fin da lontano. Si vedeva chiaro come l’orso aveva camminato, come qua e là era sprofondato fine al ventre, e aveva mandato sossopra tutta la neve. Noi, da principio, c’inoltrammo in vista della traccia, tra gli alti fusti; ma poi come la traccia s’addentrò in un macchione di giovani abeti, Damiano si fermò. — Bisogna, — disse, — lasciare la traccia. Di sicuro lì dentro, si riaccova. Cominciava già a posarsi ogni momento: la neve parla chiaro. Scostiamoci dalla traccia, e diamo principio alla girata: ma bisogna camminare più piano, senza gridare, senza tossire: sennò, si spaventa. Ci avviammo, scostandoci dalla traccia verso sinistra. Avremo fatto cinquecento passi, guardiamo: la traccia dell’orso ci sta un’altra volta davanti. Allora ripigliammo lungo traccia, e la traccia ci condusse a una strada. Sulla strada noi ci fermammo, e ci mettemmo a osservare da che parte l’orso fosse andato. In certi punti, lì per la strada, spiccava netta la zampa, con le dita e tutto, come l’orso l’aveva stampata; in altri punti, era come se con le cioce un contadino fosse passato lungo la strada. Era evidente che l’orso era andato in direzione del paese. Ci avviammo anche noi verso il paese. E Damiano mi fa: — Ora c’è poco da guardare alla strada: dove scende dalla strada, a destra o a sinistra, si vedrà dalla neve. Prima o dopo, svolterà: non andrà mica fino al paese! Seguitammo così, strada strada, per un miglio circa: eccoci dinanzi, d’improvviso, una traccia che scende giù dalla strada. Guardiamo: oh questa è curiosa! La traccia è d’un orso, ma non va dalla strada verso il bosco: dal bosco viene verso la strada, con le dita voltate in qua. Io dico: È un altr’orso Damiano guarda meglio, pensa un po’: — No, — dice, — è proprio lui; soltanto, ha incominciato a fare i trucchi. È sceso dalla strada a parte indietro —. Seguimmo la traccia: era proprio così. L’orso, evidentemente, s’era allontanato dalla strada per dieci passi così all’indietro, poi era salito su un pino, s’era rigirato, e aveva proseguito diretto. Damiano si fermò e disse: — Ormai si può star sicuri che lo giriamo. Non gli resta altro luogo da posarsi, fuorché in questa palude. 202 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Attacchiamo la girata. Iniziammo la girata, per un’abetina fitta. Io già ero stracco, eppoi, di lì innanzi, diventò più faticoso avanzar, sulle racchette. Ora andavi a montare su un cespuglio di ginepro, e ti c’impigliavi; ora fra i piedi ti scattava all’insù un pollone di pino; ora la racchetta ti si torceva in fuori per mancanza di pratica; ora impuntavi in una radice, in un tronco sotto neve. Cominciavo a sentirmi davvero sfinito. M’ero tolto la pelliccia, e il sudore mi colava giù a rigagnoli. E Damiano, invece, pareva che scivolasse via su una barchetta. Quasi che, sotto a lui, le racchette si movessero conto loro. Non gli s’impuntavano mai, non gli si storcevano. Anche la mia pelliccia s’era buttata a tracolla, e continuava a farmi coraggio. Percorremmo un cerchio di tre miglia, sempre tenendoci torno torno alla palude. Io, ormai, cominciavo a restar indietro: le racchette mi si storcevano ogni momento, le gambe mi s’imbrogliavano. Tutt’a un tratto, avanti a me, Damiano si ferma, e mi fa segno con la mano. Io m’avvicinai. Damiano mi si curvò all’orecchio, mi bisbigliò qualche cosa, e indicava verso un punto: — Ecco, quella gazza su quell’albero secco, senti come gracchia: l’uccello, da lontano, sente il suo odore. C’è lui! Pigliammo un po’ al largo, percorremmo ancora un miglio, e sboccammo di nuovo sulla traccia vecchia. Dimodoché, con un circolo completo, noi avevamo aggirato l’orso, e l’orso era rimasto all’interno del nostro circolo. Ci fermammo finalmente. Io mi tolsi anche il berretto, e mi sbottonai tutto: sentivo un caldo, come a essere in un bagno a vapore, e da capo a piedi ero fradicio come un sorcio intinto nell’acqua. Anche Damiano s’era fatto rosso affocato, e con la manica s’andava asciugando. — Bè, — mi fa, — padrone: il dover nostro l’abbiamo fatto: ora bisogna che ci riposiamo. E già, fra il bosco, incominciava a trasparire il rosso del tramonto. Ci sedemmo sulle racchette a riposare. Cavammo fuori dal sacco il pane e il sale: io prima mangiai un po’ di neve, e poi il pane. E mi parve, quello, un pane così gustoso, come se in vita mia non ne avessi mai mangiato di simile. Così seduti, ci attardammo un po’; incominciava, ormai, a imbrunire. Domandai a Damiano se c’era molto al paese. — Una dozzina di miglia, ci sarà. Arriveremo a notte; ma adesso bisogna che ci riposiamo. Infilati la pelliccia, padrone, altrimenti ti pigli un raffreddore. Spezzò, Damiano, dei rami d’abete, ne scrollò la neve, li stese a mò di letto, e lì ci coricammo a fianco a fianco, le mani intrecciate dietro la testa. Non ricordo neanch’io come presi sonno. Mi svegliai due ore dopo. S’era sentito uno schianto. Quarto libro di lettura 203 Così fondo era stato il mio sonno, che non sapevo più dove mi fossi addormentato. Girai intorno lo sguardo: che miracolo era questo? Dove mi trovavo? Non so che saloni bianchi mi stavano intorno, e colonne bianche, e dappertutto un luccichio di lustrini. Guardai in alto: arabeschi bianchi, e attraverso gli arabeschi una specie di volta d’un nero– giavazzo, e lumi di tanti color che ci sfavillano. Tornai a orientarmi, mi resi conto che stavamo nel bosco, e che erano alberi rivestiti di neve e di brina quelli che m’erano parsi saloni, mentre quei lumi erano le stelle che dal de lo tremolavano fra i rami. A notte era caduta la brina: brina sui rami, brina sulla pelliccia mia, Damiano da capo a piedi sotto brina, e ancora brina che pioveva dall’alto. Destai Damiano. Montammo sulle racchette, a ci avviammo. Gran silenzio, nel bosco: si sentiva, soltanto, il rumore delle nostre racchette che tra la neve molle affondavano, e qua o là un albero che dava uno schianto pel gelo, e in tutto il bosco se ne spandeva il rimbombo. Una volta sola qualche cosa di vivo sfruscio vicinissimo a noi, e via a precipizio. Io pensai addirittura che fosse l’orso. Ci accostammo a quel punto, di dove s’era sentito sfrusciare, e vedemmo tracce di lepre, e polloni di tremula rosicchiati torno torno. Erano lepri che andavano in cerca di cibo, Quando fummo riusciti sulla strada, ci legammo le racchette a rimorchio, e ci mettemmo lungo la strada. Camminare, qui, era diventato facile. Dietro a noi le racchette, sulla strada battuta dalle slitte, sobbalzano e tambureggiano; quel poco di neve, sotto gli stivali, scricchiola; la brina fredda, in faccia, s’appiccica come piuma. E intanto le stelle, sui rami lungo le prode, pare che ti corrano incontro: danno sprazzi, si spengono, come se tutto il cielo fosse in movimento. Il mio compagno dormiva: io lo svegliai. Gli raccontammo che avevamo aggirato l’orso, e ordinammo al padrone dell’albergo che, per domattina, ci facesse trovar pronti i battitori. Cenammo, e andammo a letto. Io, dalla stanchezza, avrei seguitato a dormire fino all’ora di pranzo: ma il compagno mi svegliò. Salto su, guardo: il compagno è già vestito, tramena intorno al fucile. — E Damiano dov’è? — Da un pezzo sta al bosco. Ha già trovato tempo, anzitutto di verificare il cerchio, poi di fare una corsa qui: e adesso è ripartito coi battitori, per disporli ai loro posti. Mi lavai, mi vestii, caricai i miei fucili; montammo in slitta, e partimmo. Il gelo reggeva sempre ben crudo; ferma l’aria, il sole nascosto: la 204 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura nebbia ristagnava alta, e la brina s’era posata. Si percorsero tre miglia su strada, e si giunse nei paraggi del bosco. Ecco là: da una bassura spicca un fumo azzurrognolo, e c’è gente intorno, uomini e donne con grossi randelli. Noi smontammo dalla slitta e ci avvicinammo alla gente. Stavano lì accoccolati, quei contadini, a cuocer qualche patata sotto la cenere, e a ridere con le donne. C’era anche Damiano con loro. E subito si tirarono su, e Damiano li guidò ad appostarsi in cerchio lungo il nostro giro di iersera. Si snodarono in fila uomini e donne uno dietro l’altro, in tutto trenta persone (soltanto dalla vita in su spuntavano fuori), e s’imbucarono nel bosco; appresso, c’incamminammo noialtri, io e il mio compagno, seguendo la traccia loro. Lo stradello, benché pesticciato, era faticoso a camminarci; in compenso, però, cadere non era possibile da nessun lato: era come se s’avanzasse fra due muri. Avevamo fatto a questo modo un mezzo miglio, che già ecco Damiano, da un’altra parte, correre verso noi sulle racchette, facendo segno che andassimo là da lui. Gli andammo vicino, e lui c’indicò dove dovevamo appostarci. Io mi misi al posto mio, e mi guardai intorno. Sulla mia sinistra, c’è un’abetina alta, che lascia passar la vista lontano: e, di dietro ai fusti, mi trasparisce il nero d’un battitore. Di faccia, un’abetina giovane, a statura d’uomo: e i rami, in quest’abetina, stanno aggrondati e incollati insieme sotto la neve. Per mezzo all’abetina, c’è uno stradello seppellito dalla neve: uno stradello che viene diritto verso di me. Sulla mia destra, un’abetina fitta, e al margine di questa, una piccola radura. E appunto in questa piccola radura vedo che Damiano fa appostare il mio compagno. Diedi un’occhiata ai miei due fucili, alzai i cani, e mi feci a riflettere dov’era più conveniente che mi collocassi. Alle mie spalle, tre passi distante, c’era un grosso pino. «Fammi assestare lì sotto al pino, così potrò anche appoggiarci il secondo fucile». Mi trascinai fino al pino, sprofondando fin sopra ai ginocchi; pestai sotto il pino una piazzola di poco più d’un metro, e lì mi sistemai. Un fucile lo presi tra mano, l’altro (coi cani già alzati) lo appoggiai contro il pino. Poi tirai su il coltellaccio dal fodero e lo rimisi a posto, per provare se, in caso di bisogno, fosse agevole a sfoderarsi. M’ero appena sistemato, che sento gridare Damiano pel bosco: — Avanti! Avanti! In marcia! — E, di rimando ai richiami di Damiano, Quarto libro di lettura 205 cominciarono in cerchio a gridare i contadini, con voci diverse: — Avanti! Avanti! Uuuu! — gridavano gli uomini. — Ahi! I– ih! — gridavano le donne con le voci acute. L’orso stava là in mezzo al cerchio. Damiano lo incalzava. Per tutto il cerchio gridavano i battitori; solo io e il mio compagno restavamo qua ritti in silenzio, senza muoverci di pezzo, in attesa dell’orso. Io sto così su due piedi, scruto, tendo l’orecchio, e il cuore, dentro, mi batte forte. M’aggrappo al fucile, e ogni tanto ho un sussulto. Or ora, penso, salta fuori, piglio la mira, sparo, cade giù...D’improvviso, da sinistra, che sento? C’è come un franare di neve, ma lontano. Girai lo sguardo all’abetina alta: cinquanta passi distante, di dietro a quei fusti, sta ferma una cosa nera, ben grossa. Imbraccio il fucile, e aspetto. Chissà, penso, che non si spinga più in qua? Lo vedo, a un tratto, scrollar le orecchie, rigirarsi, e indietro di dov’era venuto. Di fianco, mi s’era scoperto in pieno. Magnifico bestione! Mirai alla cieca: pànfete! Ma lo sento al rumore: è andata a ficcarsi in un albero, la mia pallottola. Guardo tra il fumo: il mio orso galoppava via verso i battitori, e sparì nel bosco. «Bah, — dico fra me, — non mi resta più nulla da fare; ormai, non verrà più a sbucare da questa parte: o toccherà al compagno di tirargli, o andrà a passar frammezzo ai contadini: certo, però, non più qua da me». Intanto, rimango lì ritto, ricarico il fucile, e tendo l’orecchio. Da tutte le parti i battitori gridano, ma da destra, poco oltre il mio compagno, sento gridare in modo sfrenato una donna: — Eccolo, eccolo, eccolo! Di qua, di qua! Ohi, ohi! Ahi, ahi, ahi! Evidentemente, ha l’orso in vista. Ma io, ormai, non m’aspetto che l’orso venga qua da me, e guardo là a destra, al mio compagno. Ecco: Damiano, con un bastoncello, senza racchette, vien di corsa per lo stradello verso il mio compagno: gli s’accuccia a fianco, e col bastone gl’indica qualche cosa, fa atto di prender la mira. Vedo il mio compagno che imbraccia il fucile, mira in quella direzione dove Damiano gli va insegnando. Pànfete: ha sparato. Via, penso io, l’ha ammazzato... Però, guarda: non corre mica, il compagno, là dall’orso. A quanto pare, lo ha spadellato, o l’ha colpito male. E adesso, continuo a pensare, l’orso s’allontanerà là indietro, e qua da me non verrà più a sbucare! Che succede? Di faccia a me, tutt’a un tratto, sento che a precipizio, come un turbine, s’avvicina qualcuno: gli si spande, tutt’intorno, la neve, e stronfia. Punto gli occhi in avanti: ed eccolo, diritto diritto alla mia volta, lì per quello stradello tra l’abetina fitta, che galoppa all’impazzata, e — si vede chiaro — dallo spavento non capisce più nulla. Sta già a cinque passi da me, mi si scopre tutto: il petto nero, il testone enorme 206 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura striato di rossiccio. Si precipita diritto diritto verso me a testa bassa, e spande la neve da tutti i versi. E io capisco, dagli occhi dell’orso, che lui non mi vede mica, ma così, dal gran terrore, galoppa in avanti a perdifiato, dove prima gli capita. Senonchè la direzione che ha preso è proprio quella del pino, dove sto io... Io imbraccio il fucile, sparo: ma lui m’è ancora più vicino. Capisco di non averlo colpito, la pallottola è andata dilungo: e intanto lui non ha neanche sentito, galoppa su me, e continua a non vedermi. Allora abbasso il fucile, quasi glielo appoggio addosso, contro la testa. Pànfete! L’ho colpito, lo vedo: ma non l’ho ammazzato. Sollevò la testa, aguzzò le orecchie, digrignò i denti, e difilato su me. Afferrai, io, l’altro fucile: ma non lo avevo ancora tra le mani, che già quello mi s’era avventato sopra, m’aveva rovesciato sulla neve, e m’era balzato oltre. Bè, penso, fortuna che m’ha lasciato. Faccio per rialzarmi: che sento? Qualche cosa mi preme sopra, mi tiene stretto... L’orso, nell’aire della corsa, non s’era potuto arrestare in tempo, mi aveva sorpassato d’un balzo, ma poi s’era rigirato su se stesso, e mi si era rovesciato addosso con tutto il petto. Io sento che mi sta sopra un gran peso, sento un caldo sul viso, e sento che ecco, cerca di prendermi tutto il viso dentro alle fauci. Il naso me lo tiene già in bocca, me ne accorgo al caldo ardente e al puzzo di sangue che manda. Con le zampe mi schiaccia alle spalle, e io non posso muovermi di pezzo. L’unica cosa che faccio, è di rannicchiarmi con la testa verso il petto, cercando di tirar fuori da quelle fauci il naso e gli occhi. Ma lui mira proprio ad addentarmi lì agli occhi e al naso. Lo sento: m’ha afferrato, coi denti della mascella di sopra, alla fronte, all’attaccatura dei capelli, e con la mascella di sotto agli zigomi, sotto gli occhi: serra i denti, e incomincia a far forza. È come se tanti coltelli mi tagliassero in testa: mi divincolo, cerco di strapparmi alla presa, ma quello più che mai s’affretta, come un cane che rosica un osso: ciàncica, ciàncica. Io riesco a sfuggirgli un istante: lui di nuovo m’azzanna. Bah, penso, la fine mia è arrivata. D’improvviso, mi sento un po’ alleggerire. Guardo: non c’è più, m’è sbalzato di dosso, ed è fuggito via. Quando il mio compagno e Damiano avevano veduto che l’orso mi rovesciava giù fra la neve, e m’azzannava, s’erano slanciati verso me. Il mio compagno, con l’intenzione di guadagnar tempo, aveva commesso un errore: invece di correre pel sentierino battuto, aveva tagliato in qua senza strada, ed era caduto. Intanto che s’arrabattava a cavarsi su dalla neve, l’orso continuava ad azzannarmi. Ma Damiano, come stava, senza Quarto libro di lettura 207 fucile, con un frustino e basta, s’era gettato per lo stradello, gridando: — Sta a sbranare il padrone! Sta a sbranare il padrone! – Correva, e intanto gridava all’orso: – Ah brutto balordo! Guarda che fa! Molla! Molla! Lo aveva udito l’orso, m’aveva mollato, e via a scappare. Quando mi raddrizzai, sulla neve c’era una pozza di sangue come se avessero sgozzato un agnello, e sugli occhi la pelle mi penzolava a brindelli: ma, così a sangue caldo, non sentivo dolore. Arrivò, di corsa, il mio compagno; si radunò gente; mi guardarono la ferita, me la umettarono. Ma neanche ci pensavo più, io, alla ferita; domandavo: – Dov’è l’orso? da che parte è andato? – Quand’ecco sentiamo: – Eccolo! Eccolo! – e vediamo l’orso che ci corre incontro. Agguantammo i fucili, ma non fece in tempo nessuno a sparare: già quello era fuggito al largo. L’orso s’era inferocito: aveva voglia d’azzannare ancora, ma vedendo che la gente era tanta, aveva avuto paura. Alla traccia, si poté vedere che la testa dell’orso perdeva sangue. Volevamo inseguirlo, ma a me incominciò a dolere il capo, e partimmo per la città in cerca d’un dottore. Il dottore mi cucì le ferite con filo di seta, e le ferite incominciarono a rimarginarsi. Un mese dopo, tornammo ancora alla caccia del medesimo orso: ma a me non si offrì l’occasione di finirlo. L’orso non usciva dal cerchio dei battitori, e continuava a girare a tondo, mugliando con voce terribile. Fu Damiano a finirlo. L’orso, da quel colpo che gli avevo tirato io, aveva avuto fracassata la mascella di sotto, e spezzato un dente. Era un orso di statura enorme, e aveva una magnifica pelliccia nera. Io lo feci impagliare: e così, adesso, mi sta in casa, in salotto. Le ferite sulla fronte mi si sono rimarginate benissimo, tanto che appena appena si distingue più dove erano. La chioccia e i pulcini. (Favola). Una chioccia aveva fatto uscire dall’uovo i suoi pulcini, e non sapeva come proteggerli dai pericoli. Perciò disse ai pulcini: – Rimettetevi den‐ tro ai vostri gusci: quando voi sarete dentro ai guscio, io mi accovaccerò sopra di voi, come quando vi covavo, e così vi proteggerò da ogni peri‐ colo. 208 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura I pulcini obbedirono alla chioccia, e andarono per rimettersi nei loro gusci, ma non riuscirono in nessun modo a rientrarci dentro: non fecero altro che sgualcirsi le ali. Allora uno dei pulcini disse alla madre: – Se noi dovevamo rimanere sempre dentro al guscio, era meglio che tu non ci avessi fatto uscire dall’uovo! I gas. (Considerazioni). I. L’aria può essere composta in diversi modi, benché resti sempre invi‐ sibile e trasparente alla luce. L’acqua svapora nell’aria, diviene gassosa: e quando nell’aria c’è mol‐ ta acqua, l’aria è umida, quando ce n’è poca, è asciutta. Quando in un luogo chiuso c’è molta gente che respira, l’aria diventa cattiva, malsana; invece, nei luoghi aperti o nei boschi, l’aria è salutevole, buona. Questo dipende dal fatto che, in una stanza chiusa, all’aria normale si aggiunge quell’aria cattiva, che esce dai polmoni degli uomini e di tutti gli anima‐ li. Dunque l’aria è composta di parti diverse, che noi, coi nostri occhi, non possiamo distinguere: e tutte queste parti sono simili all’aria norma‐ le. Queste diverse sostanze, questi diversi gas, stanno mischiati con l’aria allo stesso modo che l’acqua si mischia con l’aceto o col vino. Se si versa nell’acqua un po’ di acquavite, l’acqua e l’acquavite si mischiano tra loro tanto bene, che non si distingue più se c’è acquavite nell’acqua, e se ce n’è molta o poca. Ma basterà fiutare quel liquido, e allora si potrà capire. Così anche nell’aria ci può essere una mescolanza o l’altra, e con gli occhi non è possibile vederne nulla: ma quando in quell’aria si sarà re‐ spirato per un pezzo, allora sarà possibile accorgersene. Respirare nell’aria buona è piacevole e salutevole; respirare in quella cattiva è pe‐ noso e a volte dannoso. Fra tutte le parti che compongono l’aria, la più necessaria per la respi‐ razione è una che si chiama ossigeno. Se si raccoglie questo gas separato dagli altri, e vi s’immerge un fiammifero, subito il fiammifero prende fuoco. È l’ossigeno che fa bruciare con più forza il legno e qualunque al‐ tra cosa. Ma se nell’aria non c’è ossigeno, e in quest’aria senza ossigeno s’immerge un fiammifero, il fiammifero si spegnerà. L’aria è necessaria per il fuoco appunto perché contiene ossigeno. Per far divampare il fuoco, ci si soffia sopra, ci si fa vento; se invece si vuole Quarto libro di lettura 209 che un oggetto che brucia si spenga, bisogna fare in modo che, intorno a quell’oggetto, non ci sia più aria. Bisogna ricoprirlo, pigiarlo da tutte le parti, e allora il fuoco resterà soffocato. Un’altra parte che compone l’aria è l’azoto. In questo gas non è possi‐ bile respirare, e gli oggetti non possono prendervi fuoco. Una terza parte dell’aria è il gas che si chiama acido carbonico. Anche questo non è buono né per la respirazione, né per il fuoco, Questo gas sta nell’aria in piccola quantità, ma ce n’è dappertutto un pochino. Quando si raccoglie in grande quantità, esso scende e si addensa in basso, giacché è più pesante degli altri gas. Una quarta parte dell’aria sono i vapori acquei, cioè l’acqua in forma gassosa. Quando noi respiriamo, l’ossigeno viene assorbito dal nostro corpo, e così, nell’aria che rimandiamo fuori dai polmoni, c’è meno ossigeno che nell’aria normale, e c’è più acido carbonico. Ecco perché l’aria diventa cattiva quando è stata respirata, Gli alberi, l’erba, tutte le piante, respirano anche loro: esse, però, non respirano l’aria come facciamo noi coi polmoni, ma la assorbono con le foglie e con la corteccia tenera. E anche da tutte le loro foglie l’aria viene rimandata fuori in modo impercettibile; e anche quest’aria non è compo‐ sta come quella normale: contiene meno acido carbonico e più ossigeno. Ciò vuol dire che alle piante è necessario l’acido carbonico che invece non è necessario, anzi è dannoso agli animali. Ecco perché, nei boschi, l’aria è tanto salutevole: l’acido carbonico, là fra gli alberi, si trova in quantità minore, e l’ossigeno in quantità mag‐ giore. II. Se in un secchio pieno d’acqua si gettano sassolini, sugheri, paglia, legna secca e legna umida, e poi vi si spande sopra sabbia, argilla, sale, e vi si mesce olio e acquavite, e tutte queste cose si frullano e si mescolano ben bene, e finalmente si guarda che cosa accade: si vedrà che i sassolini, l’argilla, la sabbia andranno in fondo; la legna secca, la paglia, il sughe‐ ro, l’olio, verranno a galla; il sale e l’acquavite si scioglieranno e non si vedranno più. Da principio tutte queste cose avranno girato insieme nel‐ l’acqua, si saranno agitate, si saranno urtate fra loro; ma poi ogni cosa troverà il posto suo, e si sistemerà in disparte dalle altre: quelle che pe‐ 210 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura sano di più, s’affretteranno a scendere in basso, quelle che sono più leg‐ gere, s’affretteranno a salire in alto. Allo stesso modo, anche nell’aria che sta al di sopra della terrai gas si separano uno dall’altro. Quelli che sono più pesanti dell’aria, si posano in basso; quelli che sono più leggeri, si sollevano in alto; quelli che sono capaci di sciogliersi, si spandono per tutta l’atmosfera. Se i gas non si formassero di continuo, non si mischiassero con altri gas, non si scambiassero di posto, l’aria rimarrebbe immobile al di sopra della terra, e non si agiterebbe mai: sarebbe come l’acqua in un secchio quando s’è ben posata. Ma al di sopra della terra si formano di continuo nuovi gas, e quelli che già ci sono, si mischiano con altre sostanze. Ogni uomo, ogni animale, quando respira, prende dall’aria l’ossigeno, lo mischia con le sostanze che stanno dentro al suo corpo, e lo rimanda fuori trasformato in un gas diverso. Ogni pianta (erba o albero) assorbe l’acido carbonico e rimanda fuori l’ossigeno. In un luogo, l’acqua passa dallo stato liquido allo stato gassoso, diventa vapore ac‐ queo, invisibile all’occhio, in un altro luogo, dallo stato gassoso l’acqua passa allo stato liquido. Così, nell’aria, girano sempre tanti gas diversi: quelli più leggeri vanno in alto, quelli più pesanti scendono in basso, e c’è un giro continuo di gas, come quello che fanno sostanze diverse nell’acqua d’un secchio. Ma l’aria si agita e gira soprattutto perché, dovunque essa si riscalda, tende a sollevarsi verso l’alto, e non appena si raffredda, tende a scende‐ re verso il basso. Quando, in una giornata serena, il sole batte di sghem‐ bo alla finestra, si vedono nei raggi del sole roteare e scattare verso l’alto e verso il basso tanti granellini di polvere. È l’aria calda e fredda che ro‐ tea, trascinando con sé quei leggerissimi granellini di polvere. Il leone, l’asino e la volpe. (Favola). Un leone, un asino e una volpe uscirono in cerca di preda. Acchiap‐ parono molte bestie selvatiche, e il leone ordinò all’asino di fare le parti. L’asino fece tre parti uguali, e disse: —E ora, prendete! Il leone andò in collera, mangiò l’asino, e ordinò alla volpe di rifare lei le parti. La volpe raccolse tutto in un mucchio solo, lasciando per sé soltanto poche briciole. Quarto libro di lettura 211 Il leone diede un’occhiata alla roba così spartita, e disse: – Tu si che hai il cervello fino! Ma chi ti ha insegnato a fare tanto bene, le parti? Rispose la volpe: – E dell’asino, scusa, che ne è stato? Il vecchio pioppo. (Racconto). Per cinque anni il nostro giardino era rimasto abbandonato. Io presi degli operai a giornata, con accette e con zappe, e mi misi a lavorare an‐ ch’io insieme con loro intorno al giardino. Sradicammo e mondammo il seccume e il selvaticume, e tutto il dip‐ piú di cespugli e d’alberi che ci era cresciuto. Soprattutto i pioppi e i ma‐ raschi avevano avuto un grande sviluppo, e soffocavano le altre piante. Il pioppo spunta su direttamente da tutte le diramazioni delle radici, e quindi non può essere sradicato d’un colpo: bisogna tagliare le radici sotto terra. Accanto al laghetto sorgeva un pioppo enorme, da volerci due persone per abbracciarlo. Intorno si stendeva una piccola radura. Questa piccola radura s’era tutta riempita di polloni di pioppo. Io dissi agli uomini di tagliarli: volevo che il posto diventasse più al‐ legro, e soprattutto volevo dare sollievo a quel vecchio pioppo, giacché pensavo che tutti quegli alberelli giovani, venendo su dalle sue radici, gli succhiassero la linfa. Mentre noi tagliavamo i giovani pioppetti, mi faceva pena, a momenti, veder tagliare sotto terra le loro radici piene di linfa, e poi doverci mettere in quattro a tirare, senza riuscire a svellere il piccolo pioppo già intaccato dalle accette. L’alberello resisteva con tutte le forze, e non voleva a nessun costo morire. Allora mi venne il pensiero: si vede che sarà necessario che vivano, se con tanta tenacia difendono la loro vita! Ma bisognava tagliarli, e io li feci tagliare. Soltanto in seguito, quando era troppo tardi, capii che non si sarebbe dovuto distruggerli. Io avevo creduto che i polloni succhiassero la linfa al vecchio pioppo; e invece era accaduto il contrario. Al momento che li tagliai, il vecchio pioppo stava già per morire. Quando sbocciarono le foglie, mi avvidi che uno dei suoi rami (l’albero s’era biforcato in due rami) rimaneva nu‐ do: e, in quella stessa estate, si seccò. Dunque, già da un pezzo il vecchio pioppo s’avvicinava alla morte, e lo sapeva, e aveva voluto trasmettere a quei polloni la sua vita. Per questo essi erano cresciuti tanto in fretta. Io, invece, con l’inten‐ zione di dargli sollievo, avevo ucciso tutti i suoi figlioli. 212 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il marasco selvatico. (Racconto). Un marasco era cresciuto sullo stradello allo sbocco della piantagione dei noccioli, e soffocava tutti i loro cespugli. Io restai in dubbio per un pezzo se tagliarlo o non tagliarlo: mi faceva compassione. Questo mara‐ sco non era cresciuto a forma di cespuglio, ma di albero, d’una dozzina di centimetri di diametro e d’otto metri d’altezza, pieno di biforcazioni, ricciuto, tutto rivestito di fiori vividi, bianchi, odorosi. Da un buon tratto lontano, il suo profumo si faceva sentire. Io non mi sarei deciso a tagliar‐ lo, ma uno degli operai (al quale avevo detto in precedenza di tagliare tutti i maraschi selvatici) incominciò a tagliarlo a mia insaputa. Quando arrivai io, l’accetta era già entrata nel legno per una profondità di sei centimetri, e la linfa schizzava sotto la lama quando il taglio imbroccava due volte la stessa intacca. «Niente da fare: si vede che era destino!» dis‐ si tra me; impugnai l’accetta anch’io, e mi misi a tagliare insieme col con‐ tadino. Di qualunque lavoro si tratti, lavorare dà sempre allegria; e dà alle‐ gria anche tagliare un albero. Dà allegria far entrare ben a fondo, obliquamente, l’accetta, e poi, con colpetti perpendicolari, far saltare via il legno già tagliato, e a mano a mano affondare sempre più addentro nel tronco. Io m’ero scordato completamente del marasco, e non pensavo più ad altro che al modo di buttarlo presto a terra. Quando mi sentii senza fiato, deposi l’accetta, m’attaccai: all’albero insieme col contadino, e cercai di buttarlo giù. Tutt’e due di buon accordo, gli demmo uno strattone: l’al‐ bero fremette con tutto il fogliame, e sulle nostre teste ne cadde qualche goccia di rugiada, mentre intorno si spandevano per l’aria i bianchi, o‐ dorosi petali dei fiori. Nello stesso momento, ci fu una specie di grido: era l’interno del tronco, che aveva dato uno scricchiolio. Noi facemmo forza con tutto il nostro peso, e allora, come se scoppiasse a piangere, l’interno ebbe uno schianto, e l’albero crollò a terra. S’era schiantato all’altezza del taglio, e, oscillando, s’era adagiato sul‐ l’erba coi rami e coi fiori. Tremarono ancora un po’, dopo la caduta, le cimette e i fiori: poi rimasero immobili. – Eh, gran bella pianta! – esclamò il contadino. – Proprio ti fa stringe‐ re il cuore! E io, infatti, mi sentivo il cuore così stretto, che in fretta me ne andai di lì, a guardare gli altri operai. Quarto libro di lettura 213 In che modo camminano gli alberi. (Racconto). Una volta, stavamo ripulendo uno stradello inselvatichito del giardi‐ no, sulla costa accanto al laghetto. Avevamo già abbattuto con le accette una gran quantità di pruni, di salci, di pioppi: poi venne la volta d’un marasco selvatico. Era cresciuto, questo marasco, proprio nel mezzo del‐ la strada, ed era così vecchio e grosso, che non poteva avere meno di dieci anni. Eppure, cinque anni prima, io sapevo che il giardino era stato ripulito. Non riuscivo a capire come mai un marasco così vecchio poteva star piantato in quel punto. Noi lo tagliammo e procedemmo più avanti. Più avanti, in un’altra foltaia, era cresciuto un altro marasco simile a quello, anzi ancora più grosso. Io osservai le sue radici, e scoprii che era nato sotto un vecchio tiglio. Il tiglio, coi suoi rami, gli toglieva l’aria, e il marasco s’era allunga‐ to a fior di terra col suo fusto nudo e liscio per circa quattro metri: quan‐ do poi era sboccato allo scoperto, aveva drizzato la testa, e aveva caccia‐ to fuori rami, foglie e fiori. Io, con l’accetta, lo tagliai alla radice, e mi meravigliai che l’albero fosse tanto vegeto, mentre la radice era fradicia. Quando lo ebbi tagliato, mi misi coi contadini a trascinarlo via; ma per quanto noi tirassimo, non riuscivamo a spostarlo: pareva che fosse rimasto attaccato là. Io dissi: – Guardate un po’ se ci fossimo incastrati con qualche altra pianta! – Un operaio, allora, s’insinuò sotto al marasco, e gridò: – Ma quest’albero ha un’altra radice, qua sulla strada! – Io lo se‐ guii, e vidi che era vero. Il marasco, per non restare soffocato da quel tiglio, era venuto a tra‐ piantarsi sulla strada, a più di due metri dalla prima radice. La radice che io avevo tagliata era fradicia e secca, ma la nuova era fresca e vegeta. L’istinto aveva detto al marasco che là sotto il tiglio non poteva vive‐ re: prima s’era proteso da un lato, poi s’era aggrappato con un ramo alla terra, aveva trasformato il ramo in una nuova radice, e la prima radice l’aveva abbandonata. Soltanto allora io capii come aveva fatto a crescere quel primo mara‐ sco. Anche quello doveva aver fatto la stessa cosa: ma, ormai, aveva avu‐ to il tempo di disfarsi completamente della radice vecchia, e così io non avevo potuto trovarla più. 214 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il re di quaglie e la sua femmina. (Favola). Il re di quaglie aveva fatto il nido in un prato e, al tempo della fiena‐ tura, la sua femmina covava già le uova. Una mattina di buonora, i contadini arrivarono al prato, si tolsero le giacche, arrotarono le falci, e incominciarono, uno dietro l’altro, a taglia‐ re l’erba e ad accomodarla in tante file. Il re di quaglie volò fuori a guar‐ dare che facevano i falciatori. Quando vide che uno dei contadini alzava la falce e tagliava una serpe in due pezzi, si rallegrò tutto, tornò a volo dalla sua femmina, e le disse: – Non aver paura di quei contadini: sono venuti qui a fare a pezzi le serpi; da quanto tempo, per colpa di queste bestiacce, noialtri non potevamo più campare! – Ma gli rispose la fem‐ mina: – I contadini tagliano l’erba, e insieme con l’erba tagliano via qua‐ lunque cosa gli capita a portata di mano: sia una serpe, sia un nido come il nostro, o sia magari la testa d’un re di quaglie. Il cuore mi dice brutte cose: ma che posso fare? Non posso più né portar via queste uova, né volarmene lontano dal nido: le uova mi si ghiaccerebbero! Quando i contadini furono arrivati al nido del re di quaglie, uno alzò in aria la falce e troncò netta la testa alla femmina. Le uova se le mise in petto, e poi le diede ai ragazzi, che ci giocassero. Come si fabbricano i palloni aerostatici. (Considerazioni). Se prendiamo una vescica gonfiata d’aria, la immergiamo nell’acqua, e poi la lasciamo libera, la vescica balzerà su verso la superficie dell’ac‐ qua, e ci resterà a galla. Allo stesso modo, se facciamo bollire un reci‐ piente metallico pieno d’acqua, avverrà che in fondo al recipiente, pro‐ prio sul fuoco, l’acqua si trasformerà in vapore, in gas: e quando un po‐ chino di questo vapor acqueo si sarà raccolto, subito balzerà verso l’alto in forma di bollicine. Da principio balzerà verso l’alto una sola bollicina, poi un’altra; e quando tutta l’acqua si sarà riscaldata a sufficienza, le bol‐ licine frulleranno in su una dopo l’altra senza interruzione. Allora si dice che l’acqua bolle. Come queste bollicine, gonfie di vapor acqueo, frullano dall’acqua verso l’alto perché sono più leggere dell’acqua, allo stesso modo, dall’a‐ ria che sta intorno a noi, frulla verso gli strati d’aria più alti una vescica che sia stata gonfiata col gas chiamato idrogeno, oppure con aria ben Quarto libro di lettura 215 calda. Infatti, l’aria calda è più leggera di quella fredda; e l’idrogeno, poi, è il più leggero di tutti i gas. I palloni aerostatici si possono fabbricare o con l’idrogeno o con l’aria calda. Con l’idrogeno si fabbricano così: si prepara una grossa camera d’aria a forma di sfera, la si lega per mezzo di funi a tanti pioli, e dentro vi si immette l’idrogeno. Appena le funi vengono sciolte; la sfera vola verso l’alto, e continua a salire fin tanto che non esce da quegli strati del‐ l’aria che sono più pesanti dell’idrogeno. Quando poi sarà arrivata al di sopra, nell’aria leggera, incomincerà a galleggiare in quell’aria come una vescica sull’acqua. Con l’aria calda i palloni si fabbricano così: si prepara un grosso invo‐ lucro vuoto a forma di sfera, con un collo verso il basso, simile a una brocca capovolta, e all’imboccatura di quel collo si applica un ciuffo di stoppa: si imbeve la stoppa di spirito, e ci si dà fuoco. Per effetto del fuo‐ co, l’aria si scalda dentro l’involucro, e diventa più leggera dell’aria fred‐ da: perciò l’involucro tenderà a innalzarsi, come fa una bollicina nell’ac‐ qua che sta per bollire. E sempre continuerà a volare verso l’alto, fin quando non sarà arrivato dove l’aria è ancora più leggera dell’aria calda contenuta nell’involucro. Alla fine del Settecento145, dei Francesi, i fratelli Montgolfier, inventa‐ rono i palloni aerostatici. Provarono a fabbricare una sfera di tela e carta, e ci fecero entrare dell’aria calda: il pallone volò via. Allora fabbricarono un’altra sfera più grossa, ci legarono sotto un agnello, un gallo e un’oca, e li lasciarono andare. Il pallone si levò in aria, e si riabbassò felicemente. Poi applicarono sotto la sfera una navicella, e in questa navicella pre‐ se posto un uomo. Il pallone volò a tanta altezza, che scomparve alla vi‐ sta; infine, dopo un lungo volo, cicalò felicemente a terra. Più tardi si pensò di riempire le sfere con l’idrogeno, e così fu possibile volare anco‐ ra più in alto e più rapidamente. Per compiere dei voli in pallone, vi si lega sotto una navicella, dove prendono posto due, tre, perfino otto persone, portando con sé da man‐ giate e da bere. Per poter abbassarsi e risollevarsi quando si vuole, al pallone sta ap‐ plicata una valvola: chi vola può tirare, con una funicella, questa valvo‐ la, e aprirla o richiuderla. Se il pallone si solleverà troppo in alto, e chi vola vorrà farlo abbassare, aprirà la valvola, il gas ne uscirà, la sfera di‐ venterà più floscia, e incomincerà ad abbassarsi. Inoltre, si portano sem‐ Il testo ha «quasi cent’anni fa». 145 216 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura pre sul pallone dei sacchetti di sabbia: gettando via uno di questi sac‐ chetti, il pallone dovrà sostenere meno peso, e quindi andrà più in alto. Quando chi vola ha deciso di ricalare a terra, e vede che il luogo sotto di lui non è adatto, essendoci in quel punto un fiume o un bosco, farà uscire un po’ di sabbia dai sacchetti: allora il pallone si farà più leggero, e tornerà a salire. Racconto d’un aeronauta. (Racconto). Molta folla s’era raccolta per vedere il volo che io dovevo fare. Il pal‐ lone era pronto. Esso, ogni tanto, fremeva, tirava i quattro cavi che lo reggevano, protendendosi verso l’alto, e ora si raggrinziva, ora s’inturgi‐ diva. Io salutai i miei cari, montai sulla navicella, verificai se tutte le mie provviste erano a posto, e gridai: — Mollate! I cavi furono tagliati, e il pallone si sollevò verso l’alto, da principio tranquillamente (sembrava quando un puledro spezza i legacci e s’attar‐ da a guardarsi intorno): poi d’improvviso ebbe un’impennata, e volò in su con tanto impeto, che la navicella vibrò tutta e si mise a dondolare. Giù a terra battevano le mani, gridavano e agitavano fazzoletti e cap‐ pelli. Io, di rimando, sventolai il berretto: e non avevo ancora fatto in tempo a ricalzarmelo in testa, che già ero talmente in alto, da distinguere si e no la gente. lì per lì ne sentii raccapriccio, e un brivido mi corse per le vene; ma poi, a un tratto, mi venne un tale senso di gioia, che non pensai più ad aver paura. Ormai, percepivo appena il rumore della città. Ronzavano come api gli uomini là in basso. Le vie, le case, il fiume, i giardini della città, m’apparivano laggiù come in un quadro. Mi pareva di essere il re di tutta quella città e di tutta quella gente, tanta era la gioia di trovarmi così in alto. Intanto continuavo a sollevarmi rapidamente: soltanto le corde della navicella fremevano, e a un certo punto fui inve‐ stito da un colpo di vento, che mi fece rigirare due volte su me stesso; ma poi tutto tornò così tranquillo, che non si poteva capire se volavo o stavo immobile. Soltanto a una cosa m’accorgevo di volare: che la scena della città, sotto di me, diventava sempre più piccola, e nuovi sfondi lon‐ tani mi si scoprivano alla vista. La terra, sotto di me pareva che cresces‐ se: diventava sempre più larga, sempre più larga: e d’improvviso m’avvidi che, sotto di me, la terra era diventata simile a una ciotola. Gli orli erano rigonfi: nel fondo della ciotola, stava la città. Io mi sentivo sempre più pieno di gioia. Respirare era gioioso e facile, e ti veniva vo‐ Quarto libro di lettura 217 glia di cantare. Infatti intonai una canzone: ma la mia voce era talmente debole, che re stai meravigliato e spaventato della mia stessa voce. Il sole stava ancora alto, ma a ponente c’era una fascia di nuvolo, che d’improvviso venne a coprire il sole. Io ebbi di nuovo un momento di raccapriccio: e, per trovare un’occupazione qualsiasi, tirai fuori il baro‐ metro e lo osservai. Dal barometro seppi che m’ero già sollevato a un’al‐ tezza di quattro chilometri. Mentre rimettevo il barometro a posto, qual‐ che cosa diede un frullo vicino a me, e scorsi un piccione. Mi ricordai, allora, che avevo prese con me quel piccione per rimandarlo a terra con un biglietto. Scrissi su un foglietto che ero vivo e sano, a quattro chilo‐ metri di altezza: e legai il foglietto al collo del piccione. La bestiola stava appollaiata sulla sponda della navicella, e guardava verso di me coi suoi occhi rossicci. A me pareva che mi pregasse di non buttarla giù. Da quando il cielo s’era rannuvolato, nulla più si distingueva in basso. Ma non c’era altro da fare: bisognava mandare il piccione a terra. Quando lo presi in mano, tremava con tutte le penne. Io stesi in fuori il braccio, e lo lasciai. Sbattendo in fretta le ali, lui volò via di sghembo, come una pie‐ tra, giù verso il basso. Io allungai ancora un’occhiata al barometro. Mi trovavo, ormai, a cinque chilometri d’altezza, ed ebbi la sensazione che l’aria mi mancava: il respiro mi si faceva affrettato. Tirai la cordicella per far uscire il gas e abbassarmi: ma, o che mi ero indebolito, o che c’era qualche guasto, la valvola non si apriva. Restai di sasso. Non m’accorge‐ vo di sollevarmi, tutto pareva immobile: ma intanto il respiro mi si face‐ va sempre più penoso. «Se non riesco a fermare il pallone, — pensai, — scoppierà, e io sono perduto!» Per accertarmi se continuavo a salire, o stavo fermo, gettai fuori dalla navicella qualche pezzetto di carta. I pezzetti di carta, come pietre, spro‐ fondarono in basso. Voleva dire che io volava in su come una freccia. Con tutte le forze, allora, m’aggrappai alla cordicella e tirai. Per for‐ tuna, la valvola s’aprì, si senti una specie di fischio. Provai di nuovo a gettare un pezzetto di carta: la carta mi volò attorno, poi se ne andò all’insù. Dunque, io mi stavo abbassando. Verso il basso non era visibile ancora nulla: c’era solo un gran mare di nebbia, che si stendeva sotto di me. Calai in mezzo a quella nebbia: erano nuvole. Poi si mise a soffiare il vento, mi trasportò in chissà quale direzione, e ben presto il sole si riaf‐ facciò, e io rividi sotto di me la ciotola della terra. Ma non c’era più la nostra città: c’erano delle estensioni di bosco, e due strisce turchine, che erano fiumi. Di nuovo mi nacque nell’anima una gran gioia, e non avrei voluto più ricalare a terra; ma, tutt’a un tratto, mi sentii accanto un fru‐ scio: e vidi un’aquila. 218 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Con occhi stupiti l’aquila mi fissò un istante, e si fermò sulle ali tese. Io, come una pietra, sprofondavo in basso. Mi diedi a scaricare zavor‐ ra, per frenare un po’ la discesa. Di lì a poco mi divennero visibili i campi lavorati, un bosco, e presso il bosco un villaggio: verso il villaggio stava tornando un branco di pe‐ core. Io percepivo le voci della gente e delle bestie. Il mio pallone discendeva dolcemente. Si avvidero di me. Gridai e gettai giù delle funi. Si radunò di corsa molta gente. Vidi che un ragaz‐ zetto era il primo ad agguantare una fune. Poi anche altri le afferrarono, legarono il pallone a un albero, e io smontai dalla navicella. Ero stato in volo soltanto tre ore. Il villaggio dove ero sceso si trovava a 250 chilometri dalla mia città. La vacca e il caprone. (Leggenda). Una vecchia aveva una vacca e un caprone. Vacca e caprone stavano insieme nella stessa stalla. La vacca, quando la mungevano, si agitava e si rigirava di continuo. Una sera, la vecchia portò con sé un po’ di pane e sale, lo diede alla vacca, e le diceva ad alta voce: — Ma sta’ ferma una buona volta, figlia mia! Su, su... Te ne porterò dell’altro, purché tu stia ferma e buona. La sera dopo, al ritorno dal pascolo, il caprone passò innanzi alla vac‐ ca, divaricò le zampe, e si piantò davanti alla padrona. La vecchia lo scacciò con l’asciugamano, ma il caprone se ne stava sempre lì, senza muoversi di pezzo. Si ricordava che la vecchia aveva promesso dell’altro pane alla vacca, purché stesse ferma e buona. La vecchia vide che il ca‐ prone non si toglieva di mezzo: afferrò un bastone, e lo picchiò. Quando il caprone si fu scostato, la vecchia si mise di nuovo a dar da mangiare del pane alla vacca, e a persuaderla con le buone maniere. «Non c’è giustizia, negli uomini! — pensò il caprone. — Io sono stato più fermo e buono di lei, eppure mi sono toccate le busse!» Si tirò indietro a una certa distanza, prese la rincorsa, venne a cozzare con le corna contro il secchio della mungitura, versò tutto il latte per ter‐ ra e conciò male la vecchia. Quarto libro di lettura 219 Il cornacchione e i cornacchini. (Favola). Un cornacchione fece il nido su un’isola, e quando i cornacchini furo‐ no usciti dall’uovo, incominciò a trasportarli uno per uno dall’isola sul continente. Prese dunque fra le unghie il primo dei cornacchini, e si di‐ resse a volo con lui al di sopra del mare. Quando il vecchio cornacchio‐ ne, volando così, fu arrivato in mezzo al mare, si sentì sfinito dalla stan‐ chezza, si mise a battere più di rado le ali, e pensò: «Ora io sono forte e lui è debole, e perciò lo trasporto così al di sopra del mare; ma quando lui sarà diventato grande e forte, e io debole per la vecchiaia, chissà se si ricorderà più delle mie fatiche, e se mi trasporterà così da un luogo all’altro?» E il vecchio cornacchione domandò al cornacchino: — Quando io sarò debole, e tu forte, mi porterai così? Dimmi la verità! — Il cornacchino ebbe timore che il padre lo lasciasse cadere in mare, e rispose: — Si che ti porterò! — Ma il vecchio cornacchione non credette al figliolo, aprì le unghie e lasciò andare il cornacchino. Il cornacchino, come un gomitolo, piombò giù e affondò dentro al mare. Il vecchio cornacchione, rimasto solo, tornò indietro al di sopra del mare verso la sua isola. Là prese un altro dei cornacchini e, allo stesso modo del primo, lo portò via con sé al di sopra del mare. E anche stavol‐ ta, quando fu in mezzo al mare, egli si sentì sfinito, e domandò al figliolo se, in vecchiaia, lo avrebbe portato così da un luogo all’altro. Il figlio si spaventò, pensando che il padre poteva buttarlo di sotto, e perciò gli ri‐ spose: — Si che ti porterò! Ma il padre non credette neppure a quest’altro figlio, e lo lasciò cade‐ re dentro al mare. Quando fu di ritorno al suo nido, gli restava in tutto un cornacchino solo. Prese quest’ultimo figlio, e con lui s’avviò a volo al di sopra del mare. Quando, così volando, fu arrivato fin nel mezzo del mare, e si sentì sfinito, fece ancora una volta quella domanda: — Sarai disposto, nella mia vecchiaia, a darmi da mangiare e a trasportarmi così da un luogo al‐ l’altro? Il terzo cornacchino rispose: — No, non sarò disposto! — E perché? — domandò il padre. — Perché, quando tu sarai vecchio, e io sarò grande, avrò il mio nido e i miei cornacchini, e dovrò nutrire e trasportare così i figli miei. Allora il vecchio cornacchione pensò: «Questo ha detto la verità! Per ricompensa farò ancora uno sforzo e lo porterò al di là del mare». 220 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura E il vecchio cornacchione non lasciò cadere il terzo cornacchino, ma con l’ultime forze che gli restavano, riprese a battere le ali e lo trasportò fin sul continente, in modo che qui potesse fare il suo nuovo nido e alle‐ vare i figli che gli sarebbero nati. Il sole è il calore. (Considerazioni). Esci di casa, d’inverno, in una giornata di gelo senza vento, e quando arrivi tra i campi, o nei boschi, guarda intorno a te, e tendi l’orecchio: dappertutto, intorno intorno, c’è la neve: i fiumi sono ghiacciati: qualche filo d’erba secca spunta fuori dalla neve: gli alberi s’alzano spogli: nulla si muove. Guarda lo stesso posto in estate: i fiumi corrono, in ogni pozza d’ac‐ qua le rane gracidano, gorgogliano; gli uccelli svolazzano qua e là, fi‐ schiano, cantano; le mosche e le zanzare volteggiano, ronzano; gli alberi e le erbe si espandono, oscillano. Fà ghiacciare un secchio di ferro pieno d’acqua: diventerà come una pietra. Poni quel secchio così ghiacciato sul fuoco: il ghiaccio si spacche‐ rà, si scioglierà, si metterà in moto; l’acqua comincerà a ondeggiare, a fa‐ re tante bollicine; poi, quando sarà arrivata al bollore, manderà un rom‐ bo, si metterà a girare su se stessa. La medesima cosa accade, col calore, anche nella natura. Se il calore non c’è, tutto è morto; se c’è il calore, tut‐ to si muove e vive. Poco calore, poco movimento; maggior calore, mag‐ gior movimento; molto calore, molto movimento; moltissimo calore, moltissimo movimento. Di dove viene, nella natura, il calore? Il calore viene dal sole. Quando il sole, d’inverno, gira basso, di fianco, e non investe diritto coi raggi la terra, nulla si muove. Quando il sole viene a girare più alto sopra la ter‐ ra, allora tutta la natura si riscalda e si mette in moto. Allora la neve incomincia a sciogliersi, il ghiaccio incomincia gonfiar‐ si nei fiumi, l’acqua corre a ruscelli giù dalle alture, s’innalzano dall’ac‐ qua i vapori e formano le nubi, cade la pioggia. Chi fa accadere tutte queste cose? Il sole. I semi delle piante si macerano, cacciano fuori i germogli; i germogli s’aggrappano alla terra; dalle radici vecchie spuntano i nuovi polloni; in‐ cominciano a crescere alberi ed erbe. Chi ha fatto accadere questo? Il so‐ le. Quarto libro di lettura 221 Si riscuotono dal letargo gli orsi, le talpe; si ridestano le mosche, le api; nascono le zanzare, nascono i pesci dalle piccole uova toccate dal ca‐ lore. Chi ha fatto accadere tutto questo? Il sole. Si riscalda l’aria in un dato punto, si solleva verso l’alto, e al suo po‐ sto sopravviene aria più fredda: si produce, così, il venticello. Chi ha fat‐ to accadere questo? Il sole. S’innalzano le nubi, incominciano a riunirsi insieme e a separarsi: scoppia il fulmine. Chi ha prodotto questo fuoco? Il sole. Crescono le erbe, i grani, i frutti, gli alberi; si saziano gli animali, si nutriscono gli uomini: raccolgono cibo e legna per l’inverno, costruisco‐ no case, costruiscono ferrovie e città. Chi ha procurato tutte queste cose? Il sole. L’uomo si è costruito una casa. Con che cosa l’ha fatta? Con tronchi e travi. Questi tronchi e travi sono stati tagliati dagli alberi; gli alberi, li ha fatti crescere il sole. Si accende la stufa con la legna. Chi ha fatto crescere la legna? Il sole. L’uomo mangia il grano, le patate. Chi li ha fatti crescere? Il sole. L’uomo mangia la carne. Chi ha nutrito gli animali, gli uccelli? Le er‐ be. E le erbe, le ha fatte crescere il sole. L’uomo costruisce una casa in muratura, con mattoni e con calce. I mattoni e la calce sono stati cotti a legna. La legna è stata procurata dal sole. Tutte le cose che servono agli uomini, che riescono utili a loro, sono procurate dal sole: e in tutte passa una gran quantità di calore solare. Appunto tutti hanno bisogno di grano, perché è stato il sole che lo ha fatto crescere, ed esso contiene una gran quantità di calore solare. Il gra‐ no riscalda colui che lo mangia. E appunto è necessaria la legna da ardere, perché contiene una gran quantità di calore. Chi compera legna per l’inverno, compera calore so‐ lare: e durante l’inverno, ogni volta che vorrà, accenderà quella legna e farà spandere il calore solare nelle sue stanze. Quando poi c’è il calore, allora c’è anche il movimento. Qualunque movimento ci sia, viene sem‐ pre dal calore: o direttamente dal calore solare, oppure dal calore di qualche cosa che è stata prodotta dal sole, come il carbone, la legna, il grano, l’erba. I cavalli, i buoi, trasportano carichi; gli uomini lavorano: chi è che li fa muovere? È il calore. Ma di dove è venuto, a loro, il calore? E venuto dal cibo. E il cibo, lo ha prodotto il sole. I mulini ad acqua e quelli a vento girano e macinano. Chi li fa muove‐ re? Il vento e l’acqua. Ma il vento, chi è che lo spinge? È il calore. E chi è 222 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura che spinge l’acqua? È il calore, nient’altro. È stato il calore che ha fatto innalzare l’acqua in forma di vapore verso il cielo: e se non fosse avve‐ nuto questo, l’acqua non sarebbe ricaduta in basso. Una macchina lavo‐ ra, mossa dal vapore: ma il vapore, chi lo produce? La legna. E nella le‐ gna c’è il calore solare. Il calore produce il movimento, e il movimento produce il calore. E sia il calore, sia il movimento, sono prodotti dal sole. Di dove viene il male a questo mondo. (Favola). Un eremita viveva in un bosco, e le bestie selvatiche non avevano paura di lui. Lui e le bestie parlavano fra loro e si capivano a vicenda. Una sera, l’eremita si coricò sotto un albero, e un corvo, un colombo, un cervo e un serpente si raccolsero insieme a passare la notte in quello stesso luogo. Le bestie si misero a discutere di dove viene il male a que‐ sto mondo. Disse il corvo: — Il male a questo mondo viene dalla fame. Quando tu hai mangiato a sazietà, te ne stai appollaiato sopra un ramo, fai una gracchiatina ogni tanto, e tutto ti pare allegro, tutto bello, tutto ti slarga il cuore; ma basta che stai a digiuno un giorno o due, e tutto ti diventa talmente odioso, che non ti va più neanche di guardarlo, questo mondo! E ti piglia una smania di andartene chissà dove, e svolazzi da un po‐ sto all’altro, e non trovi mai pace. Se poi avvisti un pezzo di carne, peg‐ gio che mai l’uggia ti cresce: prendi e t’avventi là, senza badare più a nulla. Certe volte ti lanciano addosso bastoni e sassi, o addirittura i lupi e i cani ti afferrano, ma tu non cedi quel pezzo di carne, non fuggi lontano. Eh, a quanti di noialtri la fame fa perdere la vita! Tutto il male viene dalla fame. Disse il colombo: – Secondo me, invece, non è dalla fame elle viene il male: tutto il male viene dall’amore. Se noi campassimo ognuno per proprio conto, ben pochi dolori ci toccherebbero. Chi è solo, bene o male, s’arrangia, e seppure non trova modo d’arrangiarsi, è solo a soffrire. Noialtri, al contrario, viviamo sempre a coppie. E ti ci affezioni tanto, alla tua compagna, che non hai mai pace, pensi sempre a lei: avrà man‐ giato abbastanza? starà ben calda? E se appena appena la tua compagna ti si scosta dal fianco, tu sei bell’e sperduto: stai sempre con quel pensie‐ ro che un falco la porti via, o che gli uomini la acchiappino; e finisce che Quarto libro di lettura 223 anche tu voli a cercarla, e così incappi davvero in qualche disgrazia, o sotto gli artigli d’un falco, o nel laccio d’un cacciatore. Ché se poi la di‐ sgrazia tocca alla tua compagna, allora non ci tieni più neanche te a que‐ sta vita. Non mangi più, non bevi, non fai altro che andare in cerca di lei, e piangere, piangere. Quanti di noialtri perdono così la vita! Tutto il ma‐ le, a questo mondo, non viene dalla fame, viene dall’amore. Disse il serpente: – No, il male non viene dalla fame, e non viene dal‐ l’amore: il male viene dal malanimo. Se noi campassimo in pace, senza arrabbiarci l’uno contro l’altro, tutto ci andrebbe a gonfie vele. Invece, appena qualche cosa non va come tu vorresti, ti riempi di rabbia, tanto che niente più ti attira. Non pensi più che al modo di vendicarti della tua rabbia su qualcun altro, Arrivi al punto che perdi l’intelletto, ribolli tut‐ to, e ti metti a strisciare via in cerca di qualcuno da poter mordere. Nes‐ suno più ti fa pietà: e la rabbia ti accieca talmente, che tu stesso vai in‐ contro alla tua rovina. Tutto il male, a questo mondo, viene dal malani‐ mo. Disse il cervo: – No, non dal malanimo, non dall’amore, non dalla fame viene tutto il male a questo mondo: il male viene dalla paura. Se fosse possibile non aver paura di nulla, tutto andrebbe magnificamente. Le gambe, noi, le abbiamo veloci; di forza ne abbiamo molta. Dalle fiere piccine, bastano le corna a liberarci; da quelle grosse, si fugge. Ma non si riesce a non avere paura. Basta che scricchioli per il bosco un ra‐ metto, o che sfrusci una frasca, subito tu sussulti dalla paura, il cuore ti comincia a palpitare come se volesse balzar fuori, e ti precipiti via di gran corsa, con quanto fiato hai in corpo. Certe volte passa una lepre, frulla un uccello, un ramo secco si spezza, e tu pensi: «Una fiera!» e così corri incontro davvero a qualche fiera. Oppure scappi da un cane, e in‐ cappi in un uomo. Spesso accade che, dal grande spavento, fuggi, fuggi senza sapere dove, e dal troppo impeto finisci per precipitare giù da un dirupo, e t’ammazzi. E perfino quando dormi tieni chiuso un occhio so‐ lo: sempre in ascolto, sempre in timore. Non c’è mai un istante di pace. Tutto il male viene dalla paura. Allora l’eremita disse: — Non dalla fame, non dall’amore, non dal malanimo, non dalla pau‐ ra, vengono tutte le nostre sofferenze: tutto dal nostro corpo viene il ma‐ le di questo mondo. Dal nostro corpo, appunto, vengono sia la fame, sia l’amore, sia il malanimo, sia la paura. 224 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Il galvanismo. (Considerazioni). C’era uno scienziato italiano, Galvani, che aveva una macchina elet‐ trica, e con questa mostrava ai suoi allievi che cos’è l’elettricità. Egli stro‐ picciava energicamente un vetro con un pezzo di seta unta di grasso, e poi applicava sul vetro una punta conica di rame, che vi si poteva inca‐ strare dentro: allora, dal vetro, una scintilla veniva a guizzare nella pun‐ ta di rame. Galvani spiegava agli allievi che una scintilla simile a questa si sprigionava anche dalla ceralacca e dall’ambra. Mostrava come delle piccole piume, o dei pezzettini di carta, certe volte si attraggono fra loro a causa dell’elettricità, altre volte si respingono: e spiegava per quale ra‐ gione avviene così. Faceva molti esperimenti d’ogni genere con l’elettri‐ cità, e mostrava tutto agli allievi. Un giorno la moglie gli s’ammalò. Egli chiamò il dottore e gli chiese in che modo conveniva curarla. Il dottore gli disse di farle una zuppa con le rane. Galvani fece pescare delle rane buone da mangiare. Le rane, pescate e uccise, furono deposte sul suo tavolo. Aspettando che la cuoca venisse a prendere quelle rane, Galvani con‐ tinuava a mostrare agli allievi la sua macchina elettrica, e a provocarne scintille. D’improvviso egli s’avvide che quelle rane morte, lì sul tavolo, con‐ traevano le zampe. Le osservò ben bene, e notò che ogni volta che faceva sprizzare una scintilla dalla macchina elettrica, le rane contraevano le zampe. Allora Galvani raccolse altre rane, e continuò a fare esperimenti su esse. E ogni volta si ripeteva la stessa cosa: appena faceva sprizzare una scintilla, le rane morte, come se fossero vive, incominciavano a muovere le zampe. Questo fatto fece pensare a Galvani che forse le rane vive contraevano le zampe perché in esse passava l’elettricità. Egli sapeva già che l’elettri‐ cità c’era anche nell’aria: sapeva che nella ceralacca, nell’ambra, nel ve‐ tro, essa si manifestava più chiaramente, ma che dovunque era diffusa nell’atmosfera, e che il tuono e il fulmine sono prodotti dall’elettricità atmosferica. E così, volle sperimentare se le rane morte avrebbero mosso le zampe anche per effetto dell’elettricità atmosferica. Per accertarsi di questo, pre‐ se alcune rane, le scorticò, tagliò via le teste e le zampe davanti, e le ap‐ pese con uncini di filo di rame al tetto, sotto la gronda di ferro. Pensava che, quando sarebbe venuto un temporale, e ci sarebbe stata nell’aria Quarto libro di lettura 225 molta elettricità, quei fili di rame avrebbero fatto passare l’elettricità dentro le rane, e queste avrebbero incominciato a muoversi. Accadde però che, parecchie volte di seguito, ci fu il temporale, eppu‐ re le rane non si muovevano. Galvani decise, senz’altro, di toglierle di là: ma, proprio mentre le staccava, fece urtare la zampa d’una rana contro la gronda: e subito la zampa si contrasse. Galvani staccò tutte le rane, e provò a fare in un altro modo: legò a quegli uncini di rame un fil di fer‐ ro, e con questo fil di ferro toccava le zampe delle rane. E le zampe si contraevano ogni volta. Allora Galvani concluse che tutti gli animali erano vivi per una sola ragione: perché in essi c’era l’elettricità. L’elettricità si trasmetteva dal cervello alla carne, e così gli animali si muovevano. A quell’epoca nessuno aveva ancora sperimentato a fondo questa questione, e non se ne sapeva molto: perciò tutti credettero a Galvani. Ma, in quello stesso tempo, un altro scienziato, Volta, fece degli espe‐ rimenti a modo suo, e dimostrò a tutti che Galvani s’era sbagliato. Volta provò a toccare le rane in modo diverso da come aveva fatto Galvani, non già con un uncino di rame legato a un fil di ferro, ma con un filo di rame legato a un uncino di rame, oppure con un fil di ferro legato a un uncino di ferro: e le rane non si muovevano. Le rane si muovevano sol‐ tanto quando Volta le toccava con un fil di ferro legato a un altro di ra‐ me. Volta pensò, quindi, che l’elettricità non stesse nella rana morta, ma stesse nel ferro e nel rame. Fece degli esperimenti, e vide che era appun‐ to così: appena riuniva insieme il ferro e il rame, si formava l’elettricità; ed era questa elettricità che faceva contrarre le zampe alle rane morte. Volta cercò se fosse possibile produrre l’elettricità in qualche altro modo da come s’era fatto fino allora. Fino allora, l’elettricità era stata prodotta strofinando un pezzo di vetro o di ceralacca. Volta, invece, in‐ cominciò a produrla unendo insieme del ferro e del rame. Provò a unire insieme del ferro, del rame e degli altri metalli, e tanto fece che alla fine, con la semplice unione di alcuni metalli, come argento, zinco, stagno, ferro, riuscì a provocare regolarmente scintille elettriche. Dopo Volta, si trovò il modo di rafforzare ancora più l’elettricità ver‐ sando fra un metallo e l’altro varie specie di liquidi: acqua e acidi. Con questi liquidi, l’elettricità divenne ancora più forte, tanto che non ci fu più bisogno di ricorrere a strofinazioni per produrla, come si era fatto fino allora; bastava, ormai, mettere in una tazza alcuni pezzi di metallo, e versarci sopra alcuni liquidi: e subito, in quella tazza, si formava l’elet‐ tricità, e per mezzo d’un filo ne uscivano le scintille. 226 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Quando fu inventato questo modo di formare l’elettricità, se ne fecero molte applicazioni pratiche: s’inventò la doratura e l’argentatura elettri‐ ca, s’inventò la luce elettrica, e s’inventò il modo di trasmettere da un posto all’altro, con l’elettricità, dei segnali a grandi distanze. Per ottenere questo, si pongono dei pezzi di metalli diversi in una specie di bicchierini, nei quali si mescono dei liquidi. Così, dentro i bic‐ chierini, viene a formarsi l’elettricità, e questa elettricità, per mezzo d’un filo, si conduce al luogo che si desidera: poi da quel luogo si conduce il filo a terra. L’elettricità, attraverso la terra, torna indietro fin dove si tro‐ vano i bicchierini, e si solleva da terra fino ad essi lungo un altro filo. In questo modo, fra quei due luoghi, l’elettricità circola seguendo una spe‐ cie di anello: lungo il primo filo scende a terra, e qui torna indietro; poi di nuovo si solleva sul secondo filo, e di nuovo torna a terra. Se, per un filo di ferro, si fa passare l’elettricità, e il filo viene avvolto intorno a un pezzo di ferro, questo ferro si trasforma in calamita, e attira a sé gli altri pezzi di ferro. Il telegrafo si fa così: si fa passare l’elettricità in un filo, e questo filo si avvolge intorno a una spina di ferro. Al di sopra della spina si applica un martelletto di ferro, sospeso in equilibrio. Quando l’elettricità passa per il filo, la spina di ferro, avvolta dal filo, attira a sé il martelletto. Ap‐ pena, all’altra estremità (fosse pure a cento chilometri di distanza), si to‐ glie il contatto ai capi del filo, l’elettricità smette di circolare, e la spina di ferro cessa di essere una calamita, cosicché il martelletto se ne distacca. Quando i capi del filo sono posti di nuovo a contatto, il martelletto torna a essere attirato. In questo modo diviene possibile far battere il martelletto anche da una stazione all’altra. E appunto questi piccoli colpi costituiscono dei segnali prestabiliti. Il contadino e lo spirito del fiume. (Favola). Un contadino fece cadere l’accetta nel fiume. Dal dispiacere, s’acco‐ vacciò sulla riva, e si mise a piangere. Lo sentì lo spirito del fiume: ebbe pietà del contadino, uscì dall’acqua portandogli un’accetta d’oro, e gli disse: — È tua quest’accetta? Il contadino disse: — No, non è la mia. Lo spirito uscì dall’acqua con una seconda accetta, questa volta d’ar‐ gento. Quarto libro di lettura 227 Il contadino disse di nuovo: — Non è l’accetta mia. Allora lo spirito gli portò la sua vera accetta. Il contadino disse: — Questa si ch’è l’accetta mia! Lo spirito regalò al contadino tutt’e tre le accette, perché era stato così veritiero. Tornato a casa, il contadino fece vedere le tre accette agli amici, e rac‐ contò tutto quello che gli era accaduto. Ed ecco che uno di quei contadini pensò di fare la stessa cosa: andò al fiume, buttò giù a bella posta la sua accetta nell’acqua, s’accovacciò sulla riva e si mise a piangere. Lo spirito del fiume venne fuori con l’accetta d’oro, e gli domandò: — È questa la tua accetta? Il contadino, tutto contento, si mise subito a gridare: — E la mia, è la mia! Lo spirito, allora, non solo non gli diede l’accetta d’oro, ma nemmeno quella sua gli rese più, giacché era stato così bugiardo. Il corvo e la volpe. (Favola). Un corvo era riuscito a procurarsi un boccone di carne, e s’appollaiò su un albero. Alla volpe venne voglia di gustare quella carne: s’avvicinò, e gli disse: — Eh, corvo mio, quando io vedo le bellezze che hai, mi pare proprio che tu dovresti essere un re, niente di meno! E un re, senza dubbio, di‐ venteresti, purché avessi la voce adatta. Il corvo spalancò la bocca e urlò a squarciagola. Il boccone di carne cascò a terra. Fu svelta la volpe a ghermirlo, e disse: — Ah, corvo mio, se tu avessi, in più di tutto il resto, anche il cervello fino, saresti per davvero un re coi fiocchi! Prigioniero nel Caucaso. (Racconto d’un ufficiale). I. Era in servizio nel Caucaso, come ufficiale, un possidente di nome Ží‐ lin. 228 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Gli arrivò, un giorno, una lettera da casa. La vecchia madre gli scri‐ veva: «Io, ormai, sono diventata vecchia, e prima di morire ho desiderio di rivedere il mio caro figliuolo. Vieni, che possiamo darci l’ultimo salu‐ to; mettimi sotterra, e poi, con l’aiuto di Dio, torna pure al tuo servizio. Ma sappi che io t’ho trovata anche una fidanzata: è intelligente, è bella, e ha roba. Può darsi che ti piaccia, e che la sposi, e che ti fermi qui defini‐ tivamente». Žílin rifletté: «È proprio vero: è malandata, ormai, la mia vecchietta; chissà che io non abbia a rivederla più. Andiamo: e se poi la fidanzata è bella, potrei anche ammogliarmi». Si presentò al comandante del reggimento, ottenne la licenza, salutò i colleghi, pagò ai suoi soldati quattro secchi d’acquavite in segno d’addio, e si mise in viaggio. Nel Caucaso, a quei tempi, si stava in guerra. Per le strade non c’era transito libero né di giorno né di notte. Non appena qualcuno dei Russi s’allontanava, a cavallo o a piedi, dalla sua fortezza, i Tartari o lo am‐ mazzavano, o lo portavano via tra le montagne. E così, s’era messa la re‐ gola che due volte la settimana, da una fortezza all’altra, andava una scorta di soldati, e in mezzo a questi viaggiava la gente. Si era d’estate. A punta d’alba, i carri si misero in fila sotto la fortezza; uscirono fuori i soldati di scorta, e il convoglio mosse lungo la strada. Ží‐ lin andava a cavallo, mentre il carro con le sue cose veniva dietro col convoglio. La tappa era di venticinque miglia. Il convoglio procedeva lento: ora i soldati fanno sosta, ora a uno dei carri salta via una ruota, o un cavallo s’impunta, e allora tutti quanti fermi ad aspettare. Il sole aveva già passato il colmo del cielo, e il convoglio aveva per‐ corso soltanto la metà della strada. Polvere, afa; il sole cuoceva: e nessun luogo da ripararsi. Tutta steppa nuda; non un alberello, non un cespu‐ glio lungo la strada. S’era spinto innanzi, Žílin, a cavallo: si fermò, e aspettava che il con‐ voglio sopravvenisse. Sentì a un tratto, di là dietro, il suono del corno: segno che, ancora una volta, s’erano fermati. Žílin allora pensò: «E se me ne partissi solo solo, senza scorta?. Ho sotto un buon cavallo: seppure incappassi nei Tartari, riuscirò a svignarmela. O sarà meglio non anda‐ re...?» Stava lì fermo, incerto fra le due. Ed ecco che gli s’accosta, a cavallo, un altro ufficiale, Kostýlin, con tanto di fucile, e gli dice: — Andiamocene, Žílin, da soli. Non ne posso più: tra la fame, e que‐ sto caldo... La camicia che ho indosso mi si può strizzare! Quarto libro di lettura 229 Era infatti, quel Kostýlin, un uomo greve, grosso: rosso affocato, grondava di sudore. Žílin rifletté un momento, e disse: — Il fucile, lo hai carico? — Carico. — Bah, dunque andiamo. Un patto, però: non discostarci mai. E così, s’avviarono innanzi lungo la strada. Cavalcano per quella steppa, scambiano qualche parola ogni tanto, e allungano qualche oc‐ chiata di qua e di là. Giro giro, è tutto aperto alla vista. Ma come venne a terminare la steppa, la strada si diresse fra due montagne, verso una gola. Disse Žílin: — Bisogna che col cavallo saliamo in alto, a scoprir paese: altrimenti, come nulla, ci saltano fuori da questi monti senza che noi ce ne accor‐ giamo. Rispose Kostýlin: — Cosa vuoi guardare? Tiriamo innanzi. Žílin non gli diede retta. — No, — dice, — tu aspettami quaggiú: quanto do un’occhiata —. E spinse il cavallo a sinistra, verso l’alto. Quello che Žílin aveva sotto, era un cavallo di lusso (lo aveva pagato cento rubli quand’era ancora alla mandria, puledrino, e se lo era adde‐ strato da sé): come sull’ali lo trasportò su per l’erta. Quando si fu allon‐ tanato un po’, guarda, e proprio là dinanzi a loro, a un paio di cento me‐ tri, vede fermi dei Tartari a cavallo, una trentina d’uomini. Appena li avvistò, diede indietro, ma anche i Tartari lo avevano avvistato, si slan‐ ciarono verso di lui, e intanto che galoppano, sfilano su dalle fonde i fu‐ cili. Žílin s’avventò giù dall’erta pancia a terra; grida a Kostýlin: — Tira fuori il fucile! — e dice tra sé, al cavallo: «Amore mio, cavami di qui, non imbrogliarti coi piedi: se incespichi, son perduto. Se posso arrivare fin là al fucile, non mi arrenderò a costoro!» Kostýlin però, invece d’aspettarlo, come vide i Tartari, via di gran corsa verso la fortezza. Col frustino flagella il cavallo ora da un fianco, ora dall’altro. Tra il polverone si distingue soltanto il dimeno di quella coda. Žílin vede che le cose vanno male. Il fucile se n’è andato; con la sola sciabola, non c’è nulla da fare. Slanciò il cavallo indietro, verso i soldati, credendo di riuscire a sfuggire: quand’ecco, a tagliargli la strada, ne vengono sei di galoppo. Lui ha sotto un buon cavallo, ma quelli ne han‐ no d’ancora più buoni, eppoi son diretti in quel senso di tagliargli la strada. Incominciò a scorciar l’angolo, fece per tornare indietro, ma or‐ mai il cavallo s’era sfrenato, non si regge più, vola diritto là incontro a 230 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura quelli. Ecco: gli s’avvicina, con la barba tinta di rosso, un Tartaro su un cavallo grigio. Stride, digrigna i denti, ha il fucile imbracciato. «Ah, — pensa Žílin, — vi conosco, demoni: se mi prendono vivo, mi ficcano dentro una fossa, mi tempestano di nerbate. Vivo, non mi arren‐ derò...» E veramente, benché non fosse grande di statura, Žílin era coraggio‐ so. Sfoderò la sciabola, spinse il cavallo proprio alla volta del Tartaro rosso, e dice tra sé: «O col cavallo me lo schiaccio sotto, o lo butto giù a sciabolate». Lo spazio fino all’altro cavallo non era stato percorso da Žílin, che gli furono sparate addosso, di schiena, parecchie fucilate, e restò colpito il cavallo suo. Stramazzò a terra in piena corsa la bestia, e si rovesciò sulla gamba a Žílin. Lui fece per rialzarsi, ma già due di quei Tartari maledetti gli stanno sopra, gli legano dietro la schiena le braccia. Si divincolò, si scrollò di dosso i Tartari: ma ne balzarono giù di cavallo altri tre, e incominciarono a picchiarlo coi calci dei fucili sulla testa. Gli s’annebbiarono gli occhi, e barcollò. Allora i Tartari lo afferrarono, staccarono dalle selle i sottopan‐ cia di riserva, gli legarono strette le braccia dietro la schiena, gliele assi‐ curarono coi loro nodi alla tartara, lo trascinarono a ridosso d’una sella. Il berretto gli fu strappato di testa, gli stivaloni tratti via dai piedi; lo rovistarono tutto, danaro, orologio gli vennero tolti, tutti gl’indumenti lacerati. Girò lo sguardo, Žílin, al suo cavallo. Quello, poverino, com’era caduto sul fianco, così era rimasto disteso: non faceva che annaspar con le zampe, senz’arrivare a toccar terra; in testa aveva un buco, e da quel buco gli fischiava fuori un sangue nero: per un raggio di quasi un metro la polvere se n’era inzuppata. Uno dei Tartari s’avvicinò al cavallo, e si fece a toglier la sella. Sicco‐ me quello continuava ad annaspare, l’uomo estrasse il pugnale, e gli se‐ gò la gola. Si sentí fischiare lì di dentro alla gola uno scossone; e il caval‐ lo diede l’ultimo fiato. Tolsero via, i Tartari, sella e finimenti. Montò a cavallo il Tartaro dalla barba rossa, e gli altri accomodarono Žílin dietro a lui, contro la sella. Affinché, poi, non cadesse, lo strinsero, con corregge alla vita, a ridos‐ so del Tartaro: e così lo portarono fra le montagne. Se ne sta lì seduto, Žílin, alla spalle del Tartaro, dondolando di qua e di là, dando di picchio col viso in quella schiena di tartaro maledetta. Non vede nulla, dinanzi a sé, fuorché quella robusta schiena di tarta‐ ro, e quel collo muscoloso, e quella nuca rasata che di sotto al berretto ha un color turchiniccio. Žílin ha la testa fracassata; il sangue gli s’è coagu‐ Quarto libro di lettura 231 lato sotto gli occhi. E non gli è possibile né rassestarsi sul cavallo, né ter‐ gersi il sangue. Le braccia gli stanno legate così strette, che si sente rom‐ pere le clavicole. Cavalcarono a lungo da montagna a montagna, traversarono a guado un fiume, sboccarono su una strada, e seguirono un fondovalle. Avrebbe voluto, Žílin, prender nota della strada dove lo portavano: ma gli occhi, li aveva intorbidati di sangue, e rigirarsi, non gli era possi‐ bile. Incominciava a imbrunire. Traversarono ancora un fiumicello: poi a mano a mano presero altezza su su per una montagna pietrosa, si sentí un odore di fumo, giunse un abbaiar di cani. Erano arrivati all’aúl146. I Tartari smontarono da cavallo; s’affollarono i piccoli tartari del villaggio, circondarono Žílin, squittivano, facevano festa, incominciarono, coi sassi, a prenderlo di mira. Il Tartaro scacciò i ragazzi, tolse Žílin da cavallo, e chiamò un suo garzone. Venne qua uno di quelli del Nogàj, grosso di zigomi, in camicia e nient’altro: la camicia tutta strappata, il petto scoperto. Il Tartaro gli comandò qualche cosa. Quello tornò portando i ceppi: un paio di toppi di quercia attaccati ad anelli di ferro, e in uno degli anelli, tanto di naset‐ to e di serratura. Sciolsero a Žílin le braccia, gli misero i ceppi, e lo condussero a una rimessa: con uno spintone lo cacciarono dentro, e richiusero la porta. Ží‐ lin cadde sul letame. Rimase per un po’ così disteso, poi tastoni, fra il buio, cercò dove fosse un po’ più morbido, e lì si coricò. II. Per tutta quella notte, Žílin quasi non dormí. Le nottate erano corte. Ecco, da una fessura, che incomincia a far giorno. Žílin si tirò su, al‐ largò un pochino la fessura, e affacciò l’occhio. Gli si scopre, da quella fessura, la strada: va in discesa, e sulla destra c’è una casupola tartara, con due alberi accanto. Un cane nero sta acco‐ vacciato sulla soglia; passa una capra coi capretti, che sbattono le codine. Poi ecco: da valle viene su una Tartara ancor giovanissima, con la camicia forata, discinta, in calzoni alla zuava e stivaloni, la testa coperta con un caffettano, e sulla testa una gran brocca di stagno piena d’acqua. Villaggio tartaro [N. d. A. ]. 146 232 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Viene su, con la schiena oscillante, flessuosa, e per mano tiene intanto un tartaruccio rapato, con la sola carnicina indosso. Entrò la giovane con l’acqua là nella casupola, e ne uscí il Tartaro di iersera, quello rosso di barba, in bešmèt di seta, a cintola un pugnale d’argento, gli scarpini ai piedi nudi. In testa, un berrettone alto, di pelle d’agnello, nero, acciacca‐ to all’indietro. Esce fuori, si stiracchia, s’alliscia la sua barba rossa. Stette un po’ lì, comandò qualche cosa al garzone, e se n’andò pei fatti suoi. Vennero quindi a passare, a cavallo, due ragazzi di ritorno dall’abbe‐ veratoio. I cavalli avevano le froge bagnate. E sbucarono fuori, ancora, dei bambini rapati, con indosso le camicine sole, senza calzoni: s’attrup‐ parono in molti, s’accostarono qua alla rimessa, pigliarono una bacchet‐ tina e la ficcarono dentro alla fessura. Žílin fece loro uh: ruppero in strilli i ragazzetti, si precipitarono a correr via, che si vedevan soltanto i ginoc‐ chietti nudi lustrare. Ma a Žílin, intanto, è venuta sete, ha la gola secca: se almeno, pensa, venissero a veder di lui. Ascolta: stanno aprendo la rimessa. Era il Tarta‐ ro rosso, e insieme un altro, più piccolo di statura, piuttosto moretto: oc‐ chi neri, lucenti, bell’incarnato, barba piccola, tagliata corta: una faccia allegra, sempre al riso. È vestito, il moretto, ancora meglio dell’altro: un bešmèt di seta, turchino, con un galloncino che ci corre torno torno; un pugnale, a cintola, grande, d’argento; scarpini rossi, di marocchino, ri‐ camati pure d’argento. E su quei sottilissimi scarpini ne porta un altro paio, massicci. Il copricapo ben alto, di agnello bianco. Entrò il Tartaro rosso, pronunciò alcune parole, come se insultasse, e ristette lì: appoggiato allo stipite della porta, s’andava gingillando col pugnale, e come un lupo, di sbieco, sogguardava verso Žílin. Il moretto, invece — rapido, vivace, da parer che si movesse tutto a forza di molle — s’accostò senz’altro qua a Žílin, s’accoccolò con le gambe in croce, fa biancicare i denti, gli batte sulla spalla. E incominciò fitto fitto a cianciu‐ gliare a modo suo, ammiccando con gli occhi, facendo schioccar la lin‐ gua, ripetendo ogni momento: — Bono,urús! bono, urús147! Non ci capiva, niente Žílin, e diceva: — Da bere, datemi dell’acqua da bere. Il moretto ride. — Bono, urús — e continua a cianciugliare a modo suo. Allora Žílin con le labbra e con le mani fece segno che gli dessero da bere. Buono, russo! 147 Quarto libro di lettura 233 Il moretto intese: fece una risata, sbirciò fuor della porta, e chiamò: — Dina! Accorse una ragazzetta, snella snella, magrolina, che avrà avuto tre‐ dici anni, e che di viso somigliava al moretto. Si vedeva ch’era sua figlia. Anche lei, due occhi neri, lucenti, e bei tratti di viso. Aveva indosso una camicia lunga, azzurra, larga di maniche e senza cinta. All’orlo in basso, sul petto, e alle maniche, c’era una filettatura rossa. Ai piedi, cal‐ zoni alla zuava e scarpini, e sopra agli scarpini un altro paio, con alti tac‐ chi; al collo, una collana tutta di monete russe da mezzo rublo d’argento. La testa scoperta, la treccia nera, fra la treccia un nastro: e, pendenti dal nastro, rondelle metalliche e un rublo d’argento. Il padre le ordinò qualche cosa. Quella corse via e fu di ritorno, por‐ tando una brocchetta di stagno. Porse qua l’acqua, e si accoccolò con le gambe in croce; si rannicchiò tutta così, tanto che le spalle le scesero più basse dei ginocchi. Sta lì ferma, con tanto d’occhi spalancati, e guarda Ží‐ lin che beve, come fosse chissà che bestia feroce. Žílin le porse di rimando la brocca. Lei, indietro d’un balzo, che nep‐ pure una capra selvatica. Perfino il padre si mise a ridere. Poi le ordinò qualche altra cosa. Essa prese la brocca, corse via, portò qua del pane az‐ zimo su un’assicella tonda, e di nuovo s’accoccolò, si rannicchiò tutta, con gli occhi intenti a guardare. Se ne riandarono i Tartari, chiusero di nuovo la porta. Passato un po’ di tempo, vien qua da Žílin quel garzone del Nogàj, e gli dice: — Ajda! padrone, aj‐da! Non sapeva neanche lui il russo. Tutto quello che Žílin capì, fu che gli ordinava di andare in qualche posto. S’avviò, Žílin, coi suoi ceppi: zoppicava, non riusciva a camminare, ad ogni passo torceva il piede in fuori. Uscí per la strada dietro al garzo‐ ne. Ecco, intorno a lui, il villaggio tartaro: una diecina di case, e una chiesa delle loro, con quella torricella. Presso una delle case stanno tre cavalli sellati: dei ragazzetti li tengono a cavezza. Sbucò fuori, proprio da quella casa, il Tartaro moretto, e accennò con la mano che là da lui andasse Žílin. Intanto ride, dice sempre di quelle cose a modo suo, e tor‐ na dentro. Finalmente Žílin arrivò alla casa. Una bella stanza rialzata da terra; al‐ le pareti, un intonaco d’argilla ben levigato. Lungo la parete di fronte, cuscini variopinti sono disposti sul piancito; ai lati, pendono tappeti di pregio; sui tappeti, fucili, pistole, sciabole, tutta roba damaschinata in argento. A una delle pareti, una stufa piccoletta, a livello del piancito. Il piancito è di terra battuta, pulito come un’aia, e tutto lo spazio lungo la 234 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura parete di fronte è ricoperto di stuoie di feltro: sul feltro, tappeti, e sui tappeti, i cuscini di piuma. E là su quei tappeti, con gli scarpini soli ai piedi, siedono parecchi Tartari: il moretto, il rosso, e tre ospiti. Dietro la schiena hanno tutti di quei cuscini di piuma acconciati a sostegno, e di‐ nanzi, su un tondo di legno, focaccine azzime e burro sciolto in una cio‐ tola, e birra tartara — la buzà — in una brocchettina. Mangiano con le mani, e hanno le mani tutte burrose. Corse qua il moretto, ordinò che Žílin fosse fatto accomodare un po’ in disparte, non sui tappeti, ma sul piancito nudo, poi se ne tornò là sui tappeti, e riprese a offrire agli ospiti focaccine e buzà. Pensò il garzone a sistemare Žílin al posto suo; per proprio conto, si tolse le scarpe di sopra, le pose accanto alla porta in fila con l’altre che già ci stavano, e si sedette su un feltro a poca distanza dai padroni: guardava come mangiavano, e risucchiava dentro la saliva. Quando i Tartari ebbero mangiato le focac‐ cine, entrò una donna con la camicia uguale a quella della ragazzetta, e anche lei in calzoni alla zuava: la testa, la aveva coperta da un fazzoletto. Sparecchiò il burro, le focaccine, e portò una bacinella buona, con una brocca di becco stretto. I Tartari si fecero a lavarsi le mani; poi giunsero le mani palmo contro palmo, si misero in ginocchio, soffiarono in tutte le direzioni, e recitarono le preghiere. Quand’ebbero discorso un po’ nella loro lingua, un Tartaro di quei tre ch’erano ospiti si rivolse a Žílin, e in‐ cominciò a parlargli in russo. – Tu, – gli disse, – sei stato preso da Kazi– Muhamed, – e indicava quel Tartaro rosso, – e lui ti ha venduto a Abdul– Murat, – e indicava il moretto. – Abdul– Murat, adesso, è il tuo padrone. Žílin non aprì bocca. Intervenne, allora, Abdul– Murat, e di continuo faceva cenno a Žílin, e rideva, e ripeteva: – Soldato urús, bono urús. L’interprete riferì: – Egli ti ordina di scrivere a casa una lettera, perché spediscano il prezzo del tuo riscatto. Non appena arriveranno i danari, ti lascerà libero. .. Žílin rifletté, poi disse: – E vuole molto, per il riscatto? Discorsero fra loro i Tartari, e l’interprete riferì: — Tremila monete148. — No, – dice Žílin, – io, questo, non posso pagarlo. Saltò su Abdul, si mise a gesticolare, a parlar con Žílin, sempre cre‐ dendo che quest’ultimo lo intendesse. L’interprete tradusse, dicendo: – E tu, quanto daresti? Per rubli. 148 Quarto libro di lettura 235 Žílin rifletté un momento, e disse: – Cinquecento rubli. Qui i Tartari attaccarono a discorrere fitto, tutti in una volta. Abdul aggredì il rosso a voce alta, e tanto cianciugliò che la saliva gli sprizzava di bocca. Ma il rosso, da parte sua, non faceva che aggrottare gli occhi e schioccar la lingua. S’azzittirono finalmente: e allora l’interprete disse: — Al padrone par poco, un riscatto di cinquecento rubli. Per te, di ta‐ sca sua, ne ha già versati duecento. Kazi–Muhamed gli era debitore. Egli ti ha preso a sconto del debito. Tremila rubli: per meno, non ti può la‐ sciare. E se poi tu non vuoi scrivere, sarai ficcato dentro una fossa, e pu‐ nito con la frusta. «Eh, – pensa Žílin, – con costoro, più ti mostri intimorito, peggio è!» Si drizza in piedi, e risponde: — E tu digli, a questo cane, che se vuol farmi paura, neppure un cen‐ tesimo gli darò, e non scriverò per niente. Non ho avuto mai paura, e mai l’avrò, di voialtri, cani! Tradusse l’interprete, e di nuovo quelli tornarono a discorrere tutti insieme. Per un pezzo cianciugliarono così; poi saltò su il moro, e venne ad ac‐ costarsi a Žílin. — Urús, – dice, – džighít, džighít urús! Džighít, nella loro lingua, significa «valoroso». E intanto ride, e dice qualcosa all’interprete, e l’interprete spiega: – Darai mille rubli. Žílin tenne il punto: – Più di cinquecento rubli, non darò. E se poi mi ammazzerete, allora non piglierete un bel nulla. Si consultarono i Tartari, mandarono il garzone in qualche posto, e in‐ tanto allungavano occhiate ora a Žílin, ora alla porta. Fu di ritorno il garzone, e lo seguiva un uomo (chissà chi era), grosso, scalzo, lacero, an‐ che lui coi ceppi al piede. Restò a bocca aperta Žílin: aveva riconosciuto Kostýlin: era stato cat‐ turato anche lui. Li fecero sedere uno a fianco dell’altro; essi incomincia‐ rono a raccontarsi a vicenda: e i Tartari, zitti zitti, li osservavano. Rac‐ contò, Žílin, come gli erano andate le cose; Kostýlin raccontò che il caval‐ lo gli s’era fermato sotto, e il fucile gli aveva fatto cilecca: e appunto quell’Abdul lì presente lo aveva raggiunto e catturato. Saltò su Abdul, accenna a Kostýlin, dice qualcosa. L’interprete tra‐ dusse che loro, adesso, sono tutt’e due d’un padrone, e chi per primo a‐ vrebbe dato il riscatto, per primo sarebbe stato liberato. – Ecco, – diceva a Žílin, – tu sempre vai in collera, mentre il compa‐ gno tuo è così manso: lui l’ha scritta, la lettera a casa, e gli manderanno 236 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura cinquemila monete. Così, a lui, si darà da mangiar bene, e non gli sarà torto un capello. Žílin risponde: — Il mio compagno può far come vuole: lui, forse, è ricco, ma io non sono ricco. Io, – dice, – come ho detto, così sarà. Se volete, ammazzatemi: poco guadagno ne avrete; ma per più di cinquecento rubli, non scriverò. Rimasero un momento in silenzio. D’improvviso, Abdul saltò su, ca‐ vò fuori un bauletto, ne trasse una penna, un pezzetto di carta e un ca‐ lamaio, li diede a Žílin, gli batté sulla spalla, gli fece segno: – Scrivi –. S’era accontentato di cinquecento rubli. – Aspetta, ancora! – dice Žílin all’interprete. – Bada di dirgli che ci dia da mangiar bene, ci vesta e ci calzi come si deve, e che ci tenga insieme: si starà un po’ più allegri; eppoi, che ci tolga i ceppi! – Guarda al padro‐ ne, intanto, e ride. Ride anche il padrone. Dopo aver sentito l’interprete, quello risponde: – Li vestirò come meglio non si può: giubba circassa e stivaloni, roba da sposi. Mangiare, li farò come principi. E se proprio vogliono star in‐ sieme, stiano lì nella rimessa. Ma i ceppi, non gli si possono togliere: scapperebbero. Soltanto la notte glieli farò togliere —. Balzò qua, gli bat‐ té sulla spalla: — Bono tuo, bono mio! Žílin scrisse la lettera, ma sopra la lettera ci scrisse sbagliato, apposta perché non arrivasse. E tra sé pensava: «Scapperò». Furono condotti tutt’e due, Žílin e Kostýlin, alla rimessa, e là fu porta‐ ta loro della foglia secca di granturco, dell’acqua in uria brocca, del pa‐ ne, due vecchie giubbe circasse, e certi stivali sdruciti da soldato. Dove‐ vano averli sfilati dai piedi a soldati morti. Tolsero loro i ceppi per la notte, e li chiusero dentro alla rimessa. III. Vissero a questo modo, Žílin e il suo compagno, per un mese intero. Il padrone rideva sempre: — Bono tuo, Ivàn, bono mio, Abdul —. Ma intanto, li nutriva male: non dava a mangiare nient’altro che pane azzimo di fa‐ rina di miglio, cotto in forma di focaccine, e a volte addirittura quella pasta senza cuocere. Kostýlin scrisse un’altra volta a casa; aspettava sempre che arrivasse‐ ro i danari, e s’annoiava. Le giornate intere stava lì accucciato nella ri‐ messa, a calcolare i giorni che mancavano all’arrivo della lettera, o a Quarto libro di lettura 237 dormire. Žílin, invece, sapeva che la sua lettera non sarebbe andata a de‐ stinazione: ma un’altra, non ne scriveva. «Come farebbe la mamma, — pensava, — a trovar tanti danari, da sborsare per me! Essa, per vivere, avrà dovuto spendere più di quanto io le ho mandato. Se ora dovesse raccapezzare cinquecento rubli, sarebbe costretta a rovinarsi completamente. A Dio piacendo, anche da solo me la caverò». E, da parte sua, sta sempre a osservare, a studiar le occasioni, come potrebbe fare a fuggire. Va in giro pel villaggio, fischiettando; oppure, se resta fermo, fa qualche lavoretto manuale: ora, con l’argilla, modella qualche fantoccio, ora intreccia qualche canestro di verga. Infatti, per qualsiasi lavoro manuale, Žílin era maestro. Una volta, modellò un fantoccio con tanto di naso, di braccia e di gambe, vestito d’una camicia alla tartara, e pose questo fantoccio sopra un tetto. Passarono le Tartare che andavano per acqua. La figlia del padrone, la piccola Dina, s’avvide del fantoccio, chiamò le altre ragazzette. De‐ pongono le brocche, guardano, ridono. Žílin tirò giù il fantoccio, e glielo offre. Quelle ridono, ma non ardiscono prenderlo. Lui lasciò là il fantoc‐ cio, se n’andò alla rimessa, e stette a guardare che cosa avrebbero fatto. Di corsa, s’accostò là Dina, si diede un’occhiata intorno, afferrò il fan‐ toccio e, sempre di corsa, s’allontanò. La mattina dopo, guarda: appena giorno, Dina è uscita sulla soglia di casa col suo fantoccio. Lo ha già parato con dei brindelli di stoffa rossa, e lo culla come un bambino, cantandogli a modo suo la ninnananna. S’af‐ facciò una vecchia, si mise a rimproverarla, le strappo’ il fantoccio, lo ruppe in cento pezzi, e mandò via Dina al lavoro. Allora Žílin fece un altro fantoccio ancora più bello, e lo regalò a Di‐ na. Venne qua Dina, un giorno, a portargli la brocca; la posò in terra, s’accoccolò, e lo guardava, lo guardava: rideva, intanto, e gli accennava alla brocca. «Di che cosa si rallegra tanto?» pensa Žílin. Piglia la brocca e si mette a bere. Pensava che fosse acqua, e invece era latte. Bevve giù quel latte e disse: — Buono! — Allora si che Dina si rallegrò davvero. — Buono, Ivàn, buono! — e balzò su, batté le palme delle mani, gli strappo’ la brocca, e via di corsa. Da quella volta, cominciò a portargli tutti i giorni, di nascosto, un po’ di latte. Se poi i Tartari facevano, col latte di capra cagliato, delle focac‐ cine, e le seccavano sul tetto, subito lei veniva qua a portare a lui, di soppiatto, queste focaccine. Così pure, quando il padrone ammazzò un 238 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura agnello, subito lei gli portò un pezzetto di quella carne d’agnello dentro la manica. Getta qua, e fugge via. Ci fu, un giorno, un temporale forte, e la pioggia, per un’ora di segui‐ to, cadde a dirotto. Gonfiarono tutti i torrenti, e dove per solito si gua‐ dava, in quei punti l’acqua era cresciuta fino a più di due metri, e rotola‐ va giù i macigni. Dappertutto colava acqua a ruscelli; il rombo stava so‐ speso fra i monti. Passato il temporale, per tutto il villaggio i ruscelli continuavano a correre. Žílin chiese al padrone un coltelluccio, ci lavorò un piccolo asse girevole, delle tavolettine, c’imperniò una ruota, e alla ruota, ai due mozzi, ci adattò due fantoccini. Gli fu portato dalle ragazzette qualche brincello di stoffa, e lui ci vestì i fantoccini: uno da uomo, l’altro da donna; li assicurò al loro posto, e collocò la ruota in un ruscello. La ruota gira, e i fantoccini ballano. Si radunò tutto il villaggio: maschietti, femminelle, donne grandi; perfino gli uomini vennero lì, e facevano schioccar la lingua: — Aj, urús! Aj, Ivàn! Possedeva, Abdul, un orologio russo sconquassato. Mandò i chiama‐ re Žílin: glielo mostra, fa schioccar la lingua. Žílin gli dice: — Da’ qua, te l’accomodo io. Pigliò, lo smontò con un coltelluccio, lo esaminò ben bene: lo rimise su, glielo restituì. L’orologio camminava. Fu tutto contento, il padrone: gli portò qua un bešmèt dei suoi, vec‐ chio, tutto a brindelli, e glielo regalò. C’era poco da fare: lo accettò; già anche quello veniva buono per coprirsi la notte. Da quel momento, si diffuse la voce che Žílin era un mastro di quelli fini. Incominciarono fin dai villaggi lontani a venir qua, con le cavalcatu‐ re: chi gli portava una piastra di fucile o una pistola da raccomodare, chi un orologio. Il padrone gli aveva procurato gli arnesi: tenaglie e trivella e limetta. Una volta che un Tartaro cadde ammalato, ricorsero qua a Žílin: – Vieni tu a curarlo –.Žílin non ne sapeva nulla, di come si cura la gen‐ te. Andò, diede un’occhiata, e pensa: «Speriamo che guarirà da sé». Si ritirò nella rimessa, prese dell’acqua, della sabbia, e le mischiò. Poi là al‐ la presenza dei Tartari bisbigliò qualche cosa sull’acqua, e la diede a be‐ re. Guarì completamente, per sua buona fortuna, quel Tartaro... Ormai, Žílin aveva imparato, alla meglio, a intendere la loro lingua. E anche al‐ cuni dei Tartari avevano fatto l’abitudine a lui, e quando ne avevan bi‐ sogno, lo chiamavano: – Ivàn, Ivàn! – Ma ce n’erano altri, pur sempre, che lo sbirciavano di traverso, come una fiera. Quarto libro di lettura 239 Il Tartaro rosso, per esempio, non aveva simpatia per Žílin. Come lo vede, aggrotta gli occhi e si gira di là, o magari gli manda qualche im‐ properio. C’era poi, lì da loro, un vecchio, che non abitava dentro al vil‐ laggio, ma veniva su da valle. Žílin lo vedeva soltanto quando veniva alla moschea a pregare Iddio. Di statura era piccolo; sul suo copricapo c’era un asciugatoio bianco avvoltolato; barbetta e baffi tagliati a garbo, candidi come piuma; la faccia, invece, rugosa e rossa come un mattone. Il naso a becco come quello d’un falco, gli occhi grigi, cattivi, denti niente: due canini soli. Eccolo che passa, ogni tanto, col suo turbante in testa, appoggiandosi a una stampella, guatandosi intorno come un lupo. Appena avvista Žílin, si mette a sbuffare e si gira di là. Scese una volta, Žílin, verso la valle, a guardare dove abitasse il vec‐ chio. Andò giù giù per la viottola finché vide un orticello, col recinto di pietre: di là dal recinto, viscioli, susini, e una casupola piatta. Si fece più accosto: vede là delle arnie di paglia intrecciata, con l’api che volano e ronzano intorno. E il vecchio se ne sta li inginocchiato, che s’arrovella a far qualche cosa accanto a una dell’arnie. Žílin s’era alzato un po’ più sulla punta dei piedi, per guardar meglio: e sferragliò coi ceppi. Il vec‐ chio girò in qua un’occhiata, e lanciò uno strido: si sfilò dalla cintura la pistola, e fece fuoco su Žílin. Lui fece giusto in tempo a ripararsi dietro una pietra. Il vecchio si presentò dal padrone a far le sue lamentele. Il padrone chiamò Žílin: ride, al solito suo, e gli domanda: – Che sei andato a fare, tu, dal vecchio? — Io, – dice lui, – del male non gliene ho fatto. Volevo dar un’occhiata come sta sistemato –. E così tradusse il padrone. Ma il vec‐ chio si stizzisce, ribolle tutto, smozzica qualche parola, digrigna i suoi canini, gesticola contro Žílin. Žílin non comprese ogni cosa: comprese, soltanto, che il vecchio co‐ mandava al padrone d’ammazzare i Russi, anziché tenerli al villaggio. Poi il vecchio se n’andò. Allora Žílin domandò al padrone: chi era, quel vecchio? E il padrone gli dice: — Quello è un pezzo grosso! È stato un guerriero dei primi, ne ha uc‐ cisi tanti dei Russi, aveva grandi ricchezze. Aveva tre mogli e otto fi‐ gli. Abitavano tutti nello stesso villaggio. Arrivarono i Russi, distrussero il villaggio, e gli uccisero sette dei figli. Un figlio solo gli rimase, e passò dalla parte dei Russi. Il vecchio andò, e anche lui passò ai Russi. Stette con loro tre mesi, finché trovò, là, il suo figliuolo, di propria mano lo uc‐ 240 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura cise, e fuggì. Da quel giorno, ha smesso di combattere: è andato alla Mecca, e prega il Signore. Apposta, in capo, ha quel turbante. Chi è stato alla Mecca, prende il nome di Chagi, e porta il turbante. Non vi ha in simpatia, voialtri Russi. Lui comanderebbe di ucciderti; ma io non ti posso mica uccidere: io, per te, ho sborsato tanto di quattrini; eppoi, I‐ vàn, mi ti sono affezionato: altro che ucciderti, non ti lascerei neppur ri‐ partire, se non avessi dato la parola... – Fà una risata, e ripete, in russo, quel suo ritornello: – tuo buono, Ivàn, mio buono, Abdul! IV. Passò a questo modo, Žílin, una mesata. Di giorno va in giro per il villaggio, o fa qualche lavoruccio; citando poi viene la notte, e pel villag‐ gio non si sente più gente, allora lui, nella sua rimessa, bada a scavare. Era difficile scavare per via delle pietre, ma lui, le pietre, le consuma‐ va con la lima, e tanto fece che riuscì a scavare, lì sotto al muro, una buca da passarci giusto giusto, «Purché io, — pensava, — potessi conoscere i luoghi per benino, da saper da che parte devo pigliare. Già, i Tartari, non c’è caso che ti dicano niente». Ed ecco che scelse un momento che il padrone, a cavallo, era uscito: e se n’andò, di pomeriggio, fuor del villaggio, verso monte: voleva, di las‐ sù, scoprir paese. Quando, però, il padrone era partito, aveva raccoman‐ dato al figliolino di star appresso a Žílin, di non perderlo d’occhio. Corse dunque, il ragazzetto, appresso a Žílin, gridando: — Non t’allontanare! Il babbo ha lasciato detto di no. Or ora chiamo gente! Žílin cercò di persuaderlo. — Io, — gli fa, — lontano non ci vo: arrivo soltanto su quell’altura: c’è un’erba che mi bisogna di trovare, per curar appunto voi del villaggio. Vieni anche tu con me: con questo po’ po’ di ceppi, vedrai che non scappo. E a te, domani, farò un arco e le frecce. Riuscì a persuadere il ragazzo, e s’avviarono. A guardarla, quell’altu‐ ra, non era lontana, ma, con questi ceppi, era fatica: cammina, cammina, fin tanto che, sulle forze, ne venne a capo. S’accucciò a terra Žílin, e si mise a osservare i luoghi. Verso mezzogiorno, di là da certe tettoie, un fondovalle, un branco di cavalli che ci traversa, e un villaggio sconosciu‐ to, che spunta da un incavo del terreno. Da quel villaggio, incomincia un’altra montagna, ancor più ripida di questa, e dietro a quella monta‐ gna, un’altra ancora. Tra mezzo alle due montagne, si vede un turchino, Quarto libro di lettura 241 e laggiú, nuove montagne, che s’alzano sempre più in alto, più in alto. E più in alto di tutte, bianche come di zucchero, ci sono le montagne sotto neve. Isolata, una montagna nevosa, più alta dell’altre, sta là come un cappello. Verso levante e verso ponente, montagne, sempre montagne; qua e là, qualche villaggio di Tartari fuma di dentro alle gole. «Ah, — dice fra sé, — anche questo, è tutto territorio loro». Allora si mise a guardare verso il territorio russo. Ecco, qua sotto ai piedi, il fiumicello, il villaggio suo, gli orticelli attorno. Sul fiumicello, come fantoccini minuscoli, si vedono delle donne ferme a riva, che lava‐ no i panni. Oltre il villaggio, più a valle, una montagna, e di là da questa, due altre montagne, coperte di bosco; ma, tra mezzo a quelle due mon‐ tagne, s’intravede, turchiniccia, una pianura: e nella pianura, lontano lontano, pare che un fumo rampichi su. Žílin cercò di rammentarsi, da quando: era di residenza alla fortezza, dove sorgesse il sole e dove tra‐ montasse. Si, vede proprio che è così: appunto in quella bassura dev’es‐ serci la fortezza nostra. E laggiù, tra mezzo a quelle due montagne, biso‐ gna fuggire. Il sole incominciava a calare. Le montagne nevose, di bianche che e‐ rano, incominciavano a farsi carnicine; dove le montagne erano nere, imbruniva: dai fondovalli il fumo saliva più alto, e perfino quella bassu‐ ra, dove doveva essere la nostra fortezza, venne ad accendersi come di fuoco alla luce del tramonto. Žílin aguzzò l’occhio: balugina un non so che in quella bassura, come un fumo di camini. E gli s’affaccia il pensie‐ ro che quella, per l’appunto, sia la fortezza russa. Ormai, s’era fatto tardi. Si sentiva fin qua il mullà che mandava il suo grido. Ecco il bestiame che torna dal pascolo: le vacche mugliano. Il ra‐ gazzo continua a richiamarlo: — Su, andiamo —; ma a Žílin non va ne‐ anche di muoversi di lì . Tornarono a casa. «Suvvia, — vien pensando Žílin, — ora i luoghi li so: bisogna che scappi». E voleva fuggire quella notte stessa. Le nottate erano buie: si era fra una luna e l’altra. Per disdetta, a sera tornarono i Tartari. Costoro, di solito, quando arrivavano, si spingevano innanzi il bestiame razziato, e arrivavano allegri. Ma, stavolta, non avevano nulla da spingersi innanzi: riportavano invece, sopra una sella, il cadavere d’uno dei loro, fratello del Tartaro rosso. Arrivarono incolleriti, si radu‐ narono tutti per la sepoltura. Andò là anche Žílin a vedere. Avvoltolarono il morto in un lenzuolo, senza cassa; lo trasportarono sotto i platani fuor del villaggio; lo deposero sull’erba. Sopravvenne il mullà, e tutti s’accovacciarono in fila sui calcagni, di fronte al morto. 242 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Dinanzi a tutti il mullà, dietro a questo tre vecchioni col turbante, e più indietro, gli altri Tartari. S’accovacciarono, chinarono la faccia verso terra, e fecero silenzio. Per un pezzo durarono a far silenzio. Poi alzò la testa il mullà, e disse: — Allà! (che significa Iddio). Disse soltanto questa parola, e di nuovo abbassarono le teste, e un al‐ tro pezzo fecero silenzio: stavano accovacciati li senza dare un crollo. Poi daccapo alzò la testa il mullà: —Allà! — e tutti ripeterono: — Allà, — e tornarono a far silenzio. Il morto stava là steso sull’erba: non si sentiva un fiato: anche loro ri‐ manevano immobili come tanti morti. Non ce n’era uno che accennasse il più piccolo movimento. Unico rumore, le foglie dei platani, che si ri‐ mescolavano a un filo d’aria. Finalmente, il mullà recitò una preghiera, tutti si drizzarono, sollevarono il morto a braccia, lo trasportarono via. Lo portarono, così, fino alla fossa. La fossa non era una semplice buca, ma era stata scavata sotto terra a mò di grotta. Presero il morto sotto le ascelle e per le caviglie, lo calarono giù — così piegato — adagino adagino, lo addossarono là sotto la grotta in atto di star seduto, gli accomodarono le mani sul ventre. Un garzone di quelli del Nogàj aveva trascinato qua dei giunchi fre‐ schi: sparsero di giunchi la fossa, la ricoprirono alla svelta di terra, la pa‐ reggiarono, e dov’era la testa del morto, piantarono ritta una pietra. Cal‐ carono la terra coi piedi, e tornarono ad accovacciarsi in fila di fronte alla tomba. Per un pezzo rimasero così in silenzio. — Allà! Allà! Allà! — sospirarono, e si levarono. Il rosso distribuì del danaro ai vecchi: poi s’alzò, afferrò un frustino, ci si batté per tre volte la fronte, e s’avviò a casa. La mattina dopo, che cosa vede Žílin? Il rosso conduce a cavezza una cavalla fuor del villaggio, e tre dei Tartari gli vanno dietro. Usciti dal vil‐ laggio, il rosso si tolse il bešmét, si rimboccò le maniche (un par di brac‐ cioni grossi così), sguainò il pugnale, e si mise ad affilarlo sulla cote. Quegli altri tirarono alla cavalla la testa all’insù: il rosso s’accostò là, segò la gola, fece stramazzar la cavalla, e incominciò a scuoiarla, che con quelle manacce, la pelle, la strappava via come una fodera. Sopravven‐ nero donne e ragazze, e si fecero a lavar le frattaglie e l’interno della be‐ stia. Poi la cavalla fu fatta a pezzi, e i pezzi trasportati in casa. E tutto quanto il villaggio si radunò lì dal rosso a cantar le lamentazioni del morto. Tre giorni di seguito mangiarono di quella cavalla, bevvero della bu‐ zà, e cantarono le lamentazioni. Quarto libro di lettura 243 Tutti gli uomini, in questi giorni, erano rimasti in casa. Il quarto gior‐ no, Žílin li vede, sull’ora del desinare, che vanno in qualche posto a fare una riunione. Furono menati là dei cavalli, furono fatti dei preparativi, e partirono in dieci: anche il rosso era partito: soltanto Abdul era rimasto a casa. La luna nuova aveva fatto appena appena: le nottate erano ancora buie. «Suvvia, — pensa Žílin, — stasera stessa bisogna fuggire», e va a dir‐ lo a Kostýlin. Ma Kostýlin si inombrì.— E come vuoi fare a fuggire? Noi non sappiamo neppure la strada. — Io, la strada, la so. — Ma non possiamo arrivare in salvo, in nottata. — Se anche non arrivassimo in salvo, pernotteremo tra i boschi. Ecco, io ho già provveduto un po’ di focaccine. Del resto, che scopo avresti a restartene qua? Va bene se mandassero i danari: ma potrebbe anche dar‐ si che non riuscissero a metterli insieme. E i Tartari, ormai, si sono incat‐ tiviti, ché uno dei loro è stato ucciso dai Russi. A quanto si sente dire, hanno intenzione di uccider noialtri. Kostýlin stette lì a pensare, a pensare. — Bah, dunque andiamo! V. Žílin s’intrufolò in quella buca che aveva fatta, a scavarla un po’ più larga, in modo che anche Kostýlin ci potesse passare; e se ne stanno tut‐ t’e due fermi lì , aspettando che non si senta più nulla per il villaggio. Quando per il villaggio non si sentì più anima viva, Žílin strisciò sot‐ to il muro, e sbucò dall’altra parte. Di là, bisbiglia a Kostýlin: — Ora pas‐ sa tu —. Passò anche Kostýlin, ma impuntò in una pietra col piede, e fe‐ ce rumore. Il padrone teneva, per guardia, un cane pezzato, cattivo da non dirsi: si chiamava Uljàšin. Žílin, però, aveva già pensato in prece‐ denza a dargli qualche boccone ogni tanto. Appena Uljàšin sentì quel rumore, abbaiò e s’avventò in qua, e gli altri cani dietro. Žílin gli fece un fischio leggero leggero, e gli gettò un pezzetto di focaccina: Uljàšin lo ri‐ conobbe, scodinzolò, e smise d’abbaiare. Il padrone, che aveva udito, aizzava là di dentro alla sua casupola: — Sotto! sotto! Uljàšin! Ma Žílin, intanto, Uljàšin grattava sopra all’orecchio. Sta zitto il cane, gli si sfrega contro le gambe, e giù a scodinzolare. 244 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura S’erano accucciati lì dietro a uno spigolo. Tutto era tornato calmo; u‐ nico rumore, qualche pecora che si sforza a tossire da una stalla, e in basso l’acqua che mormora fra i ciottoli. Buio pesto; le stelle stanno alte alte in cielo; sulle montagne la luna nuova s’è tinta di rosso, e, coi corni all’insù, sta calando. Nei fondovalli la nebbia, da parer latte, biancica. Si rizzò Žílin, e disse al compagno: — Bè, fratello, aj−da! Si mossero; ma s’erano appena allontanati, ecco il mullà che intona a cantare di sopra ai tetti: — Allà! Besmillà! Ilrachman! Questo voleva dire che il popolo andava alla moschea. S’accucciarono un’altra volta, rimpiattati a ridosso d’un muro. E per un pezzo stettero accucciati così, aspettando che il popolo terminasse di passare. Poi tutto tornò silenzio. — Suvvia, con l’aiuto di Dio! — Si fecero il segno della croce, e s’av‐ viarono. Attraversarono un recinto che divallava verso il fiume, passarono il fiume, e s’incamminarono pel fondovalle. La nebbia era fitta, ma restava in basso: sul loro capo, le stelle si vedevano ch’era una meraviglia. Ap‐ punto dalle stelle Žílin si regola da che parte andare. Così tra la nebbia fa fresco, camminare non è fatica, ma gli stivali son tutt’altro che agili, sformati come sono. Žílin se li sfilò, li gettò via, e seguitò scalzo. Va sal‐ tellando da un sasso all’altro, e intanto non perde d’occhio le stelle. Ko‐ stýlin cominciò a restargli indietro. — Un po’ più piano, — dice, — va’ un po’ più piano: questi stivali, maledetti, m’hanno spellato tutti i piedi. — E tu levateli: vedrai che sollievo. Provò, Kostýlin, a seguitare scalzo: peggio che mai. Si tagliava tutti i piedi fra le pietre, e restava sempre indietro. Žílin gli diceva: — Se i piedi ti si scorticano, ti si rifaranno, ma se quelli ci arrivano, ci ammazzeranno: mi pare peggio! Kostýlin non rispondeva; veniva innanzi, e rompeva in lamenti. Camminarono così per fondovalle un buon tratto di tempo. D’improvviso, alla loro destra, si senti un abbaiar di cani. Žílin si fermò, si guardò intorno, s’arrampicò per una costa, tastoni. — Eh, — disse, — ci siamo sbagliati: troppo a destra abbiamo preso. Qui c’è un altro villaggio, io l’ho veduto su da montagna; bisogna tornar addietro, e poi salire verso sinistra. Là ci dev’essere un bosco. Ma, Kostýlin di rimando, gli fa: — Aspetta un momentino, lasciami riprender fiato: ho i piedi tutti in‐ sanguinati. — Eh, fratello, ti si rifaranno: bada di saltar più leggero. Ecco, così. Quarto libro di lettura 245 E di corsa Žílin tornò sui suoi passi, poi a sinistra, verso la montagna e il bosco. Kostýlin continuava sempre a restar indietro, e a piagnucolare. Žílin lo zittiva, lo zittiva, e intanto tirava dritto. Incominciarono a salire. Proprio così: il bosco c’era. Entrarono nel bo‐ sco, e tra quelle spine si strapparono gli ultimi panni che avevano indos‐ so. Sboccarono su una viottola sottobosco. Si unsero per quella. — Ferma! — S’era sentito un calpestio di zoccoli lungo la viottola. Si fermarono, tesero l’orecchio. Era stato come un calpestio di cavallo, poi era cessato. Si mossero, e ricominciò il calpestio. Si fermarono, e quello si ferma. Allora Žílin strisciò pian piano in avanti, guarda dove c’è un chiaro lungo la viottola: là, fermo, sta un non so che. Cavallo, non è cavallo; eppoi, su quella specie di cavallo, c’è una cosa bizzarra, che un uomo non è davvero. Ecco che ha mandato uno sbuffo, s’è sentito fin qua. «Oh che stranezza!» Žílin provò a dare un fischio leggero leggero: subito quello frullò via dalla viottola nel folto, e s’alzò un crepitio per il bosco, come quando passa un uragano, che schianta i rami. Kostýlin era caduto a terra dallo spavento. Ma Žílin si mise a ridere, e gli disse: — Era un cervo. Non senti, con le corna, come schianta il bosco? Noi abbiamo paura di lui, e invece lui ha paura di noi. Continuarono a inoltrarsi. Già le Pleiadi incominciavano a calare: non c’era molto a far giorno. E intanto, fosse giusta la direzione in cui anda‐ vano, o fosse sbagliata, loro non lo sapevano. Aveva l’impressione, si, Žílin, che proprio per questa strada lo avessero trasportato a cavallo, e che, per arrivare dai Russi, ci fossero ancora una diecina di miglia; ma segnali sicuri non c’erano, eppoi era notte: non ti raccapezzavi in nessun modo. Sboccarono in una radura. Kostýlin si accosciò giú, e dice: — Fa’ come vuoi, ma io non ci arrivo: i piedi non mi vanno più. Per quanto Žílin lo spronasse: — No, — dice, — non ci arrivo, non ce la faccio più. Andò in collera Žílin, fece uno sputacchio, lo assalí con male parole. — Allora me ne vado via da solo: addio! Kostýlin saltò su, si rimise in cammino. Fecero ancora, così, quattro miglia. La nebbia, pel bosco, s’era accovata più fitta di prima: non ci si vedeva a quattro passi, e le stelle, ormai, si vedevano si e no. D’improvviso, sentono, dinanzi a loro, un tonfeggiar di cavallo. Si sente benissimo: coi ferri incespica nelle pietre. Žílin si stese a panciasot‐ to, e mise contro terra l’orecchio. 246 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — Proprio così: da questa parte, in direzione di noialtri, un uomo a cavallo s’avanza. Di corsa, si scansarono dalla viottola, s’acquattarono fra i cespugli, e stettero lì in sospeso. Poi Žílin, pian piano, striscia fitto in proda alla viottola, guarda: a cavallo, un Tartaro viene in qua, spingendosi innanzi una vacca, e intanto, sotto i baffi, si mugola un motivetto. Passò oltre il Tartaro. Žílin si voltò a Kostýlin. — Bah, Dio ce l’ha mandata buona: alzati, andiamo. Kostýlin fece per alzarsi, e ricadde. — Non ce la faccio: com’è vero Dio, non ce la faccio: non ho più un fi‐ lo di forza. Uomo greve, bofficione, s’era tutto inzuppato di sudore: e appena era stato sorpreso, così dentro al bosco, da quella nebbia ghiaccia, coi piedi, per giunta, scorticati a quel modo, s’era afflosciato come un cencio. Žílin provò di forza a tirarlo su. Allora Kostýlin si mise a gridare: — Ah, mi fai male! Žílin trasalí . — Ma che gridi? Quel Tartaro è ancora vicino, ci può sentire! — E in‐ tanto, tra sé, pensa: «È proprio vero che ha perso le forze: che farò di lui? Abbandonare un compagno, non sta bene». — Su, — gli dice, — alzati, montami a cavalluccio, ti porterò io, se proprio tu non ce la fai. Si pigliò sulle spalle Kostýlin, gl’infilò le braccia sotto le cosce, rientrò nella viottola, e si trascinava là là. —Soltanto, — gli dice, — non soffocarmi così con le mani alla gola, per carità! Reggiti alle mie spalle. Era gran fatica, per Žílin: i piedi li aveva anche lui che facevano san‐ gue, e si sentiva spossato. Si rannicchia, si rassesta, si scrolla, in modo da sistemarsi un po’ più alto sulle spalle Kostýlin, e lo trascina su su per la viottola. Di certo quel Tartaro aveva sentito, quando Kostýlin s’era messo a gridare. Žílin s’accorge che viene qualcuno, a cavallo, alle loro spalle, chiamando a quel modo dei Tartari. Žílin si gettò fra i cespugli. Il Tarta‐ ro staccò il fucile, fece fuoco. Sbagliò il colpo; lanciò quello strido come usano loro, e di galoppo s’allontanò per la viottola. Ahi, — disse Žílin, — siamo rovinati, fratello! Quel cane, adesso, va a radunare altri Tartari per inseguir noialtri. Se non riusciamo ad allonta‐ narci ancora di tre miglia, siamo perduti —. E intanto pensa tra sé: «Quale diavolo m’avrà messo l’idea di portarmi dietro questo tronco? Da solo, sarei fuori da un pezzo». Quarto libro di lettura 247 — Disse Kostýlin: — Vattene tu solo: perché dovresti rovinarti per causa mia? No, non me ne andrò: non sta bene abbandonare un compagno. Se lo accollò di nuovo sulle spalle, e lo issò in aria. A questo modo percorse circa un miglio. Sempre bosco da ogni parte, che non se ne vede l’uscita. La nebbia, d’altronde, aveva incominciato a sciogliersi, e come tante piccole nuvole s’erano messe a passare, di modo che non si vedevano più affatto le stelle. Žílin non ne poteva più. Arrivò a un punto dove, di fianco alla strada, c’era una piccola sor‐ gente, con un giro di pietre intorno. lì si fermò, e pose giù Kostýlin. — Voglio riposarmi un po’ — dice, — levarmi la sete. Daremo un morso alle nostre focacce. Non dev’esserci più tanta strada. S’era appena chinato per bere, che ecco un tonfeggiar di zoccoli alle loro spalle. Di nuovo si gettarono fra i cespugli, sulla destra, su per un costone, e s’al‐ lungarono a terra. Ecco le voci dei Tartari: s’erano fermati, i Tartari, proprio in quel pun‐ to dove loro erano scesi giù dalla viottola. Parlarono un po’, poi si senti‐ rono far quel verso, come se aizzassero dei cani. Ecco: un croscio fra i ce‐ spugli, e, diritto verso loro, un cane sconosciuto, di chissà che villaggio. Il cane si fermò, e attaccò a latrare. S’arrampicarono allora anche i Tartari, anch’essi d’un villaggio sco‐ nosciuto: li afferrarono, li legarono, li accomodarono sui cavalli, e li por‐ tarono via. Avevano percorso tre miglia, incontrano Abdul, il padrone, che veni‐ va con altri due del villaggio. Scambiarono qualche parola con quest’al‐ tri Tartari, li trasbordarono sui cavalli loro, e così li riportarono al villag‐ gio. Abdul, adesso, non rideva più, e non diceva parola con loro. Arrivarono al villaggio sul far del giorno, e li scaricarono lì in mezzo alla strada. Accorsero i ragazzetti. Con pietre, con frustini li battono, e intanto mandano stridi. Si radunarono i Tartari in circolo; anche il vecchio era salito su da val‐ le. Incominciarono a parlare. Žílin sente che si consigliano su loro, come debbono trattarli. Certi dicono: — Bisogna portarli più all’interno fra le montagne —; ma il vecchio dice: — Bisogna ammazzarli —. Abdul gli s’oppone, ribatte: — Io, per essi, ho sborsato tanto di quattrini, e per essi intascherò il riscatto —. Il vecchio risponde: — Nulla ti pagheranno, non ti procureranno altro che guai! Ed è anche peccato, mantenere in vita dei Russi, Si ammazzino, e sia finita. 248 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura L’assemblea si sciolse. Il padrone venne qua da Žílin, e incominciò a parlargli. – Se, – dice, – non mi spediscono il vostro riscatto, io, fra due settima‐ ne, vi spellerò a forza di nerbate. E se poi v’attentate un’altra volta a fug‐ gire, v’ammazzerò come cani. Scrivete ai vostri, scrivete con tutte le re‐ gole! Portarono dei fogli di carta, ed essi scrissero le lettere. Furono rimessi ai ceppi, e condotti di là dalla moschea. Là, c’era una fossa tre metri e mezzo profonda: e dentro quella fossa furono calati. VI. Da quel giorno, la loro vita divenne durissima. I ceppi, non glieli to‐ glievano più, e non li lasciavano uscir mai di là dentro. Gettavano loro, là dentro, un po’ di pasta cruda, come ai cani, e in una brocca calavano giù l’acqua da bere. C’era fetore in quella fossa, afa, umidità. Kostýlin finì con l’ammalarsi del tutto: si gonfiò, gli vennero dolori alle ossa da capo a piedi; passava tutto il tempo a lamentarsi o a dormire. E anche Žílin s’era avvilito: vedeva che la faccenda aveva preso una brutta piega. E non sapeva davvero come tirarsene fuori. S’era provato a fare un pochino di scavo, ma poi, la terra, non c’era dove gettarla; se n’era avveduto il padrone, e aveva minacciato di ucci‐ derlo. Un giorno, se ne stava seduto, con le gambe incrociate, in fondo alla fossa, e pensava alla vita libera, e sentiva una gran malinconia. D’im‐ provviso, dritta dritta in grembo, venne a cadergli una focaccina, un’al‐ tra, e poi una pioggia di visciole. Alzò gli occhi, e lassù vide Dina. Quel‐ la gli diede un’occhiata, ruppe a ridere, e scappo’ via. Allora Žílin ebbe l’idea: «Non potrebbe venirci un aiuto da Dina?» Nettò ben bene, lì nella fossa, un cantuccio, ne cavò fuori di quell’ar‐ gilla, e si diede a modellarci dei fantoccini. Fece delle persone, dei caval‐ li, dei cani, sempre con quell’idea: «Quando torna Dina, glieli tiro lassù». Senonchè, il giorno dopo, Dina non si vide. E Žílin sente un calpestio di cavalli, sente passare non si sa che cavalieri, e i Tartari che si raduna‐ no nella moschea, e discutono, gridano, menzionano i Russi. E sente an‐ che la voce del vecchio. Proprio distinte le parole gli arrivano, ma indo‐ vina che i Russi son venuti poco lontano, e che i Tartari hanno paura che si spingano fin qua al villaggio, e non sanno che fare dei prigionieri. Quarto libro di lettura 249 Parlarono, parlarono, poi se n’andarono. Tutt’a un tratto, che sfruscia qualche cosa dall’alto. Guarda: Dina s’è accucciata lì all’orlo, con le gambe incrociate, i ginocchietti che spiccano più alti della testa, e si sporge nel vuoto, le monete della collana le spenzolano, le tintinnano sopra la fossa. Gli occhietti le lustrano come stelline: si cava fuori dalla manica due di quelle focaccine col latte di capra, e gliele butta giù. Žílin le prese, e disse: – Come mai è tanto tempo che non vieni? Io, per te, avevo fatto dei giocattoli. Ecco, – e incominciò a tirarglieli uno al‐ la volta. Ma quella tentenna la testa, non li guarda nemmeno. – Non si può, – dice. Stette un pochino così, accoccolata in silenzio, poi dice: – Ivàn! ti vogliono ammazzare –. E intanto, con la mano, si fa segno al collo. — Chi mi vuole ammazzare? — Mio padre, sono i vecchi che glielo comandano. Ma io ci ho pena di te. Žílin subito le risponde: — Se tu ci hai pena di me, dunque portami un bastone lungo. Lei ten‐ tenna la testa, per dire che «non si può». Allora lui giunse le mani, sup‐ plicandola: — Dina, sii buona! Dínuška, bada di portarmelo! — Non si può, – dice lei, – vedrebbero: sono tutti in casa, – e se n’an‐ dò. Ecco che se ne sta li accovacciato, Žílin, mentre s’è fatta sera, e pensa: «Che sarà di me?» Di continuo dà occhiate verso l’alto. Le stelle si ve‐ dono già, ma la luna non è ancora uscita. Il mullà ha mandato il suo gri‐ do, e il silenzio ha avvolto ogni cosa. Ormai Žílin incomincia ad assopir‐ si, pensando: «La ragazzetta avrà paura». D’improvviso, sul suo capo, un po’ d’argilla piovve giù; sbirciò verso l’alto: una pertica lunga, da quell’orlo della fossa, beccheggiava di pun‐ ta. Beccheggiò così di punta, poi incominciò a calare, e scivolò per la pa‐ rete della fossa. Gran gioia ne ebbe Žílin: la afferrò nella mano, la trasse giù fino al fondo: era una pertica robusta. Già in passato egli aveva a‐ docchiato questa pertica sul tetto del padrone. Voltò in su lo sguardo: le stelle, alte in cielo, scintillano; e appena so‐ pra alla fossa, come quelli d’un gatto, gli occhi di Dina, nel buio, tralu‐ cono. S’era piegata col viso fino all’orlo della fossa, e bisbiglia: – Ivàn, Ivàn! – e intanto con le mani, accanto al viso, continua a far gesti, come per dire: «Piano, per carità». – Che c’è? – le domanda Žílin. 250 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura — Sono partiti tutti, due soli son rimasti a casa. Allora Žílin dice: — Su, Kostýlin, andiamo: tentiamo per l’ultima volta: ti porterò io sulla schiena. Ma Kostýlin non vuol sentirne nulla. – No, – ripete, – è destino, ormai, ch’io non esca di qui... Dove vuoi che vada, se neppure per rigirarmi le forze mi bastano più. – Bè, dunque addio, e non volermene male –. E tutt’e due si baciaro‐ no. S’aggrappo’ alla pertica, raccomandò a Dina che la reggesse, s’arram‐ picò. Due volte ricadde: i ceppi lo impacciavano. Lo sostenne, di sotto, Kostýlin, e riuscì, in qualche modo, a sbucar su. Dina, con le sue piccole mani, lo tira a sé per la camicia con quanta forza ha, e intanto ride. Žílin prese la pertica e le disse: — Riportala a posto, Dina, altrimenti capiranno tutto, e ti picchieran‐ no. Quella trascinò via la pertica, e Žílin s’avviò verso il fondovalle. Quando fu sceso un pezzo giù, diede di piglio a una pietra aguzza, e cercò di far saltare la serratura dei ceppi. Ma la serratura era forte: non c’è via che gli riesca di romperla, tanto più che lavorava così scomodo. Sente, a un tratto, qualcuno che di corsa vien giù per la costa, a balzi leggeri leggeri. Pensa: «Sarà di nuovo Dina». Di corsa Dina s’accostò qua, prese la pietra, e disse: — Lascia fare a me.— Si mise lì sui suoi ginocchietti, e incominciò a forzare la serratura. Ma aveva certi braccini sottili, che parevano bastoncelli: di forza non ne a‐ veva punto. Lasciò cader la pietra, e scoppiò a piangere. Provò un’altra volta Žílin a combatter con quella serratura, mentre Dina gli stava accoc‐ colata accanto con le gambe in croce, tenendolo per una spalla. Žílin, a un tratto, si guardò intorno, e che cosa vede? Da sinistra, di dietro alle montagne, s’è acceso un riverbero rosso: è la luna che sorge. «Via, – pen‐ sa, – prima che esca la luna, bisogna che io abbia passato il fondovalle, e sia arrivato al bosco». Si levò in piedi, buttò via la pietra. Magari coi ceppi, ma bisogna andare. – Addio, – dice, –Dìnuška. In eterno mi ricorderò di te. Dina s’era aggrappata a lui: gli fruga addosso con le mani, cerca un posto dove ficcargli un po’ di focaccine. Lui le prese quelle focaccine. – Grazie, – dice, – testolina d’oro. Chi ti farà le bambole, ora che io non ci sono più? – E la accarezzava sul capo. Quarto libro di lettura 251 Scoppiò a piangere Dina, si coprí il viso con le mani, corse via su per l’erta, saltellando come una capretta. Si udivano soltanto, in quel buio, le monete attaccate alla treccia, che le tintinnavano contro la schiena. Žílin si fece il segno della croce, e reggendosi con la mano la catena dei ceppi, che non sferragliasse, si mise in cammino: strascicava in fretta i piedi, e con gli occhi stava sempre a sbirciare verso quel riverbero, do‐ ve veniva sorgendo la luna. La strada la riconosceva benissimo. Doveva andar sempre diritto per otto miglia. Purché potesse arrivare al bosco prima che la luna fosse spuntata in pieno! Traversò il fiumicello: era già sbiancata, la luce, là dietro ai monti. S’inoltrò ancora per fondovalle; cammina, e continua a dar occhiate lassù: la luna non si vede ancora. Ma ormai il riverbero s’è fatto più luminoso, e su un versante della vallata la luce si stende sempre più viva. L’ombra si ritira sotto i monti, e man mano la luce s’avvicina a lui. Cammina Žílin, sempre badando di tenersi nell’ombra. Lui affretta il passo, ma la luna è ancora più svelta a salire: anche qua a destra, ormai, le vette degli alberi si sono illuminate. Era arrivato nei paraggi del bosco, quando la luna sbucò fuori dai monti: un biancore, un chiarore, né più né meno che se fosse giorno. Sugli alberi spiccava ogni foglia. Un gran silenzio, in quel chiarore, dominava sui monti: pareva che tutto fosse, morto. Unico rumore, in basso, il fiumicello che gorgoglia. Finalmente raggiunse il bosco, senz’aver incontrato nessuno. lì nel bosco, Žílin si scelse un posticino un po’ allo scuro, e s’accomodò a ripo‐ sare. Si riposò, mangiò di quelle focaccine. Poi trovò una pietra, e di nuovo si provò a rompere i ceppi. Si ruppe tutte le mani, ma quelli non riuscì a romperli. Si levò, si rimise in cammino. Aveva percorso ancora un mi‐ glio, le forze lo abbandonarono: si sentiva spezzate le gambe. Faceva dieci passi, e si fermava. «Poche storie, – dice tra sé; – mi trascinerò fin‐ ché mi reggo in piedi. Se mi siedo, non m’alzo più. Fino alla fortezza, non ci posso arrivare; ma quando farà giorno, m’acquatterò dentro al bosco, passerò così la giornata, e a notte, di nuovo in cammino!» Tutta la notte continuò a andare innanzi. Gli unici che gli si parassero incontro, furono due Tartari a cavallo, ma lui fin da lontano li aveva udi‐ ti, e s’era nascosto dietro a un albero. Già la luna incominciava a spallidire, cadeva la guazza, mancava po‐ co a far giorno, e Žílin non era ancora arrivato alla fine del bosco. «Su, — pensa, — ancora trenta passi in avanti, poi svolto tra il fitto, e mi corico giù». 252 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Fece quei trenta passi, e che vede? Il bosco finiva lì. Si spinse fin sul margine: giorno alto, là fuori: e dinanzi a lui, come sul palmo della ma‐ no, ecco la steppa e la fortezza, e a sinistra di questa, più sotto alla mon‐ tagna, fuochi di bivacco che palpitano, che si spengono, e il fumo ne rampica su, e presso i fuochi c’è gente. Aguzza gli occhi, e vede benissimo: ci sono fucili che lustrano: sono cosacchi, soldati. Gran gioia ne venne a Žílin: raccolse le ultime forze, e giù per la di‐ scesa. Tra sé pensava, intanto: «Dio non voglia che qui, allo scoperto, m’avvisti qualche cavaliere tartaro: benché resti poco, non si scampereb‐ be». Aveva appena pensato così, guarda: a sinistra, su un monticello, stan fermi tre Tartari, a una distanza di cinquecento metri, Lo avvistarono, e gli si slanciarono contro. Lui sentì il cuore squarciarglisi in petto. Si mise ad agitar le braccia, a gridare con quanto fiato aveva: — Fratelli miei! Salvatemi! Fratelli! Lo udirono i nostri: balzarono fuori dei cosacchi a cavallo. Si slancia‐ rono in qua, in modo da tagliar la strada ai Tartari. Lontani erano i cosacchi, e i Tartari vicini. Ma Žílin aveva raccolto le sue ultime forze, si reggeva con la mano i ceppi, e correva incontro ai co‐ sacchi, fuori di sé, facendosi il segno della croce e gridando: — Fratelli miei! fratelli! fratelli! Erano, i cosacchi, una quindicina. Si spaventarono i Tartari: a mezza strada da lui, si videro rallentare e fermarsi. E Žílin, di corsa, raggiunse i cosacchi. I cosacchi lo circondarono, domandandogli chi era, che cosa faceva, di dove veniva. Ma Žílin, fuori di sé, piangeva e continuava a ripetere: — Fratelli miei! fratelli! Corsero fuori i soldati russi, s’affollarono intorno a Žílin: chi gli dà un pezzo di pane, chi un po’ di minestra, chi un sorso d’acquavite; questo gli butta addosso il mantello, quell’altro bada a spezzargli i ceppi. Fu riconosciuto dagli ufficiali, fu condotto in fortezza. Si rallegrarono i suoi soldati, e i colleghi si raccolsero a festeggiarlo. Žílin raccontò tutto quello che gli era accaduto, e concluse: — E pensare ch’ero partito per andarmene a casa, a prender moglie! Macché, si vede proprio che non è quello il mio destino. E rimase a prestar servizio nel Caucaso. Quanto a Kostýlin solo un mese più tardi fu rilasciato, a prezzo di ben cinquemila rubli. Era a malapena vivo, quando lo riportarono. Quarto libro di lettura Mikúlscka Seljanínovič. (Leggenda in versi). Uscito è il gran Volgà coi suoi compagni per borghi e per città a prender tributi, dai contadini a prelevar le decime; uscito è egli, il sire, in campo aperto: e, in campo aperto, ode un aratore. Ecco: sta arando il contadino, e fischia; lontan lontano, ecco, l’aratro scricchiola; contro le pietre il vomere, ecco, stride: ma in tutto il pian non si scorge aratore. All’aratore allora il suo cavallo drizza Volgà, e va da mattina a sera, ma giungere non può colui che ara. Ancora un giorno da mattina a sera, Volgà cavalca, e l’arator non giunge. Ecco: sta arando il contadino, e fischia; lontan lontano, ecco, l’arato scricchiola; contro le pietre il vomere, ecco, stride: ma in tutto il pian non si scorge aratore. Il terzo giorno ancor Volgà cavalca, a mezzo il dì raggiunge l’aratore. È un contadino che sta arando, e incita la bestia, e il solco apre da un capo all’altro, e sassi e raffiche volta col vomere: quando arriva all’estremità del solco, da quest’altra non lo discerni più. L’aratore ha un aratro tutto d’acero, d’acciaio damaschinato è il vomere, ed ha annodati finimenti serici, fra le stanghe la cavalla è saura. Rompe allora Volgà in queste parole: — Ehi là, il mio contadino! Dio t’aiuti, che con l’aiuto Suo tu possa arare, arare e l’arti di campagna fare, e ben largo il tuo solco rivoltare, e sassi e radiche farne schizzare! E dice di rimando il contadino: — Grazie, Volgà, molto ti ringraziamo: 253 254 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura di Dio l’aiuto, a noi, davvero occorre, di Dio l’aiuto, ecco, per arare, arare e l’arti di campagna fare! Ma tu lontano vai, coi tuoi compagni? Lontano Dio ti mena? Ove sei avviato? – E rompe allor Volgà in queste parole: — Io, contadino, vò coi miei compagni per borghi e per città a prender tributi, dai contadini a prelevar le decime. Su, seguimi anche te come compagno! — Pigliò e piantò l’aratro dentro al solco il contadino, i finimenti serici pigliò e slegò, poi la sua cavallina dall’aratro pigliò e staccò, e lui stesso sulla bestia s’issò, montò a bisdosso, e con Volgà s’avviò come compagno. Ma dice d’improvviso il contadino: — C’è il guaio ch’io, Volgà, là dentro al solco l’aratro mio ho lasciato incustodito: bisognerebbe cavarlo da terra, dal vomere la terra scrollar giù, e metterlo al riparo d’un cespuglio —. Mandò allora Volgà dieci suoi prodi che dalla terra l’aratro cavassero, che la terra dal vomere scrollassero, che a riparo scegliessero un cespuglio. E all’aratro quei prodi s’accostarono, dai bei destrieri nel solco balzarono, misero mano a quell’aratro d’acero: ma da terra l’aratro non si leva. Coi finimenti quell’aratro tirano, a tondo su se stesso lo rigirano, ma da terra non possono cavarlo, non possono dal vomere la terra scrollare, e ripararlo in un cespuglio. Manda allora Volgà tutta la banda, che da tetra l’aratro sia cavato, dal vomere la terra sia scrollata, e sia messo a riparo d’un cespuglio. E tutta, come un sol uomo, lo afferra Quarto libro di lettura la banda, afferra quell’aratro d’acero, ma non fa altro che girarlo a tondo: non può da terra l’aratro cavare, non può dal vomere la terra scrollare, e metterlo a riparo d’un cespuglio. S’appressò finalmente il contadino, l’abitator delle campagne: scese egli di groppa alla cavalla saura, s’accostò egli al suo aratruccio d’acero, con una mano l’agguantò, tirò, e da terra su su cavò l’aratro, dal vomere la terra scrollò giú, dal ceppo raschiò via tutte l’erbacce, e l’aratro appiattò dietro un cespuglio. Sui bei destrieri tutti rimontarono allora, e si rimisero in cammino. Andarono a sboccare su una strada: va al passo la cavalla al contadino, e già il destriero di Volgà galoppa; la cavalla si mette al trotterello, e di Volgà il destriero è già staccato. Cavalca innanzi il contadino, placido, mentre Volgà lo insegue a spron battuto. E si mise a gridare allor Volgà, e il suo alto berretto a sventolare: — Ehi là, buon aratore, ferma, aspetta: dietro a te, contadino, non si regge! — Si voltò il contadino, guardò indietro verso Volgà, trattenne la cavalla: e per la strada al passo proseguirono. Ruppe allora Volgà in queste parole: —Tu, contadino, hai una buona cavalla: se fosse, la tua bestia, uno stallone, varrebbe almeno cinquecento rubli! E a lui così rispose il contadino: — Eppur sei sciocco, Volgà, e sciocco parli! La cavallina mia sotto la madre io l’ho presa e, lattònzola com’era, l’ho già pagata cinquecento rubli: fosse stallone, non avrebbe prezzo! — 255 256 L. N. Tolstoj, I quattro libri di lettura Ruppe allora Volgà in queste parole: — Ma qual è, contadino, il nome tuo, con quale patronimico ti acclamano? — E gli rispose così il contadino: — Quando sarà che mieterò la segale, farò i covoni, li carreggerò sulla mia aia, poi li batterò, e ne farò la birra, e i contadini chiamerò dai dintorni: e i contadini così si metteranno ad acclamarmi: «Viva a te, buon Mikula, a te Mikúluscka, buon Mikúluscka nostro Seljanínovič149! — 149 Seljanínovič è l’espressivo patronimico del contadino, «figlio di Seljanín», os‐ sia del Borghigiano (da selò, borgo di campagna). Bibliografia I Quattro libri di lettura nelle prime edizioni in russo TOLSTOJ LEV NICOLAEVIČ, Azbuka, S. Peterburg, Tip. Zamyslovskij, 1872. ID., Novaja azbuka, Moskva, Tip. Torleckij i Terichov, 1875. ID., Russkie knigi dlja čtenija, Moskva, Tip. Ris, 1875. Principali edizioni italiane dei Quattro libri di lettura TOLSTOJ LEV NICOLAEVIČ, I quattro libri di lettura, Milano, Monanni, 1928. ID., I quattro libri di lettura, Torino, Einaudi, 1964. ID., I quattro libri di lettura, Firenze, La Nuova Italia, 1967. ID., I quattro libri di lettura, Napoli, Liguori, 1981. ID., I quattro libri di lettura, Milano, TEA, 1989. ID., I quattro libri di lettura, Torino, Einaudi, 1994. Letture critiche∗ BERLIN ISAIHA, Tolstoi e l’educazione del popolo, in «Tempo presente», fasc. 9–10, settembre–ottobre 1960. DECROLY OVIDE, La funzione di globalizzazione e l’insegnamento, Firenze, La Nuova Italia, 1962. ID., Una scuola per la scuola attraverso la vita, Torino, Loescher, 1963. HUGO VICTOR, I miserabili, Milano, Mondadori, 1991. MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ, Poema pedagogico, Mosca, Raduga, 1985. E. MEDOLLA, Realismo pedagogico e letterario nei Quattro libri di lettura di Tolstoj, Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli studi di Roma «La Sapien‐ za», Tesi di laurea in Pedagogia, (Relatore Chiar.mo prof. Nicola Siciliani de Cumis, Correlatore Chiar.mo prof. Aldo Visalberghi), A.a. 1996/97. PIAGET JEAN, La psicologia del bambino, Torino, Einaudi, 1966. PROPP VLADIMIR JACOVLEVIČ, La fiaba russa, Torino, Einaudi, 1990. SHAKESPEARE WILLIAM, Il mercante di Venezia, Milano, Mondadori, 2000. STOPPOLONI AURELIO, La scuola di Jasnaja Poljana, in «Rivista d’Italia», fasc. 1, 1903. TOLSTOJ LEV NICOLAEVIČ, La scuola di Jasnaja Poljana in novembre e dicembre, in U. ZANDRINO (a cura di) La scuola di Jasnaja Poljana e altri scritti pedagogici, Ber‐ gamo, Minerva Italica, 1965. ∗ La presente bibliografia contiene anche alcuni testi ritenuti utili per la ricerca, ma non consultati direttamente. 258 Bibliografia ID., Tutti i romanzi, Firenze, Sansoni Editore, 1967. ID., L’istruzione pubblica, in GAETANO SANTOMAURO (a cura di) Scritti pedagogici, Bari, Adriadica, 1972. ID., Lettere, Milano, Longanesi, 1977– 1978. ID., Appello allo Zar e ai suoi aiutanti, in IGOR SIBALDI (a cura di) Perchè la gente si droga?: e altri saggi su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988. ID., Sulla scienza, in IGOR SIBALDI (a cura di) Perchè la gente si droga?: e altri saggi su società, politica e religione, Milano, Mondadori, 1988. SANTAMARIA EMILIA, Le idee pedagogiche di Tolstoj, Bari, Laterza, 1904. VOLPICELLI LUIGI, A scuola da Tolstoj, Roma, Armando, 1977. Sitografia http://www.ecologiasociale.org/pg/qualescuola.html, (Consultato il giorno 08/10/2006). Indice dei nomi Ovviamente non è compreso il nome di L. N. Tolstoj. I corsivi si riferiscono ai perso‐ naggi. ABDUL, 31 ABDUL‐MURAT, 234 sgg. ADE, XX AFANASJEV ALEKSANDR NICOLAEVIČ, XI AKULINA, 140‐141 AKSIÒNOV IVÀN DMITREVIČ, XXXII, 163 sgg. ALLÀ, 242, 244 ALESSANDRO, 189 AMICO, XIII, 70‐71 AMASIS, XXIII, 173 sgg. AMULIO, 162‐163 ANDERSEN CHRISTIAN, XI‐XII ANDRÈIČ IVÀN, 36 ARCHIMEDE, 192‐193 ATLANTE, XX BABINO, 41 sgg. BEKÈTYČ SALTÀN, XIV, 177 sgg. BERLIN ISAIHA, XI BETTA, 41 sgg. BULKA, XIV, XLV, 147 sgg., 152, 154 sgg. BUSLÀEVIČ VOLGÀ, XLV, 175 sgg. BOB, XII, 12 BORI PIER CESARE, XIV, 3 CAMBISE, XXI, XLIV, 94‐95 CATERINA, XXII, 26‐27 CARLETTI TOMMASO, XXVIII CERKASCENIN MICHELACCIO, 101 CORVINO, 86 sgg. CRESO, 95 CRISTO (vedi GESÙ), XXI, 100, 125, 170 DAMIANO, 200 sgg. DAVÍDIEVNA, 177 DECROLY OVIDE, XXXIX, 257 DEMETRIO, 192‐193 DEWEY JOHN, XXXVIII DINA, 233, 237, 248 sgg. ERODOTO, X, XXI ESOPO, X, XII FÀUSTOLO, 162‐163 FED’KA, XXIV, XXXVI FILO DI LINO, XLII, 24 sgg. FILOMELA, XXI GALVANI, 224‐225 GESÙ (vedi CRISTO), XXXI GHERASIM, 141, 142 GIOVANNI, XXXI GIOVANNINO, 32‐33 GOETHE JOHANN WOLFGANG, XXXIV GREENWOOD GRACE, XII GRIMM JACOB LUDWING KARL, XI, XVIII GRIMM WILHELM KARL, XI, XVIII HUANG‐CI, 23 HUGO VICTOR, XI, XXIV, 257 IERONE DI SIRACUSA, 192 ITI, XXI IVÀN IL TERRIBILE, 100 IVÀN KOLZÒV, 104 sgg. IVÀNIČ DON, XLIII, 58 IVÀNIČ SCIAT, XLIII, 58 Indice dei nomi 260 PINO, 26‐7 KAZI‐MUHAMED, 234‐235 KONDRASKA KOSTÝLIN, 141‐142 PLUTARCO, X, XXI PROGNE, XXI PROPP VLADIMIR JAKOVLEVIČ, XIII, 257 LUPORINI MARIA BIANCA, XXII PSAMMENITE, XXI, XLIV, 94‐95 MAGNETE, 84 PUGACIÒV EMILIANO, XX, XXII, XLII, 31 MAMETKÚL, 103‐104, 106 REMO, 162‐163 MARIETTA, 8, 20‐21 MARIOLINA, 91 sgg. ROMOLO, 162‐163 MATRIÒNA, 142 ROSSEAU JEAN‐JACQUES, XXVIII MAKARENKO ANTON SEMËNOVIČ, XXXII, RUMJANCEV, XVI 257 MEDOLLA ELISA, VI, XI‐XII, XVII, XIX‐ SANTAMARIA EMILIA, XXIX, 258 XX, XXVI sgg., XXXI sgg., XXXV, SANTOMAURO GAETANO, XXVI, XXXIII, 257 257 MESCERIÀK, 105 SELJANÍNOVIČ MIKÚLUSKA, 256 MICHELUCCIO, 17 SEMIÒNOV MAKAR, 167 sgg. MIGNOLINO, XLV, 37 sgg. SËMKA, XXIV MIKULA, XX, 48, 256 SHAKESPEARE WILLIAM, XIX, 257 MILTON, XIV, XLV, 152 sgg., 158 SIBALDI IGOR, XXV sgg., 258 MONTGOLFIER, 215 SICILIANI DE CUMIS NICOLA, VI, XI, 257 SI‐LING‐CI, 23 NAHIM, 31 SIMEONE, 92‐93 NEFIÒD, 139‐140 STOPPOLONI AURELIO, XXVIII, 257 NICOLA, 35 STRÒGONOV, 100 sgg. NINO, 20‐21 SVJATAGÒR, 47‐48 NUMITORE, 162‐163 TAUZÍK, 103 TEREO, XXI OROITES, 174 TOLSTAJA ALEKSANDRA ANDREEVNA, X TROFÍMOVNA ANNA, XXII, 29 sgg. PARÀSCIA, 29‐30 PASQUETTA, 41 sgg. ULJÀŠIN, 243 PETRÒV IVÀN, 53‐54 PIAGET JEAN, XL, 257 PERSEFONE, XX VASUSA, XLIII, 78 PIETRO III, 29 VISALBERGHI ALDO, XI PIETRO, 35 VISPETTO, XXIX‐ XXX, 66 sgg. PIETRO IL GRANDE, XX, XXII, XLIII, 70 VOLGA, XLIII, 78 PIETRUCCIO, 20 VOLTA, 225‐226 PIMEN DI TIMOTEO, 86 sgg. VOLPICELLI LUIGI, XVI, XXIX, 228 Indice dei nomi ZANDRINO UGO, XXI, 257 ZECCHINO, 137‐138 ŽÍLIN, XVIII, 227 sgg. 261 Finito di stampare nel mese di febbraio 2007 dal Centro Stampa Nuova Cultura, Roma